I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. Atti del Convegno internazionale (Roma, 15-17 novembre 2004; Bologna, 18-19 novembre 2004) 8884761018

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I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. Atti del Convegno internazionale (Roma, 15-17 novembre 2004; Bologna, 18-19 novembre 2004)
 8884761018

Table of contents :
SOMMARIO
Marco Santoro, NULLA DI PIÙ MA NEPPURE NULLA DI MENO: L’INDAGINE PARATESTUALE
George P. Landow, L’IPERTESTO: TESTO O PARATESTO?
Jan Baetens, I MOTIVI DELL’ESTRAZIONE. LE IMMAGINI DI COPERTINA
Martine Poulain, LO SCRITTORE, L’EDITORE, IL CENSORE, IL LETTORE: SAGGIO SUI PARATESTI DELLA NOUVELLE HELOÏSE
Maria Gioia Tavoni, «PER ACONCIO DE LO LECTORE CHE DESIDERASSE LEGIERE PIU IN UNO LUOHO CHE NELL’ALTRO…»: GLI INDICI NEI PRIMI LIBRI A STAMPA
Françoise Waquet, I RINGRAZIAMENTI: L’ORALE NELLO SCRITTO
Claudia Cieri Via, L’IMMAGINE PARATESTUALE FRA RITRATTO E BIOGRAFIA
Giuseppina Monaco, IL PARATESTO NEI PERIODICI DEL SEICENTO
Roger Chartier, PARATESTO E PRELIMINARI. CERVANTES E AVELLANEDA
Marco Paoli, AD ERCOLE MUSAGETE. IL SISTEMA DELLE DEDICHE NELL’EDITORIA ITALIANA DI ANTICO REGIME
Giuseppina Zappella, L’IMMAGINE FRONTISPIZIALE
Giorgio Montecchi, LA DISPOSIZIONE DEL TESTO NEL LIBRO ANTICO
Maurizio Torrini, PARATESTO E RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
Giuseppe Olmi, LE RAFFIGURAZIONI DELLA NATURA NELL’ETÀ MODERNA: «SPIRITO E VITA» DEI LIBRI
Giuseppe Lipari, IL PARATESTO NELL’EDITORIA MESSINESE CINQUE-SEICENTESCA
Loredana Olivato, DALLA TELA ALLA PAGINA: I CATALOGHI D’ARTE FIGURATI NEL VENETO FRA XVIII E XIX SECOLO
Giovanni Ferrero, IL PARATESTO NEL LIBRO SCIENTIFICO DEL ’600 ASPETTI ICONOGRAFICI E TESTUALI DEL FRONTESPIZIO INCISO NELL’EDITORIA LIGURE
Paola Zito, ANDREAS MAGLIAR SCULPSIT. DI ALCUNE ANTIPORTE NAPOLETANE DI FINE SEICENTO
Anna Giulia Cavagna, LA PAROLA DEI TIPOGRAFI-EDITORI NEI PARATESTI GENOVESI
Mirjam M. Foot, LA RILEGATURA COME PARATESTO
Carlo Alberto Augieri, L’ASTUZIA DEL PARATESTO E LA RUDEZZA INGENUA DEL POTERE: IL CASO ALVARO
Renzo Bragantini, SU ALCUNE EDIZIONI CINQUECENTESCHE DEL DECAMERON
María de las Nieves Muñiz Muñiz, LA RICEZIONE DEI CLASSICI ITALIANI ATTRAVERSO IL PARATESTO DELLE TRADUZIONI CINQUECENTESCHE SPAGNOLE (LA PENNA E LA SPADA AI TEMPI DELL’IMPERO)
Mercedes López Suárez, MULTIFUNZIONALITÀ DEL PARATESTO NEI PLIEGOS (SUELTOS) DEL SECOLO XVIII (XIX)
Anna M. Devís Arbona, I PROLOGHI NELLA LETTERATURA CATALANA DEL DOPOGUERRA
Giuseppe Mazzocchi, IL PARATESTO NELLE TRADUZIONI LETTERARIE DI TESTI SPAGNOLI (SECOLI XVI-XVII)
Georges Güntert, NARRATIVA ITALIANA DELL’OTTO E NOVECENTO TRADOTTA IN TEDESCO: IL RUOLO DEL PARATESTO
Marcell Mártonffy, IL LABIRINTO DEL ROMANZO E I MEANDRI DELLA MEMORIA
Stephen Parkin, LE DEDICHE NEI LIBRI ITALIANI STAMPATI A LONDRA NELL’ETÀ MODERNA
Edoardo Crisafulli, TESTO E PARATESTO NELL’AMBITO DELLA TRADUZIONE
Andrea Battistini, LA FUNZIONE SINOTTICA DEL FRONTESPIZIO E LA SEMANTICA DEI CORPI TIPOGRAFICI NELLA SCIENZA NUOVA DI G. VICO
Elide Casali, L’ELOQUENZA DEGLI ASTRI. ASPETTI DEL PARATESTO NELLA LETTERATURA PRONOSTICANTE ASTROLOGICA DELL’ITALIA MODERNA
Paolo Temeroli, ASTUZIE DEL PARATESTO E GIOCO DELLE PARTI TRA AUTORE E EDITORE NELLE STAMPE DI FRANCESCO MARCOLINI
Carla Di Carlo, PARATESTO ED EDITORIA TEATRALE: IL PROGRAMMA DI SALA
Paolo Tinti, IL PARATESTO IN LEON BATTISTA ALBERTI : PRIME RICERCHE
Daniela Brunelli, IL PARATESTO DI UNA RIVISTA MANOSCRITTA: «LA LUCCIOLA», 1908-1926
Carmela Reale, IL PARATESTO NELL’EDITORIA CALABRESE SEI-SETTECENTESCA
Giancarlo Volpato, ELEMENTI PARATESTUALI NELLE OPERE PUBBLICATE DALL’OFFICINA BODONI DI GIOVANNI MARDERSTEIG
Gino Castiglioni, LA CHIMÈREA OFFICINA: PARATESTO E POETICA NELLE EDIZIONI DI UN TORCHIO TIPOGRAFICO
Tobia R. Toscano, IL PARATESTO COME SUSSIDIO DELL’ECDOTICA: LE RIME DI GALEAZZO DI TARSIA IN EDIZIONI NAPOLETANE TRA SEI E SETTECENTO
Michele Carlo Marino, IL PARATESTO NELLE EDIZIONI RINASCIMENTALI PETRARCHESCHE
Antonella Orlandi, L’INCIDENZA DEL PARATESTO SUI REPERTORI BIO-BIBLIOGRAFICI ITALIANI DEL SEICENTO
Luca Toschi, NEBBIE, VENTI E PARATESTI. COMUNICARE DIGITALE E SCENEGGIARE INFINITO
Rossano De Laurentiis, Mauro Guerrini, FRBR E PARATESTO
Michael Gorman, ELEMENTI PARATESTUALI NEGLI ARCHIVI BIBLIOGRAFICI
Alberto Cadioli, IL PATTO EDITORIALE NELLE EDIZIONI MODERNE E CONTEMPORANEE
Riccardo Fedriga, GLI ABITI DEI LIBRI E I MODI DI LEGGERE L’EVOLUZIONE DELLE PRATICHE DI LETTURA NELL’ITALIA CONTEMPORANEA
Maria Antonietta Terzoli, WWW.MARGINI.UNIBAS.CH: UN ARCHIVIO INFORMATICO DEI TESTI DI DEDICA NELLA TRADIZIONE ITALIANA (AIDI)
Florindo Rubbettino, L’EPITESTO COME STRATEGIA
Francesco Iusi, DAL CARTACEO AL DIGITALE: RESE PARATESTUALI DELLA COMUNICAZIONE PRESENTE NEGLI ARCHIVI LETTERARI
Franco Tomasi, IL PARATESTO NEI DOCUMENTI ELETTRONICI
Maria Gioia Tavoni, CONCLUSIONI

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b i b l i ot e c a d i « par atesto» · .

I D I N TORNI D E L T ESTO Approcci alle periferie del libro atti del convegno internazionale roma, 5- 7 novembre 2004 bolo gna,  8-9 novembre 2004 a cur a di marco santoro maria gioia tavoni

roma

e d i z i on i d e l l’ateneo mmv

B I B L I OT E C A D I «PARATESTO» .

I D I N TORNI D E L T ESTO Approcci alle periferie del libro atti del convegno internazionale roma, 5- 7 novembre 2004 bolo gna,  8-9 novembre 2004 a cur a di marco santoro maria gioia tavoni

roma

e d i z i on i d e l l’ateneo mmv

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta delle Edizioni dell’Ateneo®, Roma, un marchio della Accademia Editoriale®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2005 by Edizioni dell’Ateneo®, Roma, un marchio della Accademia Editoriale®, Pisa · Roma www.libraweb.net Stampato in Italia · Printed in Italy isbn 88-8476-0-8

SOMMARIO Saluti Marco Santoro, Cronache

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roma, lunedì 5 novembre 2004 apertura dei lavori Marco Santoro, Nulla di più ma neppure nulla di meno : l’indagine paratestuale

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roma, lunedì 5 novembre 2004 sessione antimeridiana George Landow, L’ipertesto: testo o paratesto ? Jan Baetens, I motivi dell’estrazione. Le immagini di copertina Martine Poulain, Lo scrittore, l’editore, il censore, il lettore : saggio sui paratesti della Nouvelle Heloïse

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roma, lunedì 5 novembre 2004 sessione pomeridiana Maria Gioia Tavoni, « Per aconcio de lo lectore che desiderasse legiere piu in uno luoho che nell’altro… » : gli indici nei primi libri a stampa Françoise Waquet, I ringraziamenti : l’orale nello scritto Claudia Cieri Via, L’apparato iconografico Giuseppina Monaco, Il paratesto nei periodici del Seicento Roger Chartier, Paratexte et préliminaires. Etudes de cas : Cervantes et Avellaneda Marco Paoli, Ad Ercole Musagete. Il sistema delle dediche nell’editoria italiana di antico regime Giuseppina Zappella, L’immagine frontispiziale

57 8 99 2 37 49 67

roma, martedì 6 novembre 2004 sessione antimeridiana Giorgio Montecchi, La disposizione del testo nel libro antico Maurizio Torrini, Paratesto e rivoluzione scientifica Giuseppe Olmi, Le raffigurazioni della natura nell’età moderna : « spirito e vita » dei libri Giuseppe Lipari, Il paratesto nell’editoria messinese cinque-seicentesca Loredana Olivato, Dalla tela alla pagina : i cataloghi figurati nel veneto fra XVIII e XIX secolo Giovanni Ferrero, Il paratesto nel libro scientifico del ’600. Aspetti iconografici e testuali del frontespizio inciso nell’editoria ligure

9 207 27 235 253 269

roma, martedì 6 novembre 2004 sessione pomeridiana Paola Zito, Andreas Magliar sculpsit. Di alcune antiporte napoletane di fine Seicento 287

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sommario

Anna Giulia Cavagna, La parola dei tipografi-editori nei paratesti genovesi Mirjam M. Foot, The binding as paratext

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tavola rotonda Marco Santoro, Dall’opera all’edizione : l’influsso del paratesto sui classici italiani Alberto Augieri, L’astuzia del paratesto e la rudezza ingenua del potere : il caso Alvaro 329 Renzo Bragantini, Su alcune edizioni cinquecentesce del Decameron 343 María de las Nieves Muñiz Muñiz, La ricezione dei classici italiani attraverso il paratesto delle traduzioni cinquecentesche spagnole (La penna e la spada ai tempi dell’impero) 349 roma, mercoledì 7 novembre 2004 sessione antimeridiana Mercedes López Suárez, La multifunzionalità del paratesto nei “pliegos sueltos” Anna M. Devís Arbona, I prologhi nella letteratura del dopoguerra Giuseppe Mazzocchi, Per una tipologia del paratesto delle traduzioni di opere letterarie spagnole in italiano (secoli XVI-XVII) Georges Güntert, Narrativa italiana dell’Otto e Novecento tradotta in tedesco : il ruolo del paratesto Marcell Mártonffy, Il labirinto del romanzo e i meandri della memoria. Funzioni paratestuali nella ricezione ungherese di Umberto Eco, Italo Calvino e Claudio Magris Stephen Parkin, Le dediche nei libri italiani stampati a Londra nell’età moderna Edoardo Crisafulli, Testo e paratesto nell’ambito della traduzione

36 379 393 43 427 439 447

bologna, giovedì 8 novembre 2004 sessione antimeridiana Andrea Battistini, La funzione sinottica del frontespizio e la semantica dei corpi tipografici nella Scienza nuova di G. Vico Elide Casali, L’eloquenza degli astri. Aspetti del paratesto nella letteratura pronosticante astrologica dell’Italia moderna Paolo Temeroli, Astuzie del paratesto e gioco delle parti tra autore e editore nelle stampae di Francesco Marcolini Carla Di Carlo, Paratesto ed editoria teatrale : il programma di sala Paolo Tinti, Il paratesto nelle edizioni di Leon Battista Alberti Daniela Brunelli, Il paratesto di una rivista manoscritta : « La Lucciola », 1908-1926

467 485 493 505 53 523

bologna, giovedì 8 novembre 2004 sessione pomeridiana Carmela Reale, Il paratesto nell’editoria calabrese sei-settecentesca 545 Giancarlo Volpato, Elementi paratestuali nelle opere pubblicate dall’Officina Bodoni di Giovanni Mardersteig 557 Gino Castiglioni, La chimèrea officina : paratesto e poetica nelle edizioni di un torchio tipografico 579

sommario

ix

Tobia R. Toscano, Il paratesto come sussidio dell’ecdotica : le rime di Galeazzo di Tarsia in edizioni napoletane tra Sei e Settecento 587 Michele Carlo Marino, Il paratesto nelle edizioni rinascimentali petrarchesche 60 Antonella Orlandi, L’incidenza del paratesto sui repertori bio-bibliografici del Seicento 609 bologna, venerdì 9 novembre 2004 sessione antimeridiana Luca Toschi, I paratesti della comunicazione : tra media e nuovi media Rossano De Laurentiis, Mauro Guerrini, FRBR e paratesto Michael Gorman, Paratextual elements in bibliographic records Alberto Cadioli, Il patto editoriale nelle edizioni moderne e contemporanee Riccardo Fedriga, I criteri di pubblicabilità dell’editoria contemporanea tra strategie di presentazione del testo, credenza e tattiche di risposta dei lettori Maria Antonietta Terzoli, www.margini.unibas.ch : un archivio informatico dei testi di dedica nella tradizione italiana (AIDI) Florindo Rubbettino, L’epitesto come strategia

623 64 655 663 673 685 697

bologna, venerdì 9 novembre 2004 Francesco Iusi, Dal cartaceo al digitale : rese paratestuali della documentazione presente negli archivi letterari 705 Franco Tomasi, Il paratesto nei documenti elettronici 73 Maria Gioia Tavoni, Conclusioni 723 Profili

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Indice dei nomi

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Marco Santoro NULLA DI PIÙ MA NEPPURE NULLA DI MENO : L’INDAGINE PARATESTUALE . Sul tavolo in camera sua, visibile a chiunque entrasse, si trovava invariabilmente il libro che egli aveva scritto : un romanzo di non grandi proporzioni, con la copertina adorna d’un disegno intricatissimo, stampato su una specie di carta asciugante, e con certi caratteri che ogni lettera assomigliava a una cattedrale gotica 

C

osì Thomas Mann “presenta” lo scritto creativo del protagonista di uno dei suoi due racconti più lunghi, più importanti e più famosi : Tristano (l’altro, per inciso, come si sa, è Tonio Kröger), racconto dove l’influenza schopenhaueriana, che già permeava di sé I Buddenbrook, risulta approfondita e acutizzata. Ma non è sul signor Spinell, il cui statuto di letterato in chiave grottesca eleva il modo e il mondo stessi del grottesco a validità universale, che qui ci si vuole soffermare. Ciò che invece in questa sede interessa porre in adeguato rilievo è la modalità con la quale lo scrittore tedesco descrive in prima battuta il romanzo di Spinell. Mann ne evidenzia subito le peculiarità materiali : il formato (di non grandi proporzioni), la legatura (copertina adorna d’un disegno intricatissimo), il materiale scrittorio (una specie di carta asciugante), il disegno del carattere (del quale ogni lettera assomigliava a una cattedrale gotica). Dunque Mann quale precursore di Genette ? Quale anticipatore di sensibilità ermeneutiche che solo in tempi recenti hanno beneficiato di approcci e metodologie investigative sempre più scaltrite ? Chi ha sensibilità storica e consuetudine all’indagine filologica indubitabilmente non può che escludere eventuali risposte affermative. E tuttavia non si potrà negare che l’attenzione nei confronti delle componenti e delle implicazioni materiali dell’oggetto libro non alberga certamente solo negli animi, in certi animi, del mondo contemporaneo. La viscerale attrazione e il compiacimento del possesso del documento scritto infatti affondano le radici nel lontano passato e hanno provocato il non casuale conio del termine composto “bibliofilia” nonché quello di “bibliomania”. Non occorre qui risalire a Cicerone, Attico o al vescovo di Cesarea, Areta, per enucleare quella straboniana “philobiblìa” che in epoca umanistica beneficiò di rinnovato interesse grazie alla infaticabile attività dei vari Petrarca, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, ecc. Sarà solo il caso di ricordare che il termine “bibliofilia” assume i caratteri di fenomeno storico individuabile e caratterizzato da proprie regole e da orientamenti comportamentali precisi intorno al xvii-xviii secolo, allorché il libro si impone anche come un simbolo o, se si vuole, come monumento : diviene oggetto di consacrazione e, allo stesso tempo, è fonte di prestigio sociale. Gli amatori del libro non si orientano, non sono più affascinati e attirati dalla edizioni più corrette sotto il versante filologico, ma sempre più sono sensibili a fattori quali il materiale utilizzato per la stampa, la legatura, l’esibizione di tavole, illustrazioni, miniature e altre peculiarità materiali. . Cfr. Thomas Mann, Novelle e racconti, Milano-Verona, Mondadori, 9562, p. 379.

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marco santoro

Potremmo registrare, per tornare al xx secolo, numerose e autorevoli testimonianze letterarie che enfatizzano e disvelano ora il grottesco, ora l’assurdo, ora il paradosso presenti nelle forme più retrive e patologiche legate alla bibliofilia trasfigurata in bibliomania. Penso, per fare solo un esempio, allo smodato e sofferto attaccamento nei confronti dei libri dell’enigmatico ed inquietante protagonista del canettiano Auto da fé, al quale sembrano idealmente contrapporsi da un canto la profonda generosità intellettuale dell’Adriano rigenerato dalla Yourcenar e dall’altro il concreto e non retorico amore per il libro di Erry De Luca, che dissacra sì il libro nella sua asettica valenza di oggetto quasi feticistico e nella sua identità di bene, “protetto” da logiche conservative di suggestione museale, ma lo esalta nella sua funzione di testimone non soltanto del sapere, ma anche della più autentica cultura, intesa come vita pulsante dell’umanità. 2 Comunemente, anche se non sempre, il libro viene rispettato. Il rispetto ha assunto e assume gradazioni diverse a seconda dei casi : riguardo, deferenza, devozione, venerazione. Stadi differenti che misurano, per così dire, la minore o maggiore passione con la quale ci si rapporta a questi straordinari prodotti della civiltà. Annotava De Amicis : L’amore dei libri, crescendo a poco a poco, finisce per diventare un sentimento affatto distinto dall’amore della letteratura, e fonte, per sé solo, di mille piaceri vivissimi, piaceri della vista, del tatto, dell’odorato. Certi libri, si gode a palparli, a lisciarli, a sfogliarli, a fiutarli […]. In una libreria, anche piccola, si gode disponendo i propri libri in un nuovo ordine che formi una nuova combinazione di colore ; si lavora di mosaico ; si fa ogni giorno un cambiamento […]. È insomma un piccolo Stato da governare, nel quale si provano tutti i piaceri, tutti gli sconforti, tutte le insidie e anche tutte le gloriole di un piccolo re che non potendo allargare i propri confini quanto vorrebbe, si diverte e si consola rimestando continuamente quel po’ che possiede 3

2. Quanto finora detto può costituire premessa, se si vuole per certi versi, o almeno apparentemente ardita, ad una puntualizzazione necessaria ai fini del discorso sul paratesto. In effetti, sia pure con indubitabile dignità, le suggestioni bibliofiliche hanno attecchito e, in certi casi, tuttora attecchiscono in un certo modo di fare “storia del libro”. Se ne avessimo il tempo, potremmo rileggere insieme molteplici passi non solo di manuali legati alle scienze librarie ma anche di contributi settoriali, spesso per altro eccellenti, su tipografi, vicende editoriali, ecc. dove, in modo ora più diretto e trasparente ora più in filigrana, emerge l’inclinazione a soffermarsi maggiormente, se non prevalentemente o addirittura esclusivamente, sulle quelle edizioni considerate più rappresentative e più significative della tradizione tipografico-editoriale. Non è quindi un caso se in Italia i vari Manuzio, Giunta e via via Bodoni, fino a giungere ai Forni agli Scheiwiller, ecc. hanno beneficiato di consistente e certamente scaltrita 2. Assai significativo questo passo : « Leggo gli usati perché le pagine molto sfogliate e unte dalle dita pesano di più negli occhi, perché ogni copia di libro può appartenere a molte vite e i libri dovrebbero stare incustoditi nei posti pubblici e spostarsi insieme ai passanti che se li portano dietro per un poco e dovrebbero morire come loro, consumati dai malanni, infetti, affogati giù da un ponte insieme ai suicidi, ficcati in una stufa d’inverno, strappati dai bambini per farne barchette, insomma ovunque dovrebbero morire tranne che di noia e di proprietà privata, condannati a vita in uno scaffale ». Erri De Luca, Tre cavalli, Milano, Feltrinelli, 999, p. 8. 3. Brano tratto da Antonio Bandini Butti, Manuale di bibliofilia, Milano, Mursia, 97, p. 30.

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attenzione. Come di converso non è un caso se per tanto tempo si è ripetuto che la realtà editoriale secentesca si è generalmente configurata come una realtà di crisi, di decadimento, segnata dall’impoverimento esteriore delle pubblicazioni, dall’incuria compositiva, dall’utilizzo di materiali più scadenti (dalla carta ai caratteri). Sul modo di concepire la storia del libro in Italia, in effetti, ha pesato a lungo, come sapientemente sottolineava Armando Petrucci nell’ormai lontano 976, 4 l’incapacità di ripercorrere in modo sia pure riassuntivo, sintetico ma metodologicamente innovativo la proteiforme biografia e il plurivalente ruolo del documento scritto (e non v’è chi non individui a riguardo sul piano internazionale una significativa sintonia col reiterato e persuasivo j’ accuse della celebre autrice de La rivoluzione inavvertita, Elizabeth Eisenstein). È prevalsa la tendenza ad « approfondire, con metodo in ogni caso puramente descrittivo singoli fenomeni esterni (i caratteri, l’illustrazione, la legatura) » o ad « approntare (per il settore più antico soltanto) inventari, annali di tipografi, cataloghi ». 5 Ma, negli ultimi decenni anche in Italia si è concretizzato un diverso modo di aggredire le problematiche legate al mondo del libro nei suoi molteplici aspetti. Si sono attivati e hanno progressivamente scaltrito e affinato le proprie incursioni e le proprie consuetudini ricognitive, infatti, approcci e sensibilità critiche inclini ad aggredire il documento (stampato e/o manoscritto) nelle sue diverse “identità” e nei suoi differenti “statuti” socio-economico-culturali. Il libro, nelle variegate vesti di veicolo di segni, di contenitore di messaggi, di espressione artistica, di testimone e artefice di procedure e tecniche aziendali e commerciali, di termometro e propulsore di costumi e comportamenti, è stato “smontato”, sezionato, frazionato in lacerti talvolta sin troppo indipendenti, è stato scomposto in testimonianza documentale gestita e gestibile secondo le più diverse esigenze analitiche e le metodologie più disparate e talvolta lontane fra loro, se non vogliamo dire contrastanti. Ma tutto ciò, al di la di para-polemiche dall’evidente spessore provinciale, non ha nociuto alla progressiva comprensione del microcosmo librario, anzi : in realtà ha vitalizzato ed ha rinvigorito gli studi non solo degli specialisti ma anche degli studiosi di altre aree. 3. Tuttora, però, una qualche necessità di chiarimento metodologico si avverte. Tuttora persistono incertezze e forse anche ambiguità ed equivoci sulle angolazioni in virtù delle quali è legittimo inquadrare il microcosmo librario per attivare poi di volta in volta zoomate di maggiore o minore intensità. Nell’ intervento oramai celebre Che cos’è la storia del libro ? Robert Darnton esordiva : ovunque la storia del libro è stata riconosciuta come un’importante nuova disciplina. La si potrebbe chiamare anche storia sociale e culturale della comunicazione per mezzo della stampa, se non fosse una definizione così ridondante, perché il suo fine è di comprendere in che modo le idee siano state trasmesse attraverso la stampa e come il contatto con la parola stampata abbia influito sul pensiero e sul comportamento dell’umanità negli ultimi cinquecento anni. 6

È agevole registrare dalla citazione una precisa interpretazione della finalità sovrana della storia del libro : comprendere in che modo le idee siano state trasmesse attraver4. Ci si riferisce ad Armando Petrucci, Per una nuova storia del libro, introduzione a Lucien Febvre, Henri Jean Martin, La nascita del libro, Roma-Bari, Laterza, 977, pp. vii-xlviii. 5. Ivi, p. xiii. 6. Cfr. Robert Darnton, Il bacio di Lamourette, Milano, Adelphi, 994, p. 65.

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marco santoro

so la stampa e come il contatto con la parola stampata abbia influito sul pensiero e sul comportamento dell’umanità. Compito arduo, estremamente arduo, quindi, quello dello storico del libro, che presuppone la non comune capacità da un canto di acquisire e governare diverse conoscenze (e per certi versi viene in mente l’onnisciente bibliografo di Jean François Née de la Rochelle) e, dall’altro, di sapere sapientemente elaborare procedure di analisi organicamente finalizzate ad una ricostruzione coerente e complessiva della “galassia Gutenberg”. Non a caso lo stesso Darnton avvertiva : È facile perdere di vista le dimensioni complessive dell’impresa, perché gli storici del libro si smarriscono spesso in strade secondarie e imperscrutabili o in specializzazioni prive di coerenza reciproca. Il loro lavoro può essere così frammentato […] da far perdere ogni speranza di poter concepire la storia del libro come un soggetto unitario […]. I libri, quando li si considera come oggetti di studio, rifiutano anche di lasciarsi relegare entro i confini di una singola disciplina. Né la storia né la letteratura né l’economia né la sociologia né la bibliografia possono rendere giustizia di tutti gli aspetti della vita di un libro. Per sua natura, dunque, la storia dei libri deve avere una dimensione internazionale e seguire un metodo interdisciplinare. Non deve però perdere la coerenza concettuale, poiché i libri appartengono a circuiti di comunicazione operanti su schemi che, per quanto complessi possano essere, hanno una loro intrinseca consequenzialità. Mettendo in luce tali circuiti, gli storici possono dimostrare che i libri non si limitano a raccontare la storia : la fanno. 7

Il rischio di approcci speculativi eccessivamente unilaterali e poco o punto inclini a proporsi come uno dei possibili itinerari investigati in vivificante sinergia con altri metodi è stato opportunamente sottolineato anche da Roger Chartier, lo ricordiamo tutti, che ha espresso preoccupazione, ad esempio, in merito alla tendenza di vari sostenitori della “bibliografia analitica” di trascurare del tutto o almeno più del dovuto i ruoli del lettore e dell’autore nel processo produttivo editoriale. Eppure lo storico francese non disconosce affatto la enorme importanza dello studio delle “forme” assunte dalla comunicazione scritta. Non a caso egli puntualizza : Quando la ricezione di un testo avviene all’interno di dispositivi di rappresentazione molto diversi tra loro, lo ‘stesso’ testo non è più lo stesso. Ciascuna delle sue forme obbedisce a convenzioni specifiche che incidono sull’opera secondo leggi proprie e l’associano in modi diversi ad altre arti, altri generi, altri testi. Individuare gli effetti di senso prodotti da queste forme materiali è una necessità per chi voglia comprendere, nella loro storicità, gli usi e le interpretazioni di cui un testo è stato investito [...]. La possibile intelligibilità dei testi dipende, quindi, dalle categorie che designano e definiscono i discorsi. Ma dipende anche dalle forme che ne regolano la trasmissione. 8

Non vi può essere chi non colga in queste sottolineature un ulteriore contributo di chiarimento in merito a quanto si sta dicendo. In particolare, mi sembra estremamente eloquente l’esordio, « quando la ricezione di un testo avviene all’interno di dispositivi di rappresentazione molto diversi tra loro, lo ‘stesso’ testo non è più lo stesso », giacché rivendica il significato più autentico delle ricerche condotte in ragione della “materialità” degli strumenti (dalle tavolette cerate ai computer) dei quali il messaggio scritto si è potuto giovare attraverso il tempo. Tutti i “testi”, in sostanza, acquisiscono una propria personalità, una propria identità « in relazione alle forme che ne regolano la trasmissione » : da qui non solo l’opportunità, ma addirittura la necessità di indivi7. Ivi, pp. 95-96. 8. Roger Chartier, Cultura scritta e società, Milano, Sylvestre Bonnard, 999, pp. 8-9.

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duare, analizzare e valutare, come afferma Tanselle, « i segni fisici da cui sono costituiti i messaggi verbali provenienti dal passato ». 9 D’altro canto, se è vero che un testo, per dirla con Foucault, è sempre “un nodo di un reticolo,un meccanismo di rimandi” e che, come sottolineava la Corti, “non cessa mai di essere fatto ma non cessa nemmeno di essere legato alla sua origine”, è anche vero che “Il mito del testo definitivo – secondo l’arguta e ironica puntualizzazione di Borges – appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza”. Si vuol dire che se da un canto il messaggio semantico, in specie quello creativo, allorché affidato ad un documento, va certamente inquadrato, decodificato e colto come arte di attraversamento della complessità, per rifarci a Luhmann, o come mezzo di incontro con il possibile non realizzato o incompiuto, come sagacemente teorizza Köhler, oppure, per adottare la formula lotmaniana, come gioco di simulazione, disposto, si potrebbe aggiungere, su un piano di connessioni storico-culturali più o meno sapientemente ed estrosamente interfacciate, dall’altro il messaggio stesso acquisisce consistenza, è il caso di dire, proprio in una specifica “forma”. L’autore, è stato precisato da molti, non scrive “libri”, ma, possiamo dire, costruisce “testimonianze”, critiche o creative, le quali assumono lo statuto di “opere” allorché vengono lette, allorché trovano un destinatario. In questo passaggio dalla scrittura alla lettura, il testo si moltiplica tante volte quante sono le fruizioni e assume così molteplici e differenti sensi semantici, a seconda delle modalità, dei gusti, delle inclinazioni e degli interessi con i quali è recepito. Insomma, per sintetizzare con Roland Barthes, potremmo affermare che la nascita del lettore richiede la morte dell’autore e che un testo comincia veramente ad esistere solo quando un lettore se ne appropria. Eppure, se il lettore edifica il proprio testo, rielabora e personalizza il messaggio secondo la propria sensibilità e le proprie più o meno consapevoli esigenze, non si potrà non aggiungere che in tale processo un ruolo indubitabilmente non secondario viene rivestito da colui o da coloro che propongono e traducono il messaggio al fruitore in “sistema libro”. Andrà quindi debitamente sottolineato che oggi l’editore (e un tempo, per inciso, il tipografo o lo stampatore/editore nonché coloro che a vario titolo erano chiamati alla realizzazione fisica della pubblicazione), dicevo oggi l’editore riveste il ruolo, come ha ben precisato Cadioli, « di dare corpo materiale al passaggio dal “testo di uno scrittore” al “libro di un lettore”, e più precisamente di un lettore potenziale che deve inverarsi in un lettore reale ». 0 Ho poco fa richiamato il nome di Thomas Tanselle e da un suo celebre saggio (La storia della stampa e gli studi storici) sarà funzionale estrapolare una sottolineatura estremamente stimolante, legata al concetto che non vi può essere una storia delle idee senza una storia degli oggetti, e cito : La storia della produzione, dell’uso e dell’influenza dei caratteri tipografici è fondamentale per gli studi umanistici non solo perché le lettere sono uno dei veicoli dominanti per la trasmissione del linguaggio, ma anche perché la loro forma e disposizione – con tutti i dettagli che riguardano la loro manifattura – sono in sé portatrici di significato […]. La migliore possibilità che abbiamo di cogliere lo spirito umano, come esso è esistito in diversi tempi e luoghi, è attraverso lo studio dei manufatti che esso ha prodotto, e attraverso l’interpretazione del loro significato alla luce del modo in cui essi sono stati prodotti.  9. Cfr. Thomas Tanselle, La storia della stampa e gli studi storici, « La Bibliofilia », 996, 3, p. 23. 0. Cfr. Alberto Cadioli, Lettura e editoria, in Il futuro della lettura, a cura di Maurizio Vivarelli, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 997, p. 56. . Th. Tanselle, La storia della stampa…, cit., p. 23.

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Accanto e, se si vuole, in consequenziale collegamento a tale sottolineatura, che rivendica vigorosamente l’incisivo ed ineludibile ruolo dell’analisi propria della “bibliografia analitica” di scuola anglosassone, sarà d’uopo tenere presenti le suggestive argomentazioni di Donald McKenzie, che, per essere schematici forse più del lecito, in primo luogo dilata opportunamente il concetto di “testo”, in secondo luogo, nel caricare l’indagine sulla materialità dei libri di ben più ampi orizzonti, affrancati dal vincolo privilegiato, se non esclusivo, con la filologia, con la “lettura” dei segni nella prospettiva ecdotica, rischiosamente monopolistica, gratifica le molteplici componenti fisiche dei documenti di “significati” non occasionali, autonomi eppure interconnessi col complessivo valore testimoniale dei documenti stessi. il ‘testo’ – egli scrive – è in certa misura indipendente dai documenti che in qualsivoglia stadio della composizione gli danno forma. Questo significa riconoscere che nessun testo di una qualche complessità può offrire un significato definitivo. L’apparente unità di un testo « conchiuso in se stesso » […] è un’illusione. In quanto linguaggio, le sue forme e i suoi significati dipendono da altri testi, e quando lo ascoltiamo, lo guardiamo o leggiamo, in quello stesso momento lo riscriviamo. 2

Potremmo in sintesi annotare che la combinazione di simboli materiali partorisce sempre e comunque una “forma”, autosufficiente, autoreferenziale, autonoma e indipendente rispetto al significato semantico dei simboli e della loro combinazione ; una forma che è essa stessa “messaggio”, è essa stessa documento, è essa stessa testimonianza di un circuito di comunicazione, con un emittente e un destinatario, testimonianza che può essere notomizzata, giacché scelta informativa di uno o più produttori (talvolta anche inconsci) e nel contempo elaborazione reattiva individuale e/o collettiva (in questo caso, più frequentemente inconscia). Alla luce di quanto detto anche il tradizionale modo di considerare il “libro” può essere non modificato ma ampliato ed è possibile non soltanto recepire ancor più agevolmente il discorso tanselliano, ma anche attribuire alla “storia materiale del libro” una più autonoma e più incisiva funzione ermeneutica nonché riconoscerle una lezione di itinerari interpretativi assai pregnanti anche in rapporto alle istanze di lucida e spregiudicata decifrazione della realtà multimediale che ci circonda e che, molto più spesso di quanto comunemente si creda, ci assedia. Non solo. Ma è altresì legittimo recepire e assimilare il discorso genettiano, io credo, con una qualche non insignificante rielaborazione. 4. L’opera letteraria è, interamente o essenzialmente, costituita da un testo, vale a dire (definizione minima) da una serie più o meno lunga di enunciati verbali più o meno provvisti di significato. Questo testo, però, si presenta raramente nella sua nudità, senza il rinforzo e l’accompagnamento di un certo numero di produzioni, esse stesse verbali o non verbali […] delle quali non sempre è chiaro se debbano essere considerate o meno come appartenenti ad esso, ma che comunque lo contornano e lo prolungano, per presentarlo, appunto, nel senso corrente del termine, ma anche nel suo senso più forte : per renderlo presente, per assicurare la sua presenza nel mondo, la sua « ricezione » e il suo consumo, in forma, oggi almeno, di libro. 3 2. Donald F. McKenzie, Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Sylvestre Bonnard, 999, p. 64. Sulle questioni teoretiche legate agli approcci metodologici inerenti la storia del libro cfr. Marco Santoro, A proposito della “storia del libro”, in Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliografico, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2002, pp. -34. 3. Cfr. Gérard Genette, Soglie, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989, p. 3.

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Questo l’incipit del contributo che, per tutti noi, costituisce un fondamentale e insostituibile punto di partenza in merito a qualsivoglia discorso sul paratesto : si tratta, lo si sa, di Soglie di Gérard Genette. Sono trascorsi circa venti anni dall’apparizione del saggio, per l’esattezza diciassette, e l’approfondimento speculativo sulle dinamiche dell’approccio paratestuale e soprattutto le ricognizioni su varie delle componenti che “presentano” ora il singolo libro ora un gruppo di documenti scritti si sono evoluti sensibilmente sia qualitativamente che quantitativamente. Ampio e opportuno risalto si è dato alla funzione e al ruolo delle dediche, degli indici, dei frontespizi, delle pagine preliminari, delle legature, ed è superfluo ora ricordare le numerose iniziative e i pregevoli contributi che negli ultimi tempi ci sono stati regalati, molti dei quali ad opera degli eminenti studiosi che relazioneranno in queste giornate. Andrà comunque rimarcato che indubitabilmente l’approccio alle diverse componenti paratestuali è stato duplice : da un canto ci si è impegnati nel recupero dei diversi e molto spesso pregnanti messaggi semantici enucleabili da pagine, carte, immagini e altro posti a corredo del testo “principe”, dall’altro ci si è soffermati sia sulle logiche sottese all’edificazione materiale del manufatto librario, edificazione segnata anche dall’impalcatura paratestuale extraeditoriale, sia sull’impatto con il quale lo specifico oggetto librario è stato recepito e interpretato proprio in virtù della sua materialità. Non v’è dubbio che dalle dediche agli “avvisi”, dai frontespizi ai componimenti encomiastici e via via fino agli apparati iconografici (comprendendovi per altro marche, stemmi, iniziali, ecc.) è agevole desumere informazioni estremamente preziose su autori, personaggi, aziende tipografico-editoriali, motivazioni propulsive inerenti sia la pubblicazione che l’opera stessa, strategie culturali, ecc. (e non è un caso, per inciso, che spesso l’intervento censorio si è accanito proprio su tali territori con espurgazioni, per noi, illuminanti). Né è d’uopo d’altro canto dimenticare che gli stessi apparati paratestuali meritano e, se si vuole, esigono decodificazioni congrue in relazione alle loro strutture, giacchè a mano a mano essi si sono evoluti con montanti peculiarità di veri e propri “generi” : e ci basti in proposito pensare alle dediche, sulle quali converrà ricordare almeno la recente pubblicazione degli “Atti” del convegno di Basilea affidata alle esperti cure della Terzoli. 4 Legittima, anzi più che legittima, quindi, l’indagine che ci impone di immergerci nella registrazione e nell’interpretazione dei messaggi semantici presenti negli stessi apparati di corredo, apparati che non raramente, come ad esempio nel caso degli imponenti e pervasivi commenti rinascimentali, segnano la pubblicazione in modo così incisivo da provocare un ribaltamento dei ruoli fra testo e paratesto. E ciò vale non solo, naturalmente, per il libro di antico regime tipografico ma anche, e non dico soprattutto, per il libro moderno e contemporaneo : e non credo che occorra richiamare i risvolti di Sciascia, oppure la insistita ed icastica sensibilità paratestuale della Morante o, ancora, la nota polemica Pavese-De Martino in merito alle funzioni da attribuire alle prefazioni nella “Collana viola”. 5 D’altro canto l’invito a considerare il paratesto sostanzialmente in questa chiave emerge anche in Genette che significativamente nel sottolineare la valenza “funzionale” del paratesto, sostiene : « il paratesto, in tutte le sue forme, è un discorso fondamentalmente eteronomo, ausiliare, al servizio di qualcos’altro che costituisce la sua ragion d’essere, e che è il 4. I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Basilea, 2-23 novembre 2002. A cura di Maria Antonietta Terzoli. Roma-Padova, Antenore, 2004. 5. A riguardo cfr. Marco Santoro, « Libri per ragazzi no. Non ci sono più ragazzi ». L’impegno editoriale di Cesare Pavese, « Esperienze letterarie », xxix (2004), 3, pp. 43-64.

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testo » : e non v’è ragione per non concordare. Ma se ciò è vero, è anche vero che il paratesto, come dire ?, splende di luce autonoma, si materializza, si evolve, si autoregola e si impone per ciò che è e non soltanto per una sua, pur innegabile, funzione ausiliaria. Se, come credo si possa convenire, desideriamo accogliere i sapienti inviti elargiti, sia pure in una prospettiva ermeneutica diversa, da numerosi studiosi impegnati a rivendicare l’ortodossa ineludibilità dell’indagine imperniata sulla “forma” della quale si sostanzia il contenuto, e altresì se accogliamo il concetto che non vi può essere storia delle idee senza storia degli oggetti, ne consegue che tutto quanto concorre a materializzare un libro, allorché connota e “marchia” il libro stesso, sollecita, chiede, esige adeguata e puntuale esegesi, ben lungi da pretestuoso coonestamento. Possono quindi entrare sulla scena non solo, come d’altronde prevede Genette, elementi costitutivi la strategia dei segni all’interno di una pubblicazione, dalla struttura della composizione al corpo del carattere, dai titoli correnti alle iniziali, alle note a piè di pagina, (e a riguardo come non citare almeno i recenti contributi di David Carson o di Anthony Grafton 7 ?), ma anche gli elementi caratterizzanti i singoli esemplari, dai marginalia alle note di possesso, dalle postille alle dediche private, fino a giungere ai corredi iconografici personalizzati e alle legature di pregio, in merito alle quali possiamo beneficiare delle puntuali ricerche di Mirjan Foot. 8 In quest’ ultimo caso, superfluo insistere, siamo su un piano che si separa dall’orizzonte strettamente editoriale ma che in ogni caso può legittimamente confluire nello sguardo analitico dello storico del libro. Il paratesto, si diceva, splende di luce autonoma e con ciò si intende rimarcare che esso assolve funzioni e ruoli peculiari che travalicano o che si affrancano dai messaggi semantici che contiene, giacché ruoli e funzioni si materializzano in ossequio a strategie tipografico-editoriali che non possono e non devono sottostare al contesto autoriale dell’opera, visto che dette strategie si assumono il carico di divulgare la pubblicazione in termini prevalentemente, se non esclusivamente di acquisto, più che di lettura, anche se le due destinazioni spesso, pur se non sempre, si coagulano. Insomma il tipografo e/o l’editore (nelle sue molteplici configurazioni), chi in pratica si impegna nella realizzazione di un’edizione, ha istituzionalmente l’obiettivo, nella palese e sovrana implicazione economica insita nell’iniziativa, di fare assorbire dal mercato il numero più alto possibile di copie, ora come nel passato. Nel contempo, chi realizza una pubblicazione con l’appoggio scientifico di consulenti o curatori o direttori di collana, deve prefigurare insieme a costoro la tipologia privilegiata dei destinatari e quindi studiare e valutare il modo più adatto per fare breccia nei loro interessi, per rispondere alle loro aspettative, per assecondare e, perché no ?, limare o addirittura modificare le loro consuetudini : e mi pare che richiamare in proposito la paradigmatica vicenda del binomio Bembo-Manuzio, 9 possa bastare. Oltre ad altri strumenti, che potrebbero coincidere in parte con l’epitesto genettiano e che con il 6

6. Cfr. G. Genette, Soglie, cit., p. 3. 7. Anthony Grafton, La nota a piè di pagina. Una storia curiosa, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000. 8. Si veda almeno Mirjam M. Foot, La legatura come specchio della società, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000. 9. Mi sia consentito di rinviare a Marco Santoro, Appunti su caratteristiche e valenze paratestuali delle edizioni italiane rinascimentali della Commedia, « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari », xviii (2004), pp. 03-26.

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passare del tempo hanno acquisito crescente rilevanza, egli a tale scopo deve giovarsi in prima istanza, come d’altronde nel passato, dell’impatto del prodotto materiale, del modo in cui detto prodotto viene curato, corredato, impreziosito, in una parola confezionato, così da presentarlo all’attenzione del pubblico con buone possibilità di catturarne il consenso. Certo non occorre qui rammentare le ragioni probabilmente più autentiche dell’evoluzione dei frontespizi, le accurate e talvolta smaliziate strategie delle intitolazioni, il progressivo sviluppo delle collane, la montante adozione di formati ridotti, la diligente attenzione destinata ai disegni dei caratteri, il costante rilievo attribuito all’apparato iconografico, il sapiente utilizzo dell’avviso ai lettori, ecc.. Insomma, un libro, ogni libro emette segnali, intavola subito un dialogo con colui che lo prende fra le mani : il suo abito deve intrigare, affascinare, convincere e questo abito, a seconda del referente a cui deve essere esibito, può essere ora sfarzoso ora dimesso, ora da lavoro ora da svago. In ogni caso, però, è un abito dei propri tempi, un abito che denuncia i gusti non solo di chi lo confeziona ma anche di coloro che devono apprezzarlo e accettarlo. Fuor di metafora, non v’è dubbio che, per limitarci al libro stampato, sin dall’età degli incunaboli l’incidenza dei più diversi corredi paratestuali ha segnato la biografia materiale dell’attività tipografico-editoriale. Di questa biografia non possiamo non tenerne conto, giacché essa è satura di codici estremamente significativi, che ci consentono di comprendere non solo la maggiore o minore fortuna delle pubblicazioni, come a dire delle opere e degli autori, non solo le logiche sottese alle attività delle officine, non solo rapporti e collegamenti all’interno e fra diversi milieu culturali e politici in senso lato, ma anche l’evoluzione dei gusti, delle inclinazioni e degli interessi anche estetici oltre che culturali e sociali, sia dei promotori che dei destinatari stessi del prodotto editoriale. Se si è concordi con Darnton che i libri non si limitano a raccontare la storia, ma la fanno, la loro materialità, che significativamente ha sempre riscosso grande attenzione da parte di tutti, autori compresi, esige congrue procedure investigative che, indubitabilmente, non esauriscono e non escludono approcci interpretativi di differente impronta. Con rinnovata consapevolezza, in sostanza, è d’uopo tornare su quei fenomeni esterni evocati da Petrucci, per enuclearne e catturarne ben diverse peculiarità ed implicazioni, per recuperare l’interesse bibliofilico al fine però di emanciparlo e di disporlo su di un piano di più larga, articolata e rigorosa sistematicità analitica. Come d’altronde è d’uopo tesaurizzare suggestioni e suggerimenti dell’ermeneutica legata a vario titolo alla materialità del documento scritto, compreso quello manoscritto. Questo il compito dell’indagine paratestuale che può e deve confrontarsi e coniugarsi con altre metodologie ma nella sua organica, convinta e convincente autonomia esegetica: per riprendere la precisazione di François Furet, 20 maturata come è noto in un contesto differente e in riferimento ad altre sollecitudini eseguite, nulla di più ma neppure nulla di meno. 5. Non sarà certo sfuggito che alcuni degli amici e colleghi invitati a recare il proprio prezioso contributo per il convegno che si apre oggi sono stati ricordati nelle mie parole : superfluo precisare che i riferimenti ai loro nomi non sono certo riconduci20. François Furet, La “Librairie” del Regno di Francia nel XVIII secolo, in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 977, p. 64.

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bili a piaggeria o a pur legittimo dovere di ospitalità. La loro presenza, infatti, come d’altronde quella di tutti gli altri relatori che ascolteremo in queste giornate, è dovuta proprio all’attenzione, alla scaltrita attenzione con la quale tutti gli invitati hanno affrontato le complesse e suggestive tematiche oggetto dell’odierna iniziativa. Una presenza, quindi, indiscutibilmente autorevole, che altrettanto indubitabilmente segnerà le prossime cinque giornate come uno dei momenti più qualificati nell’ambito degli studi legati al paratesto. E nel rivolgere loro un caloroso ringraziamento per essere qui con noi, apro il doveroso quanto gradito capitolo dei ringraziamenti, non senza premettere che questo convegno internazionale si inserisce nelle impegnative iniziative programmate per il progetto Cofin 2003 “Oltre il testo”, che mi vede impegnato nelle vesti di coordinatore nazionale, al quale partecipano sei unità accademiche : università di Bologna (responsabile locale Maria Gioia Tavoni), della Calabria (responsabile Carmela Reale), di Genova (responsabile Anna Giulia Cavagna), di Messina (responsabile Giuseppe Lipari), di Verona (responsabile Giancarlo Volpato) e di Roma “La Sapienza” (responsabile chi vi parla). Non mi dilungo sulle varie iniziative previste dal progetto ; desidero solo ricordare che fra queste vi è il varo di una nuova rivista annuale, intitolata appunto « Paratesto », il cui primo numero vedrà la luce fra non molto. Tutti i colleghi del progetto Cofin sono coinvolti nella qualità di componenti il Consiglio scientifico della neotestata, la Tavoni per altro nelle vesti di condirettore e, anche per questa ragione, ad essi vanno i miei ringraziamenti più sinceri non solo per essersi prodigati con consigli e suggerimenti, sempre utilissimi, ma anche per avere assicurato la loro collaborazione scientifica con la stesura di saggi destinati al neoperiodico. Ai sei Atenei coinvolti nel progetto Cofin, al Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali, e in particolare al Professore Salvatore Italia, al Professore Francesco Sicilia, al Dottore Luciano Scala e al dottore Massimo Pistacchi, nonché alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, all’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale e all’Associazione Italiana Biblioteche va un caloroso ringraziamento : senza il loro fervido e concreto appoggio sarebbe stato impossibile dare corso ad un progetto così impegnativo. È doveroso ricordare che il Convegno si avvale del prestigioso riconoscimento del Presidente della Repubblica nonché degli autorevoli patrocini della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli Affari Esteri, della regione Lazio, dell’ibc della regione Emilia-Romagna, delle province di Roma e di Bologna, dei comuni di Roma, Bologna, Pieve di Cento e di Faenza e che ha altresì beneficiato del sostegno della Provincia di Bologna, dei comuni di Faenza e di Pieve di Cento, del Consorzio per gli Studi universitari in Verona e del Dipartimento di italianistica dell’Università di Bologna : a tutti questi enti va espressa gratitudine, come va espressa agli amici che hanno aperto con il proprio saluto la giornata odierna, a conferma di encomiabile sensibilità culturale. Come si sa, per le tre giornate romane saremo ospitati dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e per le due giornate bolognesi dall’Università di Bologna e dal comune di Bologna : sedi prestigiose dunque ed è con vero piacere che le ringrazio, anche a nome dei miei colleghi. Il Convegno, anche questo è noto, si chiuderà a Bologna con l’inaugurazione della mostra “Sulle tracce del paratesto” nell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna : ritengo che più congeniale conclusione non potesse essere prevista. Sono

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pertanto grato ai colleghi del Cofin e in specie all’amica Maria Gioia Tavoni, che si è prodigata con entusiasmo coinvolgente e con la competenza a tutti noi nota, per averne suggerito e curato, con un mio contributo davvero limitato, la realizzazione. Realizzazione che certamente non avrebbe potuto concretizzarsi senza l’esperto e appassionato apporto della Dottoressa Biancastella Antonino e dei suoi validissimi collaboratori bibliotecari : ad essi quindi la gratitudine di tutti noi. A voi tutti qui presenti, infine, la cui nutrita e qualificata partecipazione è segno tangibile e confortante dell’interesse che possono sollecitare e calamitare iniziative come il Convegno che si apre oggi, non si può non rivolgere un grato saluto. Ma, mi sia lecito chiudere il mio intervento con un particolare ringraziamento a tutti coloro che con il proprio entusiastico impegno hanno seguito sin dagli esordi l’organizzazione logistica di queste cinque giornate : dall’amica e collega Tavoni ai vari collaboratori miei e suoi, da Luisa Marquardt (per l’aib) a Patrizia Costabile (per la “Vittorio Emanuele II”), da Laura Santoro (per la Direzione generale) a, dulcis in fundo, Paolo Tinti e Valentina Sestini. A quest’ultima la mia personale gratitudine per avere assolto al suo compito con encomiabile e inesausta professionalità e pari competenza, coadiuvandomi con tale efficienza da rendere il mio apporto davvero marginale. Grazie ancora e buon lavoro a tutti. Abstract Sulla scia dei sapienti inviti elargiti da vari studiosi impegnati a rivendicare l’ortodossia e l’efficacia dell’indagine impostata sulla “forma” della quale si sostanzia sempre un contenuto (per cui anche tutto quanto concorre a “materializzare” un libro, allorché lo connota e lo “marchia”, non può non sollecitare congrui e puntuali approfondimenti) si rilevano le ragioni più autentiche dell’approccio paratestuale e si dà loro più articolata e più precisa configurazione metodologica. Se è vero che l’analisi della materialità del documento scritto può e deve confrontarsi e coniugarsi con altri approcci ermeneutici, è anche vero che tale analisi può e deve espletarsi nel solco della legittima rivendicazione della propria autonomia esegetica. This article discusses the most valid reasons for a paratextual approach, and provides them with a more interconnected and precise methodological configuration. The study was undertaken in the wake of the discerning invitations proffered by several scholars who are committed to reclaiming the orthodoxy and efficacy of studies concerning “form”, which necessarily implies content. Everything that contributes to “materializing” a book, connoting and “marking” it, is certainly deserving of appropriate and detailed study.

George P. Landow L’IPERTESTO : TESTO O PARATESTO ?

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s econda del punto di vista adottato da ciascuno, l’ipertesto, un testo composto di lessie e link, può apparire sia come un’altra forma di testualità o come una forma di paratestualità. Se si considerano i link, elemento distintivo degli ipermedia, come entità para, un’aggiunta, qualcosa al di là del punto principale, allora l’ipertesto (o almeno il link ipertestuale) è una forma di paratestualità. Se, invece, si guarda al link come ad una componente necessaria di un nuovo tipo di testualità a rete, allora l’ipertesto non è paratestuale ma semplicemente testuale. Secondo l’Oxford English Dictionary Online, para ha vari significati, alcuni non particolarmente pertinenti alla paratestualità ; si parla ad esempio dell’impiego della parola in Nuova Zelanda per « indicare la Marattia salicina, una grande felce sempreverde, o il suo rizoma, utilizzato in passato come alimento », o in Brasile per indicare un porto di mare « nella riva meridionale dell’estuario del Rio delle Amazzoni ». Più pertinente è invece l’uso di para come affisso di una preposizione che ricorre “in parole già formate in greco, loro adattamenti e derivativi e in parole moderne formate su modello di queste e, in alcuni usi, come elementi viventi, nella formazione di nomenclatura tecnica”. In greco, quando viene impiegato come preposizione, para significava “al lato di, accanto”, da cui ha assunto il significato di “insieme a, per, oltre” ecc. Anche nei composti manteneva gli stessi significati, con avverbiali affini come « a un lato, accanto, inopportunamente, malamente, irregolare, disordinato, improprio, sbagliato ». Para poteva anche indicare una relazione sussidiaria, un’alterazione, una perversione o simulazione. Questi significati si ritrovano anche in derivati come parabola, paradosso, parassita, parallelo, parentesi, parrocchia, parodia, e parossismo — di certo, una raccolta di parole piuttosto suggestiva. In anatomia para viene invece utilizzato con il significato di « un organo o parte di esso situato accanto o vicino a quello denotato dal secondo elemento, o che rimane in una certa relazione sussidiaria rispetto ad esso », come, ad esempio, paratiroide. In patologia, para può invece indicare una malattia o anormalità, come in parestesia – una sensazione epidermica simile a bruciore, formicolio, prurito non associata a una causa fisica. La natura paradossale ed eppure necessaria, forse, della paratestualità appare con particolare chiarezza nella maliziosa scelta dei titoli adottata da Derrida nella prefazione a La disseminazione : Hors Livre : Outwork Hors d’Oeuvre (antipasto) Extratext (Extratesto) Foreplay (Preliminari) Bookend (Reggilibro) Facing (Facciata) * Prefacing  (Prefazione) . Jacques Derrida, La Dissemination, Paris, Éditions du Seuil, 972 ; Dissemination, trans. Barbara Johnson, Chicago, University of Chicago Press, 98, p. .

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Ancor prima che noi, come lettori, ci addentriamo nella sua discussione dei modi in cui il libro stampato forma (e limita) le nostre modalità di pensiero, ci rendiamo conto che Derrida ci ha ancora una volta obbligato a dirigere la nostra attenzione su cose che prendiamo normalmente per scontate. Dopo aver aperto la copertina dell’oggetto fisico, del libro, sfogliamo la pagina del titolo, le informazioni per la catalogazione, l’indice, e (almeno nell’edizione Americana) oltrepassiamo una consistente introduzione del traduttore. Ma allora, dove comincia effettivamente il libro ? È già cominciato ? Siamo di fronte a testo o a paratesto ? Poi, dopo circa quaranta pagine di questa macchina per la presentazione di un testo (o libro), ci imbattiamo nell’annuncio che quello che segue, pur dopo esserci già addentrati così tanto nel libro, è hors livre — fuori dal libro. E non è tutto. La parte successiva del titolo annuncia infatti che stiamo per leggere the outwork, la difesa esterna, “una fortificazione minore” secondo l’American Heritage Dictionary, e quindi costruita all’esterno della principale posizione difensiva o fortificazione. Quindi, quello che rimpiazza quanto in altri libri costituirebbe la prefazione si rivela, almeno in parte, in realtà, qualcosa che difende il testo che segue. Derrida torna quindi al francese con hors d’oeuvre, una sorta di paratesto gastronomico e gustativo che esiste dentro e al tempo stesso fuori del pasto, o almeno fuori da quella che viene normalmente considerata la parte importante. Poi viene “Extratesto”, qualcosa che, in apparenza, risiede al di fuori del testo (il testo che conta, cioè) e potrebbe costituire un supplemento del valore reale, o forse semplicemente qualcosa di non necessario e di nessun valore. Arriviamo allora ai “Preliminari”, il paratesto del piacere sessuale ; preliminare, in senso generale, è qualsiasi cosa che viene prima del “pezzo forte”, del vero piacere. I preliminari, in un certo senso, conducono sulla via della vera attività sessuale, anticipandola e aprendole la strada. Oppure il paratesto prende la forma di un “reggilibro”. Se partiamo dal presupposto che la parola “libro” denota un oggetto fisico, allora il “reggilibro” è qualcosa di fermo o di sufficientemente pesante che, se piazzato alla fine di una fila di libri, li tiene diritti. Se invece intendiamo la parola libro nel senso del testo derridiano, La disseminazione, allora il reggilibro indica simultaneamente il suo inizio o fine e qualcosa che protegge la sua virtù. Con facing (facciata), la penultima parola nella lista dei titoli, ci imbattiamo su una prefazione a mo’ di facciata, quella pietra o sfoglia di metallo sottile che copre e fa sì che l’oggetto ricoperto appaia più prezioso di quello che realmente è. O forse si riferisce idealmente all’atto dell’autore di abbandonare la sua figura autoriale per affrontare (in inglese face) direttamente il lettore, anche se ovviamente questo sarebbe un semplice scambio di modalità stilistica e retorica per l’autore. E poi arriviamo finalmente a “prefacing”, ciò che introduce o fornisce una dichiarazione preliminare. Derrida, che qui ci offre quindi una dimostrazione pratica di decostruzione, offre diversi spunti principali, tutti strettamente collegati alla comprensione del paratesto e al concetto di paratestualità. Primo, la nomenclatura che utilizziamo convenzionalmente per parlare di testo appare irrimediabilmente inadeguata, inaccurata e fuorviante. Prendiamo ad esempio la parola prefazione : Prefazione dovrebbe annunciare con un tempo verbale futuro (“questo è quello che leggerete”) il contenuto concettuale o il significato… di quello che sarà già stato scritto… Dal punto di vista della prefazione, che ricrea l’intenzione di dire dopo il fatto, i testi esistono come qualcosa di scritto – un passato – che, sotto la falsa apparenza di un presente, un autore onnipotente nascosto, (in pieno controllo del suo prodotto) si presenta al lettore come il suo

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futuro… Il pre nella premessa rende presente il futuro, lo rappresenta, lo avvicina, respira in esso, e nello spingersi avanti lo mette in avanti. Il pre riduce il futuro a una forma di presenza manifesta. [7]

« Questa », conclude Derrida, « è un’operazione essenziale e paradossale ». Un’altra operazione essenziale anche se paradossale si verifica ogni volta che, scrivendo della testualità, utilizziamo contrapposizioni basilari come interno ed esterno, perché, anche a una considerazione superficiale, non hanno molto senso. In che misura, ad esempio, possiamo considerare esterna un’allusione come quelle di Dante ad un particolare brano di Virgilio ? Queste allusioni sono interne o esterne alla Divina Commedia ? L’allusione è testo o paratesto ? Come Derrida osserva, “quando un testo cita e ricambia, con o senza virgolette, quando si scrive a margine, si inizia, o si è già iniziato a perdere la propria posizione rispetto al testo. Si perde di vista qualsiasi linea di demarcazione tra un testo e quello che è all’esterno di esso” (“Living On”, 8-82). Allo stesso modo, una nota a piè di pagina in un’edizione scolastica o commentata della Commedia fa parte del testo (e, se sì, come ?) o è paratestuale ? Tutto questo ci porta alla domanda : quanto di quello di cui facciamo esperienza mentre leggiamo un libro deriva dal paratestuale, o da cose che non consideriamo parte centrale del testo, e quanto dal vero testo ? Derrida, uno dei pochi filosofi e teorici critici consapevole del fatto che il libro stampato non è naturale o inevitabile ma una straordinaria invenzione tecnologica ed immaginifica, specifica correttamente che « la forma del “libro” sta attraversando un periodo di profondo sconvolgimento, e mentre quella forma appare meno naturale, e la sua storia meno trasparente che mai… La forma libro, da sola, non può più bastare a risolvere il caso di coloro che scrivono processi che, nel mettere praticamente in dubbio quella forma, devono anche distruggerla » (3). Derrida si rende conto che la parola libro indica almeno tre cose : . la macchina di rappresentazione testuale con uno schermo ad alta risoluzione che apriamo, leggiamo e su cui scriviamo ; 2. il testo, indipendente dall’istanziazione fisica e che tuttavia ha bisogno di tale incarnazione fisica per essere letto e, almeno, notato ; 3. la forma-pensiero, la modalità di pensiero che ha forgiato, arricchito e limitato la cultura occidentale a partire dal Rinascimento.

Come ho già discusso in altre sedi, le descrizioni di testo, rete e autore offerte da Derrida e altri post-strutturalisti si affianca, e in certa misura anticipa, le affermazioni degli studiosi di computer che hanno creato il nuovo medium – testo digitale e immagine, ipertesto e cybertesto. 2 Molte delle descrizioni di Derrida del funzionamento dei testi, che appaiono oracolari e bizzarre se giudicate dal punto di vista della cultura della stampa, diventano perfettamente accettabili se osservate dall’interno del mondo dei media digitali in rete. La seguente descrizione che Derrida propone di un testo singolo, ad esempio, spiega chiaramente come un singolo documento elettronico esista nel web con i propri link e strumenti di ricerca : « Quello che io chiamo ancora “testo” per ragioni strategiche, da adesso in poi, non è più un corpus finito di scrittura, un contenuto racchiuso in un libro o nei suoi margini, ma una rete differenziale, un tessuto di tracce che fanno infinitamente riferimento a qualcosa di 2. Vedere i primi capitoli di Hypertext (Landow 992) e i primi due capitoli di Hypertext 2.0 (997) o, nella traduzione italiana, Ipertesto (998) per una discussione di queste convergenze.

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altro da sé, ad altre tracce differenziali. Pertanto il testo travalica tutti i limiti ad esso assegnati » (“Living On”, 84). Tutti i confini dei testi digitali, a differenza di quelli fisici, sono necessariamente provvisori, in quanto i singoli documenti (o lessie) partecipano a un docuverso esteso, forse infinito. In un docuverso elettronico in rete, come quello esemplificato su internet, i motori di ricerca e i link tagliano i presunti inizio, metà e fine di quelli che, su carta stampata, apparirebbero come documenti distinti. In tale ambiente diventa particolarmente difficile localizzare o definire un paratesto. Se un paratesto è quello che è fuori, extra, accanto al testo centrale, nel mondo di internet il paratesto che andiamo ricercando diventa l’intero docuverso - : Paratesto = tutti i documenti elettronici esistenti - = docuverso - Pertanto il paratesto consiste di tutti i documenti diversi da quello sul quale stiamo in un dato momento concentrando la nostra attenzione. Allo stesso tempo, tuttavia, in uno spazio elettronico in rete si potrebbe anche affermare che non esiste alcun paratesto, dato che tutti i testi sono, da un certo punto di vista, parte di uno stesso tutto. « Quali sono le linee di confine di un testo ? » Derrida chiede. « Come nascono ? » (“Living On”, 85) Nascono perché abbiamo bisogno di limiti, distinzioni tra para e testo, ma tale distinzione rimane provvisoria, questioni di affermazioni autoriali che il lettore di un ambiente elettronico può ignorare. Avvicinarsi alla nozione di paratesto partendo dalla sua relazione con l’information technology piuttosto che dalla sua relazione con un singolo documento ci ricorda che tutti i media escludono alcune possibilità come mezzo per raggiungerne altre. Tutte le tecnologie dell’informazione hanno pertanto i loro specifici para e le loro esplicite esclusioni. Seguendo questo discorso, ad esempio, il parlato esclude la permanenza, l’esatta riproducibilità e informazioni precise riguardo materie come colore e forma. Cosa possiamo identificare come para in questo caso, quindi ? La gestualità ? La scrittura ? Alcune cose, tuttavia, sembrano rimanere identiche quando ci muoviamo da una tecnologia di informazione ad un’altra : a prescindere dal medium (parlato, scritto, stampa, pittura o cinema), l’allusione è sempre accompagnata dalle nozioni paradossali di interno ed esterno, principale e secondario, anfitrione e parassita. Fino allo sviluppo del testo elettronico – momento in cui il computer digitale è diventato un manipolatore di simboli piuttosto che un semplice mezzo per svolgere complicati calcoli matematici 3 – la scrittura era sempre stata una questione di tracciare simboli fisici su superfici fisiche. Con l’introduzione dei computer, il testo prende invece la forma di un codice elettronico che può essere mosso, riprodotto, manipolato su scala completamente diversa rispetto a quanto fosse possibile o addirittura concepibile in passato. La rappresentazione del testo diventa così virtuale più che fisica, e la regola diventa : muovi il codice, muovi il testo – cambia il codice, cambia il testo. Nel regno del digitale, la nozione di paratesto e paratestualità, come vedremo, diventa ambigua. Tuttavia, alcune forme di paratestualità rimangono intatte sia nel testo virtuale che in quello fisico. Pertanto, se, nel mondo dei libri stampati, i sommari, le liste delle illustrazioni e gli indici analitici sono convenzionalmente paratestuali, meri apparati di sostegno, allora, per analogia, le mappe dei siti, i link per la navigazione e i frame dei siti web dovrebbero rappresentare i loro equivalenti ipertestuali. La mappa di un sito, che può avere la forma di un’immagine, un diagramma, una lista o una combinazione di questi elementi, funge da mappa concettuale di un sito 3. Jay David Bolter, Richard Grushin, Remediation, Cambridge, mit Press, 200, pp. 23, 66.

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web o di una sua parte. Ad esempio, la schermata iniziale del Decameron Web di Massimo Riva (Table ), che dà il benvenuto ai lettori del sito, combina il titolo e l’indice del libro stampato mentre un carattere molto grande annuncia il Decameron Web e lo segue con un sottotitolo, A growing hypermedia archive of materials dedicated to Boccaccio’s masterpiece (Un crescente archivio ipermediale di materiali dedicato al capolavoro del Boccaccio). Tra titolo e sottotitolo appare una lista a due colonne : “Boccaccio”, ”Text” (Testo), “Search” (Ricerca), “Brigata” (Brigata), “Plague” (Peste), “Literature” (Letteratura), “History” (Storia), ”Society” (Società), “Religion” (Religione), “Arts” (Arti), “Maps” (Mappe), “Themes/Motifs” (Temi/Motivi) e “Bibliography” (Bibliografia). Le varie voci di questa lista, che spaziano dalle informazioni su Boccaccio e il testo del Decamerone a strumenti elettronici e risorse visive, portano ad altre liste o mappe locali del sito. Tra le due colonne, lungo lo schermo, appare un secondo gruppo di risorse, alcune delle quali, come “Listserve” (Lista di servizio), “Guestbook” (Libro degli ospiti) e “Links”, fanno riferimento a media elettronici mentre altre, come “Pedagogy” (Pedagogia) e “Syllabus” (Programma), potrebbero trovare spazio in un’edizione scolastica a stampa. Cliccando su uno degli argomenti principali – “Texts” (Testi), ad esempio, si apre una schermata che spiega le fonti dei testi italiani ed inglesi, fornisce un link alla traduzione Rinascimentale ed elenca altri link a risorse utili come le concordanze elettroniche. Fino a questo punto la schermata ricorda una pagina di un libro stampato, ma a sinistra appare un frame che contiene dei link ai principali argomenti elencati nella schermata d’apertura e i link a piè di pagina scorrono sul fondo dello schermo. In altre parole, quello che potrebbe essere considerato il testo del documento è circondato su due lati da materiale paratestuale, i link di navigazione e di risorse. Esempi di paratestualità appaiono anche in documenti multimediali, sia che si tratti di manoscritti illustrati e libri stampati, sia che si tratti di documenti su web contenenti materiale visivo, animazioni o suoni. Se con la parola “testo” ci si riferisce solo a caratteri alfanumerici, spazi tra le parole e altre formattazioni di un documento scritto, stampato o in forma elettronica, allora l’aggiunta di qualsiasi altro medium, come le illustrazioni dei manoscritti o dei libri, agisce come paratesto. Studiosi di de-

Plate . A www Version of a Title Page : The opening screen of Massimo Riva’s Decameron Web combines the functions of the printed book’s title and contents pages.

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sign del libro hanno da tempo compreso che la scoperta di Gutenberg è sfociata nel divorzio tra parola ed immagine, che trovavamo invece unite nei manoscritti illustrati del medioevo, nei quali parole e immagini fluivano e si confondevano le une nelle altre. 4 Con la stampa, invece, le immagini tendono ad apparire in una pagina diversa o, quando ricorrono all’interno di una stessa pagina, sono all’interno di uno spazio rettangolare, con l’unica eccezione dei logotipi o dei ghirigori messi a chiusura di capitoli e libri. Per ironia della sorte, è proprio il computer, che, essenzialmente, tratta testo alfanumerico e immagini come codici informatici identici, a riportare in auge le opere multimediali stampate, dato che i software per il desktop publishing e graphic design incoraggiano il ritorno dell’immagine nel testo verbale così come modi più complessi in cui parola e immagine possono convivere nella pagina. Dato che i computer trattano tutti i media informativi come codici manipolabili, la testualità digitale incorpora facilmente materiale visivo, che non solo prende la forma di illustrazioni e diagrammi che troviamo nel mezzo fisico, ma anche, come abbiamo osservato nel Decameron Web, che appaiono come altri elementi visuali caratteristici del testo sullo schermo, come intestazioni e piè di pagina e colori di sfondo. Inoltre, la natura codificata della testualità del computer consente l’inclusione di elementi multimediali quali suoni e movimento, non riproducibili nel testo stampato : animazioni, voce, musica, simulazioni e ambienti si combinano e si fondono facilmente – si sarebbe quasi tentati di cadere nella trappola dell’acculturazione e dire “naturalmente” – con il testo alfanumerico. Tali concessioni, tuttavia, non semplificano la decisione se considerare i singoli esempi di testualità digitale come casi di paratestualità o nuove forme di testualità. La “web-poesia” Branded, di Kate Pullinger e Talan Memmott, fornisce un esempio di medium digitale che crea una nuova forma di testualità, piuttosto che un testo con delle aggiunte. Poco dopo aver incontrato la schermata iniziale, il lettore si imbatte in un’introduzione a questa poesia animata multimediale monocromatica che ci dice, sullo sfondo delle sbarre di una prigione che Jamie is four months into a life sentence. He’s 2 years old. His girlfriend, Lana, is dead. ( Jamie ha scontato quattro mesi di un ergastolo. Ha 2 anni. Lana, la sua ragazza, è morta.) He didn’t kill her. But he’s been convicted of her murder. (Non l’ha uccisa lui. Ma è stato condannato per il suo omicidio.) Everyone believes he did it, Including his sister Flossie. (Tutti credono che sia stato lui. Inclusa sua sorella Flossie.) He’s going crazy. (Lui sta impazzendo).

Quando si lancia l’opera, che si rivela più una poesia che un racconto, il lettore riceve le parole « a prisoner/ is alone in his cell », (un detenuto è solo nella sua cella) dopo che vari pezzi di testo appaiono in sequenza ma fuori posizione, cioè, sintagmi che 4. David Bland, A History of Book Illustration, Berkeley, University of California Press, 969.

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non appaiono sulla prima riga e poi sulla successiva, ma piuttosto con dimensioni diverse e luoghi diversi dello schermo (Table 2). La comparsa a tempo dei sintagmi, il loro posizionamento sullo schermo, le diverse dimensioni dei caratteri e il movimento dei sintagmi non rappresentano casi di paratestualità, ma una nuova forma di testualità. Questo tipo di testo è animato ; l’animazione non è aggiunta. Di contro, Nathalie Bookchin con Intruder, una traduzione o rappresentazione multimediale del racconto breve Intruder di Borges, esemplifica almeno due tipi di relazioni paratestuali possibili nei media digitali, anche se nessuno implica l’ipertesto in senso stretto. Quando il lettore apre Intruder si trova di fronte quello che sembra essere Pong, uno dei primissimi e più semplici giochi per computer creati quando gli schermi dei computer potevano rendere solo il bianco e il nero. Le sfumature di grigio e ancor più i colori erano lontani diversi anni. In Pong due giocatori controllano dei piccoli rettangoli orizzontali posti ai lati opposti dello schermo muovendoli in alto e in basso per respingere una pallina bianca che si muove sullo schermo. Quando uno dei giocatori blocca la pallina bianca la rilancia verso il campo dell’avversario. Se l’avversario non riesce a respingere la pallina, al giocatore viene assegnato un punto. Nell’adattamento di Bookchin, Pong diventa una macchina per raccontare delle storie, ed il lettore si trova a giocare contro il gioco stesso, e quando si vince un punto si produce il testo successivo. 5 Al posto della pallina di Pong, Bookchin usa il testo,

Plate 2. Animated Text in an online Poem : Kate Pullinger and Talan Memmott’s web-poem, Branded exemplifies an instance of digital media as a new form of textuality rather than as paratext. The timed appearance of phrases, their placement on the screen, the varying font sizes, and movement of the phrases do not represent the paratextual but a new form of textuality. This kind of text is animated ; animation is not added to it. 5. Un’illustrazione di Pong appare in Bolter, Grushin, Remediation, cit., p. 9.

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e se si riesce a bloccare abbastanza “testo” allora si viene a sapere che il racconto è in realtà di Jorge Luis Borges « in dieci giochi ». La maggior parte dei lettori, presumo, osservano con sorpresa i punti che vengono segnati contro di loro accompagnati dal suono indisponente di un videogame, ma, non potendo fare altro, cominciano a giocare, scoprendo così che, quando si mettono a segno dei punti, si fa cominciare il racconto. Ogni volta che un giocatore mette a segno un punto, alcune parole del testo si muovono sullo schermo. Dopo aver messo da parte punti sufficienti per il titolo e l’epigrafe, il giocatore riceve un nuovo gioco, questa volta a colori, « Prendi le parole in caduta » : il testo del racconto di Borges scorre lentamente con lettere di colore grigio chiaro verso l’alto sullo schermo, mentre un contenitore marrone si muove lateralmente per raccogliere parole scritte in nero che cadono verso il basso. Se si riesce a prendere la parola con il contenitore accadono due cose : appare una nuova parola, e una voce femminile legge il racconto ad alta voce (Table 3). Se si gioca troppo lentamente, tutto il testo

Plate 3. Paratextual Relationships in Digital Media : Nathalie Bookchin’s Intruder, a translation or multimedia re-presentation of a short story by Jose Luis Borges. In this section, “Catch dropping words,” the text of Borges’s story, which appears in light gray type, slowly scrolls upward while a brown jar moves back and forth sideways as a single word in black type falls downward ; if one moves the jar under the falling word, two things happen – a new word appears and a woman’s voice reads the story aloud.

grigio dello sfondo scorre verso l’alto e alla fine scompare. A quel punto l’unica cosa che si vede sono le parole in nero che cadono su uno sfondo bianco. Alla fine al lettore viene presentato il terzo gioco, « Spara agli alieni », nel quale dei dischi volanti verdi cadono diagonalmente verso la foto di una casa bianca di legno sullo sfondo di un cielo stellato. Muovendo il cursore, si muovono due figure bianche armate, e cliccando con il mouse si sparano dei raggi rossi verso l’alto. Maggiore il numero di dischi volanti invasori distrutti, maggiore la quantità di testo che appare e che viene letta

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dalla voce di donna. Il gioco successivo, « Ultimo sangue », vede due figure maschili stilizzate che si sfidano a un duello con le pistole di fronte ad una donna, e si produce unicamente la voce della lettrice – il testo è scomparso – e in uno dei giochi successivi, « Segna il goal », abbiamo un’altra versione di Pong con una figura di donna appena abbozzata che funge da missile che bisogna bloccare contro uno sfondo rosso, piuttosto che nero ; riuscire a proteggere la porta non solo tiene viva la voce della lettrice, ma ogni volta che si riesce a parare un colpo appare la foto di una parte diversa di un corpo di donna – un piede, i seni, il gomito, l’occhio, il piede e l’addome (Table 4). In alcuni giochi, come in una semplice simulazione di una partita di football Americano o in uno nel quale si deve saltare all’interno di buche profonde, è proprio facendo quello che non si dovrebbe fare (cadere nella buca o ricevere una penalità dall’arbitro) che si genera la storia e che fa sì che la voce continui a raccontare. 6 Nell’ultimo livello, il gioco prevede un elicottero e il lettore-utente-giocatore deve muovere il mirino del proprio mitragliatore su una figura rossa che cerca di sfuggire e si muove su uno sfondo bianco e nero ; è a quel punto che si scopre che i due fratelli di Borges hanno deciso che l’unico modo per preservare la loro relazione nella quale entrambi desiderano la stessa donna… è ucciderla. Dopo che scopriamo che l’hanno fatto, nell’ultima schermata leggiamo le parole « Game over ». Dato che molti livelli di questa interpre-

Plate 4. Another Combination of Video Game and Narrative in Nathalie Bookchin’s Intruder. In the second reconfiguration of Pongthat Bookchin uses, a crude pixilated shape of a women acts as the missile one has to block. The action takes place against a red, rather than black background, and guarding the goal not only keeps the reader speaking but each success provides a different photograph of apart of a women’s body— foot, breasts, elbow, eye, foot, and abdomen. 6. Questa istanziazione della nozione che le trasgressioni producono racconti appare anche in altre forme di arte digitale. Nel cd-rom Freak Show, ad esempio, solo i lettori aggressivi che disobbediscono alle istruzioni di tenersi al di fuori della carovana del circo finiscono per ascoltare le storie dei singoli personaggi.

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tazione digitale del racconto di Borges prendono la forma di giochi nei quali i lettori devono uccidere un avversario, Bookchin riesce in effetti a commentare sia sul machismo che su come la narrativa sia sempre un agon, una lotta o scontro. Il fatto che il testo alfanumerico si trasforma in parole parlate, parole lette in realtà da una donna con accento Spagnolo, indica, si potrebbe credere, che l’Intruder di Bookchin implichi il fatto che sia necessario operare uno scambio secondo cui la scrittura di un uomo necessita la lettura di una donna. Nell’ambito della nostra disanima della natura del paratesto, diventa evidente che la giustapposizione di media diversi e forme mediali diverse sottolinea il fatto che media e forme si sfidano l’un l’altra più che formare una nuova specie di testualità. La voce fuori campo, ad esempio, sembra ovviamente apparire in relazione paratestuale al testo scritto. Se rivolgiamo la nostra attenzione all’ipertesto, ci rendiamo conto che la relazione tra questa forma di New Media e il paratesto appare particolarmente complessa. Alcuni ipertesti fanno apparire i link come paratestuali, come aggiunte al testo principale, mentre altri fanno sì che i link appaiano così essenziale al documento ipermediale da farli sembrare essenzialmente testuali. Prendiamo come esempio un lavoro creativo di non-finzione, il « Growing up Digerate » di Jeff Pack, un esperimento di autobiografia di gruppo. La raccolta di documenti ipermediali di Pack, che fa si riferisce al modo in cui la sua famiglia ha imparato a utilizzare il computer, fornisce tre livelli di organizzazione che il lettore può seguire : . un sentiero lineare ordinato cronologicamente 2. una lettura per argomenti fornita con una mappa del sito sotto forma di lista alfabetica, 3. una narrativa multilineare fornita da link distribuiti su tutto il testo di singole lessie.

In questo caso, i link appaiono essenziali, come spesso accade, a seconda del punto di vista che si adotta. Se ci si concentra sulla lessia intitolata “Apple ii”, che racconta di quando la famiglia, nel 983, comprò uno dei primi personal computer, quando il narratore aveva sei anni, allora la stessa lessia può apparire come il testo (Table 5). I link in questa lessia a “basic”, “homework” (compiti per casa), “ms-dos”, “a computer far more powerful than the first one” (un computer molto più potente del primo) e « Family Computing » (una rivista) possono essere ragionevolmente presi come paratestuali, dato che, da questo punto di vista, conducono fuori del testo. Se, tuttavia, concepiamo il testo come la somma delle quaranta e più lessie, allora tutti questi link in “Apple ii” sembrano essere parte costitutiva di « Growing up Digerate » tanto quanto le singole parole, le singole frasi e i singoli paragrafi. La natura dell’ipertesto come medium informativo produce inevitabilmente questa doppia visione derridiana : mentre legge, l’utente appare sempre in due posti allo stesso tempo, facendo esperienza sia della lessia che del significato, costantemente mutevole, dell’attuale posto e ruolo di quella lessia nell’ipertesto preso nel suo insieme. Un altro approccio alla paratestualità negli ipermedia riguarda la qualità delle separazioni o fratture sulle quali i link operano da ponti o suture. I buoni ipertesti, gli ipertesti di buona qualità, dipendono non solo da link adeguati ed efficienti, ma anche dalla presenza di giuste separazioni tra le lessie. Molto tempo fa Terence Harpold sottolineò che gli spazi derridiani, la cui presenza richiede dei legami, hanno negli ipertesti un’importanza pari ai link stessi. 7 In How We Became Posthuman, N. Katherine 7. Terence Harpold, Threnody : Psychoanalytic Digressions on the Subject of Hypertexts, in Hypermedia and Literary Studies, ed. Paul Delany and George P. Landow, Cambridge, mit Press, 99, pp. 7-84.

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Plate 5. Multiple Links in Jeff Pack’s Growing Up Digerate : “basic”, “homework”, “ms-dos”, “a computer far more powerful than the first one”, and “Family Computing”. Are the links in this lexia, “Apple ii”, textual or paratextual ?

Hayles ha più recentemente spiegato che « l’analogia, come figura, deriva la propria forza dai confini che riesce a scavalcare. Senza confini, i legami creati dall’analogia cesserebbero di avere un impatto rivoluzionario » (93), e lo stesso vale per i link ipertestuali. Senza buone separazioni – e per “buone” intendo efficaci ed adeguate – le separazioni non possono avere buoni legami. Come l’eroe epico richiede un antagonista adeguato per dimostrare la propria superiorità, i legami hanno bisogno di separazioni adeguate per poter fungere da ponti. A tutti è capitato di leggere degli ipertesti nei quali il link produce un testo che sembra seguire una sequenza così ovvia che il lettore si chiede perché l’autore non abbia unito le due lessie in un unico documento. Abbiamo tutti avuto esperienza di separazioni scadenti o inefficaci, cioè separazioni nelle quali le fratture del testo lineare sembrano arbitrarie : la separazione, la divisione tra due testi, appare inutile e arbitraria. L’iperfinzione e la poesia possono avere due tipi di separazioni molto diverse ; nel primo caso sono i link a fungere da ponti o a ricucire la separazione, nel caso della poesia, le separazioni rimangono tali perché non c’è nulla nell’ambiente ad unire i due testi o lessie. Mentre il primo tipo di divari, quello unito da link, sembra ovvio, perché lo incontriamo ogni volta che seguiamo un link, l’altro non lo è. Come esempio del secondo penso alle intere sezioni o archi narrativi di Patchwork Girl di Shelley Jackson, che rimangono separate e sono separate nell’esperienza del lettore eppure possono essere unite dall’allusione o dai paralleli tematici. In questo modo, in Patchwork Girl le raccolte di lessie riguardo la natura “patchwork” di una Frankenstein donna risiedono in una cartella o directory diversa rispetto a quelle che contengono

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il collage di lessie di Shelley Jackson composto di testi di Derrida, L. Frank Baum e Mary Shelley. Queste sezioni discrete si uniscono in variazioni sui temi del testo, dell’essere cucito assieme, della coerenza, delle origini e dell’identità. Come vediamo chiaramente da questo esempio di divari non uniti da link, non tutte le connessioni in un ipertesto efficace richiedono connessioni elettroniche – come la prosa e la poesia non ipertestuale, anche l’ipertesto fa uso di allusioni, metafore e paralleli impliciti – forme non reificate di paratesto. Per quanto riguarda l’ipertesto e altri media digitali, allora, la paratestualità appare particolarmente complessa, in larga misura perché il testo digitale è codificato e virtuale. In un ambiente elettronico come internet, questa virtualità riguarda la natura e i confini del testo, rendendo così a volte impossibili da riconoscere le differenze tra interno ed esterno, testo e paratesto. Abstract Secondo il proprio punto di osservazione, l’ipertesto – testo composto di lessemi e nessi- appare sia come un’altra forma di testualità che come una forma di paratestualità. Per rispondere alla domanda posta dal titolo dell’articolo si fa riferimento al recente lavoro poetico e saggistico nei nuovi mezzi di comunicazione. Se si considerano i “links”, la componente fondamentale dell’ ipermedia, come fossero un para, un’aggiunta, un qualcosa di non pertinente, allora l’ipertesto (o quantomeno il “link” ipertestuale) è una forma di paratesto. Se invece si guarda al “link” come ad un elemento indispensabile di un nuovo tipo di testualità “on line”, allora l’ipertesto non è paratestuale, ma semplicemente testuale. Affrontare la nozione di paratesto a partire dal suo rapporto con la tecnologia dell’informazione, anziché in relazione ad un singolo documento, ci ricorda che tutti i mezzi di comunicazione escludono alcune possibilità come mezzo per realizzarne altre. Ogni tecnologia dell’informazione ha quindi i propri paras e le proprie esplicite esclusioni. Esempi di paratestualità appaiono anche nei documenti multimediali, sia che si tratti di un manoscritto illuminato o di un libro stampato, che di un documento web contenente materiali visivi, animazione o suoni. Se si utilizza il termine testo soltanto per indicare i caratteri alfanumerici, lo spazio tra le parole o altre “formattazioni” di documenti scritti, stampati o elettronici, allora l’aggiunta di un qualsiasi altro mezzo di comunicazione, quale ad esempio un’informazione visiva sotto forma di illuminazione di un manoscritto o illustrazione di un libro, agisce come paratesto. La relazione tra questa forma di New Media e il paratesto appare particolarmente complessa. Alcuni ipertesti fanno sembrare i “links” come fossero paratestuali, come un’aggiunta ad un testo principale, mentre altri li fanno apparire talmente indispensabili al documento elettronico, da farli considerare essenzialmente testuali. Un altro approccio alla paratestualità nel mondo dell’ipertesto riguarda la qualità delle distanze che i “links” sono in grado di colmare o annullare. Depending upon one’s vantage point, hypertext – text composed of lexias and links – appears either as just another form of textuality or as a form of paratextuality. In attempting to answer the question posed by the paper’s title, it draws upon recent poetic and nonfictional work in new media. If one considers links, the defining component of hypermedia, to be a para, an add-on, something beside the point, then hypertext (or at least the hypertextual link) is a form of paratext. If, however, one looks at the link as a necessary component of a new kind of networked textuality, then hypertext is not paratextual but simply textual. Approaching the notion of paratext from its relation to information technology instead of its relation to an individual document reminds us that all media exclude certain possibilities as a means of achieving others. All information technologies therefore have their specific paras and their explicit exclusions. Examples of paratextuality also appear in multimedia documents, whether an illuminated manuscript, printed book, or web document containing visual materials, animation,

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or sound. If one defines text to mean only the alphanumeric characters, interword spacing, and other formatting of a written, printed, or electronic document, then the addition of any other medium, such as visual information in the form of manuscript illumination and book illustration, acts as a paratext. The relation between this form of New Media and paratext appears particularly complex. Some hypertexts make the links appear paratextual, as add-ons to a main text, whereas others make the link seem so essential to the hypermedia document that they seem essentially textual.Another approach to paratextuality in hypermedia involves the quality of the gaps that links bridge or suture.

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Jan Baetens I MOTIVI DELL’ESTRAZIONE. LE IMMAGINI DI COPERTINA

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. Un corpus e una dimensione “periferici”

ello studio del peritesto, che qui definiremo, in sintonia con Gérard Genette, come l’insieme delle indicazioni sia linguistiche sia plastiche che attorniano l’opera in senso stretto,  l’attenzione è sempre più incentrata sull’immagine. Questo ampliamento è indovinato, benché permangano alcuni elementi d’ incertezza : l’immagine, infatti, viene ricondotta troppo spesso alla sola illustrazione di copertina dei libri detti “letterari”, ossia i libri a contenuto prevalentemente linguistico e di finzione. Vorrei addentrarmi in un campo meno esplorato, quello del peritesto dei libri di immagini, e segnatamente, dei libri di immagini fotografiche, nella speranza di contribuire, certo molto modestamente e a partire da alcune scelte molto specifiche che probabilmente rendono arrischiata qualsiasi generalizzazione frettolosa, a una teoria più generale della funzione perigrafica. Senza entrare in dispute quasi filosofiche sulla distinzione tra testo e immagine o tra libro di finzione letteraria con illustrazioni (di cui non mancano gli esempi, da Breton a Sebald) e libro di immagini fotografiche ancorate o correlate da un consistente elemento testuale (di cui le edizioni fotografiche hanno da sempre moltiplicato gli esempi e i sotto-esempi, dai “saggi fotografici” di Life all’ondata di autofiction (autobiografie romanzate) degli anni Ottanta e Novanta del xx secolo), vorrei suggerire un campione vario ma rappresentativo di opere chiaramente concepite e realizzate come “libri di fotografie” (tornerò più avanti sulle questioni terminologiche), che sembrano suscitare alcuni interrogativi appassionanti sul funzionamento perigrafico in generale : Jean Baudrillard (Photographies 1985-1998), 2 Victor Burgin (Some Cities), 3 René Burri (Die Deutschen), 4 Sophie Calle (Suite vénétienne), 5 Arnaud Claass (Claude Simon), 6 Robert Frank (The Americans), 7 Paul Graham (End of an Age), 8 Michael Lesy (Wisconsin Death Trip), 9 Soll LeWitt (From Monteluco to Spoleto), 0 Susan Lipper (Trip),  Danny Lyon (I like to Eat Right on the Dirt), 2 Martin Parr (Common sense), 3 Marie-Françoise Plissart (Aujourd’hui), 4 Michael . Cfr. Il testo di riferimento Seuils, Paris, éd. du Seuil, 987. 2. Ostfildern, Hatje Cantz & Neue Galerie Graz, Graz, 999. 3. Berkeley, University of California Press, 996. 4. München, Schirmer-Mosel, 999. 5. Paris, Ed. de l’Etoile, 983. 6. Paris, Marval, 99. 7. Zurich, Scalo, 997 (a edizione: Paris, Delpire, 958). 8. Zurich, Scalo, 997. 9. Albuquerque, University of New Mexico Press, 2000 (a editione : New York, Pantheon, 973). 0. Eindhoven, Van Abbemuseum & Weesp, Openbaar kunstbezit, 984. . Stockport, Dewi Lewis, 2000. 2. Clintondale, Bleak Beauty, 989. 3. Stockton, Dewi Lewis, 999. 4. Zelhem, Arboris, 993.

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Snow (Cover to Cover) e Paul Strand (Il Mondo davanti alla mia porta). 6 Per ragioni di tempo e di economia, scarto subito i libri fotografici con copertina “bianca” e mi concentro essenzialmente sulle immagini di copertina del mio corpus. 5

2. Per un raffronto tra il “centro” e la “periferia” Come articolare l’ambito di tale peritesto ? In primo luogo, rileviamo che il peritesto in questione non si differenzia dal peritesto della finzione letteraria, il “fulcro” delle riflessioni in materia, in base al criterio della presenza o dell’assenza di immagini fotografiche. Da una parte, il peritesto del libro letterario semplifica il ricorso all’immagine fotografica. D’altro canto, i libri fotografici si ispirano da sempre al modello di copertina “bianca”, priva di illustrazioni (un esempio ben noto è il volume di Walker Evans, American Photographs). Quindi non è tanto il peritesto in sé che bisogna studiare, quanto i rapporti tra il testo e il peritesto (a questo livello, la scelta della copertina bianca è perfettamente logica nel caso di un libro, come quello di Evans, che cerca di affrancare l’immagine fotografica dal suo ruolo secondario). Nel tipo di analisi proposta da Gérard Genette, l’approccio relativo a queste interrelazioni avviene prevalentemente in una prospettiva funzionale. Il peritesto non costituisce un ornamento (benché sia anche questo, e soprattutto nel caso dei libri fotografici sarebbe errato trascurare questa dimensione meramente estetica, anch’essa peraltro alquanto… funzionale) : le sue forme e i suoi contenuti rispondono a precise funzioni, che potrebbero essere sintetizzare più o meno nel modo seguente : • Classificazione e identificazione dell’oggetto testuale • Presentazione e sintesi del contenuto • Promozione dell’opera messa in vendita • Proposta di una modalità di impiego del testo • Occupazione effettiva dello spazio di copertina • Salvaguardia del rapporto gerarchico tra testo e peritesto Naturalmente, in pratica queste diverse funzioni, qui elencate solo parzialmente, si sovrappongono e si rafforzano reciprocamente. Tuttavia, nel caso dei libri fotografici, è opportuno sottolineare che gran parte di tali funzioni risultano più o meno attenuate, disattivate, per non dire distorte, dal dispositivo generale di questo tipo di libri. Il peritesto, o comunque la parte esaminata in questa sede, vi svolge una funzione strutturalmente distorta. L’immagine di copertina (ancora al singolare), infatti, non segue il modello generale delle funzioni perigrafiche, non perché questa tipologia di immagini sarebbe portata a contraddire o contrastare il modello in vigore nella finzione letteraria, quanto piuttosto per motivi al contempo più banali e profondi, in quanto il contesto è del tutto differente. Se si riprende lo schema proposto in precedenza, gli esempi elencati lasciano intravedere alcune difficoltà quasi in ciascuna delle sei funzioni basilari : • Classificazione e identificazione dell’oggetto testuale : spesso la parte dedicata agli elementi verbali viene ridotta (ad esempio, numerosi libri fotografici non hanno il testo in quarta di copertina), quindi aumentano le aspettative verso l’immagine. In pratica, le immagini di copertina tenderebbero soprattutto ad osservare rigorosamente una 5. Halfiax , The Nova Scotia College of Art and Design & New York, New York University Press, 975. 6. Firenze, Alinari, s.d. (a editione : New York, Aperture, 976).

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regola di “cooperazione” : se da un lato è difficile che consentano una classificazione del libro, non per questo si sottraggono alla loro funzione di identificazione. In altre parole, l’immagine di copertina di un libro fotografico non sembra godere affatto di un’ eccessiva libertà, come testimonia il fatto che tutte le immagini di copertina, almeno nel corpus analizzato, riprendono le immagini già esposte all’interno del libro, come se trasparisse il timore (dell’autore, dell’impaginatore, dell’editore ?) di creare un distacco tra l’interno e l’esterno del libro. Ciò, evidentemente, incide in maniera negativa sulla libertà dell’immagine… • Presentazione e sintesi del contenuto : a differenza di un concatenamento verbale, un insieme di immagini non si presta all’esercizio della “contrazione” (salvo nel caso in cui si tratti di una serie di immagini realmente disposte in sequenza narrativa, di cui è possibile riprendere i punti salienti, al limite in una sola immagine, sebbene gran parte dei libri non mostri ambizioni narrative in senso stretto). Questa difficoltà cruciale fa sì che l’immagine (o le immagini) di copertina passi da un criterio di contrazione ad uno di estrazione, ossia ad un modello basato sulla sineddoche, la parte per il tutto, la sottrazione, il découpage. All’occorrenza, questa logica strutturale dell’estrazione coincide con il luogo comune istituzionale della riproposizione letterale di un’immagine dell’opera stessa, riducendo ulteriormente il margine di manovra delle illustrazioni di copertina, che devono essere rappresentative dell’insieme da cui sono estratte. • Promozione dell’opera messa in vendita : mentre in generale, almeno nel caso dei libri di finzione “letteraria”, un’illustrazione di copertina serve a favorire le vendite (in termini di marketing, si potrebbe dire che l’immagine risponde a una finalità pubblicitaria che soddisfa in maniera sempre più esclusiva, indipendentemente da qualsiasi valutazione sul contenuto dell’opera), si può trarre l’impressione che la situazione delle illustrazioni di un libro fotografico sia ben diversa. Da un lato, come abbiamo visto, la scelta di tale immagine è molto più vincolata che nel caso di un libro di finzione letteraria (l’immagine, infatti, deve essere una citazione e per di più rappresentativa). Peraltro, in contrasto con quanto detto, le esigenze pubblicitarie di un’illustrazione di copertina sembrano meno evidenti in questo caso : poiché sfogliando è più facile farsi un’idea di un libro fotografico che di un’opera di finzione letteraria (al limite, bastano alcuni secondi, almeno per una prima lettura superficiale), è meno grave che l’immagine di copertina di un libro fotografico risulti a volte irrilevante, almeno dal punto di vista pubblicitario. La discrezione di numerose immagini è comunque in contrasto con una delle tendenze più evidenti inerenti l’utilizzo delle immagini di copertina dei libri di finzione letteraria, dove si propende piuttosto a esagerare.7 • Proposta di una modalità di impiego del testo : questa funzione, di cui Genette evidenzia giustamente il carattere cruciale (e trasversale), appare relativamente secondaria nel corpus esaminato. Questa svalutazione attiene sicuramente alla minore importanza nel campo fotografico, fino a tempi recenti, della separazione tra “finzione” e “non finzione” in ambito letterario (e nella scrittura in generale), oltre alla relativa assenza di rilevanza delle indicazioni generiche (in un certo senso, la fotografia presenta categorie equivalenti a quelle dei generi letterari : sono le “tematiche” principali – il nudo, il ritratto, il paesaggio, il servizio fotografico – che ne strutturano l’ambito, benché le separazioni tra tali tematiche non abbiano la stessa rilevanza delle convergenze e divergenze esistenti tra i generi letterari). Logicamente, anche se le immagini di 7. Si vedano i numerosi studi di Charles Grivel.

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copertina cercano di anticipare senza alcuna ambiguità il tipo di immagini contenute all’interno del volume, mi sembra eccessivo dedurne che esse tendono con decisione a indirizzare il lettore verso un tipo di lettura ben preciso. • Occupazione effettiva dello spazio di copertina : questa funzione, che nel caso delle opere di finzione letteraria è alquanto neutra, assume maggiore importanza nei libri fotografici. L’introduzione di un’immagine nello spazio di copertina di un libro, infatti, è un’operazione ad alto rischio : la connessione con le indicazioni testuali può ostacolare la lettura e soprattutto la fruizione della fotografia ed è inevitabile che si ponga il problema essenziale dei rapporti tra il formato e le dimensioni dell’immagine e le caratteristiche del supporto della pagina (l’immagine sarà smarginata ? Dovrà essere centrata nuovamente ? Quali saranno eventualmente i margini ideali ? In quale punto della copertina sarà opportuno collocarla ? E così via…). A questo livello si verifica un’operazione cruciale per l’inserimento di un’immagine fotografica : da ciò dipende la riuscita o, al contrario, il fallimento dell’impaginazione e, naturalmente, le qualità intrinseche dell’immagine e la sua capacità di riflettere fedelmente i “vari pezzi” che compongono il libro, la maniera in cui il lettore può compenetrarsi nella logica perigrafica del libro di fotografie. Questa logica è più strettamente estetica rispetto ai libri di finzione letteraria, dove prevalgono considerazioni più propriamente pubblicitarie. In un certo senso, e a costo di qualche forzatura, non si potrebbe ipotizzare che, paradossalmente, l’immagine di copertina ideale per un libro fotografico dovrebbe passare… inosservata ? • Salvaguardia del rapporto gerarchico tra testo e peritesto : nel caso dei volumi di finzione letteraria, non si accetta di buon grado che una copertina (e, in generale, un peritesto) rinunci a un registro più elevato rispetto al testo che dovrebbe presentare ; tuttavia, il mancato rispetto di tale gerarchia naturale (che separa l’anticamera dal salotto, secondo un’immagine di Genette) diviene quasi obbligatorio nel caso dei libri fotografici. Ora, se in questo caso la perigrafia si pone allo stesso livello (estetico) dell’opera, è non solo perché il peritesto visivo non è null’altro che una citazione che anticipa l’opera stessa, ma anche e soprattutto perché si verifica qualcosa di essenziale a livello del supporto : è la copertina stessa che non è più un semplice “involucro protettivo” dei fogli contenuti all’interno ma diviene parte integrante di un oggetto stampato in cui la terza dimensione non può essere rimossa. 8 In altre parole, in un libro fotografico assistiamo tendenzialmente alla scomparsa del confine tra “testo” e “peritesto”, come del resto hanno perfettamente compreso gli artisti, spesso definiti (a torto, ritengo) “concettuali”, che privilegiano il supporto-libro a qualsiasi altra forma di esposizione fotografica : in Soll LeWitt, Michael Snow, Paul Graham (e, in misura minore, Victor Burgin), le pagine di copertina (così come, naturalmente, i risguardi, la pagine dell’occhiello e del titolo) sono parte integrante del progetto fotografico. 3. Dalle “fotografie in libro” al “libro fotografico” La perigrafia di un volume fotografico, quindi, si distingue in molti aspetti da quella di un’opera di finzione letteraria. Differenze di forma, in primo luogo, in quanto la 8. Un libro fotografico, per quanto piccolo, viene sempre elaborato come una scultura, ossia nello spazio (con un relativo livellamento della prima e della quarta di copertina e la frequente integrazione del dorso e a volte del taglio nel quadro d’insieme).

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perigrafia fotografica favorisce l’immagine a scapito delle informazioni verbali. Differenze anche di collocazione, in quanto questa perigrafia sembra molto meno libera del suo equivalente in un’opera di finzione letteraria : esiste una chiara tendenza a realizzare la perigrafia in funzione e sulla base di una sola immagine, che è sempre e comunque un’immagine che si ritroverà uguale, identica nel libro. Differenze di funzione, infine, in quanto la perigrafia fotografica è imperniata non tanto sulle funzioni di promozione e indirizzo della lettura, quanto piuttosto sulla funzione di rappresentazione : l’immagine esposta in prima di copertina serve più a offrire una sineddoche fedele del libro che a sostenere una strategia di marketing o a indirizzare il lettore verso un determinato tipo di lettura. Tuttavia, l’analisi delle strutture perigrafiche di opere come Cover to Cover, End of the Game o From Monteluco to Spoleto, dimostra l’impossibilità di continuare a parlare del libro fotografico al singolare. Per spiegare la specificità di alcuni funzionamenti dei margini dell’opera, infatti, non è più sufficiente contrapporre questo tipo di libri, unitamente ad altri volumi fotografici, ai libri di finzione letteraria ; è essenziale, invece, introdurre una discriminante interna e confrontare due categorie interne al corpus di libri fotografici. Ne emergono due tipologie che potrebbero essere distinte nel modo seguente. Il primo tipo, definito per convenzione “fotografie in libro”, è fondato sulla separazione dell’opera dal suo dispositivo perigrafico e si caratterizza parimenti per il trattamento tradizionale dell’oggetto libro o, più precisamente, del supporto libro. Il secondo tipo, definito in modo altrettanto arbitrario “libro fotografico”, realizza una fusione tra opera e perigrafia, proponendo un trattamento non tradizionale del supporto libro. Tali differenze, che appaiono molto generali, interessano, in effetti, le caratteristiche materiali essenziali del supporto libro : ad esempio, l’opposizione tra le due facce della pagina (in fotografia, in linea di massima conta solamente il recto ; nel testo stampato, il verso non è meno importante), o l’organizzazione sequenziale e gerarchica di un libro, che ha una parte esterna e una interna, si legge da sinistra a destra, contrappone un inizio a una fine (questo orientamento impone una logica che si può accogliere o, al contrario, affrontare con tutt’altro spirito). Grosso modo, il modello delle “fotografie in libro” esclude il problema delle due facce della pagina stampata e si adegua alle strutture preordinate del libro classico, con la lettura che si dipana dalla prima all’ultima pagina e l’opposizione radicale tra opera e perigrafia. In maniera non meno generale, il modello di “libro fotografico” esplora la doppia faccia delle pagine del volume, ricusando con forza la gerarchia e la concatenazione lineare del libro : tali libri si caratterizzano quasi sistematicamente per la stampa in bianca e volta (sensibilizzandoci al fatto che si deve girare la pagina per “vedere”, ma non si può mai vedere tutto allo stesso tempo), mentre sostituiscono il percorso selettivo e orientato del libro tradizionale con percorsi differenti, in primo luogo perché non hanno inizio dalla prima pagina dell’opera propriamente detta ma dalla prima di copertina (per continuare parimenti fino alla quarta di copertina) e, in secondo luogo, perché non si limitano a un solo percorso ma propongono, ad esempio, sistemi con un duplice approccio (a livello della perigrafia) e a lettura palindroma e circolare (a livello di tutta l’opera). La differenza essenziale tra le classi di libri concerne anche il rapporto differente che esse intrattengono con la questione del supporto materiale dell’opera. Nel caso delle “fotografie in libro”, il supporto libro è chiaramente in posizione subalterna : è

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la fotografia che domina e cerca di plasmare il libro in funzione delle sue esigenze. Per quanto riguarda i “libri fotografici”, il rapporto si inverte : in questo caso prevale la materialità del libro, che influenza e determina la forma e il contenuto delle immagini fotografiche recepite (ma bisognerebbe dire generate) dal supporto. Questa distinzione non è del tutto nuova : è la stessa che separa l’arte in generale dall’arte in situ, ossia l’arte che trae le proprietà dell’opera da quelle del luogo in cui l’opera è esposta. L’atteggiamento assunto rispetto al supporto comporta altresì alcune divergenze in ordine al trattamento del peritesto : per quanto riguarda le “fotografie in libro”, l’apparato perigrafico rimane indipendente rispetto all’opera, ma tale indipendenza si paga con una subalternità strutturale ; al contrario, nei “libri fotografici”, il confine tra perigrafia e opera si confonde, tanto sul piano formale che su quello gerarchico. Ancora una volta, il trattamento della perigrafia è funzionale a una certa idea e a una certa pratica del supporto libro, non delle mere strutture dell’opera stessa, come si evince in modo conclusivo dalle opere “eterodosse” che si limitano (naturalmente con pieno diritto) a una perigrafia quanto mai “ortodossa” (citiamo come esempio superlativo I like to Eat Right on the Dirt). 9 4. Dall’estrazione all’inserzione Sarebbe errato interpretare la distinzione tra “fotografie in libro” e “libri fotografici” in termini assiologici o qualitativi. Ciascuna di queste tipologie è indispensabile, ognuna ha i suoi meriti e solleva questioni assolutamente essenziali. Per tornare alla categoria, apparentemente più “semplice”, delle “fotografie in libro”, l’operazione chiave dell’estrazione in effetti è al centro di una serie di determinazioni che consentono di tracciare un modello di lettura e quindi di valutazione di questa tipologia di perigrafie. Evidentemente, non ci si può limitare alla semplice osservazione che l’immagine di copertina realizza una sineddoche dell’opera che segue. È necessario, infatti, che tale sineddoche risponda a un certo numero di criteri che possono conferire un plusvalore. Senza voler essere esaustivi in materia, vorrei proporre (non in ordine di importanza) cinque elementi qualificanti di una “buona” estrazione : • L’interesse per ciò che manca : dall’immagine di copertina deve risultare immediatamente che non si tratta di un’immagine isolata ma appartenente a una serie che il lettore potrà trovare all’interno (ossia nel libro, se decide di aprirlo). Benché non sia facile “misurare” tale effetto, si tratta comunque di un criterio “negativo” che pone il lettore sulla buona strada : molti libri di questa categoria sembrano ripiegare davanti a un’immagine di copertina troppo forte ed è raro che la foto in prima di copertina sia la più nota tra quelle che potevano essere scelte, come se, implicitamente o intuitivamente, gli autori sapessero che è sempre pericoloso cominciare con un’immagine troppo caratterizzante che finirebbe per contrapporsi al libro. • Il rifiuto del ruolo illustrativo in relazione al titolo, naturalmente : se mi si consente di rovesciare l’analisi di Barthes (che si ricollega al modo in cui il testo si rapporta all’immagine, e non l’inverso), direi che una buona immagine di copertina rileva il testo più che ancorarlo. • Il perseguimento di un rapporto rappresentativo con l’insieme : ciò che conta, per l’im9. O che ricorrono alla copertina “bianca”, come Americans Photographs (New York, moma, 938) di Walker Evans o la nuova edizione di Droit de regards di Marie-Françoise Plissart, Paris, Minuit, 985.

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magine estratta dalla serie, non è attrarre l’attenzione ma contribuire, più modestamente, a un gioco di scatole cinesi, la mise en abyme che rivela al lettore ciò che l’attende all’interno del volume. • Il suggerimento di una modalità d’impiego : sebbene tale funzione sia altrettanto presente solo nei libri di finzione letteraria, l’esercizio di un controllo visivo non è un fattore trascurabile. Tuttavia, le indicazioni relative alla lettura non mirano tanto ad aiutare il lettore a registrare agevolmente il genere cui appartiene l’opera o l’approccio alla lettura che ci si attende da lui, quanto a frenare il ritmo di lettura, rammentando sin dall’inizio che la lettura di un’immagine richiede del tempo. • L’investimento specifico nella copertina : questa funzione, che forse estende e riassume le dimensioni elencate in precedenza, tende a mitigare l’eventuale conflitto tra le esigenze dell’immagine e le sollecitazioni, benché subordinate o implicite, del supporto materiale. Alla logica dell’estrazione si accompagna un meccanismo di inclusione : il découpage diviene montaggio, all’occorrenza rispetto alla copertina, e non è facilmente trascurabile (contrariamente ai “libri fotografici”, le “fotografie in libro” ricorrono solo raramente alla stampa con taglio al vivo ; lo “sfondo” persiste e una buona sineddoche tiene conto della parte “restante”). Il libro mitico di Robert Frank, The Americans, è un perfetto esempio di questa molteplice sovradeterminazione dell’immagine di copertina, almeno nella recente edizione che mi è stato possibile esaminare. La fotografia in prima di copertina, lungi dall’essere la più nota della serie, è chiaramente predisposta in funzione di ciò che manca : la bandiera nasconde proprio ciò che rappresenta. Il titolo, quindi, non è illustrato automaticamente dall’immagine, ma viene espresso dialetticamente : gli americani sono implicitamente contrapposti all’America, come un soggetto a un oggetto. La foto, invece, è quanto mai rivelatrice del lavoro di Frank, sia per la tematica che per le qualità stilistiche. Inoltre, l’immagine di copertina suggerisce anche una modalità di lettura, che pone in rilievo la duplicità della fotografia, mostrando e nascondendo al contempo. Infine, la copertina di Americans dispensa una vera e propria lezione di impaginazione creatrice : il motivo della bandiera “deborda” sullo spazio del riquadro, che assume una rilevanza tale da estromettere l’immagine stessa, ridotta alle stelle della stars and stirpes, creando immediatamente una conflittualità creatrice tra l’estetica (che rafforza la centralità dell’immagine per valorizzarne le forme) e il concettuale (che contrasta il gioco delle forme per accentuare ulteriormente la dimensione ideale della fotografia).

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jan baetens 5. Ritorno al libro

Come sottolineato all’inizio di questo intervento, studiare la perigrafia dei volumi fotografici, quale che sia la tipologia, non può essere un fine a sé. Al di là delle indicazioni tratte dall’analisi di opere forse marginali rispetto al mercato del libro, è importante rinnovare le questioni che si pongono alla nostra attenzione nello studio del peritesto in generale. Per quanto mi riguarda, e a titolo conclusivo, mi permetto di avanzare tre domande : • Cosa dire dell’aspetto “in situ” della serigrafia ? L’apparato peritestuale non è solamente un insieme di “luoghi” in senso metaforico, ma è anche, in senso molto letterale e materiale, uno spazio le cui proprietà non sono affatto secondarie. • Come ripensare il paradosso dei rapporti gerarchici tra testo e peritesto, con il secondo che “ricopre” il primo pur occupando una posizione culturalmente subalterna ? (In questo caso, la logica derridiana del supplemento apre forse alcune prospettive interessanti.) • Si può porre la teoria delle immagini perigrafiche al servizio di una teoria più generale (a mio parare mancante) 20 dell’illustrazione ? Abstract Il presente articolo prende in esame un settore molto specifico dell’ambito peritestuale : le copertine illustrate (non tutte lo sono) dei volumi fotografici. In primo luogo, l’articolo si propone di analizzare, da prospettiva funzionale, in che modo questa tipologia di peritesto si distingue dal peritesto in generale. Cerca quindi di riflettere sulle differenze peritestuali tra i due grandi sottotipi : le “fotografie in libro” e i “libri fotografici”. Analizza infine rapidamente un esempio molto noto, The Americans di Robert Frank. The present article studies a very singular sphere of the whole peritextual world : picture covers (not all covers are illustrated) of photographic volumes. It tries, first of all, to analyse how this kind of peritext distinguishes itself from the peritext in a broad sense, from the functional point of view. Then it looks for the peritextual differences between two big subgroups, the “photographs in books” and the “picture book”. It finally gives a quick analysis of a very famous example, The Americans by Robert Frank.

20. Malgrado alcuni interessanti tentativi, tra cui quello di Laurent Busine, Raymond Roussel. Contemplator Enim, Bruxelles, La lettre volée, 995.

Martine Poulain LO SCRITTORE, L’EDITORE, IL CENSORE, IL LETTORE : SAGGIO SUI PARATESTI DELLA NOUVELLE HELOÏSE

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pero si vorrà perdonare a una sociologa novecentista questa incursione nel xviii secolo, su un’opera peraltro studiata e ristudiata dai maggiori bibliografi e storici della letteratura o del libro : La Nouvelle Heloïse, pubblicata nel 76 da Jean-Jacques Rousseau, “cittadino di Ginevra”, presso Marc-Michel Rey, ad Amsterdam, con il titolo Lettres de deux amants, Habitans d’une petite ville au pied des Alpes recueillies et publiées par M. Jean-Jacques Rousseau, in sei volumi in 2°.  A che scopo allora avventurarsi in un nuovo tentativo ? Perché mi sembra che questi tre tipi di analisi (letteraria, storica, bibliografica) 2 siano sempre stati praticati in giustapposizione o in successione, e solo di rado simultaneamente. 3 . Un paratesto prolisso Qual è nelle edizioni contemporanee l’apparato paratestuale di questo lungo insieme di lettere ? A parte le introduzioni e le analisi – equivalenti ad altrettante interpretazioni nuove – proposte dai responsabili delle riedizioni, le edizioni contemporanee della Nouvelle Héloïse comprendono in generale le due prefazioni scritte da Rousseau : da una parte la “picola prefazione” sempre posta in apertura, dall’altra un lungo testo dialogato dal titolo Préface de Julie ou entretien sur les romans, posto, nelle diverse edizioni contemporanee, all’inizio o in fine volume. 4 La collocazione della seconda prefazione non è più indifferente ai lettori di oggi di quanto la sua presenza, o l’assenza, sia apparsa ai lettori del xviii secolo. Gli usi del paratesto della Nouvelle Héloïse da parte degli editori ottocenteschi e novecenteschi meritano quindi un’attenta analisi : porre ad esempio la grande prefazione in chiusura del volume significa cercare di . Lettres de deux amants, Habitans d’une petite ville au pied des Alpes recueillies et publiées par M. Jean-Jacques Rousseau, Amsterdam, Marc-Michel Rey, 76. 2. Per citare soltanto i migliori bibliografi, ricorderò in particolare : Daniel Mornet, La Nouvelle Heloïse, Paris, Librairie Mellottée, 929 ; Théophile Dufour, Recherches bibliographiques sur les œuvres imprimées de Jean-Jacques Rousseau, seguite dall’inventario delle carte di Rousseau conservate alla Biblioteca di Neuchâtel, Paris, L. Giraud-Badin, 925, 2 voll. ; Jo. Ann E. McEachern, Bibliography of the Writings of Jean-Jacques Rousseau to 1800. 2 vol. . La Nouvelle Héloïse, Oxford, The Voltaire Foundation-Taylor Institution, 993 ; e soprattutto l’indispensabile lavoro di Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, edizione stabilita e annotata da R. A. Leigh, The Voltaire Foundation, 965-99, 52 voll. 3. Al momento di licenziare il presente saggio, e malgrado ricerche bibliografiche che si credevano accurate, scopriamo la tesi, divenuta libro, di Yannick Seité, Du livre au lire. La Nouvelle Héloïse, roman des Lumières, Paris, Honoré Champion, 2002, che costituisce l’unico esempio, assai più compiuto di quello qui proposto, di un approccio ad un tempo letterario, bibliorafico e materiale dell’avventura editoriale della Nouvelle Héloïse, fondato esclusivamente sul paratesto. Speriamo comunque che anche la lettura del presente intervento contribuisca a una miglior comprensione dell’insieme paratestuale propriamente unico della Nouvelle Héloïse. 4. Per esempio, l’edizione Garnier-Flammarion del 967, come quella del 988 nei Classiques Garnier, curata da René pomeau, collocano la seconda prefazione in fine volume, mentre la Pléiade, com la maggior parte delle edizioni contemporanee, la inserisce subito dopo la “piccola”.

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prolungare gli effetti della lettura attraverso una ripresa del dialogo e del confronto tra autore e lettori. Gli editori contemporanei che si appoggiano sull’edizione Rey del 76 (ma quale ?) o sull’edizione Duchesne del 764 (ma quale ?) non accolgono le censure imposte da Malesherbes e dal suo censore Picquet, altra forma di paratesto, attraverso il bianco e i vuoti, in quanto queste censure hanno assunto essenzialmente la forma di tagli. Infine, gli editori di queste prime versioni, come gli editori contemporanei, non mancano di lanciare le loro edizioni in vari modi, attraverso annunci esterni al libro stesso o con avvertenze inserite nel testo, oltre naturalemmente a proporre composizioni e “messe in stampa” 5 variabili (con o senza indici analitici, con o senza incisioni, ecc.), e ad aggiungere o meno opere apocrife, pamphlet pro e contro l’opera, ecc. Ci accontenteremo, nell’ambito del presente lavoro, di considerare alcuni paratesti delle edizioni del 76. 6 2. Atto i. L’edizione del 76 di Jean-Michel Rey Grazie all’edizione della corrispondenza completa di Rousseau curata da R.A. Leigh 7 e alla puntualissima ricostruzione di Jo. Ann E. McEachern, 8 che ha seguito quelle di Daniel Mornet, 9 conosciamo una per una le tappe della stesura, quindi della preparazione editoriale delle Lettres de deux amans. Le trattative preliminari tra Rousseau e il suo editore cominciano nel novembre del 757. Rousseau termina il romanzo nel 758, in anticipo di due anni e più sulla pubblicazione, realizzata ad Amsterdam nel novembre del 760. Questo periodo, dedicato al lavoro editoriale e alle riletture, impone grossi investimenti alle due parti : finanziari e professionali per lo stampatore-editore, che, come ci ricorda Raymond Birn, 0 prende a prestito 3.000 lire per pubblicare il testo – intellettuali e artistici per Rousseau, che sorveglia il lavoro momento per momento e rilegge le bozze con il cuore permanentemente trafitto. 2. . La “piccola” prefazione Rousseau scrive tardivamente, alla fine del lavoro editoriale, una prefazione, detta comunemente “piccola prefazione”, resa necessaria dal genere dell’opera, in cui appunto l’autore doveva figurare soltanto come l’editore delle lettere raccolte. Disponiamo anche di un primo manoscritto della prefazione. Rousseau lo ritoccherà in ventitrè punti.  5. L’espressione è di Pratiques de la lecture, a cura di Roger Chartier, Paris, Payot, 2003. 6. Yannick Seité, in Du livre au lire, cit., analizza anche, correttamente, tutto l’apparato paratestuale costituito dal grosso apparato di note dato da Rousseau. 7. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit. 8. Jo. Ann E. McEachern, Bibliography of the Writings of Jean-Jacques Rousseau to 1800. 2 voll, vol. . La Nouvelle Heloïse, cit. L’autrice sembra aver commesso un errore di identificazione degli esemplari conservati alla Bibliothèque nationale de France. Le segnature degli esemplari dell’edizione Rey originale sono : Y 2 63820, quindi Y 2 7026 e 7028, e non Y 2 8222 e 8225, che corrispondono probabilmente ai volumi 2 e 3 di un’edizione pirata del 76. 9. Daniel Mornet, La Nouvelle Heloïse, cit. 0. Raymond Birn, Forging Rousseau : Print, Commerce and Cultural Manipulation on the Late Enlightenment, Oxford, Voltaire Foundation, 200. . Ma quattro modifiche verranno introdotte nell’edizione delle Œuvres complètes di Defer e Maisonneuve del 793, largamente posteriore alla morte di Rousseau quindi, senza che l’autore e le ragioni di questi interventi postumi siano stati a tutt’oggi chiariti. Cfr. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. 7, lxii, a 229.

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Rivolgendosi al lettore, cui spiega l’origine del testo e indica i modi corretti di leggerlo, questa prefazione considera innanzitutto il problema dell’autore, del lettore e del genere letterario : Rousseau rivendica il suo statuto di autore e non soltanto di editore ; indica la categoria di lettori in grado di apprezzare le lettere ; infine riafferma il loro carattere realistico, lanciandosi in un violento attacco al romanzo e al genere narrativo. Tutto è già racchiuso nelle prime tre righe, che annunciano gli sviluppi successivi, e non possiamo resistere al piacere di citarle ancora una volta : « Nelle grandi città occorrono spettacoli, romanzi ai popoli corrotti. Ho visto i costumi del mio tempo e ho pubblicato queste lettere. Perché non sono vissuto in un secolo in cui avrei dovuto gettarle nel fuoco ? » 2 La rivendicazione della paternità dell’opera è esplicita : « Benché io non porti qui che il titolo di editore, ho lavorato io stesso a questo libro, e non ne faccio mistero. Ho fatto tutto io, e tutta la corrispondenza non è altro che una finzione ? [...] Ogni onest’uomo deve firmare i libri che pubblica. Perciò metto il mio nome in capo a questa raccolta ». 3 La prima stesura del manoscritto accentuava il carattere personale di questa rivendicazione, in quanto iniziava direttamente con la formula : « Metto il mio nome... » Eppure Rousseau gioca continuamente su questo doppio ruolo : già che si dichiarava autore, avrebbe potuto essere più radicale e negarsi in quanto editore... La “grande” prefazione ci farà capire che è per distinguere il suo scritto dal genere romanzesco che ha bisogno di questa ambiguità. A quali lettori piacerà La Nouvelle Héloïse ? A pochissimi, perché non verrà apprezzato né dai dotti e dai filosofi né dagli uomini di mondo, dai devoti, dai libertini e dalle donne, dalle galanti come dalle virtuose. L’autore si assume il rischio di essere l’unico lettore di se stesso : « A chi mai piacerà allora ? Forse a me soltanto ». 4 In realtà, è soprattutto ai suoi pari, scrittori o filosofi, che Rousseau si rivolge nonostante abbia appena rotto con loro. Perché, come la lunga prefazione dialogata preciserà ampiamente, le pesantezze stilistiche di queste lettere non dovranno esser prese come dovute allo stesso Rousseau (« Deve dirsi », scrive nella prima stesura, « che coloro i quali le hanno scritte non sono francesi, begli spiriti, accademici e filosofi, bensì provinciali, solitari, giovani e quasi ragazzi... »). 5 L’insistenza è ancora maggiore nella versione finale : « Chiunque si decida a leggere queste lettere dovrà armarsi di pazienza circa gli errori di lingua, lo stile enfatico e pedestre, i luoghi comuni espressi in termini ampollosi ». 6 Preoccupato anche dell’effetto della lettura sulle donne e dei pericoli del romanzo per le lettrici, Rousseau dedica nel suo primo manoscritto un lungo paragrafo all’argomento, sviluppato ampiamente nella “grande” prefazione : se le donne dotate di una certa esperienza possono leggere romanzi e trarne un certo insegnamento morale, le fanciulle che si precipitassero su di essi non dovrebbero attribuire al libro la responsabilità della loro immoralità : « Una ragazza casta non ha mai letto romanzi [...] Colei che, malgrado il titolo, oserà leggerne una sola pagina, è una ragazza perduta. Ma che non imputi la sua perdizione a questo libro, il male era già fatto prima ». 7 2. Tutte le citazioni dalla Nouvelle Héloïse sono tratte dall’edizione delle Œuvres complètes di curata da Bernard Gagnebin e Marcel Raymond, Paris, Gallimard (La Pléiade), 98. [L’edizione italiana cui si fa riferimento è quella Rizzoli, Milano, 992, che segue il testo delle Œuvres complètes citate. In essa le due prefazioni occupano le pp. 7-8 e 9-40 NdT]. 3. Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes, cit., p. 7. 4. Ivi, pp. 7-8. 5. Ivi, p. 8. 6. Ibidem. 7. Ibidem.

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L’ultimo paragrafo del manoscritto, un’apologia dell’autore allontanatosi dal mondo che invita il lettore a prendere le medesime distanze, viene soppresso sulle bozze e non compare in alcun’altra edizione – a parte quella di Defer e Maisonneuve del 793, dove peraltro appare modificato in tre punti. 8 Il testo suona così : Andate, brava gente con cui mi piaceva tanto vivere e che mi avete così spesso consolato degli oltraggi dei malvagi, andate lontano a cercare i vostri simili, andate in umili dimore a cercare qualche coppia di sposi fedeli la cui unione si avvicina alle gioie della vostra, qualche uomo semplice e sensibile che sappia amare il vostro stato, qualche solitario che abbia in uggia il mondo e che, biasimando i vostri errori e le vostre colpe, si dirà comunque intenerito : Ah, ecco le anime che si confanno alla mia. 9

Perché Rousseau ha eliminato questo paragrafo ? Forse perché ha preferito non modellare ulteriormente il suo futuro lettore, invitandolo ancor prima di leggere a cambiare vita. Ma può darsi anche che, consapevole della sorveglianza dei censori francesi, abbia preferito astenersi sia da questo consiglio esistenziale (vivere lontano dal mondo) sia da questa specifica morale (l’adulterio come fermento della coniugalità riuscita) – un’interpretazione “volgare” dell’intrigo che Rousseau non propone da nessun’altra parte, che io sappia. Così Rousseau sceglie di chiudere la versione pubblicata della “piccola” prefazione con semplici consigli di lettura : che sulla qualità del libro si esprimano soltanto coloro che l’avranno letto sino in fondo : Che un uomo austero, scorrendo questa raccolta [vers. mscritta : avendo cominciato a scorrere] sia respinto dalle prime parti, che getti via il libro con rabbia e si arrabbi con l’editore : non mi lagnerò [vers. mscritta : non mi lagnerò affatto] della sua ingiustizia. Al suo posto, avrei potuto fare altrettanto. Ma se dopo averlo letto tutto qualcuno osasse biasimarmi di averlo pubblicato, lo dica a tutta la terra, se gli pare, ma non venga a dirlo a me. Sento che non potrei mai stimare un uomo simile [vers. mscritta : quell’uomo]. 20

A buon intenditor... 2. 2. L’annuncio di Michel Rey Il paratesto – o l’“epitesto”, come lo chiama Gérard Genette – 2 proposto al lettore da Marc-Michel Rey nel 76 è completamente diverso. L’annuncio, composto dallo stampatore nel dicembre 760, 22 con piena soddisfazione di un autore peraltro assai puntiglioso, parla apertamente di un romanzo d’amore che racconta la passione contrariata di Julie e Saint-Preux ; questi ultimi, « trattenuti dalla presenza di Claire, e più ancora dall’onore e dalla virtù, continuano ad amarsi senza la speranza di potersi unire un giorno ». 23 Julie alla fine « si abbandona per poter divenire sua moglie », 24 ma deve affrontare l’ostinazione dei genitori e la colpa di credersi responsabile della morte della madre. Accolto alcuni anni dopo dal signor de Wolmar « al corrente del legame che 8. Siamo debitori di questa informazione all’edizione della corrispondenza completa, R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. 7, lxii, a 229. 9. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. 7, lxii, a 229. 20. Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes, cit. [trad. it. cit., p. 8] e R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit. vol. 7, lxii, a 229. 2. Gérard Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 987 [trad. it. Soglie, Torino, Einaudi, 989]. 22. L’annuncio « non è sicuramente dovuto alla penna dello stesso Rey », secondo R.A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. 7, lxii, a 229. 23. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. 7, lxii, a 23. 24. Ibidem.

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l’aveva unito a Julie », Saint-Preux va a trovare la coppia, poi raggiunge l’amico lord Eduard Bomston in Italia. In questo riassunto della trama, solo l’agnosticismo del signor de Wolmar, « che turba la serenità di Julie », viene menzionato : « Ma il signor de Wolmar non è affatto incredulo per libertinaggio mentale e, lungi dall’ostentare il suo scetticismo, ne è afflitto e lo tiene nascosto. Tutto il suo comportamento è quello di un perfetto galantuomo, che avendo l’intenzione di procurare ai figli i vantaggi di una buona educazione, nonché quelli di cui lo priva il suo pirronismo, vuole affidare il compito a Saint-Preux ». 26 Ma Julie muore lasciando i suoi familiari inconsolabili. Per tenere il lettore col fiato sospeso, Rey non svela chiaramente l’esito finale della storia di Saint-Preux : Per quanto riguarda Saint-Preux, non abbiamo nessuna sua lettera in proposito. Simile a quel pittore dell’antichità che, nel rappresentare il sacrificio di Ifigenia, coprì il volto di Agamennone, dopo aver profuso i tratti della tristezza sui volti degli altri spettatori, l’autore ha lasciato al lettore il compito di valutare l’eccesso di dolore dello sventurato amante. 27

Certi lettori, avverte tuttavia l’editore in chiusura dell’annuncio, potranno trarre un profitto diverso dal solo divertimento, « qualcosa di più solido. Li avverto che troveranno in questo libro una quantità di riflessioni interessanti svolte da coloro che scrivono queste lettere ». Come sottolinea R. A. Leigh in una nota dell’edizione della corrispondenza completa, in questo breve riassunto si possono rilevare anche alcune « omissioni » : « Si noti l’assenza di qualsiasi allusione alla passeggiata sul lago, alla professione di fede di Julie, al persistere del suo amore per Saint-Preux, ecc. ». 28 Cancellando tutte le situazioni suscettibili di irritare i distributori, i censori e gli stessi lettori, questo testo si attiene alle convenzioni comunemente usate per assicurare il successo di un’opera. Viene così a profilarsi un lettore diverso da quello delineato da Rousseau nelle sue prefazioni, con l’evidente complicità dell’autore, che trova questo « brano » « scritto bene e con molto giudizio » : 29 quello che si cerca di sedurre, con il successo che tutti conosciamo, è proprio il lettore di quei « romanzi inglesi » per i quali Rousseau manifesta un disprezzo profondo. Il paratesto di questo prima edizione è il risultato di due strategie, contrarie ma complici, dell’autore e dell’editore, della prefazione e dell’annuncio – le stesse che adottano i lettori, i quali praticano anch’essi una lettura doppia, 30 sentimentale, evenemenziale (« i nuovi lettori romantici », dice Darnton), 3 ma anche riflessiva e morale, dove il comportamento di Julie diviene, come poco dopo accadrà per l’Émile, una guida di vita. 3. Atto ii. L’edizione Robin Nel novembre del 760, le quattromila copie della Nouvelle Héloïse sono pronte, Rey le 25. Ibidem. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol. viii, Lettera 300, Rousseau a Marc-Michel Rey, 8 febbraio 76. 30. Yannick Seité, Du livre au lire. La Nouvelle Héloïse, roman des Lumières, cit. 3. Robert Darnton, Le grand massacre des chats. Attitudes et croyances dans l’ancienne France, Paris, Robert Laffont, 985 [trad. it. Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, Milano, Adelphi, 988].

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distribusice nei Paesi Bassi, in Inghilterra, in Svizzera, dove « vanno a ruba », 32 e vende duemila copie al colporteur Etienne-Vincent Robin, associatosi nell’affare a Jean-Augustin Grangé : « il 22 novembre 760 240 copie (per un totale di 2840 volumi) partono per Parigi ». 33 Già nell’agosto del medesimo anno Rey aveva preso contatto con Malesherbes, direttore della Librairie dal 750 al 763, per ottenere una licenza di diffusione in Francia. Malesherbes aveva opposto un rifiuto, con il pretesto che non poteva concedere il permesso di diffondere in Francia un libro straniero, ma aveva favorito la circolazione delle bozze tra l’autore e l’editore facendo beneficiare i pacchi in viaggio della franchigia postale, come già aveva fatto per La lettre à d’Alembert e per i Discours, e come ancora farà per Émile e Du contrat social. Malesherbes, assertore di una strategia di cui non è stata sottolineata mai abbastanza l’ambiguità (sostenere gli scrittori illuministi, ma entro certi limiti, senza mettersi in urto con il Parlamento, per esempio, sostenere l’editoria e il commercio dei libri francesi) e legato a Rousseau da una lunga complicità, 34 cerca di favorire un’edizione francese, 35 fatta da un libraio suscettibile di ottenere un privilegio, giacché un tacito consenso non sarebbe stato sufficiente a impedire che un gran numero di contraffazioni si diffondesse sul mercato : « senza un privilegio del genere, il libraio non aveva alcuno strumento legale per impedire che altri stampassero la stessa opera, e il permesso accordatogli non gli serviva a nulla ». 36 3. . Le soppressioni chieste dal censore Picquet Malesherbes deve tuttavia rispettare le forme e spera che l’autore si dimostri comprensivo. Affida così la lettura dell’edizione Rey a uno dei suoi nuovi censori, Picquet (nominato nel 760). 37 Quest’ultimo, sotto sorveglianza, deve proporre soltanto le 32. Jo. Ann E. McEachern, Bibliography of the Writings of Jean-Jacques Rousseau to 1800. 2 vol. . La Nouvelle Héloïse, cit., cui dobbiamo la minuziosa e notevole collazione delle prime edizioni della Nouvelle Héloïse. 33. Ibidem. 34. Si veda l’avvincente lettera di Malesherbes a Paul-Claude Moultou che traccia la storia dei suoi rapporti con Rousseau a partire dalla pubblicazione della Nouvelle Héloïse (R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol, 44, lettera 7748, agosto 780). Lo scambio epistolare durò fino al 762, data alla quale la pubblicazione dell’Émile e la condanna all’arresto del suo autore da parte del Parlamento di Parigi misero Malesherbes, che aiutò Rousseau a fuggire, in una difficoltà tale che i suoi rapporti con questo corrispondente troppo compromettente divennero ancora più movimentati e distanti. Sono rimaste solo ottanta lettere di questo intenso scambio epistolare, che non riguarda soltanto il problema dell’edizione – anzi ! – ma copre un’ampia varietà di questioni (cfr. Jean-Jacques Rousseau, Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes, Correspondance, Texte préfacé et annoté par Barbara de Negroni, Paris, Flammarion, 99). Su Malesherbes si veda anche Roger Chartier, Presentazione di Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes, Mémoires sur la librairie, Mémoire sur la liberté de la presse, Paris, Imprimerie nationale, 994. 35. È, dice Malesherbes, su richiesta della duchessa di Lussemburgo e di Mme de Boufflers che fu indotto a favorire una seconda edizione della Nouvelle Héloïse in Francia, perché Rousseau potesse beneficiare dei proventi di una seconda edizione, tanto più che « aveva venduto la sua opera in Olanda per quattro soldi ed era orribile che fosse ridotto a copiar musica per vivere, quando aveva scritto opere che arricchivano il suo editore », R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 44, lettera 7748, Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes a Paul-Claude Moultou, agosto 780. 36. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 44, lettera 7748, ChrétienGuillaume Lamoignon de Malesherbes a Paul-Claude Moultou, agosto 780. L’affermazione può sorprendere, perché non esisteva alcun impedimento a che i librai forniti di permesso compensassero i loro autori. Il privilegio, naturalmente, dava maggiori garanzie. 37. Secondo R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 298,

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censure assolutamente indispensabili. Dopo aver letto i sei volumi, Picquet propone tagli o modifiche in ventitrè punti, piccoli interventi, dichiara Malesherbes in una lettera a Rousseau : C’è un solo taglio nel tomo secondo. Tutti gli altri riguardano i tomi 5 e 6. Lei avrà così tutto il tempo di fare i cambiamenti necessari prima che la nuova edizione sia abbastanza avanzata e che le vengano richiesti. 38

« Gli interventi erano di così poco conto che il libraio propose al censore di farli senza avvertire l’autore, e ciò prova che secondo lui nessuno ci avrebbe fatto caso e la sua edizione non sarebbe stata sminuita ». 39 Malesherbes finse di opporsi : « Il signor Rousseau non è uomo con il quale ci si possa comportare così ». 40 Picquet dovette quindi mettere per iscritto le sue proposte e le relative giustificazioni, che Malesherbes trasmise a Rousseau il 6 febbraio 76. Non possiamo qui riprendere tutte le proposte di Picquet, che non entrano direttamente nel nostro discorso. 4 Spesso riguardano una parola e un frammento di frase, più raramente di un intero paragrafo, e investono normalmente la questione religiosa, l’ateismo di Wolmar o le contestazioni della religione cattolica. Come sottolinea Barbara de Negroni : È quindi essenzialmente una nuova concezione della fede e della religione che viene rimproverata a Rousseau, una concezione che scalza ovviamente le fondamenta del cattolicesimo denunciando il carattere illegittimo dell’autorità del papa o dei Padri della Chiesa, ma soprattutto definisce una religiosità che si sottrae radicalmente all’autorità delle Chiese. 42

Il censore giustifica, passo per passo, le sue critiche e le sue proposte, ma cerca in tutti i modi di non irritare Rousseau, di avviare un dialogo con lui e di convincerlo che i suoi “tagli” sono perfettamente accettabili e le modifiche richieste molto semplici da effettuare : « Il signor Rousseau sceglierà la forma da dare a questo passo »... « Non credo che il signor Rousseau si ostini, forse vorrà introdurre qualche altra sostituzione »... « L’autore ne converrà sicuramente »... « Un cambiamento che non sarà difficile da effettuare »... « Il signor Rousseau vedrà quel che potrà fare, forse invece di tagliare tutto il paragrafo preferirà attenuare l’obiezione o dar forza alla risposta »... « Non è un taglio cui tenga molto [...] Il signor Rousseau farà come vorrà », 43 ecc. Più raramente, Picquet assume toni decisi, soprattutto quanto entra in gioco il problema della vita dopo la morte : « Va assolutamente tagliata l’ultima riga »... « Abbiamo taChrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes a Rousseau, 6 febbraio 76 « Christophe Picquet era avvocato e censore reale per le lettere, la storia ecc. (Almanach royal 760, p. 369). Picquet succedeva a Salley, morto il 26 gennaio 76, nel posto di Ispettore dell’editoria. Nel 763 pubblicherà una traduzione della Storia di Jonathan Wild, romanzo di Henry Fielding. Morì nel gennaio del 779 ». 38. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 298, ChrétienGuillaume Lamoignon de Malesherbes a Rousseau, 6 febbraio 76. 39. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 44, lettera 7748, ChrétienGuillaume Lamoignon de Malesherbes a Paul-Claude Moultou, agosto 780. 40. Ibidem. 4. Le censure sono state analizzate da Barbara de Negroni nella sua edizione della corrispondenza tra Rousseau e Malesherbes, cit., p. 97 : « Le censure della Nouvelle Héloïse ». 42. Jean-Jacques Rousseau, Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes, Correspondance. Texte préfacé et annoté par Barbara de Negroni, Paris, Flammarion, 99. 43. R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 298, ChrétienGuillaume Lamoignon de Malesherbes a Rousseau, 6 febbraio 76.

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gliato tutta la pagina 35 e l’inizio della 36 »... « Abbiamo tagliato tutta la frase contro il celibato dei preti »... « Tagliata la nota sui pietisti »... « Qui, nella professione di fede di Julie, abbiamo fatto un taglio molto consistente ». 44 Ma Picquet giustifica sempre le sue richieste di tagli o di modifiche. Esprime i suoi dubbi, a volte su una presunta connivenza dell’autore, una connivenza che egli non può lasciar passare : « Si è soppressa l’intera dissertazione sullo stato delle anime separate dai corpi [...]. Non sono teologo, ma mi garantiscono che questa dottrina non è ortodossa. Credo tuttavia che la cosa non scandalizzerà nessuno, e il signor Rousseau potrà reintegrare l’intero passo se lo riterrà necessario »... « Molti di noi condivideranno il parere dell’autore, ma tutti gli consiglieranno di sopprimere questa osservazione, che in fondo non è nuova »... « Dentro di me credo che l’osservazione sia verissima e capisco che l’autore sia riluttante a sacrificarla. Ma l’applicazione è terribile [a proposito di una critica del sistema monarchico]. Il signor Rousseau non potrebbe evitare di darvi adito senza perdere la sua osservazione, semplicemente mitigandola ? ». 45 A volte Picquet evoca il relativismo delle credenze, ma aggiunge che si è in Francia e che i libri devono rispettare la religione in vigore nel paese : « Tutto il passo sull’aspetto lugubre delle cerimonie della chiesa cattolica nel rituale dei moribondi va quanto meno mitigato. Un calvinista può dirlo nel suo paese, ma la cosa non può essere stampata in Francia, non in termini tanto chiari ». A volte invece vigila perché le religioni accettate in Francia non si sentano offese da certi discorsi : « Abbiamo tagliato anche la nota sui pietisti. . Per via della singolarità della seguente espressione : Sorta di pazzi cui era venuta la fantasia di seguire il Vangelo alla lettera. 2. Per non insultare e non irritare senza necessità i giansenisti, che costituiscono a Parigi una parte considerevole del pubblico ». Il censore, al pari dei suoi colleghi, ha un’etica : può tagliare ma non modificare il testo dell’autore : « Il signor Rousseau preferirà forse i cambiamenti, ma dovrà essere lui a farli. I censori hanno potuto sopprimere, ma non avevano facoltà di sostituire un testo all’altro ». 46 Per questo il paratesto del censore può assumere solo la forma dell’assenza, del bianco, del cartoncino inserito. 3. 2. La discussione tra Rousseau e Malesherbes Le soppressioni vengono infine proposte a Rousseau alla metà di febbraio, che già il 9 febbraio le rifiuta in una lunga lettera a Malesherbes. 47 Parlando di « mutilazione » egli ritiene che i tagli richiesti vadano per lo più « contro l’oggetto del libro », « un buon libro che ho creduto di dare diviene così solo un romanzo libero e scandaloso, che sarei il primo a sopprimere se ne avessi il potere ». Il seguito della lettera chiarisce ulteriormente la sottrazione di senso che il libro subirebbe : Una devota comune, umilmente sottomessa al suo direttore di coscienza, una donna che cominci dal libertinaggio per finire nella devozione non è un oggetto troppo raro, troppo istruttivo per riempire un grosso libro, ma una donna ad un tempo amabile, devota, illuminata e ragionevole è un ogggetto più nuovo e secondo me più utile. Ed è proprio questa novità e questa utilità che i tagli richiesti fanno scomparire. 44. Ibidem. 45. Ibidem. 46. Ibidem. 47. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 303, Rousseau a Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes, 9 febbraio 76.

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Ritenendo che « la Chiesa di Roma non esiga affatto una pietà illuminata, bensì una pietà cieca », che « ai miei calvinisti non resti nulla in tema di dottrina che il più superstizioso dei cattolici non possa confessare », Rousseau rifiuta la deformazione che subirebbe la professione di fede di Julie moribonda, aggiungendo che rinnegherebbe il proprio pensiero modificandola. Ironizzando sulle condizioni dell’editoria in Francia, aggiunge poi, con una perfidia fatta per ferire il suo interlocutore : « Non immaginavo che un romanzo ginevrino dovesse essere approvato alla Sorbona, e dal momento che non è mai stato mio desiderio che venisse stampato in Francia, nulla mi obbliga ad accettare le condizioni a cui può essere stampato in quel paese ». E conclude che non sa « né vuol sapere come occorra preparare un libro per metterlo in condizioni di essere stampato a Parigi ». 48 Quello che Rousseau non sapeva era che l’edizione censurata era in lavorazione da Robin, e questo da parecchie settimane. 3. 3. Julie « massacrata » Malesherbes, in realtà, aveva ignorato il parere di Rousseau e aveva accettato, di fronte ai ritardi dell’invio di Rey, che un’edizione contraffata venisse preparata da Robin, cui aveva concesso un permesso tacito. 49 Le duemila copie tardavano ad arrivare dall’Olanda (saranno a Parigi solo il 9 gennaio 76), e Robin comincia, probabilmente intorno alla metà di dicembre del 760, un’edizione-pirata. Quando la lista dei tagli viene proposta a Rousseau nel febbraio dell’anno successivo, l’edizione-pirata Robin, debitamente censurata sotto il falso indirizzo di Rey, è pronta dalla fine di gennaio. Rey, « quando scopre la cosa, non può che accettare », 50 e Rousseau riceve un compenso di mille livres (= il denaro della Francia a questo periodo). L’edizione mette l’autore alla disperazione : i tagli rendono « l’opera ridicola da leggere, perché non essendo stato inserito nulla al posto dei tagli, le lacune spezzano la trama e fanno alla lettura un effetto sgradevolissimo ». La composizione è poi piena di refusi : « l’opera è talmente piena di controsensi e di errori enormi di composizione che non riconosco più il mio manoscritto ». 5 Rousseau pensa di denunciare pubblicamente l’opera : « Penso di sconfessare a gran voce questa edizione, anche pubblicamente, su giornali e gazzette. È assolutamente ingiusto che si osi pubblicare a mio nome un mostro così deforme e un libro così mutilato ». 52 Ciò spiega la virulenza della risposta a Malesherbes, quando quest’ultimo gli presenta « ufficialmente » le sue richieste di tagli. 48. In un’altra lettera dello stesso giorno a Malesherbes, un biglietto che doveva in realtà accompagnare la lettera precedente, Rousseau è ancora più sarcastico : « Vedo che essi [i teologi] hanno lavorato alla conversione di questa fanciulla [Julie] con grande zelo, e non ho dubbi che le loro pie cure ne abbiano fatto una persona assolutamente ortodossa, ma trovo che l’abbiano trattata un po’ rudemente, facendo appassire il suo fascino ; confesso che mi piaceva di più amabile ancorché eretica, che bigotta e scipita come l’hanno ridotta. Chiedo che mi venga restituita come l’ho data, altrimenti la lascerò ai suoi direttori di coscienza», R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 304, Rousseau a Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes, 9 febbraio 76. 49. Raymond Birn ha recentemente sottolineato questo rivolgimento di Malesherbes, cfr. Raymond Birn, Forging Rousseau : Print, Commerce and Cultural Manipulation on the Late Enlightenment, cit. 50. Jo. Ann E. McEachern, Bibliogrraphy of the Writings of Jean-Jacques Rousseau to 1800. 2 vol. . La Nouvelle Héloïse, cit. e R.A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 324, Marc-Michel Rey a Rousseau, 25 febbraio 76. 5. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 235, Rousseau a Coindet, 26 gennaio 76. 52. Ibidem.

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Tra il gennaio e il marzo del 76 i lettori francesi potranno così disporre di tre stati del testo e del paratesto : – a partire dal dicembre del 760 o dal gennaio del 76, dell’edizione originale di Rey con soltanto la “piccola” prefazione. I medesimi lettori possono contare su tre fonti di approvvigionamento : le sessanta copie personali di Rousseau, giunte finalmente in suo possesso ; le copie arrivate clandestinamente dall’Olanda o dall’Inghilterra ; le duemila copie entrate in Francia e distribuite da Robin tardivamente e con reticenza, in quanto l’edizione fa concorrenza alla sua ; – a fine gennaio, dell’edizione Robin, pubblicata all’indirizzo di Rey, censurata da Picquet. Ma il 6 febbraio 76 i lettori francesi si vedranno anche proporre la Préface ou entretien sur les romans, pubblicata in volume autonomo da Duchesne, e nel marzo un Recueil d’estampes, anch’esso a illustrazione della Nouvelle Héloïse. L’orizzonte d’attesa dei lettori aveva di che essere appagato, tanto l’attesa stessa era stata lunga, tanto « tutta Parigi per Saint-Preux ha gli occhi di Julie », come scrive l’accademico Duclos, uno dei primi lettori dell’opera pubblicata da Robin, che egli giudica « monca, ma non sfigurata ». 53 Appagato, ma non senza perplessità... 3. 4. Un paratesto vittorioso ? La Préface de Julie ou entretien sur les romans, preceduta da un’avvertenza Rousseau fa un uso assai poco comune del paratesto quando informa Rey, il 8 febbraio 76, che la sua prefazione in forma di dialogo è « stampata e pubblicata da due giorni »... 54 Non ci soffermeremo qui sul problema delle illustrazioni, che meriterebbero uno studio a parte. Rousseau ha avuto l’idea troppo tardi perché fosse possibile integrarle nell’edizione di Rey senza costi aggiuntivi che l’editore non sarebbe stato in grado di assumere, e affida quindi la faccenda al giovane amico Coindet, rifiutandosi di far apparire le stampe con la “grande” prefazione. Scrive appunto a Coindet nel novembre del 760 : « Non sono neppure del parere di unire cose tanto diverse come la mia prefazione e le sue stampe. Non è giusto costringere chi vuole la prefazione ad acquistare anche le tavole, e chi vuole acquistare le tavole a comprare anche la prefazione ». 55 Rey, Robin e quindi Duchesne le inseriranno in tutte le loro successive edizioni. Quando è stata scritta allora la seconda prefazione ? E a cosa mirava Rousseau pubblicandola, volontariamente, a parte ? Lo scarto tra la stesura della Nouvelle Héloïse (tra il 756 e il 758), della “piccola” prefazione (primavera del 759) e dell’Entretien sur les romans (inizio del 759) non sembra esser stato molto studiato. Eppure è fondamentale. Nel frattempo, in realtà, Rousseau ha lavorato su altre opere (Émile, Le Contrat social). E soprattutto ha pubblicato la Lettre à d’Alembert sur les spectacles (758), con cui le prefazioni entrano in evidente risonanza. Si può quindi avanzare l’ipotesi che, tra il 757 e il 760, a portare Rousseau a ritornare su un’opera terminata, componendo una seconda prefazione, di cui la prima era 53. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 255, Mr de la Condamine a Rousseau. 3 febbraio 76. 54. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 300, Rousseau a Marc-Michel Rey, 8 febbraio 76. 55. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 7, lettera 8, Rousseau a Coindet, 8 novembre 760.

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solo un estratto, come egli stesso riconosce, siano stati diversi fattori : le reazioni dei primi lettori della Nouvelle Héloïse (Diderot, che trova il romanzo « feuillu » – frondoso, nel senso di prolisso –, il Maresciallo e la Marescialla di Lussemburgo, Coindet, Duclos soprattutto, lo stesso Rey, insieme ad altri), l’anticipazione delle letture degli altri lettori (lettori comuni, ma anche critici e censori), l’evoluzione del suo pensiero, la sua rottura con i philosophes, infine la rivendicazione della sua radicale diversità rispetto alle concezioni narrative della sua epoca. Ma Rousseau non ha mai voluto inserire questo paratesto nella prima edizione. Lui che aveva tanta paura di non essere capito, che sembrava tanto voler essere letto bene, lui che scrive una prefazione tutta tesa a mostrare che il suo romanzo non è un romanzo ma una lezione di vita, non vuole orientare il lettore in via preliminare con una prefazione : « Non ho ancora consegnato al signor Guérin il mio piccolo manoscritto », scrive a Malesherbes il 5 novembre 760. « Trovo che sia una vigliaccheria ripugnante voler scusare in anticipo e in pubblico un libro frivolo. Meglio lasciar comparire e giudicare il libro ; dirò poi le mie ragioni ». 56 E a Duclos, in dicembre : « Giacché questa prefazione [la “piccola”, non apprezzata da Duclos] 57 è solo il riassunto di quella di cui le ho parlato, continuo a pensare di far uscire quella integrale a parte ; ma in essa dico troppo bene e troppo male del libro per darla in apertura ; occorre lasciare che il libro faccia il suo effetto, buono o cattivo, e presentarla dopo ». 58 Ed è quanto apunto avvenne, secondo una cronologia forse più stretta di quanto avesse desiderato Rousseau, per il quale divenne una forma di rivincita e di consolazione : rivincita sull’edizione Robin, censurata e piena di errori, consolazione dopo le vicissitudini della pubblicazione e della censura : nessuno ha toccato la prefazione, publicata con cura da Duchesne. Come sottolinea Bernard Gagnebin, editore delle opere complete di Rousseau della Pléiade nel 964 : « Queste pagine costituiscono un insieme teorico estremamente ricco, di un interesse almeno pari alla Lettre à d’Alembert sur les spectacles, o al Discours sur le style, all’Entretien sur le fils naturel o alla prefazione di Cromwell. C’è da stupirsi che gli storici della letteratura, e persino gli esegeti di Rousseau, non gli abbiano attribuito la giusta importanza. Si tratta di uno dei migliori esempi di critica del creatore ». 59 Non è una rapida avvertenza al lettore, come nella prima prefazione, bensì una riflessione vera e propria sulla creazione, il lavoro d’autore, la lettura e i suoi effetti quella che propone Rousseau, intenzionato a spiegare cosa sia il territorio finzionale e ad armare il lettore contro l’ambivalenza dei suoi sentimenti. È questa tappa – quella che Paul Ricoeur chiama la rifigurazione, 60 quella in cui mondo del testo e mondo del lettore si accingono di nuovo a confrontarsi e a misurarsi – che Rousseau vuole accompagnare, tanto egli si costruisce in rottura con quanto lo precedeva, tanto vuole immaginare che lo scarto tra l’orizzonte di attesa dei lettori del suo tempo e ciò 56. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 52, Rousseau a Malesherbes, 5 novembre 760. 57. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 7, lettera 65, Duclos a Rousseau, 8 novembre 760 : « Ora che ho visto l’opera, le dirò che disapprovo assolutamente l’idea di prefazione di cui mi ha parlato. Se considera quest’opera pericolosa, anche per le fanciulle, dichiaro che lei non è degno di leggerla », ironizza amichevolmene Duclos, rimandando l’autore alle sue contraddizioni e invitandolo a non scusarsi di aver scritto un libro tanto buono. 58. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 7, lettera 65, Duclos a Rousseau, 8 novembre 760. 59. Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes, cit. 60. Paul Ricoeur, Temps et récit, Paris, Éditions du Seuil, 983-986, 3 vol.

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che egli propone è importante, rendendo il lettore tanto più fragile, e l’accettazione del nuovo orizzonte più aleatoria. In un atteggiamento di forte ambivalenza, Rousseau intende prolungare gli effetti di lettura e proteggersi dai fraintendimenti, ma si difende dall’accusa di voler influenzare troppo e troppo direttamente i suoi lettori : « M’è parso di dover attendere che il libro avesse prodotto il suo effetto, prima di discuterne inconvenienti e vantaggi, perché non volevo né danneggiare il libraio né mendicare l’indulgenza del pubblico », spiega nell’Avvertenza. Sceglie così di affrontare i presunti oppositori dando loro la parola, in modo ovviamente finto. È alla lettura di un dialogo che invita il suo lettore, appena uscito dalla lettura, ancora pervaso da essa. Un dialogo tra se stesso R e un lettore N, di cui si sa solo che non né un censore né un complice, un lettore accorto, con le opinioni del suo tempo sulle categorie del gusto e della morale, come pure sui generi letterari ; un lettore critico intelligente, che si sforza di snidare l’autore, facendogli confessare il genere e l’oggetto veri del testo, cosa che l’autore rifiuta, ovviamente, come rifiuta con maggior decisione ancora tutte le convenzioni letterarie e tutti i contratti di lettura del suo tempo. Di questo testo, troppo lungo e ricco perché ne possa dare qui un’analisi compiuta, ma interamente dedicato ai temi che interessano una storia della lettura, come ha già rapidamente ricordato Robert Darnton, 6 mi limiterò a riassumere qui alcuni tratti. I grandi temi affrontati e messi in discussione in questo certame sono tre. Intanto il problema dello statuto del testo : è un romanzo ? È la realtà ? Un ritratto ? Un quadro ? Se è un romanzo/quadro, è mal fatto, opina il contraddittore : l’intrigo è piatto (« niente di imprevisto, nessun colpo di scena », « tutto è previsto assai prima ; tutto avviene come previsto »), 62 i personaggi scipiti (insieme strani e troppo comuni, semplici, « senza tratti e senza statura », dotati di un’intelligenza media : « che parolone per miseri ragionamenti [,...] niente finezza, forza, profondità » (« Non un ritratto dipinto con energia, non un carattere ben definito, nessuna osservazione concreta, nessuna esperienza del mondo », 63 di un’espressione mediocre. Non tutti sono Cervantes : « Quello che potrebbe capitar di meglio è che si pigli il vostro giovinetto per un Céladon, il vostro Edouard per un Don Chisciotte, le vostre ochette per due Astrée, da divertirsene come altrettanti pazzi autentici. Ma le lunghe pazzie non divertono affatto ; bisognerebbe scrivere come Cervantes per far leggere sei volumi di visioni ». 64 Se è un ritratto reale, se sono effettivamente lettere quelle che Rousseau ha raccolto, il fine morale non giustifica l’inizio scandaloso (« Dovendosi rappresentare dei personaggi ragionevoli, perché prenderli prima che sian diventati tali ? [...] il male scandalizza prima che il bene possa edificare »). 65 Centrale è di nuovo il problema dei lettori cui il testo si rivolge : è in rapporto a essi e a essi soltanto che Rousseau giustifica la sua impresa, perché non vuole divertirli ma modificare il loro modo di vivere, o almeno di vedersi vivere. Vengono distinti due grandi tipi di pubblico : i parigini e i provinciali, secondo una distinzione che sembra coincidere con quella sociale tra ricchi e semplici, colti e ignoranti, nonché le donne, 6. Robert Darnton, La lecture rousseauiste et un lecteur ‘ordinaire’ au XVIIIe siècle, in Pratiques de la lecture, dir. Roger Chartier, Payot 2003. 62. Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes, cit., p. 22. 63. Ivi, p. 23. 64. Ivi, p. 26. 65. Ivi, p. 28.

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giovani o mature, cui è dedicata una discussione speciale. Rousseau rifiuta gli effetti sociali che si attribuiscono normalmente alle letture, in particolare il loro effetto morale su un certo tipo di pubblico. La lettura a fini morali per esempio è inutile agli uomini del gran mondo : questi ultimi sono grandi lettori, troveranno sempre nella « moltitudine dei libri nuovi che sfogliano » « il pro e il contro » ; nemmeno « i libri scelti e che si rileggono producono un effetto : se sostengono le massime del mondo sono superflui ; se le combattono sono inutili. Coloro che li leggono sono legati ai vizi della società con catene che i libri non possono spezzare ». 66 Stando a Rousseau, la lettura sarebbe quasi inutile alle persone di buona estrazione. Invece è necessaria all’isolato, a colui che non se ne serve per brillare nei salotti o che, leggendo poco, ha il tempo di meditare sulla sua lettura. Precorrendo Flaubert, Rousseau afferma : « Si leggono assai più romanzi in provincia che a Parigi, se ne leggono più nelle campagne che nelle città, e vi fanno maggior impressione ». 67 A quel lettore non vanno proposti soltanto libri divertenti che, in realtà, lo allontanano dal suo mondo : Le raffinatezze del gusto cittadino, le massime della corte, l’apparato del lusso, la morale epicurea : ecco le lezioni che predicano e i precetti che esibiscono. I colori delle loro false virtù offuscano lo splendore delle virtù vere ; le astuzie dei raggiri si sostituiscono ai doveri effettivi ; i bei discorsi fanno sprezzare le belle azioni, e la semplicità dei sani costumi è considerata rozzezza. 68

La decadenza di una letteratura seduttiva ma sprezzante è lungamente descritta da Rousseau, che le contrappone un’altra letteratura : Se i romanzi non offrissero ai lettori che le cose che li circondano, che doveri che è possibile adempiere, che i piaceri della loro condizione, i romanzi non li farebbero impazzire, anzi li farebbero rinsavire. Bisogna che gli scritti destinati ai solitari parlino il linguaggio dei solitari : per istruirli bisogna che piacciano e interessino ; bisogna che gli renda piacevole il loro stato e glielo facciano amare.

Così certe coppie unite potranno, durante le lunghe veglie nelle notti d’inverno, leggere libri che le distrarranno aiutandole a sopportare il loro stato, se non ad apprezzarlo in modo diverso : Staccandosi da quella lettura, non saranno né rattristati dal loro stato né disgustati delle loro cure. Anzi, intorno a loro tutto sembrerà assumere un più ridente aspetto ; i loro doveri si faranno anche più nobili ai loro occhi ; riacquisteranno il gusto dei piaceri naturali ; nei loro cuori rinasceranno i veri sentimenti, e vedendo la felicità a portata di mano impareranno a gustarla. Riempiranno le stesse funzioni ; ma le riempiranno con altro spirito, e faranno da veri patriarchi ciò che prima facevano da contadini. 69

Quanto alle fanciulle, possono essere anch’esse lettrici ? Se sono libertine, la responsabilità della cosa spetta al loro sesso, alle istituzioni o ai genitori che le educano male, non alle letture, che non hanno alcuna influenza specificamente nefasta sul loro comportamento : Una brava ragazza non legge libri d’amore. E colei che, nonostante il titolo, vorrà leggere questo, non si lagni poi del male che le avrà fatto : mentirebbe. Il male era già fatto ; non aveva 66. Ivi, p. 29. 67. Ivi, p. 28. 68. Ivi, p. 28. 69. Ivi, p. 32.

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più niente da perdere. [...] S’è voluto che la lettura dei romanzi fosse utile alla gioventù. Non vedo progetto più insensato. È come cominciare ad appiccar fuoco alla casa per mettere in azione le pompe.

Terzo tema del dialogo, le ragioni per le quali Rousseau, con grande sorpresa del suo interlocutore, ci tiene a rivendicare lo statuto di editore delle lettere e ad apporre il suo nome sul frontespizio della raccolta, « non per appropriarmela ma per farmene responsabile », sottolineando che si assume il rischio della ricezione, buona o cattiva che sia, secondo uno sviluppo che riprenderà tal quale nella “piccola” prefazione. 70 Eppure, egli rifiuta di nuovo di professarsi autore, e di aggiungere al suo nome la propria origine (cittadino di Ginevra) e il suo motto. Questa nuova ambiguità rilancia a fine dialogo il problema della finzione. Se Rousseau si proclama semplicemente editore di lettere reali, l’interlocutore non ha più obiezioni. Se si spinge più oltre e rivendica il proprio statuto di autore, rischia, secondo questo primo lettore, di compromettere la sua reputazione, per via delle imperfezioni del testo delle lettere : « Certamente, se tutto non è che immaginazione avete scritto un brutto libro ; ma ditemi che quelle due donne sono esistite, e torno a rileggere ogni anno questa raccolta, fino alla fine della mia vita ». 7 Alla fine, questo primo lettore impegna Rousseau a pubblicare le lettere, accompagnandole però dal dialogo con lui, un dialogo che ha un intento pedagogico e provocatorio insieme, di chiusura ma anche di apertura. Rousseau sceglie in effetti, con un’astuzia sottile e magistrale, di mantenere la sua opera in una zona intermedia, su cui le insistenze del suo contraddittore non possono agire ma che rimane un elemento essenziale della sua strategia autoriale. Questo libro, il suo, gli sfugge, perché non è il suo in tutto e per tutto, in quanto è anche il libro dei suoi personaggi, la vita stessa, che nessun critico, nessun lettore, nessun potere potranno controllare. Esercizio esemplare dell’ambizione del paratesto, queste due prefazioni ed esse soltanto permettono di cogliere effettivamente l’ambizione dell’autore. I lettori reali accolsero il libro con il favore che tutti conoscono. 72 Probabilmente abituati a contraffazioni e a testi « mobili », 73 non sembra siano stati realmente disturbati dalla diffusione concomitante del testo originale e di quello censurato, definito dai più esperti « monco ma non sfigurato ». E si diedero due tipi di lettura della Nouvelle Heloïse, per lo più esercitate dal medesimo lettore : una lettura romanzesca, all’inglese, sulla quale Rousseau contava, pur dicendo di diffidarne ; una lettura esistenziale, resa possibile da questa prima lettura sentimentale. Quanto all’Entretien sur les romans, probabilmente la maggior parte dei lettori non ne ha colto pienamente l’intenzione ; la “piccola” prefazione era già sembrata ad alcuni « un mucchio di paradossi !, una specie di enigma ». 74 In ogni caso, la sua pubblicazione dovette modificare 70. Ivi, p. 36 : « Faccio il mio nome in capo a questa raccolta, non per appropriarmela, ma per farmene responsabile. Si imputi a me il male, se ce n’è ; se c’è qualche bene, non voglio affatto farmene bello. Se si trova che il libro è cattivo in sé, ragione di più per metterci il nome. Non voglio passare per migliore di come sono ». 7. Ivi, p. 38. 72. Grazie soprattutto al già citato Daniel Mornet, nonché a Claude Labrosse, Lire au XVIIIe siècle. La Nouvelle Héloïse et ses lecteurs, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, Paris, Éd. du cnrs, 985 e a Nathalie Ferrand, Livre et lecture dans les romans français du XVIIIe siècle, Paris, Presses Universitaires de France, 2002. 73. Roger Chartier, Du livre au livre, in Pratiques de la lecture, Paris, Payot, 2003. 74. Ralph Alexander Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 8, lettera 250,

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l’orizzonte di attesa dei lettori, che l’abbiano o meno letto, incoraggiando con la sua stessa esistenza la lettura esistenziale delle Lettres, che avrebbero rischiato, altrimenti, di essere prese per un romanzo...

Mme Cramer-Delon a Rousseau, 3 gennaio 760. De la Condamine, per parte sua, dirà in una lettera già citata che « il libro generalmente piace, fuorché la prefazione », R. A. Leigh, Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, cit., vol., 7, lettera 255, de La Condamine a Rousseau, 3 febbraio 76.

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Maria Gioia Tavoni « PER ACONCIO DE LO LECTORE CHE DESIDERASSE LEGIERE PIU IN UNO LUOHO CHE NELL’ALTRO… » : GLI INDICI NEI PRIMI LIBRI A STAMPA

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r mando Petrucci, per quanto riguarda gli indici nei moderni cataloghi dei manoscritti di cui è fra i maggiori interpreti, icasticamente ha asserito che essi « …costituiscono la chiave interpretativa fondamentale e lo strumento principale di consultazione per lo studioso… ».  Se l’affermazione denuncia una conquista propria di un’epoca che è andata elaborando chiavi sempre più sofisticate per raggiungere porzioni testuali e perché sia possibile reperire informazioni su questioni specifiche, va rilevato che proprio ai manoscritti è necessario far riferimento se si vuol tentare di ricostruire come si vennero formando e stabilizzando forme di indicizzazione che a noi oggi appaiono usuali, seppur ancora di difficile ingegneria e di non generalizzato uso. 2 Ciò sembra ancora più vero alla lettura del prezioso volume Fabula in tabula, 3 che è storia di indici e che, soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione che essi ebbero all’interno del libro manoscritto, è di grande aiuto per chi desideri calarsi nel libro a stampa dei primordi per coglierne la continuità e le dinamiche per la loro confezione in tipografia. La conoscenza degli indici nei paleotipi 4 è affidata a saggi prevalentemente di cultura anglosassone, di cui alcuni nati sotto gli auspici della associazione professionale Society of Indexers. La maggior parte di essi è protesa a definire la cronologia delle tappe che ne scandiscono il ritmo di pubblicazione. Disponiamo anche di una sintesi inglese molto divulgativa 5 e di due importanti interventi italiani, basilari per comprendere come gli indici vennero elaborandosi nel nostro paese. Per quanto mi riguarda, non azzarderò una cronologia dei vari tipi di indici negli incunaboli, discorso che mi sembra molto prematuro, come meglio preciserò in seguito. Mi riprometto invece di concentrare l’attenzione su alcuni significativi aspetti del loro manifestarsi con particolare attenzione alla produzione del libro giuridico. Ardua è infatti l’impresa di voler procedere ad un esame sistematico che tenga conto della molteplicità dei differenti casi con cui l’indicizzazione si presenta nei vo. Armando Petrucci, La descrizione del manoscritto : storia, problemi, modelli, Roma, Carocci, 200, p. 45. 2. Sulla costruzione degli indici si veda in particolare Hans Wellisch, Indexing from A to Z, New York, Dublin, Hans W. Wilson, 9952. Per alcuni cenni storici, Francis J. Witty, The beginning of indexing and abstracting. Some notes towards a history of indexing and abstracting in Antiquity and the Middle Ages, « The indexer », 8 (973), pp. 93-98. 3. Fabula in tabula. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli e Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo ; Firenze “Fondazione Ezio Franceschini”, 995. 4. Per quanto riguarda l’Italia, sembra che il primo ad usare questo termine al posto di ‘incunabolo’ sia stato Luigi Frati, Incunaboli o paleotipi ?, « Rivista delle biblioteche e degli archivi », viii (897), fasc. 6-8, pp. 97-99. Sono grata a Pierangelo Bellettini per la segnalazione. 5. Tutti ancora da verificare con rigore i dati offerti dalla recente storia : Indexers and indexes in fact and fiction, edited by Hazel K. Bell, London, The British Library, 200, che prende inizio « by St Augustine, De arte praedicandi [...] a work very popular among 5th-century preachers, reprinted several time », p. 28.

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Fig. . Tabula rubricata a mano in rosso e blu alternato in San Girolamo, Epistolae, Roma, in casa di Pietro massimo [Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz], 3 xii 468. (BUB; coll.: A.V.B.IV./, c. [3]r).

Fig. 2. Indice con rubricazione manoscritta in due colori, in Leone I, Sermones et Epistulae, Roma, Giovannni Filippo La Legname, [tra il 7 iii e il 2 ix] 470 c.a. (BUB; coll.: A.V.B.V.23, c. [2]v.

gli indici nei primi libri a stampa 59

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lumi a stampa. L’argomento, limitatamente ai primordi della nascita della tipografia è complesso e, collocandosi in una linea di confine, non può essere enucleato in modo esaustivo perché la raccolta dei dati è affidata a limitate soluzioni provvisorie. Un contributo di Hans Wellisch uscito nel 993 si basa sull’esame di 970 titoli, di cui 63 elencati nell’Appendix : 83, ovvero l’8, 6% di tutti i libri analizzati, risultano dotati di indici, ma solo i 63 elencati si possono definire originali, ovvero non ristampati. Molti sono conservati a Washington in varie istituzioni bibliotecarie ; 258 nella National Library of Medicine a Bethesda, nel Maryland. Il campione è rilevante e tuttavia appare limitato per quanto riguarda gli argomenti trattati : il 60% dei libri analizzati fa riferimento a opere mediche e di scienze naturali ; alcuni appartengono alla vasta area della predicazione ; pochi i testi di filosofia, nessuno di diritto ; così come è del tutto assente la letteratura. Variano le tipologie degli indici che l’autore, semplificando, fa rientrare nelle due grandi categorie, quella dei nomi o degli indici tematici, tolti alcuni casi in cui si presentano in entrambe le soluzioni. 6 Le difficoltà incontrate da Wellisch nel ’93 trovano riscontro ancor oggi se si cerca di offrire riferimenti numerici a largo spettro, sia perché difficilmente gli indici vengono segnalati anche nei migliori repertori sia per la difficoltà di procedere alla visione di molti esemplari, sparsi in numerosissime istituzioni. Neppure la banca dati più importante degli incunaboli, non rigorosamente attendibile nei confronti del significato proprio delle parole prese a campione, è da sola sufficiente per un rilevamento esaustivo. Nel campo titolo dell’istc infatti la voce index compare  volte dal 477 al 500 ; ‘indici’ nel plurale volgare, solo in un caso ; tabula, 89 volte dal 475 al 500 ; tabulae, in  casi dal 48 sempre al 500 ; directorio in due edizioni di Grüninger del 496 e del 499. Se si considera che la maggior parte degli indici a stampa non si rileva dalle registrazioni dell’istc che segue la descrizione short-title, solo il ricorso ai repertori più analitici, in particolare lo spoglio sistematico del GW che, nella versione cartacea come si sa, è ancora incompleto, e che in quella on line si presenta in forma provvisoria, potrà confortare la ricerca con dati più rigorosi e attendibili. 7 La mia impostazione si discosta in particolar modo da quella di tutti coloro che hanno sostenuto di non dover ricorrere ai manoscritti, intesi come modelli, per spiegare la costruzione degli indici nei libri a stampa. Sono affermazioni che lo stesso Wellish ritiene infondate. Anche l’asserzione di Frances A. Yates, molto a latere del suo profondo assunto, la quale si esprime con queste parole : « The schematic layouts of manuscripts, designed for memorisation, the articulation of a summa into ordered parts, all these are disappearing with the printed book which need not to be memorised since copies are plentiful », 8 non può trovare sostenitori. Senza alcuna pretesa di voler sintetizzare in questa sede indagini scrupolose e sotto 6. Hans H. Wellisch, Incunabula indexes, in *Mercurius in trivio. Studi di Bibliografia e di Biblioteconomia per Alfredo Serrrai nel 60° compleanno (20 novembre 1992), a cura di Maria Cochetti, Roma, Bulzoni, 993, pp. 203-22, ripubblicato in « The Indexer », vol. 9,  April 994, pp. 3-2. 7. Nel 949 Roberto Ridolfi, a proposito del Gesamtkatalog, parlava dell’impresa da poco iniziata come di un « monumento insigne », di un lavoro « del tutto soddisfacente […] nonostante le sue lacune e i suoi errori esemplari », ponendo l’accento sulla difficoltà che molti autori di repertori avevano incontrato nella descrizione degli incunaboli, molti dei quali, a suo dire, non ebbero a curarsi « di dare un’occhiata al contenuto dei libri che venivano descrivendo… » (Proposta di ricerche sulle stampe e sugli stampatori del Quattrocento, « La Bibliofilia », a. li, 949, [pp. -8], p. 2). 8. Cito dall’edizione originale per evitare eventuali fraitendimenti di traduzione ; Frances A. Yates, The art of memory, London, Routledge and Kegan Paul, 966, p. 24.

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molti aspetti nuove, che si evincono dagli interventi pionieristici di Mary e Richard Rouse 9 oltre che da Fabula in tabula, va infatti precisato che il codex di età basso medievale, era spesso dotato di indici e che proprio in ambiente manoscritto grande fu la preoccupazione degli accessi, resi agevoli dalla libertà concessa dalla pagina tutta manuale. Il ricorso a forme di indicizzazione per agevolare processi mnemonici organizzati in appositi spazi risulta infatti imprescindibile anche con i caratteri tipografici. La ripartizione del materiale trattato diventa ripartizione del volume che si manifesta nell’index o meglio nella tabula, termini desunti anch’essi dalla codicologia e usati generalmente come sinonimi. 0 Ancora valida, appare l’osservazione di Walter Ong a proposito dell’indice alfabetico il quale «si trova… all’incrocio fra la cultura orale-aurale e quella che si fonda sulla vista» perché con la stampa perfino i ‘loci’, ritenuti luoghi della memoria, « furono localizzati fisicamente e visivamente ».  Con l’avvento della tipografia, gli indici si elaborano fin da subito, seppur non con la complessa organizzazione propria del manoscritto, in particolare di quello della cultura universitaria del xiii e xiv secolo. Un solo accenno all’epoca in cui si assistette al vasto insorgere di strumenti per agevolare il lettore, mi è utile per meglio inquadrare il problema. L’esigenza di offrire accessi sempre più in armonia con la più ampia richiesta da parte dei lettori, era divenuta assai diffusa a partire dal Duecento quando aumentarono i dispositivi per categorizzare le informazioni. Costruire una organizzazione in grado di indicare la «mappizzazione» del testo «ut facilius inveniantur» i passi oggetto di ricerca, per usare una formula con cui si commentava l’utilitas degli indici nel manoscritto, 2 prevedeva coloriture più chiare o più scure, visualizzazioni di schemi, riduzione dei capitoli ad un solo oggetto ; rinvii a capitoli, a carte e soprattutto a colonne ; registri alfabetici ; orditi logici particolarmente elaborati, per enumerare solo alcune delle strategie seguite, atte a raggiungere porzioni testuali e a offrire ingressi interpretativi sia visivi sia linguistici non senza peculiarità adottate per specifiche tipologie testuali. Alcuni di questi impianti vennero ricalcati nel libro a stampa dei primordi perché nel xv secolo, secondo una definizione fortunata, si può parlare dell’esistenza del codex «manuscript and print» 3 perché in sostanza non vi erano differenze fra i due prodotti. Dar luogo ad una nuova elaborazione per gli 9. Mary A. e Richard H. Rouse, La naissance des index, in *Histoire de l’édition française. Le livre conquérant. Du Moyen Âge au milieu du XVIIe siècle, Paris, Promodis, 982, pp. 77-85 e Id., Concordances et index, in Mise en page et mise en texte du livre manuscript, sous la direction de Henri-Jean Martin e Jean Vezin, Préface de Jacques Monfrin, Paris, Promodis, 990, pp. 29-228. 0. A proposito del termine ‘tabula’ usato come sinonimo di sommario, rinvio ad un unico esempio : Edoardo Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, Milano, Bibliografica, 992, 2v, in particolare vol. i Testi, p. 94, nota 3 che rimanda alla descrizione B. 47. Spe. Circa l’uso antico del termine ‘tavola’, come sinonimo di Index, si veda Totius latinitatis Lexicon, opera et studio di Aegidii Forcellini, tomus tertius, Prati, typis Aldinianis, mdccclxv, ad vocem. . Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 986 (ed. orig. Orality and literacy, 982), p. 78. 2. Heinz Meyer, Ordo rerum und Registerhilfen in mittelalterlichen Enzyklopädiehandschriften, « Frühmittelalterliche Studien », xxv (99), pp. 35-339. Circa la necessità degli indici in ambiente manoscritto, pregnante è la considerazione di Jacqueline Hamesse, Il modello della lettura nell’età della Scolastica, in *Storia della lettura, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari, Laterza, 995 (pp. 9-5), p. 92. 3. Lotte Hellinga, The codex in fifteenth century : manuscript and print, in A potencie of Life. Book in Society. The Clark Lecture 1986-87s, edited by Nicolas Barker, London, The British Library, 993, in particolare pp. 63-65.

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Fig. 3. Tabula sopra le prediche di frate Roberto rubricata in colore rosso e blu alternato, in Roberto Caracciolo, Sermones quadragesimales [Venezia, Tommaso di Balvi] 30 ix 476] . (BUB; coll.: A.V.B.VI. 34, c. [n6]r.

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indici presentava per le tipografie complessi problemi anche di natura tecnica. Nel volume tipografico dei primordi erano assenti i riferimenti spaziali alle porzioni del testo impresso, riferimenti che andranno solo in seguito precisandosi in segnature e numerazioni di fascicoli, di carte, di pagine, di colonne, di linee tipografiche etc. Basti pensare che molti incunaboli non ebbero né cartulazione (la maggior parte degli indici prevede il rinvio alla carta) né tanto meno paginazione, e che alcuni non furono contrassegnati neppure nei fascicoli, così come avveniva per molti codices, nonostante fossero conosciute tali pratiche, usate a volte nei manoscritti proprio come sistema di rinvii. Il primo uso delle segnature impresse nel fascicolo si deve, allo stato delle ricerche, a J. Koelhoff il vecchio, che stampò a Colonia nel 472 un’opera del Nider.4 La prima numerazione delle carte, o la foliazione, espressa in numeri arabi, suole farsi risalire a Arnold ther Hoernen, tipografo anch’esso di Colonia che nel 470 fece uscire il Sermo de praesentatione beatae Mariae di Werner Rolewinck, opuscolo di sole dodici carte, di cui le cc. 2-2 sono numerate nel mezzo della carta in numeri arabi. 5 Persino Aldo Manuzio non adottò dapprima il conteggio delle carte e, quanto alle pagine, iniziò a numerarle a partire dal 499 con le Cornucopiae di Niccolò Perotti (429-480), servendosene per l’indice analitico, come con grande autorevolezza per primo Carlo Dionisotti ha rilevato perlustrando il Renouard, 6 uso che in Italia si generalizzò solo nel xvi secolo. 7 Il grande Aldo consigliò dapprima ai suoi lettori di procedere alla numerazione manuale dei volumi, per la « fatica tipografica di calcolare e apporre numeri sul foglio », come giustamente invita a considerare Carlo Vecce. 8 La reciprocità fra oggetti tipografici e manoscritti invita inoltre a pre4. Praeceptorium divinae legis. Cfr. bmc, Catalogue of books printed in the XVth century now in the British Museum, Part x Spain-Portugal, London, The trustees of the British Museum, 97, in Introduction to the presses di Leslie A. Sheppard e George D. Painter, p. xlvi, nota  ; devo la segnalazione a Dennis Rhodes che ringrazio con calore. 5. bmc, Catalogue of books printed in the XVth century now in the British Museum, London, By order of the trustees, 908 (Lithographic reprint, London, The trustees of the British Museum, 963), part. i, p. 20 ; riveste interesse il dato che un’altra opera di Rolewinck (Fasciculum temporum, Basilea, Bernhard Richel, 20 febbraio 482) riporti il numero per carte, ripetuto sia sul recto sia sul verso, (verificato nell’esemplare corsiniano : 53.D.8). 6. Cfr. Aldo Manuzio editore, introduzione di Carlo Dionisotti, testo latino con traduzione e note a cura di Giovanni Orlandi, Milano, Il Polifilo, 976, 2 voll, in particolare p. xxxv del primo volume. L’esemplare esaminato è conservato alla Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana (coll. : Corsiniana 65.H.). Significativo è il fatto che il corposo apparato dei preliminari non rechi alcuna segnatura ma solo la cartulazione in basso a destra e che la vera paginazione abbia inizio con la segnatura richiamata nel registro in calce. Per l’importanza che riveste lo splendido esemplare rinvio ad altra pubblicazione nella quale concentrerò l’attenzione suoi elementi paratestuali. Per l’edizione critica si veda Nicolò Perotto, Cornv Copiae: seu Linguae Latinae commentarii, 1., ediderunt Jean-Louis Charlet et Martine Furno, praefatus est Sesto Prete, Sassoferrato, Istituto Internazionale di Studi Piceni, 989. 7. Illuminante è ancora, del più classico dei testi di storia del libro, l’osservazione di Henri-Jean Martin che così si esprime : « Dovettero passare anni perché si numerassero non più i fogli, ma le pagine del libro come oggi […] la “paginazione” diventò d’uso corrente, soprattutto per opera degli stampatori umanisti, nel secondo quarto del secolo xvi », in Lucien Febvre, Henri-Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 977, 2 v. La citazione è tratta dal primo volume alle pp. 97-98. 8. Carlo Vecce, Aldo e l’invenzione dell’indice, in *Aldus Manutius and Renaissance culture. Essays in Memory of Franklin D. Murphy, Acts of an International Conference Venice and Florence, 14-17 June 1994, edited by David S. Zeidberg with the assistance of Fiorella Gioffredi Superbi, Firenze, Olschki, 998, pp. 09-4. Vedi anche Maria Gioia Tavoni, Da un inedito di Albano Sorbelli : il Corpus chartarum e l’indice al commento di Bernardo Ilicino sui Trionfi, in *L’Europa del libro nell’età dell’Umanesimo. Atti del XVI Convegno

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Fig. 4. Tabula su due colonne, rubricata a mano in rosso e blu, in Santo Antonino, Confessionale ‘Omis mortalium cura...’, Bononiae [Baldassarre Azzoguidi] 472. (BCAB; coll.: 6.O.IV.7, cc. [95]v-[96]r).

cisare che soprattutto nei primordi del lavoro con i caratteri mobili esistono anche casi in cui i libri a stampa furono a modello di volumi manoscritti per cui gli indici risultano speculari. 9 Tarderà a farsi strada nel libro a stampa una architettura degli indici tale da potervi individuare tracce di autonomia rispetto al libro manoscritto. Le tecniche tipografiche dei primordi se da una parte facilitano il percorso, fissando le partizioni alfabetiche o paratestuali di un libro, dall’altra, schematizzando gli impianti, spesso delegano – pratica seguita anche nei manoscritti – alle sole lettere alfabetiche in due colori, il nero e il rosso – colore quest’ultimo espresso sovente a mano –, o, a volte, a lettere xilografiche riportate simili a quelle del testo negli spazi destinati al collegamento, il compito di evidenziare i luoghi cui rinviare soprattutto in assenza di numerazione, segnature e richiami. La rubricazione manoscritta è prassi di molti centri di produzione anche fra quelli che ebbero ad adottare veri indici per alcune loro proposte editoriali, dato che per i primi stampatori, tesi a riprodurre fedelmente i manoscritti, le rubriche costituivano parte integrante del modello da seguire. 20 Internazionale (Chianciano, Firenze, Pienza 16-19 luglio 2002), a cura di Luisa Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2004 (pp. 62-644), pp. 639-640. 9. Michael D. Reeve, Manuscripts copied from printed books, in *Manuscripts in the fifty years after the invention of printing : some papers read at a colloquium at the Warburg Institute on 12-13 March 1982, edited by Joseph Burney Trapp, London, The Warburg Institute, University of London, 983, pp. 2-20. 20. Segnalo dal mio osservatorio bolognese alcuni esemplari di edizioni molto note che presentano la rubricazione manoscritta : Hieronymus, santo, Epistolae, Roma, in casa di Pietro Massimo [Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz], 3 XII 468, 2° Rom. Gr. IGI 4733 (BUB ; coll. : A.V.B.IV./ ; le cc. 3r-6r

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Un aspetto da valutare, fra i tanti tecnici connessi con la confezione del volume dotato di indici, è il loro occupare o meno fascicoli separati. Gli studi più accreditati informano che essi potevano precedere o seguire il testo vero e proprio, a seconda della legatura che avveniva generalmente al momento dell’acquisto. Fra i molti stimoli offerti dallo studio di Gherardt Powitz sul libro magontino, si è scelto di mettere in luce alcuni elementi. L’autore informa che una tabula separata era già stata costruita, in quattro fogli, per la Bibbia delle 42 linee che, proprio per la complessità dei contenuti del libro più diffuso nell’Occidente già ampiamente indicizzato in età medievale a cominciare dal lavoro di gruppo dei frati del convento di Saint-Jacques, 2 si avvertì la necessità di corredarlo di ingressi per facilitarne la lettura, o meglio la compulsazione 22 e che della tavola per la Bibbia delle 36 linee sono rimasti frammenti di un catalogo di rubriche, con ogni probabilità una ristampa della tabula della B 42. Con l’esame di più di un terzo dei 75 esemplari conosciuti, Powitz rivela poi che per la Tabula del Catholicon furono impiegati diversi rubricatori, come appare evidente dalla collazione delle copie, le quali portano stati diversi proprio negli accessi al testo, fenomeno che si registra su vasta scala anche in epoche successive. Ma sia per il Catholicon sia per tutti gli esemplari da me visionati del De doctrina christiana, (GW 2872) (Nancy, Bibliothèque Municipale, BNF, B. Sainte-Genèvieve, The British Library, Bodleian Library) che come è noto costituisce la quarta parte del De arte praedicandi di S. Agostino, considerato il paleotipo che presenta il primo indice, si ha prova che le tavole sono tutt’uno col testo, facendo pertanto naufragare l’ipotesi che fosse una costante quella di stampare separatamente l’indice per accorparlo al volume con lo scopo di invogliarne la lettura o su richiesta dell’acquirente, scardinando a volte la datazione dei colophon quando le tavole presentano una propria data. Quanto poi al modo con cui gli indici in fascicoli a parte, spesso di stampa diversa, si congiungessero al testo basti pensare all’esemplare dell’Archiginnasio della princeps bolognese dei Trionfi del Petrarca con il commento di Bernardo Ilicino o Bernardo Lapini per usare le due maggiori forme con cui è noto l’umanista senese, stampata da Annibale Malpigli nel 475. 23 La copia è dotata di una tabula, compresa in un fascicolo a sé stante in apertura, contengono la Tabula, rubricata in rosso e blu alternati, senza indicazioni di rinvio alle carte del testo (fig. ). Leo, papa, Sermones et Epistulae, [Roma, Giovanni Filippo La Legname, tra il 7 III e il 2 IX, 470] 2°. Rom. IGI 5723 (BUB; coll. : A.V.B.V.23) ; le cc. 2v-4v riportano : ‘Sequuntur Rubricae totius operis per ordinem’ : l’indice è rubricato in colore rosso e blu alternato ; il numero delle carte del testo è manoscritto (fig. 2). Roberto Caracciolo, Sermones quadragesimales [in italiano]. [Venezia, Tommaso de, Blavi], 30 IX 476, 2° Rom. IGI 2484 (BUB ; coll. A.V.B.VI.34 ; il recto dell’ultima carta contiene : ‘Tabula sopra le prediche di frate Roberto’, rubricata in colore rosso e blu alternato, su due colonne, con l’indicazione a stampa delle carte del testo (fig. 3), e della BCAB, almeno Antonino, santo, Confessionale : ‘Omnis mortalium cura’. Trattato dell’escomunicazione, Bononiae [Baldassarre Azzoguidi], 472, IGI 660 (BCAB; coll. 6.O.IV.7) (fig. 4). Ringrazio Maria Cristina Bacchi per la competente assistenza alla ricerca. 2. R. H. e M. Rouse, Concordances et index, in Mise en page ..., cit. 22. Si veda Gerhardt Powitz, Die Tabula rubricarum des Mainzer Catholicon, « Gutenberg Jahrbuch », (994), pp. 32-49. Che gli indici costituissero entità a sé è confermato da Francis J. Witty il quale osserva che nel Liber cronicarum di Hartmann Schedel stampato da Anton Koberger di Norimberga nel 493 l’indice appare all’inizio dell’opera, con un proprio frontespizio, stampato sul recto della prima carta non numerata, e prende inizio solo nel recto della seconda carta ; Francis J. Witty, Early indexing techniques : a study of several book indexes of the fourteenth, fifteenth, and early sixteenth centuries, « The library quarterly », xxxv ( July 965), n. 3, pp. 4-48. 23. M. G. Tavoni, Da un inedito di Albano, cit., e sempre di chi scrive Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino, in corso di pubblicazione.

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con lezioni molto differenti dal testo. Tutti gli esemplari da me consultati la contemplano, ma non in tutti è collocata all’inizio del testo : in quello della British Library, rilegato per l’ultima volta fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è in fine, accorpamento forse dovuto alla tarda legatura che tuttavia non ha tenuto conto delle confezioni più antiche, quali le copie conservate nella Biblioteca dell’Archiginnasio e nella Nazionale francese. Un altro interessante aspetto riguarda la differenza degli indici per una stessa opera. Alcuni testi furono indicizzati ex novo in successive edizioni ; ma vi furono indici utilizzati invece uguali, seppur di diversa composizione, in centri tipografici che diedero vita a riproposte editoriali di medesime opere, stratagemma che ebbe in seguito i suoi lungimiranti fautori in celebri trattati. 24 Sono pratiche che testimoniano come il modello in tipografia non fu sempre un manoscritto, bensì una stampa. Circa la ‘similitudine’ degli indici in riedizioni appare significativo il caso del fortunatissimo trattato di impostazione enciclopedica De homine. Conosciuto più sotto il titolo parallelo Il libro dei perché (o semplicemente Il Perché), dovuto all’articolazione del corpus del testo in 565 quesiti di natura scientifica relativi ai problemi più diversi, molti dei quali ancora di attualità, su due edizioni vale la pena indugiare per la loro altezza cronologica, non senza offrire qualche informazione sull’opera e sull’autore. Il filosofo, medico e astrologo Girolamo Manfredi (430 ca.-493), docente presso lo Studio bolognese, realizzò questa sorta di enciclopedia del sapere medico-astrologico con ogni probabilità allo scopo di fornire risposte certe ad un pubblico eterogeneo, costituito non solo da specialisti, ma anche da semplici curiosi, facilitati nella consultazione dall’impiego della lingua volgare. Il successo dell’opera è testimoniato dalle numerose edizioni che, a partire dalla princeps bolognese del 474, si protrassero fino al xix secolo, dando luogo anche al rilevante fenomeno di versioni epurate degli interrogativi più audaci perché meglio si adattassero alla mentalità post-tridentina. 25 Considerando la natura del testo, ben si comprende l’utilità che fin dagli inizi vi rivestì l’indice, da annoverarsi anch’esso fra i rubricati : quello della princeps stampata da Ugo Ruggeri e Domenico Bertocchi, infatti, è già molto accurato e appare pressoché identico a quello dell’edizione napoletana di Francesco del Tuppo, datata 478. Sono stati analizzati due esemplari, l’uno dell’edizione bolognese del 474 (Fig. 5), l’altro di quella napoletana del 478 (Fig. 6) : 26 in entrambi l’indice riporta i quesiti nel24. Mi sia permesso rinviare al mio breve intervento : Avant Genette fra trattati e ‘curiosità’, in Sulle tracce del paratesto. Catalogo della mostra. Biblioteca Universitaria di Bologna 19 novembre-18 dicembre 2004, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Bologna, Bononia University Press, 2004, pp. -8. 25. Girolamo Manfredi, Liber de homine : il Perché, a cura di Anna Laura Trombetti Budriesi e Fabio Foresti, Bologna, L. Parma, 988. Si veda altresì di Paola Zito, Un testo ‘tanto caro al Sacratissimo Re’. Il Liber de homine e il sodalizio Del Tuppo-Geraldini, in *Le carte aragonesi. Atti del Convegno (Ravello, 3-4 ottobre 2002), a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004, pp. 237-243. 26. Girolamo Manfredi, Liber de homine, Bologna, Ugo Ruggeri, I VII 474 (IGI 6) e Napoli, [Francesco del Tuppo], ed. Bernardino Gerardini, 3 VIII 478 (IGI 62). Ho eseguito la collazione fra l’esemplare della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio (coll. : 6.O.II.9) e quello della Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III (coll. : S.Q. VI D 2) per la cui descrizione si rinvia a Marco Santoro, La stampa a Napoli nel Quattrocento, Napoli, presso l’Istituto-Napoli (Istituto nazionale di studi sul rinascimento meridionale), 984, scheda n.83. Entrambi gli incunaboli sono privi di segnature, cartulazione/ foliazione. Sono grata alla collega Paola Zito per avermi offerto tutta la sua disponibilità nel corso della ricerca.

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la stessa forma e nello stesso ordine in cui si trovano disposti nel testo. Confrontando le singole pagine degli indici, estesi fino a c. [], in tutti e due gli esemplari, si evince poi una coincidenza costante fra la prima e l’ultima voce contemplata, coincidenza che non di rado si riscontra perfino nella parola che apre e in quella che chiude. In linea di massima, collimano anche le carte a cui ogni voce rimanda, seppure talvolta si rilevino lievi differenze dovute a piccoli sfasamenti nella impaginazione del corpus dell’opera. 27 La quasi totale corrispondenza del layout dei due esemplari è evidente nello specchio di stampa di tutte le pagine del testo ; solo i segni di paragrafo risultano diversi : manoscritti nell’esemplare bolognese, a stampa in quello napoletano. Quanto a fissare rigidamente la diacronica di tipologie di indici e la continuità della loro esecuzione nelle varie stamperie è impresa a mio avviso ancora rischiosa anche solo relativamente all’Italia. All’interno del catalogo di un singolo tipografo e/o editore, seppure il più affermato e il più studiato, è ancora il contributo di Vecce ad offrire una conferma della difficoltà di stabilire datazioni precise sul loro stabilizzarsi all’interno di una sola officina tipografica : Manuzio, che appose il primo indice alle sue edizioni nel 497 non ne fece uso costante ; procedette infatti per sperimentazioni prima di dare regolarità ad una prassi che, per molti motivi, tardò a configurarsi come consuetudine. 28 Anche relativamente alla costruzione di indici secondo canoni rigidi si è proceduto, a mio avviso, con molte semplificazioni. Non sempre vi sono tipologie a cui poter fare riferimento. Primo di ogni caso è l’opera con i suoi caratteri peculiari, a indurre a forme di indicizzazione valide soprattutto per essa. Un indice dei nomi può essere differente da un altro, non solo in virtù di chi lo ha allestito, ma può presentare specificità da opera a opera sulla quale è avvenuto il processo di indicizzazione dei lemmi. È Tullio Gregory, ad esempio, ad invitare a considerare la «fatica di indicizzare», ben nota a compilatori quali Erasmo da Rotterdam, il quale per i suoi Adagia scelse criteri particolari. 29 Un tratto comune a buona parte degli indici degli incunaboli resta l’ordine alfabetico non rigoroso, in quanto spesso limitato alla sola lettera iniziale di ogni voce e, comunque, mai spinto oltre le prime due o tre sillabe. Inoltre, il più delle volte, le citazioni dell’indice rimandano solo alla carta di riferimento, senza specificare se il passo cercato si trova su recto o verso. 30 Un capitolo di notevole rilevanza è quello che riguarda i compilatori degli indici a stampa, relativamente ai quali è bene precisare che per molte tipologie testuali essi si celano sotto l’anonimato, e che si palesano in pochi testi, 3 quando il ricorso del tipografo e/o editore fu a personalità di spicco e a veri propri studiosi, molti dei quali 27. Ad esempio, per il quesito ‘Perché è molto anche più cative l’aque che passano per miniera o vie de piombo che quelle del pozzo’ l’incunabolo bolognese rimanda a c. xxvi – dove in effetti si trova la risposta al quesito – mentre quello napoletano a c. xxvii ; è invece curioso il caso in cui l’indice di Ruggeri segnala erroneamente che il quesito ‘Perché l’huomo che è calvo de naturale calvitie non può recuperare più i capilli’ si trova a c. lxiii mentre quello di del Tuppo lo pone a c. lxii, dove in effetti il passo si trova anche nell’esemplare bolognese ! Da un esame di alcune altre voci dell’indice prese a campione non si riscontrano differenze rilevanti se non che in alcuni, rari, casi, l’indice napoletano manca di segnalare la carta a cui rimanda. 28. Cfr. C. Vecce, Aldo e l’invenzione dell’indice, cit. 29. Tullio Gregory, Introduzione, in *Fabula in tabula, cit, p. 5. 30. F. J. Witty, The beginning of indexing and abstracting, cit. e Id., Early indexing techniques, cit. ; Mark Rabnett, The first printed indexes : a study of indexing techniques in some incunabula, « Cataloging and classification quarterly », vol. 2, n. 3/4 (982), pp. 87-02. 3. Per i manoscritti, come hanno rilevato i Rouse, si conoscono in Francia numerosi professionisti che fecero degli indici il loro mestiere ; cfr. M. e R. Rouse, La naissance des index, cit., in particolare, p. 85.

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Fig. 5. Indice rubricato a mano nell’edizione bolognese del 474 del Liber de homine di Girolamo Manfredi (BCAB; coll. 6.O.II.9, c. [92]v)

Fig. 6. Indice rubricato a stampa nell’edizione napoletana del 478 del Liber de homine di Girolamo Manfredi (Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III; coll.: S.Q. vi D.2, c. [2]v). Si noti la differenza del proemio riferito alla fig. 5.

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svolgevano anche l’attività di curatori. È soprattutto il libro giuridico a informare sugli esecutori degli indici nelle più importanti trattazioni del Corpus iuris, alle cui tabulae attesero personaggi che sottoscrissero la loro fatica, come si rileva anche solo dalla descrizione analitica degli incunaboli nei più importanti repertori. Non solo in considerazione della conoscenza dei compilatori, ma soprattutto per le molte implicazioni offerte per comprendere quale fosse la struttura degli indici in

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opere specialistiche come sono quelle giuridiche, si è ritenuto di indugiare su alcune edizioni, navigando alla ricerca degli esemplari che le contemplano, in vista di uno studio più approfondito e più circostanziato. Si tratta di una strada intrapresa anche a dimostrazione della difficoltà di stabilire rigide scansioni sia cronologiche sia tipologiche, come si è avuto occasione di precisare. Va rilevato che anche gli indici giuridici sono tributari dei manoscritti espressi nei codici attraverso i notabilia segnalati dalla presenza di segni convenzionali (talvolta l’immagine del dito indice di una mano, puntato sul capitolo interessante l’indicizzazione). Il compilatore della tabula, in presenza di tali segni, era avvertito d’essere al cospetto di un punto notevole nella trattazione giuridica per il contenuto dell’allestimento del rinvio. Ma è bene procedere in modo da far luce sui principali motivi della presenza degli indici nelle opere giuridiche, e su alcuni aspetti con cui vennero a manifestarsi. Il primo dizionario giuridico a essere pubblicato, composto in forma manoscritta circa nel 453, fu il poderoso Repertorium utriusque iuris di Pietro da Monte, la cui princeps è del 475. 32 Le rubriche del Repertorium sono disposte secondo l’ordine alfabetico, ma all’interno di queste, i vari richiami, paiono susseguirsi disordinatamente, o tutt’al più secondo un alquanto vago ordine ‘cronologico’, inseriti mano a mano che appaiono nel dizionario. Al proposito, segnaliamo – ma senza volere né potere attribuirvi un valore particolare – che i richiami al Decretum di Graziano e/o al Corpus iuris civilis tendono, nel lavoro di Pietro da Monte, a occupare i primi ranghi dell’elenco, rispetto a citazioni di giuristi, interpreti e maestri del diritto. 33 Un’opzione di priorità che, se confermata, non potrebbe certo sorprendere. Al Repertorium di Pietro da Monte si ispireranno, generalmente, le tabulae che verranno allegate dagli editori alle opere giuridiche che essi pubblicavano. La prima tabula giuridica a comparire in un libro a stampa è quella connessa ai Consilia di Niccolò Panormitano, 34 a partire dalla princeps ferrarese edita da Andrea Belforte il 22 febbraio 475, e riproposta nelle due edizioni successive : ovvero in quella ancora ferrarese del 9 maggio dello stesso anno per i tipi di Pietro de Aranceyo e Giovanni de Tornaco e quella composta subito a ridosso, con ogni verosimiglianza, in una tipografia di Strasburgo dopo il 9 maggio sempre del 475. 35 Gli esemplari esaminati, delle due edizioni 32. A Bologna, senza nota tipografica, e con un errore nel colophon, ove si riportava la data del 465 che ha originato una annosa querelle tra gli esperti del settore, per la storia della proto-tipografia bolognese. Per una esaustiva disamina del Repertorium e delle questioni che vi ruotano attorno, si veda soprattutto Diego Quaglioni, Dal manoscritto alla stampa. Agli inizi della tipografia giuridica bolognese, in *Juristische Buchproduktion im Mittelalter, a cura di Vincenzo Colli, Frankfurt, Klostermann, 2002. 33. Si veda qui, più oltre, l’importanza, per la giurisprudenza e per la pratica dei tribunali nella prima età della stampa, della communis opinio iurisconsultorum. 34. Il grande canonista Niccolò de’ Tedeschi (386-445), abbas panormitanus. Nato a Catania di origine germaniche (donde il nome), Niccolò entrò presto nell’ordine benedettino, ma passò gli anni giovanili al nord, allievo di Antonio da Budrio e (sembra) di Francesco Zabarella presso lo studium bolognese. Iniziò l’insegnamento nel 4 a Bologna, poi a Parma (43-8), indi a Siena, ove rimase fino al 43. Divenne abate di Santa Maria di Maniace nel 425, poi arcivescovo di Palermo. La sua opera di giurista copre quasi intero il Corpus iuris canonici, e comprende anche quaestiones, disputationes, etc., oltre a un centinaio di consilia, molto considerati e, dunque, continuamente riediti. Sulla figura e l’opera di Niccolò si veda, ad es., *Niccolò Tedeschi (abbas Panormitanus) e i suoi Commentaria in decretales, a cura di Orazio Condorelli, introduzione di Manlio Bellomo, Roma, Il cigno Galileo Galilei, 2000. 35. Cfr. GW M47750 ; HC 2344 ; C 4592 ; Ce3 P-29, per l’editio princeps ; GW M47753 ; H 2345 ; CIH 3362 ; IBE 5732 ; IBP 409 ; IGI 973 ; Pell 8327 ; 8405 ; BSB-Ink T-494 ; CIBN T-339 ; Pr 5737 ; BMC VI 607 ;IC 25653 ; Madsen 4003, 4004 ; Oates 2238 ; Sack : Freiburg 3504 ; per la seconda ferrarese ; e GW M47759 ; HC 2343 ; 2344 ; Ce3 P-28 ; IBP 40 ; Pell 8325 ; 8326 ; 8403 ; CRF III 603 ; VB 258 ;5 ; BSB-Ink T-495 ; CIBN T-340 ; Pr

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Fig. 7. Tabula di Johannes da Monferrato annessa a Andrea Barbazza, De verborum obbligationibus, Bologna, Justinianus de Hyrberia, 497 (BCAB; coll.: 6.O.I., c. [χ]r).

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ferraresi, sono tutti dotati della medesima tavola, ma quella di Pietro de Aranceyo e Giovanni de Tornaco reca una additio tabulae IIII consiliorum rev. domini abbatis que deficiebant et addita fuerunt. La tabula è opera di Ludovico Bolognini, famoso giurista bolognese, cui si deve anche la tabula apposta in calce (negli esemplari dell’Archiginnasio bolognese e della Biblioteca Comunale di Imola) all’edizione dei Consilia di Alessandro Tartagni (Imola, 424 [o 23]-Bologna, 477), 36 maestro del Bolognini, pubblicata a Bologna da Enrico di Colonia il 24 marzo 48. 37 Un’altra tavola, annessa ad un’edizione tardo quattrocentesca, di un’opera di Andrea Barbazza, giurista celeberrimo ai suoi tempi, poi rimasto un poco sottostimato : 38 la Repetitio super titulo De verborum obligationibus, consente di stabilire le diverse forme di indicizzazione delle opere giuridiche. Stampata anch’essa a Bologna per i tipi di Justinianus de Hyrberia (Giustiniano Rubiera), ove apparve il 6 novembre 497, presenta (nella copia conservata all’Archiginnasio) (Fig. 7) annessa una tavola, frutto del lavoro di Giovanni da Monferrato. 39 Questa tavola è organizzata secondo il modo del Repertorium di Pietro da Monte, ma qui è evidente l’ordine secondo il consilium d’apparizione all’interno delle rubriche. Prima di procedere, s’impone una considerazione al fine di capire come questi indici giuridici fossero congegnati e a chi in realtà fossero diretti. Da un punto di vista scientifico essi sono importanti sia sotto il profilo storico, ma anche, relativamente all’epoca nella quale vennero approntati, per l’uso pratico che di essi si faceva come valorizzazione della giurisprudenza medievale, soprattutto tardo quattrocentesca. Nella seconda metà del Quattrocento, in anni considerati di snodo per il declino 265 ; BMC I 69 ; IC 726 ; Madsen 4002 ; Sack : Freiburg 3505 ; Sallander : Uppsala I 984 ; Walsh : Harvard 96, per quella di Strasburgo. 36. Tra i giuristi più eminenti della sua generazione, tenne cattedra, alternativamente, di diritto civile e di diritto canonico nei principali studia del nord Italia : Bologna, Pavia, Padova e Ferrara. Per un’indagine sui Consilia del Tartagni si veda, benché limitato al solo primo volume, Bernardo Pieri, Ricerche sui consilia di Alessandro Tartagni (Libro I), « Studi Parmensi », xliv (999), pp. 279-328. 37. Non è l’editio princeps, ma mantiene, comunque, un suo primato (vedremo il perché tra breve). Per la storia (e il progresso) della stampa dei Consilia del Tartagni (alla fine saranno sette volumi), iniziata a Venezia il 3.XII.477, si veda Aurelius Sabattani, De vita et operibus Alexandri Tartagni de Imola, Milano, Giuffrè, 972, in particolare pp. 98-00. 38. Una accurata messa a fuoco di questo giurista, protagonista di molti famosi ‘scontri’ a suon di consilia col Tartagni, la si deve, da ultimo, ad Anna Laura Trombetti Budriesi, Andrea Barbazza : la carriera di un giurista messinese a Bologna, « Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Province di Romagna », n.s. xxxv (986), pp. 2-6. 39. Poche le notizie che ci è stato possibile rinvenire su questo novello ‘Carneade’ ; ed è fatto piuttosto sorprendente, posto che il Simeoni [Luigi Simeoni, Storia della Università di Bologna. ii, L’Età Moderna (1500-1888), Bologna, Zanichelli, 947, p. 32] classifica questo ‘maestro di decretali’ come quarto nella lista dei professori più pagati dello studium per l’anno 55 (700 lire bolognesi ; inferiori solo alle 900 del filosofo Pietro Pomponazzi e del civilista Bonifacio Fantuzzi, e alle 2.275 [!] dell’altro civilista, l’eminente Carlo Ruini). Vero è che lo stesso Simeoni afferma lo stipendio non essere indicativo del « valore assoluto dei docenti (che talora è in misura inversa del compenso pecuniario !) », ma almeno lo è del valore « relativo, ossia del favore goduto e della notorietà » : il che pretenderebbe una maggiore reperibilità di informazioni su costui. Giovanni da Monferrato fu impegnato ad lecturam Sexti et Clementinarum dal 497, per passare a leggere il Digesto (prima il Novum poi l’Inforziato) nel 503 e tornare successivamente sulle cattedre canonistiche, sempre a Bologna, fino a tutto il 56. Lo ritroviamo in qualità di editore, in Roma, assieme a Rolandus de Burgondia, della Ars Minor di Elio Donato (478 circa) e, successivamente, della Bulla contra Laurentium de Medicis et eius Asseclae di Sisto V. Infine, una Tragedia Nona, Agamennone di Seneca, nella traduzione italiana di Evangelius Fassa è pubblicata a Venezia il 28 gennaio 497 da Petrus de Quaregiis ‘per Johannes de Monteferrato’ (cfr. GW M4469).

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della giurisprudenza del commento, si diffuse il principio della communis opinio dei giuristi. Valutata in base ad un metro qualitativo – da cui l’attenzione al cosiddetto argumentum ab auctoritate, in ragion del quale maggiore era l’auctoritas di cui godeva un giurista tanto più la sua opinione faceva testo sia nella giurisprudenza accademica e speculativa sia nella stessa pratica dei tribunali 40 –, con aspetti anche meramente quantitativi : quanto più erano le auctoritates portate, tanto più era evidente la communis opinio sul tema. Donde la proliferazione, ad esempio nei consilia sapientis, di sterminate enumerazioni di opiniones degli interpreti del diritto. Anche di qui l’esigenza degli indici che nella stampa si esprimevano in sintesi di cui si servivano molti avvocati. Costituivano raccolte di massime, sentenze, brocardi, talvolta, vere e proprie regole di diritto estrapolate dal contesto dell’opera, utili al giurista potendo essere consultate ai fini di una lettura diretta, senza il ricorso al trattato, e al cliente a sostegno o a sfavore delle controdeduzioni di parte avversa, oppure nelle comparse, nei libelli, nelle arringhe. In sostanza avevano un valore a sé stante : rappresentavano atti in soccorso alla cognizione del giudice. Sul rapporto indice-testo del libro giuridico è bene altresì precisare che lo studioso più scrupoloso non si arrestava agli indici ma che, proprio per mezzo di essi, riandava più facilmente al testo con la speranza di approfondire e confortare il tema che gli premeva conoscere, pescando con maggiore facilità nelle ponderose trattazioni tipiche delle opere giurisprudenziali del tempo. 4 Sempre a proposito della loro importanza e su come dessero luogo a un corpus separato dal testo, si ha certezza, almeno per un caso, che l’editore commissionò a Bolognini, il 28 marzo 48, 400 copie della Tabula Consiliorum del Tartagni e che lo stesso Bolognini curò parte della vendita dei Consilia esitandoli l’anno successivo a certo Antonio Tamarozzi al prezzo di « L.352 ». 42 Quanto al fatto che gli indici potessero e possano tuttora essere letti indipendentemente dal trattato cui erano connessi è testimonianza il documento elettronico della sola tavola del Bolognini (‘Tabella in consilia Alexandri de Tartagnis’) conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi. 43 La Nazionale parigina, povera di opere giuridiche del xv secolo, ha avvertito la necessità di dotarsi almeno della riproduzione digitale dell’indice. Chi fossero questi compilatori dei quali è rimasta così visibile traccia è presto detto. Come si è visto, il nome di Ludovico Bolognini spicca sugli altri. Un’intera mono40. La diffusione di questo principio assunse proporzioni tali che si dovette perfino limitarla per legge, come fu fatto, nel 603 dalle portoghesi Ordenaçoes Filipinas (la suggestione romanistica vi era così evidente che furono conosciute come ‘Legge delle citazioni’), con cui si limitava la validità delle allegazioni alle sole di Bartolo da Sassoferrato. 4. Un esempio curioso (ma anche per molti aspetti illuminante) è fornito dalla copia conservata nella Biblioteca Comunale di Imola dell’edizione del primo libro dei Consilia del Tartagni, pubblicata a Bologna da Enrico di Colonia il 3 ottobre 480. Benché l’ esemplare contenga già una tabula molto estesa e accurata, sebbene anonima, organizzata secondo l’ordine alfabetico, ma non delle rubriche, come di consueto, bensì dei lemmi (e.g., Actor ; Alienare ; Alimenta ; Appellatio ; Casus fortuitus ; Civitas ; etc.), l’antico possessore ne ha corredato gli ampi margini con numerose, ulteriori segnalazioni, scritte con splendida grafia umanistica e strenua attenzione. Era così che poi nascevano i grandi apparati d’indici che corredarono le edizioni del Cinquecento. 42. Cfr. Albano Sorbelli, Corpus chartarum Italiae ad rem typographicam pertinentium ab arte inventa ad ann. MDL, volume i. Bologna, a cura di Maria Gioia Tavoni con la collaborazione di Federica Rossi e Paolo Temeroli. Premessa di Anna Maria Giorgetti Vichi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, docc. clxvii (28 marzo 48) e clxxx (4 febbraio 482). Si veda la voce Bolognini nell’indice del Corpus per i restanti documenti che lo vedono coinvolto in qualità di «editore». 43. BNF, Notice n° : FRBBF 37263625.

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grafia illumina su questo singolare e controverso personaggio, definito da Albano Sorbelli un «editore», usando il termine non solo nella sua accezione più filologica. Personaggio ai suoi tempi riverito e ricchissimo, rivestì numerosi e importanti incarichi, politici (Senatore di Roma), giuridici (avvocato concistoriale) e diplomatici (diverse ambascerie di prestigio) presso la corte papale (ebbe legami di parentela sia con Innocenzo VIII sia con Giulio II) ; come maestro fu attivo a Ferrara (dal 473 o ’74) e a Bologna (dal 469, poi di nuovo dal 480). Non dovettero mancargli nemici stante la notizia, riportata da Luigi Frati, 45 della proibizione della vendita di alcune sue opere fatta dai Sedici Riformatori di Bologna nel 46. Il giurista ricevette sempre molti elogi per la sua opera, ma anche – quando non erano incensi agiografici di allievi dai nobili lombi in cerca di prebende – in forma sempre generica. Il Diplovatazio, nel Liber de claris iuris consultis, 46 dal canto suo « disegna un ritratto del nostro Ludovico dal quale nemmeno una linea traspare che possa mettere il clarus iuris consultus fuori della schiera dei bartolisti » 47 (cioè dei giuristi arroccati, per metodo, alla retroguardia) ; e l’Alciati lo bollò come « Ludovicus Bologninus, cuius interpretationes perlegendas ociosis tantum relinquimus », 48 e non è affatto detto – sempre secondo Caprioli – che l’insigne umanista intendesse limitarsi alla ‘malfamata’ repetitio sul De verborum obligationibus. 49 Certo, il personaggio non sembra fatto per restar simpatico, ma doveva essere un lavoratore infaticabile a giudicare dalla attività assidua nelle stamperie bolognesi, con cui rimpolpava le già laute entrate assicurategli dallo stipendio percepito dallo Studio. Bologna, del resto, all’epoca veniva considerata uno dei più importanti centri tipografici d’Italia 50 e il più rilevante per le pubblicazioni giuridiche. 5 Proprio da un confronto degli indici negli incunaboli si può trarre partito per rivalutare positivamente le capacità del Bolognini, forse non così ancorato a posizioni antiquate come certi giudizi taglienti farebbero sospettare. Se si osserva la tabula allegata dal Bolognini ai consilia del Panormitanus (Ferrara, 475, si è visto), si noterà che segue sostanzialmente il principio organizzativo del Repertorium utriusque iuris ; ma 44. Severino Caprioli, Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e filologia nel Quattrocento italiano, Milano, Giuffrè, 969. 45. Luigi Frati, Ludovico Bolognini, in Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna, I, 2, Bologna, Coop. tip. Azzoguidi, 908 (Biblioteca de ‘L’Archiginnasio’, s. i, vol. i, parte i, pp. 7-4) ; si veda anche il recente profilo di Federica Rossi, Dalla storia della stampa alla storia di Bologna : nomi e personaggi desunti da un indice, in A. Sorbelli, Corpus chartarum, cit., pp. 55-83. 46. Thomae Diplovatatius, Liber de claris iuris consultis (pars posterior), cur. Friedrich Schulz, Hermann Kantorowicz, Giuseppe Rabotti, « Studia Gratiana », x (968). 47. S. Caprioli, Indagini sul Bolognini, cit., p. 32. 48. Citato da S. Caprioli, Indagini sul Bolognini, cit., p. 35. 49. Più generoso, per Caprioli, si sarebbe mostrato Matteo Gribaldi Mofa (Novae et subtiles declarationes atque intellectus ... ad varia iuris capita), in appendice a Matthaei Gribaldi Mophae, De methodo ac ratione studendi libri tres. Adiecimus praeter alias Impressiones, eiusdem Gribaldi Capita tresdecim novorum intellectuum & declarationum, a quodam eiusdem autoris studiosissimo habita, Venetiis, mdlix, (al colophon Venetiis, apud Dominicum Lilium), cap. iv, c.02 r, che « ex Pandectis in suis novis interpretationibus » accosta il Bolognini ai maggiori esiti dello Zasio, del Budeo e dell’Alciati stesso. 50. Il quinto, secondo la tavola riportata nel pionieristico lavoro di Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in *Letteratura italiana, ii. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 983, p. 580. 5. Si veda la statistica riportata da Curt F. Bühler, The University and the Press in Fifteenth-Century Bologna, Notre Dame, Indiana, Medieval Institute University of N.D., 958, p. 34 : dei 59 libri stampati a Bologna in quel periodo, 36 sarebbero di argomento giuridico, il 26% della produzione totale bolognese, un vero record.

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Fig. 8. Proemio annesso alla Tabula del Bolognini in Alessandro Targagni, Consilia, Bologna, Enrico di Colonia, 48 (BCAB; coll.: 6.O.I.24, c. [χ]v).

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quando, pochi anni dopo (48), il Bolognini fornisce di una tabula i responsa del suo maestro Tartagni, 52 escogita una indicizzazione affatto originale e molto articolata, adottando una suddivisione delle rubriche 53 in cinque libri, sulla base di quella tipica dei testi del Corpus iuris canonici, a partire dalle Decretales Gregorii IX (234). Un ordine che Ludovico ricalcava su quello d’una sua antica operetta giovanile, il Syllogianthon (472), sedicente flos Decretorum pubblicato dal Nostro il primo anno d’insegnamento sulla cattedra bolognese ordinaria di iura civilia. All’interno delle rubriche, poi, l’ordine, al solito, segue in linea di massima la progressione dei consilia. Il rimando fatto ad ogni lemma è al consilium, secondo il numero d’ordine, con l’indicazione del loco specifico (ossia la colonna) in cui è trattata la questione (e.g., sub ‘Rubrica de rescriptis’ De virtute clausule ex certa scientia et plenitudine potestatis. Allex. ( !) in co[nsilio] i., in ii., vi., vii colum.), di modo da rinvenire il passo – si legge nel proemio alla tabula in cui Bolognini si palesa (Fig. 8) – « breviter et […] celerrime sine magna cartarum revolutione per modum inferius annotatum » mettendo in pratica il medesimo sistema che proporrà il Caramuel del Syntagma nel maturo Seicento. 54 Lo schema del Bolognini, benché così meticolosamente escogitato (o forse proprio per questo), non sembra aver goduto di universali fortune. Certo non era utilizzabile in testi diversi – e meno tematicamente compositi – dalle raccolte di consilia. E in realtà, anche nel caso dei consilia, rilevò il Caprioli, « entro la vecchia botte gregoriana trovi a fermentare un vino che spesso con le Decretali ha poco da spartire », e il significato di questa partizione, nei consilia, « andava oltre le ragioni che [all’epoca del Syllogianthon] lo avevano reso imprescindibile ». 55 Ma le differenze, negli indici annessi

52. L’edizione, come si rileva ictu oculi, apparve marchianamente fallata : il blocco compatto della prima parte della tabula si ripete, con aggiunte ma identico per forma e contenuto, spalmato nelle rubriche dei primi due libri. E già il 28 marzo 48 (quattro giorni dopo la stampa, del 24 marzo, del volume), il tipografo Enrico da Colonia assumeva l’incarico di “stampare per il dott. Lodovico Bolognini 400 copie della Tabula Consiliorum di Alessandro da Imola” (cfr. A. Sorbelli, Corpus chartarum, cit., doc. clxvii). Il tipografo avrebbe adempiuto all’impegno tre anni più tardi, nel 484, pubblicando una emendata editio. 53. Rubrica è il nome tecnico delle singole ‘parti’ in cui erano a loro volta suddivisi i ‘libri’ (generalmente cinque) di un testo di diritto canonico medievale. 54. Nel proemio alla tabula del 484, è aggiunta l’indicazione « cuius sint aliqua consilia in hiis inserta ». 55. S. Caprioli, Indagini sul Bolognini, cit., p. 73.

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Si fornisce di seguito una tabella con le concordanze tra l’ordine della Tabula e quello dei libri legales. Liber Primus* de constitutionibus (E. I, tit. II) de rescriptis (E. I, tit. III) de consuetudine (E. I, tit. IV) de treuga et pace (E. I, tit. XXXIV) de transactionibus 56 (E. I, tit. XXXVI) quod metus causa 57 (E. I, tit. XL) 58 de procuratoribus 59 (E. I, tit. XXXVIII) de in integrum restitutionibus et minoribus 60 (E. I, tit. XLI) 6 de arbitris arbitratoribus (E. I, tit. XLIII) 62 * Cfr. Codex Iustiniani, ll. I-II 56. Cfr. D. 2.5 57. Cfr. D. 4.2 58. Il nome completo del tit., nell’Extra (d’ora in poi E.), è ‘De his, quae vi metusve causa fiunt’ 59. Cfr. D. 3.3 60. Cfr. D. 4. 6. Il nome del tit., nell’E., è semplicemente ‘de in integrum restitutione’ 62. Nell’E. solo ‘de arbitris’ 63. Cfr. D. .5 64. Nell’E., solo ‘de libelli oblatione’ 65. Cfr. D. 22.3 66. Cfr. D. 22.5 67. Nell’E., ‘de testibus et attestationibus’ 68. Cfr. D. 22.4 69. Cfr. D. 22.3 70. Cfr. D. 2.2

Liber Secundus** de iudiciis 63 (E. II, tit. I) de libelli oblatione et citatione (E. II, tit. III) 64 de litis contes tatione (E. II, tit. V) de dilationibus (E. II, tit. VIII) decausapossessionis et proprietatis (E. II, tit. XII) de sequestratione possessionum et fructuum (E. II, tit. XVII) de probationibus 65 (E. II, tit. XIX) de testibus 66 (E. II, tit. XX) 67 de fide instrumentorum 68 (E. II, tit. XXII) de praesumptionibus 69 (E. II, tit. XXIII) de iureiurando 70 (E. II, tit. XXIV) de exceptionibus 7 (E. II, tit. XXV) de praescriptionibus 72 (E. II, tit. XXVI) de re iudicata 73 (E. II, tit. XXVII) 74

Liber Tercius*** Liber Quartus**** de vita et honesta- de sponsalibus te clericorum matri-moniis et (E. III, tit. I) dotibus 83 (E. IV, tit. I) 84 de iure patronatus (E. III, tit. de conditionibus XXXVIII) appositis (E. IV, tit. V) 85 de rebus ecclesie qui filii sint leginon alienantimi dis 76 (E. III, tit. XIII) (E. IV, tit. XVII) de precariis **** Cfr. Codex Iu(E. III, tit. XIV) stiniani, l. V (I. p.) de societate 77 de deposito (E. III, tit. XVI) de emptione et venditione (E. III, tit. XVII) de locato et conducto 78 (E. III, tit. XVIII) de feudis (E. III, tit. XX) de pignoribus (E. III, tit. XXI) 79 de fideiussoribus 80 (E. III, tit. XXII) de donationibus (E. III, tit. XXIV) de testamentis codicillis legatis et inventario (E. III, tit. XXVI) 8 de substitutionibus trebellianica et legittima ( !) 82

de appellationibus *** Cfr. Codex Iu(E. II, tit. XXVIII) 75 de confirmatione stiniani, ll. V (II. p.)VI & VIII utili vel inutili 75. Nel’E. ‘de (E.II, tit.XXX) app., recusa-tionibus

et relationibus’. ** Cfr. Codex Iusti76. Così in VI., niani, ll. III-IV nell’E., ‘de rebus ec7. Cfr. D. 44. clesiae alienandis vel 72. a testo, per non’. due volte, ‘prae77. Manca sia in sumptionibus’73. Cfr. Lib. Extra che nel D. 42. Sextus. 74. Nell’E., ‘de sen78. Cfr. D. 9. tentia et re iudicata’

79. Nell’E., ‘de pignoribus et aliis cautionibus’ 80. Cfr. D. 46. 8. Nell’E., ‘de testamentis et ultimis voluntatibus’. 82. Manca in E. e in VI. In E. col n. XXVII il tit. ‘de successionibus ab intestato’. 83. Cfr. D. 23 84. Nell’E., solamente ‘de sponsalibuis et matrimoniis’. 85. Il nome completo del tit. in E., è ‘de conditionibus appositis in desponsatione vel in aliis contractibus’.

Liber Quintus*****

de accusationibus inquisitionibus denunciationibus et tormentis (E. V, tit. I) 86 de iudeis (E. V, tit. VI) 87 de homicidio (E. V, tit. XII) 88 de furtis 89 (E. V, tit. XVIII) de usuris 90 (E. V, tit. XIX) de crimine falsi (E. V, tit. XX) de privilegiis (E. V, tit. XXXIII) 9 de verborum significatione 92 (E. V, tit. XL) Rubrice extraordinarie93 Explicit tabulae. ***** Cfr. Codex Iustiniani, ll. IX, XIXII & Digesta 50.6 86. Nell’E. il nome è ‘de accusarionibus, inquisitionibus et denunciationibus’ 87. Così in VI., nell’E., ‘de Iudaeis et Sarracenis et eorum servis’ 88. In E., ‘de homicidio voluntario vel casuali’. 89. Cfr. D. 47.2 90. Cfr. D. 22. 9. Così in VI., in E., ‘de privilegiis et excessibus privilegiatorum’ 92. Cfr. D. 50.6 93. 4 § sulla corresponsione degli alimenta, che mancano nel Liber Extra.

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alle diverse opere, non si limitano al ricorso a schemi indicizzatori diversi. Se si esamina, ad esempio, la citata Repetitio super titulo De verborum obligationibus di Andrea Barbazza, 94 nella annessa tabula di Johannes de Monteferrato ritroveremo non solo l’approssimativo ordine alfabetico per prima lettera alfabetica dei vari lemmi, ma un diverso modo di rinvio al passo in esame. Il rimando sarà, infatti, per forza di cose, alla legge (giustinianea) – dal tipografo evidenziata nel testo –, individuata con la prima parola della legge stessa, 95 con il riferimento poi alla colonna e al luogo in cui essa si ritrova nel testo. Si veda, ad esempio, il minuzioso rinvio di questa voce : « Beneficium indultum libertati extenditur ad piam causam multa vide in l[ege] si ita stipulatus in .xv. col[umna] versiculo ultimo in quantum ». È il frammento del Digesto (tratto da Paolo) che oggi individuiamo con D.45..26.3. Prima di concludere, solo un cenno per richiamare l’attenzione sull’importanza anche dei ‘proemi’ alle tabulae, poiché solitamente sono questi stessi a mettere sull’avviso di come l’indice è congegnato e a rivelare spesso il nome del compilatore. Particolarmente eloquente, lo abbiamo visto, quello del Bolognini, nel quarto volume dei Consilia del Tartagni. È interessante leggere anche la « spiegazione che dà Lodovico Bolognini delle ragioni per le quali il tipografo Enrico da Colonia ha stampato la tavola delle questioni di Giovanni d’Anagni con larghi spazi vuoti tra l’una e l’altra questione. 0 gennaio 48 ». 96 Si legge in questo importante elemento paratestuale : Dall’ammirevole ordinamento del contenuto della medesima tavola, non solo potrai cogliere l’argomento principale sul quale verte la quaestio, 97 ma potrai anche facilmente estrapolarne tutti gli elementi particolarmente importanti e degni di rilievo, attentamente raccolti ed accuratamente estratti dal medesimo dottor Ludovico Bolognini il quale promette […] di proseguire a poco a poco, coi medesimi criteri, l’ordinamento dei successivi Consilia di Giovanni d’Anagni. E non stupirti degli spazi vuoti lasciati tra l’una e l’altra quaestio e tra l’una e l’altra rubrica all’interno della presente tavola. Questo accorgimento infatti è stato realizzato appositamente affinché se tu desiderassi aggiungere qualche elemento, tu abbia la possibilità di farlo, con gli stessi criteri o in modo simile, così che questa tavola possa servirti per così dire anche come indice personale. 98

Qualora ce ne fosse ancora bisogno si ha ulteriore conferma di quanto gli indici di 94. Nell’edizione, come detto, del 497, stampata a Bologna da Justinianus de Ruberia. L’esemplare consultato è quello dell’Archiginnasio di Bologna (IGI 243 ; BCAB, 6.O.I.), ove la tavola si trova all’inizio del volume, tra le carte aa e aa2. In analogia con il Gesamtkatalog considereremo il fascicolo dell’indice come finale (x4). Sempre all’Archiginnasio si trova anche l’esemplare dei Consilia del Tartagni cui ci siamo riferiti (IGI 933 ; BCAB, 6.O.I.24) in cui la tabula si trova alla fine, nel fascicolo [x6+], come nella copia della Comunale imolese (A.C.I.G.3.2), presa a confronto (Fig. 9). 95. Talvolta il rinvio è fatto al numero della legge, ma generalmente questo sistema val solo per le prime leggi (prima, secunda ; non ricordo d’aver trovato rinvii a una legge tertia). Vedi, ad esempio, il seguente caso : “An beneficium abstinendi sit de iure pretorio in l. prima in secunda col.”. Può essere interessante sottolineare che la voce d’indice è posta sotto la lettera ‘b’, dato che la parola di riferimento è ‘beneficium’ : questo anche per chiarire come fosse inteso l’ordine alfabetico. 96. Corpus chartarum, cit., doc. clxvi bis, p. 29. 97. Le quaestiones, disputatae o de facto emergentes, furono strumenti utilizzatissimi, per la didattica, dai maestri di diritto e, da sempre, le raccolte di quaestiones rappresentarono i libri più appetiti dagli acquirenti, e dunque, fra i giuridici, i più pubblicati. 98. Traduzione nostra. Per l’importanza dell’ultimo paragrafo che fa di una stampa un luogo di annotazioni per futuri indici si veda nota 4.

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Fig. 9. Tabula di Consilia del Targagni nell’esemplare della Biblioteca Comunale di Imola (coll.: A.C.I.G.3.2, c. aar).

particolari tipologie documentarie costituissero documenti già essi stessi in grado di orientare il lettore all’interno del testo per comprenderne i contenuti. Credo pertanto che una strada da percorrere per altri paleotipi e per prodotti a stampa di secoli successivi sia quella di studiare la tipologia degli indici riferita a spe-

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cifici impianti disciplinari, ossia a generi siano essi letterari o scientifici. Così ha ad esempio ha proceduto Ann Blair per gli indici nei libri di natural philosophy del xvi secolo. 99 Così sarà possibile tentare di spiegare le molte manifestazioni con cui essi vennero elaborandosi con lo scopo ben preciso, ovvero « p[er] aconcio | de lo lectore che desiderasse | legiere piu in uno luocho che nellaltro |… », come recita parte del proemio della tavola della princeps commentata dei Trionfi, stampata a Bologna da Annibale Malpigli nel 475. Abstract L’autrice ha preso a riferimento dapprima la bibliografia italiana e straniera su aspetti rilevanti nello studio degli indici negli incunaboli, portando a conferma di alcune tesi numerosa documentazione, e contribuendo ad enunciare nuovi orientamenti di ricerca, sempre saldamente ancorati ad ampia esemplificazione. Nella consapevolezza che gli indici, agli albori della stampa, si presentano con varia casistica, nella stragrande maggioranza dei casi, strettamente coniugata all’opera o a edizioni che prendono a modello manifestazioni a stampa ad iniziare dalla princeps, ha indugiato sul libro giuridico dei primordi e sulle forme della sua indicizzazione. Ha potuto così rilevare che gli indici risultano diversi da edizione a edizione, non solo in relazione alle diverse parti del Corpus iuris messe sotto i torchi, ma a seconda delle esigenze di stampa, e sulla base delle competenze dei singoli compilatori. The author took, first of all, the Italian and the foreign bibliography concerning considerable aspects in the study of incunabula indexes as a reference, introducing many papers in order to confirm some theories and contributing to express new research directions, always adding many examples. She was aware that indexes at printing dawn offer a rich survey, in most cases closely connected to the work or to editions that take printing projects as a model, to begin with the princeps, for this reason she lingered on the beginnings legal book and on its indexing shapes. She was able, this way, to point out that indexes result to be different from edition to edition, not only as regards various pressed parts of the Corpus iuris, but depending on printing requirements and according to the skills of individual editors.

99. Incentrato sul rapporto tra marginalia, commonplace books e avvento degli indici nelle scienze naturali è il suo contributo Annotating and indexing natural philosophy, in *Books and the sciences in history, edited by Marina Frasca-Spada and Nick Jardine, Cambridge, cup, 2000, pp. 69-89. Non è la prima volta che mi imbatto in testi giuridici di difficile interpretazione. Sempre mi ha aiutato la mano esperta e amica del collega Andrea Padovani. A lui e a Bernardo Pieri, per la competente pazienza esprimo calorosa gratitudine che estendono al collega Neil Harris per aver letto il testo con tale acribia da indurmi a migliorarlo nella stesura definitiva. A Marco Guardo, direttore della Biblioteca dell’Accademia dei Lincei o Corsiniana, e a Stephen Parkin, Curator, Italian Printed Collections 50-850 della British Library il mio più grato pensiero per avermi agevolato nelle incursioni all’interno delle rispettive biblioteche.

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Françoise Waquet I RINGRAZIAMENTI : L’ORALE NELLO SCRITTO *

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ra i testi parodistici che costituiscono una buona parte del Secondo diario minimo di Umberto Eco, nella sezione Istruzioni per l’uso, figura un brano intitolato « Come scrivere una introduzione » dove, in realtà, egli non spiega come scrivere una introduzione, ma propone una sorta di pastiche dei ringraziamenti che gli autori collocano in apertura o in chiusura dei loro scritti. Queste espressioni di gratitudine sono definite sin dalle prime righe pezzi di bravura e insieme pezzi d’obbligo. Scrive Umberto Eco: « L’abilità nel formulare i ringraziamenti caratterizza lo studioso di classe ».  E più avanti : « Può accadere che qualche studioso, al termine della propria fatica, scopra che non deve ringraziare nessuno. Non importa, si inventi dei debiti. Una ricerca senza debiti è sospetta e qualcuno va sempre e in qualche modo ringraziato ». Segue, lungo due pagine, l’enumerazione dei nomi delle istituzioni e delle persone grazie alle quali si è potuto portare a compimento il lavoro : università italiane e straniere, segretarie, moglie, figli, editori, amici. Un’apposita menzione precisa la natura dell’aiuto, intellettuale, materiale o morale, prestato sia da un singolo sia da un gruppo, mentre un qualificativo pertinente ne sottolinea l’importanza : sarà la “preziosa collaborazione” di una segretaria, l’“assistenza continua” della moglie, “l’affettuosa insistenza” degli amici. Per le università da ringraziare non occorrono precisazioni, bastano i nomi – quanto c’è di meglio in Italia e negli Stati Uniti. Nomi che sottolineano la notorietà dell’autore, ribadita peraltro con discrezione quando si procede a elencare le collaboratrici – mai meno di tre – di cui si segnala una importante funzione : aver fatto in modo che l’autore « non fosse importunato da telefonate transoceaniche di invito a congressi sugli argomenti più svariati e più lontani dai [suoi] interessi ». Dopo di che, per ridimensionare il proprio ruolo e per far meglio risaltare gli aiuti ricevuti, l’autore definisce “modesto” il suo personale contributo ; anzi, mentre lo dichiara con umiltà, si fa anche carico di tutta la responsabilità scientifica fino ad attribuirsi ogni eventuale pecca o demerito – e sul mea culpa si chiude il testo. Questa rivendicazione di modestia non esclude un sussulto di vanità in nome di una modernità tecnologica che rafforza il prestigio di chi scrive. Il testo, infatti, che è datato al 987 quando quasi tutto il mondo intellettuale era ancora fermo alla macchina da scrivere , comprende un paragrafo in cui si ringraziano due società che hanno fornito rispettivamente l’attrezzatura informatica e un programma di trattamento del testo. I familiari chiudono la lista delle persone e istituzioni cui va la riconoscenza dell’autore : moglie e figli hanno diritto a un paragrafo commisurato all’importanza che lo studioso riconosce ai suoi congiunti : senza di loro infatti l’opera non sarebbe mai stata portata a buon fine. Citare la famiglia può aprire uno spiraglio sull’uomo privato ; ad esempio su un * Descrivere una pratica non vieta di utilizzarla. Al contrario : un lavoro come questo, che accresce la consapevolezza dell’aiuto prestatoci da altri, mi impone il dovere di ringraziare tutti coloro che mi hanno generosamente aiutata nel corso della presente ricerca. . Questa citazione e le successive sono tratte da : Umberto Eco, Il secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 2004.

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padre che non apprezza particolarmente il modo di acconciarsi i capelli degli amici dei suoi figli ; un testo dal tono tutto sommato ufficiale può lasciare spazio a qualche battuta di spirito ; in tal caso l’autore ironizza garbatamente su se stesso dichiarandosi « uno studioso continuamente ossessionato dai massimi problemi dell’essere ». Umberto Eco presenta questo contributo insieme con gli altri riuniti nella stessa sezione come « un contributo all’analisi della stupidità che ci sommerge nella cultura e nella vita quotidiana ». « In questo senso », prosegue, « sono scritti realistici, se realismo significa descrivere ciò che esiste e ciò che si vede ». 2 A questo punto lascerò Umberto Eco alla sua indignazione e al suo giudizio di valore sulla « stupidità degli altri » per occuparmi di « ciò che esiste e che si vede ». Ciò che esiste e che si vede è una pratica largamente diffusa : essa obbedisce, per citare ancora Eco, a « regole ormai invalse nell’etichetta accademica ». 3 Si forma così una categoria di testi perfettamente definita per poter essere oggetto di parodia oggetto di parodia. Eppure, sino ad ora, i ringraziamenti non hanno dato luogo a studi specifici intesi a tracciarne la storia e ad identificare le “regole” utili per redigerli nel modo migliore. 4 E proprio questo mi sforzerò di fare, tentando di dimostrare come una forma consueta di civiltà – dire grazie a chi ti aiuta – sia diventata un genere e, nei casi da me studiati, un genere universitario. 5 Altrove ho trattato la funzione dei ringraziamenti, degli effetti attesi o provocati da questi testi che rivelano il “nostro” mondo o addirittura ce ne offrono una sintesi. 6 Qui ne analizzerò un aspetto : la scrittura. Mettendo l’accento sulle numerose citazioni riguardanti le attività di parola contenute nei testi di ringraziamento, insisterò tuttavia, a partire da questo genere scritto, sulla dimensione orale, anch’essa inerente al mondo intellettuale. Le osservazioni che mi accingo a fare si fondano su un corpus di documenti così definito. Ho proceduto allo spoglio dell’intera I Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome (Béfar). 7 Questa collezione, che incomincia ad essere pubblicata nel 877 e consta oggi di più di trecento volumi, mi offriva la possibilità di cogliere anche l’evolversi delle forme di ringraziamento. Ho esaminato inoltre circa cinquecento pubblicazioni che avevo sottomano : soprattutto lavori di scienze umane e sociali editi in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti durante gli anni 970 e seguenti. 2. Ivi, prefazione dell’edizione francese, Paris, Grasset, 997, p. ii. 3. U. Eco, Il secondo diario minimo..., cit., p. 05. 4. L’opera collettiva Il paratesto, a cura di Cristina Demaria e Riccardo Fedriga (Milano, Edizioni Silvestre Bonnard, 200) riserva una mezza pagina al testo liminare “ringraziamenti”. La bibliografia compilata da Paolo Tinti per un programma di ricerche italiano sul paratesto non segnala alcuno studio specifico dedicato ai ringraziamenti. I brevi accenni contenuti nell’articolo di Gérard Noiriel, L’Univers historique, Une collection d’histoire à travers son paratexte (1970-1993), ripubblicato in Sur la “crise” de l’histoire, Paris, Belin, 996, p. 305 e in un saggio di Anthony Grafton (Les origines tragiques de l’érudition. Une histoire de la note en bas de page, Paris, Seuil, 998 [ed. orig. : Harvard University Press, 997], p. 6) lasciano intravedere l’interesse dell’argomento, cui accenna anche Sam Roberts nell’articolo On Acknowledgments, the Inquisition Was Easier, apparso nel « New York Times », 27 novembre 2003. 5. Troviamo infatti dei ringraziamenti in qualsiasi tipo di scritti, scientifici e non. 6. Rimando al mio articolo Acknowledgments : instructions for use, di prossima pubblicazione in « Modern Intellectual History ». 7. In realtà, fra il n°  e il 307, ho esaminato soltanto 296 volumi, poiché i n° 6, 228, 244, 250, 270-27, 298-300, 302, 305-306 risultano mancanti nella due biblioteche dove ho consultato questa collezione di testi. I volumi della Béfar sono citati soltanto con il loro numero. Dato che i ringraziamenti sono facilmente localizzabili, non ho fatto seguire la citazione di un’opera, tranne per poche eccezioni, da una nota a pie’ di pagina.

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Quest’ultimo gruppo di opere mi ha permesso di allargare e integrare il mio campo di indagine ; in certi casi vi ho anche trovato la spiegazione di pratiche che si danno abitualmente per scontate. Infine – e sempre con gli stessi intenti – ho tenuto conto di altri lavori che alcuni colleghi mi hanno segnalato perché presentavano un particolare interesse. . I ringraziamenti : come si è costituito e affermato un genere Convinta che i ringraziamenti fossero un’abitudine “moderna”, pensavo che, a incominciare dagli anni 877, avrei assistito all’instaurazione di un genere, se non alla sua invenzione. Ma, in questo, mi sbagliavo. Il primo ringraziamento che ho trovato – sarebbe troppo lungo riepilogare qui un processo in cui caso e intuizione sono andati di pari passo – figura in un’opera datata al 599 : nel tomo VIII degli Annales ecclesiastici del cardinale Baronio. È un testo autonomo intitolato Gratiarum actio, completamente distinto dalla dedica. Ne riporto, a grandi linee, il contenuto, espresso in una prosa involuta, appesantita da citazioni bibliche. Baronio ringrazia Filippo Neri per avergli affidato quel progetto di storia della Chiesa, per averlo guidato con i suoi consigli e sostenuto con pazienza. Allora che il suo maestro è morto, egli può fare l’elogio di un uomo che era avversario degli elogi e proclamare pubblicamente, per non mostrarsi ingrato, tutto ciò che gli deve. Filippo Neri ha tracciato il progetto dell’opera, lo ha affidato al suo umile discepolo che egli ha continuato ad assistere e incoraggiare pur senza risparmiargli, se del caso, qualche richiamo all’ordine. Ma grandissimi sono stati i benefici ricevuti ed il ringraziamento, pur tanto inadeguato, rammenterà ai lettori dell’opera chi ne è il vero autore, chi deve essere ringraziato. 8 In seguito la produzione erudita francese dei secoli xvii e xviii mi ha fornito numerose occorrenze. I fratelli de Sainte-Marthe, nella terza ed ultima sezione della prefazione alla Gallia christiana (656) citano con riconoscenza tutti coloro che, in Francia o all’estero, hanno fatto sì che quel ponderoso lavoro potesse vedere la luce. Nuovi ringraziamenti nella nuova edizione del 75 curata da un loro discendente. Du Cange, nella prefazione del Glossarium mediae et infimae latinitatis, e, per l’esattezza, nella sezione lxxx, enumera e ringrazia tutti coloro che definisce come suoi adjutores nel compimento dell’impresa. Le successive edizioni di questo dizionario (733-736 e 766) dovute ai monaci benedettini contengono delle prefazioni che si concludono con nuovi ringraziamenti. Mabillon riserva la terza parte della prefazione al De re diplomatica (686) a ricordare i nomi delle persone che, a diverso titolo, gli sono state prodighe del loro aiuto. Dom Plancher che, nella storia benedettina delle province francesi, ha provveduto ai volumi sulla Borgogna, ringrazia, alla fine della prefazione del tomo i (739), tutti coloro di cui è “debitore” – i nomi occupano ben due pagine in folio – e conclude rivolgendo un ringraziamento particolare a un confratello che gli « è venuto in aiuto e [lo] ha sollevato dai compiti più sgradevoli durante la fase di stampa ». Adrien Baillet, in un libro di un genere diverso, la Vie de Monsieur Des-Cartes (696), dedica non meno di tredici pagine della prefazione a ringraziare coloro che gli avevano fatto avere dei documenti o degli elementi di informazione. Per chiudere 8. Questo testo è stato pubblicato in traduzione italiana in un saggio di Hubert Jedin che insiste sulla ricostruzione della storia della Chiesa compiuta da Baronio e riconosce negli Annales un’opera concepita a Roma per rispondere ai Centuriatori di Magdeburgo (Il cardinale Cesare Baronio, L’inizio della storiografia ecclesiastica nel sedicesimo secolo, Brescia, Morcelliana, 982 [ed. orig. : Aschendorff, 978], pp. 38-39 e 75-78).

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l’elenco citerò un’opera anch’essa ben nota, ma inerente a un diverso ordine di cose, il Traité de la police del commissario Delamare. La prefazione del Traité termina elogiando le “persone compiacenti” – citate una per una – che hanno facilitato il lavoro di documentazione ed esprimendo la “pubblica riconoscenza” dell’autore nei confronti di due “intimi amici” che lo hanno aiutato “più di chiunque altro”. Sono incline a pensare che queste occorrenze – che ho potuto reperire soltanto grazie libero accesso ai libri in una biblioteca specializzata, quella dell’ École des chartes – non siano esempi rari e isolati. Il programma metodico di ricerca sul paratesto recentemente lanciato in Italia porterà certo a superare questi miei sporadici riferimenti che, salvo nel caso degli Annales di Baronio, sono stati reperiti soltanto in ambito francese. L’iniziativa italiana permetterà anche di ricostruire lo sviluppo e l’evoluzione di questa pratica durante i secoli xviii e xix. 9 Ritornando alla Béfar : soltanto nel n° 34 si trova una prima occorrenza consistente in un paragrafo specifico posto alla fine della premessa. Ignoro che cosa abbia indotto l’autore a ringraziare esplicitamente coloro che gli hanno “risparmiato tempo e fatica”, così come non so per quale ragione non abbiano fatto la stessa cosa gli studiosi che lo precedono nella collezione. Da questo volume in poi la presenza dei ringraziamenti va aumentando : ne troviamo in un volume su tre nei numeri dal 34 al 50 (887), in un volume su due nei numeri dal 5 al 00 (908), in due volumi su tre nei numeri dal 0 al 50 (94) ; negli anni successivi la pratica è quasi generale poiché circa nove volumi su dieci contengono dei ringraziamenti. Da questo conteggio risulta un altro dato : anche se in numero esiguo, esistono degli autori che non ringraziano e la cosa non vale soltanto per la Béfar. Spiegare questa scelta non è facile, se non altro perché chi non ringrazia non ce ne dice il motivo. Tuttavia alcuni manuali e vari siti web di università americane forniscono delle regole per redigere una tesi alcune delle quali suggeriscono una spiegazione alla mancanza di ringraziamenti. Se, in generale, si tende a raccomandare la consuetudine dei ringraziamenti, d’altra parte si afferma che non sempre è d’obbligo ringraziare ; si precisa inoltre che, se l’aiuto prestato all’autore fa parte di “una certa routine”, non si ritiene necessario esprimere alcun ringraziamento. 0 Mentre nella lista dei ringraziamenti per una tesi si usa riservare al relatore un posto di rilievo, Umberto Eco, nell’ormai famoso Come si fa una tesi di laurea esprime un parere del tutto opposto : « È di cattivo gusto ringraziare il relatore ». « Se vi ha aiutato » – si noti, per inciso, l’uso di una forma condizionale –, « ha fatto solo il suo dovere ».  Una posizione simile, che tuttavia lascerebbe supporre una intenzione corruttrice, traspare dal regolamento formulato dall’università di Leida in materia di tesi di laurea : all’articolo 30, sezione 4, leggiamo che « la tesi, in particolare, la prefazione e la postfazione non conterranno testimonianze di gratitudine nei confronti di coloro che partecipano alla valutazione della tesi ». Queste norme implicano alcune conseguenze. In un lavoro del 200 il professore Harm Jan van Dam dichiara : « quando, quindici anni fa, ho pubblicato un 9. Per fare un esempio : Antoine-Alexandre Barbier nella sezione viii del « Discours préliminaire » che precede il suo Dictionnaire des ouvrages anonymes et pseudonymes (i ed. 806-808) ringrazia ben settantanove « persone viventi o morte da poco che [lo] hanno aiutato nella composizione di [quel] dizionario ». 0. Citiamo due esempi : Daniel Fondanèche, Guide pratique pour rédiger un mémoire de maîtrise, de DEA ou une thèse, Paris, Vuibert, 999, p. 50 ; Kate L. Turabian, A Manual for Writers, University of Chicago Press, 9875, p. 3. . Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, 977, pp. 97-98.

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altro libro, le consuetudini (mores) vigenti a Leida mi hanno impedito di ringraziare i miei maestri dell’università per tutto quello che avevo imparato da loro ». 2 Tranne che per le tesi, non ho trovato nessun’altra spiegazione esplicita delle ragioni che inducono un autore a non scrivere i ringraziamenti ; si dovrebbe indagare nelle biografie personali per chiarire un’assenza che, ridotta ormai ad eccezione, è, per dirla con Umberto Eco, decisamente “sospetta”. C’è però una antica riflessione sull’argomento che merita la nostra attenzione. Adrien Baillet, dopo avere testimoniato pubblicamente la propria gratitudine alle persone che lo avevano aiutato mentre scriveva la biografia di Descartes, avanzava la possibilità di fare il contrario. « Un uomo più prudente di me avrebbe forse dissimulato tutti questi importanti aiuti per apparire più originale agli occhi dei lettori ». 3 La riflessione di Baillet può essere avvicinata ad una constatazione, questa volta assai più recente, che troviamo nella recensione di David Wootton all’ultima opera di Quentin Skinner, i tre volumi di Visions of politics (2002). Il recensore fa notare il lavoro di revisione e di riscrittura che Skinner ha affrontato in questa antologia di articoli pubblicati in un arco di circa quarant’anni. Poi, confrontando i nuovi testi con gli originali, osserva, fra l’altro, che l’autore « ha cancellato i debiti personali e intellettuali. In apertura di uno dei primi articoli, un testo su Hobbes, si trovava un ringraziamento caloroso al relatore della sua tesi, Peter Laslett […] Non c’è nulla in quei volumi che indichi il legame di Skinner con Laslett ». 4 Nello stesso tempo Wootton sottolinea il valore di “nuova ortodossia”, di paradigma per una nuova storia delle idee rappresentato da quest’opera. In tal caso cancellare i propri debiti farebbe parte di una strategia autoriale, ovvero dell’intenzione di costruire una persona che postulerebbe una irriducibile originalità. Una stessa ragione potrebbe spiegare altrove l’assenza di ringraziamenti. Ciò non vuol dire che riconoscere i debiti verso chi ci ha aiutato e quindi ringraziare significhi dar prova di banalità intellettuale. 2. Norme vaghe e contradditorie Scrivere dei ringraziamenti è oggi una consuetudine universale. Lo si fa dovunque – nel mondo occidentale, ma anche in Cina e in Giappone. Questi testi figurano in qualsiasi tipo di lavori, nei libri – dattiloscritti o stampati –, ma anche negli articoli e nelle relazioni. Per giunta, un ringraziamento iniziale o finale non esclude riconoscimenti particolari o supplementari messi in nota. Si tratta dunque di un uso corrente. Ma non così strettamente ed esplicitamente regolato come si potrebbe pensare. I suggerimenti e le prescrizioni presenti negli scritti normativi che riguardano i ringraziamenti sono sempre brevi, spesso vaghi e alle volte contraddittori. Non esistono criteri fissi per il posto e la presentazione tipografica : i testi possono essere messi all’inizio del libro, dopo la pagina del titolo, ma anche alla fine, prima dell’indice : quest’ultima collocazione risponde solo a norme americane ; in tal caso ai ringraziamenti è riservata una pagina apposita con un titolo specifico. È altresì possibile inserirli in una premessa o anche nell’introduzione, naturalmente alla fine, 2. Nell’edizione del De imperio di Grozio curata da Van Dam (Leiden, Brill, 200, prefazione) ; l’opera precedente è la sua tesi pubblicata nel 984 presso lo stesso editore. Per il “Promotiereglement” dell’università di Leida, si veda il sito www.promoveren.leidenuniv.nl. 3. Adrien Baillet, La vie de Monsieur Des-Cartes, Paris, Daniel Horthemels, 696, i parte, p. xxv. 4. David Wootton, The Hard Look Back, « tls », 4 marzo 2003, pp. 8-0 (cit., p. 9 e 0).

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oppure in nota o in calce all’introduzione. Accade assai di rado che tali possibilità siano spiegate con chiarezza. Segnaliamo tuttavia il caso di un autore che, pur dichiarando di preferire una pagina riservata soltanto ad essi, riconosce che « per motivi di discrezione o per guadagnare spazio » i ringraziamenti possono trovare posto nella premessa o alla fine dell’introduzione, anche se si rischia, a suo giudizio, di « metterli troppo in ombra ». 5 Di parere contrario è un altro autore che si rivolge a un pubblico più vasto di quello dei laureandi o dottorandi alle prese con la tesi : anziché dedicare ai ringraziamenti una intera pagina, egli preferisce come « decisamente più elegante e meno solenne includerli in una premessa o in una avvertenza facendoli precedere da tre asterischi disposti a triangolo » ; tale scelta si accorda inoltre con la raccomandazione di evitare “il cumulo” dei testi introduttivi e conclusivi. 6 Anche il contenuto dei ringraziamenti – peraltro sempre più lunghi – è definito sommariamente. Si dovrà ringraziare coloro che hanno contribuito alla realizzazione del libro ; ma “in modo diretto” aggiunge un autore che così motiva la precisazione : « un marito (o una moglie) dovrà essere ringraziato per la sua reale collaborazione e non per le prove di affetto ». 7 Assai rare sono le indicazioni riguardanti sia le persone da ringraziare sia i modi per distinguere coloro che hanno prestato un aiuto più rilevante (da ringraziarsi « esplicitamente e per nome ») dagli altri – meno importanti – ai quali ci si dovrà rivolgere « collettivamente o riunendoli in gruppi omogenei ». 8 Tutte le guide e i manuali che ho consultato concordano sulla necessità di essere brevi e stigmatizzano ogni eccesso o ostentazione ; su questa linea consigliano di usare toni sobri e di bandire i toni enfatici o patetici, a incominciare dal plurale majestatis. In una di queste pubblicazioni si raccomanda la “finezza” (“finesse”) e l’originalità e quindi non si propongono esempi tipici ai quali richiamarsi. 9 D’altra parte non se ne citano neppure in altri testi dove, tutt’al più, si consiglia di sfogliare le tesi dei predecessori : 20 soluzione che molti hanno adottato e adottano spontaneamente. Non esiste dunque un insieme di regole per determinare in modo inequivocabile il posto, la composizione, la scrittura dei ringraziamenti, per consolidare queste forme brevi in forme fisse. Tuttavia, leggendo i testi, appare chiaro che essi obbediscono a una serie di regole. Si tratti di precetti espliciti o taciti, legati o meno a un vero e proprio apprendimento, essi sono in ogni caso reali e condivisi dalla comunità scientifica. Si fa in un dato modo e mai si potrebbe fare in un altro. A questo punto è bene tornare alla pratica.

5. Jean Claude Rouveyran, Le guide de la thèse. Le guide du mémoire. Du projet à la soutenance. Règles et traditions universitaires. Techniques actuelles : traitement de texte, CD-ROM et Internet, Paris, Maisonneuve et Larose, 999, p. 69. 6. Benoît Patar, Dictionnaire actuel de l’art d’écrire, Paris, Fides, 995, pp. 369 e 37 ; si tratta di uno strumento di lavoro destinato ai ricercatori, agli specialisti della scrittura e al grande pubblico. 7. Ivi, p. 369. 8. J.-C. Rouveyran, Le guide de la thèse..., cit., p. 68 ; si veda, sulla necessità di esprimere e precisare il ringraziamento, Simone Dreyfus, Laurence Nicolas-Vullierme, La thèse de doctorat et le mémoire. Étude méthodologique (sciences juridiques et politiques), Paris, Éditions Cujas, 20003 (ed. orig : 97), p. 276. 9. J.-C. Rouveyran, Le guide de la thèse..., cit., p. 69. 20. Consiglio che vale sia per i ringraziamenti sia per le dediche (François Besançon, Votre première publication. Comment construire et exposer votre première publication : thèse, mémoire, article de médecine ou de biologie, Paris, Expansion scientifique française, 9803 [éd. orig. 973], p. 99).

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3. Al posto giusto Non è indispensabile che ai ringraziamenti sia riservato un testo autonomo. Se vogliamo attenerci ai testi della Béfar, questo procedimento risulta tanto raro quanto tardivo. Nel 978, nel volume 236, appaiono per la prima volta due pagine stampate separatamente con il titolo « Ringraziamenti » composto in maiuscole : una scelta che non ha seguito, visto che, andando avanti, se ne incontra un solo esempio nel 985 (n° 257). Di solito i ringraziamenti si trovano in una premessa, in una introduzione o in una prefazione in cui l’autore presenta l’argomento del libro e descrive il proprio itinerario di ricerca ; per l’esattezza, i ringraziamenti si trovano alla fine di un testo di apertura, disposti in uno o più paragrafi distinti, ma non necessariamente separati da un segno tipografico. Questo primo caso di disposizione, che è anche di gran lunga il più frequente, ammette alcune variazioni : anziché essere accantonati all’ultimo posto, i ringraziamenti sono inseriti separatamente mano a mano che si procede nella descrizione della ricerca (n° 23) ; oppure non figurano nei diversi tipi di premessa, bensì in una nota (n° 00, 20), talvolta in due (n° 74) ; in questa posizione si incontra una variante, unico esempio nel suo genere : una pagina speciale di ringraziamenti intitolata « Appendice dell’introduzione » (n° 240) ; e, per finire, vi sono casi in cui i ringraziamenti entrano a far parte sia della premessa, sia dell’introduzione o della prefazione, sia di una nota riservata ad un debito specifico (n° 49, 38, 29). C’è anche un secondo modo di presentarli. In questo caso occupano interamente o quasi un testo liminare che tuttavia non si intitola « Ringraziamenti », bensì « Premessa », « Prefazione » o « Avvertenza » (n° 98, 0, 3 ed anche 290, 292, 307), oppure è addirittura privo del titolo (n° 08, 5, 57, 84, 237, 259). I ringraziamenti non hanno dunque un solo posto, fisso e assoluto ; sono però assai pochi – e sempre gli stessi – i luoghi dove possono essere collocati. Ciò che vale per la Béfar vale anche per altre collezioni di testi contemporanee. In molti casi, come si è detto, si trovano alla fine di un liminare chiamato « Prefazione » o « Introduzione » oppure « Premessa ». La disposizione dei ringraziamenti riscontrata nelle grandi opere della letteratura erudita francese del xvii secolo è dunque tuttora in vigore. E sarebbe stata comune nel xx secolo agli inizi degli anni 960 se vogliamo prestar fede alle parole dello storico britannico Denys Hay che, nel saggio The Italian Renaissance in its Historical Background (Cambridge University Press, 96), così scrive : « I ringraziamenti si mettono di solito alla fine della prefazione. Noi, invece, dobbiamo metterli all’inizio ». Questo posto ordinario rimanda al libro “classico” quale è stato descritto, nel 927, dal bibliografo belga Paul Otlet ; nella sezione riservata alla prefazione, lo studioso precisa che essa riguarda, fra l’altro, i ringraziamenti. 2 È possibile che i ringraziamenti non figurino nel corpo del testo introduttivo, ma in una nota generalmente collocata in posizione finale : basti per tutti l’esempio di Fernand Braudel che così ha presentato la sua “liste des dettes”, l’elenco dei debiti contratti durante le ricerche preparatorie per La Méditerranée. Il secondo modello di presentazione è un testo autonomo intitolato o non « Ringraziamenti » ; questa forma è largamente presente nelle pubblicazioni americane, 2. « La prefazione concerne : º l’origine dell’opera ; 2º l’aspetto ; 3º le relazioni con le opere precedenti dell’autore o con altre opere ; 4º l’indicazione dei collaboratori e dei ringraziamenti ; 5º le condizioni di lavoro dell’autore » (Paul Otlet, Traité de documentation.Le livre sur le livre, Liège, Centre de lecture publique de la Communauté française de Belgique, 989 [éd. orig. : Bruxelles, 924], p. 4).

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mentre si incontra molto più di rado nelle edizioni francesi e italiane contemporanee. La pagina – o, talvolta, le pagine – di ringraziamento figurano di solito all’inizio della pubblicazione, dopo la pagina con il titolo, una eventuale dedica e, meno di consueto, l’indice generale. Ho notato poi un certo numero di casi particolari : si incontrano, anche se di rado, dei ringraziamenti posti sul verso della pagina che porta il titolo o della pagina di introduzione oppure nella stessa pagina della dedica.22 In quanto testo autonomo, i ringraziamenti figurano anche, ma in casi ancora più rari, alla fine del libro, fra il testo o le note e l’indice, fra l’indice e i crediti per le illustrazioni.23 I ringraziamenti non sono dunque una unità testuale né occupano un posto fisso nel libro, tutt’altro. Eppure vi hanno una loro rilevanza che si manifesta in vari modi. Alle volte, in maniera diretta, per mezzo del titolo : ovvero il termine “ringraziamenti” – con i suoi equivalenti nelle lingue straniere – che li indica designandoli specificamente e, se così si può dire, duplicandoli, poiché quella titolatura è ripresa nell’indice degli argomenti. Nella maggior parte dei casi in modo indiretto, poiché i ringraziamenti non sono preceduti da un titolo o ne portano uno che non si riferisce loro specificamente (« Premessa », « Avvertenza », « Nota introduttiva », « Prefazione », ecc.) oppure fanno parte di una unità testuale più vasta. 24 Di fatto il lettore li individua sulla base dei posti che occupano abitualmente ; quando non è possibile farlo, si ricorre ad una apposita indicazione per evitare che i ringraziamenti vengano “affogati” in un testo di diversa natura. 25 Vi sono poi dei procedimenti tipografici – l’uso di caratteri di corpo piccolo o di caratteri corsivi – che concorrono a metterli in evidenza attirando l’attenzione del lettore. Questi artifici tecnici permettono alle volte di introdurre sottili variazioni, quando, ad esempio, in una stessa pagina in cui coesistono dedica e ringraziamenti, il primo testo è in caratteri corsivi mentre il secondo è in caratteri romani ; così il lettore non confonderà i due diversi destinatari e, fin dal primo sguardo, saprà bene ciò che spetta all’uno e all’altro. 26 È ovvio che i ringraziamenti siano messi in evidenza : sono il luogo in cui un autore decide di dire, di far sapere ciò che potrebbe rimanere inespresso, di non accontentarsi delle manifestazioni di gratitudine comunicate per lettera o a voce mano a mano che riceveva aiuti o facilitazioni durante la stesura del suo libro. I ringraziamenti che appaiono nella pubblicazione sono invece scritti a lavoro ultimato. Una guida alla re22. Per degli esempi di questi diversi tipi di figure, si vedano in successione : L’image de l’Italie dans les lettres allemandes et françaises au XVIIIE siècle. Actes du colloque international Strasbourg 16-18 septembre 1992, Gonthier-Louis Fink, ed. (Recherches germaniques, n° 4, s. l. n. d.) ; La Grèce au féminin, sous la direction de Nicole Loraux, Paris, Les Belles Lettres, 2003 (ed. orig. : Bari, 993) ; Louise Godard de Donville, Signification de la mode sous Louis XIII,Aix-en-Provence, Édisud, 978. 23. Per un esempio di ringraziamenti posti alla fine della pubblicazione fra l’indice e le tavole delle illustrazioni, si veda Natalie Zemon Davis, Essai sur le don dans la France du XVIE siècle. Paris, Seuil, 2003 (ed. orig. : University of Wisconsin Press, 2003), p. 265-266. 24. Il libro di Roger Hahn (L’anatomie d’une institution scientifique. L’Académie des sciences de Paris, 16661803. Bruxelles, Édition des archives contemporaines, 993 ; [ed. orig. : University of California Press, 97] offre il caso rarissimo di ringraziamenti che, costituendo una sezione di un liminare intitolato « Premessa », presentano il titolo specifico « Ringraziamenti » (p. xix). 25. Yannick Seité ha indicato con un sottotitolo specifico (« Ringraziamenti ») i due brevi paragrafi di ringraziamenti che ha inserito nel corpo della lunghissima introduzione al suo saggio Du livre au lire. La Nouvelle Héloïse, roman des lumières, Paris, Champion, 2002, p. 24. 26. Un esempio per tutti : Elisabetta Graziosi, Avventuriere a Bologna. Due storie esemplari, Modena, Mucchi, 998, non pag.

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dazione della tesi li include nelle “rifiniture”. Una forma un po’ banale ma consueta di iniziare i ringraziamenti è : “e per finire”, “al termine della mia fatica”, “nel momento di dare alle stampe”, come si può leggere a più riprese nella Béfar. Giunto alla fase finale del suo lavoro, l’autore ha deciso, scrivendo dei ringraziamenti, di rendere palese, pubblica una pratica di servizio privata. In questo modo non solo si rivolge a colui che ringrazia, ma anche al destinatario dell’opera, come provano certe formule introduttive ai ringraziamenti, quali : “nel momento di affidare al pubblico questo lavoro” (n° 47), “prima che il lettore inizi questo libro” (n° 296), oppure questa formula conclusiva in cui uno studioso, dopo avere ringraziato il direttore della collezione, esprime la speranza che i lettori saranno altrettanto grati all’autore. 28 4. La scrittura della gratitudine Per scrivere i ringraziamenti, un testo diventato quasi d’obbligo, i manuali normativi raccomandano, come si è visto, i toni della “sobrietà” e mettono in guardia contro i rischi del pathos e dell’enfasi. Esortano inoltre alla “finezza” e alla “originalità”. Tuttavia, non si può dire che, nella pratica, gli autori abbiano sempre seguito i buoni consigli e gli utili avvertimenti. In molti casi la “disposizione” degli elementi che li compongono si presenta in forme stereotipate. L’autore va dall’elemento più importante al meno importante o viceversa ; procede per ordine alfabetico o per gruppi omogenei oppure segue un ordine storico ; può precisare o meno l’aiuto che gli è stato prestato. Inoltre si avvale di un vocabolario abbastanza limitato. In questi testi ritornano sempre le stesse parole : i sostantivi “gratitudine”, “riconoscenza” ; gli aggettivi “vivi”, “calorosi” qualificano i ringraziamenti con inalterabile ripetitività. Esiste inoltre una serie di formule correnti in cui l’autore fa professione di modestia e attesta il proprio debito di riconoscenza. Del resto, come si potrebbe fare altrimenti ? La riserva linguistica non è inesauribile e l’ispirazione personale si nutre spesso spigolando fra i ringraziamenti già formulati da altri. Il margine di manovra è poi ulteriormente ridotto dal numero scarsissimo delle situazioni – fra l’altro sempre le stesse – che ci si trova ad affrontare. Alcuni autori tuttavia sono usciti dalla banalità : hanno cercato di dare una impronta personale anche a questa parte del loro lavoro e, con diversa fortuna, hanno dato prova di originalità. Il mezzo più comodo consiste nell’evocare fatti, episodi, momenti che hanno segnato i rapporti, gli scambi con la persona o le persone cui va il loro ringraziamento. Ad esempio, nel n°294 della Béfar, in un ringraziamento rivolto a Claude Nicolet, si legge : « Voglio dirgli che ricordo ancora quel martedì pomeriggio del novembre 970 in cui l’aspirante storico fu accolto nel suo seminario dell’École pratique des hautes études con una simpatia che non si è mai più smentita ». L’allusione a vicende private diversifica necessariamente queste forme da altre più correnti, ma il fatto di essere così personalizzate non costituisce di per sé una finezza stilistica. Un altro modo per dare prova di originalità è l’umorismo. Si pensi a Umberto Eco quando, nel suo testo parodistico, racconta lo stratagemma della moglie che serve all’autore-marito un succo di mela al posto di un whisky. Sfogliando la Béfar è raro incontrare un autore che si permetta un tratto di spirito di questo genere. Tuttavia nel ricordo personale che traggo dal n° 294 balena un lampo di umorismo quando si 27. F. Besançon, Votre première publication..., cit., p. 98-99. 28. Maria Grazia Accorsi, Pastori e teatro. Poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 999, p. 7.

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scopre che l’aspirante storico ha impiegato ventisette anni per diventare autore e che è riuscito a pubblicare il suo lavoro soltanto grazie all’« amichevole e ferma insistenza » del già citato Claude Nicolet. Un tono divertito si coglie anche nel volume 295, intitolato La France et le Concile de Trente : qui i ringraziamenti vanno alla famiglia e agli amici “che hanno sopportato in letizia la convivenza con i padri tridentini, fortunatamente meno lunga del concilio stesso”. Ma la collezione, nell’insieme, è dominata dai toni della serietà, atteggiamento condiviso, mutatis mutandis, anche dagli autori contemporanei inclini ad adottare lo stile sobrio e, in certi casi, persino leggermente compassato dei loro predecessori ; il che fa meglio risaltare l’originalità – davvero estrema – dei ringraziamenti del volume 304, debordanti di vivacità e di fantasia, dove si intrecciano reminiscenze letterarie, travestimenti alla greca e rivendicazioni femministe. Uno dei luoghi in cui gli autori hanno voluto dar prova di originalità è la parte conclusiva dei ringraziamenti. Spesso finiscono in modo abbastanza convenzionale. Altrettanto spesso l’autore chiude con una espressione generica di gratitudine ; altre volte nomina la persona che ritiene gli abbia dato l’aiuto più importante ; in certi casi la citazione si prolunga in dedica. Molto sovente, nella conclusione, l’autore usa espressioni di modestia riguardo al proprio lavoro o di speranza nella sua utilità futura. Ma alcuni sono riusciti a conferire alla conclusione una impronta più personale, dando una intonazione originale a schemi ormai standardizzati ; essi obbediscono ai precetti della retorica classica, far leva sugli affetti del lettore, toccarne la sensibilità o ispirargli pensieri elevati. Si noti la volontà di rendere giustizia a un maestro scomparso che anima queste parole di omaggio : « è giusto attribuire la sua parte di merito a chi non è più fra noi per vederla riconosciuta » (n° 49), od anche l’amore filiale che induce a suggellare il testo citando il “primo” e il « più amato dei maestri, mio padre che, con il suo saggio equilibrio e la sua lucida intelligenza del passato mi ha dato una lezione che avrò sempre presente nella vita » (n° 33). E come non approvare il discepolo riconoscente quando cita il maestro che lo aveva esortato alla ricerca di qualche « scheggia di verità » (n° 24). O non apprezzare la lezione di umanità che ci trasmette l’autore del volume 23 ? Lo studioso, ricordando l’accoglienza riservatagli in Morea sia dai notabili del luogo sia dalla gente del popolo, così conclude : « ciò che ho imparato da loro è, per me, quanto di più prezioso ho acquisito durante quegli anni di ricerca ». Allo stesso modo saremo toccati dal sentimento di gioia intima espresso da un uomo di studio che, dopo avere passato quattro anni e mezzo sotto le armi, così ringrazia la John Rylands Library a Manchester dove ha trovato « dopo la guerra, un angolino pieno di libri in cui si sta tanto bene a lavorare » (n° 2). È forte l’espressione : « garanzia di obiettività », sulla quale si chiude il volume 28. È goffo il calco letterario che conclude i ringraziamenti del volume 224 : « Queste righe vadano dunque a coloro che mi sono vicini nella memoria del cuore, ai miei amici Italiani e a quella Città di cui preferisco l’aria marina, il monte Palatino e il Tevere latino ». Questi esempi di originalità, per di più limitati nel numero e nell’ampiezza, non possono farci dimenticare che i ringraziamenti – pezzi quasi obbligati per natura e per posizione – non sono certo, nella maggior parte dei casi, pezzi di bravura. Infatti ci sorge un dubbio : l’abilità nel formularli di cui dà prova Umberto Eco non potrebbe riguardare il loro contenuto anziché lo stile che li orna ?

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5. La retorica dell’elogio e della modestia I ringraziamenti ci mostrano un mondo esemplare, perfettamente funzionante. Le notazioni che gettano un’ombra su questa immagine rosea sono assai poche, per lo più rapide allusioni. Certi autori accennano alle difficoltà incontrate per portare a compimento il loro lavoro, dovute a motivi personali o professionali ; oppure lamentano i problemi sorti per accedere ad archivi da consultare, per far ricerca in una biblioteca, per effettuare una campagna di scavi, per corredare il testo delle illustrazioni desiderate. Ed anche in questi casi che – lo ripeto – sono poco numerosi, gli autori procedono cautamente e sempre in tono conciliante. Orest Ranum ringrazia gli editori di Paris in the Age of Absolutism (New York, John Wiley & Sons, 968) per l’atteggiamento « paziente ed amichevole quando non ci siamo trovati d’accordo sul numero delle illustrazioni che il libro doveva contenere ». Ancora più rari i casi in cui si esprimono apertamente delle differenze di opinioni ; 29 ma, anche quando i rapporti non sono stati dei migliori, prevale quasi sempre, nei testi, l’aspetto costruttivo e positivo. Agnès Rouveret, nel ringraziare i membri della commissione con cui ha discusso la sua tesi, accenna alle “critiche” che, in quella circostanza, le « ha opposto il professor Pierre Gros », e così prosegue : « oserò dire che non tutte mi hanno convinta sino in fondo ? » per poi concludere che, in ogni caso, ne ha tenuto conto : « In questa versione definitiva spero di avere approfondito l’analisi di tutti i punti in cui le nostre opinioni divergevano » (Béfar, n° 274). I problemi e le riserve smentiscono dunque l’immagine levigata e impeccabile che trasmettono in generale i ringraziamenti. Tuttavia le rarissime occasioni in cui appaiono notazioni critiche o polemiche – in numero certamente inferiore alla realtà delle cose – esse testimoniano la volontà degli autori, nell’accingersi a ringraziare, di dare l’immagine di un mondo idealizzato, sognato, riconciliato. Un mondo che spesso si circonda di un alone di eccellenza. Alcuni autori, come Umberto Eco nella sua parodia, citano le istituzioni prestigiose che li hanno formati o accolti, le borse di studio o gli inviti altamente qualificanti di cui possono fregiarsi. L’itinerario di ricerca dello studioso assume i toni e i colori di una marcia trionfale ; nella Béfar, ad esempio, esso si snoda in alcune tappe successive : École normale supérieure, École française de Rome o d’Athènes, Sorbonne o cnrs. Ma c’è di più : il luminoso percorso si è svolto sotto l’auspicio dei grandi nomi della disciplina, sempre accuratamente citati. Nel caso di autori già affermati, sono altri elementi a darci la stessa impressione : l’enumerazione dei luoghi dove hanno tenuto dei corsi o delle conferenze, tutti di grande prestigio scientifico. Senza alcun dubbio infatti Thomas Pavel, per scrivere La pensée du roman (Paris, Gallimard, 2003), ha tratto molti spunti ed elementi dai « corsi […] tenuti all’università di Princeton fra il 989 e il 995 e all’università di Chicago nel 200, così come [dalle] conferenze pronunciate all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, a Villa Gillet (Lione), alla Columbia University, alle università di Chicago, di Cosenza, di Digione, dell’ Illinois (UrbanaChampaign), dell’ Indiana (Bloomington), di Montreal (McGill), di Paris-iii, di Parisiv, di Stanford e di Yale ». Tutti luoghi destinati a fare una grande impressione su un 29. Un esempio : la rapida citazione che Gorge Huppert riserva a Roland Mousnier nei ringraziamenti per Les Bourgeois Gentilshommes (University of Chicago Press, 997, p. xi) : « Non posso non citare Roland Mousnier anche se i nostri brevi incontri hanno avuto un andamento conflittuale ».

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lettore che, naturalmente, conosce bene la geografia di quel mondo ; sono infatti in gran parte luoghi prestigiosi fra i quali i nomi di Cosenza e di Digione potrebbero quasi mettere una nota di “esotismo chic”. Accade anche che l’autore non si limiti a citare unicamente i nomi delle persone e delle istituzioni che lo hanno aiutato, ma che, nella logica del genere dimostrativo, associ al nome un vero e proprio elogio, fondato sulle qualità specifiche di una certa categoria di persone o di determinate istituzioni, qualità presentate nella loro più alta espressione. Sfogliando i volumi della Béfar si incontrano soltanto maestri dotti e benevoli, colleghi attenti e disponibili, amici sicuri ed efficienti, istituzioni generose e collezioni liberalmente aperte. Mutatis mutandis, gli stessi qualificativi si trovano nei “primi” testi di ringraziamenti che ho rintracciato nel xvii secolo. Questi aggettivi appartengono in realtà ad un insieme di topoi che si è formato nell’età d’oro della Repubblica delle Lettere ; le parole benevolenza, cortesia, liberalità, umanità e i loro sinonimi sono stati usati per definire il modo di comportarsi del perfetto dotto che promuove e facilita la comunicazione del sapere. 30 L’eccellenza degli altri risalta ancora maggiormente in quanto l’autore presenta se stesso con accenti di modestia. In certi casi, fin dall’esordio dei ringraziamenti, egli ammette la propria infirmitas. Il primo testo che si rileva nella Béfar (n° 34) inizia così : “Questo libro, modesto com’è, è costato tempo e fatica”. Anche se le parole “modesto” o “modestia” non vi appaiono, si trovano delle frasi introduttive analoghe in cui al riconoscimento per gli aiuti prestati fa riscontro l’“incapacità” dell’autore. Le formule d’uso, impiegate molto frequentemente, ammettono numerose varianti. Eccone alcune : « Non avrei potuto intraprendere questo lavoro né portarlo a termine senza i benevoli appoggi e i contributi disinteressati che mi sono stati offerti… » (n° 06) ; « Desidero soprattutto che il mio libro non appaia indegno dei dotti maestri […] : senza il loro insegnamento e la loro amicizia non solo non avrei potuto scriverlo, ma non sarei neppure riuscito a concepirne il progetto» (n° 0) ; « Non avrei potuto portare a termine questo studio senza i numerosi aiuti che ho ricevuto » (n° 37) ; « Davvero ad ogni passo della mia ricerca ho sentito fortemente che non sarei stato in grado di compierla senza l’aiuto… » (n° 40). Alcuni autori toccano l’iperbole : uno arriva a dichiarare senza mezzi termini che, se dovesse ringraziare tutti quelli verso i quali è in debito, a lui non resterebbe alcun credito. 3 Un ringraziamento può chiudersi anche contrapponendo la “mediocrità” del risultato all’importanza dell’aiuto, si tratti del contributo fondamentale di una sola persona che va citata, secondo il protocollo, per ultima, o invece dell’insieme di coloro che hanno aiutato l’autore. Bastino due esempi tratti dalla Béfar : « Se il libro manca di rigore o di vita, la colpa non sarà certo del grande studioso che mi ha sostenuto sia con la sua lucida e rigorosa intelligenza, sia con il vigore e il calore del suo affetto » (n° 68), e : « Mi auguro che questo lavoro non sembri troppo indegno di tanti contributi a un tempo preziosi e benevoli » (n° 3). Quasi sempre l’autore esprime questo atteggiamento di modestia ammettendo i propri limiti e la propria inadeguatezza. Riconosce anche che l’opera sarebbe stata peggiore senza il concorso degli altri o, invece, migliore, se avesse seguito più attentamente i consigli di chi lo ha aiutato ; ma, 30. Paul Dibon, Communication in the Respublica literaria, in Regards sur la Hollande du siècle d’or, Napoli, Vivarium, 990, pp. 60-62. 3. Michael Warner, The Letters of the Republic. Publication and the Public Sphere in Eighteenth-Century America, Harvard University Press, 990, p. xv.

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in primo luogo, egli si assume tutta la responsabilità delle imperfezioni, degli errori di ignoranza, di fatto o di interpretazione che il libro può contenere. Simili espressioni di modestia sono diventate così frequenti da indurre un autore a manifestare apertamente il senso di fastidio che suscitano in lui. George Huppert così esordisce scrivendo i ringraziamenti per Les Bourgeois Gentilshommes (University of Chicago Press, 977) : « Non arriverò ad affermare, seguendo un uso convenzionale, che questo libro non sarebbe stato scritto se non avessi avuto il sostegno morale di amici e di colleghi tanto numerosi da non poterli nominare tutti. Non sento affatto il bisogno di esprimere la mia sorpresa sottolineando la sproporzione fra le mie deboli risorse e il brillante esito del risultato finale ». 32 La convenzione che lo storico americano contesta risale in realtà ad un uso molto antico. La retorica classica raccomandava di inserire nell’esordio del discorso una formula di modestia. All’oratore, che doveva suscitare nel pubblico una disposizione favorevole nei propri confronti, si suggeriva di assumere un atteggiamento improntato a modestia, di riconoscere la propria “pochezza” e confessare il timore di non essere all’altezza del proprio compito ; avrebbe provocato nell’uditorio un moto di simpatia, lo slancio che si prova verso chi è in difficoltà. Le formule di modestia potevano figurare nel corpo del discorso o, meglio ancora, alla fine per far leva sulle passioni degli ascoltatori a quel punto già ben “riscaldate”. Ernst Robert Curtius ha notato che queste « formule […] hanno avuto una vastissima diffusione, inizialmente nella letteratura dell’Antichità tardo-pagana e cristiana, poi nella letteratura latina volgare del Medioevo ». 33 Ma la loro fortuna è andata ben oltre come risulta dai ringraziamenti di certi libri moderni dove troviamo, nelle forme più svariate, numerose formulazioni del topos della modestia. È chiaro che, grazie ad un atteggiamento improntato alla modestia, l’autore fa meglio risaltare le qualità eminenti di coloro che, a titoli diversi, lo hanno aiutato e, nello stesso tempo, accresce l’importanza dell’elogio. Non solo, ma con un uso appropriato di questo topos lo scrittore persegue, più o meno coscientemente, un altro scopo : conquistare, fin dall’inizio, la simpatia dei lettori che spera non terranno troppo conto delle sue manchevolezze per apprezzare invece – e ancora di più – il valore di ciò che ha fatto. 6. La memoria della parola Nell’atto stesso di formulare i ringraziamenti, gli autori palesano, proprio alla soglia dei loro scritti, la dimensione orale che definisce anche il mondo letterato. 34 Il maggior numero di ringraziamenti riguarda delle persone : individui o gruppi che gli autori hanno ascoltato o con i quali hanno parlato. È quasi una costante citare le conversazioni con un maestro, con un personaggio autorevole, con un collega o un amico ; e si va dai colloqui formali alle discussioni a briglia sciolta, dagli incontri occasionali ai dialoghi regolari, a tu per tu o al telefono : ce ne dà testimonianza David Bell nel rivolgere un ringraziamento a un amico che era stato per lui « un critico sa32. I ringraziamenti non sono stati tradotti nell’edizione francese (Paris, Flammarion, 983) 33. Ernst Robert Curtius, European Literature and the Latin Middle Ages, New York, Pantheon Books, 953 (ed. orig. : Bern, 948), pp. 79 e 83-85 (cit., p. 83) ; Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 989, pp. 65-66. 34. Françoise Waquet, Parler comme un livre. L’oralité et le savoir, XVIE-XXE siècle, Paris, Albin Michel, 2003.

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gace e una fonte inesauribile di idee nonché… di gravose bollette telefoniche ». 35 Nei ringraziamenti sono spesso citati sia le conversazioni a due sia gli scambi fruttuosi che si stabiliscono all’interno di un gruppo di amici. Charles de La Roncière evoca i « dialoghi fecondi » di « un gruppo cosmopolita di studiosi » che negli anni 970-980 facevano le loro ricerche all’Archivio di Stato di Firenze e le discussioni che si protraevano per le scale, sotto i portici degli Uffizi e, più a lungo, « nei bar vicini, vere succursali – ma assai più alla buona – dell’Archivio di Stato » ; questa testimonianza, che molte altre potrebbero corroborare, ci autorizza ad affermare che, in quegli anni, una parte della storia del Rinascimento italiano è stata elaborata nella bottega del lattaio di via Lambertesca. 36 L’esempio tratto da La Roncière ci dice che certe dotte conversazioni non si sono svolte soltanto in luoghi istituzionali, ma anche nei café o durante gli spostamenti – a piedi o sui mezzi di trasporto pubblici –, come ci riferisce Frances Yates. 37 Così diversi tipi di conversazione, individuali o non, permeano tutto il libro che, alla fine, appare come « il risultato di una discussione ininterrotta, di un frequente confronto di idee ». 38 I ringraziamenti racchiudono e trasmettono inoltre il ricordo di altre occasioni di scambi orali, in questi casi di tipo formale, a incominciare dai corsi e dai seminari. Nelle tesi, ad esempio, numerosi ringraziamenti riguardano il contributo dei docenti, l’importanza della formazione e, nell’esempio che ho scelto per l’occasione, il ricordo lasciato da un maestro. « Vorrei onorare qui il mio debito nei confronti di Henri-Irénée Marrou » scrive Marc Reydellet. « Alla Sorbona ho seguito incantato le sue lezioni… » (Béfar, n° 243). Nei ringraziamenti si fa cenno anche ai corsi tenuti dagli autori e di conseguenza all’aiuto tratto dalle reazioni degli studenti e degli uditori. « Il debito maggiore è forse quello che ho verso gli studenti ai quali ho insegnato dal 965 in poi », scrive Geoffrey Parker in Europe in Crisis, 1598-1648 (London, Fontana Press, 979). « La maggior parte delle idee di questo libro sono state sviluppate durante dei corsi e dei tutorials e corrette sulla scorta dei commenti e delle critiche che hanno provocato… ». Questo tipo di ringraziamenti che sovverte il rapporto fra docenti e allievi sta diventando sempre più frequente. I ringraziamenti si presentano anche in altri contesti di oralità formale : gruppi di discussione, conferenze e convegni di ogni genere. Gli autori insistono sulle circostanze in cui hanno presentato una versione antecedente del loro lavoro e « passato al vaglio le loro ipotesi » ; perciò esprimono viva gratitudine a chiunque abbia contribuito con delle osservazioni, degli appunti o delle critiche. Questo uso – anch’esso apparentemente in aumento – si riscontra più spesso negli articoli che nei libri, come risulta dalla lettura degli ultimi numeri dell’« American Historical Review ». 39 Oltre 35. David A. Bell, Lawyers and Citizens. The Making of a Political Elite in the Old Regime France, Oxford University Press, 994, p. xi. 36. Charles-Marie de La Roncière, Prix et salaires à Florence au XIVE siècle (1280-1380), Rome, École française de Rome, 982, p. v. 37. Frances Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, Routledge and Kegan Paul, 964, p. xii. 38. Fabio Tarzia, Libri e rivoluzioni. Figure e mentalità nella Roma di fine Ancien Régime (1770-1800), Milano, Franco Angeli, 2000, p. 7. 39. Citiamo due esempi particolarmente eloquenti : Alice Stroup, A Company of scientists. Botany, Patronage and Community at the Seventeenth-Century Parisian Royal Academy of Sciences, University of California Press, 990, pp. xiv-xv ; Elizabeth L. Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change. Communications and Cultural Transformations in Early Modern Europe, Cambridge University Press, 979, pp. xvii-xix.

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alle conversazioni e ad altre espressioni orali specificamente formali come i corsi e i convegni è opportuno ricordare i ringraziamenti – fra i più diffusi – che riguardano, in generale, i consigli e gli incoraggiamenti ricevuti dall’autore. Infatti i ringraziamenti espressi per iscritto sono stati manifestati almeno altrettante volte a viva voce. Molti esempi di diversi aiuti orali sono contenuti nelle brevi righe che John Scheid ha premesso alla propria tesi di dottorato : Le discussioni di carattere generale o i dibattiti eruditi sono stati per me una fonte inesauribile di arricchimento e di approfondimenti. Mi è impossibile dare qui il giusto riconoscimento a tutti coloro che hanno contribuito al buon esito del mio progetto, mi limiterò dunque a nominarne soltanto alcuni. Georges Dumézil che è stato per ben dieci anni un interlocutore attento ed incisivo ed ha contribuito a far maturare il mio pensiero. Jean-Pierre Vernant che non mi ha mai fatto mancare stimoli e incoraggiamenti sia con i suoi scritti sia con il suo insegnamento ; senza dimenticare l’apporto di quanti hanno partecipato ai miei seminari presso l’e.p.h.e. : grazie alle loro perplessità e ai loro suggerimenti ho potuto infatti evitare più di un errore (Béfar, n° 275).

Oltre a riconoscere tutto quello che hanno tratto dagli scambi verbali, alcuni autori hanno persino ricondotto lo spunto iniziale dei loro scritti ad una occasione di oralità – un corso o un dibattito. « A René Cagnat dobbiamo l’idea originaria di questo lavoro ; ci fu suggerita dal suo insegnamento al Collège de France… », così leggiamo, a sostegno del primo caso, nel n° 87 della Béfar. « All’origine delle mie ricerche sta una conversazione con Michel Mollat » è la frase che traiamo dal n° 2 in appoggio al secondo caso. Il ruolo determinante dell’oralità trova una conferma ulteriore nelle parole di una studiosa che, elencando i suoi crediti, così si esprime : « una idea fondamentale di questo libro si è cristallizzata nel dialogo che ho avuto con… ». 40 A riprova di questa funzione cruciale, teniamo a riferire la citazione speciale che Thomas Kuhn, nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, riserva all’“interlocutore fecondo” Stanley Cavell, già suo collega a Berkeley, « l’unica persona con la quale io sia riuscito ad esplorare le mie idee nella forma di frasi incomplete. Questa forma di comprensione gli ha consentito di indicarmi la via per superare o aggirare alcuni ostacoli che incontrai mentre preparavo la prima stesura del manoscritto ». 4 Un accadimento del genere, che porta a una soluzione decisiva, può dipendere anche da una “osservazione fortuita”, come ci ricorda, in un testo di ringraziamento, l’antropologo americano Edward Hall : tale osservazione « alle volte fornisce il legame comune a linee di pensiero disparate che l’autore cerca di unificare ». 42 Il fatto che certe opere scritte rivendichino “tratti fortemente discorsivi” può dunque spiegarsi con una genesi orale. Nei ringraziamenti posti all’inizio di Agire comunicativo e logica delle scienze sociali Jürgen Habermas ricorda che il suo libro è nato da una serie di conferenze tenute presso università tedesche ed americane, in particolare dalle “stimolanti discussioni” con studenti e colleghi ; ma aggiunge che nel suo saggio « si rispecchia lo stile argomentativo del nostro gruppo di lavoro all’Istituto di Starnberg » [Max Planck Institut für Sozialwissenschaften]. « Nei colloqui del giovedì 40. Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 987, p. 0. 4. N.d.t. : Françoise Waquet cita dalla traduzione francese (Paris, Flammarion, 99, p. 5), mentre io mi sono attenuta alla versione italiana : Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 999, 4, p. 4. 42. Edward T. Hall, La danse de la vie. Temps culturel, temps vécu, Paris, Seuil, 984 (ed. orig. : New York, 983) p. 9.

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[…] sono state discusse diverse parti del manoscritto in un modo per me fecondo » e, a questo proposito, afferma : « istruttivi sono stati anche i colloqui con i colleghi che […] si sono trattenuti più a lungo nell’Istituto o che […] lo hanno frequentato regolarmente ». 43 Nulla di strano dunque che i riferimenti a conversazioni e ad altre forme di parola portino a confermare l’incomparabile forza cognitiva dell’oralità. La funzione determinante e primaria della parola nell’invenzione del sapere è espressa in modo eccellente nei ringraziamenti che Giancarlo Mazzacurati ha premesso a Il Rinascimento dei moderni (Bologna, Il Mulino, 985). « Un libro, prima di diventare l’oggetto un po’ estraneo che ci torna dalle tipografie […] nella forma congelata e irredimibile che gli dà l’ultima confezione, nel tempo delle concezione e della costruzione è stato spesso uno strumento di colloquio, talvolta esplicito, talvolta segreto e privato come un monologo. A me ad esempio capita, mentre seguo un pensiero nebuloso o formulo un’ipotesi che sento di non controllare in tutte le implicazioni, di fingermi un’assise di lettori ; e cerco talvolta di anticipare, altre volte di aggirare le loro prevedibili reazioni, per quel tanto che conosco della loro storia intellettuale, della loro opinione intorno agli oggetti che sto a mia volta attraversando ». E prosegue ringraziando tutti coloro che fanno parte di questa “assise”, il « piccolo cenacolo mentale di volti familiari ed amati o di intellettuali anche remoti che abbiano tuttavia crediti da vantare nei confronti delle mie ricerche e del loro orizzonte ». Questo modo di concepire il dialogo che si svolge fra lo studioso e gli altri componenti del gruppo durante l’elaborazione intellettuale dell’opera sfocia in una vera e propria celebrazione della parola opposta alla forma “congelata e irredimibile” del libro. Una simile visione rafforza la consapevolezza che il lavoro scientifico ha una intrinseca natura collettiva. Più ancora che nelle note a pie’ di pagina, dove si elencano le letture inerenti al testo e i debiti nei confronti dei predecessori, è nei ringraziamenti che si mette in evidenza la solidarietà intellettuale nel progresso del sapere. I ringraziamenti provano dunque quanto sia illusoria l’opposizione retorica fra lavoro individuale e lavoro collettivo. A questo punto è opportuno richiamare la giusta osservazione che apre la premessa scritta da Louis Dermigny per la sua tesi di dottorato. Proprio quando si incominciava a mettere in discussione la tradizione del capolavoro, lo storico francese poneva immediatamente la domanda : « Lavoro personale o ricerca collettiva ? » E rispondeva : « Un’opera è sempre collettiva nella misura in cui è la precisa e concreta emanazione di un insieme di influenze e di amicizie che, coniugando l’esempio dei più anziani con l’attenzione dei più giovani, dà vita e continuità a quel dialogo incessante e molteplice senza il quale nulla potrebbe essere portato validamente a buon fine ». Seguono tre pagine di ringraziamenti a testimonianza dell’“ispirazione autenticamente collettiva” del lavoro da lui intrapreso. 44 Leggendo questi ringraziamenti, così come molti altri, ci si rende conto che scrivere dei ringraziamenti significa assai di più che compiere un gesto di civiltà ; significa agire in nome di una solidarietà concreta che sta al centro dell’incremento del sapere.

43. N.d.t. : cito il passo corrispondente traendolo dalla traduzione italiana : Jürgen Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 9872, pp. 48-49. 44. Louis Dermigny, La Chine et l’Occident. Le commerce à Canton au XVIIIE siècle, 1719-1883, Paris, sevpen, 964, t. i, p. i.

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Abstract I “ringraziamenti” costituiscono oggi una parte pressoché obbligata degli scritti scientifici. Purtroppo, non sono stati oggetto di studi specifici che potessero descriverne la storia e analizzarne la funzione. In questo contesto mi limiterò al loro stile e analizzerò le regole utilizzate per la loro redazione. Tutto ciò per mostrare come una forma ordinaria di civiltà – ringraziare chi offre aiuto – è diventata un genere e, nel caso da me studiato, un genere universitario. Quindi, soffermandomi sulle numerose menzioni di attività di parole che i ringraziamenti contengono, insisterò, a partire da questo genere scritto, sulla dimensione orale, propria anche del mondo intellettuale. Le osservazioni da me fatte poggiano su una base documentaria di circa un migliaio di opere raccolte nell’ambito delle scienze umane e sociali. Nowadays «Acknowledgments» are a nearly obligatory section when writing scientific articles. Unfortunately they have never been the subject of specific studies that describe their history and analyze their function. In this context I will limit myself to describing the history and analyzing the rules followed for editing them. This will reveal how an ordinary form of civility – thanking those who have offered help – has become a genre and in the case I have studied, academic. Thus, examining the frequent mention of word activities contained in Acknowledgments, beginning with the written genre, I will focus on oral aspects, that of the intellectual world to be precise. My observations are based on a documentary foundation of nearly a million works collected in the field of humanities and social sciences.

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Claudia Cieri Via L’IMMAGINE PARATESTUALE FRA RITRATTO E BIOGRAFIA

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lc une considerazioni sul ruolo dell’immagine nei dintorni del testo verteranno sugli aspetti da una parte compositivi e strutturali dall’altra significanti e simbolici. I primi fanno riferimento alla semiotica strutturalista i secondi all’iconologia intertestuale/ipertestuale e contestuale. Infatti l’immagine paratestuale è generalmente caratterizzata da una funzione codificatoria che si esprime ora nell’abbreviazione e nell’essenzialità iconica, ora nel valore allegorico e/o simbolico dell’immagine in rapporto alla parola e al soggetto/ contenuto del testo. Non si prenderà pertanto in considerazione il ruolo illustrativo/descrittivo dell’immagine rispetto al testo che risponde ad una dinamica ulteriore e che nell’ambito della cultura rinascimentale trova fra gli esempi più significativi, le numerose edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio, a partire dalla prima stampa in volgare del 497. (Fig. ) Infatti le esigenze narrative e la tradizione iconografica da una parte e gli aspetti tecnici delle xilografie, insieme al riutilizzo dei legni nelle edizioni successive, che corredano il poema ovidiano, dall’altra aprirebbero problematiche diverse sia a livello interpretativo che tecnico, allontanandosi dalle riflessioni sul ruolo dell’immagine nel sistema paratestuale. Ma proprio a proposito delle edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio vorrei solo menzionare l’importante ricerca di Aby Warburg che confluì in una mostra tenutasi nel 927 alla Kulturwissen schaftlichen Bibliothek di Amburgo nella quale lo studioso tedesco metteva a punto un sistema intertestuale e ipertestuale della dialettica fra parola e immagine che veniva visualizzato su delle tavole alle quali possiamo attribuire un carattere paratestuale, dove il sistema mnemonico e quello semiotico – strutturale, (all’insegna dell’esclamazione « Vom vort zum Bild ») convivono attraverso un linguaggio iconico-testuale che, nel confronto e nella rispondenza fra i testi, le illustrazioni dei testi e le immagini, confluirà nel grande progetto dell’Atlante della Memoria-Mnemosyne.  (Fig. 2) Con riferimento all’insegnamento teorico warburghiano dunque le mie riflessioni sul ruolo dell’immagine nel sistema paratestuale si rivolgerà essenzialmente ai frontespizi e alle immagini dedicatarie, vale a dire al sistema delle dediche. Il rapporto, che nella pagina figurata si viene ad instaurare fra parola e immagine, chiama in causa le diverse tradizioni che attraversano la cultura umanistica con finalità ora filologiche e filosofiche (che fanno capo alla tradizione dei geroglifici e alla loro “falsa” interpretazione simbolica nella cultura quattrocentesca),2 ora encomiastiche e celebrative (implicite nell’araldica e nell’impresistica), ora etiche e morali (che . A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini, a cura di M. Warnke, C. Brink, ed. it. a cura di M. Ghelardi, Torino, Nino Aragno Editore, 2002. 2. K. Giehlow, Hieroglyphica. La conoscenza umanistica dei geroglifici nell’allegoria del Rinascimento. Una ipotesi, (ed. or. 95) ed. it. a cura di M. Ghepardi, S. Muller, Torino, Nino Aragno editore, 2004.

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caratterizzano l’emblematica) ora erudite e codificatorie (che vanno a confluire nel sistema allegorico e mnemonico delle personificazioni). 4 Nello specifico prenderò esemplificativamente in considerazione i seguenti punti, procedendo poi a degli approfondimenti su casi specifici a verifica e a dimostrazione degli assunti iniziali : a) Aspetti compositivi e strutturali – La costruzione della pagina figurata e il rapporto con l’impianto/apparato decorativo dipinto – Il ruolo enunciativo delle immagini in rapporto all’Autore e/ o al contenuto del testo b) Aspetti significanti e simbolici – Il valore significante dell’immagine nell’apparato testuale e in rapporto con altre immagini paratestuali – Il valore significante dell’immagine nell’apparato testuale e in rapporto esplicativo e/o di derivazione con le opere d’arte Il ritratto di Carlo V fra biografia e simbolismo Il frontespizio che apre la Vita di Carlo V scritta da Ludovico Dolce e stampata a Venezia nel 567 è opera di Enea Vico (Fig. 3). 5 Al centro il ritratto clipeato dell’imperatore posto di tre quarti, è derivato dal modello del dipinto di Tiziano a Monaco del 548 (Fig. 4). La composizione del frontespizio della biografia giolitiana richiama la tipologia pittorica dei ritratti celebrativi affiancati da personificazioni e sormontati dalle imprese araldiche nelle decorazioni cinquecentesche : dalla sala di Costantino in Vaticano (Fig. 5-6), al salotto di Palazzo Farnese (Fig. 7), dove accanto ai ritratti a figura intera dei pontefici, rispettivamente Clemente I e Paolo III, coppie di personificazioni commentano le caratteristiche, le qualità o l’attività dei pontefici anche in rapporto alle imprese araldiche. Particolarmente vicino all’impianto delle decorazioni ad affresco è l’ampia illustrazione contenuta nelle Imprese illustri di Gerolamo Ruscelli (Fig. 8) nell’edizione veneziana di Francesco dei Franceschi del 584, dove la scena centrale ripropone lo schema figurativo delle investiture, in questo caso di Filippo II da parte di Carlo V, significativamente presenti negli affreschi dei Fasti Farnesiani a Caprarola ad opera di Taddeo Zuccazi, (Fig. 9) e in quelli della sala di Palazzo Farnese affrescati da Francesco Salviati (Fig. 0). In basso, nell’illustrazione contenuta nell’opera del Ruscelli, le scene di battaglia commentano le vittorie militari e dunque le “imprese illustri” dei due augusti personaggi come nell’affresco farnesiano (Fig. ). 6 Ma alla composizione e al linguaggio figurativo e celebrativo del frontespizio della biografia di Dolce come dell’incisione dalle Imprese del Ruscelli non sono estranee 3. M. Praz, Studien in Seventeenth Century Imagery, (London, 939-947), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 975; R. Klein, La forma e l’intellegibile, Parte prima, Torino, Einaudi, 975. D.Caldwell, Studies in sixteenth century italian imprese, «Emblematica», , 200, pp. -257; *«Con parola brieve e con figura» Libri antichi di imprese e di emblemi, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2004, con bibliografia. 4. C. Ripa, Iconologia, Roma, 603. 5. Zappella, Il ritratto nel libro italiano del Cinquecento, Milano, Editrice Bibliografica, 988. 6. J. Kliemann, Gesta dipinte. La grande decorazione nelle dimore italiane dal Quattrocento al Seicento, Silvana Editoriale, 993.

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neanche le strutture effimere dei carri e delle entrate trionfali o delle pompe funebri, come documentano le incisione di Hans Schaeufelein (Fig. 2) o di J. e L. Duetecum relative ai trionfi e alle pompe funebri dell’imperatore. (Fig. 3).7 In entrambi la presenza delle virtù eroiche e morali si legano al tema trionfalistico, celebrativo di Carlo V in particolare evidenziato dall’uso figurato della sua impresa araldica, le colonne con il motto PLUS ULTRA (Fig. 4). 8 Infatti, come nel carro trionfale, anche nel frontespizio della biografia dell’imperatore asburgico di Ludovico Dolce i classici putti alati affiancano la targa con il titolo dell’opera e il nome dell’autore mentre sorreggono le colonne dell’impresa di Carlo V avvolte dal cartiglio con il citato motto plus ultra. La biografia, stampata a Venezia da Gabriele Giolito nel 567, commenta nel testo le imprese dell’imperatore, il più grande sovrano dopo Augusto, cui si riferisce la vastità del suo Impero, allusa dalla sua impresa, ma anche dalla personificazione, sulla destra del ritratto dell’imperatore, con la corona d’alloro la spada della vittoria attributo anche della giustizia, e il globo in mano commentata dall’iscrizione in basso : sustinet hunc victor. 9 Sulla sinistra una figura maschile vestita semplicemente con l’indice rivolto verso il basso indica gli emblemi del potere terreno deposti a terra che affiancano la sfera imago mundi sulla quale lo stesso personaggio poggia il piede della gamba destra, mentre la mano destra indica verso l’alto e, come lo sguardo, è indirizzata verso il cartiglio con il titolo dell’opera e l’impresa delle colonne con il motto plus ultra ; l’iscrizione in basso conculcat sydera quaerens connota la personificazione in termini etici nel ribadire il disprezzo nei riguardi dei beni terreni e la ricerca oltre questi e l’aspirazione dunque verso il divino. Questa personificazione rimane dunque poco esplicita nel commentare il ritratto dell’Imperatore, non si piega ad un ruolo didascalico, ma riassume, nella dignità del personaggio e nei gesti, una serie di concetti che si possono rintracciare in testi ed immagini contemporanee encomiastiche delle virtù del sovrano. 0 Girolamo Ruscelli, nelle Imprese illustri, pubblicate a Venezia, nel 572, nel commentare l’impresa di Carlo V, plus ultra, non solo nel senso delle conquiste del suo regno allegoricamente allusive alle imprese di Cristoforo Colombo, le quali vanno oltre le colonne d’Ercole, ma anche nell’estendere “più oltre” con Virtù e valore la fama e la gloria sua, scrive : « Et felicissimamente potrei ancora con ragioni et essempi notissimi di vera istoria, senz’alcuna iperbole o poesia venir dimostrando che questo veramente santissimo imperatore col valore, con la virtù con la religione, con la giustizia, con la clementia, con la magnanimità e con ogni forte di virtù vera e dirò ancora con la felicità della vera fortuna regolata e guidata dal sommo Iddio, ha passato Più Oltre che non solamente ciascun altro, Principe, uno per uno da che fu il mondo, ma anche tutti insieme, se con giudicio, et verità si verranno esaminando e ponderando i principi e i mezzi e i fini dell’operationi così buone come cattive e delle vite di tutti loro » 7. A.Chastel, Les entrées de Charles Quint en Italie, in Les Fetes à la Renaissance. Fetes et Cérimonies au temps de Charles Quint, vol. ii, Paris, 960, pp. 97-205. 8. M. Bataillon, Plus Oultre: La Cour découvre le nouveau monde, in Fetes et Cérimonies au temps de Charles Quint, cit., pp. 3-97. 9. F. Yates, Charles Quint et l’idée d’Empire, in Les Fetes à la Renaissance. Fetes et Cérimonies au temps de Charles Quint, cit., vol. ii, Paris, 960, 0. F. Checa, Carlo V: la imagen del poder en el Renacimiento, Madrid, 999.

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Il valore, la religione, la giustizia, la clementia, la magnanimità, la felicitas, la fortuna, guidata dal sommo Dio, sono le virtù che hanno fatto di Carlo V il Principe che è andato oltre : sono infatti queste le virtù che troviamo raffigurate nella citata incisione celebrativa dell’imperatore contenuta nell’edizione delle Imprese Illustri del 584 (Fig. 8) che riprendono quasi alla lettera le medesime personificazioni che affiancano il ritratto di Carlo V inciso di Enea Vico  due anni dopo il dipinto di Tiziano, nel 550 (Fig. 5). In entrambe le incisioni la scena centrale con il protagonista o i protagonisti è commentata dalle immagini allegoriche che sono collocate sull’architrave di architetture che evocano gli archi trionfali, come ha rilevato Vasari nelle sue Vite « ..un ornamento pieno di vittorie e di spoglie fatte a proposito », probabilmente con un preciso riferimento alle decorazioni trionfali degli effimeri allestiti in occasione della celebrazione delle vittorie militari di Carlo V sui protestanti ; le allegorie dunque che decorano la struttura architettonica trionfalistica sono informate a questo evento e vengono descritte da Anton Francesco Doni in un piccolo opuscolo stampato a Venezia nel 55 dal titolo « Sopra l’effigie et statue, motti …posto nell’arco fatto al vittoriosissimo Carlo V… » Al centro davanti al timpano la Gloria, puntualmente descritta da Anton Francesco Doni nel 550, con la spada, la corona d’ulivo e la ghirlanda d’alloro in capo è affiancata dalla Religione e dalla Giustizia. 2 Quest’ultima con un elmo d’oro in testa e la spada nel fodero è accompagnata la uno struzzo,”che consuma e punisce tutte le tristizie (si come quello smaltisce il ferro)”, e tiene un’asta, definita da Doni come uno scettro egizio per la presenza su di esso in alto di una cicogna simbolo di pietas e di un ippopotamo in basso, simbolo opposto di impudenza, a connotare dunque la Giustizia in termini etici. 3 Le personificazioni che in posizione stante affiancano il ritratto di Carlo V di Enea Vico, più tardi riproposte nella scena di investitura compresa nelle Imprese del Ruscelli (Fig. 5), ribadiscono gli stessi concetti di pietas e di giustizia delle personificazioni sull’architrave dell’incisione. Sulla sinistra la figura femminile molto dignitosa con abiti dimessi ed un libro in mano sul quale sta tracciando dei segni rappresenta la Clementia che infatti, nel cancellare le offese, perdona, come è dichiarato dal mot. G. Bodon, Enea Vico fra memoria e miraggio della classicità, Roma, 997. 2. Una descrizione molto dettagliata di Anton Francesco Doni dell’incisione di Enea Vico, Descrizione sopra l’effigie di Cesare fatta per M. Enea Vico da Parma, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 550, è stata inserita e ripubblicata ne La Zucca del Doni. Foglie della Zucca, Venezia, Marcolini, 552, pp. 778. Sul Doni cfr. C. Ricottini Marsili-Libelli, Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, 960; cfr. da ultimo Pitture del Doni. Accademico peregrino, a cura di S. Maffei, Napoli, La Stanza delle Scritture, 2004, p.56, dove in Appendice I si pubblica la Descrizione della stampa di Enea Vico con il Ritratto di Carlo V, cit., pp. 322-325. 3. Descrizione della stampa di Enea Vico con il Ritratto di Carlo V, in Pitture del Doni, cit., p. 323. Lo struzzo già accompagnava la personificazione della Giustizia nell’allegoria di Giorgio Vasari del 543 (Napoli, Gallerie di Capodimonte), dotata anche di una sorta di scettro con un ippopotamo; ma in maniera erronea Vasari pone questo animale che «ammazza la madre e il padre e i parenti senza nessun riguardo» in alto, al posto della cicogna simbolo di pietas, la quale è invece correttamente collocata in alto sullo scettro nell’incisione di Enea Vico (cfr. a proposito dell’Allegoria di Vasari J. Klieman, scheda in Giorgio Vasari. Principi letterati e Artisti nelle carte di Giorgio Vasari, catalogo della mostra, Firenze, 98, pp. 8990; cfr. da ultimo S. Pierguidi, Dalla Veritas filia Temporis di Francesco Marcolini all’Allegoria di Londra del Bronzino: il contributo di Francesco Salviati, «Artibus et Historiae», 5, 2005, pp. 50-72.). Il significato simbolico di questi animali è derivato dalla tradizione degli Hieroglyphica di Orapollo in parte ripresa da Pierio Valeriano nei suoi Hieroglyphica sive de sacris Aegyptiorum, Basel, 556.

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to iscritto nel libro stesso Delicta pietate deleo. Sulla destra del ritratto di Carlo V, la figura di Minerva si riconosce dagli attributi della lancia, dello scudo, dell’elmo e della civetta, mentre la sua nudità indica, come per la nuda Veritas,” …che le cose divine si debbano chiaramente vedere” come scrive il Doni, ad evidenziare il suo significato di virtus eroica che si evince anche dalle iscrizioni nelle tavolette inserite nell’incisione di Enea Vico. 4 Tali virtù celebrative dell’imperatore trovavano una diversa forma di rappresentazione nel sistema delle dediche delle Simbolicae Quaestiones di Achille Bocchi. Nell’opera di Bocchi, stampata a Bologna nel 555 5 a Carlo V vengono dedicati due symbola che ci aiutano a spiegare le non canoniche e non codificate personificazioni del frontespizio della Vita di Carlo V descritta da Ludovico Dolce nel 567, immagini abbreviate che sintetizzano più concetti che possiamo rintracciare nei symbola bocchiani e sciogliere con l’aiuto anche delle Imprese illustri del Ruscelli, stampate due anni prima della seconda edizione delle Simbolicae Quaestiones del 574. Nel Libro I il Symbolo xxi (Fig. 6), dedicato a « Caroli V Caesaris Augusti. Sapientia Immortalis », è improntato all’investitura divina dell’imperio di Carlo « Principium et finem princeps habet ab Jove Summo » cui si riferisce l’aquila bicipite, nel doppio imperio umano e divino da realizzare con le virtù della prudenza e della giustizia e con quella alma pietas – rappresentata al centro dell’incisione di Giulio Bonasone mentre porge un oggetto all’imperatore e volge il dito verso l’alto – che rende più “augusto” l’impero di Carlo V. La pietas di Giulio Bonasone (Fig. 7) dunque si ricollega alla personificazione che affianca il ritratto di Carlo V nell’incisione di Enea Vico del 550, anch’essa con una veste semplice e senza ornamenti e senza attributi, mentre è intenta a scrivere su una tavoletta « Delicta Pietate Deleo » (Fig. 8). Ancora alle virtù, nella funzione di elevazione spirituale dell’imperio dell’augusto imperatore, è inspirato il symbolum xii « Colui che possiede la virtù è in grado di assicurarsi ogni bene » si legge nel motto sopra l’immagine dove sono rappresentate le quattro virtù dell’imperatore che accolgono lo stesso Carlo V, ritratto secondo l’antico modello equestre del Marco Aurelio (Fig. 9), che era stato adottato da Tiziano per celebrare la vittoria di Carlo V a Mühlberg nel ritratto di Madrid (Fig. 20). Minerva in veste di « Rei Scientia militari », come si deduce dal testo, avanza in primo piano seguita da una figura paludata con il capo coperto e una face in mano nella quale possiamo forse ancora riconoscere la pietas che nella più tarda edizione dell’Iconologia di Cesare Ripa viene descritta come « una Giovane donna … con una fiamma sulla testa ad indicare l’esercizio alla pietà che aspira alle cose celesti » a rappresentare quella virtù morale definita nel testo di Bocchi come « invicta animi praestantia » ; dietro di lei una oscura figura, con il caduceo alato, è affiancata da una fanciulla corazzata con una lancia in mano appoggiata ad una colonna con un piede su una sfera. Ma il rapporto visivo fra queste immagini attiva una riflessione simbolico-concettuale che trova riferimenti nelle fonti antiche confluite nella letteratura emblematica ed allegorica del 4. Descrizione della stampa di Enea Vico con il Ritratto di Carlo V, in Pitture del Doni, cit., p. 324. 5. E. Watson, Achille Bocchi and the Emblem Books as Symbolic, Cambridge-New York, 993; A. Lugli, Le “Symbolicae Quaestiones” di Achille Bocchi e la cultura dell’emblema in Emilia in Le arti a Bolognae, in Emilia dal XIV secoloal XVII secolo, Atti del xxiv Congresso internazionaledi Storia dell’arte, a cura di A. Emiliani, Bologna, Clueb, 982, pp. 87-96; L’età di Bocchi: la filosofia simbolica nel XVI secolo, convegno internazionale di studi, Bologna, 999.

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Cinquecento e nelle immagini pittoriche. Il caduceo alato (Fig. 23), segno di pace e di sapienza – come codificherà ancora Cesare Ripa qualche anno dopo nell’Iconologia per l’immagine della Felicitas (Fig. 2) – illustra l’emblema di Andrea Alciati virtuti fortuna comes (Fig. 22) nell’edizione Steyner del 53, mentre la figura che le si affianca con la colonna e la sfera (Fig. 25) sembra riproporre la medesima iconografia che illustra l’emblema « Fortis Fortunae » nel Livre de Fortune di Jean Cousin del 568, che si fonda sul passaggio dal Phormio di Terenzio « Fortis Fortuna adiuvat » (Fig. 24). Le immagini del simbolo di Bocchi si possono così spiegare alla luce del passaggio del Ruscelli che introduce il concetto di vera virtù. Infatti la virtù militare (rappresentata nell’incisione di Bonasone da Minerva) deve sempre essere accompagnata da una virtù morale, dalla pietas, dalla magnanimità, dalla clemenza, ma anche dalla felicitas e dalla fortitudo, perché la vera virtù è quella che, attraverso la fortitudo, la felicitas regolata dalla fortuna, è guidata da Dio e proietta il principe verso destini divini. Tornando al frontespizio della Vita di Carlo V del 567 dunque accanto alla virtù guerriera si colloca la virtù morale, caratterizzata dalla semplicità dell’abbigliamento e dell’espressione, che disprezza i beni terreni ma controlla, con il piede poggiato sulla sfera come la fortis Fortuna di Cousin (Fig. 26), la casualità della fortuna (Virtuti Fortuna Comes) guardando verso l’alto e invocando l’aiuto divino (Fig. 27). Come i symbola bocchiani anche l’immagine frontespiziale nell’incisione di Enea Vico per l’edizione della biografia di Carlo V del 567 è legata al concetto ciceroniano « Duce virtute comite fortuna » che informa dunque tanto i symbola di Bocchi che le immagini e i passaggi testuali di Girolamo Ruscelli. La costruzione dell’immagine frontespiziale della biografia di Carlo V di Ludovico Dolce (Fig. 3) si conclude con la marca tipografica di Giolito che rappresenta la fenice che risorge dalle ceneri ; la stessa marca occupa il frontespizio dell’operetta sull’« Immortalità dell’illustrissimo et gloriosissimo imperatore Carlo V », pubblicata a Venezia, presso Gabriele Giolito, nel 567 e dedicata a Carlo V dal signor Anatholio Desbarres e tradotta da Ludovico Dolce, con un ovvio riferimento al testo e al tema del libro : l’Immortalità. 6 L’immortalità è dunque il fine ultimo della celebrazione trionfalistica di Carlo V della celebrazione trionfalistica di Carlo V come viene affermato nelle parole conclusive della Deserizione di Antonio Francesco Doni del ritratto di Carlo V nella stampa di Enea Vico: «Et perché il gran Carlo ha trionfato in tutte le parti del mondo, se gli consacra questa medaglia, queste statue e questo arco, nella somità del quale, ad eterna memoria della sua immortal gloria, si scrive con la penna dell’Eternità queste parole: divo carolo quinto imp. trium orbis partium triumphis gloriosissimo. La quale eterna immortalità viverà con che non hanno termine né fine». Andrea Doria fra ritratti dipinti e ritratti biografici Al tema ciceroniano della « Virtuti Fortuna Comes » è informato anche il frontespizio della biografia di un altro condottiero infaticabile, peraltro molto vicino allo stesso Carlo V, Andrea Doria, ammiraglio generale della Chiesa. La biografia scritta da Lorenzo Cappelloni venne stampata a Venezia nel 565 e arricchita da due incisioni a piena pagina che specularmente propongono due ritratti dell’ammiraglio genovese (Figg. 28-29). Nella prima Andrea Doria è raffigurato con l’abito del censore e la berretta da am6. Descrizione della stampa di Enea Vico con il Ritratto di Carlo V, in Pitture del Doni, cit., p. 325.

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miraglio secondo il modello proposto da Sebastiano del Piombo nel dipinto ora nel Palazzo del Principe a Genova (Fig. 30). Da questo dipinto vengono recuperati anche i simboli navali : una quadriremi in alto e un cheniscus con un aphlaston in basso che stanno a denotare, quasi in termini apparentemente decorativi, la sua carica di ammiraglio. In realtà la presenza di questi emblemi navali trova un preciso riferimento nella storia del dipinto Doria e nel significato che assumerà la figura di Andrea alla corte di Clemente VII e per la storia di Genova nei primi decenni del Cinquecento. 7 Del dipinto di Sebastiano del Piombo si parla in una lettera del 29 maggio 526 dell’ambasciatore dei Gonzaga inviata da Roma al marchese Federico Gonzaga a Mantova : « Feci l’officio de visitazione cum Messer Andrea Doria … N.S. volse che prima chel partisse de qui si facesse ritrarre a Sebastiano che è pittore ex.mo... S.tà ha voluto il retratto appresso sé, che è signo dell’amore che li porta ». 8 Il passo dunque denota una stima verso il pittore ed una particolare affezione verso Andrea Doria da parte del pontefice. Per avere ulteriori risposte sull’occasione del dipinto e sulle decorazioni antiquariali, è opportuno domandarsi quale fosse stato il criterio di scelta degli elementi classici che decorano il parapetto e quale funzione avessero, elementi ai quali l’ammiraglio rimanda in un eloquente discorso muto con lo spettatore. La sequenza degli elementi navali, già letti in chiave geroglifica sull’esempio delle precedenti illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili, 9 ripropone una selezione dalle decorazioni di due lastre di marmo delle sei provenienti dalla Basilica di S.Lorenzo già parte di un fregio di età augustea. Nel parapetto del ritratto Doria Sebastiano, come ha sottolineato Luca Leoncini, ha inserito sei simboli navali selezionati da due delle sei lastre ed in particolare i tre primi simboli della lastra 606 (Fig. 3) ed altri tre simboli della lastra 63 (Fig. 32), una selezione basata sul criterio di utilizzare esclusivamente emblemi di guerra escludendo quelli sacrificali ; tale selezione indica dunque una precisa intenzionalità da parte del pittore o del committente o dal fautore del dipinto, Clemente VII,che va oltre un gusto antiquario di citazione di famosi reperti antichi. (Fig. 33) 20 La selezione implica dunque un preciso riferimento allegorico che si può rintracciare negli eventi di quegli anni. Nel 526 infatti Clemente VII nomina Capitano generale della Chiesa Andrea Doria. Questi infatti dopo essere stato al servizio della Corte di Francia… « Et non potendo lungamente sopportare i termini e l’orgogliosa natura dei Ministri francesi, ricercato dal papa Clemente VII s’egli voleva servirlo, chiesta licenza a chi doveva, si accordò con lui. Et trapassato con sue sei galee galee di Provenza a Civita Vecchia, andò pui a Roma a baciargli il piede et fu da lui veduto volentieri, et eletto maritimo Amiraglio di Santa Chiesa ». 2 Il pontefice da parte sua, nell’esigenza di arginare le incursioni dell’imperatore in Italia « …haveva determinato di provvedersi di un buon capitano…onde messa insieme un’armata di otto galee, due delle quali erano sue e sei del Doria, il quale fece 7. E. Parma Armani, La corte di Andrea Doria in La pittura a Genova e in Liguria, i, 987, pp.63-92 8. A. Luzio, Isabella d’Este e il Sacco di Roma, « Archivio storico lombardo », serie x, iv (908), p. 8. 9. Per una lettura del dipinto di Sebastiano, con riferimenti bibliografici cfr. C. Cieri Via, L’immagine del potere. Il ritratto di Andrea Doria di Sebastiano del Piombo, in Les portraits du pouvoir, Collection d’histoire de l’art de l’Académie de France à Rome, 2003, pp. 35-48.20. L. Leoncini, Deduzioni iconografiche, linguaggio geroglifico e uso dell’antico : il caso del Ritratto Doria, in Il Ritratto e la Memoria. Materiali 2, a cura di A. Gentili, P. Morel, C. Cieri Via, Roma, Bulzoni Editore, 993, pp. 249-262. 2. P. Arnolfini, Della Vita et fatti di Andrea Doria, Principe di Melfi, libri due tradotti dal latino di Carlo Sigonio nella nostra volgar lingua, Genova, 598.

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suo Ammiraglio. Da queste forze aiutato il papa si strinse subito una lega ». 22 Si tratta della lega di Cognac stipulata con il re di Francia, la Repubblica di Venezia e con Francesco Sforza duca di Milano il 22 Maggio 526. In entrambi i passi derivati dalle Vite di Andrea Doria rispettivamente dell’Arnolfini e di Lorenzo Cappelloni, si evince chiaramente il ruolo determinante delle sei galee per la nomina di ammiraglio di Andrea Doria in un momento di delicati equilibri ed in particolare di una situazione critica per la Chiesa di Roma. Le sei galee della flotta papale dunque sono allegorizzate nei sei frammenti antichi che connotano Andrea Doria nel suo nuovo ruolo di Ammiraglio generale della Chiesa e dunque spiegano il gesto imperioso indicativo e dunque significante del Doria in una generale connotazione di romanità, non solo attualizzante dell’arte di Sebastiano, ma soprattutto simbolica del nuovo status di Andrea Doria. Il ritratto dunque si configura come una sorta di ritratto di Stato, un documento che sancisce il ruolo di Andrea Doria, celebrandolo per il suo prestigioso incarico e fornisce elementi per la situazione politica del pontificato di Clemente VII subito prima del Sacco di Roma. Circa quindici anni dopo Andrea Doria verrà ancora celebrato nel suo ruolo di ammiraglio, questa volta indirettamente nelle vesti di Nettuno, il dio che governa i mari, raffigurato ora con l’attributo del tridente nel dipinto di Bronzino (Milano, Brera) (Fig. 34) datato intorno al 540 ora con un remo nella versione del Palazzo Doria (Fig. 35) ; il ritratto di Andrea Doria nelle vesti di Nettuno, dunque attraverso un processo di allegorizzazione mitologica, si ricollega chiaramente al più complesso precedente di Sebastiano attraverso una lettura di evasione ed una finalità edonistica dell’opera. 23 Il ruolo di Andrea Doria, salvatore della patria, condottiero, principe e vincitore delle battaglie viene infine stimmatizzato nei frontespizi della biografia di Lorenzo Cappelloni, pubblicata a Venezia nel 565 nei quali la composizione stessa delle pagine riassume i valori e le caratteristiche dell’ammiraglio e della sua vita attraverso i suoi ritratti. Nel primo frontespizio Andrea Doria è raffigurato con l’abito del censore e la berretta da ammiraglio secondo il modello di Sebastiano nel dipinto Doria dal quale vengono recuperati anche i simboli navali : una quadriremi in alto e un cheniscus con un aphlaston in basso che stanno a denotare la sua carica di ammiraglio ; mentre due personificazioni della Virtus guerriera nelle vesti di Minerva e della Fortuna/Occasio caratterizzano il personaggio nel suo ruolo di capitano che con le sue qualità e dunque la sua Virtus eroica è in grado saper cogliere l’occasione e volgere la fortuna a buon fine. Il valore celebrativo del ritratto di Andrea Doria, raffigurato di busto di profilo all’interno di un clipeo, è definito infine dall’iscrizione che corre intorno : ut civis patriae pater et libertatis restitutor che sancisce il suo ruolo di liberatore della città di Genova dopo essere passato al sevizio dell’imperatore Carlo V. Al collo è infatti visibile il toson d’oro, assente nel ritratto di Sebastiano, ricevuto da Carlo V nel 53 in occasione della sua investitura a Principe di Melfi ; l’ordine del toson d’oro ritorna anche nello stemma di famiglia in basso a destra che peraltro si ripete ai quattro angoli del frontespizio con o senza corona marchionale ; in alto a destra lo stemma è qualificato dall’ordine di S. Michele conferito da Francesco di Valois presso il quale Andrea Doria aveva militato prima di affiancare le truppe imperiali. 22. L. Cappelloni, Vita del Principe Andrea Doria, Venezia, 565. 23. M. Brock, Le portrait d’Andrea Doria in Neptunedi Bronzino in Le Portraits du pouvoir, cit. pp. 49-62.

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Nel secondo frontespizio Andrea Doria in veste di dux et princeps preliorum victor è ritratto nelle vesti di un condottiero romano con armatura e testa di profilo laureata, sul modello della medaglia di Leone Leoni, con il toson d’oro al collo (Fig. 3). In alto e in basso i trofei delle sue vittorie, fra i quali s’intravede la bandiera turca in ricordo del suo ruolo in difesa del mare davanti a Genova dalle incursioni turche nel 53, e in basso i tipici prigionieri incatenati. Intorno al ritratto clipeato sono collocate quattro alabarde dalle quali pendono bandiere con le insegne araldiche di Francesco di Valois, di Clemente VII, di Carlo V D’Asburgo e finalmente dello stesso Doria con il toson d’oro e la corona marchionale. Se sui frontespizi delle biografie la visibilità storica e celebrativa del personaggio è completa in un impianto di codificazione del personaggio e dunque di celebrazione dello stesso, al verso, vale a dire al testo della biografia doveva essere affidato il contenuto attraverso il racconto, il commento e il giudizio storico che veniva a delineare il “ritratto interno” dell’ammiraglio genovese. Abstract Nel rapporto fra parola e immagine, la struttura del frontespizio, come le dediche figurate mettono in atto solo alcuni aspetti del paratesto. Il ruolo affidato all’immagine e al linguaggio iconico, al di là di una funzione illustrativa nei riguardi del testo, è funzionale alla decodificazione della struttura mnemonica della pagina scritta ed illustrata sia nei casi del ruolo programmatico del frontespizio che in quello decodificatorio della dedica commentata . Il sistema iconico trova nella struttura del frontespizio una codificazione assimilabile alla struttura mnemonica del sistema decorativo che si afferma nella produzione artistica del Cinquecento, assumendo in alcuni casi una funzione chiave anche per la lettura e l’interpretazione delle opere pittoriche. Il passaggio dalla tela, dalla tavola e dalla superficie muraria decorata alla pagina del libro se ha per lo più un carattere codificatorio, mette in luce in alcuni casi i valori significanti e significativi che legano l’immagine al linguaggio. In proposito si prenderanno in considerazione due casi esemplari che nel Cinquecento introducono la problematica sotto due aspetti diversi ma complementari: il ritratto di Carlo V, nella produzione incisoria e nei testi a stampa di imprese (Gerolamo Ruscelli, Le Imprese Illustr, 566) e di emblemi (Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestionum libri quinque, 550) con particolare riferimento alla biografia di Ludovico Dolce e i ritratti di Andrea Doria nel rapporto fra i dipinti e le immagini frontespiziali della biografia dell’ammiraglio genovese. In the relation between word and image the structure of sixteenth century frontispieces, as well as that of the illustrated dedications, activate only some aspects of the “paratext”. The image, beyond its function of illustrating the text, helps decoding the mnemonic structure of the written page. Moreover, frontispieces are sometimes close to the mnemonic decorative structure of some fresco cycles, offering a possible way for their interpretation. Bearing in mind this preliminary remarks, in this paper I shall consider two sixteenth century exemplary cases which introduce this problematic in two different but complimentary ways. First the portraits of Charles V, in prints and in books of devices (Gerolamo Ruscelli, Le Imprese Illustri, Venice 566) and emblems (Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestiones libri quinque, Bologna 550) with special regard to Ludovico Dolce’s biography; secondly Andrea Doria’s portraits in the relation between paintings and frontispieces of the Genovese Admiral’s biography.

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Fig. . Pan e Siringa, dalle Metamorfosi di Ovidio, ed.

Fig. 2. Aby Warburg, Tavola con il ratto di Proserpina, mostra sulle Metamorfosi di Ovidio, Amburgo, Kunstwissenschaftlichen Bibliothek Warburg, 927.

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Fig. 3. Enea Vico, Carlo V, frontespizio da Ludovico Doce, La Vita di Carlo V, Venezia, 567. Fig. 4. Tiziano, Carlo V, Monaco, Altepinakothek, 548.

Fig. 5. Giulio Romano, Clemente I, Città del Vaticano, Sala di Costantino, part.

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Fig. 6. Giulio Romano, Sala di Costantino, Città del Vaticano, veduta generale.

Fig. 7. Francesco Salviati, Paolo III, Palazzo Farnese, salotto.

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Fig. 8. L’investitura di Filippo II da parte di Carlo V, da Gerolamo Ruscelli, Le Imprese Illustri, Venezia, 584.

Fig. 9. Taddeo Zuccari, Scena di investitura, Caprarola, Palazzo Farnese, Sala dei Fasti Farnesiani.

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Fig. 0. Francesco Salviati, Scena di investitura, Roma, Palazzo Farnese, Sala dei Fasti.

Fig. . Francesco Salviati, Scena dibattaglia, Roma, Palazzo Farnese, Sala dei Fasti.

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Fig. 2. H. Schaeufelein, Il carro di trionfo di Carlo V, incisione.

Fig. 3. J. L. van Duetecum, Pompe funebri di Carlo V, incisione.

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Fig. 4. L’impresa di Carlo V, plus ultra.

Fig. 5. Enea Vico, Ritratto di Carlo V, incisione 550.

Fig. 6. Caroli V Caes. Augusti, Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestionum libri V, 555 Symb. xxi.

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Fig. 7. Pietas Aug., particolare del Symb. xxi, Caroli V Caes. Augusti, Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestionum libri V, 555.

Fig. 8. Clementia, particolare da Enea Vico, Ritratto di Carlo V, incisione 550.

Fig. 9. Eiusdem Imperatoriae Virtutes Quattuor, da Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestionum libri V, 555, Symb. xxii.

Fig. 20. Tiziano, Ritratto di Carlo V a cavallo, Madrid, Prado.

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Fig. 2. C. Ripa, Felicitas, Iconologia, Roma, 603.

Fig. 22. Virtuti Fortuna Comes, da Andrea Alciati, Emblemata, 53.

Fig. 23. Caduceo alato, particolare da Eiusdem Imperatoriae Virtutes Quattuor, Achille Bocchi, Symbolicarum Quaestionum libri V, 555, Symb. xxii.

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Fig. 24. Fortis Fortunae, da Jean Cousin , Livre de Fortune, 568.

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Fig. 25. Sapientia Fortitudo,da Eiusdem Imperatoriae Virtutes Quattuor, Achille Bocchi Symbolicarum Quaestionum libri V, 555, Symb. xxii.

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claudia cieri via Fig. 26. Fortis Fortunae, da Jean Cousin, Livre de Fortune, 568.

Fig. 27. Enea Vico, Carlo V, frontespizio da Ludovico Doce, La Vita di Carlo V, Venezia, 567, particolare.

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Fig. 28. Andrea Doria, da Lorenzo Cappelloni, Vita del Principe Andrea Doria, Venezia, 565.

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Fig. 29. Andrea Doria, da Lorenzo Cappelloni, Vita del Principe Andrea Doria, Venezia, 565.

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claudia cieri via Fig. 30. Lastra marmorea, dalla Basilica di S. Lorenzo, Roma, Musei Capitolini.

Fig. 3. Lastra marmorea, dalla Basilica di S. Lorenzo, Roma, Musei Capitolini.

Fig. 32. Sebastiano del Piombo, Andrea Doria, Genova, Palazzo del Principe, particolare della balaustra.

Fig. 33. Bronzino, Andrea Doria in veste di Nettuno, Milano, Brera.

Giuseppina Monaco* IL PARATESTO NEI PERIODICI DEL SEICENTO

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rofondo conoscitore della storia dell’editoria italiana e del panorama socioeconomico inerente l’affermazione del libro in Italia, Santoro in alcuni suoi recenti saggi approfondisce ulteriormente la funzione del paratesto, su tutto ciò quindi che affianca, circonda e accompagna il testo nel suo aspetto materiale, tutto ciò che contribuisce a qualificare il libro quale frutto del lavoro di molti mestieri (autore, stampatore, editore, libraio). Un corredo di “soglie” (come le definì Gérard Genette) che stanno attorno al testo (e cioè l’apparato iconografico, il formato, il frontespizio, le copertine, le dediche, le lettere di presentazione, i colophon, ecc.), che, a giudizio di Santoro, non hanno beneficiato in Italia di adeguata attenzione.  Come per il manufatto libro anche gli avvisi e le prime gazzette a stampa del sec. xvii, che all’origine non presentano sostanziali cambiamenti rispetto a quelli manoscritti, hanno apparati paratestuali che vanno analizzati e studiati pur se presenti in forma meno marcata rispetto alla stampa delle edizioni Cinque-Seicentesche. Gli avvisi, dal punto di vista strettamente tipografico, non si distinguono dagli altri opuscoli a stampa del secolo xvi a meno che non rechino un frontespizio, come in alcuni avvisi quale questo stampato a Roma nel 57 : ritratto // d’una lettera scritta all’Ill. // et Ecc.mo S.or Ambasciator Cesareo // Dalla Armata. // Donde si hanno molti nuoui, belli, & particolari ragguagli // circa la Vittoria hauuta contra i Turchi. In Roma, Appreso gli heredi di M. Antonio Blado Stampatori Camerali. // Con privilegio, s.d. [57]

La ‘lettera’, stampata nell’officina degli eredi di Antonio Blado, riferisce della vittoria che l’armata cristiana riportò contro i Turchi nella celebre battaglia di Lepanto. La xilografia che copre quasi tutto il frontespizio rappresenta lo stendardo della Santa Lega. 2 * Università di Roma “La Sapienza”. . Marco Santoro, Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliografico, Manziana di Roma, Vecchiarelli editore, 2002. Dei nove saggi, legati da un filo conduttore ben preciso, il libro come oggetto, si segnalano particolarmente : A proposito della “storia del libro”, p. 7-34 ; Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, pp. 5-92 (già in « Accademie e biblioteche d’Italia », lxviii (2000)  pp. 5-38) e Caratteristiche e valenze dell’editoria barocca, pp. 39-5 (già in I luoghi dell’immaginario barocco. Atti del Convegno di Siena, 21-23 ottobre 1999, a cura di Lucia Strappini, Napoli, Liguori, 200, pp. 295-206. Sul “paratesto” si veda almeno : Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 989 ; Il paratesto, a cura di Cristina Demaria e Riccardo Fedriga, Milano, Sylvestre Bonnard, 200, e Lorenzo Baldacchini, Aspettando il frontespizio: pagine bianche, occhietti e colophon nel libro antico, Milano, Sylvestri Bonnard, 2004. 2. L’avvenimento suscitò un tale interesse che molti furono gli avvisi stampati in tutta Europa. Si vedano in proposito : Tullio Bulgarelli, La battaglia di Lepanto e il giornalismo romano del Cinquecento, « Accademie e biblioteche d’Italia », xxix (96) 3-4, pp. 23-239 ; Id., Gli avvisi a stampa in Roma nel Cinqucento. Biografia – Antologia, Roma, Istituto di Studi Romani, 967 ; Sandro Bulgarelli, Tullio Bulgarelli, Il giornalismo a Roma nel Seicento. Avvisi a stampa e periodici italiani conservati nelle biblioteche romane, Roma, Bulzoni, 988, pp. x-xiv ; Valerio Castronovo, I primi sviluppi della stampa periodica tra Cinque e Seicento

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Per quanto tendessero a fornire notizia dei singoli avvenimenti in tono breve ed immediato, gli avvisi non mancarono di riflettere, col passaggio alla carta stampata, l’influenza della più controllata prosa letteraria dei trattatisti del Cinquecento. A Roma si stamparono più avvisi che nel resto dell’Italia 3 e Ludovico Grignani fu lo stampatore romano che si dedicò quasi esclusivamente alla pubblicazione di avvisi : 4 ne stampò sicuramente più dei 9 reperiti dal Dresler. 5 Dall’esame del primo stampato a Roma del 623 relatione // del // spaventoso, et horrendo // caso, // Occorso appresso alla Città di Ciuidale // del Friuli. // La Notte precedente al primo Maggio // del presente anno 623. // Doue s’intende l’Incendio fatto dal Folgore, di vn // Casamento con tre persone, & molti animali, & // l’apparitioni in aria di molti portentosi segni, // & altri prodigij. [fregio] In Venetia, & in Roma, per Lodouico Grignani. 623. Con licenza d’ superiori

e di altri due avvisi rispettivamente del 628 e del 649 relatione // Di quanto è seguito nella resa della Roccel-//la, tanto auanti, che dopò che il Rè vi // habbia fatta la sua entrata il giorno // di Tutti li Santi. // L’Arringo, & humiliatione del Maire, ouero Con-//faloniere, & abitanti della detta Città. // Con la risposta che fece loro il Rè ; l’ordine che vi si // tenne per condurli alla presenza di Sua // Maestà, // & altri particolari. [stemma] in Carlo Capra, Valerio Castronovo, Giuseppe Ricuperati, La Stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Bari, Editori Laterza, 986, pp. 3-5 ; Giuseppina Monaco, La stampa periodica nel Cinquecento in La Spampa in Italia nel Cinquecento, Atti del Convegno Roma, 7-2 ottobre 989, a cura di Marco Santoro, Roma, Bulzoni, 992, pp. 64-65 ; Giuseppe Farinelli, Le origini del giornalismo in Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ad oggi, Torino, Utet libreria, 2004, pp. 3-76 ; Mario Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Roma-Bari, Laterza, 2002. 3. Per il sec. xvi su un totale di 350 avvisi individuati nelle biblioteche romane, ben 200 sono stati stampati a Roma e per il sec. xvii su 900 ben 550. Cfr. Il giornalismo romano delle origini (sec. XVI-XVII). Mostra bibliografica. Catalogo a cura di Alberta Bertone Pannain, Sandro Bulgarelli e Ludovica Mazzola, introduzione di Tullio Bulgarelli, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 979. Gli avvisi rientrano nella definizione di “letteratura d’uso” coniata da Romani per indicare il genere e i contenuti spesso frutto di una cultura antica che ha le proprie radici nel medioevo. Lo spirito popolare di questa produzione è riscontrabile nel suo qualificarsi come letteratura d’evasione, nel suo legame con l’occasionalità ed il consumo. Cfr. Valentino Romani, I saggi documenti del vecchio Guidone, opera virtuosa e piacevole. Con un’appendice di V. Romani sulla diffusione del libro popolare a Velletri nell’età moderna, Velletri, Vela, 980, p. 28. 4. Il Grignani aveva cominciato la sua attività a Ronciglione dove aveva stampato prima di lui Domenico Dominici, il cui ultimo lavoro – un opuscolo religioso – è datato 67. Cfr. Francesco M. D’Orazi, L’arte della stampa in Ronciglione nei secoli XVII e XVIII. Catalogo descrittivo, Ronciglione, Centro Ricerche e Studi, 99, pp. 30-3 e Stamperie carte e cartiere nella Ronciglione del XVII e XVIII secolo. Atti della giornata di studio presso la Sala riunioni della Cassa rurale e artigiana, 26 ottobre 99 a cura di Francesco M. D’Orazi, Ronciglione, Centro Studi e ricerche, 996. Confrontando poi i caratteri tipografici, si evince che Grignani aveva rilevato, fra il 68 e il 69, la tipografia del Dominici, insieme a Lorenzo Lupis. In quella città stampa nel 69 due Avvisi. Trasferitosi a Roma intorno al 620 stampò,tra l’altro, numerosi avvisi fino al 650 presumibile anno della sua morte. Cfr. Adolfo Dresler, Un famoso stampatore di avvisi romani nel Seicento, (Lodovico Grignani) « Il Giornalismo », a. i (939) 4, pp. 82-87 ; Francesco Barberi, Librai e stampatori nella Roma dei Papi, Roma, Istituti di Studi Romani Editore, 965 ; Saverio Franchi, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, pp. 327-345 e pp. 470-47. 5. Il Dresler individuò 9 avvisi pubblicati dal Grignani a Roma, 30 presso antiquari e librai e 6 tra la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ad oggi il numero sale a più di cento reperibili in tutta Europa ma è presumibile che un buon parte, vista la precarietà del supporto, sia andato perso.

il paratesto nei periodici del seicento

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in roma, Appresso il Lodouico Grignani. 628. CON LICENZA DE’ SUPERIORI. // Si vendono in Piazza Nauona alla Libraria, all’Insegna della // Gatta, ad istanza di Gio. Dini. glorioso svccesso // della felice elettione // del ser.mo e potentissimo // casimiro iv. // re di polonia e svetia. // Gran Duca di Lithuania, Russia, Prussia, Masouia,Volhynia, // Samogizia Liuonia, Smolenscho, Zernichoua. // Cauato da una Lettera scritta dal Sig. Lodouico Fantoni Segretario // Regio al Signor Domenico Roncalli, il giorno di detta // Elettione 17. Nouembre 1648. [stemma] in roma, per Lodouico Grignani, 649. Con licenza de’ Superiori.

rileviamo l’uso del frontespizio che spesso reca nel titolo una sorta di “sommario”della notizia o anche di più notizie riportate ed è disposto iconograficamente nello stesso modo dei titoli delle pubblicazioni monografiche. Spesso è presente l’illustrazione, che diventa sempre più curata grazie all’adozione di vignette, di insegne araldiche e di altre xilografie di repertorio. Solitamente sono costituiti da opuscoli di quattro oppure otto pagine recanti la narrazione, più o meno particolareggiata, di un singolo avvenimento, il più delle volte di interesse mondiale, anche se non mancano avvisi che riportano notizie di vari avvenimenti locali. La narrazione è spesso preceduta da chiarimenti di ordine storico e geografico ed è seguita da considerazioni moralistiche col preciso intento di influenzare la pubblica opinione. Spesso il giorno dell’avvenimento coincide con quello di stampa : questo particolare, oltre ad indicare l’importanza che anche allora veniva attribuita alla rapidità di diffusione delle notizie, ci può dare un’idea dello spazio di tempo che intercorreva tra la stesura della lettera e la sua pubblicazione. Gli avvisi che riportiamo sono la dimostrazione della coincidenza dell’anno tranne che per il Glorioso successo Della felice elettione del Ser.mo e Potentissimo Casimiro IV… che è tratto da una lettera datata 7 novembre del 648 ma che approda alla stampa ai primi del 649. Presumibilmente i tre avvisi riportati sono redatti dallo stesso Grignani, la cui produzione, come quella di altri stampatori di avvisi, presuppone un’organizzazione per quei tempi piuttosto complessa che richiedeva la collaborazione di numerose persone per il reperimento delle informazioni, per la loro elaborazione e per la diffusione degli stampati quale fine ultimo. Il fenomeno delle ristampe è frequente, come è registrato nelle note tipografiche della Relatione del spaventoso, et horrendo, caso, Occorso appresso alla Città di Ciuidale del Friuli “In Venezia e in Roma per Lodovico Grignani…” I temi sono tratti dalla cronaca, dai fatti di politica internazionale, dai racconti delle feste pubbliche tenutesi in

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occasione dei matrimoni o delle nascite dei regnanti o ancora di ricorrenze religiose. I titoli si aprono con un termine, messo tipograficamente in evidenza, che ha la funzione di dichiarare subito il contenuto : avviso, caso, historia, lettera, narratione, nuova, ragguagli, relatione, soggetto. La struttura stessa del titolo è redatta in modo da richiamare efficacemente l’attenzione del pubblico. Si inaugurava così una strategia di comunicazione che, secondo Bulgarelli, costituisce l’aspetto più moderno di questa forma nascente di giornalismo, frutto del felice connubio tra sviluppo della tecnologia della stampa e migliorato funzionamento del sistema postale dell’epoca. 6 Attraverso le vicende citate negli avvisi pubblicati dal Grignani è possibile gettare una luce sul clima storico del periodo caratterizzato dalla minaccia turca, dalle guerre di religione in Francia, dalla “Guerra dei trent’anni”. Gli avvenimenti sono narrati sempre secondo una griglia ideologica precisa, la qual cosa tuttavia non avvicina questa produzione al moderno giornalismo politico, ma si manifesta nella selezione dei fatti da narrare, scelti sempre in assoluta conformità rispetto al pensiero dominante. Il legame con il potere si evidenzia con più chiarezza negli avvisi e nelle relazioni di eventi politici e militari (non a caso e solo in queste tipologie compaiono sporadicamente delle dediche). Altrove emerge la volontà di creare una sorta di genere nel genere destinato alla lettura di evasione e di sicura presa sul pubblico : pensiamo alle narrazioni di fatti miracolosi o di eventi naturali portentosi, spesso raccontanti a fini educativi e con intenti moralizzatori. Il Gaeta riporta un brano del testo della relazione pubblicata da Grignani nel 623 sull’incendio di Cividale del Friuli : « Son mosso a pubblicare il presente successo così succintamente, non per pascere, & allettare de’ curiosi, ma per far conoscere a giusti, & buoni, & a gli ingiusti, & ostinati peccatori il modo meraviglioso, che il giustissimo IDDIO N.S. suoi tenere nel castigare questi, & gratiare quelli[...] ». 7 Gli avvisi non avevano circolazione limitata alla città di pubblicazione, ma venivano diffusi per tutta l’Italia e fuori dai confini e questo si evince dalle raccolte conservate nelle biblioteche più importanti. Il più delle volte il libraio aveva l’esclusiva della 6. S. Bulgarelli, T. Bulgarelli, Il giornalismo a Roma, cit., pp. xiii-xiv. 7. Giuliano Gaeta, Storia del giornalismo, Milano, Vallardi, 966, vol. i, p. 75.

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vendita di un dato avviso, come si può costatare nelle diciture che generalmente sono poste in calce al frontespizio : « Si vendono à Pasquino da Marc’Antonio Benvenuti », o « Si vendono in Piazza Nauona alla Libraria, all’Insegna della Gatta, ad istanza di Gio. Dini ». L’avviso manoscritto continuò a convivere per tutto il secolo xviii con la versione a stampa. La stampa non comportò subito variazioni di rilievo rispetto alle forme manoscritte. Le operazioni di assemblaggio e di redazione rimasero sostanzialmente le stesse. Ci volle invece del tempo perché i fogli che uscivano dai torchi tipografici assumessero caratteristiche formali e sostanziali del tutto autonome. La differenza principale che a lungo continuò ad essere avvertita fu tra avvisi segreti e pubblici. Quelli a stampa apparivano solo un’ulteriore versione degli ultimi. Fu per questo che, almeno negli ambienti di Stato e di corte, per decenni continuarono a riscuotere un credito condizionato e ad essere accolti con molta diffidenza. I meccanismi attraverso i quali l’informazione stampata assunse caratteri propri si misero in moto piuttosto lentamente ed ebbero un periodo di rodaggio di oltre un secolo. Solo la pratica insegnò che la più agevole riproduzione innescava conseguenze di rilievo e contrapposte, a mano a mano che la diffusione aumentava all’interno della società. Per le classi dominanti le gazzette stampate, più uniformi e più facilmente controllabili, potevano divenire uno strumento più efficace degli avvisi a mano per indirizzare i pensieri ai sudditi. Al tempo stesso, però, quegli stessi fogli persero la funzione non sempre desiderata di stimolo delle opinioni ancor più di quanto non fossero in grado di farlo le versioni manoscritte. 8 Come per gli avvisi, anche i primi esemplari di gazzette a stampa non videro la luce nei maggiori centri di confluenza delle informazioni. Il passaggio in tipografìa di un singolo foglio tra i tanti circolanti era probabilmente avvertito come superfluo laddove vi era ampia disponibilità di materiali informativi, in grado di soddisfare livelli differenziati di comunicazione. Non è perciò un caso se proprio nelle due capitali dell’informazione italiana, Roma e Venezia, dove, più che in altri luoghi, giungeva ogni sorta di corrispondenze dal resto dell’Europa e del mondo, le gazzette a stampa comparvero solo molto tardi, tra la fine del xvii secolo e gli inizi del xviii. 9 L’intenzione di un menante romano del 640 di recapitare i suoi avvisi stampati « come si usa in Francia » non trovò all’epoca le condizioni per potersi realizzare. Le due città italiane, capitali entrambe di Stati con proiezione europea, avevano maturato una lunga e raffinata esperienza nelle forme di controllo della circolazione del libro. Sapevano pertanto che lo stampare implicava una pubblica licenza che finiva inevitabilmente con il configurarsi come una sorta di avallo sovrano nei riguardi del testo autorizzato. Perciò nulla poteva essere più rischioso e compromettente dell’attualità, tenendo anche conto di dovere operare sempre sotto l’assillo del tempo e che nessun efficiente ufficio di censura, per quanto attrezzato nella revisione dei libri, era in grado di assicurare la rapidità che i tipografi delle gazzette richiedevano, senza correre il rischio di incorrere in incidenti diplomatici con potenze amiche o in imbarazzanti inconvenienti con personaggi pubblici. 0 In Italia la grande varietà di situazioni politiche favorì lo stabilirsi di atteggiamenti molto diversi gli uni dagli altri nei riguardi dei fogli che, invece, almeno dal punto di vista tipografico, assunsero dappertutto sostanzialmente il medesimo aspetto, strettamente dipendente dalle affermate e consuete forme manoscritte. 8. G. Monaco, La stampa periodica nel Cinquecento, cit., p. 642. 9. Ivi, p. 645. 0. Capra, Castronovo, Ricuperati, La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, cit. pp. 7-8.

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Così sino alla metà Settecento, le varie gazzette italiane, almeno sul piano formale, non assunsero una fisionomia in grado di differenziarle significativamente. Continuarono a presentarsi tutte come una semplice versione stampata degli avvisi, senza nulla che conferisse loro una particolare identità. Mezzo foglio a stampa di formato in quarto con quattro pagine, introdotte dalla semplice indicazione del luogo di raccolta delle informazioni e la data in caratteri di un corpo maggiore di quello usato nel testo : « Bologna, li 9 settembre 643 », « Torino, li 5 maggio 650 », « Ancona, li 5 maggio 683». Assolutamente eccezionale era la presenza di un titolo, più frequente invece nei modelli non italiani della stessa epoca. Solo in testa alla gazzetta genovese di Luca Assarino poteva talvolta comparire l’impegnativa denominazione de “II sincero”, con l’ irridente scopo di distinguersi dall’altra contemporanea e avversaria gazzetta cittadina, stampata dallo stesso tipografo Ferroni, che per analoghe ragioni poteva talvolta recare in apertura a mo’ di titolo, sotto la data, il nome del proprio compilatore Il Botticelli. Lo stesso toponimo che figurava in testa alle gazzette non indicava necessariamente il luogo di stampa dei fogli, ma quello di raccolta delle informazioni, né più né meno come avveniva negli avvisi a mano. È indicativo il caso delle varie gazzette pubblicate a Firenze, che non riportavano mai l’indicazione della capitale medicea, ma sempre quello delle città da cui proveniva l’avviso utilizzato come matrice. Fu così che a Firenze uscirono anche contemporaneamente fogli con l’intestazione diversa, esattamente sul modello dei reporti a mano : sotto la data di Genova erano stampate le notizie recuperate tramite i fogli di Assarino e Botticelli, sotto Venezia quanto perveniva con le gazzette manoscritte di Giovanni Quorli o di altri, sotto Colonia un bollettino di avvenimenti centroeuropei probabilmente d’origine veneziana e sotto Roma le informazioni romane e napoletane. In questi, come in altri casi, non soccorrono a chiarire i dubbi le note tipografiche, in genere non presenti. Il modello fiorentino fu del resto quello più aderente agli avvisi manoscritti con molti fogli diversi settimanali in base alle provenienze. Altrove si cercò di sfruttare meglio la possibilità di contenere all’interno delle quattro pagine di una gazzetta una maggiore quantità di testo, grazie alla quale si poteva risparmiare considerevolmente sulle spese di carta. Tradotto in termini tipografici, difficilmente un avviso manoscritto poteva contenere più di 5000 battute, nelle quattro facciate, tenendo conto della necessità dei copisti di scrivere in grafia nitida e caratteri grandi ; una gazzetta a stampa, invece, poteva agevolmente raggiungere le 5/20.000, garantendo comunque una buona leggibilità. 

I tipografi non riservavano grande attenzione all’aspetto esteriore dei fogli. Pessima era . M. Infelise, Prima dei giornali, cit., pp. 78-8.

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la qualità della carta e dei caratteri, indifferentemente tondi o corsivi, pochissima la cura nella composizione e nella impaginazione, i refusi erano quasi una regola. Di tanto in tanto la pagina iniziale poteva essere grossolanamente ingentilita da un capolettera inciso, la minima cura per un prodotto destinato ad essere consumato in pochi giorni, ma anche conseguenza della velocità, quasi della concitazione, con cui le gazzette erano realizzate. La redazione prendeva l’intera settimana, ma la chiusura in tipografia avveniva in fretta e furia non appena giungevano gli ultimi corrieri. Nel giro di poche ore, quindi, si concludeva la composizione, si presentava il foglio per la revisione – quando ciò avveniva – e si tiravano le copie. Sino all’ultimo minuto possibile si attendeva che giungesse il corriere ritardatario per le ultime notizie si lasciava qualche spazio bianco in fondo alla quarta pagina. Non era inconsueto leggere cenni su tali arrivi nei paragrafi conclusivi : « siamo a mezzogiorno e non è ancor gionto l’ordinario di Lione, ond’è possibile stampar gl’avvisi, che recheranno le sue lettere se non chi volesse dar fuori il foglio a mezza notte, quando nessuno se ne può servire, perciò si finisce senz’altro questo » ; « gionse in questo punto che sono 20 hore l’ordinario di Lione che porta lettere di Parigi de 5 stante; se si haveranno in tempo s’appagherà la curiosità » ; « siamo a 20 hore, né per anco è comparsa la staffetta di Milano, che suol recare le novità di Germania e di Venezia, se giongerà in tempo si porranno al calce di questo foglio per soddisfare alle curiosità». Fu tra la Germania e l’Olanda all’alba del xvi secolo che si prese l’abitudine di stampare fogli periodici d’informazione. La periodicità delle origini è tuttavia difficilmente definibile. In genere l’uscita era settimanale, ma se le notizie mancavano la pubblicazione veniva sospesa. Probabilmente la prima gazzetta vera e propria, cioè a stampa con frequenza regolare, uscì a Strasburgo attorno al 605. L’incertezza è comunque d’obbligo per materiali già all’epoca ritenuti di consumo e non destinati a finire conservati in biblioteca. Negli anni immediatamente successivi si segnalano altri fogli che corrispondono alla definizione : a Wolfenbùttel (609), Basilea (60), Francoforte (65), Berlino (67), Amburgo e Danzica (68). È utile ricordare che in molti dei primi casi è trasparente il riferimento a fonti di provenienza italiana, oltre che tedesca, a segno della grande diffusione che gli avvisi della Penisola avevano nel continente. I Corantos o Courantes olandesi, che denunciavano già titoli come Courante uyt Italien, Duytslandt (68-69) in fiammingo o il Courant d’Italie et d’Almaigne (620) in francese, introducono regolarmente consistenti blocchi di informazioni italiane provenienti da Roma e da Venezia per passare in seguito a quelle tedesche. Una traduzione di questi fu nel 620 la prima gazzetta in lingua inglese il Courrant out of Italy, Germany pubblicato sempre ad Amsterdam, seguito l’anno dopo a Londra da un analogo Corante, or newesfrom Italy, Germany Hungarie, Spaine and France. Ma anche quando la provenienza non era denunciata era frequente aprire il foglio con notizie sulla Penisola. Così anche la Gaiette di Francia, prototipo del foglio di informazione sotto lo stretto controllo regio, fondata dal medico Théophraste Renaudot, si basò a lungo su blocchi di informazioni molto consistenti ricavati da avvisi italiani. 2 È difficile stabilire con esattezza le date di avvio della stampa delle gazzette in Italia. Chiarito l’equivoco che per secoli ha conferito a Venezia la primogenitura in tale campo, anche altre città, come Firenze e Genova, si sono a lungo disputate il vanto di aver dato vita alla prima gazzetta periodica. Come nel caso del Brancacci, ideatore dei bollettini dei cambi, e come si vedrà in quasi tutti i casi dei compilatori di gazzette, in ogni città esisteva qualcuno che le stesse fonti contemporanee assicuravano essere stato l’« inventore » della 2. Ivi, pp. 8-85

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compilazione delle gazzette. Manca d’altra parte una ricognizione affidabile degli esemplari, mentre le testimonianze archivistiche non danno sempre risultati univoci. Fu comunque sul finire degli anni Trenta che in alcuni grandi centri della penisola più o meno simultaneamente si avviò la pubblicazione. A Genova la stampa delle gazzette dovrebbe avere avuto inizio nel luglio 639. Non si conservano esemplari di gazzette a stampa anteriori al 29 di quel mese, ma è molto probabile che il passaggio in tipografia dei fogli fosse una novità di quei giorni. Ad una decina di giorni prima risale infatti un divieto imposto al tipografo Calenzani di imprimere gazzette senza licenza e al 22 luglio il conferimento formale al gazzettiere Michele Castelli di un privilegio per la stampa di avvisi. Anche a Firenze la data d’inizio è dubbia. Gli studi della Morelli attestano che fu certamente posteriore al l636, ma anteriore al 64. Nel 643 risultava che i tipografi Pietro Cecconcelli e i soci Lorenzo Landi e Amadore Massi pubblicavano due diversi fogli già da alcuni anni. Il primo dava alle stampe le notizie provenienti dalla Germania, i secondi una gazzetta manoscritta che ricevevano da Venezia. Il Landi fu d’altra parte definito « inventore delle gazzette » in una supplica del figlio Bernardo del 653. Non è però da escludere che possa essere stata Milano la città in cui vide la luce la prima gazzetta italiana a stampa. L’esemplare più antico conosciuto data 28 novembre 640, ma è possibile che l’esperienza avesse già alle spalle qualche anno. Quando nel 647 il compilatore Filippo Perlasca, autoqualificandosi come colui che era stato l’« enventor de hazer emprimir las gazetas o sean occurencias del mundo », chiese al governatore spagnolo dello Stato di Milano un privilegio di stampa, dichiarò di avere introdotto le gazzette a proprie spese già dieci anni prima. A quegli stessi anni risalgono anche altri casi. Un circostanziato atto notarile attesta che nel 642 aveva preso il via a Napoli l’impressione di « avisi di Roma et altre parti del mondo », precedentemente diffusi manoscritti, di cui tuttavia non si conserva alcun esemplare. Nello stesso anno il notaio Lorenzo Pellegrini iniziò la pubblicazione della gazzetta di Bologna e nel 645 vide la luce quella di Torino, grazie ad un privilegio conferito dalla reggente Cristina al compilatore Pietro Antonio Socini. Per quanto il quadro d’insieme sia ancora tutt’altro che definitivo a causa della già accennata mancanza di una rilevazione complessiva degli esemplari superstiti, negli anni successivi gazzette periodiche a stampa si ebbero in vari altri centri italiani : a Modena per poche settimane nel 658, a Macerata

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nel 659, a Rimini nel 660, a Mantova nel 664. Altre gazzette si segnalano in seguito in vari centri dello Stato pontificio : ad Ancona nel 667, a Fano nel 677, a Foligno nel 680, a Spoleto e a Siena nel 683, forse a Todi nel 684, certamente a Senigallia l’anno dopo, a Ferrara nel 690, Ravenna nel 694, Urbino nel 696, Forlì nel 698. Nessuna iniziativa del genere è invece segnalata a sud di Napoli. L’episodica esperienza di Messina tra 675 e 677, per caratteristiche testuali, formato e periodicità non accertabile, non è da collocare tra le gazzette periodiche settimanali, ma tra i giornali militari che presero ad avere diffusione nella seconda metà del secolo.3 Uno sguardo complessivo alla geografia secentesca dei fogli italiani induce ulteriori osservazioni. I luoghi di edizione coincidono per lo più con le principali città capitali di Stato, a parte l’eccezione rilevante e già segnalata dei due veri e propri centri di produzione dell’informazione, Roma e Venezia. Spicca però anche la proliferazione di fogli in molti centri medio-piccoli dello Stato pontificio tra l’Umbria, le Marche e la Romagna. In alcune di queste città si ebbero persino contemporaneamente due diversi fogli stampati. Ad Ancona, tra gli anni Settanta e Ottanta settimanalmente, i tipografi Francesco Serafini e Giambattista Salvioni stampavano ogni mercoledì una gazzetta ciascuno, che faceva riferimento in buona parte, ma non del tutto, ad uno stesso foglio manoscritto proveniente da Roma. Caratteristiche analoghe ebbero le due gazzette che negli stessi anni uscivano a Foligno presso la stamperia episcopale di Marco Barugi e quella di Antonio Mariotti. Indubbiamente lungo l’itinerario che univa Roma a Venezia, attraverso l’Umbria, le Marche e la Romagna la quantità di gazzette a stampa nella seconda metà del Seicento non ha pari in Italia. Pressoché ogni centro di qualche rilievo disponeva della propria. Tale diffusione poteva essere il risultato della vivacità della vita urbana e di un’elevata dimestichezza con la scrittura, che coincide oltretutto con l’interesse dei librai italiani nei riguardi di quelle località e con la presenza di cospicue biblioteche. Sullo scorcio del secolo aumentò inoltre considerevolmente l’attività tipografica nei centri minori. I tanti piccoli stampatori che tentarono l’avventura imprenditoriale contarono in primo luogo sulle commissioni pubbliche, ma al tempo stesso si sforzarono di alimentare il mercato locale con le ristampe di quei materiali che convenzionalmente, ma impropriamente, si definiscono di carattere popolare. Tra questi per buona parte del secolo furono abbondanti i fogli volanti di ragguagli, avvisi e relazioni su episodi militari o « meravigliosi prodigi » avvenuti in ogni parte d’Italia e d’Europa, già stampati altrove. Le gazzette straniere erano conosciute in Italia ; la stessa cosa va detta per gli altri giornali del Seicento che per il loro genere si differenziarono da esse e seguirono una strada più raffinata, segnata dall’opportunità di diffondere le scoperte scientifiche, di 3. Sulle prime gazzette in Italia si vedano i seguenti studi : Cfr. Salvatore Bongi, Le prime gazzette in Italia, « Nuova Antologia », vi (869) ; Achille Neri, Michele Castelli e le prime gazzette a Genova, « Rivista d’Italia », xvi, 93, t. ii, pp. 300-309 ; Pierangelo Bellettini, Le più antiche gazzette a stampa a Milano (1640) e di Bologna (1642), « La Bibliofilia », c (998), pp. 465-494 ; Id., Periodici romagnoli di Antico Regime. Gazzette, giornali dei letterati, almanacchi, in Storia del giornalismo in Emilia Romagna e a Pesaro dagli albori al primo Novecento, a cura di Giancarlo Roversi, Casalecchio di Reno, Grafis, 992, pp. 39-350 ; Maria Augusta Morelli, Delle prime gazzette fiorentine, Firenze, Tip. Stiov, 963, Nino Cortese, Cultura e politica a Napoli dal Cinquecento al Settecento, Napoli, esi, 965, pp. 63-94 ; Nevio Matteini, Il “Rimino” una delle prime “Gazzette”d’Italia. Saggio storico sui primordi della stampa, Bologna, Cappelli, 967 ; G. Amidei, In un documento d’archivio Gonzaga la data di fondazione del giornale : giugno 1664, « Gazzetta di Mantova », 2 gennaio 968 ; Valerio Castronovo, Storia del primo giornale degli stati sabaudi, « Bollettino storico-bibliografico subalpino », lviii, 960, pp. 65-5 ; Cfr. Marco Santoro, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento, Milano, Editrice Bibliografica, 2004.

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dibattere questioni filosofiche e letterarie con pronunciata apertura dialettica verso forme di pluralismo culturale. Non a caso, in epoca di trionfante assolutismo, si parlò di repubblica, intesa come democrazia di cultura, come scambio di opinioni e di critiche, come ampio orizzonte di relazioni, in corrispondenza dell’allargamento geografico delle accademie tese alla conquista di nuovi soci, che poi erano letterati in una accezione che comprendeva insieme i cultori delle scienze, delle lettere e delle arti. Questo tipo di giornali ebbe vasta fortuna e praticamente coprì un arco che dalla seconda metà del Seicento giunse con innovazioni editoriali alla fine del Settecento e fu ricco di frutti specialmente da noi, dove la stampa era sottoposta ad una varietà e ad una difformità di norme a causa della varietà e della difformità degli stati, delle loro organizzazioni locali e dei modelli legislativi e politici che intendevano seguire : a parte Venezia che era la repubblica gelosa della propria autonomia, la Lombardia, prima di passare al dominio austriaco e di riprendere sotto il governo di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo II un’intensa attività economica ed intellettuale, fu dominata dalla Spagna, maestra di inefficienza amministrativa, di esosità fiscale e di intolleranza controriformistica ; Napoli fu a tappe spagnola, austriaca (73) e borbonica (734) e fu appunto nel primo periodo del regno borbonico che si riformò l’università e che si istituì la nuova cattedra di economia politica affidata al Genovesi ; il Piemonte, che i trattati di Cherasco (63), di Rivoli (635) e di Vestfalia (648) avevano messo sotto la tutela francese e che nel 696, dopo essere entrato nella coalizione contro Luigi XIV, ne era uscito per salvaguardarsi dall’Austria, non poteva comunque non sorvegliare con una politica di equilibrio gli umori dei suoi pericolosi vicini ; la chiesa, realtà italiana ed internazionale, sapientemente adattava la severità censoria della Controriforma secondo i papi e le occasioni. Se i confini degli stati italiani e stranieri furono dunque molti, ben pochi, a conferma dell’imponente evoluzione delle scienze fisiche e morali dei secoli xvii e xviii, lo furono nella repubblica letteraria, considerando anche la costante attenzione con cui si catalogavano, per esempio nel « Giornale de’ Letterati » di Firenze, e si recensivano libri provenienti da Londra, da Parigi, da Amsterdam, da Utrecht, da Lipsia, da Tubinga, da Vienna, da Ginevra, da Amburgo e dall’Aja. Contemporaneamente al « Philosophical Transactions », organizzato in Inghilterra dalla Royal Society in modo che fosse un periodico « per trasmettere al pubblico dei dotti i risultati delle scoperte scientifiche », sorse in Francia il 5 gennaio del 665 « Le Journal des Scavans » o in seguito « Le Journal des Savants », che fu il più antico giornale letterario francese. Francois Eudes de Mézeray, storico insigne, ottenne prima del 665 un privilegio per un foglio destinato a « faire “scavoir” ce qui se passe de nouveau dans le monde des lettres ». 4 Doveva contenere l’indicazione delle opere nuove, l’analisi di queste, le notizie sugli scrittori celebri che morivano, le decisioni dei tribunali ecclesiastici e secolari. Il suo primo direttore fu Denis de Sallo, più conosciuto sotto lo pseudonimo di sieur de Hédouville, consigliere al parlamento di Parigi (652) e amico di Colbert. 5 Le proteste dei cattolici per le posizioni gianseniste del giornale, indussero Colbert a chiuderlo il 30 marzo del 665. Il 6 gennaio 666 riprendeva la pubblicazione diretto dall’abate Gallois (666-74), che però lo fece apparire, da settimanale qual era, in ma4. Marco Santoro, Libri/periodici : un rapporto ambiguo ?, « Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari », xi, 997, pp. 25-26. 5. Ivi, p. 27.

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niera intermittente. Nel 674 l’abate Jean-Paul de La Roque, mediocre scrittore ma direttore più scrupoloso, lo sostituì fino a che “il presidente Cousin”, come in Francia veniva nominato Louis Cousin, erudito e membro dell’accademia francese, donò ancor più autorità al giornale, lavorandovi dal 687 al 702, quando fu trasformato da Pontchartrain, che formò un comitato di redazione composto da uomini competenti nelle varie discipline. Cessò le pubblicazioni tra il 792 e il 86 per poi riprendere la sua lunghissima avventura, organizzandosi quasi come un’accademia. Il suo successo fece sorgere diverse imitazioni, edizioni parallele e riedizioni, soprattutto in Olanda, dove non aveva effetto il privilegio del re di Francia. L’edizione di Amsterdam aggiungeva articoli di altri giornali, soprattutto dei Mémoires de Trévoux. Tra i collaboratori del giornale furono : Desfontaines, de Boze, de la Piace, de Lalande, Leibniz, Malebranche, Bernoulli. Sulla scorta del « Journal des Scavans » nacquero altresì in Germania gli « Acta Eruditorum », il più antico giornale letterario di questo paese. Lo tenne a battesimo nel 682 Otto Mencke, professore all’università di Lipsia, che nel 680 ne cominciò la preparazione, viaggiando in Olanda e in Inghilterra. 6 Ebbe successo e vi collaborarono studiosi del calibro di Leibniz e di Thomasius. La guerra dei Sette Anni e la negligenza di un redattore, il professor Bel, causarono ritardi nella composizione a stampa o nella distribuzione mensile dei fascicoli, sicché la rivista andò lentamente in crisi e chiuse nel 776, lasciando però una collezione intera con i supplementi di ben centodiciassette volumi. Ma gli « Acta Eruditorum » furono costruiti non solo sul « Journal des Scavans » : Otto Mencke tenne presente anche il « Giornale de’ Letterati », il cui primo numero fu stampato in Roma « con Licenza de’ Superiori » da Nicolò Angelo Tinassi il 28 gennaio 668. 7 Di tre anni minore del “fratello” francese, la rivista italiana ne seguì le orme 6. Sulla stampa periodica francese e la nascita del « Journal des Sçavans » : Cfr. Eugene Hatin, Bibliographie critique et histoire de la presse périodique française, Paris, 865 ; Id., Histoire politique et littéraire de la presse en France, 8 voll., Paris, F. Didot, 886-86 ora Histoire générale de la presse française, Paris, Presses Universitaires de France, 969-976, 5 v. = , Des origines à 1814, a cura di Claude Bellanger, Jacques Godechot, Pierre Guiral, Fernand Terrou, 969. A tre mesi dal giornale francese nel marzo 665 con l’intento di comunicare le esperienze destinate agli scienziati esce in Inghilterra, promosso dalla Royal Society, le « Philosophical Transaction ». Sulla Royal Society e le « Philosophical Transaction » si veda cfr. M. Purver, The Royal Society : Concept and Creation, London, 967 ; Cfr. Dennis E. Rhodes, Libri inglesi recensiti a Roma (1668-1681), « Studi Secenteschi », v (964), pp. 5-60. 7. Sul Giornale de’ letterati di Roma si veda Luigi Piccioni, Il giornalismo letterario in Italia. I. Primo periodo. Giornalismo Erudito-Accademico, Torino-Roma, Loescher, 894, pp. 22-34 ; Adolf Dresler, Geschichte der italianishen Presse, München und Berlin, Verlag von R. Oldenbourg, 933, t. i, pp. 95-96 ; Adalberto Pazzini, Leggendo il primo fascicolo del « Giornale dei letterati » Roma (1668), « Athena », viii (939) 4, pp. 8285 ; Id., Un giornale di 273 anni fa, « Homo », i (94) 30 giugno, pp. 45-46 ; Francesco Fattorello, Il giornale de’ Letterati e i suoi scrittori, « Osservatore Romano », 23 aprile 954 ; Lucio Felici, Giornali romani del Sette e dell’Ottocento, « Palatino », (96) 3-4, pp. 64-66 ; G. Gaeta, Storia del giornalismo, Milano, Vallardi, 966, vol. i, pp. 73-84 ; Giuseppe Ricuperati, Giornali e società nell’Italia dell’« ancien régime » (1668-1789) in Storia della stampa italiana, La stampa Italiana dal Cinquecento all’Ottocento, a cura di Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, Bari, Laterza, 976, pp. 7-372 ; sul « Giornale de’ letterati » romano cfr. le pp. 79-89, poi anche nella Collana Biblioteca Universale Laterza : Capra, Castronovo, Ricuperati, La Stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Bari, Editori Laterza, 986, pp. 7-89 ; Ugo Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Edizioni Edison, 975, vol. iv, pp. 33-42 ; G. Ricuperati, I giornalisti italiani fra poteri e cultura dalle origini all’Unità, in Storia d’Italia, Annali iv : Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi,98, pp. 085-32 ; Id., Periodici eruditi, riviste e giornali di varia umanità dalle origini a metà Ottocento, in Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, v. i : Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 982, pp. 92-943 ; Carlo Barbieri, Il giornalismo dalle origini ai nostri giorni, Roma, Centro di documentazione giornalistica, 982 ; Jean-Michel Gardair, La naissance des périodiques savants en Italie : le « Giornale de’

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per sua stessa ammissione, sebbene non esplicita. C’è intanto da chiedersi come mai un simile periodico, che si rivolgeva a un pubblico diverso da quello delle comuni gazzette e che richiedeva redattori attenti alle manifestazioni culturali più che alle novelle in senso giornalistico, avesse origine nella Roma controriformistica e non a Firenze o a Venezia. A compilare il « Giornale de’ Letterati » tra il 668 e il 675 fu il bergamasco Francesco Nazari, professore di filosofia alla Sapienza di Roma, che però dal 676 cambiò stampatore e proseguì con una serie sua ben distinta dall’originale fino al 679, mentre il romano Giovanni Giustino Ciampini, che ebbe notevoli interessi fisico-matematici, restò dallo stampatore Tinassi fino al 68, quando subentrò il fiorentino Francesco Maria Vettori, con cui si spense nel 683. L’internazionalità del « Giornale de’ Letterati », nello spirito della repubblica letteraria e nell’opportunità tutta giornalistica di attingere da più fonti notizie altrimenti destinate all’oblio per le difficoltà tecniche delle comunicazioni, si vede nella nota che direttamente precede nel primo numero (era mensile) l’articolo con il quale si da « principio all’opera » : Quanto d’utile rechi alla Repubblica letteraria la notitia de’ buoni libri assai manifestamente appare, mentre che altri non resta ingannato dalle grandi promesse de’ frontispicij, alle quali ben spesso i libri non corrispondono, e sa dove cercar le dottrine, e l’eruditioni ne’ suoi bisogni. Quindi è, ch’ il Giornale de i dotti, o eruditi, o vogliamo dire de i letterati pochi anni sono introdotto in Parigi, ed imitato altrove è stato ricevuto con molto applauso, poiché riferisce i titoli de’ libri nuovi, e fa di quelli un ristretto, portando, qualche cosa delle più singolari che siano in essi, il che reca non ordinario di-i letto. S’accresce poi di gran lunga questo per gli esperimenti, osservationi, e ; curiosità naturali che vi pone, in modo che la lettura del sudetto Giornale ha mosso molti poco pratici della lingua Francese a desiderarne la traduttione, et altri, i quali, benché intendano quell’Idioma non possono haver commo-,- ;. dita di farlo venire, o d’haverlo per leggere a lor’agio. E noi per servire alla, curiosità di questi ci siamo volentieri indotti ad abbracciar questa fatica, e, vogliamo che non sia senza un atto di gratitudine verso l’Autore del Giornal : Francese, al qual vogliamo nell’istesso genere dare proportionata corrispon--denza cioè a dire una relatione dell’esperienze naturali, e curiosità, che s’anderanno osservando in Italia, e de’ libri ch’in essa si stamperanno.

Da questa nota distintamente appaiono i motivi che stanno alla base dell’atto di nascita del « Giornale » : per evitare agli studiosi di immergersi in cattivi libri, magari ingannati dalle esagerazioni delle « promesse de’ frontispicij », occorre segnalare loro quelli « buoni » e altresì indirizzarli bibliograficamente nelle ricerche ; lo strumento più serio ed elogiato in atto è « Le Journal des Sçavans », che però i dotti, al di là della conoscenza della lingua francese, non hanno “comodità” a ricevere : per questo ne auspicano la traduzione che viene di buon grado condivisa e accettata dalla redazione. È la parte passiva e di servizio. Quella attiva è di costituire un mezzo di scambio, di dare cioè anche al periodico francese i dati delle pubblicazioni italiane per rafforzare i legami democratici della repubblica letteraria. Essendo il « Giornale de’ Letterati » di non agevole reperibilità, è didatticamente utile sottoporre all’attenzione del lettore almeno la composizione del primo numero, in modo che si faccia un’idea di come era costruito. Sono sedici pagine di articoli di vario contenuto e disposti di seguito senza spazi letterati » de Rome (1668-1681), estratto da Atti ix-Ce.R.D.A.C. (977-78), Milano, Cisalpino-Goliardica, pp. 37-327 ; Id., Le « Giornale de’ letterati » de Rome (1668-1681), Firenze, Leo S. Olschki, 984 ; Marco Santoro, Libri/periodici :un rapporto ambiguo ?, cit., pp. 27-28.

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divisori, come del resto voleva allora la consuetudine tipografica, che non distingueva i periodici dai libri. 8 Lo schema di cui si è appena parlato si ripetè nel tempo ovviamente con l’aggiunta di altre materie e di un indice annuale. Di letterario secondo l’accezione corrente ebbe ben poco ed è quasi assente la poesia ; lo spazio del periodico fu insomma prevalentemente distribuito tra le scienze (fisica, matematica, medicina, anatomia, astronomia, chimica), la storia, il diritto e la teologia. Al padre domenicano Giacinto Libelli, al tempo Segretario della Congregazione dell’Indice e Maestro del Sacro Palazzo, che era in sostanza il responsabile della censura, lo stampatore Nicol’Angelo Tinassi dedicava nel 669 l’intera annata, documentando, ancora una volta, come questo tentativo avesse l’appoggio delle autorità ecclesiastiche : Ella ha promossa co’ suoi autorevoli uffici quest’opera molto tempo avanti che si cominciasse e la protegge tuttavia e la felicità colla quale cammina deesi all’aura, che le dà la virtù sua, e il suo valore ; dal quale si come io posso promettermi ogni favore acciocché si sparga pel mondo, e rimangano per tutto commendate le mie stampe ; così possono gli huomini eruditi promettersi d’haver da godere per lungo tempo il frutto di queste virtuose fatiche [28 gennaio 669].

Da questa dedica si può ricavare che alla fine del primo anno Francesco Nazari era ormai il principale curatore, inoltre il fatto che l’annata avesse una numerazione progressiva, e che erano raccolti annualmente in un unico volume, stanno a significare che si era ancora lontani dall’idea di giornale. Con la qualifica di letterati si riunirono ricercatori, studiosi, eruditi, intellettuali di ogni genere, a cui l’informazione bibliografica, indispensabile per conoscere ciò che si stampava nei centri del sapere europeo, era di valido aiuto ai progressi della cultura in un secolo, il Seicento, tutt’altro che vuoto e superficiale e già in tal senso annunciante il Settecento. Il giornalismo faceva con i fogli dei letterati (e quello di Roma è il primo di un lungo elenco) un salto di qualità e dalle notizie del menante, con la sua smania di 8. Quattro sono gli articoli o meglio le recensioni di volumi italiani (pp. 4-8) : Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento, sotto la protezione del Sereniss. Prencipe Leopoldo di Toscana (667) ; Annali Ecclesiastici tratti da quelli del Cardinal Baronia per Oderico Rinaldi Irivigiano Prete della Congregazione dell’Oratorio di Roma (668) ; De Sanctissima Trinitate ex antiquorum Hebraeorum testimonijs evidenter comprobata Discursus Josephi Ciantes Roma ni Episcopi Marsicensis (667) ; Vite de’ pittori antichi scritte, et illustrate da Carlo Dati nell’Accademia della Crusca lo Smarrito (667). Ci sono poi (pp. 8-) le Osservationi fatte in Roma della Stella rinascente nel Collo della Ealena li 14. Gennaro 1668. hor. 2. n. s. per avviso ricevuto dal Sig. Cassini Primario Astronomo di Bologna : anziché la recensione di un libro queste Osservationi costituiscono appunto il succo di un avviso scritto appositamente per l’avvenimento astronomico e subito per l’autorità dell’autore pubblicato sulla rivista. Le ultime pagine (-6) sono dedicate sia all’estratto del 28 novembre 667 del « Journal des Sçavans », in cui si evidenziano gli annali ecclesiastici di Odorico Rinaldi, erudito oratoriano, le relazioni di stampo storico-geografico che l’ambasciatore Garcias de Silva Figueroa inviava al suo governo dalla Persia, tradotte in francese dallo spagnolo, la Historia Augusta, cosiddetta dei sei (Elio Sparziano, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco, Elio Lampridio e Giulio Capitolino), che dettarono le vite degli imperatori romani da Adriano a Marco Aurelio Carino, egualmente tradotta in francese dal latino, e il riassunto di una conferenza su un grande pesce disseccato tenuta a Parigi presso la biblioteca del re ; e sia all’estratto « del Giornale d’Inghilterra », sicuramente per l’accenno alla Royal Society il « Philosophical Transactions », che discute sulla maniera di mantenere in vita un cane senza il torace e il diaframma, cosa per noi di orribile ferocia, perché al povero animale, che era sveglio, « gli si tagliò un pezzo di polmone » già forato all’esterno « colla punta d’un acutissimo temperino » : e ciò per dimostrare che immettendo aria in questo polmone gravemente ferito esso poteva tirare avanti.

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curiosità e di attualità e con i suoi rischi di produrre più rumore che storia e di comunicare anche il falso come se fosse vero, cadendo non di rado consapevolmente nella menzogna, giungeva ad una riva in cui per sperare di crescere e di accasarsi era urgente non differire più la partecipazione al dibattito culturale europeo. E il giornale da qui, dopo essere stato informazione e poi informazione ragionata, diventava dibattito soprattutto nei modelli settecenteschi. Il regesto del primo numero del « Giornale de’ Letterati » ha una sua giustificazione, perché dimostra anche quantitativamente, dopo gli anni più oscuri della Controriforma, una autentica pluralità di prospettive ed una visione universalistica che dal mondo cattolico si spinse nel mondo protestante. Riportiamo i frontespizi del « Giornale de’ letterati » : 668 il // giornale // de // letterati // d.f.n. [di Francesco Nazari], [emblema] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxviii. // Con Licenza de’ Superiori e con Privilegio Così sul frontespizio del primo fascicolo e per emblema due cornucopie intrecciate e nel recto dell’ultima pagina del giornale : Si vendono nella libraria del medesimo Tinassi all’insegna di S. Domenico // al vicolo della Minerva. Per emblema una grande vaso con i manici guarniti di fiori con ai lati due volatili che beccano. 669-674 il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari. // Per tutto l’Anno 669 [embelma] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxix. // Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio Per emblema due cornucopie intrecciate. ; il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari. // Per tutto l’Anno 670 [emblema] // in roma. // m. dc. lxx // Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. Per emblema una cesta di frutta. L’indicazione « Per Nicolò Angelo Tinassi », assente sul frontespizio, figura alla fine della dispensa ; il // giornale // de // letterati.// Per tutto l’Anno 97 // [embelma] in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxi //. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio Per emblema le due cornucopie intrecciate ; il // giornale // de // letterati. // Per tutto l’Anno 973 [emblema] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxiii. Per emblema un piccolo vaso fiorito. il // giornale // de // letterati. // Per tutto l’Anno 974 [emblema] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxiv. Per emblema un piccolo vaso fiorito. 675 il // giornale // de // letterati.// Per tutto l’Anno 675. [embelma] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxv. Per emblema due cornucopie intrecciate ; il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari. // Per tutto l’Anno 675. [embelma] // in roma, // a spese di Benedetto Carrara al Pie-di-Marmo. L’emblema è un piccolo uccello con nel becco un ramo, al centro di una medaglia con intorno delle figure.

I due primi fascicoli recano, nell’ultima pagina, l’indicazione : « In Roma, per Angelo Bernabò. 975. Si Vendono da Benedetto Carrara al Pie-di Marmo » ; il terzo fascicolo « In Roma, per il Mascardi. 675. A spese di Benedetto Carrara al Pie-de-marmo » ; i fascicoli seguenti : « In Roma. Si vendono da Benedetto Carrara al Pie-di-marmo.675 ». Alla fine del volume : « Indice de’ Libri e altre cose riferite da Francesco Nazari ne’ suoi Giornali dell’Anno 675 stampati da Angelo Bernabò ». A partire dal quarto numero del 675 ci fu la divisione redazionale e Tinassi stampa l’edizione redatta dal Ciampini, e il Carrara (Mascardi-Bernabò) stampa per il Nazari.

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Il Tinassi per sottolineare il proprio titolo di proprietà sul primo giornale erudito romano, nel 676 ne ristampa tutti i fascicoli, dal 668 al 675, dedicando l’iniziativa al Cardinale Camillo Massimi : 976 giornali // de letterati // Dall’Anno mdclxviii fino //all’Anno mdclxxv // Dedicati // all’emin.mo rev.mo sig. car. // camillo massimi. // “In Roma Per il Tinassi // mdclxxvi Con Licenza de’ Sup. Il titolo è posto sul frontale di un piedistallo che supporta lo stemma del cardinale con ai lati due figure femminili allegoriche (la Giustizia e la Sapienza).

Esaminiamo le edizioni del Ciampini : 676-679 il // giornale // de // letterati. // Per tutto l’Anno 676. [embelma]// in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxvi // Con Licenza de’ Superiori e privilegio [sq.]. Per emblema due cornucopie intrecciate che nel frontespizio dell’annata 679 è talvolta sostituito dalla figura di un personaggio scimmiottesco che è in parte ricoperto di foglie e che sostiene una monumentale cesta di frutta e rami. 680-68 Nessun frontespizio.

Le edizioni del secondo giornale del Nazari sono : 676-78 il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari. [embelma] // in roma. // Per Nicolò Angelo Tinassi. // m.dc.lxxvi // Per tutto l’Anno 676 // Con Licenza de’ Superiori e Privilegio [sq.] A spese di Benedetto Carrara a Pie-del-marmo. Per emblema un piccolo uccello con nel becco un ramo, al centro di una medaglia con intorno delle figure.

Nel 676 a partire dal sesto numero alla fine del fascicolo al posto dell’indicazione « Per il Mascardi. A spese di Benedetto Carrara » troviamo « Per Angelo Bernabò. A spese di Benedetto Carrara ». 676-77 il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari. // Per tutto l’Anno 676[-77]. [embelma] // A spese di Benedetto Carrara a Pie-del-marmo. Per emblema un cesto con frutta. 677-679 il // giornale // de // letterati // Di Francesco Nazari.// Anno Decimo 677 [Anno Undecimo 678, Anno Duodecimo 679]. [emblema] // In Roma. Con licenza dè Superiori e Privilegi. 677[-78, 79]. L’emblema è un cesto con frutta. Assente dal frontespizio l’indicazione « Per il Mascardi » che figura alla fine del fascicolo.

Il paratesto nei significativi periodici esaminati si uniforma per lo più alla produzione libraria. Anche nei periodici troviamo, oltre ai frontespizi, le dediche e i privilegi, xilografie, incisioni e stampe di stemmi ed emblemi. A tratti si prelude alle forme e alla disposizione delle notizie al più moderno giornale politico che sostanzialmente si conferma a partire dal sec. xix. Abstract Si evidenziano le varie forme paratestuali in quattro “avvisi” a stampa. Il primo della fine del Cinquecento stampato a Roma dagli eredi di Antonio Blado nella Stamperia Camerale e tre di Lodovico Grignani anche stampate a Roma nel Seicento. Di alcuni periodici del Seicento, in particolare del “Giornale de’ Letterati” di Roma del 668 redatto da Francesco Nazario e Giovanni Giustino Ciampini, si colgono importanti elementi del paratesto.

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Various paratexual forms are shown in four printed “notices”. The first was printed in Rome at the end of the 500s by the heirs of Antonio Blado at the Camerale Printing-works and three by Lodovico Grignani, also printed in Rome in the 600s. Important paratextual elements are selected from several 7th-century periodicals, in particular the «Giornale de’ Letterati» of Rome published in 668 by Francesco Nazario and Giovanni Giustino Ciampini.

Roger Chartier PARATESTO E PRELIMINARI. CERVANTES E AVELLANEDA

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ell’introduzione a Seuils, Gérard Genette, dopo aver definito il paratesto come il « vestibolo », la « frangia », la « zona di transizione […] che consente a un testo di divenire libro e proporsi come tale ai lettori, e più in generale al pubblico », osserva che : « I percorsi e gli mezzi del paratesto mutano incessantemente secondo le epoche storiche, le culture, i generi, gli autori, le opere, le edizioni di una stessa opera, a volte con significative differenze di impostazione ».  Spingendo oltre l’intento tassonomico, egli distingue, come sappiamo, due classi di elementi paratestuali : il peritesto, riscontrabile nel libro stesso (titolo, epigrafe, prefazione, avvertenze, introduzione, note, illustrazioni, ecc.) ed epitesto, situato all’esterno del libro (corrispondenza, diari intimi, interviste, ecc.). Ciascuno di tali elementi ha una propria storicità, ma il libro non ha lo scopo di esplicitarla : « Si tratta di uno studio sincronico e non diacronico, un quadro generale, non la storia del paratesto ». Questo richiamo è utile per evitare le false querelle troppo spesso ingaggiate dagli storici contro gli approcci strutturalisti che giudicavano un modo errato di affrontare la storia. Ma Gérard Genette afferma che : « Questo intendimento non è ispirato dal disprezzo verso la dimensione storica, ma ancora una volta dalla convinzione che sia opportuno definire l’oggetto di studio prima di valutarne l’evoluzione ». 2 L’apparente ovvietà di tale affermazione non deve impedirci di avanzare alcune domande. Siamo sicuri, infatti, che il paratesto sia una categoria dotata di una pertinenza trans-storica e che i caratteri e le concatenazioni degli elementi che lo compongono debbano essere considerati come semplici varianti o evoluzioni di una realtà testuale definita nella sua universalità ? Non si corre forse il rischio di cancellare la specificità delle configurazioni testuali che derivano la loro unicità dalle condizioni tecniche e sociali che regolano, con notevoli differenze a seconda delle epoche, la pubblicazione e l’approvazione delle opere ? Se così è, la nomenclatura formale degli elementi che costituiscono il paratesto potrebbe essere di scarso aiuto per comprendere le logiche che governano, nella discontinuità, la loro composizione e articolazione. Per darne una dimostrazione, prenderò in esame gli elementi che introducono le due versioni della Seconda Parte del Don Quijote : il Secundo Tomo del Ingenioso Hidalgo Don Quixote de la Mancha, pubblicato da Alonso Fernández de Avellaneda nel 64 e la Segunda Parte del Ingenioso Cavallero Don Quixote de la Mancha, pubblicata da Cervantes nel 65. Ma prima, come Don Chisciotte nel capitolo lxii della Seconda Parte, bisogna entrare nella bottega dello stampatore.

. Gérard Genette, Seuils, [978], Paris, Editions du Seuil, Points Essais, 987, pp. 8-9. 2. Ivi, p. 9 (traduzione italiana : Soglie I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 989).

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Ai tempi “dell’Ancien Régime della stamperia”, tra la metà del xv e l’inizio del xix secolo, esistevano precisi vincoli che regolavano la presentazione e le relazioni degli elementi peritestuali disposti prima del titolo iniziale o alla prima frase dell’opera stampata nel libro. Tale specificità è immediatamente visibile sulle stesse pagine : mentre le segnature dei quaderni su cui è stampato il testo in genere sono costituite da lettere maiuscole dell’alfabeto latino romano (A, B, C…), le segnature dei quaderni introduttivi sono differenti e molto varie : minuscole romaniche o italiche, vocali con tilde (ã, õ) o simboli (*, §, ¶, &). A tale differenziazione tipografica corrisponde uno scarto temporale. In tutte le stamperie europee, la prassi era di comporre i quaderni introduttivi e le parti finali (tavole, indici, errata corrige) una volta terminata la stampa dei quaderni corrispondenti al testo dell’opera. 3 I testi integrativi potevano essere inseriti senza problemi nella serie di segnature in maiuscole romane alla fine del libro, ma ciò non era possibile per i fogli introduttivi, che dovevano ricevere una serie di segnature particolari. Tutti gli elementi paratestuali che costituiscono la « soglia » o il « vestibolo » del libro (esaminati da Gérard Genette nei capitoli dedicati a titoli, dediche ed epigrafi ) hanno quindi una loro unità evidenziata tipograficamente in tutti i libri stampati grazie alla tecnica ideata da Gutenberg (o Coster o Fust, secondo le preferenze degli autori antichi). Le ragioni sono molteplici. Da un lato, alcune scritture nei fogli introduttivi, come, nella Castiglia del Secolo d’Oro, la « Fe de errata » o il « Testimonio de errata » (che constata la piena conformità del libro stampato al manoscritto posto al vaglio della censura) o la « Tasa » (che definisce il prezzo massimo di vendita del libro in base al numero di quaderni), possono essere composte solo dopo la stampa del corpo dell’opera. Tutti i “privilegios” del Secolo d’Oro siglati « Yo el Rey » fanno espresso divieto al tipografo di stampare il primo quaderno (« piego ») del libro o di consegnare più di un’esemplare all’autore o al librario prima che lo abbiano « corregido y tasado », controllato e tassato, i funzionari del Consiglio del Re. Successivamente, questo primo quaderno potrà essere stampato solo a condizione di avere il privilegio o la licenza del re, l’approvazione dei revisori con il relativo tributo e la « fe de errata ». D’altro canto, il fatto che le scritture nei fogli introduttivi abbiano lunghezze alquanto differenti induce a raggrupparle negli stessi fogli al fine di economizzare sulla carta, che rappresentava, nel bilancio di un’edizione, la voce più rilevante (fino al 60%). La pratica di stampare per ultimi i quaderni contenenti i fogli introduttivi comporta diverse conseguenze. Infatti, consente di capire che quando i fogli introduttivi (o peritesto vestibolare) sono stampati nel primo quaderno del libro, con la segnatura A, A2, A3, ecc., o sono composti (nei due sensi del termine) contemporaneamente all’opera stessa o sono una riedizione che riproduce letteralmente il testo stampato, 3. Cfr. Philip Gaskell, A New Introduction to Bibliography, Oxford, At the Clarendon Press, 972, pp. 7-8 (« The preliminaries were not included in the main signature series of new books because it was usual to print them last ») e Jeanne Veyrin-Forrer, Fabriquer un livre au XVIe siècle, in *Histoire de l’Edition française, tomo ii, Le livre triomphant. Du Moyen Age au milieu du XVIIe siècle, sotto la direzione di Roger Chartier e Henri-Jean Martin, Paris, Fayard-Cercle de la Librairie, 989, pp. 336-369 (in particolare, p. 345 : « Normalmente, è dal testo principale che inizia la realizzazione di un nuovo libro, i fogli introduttivi, i titoli, le dediche, la prefazione e i privilegi erano composti e stampati per ultimi, contemporaneamente con le parti finali, le tavole e gli indici, oltre, all’occorrenza, l’errata corrige »).

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utilizzandolo come copia. Nella prima ipotesi, l’attribuzione dei testi « dell’istanza prefazionale » (dediche, prefazioni, avvisi) diviene più probabile quando i fogli introduttivi occupano un quaderno a parte e possono essere opera dell’editore, con o senza il suo nome. 4 I manoscritti utilizzati come copie nelle stamperie confermano questa seconda ipotesi nella misura in cui riportano solo raramente le dediche che appariranno sulle edizioni stampate delle stesse opere. Almeno questo è quando dimostra l’eccezionale serie di manoscritti conservati presso la Biblioteca Nazionale e l’Archivo Histórico Nacional di Madrid. 5 Il controllo dei fogli introduttivi da parte di stampatori e librai è un fatto accertato. Si prenda, ad esempio, il primo manuale sull’arte tipografica, destinato ai confessori, che Juan Caramuel Lobkowitz, abate del monastero di Emmaüs a Praga e successivamente vescovo di Satriano et Campagna, scrisse in latino e pubblicò nel tomo iv della sua Theologia moralis fundamentalis, pubblicata a Lione nel 664. 6 Nell’articolo viii, Caramuel afferma a proposito di dediche, prologhi e indici che : « Lo stampatore o il libraio che provvedono alle spese dell’edizione si fanno carico sempre o quasi sempre di questi tre elementi. Poiché raramente si tratta di letterati, commettono molti errori in ciascuno di essi ». E, a proposito delle dediche, aggiunge : « Dedichiamo i libri ai nostri amici, o lasciamo che lo stampatore li dedichi ai principi ». 7 Un altro effetto della pratica tipografica invalsa nei secoli xvi-xviii è di dare unità nei fogli introduttivi a testi che per origine, ruolo e funzione sono invece estremamente eterogenei, benché legati da una serie di rapporti intricati. In primo luogo, la relazione che l’autore stabilisce con i suoi protettori o i lettori grazie alla dedica e al prologo. Ma, oltre a questo rapporto che ha focalizzato l’attenzione paratestuale, si tratta anche di altre relazioni presenti nei preliminari : tra il monarca e l’autore a cui accorda un privilegio, tra i revisori e le autorità che li hanno incaricati di esaminare l’opera, tra il re, i suoi consiglieri o i ministri e tutti coloro (librai, giudici, funzionari) che devono rispettare o far applicare i regolamenti di disciplina del libro. In tal senso, i fogli introduttivi di un libro antico delineano e articolano un complesso insieme di relazioni di potere che va ben oltre le semplici strategie incentrate « sul pubblico e tese, in modo più o meno consapevole ed efficace, a migliorare l’accoglienza del testo e stimolare una lettura più pertinente ». 8

4. Per un esempio di editore autore di prologhi, cfr. Mary Beth Winn, Anthoine Vérard, Parisian Publisher 1485-1512. Prologues, Poems, and Presentations, Genève, Librairie Droz, 997, pp. 4-69 e Aldo Manuzio editore. Dediche, Prefazioni, Note ai testi, introduzione di Carlo Dionisotti, Milano, Il Polifilo, 975. 5. Pablo Andrés Escapa et alii, El original de imprenta, in *Imprenta y crítica textual en el Siglo de Oro, Estudios publicados bajo la dirección de Francisco Rico, Valladolid, Centro para la Edición de los Clásicos Españoles, 2000, pp. 29-64 (in particolare, p. 40 : « Es frecuente que lasdedicatorias o los poemas nuncupatorios que hallamos impresos al comienzo de los libros no figuren en el manuscrito original. Sabemos que estos inicios, junto con los textos legales, se imprimían en último lugar y se relegaban al primer pliego »). 6. Per una edizione e una traduzione spagnole recenti di questo testo, cfr. Juan Caramuel, Syntagma de Arte Typographica, Edición, traducción y glosa de Pablo Andrés Escapa, Salamanque, Instituto de Historia del Libro y de la Lectura, 2004, pp. 34-43 (traduzione italiana : Il “Syntagma de arte tipographica” di Juan Caramuel ed altri testi secenteschi sulla tipografia e l’edizione, a cura di Valentino Romani, Roma Vecchiarelli, 988). 7. Ivi, pp. 86-89. 8. Gérard Genette, Seuils, cit., p. 8.

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Il trattamento dei fogli introduttivi della Prima Parte (benché non lo fosse ancora) del Don Quijote, stampata alla fine del 604 e pubblicata con la data del 605, illustra i rapporti che intercorrono tra le varie scritture che vi compaiono. 9 Le traduzioni francesi riportano solo le scritture attribuibili all’autore della storia e rigettano tutte le altre. La più rigorosa è quella di Louis Viardot, ripresa dall’edizione Garnier-Flammarion : vi figura solo il famoso « prologo sulla vanità dei prologhi ». 0 L’edizione di Aline Schulman è più generosa perché include la dedica al duca di Bejar, il Prologo (intitolato « Al lettore ») e i dieci poemi burleschi dedicati, come recita il testo spagnolo, « Al libro di Don Chisciotte della Mancia ».  L’edizione pubblicata sotto la direzione di Jean Canavaggio per La Pléiade riprende la stessa formula : dedica, prologo, poemi introduttivi. 2 Nessuna di queste recenti edizioni fornisce una riproduzione della pagina del titolo, una traduzione della « tasa » e del « testimonio de errata » o della « licencia y facultad y privilegio » del re. Si direbbe che queste scritture non aiutino la comprensione del testo che questo primo peritesto suggerisce al « desocupado lector » a cui si rivolge il prologo. Forse. Ma, in primo luogo, l’assenza delle scritture ufficiali impedisce al lettore di comprendere i meccanismi di revisione e stampa che hanno condizionato la pubblicazione del Quijote, che peraltro in sede di tributo e privilegio appariva con il titolo El ingenioso hidalgo de la Mancha. 3 Inoltre, l’assenza di qualsiasi riproduzione della pagina del titolo allontana il lettore contemporaneo dal primo di tutti i paratesti donchisciotteschi. La pagina del titolo rappresenta molto di più del titolo stesso a cui viene ridotta dalle traduzioni. Da una parte, come ho cercato di dimostrare altrove, 4 lo spazio visuale della pagina del titolo chiarisce le tre realtà che governano qualsiasi processo letterario del Secolo d’Oro : la rivendicazione di una paternità sul testo che il prologo e poi la finzione del Cide Hamete Benengeli smentiranno ironicamente, il rapporto di patronato tra lo scrittore e il duca di Bejar, i cui titoli occupano quattro righe, e l’economia dell’edizione che suppone l’autorizzazione reale (« Con privilegio »), il lavoro della stamperia (presente nel titolo in virtù dell’imponente emblema di Juan de la Cuesta) e l’impresa del libraio editore che ha finanziato l’edizione e ne vende gli esemplari (« Vendese en casa de Francisco de Robles, librero del Rey nuestro Señor »). D’altro canto, le prime tre righe del titolo, « El Ingenioso / Hidalgo Don Qui/ xote de la Mancha » indicano immediatamente il registro comico con cui vengono trattate le avventure dell’eroe : un hidalgo, un piccolo nobile di provincia, che in alcun 9. Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, Edición del Instituto Cervantes, Dirigida por Francisco Rico, Barcelone, Instituto Cervantes-Crítica, 998, pp. -34. 0. Miguel de Cervantes, L’Ingénieux hidalgo don Quichotte de la Manche, traduzione di Louis Viardot, [837], Paris, Garnier-Flammarion. 969, tome i, pp. 4-48. . Miguel de Cervantes, L’Ingénieux hidalgo don Quichotte de la Manche, traduzione di Aline Schulman, Paris, Editions du Seuil, 997, tomo i, pp. 2-39. 2. Miguel de Cervantes, L’Ingénieux Hidalgo Don Quichotte de la Manche, in Don Quichotte suivi de La Galatée, Oeuvres romanesques, I, Edizione pubblicata sotto la direzione di Jean Canavaggio, con, per questo volume, la collaborazione di Claude Allaigre e Michel Moner, Paris, Gallimard, 200, pp. 387-407. 3. Questo processo è ricostituito da Francisco Rico, Historia del texto, in Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, cit., pp. cxcii-cxcv. 4 Roger Chartier, Culture écrite et société. L’ordre des livres (XIVe-XVIIIe siècle), Paris, Albin Michel, 996, pp. 6-63.

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modo può aspirare al titolo di « Don » ; « el quijote », inoltre, è un pezzo di armatura e il suffisso « –ote », staccato dalla cesura, assume una connotazione grottesca o divertente. Il lettore del 605 capiva immediatamente cosa aspettarsi dal testo. 4. Quello della Segunda Parte della storia, apparsa nel 65, entra nel libro grazie a fogli introduttivi al contempo familiari e singolari. 5 Come al solito, la pagina del titolo, la « Tasa » e la « Fe de errata » sono le prime scritture del primo quaderno, mentre il « Privilegio », il « Prólogo al lector » e la « Dedicatoria al conde de Lemos » sono le ultime. Ma tra le une e le altre, il libraio editore Francisco de Robles o lo stampatore (che non è più Juan de la Cuesta, partito da Madrid nel 607, nonostante la sua marca sia sempre presente nella pagina del titolo) hanno introdotto tre testi, firmati rispettivamente dal vicario generale di Madrid, il Dottor Gutierre de Cetina, e da due cappellani (anch’essi poeti) del Cardinale don Bernardo de Sandoval y Rojas, allora arcivescovo Toledo : il “maestro” Josef de Valdivielso e il “licenciado” Márquez Torres. I primi erano stati incaricati su commissione del Consiglio del Re, mentre il terzo su commissione del vicario generale di Madrid, di esaminare il manoscritto del libro per accertarsi che non contenesse nulla contro « la nostra sante fede cattolica e i buoni costumi » (« No contiene cosa contre nuestra fe católica ni buenas costumbres »). Tutti e tre concordavano sul giudizio e i testi delle rispettive “aprobación” venivano pubblicati nei fogli introduttivi. Il ruolo specifico delle tre autorizzazioni, che in effetti sono documenti con valore giuridico e rappresentano una parte essenziale del meccanismo di revisione, nonché degli encomi letterari alla maniera dei poemi introduttivi, fa sì che le recenti traduzioni non possano più ignorarli sistematicamente, pur continuando a trascurare la pagina del titolo, la « Tasa », la « Fe de errata » e il privilegio. Se la traduzione di Aline Schulman si limita al prologo e alla dedica di Cervantes, quella diretta da Jean Canavaggio li traduce e li pone davanti ai due testi introduttivi dell’autore. 6 L’esame delle scritture riportate sul primo quaderno del libro del 65 mostra, in primo luogo, che sono presentate nell’opera in ordine inverso rispetto alla cronologia delle varie fasi del processo che porta alla pubblicazione. Nel Secolo d’Oro, questo processo comincia con la presentazione al Consiglio del Re di un manoscritto in bella copia (« copia en limpio ») dell’opera e la designazione da parte del Consiglio dei revisori che dovranno esaminarlo ed eventualmente autorizzarlo. Le tre autorizzazioni nei fogli introduttivi costituiscono la traccia di questo primo momento, perché riportano le date del 27 febbraio, del 5 marzo (novembre è stato composto per errore) e del 7 marzo 65. Il testo, una volta approvato, può ricevere l’autorizzazione alla stampa (« Puédesele dar licencia para imprimirle »). Quest’ultima assume la forma di un privilegio reale, collocato dopo la terza approvazione e datato 30 marzo 65. Il re, o il suo segretario Pedro de Contreras, rammenta l’approvazione dei revisori, accorda un privilegio di stampa di dieci anni (e non venti, come richiesto da Cervantes) e indica le fasi future, ossia la verifica della conformità tra gli esemplari stampati e il manoscritto siglato e firmato (« rubricado y firmado ») da un notaio della Camera del 5. Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, cit., pp. 605-623. 6. Miguel de Cervantes, L’Ingénieux hidalgo don Quichotte de la Manche, cit., tomo ii, pp. 7-2, e Cervantès, L’Ingénieux Hidalgo Don Quichotte de la Manche, in Miguel de Cervantes, Don Quichotte suivi de La Galatée, Oeuvres romanesques, I, cit., pp. 89-902.

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Re, Hernando de Vallejo, quindi la redazione della « Fe de erratas » e della « Tasa », che consentono di procedere con la stampa del primo quaderno e la pubblicazione del libro. Gli ultimi documenti del processo di revisione, errata corrige e tributo, sono i primi testi nei fogli introduttivi, sul recto della pagina del titolo, e portano entrambi la stessa data : 2 ottobre 65, quasi sette mesi prima della stampa del libro. La stampa viene completata in novembre, con il primo quaderno che comprende la prima pagina, quella del titolo e, negli ultimi fogli, il prologo al lettore e la dedica al conte di Lemos, del 3 ottobre 65. Ridistribuendo all’inverso le varie scritture che autorizzano la pubblicazione, i fogli introduttivi introducono nel libro i differenti titoli del re sovrano. L’approvazione dei revisori attesta che il re è il difensore della fede e delle tradizioni cristiane. Il tributo, che fissa il prezzo del libro al pubblico, designa il re come protettore del bene comune. Il privilegio assicura la giusta remunerazione dell’autore e di quanti provvederanno a stampare e vendere la sua opera e minaccia sanzioni molto pesanti a coloro che violeranno il monopolio editoriale accordato. Con una concessione che suona come una grazia, con il re che tutela le proprietà acquisite in virtù del lavoro e dello studio (« trabajo y estudio »), si lascia intendere che il monarca non è un despota. Il primo personaggio che il lettore incontra nei fogli introduttivi, pertanto, è il proprio sovrano. Il secondo è l’autore, Miguel de Cervantes Saavedra, lodato tre volte dai revisori approvatori. I loro testi collocano il libro, che hanno letto e che il lettore si accinge a leggere, in un ambito compreso tra lo svago e l’etica. Il vicario Gutierre de Cetina lo fa in modo laconico : « è un libro che procura un divertimento lecito ed è ricco di insegnamenti di filosofia morale » (« es libro de mucho entretenimiento lícito, mezclado de mucha filosofía moral »). Analogamente al Dottor vicario, il poeta e drammaturgo Josef de Valdivielso qualifica l’opera senza fare riferimento al genere, ma a partire dagli effetti (il riso e il divertimento) e dalle intenzioni (la canzonatura e la messa al bando dei romanzi di cavalleria). Il lessico, che caratterizza la Prima Parte del 605 e che condiziona le aspettative del lettore della seconda, è quello della satira : « l’autore [...] mischia il serio al divertente, il piacere all’utile, l’edificante al faceto, nascondendo nell’esca del divertimento l’amo del biasimo » (« mezclando las veras a las burlas, lo dulce a lo provechoso y lo moral a lo faceto, disimulando en el cebo del donaire el anzuelo de la reprehensión »). L’accento è lievemente differente in Márquez Torres, anch’egli poeta ma anche « arbitrista » come dimostra la sua memoria sullo stato del reame indirizzata a Olivares. Nella sua approvazione, la lode della verve satirica e comica del Quijote lascia spazio alla celebrazione dell’insegnamento morale (« reprehensión cristiana »), la purezza della lingua (« la lisura del lenguaje castellano ») e l’erudizione (« erudición ») del libro – queste ultime due lodi non erano prive di vis polemica verso quanti, Lope de Vega in testa, si erano beffati dell’ignoranza di Cervantes, « ingenio lego », e della goffaggine della sua scrittura. Tale elogio induce Márquez Torres ad ampliare il motivo sottolineato anche nell’approvazione di Valdivielso, ossia la costruzione della figura di Cervantes quale gloria della “nazione”, definita, come nel Tesoro de la lengua castellana o española di Covarrubias del 6, sia in base alla sovranità del re di Castiglia, Aragona e Portogallo sia per l’impiego della lingua “spagnola”. Valdivieslo conclude il suo rapporto di revisione con le seguenti parole : « Si tratta di un’opera ben degna di questo grande spirito, che contribuisce all’onore e alla gloria della nostra nazione e induce l’ammi-

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razione e l’invidia degli altri paesi » (« Es obra muy digna de su grande ingenio, honra y lustre de nuestra nación, admiración y invidia de las estrañas »). Márquez Torres riprende il tema, dichiarando che i libri di Cervantes sono stati « unanimemente accolti da un concerto di lodi, sia per il decoro e la decenza sia per la soavità e la dolcezza dei discorsi, in Spagna, Francia, Italia, Germania e Fiandre » (« libros que con general apauso, así por su decoro y decencia como para la suavidad y blandura de sus discursos, han recebido España, Francia, Italia, Alemania y Flandes »). Inoltre, ricorda che due giorni prima della redazione della sua approvazione, alcuni gentiluomini francesi al seguito dell’ambasciatore di Francia (a cui il cardinale arcivescovo di Toledo aveva reso visita per discutere del matrimonio tra gli eredi al trono di Francia e Castiglia) gli avevano chiesto informazioni sulle novità letterarie più interessanti. Avendo menzionato la Seconda Parte del Quijote, di cui stava stilando la relazione di revisione, Márquez Torres ascolta i nobili francesi proclamare la stima in cui erano tenute « in Francia così come nei regni limitrofi » le opere di Cervantes : « La Galatea, di cui uno di essi conosceva quasi a memoria la prima parte, e le Novelas » – si tratta evidentemente delle nuove copie pubblicate a Madrid nel 63. (« La Galatea, que alguno dellos tiene casi de memoria, la primera parte desta, y las Novelas »). Il richiamo a questa conversazione non è privo di intenzioni più concrete. Ai gentiluomini che desiderano avere più notizie di Cervantes, il poeta laureato è obbligato a rispondere che « era vecchio, soldato, hidalgo e povero » (« que era viejo, soldado, hidalgo y pobre »), il che induce uno di essi a esprimere la propria sorpresa, ripresa a sua volta dal revisore : « È possibile che la Spagna non abbia fatto la fortuna di un tale uomo, garantendogli il sostegno dell’erario pubblico ? » (« ¿Pues a tal hombre no le tiene España muy rico y sustentado del erario público ? »). Nei fogli introduttivi del 65, le approvazioni o « censuras », secondo la definizione del tempo, svolgono un duplice ruolo. Esse prendono il posto di « sonetti, epigrammi ed elogi » lodativi di cui il Prologo del 608 lamentava la mancanza e in merito ai quali l’amico avveduto affermava che : « a tutto ciò si può trovare rimedio se vi prendete la pena di redigerli voi stesso » (« se puede remediar en que vos mesmo toméis algún trabajo en hacerlos »). 7 Dieci anni dopo Cervantes non si era ancora preso questa pena, ma l’editore o lo stampatore trovarono il modo di provvedere a riguardo, stampando i testi normativi che hanno tutto per supplire all’elogio letterario. 8 Márquez Torres ne è ben consapevole, quando scrive « Temo che la mia revisione censoria sia troppo lunga e forse per alcuni è più simile a un elogio » (« Bien creo que está, para censura, un poco larga ; alguno dirá que toca los límites de lisonjero elogio »). Tale elogio si comprende meglio se si ricostituiscono i legami che uniscono i vari autori delle scritture che compaiono nei fogli introduttivi della Seconda Parte del Quijote. Come ha indicato Anne Cayuela, 9 Valdivielso e Márquez Torres erano entrambi cappellani e protetti di Bernardo de Sandoval y Rojas, cardinale arcivescovo di Toledo, di cui Cervantes loda la carità (« caridad ») alla fine del Prologo al lettore. Inoltre, nel 64 Valdivielso aveva stilato l’autorizzazione per un precedente libro di Cervantes, il 7. Ivi, p. 394, e Miguel de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, cit., p. 4. 8. Per un esempio francese di testi di privilegi redatti in forma di elogio dell’autore, si veda Nicolas Schapira, Un professionnel des lettres au XVIIe siècle. Valentin Conrart : une histoire sociale, Seyssel, Champ Vallon, 2003, pp. 98-5. 9. Anne Cayuela, Le paratexte au Siècle d’Or. Prose romanesque, livres et lecteurs en Espagne au XVIIe siècle, Genève, Librairie Droz, 996, pp. 209-2.

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Viaje del Parnaso, nel 65 è stato il revisore di Ocho comedias y ocho entremeses nuevos, e successivamente, dopo la morte di Cervantes, è stato l’autore nel settembre 66 dell’autorizzazione elogiativa e commossa per Los trabajos de Persiles. Da ciò nasce l’ipotesi secondo cui le differenti autorizzazioni fossero concertate e ben note a Cervantes (forse redatte da lui stesso, nel caso del testo di Márquez Torres), che dialoga con esse nel prologo e nella dedica. 20 Questo sarebbe il secondo ruolo dei fogli introduttivi del 65 : manifestare la solidarietà di una clientela organizzata come un gruppo letterario al servizio di Cervantes, che probabilmente aveva un gran bisogno di tale sostegno. Nell’estate o nell’autunno del 64, in effetti, era stata pubblicata una prima Seconda Parte del Don Chisciotte. La pagina del titolo di questo seguito apocrifo promette il Segundo tomo del Ingenioso hildalgo Don Quixote de la Mancha, que contiene su tercera salida ; y es la quinta parte de sus aventuras (la Seconda parte dell’Ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia, che contiene la terza partita ; e costituisce la quinta parte delle sue avventure]. 2 La « terza partita75 è un’allusione alle ultime pagine del Quijote de 1605 per le quali « solo la fama ha conservato nella memoria della gente della Mancia che Don Chisciotte, la terza volta che lasciò la sua casa, si recò a Saragozza, dove prese parte a un famoso torneo che si tenne in questa città » (« solo la fama ha guardado, en las memorias de la Mancha, que don Quijote la tercera vez que salió de su casa fue a Zaragoza, donde se halló en una famosas justas que en aquella ciudad se hicieron »). 22 La « quinta parte » fa riferimento alla ripartizione in quattro parti del libro pubblicato nel 605, che allora non era affatto la prima parte di un dittico. L’opera si presenta come composta da « el Licenciado Alonso Fernández de Avellaneda, natural de la villa de Tordesillas » – uno pseudonimo che ad oggi, malgrado numerose e ingegnose ipotesi, non è stato chiarito – e stampata a Tarragona da Felipe Roberto. L’analisi delle fonti impiegate per il libro suggerisce che l’indirizzo tipografico stampato sulla pagine del titolo dissimula, in effetti, il luogo dove è avvenuta effettivamente la stampa, che sarebbe la stamperia di Sebastián de Cormellas a Barcellona – ossia quella visitata da Don Chisciotte in occasione del soggiorno a Barcellona, descritto da Cervantes sulla base della propria conoscenza della stamperia di Juan de la Cuesta a Madrid. 23 Il Prologo di Avallenada è un violento attacco rivolto a Cervantes, di cui condanna l’arroganza, dimostrata dal prologo ironico del Quijote e quello, presuntuoso, delle Novelas ejemplares. Egli denuncia anche l’invidia e la meschinità, espresse nelle sue lamentele contro un libro che lo priva dei profitti che contava di ottenere dalla continuazione (« Quéjese de mi trabajo por la ganancia que le quito de su segunda parte »). 24 Le parole sono taglienti, in quanto arriva a schernire l’infermità di Cervantes, un vecchio soldato che, secondo il proverbio, usa più « la lingua che le mani » (« más lengua que manos ») e considera il Quijote non come una « storia », seconda la definizione dello stesso Cervantes, o una satira, come i revisori, ma una « commedia », 20. Michel Moner, Cervantès conteur. Écrits et paroles, Madrid, Casa de Velazquez, 989, pp. 37-38, ed Elias L. Rivers, On the Prefatory Pages of Don Quixote Part II, « mln », lxxv (960), pp. 243-248. 2. Alonso Fernández de Avellaneda, El Ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, Edición de Fernando García Salinero, Madrid, Clásicos Castalia, 97. 22. Don Quichotte suivi de La Galatée, Oeuvres romanesques, I, cit., p. 883, e testo spagnolo, Don Quijote de la Mancha, cit., p. 59. 23. Si tratta dell’ipotesi sostenuta da Francisco Rico in Visitas de imprentas. Páginas y noticias de Cervantes viejo, Discurso pronunciado por Francisco Rico el 10 de mayo de 1996 en ocasión de su investidura como doctor honoris causa por la Universidad de Valladolid, En la casa del lago, 996, pp. 48-49. 24. Alonso Fernández de Avellaneda, El Ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, cit., pp. 95-20.

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ossia riducendo l’opera a un racconto comico. Dietro le motivazioni apportate per giustificare la continuazione da parte di una persona diversa dal primo autore, in base ad esempi ricavati dal passato, (Arcadias, Dianas o Celestinas), il vero fine del prologo è la difesa di Lope de Vega. Infatti, è quest’ultimo che avrebbe sbeffeggiato il prologo disinvolto del Quijote del 605, che trasformava in derisione la falsa erudizione delle citazioni, poste ai margini o alla fine del volume, e la vera piaggeria dei poemi lodatori richiesti ai grandi e ai pari e raccolti nei fogli introduttivi. Nella sua Arcadia del 598, così come nel suo romanzo cristiano El peregrino en su patria, pubblicato nel 604, Lope si era mostrato un fervente adepto di queste due pratiche e quindi si era sentito offeso. Dieci anni dopo, Avellaneda prende le difese di Lope, con un tono un po’ minaccioso, dichiarando che Cervantes aveva offeso « colui che è giustamente celebrato dalle nazioni straniere e a cui la nostra deve tanto per aver divertito con tanta onestà e fecondità per numerosi anni i teatri di Spagna, offrendo eccellenti e innumerevoli comedias, che uniscono i principi artistici richiesti dal pubblico all’autorità e all’integrità che ci si attende da un ministro del Santo Uffizio » (« a quien tan justamente celebran las naciones más estranjeras y la nuestra debe tanto, por haber entretenido honestísima y fecundamente tantos años los teatros de España con estupendas e innumerables comedias, con el rigor del arte que pide el mundo y con la seguridad y limpieza que de un ministro del Santo Oficio se debe esperar ») – ricordiamo, infatti, che Lope de Vega, ordinato prete nel 64, era un funzionario dell’Inquisizione dal 608. I fogli introduttivi, quindi, diventano un piccolo scenario per le controversie letterarie dove si intrecciano, come nei libelli diffamatori, gli ingranaggi polemici. Nel Quijote del 65 le revisioni censorie rappresentano una prima replica, affermando che almeno in termini di gloria europea Cervantes eguaglia Lope. Il Prologo al lettore è un altro esempio. Il tono è quello di condiscendente ironia verso Avellaneda e, forse, con un po’ di malizia verso Lope, di cui Cervantes dice, dopo aver affermato che « non c’è motivo di prendersela con un prete, tanto più che è ben addentro al Sant’Uffizio » (« no tengo yo de perseguir a ningún sacerdote, y más si tiene por añadidura ser familiar del Santo Officio ») : « venero il suo genio e ammiro le sue opere, tanto quanto le sue innumerevoli e virtuose occupazioni » (« de tal adoro el ingenio, admiro las obras y la ocupación continua y virtuosa »), quando era ben noto che Lope conduceva un’esistenza che non era un modello di virtù cristiane. Dopo aver rammentato la perdita del braccio a Lepanto, nella « più grande battaglia mai vista nei secoli passati, presenti e futuri » (« la más alta ocasión que vieron los siglos pasados, los presentes, ni esperan ver los venideros »), Cervantes ritorce contro Avellaneda le sue stesse accuse. È lui che vuole fare soldi con i suoi libri, non Cervantes, che invece si affida alla liberalità dei suoi protettori, Bernardo de Sandoval y Rojas, il cardinale arcivescovo di Toledo, e il nipote, il conte di Lemos, a cui dedica la Seconda Parte del Quijote e i cui titoli (tra cui quello di « Virrey, Governador, y Capitán General » del Regno di Napoli) occupano sette righe della pagina del titolo. L’opera di Avellaneda è frutto del demonio, che è riuscito a « mettere nella testa di un uomo il convincimento che può scrivere e pubblicare un libro da cui trarrà tanta gloria quanto denaro e tanto denaro quanta gloria » (« unas de las mayores [tentaciones del demonio] es ponerle a un hombre en el entedimiento que puede componer y imprimir un libro con que gane tanta fama como dinero, tantos dineros cuanta fama »). Quando l’impresa si impossessa di un libro già in circolazione non è priva di colpe in quanto l’autore « non osa rivelarsi, nascondendo il suo nome e celando la

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sua patria d’origine, come se avesse commesso un crimine di lesa maestà » (« no osa parecer a campo abierto y al cielo claro, encubriendo su nombre, fingiendo su patria, como si habiera hecho alguna traición de lesa majestad »). Per porre fine a tentazioni così nefaste, che gonfiano i libri così come il folle di Toledo, la cui storia è riportata nel prologo, gonfiava i cani, Cervantes annuncia che nell’opera che leggerà il lettore, Don Chisciotte sarà « esteso e infine morirà e sarà seppellito, affinché nessuno osi riportare ulteriori testimonianze, bastando quelle passate ». Iniziato con una pagina del titolo che contrapponeva alla continuazione apocrifa l’autenticità di una Seconda Parte scritta « Por Miguel de Cervantes Saavedra, autor de su primera parte », il libro del 65 riporta sin dai fogli introduttivi la morte annunciata del nostro “hidalgo” divenuto, per sua grazia, sulla stessa pagina del titolo « El Ingenioso / Cavallero Don / Quixote / de la Mancha ». La precauzione era utile per scoraggiare i futuri Avellaneda e, al contempo, anticipava le aspettative del lettore, che Cervantes invitava a leggere le altre sue opere, come Persilès, « che sto terminando » (« que estoy acabando ») e la seconda parte di Galatée, già promessa nella pubblicazione della prima nel 585. La dedica al conte di Lemos, nipote e genero del potente duca di Lerma, “válido” o ministro di primo piano di Filippo III, 25 chiude i fogli introduttivi. La dedica forma come un dittico con la pagina del titolo ed entra in risonanza con il prologo in cui Cervantes lodava il Viceré di Napoli, le cui « virtù cristiane e le nota liberalità mi consentono di resistere ai rovesci della cattiva fortuna » (« cuya cristiandad y liberalidad, bien conocida, contra todos los golpes de mi corta fortuna me tiene en pie »). Si tratta della stessa lode presente nell’apologo dell’Imperatore di Cina, che chiede di ricevere la Seconda Parte del Quijote per farla leggere agli studenti del collegio che intendeva fondare e di cui Cervantes doveva essere il rettore. Ma egli rifiuta la proposta perché « ho per me, a Napoli, il grande conte di Lemos, che, senza tutta questa paccottiglia di titoli di collegi e rettorati, provvede ai miei bisogni e mi protegge, facendomi più favori di quanti potrei desiderarne » (« en Nápoles tengo al grande conde de Lemos, que, sin tantos titulillos de colegios ni rectorías, me sustenta, me ampara y hace más merced que la que yo acierto a desear »). Oltre a riaffermare la grande forza del patronato che lo avvicina al re attraverso la serie di parentele che lega il cardinale Sandoval, il conte di Lemos e il duca di Lerma, Cervantes utilizza la dedica per altri due fini. Egli insiste nel denigrare, questa volta con maggiore asprezza, la continuazione di Avellaneda. L’opera che presenta al conte deve « guarire l’amarezza e la nausea provocate da un’altro Don Chisciotte che, sotto le false spoglie della Seconda Parte, ha percorso il mondo intero » (« para quitar el hámago y la náusea que ha causado otro don Quijote que con nombre de Segunda parte se ha disfrazado y corrido por el orbe »). Si sa che, a partire dal capitolo lix, Cervantes giocherà in più modi con questo « altro Don Chisciotte ». E, ripetendo il prologo (che, d’altro canto, forse ha scritto dopo la dedica), Cervantes annuncia che presto terminerà Los Trabajos de Persiles y Sigismunda, « libro che spero di terminare entro quattro mesi » (« libro a quien daré fin dentro de cuatro meses »). Preannunciato dal suo autore come un libro che sarebbe stato « il peggiore, o il migliore, mai scritto nella nostra lingua, almeno tra i testi di intrattenimento » (« o el más malo, o el mejor que en nuestra lengua se haya compuesto, quiero decir de entretenimiento »), ma già lodato dai suoi amici come opera in grado di « attingere a quanto c’è di meglio al 25. Su Lerma, cfr. Antonio Feros, El Duque de Lerma. Realeza y privanza en la España de Felipe III, Madrid, Marcial Pons Historia, 2002.

paratesto e preliminari. cervantes e avellaneda

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mondo » (« ha de llegar al estremo de bondad posible »), il romanzo con cui Cervantes dichiara di rivaleggiare con Eliodoro non può che essere atteso con impazienza, non solo dal suo generoso protettore, ma anche da quanti sono divenuti suoi fedeli lettori. Gli obblighi verso il suo mecenate, quindi, non escludono affatto l’attenzione alle esigenze del pubblico e, nonostante quanto afferma Cervantes, ai profitti ricavabili dalla vendita dei testi. 5. Quali insegnamenti trarre da questo cammino in compagnia del Don Chisciotte e della sua copia ? Il più importante mi sembra la necessità di collocare gli elementi peritestuali in un ambito che evidenzi le molteplici relazioni che li legano reciprocamente. Se si vogliono comprendere i preliminari, queste relazioni contano più dell’appartenenza a un dato genere paratestuale di ciascuno degli elementi che le compongono. Tali relazioni, che fanno sistema, 26 sono di diverso ordine. All’interno di uno stesso libro, esse si organizzano a partire dai rapporti esistenti tra i differenti registri testuali, apparentemente del tutto eterogeni (al punto che numerose edizioni moderne riportano solo gli elementi strettamente legati all’autore o all’opera). Esiste quindi un forte legame tra le scritture legate al processo di pubblicazione e quelle che si rivolgono al lettore, chiunque sia. Bisogna quindi ricostruire la logica che governa la fusione in uno stesso libro di testi aventi funzioni così diverse : normativa, amministrativa, encomiastica, performativa, geografica, ecc. Le relazioni tra più paratesti riguardano anche i fogli introduttivi delle differenti parti di una stessa opera (ad esempio, le due parti del Don Quijote), le varie opere di uno stesso autore (ad esempio, tra le Novelas ejamplares, la Seconda Parte del Quijote e il Persilès), o ancora le opere di più autori (come nel caso dei due Don Quijote). Quindi l’interpretazione di ciascun paratesto, o di ogni elemento dei singoli paratesti, dipende strettamente da tutte le altre. Si tratta, come scrive Anne Cayuela, di « porre in rilievo la coerenza dell’insieme paratestuale » interpretato in questo modo27. In tal senso, lo studio dei testi ha seguito lo stesso percorso degli studi sociali, privilegiando le relazioni più che la tassonomia, le contestualizzazioni dinamiche piuttosto che le tabelle classificatorie. Detto ciò, come evitare il rischio di ricadere, con altre parole, nella tentazione delle invarianze trans-storiche ? Si è superata la difficoltà sostituendo, come in questa analisi, il lessico dell’oggetto, identificando i fogli introduttivi nella loro materialità tipografica, con il lessico delle istanze testuali ? Forse, ma solo a condizione di collocare in una corretta visione storica, quella dell’Ancien Régime della stamperia, la pertinenza di tale descrizione : né in un periodo antecedente, all’epoca del manoscritto, né successivo, all’epoca dell’industrializzazione della stampa e della composizione. In tali epoche, tutte le relazioni paratestuali, nel libro e tra i libri, presentano modalità diverse, direttamente dipendenti dalle tecniche di riproduzione del testo scritto, dai supporti utilizzati per i testi e dalla circolazione delle opere. È prevalsa la discontinuità, e la perdita non è di poco conto, lasciando l’amarezza per le tassonomie perdute, 26. Vedi Maria Gioia Tavoni, Avant Genette fra trattati e “curiosità”, in Sulle tracce del paratesto, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Bologna, Bononia University Press, 2004, pp. -8. 27. Anne Cayuela, Le paratexte au Siècle d’Or …, cit., p. 209.

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che accoglievano nelle loro classificazioni generali tutti i tipi di testi, 28 come la cassa del compositore racchiudeva i caratteri tipografici. Ma probabilmente essa è compensata da una comprensione più completa, più approfondita, dei testi che hanno condotto il lettori dalla prima modernità fino all’opera da cui volevano trarre profitto, o il proprio piacere. Abstract La nozione di paratesto deve essere considerata una categoria dotata di pertinenza trans-storica? Ma, così facendo, non si rischia di cancellare la specificità delle configurazioni testuali che ricavano la propria specificità dalle condizioni tecniche e sociali che disciplinano, in modo molto diverso a seconda delle epoche, la pubblicazione e l’appropriazione delle opere? In questo caso, la nomenclatura formale degli elementi costituenti il paratesto sarebbe di scarso aiuto per la comprensione delle logiche che ne governano, nella discontinuità, la composizione e l’articolazione. Per cercare di rispondere a queste domande, la presente comunicazione analizzerà i brani che costituiscono le premesse delle due seconde parti del Don Chisciotte: il Secundo Tomo del Ingenioso Hidalgo Don Quixote de la Mancha, pubblicato da Alonso Fernández de Avellaneda nel 64, e la Segunda Parte del Ingenioso Cavallero Don Quixote de la Mancha, pubblicato da Cervantès nel 65. Should the notion of the ‘front and end matter’ be considered a category with its own transhistorical relevance? But, in doing so, would we not risk effacing the specificity of the textual configurations that receive their specificity from the technical and social conditions that rule, very differently according to the epochs, the publication and appropriation of works? In this case, the formal nomenclature of the elements that make up the ‘front and end matter’ would be poor help in understanding the rationale underlying, in fits and starts, their composition and enunciation. In order to try and answer these questions, this report will review the passages that compose the premises of the two second parts of the Don Quixote: the Secundo Tomo del Ingenioso Hidalgo Don Quixote de la Mancha, published by Alonso Fernández de Avellaneda in 64, and the Segunda Parte del Ingenioso Cavallero Don Quixote de la Mancha, published by Cervantès in 65.

28. Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Editions du Seuil, 982, pp. 7-6.

Marco Paoli AD ERCOLE MUSAGETE. IL SISTEMA DELLE DEDICHE NELL’EDITORIA ITALIANA DI ANTICO REGIME

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e pagine che seguono hanno per oggetto un fenomeno storico di lungo periodo, il sistema delle dediche, analizzato sotto il profilo della storia dell’editoria come strumento di sostegno per autori e stampatori.  Non rientrano nel sistema le dediche aventi carattere non venale, come quelle amicali o professionali o simboliche. Premono qui soprattutto le dediche a firma degli autori, sia perché quantitativamente più rilevanti sia perché il sistema nasce in epoca pretipografica. La dedica del capolavoro del Marino, l’Adone (623), a Luigi XIII e a Maria de Medici si apre con la dichiarazione della « reciproca scambievolezza » che lega principi e poeti, scettri e penne, oro e alloro, forza e ingegno : ecco perché il giovane re è rappresentato come un nuovo Ercole con l’attributo di capitano delle muse, vale a dire « Hercole Musagete ». I potenti garantiscono ai letterati « ricompense di favori » e « premi di ricchezze », nonché la « quiete degli studi », e in cambio ricevono l’« immortalità ». È un equilibrio aureo che solo la relazione cortigiana può garantire, un confronto virtuoso tra autore e patrono ad un livello di perfetta pariteticità ; uno scambio di prodotti . Sulla prassi dedicatoria studiata come sistema , vale a dire come concatenazione di comportamenti regolata da un codice non scritto, devono essere segnalati gli interventi di Raffaele Manica e Paola Farenga (si veda infra note 5 e 8), per il tentativo di evidenziarne i meccanismi principali nel Quattrocento. Il mio contributo sulle dediche settecentesche (M. Paoli, L’autore e l’editoria italiana del Settecento. Parte seconda. Un efficace strumento di autofinanziamento : la dedica, « Rara Volumina », 996, , pp. 7-02 ; ripubblicato in Id., L’appannato specchio. L’autore e l’editoria italiana nel Settecento, Lucca, Pacini Fazzi, 2004, pp. 39-62) aveva inteso analizzare il sistema nel suo complesso, definendone le fasi consuetudinarie, come l’accettazione della dedica, la presentazione al patrono, il ‘gradimento’, ed inquadrando tale sistema nel più generale contesto del mecenatismo editoriale. Particolare attenzione all’articolazione del sistema delle dediche è in M. Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, « Accademie e Biblioteche d’Italia », 2000, , pp. 5-38 (ripubblicato in Id., Libri, edizioni, biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliografico, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 5-92). Successivamente Maria Antonietta Terzoli, considerando la struttura degli elementi testuali delle dediche, si è soffermata anche su alcuni elementi costitutivi del sistema (I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento : metamorfosi di un genere, in Dénouement des Lumières et invention romantique, a cura di G. Bardazzi e A. Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 6-92). La stessa ha recentemente promosso una serie di studi sul tema della dedica, raccolti in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, Roma-Padova, Antenore 2004. Come è noto il tema della dedica ha suscitato studi penetranti in ambito francese : dal fondamentale capitolo in Seuils di Gérard Genette (Paris, Éditions du Seuil, 987, pp.0-33), al saggio di Roger Chartier, Le prince, la bibliothèque et la dédicace, in Le pouvoir des bibliothèques. La memoire des livres en Occident, Paris, A. Michel, 996, pp. 204-223 (ripubblicato con il titolo Patronage et dédicace in Culture écrite et societe. L’ordre des livres (XIVe-XVIIIe siècle), Paris, A Michel, 996, pp 8-06). Recentemente Lorraine Piroux ha studiato la dedica dal versante comunicazionale (Le livre en trompe-l’œil ou le jeu de la dédicace : Montaigne, Scarron, Diderot, Paris, Kimé, 998). Dal punto di vista sistemico gli interventi editi in Francia si limitano tuttavia ad insistere genericamente sull’esistenza di una convenzione dedicatoria, ovvero di leggi della dedica, senza addentrarsi nell’individuazione e nell’analisi di tale rituale, contrariamente a quanto, si è detto, è stato tentato nella letteratura specifica italiana. Le pagine che seguono si propongono di esplicitare ulteriormente le regole consuetudinarie che governarono per secoli il sistema.

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ugualmente pregiati le cui regole di mercato, secondo Marino, affondano le radici nella Roma imperiale, dove si attuarono celebri pratiche dedicatorie (Virgilio ad Augusto, Lucano a Nerone, Claudiano ad Onorio, Orazio a Mecenate), e che in epoca moderna hanno generato il felice incontro tra Francesco I di Francia e scrittori quali Alamanni ed Aretino. La dedica dell’Adone è quindi emblematico omaggio al sistema delle dediche, mitica esaltazione dell’uso di intitolare opere letterarie al patrono, e sua contestualizzazione in una prassi che coincide con la storia della cultura (« l’antica usanza del dedicare i libri »). Se anche Jean Bertaut, nei versi di celebrazione della nascita di Luigi XIII (60), aveva affrontato il tema dell’importanza dei poeti per eternare le gesta dei grandi, 2 l’argomento dello scambio autore-mecenate proviene al Marino dal Rinascimento italiano : Lodovico Domenichi aveva parlato in una sua dedica di “santa amicitia” tra principi e letterati (553), 3 ed era frequente, pure in autori minori, la duplice immagine del patrono che fornisce i mezzi al poeta per « agiatamente attendere alli studi » e del letterato che gli assicura in cambio l’immortalità. 4 Nel corso del Cinquecento italiano si era andati anche oltre l’equivalenza oro-alloro, forzando l’equilibrio tra le due realtà, con espandere a dismisura la sfera dell’autore : Scipione Ammirato era giunto ad affermare che sono tali le “prerogative” dei letterati al punto che « l’esser da loro biasimati reca in processo di tempo alle famiglie grandezza, solo perché son menzionate da quelli » (584). 5 Con Marino, si è detto, l’equilibrio si ricompone, per frantumarsi nuovamente con l’avanzare del Seicento, stavolta a sfavore dei letterati, con affermazioni del tipo de « la preminenza della potenza in paragon della sapienza », 6 e della troppo frequente servile asserzione in contesti dedicatorî che è lo scrittore a guadagnare l’immortalità alla sua opera grazie al valore del patrono, e non viceversa. 7 La dedica dell’Adone acquista quindi il significato di simbolico spartiacque tra statuto dell’autore nel Rinascimento e statuto dell’autore nell’età barocca, ed è di per sé manifesto della prassi dedicatoria quale irripetibile punto di convergenza di autore e principe all’interno della relazione di patronage. Nella sua duplice veste di letterato italiano e di cortigiano di un sovrano francese, Marino in atto di indirizzare il suo capolavoro dimostra inoltre come il sistema delle dediche fosse una risorsa comune di riscatto economico e sociale per gli autori di ambedue i paesi. Né si dovrà distinguere, come vorrebbe Marziano Guglielminetti nel caso della dedica dell’Adone, 8 tra 2. Cfr. W. Leiner, Mars et Minerve. Sur le statut des écrivains, in L’âge d’or du mécénat. (1598-1661), a cura di R. Mousnier e J. Mesnard, Paris, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 985, p. 6. 3. Si veda infra testo e note 6 e 62. 4. Si veda ad esempio la dedica al marchese Alberico Cybo Malaspina delle Rime di Annibale Nozzolini (Lucca, V. Busdraghi, 560) a firma di Girolamo Ghirlanda. 5. Mi riferisco alla dedica al principe Luigi Carafa delle Rime di vari autori (Firenze, Sermartelli, 584). Ammirato cita in proposito l’opinione di Vincenzo Acciaiuoli che, se avesse potuto, avrebbe pagato una grande somma di denaro affinché Dante avesse fatto una qualsiasi menzione della sua famiglia, pure se « l’havesse collocata nella più tenebrosa e profonda bolgia d’inferno ». 6. Cfr. G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, 978, p. 90. 7. Ivi, p. 0. Già Marcello Giovannetti affida l’immortalità delle sue Poesie (Roma, 626) allo splendore della porpora del dedicatario cardinale Lorenzo Magalotti. 8. M. Guglielminetti, Sulla “reciproca scambievolezza che lega insieme i principi ed i poeti”, ovvero le dedicatorie del Marino, in I margini del libro, cit., pp. 20-203. L’autore insolitamente non cita il suo precedente intervento sull’argomento (Les préfaces des œuvres poétiques de Marino, in L’écrivain face à son public en France et en Italie a la Renaissance, a cura di A. Fiorato e J.-C. Margolin, Paris, Librairie Philosophique J.

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un modello di dedica ‘italiano’ basato sulla più tradizionale retorica del dono, ed un supposto modello ‘francese’ che riconosceva all’autore un ruolo più attivo e dignitoso, quando si è visto appartenere alla cultura italiana cinquecentesca il topos dello scrittore dispensatore di gloria e di immortalità in cambio di benefici economici e privilegi. Tuttavia, si assiste ad un diverso percorso del fenomeno dediche in Francia e in Italia, almeno nel Seicento avanzato. Una perdita di efficacia del sistema è riscontrabile in Francia nella seconda metà del secolo, e lo è pure il consolidarsi di critiche nei confronti dell’uso eccessivo di esso, a motivo della crescente venalità degli autori. Casi come quello rappresentato dalla politica mecenatica del ministro di Luigi XIV Nicolas Fouquet, al centro di una propria corte a Vaux, che riuscì ad attrarre le dediche adulatorie di poeti alla moda e di grandi letterati, tra cui La Fontaine con il suo Adonis (significativa coincidenza con l’opera che inaugura questo saggio), non erano certo passati inosservati. Corneille ad un certo momento della sua carriera abbandonerà la pratica dedicatoria e così farà Racine, al punto che per usare le parole di Genette, « il semble que l’épître dédicatoire soit alors déja considérée comme un expédient quelque peu dégradant, qu’un auteur parvenu au faîte de sa gloire, ou assuré d’autres ressources, s’empresse d’oublier ». 9 È poi del 668 la più sarcastica delle parodie della consuetudine dedicatoria di tutto l’Ancien régime, la Somme dedicatoire, ou examen general de toutes les questions qui se peuvent faire touchant la dédicace des livres, un finto libro dovuto alla fantasia di Antoine Furetière che ne inventa l’indice dei capitoli, riproducendolo alla fine del suo Le Roman bourgeois. 0 Ma il sistema avrà comunque anche nella Francia di Luigi XIV, in particolare intorno alla figura del re e della sua corte, una sua consistente affermazione. Dai dati in nostro possesso sembra si possa asserire che la situazione italiana nell’età barocca è più stabilizzata, e che – proprio per la intrinseca debolezza che caratterizza la condizione dello scrittore nella Penisola a fronte del ridottissimo mercato di lettori-acquirenti su cui potevano contare determinati generi editoriali – il sistema delle dediche conservi la sua centralità all’interno della robusta pianta del mecenatismo editoriale. I letterati italiani non disdegneranno neppure di rivolgere le loro strategie dedicatorie al più grande dei mecenati francesi : così il bolognese Carlo Cesare Malvasia dedicherà nel 678 la sua Felsina pittrice (Bologna, Erede di D. Barbieri) al Re Sole ricevendone per ricompensa – dieci anni dopo le ironie di Furetière sull’avarizia e l’ingratitudine dei dedicatari – un prezioso gioiello recante al centro una miniatura del sovrano, tuttora conservato nel Museo dell’Oratorio di Santa Maria della Vita di Bologna.  Vrin 989, pp. 369-373) in cui aveva riconosciuto già nella dedica del mariniano Ritratto del Serenissimo don Carlo Emmanuello il tema del poeta celebre che dispensa la gloria al principe (p. 370), anche se non ancora quello, presente nella dedicatoria dell’Adone, del principe che in cambio ricompensa il poeta. 9. G. Genette, op. cit., pp. 2-3. 0. A. Furetière, Le Roman bourgeois, pref. di A. Thérive, Paris, Porteret, 927, pp. 259-279. Una certa ironia era ravvisabile anche nell’articolo xvii e soprattutto nell’articolo viii del trattato Syntagma de arte typographica (Lugduni, 664) di Juan Caramuel, dove veniva ridicolizzata la funzione di protezione delle opere attribuita alla dedica (cfr. V. Romani, Il “Syntagma de arte typographica” di Juan Caramuel ed altri testi secenteschi sulla tipografia e l’edizione, Manziana, Vecchiarelli, 988, pp. 29, 73). . La miniatura, attribuita a Jean Petitot, è contornata da numerosi diamanti, incastonati a formare una ghirlanda sormontata da una corona. Il gioiello fu donato dal Malvasia alla Confraternita bolognese di S. Maria della Vita in memoria di una sua guarigione ; cfr. G. Sassu, Oratorio di Santa Maria della Vita, Bologna, Costa, 200, pp. -2 (fig. a p. 3).

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Se il sistema delle dediche conferma nell’Italia del Seicento la sua fortuna, e se la sua quasi inossidabile tempra attraversa pure il secolo successivo lo si deve anche al fatto che il dibattito sulla questione delle dedicatorie sviluppatosi nel corso del Cinquecento si era sostanzialmente risolto con la vittoria delle posizioni favorevoli al sistema, conseguentemente al prevalere della condizione del letterato cortigiano (di mentalità e di aspirazione cortigiana, e solo in minima parte collocato stabilmente presso una corte) rispetto a quella del letterato indipendente, proiettato verso il mercato. Ciò perché la prassi dedicatoria registra la sua applicazione più convinta proprio nella sfera ampia e variegata del patronage delle corti. Si era avuta quindi una rispondenza a livello teorico a quanto stava accadendo, dopo il venir meno dei valori rinascimentali, nella ridefinizione dello statuto dell’autore nel senso di una marcata dipendenza dalla protezione dei potenti (corti principesche e curia romana). Il sistema delle dediche, che alla fine del Cinquecento era uscito rafforzato, traeva origine da una tradizione secolare, anche se l’impianto consuetudinario che lo regolava , così come si sarebbe manifestato per l’intero periodo dell’Antico regime tipografico, era relativamente recente. L’epistola dedicatoria, anteposta all’opera intitolata, è zona paratestuale che proviene dal modello manoscritto, dal codice. Nel libro medievale essa si afferma piuttosto tardi e già contiene il rituale omaggio al dedicatario e le indicazioni sulla relazione che intercorre tra questi, l’opera e l’autore. 2 È stato fatto notare che nella letteratura italiana il primo grande esempio di dedica è quello del Tesoretto di Brunetto Latini, una epistola encomiastica, peraltro indirizzata ad un dedicatario anonimo. 3 La dedica tuttavia fatica ad assumere uno status autonomo, separato dal testo, in quanto spesso facente parte del prologo. In questa fase e, di norma, fino all’introduzione della stampa la dedica dell’opera coincide con la dedica dell’esemplare : si afferma quindi, a livelli socialmente elevati, la prassi di visualizzare la duplice offerta con una miniatura rappresentante l’autore, generalmente genuflesso, che dona il volume al patrono ; un’iconografia di troppo intensa significazione per essere abbandonata quando iniziarono a gemere i torchi, tant’è che la ritroviamo con la tecnica silografica in incunaboli e protocinquecentine. In età umanistica il ricorso alla dedica da parte di letterati afferenti alle corti principesche o alla curia papale evidenzia chiaramente la natura quasi mercantile del rapporto che si viene ad instaurare con i potenti, basato, senza possibilità di equivoco, sullo scambio di valori tra autore e patrono, o per meglio dire sullo scambio di doni tipico del processo di patronage, come ha recentemente ribadito Mario Biagioli. 4 Il dono dell’opera, solennizzato dal dono del lussuoso veicolo del manoscritto (vergato calligraficamente su pregiate membrane, miniato e decorosamente legato) genera nel dedicante un’aspettativa di gratitudine nei confronti del mecenate, che questi, anche in assenza di uno specifico obbligo, soddisfa elargendo ricompense monetarie o favori, sancendo così una relazione biunivoca, dove ambedue i soggetti cercano di mantenere status e potere. Ad istituzionalizzarsi non è solo il meccanismo del dono e del contro-dono, ma 2. Cfr. F. Brugnolo, R. Benedetti, La dedica tra Medioevo e primo Rinascimento : testo e immagine, in I margini del libro, cit., pp. 3-4. 3. Ivi, p. 7. 4. M. Biagioli, Galileo, courtier. The Practice of Science in the Culture of Absolutism, Chicago-London, The University of Chicago Press, 993, p. 6.

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anche il contenuto testuale della dedica come microgenere letterario, che rispecchia lo schema della laudatio, dell’adulazione, con il ricorso al topos dell’abbassamento dei meriti dell’autore e dell’opera di contro alla magnificazione delle virtù e delle doti del dedicatario. Scontata in questo la dipendenza dal mondo classico, per cui si indica generalmente come fonte emblematica il carme quarantanove di Catullo dedicato a Cicerone. 5 Con l’avvento della stampa, vale a dire con la produzione seriale di un gran numero di esemplari dell’opera, le cose non possono non cambiare anche per le dediche, pure se è riscontrabile una sostanziale conferma delle principali caratteristiche del sistema : contesto mecenatesco, rapporto tra gli attori regolato sullo scambio dei doni, retorica dell’adulazione, presentazione dell’opera dedicata in forma lussuosa. Muta, sul versante del personale impegno economico dell’autore, l’entità della spesa che deve affrontare il dedicante nell’atto di presentare un’edizione a stampa, presumibilmente assai minore di quella sostenuta quando ad essere esibito era un costoso volume scritto da un copista di professione, su pergamena di qualità ed arricchito di miniature : l’autore dopo Gutenberg predispone in effetti per la presentazione dell’opera uno o più esemplari impressi su carta distinta ed elegantemente rilegati ; né dovrà essere ricompresa in questo conto la spesa della stampa dell’edizione (nel caso sia stata interamente o in parte anticipata dall’autore medesimo), 6 poiché la vendita della restante tiratura, anche se difficoltata dalle inefficienze del mercato e dai rischi di ristampe abusive, costituisce comunque un ristoro del capitale impiegato. Credo quindi si possa asserire che l’introduzione della stampa (e più ancora la sua evidente affermazione nei primi decenni del Cinquecento) rappresenti per gli scrittori intenzionati a veicolare le proprie opere nell’ambito della relazione di patronage una facilitazione economica, alla stregua della notevole riduzione del costo di un libro tipografico rispetto a quello di uno manoscritto (vergato su carta e non necessariamente su membrane). 7 L’adozione della stampa comporta anche un cambiamento dello statuto comunicazionale dell’epistola dedicatoria nel senso che essa da espressione di rapporto interpersonale diventa lettera aperta rivolta ad un pubblico. 8 La nuova funzione corrisponderà all’interesse dell’autore-cliente, orgoglioso di poter dichiarare la sua familiarità con il patrono (e magari i servizi a lui resi in precedenza), nonché la protezione che deriverà alla sua opera posta sotto il patrocinio, ma anche all’interesse del dedicatario, la cui immagine risulta di norma accresciuta o confermata. 5. Cfr. R. Manica, Il sistema della dedica. Storia e retorica delle dediche librarie a Federico : alcuni esempi, in Federico di Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura, a cura di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani, La cultura, Roma, Bulzoni, 986, pp. 456-457. 6. Uno dei protagonisti del dialogo di Giovanni Fratta Della Dedicatione de’ libri, con la Correttion dell’Abuso, in questa materia introdotto (Venezia, Giorgio Angelieri, 590), Francesco Porta, afferma che con l’invenzione di Gutenberg sono aumentate le spese per i letterati che vogliono dedicare le opere perché devono affrontare una “spesa gagliarda” per la stampa mentre prima « le mandavano fuori di propria mano » (c. 5v) ; ma qui ha giocato il contesto retorico (necessità di non contrastare del tutto la posizione di Critone, fieramente ostile alla stampa [c. 5v]). 7. Per il basso costo dei libri a stampa a fronte della produzione manoscritta, cfr. P. Cherubini, A. Esposito, A. Modigliani, P. Scarcia Piacentini, Il costo del libro, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, a cura di M. Miglio, Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, 983, p. 40 ; A. Modigliani, La tipografia “Apud Sanctum Marcum”e Vito Puecher, ivi, pp. 8-9. 8. Si veda in proposito P. Farenga, Il sistema delle dediche nella prima editoria romana del Quattrocento, in Il libro a corte, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 994, p. 57.

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Infine, la riproducibilità meccanica di un testo indirizzato ad un mecenate introduce una convenzione che diventerà tipica del sistema delle dediche nell’Antico regime, e che nel sistema precedente (o compresente trattandosi, come nel caso dei testi dedicati a Federico da Montefeltro, di codici confezionati quando la stampa era già in voga) non poteva avere che nessuna o scarsa applicazione, a fronte della ridottissima circolazione di opere concepite per essere donate al patrono, conservate nella sua biblioteca, e destinate nell’intento degli autori ad una limitata fruizione. 9 Mi riferisco alla regola che non possa avvenire la pubblicazione di un’opera – vale a dire la diffusione degli esemplari dell’edizione – prima che si sia compiuto il rituale della presentazione del volume al dedicatario. Tale tacito accordo tra autore e mecenate risulterà in realtà un punto fermo della futura prassi dedicatoria, non solo italiana, e, ad esempio, un autore francese, Nicolas de Herberay, giungerà in un contratto del 540 a pretendere dai librai parigini Longis e Sertenas l’astensione alla vendita della sua traduzione de l’Amadis de Gaule, in attesa che egli abbia avuto modo di presentare l’opera al re. 20 Tornando alle edizioni quattrocentine, valendosi delle ricerche di Paola Farenga sulla prima editoria romana del secolo quindicesimo, si può osservare come la nuova possibilità, grazie allo strumento del torchio, di disporre di un gran numero di copie del volume stampato, generi talvolta una duplicazione della lettera dedicatoria all’interno della stessa tiratura, una, a firma dell’autore, anteposta ad un gruppo di esemplari, l’altra, a firma dello stampatore, situata al principio del restante gruppo ; 2 oppure si assiste alla presenza di una dedica vergata a mano premessa ad un testo a stampa con lo scopo di personalizzare l’esemplare secondo l’antica consuetudine dell’offerta dell’opera manoscritta. 22 Circostanze queste che attestano come il sistema delle dediche in questa fase iniziale dell’epoca tipografica non fosse stato ancora del tutto messo a punto. Il consolidarsi in Italia nel primo quarto del Cinquecento dell’esperienza umanistica, l’affermazione del volgare come lingua letteraria, e il maggiore bisogno di circolazione delle idee e della comunicazione scritta, determinano, come è noto, una trasformazione del fenomeno editoriale, grazie anche ai progressi della stampa. 23 Il lievitare delle tirature e l’abbassamento dei costi del prodotto finale, la crescita del 9. Su questa caratteristica dei codici di dedica ai pontefici del Quattrocento, cfr. M. Miglio, Dedicare al pontefice : immagini di “Traditio” in codici del Quattrocento, in Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica, a cura di G. Lazzi e P. Viti, Firenze, Polistampa, 2000, p. 8 ; S. Tarquini, Simbologia del potere : codici di dedica al pontefice nel Quattrocento, Roma , Roma nel Rinascimento, 200. Si veda per tale scarsa diffusione il caso del Carmen conflictus Bracciani di Leonardo Grifo (458-459 ca.), di cui Livia Martinoli Santini (Leonardo Grifo e i manoscritti del “Carmen conflictus Bracciani” in Scrittura, biblioteche e stampa, cit., pp. 93-94, 97-00) ha rintracciato tre soli codici contenenti specificamente l’opera, dedicata a Francesco Sforza. L’autrice non evidenzia il fatto che il Paris. lat. 838 della Bibliothèque Nationale è certamente il codice di dedica, con miniati nella prima carta numerosi emblemi sforzeschi, lo stemma del duca, e il suo ritratto. Il Grifo fece certamente allestire il codice parigino, e, probabilmente, per le analogie grafiche riscontrate dalla Martinoli Santini, anche il Ms. Armadio cxii, Palchetto 4, n. 4 della Biblioteca Labronica di Livorno, con stemma di Pio II. 20. Cfr. A. Parent-Charon, Les Métiers du livre à Paris au XVIe siècle (1535-1560), Genève, Droz, 974, pp. 30-302. 2. P. Farenga, Le prefazioni alle edizioni romane di Giovanni Filippo de Lignamine, in Scrittura, biblioteche e stampa, cit., pp. 68, 7. 22. P. Farenga, ivi, p. 57 ; Il sistema delle dediche, cit., p. 57 e nota 4. 23. Si veda in proposito M. Santoro, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento, Milano, Editrice Bibliografica, 994, pp. 80-8.

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pubblico dei lettori e l’aumento del numero degli autori e delle imprese tipografiche rafforzano il ruolo dell’editoria e ne accrescono l’impatto e l’incisività sulla società. In questo mutato contesto, dove sia l’opera diffusa con il mezzo della stampa che il ruolo dello scrittore acquistano maggiore evidenza, anche la lettera dedicatoria assumerà una nuova importanza, vedendo ancor più negli anni seguenti pienamente riconosciuta quella funzione comunicazionale enormemente ampliata di cui si diceva prima. Non a caso questo nesso tra efficacia e dignità della dedica e sviluppo dell’editoria sarà uno degli argomenti messi sul tappeto a favore del sistema dedicatorio nel trattato-dialogo, di cui parleremo diffusamente, Della Dedicatione de’ libri di Giovanni Fratta (Venezia, Giorgio Angelieri, 590), dove è dichiarato « che si possono bene donar [cioè dedicare] historie, e poesie a persone particolari, e con la facilità delle stampe, far ch’ogn’uno ne partecipi a suo talento » ; 24 il che significa superamento del concetto di dedica classica come dono dell’opera mediante l’offerta dell’unico esemplare, per affermare la dedica dell’era di Gutenberg, leggibile da tutti i lettori del testo principale cui è legata, e con il quale condivide la generale ‘partecipazione’ da parte del pubblico. L’ampia veicolazione dei messaggi contenuti nell’epistola dedicatoria rese certamente più efficace e concreto il dono di prestigio e di gloria offerto dall’autore al patrono e amplificò le aspettative di remunerazione del donatore. Lo strumento della tipografia e di conseguenza la dedica anteposta al testo stampato dovettero quindi irrobustire le ambizioni di quei letterati-creatori di gloria che si riconoscevano nell’immagine del poeta paragonato nel xxv canto del Furioso al cigno che strappa al fiume dell’oblio i nomi dei grandi per consegnarli alla posterità, ed eccitare in loro l’esercizio di quel potere, ancora di timbro ariostesco, « di trar di sepolcro, et far’ eternamente vivere altrui ». 25 Uno dei più convinti tra questi, Girolamo Ruscelli, che, dedicando ad Alfonso d’Este proprio l’edizione del Furioso da lui curata, affermava iperbolicamente di aver dato « splendore » al poema « con farlo da qui inanti andare attorno, et vivere eternamente con la felicissima scorta » del patrono (Venezia, V. Valgrisi, 556). È assai probabile che in questa fase di potenziamento dell’istituto della dedica si sia costituito quell’apparato di regole non scritte che avrebbe governato, non sempre rigorosamente, il sistema fino al principio dell’Ottocento, e che ad una nuova codificazione si sia spontaneamente giunti sia per adeguare compiutamente la prassi precedente alla realtà della produzione meccanica del libro, sia per disciplinare la crescita esponenziale di opere indirizzate a piccoli e grandi patroni che rischiava di mettere a dura a prova l’edificio del mecenatismo editoriale. Su quest’ultimo versante vi sono attestazioni eloquenti che documentano una situazione ovviamente in atto da anni. Ne La sferza de’ scrittori antichi et moderni, apparsa 24. C. 6v. Le parole sono poste in bocca a Eugenio, il personaggio che nel dialogo è il portavoce delle posizioni dello stesso Fratta (si veda in proposito, C. Lucas, Vers une nouvelle image de l’écrivain : ‘Della Dedicatione de’ Libri’ de Giovanni Fratta, in L’écrivain face à son public, cit., p. 96). Egli ha appena replicato all’intransigenza di Critone secondo il quale, forte della consuetudine degli antichi, le opere di poesia e di storia non dovrebbero essere dedicate ai singoli in quanto destinate al popolo (« che le Poesie si donassero ad alcuno, che per sé tanto le ritenesse ... la fama de’ loro autori, insieme con le opere, rimarrebbe, poco meno, che sepolta » [c. 6r]). 25. Parole tratte dal giudizio dell’Ariosto su Vittoria Colonna, riportato da Girolamo Ruscelli nella dedica ad Isabella Gonzaga di Tutte le rime (Venezia, G. B. e M. Sessa, 558) della poetessa (verso della carta segnata **).

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a Venezia nel 550, Ortensio Lando se la prende ironicamente con la contemporanea, eccessiva produzione di testi stampati (« meglio sarebbe non si scrivesse tanto quanto hoggidì si scrive » ; cc. 2v-22r), con gli « Scimoniti scrittori » (c. 22v), coi « moderni imbrattatogli » (23r), con « questo contagioso e pestifero morbo » (c. 24v), con il fatto che « scriveno gli Sellai, scriveno gli Lanaiuoli, scriveno gli piccicagnoli » (c. 24v) ; ed egli non ci mette molto ad estendere le sue critiche anche alla prassi dedicatoria : « ma perché tanto, e tanto scriveno hoggidì gli moderni ingegni ? fannolo forsi per eccitar gli sordi principi alla virtù ? fannolo per aventura, pensando di farsi grati alle Signore, celebrandole, e gli lor libri dedicandogli ; Oimè che ingannati sono se perciò lo fanno » (c. 23v). Grande numero di edizioni ed espandersi del fenomeno delle dedicatorie, che spinge Giovanni Brevio nel 545 a tracciare di quest’ultime una sintetica distinzione tipologica. 26 Nel 543 è ormai conclamato il ricorso degli autori alla prassi per ricavarne benefici, ed il fatto comincia a generare imbarazzo in un letterato come il ferrarese Francesco Alunno. 27 Il sistema aveva quindi bisogno di una autoregolamentazione in un epoca in cui pareva ai contemporanei estremamente facile farsi scrittori, 28 ed altrettanto immediato cercarsi un patrono per ottenere ricompense. Un gioco fin troppo facile che non poteva essere lasciato soltanto, diciamo così, al libero mercato dei mecenati, nel senso che in fondo spettava a questi, di volta in volta, rispondere o meno alle insistenti richieste di autori e stampatori. La sede in cui le norme consuetudinarie che ci apprestiamo ad individuare vennero elaborate e da lì diffuse è quello della corte, centro propulsivo, come ha chiarito Amedeo Quondam, della cultura italiana dell’Antico regime, spazio privilegiato per l’offerta di lavoro intellettuale e comunque di attrazione per coloro che cercavano protezione e magari una sistemazione stabile : 29 la corte come luogo deputato di quel sistema di patronage all’interno del quale si colloca invincibilmente il sistema delle dediche. Non è casuale che il linguaggio cortigiano, 30 la tipica retorica dell’adulazione e l’immagine dell’autore-servo siano costanti dei testi di questo genere letterario minore, e che i doni materiali con cui il principe ricompensava chi gli indirizzava un’opera fossero generalmente scelti tra quei regali, carichi in primo luogo di significato di status symbol, da lui utilizzati per premiare i cortigiani. 3 26. Nella dedica al cardinale Farnese delle sue Rime et prose volgari (Roma, A. Blado, 545) distingue tra dediche amicali (come « pegno dell’amicitia »), dediche cortigiane (per « servitù che con questi cotali tengono »), dediche per ottenere protezione alle opere (« scudo e difensione contra chi quelle lacerar volesse »), dediche venali (per ottenere « favore o premio »). 27. Si consideri la dedica ad Alessandro Farnese delle Ricchezze della lingua volgare in cui Alunno dichiara la sua iniziale volontà di far uscire l’opera senza alcun patrono per rifuggire il sospetto di avidità ; cfr. M. Plaisance, Les dédicaces à Côme Ier : 1546-1550, in L’écrivain face à son public, cit., p. 74. 28. Per tornare a citare il Lando : « Lo scrivere fu sempre ne migliori tempi ufficio de pochi huomini : e hora ogn’uno temerariamente sell’usurpa » (op. cit. nel testo, c. 24r). 29. A. Quondam, Quadro dei problemi : la corte, la letteratura e l’altro, in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1545-1622). II . Forme e istituzioni della produzione culturale, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 978, pp. 7-8 ; Id., Per un’archeologia del Canone e della Biblioteca del Classicismo di Antico regime, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a cura di A. Quondam, i, Roma, Bulzoni, 2002, p. 40. 30. Sulla lingua cortigiana, cfr. G. Ferroni, A. Quondam, Dialogo sulla scena della Corte, in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza ( 1545-1622). I. Potere e società nello stato farnesiano, a cura di M. A. Romani, Roma, Bulzoni 978, p. xxxiii. 3. Mi riferisco al ricorrente dono della medaglia d’oro con l’effigie del principe, spesso legata ad una

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Ecco qui di seguito dieci regole che ritengo corrispondere ad altrettanti comportamenti standard che prevedeva il rituale della dedica, e che non hanno la pretesa di costituire l’unica versione possibile di tale codice non scritto. Le regole i, v, vii, e x sono conseguenti all’introduzione della stampa. i regola. Chi firma la dedica deve possederne il diritto. Tale diritto è attribuito a soggetti legittimati, a seguito di un accordo con altri che possono vantarne titolo. Si tratta di stabilire preliminarmente, cioè prima della stampa, chi ha il potere di firma, a chi spetti cioè l’azionamento del processo. L’autore può rinunciare all’utilizzo della dedica qualora le condizioni garantite dallo stampatore gli risultino accettabili, e decida quindi, per usare le parole di Giovanni Fratta, « di concedergli l’antianità delle dedicazioni ». 32 Oppure operare la stessa rinuncia nei confronti di chi fornisce interamente le risorse per l’edizione, come avrebbe fatto il Muratori in occasione della stampa dei Rerum a favore della “Società Palatina” cui di buon grado cedette il profitto delle dedicatorie. 33 In altri casi l’autore si accontenta di pochi esemplari in cambio della cessione del manoscritto al tipografo, ma riserva a sé la cosiddetta ‘dedica libera’. 34 In altri casi ancora è il curatore editoriale o il traduttore che si accordano con gli altri soggetti per poter firmare la dedica. 35 Il diritto alla dedica, o come si usava anche dire l’‘arbitrio di dedica’, 36 si esercita legittimamente da parte dell’autore nei confronti di opere originali, non quindi usurpate ad altri, e da parte dello stampatore nei confronti di edizioni autorizzate. ii regola. Il dedicatario deve essere personaggio vivente, chiaramente identificato e unico, e titolare di un potere economico o politico. Deve cioè essere abilitato a soddisfare il raggiungimento del risultato prefisso. Può anche essere un’istituzione politica, nel caso di oligarchie aristocratiche. L’unicità del dedicatario rientra nella logica dello scambio dei doni. Chi dedica ad un personaggio deceduto si colloca automaticamente al di fuori del sistema : penso a Matteo Bandello che dedica numerose sue novelle a uomini o donne non più viventi alla data dell’uscita della princeps (554), o addirittura, in alcuni casi, già morte all’epoca dei fatti narrati ; 37 ma le sue non sono dedicatorie di carattere venale, avendo egli ceduto allo stampatore Busdraghi il diritto di dedica. Penso catena altrettanto d’oro, che è riconoscibile, ad esempio, tra gli oggetti preziosi con cui i granduchi di Toscana premiavano i cortigiani, di cui in M. Fantoni, La corte del granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 994, p. 06. 32. G. Fratta, op. cit., c. 7r. 33. Cfr. M. Paoli, op. cit., p. 9. 34. Francesco Antonio Zaccaria proponeva al lucchese Gian Domenico Mansi, che curava i rapporti con i tipografi locali, la stampa di un supplemento da lui curato all’Italia sacra dell’Ughelli a queste condizioni : « Io voglio le dediche libere, e pel numero delle copie mi rimetto a voi » (4 dicembre 76); cfr. M. Paoli, op. cit., p. 90. 35. Si consideri l’esempio della citata edizione di Tutte le rime di Vittoria Colonna con il commento di Rinaldo Corso (Venezia, G. B. e M. Sessa, 558) che reca la dedica ad Isabella Gonzaga a firma di Girolamo Ruscelli, promotore dell’edizione. L’autrice era morta, ma è certa l’approvazione della stampa da parte del Corso, cui il Ruscelli inviava le bozze di stampa (avviso Ai lettori). 36. Francesco Manolesso, al riguardo della Gerusalemme cattiva di Bernardino Campelli (Venezia, C. Tomasini, 623), vantava « l’arbitrio di dedicarla » (si veda la dedica a Giovanni Sturani). 37. Per la biografia dei dedicatari delle Novelle, cfr. C. Godi, Bandello. Narratori e dedicatari della prima parte delle Novelle, Roma, Bulzoni, 996 ; Id., Bandello. Narratori e dedicatari della seconda parte delle Novelle, Roma, Bulzoni, 200. Si veda anche M. Bandello, Lettere dedicatorie, a cura di S. S. Nigro, i, Palermo, Sellerio, 994, p. 26, dove si fa notare come Mario Equicola e Ermes Visconti erano già morti prima dei fatti narrati.

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anche alla doppia dedicatoria che compare nella princeps del Libro del Cortegiano (528), una ad Alfonso Ariosto, morto nel 525, l’altra a Miguel de Sylva, che è però dedica di tipo amicale, e non mecenatica. 38 La regola prevede che la morte del patrono prima della presentazione dell’esemplare di dedica faccia perdere al dedicante il profitto. Si tratta di un rischio accettato fin dall’epoca dei manoscritti. Un caso risalente addirittura all’Alto Medioevo è rappresentato dalla morte improvvisa della contessa Matilde di Canossa (5) che sopraggiunse prima che il poeta Donizone le potesse donare il codice della sua Vita Mathildis che gia aveva consegnato al legatore.39 Più recente l’esempio di Giandomenico Bertoli che nel 739 ricevette in ritardo dallo stampatore Albrizzi le sue Le antichità d’Aquileja, cosicché egli non fece a tempo per pochi giorni a presentarle all’imperatore Carlo VI, morto senza poter elargire la ricompensa che aveva promesso all’autore. 40 iii regola. La scelta del dedicatario deve rispondere a criteri di opportunità e convenienza e deve essere motivata nel testo della dedica. Giovanni Fratta pone in bocca al suo personaggio-portavoce la raccomandazione che i volumi che si dedicano « corrispondano, per quant’è possibile, all’humore di cui si mandano », onde evitare episodi sconvenienti come la dedica ad un cardinale delle Lettere amorose di Veronica Franca. 4 Il rituale vuole che colui che firma la dedica espliciti il nesso che intercorre tra l’opera e le attitudini, la storia personale, le vicende dinastiche e così via del patrono prescelto. A volte la relazione individuata è frutto di acrobazie retoriche, ma è necessario che un legame dichiarato vi sia perché lo scambio dei doni avvenga in condizioni di credibilità. iv regola. La scelta del dedicatario deve rispettare la gerarchia dei patroni. Questa regola, che con la ii e la iii, esaurisce la fase dell’elezione del dedicatario, si ispira ad un principio comportamentale tipico del sistema di patronage, che impone il rispetto di una gerarchia nell’attivazione delle relazioni mecenatiche. 42 In altre parole non si può pretendere che un patrono importante accetti la dedica di un’opera di un autore minore, o che occupa comunque un ruolo secondario in una corte o in una clientela. v regola. L’opera dedicata deve essere inedita. È prassi dedicare la prima edizione in quanto non va dimenticato che oggetto del dono è l’opera, rappresentata appunto, al più alto livello di valore, dalla prima edizione. vi regola. Deve essere richiesta preventivamente al patrono prescelto l’autorizzazione alla dedica. Il patrono deciderà sulla base dell’osservanza delle regole precedenti da parte del dedicante ed anche su quanto gli viene eventualmente anticipato del contenuto dell’opera. È buona regola inviare al patrono il testo della dedica ; prassi quest’ultima pretesa, ad esempio, dal duca di Firenze Cosimo I nei confronti di quegli autori cui tra il 546 e il 550 commissionava scritti per celebrare il consolidarsi del suo regime : 38. Sulla questione della doppia dedicatoria nel Libro del Cortegiano, cfr. J. Guidi, Une artificieuse présentation : le jeu des dédicaces et des prologues du “Courtisan”, in L’écrivain face à son public, cit., pp. 27-44 ; A. Quondam, “Questo povero Cortegiano”. Castiglione, il Libro, la Storia, Roma, Bulzoni, 2000 (in part. pp. 47-525). 39. Il codice è il ms. Vat. lat. 4922 della Bibl. Apostolica Vaticana. Il poeta stesso narra la sua sorpresa (e il suo disappunto) per la notizia della morte del dedicatario in un capitolo aggiunto al poema. 40. Cfr. M. Paoli, op. cit., pp. 80-8. 4. G. Fratta, op. cit., c. 9r. 42. Cfr. M. Biagioli, op. cit., pp. 9-20.

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a lui venivano inviati i testi delle dediche e delle opere prima che questi venissero affidati allo stampatore ducale. 43 Ancora nel 747 Carlo Emanuele III di Savoia aveva accettato informalmente la dedica propostagli da Gian Domenico Mansi per il suo supplemento ai Concili del Labbé, ma Giuseppe Pasini ricordava all’autore « il costume di questa Corte, il quale credo essere comune a tutte ; cioè di presentare prima la Dedica in iscritto, che in istampa, acciocché non vi sia cosa, che possa dispiacere o al medesimo Principe, cui si dedica, o al Ministerio ». 44 L’autore a seguito della richiesta di autorizzazione, dovrà attendere la cosiddetta ‘accettazione della dedica’. 45 Non infrequenti i casi di rifiuto. Celebre quello operato da papa Pio VI nei confronti del Saul dell’Alfieri, in quanto opera teatrale. 46 vii regola. L’edizione dedicata deve essere presentata, in uno o più esemplari, al patrono prima che qualsiasi altra copia venga diffusa. Si è già detto di questa regola che subordina la pubblicazione di un libro al rituale della presentazione al patrono. Anch’essa sviluppa la convenzione dello scambio dei doni, aggiungendo ulteriore valore a quanto proviene dall’autore. La solennizzazione dell’offerta è data non solo dalla priorità assoluta nei confronti del mecenate ma anche dalla forma lussuosa ed ufficializzata dell’esibizione. Il Muratori inviò a Londra, elegantemente legati, più di un esemplare della prima parte delle sue Antichità estensi, vale a dire la copia indirizzata al patrono dell’edizione, Giorgio I, ma anche quelle destinate al principe di Galles e consorte e ad altri membri della corte. 47 viii regola. Il patrono ha l’obbligo di ricompensare l’autore una volta che sia stata accettata la dedica. È regola cardine del sistema e l’unica, insieme alla successiva, posta in capo al mecenate. Sulla sua frequente inosservanza, che rappresenta il punto di massima criticità della prassi dedicatoria, si sono concentrate sia le lagnanze degli autori delusi che i giudizi negativi di coloro che registravano l’inadeguatezza del mecenatismo editoriale. Già all’epoca dei manoscritti la ricompensa da parte del patrono non era un vincolo ‘secundum civitatis iura’, tipico del negozio giuridico romano, ma un’‘obligatio naturalis’, una consuetudine che si basava su un tacito patto. 48 Anche Giovanni Fratta parlerà di “remuneratione” dovuta al letterato che rende “immortale” il nome del dedicatario, alla stregua del compenso che viene riconosciuto all’avvocato e al medico per la loro opera, 49 e di “grandissimo obligo” dei dedicatari nei confronti degli autori, purché la dedica sia stata autorizzata.50 Un dovere di natura etica e non giuridica, diverso da quell’obbligo alla riconoscenza, fondato sulla legge positiva, che solo qualche anno dopo, nel 597, Apollinare Calderini assegnerà al principe nei riguardi dei letterati al suo servizio. 5 Pare di capire, su questa stessa lunghezza d’onda, che il 43. Cfr. M. Plaisance, Les dédicaces à Côme Ier cit., p. 80. 44. Cfr. M. Paoli, op. cit., p. 78. L’uso della lettura preventiva della dedica è attestato anche al principio dell’Ottocento (ivi, p. 78, nota 26). 45. Gli accordi venivano generalmente presi con gli apparati delle corti e con i segretari dei porporati, ma si poteva assistere anche ad un rapporto diretto sia nella richiesta da parte dell’autore che nell’accettazione da parte del mecenate ; cfr. M. Paoli, op. cit., pp. 78-79. 46. Cfr. M. A. Terzoli, Dediche alfieriane, in I margini del libro, cit., pp. 263-264. 47. Cfr. M. Paoli, op. cit. , p. 83. 48. Cfr. R. Manica, Il sistema della dedica, cit., pp. 460-46. 49. G. Fratta, op. cit., c. 8r. 50. Ivi, c. 9v. 5. L’opera del Calderini è Discorsi sopra la Ragion di Stato del Signor Giovanni Botero ; cfr. A. Biondi,

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vincolo si rafforzi a fronte di autori che hanno composto un’opera su commissione del mecenate. Non a caso Pietro Aretino, che pure praticherà il sistema delle dediche in maniera disinvolta, reclamerà la ricompensa dal marchese del Vasto per la dedica della Vita di Santa Caterina, scritta su commissione di questi, appellandosi ad una sorta di obbligazione giuridica : “mi si ritiene ciò che col testimonio d’un contratto publico mi devete per la Santa Caterina” (5 marzo 542). 52 Niente tuttavia che consenta agli autori un’azione legale. E qui si appunterà l’ironia di Furetière con il titolo del capitolo xiii, tomo iii, della sua Somme dedicatoire : « S’il y lieu & action de se pourvoir en justice contre un Mecenas pour avoir payement d’une épistre dédicatoire, & si elle se doit payer au dire d’experts ». 53 ix regola. Il ‘gradimento’ del patrono deve avvenire in tempi e modi adeguati. Con tale espressione codificata si designerà per tutto il periodo dell’Antico regime la concessione del premio da parte del mecenate. 54 In caso di ricompense di ordine materiale, il ‘gradimento’ deve essere commisurato alla dignità del patrono : così Fratta che afferma la corrispondenza tra ricompensa e fortune del dedicatario. 55 Che tuttavia vi fosse in Italia come in Francia un dibattito mai sopito, ad esempio a livello di carteggi tra letterati, circa la congruità o meno dei premi ricevuti, lo attesta ancora una volta la satira di Furetière che prevede addirittura una prezzario per i differenti componimenti dedicati. 56 Circa la tempistica di attuazione del ‘gradimento’ l’attesa dell’autore non poteva essere illimitata ; anzi anche un lieve ritardo innescava la paura che la dedica fosse andata fallita : Antonio Vallisneri aveva presentato all’imperatore Carlo VI la sua Istoria della generazione dell’uomo e degli animali il 24 luglio 72 e il 7 settembre successivo, in assenza di risposta da Vienna, l’autore tradiva la sua preoccupazione con il Muratori. 57 Nel caso di opere fortunate, soggette quindi a ristampe ad iniziativa dell’autore (e perciò non pirata), l’esito dell’operazione dedica doveva essere noto nel breve periodo affinché potesse essere applicata o meno l’ultima regola del sistema. x regola. L’eventuale ristampa curata dall’autore deve conservare, in caso di avvenuto ‘gradimento’, lo stesso dedicatario. La concessione del premio chiude il circuito virtuoso della dedica e sancisce l’avvenuto dono dell’opera al patrono, il cui nome deve figurare quindi anche nelle ristampe. Queste ultime non danno diritto ad un’ulteriore ricompensa. In caso di non ‘gradimento’ l’autore è legittimato dal sistema a mutare L’immagine dei primi Farnese (1545-1622) nella storiografia e nella pubblicistica coeva, in Le corti farnesiane di Parma e Piacenza. (1545-1622). I, cit., p. 98. La posizione di Matteo Pellegrini (Che al savio è convenevole il corteggiare libri IIII, Bologna, Tebaldini, 624) è assai meno impegnativa per il principe assoluto, il quale mostra la sua generosità già nell’accettare il dono ; cfr. M. Biagioli, op. cit., pp. 50-5. 52. Aretino aveva inviato al d’Avalos una copia dell’edizione con lettera del 26 novembre 540, in cui faceva riferimento alla commissione ricevuta (« vi mando il volume al nome vostro dedicato e a vostro nome composto ») ; ancora nella lettera del 5 marzo 542 : « ... il pagarmi de le fatiche impostemi » ; cfr. P. Aretino, Tutte le opere. Lettere. Il primo e il secondo libro, Milano, Mondadori, 960, pp. 698-699, 837. 53. A. Furetière, op. cit., p. 268. 54. ‘Gradimento’ o ‘aggradimento’ erano usati ovviamente con il relativo verbo (‘gradire’ o ‘aggradire’). L’uso è, ad esempio, presente nella dedica, datata 30 settembre 546 e firmata dall’editore e libraio Paolo Gherardo, de Il primo e secondo libro delle satire alla carlona di Andrea da Bergamo (pseud. di Pietro Nelli ; Venezia, Paolo Gherardo, 548). Per l’uso nel Settecento, cfr. M. Paoli, op. cit., pp. 80-8. 55. G. Fratta, op. cit., cc. 8v-9r. 56. A. Furetière, op. cit., pp. 275-278. 57. Il 28 novembre 72 il Muratori si complimentava comunque con l’autore per il premio nel frattempo fattogli pervenire dall’imperatore ; cfr. M. Paoli, op. cit., p. 84.

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la dedica. Antonfrancesco Doni non ha dubbi in proposito e consiglia nel 552 : « se non vi donano, se non riconoscano la virtù vostra, e in parte remunerino le vigilie vostre : rifate le Epistole, volgete ad altri i vostri sudori... ». 58 Anche Juan Caramuel nel 664 conferma con una punta di ironia : « Ma se Lermeo non ti ha donato nulla in cambio del libro ? ... potrai senza scrupolo di coscienza dedicare il libro a Colubrazio o a chiunque altro ». 59 Il decalogo fin qui tracciato dovrebbe illuminarci a livello teorico sulle linee comportamentali suggerite dalla tradizione ad autori, stampatori e mecenati, al punto che gli scostamenti più o meno evidenti dalle regole nell’attuazione delle singole pratiche dedicatorie non mettono in dubbio la sostanziale adesione al sistema. Ad esempio, il fatto che Marino imposti la dedica dell’Adone su due dedicatari, il re e la regina madre, e non su di un unico patrono come vorrebbe la seconda regola, è giustificabile con la particolare situazione politica della corona francese e non modifica l’autenticità dello scambio mecenatico in atto. D’altra parte, fin dai primi decenni di vita del nuovo impianto consuetudinario si registrano violazioni e abusi principalmente motivati dalla ricerca spregiudicata di vantaggi economici da trarre con l’esercizio della penna. L’applicazione più ortodossa delle regole del sistema andrà ricercata dove esse erano state codificate e dove quindi era maggiore l’aspettativa della loro osservanza. La consuetudine, ad esempio, di richiedere l’autorizzazione alla dedica al patrono e quella di fargli leggere preventivamente il testo discendevano certamente dall’esigenza del principe di esercitare il massimo controllo su quanto riguardava la sua immagine : comprensibile che i letterati della sua corte o del suo entourage vi si uniformassero. Gli autori che gravitavano nell’ambito delle corti principesche o cardinalizie, ed in particolare quelli di loro coinvolti nella realizzazione di opere su commissione erano quindi chiamati al rispetto della prassi dedicatoria, come degli altri obblighi imposti a vari livelli dai rituali cortigiani. L’esempio delle numerose opere indirizzate a Cosimo I de Medici 60 attesta l’osservanza anche da parte del duca di quanto gli imponeva il sistema, e la fiducia che i letterati nutrivano nel ‘gradimento’ delle dediche a lui rivolte, reiterate nelle ristampe. 6 Una di queste dediche, a firma di Lodovico Domenichi, posta in testa alla Seconda parte dell’Historie di Paolo Giovio, esaltando la “santa ami58. A. F. Doni, A coloro che dedicano opere per necessità, et pigliano un granchio a secco, in Id., La Zucca, Venezia, F. Rampazetto, 565, p. 70 (già pubblicata in Id., Fiori della zucca, Venezia, F. Marcolini, 552, pp. iiiv-ivv). 59. Si veda supra nota 0. 60. Si veda Lodovico Domenichi nella dedica al duca de Le vite di Leon Decimo, et d’Adriano Sesto sommi pontefici di Paolo Giovio, da lui tradotte (Firenze, L. Torrentino, 549) : « ... veggendosi ogni dì dedicati al glorioso nome Vostro infiniti componimenti d’huomini rari et eloquentissimi ». 6. Per le dediche a Cosimo I riprodotte nelle ristampe se ne considerino ad esempio alcune di Lodovico Domenichi : quella anteposta alla citata edizione de Le vite del Giovio (si veda supra nota 60 ; ripetuta nell’edizione Venezia, G. de’ Rossi, 557), quella anteposta ai De conforti filosofici di Boezio (Firenze, L. Torrentino, 550 ; ripetuta in Venezia, G. Giolito de Ferrari, 562) e quella anteposta a La seconda parte dell’Historie del suo tempo di Paolo Giovio (Firenze, L. Torrentino, 553 ; ripetuta in Venezia, Comin da Trino, 557). La fiducia e la riconoscenza nei confronti di Cosimo si sarebbero estese al successore : Francesco. Toscanella arriverà a considerare nel suo testamento una sorta di legato la dedica al granduca di Toscana di un suo manoscritto ancora da stamparsi (578 ; cfr. C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 988, pp. 265-266) ; Scipione Ammirato indicherà al suo patrono, Luigi Carafa, l’esempio luminoso de « i miei gran Medici » « resi chiari et famosi nella luce dell’universo » per il « patrocinio delle lettere » (dedica delle Rime di D. Benedetto dell’Uva, Giovanbatista Attendolo, et Cammillo Pellegrino, Firenze, Sermartelli, 584).

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citia” che lega “scambievolmente” principi e poeti, si pone, si è detto, come uno dei possibili prototipi della dedica mariniana dell’Adone, 62 e risulta anch’essa celebrativa del sistema (553). Quando invece i legami con la corte si allentano e l’autore opera con relativa autonomia anche nei confronti delle università e della Chiesa, forte del sostegno del mercato, allora il ricorso alla prassi dedicatoria risulta assai meno vincolato. L’Aretino che ricavò ingenti guadagni dalle dediche, 63 non sembra aver osservato sempre il rituale della richiesta di autorizzazione al patrono. 64 Del resto risulteranno frequenti in altri autori le dediche non preventivamente concordate. 65 Ma è dal versante dei letteraticollaboratori editoriali, redattori e poligrafi che giungono gli abusi più evidenti, e il Doni esemplifica bene la situazione moltiplicando le dediche per ricavarne maggiori frutti : così ne I Mondi (Venezia, F. Marcolini, 552), nei Tre libri di pistolotti amorosi (Venezia, G. Giolito de Ferrari, 558), ne La Zucca (Venezia, F. Rampazetto, 565), ma soprattutto ne La Libraria (Venezia, G. Giolito de Ferrari, 550), con ben ventuno dediche, 66 al punto che ne scaturirà la critica sprezzante di Giovanni Fratta : « sì come 62. Si veda supra nota 6. Il nesso tra le due dediche si estende anche al medesimo casato di Cosimo e della regina Maria, nonché alla condizione eroica del mecenate (« ... vero ornamento d’una certa virtù eroica »). 63. Il 22 dicembre 537 ringraziava il d’Avalos per i cento scudi, ricevuti probabilmente per la dedica della Marfisa (cfr. P. Aretino, Tutte le opere, cit., p. 403) ; la dedica all’imperatrice Isabella di Spagna delle Stanze in lode de la Sirena gli fruttò una collana d’oro del peso di più di tre libbre consegnatagli da don Lope Soria prima del 25 luglio 537 (si veda lettera a Lodovico dei Magi ; ivi, p. 20) ; per la dedica de La umanità di Cristo a Carlo V fu gratificato con una “gran catena d’oro” prima del 4 marzo 539 (ivi, p. 534) ; per la dedica del Genesi a Ferdinando I d’Asburgo ricevette duecento ducati d’oro prima del 3 luglio 539 (ivi, pp. 576-577) ; per la dedica alla marchesa del Vasto della Vita di Maria Vergine ricevette una collana d’oro ed una veste di seta prima del 2 novembre 539 (ivi, p. 600) ; per la dedica al d’Avalos della Vita di Santa Caterina e della Vita di San Tommaso ricevette trecento scudi l’8 giugno 544 (cfr. Lettere a Pietro Aretino, a cura di G. Floris e L. Mulas, ii, Roma, Bulzoni 997, n. 23). 64. Il primo libro delle Lettere (Venezia, F. Marcolini, 538 ; è l’edizione del gennaio 538) venne dedicato a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino. L’Aretino in maniera del tutto irrituale aveva scritto al duca il 26 giugno 537 (P. Aretino, Tutte le opere, cit., pp. 94-95) annunciando la volontà di dedicargli un’opera, senza però specificare quale, nonostante quattro giorni prima avesse anticipato al Marcolini la sua intenzione di dedicare l’edizione delle Lettere ad un principe (ivi, pp. 429-430). Non è da escludere tuttavia che l’autorizzazione del della Rovere fosse ugualmente intervenuta se il letterato, inviando una copia del libro al figlio del duca, parla de « l’opera che il vostro singular padre si è degnato ch’io gli intitoli » (ivi, p. 445, 29 dicembre 537). La dedica del Secondo libro de le lettere (Venezia, F. Marcolini, 542) a Enrico VIII d’Inghilterra venne affidata a Piero Vanni con preghiera di presentare al re « il libro che le ho intitolato » (3 agosto 542 ; ivi, p. 939). Copia de La umanità di Cristo, dedicata a Carlo V, fu inviata all’imperatrice (2 luglio 538, ivi, pp. 488-490), con il chiarimento del perché dell’intitolazione : « ... per ispirazione divina, per consenso fatale e perché debbo farlo ... ». 65. Si veda ad esempio il Lasca quando si rivolge a Curzio Frangipane (I sonetti del Burchiello, et di messer Antonio Alamanni, alla Burchiellesca, Firenze, Giunti, 552) giustificando l’intitolazione, avvenuta evidentemente senza autorizzazione (« vi potreste forse ... meravigliare, e non senza cagione ; che io, che già mai non vi vidi, mi fussi messo così a indirizzarvi la presente opera ... »), con il fatto che suo cugino gli aveva parlato delle virtù del patrono. Ma anche il Domenichi, quando si muove al di fuori della corte medicea, nella dedica a Matteo Montenegro delle Lettere volgari di Paolo Giovio (Venezia, G. B. e M. Sessa, 560) : « Temo, dico Io, per esser nuovo affatto appresso V.S. ... » ; « ... che il dono, quale e’ si sia, le viene onde non l’aspettava ». 66. I Mondi sono dedicati a Roberto Strozzi e le partizioni interne dell’opera a Pietro Strozzi, Filippo Strozzi, Leone Strozzi, Caterina Peregrina, marchese Doria, marchese Della Terza. Ciascun libro dei Pistolotti amorosi è dedicato a Salamone da Fano, Antonio Tuttobuoni, Giulio Rangone. L’edizione definitiva de La Zucca, oltre la dedica generale a Giovanni Francesco Labia, contiene quelle a Cristoforo Mue-

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appare ne’ Mondi, nelle Zucche, et in altri cherebizzi d’un certo impiastra carte ; ciò facendo, per cavar dalle cose, che dedicano, più emolumento di quello, che l’opere non meritano ». 67 Il Doni si fa interprete di coloro che come lui puntano molto sul ritorno economico delle dediche e che spesso ne restano delusi : suo il ragionamento A coloro che dedicano opere per necessità, et pigliano un granchio a secco del 552, dove se la prende con l’avarizia dei ricchi patroni, esortando a scegliersi semmai dei dedicatari degni di essere onorati. 68 Evidente la sua avversione per l’adulazione, valorizzata da certa letteratura cortigiana, 69 e il suo disprezzo per « questa età adulatrice », caratterizzata da « le Pistole dedicatorie ancora, gonfiate, pregne : et sbracate d’Adulatione » (562). 70 I giudizi negativi del Doni e la sua personale pratica dedicatoria, pur con le contraddizioni che distinguono il personaggio, documentano l’esistenza di una reazione al sistema che doveva essere relativamente diffusa. Giordano Bruno fornisce ulteriore materiale in questa direzione : nella dedica della Cabala del cavallo pegaseo (585) ad un destinatario ipotetico, e quindi non utilizzabile venalmente, egli ridicolizza la procedura della richiesta di assenso al patrono e il principio di corrispondenza tra l’opera e il dedicatario, mentre nella dedica del Candelaio (582) aveva ironizzato sulla ricerca di protezione mecenatica. 7 Ecco quindi l’esigenza di un’opera che a livello teorico, nello spirito della trattatistica dell’epoca e nella forma del dialogo con intenti precettistici, ponesse un freno agli abusi – cioè alle violazioni del sistema – e riaffermasse in buona sostanza la validità e l’efficacia del sistema stesso. Il Della Dedicatione de’ libri, con la Correttion dell’Abuso, in questa materia introdotto di Giovanni Fratta, edita a Venezia nel 590, si oppone infatti alle alterazioni più ricorrenti della prassi : autori che, per “ansietà di guadagno” cambiano i dedicatari in occasioni di ristampe nonostante fosse intervenuto il ‘gradimento’ (cc. 7v, 4v-5r), o che dedicano opere usurpate (c. 4r), o che moltiplicano le dediche in una stessa opera (c. 2r), o che scelgono un patrono senza averne ricercato l’assenso (cc. 0v, 6r, 6v) ; o che eccedono nelle adulazioni (cc. 20v, 22v-23r) ; e ancora, lichi, Lodovico Rangone, Cristoforo Trenta, Girolamo Fava, Luigi Bellacate, Giovanni Antonio Pisano, Gasparo Provana, Sforza Pallavicino, Antonio Altoviti, Scipione Gonzaga, Geronimo Musici, Angelo Moresini, Salamone da Fano, Pietro Gabrielli, Giovanni Battista Saraco. La Libraria contiene dediche a Giovan Jacopo Dal Pero, Bernardino Merato, Velusino, Domenico Venier, Federico Badoer, Giovan Antonio Morando, Ercole Bentivoglio, Isabella Sforza, Laura Terracina, Matteo Paliscermo, Anna Morona Stampa, Pietro Perna, Remigio Fiorentino, Silvia di Somma, Vittoria Colonna, Agostino Bonuccio, Francesco Salviati, Giacomo Moro, Pietro Orsilago, Jacques Buus ( ?), Girolamo Fava. 67. G. Fratta, op. cit., c. v. A c. 2r è nominato esplicitamente il Doni per la sua Libraria dove « tante vi sono Epistole dedicatorie, quanti si trovano elementi nell’Alfabeto ». 68. A. F. Doni, op. cit.. 69. Penso al De re aulica di Agostino Nifo (Napoli, G.A. de Caneto, 534) in cui è affermata l’utilità dei cortigiani-adulatori ; cfr. D. Defilippis, Tematiche cortigiane nel ‘De re aulica’ di Agostino Nifo : fonti e modelli, in Il canone, cit., i, pp. 69-70. 70. A. F. Doni, Il Cancellieri. Libro della memoria, Venezia, G, Giolito de Ferrari, 562, p. 9. 7. Nell’epistola dedicatoria della Cabala Bruno finge di aver richiesto l’autorizzazione alla dedica ad una serie personaggi di cui dichiara solo la condizione sociale, ed afferma di aver ricevuto un rifiuto da tutti ; ironica anche l’associazione tra opera e destinatario ; nella dedica del Candelaio egli dichiara di aver preferito Morgana, destinatario simbolico, anziché “sua Santità”, “sua Maestà Cesarea”, “sua Serenità”, “sua Altezza, Signoria illustrissima e reverendissima”. Cfr. A. L. Puliafito, A proposito di alcune dediche di Giordano Bruno, in I margini del libro, cit., pp. 2-23, 3, cui sfugge l’intonazione ironica e critica delle due dediche.

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tipografi che, ristampando abusivamente un’edizione, mutano il nome del patrono originario (c. 4v), ma anche dedicatari che si mostrano ingrati, negando agli autori la giusta remunerazione (c. 9r), perché a Fratta, quasi alla vigilia del nuovo secolo, preme confermare il rapporto virtuoso tra letterati e mecenati. Torniamo così al punto di avvio della ricerca, a quel Seicento italiano in cui la pratica dedicatoria ha il suo grande sviluppo in un contesto mecenatico ancor più rigido, dove gli autori sono sempre più ‘servi’ e i dedicatari sempre più ‘padroni’. 72 Il ricorso al sistema delle dediche sarà prassi consolidata anche per poligrafi e avventurieri della penna con un sicuro riferimento al mercato come Gregorio Leti, e per la folta schiera di romanzieri a metà tra mestiere d’autore e servizio cortigiano. 73 Evidente la sua funzione di integratore economico a cui autori e stampatori non intendono rinunciare, recupero efficace delle spese editoriali anticipate e sistema premiante per coloro che hanno affidato le loro opere alla protezione dei potenti. Nel Settecento il sistema gode ancora di buona salute, e lo si trova applicato anche dagli illuministi milanesi come i caffettisti Cesare Beccaria, Paolo Frisi e Pietro Verri, con dediche ai diversi protagonisti del mecenatismo di Stato asburgico. 74 Niente di cui meravigliarsi se, come ha fatto notare Roger Chartier, Marmontel, candidato dei philosophes, riuscirà a farsi ammettere all’Académie française dedicando al re la sua Poétique. 75 Ma proprio le istanze illuministiche di opposizione alla letteratura encomiastica ed accademica determineranno una reazione al servilismo e all’adulazione ricorrenti nelle dediche, costituendo un punto di convergenza per la letteratura satirica, la critica militante e singoli comportamenti di autori dignitosamente alieni al sistema : Gian Carlo Passeroni nel poema Il Cicerone (756), Francesco Zacchiroli in una lettera aperta all’Albergati Capacelli (779), Antonio Piazza con la novella Le dediche, Giuseppe Baretti su « La Frusta Letteraria », l’Alfieri con alcune delle sue dedicatorie ne sono solo alcuni esempi. 76 A differenza di quanto abbiamo potuto notare per il Cinquecento ora il fronte delle critiche non è solo più compatto ed articolato, ma ideologicamente motivato e sostenuto dai fermenti in atto per l’affermazione di un moderno statuto dell’autore, tra riconoscimento della proprietà letteraria e crescita di un nuovo pubblico. Troppe coincidenze perché il sistema non mostrasse i segni premonitori del futuro collasso che avrebbe interessato, dopo la parentesi delle dediche encomiastiche a Napoleone, il più ampio contenitore del mecenatismo editoriale. Abstract Il saggio si propone di studiare il sistema delle dediche inteso come insieme di comportamenti regolati da un codice non scritto, cui autori e stampatori ricorsero per ottenere dai mecenati ricompense monetarie o previlegi. Il sistema, che discende dalla tradizione del libro manoscritto, ha avuto con l’affermarsi della stampa una nuova definizione con l’aggiunta di ulteriori consuetudini, che si confermano per l’intero periodo dell’Antico regime tipografico. Al riguardo vengono qui proposte dieci regole che prendono in considerazione i principa72. Cfr. G. Benzoni, op. cit., pp. 99-02. 73. Cfr. D. Ortolani, Il romanzo italiano del Seicento, Catania, Pellicanolibri, 978, pp. 54-55. 74. Cfr. M. Paoli, op. cit. , pp. 97-99. 75. R. Chartier, op. cit., p. 22. 76. Cfr. M. Paoli, op. cit., pp. 99-02 ; P. Rambelli, Autori e lettori nel secondo Settecento : il caso di Antonio Piazza, in I margini del libro, cit., pp. 242-245 ; M. A. Terzoli, Dediche alfieriane, in I margini del libro, cit., pp. 263-289.

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li meccanismi della prassi dedicatoria e rappresentano il massimo conformismo al sistema, attribuibile storicamente all’ambito delle relazioni cortigiane. Al contrario le violazioni ed elusioni del sistema si registrano in quegli autori che hanno un rapporto forte con il mercato e che vivono al di fuori della corte. L’analisi parte da un episodio emblematico, la dedica dell’Adone di Giambattista Marino ed evidenzia l’articolarsi secolare del fenomeno, fino alla sua crisi definitiva al principio dell’Ottocento, avendo cura di sottolineare analogie e sostanziali differenze con la situazione francese. The paper intends to study the dedications system, considered as a set of behaviours ruled by an unwritten code, which authors and printers resorted to, in order to obtain monetary rewards or privileges from Maecenases. The system, coming from the handwritten book tradition, has been newly definited because of the printing establishment with the addition of further habits confirmed during the whole period of the old typographical structure. In this regard ten rules have been proposed here, wich take the main processes of the dedicatory praxis in consideration and represent the greatest conformism to the system, historically attributable to the field of court relationships. On the contrary, system breaks and elusions can be found in those authors who have a strong relationship with the market and live outside the court. The analysis starts from an emblematical event, the dedication of the Adone by Giambattista Marino, and emphasizes the secular development of this phenomenon, until its final crisis at the beginning of the xix century, underlining analogies and substantial differences with the French situation.

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Giuseppina Zappella L’IMMAGINE FRONTISPIZIALE

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ra gli elementi paratestuali il frontespizio è certamente uno dei più rilevanti per la sua particolare funzione di mediazione intellettuale e relazionale tra produttore, committente e fruitore. Il riferimento nello specifico è soprattutto a : – scelte editoriali – aspetti promozionali e pubblicitari – informazioni sul contenuto – rapporti con l’autore, il committente, il dedicatario, il potere civile e religioso. Tanto più significativa perciò appare la presenza, in questa pagina, dell’immagine, super-segno significante, che l’accompagna diacronicamente nella sua evoluzione tipologica. Infatti l’illustrazione del frontespizio, con la sua posizione privilegiata ad apertura di libro, rappresentava un potente mezzo espressivo per il tipografo attraverso l’interazione dell’elemento verbale e di quello visivo, per l’eccellenza della collocazione dell’immagine e la sua rilevanza estetica nella presentazione grafica della pagina. Come è noto, le origini del frontespizio, per quanto antiche, non coincidono con la produzione del codice, né degli incunaboli. Nel manoscritto, infatti, il titolo quasi mai spicca nella “fronte” del codice, per converso ad assumere un precipuo interesse, estetico e segnaletico, di presentazione del libro è la pagina iniziale del testo, di solito decorata con miniature, iniziali dipinte, intestazioni in tutte maiuscole, rubricature nell’incipit, sottoscrizione finale. Questa tipologia è già comune nei codici dei primi secoli e passa per imitazione anche ai più antichi impressi a stampa, che non differiscono molto dai manoscritti quanto alle forme della intestazione e della decorazione, presenti essenzialmente nella prima pagina del testo. Agli inizi l’invenzione della stampa non provocò una repentina trasformazione del commercio librario, ma non appena la produzione cominciò ad organizzarsi il frontespizio venne proposto come un vero manifesto propagandistico, destinato a far conoscere il libro, non più prodotto in esemplare unico, ma destinato a raggiungere un numero elevato di lettori. Dunque le motivazioni che portarono alla introduzione del frontespizio furono soprattutto economiche. A tale scopo si recuperano non solo quegli elementi iconografici e decorativi che adornavano la prima pagina del testo, ma anche le informazioni (autore, titolo, luogo, data, tipografo e/o editore e relativa marca) presenti di solito nel colophon o in altre parti del libro. Questo processo non è però continuo e regolare : anticipazioni alternate a configurazioni tradizionali si avvicendano per lungo tempo, fino a quando, verso la metà del sec. xvi, il frontespizio raggiunge la sua forma più completa con l’inclusione anche delle note tipografiche. I messaggi semantici espressi nel frontespizio attraverso il linguaggio visivo dell’immagine e l’interazione di quello verbale sono regolati da una duplice finalità : promozionale per la ditta produttrice e informativa in relazione al contenuto e al suo autore. Così possiamo trovare in questa posizione sia una vignetta allusiva al contenuto o al titolo, sia un ritratto dell’autore o del dedicatario, sia uno stem-

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ma o tipologie analoghe. L’alternativa era ovviamente correlata a una precisa scelta editoriale : captare l’attenzione del lettore richiamando subito il testo, presentare un’immagine dell’autore ad accreditare l’importanza dell’opera, compiacere un potente dedicatario, segnalare una committenza ufficiale ecc. Anche la presenza della marca tipografica e/o editoriale è strettamente collegata alla necessità non solo di far conoscere il produttore, ma anche di trasmettere un messaggio pubblicitario, enfatizzato proprio dalla simbologia dell’immagine prescelta. Si tratta perciò di simboli che hanno una funzione polivalente, linguistica, didattica, propagandistica, informativa e pubblicitaria : immagini come messaggi linguistici, che si rivolgono più alla lettura che allo sguardo. In questo processo interagiscoFig. . Giovanni da Ketham, Fasciculo de medicina, no : Venezia, Giovanni e Gregorio de Gregori, 493. – strategie di comunicazione verbale e visiva – statuti e codici di funzionamento dell’immagine nel periodo di antico regime tipografico – standard iconografici – presentazione grafica. L’argomento, quindi, si presenta complesso e ricco di problematiche. Trattare dell’immagine frontispiziale, infatti, equivale a ripercorrere in modo riassuntivo e sintetico la storia dell’illustrazione libraria, di qui la necessità di un approccio non convenzionale, che stabilisca delle connessioni tra analisi morfologica e indagine storica. Pertanto, rimandando per una maggiore completezza di riferimenti e di esemplificazione a quanto già da me discusso in altro luogo,  mi limiterò qui a commentare tre nuclei problematici, che ritengo di fondamentale importanza in relazione all’argomento : . Strategie editoriali 2. Rapporto scrittura-immagine 3. Reiterazione dei messaggi semantici. . Giuseppina Zappella, Il libro antico a stampa. Struttura, tecniche, tipologie, evoluzione, parte i-ii, Milano, Editrice Bibliografica, 200-2004.

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. Titolo figurato e manifesto pubblicitario Nel periodo di antico regime tipografico, almeno fino ai primi decenni del Settecento, l’illustrazione in evidenza sul frontespizio opera come uno strumento di transfert, funziona come un surrogato della comunicazione, mezzo di propaganda, di edificazione e perfino di didattica : l’immagine insegna e la stessa decrittazione diviene una forma di apprendimento. 2 Particolarmente nell’età rinascimentale – in una civiltà abituata più alla visualità che alla lettura – all’immediatezza del linguaggio visivo dell’immagine il produttore affida il compito di comunicare un messaggio informazionale e contenutistico. Il titolo di un contributo di Enzo Bottasso, I paleotipi alla ricerca del frontespizio 3 suggerisce la gradualità di questo processo e la ricerca costante da parte dei tipografi di utilizzare il frontespizio come un efficace strumento pubblicitario, per rendere più attraente l’aspetto del libro e agevolarne l’identificazione, così da accrescerne anche le possibilità di smercio. A questo scopo un ruolo fondamentale è svolto dall’immagine che nell’incunabolo si trova nel verso della prima carta o anteposta alla prima pagina del testo, a mo’ di copertina, con la accattivante funzione di illustrare il contenuto del libro. Dunque già questa pagina illustrata, diretta progenitrice del frontespizio, si connota con caratteristiche particolarmente moderne nella sua destinazione a un pubblico più ampio e nel suo richiamo a precisi interessi e a valori di attualità. In questo ambito un esempio bellissimo è costituito dall’illustrazione raffigurante Pietro da Montagnana nel suo studio tra i libri (bene individuati con i nomi degli autori) e figure di pazienti in attesa, nella prima pagina dell’edizione veneziana 493 di Giovanni e Gregorio de Gregori del Fasciculo de medicina (Fig. ) convenzionalmente attribuito a Giovanni da Ketham. 4 Bottasso lo considera « frontespizio programmatico e quasi pubblicitario », 5 espediente geniale dei fratelli De Gregori per dare una figurazione unitaria di presentazione al volume con una soluzione iconografica forse suggerita dall’umanista romano Sebastiano Merlio, che tradusse in italiano il testo latino dell’opera. L’illustrazione medica antica, in effetti, aveva spesso un carattere pubblicitario (ancor più che scientifico e didattico) e proprio per questo si prestava più facilmente ad adattamenti e riproduzioni. Conferisce però a tali vignette un pregio particolare il rispecchiare aspetti del mondo reale, ambienti domestici e di lavoro, così che forse sarebbe interessante individuare “quelle prive di scopo esclusivamente scientifico e didattico, per verificare in quale forma e misura esigenze di carattere soprattutto commerciale consigliarono singoli editori a ricorrere all’attrattiva di immagini che non avessero nel testo una precisa giustificazione”. 6 2. Cfr. Zappella, Il libro, cit., ii, sub E. VII., Quadro 3. 3. Enzo Bottasso, I paleotipi alla ricerca del frontespizio, « La Bibliofilia », 70 (968), 3, pp. 27-28. 4. L’opera nella tradizione manoscritta è anonima, mentre in quella cinquecentesca viene attribuita tradizionalmente a Giovanni da Ketham. Sul Fasciculus e la relativa attribuzione cfr. da ultimo Tiziana Pesenti, Il “Fasciculus medicinae” ovvero le metamorfosi del libro umanistico, a corredo della riproduzione facsimilare dell’ed. 494 De Gregorio (Treviso, Ediz. Antilia, 200). 5. Bottasso, cit., p.279. 6. Francesco Barberi, Antiche illustrazioni mediche, in Id., Per una storia del libro. Profili, note, ricerche. Roma, Bulzoni, 98, p. 47.

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Non mancano altri casi in cui immagini di antichi frontespizi, particolarmente riuscite e per questo assai imitate, contribuirono notevolmente alla fortuna editoriale del testo che illustravano.Un esempio celebre l’Astronomia/Astrologia (la didascalia cambia in alcune esecuzioni) seduta in trono con una sfera armillare nella destra, tra le figure di Tolomeo e Urania, che in originale, in copia o in imitazioni venne adoperata ben 5 volte nel sec. xv (a partire dal 488) ed almeno altre 9 volte nel secolo successivo per illustrare opere di astronomia, in particolare la Sphaera mundi del Sacrobosco (anche edizioni parigine sono corredate di imitazioni dell’originale veneziano del 488). 7 Infatti per rendere il prodotto di più facile commerciabilità si fece ricorso in questo caso ad un’immagine di grande forza comunicativa, confezionata nel rispetto dell’imagerie tradizionale e conforme al gusto del tempo. 8 Illustrazioni allusive al testo I casi di vignette allusive al testo sono sicuramente i più comuni e frequenti in tutto il periodo. 9 Questo tipo di figurazione, infatti, serve soprattutto per proporre il contenuto del libro nella maniera più ideologicamente rappresentativa, in modo da riassumere figurativamente il testo. Alcuni esempi di datazione diversa : – Nel frontespizio degli Statuta et Decreta Papiae (Pavia, Giacomo da Borgofranco e Filippo da Cassano,505) le figure dei santi protettori (Siro e Agostino) e del tipico monumento equestre del “Regisole” sono inquadrati da uno splendido arco rinascimentale. – La impressionante e straordinaria illustrazione del frontespizio del De re anatomica nell’edizione veneziana di Niccolò Bevilacqua 556 0 (Fig. 2) raffigura un teatro anatomico nel quale lo stesso autore sta procedendo alla dissezione di un cadavere, con il particolare curioso dell’immagine autoreferenziale di un personaggio che segue la lezione consultando un libro illustrato di anatomia. – Anche il frontespizio inciso del De recondita abscessuum natura di Marco Aurelio Severino (Napoli, Ottavio Beltrano,632) è costruito allo scopo di proporre sinteticamente il contenuto scientifico dell’ opera attraverso i sei medaglioni, raccordati da un vitale tralcio d ‘uva, raffiguranti i vari sistemi per curare i tumori. – Analogamente il frontespizio de L’educazione delle fanciulle di Troili de’ Chiari (Venezia, Carlo Palese,782) presenta una vignetta centrale costituita da tre figure femminili (la maestra con ventaglio e due allieve) e cornice formata da tipici oggetti muliebri (scrigno, gioielli, fuso, ventaglio, merletti, anfora con fiori e anche libri). Un caso affatto particolare è rappresentato dalle marche allusive, in cui l’immagine richiama in maniera singolare peculiarità della produzione. Così Orfeo allude alla produzione musicale di Cacchi e Barré, l’organo a quella di Amadino, il giureconsulto a quella di carattere giuridico della tipografia “al segno del giureconsulto”. Un uso differenziato della marca, soprattutto per opere religiose, è documentato nel Cinquecento per Francesco Rampazzetto, che fa registrare la marca della Maddalena 7. Cfr. in proposito il contributo specifico di Antonio M. Adorisio, Note su alcuni libri illustrati di astronomia e astrologia, « Accademie e Biblioteche d’Italia », 46 (978), 6, pp. 404-40. 8. Adorisio, cit., p. 405 commenta : « l’immagine solo per caso adorna un libro ; avrebbe potuto comparire col medesimo successo su un qualsiasi oggetto di uso comune ». 9. Ampia esemplificazione in Zappella, Il libro cit., i, sub D.I.5-6. 0. Per l’attribuzione si sono fatti i nomi di Tiziano, del Salviati e del Veronese.

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per la stampa dell’Officium Beatae Mariae Virginis, per Andrea Spinelli che deposita due marche di soggetto religioso per i suoi libri liturgici e per Comin da Trino, che adotta la scena dell’adultera per opere devozionali in volgare. Questi ultimi esempi sono particolarmente rilevanti perché contengono un duplice messaggio semantico : pubblicitario del produttore e informativo del contenuto. Figure generiche e convenzionali. Standard iconografici Soprattutto per la letteratura minore di larga divulgazione e gli opuscoli in volgare di contenuto religioso o profano la vignetta che abbellisce la fronte del libro costituisce un’attrattiva comune, di grande richiamo. È evidente comunque che si tratta di immagini che giocano su repertori stabiliti e codificati. Quanto al soggetto, esso è ovviamente relazionato con il contenuto dell’opera (il santo, l’astrologo, il predicatore ecc.) ma non sempre appare specificamente creato. Numerose, infatti, sono le figure generiche e convenzionali (molto frequente l’iconografia dell’autore nello studio, Fig. 3) e inoltre è da tener conto del fenomeno, assai diffuso in epoca rinascimentale, del riutilizzo della medesima matrice – immutata o con modifiche – per illustrare il frontespizio di edizioni diverse. Nello stesso ambito si pone legittimamente la motivazione della presenza di ritratti frontispiziali rappresentati in modo convenzionale e idealizzato, anche reimpiegati per personaggi diversi.  La verità è che i tipografi attribuirono al ritratto non solo una finalità estetica (elemento esornativo del libro, che contribuiva a presentarlo in modo più gradevole), ma anche dignità concettuale perché in un certo senso, come nel manoscritto, ne chiariva il carattere, quasi titolo figurato o manifesto pubblicitario dell’opera. In quest’ambito la verosimiglianza del ritratto passa in se- Fig. 2. Realdo Colombo, De re anatomica libri xv, Vecond’ordine rispetto all’idea che il nezia, Nicolò Bevilacqua, 556. tipografo vuole rappresentare dell’opera e del suo personaggio : l’autore nello studio o attorniato dai commentatori, il traduttore, il condottiero famoso. Conta soprattutto l’impressione, la suggestione che la figura eserciterà sul lettore, il paradigma ideale più del personaggio reale. . Esempi in Giuseppina Zappella, Il ritratto nel libro italiano del Cinquecento. Milano, Editrice Bibliografica, 988, i, p.257-26.

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Ancora appare frequente nel periodo antico (ma non solo) il ricorso a iconografie standardizzate per introdurre determinati generi di opere popolari. Anche oggi il lettore può essere informato attraverso alcune caratteristiche fisiche sulla tipologia del libro da acquistare, ma i segnali sono diversi e concentrati soprattutto sulla copertina. Nel Quattro e Cinquecento, invece, i libri venivano venduti senza copertina, in fogli non rilegati, e perciò l’immagine del frontespizio surroga questo messaggio attraverso tipologie iconiche, che il mercato editoriale consacra in forme stereotipate. Alcuni esempi : – l’immagine del Cristo in croce nelle traduzioni volgari della popolarissima Imitazione di Cristo ; – un paladino, un ritratto di Carlo Magno o una scena di battaglia nei romanzi cavallereschi ; – la xilografia con l’angelo annunziante nelle Sacre rappresentazioni ; – l’illustrazione del monaco che Fig. 3. Fior di virtù, Brescia, Battista Farfengo, 49. coglie fiori in un giardino nelle numerose edizioni del Fior di virtù. 2 La ricorrenza delle medesime tipologie iconiche appariva rassicurante per un pubblico poco avvezzo alle novità ed aveva, inoltre, come si è detto più volte, anche ragioni commerciali assecondando appunto le aspettative e le preferenze ormai consolidate dei lettori abituali. Il fenomeno è più evidente nei primi secoli ed è agevolato dalla possibilità di reimpiegare le stesse matrici, contribuendo così a facilitare l’approccio dei lettori più diffidenti con immagini familiari e ben note. Un caso particolare è rappresentato dalle cornici scompartite con ritratti. Venivano ripetute per categorie analoghe di pubblicazioni (giuridiche, letterarie, filosofiche, scientifiche) e favorivano così la familiarità del lettore con determinati generi di opere. L’esempio più tipico è costituito dalle edizioni giuntine, nelle quali i ritratti dei personaggi, scelti in relazione al carattere dell’opera, si trovano in piccole nicchie (che in alcuni casi assumono una caratteristica forma conchigliata) per gruppi di quattro-cinque nei due montanti della cornice. La matrice del blocco non era unica, ma si componeva di quattro parti scomponibili, di sorta che era anche possibile usare i ritratti in modo differenziato. 3 2. Relativa discussione in Zappella, Il libro cit., ii, sub E.II.6. 3. Sulle cornici scompartite cfr. Zappella, Il ritratto cit. I, p.20-22.

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D’altra parte l’espediente di utilizzare iconografie standardizzate verrà sfruttato anche molto tempo dopo (in Francia nel sec. xviii) per testi particolarmente complessi e ostici, come i libri di economia politica, per i quali poteva essere opportuno premettere una vignetta già comparsa in precedenti edizioni della medesima opera. 4 Le immagini della memoria La trattatistica sull’“ars memoriae” conobbe un’ampia diffusione nel Rinascimento, divulgando i precetti della retorica e della mnemotecnica, che già nel Medioevo avevano trovato cultori soprattutto tra i teorici della predicazione. L’esemplificazione relativa è collegata ai frontespizi istoriati, con scene inserite entro scomparti, che si offrono come strumento di sintesi e sono appositamente “costruite” per aiutare la memoria del lettore. Così le principali sequenze narrative vengono “bloccate” e suddivise in una serie di quadri, disposte in uno spazio che è fisico e mentale al tempo stesso, come cicli narrativi ospitati in elementi architettonici. Il frontespizio della Bibbia clementina del 592 è un grandioso affresco di episodi biblici, che esprime l’ideologia della Chiesa post-tridentina con le imponenti figure di Mosè e David a celebrazione della dottrina ufficiale della Chiesa e delle sue figure carismatiche. Analogamente il frontespizio inciso delle Orationi sacre di Giovanni Azzolini (Quarta impressione : Napoli, Secondino Roncagliolo, 645) propone dieci quadri (a cornice del titolo), straordinaria quanto eccezionale testimonianza dei “sacri teatri” allestiti in occasione di solenni feste religiose. 5 Una tipologia affatto particolare si può osservare in un genere tipico veneziano : le cosiddette “Gratulatorie” per il conferimento di dignità. L’elemento che accomuna questo tipo di frontespizi è la ricchezza esuberante delle ornamentazioni e degli elementi architettonici e figurativi, ad esempio il titolo inciso su un drappo sostenuto da putti e in basso il quadro,maliziosamente scoperto, con una scena allegorica riferita alle virtù del festeggiato. Una variatio di questo tipo è il drappo, incorniciato dai soliti putti, con figure tipiche dell’iconografia veneziana (leone alato), mentre Fig. 4. Gratulatoria per il Cancellier Grande Giovanni Colombo, Venezia, Giovambattista Albrizzi, 776. il riferimento preciso al festeggiato 4. Cfr. Jean-Claude Perrot, Nouveautés : l’économie politique et ses livres, in Histoire de l’édition française, sous la direction de Roger Chartier et Henry-Jean Martin, Paris, Promodis, 982-99, ii, pp. 240-257. 5. Ad esempio il Mondo nuouo nella notte di Natale, Il Laberinto nella festa della Santissima Trinità, Il Mostro scatenato per le Quarantore del Carnevale ecc. (cfr. Zappella, Il libro cit., ii, p. 602).

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è nell’antiporta a riscontro, con il ritratto e i quadri celebrativi delle sue imprese (Fig. 4). Dunque anche in questi casi le immagini sono costruite per aumentare, nel ricordo, la suggestione del lettore. Un esempio più tardo è costituito dall’antiporta “à la cathèdrale” realizzata come un retablo gotico, che riunisce intorno ad una scena centrale, sormontata da pinnacoli e collocata su una predella, una serie di compartimenti laterali con altre figure. La disposizione tabulare fa interagire più scene simultaneamente, senza rispettare l’ordine del racconto,giocando sui diversi piani, centrale e periferico, di sorta che l’interpretazione ne risulta soggettivamente arricchita (uno dei primi esempi in Francia l’antiporta costruita da Célestin Nanteuil per l’edizione parigina Renduel 833 di Notre-Dame de Paris). Presentazione scenografica ed effetto “opening”

Fig. 5. Girolamo Savonarola, De simplicitate christianae vitae, Firenze, 496.

Anche l’attenzione per la presentazione grafica e la costruzione dello spazio visuale della pagina fa parte delle strategie editoriali. A partire dall’età barocca il compito di presentare il libro non è più assolto dal solo frontespizio, ma sono le prime pagine del libro, che nel loro succedersi o porsi a fronte (opening = effetto di apertura) creano un insieme scenografico di grande effetto. Lo scopo cui tende l’editore (in questo caso più che mai iperlettore) è quello della persuasione e della meraviglia, ingredienti necessari per colpire l’intelletto e la fantasia del lettore. Inoltre è da valutare, in relazione al frontespizio (soprattutto tipografico, ma anche inciso) la complementarietà - sotto il profilo estetico d’insieme - della pagina che precede o posta a riscontro. Nel primo caso l’antiporta, collocata nella pagina precedente il frontespizio, diviene la vera fronte del libro, come evidenziato dalla terminologia non italiana, 6 ed è la tipologia più comune nel sec. xvii. Nel secondo caso si realizza un effetto di presentazione “a libro aper-

6. Il termine frontespizio nelle lingue francese, inglese e tedesca (frontispice, frontispiece, frontispiz) indica non il frontespizio – come nella lingua italiana – ma l’antiporta. Sull’antiporta vedi anche quanto si dice infra.

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to” in cui la parte figurativa può essere limitata a una sola pagina (ritratto, antiporta) mentre quella a riscontro (frontespizio) è soprattutto informativa, oppure distribuita sulle due facciate,armonicamente e coerentemente composte e realizzate. Nel Settecento mentre il frontespizio tipografico è spesso integrato a fronte da una pagina incisa contenente antiporta (che nel secolo precedente di solito precede il frontespizio) o ritratto, il frontespizio inciso, invece, di solito non presenta una controfacciata, ma pure non disdegna altre volte un complemento figurativo, soprattutto un ritratto. Anche opere teatrali e romanzi, per la loro stessa natura di letteratura popolare, di svago e divertimento, sono spesso corredate di antiporte a fronte. La caratteristica peculiare di questo tipo di illustrazioni consiste nel collegamento con una scena saliente dell’opera. Sono spesso scene di vita comune, dagli sfondi e le ambientazioni più diverse, quasi commento figurato, che molto serba delle rappresentazioni sceniche e teatrali, di cui in qualche modo conservano la memoria. Anche la parte verbale non si limita a un’enunciazione del titolo o al solito motto moraleggiante, ma si dilunga a riportare brani abbastanza lunghi, esplicativi in relazione alla scena raffigurata. Nell’Ottocento gli elementi ornamentali e figurativi tendono a trasferirsi sulla copertina, l’illustrazione diventa “esterna” al libro stesso fino a che, ai nostri giorni, il processo può dirsi completato con la sempre maggiore fortuna della sovracoperta. Nondimeno, anche se in forme molto più sobrie, le vignette continuano ad adornare il frontespizio, 7 talvolta duplicate nella copertina (vedi infra) che tende sempre più a surrogarne la funzione e il messaggio.Una delle conquiste maggiori, sotto il profilo grafico, è rappresentata dall’introduzione della copertina a colori, che avvicina al libro anche il pubblico dei più giovani. Ed infatti, come scrive Jean Adhémar, « c’est l’extérieur des cartonnages qui plaît à l’enfant et non l’histoire même, souvent peu illustrée », 8 dal momento che il bambino identifica col colore le pubblicazioni come oggetti e riceve i « livres verts comme des lézards, jaunes comme des omelettes, rouges comme des homards... brillants et chargés d’or. Ils son pleints d’images et débordent de beaux sentiments ». 9 Per finire un accenno ai libri animati, oggetti tecnicamente complessi, che combinano immagini e testo in un gioco nel quale lo stesso lettore interagisce. L’immagine animata ha spesso uno scopo meramente ludico e perciò trova la sua più diffusa applicazione nella letteratura per ragazzi. Ai fini del nostro discorso, in linea con le finalità promozionali e le strategie di marketing di cui si diceva supra, una particolare menzione meritano i libri “fustellati”, in cui il contorno sagomato dell’illustrazione, che assume le forme dell’oggetto rappresentato, diventa anche il contorno del libro stesso. 20 L’immagine di propaganda A più ampio raggio l’immagine frontispiziale può valere da manifesto programmatico, celebrativo, ideologico, politico e religioso. 7. Spesso anche allusive come un’armatura per l’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio (Torino, Stabilimento Fontana, 842) e un’urna funeraria per Il Campo Santo di Brescia (Brescia, Nicolò Bettoni, 823). 8. Cfr. Jean Adhémar, L’enseignement par l’image, « Gazette des Beaux-Arts », 98, février, p. 52. 9. La citazione di George Darien è riportata in Michel Melot, Le texte et l’image, in Histoire de l’édition française, cit., iii, p. 287. 20. Si veda in argomento la monografia di Pietro Franchi, Apriti libro ! Meccanismi, figure, tridimensionalità in libri animati dal XVI al XX secolo. Ravenna, Edizioni Essegi, 998.

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Un esempio antico di uso propagandistico dell’immagine si riscontra, nell’ultimo decennio del Quattrocento, negli incunaboli savonaroliani, molto spesso corredati, proprio nella pagina del titolo, di una xilografia, quasi sempre ispirata dallo stesso frate, che seppe servirsi di questo mezzo per diffondere il suo messaggio religioso e politico (Fig. 5). La presenza del frate nella scelta tematica dei soggetti figurativi è fuori dubbio e così questa volta è l’autore stesso a partecipare in modo significativo all’impresa editoriale. 2 Alla lotta ideologica viene finalizzato l’uso dell’immagine frontispiziale anche nella pubblicistica protestante 22 e in quella controriformistica. Basti pensare al monumentale frontespizio degli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio (Roma, Tipografia Vaticana, 599) con le due figure degli apostoli Pietro e Paolo e la Chiesa trionfante, che esalta il triregno pontificio e soggioga incatenati i nemici della Chiesa (motto : « In petra exaltavit me et nunc exaltavit caput meum super inimicos meos ») (Fig. 6). E pensare che alcuni decenni prima quello stesso triregno, nell’iconografia riformata, era comunemente raffigurato come un attributo della meretrice seduta sulla Bestia nel cap. xvii dell’Apocalisse ! 23 Un intento chiaramente celebrativo, politico e propagandistico si può ancora leggere nell’antiporta che correda la celebre edizione della Gerusalemme Liberata illustrata da Giambattista Piazzetta (Venezia, Giambattista Albrizzi, 745). Vi sono raffigurati Apollo con la cetra, le Muse, Pegaso che fa sgorgare la fonte Ippocrene, tutti simboli della poesia. In alto due figure alate portano in volo il solito ritratto ovale dell’autore, mentre in basso, seduto e distratto, al punto di non accorgersi che due putti gli hanno sottratto spada e armatura, Marte contempla la scena. Certamente come soggetto l’antiporta del Piazzetta non può dirsi molto originale, ma i particolari della composizione, ed in particolare la figura di Marte a riposo, le attribuiscono un significato nuovo, di viva attualità, dal momento che quando la Gerusalemme vede la luce si era ormai conclusa da cinque anni la guerra contro i Turchi. La pace favorisce le arti e il benessere dei sudditi : dunque un vero e proprio manifesto politico. 24 Lo stesso messaggio due secoli prima troviamo espresso nella marca giuntina del giglio accompagnato, in una delle tante esecuzioni, dal motto « florente florescimus » con chiara allusione alla prosperità cittadina, quasi a dire : finché Firenze è in pace anche la nostra tipografia prospera. Un uso peculiare dell’immagine a scopo propagandistico è documentato dalla marca tipografica e/o editoriale. Come la filigrana anche la marca è fondamentalmente un contrassegno, che identifica l’ officina produttrice, in origine semplice sigla, ma 2. Cfr. in proposito il contributo specifico di Elisabetta Turelli, Gli incunaboli con xilografie di Fra Girolamo Savonarola nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in Immagini e azione riformatrice. Le xilografie degli incunaboli savonaroliani nella Biblioteca Nazionale di Firenze, a cura di Elisabetta Turelli, con saggi di Timothy Verdon, Maria Grazia Ciardi Dupré dal Poggetto e Piero Scapecchi. Firenze, Fratelli Alinari Editrice, 985, pp. 27-37. 22. Ampia esemplificazione in Ugo Rozzo, Linee per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600). Udine, Forum, 993. 23. Così in Das Neue Testament, traduzione in tedesco di Lutero (Wittenberg, 522), con incisioni di Lucas Cranach e ne Il Nuovo Testamento, tradotto da A. Brucioli (Venezia, 532) : riproduzioni in Rozzo, cit., p. 52. 24. Cfr. in proposito il contributo di Adriano Mariuz, La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso con le figure di Giambattista Piazzetta, in Libro e incisione a Venezia e nel Veneto nei secoli XVII e XVIII. Vicenza, Neri Pozza Editore, 988, pp. 33-60.

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che col tempo tende sempre di più ad assumere la funzione di un marchio di qualità, di una vera illustrazione pubblicitaria, destinata ad affermare la qualità del libro, oltre che ad indicarne l’origine. Solo così si spiega come, rispetto alla unicità -o quasi- di contrassegno adoperato dai primi tipografi, viene sempre più aumentando nel tempo il numero delle marche adoperate dal medesimo tipografo e/o editore, con riferimento sia alla varietà delle immagini, sia alla diversità di esecuzione di una stessa impresa. Questo fenomeno, già evidente nel Cinquecento, si avverte ancor meglio nei secoli successivi, quando i simboli sono ripresi con libertà ed anche il reimpiego e la ricorrenza di determinati soggetti conferiscono alla marca quasi il valore di vignetta emblematica o sigla iconografica. Tra le tipologie più peculiari sono le marche cosiddette parlanti, che attraverso la trascrizione figurata del nome, cognome o della Fig. 6. Cesare Baronio, Annales ecclesiastici, Roma, Tipografia Vaticana, 599. denominazione dell’officina, hanno evidentemente lo scopo di interessare il lettore alla persona dello stampatore e dell’editore, così da configurare una sorta di “spazio autogestito” per l’artefice del libro rispetto a quelli concessi all’autore o al committente. Sono costituite dalle immagini più diverse : capretto di Cravotto, scoiattolo di Schiratti, zucca di Zucchetta, casa di Capcasa, Flora di Fiorina ecc. Ad una finalità analoga rispondono anche le marche allusive al nome o al cognome del tipografo, ad episodi o a vicissitudini biografiche, alla città d’origine, addirittura alla sede della tipografia o alla società fra più tipografi : castello di Valvassore, graticola di Lorenzani, incudine di Ferrari, sirena Partenope in marche di tipografi napoletani (Bulifon e Raillard), campana di Nibbio (nativo di Campagna), mani che si stringono, insegna di tipografi associati (Salviani, Carlino e Pace). Ma l’approccio più interessante – ai fini della nostra discussione – è il rapporto della marca con il mondo del libro e dei tipografi. Le marche che esaltano i sentimenti dell’immortalità, della gloria, della verità o riproducono figure di libri e di attrezzi tipografici (Fig. 7) offrono preziose testimonianze di vita e di cultura, che trovano precise corrispondenze anche in altri ambiti e in altri contesti. Ne rendono testimonianza alcune marche, che qui proponiamo tra le tante : – Con la figura del tempio Girolamo Concordia ha inteso soprattutto esaltare

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l’importanza della sua arte, vero tempio dell’immortalità (motto : « Immortalitatis templum typographia ») (Fig. 8), sintesi pregnante per il tipografo della propria vocazione, l’emblema forse più bello e significativo tra quelli raffigurati in marche tipografiche. – Nella marca delle tre Parche di Antonio Brucioli (motto : « Vobis invitis vivam ») il vero significato dell’impresa è chiarito dal motto : Fig. 7. Marca della tipografia bolognese le azioni virtuose rendono imperidi S. Tommaso d’Aquino (sec. xviii). tura la fama dell’uomo, ben oltre i confini della vita mortale. In questo senso la marca si riscatta da una prima e ovvia interpretazione pessimistica e acquista efficacia proprio dalla contrapposizione della figura con il motto. – Anche la salamandra che resiste al fuoco, anzi lo alimenta, come la fenice sempre rinascente (una delle figure predilette dai tipografi dal Cinque al Settecento), come l’aquila simbolo di perenne gioventù per la sua capacità di rinnovarsi (significativo il motto scelto da Cacchi « Iuventus senium assequitur ») bene si prestavano a rappresentare la stessa aspirazione alla gloria e all’immortalità attraverso il mito della renovatio e il sentimento della palingenesi. Da questa orgogliosa considerazione della funzione dell’arte tipografica discende l’importanza attribuita nelle marche alla figura del libro (anche se come attributo secondario e in cornici), del torchio e di strumenti di lavoro delle tipografie antiche (nelle imprese di Britannico, Remondini, Albrizzi, della Stamperia bolognese di S. Tommaso d’Aquino) (Fig. 7). Ma il sentimento dell’immortalità, la speranza nella fama, la consapevolezza dell’importanza della propria funzione non significano che sia tutto roseo nella vita dei tipografi. Alcune marche sembrano riferirsi concretamente all’ambiente e alle condizioni nelle quali operavano gli antichi artefici del libro. Uno dei pericoli maggiori dai quali i tipografi dovevano quotidianamente difendersi nell’esercizio della loro attività era sicuramente la contraffazione. Il concetto è tradotto visivamente in modo assai originale dalla marca dei Meietti, due galli, uno dei quali becca chicchi di granturco. Il motto (« Non comedetis fruges mendacii ») ne chiarisce il valore simbolico : il tipografo rappresenta la voce della verità e offre un prodotto autentico e vero, mette in guardia perciò il lettore dai « prodotti della menzogna » e l’allusione è fin troppo evidente agli spacciatori di libri falsificati e contraffatti. La competizione commerciale e editoriale, dunque, non conosce tregua e tutti i mezzi sono ammessi, pur di avere ragione degli avversari, una lotta senza risparmio di colpi, che suggerisce persino immagini di animalesca crudezza. È il caso della notissima impresa dei Sessa, il gatto con un topo in bocca, che è chiaramente un simbolo allusivo alla supremazia dei Sessa sugli altri tipografi (il malcapitato topolino tra le fauci dell’astuto felino). Anche i motti che accompagnano le varie esecuzioni della marca sono di una durezza lucidamente machiavellica (« Dissimilium infida societas », « Imparibus dissidii satis »). Veramente grande l’efficacia del messaggio se ritroviamo,

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in esecuzione diversa, la figura del gatto con un topolino in una zampa (non in bocca), mentre un altro è riuscito a fuggire, nella marca di un tipografo milanese del Seicento, Giovanni Battista Bidelli. In contrapposto però si avverte anche il sentimento della cooperazione, l’altra faccia di questo mutevole mondo. Per simboleggiare la società formata da più tipografi ricorre di frequente, come figura principale o associata ad altre, la cosiddetta fede araldica, rappresentata da due mani che si stringono. Anche in questo caso i motti che accompagnano le varie esecuzioni costituiscono il miglior commento alla figura : « Pura vivet fide », « Sine fraude bona fide », « Societas fida » . Il messaggio del produttore diventa col passare del tempo sempre più consapevole e orgoglioso. Il tipografo Bulifon recupera tutta in positivo la mitica figura della sirena, animandola con il significativo motto « Non sempre nuoce », ma poi presenta anche se stesso al lettore con una lunga parrucca, l’anagramma allusivo (Antonius Bulifonius = Fui novus nobilitans), il suo stemma e in basso la targa con l’ambiziosa iscrizione « Regibus hic vitam, doctis lucem, tibi Famam, Parthenope, atque sibi grande decus peperit ». Né si tratta di un caso isolato se un altro stampatore napoletano, Domenico Antonio Parrino, inserisce l’ovale con il suo ritratto sulla fronte di una colonna in una composizione allegorica con Atlante che sorregge il mondo ed Ercole che glielo ha appena riconsegnato ricevendone l’anello dell’eternità. La rilevanza iconografica del dedicatario Più in generale il dilatarsi della formula frontispiziale fino a comprendere nuovi elementi, come ad esempio l’indicazione del dedicatario, è collegata alla evoluzione testuale di questa pagina identificativa nel maturo Rinascimento 25 e trova significativo riscontro nelle immagini. Tra le implicazioni iconografiche più rilevanti sono certamente il ritratto e lo stemma, che danno risalto, a seconda dei casi, all’autore, al dedicatario, al finanziatore, al promotore della pubblicazione, mentre la marca è destinata ad evidenziare e far conoscere la ditta produttrice. Particolarmente numerosi sono gli stemmi dei dedicatari. L’arte nuova della stampa si dimostrò ben presto un formidabile strumento al servizio dei potenti, che cercarono in ogni modo di assicurarsene il controllo sia a scopo propagandistico, sia per evitare la diffusione di scritti polemici. D’altra parte autori ed editori necessitavano della protezione dei nobili per assicurarsi immunità e privilegi, di sorta che l’istituto della dedica – che trova i suoi precedenti iconografici nella scena della presentazione e dell’offerta – acquista proprio a partire dall’ età rinascimentale una nuova rilevanza di carattere sociale e politico. 26 Il lettore del tempo era sicuramente in grado di decodificare e interpretare nel suo vero significato questo messaggio, così il frontespizio appare sicuramente il luogo per eccellenza deputato ad ospitare un’ornamentazione araldica, che può trovare diverse collocazioni : a testata, tra il titolo e le note tipografiche, inserito nella cornice. Altre volte ancora (pur se con minore frequenza) lo stemma è presentato con la massima evidenza in modo da occupare tutto il campo 25. Cfr. Marco Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, in Libri, edizioni, biblioteche tra Cinque e Seicento, con un percorso bibliografico. Manziana, Vecchiarelli Editore, 2002, pp. 89-90. 26. Cfr. Marco Santoro, Editoria e cultura a Napoli nel Cinquecento, « Accademie e Biblioteche d’Italia », 65 (997), , pp. 5-24.

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figurativo (frontespizio araldico). 27 Un esempio singolare è il ritratto di Tommaso Campanella,nella cui cornice è inserito lo stemma del dedicatario, il mecenate Mario del Tufo, in casa del quale fu ospitato lo scrittore con signorile larghezza frequentandovi nobili e studiosi. Nell’emblema, allusivo alla Verità – e probabilmente ispirato dallo stesso Campanella – il frate che nuota disperatamente alla ricerca del vero e lo stemma del nobile protettore, che con la sua generosità gli aveva permesso di dedicarsi alle sue investigazioni filosofiche, sono idealmente riuniti in una sola immagine di grande ricchezza iconografica (Fig. 9). D’altro canto l’associazione dello stemma a un’immagine è molto comune, ma la particolarità in questo caso è costituita proprio dalla modalità insolita di presentazione, dal momento che l’insegna appartiene a persona diversa da quella rappresentata nel ritratto. Spesso il ritratto del dedicatario viene accolto nella ricca struttura architettonica frontispiziale, mentre, soprattutto in pubblicazioni gratulatorie e di occasione, è l’antiporta ad ospitare il ritratto di potenti personaggi , perlopiù nella forma del medaglione celebrativo. 28 Da segnalare, infine, che – soprattutto nell’editoria francese – l’immagine del dedicatario sembra nettamente prevalere su quella dell’autore 29 e con questo si confermano le osservazioni proposte in precedenza sulla rilevanza dell’istituto della dedica nell’editoria antica. 2. Attraverso la parola, ma anche attraverso l’immagine, l’artefice del libro, tipografo e/ o editore, istituisce con il lettore un tipo di rapporto abbastanza codificato, che assume col tempo forme ed espressioni diverse. Così lo scopo di comunicare i dati identificativi del prodotto e, nello stesso tempo, di presentarlo nella maniera più gradevole e comprensibile, richiamando l’interesse e l’attenzione del lettore, viene raggiunto attraverso i due possibili media comunicativi del frontespizio – la parola – l’immagine. La coesistenza di questi due aspetti – di un’immagine che si offre alla lettura e di una scrittura rivolta anzitutto alla visione – è un fenomeno intrigante, « una frontiera ambigua » e « contesa ». 30 Immagine come scrittura È un discorso che parte da lontano. Già il Medioevo greco e latino pone in discussione lo statuto del testo per il dilagare dell’analfabetismo e le immagini acquistano un 27. Per il Cinquecento si può citare l’edizione torinese 53 di Francesco Silva degli Statuta Sabaudiae. Altri esempi in Francesco Barberi, Il frontespizio nel libro italiano del Quattrocento e del Cinquecento. Milano, Il Polifilo, 969, i, pp. 20 - 2. 28. Un bell’esempio nell’antiporta del Theatrum omnium scientiarum di Giovanni Battista Cacace (Napoli, Roberto Mollo, 650) con il ritratto del viceré Iñigo-Velez de Guevara, intervenuto in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 649, in medaglione celebrativo portato in alto dalla Fama al di sopra dell’architrave del colonnato, animato da puttini alati, sostenenti scudi con imprese del nobile personaggio (cfr. Zappella, Il libro, cit., i, p. 53). 29. Cfr. Roger Laufer, L’espace visuel du livre ancien, in Histoire de l’édition française, cit., i, p. 489-490. 30. Cfr. Guglielmo Cavallo, Testo e immagine : una frontiera ambigua, « Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo », 4 (994) : Testo e immagine nell’alto Medioevo, i, p. 62. Trattasi di un contributo di grande rilevanza in relazione al tema trattato.

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significato didattico perché contengono un messaggio figurativo visibile, capace di surrogare lo scritto per gli analfabeti. Il fenomeno ha interessanti riscontri anche nell’arte figurativa, quando nelle chiese le immagini vanno sostituendo o integrando in misura sempre maggiore i testi esposti (versi, scritture, tituli) destinati ad esser letti dai fedeli. Certo non mancano nel libro illustrato medievale modelli di equivalenza testo-immagine, come traduzione visuale immediata del senso del testo in figura 3 o esempi significativi della combinazione fra miniatura e scrittura. 32 Ancora nei manoscritti liturgici del basso Medioevo si incontrano iniziali istoria- Fig. 8. Marca della tipografia pesarese di Girolamo te con iconografie relazionate non Concordia (sec. xvi). solo alla lettera alfabetica (prototipo di iniziali parlanti), ma anche alle parole del testo. È una tipologia che troverà grande fortuna e diffusione nel libro a stampa, anche se verrà meno il rapporto con il testo, mentre verrà mantenuto quello della figura con la lettera che l’ospita. 33 Analogamente nei più antichi impressi si nota progressivamente un impiego sempre più esteso dell’elemento visivo, cioè dell’incisione, unito al composto tipografico, più facilmente comprensibile dagli indotti e quindi rispondente in modo più immediato a motivazioni pubblicitarie e propagandistiche. Nondimeno non poche erano le difficoltà nel processo traslativo dalla parola all’immagine, 34 come si può osservare nelle immagini frontispiziali relazionate direttamente con il titolo. Questa traduzione dell’astratto pensato nel concreto figurato si realizza in una proiezione tematica e mimetica, che può configurarsi in vario modo, dalla semplice trascrizione figurata del titolo a una sua interpretazione simbolica o allegorica. 35 3. Cfr. Cavallo, cit., pp. 32-33. 32. Cfr. Beat Brenk, Il significato storico del Lezionario di Desiderio Vat. Lat. 1202, in L’età dell’abate Desiderio. ii : La decorazione libraria. Atti della tavola rotonda (Montecassino, 7-8 maggio 987), a cura di Guglielmo Cavallo, Montecassino, Pubblicazioni cassinesi, 989, p. 33 (riproduzioni nelle tav. i-vii). 33. Cfr. Antonio M. Adorisio, Iniziali istoriate di manoscritti ed iniziali iconografiche, « La Bibliofilia » 72 (969), 3, pp. 237-24 e Giuseppina Zappella, Incisione, illustrazione, figura: l’iniziale, « Miscellanea Marciana », 2-4 (987-989), pp. 22-266. 34. Ricordo che questo tipo di difficoltà, nel passaggio da un linguaggio verbale ad uno figurativo, venne evidenziato con molta chiarezza dal compianto Giovanni Previtali, nella presentazione napoletana del dicembre 986 del mio repertorio sulle marche (Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento. Milano, Editrice Bibliografica, 986) attraverso l’esame della marca della Fama (ivi, fig. 522), esemplata su notissime fonti letterarie, le cui indicazioni riusciva veramente difficile per un artista trasferire nell’immagine (nel caso specifico la bellezza del nudo femminile deturpata dall’aggiunta di lingue, occhi, orecchi, tradizionalmente associati alla Fama). 35. Ampia esemplificazione in Giuseppina Zappella, Dimensione analogica e metaforica dell’illustrazione rinascimentale, « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari », 6 (992), pp. 3-5.

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Numerose sono le immagini e i simboli che riecheggiano il significato del titolo. Qualche esempio di evidente trascrizione letterale e di frontespizi parlanti : – Ne La corona de gli angeli (Mondovì, Giovanni Vincenzo Cavalleri, 599) la semplicissima xilografia del frontespizio, posta tra il titolo e la leggenda tipografica, raffigura la corona del rosario. – Parimenti sotto il titolo (confinato nel margine superiore e quasi compromesso dall’invadenza dell’immagine) è la grande illustrazione riproducente l’animato dibattito conciliare nel Sa.Lateranen.Concilium sub Iulio II et Leone X celebratum (Roma, Giacomo Mazzocchi,52), dove il titolo stesso è reiterato nella didascalia (Lateranense Concilium) posta in cartiglio sovrastante la cattedra papale ; – Una maggiore originalità si ravvisa nella xilografia, sottoposta al titolo,che si trova nel frontespizio della Lucerna de Spirito santo (Venezia, Simon de Luere, 50). Anche in questo caso l’incisione è una traduzione figurata del titolo : una lucerna affatto particolare con la base formata da due delfini stilizzati contrapposti e l’impugnatura, ornata da foglie d’acanto, terminante in una protome animalesca e mostruosa come lo sperone ornamentale di una nave ; – Numerose edizioni dell’Aquila volante (una storia semifavolosa dell’antichità classica, falsamente attribuita a Leonardo Bruni) sono contrassegnate, quasi sigla araldica, dall’immagine dell’aquila coronata, al di sopra della quale, in cartiglio simmetricamente snodato, corre il titolo, che spiega ed è spiegato dalla figura. – Una traduzione “parlante” del titolo può considerarsi l’illustrazione che accompagna l’operetta in terzine di Antonio Fregoso Riso di Democrito e pianto di Heraclito (Milano, Pietro Martire Mantegazza,506). Qui infatti, nella prima carta, una xilografia di ispirazione bramantesca raffigura i due filosofi seduti, l’uno a sinistra che ride (Democrito), l’altro a destra che piange (Eraclito), al centro in alto un globo simboleggiante il mondo.

Fig. 9. Tommaso Campanella, Philosophia sensibus demonstrata, Napoli, Orazio Salviani, 59.

La possibilità di rendere significante l’immagine dilatando attraverso una metafora il significato del titolo è evidente nella xilografia posta sotto il titolo di Damiano Marraffi, Specchio spirituale delle monache (Firenze, Bartolomeo di Francesco, 528) raffigurante Cristo in croce e, inginocchiate ai lati, due monache che si guardano in uno specchio. Analogamente nell’edizione veneziana 496 di Ioannes Hamman de Landoia del Liber de oculo morali, tràdito sotto il nome di Lacepiera,

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la xilografia del frontespizio mostra l’autore dall’alto del pulpito, in atto di indicare con la destra il proprio occhio ai fedeli, raccolti nell’interno di una nuda chiesetta. Anche in questo caso si tratta di un opuscolo devozionale e non si può fare a meno di notare la sorprendente analogia delle due metafore negli esempi proposti : lo specchio materiale e quello spirituale, l’occhio fisico e quello spirituale. L’espressività mimetica e simbolica dell’immagine, capace di realizzare un’omotipia con il titolo grazie all’efficacia dell’analogia, si lascia ancor meglio cogliere in altri esempi che evidenziano il carattere parenetico-didattico di certa produzione erudita e popolareggiante tipica della letteratura delle origini. Alludo alle numerose raccolte di detti o fatti esemplari indicata con il titolo di Fiore (il già citato Fior di virtù, Flore de parlare, Fiori di filosofi ecc.) o con termini simili : Giardino, Corona, Specchio, Tesoro, Fontana e simili. Così l’immagine delle donne intente a raccogliere fiori traduce visivamente il concetto, contenuto nel titolo, di passi scelti, florilegio, antologia (Fioreti de la Bibbia historiati in lingua fiorentina. Venezia, Antonio e Rinaldo da Trino, 493), così nell’edizione veneziana 550 di Giovanni Andrea Vavassore dell’Essemplario nouo di più di cento variate mostre bellissime per cusire intitulato Fontana de gli essempli del Pellicciolo, al centro del frontespizio è raffigurata una grande fontana zampillante, ai lati della quale è la didascalia-motto che ne chiarisce il significato : « Donne Donzelle ch’el cusir seguite per farui eterne alla fonte venite ». Ancor più interessanti sotto il profilo iconologico si presentano alcune immagini che non si possono spiegare semplicemente come illustrazione di un determinato titolo, ma si sviluppano su un livello molto più complesso, di trasformazione dei particolari in un microcosmo del visibile o in un’allegoria delle umane vicissitudini. Nel Trionfo di Fortuna di Sigismondo Fanti (Venezia, Agostino Zanni da Portese, 527) l’illustrazione del frontespizio 36 è una composizione gremita di figure e simboli, che traduce allegoricamente il titolo. La Fortuna è rappresentata da una figura alata intenta ad azionare, nella parte sinistra della composizione, una manovella che fa girare il mondo, sostenuto da Atlante. Dal lato opposto corrisponde come antagonista una figura diabolica, che aziona un’analoga manovella in senso contrario, mentre al sommo del globo è seduto il Pontefice tra le due figure anch’esse antagoniste, della Virtus sulla sinistra e della Voluptas sulla destra. La composizione, quindi, è come divisa in due sfere d’influenza : il lato sinistro è il regno della Bona Fortuna e della Virtus, il lato destro è sotto il segno del Malus Genius e qui troviamo una visione di Roma, rappresentata dai suoi tipici monumenti. La complessa allegoria non potrebbe certo essere compresa senza tener conto che il libro viene stampato proprio nel 527, l’infausto anno del Sacco : questa circostanza spiega, infatti, sia la presenza del papa al bivio tra vizio e virtù, sia il riferimento specifico alla città papale. Questo processo di osmosi tra parola ed immagine si evidenzia anche nei secoli seguenti, pur se in forme diverse e più complesse strategie editoriali. Nell’età barocca il procedimento traslativo dalla parola all’immagine non si configura semplicemente come interpretazione figurata, ma soprattutto come traduzione simbolica o allegorica attraverso una ricca configurazione di metafore e analogie. L’illustrazione non è più generica, ma diventa una chiave per la comprensione del testo, il rapporto con la scrittura diventa pieno di sottintesi, si fa intrigante e com36. Sulla interpretazione iconografica di questo frontespizio cfr. Augusto Gentili, Il problema delle immagini nell’attività di Francesco Marcolini, « Giornale storico della letteratura italiana », 97, (980), fasc. 497, pp. 7-25.

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plicato. L’immagine si guadagna uno spazio tutto suo in piena evidenza grafica, si pensi alla posizione e al rilievo visivo dell’antiporta. Ancor più che dal frontespizio, infatti, la funzione informativa è assolta dall’antiporta, nella quale si evidenziano le varie combinazioni dell’insieme iconico-verbale e le differenti tipologie espressive di questo prototipo della moderna grafica pubblicitaria. 37 L’equilibrio stilistico e grafico delle pagine di presentazione è favorito anche dall’inserimento della parola incisa nel contesto stesso del campo figurativo. I casi più interessanti di questi frontespizi e antiporte parlanti sono indubbiamente quelli in cui si materializza l’effettiva congiunzione degli elementi iconici e verbali. La scrittura quasi si mimetizza nella composizione, costringendo spesso il lettore a uno sforzo interpretativo. Possiamo così trovare il nome dell’autore e/o il titolo dell’opera su un libro aperto sullo scrittoio dell’autore, sul dorso di un volume rilegato, su cartigli svolazzanti, su frontoni, sezioni di colonna, lapidi, su altri supporti, come conchiglie, pergamene, pendoli, alberi, tendaggi, montagne ecc. L’interazione tra elemento verbale e visivo è rilevante anche nelle marche, spesso infatti il motto non ha la semplice funzione di una didascalia, di un complemento dell’immagine, che aiuta ad intenderne il significato, ma ne arricchisce il valore talora con accostamenti audaci e interpretazioni originali. Da segnalare in particolare alcune marche in cui non è il corpo dell’impresa, bensì il motto fonicamente allusivo, a pubblicizzare il nome del tipografo : « Vim vi » di Viotti, « Pinea argentea » di Pinargenti, « In tenebris fulget » di Scoto (skótow = tenebra). Scrittura come immagine Sul versante opposto, come già si diceva a proposito del manoscritto, è la scrittura ad assumere il funzionamento dell’immagine : i segni grafici disegnano oggetti e forme, comunicando significati per lettura figurale. Tipico in questo senso l’uso da parte di tipografi rinascimentali di comporre il frontespizio in forme geometriche : – a trapezio capovolto – a triangolo con vertice in alto – con rastremazione dello specchio di stampa nelle ultime righe – con ripartizione in due, tre, quattro triangoli o coni tronchi. Inoltre la generalizzazione, nella seconda metà del Cinquecento, delle note tipografiche nel frontespizio consente di comporre profili più elaborati (ad anfora, a vaso, a clessidra ecc.), mentre la presenza della marca, interposta tra il titolo e la leggenda tipografica, suggerisce soluzioni più armoniche ed equilibrate sotto il profilo grafico. La funzione iconografica della scrittura è evidenziata anche dall’uso di corpo maggiore e del tutto maiuscolo per dare rilievo a determinate parole (il titolo, l’autore, il dedicatario – perlopiù nelle ultime righe – nomina sacra). Allo stesso scopo risponde l’impiego dell’ inchiostro rosso sia per evidenziare alcune parole, sia per cercare alternanze bicromatiche senza una specifica valenza semantica (documentato persino l’uso della stampa in oro). Anche la scrittura iconografica dei frontespizi del Settecento ci consente alcune osservazioni analoghe. I caratteri impiegati sono di grandezza diversa, spesso con una chiara valenza semantica: alle maiuscole e ai corpi maggiori si ricorre, a seconda dei 37. Sull’antiporta cfr. Zappella, Il libro, cit., i, pp. 50-524.

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casi, per evidenziare l’autore, il titolo, il traduttore, il dedicatario, persino per dare maggiore risalto all’editore rispetto al tipografo. 38 Ancora si ricorre all’uso dell’inchiostro rosso o per evidenziare solo poche parole e alcuni nomi (autore, titolo, dedicatario,indicazione di edizione) o per ottenere un effetto estetico dall’alternanza bicromatica : così se il nome è in rosso, gli attributi sono in nero, se luogo, data e permesso di stampa sono in nero, tipografo ed editore compaiono in rosso e così via. Più frequente ed ampia applicazione trova l’uso dei filetti, linee tipografiche semplici,doppie, di altezza diversa, variamente combinate per creare scansioni all’interno della composizione frontispiziale. Con le stesse finalità si trovano impiegati la graffa, fregetti tipografici semplici o iterati di vario tipo ed anche la tabula ansata per racchiudere partizioni di contenuto (ad es. le lettere di un dizionario). Un’altra peculiarità è costituita dalle forme Fig. 0. Orazio, Opera, Parma, geometriche che, in maniera non Giambattista Bodoni, 79. molto dissimile dai frontespizi rinascimentali (anche se con ben diversa disponibilità di caratteri e fregi) si trovano realizzate nei frontespizi del sec. xviii. Le caratteristiche forme a triangolo o a trapezio, destinate a occupare lo spazio bianco tra titolo e leggenda tipografica, sono costruite con semplici linee tipografiche, ma anche con fregi, stelline ecc. Appaiono in sintonia col gusto antiquario e il culto dell’antichità i frontespizi in tutte capitali, simulanti iscrizioni, come quello della prima edizione romana (767) dei Monumenti antichi inediti del Winckelmann. È lo stesso gusto neoclassico che ritroviamo, elevato all’ennesima potenza, nei frontespizi bodoniani, come il notissimo Horatius del 79 con la Q sospinta al vertice, come il fastigio del frontone di un tempio classico (Fig. 0). 3. Completa la discussione sull’argomento un ultimo aspetto : la ripetizione - in altre parti del libro - dell’immagine frontispiziale in forme uguali o in varianti di esecuzione, o attraverso figure complementari e analogiche. 38. Tipico il caso di alcuni frontespizi di edizioni napoletane di Bernardino Gessari, stampate da Felice Mosca, nelle quali il nome dell’editore è in tutte maiuscole, mentre quello del tipografo in minuscole, tranne l’iniziale.

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giuseppina zappella La marca

Fig. . Tucidide, Gli otto libri delle guerre fatte tra popoli della Morea et gli Atheniesi, Venezia, Segno del Laocoonte, 550 (frontespizio e c. Ii8 v).

Abbastanza frequente appare l’uso da parte di uno stesso tipografo e/ o editore di varianti della medesima marca non solo in relazione al formato e alla datazione, ma anche alla posizione nel libro. Così i Giunti adoperano differenti esecuzioni del loro celebre giglio nel frontespizio e nel colophon, così Niccolò Gorgonzola fa uso di un’insegna più grande nel frontespizio, spesso abbinata a una cornice o ad una grande xilografia, ed un’altra più piccola nel colophon, così la marca parlante del Laocoonte compare in due diverse varianti nell’unica edizione contrassegnata del Segno del Laocoonte 39 (Fig. ) ecc. 40 La ripetizione della marca ovviamente può avvenire anche riproponendo la stessa identica immagine in pagine diverse, ad esempio all’inizio dell’Ottocento i fratelli Mattiuzzi a Udine presentano la loro marca, con la figura di Dante e la loro sottoscrizione, sia nel frontespizio, sia al centro di una pagina bianca, inquadrata da un’elegante cornice a fregetti. Ancora più singolare, ma comunque non frequente, è la ripetizione della marca nella testata, nelle iniziali e persino nei finalini. 4 In tutti questi casi, dunque, la possibilità di presentare in modo diverso la stessa marca conferma la sua funzione di messaggio pubblici-

39. L’edizione in questione è Tucidide, Gli otto libri delle guerre fatte tra popoli della Morea, et gli Atheniesi (trad. F. Strozzi), Venezia, Segno del Laocoonte, 550, dove la marca, oltre che nel frontespizio è replicata, in variante, alla c. Ii8 v. 40. Altri esempi relativi ad edizioni napoletane sono discussi in Giuseppina Zappella, Saggio introduttivo, in Giuseppina Zappella, Elvira Alone Improta, Le cinquecentine napoletane della Biblioteca Universitaria di Napoli, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 997, p. 57, mentre differenti esecuzioni della marca dell’idra di Pietro Bartoli nel frontespizio e nel colophon sono segnalate in Edizioni pavesi del Seicento. Il primo trentennio, a cura di Elisa Grignani e Carla Mazzoleni, Milano, Cisalpino, Istituto Editoriale Universitario-Monduzzi Editore, 2000, p. 80 (ripr. p. 359, fig. 4 e 3a, scheda relativa 0/9a, pp. 40-4). 4. Cfr. Zappella, Il libro, cit., i, p. 60.

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tario, trasmesso attraverso una medesima immagine, pur se variamente configurata, indipendentemente dall’unicità di marchio contraddistinto da un’identità grafica, da valere come segno inconfondibile dell’azienda. Questa osservazione è viepiù confermata da un’altra peculiarità : l’uso anche contemporaneo da parte della medesima azienda di diversi segni complementari e analogici. Il che, come si è già detto in precedenza, equivale ad una evoluzione della funzione della marca da segno di origine a segno di qualità. Un esempio significativo : – Matthio Pagan fu attivo « al segno della Fede » e scelse come marca due diverse rappresentazioni della Fede, nella polivalenza dei significati di questo termine : le Fig. 2. Francesco Del Tuppo, Vita di Esopo, mani che si stringono, emblema di Venezia, Mathio Pagan, s.a. alleanza e fiducia, e la rappresentazione tradizionale della virtù teologale. Ai fini del nostro discorso il caso rilevante è costituito dal frontespizio della Vita di Esopo di Francesco del Tuppo (Venezia, Matthio Pagan, s.a.), nel quale il ritratto dello scrittore è inquadrato da una cornice che include entrambe le marche : il calice con ostia (simbolo della Fede) in alto e le mani che si stringono (simbolo della fede araldica) in basso (Fig. 2). Un altro particolare interessante è che questo tipografo, quando collocò la propria marca in posizioni non comuni, adottò esecuzioni alquanto diverse da quelle di cui si serviva abitualmente. Così in questa inquadratura di ritratto come allegoria della Fede appare il calice con l’ostia, che costituisce solo un attributo della figura nelle altre esecuzioni. Frontespizio e copertina La reiterazione del messaggio semantico della copertina nel frontespizio conferma l’affinità stilistica e la complementarietà delle due pagine di presentazione. Due esempi : – nella copertina dell’Assedio di Firenze (Firenze, Tipografia e calcografia all’insegna di Clio,840) è ripetuta la stessa vignetta (composizione con libro aperto, mappamondo, ghirlanda d’alloro e penna d’oca) che si trova nel frontespizio ; – in un’altra edizione della medesima tipografia, Una visita alla manifattura di porcellane di Doccia (846), la piccola vignetta frontispiziale (vaso con foglie d’alloro) è duplicata nella copertina posteriore. * In conclusione l’immagine frontispiziale, come altri elementi dell’apparato iconografico, ha un’importante funzione semantica paratestuale e costituisce un complemen-

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to paritetico della scrittura : vignetta, marca, ritratto sono le diverse espressioni di un unico messaggio autopromozionale, pubblicitario, informativo e didattico, spesso reiterato in varie forme e tipologie. Il cerchio immancabilmente si chiude intorno a quel protagonista indiscusso che è l’artefice materiale del libro, iperlettore raffinato capace di esprimere, spesso proprio attraverso l’immediatezza visiva dell’immagine, le vicende più significative del suo piccolo mondo nel più ampio contesto socioculturale della comunicazione scritta. Abstract Fra gli elementi paratestuali, il frontespizio è certamente uno dei più rilevanti per la sua funzione di mediazione intellettuale e relazionale tra produttore, committente e lettore. Con la sua posizione privilegiata ad apertura di libro l’illustrazione del frontespizio, infatti, rappresentava un potente mezzo espressivo per il tipografo sia a scopo pubblicitario che per la conoscenza e la diffusione del prodotto. Così possiamo trovare in questa posizione sia una vignetta allusiva al contenuto, sia un ritratto dell’autore o del dedicatario, sia uno stemma o tipologie analoghe. La scelta era evidentemente correlata ad una precisa scelta editoriale : captare l’attenzione del lettore richiamando subito il testo, presentare un’immagine dell’autore ad accreditare l’importanza dell’opera, compiacere un potente dedicatario, segnalare una committenza ufficiale ecc. Anche la presenza della marca tipografica e/o editoriale è strettamente collegata alla necessità non solo di far conoscere il produttore, ma anche di trasmettere un messaggio pubblicitario, enfatizzato proprio dalla simbologia dell’immagine prescelta. Si tratta perciò di simboli che hanno una funzione polivalente, di messaggio linguistico, didattico, informativo e pubblicitario. Di qui la necessità di un approccio non convenzionale, che stabilisca delle connessioni tra analisi morfologica e indagine storica. Nell’intervento si discutono esempi delle varie tipologie con particolare riferimento a : strategie editoriali e standard iconografici, rapporto scrittura-immagine e reiterazione dei messaggi semantici. One of the most relevant paratextual elements is the frontispiece, due to its function as an intellectual correlation and mediator between the producer, the commissioner and the reader of a book. Thus here we may find a vignette alluding to content, either a portrait of the author or sponsor, as well as a crest or similar. The choice evidently correlates with a precise editorial decision: to capture the reader’s attention by immediately recalling the text, present an image of the author accrediting the work, please a powerful sponsor, mark an official commission, etc. The presence of the typographic and /or publisher’s mark is also closely connected not only to the need to state the producer, but also to transmit an advertising message emphasized precisely by the symbology of the chosen message. Therefore it deals with symbols having a polyvalent function, of a linguistic, didactic, informative or advertising message. This requires an unconventional approach that establishes a connection between morphological analysis and historical investigation. The article discusses examples of the various types, with particular reference to: editorial strategies and iconographic standards, writing/imagery relationships, and reiteration of semantic messages.

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Giorgio Montecchi LA DISPOSIZIONE DEL TESTO NEL LIBRO ANTICO

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on tutto ciò che vive e si anima nei dintorni del testo può essere considerato, tout court, paratesto. Mentre appare netta la distinzione tra il testo e il paratesto, sembrano più sfumati i confini tra il paratesto e le forme di comunicazione, iconiche, grafiche o fattuali, che convivono con il testo e il paratesto all’interno del libro. In questi ultimi casi Gérard Genette preferisce parlare, semplicemente, di valore paratestuale da attribuire a immagini, stili tipografici e fatti, anche se subito dopo - impropriamente e a sorpresa, si direbbe - discorre di un paratesto qualificato come fattuale, “costituito, non da un messaggio esplicito (verbale o altro), ma da un fatto la cui sola esistenza, se conosciuta dal pubblico, apporti qualche commento al testo e abbia un peso nella sua ricezione”.  Questa nuova qualificazione sembra, però, giustificata in ultima istanza da specifici riferimenti testuali presenti nel paratesto propriamente detto, e tali da costituirne punti di ancoraggio o semplici indizi che, per esplicitarsi, fanno appello alla cultura e alle conoscenze del lettore ; forse, in questa prospettiva, possiamo anche comprendere come egli, estendendo sempre più gli ambiti di interesse che ruotano attorno al testo, giunga ad affermare, di lì a poco, che “dobbiamo mantenere, almeno in linea di principio, l’idea che ogni contesto costituisca paratesto”. 2 Il valore paratestuale delle forme grafiche trova la sua ragione fondante nel fatto che anche lo stile tipografico e l’impaginazione, come il paratesto, svolgono funzioni strettamente ausiliarie e connotative rispetto al testo ; di ogni elemento della veste grafica, infatti, si può affermare quanto Gérard Genette ha scritto di ogni elemento del paratesto, vale a dire che esso “è sempre subordinato al ‘suo’ testo, e questa funzionalità determina l’essenza del suo aspetto e della sua esistenza”. 3 Del resto egli stesso ricorda “il ruolo di commento indiretto che le scelte tipografiche possono svolgere rispetto ai testi in cui appaiono”. 4 La veste grafica di un libro svolge, in verità, una funzione ancillare anche nei confronti del paratesto, proponendo, ad esempio, scelte diverse di caratteri per il frontespizio, le dediche, le prefazioni e per lo stesso corpo del testo, giacché la configurazione grafica assolve nei confronti dei testi scritti le medesime funzioni che il tono della voce o le stesse espressioni del volto esercitano al servizio della comunicazione orale. Infine, si osservi che il valore paratestuale delle forme grafiche e della configurazione fisica del libro, dalla carta agli apparati iconografici, trova spesso una sua precisa collocazione testuale nei riferimenti al tipo di carattere e alla carta adoperati che, specialmente nelle edizioni che si vogliono qualificare come pregiate, incontriamo nel colophon assieme al nome dello stampatore. Le forme grafiche di un testo, dal disegno dei caratteri all’ampiezza dei margini, . Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989, p. 9. 2. Ibidem. 3. Ivi, p. 3. 4. Ivi, p. 34.

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pur accompagnando passo dopo passo, anzi riga dopo riga, il testo, non devono di regola attirare su di sé l’attenzione del lettore, pur essendo visivamente presenti e pur connotandone tutto il processo di comunicazione testuale : la mente dovrebbe rimanere concentrata sui contenuti, come in una civile conversazione, dove, di norma, non dovrebbe fissarsi sul timbro e sul tono della voce, ma lasciarli scorrere quasi senza avvertirli. Secondo Edgard Allan Poe spostare l’attenzione dalle parole di un testo ai margini e allo stile tipografico può costituire l’inizio, drammatico, di una monomania in grado di portare alla rovina, come capitò al giovane Egaeus, protagonista del racconto Berenice, giocato, come spesso in Poe, sul sottile confine che separa l’amore dalla morte e la vacuità della vita quotidiana dalla pazzia. L’inizio del male personale che lo avrebbe portato alla consunzione, si ebbe quando, nel silenzio della biblioteca paterna in cui trascorreva gran parte dei suoi giorni, cominciò a porgere attenzione non alle cose ma agli aspetti e alle forme in cui esse si manifestavano : Meditare per lunghe ore indefesse, con l’attenzione tutta concentrata intorno a qualche puerile artifizio circa il margine o la composizione tipografica di un libro ; restare interamente assorto la maggior parte del tempo, per un’ombra bizzarra obliquamente proiettata sui damaschi polverosi, sul pavimento tarlato ; perdermi per un’intera notte a fissare la fiamma palpitante di una lampada, o le rosseggianti braci del camino ; e per giorni e giorni fantasticare sul profumo dei fiori ; ripetere con monotonia qualche banalissima parola, ripeterla tanto e tanto, che il suono di essa finisse per non avere più significato. 5

Spostare il centro dell’attenzione dal significato delle parole al suono della voce, dai fiori al profumo, dalle braci al loro rosseggiare, e dall’ombra al disegno bizzarro proiettato sul pavimento significa capovolgere valori e gerarchie. Il libro e l’intero apparato grafico e editoriale vivono in funzione del testo : sovvertire quest’ordine, anche se forse non porta alle aberrazioni, dall’amore al feticismo, di Egaeus narrate da Edgard Allan Poe, potrebbe avviare anche gli studiosi più scrupolosi sulla china che dalle astrazioni della bibliologia e dai piaceri della bibliofilia conduce a quella particolare forma di monomania che va sotto il nome, non certo augurale, di bibliomania. Senza voler porre al centro del libro i caratteri, i margini, lo specchio di scrittura, i fascicoli e le innumerevoli scelte grafiche e tipografiche, destinate a rimanere nascoste tra le righe, vale forse la pena strappare questi fratelli minori del paratesto, dal loro tradizionale riserbo per porli, almeno per un momento, non sotto ma letteralmente sopra le righe, al centro della nostra attenzione e indagare le mansioni che svolgono al servizio del testo e della comunicazione libraria. È noto che Gutenberg mirava unicamente a sostituire la scrittura a mano del testo con procedure meccaniche più rapide ed efficaci. Non era certo sua intenzione trasformare il manufatto librario, per il quale la scrittura del testo costituiva solo una, per quanto fondamentale, delle procedure messe allora in atto nelle botteghe librarie per offrire al pubblico un libro compiuto in tutte le sue parti : preparazione della pergamena o della carta, impaginazione, rubricazione, illustrazione, assemblaggio dei fascicoli e legatura. La pagina che Gutenberg desiderava offrire agli occhi del lettore doveva essere identica, per quanto possibile, a quella dei manoscritti in circolazione. Le dimensioni e il disegno dei caratteri tipografici, nonché la loro distribuzione nelle parole e nelle righe all’interno della pagina imitavano, nella prima Bibbia a stampa, i testi biblici che a Magonza e nelle altre città della regione erano letti nelle chiese, nei 5. Edgar Allan Poe, Racconti del terrore, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 985, p. 76.

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conventi e nelle università. Per convincercene non dobbiamo guardare gli esemplari che sono giunti fino a noi direttamente dalla sua stamperia, senza passare, secondo l’uso normale, dalle botteghe dei rubricatori e dei miniatori, ma gli esemplari che hanno terminato l’intero ciclo di produzione con le rubriche, le iniziali, le miniature che ne facevano un prodotto finito. Questi interventi posteriori alla stesura, manoscritta o a stampa, non erano considerati marginali o superflui ma partecipavano, non meno della scrittura, della sostanza stessa del libro manoscritto, specialmente quando si trattava di un libro di eccellenza come la bibbia. La stampa tipografica non aveva fatto altro che cambiare le procedure di stesura del testo, in una fase intermedia della produzione libraria. Il quadro visivo della pagina, al di là delle intenzioni dei primi tipografi, fu però irrimediabilmente trasformato, non tanto da queste procedure in se stesse, quanto piuttosto dal fatto che era stata potentemente accelerata l’attività di scrittura mentre gli interventi deputati alla scansione del testo sulla pagina, alla decorazione e alla colorazione, ritenuti allora essenziali, erano rimasti ancora strettamente manuali, un ostacolo alla pronta circolazione dei nuovi libri a stampa. Molti esemplari entrarono, pertanto, in circolazione non finiti, offrendo al lettore il solo testo senza l’aggiunta manoscritta dei capilettera e delle rubriche, la cui assenza è ancora oggi testimoniata sia dagli spazi loro destinati rimasti irrimediabilmente vuoti, sia, soprattutto, dall’uniformità di una pagina ormai dominata interamente dal bianco e dal nero, senza la luce e i colori della pagina tradizionale, manoscritta o a stampa. Sarà proprio l’abitudine a questa nuova pagina tipografica in cui prevalgono il bianco ed il nero a aprire la strada, col trascorrere del tempo, a una delle maggiori trasformazioni visive nel passaggio dalla pagina manoscritta e quella stampata, tanto che nei secoli a venire l’armonia e la bellezza del libro avrebbero trovato nell’eleganza e nell’uso sapiente del bianco e del nero, più ancora che nella decorazione, la poetica, per così dire, dello stile tipografico, che raggiunse il suo apice nella seconda metà del xviii secolo, nell’età di Baskerville, dei Didot e di Bodoni, alla vigilia di una nuova metamorfosi, che si ebbe con la nascita del libro industriale tra Otto e Novecento. Le trasformazioni delle forme del libro, le sue metamorfosi, di cui siamo oggi testimoni nel passaggio verso il libro dell’era digitale, hanno sempre interessato, direttamente, il rapporto che lega il testo alla configurazione materiale che acquista sulla pagina ; inoltre, costituendo il libro lo spazio fisico entro cui la scrittura rende visibile la parola e svela al lettore il pensiero dell’autore, esse hanno avuto un peso notevole anche nell’evoluzione del modo di concepire la produzione del testo e la sua ricezione lungo i secoli, dall’antichità al Medioevo, fino ai giorni nostri. Non vale qui la pena di ripercorrere il cammino, ormai noto ed analizzato in mille contributi, delle forme di libro dal rotolo al codice, dal papiro alla pergamena e alla carta, dalla scrittura a mano alla stampa, dalla produzione artigianale a quella industriale ; basti osservare che la disposizione del testo, pur rispondendo in ogni età a canoni di leggibilità e di equilibrio rimasti quasi invariati per secoli, si è di volta in volta adattata sia alle nuove procedure e a i nuovi supporti, sia, benché in modo meno appariscente, ai nuovi modi di concepire le profonde relazioni di contiguità o di discontinuità che il testo, mediatore di contenuti intellettuali, stabilisce con gli uomini, con la loro percezione della natura e con la sfera del divino ; in questo caso la parola scritta è attraversata da quella sottile linea di confine che in ogni rivelazione congiunge e separa, allo stesso tempo, il noto dall’ignoto, l’effabile dall’ineffabile, e l’immanenza dalla trascendenza. Il pensiero corre alle

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antiche sortes virgilianae ma anche al tolle et lege di sant’Agostino e alla sua conversione nel preciso momento in cui egli, contro i principi della sua formazione retorica, accetta che nel testo possa conservarsi la traccia della stessa parola divina. La concezione del testo e del suo apparire sulla pagina (una sorta di epifania) resta strettamente vincolata alla natura del legame, originario e fondante, che si stabilisce tra il testo e il sapere di cui si fa veicolo e interprete. La natura di questo legame, non meno delle forme dei libri, è cambiata lungo i secoli e le parole, sulla pagina, sono state considerate, di volta in volta, oracoli di un sapere arcano da accogliere con rispetto e tremore, o semplici enunciati di una comunicazione interpersonale, da affrontare con gli strumenti dell’analisi critica. Gli Exultet della liturgia pasquale e soprattutto le pagine di pergamena delle bibbie scritte e miniate negli scriptoria dei monasteri e delle scuole capitolari non facevano altro che trasportare sulla pergamena la venerazione suscitata dalle parole e dalle immagini scolpite sulle pareti o raffigurate nelle vetrate delle cattedrali : le pagine di pietra e di luce si trasformavano, nei codici, in pagine di pergamena. Il testo formava, in ambedue i casi, un unico corpo con la sacralità degli spazi in cui veniva circoscritto. Potrebbe a prima vista sembrare paradossale, ma fu proprio nell’età delle cattedrali che il testo cominciò, per così dire, ad emanciparsi e a manifestare una sua specifica consistenza, quale autonoma ed oggettiva espressione di contenuto intellettuale, non più stemperata e quasi annullata nel riconoscimento ancillare di un’auctoritas esterna che gli conferisse consistenza e forza persuasiva. La crescita culturale che ha accompagnato lo sviluppo degli studi nelle università e nei conventi del xii secolo, da Parigi a Bologna e dalle isole britanniche alle città lungo il Reno e il Danubio, ha ridisegnato le relazioni che intercorrevano tra il testo, la sua produzione e la sua ricezione, facendolo percepire non più come uno strumento trasparente e senza spessore schiacciato e reso quasi invisibile tra autore e lettore, ma come la fisica configurazione di un contenuto intellettuale reso autonomo sulla pagina ed in grado, per così dire, di vivere una propria esistenza, che, ben oltre le pareti dello scriptorium in cui nasceva, s’incamminava per le strade della nuova Europa. Grazie a una puntuale indagine sulle procedure di costruzione e di lettura del testo messe in opera dai docenti e dagli scolari nei conventi e nelle università ed illustrate nel Didascalicon di Ugo da San Vittore, Ivan Illich può parlare, a giusto titolo, di una vera e propria nascita del testo nel corso del secolo xii, dovuta principalmente alla presa di coscienza da parte degli autori e dei lettori del suo emergere dalla pagina e manifestare la propria autonomia da ogni altro riferimento che non fosse originato dalla trama delle lettere e delle parole, dalla loro scansione nella sequenza ordinata dei paragrafi e dalla loro configurazione grafica. In conseguenza il libro non apparve più, esclusivamente, come simbolo o specchio del creato e della redenzione, ma cominciò a presentare, concretamente e principalmente, la sua specifica natura di manufatto, di artificium prodotto per conservare e trasmettere testi ; solo grazie al processo di lettura dei segni grafici e della loro disposizione sulla pagina, la mente poteva, secondo san Bonaventura attento lettore di Ugo da San Vittore, iniziare l’itinerario che l’avrebbe condotta verso la luce divina. Il lavoro compiuto sul testo nell’età di Ugo da San Vittore, dai più umili compilatori allo stesso Abelardo, fa sì che esso offra sempre più all’occhio e alla mente le sue interne articolazioni, facilitandone la lettura e la diffusione : Durante il primo quarto del xii secolo sulla pagina manoscritta si affaccia un nuovo modello. Le note interlineari si fanno meno frequenti. Intenzionalmente, glossa e testo contraggono

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un nuovo matrimonio e in questo modello, a ciascuno viene assegnato il suo : la glossa è subordinata al testo principale dominante, e viene scritta in caratteri più piccoli. Il modo in cui i due partner diseguali si coniugano rivela un’accurata preparazione. L’autore stesso prende coscienza che l’impaginazione fa parte di un insieme visivo che contribuisce a determinare l’intelligenza del lettore. 6

L’aumento della circolazione manoscritta delle opere di studio rese più facile e continuo l’accesso diretto da parte dei dotti al testo scritto, diminuendo enormemente sia il bisogno di ricorrere a forme mnemoniche di indicizzazione e di registrazione, sia la dipendenza dall’ascolto della lettura ad alta voce che, pur non venendo meno, rimase circoscritta ai luoghi a ciò deputati nei conventi e nelle aule scolastiche. Il compito di articolare il testo nelle sue partizioni strutturali passò, in tal modo, dai ritmi e dalle pause della voce, alla distribuzione e alla scansione del testo sulla pagina, in modo tale che gli occhi potessero vedere quanto prima era percepito dall’udito. La volontà di rendere intelligibile il testo attraverso gli artifici consentiti dalla disposizione del testo principale e dei testi subordinati (commenti, glosse, tavole, indici ...) richiedeva, continua Ivan Illich, una differente distinzione tra le persone che, ognuna per un aspetto particolare, contribuivano alla tessitura della pagina. La nuova impaginazione, oltre a riflettere la volontà di usare l’articolazione visiva come un mezzo di interpretazione, portò anche ai primi tentativi di critica testuale. Trecento anni prima che la stampa consentisse di ‘stabilire’ un’edizione critica, si cercò frequentemente di districare i fili di cui era intessuto il testo visibile. 7

A ben guardare, si assiste, da un lato, alla rinascita delle prime forme strutturate di analisi del testo non limitate alla pedissequa trascrizione della copia in proprio possesso, e dall’altro alla ricerca di forme innovative per disporre negli spazi della pagina i testi secondo le loro specifiche funzioni e per calibrarne il peso con una scelta mirata delle dimensioni di scrittura e con un uso sapiente delle diverse tipologie di iniziali, di fregi, di decorazioni, di illustrazioni e di quant’altro concorreva a un’articolata e gerarchica distribuzione dei testi e delle loro partizioni nel codice manoscritto. Tutto ciò portò a una grande innovazione nella produzione dei manoscritti tanto da far affermare a Ezio Ornato che all’inizio del xiii secolo, subito dopo la rinascita degli studi nel secolo appena trascorso, « il sistema di produzione del libro subisce profondi cambiamenti, in un contesto ove, salvo eccezioni locali e temporanee, la disponibilità di libri disponibili cresce continuamente ». 8 I cambiamenti sono correlati dall’autore alla rinascita della proprietà individuale del manoscritto, all’allestimento di codici per l’uso individuale e all’apparire di una committenza privata, che « provoca spontaneamente lo sviluppo di mestieri legati alla fabbricazione di libri, i cui rappresentanti (pergamenai, copisti, miniatori, rilegatori) tengono bottega e affittano, per vivere, la loro forza lavoro ». 9 È questa l’età in cui si impone il cosiddetto manoscritto gotico che fa tesoro della più recente evoluzione della scrittura in grado di gestire grandi masse di testo scrit6. Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 994, p. 00. 7. Ivi, p. 09. 8. Ezio Ornato, Apologia dell’apogeo. Divagazioni sulla storia del libro nel tardo Medioevo, Roma, Viella, 2000, p. 3. 9. Ibidem.

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to in cui « l’informazione testuale è incentrata, grazie a diversi dispositivi grafici e perigrafici (abbreviazioni numerose e spesso molto ‘drastiche’), in uno spazio estremamente esiguo ». 0 Il libro diviene in quel volgere di decenni una vera e propria macchina per la lettura, al servizio del sapere che si genera nei conventi e nelle aule universitarie, nel cui contesto l’arte della gestione dello spazio e della razionalizzazione della lettura raggiunge livelli sorprendenti di raffinata professionalità, rendendo possibile, se non agevole, l’allestimento e la fruizione di nuove tipologie librarie che si potrebbero definire ‘estreme’ : da un lato le bibbie e i breviari tascabili ; dall’altro, l’‘iperglossa’ dell’esegesi biblica e i volumi giuridici di grandi dimensioni, corredati da un grande apparato ‘sintopicamente’ disposto intorno al testo. 

Ben presto, però, a ridosso di questa avventura libraria, in ambienti non più assillati dalla necessità di costringere molto testo in poco spazio, cominciarono ad apparire, specialmente in area italiana, libri più maneggevoli con una più ariosa disposizione del teso, in cui le ragioni della leggibilità e della gradevolezza cominciarono a prevalere su quelle della economia degli spazi, sempre più pronti ad accogliere luce e colore dalle decorazioni e dalle miniature, talvolta a piena pagina. I libri cui si guardava non erano più quelli moderni, ossessionati dall’occupazione sistematica degli spazi, scritti con una grafia scandita, verticalmente, dall’alternanza rigorosa del bianco e del nero, e circondati, come in un nido, dall’apparato illustrativo, ma i codici prodotti nell’età appena precedente con un’impaginazione meno densa, più libera, e con una grafia più sciolta e distesa, di stretta ascendenza carolina. In questi libri gli uomini del xiv e del xv secolo non cercavano dispute teologiche o sottili questioni dialettiche di pensatori parigini, e neppure le sistemazioni giuridiche dei bolognesi, ma i testi degli scrittori dell’antichità. I loro modelli di pietra non erano più le cattedrali innalzate al cielo in anni recenti ma i monumenti, le colonne e le epigrafi che andavano a cercare tra le macerie e i ruderi sopravvissuti alle ingiurie del tempo, per trascriverle su pagine di pergamena e di carta. La pagina scritta, affrancata dall’alone di mistero e di arcano che l’aveva accompagnata per secoli, divenne per gli umanisti, semplicemente, lo specchio in cui si riflettevano, senza altra mediazione, la mente e il pensiero degli scrittori antichi e moderni. Il testo, auspice il Petrarca, era percepito nella sua piena e autonoma funzione di mediare l’incontro tra autore e lettore, resi contemporanei e presenti l’uno all’altro, anche se fisicamente lontani nel tempo e nello spazio. Ogni altra funzione, che rinviasse ad un mondo non circoscrivibile entro i canoni dell’analisi testuale, per quanto non esclusa, appariva tuttavia marginale di fronte alla relazione di lettura, che si manifesta, com’è noto, nella trasmissione di contenuti intellettuali veicolati attraverso il testo. Alla vigilia dell’invenzione della stampa, la pagina era, come scrive Ezio Ornato, giunta all’apogeo, ed offriva di sé l’immagine più bella, sia nel libro moderno della tradizione scrittoria che oggi chiamiamo gotica, sia nel libro umanistico che pur guardando all’antichità filtrata dai codici del x e dell’xi secolo, presentava scrittura e scelte grafiche innovative. Gli elementi che davano vita alla disposizione del testo sulla pagina manoscritta si trovarono, dalla metà del secolo xv, coinvolti e trasformati dalle nuove procedure di stampa, fino a che, tra felici adattamenti e geniali innovazioni, portaro0. Ivi, p. 6. . Ibidem.

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no nel giro di alcune generazioni alla nascita della nuova pagina tipografica. Alcuni di questi elementi, come la rigatura, furono talvolta conservati per un po’ di tempo per esigenze puramente estetiche, rimasti però senza alcuna funzionalità pratica scomparvero poi del tutto ; altri, come la scrittura, riproposero con le loro consuete tipologie vari accomodamenti ; altri, come i margini, rimasero quasi invariati prima di adattarsi anch’essi, agevolmente, alle nuove procedure tipografiche d’impaginazione ; altri elementi, come le iniziali e le illustrazioni, furono sottoposti alle procedure di stampa silografica o calcografica solo in un secondo momento ; altri, si aggiunsero ai precedenti, come il colophon all’explicit, prima di soppiantarli del tutto ; nuovi elementi, infine, come il frontespizio, fecero la loro prima comparsa per rispondere alle esigenze grafiche e commerciali di un manufatto pubblicato in centinaia di esemplari. Le trasformazioni cui andò incontro il libro nel passaggio verso la produzione a stampa, essendo determinate più da un cambiamento di procedure tecniche che da scelte culturali, si verificarono, con maggiore evidenza, non tanto negli elementi della pagina presi in se stessi, dall’alfabeto allo specchio di stampa, e neppure nelle diverse articolazioni del testo principale e dei testi annessi, in gran parte già codificati da alcuni secoli, quanto piuttosto nella fisica configurazione che essi assunsero adattandosi al nuovo libro stampato, vale a dire nella rigidità del ductus delle lettere alfabetiche, nella uniformità quasi meccanica dell’impaginazione, o nella staticità dell’intero quadro visivo, non più sfumato e mosso dalla traccia impercettibile lasciata dallo scorrere della mano. Il testo stampato si staccò ulteriormente dalla primigenia forma orale, il confine divenne più marcato, e di conseguenza si trasformò notevolmente il processo di trasposizione dell’oralità nella scrittura. I segni d’interpunzione che trasferiscono, per così dire, le pause e le intonazioni della voce sulla pagina, si moltiplicarono ; il loro uso divenne più articolato e sistematico, mentre le connotazioni non testuali della scrittura e della pagina, come la dimensione del carattere o l’ampiezza dei margini, si configurarono secondo canoni più statici e in moduli maggiormente ripetitivi. Nelle connotazioni fisiche della scrittura e dell’apparato illustrativo, e nella disposizione del testo sulla pagina, si incontrano forse le trasformazioni più rilevanti nel passaggio dalla scrittura manuale alla scrittura tipografica, per il peso che il loro valore paratestuale, vale a dire la loro capacità, strettamente funzionale, di comunicare significati e interpretazioni del testo veicolato, avrebbe avuto nella ricezione presso il pubblico del nuovo libro a stampa. Il primo impatto, non solo visivo, di un testo col lettore è mediato dalle caratteristiche delle lettere alfabetiche usate, come ben sanno gli editori di oggi non meno dei copisti del passato. L’alto valore paratestuale delle diverse tipologie di scrittura è a tutti noto. Nell’età che vide il passaggio dal manoscritto alla stampa, la scrittura più comunemente usata era quella che i paleografi hanno chiamato gotica e che allora era conosciuta come scrittura moderna, contrapposta a quella antica di cui avevano cominciato a servirsi gli umanisti. In gotico fu stampata la Bibbia di Gutenberg delle 42 linee e tutti i libri che uscirono dalle prime tipografie tedesche. Era allora la scrittura comune ai testi del sapere tradizionale legato alle chiese, ai conventi, alle aule universitarie, alle scuole alte e basse, alla trattatistica e a tutti gli usi di scrittura delle attività mercantili o artigianali, delle curie, delle cancellerie e delle amministrazioni religiose e cittadine. Era insomma la scrittura abituale di chi partecipava alla vita culturale ed associata del tempo ; nella forma, essa presentava l’ultima evoluzione

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della scrittura carolina da cui aveva preso le mosse privilegiando i tratti verticali, nei decenni in cui le cattedrali, anch’esse chiamate gotiche, avevano cominciato ad essere innalzate verso il cielo. La scrittura gotica tenne testa per molto tempo alla diffusione della littera antiqua anche dopo l’invenzione della stampa, per lo meno fino ai primi decenni del xvi secolo, quando il carattere romano, l’erede a stampa della littera antiqua, al seguito della diffusione in gran parte d’Europa degli studia humanitatis, cominciò a prevalere, essendo ormai adottata nei testi della tradizione filosofica, giuridica o scientifica, rinnovati anch’essi dal recupero e dalla rielaborazione in chiave moderna del sapere antico. 2 Nel corso del xvi secolo il carattere gotico, nella versione più verticalizzata della tradizione nordica, quella chiamata gallica da Sigismondo Fanti, o nella versione più arrotondata dell’Europa meridionale, l’italica del Fanti più nota come rotunda, si andava lentamente riducendo, di fronte all’avanzata del carattere romano, a pochi e specifici usi testuali : nelle scritture e nei trattati destinati ai ceti artigiani e mercantili ; negli usi liturgici a connotare, con un carattere che ha radici lontane, gli arcani misteri che avvolgono le celebrazioni divine ; in paesi di lingua tedesca, dove per circa quattro secoli, prima di essere abolito d’imperio il 3 gennaio 94, gli fu arbitrariamente attribuita una connotazione ideologica, quale salvaguardia della tradizione nazionale germanica di fronte alla diffusione del carattere romano. 3 Agli inizi, tra Quattro e Cinquecento quando il confine tra gotico e romano era ancora in movimento, incontriamo un uso misto dei due caratteri proprio nelle edizioni di testi classici, per i quali si stampava, naturalmente, in romano, mentre nei frontespizi ed eventualmente anche nelle tavole delle materie, in spazi paratestuali, si ricorreva alla scrittura gotica. Questi editori si conformavano a questo uso poiché coglievano, si direbbe oggi, la funzione strettamente paratestuale del frontespizio di indicare, con una solennità accentuata da forme eleganti e di maniera dei caratteri, i dati anagrafici del testo ad uso dei librai e dei compratori ; infatti, nella rete delle relazioni commerciali la scrittura allora dominante restava quella gotica, mentre il testo, se di tipo classico o per lettori cresciuti alla scuola dell’Umanesimo, doveva necessariamente presentarsi nel suo bel carattere romano. A non servirsi mai di caratteri gotici fu Aldo Manuzio. Fu, infatti, l’editore dell’Umanesimo europeo. Con lui e con il contributo tecnico di Francesco Griffo, il ca2. Su questi temi mi sia lecito rinviare a Giorgio Montecchi, Antonio Sorella, I nuovi modi della tradizione : la stampa fra Quattro e Cinquecento, in Storia della Letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. x, La tradizione dei testi, coordinamento di Claudio Ciociola, Roma, Salerno Editrice, 200, pp. 633-673 ; e a Giorgio Montecchi, La stampa e la diffusione del sapere scientifico, in Storia della scienza, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 200, vol. iv, pp. 699-70. 3. Sugli alfabeti all’inizio del Cinquecento si veda Giorgio Montecchi, Gli atlanti dei caratteri tipografici : considerazioni preliminari e propedeutiche dagli scritti di Sigismondo Fanti, in Modi di scrivere. Tecnologie e pratiche della scrittura dal manoscritto al CD-ROM, Atti del Convegno di studio della Fondazione Ezio Franceschini e della Fondazione ibm Italia. Certosa del Galluzzo, -2 ottobre 996, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli e Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 998, pp. 0730. Si veda il decreto di soppressione della scrittura gotica in Ladislas Mandel, Du pouvoir de l’écriture, Méolans-Revel, Atelier Perrousseaux, 2004, p. 76. La scrittura gotica, per la sua presunta connotazione nazionalistica, fu dapprima funzionale alla propaganda del regime nazista, ma non apparve più adatta quando Hitler per il suo dominio universale aveva bisogno un alfabeto connotato da quell’universalità che si attribuiva al carattere romano ; per questo ne decretò la fine all’inizio del 94, accusandola, con una subdola manipolazione e falsificazione della storia, di essere non una scrittura tedesca ma, come ironizza Ladislas Mandel, « un caractère juif imposé à l’Allemagne depuis cinq siècles » (Ivi, p. 77).

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rattere romano raggiunse la sua massima perfezione e fu pronto ad occupare tutte le tipologie di testi allora in circolazione, lasciando al gotico, come s’è visto, solo usi di nicchia, tutti connotati dalla volontà di conservare in qualche modo tracce del passato. La solennità di presentazione che altri editori avrebbero continuato a cercare nei frontespizi con l’uso del gotico, egli la trovò nella ripresa della capitale antica, introdotta in pieno umanesimo nei manoscritti, nella pittura e nell’architettura da Felice Feliciano, da Andrea Mantegna, e da Leon Battista Alberti. Dopo aver portato l’uso dell’alfabeto romano e delle lettere capitali alla massima perfezione nel De Aetna di Pietro Bembo e nel Polifilo, dopo aver dato inizio alla sistematica pubblicazione delle opere dei greci in lingua originale, con caratteri tipografici disegnati da quelli allora in uso presso i copisti, Aldo Manuzio introdusse in tipografia l’uso del carattere corsivo, per le edizioni di classici latini, italiani e greci in piccolo formato e senza commento in modo da facilitare, secondo un uso non di scuola, la lettura continua e personale dei testi. 4 Nel passaggio dal manoscritto al libro stampato i tre alfabeti dell’Umanesimo, romano, capitale e corsivo, conservarono dapprima le medesime funzioni : il romano per il testo ; l’alfabeto corsivo per la lettura continua dei classici ; le lettere capitali per le maiuscole, per le iniziali, per singole parole da enfatizzare in un testo, oppure per dare solennità epigrafica al titolo o agli autori nei frontespizi. Nel corso del Cinquecento, però, il romano s’impose concretamente sugli altri due che si posero, in un certo senso, al suo servizio. Le lettere capitali, pur mantenendo la loro autonoma e originaria funzione epigrafica sulla pietra, giocarono sulla carta sempre più il ruolo di lettere ausiliarie, tanto da essere spesso ritenute quasi una variante, nella medesima serie alfabetica, del corrispondente carattere romano. Nelle lettere corsive divenne prevalente la connotazione d’intrattenimento personale e di lettura sussurrata, quasi sottovoce, tanto che, quando il carattere romano fu universalmente adottato nel testo principale, il corsivo cominciò ad essere impiegato nelle prefazioni, nelle dediche, nei versi encomiastici e in tutti quei testi annessi, in funzione paratestuale, in cui autori, curatori, editori, amici ed esperti parlavano al lettore, quasi in amichevole confidenza, dell’opera pubblicata. Il corsivo divenne insomma un carattere per così dire d’ausilio, sia nel paratesto, sia all’interno del testo principale per segnalare la presenza di parole e frasi diversamente connotate per essere in lingua straniera, per avere una particolare accezione, o per mille altri motivi. L’autore parla nel testo, l’editore, invece, come l’antico copista riesce a comunicare col lettore grazie alle scelte grafiche, alla distribuzione e all’articolazione del testo sulla pagina. Fin dai tempi più remoti il compito di segnalare al lettore l’inizio di un nuovo testo o di una sua partizione era affidato alle lettere iniziali in stretto connubio con la loro funzione decorativa. Tra xiii e xv secolo, era stata raggiunta una grande uniformità nell’uso delle iniziali, in grado di orientare e di facilitare la navigazione del lettore nel mare magum del testo, segnalando con la loro presenza i punti di approdo 4. Per i caratteri di cui s’è servito Aldo Manuzio restano fondamentali i contributi di Luigi Balsamo, Alberto Tinto, Origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento, Milano, Edizioni Il Polifilo, 967 ; e di Giovanni Marderstaig, Scritti di Giovanni Mardersteig sulla storia dei caratteri e della tipografia, Milano, Edizioni Il Polifilo, 988. Sia consentito rinviare per una più ampia bibliografia al mio contributo Alfabeti greci e latini nella riforma grafica di Aldo Manuzio, Francesco Griffo e Gershom Soncino in Giorgio Montecchi, Il libro nel Rinascimento. Volume secondo, Scrittura immagine testo e contesto, Roma, Viella, 2005, pp. 3-23.

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e di snodo. Per far questo le iniziali assunsero specifiche gradazioni gerarchiche scandite da tipologie, colori e dimensioni diverse, a seconda che si ponessero al principio dell’intera opera, oppure all’inizio dei libri, dei canti, dei capitoli, dei paragrafi o di ulteriori ripartizioni interne. Forse l’uso stesso di iniziali maiuscole in determinate parole del testo costituiva, allora, il grado più basso di questa scala gerarchica, per segnalare le parole ritenute degne di emergere sulle altre, per convenzioni religiose, per valori etici o per convenienze sociali, prima di consolidarsi negli usi moderni. Albert Derolez ci ha offerto un breve quadro dei diversi usi delle iniziali nei manoscritti del basso Medioevo, alla vigilia dell’introduzione della stampa. 5 Sono i medesimi che incontriamo negli incunaboli e che si evolveranno, quando, per rispondere all’esigenza di mettere in circolazione centinaia di esemplari, saranno applicate anche alle iniziali, fino ad allora miniate a mano, procedure silografiche o calcografiche di stampa. Sul gradino più alto della scala gerarchica Albert Derolez pone le iniziali che introducono l’intera opera o sue grandi partizioni : esse potevano essere ornate con motivi vegetali (fiorite o foliate), di cui erano una variante rinascimentale le iniziali a bianchi girari ; potevano essere istoriate e costituire una sorta di finestra su scene riprese dagli argomenti del testo che si andava ad introdurre ; oppure presentavano lettere capitali nella più genuina tradizione romana, nella forma cosiddetta prismatica o a faccette che, scrive Derolez, “est typique de la Renaissance et connaîtra une grande vogue dans le livre imprimé”. 6 Subito dopo incontriamo le iniziali campite, generalmente più piccole delle precedenti, usate abitualmente non all’inizio di un’opera ma per introdurre le sue principali partizioni, e accanto ad esse troviamo le iniziali filigranate che a volte raggiungevano una tale leggiadria da essere spesso usate, in Italia, all’inizio di un libro. Vi erano, in terza posizione, le iniziali lombarde che grazie al variare del colore, generalmente il rosso e il blu, e delle dimensioni, hanno giocato un ruolo importantissimo nell’articolare e nel pesare la qualità e la distribuzione dei testi in scrittura gotica nei manoscritti e nelle edizioni del primo secolo della stampa. Infine, Albert Derolez collega alle esigenze decorative e funzionali delle iniziali anche i tratti di penna incrociati e tali da creare effetti fantastici di vario genere a partire dalle aste delle lettere gotiche delle intitolazioni, che avrebbero avuto tanta fortuna, come s’è detto, nei frontespizi in gotico delle edizioni a stampa tra xv e xvi secolo. 7 Il primo incontro del lettore col testo era mediato, oltre che dall’incipit o dal frontespizio, dalla lettera iniziale dell’opera che, nei libri di maggior pregio, si fece letteralmente in quattro, per introdurlo nel modo più fastoso, quando cominciò ad occupare non solo lo spazio lasciato libero dal copista ma, uno dopo l’altro, tutti i margini della pagina con decorazioni ed immagini di ogni genere che avvolgevano il testo da ogni parte, in un tripudio di luce e di colore. Solo raramente e in casi eccezionali questo modello illustrativo si estendeva alle altre pagine del libro, come avvenne, ad esempio, nella Bibbia di Borso della Biblioteca Estense di Modena. Di solito, però, le illustrazioni che accompagnavano il testo, quando non erano parte integrante dell’iniziale o non ne costituivano un’estensione sui margini, e quando non rispondevano a funzio5. Albert Derolez, Les fondements typologiques d’une classification et d’une description des initiales dans les manuscrits du bas moyen âge, in Ornementation typographique et bibliographie historique, Actes du Colloque de Mons, 26-28 août 987, Mons, Université de Mons, s.d., pp. 7-26. 6. Ivi, p. 2. 7. Questi tratti sono chiamati cadelle in Terminologia del libro manoscritto, a cura di Marilena Maniaci, Milano, Editrice Bibliografica, 996, p. 322.

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ni puramente decorative, obbedivano ad abitudini e a convenzioni consolidate in base alle quali le dimensioni e la diversa disposizione a pagina intera, all’interno del testo o attorno ad esso, graduavano il loro impatto visivo in funzione del testo, commentandone, per così dire, i contenuti agli occhi del lettore e manifestando, concretamente, tutto il valore paratestuale dell’immagine. Ne abbiamo una testimonianza luminosissima nelle immagini degli Exultet dell’alto Medioevo, capovolte per permetterne la contemplazione da parte dei fedeli in ascolto della parola e del canto. La relazione funzionale tra testo e immagine attraversò tutta la storia del libro, dal Medioevo fino ad oggi, sia prima che dopo l’invenzione della stampa nel XV secolo, sia prima che dopo l’adozione delle nuove tecniche di riproduzione (dalla litografica alla stampa digitale) introdotte negli ultimi duecento anni. Furono proprio le immagini a veicolare, per così dire, la conoscenza di testi stampati, principalmente vite di santi, pronostici e cantari, presso coloro, tantissimi, che tra del xv e del xvi secolo, non leggevano ma ascoltavano la lettura o il canto, mentre tenevano fissi gli occhi e la mente alle silografie che campeggiavano, solitamente, sulla prima pagina. La forza delle immagini sulla fantasia e sulla mente dei lettori era nota da secoli : si pensi, ad esempio, al Liber figurarum di Gioacchino da Fiore con le sue solenni impaginazioni giocate in un sapiente intrecciarsi ti testo e di immagini sublimi ; ma si vedano anche i libelli, di fattura più popolare che si diffusero sotto il suo nome fino all’età della stampa, come le Prophetie dello Abate Joachino circa li Pontefici et Romana Chiesa, ultima versione di una fortunata serie di manoscritti. 8 Se grande fu l’impatto, che la stampa ebbe anche sui ceti più umili delle città, grazie alla diffusione di testi in volgare corredati di immagini che ne commentassero i contenuti ai lettori e agli ascoltatori, non inferiore fu l’accoglienza fatta all’apparire del più grande libro illustrato del xv secolo, il Liber chronicarum di Hartmann Schedel, pubblicato in latino e in tedesco a Norimberga nel 493 da Anton Koberger, con circa 800 silografie di Michael Wolgemut e Wilhelm Pleydenwurff ; 9 inoltre non possiamo qui non ricordare quel capolavoro di sintesi tra testo e immagini che fu il Polifilo di Aldo Manuzio. L’impaginazione, la disposizione del testo negli spazi della pagina secondo parametri che ne favorissero la lettura nel modo più immediato e più semplice possibile, ha costituito nella storia del libro uno dei principali fattori di continuità. Le colonne di scrittura dei rotoli in papiro non differivano, sostanzialmente, da quelle dei codici in pergamena o dei libri a stampa aperti davanti ai lettori. Il quadro visivo che si pre8. Si veda Fabrizio Lollini, Testo/immagine nel codice miniato : il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore nel Seminario di Reggio Emilia, in Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, a cura di Claudio Parmiggiani, Milano, Mazzotta, 2002, pp. 47-65. Si può vedere la pagina illustrata di un manoscritto delle Prophetie di Gioacchino da Fiore, conservato presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (collocazione : A. 2848), vicina alla pagina corrispondente dell’edizione bolognese di Girolamo Benedetti del 55 in Giorgio Montecchi, I beni bibliografici. Incunaboli e cinquecentine, in Atlante dei beni culturali dell’Emilia Romagna, a cura di Giuseppe Adani e Jadranka Bentini, vol. IV, Bologna, Rolo Banca, 996, p. 4. Sul manoscritto delle Prophetie si veda la scheda in La Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Firenze, Nardini Editore, 200, p. 68. 9. Si veda in proposito Adrian Wilson, Joyce Lancaster Wilson, The Making of thr Nuremberg Chronicle, Introduction by Peter Zahn, Amsterdam, Nico Israel, 976. Si veda anche, con indicazioni bibliografiche e un mio contributo su Lettura del testo e lettura delle immagini nell’età dell’Umanesimo (pp. 7-3), il catalogo della mostra La cronaca del Mondo. L’arte della stampa dalla Bibbia tedesca allo Schedel, a cura di Arnaldo Loner e Danilo Curti, Catalogo di Mostra, Castel Marecchio, Bolzano, 23.09-20.0. 998, Bolzano, Salotto del libro-Buchsalon, 998. Anche questo saggio, con opportune variazioni, è stato ripreso in G. Montecchi, Il libro nel Rinascimento. Volume secondo..., cit., pp. 85-98.

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sentava ai loro occhi non subì variazioni di rilievo nel volgere del tempo e neppure nell’adattarsi alle esigenze culturali e alle abitudini scrittorie di popoli i cui libri, dalle terre settentrionali d’Europa alle più lontane città dell’oriente islamico, mantenevano un antico legame col Mediterraneo, sulle cui sponde erano nati i rotoli in papiro e i codici in pergamena. Quando fu introdotta la stampa, i primi tipografi penarono non poco per mantenere ai libri la medesima impaginazione dei manoscritti, poiché erano costretti a stampare le pagine, non secondo la sequenza del testo, ma secondo la loro distribuzione sulle due facciate, la bianca e la volta, del grande foglio di stampa che, una volta stampato sui due lati, sarebbe stato piegato e rifilato per formare il fascicolo. Queste procedure furono introdotte non solo per consentire, com’era naturale, la perfetta sequenza del testo, ma anche per garantire la sua distribuzione sulla pagina nel rispetto di consuetudini grafiche ormai secolari che, per semplificare, possiamo ridurre a due principi fondamentali : in primo luogo il giusto dosaggio fra il bianco, cioè i margini, e il nero, vale a dire lo spazio scritto o stampato in cui, secondo Sigismondo Fanti, si raggiungeva il massimo della perfezione quando il bianco era uguale al nero, mentre oggi si ritiene che un giusto equilibrio debba attribuire ai margini almeno il trenta per cento dello spazio disponibile sulla pagina ; in secondo luogo la non coincidenza tra il centro della pagina e il centro dello specchio di scrittura, in modo che il testo, per la diversa angolazione con cui è percepito dall’occhio, non resti schiacciato sulla pagina ma emerga da essa, che, per un puro artificio grafico, acquisisce in tal modo la terza dimensione, quella della profondità. 20 Il valore paratestuale della scrittura, delle illustrazioni, del tipo di pergamena usata, della impaginazione del testo sulla pagina e della configurazione dei fascicoli, in altre parole dell’intero apparato editoriale, era ben noto già prima dell’introduzione della stampa ; i copisti sapevano che gli alfabeti, la loro forma e le loro dimensioni, oltre a connotare diversamente la configurazione fisica dei testi, erano in grado di veicolarli con maggiore efficacia verso il pubblico nel rispetto di convenzioni ed usi ormai consolidati da secoli. Per questo un buon copista era spesso in grado di scrivere codici notevolmente differenti tra loro a seconda del ceto sociale, della professione, delle esigenze e delle aspettative dei committenti. Del copista Niccolò Mascarino da Ferrara, ad esempio, sono giunti a noi tre codici che, anche a un occhio esperto, mostrano di non avere nulla in comune, apparendo radicalmente difformi nel tipo di pergamena, nella configurazione dei fascicoli, nella scrittura e negli apparati illustrativi ; non vi è tuttavia ombra di dubbio sull’attribuzione che trae forza dalla sottoscrizione posta alla fine dei testi. La diversità della struttura libraria, della scrittura e dell’impaginazione è dovuta alla scelta di confezionare tre codici che rispondessero, nell’insieme e nei dettagli, alla fisionomia dei committenti : la corte estense per la quale scelse una pergamena finissima e bianchissima scritta in una littera antiqua esile e raffinata ; un convento di religiosi cui offrì un libro robusto e compatto in scrittura gotica rotunda ; e Giovanni Pico della Mirandola per il quale apprestò un codice di ampio formato con littera antiqua, impaginazione ed illustrazione sobrie ed eleganti. 2 20. Sulle regole di impaginazione proposte da Sigismondo Fanti si veda Giorgio Montecchi, Le dimensioni del libro secondo la Theorica et Pratica di Sigismondo Fanti, in Il libro nel Rinascimento. Saggi di bibliologia, Roma, Viella, 9972, pp. 93-07. 2. I tre codici scritti da Niccolò Mascarino da Ferrara sono le opere di Virgilio (Biblioteca Estense di Modena : Lat. 286, alpha.P.82), la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio scritta per Giovanni Pico della

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Con l’introduzione della stampa l’attenzione dei tipografi si focalizzò non più sulle richieste particolari e ben definite di singoli committenti ma su quelle più indeterminate di ampie categorie di lettori, spesso anonimi e lontani. Ebbe allora inizio il lungo cammino che dalla committenza medievale portò all’editoria moderna, in cui la progettualità si spostò da un polo all’altro dell’intera catena produttiva : dal lettore (convento, corte o singolo studioso) che commissiona il manoscritto, all’editore che programma un’edizione in centinaia di esemplari per un vasto pubblico. Gia nell’età del libro manoscritto si erano però consolidati, come abbiamo appena mostrato, alcuni generi editoriali, con pergamena, fascicoli, formato, scrittura e impaginazione configurati e strutturati in modo tale da costituire un manufatto librario in grado di rispondere a specifiche richieste del pubblico. Fu con la stampa che i generi editoriali acquisirono piena cittadinanza nella produzione libraria. In essi, infatti, le innumerevoli e minute caratteristiche bibliologiche sono coordinate in modo tale da dar vita ad un’unica configurazione fisica del libro, posta, nel suo insieme, al servizio del testo e del pubblico cui è rivolto : in questo duplice orientamento, al testo e al pubblico, consiste proprio il loro valore paratestuale che, come sappiamo, nasce, essenzialmente, dal legame che i singoli elementi materiali del libro stabiliscono con il testo quando lo accompagnano verso il lettore. Se spostiamo l’attenzione dai singoli libri al genere editoriale, possiamo, per estensione, osservare che il suo valore paratestuale va cercato nella configurazione fisica delle edizioni che ad esso fanno riferimento. Senza entrare in una casistica che ci porterebbe troppo lontano, basti qui osservare che i generi editoriali, pur presenti nell’età del libro manoscritto e nel primo secolo della stampa, raggiunsero una loro più completa autonomia e maturità solo lentamente verso la metà del xvi secolo, quando le procedure tipografiche avevano ormai permeato tutte le fasi della produzione e la circolazione dei libri aveva raggiunto una sorta di equilibrio tra una distribuzione commerciale alta, che aveva per confini l’intera Europa, e uno smercio di libri circoscritto all’interno di specifiche aree linguistiche, entro ambiti regionali o, addirittura, tra le mura di una singola città . A titolo esemplificativo e per avviare un’indagine tutta da compiere, si potrebbero mettere in sequenza particolari tipologie di opere, tenendo conto della configurazione materiale con cui si sono presentate nei manoscritti e della veste grafica assunta nelle edizioni a stampa dei primi tempi. Se confrontiamo, ad esempio, la Bibbia di Borso della metà del xv secolo con quella a stampa postillata da Girolamo Savonarola di una ventina d’anni più tardi, troviamo che le innumerevoli difformità nella loro configurazione fisica rinviano, prima ancora che al semplice passaggio dal manoscritto di quella di Borso alla stampa di quella di Savonarola, a specifiche scelte produttive dovute, nel primo caso, alla committenza di corte, e nel secondo alla dotta abitudine, molto antica e precedente all’invenzione della stampa, di leggere il testo e di scriverne il commento sugli ampi margini lasciati bianchi dai copisti. In questo secondo caso, però, l’esemplare di Nicolas Jenson postillato da Girolamo Savonarola rinviava a un’edizione nata in un contesto produttivo molto più complesso e pensata per un bacino di circolazione ben più ampio ; le scelte grafiche e testuali miravano, infatti, a soddisfare le esigenze di decine di studiosi, offrendo loro un libro che presentasse una fisionomia dai tratti comuni e tale da inserirsi, senza difficoltà, nell’alveo di uno Mirandola (Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Mss. Lat. Cl. vi. 245) e l’opera tradotta in volgare da Cristoforo da Bologna dal titolo De vita beata, come scrive l’explicit, o Regola et modo et forma di quello denno usare a consolare come indica l’incipit (Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, Cl. ii, 0).

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specifico genere editoriale, quello del libro di studio per i dotti, per le università e per i conventi. 22 La storia dei generi editoriali, del loro consolidarsi nel passaggio dal manoscritto al libro stampato, della loro specifica configurazione fisica e del valore paratestuale ad essa sottesa, resta in gran parte ancora da scrivere. Possono giovare le numerose ricerche fatte in questi ultimi anni su alcune tipologie di testi, come i libri di poesia o di battaglia, i pronostici e le vite di santi, di cui si discorreva poco fa, nonché sui libri di letteratura e su quelli, infine, di argomento scientifico, con il peso che vi avrebbero avuto le illustrazioni, non meno importanti del testo nel comunicare le innovazioni, come, un esempio tra mille, nel De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio pubblicato a Basilea da Johannes Oporinus nel 543. Spesso, però, i repertori e i saggi, anche recenti, sono quasi esclusivamente interessati allo studio dei testi, lasciando in ombra le scelte grafiche, essenziali non meno di quelle testuali, nell’individuazione di un genere editoriale, delle sue caratteristiche fisiche, del pubblico cui si rivolge e, in ultima analisi, del suo intero valore paratestuale. Il lavoro in tipografia aveva portato alle estreme conseguenze la dimensione artificiale già presente nella stessa scrittura manuale, con la composizione delle lettere nelle parole, delle parole nelle righe, delle righe nelle pagine e con l’imposizione delle pagine nei fascicoli e dei fascicoli nel libro, dando così un contributo non piccolo alla formazione dello spirito analitico e scientifico dell’età moderna. Nel giro di alcune generazioni dopo l’invenzione di Gutenberg, la pagina tipografica si presentava con caratteristiche proprie, e i manufatti librari possedevano, ormai, una configurazione fisica ben differenziata rispetto a quella dei manoscritti. Dopo l’avventura aldina la pagina stampata non guarderà più a quella manoscritta ma proseguirà il suo cammino in modo autonomo, perseguendo la bellezza e l’eleganza con i soli mezzi della stampa tipografica, silografica o calcografica, per ogni tipo di pubblico, anche il più esigente. Anzi saranno proprio i manoscritti ancora in circolazione ad imitare, per quanto possibile, le caratteristiche del libro per antonomasia, quello a stampa. La necessità di rispondere alle esigenze sempre più pressanti di categorie di lettori in aumento e con interessi di lettura e di studio diversamente articolati, diede vita col passare del tempo a un’ampia gamma di modelli librari cui attenersi nel disporre il testo sulla pagina, nel corredarlo di immagini e nel mettere al suo servizio le mille risorse offerte dalle scelte e dalle procedure tipografiche, in altre parole nel determinare la qualità e il valore paratestuale di tutti questi elementi nel viaggio del libro verso il pubblico cui era indirizzato, con la veste grafica e la fisionomia testuale a lui più gradita : dall’affollarsi dei caratteri sulla pagina al distendersi sereno del testo su di essa con ampi margini in cui, i due colori ormai dominanti, il bianco della carta e il nero dei caratteri, abbandonata la luce e il colore dei manoscritti, divennero gli interlocutori principali nel dialogo tra l’autore e i suoi mille lettori. Abstract Nei libri manoscritti il copista imprigionava la scrittura entro una fitta trama di rigature orizzontali e verticali, che ne delimitavano rigorosamente la distribuzione negli spazi della pagina. 22. La Bibbia di Borso della Biblioteca Estense (collocazione : Lat. 422-423) è celeberrima. L’incunabolo (igi n. 646) della Bibbia di Savonarola è conservato presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara (collocazione : N.A.9) ; si veda la riproduzione della pagina del prologo di san Girolamo in Atlante dei beni culturali..., cit., vol. iv, p. 49.

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L’equilibrio grafico e la conformità funzionale (o paratestuale) al testo erano determinati, di volta in volta, da particolarissime scelte scrittorie legate all’unicità del manufatto. I primi tipografi desideravano offrire al pubblico un libro non troppo dissimile da quello manoscritto, ma, nel giro di alcune generazioni, le procedure tipografiche di stampa, la moltiplicazione degli esemplari in circolazione, e soprattutto l’allargamento del pubblico, resero l’intera struttura del libro antico diversa e nuova rispetto a quella del manoscritto, con riflessi significativi sul valore paratestuale della sua configurazione grafica. In manuscript books, a copyist imprisoned the writing within a dense pattern woven of horizontal and vertical lines that rigorously defined the distribution of space on the page. Graphic equilibrium and functional (or paratextual) conformity to the text were determined each time by very particular choices in writing, linked to the unique nature of the product. Early typographers aimed to offer the public a book that was not unlike a manuscript, but within a few generations, typographic printing procedures, the multplication of copies in circulation, and especially a larger reading public, rendered the entire structure of the antique book new and different with respect to the manuscript, with significant repercussions on the paratextual value of its graphic configuration.

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Maurizio Torrini PARATESTO E RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

N

ei primi giorni del giugno del 637 usciva a Leida, presso l’editore Jean Maire, un libro per molti versi singolare. L’autore, René Descartes, ometteva il proprio nome, anzi, nel trasmettere allo stampatore il privilegio reale del 4 maggio dello stesso anno, nel quale il nome era fatto, lo toglieva, come toglieva gli elogi personali lì contenuti.  Ma non era questa la singolarità, specie per un uomo che aveva fatto di vivere à l’écart la propria insegna, « bene vixit bene qui latuit », aveva confidato all’amico Mersenne citando Ovidio appena tre anni prima. 2 Proprio l’uscita del libro dava occasione a Claude Saumaise di commentare che « il a tousjours esté en cette ville pendant l’impression de son livre, mais il se cache et ne se monstre quel fort rarement. Il vit tousjours en ce pais dans quelque petite ville à l’éscart. Et quelque uns tiens qu’il en a pris le nom d’Escartes ». 3 Solitario, ma non in solitudine : questo « amateurs de pérégrinations », come lo ebbe a definire Isaac Beeckman, l’amico e maestro degli anni decisivi — e che Cartesio aveva conosciuto per le strade di Breda (e il termine non è figurato), — in realtà non cessa di assistere a dotte conferenze, di frequentare corti e circoli colti, di viaggiare nel proprio paese, in Italia, in Germania, nel Nord (terminerà la propria vita a Stoccolma nella corte di Cristina), è lo stesso che proprio in apertura del volume citato trasforma l’immagine galileiana del libro della natura e del suo geometrico alfabeto in quello del « grand livre du monde » dove, alla pari che in se stesso, ritrovare quel sapere (la science) che non erano stati in grado di dargli i suoi aristotelici maestri, né la cultura contemporanea. 4 Ma, come detto, la singolarità di quel volume stava altrove. L’anonimato così lungamente professato – che risale almeno al dicembre del 629 5 — e poi tanto debolmente tutelato, doveva, come la sua scelta di vivere à l’écart, garantirlo dal « bruit » che . Sulle vicende della stampa degli Essais v. ora J.-R. Armogathe, La publication du ‘Discours’ et des ‘Essais’, in Descartes : il Metodo e i Saggi. Atti del Convegno per il 350° anniversario della pubblicazione del Discours de la méthode e degli Essais, a cura di G. Belgioioso, G. Cimino, P. Costabel, G. Papuli, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 990, t. i, pp. 7-25 ; ma tutti e due i tomi sono da tener presenti, così come il vol. I della Correspondance, avril 622 – fevrier 638 (Œuvres de Descartes, publiées par Ch. Adam et P. Tannery, nouvelle présentation, Paris, J. Vrin, 969, d’ora in avanti A.T.). Cogliamo l’occasione per indicare alcuni testi che abbiamo tenuti presenti nell’elaborare il nostro intervento : Problématique et réception du ‘Discours de la méthode’ et des ‘Essais’, textes réunis par H. Mechoulan, Paris, Vrin, 988 ; La biografia intellettuale di René Descartes attraverso la ‘Correspondance’. Atti del Convegno ‘Descartes et l’Europe savante’, Perugia, 7-0 ottobre 996, a cura di J.-R. Armogathe, G. Belgioioso e C. Vinti, Napoli, Vivarium, 999 ; G. Rodis-Lewis, L’œuvre de Descartes, Paris, J. Vrin, 97 ; G. Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, a cura di G. Auletta, Roma, Editori Riuniti, 997 ; E. Garin, Vita e opere di Cartesio, Roma-Bari, Laterza, 9842. 2. A.T., i, p. 286. Su questo v. ancora il suggestivo M. Leroy, Descartes le philosophe au masque, Paris, Rieder, 929 e ora i più equilibrati E. Lojacono, Descartes curioso, in Descartes : il Metodo e i Saggi, cit. t. i, pp. 77-04 e M. Spallanzani, La ‘vita ritirata’ del filosofo : le lettere di Descartes a Guez de Balzac e a Elisabetta di Boemia, in La biografia intellettuale di René Descartes attraverso la ‘Correspondance’, cit., pp. 457-492. 3. A.T., x, p. 534-535. 4. Discours de la méthode (A.T., vi, p. 9). 5. Lettera a Mersenne (A.T., i, p. 85).

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avrebbe potuto seguire alla pubblicazione, consentendogli di vivere, ma « sans être jamais vu de personne ». 6 In realtà, appena uscito il libro, Descartes ne organizza la diffusione : oltre agli amici più antichi e più fidati, attraverso Costantin Huygens lo fa pervenire al Principe d’Orange, attraverso il legato francese all’Aia a Richelieu e al re Luigi, ai professori delle università olandesi, Golius, Reneri, Schooten, ai suoi vecchi maestri del collegio gesuita di La Flèche, e persino al cardinale Barberini a Roma. Stampato in 3000 copie, il Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la verité dans les sciences. Plus la Dioptrique, les Meteores et la Geometrie, qui sont des essais de cete methode consisteva in 66 fogli in ottavo, più di 500 pagine : non proprio un libretto. L’autore se ne riservava 200 copie ; dell’ultimo saggio, la Geometrie, Cartesio ne fece fare una piccola tiratura a parte (forse 2 esemplari) « sur du papier choisi exprès, et avec une reliure d’une propreté extraordinaire », per distribuirli « aux plus habiles geomètres ». 7 Di fatto la Geometrie, che Descartes dichiara di aver disteso durante la composizione delle Meteores (il secondo dei Saggi), cioè nel 636 e nei confronti della quale si vedeva subito costretto a dare privatamente consigli di lettura – leggerla con in mano la penna, seguire scrupolosamente tutti i calcoli, abituarsi (accoutumer) al nuovo linguaggio, leggere il secondo libro dopo il primo e il terzo 8 – inizia da lì un percorso tutto suo : esclusa dalla traduzione latina dei restanti saggi e del Discours, che con il titolo di Specimina philosophiae apparvero nel 644 in contemporanea coi Principia philosophiae, presso gli stessi Elzeviri di Amsterdam, e con i quali spesso sono rilegati, la Geometria uscirà nel 649 in latino, tradotta e annotata da Frans van Schooten e Florimond Debeaune, senza che l’autore, piccato per il cattivo latino della traduzione, 9 vi mettesse mano, come aveva fatto invece per gli Specimina. Una seconda edizione latina, nel 659, si arricchirà di un secondo volume di commenti, destinata a una larga fortuna sul finire del secolo : ancora due edizioni, 683 e 695, in due volumi rinnovati e integrati nel commento. A pochi anni di distanza quel volume fortemente pensato e strategicamente voluto veniva disarticolato, dando vita a destini separati e a diverse fortune : basti pensare che così come apparve nel 637 è apparso in traduzione italiana solo nel 983 per le diligenti cure di Ettore Lojacono. 0 Mi sono ritirato « loin hors du monde »,  scrive Descartes a Huygens alla vigilia dell’uscita del suo libro, firmandosi di Alcmar, « où je suis sans y estre », 2 ci sono senza esserci. Come aveva immaginato il suo Monde, il libro non pubblicato in seguito alla condanna galileiana del 633, costruito negli spazi immaginari lasciati liberi dagli aristotelici, chiedendo ai lettori di « sortir hors de ce monde, pour en venir voir un autre tout nouveau, que je feray naistre en sa presence dans les espaces imaginaires », 3 così egli si ritira ora in altri spazi parimente immaginari per proteggersi e per 6. Lettera a Balzac (A.T., i, p. 203). Cfr. M. Spallanzani, La ‘vita ritirata’ del filosofo, cit., p. 469. 7. P. Costabel, La réception de la ‘Geometrie’ et les disciples d’Utrecht, in Problématique et réception du ‘Discours de la méthode’ et des ‘Essais’, cit., pp. 59-63. 8. A.T., i, p. 457. 9. « Son latin n’est pas fort elegant ; et pource que je ne l’eusse pû voir avant qu’il fûst imprimé, sans estre obligé de le changer tout, ie m’en fuis entierement dispensé » (A.T., v, p. 392). 0. Torino, utet, 983. . A.T., i, p. 37. 2. A.T., i, p. 634. 3. A.T., xi, pp. 3-32. Su Le Monde v. ora J.-P. Cavaillé, Descartes. La fable du monde, Paris, Vrin, 99 e ancora “Mundus est fabula”. Contesto culturale e uso filosofico delle favole in Descartes, in Letture cartesiane, a cura di M. Spallanzani, Bologna, clueb, 2003, pp. 7-82.

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meglio attaccare con libertà e vigore il sapere tradizionale. Là la finzione della fable, un mondo in disparte dal mondo aristotelico e della scienza contemporanea, qui con il Discours e gli Essais è l’autore stesso che si mette fuori da quel mondo, che si mette in disparte, non solo metaforicamente, per meglio colpire. Una medesima strategia che vuole convincere solo attraverso l’evidenza e la chiarezza. Là, ne Le Monde, attraverso la richiesta al lettore di farsi portare fuori dal caos di questo mondo per soggiacere al fascino di vederne costruire un altro adeguato alla ragione, qui facendo direttamente appello al bon sens, alla bona mens, che è la cosa più diffusa nel mondo e di cui nessuno esige più di quanto ne possegga. Un mondo nuovo, dunque, costruito con un nuovo metodo, dove valgono altre regole per dirigere la ragione, fondate non più sull’autorità, né sull’opinione, ma su quella comune ragione degli uomini ugualmente distribuita tra francesi e cinesi, tra cannibali e tedeschi. Per questo Descartes non ha bisogno di citare nessuno, né ne Le Monde, né nel Discours, né negli Essais : una sola citazione : se stesso, la sua ragione, che è la ragione universale : Je pens, donc je suis. 4 Una rivoluzione, appunto, preannunziata dal titolo, che è la vera singolarità dell’opera e che Cartesio vuole subito trasmettere ai lettori, perché quel metodo, di cui i saggi dovevano costituire, convincendo, il banco di prova della bontà del suo procedimento, non cercavano solo, e non era poca cosa, la verità delle scienze, ma si proponeva addirittura di insegnare a bien conduire la propria ragione. Quando aveva dovuto rassicurare i lettori sulla tesi stravagante di Copernico, il teologo protestante Andreas Osiander aveva concluso il suo avvertimento al lettore, ricordandogli che l’astronomo, tra le varie ipotesi di uno stesso movimento, sceglierà quella che è più facile da capire, ma senza che possa dire nulla di certo riguardo all’ipotesi prescelta. Il filosofo, magari, cercherà una maggiore verosimiglianza, ma entrambi, l’astronomo come il filosofo naturale, non comprenderanno nulla di certo se non gli sarà rivelato direttamente da Dio. Certo, di mezzo c’è stato Galileo, che ha trasformato il copernicanesimo da opzione ideologica in verità di fatto, ma c’è stata anche la sua condanna, che è costata a Cartesio il suo Monde. Non era stato forse un “amico e corrispondente” di Galileo, come li denominò Antonio Favaro, a sostenere che, se come nel caso di Copernico non si può giungere alla dimostrazione « con prove matematiche o per via di senso e di sicura sperienza », l’autorità deve prevalere « alla sola ragione del discorso particolare ». « Onde non ci resta finalmente altra via da determinare delle scienze non necessariamente dimostrate, che la sola autorità dei più e delli stimati comunemente migliori, perché si vuole credere che la verità, per altro ambigua, sia dall’universale e concorde parere scoperta ». 5 E poi di quali scienze Cartesio vuol dimostrare la verità per suffragare il suo metodo ? Due discipline subalterne, periferiche, come le meteore e la diottrica, mentre la terza, la geometria, era per tradizione così lontana dalla realtà fisica e così innovativa la prospettiva in cui la collocava Cartesio da rendere difficile che se ne potesse comprendere la connessione con le altre due e con il metodo stesso. E d’altra parte non era stato obiettato proprio a Galileo che « non è lecito co’ principi di una scienza passare a dimostrare gli effetti di un’altra : onde grandemente vaneggia colui che si 4. Cfr. M. Fumaroli, “Ego scriptor” : rhétorique et philosophie dans le “Discours de la méthode, in Problématique et réception du ‘Discours de la méthode’ et des ‘Essais’, cit., pp. 32-46. 5. Sono le conclusioni di monsignor Giovambattista Agucchi : v. M. Torrini, Galileo copernicano, « Giornale critico della filosofia italiana », 993, , pp. 26-27.

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persuade di voler dimostrare gli accidenti naturali con ragioni matematiche »? 6 Il che avrebbe vanificato tutto il Discours e gli Essais. Che poi il medesimo metodo fosse in grado di formare un uomo nuovo per quel suo nuovo mondo era ancora più stupefacente. Era quel titolo un manifesto, un manifesto rivoluzionario, non come quello dei Rosacroce e di altre sette che Cartesio aveva letto affissi nelle piazze e nelle strade della nordica Europa, dove tra annunzi apocalittici si vantava un sapere iniziatico teso a nascondere lo smarrimento e l’ignoranza. La crisi fatale dell’aristotelismo era agli occhi di Descartes strettamente connessa con il relativismo morale, sì da fargli pensare che nessuna sortita parziale fosse praticabile : né quella prefigurata dai naturalisti dell’ultimo rinascimento con le loro scienze « les plus curieuses et les plus rares », né quelle immaginate da « humeurs brouillonnes et inquiètes », e neppure la vita solitaria di « ces philosophes, qui ont pu autrefois se soustraire de l’empire de la fortune », che meditando sui limiti che la natura loro prescriveva, si erano persuasi che non erano padroni di altro se non dei loro pensieri, e con ciò si stimavano i più ricchi, i più liberi, i più potenti degli uomini. 7 Come aveva fatto Copernico, bisognava rovesciare il punto di vista, bisognava provare a rovesciare il mondo, inventarne un altro a partire da una scienza che fosse insieme vera e reale, non fondata sulla natura, troppo vasta ormai e troppo vaga nello spazio (le nuove terre) e nel tempo (il sapere degli antichi), ma fissando piuttosto dentro di noi, nelle regole della nostra ragione, i principi dell’oggetto del conoscere. 8 E di lì risalire alla costruzione di un mondo nuovo. Un fondamento e delle regole che Cartesio ritiene capaci non solo di ordinare il mondo, ma indispensabili per riordinare l’uomo con le sue turbinose passioni, verso il quale e le quali le varie fedi e le chiese che insanguinavano l’Europa si mostravano, come gli aristotelici e i loro avversari nei confronti del sapere filosofico e di quello scientifico, inette, e per questo stesso equivalenti, sì da consentire a tutti di trovarci provvisorio ricetto in attesa di trasmigrare nel nuovo mondo. Di questa rivoluzione Cartesio è consapevole : lo testimoniano tutte le cure e tutte le cautele, e persino le civetterie, con cui accompagna la sua prima uscita pubblica. Lo testimonia l’uso del francese, la scelta del titolo dove la novità delle sua proposta è stretta tra due termini innovativi, Discours e Essais, di cui facile sarebbe costruire l’albero genealogico e la cui pregnanza è ed era intuitiva, ma che uniti nello stesso titolo assumevano ben altro valore dichiarativo. Nel 637 Cartesio aveva compiuto quarant’anni. Galileo, quando pubblicò il Sidereus nuncius, l’opera che lo pose al centro dell’attenzione europea come con il Discours sarebbe avvenuto per Descartes, ne aveva quarantasei : la rivoluzione scientifica e filosofica del secolo xvii non fu opera, lo si può dire, di spiriti giovanili. E non per caso. Niente sembra legare il Discours con i suoi Essais al Sidereus. Non le dimensioni – imparagonabili le poche pagine dello scritto galileiano con il volume cartesiano –, non la tiratura, non la lingua, non il pubblico a cui si rivolgono. Galileo si rivolge espressamente a quel pubblico che Descartes aveva escluso, o almeno messo in secondo piano, in un poi rispetto al suo vero pubblico, quello dei curiosi di filosofia, dei lettori di Montaigne, divisi tra sagesse e science. Il pubblico di Cartesio si andava 6. V. ivi, pp. 28-29. 7. Che sono, come è noto, passi del Discours. 8. Cfr. su taluni di questi aspetti M. Torrini, Nuove terre e nuove scienze. A proposito della scoperta del nuovo mondo e della rivoluzione scientifica, « Giornale critico della filosofia italiana », 2000, 2-3, pp. 89-208.

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formando e andava formato, quello del Sidereus era già formato, e andava semmai riformato. 9 Pure, anche Galileo usciva da una « vie cachée », anche se non consapevolmente ricercata e costruita. Come Cartesio, anche Galileo va cercando un fondamento su cui poggiare e provare la verità delle sue ricerche di meccanica e di fisica, e soprattutto come far nascere una scienza non più basata sull’autorità e sull’opinione. Una scienza di cui ben prima del Sidereus ha creduto di trovar la chiave, cogliendo nella rivoluzione di Copernico il modello – non solo , ma anche le prove – di una scienza fondata su squisite ragioni geometriche. Lo ha scritto a Keplero, al matematico dell’Imperatore, nella sua prima lettera del 4 agosto 597. Sono copernicano, gli scrive, da molti anni ormai, e lo sono perché « ex tali positione » le cause di molti effetti naturali, finora inesplicabili « per communem hypothesim », sono state da me scoperte. 20 Ho tradotto alla lettera. Galileo si dichiara copernicano in quanto filosofo, filosofo naturale. Non sono i fenomeni celesti che lo hanno fatto diventare seguace di Copernico, « praeceptoris nostri », ma i fenomeni terrestri. E tuttavia non è in grado di pubblicare nulla, per quanto molto abbia scritto, « perterritus » dalla sorte del maestro, oggetto di risa e di strepito. Come Cartesio, tace, si nasconde. Nei diciotto anni migliori della sua vita, quelli dell’insegnamento padovano, se si eccettuano, nel 606, Le operazioni del compasso geometrico e militare, poche pagine e una tiratura di sessanta esemplari, non pubblica niente. Appena pubblicato il Sidereus, ancora a Padova e trattando il suo trasferimento a Firenze, apre i cordoni della borsa : « Io de i secreti particolari, tanto di utile quanto di curiosità et admirazione, ne ho tanta copia, che la sola abbondanza mi nuoce » e quindi « 2 libri De systemate seu constitutione universi [...], tre libri De motu locali [...], tre libri delle meccaniche [...] diversi opuscoli di soggetti naturali come De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De animalium motus ». Persino, per finire, « alcuni libri attinenti al soldato ». 2 Vanagloria, astuzie mercantili per alzare il prezzo del suo ritorno in patria ? Difficile dirlo, ché proprio quel Sidereus su cui poggiava tutto il suo progetto di riforma e fondazione della scienza doveva quasi subito costringerlo su altri e scabrosi terreni. Quello che egli aveva considerato un punto di partenza si rivelò un pericoloso luogo di sosta, e solo dopo la condanna definitiva del 633 credette possibile riaprire la sua borsa. La scoperta, l’uso del canocchiale, la prova fattuale del copernicanesimo, sono per Galileo ciò che il Discours costituirà per Descartes, l’introduzione alla propria filosofia ; le opere promesse generosamente al segretario del Granduca sono i saggi non di un metodo che non c’era, ma il modello che la verità proclamata dal Sidereus consentiva di estendere alla scienza tutta. Per questo è così decisivo per lui dimostrare, con i fatti, con i corpi celesti, che Copernico ha visto giusto, ed è alla verità del copernicanesimo che affida la propria. « Il mostrar con mille prove che ella è vera, e che la contraria non può in alcun modo sussistere » è il modo per Galileo « speditissimo e sicurissimo » di provare la verità della sua fisica. 22 Come Cartesio anche Galileo non ha da citare nessuno e nessuno cita, se si eccettua il carneade Jacques Badovère come quegli che gli conferma l’esistenza dell’occhia9. Cfr. Le considerazioni di M. Paoli, “Ne avvisai l’autore”. Plagio scientifico, pirateria, editoria e pubblico in Galileo Galilei, « Rara volumina », 200, -2, pp. 57-73. Sull’uso del latino v. ora la messa a punto di F. Vaquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), traduzione di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 2004. 20. Le opere di Galileo Galilei, edizione nazionale a cura di A. Favaro, Firenze, Barbèra, 9685, x, p. 68 (d’ora in avanti O.G.). 2. Ivi, p. 35-352. 22. O.G., xii, p. 84.

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le. Solo nell’ultima pagina il lettore verrà scoprendo che tutto quanto mostrato potrà serenamente condurlo al « systema copernicanum ». Checché ne pensasse Keplero, che gli rimprovererà di non aver fatto « mentione alcuna di quegli autori che le hanno accennato et porta occasione di investigar quello che hora ha truovato », 23 Galileo, come Cartesio, non intende e non ha bisogno di citare nessuno. E non solo perché il suo, come quello dei tre Essais introdotti dal Discours de la méthode, è un percorso ‘sperimentale’ che vuole convincere il lettore puntando sulla bontà dello strumento, l’« occhiale » per Galileo, il metodo e la propria vicenda biografica per Descartes, ma perché ancora, come per Cartesio, Galileo è consapevole di dare avvio a un’età nuova, a un nuovo mondo costruito negli spazi immaginari della geometria, popolati di corpi « politissimi ». Di qui il titolo, inusitato e stravagante per un testo scientifico che voleva rivolgersi al pubblico dei dotti e dei lettori degli studi, « philosophis et astronomis », dirà Keplero, quale in quel frangente è il suo uditorio. Al di là di una sterile, e talora quasi comica diatriba, che vide contrapporsi negli anni Cinquanta due studiosi anglosassoni, il Sidereus nuncius vuol essere un avviso, come peraltro lo chiama Galileo nella sua corrispondenza prima della stampa, un avviso che dia conto al lettore delle novità lì contenute, promettendo che vi troverà novità celesti, non ragionamenti e dimostrazioni. 24 Quel titolo, un po’ scandaloso, è la forma attraverso cui richiamare l’attenzione dei suoi lettori, facendo balenare i « magna longeque admirabilissima spectacula » visti da un ‘professionista’ come Keplero. Per questo adotta un titolo di solito usato per avvisare di guerre e di catastrofi naturali, perché è a un terremoto che egli pensa. A un terremoto nel mondo dei lettori dell’università e degli astronomi senza confini territoriali, e per questo lo scrive nella lingua dell’Europa dotta. E lì lo lascerà, senza ristamparlo né pensare a tradurlo, strumento appunto di quell’altro strumento, l’‘occhiale’, con il quale dare avvio all’avventura della nuova scienza. Nella stessa città, negli stessi giorni in cui stava per uscire il primo libro di Cartesio, gli Elzeviri cominciavano a comporre le prime pagine dell’ultimo libro di Galileo, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica et ai movimenti locali. Un titolo che al vecchio filosofo confinato a Arcetri farà provare, l’anno successivo 638, quando il libro uscì, « maraviglia e travaglio » per la licenza presasi dall’editore nell’« intitolazione », « riducendola – scriveva 25 – di nobile, quale ella era e meritatamente deve essere, a volgare troppo, per non dire plebea ». Né basta, perché di quel libro, uscito nel luglio, Galileo per mesi, anzi per un anno, conobbe solo il titolo, mentre gli esemplari circolavano a Roma, a Venezia, a Strasburgo, in Francia e in Olanda. Di certo Cartesio lo lesse prima dell’autore. 26 I Discorsi e dimostrazioni, o meglio i Dialoghi, come Galileo li nominava nell’epistolario prima dell’intitolazione dell’editore – quel nobile titolo pensato dall’autore non ci è dato, ahimè, di conoscere – meriterebbero, non solo per questo, un discorso adeguato. Intanto la composizione del testo nella quale confluivano, come si sa, ricerche vecchie e nuove, talune persino arcaiche, testimonianza di un quarantennale lavoro più che di un disegno organico di 23. O.G., x, p. 35. Cfr. M. Torrini, “Et vidi coelum novum et terram novam”. A proposito di rivoluzione scientifica e libertinismo, « Nuncius », i, 986, 2, pp. 49-77. 24. V. le acute osservazioni di Isabelle Pantin in Galilée, Le messager celeste, texte, traduction et notes établis par I. Pantin, Paris, Les Belles Lettres, 992, pp. xxxi-xlv. 25. O.G., xvii, p. 370. 26. A.T., ii, pp. 379-402. La lettera dell’ ottobre 638 costituisce, com’è noto, una vera e propria recensione, non sempre generosa.

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rielaborazione. L’appendice riproponeva addirittura uno scritto giovanile sul centro di gravità dei solidi risalente agli anni precedenti il 590. 27 La riproposizione della forma dialogica e degli interlocutori del Dialogo condannato era messa a dura prova dalle digressioni che costituivano veri e propri capitoli autonomi e dall’alternanza di volgare e latino. Ma è soprattutto la stesura dell’opera a farne un caso esemplare. La necessità e l’urgenza che dopo la condanna del 633 l’anziano matematico e filosofo del Granduca dovesse, « a scarico delle passate traversie », « ritrovare cose nuove e pellegrine » – come gli scriveva il fido discepolo Mario Guiducci 28 quando ancora Galileo era nell’esilio senese – fu comune sentenza in Italia e fuori d’Italia. Si avviava così un esperimento singolare nella comunicazione letteraria. Galileo non scrive un libro, ma dipinge un affresco, lo dipinge all’aperto, in pubblico. Di quell’affresco si conoscono i cartoni e gli schizzi ; i soggetti e anche il disegno generale sono tema di discussione e di suggerimenti all’autore, si conoscono le modifiche in corso d’opera, i ripensamenti, le parti aggiunte e quelle cassate. Si conoscono persino i visitatori, i loro apprezzamenti e le loro critiche, i criteri stessi secondo i quali sono stati ammessi alla visione. Nel febbraio del 635 intorno a 6 fogli dei futuri Discorsi si organizza a Venezia un ‘seminario’ cui prendono parte Paolo Aproino, Andrea Argoli, Fulgenzio Micanzio, che è l’editor dell’opera in corso, e l’ingegnere tolosano Antoine de Ville. 29 Questi non si perita di inaugurare una corrispondenza con Galileo, non nascondendogli le sue riserve e le sue puntuali critiche. 30 Due anni dopo, nel marzo del ’37, è Pierre de Carcavy che, spinto da Elia Diodati, fa pervenire a Galileo una proposizione geometrica di Pierre Fermat concernente la caduta di un grave, stante l’ipotesi del moto terrestre, affinché ne tenga conto prima che sia stampato il suo libro. 3 Nel 635 era il discepolo romano Raffaele Magiotti a pentirsi di non aver chiesto in dono una copia di quella che sarà l’appendice dei Discorsi, 32 mentre nello stesso anno è Pier Battista Borghi a rassicurare Galileo che nel milieu romano l’attesa è crescente. 33 Nel luglio del 635 era la volta di Mersenne, il confidente di Descartes, a rassicurare Peiresc che « Galilée fait imprimer son livre des mouvements et des mécaniques ». 34 L’atteggiamento tenuto da Fulgenzio Micanzio è significativo. Depositario dell’opera in corso di stampa, il Micanzio non è del tutto convinto che sia proprio quella l’opera che ci si aspetta dopo la condanna ; un’opera che si vede crescere di mano in mano e sulla quale non cessa, forse oltre i voleri del medesimo autore, di richiamare l’attenzione di amici e conoscenti. Prima cercherà di convincere il maestro pisano a inserirvi almeno una risposta alle Esercitazioni di Antonio Rocco, 35 poi di fronte alle postille proposte e distese da Galileo, gli propone di estenderle in annotazioni più corpose. « È – scriveva 36 – V.S. costituita in posto, che per necessità deve servire alla sua gloria, che 27. Cfr. ora G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche..., a cura di E. Giusti, Torini, Einaudi, 990. 28. O.G., xv p. 248. 29. O.G., xvi, pp. 24 e 28. 30. Ivi, p. 22-228. 3. O.G., xvii, pp. 38-39. 32. O.G., xvi, p. 93. 33. Ivi, p. 208. 34. Ivi, p. 288. 35. Ivi, p. 53. Cfr. su questi aspetti M. Torrini, La correspondance de Galilée entre chronique et histoire des sciences, « Revue d’histoire des sciences », 999, , pp. 39-54. 36. O.G., xvi, p. 53.

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non può mancare, et all’avanzamento della filosofia ; et in amendue è tanto inanti, che non vi è più potenza che vi si possa opponere ». Infine, viste le resistenze di Galileo a inserire le postille al Rocco nei suoi Discorsi, auspica che almeno questi abbiano presto dei « fratelli », verso i quali dichiara di aver tanta « gola » quanto per l’opera in corso di stampa e se ne offre come editore. 37 L’espediente della pubblicazione avvenuta all’insaputa dell’autore – che solo disgraziate circostanze fattuali tradussero da finzione in parziale e amara realtà – pur così palesemente incredibile, visto che tutta l’Italia e mezza Europa venivano investite del problema della loro stampa, testimonia la tragica e grottesca necessità di salvare ad ogni costo le apparenze, fornendo uno degli affreschi più crudi della vita italiana negli anni della controriforma. E apparenze pure ben reali, se un antico e affezionato allievo patavino, Paolo Aproino, appresa l’intenzione di Galileo di pubblicare la nuova opera, non mancò di rimanere « in suspeso », tanto gli pareva cosa « da pensarvi », fino a suggerire, « per circospettione di qualche stravaganza che potesse avvenire », di lasciare l’opera manoscritta, depositata in pubbliche e libere biblioteche, Francia, Germania, Olanda, non in Italia, ovviamente, « con qualche lettera annessa che testificasse il tempo », 38 lasciando a ciascuno l’agio di consultarla e di copiarla. L’Aproino provava evidentemente una qualche ripugnanza a spiegare sino in fondo le ragioni della sua singolare escogitazione, e non volendo ferire ulteriormente l’antico maestro, l’attribuiva alla constatazione che « le persone che attendono a questi studi sono pochi di numero, et in qualità che non hanno da far conto sopra un poco di fatica o di spesa maggiore che va nei manuscritti ». 39 Non solo, insisteva, ma « con questa scarsezza, che è solo di apparenza, la dottrina si venirebbe a ricevere con maggior avidità e reputatione [...] ». Apparenze reali, ma anche durature, se la Vita di Galileo del prudente Viviani finirà per confermare la finzione nel raccontare che Galileo « risoluto di mai più esporre alle stampe alcune delle sue fatiche, per non provocarsi di nuovo quelli emuli che per sua mala sorte in tutte l’altre opere sue egli aveva sperimentati [...], voleva communicar manuscritte quelle che gli restavano a vari personaggi a lui ben affetti e intelligenti nelle materie in esse trattate ». 40 Molto ancora vi sarebbe da dire dei Discorsi. Della loro fortuna – Pascal si ostinerà a chiamarli Dialoghi –, delle traduzioni, a cominciare da quella francese dell’amico di Cartesio, Marin Mersenne, che ad appena due mesi dall’edizione di Leida ne dava alle stampe un compendio con il titolo Les nouvelles pensées de Galilée. 4 Una traduzione infedele non solo dal punto di vista letterario, ma per la larga incomprensione da parte del minimo francese del significato dell’opera di Galileo. Una traduzione che il vecchio scienziato non vide e di cui non seppe e che ancora nel 656 il fedele allievo, Vincenzo Viviani, seguitava a ricercare dai librai europei. Ma è giusto concludere. Quando accettai la proposta, o per meglio dire, la sfida dell’amico Santoro di venire a parlare di paratesto e rivoluzione scientifica avevo in 37. Ivi, p. 6. 38. Ivi, p. 232 39. Ibidem. 40. O.G., xix, p. 62. 4. Les nouvelles pensées de Galilée, édition critique avec introductions et notes par P. Costabel et M.-P. Lerner, avant-propos de B. Rochot, Paris, Vrin, 973. Sulla traduzione di Mersenne v. anche W. R. Shea, Marin Mersenne : Galileo’s “traduttore-traditore”, « Annali dell’Istitituto e Museo dei Storia della Scienza di Firenze », 977, , pp. 55-70.

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mente di tentare, perigliosamente, una strada un po’ appartata, meno diretta e meno diritta, di quella che ci narra dei frontespizi, delle dediche, delle illustrazioni. Forse, in quel proposito, c’era un po’ di fastidio nel vedersi a ogni occasione, e non sempre a proposito, proiettate immagini di frontespizi, assistere alle acrobazie con cui l’illustratore di turno si esibiva intorno ai riposti e agli ovvi significati di quelle raffigurazioni, enfatizzandone il messaggio, quasi che il libro e il suo contenuto non fossero che un pretesto per il paratesto. Forse c’era anche un po’ di sconcerto nel vedere mettere sullo stesso piano scienziati come Redi e come Borelli e uno pseudo-naturalista come Buonanni o addirittura un Kircher, in virtù della medesima committenza o patronage che dir si voglia, quasi che le dediche a personalità di rilievo di testi come il Sidereus e l’Ars magna lucis et umbrae consentissero con ciò stesso la possibilità di paragonarli. E spesso, anzi, dichiarare quelli gesuitici direttamente superiori per lo splendore, la complessità e complicazione delle loro raffigurazioni, come se procedere all’anatomia di una vipera o allo studio della meccanica del moto degli animali fosse la stessa cosa che assicurare la nascita dei ranocchi dal fango. Mi sembrava che dovesse esserci qualcosa di più anche rispetto alle forme letterarie attraverso cui la nuova scienza intese trasmettere le proprie proposte e che pure furono così altamente innovative : dialoghi, saggi, discorsi, lettere. Queste furono le forme nuove con cui dal Cesi al Foscarini, da Galileo a Cartesio, dai piccoli ai grandi, s’intese sottolineare la novità del contenuto. E furono scelte che impressero un’epoca intera, basti pensare che le più importanti e più significative riflessioni sugli esiti di quella rivoluzione dal punto di vista religioso furono ancora espresse sotto forma di lettera : le Provinciali di Pascal e le Familiari, quelle cioè sull’ateismo, di Magalotti. Mi pareva, allora, che ciascuno dei protagonisti e dei comprimari di quella rivoluzione avesse cercato di creare, ognuno a suo modo, una forma particolare, eppur affine, con la quale esprimere la novità del loro pensiero e dei loro ritrovati, ben oltre la forma letteraria, la lingua, il frontespizio, le dediche, l’iconografia, che attenesse alla composizione stessa del testo, al suo assemblaggio, alla manifattura, per così dire, del testo, che, insomma, i libri della rivoluzione scientifica avessero e volessero avere una connotazione che servisse a distinguerli come tali. E questo mi ero proposto con gli esempi appena citati, probabilmente senza riuscirvi. Abstract Vi è nei testi che hanno contraddistinto la rivoluzione scientifica, al di là, ovviamente, dei contenuti, qualcosa che li unisce dal punto di vista della forma editoriale ? A questa e ad altre domande cerca di rispondere l’intervento qui presentato, esaminando due testi capitali di quella rivoluzione, gli Essais di Descartes e il Sidereus nuncius di Galileo. In the texts that distinguished the scientific revolution (aside from their content, obviously) is there anything that unites them from the point of view of editorial form? The article attempts to respond to this and other questions, by examining two important texts of that revolution, the Essais by Descartes and the Sidereus nuncius by Galileo.

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Giuseppe Olmi LE RAFFIGURAZIONI DELLA NATURA NELL’ETÀ MODERNA : « SPIRITO E VITA » DEI LIBRI « A dir vero si dee in tutto questo concedere a’ Pittori la stessa libertà, che si concede a’ Poeti. Ma dove si tratta di rappresentar la natura, ogni licenza è un errore ; altrimenti si rende deforme la verità, facendo nascere delle idee, che non le sono simili ». Thomas Browne, Pseudodoxia Epidemica, 646, traduz. it., Venezia 743, vol. ii, p. 75.

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ella conclusione del libro Seuils Gérard Genette, pur ribadendo l’enorme « capacità paratestuale » delle illustrazioni, dichiarava di non aver potuto farle oggetto di una specifica e approfondita trattazione a causa della mancanza da parte sua di « informazione storica » e di « competenza tecnica e iconologica ».  Quello che lo studioso francese non è stato in grado di fare allora non può ovviamente essere realizzato da me ora e per di più nello spazio di una breve relazione. L’unico tentativo che i miei studi mi consentono di effettuare consiste nell’isolare un genere particolare di illustrazione, quella naturalistica, e nel cercare di coglierne alcune delle più importanti caratteristiche manifestate nel corso dell’età moderna. 2 È stato ancora Genette a richiamare l’attenzione sul fatto che in pratica « non è mai esistito un testo senza paratesto », 3 evidenziando quindi come la presenza di elementi paratestuali non sia riscontrabile solo a partire dalla comparsa del libro a stampa. Della piena legittimità di tale asserzione esistono ampie prove anche nel campo dell’illustrazione scientifica. Basterà qui ricordare il ben noto Codex Vindobonensis della . Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 989, p. 400. 2. Fra i tanti lavori dedicati all’argomento si veda : Wilfrid Blunt, The Art of Botanical Illustration, London, Collins, 950 ; S. Peter Dance, The Art of Natural History. Animal Illustrators and their Work, Woodstock, n.y., The Overlook Press, 978 ; Martin J. S. Rudwick, The Emergence of a Visual Language for Geological Science 1760-1840, « History of Science », xiv (976), pp. 49-95 ; Immagine e natura. L’immagine naturalistica nei codici e libri a stampa delle Biblioteche Estense e Universitaria. Secoli XV-XVII, Modena, Panini, 984 ; Science and the Arts in the Renaissance, edited by J. W. Shirley and F. D. Hoeniger, Washington, D. C., Folger Books, 985 ; The Natural Sciences and the Arts. Aspects of Interaction from Renaissance to the 20th Century. An International Symposium, Uppsala, Almqvist & Wiksell International, 985 ; David Topper, Natural Science and Visual Art : Reflections on the Interface, in Beyond History of Science. Essays in Honour of Robert E. Schofield, edited by E. Garber, Bethlehem, Lehigh University Press, 990, pp. 296-30 ; Idem, Towards an Epistemology of Scientific Illustration, in Picturing Knowledge : Historical and Philosophical Essays Concerning the Use of Art as Science, edited by B. Baigrie, Toronto, University of Toronto Press, 996, pp. 25-249; Lucia Tongiorgi Tomasi, An Oak Spring Flora. Flower illustration from the fifteenth Century to the present time, Upperville, Virginia, Oak Spring Garden Library, 997 ; Ead., Aspetti e problemi del libro illustrato di soggetto naturalistico nell’Europa del Settecento, in Gli spazi del libro nell’Europa del XVIII secolo, Atti del Convegno di Ravenna (5-6 dicembre 995), a cura di M. G. Tavoni e F. Waquet, Bologna, Pàtron, 997, pp. 295-30 ; Natura – cultura. L’interpretazione del mondo fisico nei testi e nelle immagini, Atti del Convegno Internazionale di Studi, a cura di G. Olmi, L. Tongiorgi Tomasi, A. Zanca, Firenze, Olschki, 2000. 3. G. Genette, Soglie…, cit., p. 5.

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Biblioteca nazionale di Vienna, una copia del De materia medica di Dioscoride, eseguita all’inizio del vi secolo probabilmente a Costantinopoli, corredata da centinaia di raffigurazioni per lo più di piante. È tuttavia innegabile che l’invenzione della stampa abbia segnato una svolta decisiva nel processo di affermazione dell’illustrazione naturalistica e forse consistente addirittura in qualcosa di più dell’ottenimento, da parte di questo come di numerosi altri elementi paratestuali, di uno « statuto ufficiale, dopo secoli di “vita nascosta” ». 4 Sotto molti aspetti, infatti, quella che si aprì con il Rinascimento fu per la raffigurazione della natura, nonostante alcuni agganci da essa inizialmente mantenuti con il passato, una fase radicalmente nuova, dovuta sostanzialmente alla possibilità offerta dalla stampa di trasmettere identiche informazioni a più studiosi, di fare delle illustrazioni degli « exactly repeatable visual or pictorial statements ». 5 Nel 980 Anthony Grafton in un brillante e puntuale saggio-recensione sostenne che il pur fondamentale e stimolante studio di Elizabeth Eisenstein uscito l’anno prima (The Printing Press as an Agent of Change) era caratterizzato da una forte sovrastima degli effetti rivoluzionari provocati dall’invenzione della stampa. 6 Pur condividendo complessivamente tale critica, devo anche onestamente riconoscere che se c’è una parte del libro in cui non mi pare che la studiosa statunitense abbia ‘forzato la mano’, essa è appunto quella dove si tratta del ruolo della stampa e delle figure stampate se non nello sviluppo della scienza in generale, quantomeno in quello delle scienze descrittive. La presenza di corredi iconografici nelle opere di storia naturale non si manifestò massicciamente a partire dal momento stesso in cui iniziarono a circolare i libri a stampa. Al principio funse da freno, particolarmente nella botanica, la concezione risalente all’Antichità che le figure non solo non avessero la stessa capacità descrittiva della parola, ma finissero per fornire inevitabilmente un’immagine distorta della realtà. Nel libro xxv della sua Naturalis Historia Plinio, dopo aver accennato ad alcuni autori latini che si erano dedicati all’individuazione delle proprietà terapeutiche delle erbe, così proseguiva : Oltre a questi, si sono occupati della materia alcuni autori greci, di cui abbiamo parlato nei punti che li riguardavano ; tra essi Crateva, Dionisio, Metrodoro, che hanno adottato un tipo di trattazione molto suggestivo, ma dal quale quasi nient’altro si può ricavare se non l’idea della difficoltà dell’argomento. Hanno infatti disegnato le figure delle piante e, sotto, ne hanno indicato le proprietà. Ma la riproduzione è già di per sé poco fedele a causa della grande varietà dei colori, soprattutto quando si vuole gareggiare con la natura ; inoltre produce molte alterazioni la negligenza dei ricopiatori. E poi è insufficiente disegnare le piante come sono in un solo periodo dell’anno, dal momento che il loro aspetto si modifica nel corso delle quattro stagioni. 7 4. Ivi, p. 5. 5. William M. Ivins, Prints and Visual Communication, Cambridge, Massachusetts, and London, The Mit Press, 9928. 6. Anthony T. Grafton, The Importance of Being Printed, « Journal of Interdisciplinary History », xi (980), pp. 265-286. 7. Plinio, Naturalis historia, xxv, 4 : « Praeter hos Graeci auctores prodidere, quos suis locis diximus, ex his Crateuas, Dionysius, Metrodorus ratione blandissima, sed qua nihil paene aliud quam difficultas rei intellegatur. Pinxere namque effigies herbarum atque ita subscripsere effectus. Verum et pictura fallax est coloribus tam numerosis, praesertim in aemulationem naturae, multumque degenerat transcribentium socordia. Praeterea parum est singulas earum aetates pingi, cum quadripertitis varietatibus anni faciem mutent » ; per la traduzione it. Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, Torino, Einaudi, 982-988, vol. III/2, p. 625.

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In questo passo, sul quale a suo tempo già aveva richiamato l’attenzione Ivins, l’autore latino individuava le due ragioni che per lui rendevano del tutto inutili, o scarsamente utili, le raffigurazioni di essenze vegetali. Innanzi tutto egli evidenziava dei precisi limiti umani, vale a dire l’impossibilità di rappresentare esattamente la realtà naturale e in particolare i colori, nonché di riprodurre inalterata la stessa immagine di una pianta. In secondo luogo egli giustamente ricordava che mentre era proprio di ogni pianta mutare d’aspetto durante il processo di crescita, il disegno non poteva che ‘fissarla’ – e dunque renderla riconoscibile allo studioso – solo in un dato momento. Fu sostanzialmente basandosi su questi stessi rilievi che i medici Sebastianus Montuus (Sebastien de Monteux) e Janus Cornarius entrarono in dura polemica con il collega Lehonart Fuchs rispettivamente prima e dopo la pubblicazione da parte di quest’ultimo dell’opera De historia stirpium (542), corredata da più di cinquecento xilografie di piante. 9 Tuttavia nonostante il manifestarsi di queste posizioni negative (alle quali oggi si tende forse ad attribuire da parte di alcuni storici eccessiva rilevanza) fu la scelta di Fuchs quella che divenne rapidamente vincente ; una scelta dettata appunto dalla convinzione dell’assoluta superiorità della raffigurazione quale strumento descrittivo : « Quis quaeso sanae mentis picturam contemneret, quam constat res multo clarius exprimere, quam verbis ullis, etiam eloquentissimorum, deliniari queant ». 0 Il comportamento di colui che probabilmente fu il più famoso botanico italiano dell’età moderna, Pietro Andrea Mattioli, rivela limpidamente quale fosse la via che quasi tutti gli studiosi della natura decisero di seguire nel giro di pochi anni. Dopo essersi dimostrato decisamente contrario all’inserimento di figure nelle prime edizioni del suo Dioscoride, « per non dimostrare elle di tutte [le piante] se non l’effigie d’un tempo solo, e ancho perché le cose artificiose, e dipinte non dimostrano mai così perfettamente i lineamenti delle cose, come fanno le vive, naturali, e vere »,  egli finì poi (anche per scongiurare i danni economici provocati da un’edizione pirata illustrata uscita a Mantova nel 549) non solo per utilizzarle avvalendosi dell’eccellente opera di Giorgio Liberale da Udine, ma per passare da xilografie di piccolo formato alle grandi e superbe tavole comparse la prima volta nella traduzione in boemo (562). 2 Soprattutto dalla fine del secolo xvi, insomma, l’opinione che un libro di storia naturale senza figure fosse, come scriveva il botanico inglese John Ray, l’equivalente di « un libro di geografia senza mappe », 3 fu largamente condivisa dagli studiosi. 4 8. W. M. Ivins, Prints and Visual Communication…, cit., pp. 3-5. 9. Cfr. Sachiko Kusukawa, Leonhart Fuchs on the Importance of Pictures, « Journal of the History of Ideas », lviii (997), pp. 48-426 ; Idem, Illustrating nature, in Books and the Sciences in History, Edited by M. Frasca-Spada and N. Jardine, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 05-07. 0. Leonhart Fuchs, De historia stirpium commentarii insignes, Basileae, in officina Isingriniana, 542, p. n. n. . Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi […] ne i Sei Libri della Materia Medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, Venezia, Vincenzo Valgrisi, 557, p. 4. Dunque era esplicito in Mattioli anche il timore che l’uso delle immagini distogliesse medici e speziali dall’osservazione diretta delle essenze vegetali 2. Sulle vicende editoriali dell’opera si veda Tiziana Pesenti, Il « Dioscoride » di Pier Andrea Mattioli e l’editoria botanica, in Trattati di prospettiva, architettura militare, idraulica e altre discipline, Vicenza, Neri Pozza, 985, pp. 6-03. 3. The Correspondence of John Ray, Edited by E. Lankester, London, Printed for the Ray Society, 848, p. 55. 4. La definizione « spirito e vita » dei libri di storia naturale, sempre riferita alle illustrazioni e che compare nel titolo del presente saggio, si deve a Lazzaro Spallanzani.

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Il riconoscimento pressoché unanime dell’utilità delle figure in campo scientifico non significò l’avvento di una metodica di raffigurazione, che, fondandosi sul rispetto di determinate e precise regole, fosse automaticamente in grado di garantire sempre e dovunque i medesimi risultati ; ché anzi lungo tutta l’età moderna il processo di realizzazione di immagini di animali, piante e minerali fu scandito da problemi, difficoltà e contrasti con i quali dovettero misurarsi naturalisti, artisti ed editori e che, dunque, finirono per segnare in vario modo quello che possiamo definire il prodotto finale, cioè il libro. L’opera di Fuchs ricordata in precedenza e quella di Otto Brunfels Herbarum viFig. . O. Brunfels, Herbarum vivae eicones. vae eicones uscita dodici anni prima vengono comunemente considerate dagli storici, soprattutto proprio grazie alla qualità del loro corredo iconografico, i primi trattati di botanica moderni, i primi esempi di un modo nuovo di descrivere la realtà, grazie ai quali prese slancio l’intera editoria naturalistica. Nonostante ciò i due testi presentavano differenti modalità di raffigurazione delle piante e sebbene si possa affermare che sia stata poi la seconda, quella di Fuchs, a prevalere nello sviluppo dell’illustrazione naturalistica lungo l’età moderna, non si può neppure negare che la prima sia frequentemente riemersa, continuando quindi a rappresentare una possibile alternativa. Hans Weiditz, esecutore delle illustrazioni del testo di Brunfels (della maggior parte dei disegni e, probabilmente, dell’intaglio dei legni), ritrasse con grande accuratezza e fedeltà le piante, quelle piante che gli venivano portate davanti agli occhi, allo stadio di crescita in cui si trovavano, senza quindi trascurare le caratteristiche accidentali che esse presentavano (fiori appassiti, foglie avvizzite o danneggiate dagli insetti, ecc.) (Figg. -2) ; gli artisti al servizio di Fuchs e da lui senza dubbio maggiormente controllati, cercarono invece di cogliere le caratteristiche tipiche delle singole specie, cercarono in poche parole di fornire immagini idealizzate, anche conferendo ad uno stesso esemplare peculiarità di fatto non riscontrabili contemporaneamente in natura (per esempio presenza sia di fiori che di frutti) (Fig. 3). 5 Mentre il primo aveva mirato al raggiungimento della ve5. Cfr., fra i tanti, Agnes Arber, Herbals. Their origin and evolution. A chapter in the history of botany

la raffigurazione della natura nell’età moderna rità, gli altri avevano puntato sull’utilità, a favorire cioè l’esatta identificazione delle essenze vegetali da parte di medici, speziali ed erbolai. 6 Non avendogli probabilmente dato precise indicazioni, Brunfels fu senza dubbio fortunato per il fatto che Weiditz, pur non scegliendo il metodo di raffigurazione più funzionale alla ricerca, decidesse, forse su consiglio dell’editore, di mantenersi quanto mai fedele alla realtà. In genere infatti la maggioranza degli scienziati che disposero di far illustrare le loro opere dovette contrastare un’opposta tendenza degli artisti, quella, cioè, a discostarsi dal modello, ad inventare, a rendere le immagini di « cose di natura » esteticamente piacevoli. Non meraviglia quindi che i naturalisti abbiano, sin dagli inizi dell’età moderna, fissato alcune regole e stabilito i limiti entro i quali doveva rimanere confinata l’opera di pittori, disegnatori e incisori. Già Fuchs nella prefazione del De historia stirpium scriveva :

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Fig. 2. O. Brunfels, Herbarum vivae eicones.

Per quanto concerne le illustrazioni […] abbiamo volutamente evitato che la forma naturale delle piante venisse obliterata da ombre e altre cose non indispensabili per mezzo delle quali i pittori cercano qualche volta di procurarsi la gloria artistica : così non abbiamo consentito agli artisti di seguire le proprie fantasie in modo tale che il disegno non corrispondesse accuratamente al vero. 7 1470-1670, Cambridge, Cambridge University Press, 9382, pp. 206-29 ; Wilfrid Blunt – Sandra Raphael, The Illustrated Herbal, London, Frances Lincoln, 979, pp. 20-28 ; David Landau, Peter Parshall, The Renaissance Print 1470-1550, New Haven and London, Yale University Press, 994, pp. 247-255. 6. Sulle differenti caratteristiche del corredo iconografico delle opere di Brunfels e Fuchs si veda da ultimo Luca Zucchi, Brunfels e Fuchs : l’illustrazione botanica quale ritratto della singola pianta o immagine della specie, « Nuncius. Annali di storia della scienza », xviii (2003), pp. 4-465. 7. « De industria vero et data opera cavimus ne umbris, aliisque minus necessariis, quibus interdum artis gloriam affectant pictores, nativa herbarum forma obliteraretur : neque passi sumus ut sic libidi-

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giuseppe olmi Alla fine del secolo Ulisse Aldrovandi, a proposito delle figure della sua Ornithologia, definiva inutile e anzi disprezzabile l’eventuale piacere proveniente dalla loro vista, sostenendo che esse avevano unicamente la funzione di condurre ad una migliore conoscenza degli uccelli. Se si fossero solo fatte ammirare dal lettore da un punto di vista estetico (ovvero se gli artisti si fossero presi delle libertà rispetto alle istruzioni dello scienziato) esse avrebbero fallito in pieno il loro compito : È fuori luogo e non giustificabile l’esaminare più volentieri le immagini per ammirare l’ingegno e l’abilità di coloro che le eseguirono, vale a dire del pittore e dell’intagliatore. 8

Fig. 3. L. Fuchs, De historia stirpium.

Aldrovandi sottolineò ripetutamente il fondamentale ruolo di guida da lui avuto nei confronti degli artisti alle sue dipendenze, perché per una raffigurazione così particolare come quella delle « cose di natura » di ben scarsa utilità si rivelava ogni

tradizionale abilità artistica da essi posseduta. Il medesimo concetto sarebbe stato ripetuto circa un secolo dopo, a proposito dell’illustrazione anatomica, dal medico Antonio Maria Valsalva nel suo De Aure Humana Tractatus. Egli riteneva errato credere che per « realizzare bene figure anatomiche » servisse solo essere « un pittore eccellente » e di contro, affinché « la pittura fosse al servizio dell’anatomia, non viceversa », reputava compito dell’anatomista insegnare con « fatica » e « diligenza » all’artista « fino a che punto debba allontanarsi qui e là dai precetti della sua arte, in modo tale che questo allontanamento non danneggi in alcun ni suae indulgerent artifices, ut minus subinde veritati pictura responderet » : L. Fuchs, De historia stirpium…, cit., p. 7v. 8. « Absurdum enim est, ac nulla ratione comprobandum rerum naturalium imagines ideo speculari libentius, ut ingenium eorum, qui eas fecerunt, pictoris scilicet, & sculptoris admiremur, & solertiam » : Ulisse Aldrovandi, Ornithologiae, hoc est de avibus historiae libri XII, Bononiae, apud Franciscum de Franciscis Senensem, 599, p. n. n. : « Picturae utilitas ».

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modo la verità, ma piuttosto le giovi ». Per il medico bolognese infatti anche il rigido rispetto delle leggi della prospettiva e delle regole relative all’ombreggiatura poteva rivelarsi di ostacolo alla realizzazione di corrette figure delle parti del corpo umano : Quod tamen non ita dico, quasi ego credam, nihil nos in his Tabulis conficiendis erravisse. Si enim vel Magni Nominis Pictores saepe in illis delineandis lapsi sunt, quae quotidie sub oculis, imo sub penicillo habebant, & rebus quidem magnitudinis justae, utputa cum alii distortum pedem, alii asimetrum brachium pinxere ; cur Pictores meos singulari hoc munere donatos existimem ; ut tot res nunquam antea ab ipsis visas, nedum delineatas ; & tantae exiguitatis, quantae istae sunt, omnes absque ullo mendo delineare valuerint ; maxime cum saepe saepius extra Artis suae praecepta easdem delineare, me jubente, coacti sint. Nam istud quoque scire juvabit ; quod nempe ego, cum multorum Figuris nimiam Artis Pictoriae curam nocuisse, cognoverim (incredibile enim est, quantum Perspectivae leges religiosius servatae, quantum sola umbrarum certis in locis augendarum praecepta, rerum speciem, & lineamenta illorum praecipue oculis, qui Artem non calleant, immutare multis in casibus possint) illud in Figurarum mearum delineatione praecipuum habui, ut Pictoria Anatomiae ; non vero Anatomia Pictoriae inserviret ; opportune scilicet a strictioribus Pictorum regulis tantum deflectendo, quantum ad perspicuum Figurarum mearum intellectum sufficere, credidi : Adeo falsum est, quod Aliqui opinantur, nihil aliud ad Anatomicas Figuras recte conficiendas, quam excellentem Pictorem requiri, ignorantes, quantum laboris, quantumque diligentiae ab Anatomico expostuletur in praescribendo Pictori, quatenus ab Artis suae praeceptis hic illic recedere debeat ; sic tamen, ut hic recessus nullo modo Veritati officiat ; sed potius conferat. Nec minoris studij, & patientiae est illum & omnium, & singularum Partium reperire prospectum, secundum quem potius a Pictore delineentur ; talem nempe, ut quae debent omnia, per unam, vel ad summum duas Figuras in conspectum veniant. 9

Generalmente e come ovvio gli scienziati preferivano esercitare la loro funzione di guida e di controllo sugli artisti già nella prima fase di riproduzione della realtà, quella del disegno, ma si conoscono pure numerosi casi di azioni successive. Per esempio Ulisse Aldrovandi e Hendrik Adriaan van Reede tot Drakenstein intervennero al momento di realizzare le incisioni per eliminare alcuni di quei particolari (figure umane, paesaggi, motivi ornamentali) coi quali solitamente i pittori tendevano a trasformare una tavola scientifica in quadro. Non sono stati molti gli scienziati che hanno lodato gli artefici dell’iconografia delle loro opere o che li hanno anche semplicemente citati. È assai probabile che a dettare un tale comportamento sia stata sovente l’esplicito proposito di scongiurare il più possibile l’eventualità che i lettori, almeno quelli più comuni, finissero per attribuire tutti i meriti del libro o la gran parte di essi all’autore della parte dalla quale venivano più immediatamente colpiti, quella per l’appunto visiva. Sotto questo aspetto piuttosto particolare fu l’atteggiamento tenuto da Robert Hooke. Nella Micrographia egli ignora quasi del tutto l’opera dei suoi incisori, equiparandoli di fatto a passivi copisti dei disegni da lui fatti per registrare le osservazioni microscopiche ; li tira in ballo solo allorché deve segnalare al lettore gli errori da essi commessi in alcune tavole, in tal modo garantendo però implicitamente la perfezione e la credibilità delle restanti parti dell’apparato iconografico. Ricorrendo ad un artificio retorico, lo studioso inglese rassicurava dunque i lettori, per lo più impossibilitati a compiere verifiche, che 9. Antonio Maria Valsalva, De Aure Humana Tractatus, Bononiae, Typis Constantini Pisarii, 704, pp. 45-46.

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quanto da lui visto attraverso lo strumento ottico era stato fedelmente raffigurato nel libro. 20 Le non poche difficoltà incontrate dai naturalisti per avere ritratti scientificamente validi di animali, piante e minerali provenivano anche, lungo gran parte dell’età moderna, dalla mancanza pressoché totale di artisti specializzati nel genere. Inoltre vi erano resistenze piuttosto notevoli da parte di pittori, disegnatori e incisori a dedicarsi con continuità all’illustrazione scientifica a causa delle remunerazioni generalmente piuttosto basse che si ottenevano da una tale attività. Pertanto gli studiosi della natura furono spesso costretti a ricorrere all’opera di dilettanti o di persone che facevano di quella artistica una seconda attività o un’attività a tempo perso. Per esempio il « giovane Tudisco » Georg Dyckman, utilizzato a Creta da Giuseppe Casabona giardiniere dei Medici (e che pur essendo « assai valenthuomo » lavorava « molto mal voluntiere ») era un soldato, 2 così come lo sarebbero stati, verso la metà del Seicento, Zacharias Wagener e Caspar Schmalkalden, illustratori dell’habitat tropicale brasiliano22 ; Giovanni de Neri, pittore al servizio di Aldrovandi, che già sovente faceva disperare il suo committente perché si assentava per decorare ad affresco camere da letto, traeva probabilmente la maggior parte dei suoi guadagni dall’attività di astrologo e dalla stesura di pronostici e presagi ; 23 e certamente una pittrice dilettante era la signora Artemisia Todini Novelli che lavorava a Livorno per lo speziale Giacinto Cestoni, alla cui opera quest’ultimo dovette momentaneamente rinunciare nel settembre del 74 trovandosi ella in « letto di parto » dopo la nascita di « un figlio ». 24 Le deviazioni dal modello originale dovute agli artisti furono un problema particolarmente rilevante nella prima età moderna, allorché per la riproduzione a stampa delle figure di « cose naturali » si utilizzavano per lo più matrici di legno. Erano infatti necessari tre successivi passaggi (il dipinto su carta, il trasferimento dello stesso con il disegno sulla tavoletta e infine l’intaglio) con l’intervento di altrettante diverse figure di artista e ciò significava inevitabilmente aumentare, cioè appunto triplicare, il pericolo di introduzione di errori. 25 Se poi, come spesso accadeva, era l’editore che si assumeva l’onere dell’intero processo di riproduzione, o almeno di una parte di esso, avendo, come nel caso dei Plantin-Moretus di Anversa, artisti alle proprie dipen20. Cfr. John T. Harwood, Rethoric and Graphics in ‘Micrographia’, in Robert Hooke : New Studies, Edited by M. Hunter and S. Schaffer, Woodbridge, Boydell, 989, p. 44-45 ; Michael Aaron Dennis, Graphic Understanding : Instruments and Interpretation in Robert Hooke’s ‘Micrographia’, « Science in context », iii (989), pp. 34-35. 2. Cfr. Giuseppe Olmi, “Molti amici in varij luoghi” : studio della natura e rapporti epistolari nel secolo XVI, « Nuncius. Annali di storia della scienza », vi (99), p. 25. 22. Cfr. Peter Mason, Il contributo dei ‘Libri Picturati’ A. 32-28 alla comprensione dell’iconografia del Brasile olandese nei dipinti di Albert Eckhout e di Frans Post, in La natura e il corpo. Studi in memoria di Attilio Zanca, a cura di Giuseppe Olmi e Giuseppe Papagno, in corso di stampa. 23. Cfr. Elide Casali, Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2003, p. 9. 24. Giacinto Cestoni, Epistolario ad Antonio Vallisneri, con introduzione ed a cura di S. Baglioni, Roma, Reale Accademia d’Italia, 940, parte ii, p. 73 e passim. 25. Con questi stessi problemi si troverà alle prese – se ci è permesso di ‘uscire’ dal campo della storia naturale (ma non troppo visti i soggetti delle sue raffigurazioni) – Grandville, che così scriveva : « Quante volte ho mandato all’inferno il mio disegnatore ! Spesso ho passato intere giornate a raddrizzare i suoi errori, ad alleggerire la sua pesantezza […] Cancellando di qui, aggiungendo di là […] Finita la messa su legno dovevo subire la più terribile delle torture : passare sotto i ferri impietosi dell’incisore ! » ; cit. in Antonello Negri, Grandville, prefazione alla ristampa anast. di Grandville, Un Autre Monde, Milano, Mazzotta, 982, p. viii (il passo originariamente in Charles Blanc, Les artistes de mon temps, Paris 876).

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denze, il risultato era che l’autore di un’opera di storia naturale vedeva annullate o drasticamente ridotte le possibilità di controllo sul corredo iconografico. Dei rischi connessi ad una tale situazione era lucidamente consapevole l’Aldrovandi, tanto che per ridurli non solo volle che pittori, disegnatori e incisori da lui assoldati lavorassero il più possibile a Bologna, sotto i suoi occhi, ma pretese pure che lo stampatore Francesco de’ Franceschi trasferisse i torchi da Venezia nella città emiliana, « perché non intendo di mandare fuori le mie figure, oltre che ci vuole la mia presenza per molte cause ». 26 Certamente non furono molti i naturalisti che poterono adottare un simile comportamento. Più frequentemente essi dovettero, anche per motivi economici, piegarsi alla volontà degli editori, i quali non esitarono in vari casi a servirsi di matrici già utilizzate in precedenti opere di altri autori, con il rischio di provocare evidenti discrepanze fra immagine e testo descrittivo. È noto che Plantin, attingendo alla sua ricca raccolta di disegni e legni, ricorse sovente alle stesse raffigurazioni per illustrare le opere di tre diversi botanici : Dodoens, Clusius e Lobel. Gran parte delle figure presenti in tali opere andarono poi a costituire il corredo iconografico (273 xilografie) di un imponente atlante botanico oblungo in due parti, Plantarum seu stirpium icones, pubblicato nel 58. Un impiego di questo tipo era comunque pienamente legittimo, ma in tutta Europa era ben viva anche la prassi del ‘furto’ di immagini. Se Aldrovandi, come abbiamo visto, non aveva alcuna intenzione di inviare le sue raffigurazioni a un editore risiedente fuori da Bologna, non era solo per poter esercitare il suo controllo anche sul processo di stampa. Poiché il successo di un trattato di storia naturale dipendeva grandemente dall’originalità del suo apparato iconografico, egli temeva anche che parti di quest’ultimo potessero venir copiate da suoi colleghi poco scrupolosi. D’altra parte sotto questo aspetto lo studioso bolognese aveva già avuto nel passato una spiacevole esperienza. Per aumentare i guadagni, infatti, il suo pittore Neri aveva venduto « multas icones » eseguite per lui a vari nobili e studiosi, tra i quali ultimi andava annoverato pure il « chiuroico & herbaro » Leone Tartaglini da Foiano. Ma la pirateria di immagini veniva esercitata anche prescindendo da comportamenti da ‘traditore’ o doppiogiochista come questo del Neri. Già a partire dal ‘saccheggio’ compiuto ai danni dell’erbario di Brunfels divenne abituale adornare un’opera di storia naturale con figure esattamente copiate da un’altra già sul mercato. 27 A questo sostenuto movimento di migrazione partecipavano del tutto legittimamente anche immagini non provenienti da testi scientifici (così come quelle naturalistiche passavano a libri di emblemi, fiabe, ecc.). 28 Il risultato fu che per buona parte dell’età moderna e indipendentemente dai progressi della conoscenza scientifica, si assistette anche alla replica di immagini imprecise di piante e di quelle di animali improbabili o decisamente fantastici (come la iena ritratta in Gesner e ricomparsa per un secolo e mezzo nelle opere di Johnston, Topsell, Arnoldus Montanus e G. Schott, le lepri 26. bub = Biblioteca Universitaria di Bologna, Ms. Aldrovandi 2, vol. iv, c. 7v. Sulla vicenda della stampa delle opere di Aldrovandi cfr. Maria Gioia Tavoni, Stampa e fortuna delle opere di Ulisse Aldrovandi, « Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna », Nuova serie, xlii (99), pp. 207- 223. 27. Cfr. Lucia Tongiorgi Tomasi, Paolo Tongiorgi, Persistenze e « migrazioni » dell’immagine naturalistica, in Immagine e natura…, cit., pp. 73-80 ; William B. Ashworth Jr., The Persistent Beast : Recurring Images in Early Zoological Illustration, in The Natural Sciences and the Arts, cit., pp. 46-66. 28. Cfr. William B. Ashworth Jr., Marcus Gheeraerts and the Aesopic Connection in Seventeenth-Century Scientific Illustration, « Art Journal », xliv (984), pp. 32-38.

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con le corna, l’agnus sciticus o lo strano essere chiamato da Gesner arctopithecus, nel quale si fatica non poco a riconoscere il bradipo). 29 A garantire la persistenza di queste figure furono forse le remore a contestare i frutti della presunta osservazione diretta con la quale i naturalisti rinascimentali avevano da non molto messo in discussione i risultati della scienza antica ; o semplicemente fu il fatto che era per lo più la raffigurazione che continuava a mantenere in vita un mondo popolato da quelle meraviglie, difformità e curiosità in cui bramava ostinatamente credere il largo pubblico dei non addetti ai lavori. Dunque mentre i rappresentanti della cosiddetta nuova scienza via via cancellavano e sostituivano con i loro testi, frutto di « sensate esperienze », le tessere reputate fantastiche, che per millenni avevano costituito parte del mosaico della realtà, le figure, non di rado collocate accanto a tali testi, continuavano a giustificare molte delle più tradizionali credenze. I fenomeni appena ricordati, oltre a dimostrare, come è stato detto, che la « Baroque book illustration was a conservative art », 30 rivelano piuttosto chiaramente che i ritratti « dal vivo » o « dal vero », ai quali quasi ogni naturalista moderno sosteneva orgogliosamente di aver fatto ricorso per illustrare le proprie opere, in realtà erano il risultato di procedimenti figurativi assai diversi fra loro e dalla nostra attuale concezione. Spesso i modelli erano costituiti da piante secche e animali morti, in quest’ultimo caso addirittura da esemplari custoditi nei musei e talmente deteriorati da conservare ben poco delle originali parvenze ; infine, come si è visto, da figure già presenti nei libri. Abbiamo accennato in precedenze al fondamentale ruolo che gli editori giocavano nel processo di raffigurazione della natura. Furono sempre loro ad assumere in primo luogo ogni decisione relativa non solo alla ristampa di un’opera, ma anche al formato e al contenuto delle nuove edizioni. I grandi volumi in-folio illustrati erano infatti molto costosi e quindi alla portata di un numero piuttosto ridotto di persone. Quindi sia per allargare la platea dei possibili acquirenti (per esempio a chi era semplicemente curioso di vedere i multiformi aspetti della natura o agli artisti desiderosi di avere a disposizione modelli di piante e soprattutto di animali), sia per facilitare il lavoro degli scienziati sul campo (in particolare di quelli impegnati nell’erborizzazione) furono stampate edizioni in formato ridotto, spesso costituite solo da figure : del De historia stirpium di Fuchs, per citare uno dei primi casi, già a soli tre anni di distanza dalla prima edizione ne venne fornita una in-octavo, nella quale, ovviamente, le « vivae imagines » apparivano « in exiguam formam contractae ». All’opposto le copie con immagini colorate apprestate direttamente dagli editori spesso su richiesta (ovviamente facendo dipingere all’acquerello le tavole di ogni singolo esemplare) 3 erano per lo più destinate a sovrani, principi, alta nobiltà ed alto clero. Il loro costo era infatti di gran lunga superiore a quello degli esemplari comuni, normalmente il doppio o il triplo ; in un caso senza dubbio limite come quello rappresentato dal superbo Hortus Eystettensis promosso da Basilius Besler 29. Non si trattò di un episodio pirateria, ma merita di essere ricordato che nel secolo xviii il francese Henry Louis Duhamel du Monceau acquistò a Venezia silografie del Mattioli e ne usò 54 per illustrare il suo Traité des Arbres et Arbustes uscito nel 755. Cfr. S. Raphael, Mattioli’s Herbal, in The Mattioli Woodblocks, Amsterdam, Antiquariaat Junk, 989, p. 3. 30. W. B. Ashworth Jr., Marcus Gheeraerts…, cit., p. 32. 3. Naturalmente con un simile procedimento era ben difficile, anzi impossibile, che i colori di una copia (e quindi in definitiva le stesse piante e gli stessi animali) non differissero, più o meno sensibilmente, da quelli delle altre.

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il prezzo passava da 35/50 a ben 500 fiorini (Fig. 4). Copie colorate – per le quali si usava sovente anche un materiale cartaceo più pregiato – continueranno ad essere fornite pure quando, nel Settecento, si diffonderà, come vedremo, l’uso di vendere le opere tramite sottoscrizione, immettendole sul mercato sotto forma di dispense. Nella Proposta di sottoscrizione (Proposals, For Printing an Essay, Towards a Natural History…, 729) della sua Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands (729-747), Mark Catesby, dopo aver specificato che ogni dispensa, costituita da venti tavole con relativo testo descrittivo, sarebbe costata « One Guinea », aggiungeva : « For the Satisfaction of the Curious, some Copies will be printed on the finest Imperial Paper, and the Figures put in their Natural Colours from the Original Paintings, at the Price of Two Guineas ». 33 Nonostante dunque il colore fosse annoverato fra le cosiddette ‘qualità secondarie’ o accidentali non v’era quasi naturalista che non lo ritenesse un elemento di conoscenza e un importante criterio di classificazione 34 e che, pertanto, non ambisse pure ad avere a disposizione nella propria biblioteca opere acquerellate. Ma spese di questo tipo erano in genere difficilmente sostenibili anche da parte di uno studioso, a meno che non si trattasse di un investimento promettente, finalizzato cioè non tanto ad acquisire ulteriori nozioni sulla natura, ma ad aprire nuove prospettive di carriera e a migliorare la propria condizione economica e sociale. Di ciò sembra fosse consapevole nel 585 Felice Valgrisi, erede di Vincenzo, nel momento di dare alle stampe una nuova edizione dei Discorsi del Mattioli con le « figure grandi » e divisa in due tomi per maggiore comodità dei lettori. 35 Dichiarando di aver apprestato un certo numero di copie destinate, per la qualità della carta, ad essere dipinte egli sottolineava anche che esse sarebbero state oggetto quanto mai appropriato di dono ai principi : Et perché siamo interamente disposti dar satisfattione a gli studiosi, acciò ciascuno possa dal vivo delineare & dipingere il presente volume, & acciò ciascuno a guisa di florido prato, o vago 32. Nicolas Barker, Hortus Eystettensis. The Bishop’s Garden and Besler’s Magnificent Book, London, The British Library, 994, p. 35. In una lettera del novembre 542 Fuchs affermava che il costo di una copia dipinta del suo erbario corrispondeva pressoché esattamente al suo reddito mensile : cfr. Klaus Dobat, Leonhart Fuchs (1501-1566). Physician and Pioneer of Modern Botany, in Leonhart Fuchs, The New Herbal of 1543. New Kreüterbuch, Köln, Taschen, 200, p. 2. 33. La Proposta è riprodotta in Henrietta McBurney, Mark Catesby’s Natural History of America. The Watercolors from the Royal Library Windsor Castle, Houston, The Museum of Fine Arts in association with Merrell Holberton, 997, p. 7. Sui « patrons » di Catesby e sui sottoscrittori della sua opera cfr. David R. Brigham, Mark Catesby and the Patronage of Natural History in the First Half of the Eighteenth Century, in Empire’s Nature. Mark Catesby’s New World Vision, Edited by Amy R. W. Meyers & Margaret Beck Pritchard, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 998, pp. 9-46. 34. Cfr. David Freedberg, The failure of colour, in Sight & Insight : Essays on Art and Culture in Honour of E. H. Gombrich at 85, edited by J. Onians, London, Phaidon, 994, pp. 245-262. 35. « Considerando noi (humanissimi Lettori) che molte volte la gravezza de’ libri, & il lor soverchio peso, ha rivocato alcuni dalla lettion di quelli, schivando l’incommodo del portarli hor quinci, hor quindi per l’università de’ Studi, & per altri diversi luoghi : habbiamo deliberato & non senza consiglio, di dividere il presente volume, in due Tomi, acciò il Lettore, di quella parte di tutto ‘l libro, che vedrà esserli più opportuna e necessaria, possa a sua voglia prevalersi. Percioché, se per accidente avviene, che qualche studioso di semplici habbia in animo di rintracciare la vertù d’un’erba, o pianta, o qualche composition d’onguenti, o olij, o facoltà di qualche animale o pesce, et che egli possa circa ciò satisfarsi di quel che si contiene nel primo Tomo […] senza star’a portarsi dietro inutilmente e fuor di proposito la machina grande d’un tanto volume, qual è il presente Dioscoride intero, in figure grandi […] sarebbe giudicata cosa vana il portar seco un tanto carico » : Pietro Andrea Mattioli, De i Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli Sanese Medico Cesareo […] Nelli sei Libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, In Venetia, Appresso Felice Valgrisio, 585, Parte Seconda, p. n. n., « Felice Valgrisi a’ Lettori ».

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giuseppe olmi giardino, commodamente possa vedere quai frondi, quai fiori o frutti producano l’herbe o piante, che quivi sono comprese : habbiamo fatto stampare XXV. di questi volumi in carta reale bellissima & attissima a ricevere, senza far trasparenza, ciascuna sorte di colore : acciò i Medici, & altri studiosi possino adornare i loro studi ; & possino farne anco dono a quei Principi, che si dilettassero d’illustrarne le loro librerie. 36

Dei vantaggi ricavabili da omaggi di questo tipo si trova conferma nel comportamento di molti naturalisti. Un esemplare dei Discorsi riccamente miniato « d’oro et d’argento » inviato dal Mattioli all’imperatore Ferdinando I contribuì certamente alla chiamata del medico senese alla corte absburgica e ad imprimere una Fig. 4. B. Besler, Hortus Eystettensis. svolta quanto mai soddisfacente alla sua carriera ; parimenti l’Aldrovandi si era preoccupato di far stendere il colore sulle silografie delle sue opere zoologiche destinate ad illustri personaggi, tra i quali Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino. Il passo del Valdrighi sopra riportato dimostra che sovente si dava per scontato che fossero gli acquirenti dei libri a provvedere alla coloritura delle immagini. Certamente erano state concepite sin dall’origine per essere sottoposte ad un tale trattamento le figure del Fuchs, mentre v’è da dire che esso rischiava invece di offuscare la riconoscibilità delle piante del Mattioli caratterizzate da una grande ricchezza di fogliame e da un massiccio ricorso da parte degli artisti alla tecnica dell’ombreggiatura. Ma se si concepiva, come frequentemente accadeva, il libro di storia naturale miniato quale oggetto di prestigio, piuttosto che quale strumento di ricerca, i timori relativi a possibili stravolgimenti delle immagini avevano senza dubbio una minore ragion d’essere. Il crescente utilizzo della calcografia a partire dagli inizi del Seicento e la successiva introduzione della litografia determinarono un notevole incremento qualitativo pure nel campo dell’illustrazione naturalistica, dovuto soprattutto alla possibilità di pervenire ad una maggior precisione e ad una più accurata resa dei particolari. Il ricorso a tali tecniche permetteva inoltre di ridurre i tre passaggi tradizionalmente richiesti dal 36. Ibidem.

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procedimento silografico a due e uno rispettivamente, con parallela diminuzione della quantità di errori dovuti agli artisti. Purtroppo le incisioni su rame, per il metodo di stampa e il particolare supporto cartaceo che richiedevano, incontravano maggiori difficoltà a figurare, come le xilografie, all’interno del testo e venivano generalmente intercalate alle pagine (talvolta un po’ casualmente e in maniera poco soddisfacente per gli scienziati) o raggruppate insieme alla fine del libro. Ciò significò, quindi, che l’illustrazione naturalistica finì in parte per perdere « sa place privilégiée au cœur du discours » e che divenne più difficoltoso quel dialogo fra testi e immagini che aveva caratterizzato i trattati del Rinascimento. 37 Ancorché di gran lunga Fig. 5. E. Albin, History of Insects. più efficaci nella resa delle caratteristiche di animali e piante, le nuove tecniche di riproduzione erano però più costose e ciò spingeva gli editori a essere sempre piuttosto cauti e a compiere attente valutazioni prima di avviare la stampa di un’opera di storia naturale. Consapevoli di non poter rinunciare al corredo iconografico, così come della necessità di ridurre tali costi, che inevitabilmente finivano per riflettersi anche sul prezzo del libro al pubblico, gli stessi autori dovettero dunque impegnarsi nell’individuazione di nuovi percorsi editoriali. Lo strumento al quale Ray pensò di ricorrere per realizzare la pubblicazione della sua opera sugli insetti, che fortemente voleva illustrata, era già stato da lui utilizzato anni prima, portando a compimento l’opera iniziata dall’amico Francis Willughby, per la Historia Piscium e su di esso egli si soffermò in alcune lettere agli amici Hans Sloane e James Petiver : I intend […] to draw up such an history, and have already begun and made some progress in it ; which, because it will not be of half the use if published without figures as it would be if illustrated therewith, and because the graving of them is a matter of greater charge than I can sustain, I am constrained to beg the assistance of ingenious gentlemen and wellwillers to 37. Laurent Pinon, Livres de Zoologie de la Renaissance. Une anthologie (1450-1700), Paris, Klincksieck, 995, p. 30.

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giuseppe olmi

this kind of learning in contributing toward the charge of the plates the moderate sum of ten shillings, which shall be well husbanded and faithfully expended on the gravers and supervisors of the work. 38

E a distanza di un giorno egli ribadiva : « I intend […] to publish a proposition for contributions for graving of plates ». 39 Nei passi del botanico inglese sono già prospettate come piuttosto usuali pratiche che poi sarebbero state meglio definite e sarebbero diventate quanto mai abituali nel corso del secolo. Oltre all’uso (seguito da naturalisti come Eleazar Albin, Moses Harris, Pietro Antonio Micheli e Saverio Manetti) 40 di dedicare le singole tavole di un’opera ai personaggi che le avevano specificamente finanziate o a protettori che comunque avevano dato sovvenzioni per la stampa (Fig. 5), si diffuse quello della vendita dei libri tramite sottoscrizione, con la garanzia di onorare e trasmettere ai posteri il nome degli aderenti facendolo comparire in un apposito elenco annesso al volume. Anche la commercializzazione per dispense, fascicoli, ecc., spesso associata alla sottoscrizione, costituì un valido metodo per facilitare la pubblicazione, perché da un lato permetteva agli editori di spalmare i costi sul lungo periodo, sapendo per di più di poter contare su di una base certa di ‘prenotazioni’, e dall’altro favoriva le vendite, consentendo agli acquirenti, che già venivano a godere di uno sconto del 05% sul prezzo dell’opera, una sorta di pagamento rateizzato per unità tipografiche. La sottoscrizione fu una modalità che si sviluppò sin dal xvii secolo in Inghilterra, ma per gli innegabili vantaggi che presentava essa destò rapidamente l’interesse degli studiosi sul continente, 4 scienziati compresi, come testimoniato dalla richiesta di un parere rivolta nel 77 al presidente della Royal Society William Sherard dal naturalista zurighese Johann Jakob Scheuchzer, in cerca di un editore per una progettata Storia delle piante svizzere : Je suis presque a bout de l’Histoire des Plantes de la Suisse : mais j’aurois besoin vos advis et conseils, etant difficule de trouver un Libraire, qui prenne sur luy un ouvrage de pres le 400. Figures en taille douce. Ne croyez vous pas, que je viendray a bout, si je me servirois de la methode Angloise de souscriptions, pour assecurer le Libraire d’un certain debit des Exemplaires ? 42 38. The Correspondence of John Ray…, cit. p. 449 : lettera a Sloane del 9 agosto 704. 39. Ivi, p. 45 : lettera a Petiver ( ?) del 0 agosto 704. Cfr. anche pp. 450, 453-454. 40. L’elenco di coloro che finanziarono le oltre cento tavole del Nova plantarum genera (Firenze 729) del Micheli è stato anastaticamente riprodotto in Valentino Romani, ‘Opere per società’ nel Settecento italiano. Con un saggio di liste dei sottoscrittori (1729-1767), Manziana (Roma), Vecchiarelli, 992. 4. Si veda, soprattutto per quanto riguarda la situazione italiana : Valentino Romani, Associazioni e sottoscrizioni editoriali in Italia : prime ricerche, in Ricerche letterarie e bibliologiche in onore di Renzo Frattarolo, Roma, Bulzoni, 986, pp. 32-347 ; Idem, ‘Opere per società’…, cit. ; Françoise Waquet, Il pubblico del libro erudito : i sottoscrittori del Museum Veronense di Scipione Maffei (1749), « Rivista Storica Italiana », xciii (98), pp. 36-48 ; Eadem, Les souscriptions au Museum Etruscum et la diffusion de l’étruscologie au dix-huitième siècle, « Studies on Voltaire and the Eightennth Century », ccviii (982), pp. 304-33 ; Eadem, I letterati-editori : produzione, finanziamento e commercio del libro erudito in Italia e in Europa (XVII-XVIII secolo), « Quaderni storici », xxiv (989), n. 72, pp. 82-838 ; Ead. Les publications par souscription dans l’Italie du “primo Settecento”, in Produzione e commercio della carta e del libro. Secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 992, pp. 955-965. 42. La lettera è conservata a Londra, Royal Society, Letters, vol. sh, f. 34, ma citiamo da Irmgard Müsch, Geheiligte Naturwissenschaft. Die Kupfer-Bibel des Johann Jakob Scheuchzer, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2000, p. 76.

la raffigurazione della natura nell’età moderna

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Oltre al perfezionamento delle tecniche di riproduzione furono vari altri i motivi che fecero del libro naturalistico nella tarda età moderna qualcosa di molto diverso da ciò che era stato in precedenza. Fra tali motivi vanno almeno ricordati : ) la comparsa sulla scena di artisti altamente e straordinariamente specializzati nella raffigurazione di piante, animali e minerali, dotati, cioè, non solo di un grado di professionalità assolutamente sconosciuto alla stragrande maggioranza dei disegnatori e incisori ingaggiati anteriormente dagli studiosi, ma anche, come nel caso di un Georg Dionisyus Ehret, 43 di profonde capacità di osservazione e competenze scientifiche ; 2) la grande passione per la storia naturale, quasi una vera e propria moda, che, specialmente a partire dalla pubblicazione del Systema Naturae di Linneo, si manifestò un po’ in tutti paesi europei e della quale era ben consapevole Sherard allorché scriveva nel 720 a Richard Richardson : « Natural history of all sorts is much in demand »44 ; 3) la conseguente sostenuta richiesta di testi illustrati proveniente da un pubblico ben più esteso di quello comprendente i soli scienziati, fenomeno questo certo già diffuso sin dal Rinascimento, ma con una marcata differenza sul piano della composizione sociale : laddove nel passato questo pubblico apparteneva principalmente al più ristretto vertice della piramide sociale, a partire dal secolo xviii giunse a includere fitte schiere di amatori, floricoltori, appassionati della natura e virtuosi, persino rappresentanti del sesso femminile, arrivando a lambire quella che potremmo definire la medio-alta borghesia. La struttura delle opere di storia naturale fu molto spesso caratterizzata non solo dalla presenza di grandi e raffinate tavole a colori, ma pure dalla notevole riduzione o addirittura dalla scomparsa del testo. Mentre nei secoli xvi e xvii testo e immagine, ovvero testo e paratesto, avevano costituito le due parti inscindibili e pressoché paritarie del libro naturalistico, vicendevolmente sostenendosi, giustificandosi e delucidandosi, nella tarda età moderna il paratesto tende dunque a occupare tutto o gran parte dello spazio. In molti casi ciò implica dunque una trasformazione del libro di storia naturale in pregevole oggetto d’arte, come tale cercato ed apprezzato, per esempio dai collezionisti di stampe45. Un aspetto, questo, di cui evidentemente aveva piena consapevolezza Ray come si evince da un suo giudizio sulle figure del Paradisus Batavus (698) di Paul Herman : All that I shall or need say of this piece is […] that the icones are answerable to the descriptions, not needing their assistance to give us a certain idea of the species they represent ; to which I may add, that they are so exactly delineated, and curiously engraven, that for their 43. Cfr. Gerta Calmann, Ehret flower painter extraordinary. An illustrated biography, Oxford, Phaidon, 977. 44. Cit. in Ray Desmond, Great Natural History Books and their Creators, London, The British Library and Oak Knoll Press, 2003, p. 6. 45. Ma Catesby giustificava la forte riduzione del testo nella sua opera ribadendo che le figure erano in grado di trasmettere al lettore maggiori e più chiare informazioni. Così scriveva : « The Illuminating [of] Natural History is so particularly Essential to the perfect understanding of it, that I may aver a clearer Idea may be conceiv’d from the Figures of Animals and Plants in their proper Colours, than from the most exact Description without them : Wherefore I have been less prolix in the Description, judging it unnecessary to tire the Reader with describing every Feather, yet I hope sufficient to distinguish them without Confussion » ; Mark Catesby, The Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands : Containing the Figures of Birds, Beasts, Fishes, Serpents, Insects and Plants […] Revis’d by Mr. Edwards, of the Royal College of Physicians, London, London, Printed for Charles Marsh, […] Thomas Wilcox, […] and Benjamin Stichall, 754, vol. i, pp. xi-xii (« The Preface »). Cfr.. H. McBurney, Mark Catesby’s Natural History…, cit., p. .

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giuseppe olmi elegancy alone they may invite the curious in sculpture to purchase the book. 46

Nelle realizzazioni dei corredi iconografici non di rado le capacità artistiche prevalsero su quelle puramente mimetiche, la ricerca della bellezza o della sontuosità su quella della verità. Osservando molte delle tavole naturalistiche settecentesche, nelle quali finirono per riflettersi i gusti artistici dell’epoca, la prima parola che viene in mente è la stessa usata da Ray : « eleganza ». Senza dubbio eleganti erano quelle presenti in opere come la Locupletissimi rerum naturalium Thesauri accurata descriptio (734-765) di Albert Seba, L’Histoire naturelle éclaircie dans deux de ses parties principales (742) di Antoine J. Dezailler d’ArgenFig. 6. B. Wilkes, Twelve New Designs of English Butterflies. ville o i Twelve New Designs of English Butterflies (742) di Benjamin Wilkes, 47 in cui i vari reperti vennero raffigurati con intenti decorativi e secondo precise e ricercate simmetrie, per la cui realizzazione non si esitò, come nel caso delle disposizioni geometriche di farfalle del Wilkes, a replicare più volte una stessa immagine sullo stesso foglio (Fig. 6). Dal punto di vista scientifico affatto insoddisfacenti si rivelavano anche certi accostamenti di reperti. Che per gli elevati costi del metodo calcografico lo spazio di una tavola andasse sfruttato il più possibile era una regola che andava giustamente e logicamente osservata ; una regola che poteva inoltre consentire di trasmettere ulteriori e più dettagliate informazioni se, per esempio, assieme all’intera pianta venivano effigiate sue parti costitutive, eventualmente ingrandite (cauli, fiori, infiorescenze, frutti, semi, radici, ecc.) o assieme a un animale sue particolarità anatomiche, quali gli organi interni. Al contrario affatto surreale ci appare una tavola comparsa sul « Gentleman’s Magazine » del dicembre 755, ove una lucertola volante inviata, « preserved in spirits » da un « unknown correspondent » e oggetto di discussione in una articolo, viene raffigurata insieme a cannoni e congegni meccanici descritti nell’articolo successivo intitolato « New Experiments relating to Gunpowder and Artillery » (Fig. 7). 48 L’esem46. The Correspondence of John Ray…, cit. pp. 349-350. 47. L’opera consiste di dodici tavole senza testo. 48. La tavola è riprodotta in Julia Allen, Samuel Johnson’s Menagerie. The beastly lives of exotic quadrupeds in the eighteenth century, Norwich, Erskine Press, 2002, p. 07.

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pio qui citato riguarda una rivista, non specializzata in argomenti naturalistici, ed è quindi piuttosto ovvio che non venissero ignorate le ragioni di tipo economico. Che oltre a queste ve ne fossero anche di tipo squisitamente estetico è però un fondato sospetto che sorge osservando gli incongrui accostamenti di mammiferi, uccelli e vegetali, o scorFig. 7. « Gentleman’s Magazine », dicembre 755. pioni, serpenti e vegetali presenti nell’opera di Seba (Fig. 8). Nelle stesse tavole della Natural History di Catesby, nelle quali la frequente contemporanea presenza di animali e vegetali era pur giustificata dalla volontà dell’autore di ricreare anche l’ambiente (per esempio rappresentando un uccello sui rami di una pianta da lui abitualmente frequentata o delle cui bacche si nutriva), 49 non mancavano esiti caratterizzati da un notevole grado di incongruenza : si veda, per tutti, il foglio – frutto Fig. 8. A. Seba, Locupletissimi rerum naturalium Thesauri accurata descriptio. non a caso della ‘combinazione’ di due acquarelli – in cui un pesce palla è raffigurato sotto a un Phaseolus minor e a un Cornus, foliis salicis (Fig. 9). 50 Ma queste tendenze decorative, l’alta perfezione raggiunta dagli artisti e i conseguenti alti costi dei libri di storia naturale finirono per mettere in difficoltà gli scienziati, arrivando a ostacolare, come osservava il botanico genovese Domenico Viviani, il loro abituale ricorso alle figure : E quantunque l’esattezza delle Tavole, spinta oggigiorno a tanta eleganza, lasci la riduzione della Sinonimía di gran longa più facile, che non riuscì ne’ tempi andati a Gaspare Bahuino, questo lusso stesso di Tavole però, che il concorso de’ più bravi Artisti porta al di là di quello, che addomanda l’esatta cognizione di una Pianta, rende la maggior parte di queste Opere poco men che perdute pe’ Botanici, ordinariamente non abbastanza ricchi, per ridurre la loro 49. M. Catesby, The Natural History…, cit., vol. i, p. xi : « I have adapted the Birds to those Plants on which they fed, or have any Relation to ». 50. Ivi, vol. ii, p. T28.

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giuseppe olmi Biblioteca in una Galleria di Stampe. 5

Abstract

Fig. 9. M. Catesby : Natural History of Carolina, Florida and the Bahama Islands.

La relazione si propone di mettere in luce le principali caratteristiche dell’illustrazione naturalistica nell’età moderna. In primo luogo si evidenzierà la coesistenza, pur nell’ambito di una riconosciuta utilità delle figure, di diversi modi di raffigurare animali, piante e minerali e quindi si passerà a trattare sia dei problemi connessi alle tecniche di raffigurazione e agli elevati costi dei libri con silografie o calcografie, sia delle strategie messe in atto dagli editori e dagli autori per diffondere sul mercato tali libri e raggiungere un pubblico più ampio di quello costituito dai soli ‘addetti ai lavori’. Altri argomenti toccati saranno quelli del ‘furto’ di immagini, della fedeltà ai modelli dei ritratti delle « cose di natura » e delle doti particolari che gli scienziati richiedevano agli artisti alle loro dipendenze.

The paper intends to point out the main peculiarities of the naturalistic illustration in the modern age. In the first place it will emphasize the coexistence, also as regards a recognized figures usefulness, of various ways to represent animals, plants and minerals and then it will examine problems connected to representation techniques and to high costs of books with xylographies and calcographies, as well as of strategies applied by publishers and authors in order to spread such kind of books on the market and to reach a wider public than that one constituted by the only experts in this field. Other subjects will be discussed, such as the pictures “theft”, the faithfulness to portrait models of “things of nature” and the particular talent that scientists asked for to the artists employed by them.

5. Annali di Botanica compilati dal Dott. Domenico Viviani Pubblico Professore di Botanica, Genova, Stamperia Nazionale, 802, vol. i, parte i, p. 4 (« Prefazione e prospetto »). Negli stessi giorni di questo convegno, quindici anni fa, ci lasciava improvvisamente Eugenio Battisti, straordinaria e indimenticabile figura di uomo e studioso, grazie ai cui scritti, incoraggiamenti e consigli intrapresi tanto tempo fa le ricerche sull’illustrazione scientifica. Alla sua memoria dedico, con immutato affetto e riconoscenza, questo saggio.

Giuseppe Lipari IL PARATESTO NELL’EDITORIA MESSINESE CINQUE-SEICENTESCA

Q

uindici anni fa Gianvito Resta, illustrando le vicende della stampa nella Sicilia del ‘500, evidenziava come la produzione dei tipografi siciliani fosse « senza meno la più cospicua, dopo quella di Napoli, nell’ambito di tutte le altre regioni meridionali », ma segnalava altresì che l’editoria siciliana non solo non riusciva a partecipare con propri prodotti al mercato nazionale, ma lasciava ad altri e più attrezzati centri editoriali il compito di pubblicare e diffondere nell’Isola le più solide e aggiornate proposte culturali, e s’appagava di svolgere la propria attività nel settore del consumo di cultura media o pratica. 

Le puntuali osservazioni di Resta sono in larga misura ancora oggi condivisibili per descrivere le caratteristiche del segmento cinque-seicentesco della produzione tipografico-editoriale messinese. Le varianti, infatti, introdotte dalla considerazione di un arco temporale più ampio e dalla focalizzazione in un ambito territoriale più ristretto non alterano sensibilmente un quadro caratterizzato da prodotti che si collocano in un orizzonte prevalentemente locale sia sul versante della committenza sia, per quanto in misura minore, su quello della fruizione e che mirano a soddisfare soprattutto « precise esigenze ambientali ». 2 Si tratta di circa 300 pubblicazioni (ma solo un migliaio sono giunte sino a noi) che documentano in maniera certamente lacunosa l’operosità delle officine messinesi. 3 Anche nella Città dello Stretto, infatti, una parte della produzione tipografica se « non è sopravvissuta a causa del carattere deliberatamente effimero » 4 ha costituito sicuramente, come ha ricordato Marco Santoro, « un prezioso […] serbatoio di risorse . Gianvito Resta, La stampa in Sicilia nel Cinquecento, in *La stampa in Italia nel Cinquecento, Atti del Convegno Roma, 17-21 Ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, Roma, Bulzoni, 992 (pp. 777-84), p. 784. 2. « […] con l’offerta di sussidi professionali di tipo scolastico, amministrativo e giuridico ; con la stampa di statuti, manuali normativi, materiali per la gestione e la propaganda di istituzioni laiche e religiose ; con la proposta di ricostruzioni erudite della topografia e della vicenda storica municipale e regionale ; con la diffusione di testi di largo consumo culturale […] ; con la divulgazione di prodotti della cultura locale […], soprattutto di componimenti letterari di vario genere ; con la pubblicazione di elaborati, per lo più anch’essi proposti da autori locali, impegnati nella speculazione teologica o filosofica, nella riflessione morale, nella propaganda religiosa o politica ; infine, con la diffusione di componimenti commemorativi di avvenimenti contemporanei importanti o effimeri ». (G. Resta, La stampa …, cit., p. 785). 3. Il dato risulta dalla sommatoria delle cinquecentine, 49, registrate da Resta (La stampa…, cit.), che ha aggiornato il censimento condotto da A. Bonifacio (Achille Bonifacio, Gli annali dei tipografi messinesi del Cinquecento, Vibo Valentia, Edizioni gm, 997 ; Idem, Il Cinquecento, in *Cinque secoli di stampa a Messina, a cura di Giovanni Molonia, Messina, gbm, 987, pp. 67-27), con le 006 edizioni del ‘600 censite da chi scrive (Giuseppe Lipari, Gli annali dei tipografi messinesi del ‘600, Messina, Sicania, 990 e ulteriori acquisizioni che vedranno presto la luce in una rinnovata edizione degli Annali) e con altre 28 pubblicazioni recentemente assegnate ai torchi della Città dello Stretto (Giuseppe Lipari, Il falso editoriale a Messina nel Seicento, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 200). 4. Francesco Barberi, Introduzione alla tipografia italiana del Seicento, « Accademie e biblioteche d’Italia », 52 (984), 6, (pp. 507-526), p. 55, ora in Idem, Il libro italiano del Seicento, Roma, Gala Reprint’s, 985.

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finanziarie, indispensabile per programmare e realizzare iniziative di maggiore impegno e di più ampio respiro ». 5 Non diversamente da quanto accade in quasi tutti i centri impressori minori dell’Italia continentale, la maggior parte del materiale librario e documentario finora censito risulta promosso in ambito cittadino, anche se non mancano committenti di altre località dell’Isola e della vicina Calabria. Le pubblicazioni ascrivibili ad autori ed istituzioni messinesi o comunque operanti in città rappresentano il 62% della produzione cinquecentesca e il 64% di quella del diciasettesimo secolo (ma il dato assume una rilevanza più significativa, rispettivamente il 66% e il 69%, se si esclude dal computo il materiale noto solo bibliograficamente e, pertanto, non analizzato sul piano delle componenti paratestuali, in molti casi indispensabili per acclarare committenze e formulazioni di responsabilità). Ha, invece, origine in area siciliana e calabrese (in località del distretto e costretto – così veniva allora denominata la zona di diretta influenza messinese – e in diversi centri del Valdemone, di Val di Noto e della Calabria meridionale) oltre il 20% delle pubblicazioni messinesi, precisamente il 20,0 delle cinquecentine e il 23 delle impressioni del Seicento. Appena una modesta percentuale – il 2,3 – del materiale prodotto dai torchi delle officine peloritane sembra non riconducibile all’ambito locale, ma si tratta in larga misura di opere dalla paternità incerta (nel senso che non è stato possibile individuare dati sicuri sulla responsabilità autorale e/o sulla committenza) o di pubblicazioni note per lo più attraverso la tradizione erudita, ma prive di precise indicazioni bibliografiche. In questo panorama così decisamente connotato in senso provinciale è, inoltre, significativamente rilevante la committenza di origine istituzionale laica ed ecclesiastica e quella che è possibile definire para-istituzionale. Quasi duecento pubblicazioni sono, infatti, espressione diretta del governo vicereale, del governatore (stradigò) e del senato cittadino, delle giurazie di altri centri dell’isola e, sul versante ecclesiastico, di diocesi siciliane e calabresi, di ordini religiosi (gesuiti soprattutto, ma anche domenicani e francescani delle varie denominazioni) e confraternite. Non sono poche, infine, le pubblicazioni notoriamente, ma non ufficialmente promosse dai ceti dirigenti cittadini – in questo senso para-istituzionali – per sostenere e difendere sul piano politico e culturale le posizioni della città nelle turbolente vicende del Viceregno spagnolo fra Cinque e Seicento. 6 5. Marco Santoro, Storia del libro italiano, Milano, Editrice bibliografica, 994, p. 67. Inoltre è opportuno ricordare che poiché « tuttora numerosi fondi non sono stati investigati ed altri necessitano di ulteriori e più articolate ricognizioni, va debitamente tenuto presente che una parte, più o meno cospicua, della produzione libraria (per lo più, ma non solo, quella di consumo più popolare) con ogni probabilità non ha beneficíato della necessaria cura conservativa e non ha quindi consegnato ai posteri prove materiali della propria esistenza » (Marco Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, « Accademie e Biblioteche d’Italia », 68 (2000), , (pp. 5-38), p. 7, ora in Idem, Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliografico, Manziana, Vecchiarelli, 2002, p. 58. 6. Della numerosa bibliografia sull’argomento è sufficiente segnalare le voci più recenti ed aggiornate : Giuseppe Lipari, Cultura, politica e società nella Messina del XVII secolo, introduzione alla rist. an. di Placido Samperi, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice di Messina, Messina, Intilla, 990 ; Maria Antonella Cocchiara, Università degli Studi e intellettuali nel disegno di ‘Messina capitale’, « Annali di storia delle Università italiane », 2 (998), pp. 85-06 ; G. Lipari, Il falso…, cit. Sempre utile risulta poi Niccolò Rodolico, Il municipalismo nella storiografia siciliana (a proposito della ‘Brevis istoria liberationis Messanae’, « Nuova rivista storica », 7 (927), pp. 57-72, poi in Saggi di storia medievale e moderna, Firenze, Le Monnier, 963, pp. 299-36.

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Ed è proprio in quest’ultima direzione che vanno ricercate le peculiarità della produzione messinese dei due secoli e che consistono essenzialmente in una marcata e costante accentuazione di quella ideologia municipalistica che costituisce il motivo dominante di tutta la cultura siciliana del tempo, ma che raggiunge nella Città dello Stretto un livello tale da connotare e condizionare ogni aspetto della vita socio-politica, culturale e religiosa. 7 Tale continua e, in qualche occasione, esasperata riproposizione di un teorema che vede Messina invidiata per le sue eccelse qualità e per i suoi plurisecolari privilegi, contrastata nella difesa e nell’affermazione dei suoi diritti e delle sue prerogative, ostacolata nella realizzazione delle sue aspirazioni e dei suoi progetti, si manifesta, ovviamente, in diverso grado e in vario modo, ma è presente in tutti i settori della produzione editoriale cittadina. È più esplicita nelle opere pienamente afferenti a tale ambito (storie locali ed ecclesiastiche, apologie, dissertazioni giuridiche, libelli polemici), 8 ma traspare con tutta evidenza anche nelle pubblicazioni celebrative (ingressi trionfali di sovrani e viceré, nascite e funerali, feste religiose e avvenimenti culturali) 9 volte ad evidenziare le magnificenze della città e il ruolo dei suoi ceti dirigenti, e nei volumi riconducibili alle più prestigiose istituzioni culturali cittadine (lo Studio Generale e l’Accademia della Fucina) 0 che vogliono documentare i meriti e la lungi7. Per una approfondita analisi, anche sul versante delle connotazioni ideologiche, delle vicende siciliane e messinesi fra ‘500 e ‘600 : Giuseppe Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno, in *Storia di Sicilia, 6, Napoli, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, 978, pp. -8, riproposto poi in Id., La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in Vincenzo D’Alessandro, Giuseppe Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino, utet, 989, pp. 326-47 ; Carmelo Trasselli, Messina dal Quattrocento al Seicento, in Enrico Pispisa, Carmelo Trasselli, Messina nei secoli d’oro. Storia di una città dal Trecento al Seicento, Messina, Intilla, 988, pp. 3-594. Alcuni nodi dello scontro che oppose le diverse componenti del mondo politico siciliano di quegli anni sono stati acutamente approfonditi in due interessanti contributi di Francesco Benigno (La questione della capitale : lotta politica e rappresentanza degli interessi nella Sicilia del Seicento, « Società e Storia », 3 (990), pp. 23-67 ; Messina e il duca d’Osuna : un conflitto politico nella Sicilia del Seicento, in *Il governo della città. Patriziati e politica nella Sicilia moderna, a cura di Domenico Ligresti, Catania, c.u.e.c.m., 990, pp. 73-207. 8. A solo titolo esemplificativo si possono ricordare : Bernardo Rizzo, De urbis Messanae pervetusta origine, Pietruccio Spira, 526 ; Francesco Maurolico, Sicanicarum rerum compendium, Pietro Spira, 562 ; Giuseppe Buonfiglio Costanzo, Dell’historia siciliana, Pietro Brea, 63 ; Giovan Pietro Marchese, Breve discorso delle vere qualità di Messina, Giovan Francesco Bianco, 622 ; Alberto Piccolo, De antiquo iure ecclesiae siculae dissertatio, Pietro Brea, 623 ; Ottavio Glorizio, Iura responsa pro nob. et fidelissima urbe Messanae pro tempore edita, Pietro Brea, 624 ; Placido Samperi, Discorso academico in lode del porto di Messina, Giovan Francesco Bianco, 628 ; Scipione Errico, Il Gotho dialogo in difesa de privilegi della nobil città di Messina, eredi di Pietro Brea, 633 ; Benedetto Salvago, Apologia pro pietate messanensium, eredi di Pietro Brea, 634 ; Placido Reina, Delle notizie istoriche della città di Messina, eredi di Pietro Brea, 658 9. Anche in questo caso una parziale campionatura è sufficiente ad illustrare la tipologia di questo genere di pubblicazioni : Nicolo’ Giacomo Alibrando, Il triompho il qual fece Messina nella intrata del imperator Carlo V, Petruccio Spira, 535 ; Francesco Cavatore, Trionfo e pompa sollenni che fece la nob. Città di Messina per la inventione de’ ss. Martiri Placido e compagni, Fausto Bufalini, 590 ; Vincenzo Ferrarotto, Ordine militare osservato in Messina l’anno 1594, quando l’armato turchesca bruggiò Reggio città nella Calabria, Pietro Brea, 596 ; Breve raguaglio del solenne ricevimento fatto dalla nob. Città di Messina all’ill.mo e r.mo monsig. Bonaventura Secusio… suo novello prelato, Pietro Brea per Lorenzo Valla, 605 ; Raguaglio del ponte eretto dal Senato nella solenne entrata in Messina dell’illustriss.mo et eccellentiss.mo signor d. Francesco di Castro novello Viceré, Pietro Brea, 66 ; Breve raguaglio dell’ordine con che il serenissimo principe Filiberto prese il possesso del governo di Sicilia in Messina, Giovan Francesco Bianco, 622 . 0. Un panorama completo delle vicende dello Studio in Daniela Novarese, Rassegna bibliografica sulla storia dell’Università di Messina, « Annali di storia delle Università italiane », 2 (998), pp. 239-244. Per l’Accademia è d’obbligo il rinvio a Giuseppe Nigido-Dionisi, L’Accademia della Fucina di Messina (1639.

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miranza di chi – il Senato – le ha promosse e sostenute. Ma è soprattutto con le opere dedicate alla celebrazione della Patrona della Città, la Vergine Maria venerata con l’appellativo di Madonna della Lettera, modulate prevalentemente in questa prospettiva che la rivendicazione municipalistica assume i toni più sostenuti ed estremi.  Questa caratterizzazione della produzione locale, destinata quasi esclusivamente al mercato interno e connotata in senso municipalistico (le pubblicazioni riconducibili a quest’ultima fattispecie sono circa 250, cioè quasi il 20 per cento, mentre solo quelle dedicate al culto della Madonna della Lettera superano il 9 per cento e sono quasi 20) non poteva non avere delle ricadute anche sul versante paratestuale che, pur presentando le manifestazioni tipiche dell’editoria secentesca, rivela una sua peculiare connotazione. Sul piano dell’apparato decorativo, ad esempio, la prevalente fruizione locale del materiale impresso e il regime pressoché monopolistico delle officine messinesi, la mancanza cioè di significativi rivali nei centri più vicini, 2 inducono i tipografi ad un minore ricorso agli elementi decorativi, utilizzati quasi esclusivamente in quelle pubblicazioni destinate ad una circolazione più ampia e/o ad una funzione più immediata di propaganda politica. Così, ad esempio, fra i prodotti dei tipografi messinesi del Cinquecento ha sicuramente un orizzonte di fruizione più esteso il volume di Juan de Ortega (Opera de arithmetica), 3 un’edizione molto apprezzata, per la ricchezza di incisioni xilografiche e di elementi decorativi, ma soprattutto per l’accuratezza compositiva e che presenta « bellissimi capilettera, numerose figure geometriche a illustrazione degli esercizi descritti ed […] un vasto repertorio di fasce ornamentali con grottesche ed arabeschi, putti, animali e composizioni floreali, di gusto tipicamente rinascimentale, che trovano un qualche riscontro con motivi affini presenti in alcuni dipinti e rilievi di area messinese del primo Cinquecento ». 4 1678) ne’ suoi rapporti con la storia della cultura in Sicilia, Catania, Giannotta, 903. Per un inquadramento dell’attività di questa importante istituzione politico-culturale : Giuseppe Lipari, Per una storia della cultura letteraria a Messina dagli svevi alla rivolta antispagnola del 1674-78, « Archivio storico messinese », 33 (982), pp. 67-8. . La foga municipalistica induce così un pio frate conventuale ad azzardate affermazioni, sul filo dell’eresia, in una sua fortunata opera in difesa della veridicità della epistola mariana di cui si conoscono almeno tre emissioni (filippo cagliola, Lettra di Messina in difesa di Maria, Giacomo Mattei, 643). Nella versione della premessa documentata dalla prima emissione, infatti, il Cagliola arriva a sostenere la maggiore autorevolezza della ‘Lettera ai messinesi’ rispetto agli stessi Vangeli provocando un immediato intervento dei superiori ecclesiastici che impongono una radicale correzione del testo incriminato. 2. Modesta è, infatti, la produzione tipografica catanese documentata peraltro in modo continuativo solo a partire dal 563 (Filippo Evola, Storia tipografico-letteraria del XVI secolo in Sicilia con un catalogo ragionato delle edizioni in essa citate, Palermo, Lao, 878 ; Idem, Sulla stampa siciliana fuori di Palermo e di Messina nei secoli XVI e XVII, Palermo, Tipografia dello Statuto, 885 ; Giuseppe Boemi, Giuseppe Cumia e la prima stamperia in Catania, « Rivista del Comune di Catania », 3 (93), pp. 7-23 ; Giovanni Filippo Villari, Catania e la stampa. Origini, Catania 983 ; Nicolo’ Domenico Evola, Ricerche storiche sulla tipografia siciliana, Firenze, Olschki, 940 ; ma soprattutto G. Resta, La stampa…, cit., p. 787), mentre decisamente subalterna alla realtà messinese risulta l’attività delle imprese tipografico-editoriali calabresi (Giuseppe Lipari, Committenza messinese per i tipografi calabresi del Seicento, in *Messina e la Calabria dal Basso Medioevo all’età contemporanea, Messina, Società messinese di storia patria, 988, pp. 393-96 ; Idem, Il falso…, cit.). 3. Juan Ortega, Quarta opera de arithmetica et Geometria, Messina, Giorgio e Petruccio Spira, 522 (A. Bonifacio, Annali…, cit., p. 38). L’unico esemplare superstite di questa edizione si conserva nella Biblioteca Regionale Universitaria di Messina (Cinq. D ). 4. Gioacchino Barbera, Il libro illustrato a Messina dal Quattrocento all’Ottocento, in Cinque secoli…, cit., p. 405.

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Anche la silloge dei Regni Sicilie Capitula, stampata sempre da Giorgio e Petruccio Spira nel 526 e « riconosciuta unanimemente come la più bella fra tutte quelle uscite in Sicilia nel ‘500 sia per le silografie che per la nitidezza dei caratteri », 5 mirava ad una diffusione almeno regionale e voleva insieme accreditare i suoi artefici, la giurazia cittadina più che gli stampatori, in un ruolo quasi ufficiale di interpreti autorevoli degli orientamenti politici e della prassi giuridica isolana. Sempre ad un mercato meno asfittico di quello rappresentato dall’area di influenza politico-culturale messinese erano certamente rivolti il volume mauroliciano di Teodosio Tripolita, 6 corredato da « figure geometriche negli ampi margini di quasi tutte le carte », e, soprattutto, il Breve raguaglio dell’Inventione e feste de’ gloriosi martiri Placido e compagni di Filippo Goto, impresso nel 59 da Fausto Bufalini arricchito di ben 28 incisioni a piena pagina, 7 che si proponeva, attraverso la descrizione di una controversa vicenda religiosa, il duplice obiettivo di gratificare l’orgoglio della città con l’esibizione di un magnifico apparato celebrativo ed insieme di diffonderne in chiave propagandistica l’immagine di centro opulento e capace di iniziative di grande spessore sociale e culturale. 8 L’apparato iconografico nella maggior parte delle cinquecentine messinesi si riduce però alla sola presenza nel frontespizio dello stemma dell’autore o del dedicatario, di una vignetta e della marca tipografica. 9 Piccoli fregi e rare iniziali xilografiche si ritrovano in diversa misura in quasi tutte le edizioni, ma non vanno quasi mai al di là di una funzione meramente riempitiva. Nelle superstiti 88 edizioni del xvi secolo si registrano appena 4 edizioni con 5. Regni Sicilie Capitula noviter magna diligentia impressa ac correcta, Messina, Giorgio e Petruccio Spira, 526 (A. Bonifacio, Annali…, cit., p. 40). 6. Theodosii sphaericorum elementorum libri III ex traditione Maurolyci Messanensi Mathematici, Messina, Pietro Spira, 558 (A. Bonifacio, Annali…, cit., p. 55). 7. A. Bonifacio, Annali…, cit., p. 8. Sul Breve raguaglio, riedito anastaticamente col sopratitolo di Arte tipografica messinese del XVI secolo (Messina, gbm, 980) interessanti “note storiche e bibliografiche” di Angelo Raffa che, insieme a Francesco Scisca, ha curato la pubblicazione. 8. Esemplare, per cogliere pienamente la portata dell’esaltazione municipalistica che permea l’opera del Goto, risulta il passo in cui vengono messi a confronto i meriti della Città dello Stretto con quelli di Roma : « Perciò, che l’una, e l’altra da chiarissimi Fondatori hebbe origine, e co’l mezzo de’ suoi valorosi Eroi. Quella Capo, e Reina del Mondo ; e questa della Sicilia, e d’Oriente divenne, Da quella molte nobilissime Colonie ; e da questa parimenti uscirono. Quella vinti, e discacciati i Tiranni, e facendo a tutte le nationi giustitia mantenne, e ampliò il suo dominio ; e questa medesimamente oppressi i Tiranni, e nemici ha sempre conservato e accresciuto il dritto delle Corone, e delle leggi. Quella d’innenarabili famosissimi Cittadini, e Rettori, per Eroichi gesti, e segnalate attioni, celebre e chiara, e questa in universale e ne’ suoi particolari Cittadini, Capitani, e Magistrati, per infinite sopra humane imprese a lieto fine condotte, e gloriose Vittorie, non punto a quella inferiore, (come per l’antiche e moderne Istorie di fedelissimi Autori appare). Quella per le sue tante, e sì rare eccellenze, come uno splendidissimo Sole in tutto l’universo da tutti i popoli ammirata ; e questa per ogni parte quasi nuovo stupore, e Miracolo appo tutte le genti d’immortal grido ; e per segnalati testimonii di tutti i suoi Principi d’ogni rara Virtù, Religione, Fede, Valore, e Costanza, norma e specchio lucidissimo a tutto il Mondo. Quella hebbe i suoi primi valorosi Reggi ; e questa parimenti i suoi particolari Re di Messina. Quella libera Repubblica e questa ancora lunghissimo tempo si mantenne. Quella co’l suo gran valore e prudenza, vinte la nationi straniere, tutto l’universo a se sottopose ; e questa, espugnando valorosamente i suoi nemici, e della fé di Christo, e gli rubelli de’ suoi Principi, il pacifico stato di tutto il Regno, e dell’Oriente, anzi la sicurezza, e sostegno de’ stati e delle Corone de’ suoi Reggi conservò sempre co’l proprio sangue e valore » (Breve raguaglio…, cit., pp. 77-79). Su questa vicenda e sul clima culturale della città nell’ultimo decennio del secolo : G. Lipari, Cultura…, cit., pp. xiv*-xix*. 9. Le edizioni in cui l’unico elemento decorativo è costituito dallo stemma, dell’autore o del dedicatario, dalla marca tipografica o da una vignetta sono, rispettivamente 5, 6 e 8.

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xilografie nel corpo del volume, ma di queste solo poche ne presentano più di due ; in tutti gli altri casi si tratta della semplice riproposizione dell’incisione presente nel frontespizio o nelle pagine iniziali. 6 edizioni hanno il frontespizio inserito in una cornice xilografica e non sono rare, ben 7, quelle prive di qualsiasi elemento decorativo. Nel Seicento, peraltro nel quadro di una generale crescita produttiva e in un contesto di evidente progresso tecnologico, la presenza di frontespizi incisi e di antiporte, ornamenti tipici delle stampe seicentesche di maggior pregio, risulta modesta (appena una trentina di edizioni con antiporta e una ventina di frontespizi incisi) e altrettanto esiguo è il numero delle pubblicazioni corredate da una o più tavole calcografiche (circa 50 e in molti casi si tratta delle stesse edizioni che presentano antiporte e frontespizi incisi). Si tratta quasi sempre di prodotti di buona fattura, riconducibili in gran parte ad un agguerito manipolo di incisori locali – la famiglia Donia – ma anche testimonianza della circolazione in area messinese di artigiani forestieri, 20 che abbelliscono, come prima segnalato, le edizioni destinate ad una fruizione più ampia di quella locale in relazione al loro ambito disciplinare o per conseguire i risultati di affermazione culturale e di propaganda politica perseguiti dai ceti dirigenti cittadini. Rientrano certamente in questa prospettiva un discreto numero di erudite dissertazioni storiche, per lo più di taglio municipale, e diversi trattati, frutto dell’operosità scientifica dei più prestigiosi docenti dello Studio cittadino. Una bella antiporta fa, così, da corredo illustrativo alla narrazione di Giovanni Paolo Chiarandà (Piazza città di Sicilia antica, nuova, sacra e nobile, Giacomo Mattei, 654) e una suggestiva tavola arricchisce la dotta trattazione di Vincenzo Solito (Termini Himerese città della Sicilia posta in teatro, Paolo Bisagni, 67). Nel volume di Giacomo Bonanno Colonna (Dell’Antica Siracusa illustrata, Pietro Brea, 624) il frontespizio inciso « riassume i miti e gli antichi culti legati alle origini della città nelle immagini del fiume Anapo, come un vecchio barbuto disteso fra le canne secondo l’iconografia tradizionale e di Ciane, che con lui divise la punizione per aver tentato di salvare Proserpina, mentre in alto, a sinistra, la ninfa Aretusa indica con il braccio la città raffigurata sommariamente », mentre quello, inciso dal catanese Giuseppe Caruso, per le ricerche epigrafiche di George Walter (Siciliae obiacentium insulae et Bruttiorum antiquae tabulae, Pietro Brea, 624) mostra « la triquetra circondata da messi ed in basso l’Etna fumante fra mostri marini, secondo una figurazione allegorica della Sicilia che si ritrova con una certa frequenza nella pubblicistica storica isolana ». 2 Molto curate sul piano formale e decorativo sono le opere di medicina del bolognese Giovanni Battista Cortesi e del romano Pietro Castelli che, come ha evidenziato Maria Teresa Rodriquez, « si inseriscono nel quadro di vivace sviluppo degli studi scientifici nella società messinese del tempo, in cui operano […] alcuni fra i più illustri nomi italiani del secolo » e la cui « diffusione e distribuzione […] varca senza dubbio i 20. Si tratta « di un nutrito gruppo di operatori del settore, che, pur senza approdare a rilevanti autonome soluzioni artistiche, ma con apprezzabile garbo e misura (e talvolta con esiti efficaci e suggestivi) rifacendosi ad exempla ormai canonizzati, hanno svolto un ruolo certamente non secondario nelle vicende della tipografia messinese del Seicento » (Lipari, Gli annali…, cit., pp. 43-44). Un’analisi più puntuale dell’attività della famiglia Donia e degli altri calcografi messinesi in Ginevra Sindoni D’Andrea, Incisori messinesi. I maestri Donia, « Archivio storico messinese », 5-53 (950-952), pp. 2-3 e in G. Barbera, Il libro…, cit., pp. 48-433. 2. Maria Teresa Rodriquez, Il Seicento, in Cinque secoli…, cit., pp. 92, 94.

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confini del mercato provinciale e contribuisce a creare a Messina una circolazione di idee e condizioni di vita scientifica privilegiate nel Meridione d’Italia ». 22 Un vasto corredo di figure anatomiche arricchisce il volume in-folio, pubblicato nel 625 per i tipi del Brea, delle Miscellaneorum medicinalium decades denae del Cortesi, 23 che esibisce un bel frontespizio inciso secondo schemi architettonici molto tradizionali e uno splendido ritratto, a piena pagina, dell’autore affiancato da due figure femminili, rappresentazioni simboliche della Medicina e della Filosofia. Di ottima fattura risultano pure altre due opere dello scienziato bolognese, la Pharmacopeia seu antidotarium messanense del 629 e il Tractatus de vulneribus capitis del 632, impresse sempre dal Brea : presentano, la prima, un frontespizio inciso (in una cornice architettonica sono collocati i ritratti di sei illustri docenti di medicina – Giovanni Cecchi, Ulisse Aldrovandi ed Enea Vigoni dello Studio bolognese, Gerardo Columba, Leonardo Crisafulli e Bartolomeo Castelli di quello della Città dello Stretto – e le figure di Mesue e Discoride) e, la seconda, sei accurate tavole anatomiche. 24 Altrettanto decorosamente realizzate sul versante dell’apparato illustrativo risultano le edizioni di alcune opere del Castelli impresse nell’officina della vedova di Giovan Francesco Bianco. Nella più pregevole, l’Hortus messanensis del 640, che descrive dettagliatamente l’orto dei semplici impiantato dal Castelli, primo in Sicilia e tra i più ricchi d’Italia, si segnala un vasto apparato di tavole che costituiscono la cospicua parte iconografica della pubblicazione fregiata anche da un’antiporta che reca il nome d’Emanuele d’Alfio e, abbandonata del tutto la concezione frontale cinquecentesca, preferisce una figura femminile sovrastata da nubi dalle quali puttini spargono petali di fiori traendoli da cornucopie. 25

Altre due, Hyaena odorifera e Balsamum examinatum, esibiscono con qualche variante lo stesso frontespizio inciso e il ritratto dell’autore e si fanno apprezzare per ulteriori elementi decorativi26. Nel frontespizio, costituito dallo stemma del naturalista romano con ai lati uno scheletro ed una figura anatomica, l’incisore Emanuele D’Alfio, a parere di Gioacchino Barbera, « scardina la rigida simmetria dei modelli cinquecenteschi affollando lo spazio di figure allegoriche, cariche di simboli e di attributi ». 27 In questo orizzonte produttivo, quello cioè di manufatti destinati ad un mercato non solamente provinciale e pertanto più curati sul versante grafico e iconografico, si 22. M. T. Rodriquez, Il Seicento…, cit., p. 53. Le opere di questi due insigni personaggi non costituiscono, ovviamente, gli unici documenti di questo particolare settore della produzione tipografica cittadina. Per una completa valutazione della specifica incidenza nella peculiare prospettiva paratestuale è d’obbligo il rinvio alla ricostruzione annalistica (G. Lipari, Gli annali…, cit.), mentre per verificare i termini dei rapporti intercorsi tra i docenti dello Studio e le imprese tipografico-editoriali cittadine può risultare utile un altro recente contributo di chi scrive : Giuseppe Lipari, Produzione libraria e Messanense Studium Generale, « Annali di storia delle università italiane », 2 (998), pp. 75-87. 23. Un profilo aggiornato del Cortesi in Augusto De Ferrari, Cortesi, Giovanni Battista, « Dizionario biografico degli italiani », 29 (983), pp. 763-65. 24. Per un quadro complessivo del contesto accademico in cui operava il Cortesi, ma anche per puntuali annotazioni sulla Pharmacopeia : Corrado Dollo, Fra tradizione e innovazione. L’insegnamento messinese di medicina e delle scienze nei secoli XVI e XVII, « Annali di storia delle università italiane », 2 (998), pp. 07-22. Utile pure l’attenta analisi di Vincenzo Pugliatti, I 350 anni del primo trattato di farmacoterapia stampato a Messina, la “Pharmacopeia seu antidotarium messanense” di Giovanni Battista Cortesi, « Archivio storico messinese », 30 (979), pp. 5-27. 25. M. T. Rodriquez, Il Seicento …, cit., p. 62. 26. La Hyaena odorifera contiene pure otto tavole anatomiche dell’animale studiato. 27. G. Barbera, Il libro…, cit., p. 437.

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collocano pure qualche testo giuridico 28 e non pochi componimenti letterari ed eruditi, 29 e soprattutto un vasto campionario di opere di carattere agiografico-devozionale o di sussidio agli studi teologici e alla predicazione, che costituiscono il segmento più ampio della produzione messinese. 30 È sufficiente in queste sede ricordare, a semplice titolo esemplificativo, per la particolare cura con cui sono stati realizzati e per gli esiti decisamente apprezzabili attinti dal punto di vista decorativo, i volumi corredati da antiporta di Girolamo Faraone (Promptuarium animae, Giovan Francesco Bianco a spese di Giuseppe Matarozzi, 629), Angelo Giardina (Sacrum stagnum sententiarum, Giacomo Mattei, 645), Apollinare Agresta (Vita del protopatriarca S. Basilio, Vincenzo D’Amico per Matteo La Rocca, 68) e Giuseppe Cajola (Quaresimale, Vincenzo D’Amico, 693) e quelli, che presentano un frontespizio inciso, di Filippo da Piazza (Il carro del mistico Elia, Pietro Brea, 626) e Maurizio Centini (Prediche dell’avvento, Giovan Francesco Bianco, 633) nonché le opere, particolarmente gradevoli, di due autori cappuccini, Serafino Caruso ed Anselmo Grasso (Viaggio del cielo, eredi di Pietro Brea, 648 ; Le ammirande notitie della patria, vita e trionfi della gloriosa S. Venera, Giacomo Mattei, 665). La prima abbellita da una vignetta raffigurante s. Francesco in preghiera nel frontespizio e da diciotto illustrazioni xilografiche « con figurazioni allegoriche minuziosamente descritte nei diversi capitoli, secondo la concettuosità del tempo, con il compito di sintetizzare le meditazioni ed aiutare alla riflessione », 3 l’altra impreziosita nel frontespizio dallo stemma della città, Acireale, di cui la santa è protettrice, e da una vignetta che la raffigura, e nel corpo del volume da una tavola della stessa santa Venera mentre, al cospetto del popolo che la implora, brandendo il crocifisso devia la lava dell’Etna che sta per investire il paese. L’utilizzo dell’elemento illustrativo in funzione propagandistica è poi evidente in un gruppo di pubblicazioni, direttamente o indirettamente indirizzate all’esaltazione della città. L’opera del gesuita Melchiorre Inchofer, 32 una appassionata difesa delle prerogative religiose cittadine declinate in chiave polemica, esibisce, ad esempio, un frontespizio inciso raffigurante la Vergine e due angeli che sostengono un drappo con il testo della contestata lettera ai messinesi, una orgogliosa rivendicazione di una speciale protezione divina e, insieme, di una ‘preminenza’ che si vuole riaffermare anche sul piano politico. Ancora più esplicitamente questo orientamento si può cogliere dal frontespizio, inciso da Antonino Donia, delle Ragioni apologetiche, un pamphlet con cui 28. Basta ricordare il compendio di diritto canonico di Giuseppe Pilaia (Istitutionum decisiones pontificiae ex corpore iuris canonici extractae, Paolo Bonacota, 664) che presenta un frontespizio inciso nel quale quattro grottesche inquadrano due delicate figure femminili. 29. Come la Babilonia distrutta di Scipione Errico (Giovan Francesco Bianco ad istanza di Giuseppe Matarozzi, 623) dal sobrio ed elegante frontespizio inciso e l’ Hedengraphia di Carlo Giangolino (Giacomo Mattei, 649) corredata dal ritratto dell’autore, da una fedele ed accurata mappa della Palestina e della penisola arabica e da un sontuoso frontespizio, opera di Placido Donia, che « rispetta le complicate allegorie del tempo : il titolo, inserito al centro di un portale sormontato dalla Spagna in figura di donna in armi, seduta fra due angeli musicanti, porta ai lati le immagini allegoriche della Prudenza e della Giustizia ed in basso, al centro di un fregio cui si appoggiano due puttini, la veduta del porto di Messina » (M. T. Rodriquez, Il Seicento …, cit., p. 66). 30. Fra le 902 edizioni censite fino al 990 la percentuale dell’editoria religiosa raggiungeva il 52 per cento (G. Lipari, Gli Annali…, cit., pp. 6-8). 3. M. T. Rodriquez, Il Seicento…, cit., p. 57. 32. Epistolae B. Virginis Mariae ad Messanenses veritas vindicata, Pietro Brea a spese di Giuseppe Matarozzi, 629.

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i ceti dirigenti cittadini invitano risolutamente i governanti spagnoli a garantire alla città una più ampia partecipazione nella determinazione degli orientamenti politici isolani e nella gestione del potere. 33 La rappresentazione simbolica della città, affidata al suo mitico fondatore Orione nelle vesti di un soldato armato con asta, corazza, scudo e cimiero, che diventerà proverbiale nelle pubblicazioni di questo genere, campeggia, sovrastata da un cartiglio con la inequivocabile dicitura di « Messana urbs nobilis et Regni caput », nella larga cornice che inquadra il titolo mentre otto aquile, anch’esse sovrastate da cartigli, ai lati fanno da cornice agli scudi istoriati delle più importanti istituzioni politiche e religiose presenti nella città. 34 Lo stesso motivo iconografico è ripreso, ancor più sontuosamente ma con le stesse finalità, nelle antiporte, opera di Placido Donia, di un volume del gesuita Placido Samperi di cui si dirà più avanti e della minuziosa descrizione delle Pompe festive celebrate dalla nobile ed essemplare città di Messina nella sollennità della sagratissima lettera di Domenico Argananzio, un altro autorevole padre del collegio messinese, ‘primum ac prototipum’, della Compaglia di Gesù. 35 Il soldato-Orione raffigurante Messina, al centro della pagina su una riproduzione del porto della città, sventola un vessillo con l’effigie della Vergine, mentre il ruolo che svolgevano le aquile nel frontespizio delle Ragioni è affidato a nove puttini alati. Anche in questo caso l’esemplificazione potrebbe essere più ricca ma di sicuro non apporterebbe significativi elementi di segno diverso. Può risultare allora sufficiente il rinvio alle fonti più volte indicate e la semplice segnalazione di almeno altre tre edizioni di un certo interesse, soprattutto perché si collocano in contesti culturali-politici e, di conseguenza, anche produttivi, diversi : il volume di storia ecclesiastica di Carlo Morabito (Annalium prothometropolitanae messansensis ecclesiae […] tomus primus, Giuseppe Bisagni, 669), il phamplet politico di Giovanbattista Romano Colonna (Prima parte della congiura dei ministri del re di Spagna contro la […] città di Messina, Matteo La Rocca, 676), e le Memorie del Gran Priorato di Messina di Andrea Minutoli stampate da Vincenzo D’Amico nel 699. Rientra, invece, solo apparentemente nel quadro che si sta tracciando quella che è senza dubbio la più bella edizione uscita dai torchi delle officine tipografiche messinesi del Seicento : l’Iconologia della gloriosa vergine madre di Dio Maria protettrice di Messina di Placido Samperi. 36 Nonostante l’esibizione di un’antiporta che può essere 33. Ragioni apologetiche del Senato della nobil città di Messina contro il memoriale de’ deputati del regno di Sicilia e della città di Palermo, Giovan Francesco Bianco, 63. L’opera era già stata edita l’anno precedente nella Stamperia del Senato e, in spagnolo a Madrid (Razones apologeticas del Senato de la noble Ciudad de Mecina). Una terza impressione, in ottavo, fu pubblicata sempre a Messina nel 63 dalla medesima stamperia senatoriale. Un esemplare della edizione in lingua spagnola si conserva nella Biblioteca Comunale di Palermo (lxi.9.22.6). Sulle valenze politiche della pubblicazione : G. Lipari, Cultura…, cit., pp. xxxiv*-xxxv* : 34. Il frontespizio, opera di Antonino Donia, fu utilizzato qualche decennio dopo per due volumi di Antonino Mirello e Mora (Discorsi delle glorie della nobile, insigne et esemplare città di Messina, Venezia, eredi del Giunti [ma Messina, Giacomo Mattei], 649) e di Alberto Guazzi (Entusiasmi d’affetto, Giacomo Mattei, 657). Su questa particolare vicenda editoriale : G. Lipari, Il falso…, cit., pp. 8-9. 35. Edito dagli eredi di Pietro Brea nel 659. 36. Edita nel 644 per i tipi di Giacomo Mattei l’Iconologia fu ristampato nel 739, ancora a Messina, da Placido Grillo, e si può oggi leggere nell’accurata ristampa anastatica, gia citata, pubblicata nel 990 dall’editore Intilla. Sempre nel xviii secolo fu immessa in circolazione una nuova presunta edizione priva dell’apparato illustrativo, ma si tratta solamente di una diversa emissione dell’edizione stampata dal Mattei. Una ricostruzione delle vicende editoriale dell’opera in Giuseppe Lipari, Ancora su l’Iconologia

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letta come un vero e proprio manifesto politico, il volume del dotto gesuita, ricco di numerose tavole impegnate a riprodurre le immagini della Vergine venerate nelle chiese della città, pregevole nella dimensione più propriamente culturale per la qualità della scrittura, per l’organicità della trattazione e per la ricchezza ed accuratezza della documentazione storica ed artistica, deve essere escluso dal novero della pubblicistica municipalista. Infatti, pur accettando e difendendo il tradizionale apparato delle credenze cittadine a proposito dei privilegi e della lettera della Madonna, l’autore tende a non esasperarne le valenze politico-ideologiche. L’Iconologia rappresenta, allora, con tutta evidenza un documento esemplare di una diversa funzione svolta, al di là delle intenzioni dell’autore, da una significativa parte dell’apparato paratestuale. Mentre il testo dell’opera segna un evidente ribaltamento del consueto cliché volto alla strumentalizzazione politica di ogni attività intellettuale, l’ornamentazione illustrativa ribadisce la tendenza, egemone nel contesto cittadino, ad indirizzare a fini apologetici anche opere che, per gli argomenti e le materie trattate, poco si sarebbero prestate ad una diretta utilizzazione in chiave propagandistica. 37 Nel complesso, tuttavia, l’insieme degli elementi paratestuali decorativi (antiporte, frontespizi incisi, tavole, fregi, finalini, capilettera, ecc.) tranne appunto nei casi prima segnalati, pur nella sostanziale somiglianza sia sul piano formale che su quello dell’evoluzione contenutistica a quelli dell’editoria continentale, rivela un modulo ripetitivo e di modesto impatto grafico. Decisamente più interessanti risultano, per caratterizzare la produzione messinese, i componimenti in lode rintracciabili in grande copia nelle edizioni dei due secoli e le lettere dedicatorie e gli avvisi al lettore che non mancano quasi mai nelle pubblicazioni soprattutto secentesche. Delle 88 cinquecentine messinesi giunte fino a noi oltre un terzo – 29 corrispondenti a quasi il 33% – registra la presenza di uno o più componimenti in lode, mentre l’incidenza di questo elemento paratestuale nelle edizioni del xvii secolo percentualmente è meno significativa e progressivamente discendente. Il 54,5% delle edizioni del ’500 è poi corredato da una epistola dedicatoria, mentre il dato del secolo successivo risulta apparentemente in calo raggiungendo la percentuale del 46,2. Se si escludono, però, dal computo tutte le edizioni istituzionali – bandi, formulari, ecc. – e le impressioni, di poche carte e di carattere prevalentemente devozionale e paraliturgico, numerose soprattutto del periodo successivo alla rivolta antispagnola, risulta evidente che le circa 400 edizioni munite di lettera dedicatoria rappresentano una percentuale senza dubbio superiore a quella registrata nel xvi secolo. I componimenti in lode permettono, infatti, di tracciare un quadro molto vivace del microcosmo intellettuale messinese del tempo, rappresentato da un ceto che indulgeva fino ai primi anni del ‘600 nel ricorso a moduli compositivi di un tardo Umanesimo e si segnalava, poi, per una sempre più marcata e convinta adesione ai modelli barocchi che, non a caso, avevano nella Città dello Stretto come autorevole diffusore Scipione Errico, ricordato come uno dei più efficaci difensori del Marino nella polemica intorno all’Adone. Compaiono così nelle edizioni impresse nella prima metà del secolo i nomi, aldi Placido Samperi, in *Monumenta humanitatis. Studi in onore di Gianvito Resta, ii, Messina, Sicania, 2000, pp. 2-28. 37. Per una più articolata considerazione delle valenze culturali dell’opera del Samperi : G. Lipari, Cultura …, cit.

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trimenti per lo più sconosciuti, di alcuni intellettuali della città (Bernardo Faraone, Giacomo Mollica, Bartolomeo Pirrone, Ferdinando Partenio Torres, Nicola Giacomo Ansalone, Mario Basilico, Giovanni Antonio Cariddi) educati nell’entourage lascariano e gravitanti nell’orbita di Francesco Maurolico, nume tutelare dell’intellettualità messinese del tempo, che pur in un contesto meramente encomiastico rivelano una non trascurabile competenza linguistica e metrica e si mostrano abbastanza aggiornati sugli sviluppi del coevo Umanesimo meridionale ; 38 mentre prende consistenza nelle pubblicazioni apparse nei decenni a cavallo fra i due secoli, un vero e proprio circolo tardo-umanistico dominato dalle interessanti figure di Nicolò Antonio Colosso, Annibale Bufalo e Francesco Flaccomio. 39 A partire dagli anni in cui si affaccia nel panorama letterario, prima cittadino e poi nazionale, Scipione Errico, la cifra caratterizzante la sempre vasta produzione di componimenti in lode dell’edizioni messinesi è quella di un barocchismo talvolta accentuato che darà le sue più evidenti manifestazioni nella Città dello Stretto con le numerose sillogi poetiche promosse intorno alla metà del secolo dall’Accademia della Fucina. 40 Le epistole dedicatorie delineano con grande vivacità il quadro ampio e variegato della società messinese nei suoi molteplici rapporti con le autorità del Viceregno e della Corte spagnola, ma anche con i diversi esponenti del potere ecclesiastico, e nelle sue complesse e controverse stratificazioni interne. Affidate alla benevolenza e al sostegno degli stessi sovrani spagnoli e più spesso a quella dei loro rappresentanti in terra siciliana, il Vicerè e i funzionari civili e militari dell’amministrazione vicereale, testimoniano soprattutto il continuo oscillare della politica messinese tra orgogliosa rivendicazione municipalistica e spregiudicata ricerca di consenso per i propri progetti egemonici. 4 In molti altri casi i destinatari delle dedicatorie sono esponenti di primo piano della feudalità siciliana o rappresentanti autorevoli del governo centrale della Chiesa e degli ordini religiosi più radicati nel contesto isolano. 42 Ma senza dubbio il referente princi38. Sull’ambiente culturale messinese dei primi decenni del Cinquecento : Rosario Moscheo, Scienza e cultura a Messina tra ‘400 e ‘500 : eredità del Lascaris e “filologia” mauroliciana, « Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina », 6 (988), pp. 595-632 ; Giacomo Ferraù, La vicenda culturale, in *La cultura in Sicilia nel Quattrocento, Roma, De Luca, 982, pp. 7-36 ; G. Lipari, Per una storia …, cit. ; Paola Megna, Per l’ambiente del Lascari a Messina : una Sylva di Francesco Giannelli, « Studi umanistici », 4-5 (993-94), 307-47. 39. G. Lipari, Cultura…, cit., pp. xviii*, xxiii*-xxiv* ; N. Longo, Colosso, Nicolò Antonio, « Dizionario biografico degli italiani », 27, Roma 982, 474-475. 40. Per l’elenco completo e per una puntuale analisi del contenuto delle raccolte degli accademici della Fucina è ancora indispensabile il ricorso al già citato volume di Nigido-Dionisi (L’accademia…, cit.). 4. L’Historia sagra intitolata mare oceano di tutte le religioni del mondo (Pietro Brea, 63) è dedicata dall’autore Silvestro Maurolico « all’invittissima e felicissima maestà di Filippo III d’Austria ». Si affidano alla protezione del Viceré in carica i volumi di Pietro Trimarchi (Vita di s. Eustachio, vedova di G. F. Bianco, 639), Lazzaro Nicoduno (Trinacriae speculum poeticum, eredi di P. Brea, 652), Antonino Mirello Mora (Il Nettuno, Giacomo Mattei, 657), Girolamo Coppola (La purità di Maria Madre di Dio, Paolo Bonacota, 664), Giuseppe Silos (Vita del venerabile servo di Dio d. Francesco Olimpio, Paolo Bonacota, 664). Fra i dedicatari figurano, ad esempio, reggenti e membri del Consiglio d’Italia (Quintano Duegna, Pietro Corsetto, Francisco Aragues, Francisco de Torrejon, Giuseppe Bettoni, ), presidenti del tribunale del regio patrimonio (Giuseppe Di Napoli), il “lugarteniente de Generalissimo de la mar y Capitan generale de las galeras de Sicilia” (Alvaro Bacan). 42. Il principe di Castelvetrano Diego d’Aragona, il barone di Vaccarizzo Elia Pontorno, il barone della Targia Francesco Arizza, il barone della medaglia Francesco La Valle Gioieni, il marchese di Capizzi

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pale della produzione editoriale messinese è il ceto nobiliare cittadino che, attraverso il Senato, controlla e dirige la politica della città orientandola alla strenua difesa della sua peculiare condizione all’interno dei possedimenti spagnoli e al mantenimento del proprio ruolo di egemonia politica ed economica. Ben  edizioni risultano indirizzate ai senatori della nobile ed esemplare città di Messina ed un numero altrettanto cospicuo è stato impresso con il patrocinio di esponenti delle più autorevoli famiglie del ceto senatorio (Balsamo, Ansalone, Cottone, Staiti, Reitano, Ventimiglia, Ruffo, Marullo, Moleti, Marquett, Stagno, Patti). 43 La considerazione approfondita delle epistole dedicatorie permette non solo di tracciare una mappa della società messinese del tempo, ma anche di verificare la circolazione in un’area culturalmente periferica di una vasta gamma di modelli compositivi e la netta prevalenza, all’interno di una prevalente prospettiva celebrativa ed encomiastica, di motivazioni squisitamente politiche tese a rivendicare il ruolo della città nei confronti degli agguerriti detrattori, retoricamente indicati come novelli Zoilo ed Aristarco. Così Francesco Andaloro, nel dedicare il suo volume di meditazioni all’arcivescovo di Messina Francesco Alvarez, confessa : « Non averei ardito desporre alla luce delle stampe questo parto della mia mente così ignudo di lumi senza la speranza di poterlo arricchire con li splendori del nome di V. S. I. » ; 44 Giovanni Battista Graffeo esprime la propria riconoscenza al Rettore del Seminario arcivescovile dichiarando : Mi sarei veramente disaminato, nella copia de’ Volumi, che ogni giorno premono i torchi, di farli anch’io gemere sotto il peso delle mie debolezze, se il solletico delle sue lodi e la dolce violenza de’ suoi precetti non mi avessero validamente incoraggiato all’impresa ; 45

Ippolito Falcone attribuisce tutto il merito del probabile successo della sua pubblicazione al patrocinio del Viceré Claudio Lamoral principe di Lignè : L’Opera essendo debole, hà bisogno d’appoggio. I colori rettorici, che si veggono nelle foglie di questo moral Narciso, sono come quelli dell’Iride, i quali da vicino altro non sono, che’ un’aria caliginosa, una tetra nuvola rarefatta : ma da lontano faran comparsa : perché il tutto sarà avvivato dal riflesso di V. E. ; 46

e con accenti simili il cappuccino Serafino Caruso da Milazzo si rivolge al Generale dell’Ordine : Il dono che l’offerisco, Reverendissimo Padre, è picciolissimo ; ma gradito che sarà dalla sua Lancillotto Castelli, il principe di san Teodoro Francesco Brunaccini. I pontefici Alessandro VII, Innocenzo X e Innocenzo XI, i cardinali Sabelli, Medici, Borghese, Colloredo, Chigi, Biscia, Barberini, Doria, Ginetti Giustiniani. I ministri generale delle varie famiglie francescane (Benigno da Genova, Antonio Aversana, Francesco Guastamiglio, Innocenzo da Caltagirone), il proposito generale della Compagnia di Gesù (Claudio Acquaviva), il maestro generale dei domenicani (Onofrio Sersale) e dei basiliani (Pietro Celi). 43. Una interessante verifica in proposito può essere condotta sulla base degli elenchi dei giurati-senatori della città stilati dal Gallo (Caio Domenico Gallo, Annali della città di Messina, Messina, Francesco Gaipa, 756-804) e approfonditamente analizzati da Carmelo E. Tavilla, Per la storia delle istituzioni municipali a Messina tra Medioevo ed età moderna, Messina, Società messinese di storia patria, 983). 44. Francesco Andaloro, Corona di dodici stelle cioè di esercizi spirituali, Vincenzo D’Amico, 694. 45. Giovanni Battista Graffeo, Il necessario esercizio d’ giovani per crescere nelle scienze, Domenico Costa, 688. 46. Ippolito Falcone, Narciso al fonte cioè l’huomo che si specchia nella propria miseria, Paolo Bisagni, 67.

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gran carità, ed ingrandito sotto l’ale della sua protettione ; son ben sicuro, che sarà ricevuto dal mondo in maggior stima di quel, ch’egli è ; 47

mentre il confratello Angelico Spadafora teorizza : Sogliono avvedutamente gli Autori doppo l’havere composta alcuna opera degna con pensiero di darla alle Stampe, dedicarla à personaggio meritevole, adorno di virtù, di sapienza, ed insieme di nobiltà, per rendere più onorevole, e di stima tal opera. ; 48

e ancora più esplicitamente, rivolgendosi al cardinale Francesco Nerli, Apollinare Agresta motiva la necessità del sostegno di autorevoli dedicatari : Non fuor di proposito, ma saviamente costumano i Scrittori, prima di mandar in luce alcun opra, consacrarla a personaggi di merito, à cui si convenga, e di volere, che la fiancheggi, e schermisca, e dall’unghie rapaci degli Aristarchi. 49

Il carattere encomiastico di molte lettere dedicatorie raggiunge spesso livelli estremi sul piano della retorica barocca come, ad esempio, (ma la campionatura potrebbe essere molto più ricca) nell’ardito paragone instaurato dal cappuccino Tommaso Gagliardo fra l’evangelista s. Giovanni e don Giovanni d’Austria si compiacque già questa Vergine di trovarsi accompagnata dalla pura e diligente custodia di Giovanni, così nel Calvario non isdegnò di vedersi dal filiale affetto del Vergine Evangelista ossequiata, ed in queste universali difese della sua originale innocenza parmi, che goda di trovarsi altresì protetta dalla divotione d’un altro Giovanni Guerriero 50

e nell’iperbolica esaltazione della famiglia Marullo ad opera di Antonio da Morcone Ne si stupisca, se non mi accosto all’albero sempre ubertoso di Eroi immortali del suo illustre Casato ; poiché sa pure che non può cieca Nottola fissare le luci nella faccia del Sole ; che non hanno i Pigmei indice da additare i Giganti ; che non può chi non è Apelle figurare gl’Alessandri ; che non sa chi non è Fidia effigiare le Minerve ; e non è permesso, che a Demostene tesser gl’elogi a Semidei : Oltre che, come il Sole non ha bisogno de’ lumi forestieri, che abbastanza da se stesso s’illumina ; così la Casa Marulla non mendica dall’altrui lingua le lodi che a sufficienza da se stessa si loda. 5

Ma è soprattutto nelle dediche al Senato della città che emerge la peculiare connotazione assunte nel contesto messinese da questo importante elemento paratestuale. Le lodi rivolte ai senatori, pur rincoducibili al consueto cliché encomiastico, in qualche misura lo valicano collocandosi in un chiaro orizzonte di propaganda politica e di rivendicazione municipalistica. In questa cornice un ruolo particolarmente significativo assumono le pubblicazioni dedicate alla celebrazione della Madonna della Lettera sia per la loro rilevanza sul piano quantitativo che per il ripetuto ricorso, nelle lettere dedicatorie, ad una serie di interessanti espedienti retorici volti ad enfatizzare per un verso il ruolo dei senatori, primi custodi della pia e veneranda tradizione, per un altro i meriti della città. E così, nonostante dal 636 un decreto senatorio stabilisse precise modalità per lo svolgimento delle 47. S. Caruso, Viaggio…, cit. 48. Angelico Spadafora, L’unigenita della gratia, eredi di Pietro Brea, 640. 49. Apollinare Agresta, Vita del protopatriarca s. Basilio Magno, Vincenzo D’Amico per Matteo La Rocca, 68. 50. Tommaso Gagliardo, Il Diamante Maria Vergine, eredi di Pietro Brea, 650. 5. Antonio da Morcone, Il genio eterno, Vincenzo D’Amico, 698.

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celebrazioni e prescrivesse che i testi della predicazione commemorativa fossero dati alle stampe (« Post peracta sacra concionabitur aliquis Orator, Oratio porro ita typis mandabitur, ut in Posteros transmittatur »), 52 la pubblicazione del sermone panegirico in onore della Patrona viene, con disarmante ripetitività, presentata come risultato di una azione proditoria ai danni di un sempre reticente predicatore, un astuto ‘stratagemma’, o come l’effetto di una pressione morale irresistibile. Nicolo Vatacci, gestore per lungo della stamperia degli eredi Brea, se qualche volta rivela senza reticenza le vere motivazioni di questa abbondante produzione agiografico-propagandistica (« e perché non si disperda colla sola voce all’aure, e non trascorra, o fugga dalle memorie del tempo, per pio istituto e prudentissimo decreto suol eternarsi alle stampe” ; “dovendo per adempimento del pubblico voto darlo alle stampe »), 53 più spesso ripropone lo schema retorico consolidato: « ma quel che diede con la voce, avaramente ha niegato alla luce : m’è capitato però in mano di furto, prima che s’opponga la sua modestia, l’ho dato alle stampe. » ; « ho procurato haver ‘l suo discorso per mezzo d’un mio singolare padrone, giache egli (per modestia) non harebbe permesso fosse dato alle stampe, se con stratagemme non gli fosse stato tolto dalle mani. ». 54 Ne diversamente opera Paolo Bonacota, successore dei Brea come tipografo della municipalità : stimava bene l’Autore, dilatar la di lei stampa doppo alcuni mesi, accioche il torchio gemesse senza timor di Cachinno o di Sardonico riso degl’Aristarchi ; Ma contentandosi [...] farla privatamente leggere da più stretti amici e sublimi Accademici. […] Lo stampatore per desiderio del Senato e noncurante delle proteste dell’autore lo manda alle stampe 55

e ancora : perché avutolo io con stratagemma in mano l’ho posto arditamente su’l candeliere elle stampe tanto per ubbidire al cenno, e contentare al gusto delle VV. SS. Illustriss. Quanto per soddisfare alla comune espettatione… 56

In altre stampe si legge : Io trattolo dalle mani dell’autore, che come pittura, dicea, di prospettiva sottrar lo volea da’ guardi di vicine pupille, lo consacro al lor riveritissimo nome ; Ma con divota stratagemma cavateglielo finalmente da sotto un suo partialissimo, m’ha comandato di darlo alle stampe ; Inimico degl’applausi popolari, perché solo si preggia d’una Cella, dove un si nobile et erudito discorso stato sarebbe in una perpetua oblivione sepolto, se con arti e stratagemme, non se li cavava dall’ombre perché a beneficio comune vedesse la luce ; l’habbiamo giudicato degnissimo delle stampe e benché compaia nelle scene del mondo sul vespro dell’anno, potissima cagione ne fu la rara humilitade del sudetto Padre, attestandoci, che quei difetti […] non 52. C. D. Gallo, Annali…, cit., iii, p. 269. 53. Giuseppe D’Andrea, Oratione fatta in honore della sacratissima Lettera di Nostra Signora scritta à messinesi, eredi di Pietro Brea, 650 ; Tommaso Maria Spada, La colonna di nube.Discorso per la Lettera scritta ai messinesi dalla beatiss. Vergine, eredi di Pietro Brea, 654. 54. Giuseppe Spadafora, Predica della Lettera di Maria Vergine scritta à messinesi, eredi di Pietro Brea, 643 ; Andrea Capranica, Discorso sacro de preggi della città di Messina per la Lettera scritta dalla Beata Vergine, eredi di Pietro Brea, 65. 55. Antonio Maria Sersale, Lettera guerriera, eredi di Pietro Brea, 657. 56. Giuseppe della Madre di Dio, Discorso nella solenne festa della Lettera scritta dalla gran Madre di Dio Maria Vergine à messinesi, Paolo Bonacota, 659.

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doversi come sconci personaggi rappresentare al teatro delle stampe, […] contraddicendoci habbiamo trasmesso il sudetto discorso alla luce 57

Lo stesso espediente retorico viene utilizzato pure in una delle più rilevanti pubblicazioni di taglio esplicitamente municipalista, L’eternità delle conversioni felici di Giuseppe Maria Mazzara, apparsa nel 660 per i tipi di Paolo Bonacota. 58 Il topos del furto ai danni dell’autore introdotto nella immancabile dedica ai senatori : Quest’opra nata di rapina, è pur da noi di furto, pubblicata alla luce. Ma, e ‘l furto e la rapina son tanto innocenti che ardiscono di portarsi al giustissimo Tribunale delle SS. VV. Illustrissime, non solo senza tema di esser puniti, ma con certissime speranze d’esser lodati

è ribadito ed amplificato in quella indirizzata al lettore : Capitato dunque per questa strada in nostra mano, fu tosto da noi consegnato alle stampe. Ne per mille istanze ch’ei ne facesse per tutto l’oro del mondo l’habbiam voluto ritornare à chi lo compose, che lo richiedeva sotto colore di darli forma più propria ; perché erevamo sicuri, che non tornava più nella nostra se mai dava nella sua mano. […] Godi dunque lettore, de’ nostri furti, commessi però senza scrupolo alcuno. E se per necessità di due veri mali si dè scegliere il minore, quanto più, per non far empia rapina alla Patria et al Regno tutto della difesa di un pregiatissimo lume e d’un de’ primi splendori, fu dovere che si elegesse quest’altra pia, di rapir questa nobil opra all’Authore ?

Si ritrova nel volume del Mazzara, e in tanti altri che potrebbero essere facilmente ricordati, l’affermazione di un orientamento politico-culturale teorizzato tra l’altro dagli accademici della Fucina, i quali già nel loro atto costitutivo manifestavano la volontà di illustrare la città non solo nelle lettere e attraverso l’investigazione scientifica, ma anche di sostenerla con l’ausilio della cultura e dell’erudizione nella difesa dei propri privilegi. 59 Un orientamento radicato nella tradizione plurisecolare di un uso spregiudicato della stampa a fini politici che vide il suo primo incunabolo nella Protesta dei messinesi del 478. 60 Non mancano, però, attestazioni di un uso dell’apparato paratestuale, soprattut57. Giuseppe Maria Costa, L’incantesimo. Oratione panegirica della sacra Lettera scritta dalla Beata Vergine à messinesi, Matteo La Rocca, 676 ; Antonio da Morcone, Il genio… ; Bernardo De Reggi, L’ombre luminose. Paradosso in confermatione della verità della sacra lettera scritta dalla beatissima Vergine Maria Madre di Dio alla città di Messina, eredi di Pietro Brea, 652 ; Tommaso di s. Raimondo, La destra favoreggiante. Discorso sopra la Lettra mandata alla città di Messina dalla genitrice di Dio sempre Vergine Maria, Giacomo Mattei, 65. 58. Le motivazioni dell’opera sono chiaramente indicate nel complemento del titolo che recita : Discorso sopra la cagione delle feste che celebra a s. Paolo Apostolo nel giorno della sua conversione la gran città di Messina. In cui, con questa occasione, si parla delle glorie di questa nobile et esemplare città, particolarmente delle sue vittorie in servigio di Arcadio imperadore e de premii da quello ottenuti. 59. Leonardo Patè nella seduta inaugurale dell’Accademia il 3 giugno 642 si domandava retoricamente : « Quale raggione che gli alunni d’una nobile città, non s’impieghino sì nello studio delle buone arti, che a suo talento possino, quando l’occasione lo ricerchi, o trovarsi pronti, a suo prò, con la prudenza de’ consigli ; o maturi in trattar la penna, per accrescer pinne all’ale, e suono alle trombe della fama ; o accinti alla difesa di quelle raggioni, ove s’appoggia la pubblica immunità ; o arguti nel rintuzzar l’orgoglio alle calunnie, ch’affina la malignità, a danni delle comuni prerogative ; o almeno atti a maneggiar coi discorsi convenevolmente quei trattati, che agli affari della patria di giorno in giorno si convengono ? » (Le Muse festeggianti nell’aprirsi l’Accademia della Fucina nella città di Messina, Bologna [ma Messina], G. B. Ferroni, 642, p. 4. 60. Concetta Bianca, Stampa cultura e società a Messina alla fine del Quattrocento, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 988, pp. 73-37.

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to dell’avviso al lettore, in funzione meramente illustrativa di particolari aspetti del processo tipografico-editoriale e delle problematiche della circolazione libraria ed è forse in questa direzione che vanno individuati gli aspetti meno provinciali delle pubblicazioni messinesi del Cinque-Seicento. Ecco, allora, il simpatico ritratto di una particolare categoria di lettori tracciato da Francesco Laguzza : Altri poi si mostrano mal contenti de’ libri, e sempre li vedi andar alla busca de’ libri più migliori, e questo lasciano e quello pigliano, e mai profittano. Tra questi tali cert’anima una volta mi chiedea un libro caldo ; sorrisi a tal richiesta, ma ben’intesi il senso de’ suoi desideri, ch’erano di qualche libro spiritoso, che havesse concetti nuovi e parole di fuoco, acciò quasi la necessitate ad infiammarsi nell’Amore di Dio. A dire però il vero non mancò mai per i libri, perché ve ne sono in tanta abbondanza, che ne sono ormai stanchi i torchi 6

oppure il sommesso invito rivolto dallo stampatore all’amico lettore perché compatisca le mende del suo lavoro : Quest’opra rapita all’Authore, non sortì la dovuta diligenza delle mani che la composero nell’emenda della sua impressione. Però perdonerai di buona voglia moltissimi che vi vedrai sparsi volgari latini e molto più greci, nella qual lingua questa è la prima volta che in questo torchio s’imprime da chi pur sa il nome di quelle lettere, e le pinge più che compone. Sarà dunque tua cura il far insieme e ‘l lettore e ‘l correttore […]. Finisco, amico lettore, per non passar a farvi un nuovo volume 62

o ancora la risentita ed insieme spiritosa rivendicazione della dignità del proprio ruolo che lo stampatore del Quaresimale indirizza all’assemblea dei critici : 63 Fatalità delle Stamperie ! Ogni libro vi entra con in fronte l’Hosanna dell’encomiastiche approvationi dell’Autore : All’uscirne si parte con alle spalle la sentenza vituperosa d’un Crucifigatur al meschino compositore de caratteri condannato a passeggiare le librarie con un cartellone d’Errata Corrige compilatoli anco dal volgo e non di letterati ; E ciò, dicono, per misericordia perché à severa giustitia convinto reo di più falli, doverebbe passare per più supplicij : Eh ! Quà manca una lettera ! Condannatelo di Rapina. Là si raddopiano li caratteri ! Banditelo scialacquatore delle caselle dateli in fidei commisso. Ivi si trasformano Maschi in Femine, e, con inaudito Eunuchismo, Femine in Maschi ; misere lettere stroppie, e capovolte ! Al fuoco lo Stregone. Quà và dismessa una virgola, là un punto ! Squartatelo reo di lesa Maestà letteraria. Sì ! Vorrei che questi Radamanti venissero à provarsi un dì sù il mestiere. De’ falli, Originali macchie delle stampe, basta tanto haver occhi à passarli benignamente, et assolverne la colpa con un segno di penna amica : Se qualcuno me n’è scorso considerabile, come te lo confesso nel processo scritto qui sotto : così la benignità del Lettore lo condonerà alla tediosa occupazione di abecedarij accozzamenti.

Può essere, infine, di buon auspicio assumere ad epigrafe conclusiva di questa, certamente parziale, rassegna la convinta dichiarazione a sostegno del ruolo meritorio del libro che Giuseppe da Cammarata rivolge nell’avviso al solito amico lettore : I libri […] sono consiglieri incorrotti, che dicono la verità, perché discorrono senza interesse, lodano senza adulazione e riprendono senza tema, […] sono specchi lucidissimi, che fanno vedere quale sia la faccia dell’anima : sono le poppe spirituali dalle quali l’huomo succhia gli

6. Francesco Laguzza, Affetti a Giesù addolorato, Paolo Bisagni, 67. 62. G. M. Mazzara, L’eternità…, cit. 63. Vincenzo D’Amico, 693. M. T. Rodriquez, Il Seicento…, cit., p. 204.

il paratesto nell’editoria messinese cinque-seicentesca

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alimenti vitali dello spirito. Sono finalmente la lucerna dalla cui luce illuminata, l’anima non teme punto di precipitio. 64

Abstract La produzione tipografica messinese dei secoli xvi e xvii rivela un orizzonte prevalentemente locale sia sul versante della committenza sia, per quanto in misura minore, su quello della fruizione. Si caratterizza per una marcata connotazione municipalista che si manifesta ora con opere esplicitamente afferenti a tale ambito (storie locali, apologie, dissertazioni giuridiche, libelli polemici), ora con pubblicazioni celebrative (ingressi trionfali di sovrani e viceré, nascite e funerali, feste religiose e vicende culturali) volte ad evidenziare le magnificenze della città e il ruolo dei suoi ceti dirigenti, spesso con volumi riconducibili alle più prestigiose istituzioni culturali (lo Studio generale e l’Accademia della Fucina), infine, ma forse soprattutto con le opere dedicate all’esaltazione della Patrona della Città, la Madonna della Lettera. Questa caratterizzazione non poteva non avere delle ricadute anche sul versante paratestuale e così, ad esempio, la prevalente fruizione locale del materiale impresso e il regime pressoché monopolistico delle officine messinesi, induce i tipografi ad un minore ricorso agli elementi decorativi che vengono utilizzati quasi esclusivamente in quelle pubblicazioni destinate ad una circolazione più ampia e/o ad una funzione più immediata di propaganda politica. Decisamente più interessanti risultano i componimenti in lode, in grande copia rintracciabili soprattutto nelle edizioni del xvi secolo, e le lettere dedicatorie e gli avvisi al lettore che non mancano quasi mai nelle pubblicazioni secentesche. I componimenti in lode permettono, infatti, di tracciare un quadro molto vivace del microcosmo intellettuale messinese del tempo, rappresentato da un ceto che indulgeva fino ai primi anni del ’600 nel ricorso a moduli compositivi di un tardo umanesimo e si segnalava, poi, per una sempre più marcata e convinta adesione ai modelli barocchi. Le dediche rivelano con grande vivacità il quadro ampio e variegato della società messinese nei suoi molteplici rapporti con le autorità del Viceregno e della Corte spagnola ma anche nelle sue complesse e controverse stratificazioni interne. Permettono, inoltre, di verificare la circolazione in un’area culturalmente periferica di una vasta gamma di modelli compositivi e la netta prevalenza, all’interno di una prevalente prospettiva celebrativa ed encomiastica, di motivazioni squisitamente politiche. Typographic production in Messina in the 16th and 17th centuries reveals prevalently local aspirations, regarding those who commissioned a work as well as ( in a lesser measure) its ultimate enjoyment. It was characterized by the marked connotations of the city government, which was sometimes manifested in works that were explicitly pertinent to that subject (local stories, apologies, juridical dissertations, polemic libels), and at other times with celebratory publications, (triumphal arrivals of sovereigns and viceroys, births and funerals, religious festivals and cultural events). These aimed to proclaim the city’s magnificence and the role of its ruling classes, often with volumes that can be traced to the most prestigious cultural institutions (the General Studio and the Accademia della Fucina), and finally – perhaps especially – with works devoted to praise of the city’s patron saint, the Madonna della Lettera. This situation could not help but have an effect on the paratextual aspect as well. Thus, for example, the prevalently local enjoyment of the printed material and the practically monopolistic regime of the Messina print-shops, led typographers to use fewer decorative elements, which came to be utilized almost exclusively in publications destined for a wider circulation and/or the more immediate function of political propaganda.

64. Giuseppe da Cammarata, Acuti sproni e pungentissime spine che svegliano e pungono i peccatori, Giuseppe Bisagni, 667.

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Decidely more interesting were the laudatory compositions found in great abundance, especially in 17th-century editions; letters of dedication and notes to the reader are almost always present in publications of that period. The laudatory compsitions allow us to retrace a very lively picture of the intellectual microcosm of Messina at that time, represented by a social class that since the early 1600s indulged in this recourse to the compositional modules of late humanism and was distinguished for an increasingly marked and convinced adhesion to baroque models. The lively dedications reveal an extensive and variegated picture of Messina society in its many relationships with the authorities of the Viceroy and the Spanish court, as well as in its complex and controversial internal stratifications. Furthermore, they permit verification of the circulation of a vast range of compositional models in a culturally marginal area, and a clear prevalence, within a perspective that was often celebratory and laudatory, of purely political motivations.

Loredana Olivato DALLA TELA ALLA PAGINA : I CATALOGHI D’ARTE FIGURATI NEL VENETO FRA XVIII E XIX SECOLO

S

i data al 88 l’uscita alle stampe, presso la tipografia Mainardi di Verona, di un agile opuscoletto intitolato Succinta descrizione d’una raccolta di quadri originali esistenti in Verona presso il Signor Giovanni Albarelli che descriveva, in termini molto concisi, la quadreria di un personaggio che, pur non appartenendo ai ranghi illustri della locale aristocrazia, ma solo « mosso dall’amore che nutrir deve ogni uomo di qualche gusto per le opere degli uomini grandi, per quelle opere insigni che sublimarono la Pittura e li resero immortali », aveva collezionato – nella sua casa di piazzetta Portichetti in Regaste S. Zeno – insigni dipinti di artisti famosi e si apprestava a renderli noti al pubblico tramite un suntuoso volume celebrativo.  Il testo introduttivo, infatti, precisava che « il Sig. Paolo Cagliari pur veronese, che diede distinte prove del valor suo nelle Belle Arti, ha già eseguito il disegno della maggior parte degli anzidetti dipinti e ne farà l’intaglio in rame a soli contorni ». 2 Anzi, il fascicolo si proponeva proprio lo scopo di patrocinare un’associazione di intenditori, « persone di genio » e « studiosi di pittura », che sottoscrivessero anticipatamente l’acquisto del libro garantendone così, nel più breve tempo possibile, l’esito a stampa, dove ogni esemplare sarebbe stato illustrato dalla relativa incisione di cui, nel frattempo, si stavano già eseguendo i disegni. E si trattava, a scorrere l’introduzione, di opere – oltre 40 – dei più celebrati autori : da Giovanni Bellini e Andrea Mantenga a Paolo Veronese, a Raffaello, a Tiziano, a Bassano, a Guido Reni e via citando. Non entriamo per il momento nel merito di come l’episodio si concluse : ci torneremo sopra alla fine dell’intervento, anticipando tuttavia che, alla luce dei dati documentari di cui siamo venuti in possesso e di cui abbiamo già ragionato nelle sedi specifiche, l’intera impresa suona piuttosto come un’abile operazione di marketing che come una ricognizione scientifica, sia pur a scopo divulgativo e, implicitamente, autocelebrativo. Ci preme invece osservare come tale avvenimento si configuri come rispondente ad un ormai accreditato costume : quello cioè di render note collezioni private (non necessariamente di dipinti, ma anche di gemme incise, di statue, di medaglie, di monete, di reperti archeologici, ecc.) attraverso cataloghi illustrati e spesso ragionati. . La vicenda, ricca di colpi di scena e di inaspettati risvolti che riveleremo fra poco, è oltremodo curiosa e tale da aver meritato uno specifico intervento : cfr. di chi scrive Per il mercato dell’arte a Verona all’inizio del secolo XIX : il caso Albarelli, in Tra committenza e collezionismo. Studi sul mercato dell’arte nell’Italia Settentrionale durante l’età moderna, a cura di E. M. Dal Pozzolo e L. Tedoldi, Vicenza, 2003, pp. 67-76. 2. L’autore dei disegni preparatori alle incisioni – tuttora reperibili nella Biblioteca Civica di Verona, Gabinetto di quadri o raccolta di pezzi originali esistenti in Verona presso il Signor Gio. Albarelli disegnatti da Paolo Caliari con illustrazioni, Ms.847, e pubblicati in ristampa anastatica da F. Dal Forno nel 975 – è Paolo (detto spesso Paolino) Caliari, personaggio di spicco nella cultura figurativa dell’epoca, valido pittore nonché docente della locale accademia come anche provetto copista : su di lui basti in questa sede citare (anche per tutti i precedenti contributi e le fonti) i saggi specifici di L. Rognini, Paolo Caliari, in La pittura a Verona dal primo Ottocento a metà Novecento, a cura di P. Brugnoli, Verona, 986, pp. 4-44 ovvero il più recente G. Marini, Paolino Caliari, in La pittura in Italia. L’Ottocento, Milano, 99, ii, pp. 725-26.

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Fig. . Pietro Monaco, da G. Battista Tiepolo, Sant’Ilarione Abate, nella collezione di Pietro Monaco.

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Beninteso, ciò capita anche per le pubbliche raccolte (quella fiorentina dei Lorena è emblematica in proposito) : ma in quest’occasione vogliamo limitarci al territorio veneto. Ancora : non è nostro interesse entrare nel dibattito sulle cosiddette stampe di traduzione su cui si è in più occasioni dibattuto : e basti citare i contributi basilari di Evelina Borea o di Ferdinando Mazzocca al riguardo. 3 Certo è che, a partire dal xviii sec. a Venezia e nel Veneto, si affaccia la consuetudine di proporre al pubblico non solo stampe d’arredo o da collezione, ma la vera e propria illustrazione di raccolte museali, arricchite di costosi intagli, per lo più in rame, e spesso affidate, per il disegno, ad autori di grido. Non sarà per caso se il console inglese Joseph Smith, uno fra i più noti e discussi mecenati e collezionisti della Dominante, colui che determinerà l’impianto delle collezioni reali inglesi cui destinerà la gran parte dei suoi dipinti, 4 sceglierà un artista di fama riconosciuta, G. B. Brustolon per incidere le 00 tavole (disegnate da altro personaggio di prestigio, Anton Maria Zanetti il Giovane) che corredano la Dactylografia Smithiana, 5 illustranti le medaglie, le monete e le antiche gemme preziose che arricchivano la sua specifica raccolta. Probabilmente ispirandosi alla precedente impresa editoriale di un altro grande protagonista del mondo degli intenditori di quel genere, acuto connoisseur e critico finissimo oltre che artista egli stesso (i suoi schizzi e le sue caricature sono stati al centro di mostre in più occasioni), Anton Maria Zanetti il Vecchio cioè, che si era premurato di rivolgersi ad uno dei più noti editori veneziani, Giovan Battista Albrizzi, per pubblicare il lussuoso volume, stampato a proprie spese, che doveva render nota al pubblico degli specialisti la propria raccolta di pietre incise e medaglie, la Dactylotheca Ant.M.Zanetti. 6 Operazione dispendiosa senz’alcun dubbio, non solo per la ricchezza delle illustrazioni ma anche per il commentatore 3. Cfr. E. Borea, Stampa figurativa e pubblico dalle origini all’affermazione nel Cinquecento, in Storia dell’arte italiana. L’artista e il pubblico, 2, a cura di G. Previtali, Milano, 979, pp. 37-43 ; F. Mazzocca, L’illustrazione romantica in Storia dell’arte italiana, 9, Grafica e immagine, ii, a cura di F. Zeri, Milano, 98, pp. 323-49 ; E. Borea, Le stampe che imitano i disegni, « Bollettino d’arte », 67 (maggio-giugno 99), pp. 87-22, e, della stessa, Per i primi cataloghi figurati delle raccolte d’arte del Settecento, in Il segno che dipinge, a cura di C. Bon Valsassina, Bologna, 2002, pp. 75-96. 4. Sul console Smith e le vicende delle sue collezioni si rimanda allo specifico, documentatissimo volume di F. Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, Vicenza, 97, integrato dal più recente, della stessa autrice, catalogo della mostra Da Raffello a Canaletto. La collezione del console Smith. Grandi disegni della Royal Library di Windsor, Milano, 990. A ciò si aggiunga F. Montecuccoli Degli Erri, Il console Smith : notizie e documenti, « Ateneo Veneto », n.s. 33, 996, pp. -8. 5. Il volume uscì nel 767. Intorno alle vicende della committenza d’arte del Settecento veneziano, resta fondamentale il saggio, ancor oggi godibilissimo, di F. Haskell, Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e società italiana nell’età barocca, Firenze, 966 (ma cfr. l’ediz. aggiornata Torino, 2000). Ma vedi ancora di K. Pomian, Antiquari e collezionisti, in Storia della cultura veneta, cura di G. Araldi e M. Pastore Stocchi, iv/i, Vicenza, 983, pp. 493-547 e Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano 989. Oltre ai recenti cataloghi di mostre : Dai Dogi agli imperatori : la fine della Repubblica fra storia e mito, a cura di G. Romanelli, Milano, 977 (in particolare sul problema delle dispersioni) ; Venezia ! Kunst aus venezianischen Palästen. Sammalungsgeschichte Venedigs vom 13. bis 19. Jahrhundert, Bonn, 2002 (dove son reperibili altri, più specifici interventi). 6. Il volume fu pubblicato nel 749. Su Anton Maria Zanetti il Vecchio si vedano anzitutto i diversi cataloghi delle mostre a lui dedicate a cominciare da Caricature di Anton Maria Zanetti, a cura di A. Bettagno, Venezia, 969 ; Caricature di Anton Maria Zanetti. Disegni della Fondazione Giorgio Cini, a cura di A. Bettagno ; inoltre A. Bettagno, Brief notes on a great collection : Anton Maria Zanetti and his collection of drawings, in Festschrift to Erik Fisher. European Drawings from six centuries, Copenhagen, 990, pp. 0-08.

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Fig. 2. Pietro Monaco, da Luca Giordano, Pesca miracolosa, nella collezione di Francesco

convocato ad esprimere il proprio parere scientifico sui pezzi presentati, l’illustre cultore d’antichità fiorentino Anton Francesco Gori, cui spettò il compito di redigere (in latino !) il testo accompagnatorio (testo che si pensò bene di proporre, per i non addetti ai lavori, anche in traduzione italiana). 7 Ho citato queste due imprese editoriali – fra le tante che si potrebbero segnalare non per caso. Si tratta, infatti, di iniziative affrontate da due figure emblematiche nell’ambito veneziano dei collezionisti, raccoglitori, connoisseurs, intenditori e committenti che furono anche intermediari ed agenti fra artisti ed illustri casati, favorendo la circolazione in Europa di opere di pittori contemporanei della Serenissima come anche di antichi maestri italiani. È ben nota la passione dello Zanetti per il mondo dell’arte cui, di fatto, appartenne : sappiamo dei suoi contatti, fervidi e vivaci, per pittori quali i due Ricci, Sebastiano e Marco, per Rosalba Carriera e per il cognato di quest’ultima, Giovan Antonio Pellegrini. Conosciamo i suoi rapporti col Tiepolo, la sua ammirazione per Zuccarelli e Canaletto, la sua stretta amicizia per Gaetano Zompini che abitò addirittura presso di lui, ricevendo un salario e regolari commissioni. 8 È ovvio che l’appassionato interesse per le sue personali collezioni (quella di dipinti, fra cui spiccavano esemplari dei maggiori artisti veneziani del momento, quella di gemme di cui si dirà più oltre e quella, soprattutto, di stampe ed incisioni, che lo 7. Su rapporti fra gli Zanetti e l’antiquario Gori cfr. R. Bandinelli, I due Zanetti ad Anton Francesco Gori, in Lettere artistiche del Settecento veneziano, a cura di A. Bettagno e M. Magrini, Vicenza, 2002, pp. 343-370. 8. Ancora una volta resta imprescindibile Haskell, Mecenati…, cit., pp. 523-524.

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Fig. 3. Pietro Monaco, da G. Battista Pittoni, Il Battista nel deserto, nella collezione di Pietro Monaco

coinvolse al punto da spingerlo a spese ingenti e a ricerche faticose) dovette renderlo partecipe delle vicende del mercato artistico locale. Non solo : il Nostro si prestò in più di un’occasione per farsi intermediario dell’acquisto di opere d’arte per stranieri di rango (valga per tutti citare il ministro svedese, conte Tessin, interessato ad assumere Giovan Battista Tiepolo come pittore di corte a Stoccolma) ovvero per personaggi di prestigio ma certo anche dotati di ingenti disponibilità economiche che potevano compensare senza problemi non solo il valore degli acquisti fatti ma anche la sua – certamente dotta e competente ma riteniamo non disinteressata – mediazione. Alla sua volta anche il console Smith ebbe significativi punti di contatto con lo Zanetti. Entrambi coinvolti in un entourage culturale che comprendeva i nomi illustri di Andrea Memmo, Apostolo Zeno, Francesco Algarotti, del maresciallo Schulenburg 9 e di tanti altri, addentro alla problematica che la diffusione delle nuove idee introdotte d’Oltralpe veniva instillando negli intellettuali dell’epoca. Entrambi insomma risultano vivacemente interessati all’arte, conoscitori acuti e penetranti della cerchia dei pittori più rappresentativi e aggiornati del panorama lagunare come anche sempre attenti alla circolazione sul mercato di antichi maestri di cui entrambi (lo Smith con maggior accanimento) erano appassionati. Beninteso sto riferendomi a fatti ben 9. La collezione del maresciallo Schulenburg è stata di recente oggetto di analisi da parte di A. Binion, La galleria scomparsa del feldmaresciallo Schulemburg, Milano, 990.

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noti e su cui gli studiosi (il compianto Francis Haskell in primis) si sono ampiamente dilungati. C’è tuttavia un particolare che sembra essere stato trascurato dagli studi pregressi. La circostanza che entrambi vollero illustrare e pubblicare non tanto le proprie raccolte di dipinti quanto quelle delle medaglie e gemme incise. Sarebbe stato ben difficile proporre un catalogo figurato del museo pittorico dello Smith che comprendeva un numero ingentissimo di opere, alcune delle quali di straordinario valore, che già nel 762 egli si risolse a vendere alla corona inglese presso le cui collezioni ancor oggi si ritrovano. 0 Analogamente lo Zanetti : la cui raccolta di pitture e di stampe dovette essere non solo cospicua quanto anche di raffinata e variegata impostazione.  Anche in questo caso un catalogo della collezione sarebbe stato troppo dilatato e pressocchè inutile. Entrambi viceversa, lo Smith e lo Zanetti, si preoccupano di far eseguire, lussuosamente arricchite di incisioni che ne ritraggono ogni singolo pezzo, le due diverse Dactylotheche. Ma qual’era la finalità di tale dispendiosa impresa ? Beninteso, in apparenza, lo scopo – nobile scopo – è presto detto : come Anton Maria scrive si trattava di far circolare nel suo colto entourage, fatto di conoscitori competenti del genere, spesso alla loro volta coinvolti in scambi di informazione e di pezzi antichi, la collezione nella sua interezza, in particolare coinvolgendo gli amici oltramontani “che – come candidamente ribadisce nell’introduzione – non potevano fare il viaggio a Venezia per venire a vedere le sue gemme”. 2 Ma in realtà – e già lo adombrava Francis Haskell 3 – l’operazione era puramente mercantile. Il superbo catalogo, con tanto gusto e tanto dispendio arricchito di belle stampe – serviva soprattutto per essere un vero e proprio catalogo di vendita. Come del resto era stato per lo Smith il quale, in precedenza, nel 755, aveva addirittura, per lo stesso fine, pubblicato l’elenco – cospicuo – dei volumi da lui posseduti col pomposo titolo di Biblioteca Smithiana nella fiducia di poterne trattare la cessione integrale agli Hannover. Impresa che gli riuscì, come si diceva, – coinvolgendo anche la quadreria e le gemme – solo alcuni anni dopo, nel 762. 4 Questo tipo di iniziative non nascevano tuttavia isolate. Bensì appaiono quando ormai a Venezia si era da tempo affermata l’impresa editoriale (che riscosse molto successo sul mercato) dedicata a raccolte di stampe di traduzione illustranti i principali artisti della città lagunare. Già, infatti, l’Opera Selectoria di Valentino Lefévre (682) si proponeva di celebrare i grandi maestri veneziani (Tiziano e Veronese fra tutti), proponendo la riproduzione dei capolavori dei due artisti. A questa era seguita, fra le altre, Il Gran Teatro di Venezia ovvero raccolta delle principali vedute e pitture che in essa si contengono pubblicato da Domenico Lovisa nel 77 cui si aggiungeva, ben presto, nel 0. In proposito cfr. sopra la n. 4. . Abbiamo già citato lo Zompini e l’attività di mecenate che Anton Maria esercitò nei suoi confronti. Ma fu soprattutto la raccolta di stampe ad essere da lui prediletta : « Ho fatto un museo di stampe – scriveva nel 752 ad Anton Francesco Gori – raccolte in Italia e né miei viaggi, che sorpassa la condizione d’un privato, e ne spererei di potergli far vedere qualunque stampa rara di qualunque auttore che mi venisse ricercata… ». Aggiungendo compiaciuto dettagli precisi sul suo modo di raccogliere gli esemplari, sul suo accanimento nella ricerca di pezzi rari, sugli scambi continui che avvenivano nell’ambito degli intenditori tanto da ammettere « in verità molte volte feci delle pazzie in tal genere di cambi… ». La lettera è pubblicata in Haskell, Mecenati …, cit., pp. 52-522. 2. Cfr. Haskell, Mecenati …, cit., p. 523. 3. Cfr. la nota precedente. 4. Cfr. sopra la nota 4.

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Fig. 4. Gaetano Zancon, da Tiziano, Assunta, ora nel Duomo di Verona.

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720, una seconda e più nota edizione : Il Gran Teatro delle pitture e prospettive di Venezia. Cui possiamo avvicinare Le Fabbriche e vedute di Venezia di Luca Carlevarijs uscito nel 703 ovvero il Prospectus Magni Canalis Venetiarum del 735 dei Canaletto-Visentini patrocinato proprio dallo Smith, come anche la serie che illustra le più tarde vedute di Venezia del Marieschi (74). Mi son limitata a citare alcune delle più note (e più anticipate nel tempo) imprese editoriali in questo campo : anche se è chiaro il pubblico cui queste sono rivolte. Si tratta del mercato, molto attivo, degli stranieri non sempre facoltosi che giungono nella Capitale Serenissima in capo ad un viaggio che promette di essere il clou di un’esperienza piacevolissima ed edificante. Non solo dunque la visione diretta di una città che era ancora mito irraggiungibile, universo cosmopolita e variegato, quanto anche la conoscenza di capolavori ammirati che, se non potevano esser acquistati vuoi perché assicurati al pubblico possesso o a collezioni private irraggiungibili, vuoi perché di prezzo troppo ingente, divenivano disponibili, nella loro traduzione a stampa, configurandosi anzi parte di una sequenza dove un’immagine integrava e preludeva alla seguente. Diverso ci appare lo scopo di altre, e per certi versi analoghe, pubblicazioni : ci riferiamo alla Raccolta di cento dodici stampe di pitture della storia sacra, pubblicata da Pietro Monaco, che ebbe grande successo tanto da godere di ben sette edizioni fra 743 e 763 e recentemente riproposta con una puntuale introduzione ed ulteriori notizie documentarie da Davide Apolloni, Figg. -3). 5 Ovvero del progetto della Venezia pittrice che il raccoglitore-collezionista-mercante d’arte Giovanni Maria Sasso era venuto organizzando, forse sull’esempio dell’Etruria pittrice del Lastri, a partire dal 785 almeno, e lavorandovi (lasciandola tuttavia incompiuta) sino al momento della morte ; raccolta che doveva costituire, in una serie di immagini incise « dai maggiori esperti del bulino » e adeguatamente commentate, una sintetica « storia dell’arte veneta », a cominciare dalle origini fino alla contemporaneità. 6 La morte dell’organizzatore, avvenuta nel 803, mise fine all’impresa di cui son sopravvissuti tuttavia alcuni dei fogli già tirati (un’ottantina circa). Il nostro personaggio, già studiato per la sua competenza come mercante nonché come conoscitore raffinato, è stato anche considerato in quanto intenditore e collezionista (in realtà indirizzato alla vendita) non solo delle opere più conclamate dell’arte veneziana, quelle del Rinascimento, quanto come scopritore della grandezza – all’epoca ancora sottostimata – dei cosiddetti pittori primitivi. L’elenco dei fogli sopravvissuti, ancor oggi esistenti presso il Museo Correr, è stato compiutamente ragionato da Evelina Borea e non vogliamo tornare sull’argomento che è stato esaustivamente trattato. 7 Resta però da fare un’ulteriore serie di considerazioni. In apparenza le iniziative del Monaco e del Sasso appaiono tutt’affatto diverse. 5. La raccolta del Monaco, uscita alle stampe nel 743, è stata integralmente ripubblicata, con una ricca introduzione e commento, a cura di D. Apolloni, Pietro Monaco e la raccolta di cento dodici stampe di pitture della storia sacra, Monfalcone, 2000. 6. Su Giovanni Maria Sasso cfr. i recenti interventi (con quasi ogni referenza bibliografica precedente) di M. Orso, Giovanni Maria Sasso mercante, collezionista e scrittore d’arte della fine del Settecento a Venezia, « Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti », 985-986, 44, pp. 37-55, e di R. Callegari, Il mercato dell’arte a Venezia alla fine del Settecento e Giovanni Maria Sasso, in Antonio Canova e il suo ambiente artistico fra Venezia, Roma e Parigi, a cura di G. Pavanello, Venezia, 2000, pp. 95-9. 7. Cfr. E. Borea, Per la fortuna dei primitivi : la Istoria Pratica di Stefano Mulinari e la Venezia pittrice di Gian Maria Sasso, in Hommage à Michel Laclotte. Études sur la peinture du Moyen Âge e de la Renaissance, Milano, 994, pp. 503-52.

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Fig. 5. Gaetano Zancon, da Paolo Farinati, Madonna e Santi, nella chiesa di San Paolo di Verona.

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Quello del primo è un ciclo inciso secondo la tecnica tradizionale, con profusione di ombreggiature e chiaroscuri, raffinati lumeggiamenti ad effetto pittorico. Il motivo aggregante della raccolta è di carattere iconografico : si tratta, infatti, nelle intenzioni dell’autore, di riproduzioni di testi pittorici famosi, tutti di soggetto biblico o riconducibili alla Bibbia. Probabilmente – come afferma l’Apolloni – sulla base del successo ottenuto da un’impresa precedente e consimile, la cosiddetta Bibbia Nicolosi pubblicata nel 699 da Giovan Battista Albrizzi, ristampata ben  volte entro il 737 quando, essendo le matrici ormai consumate, se ne decise l’integrale rifacimento ad opera di Giambattista Jackson. Diversa la proposta di Pietro Monaco che sceglie opere poco conosciute, per lo più di collezioni private, di grandi autori veneziani e stranieri tanto da consegnarci tutt’oggi – come scrive il compianto Adriano Mariuz 8 – « un giro d’orizzonte delle collezioni veneziane, rese per la prima volta accessibili allo sguardo del pubblico, una documentazione significativa della ricchezza e della varietà di un diffuso patrimonio d’arte, fino ad allora sconosciuto ai più ». I dipinti riprodotti, riconducibili a celebri artisti che vanno da Tiziano a Tintoretto, a Veronese, a Bernardo Strozzi, Rubens, Rembrandt, Luca Giordano, giù giù fino a Giovan Battista Tiepolo, sono, infatti, quasi tutti appartenenti a collezioni private e dunque poco conosciuti al vasto pubblico. Per quel che riguarda i proprietari, i cui nomi figurano in evidenza nella cornice dell’immagine, si tratta di ceti sociali differenziati, non limitati all’aristocrazia (i Grimani dei Servi, i Contarini di S. Polo, i Cornaro di S. Maurizio, ecc.) ma comprendenti anche nuovi ricchi e nobili recentissimi (i Giovannelli di S. Agostino, i Grassi di S. Samuele, i Widmann di S. Canziano, ecc.) come anche collezionisti (il citato console Smith, lo stesso Anton Maria Zanetti), intellettuali (l’epigrafista Flaminio Corner, i conti Bonomo e Francesco Algarotti), artisti (Gaspare Diziani, lo stesso Monaco) e borghesi (l’avvocato Giulio Crivellari, Carlo Pecora, ecc.). È particolarmente significativa l’attenzione posta all’identificazione del proprietario (i cui estremi, nelle edizioni successive, sono controllati con attenzione) che la dice lunga – a nostro giudizio – sul mondo del collezionismo veneziano e sulle finalità della raccolta. Che, come sappiamo, è sottoscritta da un numero cospicuo di interessati : fra cui figurano – ed è naturale – i possessori delle opere riprodotte ; ma anche diversi artisti (gli autori dei dipinti ancora in vita, Tiepolo in testa) quali Giovan Battista Pittoni, il Crosato, il Morlaiter, Francesco Zugno, lo Zuccarelli e vari altri. Dunque : come si è detto, si tratta dell’esaltazione delle collezioni veneziane (e implicitamente della grandezza della Serenissima) in Italia e all’estero per un pubblico di intenditori. Ma, a mio giudizio, c’è qualcosa di più. E due sono i segnali che ci fanno sospettare. Anzitutto la cura nel porre i nomi delle collezioni dove i dipinti figurano e la sovrabbondanza delle opere appartenenti allo stesso incisore (ben 2) ovvero ai personaggi veneziani che sappiamo esser stati più coinvolti – per lo più come compratori ma non solo – nel mondo del mercato locale e internazionale (gli Algarotti, i Labia, Girolamo Manfrin, i Giovannelli ecc.). Tanto da farci supporre che il lussuosissimo album, inciso con tanto dispendio, costituisse alla sua volta un’ipotesi di catalogo di vendita. Dove, mescolati a pezzi certamente intoccabili (il Liss dei Tolentini ancora in sito, ad esempio), figurano tante altre opere la gran parte delle quali si trova oggi in collezioni non solo non veneziane quanto tout court straniere, ovvero è andata dispersa dopo esser passata sul mercato. Analogamente, per quanto riguarda il Sasso. 8. Cfr. A. Mariuz, Prefazione a D. Apolloni, Pietro Monaco…, cit., p. 6.

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Anche in questo caso si è parlato di un itinerario attraverso la storia dell’arte veneta, veduto da un inedito punto di vista, quello – aggiornato ai tempi – della “progressione dell’arte”, della mutazione del linguaggio espressivo che cambia a seconda degli anni e si evolve naturalmente verso forme più complesse o comunque più sofisticate. L’intento sarebbe stato didascalico ma certo innovativo. E il richiamo a nomi come quelli del Maffei o di padre Lodoli colpisce in termini abbastanza immediati. E non dimentichiamo gli stretti contatti di Giovanni Maria con un grande collezionista dei suoi tempi, con lui in stretti rapporti di affari inizialmente ma anche di comunanza d’idee nell’ordine di una innovativa sensibilità nei confronti della raccolta d’arte ; mi riferisco a Tommaso degli Obizi cioè, il proprietario della suntuosa villa-castello del Catajo, la cui collezione sarebbe dovuta diventare, nelle istanze del suo allestitore come anche in quelle dei suoi illustri referenti (il Lanzi anzitutto, il Morelli, Mauro Boni, Teodoro Correr, Antonio Farsetti, Camillo Silvestri, il Tomitano, lo Zaguri e tanti altri, fra cui artisti come Canova, Francesco Mengardi, Gaetano Cignaroli,ecc.) di “pubblico godimento”, intendendo beninteso come “pubblico” quelli degli intendenti e degli estimatori che fossero in grado di comprenderne ed apprezzarne gli scopi. All’uopo prevedeva anche un’illustrazione scientifica della raccolta – un catalogo a stampa – che, come gli scriveva Teodoro Correr, « servirebbe l’utilità pubblica, la vostra gloria, e la compiacenza dei vostri amici ». 9 In quest’ordine siamo più propensi a considerare l’analoga operazione del Sasso : come un suggerimento (o forse una fattiva proposta) al cliente ed amico per qualificarsi come l’estensore del prossimo catalogo. Un vero e proprio studioso d’arte, competente e coltivato, in grado sia di tracciare un panorama artistico della pittura veneziana dalle origini, come anche di prendere in mano, in un secondo momento, l’impresa importante del ragionamento scientifico su di un patrimonio tanto ingente come le collezioni Obizzi implicavano. E, ad assumere questa ipotesi come plausibile, ci inclinano anche le caratteristiche della raccolta pittorica del conte. Ricchissima, come sappiamo, di opere di primitivi, genere in più d’un occasione propostogli dallo stesso Sasso nelle sue vesti di mercante nonché mediatore d’oggetti d’arte. 20 Ma consideriamo ancora un ulteriore punto di vista. Le incisioni della Venezia pittrice che ci son fortunosamente pervenute sono a contorno, cioè tutt’affatto diverse da quelle sontuose di Pietro Monaco. Sono eliminati i chiaroscuri, le lumeggiature, gli effetti di colore, le ombreggiature. Tutto ciò insomma che avvicinava di più la stampa all’opera originale. Riducendo il disegno al tratto essenziale, al puro segno che contornava, appunto, le figure o le scene sullo sfondo. Sarebbe molto interessante cogliere come si venga affermando tale mezzo espressivo, ma non è questa la sede per approfondire un tema pur così ricco di prospettive. Invece ci preme constatare come a Verona venga affermandosi – ed è circostanza significativa, che si connette all’episodio citato in esordio – un’impresa editoriale 9. Sui rapporti culturali di Tomaso cfr. L. Olivato, Alle origini del museo moderno. Museo privato come funzione pubblica nella corrispondenza inedita di collezionisti veneti fra ’700 e ’800, in Saloni, gallerie, musei e la loro influenza sullo sviluppo dell’arte dei secoli XIX e XX, Bologna 979, pp. 29-36. 20. Mi permetto di rimandare, oltre ai saggi citati nelle precedenti note 6, 7, 9, al mio contributo Gli affari sono affari : Giovan Maria Sasso tratta con Tomaso degli Obizzi, « Arte Veneta », xxviii (974), pp.298-304, dove si recuperano anche informazioni bibliografiche sulla raccolta Obizzi. Resta ancora fondamentale il bel volume di G. Previtali, La fortuna dei primitivi dal Vasari ai Neoclassici, Torino, 964, p. 53 sgg. E, ancora, vedi di E. Borea, Le stampe dei primitivi e l’avvento della storiografia artistica illustrata. II, « Prospettiva », 993, 70, pp. 50-74.

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Fig. 6. Gaetano Zancon, da Francesco Caroto, Madonna e Santi, nella chiesa di San Fermo Maggiore a Verona.

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che, in epoca di poco successiva alla Venezia pittrice, propone alla sua volta siffatta tecnica. Un manifesto a stampa, infatti, datato in Verona il 28 maggio 806, annunciava appunto una pubblica sottoscrizione (dedicata « non solo a quelli che coltivano la Pittura, ma puranco chiunque è di essa amatore e zelante nell’onor patrio ») che doveva preludere alla pubblicazione di un ricco album comprendente la riproduzione di un numero cospicuo di opere di pittori veronesi. Chi si esponeva in prima persona e firmava il manifesto di presentazione dell’opera era il nume tutelare della storia e della conservazione artistica in quegli anni, quel Saverio Della Rosa che, direttore dell’Accademia e del Museo locali, tanti meriti ebbe come organizzatore culturale, professore e restauratore. 2 Le proposte innovative che l’iniziativa comportava erano a diverso livello : anzitutto le opere presentate sarebbero state tutte inedite, dal momento che « la maggiore parte degli Incisori […] s’affaticano a riprodurre e ristampare quelle che si hanno di Autori, alli quali il concorso dei secoli ha assicurato una estesa celebrità ». In secondo luogo sarebbero state quasi tutte (con poche eccezioni) opere di pubblica proprietà, per lo più situate in edifici sacri (escludendo quindi intenti biecamente mercantili o di esaltazione di collezioni private). Si poneva ancora l’accento su dipinti asportati dalla città durante le rapine napoleoniche, invocandone – implicitamente – la restituzione. Se l’operazione commerciale fosse andata a buon fine il Dalla Rosa si proponeva di tradurla in una più dotta nuova edizione, dove ogni tavola avrebbe avuto un adeguato commento, alcune « brevi riflessioni sul merito particolare dell’arte, per cui quelle opere sono pregevoli a studiarsi ». Insomma un discorso scientifico che avrebbe rivendicato alla scuola pittorica veronese (la raccolta si sarebbe intitolata Scuola veronese delle Belle Arti, ma i documenti parlano anche di Verona pittrice) quel ruolo di identità e originalità che tanti secoli di asservimento anche culturale alla Dominante avevano finito per obnubilare. Illustratore sarebbe stato un giovane di origine bassanese, Gaetano Zancon, che avrebbe trascritto le opere originali con «li soli contorni, a semplici tratti, e senza alcun chiaroscuro » (Figg. 4-6). 22 Come si vede i punti di contatto con l’iniziativa del Sasso sono evidenti : e la circostanza non stupisce tenendo conto che sappiamo come sia il Della Rosa che lo Zancon ebbero rapporti a vario titolo con il veneziano. Ci basti aggiungere che la raccolta con il testo del Della Rosa non fu mai mandata alle stampe : sorte che fu riservata, invece, alle sessanta tavole dello Zancon, recentemente ristampate con sintetico commento critico. 23 2. Su Saverio Dalla Rosa e le sue diverse attività si vedano almeno G. Baldissin Molli, Saverio Dalla Rosa, in Dizionario biografico degli italiani, 986, ad vocem (con ogni referenza precedente) ; S. Marinelli, La pittura a Verona nel Settecento, in La pittura in Italia. Il Settecento, Milano, 990, pp. 36-45 e E. Rama, Saverio Dalla Rosa, ibidem, p. 690. Ancora, vedi di S. Marinelli, Il testamento della pittura, in S. Marinelli, P. Rigoli, Catastico di Saverio Dalla Rosa, Verona, 996, pp. ix- xxiv. 22. Sull’impresa promossa dal Dalla Rosa e realizzata dallo Zancon si vedano anzitutto G. P. Marchi, L’età di Saverio Dalla Rosa : l’istanza storiografica e la tutela del patrimonio artistico cittadino, in La pittura a Verona dal primo Ottocento a metà Novecento, a cura di P. Brugnoli, Verona, 986, pp. 545-568 ; oltre alla citata Borea, Le stampe dei primitivi..., cit., p. 60. Ma vedi anche G. Marini, Saverio Dalla Rosa, Paolino Caliari, Gaetano Zancon, in Museo di Castelvecchio. Disegni, Milano, 999, pp. 28-30, e L. Ievolella, La pittura di figura e storia (1800-1873), in L’Ottocento a Verona, a cura di S. Marinelli, Verona, 200, p. 5 sgg. 23. Cfr. Raccolta di N60 Stampe Delle più celebri Pitture Di Verona, a cura di E. Morando Di Custoza con una nota introduttiva di G. P. Marchi, Verona, 99.

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È interessante tuttavia leggere le motivazioni di quella precisa scelta illustrativa che pur stava affermandosi in campo internazionale (e i richiami alle stampe di Flaxman o di Humbert de Superville appaiono scontati). Il numero ingente dei dipinti da riprodurre aveva “atterrito” l’incisore che “stava per abbandonare il pensiero” ; l’adozione di tale tecnica aveva enormemente semplificato la vicenda. Dunque un disegno più semplice, di più rapida esecuzione e, soprattutto, lo si sottolinea apertamente, meno dispendioso. Argomento quest’ultimo che, riferito al Sasso, il quale si assumeva personalmente il carico economico della sua impresa, non doveva essere trascurabile. Lo sappiamo sempre nell’attesa di procacciarsi affari, sempre attivissimo sul mercato a comperare nella speranza di vendere, sempre alla ricerca spasmodica di denaro e di finanziatori per le sue diverse iniziative. Talché non ci stupiremmo se, come già in precedenza si insinuava, il volume della Venezia pittrice, tanto atteso nell’entourage degli intenditori (Lanzi in testa a tutti, che più volte ne sollecita gli esisti a stampa), in realtà non traducesse anzitutto le aspirazioni commerciali del Nostro. Non si trattasse, insomma, che di un, abilmente mascherato, catalogo di vendita. E qui possiamo ripartire dall’inizio e da quella collezione Albarelli con cui abbiamo aperto l’intervento. Anche in quel caso l’edizione non andò a buon fine. 24 Nonostante un’ulteriore manifesto associativo uscito pochi anni appresso, nel 88, la sottoscrizione non raggiunse il numero sufficiente di associati e di quel tentativo ci restano soltanto i bei disegni preparatori allestiti per l’occasione da Paolino Caliari ed editi in ristampa anastatica solo abbastanza di recente. 25 Credo di aver provato – sulla base di un inedito dossier documentario ritrovato – che la veronese, antica collezione Albarelli, su cui tanto si dilungano le Guide cittadine del secolo scorso come anche gli studiosi almeno fino al 200, in realtà non esistette e l’ipotesi di pubblicazione delle medesima non fu che un abile tentativo per rendere noto ad un più vasto pubblico, dove si presumeva fosse possibile trovare ipotetici acquirenti, un gruppo di dipinti fortunosamente ed inaspettatamente ereditati da Giovanni Albarelli cui non escludiamo si mescolassero, almeno a partire da un secondo momento, opere reperite sul mercato veronese ovvero i falsi che Paolino Caliari, abilissimo copista, era certamente in grado di confezionare. E a questo punto non stupisce l’adesione alla nuova tecnica d’incisione. Più sbrigativa, più semplice ma soprattutto più confacente alle tasche poco guarnite dei protagonisti di quello che risulta essere né più né meno che un progetto che, nelle aspettative dei suoi promotori, si sarebbe dovuto concludere in un lucroso affare. Abstract Il saggio si incentra sulle imprese editoriali, nate in terra veneta fra il primo Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dedicate o a singole collezioni o all’illustrazione di dipinti famosi della Serenissima. In particolare, ci si è dedicati a stampe di traduzione che costituiscono corpus organici, nell’ordine, tuttavia, di sollecitare il mercato ed attirare l’attenzione degli intenditori e di eventuali compratori. In quest’ordine si sono analizzate anche altre pubblicazioni dell’epoca, come la Descrizione d’una raccolta di quadri originali esistenti a Verona presso il Signor Giovanni Albarelli, illustrata da Paolino Caliari, ovvero la Venezia pittrice promossa da Giovanni Maria Sasso. 24. Cfr. sopra la n. . 25. L’incartamento è stato pubblicato a cura di F. Dal Forno, Verona, 975.

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This essay focuses on the publishing companies that arose in the Veneto region from the early 700s to the beginning of the 800s, devoted either to single collections or to illustrating the Serenissima’s famous paintings. In particular, they were devoted to printing translations comprising organic bodies of work, in order to stimulate the market and attract the attention of experts and possible buyers. Other publications of the time are also analyzed, such as the Descrizione d’una raccolta di quadri originali esistenti a Verona presso il Signor Giovanni Albarelli, illustrated by Paolino Caliari, or Venezia pittrice promoted by Giovanni Maria Sasso.

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Giovanni Ferrero IL PARATESTO NEL LIBRO SCIENTIFICO DEL ’600 ASPETTI ICONOGRAFICI E TESTUALI DEL FRONTESPIZIO INCISO NELL’EDITORIA LIGURE

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ra i pochi testi, tra quelli stampati in Liguria  nel ’600, che si possono ascrivere al libro scientifico solo uno presenta un frontespizio inciso. Tutti gli altri hanno nel frontespizio o un emblema o la marca tipografica o un fregio. L’autore che a pieno titolo si colloca nella storia della scienza e che ha avuto rapporto con Galileo Galilei anche dopo il 633 fu Giovanni Battista Baliani. 2 Egli pubblicò a Genova nel 638, De motu naturali gravium solidorum, presso una società di tipografi alla quale partecipava Giovanni Maria Farroni, che in seguito compare nel 646 come unico tipografo di una seconda edizione ampliata : De motu naturali gravium solidorum et liquidorum. La medesima società si trova a stampare nel 64 con la medesima marca tipografica, una sirena bicaudata, 3 una Lettera dell’Illustriss. Signor Federico Federici nella quale si narrano alcune memorie della Repubblica Genovese. Nel 647 a Savona il Baliani pubblicò un Trattato della pestilenza presso il tipografo Giovanni Tomaso Rossi. L’emblema o marca che compare nel frontespizio è direttamente connesso con il tema del libro. Si tratta della rappresentazione dell’esalazione dei vapori dalla terra quale effetto del calore dei raggi solari con la scritta : Elevat et dissipat. Con questa rappresentazione si fa riferimento ad una dottrina con la quale veniva indicata la causa della malattia, una « infettione d’aria ». 4 Per questa ragione non vedrei nell’incisione la marca tipografica ma l’emblema di una dottrina, che forse il Baliani criti- Fig. . Marca tipografica G. B. cò. Solo la lettura del testo può informarci se il Baliani Baliani, De naturali motu graaderiva alla dottrina del contagio di Fracastoro, tenen- vium solidorum, Genova 638. do presente che il termine « peste » generalmente indiF.to G. Ferrero, Biblioteca Berio, Genova. cava ogni epidemia con esito letale. 5 . Sull’editoria ligure cfr. Maria Maira Niri, La Tipografia a Genova e in Liguria nel XVII secolo, Leo S. Olschki Editore, mcmxcviii. 2. Per notizie su Giovanni Battista Baliani cfr. Claudio Costantini, Baliani e i Gesuiti, Annotazioni in margine alla corrispondenza del Baliani con Gio Luigi Gonfalonieri e Orazio Grassi, Giunti G. Barbera, 969 3. La rappresentazione della sirena bicaudata è marca tipografica di editori e tipografi veneziani nel ’500. Cfr. Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento, Repertorio di figure, simboli e dei relativi motti, Milano, Editrice Bibliografica, 986, Tavole 088-099. La marca del tipografo genovese è molto somigliante alla marca del tipografo veneziano Giovanni Varisco e Co, 096099. 4. Cfr. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Dalla peste europea alla guerra mondiale. 1348-1918, Bari, Editori Laterza, 998, pp. 6-8. In una lettera datata 5 febbraio 577, Gerolamo Monti, Presidente del Tribunale di Sanità a Milano, scriveva ad Ascanio Censorio, che la quarantena era necessaria perché « tal mal di peste non procede da infettione di aria o da mala disposizione de’ luoghi, ma da contagione » (Idem, p. 6 e nota 37). 5. Cfr. Idem, p. 0.

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Di un certo interesse per la storia della scienza è il Discorso sopra lo (sic) Cometa di Gio Francesco Castagnola, Inquisitore di Stato, che incaricò nel 663 Nicolò Imperiale 6 di sottoscrivere l’imprimatur all’opera del capitano di mare e cartografo Francesco Maria Levanto, opera il cui frontespizio inciso sarà l’oggetto della presente relazione. Il testo del Castagnola fu pubblicato a Genova nel 665 per i tipi di Gerolamo Marino e BeneFig. 2 : Emblema nel frontespizio G. B. Baliani, Tratttato del- detto Celle e il suo frontela pestilenza, Savona 647. F.to G. Ferrero, Biblioteca Berio, spizio presenta un semplice Genova. fregio floreale. L’interesse al Discorso di Francesco Castagnola è suscitato non solo dal fatto che esso si inserisce nell’ampio dibattito seicentesco sulle comete con la redazione di una carta celeste, ma soprattutto è originato dalla coincidenza che la medesima cometa fu osservata dal giovane Newton e annotata nelle Quaestiones 7 e più tardi sulla base di osservazioni più accurate e dei calcoli

Fig. 3. Carta delle osservazioni della cometa 664-665 in F. Castagnola, Discorso sopra lo cometa, Genova, 665. F.to G. Ferrero, Biblioteca Universitaria, Genova. 6. Per notizie su Nicolò Imperiale cfr. Vilma Borghesi, Scrittori di cose marittime in Liguria tra Cinquecento e Seicento, « Miscellanea storica ligure », xv, vol. i, Genova, 983 p. 2. 7. Cfr. Richard S. Westfall, Newton, a cura di Aldo Serafini, volume primo, Torino, Giulio Einaudi editore, 989, p. 95, nota 70.

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di Halley costituì l’argomento della proposizione xlii per la seconda edizione (73) dei Principia. Le osservazioni al meridiano di Genova della cometa fatte da Francesco Castagnola sono di indubbio interesse scientifico e la sua incisione mostra la qualità della stampa dello stampatore genovese. Si può ancora ricordare Tomaso Oderico, di famiglia nobile. Egli nacque a Genova nel 600 e morì nel 657 in seguito alla pestilenza del 656. Nel 62, appena maggiorenne, venne eletto membro al Maggior Consiglio. Per la sua attività amministrativa scrisse Il Perfetto Giusdicente (i, 646, ii, 730) « un breviario ad uso di chi gestiva il potere locale, per quanto concerneva l’amministrazione della giustizia sia civile che criminale ». 8 Egli fu soprattutto un intellettuale che attraverso libri di astrologia entrava nel dibattito politico. Nel 652 fu accusato d’aver « contemplato le stelle per congetturare lo stato della Repubblica » 9 e per questo venne condannato a 5 anni di prigione. Violentissima fu la campagna antiastrologica e in particolare quella contro Oderico iniziata nel 649 dal gesuita Noceto. La condanna tuttavia non venne dal Tribunale ecclesiastico per eresia, ma dagli Inquisitori di Stato per l’uso politico che dell’astrologia veniva fatto. 0 Alla Biblioteca Berio di Genova si trovano due testi stampati a Genova nel 656, entrambi nella stamperia di Benedetto Guasco, l’uno dal titolo Della causa seconda de’ presenti mali contagiosi di Tomaso Oderico, il cui frontespizio presenta come marca tipografica l’incisione di un vaso con un fiore ; l’altro dal titolo La Colonna Illuminante, discorso meteorologico, e astrologico di Tomaso Oderico. Un semplice fregio compare nel frontespizio. Il corredo iconografico dei libri citati e di altri non aggiunge nulla alle informazioni testuali del titolo eccetto forse per l’emblema connesso al Trattato della pestilenza di Giovanni Battista Baliani. Tuttavia solo un lettore colto poteva coglierne il nesso. Il modello interpretativo del frontespizio inciso o delle antiporte che intendo mostrare è basato sull’assunto che vi sia un codice comunicativo di informazioni all’origine di alcuni frontespizi, analogamente a quanto avveniva in alcuni documenti iconografici delle culture e civiltà pre-letterarie.  Infatti nelle culture orali pre-letterarie l’immagine appare essere un testo scritto (graficamente composto in uno spazio bidimensionale) non dipendente dai racconti o illustrante i miti. Quelle immagini-icone non si rivolgono ad un pubblico illetterato, come ad esempio gli affreschi di episodi biblici nelle chiese medioevali, ma hanno un loro codice comunicativo che assolve la medesima funzione del codice narrativo dei racconti. Acutamente la Pallottino nella sua Storia della illustrazione italiana osserva « come in una complessiva diseducazione all’immagine e in una cultura che ha sempre privilegiato la parola, non debba sorprendere la sostanziale povertà degli studi su quell’arte minore 8. Cfr. Oriana Cartaregia, Il perfetto giusdicente : Tomaso Oderico, « Miscellanea storica ligure », xii (980) 2, Università di Genova, Istituto di Storia Moderna e Contemporanea, p. 20. Cfr. inoltre Elide Casali, “Noceto Nocente” e “Il Ligure Risvegliato”. La polemica fra G. B. Noceti, predicatore gesuita, e T. Oderico, astrologo, nella Genova del Seicento, « Studi Secenteschi », xxxiv (993), pp. 287-329 E. Casali, Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2003, pp. 4, 54, 75, 8 e n, 83. 9. Cfr. O. Cartaregia, Il perfetto…, cit. p. 8. 0. Cfr. ivi, p. 5. . Mi permetto di rimandare ad alcune mie ricerche già pubblicate : Il sapere di Apollo. La cosmocronologia arcaica secondo il codice iconico narrativo greco, « Quaderni di Storia della Fisica », 2 (997), Bologna, Editrice Compositori, pp.3-24. ; L’unità del sapere nel quadro della cultura antica. La comunicazione analogica ed iconica del sapere in Grecia, « Quaderni di Storia della Fisica », 4 (999), Bologna, Editrice Compositori, pp. 3-38.

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che nel nostro paese è l’illustrazione… ». 2 Si può rafforzare la « diseducazione all’immagine » di cui parla la Pallottino con la constatazione di come il pregiudizio della cultura scritta, tipico del filologismo accademico, abbia reso in un passato recente difficile il riconoscimento della dignità accademica a discipline riguardanti il linguaggio del cinema. Per chiarire il punto di vista e lo scopo della presente relazione è necessario ricordare come la stessa nozione di ormamento abbia subìto nei secoli, per effetto della diffusione della scrittura alfabetica fonetica, prima, e della stampa, poi, una variazione di significato. Infatti si può rilevare che in un arcaico inno omerico (xxvii) ad Artemide venga detto che la dèa, recandosi alla dimora di suo fratello Apollo a Delfi depone il suo arco « e, splendidamente adorna, conduce la danza » (v. 7). 3 Il testo greco corrispondente a « splendidamente adorna » recita letteralmente « con grazia avente attorno al vestito un cosmo ». Se si fa attenzione al vestito di Artemide raffigurata nel suo incontro con Apollo nel riquadro di un’anfora trovata a Milo (Museo Nazionale di Atene n. 95) della metà del vii sec. a.C., riquadro analizzato nel mio saggio citato Il sapere di Apollo, si può osservare che l’ornamento della gonna consiste in una scacchiera e in un reticolo, entrambe strutture d’ordine come se fossero tabelle a doppia entrata. L’ornamento per quella cultura è tale in quanto presenta un ordinamento o un ordine. Si può ancora sostenere che, in seguito alla scrittura, con l’educazione continua dell’occhio allo spazio, scisso dall’universo auditivo del flusso temporale dei suoni, l’immagine acquista profondità scorcio e prospettiva e si fa bella secondo le categorie estetiche della Storia dell’arte. Non ci riferiamo alle opere, ma alla concettualità storica con cui è sorta sia la Storia dell’arte che l’Estetica. Con queste brevi premesse ci si può domandare, per quanto concerne i frontespizi incisi o le antiporte dell’editoria del ’600, se alcune di queste siano state composte in base ad un progetto comunicativo di informazioni e non solo in base ad un progetto illustrativo, decorativo con semplice allusione alla situazione storico-culturale del discorso per quel tema o argomento indicato dal titolo. Il confronto tra gli aspetti iconografici e testuali mi è sembrata la via per rinvenire alcune regole di identificazione e di lettura delle figure. Francesco Maria Levanto Della vita del capitano Francesco Maria Levanto non si sa pressoché nulla se non che nel 664, quando veniva pubblicata la sua opera, aveva praticata la navigazione del Mediterraneo per una ventina d’anni, come egli stesso dichiara rivolgendosi Al lettore. Solo grazie alle ricerche nell’Archivio di Stato di Genova di Luciana Gatti 4 del cnr-isem-sezione di Genova si viene a sapere di un suo viaggio avvenuto prima del 668 a Smirne, Costantinopoli e in altri luoghi del Levante nonché di una quietanza rilasciata nel 682 dalla moglie Thedina a un rappresentante di Vincenzo e Francesco Spinola per il pagamento anticipato di quanto essi avevano promesso al capitano Levanto durante eius mora in civitate Costantineapoli. 2. Cfr. Paola Pallottino, Storia della illustrazione italiana, libri e periodici a figure dal xv al xx secolo, Zanichelli, pag.3. 3. Cfr. Inni Omerici, a cura di Filippo Càssola, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondatori Editore, 975, pp. 44-45. 4. Ringrazio la dott.ssa Luciana Gatti per avermi trasmesso dati di una sua ricerca inedita. I documenti si trovano in ASG (Archivio di Stato di Genova), Notai Antichi, n. 8856, notaio Repetto Gio Ambrogio, filza , atto n. 402, 0 Ottobre 668, e ASG, Notai Antichi, n. 950, notaio De Ferrari Francesco, filza , atto n. 49, 5 Luglio 682. Forse si possono trovare altre notizie ricercando presso i notai genovesi.

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Nel 664 a proprie spese Francesco Maria Levanto pubblicava in genova, Per Gerolamo Marino, e Benedetto Celle. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio la prima parte dello specchio del mare. Nella pagina dedicata al lettore spiega l’origine del titolo : « avendo già dato principio alla seconda parte, che è la Navigatione dell’Oceano, se mi darai animo di darla alla luce, l’accompagnerò con la terza, che sarà quella dell’Indie ». Il progetto non solo è ambizioso, ma sottintende anche che egli abbia già navigato con navi olandesi o che ritenga per lui possibile compiere quei viaggi. Tra le carte manoscritte di Francesco Maria Levanto non vi è traccia della seconda parte, ma solo di ciò che è stato pubblicato, con un disegno per il frontespizio diverso da quello che sarà stampato. 5 Sempre nella stessa pagina il capitano manifesta una doppia consapevolezza, quella dell’importanza della stampa e quella della diversità della comunicazione scientifica da quella letteraria. Infatti egli scrive : « Le Carte se non corrono non ammaestrano, senza l’aiuto delle Stampe in pochi passi vien meno qualsivoglia scrittura ». Più articolato è il rapporto tra retorica e scienza. Non vedrai – così continua – da questo specchio rifletter lumi di Retorica eloquenza, ne (sic) potrai pescare in questo Mare perle di eruditi concetti, …, essendo il mio fine di giovare con le dimostrazioni, più che d’allettare con il discorso ; non convenendomi legar con le linee d’un ben aggiustato periodo la volontà, mà (sic) ammaestrare l’occhio con quelle d’una ben regolata Idrografia. C’è in questo periodo l’eco della polemica galileiana contro l’« universo di carta » della tradizione filosofica e culturale del suo secolo. Possiamo a questo punto tracciare la genesi del frontespizio iniziando dal disegno a colori del manoscritto. Risalta in primo piano appeso da funi un ovale incorniciato come se fosse un cartiglio sullo sfondo di un mare e di coste viste dall’alto con la linea dell’orizzonte leggermente curva. Ai lati dell’ovale in piedi e appoggiati sulle volute della cornice due figure di marinai che tengono uno strumento per la navigazione o per la cartografia. Le volute si interrompono in basso per lasciare spazio ad una conchiglia chiusa, come se l’ovale fosse metaforicamente una perla. Ai lati in basso simmetricamente disposti, un mappamondo e una sfera armillare. Nell’ovale, su sfondo perlaceo, la scritta alternativamente colorata in rosso e in blu : CARTE MARITTIME costrutte e delineate da FRANCESCO M.a LEVANTO mdclxii

È possibile pensare che nel 663 Francesco Maria Levanto si trasferì ad Amsterdam per la incisione delle sue carte marittime, come si può desumere dal cartiglio della prima carta della sua opera stampata. Questo cartiglio assieme a quello della seconda 5. Ringrazio il prof. C. Astengo dell’Università di Genova per queste notizie comunicatemi assieme all’immagine digitalizzata del progetto di frontespizio e la riproduzione del frontespizio inciso del primo specchio del mare, Speculum marittimum, Spieghel der Zeevaerdt, pubblicato a Leida da Plantin 584-585, autore del quale fu il pilota Lucas Janszoon Waghenaer. Il manoscritto del Levanto si trova alla biblioteca Durazzo-Giustiniani a Genova.

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giovanni ferrero carta, relativa al mare Mediterraneo orientale, ricorda il disegno manoscritto del frontespizio.

Notevoli sono le informazioni che si traggono dalla lettura del testo e dall’iconografia a corredo del cartiglio. Innanzi tutto balza agli occhi l’errore ortografico « Spechio », il luogo in cui le carte marittime sono state « costrutte », cioè Amsterdam, la correzione delle medesime a cura del capitaFig. 4. Cartiglio della prima carta nautica di F. M. Levanto, Pri- no e le sue spese per il loro ma parte dello Specchio del mare, Genova 664. F.to G. Ferrero, intaglio. L’anno è il 663. Biblioteca Universitaria, Genova. Se lo stile ornamentale dei cartigli è quello classico, diffusosi in Europa in seguito all’opera di Abraham Ortelius, che riutilizzava disegni già precedentemente editi, come i due cartigli per la carta del Portogallo e della Palestina, derivati da disegni di Hans Vredeman (560-563) 6 ai quali quello di Francesco Maria Levanto e quelli che si trovano nel Mundus subterraneus di A.Kircher, stampato ad Amsterdam nel 665 sono somiglianti, 7 tuttavia le due figure del giovane e del vecchio e altri particolari sono propri del capitano genovese. Infatti le figure attorno ai cartigli nell’opera di A. Kircher sono putti e figure allegoriche come ancora allegoriche e mitologiche (Minerva ed Ercole) sono le figure attorno al grande cartiglio posto su una terrazza aerea dell’Universi orbis tabula… di Pieter Plancius (Amsterdam 65) derivato, con variazioni, dall’antiporta dell’Obsidio Bredana armi Philippi IIII di Herman Hugo. 8 Il giovane in piedi si rivolge al lettore indicando i due strumenti, il balestriglio e l’astrolabio, e ai suoi piedi uno strumento, forse una sfera armillare, che campeggia nell’ovale in alto sorretto da due putti, mentre il vecchio tiene in mano la corda di una sonda marina e ai suoi piedi si trova aperto un grande volume con sopra un compasso. Questa contrapposizione suggerisce di interrogarsi sul significato delle carte costrutte in Amsterdam e corrette da Francesco Maria Levanto. La successione dei tre termini, costrutte, corrette e intagliate del cartiglio e quella di costrutte e delineate nel cartiglio del disegno manoscritto suggerisce che la costruzione di una carta marittima non riguarda né il disegno né l’intaglio ma l’insieme dei dati raccolti in base ai quali si disegna o delinea una carta e poi si incide. Il giovane con i due strumenti di osservazione ha così corretto le precedenti carte del Mediterraneo prodotte ad Amsterdam, centro 6. Cfr. James A. Welu, The Source and Development of Cartographic Ornamentatio in the Netherlands, in Art and Catography, Six Historical Essays, edited by David Woodward, Chicago-London, The University of Chicago Press, 987, pp. 53-54. 7. A titolo puramente di ipotesi di ricerca ci pare che l’incisore dell’opera del Levanto sia, per alcuni tratti stilistici, il medesimo dell’opera monumentale di A. Kircher, stampata ad Amsterdam nel 665, le cui tavole furono forse incise attorno al 663. 8. Cfr. James A. Welu, The Source and Development…, cit., pp. 6 e 63.

il paratesto nel libro scientifico del ’600 non solo della tipografia, ma anche della cartografia e del commercio internazionale. Non solo la pratica di vent’anni delle rotte nel Mediterraneo ha permesso al giovane capitano di comporre la sua opera, ma anche lo studio dei maggiori autori, « tralasciando gli errori ». Infatti egli dichiara Al Lettore di aver composto la sua opera « col succhiare da maggiori Autori, che in questa materia habbiano scritto solo il latte della verità, tralasciando gli errori ». Questa dichiarazione corrobora l’informazione tratta dal precedente confronto delle due figure, del giovane e del vecchio. Ancora ad Amsterdam ha progettato il frontespizio per il suo « Specchio del mare », traendo lo spunto dal frontespizio del primo atlante nautico stampato a Leida, quello del capitano Lucas Janszoon Waghenaer. 9 Nel frontespizio centrale campeggia una struttura monumentale, prospetticamente delineata, con un gruppo di commercianti olandesi, posto in alto sul tetto a terrazza, che osserva ammirato forse uno specchio e ai lati delle due colonne due figure elegantemente abbigliate nell’atto di far calare una sonda marina ; ai lati del monumento la successione degli strumenti : quadrante, astrolabio, clessidra, balestriglio, sonda, compasso. Al centro in basso, in primo piano davanti alla struttura monumentale, una nave finemente disegnata nei suoi dettagli. La nave è quella degli olandesi che osservano ammirati. All’interno delle due colonne, entro una cornice, il testo inciso del titolo nelle due lingue, latina e olandese :

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Fig. 5. Disegno a ricalco della struttura architettonica del frontespizio di L. J. Waghenaer, Spieghel der Zevaerdt, Leida, Plantin, 586.

pars prima Speculum nauticum super navigatione maris Occidentalis confectum, continens omnes oras marittimas Galliae, Hispaniae

L’inizio del titolo dell’opera del Levanto deriva direttamente da quello dell’opera olandese e la struttura del suo frontespizio stampato risulta essere una variazione di quello di Waghenaer. Infatti la parte centrale del frontespizio tripartito è sepa-

Fig. 6. Frontespizio inciso di F. M. Levanto, op. cit. F.to G. Ferrero, Biblioteca Universitaria, Genova.

9. Cfr. B. Revelli, Cristoforo Colombo e la scuola cartografica genovese, Genova, s.i.a.g., 937, p. 29.

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rata da un architrave in alto e da un elemento architettonico orizzontale, sopra e sotto i quali vi sono due distinte figure. La parte centrale, il titolo inciso in un cartiglio attorno al quale pendono legati l’un l’altro gli strumenti della navigazione e della cartograFig. 7. Particolare frontespizio inciso di F. M. Levanto, op. cit. fia, di per sé comprendeva il senso dell’opera del capiF.to G. Ferrero, Biblioteca Universitaria, Genova. tano. Infatti le due figure sono autonome e distinte. Quella in alto è la raffigurazione simbolica dell’osservazione del cielo, mentre quella in basso, la scena di una battaglia navale, entro una cornice, diviene visibile per la tenda sollevata dai due putti. A distanza dal punto di fuoco un gruppo di navi che si stanno avvicinando o allontanando. Se si pone in relazione la presenza della scena di una battaglia navale con l’argomento trattato nel libro, le carte nautiche del Mediterraneo, risulta ovvio che queste siano utili solo per quei mari, la cui navigazione non sia minacciata da nemici. Il Mediterraneo divenne relativamente libero solo dopo la battaglia di Lepanto, avvenuta il 0 ottobre 57. A questa partecipò il genovese Gian Andrea Doria, comandante della squadra spagnola. La manovra del genovese, che si estese nel mare per non essere circondato, permise ai turchi di penetrare nelle linee cristiane e diede luogo ad accuse di tradimento. La figura in basso riflette un momento della battaglia e l’allusione poteva essere colta solo da chi già avesse conosciuto l’andamento della battaglia di Lepanto, sicché per questa via non si è andati oltre la congettura e non si è trovata, seguendo solo la struttura del frontespizio, l’informazione. I due putti che sollevano la tenda rimandano ai putti che giocano con gli strumenti rappresentati nella figura simmetricamente disposta e corrispondente a quella della battaglia navale e alle due teste che fanno capolino nella parte centrale. La sua competenza scientifica ha permesso al capitano Francesco Maria Levanto di inventare un modo indubitabile di indicare, per mezzo di un’immagine, il tempo della battaglia. Si tenga presente che il lettore, cui è destinata l’opera, è a sua volta un capitano di mare o uno che intende divenirlo. Infatti la figura centrale che tiene con la sinistra un globo e forse un compasso, con l’indice alzato della destra invita a guardare in alto, dove sullo sfondo di nubi che si diradano appare una sezione dello zodiaco con i segni delle costellazioni. Sopra uno di questi segni, il Cancro, è ben visibile la Luna all’ultimo quarto. I putti che giocano e osservano il cielo con il balestriglio, strumento con il quale si misurano le distanze angolari tra gli astri e quella della Luna da un astro, utilizzando solo una delle tre aste raffigurate, mostrano che essi stanno osservando le costellazioni e non i segni. Si succedono, partendo da destra, le costellazioni del Toro, Gemelli, Cancro, Leone, terminando con il segno dell’Ariete, quando ci si aspetterebbe il segno della costellazione della Vergine. Un putto in alto a sinistra sta traguardando con il balestriglio il segno dell’Ariete misurando forse la sua distanza dalla Luna. Se si innalza la verticale della figura centrale si incontra il segno

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della costellazione dei Gemelli. Il momento da considerare sarebbe pertanto quello durante il quale la costellazione dei Gemelli sta passando al meridiano.

Fig. 8. Immagine della visualizzazione del cielo nella notte tra il 0 e  ottobre 57.

Qualsiasi capitano che avesse intuito l’allusione alla battaglia di Lepanto sarebbe stato in grado di calcolare il giorno lunare e avrebbe trovato che la Luna si trovava all’ultimo quarto nella notte tra il dieci e l’undici ottobre del 57. Oggi, anche senza una specifica competenza nella cronologia astronomica, ricorrendo a programmi di simulazione del cielo per un dato meridiano è possibile constatare che quando la costellazione dei Gemelli passa al meridiano sono sopra l’orizzonte e ancora visibili il Toro, i Gemelli, il Cancro e il Leone e la Luna all’ultimo quarto si trova nella costellazione del Cancro, come si può constatare dalla rappresentazione 20 del cielo approssimativamente al meridiano di Lepanto. Il risultato della lettura, qui proposto più come ipotesi e congettura, dal momento che coincidenze sono sempre possibili, è avvalorato ancora dal fatto che al termine della lettura si viene a sapere qualcosa che prima non si sapeva dal momento che la lettura non consiste solo nel riconoscere ciò che in qualche misura già si conosce. Il frontespizio inciso dell’opera del Levanto comunicherebbe allora in modo inequivocabile che la libertà del Mediterraneo, per la navigazione del quale egli ha costruito e delineato carte nautiche, o, per usare la sua terminologia, l’idrografia, è cominciata nella notte seguente la battaglia di Lepanto, quando la Luna all’ultimo quarto si trovava nella costellazione del Cancro. Esso pertanto sarebbe il frontespizio di un libro scientifico e per eccellenza nel xvi e xvii secolo i testi cartografici sono testi scientifici, ma sarebbe stato anche costruito secondo la competenza scientifica dell’autore. In esso troviamo sia la semplice illustrazione o rappresentazione di una battaglia sia la comunicazione simbolica di un’informazione. La regola, seguita nella lettura delle immagini, di osservare la relazione figura su sfondo e la disposizione simmetrica delle immagini all’interno di una medesima figura, nonché la simmetria delle figure ha portato a rilevare la peculiarità di questo frontespizio, che non solo illustra ma informa, a fronte della consuetudine di attribuire esclusivamente alla comunicazione scritta di un testo la funzione informativa. Si pone allora la necessità di cercare altri frontespizi che informerebbero mediante le immagini e di applicare la regola sopra citata. L’attenzione deve essere rivolta 20. Il programma al computer è Voyager II, versione 2.06 for Power Macintosh, Carina Software 988995.

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prima ai frontespizi dell’editoria ligure e poi ai frontespizi dell’editoria di altri centri. Mi limito in questa sede unicamente all’esame di due frontespizi tipici della editoria ligure. Cerchiamo di controllare se il modello di lettura che segue la disposizione simmetrica della figura porta a corroborare la mia tesi. Nel 590 veniva pubblicata a Genova La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Il frontespizio presenta il portale di un palazzo patrizio. All’interno dell’ apertura tra due colonne si trova scritto su lapide 2 il titolo del libro. La lapide è fissata sugli stipiti e lascia intravedere sullo sfondo il porto di Genova. Sul timpano in un cartiglio o ovale il busto del poeta, identificato dal nome scritto attorno, con due putti alati. Sotto le colonne due figure allegoriche o mitologiche. La traduzione della comunicazione analogica del frontespizio in una comunicazione digitale o numerica, secondo la terminologia della Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick, 22 Fig. 9. Antiporta di T. Tasso, Gerusalemme Liberata, Genova potrebbe essere la seguente : il poeta Torquato Tasso nel590. F.to M.Galletti, Biblioteca Berio, Genova. la sua opera, La Gerusalemme Liberata, racconta le gesta di un genovese di origine nobile salpato dal porto di Genova. Innanzi tutto si deve rilevare che in questo caso il palazzo nel frontespizio inciso non designa il libro, la cui lettura è metaforicamente assimilabile all’entrata in un palazzo, 23 come succede forse in altri casi, ma la origine familiare dell’eroe celebrato nel poema. Busto del poeta e lapide del titolo sono sullo stesso piano, mentre sullo sfondo si trova la rappresentazione del porto di Genova. Questa rappresentazione 2. Sulla scrittura lapidaria cfr. Armando Petrucci, La Scrittura,Ideologia e rappresentazione, Einaudi, 986, in particolare pp. 67-74. 22. Cfr. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Prammatica della comunicazione umana, tr. it., Astrolabio, Roma, 97, pp.52-59. 23. Solo nell’antiporta della Kabbala denudata viene esattamente espresso che la lettura del libro equivale all’entrata in un palazzo. Infatti sullo sfondo da cui il sole illumina tutto, in primo piano si vede una figura femminile con la schiena nuda che si avvicina ad un palazzo con la porta aperta sopra cui è incisa la scritta Palatium arcanorum. Cfr. Christian Knorr von Rosenroth, Kabbala denudata seu doctrina Hebraeorum transcendentalis et metaphysica. Sulzbach, Abraham Lichtenthaler, 677 [and] Kabbalae denudatae tomus secundus. Id est Liber Sohar restitutus, Frankfurt, Johann David Zunner, 684.

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non deriva dal fatto che il libro sia stato stampato a Genova, ma da una relazione intrinseca alle vicende narrate nel poema con il porto di Genova. Il modello interpretativo invita a iniziare una ricerca sui rapporti di Genova con le vicende della prima crociata e si trova ne Gli Annalli di Caffaro la conferma della lettura seguendo unicamente la struttura del frontespizio. Nella introduzione ad una recente traduzione degli Annali di Caffaro 24 Gabriella Airaldi così scrive : « Passato un anno mezzo, il primo di agosto, ventisei galee e sei navi salparono da Genova alla volta di Gerusalemme… Comanda la spedizione, alla quale partecipa anche il giovane Caffaro, l’unico eroe che i genovesi avrebbero poi ammesso nello scarno pantheon delle loro glorie, l’alter ego genovese di Goffredo di Buglione ; il guerriero che Torquato Tasso avrebbe descritto sulle sue navi fatte torri sotto le mura gerosolimitane. Guglielmo Embriaco Testadimaglio, era uno di quegli iuvenes ardenti, che andavano allora in cerca di fortuna, come lo era Caffaro, che si imbarca con lui ». 25 Ancora pochi anni dopo, nel 67 il tipografo Giuseppe Pavoni pubblicava una seconda edizione su istanza di Fig. 0. Antiporta di T. Tasso, La Gerusalemme Liberata, GiuBernardo Castello, ma sem- seppe Pavoni, Genova, 617. F.to M. Galletti, Biblioteca Berio, pre nello stesso anno stamGenova. pava un’altra edizione figurata da Bernardo Castello e dedicata a Carlo Emanuele duca di Savoia. Il frontespizio della seconda edizione risulta essere una interessante variazione del frontespizio della edizione del 590. Infatti la posizione della lapide del titolo viene scambiata con quella del busto del poeta e le figure allegoriche lasciano il posto ad emblemi araldici e si trovano ben più grandi in basso tra le due colonne. La figura nel suo complesso trova un migliore equilibrio, risultando la lapide fissata agli stipiti un ostacolo artificiale alla visione. L’estetica dell’immagine è migliorata mentre pare essere medesimo il messaggio. L’errore estetico nel primo caso, si po24. Cfr. Gli Annali di Caffaro (1099-1163), a cura di Gabriella Airaldi, Genova, Fratelli Frilli editori, 2002. 25. Cfr Idem, cit., p. 23.

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trebbe dire, esprime una cattiva codificazione, è la proiezione sul piano dei significanti di un’operazione sul piano del significato. Se il frontespizio inciso dell’opera di Francesco Maria Levanto era autorale, era da lui progettato, in questo caso invece abbiamo l’intervento redazionale del tipografo o dei suoi collaboratori o di Bernardo Castello, che ha figurato le tre edizioni. Giovanni Battista Riccioli A conclusione della presente ricerca vorrei porre l’attenzione sull’antiporta di due opere scientifiche del gesuita Giovanni Battista Riccioli 26 stampate a Bologna. Si tratta delle antiporte all’Almagestum novum (65) e alla Chronologiae Reformatae et ad certas conclusiones redactae (659). Quando si esamina la editoria dei Gesuiti nel ’600 in Italia è necessario tener presente che ciascun autore esprimeva anche la retorica della comunicazione istituzionale dell’ordine. Mettere a confronto le antiporte delle opere di Galileo Galilei con le antiporte di un testo di un gesuita potrebbe essere fuorviante per il giudizio sui frontespizi dell’editoria scientifica, 27 essendo rilevante la differenza dei mezzi finanziari a disposizione dell’uno o dell’altro. Nel 632 Galileo Galilei pubblicava presso il Landini di Firenze il suo Dialogo con un titolo troncato dallo stesso papa Urbano VIII quando quello del manoscritto portato a Roma per l’approvazione era Dialogo sul flusso e reflusso del mare. 28 Il titolo moderno risale al 774 ed è un intervento editoriale quando fu dato il permesso di ristampare il libro con una prefazione approvata di un teologo cattolico. L’analisi dell’antiporta mostra in modo straordinario la funzione del paratesto per comunicare il senso del libro stampato. Sullo sfondo si vede una nave che entra in un porto o esce da esso e in primo piano in basso compaiono tre figure umane che dialogano, il cui nome scritto sul vestito li identifica come Aristotele, Tolomeo e Copernico, mentre in alto, scritta su stoffa tenuta da due putti, il titolo : Dialogo di Galileo Galilei Linceo al Ser mo Ferd.II Il Gran Duca Di Toscana

L’antiporta della traduzione in latino, stampata ad Amsterdam, riflette l’antiporta dell’edizione originale, aggiungendo a Dialogus l’argomento De systemate mundi e ai due astronomi, la sfera armillare a Tolomeo e a Copernico lo schema del model26. Sull’editoria dei Gesuiti cfr. I gesuiti e i loro libri a Ferrara, frontespizi figurati del Seicento, a cura di Luigi Pepe, Ferrara, 998. 27. Su questo punto cfr. Roberto Paolo Ciardi, Lucia Tomasi Tongiorgi, La “scienza” illustrata : osservazioni sui frontespizi delle opere di Athansius Kircher e di Galileo Galilei, in Annali dell’Istituto Storico Italogermanico di Trento, xi, 985, pp.69-78. Significativo è quanto scrivono gli autori (70) con un punto di vista diverso dal mio : « Secondo una ben definita figura retorica, quella della catacresi, tanto impiegata nella letteratura quanto nella figuratività cinquesecentesca, la funzione di ingresso del frontespizio si riflette nella sua struttura compositiva, per cui questo assume spesso aspetto e tipologia di porta o di arco che immette in anditi e spazi misteriosi, dietro ai quali si celano Ì tesori della conoscenza, l’avventura delle vicende e sostanzialmente la terra dell’ignoto. A questo ingresso vigilano, appoggiati agli stipiti, le figure allegoriche dei temi trattati e sui fastigi si inseriscono elementi comunque allusivi alla sostanza concreta del libro, al suo autore o ai dedicatari ». Da questa posizione non si trae però alcuna regola di lettura dei frontespizi, riguardando solo la loro funzione retorica di comunicazione. 28. Cfr. Stillman Drake, Galileo Galilei pioniere della scienza, La fisica moderna di Galileo, Padova, Franco Muzzio editore, 992, pp. 96-200.

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lo eliocentrico. In questo modo però l’antiporta contribuì a quell’incomprensione del Dialogo di Galileo da parte di « lettori che assumono che esso sia stato scritto come una trattazione di due sistemi astronomici ». 29 Sarebbe importante sapere se l’antiporta fu approvata dal fiorentino o se fu progettata e stampata a sua insaputa. L’antiporta dell’ Almagestum novum del Riccioli esprime in modo consapevole che il Dialogo di Galileo Galilei nell’opinione comune è un confronto di due sistemi astronomici, quello tolemaico e quello copernicano, anche se apparentemente sembra che ben poca astronomia vi sia nel testo di Galileo. Infatti se si analizza l’antiporta si osserva come sullo sfondo, in alto in cielo, circonfusa da un cerchio di luce, appare la mano creatrice di Dio, sotto la parola ebraica del Beresit del Genesi. Le tre dita paiono prolungarsi nelle parole Fig. . Antiporta di G. B. Riccioli, Almagestum novum, Bologna Numerus, Mensura, Pondus di 65. F.to G. Ferrero, Biblioteca Universitaria, Genova. Sapientia iv. La mano è attorniata dai sette pianeti e in basso si intravede la distesa del mare e della terra ferma. Su tale sfondo emerge in primo piano la pesatura di due sistemi, quello copernicano più leggero e quello ticonico. Tolomeo sdraiato contempla l’evento con il suo sistema abbandonato per terra. Due figure contrapposte pronunciano parole le cui scritte non hanno supporto. Ora questa antiporta è la risposta all’antiporta del Dialogo di Galileo. Infatti esso significa che l’unico sistema in accordo con il Genesi e il bibliocentrismo dei Gesuiti è quello di Tycho Brahe e non quello copernicano. Che il Riccioli abbia pubblicato la condanna di Galileo e la sua ritrattazione nel contesto dell’esame delle sue tesi mostra il senso della sua opera, la confutazione scientificamente argomentata degli argomenti addotti fino allora a favore dell’ipotesi eliocentrica. Pur con tutta la sua competenza astronomica e il tono rispettoso mostrato nei confronti di Galileo Galilei, a differenza di altri confratelli, la sua fu una battaglia di 29. Cfr. S. Drake, cit., p. 96.

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retroguardia e non impedì che la ricerca scientifica si sganciasse dal confronto con la tradizione biblica. La seconda antiporta del Riccioli, quella premessa alla sua opera sulla dottrina del tempo, è forse quella che più s’avvicina per la sua struttura alla funzione del frontespizio inciso dell’opera di Francesco Maria Levanto. La descrizione dell’antiporta mira a rilevare la struttura simmetrica di un giardino sullo sfondo di una tenda dipinta. In esso troviamo infatti una simmetria bilaterale di un giardino con fioriere alternativamente rettangolari e circolari e api svolazzanti che vanno e vengono dai loro alveari disposti come colonne su piedestalli, dietro le due figure femminili sui piedestalli delle quali è scolpito « chronologia » e « historia ». La Chronologia tiene con una mano una catena da cui pende un ciondolo con la figura di una torre e dall’altra un folio di carta sui cui è scritta l’indicazione di una data : Anno 669 VI Kalendis Aprilis. I suoi seni sono coperti dalle figure circolari del Sole e della Luna, mentre l’ Historia tiene con la destra una torcia e con la sinistra una tromba. Fig. 2. Antiporta di G. B. Riccioli, Chronologiae Reformatae et Fa da sfondo una tenda ad certas conclusiones Redactae, Bologna, 659. F.to G. Ferrero, sulla quale è disegnato in Biblioteca Universitaria, Genova. lontananza l’arcobaleno con nubi che si diradano e sul piano intermedio in alto due putti con un serto di gigli e in basso un cespuglio di gigli sotto cui compare la scritta : Nec Salomon in omni Gloria sua. Il commento a questa antiporta non solo sarebbe impegnativo nel mostrare le allusioni ai testi classici e biblici, ma esula anche dal prefissato programma di ricerca. Tuttavia si è reso necessario porre l’attenzione su questa antiporta dell’editoria bolognese perché mi pare possa corroborare l’ipotesi di lettura qui sostenuta : l’antiporta o il frontespizio inciso non sono semplicemente allusione o illustrazione fini a se stesse, ma possono essere anche un mezzo per comunicare informazioni a vari livelli. Infatti si tratta di cogliere il nesso della struttura del giardino artificiale con due file di fioriere, in corrispondenza ai due alveari centrali, con la tematica di una cronologia

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astronomica esplicitamente indicata dalle figure del Sole e della Luna. La collocazione di queste due figure esprime sul piano dell’immagine l’affermazione metaforica secondo cui « il latte » della cronologia è costituito da congiuzioni e opposizioni di Sole e Luna. La struttura alternata delle fioriere del giardino, quadrate e circolari, significa un ordinamento alternato di lune piene e lune nuove in una tabella a n righe e colonne con due distinti intervalli lunari secondo le righe e le colonne. Ogni alveare presenta cinque fori di entrata simmetricamente disposti sicché possiamo affermare come ipotesi iniziale di lettura che la tabella sia un quadrato di sei righe e sei colonne contenenti cinque intervalli. L’intervallo totale dalla prima lunazione all’ultima sarà dato pertanto da 5 (x) + 5 (y) = 5 (x+y)

indicando con x e y i due diversi intervalli. Poiché sette sono gli alveari ai due lati delle foriere è possibile scrivere con notazione sessagesimale 5,5*7,5*7-5 = 5,35,30 mesi lunari che risulta essere 5(,7,6) mesi lunari = 5 (4026) = 2030 mesi lunari

La data scritta sul foglio corrisponde a sabato 6 aprile 669, vigilia della prima domenica di Passione secondo la liturgia tridentina. La domenica in palmis cade il 4 aprile e la Pasqua cristiana il 2 aprile. Il plenilunio pasquale (Pasqua ebraica) martedì 6 aprile e il successivo novilunio il 30 aprile. È indubitabile il riferimento alla Pasqua e al ciclo pasquale (235 mesi) per la determinazione di questa festa mobile. In questo modo si ottiene l’informazione per il secondo intervallo della tabella alternata di lune nuove e lune piene, che non può essere 235/5 = 47, ma la sua metà. L’intervallo completo sarà pertanto 5(4026) + 5(23.5) = 5 (4049.5) = 20247.5 mesi lunari

Partendo dalla data del 30 aprile 669, andando a ritroso nel tempo, si trova la data secondo il calendario giuliano di lunedì 4 aprile 32 d.C., plenilunio pasquale. A questo punto è possibile costruire una tabella di date e controllare con un programma al computer 30 se vi fossero state le condizioni per l’eclisse lunare e solare. Tabella . Date delle eclissi lunari e solari dal 4,4,32 d.C. a 30,4,669 d.C. 4,4,32 4,0,357 P 6,4,683 T 7,0,008 P 9,4,334 T 30,10,1659 P

9,3,34 T 9,9,359 AC 0,3,685 AC 0,9,00 AC 0,3,334 AT 23,9,1661 AC

3,,36 T 3,8,36 T 3,2,687 T 4,8,02 P 5,2,338 T 18,8,1663 P

25,2,37 AC 27,6,363 TC 28,2,688 AC 30,6,04 AC 3,2,339 AT 12,7,1665 TC

9,,39 T 2,5,365 T 22,,690 T 24,5,06 T 23,,34 T 6,6,1667 T

3,0,4 AC 5,4,367 AC 5,0,692 TC 8,4,08 TC 9,0,343 AC 30,4,1669 AT

P = Parziale ; T = Totale ; AC = Anulare centrale ;AT = Anulare totale ; TC = Totale centrale

La tabella è di per sé eloquente e il risultato non poteva essere nemmeno previsto al momento in cui nel sistema strutturale dell’immagine di fioriere quadrate e circolari (piano dei significanti) si è letto un ordinamento alternato di lune piene e di lune nuove (piano del significato). Senza questa lettura non si sarebbe colta l’informazione che il Riccioli volle comunicare mediante la struttura dell’antiporta di un testo di cronologia anche astronomica né si sarebbe potuto costruire la tabella. 30. Eclipse versione 6.5F per Windovs ™ 95/98 http ://www.marcomenichelli.it.

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giovanni ferrero Ringraziamento

Si ringrazia la Biblioteca Universitaria di Genova per il permesso alla pubblicazione di immagini tratte da testi della loro raccolta e la Biblioteca Civica Berio di Genova per l’autorizzazione alla pubblicazione di immagini tratte dai seguenti volumi: G. B. Baliani, Trattato della pestilenza, Savona, 647 (Genova, Biblioteca Civica Berio, Sezione di Conservazione e Raccolta Locale, B.S.XVIII.A.485); Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Genova 590 (Genova, Biblioteca Civica Berio, Sezione di Conservazione e Raccolta Locale, B.S.XVIII.A.485); Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Genova 1617, G. Pavoni (Genova, Biblioteca Civica Berio, Sezione di Conservazione e Raccolta Locale, F.Ant.XVII.C.66).

Abstract Il modello di analisi dei frontespizi dell’editoria del ’600 è basato sulla constatazione della funzione comunicativa ed informativa dell’immagine, evidente nelle culture pre-letterarie, e mostra in rapporto al contenuto testuale del frontespizio la funzione specifica di quelli incisi, funzione che non si riduce ad essere pura illustrazione od ornamento. L’esame del libro scientifico dell’editoria ligure nel ’600 confrontato con altri libri e con quelli scientifici di altre regioni, porta a sostenere che il frontespizio inciso o antiporta del libro scientifico generalmente non si distingue dagli altri frontespizi sulla base di criteri solamente formali. L’individuazione di questi criteri, quali la relazione sfondo e figura propria della Psicologia della Forma e la disposizione simmetrica delle immagini e delle figure potrà forse suggerire, oltre ad eventuali criteri di classificazione delle antiporte o dei frontespizi incisi, anche criteri di lettura e descrizione dei medesimi non essendo riducibile la descrizione all’elenco degli elementi culturalmente riconosciuti o ascrivibili ai codici culturali. The model for analyzing the frontispiece in 7th-century publishing is based on a statement of the comunicative and informational function of images, so evident in pre-literary cultures, and in relation to the textual content of the frontispice shows the specific function of engravings, a function that cannot be reduced to merely illustration and ornament. An examination of scientific books published in Ligurian in the 600s, compared with other books – including scientific books of other regions – leads us to conclude that the engraved frontispiece or antiporta of scientific books cannot generally be distinguished from other frontispieces based on formal criteria alone. Identification of these criteria, that is the relationship between background and figure in the psychology of Form, and the symmetrical arrangement of image and figure might suggest (aside from possible criteria for classification of antiporte or engraved frontispieces) criteria for their reading and description, since description cannot be reduced to a list of culturally recognized elements or those deriving from cultural codes.

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Paola Zito ANDREAS MAGLIAR SCULPSIT. DI ALCUNE ANTIPORTE NAPOLETANE DI FINE SEICENTO Il tutto è simbolico, forse ha significati misteriosi. Bernard de Montfaucon, L’antiquité expliquée

T

utto sommato conforme alla fisionomia della stampa barocca italiana ed europea appare la ‘confezione’ paratestuale allestita dalla tipografia napoletana, nel cui panorama assolutamente minoritarie si dimostrano le edizioni che non presentino almeno una dedica, un avviso ai lettori o una prefazione, una breve sequenza di sonetti, un corredo più o meno capillare di indici, una tavola di cose notabili. Anche qui, al testo si accede mediante un quasi sempre lungo e sinuoso vestibolo, che introduce alla lettura lentamente e per gradi, profondendo sapientemente e senza risparmio una autonoma carica di significati. Anche qui, è ben radicata la convinzione che per catturare il consenso del pubblico bisogna colpirne lo sguardo e accenderne la fantasia, fare breccia nell’emotività, suscitare maraviglia, ricorrendo alla pregnanza visiva dell’immagine. Dunque anche qui, i torchi tipografici si industriano di ricambiare alla loro maniera la rinnovata attenzione di cui – come sottolinea Armando Petrucci 2 – le arti figurative gratificano già da tempo l’invenzione gutenberghiana, riproducendo del libro, con frequenza degna di nota, formato, caratteri e legatura alla luce di una scrupolosa verosimiglianza. Dagli strumenti catalografici e repertoriali al momento disponibili 3 risulta che circa un terzo delle seicentine impresse nella capitale del Viceregno contiene elementi iconografici peculiari : si tratta di un materiale indubbiamente cospicuo – in cui sono state effettuate alcune apprezzabili incursioni, ma che finora non è mai stato oggetto di sistematico approfondimento – assai vario quanto a pregio e rarità, argomento, dimensioni ed estensione. Ugualmente vari i soggetti delle illustrazioni, spesso divergenti dalle logiche del percorso contenutistico, che vedono l’impiego in qualche modo parallelo, talvolta addirittura promiscuo, di xilografia e calcografia : 4 stemmi, alberi genealogici e ritratti, immagini allegoriche, apparati effimeri, scene della città . Al riguardo Marco Santoro, Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento. Per un percorso bibliografico, Roma, Vecchierelli, 2002, pp. 5-92, e indicazioni bibliografiche ivi segnalate. 2. Armando Petrucci, La scrittura fra ideologia e rappresentazione, in *Storia dell’arte italiana, vol. ix. Grafica e immagine, Torino, Einaudi, 980, pp. 8-9. 3. Innanzi tutto Le secentine napoletane della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di Marco Santoro, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 986, con le indicazioni bibliografiche ivi contenute. 4. Si veda Paolo Bellini, Manuale del conoscitore di stampe, Milano, Vallardi, 998, pp. -89, nonché Alessandro Gusmano, Stampe d’arte e di pregio. Guida per l’identificazione e la validazione, Milano, Arti Poliografiche Europee, 999. Utile anche il saggio di Giueseppe Tressari Filippetto, Itinerario tecnico di Callot incisore al « taglio dolce », in *Le incisioni di Jacques Callot nelle collezioni italiane, Milano, Mazzotta, 992, pp. 5-68, soprattutto in relazione alla prima formazione del grande alsaziano che avvenne a Napoli, nella bottega del D’Angeli (cfr. Anna Omodeo, La grafica napoletana del ’600. Fabbricatori di immagini, Napoli, Regina, 98, p. 7).

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e dintorni o di luoghi esotici, trame letterarie e teatrali, guerre tornei e cavalcate, ma soprattutto raffigurazioni religiose – teologiche, agiografiche, devozionali. A garantire la qualità degli esiti, una nutrita équipe di incisori e disegnatori, fra i quali spicca la lunghissima carriera di Nicola Perrey, e quella meno lunga, ma non meno feconda, di Federico Pesche. A partire dagli anni ’70 del secolo, ormai pienamente metabolizzato il trauma del ’56 che ridusse la produzione ai minimi storici, 5 si registra, nei volumi a stampa, una netta intensificazione di antiporte, 6 frontespizi incisi,7 e tavole, 8 magari più volte ripiegate, quasi sempre calcografiche e prevalentemente firmate. È un grosso contributo alla accresciuta cura editoriale di cui ora gode il precipitato dell’arte tipografica. 9 Imprenditori d’oltralpe – principalmente Giacomo Raillard e Antonio Bulifon 0 – sopraggiungono ad alzare il livello della competizione con i colleghi locali nel qualificare scelte testuali e allestimento della merce. Potenziato il commercio librario e scaltrite le capacità di selezione, ben più matura e più lucida si rivela nelle maestranze la consapevolezza del proprio ruolo.  Ed è appunto in questi anni, non a caso, che la partenopea fabbrica dell’immagine assume un respiro palesemente internazionale, reclutando un congruo nucleo di artisti francesi – il Ballieu, il Barrière, i due Miotte (Pierre e Fabien), ma soprattutto Jacques Blondeau, Giovan Battista Brisson, François de Louvemont, Benoît Thiboust, Jacques Thouvenet e Hubert Vincent –, validamente affiancati dal fiammingo Arnold van Westerhout e dai fratelli Schor, diretti collaboratori del Bernini, che, nel 683, chiama in città il nuovo viceré, marchese del Carpio. 2 E proprio a quella data risale l’edizione, per i tipi di Francesco Mollo, 3 di un’operetta agiografica sui martiri Casto e Cassio, composta dal sacerdote secolare Giuseppe Cerbone. L’antiporta del volume, che raffigura i due santi con mitria e pastorale, inginocchiati e investiti in pieno dalla luce divina, contiene l’indicazione Andrea Magliar sculpsit. Si tratta del primo intervento, ancora ascrivibile al periodo di apprendistato romano, dell’incisore che si stabilirà definitivamente a Napoli intorno al ’90, dove rimarrà attivo fino agli anni Trenta del Settecento. 4 5. Cfr. M. Santoro, Intr. a Le secentine napoletane …, cit., pp. 4-43. 6. In proposito, obbligatorio il rinvio a Francesco Barberi, L’antiporta nel libro italiano del Seicento, « Accademie e biblioteche d’Italia », l (982), n. 4-5, pp. 347-354. 7. Cfr., dello stesso autore, Il frontespizio nel libro italiano del Seicento, « Accademie e biblioteche d’Italia », li (983), n. , pp. 47-72. 8. Al riguardo si veda Ermanno Bellucci, L’editoria, in *Civiltà del Seicento a Napoli. Catalogo della mostra (Napoli, 6 dicembre 984-4 aprile 985), Napoli, Electa-Napoli, 984, vol. ii, p. 455 sgg., e la tesi di dottorato, in corso di stampa, di Rodney Palmer, dal titolo The illustred Book in Naples 1670-1734, in tre volumi. 9. Lo rilevava già il Giustiniani nel suo Saggio storico critico sulla tipografia del regno di Napoli, Napoli, nella stamperia di Vincenzo Orsini, a spese di Vincenzo Altobelli, 793, p. 78 sgg. 0. In proposito Pasquale Pironti, Bulifon – Raillard – Gravier editori francesci in Napoli, Napoli, Pironti, 982, e Giovanni Lombardi, Tra le pagine di San Biagio. L’economia della stampa a Napoli in età moderna, Napoli, ESI, 2000. . Cfr. M. Santoro, Intr. a Le secentine napoletane … cit., p. 48 sgg., e, dello stesso autore, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento, Milano, Bibliografica, 994, pp. 244-247. 2. Al riguardo Riccardo Lattuada, La stagione del barocco a Napoli, e Alba Cappellieri, Filippo e Cristoforo Schor, “Regi Architetti e Ingegneri” alla Corte di Napoli, in *Capolavori in festa. Effimero barocco al Largo di Palazzo (1683-1759). Catalogo della mostra (Napoli, Palazzo Reale, 20 dicembre 997-5 marzo 998), Napoli, Electa-Napoli, 997, rispettivamente pp. 23-54 e 73-90. 3. Il tipografo ristamperà il volumetto nel 685. 4. Cfr. Maria Teresa Penta, L’incisione nel “Regno”, e Andrea Magliar, in *Incisioni del ‘700 in Italia

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Entro la fine del secolo, egli compare in altre trentasei stampe, classificandosi terzo nell’ordine complessivo di presenze. Ma, quanto alla resa, secondo l’opinione del De Dominici che indubbiamente se ne intendeva, pare che, nel novero « di tutti quelli che maneggiano il bulino », vada considerato addirittura « il migliore ». 5 Raggiunto da commissioni provenienti anche dall’estero, richiesto dalle più accreditate officine cittadine, legami più solidi e costanti sembrano quelli da lui stabiliti con la prestigiosa società all’insegna della sirena – recante il motto allusivo, appena velato d’ironia, Non sempre nuoce – gestita dal Bulifon e dal Raillard, 6 che si aggiudica circa la metà del totale dei suoi lavori. A differenza del Perrey, del Pesche e di non pochi altri, che di ciascuna immagine risultano frequentemente inventor e insieme sculptor, Magliar incide di solito disegni non suoi, quasi sempre in coppia con partners di chiara fama. Di Giacomo Del Po sono in gran parte i volti confluiti nella ricca galleria di Memorie del giurista salernitano Biagio Aldimari ; 7 l’antiporta con un magniloquente Trionfo della fede per i Panegirici sacri del gesuita Francesco Maria Giordano ; 8 la scena biblica 9 destinata all’HuomoDio del confratello Tommaso Strozzi ; 20 quella non meno enfatica e misticheggiante per la storia della Congregazione dell’Oratorio del Marciano ; 2 due dei tre ritratti per La nobiltà gloriosa del Sicola 22 e la rappresentazione allegorica per le Notizie di Carlo Celano. 23 Da Paolo De Matteis esegue poi l’antiporta che correda, con scarse varianti, entrambe le opere di un altro membro dell’Ordine ignaziano, Antonio Palmieri : 24 nella raccolta d’arte Pagliara dell’Istituto Suor Orsola Benincasa. Catalogo della mostra (Napoli, 2 aprile-5 giugno 2002), a cura di Maria Teresa Penta e Barbara Jatta, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 2002, rispettivamente pp. 7-20 e 222-224. 5. Bernardo De Dominici, Vite dei pittori scultori e architetti napoletani, Napoli, Tipografia Trani, 84, p. 62. 6. In proposito, mi sia consentito rinviare al mio Non sempre nuoce. Testi e immagini nell’officina di Giacomo Raillard, Napoli, Arte tipografica editrice, 2003, in particolare pp. 4-9, dove segnalavo, su mera base repertortiale, altre sette edizioni cui Magliar reca il suo contributo di incisore, che non ho avuto modo di visionare personalmente. Si tratta dell’antiporta, raffigurante la natività, per il De partu Virginis del Sannazzaro (Roselli, 69) ; del frontespizio architettonico del lucreziano De rerum natura (Bulifon, 693) ; del ritratto del dedicatario, viceré Santo Stefano, per gli In XII Suetonii Caesares epigrammata di Baldassarre Paglia (Gramignani, 693) ; del ritratto del granduca Cosimo III di Toscana, dedicatario delle Rime di Giovanni Della Casa (Bulifon, 693) ; del frontespizio allegorico e dell’antiporta rispettivamente per Il cantico della Vergine (Barba, 695-99) e la Narrativa historica (Gramignani, 697-98) del Mastelloni ; dell’antiporta con ritratto dell’autore per il De nullitatibus contractuum di Biagio Aldimari (Porpora e Abri, 700). 7. Historia genealogica e Memorie istoriche della famiglia Carafa, redatte dall’Aldimari, escono entrambe nel ’9 dall’officina del Raillard. 8. La prima edizione dell’opera appare nel 69, per i tipi del Pittante. 9. Il soggetto, tratto dall’Esodo, è ispirato al felice compimento della fuga dall’Egitto. Mosé, in primo piano, rassicura i suoi dello scampato pericolo. 20. Edito da Parrino e Muzi nel 692. 2. Il De Bonis ne pubblica il primo volume nel 693. La raffigurazione mostra san Filippo in gloria, sospeso tra cielo e terra. Lo circonda uno stuolo di angeli. Appare investito dai raggi di luce dello Spirito Santo, che dal suo cuore si riverberano sui fedeli, di ogni età e condizione sociale, affollati in preghiera su un litorale. Sullo sfondo il profilo di una città piuttosto genericamente delineato. 22. Il terzo reca la firma F. Trombatore pinxit. È il Porsile a stampare il ponderoso tomo sulla vita di sant’Aspreno nel ’96. 23. I sei volumi della famosa guida di Napoli escono nel ’92 dall’officina del Raillard. Il ritratto dell’autore è inciso da Albert Clouet, dal dipinto di Luca Giordano. 24. Si tratta, rispettivamente, del Psalterium davidicum, edito dal Raillard nel ’97, e della Cantica XI et sacra salmodia pro defunctis, apparsa due anni dopo per i tipi del De Bonis. La tavola, qui, si arricchisce dell’inserimento della Vergine, collocata nel mezzo.

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Fig. .

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anche qui una suggestione vetero-testamentaria, con Saul e Davide sovrastati dall’immagine della Trinità. Più elaborato, permeato di gusto teatrale, lo spunto della tavola che introduce al Nomenclator plagarum Jesu crucifixi, fatica di massiccia erudizione di Pietro Giustiniani, 25 ancora un gesuita (Fig. ) : una tenda sollevata, quasi un sipario collocato sullo sfondo di un cielo saturo di nuvole, scopre un dipinto, sorretto da tre angeli, con la raffigurazione della Pietà – Maria dolente con le braccia aperte, il Cristo morto adagiato sulle sue ginocchia –, che un prelato mostra con la mano destra ad una folla di fedeli seduti, in assorta contemplazione. Nella sinistra tiene, ben visibile, un rosario. In basso la scritta : Haurite de fontibus Iesu mei. Isa. 12. Nella folta rappresentanza di appartenenti alla Compagnia di Gesù, l’autore certamente in questo decennio più prolifico si rivela Nicola Partenio Giannettasio, astronomo e geografo, ma soprattutto letterato dalla vena inesausta, della cui produzione – interamente in latino – il Raillard si aggiudica praticamente l’esclusiva. Il celebre Francesco Solimena collabora col De Matteis 26 nell’ideare apparati iconografici di estrema raffinatezza, puntualmente scolpiti dal Magliar, che di quei volumi costituiscono, in sostanza, il pregio maggiore. Splendide tavole precedono ciascun libro nei due poemi epici, i Bellica 27 e i Piscatoria et nautica, accanto ad antiporta o frontespizio figurato, regolarmente acclusi ad ogni edizione. Quanto agli altri due componimenti, le Aestates e gli Autumni surrentini (Fig. 2), rispettivamente del ’96 e del ’98, assai suadenti sono i frontespizi incisi con paesaggi marini, profilati in lontananza da rilievi montuosi. 28 La sirena Partenope emerge dalle acque, come a scandire l’incipit del canto, che gruppi di personaggi, in primo piano o più distanti, si predispongono ad ascoltare con pacata e compiaciuta attenzione. Uno specchio affabulante, abilmente calato in una atmosferica mitica, che promette una narrazione foriera di emozioni senza tempo. Della seconda delle due versioni Magliar risulta l’unico responsabile. Ancora esecutore delle inventioni di Onofrio De Dominici, 29 del Bongiovanni, 30 di Fabio Trombatore, 3 di Girolamo Cenatiempo, 32 del Pesche, 33 del Massa, 34 di Sebastia25. È ancora Giacomo Raillard a stamparlo nel 696. 26. Ferdinando Bologna, Francesco Solimena, Napoli, L’arte tipografica, 958, pp. 283-284. Il pittore rivendica inoltre l’idea per l’antiporta degli Universalis geographiae elementa, del 692. 27. Un maestoso guerriero dalla figura possente, con elmo e lunga lancia, si erge su un piedistallo circondato da cannoni, che si moltiplicano fin sullo sfondo dell’immagine, dove è ben visibile un castello in fiamme : è quanto mostra il frontespizio inciso dell’opera, apparsa nel 699. Un putto alato regge un cartiglio che sormonta le piume dell’elmo : Hic iter ad laudes, immortalitatem, triumphos. 28. Nelle Aestates la sirena reca un cartiglio con autore e titolo, e quattro sono i personaggi testimoni dell’evento narrativo ; intensificato risulta il registro allegorico negli Autumni, dove Partenope siede in trono, sollevata sulla superficie del mare da un corteo di sirene. In primo piano, una giunonica figura femminile, con un mantello che ne asseconda le forme prosperose, suona la cetra. Due soltanto gli ascoltatori in attesa, collocati questa volta sull’altra sponda. 29. Si tratta dell’antiporta, enfatica e chiaroscurale, del Cantico degli angeli del carmelitano Andrea Mastelloni, apparso in tre tomi, fra il ’95 e il ’99, per i tipi di Michelangelo Barba. 30. Una Madonna col bambino, circondata da angeli, guarda con benevolenza, dall’alto nelle nuvole, un frate carmelitano inginocchiato, che ha deposto in terra tre libri – due chiusi, uno aperto – in atto di devota offerta. Accanto un mappamondo. Effigiato è dunque l’autore stesso dell’opera, sempre il Mastelloni, con le sue Litanie della beata Vergine, in cinque volumi, stampati i primi due dal Porsile, gli altri tre dal Gramignani. 3. La tavola restituisce le sembianze di Baldassarre Pisani, autore de L’armonie feriali, componimenti poetici editi da Parrino e Muzi nel 695. 32. Intensamente allusiva rispetto ai contenuti dell’opera, il De formarum generatione contra atomistas opusculum dell’abate celestino Bernardo de Rojas (Michelangelo Barba, 694), l’antiporta con i simboli della ricerca scientifica sottoposta al vaglio della fede.

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Fig. 2.

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no Indelicato, del Westerhout, di Filippo Vacchetta, di Johann Franz Quequelair, 38 oltre che di maestri dalla identità anonima, 39 realizza immagini religiose, simboliche, architettoniche 40 e una apprezzabile quantità di ritratti, 4 destinati a impreziosire molti dei testi di maggior successo e più ‘alla moda’. Delle altre quattro antiporte ascrivibili in toto al Magliar, tre sono un’ennesima volta ritratti. Quello di Andrea Cantelmo introduce alla biografia che ne stila Leonardo Di Capua, 42 mentre è il profilo del dedicatario, il duca Agostino Saluzzi, effigiato con l’intera gamma di attributi pertinenti al suo rango di antica nobiltà, ad aprire la storia dell’ordine carmelitano nelle province di Calabria, redatta da Pietro Antonio Pugliese. 43 E ugualmente le sembianze del dedicatario, l’autorevole viceré Medina Coeli, occupano il centro della pagina, in un tripudio di figure allegoriche che ne celebrano fama e virtù, nell’elegante in folio contenente le Pompe funerali della madre, Caterina d’Aragona : 44 decisamente un omaggio allo scettro del potere, piuttosto che un monumento cartaceo al lutto e a alla memoria. L’ultima delle tavole che ci resta da segnalare è di gran lunga la più inusuale, e, a mio avviso, la più interessante. Varrà quindi la pena di esaminarla un po’ più da vicino, in maniera meno superficiale. Si rinviene ad apertura di un volumetto in latino di piccolo formato, un 8° di grande eleganza, per giunta molto raro nelle raccolte bibliografiche italiane ed europee. Ne è autore non un gesuita né un carmelitano, ma un oratoriano – dunque un membro di un Ordine all’epoca fra i meno prolifici, dediti 33. Suo il disegno per il ritratto di Antonio Bulifon, posto in apertura del Cronicamerone, apparso presso il Roselli nel 690. Il suo contributo figura nelle Lettere memorabili, istoriche, politiche ed erudite, di cui il Bulifon è autore ed editore, stampate ben tre volte tra il ’93 e il ’98. 34. Collabora all’apparato iconografico delle Lettere memorabili. 35. Da ingegnere e progettista, è anch’egli responsabile di alcune illustrazioni per le Lettere memorabili. 36. Autore di alcune tavole destinate al medesimo testo. 37. Firma il disegno col ritratto dell’autore, in antiporta al celebre Giro del mondo di Giovanni Francesco Gemelli Careri, apparso in sei tomi, fra il 699 e il ‘700, nell’officina di Giuseppe Roselli. 38. Insieme al Magliar, è artefice delle tavole della fortunata Guida de’ forestieri di Pompeo Sarnelli, stampata dal Roselli, a spese del Bulifon, del 697. 39. È il caso delle antiporte per l’Applauso di S. Chiesa alla Croce e per le Pratiche evangeliche domenicali del Mastelloni, apparsi rispettivamente presso il Gramignani nel ’96 e presso l’Abri nel 700. La prima, inserita in alcuni esemplari tra avantesto e pagine numerate, mostra una Madonna con bambino, nel clima privato e raccolto di una camera da letto. Nell’atmosfera rarefatta, di vago sapore neogotico, irrompe dall’alto, in una scia di luce, uno stuolo di angeli portacroce. Il triste presagio spiega l’espressione dolente e accorata della Vergine. Nella seconda, due monaci appaiono intenti a scrivere, all’ombra della Trinità e di una Madonna in trono. 40. Ad esempio, la tavola acclusa al Ragionamento intorno d’un antico marmo di Pozzuoli del Bulifon, edito dal Roselli nel ’94 e nel ’97, mentre nel 700 il testo riapparirà a spese dell’autore. 4. Pure anonimi gli autori del disegno per i ritratti di Pirro Schettini, in antiporta alle sue Poesie (Bulifon, 693), di Marc’Aurelio Severino, inclusa e in Dell’antica pettia e ne La filosofia, overo il perché degli scacchi (entrambe edite da Bulifon nel 690), di Carlo Maria Carafa, cui è dedicata la Terra tremante di Marcello Bonito (Parrino e Muzi, 99), di Maria Giron de la Nieves, viceregina Medina Coeli – fastosamente abbigliata come si addice al suo rango – dedicataria dei Sette salmi penitenziali del santissimo profeta Davit, pubblicati sempre da Bulifon, nel 697. 42. La Vita viene stampata dal Raillard nel 693. 43. Gli Antiqua calabriensis provinciae Ordinis carmelitarum exordia et progressus vengono pubblicati da Carlo Porsile nel 696. 44. È Giuseppe Roselli a stampare l’opera nel ’97. Il castrum doloris è raffigurato all’interno, in una grande tavola ripiegata.

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più all’apostolato che alla scrittura –, 45 il bergamasco Vincenzo Avinatri, scomparso, settantatreenne, nel 685. 46 Si tratta del Calix inebrians ex suavissimo passi botro eliquatus, 47 edito nel 694, quindi postumo, nell’officina di Giacomo Raillard. Vi è accluso un De beata Virgine Maria filium compatiente, di cui – stando alla notizia del marchese di Villarosa 48 – esisteva anche una redazione in volgare. 49 Dopo il frontespizio tipografico, disposta su quattro facciate non numerate, 50 la dedica dell’editore si rivolge a Christo Domino Crucifixo. È una vera e propria apologia dell’Avinatri, religioso dalla pietà esemplare ed inesausto studioso, che suona pure come convincente spiegazione per il ritardo nella pubblicazione dell’opera, « quasi in sudario […] ab Auctore vivente reposita, ut illum oculis aliorum absconderet ». Umile e schivo, lontano da ogni velleità mondana, egli ha tenuto a lungo la sua fatica sconosciuta ai più, per evitare il clamore degli encomi. È sempre il Raillard, poche pagine dopo (pp. [3-6]), a chiedere ed ottenere dalle autorità ecclesiastiche preposte 5 l’autorizzazione a stampare, accanto al Calix e all’appendice mariana, un Compendio della Vita dell’istesso Autore, vergata da un confratello che preferisce tacere il suo nome. La biografia, approntata l’anno dopo con gli stessi caratteri e lo stesso formato, 52 anch’essa in latino, 53 circola legata allo scritto maggiore nella quasi totalità degli esemplari conosciuti, ma non in quello della Nazionale di Napoli. 54 Vi compare in antiporta un ritratto dell’Oratoriano, che Magliar ricava dal quadro di Giovanni Trombatore. Lo stesso Magliar esegue pure le diciannove tavole – tredici riferite al Calix, sei al De beata Virgine – che costituiscono lo splendido corredo illustrativo, tutte, tranne una, 55 su disegno di ignoto. Consueto doveva sembrare al lettore il linguaggio figurativo nel quale viene qui reso il dramma della via Crucis, nell’alternanza di scene più composte e pacate, di gusto appena classicheggiante, 56 ad altre più mosse e intensamente chiaroscurali, dove il pathos si fa più accentuato e coinvolgente ; 57 e non meno familiari dovevano risultargli le immagini della Mater dolorosa, muta spettatrice della tragedia del Calvario. Decisamente più insolita, complessa da decifrare nella sua colta ed ardita densità allegorica, l’antiporta del Calix, dove, in basso a sinistra, è segnato Magliar fec. (Fig. 4). Andrea ne rivendica così l’esclusiva paternità, e sfrutta fino in fondo l’occasione per dimostrare che la ricchezza del suo estro e le sue capacità inventive non sono affatto inferiori alla consumata perizia tecnica, grazie alla quale si è aggiudicato il primato 45. Cfr. Romeo De maio, Cultura religiosa, in *Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, s.d., vol. vi, t. i, pp. 640-64. 46. Si era trasferito a Napoli giovanissimo, nel 629. 47. La struttura lessicale del titolo sembra citare l’agostiniana Enarratio in Psalmos LV (XXII, 5) . 48. Memorie degli scrittori filippini o siano della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, Napoli, Stamperia reale, 837, p. 20. 49. Il titolo italiano – che il Villarosa ricava dal repertorio di Pio Tommaso Milante – suona Trattato de’ dolori della Vergine. 50. Le due successive ospitano una Ad animam fidelem Praefatio. 5. Su parere favorevole del vescovo di Telese e Cerreto, che aveva conosciuto personalmente e stimato l’oratoriano, Giovanni Andrea Siliquino, Vicario generale, concede l’Imprimatur, in data 23 novembre 694, dunque in tempi molto rapidi. 52. Conta due pagine non numerate e 24 numerate. 53. Il titolo dell’edizione risulta essere Epitome vitae Vincentii Avinatri e’ neapolitani Oratorii Congregatione Presbiteri. 54. Il volume è segnato 82 G 63. 55. È l’illustrazione che si rinviene a p. 384, terza di quelle relative all’appendice mariana. 56. Ad esempio, Cristo davanti a Pilato, la Crocifissione (fig. 3) e la deposizione. 57. In particolare il bacio di Giuda, l’incoronazione di spine e l’ascesa al Calvario.

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nell’uso del bulino. Il perimetro circolare di un hortus deliciarum, segmentato dalle spirali di un labirinto, è cosparso dei simboli della passione. All’ingresso, come a volerla scortare lungo il percorso iniziatico, un angelo introduce una donna esile e scalza, con un diadema sulla testa. Al centro, inchiodata al lignum vitae, adorno di tralci e grappoli d’uva, una sagoma maschile massiccia e possente, effigiata in una vigorosa torsione, dalle cui ferite quattro angeli raccolgono il prezioso sangue in appositi calici. Si stenta, in realtà, a riconoscere in quel corpo muscoloso e opulento il Redentore morente, il Christus patiens, cui siamo abituati fin dagli esiti anteriori alle prime prove giottesche. 58 Farebbe affiorare alla mente piuttosto reminiscenze di mitologia pagana, magari connesse alla cruenta, e insieme catartica, parabola di smembramento e rinascita evocata dai misteri dionisiaci. Più rassicurante il volto di Dio Padre, che sovrasta la croce fra le nuvole, protendendo benevolmente la destra verso lo spettatore. Antichissima – e solo sporadicamente riesplorata dagli artisti coevi, almeno in Italia – è l’assimilazione della croce all’albero della vita, la vite, appunto. 59 Quanto al tema del sanguis Christi, aveva ispirato – come è noto –, nei secoli, accaniti dibattiti dottrinali, dai tutt’altro che esigui risvolti iconografici. 60 E in entrambi gli ambiti aveva spesso sfiorato l’eterodossia. Reiterato il divieto degli Indici di Anversa e di Spagna 6 sull’immagine denominata La fontaine de vie, il cui simbolismo pareva alludere a implicazioni luterane e pelagiane. 62 La reinterpretazione più recente, che con ogni probabilità Magliar ha avuto sotto gli occhi durante il soggiorno romano, va identificata nel celebre disegno berniniano, trasformato in dipinto da Giovan Battista Gaulli e in incisione da Francesco Spierre. 63 Nella seconda delle due versioni, la tavola, sebbene di dimensioni nettamente maggiori rispetto al formato del libro, diviene antiporta per uno scritto di un altro oratoriano, Francesco Marchese, 64 eloquentemente intitolato l’Unica speranza del peccatore che consiste nel sangue del N. S. Giesù Cristo, che Giacomo Dragondelli stampa nel 670. Certo non ignara dell’operazione di sintesi compiuta nel Catechismo tridentino, 65 di ben più forte presa emozionale, sapientemente dinamica e luministica come si addice al caposcuola del barocco europeo, la figura è presente in filigrana nella composizione del Magliar, di cui costituisce in qualche modo una fonte, e un significativo termine di confronto. Ma l’antiporta napoletana ha più matrici stilistiche, e concettualmente ha più anime : conserva memoria di archetipi paleocristiani, indulge ad un’aura vagamente classica, in assonanza con la prosa austera e rigorosa 58. Al riguardo cfr. almeno Erwin Panofsky, ‘Imago pietatis’, in *Festschrift für Max J. Friedländer zur 60° Geburstage, Leipzig, E. A. Seemann, 927, pp. 26-308. 59. Cfr. I simboli nel medioevo, trad. it., Milano, Jaca Book, 98, pp. 374-375. L’esemplificazione qui proposta riguarda i mosaici di San Giovanni in Laterano, che alludono a un passo di Venanzio Fortunato, Poemi, ii,  : (« Tra le due braccia si avvolge la vite da cui scorre per noi in abbondanza il dolce vino che ha il colore del sangue ») e quelli dell’abside della chiesa di San Clemente a Roma. 60. Al riguardo Franco Strazzullo, Il sangue di Cristo. Iconografia e culto, Napoli, Arte Tipografica, 999. 6. Questo dato e i successivi sono attinti al Thesaurus de la littérature interdite au XVIe siècle. Auteurs, ouvragrs, éditions, realizzato a cura di Jesus M. De Bujanda, Sherbrooke-Genève, Centre d’Etudes de la Renaissance-Librairie Droz, 996. 62. Illuminanti in proposito le osservazioni di Émile Mâle, in L’art réligieux de la fin du Moyen Age, Paris, Colin, 908, p. 233 sgg. 63. Sull’argomento Irving Lavin, Bernini’s Death, « The Art Bulletin », liv (972), pp.58-83. 64. In proposito rinvierei al primo paragrafo del mio Francesco Marchese nemico della Quiete, « Esperienze letterarie », xxi (996), n. 4, pp. 73-93. 65. Catechismus ex decreto Concilii tridentini ad parochos … Venetiis, apud Aldum, 575, p. 42.

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delle pagine che seguono, ma, principalmente, di quelle pagine coglie, restituendola in maniera obliqua e mediata, la cifra inquieta, e l’inquietante oscillazione tra perfetta ortodossia e tentazione ereticale. Nella puntuale ricostruzione del dramma del Golgota, in una sorta di accanita filologia del dolore, dove la lente dell’indagine scava compiaciuta dentro ogni piaga, ciascuna affermazione passa al vaglio di molteplici testimonianze evangeliche, patristiche e dottrinali, che la resa tipografica debitamente evidenzia sui margini corrispondenti. Ebbene, nelle pieghe della estesa trama bibliografica, appaiono infiltrate non poche auctoritates dalla fama quanto meno sospetta. Accanto a Origene e a Dionigi l’Areopagita, a Sant’Agostino, a Tommaso d’Aquino e a Gerson, a Suarez e a Bellarmino, alle visioni, squisitamente al femminile, di Caterina da Siena, di Brigida di Svezia e di Maria Maddalena de’ Pazzi appena canonizzata (669), è citatissimo Giansenio, già bollato per eterodossia dal 654, 66 e ricorrono i nomi di Alfonso de Tostado 67 e di Iacopo Brocardo, 68 entrambi all’Indice da circa un secolo. Le Enarrationes in Evangelium Lucae di Diego de Estella, qui invocate, avevano raccolto divieti ecclesiastici in tutta Europa ; 69 e ancora, la Praefatio contra fidem mahometicam di Johannes Cantacuzenus (+385) 70 era stata a sua volta censurata in più sedi. L’esemplificazione potrebbe continuare, ma forse questi dati sono già sufficienti a insinuare il dubbio che non solo per umiltà e disprezzo della gloria terrena – come sosteneva il Raillard –, ma forse ancor più per prudenza, lo scritto sia rimasto così a lungo inedito. Caratterialmente riservato e conciliante, Avinatri era spirito profondo e personalità tormentata, uno dei tanti uomini di fede che, nell’intimo, non si riconoscevano a pieno nel tassativo sistema di certezze postridentine. Nella ricerca di risposte ai suoi interrogativi, aveva messo a confronto, senza discriminazioni, teologi antichi e recenti, gesuiti e domenicani, santi ed eretici, trattati ponderosi e rivelazioni estatiche, purché pervasi dallo stesso fervore cristocentrico. Il coinvolgimento emotivo che il tenace scandaglio aveva ispirato, nell’investire di luce radente ogni dettaglio di quelle ore cruciali, aveva lasciato in ombra i confini oltre i quali era consentito spingersi ad un rispettabile membro di Santa Madre Chiesa. Appassionato della Passione, aveva assunto – con quale grado di consapevolezza non è dato sapere, ma, certo, non senza qualche venatura d’orgoglio – un atteggiamento intellettuale da libero pensatore. Per molto tempo direttore spirituale di madre Serafina di Dio, religiosa carismatica nell’orizzonte devozionale di città e provincia – di cui aveva incoraggiato l’apostolato di marca teresiana e le speranze di santità –, 7 era stato in stretto contatto con gli esponenti di spicco del quietismo napoletano, col Muñoz, il Cesari, il Serlupi, il de Rossi : un quietismo “colto”, più concentrato sulla riflessione teorica che attivo nel 66. Cfr. Jesus M. De Bujanda, Index librorum prohibitorum 1600-1966, Sherbrooke-Genève, Centre d’Etudes de la Renaissance-Librairie Droz, 2002, p. 470. 67. È il Floretum sancti Matthaei, tra le altre opere dell’autore quattrocentesco (400-455) a comparire nell’Indice portoghese del 58. Al rigurdo si veda il Thesaurus... cit., p. 270. 68. L’Opera omnia compare all’Indice romano nel 596. Cfr. Thesaurus …, cit., p. 98. 69. Prima che nell’Indice clementino del ’96, vengono gratificate di due drastiche censure in Spagna, nel 583 e nel 584. 70. La prefazione, proibita in Portogallo e dalla Università di Lovanio, preludeva al testo di Walther Rudolph, la cui Opera omnia era stata condannata a Venezia e a Roma (559 e 664), oltre che in Spagna. Singole opere compaiono all’Indice in molti dei paesi cattolici. 7. Per l’intera vicenda rinvio a Vittoria Fiorelli, Una santa della città. Suor Orsola Benincasa e la devozione napoletana tra Cinquecento e Seicento, Napoli, Editoriale Scientifica, 200, p. 22 sgg.

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concreto proselitismo, allora non ancora investito dalla pressione inquisitoriale, ma destinato di lì a poco ad essere giudicato tra i veleni più letali che, dopo lo scisma luterano, Roma si sia mai trovata a dover fronteggiare. Morto lui, proprio in quel 685 che vede l’inizio del processo Molinos, finisce sotto accusa anche Serafina, nonostante la sua ostentata posizione antimolinosista, 72 in prima istanza per le compromettenti frequentazioni cui il suo confessore l’aveva avviata. L’abiura de laevi che, nel ’9, di Serafina vanificò ogni progetto e ogni libera iniziativa, stroncandone tassativamente la candidatura ai fasti dell’altare, archiviò il caso. Con la conclusione dell’inchiesta e di altre analoghe – l’anno successivo fu riabilitato padre Antonio Torres, a sua volta indagato per inclinazioni filoquietiste73 –, l’aria in città, almeno su questo versante, doveva essersi fatta più respirabile, tanto da suggerire al coraggioso editore l’allestimento di quella pubblicazione postuma. Una dipartita tempestiva aveva conservato il nome dell’autore vergine da ogni ipoteca, l’argomento era di tutta edificazione, la stampa raffinata e curatissima. E l’imprimatur fu concesso senza esitazioni. Né suscitò perplessità quel Dioniso in croce, che sanguinava generosamente, al centro di un labirinto pagano cristiano ed esoterico insieme, che del libro esprimeva al meglio l’essenza riposta, come raramente una figura riesce a fare. Suscitando maraviglia con scaltre suggestioni che ammiccavano agli intenditori, ma si guardavano bene dall’illustrare ai profani e agli intrusi segreti imbarazzanti. Ci si imbatte, in questo caso, in una soglia che esercita in maniera archetipica il suo ruolo paratestuale nel mosso e articolato scenario dell’editoria barocca : una presentazione dell’opera in un linguaggio altro da quello verbale, che non ne esibisce didascalicamente il contenuto in una sorta di esposizione parallela, ma piuttosto lo ammanta di un’aura densamente allusiva, consolidandogli intorno un vasto orizzonte d’attesa. 74 Assolvendo dunque brillantemente alla funzione eteronoma che l’assetto della pubblicazione le conferisce, senza tuttavia abdicare ad una irriducibile forma di autonomia. Abstract Nel 683, nel periodo di massimo fulgore dell’editoria barocca a Napoli, ha inizio la collaborazione del brillante incisore Andrea Magliar con i torchi partenopei, in particolare con l’officina all’insegna della sirena, gestita dai ‘soci’ Raillard e Bulifon. Prevalente, nel complesso, risulta la sua attività di esecutore, nel trasferire su matrice disegni altrui, solitamente firmati da nomi prestigiosi, per antiporte e frontespizi figurati di rara suggestione. Nella vasta gamma di scene sacre e profane – spunti vetero o neo-testamentari, soggetti agiografici, paesaggi, allegorie, ritratti -, si segnala per originalità e interesse la tavola che introduce un elegante volumetto in 8°, il Calix inebrians dell’oratoriano Vincenzo Avinatri, pubblicato postumo nel 694. Interamente opera del Magliar, è una libera reinterpretazione iconorafica del tema del Sanguis Christi, che con singolare efficacia rivela la cifra inquieta e larvatamente ereticale di un testo dalla ortodossia apparentemente ineccepibile. In 683, at the height of splendor of baroque publishing in Naples, the brilliant engraver An72. Cfr. Romeo De maio, Società e vita religiosa a Napoli nell’età moderna (1656-1799), Napoli, esi, 97, p. 64 sgg. 73. In proposito Massimo Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, ii. Il Cinquecento e il Seicento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 978, p. 244. 74. Al riguardo sempre imprescindibile il riferimento a Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, trad. it., Torino, Einaudi, 9892, in particolare pp. 3-6.

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drea Magliar began to collaborate with Neapoitan printers, especially with the workshop at the sign of the mermaid, run by Raillard and Bulifon. On the whole, his work as executor prevalently consisted in transferring the drawings of others onto a plate, usually signed by prestigious names, for antiporte and frontispieces evocatively figuring a vast range of sacred and profane scenes, or the New Testament, saints, landscapes, allegories or portraits. Of notable interest for its originality and interest is the plate introducing an elegant volume in 8°, the Calix inebrians of the oratorian Vincenzo Avinatri, published posthumously in 694. Entirely the work of Magliar, it is a free interpretation of the theme of Sanguis Christi, and with singular effectiveness reveals the restless cipher and veiled heretical figure in a text of apparently unexceptional orthodoxy.

Anna Giulia Cavagna LA PAROLA DEI TIPOGRAFI-EDITORI NEI PARATESTI GENOVESI

I

n molti studi il paratesto è indagato, da un’angolatura prevalentemente linguistico-testuale, in rapporto alle intenzioni autorali o in subordinazione a un qualche programma estetico. Collocato viceversa in una prospettiva di storia del sistema editoriale, giacché il tipografo-editore si esprime prima di tutto attraverso i manufatti che crea e per come li crea, atteso che il segno è l’evento in cui il mondo si traduce e si fa comprensibile,  l’insieme degli scritti preliminari di corredo e chiusura di un testo, offre dati utili per comprendere operazioni e competenze meccaniche, intellettuali, commerciali e culturali che rendono possibile l’atto di pubblicazione e connotano e qualificano il suo realizzatore materiale : il creatore del manufatto librario, nella sua duplice veste di tipografo stampatore e tipografo editore. Noi incontriamo i tipografi dei primordi soprattutto attraverso le parole e l’intermediazione critica dei contemporanei. Già gli incunaboli tedeschi dei primi anni Sessanta del Quattrocento avevano pubblicato valutazioni sul meccanismo tipografico in alcuni colophon, elogi per la nuova arte scrittoria, ma l’attenzione era posta più sulle modalità del sistema, che non sull’individuo, e il tipografo vi compariva solo evocato in giudizi altrui ; una analoga tradizione di elogio del ritrovato in sé, scaturita dalla terra germanica, è riscontrabile anche in Italia. 2 Il primo tipografo invece ad essere nominato, in porzioni paratestuali di pubblicazioni non proprie, nella sua veste di artigiano stampatore e ad essere identificato con nome e cognome (sebbene riportati in grafie lievemente differenti per polemiche che qui non interessano), fu naturalmente Gutenberg, negli incunaboli usciti negli ultimi anni Sessanta del Quattrocento. 3 In Italia la più antica attestazione paratestuale che mi sia dato conoscere, dedicata agli artigiani intesi come gruppo di operatori, ma non menzionati singolarmente, . Carlo Sini, Segni dell’anima. Saggio sull’immagine, Roma-Bari, Laterza, 989. Anche il pensiero del filosofo epistemologo Jaques Derida – autore di uno scritto, Glas che presenta un incastro di brani dove è difficile distinguere nota e commento dal testo principale, e che pure partì, come spunto per una sua opera filosofica, dall’osservazione di una miniatura medievale della biblioteca di Oxford, e che riservò attenzione alle forme di comunicazione multimediale e ai loro vari indivisibili livelli, pur parlando di una morte della civiltà del libro, ma rivalutando la scrittura di fronte al logos – contiene spunti utili per un approccio critico e teoretico al paratesto. Cfr. in prima istanza la Grammatologia, Milano, Jaka Book 998. 2. Anna Giulia Cavagna, Il libro a stampa : Valutazioni e idee del Rinascimento italiano, in *Lettere e arti nel Rinascimento, a cura di Luisa Secchi-Tarugi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2000, pp. 45-427, ma cfr. anche l’elogio nei versi endecasillibi di Filippo Beroaldo, premessi ad una propria edizione bolognese del 499 (IGI 596). 3. Cfr. preliminari e paratesti nelle stampe dei tipografi : P. Shoeffer, alle Istituzioni di Giustiniano con la glossa dell’Accursio, Mainz nel 468 (GW 7580 ; c. 03 v) dove si paga un tributo d’elogio a Gutenberg, Fust e al medesimo Shoeffer (che scrive e si fa pubblicità): uomini, più grandi di Salomone, perchè abili nel preparare lettere e incidere ; di U. Gering e M. Kranz, all’Ortografia del Barzizza Parigi 470-47, con epistola prefatoria di G. Fichet (c.v-2v) ove si menzionano le lettere metalliche usate dal primo tipografo (GW369) ; E. Ratdolt, Chronicon di Eusebio Venezia 483 c. u3v (IGI 3753).

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e non confinata in un colophon, risale al 47 : è una laude impressorum 4 presente in una edizione di Lorenzo Valla probabilmente attribuibile, per argomenti e toni, a un umanista del circolo romano, magari vicino a Pomponio Leto, e pubblicata dallo stesso tipografo-editore capitolino che di lì a qualche anno avrebbe invece accolto in altri suoi paratesti, stampati secondo la tradizione in casa sua, l’elogio specifico di Gutenberg. 5 La pratica di menzionare in modo onorevole la persona singola che realizza il libro a stampa si può dire formalizzata in Italia già negli anni Settanta. Aveva ovvi scopi pubblicitari, anche se, in assenza di completa documentazione, risulta difficile stabilire se la presenza di questi elogi fosse dovuta ad una puntuale, consapevole committenza o pressione dell’artigiano oppure imputabile ad un sincero entusiasmo dell’autore-curatore dell’opera. Certo comunque lo stampatore era consenziente e ne era gratificato. A Bologna sembrano eccellere in tale pratica i tipografi Sigismondo De Libri, Benedetto Faelli, e, nel Cinquecento, Anselmo Giaccarelli che stampano, in opere altrui, righe di altrui paternità ma commendevoli del proprio lavoro o della propria persona. 6 A Genova non esistono precoci apparati paratestuali perché la produzione incunabolistica è quasi inesistente e fino al 536, per una serie di ragioni politiche economiche interne, lo Stato è privo di stamperie. 7 Quando queste divengono regolarmente operative e i libri sufficientemente richiesti, il paratesto locale è sede di pubblicità per l’oggetto costruito dal tipografo, il libro, più che per l’artigiano in sé o per la sua arte, come testimonia un sonetto secentesco, posto a margine di un trattato politico, che nei suoi 5 versi augura diffusione ai “fogli eruditi” posti in circolazione in un “volume angusto”. 8 Non compaiono invece significativi elogi (né personalmente scritti dal tipografo, né ad altri attribuibili) dell’attività di un singolo operatore menzionato esplicitamente : cosa che facilmente si comprende con la portata in prevalenza locale della produzione genovese. Se non è possibile leggere a Genova, come invece in altre città italiane, paratesti di complimento di un singola persona, altri dati in relazione ai 4. Lorenzo Valla, Elegantiae linguae latinae, Rome, Johannes Philippus de Lignamine, [prima del 26 July] 47,H 5852, IGI 008 ; Proctor 3383 ; bmc iv 2. Ho confrontato l’esemplare della Biblioteca centrale della regione siciliana (inc. 64) con quello della Henry E. Huntington Library di San Marino- California. (Ringrazio la dott. Giovanna Cuttitta e Stephen Tabor, Curator of Early Printed Books). I distici sono al verso della prima carta stampata, di fronte alla dedica, ma la struttura del fascicolo non è chiara e differisce nelle varie copie italiane o europee, molte delle quali incomplete. Sull’attribuzione incerta, cfr. Paola Scarcia Piacentini, Note storiche-paleografiche in margine all’Accademia romana, in *Le chiavi della memoria. Miscellanea in occasione del I centenario della scuola vaticana di Paleografia Diplomatica e archivistica a cura della associazione degli ex allievi, Città del Vaticano, 984, p. 528 nota 75 ; Massimo Miglio, Saggi di stampa. Tipografi e cultura a Roma nel Quattrocento, a cura di Anna Modignani, Roma nel Rinascimento, 2002, p. 234. 5. È F. Lignamine, che insieme all’elogio delle lettere metalliche, nella Chronica di Riccobaldo Ferrarese, Roma 474, (H 0857, IGI 8357), quantifica (c. 2) la tiratura media giornaliera (300 fogli al giorno) nell’ officina gutenberghiana di Mainz. 6. Corpus Chartarum Italiae ad rem Typographicam pertinentium ab arte inventa ad ann. MDL. Vol. i : Bologna, a cura di Maria Gioia Tavoni, con la collaborazione di Federica Rossi e Paolo Temeroli. Premessa di Anna Maria Giorgetti Vichi, Roma, Istituo Poligrafico e Zecca dello stato- Libreria dello Stato, 2004. (Nuova Serie, xvi), pp. 203, 30, 370, 39, 49. 7. Anna Giulia Cavagna, Tipografia ed editoria d’antico regime a Genova, in Storia di Genova a cura di Dino Puncuh, Genova 2005, vol. 3, pp. 355-448. 8. Filippo M. Bonini, Il ciro Politico … all’eminentissimo, e reverendissimo Signor Givlio Cardinal Mazarini. Parte prima. In Genova, Per Pier Giouanni Calenzani, 647, sonetto di Giulio Cesare Grimaldi, p. 347.

la parola dei tipografi-editori nei paratesti genovesi

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tipografi e ai loro molteplici ruoli sono ricavabili dagli scritti liminari presenti in età moderna. La tipografia funziona come incentivo alla scrittura da parte di molti, tanto che alcuni studi arrivano a quantificare che fra gli autori stampati sino al 550 un discreto nucleo era di tipografi che vestivano i panni degli autori: pubblicavano propri scritti servendosi magari di officine concorrenti. 9 Alcuni tipografi decisero invece di ricavarsi un personale spazio di scrittura all’interno di quello tipografico apparecchiato, nelle proprie botteghe, per le pubblicazioni altrui. 0 Mi pare che fra tutti gli scritti liminari a una qualunque edizione il paratesto per eccellenza sia quello siglato, firmato, riconosciuto proprio inequivocabilmente, dal tipografo-editore. Alla luce delle posizioni teoriche riguardo concetto e funzione di medium – che contribuisce a formare e determinare le attività umane, ampliandone conseguenze sociali e personali, quasi risolvendosi in una estensione di noi stessi attraverso la nuova tecnologia  – gli scritti di paternità del tipografo sono utili per chiarire non solo pratiche commerciali come è ovvio, ma anche idee e opinioni presenti o condivise in una data epoca sull’attività tipografica e sui suoi artefici. Il tipografo utilizza la lingua producendo dei testi informativi che prima comunicano, attraverso gli enunciati concreti, alcuni momenti tangibili della propria attività umana e lavorativa e poi consentono, tramite il discorso cui rinviano, di desumere il mondo che rappresentano. Contenuto e stile di quelle parole, presi nel loro insieme, riflettono infatti e contribuiscono a determinare le finalità artigianali e commerciali del tipografo, le sue doti, reali o ambite o semplicemente idealizzate ; concorrono cioè a costruire l’immagine professionale che egli passivamente veicolava di sé, dopo averla fatta propria dall’ambiente circostante, o che elaborava e consapevolmente trasmetteva. L’indagine esamina dunque un corpus di oltre un centinaio circa di scritti preliminari di vario tenore (avvisi, dediche, epistole ecc.), prodotti a Genova lungo l’arco di tre secoli dal Cinque al primo Ottocento e attribuibili, per paternità compositiva, a tipografi-editori urbani, che li hanno sempre sottoscritti, in molti casi anche datandoli. Il fatto per altro che Genova, nei secoli esaminati, non fosse una capitale tipografico-editoriale dell’antico regime italiano consente di estrapolare quelle attestazioni degli stampatori considerandoli oltremodo significativi echi, benché provinciali, di un orientamento di pensiero e di un comportamento di bottega diffuso e recepito su più larga scala a livello europeo. 2 9. Christian Bec, Lo statuto socio-professionale degli scrittori (Trecento-Cinquecento), in Letteratura italiana, Torino, Einaudi, ii 983, pp. 229-267 : i tipografi-autori, fra gli scrittori pubblicati dal 450 al 550, rappresenterebbero il 3% . 0. È superfluo sottolineare che i ruoli di tipografo e editore sono spesso svolti da una stessa persona per quasi tutto l’antico regime tipografico : il binomio tipografo-editore verrà nel corso dell’enunciato e per ragioni stilistiche talora indicato usando solo il primo termine. Qualora si trattasse di un mero esercente commerciale, un puro sovvenzionatore-editore o di un semplice lavorante al torchio, si userà opportuna distinzione. . Marshall McLuhan, Understanding Media. The Extensions of Man, Cambridge, (ma) mit Press, 994. 2. Nell’impossibilità, per ragioni di spazio, di descrivere tutte le opere oggetto dell’analisi secondo criteri bibliografici analitici, si fornisce almeno un breve rinvio (cognome o titolo dell’opera, l’anno di stampa in Genova) a quanto menzionato a vario titolo in quest’articolo : Al cittadino Massucco 797 ; Alberti G. A. Adelaide 649, Aurea 648 ; Arnolfini P. 590 ; Api P. G. 798 ; Antero M. 658 ; Assarino L. 644 ; Bartoli D. 653 ; Blanchard J. P. 795 ; Boccaccio G. 96 ; Bollettino ligure 22..79 ? ; Bonfadio J. 592 ; Bonini 647 ; Brignole Sale A. G. 643, 652, La colonna s.d. ; Bruno V. 587 ; Busembaum H. 656 ; Calcagnino A. 697 ; Canevari D. 636 ; Capriata G. 663 ; Casoni A. F., Reggia 6 ? ; Centurione A. 625 ; Cerasola D. 748 ;

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Tali interventi sono stati individuati all’interno di quasi due migliaia di edizioni genovesi a loro volta precedentemente selezionate, nell’insieme dell’intera produzione d’età moderna, 3 per condurre questa analisi secondo criteri di rappresentatività cronologica, tematica, bibliologica, e secondo coerenti e calibrati principi di fabbricazione che tenessero conto sia di pubblicazioni ordinarie, modeste, correnti, sia di stampe graficamente più decorate o complesse, sia di opere in un solo volume, sia di pubblicazioni in più tomi, sia commissionate che veramente edite dal tipografo (tipografo-editore ; tipografo-libraio, solo libraio). Poiché la tipografia genovese d’antico regime non fu manifattura portante dell’assetto economico cittadino, né elemento centrale del processo di elaborazione culturale presumibilmente svoltosi nelle cerchie intellettuali urbane, e poiché si ritiene che qualunque analisi non possa prescindere da una metodologia comparativa che ponga in relazione l’evoluzione di simili processi in contesti differenti, 4 è stato preso in considerazione un analogo corpus di scritti preliminari firmati da tipografi di altre realtà editoriali italiane e straniere coeve (oltre un centinaio). Si è privilegiato però il raffronto con aree regionalmente limitrofe (Lombardia, Piemonte), in particolare esaminando i paratesti usciti a Pavia, città appartenente ad un diverso contesto culturale, giuridico istituzionale e governativo, ma che aveva con Genova attestati legami e scambi educativi, politici, e di storia tipografica, dato che una officina esercitò in entrambe le città per un certo periodo di tempo e che, comunque, anche quando le specifiche relazioni fra stamperie cessarono mantenne contatti di natura culturale e sociale con la Repubblica. 5 Chiabrera G. 653, 654 ; Cavalli G. G. 636 ; Copia di lettera 657 ; Dal Mediterraneo all’Atlantico 993 ; De immunitatibus … Divi Georgii 593 ; Dell’arte di vedere nelle belle arti il disegno 786 ; Della Torre R. 6 ; Federici F. 64 ; Fleury C. 769 ; Francesco M. da Genova 635, Gandini C. 786 ; Genlis, contessa 7XX ; Genova statuti 635, 688 ; Gentile Ricci P. G. 604 ; Gentile Ricci O. 745 post ; Giano F. 779-80 ; Giorgi G. 72, 73 ; Giuliani N. 869 ; Gnecco G. 773 ; Grossi P. L. 795 ; Kempis T. 652 ; Imperiale B. 640 ; I salmi tradotti dall’ebraico 1784 ; Il segretario di gabinetto 784,788 ; Ludovico da Genova 674 ; Marini Giovanni 650 ; Maggiani M. 2000 ; Manifesto all’Europa, 797 ; Mattei S. 784 ; Massuco C. 790 ? ; Milizia F. 786 ; Mercier L.S. 798 ; Munier G. A. 654 ; Negroni G. 620 ; Niccolai A. 773 ; Nieremberg J. E. 656 ; Nifo A. 560 ; Oratione nell’incoronatione di C. Gentile 669 ; Orrigoni C. G. Rime 636 ; Osservazioni di un cittadino di Riviera sopra la nuova Costituzione 797 ; Orazione dimostrativa e persuasiva a tutto il popolo ligure 790 ? ; Palafoy y Mendoza Juan 698 ; Pallavicino I. 724 ; Palmieri V. 798 ; Paradisi A. 795 ; Parnassium viridarium 680 ; Per la coronatione di…Giorgio Centurione 622 ; Piano d’una scuola d’educazione 784 ; Picquigny de, B. 77 ; Pizzorno A. F. 768 ; Plutarchus 536 ; Raffaele da Roma 754 ; Ragguaglio historico 683 ; Regolamenti diversi 784 ; Riccardi R. B. 607 ; Rollin C. 792-95 ; Rossano G. G. 64 ; Saggi cronologici 692 ; Sappa De’ Milanesi A. 788 ; Saporiti G. M. 766 ; Sauli P.-Mascardi A.-Giustiniani P. 622 ; Selecta patrum societatis Jesus orationes 747 ; Sopra gli effetti del moto … lettere di Flegomene ad Anucrate 769 ; Soprani R. 684, 768 ; Spinola Fabio A. 658 ; Spinola G. A. 680 ; Statuti della … archiconfraternità della morte 704 ; Statutorum civilium 688 ; Tansillo L. 587 ; Tesauro E. 655 ; thesaurus philosophiae 653 ; Testamento e codicilli …Emmanuele Brignole 786 ; Valsecchi F. A. 769 ; la verità mascherata 692 ; Veronese D. 627 ; Verzellino G. V. 885 ; Viceto G. S. 660. 3. La produzione genovese e ligure d’età moderna è stimabile per via presuntiva : si conoscono circa duemila edizioni fino al Seicento, altrettante per il Settecento sono emerse nel corso di indagini in atto (Anna Giulia Cavagna, Spunti bibliologici della tipografia genovese, in *Erudizione e storiografia settecentesche in liguria, a cura di Carlo Bitossi, Genova, Accademia ligure di Scienze e lettere, 2004, pp. 39-50. Non esistono informazioni certe per l’Ottocento, al di fuori di quanto presente in clio. 4. Wallace Kirsop Les habitudes des compositeurs : une technique d’analyse au service de l’édition critique et d l’histoire des idées, in *Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 985, pp. 7-48. 5. Si sono analizzati tutti i paratesti firmati dai tipografi locali pavesi dal Cinque al Settecento individuati sulla scorta di precedenti ricerche e annali da me pubblicati e ricorrendo, per il xvii secolo, a quelli

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Poco importa per gli scopi di questa analisi il sapere se quegli interventi genovesi o stranieri vennero effettivamente pensati e vergati dai rispettivi tipografi, 6 anche se si hanno motivate e fondate ragioni, interne ed esterne ai testi, di credere che a Genova, di cui si conoscono le linee di tendenza produttiva locale e i maggiori rappresentanti, sia stato quasi sempre effettivamente così. L’indagine non mira alla ricostruzione prosopografica degli stampatori genovesi d’antico regime, o delle loro biografie commerciali, bensì cerca di cogliere, servendosi del materiale paratestuale confezionato dal tipografo e da questi dichiarato come di propria creazione, quale immagine o funzione di sé, con quali credenziali egli potesse accreditarsi presso il pubblico di lettori. Ciò che conta pertanto è che quei tipografi-editori sottoscrissero quelle comunicazioni, aderendo consapevolmente al contenuto, o implicitamente diffondendo una precisa, talora idealizzata, reputazione (e giudizio su) di sé. Attraverso quei paratesti cioè si cerca di sapere, riferendo « linguaggio a linguaggio… fa[cendo] nascere al di sopra di tutti i segni, il discorso secondo del commento », 7 interpretando. Il caso genovese è il tassello di una più ampia riflessione sul ruolo del tipografo-editore d’età moderna, della sua interazione col pubblico, penetrato attraverso varie spie bibliologiche e comunicative, tra cui quelle paratestuali e trattatistico teoriche hanno un posto di preminenza. 8 elaborati da Elisa Grignani, Carla Mazzoleni, Edizioni pavesi del Seicento, 2 voll. Milano, Cisalpino 2000-2003 ; a ciò se ne sono aggiunti una sessantina di varia provenienza, alcuni segnalatimi da Z. Zanardi che ringrazio : Attendolo Giovanni Battista Napoli 588 ; Acosta Josè Venezia 599 ; (Angriani) Michele Lione 582, Lione 589 ; Alighieri Dante Venezia 578 ; Alunno Francesco Venezia 560 ; Angeli Pietro Firenze 568 ; Antonio da Padova Parigi 52 Venezia 574 ; Antonio da Padova Venezia 574 ; Aristoteles Padova e Venezia 596-598 ; Basilius Magnus Roma 55 ; Bayle Pierre, Rotterdam 699 ; Beda Venerabilis Basilea 563 ; Berarducci Mauro Antonio Venezia 586 ; Bibbia Nuovo Testamento in arabo Roma 59 ; Bibbia Nuovo Testamento in greco Basilea 524 ; Bibbia Basilea 538 ; Bibbia Nuovo Testamento in greco Parigi 546 ; Bibbia Concordanze Lione 55 ; Bibbia Concordanze Ginevra 555 ; Bibbia Francoforte 597 ; Borri Giuseppe Francesco [Girolamo Lamberti Arconati], Colonia (ma Ginevra) 68 ; Bruneau Jean Siena 582 ; Calderari Cesare Vicenza 588 ; Calepino Ambrogio Toscolano 522 ; Callet François Paris 825 ; Cassianus Johannes Roma 588 ; Caviceo Johannes Venezia 526 ; Chasseneux Bathelemy de Venezia 569 ; Cicero Marcus T. Bologna 527 ; Componimenti … nelle nozze …Barberini Colonna Roma [1629], Conciliorum omnium Venezia 585 ; Cooper Antony Ashley Londra 70 ; Diego de Estella Venezia 586 ; Dolce Lodovico Venezia 568 ; Dominici Giovanni Firenze 595 ; Duns Scotus IohannesVenezia 597598 ; Garzoni Tommaso Reggio Emilia 585 ; Gerson Jean Le Charlier de Venezia 587 ; Guevara Antonio de Venezia 559 ; Herodotus di Alicarnasso Parigi 566 ; Hieronymus santoVenezia 562 ; Innocentius III papa Johann von Neuss 552 ; Huttichius Ioannes, Strasburgo 534 ; Ioannes Climacus santo Milano 585 ; Ioannes Chrysostomus santo Venezia 503, Parigi 58 ; Lactantius Lucius Caecilius Firmianus Venezia 509 ; Ludolph von Sachsen Venezia 58 ; Luis de Granada Venezia Giorgio 58 ; Nani Mirabelli Domenico Venetiis 592 ; Ottonelli Giovanni Domenico-Berrettini Pietro Firenze 652 ; Perarca Francesco Lione 60 ; Pico della Mirandola Giovanni Francesco Venetiis 50 ; Plutarco, Venezia 582 ; Ricciardi Pietro Carmagnola 586 ; Rospigliosi Giulio Roma 637 ; Ruscelli Girolamo Venetia 553 ; Toscanella Orazio Venezia 564 ; Valla L.orenzo Roma 47 ; Verdizzotti Giovanni Mario, Venezia 599. 6. Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 99 ; Idem, L’ordine dei tipografi. Lettori, stampatori, correttori tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 998 ; Claudia Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere, lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 988. 7. Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Bur, 998, p. 55. 8. Ci si ricollega a ricerche in atto Anna Giulia Cavagna, Missing lives : the Absence of Printers’ Life Writings in the Early modern Italy and their Evolution in the Nineteenth Century, in *Lives in Prints. Biography and the Book Trade from the Middle Ages to the 21st Century, edited by Michael Harris, Giles Mandelbrote and Robin Myers, London & Oak Knoll press-The British Library, 2002, pp. 5-70 ; Eadem, L’immagine dei tipografi nella prima età moderna, in *L’Europa del libro nell’età dell’umanesimo, a cura di Luisa Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2004, pp. -42.

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Si sono individuati i caratteri stilistici, formali e bibliologici degli scritti preliminari genovesi firmati, analizzandone posizione, consistenza, coerenza, formule ricorrenti e varianza diacronica per cercare di estrapolarne il significato comunicativo sotteso, più o meno consapevolmente veicolato. Le considerazioni dei teorici del paratesto, da Genette in avanti, pongono in rilievo soprattutto, se non solamente, gli elementi verbali del paratesto, ma contano anche quelli materiali di composizione e dislocazione dell’enunciato aggiuntivo : 9 questi interventi del tipografo per esempio, che esprimono un discorso altro rispetto a quello veicolato dall’opera, sono sempre all’inizio del volume e non nella chiusa finale o nel colophon, come per altro avrebbero potuto essere, se pensati quale estensione dell’ indirizzo tipografico o mere pratiche di congedo simili alle sottoscrizioni dei copisti che non si ponevano sullo stesso piano dell’ autore dell’opera che stavano duplicando. Sono posti in apertura dell’oggetto libro, volutamente. Le parti preliminari firmate sono per la stragrande maggioranza stampate, e dunque preventivamente pensate per la composizione, al recto della seconda carta del primo fascicolo del libro, comunque sia quest’ultimo segnato (indifferentemente con la prima lettera dell’alfabeto usata nel registro, oppure con uno dei vari segni grafici che contraddistinguono i fascicoli preliminari, segni di paragrafo, asterischi eccetera). Solo in piccola parte quelle scritture vengono predisposte per la carta terza e raramente compaiono nei fogli successivi. Anche a Pavia sembra una regola fissa per buona parte del Seicento il collocarli a carta 2 ; così accade anche per la maggioranza degli interventi firmati pubblicati in altre stampe regionali italiane o straniere. La causa di tale ubicazione è legata al loro scopo e finalità, che risulteranno evidenti nel corso di questa disamina. Quasi sempre questi paratesti hanno una estensione di due facciate, benché interventi di tre-sei facciate non siano rarissimi. Sono indifferentemente composti in carattere corsivo o romano. È possibile dire che quando il paratesto genovese è firmato dall’editore-libraio è quasi sempre in corsivo. Questa scelta grafica dipende largamente dalla provvisione della bottega, anche se è da dire che pur nelle stamperie provinciali di più scarsa dotazione esistevano sempre i due tipi di caratteri. Tuttavia, e questo è assai più indicativo, nei casi accertati di una ricchezza strumentale dell’officina, la predilezione per un dato carattere è costante nel tempo e legata piuttosto alla sensibilità dell’operatore, o se vogliamo alle pratiche interne di una singola officina, più che a consuetudini culturali locali : il tipografo genovese che tenne aperta officina contemporaneamente in due centri di due Stati diversi, Genova e Pavia, solitamente usava, lui e tutti i suoi eredi, prevalentemente e in entrambe le città, il corsivo per gli interventi che firmava. 9. A Genova per esempio, fatte salve le generiche indicazioni di miglioria o novità dell’edizione oggetto della pubblicazione, sembra irrilevante una pratica riscontrata altrove con più frequenza : quella di anticipare al frontespizio o nel corpo del titolo o nell’indirizzo tipografico giudizi, anche severi, di natura commerciale-pubblicitaria sull’edizione, sintomo di una vivacità e concorrenza editoriale assente in Genova. Cfr. per esempio Matteo Afflitto, De iure protomiseos. Tractatvs …qui mendosi impressorum incuria… expurgati ..., Venetiis [per Bernardium Bindonum Mediolanensem] 544 ; Fabio Incarnato, Scrvtinivm sacerdotale, … ab infinitis mendis, quibus vitio impressorum scatebat…diligentissime repurgatum…, Venetiis, apud Iacobum Sarzinam, 620 ; Joannes de Imola, In primam Digesti novi partem, egregia commentaria. A … grauissimis orroribus, quibus antiquorum impressorum incuria prius erant referta, nunc acerrime vindicata, Bononiae, apud Societatem typographiae bononiensis, 580 ; Tommaso De Vio, Summula Caietana. … nuperrime castigata…, Lugduni, impensis honestissimi viri iacobi q. Francisci de Giunta Florentinum apud Mathiam bonhome non inuenustis excuse characteribus ..., 537.

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Quasi sempre nelle stampe genovesi la parola del tipografo-editore è preceduta nel taglio alto della pagina, a staccarla o segnalarla come scampolo di testo a se stante, da un fregio tipografico, un abbellimento a vario titolo ornamentale, presente anche quando la porzione del testo autorale del volume non è introdotta da simiglianti strategie visive. Esso compare e sovrasta anche l’eventuale formula di dedica (rivendicata a seconda dei casi e della cultura personale del tipografo, come autonomamente predisposta, senza patteggiamenti con l’autore ; oppure come concertata sulle presumibili intenzioni dell’autore assente ; infine dichiaratamente discussa con l’autore con esiti linguistici che sfiorano il ridicolo). 20 Tale fregio esornativo di richiamo sparisce solo a fine Settecento. Praticamente sempre la prima lettera iniziale del discorso del tipografo è costituita da una maiuscola decorata, di corpo visibilmente maggiore rispetto al testo : la foggia varia a seconda dei secoli e dei caratteri in uso, ma a Genova si tratta sempre di una iniziale ornata. Tale consuetudine prosegue nel Settecento e deve probabilmente intendersi come una sorta di richiamo e schematismo comunicazionale : nell’Ottocento, quando la rivoluzione grafico stilistica ha semplificato e razionalizzato i caratteri, l’iniziale che apre il discorso del tipografo-editore continua ad essere di un corpo o di una forza o di un font differente e più grande rispetto al testo che introduce. Anche questa – come la precedente di porre il proprio enunciato in apertura – è una scelta voluta, non genericamente ascrivibile all’applicazione di un modulo grafico abitudinario. L’iniziale decorata infatti non compare con la stessa puntigliosa metodicità nelle parti che nel volume ugualmente convogliano in qualche modo la parola del tipografo o certune sue intenzioni commerciali : per esempio nelle errata, spesso discorsive 2 e che solo nel corso del tempo si razionalizzano in liste incolonnate ; oppure nei registri intesi evidentemente come comunicazioni dovute, ma tecniche, che non valevano il dispiego di caratteri impegnativi come quelli parlanti o figurati o floreali usati invece sempre nel paratesto del tipografo. Viceversa, a riprova di come la qualità del contenuto da trasmettere influenzi la sua forma grafica, si nota l’uso di una prima iniziale di dimensione maggiore nella trascrizione di porzioni di privilegi o permessi burocratici di stampa, a Genova come a Pavia e altrove, là cioè dove il tipografo, seppur per interposta persona, interagisce con il potere e il pubblico. La lingua usata è quasi sempre l’italiano e il latino compare, solo cinque volte, in volumi in cui a loro volta il contenuto è esposto in tale lingua. Gli scritti preliminari firmati dal tipografo appartengono a due tipologie retoricamente distinte : si configurano come interventi di dedica (i quattro quinti circa dell’insieme) o come interventi informativi genericamente rivolti al pubblico, in modo 20. anton giulio brignole sale, Panegirici sacri…, In Genova, Per Benedetto Guasco all’Insegna del Giesv in Banchi, 652 ; Giovanni andrea Spinola, Lo stoico cristiano …, In Genova, Nella stamperia di Giuseppe Bottari, 680, ove il tipografo c §2r, dopo aver patteggiato la dedica con l’autore, « l’autore…me’l consentì », si scusa di donare « cosa non sua » aggiungendo infelicemente « perciò piu volentieri gliela offerisco ». 2. Anche in ambiti letterari colti, l’uso dell’errata, assai precoce, si modula sul registro del dialogoinvito fra lo scrittore (meccanico o manuale) e il lettore-correttore in proprio; cfr. il primo precoce esempio di errata di Baudri de Bourgueil menzionato in Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medioevo Latino, a cura di Roberto Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 992, p. 35.

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esplicito o implicito (l’altro quinto). I due messaggi comunicativi non sono in vicendevole alternativa e possono anche coesistere nella stessa edizione. Gli interventi di dedica a loro volta consistono in due gruppi distintamente caratterizzati. Da un punto di vista compositivo possono essere – ed è il gruppo minore – vere e proprie dedicatorie, in cui i verbi dedicare, consacrare o i sostantivi dedicazione, offerta compaiono nell’intitolazione o fra le prime parole dello scritto, insieme con nome e cognome del destinatario ; scopi e dinamiche delle dediche sono stati sufficientemente studiati dalla critica, anche recentemente, e ciò esime dal dovercisi soffermare oltre ; qui vengono utilizzate per le informazioni che veicolano sul lavoro del tipografo, non sulle sue aspettative mondane o letterarie o economiche. Oppure – ed è il gruppo a Genova più folto – in epistole rivolte e intitolate al notabiltato urbano, a uomini politici e di governo,22 chiamato in causa con la generica preposizione (semplice o articolata) ‘A’ nell’intestazione. In quest’ultimo caso, spesso il nome proprio del destinatario manca : è anticipato al frontespizio dove meglio esibisce, con scopi pubblicitari, la trama dei rapporti sociali, auspicati o reali, del tipografo. Al posto del nome del dedicatario nella parte preliminare compaiono invece denominazioni quali signore, padrone colendissimo, che a metà Seicento si caricano di ulteriori superlativi, usati per buona parte di tutto il Settecento. In termini provinciali e dimessi compare anche, nei preliminari genovesi, un certo qual disincanto verso pratiche di dedica, perseguita “Per aderire all’uso e dimostrar l’osservanza mia” (il tipografo Pavoni nel 625) che nel Seicento si spinge sino ad accettare (ancora il Pavoni nel 620 ; l’editore-stampatore Lerz nel 748) la ristampa o il riassunto della originaria lettera di dedica apparsa nella prima pubblicazione in altro Stato. 23 Non è il solo caso, e non compare solo nella tipologia della dedica o dell’avviso : anche in altri generi paratestuali di paternità del tipografo (citazioni, epigrafi ) sono riprodotti brani di fatto scopiazzati. Il tipografo Antonio Belloni nell’ errata (p.90) ai Criminalium iurium civitatis genuensis libri duo del 557 scusandosi per imperfezioni sfuggite alla correzione di bozze, si professa, con un certo umorismo : « homo[…] binoculus non Argus ». Aveva copiato. Aveva avuto per le mani l’edizione bolognese delle ciceroniane Epistolae dello stampatore Faelli che nel 527 scriveva (c.249v) « Studiose Lector. Quantum potui studiose enixus sum ut castigatiores essent nostrae hae epistolae, et ne nimium quidem erratum tibi occurrent. Ego homo : qui binoculs sum, non Argo » oppure aveva compulsato una terza stampa ancora, che riportava la frase e che di quella bolognese era archetipo o derivazione. Non era abitudine solo genovese la ritrascrizione del paratesto da pubblicazioni precedenti : il tipografo Felice Valgrisi in una sua dedica del 582 elogia la stampa quale munifica eternatrice (più dell’architettura) di opere e persone, copiando di fatto ciò che diciotto anni prima Vincenzo Valgrisi stese a introduzione di un prontuario grammaticale di Orazio Toscanella e offrendo lo spunto ad un tipografo genovese del Seicento per esporre concetti analoghi. 24 22. Non ci sono mai borghesi fino all’età rivoluzionaria, qualche ente corporativo, qualche religioso ; poche donne, nobili. 23. Nell’ordine cfr. Agabito Centurione, Coronatione..., In Genova, per Gioseppe Pavoni, 625 ; Giulio Negrone, Dissertatio Svbseciva …Genuae, Apvd Iosephum Pavonem, 620 ; Domenico Cerasola Rime sacre…, In Genova, nella stamperia Lerziana, 748. 24. Plutarchus, Vita degli uomini illustri…, In Venetia, appresso Felice Valgrisio, 582 c. a2r ; Copia di lettera d’incerto…, Oue pienamente si discorre intorno alla vere cause della Peste che regna in Genoua…, In Genova, Nella Stampa di Gio. Maria Farroni, [657] : il tipografo scrive (c.A2v) che la pubblicazione gli consente di « eternare viva la memoria … de riverenti ossequii verso di lei […] parendomi il mio mestiere molto più atto & idoeneo, di quel che siano i marmi & i bronzi ad eternar la memoria ».

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Il paratesto in questo caso è diventato testo esso stesso, migra da un libro all’altro perdendo la originaria funzione di preliminare e divenendo nuovo enunciato, talora con ambizioni di integralismo filologico. È una sorta di ‘emancipazione’ del paratesto che tende a divenire discorso autonomo ; è una propensione sul piano europeo del tutto compiuta già nel Settecento inglese, in modo abbastanza vistoso e all’interno di un genere, quello del romanzo, dove troverà particolare fortuna. Nel Tristram Shandy infatti, l’uso inventivo dei segni tipografici ; il ricorso creativo a asterischi, manicualae, linee, corsivi ; l’impiego insolito di un foglio di carta marmorizzata nel corpo del discorso, non a separare capitoli, ma come capitolo esso stesso, costituiscono il miglior esempio di un armamentario paratestuale convertito alle esigenze comunicative autorali. 25 È un percorso di sviluppo del paratesto, o affrancamento dai ristretti confini utilitaristici e discorsivi che lo videro nascere, in qualche modo parallelo all’itinerario di emancipazione o indipendenza compiuto dal tipografo e dal suo scenario lavorativo. Entrambe i soggetti, infatti, accolti quali prosaici elementi della quotidianità corrente, diventano presto spunto di espressione artistica, 26 teatrale (a partire dal Seicento), poetica, 27 narrativa o, ritornando infine a far parte del meccanismo paratestuale, si ripresentano espliciti destinatari di pubblicazioni loro dedicate. 28 Non c’è nella Genova d’età moderna la stessa insofferenza dell’inutilità retorica di questi preamboli paratestuali espressa sul piano autorale a fine Seicento per esempio da P. Bayle, annoiato dai preliminari commissionatigli dagli editori, e neppure il fastidio per una pratica oratoria, sempre autorale ma destituita di significato e valenza comunicativa, come quello espresso nel dal filosofo Shaftesbury. 29 In compenso è la25. Sterne Laurence, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, Milano, Garzanti, 983 p. 20 « senza molta lettura (con la qual parola o reverendo lettore, sapete che voglio dire molta cultura) voi non potete penetrare il significato morale della pagina marmorizzata qui di fronte, emblema variegato della mia opera ». 26. Per rimanere ad un esempio italiano si veda l’immagine del tipografo rilegatore nella serie di disegni di Giuseppe Barberi (Roma 746-808) su le “Arti di Roma”, ora conservate nelle collezioni del Museo di Roma, inv. GS289560. 27. Johann Rist, Depositio Cornuti Typographici. Das ist Lust und freunden Spiel vermittelst welchem, junge Personen so die edle Buchdruker Kunst redlichh erlernet... zu Buchdrucker-Gesellen bestätiget, und aufgenommen werden , Franckfurt a[m] M[ain], 677. L’opera, di tono moraleggiante, mette in scena un giovane stampatore orgoglioso di essere alla alla fine dell’ apprendistato (ich habe die buchdruckeren die werthe kunst gelernet) ; ebbe diverse riedizioni e recenti riprese anche teatrali. Un modesto sonetto dedicato alla manualità del compositore e al lavoro tipografico si legge in antonio malatesti, La Sfinge, Il brindisi de’ ciclopi e la Tina, per cura di Pietro Fanfani, Milano, Corradetti, 865, p. 55 sonetto 6, ma anche Pablo Neruda scrisse una Oda a la tipografía, s.l., Editorial Nascimento, 956, dedicata a « A los impresores y obreros de mi país y amigos que en tiempos peligrosos publicaron mis obras ». 28. Stanislao Canovai, Lettera allo stampatore Sig. Pietro Allegrini a nome dell’autore dell’Elogio premiato d’Amerigo Vespucci, [Firenze, 789] ; Ezio D’Errico La tipografia dei due Orsi, romanzo, Milano-Verona, Mondadori, [942]. 29. Avvertenza per il lettore nell’edizione del 699 di Pierre Bayle, Pensées diverses écrites à un docteur de Sorbonne à l’occasion de la comète qui parut au mois de décembre 1680. Addition aux Pensées diverses sur les comètes, ou Réponse à un libelle intitulé “Courte revue des maximes de morale et des principes de religion de l’auteur des Pensées diverses sur les comètes”, Rotterdam, R. Leers, 699, 3e éd. Ringrazio Ada Russo che mi permesso la consultazione della banca dati non pubblica Ilesi in cui ho letto la prefazione di antony ashley cooper earl of Shaftesbury, Enthusiasm, London, 70 « If the Author of these united Tracts had been any friend to prefaces, he would probably have made his entrance after that manner, in one or other ofthe five treatises formerly published apart. But as to all prefatory or dedicatory discourse, he has told us his mind sufficiently in that treatise which he calls “Soliloquy.” Being satisfied, however, that there are many persons who esteem these introductory pieces as very essential in the constitution of a work, he has thought fit, in behalf of his honest printer, to substitute

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pidario il tardivo parere di Francesco Domenico Guerrazzi che nel 857 scrivendo da Genova all’ editore Barbèra ne critica senza appello l’inutile impianto paratestuale : « che giovano quelle prefazioni e note e appendici ? Fiori intorno ai morti ed eglino stessi fiori morti ». 30 L’altra tipologia di intervento genovese firmato dal tipografo è quella del preliminare rivolto al pubblico come dialogo diretto fra artigiano e lettore : ha marcata funzione informativa, d’avvertenza e annuncio, a volte esplicativa di porzioni dell’ opera, è un avviso, anche se questa dicitura non compare mai nel campione esaminato, e se compare, a fine Settecento, ha di solito mera funzione pubblicitaria di opere in corso di pubblicazione da parte del tipografo-libraio-editore e non è mai firmato, ovviamente. L’avviso firmato, invece, ha intitolazioni varie ma brevi : nel Cinque-Seicento prevale la dicitura “Lo stampatore ai lettori” a volte contratta nella secca formula A chi legge o Al lettore ; nel Settecento i lettori diventano benigni o amici, quasi complici delle attività librarie del tipografo-editore. Sono interventi funzionali alla comprensione dell’opera nel suo insieme, oltre che avvertimenti utili per discernere l’effettivo contributo dell’ artigiano sottoscrittore, che pure altrove, in contesti culturali più alti era accusato di voler caricare le edizioni con paratesti ridondanti. In tali preamboli genovesi le formule finali di saluto del tipografo-editore, sempre seguite dall’indicazione di nome e cognome, sono, dal Cinque al Settecento standardizzate, calcando la sobrietà o pomposità dell’eloquenza coeva e veicolando sentimenti di ossequio : un coacervo di impulsi ed emozioni che pertengono ad una sfera affettiva che rinvia ad una, reale o solo esibita, inferiorità rispetto al destinatario-dedicatario del discorso, un po’ meno forte nel caso del lettore-compratore. Genette 3 evidenzia che il nome – per lui dell’autore ma noi lo possiamo traslare al caso del tipografo-editore – non è solo una porzione di testo, ma serve per legare un’opera a un’altra, nell’ intento di evocare o costruire una persona generale complessiva, una carriera da autore. Le prefazioni dei tipografi servono mi pare a evitare l’anonimità del produttore, l’inesistenza del ruolo, a costruire una carriera da editore. Qualcuno, nelle formule di chiusura e saluto di questi preliminari si spinge sino a baciare le mani, ma è interessante che a fine Seicento compaiano quasi manifestazioni di ortodossia sociale nelle dichiarazioni di chi si qualifica fedele suddito (in un’opera indirizzata al capo del governo). Considero questa designazione, abbastanza singolare nel panorama genovese, un primo indizio della progressiva spersonalizzazione cui questi interventi, qui come altrove, vanno incontro nel corso del secolo successivo e che si compie, definitivamente, solo nell’Ottocento, allorché son firmati con il solo appellativo professionale (allora di editore). Questa spersonalizzazione dell’intervento del tipografo-editore trova per altro antecedenti in alcuni avvisi Cinque-Settecenteschi. In essi lo stampatore, di solito secondo l’uso epistolare latino in apertura, si qualifica solo con l’appellativo del proprio mestiere, non col nome : interviene in funzione della sua specifica competenza. Usa questo spazio come marcatore formale these lines under the title of a Preface ; and to declare “That (according to his best judgment and authority) these presents ought to pass, and be received, construed, and taken, as satisfactory in full, for all preliminary composition, dedication, direct or indirect application for favour to the public, or to any private patron or party whatsoever : nothing to the contrary appearing to him from the side of truth or reason.” Witness his hand, this fifth day of December, 1710 ». 30. Giuseppe Barbèra, Memorie di un editore pubblicate dai figli, Firenze, G. Barbèra, 883, p.549. 3. Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 989.

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che pone in risalto non il contenuto dell’opera, ma il libro in sé come frutto del suo lavoro tecnico, strutturato e programmato. Lo Zoppino, che nella Venezia di primo Cinquecento si adopera in un originale programma di volgarizzamento (toscano) di testi della tradizione culturale italiana, dona al suo lettore non il libro in quanto opera dell’ingegno altrui o come oggetto, ma il proprio lavoro editoriale, la propria ortographia ripensata e ristudiata appositamente per l’edizione che lui patrocina e che esce per sua volontà. 32 Le formule stringate di saluto, a volte chiuse da un breve augurio di riminiscenza classica (Vale) o addirittura terminate con il solo punto fermo a fine periodo, sono le tracce di una lenta e costante oggettivazione della parola del tipografo-editore, di un sua progressiva perdita di individualità, in quanto persona singola, e del suo progressivo acquisire un ruolo specifico, aderendo a una categoria pubblicamente riconosciuta. Riprova di ciò viene dall’esame interno del contenuto di tutti questi paratesti. Delle tre funzioni canoniche che la tradizione retorica occidentale riconosce agli scritti preliminari anteposti all’opera (ornamento, decorazione, informazione) quella che urge ai tipografi nei loro avvisi o dediche è sempre l’informazione. 33 Nei paratesti genovesi da lui firmati il tipografo d’antico regime cerca di emerge quale editore che spiega storia, ragioni, vicende della pubblicazione, persino certi meccanismi creativi che sottendono all’espressione letteraria. 34 Accenna alle scelte formali operate, come fa Pavoni per l’elegantissima edizione illustrata del Tasso nel 67 dove si precisano ragioni degli apparati paratestuali nuovi, fattura e dimensione del libro ; il tipografo talora denuncia gli inconvenienti tecnici risolti o evitati ; le caratteristiche materiali del prodotto che mette in circolazione, condizionato dalle moderate propensioni di spesa dei cittadini di Repubblica. 35 Si presenta quale finanziatore e programmatore culturale quando, seppur tra mille arzigogoli barocchi, dichiara di aver commissionato esplicitamente l’opera o rivendica a sé un ruolo attivo in avvisi che son di fatto prefazioni editoriali. 36 32. Cfr. Nicolò Zoppino allo lettore, (c.v) anteposta all’opera del di J. Caviceo pubblicata nel 526 : « Acciò in qualche parte di questo non picciol dono de ortographia nelli miei libri ti possa far partecipe, nuovamente con somma diligentia ho fatto correggere et emendare …. Acciò che parimenti il dotto e l’indotto possa perfettamente tal opera intendere. Gli ho fatti vuolgaizzare… ». 33. Paratextes. Études aux bords du texte. Par Mireille Caille-Gruber et Elisabeth Zawisza, Paris, L’Harmattan, 2000, p.5. 34. Emanuele Tesauro, Elogia omnia…D. Ioanni Carolo Brignolae Domino suo Colendissimo, In Genuae, Ex Typographia Benedicti Guaschi, 655, pp. *3r - *4v ; Ignazio Pallavicino Rime sacre e morali …, In Genova, per Gio. Battista Casamara, nella Piazza delle cinque Lampadi, 724 « Lo stampatore a chi legge…Mentre imprimendo si andavano le sopra espresse Poesie lette da Personaggio erudito alcune di esse ... lo invogliarono al susseguente sonetto ... io qui lo includo ». 35. Agostino Paradisi, Versi sciolti…, In Genova, Nella Stamperia di Andrea Frugoni, sulla piazza della Posta Vecchia, 795 ; commentando la propria pubblicazione l’editore rileva : « poichè in questi tempi lo spirito dell’economia ha in ogni cosa il suo impero, ho studiato di farla quanto si potea men costosa, togliendo i molti rami adoprati in quella di Bologna e riducendo questa mia edizione ad un sesto molto più comodo alla borsa insieme e alle mani » ; Bernardino Picquigny de, Dichiarazione letterale delle pistole di S.Paolo…, Genova, Nella Stamperia d’Adamo Scionico, sulla Piazza di S. Lorenzo, 77, p. 227 « Agli amatori della Sacra Storia. Ivone Gravier Librajo sotto la Loggia di Banchi in Genova… Per l’applauso riportato dalle medesime, e conseguente esito, mi trovo costretto a ristampare i primi due tomi per soddisfare alle ricerche di molte altre persone, che desiderano provvedersene, le quali potranno profittare del vantaggio de’ primi associati, che consiste di pagare sole lire 3.10 di Genova o Paoli cinque e un quarto effettivi per ogni tomo legato in cartoncino, purchè paghino lire 5. per il primo, come hanno già fatto non pochi. Chi vorrà pertanto associarsi potrà indirizzarsi a questo mio Negozio sotto la Loggia di Banchi o al Signor Adamo Scionico stampatore della stessa ». 36. E. Tesauro, Elogia omnia…cit. cc.*4v- *5-r-v :« atqui encomiasten non ago ineruditus Typographus » e al

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Motiva sue riedizioni – in linea con la coeva trattatistica 37 – puntualizzando i nuovi apporti testuali aggiunti che ne fanno un’opera diversa, una sua nuova creatura. Rende plausibile la ripresa di best sellers, di classici, con l’esaurimento sul mercato anche extraurbano degli stock librari. 38 Così per esempio il tipografo Antonio Belloni, artigiano di media bravura e equipaggiamento, in una propria edizione del 560 di Agostino Nifo 39 rivolgendosi in una lettera preliminare a un altro scrittore, che non conosce di persona, ma con cui entra in contatto tramite intermediario per altro anch’esso assente, spiega con dettagli di aver commissionato la traduzione italiana dell’opera in oggetto anni addietro ; di pubblicarla ora per beneficio universale giudicandola utile e necessaria ; di indirizzargliela con l’esplicito scopo di farsi conoscere quale possibile futuro suo editore (« non ho saputo con qual miglior presente le potessi per questa primiera volta venir dinanzi »). Cita infatti con l’intero titolo, in lettere maiuscole e distanziate, l’opera composta dal destinatario che, nonostante le profferte genovesi, stamperà a Venezia col più celebre Giolito. 40 Nella lettera ai giudiziosi (e nel testo benigni) lettori Girolamo Bartoli nel 587 riassume dettagliatamente e chiarisce temi ed argomenti della sua stampa di Luigi Tansillo, spiega le ragioni della versione urbana fatta sull’onda delle ristampe in altre città, e dunque in base ad un aggiornamento professionale e librario tipico del proprio mestiere. Avoca a sé il diritto di scelta produttiva come operazione peculiare dello specifico editoriale. Nello stesso anno, in una dedica ad una religiosa, egli istituisce un parallelo tra il tenore dell’opera, anch’essa religiosa, e la condizione della destinataria, secondo una coerenza percepita come necessaria, quasi fosse una prassi d’armonia evidentemente già in uso, ma ufficialmente sancita solo tre anni dopo a Venezia nel primo trattato italiano su questioni di dedica, 4 che fra l’altro legittimava pure le dediche a donne. Il Bartoli comunque, che svolgeva attività editoriali non solo in città ma anche in Lombardia gestendo una fiorente officina al servizio dell’università, e avendo parentele in Emilia che conducevano altre botteghe, si mostra consapevole della funzione informativa di queste porzioni paratestuali e rivendica orgogliosamente a sé le decisione della stampa o ristampa di un opera : 42 dunque un ruolo intellettualmente attivo. Simigliante rendicontazione del proprio agire professionale e intellettuale, alla ricerca di autori di successo o in caccia di inediti, svolge anche il tipografo Calenzani che un secolo dopo vuole accaparrarsi gli scritti di uno scrittore del momento. L’essere al corrente dell’andamento del mercato librario extra urbano, e dunque lettore « Prodeunt tandem e genuensi praelo celeberrimi… Elogia eaque in unum volumen nunc primum congesta. Ordinis ac consilii mei rationem hanc cape ... indicem triplicem praemisi.. haec oraescuire volebam pro hac mea editione. Me ama » ; Giovanni Andrea Alberti, Adelaide … Panegirica Storia, In Genova, Sotto la direttione di Gio. Domenico Peri, 649, cc. *3r- *6r. 37. Giovanni Fratta, Della dedicatione de’ libri. Con la correttion de l’Abuso, in questa maniera introdotto, Dialoghi.., In Venetia, Appresso Giorgio Angeleri, 590. 38. Agostino Franzoni, Nobilta’ di Genova …, In Genova, Nella Stampa di Pietro Giouanni Calenzano, e Gio. Maria Farroni compagni, 636, cc. 2r-v ; Giovanni Stefano Viceto, Formularium Instrumentorvm … Testamentorum…, Genuæ, Ex Typographia, Francisci Meschini, 660, dedica del libraio-editore cc. *2r-v 39. Augustinus Nifo, Il Cortigiano del Sessa, Genova, Antonio Belloni, 560, p. 2. 40. Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo, Venezia da Gabriel Giolito de’ Ferrari 566 e 567. 4. G. Fratta, Della dedicatione, cit. 42. Luigi Tansillo, Le lagrime di S. Pietro …, Genova, Girolamo Bartoli, 587 ; Vincenzo Bruno, Meditazioni sopra i misterii della passione et resurrettione di Christo …, Genova, Girolamo Bartoli, 587 c. 5v ; Thomas de Kempis, Dell’imitatione di Christo Libri Qvattro…, Genova, Per Benedetto Guasco, 652.

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l’esibizione di rapporti e contatti con altri ambienti culturali ; la conoscenza della reputazione intellettuale o della semplice popolarità di un autore ; l’autonoma decisione di pubblicare (« typis excudendum susceperam » Bartoli 593) ; l’informazione onesta sugli errori di imposizione o composizione di porzioni dell’opera, rimediate in extremis con aggiunte finali, – come dettagliatamente spiega ai lettori, nel 586 a Carmagnola, il tipografo Bellone circa una sbagliata imposizione di testi, inalterata per non dover buttare parte della tiratura, ma emendata, data la grave entità, con una aggiunta finale 43 – sono tutte pratiche, qualità ed esigenze peculiari del mestiere di tipografo-editore che l’artigiano rivendica e reitera in ogni proprio intervento firmato, nel corso di tre secoli. Sono pratiche e doti tanto più complesse quanto più il tipografo vive in una realtà culturale e economica stimolante e vivace. La contenuta portata intellettuale della tipografia genovese – a metà Seicento denunciata dal direttore di una stamperia che vede (lui e il nobile patrizio ne finanziava l’impresa), « l’oscurità de nostri caratteri » 44 – non consente episodi eclatanti, ma la stampa europea è piena di affermazioni consimili da parte dei tipografi che alludono ai propri programmi editoriali e alle procedure di allestimento del libro, applicazione, in chiave progressivamente ridimensionata ai tempi, degli impegni culturali degli umanisti e dei loro tipografi. L’erede di una dinastia celeberrima, Henri Estienne, nel 566 in una lettera a Joachim Camerarius espone la propria linea operativa in occasione della stampa dei 9 libri delle storie di Erodoto : egli non si è mai risparmiato spese e fatiche (c.**2r) « me nec laboribus nec sumptibus parcere dum in promovendo re literaria vestigisque patris meis insisto, hi quos dum haec scriberem sub praelo haberem scriptores » ; W. Caephaleus, nella pubblicazione delle vite degli imperatori di Johann Huttich scrive (c. av) di essersi profuso in corredi illustrativi e ritratti soprattutto per una sorta di soddisfazione professionale se non proprio per un senso di estetica o etica editoriale : « placuit et magnis impensis laborabimus ». Analogamente riflette il tipografo veneziano Ziletti, in apertura ad un testo di prosa dilettevole e edificante del Verdizzotti, quando nel 570 scrive ai lettori (c. r) : fu sempre mio antico desiderio di apportar agli studiosi delle lettere con l’arte della mia professione cosa che lor fosse diletto e giovamento… di dar alle stampe diverse opere… non avendo rispetto a qual si voglia sorte di spesa et di fatica acciocché uscissero in pubblico con ogni necessario loro ornamento” come nel caso della presente stampa allestita con”finezza di carta & leggiadria di carattere & ornata di uarie & belle figure” perché “comparesse più nobilmente di ogni altra… onde io che in molte mie operazioni ho hauuto sempre quella intenzione, spesso ne ho riportato … danno… et però da qui innanzi hauendo pensiero di far sempre quello che… più m’aggradirà in tutto quello ch’io opererò così nelle cose della stampa come in altro, spero che quello ch’io ui apporterò di nouo .. sia per recar altrui & a me vtile & satisfattione.

Gli esempi potrebbero continuare. 45 All’interno di questi interventi il tipografo geno43. Pietro Ricciardi, Commentaria.... Carmagnoliae, apud Marcum Antonium Bellonum, 586, c. 26 : « Typographus ad lectorm… Curavimus ea qua potuimus diligentia has doctissimi viri locubrationes nobis cudendas e Pistoriensi civitate transmissas, et caracteribus ornata reddere, et erroribus purgata (cuius ratione non parum elaboravimus) in lucem edere. Verum nobis evenit, ut quo maiori affectu circa ipsius impressionem operam daremus, alicuius malitia seu mavis ignavia, operis finis prius fuerit impositus quam detexerimus § ad legatum sub tit. De legatis impressum non exitisse. Ob quam remmaximo affecti dolore de remedioaliter providere nobis non licuit, quam § ipsum ad finem operis subiicere, ne cum maximo nostro dispendio opus renovare cogeremur ». 44. G. Alberti, Adelaide cit. Dedica del tipografo e avviso al lettore cc. *3r- *6r 45. Cfr. la prefazione di Froben alla traduzione della Bibbia curata da Erasmo, Biblia utriusque Testamenti iuxta Vulgatam translationem …cui … apposuimus Des. Erasmi Rot. uersionem…, Basileae ex officina

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vese ricorre talora al topos della casualità del ritrovamento dell’opera da editare (Bartoli 590, « essendomi capitata alle mani una relatione… e parendomi degna d’essere stampata » ; G. D. Peri scrive di opera « pervenutagli nelle mani ») ma è una convenzione comune 46 dietro la quale si cela, oltre che la pressione dell’autore per la finzione di una stampa che vuol far credere non autoedita, un lavorio di investigazione più complesso, che talora emerge negli scritti preliminari. Lo attesta il tipografo Pavoni che nel 604, 47 in una dedica che pare anch’essa il ponte per instaurare futuri rapporti editoriali col destinatario, spiega come l’opera gli fosse giunta per la stampa grazie ad un intermediario amico. Più o meno di analogo tenore è la denuncia-ringraziamento espressa da un tipografo lionese del 60 a un letterato che gli ha prestato il manoscritto su cui esemplare l’edizione del Petrarca. 48 Alcuni operatori particolarmente precisi – è un caso pavese del 625 49 – si spingon sino a riproporre, nel paratesto firmato, informazioni bibliografiche puntuali sulle precedenti edizioni (sempre per altro chiamate ristampe) con indicazione del precedente collega tipografo che le ha realizzate. Il tipografo-editore assume il ruolo di curatore editoriale, che già la trattatistica implicitamente raccomandava, suggerendo paratesti funzionali alla comprensione dell’opera e non ridondanti. 50 Egli ricostruisce le vicende dell’edizione, ragguaglia il pubblico sulla biografia dell’autore, sugli inediti, sul contenuto disciplinare – talora riassunto – sui criteri filologici (conservativi) rispettati, e, conseguentemente, su come apparenti svarioni ortografici siano invece opzioni autorali. Con la pubblicazione il tipografo diventa il custode delle intenzioni dell’autore talora difeso da una illecita – e non remunerativa per alcuno – circolazione di manoscritti. 5 Mette in guardia da analoghi prodotti stranieri, (e ne motiva la ragione) fornendo una chiave di lettura per interpretare le scelte stilistiche operate localmente. 52 Offre le coordinate fattuali e culturali per decrittare – fra legami di parentela e obbligazioni mondane – il sottile Hieronymi Frobenii et Nicolai Episcopii 538, oppure quella sempre del tipografo all’edizione attribuita a François du Jon ( Junius, Franciscus) e Frederic Sylburg, Diuinæ scripturæ, nempe Veteris ac Noui Testamenti, omnia, recens à viro doctissimo & linguarum peritissimo … ad Hebraicam veritatem in Veteri Testamento reuocatis aucta & illustrata, Francofurti, Apud Andreæ Wecheli heredes, Claudium Marnium, & Ioan. Aubrium, 597. 46. È utilizzata, se possibile con ancora più ragione, anche nell’editoria teatrale, cfr. Giulio Rospigliosi, Erminia sul Giordano, dramma musicale... posto in musica da Michelangelo Rossi, In Roma, appresso Paolo Masotti, 637: Lo Stampatore A Chi Legge : « Essendomi capitata alle mani una lettera, che in occasione della presente commedia fu scritta da un gentiluomo a un amico lontano, ho stimato d’inserirla nel principio dell’opera ». 47. Pier Girolamo Gentile Riccio, Poemetto dell’incendio navale di Algeri …, In Genova, Appresso Giuseppe Pavoni. Con licenza de’ Superiori. 604, c. a2. 48. Francesco Petrarca, Epistolarum familiarium libri XIV, variarum libri…, Lvgdvni, apud Samuelem Crispinum, 60. 49. Remigio Romano, prima raccolta di bellissime canzonette… In Pauia, Appresso Gio. Battista de’ Rossi, 625, p. 3. 50. Soprattutto sono fornite indicazioni per il prologo e gli indici, da allestirsi secondo un ingegnoso sistema di numerazione che li renda esportabili da una edizione all’altra senza doverli ricomporre, cfr. Juan Caramuel Lobkowitz, Syntagma de arte typographica, et illorum obbligationibus qui aut Libros edunt aut ad Editionem occurrunt, (662) in Idem, Theologia praeterintentionalis, Lyon, Philippe Borde, Laurence Arnaud 664, pp. 85-200. 5. Copia di lettera d’incerto…, Oue pienamente si discorre intorno alla vere cause della Peste che regna in Genoua…, In Genova, Nella Stampa di Gio. Maria Farroni, [657]. 52. Gian Giacomo Cavalli, Ra cittara zeneize …, In Genova, per Givseppe Pavoni. 636, dedica del libraio Teramo Codelago c.2r.

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gioco di interrelazione fra l’autore dedicante e il destinatario ; sopperisce a carenze nozionistiche del pubblico, informato con briciole di storia locale, artistica o sociale (654, Guasco) talora diluite nella perifrasi elogiativa, ma sempre con la funzione di contestualizzare criticamente l’opera in oggetto. 53 Descrive i principali materiali usati nel proprio lavoro : caratteri e carta ; 54 cerca di scaricare sui dipendenti l’incuria realizzativa, come fa il tipografo Franchelli ingenerosamente affermando che il « lavorante nella composizione delle parole è trascorso in non so che errori », suggerendo così una distinzione di ruoli anche all’interno della bottega ; avanza discrete richieste di finanziamento 55 ma soprattutto, reiteratamente nel corso di tutto il Seicento, qualifica il libro come frutto della « mia tipografia » delle « mie stampe », risultato cioè del suo lavoro, cui attribuisce anche valore di una filiazione editoriale. Non si tratta di mera retorica pubblicitaria, pure saltuariamente presente ; 56 il tipografo genovese, con argomentazioni diametralmente opposte a quelle degli osteggiatori della tipografia dei primordi, argomenta nel Settecento che la stampa ha positive delle ricadute sociali. Ha la funzione pedagogica di preservare la memoria storica, consentendo il ricordo, la ricostruzione del sapere ; consente la divulgazione, cioè di estrarre da « le tenebre di un gabinetto di studio » conoscenze che meritano apprendimento ; induce processi di imitazione – adesione del lettore – al contenuto pubblicato (che dunque suppone sempre buono e commendevole, cristianamente e politicamente allineato). Anche e con più disinteresse personale, la stampa è da lui ritenuta comunicazione utile in sé e per sé, rimedio ad una difficoltà informativa, verificatasi localmente per una serie di accidenti extra-editoriali (si pubblica quanto recitato in una solenne manifestazione cui pochi hanno potuto presenziare) con la tacita supposizione che esista un pubblico che ha bisogno o piacere di partecipare a spezzoni di vita politica e cerimoniale urbana. 57 Sul finire del secolo dei lumi l’operatore librario genovese è più simile all’editore-libraio del resto della penisola ; pur mantenendo propria officina, il suo ambiente evoca maggiormente quello presentato, con una certa dose di utopia, nell’illustrazione di un volume stampato da Antonio Zatta. Qui l’editore veneziano è raffigurato, seduto al centro di una bella tipografia adorna di uomini e cose, mentre riceve un corriere dai campi Elisi e dialoga (di immagini, cioè di paratesto) impersonando un celebre 53. Gabriello Chiabrera, Amedeida Poema Eroico…, In Genova, Per Benedetto Guasco, 654 c. A4. 54. Al cittadino Massucco frate delle Scuole Pie, professore di poesia nella Cattedra di rettorica all’Università…, [S.n.t.] in fine p. [4] Genova, 8. Agosto 797, anno primo della libertà. « Mi giungono [al tipografo Caffarelli] sul momento da Parma i tanto desiderati caratteri … dell’immortale Bodoni ». A volte al contrario c’è la denuncia, in paratesti italiani, della mancanza di idonea strumentazione, cfr. Giovanni Battista Attendolo, Alcune rime et versi, In Napoli, appresso Giovanni Battista Cacchi, 588 c. E2v « Lo stampatore ai lettori… perché hora la nostra stampa si ritrova sfornita di formole greche ». 55. Cfr. Graziano Ruffini, Sotto il segno del Pavone, annali di Giuseppe Pavoni e dei suoi eredi 1598-1642, Milano, Franco Angeli, 994, pp. 73, 77, ma anche il tipografo Farroni nel 64 incorre in analoghe pratiche, nel Settcento più mascherate. 56. Essa, tradotta in linguaggio mercantile, comporta un ritorno commerciale e il lettore è spronato a « accipe librum et comede » cfr. Maurice (père) de Toulon,Trattato politico da praticarsi ne’ tempi della peste …, In Genova, per Gio. Battista Casamara, nella Piazza delle cinque Lampadi, 72, c*3 ; altra pubblicità generica in Raffaele da Roma, Vita del servo di Dio Padre Leonardo da Porto Maurizio…, Genova, Stamperia Gexiniana, prima d’ora Lerziana, nella Strada di Scurreria, 754. 57. Francesco Maria da Genova, Oratione…, In Genova, Per Pietro Giouanni Calenzano, e Gio. Maria Farroni, [635] c2r.

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stampatore del passato. A Genova aspira a ricoprire il ruolo di novatore, importatore in città di contenuti diversi e aggiornati, esorta a conoscere – e dunque a richiedere a lui- soggetti impegnativi, che infatti qualche libraio finanzia o stampa. Fa una dettagliata pubblicità comparativa fra i propri prodotti e gli altrui, rivolgendosi al pubblico, cui si lega con civico impegno per un servizio qualitativo e contenutistico. Si rivolge ancora come stampatore a chi legge ma i lettori divengono nei suoi preamboli virtuosi e socievoli compagni cui profonde dettagliate precisazioni editoriali, impartendo lezioni di stile, civismo e internazionalismo. Prosegue nelle sue funzioni di curatore editoriale, editor, stampatore, ma i suoi paratesti sono divenuti prefazioni e nel 72 compare la prima dedica genovese con note a piè di pagina, uso che ritorna anche a fine secolo in un paratesto informativo generico firmato dall’editore-tipografo e che, con note al taglio basso, assume fogge e funzioni di una prefazione, affiancando per altro una dedica altrui anch’essa con note. 59 Il nuovo lettore è interagente in quella res pubblica librorum che il tipografo-editore concorre a coordinare sentendosi a quegli legato da obblighi professionali : « Quali adunque mi sono state consegnate le presenti lettere, tali le imprimerò fedelmente, non omettendo però di usar quelle diligenze che si appartengono ad un accurato Stampatore, delle quali è debitore a chi legge ». 60 A questa coorte quasi personale egli associa, riservandogli uno spazio particolare di maggiore visibilità e coinvolgimento, anche il lettore per eccellenza (lo sponsor), nominato singolarmente per nome e cognome nelle tabulae gratulatorie delle edizioni uscite per sottoscrizione. Se il paratesto era fatto per il lettore, ora il lettore è divenuto paratesto contribuendo, in termini commerciali, a orientare sempre di più anche le posizioni mercantili del tipografo-editore. 6 Emerge dunque che il tipografo per diventare e esser riconosciuto editore, per operare con successo economico e di reputazione, poiché la sua vita materiale dipende dalla fragile fama, da una idea che il pubblico può elaborare su di lui, abbia dovuto usare gli stessi filtri culturali dei propri auspicati interlocutori ; gli stessi media espressivi. La stampa, che concorre alla costruzione e trasmissione della memoria, è luogo di messa in scena di modelli e ruoli nel tempo ugualmente riconosciuti sia dagli emittenti che dai riceventi. I tipografi hanno cercato di diffondere (o sfruttare) tali orientamenti di pensiero nei loro paratesti, introiettando il modello umanistico del tipografo-editore colto, portandolo sino alle estreme conseguenze, parlando e scrivendo solo in tale veste, per ribadire la qualità del proprio mestiere. Cosa che emerge ancora nei paratesti genovesi del primo Novecento. 62 58. Gasparo Gozzi, Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante, con li principi del buon gusto ovvero saggio di critica. Poema inglese del Sig. Pope. Ora per la prima volta fatto italiano, Venezia, Antonio Zatta, 758, ill. a p.. 59. Maurice (père) de Toulon,Trattato cit. c.*3 ; Ratti, Carlo Giuseppe Raffaello Soprani, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti genovesi…, In Genova, [Ivone Gravier], 768. 60. Sopra gli effetti del moto nella fabbrica del mondo, lettere di Flegomene ad Anucrate, In Genova, Nella Stamperia di Adamo Scionico, sulla Piazza di S. Lorenzo, 769, Lo stampatore a chi legge c. 3. 6. È una posizione teoretica lontana da quella espressa in altri contesti culturali : negli Stati Uniti Benjamin Franklin, Apology for Printers, (pubblicata in The Pennsylvania Gazette, 0 giugno 73, ora New York, Book Craftsmen Assoc., 955) teorizza il diritto-dovere di non esprimere valutazioni di merito su quanto stampa. Sarebbe interessante verificare se e come venne applicata questa regola nei paratesti americani del tempo. 62. Giovanni Boccacci [sic !], Il Decamerone. Emilia. Giornata IX, Genova, A. F. Formíggini, 96, avviso presente in tutti i volumi, con ubicazione variabile, all’inizio : « La proprietà letteraria ed artistica degli ornamenti e delle versioni originali e delle note critiche pubblicate in questa collezione spetta esclusivamente all’edi-

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Se l’editore, nel suo ruolo caratterizzato e distinguibile, orienta e guida i gusti del pubblico facendosi garante del prodotto librario non ha più bisogno di firmarsi con nome e cognome : già a fine Settecento escono pubblicazioni, lavorate da officine varie, in cui l’editore, per altro sconosciuto e forse da intendersi solo come curatore, si firma e qualifica con l’appellativo professionale, di editore appunto. E nel 854 un vero editore ritiene superfluo, pubblicando un’opera importante e famosa di geografia, fornire i propri estremi biografici, preferendo illustrare al lettore le proprie posizioni politiche e mercantilistiche. È accreditato a fare opinione, su di sé e sul proprio operato, anche grazie al ruolo che si è costruito con le parole paratestuali che ha saputo divulgare con le proprie stampe ; ha contribuito alla costruzione di una sfera pubblica di convincimenti e pareri il cui funzionamento, perfezionandosi e applicandosi anche ad altri settori della vita civile, contribuirà a rendere la « print culture as a prototype for a political public sphere » aspirando a voler « portare un contributo qualsiasi alla storia civile e letteraria ». 63 Lo stampatore invece, come mero operaio lavorante, svanisce, lascia pochi riferimenti nei successivi paratesti e preliminari genovesi dell’industrializzazione : flebili tracce, confinate in colofon illeggibili, mai personalmente siglate, che, valorizzando il lato creativo ed inventivo della manualità tipografica, instradano l’operaio verso la sua metamoforsi in (poli)grafico. 64 Si dissolve, lo stampatore, a fine Novecento mummificato, lui che un tempo vergava paratesti, in un preliminare di dedica dal sapore arcaico e con la cifra del rimpianto per una età aurea, primitiva e ingenua forse mai esistita : « … dedicato a Paolino, soprattutto, stampatore e gentiluomo ». 65 Abstract L’intervento esamina un corpus di un centinaio circa di scritti preliminari di vario tenore compositivo (semplici avvisi, dediche, epistole, ecc.), attribuibili, per paternità compositiva, ai tipografi-editori genovesi che li hanno sottoscritti, in molti casi anche datandoli. Tali interventi sono stati scelti e selezionati all’interno di oltre un migliaio di edizioni cronologicamente disposte lungo l’arco di quattro secoli. Lo scopo è di individuare, se esistono, i temi comuni tore » ; nel Il Decamerone. Panfilo. Giornata X aggiunge anche « I tragici eventi e il richiamo alle armi dell’editore hanno turbato il ritmo di questa serena collezione della quale avrebbe dovuto uscire regolarmente un volume al mese. Fintanto che la periodicità non potrà essere ripresa gli abbonamenti, invece che annuali, si intenderanno per serie di 12 volumi consecutivi ». Nell’opera Dal Metirraneo all’Atlantico. Le marinerie liguri nel mondo. Genova, Tormena, 993, il colophon recita : « Tormena editore ha raccolto intorno a sé l’entusiasmo e la disponibilità di un gruppo di sponsor operanti nell’ambito marittimo genovese » segue l’elenco relativo. 63. Cfr. per le citazioni David Zaret, Origins of Democratic culture. Printing, petitions and the public sphere in Early-Modern England, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 2000 cap.  e 7, pp. 2, 33 e Angelo Marinelli, Antonio Falchi, La stampa a città di Cstello dal “magister” Mazzocchi (1538) a Scipione Lapi (1875), Città di Castello, Eurolito, 200, (a ed. Casa Tipografica editrice S. Lapi, 909). 64. Così recita il lunghissimo colofon dell’opera di nicolò giuliani, Notizie, Genova 869, p. 322 : « Addì XXIV aprile MDCCCCLXVIIII si cominciò la stampa di qvesto libro e fv compita il XV ottobre. Cvrò il lavoro Michele Boero proto specialmente impiegandovi i compositori Francesco Zerbi sordo-mvto e Giovanni Novaro, i torcolieri Raffaele Mazzini e Paolo Capvrro. Fvrono i primi XVI fogli presentati al II congresso tipografico in Bologna da cvi la stamperia Sordo-mvti diretta da Luigi Ferrari ebbe premio per le distinte edizioni. Apprestò le tavole lo stabilimento litografico Pellas ». Metamorfosi avvertita anche in sede linguistica ove compaiono neologismi che tentano di registrare e includere i rinnovamenti tecnologici in atto : cfr. Nuovo vocabolario della lingua italiana compilato per cura dei professori Achille Longhi e G. B. Menini, Milano, presso Carlo Turati Libraio, 848 voce Tipografisti « Chi fa ricerche onde perfezionare l’arte della stampa ». 65. Maurizio Maggiani, Un contadino in mezzo al mare. Viaggio a piedi lungo le rive da Castelnuovo a Framura, Genova, Il Melangolo, 2000, p. [5].

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anna giulia cavagna

esposti in tali scritti preliminari, analizzare le formule ricorrenti e la loro varianza, e il significato editoriale o comunicativo eventualmente veicolato. The essay examines approximately one hundred preliminary texts of various kinds (advices to the reader, dedications, prefatory letters, etc.) and of varying length, the authorship of which can be attributed to the Genoese printers/publishers who have signed and in many cases dated them. These texts have been selected from over two thousand Genoeses editions published over the course of four centuries. They have been compared with similar paratexts in editions published in Italy and elsewhere in the early modern period, signed in full by printers who frequently refer to their own printing houses. The study aims to identify the themes common to such writings and to analyse the standard expressions and variations found therein and the meanings which these texts convey, specifically relating to the world of publishing and more generally. The underlying thesis is that such preliminary texts – whether their authors were aware of this or not – make an important contribution to the public image of the profession of publisher, an image which in Italy is defined only in the nineteenth century when the role of publisher, with its skills, responsibilities, commercial and cultural strategies, can be clearly distinguished from the printers who undertook such work in previous centuries.

Mirjam M. Foot LA RILEGATURA COME PARATESTO

I

bibliografi tradizionali hanno spesso trascurato, frainteso o liquidato come estranea al loro ambito di studio la rilegatura, considerandola un accessorio, un’aggiunta posteriore, estranea al libro che veniva messo a disposizione del pubblico. Nel corso del xx secolo l’idea di quale fosse la sfera d’interesse della bibliografia ha subito una serie di cambiamenti. Se inizialmente tale sfera d’interesse riguardava un ambito decisamente ampio, essa si è via via ridotta fino a coincidere con un’idea ben definita ma irrealisticamente limitata ; poi, di nuovo, è tornata ad ampliarsi trasformandosi in disciplina onnicomprensiva.  Tuttavia, né il ruolo del rilegatore nella produzione del libro come oggetto da immettere sul mercato né l’importanza della rilegatura come un elemento che andasse al di là della propria funzione artistica o meramente protettiva, hanno mai riscosso grandi attenzioni. Le prove di questo ruolo della rilegatura sono rintracciabili sia negli oggetti fisici, vale a dire i libri rilegati e la struttura e decorazione della loro rilegatura, sia in una serie di fonti primarie della prassi legatoria che finora non sono state molto studiate, come le descrizioni offerte da rilegatori e osservatori interessati su come (e talvolta perché) i libri venissero rilegati. 2 Leggiamo che nei secoli xvii e xviii i rilegatori ricevevano i fogli stampati direttamente dalla stamperia oppure dal magazzino o dalla bottega dello stampatore o del libraio. I fogli potevano essere assemblati secondo un ordine a volte approssimativo e arrivavano nella bottega del legatore distesi, arrotolati, talvolta raggruppati in fascicoli, ma di solito piegati in due. Il primo compito del legatore era di spianare la piega dei fogli, verificare che questi ci fossero tutti e, molte volte, metterli nell’ordine giusto. Questo controllo era importante per evitare che il legatore fosse incolpato dello smarrimento o del danneggiamento dei fogli ; spesso leggiamo di rilegatori che si lamentano che i fogli sono stati mischiati durante il trasporto o in stamperia o nella bottega del libraio ; che non sono stati inviati tutti i fogli o che qualche fascicolo è stato mandato doppio. Il legatore doveva controllare se ci fossero fogli o parti di fogli da cancellare (questi di solito venivano contrassegnati con un asterisco o tagliati) ; poi doveva togliere la parte da eliminare, scoprire dove fosse stato stampato il testo sostitutivo, se su un foglio distinto, su un mezzo foglio, sulle pagine introduttive o al termine del testo – ovunque vi fosse stato lo spazio sufficiente. A quel punto doveva tagliare il testo sostitutivo e inserirlo al posto giusto. Doveva anche controllare se vi fossero illustrazioni o cartine che erano state stampate separatamente (come accadeva nel caso delle incisioni), e tagliarle facendo attenzione che vi fosse un margine abbastanza largo da creare una piega che consentisse di cucire la cartina o l’illustrazione nella sezione pertinente. Attraverso questa serie di azioni il testo che finiva nelle mani del lettore risultava utilizzabile. . Vedi Mirjam M. Foot, Bookbinders at work; their roles and methods, capitolo i (di prossima pubblicazione). 2. Per una bibliografia dei manuali di rilegatura vedi Graham Pollard, Esther Potter, Early Bookbinding Manuals, Oxford, Bodleian Library, 984 ; inoltre Mirjam M. Foot, Bookbinders at work, cit., capitoli ii-v.

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Le rilegature possono anche mostrarci come i libri venissero venduti, come venissero conservati e come le varie consuetudini variassero nel tempo e nello spazio. I libri potevano (come spesso accadeva) essere venduti in fogli o con una serie di legature temporanee o provvisorie, oppure dotati di legature al dettaglio a basso costo. Si trovano ancora libri in cui il corpo del libro è stato cucito con supporti di cucitura ben curati e rifiniti in modo da permettere la successiva aggiunta di una copertina ; si trovano libri legati, forniti di dorso e copertina ma non rivestiti da piatti. Queste copertine potevano essere in cartone leggero ; talvolta si trovano legature di pergamena flessibile in cui i supporti per la cucitura, anch’essi spesso in pergamena, venivano semplicemente infilati in fessure nella pergamena di copertura e lasciati sciolti in modo da poter essere facilmente tolti nel caso in cui fosse stata richiesta una legatura più robusta o più costosa. La prassi, particolarmente diffusa in Germania, Paesi Bassi e Italia fra il 55 c. e il 560 c., e mutuata dal settore degli articoli di cancelleria, di attaccare il corpo del libro, cucito, con anelli alla propria copertina (spesso in pergamena), poteva servire da soluzione temporanea o come legatura economica per testi a basso costo. Anche altre caratteristiche di tali legature, come dorsi con lunghi bordi liberi in vista della futura applicazione di copertine dure o la presenza di margini non tagliati possono essere indicatori di una soluzione temporanea. 3 I libri piccoli potevano essere perforati o cuciti per tenere insieme i fascicoli e inseriti in una sopraccoperta che poteva essere dei materiali più disparati. Le sopraccoperte di carta stampata potevano essere anche previste in fase di stampa e realizzate insieme ai fogli del libro. Si sono conservati pochissimi esemplari di questo genere. Uno è una copia di Certaine Godly Rules concerning Christian Practice, stampato a Londra nel 647 da Thomas Warren, i fioroni del cui stampatore si trovano sopra e sotto la xilografia della Resurrezione di Lazzaro. 4 Qui la sopraccoperta è stata stampata come parte integrante dei fogli sulla quale era stato impresso il testo. Legature semplici ed economiche possono anche essere indicative di un particolare tipo di pubblicazione. Pamphlet, lavori teatrali, partiture musicali o sermoni spesso hanno la sopraccoperta, che può essere di carta semplice o di carta decorata di vari tipi. Un primo genere di legatura con coperta in carta che poteva costituire un modo provvisorio ma gradevole per proteggere il testo e tenere insieme i fogli è individuabile in Italia tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500. Il corpo del libro veniva legato e coperto con xilografie a stampa su carta spessa o cartone. 5 Queste xilografie non hanno nessun rapporto con i libri che contengono. Talvolta le stesse xilografie accompagnano testi completamente diversi fra loro o libri realizzati da stampatori diversi. Si 3. Nicholas Pickwoad, Onward and Downward : how binders coped with the printing press before 1800, in A Millenium of the Book, a cura di Robin Myers e Michael Harris, Winchester, Oak Knoll Press, 994, pp. 64-70, figure -4 ; Nicholas Pickwoad, Tacketed Bindings – a hundred years of European bookbinding, in For the Love of the Binding. Studies in bookbinding history presented to Mirjam Foot, a cura di David Pearson, London, British Library Publishing, 2000, pp.9-67. Non è sempre semplice sapere se la grande varietà di strutture che noi troviamo era destinata a servire come una via temporanea per proteggere i fogli durante il trasporto in libreria, o come una struttura provvisoria, cucita appositamente, ma ancora in attesa della sua copertura finale, o come una rilegatura economica per quelli che non potevano permettersene una più solida o lussuosa. 4. Mirjam M. Foot, An English Woodcut Binding, 1647, in Mirjam M. Foot, Studies in the History of Bookbinding, Aldershot, Hampshire, Scolar Press, 993, pp. 286-287. 5. Mirjam M. Foot, Ferrarese Woodcut Bindings of the late fifteenth and early sixteenth centuries, in Mirjam M. Foot, Studies…, cit., pp. 280-285.

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trattava di legature molto economiche, realizzate probabilmente per conto dei librai ; gradevoli per il cliente, attendevano una legatura più permanente e costosa in pelle o cartapecora, a seconda delle possibilità dell’acquirente. Ma i libri in vendita non presentavano solo legature semplici e temporanee. Sebbene stampatori, editori o librai difficilmente si sobbarcassero la spesa per far legare in pelle, pergamena o cartapecora su cartone un gran numero di volumi se non erano sicuri di poterli vendere, esistono delle eccezioni. Determinati tipi di pubblicazioni popolari come testi religiosi, libri scolastici ed altri sussidi didattici come grammatiche e sillabari, e testi classici vendevano abbastanza bene da convincere l’editore o il libraio a tenerne in magazzino una buona scorta di copie già adeguatamente rilegate. Abbiamo alcune (non molte) testimonianze, sia visive che scritte, di come i libri venissero venduti nei secoli xvi, xvii e xviii. Dai resoconti dei librai del Cinquecento e dagli inventari stilati dopo la loro morte, sappiamo che le loro giacenze di magazzino erano costituite da libri in fogli, libri in quaderni, legati con copertine o rivestiti in cartapecora, pergamena o pelle. 6 Un’incisione di una libreria dell’inizio del Seicento mostra pile di fogli piegati e libri sistemati su scaffali con il taglio anteriore rivolto verso l’esterno. 7 La libreria raffigurata nelle edizioni del 658 e del 659 dell’Orbis sensualium pictus di Comenius, una xilografia di Paul Creutzberger (600c.-660 Norimberga), mostra pacchi di fogli, incartati, con un’etichetta a indicare il contenuto del pacco, e libri disposti sugli scaffali, col taglio anteriore rivolto verso l’esterno, alcuni dei quali con fermaglio – e quindi sicuramente rilegati. La stessa xilografia è ancora presente nell’edizione del 664, ma nel 777 i pacchi sono scomparsi e i libri rilegati sono sistemati ordinatamente sugli scaffali, la costa rivolta all’esterno, i nervi rialzati in chiara evidenza. 8 Reinier Vinkeler (74-86) ha realizzato un’incisione della libreria di De Wit ad Amsterdam (760) dove i libri rilegati hanno la costa rivolta verso l’acquirente, mentre l’incisione anonima del 785 per Hilarion [pseud. J. Richter], Bildergalerie weltlicher Miszbräuche, (Frankfurt-Leipzig, 785) mostra ancora, oltre a libri rilegati, una serie di pile di fogli piegati e impacchettati che venivano venduti direttamente al cliente o che, una volta ordinati, sarebbero stati mandati dal rilegatore. 9 6. Vedi Elisabeth Leedham-Green et al., Garrett Godfrey’s Accounts c. 1527-1533, Cambridge, Biblio. Society, 992. Godfrey vendeva libri rilegati in pelle, pergamena, cartone e vendeva anche carta in quaderni o rilegata in libri vuoti. Elisabeth Leedham-Green, Books in Cambridge Inventories, Cambridge, Cambridge University Press, 986 (ad es., Thomas Thomas, d. 588). Altri esempi si possono trovare in George J. Grayand, William M. Palmer, Abstracts from the Wills and Testamentary Documents of Printers, Binders and Stationers of Cambridge, from 1504 to 1699, London, East and Blades, 95, e in Strickland Gibson, Abstracts from the Wills and Testamentary Documents of Binders, Printers and Stationers of Oxford, from 1493 to 1638, London, East and Blades, 907. Vedi inoltre John Dorne, Day book, Corpus Christi College, Oxford, ms 3, a cura di Falconer Madan in Collectanea, vol. i (Oxford Historical Society), 885. 7. Vedi Sigfred Taubert, Bibliopola, Hamburg, Hauswedell & Co, 966, vol. ii, p. 2. Vedi anche un incisione in, Joost de Damhouder, Practycke in civiele saecken, The Hague, 626, p. 55, riprodotta in, Jan Storm van Leeuwen, Bookbindings, their depictions, their owners and their contents, in Eloquent Witnesses, a cura di Mirjam M. Foot, London, London Bibliographical Society, 2000, p. 42. 8. Johannes Amos Comenius, Orbis sensualium pictus, Nuremberg (M. Endter), 658, 2° edizione Nuremberg (Endter), 659 ; traduzione inglese di Charles Hoole, London, 659. Per dettagli sulle varie edizioni vedi Graham Pollard, Esther Potter, Early Bookbinding Manuals, cit., (nota 2), n. 07. 9. S. Taubert, Bibliopola…, cit., (nota 7), tavv. 59, 90.

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In queste immagini non sono visibili rilegature semplici o provvisorie, ma gli altri esempi testimoniano della loro complessità : pergamena o cartapecora flessibile, pergamena o cartapecora su cartone, carta semplice o decorata o tela su cartone, oppure una struttura adeguatamente cucita (con o senza copertina temporanea) o una struttura legata e cucita con copertina in pelle e qualche volta ornata con qualche riga. 0 In sostanza si tratta sempre di legature del rivenditore diffuse in tutta Europa nel Medioevo, nella prima era moderna e oltre, molto prima che la riorganizzazione del settore della legatoria avvenuta agli inizi dell’Ottocento portasse alla meccanizzazione dei vari processi di legatura aprendo la strada a quella che oggi conosciamo come rilegatura editoriale (edition binding). Simili legature di libri destinati al pubblico potevano essere opera dei librai ma anche degli editori.  A volte avevano in copertina delle xilografie a stampa analoghe agli esempi italiani già citati, ma che erano state chiaramente realizzate da o per conto dello stampatore/editore ; infatti queste xilografie erano concepite per un particolare libro, e la stessa xilografia è presente in diverse copie della stessa edizione e a volte libri dello stesso stampatore. Le prime furono prodotte ad Augusta negli anni ’80 e ’90 del xv secolo. Le sopraccoperte dell’editore decorate con xilografie continuavano ad essere usate. Negli anni ’80 del xviii secolo, a Orléans, L. P. Couret le Villeneuve pubblicò il suo Bibliothèque des meilleurs poëtes Italiens, in 36 volumi, con sopraccoperte stampate in rosso con un blocchetto di legno, datate 785, con uno spazio lasciato vuoto affinché il proprietario vi scrivesse il proprio nome. 2 Queste sopraccoperte dell’editore rimasero popolari fino a Ottocento inoltrato, specie per almanacchi e calendari, in quanto rappresentavano un modo rapido ed economico per ovviare all’annuale profluvio di copie da rilegare. 3 Le legature al dettaglio potevano essere realizzate anche con materiali più solidi ; ad esempio, si trovano copie di classici delle aldine con rilegature molto simili in pelle di capra, decorate con qualche linea dorata e con qualche piccolo dettaglio ornamentale ; nulla di troppo elaborato, ma sicuramente non una rilegatura provvisoria. 4 Considerando quanto fossero popolari questi testi, l’onere di legature di questo tipo costituiva un rischio che anche un accorto uomo d’affari poteva permettersi di correre. Più semplici e quindi più economiche, ma anch’esse probabilmente un tipo di rilegatura per la vendita al pubblico, erano quelle in pelle ma decorate con cartocci (rolls) a rilievo, in alcuni casi recanti le iniziali dello stampatore, del libraio o dell’editore, o con pannelli, alcuni dei quali con lo stemma, il nome o le iniziali dello stampatore, del libraio o dell’editore. 5 Dal tardo Seicento e dal Settecento si è conservato un nu0. Per esempi inglesi della fine del xvii e xviii secolo, vedi Stuart Bennett, Trade Bookbinding in the British Isles 1660-1800, London, New Castle (Delaware), Oak Knoll Press, 2004, passim. . In un tempo in cui i vari rami del commercio librario non erano chiaramente separati, sarebbe meglio non usare il termine ‘rilegatura editoriale’ (con le sue connotazioni del xix secolo) ma usare il termine “rilegatura al dettaglio”. 2. Giles Barber, Continental Paper Wrappers and Publishers’ Binding in the late 18th Century, « The Book Collector », xxiv, (975), pp. 45-6, tav. 2. 3. Bisogna distinguere due tipi di legature di carta, con legatura flessibile e con carta usata oltre i margini. 4. Sulle rilegature aldine vedi Anthony Hobson, Was there an Aldine bindery ?, in Aldus Manutius and Renaissance Culture. Essays in memory of Franklin D. Murphy, a cura di David S. Zeidberg, Firenze, Olschki, 998, pp. 237-245. Quelle chiamate « legature aldine » erano legature a dettaglio prodotte per la libreria della società Manuzio-Torresani. un negozio che fu in seguito gestito dai fratelli Torresani. 5. Poiché questi pannelli erano di gesso, economici e facili da realizzare, e poichè potevano essere

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mero maggiore di legature al dettaglio in pelle, spesso con una modesta quantità di decorazioni, probabilmente realizzate su iniziativa dei librai. Oltre a testimoniare come venissero prodotti e venduti i libri, le rilegature possono essere un indizio della levatura del libro stesso, di come venisse percepito l’autore o il genere, delle intenzioni dell’editore o dell’importanza del suo destinatario, e offrono indizi sul perché il libro come veicolo di pensiero fosse stato prodotto, dove, per chi e in quali circostanze. Ad esempio, determinati tipi di testi erano di per sé importanti e/o autorevoli e ciò poteva essere sottolineato dotandoli di un’opportuna rilegatura. Testi giuridici, raccolte di leggi formali, atti ufficiali ed altri documenti legali hanno spesso una rilegatura importante. Bibbie e libri di preghiere sono spesso associati a rilegature splendide, e l’uso al quale il testo era destinato sembrava influenzare la scelta dei materiali della rilegatura. Copertine riccamente ornate che racchiudono la Parola di Dio mettono in risalto l’importanza del contenuto. 6 Queste rilegature ovviamente venivano realizzate per essere usate in chiesa, per impressionare i fedeli e forse anche per istruire gli analfabeti. Ma anche le bibbie e i libri di preghiere per uso privato spesso mostrano con la loro rilegatura l’importanza assegnata al testo che essa conteneva. Molti autori che donavano copie dei propri libri a persone potenzialmente influenti provvedevano a rilegarle in modo particolare con l’intento di blandire un importante mecenate e riceverne in cambio i favori ; ci sono inoltre moltissimi casi in cui l’importanza del destinatario veniva chiaramente rispecchiata dallo splendore della rilegatura. 7 Uno scrittore che aveva bisogno di arrotondare le scarse entrate era Elkanah Settle, poeta cittadino ufficiale. Settle produceva i suoi componimenti di attualità rilegandoli in pelle di capra nera o rossa ruvidamente decorate, con dediche floreali appositamente stampate e aggiunte, nella speranza di ricevere un adeguato compenso da parte del lusingato destinatario (dediche che però potevano essere cancellate e rimpiazzate se il primo destinatario non si fosse dimostrato abbastanza generoso). 8 Ad un livello più modesto, il premio scolastico dato ad un alunno diligente e studioso assumeva importanza grazie alla rilegatura, visto che il testo che conteneva era spesso uggioso o a carattere didattico ; era l’involucro esterno che con la sua solennità fungeva da premio. 9 usati nella stampa per decorare simultaneamente due copertine di un libro legato, essi erano veloci da utilizzare. Per la manifattura e l’uso dei pannelli vedi, Staffan Fogelmark, Flemish and Related PanelStamped Bindings, New York, Bibliographical Society of America, 990. Per esempi inglesi, vedi J. Basil Oldham, Blind Panels of English Binders, Cambridge, Cambridge University Press, 958, rel 5, st 37, misc 4 (e molti altri esempi). 6. Per ulteriori esempi vedi, F. Steenbock, Der kirchliche Ptachteinband im frühen Mittelalter, Berlin, 956. Inoltre Paul Needham, Twelve Centuries of Bookbinding : 400-1600, New York/London, Oxford University Press, 979, figg. 5, 6 (frontespizio), 8, 0 e pp. 2-54, tavv. 7, 9, -4. Il benessere del proprietario poteva inoltre influenzare la ricchezza della legatura, come accadeva nei casi dei libri giuridici o in quelli della Bibbia o nei libri di preghiera. I libri giuridici erano rilegati, naturalmente, anche con semplici legature (vedi sopra). 7. Per ulteriori esempi vedi, Mirjam M. Foot, The History of Decorated Bookbinding as a Mirror of Society, London, British Library, 998. 8. Su Settle vedi : Howard M. Nixon, Mirjam m. Foot, The History of Decorated Bookbinding in England, Oxford, Clarendon Press, 992, p. 8 ; inoltre cfr. Foot, op. cit., (nota 7), figg. 35, 36. 9. Per ulteriori esempi ed una discussione più dettagliata sulle rilegature premio vedi, Christian

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Saliamo qualche gradino sulla scala accademica : le tesi di laurea e le lezioni inaugurali venivano spesso pubblicate per essere donate al rettore e ai docenti dell’università (oltre che ad amici e parenti del candidato) rilegati in sopraccoperte vivacemente decorate o in pelle lavorata. Questi esempi dimostrano come il carattere di un libro venga sensibilmente cambiato dalla sua rilegatura. Questa veniva concepita per raggiungere di volta in volta un pubblico diverso e per svolgere una funzione diversa. Poteva anche servire per celebrare un matrimonio ; in questo caso la rilegatura faceva parte delle celebrazioni nuziali e non avrebbe avuto senso se i destinatari non fossero stati uno sposo e una sposa. In altri casi poteva attestare una particolare posizione politica, come sapeva ben fare l’università di Cambridge con le sue pubblicazioni che celebravano eventi personali della casa reale durante tutto il xvii secolo. Questi libri in versi erano accuratamente rilegati in funzione del loro specifico destinatario : in pelle con decorazioni in oro le copie per il re, la regina, il principe ereditario e la nobiltà ; cucite in cartapecora semplice o decorate con filettature con o senza legacci per destinatari appartenenti ai ranghi inferiori. 20 Le peculiarità di struttura e decorazione della rilegatura possono ampliare notevolmente la lezione che un libro è in grado di comunicarci. Queste informazioni non sono legate soltanto alla provenienza del libro ma ci spiegano i motivi della sua produzione, la funzione che doveva assolvere e il pubblico al quale era diretto. Possono anche illustrare movimenti storici e culturali. Ad esempio, la struttura e la decorazione della rilegatura possono riflettere la diffusione dell’alfabetismo e dell’istruzione dagli ambienti monastico-clericali nel mondo laico. Man mano che alfabetismo e istruzione si diffondevano al di fuori dei monasteri, dapprima soprattutto nelle università e nelle scuole di giurisprudenza e ancora più ampiamente nella professione legale e nella comunità mercantile, sempre più persone desideravano libri e sempre più persone desideravano libri che fossero economicamente abbordabili. I legatori si adeguarono a questi cambiamenti e cercarono soluzioni più economiche e procedure meno laboriose come pure a tecniche a minor costo e più rapide per decorare le rilegature ; il prodotto finale (con la sua rilegatura) dimostra che cominciava ad emergere un pubblico di lettori diverso e più vasto, una tendenza che risulta ancora più evidente nel corso dei secoli xvii e xviii, quando vediamo legatori che stipulano accordi con i librai per produrre determinati tipi di rilegatura per determinate pubblicazioni popolari ad un costo minimo pattuito. Dai titoli citati in questi contratti vediamo come gli argomenti spazino dalla didattica del latino a libri di consultazione in lingua volgare, come l’interesse si diffonda dagli autori classici agli scrittori umanistici, da temi religiosi, giuridici e storici a testi di educazione popolare a libri di viaggi, di poesia e a letture di svago. La rilegatura di questi libri, ovviamente realizzata per il magazzino del libraio, erano di vitello o, i più economici, in pelle di pecora, decorate con filettature a rilievo o dorate, o magari con un pezzo centrale e talvolta con rinforzi agli angoli. 2 Coppens, De prijs is het bewijs : vier eeuwen prijsboeken, Leuven, Centrale Bibliotheek K.U. Leuven, 99 ; Ead., The Prize is the Proof : four centuries of prize books, in Eloquent Witnesses, a cura di M. M. Foot, cit., (nota 7), pp. 52-05. 20. J. C. T. Oates, Cambridge Books of Congratulatory Verses 1603-1640 and their Binders, Transactions of the Cambridge Bibliographical Society, i, pt. v (953), pp. 395-42. Mirjam M. Foot, The Henry Davis Gift : A Collection of Bookbinding, vol. i, London, The British Library, 978, pp. 60-69. 2. Mirjam M. Foot, Some Bookbinders’ price lists of the seventeenth and eighteenth centuries, in M. M. Foot, Studies, cit. (nota 4), pp. 5-67.

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L’ampliamento del pubblico di lettori, dall’erudito che ha perfetta padronanza del latino al profano che desidera essere informato o divagarsi, e la diffusione dell’istruzione nei ceti bassi della scala sociale si riflettono chiaramente nei tipi di libri che vengono prodotti già rilegati per la bottega del libraio. Esistono molti altri esempi in cui la legatura è indicativa dello status economico-sociale del proprietario del libro. Docenti universitari e studenti forse potevano permettersi libri dalla rilegatura semplice mentre gli avvocati (da sempre una professione avvezza alla lettura e benestante) potevano ordinare qualcosa di più complesso. Le persecuzioni religiose in Europa continentale spiegano l’influenza francese sulla struttura delle rilegature inglesi negli anni ’60 del Cinquecento successivamente all’ondata di fuoriusciti ugonotti. Oggi non c’è tempo per andare oltre, ma spero che i pochi esempi da me portati abbiano dimostrato come le rilegature possano riflettere la società nella quale e per la quale sono state realizzate. Abstract Le rilegature rappresentano molto più di un accessorio, un ripensamento, un’ulteriore aggiunta al libro ; sono molto più di un modo adeguato di tenere insieme un testo scritto o stampato e di proteggerlo dall’eccessivo logorio. Le rilegature occupano una posizione essenziale nella produzione dei libri, se consideriamo il loro ciclo completo dallo scrittore al lettore. Le tecniche di rilegatura e di decorazione dei libri non solo riflettono la maniera in cui i testi sono stati prodotti, ma mostrano anche come si è sviluppato il commercio dei libri, ci spiegano il modo con cui essi sono stati venduti e come sono stati accolti. La produzione di libri è collegata a questioni di paternità, di pubblicazione, di lettura e di raccolta ; si riferisce alla diffusione della cultura e dell’apprendimento, all’istruzione, alla religione, a specifiche professioni, a circostanze economiche e politiche e ad atteggiamenti sociali. Le rilegature forniscono la prova di quale valore avessero i libri e di cosa essi rappresentassero per le persone, così come spiegano in che modo e perché erano usati. In breve, le rilegature, in tutta la loro varietà, riflettono le società in cui erano realizzate e le classi sociali alle quali erano destinate. Bookbindings are more than an adjunct, an after-thought, a later addition to a book ; they are more than a convenient way of holding a written or printed text together and protecting it from excessive wear and tear. Bindings are an essential part of book production, if we consider its full cycle from writer to reader. Techniques of binding and decorating books not only reflect the way in which books were produced, they also show how the booktrade developed ; they tell us how books were sold and how they were received. The production of bindings links with questions of authorship, publishing, reading and collecting ; it relates to the spread of literacy and learning, to education, to religion, to certain professions, to economic and political circumstances, and to social attitudes. Bindings provide evidence for how books were valued and what they meant to people, as well as how and why they were used. In short, bookbindings in all their variety, reflect the societies in, and the social classes for, which they were made.

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TAVOLA ROTONDA DALL’OPERA ALL’EDIZIONE: L’INFLUSSO DEL PARATESTO SUI CLASSICI ITALIANI

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Carlo Alberto Augieri L’ASTUZIA DEL PARATESTO E LA RUDEZZA INGENUA DEL POTERE : IL CASO ALVARO

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arto da due riflessioni di Adorno, interessanti per un discorso tendente a dimostrare l’importanza del titolo di un libro all’interno del rapporto tra autore, editore, pubblico e società nel suo insieme : confronto che però va visto in un ambito di complessità più ‘aperta’, implicante la relazione tra autore e testo, anzi tra semantica ed ermeneutica del testo ; tra autore, proponitore di un contenuto testuale partecipe di una forma di sapere inerente all’argomentazione del testo, di cui esso è un apporto, un contributo, e cultura, nella cui tipologia ipertestuale e con-testuale ( J. M. Lotman) è inseribile ogni testo come enunciazione discorsiva facente parte della globalità dei discorsi pertinenti al “gruppo culturale” (L. Goldmann), a cui l’autore appartiene. Il rapporto combinato, a proposito del libro, tra autore, società e cultura può essere compreso pure come relazione tra autore, inteso come soggetto emittente di un senso ideologico, intellettuale, enunciante certi tipi di messaggi, e ricezione : può essere quella generica riferita al lettore, da distinguere in : semplice soggetto motivato dal piacere della lettura ; specialista-addetto ai lavori della ricerca culturale, oppure addetto ufficiale, organizzatore responsabile della politica culturale promovente o censurante da parte di un potere politico, che, soprattutto quando si fonda sul consenso di massa e sulla manipolazione culturale dei messaggi, non può non connotarsi che come ‘agente’ di controllo selettivo verso tutto ciò che è comunicazione e, di conseguenza, pubblicazione. Si pensi all’attività di censura dei regimi totalitari novecenteschi, ad esempio, nei confronti dei giornali, dei libri e della comunicazione pubblica in generale. Ecco le note adorniane, prese dal saggio Titoli. Parafrasi lessinghiane, pubblicato per la prima volta nel 962 sulla rivista Arzente e, in seguito, nel 965 in Noten zur Literatur : Il compito di qualunque titolo è paradossale ; esso si sottrae tanto alla universalità razionale quanto alla particolarità in sé chiusa. Ciò oggi diventa manifesto come impossibilità di titoli. Propriamente nel titolo si ripete e si compendia la paradossalità dell’opera d’arte. Il titolo è il microcosmo dell’opera, teatro dell’aporia della poesia stessa. 

A questa considerazione, faccio seguire l’altra altrettanto profonda : Sicuramente la non arbitrarietà è soltanto un momento delle opere poetiche. Ma essa andrebbe pretesa già dai titoli. Questi o devono essere talmente calati nella concezione che l’una non possa venir pensata senza l’altro oppure ti devono venire in mente da soli. Cercare titoli è cosa altrettanto senza speranza quanto mettersi a riflettere su una parola dimenticata, di cui si crede di sapere che tutto dipenda dal fatto che ci se ne ricordi. Infatti ogni opera, se non ogni pensiero fecondo, è nascosto a se stesso ; mai trasparente a se stesso. Ma il titolo cercato vuole sempre tirar fuori ciò che è nascosto. Ciò l’opera, a propria protezione, lo nega. I buoni titoli sono così vicini all’oggetto che ne rispettano il carattere nascosto ; i titoli intenzionati peccano contro di esso. Perciò è tanto più facile trovare titoli per lavori altrui che . Theodor W. Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am main, 965; trad. it. Note per la letteratura 1961-1968, Torino, Einaudi, 979, p. 6.

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per i propri. Il lettore estraneo non sa mai l’intenzione dell’autore tanto bene quanto quest’ultimo ; in compenso ciò che è stato letto gli si cristallizza più facilmente a figura come un rebus, e col titolo egli risponde all’enigma. 2

Nelle due citazioni da Adorno colgo alcune parole – chiave, che possono addirittura fungere da premessa per una titologia : il titolo come microcosmo del testo ; il titolo come segno non arbitrario, ma motivato, pertinente, inerente, comunque corrispondente al significato dell’opera stessa ; il titolo come scena maieutica (il tirar fuori adorniano), in cui si mette a nudo il significato nascosto, perciò intimo del testo. In effetti, le parole costitutive del titolo sono sempre in rapporto con il testo, anche nei casi di legame indiretto e, comunque, volutamente ambiguo (non pertinenza tra significato del testo e titolo) : le parole del titolo sono lessemi condensati, vocaboli inerenti e, infine, parole suggeritrici tendenti all’esplicitazione del senso del testo, al suo manifestarsi almeno in parte, oppure sin nel suo significato specifico, particolare, intimo, nascosto. È da constatare una retorica ed una semantica del titolo, composta da termini metaforici o metonimici o sineddochici o ironici : il testo potrebbe costituire il significato – referente a cui si rapporta il titolo, la cui condensazione semantica sostituisce l’argomentazione del testo, secondo un rapporto logico di somiglianza o di contiguità o di inerenza o di ribaltamento ironico. È interessante notare come a ideare un rapporto diretto o di non pertinenza del titolo con l’opera sia, nella maggior parte dei casi, l’autore del testo (influenzato il più delle volte dall’editore) nelle vesti di interprete della sua opera creativa : in effetti, inventare le parole del titolo significa partire dal senso creato e costruito nell’opera e riassumerlo, sintetizzandolo ; nominare un testo con parole altre, definienti e complessive rispetto a quelle già dette nell’argomentazione analitica ; caratterizzare la significanza plurima del testo con un significato emblematico e contraddistinto, reso preminente, in quanto lo si avvalora e lo si fa emergere rispetto agli altri significati latenti o evidenti contenuti nel testo. Ne consegue che il titolo pretende dall’autore di essere exotopico rispetto al testo, transgrediente nei confronti della sua opera, che egli con il titolo designa, connota, nomina, qualifica, configura, identifica. In effetti, il titolo ha la stessa funzione del nome (significativa la seguente riflessione di Genette : Il titolo, come tutti sanno, è il ‘nome’ del libro, e in quanto tale serve a chiamarlo, cioè a designarlo il più precisamente possibile e senza fare confusione 3), con il quale si individua il libro, lo si qualifica, lo si caratterizza in un certo modo ; nella responsabilità di nome, il titolo si lega al testo con un rapporto di determinazione, per il quale l’indeterminato della sua significanza multivoca si configura con le parole-nomi del titolo, restringendosi in una connotazione denominativa che accompagnerà il testo per tutta la vita di lettura che esso vivrà. La vita di lettura inserisce il testo in un processo di trasformazione, per il quale esso, messa in opera di scrittura, da struttura compositiva diventa libro : il titolo è il nome di battesimo di questa trasformazione, che è una nascita del testo dal grembo dell’invenzione e della configurazione operata dall’autore : nasce il libro con l’aiuto di un editore – ginecologo o levatrice (dipende dal suo grado di esperienza e professionalità) e al nuovo nato viene dato un nome, il titolo, appunto. La nuova vita del testo-libro è quella della lettura, che si compone, come ogni processo vitale che si rispetti, di più fasi : mercato, interpretazione, collocazione in biblioteca, privata e/o pubblica, dove il libro attende 2. Id., pp. 6-7. 3. Gérard Genette, Seuils, Paris, Éd. du Seuil, 987 ; trad. it. Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 989, p. 79.

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di essere chiamato con il suo nome-titolo ogni qualvolta un lettore sente il bisogno, la curiosità di ricorrere ad esso. In tutte queste tre fasi della vita di lettura del libro il titolo assume una funzione diversa, comunque sempre rilevante : per quanto riguarda il mercato, il titolo può acquisire un ruolo attrattivo, di richiamo del destinatario, lettore causale, appartenente al pubblico in generale, che la seduzione delle parole di un titolo contribuisce a trasformare in lettore del testo : accade che, in effetti, titoli invitanti concorrano all’azione comunicativa di invito alla lettura, che è un entrare motivato dentro il labirinto del testo, dopo essere stato attratto, il lettore, dalla soglia paratestuale del libro. Per quanto riguarda l’interpretazione del testo, i lessemi del titolo possono costituire una chiave di lettura, una spia semantica, un indizio o dettaglio semiotico (il titolo si accompagna anche alla massa grafica ed iconografica della copertina e del frontespizio), con cui indagare e mettere allo scoperto anche il nascosto, rintanato nella rete compositiva del testo, che aspetta di essere rivelato dall’attività ermeneutica del lettore. In relazione alla biblioteca, il titolo è anch’esso importante per quanto riguarda l’ordine tematico e la distribuzione argomentativa, con cui sistemare in modo organico e non casuale l’insieme dei libri, sì da essere facilmente reperito ciascun testo ad ogni richiamo del lettore. Nel caratterizzarlo come microuniverso dell’opera, il titolo assume una forte responsabilità rappresentativa nei confronti di una semantica della cultura (in effetti, il titolo può evocare un clima culturale specifico, rappresentando con le sue parole costitutive la chiave semantica più pertinente per comprenderlo : si pensi, ad esempio, al marcusiano L’uomo ad una dimensione, indicativo del movimento intellettuale ed artistico del ’68, oppure ai titoli delle opere di J. P. Sartre, significativi della condizione esistenziale della cultura novecentesca), così come rispetto alla matrice contestuale del testo : ci sono titoli che connotano addirittura un percorso omogeneo di poetica comprendente un periodo lungo di storia letteraria: (si pensi, ad esempio, ai titoli omogenei dei libri di poesia lirica pubblicati tra la fine dell’800 ed i primi decenni del ‘900, caratterizzati, per dirla con Anceschi, dalla poetica delle cose e dal rifugio nell’irrazionale, 4 a cominciare da Pascoli con Myricae (89), a cui seguono : Il libro dei frammenti (895) di Roccatagliata Ceccardi, Resine (9) e Trucioli (920) di Sbarbaro, Frammenti lirici (93) di Rebora, Gli ossi di seppia (925) e Le occasioni (939) di Montale ; oppure ai titoli similari dell’altro indirizzo di poesia in prosa : Poemetti in prosa (906) di Corazzini, Colloqui (9) di Gozzano, Lavorare stanca (936) di Pavese. È da ricordare pure l’influenza dantesca e leopardiana nella ripresa della parola canto nei titoli di molta poesia novecentesca : Canti di Castelvecchio (903)di Pascoli, Canti delle oasi (909) di Onofri, Canti orfici (94) di Campana, Canzoniere (92) di Saba, Canti anonimi (922) di Rebora, ecc. I titoli dei poeti futuristi sono tra loro omogenei e, comunque, coerenti con la visione futurista del mondo : si pensi a Destruction (904), Uccidiamo il chiaro di luna (9), Guerra sola igiene del mondo (95) di Marinetti ; a Revolverate (909) di Lucini ; a Govoni con Poesie elettriche (9 e 920), ecc. Per quanto riguarda la prosa, i titoli dei romanzi più rappresentativi del secolo scorso sono affini nel rappresentare la condizione psicologica ed antropologica dell’uomo contemporaneo : si pensi, ad esempio, a titoli quali Senilità (898) di Svevo, Uno nessuno centomila (926) di Pirandello, L’uomo nel labirinto (926) di Alvaro, Gli indifferenti (929) e La noia (960) di Moravia, Un uomo provvisorio (934) di Jovine, ecc. La parola coscienza, con cui si connota la situazione fenomenologica del 4. Cfr. Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, a cura di L. Vetri, Venezia, Marsilio, 990, pp. 3-32.

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vissuto esperienziale raccontato dalla letteratura, appare o è sottintesa in molti titoli di testi letterari, quali, ad esempio : Esame di coscienza di un letterato (95) di Serra, Con gli occhi chiusi (920) di Tozzi, La coscienza di Zeno (923) di Svevo, Rimorsi (944) di Cardarelli, La cognizione del dolore (963) di Gadda, ecc. Il nesso tra titolo, testo, indirizzo di poetica ed espressione culturale è talmente motivato e pertinente che si potrebbe addirittura analizzare la semantica del titolo in relazione alla semantica dell’opera e delle opere che contengono almeno una delle parole chiave dei titoli in esame, in un periodo anche di lunga durata della storia della letteratura e della cultura. Ne deriverebbe una sorta di comparatismo riferito alla diacronia semantica di una parola, resa conseguentemente simbolo, a causa del suo uso iterato all’interno di una tendenza culturale ; oppure relazionato alla sincronia interdisciplinare tra parole emblematiche usate in comune nei titoli di libri prodotti in una data cultura ; oppure si potrebbe anche avviare un comparatismo internazionale, per analizzare addirittura come un’area pluriculturale, interlinguistica, faccia ricorso, per nominare le comunicazioni testuali che emette, a parole comuni in una data epoca : ne verrebbero fuori influenze, fonti, topoi rappresentativi di una stessa matrice culturale, sparsi e diffusi in più ambiti storici e geo – sociali. Semantica della cultura, sociologia della lettura interpretativa dei testi, storia nazionale e comparativa dei fenomeni, dei processi, delle tendenze culturali e teoria della ricezione e della comunicazione (in effetti, il titolo non è solo atto enunciativo, locutorio, ma pure illocutorio e perlocutorio, 5 dal momento che tende ad influenzare, a persuadere il lettore alla lettura di un determinato testo) sono le forme di sapere coinvolgibili nello studio dell’elemento paratestuale riferito al titolo dei libri. Ebbene, accanto a queste forme molteplici di studio circa la comprensione storica, semantica, culturale e sociologica del titolo, mi permetto di accludere un altro interesse di ricerca che si può aggiungere agli ambiti di sapere prima proposti : la conoscenza fenomenologica e culturologica del titolo può comprendere anche la storia della censura e, comunque, più in generale, la storia della politica culturale di un dato regime governativo in un particolare periodo storico : ad esempio, la configurazione semantica del titolo librario (la ricerca può essere estesa a tutto ciò che costituisce un testo reso pubblico, compreso l’articolo giornalistico, il messaggio radiofonico e televisivo, ecc.) in Italia nel periodo fascista, nel segmento temporale, ossia, compreso tra le due guerre mondiali. A tal proposito, mi permetto di citare un caso veramente emblematico, che ha come protagonisti : un lettore ufficiale del fascismo, funzionario del Ministero per la Cultura Popolare, avente il potere di concedere o vietare il permesso di pubblicazione di un libro; Corrado Alvaro e l’editore Valentino Bompiani, tutti interessati ad un romanzo-saggio molto significativo, L’uomo è forte (938), uno dei pochi testi europei del Novecento italiano, in cui si sente l’influenza di Campanella, Dostoevskij, Kaf ka, Mann, Orwel, Pirandello, e in cui è saputa cogliere la condizione antropologica ed esistenziale dell’Europa tra le due guerre, offesa dalle dittature, con la conseguente alienazione dell’identità pubblica e di quella soggettiva, private entrambe della libertà e dei valori propri di ogni umanesimo senza tempo e senza confini. Il paratesto del libro presenta come esordio un’istanza prefativa (da intendere con Genette come qualsiasi specie di testo liminare – preliminare o postliminare – autoriale o 5. Cfr. John L. Austin, How to do things with Words, Oxford New York, Oxford University Press, 962; trad. it. Come fare cose con le parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Genova, Marietti, 987, pp. 7-20.

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allografo, che consiste in un discorso prodotto a proposito del testo che lo segue o precede), 6 incentrata non su un’introduzione al romanzo, come nei casi più normali e diffusi, ma su un’Avvertenza, pretesa dal censore, nella quale si spiega al lettore che « L’idea di questo libro nacque nell’Autore durante un suo soggiorno nell’u.r.s.s., quattro anni fa […] ». 7 Oltre che la richiesta dell’Avvertenza, il revisore fascista aveva imposto con rigorosa decisione la mutazione del titolo, che era in origine Paura sul mondo : titolo metaforico, capace di dar nome e rappresentare la condizione umana nell’Europa tra le due guerre, in cui l’individuo, costretto a vivere l’alienazione della sua riduzione a uomo – massa ed a uomo – vittima, era condizionato da uno stato d’animo e da un’emozione particolari, riguardanti in modo diffuso e profondo il sentimento di ognuno di fronte agli altri ed a se stesso, caratterizzato dall’inquietudine e dalla paura, a cui seguiva l’ossessivo senso di colpa e di espiazione, causa di un desiderio di fuga o di desolante rassegnazione, come lo stesso Alvaro dichiarò all’uscita del libro, parlando delle sue ragioni culturali e motivazioni ispirative : « Il tema doveva essere questo : la condizione degli uomini cacciati in una vita di continuo panico, in cui gli atti più insospettabili possono acquistare colore di delitto e le azioni più innocenti apparire delittuose ». A proposito del titolo che Alvaro aveva scelto per il romanzo, Paura sul mondo, così dichiarò lo stesso autore nell’ Avvertenza corretta e riscritta sin nella prima ristampa del testo, subito dopo la caduta del Fascismo : « Il titolo originale di quest’opera era Paura sul mondo, e tale è rimasto in alcune traduzioni che se ne sono fatte in altre lingue. Ma al censore italiano del passato regime quel titolo non piacque, ed egli impose che fosse mutato. Eravamo tuttavia in tempi in cui il governo faceva una certa politica letteraria, e perciò fu incaricato dalla censura di questo libro un funzionario meno rigoroso. Il quale si contentava di chiedere la soppressione d’una ventina di pagine. L’autore dichiarò di non accettare, rinunciando alla pubblicazione di questo libro. La cosa finì con la soppressione d’una ventina di righe, e con l’obbligo all’Autore di premettere al suo libro un’avvertenza in cui dichiarava che l’azione di esso si svolgeva in Russia. Fece male l’Autore a consentire ? Il volume ebbe poche e circospette valutazioni della critica in Italia ; all’estero qualche recensore mostrò di intenderne le intenzioni. Le comprese la censura germanica, la quale ne vietò la pubblicazione in tedesco. Una nota preliminare, che il censore italiano pure aveva vietato, dichiarava che questo libro rappresenta uno stato d’animo degli anni che abbiamo passati, quella malattia diffusa della paura, che colpì tutti noi, poveri uomini, dovunque l’uomo fu oppresso. Questa nuova edizione è la ristampa fedele di quelle precedenti. Le righe soppresse dalla censura erano senza importanza, e rimetterle al loro posto indicherebbe nell’Autore una pretesa che egli non ha. S’è voluto solamente preporre questa avvertenza per chiarire le intenzioni e gli scopi dello scrittore ». 8 A proposito dell’Avvertenza alvariana possono seguire, conseguenti, alcune considerazioni preliminari, riferite al modo diverso in cui le varie censure europee reagirono di fronte al testo ed al paratesto del romanzo : il funzionario italiano si mostrò rigido soltanto per quanto riguarda il paratesto, imponendo di « sopprimere » il titolo Paura sul mondo e, inoltre, di « eliminare » un altro elemento paratestuale, una nota introduttiva, in cui l’autore dichiarava quello che le parole del titolo mettevano in rilievo e che condensavano circa l’argomento saggistico della narrazione del romanzo : 6. Gérard Genette, op. cit., p. 58. 7. Corrado Alvaro, Avvertenza, in L’uomo è forte, Milano, Bompiani, 938. 8. Corrado Alvaro, Avvertenza, in L’uomo è forte, Milano, Bompiani, 945.

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« questo libro rappresenta uno stato d’animo degli anni che abbiamo passati, quella malattia diffusa della paura, che colpì tutti noi, poveri uomini, dovunque l’uomo fu oppresso » : in alternativa, la nuova prefazione, consigliata e imposta, doveva soprattutto avvertire il lettore italiano che « l’azione del libro si svolgeva in Russia ». In relazione al testo narrativo, invece, l’opera di censura fu blanda e moderata : in effetti, elusa dall’autore la prima richiesta della « soppressione d’una ventina di pagine », il censore si accontentò della più fievole « soppressione d’una ventina di righe », che alla fin fine non erano di molta importanza per quanto riguarda il significato complessivo del libro, dal momento che le nuove edizioni pubblicate dopo il fascismo furono « una ristampa fedele di quelle precedenti. Le righe soppresse dalla censura erano senza importanza, e rimetterle al loro posto indicherebbe nell’Autore una pretesa che egli non ha ». La censura tedesca, invece, fu coerente con la sua rigorosità : non permise la pubblicazione dell’intero testo, compreso ovviamente il paratesto. Le altre culture più liberali, come quella francese, ad esempio, pubblicarono il libro secondo le intenzioni dell’autore, non pretendendo di intervenire né sul testo, né sul suo paratesto. Come ribadisce lo stesso autore nell’Avvertenza già citata : « Il titolo originale di quest’opera era Paura sul mondo, e tale è rimasto in alcune traduzioni che se ne sono fatte in altre lingue ». È interessante ora entrare più da vicino nell’avvenimento censorio riguardante il paratesto del romanzo alvariano, anche perché è coinvolto nella vicenda un personaggio di rilievo nella cultura italiana del ’900, Valentino Bompiani, la cui attività editoriale da editore protagonista è ora possibile ricostruire in modo dettagliato ed organico, grazie alla raccolta in volume 9 delle lettere inviate da autori italiani e stranieri, i cui sfoghi e le cui confessioni personali rivelano e documentano una vicenda intellettuale e letteraria di notevole esperienza umana, oltre che critica e culturale. L’ingresso di Alvaro alla Bompiani è iniziato proprio a proposito della pubblicazione de L’uomo è forte : in una lettera del 3 gennaio 938 lo scrittore dichiara di provare « viva simpatia verso la Sua opera di editore e sarebbe mio desiderio diventare un suo scrittore. Se, come mi è parso in qualche nostro incontro, Ella condivide questa simpatia, potremo trovarci a Milano in occasione d’un mio breve soggiorno costì » (289) 0. Dal 7 al 8 febbraio 938 autore ed editore si scrivono puntualmente molte lettere a « stretto giro di posta », in cui vengono espressi giudizi critici, consigli, intenzioni, progetti di lancio del romanzo con interviste e contatti vari con la stampa ; viene pure decisa la composizione di un manifesto murale, riproducente l’elemento basilare del paratesto : la copertina con il titolo e l’immagine grafica. Insieme con le lettere si spediscono pure frammenti, “mucchietti”, del manoscritto “copiato” del romanzo, rinviati poi in bozze, che vengono puntualmente corrette e successivamente rispedite dallo scrittore. Queste lettere sono interessanti sul piano storico della cultura italiana, perché rendono possibile la ricostruzione di un segmento di storia editoriale e di sociologia della letteratura contemporanea ; sono anche significative sul piano critico circa la poetica alvariana e il suo laboratorio di scrittura. Le osservazioni, sempre meticolose e tempestive di Bompiani sul manoscritto del romanzo, prediligono nei giudizi e nelle proposte una particolare ottica di lettura, attenta ai modi di scrittura del testo 9. Gabriella D’Ina Giuseppe Zaccaria (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, Milano, Bompiani, 988, pp. xxvii-632. 0. Le citazioni delle lettere tra Alvaro e Bompiani sono prese dal volume Caro Bompiani. Lettere con l’editore, le cui pagine sono riportate qui e in seguito con numeri in cifra araba tra parentesi tonde.

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in riferimento al gusto del lettore, alla reazione ricettiva implicita nella lettura del pubblico : dopo aver lette le prime 87 pagine del manoscritto del romanzo, inviategli pochi giorni prima da Alvaro, nella lettera del 8 febbraio 938 così scrive l’editore : « […] Lei chiede al lettore molto, e gli concede pochissimo. Concede pochissimo alla sua umana curiosità, alla sua pigrizia, al desiderio di distendersi. Talvolta lo obbliga perfino a rileggere per capire bene che cosa è accaduto o non è accaduto. Raramente Lei colloca intorno ai Suoi personaggi un ambiente deciso e visibile » (290). Appunto per venire incontro alle esigenze di un pubblico di narrativa, in cui sono comprese soprattutto le donne (« avrà adeguata fortuna ? È difficile dirlo e per tutte le ragioni che abbiamo detto ; soprattutto perché non capisco bene quanto può piacere alle donne, che costituiscono il folto dei lettori e i più ciarlieri tramiti di propaganda » (294)), Bompiani addirittura esprime la volontà di « forzarLe un poco la mano verso un racconto un poco più disteso, proprio perché il Suo romanzo mi appare tanto ricco di sostanza lirica da aver bisogno d’essere lievemente diluito. Sono correzioni e varianti che potrà fare sulle bozze, se ne sarà persuaso. Dunque mi scriva, per continuare il discorso. Un’ultima cosa : i dialoghi sono sempre bellissimi » (29). Alvaro prende sul serio le osservazioni dell’editore, sì da riscrivere alcune pagine del testo manoscritto secondo i suggerimenti ricevuti ; in una lettera del 2 febbraio 938 riconosce a Bompiani la pertinenza critica delle sue osservazioni, addirittura chiedendogli ancora consigli su molte questioni di stile e di scrittura : « Le Sue osservazioni mi paiono giuste. Bisogna dirmele certe cose. Anziché correggere sulle bozze, Le farò avere i fogli doppi del manoscritto con le varianti e le aggiunte. Non credo si tratti di pezzi molto lunghi. O crede che vada molto diluito ? Per gli spazi bianchi, vogliamo abolirli, o riempirli con qualche facile passaggio ? Sento che anche in questo libro sono troppo denso ; me lo fanno credere le Sue osservazioni ; bisognerà che al prossimo stemperi molto i colori » (29-292). Tra autore ed editore seguono dopo pochissimo tempo alcune lettere, nelle quali si parla del paratesto da preparare per la pubblicazione de L’uomo è forte, che si vuole funzionale all’organizzazione del lancio del libro, da promuovere in riferimento al pubblico italiano, ma anche internazionale : è chiaro all’editore, già da quando leggeva i “mucchietti” di pagine man mano inviati da Alvaro, che il manoscritto “andava benissimo”, ma limitarsi ad esprimere questo solo giudizio sembrava a Bompiani di dichiarare « molto poco. Il Suo lavoro mi ha più volte entusiasmato ; mi pare tra i più ricchi e i più nuovi della letteratura moderna, non soltanto italiana » (294). Questa valutazione molto positiva accrescerà ancora di più in Bompiani, man mano che la lettura andrà avanti ; nella lettera del 3 aprile 938, infatti, si legge : « Del suo romanzo Le ho detto quello che penso, senza compiacenti reticenze. Lo considero un libro di valore e di interesse per lettori di qualsiasi paese, senza esitazione è il più bel libro che Lei ha scritto sino ad ora e che tutti dovranno riconoscere come l’opera dello scrittore di primo rango » ;  a romanzo pubblicato, L’uomo è forte viene definito come l’unico romanzo italiano capace di offrire alla stessa cultura europea la « rappresentazione eccezionale della condizione umana ». 2 Ovviamente, il valore del libro non si ferma al solo aspetto estetico e letterario, ma è rapportato ad un auspicabile, prossimo suo . La citaz. della lettera è presa da : Giuseppe Zaccaria, C. Alvaro-V. Bompiani. Cronaca di una collaborazione, in Corrado Alvaro, L’uomo è forte, pref. di M. Prisco, Milano, Bompiani, 994, p. xiii. 2. Lettera di Valentino Bompiani a Corrado Alvaro del 26 luglio 938, in G. D’Ina, G. Zaccaria (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, cit., p. 297.

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successo di pubblico, che nel ruolo di editore Bompiani si sente in dovere di organizzare : « Sappiamo Lei e io che in pochi anni conquisteremo anche il successo : e chissà che non sia vicino. Intanto, muoviamoci come se lo avessimo in tasca » (294). Man mano che la composizione del libro si avvicina al momento finale della pubblicazione (dalla data delle ultime lettere citate manca ormai poco più di un mese dalla stampa, avvenuta il 30 maggio 938), cresce nei due uomini, autore ed editore, l’impegno di curare il momento sociale del romanzo, prendendo contatti con i giornali nazionali e mettendosi pure in relazione con importanti editori d’oltralpe per la traduzione prossima dell’opera. Particolare interesse è rivolto verso il paratesto, di cui si cura molto quello che costituisce l’elemento essenziale della preparazione tesa a trasformare il testo in libro, la copertina, con i suoi elementi più visibili e, comunque, più accattivanti, al fine di attrarre la curiosità del lettore sin dalla soglia dell’opera : la composizione grafica del titolo, unita al disegno che l’accompagna. È da mettere in evidenza il fatto che quando si toccano gli aspetti paratestuali del libro, costitutivi della sua presenza comunicativa e pubblica, cominciano a sorgere le prime cautele ed apprensioni da parte di Alvaro e Bompiani. Un esempio è offerto dalla copertina ormai finita e dall’approntamento del manifesto murale pubblicitario, che doveva graficamente riprodurla in modo fedele (manifesto come facsimile della copertina), così almeno nelle intenzioni dell’editore. In una lettera di Bompiani, spedita ad Alvaro il 4 maggio 938, si legge : « Le mando uno stampone della copertina. Lo faccia vedere a Casini. Non sono tranquillo e non vorrei che all’ultimo momento facessero qualche difficoltà. Tanto più mi preme che il disegno sia approvato perché ho pronto il manifesto in cui vi è lo stesso disegno ripetuto. Prima di farlo incidere bisogna essere sicuri dell’autorizzazione e quella della Questura può non bastare. Il mio dubbio nasce dal fatto che né il titolo del libro, né il volto della folla dice trattarsi della Russia ». 3 La censura fascita, in realtà, non si preoccupò della grafica e del disegno di copertina, ma del titolo in primo luogo, come già si è detto, e di una parte del contenuto del libro : nella lettera dell’ maggio 938 Alvaro informa Bompiani circa le perplessità e le restrizioni censorie, a cui seguono puntualmente, in alternativa, i consigli di correzione del revisore : « Sono stato oggi al Ministero per la Cultura Popolare. Casini era malato e assente. Interpellato per telefono, aveva letto il rapporto del revisore, e mi invitava a intendermi direttamente con costui. Il revisore aveva letto il libro attentissimamente, e, diceva, con un interesse che non gli permetteva di lasciarlo. Ha manifestato il dubbio che il libro possa essere frainteso e che da ciò provengano incidenti dannosi a me. Mi ha consigliato di scrivere un breve avvertimento nella prima pagina a scanso di equivoci. Mi ha inoltre segnalato alcune pagine, e precisamente i fogli 53-54, 76-78, 43-46 che sarebbe suo desiderio veder moderati. L’avvertenza e le modifiche gliele sottoporrò stasera o domattina, e domani a ogni modo le spedirò approvate a Lei ». 4 La cautela emendatrice raccomandata dal censore non offende, comunque, la sensibilità autoriale di Alvaro, che anzi, nella lettera del 2 maggio 938, in cui raccomanda a Bompiani di non dare, a proposito della pubblicità, « troppo spicco al contenuto sociale del libro, ma alla sua sostanza letteraria e artistica. Faccia tutto molto discretamente per quanto efficacemente », ammette anche il buon gusto del revisore, il quale, comunque, ha riconosciuto la validità artistica del libro, conciliandola con il suo zelo di “lettore novello”, come sarà definito da Alvaro nella sua lettera del 3 maggio, che 3. Cfr. Giuseppe Zaccaria, C. Alvaro - V. Bompiani: Cronaca di una collaborazione, cit., p. xiv, cit., p. xiv. 4. Id., pp. xiv-xv.

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così conclude : « Il revisore, col quale abbiamo discusso a lungo, mi ha avvertito che, se il libro non gli avesse offerto pregi di opera d’arte, la censura sarebbe stata ben altrimenti rigorosa ». 5 Il romanzo, sebbene con un lievissimo ritardo, si pubblicherà comunque, subendo in sostanza solo la mutazione radicale del titolo : la sua diffusione non verrà contestata, né ci sarà un ripensamento successivo da parte della censura fascista. Anzi, il 22 marzo 939 uscirà la seconda edizione de L’uomo è forte, che nel 940 riceve persino il premio dell’Accademia d’Italia per la sezione di Letteratura ; il romanzo raggiungerà, inoltre, nel 945 la quinta edizione. Uno nessuno centomila del 926, Gli indifferenti del 929 e Paura sul mondo del 938 sono i titoli che nella loro emblematicità semantica e nella loro connotazione retorica “portano fuori”, per ritornare alla riflessione iniziale di Adorno, il significato “nascosto” di tre testi, che sono rappresentazioni della testualità vissuta, esistenziale di un’epoca, caratterizzata, appunto, in riferimento ad un’antropologia delle emozioni e della vita interiore, dalla disidentità, ben configurata da Pirandello; dall’indifferenza, raccontata da Moravia; dalla paura, rispecchiata narrativamente da Alvaro. Il fatto che il censore fascista, custode di una ideologia emotiva basata sui sentimenti della forza, della fierezza e della eroicità quasi epica (la riscrittura strumentale ed artificiosa del mito della Roma imperiale e la ripresa narrativa di eroi classici fino a quelli risorgimentali sono atti culturalmente demagogici, abbastanza significativi), promossa dal regime in anni di massimo consenso persuasivo, abbia preteso di togliere la parola paura da un testo letterario, destinato ad un pubblico vasto di lettori, fa molto riflettere. La disidentità di massa fa comodo al potere, che, di conseguenza, si può presentare forte e forzatamente identificante proprio grazie alla crisi esistenziale della gente ; anche l’indifferenza è funzionale al potere : così può gestire da solo l’esercizio del consenso forzato e della gestione totale, senza l’ostacolo della coscienza critica generale, messa da parte perché alienata nella noia vuota, apatica del disinteresse. La paura, invece, fa paura al potere, in quanto lo rende insufficiente, limitato, non del tutto efficace ed efficiente, visto che essa permane come sentimento di massa, sebbene contrastata e decostruita dall’immaginario eroico che il fascismo favoriva e promuoveva. Il fatto che il revisore accetti, sorvolando addirittura sulle questioni tematiche già da lui biasimate e sanzionate ( la ventina di pagine da togliere o da ammorbidire), la pubblicazione del libro dopo l’intesa con l’autore sull’Avvertenza e sul solo cambiamento del titolo, la dice lunga : il nuovo titolo scelto, L’uomo è forte, è certamente da preferire il censore – ideologo fascista, rispetto al precedente Paura sul mondo. Forte è un aggettivo pregnante e veramente consono alla cultura di un regime che, tra mito patriottico, secondo e mito imperialistico, continuava a comunicare in modo ricettivo di massa l’immagine forte di sé, allo scopo di preparare ed organizzare, dal punto di vista pseudo culturale, il consenso forzato, strumentale a quel clima bellicoso e di conquista, che tra poco porterà l’Italia alla sciagurata, disumana guerra mondiale a fianco della Germania, di fronte a cui l’uomo sperimentò la paura di vivere (in sintonia con il mal di vivere montaliano) nella piena offesa del significato stesso della vita. Eppure, a pensarci bene, la vittoria del revisore sull’intenzionalità dell’autore è povera cosa, sintomo anzi di una competenza ingenua, inesperiente (non è un caso che Alvaro lo abbia definito, come già si è ricordato, lettore novello) : il censore lesse e ap5. Id., p. xv.

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Copertina della I edizione di L’uomo è forte, maggio 938.

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prezzò la validità artistica del testo, ma non seppe interpretare, decodificare l’astuzia del paratesto. In effetti, si limitò a considerare soltanto il significato delle parole del titolo, ma non la copertina e, soprattutto, un altro elemento del paratesto, la sopraccoperta illustrata, nel suo complesso, in cui il titolo è in corrispondenza non coincidente (con), rinvia in modo ironico alle immagini non verbali, alle figure grafiche, che ad esso si accompagnano. Nell’analizzare, da un punto di vista semiotico, parola ed immagine, elementi intrecciati della copertina e della sopraccoperta editoriale, si

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nota che non c’è mimesi iconica tra il titolo verbale ed i segni non verbali, mancando una configurazione identificante del significato del titolo con il senso raffigurativo delle immagini. L’intenzione ironica riguarda pure il carattere grafico delle lettere alfabetiche componenti la scrittura delle parole del titolo : c’è un doppio contrasto, un duplice iato, per il quale tra significante non verbale e significato verbale non c’è pertinenza semantica, ma contrasto ironico, burlesco, incoincidenza umoristica, a causa della palese differenziazione contraddittoria. Ad esempio, la configurazione grafica del sintagma L’uomo è forte è segnata in modo che il lessema uomo sia scritto con caratteri grandi, maiuscoli, mentre è forte è composto con caratteri minori, in formato più modesto. Non solo : l’immagine dell’uomo che dovrebbe costituire il referente iconico del significato del titolo è anch’esso non coincidente, in relazione sarcasticamente sproporzionata : l’uomo è raffigurato nella copertina con un volto spaurito, ansioso, teso, con i lineamenti contratti e lo sguardo impacciato, sebbene vigile ; attento e provvisorio, impotente insieme. La raffigurazione dell’uomo impressa sulla sopraccoperta è ancora più palesemente inquietante. In effetti, vi è riprodotto il ritratto di uomo di Bernard, caratteristico per il suo effetto iconico di marionetta, di pupo, sbilanciato com’è in modo obliquo, quasi dovesse cadere, oppure farzescamente danzare con tutto il corpo. La caratterizzazione della figura umana come marionetta è data nel disegno dai legamenti degli arti inferiori e superiori del tronco corporeo, quasi assi di legno sagomati, attaccati al corpo da relativi bulloni visibili con cerchietti nel disegno. L’uomo-marionetta, l’uomo-pupo è raffigurato senza volto con un berretto ben disegnato (in Quasi una vita ritorna l’immagine del cappello come elemento di travestimento e di mascheramento : Alvaro la presenta a proposito di un suonatore napoletano, che « si trucca, a ogni canzone nuova, soltando calandosi sugli occhi o levandosi sulla fronte la bombetta rattoppata. Importanza del cappello nel travestimento, nell’uniforme, nella maschera » 6), preciso nelle linee che lo tratteggiano : copre una testa anonima, priva di viso, poggiata su un corpo nudo, vestito dei tanti volti anonimi di una folla cittadina, fotografata nella sua gestualità quotidiana e normale. L’uomo senza volto è fatto di questa folla di visi, che guarda, si muove, gesticola in vece sua : raffigurazione di un soggetto – nessuno, di un individuo anonimo, composto da centomila uomini, ognuno sentendosi uno e nessuno, il cui volto cieco guarda con gli occhi massificanti della folla. L’immagine sagomata nella sopraccoperta rappresenta senz’altro una figura pirandelliana che si accompagna, inoltre, alla sua ombra proiettata dietro di lui in verticale e disegnata a forma di rete a maglie strette, ben configurate con linee precise e diritte. L’ombra così disegnata rappresenta a sua volta e in modo paradossale il doppio della marionetta, che come un mostro rigido e inquietante la sovrasta e la determina : non c’è l’indifinitezza dell’ombra e il contorno preciso della sagoma umana che fa ombra, ma il loro contrario, in una sorta di ribaltamento di proporzione della grafica, per cui l’ombra incombe sull’uomo che, a sua volta, davanti ad essa soccombe, avendone una forte paura. Una marionetta senza volto, in effetti, non è una maschera che ride, ma una smorfia che ha paura, oppure incute sugli altri paura. Se tutto quest’infranto configurativo non verbale rende ambiguamente ironico ed indiretto il rapporto con il titolo verbale, l’unico segno che iconizza il significato vero del libro è la parola uomo scritta con lettere maiuscole, sia sulla copertina, sia sulla 6. Corrado Alvaro, Quasi una vita. Saggi, Milano, Bompiani, 974, p. 422.

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sopraccoperta : la forza è lì nell’uomo, sebbene la folla contenuta nel suo contorno raffigurativo lo abbia reso un solitario di massa ; sebbene la storia con le sue dittature lo abbia ridotto a manichino oppresso dalla sua ombra estranea e mostruosa, imprigionante nella sua precisione. L’uomo è forte, sebbene viva da marionetta la negazione dell’umanesimo, ormai costretto ad essere muto di fronte alla storia : la grafica della rilegatura editoriale del paratesto (copertina e sopraccoperta) con il titolo e la figura ad esso contrastante riflette il vero significato del romanzo e, più in generale, dell’opera alvariana nella sua utopia narrativa rivolta alla società novecentesca, di cui rappresenta, comunque, le contraddizioni, tanto pesanti da preludere ad un’alienante distopia. L’uomo è forte, sebbene il mattatoio della storia spaesanizzi la sua presenza, che invece deve tendere ad essere forte, determinante, al punto da conciliare e rendere familiare la storia con la vita dell’uomo. Il testo alvariano intende essere un’invocazione, un richiamo alla forza dell’umanesimo integro, etico, capace di reagire alla storia, pur in un periodo che ispira paura, costringe a vivere nella paura : la scrittura, la letteratura devono farsi riscrittura di un senso della storia in cui si senta il richiamo di un uomo, che la simbologia grafica del titolo alvariano vuole scritto con caratteri grandi, mentre il suo essere forte è metaforizzato graficamente con caratteri piccoli. Nel titolo alvariano è implicita una risposta intelligentemente ironica ad una ideologia che voleva rendere forte il potere sull’uomo, rendendo invece paradossalmente debole il potere di essere uomo. Il censore non riesce a ridurre ed a deviare il senso augurale e rivoluzionario del romanzo di Alvaro, anche là dove è intervenuto in modo comunque pesante : il paratesto con la sua densità ambigua e plurivoca è riuscito a conservare l’intenzione semantica dell’autore, contenuta come un segreto nella filosofia narrativa di Alvaro, secondo la quale il potere può essere raccontato solo come una pretesa estranea che mette paura; come un’ombra, che dura fino a quando la verità di narrare l’uomo nell’essere uomo non riesca a mantenersi, malgrado la censura, nonostante i divieti che il testo può subire e che il paratesto astutamente riesce a contrastare, a contraddire in ogni modo. Abstract Nel caratterizzarlo come microuniverso dell’opera, il titolo assume una profonda capacità rappresentativa, sia per quanto riguarda la semantica globale del testo, sia in relazione al clima culturale ed anche politico del contesto, in cui il messaggio testuale viene emesso. Ne è un esempio significativo il romanzo di Corrado Alvaro, L’uomo è forte, pubblicato da Bompiani nel 938, il cui titolo originario, nelle intenzioni dell’autore, sarebbe dovuto essere Paura sul mondo: il censore del regime fascista preferì ed impose un titolo che rispecchiasse il carattere ‘ufficiale’ del tempo (fine degli anni Trenta), che era di promozione del coraggio, della forza e del vigore, in opposizione alla debolezza ed, appunto, alla paura. A questa pretesa impositiva reagirono, comunque, sebbene indirettamente, l’intelligenza dell’autore e l’arguzia esperienzale dell’editore Valerio Bompiani: ne sono prova le componenti più interessanti del paratesto del romanzo in questione, la copertina e la sopraccoperta. In effetti, le immagini iconiche in esse riportate sono incoerenti, contraddittorie rispetto alle parole del titolo: l’uomo forte è raffigurato nella copertina con un uomo dal volto contratto ed impotente, mentre nella sopraccoperta è riprodotto l’uomo ambiguo di Bernard, una sagoma a forma di marionetta ‘in divisa’, dentro il cui contorno disegnato sono ripresi i volti comuni di una folla anonima ed uniforme. Niente, insomma, fa riferimento alla forza dell’uomo, secondo il significato del titolo, bensì alla sua crisi, alla sua costretta e, purtroppo, vera paradossalità, derivata da un sentimento esistenziale ed emotivo di paura e di disagio, di fronte ad una storia ‘forte’ nel far

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sentire ‘assenti’ le ragioni dignitose ed identificanti dell’uomo, durante un clima nazionale ed europeo di dittatura alla vigilia di una guerra mondiale tanto infelice ed inumana. A “micro-universe” reflecting the work itself, the title has a profoundly representative role regarding the texual semantics as a whole and in its relation to the cultural and political surroundings of the context in which the textual message is proffered. A significant example is the novel by Corrado Alvaro, L’uomo è forte, published by Bompiani in 938, whose original title was intended by the author to be Paura sul mondo; instead, the censors of the fascist regimne preferred and imposed a title reflecting the “official” attitude of the times (the late 1930s), namely promotion of courage, strength and vigor as opposed to weakness and fear. However, the author’s intelligence and the astute experience of editor Valerio Bompiani reacted, though indirectly, against this imposed pretext; proof of this can be observed in the more interesting paratextual components of the novel in question – the cover and jacket. In effect, the images depicted therein contradict the words of the title; the strong man is shown on the cover by a man with a drawn and impotent face, while the dust- jacket by Bernard shows an ambiguous man, the silhouette of a marionette in uniform, whose outline contains the common faces of an anonymous and uniform crowd. Altogether, nothing here refers to man’s strength, according to the title, but rather reflects his psychological difficulty, and his forced and unfortunately real paradoxical nature, deriving from an existential and emotional sensation of fear and unease. Confronted with a “strong” history, he feels the “absence” of man’s dignity and identity in a national and European climate of dictatorship, on the brink of a world war that would be so devastating and inhuman.

Renzo Bragantini SU ALCUNE EDIZIONI CINQUECENTESCHE DEL DECAMERON

A

ssumendo, come naturale in un convegno quale il presente, la terminologia di Genette, mi occuperò in linea di massima di dediche e di prefazioni allografe, abbondantemente postume (di fatto, solo cinquecentesche), al Decameron : dico in linea di massima perché altri fatti, oltre a dediche e prefazioni, attirano l’attenzione di chi sia interessato a tracciare un minimo panorama di come la presentazione di un testo in una determinata epoca ne abbia orientato l’utilizzo da parte dei lettori. Ciò facendo sono obbligato a proiettare il panorama di Genette dalla sincronia (inevitabilmente da privilegiare in chi offra un quadro d’insieme del fenomeno paratestuale) sulla diacronia (sia pure ristretta).  Non si può non registrare che Genette, trattando di intertitoli, incorre, proprio a proposito del Decameron, in un piuttosto clamoroso scivolone. Afferma infatti : « Il Decameron è, come viene indicato dal titolo, diviso in dieci giornate di cui ciascuna porta il nome del suo narratore ; le dieci novelle che costituiscono ciascuna giornata hanno, nelle edizioni moderne, dei titoli la cui autenticità sembrerebbe dubbia, accompagnati da riassunti di qualche riga forse anch’essi tardivi, e che, se rientrano nel paratesto attuale, non hanno più, evidentemente, lo statuto di intertitoli ». 2 Poiché non è pensabile che un intellettuale così attento alla precisione terminologica si esprima in modo così inesatto su una questione centrale dell’oggetto della sua ricerca, e su un testo non secondario della tradizione narrativa del medioevo exeunte, occorre dedurre che Genette si sia servito, per il suo scopo, di un’edizione del Decameron che non può che definirsi quantomeno scadente (il che dimostra una volta di più l’indispensabilità dell’accertamento filologico). Infatti (mi scuso per l’ovvietà dei rilievi) : nessuna giornata della raccolta porta il nome del narratore (a meno che qui l’espressione usata non abbia valore generico, e non indichi la tutela esercitata dal/dalla reggente sulla giornata che è chiamato, o chiamata, a governare) ; nessuna delle novelle ha un titolo (perciò l’autenticità di esso non è dubbia, va semplicemente esclusa) ; all’opposto, i riassunti (cioè le rubriche) non sono affatto tardivi, ma risalgono a Boccaccio stesso : sono perciò, a tutti gli effetti, intertitoli d’autore (si aggiunga, con una casistica assai diversificata, che si presterebbe a un’analisi specifica), e non materiale avventizio sovrapposto a opera di scoliasti e commentatori. Anche se l’infortunio è cospicuo, sarebbe miope e biasimevole fare le pulci a chi ha reso a tutti più chiare tipologia e funzioni del paratesto. La morale che si può derivare da questo minimo ma non insignificante episodio, invece, chiarisce una volta di più la giustezza della ratio di fondo del libro di Genette : il ruolo decisivo di filtro assunto, nei confronti del lettore, da ogni minimo aggetto paratestuale. Sempre a proposito di titolo, si può richiamare il proclama di modestia contenuto nell’Introduzione alla quarta giornata, là dove Boccaccio si difende dagli . Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo [987], a cura di C. M. Cederna, Torino, Einaudi, 989, p. 5.

2. Ivi, p.295.

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attacchi dei « morditori » ricordando che le novelle « […] non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per lui sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono » (iv Intr., 3). L’allusione alla mancanza di titolo sembra rifarsi all’esempio degli Amores ovidiani, caratterizzati dalla varietà della materia, inibente un titolo unitario : sia che la dichiarazione di Boccaccio si riferisca a essi come a un precedente oggettivamente significativo, sia che essa, come ironica dichiarazione di modestia, stia anche a indicare lo statuto organico del libro, in contrasto con la fisionomia eteroclita delle raccolte precedenti, prive di sigillo d’autore. 3 In entrambi i casi il collegamento istituito dall’autore tra fisionomia della raccolta e suo titolo esibisce un alto grado di consapevolezza del problema. La svista di Genette sarà anche da mettere sul conto di due fatti (oggettivo il primo, soggettivo il secondo) : la stabilizzazione del titolo, pur parzialmente verificabile già in epoca precedente, e proprio nel « libro editoriale » cinquecentesco, si attua stabilmente, nelle forme a noi più consuete, con i grandi mutamenti editoriali tra Otto e Novecento, cioè in secoli nei quali le conoscenze dello studioso sono ben più vaste e agguerrite di quanto non accada per i precedenti ; il campo di indagine è in lui, comprensibilmente, oltre che decisamente spostato verso la modernità, incentrato di massima su testi francesi, anche se generosa è l’apertura verso altre letterature ; prevalentemente l’inglese, meno la tedesca, ancor meno la spagnola e l’italiana (prescindendo, naturalmente, dai testi canonici). 4 Rimarco il fatto perché invece Arnold Rothe ha dedicato al problema del titolo in letteratura un denso e informato volume, talora citato ma purtroppo scarsamente noto, per la deprecabile caduta verticale del tedesco tra le lingue praticate dalla comunità colta : 5 in esso lo spazio dedicato a fatti e problemi sopra indicati è più ampio e circostanziato di quanto accada in Genette. Né va trascurato, nell’ampia pubblicistica sul titolo, fiorente soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso (oggi forse un po’ in calo : ma può trattarsi di reazione salutare a un’orgia di tecnicismi che non è detto abbia sempre portato chiarezza), il volume degli Atti del Convegno Il titolo e il testo, introdotto da una concisa, e al solito chiarificatrice, Premessa di Gianfranco Folena. 6 Non è del titolo (o degli intertitoli autentici) del Decameron che mi sono proposto 3. Per le due posizioni cfr., nell’ordine, G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 980, p. 460 n. ; M. Picone, Autore/narratori, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e P. M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 995, pp. 34-59 (part. p. 45). Sul fatto si erano già interrogati nel 574, dando differente risposta, i Deputati : cfr. Le annotazioni e i discorsi sul ‘Decameron’ del 1573 dei Deputati fiorentini, a cura di G. Chiecchi, Roma-Padova, Antenore, 200, pp. 53-56. 4. Lascia perplessi, a proposito del Faust, che i due prologhi (Vorspiel auf dem Theater, Prolog im Himmel), vengano resi rispettivamente, e impropriamente, come « Prologo sul teatro » e « al cielo », anziché nel teatro e in cielo (cfr. G. Genette, Soglie, cit., p. 64) : a meno che complice nell’inesattezza, trascurabile in altro contesto, certo meno in opera che ai varî fenomeni del paratesto è dedicata, non sia qui la traduzione (più la versione francese del Faust di cui Genette verosimilmente si sarà servito, che l’italiana del suo saggio). 5. Cfr. A. Rothe, Der literarische Titel. Funktionen, Formen, Geschichte, Frankfurt a/M, V. Klostermann, 986. 6. Cfr. *Il titolo e il testo, Atti del xv Convegno Interuniversitario (Bressanone 987), a cura di M. A. Cortelazzo, Premessa di G. Folena, s.l. [ma Padova], Editoriale Programma, 992. Cfr. ivi, G. Sinicropi, Il titolo nelle antiche raccolte di novelle, pp. 55-60, purtroppo non utilizzabile per la inedita combinazione, che vi si registra, di compendiosità e dispersione. Alla più vasta fenomenologia paratestuale è dedicato *Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali, Atti del Convegno di Urbino, -3 ottobre 200, Roma, Salerno Editrice, 2003.

su alcune edizioni cinquecentesche del

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di parlare : anche se si sa che neppure Decameron è titolo esclusivo (Centonovelle, dunque titolo più decisamente rematico, è il dominante tra gli alternativi ; ma è usato anche il Cento, per antonomasia). 7 E anche se di intertitoli, stavolta indubitabilmente allografi, accadrà di parlare proprio per edizioni cinquecentesche della raccolta boccacciana (ma la definizione di intertitoli è, si vedrà, approssimata per difetto). Come si presenta il complesso dei varî elementi paratestuali nelle edizioni cinquecentesche del Decameron ? La preoccupazione dominante risulta pressoché da subito quella della affidabilità testuale, anche per la pressione esercitata dalle Regole di Fortunio (56) e dalle seguenti, e più prestigiose, Prose di Bembo (525). 8 E si capisce che in questo senso il campo si divida sostanzialmente in due fronti, il veneziano e il fiorentino. Semplificando al massimo e accusando solo gli snodi più significativi allo scopo : da una parte con le edizioni de Gregori del 56 (curata da Niccolò Delfin) e Giovanni, poi Gabriel Giolito, del 538 e 542 (curate da Antonio Brucioli), poi, ancora con Gabriel Giolito, del 546 e 548 (curate da Francesco Sansovino e Lodovico Dolce) ; dall’altra con la giuntina del 527, la stampa, sempre giuntina, del 573 (curata da Borghini), e infine, ancora l’edizione giuntina (ma della filiale veneziana) del 582, curata da Salviati. 9 Non posso ripercorrere una storia già egregiamente ricostruita da Trovato e da Richardson. 0 Do perciò come conosciuta, appunto sulla scorta dei lavori degli studiosi nominati, la natura nettamente differenziata delle stampe veneziane e fiorentine del Decameron : le prime generalmente attente a fornire una serie di ausilî pratici al lettore da attivare al momento stesso della lettura, le seconde (con l’eccezione della stampa del ’27, affatto priva di apparati paratestuali che non siano d’autore) tendenti a privilegiare il testo e a dislocare altrove le ragioni, eminentemente filologiche, delle scelte compiute. Volendo riassumere in una formula, nelle edizioni veneziane il paratesto è un ponte verso l’utilizzo esterno del testo, nelle fiorentine verso l’accertamento della sua lettera.  Mi limiterò pertanto a due delle edizioni veneziane su nominate, e ad aspetti che, giusta la prospettiva scelta dai due studiosi, restano nelle loro ricerche marginali o inespressi. Le edizioni giolitine curate da Brucioli in ben poco differiscono per quanto riguarda il paratesto (neppure il cambio della dedicataria, Alvisia Gonzaga Pallavicini nella prima stampa, Maddalena Buonaiuti nella seconda, implica differenze reali nella dedica), se non per il frontespizio. Nella stampa del ’38 compare, inserita in cornice ovale, una grande effigie a mezzo busto di Boccaccio in veste di chierico e coronato d’alloro, reggente con la mano destra un libro (certo lo stesso Decameron). In quella del ’42, sotto il titolo, i nomi dell’autore e del curatore (in caratteri progressivamente decrescenti), compare, sempre entro cornice ovale, ma di dimensioni ridotte, una semplice testa di Boccaccio (affatto indipendente dall’effigie appena citata) incoronato d’alloro, 7. Per l’opposizione titolo tematico/titolo rematico, cfr. G. Genette, Soglie, cit., pp. 8-88. 8. Cfr. P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, il Mulino, 99, pp. 65-90. 9. Le due ultime edizioni citate utilizzano entrambe, come guida per il lettore, lo stratagemma dell’indicazione a piè di pagina, sul recto, del (o della) protagonista della novella. 0. Cfr. P. Trovato, Con ogni diligenza…, cit., pp. 26-227 (oltre alle pp. prima cit.) ; B. Richardson, Print Culture in Renaissance Italy. The Editor and the Vernacular Text, 1470-1600, Cambridge, Cambridge University Press, 994, pp. 79-234. . Se si esclude (oltre ai pesanti interventi che caratterizzano la seconda « rassettatura » ; specimen eloquente quanto avviene per iii 0) l’uso delle note a margine per inalveare in senso controriformistico alcuni passi del testo nell’edizione salviatesca ; cfr. B. Richardson, Print Culture…, cit., pp. 7-73.

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di profilo verso sinistra, con veste stavolta “all’antica” chiusa da fermaglio sulla spalla (ciò che varrà a proclamare la indubitabile statura di “classico” dell’autore). Il ritratto si staglia su drappo retto da otto putti alati : in basso il nome dello stampatore, in alto, sulla sommità del drappo, piccola marca con la fenice e il consueto motto su cartiglio (« semper eadem »). 2 Il secondo frontespizio esibisce insomma, più marcatamente ancora del precedente, la prevalenza della funzione-autore sulla funzione-editore, abbastanza inconsueta per il libro mediocinquecentesco, senz’altro non comune per le stampe giolitine (ma Gabriele è agli inizî dell’attività in proprio). Quanto al curatore, si tratta di personaggio complesso e in parte contraddittorio, tanto poco affidabile politicamente quanto religiosamente intrepido (sin dal 529, stando a testimonianze coeve ancora bisognose di verifica, avrebbe fatto pubblica professione di luteranesimo). 3 Non stupirà troppo chi ricordi che nelle Tischreden Lutero fa riferimento a due episodî decameroniani (i 2 e iii 3) discutendone sostanzialmente il solo significato letterale, segnalare che Brucioli non sfrutta alcuno dei potenziali e numerosi appigli polemici offerti dal testo boccacciano. 4 Nel complesso le sue scarne note si attestano su fatti lessicali o idiomatici, rimanendo fedeli ai propositi manifestati nella dedicatoria, là dove avverte di avere condotto il proprio lavoro « a utilità di quegli che toscani non sono », così che « chi scrive e parla [possa] guardarsi da quegli errori ne’ quali tutto il giorno incorrano quegli che gli trascurano, inettamente parlando, o scrivendo ». Ben diversa, innanzi tutto per l’inversione delle parti rispetto alle citate edizioni Brucioli, la fisionomia dei varî elementi paratestuali rilevabili nella seguente edizione giolitina del 546, affidata alle cure di Francesco Sansovino e Lodovico Dolce. Qui lo stampatore si riappropria in pieno dei suoi spazî : nome, marca, cartigli con motti occupano tre quarti del frontespizio. Gabriel Giolito, nella dedica alla Delfina di Francia (Caterina de’ Medici, che diverrà regina l’anno seguente, con l’avvento al trono di Enrico II), ricorda di aver già dedicato al marito l’edizione del 542 del Furioso, secondo una consolidata spartizione nella fruizione di genere (agli uomini l’epico, alle donne la letteratura di intrattenimento), che è anche calcolata mise en abîme di quanto in Decameron, Proemio, 9-2, si dice circa la possibilità diversa data a donne e uomini di stornare da sé le pene amorose. Solo dopo la dedica di Giolito ricompare il ritratto ovale di Boccaccio, ripreso, sia pure in dimensioni minori, dalla stampa del ’38 curata da Brucioli. Segue un sonetto di Dolce in lode di Boccaccio, quindi la Vita dell’autore di Sansovino (con cui si dota il testo di premessa biografica già da tempo corrente per le stampe di Dante e Petrarca). Che il regista dell’intera operazione sia Giolito è, oltre che noto, logico : all’epoca Sansovino è appena venticinquenne, anche se ha già alle spalle, oltre che l’edizione giolitina dell’Ameto (545), un testo interessante e morfologicamente ardito come le Lettere sopra le diece giornate del Decamerone (542) ; 5 Dolce è 2. Frontespizio riprodotto, ed edizione descritta, in Harvard College Library. Department of Printing and Graphic Arts. Catalogue of Books and Manuscripts, Part ii : Italian 16th Century Books, Compiled by R. Mortimer, 2 voll., Cambridge (ma), The Belknap Press of Harvard University Press, 974, i, n. 70, pp. 97-99. 3. Cfr. C. Dionisotti, La testimonianza del Brucioli, in Machiavellerie, Torino, Einaudi, 980, pp. 93226. 4. Per Lutero cfr. W. Hirdt, Boccaccio in Germania, in *Il Boccaccio nelle culture e letterature nazionali, a cura di F. Mazzoni, Firenze, Olschki, 978, pp. 27-5 (part. pp. 38-40) ; nonché M. Lutero, Discorsi a tavola, introduzione, traduzione e note di L. Perini, con un saggio su M. Lutero di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 969, pp. 89, 202-203. 5. Recentemente edite a cura di Ch. Roaf (Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2003). Cfr. anche Eadem, The Presentation of the ‘Decameron’ in the First Half of the Sixteenth Century with Special

su alcune edizioni cinquecentesche del

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da tempo fidato collaboratore dello stampatore, ma non avrebbe certo la forza contrattuale per imporre autonomamente le scelte editoriali. Si legga del resto quanto lo stesso Giolito scrive nell’indirizzo ai lettori che segue la Dichiarazione di tutti i vocaboli, ecc., che tiene dietro, con frontespizio autonomo, al testo : Io ho sempre stimata degna di laude e molto utile al mondo la fatica di coloro, che si sono posti d’intorno alla emendazione di qualche antico libro per darlo poi corretto nelle mani delli studiosi. Chiamo emendazione non la folle audacia di alcuni, che vanno alterando e mutando i volumi, sì come lor pare : ma la prudenza usata da quegli altri, che raffrontando insieme diversi antichi libri s’ingegnano di restituire a gli autori la propria bellezza, il natio candore, e quel tanto, che essi scrissero, senza porvi o pure adombrarvi cosa alcuna di suo : sì come noi abbiamo ora osservato nel Decamerone di M. Giovan Boccaccio. Percioché scelto per essemplare, di molti che diversamente si leggono, quel testo, che più vedemmo essere approvato da gli intendenti, abbiamo oltre a ciò poste nel margine tutte le varietà di parole e di clausule, che si trovano ne gli altri : affine, che ciascuno a quello s’appigli, che più proprio e più ornato li pare. 6

È verosimile che la puntata polemica di Giolito (che sarà qui sostenuto dall’esperienza dei suoi due collaboratori, se pure non apponga semplicemente la firma a testo steso da loro) sia diretta a un editore confusionario come Claricio, curatore della stampa milanese del 520 dell’Ameto, la cui inaffidabilità era appena stata sperimentata e denunciata dallo stesso Sansovino nell’edizione del 545 della medesima opera. 7 La stampa del Decameron del 546 si fonda sull’edizione Brucioli del 542, a sua volta derivata dalla giuntina del 527 (talora risalendo direttamente a quest’ultima), e segnala nel margine le varianti dell’edizione Delfin del 56. 8 La Dichiarazione posta in fine del testo si appoggia all’autorità di Dante, Villani, ma anche del Novellino duecentesco (« il Cento vecchio »). Inoltre, di seguito alla rubrica (o intertitolo autentico) di ogni novella, Sansovino inserisce una breve didascalia morale, in funzione di anticipo per una “corretta” interpretazione (l’espediente è ripreso nella antologia sansoviniana di Cento novelle scelte, ecc., Venezia, Francesco Sansovino, 56 ; cfr. anche oltre). Non occorre aggiungere che essa costringe entro maglie strette (quando non in corazza incongrua) la costituzionale tendenza del testo a lasciare aperte più soluzioni interpretative, come appare da pochi campioni : « nel che si contiene quanto sia difficile a distinguer la bontà dalla ipocresia, e quanto sotto apparente santità la malvagità d’uno possa ingannar molti » (i , p. 8) ; « nel che si dinota quanto a una donna molte volte la bellezza è dannosa, e a molti uomini cagione di morti e di diversi mali » (ii 7, p. 84) ; « nel che si contiene a che fine conduce la vendetta chi contra ragione ama, e offende le cose dell’amico » (iv 9, p. 223). Non c’è da stupirsi se, col suo equilibrio tra istanze filologiche ed esigenze di immediato utilizzo (la lista degli « epiteti », l’esposizione dei proverbî, l’elenco delle casate fiorentine), il Decameron giolitino del 546 registri un cospicuo successo. Le pagine più acute dedicate da Sansovino alla raccolta boccacciana non si trovano tuttavia in alcuna edizione decameroniana da lui curata, bensì in una prefazione non solo allografa, ma dislocata rispetto alla sua sede più logica : in Un discorso fatto sopra il DecameReference to the Work of F. Sansovino, in *The Languages of Literature in Renaissance Italy, Edited by P. Hainsworth et alii, Oxford, Clarendon Press, 988, pp. 09-2. 6. Dichiarazione di tutti i vocaboli, ecc., c. b iir. 7. Cfr. P. Trovato, Con ogni diligenza…, cit., p. 225. 8. Ivi, pp. 225-227 ; B. Richardson, Print Culture..., cit., pp. 0-2.

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rone, premesso a Cento novelle scelte da’ più nobili scrittori della lingua volgare, Venezia, Eredi di Marchiò Sessa, 57, vale a dire nell’ultima edizione da lui curata della sua celebre antologia. 9 Il fatto che alla silloge tenga dietro il testo del Novellino indica lo scopo dell’impresa, e la vera ragione dell’« istanza prefativa » (per dirla ancora con Genette) : inserire il Decameron nel continuum della tradizione narrativa italiana, dagli esordî duecenteschi al proliferare delle raccolte rinascimentali. Non è forse azzardato ipotizzare, tenendo presente tale linea, e il fuoco spostato, per l’occasione, non più solo su questioni di lingua e di stile decameroniani, ma anche sui meccanismi struttivi del genere novella e sulla sua specifica inventio, che dietro l’operazione si possa avvertire la sollecitazione impressa dall’unico filologo che includa in sé anche la figura dell’impavido lettore della congruenza e della tenuta testuale, Lodovico Castelvetro. Ma questa ultima considerazione conduce fuori dalla fenomenologia del paratesto. Abstract Dopo aver indicato quali caratteristiche dividano le edizioni cinquecentesche fiorentine e veneziane del Decameron, si illustra qualche peculiarità che contraddistingue alcune delle seconde. Attorno alla metà del secolo le edizioni di maggior diffusione e successo dotano il testo di quegli strumenti paratestuali già da tempo in voga per Dante e soprattutto Petrarca : vita dell’autore, commento, glossarî, ecc. Si indaga inoltre sul ruolo dello stampatore in tale opera di diffusione, tramite l’esame della confezione materiale di singole edizioni. After showing which features characterise the florentine and venetian editions of Boccaccio’s Decameron in the sixteenth century, some peculiarities of the latter are illustrated. About mid sixteenth century the most popular and successful editions provide the text with those paratextual devices already used for Dante, and above all Petrarch : life of the author, commentaries, glossaries, etc. By examining the manufacture of some editions, the role of the publisher is also analysed.

9. Un breve paragrafo se ne legge in N. Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 996, pp. 6-63.

María de las Nieves Muñiz Muñiz LA RICEZIONE DEI CLASSICI ITALIANI ATTRAVERSO IL PARATESTO DELLE TRADUZIONI CINQUECENTESCHE SPAGNOLE (LA PENNA E LA SPADA AI TEMPI DELL’IMPERO)

G

. La cortese gara fra le lingue : Castiglione nel paratesto di Garcilaso e di Boscán

arcilaso de la Vega si autorappresentò in un celebre verso dell’Egloga terza « tomando ora la espada, ora la pluma » (v. 40), e Tansillo convertì quell’immagine alternante in una perpetua simultaneità di azioni che rasentava la pose oleografica : « la spada al fianco ognor, la penna in mano ».  L’archetipo del poeta-soldato sapeva di politica culturale perché l’equiparazione fra le lettere e le armi – vero e proprio Leitmotiv del Rinascimento spagnolo – rendeva assai facile la reductio ad unum dei prodotti letterari piú chiaramente usufruibili dal potere. Ne furono prova evidente i paratesti che accompagnarono le traduzioni di alcune fra le opere più significative del canone italiano, a cominciare da quella del Cortegiano, promossa da Garcilaso stesso e realizzata da Juan Boscán. Sotto il regno di Carlo V si imbastì, infatti, una vasta operazione ideologica volta a riequilibrare la bilancia fra il deficitario magistero culturale iberico e l’espansione sterminata delle sue frontiere, nell’urgente bisogno di costruire una identità nazionale all’altezza del mito della translatio imperii. La Spagna doveva apparire, insomma, quale perfetto macrocosmo erede di Atene e di Roma, trasfondendo la forza delle armi nella debolezza delle lettere, e dissimulando quanto più possibile la dipendenza dalle culture importate, specie se provenienti da territorio asservito. Uno dei mezzi adoperati all’effetto fu quello di mettere al centro del discorso la grandezza della lingua spagnola, attenuando, nel nome della supremazia geolinguistica del territorio dove si parlava spagnolo e dove “il sole non tramontava”, il pesante debito contratto con l’Umanesimo italiano lungo tutto il Quattrocento. In questo clima, anche la raggiunta coscienza di una parità tecnica fra il Latino, il Toscano e il Castigliano poteva servire a prospettare la definitiva emancipazione dalla vecchia sudditanza che aveva costretto spesso a passare dalla porta dei volgarizzamenti toscani per accedere ai testi classici. È in tale prospettiva che va riesaminato il paratesto della prima traduzione spagnola del Cortegiano pubblicata nel 534, 2 dove non solo il frontespizio – sede deputata a mostrare il libro come parte di un tutto extraletterario 3 – mostrava in primo . « Spirto gentil, che con la lira al collo La spada al fianco ognor, la penna in mano Per sentier gite, che non pur ispano Ma latin piè fra noi raro segnollo » (A Garcilaso de la Vega , vv. -4). 2. Los quatro libros : del cortesa | no compuestos en italiano por el conde, Balthasar | castellon, y, agora nueuamente traduzidos en len | gua castellana por Boscan. | Con privilegio Imperial por diez años [Barcelona, por Pedro Montpezat, 534]. 3. In tale senso andrebbero esaminate le cornici architettoniche che tendono a includere il libro nel tempio del mondo, che fa da porta e da cornice.

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piano lo stemma e il privilegio imperiale a scapito del titolo e del nome dell’autore, ma la lettera-dedicatoria alla nobildonna Jerónima Palova de Almogávar, aggiunta da Garcilaso a quella di Boscán, equiparava il beneficio rappresentato dall’importazione delle nuove idee a quello ricevuto dalla lingua castigliana nel veicolarle (« Y también tengo por muy principal el beneficio que se hace a la lengua castellana en poner en ella cosas que merezcan ser leídas »), 4 un processo di trasfusione di valori (l’altezza del contenuto nella nobiltà del ricettacolo) mirante a naturalizzare il prodotto attraverso la naturalezza del linguaggio. Si evitava così la sensazione di stranezza (e di estraneità) di un’opera senza aggancio nell’immaginario nazionale, cancellando le tracce della sua origine forestiera e persino il ricordo dell’originale (« diose Boscán en esto tan buena maña – precisava in effetti Garcilaso- que cada vez que me pongo a leer este su libro..., no me parece que le hay escrito en otra lengua : Y si alguna vez se me acuerda del que he visto y leído, luego el pensamiento se me vuelve al que tengo entre las manos » = « Fu così abile Boscán nel far ciò, che ogni volta che mi metto a leggere questo suo libro..., non mi pare che ne esista uno scritto in altra lingua. E se qualche volta mi ricordo di averlo visto e letto, subito il mio pensiero torna a quello che ho fra le mani »). 5 Di qui anche la distinzione terminologica fra tradurre (traducir) e volgarizzare (romançar) stabilita da Boscán stesso nel presentare l’opera alla dedicataria : « traducir este libro no es propriamente romanzalle, sino mudalle de una lengua vulgar en otra quizá tan buena »= « tradurre questo libro non è propriamente “volgarizzarlo” ma sostituire una lingua a un’altra forse di pari valore ». “Volgarizzare” presupponeva dunque la dipendenza gerarchica dal modello ; “tradurre”, un semplice e paritario scambio di codici. Strano trompe l’oeil del perfetto tradurre, che consentiva di bruciare le tappe convertendo il nuovo in noto, la graduale assimilazione in appropriazione immediata, il libro di Castiglione nel libro di Boscán. 6 Il discorso dei due poeti di Carlo V era sottile quanto ambigua la pretesa simmetria fra le idee (italiane) e la lingua (spagnola), 7 ma nella seconda metà del secolo, culminata ormai la nobilitazione letteraria del Castigliano e rafforzato a dismisura l’orgoglio nazionale, l’equiparazione fra i due codici non solo acquistò un tono più perentorio, ma apparve a volte la “sola ragione” del tradurre. Sarà il caso di un altro grande poeta del Secolo d’Oro, Fray Luis de León, che nel dedicare a Manuel Sarmiento de Mendoza la raccolta delle proprie poesie (un’edizione venuta in luce postumamente 4. « E ritengo cosa di grande importanza il beneficio che si fa alla lingua castigliana scrivendo in essa cose che meritino di venir lette ». 5. Sul metodo seguito nella traduzione del libro, cfr. Margherita Morreale, Castiglione y Boscán : el ideal cortesano en el Renacimiento español, Anejo del Boletín de la Real Academia Española, i, Madrid, 959 ; Ignacio Navarrete, The Spanish Aropiation of Castiglione, « Yearbook of Comparative and General Literature », 39 (990-99), pp. 35-46 ; María de las Nieves Muñiz Muñiz, Nota su un lapsus maschile/femminile nella traduzione del ‘Cortegiano’ di Boscán, « Quaderns d’Italià », 6 (200), pp. 03-0. 6. L’insistenza dei due prefatori su questo punto fu talmente efficace, da spingere ancora Marcelino Menéndez Pelayo a parlare del Cortesano “di Boscán” non già come di una traduzione, ma come del « mejor libro en prosa escrito en España durante el reinado de Carlos V », (prologo alla ristampa dell’opera a cura di Ángel González Palencia, Annesso xxv della « Revista de Filología Española », Madrid, 942, p. liii). 7. Difatti Boscán attenuava poche righe dopo l’orgogliosa equiparazione fra le due lingue, mostrandosi ben consapevole del divario culturale che doveva salvare : « Y aun con todo esto he miedo que según los términos de estas lenguas italiana y española y las costumbres de entrambas naciones son diferentes, no haya de quedar todavía algo que parezca menos bien en nuestro romance ».

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per le cure di Quevedo), affermava di aver aggiunto alle liriche proprie altre tradotte dal latino e dal toscano « solo per dimostrare che la nostra lingua riceve bene quanto le si affida, e che essa non è né dura né povera, come qualcuno dice, bensì di cera e abbondante per tutti quelli che la sanno adoperare » : De lo que yo compuse juzgarà cada vno a su voluntad, de lo que es traducido el que quisiere ser juez prueue primero que cosa es traducir poesias elegantes de vna lengua estraña a la suya sin añadir ni quitar sentencia, y con guardar quanto es possible las figuras del original, y su donayre, y hacer que hablen en Castellano, y no como estrangeras, y aduenediças, sino como nacidas en él y naturales, no digo que lo he hecho yo, ni soy tan arrogante, mas helo pretendido hazer, y assí lo confiesso, y el que dixere que no lo he alcançado, haga prueua de si, y entonces podrá ser que estime mi trabajo más, al qual yo me incliné, solo por mostrar que nuestra lengua recibe bien todo lo que se le encomienda, y que no es dura, ni pobre, como algunos dizen, sino de cera, y abundante para los que la saben tratar […] Di quel che io ho composto ognuno giudicherà come meglio gli aggrada, di quanto ho tradotto, chi volesse giudicare faccia prima la prova di cosa significhi tradurre poesie eleganti da una lingua estranea nella propria senza aggiungere né togliere sentenza, e conservando quanto più possibile le figure dell’originale e la loro grazia, e facendo sì che parlino in Castigliano e non come straniere e avventizie, ma come nate in esso e naturali ; non dico di averlo fatto io, né sono tanto arrogante, ma ho preteso di farlo, e così lo confesso, e chi dicesse che non ci sono riuscito, metta se stesso alla prova, e allora può darsi apprezzerà di più la mia fatica, alla quale mi accinsi solo per mostrare che la nostra lingua riceve bene quanto le si affida, e che non è né dura né povera, come qualcuno dice, bensì di cera e abbondante per tutti quelli che la sanno adoperare […]

2. Dal cortegiano al cavaliere : il paratesto spagnolo dell’ Orlando furioso Se Carlo V incorse in un lapsus linguae celebrando post mortem Castiglione non già quale perfetto “cortegiano”, bensì quale perfetto “cavaliere” (« Yo os digo que es muerto uno de los mejores cavalleros del mundo »), la confusione terminologica si spinse fino al ribaltamento di valori sotto il regno di Filippo II. In questo contesto s’inserì la traduzione del poema ariostesco dovuta al capitano Jerónimo de Urrea, che vide la luce nel 549 recando in fronte una dedica all’allora principe Filippo. 9 E difatti, come non dedicare al futuro monarca spagnolo la traduzione del poema che meglio sembrava sovrapporre le lettere e le armi ? Ma il problema stava nel fatto che l’arte ariostesca offuscava troppo il bagliore epico della spada con le ironie e con le fantasie della penna, sicché la versione castigliana dovette dissipare in vario modo quella nebbia rendendo il più univoco possibile il significato dell’opera. Tutto il peritesto, dalla composizione tipografica del frontespizio all’iconografia, dalla dedica all’avvertenza 8. obras propias, | y tradvciones | latinas, griegas, | y Italianas. Con la parafrasi de algu- | nos Psalmos, y Capitulos de Iob. | Avtor el doctissimo, y | Reuerendissimo Padre fray Luis de Leon, de la | gloriosa Orden del grande Doctor, y | Patriarca San Agustin. | sacadas de la libreria | de don Manuel Sarmiento de Mendoça, | Canonigo de la Magistral de la santa | Iglesia de Seuilla. | Dalas a la impression don FRancisco de Quebedo | Villegas, Cauallero de la Orden de Santiago. | illvstralas con el nombre | y la proteccion del Conde Duque | gran Canciller. &c. | con privilegio. | En Madrid, En la Imprenta del reyno, | Año m.dc.xxxi. | A costa de Domingo Go[n]zalez mercader de libros. 9. orlando fvrioso | dirigido al principe don | Philipe nuestro Señor, traduzido en | Romance Castellano por don | Ieronymo de Vrrea [ en la muy noble y leal villa de Anuers en casa de Martin Nucio y acabose a xxv dias de Agosto. De m.d.xlix años].

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al lettore, dalle poesie laudatorie all’immagine dello stesso Urrea in veste di capitano, mirò a orientarne la lettura in termini eroico-militari, nella stessa misura in cui i ritocchi, le amplificazioni, le espunzioni e le aggiunte testuali – poche, ma strategiche –, incrementarono i riferimenti alla Spagna imperiale e ai suoi valori cavallereschi. Così, il frontespizio ometteva il nome di Ariosto situando in primo piano quello del regale dedicatario a fianco del titolo dell’opera, mentre il resto dello spazio era occupato, come nel caso di Castiglione, dal monumentale stemma dell’impero. La dedica che apriva i preliminari circoscriveva poi la materia del poema a « altos hechos y heroicas y grandes empresas », e l’avviso al Lettore giustificava l’eliminazione di “due o tre” ottave poco adatte al pubblico spagnolo nonché quella dell’intera genealogia Estense, piena di nomi ignoti agli orecchi dei connazionali (in realtà incompatibile con la nuova translatio imperii) ; infine Urrea si scusava di aver ispanizzato qua e là i riferimenti storici « por afficion de mi patria... entremetiendo la memoria de algunas personas della, famosas y dignas de mucha inmortal fama », 0 col che la naturalizzazione iberica dell’opera –già tentata da Garcilaso nella genealogia della casa d’Alba frammista all’Egloga II-, si affiancava all’impennata epicizzante del poema, una formula seguita dalle numerose imitazioni ariostesche e tassiane prodotte nel secolo d’Oro, dal Carlo famoso di Luis Zapata all’Araucana di Alonso de Ercilla, dalla Austriada di Juan Rufo alla Jerusalén libertada di Lope de Vega. Ma nel paratesto del Furioso spagnolo sono le poesie laudatorie a chiarire meglio l’operazione ideologica complessiva, precisamente perché riprendono il binomio armi/lettere situando in apertura un sonetto di Juan Aguilón che presentava il traduttore come un eroe guerriero (« Urrea belicoso »), parimenti capace di vincere battaglie e di coronarsi di alloro, a dimostrazione del detto « no embotó jamás lanza la pluma » (“non smussò giammai penna la lancia”) : Levanta tu cabeça sacro Ybero Verás aquel de Urrea belicoso, De aver puesto en batallas, glorioso, La vida por su Rey siempre el primero O nimphas de Saldibia al vuestro Ybero Aparejad el lauro vitorioso, Pues con su lira al Mincio, al Po famoso Tiene llenos de embidia el nuevo Homero. Venid a coronar desta vitoria A quien pudo alcançar tan alto grado que no ay quien ygualársele presuma, A él solo se deve inmortal gloria. El es el que por obra ha confirmado, Que no embotó jamás lança la pluma.

Faceva da pendant a questo esordio un altro sonetto iperbolico di Serafín Centellas in chiusura di libro, che invertiva chiasticamente l’ordine battaglie-alloro equiparando la doppia prodezza di Urrea – vincitore sul campo di battaglia e su quello della trasposizione dei versi –, alla fronte coronata di Omero e di Virgilio : 0. « Domando soltanto perdono ai Lettori se per amor della mia patria ho usato troppa licenza, nell’inframmezzare, in luoghi voti e oziosi, il ricordo di alcuni suoi personaggi, celebri e degni di grande ed immortal fama ».

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Si a Homero la Odissea tan nombrada Si las Eneydas a Maron famoso Tienen la sacra frente del honrroso Laurel, tan justamente coronada, No menos esta obra delicada Ciñe de honor eterno al belicoso Ybero, en mil batallas vitorioso, Ygualando la pluma con la espada. Quién su copiosa lengua ha enrriquecido ? Y la dulce Toscana assí ymitado ? Y alcançado en las armas tanta gloria ? En su siglo el de Urrea sólo ha sido : Por quien Apolo y Marte han consagrado Su claro nombre à la inmortal memoria.

La formula adoperata da Centellas, Ygualando la pluma con la espada (“Uguagliando la penna alla spada”), e quella prescelta da Aguillón : Que no embotò jamás lança la pluma, rendevano sì omaggio alle lettere, ma presupponevano anche una prelazione logica e cronologica delle armi, sia che il coraggio del guerriero uscisse indenne dalla mollizie della penna (Aguilón), sia che trasferisse alla scrittura le proprie virtù (Centellas). Il Re spagnolo subentrava a Carlomagno, il guerriero traduttore al “nuovo Omero” italiano, il “lauro” confondeva in modo inestricabile le vittorie delle armi e la gloria delle lettere. 4. « Y assi su verde laurea el orbe abarca » : il Petrarca di Gamboa Nel 388 Bernat Metge aveva dedicato la traduzione catalana del Griseldis alla nobildonna Isabel de Guimerà, sottolineando la propria personale preferenza per Petrarca (« poeta en les obres del qual yo he singular affecció ») quale “filosofo” esperto in morali rimedi di fronte alle avversità, le quali, come mostrava il caso della virtuosissima Griselda, « nessuno può eludere in questa vita » (« algu en aquesta present vida no pos squivar »). Due secoli dopo il portoghese Henrique Garcés, commerciante di libri e scopritore di miniere di mercurio nel Perù, dedicava a Filippo II – ormai negli ultimi anni del suo regno – la traduzione castigliana del Canzoniere  trasposta integramente in versi con la sola eccezione dei sonetti sullo scisma avignonese e della canzone “Verdi panni”, quest’ultima per la sua difficoltà tecnica. Il libro, composto un decennio prima, apparve a Madrid nel 59 recando in fronte la dedica al monarca e l’immancabile stemma dell’Impero. Nei preliminari figuravano numerose poesie laudatorie la cui sfilata si apriva con tre sonetti dello stesso Garcés rivolti al Re di Spagna, 2 e proseguiva con quattro componimenti in lode della traduzione dovuti al navigatore Pedro Sarmiento . LOS SONETOS | Y CANCIONES DEL POETA | Francisco Petrarcha, que traduzia Henrique | Garces de lengua Thoscana | en Castellana. | Dirigido a Philippo se | gundo deste nombre, Monarcha primero de las | Españas, è Indias Oriental, | y Occidental. | en madrid | Impresso en casa de Guillermo Droy impressor de | libros. Año 59. 2. Nessuna edizione moderna dell’opera include questo interessante paratesto : cfr. Rimas en vida y en muerte de Laura. Triunfos. Traducción de de Enrique Garcés y Hernando de Hoces. Prólogo y ediciones por Justo García Morales, Madrid, Aguilar, 957 (Crisol) ; Cancionero, Introducción y notas de Antonio Prieto ; cronología y bibliografía de María Hernández Esteban ; traducción de Enrique Garcés (siglo xvi), Barcelona, Planeta 985 (Clásicos Universales, 0).

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de Gamboa, la cui colonizzazione dello stretto di Magellano si era svolta con vicende alterne negli stessi anni in cui Garcés limava i versi spagnoli di Petrarca. 3 Nella strategia di iperbolici encomi imbastita da entrambi, Garcés equiparava la poesia di Petrarca alla potenza militare del sovrano spagnolo : « O inclito inuencible gran Monarcha (Que en poesia lo es tambien Petrarcha)... » (« O inclito invincibil gran Monarca Che in poesia lo è pure Petrarca »), ma Gamboa capovolgeva il ragionamento dando la palma all’impero sul poeta : Por el de laura triumpha el Florentino, Y por su laurea el circulo Romano De los dos, este mundo, y el Indiano Por luso Henrric que de Parnaso vino : Diose Petrarcha a si, solo al latino En Tusca lengua, este en Castellano Le diò, al de Europa, al de Asia, al Africano Y al Indio, do este frasis es contino Quanto es mayor el todo que su parte, Ý que vna villa, mas el mundo entero, Tanto da mas Garces, que dio Petrarcha. Que el tal, a sola Italia se reparte El nuestro, al vno y al otro hemispero. Y assi su verde laurea el orbe abarca.

La gara fra poeta e traduttore (in realtà fra poesia e potere) veniva ora più che mai presentata in termini manifestamente geolinguistici, a dimostrazione della superiorità del codice territoriale su quello letterario, il primo capace di trasportare la poesia nei due emisferi abbracciando « el mundo entero », il secondo limitato al breve viaggio da Firenze a Roma in virtù dei limiti naturali di una lingua di sola cultura. In questo modo il mezzo – l’idioma – si sovrapponeva all’oggetto presentandosi come il “tutto” che ingloba la parte ; l’espansione geografica garante di una circolazione planetaria del libro comandava sulla poesia nella stessa misura in cui il prodotto letterario – un Petrarca ormai codificato, e direi quasi cosificato, da un secolo di petrarchismo – si prestava a una valutazione in termini bibliometrici precisamente perché il suo significato letterario era scontato per eccesso di canonizzazione (nell’olimpo dei classici ogni libro è scambiabile, ogni valore equivalente). La diffusione estensiva delle opere subentrava, insomma, all’usufruimento intensivo e selettivo della lettura che aveva caratterizzato l’importazione delle opere nel Tre e Quattrocento. La spada si pregiava di ricche penne ; si metteva addirittura al servizio della poesia, ma proiettava su di essa i propri parametri alleandosi al mercato librario : nei due casi la quantità diventava qualità, l’individualità dell’opera si perdeva a vantaggio dell’omologia della veste autoreferenziale e tautologica (l’uniformità dei frontespizi riprodotti di seguito, tutti riguardanti opere di stampo imperiale, la dice lunga in proposito). Alla luce di questa transvalutazione che serpeggia nei libri dell’impero spagnolo, si 3. Com’è noto l’esperienza magellanese di Gamboa si protrasse fra il 58 e il 585 ; in ques’ultimo anno vide la luce la Galatea di Cervantes, nel cui Canto de Orfeo si alludeva alla traduzione di Garcés come a un lavoro già finito : « De un Enrique Garcés que al pirüano / reino enriquece, pues con dulce rima, / con sutil, ingeniosa y fácil mano, / a la más ardua empresa en él dio cima, / pues en dulce español al gran toscano / nuevo lenguaje ha dado y nueva estima, / ¿quién será tal que la mayor le quite, / aunque el propio Petrarca resucite ? ».

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possono capire meglio altre deviazioni paratestuali o extratestuali che riguardarono i generi importati dall’Italia : il dialogo di Castiglione diventò una trattato normativo per cavalieri poco dati a problematizzare e a dibattere (non a caso, a partire dal 540 le edizioni del Cortesano divisero l’opera in undici capitoli, ciascuno dedicato a un ambito tematico da ridurre a regole) ; il romanzo ariostesco diede luogo a uno straripante filone di poemi eroici e di romanzi cavallereschi prima di venir parodiato da Cervantes ; il canzoniere inaugurò il libro bibliometrico la cui legittimità viene data per preterizione in forza di un canone indiscusso e il cui valore di scambio annulla il valore d’uso (quello che Metge sottolineava orientando fortemente la lettura della sua destinataria). Certamente il processo culturale del Cinquecento spagnolo fu più vario e articolato di quanto non dicano le opere qui esaminate, le quali appaiono rivolte al potere in modo diretto, ma il malinteso che sottilmente inficiò il nostro Rinascimento passò attraverso operazioni semiotiche di questo genere il cui teatro fu spesso il paratesto e che il paratesto aiuta a meglio capire nella loro intenzione e coerenza. Abstract Fra i molti versanti che offre all’indagine il paratesto delle traduzioni, si sceglie qui un motivo ricorrente nel Cinquecento spagnolo : quello del nesso armi/lettere, variamente presente negli elementi verbali e non verbali dei libri tradotti (titolo, iconografia, dedica, prologo, poesie laudatorie, etc.), come orientamento di lettura più o meno implicito nell’incorporazione dei classici italiani al patrimonio culturale dell’impero. L’indagine si incentrerà su alcuni casi rappresentativi, e in particolare su quelli del Cortegiano di castiglione, del Canzoniere di Petrarca e dell’Orlando furioso di Ariosto, in quanto opere canoniche dei tre generi dominanti all’epoca : il trattato di comportamento, la lirica amorosa e il poema epico-cavalleresco. Of the many elements for study offered by the paratext of translated works, we have chosen a common motif from 6th century Spain: the arms/literature nexus, present in both the verbal and non-verbal elements of translated books (i.e., title, iconography, dedication, prologue, laudatory poetry, etc.) as a more or less implicit orientation for reading, as Italian classics were incorporated into the empire’s cultural heritage. The investigation focuses on several representative cases, and in particular those of the Cortegiano by Castiglione, the Canzoniere by Petrarch, and Orlando Furioso by Ariosto, as canonic works from the three main genres of the era: the tract of etiquette, amorous lyric poetry and the epic-chivalric poem.

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Legenda : I frontespizi riprodotti qui sopra si riferiscono alle seguenti opere : . Traduzione del Cortegiano di Castiglione dovuta a Juan Boscán, Barcellona 534 ; 2. Traduzione dell’Orlando furioso dovuta a Urrea, Anvers 549 ; 3. Traduzione degli Elogia veris clarorum virorum di Paolo Giovio, dovuta a Gaspar de Baeza, Granada 568 ; 4. Traduzione della Gerusalemme liberata dovuta a Juan Sedeño, Madrid 587 ; 5. Traduzione del Canzoniere di Petrarca dovuta a Enrique Garcés, Madrid 59 ; 4 6. Traduzione del De regno et regis institutione di Francesco Patrizi, dovuta allo stesso Garcés, Madrid 59.

4. Il difetto dell’immagine è dovuto allo stato dell’esemplare conservato presso la Biblioteca dell’Universitat de Barcelona. Colgo l’occasione per ringraziare il Direttore del suo fondo antico, Dottor Jordi Torra, per la generosità nell’agevolare la riproduzione della maggior parte delle immagini qui pubblicate.

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Mercedes López Suárez MULTIFUNZIONALITÀ DEL PARATESTO NEI PLIEGOS (SUELTOS) DEL SECOLO XVIII (XIX) Soy Poeta De Tienda Décima Al libro de «Para todos», de Montalbán El licenciado libruno dicen que por varios modos hizo un libro para todos no siendo para ninguno. Al principio es importuno, a la postre es almanaque, baturrilo o badulaque ; y así suplico al poeta que en su libro no me meta y si me metió me saque.

N

ei versi appena citati, ovvero l’ ironico colofon della Perinola,  saggio “festivo” di Quevedo, questi scagliava l’ultima delle sue mordaci saette contro il libraio “doctor” Pérez de Montalbán, « graduado no se sabe dónde, en qué, ni se sabe ni él lo sabe ». Figlio di quell’altro libraio complutense Alonso Pérez, pirateggiatore del suo Buscón, nel seguire le orme paterne, aveva lanciato sul mercato un libro di titolo fortemente commerciale : « libro para todos », e cioè una miscellanea di testi contraffatti, compresi alcuni di Quevedo. « Libro que es para todos – aveva ancora scritto l’autore barocco – guárdele, que el autor, sea quien fuere, confiesa que es obra vulgar y bazofia ». E con questo Montalbán, « bienhechor del bien común » e con altri dei suoi non meno “illustri” pregi, Quevedo aveva modellato il prototipo di certi stampatori/librai, falsari e volgarizzatori di testi alieni che, sotto la finta pretesa di agire per il bene comune, si rivelavano invece come barattieri della letteratura. L’invettiva quevediana va quindi intesa dalla posizione di un autore canonico che si ribella nei termini ironici di « soy poeta de tienda », contro un’incipiente tendenza “democratizzante” (e commerciale) della letteratura aulica, contro la sua banalizzazione, cioè, contro la sua conversione in quella che molto più tardi verrà etichettata con il termine, senz’altro controverso, di letteratura di massa. O piuttosto, il rifiuto verso una già possiblie confluenza di due tipi di pubblico, quello dei “vulgares” e quello dei dotti o “discretos”. Un processo nel quale sarà significativa la mediazione di questi stampatori/librai, usurpatori di un terreno altrui, come così anche li definisce Quevedo. Perché il libraio – preciserà ancora il nostro autore – « es meramente mecánico porque no es forzoso que el librero sepa nada de libros que vende, ni de las sciencias, ni necesita sino de coser bien y engrudar, estirar las pieles y cabecear y regatear ». Nel corso del secolo successivo, questa situazione denunciata da Quevedo tende a . Francisco de Quevedo, Obras Festivas, edición, introducción y notas de Pablo Jauralde Pou, Madrid, Clásicos Castalia, 984, p. 22.

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cimentarsi con lo sviluppo di un’editoria popolare che trae profitto dal ripristino dell’industria e del commercio librario auspiciati dalla politica culturale della monarchia “ilustrada” spagnola. Un’editoria con i propri meccanismi di produzione : pubblicazione di testi minori o volgarizzati ad alta tiratura, di basso costo, e di scarsa qualità. Una produzione che riuscirà a sconfinare i ristretti limiti della comunicazione del libro d’arte, sostituito da formati libreschi poco curati, o da supporti di più facile smercio, di larga diffusione e a prezzi più raggiungibili : fogli volanti (tra cui la tipologia delle “aleluyas” con il loro valore nettamente iconografico), “pliegos” (fogli piegati una o due volte), e “folletos” (fascicoli). Prodotti effimeri 2 allestiti per accogliere e trasmettere contenuti eterogenei tra cui una letteratura popolare e tradizionale, di largo consumo, sia in prosa che in verso. Una letteratura genericamente definita come « letteratura de cordel », per il modo in cui veniva venduta (sorretta a delle cordicelle) e alla quale si affiancano i pliegos a carattere informativo che contenevano“relaciones de sucesos” o “avisos”, origine della stampa periodica. 3 Proprio per queste caratteristiche di basso costo, di produzione a grande scala e di rapida diffusione e consumo, servirono in tanti momenti della storia tipografica, a bilanciare l’economia degli stampatori. E proprio anche, dalla seconda metà del Settecento, molti di essi trovarono in questi supporti e nelle loro varianti tipologiche, 4 il fulcro della loro produzione. Si rinforzò così un circuito di comunicazione di difficile controllo da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche. E, infatti, parecchi dei diversi provvedimenti legali stabiliti per il controllo del libro e contro i reiterativi abusi degli stampatori e librai, riguardarono esplicitamente questi prodotti editoriali effimeri. In questo contesto si circoscrive una concreta tipologia di pliegos che fa parte della massiva produzione editoriale del sagace stampatore madrileno Manuel Martín. 5 La 2. Questo versante di produzione effimera, di fogli volanti, calendari, lettere d’indulgenze, fu inaugurato da Gutenberg, per equilibrare, le grandi spese delle sus Bibbie. Cfr. Stephan Füssel, Gutenberg, Il mondo cambiato, Milano, Edizioni Sylvester Bonnard, 200. 3. Cfr. Las Relaciones de sucesos en España (1500-1750), in Actas del Primer Coloquio Internacional (Alcalá de Henares, 8, 9 y 10 de junio de 1995), Publications de la Sorbonne. Servicio de Publicaciones de la Univesidad de Alcalá, 996. Si vedano anche i contributi di Agustín Redondo, Características del “periodismo popular” en el Siglo de Oro e di Henry Ettinghausen, Política y prensa popular en la España del siglo XVII, « Anthropos. Revista de Documentación Científica de la Cultura », 66-67 (995), pp. 80-85 e pp. 86-90. 4. Per il concetto di « pliegos sueltos » si veda Antonio Rodríguez-Moñino, Nuevo Diccionario Bibliográfico de Pliegos sueltos Poéticos (Siglo XVI), Edición corregida y actualizada por Arthur L. F. Askins y Victor Infantes, Madrid, Castalia, « Nueva Biblioteca de Erudición y Crítica », n. 2, 997. Anche se lo studioso si riferisce ai pliegos sueltos di poesia in quel secolo, tipologicamente li definisce come « quaderni di pochi fogli » fino ad un massimo di 32 pagine o forse di più. Jean-FranÇois Botrel d’accordo con la denominazione generica di « literatura de cordel » (= « de colportage », francese) (in Joaquín Alvarez Barrientos, María José Rodríguez Sanchez de León, Diccionario Literatura Popular y Española, Ediciones Colegio de España, Salamanca, 997, pp. 79-84), scrive : « suelen ser hojas de papel de escasa calidad dobladas dos veces para obtener ocho páginas en 4º, pero también pueden ser de una hoja (suelta), de medio pliego (cuatro planas) y llegar hasta siete pliegos y más, someramente cosidos eincluso encuadernados a la rústica como folletos, cuando de “historias” o de “libritos”, se trata, por ejemplo ». Sulla lunghezza di questi pliegos, per essere considerati come tali, non c’è un criterio unanime. Rimando a questo proposito alla tipologia stabilita da Francisco Mendoza-Díaz-Maroto, Panorama de la Literatura de Cordel Española, Madrid, Ollero&Ramos, 2000, che distingue tra «hoja volante», «pliego suelto», «folleto de cordel» (48 pagine) e «libro de cordel» (più di 48 pagine). 5. Questo libraio è ricordato da Rodriguez-Moñino come stampatore di cataloghi. Cfr. Antonio Rodriguez-Moñino, Historia de los catálogos de librería españoles (1661-1840). Estudio bibliográfico, Madrid, Artes Gráficas Soler, 966, pp. 68-72.

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sua tipografia fiorì, come tante altre in quel periodo, all’insegna di una letteratura “para todos” e spinta da un criterio spudoratamente commerciale. Nella sua dettagliata relazione di meriti editoriali, questo versatile e spregiudicato stampatore-editore, libraio, nonché “autore”, protetto dal ricco commerciante Juan Terroba e dal “juez de imprenta” Juan Curiel, si vantava infatti di aver diligentemente seguito un programma di edizioni « en beneficio del público », a « prezzi accessibili » (tra cui un’edizione di Fray Luis de Granada e la Grammatica di Nebrija) affinché « pobres y ricos puedan leerlo (s) ». Sotto quest’abile dissimulazione di acculturamento celava invece un ambito progetto per controllare il mercato editoriale madrileno e nazionale. Ciò spiega la sua dettagliata controffensiva di prezzi altamente competitivi lanciata anche su quei prodotti più popolari quali almanacchi, lunari, e ciòe quella produzione effimera già riferita che in fogli volanti o piuttosto in « pliegos sueltos », era di facile smercio e di larga e prolifica diffusione. Pliegos contenitori, come abbiamo anche accennato prima, di una letteratura popolare, nonostante le permanenti leggi che vietarono tra il 757 e il ’67 le ristampe di « coplas, romances o relaciones » in verso e in prosa, perchè nocive alla morale o alla religione cattolica. Nonostante questo, dicevo, Martín saprà sfruttare questo filone in modo particolarmente abile, proponendo pliegos di “historias” espunte da una tradizione epico-cavalleresca ispanica, dalla storia, dall’agiografia (perciò edificante) o dall’ Antico Testamento. 6 E così nel 767, Martín mette sul mercato un gruppo di 40 “historias” dove strategicamente è assente la materia relativa al ciclo carolingio ed a qualsiasi tipo di materia cavalleresca che riportasse un minimo un cenno di fantasia, in adempienza alla legge promulgata dal Real Consejo de Castilla (R.D. 2 luglio 757). Come caratteristica generale, e rispetto a quelli tradizionali, questi pliegos hanno la singolarità di essere periodici e di presentarsi sotto la formula editoriale della serialità. Si tratta della « Colección de varias historias, así sagradas como profanas », un materiale prezioso per tanti altri stampatori che avevano subito dalla censura una netta riduzione di un contenuto di largo consumo come i “romances”. 7 Di una lunghezza di 24 pagine, salvo rare eccezioni, questi pliegos offrono degli elementi paratestuali invarianti che, nel definire una struttura paratestuale fissa, assumono la funzione base di essere fattori d’identificazione della singolarità del prodotto e perciò d’ immediato riconoscimento da parte dei lettori. 6. L’universo, certamente complesso della narrativa breve in prosa gode di una ampia bibliografia. Si tratta di un filone risaliente a una ricca tradizione medievale europea non interrotta che si ripropone in Spagna specialmente lungo il secolo xvi, con la moda delle « novelas de caballerías ». Sono fondamentalmente storie che raccontano avventure, in buona parte provenienti da traduzioni o rifacimenti di romans medievali, e quindi intrise di fantasia. Fu questa una delle ragioni per cui verso la metà del secolo xviii, vennero proibite. 7. Nonostante il controllo e la proibizioni da parte della censura governativa, i “romances” continuarono la loro pervivenza diffusi in pliegos. La vendita e circolazione di questi supporti rappresenta, come afferma Rodriguez Cepeda un grande affare in questo secolo « que pudo empezar en Barcelona a principios del siglo xviii, lugar éste de numerosas imprentas pequeñas en competencia », Enrique Rodriguez Cepeda, Romancero impreso en Cataluña, 3 vol., Madrid, Ediciones Porrúa Turranzas, S.A., 984. La citazione è a pagina 0 del volume i, Imprenta de J. Jolís a viuda de Pla (Estudio). E si veda anche Francisco Aguilar Piñal, Romancero popular del siglo XVIII, « Cuadernos bibliográficos », xxvii, Madrid Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 972. Per i pliegos di romances stampati nel xix secolo, si veda la riproduzione facsimile di José María Vázquez Soto, Romances y coplas de ciegos en Andalucía, Muñoz Moya editores, Sevilla, 992.

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Di questa invariabilità strutturale ne da subito fede l’organizzazione tipografica del frontespizio (che funge praticamente da copertina) e cioè, ) nella parte superiore, una “zona” iconografica occupata da una vignetta xilografata, la cui immagine, in rapporto con il contenuto testuale, illustra una delle sequenze o momenti più sensibilizzanti di questo. Perciò, la funzione di richiamo verso il lettore compiuta dall’immagine si basa su un’effettività emotiva che lo predispone favorevolmente verso la lettura o l’acquisto del pliego. Nei casi di pliegos di materia agiografica o semplicemente biografica, lo stampatore tende invece a usare una vignetta in cui viene riprodotto in modo naturalmente molto rozzo e generico, un ritratto del personaggio. 2) Immediatamente sottostante all’illustrazione compare il titolo, breve, quindi non un titolo argomentativo ma enunciativo che si presenta con una formula costante : historia/+ aggettivo(i)/ + personaggio o vicenda, e in cui il termine « historia » fondamentalmente risaltato con caratteri più grandi e un’intensificazione dell’inchiostro occupa, isolato, la prima linea del titolo. Si tratta di una strategia tipografico-spaziale destinata all’identificazione del prodotto, ma che nel contempo agisce come rafforzamento dell’idea di serialità. Non è d’altra parte trascurabile il fatto della reiterazione in molti di questi pliegos, dell’epiteto « verdadera » (« historia verdadera »/« de la gran columna de la Iglesia... » ; « del perverso emperador Constante... » ; « del exemplar de la tyrania » ; « del emperador Constantino el Magno… »), che, nel ricuperare la tradizionale formula-titolo delle « relaciones » (« relación verdadera… ») attinge così al principio della credibilità ovvero una delle elementari variabili del messaggio pubblicitario. Da ciò la conformazione di cliché aggettivali bimembri costituiti da accoppiamenti tra « verdadera » ed altri qualificativi variabili come « lamentable », « extraña », « famosa », « espantosa », cioè una gamma aggettivale inquadrabile nell’ambito semantico che possiamo denominare « del sublime » in adeguanza al concetto teorizzato da Edmund Burke nel 757 (Ricerca sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello). « Qualunque cosa che tenda a suscitare l’idea di dolore e di pericolo, – spiegava questo filosofo – vale a dire, tutto ciò che è in qualche modo terribile o si comporta in un modo analogo al terrore è una fonte

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del sublime ». Il sublime perciò, affiancato al terrore ha come finalità il suscitare la “passionalità” del soggetto. Perciò una strategia psicologico-paratestuale destinata ad attirare l’attenzione del lettore, colpendolo nella sua dimensione passionale e cioè, quella non razionale o intellettiva. In altre parole, si tratta d’incidere nella sfera più primaria dell’essere umano, quella degl’istinti. E, a fine di non anestetizzarlo con la ripetizione di un’ unica formula, ecco il ricorso ad un’“ars combinatoria” lessicale con cui l’editore si garantisce l’impatto permanente nel destinatario. Si tratta, per maggior concretezza, come ha ancora suggerito Mario Praz (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica), del “sublime del terrore”, fonte anche di piacere estetico, sul quale punterà il successo popolare dei romanzi feuilleton, ma altresì dei pliegos ottocenteschi che raccolgono storie “terrificanti” (mostri, omicidi, avvenimenti insoliti, disagi naturali...) e che conserveranno anche nei loro titoli, formule aggettivali come « horrorosa », « terribile », ecc., allegate spesso al termine tradizionale di « verdadera » presente già nei vecchi pliegos cinquecenteschi di romances. Altri aggettivi invece, appartengono all’ambito moraleeducativo (« edificativa, exemplar... »), d’accordo con l’ideologia pedagogico-morale settecentesca (nonché della tradizione degli exempla medioevali). Sono aggettivi che strategicamente sostituiscono quelli del tipo « fantástico » o « maravilloso » ricorrenti nei frontespizi dei pliegos di «romances» o di storie cavalleresche che, senz’altro, avrebbero attirato l’attenzione della censura, pronta a condannare le superstizioni o i contenuti di carattere “soprannaturale”, come abbiamo accennato prima. 3) Segue una terza parte costituita da un blocco di testo che s’inaugura sotto la formula fissa « Sacada de... » accompagnata da un repertorio di autorità in materia storica e morale che funziona come collaudo del contenuto testuale. Quindi, il termine « verdadera » allarga ancora la sua valenza semantica (veridica = non fantasiosa, e validata), comportando di conseguenza, un doppio messaggio : a) verso il lettore, come garanzia del prodotto e b) e verso le autorità competenti, rassicurante, per dimostrare di essere “a norma di legge”. Ciò garantiva la circolazione senza ostacoli di questi pliegos, come esplicitamente riferisce Martín nel frontespizio della « historia » del Cid : « expurgada de varias fabulas y mentiras que traen algunas historietas o romances antiguos ». 4) In seguito, la segnalazione dell’autore : 8 su autor/ don hilario santos alonso o 8. Sul concetto di autore, si veda Roger Chartier, L’ordre des livres. Lecteurs, auteurs, bibliothèques en Europe entre XIVe et XVIIIe siècle, Editions alinea, 992 (ed.originale). Si è consultata la traduzione in spagnolo, El orden de los libros. Lectores, autores, bibliotecas entre los siglos XIV y XVIII, tr. De Viviana Ackermann (3ª rist.), Barcelona, Gedisa, 2000, pp. 4-67. Tra le diverse accezioni del termine autore, José Martínez de Souza, in Diccionario de bibliología y ciencias afines, Salamanca-Madrid, Fundación Germán Sánchez Ruipérez-Pirámide, 989, p. 44, si legge : « el que refunde, o extracta o compendia obras originales respecto de su trabajo », ma anche « Persona jurídica que concibe y realiza una obra de iguales características, coordinando la actividad de varias personas físicas que no se reservan derechos de autor ».

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manuel josef martín/ residente en esta corte. (Madrid). Si tratta nel primo caso di un altro stampatore/autore, a quanto sembra, parente di Martín. Entrambi condivideranno la “paternità” testuale di questi pliegos e di un’altra serie che verrà alla luce nel 768. Paternità che deve essere interpretata nel senso di rifacimento o intervento su testi alieni ricavati dalla tradizione e che rivela probabilmente una strategia di vendita accordata tra di loro. 9 Un fatto di notoria complicazione nell’analisi di questi pliegos di « historias » che circoleranno lungo tutta la geografia spagnola, con diverse date, luoghi di stampa e nomi di stampatori. In calce al frontespizio la nota tipografica offre una doppia funzione : a) quella di garanzia di rispetto verso la legge, e più specificamente a quella emanata da Curiel 0 in cui si stabiliva l’obbligo di render noti tutti i dati identificativi dell’oggetto (tipografo/tipografia, nome della strada dove essa sorgeva e l’anno di stampa che in nessun modo poteva essere falsato). E b) informativo-pubblicitaria, per mezzo della formula « donde se hallará ésta y otras diferentes ». Tradizionalmente la nota tipografica dei pliegos si presenta in fondo all’ultima pagina, subito dopo la parola « fin », e cioè una locazione tipografica dovuta al fatto che il testo inizia regolarmente nel frontespizio. Questa collocazione permette allora un maggior sviluppo dello “spazio” pubblicitario che nei pliegos ottocenteschi verrà approfittato per reclamizzare altre merci vendute nella tipografia/libreria. In calce all’ultima pagina di un pliego catalano di metà Ottocento, di carattere umoristico-scatologico, in verso, si legge ad esempio : Reus.- Véndese en los almacenes La Fleca calle Aleus,. En la misma casa se halla un gran surtido de romances, sainetes, libritos, historias, comedias, aleluyas de redolines hojas de santos y soldados. Depósito de libritos para fumar y cajas de cerillas. Papel para escibir, sobres para cartas, plumas, palillos, etc, etc. Todo a precios muy baratos.

Quindi una vera testimonianza della varietà di prodotti di consumo di una tipografia-libreria, tra cui la letteratura di fruizione popolare nei suoi diversi generi. Ma non mancano testi pubblicitari di questo tipo in alcuni pliegos di fine Settecento, come si riscontra in una serie di “romances” stampati a Malaga con la formula singolarizzante di uno stampatore malaghegno : 9. La storia di questi pliegos di “paternità” condivisa è certamente complessa. Sono più frequenti, almeno per quelli che ci sono parvenuti, le « historias » sotto il nome di Santos Hilario che furono stampate da diverse tipografie provinciali (Córdoba, Murcia e Barcellona). Si veda María Angeles García Collado, Del pliego al libro. Literatura popular impresa en el Siglo de las Luces, « Pliegos de Bibliofilia », 4º trimestre, n. 4, Madrid, 998, pp. 59-63 ; e Joaquín Marco, Literatura popular en España en los siglos XVIII y XIX (Una aproximación a los pliegos de cordel), vol. i, Madrid, Taurus, 977, pp. 267-269. Già dall’inizio della loro pubblicazione (767) i pliegos vennero alla luce sia sotto il nome di Hilario Santos, sia sotto quello di Martín, il quale, per non far coincidere il nome dello stampatore con quello dell’autore li firma come « Don Manuel Joseph Martín », come così risulta nella « Historia /verdadera / de la gran columna de la Iglesia /S.Juan Chrisostomo,/El Emperador Arcadio... » che riporta la data di stampa del 767 (biblioteca privata). Nella Biblioteca Nacional di Madrid si conservano anche altri pliegos più tardivi di autore Manuel Joseph Martín, tra i quali, « Historia trágica y verdadera de Herodes el Grande », 777 (VCª2673-46) o la « Historia/ verdadera de la pérdida y restauración de España por Don Pelayo... » stampata a Córdoba (R-28038). 0. Il 22 di novembre del 752, Juan Curiel fece pubblico un Regolamento di 9 articoli di cui il ª costringeva ogni stampatore, sia per un libro o qualsiasi “papel suelto” ad ottenere prima la licenza di stampa. Mentre nel 4º, istituiva l’obbligo di segnare « en el principio de cada libro », oltre a la tassa ed il privilegio, (se fosse ocorrente), il nome dell’autore, e dello stampatore, il luogo di stampa, insieme alla data vera del tempo di stampa, senza falsarla. Cfr. Angel González-Palencia, El sevillano don Juan Curiel, Juez de imprentas, Sevilla, Imprenta de la Diputación Provincial de Sevilla, 945, p. 55.

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Se hallará en Málaga, en la Imprenta y Librería de D. Félix de las Casas y Martínez, frente al Sto. De la Salud, con otros muchos romances, Relaciones, Historias, Entremeses y Estampas. 

Nella prima tiratura di questi pliegos di “historias”, probabilmente i primi della serie, e sebbene non in modo regolare, si riscontra un altro elemento paratestuale significativo disposto nella parte superiore della pagina 3. Si tratta di una succinta prefazione che sotto l’epigrafe « advertencia al lector », esibisce la sua essenziale funzionalità dialogica tra lo stampatore /autore (Martín o Santos Alonso) e il destinatario invocato attraverso lo stereotipato appello di “Lector mío”. L’« advertencia » non è altro che un’ “amplificatio” dei dati contenuti nel frontespizio nonché un’esplicitazione dell’« intentio editionis » : « adoctrinar, edificar » e « divertir ». Ma sotto questa questa funzione dialogica si nascondono messaggi persuasivi strategicamente enunciati attraverso una tecnica contrappuntistico-comunicativa come « que te doy … y otras que te daré » o “a ti para leerlas, a mí para escribirlas”, le quali, rieccheggiando la vecchia formula editoriale del “do ut des”, attivano in qualità di dispositivi retorici, la trasformazione del lettore in acquirente. Anzi, servono a garantire una sua fedeltà e cioè suggeriscono una certa forma di abbonamento che sarà poi caratterizzante delle pubblicazioni periodiche. E qui va ricordato come nell’Ottocento, la formula delle sottoscrizioni dei quotidiani, alla quale si anticipa Martín, si dovrà all’inclusione di una letteratura narrativa, a puntate, che promette la continuità di una storia attraverso formulismi come « la suite au prochain numéro » usata già da Emile de Girardin e così frequentata dai feuilletons europei. Questi pliegos di « historias », benché non sia specificato nelle loro brevi prefazioni, ebbero una periodicità settimanale (ogni martedì). Il dato verrà invece riportato nel prologo ai due volumi posteriori in cui questi pliegos saranno legati (« que te doy periódicamente todos los martes »). Si tratta in questo caso del formato “libro de cordel”, una tipologia . Si veda las serie di “romances de cordel” riprodotti e studiati da Manuel Alvar, Romances en pliegos de cordel, Siglo XVIII, Málaga, Excelentísimo Ayuntamientode Málaga, 974.

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editoriale di natura commerciale che Martín userà poi per rafforzare la diffusione del suo prodotto. Perché la ristampa e la vendita delle “historias” in formato “pliegos” sciolti continuò parallelamente a queste forme libresche. In uno degli scarsi esemplari superstiti (BNM segn.6/3380) (780), 2 nella nota tipografica del volume primo la cui paternità è attribuita all’occasione a « D. Manuel Joseph Martín », si legge in effetti : « En la oficina de D. Manuel Martín, calle de la Cruz, donde se hallarán enquadernadas en dos Tomos, y sueltas, según las pidan ». È una formula commerciale sotto l’apparenza di venire incontro alle aspettative o esigenze dei lettori. Ma la legatura in volumi dei pliegos che si protrarrà fino al 782 presenterà sempre, pur rispettando l’“ordo” editoriale stabilito (20 “historias” per ogni volume), un disordine cronologico di ristampa. In effetti, in un esemplare conservato del 782 si alternano ristampe di pliegos del 779 precedute da altre del 78 o addirittura del ’82 che, tra l’altro, evidenziano delle notevoli varianti tipografiche. Da ciò si desume il ritmo incalzante seguito in questo tipo di produzione, la frettolosità dello smercio dovuta alla permenente richiesta da parte dei lettori, e quindi il successo e capacità redditizia del prodotto. Finalmente, questa serie di “historias”, presenta ancora un’altra particolarità paratestuale : il riassunto introdotto dall’epigrafe « resumen de la istoria » attestabile nelle diverse e successive pubblicazioni sia in pliego, sia in volume. Dal punto di vista formale può essere considerato come evoluzione del titolo-riassunto ricorrente nei frontespizi dei pliegos di romances cinquecenteschi 3che allargandosi, subisce necessariamente una traslazione dal frontespizio alle pagine interne del pliego. In questa forma paratestuale, per la quale Martín userà dei tipi in corsivo e una disposizione della scrittura in orizzontale come tecnica differenziativa rispetto al testo (a colonna), è già percepibile un certo avvicinamento alla forma “indice” per la sua particolareggiata individuazione dei “momenti” o sequenze della storia. Funzionalmente è interpretabile come orientamento del lettore prima della sua immersione nella lettura. Sotto la sua formulazione paratattica spicca una vera capacità sintetica dell’autore-editore, intrisa di un incalzante dinamismo raggiunto attraverso brevissime sequenze espurgate da ogni ornamentazione retorica. L’intenzionalità dell’autore /editore è quella di costruire, nella sua essenzialità, il processo di lettura che seguirà poi il lettore, ricorrendo ogni tanto a stimolazioni della sua curiosità attraverso richiami linguistico-retorici. E così succede, ad esempio, nel pliego della storia del conte Fernán González in cui dopo una relazione sintetico-paratattica dei fatti, per evitare una lettura monotona da 2. Il frontespizio in formato libro de cordel varia rispetto a quello dei pliegos e assume una finalità fortemente pubblicitaria o di richiamo verso un pubblico indistinto usando un’ espressività iperbolica : Colección/ de Varias Hiistorias,/ asi sagradas, como profanas,/ de los mas celebres /Heroes del Mundo,/ Y sucesos memorables del orbe,/ sacadas fielmente de los Historiadores mas fide dig-/nos, para que los curiosos, y todo genero de personas tengan con que divertirse, y edi-/ficarse. La paternità è assegnata a “D.Manuel Joseph Martin, residente en esta corte” (Si noti di nuovo la strategia seguita da Martín, nell’alterazione dell’ordine del nome come formula di distinzione tra “autore” ed stampatore. Sul frontespizio, in questo esemplare viene perfettamente identificato il formato : “Tomo Primero”, mentre la data di stampa, in numeri romani, precede ed è separata da due linee dal luogo e la modalità di vendita). Finalmente il frontespizio si sigilla con l’indicazione del privilegio di stampa. 3. Questo aspetto è stato studiato nei pliegos de romances spagnoli del xviº secolo (raccolta di pliegos de Praga ed il primo volume di Pliegos sueltos Góticos de la Biblioteca nacional de Madrid) da Aviva Garribba, Las rúbricas en los pliegos de romances del S.XVI(I), in Canzonieri iberici II, edición al cuidado de Patrizia Botta, Carmen Parrilla e Ignacio Pascual, Editorial ToxoOutos, Università di Padova, Universidade da Coruña, 200, pp. 39-399.

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parte del lettore che lo porterebbe ad un pericoloso disinteressamento,(perché prima della lettura del testo), l’editore gioca così : ...Lozanías, y esfuerzos de su juventud. Batalla famosa que venció a los moros junto a Simancas....Sucesos singulares de ella. Exime el Conde á Castilla del vasallage a los Reyes de León, y cómo ? Batalla que dio...

Non esattamente come un vero indice, ma morfologicamente più vicino alla forma epitestuale del catalogo, appare un altro elemento riportato soltanto nel formato “libro de cordel” che qui va ricordato per la sua rentabilità paratestuale nella serie successiva di pliegos pubblicata nel 768. Si tratta di un elenco, con funzione informativa, destinato dallo stampatore alla pagina due, generalmente lasciata in bianco nei pliegos e consistente in una presentazione delle “historias” correlativamente numerate in caratteri romani, di titolo abbbreviato, e quindi eliminando il blocco sottostante del frontespizio « sacada de... ». Siamo perciò vicini alla forma del catalogo, in cui Martín era specialista, come difatto è stato già avvertito da Rodriguez-Moñino, che lo rammenta tra gli stampatori settecenteschi che pubblicano cataloghi della loro produzione editoriale. La prima emissione di questa serie, scandita settimanalmente, si estese dunque per un anno : dal 767 al 768. Ma nel frattempo, Manuel Martín riscuoteva cospicui benefici da un altro prodotto editoriale fedele sempre alla sua politica di « en beneficio de todos ». Era l’edizione di consumo delle avventure di Don Chisciotte. In « octavo, para mayor comodidad », come puntualmente viene presentata sul frontespizio di tutte le ristampe che seguirono la prima edizione del 765. 4 Martín s’inseriva quindi in quel filone così redditizio del Don Chisciotte in ottavo tentato anche da altri stampatori come Juan Jolís e José Barber. Ma l’esperienza non si esaurì lì e neppure nelle successive ristampe dei quattro volumi. Cercò allora di sfruttare ancora questa materia cervantina per sottrarla a quella circolazione in formato di lusso realizzato da rinomati ed artistici editori come Ibarra. E così cercò di riproporla, attraverso un intervento testuale, o forse meglio, attraverso una vera “ars combinatoria” testuale e paratestuale (i « varios modos » della denuncia quevediana) ad un vasto pubblico e all’insegna del divertimento, come proprio era stato usufruito il Don Chisciotte o i libri di caballerías dai contemporanei di Cervantes. Infatti, tre anni dopo e appena conclusa la prima emissione delle « historias », il martedì  di Ottobre del 768, sulla Gaceta de Madrid, Martín inseriva uno schietto testo pubblicitario in cui rendeva noto la pubblicazione di una nuova serie di pliegos : 4. Per uno studio più approfondito delle edizioni in ottavo del Don Chisciotte e specialmente quelle di Martín, si veda Enrique Rodriguez Cepeda, Los Quijotes del Siglo XVIII. 1) La imprenta de Manuel Martín, « Bulletin of the Cervantes Society of America », 8., The Cervantes Society of America, 988, pp. 604.

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mercedes lópez suárez Otro : Tertulia de la Aldea, y miscelánea curiosa de sucesos notables, aventuras divertidas, y chistes graciosos para entretenerse las noches del Invierno, y del Verano. Daráse cada martes una Tertulia de quatro pliegos en un real : su autor D. Hilario Santos Alonso, residente en esta Corte ; se hallarán en la imprenta de Manuel Martín, calle de la Cruz, frente de la del Pozo.

Sotto questo titolo complessivo, Martín offriva un vero “insaccato” letterario di predominante materia cervantina (le avventure di D. Chisciotte, più alcune «novelas ejemplares») abbinata alle “historias sagradas” e a diversi testi narrativi brevi come facezie o racconti, ripresi dalla tradizione folkloristica e da autori del Secolo d’Oro. Quindi il reciclaggio di un materiale già sancito dal pubblico, ma condito con la novità di altre novelle e facezie di autori diversi. 5 « Un libro para todos », per ricuperare la teminologia quevediana, che il “libruno” Martín Lise Andries, 6 propone sotto il lemma pubblicitario dell’intrattenimento. Come ha già notato a proposito della Bibliothèque Bleue, il divertimento, facendo anche parte dello spirito “philosophique”, non poteva non riflettersi nella letteratura di larga diffusione. Ricorda in questo senso le accademie francesi come quella di Troyes, e specialmente quella creata per “ridere”, da Caylus verso il 739 dove venivano composte delle facezie per il “colportage”. Il principio del divertimento o del “ridere” sarà quindi ricorrente nei titoli di tanti pliegos pliegos settecenteschi ispanici come si vede nel sottostante pliego satirico (non catalogato da Palau) stampato a Vitoria : « Satyra /graciosa/ Y Entretenida/ para divertirse, reir y pasar tempo ». Questa nuova serie di pliegos, come abbiamo appena letto nell’inserzione pubblicitaria, si ripropongono con lo stesso carattere di periodicità settimanale delle “historias” e cioè, una “tertulia” ogni martedì. Il numero dellle pagine si allunga rispetto alla prima serie, con un numero di 32. Per questa estensione i pliegos di “tertulia” sarebbero da considerarsi piuttosto come “folletos” (e così pure le “historias”), ma per evitare un confusionismo terminologico e classificazioni non tanto chiare, trovo più conveniente ricorrere alla stessa terminologia usata da Martín e al concetto di pliego proposto da Rodriguez-Moñino. Certamente la natura effimera di questo tipo di 5. Oltre a la materia cervantina, vengono contraffati altri testi di autori divesi, come per esempio, racconti brevi espurgati dalla Floresta Española de Melchor de Santa Cruz, o facezie dalla Floresta española de agudezas di Francisco Asensio, o le “storie romanzate” di Cristóbal Lozano.Non mi soffermo sulle fonti letterarie e rimando a Antonio Fernández Insuela, Notas sobre la narrativa breve en las publicaciones periódicas del siglo XVIII, « Estudios de istoria del Periodismo e Ilustración en España », nn. 52-53, enero-junio, Madrid, Ministerio de Trabajo y Seguridad Social, 990, pp. 8-93, dove si raccolgono i contributi delle fonti letterarie già esaminate da altri studiosi come Guinard o Caso González. 6. Lise Andries, La Bibliothèque bleue au dix-huitième : une tradition éditoriale, The Voltaire Foundation, Oxford, 989.

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supporto, alla quale si deve sommare la sua superproduzione e incontrollabile disseminazione che, per tradizione, caratterizzano questi prodotti, più le strategie di reimpressioni, ristampe o variabilità di formato con le rispettive varianti tipografiche realizzati da Martín, rendono impossibile, in un’analisi testuale o paratestuale, l’approdo a conclusioni definitive. Ciò spiega il fatto che uno studioso come J. P. Guinard, abbia diffidato dell’esistenza di questi pliegos del 768 pubblicizzati da Martín. Esistenza che invece può essere confermata da alcune testimonianze ritrovate nell’Archivo Histórico Municipal di Madrid, presso la Biblioteca Nazionale di Madrid e un altro esemplare in una biblioteca privata. Nonostante questi reperti, non si risolvono tutti i problemi che impediscono la ricostruzione totale del processo di pubblicazione, diffusione e consumo, e cioè l’intrastoria di questi concreti pliegos. Per ora, le testimonianze conservate delle “tertulias” si presentano legate, e, a volte mutilate. Ma sarebbe troppo azzardato affermare che si tratti esattamente di “libros de cordel”, in assenza della apposita segnalazione usata da Martín quando “enquaderna” i suoi pliegos, vale a dire la parola “tomo” stampata sul frontespizio o indicata nel prologo. L’immagine soprastante a sinistra corrisponde al frontespizio del primo pliego o primo “pasatiempo” della Tertulia di un insieme di 2 pliegos della prima stampa del 768 (esemplare di proprietà privata). Puntualmente, lo stesso frontespizio con la solita illustrazione sarà riprodotta in tutti i pliegos come segno inconfondibile del carattere seriale del nuovo prodotto. Dal punto di vista tipografico presenta delle caratteristiche molto simili a quelle delle “historias” e cioè offre piuttosto una fisionomia libresca. In alto, una vignetta xilografata che occupa praticamente la metà della pagina. Male incentrata, come si osserva dai margini superiori della pagina, mette in evidenza la trascuranza artistica tipica di questo tipo di prodotto. È delimitata da una lieve cornice dentro la quale si racchiude una scena rurale, cotidiana, di un interno : un focolare di cucina che fa da sfondo ad un raduno di sei personaggi, tra cui due figure femminili, attorno ad una figura centrale che legge. I personaggi vengono rappresentati con un certo dinamismo, e quindi mentre discutono, stimolati, si capisce, dal contenuto di una lettura ad alta voce. La vignetta compie una funzionalità di base, e cioè quella di una prima lettura, iconografica, che il lettore deve per forza realizzare (ut videndo legat). Un’analisi più approfondito scopre invece altre funzioni sottostanti con i propri rimandi o messaggi impliciti rivolti al destinatario. In primo luogo, la cornice iconografica che agglutina i partecipanti alla tertulia oltre che a rafforzare il concetto di serialità, rimanda anche a quella testuale, e cioè alla brigata di personaggi che assiduamente vi partecipano e che svolgono la funzione metanarrativa di unificare un contenuto miscellaneo.

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Ma l’illustrazione assume ancora un valore di “istruzioni d’uso” dell’oggetto concreto, e quindi avverte sul modo in cui esso deve essere usufruito : come dinamica di lettura ad alta voce e di ascolto del testo. E cioè come comunicazione orale-interpersonale (da uno a molti), hic et nunc, e dalla quale scatteranno gli effetti emozionali nei partecipanti. O più specificamente, le diverse opinioni/interpretazioni dei personaggi suscitate dalla lettura e che finalmente servono a definire l’incontro come “tertulia”. In altre parole, si comporta come drammatizzazione della sociabilità sotto la quale viene proposto il pliego. D’altra parte, il carattere cotidiano della scena illustrata, conferisce un alto grado di realismo per il lettore/ascoltatore che tende logicamente ad identificarsi con i personaggi, o almeno a sentirsi rappresentato nella scena. Una funzione retorico-pubblicitaria che richiama il prodotto, il suo consumo nonché la tipologia specifica del destinatario (quello rurale, praticamente non alfabetizzato) che lo stampatore cerca di attirarsi. Non si tratta per quanto detto, di una vignetta convenzionale o di ri-uso, ma di una scelta apposita e strategica di Martín. Questa particolarità rimanda ancora ad un’ultima funzione sottostante che evidenzia un’altro tipo d’ interconnessione tra paratesto e testo e più specificamente, con la materia cervantina che fa parte di questo contenuto miscellaneo.Perché questa modalità di lettura ad alta voce/ascolto che sottolinea, come s’è detto, il valore di sociabilità del pliego, ci riporta, come credo che intenzionalmente fosse stato preveduto da Martín, al testo del Don Chisciotte. 7 Si ricordi il capitolo xxi della prima parte dove, Cervantes evoca nelle parole del tabernero Juan Palomeque l’abitudine dei mietitori di radunarsi i giorni di festa per ascoltare la lettura di un libro de caballerías svolta da qualcuno di essi estro in questa pratica. E a questo piacere, vera catarsi delle fatiche del duro lavoro dei campi, a questa forma di sociabilità, partecipano le donne. Donne ascoltatirici, non ancora lettrici, come così si presentano le figure femminili caratterizzate nella vignetta e nel testo. Ma non si può dimenticare il fatto che nella stessa cronologia di Martín, era frequente la lettura collettiva di una tipologia concreta di pliegos, cioè le « relaciones de sucesos », letti dalla « gacetillera » alla popolazione rurale, quando il giornale non arrivava in tempo. Immediatamente sottostante all’illustrazione appare il titolo del pliego con una funzione didascalica rispetto alla vignetta. Si costata un uso di diverse grandezze di caratteri a scala riduttiva, con un’ordinazione di pagina a bandiera (naturalmente a blocchetto sarebbe stato più artificioso o più artistico), presentando parole spezzate determinanti di una bordatura non omogenea. Vengono particolarmente risaltati due termini facendo ricorso alla grandezza dei caratteri e all’intensità dell’ inchiostro. In luogo preminente, Tertulia (come Historia nella serie precedente), con funzione a) di richiamo al lettore ; b) formula identificativa o singolarizzante di questo concreto prodotto (seriale) c) come individuazione o riconoscimento segnico per un settore di pubblico poco pratico di lettura o addirittura analfabeta. In secondo luogo : « de la aldea », con tipi di dimensione leggermente più ridotta che informa il potenziale lettore 7. Scrive Caro Baroja a proposito dei lettori dei libri di caballerías nel Cinquecento, come « Leían esta clase de libros los venteros y los segadores, entre tarea y tarea, escuchaban la lectura que hacía uno de ellos con pasión, pero si llegar a la locura de Don Quijote ». Poi aggiunge come i racconti di di contenuti fantastici erano veramente piacevoli alle genti di zone rurale nello stesso modo in cui un umile pubblico cittadino o di “aldea” (villaggio) si radunerà poi nel xix, per leggere i feuilletons di Dumas. Siamo quindi sulla via che prepara il successo dei romanzi feulletons. Julio Caro Baroja, Ensayo sobre la poesía de cordel, Madrid, Ediciones Itsmo, 990, p. 374.

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dell’ambientazione rurale e quindi concretizza il tipo di pubblico a cui il prodotto è anche destinato. Il titolo si presenta strutturato in due corpi : a) una parte sintetica Tertulia de la Aldea, e b) una seconda, più estesa e di funzionalità informativa : « Y miscelanea curiosa de sucesos notables, Aventuras divertidas y chistes graciosos para entretenerse las noches del Invierno y del Verano ». Un titolo simile ai sommari dei giornali o delle pubblicazioni periodiche, ma che come formulazione si ricongiunge ai termini propri dei pliegos tradizionali del tipo « Relación curiosa de sucesos », ai quali il pubblico era senz’altro abituato : « il nuovo sempre uguale », ovvero uno dei principi caratterizzanti dei romanzi feuilleton e della letteratura di massa. Da notare è la sconnessione del termine « verano », sia rispetto all’illustrazione giacchè questa rappresenta una scena invernale, sia dal proprio testo dove è assente qualunque riferimento a questa stagione. Probabilmente si tratta di una aggiunta tipografica posteriore alla stesura del testo con la finalità pubblicitaria di allargare il tempo del consumo del pliego. Ma non è da escludere una certa risonanza del passaggio cervantino prima accennato. Il frontespizio risulta quindi una “mise en page” dell’inserzione pubblicitaria apparsa nella Gaceta de Madrid nonostante manchino i dati riguardanti il formato del pliego, la periodicità della pubblicazione e il prezzo la cui segnalazione ancora per questo secolo è riservata comunemente soltanto ai cataloghi. Tutta quest’informazione mancante nel frontespizio viene invece incorporata nella terza pagina del primo pliego (“pasatiempo”), e circoscritta alla breve zona prefaziale della “advertencia al lector” : « Daranse periódicamente, como se han dado las Historias, y al precio de un real en quatro pliegos, en la misma imprenta de Don Manuel Martín, calle de la Cruz, frente de la del Pozo ». Dietro le indicazioni sulla finalità edificativa e di divertimento, quindi dell’“intentio editionis” dei pliegos, si evidenzia perciò uno scopo puramente commerciale. Da sottolineare in modo particolare è il rapporto che viene stabilito con la serie già pubblicata delle Historias : « Habiendo concluido con las Historias Sagradas, y Politicas, y deseando tu diversión honesta, cristiana...he determinado darte una Miscelanea curiosa de Sucesos, Aventuras, y Chistes graciosos… ». Quindi Martín tende con un’abile retorica, (o piuttosto con un codice retorico singolarizzante perchè simile all’espressività già usata nell’advertencia delle “historias”), a suscitare la “voluptas” del lettore-acquirente, puntando sugli aspetti che avevano determinato il successo della serie precedente, in altre parole, puntando sul “déja vu” (o “connu”). Questa strategia per la quale le “historias” diventeranno un punto di riferimento permanente nelle “tertulias”, non è soltanto articolata da un rifacimento o reciclaggio testuale : la perspicacia di Martín lo porta ancora ad un’altra procedura di maggior originalità. Si tratta, se così si può definire, di uno slittamento del paratesto nel testo configurante di una “zona neutra” dove vengono scardinate le rigide frontiere che separano questi due territori dell’oggetto pliego. Quindi di una formula

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paradossale in quanto che promossa o dovuta all’intervento dello stampatore e da ciò la creazione di uno spazio dove intenzionalmente si riuniscono e si dissolvono le funzioni di stampatore (= curatore tipografico)/editore (=curatore del testo)/autore (creatore della cornice testuale e dei personaggi) assunte da Martín. Non è altro che una strategia allestita per un controllo permanente del suo prodotto, della sua finalità “consumistica” scaturita da un permanente processo persuasivo del consumatore (il lettore/ ascoltatore-acquirente). Nonostante la disposizione tipografica sembri smentire quanto appena detto, giacchè la presenza di un fregio ornamentale divide fisicamente la zona paratestuale da quella testuale all’interno della stessa pagina, il primo pasatiempo offre certe particolarità non propriamente ascrivibili al testo. O per precisare di più, questo presenta delle contaminazioni paratestuali che lo configurano in parte come un allungamento o “amplificatio” del paratesto. Già la descrizione della cornice narrativa, contestualizzata in un “Lugar, no muy mal puesto, por su trato y comunicación continua en la Corte” (di Madrid), dove gli abitanti sono meno incolti rispetto ad altri villaggi, “pues cursan de quando en quando las noticias de las Gacetas, y novedades de los Mercurios”, allestisce un quadro ambientale propiziatore del “consumo” di questo suo nuovo prodotto. Una strategia di base che viene articolata puntando, come abbiamo accennato prima, sulle “historias” o fattore garante di un oggetto di successo (il “déja connu”). Perciò la pubblicità versata nel primo pasatiempo su questa prima serie, risponde a un piano più generico di “preparazione psicologica” del lettore/acquirente ben orchestrato dallo stampatore nei suoi essenziali particolari. Da ciò l’attirarsi di un nuovo settore di pubblico (quello rurale), attraverso la strategica vicinanza spaziale alla corte che funge da modello di nuove proposte culturali “esportabili” attraverso determinati personaggi intermediarii tra l’ambiente cittadino e quello rurale. Tra di essi, in maniera prevalente, la figura dello “Escribano” (“il notaio”), autorità giuridica in materia di controllo o censura di stampa, che appositamente Martín inserisce nella brigata dei personaggi. E da non dimenticare l’esplicita proclamazione, attraverso questo “testimonial” (così definitio in termini pubblicitari) dell’inoperatività del libro e della sua conveniente sostituzione con un altro supporto, più adatto a trasmettere le novità o i contenuti più aggiornati, più accessibile alla comprensione di un pubblico non specializzato e alle su capacità d’acquisto : il pliego (o folleto) periodico di evidente prossimità alle caratteristiche dei periodici (giornali, fondamentalmente). Pero amigos míos, – così confessa l’“escribano” davanti alla brigata – los que yo voy nuevamente adquiriendo- son sacados en el día de la prensa, 8 tan divertidos, y verdaderos, que los sugetos de mayor caracter los compran en Madrid, y remiten a muchas partes. Danse por semanas en folletos de tres pliegos cada uno, y tienen suficiente materia para divertirse una noche. Vendense a seis quartos y medio cada uno en la imprenta de D. Manuel Martin, calle de la cruz, frente de la del Pozo (formula paratestuale identica a quella riscontrata nelle historias e nella Gaceta) : y es tanto lo que han cundido estos papeles, que ya no hay puesto en Madrid que no los tenga (p. 5).

Si tratta dunque di costruire un processo fatto di flash informativo-pubblicitari, perciò paratestuali, all’interno della narratività del testo, senza però sconvolgerla, prevedendo a tutte le fasi dell’induzione all’acquisto da parte del destinatario. In primo luogo, l’impatto in esso causato dall’informazione di un altro prodotto già esistente che 8. Accenna all’incalzante produzione dei pliegos che provocherà frequenti errori di stampa come quello così evidente (variante inconscia) della data di stampa di 678 a partire dal « pasatiempo » viii.

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sembra deviare la sua attenzione già attivata verso un obbiettivo concreto, e cioè la lettura della “tertulia”. In secondo luogo, suscitare il suo interesse attraverso le caratteristiche di attualità, novità, basso prezzo (« Tan varatos se venden, señor Escribano, dijo uno ») e il grande successo avuto nella capitale che presuppone un’accettazione (per comprensione) del contenuto. In più, la credibilità del prodotto “favoloso” che viene presentato in termini reali o materiali dallo stesso “escribano” : « Y para que usted lo vea aquí traygo uno de la Historia del Rey Herodes, que tiene tres pliegos bien metidos ». Da cui allora l’ammirazione-convinzione del personaggio del “tio Bermejo” che viene rafforzata attraverso il principio della “visibilità”, e cioè dalla costatazione delle immagini così imprescindibile per un pubblico non certamente esperto nella lettura : « Enseñole. Ola, dijo, el tio Terrones, que tienen estampas. Vaya, que es cosa prodigiosa, dijeron todos ». Qualche rigo più avanti si forniscono altre informazioni che riguardano l’“intentio editionis”, utili senz’altro per ricuperare certi aspetti dell’intrastoria di questa serie già pubblicata. E quindi il riferimento al decreto-legge (Real Decreto, 2-7-767) che vietò tassativamente la pubblicazione di “pliegos de romances” specialmente quelli di origine francese come il « Roldán de Roncesvalles, del Gigante Fier Abras, y Puente Mantible, de Carlo Magno, los doce pares de Francia, y otras semejantes, que en vez de aprovecharnos – dice così il testo – nos embuían nuestras cabezas de disparates, y hacían mucho daño a la juventud con sus embustes ». Questo passaggio, espunto dal testo della legge è una garanzia del prodotto e cioè l’approvazione del contenuto da parte delle autorità incaricate del controllo degli originali, e la sua salvaguardia dall’espurgazione dei testi, dalla perquisizione delle librerie e dalla conseguente condanna e bruciatura del materiale proibito. Come conclusione del primo pasatiempo, a pagina 3, un altro elemento paratestuale a carattere informativo-pubblicitario s’innesca clamorosamente, e con tutta la sua autonomia, nella finzione narrativa. Si tratta del momento in cui uno dei personaggi, che si era spostato nella capitale, al suo ritorno porta con sé « esa relación de Historias... /que/ con todo cuidado la metí en en el bolsillo de la casaca, según me la dió impresa el mismo Impresor Don Manuel Martín, que es la siguiente » : Nientedimeno che un vero catalogo, stampato a colonna, dove si elencano tutte le quaranta “historias” della serie sotto l’epigrafe di « Surtido (assortimento) de Varias Historias ». La numerazione è strategicamente riprodotta in numeri arabici e non romani (diversamente da come appare invece, a pagina due nel formato “libro de cordel”). I titoli non vengono enunciati nella loro integrità, ma in forma più sintetica evidenziando soltanto il protagonista o l’evento principale di ogni storia. Sono varianti tipografiche appositamente ordite da Martín d’accordo la modalità di fruizione dei pliegos della Tertulia, e cioè attraverso la lettura ad alta voce davanti ad una “audience” che ascolta. Perciò è altamente sintomatica la formula introduttiva : « La de... » come fissazione scritta di un messaggio trasmesso oralmente (o “la voce nel testo”, per dirla con Zumthor). L’uso di una

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numerazione arabiga scopre anche la tipologia del destinatario (specialmente se si tratta di quello lettore) a cui va rivolto il pliego : un pubblico di cultura elementare o semi analfabeta che avrebbe senz’altro difficoltà a decifrare i segni numerici romani. Destinatari dei quali non si è certi della loro capacità di lettura ma che devono essere a conoscenza del repertorio. Definitivamente, “Un pliego para todos” e la chiara dimostrazione dello stampatore Martín come esperto elaboratore di cataloghi. Lo spazio “neutro” creato da Martín non si esaurisce nel primo pasatiempo, ma slitta ancora, sebbene più smorzato, verso l’inizio della seconda puntata (pasatiempo ii, già privo dell’ avvertenza) con interventi destinati a mantenere vivo l’interesse per i pliegos delle “historias”. Si tratta di un’allusione agli “agenti distribuitori”, non più i ciegos, per tradizione ri-venditori e diffusori di pliegos di romances, ma “Receteros” e “Verederos”, 9 per conferire una una maggior “autorevolezza” al prodotto. Se questa prima edizione del 768 si diffuse in pliegos o folletos sueltos,, un’altra delle poche testimonianze conservate, (nella Biblioteca Nacional di Madrid, segn. Z476 e Biblioteca dell’Archivo Histórico Municipal de Madrid, segn. C-7), ci permette, sempre parzialmente, ricostruire l’itinerario di questa serie di “tertulias”. Si tratta di un’altra emissione che comprende gli anni 775-776 e della quale ci è pervenuto soltanto il primo volume. Si tratta di un formato di “libro de cordel”, con nuove inserzioni testuali, e in cui le varianti paratestuali sono notorie. Varianti che hanno la funzione di ri-proporre la stessa materia “vestita” in modo diverso, come formula d’innovazione, o meglio come novità, ma senza ricorrere a formulismi verbali come « nuevo« o « nuevamente », tipica dei pliegos tradizionali. Comprende 2 « pasatiempos », il che fa pensare ad un progetto iniziale di Martín di distribuizione della materia in due volumi : 2 pliegos per il primo, altri dodici nel secondo. Questa organizzazione testuale viene confermata da una successiva edizione in libro del 780 e di cui si conservano il primo ed il secondo volume. Non si tratta di un criterio arbitrario, ma indotto dal reciclaggio della materia cervantina, concretamente dal Don Chisciotte diviso da Cervantes in due parti. Ciò si viene a sapere attraverso la lettura dei riassunti, elemento paratestuale ricavato dalle “historias” senonché diversamente redatto e come fattore, in questo caso, innovativo. Così, nel « Pasatiempo » xii, ovvero l’ultimo del primo volume di questa edizione del ’75-’76, nel riassunto introduttivo si legge : « Finaliza la primera Parte de D. Quijote con la traza que dan del Cura, y el Barbero para sacarlo de la Venta ». Come aspetti paratestuali differenziativi rispeto alla prima edizione in pliegos si possono notare : 9. Receteros : « receta : Llaman los Contadores aquella relación de partidas, que se pasa de una Contaduría a otra..Lat. Rationum prescriptus ordo, vel relatio..Por los pliegos de recetas, que se expiden por otras Oficinas, y demás informes que se hacen por justancia y interés de partes, percibirán los derechos que, atendidas sus circunstancias, tassare el semanero ». Veredero : « El que va enviado con despachos, para notificarlos, ó publicarlos en varios Lugares ». Diccionario de Autoridades, Real Academia Española, edición facsímil, Madrid, Gredos, p. 54 e p. 463.

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) la scomparsa dell’illustrazione, che non riapparirà mai più nelle successive edizioni del 780 e del ’82 ; 2) la mancanza del nome di autore ; 3) appena dopo il titolo inizia il testo « Pasatiempo... » che, come novità in questo caso, viene preceduto da un riassunto, o piuttosto un indice, introdotto dal formule del tipo : « Contiene la presente tertulia » ; « La presente tertulia trae » ; « Dase en esta historia famosa », « que en resumen contiene » ; « Refiere aquí », « Cuèntase en esta nona tertulia » ; « tenemos en esta tertulia ». Cioè tutte formule puntualizzanti riprese dai titoli-argomento dei pliegos di romances tradizionali e che funzionalmente agiscono come modo di coinvolgere direttamente il lettore immergendolo inmediatamente nl testo. Questi blocchi di riassunti-indici si svolgono secondo un processo interno sequenziale a carattere discendente : da maggior a minor esplicitazione, concludendosi con la formula generico-complessiva ricorrente, « otro de..otro de.. y otros ». Finalmente, in calce alla pagina del frontespizio, subito dopo il riassunto, viene indicato il formato : « Tomo primero ». In questo caso, il testo è disposto a colonne. Si tratta di un libro de cordel, mentre le edizioni successive, che verranno attribuite a Martín, sono veri libri (BNM.R/39789-90 e 5/36354 con solo il secondo volume). In questo ultimo formato si è persa l’individualità del pliego, i pasatiempos si succedono correlativamente, e così la paginazione -406 pagine di testo per ogni volume e in più gli indici veri e propri con l’indicazione delle pagine e, naturalmente più curata. Definitivamente, una storia editoriale che si presta ad un’analisi ancora più particolareggiata. Basti soltanto dire, per concludere, l’importanza della sua professione di editore ovvero come mediatore il quale, attraverso le molteplici strategie editoriali e cioè paratestuali (retorico-iconografiche e lessicali, tipografiche o di supporti) riesce a elargire il pubblico dei lettori, a farli partecipi di una letteratura che sarebbe stata riservata soltanto per un pubblico di “doctos”. In definitiva, contribuisce attraverso una complessa e permanente strategia persuasiva, alla conformazione di un pubblico di massa, oggi dominante, proprio quello temuto da Quevedo.

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mercedes lópez suárez Abstract

Partendo dalla definizione di « pliego suelto » data dallo studioso Antoni Rodríguez-Moñino, « un quaderno di pochi fogli destinati alla diffusione di testi letterati e storici », questo lavoro si circoscrive cronologicamente alla seconda metà del Settecento, e concretamente alla produzione editoriale di « pliegos » dello stampatore/editore, autore e libraio, Manuel Martín. Questa produzione è fondamentalmente costituita dai « pliegos » in prosa appartenenti alle serie Tertulia de la Aldea e Historias sagradas y profanas che parallelamente Martín raccoglie e pubblica in volume. L’analisi degli elementi paratestuali nelle loro convenzionali funzioni informativa (verbale ed iconografica), pubblicitaria o come guida o facilità di lettura per un pubblico di massa (con i pertinenti confronti con i « pliegos » dell’Ottocento), scopre altri aspetti più nascosti (tra cui l’invasione o l’irruzione del paratesto nel testo) dell’intenzionalità editoriale di Manuel Martín. Sono aspetti che risultano evidenti attraverso il confronto paratestuale tra i « pliegos sueltos » e tra questi e i volumi e che rivelano a loro volta elementi diversi (una diversa ordinazione testuale, cambiamenti di date di stampa), nonché curiosi come il problema della paternità e autore madrileno, Hilario Santos Alonso. La dispersione dei « pliegos », il loro incontrollabile circuito di produzione e diffusione lascia aperta, per il momento, una problemática di possibili “approppriazioni” o collaborazioni tra questi due stampatori/ autori. Starting from the definition of « pliego suelto » of the scholar Antonio Rodríguez-Moñino, « a few sheets notebook destined to spread literary and historical texts », this work is chronologically limited to the second half of the xviii century and concretely restricted to the publishing of « pliegos » by Manuel Martín the printer/publisher, author and bookseller from Madrid. This editorial production is mainly constituted by “pliegos” in prose belonging to the series of Tertulia de la aldea and Historias sagradas y profanas, contemporaneously collected and published in volumes by Martín. The analysis of paratextuals elements, in their conventional informative (verbal and iconographic) and advertising function or as a reading guide and help for mass public (in pertinent comparisons with xix century pliegos), discovers other more hidden aspects of Manuel Martin’s publishing intention (like the invasion or “irruption” of the paratext into text). These aspects appear obvious through the paratextual comparison among « pliegos sueltos » and between these and the volumes, revealing, in their turn, ddifferents elements (like a different textual organization, changes of printing dates), as well as strange ones, like the problem of the text authorship shared between Manuel Martín and another printer/author from Madrid, Hilario Santos Alonso. The dispersion of « pliegos », with their uncontrollable production and diffusion, leaves, at the moment, a problem of possible appropriations or collaborations between these two printers/authors open.

Anna M. Devís Arbona* I PROLOGHI NELLA LETTERATURA CATALANA DEL DOPOGUERRA

L’

0. Introduzione

obiettivo del presente lavoro nasce dall’interesse per lo studio dei meccanismi nei quali si articola la produzione letteraria. Le metodologie di studio tradizionali soffrono di una singolare carenza : quella riguardo i paratesti. In effetti, se consideriamo come “paratesto” tutto quello che troviamo intorno al testo e che apporta significato, l’analisi del paratesto ci consentirà di abbracciare gli elementi di significato che esistono nel testo letterario da una prospettiva più globale. Tuttavia, siamo consapevoli del fatto che qualsiasi teoria della letteratura può essere messa in dubbio se non è suscettibile di essere applicata a un corpus letterario concreto. Pertanto, in questo lavoro si è cercato di applicare i diversi postulati metodologici che il concetto di paratestualità ci offre alla letteratura catalana che va dal 940 al 970. Il presente studio si prefigge un duplice obiettivo : – Dal punto di vista metodologico : il concetto di paratestualità si traduce in un utile strumento funzionale al progetto che ci siamo preposti di considerare gli elementi di significato che esistono nel testo letterario inteso nella sua totalità. – Dal punto di vista della storia e della critica letteraria : l’analisi degli elementi paratestuali della letteratura catalana del dopoguerra ci apporterà dati di indubbio valore per la storia della letteratura catalana. Nel discorso di oggi, tuttavia, abbiamo concentrato l’analisi sull’istanza paratestuale che, senza alcun dubbio, ha dimostrato maggior solidità : il prologo. Infine abbiamo potuto constatare che queste istanze paratestuali, isolate dai testi ai quali fanno riferimento, possono essere considerate veri e propri documenti di analisi per la storia e la critica letteraria e, in questo modo, siamo potuti giungere a una affermazione che, a priori, sarebbe potuta risultare eccessivamente azzardata : quella riguardo l’essenza propriamente testuale dei testi paratestuali. . Sui paratesti . . La paratestualità : criteri di delimitazione Come abbiamo già giustificato, l’interesse verso il concetto di paratesto va situato nel contesto dello sforzo che la teoria della letteratura deve compiere per cercare di ristrutturare la molteplicità delle realtà che si trova ad affrontare. Quando cerchiamo però di delimitare il concetto di paratesto scopriamo che tutte le definizioni affermano in pratica che si tratta della relazione transtestuale più diffusa, quella per la quale è più difficile definire con rigore i limiti. Non a caso, il creatore del concetto ha sviluppato le istanze paratestuali in un libro intitolato Seuils (soglie).  * Universitat de Valencia. . Gérard Genette ha strutturato tutti gli elementi che compongono il testo in molti studi. Ciò nonostante il nostro studio si può accentrare sui tre seguenti volumi : Introduction à l’architexte, Éditions du

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Se, inoltre, teniamo conto del fatto che il prefisso greco “para” significa “vicino a”, “accanto a”, abbiamo già individuato un filone per iniziare il tema. In effetti, Genette definisce il concetto con termini quali “zona di transizione”, “soglia”, “zona indecisa” ecc. tra il testo e l’extratesto. Inoltre, nel numero 69 della rivista Poétique 2 dedicata ai paratesti confessa allo stesso modo che ...le paratext n’est ni à l’intérieur ni à l’extérieur : il est l’un et l’autre, il est sur le seuil, et c’est sur ce site propre qu’il convient de l’étudier...

E, allo stesso modo, anche gli altri autori che hanno parlato di paratesti situano il termine nella stessa soglia incerta. Riferendosi ai prologhi, Jorge Luís Borges 3 parla di “vestibolo” del testo, mentre Philippe Lejeune 4 lo definisce come una « frangia del testo stampato che, in realtà, condiziona tutta la lettura ». Allo stesso modo, Vicent Salvador si avvicina al concetto chiamandolo « zona de transició » tra il testo e il mondo extratestuale 5 mentre in un’altra occasione parla di « fronteres borroses ». 6 Una volta addentrati in questa confluenza di ambiguità, bisognerà discernere qual è la funzione o le funzioni di questa soglia che, come abbiamo già notato, tanta influenza esercita sul testo. È evidente che, nel riferirci a elementi tanto diversi come titoli, sottotitoli, epiloghi, prefazioni, dediche, note a pie’ di pagina…, le possibilità funzionali sono sostanzialmente infinite. Tuttavia, possiamo avventurarci ad affermare che, genericamente, i paratesti compiono una funzione di primo ordine dal punto di vista della pragmatica testuale, costituiscono il luogo privilegiato per lo sviluppo di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico al quale si rivolgono. Inoltre, ciascun elemento paratestuale mira ad un pubblico differente, e pertanto, mentre il titolo si rivolge a tutti i lettori, il prologo trova il proprio pubblico tra i lettori fattuali del testo. Ad ogni modo, il paratesto costituisce sempre un aiuto per il lettore affinché realizzi una lettura più adeguata (ovviamente dal punto di vista dell’autore e/o curatore). In pratica, tutti gli autori sono concordi nell’affermare che gli elementi paratestuali agiscono come manipolatori della lettura che accompagnano. Vicent Salvador si riferisce alla funzione di “presentare” il testo al pubblico.7 Sulla stessa linea possiamo interpretare le affermazioni che Jorge Luis Borges pronuncia quando si riferisce ai prologhi visto che, al di là di quelli che svolgono unicamente una funzione rituale, altri possono essere considerati un sottoparagrafo della critica.8 Più incisiva risulta invece l’affermazione di Porqueras Mayo : ...el libro tiende la mano al lector por medio del prólogo. 9 Seuil, Col. Poétique, París, 979 ; Palimpsestes, la littérature au second degré, Éditions du Seuil, Col. Poétique, París, 982 ; Seuils. Éditions du Seuil. Col. Poétique. París, 987a. 2. Gèrard Genette, Paratextes, « Poétique », 69 (987), p. 3. 3. Jorge Luís Borges, Prólogos con un prólogo de prólogos, Buenos Aires, Torres Agüero, 975. 4. Philippe Lejene, Le pacte autobiographique, Paris, Editions du Seuil, 975. 5. Vincent Salvador, La frontera literària, Barcelona, ppu, 988, p. 89. 6. Vincent Salvador, El plaer del paratext, « Lletra de Canvi », 25 (990), p. 7. 7. Vincent Salvador, La frontera literària, cit., pp. 87-93. 8. Jorge Luís Borges, Prólogos…, cit. 9. A. Porqueras Mayo, El prólogo como género literario, Madrid, Consejo superior de Investigaciones científicas, 957.

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Il mondo dei paratesti appare assai dinamico : ne appaiono di nuovi, altri verranno dimenticati, ma, come riconosce Genette : 0 « le soglie non sono fatte per soffermarcisi ». . 2. Il prologo : elemento paratestuale di primo ordine Come abbiamo già segnalato, l’elemento paratestuale che esercita senza dubbio la funzione principale è il prologo. È evidente che il prologo costituisce l’istanza paratestuale che maggiori informazioni può fornire e che può incidere in modo più deciso sulla lettura dell’opera che presenta. L’atto di comunicazione implicito nella lettura di un prologo diventa così l’asse centrale dell’analisi e della sistematizzazione delle diverse tipologie. Se osserviamo le classificazioni proposte dagli studiosi di questo tema, osserveremo che queste possono ridursi all’interrelazione di due coordinate : il destinatore e il destinatario, in altre parole, il prologhista e la relazione che presenta rispetto al lettore. Bisognerà poi aggiungere aspetti quali il luogo occupato nel libro, il momento dell’apparizione, la forma, il nome… Tutte variabili che modificano la struttura del prologo e che determinano la sua classificazione. Non possiamo però dimenticare che una delle funzioni basilari dei prologhi è quella di consigliare la lettura che presentano. Questa funzione può essere considerata trasversale all’essenza di questa istanza paratestuale e la troviamo diluita in tutti i prologhi che abbiamo analizzato. Jorge Luis Borges  si riferisce a questa funzione come a una costante : El prólogo, en la triste mayoría de los casos, linda con la oratoria de sobremesa o con los panegíricos fúnebres y abunda en hipérboles irresponsables, que la lectura incrédula acepta como convenciones del género.

In effetti, l’autore di un prologo impiega qualsiasi tipo di strategia per convincerci della bontà della lettura che prepone. Queste “tattiche” possono prendere forme diverse. A volte il prologhista fa sfoggio di una falsa modesta, di un’umiltà che risulta ancor più velata e subliminale quando si tratta di un prologo allografo. Nel prologo di una raccolta di poesie di Josep Mª López-Picó, 2 Teodor Llorente Falcó, figlio del famoso scrittore valenziano, ci dice : ...em demanen -modest i humil prosista- (...) que li pose jo un pròleg. Jo no tinc autoritat per a tal cosa sense cometre un desacatament....

In altre occasioni, è lo stesso titolo del prologo ad entrare a far parte della strategia, e quindi si minimizza l’apparente importanza con titoli come Quatre mots d’advertència, che troviamo nel prologo di M. Costa i Llobera alla sua opera De l’agre de la terra, o Prefaciet nell’opera Voreta el Xúquer di Josep Arminyana, solo per citare due esempi. 0. Gerard Genette, Cap llindar no és per aturar-s’hi « Lletra de Canvi », 25 (990), pp. 32-34. . Jorge Luís Borges, Prólogos…, cit., p. 8. 2. Questa raccolta di poemi di J. M. López-Picó fu pubblicata nella città di Valencia nel 946. L’autore del prologo segnala che questi poemi furono il frutto di un viaggio del poeta a Valencia : « La pràctica totalidad de los poemas fueron dedicados a otros poetas y escritores. El que sirve de epílogo a J. M. López-Picó fue escrito por Xavier Casp », ed è proprio López-Picó a riconoscere le circostanze da cui scaturirono questi versi nell’epilogo : « En Recordança d’un viatge A València ».

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Non ci soffermiamo, anche se rappresentano esempi significativi, sulle espressioni affettive con le quali il prologhista si rivolge al lettore, come “Stimato lettore”, “Benvolgut lector” o “Lector amic”, né sulle lodi eccessive dell’autore e dell’opera. Si tratta di strategie che dovrebbero indurci a non avere fiducia dei prologhisti, ma dobbiamo anche pensare che si tratta di un rito, di un protocollo, di una convenzione. È pertanto da questa ottica che dovremo ricercare gli elementi che costituiscono un prologo. Questa visione ci porta a considerarlo un elemento paratestuale e ci permetterà di mettere in evidenza la sua entità testuale. 2. I prologhi e il discorso letterario 2. . La paratestualità nella letteratura catalana del dopoguerra In prima battuta ritengo opportuno cominciare l’analisi dei prologhi che compongono il nostro corpus considerandoli come elementi discorsivi. Tuttavia, non possiamo dimenticare la loro funzione di presentazione dell’opera, il loro ruolo di ponte tra il testo e il lettore. Questa sfaccettatura di “intermediari” ci offrirà dati per conoscere il difficile compito che l’esercizio letterario svolgeva nel periodo della letteratura catalana compreso tra il 940 e il 970, e delle relazioni piene di ostacoli tra i prologhi e le pratiche censorie di coloro che esercitavano il controllo culturale nel periodo in esame. Per poter avere una visione coerente della letteratura catalana del dopoguerra e della funzione svolta dai prologhi bisognerà considerare la breve storia della repressione che hanno subito i testi letterari in genere e, con veemenza ancora maggiore, i testi in lingua non castigliana in particolare. Come data di inizio di questo processo possiamo stabilire il maggio 939, quando comincia cioè a funzionare un sistema di censura dei libri venduti nelle librerie. Si stabilirono tre categorie : . “Libri che devono essere distrutti 2. Libri che devono essere conservati fino a nuovo ordine, ma la cui vendita è proibita 3. Libri permessi” 3

Allo stesso modo furono colpiti anche i prologhi che, così come i testi che presentavano, potevano essere messi al bando per ragioni diverse : perché si trattava di prologhisti vietati, perché contenevano messaggi “contrari” al sistema o semplicemente perché erano scritti in catalano. L’atteggiamento nei confronti delle lingue regionali è del resto risaputo : Le lingue regionali devono essere proibite quando non servono propriamente a un ambiente maggiore o a una maggiore sfera di divulgazione dei principi del Movimento o dell’opera di Governo (Ufficio della Sottosegreteria del 6 marzo 939). 4

Nel caso dei prologhi, tuttavia, così come più tardi accadde con altri elementi paratestuali come le note, si esigeva, in molti casi, che fossero scritti in castigliano per ragioni diverse : si preferiva che le opere in catalano presentassero un sapore pittoresco, folcloristico, quasi aneddotico, e, ovviamente, se gli elementi paratestuali che 3. M. J. Gallofrè i Virgili, L’edició catalana i la censura franquista (1939-1951), Barcelona, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 99, p. 2. 4. Ivi, p. 57.

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le accompagnavano erano in castigliano, il testo introdotto dai prologhi risultava ancora più isolato, e la lingua catalana finiva per essere relegata a un ambito di uso più ristretto. Non dobbiamo però dimenticare che ci riferiamo agli anni quaranta e che, nel secondo periodo del dopoguerra, questi atteggiamenti saranno rilassati. Per esemplificare il cambiamento di atteggiamento dell’apparato censore possiamo citare il seguente passaggio : Madrid me apoyó en este punto de vista, y las obras catalanas volvieron a verse en los escaparates de las librerías. Los catalanistas lo lamentaron desde lo más inconfesable de su conciencia, los rojos sintieron el consabido despecho por el bonito tema de propaganda que se les escapaba, los ciudadanos medios compraban los libros si los consideraban útiles o gratos o no los compraban en caso contrario. Quedaba eliminado el catalán como arma de combate. 5

Se, inoltre, consideriamo i prologhi come mediatori tra l’opera e il lettore pubblico, ci renderemo conto di quale importanza avessero questi testi, sia in catalano che in castigliano, e capiremo il motivo per cui si trovavano nel mirino dei censori dell’epoca. Questa riflessione si ritrova nel seguente testo di Vicent Salvador : També els paratextos funcionen com a marcadors a tenir en compte en la mesura que constitueixen un autèntic llindar de la interioritat textual, en són portaveus, propagandistes, indici del contracte que l’obra vol instaurar amb el públic. Una funció essencial dels paratextos és la de gestionar el posicionament de l’obra, la seua opció com a pràctica discursiva, i inserir-la en el flux social. 6

Infine, sarebbe interessante mettere in evidenza l’importanza dei prologhi anche da un’altra prospettiva : come contratto letterario. Maingueneau in Le contrat Littéraire 7 afferma che l’opera letteraria non è altro che un contratto tra autore e lettore, e per compiere questo contratto, l’autore (il prologhista) ricorre a varie strategie. Come vedremo in seguito, queste regole del gioco si trasformano spesso in istruzioni di lettura, argomenti, più o meno ragionati, che consigliano la lettura di un’opera, e semplici esaltazioni, più o meno retoriche, dell’autore e/o dell’opera. In ogni caso, documenti incontestabili che la storia della letteratura non può dimenticare. 2. 2. Il prologo come strumento di significazione letteraria (1940-1970) 2. 2. . Anni quaranta Prima di cominciare l’analisi dei prologhi di cui disponiamo, è opportuno ricordare che il decennio degli anni quaranta appare ferocemente caratterizzato dal braccio esecutore della censura più intollerante. Per questa ragione, il corpus di questo periodo rappresenta solo il 9,4% del totale delle opere raccolte. Se poi ricordiamo le limitazioni e addirittura i divieti che i prologhi subirono, non risulta certo strano che la percentuale sia così ridotta. Tuttavia, se durante i primi sette anni le esclusioni cominciavano con i nemici, passavano per gli indifferenti, per i simpatizzanti e arrivavano fino ai dipendenti, a partire dal ‘46 si impose una discriminazione connaturata ai nuovi obiettivi : miglio5. Ivi, pp. 233-235. 6. Vincent salvador, Els límits del discurs literari, « Articles »,  (994), p. 25. 7. D. Maingueneaud, Pragmatique pour le discours littéraire, Paris, Bordas, 990, pp. 2-39.

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rare l’immagine del regime mediante l’apparenza di un certo consenso. La convenienza, assunta in modo tattico, di tollerare alcune esibizioni di folclore e di testi letterari che la Propaganda considerava classici e poco conflittuali, implicava il recupero dello spirito messo in un angolo nel 939 e una riformulazione dei criteri di filtraggio. Il “nuovo” criterio della primavera del 46 si appoggiava sull’accettazione indiscriminata della poesia e in una pubblicazione ridotta del resto. La poesia, considerata come creazione per antonomasia, veniva associata all’« intenzione letteraria pura ». Questo spiega perché, dei 5 prologhi a cui facciamo riferimento, 9 sono alla testa di opere poetiche e perché, in termini assoluti, la poesia rappresenta il 4% delle opere considerate. In definitiva, la poesia non smetteva di essere un genere marcatamente minoritario, e quello che si desiderava impedire era l’apparizione di edizioni che tendessero a coprire il vuoto di letture maggioritarie e abituali, o che si potesse sospettare che contribuissero a coprirlo. L’opzione popolare, iniziata con certa vivacità, fu abortita nella misura in cui concentrava, in modo emblematico, le possibilità di recupero dei lettori. Per quanto riguarda le tematiche che apparivano con maggior frequenza nella letteratura degli anni 40, i prologhi ci confermano l’importanza dei temi popolari e folcloristici. Questa idea li portò ad accettare principalmente antologie poetiche o racconti di carattere popolare e con forme linguistiche marcatamente dialettali. Gli esempi abbondano ; possiamo citare il caso di Contes d’Eivissa di Roure Torrent, che include nel prologo un’appendice intitolata L’art popular eivissenc. Sulla stessa linea possiamo anche ricordare il prologo autoriale con il quale Santiago Rusiñol dà inizio a L’illa de la calma. 8 Il prologo dal titolo L’esperar del barco introduce la lettura dell’opera come una proposta di viaggio a Mallorca. La strategia argomentativa che il prologhista adotta consiste nel presentarci il testo come se si trattasse del depliant di un’agenzia di viaggi. Bisogna infine ricordare la mancanza di identità dei prologhi come istanza paratestuale ; nessuno dei prologhi raccolti in questo periodo è intitolato utilizzando la parola “prologo” o qualche sinonimo, come invece accadrà nei decenni successivi. Quindi, o appaiono senza titolo, o si utilizzano eufemismi che camuffano la loro identità : « Pòrtic », o « quatre mots d’advertència » ; o, addirittura, si fa ricorso a espressioni come « Ave Maria Puríssima », che poco o nulla hanno a che vedere con il contenuto che introducono e che non sono etichette arcitestuali esplicite. La complessa situazione dei prologhi può spiegare, infine, la scarsa esistenza di prologhisti allografi che, negli anni quaranta, avranno una presenza praticamente occasionale. 2. 2. 2. Anni cinquanta La prima constatazione da effettuare riguardo i prologhi compresi tra gli anni 950960 è che molti di loro mostrano una società che comincia a traballare. Dal silenzio imposto negli anni quaranta, in questi anni cominciano invece le prime manifestazioni che denunciano una società segnata dall’esilio, dalla precarietà, dalla mancanza di 8. Occorre precisare che abbiamo lavorato sulla quarta edizione, 948, vol. 6 della Biblioteca Selecta (Barcelona).

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libertà di espressione. Inoltre, queste affermazioni, più o meno velate, implicano, in certo modo, una sorta di aria di ottimismo e cambiamento. Attraverso i nostri prologhi possiamo intravedere, da un lato, il desiderio di apertura che, anche se timidamente, si comincia a fare strada, e, d’altro canto, l’inclusione di nuove tendenze estetiche nella nostra letteratura, un desiderio quasi ossessivo di allontanarsi da una tradizione regionalista tanto radicata che, stimolata dalle direttrici censorie degli anni quaranta, perdurava nelle nostre lettere, soprattutto nel País Valencià e Les Illes. Registriamo inoltre che queste letterature, più lontane dagli intenti rinnovatori e dai desideri di superamento del Principat, inciteranno, spesso proprio attraverso i prologhi, ad una unione delle letteratura in lingua catalana e alla cooperazione per uscire dall’immobilismo più lacerante dei primi anni del dopoguerra. A illustrazione di quanto detto, troviamo numerosi esempi che denunciano la società del momento. Nel Diari del captaire di Joan Barat, l’autore, protetto dietro la maschera del prologhista autoriale, (il mendicante), converte il prologo in un inestimabile documento dell’epoca. Ecco alcuni esempi : Avui que és tan fàcil obtenir una “certa felicitat” o “notorietat” amb diners, afalacs, o, simplement, furtant, la inconformista actitud del bon captaire és tot un símbol [...]. El sabor d’un tros de pa que beneïa un gest d’anònima generositat, no té preu possible en un món on tots els gustos són condicionats per una llei d’escalafons socials. El captaire és un home que s’ha cansat de dir “sí senyor” i ha començat a dir “no senyor”.

Alla fine del prologo, in una Nota d’ interés, l’autore aggiunge : Vivim l’època del simbolisme heroic, dels laberints i de l’astúcia (en alguna part del llibre això es repeteix), una època en què fins i tot un pròleg no pot quedar massa clar ni entenedor.

Noel Clarasó, nel prologo alla sua opera El Gep insinua, in chiara complicità con il lettore, che per poter dire delle verità bisogna aspettare : Ningú no ha escrit mai aquesta història. No es pot escriure. Se n’han fet diversos intents i sempre s’ha fracassat. Pot ser perquè en la història tot és mentida, del començament a la fi. Amb una sola veritat petiteta és possible d’escriure una història gran i llarga, com la de qualsevol home o la de qualsevol país. Sense cap veritat, només cal esperar ; no serà una espera vana, potser, però sí incerta. Això és el que fem tots, i tu, lector, més clarament encara, si has llegit fins aquí.

Un fatto evidente e costatabile nei nostri prologhi è che per iniziare il cammino del recupero del pubblico e delle lettere catalane bisognava elevare la dignità della lingua e stimolare gli scrittori ad utilizzarla. E fu proprio questo il compito di alcuni prologhisti come Manuel Brunet, che, nel prologo all’opera di Anna Maria Dalí Tot l’any a Cadaqués, afferma che aveva sentito l’obbligo di scriverle il prologo perché era stato lui a incoraggiarla a scrivere in catalano. Questo processo di recupero fu propiziato dall’apparizione di nuove tendenze nella nostra letteratura. È il caso, ad esempio, di Joan Barat che, nel prologo autoriale di Seguint el temps evidenzia impronte evidenti della poesia sociale e impegnata : És així que alguns poetes han preparat per a la seua pàtria una llibertat que els polítics no havien sabut defensar [...] Ara que ja ha passat el temps de la poesia pura o impura, l’home torna a ser la cosa més important que inspira la poesia.

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Un altro aspetto che segna una sensibile evoluzione rispetto al decennio precedente è la notevole considerazione dei prologhi come istanze paratestuali. Dal punto di vista delle strategie argomentative, i prologhi non sono più cariche esaltazioni intimiste degli autori e delle loro opere. Questa “elevazione” del prologo comporta una serie di conseguenze che ora analizzeremo. La prima ruota attorno alla riflessione che gli stessi prologhisti effettuano riguardo il fatto di scrivere prologhi. In altre occasioni danno mostra di falsa modestia considerando non necessaria questa istanza paratestuale : I prou ja d’innecessari pròleg. Enceteu, lectors amics, “La vida en rosa” i segurament, com jo, hi passareu gust.

La seconda conseguenza di questo ritorno in auge dei prologhi fu che questi, in alcuni casi, si trasformarono in piattaforme per l’esercizio di alcune strategie argomentative più complesse dal punto di vista degli aspetti del discorso. In questo decennio appaiono alcuni esempi di prologhi autoriali, e per aumentare la complessità, si ricrea nella scrittura un prologo falsamente autoriale visto che Salvador Espriu si finge essere lo stesso Espriu, personaggio dell’opera per la quale scrive il prologo : La novel·la de Palmira de Llorenç Villlalonga. L’ultima conseguenza, anche se strettamente statistica, riveste comunque un significato importante. Più del 50% dei prologhi vengono pubblicati con il titolo di “prologo” o parole simili, mentre non avevamo incontrato alcun esempio simile negli anni quaranta. L’altro dato che possiamo sottolineare sta nel marcato aumento dei prologhi allografi. Mentre negli anni quaranta la loro presenza era praticamente aneddotica, negli anni cinquanta superano abbondantemente il 50% dei prologhi presi in considerazione. Tra i prologhisti più in vista troviamo scrittori come Salvador Espriu, Francesc de B. Moll, Manuel Sanchis Guarner, Joan Fuster o Llorenç Villalonga. 2. 2. 3. Anni sessanta L’aria di rinnovamento e apertura che cominciava a intravedersi nel decennio precedente prende negli anni sessanta pieno vigore. Il percorso realizzato attraverso i prologhi degli anni sessanta testimonia la realizzazione di fenomeno sociologici come il boom turistico. Banc de fusta di Antònia Vicens, pubblicato nel 968, inquadra la problematica del turismo nell’isola di Mallorca e il tema viene ripreso anche nel prologo da Bernat Vidal i Tomás. Ma nonostante la testimonianza di fenomeni sociologici importanti come questo, il risvolto più evidente è l’aumento della permissività e il conseguente posizionamento ideologico degli autori e dei loro prologhisti. Questo ci permette di dividere i prologhisti tra quelli con carattere maggiormente collaborazionista e quelli che, in modo più o meno evidente, denunciavano la situazione sociopolitica del momento. Così, pertanto, predominano i casi nei quali si utilizzano i prologhi come piattaforme di denuncia. Nel prologo di Joan Fuster a El magre menjar si evidenzia una visione critica e negativa della guerra civile e del successivo dopoguerra : tot un món ensorrat en la catàstrofe fratricida, enmig de la qual el poeta se sap engendrat i que gravita sobre ell amb les mil vexacions de cada dia.

Il grado di impegno degli scrittori è particolarmente rivelatore quando ci riferiamo al realismo sociale e, più concretamente, alla poesia sociale. J. M. Castellet analizza

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l’opera Teoria dels cossos di Gabriel Ferrater nel prologo all’edizione del 966, e afferma : que ens trobem en una societat poètica tan essencialment conservadora que podria comptar els rebels amb els dits d’una mà.

Allo stesso modo è opportuno rilevare in questo decennio l’aumento delle attività intellettuali che favorirono il recupero culturale : le traduzioni, la proliferazione di premi letterari, il fiorire di case editoriali e di istituzioni culturali. Per concludere ritengo interessante segnalare che il processo di recupero dei prologhi come istanze paratestuali cominciò nel decennio anteriore e si consolidò in questo. I prologhi sono utilizzati in numerosi occasioni come piattaforme di diffusione ideologica, come veri strumenti per creare una coscienza nazionale tra il pubblico lettore. Abbiamo rilevato come Joan Fuster utilizza in modo quasi sistematico l’opportunità che il prologo gli offre di denunciare la situazione della lingua e della letteratura catalana nel País Valencià. In altre occasioni i prologhisti “sottolineano” l’esilio degli autori per i quali scrivono prologhi come garanzia dell’impegno sociale che rivestono. E in alcuni casi i prologhisti si ergono a fautori del processo di recupero culturale, visto che incoraggiano gli autori per i quali scrivono i prologhi a esprimersi in lingua catalana. Nei prologhi degli anni sessanta, inoltre, prevalgono le istruzioni di lettura sulle strategie argomentative, espediente utilizzato con maggior frequenza nei decenni precedenti. Queste istruzioni di lettura diventano, in alcuni casi, solide dissertazioni che possono anche essere considerate veri e propri saggi. Allo stesso modo, i prologhi sono per la quasi totalità allografi e prodotti da studiosi di letteratura ormai consacrati come Josep M. Batllori, Josep M. Castellet, Manuel Sanchis Guarner, Joaquim Molas, Josep M. Espinàs o Joan Fuster, per citare solo alcuni esempi. L’evoluzione del nome dei prologhi è poi parallela al loro consolidamento come forme testuali. Ricordiamo che se negli anni quaranta nessuno dei prologhi veniva intitolato come tale, negli anni cinquanta circa il 50% dei prologhi assume questa denominazione, e, negli ani sessanta, la quasi totalità è contraddistinta dalla parola Pròleg, che li identifica. Da forme rituali o di protocollo i prologhi passeranno così a costituire un’istanza paratestuale di indubbia solidità. 3. Nuove prospettive Nell’introduzione al presente lavoro abbiamo già dichiarato che l’analisi dei prologhi ci avrebbe permesso di affermare che questi possono svincolarsi dalla loro categorizzazione strettamente paratestuale e acquisire un’entità propriamente testuale : a) Per la forma : i prologhi possono adottare la forma dell’opera che presentano. Questo è il caso del prologo autoriale di J. Valls all’opera Posicions terrenals. Questo prologo si inserisce in pieno nello spazio testuale, visto che non presenta nessuna soglia tipografica o formale che lo differenzi dal resto delle poesie che costituiscono l’opera. Inoltre, con il titolo Preludi questo prologo presenta la forma poetica del testo che introduce. Infine, questo Preludi costituisce una vera istanza di prefazione poiché affronta e approfondisce la tematica trattata nel resto delle poesie e si erige così a una indubbia istruzione di lettura. b) Per il luogo : i prologhi possono abbandonare l’istanza di prefazione e acquisire

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entità testuale visto che appaiono anche in assenza dell’opera alla quale erano associati. Questo è il caso di molti prologhi di Joan Fuster, per citare uno degli esempi più evidenti, che sono passati successivamente a formare parte di saggi di storia e critica letteraria. Inoltre, in molte opere di Fuster, l’autoprologo è, in se stesso, un saggio breve. E un ultimo esempio lo troviamo nell’opera Prólogos con un prólogo de prólogos di Jorge Luis Borges, 9 che rappresenta un altro esempio evidente di come i prologhi possano abbandonare il luogo che occupavano inizialmente per acquisire così un’istanza testuale. c) Per la tematica : in molte occasioni e per ragioni diverse, i prologhi possono trattare aspetti che hanno poco o nulla a che vedere con l’opera che precedono raggiungendo così una certa autonomia tematica. Lo stesso Joan Fuster riconosce nel prologo a Recull de contes valencians che, nel momento di scriverlo, non aveva ancora letto l’opera che quel testo presentava. Questa confessione rimane comunque aneddotica, se ricordiamo che spesso Joan Fuster sfruttava lo spazio paratestuale offerto dal prologo per affrontare temi che non si adattavano alle funzioni paratestuali che corrispondono ai prologhi. Da questa prospettiva i prologhi diventano oggetti degni di studio in se stessi, come oggetti letterari, così come si è fatto per il castigliano. Ci riferiamo all’opera di Porqueras Mayo El prólogo como género literario. 20 Si tratta, in definitiva, di un genere discorsivo con leggi o convenzioni proprie, e che non è radicalmente differente dal discorso letterario. Questa prima conclusione ci apre inoltre nuove prospettive di analisi. In effetti, questa constatazione comporta un’altra ipotesi molto più audace : quella della sua letterarietà, cioè, quella del trattamento letterario dei testi paratestuali. Bisognerà consolidare la testualità di queste istanze paratestuali per poter arrivare a considerarli oggetti letterari a pieno titolo. Allo stesso modo, è evidente che non tutti gli elementi paratestuali potranno godere di questa considerazione : forse si dovrebbero anche stabilire gradi di letterarietà e bisognerebbe tener conto delle diverse tipologie che alcune istanze paratestuali presentano. Nessuno mette in dubbio che la complessità dell’evento letterario è tale da resistere a una delimitazione eccessivamente puntuale. Ma sono proprio le zone di frontiera, i paratesti, ad esempio, a risultare generalmente più evocativi : e il cammino si può già intravedere. Bibliografia Alonso, V. (994) : La funció dels títols en els Contes Breus de Pere Calders, dins Actes del Desè Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Barcelona. Arbonès, J. (973) : Teatre català de postguerra, Ed. Pòrtic, Barcelona. Ballester, J. (992) : Temps de quarentena (1939-1959), Ed. 3 i 4, València. Barthes, R. (953) : Le degré zéro de l’écriture (trad.cat. El grau zero de l’escriptura, Ed. edicions 62, Barcelona, 973). Barthes, R. (963) : Sur Racine, Éditions du Seuil, Paris. Borges, J. L. (975) : Prólogos con un prólogo de prólogos, Torres Agüero editor, Buenos Aires. Broch, À. (980) : Literatura catalana dels anys setanta, Ed. Edicions 62, Barcelona. Broch, À. (985) : Literatura catalana : balanç de futur, Ed. Edicions del Mall, Barcelona. 9. Jorge Luís Borges, Prólogos…, cit. 20. A. Porqueras Mayo, El prólogo…, cit.

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i prologhi nella letteratura catalana del dopoguerra

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Abstract Lo studio mostra l’importanza degli elementi paratestuali nel processo di espressione letteraria, in particolare dei prologhi della letteratura catalana nel dopoguerra spagnolo. Ci permette inoltre di giungere alla suggestiva conclusione dell’importanza testuale degli elementi paratestuali. This study shows the importance of paratextual elements in the process of literary expression, particularly in prologues in Catalan literature of post-war Spain. Furthermore, this permits us to add to the suggestive conclusion regarding the textual importance of paratextual elements.

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Giuseppe Mazzocchi IL PARATESTO NELLE TRADUZIONI LETTERARIE DI TESTI SPAGNOLI (SECOLI XVI-XVII)

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volgerò una serie di osservazioni inevitabilmente frammentarie e farraginose, soggette ad esser contraddette dai documenti qui non addotti. Tuttavia, frequentando da tempo il mondo letterario ispano-italiano, ed occupandomi in particolare dei suoi risvolti tipografici,  mi sembra importante raccogliere, per un convegno che ha fra i suoi pregi quello dell’ampiezza e ricchezza della visuale, qualche riflessione in un discorso generale che potrà servire da indegno ipotesto di altri più completi e particolari. Se dovessi individuare un elemento unificante del paratesto delle traduzioni in italiano di scritti letterari spagnoli dei secoli xvi e xvii, dovrei segnalare, credo, quello della differenza. I paratesti delle opere spagnole tradotte si presentano infatti, in primo luogo, sotto il segno della contrapposizione, delle non omologabilità della realtà italiana a quella spagnola. Ciò avviene, in primo luogo, a livello linguistico : la traduzione è, evidentemente, il segno di un’incomunicabilità, quando non sia (ma è un’ipotesi da escludere per chi traduce dallo spagnolo in italiano) il frutto di uno sforzo emulativo, di una competizione con un modello (si pensi alle traduzioni rinascimentali dal latino al volgare). 2 Il fatto che le traduzioni siano numerose, accanto alle edizioni in lingua spagnola (che però quantitativamente non le raggiungono di certo), 3 dimostra che, nonostante certe considerazioni a volo d’uccello e certe mai superate caratterizzazioni romantiche dell’Italia spagnola, non esistette da noi, neanche nei territori direttamente sottoposti alla corona spagnola, una situazione di reale bilinguismo, paragonabile ad esempio a quella portoghese. Lo spagnolo fu appannaggio, . Non serve neanche dire, comunque, che anche per le traduzioni spagnole rimaste manoscritte si impone una considerazione paratestuale. Ad esempio, si veda (e a partire dal frontespizio), il Lazarillo tradotto nel 608 da Giulio Strozzi per il cardinal Scipione Borghese : cfr. La vita di Lazzariglio del Torme. Traduzione secentesca di Giulio Strozzi, a cura di Aldo Ruffinatto, Napoli, Liguori, 990 ; il manoscritto appartenne fino ad anni recenti alla biblioteca privata di padre Giovanni Maria Bertini. E lo si contrasti con la versione dell’anno successivo di Geronimo Visconte (Napoli, Biblioteca Nazionale, codice XIII.F.0). Cfr., da ultimo, Maria Santini Lacetera, Dos antiguas traducciones italianas del “Lazarillo de Tormes” (siglo XVII), in *Estado actual de los estudios sobre el Siglo de Oro. Actas del II Congreso Internacional de Hispanistas del Siglo de Oro, editadas por Manuel García Martín [et al.], Salamanca, Universidad de Salamanca, 993, pp. 949-955. 2. Sulla dialettica traduzione dalle lingue moderne-traduzione dai classici è fondamentale Cesare Greppi, Sulla traduzione letteraria nel Seicento italiano, « Sigma », 3 (settembre 97), pp. 52-67; e per le radici medievali Benvenuto Terracini, Il problema della traduzione, Milano, Serra e Riva, 983, pp. 9-20. 3. Significativi i dati per il maggior centro italiano di produzione del libro. A Venezia, le opere spagnole stampate in italiano e in traduzione sono rispettivamente 7 e 724 per il periodo 55-600 ; 28 e 277 per il periodo 60-650 ; e 3 e 94 per il 65-700. Cfr. Franco Meregalli, La literatura española en Italia en el siglo XVII, « Annali di Ca’ Foscari », x (97), p. 75 (73-85). Meregalli, per altro, non ignora che nelle due capitali dell’Italia spagnola, Milano e Napoli, la produzione di libri spagnoli è superiore, anche se costituita in percentuale importante da “publicaciones de carácter devocional o de polémica política de escasísimo valor literario o, más en general, cultural” (ibidem). Confermano il valore generale della valutazione di Meregalli i dati, di necessità approssimativi, che per il Seicento fanno attestare intorno al 3% del totale la produzione di libri in spagnolo nelle due città (Marco Santoro, Storia del libro italiano, Milano, Bibliografica, 994, pp. 84-85).

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generalmente parlando, delle classi alte, che di norma lo utilizzarono nei rapporti ufficiali, senza mai farlo diventare loro prima lingua di cultura. 4 Questo spiega anche il fatto che, una volta acclimatati presso un pubblico italiano ristretto che aveva accesso allo spagnolo, grazie a edizioni italiane del testo originale, certi generi letterari (i libri di cavalleria, il romanzo picaresco…) videro poi ampliato il numero dei destinatari con posteriori traduzioni, spesso segno, appunto, di una notorietà già conquistata. 5 Ma le traduzioni italiane di opere letterarie spagnole mostrano il contrasto, l’antitesi che si diceva, anche in termini culturali. L’Italia non si sentì mai spagnola (il che non vuol dire che avesse della Spagna un’immagine necessariamente negativa) ; 6 e in termini letterari è dominante negli scrittori italiani la resistenza a una letteratura che, nella sua fase rinascimentale e barocca, appariva assolutamente dipendente da quella italiana, e, per una serie di caratteri suoi propri, doveva suscitare nei ben più accademici e regolari letterati italiani una certa ripugnanza. Questa situazione, da tenere sempre sullo sfondo, ci permette di individuare in primo luogo una serie di costanti interne dei paratesti che ci interessano ; e più in particolare : a) l’aggancio a una realtà italiana. La traduzione è dedicata di norma a un personaggio (italiano o spagnolo poco importa) di stanza in Italia, e collegato in qualche modo all’editore o al traduttore : alla funzione economico-sociale della dedica, 7 si unisce quella di essere rassicurante propileo a una realtà altra per il lettore di fuori. La tipologia più corrente è quella della lettera di dedica (celebrativa del personaggio) seguita dall’avviso al lettore, che entra nel merito della natura letteraria del testo e delle problematiche di traduzione. Ma la situazione è spesso più complessa : quando nel 62 il Bidelli stampa a Milano la versione del Guzmán de Alfarache di Barezzo Barezzi 8 (che segue le due edizioni veneziane stampate dallo stesso Barezzi nel 606 e 65), i lettori si trovano ad avere in successione : ) la dedica del Bidelli a Francesco Maria Oncia ; 2) la dedica a Gabriel Morosini dello stesso Barezzi (presente nell’edizione del 65, ma non in quella del 606, dove il dedicatario è un altro) ; 3) le due lettere di Mateo Alemán « al vulgo » e « al discreto lettore » ; 4) l’elogio di Alemán di Alfonso de Barros. Evidentemente, il Bidelli non vuole lasciarsi sfuggire una ghiotta occasione di dedica, ma non sopprime la dedica del traduttore-editore veneziano, forse perché celebrava l’opera e ricostruiva le sue vicissitudini italiane ; e per altro, tranne appunto il primo, tutti gli altri testi preliminari sono nell’edizione barezziana del 65. Significativamente più povero il paratesto dell’edizione dell’ori4. Sul problema cfr. Giuseppe Mazzocchi, Lo spagnolo in Lombardia : assiomi sulla situazione linguisticoletteraria, in *Cultura e potere nel Rinascimento. Atti del IX convegno internazionale (Chianciano-Pienza 21-24 luglio 1997), a cura di Luisa Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 999, pp. 23-35. 5. Così l’Amadís de Gaula era noto da noi prima che ne fosse pubblicata la traduzione (546) : cfr. Anna Bognolo, La prima traduzione italiana dell’”Amadís de Gaula”, Venezia 1546, « Annali di Ca’ Foscari », xxiii (984), pp. -29. 6. Cfr. Giuseppe Mazzocchi, La imagen de España en la Italia de los siglos XVI y XVII, in *Imágenes de España en culturas y literaturas europeas (siglos XVI-XVII), José Manuel López de Abiada-Augusta López Bernasocchi (editores), Madrid, Verbum, 2004, pp. 269-338. 7. Cfr. Marco Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, « Accademie e biblioteche d’Italia », lxviii (2000), pp. 5-38 ; Roger Chartier, Mecenatismo e dedica, in Cultura scritta e società, Milano, Sylvestre Bonnard, 999, pp. 35-53. 8. Su questa importante figura di editore e letterato resta fondamentale lo studio di Elisa Aragone, Barezzo Barezzi, stampatore e ispanista del Seicento, « Rivista di letterature moderne e comparate », xiv (96), pp. 284-32.

il paratesto nelle traduzioni letterarie di testi spagnoli

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ginale spagnolo che il Bidelli aveva stampato nel 65 in due volumi : il primo è privo di dedica e altri testi preliminari ; il secondo reca sul frontespizio la dedica a Juan de Mendoza, marqués de San Germán, l’avviso « al letor » della ii parte dell’opera, e l’elogio di Alemán di Luis de Valdés. 9 Quando l’avviso manca, le sue funzioni sono assunte dalla dedica. Così, ad esempio, la traduzione di Francesco Ellio del Persiles di Cervantes (Venezia, per Bartolomeo Fontana, 626) presenta solo la dedica a Bartolomeo Signori, alla chiusa della quale si osserva in modo anodino « Non avendo altro per ora alle mani, le presento questa gentilissima istoria, acciò le sia un pegno della mia divotione, et un segno della riverenza ch’io porto al suo molto valore ». Del testo spagnolo originale cade quasi sempre la dedica, sostituita da un’altra ; mentre l’avviso al lettore (o il suo corrispondente) è più tenace, ed eventualmente si accompagna a quello del traduttore. Curiosa la soluzione escogitata da Lelio Manfredi per la sua fortunata versione della Cárcel de amor di Diego de San Pedro, che ebbe almeno undici edizioni tra il 54 e il 62. Nella princeps, la sua dedica a Isabella Gonzaga, marchesa di Mantova, dopo una prima parte celebrativa della dedicataria e del suo casato, ingloba quasi totalmente la dedica dell’originale a don Diego Fernández de Córdoba. 0 In questo modo la profusa e intricata topica della prima dedica dell’originale non va perduta, e costituisce un’efficace introduzione al retoricismo di tutta l’opera, che Manfredi sa riflettere abbastanza bene nella sua versione. Certo, l’aggiunta dell’exemplum sulla modestia di Artaserse corrisponde all’eccesso di cultura scolastica che caratterizza, ancora nel secolo successivo, le versioni italiane dallo spagnolo ; e va comunque perduta (nel momento in cui la voce è quella del traduttore) la continuità tra l’io del dedicante e quello del narratore, indicato con il termine ambiguo di autor, e figura di collegamento tra il mondo della realtà e quello della letteratura.  b) l’esibizione (che varia molto da genere a genere) della natura di traduzione del testo. Ciò avviene di norma già nel frontespizio, con l’indicazione del nome del traduttore. Quest’ultimo costituisce un ulteriore aggancio “italiano”, e in molti casi – quando ci troviamo di fronte a celebrità come Lelio Manfredi, Mambrino Roseo, Alfonso de Ulloa 2 – quasi una garanzia per il lettore. L’esibizione, però, può appunto variare considerevolmente da genere a genere. E in un genere, in particolare, l’ostentazione della spagnolità del testo è ridotta al minimo. Penso ai volumetti in 2° (seicentine, finalmente, e non più salacchini, ora che la tipografia del xvii secolo riceve tutte le attenzioni e la considerazione che merita) che si stampano con le “commedie alla spagnuola” (ossia gli adattamenti al gusto italiano delle commedie spagnole) : qui i frontespizi spesso e volentieri glissano, omettendo il nome dell’autore originale, 9. E denuncia così la sua parentela con le edizioni di Lisbona (Pedro Crasbeeck, 604) e Valencia (Pedro Patricio Mey, 605). Né è molto più ricco il paratesto della prima edizione italiana del testo spagnolo (Milano, Ieronimo Bordon y Pedromártir Locarno, 603). 0. Càrcer d’amor-Carcer d’Amore. Due traduzioni della “novela” di Diego de San Pedro, a cura di Vincenzo Minervini e Maria Luisa Indini, Fasano di Puglia, Schena, 986, pp. 69-7. . Per questa interpretazione cfr. l’Introduzione a Diego de San Pedro, Cárcel de Amor-Prigione d’Amore, ed. di Carmen Parrilla, Paris-Rome, Memini, 2002. 2. Cfr. Carmelo Zilli, Notizia di Lelio Manfredi letterato di corte, « Studi e problemi di critica testuale », xxvii (983), pp. 39-54 ; Anna Bognolo, La prima traduzione…, cit. (su Mambrino Roseo) ; Ead., Il progetto Mambrino.Per un’esplorazione delle traduzioni e continuazioni italiane dei libros de caballerías, « Rivista di filologia e letterature ispaniche », vi (2003), pp. 90-202 ; Antonio Rumeu de Armas, Alfonso de Ulloa introductor de la cultura española en Italia, Madrid, Gredos, 973.

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ribattezzando la commedia con un altro titolo, e demandando eventualmente solo all’avviso al lettore il compito di segnalare l’esistenza di una fonte spagnola. Un paratesto così reticente si spiega nel momento in cui il rapporto con il genere d’origine è assai problematico da parte italiana, che è segnata da un maggiore accademismo, un più scrupoloso rispetto delle unità, ma soprattutto una visione del fatto teatrale molto diversa, come già la scelta della prosa in luogo del verso sottolinea. Queste riserve da un lato, e dall’altro ampie possibilità di intervento creativo (nel momento in cui le traduzioni sono destinate alla rappresentazione, e spesso i traduttori sono loro stessi uomini di teatro) rendono spesso l’originale poco più che un intreccio strumentale all’elaborazione di un testo e spiegano la cautela attributiva. Ed un altro elemento essenziale del paratesto, il prologo ai lettori non manca infatti di rilevare questa situazione, come non di rado fanno anche i prologhi allo spettatore, che dovevano essere rappresentati. Orsola Biancolelli, nella traduzione della Bella brutta (Parigi, Sassier, 665) commenta : « L’ho tirata dallo straniero nel nostro idioma, non con una totale obedienza alle altrui parole essendo troppo diverse fra gl’uomini le maniere d’esprimersi » ; e il fiammingo Teodoro Ameyden, traduttore prolifico di teatro nella Roma del Seicento, nella sua versione del Perro del hortelano di Lope de Vega (Viterbo, B. Lupardi, 642), osserva : « Non aspettate Zanni o Pantalone, perché ella viene da Spagna, dove sono incogniti simili personaggi ; è però vestita all’italiana e l’abito le sta bene che le par naturale e raggionevolmente correndo di presentare un secolo e mezzo, che per beneficio universale d’Europa non è più forestiero » ; mentre nel prologo (drammatico) della Isabella (Roma, Vitale Mascardi, 638) Tomaso Calò scrive : « Altre son de l’Ibero / le leggi che del Tebro, Arno e Sebeto ; / onde chi traslatolla / uniformar si volle / con l’uso del paese ; / basta che adulterato / egli non abbia il senso ». 3 Maria Grazia Profeti rimarca anche una differenza importante tra le edizioni teatrali italiane (e bisogna includervi anche le traduzioni e adattamenti dal teatro straniero) e quelle spagnole : «siccome da detta a stampata l’opera cambia di categoria, e cresce il suo valore, rare volte Lope ricorda il testo-spettacolo, se non per la bravura di qualche interprete, mentre i prologhi delle contemporanee traduzioni italiane di opere spagnole sono larghi di informazioni al riguardo» ; e avanza una spiegazione centrata sul pubblico : « La divergenza credo sia dovuta al fatto che in Italia la rappresentazione viene considerata verifica alta, per cui non possono mancare i ricordi degli eletti destinatari che hanno asseverato il testo-spettacolo col proprio nutus ; in Spagna invece il ribollente pubblico del corral, amato e temuto, non potrà che essere allontanato con un sospiro di sollievo ». 4 Tenendo conto del fatto che il passaggio alla stampa ha comunque funzione nobilitante anche in Italia, 5 mi chiedo se non ci 3. Le citazioni da Maria Grazia Profeti, Tradurre per la scena : un prologo sui prologhi, in *Tradurre, riscrivere, mettere in scena, a cura di Maria Grazia Profeti, Firenze, Alinea, 996, pp. 7-6. Si tratta del vol. ii della serie di 4 intitolata Commedia aurea spagnola e pubblico italiano, che raccoglie, per le cure della stessa specialista, studi essenziali di vari studiosi sul tema che ci interessa. Nello stesso volume, la bibliografia di Carmen Marchante, Calderón en Italia : traducciones, adaptaciones, falsas atribuciones y “scenari” (pp. 7-63), permette di rendersi immediatamente conto delle pluralità di presentazione del paratesto, nella generale tendenza a far passare in secondo piano le fonti. 4. Maria Grazia Profeti, Il prologo tra testo spettacolo e testo letterario per il teatro : campionature spagnole, in *Strategie del testo. Preliminari partizioni pause. Atti del XVI e del XVII convegno interuniversitario (Bressanone, 1988 e 1989), a cura di Gianfranco Folena, Padova, Esedra, 995, pp. 20-202 (93-202). 5. Si veda soprattutto il caso del passaggio dal canovaccio alla commedia distesa, trattato ampiamente da Siro Ferroni nell’Introduzione a Commedie dell’arte, Milano, Mursia, 985.

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sia piuttosto da ragionare sul diverso statuto dell’autore del testo : di norma letterato le cui funzioni terminano prima della rappresentazione in Spagna ; prevalentemente uomo di teatro in Italia. 6 Individuo un atteggiamento non dissimile per un altro genere, percepito come totus noster (ossia come tutto, o quasi tutto, italiano) : il romanzo (e la circolazione del romanzo barocco italiano in Spagna merita uno studio attento, che non ha ricevuto nella benemerita bibliografia di Mancini : 7 basti ricordare i numerosi esemplari della Biblioteca Nacional di Madrid che sul piatto anteriore recano ancora lo stemma della Biblioteca Real). Un caso eloquente lo offre Il cavalier della notte di Girolamo Brusoni, traduzione del Don Diego de Noche di Salas Barbadillo, che presenta questo frontespizio : « il cavalier / della notte, / Trasportato dalla Lingua Spa- / gnuola nell’Italiana / dal cavalier. / girolamo / brvsoni. / [fiore] in venetia, m. dc. lxxxii. / Per Steffano Curti. /Con Licenza de’ Superiori ». Come si vede, manca ogni indicazione di responsabilità autoriale ; mentre l’importante avviso al lettore (non firmato, ma da ascrivere all’editore per evidenza testuale), merita di essere trascritto per intero : Lettore, le avventure del Cavalier della Notte, che nel idioma spagnuolo furono curiosamente lette non solo da quelli della natione, ma anco dagl’estrani che possedono quella nobilissima lingua, escono hora trasportate nella nostra italiana dal sign. cav. Girolamo Brusoni, a cui va debitrice l’Italia di molte simili erudite fatiche. È però qualche tempo che questa su le nostre istanze uscì dalla sua penna, et è nostra la colpa d’haverla tenuta lungamente sepolta. Ti riuscirà però tanto più cara quanto più aspettata, e maggiormente che il traduttore, per più dilettarti, invece delle canzoni spagnuole che per entro vi erano sparse, e che quanto riescono canore nel loro idioma tanto sono languide nel nostro, ve ne ha collocate alcune sue proprie, al solito degne del suo ingegno e della tua ammirazione. Leggi dunque, e godi, mentre noi andremo procurando altre curiosità per sodisfare al tuo genio. E vivi felice.

Neppure l’avviso, dunque, fa cenno al nome dell’autore, e si rimarca invece il ruolo del traduttore, unica figura di riferimento per i lettori, evidentemente appassionati di romanzi. Proprio la fama del Brusoni come romanziere (all’altezza del 682, ormai anziano, era tra gli avventurieri della penna del Seicento più reputati), e il carattere 6. Cfr. Giuseppe Mazzocchi, La “commedia dell’arte” y su presencia en España, in Historia del teatro español. I De la Edad Media a los Siglos de Oro, Abraham Madroñal Durán, Héctor Urzáiz Tortajada (coords.), Madrid, Gredos, 2003, p. 567 (549-579) : « Esta separación de las dos funciones, la del autor del texto y la de quien lo representa, es la que permite el control culto de la pieza teatral, un control que llevan a cabo literatos dispuestos a renunciar a sus recelos de academia para ir al encuentro de gustos populares. Huelga decir que figuras intelectuales de este tipo, que añadían una cultura humanística profunda a una formación literaria completa (y la demostraban en los más variados géneros literarios), con la capacidad de abrirse a exigencias comerciales, se podían encontrar con más facilidad en España que en la académica Italia, donde, como demuestra el mismo caso de la comedia del arte, un actor podía ser culto hasta el extremo de convertirse en poeta o dramaturgo, pero difícilmente un escritor de talla podía poner su talento a disposición de una operación espectacular y comercial ». Fondamentale su tutta la questione Roger Chartier, In scena e in pagina. Editoria e teatro in Europa tra XVI e XVIII secolo, Milano, Sylvestre Bonnard, 200. 7. Albert N. Mancini, Il romanzo nel Seicento. Saggio di bibliografia, « Studi secenteschi », xi (970), pp. 205-274 ; xii (97), pp. 443-498 (e si veda anche la recensione di Davide Conrieri, « Giornale storico della letteratura italiana », cxlix [972], pp. 63-67). Importante anche Albert N. Mancini, Il romanzo italiano nel Seicento. Saggio di bibliografia delle traduzioni in lingua straniera (Francia, Germania, Inghilterra e Spagna), « Studi secenteschi », xvi (975), pp. 83-27.

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di libro antiquato dell’originale (che era stato stampato nel 623, e nell’ottica della ricezione secentesca questo conta) spiegano naturalmente il silenzio, che ha potuto produrre l’equivoco, a lungo protrattosi, che l’opera fosse in realtà una pseudotraduzione. 8 D’altro canto, non deve sfuggire l’avvertenza al lettore di p. 234 : Lettore, aveva l’inventor di quest’opera collocate le seguenti lettere giocose nel fine della seconda avventura, onde per esser cose affatto fuori della materia, e interrompere il corso dell’istoria, abbiam giudicato di proposito il trasportarle in questo luogo, per non privarti di così gustosa lezione. Felicità.

La sostituzione dei testi poetici spagnoli con altri italiani composti espressamente, rimarcata dal primo avviso, indica già che il Brusoni travalica il ruolo del traduttore. 9 Ma anche la dislocazione delle lettere al di fuori della struttura è altamente significativa, e richiama la forte coscienza del romanzo come macchina che hanno gli autori italiani del Seicento, mentre la struttura narrativa lunga e articolata in unità rigida è minoritaria nel Barocco spagnolo. 20 Non sarà un caso, allora, la notazione che compare sul frontespizio della traduzione italiana già citata del Persiles, che non ha riscontro in nessun punto del paratesto dell’originale, ed esprime appunto, e in un luogo di massimo rilievo, una preoccupazione di poetica tutta italiana : Istoria settentrionale de travagli di Persiles, e Sigismonda … nella quale senza interrompere il filo dell’istoria si leggono molti casi d’Amore e di Fortuna, infiniti curiosi discorsi, e afforismi degni d’esser notati.

Ma, avvicinandoci alle dediche e agli avvisi, non è difficile raccogliere il ripetersi di luoghi comuni costanti, tra cui evidenzierei per la loro frequenza i seguenti : a) la casualità della scelta dell’opera da tradurre. È molto più frequente questo caso che non l’affermazione di una volontaria ricerca, o di una strategia culturale cosciente. A portare a ciò è, credo, una curiositas prima manierista e poi barocca, ma anche una certa qual supponenza nei confronti di testi non “obbligati” in un determinato bagaglio culturale (quello italiano). Così, Lelio Aletiphilo (Lelio Manfredi), nella dedica della sua traduzione del Grisel y Mirabella di Juan de Flores a Scipione Attellano : 2 Ma meco assai sovente di questo ripensando, nulla trovava che a te profitevole frutto recar posesse, per il che fin al presente tuttavia aspettando qualche cosa di te degna rimaso ne sono. 8. Cfr. Eduart Toda y Güell, Bibliografia espanyola d’Italia dels origens de la imprempta fins a l’any 1900, Castell de Sant Miquel d’Escornalbou, 927-93, ii, p. 284 : « suposada traducció d’un text espanyol que no existeix ». Ancora dubbio il rapporto tra le due opere per Albert N. Mancini, Il romanzo nel Seicento…, cit., p. 246. 9. Del resto la traduzione dei testi poetici tende spesso a mettere in crisi gli onesti traduttori mestieranti di testi in prosa. Il Franciosini, nella prima edizione della sua versione del Chisciotte (622-625), li lascia in originale, e raccomanda il suo dizionario spagnolo-italiano ai lettori desiderosi di interpretarli ; e solo nella seconda si provvederà, come rimarca il frontespizio. Mentre, polemizzando con il Barezzi, il Fontana sottolinea, nel paratesto della sua versione delle Novelas ejemplares (di cui si dirà), la necessità di tradurre anche i testi in versi. 20. Come illustra Javier González Rovira, La novela bizantina de la Edad de Oro, Madrid, Gredos, 996, pp. 90-94, il nesso tra vicenda principale e storie interpolate è spesso molto labile o inesistente anche nel sottogenere narrativo spagnolo di cui si occupa. 2. Historia in lingua castigliana composta, et da M. Lelio Aletiphilo in parlare italico tradotta, in Milano, in casa di Giannotto da Castiglione, alle spese di Andrea Calvo, 52. Operetta fortunatissima, con molte riedizioni, presente in tutte le biblioteche italiane di una certa importanza. Si noti che il frontespizio non reca il nome dell’autore, che compare solo a c. [3]r.

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Hora, essendomi venuta alle mani questa operetta in lingua castigliana iscritta, dil mio debito sovenutomi, et pensando che non picciolo alleggiamento tra gli molti fastidi che tutto ‘l dì occorreno indi te averrebbe, quella in parlar nostro materno fidelmente ho tradutta ; che se con diritto e giudicioso occhio quella leggerai, forse che ‘l peso del tuo vivo et nodritivo sasso che uno altro Sisipho a nostri giorni te fa essere, più legieramente porterai.

E Bartolomeo Rogatis, nell’avviso al lettore della sua Historia dela perdita e riacquisto della Spagna occupata da Mori, composta a partire dall’opera di Miguel de Luna sull’ultimo re goto (592), e che influì su altri generi letterari (in particolare la librettistica melodrammatica), 22 scrive : Il motivo che ho avuto di scriverla è stato tale : mi venne a caso nelle mani pochi anni sono, un libro intitolato La verdadera historia del Rey D. Rodrigo scritta da un autor arabo, per nome Abulcacino Tarisso Abenarico, tradotta in ispagnuolo da Michiel di Luna granatese ; la lessi con attentione, e parvemi degna d’esser saputa non pur da stranieri, ma da nostrali. 23

Il topos può persistere anche quando si presenta un autore ormai noto al pubblico italiano : nell’avviso al lettore, il traduttore del romanzo allegorico di Gracián Giovan Pietro Cattaneo commenta : « mi posi a tradurre il presente libro di d. Lorenzo Gracian, intitolato il Criticón, quale capitatomi a caso e da me letto più con attenzione che con regola » ; 24 ma sulla franchezza con cui il Cattaneo illustra il suo lavoro torneremo. b) La precisazione del valore del testo e la presentazione dell’autore, secondo una prassi dettata dall’esigenza di “collocare” l’autore straniero ancor oggi viva nei paratesti della letteratura straniera tradotta, non senza eventuali richiami polemici. Per continuare con un esempio gracianesco, l’abate Francesco Tosques, nella sua versione (dal francese, come denuncia il frontespizio) dell’Oráculo manual (Roma, Luca Antonio Chracas, 698), « evidencia la orientación práctica de la obra, que ya se encuentra en el Preface de A. de Houssaie, y los datos relativos a la vida y a las obras de Gracián » ; 25 ma, oltre ad adempiere a questa nobile funzione informativa e a celebrare l’autore, giustifica l’estrema asciuttezza stilistica del libro : è un Uomo di corte, che non si sa famigliar co’ Volgari, ma piacegli trattar solamente co’ suoi eguali ; e parlando egli per lo più a mezza parola, sofferir non può la conversazione di minuta 22. Giuseppe Mazzocchi, El teatro español en Lombardía a fines del siglo XVII, in El teatro español a fines del siglo XVII, Amsterdam, Rodopi, 989, iii, pp. 698-699 (69-74). 23. Cito dall’edizione veneziana del 774, ma la storia editoriale dell’originale spagnolo e quella della traduzione-rifacimento (che si andò ampliando di edizione in edizione a partire da metà Seicento) è ancora tutta da fare. Intanto cfr. José Simón Díaz, Bibliografía de la literatura hispánica, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, xiii, 984, pp. 7-74. Per comprendere l’operazione di amplificatio verso il romanzesco del testo spagnolo che mette in atto De Rogatis, bisogna comunque partire dallo stesso avviso al lettore, un’articolata enunciazione di poetica in cui il supposto autore arabo dell’originale di Luna acquista quasi il rilievo di un Cide Hamete Benengeli. 24. Cito dalla terza edizione della versione italiana (Venezia, Nicolò Pezzana, 698) ; la princeps uscì a Venezia presso lo stesso Pezzana nel 685. L’anomalia dell’espressione utilizzata dal Cattaneo, rispetto ai paratesti delle precedenti versioni altrui di Gracián, che fanno a gara nel rimarcare la grandezza dell’autore, è sottolineata dal suo più benevolo critico : Felice Gambin, La traduzione come servizio. In margine alla prima edizione italiana del “Criticón”, « Quaderni di lingue e letterature », xx (995), pp. 39-40 (35-50). 25. Felice Gambin, Las traducciones al italiano del “Oráculo manual y arte de prudencia” de Baltasar Gracián, in *Exilios filosóficos de España. Actas del VII seminario de Historia de Filosofía española e iberoamericana (Salamanca, 24-28 settembre 1990), Salamanca, Universidad de Salamanca, 992, p. 290 (287-303). Dallo stesso saggio le citazioni seguenti dell’opera.

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gente, o d’ingegni di poca estensione, i quali non intendono quel che loro si dice, se non a forza di parole

e soprattutto difende l’autore da chi lo accusa di relativismo morale : Per rispondere dunque al giudizio dato senza giudizio di contradirsi Graziano, io dico, ch’egli in alcune Massime prescrive regole a’ Principi, in altri a’ privati, e così come la costoro condizione è di gran lunga differente, differenti esser vogliono le maniere, e i precetti, che per ben regolare la lor vita ricercansi ; oltre di che alle volte qualche modo di trattare, che in una massima si prescrive, perché la natura di essa il richiede, si vieta poi, perché quella di un’altra no ‘l permette ; ond’è che i tondi di pelo, ciò non distinguendo, di contraddizione l’accusano ; e di poca conformità alla moral perfezione le fa ree solamente chi non ha buon occhio, o ‘l cuor sincero.

Nella dedica (manca l’avviso al lettore) del Libro primo delle Lettere di Guevara (Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 545), il traduttore Domingo di Gaztelu non solo difende Guevara da giudizi malevoli (i « mordaci mormoratori » hanno detto di lui « che ‘l merta poca lode delle sue opere »), in particolare quelli di chi lo ritiene un plagiario, o un incolto, magari perché non aveva capito il senso dello spagnolo ; 26 ma vuole anche smascherare i traduttori disonesti che ne hanno omesso il nome per appropriarsi della sua opera : Ma manco lode meritano assai quelle persone ch’hanno tradotte alcune delle altre opere di questo eccellentissimo auttore, nelle quali traduttioni volendo applicare a loro stessi la qualità et reputatione dell’opere non fanno mentione niuna del nome dell’auttore, essendo sua signoria reverendisima di tanta qualità come le opere sue manifestano.

Un caso, quello evidenziato polemicamente da Gaztelu, da connettere alle omissioni del nome dell’autore già ricordate, ma qui entro una storia editoriale e redazionale (tra rifacimenti d’autore degli originali, e moltiplicarsi di traduzioni) che è emblematico dei meccanismi di diffusione di opere spagnole ad ampio spettro di destinatari nell’Italia del Cinquecento. 27 L’attacco di Gaztelu è appunto rivolto a Mambrino Roseo, che nel 542 aveva pubblicato una sua versione del Marco Aurelio in cui si confessava « più imitatore di senso che tradottore di parole » ; il frontespizio indicava semplicemente una fonte spagnola (« tradotta di spagnuolo in lingua toscana »), e anche all’interno del volume si taceva sulla paternità dell’opera. Nel 543 Mambrino Roseo pubblicava poi un’Institutione del principe crhristiano, la versione (sempre senza indicazione d’autore) del Reloj de príncipes di Guevara ; già il titolo rendeva omaggio all’Institutio principis Christiani di Erasmo, ispiratore di vari dei passi aggiunti del traduttore. E, come se non bastasse, nel 544 a Venezia era stata stampata pure la versione di Se26. « Dicono anche dell’auttore che in alcuni luoghi delle sue opere scrivendo de tempi mette di più o manco tempo, et che allegando alcuni detti o sententie degli antichi scrittori cita uno auttore per un altro, in che manifestamente appare che questi tali detrattori o che non hanno inteso bene la significazione degli vocabuli spagnuoli, o che hanno letto poco, o che per un solo auttore ch’essi havranno letto vogliono farsi periti per insegnare et per riprendere altri, non accorgendosi che tra gli scrittori alcune volte vi sono le opinioni diverse… ». Le citazioni dell’opera dall’edizione giolitina del 547. 27. Per una prima esemplificazione dei problemi cfr. Un’idea di Spagna : cinquecentine di interesse iberistico della Biblioteca Universitaria di Pavia, a cura di Giuseppe Mazzocchi, Paolo Pintacuda, Valeria Tocco, Padova, Unipress, 998, schede 2-29 ; e Con pochi ma assai dotti libri accanto. Libri spagnoli alla Biblioteca Ariostea. Mostra libraria e documentaria, a cura di Mirna Bonazza et al., Pavia, Ibis, 2004, schede 32-34. Fondamentale Livia Brunori, Le traduzioni italiane del “Libro áureo de Marco Aurelio” e del “Relox de Príncipes” di Antonio de Guevara, Imola, Galeati, 979.

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bastiano Fausto da Longiano, che nella dedica a Giovan Battista Ursino polemizzava sulla scarsa qualità della versione di Mambrino, ma taceva ancora il nome di Guevara, cui alludeva solo con l’espressione di « gentile spirto spagnolo, qualunque sia stato ». In una guerra giocata sul terreno del paratesto, ed essenzialmente commerciale, a fronte di una domanda del “prodotto” Guevara molto forte, non si può tacere della traduzione di lettere di Guevara approntata da Alfonso de Ulloa a partire dal 557 ; egli rimpingua il corpus già diffuso da Gaztelu con materiali di dubbia autenticità, e non manca di attaccare il suo predecessore per la qualità della traduzione : allude infatti a lui come « un nostro spagnolo, il quale aveva più pratica della sua che di questa lingua e che perciò [le lettere] riuscirono molto difettose e non con quella gravità con che l’autore scrisse ». 28 Infine, redattori ed editori italiani pensano bene di lanciare il quarto libro finale del Marco Aurelio e Reloj de príncipes (promesso ma mai composto da Guevara). Nel caso della versione che ne stampa nel 562 a Venezia Francesco Lorenzini, si rabbercia con l’Aviso de privados e il Menosprecio de corte, dello stesso Guevara, salvo indicare in frontespizio l’autoritativa affermazione « nuovamente tradotto di lingua spagnola in italiana dalla copia originale di esso autore » ; si tratta della stessa formula che già esibiva l’edizione delle lettere in tre volumi (553-554) di Francesco Portonaris (con traduzione che il tipografo si attribuiva). Ma lo stesso Portonaris non si arrende, e nel 563 stampa un suo quarto libro, messo insieme (si è supposto da Alfonso de Ulloa) con lacerti autentici ed altri spuri di varie opere di Guevara, e, a livello di paratesto, presentato come l’autentico contro il precedente falso. 29 Le finalità meramente commerciali delle informazioni fornite sull’autore tradotto sono in certi casi evidentissime. L’avviso al lettore che Alfonso de Ulloa scrive per la sua traduzione dei Ragionamenti (Diálogos) di Pedro Mexía (Venezia, Andrea Revenoldo, 565) esalta come uomo e come scrittore l’autore, e in coda annuncia le traduzioni italiane in preparazione delle sue opere ; una microscheda bibliografica con gli altri principali testi dello scrittore spagnolo è posta in fondo alla “Tavola de’ ragionamenti” che precede lo stesso avviso. c’) Esaltazione piuttosto scontata della lingua spagnola. Lo spagnolo è la “nobilissima lingua” di cui parla il Brusoni nei preliminari della sua versione di Salas Barbadillo. Va sottolineato che gli elogi dello spagnolo sono frequenti soprattutto quando il traduttore è spagnolo, o nelle edizioni italiane di opere spagnole. Mentre è certo più frequente la tipologia seguente. c’’) Sottolineatura della diversità dello spagnolo rispetto all’italiano, e soprattutto del diverso gusto stilistico che rende necessaria un adattamento espressivo dell’originale. Nella già ricordata traduzione del Criticón compare, ad esempio, il fatidico termine di spagnolata : 30 28. Antonio Rumeu de Armas, Alfonso de Ulloa…, cit., p. 20. 29. Per quest’ultimo capitolo di tutto il romanzo cfr., oltre al saggio cit. della Brunori, Augustin Redondo, Antonio de Guevara (1480 ?-1545) et l’Espagne de son temps, Genève, Droz, 976, pp. 575-578. 30. Su cui cfr. José Manuel López Abiada, “O Spagna, spugna della nostra etate”. Expresiones, proverbios y dichos sobre las voces” spagnolo” y” Spagna”, « Studi ispanici », 997-998, pp. 65-77. Felice Gambin, La traduzione come servizio…, cit., pp. 46-47 interpreta in modo diverso le affermazioni del Cattaneo : « si potrebbe sostenere che il traduttore, proprio perché si sforza di tradurre fedelmente conforme al senso del libro, dove non riesce a ricreare i meccanismi dell’acutezza, dove non riesce a stabilire alcuna connessione, neppure le più inaspettate e sorprendenti, tralascia quei frammenti considerandoli, appunto, “periodi di spagnolate alquanto tediose”. Schegge inattingibili, intoccabili e che, nel resistere al compito assegnatogli dalla dama, ribadiscono con forza l’incompiutezza essenziale di ogni traduzione ». Sul lavo-

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L’ho tradotto fedelmente conforme il senso di esso. Mi sono preso alcune licenze, quali credo non ti saranno discare, poiché invece di quei Don Primati spagnuoli, appena noti ai nationali o sudditi della corona, ch’ei pone per esemplari d’attioni insigni e per idee delle virtù, ho insinuati personaggi eminenti in fama e sapere, e cogniti a tutto il mondo come anche ho tralasciati alcuni periodi di spagnolate alquanto tediose, e havrei fatto lo stesso d’una buona parte del Discorso Quarto della seconda parte, ma perch’era già tradotto l’ho lasciato nel suo essere. Molti bisticci e proverbi, che per gli equivoci della lingua spagnuola sono bellissimi nel loro idioma, non si sono potuti tradurre con la stessa vivezza nel nostro, onde mi sono ingegnato d’imitargli più che sia stato possibile, o almeno circonscrivergli con la maggior diligenza che m’ha permesso la mia debole capacità. Ma perché sono huomo di coscienza, se ho lasciato alcune cose tediose, n’ho aggiunte altre del mio curiose : mi dichiaro che quel mio vuol dire ch’io ho letto in altri libri, perché nihil dictum, quod prius non fuerit dictum.

Mentre per la sua traduzione della Diferencia entre lo temporal y lo eterno del gesuita Juan Eusebio Nieremberg, Anton Giulio Brignole Sale precisa : Non dovrà egli [l’autore] haver per male l’haver io varcato oltre i confini di semplice traduttore, perché ho troncato sol dov’era stato già detto altrove ciò che io troncava ; ho variato, non per migliorar il cibo, ma per accomodarmi al palato. Gli spagnuoli avanzan nella flemma gl’italiani, perciò fanno per loro libri più lunghi. Gl’italiani nella curiosità superano gli spagnuoli, perciò conviene che i modi del dir le cose siano talvolta un poco più ricercati. Nondimeno il libro è [lo] stesso, perché non lascia di essere il medesimo un huomo perch’egli abbia hoggi la zazzera più lungha, diman più corta, hoggi più crespa, diman più stesa.

Ad una verifica, si riscontrano effettivamente ampi tagli, che aumentano man mano il lavoro del traduttore procede ; mentre lo spazio di creatività che egli si riserva a livello di resa lessicale e dispositio è notevole. 3 Più in generale, è frequente la considerazione che gli sforzi del traduttore sono destinati alla frustrazione. Nella sua versione dei Diálogos 32 di Pedro Mexía (Dialoghi, Venezia, Plinio Pietrasanta, 557), Alfonso de Ulloa (certo per meglio predisporre nei confronti dell’originale) sottolinea l’impari lotta con la prosa di un originale di qualità : la tradottione mia non arriva alla millesima parte della dolcezza e vaghezza di quella propria lingua in che sono stati espressi con tanto giudicio da quel buon scrittore, del quale molte cose potrei dire, così attorno i costumi…

d) Evidenziazione della problematica traduttoria. In effetti, il traduttore tende a rimarcare le difficoltà che ha incontrato nel suo lavoro, e riservarsi una certa libertà : in termini concettuali di solito non si va oltre il topos antico e medievale della necessità di una traduzione a senso e non letterale, 33 ma è solo nel Rinascimento che il principio teorico diventa effettivamente operativo, come dimostrano le ormai numerose analisi della tecnica traduttoria applicata a opere spagnole di cui disponiamo. Per la data relativamente alta è interessante la dichiarazione di poetica dell’Historia già citata del Manfredi : ro del Cattaneo cfr. anche Jordi Canals Piñas, En torno a la primera traducción italiana de “El Criticón” de Baltasar Gracián, « Nueva revista de filología hispánica », l (2002), pp. 4-67. 3. Giuseppe Mazzocchi, Note sulla fortuna italiana e lombarda di padre Juan Eusebio Nieremberg, « Studia Borromaica », xiii, 999, pp. 57-72. Le citazioni del testo da questo saggio. 32. Che vengono rifusi poi (565) nei già citati Ragionamenti, non senza approfittare del cambiamento di titolo per il cambiamento di dedicatario (Eduart Toda y Güell, Bibliografia…, cit., iii, p. 86 : « donchs lo dels Dialoghi tè unicament trasposat son orde en los Ragionamenti, peró es d’igual text, y las duas dedicatorias emplean idéntichs termes de llenguatge pera demanar protecció a la virtut y obtenir diners »). 33. Le coordinate per la ricostruzione dell’idea in Lore Terracini, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con una frangia cervantina), Torino, Stampatori, 979, p. 320 (nota 68).

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Hora in questa traduttione ho io seguito il comandamento del dottissimo poeta Horatio 34 dato a quelli che le cose greche fanno latine, quali non curando a ogni parola rendere la simile parola, il più delle volte le sententie alle sententie rendono. Et veramente molto male agevole è una buona cosa spagnola far buona italica, et altresì di buona italica farla buona spagnola. Et chi non sa che ogni lingua ha le sue proprietadi e sì cose proprie che in altro idioma tradotte cangiano la solidezza e la grazia ? Il che essendo a chiunque litere conosce chiaro, mestieri non fia che io più ne tentioni. In questa mia traduttione, però, da la mente del primo iscrittore non ho levata la penna, et sommi sfortato di fare che italico nosco ragionando habbia quello senso istesso che parlando castigliano prima tenea. In una sola cosa ho io preso ardir da l’authore spagnolo allontanarmi, che, avendo egli posti alcuni nomi alle persone introdotte che più del barbaro che del gentile teneano, io a mio modo esse persone ho nominate. Emmi altresì stato necessario in dui o tre luoghi, per difetto de chi il libro spagnolo stampito con molti errori hanno, la mente de lo autore indivinare. Il che se io ho puntualmente fatto all’altrui benigno giudicio il lascio.

Ma si ricordi la polemica intorno alle traduzioni di Guevara del 545, di cui vale la pena riprendere ora (dalla premessa di Gaztelu al primo libro delle Lettere dell’autore spagnolo), l’idea del valore pratico del tradurre, del prevalere del senso sulla forma, con cui il traduttore presenta (e in qualche modo giustifica) la propria fatica : Vero è che del detto di questi tali io me ne avarò poco, perciò che, non potendomi essi arguire eccetto di qualche improprietà di vocabuli overo del stile, che non sarà secondo il suo gusto, questo sarà poco da stimare ; anzi, più presto quelli se attaccano al stile, poco profitto fa in loro la scrittura. Et però per questo dico che dei detti loro ne tenerò poco conto, perché l’intento mio sopra la traduttione non è stato per satisfare et giovare eccetto quelle persone le qual desiderano di leggere un’opera per intendere, comprendere et imitare gli documenti che in quella vi sono scritti, et non per quelle che solo vanno cercando il fumo dell’adornamento delle parole.

Altro paratesto violentemente polemico è quello della versione delle Novelas ejemplares di Donato Fontana (Milano, Gio. Battista Canavese, 627). Il traduttore, che ignora la traduzione di Novilieri Clavelli stampata a Venezia da Barezzo Barezzi l’anno precedente, non manca tuttavia di attaccare lo stesso Barezzi che nella sua versione del Lazarillo (di cui ora si dirà) aveva introdotto come digressione narrativa la Gitanilla cervantina (« fattosi padre d’una di loro sposandola con un Picariglio, o Guidoncello, che dir vogliamo (maritaggio invero troppo disuguale) ha fatto che i lamenti della meschinella, fendendo l’aria, da ciascuno siano stati intesi »), in una versione degna dei « publici postriboli ». 35 E si vedano anche i passi prima citati (c’’) del Brignole e del Cattaneo, nonché le spudorate dichiarazioni di quest’ultimo sulla propria incompetenza e sugli strumenti utilizzati per il suo lavoro : Qualunque tu sia, cortese o scortese, ti presento questa mia fatica, che tale posso giustamente chiamarla, poiché, ignaro affatto anche dei rudimenti primi della lingua spagnuola, mi posi a tradurre il presente libro di D. Lorenzo Gracian, intitolato Il Criticón, quale capitatomi a caso, e da me letto più con l’attenzione che con regola, non havendone alcuna ; e capitone il 34. Auctoritas scontata, citata negli stessi termini anche da Franciosini sulla soglia della sua versione del Don Chisciotte. 35. Cfr. Aldo Ruffinatto, Fragmentos de “tapicería del revés” (Las primeras traducciones italianas de las “Novelas ejemplares” cervantinas), in *A più voci. Omaggio a Dario Puccini, a c. di Nicola Bottiglieri e Gianna Carla Marras, Milano, All’Insegna del pesce d’oro, 994, pp. 395-409 (da qui le citazioni).

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senso in confuso, se non le parole, mi piacque in estremo per l’inventione, pensieri e concetti. Discorrendone e lodandolo con una gran dama, mi disse che l’havria letto volentieri tradotto da me in italiano. Fu questo suo sentimento a me un espresso comando : cominciai l’impresa, quale mi riuscì più difficile assai, et assai più faticosa di quello [che] pensai. Poiché, volendolo tradurre con accuratezza e fedeltà, mi conveniva poco meno che ad ogni riga ricorrere al Dittionario del Franciosini, quale benché più copioso di quanti ne siano alle stampe, era manchevole di molti e molti vocaboli, onde ho stancati quanti amici ho havuti intendenti della lingua spagnuola e molti nationali, e non è bastato, perché alcuni non gli hanno saputi esplicare. Per applicargli secundum subiectam materiam mi è convenuto giuocare d’ingegno da me stesso. Mi dirai che sono stato un temerario a pormi sopra le spalle un peso non adeguato alle mie forze, ma se, come si dice, l’ubbidire è servire, il servire come ho preteso io una dama è più tosto umiltà che temerità.

Quando il traduttore è un professionista, il paratesto può servire anche per propagandare tutti i prodotti editoriali che portano la sua firma, come s’è visto per i Diálogos di Mexía tradotti da Ulloa. Nella sua versione del Lazarillo (Il Picariglio castigliano, Venezia, Barezzi, 622), Barezzo Barezzi collega la sua fatica alle altre precedenti e future, e approfitta (nel suo ruolo piuttosto inconsueto di traduttore-editore) per annunciare le prossime uscite del suo catalogo : Et vivo sicurissimo che, si come tutte le opere da me tradotte, composte, e stampate vi sono state grate di profitto e di diletto, così vi riuscirà non meno il presente Picariglio che la Terza Parte della Vita del Picaro, la quale insieme con le altre due parti et con la Picara Giustina hora si stampano, e ben presto compariranno nelle vostre mani, et non molto tardarà anche ad uscire in luce i Consigli degli animali e le Bellezze delle donne. Et appresso il Petrarchista Prima, e Seconda Parte di Nicolò Franco : ove si tratta gli amori del Petrarca, con Lettere missive, e risponsive et altre cose belle del famoso Firenzuola. Le quali opere pregovi ad accoglierle con lieta faccia, com’è il solito vostro. 36

Non mancano neppure i richiami a problematiche di tipo censorio, come nella già ricordata versione del Criticón : Crederei superflua la protesta de nomi fato, deità, fortuna, e simili, perché sendo il libro tutto ideale [cioè, allegorico], non posso credere che queste [sic] habbiano alcun privilegio per esser creduti haver sussistenza. Io credo quello che crede ogni buon cattolico. Se tu avessi qualche sentimento diverso, io non sono né voglio essere sindicatore dell’altrui.

E ancora, nell’Estratto de Sogni di D. Francesco Quevedo, trasportati dal francese per Inocentio Maranaviti (Milano, Pignone, 672). 37 Qui (con il topos già evidenziato della casualità della scelta, e con l’altrettanto scontata affermazione dell’impossibilità della traduzione letterale), sono notevoli le osservazioni del traduttore sulla strategia di presentazione del frontespizio, sul testo utilizzato per la traduzione (quello francese della fortunatissima versione del Sieur de la Geneste), 38 e, appunto, sugli interventi moralistici fatti all’originale, nonché sullo smorzamento del taglio satirico : 36. Cito, con qualche ritocco alla punteggiatura, dall’edizione approntata da M. Consolata Pangallo, Dal “Lazarillo” al “Picariglio”. Un itinerario picaresco tra orizzonti d’attesa e filologia testuale, Università degli Studi di Pisa, Tesi di Dottorato in Ispanistica-xi ciclo, rel. Aldo Ruffinatto, ii, p. v. 37. Ma cito dall’edizione veneziana del 694 (per Sebastian Menegatti). Sui problemi bibliografici delle edizioni della traduzione cfr. Con pochi ma assai dotti libri accanto…, cit., schede 49-50. 38. Alejandro Cioranescu, Bibliografía francoespañola (1600-1715), Madrid, Anejos del « Boletín de la Real Accademia Española », 977, passim. Molte edizioni, in effetti, non recano il nome di Quevedo.

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Per divertirmi nell’ore dell’ozio, e per mantenermi la cognitione del linguaggio francese, ho intrapreso la traduttione di un libro che m’è capitato alle mani senza il nome dell’autore e senza che in esso possa vedersi dove sia stato stampato. Da certi sonetti però fatti a lode di chi dal spagnuolo lo ha portato nell’idioma francese ha preso mottivo d’indagare chi habbi prodotto il primo parto, e mi è riuscito trovare essere l’autore D. Francesco Quevedo. E perché non tutto ciò che in essa compositione è stato espresso a me è parso bene tradurre, non ho saputo porre nel frontespizio del volume, con titolo più aggiustato, che Estratto de Sogni. Oltre un’osservazione rigorosissima del rispetto con cui devesi parlar de principi, ò studiato anco di abbandonare quei concetti o pensieri parsimi troppo liberi e scandalosi, quali se io havessi inseriti nella tradutione non mai sarei stato permesso il darla alle stampe. Ho anco mutate molte cose che, se pontualmente a parola per parola le havessi tradotte, vi sariano state di difficilissima intelligenza. Come poi con ogni acutezza ho procurato di esser satirico quanto manco mi sia stato possibile, così io protesto altamente che potendovi essere in ogni condition de persone chi opera bene e chi male, solo di questi io intendo discorrere.

E la traduzione del Maranaviti documenta anche (con altre già citate) il fenomeno delle traduzioni dal francese invece che dallo spagnolo, sempre più frequente nel corso della seconda metà del Seicento, ed espressione da non sottovalutare della francesizzazione progressiva del costume italiano (dalle mode alla lingua, dalla spiritualità ai gusti letterari), che anticipa quella ben più drastica del Settecento. 39 Come si vede nel caso dei Sueños, già il paratesto, o addirittura il frontespizio, evidenziano che la traduzione è esemplata sul francese. Naturalmente prudenza e verifiche testuali sicure sono sempre necessarie : la già ricordata versione delle Novelas ejemplares di Novilieri Clavelli (626), che fu anche traduttore dal francese, riprende un elemento paratestuale quale il riassunto delle novelle dalla traduzione francese del 65, ma è stato dimostrato che la traduzione dei testi discende sempre dallo spagnolo. 40 Dopo l’individuazione di questa topica d’urgenza per i libri che ci interessano, si apre una serie di problemi consistenti, che mi provo ad allineare qui, e che potrà essere utile considerare nelle ricerche future. In primo luogo si pone l’esigenza di estendere i margini del concetto di “traduzione letteraria”, fino ad inglobare testi di carattere non strettamente creativo. La percezione dei problemi linguistici e stilistici per il traduttore di un testo religioso, o storicopolitico, o addirittura tecnico, non è infatti, nel Cinque-Seicento diversa, a partire dal fatto banale che gli stessi testi di partenza mostrano un’attenzione specifica al fatto espressivo. Un autore come fray Luis de Granada, che ebbe in Italia un successo enorme (tra il Cinque e il Settecento si contano centinaia di edizioni), essendo mosso normalmente da preoccupazioni di tipo pastorale, ed essendo fornito di un’eccellente preparazione retorica, fa appunto della lingua e dello stile una componente importante della propria suasoria. 4 Il campo di studi deve quindi essere definito, più che “traduzione di testi letterari”, come “traduzione letteraria di testi”. È necessaria inoltre una considerazione speculare delle traduzioni dall’italiano in spagnolo, e soprattutto dei testi stampati in spagnolo in Italia. Tramontata l’idea che le edizioni spagnole in Italia fossero prodotte per il mercato spagnolo, e muovessero 39. Manca ancora uno studio d’insieme, ma si reperiscono intanto i primi suggerimenti bibliografici (anche di rilievo) in Giuseppe Mazzocchi, La imagen de España…, cit., pp. 33-34. 40. Aldo Ruffinatto, Fragmentos de tapicería…, cit. 4. Non mi occupo qui dei paratesti delle versioni italiane del grande scrittore domenicano perché sto svolgendo sul tema una ricerca specifica.

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dalla volontà di eludere il sistema del privilegio, cosa manifestamente impossibile nel momento in cui mancavano le strutture commerciali in grado di realizzare l’operazione, 42 dobbiamo vedere questi libri come destinati essenzialmente al consumo interno, e pensarli divisi nelle due categorie principali di libri di autopromozione (strumenti di costruzione di una carriera, di consolidamento di un ruolo sociale) 43 o destinati alla lettura da parte degli spagnoli residenti o degli italiani colti in grado di leggere lo spagnolo, ma bisognosi magari di prontuari di pronuncia o schemi grammaticali su cui sorreggersi durante la lettura. 44 In entrambi i casi, il paratesto non manca di sottolineare la realtà italiana in cui l’operazione ha luogo. Ciò emerge già dalla dedica : in spagnolo (la stessa lingua del testo), ma a personaggi non sempre spagnoli, e comunque residenti (o già residenti) nella città di edizione, come Antonio Rodríguez de Frechilla nel caso del Viaje del Parnaso cervantino stampato dal Bidelli a Milano nel 624 : « Embío pues a V. M. el Viaje del Parnaso, che [sic] hizo el famoso Miguel de Cervantes por sus gracias tan ilustre que no tiene menester que mi pluma le ensalze. A su nombre de V. M. dedico esta mi impressión, para que salga a luz en esta ciudad, siendo como testigo de lo que a V. M. más devo, y de la voluntad que tengo de vivirle en la memoria ». E lo stesso quadro ci presentano le edizioni delle Rimas di Lope (Milano, Ieronimo Bordon, 6) ; 45 o il Don Quijote in spagnolo che gli eredi Locarno e il Bidelli stampano nel 60 sempre a Milano con dedica a Vitaliano Visconti, cui il Bidelli dice di voler dar agio di leggere un libro nella lingua che amava, e di averlo stampato in originale “por no le quitar su gracia que más se muestra en su natural lenguaje que en cualquier traslato” : affermazione un po’ sorprendente visto che l’editore pubblica spesso versioni dallo spagnolo. E in questa che è la prima (e unica) edizione italiana dell’originale del capolavoro cervantino, si sottolinea (con il pensiero topico della diffusione dello spagnolo) 46 l’orizzonte municipale dell’operazione : « V. S. tiene gusto de la lengua castellana, agora hecha muy familiar a los cavalleros de esta ciudad ». 47 42. Anna Giulia Cavagna, El sistema editorial y el libro español del siglo XVII en Milán, « Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane », xxiv (995), pp. 8-23 ; Ead., Printing and Publishing in XVII Century Lombardy, « Gutenberg Jahrbüch », 998, pp. 208-26. 43. Anna Giulia Cavagna, Libri per la guerra e edizioni lombarde del XVII secolo, in *La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del convegno internazionale di Pavia (16, 17, 18 ottobre 1997), Viareggio, Baroni, 2000, pp. 448 e 449 (425-459) : « è un’editoria per la quale fra l’altro non è da escludere un concorso finanziario dell’autore medesimo » ; e « I tipografi a Milano propongono svariate prime edizioni : quelle in spagnolo lo sono quasi sempre, parecchie sono quelle in italiano ; indicano che il fermento culturale locale era bastevole a sorreggere il circuito lettura-composizionefabbricazione del testo, cioè, in altri termini, che scrittura, pubblicazione e ricezione si alimentavano vicendevolmente ». 44. Su questo tipo di elementi paratestuali, che le edizioni italiane di opere spagnole spesso aggiungono, cfr. Anna Bognolo, La prima traduzione…, cit., pp. 2 e 22. 45. Dedica a Pedro de Velasco, capitán de lanzas e congiunto del governatore Juan Fernández de Velasco : « para que a los ingenios italianos, a quienes resulta en este tiempo como natural la lengua castellana, sean más gustosas debaxo del perpetuo amparo de V. S. Illustriss. ». 46. Cfr. nota 44. 47. Come è già stato rimarcato, « Nei libri di argomento militare pubblicati in Spagna nel xvii secolo, per esempio, il paratesto è spesso molto sviluppato : sovente composizioni in versi fungono da preliminari ; le dediche al sovrano sono scontate e trovano una variante lombarda nella dedica al governatore » (Anna Giulia Cavagna, Libri per la guerra…cit., pp. 434-435). Il grande significato documentario del paratesto delle edizioni bidelliane di classici spagnoli è rilevato anche da Anne Cayuela, Le paratexte au siècle d’or, Genève, Droz, 996, p. 6.

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Nella stessa linea, è illuminante la storia editoriale della Pratica manuale di artiglieria (Plática manual de artillería) di Luis Collado stampata a Venezia in italiano nel 586, e, in un’edizione accresciuta, a Milano in spagnolo nel 592 ; quindi ancora in italiano (ma, parrebbe, in traduzione dallo spagnolo) sempre a Milano nel 606 e nel 64. 48 Ciò che importa è che lo stesso autore dichiara di essersi tradotto in spagnolo, e che l’opera, nella prima edizione in italiano dedicata al governatore dello Stato di Milano (il siciliano Carlo d’Aragona e Tagliavia), in quella in spagnolo lo è a Filippo II ; 49 mentre le edizioni posteriori cambiano ancora di dedicatario (Bordoni e Locarno dedicano quella del 606 all’aristocratico Federico Landi ; e il Bidelli quella del 64, a Valeriano Sfondrato, comandante delle truppe di stanza in Lombardia : e sono otto pagine in quarto fitte di elogi alla famiglia e al dedicatario, mentre all’opera si fa cenno solo in coda) ; inoltre, evidentemente sull’onda del successo che aveva avuto, nelle due edizioni secentesche il libro migliora le qualità tecniche, e ormai svincolato da un’editoria su commissione non è più in folio, ma assume il più pratico formato in 4°. 50 È interessante il prospettivismo socio-linguistico, dato dall’oscillazione tra le lingue ; ma il caso particolare di Collado è istruttivo, credo, anche per un altro motivo : ci mostra infatti quanto il paratesto delle traduzioni italiane di testi spagnoli sia soggetto al cambiamento. Parlerei, anzi, di persistenza del testo (molte traduzioni dallo spagnolo vengono stampate inalterate per anni, o addirittura per secoli, ed è naturalmente la situazione linguistica italiana a permetterlo) a fronte del cambiamento del paratesto. Per una elementare strategia, infatti, l’aggiornamento (spesso solo l’impoverimento) del paratesto serve a togliere a un prodotto editoriale la patina del vecchio. Quando a Genova nel 653 si stampa la prima edizione della traduzione della Diferencia di Nieremberg fatta dal Brignole Sale, è importante rimarcare la destinazione locale del libro, i membri della “Congregazione della pietà eretta nel Gesù di Genova”, cui è diretta la dedica che precede l’avviso del traduttore al lettore ; ma già nell’edizione veneziana del 654 il primo dei due testi cade. La fortunata traduzione del Don Chisciotte di Lorenzo Franciosini, stampata per la prima volta nel 622 (la prima parte ; e nel 625 di nuovo la prima con la seconda), offre un altro esempio significativo di questa tendenza. La dedica del traduttore (al Granduca di Toscana nella prima edizione ; ad altro dedicatario nella seconda) cade (già nella terza edizione del 677, la prima pubblicata dopo la morte del traduttore), e si aggiunge l’avviso degli stampatori ; ma restano sempre l’avviso « al curioso lettore » del traduttore, e il nome 48. Cfr., da ultimo, Jesús Sepúlveda, Diálogo y ciencia militar en la “Plática manual de artillería” de Luis Collado, in La espada y la pluma…, cit., pp. 46-48 ; e Renata Londero, Un trattato militare ispanoitaliano di fine Cinquecento : la “Pratica Manuale di artiglieria”-”Plática manual de artillería” di Luis Collado, in Guerra e pace nel pensiero del Rinascimento. Atti del XV convegno internazionale (Chianciano-Pienza, 14-17 luglio 2003), a cura di Luisa Rotondi Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, in c.d.s. Lo studio della Londero è particolarmente accurato nel segnalare i cambiamenti che l’opera subisce di edizione in edizione. 49. E come ha illustrato Renata Londero, alla cerimoniosità e affettata modestia del testo in italiano, si contrappone il tono più sostenuto e autocelebrativo di quello in spagnolo, in cui sono anche più fitti i riferimenti ai classici e i latinismi, e il discorso si fa retoricamente più elevato. Ciò emerge anche dal confronto tra l’avviso al lettore della princeps, tutto giocato sull’ardimento linguistico di far uso dell’italiano, e la dedica a Filippo II della seconda edizione (qui, come nella due edizioni secentesche, manca l’avviso al lettore), che esalta l’effetto eternante dell’attività dello scrittore. 50. Anna Giulia Cavagna, Libri per la guerra…, cit., p. 449 conclude : « È un volume elaborato e costoso, realizzato sull’onda del successo dell’edizione in castigliano ma pensato per un pubblico più largo, non avvezzo alla lingua straniera e forse maggiormente propenso allo studio pratico del testo, considerato il formato minore ».

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di quest’ultimo ; a proteggerlo è la sua stessa fama : la grammatica e il dizionario bilingue, con la sua versione del Don Chisciotte, per due secoli almeno costituirono infatti l’accesso allo spagnolo degli italiani. 5 Mi preme infine rimarcare alcuni aspetti del paratesto come luogo d’elezione di quella poetica della differenza che le traduzioni in italiano di opere spagnole rappresentano. In certi casi, la successione dei testi preliminari mantenuti serve ai destinatari della traduzione italiana dell’opera spagnola a recuperare le coordinate entro cui l’originale è maturato. Nella prima traduzione in italiano della Idea de un príncipe christiano di Saavedra Fajardo (Venezia, Per Marco Garzoni, 648 ; il traduttore è Paris Cerchiari), già la dedica del traduttore (non resta traccia dell’originale dedica dell’autore al principe Baltasar Carlos, figlio di Filippo IV) sottolinea il singolare destino del libro, stampato per la prima volta a Monaco nel 640 : l’opera « ha però scorso in alcun tempo nel suo habito per tutta l’Europa molto ben veduta, e raccolta : e vien oggi da me fatta vestire all’italiana, a ricovrarsi sotto il cortese patrocinio di V. E. [il conte di Portia e Brugnara] ». 52 E, in effetti, le successive lettere latine (due di Ericio Puteano e una di Saavedra) 53 datate a Bruxelles e Lovanio mostrano, ancora per un lettore italiano, l’ambiente diplomatico ed internazionale in cui l’opera maturò. Il latino dei preliminari è del resto una marca evidente di proiezione e circolazione continentale di un libro di autore spagnolo che, lo noto solo en passant, ricorre anche nei paratesti dell’editoria teologica posttridentina, il prodotto culturale iberico che più a lungo esercitò il suo influsso sulla cultura europea. 54 Anche i testi poetici dei preliminari configurano spesso piccole selve plurilingui che mirano a riagganciare l’opera a una società mista. 55 È così anche nelle versioni spagnole di opere italiane (si veda, ad esempio, la traduzione della Liberata che stampa a Madrid presso Pedro Madrigal Juan Sedeño nel 587),56 e che tracima, a livello locale, nelle edizioni di opere italiane non tradotte, 57 oltre che, naturalmente nelle 5. Sul Franciosini, e i problemi bibliografici che presentano le sue opere, cfr. Luciana Gentilli, Giuseppe Mazzocchi, I “Diálogos apacibles” di Lorenzo Franciosini : genesi e fortuna europea di un manuale di conversazione spagnola, in *Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento. Confronti e relazioni. Atti del convegno internazionale (Ferrara, Palazzo Paradiso, 20-24 marzo 1991), a cura di Mirko Tavoni, Modena, Panini, 996, i, pp. 495-520 ; Dante Bernardi, Lorenzo Franciosini, primer traductor del “Quijote” al italiano. Los problemas filológicos de la primera parte y el “caso Oudin”, « Anales cervantinos », xxxi (993), pp. 5-8. 52. Curioso documento è anche l’avviso dello “stampatore a chi legge”, che informa della morte dell’autore, e di conseguenza del supplemento di indulgenza che i lettori dovranno avere nello “scusare gli errori che sogliono naturalmente partorire le stampe lontane dall’occhio dell’autore” ; e quindi si osserva : “Debbo avvertirvi che li punti che troverai in alcuni luoghi significano il nome d’autore che, per essere di dannata memoria, non s’è creduto bene il nominarlo” (si tratta di Macchiavelli – p. 53 – per altro esplicitato nell’originale). 53. Mancano alla princeps, ma si leggono nella seconda edizione milanese del 642. Cfr. Diego Saavedra Fajardo, Empresas políticas, ed. de Sagrario López Poza, Madrid, Cátedra, 999, pp. 88-08 (studio molto attento delle due edizioni). 54. Giuseppe Mazzocchi, La difusión de la literatura religiosa española en Lombardía, “Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane”, 24 (995), pp. 65-80. 55. Si tratta di un fenomeno evidenziato da Elvezio Canonica, Estudios de poesía translingüe, Zaragoza, Pórtico, 996, pp. 88-9. 56. Li si studia in tutto il loro rilievo nell’introduzione a Juan Sedeño, Poesia originale, a c. di Giuseppe Mazzocchi, Viareggio, Baroni, 997. 57. Non è infatti raro che opere italiane, specie appunto d’ambito locale e di taglio occasionale, accolgano tra i testi preliminari componimenti poetici in spagnolo. Si possono vedere i risultati raggiunti in tal senso dalla splendida ricerca di Elisa Grignani e Carla Mazzoleni, Edizioni pavesi del Seicento. Il

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edizioni italiane di opere spagnole. I testi poetici dei preliminari del Fernando o Sevilla restaurada di Juan Vera y Figueroa (Milano, Henrico Estefano, 632), una versione in ottonari spagnoli della Liberata, che con minimi adattamenti è trasposta alla reconquista di Siviglia da parte di San Fernando, 58 vedono (con alternanza anche linguistica) Diego de Saavedra Fajardo (che da anni svolgeva missioni diplomatiche in Italia per il re di Spagna), il secondo duca di Lerma, il manzonianamente famigerato Achillini… e a chiudere, nell’ultima pagina, il sonetto in spagnolo di un anonimo gesuita italiano. Per altro, è chiaro che i letterati italiani erano certo propensi negli anni di Olivares a lasciarsi suggestionare dalla sua figura, ma difficilmente dovevano sentirsi sedotti dalla trasposizione in redondillas di un testo di riferimento come il poema del Tasso : anche dal tono iperbolico dei versi celebrativi, traspare che considerano la fatica di Vera essenzialmente una prova di virtuosismo. Del resto, comprendere quest’opera curiosa richiede anche la valutazione attenta degli aspetti materiali di questa (unica) edizione nel loro valore paratestuale. Il libro, edito dal malnoto tipografo Enrico Stefano, è infatti di livello : buona carta, frontespizio inciso, un’illustrazione a piena pagina (in verità di tratto un po’ grossolano) per ogni canto. Insomma, un’operazione editoriale costosa, che non doveva solo rispondere alla volontà di autoaffermazione dell’autore, ma assumere anche funzione propagandistica. Nel 636 a Venezia Vera, non a caso ambasciatore spagnolo presso la Repubblica, fa stampare le Essequie poetiche overo Lamento delle Muse italiane in morte del sig. Lope de Vega : il grande drammaturgo viene celebrato dai più grandi poeti italiani del tempo (ma su varie attribuzioni persistono legittimi dubbi), non senza riferimenti all’amicizia che l’aveva legato al Vera. Dell’operazione è indicato quale responsabile un fantomatico Fabio Franchi, laddove le note degli informatori della Serenissima, scoperte da Bruna Cinti, 59 mettono in chiaro che l’artefice di tutto fu, con l’aiuto linguistico di qualche collaboratore italiano, lo stesso ambasciatore di Spagna. Oltre questa italianità di facciata mi sembra interessante la struttura del libro, con il testo che si atteggia a paratesto, con, cioè, la componente subordinata che s’accampa in primo piano. Profilo, certo, di tutti i libri commemorativi, ma qui con un effetto accentuato dalla pluralità linguistica (parte dei testi sono in spagnolo e latino), dai brevi tratti in prosa che scandiscono l’insieme, dall’impaginazione (con le rubriche che, in un volumetto in ottavo, assumono grande rilievo), e soprattutto dal carattere occasionale dei componimenti (fra cui sono frequenti, ad esempio, epitaffi ed acrostici). E senza spostarci da Venezia, e negli stessi anni in cui vi risiedette Vera y Figueroa, troviamo un singolare esempio di mise en page, altro elemento paratestuale di prim’ordine, 60 nella traduzione della Brevísima relación del domenicano Bartolomé de las Casas di Francesco Bersabita, pseudonimo dell’antispagnolista di professione Giacomo Castellani : Istoria o breuissima relatione della distruttione dell’Indie ocidentali, Venezia, Marco primo trentennio, Milano, Cisalpino, 2000, pp. 22-40 (Ancora Un’idea di Spagna : le dediche e le occasioni, gli autori e la lingua, un santo spagnolo, a c. di Carla Mazzoleni). 58. Su questo libro cfr. la scheda 4. 29 di Sul Tesin piantàro i tuoi laureti, Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706). Catalogo della mostra (Pavia, Castello Visconteo), Pavia, Edizioni Cardano, 2002, pp. 453-456. 59. Bruna Cinti, Da Castillejo a Hernández, Roma, Bulzoni, 986, pp. 87-209. Sull’attività spionistica e propagandistica di Vera y Figueroa cfr. anche Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 994, pp. 30-34, 60. Gerard Genette, Seuils, Paris, Seuil, 987, p. 35 : « La composition, c’est-à-dire le choix des caractères et de leur mise en page, est évidemment l’acte qui donne forme de livre à un texte ».

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Ginammi, 626 ; su due colonne sono infatti affiancati l’originale e la versione. Il senso dell’inconsueta scelta si può chiarire solo storicamente : in Italia, per ragioni essenzialmente ideologiche (la scoperta dell’America fu vista come strumento di evangelizzazione), le critiche alla conquista spagnola furono assai rare, e certo più contenute che in Spagna. 6 Ciò spiega la traduzione intempestiva dell’opera che fondò la cosiddetta leyenda negra ; mentre la pubblicazione della più celebre opera di Las Casas a Venezia fu piuttosto « un episodio di guerra psicologica ; […] un atto della propaganda francese (eravamo all’epoca della Guerra dei Trent’anni), che a Venezia, dove l’opera apparve, era libera, come del resto era la propaganda spagnola ». 62 Proprio lo sfondo polemico in cui il libro si inquadra giustifica la scelta del testo a fronte, e dà rilievo particolare alla dichiarazione del traduttore intitolata sintomaticamente Dell’utilità di questa istoria : Egli [l’autore] nel comporla hebbe mira alla semplice e nuda verità de’ fatti, senza curarsi di metodo o di eleganza alcuna, et io nel tradurla ho voluto seguire la sua simplicità, non allontanandomi a pena dalle sue parole. Questo sia per iscusa e di lui e di me, se nell’originale e nella traduttione non si vedrà quell’ornamento di dire che da curiosi pare che sommamente sia desiderato, anzi talora si troveranno molte voci improprie, molte costruttioni barbare, & altri difetti assai. Chi dunque leggerà quest’opera non si fermi a ponderar le parole, ma consideri attentamente l’importanza delle cose. 63

L’esame della tecnica del traduttore mostra, in effetti, una costante fedeltà all’originale. E, in uno scenario politico rimasto immutato, non sorprende la stessa scelta del testo bilingue su due colonne anche per la traduzione del Tratado lascasiano contro la schiavitù, opera di Marco Ginammi (sempre che l’editore non faccia da copertura a un traduttore timorato), e pubblicata nel 636 a Venezia, appunto “appresso Marco Ginammi”, con l’eloquente dedica, rilevata già dal frontespizio, a Henri de Foi, militare francese al servizio di Venezia, che aveva già combattuto gli spagnoli nelle Fiandre e in Valtellina. 64 Il traduttore-tipografo non manca di ricordare, nell’indirizzo al lettore, di esser già stato per due volte (nel 626 e nel 630) l’editore della Brevísima relación, ribadisce il senso del testo a fronte (« si è posto l’originale spagnolo, acciò possi vedere la sua reale traduzione »), e promette altre opere del Las Casas : « Attendi in breve una controversa delle conquiste dell’Indie della suddetta penna, con altre scritture che senza risparmio di spesa di diligenza ti prepara il mio affetto ». La promessa sarebbe stata mantenuta, con la pubblicazione (644, poi anche 645) della Conquista delle Indie Occidentali, « disputa o controversia » del Las Casas con Ginés de Sepúlveda. Ma terminiamo con qualche altro esempio di scarto paratestuale drastico a livello di presentazione materiale, e cerchiamo di interpretarlo. Il Picariglio castigliano del Barezzi (ossia la versione del romanzo fondante il genere picaresco, l’anonimo Lazarillo de Tormes), come propone in modo convincente José Luis Colomer, 65 rappresenta 6. Rosario Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 989 ; Aldo Albonico, Il mondo americano di Giovanni Botero, Roma, Bulzoni, 990 ; Id., Il cardinale Federico “americanista”, Roma, Bulzoni, 990. 62. Franco Meregalli, Presenza della letteratura spagnola in Italia, Firenze, Sansoni, 974, p. 37. 63. Cito dall’edizione facsimile, con importante studio introduttivo, di Jesús Sepúlveda Fernández : Bartolomé de las Casas, Istoria della distruttione dell’Indie occidentali, Roma, Bulzoni, 990. 64. Il supplice schiavo indiano, edizione facsimile e studio introduttivo di Clara Camplani, Roma, Bulzoni, 993. 65. José Luis Colomer, Traducción y recepción : la lectura europea de la picaresca en « ll Picariglio castigliano » de Barezzo Barezzi (1622), « Revista de literatura », liii (99), pp. 39-443.

il paratesto nelle traduzioni letterarie di testi spagnoli

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fondamentalmente il tradimento di tutto un genere : gli equilibri strutturali dell’originale si perdono in una struttura turgida, cui contribuisce in modo decisivo un vistoso approssimarsi al genere miscellaneo e all’enciclopedismo. Il salto di genere, il processo di trasformazione profonda che l’originale subisce, risulta già evidente nell’assetto paratestuale, a partire dalle fiorite promesse del frontespizio : Nella quale con vivaci discorsi, e gratiosi trattenimenti si celebrano le Virtù, e si manifestano le di lui, e le altrui miserie, e infelicitadi ; e leggiadramente si spiegano Ammaestramenti saggi, Avenimenti mirabili, Capricci curiosi, Facetie singolari, Sentenze gravi, Fatti egregi, Detti piacevoli e Proverbi sentenziosi.

« Como hace también en sus otras traducciones, Barezzi detalla los añadidos, de los que resalta el carácter didáctico o de entretenimiento, tendente a suscitar la admiratio o la simple curiositas. La enumeración tiene, a ojos de la crítica, el valor adicional de subrayar lo que, según el editor, puede resultar más atractivo en el nuevo género para un público extranjero. De manera significativa, la fachada del rifacimento de Barezzi anuncia la contigüidad con otros textos o géneros literarios de la época », 66 in modo non diverso, appunto, da quanto avveniva sul frontespizio della traduzione del Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán che il Barezzi appronta e pubblica nel 606. E si aggiunga la Tavola delle cose più memorabili, « un elenco alfabético de más de trescientos cincuenta nombres propios (personajes históricos y narrativos, autores clásicos y contemporáneos), virtudes y defectos, dichos y proverbios que registra todo el material interpolado » ; 67 mentre l’« índice de capítulos », « dobla y multiplica la breve descripción de los siete tratados originales ». 68 Al Lazarillo ne sono insomma capitate di ogni, e le sue traversie sono riflesse in modo vistoso già dagli aspetti più esterni del paratesto. Molto interessante è anche la presentazione delle traduzioni italiane dei libros de caballerías. In termini tipografici essi presentano una tipologia molto ben definita : formato in folio, illustrazioni al frontespizio e all’interno, testo su due colonne in caratteri gotici. Ora, già la prima versione dell’Amadís, opera di Mambrino Roseo (546), rinnega questa presentazione esterna : « Il formato del libro parla chiaro : un libretto in ottavo, seicento o poco più fogli di piccola scrittura corsiva, che, al cospetto dei ricchi in folio illustrati spagnoli e francesi, allude immediatamente a un destinatario diverso », 69 ossia un pubblico socialmente variegato per cui l’opera spagnola, già con la caduta dell’importante prologo dell’autore (che spiega le intenzionalità del romanzo) è declassata al livello di lettura di intrattenimento ; e la traduzione, che taglia i commenti morali e vede un sistematico abbassamento del livello stilistico, procede nella stessa direzione. In conclusione, « la traduzione dell’Amadís, prodotto dall’industria tipografica veneziana, è un libro povero e maneggevole, da consumare in amena lettura senza il rispetto che si deve alle opere letterarie di rango, accessibile ed invitante per una fascia sociale di lettori che trascende la sfera della stessa nobiltà. È dedicato ad un colto, ma non notissimo, gentiluomo della corte estense, il conte Bonifazio Bevilacqua. Dalla dedica si intende che il libro non era stato commissionato dal conte, ma stampato su iniziativa dell’editore. Il fatto che la dedica sia firmata da 66. Ivi, p. 400. 67. Ivi, p. 40. 68. Ivi, p. 402. 69. Anna Bognolo, La prima traduzione…cit., p. 6.

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Tramezzino e non dal traduttore Mambrino Roseo da Fabriano indica chiaramente il ruolo secondario di quest’ultimo, che firmò invece dediche di altre traduzioni di cui evidentemente rivendicava con più forza la paternità. Si può pensare quindi che Michele Tramezzino patrocinasse di sua iniziativa la traduzione della serie di Amadís, affidando il lavoro a Roseo. Così, in breve tempo, poté pubblicare in successione tutte le continuazioni che erano uscite in Spagna nell’arco di cinquant’anni. Perciò, scritte per essere immediatamente pubblicate, le traduzioni furono frettolose ed intese a suscitare l’interesse dei lettori più che a rispettare il valore letterario dell’originale. La traduzione in italiano dell’Amadís de Gaula non ebbe quindi origine dal fascino esercitato su uomini di lettere o dalla richiesta di un re [come nel caso della versione francese di Herberay des Essarts], bensì dall’intraprendenza commerciale di un editore, e ciò non può non determinarne il carattere ». 70 Né la situazione cambia di molto se usciamo dal ciclo dei palmerini e degli amadigi per passare ai romanzi non appartenenti a nessun ciclo. Quando nel 586 (Venezia, Francesco de Franceschi) Camillo Camilli vede stampata la su versione del Félix Magno, il formato si riduce, e il testo pure (non si traducono gli ultimi due libri dei quattro che l’opera include) ; non trova corrispettivo la grande illustrazione del frontespizio dell’originale, 7 e il prologo è sostituito da un nuovo prologo del traduttore. La traduzione è molto prossima all’originale, ma solo perché « diversamente da quanto accadeva nel caso del ciclo amadisiano, per il quale gli interventi del traduttore Roseo furono sostanzialmente rivolti allo snellimento del testo attraverso la soppressione degli elementi linguistici, l’abbassamento del livello stilistico e lo sfrondamento delle digressioni moraleggianti e del sovrabbondante ornato, il Camilli si trovò di fronte ad un testo già adatto al pubblico italiano ». 72 Anche l’ultima tipologia esaminata, quella dei romanzi cavallereschi, dimostra che se la traduzione è, per sua assenza, trasposizione, passaggio da una cultura a un’altra, il paratesto occupa nell’economia di tutta l’operazione un ruolo difficilmente esagerabile. Abstract Il lavoro cerca di fissare la tipologia che il paratesto dellel numerose traduzioni di opere spagnole stampate in Italia nei secoli xvi-xvii presenta. Sullo sfondo della complessa realtà culturale italo-spagnola dell’epoca, il paratesto si definisce come ponte di primaria importanza tra due mondi non solo linguisticamente distinti. The article attempts to identify the types of paratextpresent in the many translations of Spanish works printed in Italy during the 6th and 7th centuries. Against the complex background of the period’s Italo-Spanish cultural reality, paratext can be considered an important bridge between two worlds that were quite distinct, and not only in the linguistic sense. 70. Ivi, p. 7. 7. E inoltre, « tipograficamente il testo si presenta a pagina completa composto con caratteri romani nel titolo e corsivo nel testo, contrariamente all’uso del genere cavalleresco spagnolo che imponeva, quasi senza eccezione, l’uso del testo a due colonne, ovviamente facilitato dal formato in folio, e del carattere gotico che rispecchiava il desiderio di continuità con i manoscritti arturici. Nemmeno l’uso delle preziose capolettere che caratterizzava i libri di cavalleria spagnoli veniva mantenuto : infatti solo l’antefatto e il primo capitolo presentano questa caratteristica, mentre a partire dal secondo capitolo l’editore si limita a proporre una semplice maiuscola », Claudia Demattè, Dal “Félix Magno” al “Felice Magno” : note sulla traduzione italiana di un libro di cavalleria cinquecentesco spagnolo, « Il Confronto letterario », xviii (200), p. 4 (33-50). 72. Ivi, p. 49.

Georges Güntert NARRATIVA ITALIANA DELL’OTTO E NOVECENTO TRADOTTA IN TEDESCO : IL RUOLO DEL PARATESTO

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a ricerca sul paratesto sembra dare miglior risultato se svolta sui libri antichi, generalmente dotati di un ricco apparato introduttivo (frontespizio, epistola dedicatoria, prologo, imprimatur o approvazione concessa dalle autorità civili, giudizio del censore, poesie composte in onore dell’autore ecc.), tale da consentire una ricostruzione del contesto culturale in cui l’opera vide la luce. Nella prassi editoriale contemporanea l’incidenza del fenomeno sembrerebbe invece meno rilevante. A smentire l’ipotesi è intervenuto recentemente un editore italiano, Roberto Calasso della Adelphi, il quale, ristampando – sotto il titolo Cento lettere a uno sconosciuto (Milano, 2003) – un centinaio di risvolti, non esita a paragonare questo tipo di testo all’antica epistola dedicatoria. Per Calasso « il risvolto appartiene al libro, alla sua fisionomia, come il colore e l’immagine della copertina », per quanto si tratti di « un’umile e ardua forma letteraria che non ha ancora trovato il suo teorico e il suo storico ».  E qui obietterei che non solo in seguito all’apparizione del famoso saggio di Genette, 2 ma anche in tempi più remoti, la storia del libro e dei suoi avantesti ha meritato l’attenzione di bibliofili, filologi e storici della cultura. È nuovo, semmai, il concetto di paratesto, ma non l’interesse per le componenti del libro che tale concetto designa ; e, quanto alla storia del fenomeno, essa s’inscrive da sempre sia nella scienza bibliografica intesa come catalogazione e descrizione dei libri stampati, sia nell’ambito della Rezeptions geschichte. A queste due sfere d’interesse va aggiunto, specialmente oggi, l’aspetto commerciale, visto che una parte del paratesto persegue lo scopo di reclamizzare l’oggetto “libro”. Calasso ha comunque ragione quando insiste sulla continuità di un intento di captatio rivolto, tra il Cinque e il Settecento, solitamente a un principe, e in età moderna a un pubblico, la cui benevolenza non è forse più facile da conquistare. Una situazione particolare si crea quando il libro viene tradotto e pubblicato all’estero, dove dovrà essere presentato a lettori appartenenti a una cultura diversa. A differenza dei connazionali, il pubblico straniero non dispone delle stesse basi culturali né degli stessi punti di riferimento, per cui va conquistato con strategie editoriali mirate : si dirà allora di un libro tradotto che nel paese d’origine è considerato un’opera rappresentativa o, secondo un’altra tecnica comunemente praticata, si accosterà il nome poco conosciuto dell’autore straniero a quello di una personalità di chiara fama. Nel contributo che mi accingo a presentare, ho limitato il mio campo d’interesse alle traduzioni di opere italiane edite nei paesi di lingua tedesca. . In primo luogo, ho preso in esame un centinaio di opere narrative composte da scrittori italiani del Novecento e tradotte una o più volte in lingua tedesca. Fra gli autori presi in considerazione figurano Pirandello, Svevo, Grazia Deledda, Palazzeschi, Tozzi, Borgese, Bontempelli, Moravia, Alvaro, Brancati, Vittorini, Pavese, Natalia . Roberto Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Milano, Adelphi, 2003, p. 7. 2. Gérard Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 987.

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Ginzburg, Elsa Morante, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Gadda, Pasolini, Calvino, Sciascia – una lunga serie di nomi che però non include quelli di autori ancora attivi. 2. In secondo luogo, nell’indagare le complesse vicende editoriali, per evitare di perdermi in un mare di dettagli ho seguito con particolare attenzione la fortuna di un singolo testo : Sorelle Materassi di Palazzeschi. 3. In terzo luogo, ho studiato il paratesto nelle traduzioni tedesche del celebre romanzo manzoniano, da noi intitolato Die Verlobten (= i fidanzati) oppure, nella nuova versione curata da Burkhart Kroeber, Die Brautleute (= gli sposi). Nonostante la serietà di quest’ultimo tentativo, nessuno, per il momento, è in grado di dire se il titolo mutato (peraltro non completamente nuovo, perché già utilizzato una volta nel 93) riuscirà a imporsi, visto che continuano a vendersi copie di edizioni dal titolo tradizionale.3 . Il titolo Uno dei problemi concomitanti della prassi traduttoria riguarda appunto la fedeltà del titolo rispetto all’originale. In realtà, quello del romanzo manzoniano non è il primo caso di un’opera appartenente alla Weltliteratur ad aver cambiato nome : per oltre un secolo il lettore tedesco è stato abituato a chiamare il capolavoro di Dostojevskij Schuld und Sühne (= Colpa ed espiazione ; con due sostantivi religiosamente connotati, ma facili da ricordare in quanto già formavano coppia nella lingua comune) ; e invece qualche anno fa, su proposta della traduttrice Svetlana Geier, l’editore Winkler impose il titolo – alquanto prosaico, mi sembra, ma semanticamente più esatto –, Verbrechen und Strafe, conformemente all’italiano Delitto e castigo, che a sua volta riflette il francese Crime et châtiment (dal russo Prestuplenie i nakazanie, letteralmente « Delitto e pena »). Ma si badi che nemmeno in italiano il titolo del romanzo è rimasto immutato : in una delle prime edizioni appare il sottotitolo Raskolnikoff, 4 secondo il nome del protagonista traslitterato alla francese. Ora, viene da chiedersi in quale misura le lingue internazionali, come il francese nell’epoca in questione, influiscano sulle scelte effettuate dalle case editrici in materia di intitolazione. D’altra parte, un titolo modificato può suggerire l’idea di una novità editoriale, come è accaduto al romanzo palazzeschiano Storia di un’amicizia, denominato nelle prime stampe tedesche, ad Ovest Ungleiche Freunde (= Amici diseguali) e ad Est Geschichte einer Freundschaft ; nel 998, tuttavia, l’editore Wagenbach rilanciò l’opera con l’estroso titolo, riferito ai due personaggi, l’ottimista e il pessimista, Freudenschrei und Regenschirm (letteralmente = Grido di gioia e Ombrello) ; binomio che in italiano non suona, mentre in tedesco tale combinazione di parole antitetiche e composte, oltre ad essere piacevolmente ritmica, orecchiabile, si associa a coppie di nomi familiari, come gli shakespeariani Rosenkranz und Güldenstern o, certi titoli di fiabe, come Schneeweißchen und Rosenrot. Altre volte, il titolo del libro tradotto cambia poco o nulla rispetto all’originale, specialmente quando ripropone il nome del protagonista : così, in Germania la Deledda è nota come l’autrice non solo di Schilf im Wind 3. Alessandro Manzoni, Die Brautleute, trad. di B. Kroeber, München-Wien, Hanser, 2003. Il titolo mutato era apparso già una volta, in un’edizione uscita a Monaco nel 93. Cfr. la tesi di dottorato di Stefania Cavagnoli-Woelk, Contributi per la storia della recezione tedesca dei “Promessi Sposi” di Manzoni, con particolare riguardo alle traduzioni, Regensburg, Roderer, 994, p. 20. 4. Fedor Dostojevskij, Delitto e castigo (Raskolnikoff), Milano, Treves, 889. Devo l’informazione alla dott.ssa Franca Strologo, che ha in preparazione un lavoro sulla storia del romanzo russo in Italia.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 415 (= Canne al vento), ma anche di Marianna Sirca e di Elias Portolu (in questo caso la pronuncia tedesca coincide con quella sarda). E anche per i germanofoni Borgese ha scritto Rubè, Moravia Agostino e Brancati Bell’Antonio (da noi senza l’articolo). Il titolo è inoltre fedelmente tradotto per le opere di Vittorini Gespräch in Sizilien, Bassani Die Gärten der Finzi-Contini e Tomasi di Lampedusa Der Leopard. Chi traduce un titolo cerca o di rimanere il più possibile vicino all’originale o di trovare un’espressione semanticamente equivalente. I lettori di lingua tedesca sanno che Pirandello ha composto Die Wandlungen des Mattia Pascal, mentre Svevo è noto per avere scritto Zeno Cosini, o, secondo l’edizione più recente, 5 Zenos Gewissen (dove si pone però il problema di trovare un termine equivalente per « coscienza », e di decidere se sia preferibile Gewissen, con le sue connotazioni morali, o Bewusstsein, di uso più filosofico). Quanto a Senilità, si è preferito evitare il latinismo Senilität, pur disponibile in tedesco ma solitamente associato al venir meno delle facoltà fisico-mentali, e sostituirlo con una perifrasi, Ein Mann wird älter (come in inglese : As a man grows older). Un titolo equivalente si è cercato infine per il romanzo gaddiano Quer pasticciaccio…, denominandolo Die grässliche Bescherung (= l’orribile accidente) in der Via Merulana. Resta poi il problema delle parole intraducibili che, ove siano di per sé suggestive, si lasciano di preferenza immutate : significativamente, diverse opere di Pier Paolo Pasolini mantengono nella traduzione i titoli originali, Accattone, ad esempio, o Ragazzi di vita, non essendoci nulla di veramente equivalente in tedesco. Anche il libro Pataffio di Luigi Malerba è stato pubblicato con questo identico titolo, certamente enigmatico per il lettore straniero ; ma in una breve nota introduttiva l’editore spiega che nella novellistica italiana il termine designa una storia all’insegna del grottesco, del nonsense ; e in copertina il genere viene fatto risalire allo stile scatologico di Rabelais. Elementi costitutivi del paratesto Ma lasciamo ora i problemi relativi all’intitolazione e cerchiamo di capire quale spazio venga riservato al paratesto nelle edizioni novecentesche. L’estensione del paratesto dipende dal prestigio della collana, dalla qualità filologica della pubblicazione e dalla confezione del libro. Va però precisato che anche là dove mancano l’illustrazione di copertina, la pagina di presentazione e il classico risvolto, come accade in molti tascabili, il paratesto non è mai inesistente. Come minimo troviamo il titolo, preceduto o seguito dal copyright e dalle note relative all’edizione (editore, anno, titolo dell’originale, traduttore), nonché una citazione tratta dall’opera e un breve riassunto, il più delle volte completato da un cenno biografico : “vita e opere” dell’autore, insomma, compendiate con una laconicità da “garzantina”, mentre sul retro spunta il frammento di una recensione o un breve elogio dell’opera, possibilmente dettato da parte autorevole e tale da offrire al lettore un sicuro punto di riferimento. Così, nel volume Marianna Sirca della collana Winkler Weltliteratur si riproduce un giudizio di Attilio Momigliano, che paragona l’arte narrativa della Deledda a quella di Manzoni : « Niemand seit Manzoni hat in einem wahrhaft künstlerischen Werk unser Lebensgefühl so bereichert und vertieft wie sie ». (= nessuno dopo Manzoni ha saputo, più di lei, arricchire e approfondire in un’opera d’arte il nostro senso del vivere). 6 Ora, collocare 5. Italo Svevo, Zeno Cosini, Reinbek b. Hamburg, Rowohlt, 2003 ; e Idem, Zenos Gewissen, trad. di B. Kleiner, Frankfurt/M., Zweitausendundeins, 2000. 6. Grazia Deledda, Marianna Sirca, Düsseldorf-Zürich, Artemis & Winkler, 2004 (in copertina).

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la scrittrice sarda sullo stesso piano di Manzoni è come ricorrere al modo superlativo, stilema d’altronde tipico dei richiami in copertina. Al fine di far conoscere al pubblico tedesco il libro Sorelle Materassi, tre editori si appoggiano all’autorità di Gide, il quale aveva ritenuto quell’opera « il capolavoro » di Palazzeschi e il « migliore romanzo italiano degli ultimi anni ». 7 E, analogamente, il Pasticciaccio di Gadda viene definito da Wagenbach – con una formula che risale a H. M. Enzensberger – « das Hauptwerk des Vaters der modernen italienischen Literatur ». 8 Le collane più prestigiose, quali Manesse, Winkler Weltliteratur o Deutscher Klassiker Verlag, oltre a vantare un ricco apparato di note, non mancano mai d’inserire un sostanziale epilogo o, più di rado, un prologo. Questi saggi, se redatti da letterati germanofoni, interesseranno gli studiosi della storia della ricezione. Negli ultimi anni, tuttavia, alcune case editrici hanno preferito corredare i testi dei grandi autori di saggi concepiti da specialisti, nella fattispecie italiani, facendoli a loro volta tradurre : per esempio, a propagandare una nuova edizione dei Promessi Sposi interviene Umberto Eco, con un suo saggio manzoniano ; e la casa Rowohlt, nel ristampare le opere di Svevo, pubblica in traduzione i saggi introduttivi dei coeditori italiani – Gabriella Contini, Silvana de Lugnani e Claudio Magris – già apparsi nei volumi sveviani dell’editore Dall’Oglio. 2. Un caso singolare : il paratesto in S ORELLE M ATERASSI di Palazzeschi (edizioni in lingua tedesca) La fortuna di Palazzeschi nei paesi di lingua tedesca è stata, almeno in certi periodi, sorprendentemente vivace : con punte massime di edizioni fra gli anni Settanta e Novanta, momento in cui usciva a stampa l’opera narrativa dell’autore ottantenne, che anche in Germania ebbe un’eco immediata. Va notato, d’altra parte, che manca a tutt’oggi una versione tedesca del Codice di Perelà, disponibile solo nelle varie riedizioni italiane e in inglese. 9 Altri testi di Palazzeschi come I fratelli Cuccoli, Il doge, Storia di un’amicizia e Interrogatorio della Contessa Maria sono stati pubblicati più volte, mentre le Stampe dell’Ottocento (in tedesco Am Fenster. Florentiner Veduten um 1900) hanno avuto una sola edizione. Qui interessa solo il caso delle Sorelle Materassi, romanzo che dopo essere stato tradotto due volte in tedesco, nel 948 e nel 957, è stato riproposto da quasi tutte le grandi case editrici con tagli tanto deplorevoli quanto sintomatici, dettati cioè da calcoli editoriali e dal timore che il pubblico tedesco potesse non apprezzare un esordio così liberamente fantasioso come quello ideato da Palazzeschi. Questi tagli riducono di fatto il capitolo primo, intitolato « Santa Maria a Coverciano », a una specie di avantesto. La funzione introduttiva del brano non soppresso risulta tanto più evidente in quanto il capitolo successivo si chiama, come l’intero romanzo, Sorelle Materassi. 7. Aldo Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, üb. von W. Phieler, Hamburg, Toth Verlag, 948, cfr. la pagina di pubblicità in appendice ; A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, üb. von H. Moser, Einsiedeln-Zürich, Benziger, 966 ; e A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, üb. von H. Moser, München, Deutscher Taschenbuch Verlag, 969. 8. Carlo Emilio Gadda, Die grässliche Bescherung in der Via Merulana, Berlin, Wagenbach, 998, vedi la copertina. 9. A dire il vero, la vecchia edizione americana Perelà, the Man of Smoke, del 936, era appena un adattamento, sostituito da una traduzione integrale solo di recente : A. Palazzeschi, The Man of Smoke, transl. from the Italian with an introduction by N. J. Perella and R. Stefanini, New York, Italica Press, 992.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 417 Al lettore tedesco potrà quindi sembrare che le due paginette descrittive, riferite al paesello toscano, servano solo da ambientazione alla vicenda. Certo, non si tratta qui del paratesto, perché quel capitolo ridotto a un terzo del suo contenuto è pur sempre opera di Palazzeschi. Tuttavia, in termini semiotici, l’intervento dei traduttori mutila nientedimeno che la prima macrosequenza testuale, vale a dire la parte che non appartiene al racconto ma al discorso, e che non a caso risulta quanto mai densa di riflessioni metaletterarie, indispensabili alla comprensione dell’opera. Nelle pagine soppresse, dunque, l’io narrante palazzeschiano, riflettendo sui rapporti fra caso e architettura umana, natura e arte, cerca di stabilire un primo contatto col lettore, paragonando l’aristocratica eleganza delle colline fiorentine alla pianura prosaica e borghese che però lavora e produce, e che verrà poi promossa a scenario del romanzo. Detto in termini palazzeschiani, si dà la preferenza alla realtà « serva », e non a quella « padrona ». 0 Rammentando poi, in mezzo alla sublime celebrazione dell’armonia, un verso dantesco fortemente accusatorio nei confronti dei fiorentini, che vengono tacciati di falsari e ladri, Palazzeschi anticipa fin dalla prima pagina quella sua tendenza al rovesciamento del sublime che è caratteristica della sua maniera. Verso la fine del capitolo, si torna a parlare di arte e vita : data la vicinanza dei fiumi Africo e Mensola (i quali talvolta « s’infuriano con l’impeto della gioventù » per poi placarsi « come i fanciulli che dopo essersi scalmanati si mettono a dormire »), non si tralascia di ricordare la « purissima giocondità » del grande Boccaccio, che qui, attraverso una lunga citazione tratta dalla cornice del Decamerone, assurge a modello di un’arte nutrita dall’amor vitae, in cui la vena affabulatoria di Palazzeschi si riconosce (anche se in Monte Ceceri gli accade di esclamare : « vita : orrenda cosa che mi piaci tanto »).  Evidentemente, secondo gli editori tedeschi, simili pagine non erano adatte a un pubblico al quale il romanzo doveva presentarsi piuttosto come un opera d’intrattenimento. Va ricordato, a tale proposito, che nemmeno in Italia il primo capitolo di Sorelle Materassi era stato particolarmente apprezzato : sono ben noti i giudizi critici di Solmi, Pancrazi e De Robertis. 2 Ma seguiamo la vicenda editoriale del romanzo tradotto : il primo traduttore, Willy Phieler, basandosi sul testo della Vallecchi (suddiviso come quello mondadoriano in otto capitoli, dai titoli spesso pittoreschi), si prende la libertà di non rispettare i titoli di quei capitoli né la suddivisione stessa, introducendo per conto suo una cesura alla fine del capitolo iv e offrendo così al lettore un racconto bipartito. Il criterio che lo induce a procedere in questo modo è di tipo cronologico : Remo bambino all’inizio del quinto capitolo è infatti cresciuto e si prepara alle sue ultime imprese. Ora, siccome in questa prima traduzione i capitoli vengono indicati con cifre romane, quello iniziale non assume ancora l’aspetto di una premessa. Ma alcuni anni dopo, la traduttrice Helene Moser opererà un taglio anche più radicale, lasciando del primo capitolo soltanto la parte descrittiva, riferita appunto al paese di Santa Maria a Coverciano ; e così pure faranno i responsabili delle edizioni successive. Per loro, il libro dovrà cominciare con una constatazione obiettiva, di natura topografica e degna di un romanzo naturalistico : « Santa Maria ist noch nicht einmal ein kleines Dorf, sondern nur ein 0. A. Palazzeschi, Sorelle Materassi, I romanzi della maturità, Milano, Mondadori, 960, p.4. . A. Palazzeschi, Cuor mio, Milano, Mondadori, 968, p. 98. 2. Cfr. a questo proposito le riflessioni di Sibyl Siegrist Staubli, Palazzeschi romanziere : fra sperimentalismo e tradizione, in particolare p. 9.

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Kirchspiel », ma nemmeno questo periodo equivarrà a quello corrispondente dell’originale. In tal modo, i lettori tedeschi non leggeranno mai il romanzo di Palazzeschi, bensì un testo confezionato su quello, alla cui trasformazione avranno contribuito editori, consulenti e traduttori. Come si presenta il paratesto in ciascuna delle sette edizioni tedesche ? La prima stampa del 948 – un testo mal tradotto, oggi irreperibile – non offre alcun commento introduttivo. 3 L’unica informazione concessa al lettore, relativa alla vita del romanziere e alle sue opere, è riscontrabile alla fine del libro, nella pagina di pubblicità dell’editore Vallecchi, dove è riprodotto l’elogio di Gide nei riguardi delle Sorelle Materassi. Il secondo editore che fa stampare il romanzo, ormai basato sul testo della Mondadori e con la nuova traduzione di Helene Moser, è il Benziger Verlag di Zurigo-Einsiedeln : si tratta di un bel volume rilegato, sul cui risvolto l’autore è definito come « uno spirito indipendente, ostile alle convenzoni e ai pregiudizi borghesi ». 4 L’affermazione s’ispira a un giudizio di Vittorini, a sua volta riprodotto nel testo di presentazione (lo cito in italiano) : « In questo è la grandezza maggiore di Palazzeschi ; mostrare come il caso strano, il curioso incidente, la stravaganza di un momento, il grottesco di un atteggiamento siano non già anormalità ma il buco normale per cui scappa fuori dalle convenzioni e dalle abitudini, dal meccanico della vita quotidiana, l’anima dell’uomo ». 5 Le edizioni successive, anche quelle tascabili, si pubblicheranno tutte su licenza della casa Benziger, a cominciare da quella uscita nel 969 presso il Deutscher Taschenbuch Verlag, che riproduce sulla prima pagina un frammento di una recensione apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung che dice : « Il romanzo, giunto tardi da noi, arriva in un momento in cui i lettori si sono stancati di scervellarsi su testi sperimentali. Piace vedere che si può narrare anche in modo diverso ». 6 Già un anno prima, l’editore Rütten und Loening di Berlino Est aveva pubblicato in volume, con una bella illustrazione di copertina, la prima edizione del romanzo per la Germania Orientale. 7 Sul risvolto, dopo un riassunto in chiave psicologica, troviamo una lapidaria osservazione sul fatto che l’autore avvertirebbe l’elemento comico-grottesco anche nella vita quotidiana ; e in conclusione Sorelle Materassi è definito come « uno dei migliori libri della letteratura italiana degli anni Trenta ». Tutt’altro, invece, il volume tascabile apparso nel 976 presso l’Auf bau-Verlag di Berlino Est, una casa editrice da sempre legata alla politica culturale del Partito Comunista ; ragion per cui i curatori non si sono potuti permettere di trascurare l’aspetto storico-sociale dell’opera. Sorelle Materassi diventa quindi una « tragedia piccolo-borghese », sia pure narrata con divertita ironia ; e come esempio dell’ilarità palazzeschiana si cita una frase dal capitolo finale, in cui le due zitelle contemplano estasiate le fotografie del loro nipote, ritratto in costume da bagno : a voler credere a Niobe, infatti, « Un signore si vede anche in mutande ». L’ultimo cenno della scheda di presentazione riguarda l’autore, di cui si dice in poche parole che fu poeta e simpatizzante del movimento 3. A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, trad. di W. Phieler, cit. 4. A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, Benziger, cit., cfr. il risvolto di copertina. 5. Elio Vittorini, Valore assoluto, « Il Bargello », ix, 8, 28 febbraio 937, ora in Elio Vittorini, Letteratura, Arte, Società. Articoli e interventi (1926-37), a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 997, p. 062. 6. A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, Dtv, cit., testo di presentazione, p.. 7. A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, trad. di H. Moser, Berlin, Rütten und Loening, 968.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 419 futurista, prima di acquisire fama come novellista, grazie alle sue narrazioni « eccentriche e scurrili ». 8 L’edizione tascabile Ullstein, del 980, appare nella collana « La donna nella letteratura » e promette ai lettori il testo integrale. In realtà viene ristampata la stessa traduzione di Helene Moser, con la stessa riduzione ad avantesto del capitolo iniziale. La novità del libro è costituita dall’epilogo, a cura dello scrittore Karl Alfred Wolken (nato nel 929, originario della Frisia e vissuto a lungo a Roma). Ideologicamente Wolken appare vicino a un marxismo evoluto, di stampo occidentale, per cui cita Lukács accanto a Nietzsche, e L’Immoraliste di Gide accanto alle novelle di Thomas Mann (Morte a Venezia). In cinque pagine Wolken abbozza un bel ritratto di Palazzeschi, che viene fra l’altro definito un « radicale indipendente ». In quanto tale, lo scrittore toscano avrebbe preso le distanze da Marinetti, di cui non condivideva le velleità belliciste ; i soggiorni parigini lo avrebbero confortato nella sua aspirazione alla conquista di una libertà interiore, mantenuta anche attraverso il ventennio. Segue una presentazione del romanzo, che, a detta di Wolken, rappresenta il contrario di « un ritorno all’ordine » : le sorelle Materassi vivono dapprima troppo esclusivamente per il proprio lavoro, come vittime di un ethos borghese male interpretato, per poi abbandonarsi sempre più all’infatuazione per Remo, che è « la vita stessa » : il lasciarsi trascinare da questa “vita” (che è eros ed egoismo feroce, da parte del giovane), se da un lato finisce per rovinare le sorelle economicamente, dall’altro le trasforma da schiave del lavoro in esseri umani, che proprio grazie a quel pizzico di follia riescono a liberarsi dal mondo delle convenzioni. Nel 987, infine, l’editore Rowohlt presenta il romanzo come storia di un’infatuazione erotica e di una certa estraneità al mondo (= Weltfremdheit). La vicenda, per quanto tragica, riuscirebbe ciò nonostante di lettura godibile grazie all’avvincente umorismo dell’autore. La citazione, tratta dal libro e scelta dall’editore a mo’ di richiamo, illustra appunto il concetto paradossale della « commedia triste » presentata con sfacciata allegria. Sentiamo : « Guardandole così (= le padrone e la serva Niobe) non erano che tre mezzi limoni spremuti e gettati nel cantuccio delle immondizie. Vendute le case, venduto il podere, finite fino all’ultimo centesimo le riserve, spariti i clienti fino all’ultimo ». 9 È il momento della massima miseria, eppure l’immagine dei « tre mezzi limoni spremuti e gettati nel cantuccio » è tale da generare ilarità e da ravvivare il piacere estetico. 3. Il paratesto in alcune edizioni tedesche dei « Promessi Sposi » Nel 827 uscivano quasi contemporaneamente due versioni tedesche dei Promessi Sposi : l’una a Lipsia, incaricata da Goethe e realizzata da Daniel Lessmann ; l’altra, a Berlino, curata da Ernst von Bülow ed eseguita su richiesta del capo dei romantici, Ludwig Tieck ; entrambe le traduzioni si basavano sul testo della ventisettana. Da allora fino ad oggi il romanzo manzoniano è stato tradotto tra diciassette e venti volte (dipende da come si conta, se cioè si includono o no le versioni incomplete e i rifacimenti), mentre il numero delle edizioni sfiora la sessantina. 20 Dopo Dante, Manzoni 8. A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, Berlin, Auf bau-Verlag, 976, vedi il testo di presentazione. 9. A. Palazzeschi, Sorelle Materassi, I romanzi della maturità cit., p. 336, cit. in A. Palazzeschi, Die Schwestern Materassi, üb. von H. Moser, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 987, p. 7. 20. Cfr. la tesi di Stefania Cavagnoli-Woelk, Contributi per la storia della recezione tedesca dei « Promessi Sposi », cit., pp. 208-2.

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è dunque lo scrittore italiano più frequentemente tradotto. Anche altre opere dello scrittore lombardo, in particolare gli Inni Sacri, il Cinque Maggio e le due tragedie, furono conosciute in Germania subito dopo la loro apparizione, per merito di Goethe. I Colloqui con Goethe di Eckermann stanno a documentare come l’ammirazione del poeta, già tributata al Conte di Carmagnola, si riversasse in seguito sul romanzo, che, secondo Goethe, superava in umanità e qualità artistica ogni altra creazione letteraria di quel momento. Ma, nell’ottica goethiana, Manzoni aveva sbagliato nel concedere troppo spazio alla storia, lasciando troppo a lungo in sospeso le peripezie dei personaggi. Nei capitoli della guerra e della peste, per dirla con la celebre frase di Goethe, lo storico aveva insomma « giocato un brutto tiro al poeta ». 2 Manzoni ist ein geborener Poet, so wie Schiller einer war. Doch unsere Zeit ist so schlecht, daß dem Dichter im umgebenden Leben keine brauchbare Natur mehr begegnet. Um sich neu aufzubauen, griff Schiller zu zwei großen Dingen. Zu Philosophie und Geschichte, Manzoni zur Geschichte allein […]. So leidet Manzoni durch ein Übergewicht der Geschichte. 22

Mentre in Francia Fauriel e Lamartine approvarono la scelta manzoniana di concedere ampio spazio alla storiografia, ritenendola consona al genere del romanzo storico, in Germania pochissimi critici osarono contraddire il grande Goethe : magari osservando che Manzoni in un primo tempo allarga la vicenda romanzesca fino a farla sfociare nella storia del Seicento, per poi, a partire dal capitolo xxviii, procedere in senso contrario, dalla grande Storia alla vita dei personaggi ; oppure, mettendo in risalto l’importante aspetto etico, la responsabilità morale, che riguarda anche le autorità milanesi messe a dura prova al momento dell’epidemia. Simili argomentazioni, che s’incontrano nella saggistica attuale, 23 non si avanzarono mai mentre Goethe era in vita. Al contrario, quando egli suggerì di abbreviare le parti storiche, il primo traduttore, Lessmann, gli ubbidì sull’istante, suddividendo il romanzo in 36 (anziché 38) capitoli e in tre parti, che non avevano alcun fondamento nel testo originale (il Fermo e Lucia, allora ignoto, si articolava in quattro parti). Ora, se ciò fosse accaduto una sola volta, potremmo considerare il fatto come una prova in più dell’autorità incontrastata di cui godeva allora il poeta di Weimar. Ma la traduzione di Lessmann fu ristampata a più riprese, anche nel primo Novecento, per cui le edizioni con 36 capitoli hanno continuato a circolare. 24 Se sfogliamo, per esempio, le due edizioni zurighesi del 943 e del 958 con la traduzione di A. Saager, vi troviamo ancora lo stesso atteggiamento ideologico di fronte al testo, confermato dal traduttore, il quale, richiamandosi in modo esplicito al giudizio di Goethe, argomenta come segue : è opportuno, traducendo il romanzo, evitare “l’errore” commesso da Manzoni e abbreviare i capitoli storici, lasciando di ciascuno appena un terzo, e cioè tanto da poter riprendere, senza troppe difficoltà, le fila della vicenda romanzesca. 25 2. Johann Peter Eckermann, Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens, a cura di F. Bergemann, Baden-Baden, Insel Verlag, 98, p. 247. 22. Ivi, p. 247. 23. Joachim Küpper, Zum italienischen Roman des 19. Jahrhunderts. Foscolo, Manzoni, Verga, D’Annunzio, Stuttgart, Franz Steiner, 200, pp. 54-59. Cfr. anche il nostro saggio : Georges Güntert, Manzoni romanziere : dalla scrittura ideologica alla rappresentazione poetica, Firenze, Cesati, 2000. 24. Abbiamo consultato l’edizione A. M., Die Verlobten, Berlino, A. Hofmann, 860, che ripropone appunto i 36 capp. della traduzione di Lessmann. 25. Alessandro Manzoni, Die Verlobten, üb. von A. Saager, Zürich, Schweizer Druck- und Verlagshaus, 943. Einleitung. p. 2.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 421 A correggere questa visione deformata del problema testuale dovettero intervenire i grandi editori del secondo Novecento, da Winkler a Hanser, dalla Dieterich’sche Verlagsbuchhandlung all’Auf bau-Verlag, i quali, intesi a ristabilire la forma dell’opera secondo le intenzioni dell’autore, cominciarono, dal 960 in poi, a ripubblicarlo in versione integrale. 26 L’influenza di Goethe, nella storia della fortuna dei Promessi Sposi, è stata indubbiamente decisiva. Non v’è prologo o epilogo, nelle varie edizioni otto e novecentesche, che non faccia riferimento ai Colloqui di Eckermann. E anche nella saggistica dedicata al romanzo, da Heyse a Baumgartner, da Jakob Burckhardt a Hugo von Hofmannsthal, Goethe resta un punto di riferimento imprescindibile. Solo il secondo traduttore, Eduard von Bülow (amico appunto di Ludwig Tieck, cui nel 846 avrebbe portato i saluti di Manzoni), 27 ebbe il coraggio di difendere la coerenza poetica dell’opera manzoniana contro Goethe, osservando fin dalla seconda edizione del 837 (cito dal prologo) : « Per quanto strano possa sembrare, è stato proprio Goethe a giudicare in tal modo (leggi : rigoroso) quell’opera magistrale e perfettamente unitaria (= wie aus einem Guss) che sono I Promessi Sposi ». 28 Dicendo questo, von Bülow non volle che manifestare la propria ammirazione per l’arte di Manzoni ; ma il fatto che la sua traduzione fosse stata incaricata da Tieck, mi sembra comunque indicativo : nell’estetica romantica l’amalgama di parti tematicamente eterogenee non inficiava necessariamente l’idea di unità poetica. Anche Ludwig Clarus, un illustre rappresentante della critica cattolica (tradizionalmente favorevole a Manzoni), osò manifestare qualche perplessità al riguardo. D’altra parte, essendo egli molto rispettoso del concetto di autorità – Goethe e Tieck, in quanto sostenitori di Manzoni, sono per lui « corifei » –, critica la concezione goethiana solo indirettamente, polemizzando con quel “miscredente” di Wolff, che aveva osato parlar male degli Inni Sacri e rimproverare al romanzo « un eccesso di erudizione storica ». 29 Nel prologo, redatto nel 85 per l’editore Franck di Stoccarda, (cui spetta il merito di aver fatto conoscere l’edizione definitiva dei Promessi Sposi), Clarus focalizza il delicato problema del rapporto fra storia e finzione nell’opera d’arte, contrapponendo le parole sprezzanti del Wolff alla generosità con cui Goethe avrebbe trattato la questione. 30 Ma lo stesso critico arriva ad accusare l’avversario per la sua non-appartenenza alla religione cattolica, che gli avrebbe impedito di comprendere a fondo Manzoni. Il problema della religione, nella storia della ricezione, non era dunque di poco peso. Secondo l’Elwert, « il gran male fu che del Manzoni in Germania certuni fecero un paladino della religione cattolica, e che dai cattolici fu rivendicato 26. Ci limitiamo alle riedizioni del dopoguerra. Il primo esempio fu : Alessandro Manzoni, Die Verlobten, trad. di E. W. Junker, con un epilogo di C. C. Secchi, München, Winkler, 960. Nello stesso anno si ebbe un’altra traduzione completa nella Germania Orientale : Alessandro Manzoni, Die Verlobten, trad. di R. Macchi, con un epilogo di V. Macchi, Leipzig, Dieterich’sche Verlagsbuchhandlung, 960. 27. Wulf Segebrecht, Ludwig Tieck an Eduard von Bülow, « Jahrbuch des Freien Deutschen Hochstifts », 966, Tübingen, Niemeyer, 966, pp. 384-456 ; lettera del 5 giugno 846, p. 44. 28. Eduard von Bülow, Vorwort des Übersetzers, ristampato in Alessandro Manzoni, Die Verlobten, hg. und eingel. von L. Fränkel, Stuttgart, 883, p. 29. 29. Alessandro Manzoni, Die Verlobten. Eine Mailändische Geschichte aus dem 17. Jahrhundert, nebst einem Anhange Geschichte der Schandsäule, nach der neuesten Auflage aus dem Italienischen übersetzt, eingel. von Ludwig Clarus, Stuttgart, Franck, 85 (ma citiamo dalla ristampa di Regensburg, Manz, 884, p. 73). La polemica con il prof. Wolff (un ebreo convertitosi al protestantesimo) mette in evidenza il fanatismo del Clarus, che non esita a far valere argomenti ispirati all’antisemitismo più bieco (p. 73). 30. Ivi, p. 74.

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come uno dei loro, ad esclusione di tutti gli altri, protestanti ed ebrei […]. Questo zelo ebbe il torto di mettere la discussione su un piano sbagliato e di dare un’idea inesatta e incompleta del merito letterario del Manzoni ». 3 Clarus, infatti, considerava i Promessi Sposi essenzialmente come un libro cattolico, « ein vom katholischen Geiste überall durchdrungener und getragener Roman », e fra i suoi pregi sottolineava quello di avere esaltato il ruolo della Chiesa nel mondo. 32 Né va taciuto il fatto, a mio parere sintomatico, che Clarus, nel tracciare il ritratto dell’autore, criticasse il giovane Manzoni per avere sposato una calvinista : stando a lui, « un vero cattolico non avrebbe compiuto un tale gesto ! » 33 Contro questa posizione ideologicamente chiusa non mancarono le reazioni da parte di critici agnostici e liberali. La vita culturale della Germania era dominata dalle lotte fra liberali e conservatori, anche all’interno del mondo cattolico, allora duramente scosso dallo scisma, nato in seguito alla promulgazione del Syllabus e del dogma sull’infallibilità del Papa. In diversi scritti introduttivi, composti per le edizioni apparse nell’ultimo terzo del secolo, le tendenze conservatrici del cattolicesimo “ultramontano”, come allora usava dirsi, venivano contrapposte all’umanità e allo spirito liberale di Manzoni, attestati, fra l’altro, dalle conversazioni che egli aveva avuto, nel ’32 e nel ’55, con il luterano Carl Witte. Ai dialoghi con Witte fanno riferimento sia il saggio introduttivo di Ludwig Fränkel, il quale prova a rileggere Manzoni in un’epoca che ha sostituito il gusto romantico con quello realista, 34 sia quello di Jacob Mähly, amico di Böcklin e successore di Nietzsche sulla cattedra di filologia greca all’Università di Basilea. Mähly rimproverava ai critici come Clarus di aver fatto dei Promessi Sposi un romanzo tendenzioso, destinato alla propaganda religiosa, quando in realtà Manzoni, nell’episodio di Gertrude, aveva criticato l’atteggiamento troppo accondiscendente della Chiesa nei confronti delle classi dominanti. Comunque, anche a Mähly parve di sentire troppo, nel romanzo manzoniano, « il profumo dei ceri e dell’incenso ». 35 A differenza di Fränkel, seguace fedele dell’estetica di Goethe, Mähly, nel valutare l’opera completa di Manzoni, diede prova di una notevole indipendenza di giudizio : secondo lui, il Carmagnola non era un’opera sufficientemente drammatica né quindi facilmente rappresentabile, come del resto l’esperienza di mezzo secolo aveva mostrato. E della seconda tragedia manzoniana osservava che l’interesse drammatico veniva qui diviso fra il re Carlo e il principe Adelchi con il risultato dell’assenza di un fulcro all’interno dell’opera ; tale caratteristica avrebbe avuto conseguenze negative non solo sul ritmo drammatico dell’opera, ma anche sulla partecipazione emotiva dello spettatore. 36 Sono osservazioni che denotano una superiore intelligenza critica e una conoscenza approfondita dei testi. I commenti riassunti fin qui si trovano tutti in forma di prologo nell’apparato paratestuale delle edizioni tedesche dei Promessi Sposi. Questi prologhi, per lo più sostanziosi, di venti trenta o anche cinquanta pagine, non solo permettono di documentare 3. Theodor W. Elwert, Manzoni e la critica tedesca, « Annali manzoniani » viii (98), pp. 75-98 (p. 82). 32. Clarus, Die Verlobten cit., prologo, p. 77. 33. Ivi, p. 8. 34. Alessandro Manzoni, Die Verlobten, üb. di E. von Bülow, hg. und eingel. von L. Fränkel, Stuttgart, Cotta, 894, in particolare pp. 5-6. 35. Manzoni’s Die Verlobten, aus dem Ital. von E. Schröder, eingel. von J. Mähly, 2 voll., Leipzig, Verlag des Bibliographischen Instituts, s. d. (ma ca.880), Einleitung. p. . 36. Ivi, prologo di J. Mähly, pp. 6-8.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 423 la storia della ricezione del romanzo manzoniano, ma forniscono anche indicazioni preziose per un capitolo di storia della cultura : classici e romantici, liberali e conservatori, luterani e cattolici, realisti e naturalisti – ogni volta si tratta di esponenti di importanti settori della vita intellettuale nel mondo germanico dell’Ottocento. Il dialogo fra le varie tendenze ideologiche è continuato, a tratti in modo molto vivace, attraverso il Novecento. Mi limito a ricordare due casi : uno che risale al 979 e l’altro, recentissimo, al 200. Con l’edizione apparsa presso l’Auf bau-Verlag di Berlino Est, appunto nel 979, assistiamo al tentativo di attualizzare il messaggio del romanzo manzoniano per i lettori di un paese comunista. Nell’epilogo, l’italianista Horst Heinze tenta di spiegare l’importanza dei Promessi Sposi tramite un paragone con il romanzo storico Das siebte Kreuz di Anna Seghers, composto durante il periodo nazista, nel 938, e dedicato « agli antifascisti vivi e morti » : secondo Heinze, entrambi gli autori avrebbero inventato una vicenda romanzesca nell’intento di delineare il quadro della vita della loro nazione in un determinato momento storico. Specialmente l’episodio della fuga di Renzo, nel quale l’eroe si scontra con le forze motrici della Storia, avrebbe suggerito alla scrittrice la possibilità di rappresentare, tramite un avvenimento singolare, la situazione di un intero popolo. Fuggito dal lager, infatti, il protagonista della Seghers, Georg Heisler, entra in contatto con le varie classi sociali del suo paese e acquisisce così una conoscenza approfondita della realtà storica. Renzo, invece, ricuperata la propria capacità di ragionare dopo l’iniziale smarrimento, ritrova anzitutto se stesso. Le vicende dunque divergono, e sebbene l’avventura vissuta da Heisler possa far pensare, per certi aspetti, alla crisi notturna di Renzo, credo che il critico sia in errore nell’accomunare senza un distingo le due fughe, tanto più che le somiglianze fra le due vicende si limitano al livello figurativo. E nemmeno convince del tutto il parallelismo, proposto da Heinze, fra l’esordio paesaggistico dei Promessi Sposi e il panorama della valle del Reno, nel primo capitolo del romanzo Das siebte Kreuz. Se la pagina manzoniana, oltre a prefigurare il rapporto fra lettore e romanzo, vuole essere una riflessione su natura e cultura, preistoria e storia, quella della Seghers, costellata com’è di allusioni storiche (che vanno dai Romani ai Franchi, dagli Imperatori ai Vescovi, dai giacobini ai rivoluzionari del 848, dalla guerra franco-tedesca a quella mondiale del 94/8), si prospetta come essenzialmente allegorica. L’ultima traduzione dei Promessi Sposi, del 200, ad opera di Burkhart Kroeber (il traduttore di Umberto Eco e di Calvino), 37 offre un epilogo non solo informativo, sull’autore e sull’opera, ma anche autoanalitico, nella misura in cui il traduttore riflette sui procedimenti stilistici da lui adottati nella riscrittura del romanzo. Dopo aver elogiato i tentativi di alcuni dei suoi predecessori, in particolare quelli di Johanna Schuchter (923) e di Ernst Wiegand Junker (960), Kroeber spiega dove risiedono le maggiori differenze fra il suo modo di tradurre Manzoni e quello di chi l’ha preceduto : le sue innovazioni sono di natura non tanto lessicale quanto sintattica : gli importa rispettare, nella misura del possibile, l’ordine delle parole osservato dall’autore, la Wortfolge. La sua ambizione è precisamente quella di sposare, nella lingua straniera, il ritmo stesso della narrazione, al fine di riprodurre quel drive (come egli dice), ossia quel movimento inconfondibile della prosa manzoniana. Per concludere, vogliamo metterlo alla prova e rileggere il primo periodo del capitolo iniziale, citato ad esempio dallo stesso Kroeber. Quel primo periodo i tradut37. Alessandro Manzoni, Die Brautleute. Mailändische Geschichte aus dem siebzehnten Jahrhundert, cit.

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tori precedenti l’avevano spezzettato, articolandolo in quattro (Lessmann), tre (Ruth Macchi, Saager) o due frasi (von Bülow, Rymarowicz). Detto altrimenti, dal 827 in poi nessuno aveva osato imitare il procedere sintattico dell’autore : solo Kroeber è riuscito a comporre un periodo in cui riecheggiano, anche nella lingua straniera, la sintassi, il ritmo e il tono dell’originale. Benché un simile confronto testuale esuli dal compito che ci siamo prefissi, credo tuttavia che, dopo questo ampio panorama di scambi culturali, possa interessare anche a un pubblico italiano di sentire come Manzoni si presenti oggi ai lettori di lingua tedesca : Jener Arm des Comer Sees, der sich nach Süden wendet, um zwischen zwei ununterbrochenen Bergketten lauter Buchten und Busen zu bilden, je nachdem die Berge vorspringen oder zurückweichen, verengt sich beinahe mit einem Schlag, um Lauf und Gestalt eines Flusses anzunehmen, gesäumt von einem Vorgebirge zur Rechten und einem weiten Küstenstrich auf der anderen Seite ; und die Brücke, die hier die beiden Ufer verbindet, scheint dem Auge diese Verwandlung noch sinnfälliger zu machen und die Stelle zu bezeichnen, wo der See auf hört und die Adda wieder beginnt, die jedoch bald darauf wieder den Namen See annimmt, wo die erneut auseinandertretenden Ufer dem Wasser Raum geben, sich in neuen Buchten und Busen auszubreiten und zu verlaufen. 38

Abstract La ricerca sul paratesto sembra dare miglior risultato se svolta sui libri antichi, generalmente dotati di un ricco apparato di materiali introduttivi, tali da consentire una ricostruzione del contesto culturale in cui l’opera vide la luce. Nella prassi editoriale contemporanea l’incidenza del fenomeno pare invece meno rilevante, almeno a prima vista. A smentire l’ipotesi è intervenuto recentemente un editore italiano, Roberto Calasso, il quale, ristampando – sotto il titolo Cento lettere a uno sconosciuto (Milano, Adelphi, 2003) – un centinaio di risvolti, ossia di schede di presentazione apparse in copertina, non esita a paragonare questo tipo di testo all’antica epistola dedicatoria. Calasso ha certamente ragione quando insiste sulla continuità di un intento di captatio rivolto, tra il Cinque e il Settecento, a un principe e, in età moderna, a un pubblico, la cui benevolenza non è però più facile da conquistare. Una situazione particolare si crea quando il libro stampato viene pubblicato in traduzione, all’estero, dove deve essere presentato a lettori appartenenti a una cultura diversa. A differenza di quello patrio, il pubblico straniero non dispone delle medesime basi culturali né degli stessi punti di riferimento, per cui occorre conquistarlo con nuove strategie editoriali. Per la redazione del mio contributo ho limitato il mio campo d’interesse, appunto, alle traduzioni di opere italiane nei paesi di lingua tedesca. Come materiale di ricerca ho preso in esame : ) un centinaio di opere narrative composte da autori italiani del Novecento e tradotte una o più volte ; 2) le traduzioni otto e novecentesche del celebre romanzo manzoniano, intitolato in un primo tempo Die Verlobten, e adesso, nella nuova versione proposta dal traduttore Burkhart Kroeber, Die Brautleute. La maggior parte dei libri presi in considerazione segue la norma comune del testo in copertina (inserito nel libro ora come “risvolto”, ora come pagina introduttiva) e non dà quindi luogo a trattazioni specifiche. In alcuni casi, tuttavia, come quello del romanzo palazzeschiano Sorelle Materassi, il comportamento degli editori e dei traduttori si è rivelato anomalo, al punto da meritare un’indagine particolare. The study of paratext seems to produce better results when carried out on antique books, which are usually endowed with a rich apparatus of introductory materials, allowing us to reconstruct the cultural context in which the work was created. Instead, in contemporary editorial procedure the incidence of this phenomenon seems to be less relevant, at least at first sight. 38. A. Manzoni, Die Brautleute, cit., p. 3.

narrativa italiana dell’otto e novecento tradotta in tedesco 425 Recently an Italian editor, Roberto Calasso, intervened to disprove this hypothesis. By reprinting – under the title of Cento lettere a uno sconosciuto (Milano, Adelphi, 2003) – one hundred bookflaps, that is brief presentation summaries appearing on the cover, he did not hesitate to compare this type of text to the ancient dedicatory epistle. Calasso was certainly correct when he insisted on the continuity of an intention of captatio; between the 6th and 8th centuries, this was addressed to a prince, and nowin modern times to the public, whose approval however is no easier to win. A special situation is created when a printed book is published in translation abroad, for presention to readers in a different culture. The foreign public does not enjoy the same cultural basis, nor the same points of reference as in the homeland; therefore it must be conquered by means of new editorial strategies. For this article I have limited my field of interest to the translation of Italian works in Germanspeaking countries. The subject of study is 1) around a hundred narrative works composed by Italian authors in the 20th century and translated at least once 2) the 9th-and 20th century translations of Manzoni’s celebrated novel, at first entitled Die Verlobten and now available in the new version offered by translator Burkhardt Kroeber, Die Brautleitte. Most of the books considered follow the common norms of text on the cover (sometimes inserted in the book as a bookflap, sometimes as an introductory page) and therefore does not lead to any specific treatment. In some cases, such as that of the novel by Palazzaschi, Sorelle Materassi, the behavior of the editors and translators was unusual enough to merit special study.

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Marcell Mártonffy IL LABIRINTO DEL ROMANZO E I MEANDRI DELLA MEMORIA funzioni paratestuali nella ricezione ungherese di umberto eco, italo calvino e claudio magris

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i nostri giorni difficilmente si può ignorare un certo scetticismo della critica letteraria nei riguardi della metafora giuridica del contratto, la quale però, com’è noto, fece grande carriera sin dagli anni settanta grazie al famoso « patto autobiografico » di Philippe Lejeune (magari la variante più autorevole di tutti i « patti »).  Potremmo dire che la storia dei diversi patti o contratti letterari (contratto di finzionalità, contratto del genere, contratto referenziale, anzi : contratto lirico etc.) sia giunta alla sua fase autrocritica proprio nel periodo della ricapitolazione valutativa 2 e nonostante la solidità della categoria lejeuniana. Se esiste qualunque « patto finzionale », esso non è molto stabile, in quanto le decisioni del lettore possono sempre modificarne le regole. È inevitabile che tali decisioni incidano anche sulla figura del « lettore implicito » previsto dallo stesso autore ed iscritto nel testo. Ci si può chiedere, in effetti, se non fosse tuttora il « patto di generosità » proposto da Jean-Paul Sartre circa un mezzo secolo or sono nel suo Che cos’è la letteratura ? (947) a fornire il concetto più elastico per la descrizione del rapporto tra scrittore ed autore. In questo senso Italo Calvino segue Sartre quando scrive nel capitolo ottavo, intitolato Dal diario di Silas Flannery, del suo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore : « Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro ». 3 Non è che la libertà intrinseca al « pacte de générosité » si realizzi sotto l’egida della mera arbitrarietà, ma essa suppone delle regole sottoposte all’« incontro interminabile con il medium della letteratura ». 4 . Testo autonomo

VERSUS

continuità paratestuale

È inevitabile che la vicenda di quest’incontro influisca anche sulla dicotomia testo-paratesto. A questo proposito la classificazione sfumata dei paratesti in Soglie di Gérard Genette assume particolare importanza soprattutto se prestiamo attenzione al rap. Cfr. Philippe Lejeune, L’Autobiographie en France, Paris, A. Colin, 97, 20032 ; Idem, Le Pacte autobiographique , Paris, Seuil, 975 ; Idem, Je est un autre. L’autobiographie, de la littérature aux médias, Paris, Seuil, 980 ; Idem, Moi aussi, Paris, Seuil, 986 ; Idem, Pour l’autobiographie. Chroniques, Paris, Seuil, 998. Idem (ed.), L’Autobiographie en procès. Colloque de Nanterre, 1996, « ritm », 4, 997. 2. Cfr. Emmanuel Bouju (ed.), Littératures sous contrat. Cahiers du groupe PHI, Rennes, Presses Universitaires de Rennes (coll. « Interférences »), 2002. 3. Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 992, p. 793. 4. Ernö Kulcsár Szabó, Az « immateriális » beíródás. Az esztétikai tapasztalat medialitásának kérdéséhez (= L’iscrizione « immateriale ». Osservazioni sulla medialità dell’esperienza estetica), in *Az esztétikai tapasztalat medialitása (= La medialità dell’esperienza estetica), a cura di Zoltán Kulcsár-Szabó e Péter Szirák, Budapest, Ráció, 2004, p. 35.

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porto del testo con il suo contesto culturale e letterario. Le osservazioni di Genette nel primo e nell’ultimo capitolo del suo libro – che nel solco di altri studiosi metaforizzano il paratesto come « la frangia del testo stampato » e come « zona indecisa » o « intermedia » tra fuori e dentro 5 – fanno ricordare non soltanto l’inesauribilità delle variazioni paratestuali, ma pure l’inserimento del testo e del paratesto in contesti imprevedibili. Benché Genette intenda mantenere una chiara distinzione fra le categorie (mettendo in guardia contro l’abuso del paratesto come nuovo feticcio), nella conclusione del suo libro egli non manca di sollecitare a varcare la soglia, senza prescrivere, però, la direzione di questo passaggio : « Il n’est de seuil qu’à franchir ! ». 6 Ora se le soglie stanno lì per essere varcate, e se la lettura identifica questo passaggio come l’attività del testo stesso, all’occorrenza non rimangono altre vie per rispondere alla domanda : che cosa è un paratesto e che cosa non lo è, tranne l’eliminazione del limine divenuto ostacolo. Ciò viene praticato da Genette negli esempi che non permettono la rigida separazione del paratesto dal testo. I testi che negano l’esistenza della frontiera attestano non soltanto la cooperazione attiva del paratesto nel costituire il testo, ma non di rado attirano l’attenzione anche al funzionamento paratestuale dell’intera opera, accennando l’assenza dell’opera compiuta, insieme al fatto che ogni opera « è presente » come interpretante dei propri pretesti e come pretesto delle proprie interpretazioni – dunque secondo la modalità temporale del passaggio. Genette caratterizza il paratesto come una « zona di transizione ma anche di transazione », come « luogo privilegiato di una … strategia », di « un’azione sul pubblico » nell’interesse della « ricezione migliore e della lettura più pertinente del testo ». 7 Invece la tipologia dei paratesti sembra smentire questa funzione secondaria. Infatti, dal momento che le versioni fittizie della prefazione o dell’epilogo si fanno leggere come parti « organiche » della stessa finzione letteraria, è poco discutibile che questa nuova configurazione cambi anche il suggerimento interpretativo del testo. 8 Il discorso attorno al testo, però, può funzionare come unità testuale additiva (e non come metatesto esteriore) soprattutto quando opere letterarie tematizzano i presupposti epistemologici e poetici della propria genesi. 2. Paratesti nel testo · il testo come paratesto Si può azzardare che sono tra l’altro le traduzioni di capolavori del postmoderno italiano ad aver influenzato in notevole misura quell’orientazione della critica letteraria in Ungheria che, in risposta ai cambiamenti svoltisi nella percezione del testo – in risposta dunque allo scioglimento dei confini testuali – condusse all’elaborazione di strategie adeguate della lettura. Una delle conseguenze dell’autoriflessività aumentata dell’atto di scrivere fu identificata nel fatto che i procedimenti letterari sempre più frequenti della « metafinzione » e della « testualità » distrug5. Gérard Genette, Seuils, Paris, Seuil, 2002, p. 8. Qui Genette cita Lejeune, Claude Duchet et Antoine Compagnon. 6. Ivi, p. 43. 7. Ivi, p. 8. 8. Genette tiene conto di tale possibilità – anzi le attribuisce un ruolo particolare – quando aggiunge che « i modi e i mezzi del paratesto si modificano incessantemente secondo le epoche, le culture, i generi, gli autori, le opere, le edizioni della medesima opera, con differenze talvolta considerevoli di pressione : è un’evidenza riconosciuta che la nostra epoca “mediatica” molteplica attorno ai testi un tipo di discorso che il mondo classico ignorava ». Ivi, p. 9.

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gono l’illusione del mondo epico separato dalla realtà impastando rappresentazione e riflessione teoretica, ossia dei modi finora distinti (…) della produzione del significato. 9

Pertanto in tali casi – cioè nelle opere che teorizzano se stesso – è probabile che l’esperienza estetica fatta col testo dipenda dalla misura in cui il codice proposto della lettura riesce ad « integrarsi nella finzione. Altrimenti esso rimane un fatto semantico a parte », 0 esteriore alla storia raccontata. Ne Il nome della rosa di Umberto Eco i paratesti che fanno parte della finzione generano, da un lato, altri paratesti capaci di integrare gli uni gli altri nel corpo del libro e, dall’altro, essi « paratestualizzano » in un certo senso il testo « primario » che cresce con loro, raccogliendo in se stesso i propri commentari esteriori. Quando il romanzo, di gran successo anche in Ungheria, costruisce il suo « mondo » attraverso la presunta ricostruzione di un manoscritto perduto, tra i componenti di questo mondo figurano non soltanto moltissime citazioni da opere precedenti ma anche i paratesti integrati nel romanzo. Le Postille a « Il nome della rosa », appendice magistrale qualificato da Genette come « lo scopo e l’adempimento supremo dell’impresa »,  può essere concepito come la smentita dell’autonomia della finzione, nonostante il fatto che i princípi poetici presentati nelle Postille armonizzano solo parzialmente con quelli epistemologici illustrati dal romanzo. Entrando nella storia della lettura, questo gesto dell’autoricezione rappresentato dalle Postille inevitabilmente si mette in dialogo con i passaggi d’impronta teorica della finzione. Però, nel corso dell’interazione esso sembra perdere il suo carattere di spiegazione illuminativa. Possiamo distinguere, infatti, fra l’intenzione dell’autore di far smarrire i lettori nel suo microcosmo monastico pieno di segni equivoci e la realizzazione di questo progetto ne Il nome della rosa – anche se i paratesti editoriali accettano senza riserve e a buon diritto l’autorità delle dichiarazioni autoriali. A questo proposito è forse esemplare il materiale degli paratesti « allografi » della prima edizione ungherese, i quali, presentando lo studioso Umberto Eco, alludono alla supremazia di una mente eccezionale, capace di controllare una vasta gamma di conoscenze con la sicurezza di un « ipersoggetto » onnisciente. A questi brevi accenni sulla seconda di copertina si aggiungono altri due segmenti paratestuali. L’uno è un epilogo del traduttore in forma di lettera personale al « Dottore Umberto Eco, professore di semiotica presso l’Università delle Scienze di Bologna », un resoconto umile sul lavoro eseguito dal discepolo fedele ; l’altro è un apparato note dettagliato che commenta i nomi storici del romanzo nell’ordine dell’apparizione e dà la traduzione delle frasi latine inserite nel testo. 2 La voce che parla dall’officina del traduttore – e comunica le sue preoccupazioni professionali riguardo alle difficoltà di mettere in rapporto tre lingue, l’italiano, il latino e l’ungherese – esprime la sua fiducia di fronte al testo, comprensibile anche senza gli ampliamenti effettuati, per esempio, dalla traduzione tedesca e da quella inglese. 3 L’abbondanza 9. Szabolcs Oláh : Fikció és teória mint olvasási alakzatok (= Finzione e teoria come figure di lettura), in *Az irodalmi szöveg antropológiai horizontjai (= Orizzonti antropologici del testo letterario), a cura di Gábor Bednanics, László Bengi, Ernö Kulcsár Szabó e Mihály Szegedy-Maszák, Budapest, Osiris, 2000, p. 360. 0. Ibidem. . G. Genette, Seuils, cit., p. 256. 2. Umberto Eco, A rózsa neve (= Il nome della rosa), trad. Imre Barna, Budapest, Árkádia, 988, pp. 69-650. L’autore delle note è Gábor Klaniczay. 3. Cfr. l’epilogo del traduttore : Levél Dr. Umberto Ecónak, a Bolognai Tudományegyetem szemiotikaprofes-

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delle note storico-filologiche propone invece un modo di leggere che non è più quello del lettore « di primo livello », 4 ma il quale suppone un lavoro paziente con le informazioni lessicali ed enciclopediche contenute nel libro e indispensabili per ridurre la distanza tra medioevo e tempo presente. È fuori dubbio che a seconda della gerarchia dei moduli del testo la narrativa di Eco possa servire da matrice per diversi approcci – basta pensare alla pellicola fatta dal romanzo. Il lettore può onorare sia il ritmo del giallo che la bravura stilistica dell’imitazione del trattato aristotelico, ma anche il riciclaggio di conoscenze occulte e di visioni apocrife, l’esplorazione dell’allegoria medievale, il ricco materiale dei brani storiografici, la complessità diacronica del linguaggio oppure il tessuto delle citazioni più o meno nascoste. La competenza dello scrittore nel mischiare queste ed altre tecniche per promuovere la « democrazia della lettura » non sospende, però, la questione concernente la qualità letteraria del romanzo. Senz’altro, una risposta equilibrata a tale questione dovrebbe prendere in considerazione ciò che dice lo stesso autore a proposito del « gioco creativo ipertestuale » 5 messa a disposizione di un pubblico senza caste. Infatti, i dubbi finti di Eco nei confronti delle definizioni del postmoderno non negano ma, addirittura, sottolineano l’utilità di questa nozione, associata nelle Postille all’ironia e al piacevole. 6 È proprio nel segno dell’universalità dell’ironia che Eco, teorico della letteratura, intende, insieme con Leslie Fiedler, « rompere la barriera che è stata eretta tra arte e piacevolezza » : 7 La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato : con ironia, in modo non innocente. 8

L’accento messo da Eco sulla liberazione dal peso grave della storia nel nome di un manierismo « metastorico » 9 – che sarebbe il postmoderno – equivale, comunque, alla negazione dei canoni letterari chiusi, ma è anche interpretabile come misura preventiva di fronte alle critiche : la tesi che connette la tradizione con l’ironia cerca di rispondere in avanti al sospetto riguardante il valore del bestseller di qualità. Ma allora come rispondere alla questione se si tratta di più di una dottrina raccontata o di meno di un vero e proprio romanzo ? Merita attenzione l’opinione di Birgit Eriksson, secondo cui questa posizione (piuttosto moderna che veramente postmoderna) viene superato nel romanzo. Lì si incontra un modo di interpretare la realtà che non è né quello dell’empirismo, dell’umanesimo, del fallibilismo e del nominalismo di Guglielmo da Baskerville, né quello della metafisica, del dogmatismo, dell’intolleranza e del realismo filosofico del bibliotecario Jorge. Il terzo modo di percepire i segni del mondo è l’attenzione all’« universo » del szorának (= Lettera al Dottore Umberto Eco, professore di semiotica dell’Università di Bologna) , in U. Eco, A rózsa neve, cit., pp. 65-655. 4. Cfr. Umberto Eco, Intertextuális irónia és az olvasat szintjei (= Ironia intertestuale e livelli di lettura), in Idem, La Mancha és Bábel között. Irodalomról (= Sulla letteratura), trad. Imre Barna ed Ottó Gecser, Budapest, Európa, 2004, pp. 37–352. 5. Ivi, p. 25. 6. Umberto Eco, Postille a « Il nome della rosa », in Idem, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 984, p. 528. 7. Ivi, p. 53. 8. Ivi, p. 529. 9. Ivi, p. 528.

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riso e dei movimenti eretici, della sessualità e dei sogni, delle satire religiose e delle pittoresche miniature « sui margini della Sacra Scrittura, cioè l’attenzione agli esempi della destabilizzazione postmoderna presenti nell’invenzione di un mondo capovolto ». 20 Mediante questi momenti sovversivi « la narrativa diacronica con figure vive » diventa capace di far dimenticare « la struttura diacronica delle posizioni teoriche » superando la funzione puramente illustrativa. Sembra che la pubblicazione delle Postille attaccate al romanzo metta in questione gli effetti risultanti dalla narrativa stessa. Il gioco raddoppiato in tal modo porta il lettore consapevole a vedere nel testo soprattutto la documentazione di un’impresa pedagogica, magari eccezionale. Il giallo storico non manca di fornire informazioni sui motivi teorici che hanno guidato la produzione dell’artefatto e non manca neanche di fissare il significato del racconto in una « metafisica » della nonviolenza legata all’indeterminazione assoluta delle possibilità. L’investigatore e il suo famulo, il maestro e il discepolo camminano insieme nell’Erziehungsroman di Adso, il che è, nel contempo, il cammino dello scrittore e del lettore verso la conclusione, secondo cui « il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio ». 2 Perciò è consentito immaginarci « un mondo in cui il presunto interprete della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese tanto tempo fa ». 22 Il paratesto delle Postille fa rileggere Il nome della rosa non tanto come uno spazio fatto per il gioco incalcolabile di linguaggi, ma piuttosto come la narrativizzazione di una dottrina con un messaggio prestabilito e facilmente decifrabile. 23 « Forse il compito di chi ama gli uomini è far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità ». 24 Comunque, questa didassi accentuata non viene indebolita neanche dalle opposizioni accessorie del gioco e dell’apocalisse ovvero del riso e della malinconia. È vero che il tropo del labirinto e dell’inchiesta, adoperato per indicare la ramificazione dei riferimenti intertestuali e l’introduzione del lettore « nella infinita vertigine dei possibili », 25 dà l’avvio, nel corso della prima lettura del romanzo, all’attività di una memoria che per un certo tempo si perde davvero tra i segni contraddittori, ma la conclusione delle indagini produce un risultato del tutto chiaro e tangibile. Con la menzione di tre tipi del labirinto, « modello astratto della congetturalità », 26 le Postille allegorizzano altrettanti modi fondamentali del funzionamento dei sistemi di segni. La biblioteca abbaziale rappresenterebbe il secondo modello del labirinto, quello del giardino intricato del manierismo – collocato nello spazio chiuso dell’Edificio medievale –, mentre la topografia dell’intero romanzo corrisponderebbe 20. Birgit Eriksson, A Novel Look at Theory, Aarhus, Centre for Cultural Research, University of Aarhus, 2000 (Workpaper 85-00), p. 7. 2. U. Eco, Il nome della rosa, cit., p. 48. 22. Ibidem. 23. La nota di Eco, secondo cui « il narratore è prigioniero delle proprie premesse » (U. Eco, Postille… cit., p. 56), risulta ironica nel doppio senso che queste premesse non soltanto non tolgono la libertà a chi le applica, ma neanche sono identiche con le regole compositive del « cosmo » storico ed immaginario del romanzo, visto che i presupposti di Eco concernenti i fondamenti semiologici della costruzione postmoderna del romanzo si ripetono in varie affermazioni teoriche dei saggi posteriori pubblicati dall’autore (cfr. U. Eco, Az intertextuális irónia…, cit., pp. 37-452 e Idem, Hogyan írok ? (= Come scrivo ?), in Idem, La Mancha…, cit., pp. 450-498. 24. U. Eco, Il nome della rosa, cit., p. 494. 25. Ivi, p. 48. 26. Ivi, p. 524.

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al disegno del « rizoma », definito da Deleuze e Guattari, ossia di un reticolato di significanti senza genealogia arborescente, dove « ogni strada può connettersi con ogni altra ». 27 Secondo Eco « il mondo in cui Guglielmo si accorge di vivere è già strutturato a rizoma : ovvero, è strutturabile, ma mai definitivamente strutturato ». 28 Però, l’ordine semantico imposto a questa rete dalle risposte alle questioni dell’indagine semiotica è quello del labirinto classico di Teseo, il primo nell’elenco delle Postille, dove il lettore non si perde e neppure sbaglia la strada riconducente al mondo dei significati prestabiliti. Per di più, egli può, questa volta nel ruolo dell’investigatore, rispecchiando Guglielmo figura del narratore onnipresente col corpus delicti in mano, uscire dal labirinto del testo senza aver rischiato l’integrità delle proprie convinzioni. 3. Uno spazio di memoria letteraria Come esempio della finzione « teorizzata » capace di « finzionalizzare » la teoria 29 – ossia di mettere in questione le proprie premesse – si può menzionare Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, un libro che realizza in una maniera più radicale la vicendevolezza di ambedue istanze interpretative (del testo e del lettore) attraverso la combinazione straordinariamente complessa di vari fattori testuali e paratestuali. La traduzione ungherese del romanzo di Calvino, scritto nel 973, uscì dodici anni dopo quella di Il nome della rosa ed è in un certo senso veramente posteriore ad esso, almeno per quanto riguarda l’ordine metaforico dei labirinti e la storicità che ci si esprime. Nell’edizione ungherese del 2000 non venne inclusa la Nota dello scrittore trattante le circostanze della genesi dell’opera, seppure quest’epilogo racconti il tempo trascorso con la meditazione sopra le immagini enigmatiche dei tarocchi facendo allusione a una serie di « cambiamenti di paradigma », analoghi all’evoluzione osservabile nella tipologia dei labirinti di Eco. Nella Nota a « Il castello dei destini incrociati » la nascita di una « semiosi illimitata » viene ricordata da Calvino come la storia dello svanimento di una speranza : quella del ritrovamento della « grande narrativa » che doveva garantire l’unità dei racconti di ciascuna carta. Secondo la Nota sono stati i tarocchi, questa « macchina combinatoria narrativa », 30 a dare il primo impulso alle storie del Castello che originariamente avevano la funzione di commentare il volume d’arte contenente il facsimile del mazzo delle carte quattrocentesche miniate da Bonifacio Bembo. 3 Lo scrittore procedeva « in maniera autonoma, […] secondo le esigenze interne del mio [suo] testo », 32 quando non si concentrava unicamente sul variabile valore contestuale delle figurine. Mettendo da parte le sue conoscenze acquistate dalla « vastissima bibliografia cartomantica e d’interpretazione simbolica dei tarocchi », 33 Calvino affidò il senso delle « scene successive » del « racconto pittografico » alla propria « iconologia immaginaria ». 34 E benché all’inizio egli non abbia rifiutato l’idea di creare un 27. Ivi, p. 525. 28. Ibidem. 29. Gábor Tamás Molnár, Az elbeszélö mint olvasó. A perszonifi kált öntükrözés alakzatai A láthatatlan városokban (= Il narratore come lettore. Le figure dell’autoriflessione personificata ne Le città invisibili), « Literatura » 997, 3, p. 80. 30. Italo Calvino, Nota a « Il castello dei destini incrociati », in Idem, Romanzi e racconti, cit., p. 276. 3. Franco Maria Ricci (a cura di), Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Parma, 969. 32. I. Calvino, Nota…, cit., p. 277. 33. Ivi, p. 276. 34. Ivi, p. 277.

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metasistema che contenesse e comandasse la pluralità dei racconti, infine riuscì ad elaborare « una specie di cruciverba fatto di figure » 35 – leggibile in diverse direzioni – approfittandosi prima di tutto dell’intreccio complicato dell’Orlando furioso, ma anche dell’ordine solido delle virtù e dei vizi costruito dall’Ariosto. Eppure l’ultima fase dello scrivere lo condusse al di là della rilettura della tradizione narrativa – secondo una trama strutturalistica –, e lo costrinse all’abbassamento del testo ben organizzato, di stile elevato, « giù giù fino al borbottio da sonnambulo ». 36 Come parallelo linguistico ad un secondo mazzo di tarocchi, quello marsigliese stampato nel 76 – il contrappunto « plebeo » alle figurine « aristocratiche » delle carte viscontee – si offrì, per La Taverna dei destini incrociati, una mescolanza di espressioni contingenti e miste del discorso quotidiano : una sorte di materiale verbale al di sotto dello « standard » epico, adatto alla deconstruzione del tenore belletristico del Castello. Il passaggio dall’idea della struttura coerente ad « una catena interminabile di spostamenti » 37 finì, ne La taverna dei destini incrociati, con l’ammucchiamento di frammenti di racconto : di « sabbie mobili » resistenti a qualsiasi storia unificata. Le figurine e le combinazioni delle carte in margine al testo rappresentano un sottogenere ornamentale del paratesto. Nelle varie edizioni del doppio ciclo del Castello e della Taverna quest’ultimo non può rivestire, neanche per motivi tecnici, il carattere autonomo che possedeva la riproduzione artistica delle carte più antiche. I racconti di Calvino collocati nella cornice delle immagini illustrano, da una parte, la prevalenza ermeneutica del commentario narrativo sopra la simbolica tradizionale, la dipendenza dell’immagine dal linguaggio interpretativo. Il castello dei destini incrociati diventa così l’allegoria della letteratura o, come si legge sul risvolto di copertina dell’edizione ungherese, « nel numero finito delle carte è nascosto un numero infinito di storie, la letteratura universale per eccellenza con tutte le opere create finora e da crearsi d’ora in poi ». 38 Dall’altra parte, però, la narrazione è subordinata alle figurine, in quanto esse hanno il potere di governare le associazioni della memoria letteraria e di aprire una dimensione di profondità rispetto alla superficie del gioco combinatorio. Le immagini cominciano a « parlare » dopo aver catturato il narratore ormai coinvolto nelle loro storie : le immagini e i testi « rianimati » nella finzione rendono fittizio anche colui che li a rianimati. Le « molteplici connessioni stabilite secondo le regole della semiotica, del fumetto e del cruciverba » 39 iniziano un dialogo tra testo e paratesto e suggeriscono la loro commutabilità : la scrittura cerca di far vedere le storie nascoste delle immagini e viceversa : più si avanza nel libro, più le immagini si fanno leggere come una serie infinita di segni astratti. Inoltre la metalepsi del capitolo intitolato Anch’io cerco di dire la mia inserisce un’altra voce dell’io narrativo, questa volta « autobiografico », per evocare la lotta dello scrittore con i segni – grafici ed iconografici –, i quali nel ritmo dello sguardo che li accompagna nel museo dei ricordi ora manifestano, ora sottraggono il loro senso. « La confusione dei livelli ontologici » di cui parla Dorrit Cohn a proposito della 35. Ivi, p. 278. 36. Ivi, p. 279. 37. Ibidem. 38. Italo Calvino, Az egymást keresztezö sorsok kastélya (= Il castello dei destini incrociati), trad. Ferenc Szénási, Budapest, Európa, 2000. 39. Ibidem.

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metalepsi diventa totale con l’apparizione del narratore extradiegetico conferendo più realtà anche ai personaggi fittizi. Proiettando la superficie della tavola da gioco nella spazialità del castello e della taverna, il romanzo istituisce una relazione tropologica tra le sale dove si radunano i commensali e lo spazio della mente, 4 per sistemarci la totalità degli elementi che partecipano alla costruzione del libro. Il castello incantato (insieme alla « taverna incantata ») includerà quindi non soltanto la somma impensabile di tutti i destini che ci si incrociano, ma anche una varietà di memorie – quella dell’autore, del lettore e dei testi (essendo tutti « lettori » di altri libri) – e rappresenterà in tal modo lo spazio virtuale dove « ognuno si possa riconoscere, secondo i propri desideri, in qualcuna delle immagini costituenti le storie ». 42 All’interno di questa memoria dilatata tutte le narrative raccontate e da raccontare nel futuro fanno parte di un insieme aperto delle immagini e dei testi. Poiché la complessità della rete testuale ed iconografica resiste alla voglia d’identificarsi mimeticamente con alcuno dei modelli del destino, nell’ordine non antropomorfico della memoria gigantica si mette in movimento un sistema di relazioni fatto da motivi e topos, smuovendo dalla sua posizione anche l’io di chi li legge. Questo movimento permette al lettore, interpretato anche lui dalla tradizione interpretata, di ritrovarsi nell’incrocio dei destini e di riconoscersi negli incontri possibili partecipandoci o anticipandoli. Così la « macchina combinatoria » di Calvino fa apparire il suo aspetto etico spingendo l’« utente » a trascendere l’idea dell’ego isolato. La sua memoria « non riesce a produrre un’unica storia perché le appartengono tutte le storie », 43 di uguale importanza le une per le altre. 4. Dal sistema di segni all’evento del discorso Già ne Le città invisibili (972) di Italo Calvino si è pronosticata la convinzione messa in valore più tardi ne Il castello, secondo cui neppure la memoria topografica o « descrittiva » può fare a meno del linguaggio mediatore della fantasia. È proprio per questa ragione che nella presentazione degli abitanti di Cloè, « grande città » del regno di Kublai Kan, il non detto dei « destini incrociati » è privo del tragico. Nel capitolo dedicato a Cloè i momenti degli incontri taciturni rafforzano la comunione degli abitanti pur mantenendo virtuale il significato dei segni scambiati. La città dove « nessuno saluta nessuno » viene strutturata dal differimento del dire la « realtà », nonché dalla muta comunicazione delle differenze : dalla « giostra delle fantasie » contrapposta al caos che regnerebbe se s’incarnassero i « fantasmi » di una loquela disincantata. 44 Simile a queste storie di vita, mai pronunciate, la coesione delle descrizioni ne Le città invisibili è assicurata dalla materia immaginaria del ricordo di Venezia, dal possibile che si scopre nel reale o dal futuro che si ritrova nel passato. Secondo un’interpretazione, di notevole importanza per la ricezione ungherese del romanzo, « il linguaggio di 40. Dorrit Cohn, Métalepse et mise en abyme, « Vox Poetica » (online), http ://www.vox-poetica.org/t/ metalepse.htm, data di pubblicazione : 20/022003. 4. Cfr. Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, in Idem, Romanzi e racconti, cit., p. 598. 42. Tamás Bényei, A mesélögép (= La macchina da racconti), « Élet és Irodalom » 44 (2000) 45, p. 22. 43. Ibidem. 44. « Se uomini e donne cominciassero vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di insegnamenti, di finzioni, di malintesi, di urti, di oppressioni, e le giostra delle fantasie si fermerebbe. » I. Calvino, Le città invisibili, in Idem, Romanzi e racconti, cit., p. 398.

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Marco Polo toglie al passato quell’esistenza che esso avrebbe se non dialogasse con il presente che l’evoca », 45 rinnovando così a partire dello sconosciuto ciò che prima era familiare. La conversazione tra memoria e immaginazione del viaggiatore sarà la figura fondamentale della lettura sia di precedenti finzioni letterarie, sia dei topos interpretanti la storia mitteleuropea nel romanzo Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn (99) di Péter Esterházy, dove la struttura dei sottotitoli del capitolo diciannove, insieme al titolo di questi (italiano anche nell’originale : « Le città invisibili ») sottolinea la priorità dell’interpenetrazione di diversi codici culturali e poetici. Mentre con questa operazione Esterházy effettua una specie di canonizzazione intertestuale dello scrittore italiano, la sua risposta al testo di Calvino assume tratti paratestuali espliciti, nel senso preciso che essa cerca di entrare in dialogo anzitutto con diverse asserzioni poetiche de Le città invisibili. Il ricordo delle città fantastiche di Levante s’intaglia nella descrizione delle « città invisibili » mitteleuropee che sono i diversi aspetti, realistici o fortemente poetizzati, di Budapest. Tuttavia la manovra dell’inserzione, quando mantiene distinti anche tipograficamente i passaggi presi da Calvino, sopprime la demarcazione tra testo primario e testo secondario. Portando la caratteristica tipografica di una glossa a margine di un classico e, nello stesso tempo, quella del testo autonomo in statu nascendi – la quale però sta nascendo dall’altro testo – il capitolo « calviniano » di Esterházy è una testimonianza sulla forza ispirativa del legame tra memoria storica, immaginazione liberata e quella voce narrativa che non rivendica di sapere come stanno le cose in realtà. Nessuno sa meglio di te, saggio Committente (Noleggiatore), che non si devono mai confondere le città col discorso che le descrive. Eppure tra l’uno e l’altro c’è un rapporto. Se ti descrivo l’ancheggiare delle donne budapestine grazie al quale si rischiara l’Oktogon e straripa il Danubio, e piccole barchette allegre vagano per le strade del centro ricoperte dall’acqua « nella Venezia dell’Europa centrale » : allora da questo discorso tu subito comprendi come Budapest è avvolta in una nuvola di fuliggine e d’unto che s’attacca alle pareti delle case ; e nella ressa delle vie i rimorchi in manovra schiacciano i pedoni contro i muri. 46

Il lavoro di Calvino offre al « Viaggiatore » di Esterházy l’opportunità di riconoscere « il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà » 47 e di sfruttarne l’apporto poetico nella sua polemica con un’altra opera italiana contemporanea, il Danubio di Claudio Magris. 48 Il sottotitolo de Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn, « giù per il Danubio », accenna al filo conduttore comune della discussione : al « nome del fiume » che similmente al « nome della rosa » sarà per Esterházy la cifra di un denotato non identificabile. Infatti, una conseguenza performativa della sua attenzione dedicata all’opera di Magris si manifesta nella distruzione dei miti che per molto tempo determinavano (e determinano anche oggi) la storiografia politica e culturale dell’Europa Centrale. Ne Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn la cumulazione delle incongruenze stilistiche e generiche, la rassegna di fenomeni meschini e di spicco, di momenti sublimi e triviali ricorda all’illusorietà del giudizio equo ed imparziale e alla fallibilità delle conclusioni sommarie presenti nell’itinerario, comunque brillante, di 45. G. T. Molnár, Az elbeszélö…, cit., p. 354. 46. Péter Esterházy, Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn, trad. Mariarosaria Sciglitano, Milano, Garzanti, 995, p. 36. 47. I. Calvino, Le città…, cit., p. 379 ; P. Esterházy, Lo sguardo…, cit., p. 5. 48. Claudio Magris, Danubio, Milano, Garzanti, 2990.

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Magris. Esterházy spera di prevenire le false certezze dividendo il suo narratore tra due ruoli : quello del Committente o Noleggiatore, portatore di presupposizioni più semplici, e quello del Noleggiato o Viaggiatore, autore di visioni complesse. Dagli innumerevoli registri misti del resoconto di quest’ultimo risulta lo sperimento – d’altronde non interamente riuscito secondo i critici – di eludere la falsificazione della storia con la conoscenza di particolari inediti, una conoscenza però che abbandona il sapere da iniziati in favore alla diversità dei punti di vista possibili. Il romanzo di Esterházy documenta gli eventi minuscoli del linguaggio percepibili soltanto nelle situazioni occasionali e nell’intimità degli incontri, grazie alla conoscenza approfondita dei dialetti e dei socioletti microregionali, e nella coscienza che le stesse immagini a grande risoluzione rimangono infinitamente imprecise. In conseguenza di questa focalizzazione viene rovesciata la relazione segnica della sineddoche usuale nella storiografia. La narrativa lineare illustrata con storielle folkloristiche – cioè il tutto inglobante le parti – si ritira dietro l’esposizione di dettagli talvolta lirici, rappresentanti l’importanza e l’impossibilità dell’articolazione di ciascun altro dettaglio. « Un’asma, un fascio muscolare, un tratto di riva declinante, un ramo spezzato ? È questo tutto ciò che serve affinché un luogo diventi il centro del mondo ? È possibile ». 50 Nel triangolo dei commentari il testo di Calvino è per Esterházy un sostegno poetico per la composizione della memoria storica, ma anche per il tener sveglio del « dubbio concernente l’identità ontologica e il significato univoco delle cose ». 5 Il « paratesto » occasionale di una fotografia mostra lo scrittore ungherese seduto su un’altalena a bilanciere insieme con Claudio Magris. Tuttavia l’equilibrio pacifico nasconde delle forme del sapere non soltanto complementari ma anche contradittorie. Oltre l’amichevole riconoscenza della prestazione di Magris si tratta di una contraddizione per necessità : alle conoscenze acquistabili tramite studi storici o letterari e al pathos naturale delle scoperte fatte in paesi lontani Esterházy deve contrapporre l’ironia che risponde « alla retorica elevata tipica per una regione colpita dal destino e dalla storia », 52 nonché la costellazione grottesca degli stereotipi dell’autorappresentazione mitteleuropea. Il merito dell’autore italiano non viene diminuito dal fatto che il commento implicito da parte del romanzo ungherese entri nel discorso sull’Europa Centrale ed Orientale proprio là, dove la narrativa della sintesi deve impennarsi davanti alla massa caotica delle esperienze. Il cuore di Viaggiatore si sentì attratto da Pascal : quindi da una specie di metafisica empirica, che tuttavia, secondo le opinioni correnti, non è analoga a quel bon mot secondo il quale Dio risiede nei dettagli. Perché anche Satana risiede lì, e ancora la Giustizia, poi l’Amore. Tutto questo si poteva leggere. Insomma, tutti e quattro si celano nei Dettagli come in un sovraffollato condominio moscovita surrealsocialista : Dio, il Diavolo, la Giustizia e l’Amore hanno una televisione in comune, continuamente accesa. L’Amore guarderebbe i dibattiti sociali sul primo, facendo il tifo per Eltsin ; il Diavolo vuole l’hockey sul secondo, per la qual cosa s’incazzano ferocemente ; la Giustizia fa giustizia, è vero, così se ne frega, e gli altri tre l’implorano invano : il Signore rimane fissamente estraneo all’antenna parabolica. « Arrivare al prossimo albero », professava Viaggiatore, non sapendo ormai nemmeno sulle tracce di chi. 53 49. Più la guida dello studioso triestino arriva a parlare dei paesi dell’Est, più le meditazioni personali dell’autore corrono il pericolo di adattarsi al tono delle informazioni protocollari accuratamente selezionate per il visitatore straniero, ospite dello stato totalitario. Cfr. C. Magris, Danubio, cit., pp. 28–340. 50. P. Esterházy, Lo sguardo…, cit., p. 70. 5. Ernö Kulcsár Szabó, Esterházy Péter, Pozsony (Bratislava), Kalligram, 996, p. 226. 52. Ivi, p. 229 e pp. 226-227. 53. P. Esterházy, Lo sguardo…, cit., p. 6.

il labirinto del romanzo e i meandri della memoria

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Siccome le differenze di lingua e di mentalità si rivelano più forti della retorica del perdono, il Danubio percorso da Esterházy non può diventare né l’allegoria della « grande narrativa » dell’esperienza storica comune, né il simbolo della riconciliazione. Perciò nel suo libro il progresso « fluviale » del testo viene sostituito da una composizione basata sul tropo dei gironi, dei meandri e dei rami secchi. La promessa di questi non è più la ricostruzione del senso del passato, bensì, prima di tutto, il vivere insieme con l’estraneo e con l’incomprensibile, ma anche la possibile appropriazione delle prospettive straniere. Il Danubio di Magris incomincia con l’evocazione umoristica delle discussioni sulla fonte autentica del fiume. Il viaggio danubiano di Esterházy finisce invece con l’elenco strano dei nomi di navi rumene, notati nella delta del Danubio : « Noleggiato pensava che quando si fosse svegliato avrebbe trascritto dai foglietti sul suo quaderno i nomi delle navi che aveva visto oggi, 4 agosto ». 54 5. Conclusione Nel testo di Esterházy la messa in rilievo delle allusioni al grande saggio di Magris ed a Le città invisibili di Calvino dirige l’attenzione dalle modalità intertestuali e dalla tematica convenzionale dell’identità dell’autore e/o del testo (oppure del testo dipendente dall’autore e dell’autore dipendente dal testo) verso il discorso sul rapporto tra scrittura e comprensione. Come le citazioni non tolgono al testo la sua originalità, così nemmeno il nuovo contesto toglie alle opere citate la loro forza provocativa. L’applicazione intertestuale di opere precedenti può confermare tanto lo status autonomo del testo quanto la sua funzione paratestuale, ossia la sua appartenenza ad altri testi e viceversa : mentre la citazione rispetta il valore del testo « ospitato » – in questo senso il libro danubiano di Esterházy non fa che riconoscere l’autorità del lavoro di Magris, Calvino ed altri –, la reciprocità dei testi subordina l’individualità del proprio e dell’altro testo al sovrappiù del discorso comune, cioè a quel modo dell’essere nel linguaggio, rispetto al quale la distinzione tra testo e paratesto può diventare secondaria. Come scrive Gadamer : « qui si presta attenzione pienamente alla parola stessa, così come essa sta lì, anziché trasmettere un certo messaggio che ci possa raggiungere in una forma determinata ». 55 Già la traduzione ungherese del primo romanzo di Umberto Eco, ma innanzitutto i libri di Calvino e di Magris, nonché il « paratesto autonomo » di Esterházy, pongono una questione che non cessa di riformularsi nel dialogo delle opere. Ci si può chiedere infatti, se non è proprio grazie all’instabilità del senso (o con l’espressione di Jacques Derrida : grazie alla sua « indefinizione ») che si stanno sviluppando, tra l’orizzonte autointerpretativo dei lettori e la storia rivisitata dai testi, delle piste referenziali, le quali, casomai, potranno condurre verso discernimenti catartici. Abstract Sia le teorie che le pratiche post-strutturalistiche della lettura hanno messo in rilievo la « transgressività » dei testi letterari : non soltanto il loro rapporto con testi precedenti ma anche la relatività dei loro « limiti ». La traduzione letteraria e soprattutto i fenomeni 54. Ivi, p. 27. 55. Hans-Georg Gadamer, Miként járul hozzá a szó az igazság kereséséhez ? (= La contribuzione della parola alla ricerca della verità), in Idem, A szép aktualitása (= L’attualità del bello), Budapest, T-Twins, 994, p. 45.

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dell’intertestualità sembrano testimoniare la prevalenza di una continuità discorsiva sopra la dicotomia dell’originale e del secondario – continuità tra versioni, tra diverse opere ma anche tra testi letterari e linguaggi interpretativi. L’allontanamento dall’ideale della struttura chiusa influisce anche sulla distinzione testo/paratesto. Già la classificazione di Genette accetta l’esistenza e la produttività di quella « zona indecisa », in cui testo e paratesto possono scambiarsi, nella misura che talvolta la loro interazione fa scomparire qualsiasi differenza prestabilita. L’esame dell’edizione ungherese di alcune opere del postmoderno italiano può rendere visibile l’impatto del paratesto sul testo stesso del romanzo (ne Il nome della rosa di Umberto Eco), l’incertezza di tali categorie dovuta alla comunicazione delle immagini emblematiche con la tradizione artistica (ne Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino), nonché la « paratestualizzazione » di tutti i testi che partecipano al dialogo (o al plurilogo complesso) sul rapporto tra realtà storica e finzione letteraria (nel Danubio di Claudio Magris e ne Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn dello scrittore ungherese Péter Esterházy). Both the post-structuralist theory and practice of reading/interpretation have emphasized the “transgressivity” of literary texts – not only in their relation to preceding texts but the relativity of their “limits” as well. Literary translation, and especially intertextual phenomena, seem to reflect the prevalence of a fluent continuity overcoming the dichotomy between original and secondary works – a continuity between versions, between different works and also between literary texts and interpretative languages. Moving away from a closed and rigid structure also influences the distinctions of text/paratext. Already Genette’s classification accepts the existence and productivity of that “undecided zone” in which text and paratext can be interchanged, so that sometimes their interaction causes any pre-established difference to disappear. The study of a Hungarian edition of several postmodern Italian works shows the impact of paratext on the text of the novel itself (i.e., Il nome della rosa by Umberto Eco), the uncertainty of these categories due to the communication of emblematic images with artistic tradition (Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino), as well as the “paratextualization” of all the texts participating in the dialogue (or in a complex plurilogue) on the relationship between historical reality and literary fiction (as in Danubio by Claudio Magris and in Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn by Hungarian writer Péter Esterházy).

Stephen Parkin LE DEDICHE NEI LIBRI ITALIANI STAMPATI A LONDRA NELL’ETÀ MODERNA

I

n questo contributo vorrei esaminare un solo elemento paratestuale – la dedica – nei libri italiani – in lingua italiana – stampati a Londra dall’inizio del Settecento fino ai primi decenni dell’Ottocento. È un fenomeno limitato : poco più di 200 libri usciti durante il corso del Settecento (il numero esatto estratto dall’English Short Title Catalog (‘estc’ – il catalogo unificato in rete delle edizioni inglesi stampate dal 475 al 700) è 339, ma in questo numero sono incluse tutte quelle edizioni che misero Londra come falso luogo di stampa – una pratica assai diffusa in questo periodo come già si vede dall’elenco sotto ‘Londra’ nel Dizionario dei luoghi di stampa falsi inventati o supposti di Marino Parenti) ; per l’Ottocento il calcolo riesce più difficile per l’assenza di cataloghi unificati agevoli di consultazione. Il ristretto gruppo di queste edizioni potrebbe già da solo far nascere l’impressione – che è poi giusta – che la pubblicazione di libri in lingua italiana a Londra non diventò mai istituzionalizzata. A differenza della pubblicazione di libri in altre lingue – di cui c’era una forte tradizione a Londra  – questi libri italiani non furono stampati per una comunità di emigrati stabilitasi nella capitale inglese, almeno prima della metà dell’Ottocento. Tornerò alla questione di chi leggeva questi volumi ma qui voglio sottolineare che la produzione di libri in italiano era discontinua, caratterizzata da una saltuarietà come se le pubblicazioni nascessero o approfittassero da volta in volta da certe congiunzioni di circostanze favorevoli, anche se ci sono dei periodi in cui le pubblicazioni sono più frequenti e ci sono degli autori e curatori italiani che si impegnano a pubblicare testi in italiano per periodi talvolta molto estesi (per esempio, nella prima metà del Settecento Paolo Rolli, poeta, librettista, traduttore, insegnante, lavorava a Londra per quasi trent’anni prima di tornare in patria ; verso la fine del secolo Gaetano Polidori, che era stato il segretario di Alfieri, venne in Inghilterra dove ebbe una lunghissima carriera per più di 40 anni). Nonostante la sua ristrettezza è tuttavia un fenomeno difficile da afferrare e valutare nell’insieme, anche perché non è un fenomeno editoriale e bibliografico univoco : questa produzione molto particolare esiste in una sorte di spazio intermedio fra due maggiori realtà storiche, culturali, editoriali : quella inglese e quella italiana di cui un’analisi approfondita dovrebbe necessariamente tener conto. Ma proprio per questo lo studio delle dediche che si trovano in questi libri potrebbe offrirci una chiave per capire meglio il carattere storicamente e culturalmente specifica di questa produzione. La ragione è fin troppo ovvia : anche le dediche esistono in uno spazio liminale, preliminare, frapposto fra il testo, l’autore o l’editore, e i lettori o meglio un lettore, un primo fruitore immaginario del testo, che sarebbe il dedicatario. Le dediche in questi libri condividono questo stesso terreno, rispecchiano in piccolo, quasi ‘en abîme’, lo spazio di scambio fra le due culture : per questo potrebbero aprirci, anche a dispetto delle ben note regole formali, stilistiche e contenutistiche, di questo . Per una storia della pubblicazione di libri in lingua straniera a Londra dalle origini della stampa fino al Ottocento si veda Foreign-Language printing in London 1500-1900, a cura di Barry Taylor, Londra, The British Library, 2002.

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genere o sottogenere di testo che tendono a sopprimere l’originalità del discorso, una strada per ricostruire e per capire gli atteggiamenti, gli interessi, i diversi rapporti che caratterizzavano questo scambio fra gli scrittori italiani e la cultura anglosassone del periodo. Allo stesso tempo però sia per capire fino in fondo questo fenomeno che per effettuare un’analisi delle dediche in se stesse come componenti paratestuali sarebbe necessario conoscere bene gli altri due termini del confronto – le dediche nei libri italiani e nei libri inglesi del periodo – per valutare accuratamente le similarità e le differenze, e gli eventuali avvicinamenti o scarti alle/dalle norme praticate altrove. Ma per fare un lavoro del genere mancano tuttora non soltanto le ricerche specializzati ma anche gli strumenti adatti – indici, cataloghi, antologie – che indicizzino, elenchino, raggruppino i testi e i loro dedicatari. Quello che segue perciò sarà più una descrizione preliminare del campo che una vera analisi della prassi dedicatoria in questi libri nel contesto del periodo. La pubblicazione di libri italiani a Londra conosceva tre periodi significativi : il primo nel secondo Cinquecento, quando un gruppo di esiliati italiani, per la maggior parte protestanti o eterodossi, che si trovavano a Londra – Michelangelo Florio, Lodovico Castelvetro, Giordano Bruno – pubblicavano vari libri con l’appoggio di diversi cortegiani simpatizzanti alla corte di Elisabetta I, soprattutto il circolo intorno a Philip Sidney. Il terzo periodo veniva nel primo Ottocento quando un nuovo gruppo di esiliati, questa volta per motivi politici, si trovavano a Londra e cominciavano a pubblicare con diversi editori italiani, anch’essi stabilitisi nella capitale inglese, fra cui spicca la figura di Pietro Rolandi editore e libraio, la cui libreria era un punto d’incontro fra questi emigrati (è forse meglio conosciuto in Italia per aver salvato, per così dire, l’edizione foscoliana della Divina Commedia, rimasta incompiuta alla morte del poeta, e completata da Giuseppe Mazzini quasi come dovuto atto di pietà quando a sua volta il rivoluzionario arrivò a Londra in esilio). Ma il periodo in cui più libri italiani furono pubblicati era il Settecento : pochi testi originali, soprattutto nuove edizioni dei classici (Tasso, Ariosto, Boccaccio, Metastasio – nessun’edizione di Dante o Petrarca invece prima del primo Ottocento), alcune traduzioni di opere inglesi o latine, qualche testo di storia, e in numero sempre crescente nel corso del periodo delle compilazioni di lettere o di testi letterari da utilizzare come manuali per imparare o insegnare la lingua. ‘Les belles lettres’, insomma, quasi ad esclusione di altre materie – scienze, religione, filosofia. In questo caso gli italiani responsabili per questa produzione – Paolo Rolli, Nicola Francesco Haym, Vincenzio Martinelli, Francesco Sastres, Gaetano Polidori – non erano stati costretti ad esilio, almeno per la maggior parte, per motivi religiosi o politici ma erano venuti per libera scelta per fare la carriera, qualche volta – è il caso di Rolli, per esempio (ce lo dice esplicitamente nella dedica prefissa alla sua prima pubblicazione italiana a Londra nel 76) – al seguito di un nobile conosciuto mentre questo faceva il suo grand tour in Italia, ormai nel Settecento diventato un elemento quasi imprescindibile nella educazione dei figli della nobiltà inglese. Questi libri si pubblicavano perché c’era un pubblico inglese, ristretto ma ricco e potente, che li voleva ed era disposto ad appoggiarne la pubblicazione. Era un periodo quando la cultura italiana – le belle arti soprattutto ma non soltanto – godeva di un notevole prestigio fra gli inglesi e la conoscenza della lingua italiana era considerata un acquisto fondamentale per gli uomini (e le donne) colti. Questo prestigio è la conditio sine qua non della pubblicazione dei libri italiani in In-

le dediche nei libri italiani stampati a londra nell’età moderna 441 ghilterra nel Settecento : la rendeva possibile – ed è un fatto che viene esplicitamente e ripetutamente spiegato nelle dediche alle opere pubblicate. Nell’edizione curata da Rolli delle opere burlesche del Berni del 72, egli scrive nella dedica a Thomas Coke, « uno di quei gentiluomini che ammirai e distinsi già in Italia », che « le più belle opere de’ più sublimi italiani ingegni » sono « quasi per diritto dovute … a quelle riguardevoli persone che, viaggiata la bella Italia, a questa loro gran patria co’l vero profitto de viaggi ne tornano ». Haym pubblicava la sua bibliografia Notizia de’ libri rari nella lingua italiana nel 726 perché si trovano « presentemente in Europa , ed in particolare nell’Inghilterra, numero grande di persone, che anno in sommo pregio la lingua italiana » riferendosi al dedicatario Lord Winchilsea, con la sua ricca biblioteca. Scipione Maffei nella dedica-prefazione alla pubblicazione della sua traduzione del primo libro dell’Iliade (736) scrive del suo incontro con il figlio di Giorgio I Frederick principe di Galles e del incoraggiamento ricevuto dal principe a pubblicare la sua versione. Spesso le edizioni sono dedicate agli allievi – o meglio le allieve – dei curatori « assistiti/e all’intelligenza della dolce lingua italiana » dai curatori stessi. Ho parlato dello spazio intermedio fra le due culture occupato da questi libri. Era effettivamente uno spazio aperto a entrambi i paesi. Sono sempre le dediche che rendono esplicita un’attenzione intelligente, qualche volta sottile, alla cultura inglese in cui questi libri dovevano fare strada : è il caso, per esempio, dell’edizione della Secchia Rapita del Tassoni, stampata a Oxford nel 737, dedicata a ‘Mr Pope, poeta famosissimo’ (è anche interessante come l’unico esempio prima della fine del secolo di una dedica indirizzata a una persona non di nobile famiglia). L’opera del Tassoni è una dei precursori della famosa poesia eroicomica di Pope La Treccia rapita, una dei primi grandi successi del poeta inglese : « par che sia naturale indrizzarlo [“questo vago componimento”] all’Autore del leggiadrissimo poemetto la Treccia rapita ». Nel 809 Gaetano Polidori dedica a Francis Egerton la sua traduzione del dramma giovenile ‘Comus’ (Como) di John Milton, che fu recitato per la prima volta nel 634 nel castello di Ludlow per festeggiare il nuovo incarico del governatore di Galles conferito a un suo antenato il conte di Bridgewater. Nel 724 Nicola Francesco Haym nella dedica della sua edizione della Gerusalemme Liberata tessa le lodi di Giorgio I facendo un paragone tra la casa hanoveriana e gli Este a cui Tasso aveva dedicata l’opera originale (anche se è vero che questo esempio rientra nella consueta pratica retorica delle dediche). Le dediche ci rivelano pure che questo spazio editoriale fra i due paesi rimaneva aperto anche all’Italia, nel senso più alto di una contiguità fra i due paesi che si manifesta nell’espressione che spesso ricorre in queste dediche della ‘repubblica di lettere’ fatta dalle ‘provincie d’Europa’ come scrive Maffei nella già citata dedica alla sua traduzione dell’Omero, ma anche nei termini più concreti del mercato librario. È chiaro per esempio dalle sue dediche che Rolli proseguiva un programma editoriale di nuove edizioni filologiche di alcuni classici della letteratura italiana che probabilmente avrebbe anche messo in atto se fosse rimasto nel suo paese e che considerava l’ambiente inglese altrettanto valido per la pubblicazione e la ricezione di queste edizioni come quello italiano (è interessante notare a proposito di Rolli che le regole retoriche delle dediche non erano mai così rigide da non far trasparire gli atteggiamenti personali del dedicante : in tutte le dediche rolliane si sente l’orgoglio professionale di uno scrittore/curatore che parla sì con un patrono potente e protettore ma anche con una persona colta che saprà dare un giusto apprezzamento al suo lavoro, mentre

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Haym nelle sue dediche è molto più ossequioso). Nel senso commerciale, nel caso almeno di alcune edizioni non c’è nessun dubbio che se ne prevedevono la distribuzione e vendita anche in Italia. Quegli elenchi di sottoscrittori che si trovano in questi volumi di solito contengono molti cognomi italiani, a volte con le città italiane dove risiedono, ma anche fra i dedicatari ci sono degli italiani : per esempio Rolli dedicò la sua edizione del Decamerone nel 725 ad Antonio Romualdo (è un esempio interessante di una dedica che fa un esplicito riferimento ad un’altra precedente : Romualdo « è uno de’ più rifulgenti Lumi del secolo, e perciò se gli debbono i più considerabili letterarii tributi. Questo argomento fece al preclarissimo Muratori dedicare all’E. V. la sua pregiata edizione del Canzoniere di Petrarca, e questo movemi a tributarvi la mia del Decameron »). L’unica opera scientifica in italiano pubblicata in Inghilterra nel Settecento- il Teatro fisicosmografico di un autore indicato con le sole iniziali, F. d’A, e finora non identificato, pubblicato nel 724 – fu dedicata a Pietro Giuseppe Migliorucci cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Migliorucci si era sposato con una donna da una famiglia nobile inglese e « con gran credito vive in Londra » ma la dedica ci dimostra una conoscenza approfondita degli ambienti sociali toscani con cui l’Inghilterra in quel periodo aveva uno stretto rapporto. Era nel contesto di questo rapporto anglo-toscano che l’esempio più interessante di un’edizione dedicata ad un italiano nacque : la traduzione del De rerum natura di Lucrezio fatta da Alessandro Marchetti sempre a cura di Paolo Rolli e pubblicata a Londra nel 77 (la prima edizione a stampa di questa versione) : è dedicata a Eugenio Francesco di Savoia. È probabile che il manoscritto di Marchetti arrivasse in Inghilterra tramite l’ambasciatore inglese a Firenze ma nella dedica Rolli non fa nessun accenno al fatto che non si poteva pubblicare il testo in Italia, dicendo soltanto al principe che la versione di Marchetti « ha tutto il merito d’accrescere lo scelto numero della sua biblioteca ». Anche le traduzioni di opere inglesi avevano una doppia funzione : per esempio, nella sua versione di una commedia contemporanea inglese scritta da Richard Steele – Gli amanti interni del 724 – Rolli scrive che l’edizione era destinata non soltanto agli inglesi « che imparano la lingua italiana » a cui servirebbe « un libro di facile intelligenza con l’originale d’appresso » ma anche agli italiani, dunque in Italia, come « un saggio delle ottime commedie inglesi ». Ma veniamo all’analisi delle dediche in se stesse e non come fonti per la storia editoriale di questi libri. Per i motivi gia spiegati all’inizio è difficile se non impossibile rintracciarne le strutture o le forme – tipografiche, bibliologiche, del contenuto, del linguaggio, ecc. – che perdurano o al contrario si trasformano dall’inizio del Settecento al 840. Ogni edizione è un caso particolare. Quello che colpisce in questi libri è la diversità dei comportamenti dedicatori e la loro difficile codificabilità. Ma nonostante questa diversità tre o quattro sviluppi paralleli e collegati distinguono il passaggio dal antico regime editoriale in cui le dediche erano una parte importante della risonanza pubblica dell’opera al mondo moderno in cui questo lavoro viene sempre più organizzato all’esterno dell’edizione con la pubblicità commerciale prima e le recensioni dopo l’uscita del libro. All’inizio quasi la totalità dei dedicatari sono nobili ; dall’ultimo decennio del Settecento in poi il maggior numero è borghese, e quando sono nobili, non dalle vecchie famiglie dell’aristocrazia inglese. La dedica stessa all’inizio del nostro periodo è un pubblico discorso, fatto all’aperto, per così dire, con tutti i titoli di nobilità del dedicatario elencati ; verso la fine troviamo tratti che sono riconoscibilmente moderni nel senso che la dedica è anche una comunicazione privata,

le dediche nei libri italiani stampati a londra nell’età moderna 443 indirizzata ad un amico, un parente, o qualcuno, anche un uomo pubblico, con cui c’è stato un rapporto personale, magari di amicizia e in cui il significato del rapporto ci può anche sfuggire. Nel 798 Polidori dedica un piccolo libro di racconti per uso scolastico alle damigelle Orr e Robinson, maestre e colleghe nella scuola dove insegnava ; nel 833 Guido Sorelli dedica un volume delle sue poesie ai tre medici o « veri amici suoi » che lo avevano aiutato durante una sua malattia (la dedica firmata « l’obligatissimo e fedele amico loro », contiene soltanto i loro nomi ; Sorelli ne dà la spiegazione in una breve prefazione « Una parola al pubblico »). Insieme con questi due cambiamenti il rapporto fra i due temi principali del discorso dedicatario subisce modificazioni : la richiesta di protezione ad un patrono – che egli possa ricevere il libro e difendere la riputazione sia del volume che dell’autore – viene sempre più sostituito dall’altro tema più concreto della gratitudine (anche se entrambi sono di solito presenti nelle dediche – è l’enfasi che cambia). E infine le dediche diventano meno lunghe, meno elaborate : la brevità e la semplicità prendono il sopravvento. E quest’ultimo sviluppo è accompagnato da un cambiamento tipografico : le dediche non sono più testi epistolari prefissi al libro che rassomigliano agli avvisi e alle prefazioni che spesso condividono questo spazio preliminare ma iscrizioni come quelle sulle lapide, in caratteri maiuscoli, tipograficamente distinti come i frontespizi o gli exlibris. Ma nell’assenza di un contesto più ampio per l’analisi di questi libri sono anche stato colto dalla sottile perplessità che queste trasformazioni possano essere una nostra proiezione di temi mutuati da una storia più generale, ideologica se vogliamo dire, pre-stabilita. Dall’inizio del periodo numerosi dedicanti enfatizzano il rapporto personale con particolari biografici e il debito della gratitudine che il libro dovrebbe saldare : Vincenzio Martinelli nei tre volumi della sua Istoria d’Inghilterra pubblicati fra 770 e 773 dà in ogni dedica (allo stesso dedicatario Thomas Walpole) un ‘progress report’ sul suo lavoro, le difficoltà che ha avuto nel portarlo alla conclusione, e l’appoggio datogli da Walpole, anche economico (è l’unica dedica in cui c’è un riferimento esplicito ai soldi ricevuti dall’autore). Già nel 763 la dedica fatta da Carlo Denina nel suo Discorso sopra le vicende della letteratura (seconda edizione dopo la prima torinese) è di una concisione lapidaria (in inglese) : « To the right honourable The Lady Eliza Mackenzie. Ex voto authoris » (è seguito da una lettera dell’autore agli editori in cui racconta il ruolo della dedicataria nella pubblicazione di quest’opera fuori l’Italia). Alla fine del periodo Vito Maria de Grandis pubblica una poesia in sesta rima per l’incoronazione della regina Vittoria nel 838 nelle cui due dediche (una in versi, l’altra in prosa ‘Lettera indiritta ... a sua graziosissima Maesta’) riappare tutta la ridondante retorica delle dediche tradizionali, fino alla sottoscrizione : « Ho l’onore d’essere, di vostra Maestà, umilissimo, devotissimo, obbligatissimo servitore » (De Grandis dà pure un ritratto di se stesso in antiporta e questo con la ridondanza egocentrica dei testi farebbero pensare che il libro è forse non tanto l’ultimo sopravvissuto di uno stile dedicatario ormai superato quanto un primissimo esempio di quello che gli inglesi chiamano ‘vanity publishing’, quando l’unico modo in cui un autore può essere pubblicato è pagando la pubblicazione di tasca sua). C’è un aspetto che rimane costante : la forte presenza delle donne fra i dedicatari : più di un terzo di questi libri recano una dedica ad una donna. Qui sarebbe più che mai utile avere un confronto statistico con le dediche negli altri libri inglesi e italiani del periodo. Nell’assenza di queste statistiche, ipotizzerei che sia un fenomeno strettamente collegato con lo status della lingua e la cultura italiana nel periodo. La

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conoscenza della lingua italiana era un ‘polite accomplishment’ che si addiceva alla istruzione femminile, come il canto e il disegno ; anche la ‘dolcezza’ della lingua è spesso citata in questo contesto, come se fosse già di per se un tratto femminile. La traduzione della commedia di Steele già citata, dedicata a Lady Francesca Manners, primo libro nel Settecento dedicato ad una donna, è un esempio : il traduttore Rolli dice che lei è stata « assistita all’intelligenza della dolce italiana lingua » (presumibilmente da Rolli stesso, che insegnava l’italiano nelle famiglie nobili inglesi). L’ambiente familiare è qualche volta evocato : la dedica nell’edizione del Pastor Fido del 720 a Maria Eyles muove dalle lodi delle qualità della giovane donna « che la rendono figlia ben degna » a quelle dei suoi genitori. Nel 768 Giuseppe Serafini pubblica un’edizione dell’Arcadia di Sannazzaro con una dedica collettiva « alle dame inglesi amanti della lingua italiana » auspicando che faranno il volume « compagno delle [loro] villeggiature ». Dagli esempi già descritti si vede che il rapporto delle dediche con gli altri componenti paratestuali – prefazioni, avvisi, epigrafi, frontespizi – è altrettanto diversificato e difficile da classificare. Rolli gioca con i confini del paratesto e del testo nell’edizione delle sue Rime pubblicata a Londra nel 77 : il libro è dedicato « all’eccellenza di My Lord Bathurst » sul frontespizio ; il testo dedicatario poi diventa la prima poesia della raccolta : « Cui dono il lepido novo libretto ... Solo a te donisi Bathurst che suoli / In qualche pregio tener miei scherzi ». La concretezza delle dediche in questi libri le avvicina molto alle vere e proprie prefazioni : la già citata storia dell’Inghilterra di Vincenzio Martinelli sul frontespizio stesso si annuncia così : « Istoria d’Inghilterra ... al sig. Luca Corsi, dedicata all’ill.mo Sig. Tommaso Walpole » (i caratteri tipografici dei tre nomi – Martinelli, Corsi, Walpole – hanno la stessa grandezza) ; all’interno del libro c’è la dedica molto circostanziata a Walpole seguito da una prefazione – o è un’altra dedica ? – nella forma di una lettera « dell’autore al signor Luca Corsi, a Firenze”, firmata “umilissimo servitore ed amico affezionatissimo ». La dedica di Scipione Maffei a Frederick principe di Galles è in effetti una lunghissima prefazione con brevi incipit e explicit dedicatori quando il destinatario si affaccia nel testo (Maffei conclude « Ascrivo a mia somma sorte ch’io abbia potuto rendermi ocular testimonio delle rarissime sue qualità » : con questa mossa retorica di grande astuzia Maffei riesce a rimanere nella consueta pratica lusinghiera delle dediche e allo stesso tempo conservare la dignità dello studioso che non vuole compromettersi prima di aver avuto « ocular testimonio »). Intorno al 737 apparve un gruppo di edizioni di alcune commedie celebri del 500, del Ariosto soprattutto : si sa che le edizioni erano tutte curate da Rolli, anche se il suo nome non appare nel volume. Quest’invisibilità del curatore è forse legata al fatto che non c’è l’epistola dedicatoria ; invece il nome della dedicataria (sono tutte edizioni dedicate a donne) appare in forma succinta sul frontespizio con lo suo stemma sulla pagina affianco, quasi se fosse un’antiporta o un exlibris. Una forma di dedica visiva quanto verbale che forse riesce a confondere le due ordini individuate da Genette delle dediche alle edizioni stampate e delle iscrizioni negli esemplari individuali.2 Ci sono vari esempi di dediche plurime nelle opere in diversi volumi (anzi i tre volumi del Martinelli dedicati tutti alla stessa persona fanno eccezione). Ciascuno dei tre volumi della Divina Commedia pubblicati da Zotti (come stampatore e curatore) nel 808 è dedicato ad una donna diversa ma ci sono casi in cui c’è stata una vera pro2. Gérard Genette, Seuils, Paris, Editions du Seuil, 987, pp. 30-3.

le dediche nei libri italiani stampati a londra nell’età moderna 445 grammazione delle dediche. L’edizione delle commedie scelte del Metastasio in due volume a cura di Francesco Sastres pubblicata nel 787 comincia con la dedica della Clemenza di Tito al re Giorgio III, e poi procede gerarchicamente, dedicando Zenobia alla regina Carlotta, e Adriano in Siria al principe di Galles (il futuro Giorgio IV) ; la scelta di ciascun dedicatario è anche spiegata nel testo stesso delle dediche (per esempio in Zenobia Metastasio « volle rappresentarci i sacri doveri d’una virtuosa consorte verso il suo sposo ») ; il sistema perde fiato nel secondo volume in cui i motivi per la scelta di ciascun dramma per ciascuna dedicataria (sono tutte donne nobili) si indeboliscono fino a sparire nel contingente : Ciro riconosciuto è dedicato a Lady Pelham con la seguente giustificazione : « Madama, Coll’occasione di assistere due delle di Lei Ill.me figlie nello studio della lingua italiana, io ho più d’una volta osservato con quanto gusto Ella soleva udire i dolci versi del gran Metastasio ». Un simile uso gerarchico nelle dediche plurime si trova nell’edizione della Gerusalemme Liberata curata da Haym nel 724 in due volumi : l’intera opera è dedicata al re Giorgio I ; ogni tavola poi prefissa all’inizio di ogni canto reca la dedica ad un nobile come se il re fosse accompagnato dai suoi principali cortegiani o cavalieri. Da questi esempi possiamo intuire che il paratesto si presta al gioco – anche le dediche. A mio avviso si trova già un elemento scherzoso in tutte queste edizioni in cui gli stampatori e i librai si travestono da Giovanni Nourse, Tommaso Brewer, ecc., e i luoghi dove si stampano o si vendono i loro libri diventano ‘Osford’ o ‘la strada dello Strand’. Direi inoltre che nella prassi normale delle dediche esiste spesso un’autoconsapevolezza che è già potenzialmente ironica (e che appartiene anche alla canonica strategia retorica dell’apofasi in cui si nega per affermare) – quando un dedicante si lamenta della retorica stantìa e troppo prevedibile delle dediche per poi ri-asseverare invece la verità di quello che scrive lui. Ma vorrei concludere con due esempi contrastanti in cui le solite regole dedicatorie sono esplicitamente sovvertite. Il primo è un libro leggermente pornografico pubblicato a Londra nel 765 : Scelta di prose e poesie italiane (prima edizione). La dedica è forse il testo più osceno ed è una esplicita parodia della normale prassi dedicatoria : il dedicatario è un certo « Don Membriano Limoni, conte di Culagna marchese di Chiappeto e di Ficalle, dell’Accademia de Filotani, dottore d’ambe le leggi, ecc., ecc., ecc. ». L’altro esempio è più sottile e più letterario : si tratta del romanzo Delli viaggi di Enrico Wanton alle terre australi (772) pubblicato come l’autore fosse Enrico Wanton stesso ma infatti dal poco conosciuto scrittore veneziano Zaccaria Seriman (la prima edizione italiana è infatti quella veneziana del 749). Allo stesso modo del romanzo di Swift I viaggi di Gulliver Wanton è un fittizio viaggiatore inglese che con occhi ingenui guarda e descrive gli abitanti che incontra nei vari paesi che attraversa; il lettore più avveduto riconosce le sue descrizioni per una satira sulla società contemporanea veneziana. L’apparato paratestuale nell’edizione inglese serve a moltiplicare il gioco stesso del testo : la dedica è indirizzata al re Giorgio III e firmata « l’umilissimo e fedelissimo suddito Enrico Wanton » – dunque ad una vera persona, la più altolocata nel regno, da un personaggio finto. È seguita da una prefazione dell’autore Wanton « a chi legge » e un avvertimento dello stampatore che comincia così : « Ritrovandosi un erudito soggetto in paesi assai lontani da questo regno, mi fece pervenire un’essemplare delli viaggi di Enrico Wanton, nostro concittadino ». È stato suggerito che questo “soggetto erudito” si possa identificare con il bibliotecario di Giorgio III Frederick Augusta Barnard che in effetti faceva un lungo viaggio in Italia intorno a quegli anni per acquistare libri italiani per la

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raccolta reale (e qui forse vale la pena di aggiungere che l’esemplare che ho guardato nella British Library è quello che apparteneva alla biblioteca del re). La vera storia di quest’edizione forse non si conoscerà mai ma l’unico elemento sicuramente veritiero in queste pagine – l’identità del dedicatario – insieme con le solite regole dedicatorie che il gioco paradossalmente riesce ad affermare – suggerirebbe che in ogni caso il re conoscesse perfettamente chi fosse l’autore della dedica e del romanzo. Abstract Il mio studio analizza la presenza delle dediche nelle edizioni in italiano stampate a Londra e altrove in Inghilterra, dove il fenomeno è notevolmente inferiore, dagli inizi del diciottesimo secolo fino agli anni trenta del 800 e quindi all’ascesa al trono di Victoria. Esamina il contesto in cui sono pubblicati in Inghilterra i libri in italiano : le ragioni per cui furono diffusi, da chi e per quale tipologia di lettori e quindi su quali argomenti. Dopo aver dimostrato tale contesto sociale e culturale prosegue descrivendo ed analizzando l’ampio sviluppo e i vari tipi di testi dedicatori che fungono da prefazione ai libri e attira l’attenzione verso alcune caratteristiche specifiche della pubblicazione di libri in lingua italiana a Londra in questo periodo. My paper studies the presence of dedications in Italian language books printed in London and to a much lesser extent elsewhere in England from the beginning of the eighteenth century to the 830s and the accession of Victoria. It examines the context for the publication of Italian books in England : the reasons why such books were published, by whom and for what kind of readership, and on what subjects. After establishing this social and cultural context it goes on to describe and analyse the broad development and various types of dedicatory text prefaced to the books and draws attention to a number of salient and specific features which are possibly unique to Italian-language publishing in London in this period when compared with mainstream publishing in England and in Italy.

Edoardo Crisafulli TESTO E PARATESTO NELL’AMBITO DELLA TRADUZIONE

L

i. Introduzione

a maggior parte degli studiosi di teoria della traduzione tende ad ignorare (o a sottovalutare) gli elementi paratestuali, ritenuti secondari rispetto al testo – originale o tradotto che sia. Ciò è comprensibile : la traduttologia – nota come ‘Translation Studies’ nel mondo accademico anglosassone – è una disciplina alquanto recente. I traduttologi hanno sviscerato innanzitutto quelli che sembravano essere i problemi teorici più pregnanti o più generali – in primis la vexata quaestio della traducibilità o dell’equivalenza testuale. Né hanno potuto avvalersi, se non marginalmente, delle ricerche esistenti sulla traduzione letteraria, giacché gran parte di queste era priva di un impianto scientifico solido. Prima che si affermasse la traduttologia contemporanea, i critici letterari non avvertivano la necessità di consultare i classici di teoria della traduzione o, quantomeno, non riflettevano su questioni teoriche. È quindi inevitabile che una miriade di studi, non avvalendosi degli apporti delle teorie traduttologiche contemporanee, sia indifferente a ciò che caratterizza l’attività traduttiva in quanto tale, e ne ignori la natura specifica. Gli studiosi privi di una formazione teorica ad hoc si ispirano spesso a concetti (o, per meglio dire, pseudo-concetti) astratti e, per giunta, presentati apoditticamente (‘la traduzione dev’essere fedele all’originale’ ecc.). Alcune ricerche si incentrano sulla qualità letteraria dell’opera tradotta ; altre ambiscono a fornire un contributo alla linguistica contrastiva e/o alla prassi traduttiva. Cosicché una mole considerevole di ciò che è stato pubblicato finora nell’ambito della traduzione letteraria altro non è che un esercizio di linguistica comparata o una sorta di critica letteraria in tono minore. La traduzione è infatti giudicata da molti un genere minore rispetto alla produzione letteraria in lingua originale. La traduttologia sembra aver convinto un numero crescente di ricercatori che è necessario conoscere a fondo i meccanismi e le dinamiche che caratterizzano il tradurre. La critica letteraria non può eludere il problema della traduzione : non c’è studio letterario di ampio respiro che non contenga un riferimento a testi tradotti, benché assai spesso questi siano considerati, ingenuamente, copie fedeli dell’originale. Il critico letterario che si occupi, ad esempio, del realismo o della letteratura fantastica legge forse tutte le fonti (letteratura critica, romanzi, poesie ecc.) in lingua originale ? Padroneggia in ugual modo il russo, il francese, l’inglese, il tedesco, l’italiano ? Non leggerà forse qualche opera tradotta nella sua lingua madre e/o nella lingua straniera che conosce meglio ? Ma torniamo alla traduttologia contemporanea. Il dominio del paradigma linguistico ha dato un forte impulso all’analisi delle strategie testuali : i primi studi sulla traduzione mutuavano concetti e metodologia dalla linguistica contrastiva. Ciò ha distolto energie intellettuali dallo studio del paratesto. Ancora oggi uno degli orientamenti più originali in ambito anglosassone – Corpus-based Translation Studies  – predilige la . Mona Baker, Corpus Linguistics and Translation Studies. Implications and Applications, in *Text and

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disamina degli aspetti universali del tradurre, intesi come modelli di comportamento linguistico desumibili dal testo, e non già dal paratesto. Paradossalmente, anche una parte degli studiosi refrattari al paradigma linguistico si è soffermata sul testo, coerentemente con gli orientamenti dominanti nella critica letteraria. Solo di recente alcuni studi 2 hanno sottolineato l’importanza cruciale del paratesto nella traduzione. Dopo un lungo periodo in cui il testo era preminente e, per così dire, ‘brillava di luce propria’, si assiste ora ad una inversione di tendenza, per cui gli elementi un tempo ritenuti secondari (introduzione, prefazione, note, apparato critico ecc.) hanno acquisito piena dignità nella ricerca traduttologica. L’esempio più eloquente è Pym, 3 il quale riconosce un dato di fatto incontrovertibile : il paratesto può essere d’ausilio nel demarcare la linea di confine, non sempre nettissima, tra traduzione e non traduzione (vi sono, ad esempio, varie forme di imitazione, di adattamento ecc.). Come Pym intelligentemente osserva, paratexts function within a discourse where there is a fundamental discontinuity between subject positions. Basically, if a paratext distinguishes between a translator and an author, the corresponding text is presented as a translation. 4 Queste osservazioni sembreranno ovvie solo a chi consideri le traduzioni moderne : le leggi sul diritto d’autore sono un’invenzione recente – appaiono verso la metà del xix secolo. Esse sono il frutto di una consapevolezza estranea ad epoche precedenti, nelle quali i testi di ogni genere venivano spesso ‘saccheggiati’ da autori spregiudicati : era prassi diffusa copiare brani interi senza riconoscere la fonte delle citazioni. Questa tendenza all’appropriazione indebita del lavoro intellettuale altrui era particolarmente accentuata nel mondo della traduzione. Solo allorché il concetto di autore sia sufficientemente riconosciuto e tutelato (anche da un punto di vista legale), la traduzione tende a presentarsi senza infingimenti per quello che è : una riscrittura di un testo apparso precedentemente in un’altra lingua. C’è una correlazione stretta tra identità autoriale e visibilità del traduttore : « when there is a strong authorship, the status of translations is marked with corresponding strength ». 5 Nel Medioevo, in particolare, la distinzione tra autore e traduttore è labilissima, in quanto quest’ultimo non si poneva scrupoli di sorta nell’appropriarsi totalmente del testo originale, riscrivendolo liberamente e apponendovi modifiche sostanziali ; talora il traduttore si presentava, più o meno esplicitamente, come autore dell’opera ‘saccheggiata’. Il problema della demarcazione tra traduzione e non traduzione, dunque, non è affatto marginale. Ma l’esame del paratesto è sufficiente a categorizzare il testo come traduzione ? In epoca moderna, sì. Nel Medioevo, no. Nei manoscritti medievali sono state osservate discontinuità o incongruenze – « ruptures » 6 – tra il testo e il paratesto, le Technology : In Honour of John Sinclair, a cura di Mona Baker, Gill Francis ed Elena Tognini-Bonelli, Amsterdam & Philadelphia, John Benjamins, 993, pp. 233-250. Mona Baker, Corpus-based Translation Studies : the Challenges that Lie ahead, in *Terminology, LSP and Translation, a cura di Harold Somers, Amsterdam & Philadelphia, John Benjamins, 996, pp. 75-86. 2. Anthony Pym, Method in Translation History, Manchester, St. Jerome Publishing, 998 ; Edoardo Crisafulli, The Translator as Textual Critic and the Potential of Transparent Discourse, « The Translator », 5, (999), , pp. 83-07 ; Edoardo Crisafulli, The Vision of Dante. Cary’s Translation of the Divine Comedy, Market Harborough, Troubador Publishing, 2003 ; Michaela Wolf, Cultural Pluralism Through Translation ? Imagining the Italian Other in the Habsburg Monarchy, « ttr », 2, (200), , pp. 59-90. 3. Anthony Pym, Method in Translation History, cit. 4. Idem, Method in Translation History, p. 62. 5. Idem, Method in Translation History, p. 64. 6. Idem, Method in Translation History, p. 63.

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quali sembrano confermare l’identità poliedrica dell’autore-traduttore-curatore dell’opera. Da ciò si evince chiaramente che la disamina delle strategie paratestuali non può prescindere dall’analisi del testo. L’espansione vertiginosa dei Translation Studies, tuttavia, ha determinato una tale proliferazione di approcci e di metodologie, che si è passati da un estremo all’altro : non è infrequente che le ricerche traduttologiche incentrate sugli elementi paratestuali ignorino il testo. Insomma : il rischio è di approdare ad una sorta di ‘divisione del lavoro’, come se occupandosi del testo, si potesse ignorare il paratesto o viceversa. Un esempio eloquente è lo studio di Michaela Wolf, 7 che prende in esame una raccolta di traduzioni dall’italiano al tedesco (saggi, romanzi, articoli ecc.) pubblicate durante la dominazione asburgica. Avendo come oggetto d’indagine la rappresentazione dell’Italia nella cultura mitteleuropea, la Wolf compila una lunga lista di traduzioni presenti nei cataloghi delle case editrici austro-ungariche nel periodo 84898. Le osservazioni di Wolf, benché generiche, sono molto stimolanti : dopo essersi soffermata esclusivamente sul paratesto (prefazione e note, in particolare), la Wolf conclude che la più parte degli interventi del traduttore, e/o del curatore della traduzione, ha lo scopo di fornire informazioni di vario genere : sulla biografia dell’autore, sul contenuto e la trama del libro, sulle ragioni che ne giustificano la pubblicazionetraduzione, sui problemi traduttivi affrontati ecc. Per quanto concerne questi ultimi, i traduttori discutono sovente il classico dilemma ‘versione fedele o versione libera ?’ E molti professano la loro indiscussa fedeltà all’originale. Ora, non v’è dubbio che studi di tal genere – soprattutto se condotti in una prospettiva diacronica – possano gettare luce sul modo storicamente determinato in cui si manifesta l’intenzionalità del traduttore, nonché sul mutare di questa a seconda delle circostanze e dei periodi storici (i traduttori odierni potrebbero non essere altrettanto propensi a dichiarare ad ogni piè sospinto la loro ‘fedeltà’ al testo di partenza). Ma l’impostazione della Wolf preclude l’esame delle dinamiche relazionali che sussistono tra testo e paratesto. In conclusione : la specificità del paratesto nella traduzione non è ancora emersa in tutta la sua ampiezza. E la causa di ciò risiede, appunto, nella propensione a scindere testo e paratesto. La funzione degli elementi paratestuali, dunque, rimane ancora enigmatica per i traduttologi : la letteratura critica, su questo argomento, è troppo limitata. Mancano punti di riferimento cui ancorarsi. In assenza dei quali, sarò costretto a svolgere alcune riflessioni provvisorie. ii. Il paratesto Trarrò le mie categorie d’analisi dal classico studio di Gérard Genette. 8 Le tre osservazioni generali che mi paiono più pertinenti allo svolgimento delle mie riflessioni sono le seguenti : (a) nessun testo può condurre un’esistenza autonoma : esso non si manifesta mai, per così dire, ‘nella sua nudità’, ma è sempre accompagnato da una serie di elementi ausiliari : titolo, nome dell’autore, copertina, epigrafe, dedica, quarta di copertina, illustrazioni, prefazione, note ecc. Testo e paratesto sono parte di un tutto organico : l’uno non può essere separato dall’altro. Ma c’è di più : il paratesto è una sorta di ponte ideale tra testo e contesto culturale. Nessuno studio filologicoletterario può prescindere da quegli elementi che conferiscono concretezza storica al 7. Michaela Wolf, Cultural Pluralism through Translation ? …, cit. 8. Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 989.

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testo. (b) Il paratesto, sebbene sia subordinato al testo, ne influenza enormemente la ricezione. Alcuni elementi paratestuali (titolo, nome dell’autore, copertina, quarta di copertina) sono un vero e proprio ‘biglietto da visita’ del prodotto editoriale. Essi sono determinanti nell’indurre il potenziale lettore ad acquistare il libro, stimolandone la lettura e orientandone l’interpretazione. Il paratesto non è accessorio nel senso di ‘elemento opzionale’, bensì nell’accezione di ‘elemento che dà compiutezza al testo’, rendendolo fruibile come prodotto editoriale finito. Come leggeremmo lo Ulysses di Joyce se non fosse intitolato, appunto, Ulysses ? 9 (c) Il paratesto racchiude idee, pensieri ecc che sono, per definizione, intenzionali (mi riferisco all’intenzionalità autoriale). 0 La logica che presiede al testo letterario, invece, è più complessa : l’intenzionalità a volte deve piegarsi a costrizioni indipendenti dalla volontà dell’autore – ad esempio, la scelta di una determinata parola a fine verso per ragioni metriche, ritmiche o di rima. Si tratta, ovviamente, di osservazioni vaghe, che richiederebbero una trattazione più approfondita. Ma, pur nella loro generalità, ci forniscono alcuni punti di riferimento essenziali. In realtà, Genette suddivide ulteriormente il paratesto in peritesto ed epitesto : il primo è tutto ciò che è compreso fisicamente nel volume (titolo, copertina ecc.) ; il secondo, invece, è l’insieme degli elementi esterni al volume (interviste, recensioni, lettere private dell’autore ecc.). Entrambe queste dimensioni del paratesto esercitano un forte influsso sul lettore del libro. Ma in questo articolo mi soffermerò unicamente sul peritesto. In particolare, circoscriverò la mia attenzione a quegli elementi del peritesto che esprimono in maniera più diretta l’intenzionalità dell’autore (nel nostro caso : dell’autore-traduttore) : le prefazione e le note. Nel mondo della traduzione, infatti, molte scelte paratestuali (copertina, quarta di copertina, illustrazioni, a volte anche il titolo) vengono compiute dalla casa editrice o dal curatore del volume, e non già dal traduttore. La prefazione, se scritta dall’autore del testo, manifesta compiutamente le caratteristiche accennate poc’anzi : anzitutto, è un ‘manifesto’ dell’intentio auctoris.  Mentre il testo, soprattutto quello poetico-letterario, è il luogo dell’intentio operis, che è una strategia semiotica-testuale. Impiego qui la distinzione proposta da Umberto Eco tra intentio auctoris, intentio operis e intentio lectoris. Naturalmente, non si tratta solo di cogliere (o districarsi tra) le varie forme di intenzionalità. Una circostanza complica il quadro ermeneutico : gli autori di un libro sono spesso più d’uno, quantunque non tutti appaiano ufficialmente come tali. Redattori anonimi e, a volte, l’editore stesso contribuiscono alla revisione stilistica del testo, ed intervengono anche in sede paratestuale. In altre parole : il paratesto spesso veicola l’intenzione di svariati autori, non sempre distinti tra loro ; alcune decisioni sono il frutto di un compromesso, o di un accordo, tra editore ed autore. È bene chiarire che nei casi discussi in questo articolo, l’autore del testo (ovvero : il traduttore) coincide con l’estensore dell’apparato critico paratestuale (nella fattispecie : prefazione e note). Le note si distinguono dalla prefazione perché si riferiscono a segmenti testuali – sono cioè da porre in relazione con una parte (e non la totalità) del testo. 2 Tuttavia, la prefazione e le note svolgono spesso funzioni affini : tali elementi paratestuali sono 9. Ivi, p. 4. 0. Ivi, p. 3. . Ivi, p. 22. 2. Ivi, p. 39.

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legati da un rapporto di continuità ed omogeneità, soprattutto per quanto concerne l’intenzionalità manifestata (intentio acutoris). La prefazione e le note sono gli strumenti con cui l’autore condiziona la comprensione della propria opera, orientando il lettore in una direzione piuttosto che in un’altra. 3 Analizzerò dunque questi due elementi peritestuali congiuntamente, anche se dedicherò uno spazio maggiore alle note. La funzione delle note, in genere, è esplicativa (quando vengono illustrati i termini che compaiono nel testo), o informativa/documentale (allorché l’autore cita le fonti utilizzate, dà informazioni a latere o rimanda ad ulteriori documenti). Nella narrativa le note autoriali sono in genere informative/documentali, e solo di rado esprimono commenti di natura personale. 4 Le note hanno una caratteristica fondamentale : la loro lettura può essere facoltativa. A volte, è l’autore stesso che ‘autorizza’ il lettore ad ignorarle. È quindi cruciale stabilire a quale lettore ideale esse siano rivolte. 5 Ad esempio, è inimmaginabile che un lettore della Commedia dantesca ignori le note, sia perché queste sono essenziali per la comprensione del testo, sia perché il lettore di Dante, avendo spesso finalità di studio, è più colto dell’estimatore di Ken Follett. E pertanto non vedrà i commentari come una distrazione dalla lettura del testo. Genette suggerisce cautela : la nota è un elemento elusivo e, talvolta, inafferrabile. E non ha necessariamente un valore paratestuale, in quanto non sempre manifesta le osservazioni dell’autore. 6 Soprattutto nei testi discorsivi-narrativi, non è agevole discriminare tra testo e nota : quello può inglobare questa. 7 In tal caso, la nota non è più una sorta di metatesto, cioè di commento, bensì una prosecuzione, sia pure in forme diverse, del testo stesso. Si tratta, dunque, di verificare se, e in che misura, la nota svolga effettivamente una funzione paratestuale – e non sia, invece, una diramazione del testo : una sorta di notazione a margine o una parentesi discorsiva. Nei casi che prenderemo in esame, la distinzione tra testo e paratesto è abbastanza netta : la Commedia è un poema medievale che richiede un apparato critico per il lettore moderno. Le note, quindi, segnalano una discontinuità rispetto alla narrazione testuale. Un’altra osservazione di Genette merita una riflessione : l’intervento autoriale nelle note a volte è dissociativo o contraddittorio 8 – il narratore può far credere di essere onnisciente nella narrazione, e sollevare dubbi su tale pretesa nei suoi interventi ‘a latere’ nel paratesto. 9 Detto in altre parole : l’autore può contraddirsi. Non bisogna cadere nell’illusione che l’intentio auctoris sia sempre scevra da ambiguità. iii. La teoria di Lawrence Venuti Non è possibile in questa sede esaminare le principali teorie traduttologiche contemporanee. Mi limito al pensiero di Lawrence Venuti, studioso americano tra i più affermati nei Translation Studies. La sua impostazione, infatti, è estremamente originale : egli sostiene che nella tradizione angloamericana il canone traduttivo dominante prescrive la strategia della fluency o della transparency : affinché l’originale 3. Ivi, pp. 97, 222. 4. Ivi, p. 335. 5. Ivi, p. 324. 6. Ivi, p. 342. 7. Ivi, p. 328. 8. Ivi, p. 335. 9. Ibidem.

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sia percepito nella sua immediatezza, la traduzione dev’essere leggibile e scorrevole. Chi legge Dante in inglese, ad esempio, non vuol essere cosciente del fatto che ha di fronte a sé una ricostruzione mediata del testo originale. Gli editori, i critici letterari, i recensori e gli stessi lettori di traduzioni sono indotti a stendere un velo sulla presenza estranea del traduttore, ne ignorano la voce o la cifra stilistica, perché questa oscurerebbe la visibilità dell’autore ‘originario’. Si tratta, naturalmente, di una finzione o, addirittura, di una manipolazione. La quale è possibile nella misura in cui il testo tradotto è immediatamente fruibile, ovvero scevro da peculiarità linguistiche che rammentino al lettore l’alterità del testo : espressioni arcaiche, forestierismi, giochi di parole, ricorso al plurilinguismo, commistione di registri linguistici (forme dotte e popolari), sintassi complessa ecc. Più il testo è ‘naturalizzato’ nella letteratura d’arrivo, maggiori sono le possibilità di preservare l’illusione che il pensiero originale sia ‘incontaminato’ dalla mediazione del traduttore. Se la traduzione non evidenzia particolarità linguistiche o stilistiche, essa apparirà trasparente e, come una sorta di specchio, rifletterà l’immagine dell’autore originale. Così avviene che la traduzione trasparente, naturalizzata nella letteratura d’arrivo, obliteri, agli occhi del lettore, la sua natura di mediazione/interpretazione, apparendo – illusoriamente – come l’originale tout court. 20 Le parole chiave, dunque, sono due : assimilazione etnocentrica (il canone imperante intima al traduttore di depurare l’originale dalle sue scorie straniere) e comprensibilità (la traduzione dev’essere percepita come se fosse l’originale, tout court). Nulla vieta che il canone della fluency/transparency venga violato, ma i traduttori angloamericani vi si attengono scrupolosamente per non compromettere la fruibilità del prodotto e, quindi, la sua vendibilità. L’industria culturale angloamericana esercita una pressione fortissima sulle case editrici e sui traduttori : i lettori si aspettano che la traduzione rispecchi l’originale, che ne sia una trascrizione ‘fedele’. Venuti, essendo un nemico giurato dell’assimilazione etnocentrica, non nasconde la sua ammirazione per la poesia modernista di Ezra Pound, perché questa fa ampio ricorso a strategie stilistiche sperimentali, ed è refrattaria al canone traduttologico vigente : Pound dà libero sfogo all’autonomia del significante, utilizza una sintassi contorta ed involuta, gioca sulla polisemia, usa forme linguistiche non canoniche. In altre parole, la cifra stilistica di Pound consiste nel rendere opaco il significato, determinando in tal modo una frustrazione delle aspettative del lettore medio. In tal modo, Pound smaschera l’illusorità della convinzione per cui dall’opera letteraria è estraibile un significato essenziale, coerente e stabile. Se nell’opera originale la coerenza del significato viene erosa dall’autonomia del significante, nella traduzione non può vigere una logica diversa : non c’è un significato testuale essenziale da cogliere e trasporre sic et simpliciter. Accenno di sfuggita alla parte prescrittiva (o ‘politica’) della teoria di Venuti, che mi pare molto più discutibile di quella descrittiva-interpretativa : secondo Venuti, essendo infondata la distinzione tra analisi stilistico-letteraria ed elaborazione di una poetica, ‘non si tratta di comprendere il mondo della traduzione, ma di trasformarlo’. È lecito – anzi, desiderabile – che lo studioso incoraggi i traduttori angloamericani ad agire in un senso piuttosto che in un altro : essi dovrebbero trasgredire le norme traduttologiche e/o sovvertire il canone letterario dominante. Venuti predilige lo sperimentalismo linguistico, perché esso distoglie l’attenzione del lettore dal significato 20. Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility, Londra-New York, Routledge, 995.

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facendolo convergere sul significante. La creatività linguistica consente al traduttore di generare, più o meno coscientemente, nuovi significati che s’intrecciano a quelli presenti nel testo originario. Non intendo soffermarmi sul dibattito intorno alla validità euristica del concetto di fluency (secondo alcuni, la leggibilità o fruibilità di un testo è una qualità che ha svariate, e talora impercettibili, gradazioni a seconda del tipo di lettore). A mio avviso, le critiche alla parte descrittiva della teoria di Venuti non ne inficiano la validità generale. Una analisi quantitativa delle traduzioni in ambito angloamericano potrà confermare la tendenza evidenziata da Venuti : la leggibilità è un elemento che favorisce la diffusione commerciale del testo tradotto, il quale, altrimenti, circola in un mercato di nicchia – generalmente quello universitario. A mio avviso, l’unico assunto criticabile della teoria di Venuti è il seguente : chiunque si conformi al canone della fluency avrebbe ipso facto una concezione positivistica del tradurre. Ogni traduzione leggibile appare come una trasposizione meccanica del significato originale, percepito nella sua totalità da un interprete onnisciente. La fluency, argomenta il Venuti, nega la possibilità stessa di una molteplicità di interpretazioni : non riconosce la polisemia dell’opera letteraria. Il traduttore angloamericano ‘conformista’ agisce come se il significato testuale fosse un’essenza astorica ed universale. 2 Questo positivismo anti-ermeneutico, a sua volta, presuppone un’immagine monolitica del testo, il quale non può presentare contraddizioni che sollevino dubbi sulla coerenza intrinseca del messaggio veicolato. Il traduttore che dà priorità alla leggibilità del testo conferisce un valore assoluto alla coerenza testuale. 22 Venuti ha ragione quando osserva che la fluency è potenzialmente ingannevole, nella misura in cui tende ad occultare la figura del traduttore. Un fatto, tuttavia, è incontrovertibile : la voce del traduttore non si ode solo nel testo, ma anche nel paratesto. Quest’ultimo, anzi, l’amplifica ulteriormente. Venuti, a mio avviso, commette un errore laddove dà preminenza al testo : ciò lo induce a relegare il paratesto in una sorta di ‘ghetto ermeneutico’. L’errore dipende dal fatto che Venuti aderisce acriticamente alla filosofia post-strutturalista, e quindi ritiene che il rapporto antagonista/ conflittuale tra significato e significante sia il fulcro di ogni evento interpretativo. Solo un testo narrativo o poetico consente al significante di ‘erodere la coerenza del significato’. L’autonomia del significante si esplica mediante il gioco di parole, la creatività linguistica, l’uso di effetti fonici (allitterazione e rima). È comprensibile che un poststrutturalista sia indotto a minimizzare l’importanza del paratesto : la prefazione e le note ingabbiano il significante, impedendogli di contraddire gli interventi metanarrativi dell’autore. Ciò che conta in questi elementi paratestuali è il messaggio inteso come struttura stabile e coerente. E qui leggiamo, in filigrana, la polemica dei post-strutturalisti contro ogni ‘essenza’ o verità testuale assoluta. Senza entrare in un dibattito filosofico piuttosto complesso, basti accennare alle potenzialità dello strutturalismo metodologico, così come è stato formulato da Umberto Eco : come ho già argomentato, 23 non è vero che l’alternativa al relativismo epistemologico post-strutturalista sia un assolutismo di ascendenza aristotelica : il fatto che non esistono verità indiscutibili, non significa che tutte le inter2. Idem, p. 6. 22. Idem, pp. , 7. 23 Edoardo Crisafulli, Eco’s Hermeneutics and Translation Studies : Between ‘Manipulation’ and ‘Overinterpreta.tion, in *Illuminating Eco. On the Boundaries of Interpretation, a cura di Charlotte Ross and Rochelle Sibley, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 89-04.

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pretazioni di un testo siano egualmente legittime. La teoria di Eco è convincente : vi sono criteri ermeneutici che consentono di circoscrivere l’ambito delle interpretazioni devianti. Ogni testo esprime sempre una qualche forma di intenzionalità : l’intentio operis. E il paratesto stesso, essendo il luogo in cui si manifesta l’intentio auctoris, non si sottrae a tale logica o legge generale. Tuttavia, quantunque a Venuti sfugga la complessità del rapporto tra testo e paratesto nel processo traduttivo, la sua teoria consente di squarciare il velo sulla natura dissociativa di una importante traduzione della Commedia in lingua inglese, The Vision of Dante, che ora mi accingo a considerare. Venuti descrive magistralmente il canone imperante nel mondo angloamericano della traduzione : e senza questo punto di riferimento non potremmo comprendere le eccezioni rispetto a quello che è il comportamento standard dei traduttori. La teoria di Lawrence Venuti, inoltre, spiega perché testo e paratesto, nella traduzione, siano così dissociati da apparire come emanazione di auctores distinti : Venuti per primo ha messo in luce l’ambiguità della posizione del traduttore, il quale è costretto a rendersi invisibile per non entrare in competizione con l’autore originario. Il traduttore brilla sempre di luce riflessa. Ma proprio l’invisibilità di questa figura nel testo induce ad ipotizzare che la sua personalità emerga, quantunque in forme meno intrusive, altrove, cioè nel paratesto. Detto altrimenti : si tratta di verificare se (e in quale misura) il traduttore ‘evanescente’ faccia capolino nell’unico luogo riservato per definizione all’esercizio dell’intentio auctoris : la prefazione e le note. iv. Due traduzioni dantesche a confronto La mia analisi della traduzione di Henry Francis Cary, The Vision of Dante, 24 dimostra che non si può prescindere da una disamina accurata del paratesto. Il punto di partenza della mia riflessione è questo : da un lato, la versione inglese è relativamente comprensibile per un lettore coevo, sicché, seguendo il ragionamento di Venuti, essa dovrebbe apparire come una trascrizione fedele dell’originale, con tutto ciò che questo comporta (stabilità del testo, coerenza del significato, fiducia assoluta nel traduttore quale interprete infallibile) ; dall’altro lato, però, il continuo intervento di Cary nelle note critiche al testo tende a sfatare il mito del traduttore onnisciente, capace di cogliere un significato originario dato assolutamente. Ma vediamo innanzitutto le strategie che, secondo i canoni letterari ottocenteschi, rendono leggibile lo stile del Cary : la terza rima viene sostituita dal blank verse miltoniano. In tal modo, Cary naturalizza Dante nel solco della tradizione letteraria inglese. Il linguaggio poetico è in gran parte codificato, in quanto attinge a piene mani al lessico di Shakespeare, di Chaucer e di Milton. La versione di Cary, inoltre, è avvolta in una patina arcaizzante, generalmente comprensibile per il lettore colto del tempo : lo standard archaic usage tipico della produzione poetica inglese nel periodo 600-900 (si considerino, ad esempio, i pronomi arcaici thee, ye, thou ; nonché le forme verbali arcaiche : dost, doth, wast, hast, yieldest, mistakest ecc.). Cary traduce gran parte delle espressioni latine che compaiono nella Commedia, e la creatività linguistica è ridotta al minimo (i giochi di parole e i neologismi danteschi vengono accuratamente evitati). La versione inglese tende a chiarire le ambiguità od oscurità presenti nel testo 24. Henry Francis Cary, The Vision ; or Hell, Purgatory, and Paradise of Dante Alighieri, Londra, John Taylor, 844.

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italiano ; laddove Dante è conciso, Cary ricorre di frequente a termini esplicativi che amplificano il discorso – ad esempio, « un che dentro v’annegava », Inf., xix, 20 diviene « a whelming infant », 25 presumibilmente perché quell’« un », tradotto in inglese, apparirebbe troppo vago e indeterminato. Cito l’incipit dell’Inferno nella versione del Cary per dare un’idea, ancorché approssimativa, dell’incedere metrico e della qualità poetica del testo inglese. Si notino le inversioni sintattiche tipiche del blank verse miltoniano, versificazione per eccellenza della poesia epica inglese : Nel mezzo del cammin di nostra vita Mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Esta selva selvaggia e aspra e forte Che nel pensier rinova la paura ! Tant’è amara che poco più è morte ; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Inf., i, -9 In the Midway of this our mortal life, I found me in a gloomy wood, astray Gone from the path direct : and e’en to tell, It were no easy task, how savage wild That forest, how robust and rough in growth, Which to remember only, my dismay Renews, in bitterness not far from death. Yet, to discourse of what there good befell, All else will I relate discover’d there.26

Vediamo ora gli interventi di Cary nel paratesto. Una premessa : come ho già dimostrato, 27 una traduzione della Commedia dantesca nell’Ottocento inglese non poteva che essere rivolta ad un pubblico colto. I lettori di Cary erano senza dubbio propensi a leggere le note che accompagnano il testo. Non a caso, gli stessi recensori coevi mostrano di apprezzare l’impianto critico (peraltro imponente) elaborato da Cary. È lecito presumere che la strategia autoriale veicolata dal paratesto s’imponesse all’attenzione dei lettori inglesi nel xix secolo. Cary è pienamente consapevole del fatto che l’esercizio di critica testuale, cui egli deve apprestarsi al fine di riscrivere la Commedia in inglese, ha un carattere essenzialmente ermeneutico. Nell’introduzione, intitolata “Life of Dante”, Cary allude alla necessità, per ogni traduttore, di consultare i commentari del Landino, del Vellutello, del Venturi e del Lombardi : He, who shall undertake another commentary on Dante yet completer than any of those which have hitherto appeared, must make us of these four [i.e., i commentari italiani citati sopra], but depend on none. To them he must add several others of minor note, whose diligence will nevertheless be found of some advantage, and among whom I can particularly distinguish Volpi. Besides this, many commentators and marginal annotations, that are yet inedited, remain to be 25. Ivi, p. 45. 26. Ivi, p. 5. 27. Edoardo. Crisafulli, The Vision of Dante…, cit., p. 237.

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examined ; many editions and manuscripts to be more carefully collated ; and many separate dissertations and works of criticism to be considered. 28 Nella prefazione vera e propria, Cary trae le conseguenze logiche del suo ragionamento : rivolgendosi a coloro i quali « shall be at the trouble of examining into the degree of accuracy » della sua versione, egli chiede comprensione per essersi lanciato in un’impresa davvero ardua : il giudizio dei lettori più esigenti, continua Cary, should not be formed on a comparison with any single text of my Author ; since, in more instances than I have noticed, I have had to make my choice out of a variety of readings and interpretations, presented by different editions and commentators. 29 Come si può sostenere che Cary creda (e induca il suo lettore a credere) in un’equivalenza semantica perfetta, per il solo fatto che il suo stile è conforme ai dettami della fluency ? Se la Commedia non è accessibile immediatamente al traduttore, The Vision of Dante non può esserne una rappresentazione mimetica. Cary non si limita ad affermazioni generiche nella prefazione, ma interviene spesso nelle note per informare il lettore sulle scelte fatte in qualità di critico testuale. In alcuni casi, Cary confronta minuziosamente le varianti testuali presenti nei vari manoscritti, sicché al lettore non può sfuggire la natura ermeneutica del processo traduttivo. All’epoca, infatti, non c’era un’edizione critica autorevole come quella del Petrocchi. Cary sottolinea anche l’ambiguità e/o la polisemia di alcuni passi danteschi. E così mina alla radice la credibilità del modello mimetico : non esiste, né può esistere, una perfetta corrispondenza semantica tra originale e traduzione. L’originalità di Cary consiste proprio in questo : egli si pone, allo stesso tempo, come traduttore, critico letterario e filologo testuale. Vediamo uno dei casi più eloquenti della strategia paratestuale di Cary. La nota che discuteremo si riferisce al seguente passo dantesco : Quale, dove per guardia de le mura Più e più fossi cingon li castelli ; la parte dove son rende figura, tale immagine quivi facean quelli. Inf., xviii, 0-3 As where, to guard the walls, full many a foss Begirds some stately castle, sure defence Affording to the space within ; so here Were model’d these. 30

Petrocchi opta per la lezione « la parte dove son rende figura » (cioè la zona in cui si trovano i fossati proietta un’immagine, o figura, sul terreno). Alcuni manoscritti antichi contengono le varianti « sol » invece di « son » e « sicura » invece di “figura ». In una nota a piè di pagina Cary si sofferma sulla complessità delle scelte che il traduttorecritico testuale deve operare : ‘La parte dov’e’ son rendon sicura.’ This is the common reading ; besides which there are two others : ‘La parte dove il sol rende figura’ ; and, ‘la parte dov’ei son rende figura’ : the former of which two, Lombardi says, is found in Daniello’s edition, printed at Venice, 568 ; in that printed in the same city with the commentaries of Landino e Vellutello, 572 ; and also in some MSS. The latter, which has very much the 28. Henry Francis Cary, The Vision…, cit., p. 2. 29. Ivi, p. v. 30. Ivi, p. 44.

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appearance of being genuine, was adopted by Lombardi himself, on the authority of a text supposed to be in the hand-writing of Filippo Villani, both so defaced by the alterations made in it by some less skilful hand, that the traces of the old ink were with difficulty recovered ; and it has, since the publication of Lombardi’s edition, been met with also in the Monte Casino MS. Monti is decided in favour of Lombardi’s reading, and Biagioli opposed to it. 3 Ripeto – data l’importanza di questo punto – l’osservazione svolta poc’anzi : il messaggio autoriale, nel paratesto, è chiarissimo : tradurre equivale a interpretare, e non già a riprodurre un significato dato originariamente. Cary ha una visione ermeneuticamente sofisticata del processo traduttivo. Già McGann 32 ha argomentato che la visibilità degli interventi di critica testuale ha un impatto sulla ricezione dell’opera letteraria : il lettore non può ignorarne la polisemia. Cary ricorda costantemente al suo lettore che non c’è un significato univoco del testo dantesco, riproducibile sic et simpliciter. l’originale è provvisorio, non essendo scevro da ambiguità e oscillazioni semantiche. Il significato è spesso instabile e fluttuante. Il traduttore svolge un’opera di mediazione tra varie edizioni critiche autorevoli, e talora deve scegliere tra lezioni egualmente legittime. E se il testo originale è, per definizione, polisemico, come può il traduttore raggiungere una perfetta equivalenza testuale ? Cary, presentandosi come un traduttore-filologo attento all’edizione critica della Commedia, accresce enormemente la sua visibilità. E il paratesto è la cassa di risonanza per questa strategia autoriale. A questo punto, una conclusione mi pare inevitabile : poiché la validità generale della teoria di Venuti è fuori discussione – il canone della fluency, in genere, condiziona le scelte dei traduttori angloamericani – il comportamento di Cary è contraddittorio : non trasgredisce il canone imperante da un punto di vista stilistico, ma rifiuta una visione positivistica della traduzione. Si potrebbe concludere che la teoria di Venuti è difettiva, giacché postula che una traduzione leggibile ‘anestetizza’ le facoltà critiche del lettore. E, tuttavia, sono convinto che la teoria di Venuti, qualora rivalutasse il rapporto dialettico tra testo e paratesto, rimarrebbe valida nella sua impostazione generale. Ad esempio : posto che il canone della fluency prevede un traduttore invisibile agli occhi del lettore, l’apparato critico, di norma, non dovrà essere eccessivo : esso, oltre a distogliere l’attenzione dalla lettura del testo stesso, potrebbe indurre il traduttore a tradire la sua ‘missione’ che è quella, appunto, di occultare la sua presenza. Si tratta di un’interessante ipotesi di ricerca, che andrebbe sviluppata. La strategia dissociativa di Cary richiede un apparato critico imponente, e sembrerebbe un’eccezione nel panorama angloamericano. Non dimentichiamo che la traduzione di Dante in lingua inglese ci offre uno scorcio ineguagliabile sulla complessità del rapporto tra testo e paratesto : le edizioni italiane del capolavoro dantesco, com’è ovvio che sia, dedicano amplissimo spazio al commento critico (in genere un apparato paratestuale esplicativo-interpretativo, sotto forma di note a piè di pagina). Che dire delle traduzioni inglesi ? 33 Ci si aspette3. Ivi, p. 44. 32. Jerome McGann, The Monks and the Giants. Textual and Bibliographical Studies and the Interpretation of Literary Works in *Textual Criticism and Literary Interpretation, a cura di Jerome McGann, ChicagoLondra, University of Chicago Press, 985, (pp. 80-99), p. 96. 33. Sulle traduzioni dantesche in inglese si veda il mio articolo : Edoardo Crisafulli, Dante. The Divine Comedy, in *Encyclopedia of Literary Translation into English, a cura di Olive Classe, Londra, Fitzroy Dearbon Publishers, 2000, pp. 339-344.

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rebbe un apparato ancor più poderoso, nel quale appaia il commento critico sul testo italiano affiancato dagli interventi del traduttore. Ma le cose non stanno così. Molti traduttori angloamericani propendono a spiegare il testo di arrivo solo quando lo ritengono strettamente necessario, ed inseriscono pochissime notazioni a margine sui problemi traduttivi da loro affrontati. La teoria di Venuti, dunque, mantiene una sua validità nonostante i limiti sopra esposti : il traduttore preferisce commentare il testo di partenza, quasi che la versione inglese ne fosse l’immagine rispecchiata. Ma consideriamo un’altra traduzione, che faccia da contraltare a quella di Cary : il vivace e modernissimo Inferno di Steve Ellis, pubblicato nel 994. Il confronto tra Cary ed Ellis, infatti, si presta a molte riflessioni, benché quest’ultimo traduca solo una cantica. Contestualizzare è d’obbligo : Ellis si rivolge ad un pubblico di media cultura che non è prettamente accademico. La distanza temporale tra i due traduttori, inoltre, è ragguardevole : nessun traduttore ottocentesco avrebbe potuto impiegare uno stile colloquiale (nella poesia epica e, in genere, in tutta la produzione letteraria elevata erano ammesse occasionalmente forme linguistiche popolareggianti, non popolari). Al tempo di Cary, vigeva una sorta di ‘libertà vigilata’ : i traduttori sapevano che non era consigliabile allontanarsi troppo da un linguaggio codificato letterariamente. Cito nuovamente l’incipit dell’Inferno, questa volta nella versione modernizzante di Ellis : Halfway through our trek in life I found myself in this dark wood, miles away from the right road. It’s no easy thing to talk about, this place, so dire and dismal I’m terrified just remembering it ! Death itself can hardly be worse ; but since I got some good there I’ll talk about the bad as well. 34

Sebbene (è bene ripeterlo) questi versi diano un’idea approssimativa delle strategie di un traduttore, alcune osservazioni s’impongono al lettore avveduto : l’avvio dimesso di Ellis stride fortemente con quello solenne di Cary : « In the Midway of this our mortal life ». Già nel primo verso, che in un certo senso conferisce il tono a tutta la narrazione successiva, Ellis fa ricorso a forme colloquiali : « halfway through » e « trek ». La frase « miles away from the right road » suona addirittura stonata a chi abbia in mente i toni elevati che caratterizzano le traduzioni dantesche in lingua inglese (si pensi a Cary : « I found me in a gloomy wood, astray/Gone from the path direct »). Quelle di Ellis sembrano le parole di un automobilista che si sia perso per strada. Volutamente anti-letterario è anche il verso « but since I got some good there » (in Cary : « Yet, to discourse of what there good befell »), che sfrutta la natura profondamente idiomatica del verbo ‘to get’. Intendiamoci : da un punto di vista prettamente descrittivo, ogni strategia traduttiva è del tutto legittima. Ma lo studioso deve fare i conti con i giudizi – o, a seconda dei punti di vista, i pregiudizi – manifestati da critici letterari, recensori e semplici lettori : prima che Ellis comparisse sulla scena dantesca, nessun traduttore aveva osato scostarsi più di tanto dal solco della tradizione : la prassi era quella di trasfigurare o di 34. Steve Ellis, Dante. Hell, Londra, Chatto & Windus, 994.

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‘nobilitare’ Dante mediante forme espressive elevate, ed anche i traduttori propensi a modernizzarne le sembianze, erano restii a percorrere fino in fondo la strada indicata da Ellis. Quali sono le altre caratteristiche della traduzione di Ellis ? Il verso libero ; l’uso di monosillabi come ‘get’ e ‘got’, in luogo dei vocaboli polisillabici di origine neolatina, essendo questi ultimi percepiti come aspetti di un linguaggio elevato o formale ; l’estrema concisione linguistica ; il ritmo concitato. La versione di Ellis, a prima vista, sembrerebbe confermare l’influsso ininterrotto del canone traduttologico dai tempi di Cary fino ai nostri giorni : poiché il testo di Ellis è leggibilissimo, si potrebbe concludere che egli si conformi pedissequamente ai dettami della fluency. Ma le cose non stanno precisamente così : secondo Venuti, una traduzione può trasgredire il canone della fluency anche utilizzando uno stile accessibile, purché il traduttore deluda le aspettative del lettore (le quali, presumibilmente, sono condizionate dall’establishment letterario e dalla prassi traduttiva imperante). Se un traduttore vuol essere trasgressivo nel riscrivere un classico della letteratura, egli adotterà proprio uno stile vernacolare. 35 E questo è, appunto, il caso di Ellis. Il lettore, essendo situato storicamente, è immerso nel panorama letterario a lui coevo : secondo un’opinione diffusa, un capolavoro letterario qual è la Commedia dantesca non può tollerare un linguaggio colloquiale. Ciò che importa, per Venuti, è che il traduttore non si allinei né al canone traduttologico né a quello letterario. Da questo punto di vista, le strategie stilistiche di Ellis sono dichiaratamente trasgressive : l’uso di slang, cioè di forme vernacolari, non è canonico perché modernizza in maniera estrema un testo medievale soffuso di una letterarietà quasi sacrale. Ellis è anticonvenzionale, in quanto la sua versione s’inserisce idealmente in una tradizione illustre : quella dei traduttori angloamericani di Dante. La traduzione di Ellis, che è accessibilissima ad un vasto pubblico, sarebbe ‘conformistica’ solo se il testo di partenza fosse contemporaneo e non ancora canonizzato. Ma Ellis dà l’impressione che la sua versione sia una trascrizione fedele del testo di partenza ? La risposta dipende dal lettore ideale che si ha in mente : il lettore inglese colto avrà letto sicuramente qualche episodio dantesco in un linguaggio elevato e, immagino, sarà indotto a considerare quello di Ellis un esperimento bizzarro. Come può pensare il lettore di The Vision of Dante, testo canonico nella cultura inglese, che il Dante di Ellis sia quell’autore medievale cui è abituato : arcaico e/o profondamente innervato nella tradizione letteraria inglese ? Ma un lettore di media cultura, meno versato in studi letterari, è naturaliter indotto a ritenere ‘fedele’ una versione colloquiale e accessibile. Gli interventi autoriali indicano che Ellis si rivolge a quest’ultimo genere di lettore. Sondare l’intentio auctoris è essenziale : Ellis, essendo un anglista di chiara fama, possiede tutti gli strumenti per realizzare una versione congeniale all’establishment accademico : ma il suo intento, come s’è detto, è rivolgersi al lettore comune. Non a caso, dunque, Ellis interviene nell’introduzione per rivendicare la fedeltà testuale della sua opera. Se il testo d’arrivo appare ‘bizzarro’ – questo è il messaggio implicito di Ellis –, il lettore non deve farsi trarre in inganno : le versioni precedenti alla sua sono ‘infedeli’, perché offuscano il vigore espressivo di Dante, che scaturisce da un uso sapiente dello stile ‘comico’ : This new translation of the Inferno aims at reproducing important features of Dante’s style which it seems to me previous versions have obscured and misrepresented. It is first of all a 35. Lawrence Venuti, The translator’s Invisibility…, cit., pp. 98, 30.

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colloquial version, in the type of diction, grammatical construction and speech rhythms it uses throughout, and in this it tries to recapture some of the vigour and directness of Dante’s original […] Hell in particular […] abounds in striking idiomatic expressions, vivid homely details and comparisons, and dialect terms and phrases, not only from Dante’s native Florence but from other Italian regions as well. Previous translations have not really brought out this popular emphasis and indeed have tended to convert a lively and fast-flowing original into something much more plodding, formal and prolix, keeping Dante, as a venerated ‘classic’, safely within the purlieus of the academy. 36

Questa analisi, nella misura in cui denuncia il conservatorismo dei traduttori danteschi, ha un valore euristico incontrovertibile. Ma Ellis, esprimendosi in qualità di traduttore, si lascia sfuggire delle osservazioni ingenue. Egli dichiara apertamente le sue intenzioni : « one of the features I have been especially keen to reproduce is Dante’s concision and economy, his ability to compress much meaning into a few words ». 37 E fin qui tutto bene. Ma poi aggiunge : I not only hope that my translation will be found readable, but also that it will be found more accurate than others, for Dante’s meaning is often muffled or unwarrantably supplemented by the relative verboseness other translations adopt. I have wanted to be faithful (as far as possible) to both style and meaning. 38 Questa è un’affermazione quanto meno superficiale, giacché la fedeltà o equivalenza semantica, in traduzione, è un concetto relativo (e, per tale ragione, piuttosto problematico). Lo stesso Ellis sembra contraddirsi quando ricorda al suo lettore che « Dante’s poem not only has an affiliation with the language of the street but also with the language of epic tradition ». 39 Come è possibile, dunque, rivendicare la propria fedeltà a Dante quando si usa « primarily the language of the 980s and 990s » ? Ellis, benché abbia il merito indiscusso di aver creato un Dante anticonformista, è ben lontano dal riprodurre il plurilinguismo dantesco, che non è assimilabile alla categoria semplicistica ‘linguaggio colloquiale o popolare’. Ma l’osservazione più interessante è questa : anche Ellis, a modo suo, dà corso ad una strategia dissociativa, quantunque diversa da quella di Cary. Nell’introduzione – e, come vedremo, anche nelle note – Ellis aderisce a quella visione positivistica che caratterizza il canone della fluency : l’originale è stabile e coerente, nonché scevro da ambiguità che lo rendano incomprensibile. Il traduttore, una volta compreso il significato ‘autentico’ del testo originario, ha il compito di trasporlo sic et simpliciter nella versione inglese. Ellis non manifesta la medesima coscienza ermeneutica di Cary e si guarda bene dall’assumersi l’ingrato compito di critico-filologo testuale. Poiché tuttavia nessuno può disconoscere la complessità della Commedia, Ellis ammette che l’interpretazione svolge un ruolo, ancorché modesto, nel processo traduttivo : Sapegno has generally been my Bible where controversial issues of interpretation relating to Dante’s text have arisen, though other editions and commentaries have been consulted, as the notes make clear. 40 Che differenza abissale rispetto al Cary che tribola su almeno quattro manoscritti e una miriade di altre fonti ! Ciò che distingue i due traduttori è proprio l’uso del paratesto : Ellis dà priorità assoluta al testo, allo stile linguistico. E appartiene alla categoria di quegli autori-traduttori che farebbero volentieri a meno di un apparato 36. Steve Ellis, Hell…, cit., p. . 37. Ivi, p. xi. 38. Ivi, p. xi. 39. Ivi, p. x. 40. Ivi, pp. xi-xii.

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critico accademico : even though I have aimed at keeping the annotations to a minimum, they are still fairly substantial […] There is the danger that the reader will be continually distracted by them and I would suggest that each canto be read straight through, without interruption, before the notes are used. 4 L’invito di Ellis è chiarissimo : il lettore, avendo di fronte a sé una trascrizione letterale di Dante, non deve farsi distrarre dalle note a piè di pagina. Un esame delle quali conferma la mia ipotesi sull’intentio auctoris del traduttore : esse non sono né numerose né intrusive. Sicché possono essere tranquillamente ignorate. E ben di rado discutono problemi ermeneutici che sollevino dubbi sulla comprensibilità dell’originale. « Notes are mainly there to provide supplementary historical and cultural information ». 42 Anche in quei casi in cui allude ad oscurità presenti nel testo italiano,43 Ellis non dice al lettore che la Commedia contiene significati fluttuanti e indeterminabili : per Ellis non sussistono dubbi : la Commedia non è, essenzialmente, un testo così polisemico e così ricco di ambiguità da giustificare un apparato critico poderoso. Solo in un caso Ellis riporta, peraltro senza spiegazioni, due varianti testuali. La sua nota si riferisce al seguente passo : Quale del Bulicame esce ruscello Che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. Inf., xiv, 79-8 Like the stream out of Bulicame The hemp-workers share, so this As it flowed down over the sand. 44

Ellis informa il lettore della sua scelta : I follow those critics who in l.80 read pettatrici (i.e., combers [of hemp or flax], who used the waters to steep the fi bre) rather than peccatrici (prostitutes, who supposedly used the water for washing). 45 In conclusione, Cary ed Ellis assegnano entrambi funzioni nettamente distinte a testo e paratesto : se il primo è trasgressivo, il secondo è convenzionale (o viceversa). Sicché assistiamo ad un curioso rovesciamento : Cary impiega strategie testuali tradizionali (blank verse, stile poetico codificato ecc.), ma rivela la sua originalità nell’uso del paratesto. Ellis, invece, si serve di strategie testuali innovative, le quali segnalano una rottura rispetto ad una tradizione ormai consolidata che tende a canonizzare la Commedia, naturalizzandola nelle forme austere della poesia epica inglese. Ma poi utilizza il modesto apparato critico in maniera decisamente conformista – in linea con la prassi corrente nel mondo della traduzione – : le sue note sono meramente esplicative-informative, e tendono comunque a svolgere un ruolo ancillare, essendo poco invasive rispetto al testo. Ellis non è trasgressivo nell’uso del paratesto : non ne ha affatto bisogno, avendo scelto il testo quale luogo privilegiato per i suoi interventi. v. Conclusione : testo e paratesto nella traduzione In che cosa consiste, dunque, la specificità della traduzione per quanto concerne il rapporto tra testo e paratesto (o, meglio, peritesto) ? In tale ambito, la prefazione 4. Ibidem. 42. Ibidem. 43. Ivi, pp.2, 23, 28, 4, 55, 62, 99, 74. 44. Ivi, pp. 85-86. 45. Ibidem.

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e le note svolgono sempre una funzione paratestuale. Come abbiamo già osservato, in un’opera letteraria originale le note possono fungere da prosecuzione del testo, da cui pertanto non sempre differiscono da un punto di vista funzionale. In una traduzione rivolta ad un pubblico colto, qual è quella di Cary, gli elementi paratestuali sono indispensabili, perché presentano il testo nella luce desiderata dal traduttore. Naturalmente, le mie osservazioni hanno un senso solo in quei casi i cui l’autore delle note e il traduttore siano la medesima persona. L’apparato paratestuale è il canale che consente al traduttore di far udire la propria voce ; è la dimensione in cui egli può esprimersi razionalmente. Il testo, invece, è il luogo in cui significante e significato si contendono il proscenio. Detto in altri termini : nella traduzione, il confine tra testo e paratesto è più marcato che nell’opera originale. La specificità della traduzione, nel mondo angloamericano (e forse non solo in quello), consiste proprio nel fatto che il lettore tende a percepire due autori distinti : l’autore dell’opera originale, restituito dalla traduzione nella sua immediatezza, e il traduttore, evanescente nel testo d’arrivo, ma potenzialmente visibile nelle note e nell’apparato critico. In realtà, come abbiamo già argomentato, questa è una percezione illusoria, quantunque assai diffusa, perché la distinzione su cui si regge è problematica : il traduttore è un auctor in piena regola, il quale fagocita e poi ‘rigurgita’ in forme nuove l’autore originario. Il traduttore ricrea il testo di partenza, conferendogli una nuova fisionomia. Il significato della traduzione è sempre mediato, e giammai immediato. La traduzione è anch’essa un’opera originale, ancorché peculiare : essa è legata con un doppio filo al testo da cui è scaturita e a cui deve la sua esistenza. Seguendo lo schema tripartito discusso da Umberto Eco – intentio operis, intentio auctoris e intentio lectoris – si possono fare ulteriori osservazioni. È estremamente arduo distinguere tra queste forme di intenzionalità (Eco dà priorità all’intenzione testuale), le quali spesso si sovrappongono e intersecano. Il punto interessante è questo : se è vero che il paratesto racchiude l’intenzione del traduttore (l’intentio auctoris), questa, nella traduzione, è essenzialmente una strategia metatestuale o paratestuale. L’intentio operis, invece, è una strategia semiotica che si snoda nel testo : qui non importa cosa scrive il traduttore a latere, bensì ciò che il testo tradotto dice effettivamente. Da quanto s’è appena detto, appare chiaro che il traduttologo non può prescindere dal rapporto tra testo e paratesto, perché esso si configura come relazione dialettica tra intentio auctoris ed intentio operis. Se si vuole comprendere il significato complessivo di una traduzione, non si può ignorare l’influsso reciproco tra tutti gli elementi che la costituiscono. Può darsi che alcuni ambiti della traduttologia possano permettersi il lusso di sorvolare sull’intenzione del traduttore – si pensi all’approccio di Mona Baker, 46 che studia gli universali linguistici della traduzione. Ma una ricerca calata nella realtà storica, e che sia incentrata su una singola traduzione, non può assolutamente trascurare quegli elementi paratestuali che gettano luce sulla personalità del traduttore.

46. Mona Baker, Corpus Linguistics and Translation Studies…, cit. ; Eadem, Corpus-based Translation Studies…, cit.

testo e paratesto nell’ambito della traduzione

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Abstract Questo articolo intende fornire un contributo alla comprensione del rapporto tra testo e paratesto nell’ambito della traduzione. Tale rapporto, infatti, è generalmente ignorato dagli studiosi di traduttologia, i quali si soffermano soprattutto sullo studio delle strategie testuali. La teoria di Lawrence Venuti costituisce un prezioso punto di riferimento per comprendere le dinamiche della traduzione nel mondo anglo-americano. Dopo un excursus su tale teoria, l’articolo prende in esame due traduzioni dantesche, The Vision of Dante (844) di H. F. Cary e Hell (994) di Steve Ellis, che dimostrano la complessità dell’interazione tra testo e paratesto : il traduttore appare ‘sdoppiato’, assumendo, al tempo stesso, la veste di autore del testo (la traduzione essendo percepita come una trascrizione fedele dell’originale) e di commentatore sul testo (poiché i traduttori Cary ed Ellis sono gli estensore dell’apparato critico, cioè della prefazione e delle note). L’articolo sostiene che gli studiosi di traduttologia dovrebbero esaminare testo e paratesto congiuntamente, al fine di comprendere meglio la natura poliedrica e sfaccettata di ogni progetto editoriale. This article aims to make a contribution to the understanding of the relationship between text and paratext in translation. Such a relationship, in fact, is usually ignored by Translation Studies scholars, most of whom dwell upon the study of textual strategies. Lawrence Venuti’s theory represents a useful point of reference in order to be aware of the translation dynamics/developments in the Anglo-American world. After discussing Venuti’s theory, this article considers two translations of Dante, The Vision of Dante (844) by H. F. Cary and Hell (994) by Steve Ellis. A close examination of these translations demonstrates that the interaction between text and paratext is far from being unambiguous : the translator appears as “split in two”, playing two roles simultaneously. One the one hand, s/he is the author of the text (the translation being perceived as a faithful representation of the original). On the other, s/he is the commentator on the text (since both Cary and Ellis are the editors of the commentary, that is, preface and notes). The article argues that scholars should examine text and paratext jointly. Only by doing so will they be able to grasp the versatile and complex nature of every published text.

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Andrea Battistini LA FUNZIONE SINOTTICA DEL FRONTESPIZIO E LA SEMANTICA DEI CORPI TIPOGRAFICI NELLA SCIENZA NUOVA DI G. VICO

N

ell’ottica retrospettiva della sua autobiografia Vico si descrive teleologicamente votato, per un destino provvidenziale, alla composizione della Scienza nuova, alla quale dichiara di avere voluto consacrare la vita intera. Naturale quindi che abbia esteso la sua amorevole cura fino ai minimi dettagli dell’opera che per lui costituì, come ebbe a scrivere a un suo corrispondente, l’ultimo suo « parto » « certamente più di tutti tenero ».  Ma per quanto questa attenzione finisca per investire della sua visione filosofica perfino le più marginali periferie del testo, non pare conveniente che in un convegno dedicato specificamente al paratesto ci si soffermi sugli aspetti teoretici del suo pensiero. È semmai più opportuno considerare alcune delle componenti peritestuali della Scienza nuova ponendosi dalla prospettiva della storia materiale del libro in antico regime tipografico, per cogliervi sia gli elementi condivisi con le consuetudini del tempo, sia gli aspetti più originali. Da questo punto di vista, la decisione di fare sì che nelle edizioni del 730 e del ’44 il vero e proprio frontespizio sia preceduto da una tavola allegorica autonoma che riassuma con una visione sinottica l’intero contenuto dell’opera giunge al termine di una lenta modificazione storica delle consuetudini editoriali. Nel corso del Seicento il frontespizio presenta un’illustrazione che con le sue ricche ornamentazioni diventa sempre più invadente, fino a respingere ai margini della pagina la scritta del titolo, sacrificato a volte entro un piccolo cartiglio e soffocato dall’esuberanza virtuosistica delle immagini simboliche. Dapprima lo spazio assegnato alle figure era suddiviso in comparti, frazionato da steli, colonne, obelischi, trabeazioni, timpani, archi, lunette, nicchie, festoni, cassettoni che garantivano alla pagina una ripartizione geometrica. In un secondo tempo, che Marc Fumaroli, nel seguire l’evoluzione dei trattati secenteschi di eloquenza, ha individuato negli anni Trenta, l’estetica della frammentazione e della varietà viene sostituita da un’impostazione unitaria, come se il frontespizio fosse un quadro. 2 Il modello non è più quello dell’architettura e delle arti decorative, ma la pittura e la scenografia teatrale, a comporre un gruppo drammatico legato da una stessa azione. Ormai, a questo punto, il dominio della componente figurativa è totale e non c’è più posto per il titolo, al quale, per restituirgli la dignità perduta e per consentirgli di distendersi in tutta la sua efflorescenza barocca, 3 viene riservata un’altra pagina ap. Giambattista Vico, Lettera a Bernardo Maria Giacco del 25 ottobre 725, in Epistole, con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, a cura di Manuela Sanna, Napoli, Morano, 993, p. 5 (pp. 3-5). 2. Marc Fumaroli, La scuola del silenzio (994), trad. it., Milano, Adelphi, 995, pp. 46-486. A differenza di chi attribuisce questa svolta a Rubens, Fumaroli la fa nascere presumibilmente nella Roma di Urbano VIII, che si poteva avvalere dei migliori disegnatori (p. 480). 3. Cfr. Francesco Barbieri, L’antiporta nei libri italiani del Seicento, « Accademie e Biblioteche d’Italia », l (982), 4-5, p. 349 (pp. 347-354).

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posita, tutta per sé, occupata dai soli caratteri tipografici, o al più da qualche modesto fregio ornamentale. La Scienza nuova ubbidisce a questa specie di sdoppiamento già secentesco del frontespizio, che viene quindi accompagnato da un’antiporta che a tutta pagina riproduce un quadro allegorico da Vico chiamato « dipintura » o « tavola delle cose civili ». Nell’edizione del 730 il vero e proprio frontespizio precede la dipintura e consiste soltanto di caratteri tipografici con i quali si dà conto, oltre che del titolo dell’opera, del nome dell’autore, del dedicatario, del luogo di stampa, dell’edizione e dell’anno di edizione. Nella riedizione posteriore di quattordici anni si verifica un significativo hysteron proteron, nel senso che, dopo un ritratto di Vico, prima assente, 4 il lettore è accolto innanzi tutto dalla tavola allegorica, particolarmente enigmatica senza la « Spiegazione » con cui comincia il testo. Poiché il titolo viene dopo, la dipintura rappresenta la soglia che, una volta compiuto l’impegnativo rito di passaggio, si lascia alle spalle la contingenza della banale vita quotidiana per immettere, dopo avere sollevato questo velo ancora misterioso, nel disegno di una grandiosa « storia ideale eterna » dell’umanità, sulla quale, scrive solennemente Vico in una successiva « degnità », « corrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini ». 5 Già il titolo dell’opera provvede comunque a fornire qualche prima informazione. Secondo le comode distinzioni terminologiche di Genette, 6 quella che si suole designare semplicemente con l’indicazione, molto scorciata, di SCIENZA NUOVA ha avuto in realtà un battesimo molto meno ellittico, perché questa parte tematica è preceduta dalla parte rematica che designa il suo discorso come costituito di PRINCIPJ. Al titolo segue poi una specie di sottotitolo che ne indica il contenuto globale (« d’intorno alla comune natura / delle nazioni »), distinto non da virgole o da una congiunzione ma dalla minore grandezza del corpo tipografico. Seguono infine, in parte in caratteri minuscoli, le indicazioni generiche, tutte rematiche, dalle quali si apprende che « in questa terza impressione » l’opera è stata « dal medesimo Autore in un gran numero di luoghi / Corretta, Schiarita, e notabilmente Accresciuta » (cfr. Fig. ). A ben vedere il titolo completo è di particolare complessità, perché intreccia le sue funzioni, dando vita a intenzionali ambiguità semantiche. « Principj » è una designazione di genere che promette i fondamenti epistemologici di un sistema scientifico. Ma poiché la ricerca di Vico si appunta sul momento cruciale in cui gli uomini « cominciarono […] a umanamente pensare », privilegiando nel suo esame l’azione dei « primi fondatori delle nazioni gentili » (SN44, § 6), « principj » vuol dire anche “origini”, “fasi aurorali”, “aspetti genetici”. Quanto poi al sintagma « Principj di scienza nuova », è evidente che fonde insieme il rema e il tema, così come la funzione valorizzante del titolo non è delegata alle sole indicazioni generiche che vantano un’edizione « in un gran numero di luoghi Corretta, Schiarita » e per giunta « notabilmente Accresciuta », in linea con un messaggio di tipo epidittico che funge da richiamo pubblicitario, 4 Sull’incisione, opera di Francesco Sesone, lo stesso che incise l’antiporta, e sulle istruzioni impartitegli da Vico e in parte disattese dall’artista, vedi Fabrizio Lomonaco, Nuovo contributo all’iconografia di Giambattista Vico (1744-1991), Napoli, Guida, 993, pp. 2-26, preceduto da Idem, Contributo all’iconografia vichiana (1744-1899), « Bollettino del Centro di studi vichiani », xix (989), pp. 3-33 (pp. 25-56). 5. Così recita la degnità lxviii (Giambattista Vico, Principj di scienza nuova [744], in Opere, a cura di Andrea Battistini, Milano, Mondadori, 9992, § 245). D’ora in poi l’indicazione del paragrafo si darà direttamente nel testo, preceduta dalla sigla SN44. 6. Ci si riferisce ovviamente a Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo (987), trad. it., Torino, Einaudi, 989, pp. 55-0, un’opera che di questo convegno funge da ispiratore e da nume tutelare.

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ma agisce anche nel nucleo centrale del titolo che, con un attributo topico nelle designazioni secentesche, 7 esalta il carattere di novità di un lavoro che come non bastasse si appella al prestigio di una ricerca dotata di scientificità. La dimensione autoelogiativa è ribadita anche dall’impresa araldica che rappresenta un’altra integrazione rispetto all’edizione del ’30, dove invece il frontespizio affida le sue risorse formali al solo alternarsi dei corpi tipografici, essendo affatto spoglio di immagini, più incline quindi a un’« estetica della densità concisa e spoglia tipica dell’atticismo ». 8 Nel 744 la componente promozionale è racchiusa anche nel motto dell’impresa che, con un verbo al passato durativo, indica, con presumibile allusione alla figura di donna che seduta su un globo contempla in uno specchio l’immagine riflessa di un triangolo, una situazione in cui costei « ignota latebat », ossia che, ancora « sconosciuta, restava celata ». Evidentemente, la combinazione dell’immagine con il motto e con il titolo sovrastante dell’opera suggerisce fin dall’ingresso che il Fig. . libro che va a incominciare è davvero « nuovo » e originale, e compie un’azione di svelamento, portando finalmente a riconoscere ciò che, per l’ignoranza del metodo più confacente e della giusta prospettiva, era rimasto fino allora nascosto. Vero è che, a differenza della dipintura, disegnata da un artista napoletano sotto la guida diretta di Vico, che in quella che si può considerare la prefazione della Scienza nuova si diffonde con dovizia a spiegarne i tanti significati, l’icona aggiunta nel ’44 sul frontespizio è del tutto priva di chiarimenti, talché non si è nemmeno sicuri se dipenda dalla volontà dell’autore o se sia stata una scelta dell’editore. È l’incertezza che avvolge molto spesso il peritesto, luogo soggetto a intrusioni o 7. Si vedano le decine di titoli di argomento scientifico passati in rassegna da Lynn Thorndike, Newness and Novelty in Seventeenth-Century Science, in *Roots of Scientific Thought. A Cultural Perspective (957), a cura di Philip P. Wiener e Aaron Noland, New York, Basic Books, 9603, pp. 443-457. Sull’ambiguo valore assunto da questo aggettivo nei titoli è intervenuto anche G. Genette, Soglie…, cit., pp. 86-87. 8. M. Fumaroli, La scuola del silenzio, cit., p. 462.

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a invasioni arbitrarie spesso dovute alla scarsa importanza che per tanto tempo gli è stata attribuita, divenuta un comodo pretesto per poterne alterare le parti. Nel caso della Scienza nuova però si può essere quasi certi che l’impresa del frontespizio sia stata pensata e scelta da Vico, dal momento che tutti i simboli che vi sono raffigurati (la donna, lo specchio, il globo, il triangolo divino, il plinto, che almeno come forma geometrica corrisponde all’altare) sono ripresi dalla più ampia dipintura. La donna dalle tempie alate che, decifrata autonomamente, potrebbe essere la Filosofia, alla luce dell’altra illustrazione, dove ha uguali attributi, risulta essere la Metafisica. Trovandosi sotto il titolo di « Scienza nuova », potrebbe però essere più ragionevolmente la personificazione della stessa Scienza, ma questo tipo di decifrazione non è in contrasto con l’altro, perché nella spiegazione della tavola Vico, scrivendo « questa Nuova Scienza, o sia la Metafisica » (SN44, § 3), mostra di considerare sinonimici i due termini. Naturalmente, come si ricava dal popolarissimo trattato di Cesare Ripa sull’Iconologia, conta anche la postura delle figure, che nell’impresa vichiana è diversa da quella della dipintura, l’una seduta sul globo, l’altra ritta in piedi. In questo caso però è inutile azzardare ipotesi spericolate sulla loro diversità, essendo forse dovuta, molto semplicemente, al diverso spazio a disposizione, corrispondente a un solo quarto di pagina per l’impresa e alla pagina intera per la dipintura. In Vico l’impresa – che nel frontespizio si colloca in una posizione che di solito poteva ospitare la marca del tipografo, o lo stemma del notabile cui l’opera era dedicata, ma anche l’impresa dell’accademia di cui l’autore faceva parte, o la sua stessa impresa personale – funge dunque da pendant dell’immagine dell’antiporta, instaurando un rapporto al tempo stesso dialettico e complementare. La Metafisica ovvero la Scienza che contempla se stessa con uno sguardo autoreferenziale, prescindendo sia dalla diretta contemplazione dell’occhio divino, sia dai tanti ritrovati del mondo civile, del tutto assenti nell’impresa, è l’espressione di un metodo che, ripiegandosi su se stesso, cade nel difetto dell’astrazione, presumendo a torto di potere prescindere dalla ricerca storica e filologica, come se la ricezione del divino esistesse nell’uomo ab aeterno, anziché essere la conquista di un lungo cammino storico passato attraverso la « sapienza poetica ». 9 Ma, di là dalle implicazioni filosofiche o antropologiche, mette più conto di notare in Vico la specularità perfetta tra testo e peritesto, accomunati da un’identica, abituale simbiosi della pars construens e della pars destruens. Anche per la struttura generale dell’opera Vico aveva pensato a un certo punto di scrivere una Scienza nuova in forma negativa. E quando questa idea tramontò, ancora nella Scienza nuova del ’30 descrisse verbalmente una dipintura « tutta contraria » a quella effettivamente rappresentata nel peritesto, per farne meglio risaltare la « bellezza » attraverso « la bruttezza di quest’altra », dominata dalle tenebre. 0 Sennonché il progetto restava asimmetrico, e allora nella terza edizione soppresse quella descrizione tutta di segno negativo e spostò questa componente polemica sull’impresa del frontespizio, a integrazione della dipintura che invece fu conservata, sia pure con qualche minima differenza.  9. Si veda l’interpretazione molto acuta di Donald Phillip Verene, Vico’s « Ignota Latebat », « New Vico Studies », V (987), pp. 79-98, che si spinge audacemente a vedere nell’impresa un attacco alla metafisica di Cartesio, Spinoza, Locke e allusioni critiche ai suoi quattro « auttori ». 0. G. Vico, La scienza nuova 1730, a cura di Paolo Cristofolini, Napoli, Alfredo Guida, 2004, p. 55. Ha provato a tradurre in immagini la dipintura al negativo Attila Fáj, Due ripensamenti dell’ultimo Vico Diis Manibus Georgii, in *All’ombra di Vico. Testimonianze e saggi vichiani in ricordo di Giorgio Tagliacozzo, a cura di Franco Ratto, Ripatransone, Edizione Sestante, 999, pp. 255-257. . L’incisione fu rifatta perché il formato della Scienza nuova del ’44 è diverso da quello del ’30. Vico

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Se questa ipotesi ha qualche fondamento, nel frontespizio compare l’allegoria della condizione della Scienza prima di Vico, mentre nell’antiporta, con cui l’impresa forma un dittico disposto in sequenza temporale, l’allegoria, attraversata trionfalmente da un vistoso fascio luminoso che squarcia le tenebre dello sfondo, mostra il nuovo volto della scienza a séguito delle scoperte vichiane. Nell’impresa il senso dell’oscurità, anziché essere trasmesso dall’immagine come nella dipintura, nel cui sfondo nereggiano le tenebre della foresta primordiale, 2 è affidato al motto che, con qualche ridondanza forse censurabile dai trattatisti sulle imprese, inclini all’allusività criptica, insiste sulla condizione occulta e negletta della scienza (« latebat ») e sulla conseguente ignoranza che l’avvolgeva (« ignota »). Nello spazio compresso del peritesto che fotografa la condizione della scienza prima e dopo l’avvento di Vico, si concentra l’orgoglio di una ricerca rivoluzionaria ricordata a più riprese nel corso della trattazione, allorché ci si gloria che « questa Nuova Scienza » ha « scoverte tali origini delle divine ed umane cose tralle nazioni gentili » (SN44, § 3) e ha trovato « nelle Favole essere stati nascosti i misteri di sì fatta sapienza volgare » (§ 37), dopo che l’ignoranza della reale natura di Omero « ci ha tenute nascoste le cose vere del tempo favoloso delle nazioni », ossia « i finora nascosti princìpi della sapienza poetica » (§ 6). Vico appartiene senza dubbio alla cultura della « pictura poësis », dominante in Europa dal Quattro al Settecento. Crede, con un enunciato non a caso sollecitato dal primo verso dell’Ars poëtica oraziana, che « ottimo poeta è colui che espone il suo argomento con immagini sensibili, in modo che esse possano essere percepite dagli occhi e non dall’intelletto dei lettori ». 3 La fiducia nei sensi, che nella Scienza nuova sono « le sole vie » attraverso cui la natura umana « conosca le cose » (§ 374), somma l’antico e tradizionale asserto di matrice aristotelica con la rinata attenzione per la mnemotecnica e per la moda cinque-secentesca per i geroglifici egizi, 4 presto combinati con i più esotici ideogrammi cinesi e le pitture messicane degli Aztechi. E, per impulso dei rituali delle accademie, che prescrivevano agli affiliati la scelta di un’impresa che racchiudesse il loro programma di vita, anche Vico si prestò a siffatte pratiche diffuse, curando un libro di emblemi in memoria di Angela Cimmino, una gentildonna che ospitava nella sua casa un circolo culturale, e dando il proprio parere su un libro di emblemi di Giovanni Giuseppe Gironda. dovette così trovare un altro incisore, Francesco Sesone, che comunque, nel sostituirsi con il suo lavoro a quello compiuto nel ’30 da Antonio Baldi, lavorò sul disegno originario di Domenico Antonio Vaccaro. Per questo è da presumere che le poche varianti (la mancanza della sigla DM, ossia « Diis Manibus » sull’urna cineraria e il diverso sguardo di Omero, che a detta di Paolo Cristofolini da vedente diventa cieco) non siano l’effetto di correzioni volute da Vico, ma licenze del nuovo incisore, che già ebbe modo di disattendere le indicazioni vichiane relative alla disposizione del suo ritratto. Il rilievo di Paolo Cristofolini è nel suo Vico pagano e barbaro, Pisa, Edizioni ets, 200, p. 45. 2. Voluto da Vico, per il quale « le tenebre nel fondo della dipintura sono la materia di questa Scienza, incerta, informe, oscura » (SN44, § 4), lo spiccato chiaroscuro che si forma per il contrasto con il raggio luminoso dovette incontrarsi con la predisposizione per questa tecnica del primo degli incisori, Antonio Baldi, come si vede nel risalto plastico di un altro suo lavoro, La gloria di san Gennaro. 3. Giambattista Vico, Commento all’« Arte poetica di Orazio », a cura di Guido De Paulis, Napoli, Alfredo Guida, 998, p. 87. Stesso concetto nel De constantia philologiae, xii, 38. 4. Istituisce legami con la cultura rinascimentale Margherita Frankel, La « dipintura » e la struttura della « Scienza nuova » di Vico come specchio del mondo, in *Leggere Vico, a cura di Emanuele Riverso, Milano, Spirali, 982, pp. 55-6. Il topos che vuole la via dei sensi indispensabile premessa alla comprensione intellettiva ha specifica applicazione all’emblematica che secondo Bacone « deducit intellectuale per sensibile ». Lo richiama Gianfranco Gabetta, Ignota latebat. Vico e la scienza con le tempie alate, « Il piccolo Hans », xviii (99), 69, p. 35 (pp. 35-59).

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Bisogna però distinguere tra questi esercizi, cui Vico si sottopose per garantirsi un’integrazione sociale nella cerchia degli altri intellettuali, e la loro ripresa peritestuale nella Scienza nuova, dove le illustrazioni non hanno nulla di ornamentale. Dietro la scelta della dipintura dell’antiporta e dell’impresa del frontespizio agisce, è vero, l’intento mnemotecnico di ridurre « più facilmente a memoria » l’« idea dell’opera » (SN44, § ), come anche il proposito didascalico di facilitare la comprensione del testo al lettore, visto che, « ove vogliamo trarre fuori dall’intendimento cose spirituali, dobbiamo essere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, come pittori, fingerne umane immagini » (§ 402). Ma c’è anche qualcosa di più, ossia la sintesi di tutte le fasi del linguaggio umano dalle sue origini fino a oggi. Non per nulla tutti gli oggetti che gremiscono la dipintura sono ripetutamente chiamati, con molta proprietà, « geroglifici » (§§ 2, 7, , 24…), e corrispondono alla « lingua muta per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee » che durante l’« età degli dèi » i primi uomini « volevan significare » (§ 32). L’impresa, contesta di parole e immagini, corrisponde al linguaggio degli eroi, la cui natura è « mezza tralla divina […] ed umana » (§ 55). Infine il titolo, tutto in caratteri alfabetici, è rappresentativo dell’età degli uomini. 5 Assecondando il suo nativo « senso araldico », 6 Vico ha insomma voluto compendiare nell’apparato peritestuale l’intera « storia ideale eterna », imitando perfino il modo di esprimersi delle più remote civiltà. Inutile dire che i primitivi, privi di raziocinio, ricorrevano ai geroglifici o alle imprese araldiche per difetto del più evoluto linguaggio verbale, laddove l’operazione del filosofo immerso nella civiltà dei Lumi è riflessa, e può sfruttare tutti gli artifici della moderna arte grafica e libraria. 7 Di questa tradizione più recente si appropria eliminando la frantumazione dovuta ai comparti a favore di un’immagine unitaria, salvando però la molteplicità degli oggetti che la affollano, ciascuno dei quali, profittando del maggiore spessore di polisemia e di ambiguità di cui è dotato il codice iconico rispetto alle parole, accresce al massimo le possibilità di interpretazione. Lo stesso lessico “manieristico” con cui Vico si riferisce alla dipintura non ha nulla che fare con le spiegazioni “naturalistiche” del linguaggio iconico dei primitivi, a conferma della distinzione rigorosa tra i due mondi espressivi, l’uno, relativo alle età degli dèi e degli eroi, spontaneo e fantastico, l’altro, peculiare dell’età degli uomini, meditato e razionale, sofisticato e libresco. Consapevolmente, l’artista che disegnò l’incisione viene gratificato dell’appellativo di « ingegnoso », mentre della disposizione dei simboli si elogia la « capricciosa acconcezza » (SN44, § 24), tanto da indurre qualcuno a farne un « esempio pertinentissimo di figuratività barocca nella Napoli del 730 ». 8 Come non pensare allora alla sentenza 5. Attribuisce un ulteriore sovrasenso alla sequenza Mario Papini, « Ignota latebat ». L’impresa negletta della « Scienza nuova », « Bollettino del Centro di studi vichiani », xiv-xv (984-985), pp. 79-24, per il quale, forzando forse la mano, l’impresa sarebbe « la difficile espressione di una conflittualità, tra l’eternità del geroglifico e la temporalità della scrittura verbale » (p. 87). La tesi è perfettamente condivisa da Filomena Sforza, Vico e la Tavola di Cebete, ivi, pp. 253-269. 6. La formula, molto pertinente, è di Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 952, p. 272. 7. Non capendo il senso di questa operazione di compresenza dell’antico e del nuovo impiego delle immagini, Reinhard Brandt si duole che Vico non si sia « posto la domanda se gli antichi egizi fossero saggi vegliardi o bambini immaturi », finendo semplicemente per abbracciare « prima l’una poi l’altra versione ». Donde la conclusione acida che « l’autocritica non era il suo forte » (Giambattista Vico : l’emblema del titolo dei « Principi di Scienza nuova » (1744), in Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte [2000], trad. it., Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 326 [pp. 37-3]). 8. Rosario Assunto, Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell’Europa barocca, Napoli, Società Editri-

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di Giovio che, dopo avere gustato la « bizzarria » di chi « ghiribizzava » sopra imprese « ch’hanno [...] dell’acuto e (come si dice) » del « frizzante », dell’« arguto », del « bizzarro » e dello « stravagante », sostiene che « il formar dell’imprese è quasi come una ventura d’un capriccioso cervello ? ». 9 Per non dire poi di Tesauro, il quale auspica l’apporto di « spiritose, frizzanti ed erudite argutezze » con cui « animar le insegne militari ». 20 Nondimeno, nello sforzo vichiano di rendere sinotticamente la lunga durata dei cicli epocali, le due logiche “poietiche” arrivano perfino a convivere, con l’effetto di un’immagine cinetica realizzata attraverso l’attribuzione a ogni oggetto di un compito dinamico secondo la legge unitaria della storia. Movendo con l’occhio dall’alto verso il basso si susseguono dapprima gli emblemi « divini » della metafisica, poi quelli « eroici » del leone, dell’altare, del lituo, dell’acqua e del fuoco, infine quegli « umani » delle lettere alfabetiche, della spada, della borsa e della bilancia (cfr. Fig. 2. Fig. 2). 2 E in questa continuità si è notato che uno stesso simbolo ricorre identico per due volte pur appartenendo a due codici cronologicamente eterogenei. È il caso delle ali che, poste sul caduceo di Mercurio, competono ancora al linguaggio dei primi eroi che con quelle volevano significare il diritto di poter trarre ce Napoletana, 979, p. 66. Notizie sugli artisti coinvolti nel peritesto vichiano sono fornite da Rodney Palmer, I nomi di “chi le ha fatte” sulle incisioni nei libri stampati a Napoli intorno al 1700, in *Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Atti del convegno di Napoli, 5-7 dicembre 996, a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Liguori, 998, pp. 7-53. 9. Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 978, p. 90. 20. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia idea dell’arguta et ingegnosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria e simbolica, in Torino, per Bartolomeo Zavatta, 6705 [rist. anastatica a cura di Giovanni Menardi, Savigliano (Cuneo), Editrice artistica piemontese, 2000], p. 626. 2. La dimensione filosofica della dipintura, qui non trattata per le ragioni esposte all’esordio, è affrontata con dovizie nella monografia di Mario Papini, Il geroglifico della storia. Significato e funzione della dipintura nella « Scienza nuova » di G. B. Vico, Bologna, Cappelli, 984. Una sua rapida sintesi è in Idem, A Graph for the « Dipintura », « New Vico Studies », ix (99), pp. 38-4.

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gli auspici, mentre, messe sull’elmo della Metafisica, rispondono all’analogia di convenzione addottrinata in tutto degna di un Cesare Ripa che nell’Iconologia se ne vale per connotare pensieri sublimi. 22 D’altro canto, presi in sé e per sé, gli oggetti della dipintura sono quanto di più diffuso e familiare possa esserci. Il sole abbagliante che sfolgora in alto è pressoché immancabile nei frontespizi dei libri dei gesuiti, nei quali racchiude la sigla « jhs », marchio distintivo della Compagnia di Gesù. 23 Nel sincretismo di simboli ebraico-cristiani e pagani, naturali e artificiali, intellettualistici ed emozionali, animisti e meccanici, 24 anche il caduceo di Mercurio, il globo terrestre, l’altare, lo specchio (indizio del mito platonico della caverna), i fasci consolari, il timone, sono ampiamente rappresentati non solo nei numerosi trattati di iconologia e di impresistica, ma anche negli stessi apparati peritestuali dei libri. 25 A livello scenografico, il forte chiaroscuro tra le tenebre dello sfondo e il raggio luminoso che attraversa zigzagando il quadro in virtù di uno specchio riflettente è altrettanto consueto, ereditato dalla tradizione e rinvigorito, negli anni della Scienza nuova, dall’emergente Weltanschauung illuminista. 26 Filippo Picinelli, autore di un trattato d’imprese, sceglie come divisa iconica del suo libro proprio l’immagine di un sole che si riflette su uno specchio, completato dal motto « acceptum geminat ». 27 Pochi anni dopo l’uscita della Scienza nuova recante per la prima volta la dipintura, un erudito tedesco, Philipp Adam Ulrich, appone alla sua traduzione francese della Filosofia morale di Emanuele Tesauro un’antiporta che, per quanto non esistano prove documentabili, potrebbe addirittura derivare da Vico. Come si può vedere nella riproduzione (cfr. Fig. 3), al centro del quadro si staglia una donna, rappresentante questa volta la Filosofia, che, oltre ad avere un sole sfavillante all’altezza del cuore, come nell’antiporta vichiana, tiene in mano uno specchio su cui si riflette il fascio di luce che scende dall’alto, in modo da proiettarsi su un fondale oscuro dove mette in fuga gli animali delle tenebre, simboli dei vizi cacciati da una Filosofia morale che si giova dell’aiuto divino. E anche nella parte bassa, disseminata degli emblemi della vanagloria umana, fa la sua comparsa un altro geroglifico vichiano, il fascio consolare, vòlto da Ulrich a significare il potere politico, mentre su un altare campeggia una bilancia, trasparente icona della giustizia. 28 22. Franco Lanza, Sinossi allegorica della « Scienza nuova », in Saggi di poetica vichiana, Varese, Magenta, 96, p. 89 (pp. 69-26). 23. A parte tutti gli esempi trovati da M. Fumaroli, La scuola del silenzio, cit., Rosario Assunto ha segnalato una Gloria di Sant’Ignazio dove l’immagine barocca del raggio luminoso colpisce il cuore e si rifrange, proprio come nella dipintura vichiana (Infinita contemplazione…, cit., p. 65). 24. Cfr. Angus Fletcher, On the Syncretic Allegory of the « New Science », « New Vico Studies », iv (986), pp. 25-43. 25. A titolo indicativo, tutti gli oggetti menzionati compaiono anche nelle incisioni dei frontespizi passati in rassegna da M. Fumaroli, La scuola del silenzio, cit. 26. Si vedano i tanti esempi offerti, per l’àmbito tedesco di primo Settecento, da Werner Schneiders, nei quali le illustrazioni delle antiporte dei libri di filosofia sono accompagnate da motti adeguati che enunciano la lotta all’oscurantismo, quali un programmatico « dispellam », o « tenebras dispellit », o ancora « post nubilo Phoebus » e « Lucem post nubilo reddit » (Hoffnung auf Vernunft. Auf klärungsphilosophie in Deutschland, Hamburg, Meiner, 990, pp. 83-93). 27. Mondo simbolico o sia Università d’imprese scelte ed illustrate con sentenze ed eruditioni sacre, e profane, in Milano, per lo stampatore Archiepiscopale, ad instanza di Francesco Mognagha, 653. Disegno e incisione sono di Giacomo Cotta. 28. Emanuele Tesauro, Le théâtre des vertus morales et héroïques, ou bien la philosophie morale, traduite suivant les nouvelles Éditions Italiennes par P[hilipp] A[dam] U[lrich], À Virtsbourg, Imprimé chez Marc

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Fig. 3.

Che Ulrich possa avere visto la Scienza nuova del ’30 e se ne sia ispirato per l’apparato peritestuale della sua traduzione potrebbe essere plausibile, in quanto si sa non solo che ha conosciuto la lingua italiana così bene da tradurre un giocoliere della prosa come Tesauro, ma anche che è stato di persona in Italia in uno dei suoi viaggi per l’Europa. Oltre tutto Ulrich si occupava di diritto romano e feudale e non sarebbe inverosimile che per scrivere i suoi libri, quasi tutti degli anni Venti e Trenta del Settecento, fosse venuto a conoscenza dei lavori di Vico, a sua volta specialista in giurisprudenza. Potendolo dimostrare, sarebbe una felice trouvaille, perché proverebbe un’impensabile notorietà dell’« opus maius » vichiano già a ridosso della sua pubblicazione e per di più fuori d’Italia. Ma ai fini del presente discorso è ancora più suggestivo se le affinità tra le due immagini sono fortuite, perché vuol dire che in quanto a tecnica e a prassi Vico segue le convenzioni iconiche del tempo. E nel secolo che ha celebrato il trionfo di Newton e della sua scomposizione della luce, niente è più prevedibile dell’orchestrazione di un raggio luminoso, tanto che a qualcuno la dipintura della Scienza nuova ha fatto venire in mente quella che Voltaire, un altro

Antoine Engmann, 734. Utili notizie biografiche su Ulrich e sulle vicende editoriali della sua traduzione si trovano in Denise Aricò, Il Tesauro in Europa. Studi sulle traduzioni della « Filosofia morale », Bologna, Clueb, 987, pp. 5-24.

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autore maniacalmente ossessionato dalle cure paratestuali, 29 ha posto nel 738 in testa ai suoi Elémens de la philosophie de Neuton. 30 A rendere unica l’antiporta della Scienza nuova sono però i significati dei diversi geroglifici rappresentati che, profittando della loro connaturata polisemia, si spogliano di quasi tutto quello che viene loro attribuito nei manuali canonici di iconologia per diventare gli equivalenti visivi di tutte le istituzioni umane di cui Vico con la sua ermeneutica antropologica ha scoperto l’origine e gli sviluppi. 3 È dunque del tutto vero che fin dalla dipintura « i grandi frantumi dell’antichità » che si succedono nella pur congestionata illustrazione, « inutili finor alla scienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati », dopo l’operazione tassonomica vichiana che li ha disposti secondo una successione diacronica, « arrecano de’ grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne’ luoghi loro » (SN44, § 357), agevolati dallo speciale linguaggio iconico e allegorico che consente di vederli con uno sguardo sinottico. Indizio, allora, che il linguaggio condensato dei geroglifici si rivela più funzionale, con la sua rappresentazione intuitiva, della scomposizione analitica connaturata al logos discorsivo. 32 Se dal frontespizio occhieggia una vera e propria impresa, mista di parole e immagini, con la dipintura dell’antiporta, che in nome del gusto emblematico stipula un’alleanza effettiva tra il pittore e il prosatore, si crea un’ideale e distesa impresa moderna nella quale l’immagine trova il suo corredo verbale integrativo nella scrittura alfabetica della « Spiegazione » e, più in generale, nell’intera stesura della Scienza nuova. Per dirla con la terminologia dei trattati sulle imprese, 33 il peritesto, dominato nell’antiporta dai segni iconici, è il « corpo » e il testo, formato dai segni alfabetici, è l’« anima ». Insieme, danno vita a un unico e inscindibile organismo simbiotico. Si capisce allora perché la Scienza nuova sia un esempio paradigmatico di come i dintorni del testo abbiano un’importanza uguale al testo stesso, e insieme la dimostrazione che il riferimento alle periferie e alle zone marginali di un libro, se è esatta in termini materialmente spaziali, è fuorviante nel caso che se ne ricavi, più o meno consapevolmente, una gerarchia di valori che li releghi in una posizione subalterna. Non c’è dubbio che tra tutte le parti di un libro quelle del peritesto sono fatte oggetto da sempre delle più arbitrarie e brutali manipolazioni, sia perché considerate aggiunte posticce degli editori, sia perché, anche quando rispondono a una precisa volontà dell’autore, come nel caso di Vico, giudicate inutili abbellimenti estranei ai contenuti, specie se di àmbito filosofico. Vico in realtà, fin dalla prima volta in cui, nell’edizione del 730, la dipintura 29. Si veda la documentazione recata da Giles Barber, La présentation typographique de « Candide », in *Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, I seminario internazionale, Roma, 23-26 marzo 983, a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 985, pp. 52-6. 30. Michael Groblewski, Imagination und Hermeneutik. Frontispiz und « Spiegazione » der « Scienza Nuova » von Giambattista Vico, « Idea. Jahrbuch des Hamburger Kunsthalle », vi (987), pp. 65-69 (pp. 53-79). 3. Accenna a questa straordinaria ricchezza storica, accumulata da Vico in polemica con il quadro riduttivo del « razionalismo e del materialismo » a lui contemporaneo, Enrico Garulli, La tavola allegorica della « Scienza nuova seconda », in *Giambattista Vico. Poesia Logica Religione, Atti del xl Convegno del Centro di studi filosofici di Gallarate, 25-27 aprile 985, a cura di Giovanni Santinello, Brescia, Morcelliana, 986, p. 232 (pp. 228-24). 32. Sottolinea la differenza R. Brandt, Giambattista Vico : l’emblema del titolo…, cit., p. 39. 33. « Il segno significante sarà il corpo della parola, cioè la materia ; il concetto significato sarà l’anima, cioè la forma […]. Dunque nella Impresa, la qual è una metafora dipinta, la figura con la proprietà significante formano il corpo, la persona con la proprietà significata formano l’anima » (E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico…, cit., p. 64).

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ha fatto la sua comparsa, ha sempre considerato questa « Figura » « d’essenza del Libro », come ha lasciato scritto in uno dei frequenti « Avvisi allo Stampatore ». 34 Di questo però non sempre hanno tenuto conto i successivi editori della Scienza nuova che, come spesso succede, non si sono fatti scrupolo di adattarne l’iconografia alle mode del tempo e ai gusti mutati del pubblico, senza preoccuparsi se l’autore avesse, come Vico, prescritto e controllato anche l’apparato visivo. 35 A questo proposito è molto eloquente il maquillage della ristampa ottocentesca curata da Giuseppe Ferrari, 36 nella quale la statua di Omero – di primaria importanza nell’economia del pensiero vichiano perché annuncia fin dal vestibolo della Scienza nuova la centralità della « discoverta » che fa di lui non già un poeta effettivamente esistito, ma un « universale fantastico » del popolo greco – risente vistosamente del gusto neoclassico « delle erme di Winckelmann », anacronistico per la stagione vichiana, nella quale Fig. 4. l’originale disegnato da un allievo di Francesco Solimena, Domenico Antonio Vaccaro, assomiglia semmai a « un san Giuseppe da presepio napoletano ». Né si sottrae ad analogo travisamento l’immagine della Metafisica, « acconciata nella veste e nella chioma come una dama del primo Impero » 37 (cfr. Fig. 4). 34. G. Vico, La scienza nuova 1730, cit., p. 546. L’appunto autografo si trova nel Ms XIII B 30, c. v, custodito nella Biblioteca Nazionale di Napoli. 35. È la situazione contemplata da Lina Bolzoni, Il “libro figurato” del Seicento : due esempi (Tesauro e Jacopone), in *I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco, Atti del Convegno di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno Editrice, 2002, p. 482 (pp. 479-506). 36. Giambattista Vico, Principii di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, secondo la terza impressione del mdccxliv, a cura di Giuseppe Ferrari, Milano, Società tipografica de’ Classici italiani, 836. 37. Le argute e divertenti definizioni sono di F. Lanza, Sinossi allegorica della « Scienza nuova », cit., p. 4 e 76. Gli accostamenti non sono del resto peregrini, perché a Napoli Vaccaro costruì effettivamente dei presepi. Un’altra deformazione, meno vistosa, ma nell’ottica di Vico non meno aberrante è la forma aggraziata dell’altare, lontana dalla massiccia squadratura rettangolare voluta dall’autore, che in questo modo voleva rimarcare la solidità e la stabilità della religione, su cui si fondano il sorgere e il persistere della civiltà.

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La Scienza nuova è indicativa anche di questo effetto deformante che si prolunga nel Novecento perché, per un paradosso, proprio Fausto Nicolini, che con il suo ininterrotto lavoro ecdotico è il filologo che più di ogni altro si è adoperato per rendere disponibile nel secolo scorso il capolavoro vichiano, ha sempre guardato con sufficienza, quando non addirittura con insofferenza, alla componente peritestuale, risultando tra i più catafratti a intenderne il genuino significato. Fin dall’edizione del 9-’3, parallela e complementare alla memorabile monografia di Benedetto Croce, in un’introduzione in cui si occupava anche della « Struttura esterna della Scienza nuova », si denunciava l’illusione di Vico nel credere « che l’opera potesse riuscire di più facile intelligenza mercé illustrazioni grafiche, tavole sinottiche e simili. Da ciò l’allegorica e incomprensibile “dipintura” preposta al frontespizio della seconda Scienza nuova, la cui lunga e inutile spiegazione, manco a farlo apposta, […] è un capolavoro d’oscurezza ». 38 Se da un pulpito tanto autorevole la dipintura è considerata un « rebus indecifrabile » e la relativa spiegazione introduttiva dell’opera un « capolavoro di sibillinità », al punto che si consiglia al lettore di saltare tutto a piè pari e di cominciare con le degnità, non ci si deve poi meravigliare se gli editori successivi abbiano seguito alla lettera l’indicazione. Ecco allora che la traduzione inglese di Thomas G. Bergin e Max H. Fisch è uscita in un’edizione del 96, ristampata nel ’70, senza la dipintura e senza tutti i rinvii che nel testo la richiamano. 39 Qualcosa è cominciato a cambiare alla fine degli anni Cinquanta, allorché in un’edizione della Scienza nuova commentata da Paolo Rossi per i Classici Rizzoli si rinviava all’Iconologia di Cesare Ripa e si ricordavano altri frontespizi, di Bacone, di Hobbes e di Shaftesbury, accomunati alla dipintura vichiana da un identico intento mnemotecnico. Da allora, soprattutto con Lina Bolzoni, Lucia Battaglia Ricci, Marcello Ciccuto, si è di molto accresciuta la sensibilità per gli apparati iconografici dei libri a stampa che spesso, molto più che a intenti decorativi, servono a rendere visibile il pensiero. Eppure, se di riflesso ciò ha finalmente comportato una giusta rivalutazione della dipintura vichiana, ancora pressoché ignorata in quasi tutte le edizioni novecentesche della Scienza nuova è l’impresa del frontespizio, nonostante che si sia cominciato a comprendere che potrebbe essere « addirittura […] un fondamentale incipit di rilettura » dell’opera. 40 Uguale negligenza è toccata a quella che Roger Laufer chiama « énonciation typographique », riguardante i fenomeni di « scripturation », riferibili tra gli altri ai segni diversi, all’impiego di alfabeti distinti e, di particolare rilievo nella Scienza nuova, al contrasto dei corpi tipografici. 4 Del resto anche Genette si rammarica che troppo raramente tra le varie indicazioni editoriali del peritesto ci si ricordi di includere la descrizione della composizione tipografica, laddove il lettore avrebbe « il diritto e a volte perfino […] il dovere di sapere in quali caratteri è composto il libro che ha tra le mani, e non si può esigere che li sappia riconoscere da solo ». 42 38. Fausto Nicolini, Introduzione dell’editore, in Giambattista Vico, Le Scienza nuova giusta l’edizione del 1744, p.te i, Bari, Laterza, 9, p. xvi (pp. vii-lxxix). 39. Più in generale Lina Bolzoni denuncia che anche « le moderne edizioni di testi cinquecenteschi di poetica e di retorica tendono […] a riprodurre solo le parole », per la perdurante tenacia del « disprezzo per l’immagine » (La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 995, p. xx). 40. M. Papini, « Ignota latebat »…, cit., p. 79. 4. Roger Laufer, L’énonciation typographique au 18e siècle, in *Trasmissione dei testi a stampa…, cit., pp. 3-23. 42. G. Genette, Soglie…, cit., p. 33.

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Soprattutto nei titoli la grafia è funzionale all’armonia architettonica della pagina e dotata di un forte significato figurativo, specie nella stagione di Vico, allorché gli incisori dei frontespizi estendevano le finalità estetiche anche alla forma e alla composizione delle lettere, agevolati dai molti trattati di calligrafia disponibili. Nemmeno a Vico, che nella Scienza nuova cita il De ortu ac progressu artis typographicae di Bernhardt von Mallinkrodt, edito a Colonia nel 640, sfugge questo aspetto, variando la grandezza delle lettere del titolo, del sottotitolo, del nome dell’autore, ed estendendo la sua vigilanza fino alle indicazioni generiche e alle note tipografiche in basso, di solito prive di qualsivoglia pretesa di tipo estetico sia perché aventi uno scopo soltanto pratico, sia perché composte in corpo troppo piccolo per potere godere di un qualche risalto. 43 È sbagliato credere che, ingannati dalla presunta irrilevanza del fenomeno, queste pratiche tipografiche, quantunque frutto di stretta collaborazione tra autore, disegnatore dell’illustrazione, incisore, « Componitore », « Stampatore » e « Correggitore », 44 non siano in primo luogo autoriali, quasi che, come si esprime da prospettiva neoidealistica Fausto Nicolini, non fosse consentito a Vico di « discendere dall’Olimpo filosofico sulla piana terra » dove attendere a minute questioni tipografiche. Basterebbe, per convincersi del contrario, vedere una delle frequenti pagine del manoscritto autografo in cui l’autore indugia nei marginalia a dare disposizioni precise allo stampatore. In quella qui riprodotta (cfr. Fig. 5), perspicua anche per la

Fig. 5. 43. Francesco Barbieri, Il frontespizio nel libro italiano del Seicento, « La Bibliofilia », lxxxv (983), , p. 56 (pp. 49-72). 44. A queste tre figure operanti nel mondo dell’editoria Vico si rivolge frequentemente con degli « Avvisi » che, scritti nei vivagni del manoscritto della Scienza nuova, contengono sue precise prescrizioni sulla grandezza e sulla forma dei caratteri tipografici da adottare.

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solerzia dedicata agli aspetti grafici dei titoli, Vico si preoccupa di avvertire che « di questa forma e grandezza di caratteri si compongono tutti i titoletti dell’opera, che van di tondo majuscolo ». 45 Non si dovrebbe trascurare che Vico si deve essere fatto una competenza in materia di arte tipografica per avere frequentato da sempre la botteguccia del padre, povero libraio napoletano sulla strada di san Biagio. E nemmeno che la professione di docente di retorica e di storiografo lo deve avere aiutato a diventare un esperto epigrafista, capace di applicare anche alla sua prosa quelle tecniche da lui già messe in atto nel dettare per i maggiorenti del tempo le iscrizioni riportate con qualche orgoglio nell’autobiografia. Come meglio sappiamo dalle ricerche di John Sparrow, di cui dà conto in Visible Words, 46 soprattutto dal Seicento l’epigrafia estende le sue procedure dalle pietre alle superfici delle pagine dei libri, a cominciare proprio dai frontespizi, che non casualmente imitano, al limite del trompe-l’œil, le facciate degli stessi edifici su cui era normale affiggere lapidi ornate di scritte celebrative. Pur avendo ormai perso di vista il fine barocco teso, per dirla con Armando Petrucci, all’effimero « monumentale cartaceo », 47 il frontespizio vichiano, perfettamente diviso a metà tra la parte superiore del titolo e la parte inferiore con l’impresa e le note tipografiche, mostra di atteggiare le righe delle lettere alfabetiche secondo un’armonia ideografica e un’equilibrata impostazione della pagina ispirata a un « misurato rapporto fra segni grafici e segno figurativo ». 48 La studiata disposizione dei caratteri conferisce al loro insieme la struttura sintattica di un’epigrafe, ubbidiente a una prospettiva che ancora Petrucci definirebbe di tipo « scenico-grafico-visiva ». Ma è ancora più rilevante osservare che questa sensibilità per i « valori » tipografici 49 è talmente diffusa nelle generazioni di Sei-Settecento da « condizionarne in qualche misura la formazione culturale e l’educazione letteraria e figurativa ». 50 Il perfezionarsi dell’arte tipografica, non disgiunto dalla riforma logica del ramismo e dalla fortuna delle epigrafi e delle iscrizioni, assecondate dalla popolarità dell’emblematica che già con Alciati si era sviluppata in simbiosi con l’epigramma, è uno dei fattori responsabili di una cura particolare per l’aspetto visivo della carta stampata, a volte composta con la stessa attenzione con cui si dispongono le figure in un quadro, facendo sì che, per Emanuele Tesauro, « lo scrivere sia un seminar parole sopra la pagina ». Rappresentare i concetti con la tecnica lapidaria equivale a « troncarli e annodarli come gli agricoltori le viti ». 5 Idealmente Vico si attiene a questa concezione che lo induce a estendere l’espressività visiva dei segni tipografici dal frontespizio all’intera Scienza nuova, a ulteriore conferma 45. Principii d’una Scienza nuova di Giov. Battista Vico, Biblioteca Nazionale di Napoli, Ms XIII D 79, autografo, c. 26r. 46. Quest’opera, oramai classica nel suo genere, sottotitolata A Study of Inscriptions in and as Books and Works of Art, è uscita presso la Cambridge University Press nel 969. 47. Armando Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione (980), Torino, Einaudi, 9862, p. 70. 48. È questo un fattore peculiare delle proprietà fisiche del libro secentesco individuato da Marco Santoro in Caratteristiche e valenze dell’editoria barocca, in *I luoghi dell’immaginario barocco, Atti del convegno di Siena, 2-23 ottobre 999, a cura di Lucia Strappini, Roma, Liguori, 200, p. 304 (pp. 295-306). 49. Si impiega il termine nell’accezione tecnica di R. Laufer, L’énonciation typographique…, cit., p. 22. 50. A. Petrucci, La scrittura…, cit., p. 67. Per esempio la tecnica epigrafica favorisce lo sviluppo dell’epigramma. 5. E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico…, cit., pp. 595-596.

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dell’unità tra testo e peritesto. Dopo che, venendo improvvisamente meno il sostegno del cardinale Lorenzo Corsini per le spese di stampa, fu costretto a ridurre la princeps del 725 da « due giusti volumi in quarto » a « un libro in dodicesimo di dodeci fogli, non più, in carattere di testino », 52 fitto e minutissimo, Vico avvertì acutamente il desiderio di una nuova edizione che, adeguata al valore filosofico dell’opera di cui era ben consapevole, fosse « stampata in forma grande, e magnifica, particolarmente nello splendore delle stampe » del suo secolo. 53 E anche suoi estimatori espressero l’auspicio di imprimere la Scienza nuova « con carattere più commodo ed in forma più acconcia ». 54 Ora, l’edizione del ’44, se non è proprio in quarto, come avrebbe voluto l’autore, è per lo meno in ottavo, con caratteri elzeviri molto più nitidi e grossi di quelli della prima edizione, corrispondenti all’incirca a un odierno corpo dieci che consentono quelle spaziature impossibili nella princeps, dove per altro si riscontra ugualmente una caparbia volontà iconica nonostante l’angustia del formato. Fedele all’intento di costruire Fig. 6. « un sistema della Civiltà, delle republiche, delle leggi, della Poesia, dell’Istoria, e in una parola di tutta l’umanità », 55 la Scienza nuova risulta una sorta di enciclopedia della storia universale, destinata anche alla consultazione, nonostante le raccomandazioni di Vico di leggerla per intero. Di conseguenza il libro deve presentarsi all’occhio in modo stratificato, secondo inquadrature variate che forniscano una comunicazione drammatizzata (cfr. Fig. 6). Il passaggio da un corpo tipografico all’altro favorisce una ricezione discontinua, ed è come se il diverso aspetto fisico della parola volesse 52. G. Vico, Vita scritta da se medesimo, in Opere, cit., i, p. 54 (pp. 5-85). 53. Idem, Lettera a Lorenzo Corsini del 20 novembre 725, in Epistole…, cit., p. 8 (pp. 7-8). 54. Questa esigenza, manifestata da Antonio Conti, è espressa in due sue lettere a Vico di identico tenore riportate da questi nell’Aggiunta alla propria Vita…, cit., pp. 70-72. 55. Riferita propriamente alla Sinopsi del diritto universale, la definizione si attaglia a maggior ragione alla Scienza nuova (G. Vico, Lettera a Bernardo Maria Giacco del 4 luglio 720, in Epistole…, cit., p. 86 [pp. 86-87]).

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avvertire del rapido mutamento delle lenti mentali con cui vengono messi a fuoco i concetti. 56 Tondi, corsivi, maiuscoletti, titoli intertestuali, parole tutte in maiuscolo o spaziate (il grassetto invece è invenzione del xix secolo) pretendono che il lettore visualizzi nella materialità grafica il sostrato concettuale, espresso più con l’avvicendarsi continuo di corpi e caratteri diversi (quasi a riprodurre il vitalismo inclusivo dell’enciclopedia barocca) che con i contorni freddamente neoclassici dei caratteri bodoniani, artefici di una scrittura rigida e omogenea rispettosa del principio di « uniformità assoluta ». 57 Effettivamente, come si avvide Nicolini, Vico ha trasformato la pagina di stampa in « una carta geografica », ma proprio questa considerazione, anziché suscitare irritazione nell’immaginare il filosofo che « tutto sottolineava, e talvolta bisottolineava e finanche trisottolineava » giungendo all’esito « grottesco » di muovere « guerra agli occhi del lettore » e di rendergli « complicata e fastidiosa la lettura », dovrebbe indurre i moderni filologi a non neutralizzare – per lo meno nelle edizioni critiche della Scienza nuova, se non proprio in quelle correnti destinate a un pubblico non specialistico – queste varianti tipografiche che, perfino « in un’opera di pensiero », non sono affatto « d’interesse secondario » come le riteneva Nicolini. 58 Oggi la bibliologia e la storia materiale dei testi e della scrittura mettono in guardia, con Roger Laufer, che ogni epoca ha un suo proprio codice tipografico soggetto a mutamenti diacronici, per cui « ogni nuova edizione di un testo antico implica una traduzione che può diventare un tradimento se non vi si fa attenzione ». 59 Sennonché il fatto di distinguere in una edizione la « sostanza » dall’« accidente » comporta già il rischio di declassare come « d’interesse secondario » le scelte tutt’altro che accidentali della composizione tipografica, che in Vico dovrebbe appunto avere un valore diacritico molto simile a quello riconosciuto alle lettere alfabetiche, al modo in cui lo hanno le diverse grandezze della toponomastica nelle carte geografiche. Forse più percettivi che i filologi della realizzazione grafica delle edizioni sono gli scrittori. A trovare addirittura « sbalorditivo » nella Scienza nuova il « continuo alternarsi di ritto e corsivo con maiuscole a ogni momento » è stato Gadda, un prosatore attento ai rapporti tra Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche 60 che, sull’abbrivo dell’uscita dell’opera vichiana, curata da Nicolini, nella collana degli « Scrittori Laterza », non si peritò di correre a consultare l’edizione originale del 744 alla Braidense, attrattovi dalla fisicità delle sue pagine. 6 Sarà forse per questo che Cecchi ha potuto giudicare Gadda « un Joyce […] che piuttosto che sulla casistica morale dei gesuiti ha meditato su Vico e su Hegel ». 62 Sul piano dell’iconismo della scrittura è senz’altro 56. Al significato concettuale del risalto tipografico accenna Giuseppe Aliprandi, Il Vico e l’arte della stampa, « La Bibliofilia », xlv (943), p. 79 (pp. 69-83). Una riprova convincente è nell’analisi di Stefania Sini, Figure vichiane. Retorica e topica della « Scienza nuova », Milano, Led-Il Filarete, 2005, p.te ii, pp. 253-342. 57. A. Petrucci, La scrittura…, cit., p. 89. 58. F. Nicolini, Introduzione dell’editore, cit., pp. xvi e lxiv. 59. R. Laufer, L’énonciation typographique…, cit., p. 5. 60. Il saggio, raccolto come è noto in Carlo Emilio Gadda, I viaggi la morte (958), Milano, Garzanti, 9772, pp. 67-80, uscì nel 929, l’anno della sua recensione alla Scienza nuova. 6. Riferisce dell’esperienza lo stesso Gadda in « La fiera letteraria », v (0 marzo 929), 0, p. 6, dove è ospitata la sua recensione all’edizione della Scienza nuova pubblicata nel 928. Sugli aspetti di questo intervento, cfr. Andrea Battistini, Gadda, Vico e un’edizione della « Scienza nuova », « Bollettino del Centro di studi vichiani », xii-xiii (982-983), pp. 38-386. 62. Emilio Cecchi, Prosatori e narratori, in *Storia della letteratura italiana, nuova ed. diretta da Natalino Sapegno, vol. ix/2 : Il Novecento, Milano, Garzanti, 9872, p. 370 (pp. 249-432).

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vero, essendo Gadda d’accordo con Vico che « gli espedienti tipografici sogliono rendere di gran servigi ai poeti », governando « la tecnica distributiva del materiale, della colata poetica, – nei lingotti vari dei versi –, cioè dei righi ». 63 Analoga impressione potrebbe avere ricevuto Alberto Savinio, che in una voce della sua Nuova enciclopedia dedicata alla « prosa », nella quale però, propriamente, discorre più della scrittura, ha occasione di menzionare « le fraseologie più selvose, più ostiche » della Scienza nuova, ispiratrice forse della suggestione secondo cui « uno stampatello sonoro, un majuscolismo fonico […] aiutava a inculcare l’idea della divinità, le leggi, i fatti più importanti ». 64 E che dire poi di Pavese, che era solito « leggere Vico scandendolo in versi » ? 65 Evidentemente, con i forti contrasti dei loro corpi tipografici, i caratteri di stampa della Scienza nuova sono come tratti soprasegmentali visivi che fanno le veci dell’intonazione, degli accenti, dell’enfasi, del timbro fonico, e come tali possiedono un valore semantico. Ce n’è abbastanza, forse, per dovere ammettere che la scelta dei caratteri tipografici e della loro composizione, pur rivestendo un ruolo ancora più umbratile nell’economia già di per sé laterale del peritesto, non può lasciare indifferente il lettore della Scienza nuova. Certamente non sono rimasti insensibili coloro che, prima di accedere alle sue rivoluzionarie « discoverte », hanno indugiato nell’analisi dell’abito esteriore che Vico, precoce estimatore del look e della sua efficacia, ha fatto loro indossare. Abstract Della zona paratestuale della Scienza nuova di Giambattista Vico si prendono in esame il frontespizio – sia nella parte scritta del titolo, sia nella parte iconica costituita da un’impresa araldica –, l’antiporta e la scelta dei caratteri e della loro impaginazione. Anche ponendosi dalla più angolata prospettiva della storia materiale del libro in antico regime tipografico, queste componenti, rispondendo a precise scelte autoriali, possono fornire illuminanti chiarimenti e integrazioni al sistema filosofico di Vico. Al tempo stesso mostrano in atto la stretta collaborazione instauratasi tra autore, disegnatore dell’illustrazione, incisore, « Componitore », « Stampatore » e « Correggitore », ai quali Vico si rivolge nei frequenti « Avvisi » appuntati nei marginalia del manoscritto autografo approntato per la stampa. Si conferma così il proposito di fondo del Convegno, che intende dimostrare come il paratesto sia « un crocevia di discipline » che nel caso specifico si dilata fino a comprendere la filosofia, l’antropologia, l’araldica. Per quanto il discorso verta su un’unica opera, questa, per la sua intrinseca complessità che emerge fin dalle periferie peritestuali, consente anche un confronto più ampio con la tradizione delle stampe sei-settecentesche per cogliervi sia gli elementi condivisi con le consuetudini del tempo, sia gli aspetti più originali. A fronte dell’oggettiva rilevanza di queste aree di frontiera del libro, che solo in senso esclusivamente spaziale si possono definire marginali, non si può tacere della loro sottovalutazione riscontrabile nella storia delle riedizioni della Scienza nuova e nell’esegesi dell’opera. A questo proposito è molto eloquente il maquillage della ristampa ottocentesca curata da Giuseppe Ferrari, che non si è fatto scrupolo di adattare l’immagine che accoglie il lettore alla soglia del libro alle mode del tempo e ai gusti mutati del pubblico. Ma ancora più significativa è la sua sorte nel Novecento perché, per un paradosso, proprio Fausto Nicolini, il filologo che più 63. Carlo Emilio Gadda, Conforti della poesia (949), in Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 982, pp. 92-93 (pp. 89-204). 64. Alberto Savinio, Nuova enciclopedia (977), Milano, Adelphi, 9782, pp. 302-303. 65. La testimonianza è di Pietro Angelini, Introduzione a Cesare Pavese e Ernesto De Martino, La collana viola, a cura di Pietro Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 99, p. 23.

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di ogni altro si è adoperato per rendere disponibile nel secolo scorso il capolavoro vichiano, risulta tra i meno disponibili a intendere il genuino significato della componente peritestuale, a conferma che tra tutte le parti di un libro quelle poste alla frontiera sono fatte oggetto da sempre delle più arbitrarie manipolazioni, sia perché considerate aggiunte posticce degli editori, sia perché, quand’anche rispondano a una precisa volontà dell’autore, come nel caso di Vico, sono giudicate inutili abbellimenti estranei ai contenuti, specie se di àmbito filosofico. Di diverso avviso però sono le ultime generazioni di studiosi vichiani, preceduti in quest’opera di rivalutazione dagli scrittori, dal momento che tra i più consapevoli dell’importanza del peritesto della Scienza nuova sono stati nel Novecento Gadda, Savinio e Pavese. Of all the paratextual parts of Scienza Nuova by Giambattista Vico, we have studied the frontispiece – both in the written part ( title) and the imagery, consisting of a heraldic device – the antiporta and the choice of letters and their layout. Even from the most slanted perspective in the material history of bookmaking, in the ancient typographic regime, these components, responding to precise choices of the author, can furnish illuminating clarifications and integrations regarding Vico’s philosophical system. At the same time, they actively reflect the close collaboration between the illustration’s author, engraver, “Compositor”, Printer” and “Corrector”, whom Vico addresses in his frequent “Notes” jotted down in the marginalia of the handwritten manuscript prepared for printing. This confirms the main aim of the Convegno, which attempts to demonstrate that paratext is a “crossroads of disciplines” and in specific cases can expand to include philosophy, anthropology, and heraldry. In that the discussion focuses on a single work, due to an intrinsic complexity that emerges even from the peritextual periphery, it also allows a broader comparison with the tradition of the 7th- and 8th- century engravings in order to focus on elements that reflect the customs of the time, as well as more original aspects. Before the objective relevance of these “frontier” areas of the book, which can be called marginal only in an exclusively spatial sense, one cannot ignore the underestimation they encountered in the history of the re-publications of Scienza Nuova and in the interpretation of the work. On this subject, the maquillage of the 9th century re-publication supervised by Giuseppe Ferrari is very eloquent, and did not hesitate to adapt the image which greets a reader at the threshold of the book to the fashions of the day and the changing taste of the public. Even more significant was its fate in the 900s, since paradoxically it was Fausto Nicolini himself (the philologist who more than any other undertook to make Vico’s masterpiece available in the last century) who was among the least disposed to understand the genuine significance of peritextual components. This confirms that of all of a book’s elements, those at the “frontier” were always subject to the most arbitrary manipulations. This was because they were considered temporary additions of the editors, and because when they responded to an author’s precise intention, as in Vico’s case, were considered useless embellishments having little to do with the contents, especially if philosophical in nature. Of a different opinion, however, are the more recent generations of Vico scholars, and they were preceded in this by writers; in the 20th century among those who were greatly aware of the importance of Scienza Nuova’s peritext were Gadda, Savinio and Pavese.

Elide Casali L’ELOQUENZA DEGLI ASTRI. ASPETTI DEL PARATESTO NELLA LETTERATURA PRONOSTICANTE ASTROLOGICA DELL’ITALIA MODERNA

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a tradizione delle previsioni astrologiche a stampa, in latino e in volgare, si configura particolarmente sfaccettata e composita relativamente al genere e ai sottogeneri  – come ho cercato di dimostrare nel mio volume Le spie del cielo dedicato alla letteratura pronosticante nell’Italia moderna. Pertanto, in questa sede, il campo d’indagine viene ristretto al pronostico dotto o d’autore di matrice accademica in opuscolo, osservato nell’ampio arco di tempo che va dal secondo Quattrocento alla fine del Settecento. È l’età in cui, dietro l’impulso dell’introduzione della stampa, il pronostico conosce una vera e propria esplosione, connotandosi in senso astrologico, intimamente legato, quindi, alle vicende storiche della dottrina dei cieli, astrologia e astronomia : dalle interdizioni ecclesiastiche dell’astrologia giudiziaria o genetliaca o oroscopia, alla nascita della nuova scienza sperimentale, fino all’affermarsi di una diversa visione della cultura e del cosmo col pensiero dei nouveaux philosophes. L’intento è quello di mostrare come alcuni elementi del paratesto si modifichino e si modellino in base alle più significative sollecitazioni culturali, politiche e religiose ; come autori e stampatori presentino se stessi e il loro prodotto al pubblico dei lettori. L’indagine è rivolta principalmente al frontespizio, con particolare riguardo ai titoli e alle immagini. Per tracciare una breve panoramica si prendono in considerazione i titoli che in ordine cronologico caratterizzano il Pronosticon (’400-’500), quindi il Discorso astrologico (’600) e infine l’Almanacco (’700). Negli incunaboli il titolo di Iudicium o Pronosticon è in genere preceduto dalla dedicatoria, dal nome del potente personaggio al quale è rivolta l’operetta e da quello dell’autore, secondo la formula : Ad…. Magistri … Iudicium o Pronosticon e l’anno. Segue l’elenco delle rubriche : raccolto, meteorologia, infermità, pace e guerra, sulle quali vengono tratte le previsioni dagli astrologi. Il titolo introduce il proemio, fondendosi con esso nella prima pagina del testo. Nel Cinquecento, quando il frontespizio diviene una consuetudine nell’arte della stampa, anche la letteratura pronosticante si adegua, producendone alcuni tra i più belli ed eleganti. In primo piano viene posto il titolo Pronosticon, Pronosticatio, Prognosticatio, Pronostico, Iudicium, Iuditium, Iuditio, Giudicio, seguito dal nome dell’autore e dagli appellativi accademici, quindi il nome del personaggio illustre al quale è dedicata l’operetta e infine l’anno al quale si riferiscono le anticipazioni astrologiche. A partire dai decenni centrali del Cinquecento, la tradizione letteraria del pronostico conosce gli ostacoli più difficili di tutta la sua storia per autori, editori, tipografi e lettori stessi : il Concilio di Trento, l’attività della Congregazione dell’Indice e del . Elide Casali, Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell’Italia moderna, Torino, Einaudi, 2003.

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Tribunale del Sant’Uffizio. La condanna dell’astrologia giudiziaria spezza, inesorabilmente, gli equilibri politici, religiosi e culturali che avevano permesso la proliferazione delle pronosticazioni annuali a stampa, la loro libera commercializzazione e diffusione. La reazione appare immediata e operativa : la strada da seguire è quella tracciata dalle autorità, lungo la quale si snoda l’astrologia naturale, degli influssi e delle inclinazioni astrali, ad uso della medicina, dell’agricoltura, della meteorologia, della navigazione, che sola veniva dichiarata lecita, buona e cristiana. Libretti astrologici annuali che si presentavano al pubblico con illusorie promesse di pronosticazioni oroscopanti o divinazioni magiche e profetiche sono improponibili a partire dal Secondo Cinquecento. Un solo esempio può illustrare il fenomeno sopra descritto. Si mettono a confronto due pronostici : un esemplare della fine del Quattrocento e uno di oltre ottant’anni dopo : da un lato il Iudicio di Antonio Manilio da Bertinoro che pubblica a Cesena e a Forlì e dall’altro lato il Lunario, et Pronostico di Ercole della Rovere di Bologna che pubblica a Venezia. Il lungo titolo che appare sulla prima pagina dell’esemplare stampato in volgare a Cesena il 26 marzo 495, 2 detta : Iudicio del Mille.cccc.lxxxxv fina la Mille.ccccc, del excellentissimo astronomo Antonio Manilio al Reverendissimo domi. Nicolao Fiesco genoese vescovo de Forlino del stato caso ruina prosperita & adversità del Pontefice, Imperatore, Regi di Franza, Hispania e Sicilia, Venitiani Duca de Milano e Ferara, Fiorentini, Mantuani, Senesi, Pisani, Genoesi, Luchesi, Bolognesi. Di perfidi infideli & nascimento de Anticristo e de tutta l’Italia & parte ultramontane, per cognizione di pianeti e prescientia di corpi celesti & per interpretatione & expositione de li enigmati & oscurità de Prometeo spirito ferrarese, composto per Dialogo : dove hora Iohanne fratello del S. Vescovo domanda de le cose future e l’auctore responde : hora l’auctore domanda a Prometeo de le oscurità e lui ge le espone.

Non meno ricco di informazioni è il titolo che appare sul frontespizio dell’opuscolo di Ercole Della Rovere stampato a Venezia : LUNARIO, ET PRONOSTICO. DI HERCOLE DELLA ROVERE Astrologo Bolognese. Calculato per le tavole Pruteniche al Meridiano dell’Inclita Città di venetia, all’Hore, et Minuti del comune orologio, sopra la dispositione dell’anno M. D. LXXXII. Nel quale si vedono le mutationi de Tempi, le Feste mobili, con li giorni atti al coltivare, edificare, & dare medicine : con molt’altre particolar cose utili, & necessarie alla Flobotomia. 3

Le differenze più significative, al di là del diverso uso dei caratteri, interessano il titolo : « Iudicio » in Manilio sottintende la vera arte della giudiziaria, dell’oroscopia o genetliaca, confermata dalla lunga serie dei soggetti di tale pronosticazione ad personam, che implicava, nella pratica del tempo, l’utilizzazione specifica degli oroscopi di ciascun personaggio, città o popolo. Una libera ed esplicita dichiarazione, dunque, dell’uso dell’astrologia giudiziaria in opuscoli che dialogavano apertamente e liberamente con lo scenario politico del tempo. Per di più Manilio aggiunge un’ulteriore interpretazione degli eventi per il quinquennio che va dal 495 al 500, e cioè una « prescienza » di « enigmati » e « oscurità », contenuti in un libro di profezie, attraverso l’evocazione di uno spirito, Prometeo, tenuto prigioniero dal Duca di Ferrara. Nel 2. Vedi la rist. anast. : Pronosticon dialogale di Antonio Manilio. Incunabolo cesenate. Paolo Guarini e Giovanni Jacopo de’ Benedetti tipografi. Cesena, 26 marzo 1495, a cura di Lorenzo Baldacchini, Cesena, Società Editrice « Il Ponte Vecchio », 995 ; Elide Casali, Le spie del cielo…, cit., p. 40. 3. In venetia, In Frezzaria, al segno dell’Hippogriffo. Con licenza de’ Superiori, s.a.

aspetti del paratesto nella letteratura pronosticante astrologica italiana487 testo Manilio descrive anche i rituali propiziatori per l’evocazione di tale spirito : si tratta di un cerimoniale che si inscrive nell’ambito dell’indovinazione magica e negromantica. Il sintagma, l’accoppiamento, inusuale nella letteratura precedente, « Lunario et Pronostico » di Della Rovere attira l’attenzione, in primo luogo, sulla parte calendariale, di misurazione del tempo scandito dal susseguirsi delle lunazioni, piuttosto che sulla sezione astrologica, suggerita dal termine pronostico, che pur centrale, passa in seconda posizione. Il fatto che la pronosticazione, poi, sia esplicitamente dichiarata lontana dall’oroscopia è confermato dall’indicazione del contenuto, una serie di previsioni contemplate dall’astrologia naturale e calcolate sui principi degli influssi e delle inclinazioni planetarie : agricoltura, edificazione, medicina e flebotomia. Il titolo nulla lascia intendere delle sporadiche incursioni nell’area della genetliaca compiute dall’astrologo bolognese nelle pagine conclusive dell’opuscolo. Nel passaggio dal Pronostico cinquecentesco al Discorso astrologico, cambiano le dinamiche e gli equilibri che si instaurano inevitabilmente tra titolo e contenuto, fino a capovolgersi. Se la stereotipia e la genericità del titolo nel Pronostico quattro – cinquecentesco sono bilanciate dalla ricchezza, varietà, particolarità e complessità delle previsioni, tale rapporto si rovescia nel Discorso astrologico, nel quale la genericità, l’approssimazione e la stereotipia delle pronosticazioni appaiono compensate da titoli che si fanno sempre più originali e insoliti, stravaganti ed eccentrici, « soglie » (Genette) accattivanti cariche di significati. I titoli appaiono polisemici e spesso anfi bologici, attribuibili sia all’emittente che al messaggio, sia all’autore che all’opera, sviluppando tutte le possibili metafore legate all’arte della pronosticazione. 4 Nell’ambito della rappresentazione del mondo e della volta celeste, La tragicommedia delle sfere (Gian Battista Pilasqua) e Le scene del fato (Tomaso Maria Martinelli) ripropongono l’immagine del cielo come teatro, svolgendo una funzione di regia : introducono, infatti, alla lettura delle pronosticazioni come a una rappresentazione drammaturgica in cui gli attori sono i pianeti umanizzati che si amano, si odiano, si congiungono e si fanno guerra, il tutto a favore o a danno degli uomini. Il libro celeste (Tomaso Oderico) riprende il concetto di libro della natura e del mondo, sviluppando l’idea del rapporto tra mondo celeste e mondo sublunare attraverso la figura dell’astrologo, sapiente mediatore tra i due universi. Di fronte al grande libro del cielo, sul quale si disegnano i geroglifici stellari attraverso i quali Dio manifesta agli uomini la sua volontà, gli esperti dell’astrolabio esercitano l’arte della lettura e dell’interpretazione dei segnali divini. Il risulato del loro decifrare, svolgere, scrivere come sotto dettatura le misteriose combinazioni planetarie, è sintetizzato in titoli di particolare effetto, come Le cifre del fato (Cesare Falconio), I geroglifici astronomici (Pellegrino Capitanio), le Dettature delle stelle (Ovidio Montalbani), formule che sottintendono un processo di osservazione del cielo compiuto seguendo i principi di una scienza che ha più del divino che dell’umano. La speranza di accedere ad una conoscenza dei segreti della natura, e in particolare dei misteri e dei prodigi celesti, di poterli osservare come riflessi in uno specchio, viene suggerita dallo Specchio celeste (Lionello Faberi). I titoli rimandano ad una rappresentazione tabulare e statica, suggerendo, tuttavia 4. Per tali aspetti della letteratura pronosticante secentesca vd. Elide Casali, Le spie del cielo…, cit., pp. 53-54.

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un cielo in movimento, corpi astrali che passeggiano, che si incontrano, si allontanano, per poi ritrovarsi e lasciarsi nuovamente, in un moto incessante che viene narrato teatralmente nei bolognesi Ruzlamient dla lona in t al strell. Il titolo di grand’efficacia, degno di un maestro del riso, si pone in rapporto antitetico col discorso astrologico dotto e serio al quale introduce : la luna, infatti, che dai tempi più antichi ha guidato la vita degli uomini, viene avvolta da un alone di comicità, perseguita con la tecnica dell’abbassamento e della riduzione. Il luminare maggiore ruzzola tra le stelle, scandendo gli eventi sublunari. È un titolo che, unito anche alla scelta del dialetto, si appella alla leggerezza, sdrammatizzando le pronosticazioni infauste sempre contenute in ogni serie annuale. Sulla stessa lunghezza d’onda si pongono gli Scherzi astrologici (Silvio Bongiovane) e Il vero Lanciabugie, che dialogano da un lato con gli umori di un pubblico più disincantato, scettico e critico verso la pronosticazione astrologica, dall’altro lato con i revisori della Congregazione dell’Indice. Sono titoli che creano forti ossimori con la Catastrofe del mondo (Gian Francesco Spina) e con Le calamità del mondo (Tomaso Oderico), i quali rinviano ai più paurosi prodigi celesti, alle più nefaste congiunzioni astrali, piccole e grandi, che avevano un’immediata presa sull’immaginazione collettiva, suscitando inquietudine e spavento. 5 Sui frontespizi dei discorsi astrologici secenteschi, la scienza delle stelle parlava, dunque, uno screziato linguaggio metaforico, declinandosi con il mistero e l’arcano, il divino e il sensazionale, il mostruoso e il meraviglioso, la curiosità e la paura, il tragico e il comico, sorgenti inestinguibili nell’immaginario collettivo dell’età moderna. Nel Settecento, il secolo degli almanacchi, i titoli appaiono sempre meno interpreti della dottrina delle pronosticazioni astrali, introducendo sempre più spesso il rinnovato contenuto del libretto per il nuovo anno, divenuto il libro universale, per tutti, sfaccettato e arricchito di tutto un po’, enciclopedico, dove Figura . Pietro Bono Avogadro, Allo Illustrissimo l’astrologia lascia il posto ad ogni et excellentissimo Principe e Signore Hercule Duca de Ferrara e de Modena invictissimo pronostico … in lanno altra possibile forma di conoscende lagratia 1498. Composto … ne l’anno de la gratia za : dalla letteratura alla scienza, dalla medicina all’igiene, dalla sto498 nel primo di de marzo (s.n.t.). ria alla religione, dalla paremioloBologna, Biblioteca Universitaria. 5. Per un primo orientamento su titoli e autori vedi, Pietro Riccardi, Biblioteca matematica, Milano, Gorlich Editore, 952, ad vocem e Elide Casali, Le spie del cielo…, cit.

aspetti del paratesto nella letteratura pronosticante astrologica italiana489 gia alle cabale del lotto. L’anonimia favorisce il successo – che può prolungarsi anche per secoli – dei veri, grandi, famosi, famosissimi dottori, sempre meno astrologi e sempre più astronomi, speculatori, filosofi, enciclopedisti. L’Astrologo Stellario convive con l’Astronomo Lombardo, con il Barba Nera e il Barba Rossa, col Casamia e con la stirpe dei Chiaravalle, coi dottori Veste Lunga, Vesta Verde e Vesta Bianca, con lo Schieson e lo Schiesoncin, Il Gran Mirandolano e il Famosissimo Moneti. Astrologi e pronosticazioni planetarie finiscono per naufragare nel vasto mare dell’almanacchistica, nel mercato del leopardiano « almanacchi, almanacchi … » per tutti. 6 L’immagine che adorna il frontespizio, illustra ed interpreta il senso più profondo della pronosticazione annuale : di solito si tratta della raffigurazione umanizzata del pianeta dominatore dell’anno, dal quale provengono gli influssi che determinano la qualità delle previsioni. Figura 2. Domenico Maria Novara, Ad Illustrissimum Essa si riallaccia ad una iconografia Dominum B. Jo. Benti. … Pronosticon in annum domini stereotipata che appartiene alla tra- M.CCCCCIIII. Datum Bononiae die 7 mensis decemdizione della cultura astrologica, la bris 503 (s.n.t.). Bologna, Biblioteca Universitaria. quale funge da rinvio ad un sapere complesso che si riferisce alla natura dei corpi celesti e alla dottrina dei figli dei pianeti. Nel pronostico per il 498 di Pietro Bono Avogadro l’illustrazione della prima pagina (Fig. ) è divisa in due settori, il primo a tema umano, il secondo naturalistico : uno riguarda gli influssi di Marte sugli uomini, l’altro gli influssi meteorologici dello stesso pianeta, e come c’è da aspettarsi quando Marte signoreggia l’anno, il messaggio appare inquietante e terrificante. Nel riquadro di sinistra Marte, incarnatosi e sceso tra gli uomini, è raffigurato con un’arma da combattimento, la mazza ferrata, nell’atto di colpire un uomo, dopo averne già atterrati due. Il signore della guerra significa, così, le sue intenzioni di inviare guerre e battaglie. Gli influssi marziali fanno da nerbo anche alla raffigurazione del riquadro di destra : un paesaggio desolato, ma abitato (in alto sulla destra si staglia all’orizzonte il tetto appena percettibile di una dimo6. Il riferimento è all’operetta leopardiana « Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere ». Su Leopardi e l’almanacchistica vedi Bortolo Martinelli, Leopardi, il venditore di almanacchi e il passeggere, in Leopardi oggi. Incontri per il bicentenario della nascita del poeta. Brescia, Salò, Orzinuovi 21 aprile23 maggio 1998, a cura di Bortolo Martinelli, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 09-69. Per gli almanacchi citati vedi Elide Casali, Le spie del cielo…, cit., pp. 249-270.

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ra), ricoperto in parte delle pietre che cadono dal cielo. Questo viene rappresentato in forma di arco di sfera – si intende la sfera dell’aria – distribuita su due semiarchi che descrivono i fenomeni meteorologici : raggi e lampi, tenuti nel semicerchio più basso da un minaccioso festone di nuvole. 7 Frequente appare anche la raffigurazione topica e convenzionale dell’astrologo che simboleggia la dottrina dei cieli, l’astronomia e l’astrologia. Il contesto in cui l’immagine è inserita evoca i due territori nei quali gli esperti estendevano il loro sapere e la loro arte : i libri e il cielo, rappresentati in interni e in esterni, che spesso si intersecano. Negli interni (Fig. 2), con l’astrologo seduto alla cattedra o in piedi alla prese con gli strumenti della pronosticazione (sfera armillare, compasso, effemeridi, trattati), viene inserita una porzione di cielo punteggiato di stelle e dominato Figura 3. Lodovico Vitali, Pronostico … Al Reve- dai luminari maggiori, generalrendiss. Cardinale Morono, & al Reverendiss. Guber- mente presentati in coppia, il sole e natore & alli Magnifici Signori XXXX, sopra l’Anno 1547. la luna. Il capo dell’astrologo appaTerminato in Bologna alli xxvii de Dicembre 546 re, in certi casi, rivolto verso l’alto o … (s.n.t.). Venezia Biblioteca Nazionale Marciana. nella direzione di una finestra che si apre su un cielo stellato. 8 L’astrologo che si erge in primo piano su uno sfondo paesaggistico con il naso all’insù, 9 suggerendo la diretta contemplazione delle stelle, è ritratto insieme agli strumenti dell’arte. Nel frontespizio del Pronostico di Lodovico Vitali per il 547 (Fig. 3), in un esterno paesaggistico stilizzato, sul quale si eleva un cielo variegato di nuvole e stelle, in primo piano si staglia l’immagine dell’astrologo raffigurato come il sapiente, il filosofo antico, con lunghe vesti e barba, il volto che guarda verso l’alto ; solleva il braccio sinistro stringendo tra la mano lo strumento della matematica, il compasso, le cui punte fendono i raggi di due stelle : la sapienza e l’arte rendono la distanza tra l’astrologo e le stelle minima. Toccandoli quasi con mano, l’esperto misura i corpi astrali penetrandone i più arcani segreti. La simbologia è chiara : la pronosticazione è tratta secondo i più autorevoli principi astrologici. 7. Elide Casali, Le spie del cielo…, cit., p. 37. 8. Ivi, p. 9-0. 9. L’uomo (e l’astrologo, in particolare) che solo guarda il cielo tra tutte le altre creature del mondo è un topos della cultura classica, medievale e moderna : vedi, anche per i riferimenti bibliografici, ivi, pp. 5-6.

aspetti del paratesto nella letteratura pronosticante astrologica italiana 491 Stereotipata sui frontespizi dei Pronostici e dei Discorsi astrologici, la raffigurazione dell’astrologo si vivacizza e si dinamizza nell’Almanacco : uno degli esempi più significativi, di grande effetto e di immediata presa sull’immaginazione del pubblico dei lettori, è rappresentato da La Gran Staffetta volante (almanacco bolognese del 775), ossia l’astrologo « in giro sul Pegaseo Cavallo dall’uno all’altro polo del mondo » (Fig. 4). 0 L’astrologo in un lungo abito da saggio, scarpe con fi bia e cappello a larga tesa, dalla quale fuoriesce una lunga chioma che scende a riccioli sulle spalle secondo la tradizione secentesca, cavalca un magnifico cavallo alato spiccante il volo da un cumulo di nuvole verso le sfere planetarie in un luminoso cielo stellato, signoreggiato dal sole e dalla luna. Regge con la mano sinistra le redini e con la destra, come se fosse un’arma da combattimento, l’arma Figura 4. « L’Astrologo in giro sul Pegaseo Cavallo da lavoro per l’astrologo settecen- dall’uno all’altro Polo del Mondo » da : La Gran Staftesco, il cannocchiale. E non è un fetta o sia L’Astrologo in giro sul Pegaseo Cavallo dall’uno cannocchiale qualsiasi : « astrono- all’altro Polo del Mondo … Lunario Nuovo MDCCLXXV… mico » e « all’ultima moda », crea un In Bologna, nella Stamperia del Sassi (s.a.). Bologna, contrasto stridente con l’iconograBiblioteca Comunale Archiginnasio. fia tradizionale dell’astrologo rappresentata. Il cannocchiale ha, dunque, accorciato le distanze tra l’uomo e il cielo : l’astrologo non solo tocca quasi con mano i corpi astrali, vi passeggia in mezzo, va a vederli da vicino, come inviato speciale e messaggero che direttamente raccoglie le intenzioni dei pianeti verso il mondo e gli uomini. Quella della Staffetta volante è anche un’immagine che, nel panorama culturale in cui si inscrive l’almanacchistica astrologica del secondo Settecento, permette una interpretazione meno immediata, ma simbolica e significativa. Sembra voler rappresentare un’arte e una sapienza che oramai sono considerate alla stregua di un volo fantastico della mente, rispetto alla scienza della sperimentazione e alla nuova filosofia dei lumi, all’insegna di uno strumento che appartiene di diritto all’astronomia, la quale già da tempo ha preso le distanze dall’astrologia. Sembra, infine, indicare metaforicamente la via che percorre la pazza scienza delle pronosticazioni, quella che la conduce verso un mondo a lei familiare, almeno a partire da Ariosto, il mondo della luna.  0. Ivi, p. 269. . Il riferimento è all’Orlando furioso di Ariosto. Per astrologia e follia vedi ivi, pp. 204-205.

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L’intervento prende in esame il pronostico dotto o d’autore di matrice accademica in opuscolo, osservato nell’ampio arco di tempo che va dal secondo Quattrocento alla fine del Settecento. È l’età in cui, dietro l’impulso dell’introduzione della stampa, il pronostico conosce una vera e propria esplosione, connotandosi in senso astrologico, intimamente legato, quindi, alle vicende storiche della dottrina dei cieli, astrologia e astronomia ; alle interdizioni dell’astrologia giudiziaria o genetliaca o oroscopia da parte della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti ; alla nascita della nuova scienza sperimentale ; fino all’affermarsi di una diversa visione della cultura e del cosmo col pensiero dei nouveaux philosophes. L’intento è quello di mostrare come alcuni elementi del paratesto si modellino in base alle più significative sollecitazioni culturali, politiche e religiose. L’indagine è rivolta principalmente al frontespizio, soffermandosi su titoli e su immagini. Si prendono in considerazione i titoli che in ordine cronologico caratterizzano il Pronosticon, quindi il Discorso astrologico e infine l’Almanacco. Sui frontespizi non di rado spicca un’immagine che illustra ed interpreta il senso più profondo della pronosticazione annuale : di solito si tratta della raffigurazione umanizzata del pianeta dominatore dell’anno, dal quale provengono gli influssi che determinano la qualità delle previsioni. Essa si riallaccia ad una iconografia stereotipata che appartiene alla tradizione della dottrina astrologica, presente fin nella trattatistica medievale più antica, la quale funge da rinvio ad un sapere complesso che si riferisce alla natura dei corpi celesti e alla dottrina dei figli dei pianeti. Frequente appare anche la raffigurazione topica dell’astrologo che simboleggia la dottrina dei cieli : il calcolo e la descrizione dei fenomeni celesti, la pratica delle pronosticazione, dell’interpretazione degli influssi astrali. The article examines scholarly predictions or those of authors from an academic background, printed in pamphlet form over the long period of time extending from the late 1400s to the end of the 1700s. This was an age influenced by the introduction of printing, in which predictions underwent a real explosion, associated with an astrological sense. Thus they were intimately connected to historical events regarding the doctrine of the heavens, astrology and astronomy; to the prohibitions of judiciary, birthday or horoscope astrology by the Congregation of the Index of Forbidden Books; to the birth of experimental science; to the affirmation of a different vision of culture and cosmos with the thinking of the nouveaux philosophes. The article intends to show how certain elements of paratext are modelled on the most significant cultural, political and religious stimuli. It mainly considers the frontispiece, focusing on titles and images. The titles considered in chronological order include the Pronosticon, then the Discorso Astrologico and finally the Almanacco. Frontispieces sometimes display an image that illustrates and interprets the deepest significance of annual predictions; this usually consists of an anthropomorphic portrayal of the planet that dominates the year, and from which emanate the influences that determine the predictions. This is connected to a stereotyped imagery belonging to the traditions of astrological doctrine, found in the oldest medieval tracts, which functions as a cross-reference to the nature of heavenly bodies and the doctrine of the children of the planets. Also appearinmg is the topic portrayal of the astrologer who symbolizes the doctrine of the heavens: the calculation and description of celestial phenomena, the practice of prediction and the interpretation of astral influences.

Paolo Temeroli ASTUZIE DEL PARATESTO E GIOCO DELLE PARTI TRA AUTORE E EDITORE NELLE STAMPE DI FRANCESCO MARCOLINI

L’

appartenenza di Francesco Marcolini al mondo della stampa e dell’editoria, è attestata da oltre 20 edizioni da lui pubblicate a Venezia tra il 534 ed il 559.  Assai più rari i documenti d’archivio. Allo stato attuale delle ricerche, noti infatti sono soltanto quelli rinvenuti dal Brown, che concernono numerosi privilegi di stampa a lui concessi dal Senato veneziano. Tra essi va ricordato quello decennale relativo alla stampa in caratteri metallici di testi di musica del primo luglio 536, in quanto, oltre che delle abilità tecniche del Marcolini, testimonia di un’attività che dovette superare di gran lunga il numero degli esemplari superstiti. 2 All’archivistica va aggiunta una fonte indiretta : le numerose lettere contenute negli epistolari dei suoi principali autori, in buona parte da lui stesso editi. È una sua lettera all’Aretino che consente di datare la presenza del Marcolini a Venezia fin dal 527, quando entra in contatto con il già noto scrittore appena giunto nella città lagunare. 3 Anche se è sicura l’origine forlivese – da lui stesso rivendicata nella maggior parte delle edizioni e dove dimoravano altri membri della famiglia, nulla però si sa del periodo antecedente al trasferimento a Venezia, né di cosa facesse in questa città (probabilmente il libraio) prima di intraprendere l’attività di editore. 4 È in questa veste infatti che egli muove i suoi primi passi nel mondo della stampa. Tutte le edizioni del 534 (tranne forse la controversa Ragionamento della Nanna e della Antonia uscita comunque sotto false note tipografiche, Parisiis, Ubertinus Mazzola), 5 e alcune riedizio. Sulle edizioni marcoliniane è ancor oggi fondamentale la bibliografia ragionata contenuta in Scipione Casali, Annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini da Forlì, Forlì, Matteo Casali, 86 (rist. a cura di A. Gerace, Bologna, Gerace, 953), da integrare con Luigi Servolini, Supplemento agli Annali della ipografia veneziana di Francesco Marcolini compilati da Scipione Casali, Bologna, Gerace, 958). Da essi prende le mosse, rivedendoli criticamente e completandoli alla luce di studi e repertori bibliografici successivi, il saggio di Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, « Giornale storico della letteratura italiana », clvii (980), pp. 75-6, che valuta la produzione di Marcolini, editore e tipografo, in 26 titoli, di cui 95 prime edizioni e 3 ristampe e ne fornisce un sommario catalogo cronologico. Nell’Archivio in rete dell’iccu, edit 6 dà notizia di 7 edizioni, incluse le ristampe, ma, a differenza di Quondam, considera unitariamente le edizioni in più volumi pubblicati separatamente. Ad esse andrebbero comunque aggiunte le edizioni non presenti in Italia. La valutazione esatta dell’intera produzione è complicata dal fatto che in alcuni casi non si tratta di nuove edizioni, ma di riciclaggio di precedenti. Si preferisce pertanto una stima prudenziale. 2. Cfr. Horatio Brown, The venetian printing press, London, John C. Nimmo, 89, p. 07. 3. Cfr. la lettera n. 387 in Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno editrice, 2004, ii, t. 2, p. 367 ; Giovanni Aquilecchia, Gli stampatori veneziani dell’Aretino e i suoi collaboratori di studio in Storia della cultura veneta : dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, Neri Pozza, 980, iii, t. 2, p. 8 e, per l’Aretino, la voce di Giuliano Innamorati in dbi, iv (962), pp. 89-04. 4. Cfr. Luigi Servolini, Gli antichi tipografi forlivesi, « Gutenberg-Jahrbuch », 940, p. 26. 5. Sulle edizioni parigine del Ragionamento cfr. la Nota al Testo di Giovanni Aquilecchia in Pietro Aretino, Sei giornate, Bari, Laterza, 969, p. 360 sgg.

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ni del 535 escono infatti per i tipi di Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio su istanza del Marcolini, la cui prima pubblicazione ufficiale in veste di tipografo è la Cortigiana del novembre 535 (Edit 6 A, 2336). Fin dagli inizi la sua attività editoriale è contraddistinta dal rapporto con l’Aretino. “per testimonio della bontà e della cortesia del divino Aretino, Francesco Marcolini da Forlì ha fatto imprimere queste cose in Vinegia da Giovann’Antonio de Nicolini da Sabio” è la sottoscrizione nel giugno del 534 di La passione di Giesu con due canzoni una alla Vergine , et l’altra al Christianissimo, la prima opera a stampa imputabile a M. e la medesima formula contraddistingue le altre edizioni presso il Nicolini, tutte corredate di privilegio concesso dal Senato veneto. 6 Dell’Aretino sono anche tutte le altre opere in prima edizione o ristampate o riedite del 535, non essendo affatto certa l’esistenza del Dialogo di san Giuseppe e della Vergine di Agostino Strozzi, 7 e alcune del 536, quando finalmente nel catalogo di Marcolini, divenuto stampatore in proprio, cominciano a figurare opere di altri autori, di cui due riconducibili alla già ricordata produzione di stampe musicali. Anche negli anni successivi l’Aretino, sia come autore che come partner culturale e influente personaggio sulla scena non solo veneziana, continuerà a contrassegnare la produzione di Marcolini. I rapporti tra i due sono stati magistralmente delineati da Amedeo Quondam fin dal suo saggio del 980, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni 8 e ripresi nel più recente Aretino e il libro. Un repertorio, per una bibliografia, pubblicato in occasione del cinquecentenario dello scrittore. 9 Essi però sembrano bruscamente interrompersi nel 545, quando Marcolini, per motivi non chiari, si trasferisce a Cipro, in qualità di “cavaliere del podestato” e farà ritorno a Venezia solo nel 549. 0 Dall’anno successivo egli riprende, dapprima lentamente, poi con un buon ritmo pur se inferiore al periodo precedente, l’attività tipografica. Ma in questo periodo di opere collegabili all’ancor celebre scrittore vi sono soltanto le edizioni del primo e del secondo libro delle Lettere scritte a Pietro Aretino, edite tra il 55 ed il 552, mentre questa seconda fase della produzione di Marcolini è centrata, 6. Cfr. la rassegna bibliografica, suddivisa per anni, in Luigi Servolini, Edizioni diFrancesco Marcolini nella biblioteca di Forlì, « Bollettino dell’Istituto di patologia del libro », 950, n. -4, pp. 86-33. Un elenco dei privilegi concessi a Marcolini è fornito in Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, cit., p. 99, nota 5. 7. L’edizione figura nel catalogo posto da A. Quondam alla fine del suo già citato saggio, Nel giardino del Marcolini ; con ogni probabilità egli la riprende da Scipione Casali, Annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini da Forlì, cit., n. 5, pp. 8-9, il quale a sua volta l’aveva tratta da altri repertori bibliografici, il principale dei quali è panzer, x 826. Non ho però trovato riscontri dell’esistenza di es. superstiti. L’edizione, datata Venezia, marzo 535, sarebbe comunque da attribuire alla coppia “Nicolò di Nicolini da Sabio e Francesco Mariolini”, che – nota Casali – sta sicuramente per Marcolini. 8. V. nota  9. Cfr. op. cit. in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita. Atti del Convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 sttembre-1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre 1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), Roma, Salerno Editrice, 995, I, pp. 97-230. 0. Tra i profili biografici, oltre a quello tracciato da Scipione Casali nella Prefazione agli Annali, si segnalano : Raffaele De Minicis, Memorie biografiche intorno a Francesco Marcolini da Forlì tipografo incisore in legno architetto ecc., Fermo, tipografia Ciferri, 850 ; Raffaele Vitiello, Francesco Marcolini da Forlì xilografo-tipografo, « La Sorgente » , a. iv, -4 (gennaio-aprile) 950, pp. 57-65 ; Antonio Mambelli, Francesco Marcolini e Pietro Aretino, « Forum Livii », giugno-luglio 930, pp. 23-30. Si è già osservato come la mancanza di fonti archivistiche privi però tutti questi contributi di un indispensabile supporto, inducendo gli autori a ricostruzioni più o meno fantasiose.

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soprattutto negli anni tra il 55 ed il 555, attorno alla figura di un altro importante scrittore contemporaneo, il fiorentino Anton Francesco Doni, per poi, allontanatosi questi da Venezia, spaziare tra vari autori e argomenti e da ultimo svolgersi in collaborazione con altri tipografi. Il legame con i due importanti scrittori è sufficiente a spiegare come mai anche in anni recenti siano soprattutto gli storici della letteratura a dedicare attenzione al tipografo Marcolini, mentre assai più carente è la ricerca degli specialisti di storia della stampa.  È stato Amedeo Quondam il primo a richiamare l’attenzione, fin dal titolo del suo saggio Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, sul ruolo non secondario del Marcolini rispetto alla produzione dei due autori summenzionati ed a fornirci un catalogo aggiornato delle sue stampe. Analogamente altri importanti contributi, ricchi di notazioni di carattere bibliografico e bibliologico, alla conoscenza della sua produzione ci sono venuti e provengono tuttora, grazie agli studi sull’Aretino e il Doni e alle edizioni critiche delle loro opere, da numerosi altri storici della letteratura italiana. Anche nel periodo della più stretta collaborazione con due personalità esuberanti come Aretino e Doni, quest’ultimo tutt’altro che digiuno di esperienze tipografiche avendole tentate in proprio a Firenze negli anni immediatamente precedenti, 2 Marcolini riesce comunque a dare una sua impronta personale all’impresa contraddistinta dall’insegna della Verità. 3 Le sue stampe, quasi tutte in corsivo, anzi in corsivi di più dimensioni anche all’interno della stessa opera e con il ricorso, soprattutto nella seconda fase, a caratteristiche grazie, 4 si distinguono infatti per l’eleganza e per la ricchezza degli apparati decorativi, a partire dalle illustrazioni per arrivare ai capilettera, quasi sempre istoriati e di più serie ed assai varie e interessanti sono le soluzioni trovate per gli indici e gli errata corrige. Se ci si aggiungono i bellissimi frontespizi, spesso anche interni, a volte figurati, a volte solo architettonici o in combinazione, e l’abbondante uso del ritratto, siamo praticamente di fronte ad una enciclopedia di alta qualità del paratesto, ovvero di quella parte dell’opera a stampa più direttamente riconducibile alle funzioni dell’imprenditore-editore. 5 La ricchezza degli apparati decorativi e, in particolare delle illustrazioni xilografi. Per gli storici della letteratura si rinvia alle rispettive pagine e note di questo saggio. Tra gli studi di specialisti di storia della stampa, il contributo più aggiornato è la voce redatta da Marco Menato in M. Menato, F. Ascarelli, La tipografia del Cinquecento in Italia, Firenze, Olschki, 989, pp. 369-370, a cui si rinvia per la bibliografia relativa a precedenti contributi. Tra quelli di Luigi Servolini va inserita la prefazione alla ristampa degli Annali del Casali, cit. 2. Per il Doni tipografo cfr. le voci curate da Giovanna Romei in dbi, xli (992), pp. 59-66, Alessandro Scarsella in Dizionario dei tipografi ed editori italiani. Il Cinquecento, diretto da Marco Menato, Ennio Sandal, Giuseppina Zappella, Milano, Bibliografica, 997, i (a-f), pp. 387-388, e la bibliografia, con annali, di Cecilia Ricottini Marsili-Libelli, Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, Olschki, 960. 3. Per la marca tipografica, che doveva fungere anche da insegna dell’officina, v. Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento, Milano, Editrice Bibliografica, 986, i, p. 383, ii, figg. 90-94 4. Cfr. Luigi Balsamo, A. Pinto, Origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento, Milano, Il Polifilo, 957, pp. 50-55. 5. Importanti osservazioni al riguardo sono presenti nel saggio di Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini, cit., nel paragrafo La cultura di un editore, p. 06 sgg., che fin dal titolo richiama l’attenzione sull’apporto specifico del Marcolini alle opere da lui pubblicate.

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che, ha fatto pensare ad un Marcolini disegnatore o incisore. 6 Di certo egli era pienamente inserito, grazie alle amicizie con l’Aretino e il Doni, o per virtù propria, nella cerchia degli artisti, anzi dei più importanti artisti operanti a Venezia in quegli anni, 7 in un momento di trapasso dal Rinascimento al Manierismo (ci serviamo di un titolo usato da Larivaillle per l’Aretino). 8 Le 00 xilografie originali (almeno per quanto oggi ne sappiamo), verosimilmente di più disegnatori, che appaiono già quasi tutte nella prima edizione del 540 di Le Sorti, o Giardino dei pensieri, unica opera di cui M. figura autore, costituiscono un corpus, che rappresenta di per sé una piccola enciclopedia della cultura figurativa ed emblematica del periodo e che finisce col soppiantare o attrarre più dello stesso testo. È inoltre noto che gran parte dei legni di quelle immagini, dopo la riedizione del 550, verranno riutilizzati ampiamente nel periodo doniano e finiranno per produrre modifiche nella stessa scrittura. 9 Molto interessanti sono inoltre, anche sotto l’aspetto figurativo, le edizioni di opere di architettura, a cominciare dalla prima edizione nel 537 delle Regole generali di architettura di Sebastiano Serlio per finire a I dieci libri dell’architettura di Vitruvio del 556, testimonianza non solo di una passione, ma anche di vere e proprie competenze di Marcolini, che culmineranno nella probabile costruzione di un ponte, oggi scomparso, a Murano. 20 Anche una sommaria ricognizione delle edizioni superstiti, di cui fortunatamente la Biblioteca Comunale “A. Saffi ” di Forlì può vantare, grazie al cumulo delle raccolte del Fondo Piancastelli e di quella a suo tempo realizzata da Scipione Casali, la più vasta collezione esistente al mondo, 2 permette di attribuire a Francesco Marcolini un 6. Sostengono esplicitamente l’una o l’altra o entrambe le tesi, come si evidenzia fin dal titolo dei loro già citati saggi, Raffaele de Minicis e Raffaele Vitiello. Entrambi prendono spunto da un passo delle Vite del Vasari. Dello stesso avviso sono Antonio Mambelli e, in parte Luigi Servolini, che nella Prefazione alla ristampa del 953 degli Annali di S. Casali., op. cit., esamina in modo più analitico la questione. Tra gli studi recenti più approfonditi sul tema dell’uso delle immagini nelle stampe marcoliniane si segnalano : A. Gentili, Il problema delle immagini nell’attività di Francesco Marcolini, « Giornale storico della letteratura italiana », xcvii, 980, pp. 6-25 ; Giorgio Masi, “Quelle discordanze sì perfette”. Anton Francesco Doni 1551-1553, « Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Lettere e Arti La Colombaria », liii, n. s., xxxix (988), pp. 90- ; Id., Le magnifiche sorti delle immagini (inedito in corso di pubblicazione ; si coglie l’occasione per ringraziare vivamente l’autore della possibilità di visione anticipata) ; Elena Pierazzo, Iconografia della “Zucca” del Doni : emblematica, ekfrasis e variantistica”, « Italianistica », xxvii (998), iii, pp. 403-425. Si omettono i numerosi studi di storici dell’arte presi in considerazione dagli autori citati. Una puntuale e esauriente rassegna bibliografica circa le xilografie che compaiono nelle opere del Doni riprese da precedenti edizioni marcoliniane – valida quindi anche in generale – è data da Patrizia Pellizzari nella Nota bibliografica all’edizione di Anton Francesco Doni, Le novelle. 1 : La moral filosofia. Trattati, Roma, Salerno editrice, 2002, pp. lxxvi-lxviii. 7. La fonte più preziosa al riguardo sono le lettere inserite negli epistolari dell’Aretino, sia mittente che destinatario, e del Doni. Quelle dell’Aretino sono raccolte in Pietro Aretino, Lettere sull’arte, a cura di Ettore Camesasca, Milano, Edizioni del Milione, 957-960, vv. 3. 8. Paul Larivaille, Pietro Aretino fra Rinascimento e Manierismo, Roma, Bulzoni, 980. 9. Si rinvia in particolare ai saggi di A. Gentili, G. Masi e E. Pierazzo, già citati alla nota 6, da integrare con la Nota al testo di Patrizia Pellizzari in Anton Francesco Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, Torino Einaudi, 994, pp. liv-lvii e la sua Introduzione in Anton Francesco Doni, Le novelle. 1 : La moral filosofia. Trattati, cit., pp. ix-lxii. 20. L’episodio è ricordato da contemporanei quali il Brusantino, nell’Angelica innamorata, edita dallo stesso Marcolini, e l’Aretino in una lettera a Jacopo Sansovino ; cfr. A. Quondam, Nel giardino del Marcolini, cit. p. 86. 2. Cfr. Luigi Servolini, Edizioni diFrancesco Marcolini nella biblioteca di Forlì, cit., p. 3 ; l’utilissima ras-

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ruolo di grande rilievo nella produzione a stampa di una città come Venezia e cioè nella storia della stampa del ’500. Rimane però da chiarire un aspetto fondamentale, sia ai fini di una storia della cultura che di quella della stampa, e cioè chi decideva che cosa stampare e come venivano finanziate le pubblicazioni. A chi si occupa di storia della stampa del Quattro e Cinquecento (e non solo) è noto come questo rappresenti un aspetto fondamentale per distinguere tra i semplici, seppur valenti artigiani, che garantivano la realizzazione tecnica dei manufatti, e chi poteva invece già all’epoca definirsi un vero e proprio editore. In carenza anche per quest’aspetto di documenti, l’esame di alcuni elementi paratestuali e, in particolare delle dediche o degli inviti « Ai lettori », che quasi sempre accompagnano le edizioni marcoliniane, integrata dai già ricordati epistolari, può aiutarci, se non a chiarire definitivamente la questione, almeno a formulare alcune ipotesi. È noto, tanto nel caso dell’Aretino che del Doni, come entrambi questi personaggi di intellettuali, esclusi dal giro delle corti e del potere ecclesiastico, dovessero sostanzialmente ricavare il proprio sostentamento (ma nel caso dell’Aretino, visto l’alto tenore di vita, ben di più) dalla propria capacità di scrivere. Nel caso del Doni il problema si poneva in modo molto più pressante e drammatico, tant’è che all’interno di tutte le sue più importanti opere edite dal Marcolini, dalla Seconda libraria ai Mondi e gli Inferni, alla Zucca nelle sue varie parti, ai Marmi, il tema è pressochè ricorrente. Alle spalle c’era sicuramente la precedente esperienza dell’Aretino. Al riguardo una delle illustrazioni che ricorrono all’inizio di ognuna delle tre partizioni interne della Zucca, suddivisa in Cicalamenti, Baie e Chiachere, ciascuna con un proprio frontespizio e una dedica a personaggi diversi – diciamo di medio calibro ma da cui era possibile attendersi elargizioni – è particolarmente evidente. La figura è quella del Beneficio, già apparsa nel libro delle Sorti del 540 e raffigura un uomo inginocchiato che porge un libro ad un potente seduto in trono e riceve una catena. 22 Se si pensa ai tanti ritratti dell’Aretino con la catena d’oro al collo, donatagli dal re di Francia, apparsi in libri del Marcolini e, soprattutto, quale frontespizio della prima edizione delle sue Lettere, 23 il riferimento, anche se forse in chiave parodica, è evidente ; resta però il fatto che, pur consapevole della difficoltà di ottenerli, neppure il Doni rinunciava alle dediche a stampa come strumento di retribuzione. Gli esempi si possono moltiplicare. Già nella Seconda libraria, edita nel 55, forse in collaborazione con Gualtiero Scoto, la cui marca compare sul frontespizio, nella dedica a Ferrante Carafa segna, particolarmente attenta agli aspetti figurativi, presenta tuttavia alcune inesattezze ed omissioni. Per distinguere gli esemplari appartenenti all’una o all’altra raccolta utilizzeremo in seguito l’iniziale M per quelli della raccolta Casali e P per quelli del Fondo Piancastelli seguiti dai rispettivi numeri di collocazione. 22. Oltre che nell’edizione originale, Venezia, Marcolini, 55, le xilografie sono visibili nell’edizione critica della Zucca curata da Elena Pierazzo : cfr. Anton Francesco Doni, Le novelle. 2 : La zucca, Roma Salerno editrice, 2003, i, p. 6, 99, 64. Nell’edizione delle Sorti del 540 la xilografia figura a p. 5. Devo il prezioso suggerimento a Giorgio Masi, Le magnifiche sorti delle immagini, cit. 23. Pietro Aretino, De le lettere libro primo, Venezia, Marcolini, 538, [c. Ar]. Sui ritratti dell’Aretino da parte di Tiziano ed altri, cfr. Joanna Woods Marsden, “In Persia e nella India il mio ritratto si pregia” : Pietro aretino e la costruzione visuale dell’intellettuale nel Rinascimento, in Pietro aretino nel cinquecentenario della nascita, cit., pp. 099-26 .

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le stampe venivano considerate sostitutive delle epistole manoscritte nella funzione remunerativa dell’autore 24 e, ugualmente, nel beffardo A coloro che non leggono il tema delle dediche non retribuite era posto apertamente. 25 Ma l’esempio più significativo è forse quello che ritroviamo nelle Foglie, edite nel 552. Ivi, nell’esemplare della raccolta Casali della Biblioteca di Forlì (M 53), subito dopo la carta del frontespizio ne Il luogo dell’epistola dedicatoria troviamo un grande spazio bianco, a cui segue la spiegazione del perché l’autore lo ha lasciato tale e si legge : Quando io ho dedicato opere da me composte o altri libri, sempre l’ho fatto per onorare i miei signori benefattori e coloro che meritano. Quando ho conosciuto che essi l’hanno per male, subito ho tolto via l’epistola e ho dato fuori il volume senza dedicarlo ad alcun altro, com’ora faccio, acciocchè il mondo conosca ch’io lo fo per mio debito e non per mio utile. 26

Al riguardo però Elena Pierazzo, nella sua Nota al testo in fondo all’edizione critica della Zucca da lei curata, segnala che alla British Library si conserva un esemplare nei cui preliminari figura invece proprio quella dedica a Torquato Bembo, successivamente eliminata. 27 Doni ha dunque detto la verità, anche se rimane da capire perché sia rimasto in vita almeno un esemplare con la dedica ripudiata. Analogamente la stessa Pierazzo informa che dei Fiori vi sono esemplari ove, a differenza degli altri, sul retro del frontespizio di ognuna delle tre parti, Grilli ecc. si trovano delle epigrafi dedicatorie. 28 Colgo l’occasione per segnalare che uno di essi è a Forlì (M 53), ma che l’epigrafe si trova soltanto nella prima parte. 29 Se prendiamo per vere le parole del Doni dovremmo concludere che egli stampava a sue spese, il che potrebbe far ipotizzare una sorta di committenza del Doni nei confronti di M. o di una società tra i due. Nessuna delle due ipotesi, e tantomeno la prima, appaiono fondate. Non bisogna infatti dimenticare che buona parte delle opere del Doni vengono pubblicate sotto il nome dell’Accademia dei Pellegrini. Concordo con Masi (Coreografie doniane) nel ritenere l’Accademia sostanzialmente un’invenzione, esibita nei frontespizi e all’interno dei testi, ma priva di una sua vita istituzionale ; 30 dell’invenzione doveva tuttavia essere necessariamente partecipe Marcolini ed è probabile che, seppur inventata, l’Accademia facesse in qualche misura riferimento ad una abbastanza precisa cerchia culturale, sicuramente vicina a Marcolini e in cui Doni svolgeva le funzioni di intellettuale, in qualche misura retribuito. Un accenno in tal senso è presente nella lettera del Presidente dell’Accademia al Doni, datata Venezia 27 luglio 552, contenuta nella Moral Filosofia all’inizio del secondo libro. Ancora 24. V. pp. 3-5. 25. V. pp. 6-. 26. V. c. A2r. La lacuna era già stata segnalata in Elena Pierazzo, Le edizioni marcoliniane della “Zucca”del Doni, « Italianistica », xxviii (999), I, p. 63. 27. Cfr. Anton Francesco Doni, Le novelle. 2 : La zucca, a cura di Elena Pierazzo, Roma, Salerno editrice, 2003, ii, p. 84. 28. Cfr. Ivi, p. 839. La curatrice riprende quanto già aveva in precedenza osservato in Elena Pierazzo, Le edizioni marcoliniane della “Zucca”del Doni, cit., p. 58. 29. V. c. [Av]. 30. Cfr. Giorgio Masi, Coreografie doniane : l’Accademia Pellegrina, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nell’Italia del classicismo, a cura di P. Procaccioli e A. Romano, Manziana, Vecchiarelli, 999. Un utile riepilogo delle precedenti opinioni sull’esistenza o meno dell’Accademia è stato tracciato da Patrizia Pellizzari nella sua Nota al testo in Pietro Aretino, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, p. 79 nota 64.

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centrata sul tema del Doni povero, non sufficientemente ricompensato dagli Strozzi e dagli altri ricchi, essa però si conclude con l’accenno all’invio di una sia pur modica quantità di denaro da parte dell’Accademia al Doni per spese di cancelleria e bisogni personali. 3 Siamo molto lontani dal vero se pensiamo ad un Doni retribuito in quel periodo da Marcolini e dalla cerchia dei suoi amici altolocati per svolgere le funzioni di intellettuale al servizio della tipografia di Marcolini ? L’ipotesi è plausibile e corrisponderebbe ai ritmi di lavoro per l’attività editoriale dell’impresa marcoliniana più volte descritti, persino nelle misure, dallo stesso Doni. 32 L’illustre precedente, con cui il Doni si confronta, anche in forme ironiche, ma la rottura vera e propria avverrà soltanto nel 555-56, è – come si è visto – il divino Pietro Aretino. Nel suo già cit. saggio Quondam rileva come tra i due periodi dell’attività del Marcolini, prima e dopo il ritorno da Cipro, si registri comunque una cesura, o quantomeno un’incrinatura, dei rapporti di Marcolini con Aretino, di cui la principale testimonianza è il fatto che dopo il suo rientro a Venezia M. pubblicherà soltanto i due volumi delle raccolte di lettere a P. A. e nessun’altra sua opera. 33 Su questo molto si è scritto, anche rievocando episodi che risalirebbero al 538 e con riguardo ad una presunta relazione dell’Aretino con la moglie di Marcolini, Isabella34. Probabilmente la spiegazione più logica è che nel periodo dell’assenza di Marcolini da Venezia, Aretino, la cui creatività era comunque in declino, si sia rivolto ad altri, forse più prestigiosi editori, quali gli eredi di Manuzio e il Giolito. 35 È indubbio però che gli inizi della carriera tipografica del Marcolini ed i successivi sviluppi, almeno fino al 545, siano strettamente legati alla figura dell’Aretino. È quindi lecito porsi, circa il loro rapporto, analoghe domande. Che vantaggio traeva il secondo dalla pubblicazione delle sue opere da parte del primo ? Si è già rilevato che il sistema delle dediche retribuite, come forma di compensazione degli allora ancora inesistenti diritti d’autore, funzionava anche nel caso di Aretino ed anzi, nel suo caso, funzionava bene. Aretino aveva colto le potenzialità della stam3. Cfr. Anton Francesco Doni, Le novelle. 1 : La moral filosofia. Trattati, cit., pp. 03-07. 32. Significative al riguardo la lettera di Pietro Maria Buoni ad Anton Francesco Doni del 3//552 e di Francesco Marcolini allo stesso Buoni del 3//553 ; entrambe nell’edizione degli Inferni del 553 ; cfr. Anton Francesco Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, cit., pp. 252-255. La stessa organizzazione delle opere del Doni, particolarmente evidente ad es. nella suddivisione interna della Zucca, induce in questa direzione : cfr. Elena Pierazzo, Introduzione in Anton Francesco Doni, Le novelle. 2 : La zucca, i, pp. xiii-xvi. 33. Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, cit., p. 99 sgg. 34. All’origine della tesi, le affermazioni di alcuni contemporanei, quali Giovanni Alberto Albicante, lo pseudo-Berni e lo stesso Doni. Cfr. Angelo Romano, I biografi dell’Aretino : dallo pseudo-Berni al Mazzucchelli, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, cit., i, pp. 065-066 ; Id., 99 Una nuova contenzione de l’Albicante contra l’Aretino, in Periegesi aretiniane, Roma, Salerno editrice, 99, pp. 56-68 ; Anton Francesco Doni, Contra Aretinum (Teremoto, Vita, Oratione funerale. Con un’appendice di lettere), a cura di Paolo Procaccidi, Manziana, Vecchiarelli, 998. Su una rottura, alquanto anticipata, dei rapporti con l’Aretino è centrato il lavoro di Marion K. Epstein, Francesco Marcolini, Antonfrancesco Doni and Pietro Aretino, New York, s. n., 969, che indaga sul significato della xilografia del Difetto, apparsa per la prima volta nelle Sorti di Francesco Marcolini del 540. 35. Cfr. la Introduzione di Paolo Procaccioli in Lettere scritte a Pietro Aretino. Libro I, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Editrice 2003, t. , pp.9-28, in cui egli, con un’aperta autocritica rispetto a sue precedenti convinzioni, esclude che all’epoca di quella pubblicazione i rapporti di Marcolini con l’Aretino si fossero deteriorati e rinvia la rottura tra il Doni e l’Aretino a non prima del 555.

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pa, sia come arma di diffamazione e potenziale ricatto che di costruzione dell’immagine di sé, ed era riuscito a trasformarla in un potente strumento a suo vantaggio. Le testimonianze sono molteplici e trovano la loro consacrazione nell’edizione del 538 da parte di Marcolini del primo libro delle Lettere, con Aretino, riccamente vestito e con la catena al collo, che campeggia nel frontespizio dell’in-folio incorniciato dalla stessa architettura classica delle Regole generali del Serlio. 36 Due anni dopo peraltro anche Marcolini si raffigurerà in analoga cornice prima dell’inizio del libro delle Sorti. In una missiva del 22 giugno 537, pubblicata anche nell’u. c. prima della sottoscrizione dell’edizione delle sue Lettere del 538, Aretino dice di far dono a Marcolini di quelle che verranno pubblicate. La missiva è particolarmente importante, perché tratta in generale dei rapporti dell’autore, con lo stampatore. Vi si legge : Con la medesima volontà che io compar mio vi donai l’altre opere, vi dono queste poche lettre , le quali sono state raccolte da l’amore che i miei giovani portano alle cose ch’io faccio. Or sia il mio guadagno il testimoniar che io ve l’ho donate, perché stimo più gloria il farne presenti ad altri che d’averle composte a caso, come si sa ; e il fare imprimere a suo costo e, a sua stanzia vendere i libri che l’uom si trae dalla fantasia, mi par proprio un mangiare i brani de le istesse membra… . Io voglio, con il favore di Dio, che la cortesia dei principi mi paghi le fatiche dello scrivere, e non la miseria di chi le compra, sostenendo prima il disagio che ingiuriar la vertù facendo mecaniche l’arti liberali….Sì che stampatele con diligenza e in fogli gentili, che altro premio non ne voglio. Così di mano in mano sarete erede di ciò che m’uscirà de l’ingegno. 37

Arte meccanica per eccellenza era la stampa e A. sembra qui prendere le distanze dal suo editore : a lui andranno tutti i guadagni delle vendite, all’autore, che non vuol essere mercante e libraio, l’onore del dono. Nello stesso tempo però la lettera, che delinea i rapporti presenti e futuri tra i due, contiene alcune altre importanti affermazioni : la prima è che Aretino, a differenza di tanti altri, non stampa a sue spese, la seconda è che il guadagno, che si ripromette, aspira ad ottenerlo dai principi. Ovviamente viene qui ad essere trascurato un problema cruciale, ovvero quello dei costi di un’edizione, ma, prendendo per buona la testimonianza, potremmo dedurne che essi gravassero tutti sull’editore. Così Aretino raggiunge un duplice scopo : pubblica le sue opere, che gli servono per accattivarsi il favore dei ricchi e potenti, anzi dei più potenti, i principi, e non si accolla nessun onere. Anche nelle edizioni di opere dell’Aretino vediamo comunque in azione il sistema delle dediche ed è interessante notare come di alcune di esse siano rimasti esemplari che differiscono proprio nella presenza o meno della dedica. È questo ad es. il caso della edizione del 534 della Passione di Giesu (Edit 6 2330), la prima della copia Aretino-Marcolini, che nell’esemplare della raccolta Piancastelli (P 4) vede alla c. ar la dedica di Agostino Ricchi, un “creato” dell’Aretino al vescovo Pallavicino, con sul verso un ritratto dell’autore, mentre la carta è mancante nell’esemplare P. 57 della medesima raccolta pur se sembra trattarsi di una perdita successiva. 38 36. Cfr. Fabio Massimo Bertolo, Aretino e la stampa. Strategie di autopromozione a Venezia nel Cinquecento, Roma, Salerno editrice, 2003, pp. 50-54. 37. Pietro Aretino, Lettere. Libro primo, a cura di Francesco Erspamer, Parma, Fondazione P. Bembo, Ugo Guanda, 995, pp. 38-39. 38. Nell’ esemplare P 57, corrispondente a quello indicato con a in Edit 6, la c. del frontespizio, identica in entrambi i versi a quella dell’esemplare P 4 (b in Edit 6) è inserita, pur mancando – come di consueto – la segnatura, nella numerazione della fascicolazione, mentre ne è esclusa nell’esemplare b.

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L’esemplare P 85 della Vita di Catherina vergine del 54, non segnalato tra quelli esistenti a Forlì da Edit 6 e neppure dal Servolini, 39 differisce invece da quello P 9 (Edit 6 2405) per la mancanza del duerno finale, ove vi era una lettera di invio a Francesco Priscianese con preghiera di far vedere il libro al cardinale Ridolphi. Viene quindi da pensare che di fatto nel corso della stampa un certo numero di esemplari venissero tirati con delle varianti legate alla dedica a qualche personaggio, dietro corresponsione di denaro che poteva servire a pagare parte delle spese di stampa. Va in questa direzione l’interpretazione di una lettera del 26 agosto 537 dell’Aretino a Bernardo Valdaura, dedicatario del Dialogo della Nanna edito nel 536. Vi si legge che : E credetelo pure che vi intitolai il Dialogo non per i quaranta scudi dei quali mi accomodaste, ma per cagione del vostro generoso valore…Né averei indugiato a rendervigli, se i libri del Marcolino, che montano molto più non vi fussero rimasi in mano. 40 Un tale sistema, paragonabile ad una parziale committenza, poteva rientrare negli interessi sia dell’autore che dell’editore e, di fatto, anche in libri di altri autori si possono rintracciare esempi di dedica forse con funzione analoga. 4 Assai più sensibile agli aspetti della copertura delle spese doveva essere l’editore forlivese. Nel Teremoto del 556 Doni accuserà l’Aretino di aver rovinato con le sue opere invendute e in particolare con le Lettere Marcolini. L’accusa, interessata e a posteriori, appare infondata se riferita agli anni ‘30-’40, in cui il successo di pubblico dell’Aretino è testimoniato dalle numerose ristampe o riedizioni dello stesso Marcolini e dalle frequenti appropriazioni delle stesse opere da parte di altri tipografi-editori ; diventa invece fondata se – come sembra – si riferisce ai libri delle Lettere a Pietro Aretino stampati nel 55-52. 42 È noto che la storia di questi due volumi appare, sotto il profilo bibliologico, piuttosto tormentata, come attestano anche i recenti studi sia delle curatrici Gonaria Floris e Luisa Mulas dell’edizione anastatica, Bulzoni 997, che di Fabio Massimo Bertolo nell’edizione critica a cura di Paolo Procaccioli, Salerno 2003-2004. 43 39. Cfr. Luigi Servolini, Edizioni diFrancesco Marcolini nella biblioteca di Forlì, cit., p. 24 n° 40. 40. Pietro Aretino, Lettere. Libro primo, a cura di Francesco Erspamer, pp. 636-640 ; si vedano anche le considerazioni dell’autore in Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, cit., pp. 92-94. 4. Si può citare come es. l’edizione delle Battaglie spirituali di Domenico Cavalca del maggio 537 (Edit 6 2368). Dei due esemplari esistenti a Forlì nella collezione Casali della Biblioteca “Saffi ” uno, a sé stante (M 43), è dedicato al conte Guido Rangone, l’altro (M 38, unito con la Disciplina degli spirituali) a Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino. In questo caso la differenza spicca fin dal titolo, ma l’analisi bibliologica rivela che vi è stata la ricomposizione di un fascicolo. Analoghe considerazioni valgono per i due esemplari (M 4 e M 38) della Disciplina degli spirituali del medesimo autore, specularmente dedicati a Argentina Rangone e Eleonora Gonzaga duchessa d’Urbino. Già il Casali si interrogava sul perché di queste doppie dediche, essendo ancora in vita i destinatari : cfr. Scipione Casali, Annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini da Forlì, cit. , nn. 2 e 22, pp. 39-44. 42. Cfr. Gonaria Floris, ‘Le lettere scritte a P Aretino’ : nascita e strategia della raccolta, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, cit., i, pp. 078-079 e la Introduzione di Paolo Procaccioli in Lettere scritte a Pietro Aretino. Libro I, a cura di Paolo Procaccioli, cit, pp. 24-28. Entrambi gli autori riportano brani del Teremoto. 43. Cfr.nel primo vol. di Lettere a Pietro Aretino., a cura di Gonaria Floris e Luisa Mulas, Roma, Bulzoni 997, 3 vv., (Lettere I e II e Indici), i rispettivi saggi : L. M., Aretino “politico”, “mondano” e “spirituale” nel coro dei suoi corrispondenti, pp. 9-40 e G. F. ‘Le lettere scritte a Pietro Aretino’ : nascita e strategia della raccolta, che riproduce quello già apparso in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, cit., i, pp. 073-098, e le annotazioni di F. M. B in Lettere a Pietro Aretino, a cura di Paolo Procacciali, cit., i, pp. 379-384, ii, pp. 393-397.

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Non sono infatti del tutto chiari i motivi e l’epoca del cambio della dedica del 2° libro, inizialmente indirizzata a Giambattista del Monte e successivamente a Lodovico Beccadelli. È certo però – come già rilevava Casali 44 – che l’emissione dedicata a L. B. è stata realizzata con il riciclaggio di esemplari del volume edito in precedenza ed anzi la confusione esistente in quelli superstiti, con numerose incoerenze interne tra date dei frontespizi, delle dediche e delle sottoscrizioni, fa pensare a operazioni mal riuscite di reimmissione sul mercato, così come il tentativo di correggere manualmente un I trasformandolo in un II, che si riscontra nell’esemplare del primo volume dedicato al Cardinal del Monte (M 32 della raccolta Casali), ed in altri tra cui quello della Biblioteca Classense di Ravenna, non si spiegano se non con il tentativo di postdatare copie invendute del primo volume, probabilmente per abbinarlo al secondo, che nel frattempo aveva mutato dedicatario e data. Questa edizione delle Lettere a Pietro Aretino presenta nel paratesto altri interessanti elementi di discussione. Stando alla dedica del  libro, di cui è autore Francesco Marcolini, le lettere sarebbero state sottratte all’Aretino da Marcolini e quindi pubblicate a sua insaputa, 45 e, a dar retta al Doni del Teremoto, ciò sarebbe avvenuto almeno in parte ancora nel 538. 46 Di Francesco e di Henrigo, l’uno di Inghilterra e l’altro di Francia sire…non ho possuto non che altro ritrarne la copia , conciosia che né a chi lor memoria tien per reliquia, non è piaciuto servirmene ; e per che anco a lui…non è parso che me ne servino. Che più ? Il privilegio datogli da Carlo Quinto, e il breve scrittogli da Clemente Settimo, e una di pochi dì fa scrittagli da lo Imperadore, perché non si stampino m’ha tolto….Ora per tornare a me, più cupido de l’onor suo che egli proprio, dico ch’io ho messo insieme e ne le publiche mie stampe, quella somma di frutti, rubati, nel suo studio nativo, dal divoto amor che gli porto.…

Ciò ha spinto alcuni studiosi a ipotizzare una rottura dei rapporti tra Marcolini e Aretino. 47 Ma a parte l’interpretazione letterale del testo, da cui comunque si può arguire un ruolo attivo dell’Aretino nella selezione delle lettere, 48 va a mio avviso considerato che qui ci troviamo di fronte ad un topos, di cui non mancano nella stessa produzione di Marcolini altri esempi. Già lo si trova infatti nella prefazione dello stesso Marcolini Agli lettori. nell’edizione e Rime di Antonio Mezzabarba del 536 49 e, più tardi quasi alla fine della sua carriera di stampatore, in quella Dell’origine de’ barbari, di Nicolò Zeno, stampata da Plinio Pietrasanta, ma per conto di Marcolini, nel 557. Nella dedica a Daniele Barbaro, Marcolini afferma infatti di aver stampato l’opera contro la volontà dell’autore, 50 salvo che l’opera, parte di una più ampia Storia universale, era già stata annunciata in un libro precedente, stampato anch’esso dal Pietrasanta, ma probabilmente per conto di Marcolini, 5 e con il titolo di Dell’origine di Venezia verrà riedita 44. Cfr. Scipione Casali, Annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini da Forlì, cit., n. 84, pp. 202-208 45. Cfr. Lettere scritte a Pietro Aretino, Venezia, Marcolini, 55, c. A2r-v,’ 46. V. nota 42. 47. Cfr. Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, cit., pp. 00-03. L’autore cita e commenta il brano sopra riportato. Si è già detto del mutato atteggiamento di Paolo Procaccioli., v. nota 42. 48. Sul ruolo attivo dell’Aretino concordano nelle opere già ricordate Luisa Mulas, Gonaria Floris e Fabio Massimo Bertolo. 49. V. c.[A2r]. 50. V. cc. A2r-. A3r. 5. Cfr. Pietro Marcello, Vite de prencipi, Venezia, Plinio Pietrasanta, 557, cc. 3v-4v.

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l’anno successivo, sempre con dedica al Barbaro di F. M., autore in questo caso anche delle correzioni sugli originali. 52 Le numerose dediche di Francesco Mamolini, nella maggior parte dei casi a importanti personaggi dell’aristocrazia veneziana, o nel caso delle delle Sorti a Ercole d’Este, 53 confermano il ruolo editoriale da lui svolto e se, come in essa afferma, anch’egli fu creatura dell’Aretino, 54 tuttavia il suo ruolo non fu secondario, egli seppe andare oltre la stessa stagione dello scrittore di Arezzo ed il suo ritratto, leggermente invecchiato, apparso sul verso del frontespizio nella seconda edizione delle Sorti, non sfigura, accanto a quello del divino Pietro, del Doni e di altri protagonisti delle stampe marcoliniane, nella galleria di ritratti d’autore che arricchisce l’edizione dei Mondi del 552. 55 Abstract F. M., originario di Forlì, ma attivo a Venezia tra il 534 ed il 559, occupa nella storia della stampa un posto di notevole rilievo, sia per la qualità dei testi proposti che per le caratteristiche tipografiche ed editoriali delle opere pubblicate. Noto soprattutto agli storici della letteratura come editore “militante” di testi contemporanei in lingua volgare e, in particolare, delle principali opere di Aretino e Doni, la sua produzione riveste tuttavia un notevole interesse anche per la ricchezza e la complessità della veste tipografica e degli apparati, ovvero per tutto ciò che appartiene al paratesto. La presente ricerca indaga soprattutto sugli aspetti più strettamente legati al rapporto tra autori ed editore-tipografo. Nell’attuale mancanza di documenti d’archivio, sono infatti gli esemplari superstiti gli unici che, messi a confronto con le poche altre fonti biografiche disponibili, possono aiutarci a ricostruire questo tipo di rapporti. In particolare si è rivolta l’attenzione all’esame delle dediche, degli appelli ai lettori, della presenza di ritratti e di marche o motti riferibili agli uni o agli altri degli attori della vicenda editoriale, oltre che, naturalmente, di frontespizi e sottoscrizioni. A complicare l’indagine sta il riscontro di numerose varianti di tali elementi anche nell’ambito della stessa pubblicazione. È infatti frequente riscontrare nelle edizioni di opere dell’Aretino, ma in minor misura anche del Doni e di altri, il cambio del destinatario della dedica ; il fenomeno si verifica anche all’interno della medesima edizione ed è complicato dalla pratica abbastanza usuale di riciclaggio di parti delle precedenti emissioni. Come e perché avveniva tutto ciò ? Qual’era la funzione delle dediche a stampa ? Chi decideva le varianti ? Chi era il vero editore ? A queste domande si è cercato di rispondere attraverso la presa in esame del maggior numero possibile di edizioni diverse della stessa opera o di esemplari con varianti della medesima edizione, con particolare riferimento alle opere di Anton Francesco Doni e Pietro Aretino. F. M., born in Forlì but active in Venice between 534 and 559, occupies an important place in the press history. He is well-known, expecially to literature historians, as a “militant” publisher of contemporary texts in vulgar language and, in particular, of the main works of Aretino and Doni, and his production shows, however, a remarkable interest also for the wealth and the complexity of the way a book is printed and of the apparatuses, beginning from the iconographic ones, that becomes predominant in some editions (as in the Giardino dei Pensieri by Marcolini himself or in the works of Serlio). It is equally interesting the use of characters, with clear predominance of the italic one, each time adapted to particular layout require52. Cfr. A2r- A3v. 53. Le edizioni con dediche del Marcolini sono elencate in Amedeo Quondam, Nel giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, cit., p. 08 nota 63. 54. V. Francesco Marcolini, Le Sorti, Venezia, Francesco Marcolini, 540, c. A2r. 55. Essi sono elencati con le rispettive attribuzioni in Giorgio Masi, “Quelle discordanze sì perfette”. Anton Francesco Doni 1551-1553, cit. p. 95.

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ments but also used in a decorative function, and the plenty presence of indexes, expecially in epistolary works. However this research wants to inquire above all the paratext elements that give evidence of the relationship between authors and publisher. In particular the attention lingered on the examination of dedications, appeals to the readers, the presence of portraits and marks or maxims referring to all the characters of the publishing event, and, of course, title-pages and subscriptions. Moreover checking many differences in such elements, also within the same publication, makes the research more complicated. So it is frequent to find in the editions of Aretino’s and other authors’ works changes of the one who the dedication is for. This situation also happens within the same edition and is complicated by the rather usual re-utilization of parts from previous editions. How and why does it happen ? Who chose the variants ? Who was the real publisher ? We tried to answer to these questions studying as much different editions as possible of the same work or copies with variants of the same edition.

Carla Di Carlo PARATESTO ED EDITORIA TEATRALE : IL PROGRAMMA DI SALA

C

hiedendo all’immaginazione dei lettori di operare uno slittamento metaforico, definiamo l’editoria teatrale come paratesto di un evento scenico, supporto e sostegno dell’oralità. L’espressione più articolata della moderna editoria teatrale è il cosiddetto programma di sala, che rientra a pieno titolo nella compiuta categoria di libro, pur non facendo parte di un genere letterario. Un programma di sala rappresenta, fondamentalmente, uno degli strumenti di decodifica di uno spettacolo, per tanto tempo unica traccia della messinscena dopo la rappresentazione, oltre alle recensioni e, nel caso del teatro musicale, alla partitura. Risulterebbe alquanto riduttivo racchiudere nella pura appartenenza all’editoria di servizio o di consumo quanto viene pubblicato da un teatro. Delineiamo le peculiarità di questa editoria di nicchia : si origina dal palcoscenico, obbedisce alle esigenze della direzione artistica dello spettacolo, accompagna solo una determinata produzione, ha come destinatario lo stesso pubblico che ha acquistato il biglietto, si avvale di convenzioni di lettura sedimentate che permettono ad una eterogeneità di elementi di ricomporsi in un unicum, grazie al paratesto che ne delimita e ne definisce ogni sezione, saldando e ricomponendo tra loro parti disomogenee. Analizzerò due esempi di editoria teatrale, uno dal mondo della lirica e un altro dal teatro di prosa. Qualsiasi programma di sala operistico contiene una quantità considerevole di informazioni, di genere diverso, di tempi di creazione differenti, ed è strutturato in vari comparti, più o meno arbitrariamente affiancati : testi poetici, musicali, critici, illustrazioni e fotografie, pubblicità. Che cosa elenca l’indice di un programma di sala ? Saggi di musicologi e di curatori o editori musicali, considerazioni di registi e direttori d’orchestra, interviste ai protagonisti, schema musicale, libretto, soggetto o argomento, scheda biografica del compositore, curricula degli artisti. Ma vi sono altre informazioni che non vengono riportate ad indice, pur essendo parte integrante del programma. Innanzitutto l’elenco dei protagonisti, cioè la locandina, poi l’apparato iconografico, antico (ritratti dei primi cantanti, bozzetti d’epoca, raffigurazioni del teatro dove lo spettacolo andò in scena, illustrazioni coeve del testo letterario) e moderno (studi scenografici, modellini, bozzetti dei costumi, fotografie delle prove). E ancora l’organigramma del teatro e delle maestranze a vario titolo impegnate in quella produzione, dal direttore degli allestimenti al direttore di scena, fino al settore elettrico, sartoria, gioielli ; e ancora organici di cori, orchestre, corpi di ballo e così via, spazi dedicati agli sponsor, pagine pubblicitarie. Possiamo trovare dediche della serata a un personaggio o ad un evento particolare.  . Solitamente si tratta di commemorazioni o di occasioni speciali. Il 7 dicembre 2004 riapre il Teatro alla Scala restaurato, e l’associazione Amici della Scala ha espressamente chiesto a tanti teatri, nazionali ed internazionali, di dedicare una manifestazione al proposito. Nei libretti d’opera antichi non è raro

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Prima ancora di aprire il volumetto, è bene soffermarsi sugli elementi paratestuali esterni. Il formato : più un programma di sala è piccolo e maneggevole, più facile ne risulta la consultazione durante lo spettacolo, che ancor oggi avviene nonostante l’oscuramento delle sale. 2 Più è pesante, più rischi ci saranno di rumorose e rovinose cadute dai palchi degli ordini alti… In realtà il programma di sala viene esplorato prima, durante e dopo la rappresentazione. 3 A sipario ancora chiuso si ha urgenza di leggere la trama dell’opera, il soggetto (elemento spesso tradotto in più lingue per accontentare il pubblico straniero), in maniera tale da poter seguire la fabula degli accadimenti. È questo il primo paratesto esterno del libretto. Durante l’opera si consulta lo schema musicale – paratesto musicalissimo, che attraverso gli incipit del testo cantato scandisce le sezioni musicali di arie, duetti, recitativi, ecc. – e, naturalmente, il libretto ; a meno che non si segua il famoso consiglio di Stendhal, ben conosciuto dagli amanti di Rossini, che diceva : « non si faccia l’imprudenza di leggere il libretto », non si rompa l’incantesimo dell’ascolto musicale. 4 In alcuni programmi si adotta il sistema di usare carta colorata nella parte relativa al libretto, per riconoscerla ancor più facilmente. 5 Tutto il resto gode di assoluta libertà, quanto a tempi di lettura. La grafica esterna dei programmi di sala fa sì che tutti quelli prodotti da un medesimo ente sembrino far parte di una collana che di stagione in stagione si arricchisce di nuovi titoli : copertine simili, che accostate nello scaffale formano un perfetto continuum, stessi colori, medesimo tipo di carta, per un’immediata riconoscibilità del teatro e per stuzzicare la mania collezionistica degli appassionati. La veste grafica ha un’importanza enorme : la convenzionalità della fruizione beneficia soprattutto di un’omologazione visiva che diventa quasi patrimonio o ‘valore aggiunto’ del teatro. Fatte salve le esigenze d’archivio e d’ufficio, che assorbono comunque parecchie centinaia di copie, la tiratura viene calcolata con precisi criteri giocati sul numero dei posti del teatro e su quello delle recite. 6 La categoria è anche commercialmente particolare : i programmi di sala non hanno codice isbn, non seguono i canali di distribuzione libraria, ma, a parte i bookshop annessi ai teatri, sono resi disponibili solo durante le rappresentazioni. Gli incassi sono in tutto e per tutto assimilabili a quelli dei biglietti : entrano in bordereau e sono assoggettati alla tassazione della siae. Il titolo del programma di sala è definito dal titolo dell’opera, o meglio dalla risultante storica del titolo, cesellata nel corso delle prime rappresentazioni : la prassi esetrovare la dedica al patrocinatore. Cfr. Daniela Goldin Folena, Le dediche dei libretti d’opera, in *I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2004, pp. 22-237. 2. Nei secoli passati le sale erano maggiormente illuminate durante gli spettacoli. Tuttavia il formato ridotto dei libretti è « comune ad altri generi di letteratura di consumo ». Cfr. Paolo Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nel Seicento, Bologna, il Mulino, 990, p. 76. Un’approfondita analisi dei diversi formati dei libretti d’opera nel corso dei secoli si trova in Ulderico Rolandi, Il libretto per musica attraverso i tempi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 95. 3. I testimoni dei testi poetici delle prime opere rappresentate nel xvii secolo vengono stampati successivamente agli spettacoli. Solo con l’affermazione del teatro pubblico si diffonderà l’uso di vendere un piccolo libro all’ingresso del teatro. Si veda a questo proposito Marco Beghelli, Il libretto d’opera, in *Il libro di musica, a cura di Carlo Fiore, Palermo, L’Epos, 2004, pp. 277-33. 4. Stendhal, Vie de Rossini, Paris, Boulland, 823, trad. it. Vita di Rossini, seguita dalle note di un dilettante, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino, edt, 983, p. 46. 5. Già in diversi teatri si è affermato l’uso del libretto elettronico, che scorre in un monitor appoggiato allo schienale della poltrona antistante. 6. Indipendentemente dal fatto che l’opera sia poco o molto rappresentata e che si tratti di una nuova produzione o della riproposta di uno spettacolo andato in scena poche stagioni prima.

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cutiva ha operato spesso un labor limae decisamente riduttivo ; il titolo originale e/o integrale dell’opera viene riportato solo nelle sedi di informazione ‘storica’. Prendiamo ad esempio una delle opere più rappresentate : Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Nelle prime edizioni il titolo è Almaviva, o sia L’inutile precauzione, 7 ma subito dopo diventa Il barbiere di Siviglia, recuperando il titolo della commedia di derivazione. Anche l’autore, ammesso che sia contemplato un autore sul frontespizio di un programma di sala, è per convenzione quello musicale, ovvero il compositore. Chi ha scritto il libretto senz’altro da qualche parte sarà menzionato, come padre del testo poetico messo in musica, la cui autorevolezza tuttavia deriva dall’autore musicale, non dal fatto di essere il Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte o Rigoletto di Francesco Maria Piave. 8 Si tratta di un’eredità storicamente sedimentata : nei frontespizi dei libretti antichi non sempre troviamo citati compositore e librettista. All’origine, dunque, c’è il libretto, o meglio il testo poetico che a partire dalla fine del xvii secolo prende il nome di libretto per metonimia : testo-base vero e proprio, che per tanto tempo è stato l’unico protagonista del programma di sala. Poi, attorno a questo fulcro si aggregano via via altri testi, ma la trasformazione da libretto a programma di sala così come lo conosciamo oggi è del primo Novecento, mentre l’implementazione dell’apparato saggistico risale agli ultimi decenni. Torniamo al Barbiere di Siviglia : già nel frontespizio dei libretti stampati per la prima rappresentazione dell’opera – manca tradizionalmente una copertina vera e propria – vengono citati sia l’autore che il compositore, caso non raro ma neppure comune. Nelle pagine immediatamente successive (pagine 2 e 3), troviamo un « Avvertimento al pubblico » del librettista. A pagina 4 si dichiarano gli « Attori » con il « Direttore del vestiario » e il « Pittore delle scene ». Segue il libretto, chiude il reimprimatur. In un libretto dell’anno successivo, dopo i personaggi vengono riportate anche le prime parti orchestrali con altre maestranze, tra cui il suggeritore. 9 Nell’autunno del 820 l’opera arriva « nell’Imperiale Regio Teatro alla Scala » : ormai il frontespizio recita semplicemente « Il barbiere di Siviglia, melodramma buffo in due atti », senza citare né Rossini né Sterbini. 0 Si tratta di un libretto particolarmente curato, elegante nella grafica, con addirittura le carte di guardia. Le informazioni sulla messinscena sono ricchissime, in linea con quanto si usava in quegli anni nel maggior teatro milanese : oltre ai personaggi, viene detto che le scene sono disegnate e dipinte da Alessandro Sanquirico ; alle prime parti orchestrali seguono il direttore del coro e tante altre maestranze, l’« Editore, e proprietario della Musica Sig. Giovanni Ricordi », fino ai macchinisti, « Capi Illuminatori », sarti, attrezzisti, parrucchiere, « berrettonaro ». È citato anche l’intero corpo di ballo. 7. ALMAVIVA / O SIA / L’INUTILE PRECAUZIONE / COMMEDIA / DEL SIGNOR BEAUMARCHAIS / Di nuovo interamente versificata, e / ridotta ad uso dell’odierno teatro / Musicale italiano / DA CESARE STERBINI ROMANO / DA RAPPRESENTARSI / NEL NOBIL TEATRO / DI TORRE ARGENTINA / NEL CARNEVALE DELL’ANNO 86. / Con musica del Maestro / GIOACCHINO ROSSINI. / ROMA / Nella Stamperia di Crispino Puccinelli / presso S. Andrea della Valle. / Con licenza de’ Superiori. Per la stessa stagione furono stampati altri libretti da un’altra tipografia, in due distinte composizioni tipografiche : « ROMA / PEL MORDACCHINI » e « ROMA / PRESSO GIUNCHI, E MORDACCHINI », entrambi « Con permesso » e reimprimatur sottoscritto da soggetti diversi. 8. Accanto agli autori musicali e poetici, non vanno dimenticati in qualità di autori scenografi e costumisti per l’apparato illustrativo, oltre ai fotografi per le foto di scena. 9. Libretto stampato per una rappresentazione al Teatro Re di Milano nella primavera del 87, coi tipi di Giovanni Bernardoni. 0. « Dalla Stamperia di Giacomo Pirola dirincontro al detto I. R. Teatro ».

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Ma sono consuetudini variabili per luogo ed epoca : dalla stessa tipografia uscirà nel 835 il medesimo libretto, sempre per la Scala, senza alcuna informazione aggiuntiva a quella minimale di personaggi e attori.  Questa l’immagine ottocentesca del libretto d’opera. Arriviamo al Novecento : fioriscono le collane musicali curate da studiosi famosi come Giuseppe Radiciotti o Ettore Bontempelli, uscite per i tipi di editori altrettanto famosi, quale Formiggini. Nei teatri, i libretti sono diventati programmi di sala a tutti gli effetti : il formato si amplia, la grafica colora le copertine, la pubblicità impera, il soggetto viene tradotto, del libretto non si sente più la necessità. 2 Un primo livello di paratesto è tutto interno al libretto. Il testo poetico è diviso in atti che a loro volta sono formati da scene. All’inizio di ogni scena un breve resoconto informa sulla situazione e sui personaggi presenti in essa. Man mano che il testo poetico procede, un paratesto didascalico si intercala al testo dialogato. Una felicissima definizione francese lo appella le jeu : 3 indicazioni di chi entra e chi esce, il carico drammatico, la prossemica, la cinestesia. Insomma, da questo paratesto – dato in corsivo e tra parentesi tonde – conosciamo i movimenti, le inflessioni, i rapporti nel perimetro scenico, le precisazioni psicologiche, la presenza di oggetti, il gioco delle luci, i rumori. Sarà interessante sapere che, esattamente come il testo poetico, nei moderni programmi di sala il paratesto didascalico ricalca il libretto originale, o più propriamente quello venutosi a codificare nel corso dell’Ottocento. La fedeltà della messinscena, la declinazione e la resa delle indicazioni e delle sfumature per il pubblico moderno mostreranno il lavoro del regista e lo scarto dei codici socio-culturali. In quelle parole resta il sapore dei secoli passati, con il linguaggio tipico dei libretti d’opera, quello che imparano i cantanti stranieri e che ci fa sorridere quando li ascoltiamo. Questo apparato paratestuale didascalico potrebbe sembrare utile solo al regista e ai cantanti o attori (o mimi, o figuranti). Eppure è un testo che serve alla metamorfosi della scrittura in immagine e suono, è il récit interstiziale, di portata significativa variabile. Nella storia della scrittura teatrale, il paratesto didascalico si estende sempre più rispetto al testo proferito : aumenta ogniqualvolta l’azione surclassa il dialogo, e la scrittura teatrale si affranca da quella letteraria. È un testo mascherato, a doppio destinatario : da una parte il regista-scenografo-costumista, che se anche lo tradisce, non travalica certo i suoi diritti ; dall’altra il lettore. Non dimentichiamo il primo lettore e traditore delle atmosfere e situazioni emotive del libretto : il compositore. 4 In un programma di sala il testo del libretto ha diverse possibilità di dichiarare le proprie fonti nell’intertitolo che lo precede : 5 può essere ‘secondo l’opera messa . « Per Luigi di Giacomo Pirola, MDCCCXXXV ». 2. Si veda Il barbiere di Siviglia del Teatro Reale dell’Opera di Roma per l’viii stagione del 934/35 : la copertina è dorata, il frontespizio lascia il posto all’autopresentazione del Teatro, la pubblicità affolla ogni pagina e ne viene menzionata l’azienda concessionaria, l’iconografia riproduce bozzetti e scene dello spettacolo, tutti gli artisti impegnati in quella stagione – e non solo nell’opera oggetto del programma – sono presenti, in ordine alfabetico. Unica notizia bibliografica esplicita : lo stampatore. 3. Jean-Marie Thomasseau, Pour une analyse du para-texte théâtral. Quelques éléments du para-texte hugolien, « Littérature », février 984, pp. 79-03. 4. Ormai famosa è un’espressione attribuita a Gioachino Rossini, che evidentemente non dava troppa importanza al testo, se affermava di poter mettere in musica anche la lista del bucato. 5. Per la definizione di intertitolo, cfr. Gérard Genette, Seuils, Paris, Éditions du Seuil, 987, trad. it. Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989. Si veda in particolare il capitolo dedicato agli intertitoli.

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in scena’, cioè il più aderente possibile al testo che verrà cantato. Questa ipotesi, adottata soprattutto nei materiali di corredo a produzioni discografiche, è comunque irrealizzabile fino in fondo per una lunga serie di motivi pratici, e i tentativi che avvengono in questo senso fanno giustamente inorridire i filologi di stretta osservanza metrica del testo poetico ; 6 inoltre un programma di sala è sempre approssimativo e impreciso, anche quando ricalca fedelmente quanto avviene sul palcoscenico : basti sapere che accompagna più repliche, e chi frequenta il teatro sa che ogni serata è un caso a sé. Può presentare il testo del libretto stampato in occasione della prima rappresentazione dell’opera, al quale si ricorre quando non si ha un’edizione musicale autorevole, oppure – caso più frequente – ripropone il libretto stampato nell’edizione critica musicale, che pur avendo criteri ricostruttivi lontani da quelli squisitamente letterari, resta l’unica fonte di riferimento rispetto all’assoluta labilità del palcoscenico. In ogni caso, è il paratesto ad informare il testo del libretto. Diverso e opposto sarà il caso del libretto che accompagna l’edizione di cd o dvd : il paratesto ricalcherà quello del programma di sala redatto per la rappresentazione (libretto secondo l’edizione critica…), ma il libretto sarà obbligatoriamente ‘ritagliato’ sul testo cantato. La qual cosa non lo esime dal rispetto delle regole anche grafiche che accompagnano la pubblicazione di qualunque libretto d’opera fin dalle origini : trattini che evidenziano i versi doppi ; giustificazioni per distinguere i versi sciolti dei recitativi allineati a sinistra dai versi lirici rientrati ; frangitura dei versi, cioè distribuzione di segmenti di verso fra i vari personaggi che lo cantano, con allineamento di ogni battuta alla fine della precedente, fino alla conclusione del verso che visivamente si ricompone in più righe, per arrivare alla trascrizione dei versi ‘virgolati’, quei versi cioè che pur essendo stati soppressi dal compositore sono tuttavia indispensabili per la comprensione della vicenda. 7 Il secondo livello paratestuale di un programma di sala organizza i diversi testi che coronano il testo poetico. I frontespizi dei libretti storicamente intesi riportavano il titolo, il genere (ad esempio : melodramma tragico, dramma giocoso), il numero degli atti, il teatro dove avvenivano le rappresentazioni e il periodo, a volte l’autore letterario e colui che ‘mette in musica’. Oggi, il frontespizio di un moderno programma di sala, così come lo si intende bibliograficamente, è sparito. 8 Ne fa le veci la locandina. La curatela fa capo a un ufficio (editoriale o ufficio stampa). Anche le note tipografiche sono inconsuete e dislocate altrove : si riducono spesso alla menzione della tipografia. L’indicazione esplicita dell’editore è prevedibilmente assente. Se nel caso di fondazioni liriche è ovvio, di più difficile reperimento sarà nella prosa, 6. Per l’annosa questione sulla concorrenza di fonti musicali e letterarie nella delineazione dell’identità di un testo librettistico, fondamentale è la sintesi proposta da Lorenzo Bianconi, Hors-d’œuvre alla filologia dei libretti, « Il Saggiatore Musicale », ii, (995), pp. 43-54, in cui si ribadisce l’identità strettamente letteraria di un libretto d’opera, a prescindere dalle mille modifiche che può avervi apportato il compositore e che pertengono alla partitura, non già al testo stampato in forma di poesia. E di questo erano ben consapevoli gli addetti ai lavori dell’epoca, che hanno sempre pubblicato testi metricamente ineccepibili. 7. Si vedano gli apparati introduttivi a Tutti i libretti di Rossini, a cura di Marco Beghelli e Nicola Gallino, Milano, Garzanti, 99. 8. Non sarà un caso se bibliograficamente i libretti d’opera vengono schedati sotto il titolo. A volte il frontespizio del programma di sala coincide con la copertina, come accade per i programmi concertistici. In quelli che più s’avvicinano al libro, esiste in realtà un frontespizio autonomo, a volte corredato persino con il nome del curatore, come in un vero e proprio volume miscellaneo.

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dove promotore di un programma di sala può essere lo stesso attore, nonché autore, curatore e illustratore nello stesso tempo, o più di frequente la compagnia in quanto persona giuridica, che presenta il medesimo prodotto editoriale in tutti i teatri dove si esibisce. 9 Siamo passati ormai al terzo livello : il programma di sala come ipotetico paratesto dell’atto scenico, a volte strumento critico dell’impossibilità di esistere come programma. Trasferiamoci nella prosa : la casistica si apre immediatamente in un panorama immenso. La funzionalità del programma di sala resta immutata, anche quando l’aderenza all’orale si perde. Se l’affermazione vale per un libretto d’opera, 20 vale soprattutto quando il linguaggio della scena non è più tracciabile, scrivibile. Quando del linguaggio o di quel che resta del linguaggio, si rappresenta la sdrucciolevolezza e l’unica possibilità di esistere di un programma di sala – questo sì paratesto nella piena definizione del termine – è quella di essere un saggio critico che testimonia tale impossibilità o non-volontà di ridurre a testo quanto succede in scena. Prendiamo ad esempio il caso-limite – ma poi neppure troppo isolato – del saggio di Maurizio Grande per uno spettacolo di Carmelo Bene del 989. All’apparenza, nulla ci dice che quel piccolo libro blu ha qualcosa di speciale. In copertina, tutto in capitale : « La lettera mancata. Uno studio di Maurizio Grande su La cena delle beffe di Carmelo Bene ». Il frontespizio ripete la prima parte del titolo e l’autore. In quarta di copertina, la stamperia. Null’altro. Solo testo, diviso in tre capitoli e fortemente ‘paragrafato’, cioè con molto bianco di misura diversa tra un enunciato e un altro, quasi a render anche graficamente l’autonomia del frammento, la condizione di assenza di senso. Leggiamo qualche riga : « Il teatro di Carmelo Bene… si attesta sulla deliberata organizzazione della differenza come senso mancato, che è qualcosa di più e di diverso dalla mancanza di senso. Il senso mancato è, precisamente, l’ordine della sfasatura fra lettera e senso, fra significante e significato, fra simbolo e cosa… Il teatro di Carmelo Bene… si pronuncia per l’insensatezza come fuoriuscita dal linguaggio… si attesta su armoniche della differenza che tendono a privilegiare la phonè come musicalità non accordabile con il linguaggio… Lo spettacolo diventa trastullo dei significanti che banchettano sui resti del linguaggio ». 2 E ancora, arriviamo a un’affermazione forte : « Non già “beffa” alla rappresentazione, al testo, alla regia e alla “interpretazione”, La cena delle beffe segna anche il margine zero della scrittura di scena », quindi lo spettacolo diviene « l’inceppo del testo, dal momento che si costruisce su un equivoco deliberato : la “messa in scena” come sottrazione del testo al teatro dei ruoli e degli eventi prefigurati nella scrittura testuale », fino alla introvabilità del rapporto fra significanti e senso. 22 È compiuta la decostruzione dell’aggancio testo-scena e mondo-linguaggio : 23 non può esserci altro modo di esistere di un programma di sala per un teatro che dichiara la fine della simulazione e della rappresentazione.

9. Anche nel mondo dell’opera lirica, nel xvii secolo, era il poeta ad occuparsi della stampa e della vendita dei libretti. A questi si sostituirà in seguito l’impresario teatrale. 20. Quanti tagli, quante sostituzioni di arie, di finali, quanti termini sono oggi talmente desueti o ambigui che il regista preferisce sostituirli ? 2. Maurizio Grande, La lettera mancata, Roma, Marchesi grafiche editoriali, [989], pp. 5-6. 22. Ivi, pp. 0-2. 23. Ivi, p. 22.

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Abstract Esiste una tipologia di pubblicazioni che – pur rientrando a pieno titolo nella compiuta categoria di libro, ma senza appartenere a un genere letterario – è paratesto di un evento scenico, supporto e sostegno dell’oralità. La definizione di editoria di servizio risulta troppo semplice per comprendere la complessità di quanto viene prodotto da un teatro al fine di veicolare informazioni su uno spettacolo e agevolarne ascolto e visione. L’editoria teatrale ha dunque queste peculiarità : si origina dal palcoscenico, è mirata ad una specifica produzione, ha destinatari conosciuti (chi intende assistere a una rappresentazione e desidera avere il programma di sala che solitamente acquista nel foyer e che legge prima, durante e dopo lo spettacolo). Inoltre si avvale di convenzioni di lettura sedimentate, che permettono ad una eterogeneità di elementi di unirsi in un singolo volume, grazie al paratesto che ne delimita e ne definisce ogni sezione, saldando e ricomponendo tra loro parti disomogenee. Nella breve indagine si analizza il paratesto teatrale (titoli, autori e curatori, apparati iconografici, veste grafica e spie di lettura che ne favoriscono la consultazione) per scoprire come lo stesso programma di sala sia paratesto tout court dell’atto scenico. There is a typology of publications – even if rightly included in the complete book category, but without belonging to a literary genre – that it is seen as paratext of a stage event, oral help and support. The definition of “service publishing” is too simple to understand the complexity of what it is produced in a theatre in order to spread more information about a show, making it easier to listen and to view. So these are the features of the theatrical publishing : it arises from the stage, looks at a specific production and has a known audience (who intends to attend a performance having usually bought the programme in a foyer and read it before, during and after the show). Moreover it uses conventional reading habits that allow different elements to be joined in a single volume, thanks to the paratext that delineates and defines every section, linking and reorganizing different parts. In this short inquiry the theatrical paratext is analysed (titles, authors and editors, iconographical elements, graphic form and search helping bookmarks) in order to recognize how the program itself is a tout court paratext of the stage action.

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Paolo Tinti IL PARATESTO IN LEON BATTISTA ALBERTI : PRIME RICERCHE*

L

’approfondimento dei paratesti nelle edizioni di Leon Battista Alberti (404472) si inscrive entro una più vasta ricerca, appena avviata, sulle stampe italiane, con particolare attenzione a quelle pubblicate in antico regime tipografico.  Non tutte le manifestazioni paratestuali dell’Alberti saranno oggetto dell’investigare. Termine ad quem è infatti rappresentato dall’edizione delle opere rare in lingua latina, curata da Girolamo Mancini e fatta uscire a Firenze dalla Sansoni nel 890 entro la prestigiosa cornice della « Raccolta di opere inedite o rare ». 2 Altra via occorre percorrere per esaminare i paratesti novecenteschi dell’architetto fiorentino. L’approccio prescelto per i dintorni del testo albertiano non consisterà unicamente nell’esame dei messaggi verbali elaborati per la presentazione editoriale delle opere dell’umanista, poliedrico nelle sue multiformi attività e nei suoi variegati interessi. Alberti impone infatti di non sottovalutare la dimensione iconica dei suoi paratesti, da non porre in secondo piano rispetto alla funzione letteraria, da Genette in poi campo privilegiato dell’indagine paratestuale. 3 Ma v’è di più. Per la specificità dell’editoria fiorentina dalla fine del Quattrocento ai primi vent’anni del Cinquecento, quando i libri senza note tipografiche occorrono con eccezionale frequenza, il paratesto materiale (carta e filigrane, caratteri, capilettera e fregi ornamentali, impaginazione, stile di segnatura, etc.) entra con prepotenza nel cuore del problema e richiede affondi di bibliografia analitica non ancora forieri di esiti definitivi, ma che comunque conducono assai vicino alla corretta interpretazione dei dati, non solo paratestuali. L’esame critico dei rilievi bibliologici, volti a ricostruire il profilo di un’edizione, per dirla con Conor Fahy, 4 è infatti tanto più necessario per ingaggiare la « sfida formidabile » di ricostruire gli annali della dominante toscana fino al 520, fatica che si rivelerà forse * Abbreviazioni: igi = Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d'Italia, Roma, ips, 943-98, 6 v. istc = Incunabula Short-title Catalogue, London, British Library, 980-. iistc = The Illustrated ISTC, 2. ed., London, Primary Source Media, The British Library, 998, 4 cd-rom. . La bibliografia delle stampe dell’umanista fiorentino è in corso di allestimento per le cure di Stefano Cartei. 2. Leon Battista Alberti, Opera inedita et pauca separatim impressa, Hieronimo Mancini curante, Firenze, Sansoni, 890. Sulle modalità di inclusione del volume albertiano nella celebre collana inaugurata da Sansoni su suggerimento di Adolfo Bartoli nel 880 si veda Pio Rajna, La Raccolta di opere inedite o rare, in *Testimonianze per un centenario : contributi a una storia della cultura italiana 1873-1973, Firenze, Sansoni, 974, (pp. 2-223), pp. 29-220. Dal paratesto (un insolito proemio, giustezze e caratteri tipografici divergenti dal modello) lo stesso Rajna evince che il classico della letteratura umanistica non avrebbe dovuto far parte integrante del progetto della collezione ; fu tuttavia stampato dalla stessa officina tipografica di cui si serviva l’editore fiorentino e solo in un secondo momento fu inserito nella « Raccolta ». 3. Gérard Genette, Soglie : i dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989, p. 9. 4. Il richiamo è al magistrale Conor Fahy, L’« Orlando furioso » del 1532. Profilo di una edizione, Milano, Vita e pensiero, 989.

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vana, « quando si pensi che nessun’altra città d’Italia (no !, neanche Venezia) ha una storia tipografica così spinosa ed intrecciata come quella di Firenze ». 5 Momenti significativi della circolazione a stampa degli scritti albertiani furono senza dubbio quattro. A cominciare dalla princeps di alcune operette latine (il De commodis litterarum atque incommodis, il De iure, i Trivia senatoria, il Canis, gli Apologi centum), raccolte insieme e uscite con ogni probabilità a Firenze ad opera di Bartolomeo de’ Libri intorno al 499. 6 In secondo luogo le edizioni preparate dal letterato fiorentino Cosimo Bartoli (503-572), 7 autore del volgarizzamento del De re aedificatoria (che in Italia fu stampato ben quattro volte nel xvi secolo: due a Venezia, una a Firenze, una a Mondovì)8 e curatore, traduttore e correttore a Venezia – dove fu diplomatico dei Medici dal 562 al 572 – degli Opuscoli morali, quindici operette date fuori nel 568 con il corredo di altrettante epistole prefatorie destinate ad amici del maggiore divulgatore cinquecentesco di Battista. 9 Terza tappa sono i cinque volumi delle Opere volgari, 0 impresse a Firenze tra il 843 e il 849 dal letterato fanese, dal medico dell’esercito, persino dal « falsario », come si è giunti a definirlo, Anicio Bonucci, grazie al concorso, determinante, del fiorentino Gaetano Cioni, direttore della Tipografia Galileiana, collaboratore linguistico di Manzoni e assiduo corrispondente di Giovan Pietro Vieusseux.  Quarto e ultimo approdo è il già citato Mancini, impegnato a pubblicare inediti latini e altri testi, non facilmente reperibili in edizioni a stampa, ancor oggi punto di riferimento per numerose opere albertiane, in attesa della meritoria impresa dell’edizione nazionale, guidata da uno dei maggiori albertisti contemporanei, Roberto Cardini. 2 L’Alberti, che morì nel 472, pochi anni dopo la sorprendente diffusione della stam5. Dennis E. Rhodes, Prefazione, in Edizioni fiorentine del Quattrocento e primo Cinquecento in Trivulziana, mostra curata da Adolfo Tura, Milano, Comune, Biblioteca Trivulziana, 200, p. 8. 6. Leon Battista Alberti, Opera, a cura di Girolamo Massaini, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, ca. 499. Le note tipografiche sono per convenzione desunte da iistc, 2. ed. (igi 49 ; istc ia00200). 7. Cfr. Roberto Cantagalli, Nicola De Blasi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 96, s.v. ; Judith Bryce, Cosimo Bartoli (1503-1572) : the career of a florentine polymath, Genève, Librairie Droz, 983. 8. Leon Battista Alberti, I dieci libri de l’architettura […]. Nouamente da la latina ne la volgar lingua con molta diligenza tradotti, in Vinegia, appresso Vincenzo Vaugris, 546 ; Id., L’architettura […] tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli [...]. Con la aggiunta de disegni, in Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 550 ; Id., L’architettura […] tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli [...]. Con la aggiunta de’ disegni, in Venetia, appresso Francesco Franceschi, 565 ; Id., L’architettura […] tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli [...]. Con la aggiunta de’ disegni. Et altri diuersi trattati del medesimo auttore, nel Monte Regale, appresso Lionardo Torrentino, nel mese di agosto 565 (a p. 305 con front. proprio : Id., La pittura […] tradotta per m. Lodouico Domenichi). 9. Id., Opuscoli morali [...] tradotti, & parte corretti da m. Cosimo Bartoli, in Venetia, appresso Francesco Franceschi, 568. Bartoli volgarizzò le opere raccolte da Massaini, servendosi proprio del testo a stampa. 0. Id., Opere volgari […] per la più parte inedite e tratte dagli autografi, annotate e illustrate dal dott. Anicio Bonucci, Firenze, Tipografia Galileiana, 843-849, 5 voll. . Sul Bonucci (803-874), che Cecil Grayson additò per la prima volta quale inesplorata figura, tutta ancora da indagare, cfr. Guglielmo Gorni, Antichi editori e copisti dell’Alberti volgare, e quel che se ne ricava, « Albertiana », i (998), (pp. 53-82), pp. 53-54. Quattro lettere inedite tra Cioni (760-85) e Vieusseux rivelano l’inaspettato ruolo del direttore della Tipografia Galileiana nell’edizione Bonucci, come mostra Silvia Casini, G. Cioni, G. P. Vieusseux e l’edizione Bonucci delle opere volgari dell’Alberti (1843-1849), « Albertiana », iii (2003), pp. 240-250. 2. A tutto il 2004 sono usciti 2 voll., in 3 tt., di Strumenti : Leon Battista Alberti. Censimento dei manoscritti, I. Firenze, a cura di Lucia Bertolini, Firenze, Polistampa, 2004 (Strumenti ; ), 2 tt. ; Anna Siekiera, Bibliografia linguistica albertiana (1941-2001), Firenze, Polistampa, 2004 (Strumenti ; 2).

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pa in Italia, conobbe quindi le meraviglie dell’ars artificialiter scribendi ed ebbe a farne cenno, come è noto, nel De cyfris, forse il testo più significativo di tutta la storia della crittologia, scritto tra il 465 e il 467. 3 « Vehementer » l’Alberti apprezzava il « Germanum inventorem qui per haec tempora pressionibus quibusdam characterum efficeret ut diebus centum plus CCnta volumina librorum opera hominum non plus trium exscripta redderentur dato ab exemplari ». 4 Ciò che maggiormente lo aveva avvinto furono, come è naturale, la « rapidità » 5 e la « potenza del nuovo processo di stampa », tradotte nel rinnovato rapporto fra tiratura e manodopera impiegata. 6 Anche Alberti coglieva a pieno la trasformazione del libro da manufatto a prodotto in serie, a merce, per dirla con Henri-Jean Martin. 7 Il paratesto delle sue edizioni non può tuttavia annoverarsi nella tipologia di quello d’autore. Ossia non fu progettato né allestito né tanto meno vigilato dal responsabile del testo. Alberti non sorvegliò neppure le edizioni separate dei due opuscoli amatori (Deífira e Ecatonfílea), entrambe sine notis, ma attribuite a Lorenzo Genesini detto Canozio (o Camozzi), datate Padova, 47, le uniche pubblicate ancora in vita l’umanista fiorentino. 8 Un viaggio nel paratesto tipografico albertiano non può che iniziare da un punto, e cioè dalla prima apparizione a stampa di una parte del corpus, uscita – lo si è già detto – forse a Firenze, sullo scorcio del xv secolo, per cura di Girolamo Massaini. 9 Quali opere albertiane, oltre agli opuscoli di argomento amoroso, avevano già beneficiato di un’edizione a stampa prima della raccolta allestita dal Massaini ? Con quali corredi paratestuali ? I torchi di Niccolò di Lorenzo avevano dato alla luce nel 485 l’in folio del De re aedificatoria con l’importante epistola dedicatoria di Angelo Poliziano a Lorenzo de’ Medici, 20 ma sarà 3. Per un aggiornato profilo critico e bibliografico, insieme con la più autorevole cronologia delle opere albertiane, cfr. Lucia Bertolini, Leon Battista Alberti, « Nuova informazione bibliografica », (2004), 2, (pp. 245-287), p. 258. 4. Leon Battista Alberti, Dello scrivere in cifra, pref. di David Kahn, a cura di Augusto Buonafalce, trad. di Mariafrancesca Zanni, Torino, Galimberti, 994, pp. 4, 28. 5. Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in *Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 983, vol. 2, *Produzione e consumo, (pp. 555-686), p. 567. 6. Brian Richardson, Stampatori, autori e lettori nell’Italia del Rinascimento, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2004, p. 3. Sia Quondam sia Richardson riportano « redderet » anziché « redderentur ». 7. Lucien Febvre, Henri-Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma, Bari, Laterza, 992 (ed. orig. 958), p. 29. 8. Leon Battista Alberti, Deifira, [Padova, Lorenzo Canozio], 47 (igi 50 ; istc ia0022000) ; Id., Ecatomfila, [Padova, Lorenzo Canozio], 47 (igi 5 ; istc ia0023000). Su Genesini cfr. Francesco Mozzetti, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 53, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 999, s.v. Fu il marchese Ridolfi a restituire al Canozio le edizioni dello “Stampatore del Mesue”. Cfr. Roberto Ridolfi, La stampa in Firenze nel secolo XV, Firenze, Olschki, 958, pp. 29-48. 9. Su Girolamo Massaini (o Massaino) si veda Luca D’Ascia, Stefano Simoncini, Momo a Roma : Girolamo Massaini fra l’Alberti ed Erasmo, « Albertiana », iii (2000), pp. 83-03. Per notizie sulla famiglia Massaini di Siena, ai quali appartengono Beato Mario Osservante, Apollonio (morto nel 467), vescovo di Savona nel 439 e Virginio, capitano nell’assedio di Siena del 526, cfr. Giovanni Battista Di Crollalanza, Dizionario storico blasonico, Pisa, presso la direzione del Giornale araldico, 888, vol. 2, p. 99. 20. Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Firenze, Nicolaus Laurentii, 29 Dicembre 485 (igi 0346 ; istc iv00306000). Si noti che quello dell’Alberti fu il primo trattato di arte edificatoria edito a stampa, prima ancora che in tipografia si materializzasse il suo diretto antecedente, il De architectura di Vitruvio, con ogni probabilità impresso in Roma tra il 486 e il 487. Al contrario le tavole xilografiche compariranno con largo anticipo nel capolavoro dell’architetto augusteo con la stampa del 5, « archetipo dell’illustrazione di architettura e […] uno dei primi esempi di tavole per la progettazione pratica ». Cfr. Silvio San Pietro, Architettura, libri di, in *Il libro scientifico, intr. di Maurizio Mamiani, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 200, pp. 35-46.

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solo nel Cinquecento che il testo del trattato architettonico, tradotto in volgare dal Bartoli, assisterà alla sua piena maturazione paratestuale, come prova nel 565 l’edizione de’ Franceschi, doviziosa del frontespizio con cornice xilografica, del ritratto dell’autore, di due distinte dediche al duca Cosimo de’ Medici, di encomi poetici di Pagano Paganini, di numerose illustrazioni xilografiche, anche a doppia pagina, e infine di una Tavola delle cose piu notabili con riferimento a pagina e linea. 2 Sotto il nome dell’Alberti oltre all’opus maximum erano stati pubblicati unicamente opuscoli in volgare : una seconda, veneziana edizione dell’Ecatonfílea (49) e la fortunata, benché spuria, Novella di Ippolito e Lionora, uscita a Firenze e a Venezia tra gli anni Settanta e la fine del Quattrocento. 22 Nel primo secolo del libro tipografico dunque i paratesti albertiani si rivelano ancora essenziali e di modesta entità, seppur pregnanti. E così avviene per la Massaini. La stampa, che propone la prima organica raccolta di opere latine albertiane – tutte inedite 23 – all’attenzione di un pubblico ben più vasto rispetto a quello raggiunto dalla loro circolazione manoscritta, esibisce un corredo paratestuale costituito essenzialmente da una dedica epistolare iniziale del curatore, indirizzata a Roberto Pucci, da dediche d’opera incluse nel testo, 24 da un’errata in uolumine e da un carme in lode del « mitis, placidus, pius, benignus » Leone firmato da Marco Antonio Sabino. La questione più urgente, posta dal presunto incunabolo, riguarda, come anticipato, la sua datazione, che tuttavia non può essere confermata se non al termine di più estesi riscontri, compresa l’accurata recensio bibliologica degli esemplari superstiti. 25 Non sono infatti sufficienti le informazioni storiche ricavabili dalla stampa stessa e in particolare dall’epistola dedicatoria, come prova il riferimento a Lucio Bellanti, medico e 2. L. B. Alberti, L’architettura…, 565, cit. Si dispone anche della rist. anast. (Bologna, Forni, 985). 22. Id., Ecatomfila, Venezia, Bernardino de Choris, Maggio 49 (igi 52 ; istc ia0024000). La novella amorosa uscì in ben quattro, oggi rarissime, edizioni : cfr. Id., Ippolito Buondelmonti e Dianora de Bardi : Firenze, S. Iacopo di Ripoli, 475-477 (igi 53 ; istc ia0024400) ; Firenze, Lorenzo Morgiani, 492-496 (igi - ; istc ia0024500) ; Venezia, Manfredi Bonelli, non prima del 493 (igi - ; istc ia0024530) ; Firenze, Bartolomeo de’ Libri, prima del 495 (igi 54 ; istc ia0024600). 23. E ancora inedite, salvo i volgarizzamenti del Bartoli, rimarrano per molto tempo ; il De commodis è stato riproposto solo nel 97 (Id., De commodis litterarum atque incommodis, Defunctus, testo latino, trad. italiana, intr. e note a cura di Giovanni Farris, Milano, Marzorati, 97) e, da ultimo, in Id., De commodis litterarum atque incommodis, a cura di Laura Goggi Carotti, Firenze, Olschki, 976 ; il Canis, in edizione provvisoria, e il De iure sono stati riediti, rispettivamente nel 983 e nel 985, da Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, a cura di Paola Claut, Firenze, Olschki, 998, pp. 359-388 ; il trattatello giuridico è ricomparso anche in Leon Battista Alberti, De iure, testi raccolti e presentati da Francesco Furlan, ed. critica a cura di Cecil Grayson,«Albertiana», iii (2000), pp. 57-248; per gli Apologi, la prima riedizione, successiva alla Massaini, del testo originale completo si deve a Paola Testi Massetani, Ricerche sugli “Apologhi” di Leon Battista Alberti, « Rinascimento », xii (972), (pp. 79-33), pp. 8-33. Stefano Cartei sta attendendo all’edizione critica e al commento dei Trivia senatoria, mai più stampati dopo l’incunabolo fiorentino. I volgarizzamenti del Bartoli contribuirono notevolmente alla fortuna degli apologhi albertiani come mostra David Marsh, Aesop and the humanistic apologue, « Renaissances Studies », xvii (2003), , pp. 9-26. 24. Cfr. Furio Brugnolo, Testo e paratesto : la presentazione del testo fra Medioevo e Rinascimento, in *Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali, Roma, Salerno, 2003, (pp. 4-60), p. 48. 25. iistc, 2. ed., ne registra 27, 5 dei quali presenti in Italia e a Città del Vaticano (6 a Roma, 4 a Firenze, 2 a Milano,  a Fermo,  a Pisa e  a Ravenna). L’esame autoptico degli esemplari conservati in Italia, l’unico sinora condotto, ha portato alla luce l’esistenza di almeno due stati differenti dell’edizione. Goggi Carotti è stata la prima a rilevare «qualche lievissima variante» tra l’esemplare pisano (ip) e quello riccardiano (ir). Cfr. L. B. Alberti, Deconimodis..., cit., p. 9, nota . Riscontri delle varianti in apparato alle pp. 37, 46, 62, 76. Devo la precisazione a Mariangela Regoliosi che mi è caro ringraziare.

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astrologo originario di Siena, amico del Massaini, da quest’ultimo compianto perché da poco passato a miglior vita. Non ricuperando in altro modo la data di morte del Bellanti, i biografi si sono rivolti proprio all’edizione Massaini per ottenere conferme cronologiche sul decesso del Senese, desunte appunto dall’anno della stampa, su cui non vi è certezza. 26 Nemmeno le filigrane aiutano 27 né le notizie storiche sul più che probabile stampatore, Bartolomeo de’ Libri, intorno al quale recenti indagini di archivio hanno non solo scoperto nuovi dati, ma persino corretto informazioni errate. 28 Ma procediamo con ordine. L’epistola dedicatoria, di genere prefatorio, è firmata dal curatore della raccolta, Girolamo Massaini, 29 e risponde allo sviluppo di quel particolare elemento del paratesto in età umanistica, allorché prevale « l’arte di scrivere proemi dedicatori convenzionali, per uomini e istituzioni potenti, in genere con lo scopo di ottenere da parte degli autori protezione o una ricompensa in denaro ». 30 Il Massaini, giovane chierico fiorentino, formatosi nello Studio a stretto contatto con la lezione del Landino – grande ammiratore delle opere albertiane –, era legato alla influente famiglia Strozzi. Nominato protonotario apostolico nel 505, congiunto all’entourage del cardinale Ludovico Podocataro, nel 52 attraverso il trattatello De conciliis deque ecclesie statu aristocratico et monarchico, pensato per le stampe, ma rimasto infine manoscritto, si pronunciò a favore di una riforma del centralismo papale romano, aprendo spazi per l’intervento dei laici nella politica ecclesiastica e rispettando l’autorità dei concili. Amareggiato dall’esito fallimentare della riforma cattolica a seguito dell’illusione 26. Cesare Vasoli, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 7, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 965, s.v. La notizia è puntualmente corretta da Dennis E. Rhodes, Gli annali tipografici fiorentini del XV secolo, pref. di Roberto Ridolfi, Firenze, Olschki, 988, p. 28. Sul Bellanti cfr. Luigi De Angelis, Biografia degli scrittori sanesi, Siena, nella Stamperia comunitativa presso Giovanni Rossi, 824, p. 76 (rist. anast. Bologna, Forni, 983). L’unico punto fermo riguarda l’arco cronologico entro cui la Massaini deve essere datata : dopo il 497, allorché il Bellanti risulta vivo, e prima del  marzo 50 o del 24 marzo 502, quando l’umanista fiorentino Lorenzo Romuleo acquistò una copia dell’edizione, oggi conservata presso la Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma (coll. : Inc. 66). A c. ar dell’esemplare alessandrino compare infatti la nota ms. : « M D J die Martij Emptus Laur˜etij Romulej & Amicorum ab Angelo – B. 0- ». Dato lo stile fiorentino, se si legge la data come  marzo 500 (così si è portati a credere), si tratta in realtà del  marzo 50 ; nel caso invece si intenda il marzo del 50, si tratta del 502 solo se il libro è stato acquistato nei ventiquattro giorni che separano il  dal 24 marzo 502. Donatella Coppini suggerisce l’ipotesi, da sottoporre al vaglio paleografico, che la nota di possesso nasconda in realtà due suoni distinti che hanno scritto in momenti successivi 27. Tutti gli esemplari ispezionati portano come filigrana, con minime varianti legate alla forma, il giglio inscritto in un cerchio (distanza estremi dei petali laterali 24 mm ; ø 42 mm). Cfr. Briquet, Fleur de lis, inscritto in cerchio, « habituellement d’origine italienne », 7099 (Perugia, 502), 700 (Caprarola, 55) (sim.). Per lo studio delle filigrane nei primi incunaboli cfr. Roberto Ridolfi, Le filigrane dei paleotipi. Saggio metodologico, Firenze, Tipografia Giuntina, 957. 28. Gustavo Bertoli, Documenti su Bartolomeo de’ Libri e i suoi primi discendenti, « Rara volumina », (200), -2, pp. 9-56. Che la stampa appartenga all’ambiente fiorentino, in particolare alla bottega di Bartolomeo de’ Libri, è suggerito sia dal carattere (97 R) sia dalla mise en page sia dallo stile di segnatura sia dalla distribuzione topografica degli esemplari superstiti sia dall’occhietto sia dai capilettera sia dalla filigrana. 29. Essa è edita dal Bonucci in L. B. Alberti, Opere volgari…, cit., vol. , pp. ccxxxv-ccxl, e da Gustavo Camillo Galletti in Filippo Villani, Liber de civitatis Florentiae, denuo in lucem prodeunt cura et studio Gustavi Camillii Galletti, Florentiae, Mazzoni, 847, pp. 38-50 30. Cfr. Furio Brugnolo, Roberto Benedetti, La dedica tra Medioevo e primo Rinascimento, in *I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Padova, Antenore, 2004, (pp. 3-54), p. 43.

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maturata con l’elezione al soglio pontificio di Adriano VI, dopo il meditato allontanamento dalla curia romana, lasciò l’Urbe al tremendo Sacco e ripiegò a Venezia, dove morì nello stesso 527. La prefatoria, secondo i dettami del genere 3 « piena di elogi » per l’autore, 32 è un documento assai complesso, denso di notizie – non sempre perspicue – su aspetti della tradizione delle opere di Battista, sulla critica rivolta alla lingua e alla poetica dell’Alberti alla fine del xv secolo, sul platonismo e sui misteri albertiani. Il conciliarista Massaini si rivolge a Roberto Pucci, forse figlio di Antonio e fratello del celebre cardinale Lorenzo, legato a Alessandro VI, a Giulio II e a Leone X. Anche Roberto, come già il fratello Lorenzo, divenne cardinale con il titolo dei Quattro Santi. L’alto prelato, di nobile, antica e ricca stirpe fiorentina, sollecita il concittadino a riportare alla luce ed eternare, grazie ai torchi, le opere albertiane « ne amplius a doctorum co[n]spectu oblitescant ». 33 L’unica stampa nota al Massaini sembra infatti essere il De re aedificatoria, « iam diu editum ». 34 L’esortazione verbale si traduce nella consegna a Massaini da parte del Pucci di « paucas […] Intercenales », 35 dalle quali sboccia la profonda ammirazione che farà maturare nel chierico fiorentino la scelta di allestire un’edizione composita. « Uti sagassimus canis » 36 sguinzagliato non per la sola Firenze, ma per tutta la penisola, il curatore ha radunato insieme dieci libri delle Intercenales, le opere più osteggiate in città al tempo dell’Alberti, dove trovano espressione, velati dall’umorismo e filtrati dalla forma dialogica, i fondamenti della morale albertiana. 37 Non perché si debba per forza dar credito a Massaini, che si conferma lettore colto 38 e quindi sensibile alla topica del genere prefatorio, ma gli opera di Battista pervennero nelle mani dell’allievo del Landino in pessimo stato, « corrosa, diminuta, decurtata, malescripta & dilacerata ». 39 Fu necessario un labor, strenuo e assai difficoltoso, di emendatio, tutto a merito dello stesso Massaini e dello sponsor dell’iniziativa, si intende. Nell’epistola non mancano, come già notato, i toni consueti alla retorica del paratesto liminare ; 40 in primis l’elogio delle qualità non solo letterarie, ma soprattutto morali, dell’autore pubblicato, definito « novus […] Socrates » e « alter Diogenes ». 4 Assai complessi i riferimenti al Momus, per il quale Alberti supererebbe 3. Interessante, seppur riferito al xvi secolo, il contributo di Nicola Longo, De epistola condenda. L’arte di “componer lettere” nel Cinquecento, in Id., Letteratura e lettere. Indagine nell’epistolografia cinquecentesca, Roma, Bulzoni, 999, (pp. 9-40), p. 22-23 e p. 24, nota 5, dove sono presentate ventuno edizioni in culla che trattano di teoria epistolografica, tra cui opere rivolte espressamente ai contributi avantestuali. 32. C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti..., cit., p. 359. 33. L. B. Alberti, Opera..., cit., c. av. 34. Ivi, c. a2v. 35. Ivi, c. a2r. 36. Ivi, c. a2v. 37. Sull’umorismo albertiano si vedano: Roberto Cardini, Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. I, «Schede umanistiche», (993), , pp. 3-85, p. 38, nota 2; « Moderni e antichi. Quaderni del Centro di Studi sul Classicismo », i (2003) pp. 73-86. 38. Non solo per un’intera citazione – in verità affatto velata – dalle Georgiche di Virgilio (iv, 6-7) : « In tenui labor est : at tenuis gloria si quem numina le¸ua sinant », L. B. Alberti, Opera..., cit., c. a4r. 39. Ivi, c. a2r. 40. Il riferimento è a Randall Anderson, The rhetoric of paratext in early printed books, in *The Cambridge history of the book in Britain, ed. by John Barnard and Donald F. McKenzie, with the assistance of Maureen Bell, vol. 4, *1557-1695, pp. 636-644. 4. L. B. Alberti, Opera..., cit., c. a2rv.

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sia Apuleio sia Luciano, accolto persino « in quem platonicorum gradum ». D’Ascia e Simonini hanno intravisto nell’ingresso dell’architetto fiorentino, « Platonicis sacris initiatus », 43 nella schiera dei seguaci del filosofo le radici di un « culto » per l’Alberti inteso nel senso di una « critica militante della superstizione e del temporalismo » : 44 lo stesso culto che nutrirebbe la fortuna romana del Momus, con le due celeberrime edizioni del 520, 45 dietro le quali si celerebbe forse il Massaini medesimo. Né si limita il protonotario a fornire lumi sulle vicissitudini editoriali attraversate dal testo dell’Alberti e sulle qualità dell’autore, ma trova spazi per riportare giudizi sul latino dell’umanista, riservandosi di approfondire altrove il problema con più esteso discorso. Nella prefatoria Massaini consegna ai lettori una definizione dello stile albertiano espresso con il chiasmo « semper gravem & festivum simul », 46 solenne e al contempo ironico, sottolineando un tratto caratteristico non solo della parole, ma forse, come invita lo stesso Cardini, 47 della personalità albertiana. L’umanesimo non è soltanto pedissequa imitazione dei classici, come intendono « scioli quidam », stigmatizzati nell’epistola introduttiva « tanquam psitaci et corvi », 48 come pappagalli e corvi. Nella prefatoria Massaini annuncia inoltre un seguito alla sua edizione delle opere latine albertiane : « Mitto tibi igitur mi Roberte non cuncta Baptiste¸ opera », ma solo una parte, « laborum suorum quasi preludia ». 49 Gli opera albertiani come preludium, una premessa ad altro, come un testo dal valore metaparatestuale. Solo nel caso in cui l’edizione riesca gradita ai lettori, Massaini si impegna a coinvolgere di nuovo Pucci e a portare a termine la propria missione, facendo seguire ai comica delle prime, minori operette, il genere serio (« seria »), con verisimile riferimento ai Libri della famiglia, o forse alludendo ad altri trattati artistici o morali. Quanto alle dediche d’opera, esse figurano aderenti solo in parte alla tradizione manoscritta, 50 e questo dato spinge ancor più ad estendere in futuro l’indagine sui paratesti albertiani in direzione della fase che immediatamente precede la fortuna tipografica, secondo le intuizioni di Mariangela Regoliosi, che ha approfondito il tema del paratesto manoscritto nelle opere di Lorenzo Valla, rinvenendo elenti di continuità e di frattura nella tradizione della forma del testo dell’assetto monoscritto – dove molti problemi paratestuali traggono origine – a quello tipografico. 5 Tra i paratesti della 42. Ivi, c. a3r. Come per Musca e Momus, anche il Canis tradisce la forte presenza di Luciano nella biblioteca dell’Alberti, secondo un gusto riconosciuto in moltissimi umanisti, non solo toscani. Cfr. Emilio Mattioli, Luciano e l’umanesimo, Napoli, Istituto Italiano di Studi Storici, 980, pp. 90-9. In verità è assai più complicato tessere le trame dei rapporti tra Alberti e la letteratura greca, come ha recentemente dimostrato Lucia Bertolini, Graecus sapor. Tramiti di presenze greche in Leon Battista Alberti, Roma, Bulzoni, 998. 43. L. B. Alberti, Opera..., cit., c. a2v. 44. Luca D’Ascia, Stefano Simoncini, Momo a Roma..., cit., p. 00. 45. Leon Battista Alberti, Momus, Romae, ex aedib. Iacobi Maz., 520 ; Id., De principe, Romae, (apud Stephanum Guileretum, 520 Kal. Nouembribus). Sul significato della fortuna romana del Momus cfr. Luca D’Ascia, Stefano Simoncini, Momo a Roma..., cit. 46. L. B. Alberti, Opera..., cit., c. a3r. 47. Roberto Cardini, Mosaici. Il « nemico » dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 20042 (. ed. 990). 48. L. B. Alberti, Opera..., cit., c. a3rv. 49. Ivi, c. a3v. 50. Per il panorama della tradizione conservata a Firenze cfr. Leon Battista Alberti. Censimento…, cit. 5. Mariangela Regoliosi, Architettura ideologica del libro in Lorenzo Valla, 2005, in corso di pubblicazione. Ringrazio l’autrice per la cortesia di avermi concesso la lettura del saggio prima che fosse dato alle stampe.

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Massaini si registrano la dedica al fratello Carlo per il De commodis, quella all’amico Francesco Coppini, giurista pratese, per il De iure, e quella al sodale ferrarese, l’umanista Francesco Marescalchi, per gli Apologi. 52 Non compare la dedica ai Trivia, rivolta nei manoscritti a Lorenzo de’ Medici : assenza da motivare, seppur convince l’ipotesi – formulata di recente anche da Stefano Cartei – che essa vada posta in rapporto alla cacciata da Firenze della casata di governo nel novembre del 494. Chiude il volume un componimento poetico di Marco Antonio Sabino da Imola, per molti aspetti un vero carneade. 53 Si tratta di endecasillabi saffici, verso oraziano del carmen saeculare e di molte odi celebrative del iv libro, tutti giocati sull’equivoca associazione del prenome di Battista, un leone mansueto e benigno. Sabino, non menzionato dal Massaini nella prefatoria, fu autore di un raccolta di sei carmina, sinora nota in copia unica, forse databile al 494. 54 Pubblicò anche un Carmen hortatorium contro gli infedeli, uscito per i torchi milanesi di Alessandro Pellizoni con la data del 5. 55 Matteo Bandello, dedicò all’Imolese una sua Novella, edita a Lucca nel 554, nella quale il Sabino è ricordato come governatore dei conti Bolognini da Correggio. Ulteriori indagini andranno condotte per ricostruire il sottilissimo filo rosso che lega i tre estremi di una triangolazione apparentemente insolita : Alberti, Massaini, Sabino. Che si estende forse a un quarto punto : lo stampatore Bartolomeo de’ Libri. In conclusione i paratesti albertiani, a partire dai primissimi momenti della fortuna italiana del grande umanista fiorentino (ma il futuro chiederà di gettare ponti che raggiungano anche altri paesi europei), sono un terreno sul quale misurare, con l’aiuto di competenze letterarie, filologiche e bibliologiche, specifiche dinamiche di trasmissione e di ricezione dei testi, tempi e modalità della loro presentazione editoriale al pubblico. Abstract L’esame del paratesto nelle edizioni di Leon Battista Alberti (404-472) rivela aspetti ancora da approfondire su curatori, dedicatari, traduttori, commentatori, illustratori ed editori delle opere dell’umanista fiorentino. A partire dall’editio princeps degli Opera (s.n.t., ma Firenze, Bartolomeo de’ Libri, ca. 499), curati dal protonotario apostolico Girolamo Massaini, morto nel 527. Dall’indagine sulle prefazioni, sulle dediche e sui corredi, non solo testuali, ma anche iconici, alla produzione letteraria di Alberti e sui responsabili della loro confezione potranno così scaturire, con l’aiuto di competenze letterarie, filologiche e bibliologiche, elementi utili a valutare le dinamiche di trasmissione e di ricezione dei testi, i tempi e le modalità della loro presentazione editoriale al pubblico. 52. Sulle dediche a Coppini e Marescalchi cfr. Luca Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, Firenze, Olschki, 2000, pp. 5, 23. Per un profilo dell’umanista ferrarese cfr. Luciano Gargan, Un possessore di opere albertiane : Francesco Marescalchi, « Rinascimento », xlii (2002), pp. 38-397. 53. Il maggior numero di notizie sul Sabino, non sempre precise, in Matteo Bandello, Opera inedita vel rara, edidit Carlo Godi, Padova, Antenore, 982, pp. 6-66. Esprimo profonda gratitudine ad Andrea Padovani, che mi ha guidato nella ricerca di notizie su Sabino. 54. Marco Antonio Sabino, Carmina, [Forlì, s.n.t., ca 500] (igi 8494 ; istc is000500 ; Bibl. Comunale “C. Piancastelli”, Forlì, coll. : Sala O. Inc. 77). Per la descrizione bibliografica dell’esemplare, seppur con diversa attribuzione editoriale (Roma, Stephan Plannck, ca 494) cfr. Alfredo Servolini, Gli incunaboli della collezione bibliografica romagnola di Carlo Piancastelli, « Accademie e biblioteche d’Italia », xxiii (955), 4-5-6, (pp. 277-292), p. 290. 55. Marco Antonio Sabino, Contra infideles carmen hortatorium, impressum Mediolani, in aedibus Alexandri Pelizonii ad Crusetam extra portam Romanam, 5 calendis aprilis.

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The paratext in the editions of Leon Battista Alberti (404-472) shows still not deeply investigated aspects about editors, dedicatees, commentators, illustrators and publishers of the Florentine humanist. The research starts from the Opera (Florence : Bartolomeo de’ Libri, about 499), edited by the apostolic protonotarius Girolamo Massaini, dead in 527. The inquiry about prefaces, dedications and extended parts – not just textual, but also iconographic ones – will provide useful elements in order to estimate the dynamics of transmission and reception of the Alberti’s printed texts, times and way of their publishing practise.

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Daniela Brunelli IL PARATESTO DI UNA RIVISTA MANOSCRITTA : « LA LUCCIOLA », 1908-1926

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. Presentazione

ell’assolato borgo siciliano di Montedoro, in provincia di Caltanissetta, l’abilità e la passione di Lina Caico (883-95) diedero vita a partire dal 908 all’esperienza de « La Lucciola » : un’impresa giornalistica manoscritta, che per ben diciotto anni percorse tutto il territorio nazionale. La confezione dei fascicoli si interruppe nel 926 a Milano, quando l’ultima direttrice, Gina Frigerio (888-969), decise di ritenere conclusa la straordinaria esperienza. La periodicità mensile dei fascicoli ed il rigore con il quale essi venivano compilati e confezionati erano motivati dalla forte esigenza di scambio intellettuale che sentivano le giovani redattrici, appartenenti per lo più alla classe borghese, colta e raffinata dell’epoca. Ispiratrice del gruppo fu Lina Caico, più tardi coadiuvata dalla sorella Letizia (893968) le cui vite giovanili trascorsero fra Montedoro, Londra, Nizza e Bordighera, ovvero fra gli interessi economici legati alle zolfatare della famiglia paterna e quelli tipicamente culturali della ricca borghesia inglese, amante dei paesaggi e della cultura italiana della famiglia materna. Lina, come vedremo, diede avvio all’impresa rifacendosi a riviste femminili che nello stesso periodo venivano prodotte in Francia, Germania, Inghilterra con titoli simili a « La Lucciola », quali « Mouche volante », « Parva Favilla », « Firefly ». Fu proprio quest’ultima, « Firefly », che Lina ebbe modo di conoscere in un college londinese, a darle l’ispirazione per proporre nel 908 dalle pagine della « Rivista per le signorine »,  l’avvio dell’analoga esperienza italiana, da far circolare fra giovani donne fino a quel momento sconosciute fra loro. [Fig. ] Le Lucciole interruppero la confezione della rivista per alcuni anni a cavallo della guerra, fra il 95 ed il 98. Come si evince dalla lettura dei loro scritti alla ripresa delle “pubblicazioni”, ciò fu dovuto principalmente alle cure familiari ed alle nuove responsabilità che molte di esse dovettero affrontare proprio a causa delle guerra. Alcune, infatti, si trovarono a dover gestire i patrimoni familiari, sostituendo gli uomini chiamati al fronte. Talvolta Fig. . Lina confeziona il primo fascicolo di Lucciola, questo significò non solo un carico 908. . Lina Caico, La Firefly, « Rivista per le signorine », Milano, A. Solmi, anno xv, n. , gennaio 908, pp. 6-70.

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di preoccupazioni e lavoro, ma soprattutto l’acquisizione di una diversa consapevolezza di genere ed un accentuarsi di sensibilità nei confronti di un mondo femminile che, forse per la prima volta, veniva percepito socialmente assai variegato. Le pagine nelle quali, ad esempio, Gina Frigerio, trovandosi improvvisamente a condurre la fabbrica di sanitari del marito, annota le proprie considerazioni sulle condizioni di lavoro delle operaie, sono fra le testimonianze più significative di un radicale mutamento di mentalità in atto. Lo stesso dicasi per il grande fervore che le Lucciole descrivono sulle loro attività filantropico-caritatevoli, prese com’erano a sostenere asili, ricoveri, assistenza spirituale ai soldati, in linea con gran parte della stampa femminile dell’epoca, spesso in fragile equilibrio fra lavoro, solitudine, nuove responsabilità da un lato e maggiore libertà e rivendicazione dei diritti dall’altro. 2 Gli stimoli che ci regala oggi la lettura di quelle pagine sono moltissimi, poiché trattasi di autorevoli fonti per lo studio non solo della storia delle donne, ma anche per la storia sociale e delle idee di un’intera società in profondo cambiamento. Purtroppo, non possiamo soffermarci su questi temi, poiché l’oggetto del nostro incontro è “periferico”, ma non per questo di minor interesse. Il fondo oggi disponibile consta di 5 fascicoli, 07 dei quali giunti fino a noi grazie a Fede e Franco Carlassare, che nel 99 hanno affidato in custodia alla Società Letteraria di Verona il materiale conservato per tanti anni dalla madre Gina Frigerio, depositaria della raccolta in quanto ultima direttrice. 3 Prima del deposito la famiglia Carlassare vendette sei fascicoli ad un antiquario milanese, il quale a sua volta li cedette all’Unione Femminile Nazionale di Milano. Infine, due ulteriori fascicoli appartengono a Federico Messana, che uno strano caso del destino portò a nascere a pochi passi da Palazzo Caico a Montedoro e a vivere attualmente a Milano, a poca distanza dal palazzo nel quale abitò Gina Frigerio e si conservarono a lungo i fascicoli di « Lucciola ». Riteniamo che altri si possano trovare in qualche abitazione siciliana o continentale, solitari testimoni di un’avventura collettiva di genere femminile. I fascicoli si presentano sostanzialmente omogenei dal punto di vista della forma materiale riconducibili ad un’unica tipologia di legatura con presenza di due formati : uno a quaderno ed uno ad album, rispettivamente di 7x23 e 32x2 cm, ciascuno com2. Molti e autorevoli sono i saggi scritti sull’argomento. In questa sede mi limito a citarne alcuni da me utilizzati in particolare per il raffronto con quanto rinvenuto sulle pagine di Lucciola : Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, a cura di Silvia Franchini e Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli, 994 ; Silvana Marini, Alberto Raffaelli, Riviste per l’infanzia fra ’800 e ’900 dai fondi della Biblioteca Alessandrina, Firenze, Cesati, 200 ; Annarita Buttafuoco, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, Siena, Protagon, 997 ; Georges Duby, Micelle Pierrot, Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, a cura di Françoise Thébaud, Roma-Bari, Laterza, 992, p. 25 sgg. ; Rita Carrarini, Tendenze e caratteri della stampa destinata alle donne, in Donna lombarda 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti e N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, 992, pp. 275-29 ; Antonia Arslan, Scrittrici e giornaliste lombarde fra Otto e Novecento, in Donna Lombarda, cit., pp. 249-264 ; Stefania Bartoloni, Dalla crisi del movimento delle donne alle origini del fascismo. L’“Almanacco della donna italiana” e la “Rassegna Femminile Italiana”, in Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea. Atti del seminario, parte I, a cura di Anna Maria Crispino, Roma, Unione Donne Italiane, 988, pp. 25-5 ; Elisabetta Mondello, La nuova italiana. La donna nella stampa e nella cultura del Ventennio, Roma, Editori Riuniti, 987 ; Maria Pia Bigaran, Mutamenti dell’emancipazionismo alla vigilia della grande guerra. I periodici femministi italiani del primo Novecento, « Memoria. Rivista di storia delle donne », 2 (982), n. 4, pp. 25-32. 3. In calce al presente contributo sono riportati i fascicoli a noi pervenuti attraverso la donazione alla Società letteraria di Verona. Nell’elenco vengono riportati inoltre i fascicoli rinvenuti da Federico Messana e quelli di proprietà dell’Unione Femminile Nazionale di Milano.

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posto in media di 300 pagine, numerate in originale dalla Direttrice dell’annata, che provvedeva anche alla rilegatura, alla compilazione degli indici ed all’inserimento degli apparati iconografici forniti dalle Lucciole. I fascicoli risultano, invece, decisamente eterogenei sia dal punto di vista dei contenuti che da quello dei materiali strutturali utilizzati. La tecnica usata per l’esecuzione delle legature non contempla adesivi : il corpo dei fascicoli si presenta cucito con uno o più passaggi di filo collegato alla coperta, costruita a parte, mediante un ulteriore passaggio di filo. Alla linearità di forma sopra descritta, si affianca una molteplicità di materiali, quali sete, velluti e tessuti operati, dipinti o ricamati, paglia intrecciata, utilizzati con perizia nella confezione delle coperte. Ciascun fascicolo è reso irripetibile da un ricco corredo iconografico, composto da piccoli dipinti eseguiti con differenti tecniche, schizzi, disegni, preziosi ricami o lavori ad ago. Inoltre, fotografie, stampe e cartoline, documentano ed accompagnano gli articoli di attualità, i riferimenti letterari, gli assaggi di poesie, la cronaca di un tessuto quotidiano ordito con straordinaria passione e curiosità. [Figg. 2-5]

Fig. 2. Copertine ricamate e dipinte.

La Società Letteraria di Verona, consapevole della preziosità dei fascicoli, fece valutare da una restauratrice 4 le loro precarie condizioni conservative, dovute soprattutto alle sollecitazioni meccaniche dei materiali, all’acidità della carta moderna e degli inchiostri utilizzati. Grazie al sostegno dell’Archivio di Stato di Verona, della Soprintendenza archivistica del Veneto e della Fondazione Cassa di Risparmio, si reperiro4. Cristina Arlango, apprezzata restauratrice, amò particolarmente questo fondo. Colgo qui l’occasione per onorarne la memoria, quale modestissimo tributo all’amore che essa ebbe per le Lucciole e le loro fragili carte, che avrebbe voluto poter restaurare personalmente se la vita non l’avesse troppo prematuramente sottratta a questo desiderio.

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no i finanziamenti necessari per poter microfilmare e successivamente digitalizzare l’intero fondo, sottoposto dal 998 al vincolo archivistico. Ciascun fascicolo è oggi racchiuso in scatole di cartone non acido, tali da preservarlo almeno in parte da ulteriori danneggiamenti. 5 Il lettore e lo studioso di oggi non possono rimanere indifferenti, oltre che alla curiosità dei testi, alla peculiarità della loro rappresentazione, tali da indurci a parlare di peritesto ed epitesto, sebbene si tratti di documentazione manoscritta. 6 Anzi, la volontà espressa e più volte ribadita dalle direttrici di « Lucciola », di voler confezionare una rivista secondo precise regole rese manifeste e del tutto identiche a quelle editoriali, ci invita ad oltrepassare la soglia paratestuale, a transitare fra le calligrafie, per percepire le strategie messe in atto da quelle persone, nel contempo autrici, lettrici e giudici di sé stesse. D’altro canto non mancò nelle Lucciole la consapevolezza di questo, se Lina stessa, promuovendo l’avvio dell’impresa dalle pagine della « Rivista per le signorine », 7 scrisse : Fig. 3. La Lucciola, luglio 908 Frontespizio.

L’essere manoscritto dapprima fa senso ai nostri occhi moderni, così abituati alla stampa : ma a lungo andare ci si affeziona a vedere ogni lavoro colla scrittura dell’autrice ; le diverse scritture ci danno un po’ l’impressione di sentire la voce, di vedere l’espressione di ciascuna autrice ; sicché quello che può parere un difetto finisce coll’essere considerato come un pregio.

Potremmo quindi affermare che la rinnovata fortuna di « Lucciola » è stata veicolata proprio dal fascino della loro forma di rappresentazione, ovvero da quelle grafie, dalle legature, dalle copertine, dagli indici, dai frontespizi, dalle prefazioni, dalle note e perfino dagli epitesti generati. 2. Lina Caico e i suoi legami familiari Lina Caico nacque a Bordighera il 6 giugno 883 e morì a Montedoro 20 gennaio 5. Nel 995 per far conoscere alla cittadinanza il nuovo patrimonio acquisito, venne allestita una mostra dei fascicoli nella protomoteca della Biblioteca Civica di Verona e pubblicato il catalogo, purtroppo esaurito, sotto il titolo Leggere le voci. Storia di « Lucciola » una rivista scritta a mano 1908-1926, a cura di Paola Azzolini, Verona, Biblioteca Civica, Società letteraria, Cierre edizioni, 995. 6. Nell’analisi paratestuale di « Lucciola » mi sono ispirata all’analisi paratestuale proposta per i testi editi da Gérard Genette in Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989, applicandola alla forma di rappresentazione testuale del periodico manoscritto. 7. Lina Caico, cit., p. 63.

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95. Primogenita di Eugenio Caico e Louise Hamilton Caico, visse fra Bordighera, Montedoro, Palermo e Londra, dove compì parte dei suoi studi. Favorita dall’ottima conoscenza dell’inglese e del francese, riuscì a mantenersi insegnando inglese e traducendo opere per lo più letterarie, talvolta anche assieme alla madre. 9 Pubblicò articoli su diversi periodici, quali « Rivista per le Signorine », « Fede e vita », « Lumen », « Primavera siciliana », « Sicilia del popolo », « Il Giornale di Sicilia », nel quale sotto lo pseudonimo di Lina Lauro, tenne una rubrica dal titolo “Attualità e curiosità”. Nel 920 pubblicò il volume Con Gitanjali, e nel 930 Pensieri sul mio cammino. 0 Nei suoi scritti e nelle pagine di « Lucciola », è evidente la sua propensione ai temi della fede, sebbene mai affrontati con atteggiamenti moralistici, ma piuttosto con grande rispetto etico Fig. 4. La Lucciola, gennaio 94 Indice parte letteraria. nei confronti del pensiero altrui.  Peraltro, il contesto culturale nel quale si mosse favorì queste tendenze : la Firenze di inizio secolo in particolare, e la cultura condivisa da molte donne dell’epoca, fu quella di contiguità con il movimento cosiddetto neo-cristiano.2 Apprendiamo dall’amica Licia (Laura Mangione) alcune notizie biografiche di particolare interesse, come il fatto che alla fine della prima guerra mondiale Lina conseguì la laurea in lingua e letteratura inglese all’Istituto Universitario in Lingue orientali di Napoli e che tenne una nutrita corrispondenza con 8. Federico Messana, Mia cara Lulu ovvero i lamenti di don Eugenio Caico. Dalle lettere di don Eugenio, Louise e altri, carteggio inedito, raccolto e trascritto da Federico Messana. 9. In particolare tradusse : Ralph Waldo Trine, In armonia coll’infinito, versione di Luisa e Lina Caico con un proemio di Arnaldo Cervesato, Roma, C. Voghera, 90 [edizioni successive : 920, 930] ; Mary Wood-Allen, Quel che la fanciulla deve sapere, versione dall’inglese di Lina Caico, con una introduzione di Pio Foà, Torino, Società tipografico-editrice nazionale, 93 [edizioni successive : 99, 945]. Per una bibliografia quasi completa degli articoli di Lina Caico pubblicati su periodici editi si veda : Laura Mangione, Presentazione della corrispondenza Pound-Caico, « Quaderni di tradizione mediterranea », Palermo, Il triangolo, fasc. 2, pp. 90-9. 0. Laura Mangione, cit. p. 90. . Lina venne educata nella religione protestante e solo in età adulta, nel 933, scelse di convertirsi al cattolicesimo. Lei stessa ci fornisce la notizia in una lettera inviata il 6 aprile 933 alla sorella Letizia, in Federico Messana, cit., p. 85. 2. Simonetta Soldani, Donne educanti, donne da educare. Un profilo della stampa femminile toscana (17701945), in Donne e giornalismo, cit., p. 309 sgg. ; Roberta Fossati, Elites e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento, Urbino, Quattro Venti, 997.

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Ezra Pound, Ugo Janni, fondatore dell’Unione pancristiana, e molti altri. 3 Sia i fatti che riguardano la famiglia di Eugenio Caico di Montedoro, sia quelli della moglie Louise Hamilton, sono di straordinario interesse e meritevoli di approfondimenti e adeguati studi. Purtroppo non è questa la sede per poterci soffermare sulle vicende di Don Eugenio e sui suoi affari siciliani, né su quelle della sua « cara Lulù », come soleva chiamarla, nata a Nizza l’8 febbraio 86 da padre irlandese, Frederick Hamilton, e madre marsigliese, Pilatte Zulmà. Ci basterà per il momento sapere che la famiglia di Louise nel 863, quando questa aveva appena due anni, si trasferì a Firenze dove per circostanze ancora ignote diede ospitalità ad Eugenio Caico già dodicenne, inviato da Montedoro a Firenze per compiere i propri studi medio Fig. 5. La Lucciola, gennaio 94 Mesi di collaborazione superiori. 4 Solo molto più tardi, delle socie. una volta raggiunta la maggiore età, i due si innamorarono e, nonostante il parere avverso della rigida famiglia Caico, nel 880 si sposarono e fissarono la loro dimora dapprima a Bordighera, poi a Montedoro, fino a quando nel 923 Louise Hamilton Caico preferì stabilirsi con i figli a Palermo. 5 Di tutto questo, quel che ci interessa sottolineare è innanzitutto il saldo legame culturale per entrambi i giovani, Caico ed Hamilton, con Firenze e con il mondo intellettuale che gravitava all’epoca fra la capitale toscana e le località della costa ligure occidentale. Ad esempio, fu Eugenio, ignaro di quel che sarebbe accaduto, a leggere alla moglie Louise le liriche composte dal noto Angelo De Gubernatis. 6 La “galeotta” lettura, infatti, affascinò a tal punto Louise da farle intraprendere un fitto carteggio con il De Gubernatis e, probabilmente, un legame amoroso con questi, già avezzo a divagazioni sentimentali con le sue corrispondenti. 7 3. Laura Mangione, cit., pp. 87-90. 4. lettera di Louise Hamilton ad Angelo De Gubernatis del 5.02.884 in bncfi carteggio De Gubernatis-Caico. 5. Federico Messana, cit., pp. 2-24. 6. Federico Messana, cit., p. 45 sgg. ; bncfi carteggio De Gubernatis-Caico. 7. Sulla figura dell’intellettuale torinese la bibliografia è assai vasta. Si veda, in particolare, la voce De Gubernatis, Angelo in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 988, vol. 36, pp. 227-235 e la bibliografia ivi contenuta.

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Ma, indiscrezioni a parte, è proprio il legame di Louise con il De Gubernatis a restituirci un importante tassello per capire il percorso effettuato da Lina nella sua formazione culturale e, soprattutto, nell’esperienza di Lucciola. Fra le molte attività intellettuali di Angelo De Gubernatis, infatti, ci fu la fondazione della rivista Cordelia, tanto fortunata fra il pubblico femminile nell’ultimo ventennio dell’800 e nella quale scrisse le sue prime pagine Maria Majocchi Plattis (864-97) con lo pseudonimo di Jolanda. 8 Proprio quella Cordelia nella quale il De Gubernatis inaugurò una frequentatissima rubrica intitolata “Palestra delle giovinette”, 9 e proprio quella Jolanda, alla quale Lina chiese di giudicare i referendum proposti su « Lucciola », quale referente riconosciuta autorevole da tutte le socie ! Sebbene, dunque, dalle pagine di « Lucciola » non si evincano direttamente molte notizie sui legami familiari di Lina, attraverso i carteggi rinvenuti ed i piccoli indizi lasciati qua e là, si percepisce che fu Louise Hamilton Caico 20 a trasmettere alla figlia non solo buone opportunità intellettuali, ma anche ottime conoscenze con personaggi importanti per la cultura europea dell’epoca. Così come fu l’applicazione agli studi etnologici della madre ad appassionare Lina alla Sicilia ed alle sue tradizioni, molte volte annotate sulle pagine di « Lucciola ». Per quanto riguarda gli interessi legati al presente studio, si ritiene sufficiente dar conto di quanto su indicato, rinviando ad ulteriori approfondimenti la storia legata alla rete familiare ed amicale. 3. Presentazione dell’impresa e reclutamento delle corrispondenti « La Lucciola », come più volte ricordato, nacque sulla base dell’esperienza che Lina fece in Inghilterra durante la sua permanenza per gli studi superiori. Una volta rientrata in Sicilia, decise di proporla a giovani congeneri residenti in Italia, attraverso le pagine della « Rivista per le signorine » nella quale scrive : 2 8. Sulla figura di Jolanda e dei rapporti con Angelo De Gubernatis, si veda Maria Gioia Tavoni, Fortuna e personalità di un nom de plume : Jolanda, in Storie di donne, a cura di Pino Boero, Genova, Brigati, 2002. 9. Lina Caico, cit., p. 69, definisce la futura « Lucciola » una “palestra giovanile”, dove le socie potranno fare esperienza di scrittura « tra un piccolo pubblico pieno d’attenzione e d’interesse, che vuole a sua volta essere ascoltato e giudicato ». 20. Louise Hamilton Caico fu autrice di un libro di grande successo editoriale : Sicilian ways and days, London, John Long, 90 di recente pubblicato in Italia con il titolo di Vicende e costumi siciliani, Caltanissetta, Lussografica, 996. Inoltre, curò molte traduzioni, fra le quali ricordiamo : E. J. Hardy, Come essere felici sebbene maritati, Palermo, Reber, 900 ; Maurice Maeterlink, Il tempio sepolto, versione di Luisa Caico, Roma, C. Voghera, [900 ?] ; Georges Rodenbach, Visioni di Fiandra, versione di Luisa Caico, Roma, C. Voghera, 900 ; Ralph Waldo Trine, In armonia coll’infinito, versione di Luisa e Lina Caico con un proemio di Arnaldo Cervesato, Roma, C. Voghera, 90 [edizioni successive : 920, 930] ; Emma F. Angell Drake, Quel che la donna di 45 anni deve sapere, versione dall’inglese di Luisa Caico, con una introduzione di Pio Foà, Torino, Società tipografico-editrice nazionale, 95 [edizioni successive : 99, 929]. Georges Rodenbach, Poesie : il regno del silenzio. Le vite rinchiuse, versione di Luisa Caico, prefazione di Paolo Nalli, Roma, C. Voghera, s.d. [ma 924] ; Algeron Carlo Swinburne, Canti scelti, versione di Luisa Caico, prefazione di Arnaldo Cervesato, Lanciano, Carabba, 93 ; Aleardo Aleardi, Canti scelti, a cura di Luigi Grilli ; Algeron Carlo Swinburne, Canti scelti, versione di Luisa Caico, prefazione di Arnaldo Cervasato, Torino, utet, 940 [edizione successiva : 944]. 2. Lina Caico, cit., pp. 6-70.

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Firefly è il nome di un « amateur magazine », una « rivista di dilettanti ». Il formare piccole società letterarie è un passatempo abbastanza comune tra la gioventù inglese : quasi ogni collegio ha la sua « debating society » che si riunisce per parlare, leggere i saggi, proporre l’argomento da discutere. Molte altre volte non è una « società di discussioni » che si forma, ma un giornalino ; ogni socia contribuisce con uno scritto, o una pittura, e quella che fa da direttrice li cuce tutti insieme, ed il libro che così viene a formarsi ogni mese, gira tra le collaboratrici, mandato per posta dall’una all’altra, quando esse abitano paesi diversi. La Firefly è appunto una di queste « riviste di dilettanti », e credo una delle più riuscite. È già una prova di valore se essa esiste da sette o otto anni [ovvero dal 90 circa], senza interruzione, mentre questi giornalini hanno per lo più vita intermittente e di corta durata. Le socie della Firefly sono sparse per la Gran Bretagna ; ce ne sono state pure in Francia, Ungheria, Danimarca, perfino in Russia ; in generale queste straniere contribuiscono con pitture o fotografie. Per ora, la sola d’oltremare è in Sicilia... e sono io. Da parecchi anni sono socia della Firefly, ed il caro giornalino mi ha dato tanto piacere che ho pensato di parlarvene, per invogliare alcune di voi a seguire il nostro esempio.

D’altro canto, Lina stessa venne a conoscenza di « Firefly » e decise di associarsi grazie ad un avviso di “reclutamento” delle socie pubblicato nella « Girl’s Own Paper », un importante periodico inglese per giovinette. Lo scopo per il quale decise di importare l’esperienza di « Firefly », non sembrerebbe legato all’ameno passatempo, quanto alla sua curiosità intellettuale e particolare sensibilità culturale, nelle quali ancora una volta si ravvisa l’influenza della madre. Sempre dalle pagine della « Rivista per le signorine », Lina ci narra le modalità per entrare nel gruppo di « Firefly », esattamente le stesse che verranno richieste per « Lucciola ». Come si può evincere dal testo, è a partire da questo articolo pubblicato da Lina che si comincia ad intravedere quello che sarà anche il peritesto di « Lucciola » : Le socie devono pagare una piccola quota annuale che serve per la rilegatura dei fascicoli mensili, e pei premi di concorsi ; con dodici socie basta uno scellino e mezzo a testa. Esse devono contribuire ogni mese alla rivista, con scritti, pitture, disegni, fotografie. Bisogna che gli scritti siano tutti su carta dello stesso formato quello d’un quaderno solito, e che si lasci nel lato interno di ogni pagina un margine di tre centimetri ; questo perché si possa rilegarli insieme. La direttrice incolla le fotografie e le pitture su carta da disegno a colore. Prima del 25 di ogni mese bisogna aver mandato il proprio lavoro alla direttrice, la quale riunisce e ordina quanto riceve, vi aggiunge una sua lettera alle socie, l’indice, ed alcune altre rubriche. La prima che si trova, aprendo uno di questi fascicoli, è la lista degli indirizzi delle socie, preceduta dalle parole : « Dopo avere trattenuta la Firefly per una notte, ogni socia deve spedirla all’indirizzo che segue il proprio ». Accanto ad ogni indirizzo sono due caselle, nelle quali ognuna segna la data dell’arrivo e della partenza del fascicolo ; insieme ad esso si spedisce una cartolina alla direttrice per farle sapere quando lo si ha ricevuto e mandato ; per ogni notte in più che lo si trattiene, si paga un penny di multa. Se non ci fossero queste regole, ogni fascicolo durerebbe parecchi mesi a fare il giro delle socie, o potrebbe smarrirsi senza che la direttrice lo sapesse per molto tempo. Dopo la pagina degli indirizzi e delle date vengono quelle dei voti, divise in caselle ; nella prima colonna sono i nomi delle socie, le altre sono intestate : Racconti – Saggi – Poesie – Pitture – Fotografie. Ogni socia scrive, in fila col proprio nome, sotto ciascuna di queste intestazioni, il lavoro di quel tale genere che più le è piaciuto in questo fascicolo. Di questi voti si tiene conto, ed alla fine d’ogni anno c’è un premio per chi ne ha ricevuto di più (pp. 62-63).

Tali regole, dettagliatamente espresse assieme alle sanzioni per chi non le avesse rispettate, ci fanno percepire come le socie di « Firefly », ed in seguito di « Lucciola », tenessero al rigore della forma data ai loro testi e ne fossero tutte consapevoli più di quanto, forse, avveniva per chi affidava i propri contributi a periodici editi.

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Questa consapevolezza è ulteriormente sottolineata da alcune stimolanti particolarità. Ad esempio, in fondo al fascicolo erano previste « molte pagine bianche, nelle quali ogni socia – dopo aver tutto letto ed esaminato – scrive la sua critica dei lavori altrui ; queste pagine – annota Lina – sono molto interessanti, e danno da pensare, perché si vuole essere giuste senza essere scortesi, e trovare le parole esatte per qualificare i vari lavori, invece di limitarsi ad un comodo « bello », o « brutto », non motivato. Quando la Firefly arriva, si guarda subito nelle pagine della critica, per vedere quello che le altre hanno detto sul conto del proprio lavoro ! Alcune si sbrigano con poche righe, altre invece hanno sempre molto da dire. Il fatto che per lo più non ci conosciamo personalmente fa che possiamo criticarci con maggiore libertà » (p. 63). Proprio quanto annotato su queste “pagine bianche” diviene a mio avviso l’“epitesto” contenuto nel “peritesto” stesso. Il saggio intitolato « Firefly » pubblicato da Lina sulla « Rivista per le signorine », possiamo anche leggerlo come epitesto anteriore, pubblico e autoriale di « Lucciola », nel quale colpisce la chiarezza della transazione fra l’istanza autoriale e la realtà socio-storica delle lettrici, che origina nuove opportunità di riflessione e modalità di azione. Lo sforzo propagandistico di Lina di lì a poco verrà premiato con un numero di adesioni ben superiore alle sue attese : Spero che la mia proposta troverà amiche, e se riceverò più di dieci adesioni potremo incominciare subito il nostro giornalino. Manderò altre spiegazioni a chi me le chiederà, ma sarà bene fin d’ora dirvi che cosa ci sarà da pagare : la spesa maggiore è la spedizione dei fascicoli dall’una all’altra, anche perché bisogna raccomandarli. In Inghilterra non c’è bisogno di questo, e inoltre la Firefly viaggia sempre come libro ; in Italia la posta esige spesso che vada come manoscritto ; e inoltre, l’esperienza che ho fatta della posta italiana (mi dispiace molto doverlo dire !) fa sì che ritengo necessaria la raccomandazione. Oltre a questo c’è da contribuire alla rilegatura mensile ed ai premi ; con dodici socie, credo basterebbero due lire a testa, all’anno. Dunque chi vuole aderire mi scriva, mi dica se il titolo di Lucciola le piace, o ne suggerisca qualche altro, e faccia qualunque osservazione vuole ; questa è una piccola repubblica : ognuna dice la sua, si cerca di attuare i suggerimenti di tutte, e la direttrice ha soltanto l’onore di lavorare un po’ più delle altre. Bisognerà che il nostro giornalino italiano gareggi con la Firefly inglese ; non fosse che per patriottismo, dovremo curare che abbia vita anche più prospera ! (p. 70).

4. Le corrispondenti, gli pseudonimi e i loro motti In breve volger di tempo risposero ben 24 socie che si adoperarono al primo fascicolo di « Lucciola », segno evidente del fatto che Lina aveva saputo cogliere le esigenze di scambio intellettuale di un segmento sociale abbastanza ampio e vivace. Alla buona riuscita dell’impresa contribuirono fin dall’inizio personaggi autorevoli di riferimento come Jolanda, Sofia Bisi Albini già direttrice della stessa « Rivista per le signorine », Ida Baccini e più tardi Rosa Borghini, direttrice di « Lumen ». Queste furono molto spesso menzionate dalle Lucciole nei loro scritti e ad esse venivano sottoposti quesiti e perplessità, tipiche di adolescenti sospese fra il radicamento ai valori tradizionali e le inquietudini dovute ai nuovi ruoli e orientamenti femminili che si affacciavano in quegli anni. Fatto sta che fin dal primo fascicolo l’elenco delle socie fu assai folto e, accanto ad esse, apparvero alcuni pseudonimi di soci che a lungo collaborarono alla redazione del periodico, sebbene la direzione non venne mai volutamente affidata ad un uomo. Il piano dei Mesi di collaborazione delle Socie veniva stabilito dalla direttrice dell’annata e pubblicato sul primo fascicolo dell’anno, per dar modo a ciascuna

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« Lucciola » di predisporre per tempo il proprio contributo, letterario o artistico, da “pubblicare” nel mese assegnato. [Fig. 5] Tutte le partecipanti scelsero uno pseudonimo nonostante la pubblicazione fosse auto referenziale e non necessitasse di un nom de plume, almeno non per ragioni di riservatezza o convenienza. Persino i pochissimi uomini che aderirono a Lucciola scrissero sotto altro nome, talvolta femminile. Preme qui sottolineare almeno un aspetto interessante : le ragioni spesso dichiarate, se non evidenti, circa la scelta degli pseudonimi e soprattutto l’uso di quelli in forma di motto, ad enfatizzare ulteriormente il carattere autografo ed il desiderio delle autrici di farsi conoscere, o meglio, ri-conoscere, grazie a poche parole ritenute efficaci per tratteggiare lo spirito della persona, al di là della produzione contingente. Di questo tipo sono ad esempio quello condiviso da Maria Ruminato e Michele Scaglione, rispettivamente Oneira (Maria) e Cleia (Michele), che ricomposti danno origine al motto “sogno di gloria, dal greco “oneir kleias” ; 22 oppure quello scelto da Gina Frigerio v.f.s., utilizzato a mo’ di acronimo per Veritate, Fortiter, Suaviter. E come non riconoscere in v.f.s. colei che, fra i molti impegni, frequentava l’Istituto per ciechi di Milano, dove leggeva alle donne ospiti « La Lucciola », aiutandole a comporre un analogo periodico scritto in Braille ? Così come nel motto with my soul che Lilla Di Leo Chiarenza appone sempre a mo’ di epigrafe ai suoi scritti, come non riconoscere colei che, pur aderendo al fascismo, rifiutò coraggiosamente l’incarico di Podestà di Ribera in provincia di Girgenti ? 5. La lettera editoriale e le “Regole” Fin dall’inizio la rivista si dotò di regole volte a disciplinare le modalità di composizione degli articoli, di invio e scambio dei fascicoli, i costi di gestione e le sanzioni per coloro che fossero state inadempienti. Queste vengono riportate fin dal primo fascicolo di Lucciola in nostro possesso, risalente al marzo 908. In apertura del primo fascicolo, così come di tutti i seguenti, si trova la lettera editoriale Alle socie nella quale Lina Caico definisce se stessa « direttrice, editrice, tipografica, rilegatrice ». In esse riassume le decisioni prese in merito al nome scelto per la rivista, ai testi, ai corredi iconografici da inserirvi, ai referendum e ai voti che le socie dovranno reciprocamente attribuirsi dopo la lettura. Molte sono le allusioni a « Firefley ». Nel complesso, la lettera Alle Socie, appare come un sorta di “manifesto” di Lina Caico contenente le motivazioni paratestuali : Il titolo – eccovi il primo fascicolo del nostro giornalino. Circa il suo titolo scrissi a ciascuna di suggerirmene qualcuno per poi mettere ai voti i nomi proposti. Ma siccome quasi tutte hanno espresso il desiderio che il titolo sia Lucciola la votazione sarebbe superflua. Due socie avevano obiettato a questo titolo : Bianca Paolucci e Gina Marchesi. La prima propose i titoli “La pubblica volante” “La pubblica delle lucciole “ “Lo zibaldone”. (…) Dice Ada Frigerio : “Trovo buono il titolo di lucciola perché mi pare che ci inviterà di più a gareggiare e forse superare la sua omonima” e Giuseppina Giardini “La lucciola è una bestiolina di poca pretesa : essa da luce, e non ha nello stesso tempo la pretesa di illuminare veramente”(.…) Le regole – … le socie potranno suggerire modificazioni o aggiunte. A richiesta di molte ho esteso il tempo pel quale si può trattenere il fascicolo a tre giorni, però ciò porterà l’inconveniente che – con 24 socie – ogni fascicolo durerà due o tre giorni a fare il giro ! La rilegatura – Ho fissata la quota annuale a lire una, perché dovendo rilegare io stessa i fascicoli, credo che basterà. Se abitassi in città lo farei fare da un rilegatore, e la quota sarebbe un po’ più. Ma 22. « La Lucciola », anno vii, fasc. xi, dicembre 94, p. 63.

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qui bisogna che faccia io ; le socie compatiscono la mia rilegatura da dilettante ! Terrò conto di quanto ho da spendere per la Lucciola (carta, spago, colla, stoffa ecc.) e se tra sei mesi vedrò che una lira a testa non basta per i premi di qualche concorso, oltre alle spese lo farò sapere alle socie. Mi dispiace che questo mese mi tocchi adoperare della carta piuttosto brutta. Spero poterne trovare della migliore per il prossimo fascicolo. Le critiche – Nella pagina della critica noterete le vostre impressioni sui lavori altrui. Potete parlare di qualche lavoro soltanto o di tutti ; … nelle pagine dei voti segnerete ciò che preferite. Nella Firefly, sotto l’intestazione saggi (essays) si vota per tutto ciò che non è racconto, bozzetto, novella ; La illustrazione – Circa le illustrazioni vorrei che fossero di più e di soggetti più svariati eccetto un paesaggio sono tutti fiori. Abbiamo due disegni e due pitture. Mi pare che il fiore di L. Frontiera (che fiore è ? Giglio ?) manchi un po’ di esattezza di linee decise. Nella veduta di Carmen la casa è fatta bene ma la strada manca di prospettiva ; ci mandi qualche cosa di più facile e di più semplice dal vero e riuscirà meglio, un’altra volta metta carta velina attorno al suo disegno così non sporcherà la pagina vicina. Buoni i fiori di Rosina Voces … Io non m’intendo di pittura, e perciò, è facile che questi miei appunti siano sbagliati prego le nostre artiste di volersi consigliare e correggere a vicenda … Inorridirete di certo innanzi allo sgorbio del frontespizio, e il vostro orrore crescerà quando sentirete che non sono nemmeno stata capace di copiare quelle foglie e quelle lettere ma ho ricalcato tutto da certi disegni per ricamo ! ! Ma è inutile, non so disegnare. Perciò vi prego socie pittrici di fornirmi di frontespizi pei fascicoli venturi. Vi prego anche di dare un titolo qualsiasi ai vostri lavori perché sia più facile indicare di quale si parla e per quale si vota. Potete scriverlo dietro ; scrivete pure “dal vero” dietro a quelli che non sono stati copiati. (…) Mi varrò volentieri dei vostri consigli in quanto alla parte editoriale ed in quanto alla letteraria ; i vostri appunti mi saranno preziosi perché sono abituata a scrivere più inglese che italiano e perciò il mio italiano spesso zoppica. Questa di fondare la Lucciola è stata proprio un’audacia da parte mia , perché non sono tipo da saper prendere qualsiasi iniziativa e da dirigere cosa alcuna ! Lo sapete come sono : sbadata, smemorata, confusionaria per natura ! Ma pazienza col tempo e con la buona volontà spero di mettermi in carreggiata e non sbagliare più e per la parte tipografica non ho nemmeno l’ausiliare d’una bella calligrafia !

Seguono le “Regole” che verranno menzionate anche nei fascicoli successivi al primo : I La lucciola si compone di fascicoli mensili

II Le socie devono inviare i loro lavori alla direttrice prima del 25 di ciascun mese. Gli scritti devono essere del formato del giornalino, con un margine di 3 cm dal lato interno di ogni pagina. La misura minima per pitture, disegni, fotografie è di cm X. III Ogni socia spedirà a quella che viene dopo di lei nella lista degli indirizzi il fascicolo ben ravvolto e raccomandato, scrivendovi sopra : libro raccomandato (1). Nello stesso tempo spedirà alla direttrice una cartolina per farle sapere quando ha ricevuto e quando ha spedito il fascicolo. IV Ogni socia deve notare vicino al proprio indirizzo quando ha ricevuto e quando ha spedito il fascicolo. Deve segnare nelle pagine dei voti i lavori che preferisce in quel fascicolo. Deve collaborare alla rubrica critiche. V Ogni socia può trattenere il fascicolo al massimo tre giorni. Però deve cercare di trattenerlo meno, possibilmente un giorno solo, giacché possa fare il giro delle socie il meno possibile. VI La quota annua è di £ una (1) non si può scrivere stampa essendo manoscritto ; ma scrivendo libro, in generale la posta accetta che viaggi come i libri stampati cioè per meno dei manoscritti. (Nella Firefly c’è la seguente regola “tutte le socie devono collaborare a ciascun fascicolo, chi non collabora a un fascicolo non lo riceve”. È una regola molto importante quando le socie sono poche. Ma siccome la Lucciola ne ha 24 o più mi par che sarebbe invece indicato il dividere le socie scrittrici – sono le + – di modo che metà collabori a un fascicolo e metà a quello seguente. 11 socie hanno scritto in questo primo fascicolo e mi pare, non sia desiderabile avere più scritti in una volta di quanto esso ne contenga. Prego le socie a volermi dare il loro parere su ciò.)

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Le “Regole”, vengono anche parzialmente modificate, qualora le esigenze lo richiedano. Ad esempio, nel fascicolo di gennaio 92, la direttrice Gina Frigerio fornisce ulteriori interessanti raccomandazioni, fra le quali : 4°_d Ogni lucciola ha l’obbligo di mettere le date con l’ora di passaggio di Lucciola, in ogni fascicolo accanto al proprio indirizzo, e di votare pei lavori che in esso giudica migliori, di fare osservazioni di almeno due righe 7°_b la Lucciola va spedita sempre come libro raccomandato o come manoscritto raccomandato, in apposita scatola esternamente ben confezionata 7°_c la ricevuta va sempre conservata, e va mandato alla direzione avviso di passaggio 7°_e la lucciola non va trattenuta più di 48 ore. Si badi di ravvolgere in un foglio di carta e legare con cordicella il fascicolo prima di riporlo nella scatola per spedirlo : questa cura diminuirà i danni dello scuotimento nel viaggio.

6. Il Bilancio La quota annua fissata per “abbonarsi” a Lucciola viene dunque stimata dalla prima direttrice in una lira, ritenuta sufficiente, come abbiamo visto, per sostenere le spese di legatura e per i premi di qualche concorso. A titolo di confronto è bene tenere presente che il costo della Rivista per le signorine è di £  il fascicolo, ovvero di £ 0 l’anno, mentre Cordelia veniva posta in abbonamento a £ 5 l’anno, potendo contare su quasi 5000 adesioni a fine ’800, raddoppiate nell’arco del decennio successivo. 23 Tuttavia, per quanto riguarda Lucciola, la ricchezza iconografica, che presto viene incrementata con i concorsi artistici, e l’aumento del numero di concorsi a premio che le Lucciole bandiscono, fanno si che già nel gennaio del 90 s.v.f proponga di aumentare di 25 centesimi la quota individuale di abbonamento, per poter alzare il premio ad almeno £ 3 in libri per le vincitrici dei Referendum e dei concorsi. Inoltre, fra le attività lucciolesche non mancano quelle caritatevoli che vengono puntualmente registrate fra il giro di denaro, come la raccolta di 26 lire da destinare all’Istituto per ciechi “Regina Margherita” di Napoli. 24 Nell’arco di pochi anni, dal 908 al 9, la quota annua passa a 3 lire : un aumento decisamente elevato, tanto da indurre s.v.f direttrice dell’annata a mettere ai voti la proposta di ridurre drasticamente le spese pervenuta dalle socie Soul e Qualcuno. 25 Queste ultime giudicano « La lucciola » « un po’ troppo di lusso » e propongono che essa costi « appena il minimo necessario a renderne possibile l’esistenza. Per questo sosteniamo che sarebbe utile e buono ridurre al minimo, nel preventivo, (ed anche nel resoconto, aggiungo io, v.f.s !) le spese ». 26 Le proposte per la riduzione dei costi di gestione della rivista toccano direttamente gli apparati paratestuali che più hanno a che fare con l’iconografia, come il cartoncino sul quale montare i lavori artistici, considerato troppo « spesso », l’uso di inchiostri colorati considerati « lussuosi », poiché – continuano le sorelle Arpesani – « Non è in tutta questa raffinatezza artistica (apprezzabilissima in sé) che sta il pregio specialissimo di Lucciola nostra ! Esso sta nella sua anima : nella possibilità che offre a noi – e ad altri “noi” nel futuro – di conoscerci, di intenderci, di affratellarci giocondamente ! ». La direttrice apre così le votazioni, esprimendo per prima il proprio pensiero : 23. Donne e giornalismo, cit., p. 33. 24. « La lucciola », febbraio 90, c. 85 Clotilde Olivieri direttrice dell’Istituto ringrazia le lucciole inviando una lettera in caratteri Braille, legata al fascicolo. 25. Soul, alias Adelaide Arpesani, e la sorella Qualcuno, alias Sofia Arpesani, furono corrispondenti da Milano. 26. « La lucciola », dicembre 9, cc. iii-v.

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Io trovo buono abolire i premi in denaro (o libri od oggetti che si debbono acquistare con fondi luccioleschi) e in tal modo sarebbe eliminata una spesa annua di £ 25 e più (cioè 3 0,65 a testa). Però siccome io so il piacere che procura un premio di Lucciola, io proporrei che i premi fossero costituiti ciascuno da 1 fascicolo di Lucciola “arretrato” e completo (La direzione terrebbe nota di dove sono i vari fascicoli, così che chi li volesse rivedere, non avrebbe che a chiederli in prestito – a suo carico ogni spesa di posta – a chi lo possiede).

Il dibattito è ampio e, per fortuna nostra, vengono accolte solo parzialmente le riduzioni dei “lussi”, mentre non viene accettata la proposta di mettere in palio i fascicoli di « Lucciola », quali premi dei concorsi e dei referendum, che continueranno, invece, ad essere conservati dalla Direttrice dell’annata. Tuttavia, già dal gennaio del 92 la quota di abbonamento annua viene abbassata a  £ e nel corso dell’anno successivo le Lucciole inventano un geniale espediente per far soldi : la vendita dei distintivi a £ 2,50 cadauno. Di essi purtroppo non abbiamo traccia materiale, tuttavia dovevano essere una buona fonte di incassi, visto che essi vengono spesso menzionati nei bilanci. Rimane, comunque, apprezzabile lo sforzo di trasparenza amministrativo-contabile che le direttrici di « Lucciola » mettono in atto per la gestione anche economica della rivista. Infatti, nell’ultimo fascicolo di ciascuna annata si trova il Resoconto amministrativo, nel quale le entrate e le spese vengono annotate minuziosamente. 7. L’epitesto Ancora una volta ci troviamo dinnanzi alla curiosa sollecitazione che offre il confronto fra gli epitesti scritti per un testo edito e gli epitesti rintracciabili in « Lucciola ». Da un punto di vista spaziale non vi è dubbio che gli epitesti in « Lucciola » siano tutti interni, ovvero anch’essi manoscritti ed inseriti accanto ai testi, come i commenti critici annotati dalle socie sui lavori altrui o legati “fra” le carte, come i giudizi sulle risposte ai Referendum inviati da Jolanda. Non solo, potremmo affermare che la produzione epitestuale è addirittura programmata e realizzata secondo “Regolamento”. Si pensi addirittura che è prevista nientemeno che l’espulsione per quelle socie che non inviano le Osservazioni o le esprimono in forma ritenuta non sufficiente : […[ la direzione potrà espellere quelle socie che furono troppo disordinate od incuranti (per la collaborazione o per la ritenuta dei fascicoli, o per la mancanza od insufficienza di Osservazioni) Queste espulsioni dovranno essere approvate da GP Lina e Lakmy, garantendo (dietro prove fornite dalla direzione) della “giustizia” dell’espulsione. (« La Lucciola », gennaio 92, c. 3-4)

Ma torniamo all’epitesto che, secondo la definizione data da Genette, circola « in qualche modo in libertà, in uno spazio fisico e sociale virtualmente illimitato ». 27 Ebbene, gli epitesti prodotti dalle Lucciole “circolano” fisicamente non tanto in uno spazio esterno, quanto attorno ai testi stessi : le note critiche si trovano sia nelle parti appositamente dedicate alle “Osservazioni” in ciascun fascicolo, sia disposte in modo circolare rispetto al testo, quasi che gli inchiostri rincorrendosi sulle carte riproducessero simbolicamente la forma circolare del colloquio fisico o anticipassero una sorta di rappresentazione ipertestuale. In tal modo è ancor più percepibile la comunicazione fra emittente e destinataria, tanto da sembrare quasi una forma di scrittura epistolare, mentre si tratta chiaramente di una strategia messa in atto per palesare testi ed epitesti in una economicità di spazio, tanto preziosa nella produzione del manoscritto. 27. Gérard Genette, cit., p. 337.

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D’altro canto non mancano per « Lucciola » gli epitesti editi. Si pensi, ad esempio, alla pubblicazione sulla « Rivista per le signorine » di « Firefly », sopra ricordata, che può costituire come si è detto l’epitesto anteriore, pubblico e autoriale di « Lucciola ». Infine, troviamo anche epitesti privati nel carteggio intercorso fra le sorelle Lina e Letizia Caico, 28 sui quali in questa sede non possiamo soffermarci. 8. La promozione della lettura : il “Referendum” e i “Concorsi” Come abbiamo più volte ricordato, fra le rubriche fisse di « Lucciola » vi sono i referendum ed i concorsi letterari ed artistici. Non dobbiamo scordare, infatti, che le Lucciole si sentivano autrici all’interno di una “palestra giovanile” e, come tali, si sottoponevano ad attività competitive. Vennero previsti premi che consisterono nel giudizio autorevole di una scrittrice nota amica delle Lucciole, come fu Jolanda, o la vincita di un libro fra quelli segnalati e messi in palio. In entrambi i casi si trattò di una forma assai efficace di promozione della lettura, sia auto-referenziale, che pubblica, ancora una volta ispirata in buona parte dall’esperienza di « Firefly ». 29 Per Lucciola, in particolare, vennero istituite due commissioni permanenti : una “artistica”, per esaminare i corredi iconografici, l’altra “letteraria”, per valutare i lavori letterari, le poesie, gli articoli di attualità. Spesso i singoli contribuiti furono considerati così positivamente da indurre alcune socie-giornaliste a pubblicarli, a distanza di tempo, su periodici femminili dell’epoca. Il primo referendum proposto è sul fascicolo di marzo del 909. A proporlo è nientemeno che la scrittrice Jolanda : « Quale virtù stimate più in un uomo ? Quale in una donna ? perché ? ». Altri temi assai interessanti vennero proposti per i referendum, così come per i concorsi letterari, quali : « È buona la massima gesuitica : Il fine giustifica i mezzi ? » ; 30 « Ha ragione secondo voi il Da Vinci affermando che nella contemplazione delle cose naturali sta la calma e il piacere della vita ? ». 3 I testi prodotti dalle Lucciole, come più volte sottolineato, sono di straordinario interesse storico, ma non è questa la sede nella quale poterci dilungare perché la “periferia” ci chiama, ancora una volta con i suoi stimolanti argomenti : ad esempio, le regole procedurali fissate per la partecipazione ai concorsi letterari o artistici o gli elenchi dei libri consigliati in lettura e offerti in premio alle vincitrici. In relazione al primo argomento, trovo di straordinario interesse per l’attualità procedurale descritta, quanto espresso da Lilla di Leo Chiarenza, direttrice di « Lucciola » dal 94 al 95 : Spedire i lavori di concorso “Alla direzione di Lucciola – Ribera” mettendo in un angolo della busta “concorso” ; i lavori debbono essere firmati con un nuovo pseudonimo diverso da quello adottato in Lucciola ; accludere il proprio nome e cognome – ovvero il pseudonimo lucciolesco in una piccola busta ben chiusa e suggellata se volete, d’aprirsi dopo esaminati i lavori, da un’apposita commissione di socie nominata dalla direttrice ; questa piccola busta deve inviarsi unitamente al lavoro di concorso – All’opera dunque, oh lucciole ! La direzione (« La Lucciola », gennaio 94, c. 22). 28. Si veda ad esempio : lettera di Lina a Letizia, Montedoro 2 agosto 94, in Messana, cit., p. 66 sgg. 29. Lina Caico, cit., p. 6. 30. « La Lucciola », settembre 90, c. 20. 3. « La Lucciola », dicembre 90, c. 33.

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Quanto ai libri letti, consigliati e offerti in premio, li conosciamo grazie agli elenchi che dal primo fascicolo e nei successivi vengono pubblicati con il titolo Nota di libri che le lucciole consigliano. Fra gli autori più ricorrenti, segnaliamo : Anna Verta Gentile, Jolanda, Sofia Bisi Albini, Ada Negri, Neera, Vittoria Aganoor, De Amicis, Rovetta, D’Annunzio, Zuccoli, Ohnet, Greville, Pascoli, Carducci, Aleardi, Marrani, Cavallotti, Tolstoi, Dostojevskij, Shakespeare, Longfellow. A titolo di esempio, si veda l’elenco riportato in « La Lucciola », settembre 90, cc. 57-60 organizzato a tabella su tre colonne : la prima riporta il nome o pseudonimo della « Lucciola » che lo consiglia, la seconda il titolo, la terza l’autore. Sotto il titolo spesso sono riportati i giudizi. È interessante notare quanto siano numerosi gli autori stranieri citati con testi in lingua originale (francese, inglese, tedesco), ulteriore testimonianza dell’alto livello culturale condiviso da queste donne. 9. La 2 a stagione di Lucciola (99-926) ed i legami con la stampa femminile del dopoguerra « La Lucciola » riprende a vivere dopo la pausa dovuta alla guerra. Gli argomenti trattati sono quelli dibattuti sulle riviste del tempo e le sensibilità delle Lucciole sono evidentemente mutate, poiché alla loro sopraggiunta maturità anagrafica si sono accompagnati i drammi della guerra. Esse ora dibattono con grande vivacità su questioni quali il diritto delle donne al voto, sulla migliore pedagogia per i fanciulli, sul mandrinaggio ecc. Il loro approccio continua ad essere interessante poiché si propone ancora con un punto di vista “femminile”, sebbene le Lucciole, pur nelle loro diversità, non diano mai prova di adesione ai movimenti più emancipazionisti, ma

Fig. 6. La Lucciola, marzo 923 Frontespizio.

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si tengano sempre all’interno della matrice cattolica. D’altro canto alla chiusura del periodico nel 926 il fascismo aveva già iniziato a metter mano pesantemente all’editoria femminile emancipazionista e anche le Lucciole, appartenenti per lo più al ceto medio, quando decisero di sciogliersi, probabilmente risentirono di un mutamento di clima che non consentiva più il libero scambio di opinioni. Prova ne è il fatto che alla chiusura del longevo periodico manoscritto, l’invito che Gina Frigerio fece alle socie fu quello di abbonarsi e collaborare con il periodico « Lumen ». « Lumen. Rivista per la gioventù femminile d’Italia » nacque a Chieti nel 99. Fu diretta da Rosa Borghini (Mamma Rosa) e Antonietta Tedeschi che ne fecero una rivista rivolta alle lettrici (faville), appartenenti al ceto piccolo-borghese. La rivista era culturalmente abbastanza modesta ma, probabilmente, per le nostre Lucciole rappresentava l’unico luogo dove in quel momento storico era possibile ancora esprimere un punto di vista “al femminile”, senza sentirsi troppo scoperte. Da un punto di vista paratestuale è importante sottolineare che alla ripresa della scrittura nel 99 il formato cambia e diviene ad album con dimensioni 32x2 cm [Fig. 6]. Si utilizzano fogli rigati e marginati di uso commerciale. L’iconografia è scarsa per diventare pressoché assente, salvo qualche fotografia negli ultimi fascicoli. Alcune Lucciole “storiche”, come Lakmy, Sakuntala, Ellade e Cymbra, hanno abbandonato l’esperienza. Quasi commovente per chi sfoglia i fascicoli, ripercorrendo in essi la storia delle donne che li hanno confezionati, ma anche la storia dell’Italia di quegli anni, vedere la scritta Ultimo 1926 in luogo del mese solitamente indicato accanto all’anno. 32 Alla c. 28 Gina Frigerio scrive : Osservazioni. Ecco finalmente proprio l’ultimo fascicolo di Lucciola. So che per tutte le pochissime rimaste l’aggettivo è doloroso. Anche per me ha la lieve malinconia delle cose che finiscono : ma so che Lucciola fu tale fonte di vita, tale lieve e indistruttibile legame di anime, che si colorisce per me della poesia, del ricordo, di mille ricordi, e della certezza che nessuno che ne fu parte potrà mai dimenticarla. Se tutte le rimaste si associano a Lumen (casella postale 28 – Chieti – £ 20. – d’abbonamento annuo) troveranno in esso e Letizia (felice Mairo ?) e Ambra, e Verena, e Lina, ed anche altre che ci spiace lasciare, ma dalle quali non saremo mai disgiunte. Sempre più, sempre unità a voi, sempre in attesa delle vostre care lettere sta vfs.

Lina tenta di dissuadere le amiche proponendo un’uscita semestrale, non potendosi arrendere evidentemente alla chiusura, dopo tante energie profuse. Le socie Anna, Verena, Ambra, Lia Mar, Mara, Nada, Nunziatina, Isolana, Lina, Letizia scrivono le loro osservazioni, accomiatandosi da Lucciola, ciascuna con un proprio addio e dandosi tutte appuntamento in Lumen, che Anna definisce « ispirato da quell’eletta donna che è Rosa Borghini » (c. 220). Ringraziamenti Le vicende legate a « Lucciola » sono di particolare interesse in quanto testimonianze di un’esperienza unica ed irripetibile. Tuttavia, così come molte vicende della vita, anche quelle che accompagnano Lucciola sono contrassegnate dal magico filo del “caso” che ha favorito la sua esistenza, ma anche il suo felice ritrovamento, risparmiandola dallo smembramento che operazioni commerciali avrebbero potuto cau32. Trattasi del fascicolo doppio gennaio-febbraio 926.

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sare, per restituirla integra alla comunità delle studiose e degli studiosi che vorranno farla rivivere attraverso i diversi approcci disciplinari che essa consente. Tutto questo mi induce ad esprimere i miei più vivi ringraziamenti ad alcune persone che, legate da quel magico filo, ci permettono oggi di poterne fruire. Innanzitutto Francesco Monicelli, ex bibliotecario della Società Letteraria di Verona, il quale, interpellato per ragioni di amicizia dagli eredi Frigerio-Carlassarre, ha avuto per primo l’intuizione del valore del fondo ed ha curato il deposito presso la Società Letteraria stessa, preservandone l’integrità ; Angela Miciluzzo e Bianca Lanfranchi Strina, rispettivamente ex direttrice dell’Archivio di Stato di Verona ed ex Sovrintendente ai beni archivistici del Veneto, che hanno finanziato la microfilmatura dell’intero fondo ed hanno messo in atto tutte le procedure per la sua salvaguardia ; la già ricordata Cristina Arlango (cfr. n. 4) restauratrice, che ha provveduto alla compilazione minuziosa delle schede sullo stato di conservazione di ciascun fascicolo ; Paola Azzolini e le amiche collaboratrici, che con grande passione hanno curato la mostra ed il catalogo che nel 995 hanno dato modo alla cittadinanza, ma non solo, di conoscere il “tesoro ritrovato” ; Federico Messana, più volte citato nel testo, che con incondizionata generosità mi ha dato l’opportunità di fruire dei carteggi e dei due fascicoli di « Lucciola » in suo possesso ; Eleonora Cirant e Angela Gavoni che mi hanno cortesemente favorito l’accesso ai fascicoli conservati presso l’Unione Femminile Nazionale. Leone Zampieri, Monica Berzacola, Donatella Boni, Alessia Parolotto e Franco Zoccatelli che, a diverso titolo, hanno reso possibile il presente lavoro, grazie alle loro competenze ed alla loro affettuosa disponibilità. Abstract Lina Caico (883-95), con abilità e passione, nel 908 a Montedoro (cl) diede vita all’esperienza de « La Lucciola » : un’impresa giornalistica manoscritta, che per quindici anni percorse tutto il territorio nazionale. Essa si interruppe nel 926 a Milano, quando l’ultima direttrice, Gina Frigerio (888-969), ritenne conclusa la straordinaria esperienza. Lina Caico diede avvio all’impresa rifacendosi a riviste femminili che nello stesso periodo venivano prodotte in Francia, Germania, Inghilterra, quali « Mouche volante », « Parva Favilla », « Firefly ». Fu proprio quest’ultima, « Firefly », a darle l’ispirazione per proporre nel 908 dalle pagine della « Rivista per le signorine », l’avvio dell’analoga esperienza italiana, da far circolare fra giovani donne fino a quel momento sconosciute fra loro. Fin dall’inizio delle loro “pubblicazioni”, le Lucciole rivelarono un entourage intellettuale costituito dalle donne più note del giornalismo femminile dell’epoca, quali Jolanda, Sofia Bisi Albini, Ida Baccini e Rosa Borghini. Il fondo a noi pervenuto consta di 5 fascicoli sostanzialmente omogenei dal punto di vista materiale, ciascuno composto in media di 300 pagine numerate in originale dalla Direttrice dell’annata che provvedeva anche alla rilegatura, alla compilazione degli indici ed all’inserimento degli apparati iconografici. Assai eterogenei i contenuti testuali ed i materiali strutturali utilizzati : cuciti con uno o più passaggi di filo collegato alla coperta, costruita a parte utilizzando con perizia sete, velluti e tessuti operati, dipinti o ricamati, paglia intrecciata. Ricco il corredo iconografico composto da piccoli dipinti eseguiti con differenti tecniche o preziosi ricami. Fotografie, stampe e cartoline, documentano ed accompagnano gli articoli di attualità, i riferimenti letterari, gli assaggi di poesie, la cronaca di un tessuto quotidiano ordito con straordinaria passione e curiosità. In 908 at Montedoro (cl), Lina Caico (883-95) established the experimental “La Lucciola” with skill and passion; and this journalistic manuscript enterprise spread throughout the na-

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tion for 5 years. It came to an end in 1926 in Milan, when its last director, Gina Frigerio (888969), declared the extraordinary experiment to be over. Lina Caico began the project inspired by other women’s magazines produced in France, Germany and England, such as «Mouche volante», «Parva Favilla» and «Firefly». The last one, “Firefly”, provided the inspiration for an offshoot of the “Rivista per le signorine”and the 908 launch of a similar Italian experiment, aimed at a circulation among young women and hitherto unknown to them. From the very first issue, Lucciole displayed an intellectual entourage that included the most well-known women journalists of the era, such as Jolanda, Sofia Bisi Albini, Ida Baccini e Rosa Borghini. The material we gathered comprises 5 issues that are fairly homogeneous from a material point of view, each composed of an average of 300 pages numbered in original by the Director of that year who also saw to the binding, indexes and insertion of iconographic material. The textual contents and the structural material used were quite heterogeneous: they were sewn with one or more threads attached to the cover, constructed separately and with the expert use of silk, velvet and fabrics that were worked, painted or embroidered, as well as braided straw. The images were composed of small paintings created using different techniques or precious embroidery. Photographs, prints and postcards record and accompany articles about current events, literary references, poetry selections, the record of the fabric of everyday life, woven together with extraordinary passion and curiosity.

Elenco dei fascicoli rinvenuti 908 Marzo

Luglio 36

909 Marzo Giugno Luglio Agosto Settembre Novembre Dicembre

93 Gennaio/Febbraio Aprile

90 Gennaio 33 Febbraio 34 Marzo Aprile Maggio Giugno 35 Luglio Agosto Settembre Ottobre 37 Novembre 38 Dicembre

94 Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio/ Giugno Luglio Agosto

9 Gennaio Febbraio Marzo

Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre/Ottobre

Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Novembre 39 Dicembre 40

99

Aprile Maggio Giugno Luglio

92 Gennaio Febbraio

920

92

Febbraio Marzo

Febbraio Marzo

Giugno

33. Collezione Unione Femminile Nazionale, sede di Milano (ufn). 34. Collezione ufn. 35. Collezione ufn. 36. Collezione privata Federico Messana. 37. Collezione ufn. 38. Collezione privata Federico Messana. 39. Collezione ufn. 40. Collezione ufn.

Maggio Giugno Luglio Agosto

il paratesto di una rivista manoscritta 93

94 Settembre Novembre Dicembre

922 Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre/Novembre Dicembre

923 Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre/ Dicembre

99 Settembre Ottobre Novembre Dicembre 924 Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio/ Agosto Settembre Ottobre Novembre/ Dicembre

920 Settembre Ottobre Dicembre

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Carmela Reale IL PARATESTO NELL’EDITORIA CALABRESE SEI-SETTECENTESCA

L

a realtà tipografico-editoriale dei secoli xvii e xviii si presenta al ricercatore come un terreno povero, che pochi hanno sorvolato e nessuno ha attraversato scoprendone e valorizzandone gli scarsi, ma non per questo meno validi ‘cimeli’. Né questo termine ha un uso soltanto metaforico, poiché più che conferire a quanto è rintracciabile nelle biblioteche un attestato di ‘nobiltà’, serve ad indicare che ciò che è attualmente rintracciato è solo parte di ciò che risulta dagli spogli compiuti in passato da chi si è occupato di storia del libro o più in generale della cultura calabrese. Bisogna anche chiarire subito che se per il secolo xvii le testimonianze di stampe non sono molte, nel xviii scompaiono quasi del tutto. Segnale questo in controtendenza con il resto del territorio italiano, dove, come si sa, l’incremento della popolazione e il progredire della cultura di base creava una sempre maggiore richiesta di pubblicazioni, avendo come positiva conseguenza il diffondersi e l’aumentare delle tipografie e in genere della loro produzione. L’età della crisi sembrava superata. In Calabria, invece, l’attrazione per la capitale del Regno, che pure era da sempre la sede privilegiata per la tipografia del meridione peninsulare, rendeva gli intellettuali desiderosi di concentrarsi nel polo napoletano, che vedeva anche la corte borbonica partecipare ad un rinnovamento illuminato attraverso alcune figure eminenti (si ricordi almeno Bernardo Tanucci), mentre covava la rivoluzione che a fine secolo avrebbe visto, pur nella sconfitta, nascere per sempre il germe di un desiderio di libertà democratiche che le sempre rinnovate dominazioni non sarebbero mai più riuscite a sopprimere completamente. La Calabria era tuttavia una parte del Regno che non aveva goduto di attenzioni da parte del potere centrale : le inchieste venivano fatte e gli ispettori mandati in visita per accertare le condizioni dei territori e delle popolazioni da tartassare con i tributi. E i territori continuavano a respingere con la loro natura impervia, l’altezza dei monti, la mancanza di strade, le stesse città decadute, i terremoti che tormentavano la terra e i suoi abitanti, terribile fra tutti quello del 783, di cui peraltro la stampa si appropria con più di una pubblicazione, ma non si tratta di stampe calabresi ; la Calabria compare come oggetto di interesse, di cronaca, di studio, ma i testi che la riguardano vengono stampati altrove : a Napoli ovviamente, ma anche a Venezia, o, per esempio, a Bologna. Non è il caso qui di indagare le singole motivazioni, ma era pur necessaria questa premessa per tracciare almeno qualche sommaria linea che proponga un’ipotesi per giustificare un quadro di cui si stenta a comprendere non tanto la povertà, quanto l’inatteso depauperamento. Eppure non è che nella regione non si costituissero raccolte librarie di notevole importanza, sia presso i conventi (che anche oggi conservano ‘giacimenti’ preziosi che attendono di essere esplorati e valorizzati), sia presso alcuni privati che raccoglievano nelle loro case i testi riguardanti le loro professioni, i grandi compendi eruditi, le opere che sollecitavano il loro diversificato desiderio di lettura e di conoscenza.

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Certamente stampe prodotte in Calabria nel Settecento sono andate perdute e certamente alcune sono nascoste nei fondi antichi delle biblioteche, ma è statisticamente ipotizzabile che si tratti comunque di una produzione assai scarsa, non rintracciabile nemmeno indirettamente nelle opere storico-erudite e nei dizionari biografici o biobibliografici di studiosi che hanno concentrato le loro indagini sul territorio calabrese. La testimonianza che qui si propone per prima nell’ambito della stampa settecentesca è una versione in calabrese della Gerusalemme liberata, stampata a Cosenza nel 737. Le altre attestazioni di attività tipografica finora rintracciate sono soltanto tre, come si dirà fra breve ; non sono invece state ritrovate stampe di Alfonso Lelli, di cui si conosce l’attività a Cosenza nel 72, e di Domenico Mormile, attivo a San Marco (Argentano ?), Paola, Catanzaro e Scilla nel 750 e forse già dal 743, come attesta Guerriera Guerrieri ; dopo bisogna aspettare il 806 per riavere la stampa in Calabria, precisamente a Cosenza con Gaetano Migliaccio. La Gerusalemme godeva, come è noto, già della versione in napoletano di Gabriele Fasano, edita a Napoli da Raillard nel Seicento ; Niccolò Parrino si occupa della stampa nel capoluogo calabrese. Importanti elementi paratestuali sono la dedica di Niccolò Parrino a Francesco Maria Carafa, con data Napoli 22 Decembre 737 e l’indirizzo del medesimo tipografo al lettore : « Lo strampatore a chi legge ». Esaminiamo almeno in parte la dedica che, riprendendo i consueti modi della lode e dell’ossequio verso il dedicatario, paragona gli eroi tassiani a colui al quale l’opera viene dedicata. Ma prima di porne in rilievo qualche specifico punto, rileggiamone i tratti salienti : Parrino dichiara di voler mostrare « [...] quella sincera servitù che per obbligo, per genio, e per elezzione l’hò sempre professata ; ho stimata propria per più motivi l’occasione di venirne all’effetto presentandoli l’Eroico Poema del Gran Torquato, che dalla nazia [sic] sua favella nell’idioma della nostra Magna Grecia per opra di un’erudito nazionale dalle mie stampe rinasce ; cossì perche l’egregj fatti di tanti Eroi giusto è che ad un vero Eroe de’ nostri tempi consacrar si debbano ; come perche uscendo alla luce nella Bruzia loquela tradotto, si spera che tal fatiga sia per ricevere tutto l’applauso senza temere le malediche lingue degl’invidiosi, qual’ora porta nella fronte l’eccelso nome di V. E. uno de’ più gloriosi e potenti

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signori di quella fioritissima Provincia, che col splendore della sua Grandezza, coll’essempio delle sue rare virtudi, e cogl’effetti della sua incomparabile munificenza e potente protezzione, sà rendere felici quei suoi fortunati sudditi, e con essi tutti gl’altri che all’ombra del suo patrocinio si raccomandano, degnandosi nell’ore oziose darvi da quando in quando un benigno sguardo per suo divertimento, che non credo li sarà disaggradevole. Dovrei quindi, secondo l’uso di alcuni, toccare le grandezze della sua gran Casa [...] ». Non si può non notare il cenno allo sperato “applauso”, alle “malediche lingue degl’invidiosi”, alla “fioritissima Provincia” e soprattutto alle “incomparabile munificenza e potente protezzione”, nonché al “patrocinio” del dedicatario, né sfuggirà il passaggio dalle lodi del singolo a quelle del casato. Le tre stampe settecentesche calabresi, anzi cosentine, cui prima si è accennato, risalgono alla seconda metà del secolo e in due casi non presentano elementi paratestuali di rilievo, se si eccettua il bel fregio con la giustizia che regge la bilancia sull’occhiello dello scritto di Pompeo Sambiase Risposta a nuovi motivi addotti per parte de’ Nobili di Cosenza, edito nel 752, come si rileva da . Di sedici pagine consta la Lettera apologetica in difesa del R.mo Capitolo di Cosenza, che nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Civica di Cosenza presenta la data 5 Aprile 792 cassata con un frego e la scritta « seconda edizione ». Di gran lunga più interessante l’opera di Niccolò Spiriti Ricordi per l’educazione de’ figliuoli. Rime, edita nel 786 con dedica dell’autore al principe di San Nicandro, di cui si loda soprattutto « La Filosofia cristiana, che concorre a far bello lo Spirito vostro con l’esercizio non mai interrotto delle virtudi ». Il volume termina con l’Indice de’ sonetti et canzone e con l’Errata corrige. Facciamo un gran salto indietro e veniamo alle stampe calabresi del xvii secolo. Precisiamo subito che alcune peraltro, come ha mostrato Giuseppe Lipari, sono falsamente stampate in territorio calabro, e ricordiamo fra queste quelle legate alla messinese Madonna della lettera e le altre relative al sodalizio accademico della Fucina, attivo appunto nella siciliana città dello Stretto. Ma ancora un’altra precisazione è d’obbligo : fra i libri stampati in Calabria una parte, che pur sembra certamente attestata in quanto dichiarano di averne visto copia studiosi di sicura attendibilità come Vito Capialbi, una parte, come si è già accennato, non è fino ad oggi reperita. Malgrado queste non confortanti premesse delle oltre cento edizioni ascritte al Sei-

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cento calabrese, pur tralasciando per i diversi motivi esposti quelle su cui sussistono almeno motivi di dubbio, possiamo percorrere brevemente un itinerario lungo il quale incontriamo, oltre Cosenza e Reggio, centri minori di fondamentale importanza per la storia della stampa in Calabria. Le edizioni che passeremo sinteticamente in rassegna sono state scelte da me con il duplice intento di fornire elementi di confronto fra editori/tipografi diversi e di coprire l’arco cronologico del secolo. Sarei partita dalle Conciliationes Sacrae Scripturae di Niccolò da Tarsia, stampate a Cosenza da Castellano, assegnate anche da validi studiosi come Guerriera Guerrieri al 60, ma in realtà del 600 – e quindi, per così dire, fuori dei confini temporali che sono fissati per questo lavoro – in quanto un presunto I sul frontespizio è in realtà la seconda parte di due lettere maiuscole, A e I, che stanno a significare un’altra indicazione temporale, “Anno Iubilaei”, come poi è confermato nel colophon, dove si legge : « consentia // Ex Typographia Aloysij Castellani. // Anno Iubilaei. M.DC. ». Fra il primo e il secondo decennio del Seicento si stampa a Cosenza per conto di Andrea Riccio. Fermiamoci sull’edizione di una cronologia dell’ordine fondato da Gioacchino da Fiore di Giacomo Greco il cui frontespizio presenta, nella consueta e, a dire il vero, scomposta sequenza di maiuscole e minuscole, il primo elemento di richiamo nella posizione iniziale di assoluto rilievo assegnata a « ioacchim abbatis », ma le maiuscole sono ugualmente riservate al nome dell’autore, di cui si apprendono non solo nome e cognome, ma anche l’appartenenza all’ordine cistercense e le cariche al suo interno ; peraltro la posizione dei caratteri, con gli a capo non coincidenti con la fine delle parole, fa pensare ad una composizione attenta alla grafica piuttosto che all’evidenza semantica. Elemento figurativo di forte rilievo è lo stemma. Ma più ci interessa notare la presenza della dedica a Francesco Monaco e i componimenti in lode di Gioacchino da Fiore, poi dell’Ordine florense, quindi dell’autore. Subito dopo l’elenco dei nomi di alcuni abati e, elemento che non mi sembra trascurabile, un successivo elenco di nomi di alcuni benefattori. Quindi un lungo « praeludium », che occupa le pagine 4-8 e, dopo p. 9 bianca, sul verso, a p. 20, la xilografia del fondatore dell’Ordine florense, accompagnata in basso da una didascalia che ne rivendica il ruolo di ‘vera immagine’, e a p. 2, in modo che il lettore avesse contemporaneamente davanti il ritratto, l’inizio della sua biografia.

il paratesto nell ’ editoria calabrese Dopo le cinquantaquattro sezioni in cui è divisa l’opera, alle pagine 258-259 troviamo l’errata corrige, l’imprimatur e la sottoscrizione : « Cosentiae. Apud D : Andrea(m) Ricciu(m). 62 », con la scelta del latino, perfettamente in linea con la lingua del testo, mentre nel frontespizio era stato privilegiato l’italiano . Trentacinque anni più tardi, nel 647, Serafino della Salandra, francescano, pubblica una tragedia di argomento religioso in cinque atti per i tipi cosentini di Giovan Battista Moio e Francesco Rodella. Si tratta dell’Adamo caduto, definito nel frontespizio, adorno di una cornice con piccoli fregi, « tragedia sacra » e dedicato al Ministro Generale di tutto l’Ordine francescano frate Giovanni da Napoli. Ad ornamento una vignetta e l’esplicitazione « Con licenza de’ Superiori ». È da rilevare che nella dedica dell’autore, rutilante di metafore, giochi di parole, iperboli riferite al dedicatario, si legge che questo, nello scrivere « de i gesti gloriosi de i soggetti illustri della Religione », li ha tratti « su l’immortalità delle Stampe ». Alla fine della dedica stessa è posta anche l’indicazione di luogo e data : « Salandra 20. di Giugno 646 ». Subito dopo un sonetto dell’autore stesso per il dedicatario, componimento sormontato da un fregio. Seguono i permessi di stampa, il secondo del dedicatario medesimo. Da qui ha inizio un apparato paratestuale particolarmente interessante : prima di tutto un indirizzo dell’autore al suo protagonista Adamo in latino ; subito dopo, a guisa di moderna introduzione, il « Sentimento dell’Opera », dove alla

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fine è annunziata un’altra ‘operetta’ del frate francescano intitolata Venera Pudica, e Martire della Città di Locri, adesso Gerace. Nella medesima pagina, sotto una linea somigliante più a un tratto di penna che ad una linea tipografica, l’avvertimento : « A car. 6. Fortuna (legi) Fattura. ». Di seguito si leggono a c. 6r, sormontato da un fregio, un sonetto dell’autore « All’Illustrissimo Signor don francesco revertera Eruditione ». Sul verso della medesima carta, sempre con fregio in alto, un altro sonetto ad un membro della stessa famiglia con la medesima formula di indirizzo : « All’Illustrissimo Signor don gioseffo revertera Eruditione ». A c. 7r uno scritto in latino di frate Angelo da Bisignano della Provincia della Riforma di Cosenza, quindi a c. 7v un suo encomio, sempre in latino : « Idem in operis Encomium », in cui si rivolge al lettore. A c. 8r l’elenco dei personaggi : « interloquitori ». Si noti il -qui- : latinismo dotto o filtro del compositore ? Infine a c. 8v il « prologo ». Passiamo un attimo alle pagine finali. A p. 25 la dichiarazione « Soli Deo honor, & gloria, Auctori vero remissio peccatorum ». Infine, a p. 252 n. n. l’errata corrige e l’imprimatur. Già da questi due primi esempi, pur non trascurando la presenza della xilografia di Gioacchino da Fiore, appare evidente l’importanza preminente degli scritti ‘intorno al testo’ in queste stampe che non si caratterizzano per ricchezza di elementi iconografici, denotando una attività tipografica sostanzialmente non raffinata, dove gli interventi paratestuali sono ascrivibili alla volontà autoriale e il tipografo, anche nei casi in cui sembra di poter parlare di un suo coinvolgimento come editore, non pare attrezzato né interessato a stampe di pregio, né certo sono elementi di rilievo i pochi e peraltro usuali fregi. La R sfugita di Giovan Battista di Soda, a metà secolo (650), è ancora testimonianza dell’attività cosentina di Giovan Battista Moio, mentre fra poco prenderemo in considerazione un suo nuovo sodalizio tipografico, a riscontro della frequenza e forse delle necessità contingenti con cui le società tipografico/editoriali si formavano e si scioglievano, mentre i protagonisti, sia detto per inciso, talvolta trasferivano la propria attività da un luogo ad un altro secondo la nota tipologia dei tipografi itineranti. La R sfugita, dunque, opera bizzarra, esercizio virtuosistico in cui non si adopera la lettera alfabetica in questione, presenta un frontespizio di semplice fattura dove, a parte il fregio della cornice, unico elemento ornamentale è ancora una volta uno stemma e dove compare la formula consueta « Con licenza de’ Superiori » ; è invece da rilevare che la città di pubblicazione compare in tutte maiuscole come consenza (e non Cosenza). Dopo il frontespizio la dedica a Giovan Battista Spinelli, signore di Fuscaldo e di Paola, in data 20 luglio 650, successiva ai permessi di stampa, che sono dell’ e del 23 marzo, dedica dell’autore che premette alla propria firma l’espressione di grandissimo ossequio, peraltro frequente, ma non per questo irrilevante e segnale connotativo della dedica di età barocca, « Humilissimo Schiavo » e che vi aveva affermato che « con tale scudo » l’opera sarebbe andata « senza nessuna tema, ovunque il bisogno la spinge, e gl’invidiosi, non hanno luogo, che l’oppugnino, e la dileggino, vedendola sotto tale defensione », proseguendo con la richiesta di ‘accettazione’. Alla dedica segue « A chi legge », indirizzo al lettore. Undici pagine di componimenti poetici in lode dell’autore (uno in lode del dedicatario) testimoniano l’attenzione a dotare l’opera di credenziali, secondo la tecnica

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paratestuale che ingloba nell’autocompiacimento dell’autore la pubblica attestazione dei meriti suoi e del suo lavoro, rassicurazione per il lettore – e per l’acquirente – della validità del proprio impegno. Al testo vero e proprio è ancora premessa una « Tavola delli suggetti fatta ad Alfabeto », che occupa ben otto pagine, strumento orientativo, sommario che si offre come possibile bussola per creare percorsi di lettura personalizzati, non indice finale, ma anticipazione che promette e lascia intravedere i successivi ‘tesori’. I fregi, le poche iniziali ornate anche qui non sono elementi di rilievo, piuttosto può essere ritenuto indice sia pur minimo di attenzione alla resa tipografica la scelta di differenziare il titolo di ciascun capitoletto con il corsivo rispetto al tondo del testo e di marcare le lettere iniziali dei capitoli stessi con il neretto. Giova infine rilevare che delle due linee che separano alla fine i permessi di stampa la seconda ha tratti fra loro non ben uniti ed allineati orizzontalmente. Nel 656 la società stabilita fra Giovan Battista Moio e Giovan Battista Russo dà alle stampe Il Sebastiano, tragedia sacra di Filippo Rocco, frate dell’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola. Anch’egli dunque pubblica, come è stampato sul frontespizio, « Con licenza de’ Superiori ». Alla cornice con fregi che inquadra i caratteri si aggiunge come maggior elemento decorativo frontespiziale la vignetta, che propone la consueta iconografia del santo trafitto dalle frecce e qui legato ad un albero. Sia detto per inciso che elemento paratestuale della copia da me consultata alla Biblioteca Nazionale di Napoli è la nota di possesso. Anche per questo libro dobbiamo parlare di semplici fregi che riprendono il motivo della cornice e di qualche iniziale ornata. La dedica, in data 5 dicembre 655, è anche per questo testo ad un’autorità religiosa interna all’Ordine dell’autore : si tratta infatti del « padre gio. battista parisio di celico, degnissimo zeloso e Procurator Generale dell’Ordine de Minimi » ; nell’intestazione della dedica peraltro è dato rilievo ad altre due connotazioni del dedicatario : una di carattere territoriale, la provenienza da Celico, paese della preSila cosentina, e una che sembrerebbe riferirsi ad una appartenenza accademica, stampata in posizione di precedenza rispetto alla carica religiosa e in tutte maiuscole, anche se non possiamo non ricordare la scelta non sempre coerente dei caratteri di stampa che veniva operata nel xvii secolo. Fra l’altro è da rimarcare un grossolano errore di

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stampa proprio nella firma della dedica, che risulta « Fr. Fippo di Cosenza » invece che Filippo. Alla dedica segue l’indirizzo « all’intendente e pio lettore », dove si ribadisce – era già scritto nella dedica – che l’autore ha altre tragedie pronte. Il Rocco tiene qui anche a sottolineare che l’aver introdotto nel testo spiriti infernali è ornamento di poesia e non nuoce alla fede. Alla fine avverte : « Gl’errori della stampa non havemo del tutto potuto evitarli, Compatiscili con Charità, e Vivi in gratia del Signore ». Abbiamo poi l’elenco degli « interloquitori », dove si noterà di nuovo l’insolita Q che ci lascia l’interrogativo se sia una scelta autoriale dotta, vista la posizione necessariamente di rilievo della pagina rispetto alle attese del lettore che pone almeno in dubbio che si possa trattare di errore tipografico. Segue il prologo e, dopo l’annotazione terminale « il fine del prologo », un’interessante spia che lascia intravedere l’attenzione dell’autore per una possibile rappresentazione scenica dell’opera : leggiamo infatti « La Verità si scuopre il petto, dove è uno specchio, dal quale abagliata la Bugia è assorbita dalla Terra ». Qui un fregio di maggior interesse propone due angeli inginocchiati con in mezzo il monogramma di Cristo inserito in un sole. I cinque atti della tragedia sono stampati in corsivo. Tralasciando la segnalazione di qualche errore, come per esempio il fatto che a p. 45 inizia il secondo atto, ma alle pp. 46-47 permane ancora come titolo corrente « atto primo », si segnala, anche qui come elemento paratestuale, l’invocazione dell’autore che, dopo aver segnato il termine dell’opera con « il fine del quinto, et ultimo atto », fa stampare in tondo « Laus Deo, B. Mariae / semper Virgini, & Sancto Sebastiano », mentre un fregio a piramide rovesciata che riprende di nuovo la cornice del frontespizio si pone come elemento ornamentale. Sonetti in lode del Rocco insistono sulla sua appartenenza a non meglio precisate accademie con il nome di « Peregrino » e un anagramma di Domenico Durante recita « Frater Filippus Rocco Consentinus → Pulcrior rosa hoc nitens opus fecit », seguito da un epigramma in latino dello stesso Durante. Nel 665 Domenico Antonio Ferro stampa nel convento dei Domenicani di Soriano le Considerationi predicabili del domenicano Domenico De Sanctis, il cui frontespizio alterna sapientemente maiuscole, minuscole, corsivo, tondo, ponendo in rilievo gli elementi principali per individuare l’opera (autore e sua funzione primaria, titolo, ma anche – e non poteva essere altrimenti – dedicataria, luogo dell’edizione). Elemento paratestuale del frontespizio della copia da me consultata nella Biblioteca Nazionale di Napoli con segnatura B. Branc. 98. F. 26-27 è la nota di possesso « Ad usum R fratris Antonini di Castrovillare Magistri Ordinis Praedicatorij », che attesta l’appartenenza del libro a un altro domenicano calabrese. Elemento di particolare rilievo di questa edizione è l’antiporta, percentualmente poco frequente nei testi a stampa del xvii secolo calabrese. Qui è invece una vera e propria dedica figurata, che riserva alla dedicataria Laura d’Aquino, principessa di Castiglione e San Mango, il ruolo di protagonista dell’incisione : su un alto basamento su cui sono riportati il titolo dell’opera in forma sintetica, il nome dell’autore e quello della dedicataria, è posto lo stemma dei d’Aquino retto da due putti ; il tutto è circondato da una sorta di aiuole stilizzate e da due lauri, con chiaro riferimento al nome della principessa, mentre dal basamento due mascheroni gettano acqua ; in basso si legge « In umbra tua vivemus », con evidente riferimento alla protezione che la dedicataria avrebbe accordato.

il paratesto nell ’ editoria calabrese La dedica riprende tutti i motivi che l’antiporta aveva illustrato. L’autore gioca – ricorderà Petrarca ? – su Laura / lauro / l’aura e rammenta di aver predicato il quaresimale a Nicastro. Nell’indirizzo ai lettori De Sanctis si rivolge a loro pregandoli di compiacersi « per cortesia scorrer questa prefatione, prima di legger il Quaresimale », insistendo : « Di ciò ne li supplico instantemente ». Dopo aver scritto che la sua opera è una tela di ragno che raccoglie quanto di buono hanno detto altri, l’autore precisa : « Mi son poi servito d’un Dir comune, e che non habbi punto del recondito, & affettato ». Ancora noteremo la « Tavola de testi, scelti per tema delle Prediche ; con l’Argomento, che trattasi in Ciascheduna di loro. In questa seconda parte » e la « Tavola delle cose più notabili in questa seconda parte. p. Dinota la Predica. n. il Numero Marginale. ». La presenza di questi indici conferma la cura dedicata all’edizione nelle sue diverse componenti paratestuali. Fermiamoci infine su un progetto editoriale autocelebrativo che ci offre la possibilità di esaminare problematiche diverse legate al paratesto. Vediamone alcune : perché Giovan Giacomo Palemonio, vescovo di Martirano, che pure aveva ripetutamente fatto stampare le proprie opere a Napoli, decide di volere una propria stamperia e di volerla in Calabria, a Scigliano ? Gli stampatori a cui si affida sono ben tre, ma mutano in realtà le stampe ? In quale ventaglio di possibilità si collocano le dediche e quali valenze assumono ? Quali altri elementi paratestuali sono presenti e quando ?

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Dal 68 al 686 vengono stampate numerose opere dallo stampatore romano Mario Barone ; nel 689 si registra una stampa del capuano Niccolò Servillo e nel 692 una di Cristiano De Vos, che proveniva da Bruxelles. Ciò che realmente si evince da queste pubblicazioni, al di là di variazioni per esempio nei fregi fra la semplicissima cornice utilizzata da Barone e la stampa di Servillo, è una forte presenza autoriale, che si manifesta ancora una volta negli scritti di dedica, negli indirizzi al lettore, nella presenza degli indici. Le dediche sono indirizzate a rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche, ma anche alla Vergine o a Santi. Vale, però, la pena di notare che i Panegirici in lode della B. Vergine, pubblicati nel 684, sono dedicati al « Glorioso Principe San Michel’Arcangiolo », dove si sceglie di rivolgersi all’arcangelo come ad una figura potente umana (« Glorioso Principe »). Esemplificano bene le caratteristiche che si sono indicate due edizioni del primo anno di vita dell’officina tipografica voluta dal Palemonio, esempio anche degli interessi diversificati dell’autore e della sua attenzione alle pubblicazioni tanto in lingua latina che in lingua italiana. Divinorum et humanorum de fide liber, dedicato al cardinale Girolamo Casanate, opera adorna di frontespizio e fregi silografici, presenta una dedica in versi all’illustre ed eruditissimo dedicatario, un Prologus e – insolitamente nelle ultime pagine – un indirizzo « ad lectorem », che precede immediatamente un ricco « index notabilium » (ben trenta pagine, non numerate, ma incluse in sequenza rispetto alla formula collazionale). Nel medesimo 68 Degli affetti e dell’ornamento dell’orazione Libri due reca come luogo di pubblicazione Scigliano-Diano, quest’ultima località frazione di Scigliano indicata anche come il luogo in cui risulta scritta la lettera di dedica, e riporta nel frontespizio semplicemente « Nella Stamperia Vescovile », senza quindi il nome dello stampatore. L’opera è dedicata a Gennaro Sanfelice, arcivescovo di Cosenza, e la dedica reca come firma « Gio : Giacomo Vescovo di Martirano », probabilmente con la volontà di evidenziare il rapporto di diretta subordinazione fra l’autore e l’arcivescovo, verso il quale ovviamente non mancano le consuete espressioni di grandissimo ossequio.

il paratesto nell ’ editoria calabrese Un ultimo esempio ci permette di segnalare un caso in cui il dedicatario non compare sul frontespizio, pur essendo la massima autorità religiosa cattolica ; l’opera, infatti, è dedicata a papa Alessandro settimo. Infine, come questa, molte delle opere del Palemonio recano la consueta formula « Con licenza de’ superiori », ma non è sempre così : un esempio è possibile vederlo anche nel citato Degli affetti e dell’ornamento dell’oratione. Il quadro sintetico che si è tentato di tracciare, pur in una ricognizione che resta parziale, ci sembra abbia evidenziato un’arte tipografica non scaltrita rispetto alle molte splendide prove di altre parti d’Italia nel Sei-Settecento ; la componente iconografica non impreziosisce che scarsamente la produzione calabrese di questi secoli ed è per lo più legata alla tecnica silografica, con risultati spesso di una certa rozzezza espressiva ; tuttavia l’attenzione ai procedimenti della stampa è comunque presente e prepara il terreno per uno sviluppo che i presupposti non lascerebbero attendere. I pochi mezzi che i tipografi potevano e forse sapevano impiegare non impediscono però che rispetto ad altre costanti della produzione coeva i testi stampati in Calabria non siano certo da meno. La cura degli autori, come si è già detto, è davvero notevole : i loro libri sono ricchi degli elementi paratestuali che essi potevano adoperare senza ricorrere ad altre competenze, testimoniano le molteplici valenze della parola che si piega a propagandare se stessa e le strategie che la rendono vittoriosa. Abstract To a researcher, the 8th- and 9th-century Calabrian typographic-editorial world seems rather impoverished, and studies have been sporadic and partial. It must be emphasized that the main problem is to retrace all re-

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lated material, since any identifiable material currently available corresponds only partially to previous indications by those researching the history of the book or more generally, Calabrian culture. It is equally necessary to point out that unlike the situation in the rest of Italy, editorial activity in Calabria in the 700s became and evidence has almost entirely disappeared. Instead, the 8th century allows us to retrace a map of increased activity, not only in the cities of Cosenza and Reggio, but also in minor centers that were nonetheless of fundamental importance for the history of publishing in the region. Books studied with specific attention to their paratextual apparatus, offer an exploration into the 800s; afterward analysis can be focused on the 700s, with the twofold aim of furnishing elements of comparison between different editors/typographers and covering the chronological timespan of a century.

Giancarlo Volpato ELEMENTI PARATESTUALI NELLE OPERE PUBBLICATE DALL’OFFICINA BODONI DI GIOVANNI MARDERSTEIG

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n una conferenza tenuta presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco nel 974 rendendo testimonianza, à rebours, della sua attività Giovanni Mardersteig dichiarava : “Nella mia professione mi sono sempre prefisso come scopo di vagliare attentamente tutti gli elementi che concorrono alla creazione di un libro, e di riunirli per ottenere un prodotto ineccepibile” ;  l’affermazione dello stampatore veronese – se letta non soltanto dal versante dello stampatore di tante opere pubblicate dall’Officina Bodoni, ma anche da quella del fruitore – presenta almeno due aspetti entrambi importanti dal punto di vista paratestuale. Egli era convinto che un libro andasse, innanzitutto, “creato” (e concedendo, quindi, a questo aggettivo tutta la valenza di eccellenza implicita) alla stessa stregua di come si crea un’opera d’arte – tesi molto cara a Mardersteig che seppure non abbia cercato per la sua produzione definizioni del genere pur tuttavia credette fermamente che « il libro nella sua specie più nobile dovrebbe sempre essere un’opera d’arte » 2 – ideando e progettando, provando e limando sino alla soddisfazione dello spirito ; in secondo luogo, anche se non direttamente ma chiaramente in maniera implicita, egli riteneva il libro un prodotto, cioè anche un oggetto – pure se ineccepibile, e questa fu la straordinaria forza dell’attività mardersteighiana – restituendo così a una bella opera stampata una realtà che troppo spesso era stata dimenticata giacché essa era stata valutata esclusivamente per i suoi contenuti, per le implicazioni filologiche legate al testo, per il suo valore intrinseco. Se non è sostenibile che il contenuto del libro sia meno importante del contenitore, come non è sostenibile che l’importante di una casa sia la sua bellezza esteriore, altrettanto è innegabile che l’uno e l’altro insieme di questi elementi, coordinati, dal progetto iniziale sino alla legatura dell’ultima copia, dalla medesima sensibilità artistica, riescono ad esaltare il testo e a mettere il lettore nella situazione ottimale per comprenderne il senso profondo e trarne il massimo godimento ; caratteri eleganti disegnati da un esteta delle forme – cultore del bello, immerso nella cultura del classico e del rinascimentale, profondo conoscitore della calligrafia come esaltazione della comunicazione – insieme a un involucro curato nei minimi particolari a cominciare dalla forma della confezione sino al colophon, mettono il lettore in condizione di apprezzare l’equilibrio della pagina e la perfezione dello scritto, poi di godere e comprenderne pienamente il testo. Né più né meno della massima – o moralità – con cui lo stampatore veronese volle chiudere la propria biografia : Per prima cosa servi l’autore,/cerca la soluzione migliore/per rendere comprensibile il te. Hans Schmoller, Introduzione a Giovanni Mardersteig, L’Officina Bodoni : i libri e il mondo di un torchio : 1923-1977, Verona, Edizioni Valdonega, 980, p. xvii. G. Mardersteig nacque a Weimar nel 892 e morì a Verona nel 977. 2. G. Mardersteig, Credo [1929], in Id., L’Officina Bodoni : libri impressi con torchi a mano, Verona, Biblioteca Civica di Verona, 962, p. 6 poi confluito in Id., Scritti di Giovanni Mardersteig sulla storia dei caratteri e della tipografia, Milano, Il Polifilo, 988, p. 28.

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sto./In secondo luogo servi il lettore,/rendigli la lettura piacevole e facile./In terzo luogo dai a tutto una veste attraente/senza essere troppo eccentrico. 3

Anche queste affermazioni, come molte altre di Mardersteig, andrebbero lette con cura poiché esse non corrispondono sempre alle intenzioni che egli mise costantemente nel lavoro dal momento che sovente il testo si doveva piegare alle esigenze della stampa e non contrariamente come siamo soliti credere : ma su questo argomento ritorneremo più avanti per dimostrare come dall’Officina Bodoni siano usciti libri bellissimi con testi altrettanto importanti e non il contrario ; pare giusto invece richiamare l’attenzione sugli ultimi due concetti : il servizio al lettore e la cura della veste. Nel primo Mardersteig richiama il concetto classico che disponeva il fruitore dello scritto al posto che gli si addiceva – diminuendo ma non esautorando in parte quello dell’autore per un attimo, almeno, messo al servizio di colui che è chiamato ad apprezzare la sua fatica intellettuale – e fornendogli, conseguentemente, la possibilità di godere della scelta delle sue letture. Nell’ultimo egli ribadisce il suo credo nella qualità eccellente del prodotto purché, e qui sta in parte la novità, esso non sia “eccentrico” come egli definisce : è chiara, in questo caso, la sua disapprovazione non soltanto verso quelle forme che distorcono l’oggetto-libro condannandolo ad una mera testimonianza residuale di filoni pseudoculturali di moda ma, soprattutto, verso quel periodo del futurismo che lo vide protagonista attento e fermo nel contrastare le irriverenti dimostrazioni di coloro che volevano “distruggere” il glorioso passato della calligrafia italiana in nome della nuova realtà o di chi, come Filippo Tommaso Marinetti, proclamava che la rivoluzione tipografica consisteva nell’« andar contro la cosiddetta armonia della pagina, che è contraria al flusso e riflusso, ai sobbalzi e agli scoppi dello stile che scorre nella pagina stessa » : 4 esattamente all’inverso di quanto Mardersteig aveva sempre voluto, in cui aveva fermamente creduto e che aveva poi realizzato. La ricerca dell’armonia, su cui ritorneremo, può forse essere – in estrema sintesi – il valore assoluto in cui lo stampatore credette e verso il cui conseguimento protese l’interesse della sua ricerca sin dalla giovinezza. Fu proprio nei primi anni susseguenti la laurea in giurisprudenza ottenuta nel 95 a Jena che Hans Mardersteig – questo era il suo vero nome mutato in Giovanni solamente allorquando ottenne la cittadinanza italiana nel secondo dopoguerra – sentì prorompente l’amore verso la bellezza del libro e non del libro in sé come depositario della cultura giacché egli si era già distinto per la frequenza giornaliera nelle librerie di Weimar, sua città natale, ancora prima degli anni universitari ; chiamato a collaborare con la rivista « Genius », che si onorava di firme prestigiosissime e dell’apporto di grandi artisti, ne divenne ben presto l’organizzatore, poi si occupò della composizione e attese anche alla tipografia non dimenticando, signorile come fu sempre e dal tratto garbato però dotato di innata abilità tattica, di adeguare alla cura e alla bellezza della rivista, 5 collabora3. Riportato da Alberto Vigevani, Qualità nelle edizioni limitate e non, in Premio internazionale Felice Feliciano : la qualità nella produzione del libro. Atti del simposio 1989, Verona, Edizioni Valdonega, 989, p. 82. 4. Una lucida nota sulla ‘rivoluzione tipografica’ d’avanguardia dove si recupera l’abbondante bibliografia precedente è quella di Paolo Tinti, Libri al di là delle parole : il paratesto nei libri di avanguardia, in Sulle tracce del paratesto, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Bologna, Bononia University Press, 2004, pp. 3-37. 5. Su questo periodo Carl Georg Heise, Gerhard Schuster, Primi contatti con il mondo editoriale : la rivista « Genius », in Giovanni Mardersteig stampatore, editore, umanista, Verona, Museo di CastelvecchioEdizioni Valdonega, 989, pp. 23-48.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 559 zioni importanti : ma anche qui, e memorabili rimangono i rapporti e le sue lettere a Franz Kaf ka, a Max Brod, a Oskar Kokoschka e ad altri, il giovane Mardersteig iniziò a distinguersi per l’armonia della pagina, per quell’insieme di bianchi e di neri, per la nitidezza dei caratteri, per la calligrafica precisione delle misure tra l’iconografia e lo scritto e perché ogni riga non avesse nulla di accidentale ed occasionale ; poco importa – al nostro assunto – se una tale rivista, realizzata con tanta cura e con spiccato senso qualitativo, in lotta con un’epoca poco propizia com’era l’immediato primo dopoguerra in una Germania quasi disastrata durò solo sino al 92 ; rimase “inattuale” per la novità di allora ma poi, alla luce della splendida esperienza di stampatore di Mardersteig, essa apparve come il primo segnale di una carriera radiosa coronata di successi. 6 Qui, in quegli anni di formazione e di esordio, quasi autodidatta nonostante la breve seppur fruttuosa frequentazione con la tipografia Serpentis, il giovane giurista toccò con mano le tirature calcografiche delle opere dei tanti maestri esplosi nel clima delle Secessioni e di ciò che subito ne conseguì da parte dei membri del gruppo Die Brücke : qui, in quello che sarà il corpus iconografico di « Genius » va rintracciata la precisione e la ricerca quasi parossistica di Mardersteig per le molte xilografie che utilizzerà nelle sue pubblicazioni ; qui, probabilmente attratto da uno scritto di Ernst L. Kirchner (che si firmava con lo pseudonimo di L. de Marsalle) apparso nel secondo volume del 92, il giovane stampatore meditò gli appunti del suo Credo che appare ancora, e lo fu per lui per tutta la vita, come il vangelo del suo comportamento nel fare libri. Le esperienze di « Genius » videro Mardersteig editore e stampatore (alle prese con xilografie originali, con inserti fotografici, con illustrazioni, con il plasticismo degl’impressionisti) ripensare alle origini felici della tipografia e porsi il problema non solo del contenuto ma anche – e sempre più in futuro – della qualità dei risultati ; cominciarono qui ad affascinare il giovane le forme impresse sulla pagina : il carattere che lascia il segno, il nero tipografico che definisce ed è definito dal bianco, così come la geometria della definizione della pagina tra margini e singole lettere ; poi verranno, di conseguenza, altre scoperte importanti. Forse nessuno, almeno tra i moderni stampatori, conobbe tanti elogi e forse come non mai sul suo lavoro – inevitabilmente quindi anche sulla sua persona – arrivarono tante convergenze : il “gentiluomo di Verona”, l’“uomo della perfezione”, persino il “maestro” e il “principe degli stampatori” fu chiamato da Gabriele D’Annunzio ; attorno alla sua piccola officina di editore sostanzialmente privato 7 vi fu un’attenzione sconosciuta e nomi prestigiosi della cultura, dell’arte, della letteratura trovarono lì 6. Decisamente importante è la bibliografia sull’opera dello stampatore studiata da molti punti di vista : nessuno, però, si è soffermato adeguatamente sugli elementi paratestuali delle sue pubblicazioni preferendo affrontare, sostanzialmente, le innovazioni ch’egli apportò all’arte tipografica in particolare quella dei caratteri ; nell’impossibilità di fornire ogni singolo apporto critico, rimandiamo a Giuseppe Franco Viviani, Giancarlo Volpato, Bibliografia veronese 1974-2002, 5 v., Verona, Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere-Università degli studi, 989-2004 che recupera anche i contributi precedenti a tali date. Molti scritti critici minori sono ritrovabili all’interno delle opere citate nella Bibliografia testé accennata. 7. “Lo stampatore privato è un tipografo moderno che si riappropria della funzione culturale che gli fu specifica, quella cioè di lettore informato di testi e di loro divulgatore in una forma da lui stabilita” : quest’affermazione, che ci trova sostanzialmente consenzienti, è l’ultima di una serie intelligente di considerazioni sul concetto di editore privato e che, secondo l’autore – egli stesso tipografo e stampatore raffinato – bene si addice a Mardersteig ; cfr. Gino Castiglioni, Un’eredità di Mardersteig : i torchi tipografici a Verona, in Giovanni Mardersteig stampatore…, pp. 77-94.

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l’appagamento di alcuni loro sogni, il primo dei quali era di apparire in edizioni rare e di prestigio. Questa realtà ha bisogno di essere spiegata, soprattutto al giorno d’oggi in cui – per alcuni versi – sembrano essere spariti il gusto raffinato, l’amore per il classico, la stima per la stampa di alto profilo qualitativo. « Sembra un uomo di altri tempi, donato al nostro per fare ascoltare la continuità di un alto sentire civile nel culto di ciò che è bello e nobile » ; le parole dell’allora sindaco di Verona che consegnava a Mardersteig la più alta onorificenza cittadina 8 facevano da pendant con quelle che gli scriveva Giovanni Battista Pighi, insigne latinista, che con l’Officina Bodoni pubblicava una mirabile edizione catulliana : Pensieri e parole sono di altri, ma se ne fai un libro, o Giovanni, la pagina è tutta opera tua. Spesso i pensieri e le parole hanno difetti, ma la tua pagina mai…Non si celano errori. Vi sono i più nobili pregi di un quadro o di un canto : chiarezza, vita, ritmo… Fortunato Catullo a essere interpretato per la tua stampa. 9

Queste ultime parole, certamente impegnative, corrisposero senz’altro al primo impegno di Mardersteig che curò, come nessun altro suo coevo, la pagina nella sua complessità ; ma, almeno secondo noi, sembrano riduttive rispetto agli esiti ottenuti nel senso che lo stampatore veronese fu davvero un uomo d’altri tempi nel campo della tipografia poiché si riappropriò di quanto al tipografo-stampatore-editore competeva prima dell’avvento della macchina ; l’uso del torchio a mano – fu anch’egli torcoliere a volte, anche se lo spirito della sua opera va ricercato nella composizione globale del libro – aprì a Mardersteig orizzonti sconosciuti e lo proiettò, com’egli cercava d’altronde, nel culmine più alto della Rinascenza che reputava periodo inarrivabile e irripetibile della cultura. Qui trovò congenito il suo sentire e sulle pagine di quei libri trasse linfa vitale anche se poi, nel lungo tempo della sua officina, egli seppe trasfonderla anche in opere dai testi moderni. Soltanto chi ha composto un libro e lo ha preparato per la stampa con le proprie mani, consapevole dell’importanza di ogni particolare, si può rendere conto come stia nel compositore di fare coi medesimi mezzi una pagina bella, brutta o mediocre. E solo colui che ha stampato in torchio nell’avviamento, nella inchiostratura, 0 in tutto il lento procedimento dell’impressione, intende per che maniera un torchio possa stare allo stampatore quel che la matita all’artista, e la macchina non è mai. 

Allargò poi, nell’aggiunta a questo Credo del 929 e che si data nel 962, altre prerogative che furono proprie della sua stamperia : la carta, la xilografia, la legatura, la composizione nel suo insieme, insomma tutti quegli elementi paratestuali, da Mardesteig neppure una volta definiti tali, (per lui erano i caratteri esterni del libro, i marginalia), che elessero l’Officina Bodoni come esempio di qualità assoluta ma che egli mise in pratica sin dal primo momento senza nominarli perché, probabilmente, ritenuti im8. Renato Gozzi, Discorso in occasione della consegna del Premio San Zeno 1965 a Giovanni Mardersteig e a Giovanni Battista Pighi, Verona 2 giugno 965, [Verona, s.n.t.]. 9. Giovanni Battista Pighi, in Gozzi, Discorso…, cit., p. 4. 0. Pur senza addentrarci nella spiegazione dettagliata, abbiamo ragione di ritenere che con tale termine Mardersteig intendesse entrambe le tecniche : quella della pigmentazione dell’inchiostro, quasi sempre nero seppure di tonalità diverse, perfetto, senza sbavature né puntini e quella della distribuzione dell’inchiostro sul rullo con la conseguente impressione sulla pagina bianca. . G. Mardersteig, Credo, cit., p. 6.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 561 pliciti al lavoro stesso : non nel senso che sempre e costantemente gli esiti siano stati uguali per le centonovantotto pubblicazioni uscite dalla sua stamperia (senza contare i quarantanove volumi dell’Opera omnia dannunziana), poiché pure non mutando la raffinatezza e la bellezza dell’ insieme, alcune opere si distinsero rispetto ad altre sia per l’esecuzione sia per l’impianto generale. Uno dei punti saldi a cui si attenne Mardersteig fu la fedeltà alle regole datesi da lui stesso e che egli chiamò Credo ; dopo le prime esperienze dell’Officina Bodoni a Montagnola nel Canton Ticino egli era sufficientemente sicuro di sé e della propria perizia e poteva permettersi, quindi, di elaborare dei principi di condotta da applicare al lavoro futuro. Di grande interesse ci appare il seguente scritto : Cinque sono gli elementi del libro, ossia testo, carattere, inchiostro, carta, legatura. Comporre con questi cinque elementi un tutto coerente e plausibile, non sottoposto alla moda, il cui pregio sia stabile e sciolto dal tempo ; comporre delle opere affrancate, per quanto può essere dato a cose fatte da uomini, dagli influssi del capriccio e del caso, e degne dell’alto retaggio di cui siamo depositari e responsabili : questa è la nostra ambizione. 2

Com’è possibile evincere dalla lettura, eccetto il primo, gli altri sono chiaramente elementi del paratesto ai quali, e assieme ad altri, obiettivamente, lo stampatore veronese dedicò assai più attenzioni che al resto. Non perché i contenuti testuali non fossero rilevanti ; lo stesso Mardersteig, facendo il bilancio della sua prima attività ticinese, sottolineava fortemente le tipologie delle opere stampate avendo assai cura nell’elencare le varie diversificazioni (poesia, drammaturgia, poesia lirica, prosa pura, componimenti teatrali lirici : citiamo dalle sue definizioni) e sottolineandone pure l’impegno filologico ; 3 e così accadrà anche nel resto della sua attività pareggiata, forse, tra un ritorno alle opere rinascimentali a lui carissime e a quelle di più moderna composizione : a tale scopo è sufficiente passare in rassegna i libri usciti dai suoi torchi per rendersene subito conto ; ma a tutti è noto che assai sovente il testo si piegò, nelle pubblicazioni dell’italo-tedesco, alle esigenze dell’armonia della pagina e della definizione dei caratteri, anche perché non sempre la scelta di un testo veniva fatta esclusivamente da un punto di vista editoriale. Così, tanto per citare un esempio, il primo libro francese avrebbe dovuto in origine contenere poesie di Paul Verlaine. Ne era già stata tirata una prova, quando in Officina ci si accorse che le righe previste in corpo 6 corsivo erano troppo lunghe per il formato ; Mardersteig si orientò allora su Les nuits di Alfred de Musset più adatte, secondo lui, a recepire quanto egli aveva previsto per la pubblicazione ; basterebbe, a rafforzare questa tesi la presa di posizione, gentile e garbata ma ferma, verso D’Annunzio che fu obbligato a togliere una serie di punteggiature e addirittura a cambiare una parola per privilegiare la perfezione della stampa con i caratteri bodoniani da Mardersteig scelti (nonostante le prime titubanze, il vate acconsentì ringraziando poi il “maestro” per l’esito che definì abbagliante). Concordanze vicendevoli, legami sottili ma non casuali, intenti letterari non cogenti, felici fusioni dei caratteri con xilografie e altre illustrazioni, armonia tra i bianchi ed i neri, margini predeterminati e impermeabili, ed altre cose ancora dovevano sopravanzare ogni altra esigenza. A tutti gli elementi paratestuali, anche se non sempre in ugual misura, Mardersteig dedicò una perseveranza ed un rigore assolutamente teutonici e gli esiti furono il frutto di lunghe, laboriose, colte e spesso fortunate ricerche. Anche gli 2. Ibidem. 3. H. Schmoller, Introduzione…, cit., p. xxvi.

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eccezionali ritrovamenti che a lui si ascrivono (il Liberale nell’Esopo veronese stampato nella città scaligera da Giovanni Alvise nel 479, i caratteri di Felice Feliciano attraverso le scritte epigrafiche su alcune pietre veronesi, il recupero dei punzoni originali bodoniani ed altre cose ancora) sono il frutto del metodo di lavoro del Mardersteig che si rifaceva, essenzialmente, ai modelli esemplari dell’editoria umanistica. Quando progettava un lavoro dell’Officina, egli s’immergeva nel mondo in cui erano nati l’incunabolo o il libro prezioso del Rinascimento sul quale intendeva lavorare allo stesso modo, si direbbe, con cui Machiavelli, sul far della sera, smetteva i panni quotidiani per indossare quelli curiali per leggere i classici antichi. Questa nostalgia del tempo di Aldo Manuzio fu in lui così pungente da fargli considerare il ritorno alle origini della storia della tipografia come l’unica prospettiva per lo stampatore moderno ; un atteggiamento che lo portò – tra l’altro – a rifiutare quasi sempre il ricorso al fac-simile nella riproduzione delle immagini ritenendo, con ciò, di restare più feFig . Francesco Berni, Capitolo del prete di Poviglia- dele all’originale con delle copie di no ; acquaforte di Renzo Sommaruga ; alto artigianato, cioè resuscitando carattere : Centauro tondo. le tecniche dell’antica xilografia. E al di là dei detrattori – che anche per lui non mancarono – è indubitabile che solo nell’accanita volontà di rifare il processo creativo del libro antico, egli riuscì – applicandolo anche a pubblicazioni più moderne – a svelarne la storia e l’intima essenza. La scoperta critica e la conseguente applicazione pratica non furono mai, perciò, il frutto di una folgorante intuizione ma uno storicistico ripercorrimento della genesi dell’opera altrui sulla quale innestò la propria di stampatore moderno e creativo ; 4 queste, in sintesi, furono le caratteristiche che procurarono il fascino di Mardersteig : lo spessore della cultura, la ricchezza dell’informazione, la conoscenza profonda, la 4. Su queste caratteristiche del lavoro mardersteighiano si sono appuntate attenzioni diverse ; solo a titolo d’esempio citiamo, per la lungimiranza dell’acribia filologica, la breve nota introduttiva di Licisco Magagnato, Storia e significato di un ritrovamento, in G. Mardersteig, Liberale ritrovato nell’Esopo Veronese del 1479, Verona, Museo di Castelvecchio, 973.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 563 pazienza lunga e tenace, la capacità di elaborazione intellettuale, la perseveranza nella ricerca della perfezione, l’altissima simbiosi con un’équipe ristretta ma qualificata di collaboratori. Ai caratteri a stampa Giovanni Mardersteig dedicò le maggiori energie della sua vita di ricercatore, di stampatore, di torcoliere, di editore e di bibliofilo ; per il raggiungimento degli obiettivi coinvolse amici, uomini di cultura, grandi inventori di caratteri, artigiani raffinati e due suoi dipendenti che con lui, uomo silenzioso e garbato ma perseverante e convincente, lavorarono in maniera indefessa. Egli reputava – come d’altronde scritto in quelle sue regole del 929 – che i caratteri fossero la parte più rilevante dell’opera e vide in quelli di Giambattista Bodoni il punto più alto di quanto fosse conosciuto nel mondo della tipografia. Non breve né facile fu la genesi che lo portò ad avere le matrici originali e che qui, essendo marginale all’assunto propostoci, non riteniamo di ricordare. 5 Progettando l’uso dei caratteri bodoniani, da rifondere sulle matrici palatine – qui inizia la filiazione parmense – con il ripristino di strumenti abbandonati, il torchio a mano e le strutture originali dei primi, l’Officina s’inseriva di slancio in quel processo di restaurazione della tipografia del libro nata in Inghilterra agli inizi del secolo ; Mardersteig ne ripercorrerà l’esperienza riproponendone l’antico splendore. Tornare a Bodoni non significava rifarlo : voleva dire ritrovare la sua poetica, il suo magistero tecnico, la scienza e l’anima ; voleva dire verificare i vecchi moduli e tentarne una nuova esprimibilità ; voleva dire, in altre parole, cercare la probabilità di nuove pronunzie nel preciso contesto di una pratica artistico-artigianale che era decaduta e pareva irrecuperabile. Si trattava di utilizzare i medesimi strumenti, il torchio a mano e i caratteri di fonderia, e della sua fonderia ; si trattava di ritrovare un nuovo metodo di lavoro, di riaprire i medesimi capitoli della mirabile esperienza del maestro di Parma (la scelta della carta, degli inchiostri, di una propria legatoria) : e si trattava di ottenere una pagina nuova, un libro nuovo. Nella fantastica selva degli alfabeti disegnati e incisi da Bodoni, l’Officina ne sceglieva una mezza dozzina, non più (quelli utilizzati maggiormente da Mardersteig), qualcuno già sperimentato dal maestro, qualche altro mai usato per un libro intero : è il caso di quel meraviglioso corsivo ornato, corpo venti – una festa per gli occhi – con il quale è composto Das römische carneval 1788 di Johann Wolgang Goethe del 924. E di questi caratteri, opportunamente rifusi e reincisi, lo stampatore veronese offrirà saggi splendidi nei primi libri usciti a Montagnola convinto come fu di estrarne l’essenza e perfezionarne la forma. Furono gli anni della forte contestazione antibodoniana portata avanti soprattutto dai futuristi, però erano anche i momenti delle menti più attente che volevano davvero ridare al libro la dignità perduta soprattutto con dei caratteri a stampa belli, gradevoli all’occhio, classici, puri. 6 Il giovane Hans partecipò dall’esterno a questa querelle ma parteggiando chiaramente per la “veste classica” che veniva dibattuta soprattutto attorno alla rivista « Il risorgimento grafico » dove apparivano articoli decisamente importanti per le sorti della tipografia. 7 Se Bodoni nel periodo 5. Ne ripercorrono le vicende vari scritti tra i quali il più lucido ed informato è senza dubbio quello di H. Schmoller, Introduzione..., cit., passim. 6. Fu aspra e lunga la polemica intorno agli anni ’20 del Novecento ; di essa dà testimonianza, tra gli altri, Franco Riva, Il libro italiano : saggio storico tecnico 1800-1965, Milano, Scheiwiller, 966, pp. 40-44. 7. Della posizione mardersteighiana e della questione forniscono una lucida analisi storica Lorenzo Tedeschi, Ottavio Besomi, Giovanni Mardersteig a Montagnola : la nascita dell’Officina Bodoni : 1922-1927, Verona, Edizioni Valdonega, 993, pp. 24-27.

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più maturo aveva rinunciato al massimo, nel disegno dei suoi frontespizi, a quanto indulgeva ancora la moda del suo tempo (complementi del titolo, attributi, sommari) e optando definitivamente per il maiuscolo, l’Officina dette esempio, nei suoi primi libri, di ancor più decisa purezza. Sparite le note editoriali, sul candore della pagina del frontespizio brillarono autore e titolo dell’opera, proposti via via nell’abile uso di maiuscole di differenti altezze, ma appena scalate. Le note editoriali, le ragioni del libro e le sue caratteristiche furono affidate al colophon : altro argomento della tradizione che l’Officina riprese e svolse. « Quanto più un libro è classico – lasciò scritto Bodoni – tanto più sta bene che la bellezza dei caratteri vi si mostri sola ; la quale insomma è poi quella in cui la gloria dell’arte sovranamente spicca e consiste ». E Giovanni Mardersteig, negli anni venti del secolo scorso, riprese la lezione piena e matura del saluzzese diventato parmense. Le sue scelte iniziali furono squisitamente tipografiche ; nessuna indulgenza a ornamenti di alcun genere : grandi iniziali stampate in nero con rarissimo uso del colore ; nel libro l’ornamento consisté unicamente attraverso la bellezza dei caratteri, la loro grandezza in armonia col sesto della pagina (e sulle capacità ornamentali del carattere egli ritornerà tanti anni dopo, nel 966, con il mirabile volume di Eraclito dove rinuncerà all’artista e disegnerà in alfabeto greco alcuni dei detti memorabili dell’antico filosofo). Inconsapevolmente, o forse in serena coscienza, Mardersteig stava tessendo un canto vero alla tipografia e a ciò che essa rappresentava e aveva rappresentato nel passato ; chissà se – ma sappiamo che trattasi solo di una mera illusione – Pablo Neruda aveva visto i suoi libri quando compose la sua Oda a la tipografía. Il poeta cileno racconta e celia con divertite facezie sulla tecnica e sulla meccanica per la stampa ; i versi sono un magico gioco, allegro e scherzoso, un delizioso cesello costruito sulla scomposizione degli elementi minuti della strumentazione tipografica elevata ad architetture e simboli. Dai tipi e dai caratteri rivisitati in versi “elementari” promana una sfolgorante fantasia di forme, di somiglianze, di associazioni. Le lettere dell’alfabeto, con i loro effetti detonativi, si ergono a segni e metafore di valori semantici della comunicazione. 8 Dapprima a Montagnola e poi a Verona, Mardersteig ristudiò e approfondì ancora la lezione bodoniana : i caratteri furono il suo incanto e tentò d’arrivare alla perfezione ; quindi, giocando quasi esclusivamente su di essi (memorabili nei racconti dei figli dei collaboratori, ormai unici superstiti, le prove, le riprove, gli insuccessi, le quasi raggiunte bellezze per poi ricominciare daccapo) vennero l’armonia delle spaziature, l’incanto degli inchiostri, la precisione del registro, la riscoperta dei capilettera, l’incisione del carattere sul morbido corpo della pagina bianca. Tutti gli studiosi dell’opera mardersteighiana hanno fissato l’attenzione sui “neri” delle pagine uscite dall’Officina ; non a questi, sosteneva quel collaboratore che si occupava della pagina, prestava la sua attenzione il “Dottore” : ma ai bianchi ; ed egli che si portava anche a casa il lavoro da terminare su fogli di carta in prova, misurava gli spazi bianchi tra lettera e lettera, l’interlinea, le distanze tra testo e illustrazioni, aveva precauzione affinché non si formassero le linee bianche trasversali (così correnti, oggi, nei libri attuali), misurava la grandezza dei capilettera laddove esistenti, calcolava i margini all’interno 8. Pablo Neruda, Ode al libro e altre odi elementari, Firenze, Passigli, 2003 ; l’Ode alla tipografia, con testo originale a fronte, si trova alla p. 23. Bella e lucida la presentazione di Giovanni Battista De Cesare, Il libro, la poesia, la speranza, pp. 5-4.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 565 dei quali sarebbe entrato lo specchio di stampa ; solo “i bianchi” venivano studiati e per i “neri” le conseguenze erano precise ; 9 ne usciva, alla fine, quell’armonia delle spaziature che oggi, a distanza di ottant’anni dall’uscita dei primi libri da Montagnola suscita ancora meraviglia. Il Bodoni Catania, soprattutto, ma anche il Cuneo, il Cancelleresco, il Casale tondi e corsivi in corpi 6 o 20 misero in luce nell’Officina esercizi di pura tipografia che esaurirono il loro utilizzo un poco prima degli anni trenta (ed esattamente nel 929 dopo una trentina circa di libri pubblicati : l’ultimo fu Inno al cielo di Umberto Zerbinati) cui si aggiungeranno utilizzazioni parziali e ridotte un paio di volte in futuro oltreché, ovviamente, l’intera opera dannunziana ; Mardersteig aveva dimostrato, ottenendone risultati eccellenti e di bellezza rara, sobria, elegante, classica, godibile di potere riattualizzare la storia dei materiali al di fuori del contesto in cui erano stati prodotti e usati e aveva – ci si passi l’enfasi – riproposto il furore tipografico bodoniano nella sua interezza. Con ciò, e qui si rifà alto il senso del testo mai dismesso peraltro, aveva riparato ad un conto culturale rimasto in sospeso con Bodoni stesso : c’erano grandi scrittori come Foscolo, Leopardi, Goethe, Shelley per esempio, contemporanei del parmense, che non erano figurati nelle stampe dello stesso : Mardersteig aveva pareggiato il debito con la storia riparando con i suoi alfabeti. Dell’esperienza del maestro lo stampatore veronese aveva voluto proporre pure la carta : un elemento determinante com’egli ebbe a scrivere. Il torchio a mano offriva una morbidezza di caratteri ineguagliabile e si prestava egregiamente sia per la pergamena sia per la carta umida ; nella confezione del libro quest’ultima aveva sempre avuto un ruolo particolare : a quell’oggetto (ma che non poteva essere solamente tale) conferiva eleganza, tattilità, gioia dell’olfatto, godibilità degli occhi, purezza e nitidezza della composizione ; essa si lasciava addomesticare, incidere, piegare. Le prime opere a Montagnola uscirono su carta fabbricata a mano perciò spessa, dura e consistente resa umida per essere più adatta a ricevere l’impressione dei caratteri ; sempre di tino perché conservasse le sue barbe e perché non occorreva squadrarla per collocarla fra squadra e pinza, mentre alcune copie (da due a cinque per committenti speciali o numerate ad personam) venivano stampate su pergamena : l’effetto su questo materiale d’origine animale fu strepitoso ; ma al veronese costava sempre fatica e incertezza, oculatezza e precisioni superiori, solo gli esiti – qua e là egli accenna – lo ripagavano abbondantemente. Mardersteig, fedele ai principi enunciati che è vero tipografo-stampatore colui che segue tutte le fasi, lavorava con i collaboratori al lungo, difficile processo dell’inumidimento della carta finché non avesse ottenuto uniformità perfetta dei fogli da sottoporre al torchio e talvolta, come nel caso delle poesie di Michelangelo, dovette rifare il lavoro : ma, puntuale, costante, teutonicamente preciso egli ricominciava daccapo. La qualità della carta fu un punto di forza delle sue pubblicazioni ancora oggi perfette e inarrivabili per la pulizia della stessa che diventava amalgama inscindibile con i caratteri impressi : su questa carta egli creava gli spazi, su essa egli trovava l’armonia della composizione e la confezione godeva già di un altro, ulteriore elemento di elevato prestigio. In un suo scritto, quasi un’autobiogra9. Testimonianza della Sig.ra Oriella Adami (cui va il mio ringraziamento), figlia di Odino che fu per molti anni il collaboratore di Mardersteig addetto alla pagina. Nella piccola stamperia situata in Valdonega, nella parte alta di Verona, i pochi dipendenti svolgevano ruoli assolutamente precisi tanto da diventare insostituibili. A loro il Dottore, come veniva giustamente chiamato dagli stessi, era molto legato pure nel suo apparente distacco tipicamente germanico.

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fia dell’apprendistato e dell’affermazione che gli era arrisa, Mardersteig rivela prove e controprove, difficoltà e valori, ansie e gioie delle sue scoperte e dedica alla carta attenzioni precise attribuendo ad essa i maggiori successi nella composizione : … Non posso fare a meno di parlare di una particolarità che è un privilegio poco noto dello stampatore al torchio : è il fatto che il procedimento, lento, permette di stampare a mano su carta inumidita : l’inchiostro viene preso con tanta facilità dalla carta fatta di stracci e di canapa resa duttile dall’umidità, che v’è bisogno di quantità notevolmente inferiore di inchiostro di quanto non occorra per la stampa su carta non bagnata, e il risultato è un’impressione dai profili più nitidi… ma quel che stupisce è l’effetto di freschezza del nero non troppo forte e perfetto su quella carta umida. Una volta asciugata e pressata, la stampa non offrirà mai più questo incantevole aspetto. 20

Bodoni gli aveva lasciato in eredità anche delle bellissime legature e puntualmente Mardersteig continuò la lezione : « Ho sempre tenuto in mano con godimento un piccolo manuale dalla legatura straordinariamente lucida, in vitello, che mi fu consigliere prezioso… » ; era, questo, un vecchio manuale della stampa di Antoine-François Momoro del 795 ma ciò che lo colpì primamente fu proprio la legatura ; egli ebbe nell’Officina in Ticino un laboratorio consacrato allo scopo, senza pretese, che Peter Demeter gli aveva all’uopo costituito. Per esse egli predilesse la cartapecora, senz’altro fregio che il marchio dell’Officina ma con alcuni esemplari di ogni opera legati in marocchino ornato di filetti variamente disposti ; mai vistose, riccamente sobrie se l’ossimoro non storpiasse, di un’eleganza compatta e signorile ; soltanto gli esemplari stampati su pergamena si presentano con piatti e dorso dorati più riccamente con fregi o piccoli ferri “in armonia con la natura del libro” come tenne a sottolineare lo stesso Mardersteig ; sempre, una volta cuciti, i volumi venivano rifilati provvisti di taglio dorato e capitelli ; gli altri esemplari venivano rilegati con dorso in pergamena o pelle e quadranti rivestiti in tela, oppure in tutta tela o carta fantasia ; per proteggerli da luce e polvere venivano dotati di astucci o custodie spesso ricoperti del medesimo materiale usato per i quadranti, qualche volta con gli spigoli rifiniti in pelle ; era l’ultimo atto dal momento che « per ben dodici mani passa il foglio nelle diverse fasi del lavoro prima di essere cucito » com’ebbe a scrivere nel Credo lo stesso Mardersteig. Tanta importanza egli aveva affidato alla legatura che aveva disegnato diversi fregi per la stessa facendoli incidere a Parigi da M. Morand sull’ottone per poi essere dorati. Nella stessa Officina, dov’egli ideava punzoni e dorsi, avveniva l’eventuale coloritura per la pergamena. Lo stampatore veronese recuperò, della lezione dell’antico maestro, anche il colophon ridonando ad esso la medesima dignità del passato con tutte le ragioni legate alla stampa dell’opera ; raramente colorato, sovente in forma geometrica, impresso con i medesimi caratteri del testo, chiuso dal logo dell’Officina, in tutte le pubblicazioni uscite da Montagnola – ma poi anche in seguito – esso completa la confezione donando ad essa il sigillo che « nelle pubblicazioni dell’Officina Bodoni uno solo è l’editore e il tipografo e giustificando che nelle nostre stampe abbiamo cercato la maggior varietà delle strutture tipografiche, sforzandoci tuttavia di conseguire tale diversità con un piccolo numero di corpi ; sottace il grande lavoro eseguito e lo giustifica ». Nel colophon, come pure sui quadranti anteriori dei volumi rilegati in pergamena o in pelle, la sigla dell’Officina era stata disegnata dallo stesso Mardersteig 20. G. Mardersteig, Una vita dedicata al libro, in Id., Scritti…, cit., p. 5.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 567 che aveva preso lo spunto da sigle di stampatori dell’epoca degli incunaboli, con la croce e il globo terrestre, ma vi aveva aggiunto dei simboli personalissimi, fra i quali era riconoscibile la testa del toro, suo ascendente astrologico. Più tardi la sigla subì diverse varianti ; la troviamo anche su molti tipi di carta fabbricati espressamente per l’Officina. I tipi del grande Bodoni segnarono la fine di una lunga evoluzione di alfabeti da stampa : con la loro rigida dignità, con il contrasto fra il quasi esagerato nero delle aste da un lato e l’estrema finezza da un altro, non permisero altre derivazioni ; furono l’espressione di un artista di meravigliosa sensibilità, partecipe e rappresentante dello stile dell’età napoleonica, ultimo segnale di una grande epoca. Lo stampatore veronese ne risuscitò le bellezze e le reinventò, ma capì anche che oltre non avrebbe potuto andare ; l’“ultimo vero figlio” di Bodoni chiuse perciò l’esperienza dedicandosi ad altri caratteri : ciò accadde quasi contestualmente con il trasferimento da Montagnola 2 a Verona ; egli, assieme ad artisti, illustratori e artigiani dei caratteri, aveva creato quello che l’antico maestro non era stato in grado di fare : “Mardersteig aveva saputo animare la forma distaccata e classica ottocentesca del cav. G.B. Bodoni che dominava talmente la pagina di un testo da ignorare quasi le illustrazioni : i più bei libri illustrati di Giovanni hanno così superato il maestro”. 22 La lunga parentesi mondadoriana, 23 dove Mardersteig rimase per la pubblicazione delle opere di D’Annunzio, lasciò spazi brevi a stampe limitate ; a Verona uscirono tutti i volumi relativi agli scritti del vate che si era rifugiato nel Vittoriale ; lunghe sedute avvennero fra i due, ma sempre lo stampatore riuscì, proponendo soluzioni di grande prestigio, a soddisfare le esigenze del suo celebre “committente” ; ancora una volta furono i caratteri a dominare e le edizioni originali (209 impresse con il torchio a mano e 250 a macchina) rappresentarono, nell’Italia di allora, quasi il culmine della bellezza : al di là e oltre il valore testuale sul quale in questo caso non vi è da discutere, l’edizione nazionale delle opere dannunziane rimane un monumento al libro per la straordinaria sobrietà della sua confezione, per l’eccellenza della composizione, per la cura dedicata dallo stampatore ai frontespizi arricchiti rispetto alla semplicità luminosa delle pubblicazioni precedenti, per lo specchio di stampa sempre nitido e impostato esclusivamente sull’insieme degli elementi che compongono la pagina ; qui, Mardersteig riusciva a piegare i versi del poeta alle esigenze della bellezza tipografica. Stampata per lo più su macchine piane, egli non aveva previsto quanto sarebbe stato arduo il suo lavoro per il modo con cui Bodoni aveva inciso i propri punzoni. Per ottenere una stampa molto nitida quando i suoi caratteri venivano impressi su carta inumidita, il parmense aveva inciso alcune sottilissime grazie in modo molto verticale ; 2. Su questo periodo è sufficiente L. Tedeschi, O. Besomi, Giovanni Mardersteig…, cit., anche per la ricca bibliografia riportatavi. 22. Così si pronuncia Vanni Scheiwiller, Mardersteig e i libri d’arte dell’Officina Bodoni, in Giovanni Mardersteig stampatore, editore, umanista, cit., p. 24. 23. Come noto, Hans Mardersteig allora residente a Montagnola in Canton Ticino, nel 927 vinse il concorso per la stampa dell’edizione nazionale dell’Opera omnia di Gabriele D’Annunzio voluta dal regime fascista e per fare questo lavoro impegnativo si trasferì a Verona ospite degli stabilimenti dell’editore Arnoldo Mondadori ; lì rimase anche dopo la fine della commessa ma soltanto per poco tempo ; nel 937 decise, infatti, di ridiventare tipografo-editore per conto proprio rimanendo a Verona in Valdonega in quella sede che fu, per lui, casa e stamperia. Sulle vicende legate ai rapporti col poeta offre una lucida testimonianza lo stesso stampatore : cfr. G. Mardersteig, L’“opera omnia”, in Id. L’Officina Bodoni…, cit., pp. 97-23.

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ma esse non resistevano alla pressione delle macchine moderne. Mardersteig dovette incidere nuovamente le matrici delle lettere più delicate con grazie meno sottili e verticali rinforzando così il carattere : Charles Malin lo aiutò, collaborò, diventò l’artefice suo più prezioso. Di assoluta eleganza e di mirabile chiarezza appare l’edizione nei suoi quarantanove volumi. Non sarà inutile, in questa sede, accennare all’ultimo libro stampato interamente con caratteri Bodoni che, certo non casualmente, si pone in assoluto come una delle opere più apprezzate dell’esperienza lavorativa mardersteighiana : fu L’Oleandro, una delle poesie indimenticabili dell’Alcione dannunziano ; oltreché apparire come l’addio alla collaborazione con il poeta abruzzese (correva l’anno 936), il volume significò la chiusura di un’epoca ; ma nello stesso tempo – sono parole del veronese – « questa edizione aperse un periodo nuovo, nel quale oltre alla tipografia pura si dava anche la necessaria importanza all’illustrazione del libro utilizzando soprattutto nuovi caratteri ». 24 A causa della freddezza ottocentesca bodoniana, di cui più sopra si è parlato e della quale lo stesso stampatore si rendeva conto pur nella classicità della sua bellezza, per conferire maggiore luce alla pagina, invece del tondo, Mardersteig utilizzò il Bodoni Casale corpo 20 corsivo e, grazie alla collaborazione di Gunter Böhmer, affiancò in margine al testo disegni tratti dalle litografie di Pierre Bonnard, trasportati su pietra e stampati in color sanguigno : rare volte si è assistito ad un’unione così felice fra testo e illustrazione. Un numero limitato di copie su carta Giappone godette del rivestimento di una copertina raffinatissima, fatta di fogli interi di papiro, di misura appena giusta per l’esemplare : il poeta ne fu entusiasta e Mardersteig la giudicò l’edizione più originale uscita dall’Officina. 25 Erano passati poco più di tredici anni dal primo libro uscito a Montagnola, l’Orphei tragedia di Angelo Poliziano, e solo nel 936 lo stampatore accoglieva in toto la lezione più moderna del “matrimonio” tra tipografia e iconografia : nasceva anche per lui il libro illustrato cui avrebbe conferito « armonia di forme, nobiltà di aspetto e meraviglia di stampa ». Nella stamperia di Valdonega, Mardersteig rivoluzionò solo apparentemente il lavoro che, nella realtà procedette secondo i criteri legati a quei principi del Credo – che scrisse proprio nel 929, tra l’altro – cui si era attenuto anche nel passato ; soltanto che, alla pura tipografia, esercizio che lo aveva profondamente affascinato, abbinò pure quello della leggiadria del volume intesa come insieme di altre componenti, in particolare l’illustrazione : di quest’ultima, non fosse altro per la sua esperienza alla rivista « Genius », aveva conosciuto la rilevanza, aveva rubato alla stessa tutta la capacità implicita di rendere una pagina sostanzialmente diversa, accattivante, ricca, affascinante se armonizzata con la composizione ; non aveva bisogno, quindi, di scoprire nulla ma solamente di utilizzare – secondo le sue personali procedure lavorative – uno degli elementi che diventeranno importantissimi nella stampa moderna. D’ora in poi, e non esclusivamente nelle pubblicazioni cosiddette “maggiori”, bensì pure in quelle uscite per occasioni come matrimoni e ricorrenze varie, la libertà e l’arditezza dei suoi progetti tipografici vennero avvertiti sempre più nel mondo dei bibliofili, dell’editoria, della stampa d’arte. Non dettò “regole di composizione”, ma si attenne al principio fondamentale della comodità di lettura e della leggibilità del testo, rifece le forme del frontespizio senza snaturarne la funzionalità ; forse, ignoriamo se consciamente o senza volerlo, portò con sé le idee delle avanguardie artistiche trasferendole nella “forma” del libro probabilmente alla stessa stregua – seppure con esiti diversi, 24. G. Mardersteig, L’Officina Bodoni : i libri e il mondo in un torchio : 1923-1977, cit., p. 5. 25. Ivi, p. 52.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 569 giacché qui furono risultati eccellenti – di quanto aveva fatto il suo connazionale Jan Tschichold anch’egli signore ammodo, dai tratti eleganti e dal fare accomodante eccetto che nel lavoro : l’adeguatezza nei margini, l’uso degli accapo, la misurazione delle interlinee, la scelta dei caratteri, la discrezione nei corsivi, il connubio tra bianchi e neri, l’evidenza delle interpunzioni ; e tutto nella coerenza tra formato della pagina e specchio del testo. Non inventò come Tschichold un modello di frontespizio che i dati impaginava secondo la sagoma di Fig. 2. Colophon de Il cavaliere di bronzo di A. Puškin ; un calice perché esso fosse, e senza carattere italiano : Dante. In calce logo dell’Officina Bodoni. sforzo, il contenitore più gradito del titolo con, nello stelo, la marca dell’editore ; 26 ma sempre metaforizzando il messaggio del suo connazionale che sosteneva, da ultimo, che come il calice di cristallo una buona tipografia deve lasciare trasparire il suo messaggio, Mardersteig costruì senza leggi un canone irripetibile che è – oggi più che mai dacché la macchina ha cancellato pressoché definitivamente la stampa a mano – il marchio indelebile dell’Officina Bodoni. Egli sapeva bene che il mondo concreto del libro è fatto di copertine e di sovraccoperte, di caratteri tipografici, di interlinee e di spaziature, di titoli correnti, di parentesi e di note, di dediche e di colophon, di legature oltreché di altri marginalia e nulla di tutto questo deve essere d’inciampo ma solo forma armonica per un testo eccellente. “… Forse erano quei segni di scrittura sconosciuti che esercitavano su di me un’irresistibile forza d’attrazione ?...” si domandava Giovanni Mardersteig nella conferenza alla Bayerische Stadt Bibliothek più sopra citata, ripensando ad un episodio della sua infanzia. Certamente i grandi caratteri gotici di quel libro, di grande formato, delle favole di Ludwig Bechstein che gli veniva letto ogni mattina dalla madre e quei segni impressi sulla pagina da cui scaturiva il racconto del lupo e delle sette caprette e che egli vedeva dalla parte opposta dovettero agire, sull’allora analfabeta bambino, come un leit-motiv già amico sì da rendergli inseparabile il libro per tutto il resto della vita. E a Verona, nella stamperia della sua Villa Reginetta in Valdonega, Mardersteig si rimise a lavorare ai caratteri ; egli aveva studiato abbastanza per essere un eccellente conoscitore della calligrafia senza padronanza della quale, scrisse un grande incisore a proposito dello stampatore veronese, “non si diventa un buon disegnatore di caratteri” ; 27 alcuni li incise personalmente, altri li disegnò, ad altri vi lavorò con Charles Malin, con Stanley Morison e con Frederic Warde. Non tutti furono usati costantemente poiché, come accade nelle persone raffinate e dai gusti difficili, non 26. Jan Tschichold, La forma del libro, introduzione di Robert Bringhurst, Milano, S. Bonnard, 2003, passim. 27. Hermann Zapf, Dalla calligrafia ai caratteri per computer, in Premio internazionale Felice Feliciano, cit., p. 45.

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sempre l’intenzione e l’impegno portano al massimo dell’eccellenza unico sostantivo conosciuto all’interno dell’Officina. Con essi, e di loro andremo subito a parlare, Mardersteig ritenne di avere probabilmente raggiunto la perfezione nell’arte della stampa. Ad una lettura attuale se fosse possibile riandare a Bodoni e guardare con i suoi occhi oltreché con i nostri, potremmo vedere dei libri dell’Officina l’impressione “a morso” in contrasto con quella “a bacio” dell’offset. Tenendo a luce radente una pagina stampata in tipografia noteremmo un certo effetto, come di scultura, che sarà confermato facendo scorrere i polpastrelli delle dita sulla pagina stessa. Nessuna riproduzione, neanche la più perfetta con un laser a scansione elettronica, è in grado di dare questo tipico aspetto della stampa tipografica : Mardersteig conosceva tutto questo come sapeva chi sarebbero stati i fruitori delle sue pubblicazioni (e all’attenzione dei lettori uniformò il suo lavoro). I Cento amici del libro, i bibliofili, gli amici, i grandi amatori del libro erano persone troppo raffinate perché lo stampatore veronese non adeguasse alle loro esigenze le opere che uscivano dall’Officina. Ciò non significa, ovviamente, che Mardersteig non utilizzasse la gamma dei caratteri che egli conosceva perfettamente come il Garamond, il Blado, il Baskerville, il Vicentino, il Polifilo ed altri ; ma quando vide il Bembo della Monotype reso disponibile nel 929 e non si trovò del tutto soddisfatto, s’accinse a incidere nuovamente il carattere del De Aetna ; 28 sei mesi vi lavorò con Malin ma alla fine il nuovo tondo Griffo, straordinariamente luminoso e mai ripetitivo, sembrò davvero l’alfabeto ritrovato : 29 si evitava la monotona uniformità della pagina stampata, tanto poco apprezzata dai Veneziani che avevano imparato a leggere sui libri scritti a mano in una repubblica dove la stampa veniva praticata solo da trent’anni. Introdusse delle varianti ad alcune lettere e per accrescerne la varietà aggiunse degli svolazzi ad alcune di esse ; egli voleva offrire un nuovo carattere, brillante e innovativo dove gli interstizi tra lettera e lettera fossero chiari, godibili dal lettore e permettessero, in questo modo, di apprezzare ancor più il contenuto testuale ; se chiara appare comunque l’ispirazione del suo carattere Griffo tondo a quello originario, la necessità di utilizzare un corpo 6 del corsivo (Griffo aveva utilizzato sempre corpi più piccoli) indusse Mardersteig a innovare le proporzioni e le grazie per rendere il disegno più armonioso ; la leggibilità delle nuove lettere e la loro eleganza venne ulteriormente ingentilita da una “e” arricchita di uno sperone superiore allorquando si univa alla “t” offrendo un colpo d’occhio sconosciuto al pubblico dei lettori. Usati per la prima volta nei Due episodi della vita di Felice Feliciano : ovvero la terza e la decimaquarta novella de Le Porretane di Sabadino degli Arienti del 939, 28. Solo molti anni dopo Mardersteig dette vita ad un volume esclusivamente dedicato al racconto del giovane Pietro Bembo ; nel 969 dalla sua Officina uscì Petri Bembi de Aetna liber & Pietro Bembo, Dell’Etna nella lingua originale latina secondo la prima edizione di Aldo Manuzio (496), curato da Carlo Dionisotti e tradotto in italiano da Vittorio Enzo Alfieri con una dissertazione dello stampatore sul testo e sui caratteri ; i quali erano un Griffo corpo 6 tondo e Bembo (per la traduzione) corpo 2 e 6 tondo e corsivo. Il De Aetna era uscita una seconda volta a Venezia presso Nicolini da Sabbio nel 530 e l’ultima era stata nell’edizione in-folio delle opere del Bembo presso Francesco Hertzhauser, Venezia 729 ; dopo la mardersteighiana si registra quella splendida per il Banco di Sicilia, De Aetna : il testo di Pietro Bembo tradotto e presentato da Vittorio Enzo Alfieri ; note di Marcello Carapezza e Leonardo Sciascia : iconografia, Palermo, Sellerio, 98 ; questa traduzione, come dichiarato dallo stesso Alfieri, era quella dell’edizione veronese. Dimostra di non essersi avveduto del lavoro di Mardersteig Luigi Balsamo, Il De Aetna del Bembo stampato nell’Officina Tallone, « La bibliofilía », 06 (2004), , pp. 99-00. 29. Sulla genesi dei caratteri, e non soltanto sul Griffo, rimandiamo al saggio di John Dreyfus, Il creatore di caratteri a stampa, in Giovanni Mardersteig stampatore…, cit., passim.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 571 i due Griffo trovarono poi la loro consacrazione probabilmente più riuscita ne Il Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio dell’anno successivo. Quest’opera risponde, come molte altre per la verità, a quei caratteri dell’eccellenza per la straordinaria ricchezza di alcuni elementi paratestuali : 0 esemplari su carta a tino, alcuni rilegati in tutto zigrino blu o in tutta pergamena, altri pure in pergamena con quadranti flessibili (rilegatore Giannini fiorentino) con una nota al lettore di Tammaro de Marinis e 22 xilografie di Bartolomeo di Giovanni dalla prima edizione del 495-498 reincise da Franz Kredel. Il frontespizio, secondo la prassi mardersteighiana, si presenta sobrio e privo d’orpelli, ma decisamente signorile appare invece il colophon. Oppure, e segnaliamo qui l’uguale tensione che animava l’Officina, i due Griffo, alternati al Bembo tondo e corsivo vanno pienamente goduti in un libretto d’occasione per noi di abbagliante bellezza e di una pulizia compositiva quale abbiamo raramente trovato in pubblicazioni non destinate a collezionisti o a bibliofili : Lo Alphabeto delli Villani con il Pater Nostro e il Lamento, che loro fanno, cosa ridiculosa bellissima (edizione privata per Alberto Falck e Cecilia Collalto Giustiniani Recanati) del 969 denota una superba capacità compositiva con un effetto, per il lettore, facilmente intuibile ; un foglio di guardia bianco accoglie nella sua parte mediana il giorno delle nozze in elegante Bembo 4 ingentilito da due ramoscelli floreali di colore rosso mentre il frontespizio, sempre sobrio per la verità, presenta una rosa quasi a sorreggere il titolo ; le terzine dell’alfabeto villanesco in dialetto pavano, distanziate di un centimetro in uno specchio di stampa che rispetta i margini con rigorosa fedeltà appaiono luminose all’interno della pagina ; il Pater nostro (sic), per il resto in perfetto latino, racchiude all’interno di ciascuna delle sue strofe una terzina di un gustosissimo piagnisteo contadino in dialetto vicentino-padovano del sedicesimo secolo : il colore rosso di “Pater nostro”, di “Qui es in coelis” e così via, alla fine di ogni lamentela, risalta come brillante rispetto alla pur luminosa terzina in nero corsivo. Sempre per rinnovare la leggibilità e dare ulteriori segni di novità nella sua produzione, Mardersteig lavorò alacremente ad un nuovo carattere da abbinare a libri illustrati da artisti contemporanei : qui, più che altrove, lo stampatore applicò quel principio per il quale – da innamorato dell’alfabeto manoscritto – « ricavare un carattere da stampa da una lettera manoscritta è molto più difficile di quanto non si creda e richiede soprattutto grandi sacrifici, perché in un carattere non devono rimanere tracce di un disegno personale, ma deve poter servire il pubblico dei lettori senza essere troppo appariscente » : 30 ancora una volta, l’attenzione del veronese si appunta sul fruitore perché questi elementi o questa caratteristica (se così vogliamo definire i caratteri impressori) rendano “bello” il libro. Fu un’elaborazione lunga e complicata poiché si trattò di reincidere, da parte di Charles Malin, l’alfabeto disegnato da Mardersteig personalmente, sui punzoni tenendo presente la lezione calligrafica ma guardando alla tecnica che non sempre si sposava facilmente con il modello originale ed inoltre doveva rispondere – primamente e in senso assoluto – alla leggibilità leggiadra e godibile. Uscì il carattere denominato Zeno, in base all’argomento del libro per il quale fu utilizzato per la prima volta : era il santo pescatore riformatore della diocesi di Verona, un vescovo del iv secolo che morì nel 372 ; nel giugno 937 venne stampato un racconto di Lorenzo Montano, San Zeno, vescovo, patrono di Verona nobilitato da tre xilografie di Gunter Böhmer in cinquanta esemplari su carta a 30. Ivi, p. 65.

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tino con rilegatura con carta Ingres grigia ed etichetta in carta a tino bianca con titolo in nero applicata sul quadrante anteriore ; il corpo 6 tondo del testo con uno specchio di stampa leggermente più piccolo della consuetudine mardersteighiana con, in frontespizio, un sobrio titolo impresso in Zeno più grande conferì alla pubblicazione una parvenza di eccellente novità. Modellato sulle pagine del Missale Romanum di Ludovico Arrighi detto il Vicentino (cui, tra l’altro, Mardersteig dedicherà importanti ricerche) e concepito per pubblicare un’uguale opera, lo Zeno non fu usato moltissimo. Il Missale Romanum non uscirà mai dai torchi dell’Officina anche se grandi e innovative sono la leggibilità e il colore del carattere soprattutto per la forza intensa, adatti entrambi, alla lettura in condizioni di scarsità di illuminazione (come volevasi per una meditazione accurata e Fig. 3. Frontespizio di Epikt}tow, Manuale ; carattere : riflessiva dell’importante pubbliCentauro. cazione) : le prove di stampa – tra le pochissime da noi rintracciate – indicano l’utilizzo del nero fumé poi tralasciato. Probabilmente il migliore esempio di utilizzazione dello Zeno fu l’edizione del 963 de I Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni tradotti dal greco dal Pontificio Istituto Biblico di Roma e riguardati sull’edizione delle Epistole et Evangelii stampata a Firenze nel 495 da cui furono tratte le 4 xilografie reincise da Bruno Bramanti : edizione superba sotto ogni profilo con un frontespizio inciso da Reynolds Stone di rara bellezza e perfezione, stampata su carta a mano e rilegatura in tutto marocchino oasis verde con titolo e contorno in oro sul quadrante superiore. Suoi disegni dei caratteri, costantemente finalizzati al rinnovamento del processo di stampa soprattutto con il procedere sempre più impellente della monotype per la quale e con la quale Mardersteig comincerà a lavorare assai presto, furono pure lo Zarotto o Nuovo Mardersteig in linea con i più moderni incisori e con profonde reminiscenze garamondiane ; sia il tondo sia il corsivo, leggermente impastati e dai contorni non nitidissimi, esaurirono il loro uso negli inviti per il matrimonio che lo stampatore si accinse a contrarre nel 932. Ma il geniale disegnatore aveva in serbo la straordinaria fortuna del Fontana o Collins progettato per la casa editrice Collins Cleartype Press di Glasgow, un carattere chiarissimo, dagli interstizi perfetti e misurati tra lettera e lettera, senza svolazzi ma essenziale con un corsivo che si rifaceva alla più suadente

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 573 lezione rinascimentale che aveva mutuato gotico e perfezione manuziana. Nessun libro uscì dall’Officina con questi caratteri. Infaticabile, Mardersteig disegnò un carattere in tre corpi, in seguito aumentati di numero, a cui la Monotype aggiunse anche una versione in neretto : il Dante. Notissimo, usatissimo sia a mano sia nella monotype e poi nella versione elettronica questo carattere prese il nome dal sommo poeta in occasione della pubblicazione del Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio del 955 : fu una straordinaria edizione, una delle più affascinanti dell’Officina, abbellita da calcografie, da un ritratto dell’Alighieri, dalla carta speciale Giappone imperiale e a mano tipo Rives, con iniziali in corpo 30 stampate in rosso e in azzurro e il titolo in frontespizio in corpo 20 in nero e rosso, con rilegatura in rosso cupo e contorno in oro e il colophon piramidale a colori, con margini e specchio di stampa armonizzati dalla bellezza dei nuovi caratteri. In questi, senz’altro più che negli altri a lui ascrivibili, si possono riconoscere quelle peculiarità di splendida realizzazione che fanno esclamare ai lettori che si interessano seriamente alle raffinatezze del disegno di un carattere di avere trovato raramente una possibilità di lettura attraente, vivace, riposante. Non è difficile riscontrare nella pagina la proporzione delle lettere, i passaggi tra i tratti grossi e quelli sottili, il trattamento delle grazie nelle maiuscole, nelle minuscole e nei tratti finali di queste, la consistenza tra tondi e corsivi, la spaziatura tra i caratteri, l’allineamento delle lettere : il tutto contornato dai margini tradizionali, sempre piuttosto ampi, sì da fare risaltare la composizione stavolta regina incontrastata sulla pur bella armonia dei bianchi. Il Nostro si cimentò, ultimamente, con il carattere Pacioli, dove fu in grado di combinare le tecniche più moderne del ventesimo secolo con la tradizione dell’incisione a mano riuscendo a ricreare lettere del secolo sedicesimo nei caratteri di stampa. La costruzione geometrica del frate di Borgo San Sepolcro ebbe notevole influenza sulla mente e sulla mano di Mardersteig affascinato come fu sempre dalla scienza di quel tempo anche per le attrazioni che quegli subì da Felice Feliciano, la passione mai sopita dello stampatore veronese. Il carattere fu usato, in vari corpi, nel frontespizio e nei titoli nella memorabile edizione del De divina proportione di Luca Pacioli uscita nel 956 per i tipi dell’Officina ma stampata per la Mediobanca. Da questo momento in poi, Giovanni Mardersteig consacrò buona parte delle sue forze allo studio e alla ricerca apportando notevoli contributi alla conoscenza dell’arte della stampa e della tipografia, scoprendo opere d’arte ritenute introvabili, pubblicando saggi di alta e raffinata competenza filologica 3 e lasciando inediti i suoi molti studi su Giorgione : ormai la monotype stava prendendo il sopravvento sul torchio a mano ; egli non volse le spalle alla modernità poiché dall’Officina continuarono a uscire capolavori di raffinata eleganza e di ricercata bellezza tanto che oggi non appare così facile distinguere le pubblicazioni ; ma, piano piano, egli preparava la strada all’avvento della Stamperia Valdonega guardando, con l’occhio intelligente dell’uomo 3. Non ci pare esista una bibliografia completa delle opere scritte da Mardersteig però, pur essendo ricca di buoni contributi, essa non è molto numerosa ; consacrò fondamentali ricerche alla calligrafia (a titolo d’esempio citiamo Francesco Alunno da Ferrara noto grammatico, ma calligrafo sconosciuto, in Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze, Sansoni, p. 425-452), alla storia della tipografia (anche qui, uno per tutti, La singolare cronaca di un incunabolo : il commento di Gentile da Foligno all’Avicenna stampato a Padova da Pietro Maufer nel 1477, Verona, Ediz. Valdonega, 967) ; molto egli scrisse nelle presentazioni, dotte e colte, alle opere uscite dalla sua officina ; alcuni suoi interventi risultano dalle note a pié di pagina del presente saggio. Sulla sua figura di umanista e studioso si sofferma Gian Paolo Marchi, Giovanni Mardersteig umanista e studioso, in Giovanni Mardersteig stampatore…, cit., pp. 29-49.

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imbevuto di cultura del passato e carico dei valori classici, a quanto avrebbe offerto di positivo il moderno. A quanto ci consta, nonostante accurate ricerche, non rimane molto del metodo utilizzato da Mardersteig per approdare ai risultati che conosciamo. Ciò che è certo è che egli non si dette mai delle regole che valessero per tutte le opere : di volta in volta studiava gli apparati e solo dopo accurate prove e ricerche decideva e, quindi, agiva. In lui fu chiara, altresì, la concezione che non esisteva la dimensione del libro di solo testo, anzi questo elemento avrebbe potuto anche passare in secondo piano ; bisognava recuperare il valore della parola scritta, composta e stampata con le arti manuali, figlie di un’antica tradizione e di spiriti illuminati : 32 con la cura e la bellezza che assomigliavano alla sua grafia. Presso l’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona – della quale fu fatto socio onorario il 9 giugno 966 – si trova il “Fondo G. Mardersteig” dove esiste, certamente non in maniera esaustiva, una buona serie di note e di ricerche che lo stampatore era andato facendo ; in attesa di essere catalogato, esso è stato lasciato secondo l’ordine conferito dallo stampatore che l’aveva classificato sull’autore sul quale egli aveva indirizzato i propri studi : mancano appunti precisi che egli certamente non avrà dimenticato negli spostamenti effettuati in biblioteche italiane e straniere e in archivi. 33 È facilmente comprensibile che tale fondo contiene utili e interessanti elementi per comprendere una metodologia di approccio alla conoscenza di opere già stampate e che egli voleva riproporre apponendovi il proprio personale marchio pure nella rigorosa, filologica ricostruzione di quanto era già avvenuto. Nulla esiste, invece, riguardo pubblicazioni di autori nuovi o contemporanei o di opere che non avevano goduto di edizioni precedenti. Pare interessante, a questo punto, ricostruire il percorso di una sola opera presa ad esempio (quella a cui egli attese con passione maggiore) per cercare di capire quanto rigorosa fosse la ricerca e di sicuro successo il risultato. Tutti gli studiosi di Mardersteig sanno che egli fu il massimo studioso di Felice Feliciano, antiquario, umanista, stampatore veronese del quindicesimo secolo : a lui egli dedicò le maggiori attenzioni e ciò è assai bene dimostrato dalla presenza di note all’interno del Fondo sopra citato. Allorquando s’accinse a stampare l’Alphabetum romanum del veronese, Mardersteig passò al setaccio tutte le opere pubblicate, le ricercò per saperne l’individuazione nelle biblioteche, ne segnò con attenzione la collocazione, le differenze, le particolarità, le diversità testuali e paratestuali (rigorosamente segnalate in fogli diversi recanti date e luoghi) ; quindi, per accertarsi – e questa fu una sua scoperta – che il calligrafo del Quattrocento si era ispirato ai caratteri incisi sulle pietre di Verona, si mise a ricopiare perfettamente (quasi fossero ricalcate) le lettere delle pietre ; poi disegnò i fregi che gli riporterà nell’opera a stampa con una cornice xilografica identica a quella del De adventu Antichristi ridotto di un terzo. Quindi si pose il problema della riproduzione dell’alfabeto : ne disegnò alcune lettere utilizzando il metodo geometrico proprio dell’epoca di Feliciano appuntandosi, a latere degli schizzi, perplessità e domande ; rivide – forse più volte – il codice Marcanova che risulta il più bell’esemplare dell’arte calligrafica di Feliciano scrivendosi, come fosse32. Su queste idee si muove anche Franco Origoni, La logica del tipografo-editore, in Giovanni Mardersteig stampatore…, cit., p. 57. 33. Il Fondo, davvero bene ordinato, giunse in Accademia per dono della famiglia Mardersteig all’inizio degli anni ’90.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 575 ro appunti minori (ma poi puntualmente riportati nella presentazione dell’opera), che “le tinteggiature e le varietà delle decorazioni sulle lettere non avevano nulla a che fare con la miniatura ma, ciononostante, l’effetto era monumentale” ; ne segnalava la simmetria, la perfetta bellezza della scrittura umanistica, ne sottolineava anche la bizzarria : e intanto egli disegnava con cura le stesse lettere. In altro foglio ritroviamo i fiorellini che Feliciano usava fusi in piombo ed altri piccoli ornamenti ; con scrittura nitida, a volte con parole tedesche, Mardersteig non dimenticava nulla (neppure di ricordarsi di utilizzare per il libro dell’Esopo un’incisione sepolcrale notata durante le ricerche su Feliciano). L’idea di disegnare maiuscole con l’aiuto di norme geometriche esercitò sempre un effetto affascinante soprattutto in Fig. 4. Alcune delle prime rilegature in tutto marocchino. età rinascimentale siano stati Luca Pacioli, Damianus Moyllus o Felice Feliciano : 34 e su questi tre egli costruisce un piccolo saggio – regolarmente riportato nel testo introduttivo più tardi – quasi a dare a se stesso la certezza della bontà della ricerca. Infine, dopo una serie consistente di altre carte, tutte ordinate, appare un foglio più pulito, più manualmente corretto, assolutamente privo di note ed appunti : è, almeno così appare, la pagina manoscritta che dovrà essere riversata, talis et qualis, sulla pagina a stampa. L’Alphabetum romanum di Felice Feliciano veronese uscì dall’Officina nel dicembre del 960 sul Cod. Vat. Lat. 6852, con le maiuscole in fac-simile (raro caso !) colorate a mano da Ameglio Trivella, stampa in Dante corpo 0,  e 2 tondo e corsivo, disegno nello stile di Feliciano (due quadrati inscritti in un cerchio legati da un nodo calligrafico) sul frontespizio in rosso e giallo con la pagina mirabilmente armonizzata tra la lettera maiuscola e il commento felicianiano sì da lasciare, all’interno dello specchio di stampa, disuguali distanze dai margini per non sacrificare i testi più o meno lunghi. Tutto questo, laboriosamente, Mardersteig aveva studiato in precedenza lasciando la rilegatura ed altre cose minori da vedere all’indomani dell’esito della stampa. Più affascinante ancora ci è parso il percorso che lo stampatore imboccò e certamente avrà portato a termine per il libro del Pacioli ; ma di esso rimane poco : fotoco34. Interessante, perché caso abbastanza raro sinora, la trattazione fatta su alcuni frontespizi quattrocenteschi di Lew Andrews, Pergamene strappate e frontespizi : i frontespizi architettonici nell’epoca dei primi libri a stampa, « Arte veneta », 999, 2, pp. 7-29 : a p. 4 si riporta un frontespizio di Feliciano.

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pie del frontespizio dell’edizione di Paganini a Venezia nel 809, fotocopie di alcune pagine con le misure delle altezze dei capilettera, rigorosamente quadrati e perfetti nella loro esecuzione, le segnalazioni dei capoversi e delle maiuscole, le segnature dei margini ; rimangono, fortunatamente, sei fogli manoscritti con le parole del frontespizio scritte di proprio pugno con i medesimi caratteri (per quanto a mano possano copiarsi), con la tipologia di carta da usarsi, con gli alfabeti dimensionati, con il colophon segnalato, con le maiuscole perfettamente misurate. Mancano – e non sappiamo se davvero Mardersteig non si sia divertito a disegnarli, 35 i solidi che hanno fatto di quest’opera un’edizione senza uguali. 36 Viene da chiedersi, quasi a mo’ di conclusione – ammesso che parlando degli elementi paratestuali mardersteighiani si possa concepire una conclusione – se lo stampatore veronese si sia domandato esplicitamente che cosa significava per lui « bel libro », che sta anche per libro d’arte seppur con qualche leggera diversificazione. Tra i suoi scritti non risulta una qualche risposta né vi appaiono definizioni forse perché dai torchi della sua Officina, ma anche dopo l’entrata in auge della monotype, il bel libro albergava in solitudine senza condividere con altri quella dimora. Probabilmente per Giovanni Mardersteig il bel libro fu l’unione armoniosa tra l’eccellenza del testo, l’eccellenza del “suo” illustratore, l’eccellenza dello stampatore ; combinazioni rare, ma magiche perché dall’Officina uscì sempre la bontà del testo arricchita della bella immagine : entrambe accolte in un’eccellente veste tipografica. Senza teorizzazioni, egli aveva recuperato il concetto classico, un poco lontano dalla nozione del tipografo artista (caro, tra l’altro, ad un suo grande “allievo” veronese quale Renzo Sommaruga) più creatore che scrupoloso osservatore dell’armonia. E qui, proprio in questa fase discriminante, risiede la differenza tra il libro d’arte e il libro d’artista ; autore del primo, non autore del secondo nonostante l’apporto di grandi artisti – pittori, xilografi, calcografi, disegnatori – Mardersteig pose al di sopra di ogni altro esito quello dell’armonia tra tutte le componenti dell’opera uscita dai suoi torchi anche a costo di sacrificare le esigenze dell’artista. Per questo, forse più di altri (ma egli non fu solo in Italia, né appare sguarnita la Verona attuale, ricca di suoi importanti continuatori) egli creò davvero il “bel libro” e, quasi sempre, il libro d’arte diretto discendente della tradizione umanistica che trovò in Mardersteig il punto d’incontro tra l’inventiva di Aldo e la fredda perfezione di Bodoni : non omologo, quindi, di quello d’artista né della lezione moderna ad esso afferente. 37 Il “maestro della stamperia d’autore” com’egli fu definito dopo l’uscita de Il Milione di Marco Polo, illustrato da Massimo Campigli (942), era passato indenne dalle pur tante prove che il libro novecentesco conobbe (quello futurista, quello dadaista, quello surrealista e quello impressionista, quello di latta e quello delle prove grafiche 35. Come invece appare da alcuni fogli volanti e da prove di stampa. 36. Del Pacioli, del Feliciano, dei Vangeli e dell’Esopo esistono brevi schede, firmate da noi, nel catalogo della mostra bolognese collegata al Convegno ; esse sono leggibili in Sulle tracce del paratesto, cit., rispettivamente alle pp. 46, 44, 45, 54. 37. Registriamo, accogliendola solo in parte, la nozione dettata da Attilio Mauro Caproni, Il libro d’artista : definizioni, modelli, strutture, « Bibliotheca »,  (2003), pp. 4-56 apparsa identica in « Quaderni veneti », 37 (2003), pp. 43-62 ; più puntuale, anche se dedicato a libri di altra dimensione, il saggio breve di Giuliana Zagra, Piccolo formato e libro d’artista, « Quaderni veneti », 37 (2003), pp. 89-97. Una nota sulla situazione veronese – con cenni sulle opere di Mardersteig – scrive Ennio Sandal, Il libro d’artista a Verona, « Ibidem », pp. 99-09.

elementi paratestuali nele opere pubblicate dall’officina bodoni 577 urbinate, quello che lo definì esclusivamente oggetto, caro ad una corrente polemica degli anni Settanta e da lui rigettato giacché lontano dalla propria anima umanista) perché aveva tenuto fede a delle regole classiche pure utilizzando – e con esiti notevolissimi – artisti contemporanei. « Il vestire le idee di un autore coi tipi adatti è ciò che si può chiamare il carattere dell’arte ; ed una stampa che cerchi di rivelare l’espressione delle idee dell’autore, non solo ha carattere, ma ha grazia ; è la forma che lascia trasparire lo spirito ». 38 Mardersteig si spinse molto più in là : egli fece il bel libro con la proporzione simmetrica del formato, dei margini e dell’interlinea, con l’esattezza costante del registro, con la composizione accuratissima, con la scelta precisa ed opportuna dei caratteri per il testo e per la prefazione e per il frontespizio e per gli altri elementi marginali, con l’uguaglianza dell’inchiostro e della sua impressione, con una sapiente e calcolata gradazione di colori fra i diversi corpi, con la ben proporzionata separazione delle lettere e delle parole, con la partizione elegante e la semplicità dei frontespizi, con la cura ricercata delle legature. Recuperò, tra gli altri apparati, la nota al lettore che più volte premise ad alcune opere : talora scritta da lui stesso (di folgorante bellezza quella nel volume di Francesco Berni, Capitolo del prete di Povigliano : a Messer Ieronimo Fracastoro, del 95) talaltra affidata a studiosi (Tammaro de Marinis, Alfredo Schiaffini e altri) ; non dimenticò neppure le dediche (da ricordare, almeno, quella di Paolo VI per il cardinale Giulio Bevilacqua del 965 premessa all’Evangeliario per le solennità cristiane), né eventuali note all’edizione (necessaria, dello stesso stampatore, alla mirabile edizione dell’Epikt}tow del 967). Ingegno e cultura avrebbero consentito a lui, vicino ad alcuni tra i maggiori letterati e artisti del Novecento, di percorrere un diverso itinerario di creazione artistica. Ma la sua formazione chiamava Mardersteig alla ricerca della bellezza nel libro : un amore così forte e assoluto, tanto che egli avrebbe potuto assumere come motto orgoglioso la confessione di Francesco Petrarca a Giovanni dell’Incisa : « libris satiari nequeo » anche perché come ebbe a scrivere : « il libro è un’opera d’arte a cui vale la pena dedicare tutta una vita ». 39 Abstract Giovanni Mardersteig (892-977) è considerato uno dei più raffinati stampatori novecenteschi ; recuperando la nozione originaria del tipografo-stampatore-editore come unico protagonista della pubblicazione del libro, egli fece uscire dai torchi della sua Officina Bodoni opere di assoluta bellezza ed uniche nell’armonia tra testo, composizione e confezione. L’a., in questo saggio, passa in rassegna tutti gli elementi paratestuali delle opere pubblicate : dai caratteri a stampa (che furono la passione dominante di Mardersteig) ai frontespizi, dalle legature all’armonia della pagina fatta di compensate proporzioni tra righe nere e interlinee, tra specchio di stampa e margini. L’a., inoltre, dimostra con esempi il metodo di lavoro dello stampatore veronese teso ad essere il più possibile fedele ai volumi antichi (ma disegnando e reincidendo i caratteri, rifacendo xilografie, proponendo colorazioni, ecc.). Le opere uscite dall’Officina, classiche creative e innovative nello stesso tempo, rispondono al concetto di “bel libro” che, nell’accezione mardersteighiana, significa unione armoniosa tra eccellenza del testo, eccellenza del “suo” illustratore, eccellenza dello stampatore. Giovanni Mardersteig (892-977) is considered one of the most refined printers of the twen38. Così Giuseppe Chiantore, Dissertazione estetica, in G. B. Bodoni, Manuale tipografico, Firenze, Tip. della Gazzetta d’Italia, 874, p. 49. 39. G. Mardersteig, Scritti sulla storia dei caratteri…, cit., p. 3 ; così anche G. P. Marchi, Giovanni Mardersteig…, cit., p. 47.

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tieth century. Recuperating the traditional notion of the typographer-printer-publisher as the only and exclusive protagonist of the publicaton of a book, M. Published in his Officina Bodoni works of supreme beauty and harmoniousl balanced between text, composition and general outlook. In this essays the author discusses all paratextual elements M.’s published works, from the printing types (M.’s ruling passion) to the frontispieces, from the bindings to the harmony of the pages, consisting of well-chosen propositions between printed lines and internals, between printed sections and margins. Moreover, the author shows on the base of exemples the working methods of the Veronese printer, who always tied to remain as faitf hul as possible with regards to antique books he published (howerer drawing and re-incising the characters, re-incising the woodblocks for the woodents, re-proposing colorings, etc.). The books published by the Officina Bodoni are classical, creative and innovative at the same time, responding to the concept of “bel libro”, which, in the sense of Mardersteig, means a harmonious union between excellence in text, illustration and printing quality.

Gino Castiglioni LA CHIMÈREA OFFICINA : PARATESTO E POETICA NELLE EDIZIONI DI UN TORCHIO TIPOGRAFICO Materia est remota ut conceptus humani, vel proxima ut charta, atramentum et littera metallica. Forma est configuratio litterarum, illarumque expressio. Affectiones sunt elegantia et proportio. Johann Heinrich Alsted, Encyclopaedia, 630 Pardon me, who strive to build a shadowy Isle of Bliss, midmost the beating of the steely sea. William Morris

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intervento si divide in due parti : ad una breve premessa teorica segue l’esame di alcuni esempi di peritesto nei libri della Chimèrea Officina. Alcuni anni orsono, un caro amico, purtroppo scomparso, con la sincerità che gli era propria e non senza un pizzico di provocazione, mi disse : « Apprezzo il tuo lavoro di tipografo,  ma è fatica sprecata perché, ai fini della comunicazione, un bel libro o un brutto libro funzionano in ugual misura : Quevedo resta Quevedo, La vispa Teresa, pure ». Il sillogismo mi fece riflettere. È vero ? E se non è vero, dove sta la contraddizione ? Ho una risposta. È necessario anzitutto stabilire che cos’è un bel libro. Senza pretesa di giungere a definizioni risolutive, ritengo che, con un buon margine di sicurezza, si possano definire bei libri quelli che a un contenuto di qualità – dato per scontato – uniscono pregi formali rilevanti, definiti in modo coerente al testo di cui sono al servizio. In sintesi, i pregi formali, sono : disegno accurato, materiali adeguati, 2 esecuzione impeccabile. È evidente che ognuno di questi fattori è una summa di elementi, ad esempio “disegno” sta per : formato, impostazione della pagina (anzi delle due pagine affiancate), caratteri, corpi, composizione, titoli, uso delle maiuscole, margini, ecc. Tutti, come si vede, sono aspetti del peritesto. La loro presenza tuttavia non è sufficiente : buon disegno, materiali appropriati, esecuzione eccellente, debbono essere declinati con coerenza al testo che concorrono a materializzare, e in armonia tra loro : pena l’ insuccesso. Sarà la poetica del tipografo a dettare i limiti del “come”. Poetica : con questo termine, oggi desueto, intendo il complesso delle conoscenze (sul testo e sull’autore, sugli strumenti, ma non solo), dell’esperienza, delle idee, sensibilità, intuizioni, della . Il termine “tipografo” è usato senz’altro nell’accezione italiana di stampatore con caratteri tipografici, ma contemporaneamente si intende anche nell’accezione inglese di typographer, più spostata sul versante del disegno e del progetto del libro. 2. Materiali adeguati non significa necessariamente materiali costosi. Anzi. Il prezzo non sempre è pregio e spesso supplisce a mancanza di gusto e fantasia. Non è il caso di portare esempi, scegliendo in una vastità di libri cosiddetti per bibliofili. Non qui, non ora.

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capacità tecnica, ecc. che presiedono alla creazione di un autore, nella fattispecie di un tipografo. Ecco – qualcuno penserà – dove vuole arrivare : a definire il bel libro come opera d’arte. No, non è così, anzi. Riconosco all’oggetto artistico una funzione di molto peso, ma un’unica funzione : quella estetica. Mentre il libro, bello o brutto che sia, deve conservare la funzione pratica di trasmettere un testo. Quando i libri assurgono a pure opere d’arte, cioè assumono solamente valore estetico, allora non sono più libri. Ne hanno l’apparenza, ma, di fatto, non sono libri perché non veicolano alcun testo. C’è chi li definisce “libri d’artista”. Può andare benissimo, non mi addentro in definizioni. 3 Sono talvolta oggetti di straordinaria qualità formale, di raffinata capacità provocatoria, di rilevante carica emotiva, ecc. Chiamiamoli pure libri se ci fa piacere, ma sappiamo che libri non sono. I bei libri sono oggetti di design, dove le qualità del peritesto, riassunte nel trinomio : disegno – materiali – esecuzione, assecondano la forma (la funzione estetica), ma soprattutto interpretano il contenuto testuale. E su di esso agiscono. Il modo di percepire un testo, o meglio, le emozioni che un testo provoca, sono modificate dalla forma, che sempre veicola contenuti. Quindi, per rispondere alla domanda iniziale : se il peritesto agisce sul testo variandone la qualità sensibile e percettiva, cioè modificandone la comprensione, allora un bel libro o un brutto libro funzionano diversamente, eccome, ai fini della comunicazione. * E veniamo alla Chimèrea Officina. Anzitutto chiarisco : la Chimèrea Officina è topos chimerico per autodefinizione, e quindi mentale ancor prima che fisico, luogo di vita delle idee, spazio privatissimo, versante di riparo dallo stucchevole del quotidiano. 4 I 3. Il libro d’artista, a cura di Giorgio Maffei, Milano, Sylvèstre Bonnard, 2003 ; con ampia bibliografia. Guardare, raccontare, pensare, conservare, quattro percorsi del libro d’artista dagli anni ’60 ad oggi, a cura di Anne Moeglin-Delcroix, Liliana Dematteis, Giorgio Maffei, Annalisa Rimmaudo, Mantova, Corraini, 2004. 4. Sulla Chimèrea Officina, qualche cenno bibliografico : Il libro figurato d’autore, esemplari della Biblioteca Comunale di Milano, a cura di Franco Passoni, Milano, 98, n. , 2, 207. Bodoni in Offenbach, 57 Meisterwerke von G. B. Bodoni und ein Beitrag seine Nachfolger in eine Ausstellung im Klingspor Museum, Verzeichnis der ausgestellten Werke von Corrado Mingardi, Offenbach, 988. Gino Castiglioni, Un’eredità di Mardersteig, i torchi tipografici a Verona, in Giovanni Mardersteig, stampatore, editore, umanista, a cura di Sergio Marinelli e Franco Origoni, Verona 989, pp. 77-95. Robert Williams, Recent Press Books : Felice Feliciano, Epistole e versi agli amici artisti, « Fine Print, The Rewiew for the Arts of the Book », vol. 5, n. 3, 989, pp. 43-44. I libri di Baj, a cura di Massimo Mussini, Nani Tedeschi, Luciano Caprile, Milano 99, nn. xii, p. 59 ; xvii, p. 60 ; xxii, p. 62 ; xxvi, p. 63. La Chimèrea Officina, trent’anni di privatissima tipografia, con una premessa di Eleanor M. Garvey, e alcune riflessioni di Guido Ceronetti ; Verona, 99. La tipografia come diletto : incontro con Gino Castiglioni e Alessandro Corubolo a cura di Massimo Gatta, in Scritti di varia umanità in memoria di Benito Iezzi, a cura di Mario Capasso e Enzo Puglia, Napoli, Di Mauro, 994, pp. 354-369. Ralph Jentsch, The Artist and the Book in Twentieth-Century in Italy, Turin, Allemandi, 992, Published on the occasion of the exhibition at the Museum of Modern Art, New York, Oct. 5, 992-Feb. 6, 993 ; nn. 3, p. 20 ; 56, p. 46 ; 374, p. 23 ; 39, p. 222 ; 547, pp. 306-307. Martin Antonetti, Et in Arcadia Ego, a Fine Printing Pastorale in Northern Italy, « Bookways, A Quarterly for the Book Arts », n. 8, July 993, pp. 4-26. Alessandro Corubolo, Private, stamperie, in Manuale Enciclopedico della bibliofilia, Milano, Sylvèstre Bonnard, 997, pp. 507-50. Richard Gabriel Rummonds, Two Private Presses from Verona : Officina Chimèrea & Ampersand, « Matrix, A review for Printers & Bibliophiles », n. 2, Winter 200, pp. 9-99, con uno specimen di Anna Livia Plurabelle.

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tipografi militanti vi operano senza compromessi, in totale libertà creativa ; la limitatezza del tempo, la gelosa autonomia delle scelte, l’antieconomicità dei processi, il voler confinare la tipografia nella dimensione del puro diletto, escludono che il fine sia il profitto. La stampa richiede soltanto mano, occhio e cuore. Noi 5 crediamo nella pagina impressa come materializzazione della parola, secondo un progetto. In nome di gusti strenuamente educati difendiamo idee che non ci recano alcun vantaggio, rinunciamo a facili soluzioni per tener fede a un credo che non favorisce miracoli. Parlare di paratesto nelle edizioni chimeriche richiederebbe ben più del tempo che mi è concesso e soprattutto una pazienza infinita da parte dell’uditore. Senza modificare il primo, né mettere a prova la seconda, due soli esempi basteranno. L’uno, a riassumere i passaggi essenziali che presiedono alla genesi di un libro nell’Officina. L’altro, ad approfondirne un solo aspetto, essendo evidente che qualunque altro potrebbe essere sviluppato almeno in egual misura. Entrambi i libri considerati sono esposti nella Biblioteca Universitaria di Bologna, nella mostra che completa questo convegno e sono illustrati nel catalogo, 6 per cui non si propongono riproduzioni. Il primo esempio è un’elencazione, con un breve commento, dei principali elementi di peritesto in un libro dell’Officina. Si tratta di : Rainer Maria Rilke, Orfeo Euridice Hermes | Alcesti, Verona, 999. 7 « Vivo nelle nostre attese fin dall’adolescenza, fin dalle Lettere ad un giovane poeta, cercate perché non imposte – o forse perché ci facevano sentire giovani poeti – fino dalla lettura delle Elegie Duinesi, dei Sonetti a Orfeo, furtivamente sui banchi di scuola, durante l’ora di matematica, e avidamente, Rilke s’era poi celato, con brevi emersioni, dietro altri poeti. Una mostra a Milano, dedicata a Rilke e Lou Salomé, ha riportato alla memoria la musica mai sopita, il compianto addio di Alcesti, lo struggimento di Orfeo per uno sguardo intrattenuto, irreparabile. L’urgenza insorta è subito assecondata, e, sospesi per il momento altri progetti, eccoci disegnare un nuovo libro bilingue : esercizio di stile, rilettura meditata, tributo alla nostra lontana giovinezza. » 8 Nel mettere in atto il piano, si era subito pensato a un oggetto di forte fisicità, consapevoli che la materialità del libro è già libro, che il libro sussiste ancor chiuso, potenziale, ancor prima di essere letto e addirittura senza essere letto. E quindi : 1. carta e suoi colori : elemento primo e condizione di esistenza quasi di ogni libro, quella scelta è una carta di forte sensazione tattile, prodotta a mano da una piccola 5. Il plurale è d’obbligo essendo l’Officina condivisa con Alessandro Corubolo, quasi un alterego. 6. Sulle tracce del paratesto, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Bologna, Bononia University Press, 2004, pp. 60, 62. 7. Due poemetti di Rainer Maria Rilke seguiti da La Risurrezione Negata, breve saggio con una nota degli Stampatori. Testo nella versione italiana di Giaime Pintor (942) accostato all’originale tedesco, impresso in un corpo più piccolo nella stessa pagina, su carta Sicars Alcantara, avorio. Con tre acqueforti di Sandro Chia stampate da Luigi Berardinelli su carta Sicars Alcantara, beige. Sessantasei copie impresse in nero e rosso. Caratteri : Bodoni Bauer 6 punti per il testo italiano ; Walbaum Monotype 2 punti composto in monotype, ma riveduto a mano, per il testo originale tedesco ; Bodoni Old Face 2 punti, composto con il computer e quindi ottenuto su matrici tipografiche di polimeri, per il saggio degli Stampatori ; marca tipografica in rosso ; [6] 28 [6] pagine, cm 25 x 33,5. Firma di Sandro Chia nel colophon. Legatura a mano di Bertilla Galvagni con carta decorata a colla da Claire Maziarczyk a Schodack Landing (ny) nei colori bruno scuro, grigio caldo, beige ; astuccio. Fogli di guardia e astuccio in carta Fedrigoni, Sirio, color caffè. Nell’Officina Chimèrea, 999. 8. Dalla Nota degli Stampatori.

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cartiera siciliana. Per dare più corpo all’oggetto si opta per una policromia delle carte, accostandole in tre colori caldi : avorio e beige, caffè per i fogli di guardia. Un quarto colore e tutt’altra carta saranno impiegati per la legatura. 2. disegno della pagina. L’accostamento del testo originale è ritenuto necessario, essendo intraducibili la cadenza e il suono della partitura originale (pure nell’insuperabile e insuperata versione italiana di Giaime Pintor, del 942). Per evitare lo iato monotono delle pagine alternate, viene prevista la compresenza delle due lingue sulla stessa pagina con l’utilizzo di differenti, ma reciprocamente bene accetti caratteri, in diversi corpi e con la semplice separazione di una sottile riga in colore rosso scuro ; questo sarà l’unico altro colore dell’inchiostro, modicamente associato al nero. Due pacchetti tipografici nella stessa pagina, impongono di adottare il grande formato, ai limiti delle possibilità del torchio, con qualche maggiore difficoltà tecnica e almeno una risorsa in più : il frontespizio e il controfrontespizio possono così accogliere caratteri maiuscoli di corpo ampio, pur restando circondati da larghi margini bianchi. 3. caratteri e corpi. Un testo così denso richiede caratteri altrettanto forti, che mordano carta, ma con dolcezza. La scelta del carattere è cosa delicata. Un testo può essere tradito dal carattere sbagliato, per esempio : un poeta gentile come Guido Cavalcanti non reggerebbe al vigore di un Bodoni ; ma si è visto di peggio : William Carlos Williams stampato in onciale ! Per Rilke la scelta cade sul Bodoni Bauer 6, non tanto per la bellezza di segno o per la classica forza evocatrice, ma per la compiutezza e la misura perfettamente adatte alla sua poesia. Quasi obbligatorio allora, per tedesco (si ricordi : impresso sulla stessa pagina), è il carattere omologo disegnato in età neoclassica da Justus Eric Walbaum. Trovare un Walbaum corpo 2, in piombo, di buon disegno, è oggi un bel rompicapo. Nel 999 era forse un poco più facile. La ricerca durò due settimane, poi si stabilì il giusto contatto con la Offizin Haag Drugulin di Lipsia, e presto il testo fu composto in monotype. Giunti i pacchetti di piombo a Verona, con sollievo, si poté verificare che il carattere era quello appropriato : perfette la proporzione e la leggerezza, armonioso il rapporto tra neri pieni e neri sottili, netta l’incisione. La composizione però era troppo meccanica nella spaziatura : il testo fu, allora, quasi interamente ricomposto a mano. 4. illustrazioni. Presenti in quasi tutte le edizioni chimeriche sono considerate un canto parallelo, un fronte a fronte tra la parola e il suo doppio. Le illustrazioni sono sempre opere grafiche originali di artisti individuati con cura. Sono, cioè, stampe di cui un artista ha preparato la matrice : in questo caso si tratta di acqueforti-acquetinte. L’artista, Sandro Chia – uno dei rappresentanti del movimento d’arte italiana emerso negli anni Ottanta, definito dalla critica Transavanguardia – pure essendo tra i più noti e stimolanti pittori italiani contemporanei, quindi un considerevole interprete dell’oggi, fu scelto perché la sua opera, con solide radici nella tradizione della pittura italiana, ha la particolarità di saper dialogare con il mito. L’Officina è anzitutto cabina di regìa e, dal punto di vista esecutivo, una tipografia pura. Non possiede attrezzature per l’impressione di matrici piane (litografie) o incavate (bulini, acqueforti, puntesecche, ecc.). Ne deriva la necessità di ricorrere ad un terzo che, sotto diretto controllo, stampi le lastre, in questo caso, di rame. È una scelta che svincola dalla necessità di possedere in elevato grado le diverse tecniche impressorie e consente di ottenere collaborazione dai migliori stampatori delle specifiche matrici volta per volta disponibili. 5. note. La profonda conoscenza del testo è requisito essenziale per non tradirlo.

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Ecco quindi sortire una postilla « La resurrezione negata », una personale lettura dei due poemetti rilkiani. Dopo la postilla una giustificazione dà conto delle scelte compiute. 6. legatura. Chiude e definisce, comprende e oggettivizza. La legatura è eseguita con una carta che riassume i colori del libro ; il bruno, l’avorio, il grigio caldo, il beige. La carta è stata appositamente decorata a colla nell’atelier di Claire Maziarczyk a Shodack Landing (NY). Il ricorso a laboratori esotici è necessario per la carenza di adeguate professionalità, non più presenti in Italia o in Europa. O in qualche caso ancora operanti, ma a livello amatoriale. O, infine, talmente recondite da essere ignote e irraggiungibili. * Il secondo esempio è l’approfondimento di un elemento peritestuale : l’uso del carattere tipografico. Il libro analizzato è James Joyce, Anna Livia Plurabelle, Verona, 200. 9 Il testo, concluso dall’autore nel 924, fu pubblicato per la prima volta nel 928 a New York da Crosby Gaige con il titolo Anna Livia Plurabelle. Successivamente venne incluso nel Finnegans Wake del quale costituisce l’ottavo capitolo. Tutti sappiamo bene di cosa si tratti. È l’opera che segna il trasferimento della grande letteratura nella dimensione precipua della cultura del secolo passato : quella disarmonia dove ogni punto di riferimento tradizionale è dissolto. Dissonanza, asimmetria, squilibrio, che da altre forme espressive, musica e pittura soprattutto, erano già state teorizzate e metabolizzate da qualche decennio. La nostra edizione di Anna Livia Plurabelle fu stampata sul finire del 2000, assieme ad Alessandro Zanella, eccellente private printer veronese che lavora sotto l’insegna Ampersand, in occasione di uno dei ricorrenti “viaggi americani”. Sono cicli di conversazioni in cui si parla dei nostri libri a un pubblico preparato e interessato alla nostra esperienza di stampatori europei. Nell’occasione l’invito veniva da cinque università del West, da Seattle a San Francisco a Salt Lake City. Si voleva, con l’occasione, presentare un nuovo lavoro comune delle due officine, e ovviamente bilingue. La scelta del testo, come sempre autonoma, oltre ad assecondare il mai estinto interesse per James Joyce, consentiva di stampare un libro singolare nelle lingue inglese e italiano. ALP non è propriamente scritto in inglese, ma in un linguaggio artificiale, pluri-significante, dilatato quanto lo erano in quegli anni le nuove frontiere della conoscenza. Un linguaggio, tuttavia, english oriented che soddisfaceva sufficientemente i presupposti del progetto americano. C’era poi il fatto insolito di un grande autore straniero che traduce sé stesso in italiano. ALP, è noto, fu volto in italiano dallo stesso Joyce, nel 938, nella sua casa di Parigi, con l’amichevole complicità di Nino Frank. 0 Anche in questo 9. Parte del capitolo viii di Finnegans Wake, tradotta in italiano dallo stesso James Joyce e Nino Frank. Con una Nota degli Stampatori. Un’acquaforte firmata di Valerio Adami impressa a Torino da Aldo Masoero, posta a separare il testo inglese da quello italiano. Centodieci copie numerate a penna, impresse in nero, blu scuro e azzurro su carta a mano Magnani di Pescia, con una macchina piano cilindrica Vandercook. Composto con caratteri digitali su matrici tipografiche di polimeri in Joanna, 2 e 0 punti e Essenziale, 28 e 6 punti. [4] 53 [4] pagine, cm 6,5 x 24. Legatura a mano con carta decorata ottenuta nell’officina da matrici appositamente intagliate, che riprendono un motivo degli anni Trenta, variando e sovrapponendo tre toni di azzurro ; astuccio. Fogli di guardia in carta Ingres Fabriano azzurra. Officina Chimèrea e Ampersand, Verona e Santa Lucia ai Monti, 2 febbraio 200. 0. La versione fu pubblicata nel 940 su « Prospettive » in un testo arbitrariamente rimaneggiato da Ettore Settanni, e nuovamente nel 979 nella lezione originale ripristinata, a cura di Jacqueline Risset, qui ripresa.

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caso, a ben vedere, non si tratta propriamente di traduzione, ma di riscrittura ; con disaccordi, aperte violazioni, nuove intenzioni, diversi suoni e ritmi, che solo l’autore poteva imporre al testo autentico, ricavandone, in effetti, un secondo originale. Né poteva trattarsi propriamente di italiano, ma, come per il testo di origine, di una lingua artefatta, basata sull’italiano. Un linguaggio in cui tante deformazioni, allitterazioni, giochi di parole, neologismi, intendono introdurre improvvisi lampi di diversa significazione ; una prosa ai limiti tra racconto, poesia e calembour, dovevano essere affiancati ad un carattere che li introducesse coerentemente. Fu scelto « Essenziale », l’alfabeto maiuscolo disegnato da Bruno Munari negli anni Trenta, ispirato probabilmente ai caratteri « Bifur » e « Acier » di Adolphe Cassandre. « Essenziale » non fu mai utilizzato nel passato come carattere, ma Munari raccontò di essersi inviato delle lettere scrivendo l’indirizzo con il suo nuovo alfabeto, per verificarne la leggibilità con una cavia ignara, il postino. È lui stesso a confermare che le lettere giunsero regolarmente a destinazione. « Essenziale »  è un alfabeto art déco. Pure nella consapevolezza che Anna Livia Plurabelle non è Cléo de Merode, la datazione coincidente con quella di Finnegans Wake, ha avuto il suo peso nella scelta ; come in quella della carta decorata per la legatura, ottenuta direttamente nello studio, partendo da modelli di carta di quegli anni. Ma « Essenziale » è soprattutto work in progress, un non finito. O meglio è, per presupposto, la negazione di una forma finita. La caratteristica strutturale che lo distingue come opera aperta, come segno non risolto, che richiede completamento e interpretazione da parte di chi lo osserva, ha portato alla convinzione che si tratti di un caso formale comparabile a quello adottato nel testo joyciano. Con questo libro « Essenziale » si è trasformato da alfabeto a carattere tipografico, essendo per la prima volta impiegato nella stampa in rilievo, con pochi e discretissimi interventi di rifinitura. È utilizzato, come un’immagine, in corpo 28 nel frontespizio e in corpo 6 negli occhielli. Per il testo più esteso, è « Joanna », il carattere biondo e leggero di Eric Gill (93) ad essere preferito, e per motivi opposti. La levità, la chiarezza di segno, la delicatezza delle grazie, l’agile eleganza, sono attributi che non interferiscono con un testo tanto arduo. « Joanna » è utilizzato nel testo, in corpo 2, nella nota dei tipografi e nel colophon, in corpo 0. Un carattere di temperamento più complesso avrebbe aggiunto fatica alla non agevole lettura. L’analisi compiuta su uno degli elementi del peritesto potrebbe interessare, con uguale cura, ogni altro aspetto enunciato in precedenza. Ma non è questo il punto : ciò che premeva era dimostrare il procedimento seguito – usuale nell’Officina – avente l’obiettivo di costruire pregio formale con l’insostituibile conforto della filologia. Abstract I bei libri sono oggetti dove le qualità del peritesto, riassunte in disegno – materiali – esecuzione, interpretano il contenuto testuale, e su di esso agiscono. Le emozioni che un testo provoca, sono modificate dalla forma. Con questa premessa viene compiuta una rassegna dei principali elementi di peritesto in . Essenziale è un aggettivo caro a Munari, sul cui significato si esprimeva così : « Togliere invece che aggiungere vuol dire arrivare all’essenziale. L’essenziale è il nucleo sul quale operare. A questo punto basta (secondo quello che si vuole fare) o lasciare l’essenziale così com’è, o scherzarci sopra, o trasformare facendo infinite varianti ». Da una intervista radiofonica.

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un libro dell’Officina Chimèrea : carta, sua consistenza e suoi colori ; disegno della pagina ; caratteri e corpi ; illustrazioni ; postilla e giustificazione ; legatura. Segue l’approfondimento di un solo elemento peritestuale : l’abbinamento di un carattere tipografico a una prosa di James Joyce, Anna Livia Plurabelle. In the fine books, the typographical elements : design – materials – accomplishment, combined with balance, subsequently modifies the emotional contents of a given text. The essay analyzes the main components in a book of the Chimèrea Officina, a small press that preserves a traditional, but never conventional, approach, namely : paper and its colours, page design, fonts, images, afterwards, binding. Subsequently a unique item, the type in relation to a specific text, the eighth chapter of Finnegans Wake by James Joyce’s, is examined with deepness.

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Tobia R. Toscano IL PARATESTO COME SUSSIDIO DELL’ECDOTICA : LE RIME DI GALEAZZO DI TARSIA IN EDIZIONI NAPOLETANE TRA SEI E SETTECENTO

I

.

l breve corpus poetico di Galeazzo di Tarsia (46 sonetti, 2 canzoni, una sestina e un madrigale, per un totale di 50 componimenti) è uno dei più letti e riconoscibili nell’ambito della galassia del petrarchismo lirico cinquecentesco. Ma, a dispetto delle sue dimensioni contenute, ha posto e tuttora pone ardui problemi di interpretazione, che coinvolgono finanche la precisa identificazione dell’Autore. Riepilogando in breve le tappe di una intricata vicenda critica, che ho ricostruito altrove e alla quale mi permetto di rinviare,  ricorderò che tra fine Ottocento e per tutto il corso del Novecento la filologia ha operato uno slittamento di attribuzione, assegnando la paternità delle Rime a Galeazzo di Tarsia, v barone di Belmonte, nato nel 520 e morto nel 553, mentre fino a tutto il Settecento, alla fine di un percorso che metteva capo all’edizione procurata nel 758 a Napoli (Stamperia Simoniana) dall’erudito cosentino Salvatore Spiriti, si era pacificamente individuato l’autore nell’omonimo Galeazzo, che di Belmonte fu iii barone, nonno del precedente, nato intorno alla metà del secolo xv e morto nel 53. A Galeazzo, che per brevità chiameremo junior, sono infatti ascritte le edizioni procurate in processo di tempo dal cosentino Francesco Bartelli nel 888 (Cosenza, Tipografia Luciano Vetere già Migliaccio), da Daniele Ponchiroli nel 95 (Parigi, Alberto Tallone), con corredo di un saggio di Gianfranco Contini, e infine da Cesare Bozzetti nel 980 (Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori). Si comprende bene come un settantennio circa di differenza tra le nascite e un quarantennio preciso tra le morti rispettive sia intervallo di non poco conto, ove si voglia far giudizio sulla qualità di una versificazione che, attribuita al più anziano, farebbe di lui un anticipatore precoce del classicismo bembiano e della gravitas dellacasiana ; attribuita al più giovane darebbe la misura di una ricerca solitaria di nuove possibilità espressive rispetto al tono medio della pleiade napoletana di metà secolo e comunque sempre, essendo morto nel 553, nativamente incline a intavolare partiture talvolta aspre e dissonanti, prima che fosse nota per le stampe l’edizione postuma delle Rime di Giovanni Della Casa (Venezia, Niccolò Bevilacqua, 558). Corollario non ininfluente a rendere ancor più intricata la matassa, l’evidente presenza di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, nata nel 490 e morta nel 547, quale ispiratrice di una rimeria amorosa dal tono non sempre platonicamente convenzionale, anzi spesso incrinato dal cruccio di una passione non appagata. Qui anche la cronologia reclamava i suoi evidenti diritti, perché dopo avere immaginato che la poetessa, giovanissima, avesse fatto palpitare un cuore senile, una volta operatosi lo slittamento di attribuzione, si era costretti all’evidenza di dover ammettere che Ga. Tobia R. Toscano, Galeazzo di Tarsia : indizi per la riapertura di una pratica archiviata, in L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2004, pp. -66.

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leazzo junior, se pure avesse cominciato a poetare precocemente intorno ai vent’anni, nel 540 insomma, avrebbe derivato i suoi primi turbamenti dalla vista di una donna che ormai di anni ne contava cinquanta e si trovava per di più in una fase della sua esistenza, in cui a Napoli non tornò mai. Si spiega perché Carlo Dionisotti, nel contesto di una valutazione complessiva della poesia in volgare a Napoli nella prima metà del Cinquecento, rinunciasse a fare giudizio sulle Rime di Galeazzo : costretto ad ammettere che queste « restavano […] disperate » e, pur addossandosi l’incapacità di rinvenire una linearità di percorso che consentisse una pacifica sovrapposizione tra l’itinerario sotteso all’esperienza lirica e il tracciato biografico del poeta, non poteva fare a meno di concludere, che, a fronte di una così compatta tenuta testuale, il commento dello stesso Ponchiroli stentava a trovare una sua plausibilità, considerato che d’un poeta nato “intorno al 520”, non soltanto si suppone che abbia potuto amare e cantare Vittoria Colonna, la poetessa, ma che anche abbia dedicato un sonetto a Ferdinando II d’Aragona, un altro al Gran Capitano, un terzo al Marchese di Pescara, pur con la riserva in quest’ultimo caso che il dedicatario possa essere stato il Marchese del Vasto. Insomma non è possibile archiviare come risolta una questione che è invece apertissima. Come si possa risolvere non so ; certo è che le soluzioni fin qui proposte non reggono. 2

Nonostante questa pesante ipoteca, l’edizione di Cesare Bozzetti ripropose l’impianto esegetico ereditato dalla tradizione critica inaugurata da Bartelli, e accolta, oltre che dal ricordato Ponchiroli, anche da Baldacci nei suoi Lirici del Cinquecento (Firenze, Salani, 957), accontentandosi di ipotizzare, senza tuttavia il sostegno di prove inoppugnabili, che oggetto dell’amore del giovane Galeazzo potesse essere stata non la più che matura Marchesa di Pescara, ma la nipote di lei, Vittoria junior, figlia di Ascanio Colonna e di Giovanna d’Aragona, sposa nel 552 a don Garzia de Toledo, figlio del viceré di Napoli don Pedro. 2. Al cospetto di così difficile quadratura non si può che lamentare una volta di più l’estrema avarizia della tradizione manoscritta e a stampa, caratterizzata anche da una insolita parsimonia di suppellettile paratestuale, giacché i manoscritti, quando non sono adespoti, recano a stento l’indicazione dell’autore e proprio il manoscritto più importante, noto come codice Cavalcanti, utilizzato da Spiriti nel 758 per la sua edizione, a dispetto della sua preziosità di pergamenaceo miniato, era anch’esso adespoto ed, essendo scomparso, è ricostruibile solo attraverso la descrizione offertane dall’erudito settecentesco, che sembra essere stato l’unico ad averlo avuto tra mano. Tuttavia, perduti gli antigrafi delle due edizioni più importanti, alla filologia tarsiana non rimaneva altra strada che fare un uso accorto ed esaustivo degli elementi paratestuali che corredano le stampe. Cosa che non sempre è accaduta. L’editio princeps procurata da Giambattista Basile nel 67 (Napoli, Giovan Domenico Roncagliolo) è corredata da una dedica di routine cortigiana a Francesco Loffredo, marchese di Trevico, in cui, oltre a rivendicarsi il merito di dare in luce delle rime non meritevoli “di starsene sepolte in più lungo oblio per la eccellenza, che in esse risplende, ma di vivere eternamente nelle stampe”, nulla si dice circa la loro provenienza. Se2. Carlo Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, « Giornale storico della letteratura italiana », cxl (963), pp. 95-96 e nota.

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gue una Breve contezza a chi legge dell’Autore delle seguenti Rime, la cui rilettura dà modo di verificare come da sempre chi ha maneggiato i versi di Galeazzo utilizzasse una tradizione manoscritta disseminata di riferimenti biografici riconducibili, alla luce di accertamenti seriori, tanto al nonno che al nipote : Galeazzo di Tarsia d’antica e nobile famiglia in Cosenza, in quel poco d’otio, ch’egli poté involare alle fadighe dell’armi, onde non meno che nelle lettere acquistossi eterna fama, ricovratosi in Belmonte suo castello posto in Calabria su la riviera di Ponente, ove altretanto de’ beni di fortuna, quanto di quelli dell’animo era egli abondevole, scrisse la maggior parte di queste Rime in lode di quella gran Vittoria Colonna Marchesana di Pescara, di cui egli fu castissimo amante, e di Camilla Carafa, sorella del Conte di Mondragone, sua moglie, la cui morte vien da lui sospirata in alcuno de’ suoi sonetti : e tutto ciò in sì alto stile dettando, che Giovanni della Casa anzi i suoi versi che quei di Francesco Petrarca volle imitare. Fiorì egli in su ‘l cominciamento della Cosentina Accademia, la qual in ogni tempo ha dato huomini al mondo di peregrino ingegno, assai più famosi ne’ scritti loro che per la mia lingua non sarebbono, s’in breve giro di parole io tentassi d’annoverarli. Visse e poetò nel tempo del Bembo, curando poco ch’i suoi scritti s’eternassero con le stampe ; laonde ha dato a molti opportunità d’arricchirsi de’ suoi più rari concetti. Sì che a pena queste poche reliquie de’ suoi lodevoli istudi, con non poca industria di chi le palesa al mondo, s’han potuto trarre dal fosco di sì lungo oblio, per discovrirle alla luce del giorno.

Indi si rileva che nessun dubbio sussistesse che la maggior parte delle rime fossero indirizzate alla “gran” Vittoria Colonna e che il poeta avesse altresì pianto la morte di Camilla Carafa sua moglie. Se ne stabilisce il primato in fatto di altezza di stile rispetto a Della Casa, che lo volle imitare preferendolo al Petrarca, ma gli ancoraggi cronologici rimangono incerti e sfumati, oscillandosi tra una fioritura coincidente con le origini dell’accademia Cosentina (quindi saremmo alla fondazione parrasiana intorno agli anni ’5-’20 del Cinquecento) e un’escursione biografica e poetica più o meno sovrapponibile a quella del Bembo. L’insieme delle informazioni paratestuali è genericamente riferibile al vecchio Galeazzo, mentre l’unico elemento certo, quello cioè del matrimonio con Camilla Carafa, riguarda il giovane, anche se si sarebbe dovuto attendere la monografia di Carlo De Frede nel 962 3 prima di leggere documenti inoppugnabili in tal senso. Ciò che sembra certo è che il primo editore non nutrisse dubbi sull’attribuibilità dell’intero corpus a Galeazzo senior, benché ne ignorasse data di nascita e di morte, così come non avrebbe nutrito dubbi Salvatore Spiriti, allorché pubblicò la nuova edizione sulla scorta del codice Cavalcanti. Per gli estremi cronologici della biografia si limitò a una plausibile collocazione della nascita intorno alla metà del xv secolo, mentre per la data di morte, non poté fare altro che congetturare un terminus ante quem che non valicasse la soglia del 536, stante l’epicedio dettato per la sua morte da Nicolò Salerni in quell’anno apparso a stampa nelle Sylvulae (Napoli, Sultzbach). E al cospetto dell’Oracolo di Girolamo Parabosco, stampato a Venezia nel 55, dedicato a un Galeazzo di Tarsia ancora vivente, si limitò a congetturare che potesse essere un omonimo discendente da altro ramo della famiglia. 3. A sparigliare in maniera decisiva la partita fu nel 882 la pubblicazione ad opera di Francesco Fiorentino del testamento di altro Galeazzo di Tarsia, III di quel nome e 3. Carlo De Frede, Il poeta Galeazzo di Tarsia signore feudale di Belmonte, « Archivio storico per le province napoletane », lxxxi (962), pp. 7-07.

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quinto barone di Belmonte, e la menzione ivi di Iuliella, unica figlia legittima ed erede universale, e di Tiberio suo fratello, erede in caso di morte della nipote. Ne sortì due anni dopo un calibratissimo intervento di Angelo Broccoli, che, a fronte della inoppugnabilità del documento, non volle nascondersi le aporie che tuttavia permanevano, parendogli di difficile quadratura psicologica la evidente dichiarazione di un difficile amore per Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, troppo giovane per il nonno e tuttavia troppo vecchia per il nipote. Facendo i conti con le date certe, Broccoli concludeva che al matrimonio celebrato in Napoli (509) di Vittoria Colonna, che aveva 9 anni, probabilmente intervenne Galeazzo il Reggente all’epoca forse più che sessantenne, 4 rimanendogli altri quattro anni di vita, mentre per il nipote si limitava a ipotizzargli una vita “media” di 60 anni, facendolo nascere intorno al 490 e rendendolo in pratica coetaneo quasi della donna. Il gioco sembrava fatto e tuttavia all’onesto erudito ottocentesco non sfuggivano i molti problemi esegetici che rimanevano insoluti, donde il titolo, passato forse sbrigativamente in burla presso la filologia novecentesca di Galeazzo, se non proprio rimosso, un po’ paradossale apposto al suo studio : Di Vittoria Colonna e dei due Galeazzi di Tarsia suoi contemporanei, 5 e la conclusione, salomonica in apparenza, che tradiva lo sforzo di tenere insieme l’edificio ormai traballante del “canzoniere” del Barone (o dei Baroni, sarebbe il caso di dire) di Belmonte Calabro : Nulla osta a che l’avo così come il nipote siano stati entrambi entusiasti della Colonnese, l’uno sul declinar della vita, l’altro sul primo fiorir degli anni […]. La congettura è senza dubbio molto ardita ; ma non urta contro l’assurdo […].

A sua volta Francesco Bartelli rimodellò nell’edizione del 888 il Canzoniere di Galeazzo, manomettendo l’ordinamento dell’edizione Spiriti e quadripartendo il corpus poetico tra Vittoria Colonna, la “giovinetta schiva”, la moglie Camilla e “Sonetti di vario argomento”. Sulla scorta del testamento e poco altro, se non una serie di congetture poco plausibili, si convinse di poter dimostrare che Galeazzo il Reggente fu ritenuto poeta per « la leggerezza e l’incuria de’ nostri vecchi cronisti ». Su questo è necessario spendere qualche parola in più, considerato che dopo l’edizione Bartelli l’ascrizione del nipote in sostituzione del nonno all’anagrafe della storia letteraria è stata pacificamente ricevuta. Constatato che non fosse « facile a spiegare » come si fosse « formata la tradizione del Reggente poeta », Bartelli soggiungeva : A parer nostro, la fama del Reggente, superiore, come più fresca, a quella degli altri baroni di Belmonte, dovette in qualche modo produrre la leggenda. Perduto ogni ricordo de’ successori del Reggente, il nome di un Galeazzo innamorato di Vittoria Colonna e poeta, fece traviare i biografi ; perché non trovando un altro Galeazzo barone di Belmonte che fosse stato contemporaneo della Pescara, naturalmente dovettero supporre e ritenere che il Reggente dovea essere l’autore del canzoniere. 6

Si trattava semplicemente di trovare altro Galeazzo “contemporaneo” di Vittoria 4. Ma di questo Galeazzo la data di nascita rimane pur sempre congetturale. 5. Napoli, Stab. Tip. Diretto da R. Pansini, 884, pp. 27-28 e 37. 6. F. Bartelli in Galeazzo di Tarsia, Il canzoniere. Nuova edizione corretta su tutte le stampe con note ed uno studio sull’autore, Cosenza, Tipografia Luciano Vetere già Migliaccio 888, p. li e p. lvi per la citazione che segue.

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Colonna e il testatore del 552 soddisfaceva egregiamente alla bisogna, purché gli si congetturasse una plausibile data di nascita ; e intanto alla domanda perché il poeta non potesse essere il Reggente rispondevano i sonetti posteriori al 53, Queste fiorite e dilettose sponde, « in cui si allude alla morte del marchese del Vasto, avvenuta nel 546 » e il son. Alle palme onde vai forte e sublime, « che fu scritto probabilmente dopo la gloriosa battaglia di Pavia in lode del marchese di Pescara ». Di congettura in congettura, Bartelli ricostruì anche la data di nascita di Galeazzo junior più funzionale alla sua ricostruzione : La nascita di Galeazzo […] possiamo collocarla con qualche probabilità nel 477 ; anticiparla di qualche altro anno ci sembra pericoloso e ci porterebbe a spostare la cronologia del Reggente, a cui non devono essere pochi i 72 anni che gli abbiamo dato. Il canzoniere, che ci dà poche notizie biografiche, su questo punto ci può essere di qualche aiuto. I due sonetti xxxvii [= xxx] e xxxviii [= xxxiv] […] alludono ad avvenimenti accaduti nel reame tra il 495 e il 496 […]. Non siamo avventati, se diamo in quell’epoca a Galeazzo l’età di diciannove anni, più che sufficiente ad un giovane d’ingegno, a potere comporre que’ due belli e commoventi sonetti, i primi fiori della sua musa e de’ suoi affetti squisitamente gentili. Morto nel 553, verrebbe ad avere settantasei anni : età accennata in parecchi luoghi del canzoniere. 7

Questa per sommi capi la costruzione di Bartelli e il cui vero punto di debolezza, tale da far crollare l’edificio appena costruito, era l’anticipazione di un quarantennio abbondante della data di nascita del giovine Galeazzo, che, se avesse retto ai successivi accertamenti documentali, avrebbe reso plausibili tutte le sue congetture. Ma già lo stesso 888 fu pubblicato un opuscolo di poche pagine 8 in cui fu resa nota la data di nascita del giovane Galeazzo, che dai documenti di successione feudale risultava essere il 520 e si poneva anche in termini corretti la questione di una plausibile datazione del perduto codice Cavalcanti. Per nulla scoraggiato, Bartelli, invece di ripensare radicalmente l’impianto traballante della sua costruzione, allorché nel 906 riepilogò la questione, 9 essendo ormai quasi del tutto sguarnito il fronte pro-Reggente, glissò molto amabilmente sui problemi di cronologia interna ed esterna del Canzoniere derivanti dal troppo breve arco biografico dell’ultimo Galeazzo (520-553), non più tornò sulla interpretazione data ai sonetti xxx e xxxiv allusivi di « avvenimenti accaduti nel reame tra il 495 e il 496 », alla meglio rimediando toppe per ricucire sulle spalle del giovane l’amore per una attempata Vittoria Colonna. Su queste basi, che sarebbe un eufemismo definire sconnesse, e su omissioni di altri spunti non meno meritevoli di approfondimenti, si reggeva la ricostruzione di Bartelli, che tuttavia ha fatto testo per tutto il Nocevento, tanto che gli editori successivi, pur ritornando all’ordinamento delle rime fissato nell’edizione Spiriti, ne hanno pacificamente ricevuto l’impianto esegetico e il “giovine” Galeazzo (520-553) fu canonizzato in edizione da bibliofili (Parigi, Alberto Tallone, 95), auspice un magistrale saggio di lettura di Gianfranco Contini, da Daniele Ponchiroli che, spicciamente sbrigata nella Nota al testo la « famosa questione dei due Galeazzi […] della quale basti 7. Ivi, p. lxviii. Anche da questa sottolineatura si desume che a Bartelli non sfuggiva la evidente senilità del dittatore di alcuni sonetti almeno. I numeri romani in parentesi quadre fanno riferimento alla numerazione dell’edizione Bozzetti. 8. Lucio Geremia De’ Geremei, Galeazzo di Tarsia cosentino o napolitano ?, Napoli, Tip. G. M. Priore, 888. 9. Francesco Bartelli, Note biografiche (Bernardino Telesio-Galeazzo di Tarsia), Cosenza, A. Trippa, 906.

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aver rammentato l’esistenza », si vedeva comunque costretto in sede di commento ad ammettere che alcuni componimenti « per ragioni interne di datazione, ci rimandano di continuo a supporli opera del nonno, Galeazzo, quarto [così per terzo] barone di Belmonte ». 0 Né l’edizione Bozzetti, pur così rigorosa sotto il profilo della resa testuale, si allontana dalla vulgata fissata da Bartelli. 4. Nel caso di Galeazzo di Tarsia la filologia e l’esegesi novecentesche hanno dato prova di ardite sottigliezze congetturali, prendendo per buone le notizie accozzate da Bartelli, senza interrogarsi più sul corto circuito che veniva a chiudersi una volta che la data di nascita del giovane Galeazzo era stata fissata al 520, anzi sovente adoperandone il commento del 888, che si fondava su una data di nascita congetturale fissata, come si è visto, al 477. L’unica strada da ripercorrere era l’interrogazione del paratesto dell’edizione Spiriti, l’unico, si ricordi, ad aver visto il codice Cavalcanti poi scomparso. E bisogna anche dire che un ulteriore rimescolamento delle poche carte in gioco producono le notizie, anche queste scarne, lì offerte, non immuni per altro da una obliquità di dettato, che sembra gettare una luce un po’ ambigua sull’ultimo possessore del manoscritto. Racconta Salvatore Spiriti : Ora nell’anno 72 furono estratti dalla Biblioteca de’ PP. Agostiniani di S. Giovanni a Carbonara diversi manoscritti, per dovere essere trasportati all’Imperial Corte di Vienna d’Austria. Il carico, di colà presentarli, fu dato dall’Immortal Presidente del Conseglio Duca Argenti al dottissimo P. D. Antonio Cavalcanti Chierico Regolare Teatino, che poi soggiacque alle dissavventure, a più d’uno ben note. Nelle di costui mani rimase un volumetto di sole 36 carte di finissimi capretti, con le lettere iniziali fregiate di belle miniature, e di carattere ben formato, quantunque antico, col nudo titolo di Rime. Questo venuto in potere di un’uomo di Lettere, che non vuol qui essere nominato, gli destò la curiosità di osservarne il contenuto, e si accorse ben tosto, ch’erano esse le Rime del Tarsia. Ma l’avervi incontrato 2 Sonetti, una Canzona, ed una Sestina di soprappiù, che non erano tra le stampate, gli fece sospettare, che avesse potuto esser quel m. s. una qualche raccolta di componimenti di Autori diversi, per genio particolare di taluno. (p. ix)

Dopo una serie di osservazioni sull’autenticità dei componimenti ivi per la prima volta attestati e dopo aver dato a intendere che trascrizione e commento fossero opera del possessore pro tempore del codice che egli si limitava a pubblicare, Spiriti protesta religioso scrupolo nella restituzione del testo, emendato solo in qualche punto per sanare evidenti corruttele del dettato, indicando alcune peculiarità grafiche non adeguatamente fruite, ai fini della datazione, dagli studiosi successivi : Nell’interpunzione non abbiamo voluto far correre quella del m. s. perché oltre al vedervisi molte parole attaccate l’una all’altra ; si osserva che quasi sempre ne’ membretti, e ne’ periodi usa i due punti, trascurando in tutto le come, onde ci siamo adattati alla nostra corrente Ortografia, comeché in qualche luogo trascurata dal torchio. È di bene qui pur anche accennare, che nel fine del mentovato m. s. si trovano registrati, ma d’altro carattere delle Rime, due nitidissimi epigrammi, ed un principio di prosa, che forse 0. Cito da Lirici del Cinquecento, a cura di Daniele Ponchiroli, nuova edizione a cura di Guido Davico Bonino, Torino, utet, 968, p. 53 : i successivi riferimenti al commento recheranno solo l’indicazione della pagina.

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era, per quanto appare, una introduzione di pubblico Professor di Rettorica a qualche Lettura. (pp. xi-xii)

Solo alla fine della descrizione, come si vede, osservandosi la diversità della mano che ha trascritto gli « epigrammi, ed un principio di prosa », incidentalmente si dovrebbe dedurre che le rime siano trascritte da altra ma unica mano, che, rapportata agli usi grafici prima esibiti corroborati dall’esplicito accenno al « carattere ben formato, quantunque antico », sembrerebbe difficile situare all’altezza di un Cinquecento troppo inoltrato, tenendo per di più in conto l’assoluta eccentricità non tanto o non solo della scelta del supporto membranaceo e delle iniziali miniate quanto l’adespotìa di un codice pacificamente acquisito come copia di invio offerta in omaggio da Galeazzo jr. a Coriolano Martirano, segretario del Regno di Napoli, al momento di partire per la spedizione di Siena (552).  Certo anche l’intestazione a un codice può essere apposta a lavoro ultimato, ma troppi e insoliti accidenti accompagnano una trasmissione così misteriosa e lontana dai clichés consolidati da indurre il sospetto che l’assenza di ogni cenno all’autore o di una dedica non possa essere aggiunta al carico di inadempienze, già di per sé notevole, che pendeva sul capo del giovane Barone di Belmonte. Riesce difficile, dati i termini, pensare a un manoscritto offerto per grazia ricevuta, le cui caratteristiche, note attraverso la descrizione di Spiriti, indurrebbero ad immaginarlo come un ex voto senza nome del beneficiato. E, tanto per raschiare il fondo del barile, si vorrebbe anche osservare il pizzico di calcolata reticenza-maldicenza con cui viene ricordato il tortuoso iter seguito dal manoscritto : sembrerebbe di capire (a rileggere con attenzione il passo di Spiriti già riportato) che Antonio Cavalcanti, « dottissimo » quanto si voglia, abbia approfittato dell’incarico di trasportare a Vienna preziosi codici provenienti dalla Biblioteca di San Giovanni a Carbonara per “distrarre” a suo beneficio un codice di rime, adespoto per giunta, e la cui paternità solo in seguito sarebbe stata appurata. Né si capisce perché si senta il bisogno di aggiungere che il Cavalcanti « poi soggiacque alle dissavventure, a più d’uno ben note », che pure niente hanno a che fare con quell’incarico come prova il breve (e pure non benevolo) profilo biografico che lo stesso Spiriti gli dedica nelle Memorie degli scrittori cosentini (Napoli, nella stamperia de’ Muzj, 750), donde l’unica contrarietà che egli sembra aver patito si evince essere stata l’opposizione a una sua riconferma alla prepositura generale dell’ordine Teatino, peraltro addolcita da Benedetto XIV con l’elezione alla cattedra arcivescovile di Cosenza, dove si sarebbe conquistato per la sua azione pastorale meriti più consistenti, « se le doti del suo bell’animo non fossero state adombrate da un certo spirito di vanità, che accompagnava tutte le sue azzioni ». Il Cavalcanti, possessore del manoscritto, era morto nel 748. Era però di famiglia nobile cosentina, proveniente ab antiquo dalla Toscana, e per di più, secondo Bartelli (888, p. xli), una Cavalcanti, Giovanna, potrebbe essere stata la madre di Galeazzo senior e quindi bisavola del giovane Galeazzo. Potrebbe essere, non lo esclude a priori l’obliquità del dettato, che il Cavalcanti, di antica famiglia cosentina e magari discendente di parenti dei Tarsia, fosse entrato in possesso del codice pergamenaceo per trasmissione ereditaria o lo avesse acquisito direttamente in Cosenza, e che invece Spiriti, collegando l’antichità e la bellezza del codice all’incarico di trasportare manoscritti a Vienna, abbia, perfidamente invero, indotto i lettori a credere, quando ormai l’interessato era morto da un decennio, che fosse un cimelio di pro. Tale è infatti l’opinione di Bozzetti (980, p. xxv).

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venienza non proprio trasparente : l’alone di mistero sembra il preludio della nuova, repentina e definitiva scomparsa del codice appena descritto e pubblicato. Con il che non si pretende di aggiungere sospetti a sospetti e tuttavia una volta di più si noterà quanto sia complicata la vicenda di un corpus di rime tutto sommato di modeste proporzioni e sul quale l’acume dei critici e dei filologi si è dovuto non poco assottigliare per far quadrare il cerchio del commento alla botte del testo. 5. Gli elementi paratestuali offerti da Spiriti rivestono una duplice funzione : non solo corredano, secondo prassi, l’edizione a stampa, ma rimangono l’unica descrizione del codice perduto, che potrebbe così essere immaginato : codice membranaceo, adespoto, del xvi secolo, di 36 carte, con iniziali miniate, vergato da unica mano, senza tracce evidenti di interventi correttori. Pur nulla dicendosi sulle dimensioni – ma la definizione di “volumetto” indurrebbe a pensare a un 2° costituito di 3 fascicoli –, si potrebbe ipotizzare che delle 72 facciate di superfice scrittoria disponibile 64 siano state utilizzate (una per ognuno dei 46 sonetti,  per l’unico madrigale, 7 per la canzone xix, 6 per la canzone xxxix, 4 per la sestina xl) e 8 (2 cc. iniziali e 2 cc. finali) lasciate bianche, ma queste ultime due in processo di tempo utilizzate per trascrivervi i due epigrammi latini su Leucopetra e l’esordio incompleto di una lectio accademica. Anche su questi aspetti fa spicco la concionatoria disinvoltura filologica di Bartelli, cui a buon diritto potrebbe adattarsi la tarsiana apostrofe di crudel Procuste e di fierezza esempio, avendo egli tagliato e stirato secondo convenienza i membri di sì gracile corpus poetico, eludendo anche spunti di oggettiva consistenza che i suoi antagonisti avevano offerto alla sua riflessione. Il primo investiva la possibilità di arrivare a una datazione plausibile del codice Cavalcanti. De’ Geremei aveva fatto ricorso alla consulenza di Alfonso Miòla, bibliotecario della Nazionale di Napoli, che aveva comunicato : “Per quanto è dato giudicarne dall’indicazioni tramandateci dallo Spiriti intorno al codice di Rime, già del Cavalcanti, esso non può essere posteriore alla fine del secolo xv o ai primi del secolo xvi”. 2

Affatto turbato Bartelli si rivolse, tramite un comune amico, a Cesare Paoli, all’epoca professore di Paleografia e Diplomatica nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, che propose il suo referto : Credo (se la descrizione è esatta) che il codice debba appartenere all’epoca umanistica (sec. xv-xvi). Lo congetturo dall’essere le carte di pergamena finissima, e dall’essere la scrittura ben formata ma di aspetto antico. 3

Pure in questi termini, Bartelli si riteneva convinto che « il codice poteva essere scritto nei primissimi anni della seconda metà del secolo xvi » e a Geremei, che opponeva una databilità non posteriore della scrittura umanistica – tale tipo di grafia si inferiva dalla breve nota di Paoli – al primo quarto del sec. xvi, fece rispondere da Ernesto Monaci e si stenta a capire come abbia potuto pensare che il referto portasse acqua al suo mulino : 2. In L. G. De’ Geremei, Galeazzo di Tarsia cosentino o napolitano ?, cit., p. 3. 3. In F. Bartelli, Note biografiche (Bernardino Telesio-Galeazzo di Tarsia), cit., p. 44.

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I termini con cui essa (la descrizione del codice) è formulata non permettono di venire a conclusioni troppo esatte. Essi son due : le carte di “finissimi capretti”, e il “carattere ben formato, quantunque antico”. Ora, di pergamene finissime, se ne trovano anche nel sec. XIV ; e quanto ai caratteri, se il “ben formato” accenna al periodo umanistico, bisogna pur pensare che in Italia la scrittura di tipo umanistico ha i suoi primordii nel sec. xiv ; basta che si ricordi la scrittura del Petrarca. Non potrei dunque sottoscrivere a quel giudizio ; tanto più che chi descriveva il codice era un erudito del sec. xviii, ed egli già chiamava quel carattere “antico”. 4

Escludo che Ernesto Monaci abbia avuto contezza dell’uso che della sua expertise fece Bartelli, ma dubito che ne avrebbe gioito, intanto perché non si spiega a quale giudizio non avrebbe sottoscritto, se non alla supposta recenziorità sostenuta da Bartelli, tanto è vero che per lui un erudito settecentesco come Spiriti, ignorante di paleografia finché si voglia, « chiamava quel carattere ‘antico’ ». A Bartelli il tutto fu bastante a fargli concludere, che, considerate altre e vistose approssimazioni del precedente editore di Galeazzo, ai suoi occhi « poteva essere antico tutto ciò che apparteneva al secolo xvi ». Rimaneva tuttavia l’uso insolito della pergamena per un codicetto di rime della seconda metà del xvi secolo e Bartelli diede fondo alla sua generosa vena congetturante : non è inverisimile che qualche persona colta, forse un accademico cosentino, per uno de’ tanti casi che succedono, si sia trovato possessore di alcune vecchie pergamene, su cui fece trascrivere da mano perita, o si trascrisse di proprio pugno, le poche rime, che ebbe la ventura di raccogliere.

Davvero bisognerebbe dar luogo a troppe eventualità, compresa la “mano perita”, che si sarebbe industriata (e perché mai ?) a riprodurre la grafia umanistica di forma più antica, trovando anche un miniatore calabro, giacché, a parte la soddisfazione di annettere alla querelle tarsiana, e sia pure incidentalmente, studiosi come Paoli e Monaci, ciò che sembra eluso ai fini della datazione presuntiva del codice Cavalcanti è la presenza di miniature. È pur vero che, a fronte della unicità di mano ricavabile e silentio dalla descrizione di Spiriti, si fa riferimento a diversa mano solo per le finali trascrizioni di due epigrammi latini di altro autore e dell’esordio di una lectio accademica di ignoto autore, ma certo potrebbe apparire più economico ipotizzare aggiunte seriori di pochi componimenti a un corpus più o meno strutturato, avendo avuto l’amanuense cura particolare nell’imitare la grafia più antica. Più a buon diritto si potrebbe qui invocare la poca raffinatezza paleografico-filologica dell’editore settecentesco di Galeazzo, tanto più perché egli non nutriva il minimo dubbio sull’identità dell’autore e meno che mai il suo occhio avrebbe potuto scorgere presenze di rasure e sovrascritte. Trattandosi di manoscritto in pergamena, la storia della tradizione renderebbe a rigore più plausibile l’ipotesi di manipolazioni successive del testo, che non l’idea bartelliana di un accademico un po’ eccentrico, che in pieno Cinquecento possa avere avuto a disposizione fogli di pergamena finissima, un miniatore per le iniziali e un perito calligrafo capace di imitare la scrittura umanistica, scrivendo le parole “attaccate” e facendo ricorso a un sistema di segni diacritici da cui sono assenti “le come”. Certo, tra le tante ambiguità del suo dettato, il marchese Spiriti non aveva tralasciato di riportare in maniera obliqua l’idea che si era fatto l’anonimo scopritoreproprietario del codice Cavalcanti al cospetto dei 4 componimenti inediti : 4. Ivi, pp. 44-45 e 45-46 per le citazioni che seguono.

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Ma l’avervi incontrato 2 Sonetti, una Canzona, ed una Sestina di soprappiù, che non erano tra le stampate, gli fece sospettare, che avesse potuto esser quel m. s. una qualche raccolta di componimenti di Autori diversi, per genio particolare di taluno (p. ix : corsivo mio).

L’elemento che sembra accomunare i testi tràditi esclusivamente dal perduto codice Cavalcanti è la loro riconducibilità, per il lessico e i temi, all’area delle rime per Vittoria Colonna e alla riflessione sulle vicende storiche del Regno di Napoli tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento : una volta di più si torna a Galeazzo senior e si potrebbe assumere l’ipotesi che non del tutto peregrina vada considerata l’idea, espressa di riflesso dal marchese Spiriti della convivenza di “Autori diversi” entro un unico manoscritto e, di conseguenza, entro l’intera tradizione, fin qui ricevuta come unitaria espressione di un’unica attività poetica variamente attribuita. 6. A questo punto azzarderei una ulteriore ipotesi : l’assetto testuale del perduto codice Cavalcanti potrebbe rispecchiare l’approdo di dinamiche variantistiche riconducibili agli eredi di Galeazzo senior, ricordando che, oltre all’omonimo nipote, anche Tiberio, fratello di Galeazzo jr., si dilettava di poesia, e pertanto per i pochi componimenti incompatibili con la biografia del Reggente si potrebbe pensare a inserzioni seriori scritte su rasura della pergamena,5 se non proprio a una rassettatura di testi più antichi per riadattarli a situazioni diverse. Certo bisognerebbe anche a noi, come al vecchio Galeazzo, il soccorso di “nuova del ciel grazia infinita” che portasse al riafforamento del codice Cavalcanti, magari anche per poche ore, giacché non sarebbe improbabile che una sua esposizione alla lampada di Wood scongiurerebbe l’alea di rabdomanzie congetturali e consentirebbe forse di sciogliere l’enigma di/dei Galeazzo in maniera definitiva. Tra i componimenti trasmessi esclusivamente dal codice Cavalcanti merita particolare attenzione, per saggiare come talvolta quanto appare svista del copista potrebbe essere invece frutto di calcolato intervento seriore allo scopo di eliminare riferimenti troppo stretti alla biografia del Reggente, il son. xxvi, per il quale, manco a dirlo, i commentatori hanno dovuto dare fondo al loro acume : Ben ci scorse ria stella e ben sofferse, Davalo, il terren nostro onte ed affanni, Quando il Franco pel varco, a’ nostri danni, Che il gran Moro additò, strada si aperse. Ma la man che a suo pro si riconverse, Con dolci di pietà fallace inganni (Ahi, come, o speme, il veder corto appanni !) Mortale in vasel d’or tosco gli offerse. Crudel Procuste e di fierezza esempio, Quante Italia rovine a te non debbe, Che di Giano da prima apristi il tempio ! Ma vendetta è di noi, sì al ciel n’increbbe, Che su la trista scena il nostro scempio Con luci a risguardar liete non ebbe. 5. Con possibilità di imitare la grafia più antica preesistente, il che spiegherebbe perché il marchese Spiriti (che mai nessuno ha ritenuto un’aquila della paleografia o della filologia) non abbia notato diversità di mani.

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È l’unico caso in cui Spiriti dichiari esplicitamente, nella sintetica nota al testo (pp. x-xi), di aver emendato ope ingenii le lezione del codice Cavalcanti, proponendo una soluzione accolta da tutti gli editori successivi : Abbiamo seguito in tutto il mentovato m. s. e con tanta religione, che non abbiamo voluto mutarne qualunque picciola cosa, neppur ne’ luoghi ove parea, che con picciolo cangiamento potea forse dir meglio : solamente nel Sonetto Ben ci scorse ria stella e ben sofferse DAVALO il terren nostro etc. il testo appenna [sic] legge Davero, e ci è sembrato evidente errore del Copiatore, perché né ci sovveniva cognome alcuno di simil foggia, né poteva prendersi per avverbio in sentimento di Veramente […]

“Errore del Copiatore” o economicissimo intervento, stante che la grafia originaria poteva anche essere Davelo (oscillazione non infrequente che si registra in contesto meridionale in concorrenza con Davalo), 6 nonostante ne sortisse una vistosa zeppa all’inizio del v. 2 ? Vero è che una zeppa non si negherebbe oggi a nessun poeta, ma qui è difficile fugare la tentazione di scorgere il tentativo un po’ maldestro di annacquare un riferimento colloquiale troppo scoperto con un esponente di casa d’Avalos, con il quale nessun altro membro di casa Tarsia, al di fuori del Reggente, aveva potuto avere consuetudine. Qui i contorsionismi dei commentatori hanno fornito le prove migliori. Non era Bartelli sfiorato da ombra di dubbio che tale amara riflessione si potesse confidare al Marchese di Pescara, che, come chiarisce più avanti nel commento (p. 57), era Ferrante Francesco d’Avalos, ancora troppo giovane tuttavia, se il « sonetto, probabilmente, fu scritto nel 50, quando l’ultimo re Aragonese, Federico, visto [sic] disperata la sua causa, dopo il tradimento della Spagna, si diede in potere della Francia » (p. 56). Su tale proposta di datazione Bartelli non ritornò nel successivo studio del 906, quando ormai si sapeva che Galeazzo jr. era nato nel 520 e quindi o il sonetto si doveva plausibilmente postdatare o attribuire ad altri. Con olimpica imperturbabilità Ponchiroli (p. 557) conserva lo stesso destinatario, sfumando la datazione nella generica indicazione « dopo la caduta degli Aragonesi », che potrebbe lasciar pensare anche a una amara riflessione molti anni dopo l’evento, che deve però arrestarsi alla soglia del 525, anno in cui muore il destinatario, quando Galeazzo jr. aveva cinque anni. Non accoglie Baldacci tale proposta (p. 652), perché, « nonostante che certi elementi interni (i probabili riferimenti a Lodovico il Moro e a Ferdinando il Cattolico) sembrino consentire quella datazione, la nuova cronologia del Tarsia determinata in seguito dallo stesso Bartelli […] la esclude assolutamente », limitandosi a scegliere come destinatario un altro d’Avalos, Alfonso, marchese del Vasto, morto nel 546. Come si vede l’auctoritas bartelliana era inattaccabile, nonostante tutto. Provo per parte mia a identificare il membro di casa d’Avalos cui Galeazzo si rivolge. Dovendo assumere come terminus post quem della composizione del sonetto il 500, anno della disgrazia del Duca di Milano, i possibili destinatari potrebbero essere o l’adolescente Ferrante Francesco d’Avalos 7 – e qui il Reggente verrebbe ad atteg6. Le forme de Avelos, Avelo, d’Avelo, Aveli sono esclusive in Benedetto Gareth detto il Chariteo, autore, tra l’altro di un “cantico” In la morte de don Innico de Avelos, che potrebbe essere il destinatario del sonetto di Galeazzo (cfr. Benedetto Gareth detto il Chariteo, Le rime secondo le due stampe originali, a cura di Erasmo Pèrcopo, Napoli, s. e., 892, p. 339 sgg.). 7. Nato probabilmente nel 489, secondo G. De Caro, « Avalos, Ferrante Francesco d’ », in Dizionario

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giarsi nel ruolo di pensoso pedagogo che riflette sulla recente storia d’Italia– o, come a me pare più pertinente per la solennità dell’intonazione, che implica un destinatario bene addentro alle traversìe politico-militari del tempo, Iñigo d’Avalos, marchese del Vasto, che determinerebbe un terminus ante quem al settembre 503, che è la data della sua morte. Il personaggio è importante per più aspetti, anche sotto il profilo più squisitamente politico, in quanto, prima ancora della sorella Costanza, che fino all’ultimo restò fedele a Federico d’Aragona, aveva scelto – dopo segreta trattativa con il Gran Capitano non ancora vittorioso a Cerignola– di inalberare sulla rocca del castello di Ischia il vessillo di Ferdinando il Cattolico, disobbedendo così all’ordine spedito da Blois dal re spodestato di rendere l’isola ai francesi. 8 Con il che verrebbero a cadere definitivamente i pretesi, quanto larvati, spunti critici all’indirizzo del re di Spagna, traditore del “cugino” aragonese, che i commentatori hanno voluto scorgere nel dettato poetico di Galeazzo. Che tale prospettiva storico-biografica si attagliasse meglio a Galeazzo senior, non sfuggiva allo stesso Baldacci (p. 652), che tuttavia contrapponeva alla sacrosante ragioni della cronologia le non meno evidenti ragioni dello stile : D’altronde fortissime ragioni di stile inducono a rifiutare la soluzione da taluni proposta […] di riconoscere due voci distinte in seno al canzoniere tarsiano. Il problema è forse destinato a restare insoluto.

A meno di improbabili miracoli, è ragionevole ritenere che lo stato attuale della tradizione tarsiana non consentirà mai una soluzione generalmente soddisfacente, ma questo non toglie che non ci si debba continuare a interrogare proprio al cospetto delle aporie cui inevitabilmente conducono le legittime esigenze di un commento accettabile. Perché in definitiva questo e non altro dice la materialità virtualmente deducibile dal corredo paratestuale dell’edizione Spiriti : un codice membranaceo e miniato dei primi anni del xvi secolo, adespoto, e la cui trascrizione, che non si ha motivo di ritenere infedele da parte dell’editore settecentesco, ci ha trasmesso un corpus di cinquanta rime sempre letto unitariamente, ma da ricondursi, per cogenti riferimenti tematici e cronologici, a due autori dello stesso nome, nonno e nipote, il secondo dei quali con buona probabilità revisore-manipolatore di testi più antichi in vista di una rifunzionalizzazione su un diverso ordito biografico. Abstract Il breve corpus poetico di Galeazzo di Tarsia (46 sonetti, 2 canzoni, una sestina e un madrigale, per un totale di 50 componimenti) è uno dei più letti e riconoscibili nell’ambito della galassia del petrarchismo lirico cinquecentesco, ma ha posto e tuttora pone ardui problemi di interpretazione, che coinvolgono finanche la precisa identificazione dell’Autore. L’esame degli elementi paratestuali nelle due edizioni napoletane (67 e 758), ognuna delle quali ha i requisiti della princeps perché derivate da antigrafi diversi, induce a riconsiderare ex novo la questione attributiva. biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, iv, 962, pp. 623-27962, pp. 623-627, sebbene manchino documenti, ma la data è plausibile, tenuto conto che il matrimonio tra il padre di lui Alfonso, marchese di Pescara, e Diana di Cardona, fu celebrato nel gennaio del 488. 8. Cfr. Raffaele Colapietra, Baronaggio, Umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli, La città del sole 999, pp. 6-7.

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The modest poetic corpus of Galeazzo of Tarsia (50 pieces comprising 46 sonnets, 2 songs, one sestina and one madrigal) is one of the most widely-read and recognized in the galaxy of 6th century lyrical Petrarchism, but even today presents arduous problems of interpretation, including even the precise identification of the Author. A study of the paratextual elements in the two Neapolitan editions (67 and 758), each having the necessary requirements of the princeps since they are derived from different antigraphs, leads us to reconsider ex novo the question of attribution.

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Michele Carlo Marino IL PARATESTO NELLE EDIZIONI RINASCIMENTALI PETRARCHESCHE

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rima di accingersi all’analisi di alcuni elementi paratestuali presenti nelle edizioni rinascimentali petrarchesche (focalizzando l’attenzione su quelle italiane) è doverso premettere che questo contributo presenta alcuni risulati di un più ampio lavoro di ricerca condotto da chi scrive sotto la guida del Prof. Marco Santoro. Innanzitutto è necessario cercare di fornire una panoramica quantitativa sulle edizioni petrarchesche che hanno visto luce tra il xv ed il xvi secolo, con particolare riferimento alla situazione peninsulare. Le fonti utilizzate per tale ricognizione (che, va sottolineato, è tuttaltro che giunta a termine) sono state sia i più tradizionali repertori cartacei, come l’igi (Indice generale degli incunaboli) per le edizioni quattrocentesche,  che sui diffusissimi opac consultabili online, ed in particolare quello dl Servizio Bibliotecario Nazionale (sbn), della British Library, della Bibliothèque Nationale de France e della Library of Congress di Washington. Inoltre sono stati consultati repertori sulla produzione tipografica cinquecentesca nei vari centri editoriali italiani, l’Illustrated Incunable Short-Title Catalogue, 2ª (iistc), e alcune pubblicazioni sulla fortuna del Petrarca nel Rinascimento, come l’ormai classica Bibliografia Petarchesca di Giuseppe Jacopo Ferrazzi, 2 l’ottimo saggio di Carlo Dionisotti, 3 un recente articolo di Luigi Balsamo, 4 un recentissimo volume di Klaus Ley 5 nonché una serie di lavori condotti da vari studiosi (Giuseppe Frasso, 6 Maria Cristina Fabbi, 7 Marisa Gazzotti, 8 Maria . Mentre purtroppo per il Cinquecento non è stato possibile utilizzare il Censimento nazionale delle Edizioni italiane del XVI secolo (curato dall’iccu, Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane e per le Informazioni Bibliografiche) in quanto non ancora giunto alla lettera P. 2. Giuseppe Jacopo Ferrazzi, Bibliografia petrarchesca, Bassano, Tip. S. Pozzato, 877 (Rist. anast. Bologna, Forni, 979). 3. Carlo Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, « Italia Medioevale e Umanistica », xvii (974), pp. 6-3. 4. Luigi Balsamo, Chi leggeva Le cose volgari del Petrarca nell’Europa del ’400 e ’500, « La Bibliofilia », civ (2002), iii, pp. 247-266. 5. Klaus Ley, Die Drucke von Petrarcas Rime, 1470-2000 : synoptische Bibliographie der Editionem und Kommentare, Bibliothecksnachweise, Hildesheim [etc], G. Olms, 2002. 6. Giuseppe Frasso, Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. British Library, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 56 (982), pp. 253-262. 7. Maria Cristina Fabbi, Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Parma : Biblioteca Palatina, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 57 (983), pp. 288-297 ; Ead., Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Città del Vaticano : Biblioteca Apostolica Vaticana, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 63 (989), pp. 336-360. 8. Marisa Gazzotti, Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Milano : Biblioteca Ambrosiana, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 58 (984), pp. 30-36 ; Ead., Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Paris : Bibliothèque Nationale, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 64 (990), pp. 285-306.

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Grazia Bianchi e Cristina Dondi 0) nell’ambito del progetto per un censimento degli incunaboli e delle cinquecentine petrarchesche postillate conservati nella maggiori biblioteche europee. Un primo dato non privo di interesse è costituito dal macrodato inerente le profonde differenze fra le decisioni editoriali degli operatori peninsulari e le scelte di quelli degli altri paesi europei. Su 28 pubblicazioni quattro/cinquecentesche (finora individuate) legate a vario titolo alle opere petrarchesche (da quelle in volgari a quelle in latino) 85 sono italiane (pari al 65,84%) e 96 le straniere (pari al 34,6%). A partire dal 470, anno in cui vede la luce a Venezia per i tipi di Vindelino da Spira la prima edizione del Canzoniere e dei Trionfi, al 499 il totale delle pubblicazioni assomma a 65, delle quali 45 italiane (pari al 69,23%) e 20 straniere (pari al 30,77%). Dal 500 al 550 le edizioni sono 26, delle quali 84 sono peninsulari (pari al 66,67%) e 42 le europee (pari al 33,33%). Infine dal 55 al 600 abbiamo 90 stampe, 56 italiane (pari al 62,22%) e 34 le straniere (pari al 37,78%). Dunque, prevedibile prevalenza di pubblicazioni italiane, prevalenza sostanzialmente costante nei tre periodi, anche se progressivamente meno marcata.. Per quanto concerne le edizioni straniere, abbiamo nel ’400 4 stampe tedesche, due olandesi, due belghe, una svizzera e una francese. Nella prima metà del ’500, 3 tedesche, 24 francesi, 2 spagnole, una polacca, una olandese, una svizzera ; e nella seconda metà,  francesi, 5 tedesche, 9 svizzere, cinque spagnole, tre inglesi e una belga. Se per il ’400 sono al momento registrate solo le opere in latino (dal De remediis utriusque fortunae al Secretum, dalla lettera nelle “Senili” con la storia di Griselda al Bucolicum carmen al De vita solitaria, ecc.), a partire dalla prima metà del xvi secolo il catalogo si arricchisce di opere in volgare (abbiamo varie edizioni lionesi in volgare e varie traduzioni dei Trionfi in francese e castigliano) e per la seconda metà del secolo anche di opera omnia (come quella edita a Basilea nel 554 comprendente anche il Petrarca volgare, a distanza di 58 anni dalla precedente, relativa però solo alle opere latine) nonché di traduzioni in inglese, da sottolineare l’esordio della traduzione in spagnolo del Canzoniere. Alla luce di questi pochi dati almeno una considerazione è lecita : siamo dinnanzi all’ennesima conferma della comprensibile diffusione nella “repubblica delle lettere” europea per lo più delle opere in latino, almeno per tutto il secolo xv, diffusione dovuta da un canto al costume culturale dei dotti, dall’altro alla sapiente scelta delle aziende editoriali che sanno di potere beneficiare per le pubblicazioni in latino di un “orizzonte di attesa”, per dirla con Jauss, di portata continentale. D’altro canto, che di Petrarca si conoscesse prevalentemente la produzione latina, lo attesta, credo vigorosamente, la monumetale Bibliotheca universalis gesneriana, dove non a caso dell’aretino vengono citate appunto solo le opere latine. Naturalmente, avendone il tempo, altre non secondarie considerazioni andrebbero fatte, quanto meno in riferimento all’azione censoria sia cattolica che dei “riformatori”. Le edizioni peninsulari, come detto, risultano essere 85, cronologicamente così distribuite : 45 dal 470 al 499, 84 dal 500 al 550 e 56 dal 55 al 600. 9. Maria Grazia Bianchi, Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Milano : Biblioteca Trivulziana, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 58 (984), pp. 37-330. 0. Cristina Dondi, Per un censimento di incunaboli e cinquecentine postillate dei Rerum Vulgarium Fragmenta e dei Triumphi. Oxford : Bodleian Library, « Aevum. Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche », 74 (2000), pp. 675-707.

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Nel corso dei centotrenta anni le edizioni veneziane sono 45 su 85 (pari al 78,37%), seguono le fiorentine (9, pari al 4,86%), le milanesi (7, pari al 3,78 %), le bolognesi (4, pari al 2,6%), e via via le altre. La predominanza delle pubblicazioni veneziane è progressiva e diviene addirittura schiacciante nella seconda metà del ’500. Se, infatti, nel primo periodo esse coprono, con 2 edizioni, il 46,66% dell’intera produzione italiana, seguite dalle fiorentine (5, pari all’,%), dalle milanesi (4 stampe), dalle romane e dalle bolognesi (3 edizioni), e via via da quelle impresse in altri otto centri nella prima metà del secolo decimosesto esse raggiungono, con 70 edizioni su 84, l’83,33% del totale, seguite da Milano e Firenze (tre stampe ciascuna). Le altre pubblicazioni del periodo vedono la luce in altri sette centri. Infine, nella seconda metà del ’500 su 56 edizione ben 54 (pari al 96,42%) sono veneziane. La leadership lagunare della produzione petrarchesca non può naturalmente sorprendere soltanto se si consideri il ruolo rivestito dall’editoria veneziana nel periodo rinascimentale, ruolo che nella seconda metà del secolo decimosesto acquisisce montante rilevanza in virtù sia delle procedure censorie attivate da Roma sia del governo da parte della Serenissima degli itinerari commerciali non soltanto librari agevolati dalla felice dislocazione geografica, sia infine dall’ormai radicato predominio delle aziende editoriali locali, predominio che, nel caso delle pubblicazioni di ampia divulgazione presso le categorie avvezze alla lettura, assume i connotati del vero e proprio monopolio. Passando ora ad occuparci concretamente e, per comprensibili ragioni di spazio, sinteticamente, di alcuni elementi paratestuali, inizialmente l’attenzione sarà focalizzata sulla disposizione del testo all’interno dei volumi stampati. La partizione del testo dei Rerum vulgarium fragmenta nelle edizioni a stampa rinascimentali, indubbiamente legata alla tradizione manoscritta dell’opera volgare del Petrarca, è stata oggetto di diversi studi (tra i più recenti si possono ricordare quelli di Christopher Niederer  e di Nadia Cannata 2). Nelle edizioni quattrocentesche la presentazione del testo è in linea di massima uniforme, con i sonetti, le rime e le canzoni presentate in un unico blocco senza alcun tipo di divisione interna (anche se con alcune eccezioni, tra le quali si può ricordare l’edizione padovana di Bartolomeo Veldezoco del 472), mentre separatamente (alle volte addirittura in due volumi separati) compaiono i Trionfi. Nel xvi secolo, a cominciare dalla pregevole edizione aldina del 50 (Fig. ), prevale invece le scelta di presentare il testo delle rime diviso in due blocchi (come è uso consolidato anche nelle edizioni moderne dell’opera), in vita di Laura ed in morte di Laura. Da questa scelta diffusa, seppur con piccole variazioni nella individuazione del componimento di separazione tra le due parti (e a riguardo va ricordata l’edizione aldina del 54), si distacca in maniera significativa il Vellutello, che nelle edizioni corredate dal proprio commento propone una tripartizione dei componimenti del Petrarca. A giustificare questa sua differente interpretazione del disegno poetico dell’autore aretino il commentatore inserisce nelle prime edizioni pubblicate un vero e proprio Trattato de l’ordine de son[etti] e de le canz[oni] del Pet[rarca] mutato (Fig. 2), in cui co. Christoph Niederer, La bipartizione in vita / in morte del « Canzoniere » di Petrarca, in Petrarca e i suoi lettori, a cura di Vittorio Caratozzolo e Georges Güntert, Ravenna, Longo, 2000, pp. 9-4. 2. Nadia Cannata, La percezione del Canzoniere come opera unitaria fino al Cinquecento, « Critica del testo », vi/ (2003), pp. 55-76.

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michele carlo marino glie anche l’occasione per scagliare un’invettiva contro Aldo Manunzio e soprattutto contro Pietro Bembo, rei a suo avviso di aver basato il testo delle loro edizioni su di un presunto originale manoscritto. 3

Fig. . Aldo Manunzio, Venezia, 50.

Prima ch’a la vita et a costumi del poeta, o che ad altra cosa pertinente a l’opera si venga, parmi molto necessario il deverne alcune dire quanto all’ordine mutato da quello ch’esser soleva, perché esser chiaramente mi par vedere quanto ch’esso mutar’ordine habbia da parer nel primo aspetto a tutto l’mondo non solamente strano, ma forse ancor inconveniente, come de le cose anchora non intese quasi sempre suol avvenire, ma del tutto fuor d’ogni ragione penso dovrà aparer a costoro, ch’a lor modo interpretando, credon haver alcuna continuatione nel prim’ordine trovato, massimamente per esser affermato da Aldo Romano, che ultimamente fece la presente opera stampare, egli haverla dal proprio originale e scritto di mano del poeta cavata adducendo il testimonio dell’eccellentissimo Messer Pietro Bembo, dal quale dice averlo avuto

Evidentemente non condivide tale asserzione il Vellutello, che non a caso, dopo questa premessa, fornisce una dettagliata disamina dei motivi che lo hanno indotto a rifiutare la divisione in due parti, molto diffusa nelle precedenti edizioni, e legittimata da Pietro Bembo nell’edizione aldina del 50. In pratica il Vellutello respinge l’idea del Canzoniere come opera continuata, con una propria rigida sequenFig. 2. Bernardino Vidali, Venezia, 528. zialità (come ad esempio la Divina Commedia dantesca), sostenendo che, escludendo alcuni casi nei quali si trovano componimenti legati tra di loro in maniera cronologica, la maggior parte delle rime, canzoni e sonetti sono opere poetiche a se stanti, legate ad un proprio fine e momento creativo, e non inquadrate in un rigido schema sequenziale tra di loro o all’interno del complesso dell’opera. 3. Il testo è tratto dalle edizione veneziana di Bernardino Vidali del 528.

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… perché alcun ordine gli habbia ad esser necessario, ma ogni Sonetto e Canzone haver il proprio suo soggetto in se, come gli epigrammi di Martiale, e le elegie di Ovidio veggiamo

E , alla fine della lunga digressione ricca di esempi concreti, conclude … E questo basti haver detto de l’ordine per dimostrar, che l’opera non è stata de l’originale del poeta cavata, e che da noi a miglior ordine è stata ridotta, e non senza fondamento, perché noi giudichiamo, ch’appresso di coloro, i quali hanno de vestigi di questo poeta qualche cognitione, l’ordine solamente habbia ad esser in luogo do commento, et a gli altri via da più agevolmente ogni sentimento di quella poter havere

Nella stessa edizione è inserita un’altra più sintetica spiegazione del mutato ordine dei sonetti, Divisione de sonetti e de le canz[oni] del Petrarca in tre parti, spiegazione che continuerà a comparire da sola anche nelle successive (e di diverso editore) stampe corredate dal commentato dal Vellutello, quasi a testimonianza, con la propria costante presenza, di come la tripartizione proposta continuasse a sembrare inedita ai lettori dell’opera del poeta aretino. Ma forse è ipotizzabile anche un’altra motivazione per giustificare la costante presenza di questo sia pur sintetico testo di spiegazione pensando alla volontà del commentatore di sottolineare l’innovazione della propria opera di esegesi degli scritti poetici del Petrarca (ed alla rilevanza che un tale particolare poteva avere del punto di vista commerciale in un mercato come quello editoriale cinquecentesco). Ma noi, che ad altro ordine riducer li vogliamo, non solamente in due, ma in tre parti è di bisogno che li dividiamo

E più avanti aggiunge che oltre a quelli scritti sicuramente quando Laura era in vita ed a quelli composti quando la donna amata era già morta (ma comunque in entrambi i casi a lei dedicati) sarà necessario prevedere una Terza, et ultima parte fuori dell’opra [dove] saranno posti tutti quelli che’n diversi tempi et altri soggetti, et a più terza persone da lui furono scritti

Tale scelta rimase limitata alle edizioni con il commento del Vellutello, mentre in tutte le altre edizioni cinquecentesche risulta prevalente la scelta della più tradizionale bipartizione. Va tuttavia seppur brevemente sottolineato come tale originale scelta può comunque ben accordarsi con la tendenza comune alla quasi totalità dei commentatori cinquecenteschi del Petrarca di correlare strettamente l’opera poetica alle vicende biografiche (ed in particolar modo sentimentali) del poeta aretino, 4 e di considerare dunque i componimenti inclusi nei Rerum vulgarium fragmenta direttamente legati all’amore per Laura. Altra particolarità legata alla disposizione del testo dei Rerum vulgarium fragmenta nel xvi secolo è la comparsa di una serie di componimenti che si potrebbero definire “di corredo”, non all’altezza di quelli “canonici” , come dichiara espressamente lo stesso Aldo Manunzio nell’Avviso ai lettori della sua edizione del 54 (Fig. 3), nella quale tali componimenti (assenti nella prima edizione aldina del 50) fanno la propria comparsa.

4. Cfr. Nadia Cannata, La percezione del Canzoniere come …, cit., pp. 72-73.

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michele carlo marino Forse che il meglio era, delle cose di M F P non vi dar altro da leggere, che quelle, che esso ha giudicato degne [ …] Et chi dubita che M F non componesse molto più et canzoni et sonetti di quelli, che si veggono ? Invero niuno non divenne egli in un giorno perfetto poeta : anche egli si exercitò : compose anche egli delle cose non così buone : ma fece quello che ha sempre fatto, et far deve ogni prudente venuto al buon giudicio : scelse delle compositioni sue tutte quelle, che pensò si devessero dare il nome, che poi ha conservato l’altre, che di se degne non li parvero, lasciò fuori

E sempre nell’Avviso ai lettori Aldo aggiunge, riferendosi in particolare al primo di tali componimenti, un capitolo, probabilmente appendice dell’ultimo dei Trionfi, quello della Fama (Fig. 4), (e forse addirittura di dubbia autenticità) che

Figura 3. Aldo Manunzio, Venezia, 54.

…per giudicio del Magnifico M. Pietro Bembo fu nella mia prima impressione, dal loco, dove era, come superfluo rimosso

Ma pur considerando tali componimenti spuri o comunque se autentici non degni della produzione del grande poeta toscano, Manunzio, discostandosi così anche dall’opinione del Bembo, decise egualmente di inserirli in questa sua nuova edizione dei Rerum vulgarium fragmenta Accioché voi buoni lettori leggendolo, meglio vediate il vero : e conosciate le ragioni certissime, che mossero il gentilissimo giudicio a far quel che fece Figura 4. Aldo Manunzio, Venezia, 54.

La presenza di tali componimenti “di corredo” diventerà pressoché costante nelle edizioni cinquecentesche dell’opera volgare del Petrarca. 5 Nello specifico essi sono un presunto capitolo del Petrarca « da lui stesso rifiutato » (come già detto attribuibile al Trionfo della Fama), una canzone, una ballata e dei sonetti, nonché una serie di risposte a componimenti dedicati al Petrarca da alcuni 5. Al riguardo si veda Domenico De Robertis, L’Appendix Aldina e le più antiche stampe di rime dello stil novo, in Domenico De Robertis, Editi e rari : Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 978, pp. 27-49.

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suoi contemporanei, come Geri di Gianfigliacci, Sennuccio da Siena, Giovanni de Dondi e Giacomo Colonna (ad essi più avanti si aggiungeranno altri due o tre personaggi), seguiti da tre presunte canzoni di Guido Cavalcanti, Dante Alighieri e Cino da Pistoia. Tale appendice di componimenti diventa con gli anni un complemento stabile alle opere certe del Petrarca, risultando presente (seppur con variazione nella rilevanza dei vari componimenti) nella quasi totalità delle edizioni cinquecentesche successive. Uno sviluppo interessante hanno anche le vite, che molto spesso corredano l’opera volgare del Petrarca, a cominciare da quella di Antonio da Tempo, per continuare con quella monumentale dello stesso Vellutello, con la più sintetica di Silvano da Venafro, che compare per Figura 5. Francesco Marcolini, Venezia, 539. la prima (e probabilmente unica) volta nell’edizione napoletana del 533 (Antonio Iovino e Matteo Canzer), nonché quella dell’Alunno, che ha la peculiarità di comparire (come del resto l’intero commento al testo poetico) in maniera separata dall’opera stessa (Fig. 5), quasi a formare una pubblicazione autonoma da quest’ultima (dotata anche di un proprio frontespizio) sebbene ad essa strettamente legata, per arrivare a quelle del Gesualdo ed alle annotazioni di Giulio Camillo. Anche relativamente a queste composizioni col tempo aumenta Figura 6. Gabriel Gioito de’ Ferrari, Venezia, 554. la stratificazione del testo. In quasi tutti in casi presi in esame (ed in particolare nelle vite di Antonio da Tempo, del Gesualdo e del Vellutello) all’iniziale componimento di carattere unicamente biografico iniziano ad affincarsi aggiunte, a volte semplicemente aumentando la corposità del componimento, a volte andando a formare veri e propri testi a se stanti. A solo titolo esemplificativo si può ricordare come a cavallo della metà del xvi secolo inizino a comparire componimenti come I luoghi del Petracha onde lo espositore ha raccolto quanto ha qui scritto di lui (Andrea Gesualdo), oppure Origine di M. Laura con la descrittione di

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Valclusa del luogo ove il poeta a principio di lei s’innamorò (Vellutello e Dolce), oppure incisioni con il sito di Valclusa (Fig. 6) (in Provenza, vicino ad Avignone), oppure (ma verso la fine del ’500), del privilegio dell’incoronazione del Petrarca, oppure del presunto testamento scritto dal poeta stesso. Abstract La prima parte dell’intervento è dedicata all’analisi dei risultati di una, seppur ancora parziale, ricognizione bibliografica sulle edizioni rinascimentali dell’opera petrarchesca, focalizzando l’attenzione sulle edizioni delle opere in volgare, in particolar modo quelle stampate in Italia, e cercando di analizzare la fortuna del poeta aretino nel xv e xvi secolo nei vari centri editoriali peninsulari. Successivamente l’attenzione è stata spostata su di alcuni elementi paratestuali riscontrati nell’esame di un campione significativo di queste edizioni, ed in particolare (ma non esclusivamente) sulle diversificate scelte compiute da commentatori ed editori nella partizione dell’opera poetica del Petrarca, e sull’evoluzione delle biografie del poeta che spesso accompagnano le edizioni dell’opera poetica dello stesso. The first part of the talk is dedicated to the evaluation of the results of a (partial) bibliographic research on editions printed during the renaissance of Petrarca’s works, with a peculiar attention on the editions of works in Italian language, mostly printed in Italy, and trying to analyse the diffusion of the works of the poet in the different Italian printing centres during xv and xvi centuries. After the focus of the talk moves to some paratextual elements founded on a relevant sample of those editions, and more specifically (but not only) on the different choice made by the commentators and printers about the partition of the poet’s works, and on the evolution of the biographies of Petrarca that many times are printed with the editions of his poetic works.

Antonella Orlandi L’INCIDENZA DEL PARATESTO SUI REPERTORI BIO-BIBLIOGRAFICI ITALIANI DEL SEICENTO

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crittura di erudizione è quella delle bibliothecae seicentesche, scrittura in piena tensione evolutiva dagli esiti diversificati nelle varie province italiane, ancora fortemente commista con altre tipologie testuali, come quella encomiastica, storiografica e antiquaria.  Eppure l’allestimento di questi archivi memoriali si colloca nel processo di gestazione di una moderna historia literaria, incardinata saldamente sul modello delle Vite, avviato in Italia con sfocata consapevolezza dal Doni che, avvalendosi dello strumento indicale, nella sua Libraria, organizza e classifica la materia, quale condizione della canonizzazione letteraria, focalizza l’attenzione sulle opere declinando tuttavia qualsiasi cura alla morfologia editoriale. 2 Difficilmente riscontreremo in queste bibliothecae specifici interessi per l’oggettualità del libro e dunque l’eco della grande lezione gesneriana e posseviniana : sono eccezionali i casi di Allacci, Giustiniani, dell’“archivario” Toppi, del Cozzando che fanno della registrazione dei connotati delle edizioni a stampa un aspetto qualificante del loro censimento. Senza voler ridimensionare la valenza di tale scrupolo documentario, fondamentale per una corretta e avanzata prassi bibliografica, un’esplorazione a fondo di queste raccolte rivela che di fatto sono altre le componenti che, al di là del lemma del titolo, ascrivono un’opera al genere della bibliografia enumerativa della cultura di antico regime, piuttosto che a quello limitrofo degli Elogi : l’inclusione dei minori, capace di rompere definitivamente il monolitico schema dei vari De viris illustribus e di riconfigurare il canone letterario, lo slittamento del peso della notizia dal resoconto biografico alla rassegna delle opere, la centralità delle fonti, la preoccupazione di dotare la bibliografia di un impianto efficace, l’approntamento di indici funzionali. Componenti presenti in vario grado nei prontuari regionali seicenteschi che, oltre all’evidenza della scrittura epigrafica, generalmente conservano il registro artificioso dell’amplificatio, proprio del panegirico, per esaltare virtù e meriti dei personaggi, quale debito persistente verso la letteratura encomiastica, debito vissuto in vario modo dai compilatori, come necessaria adesione a un idioletto o come occasione di agghindate e compiaciute esibizioni verbalistiche. La nuova attitudine all’accertamento documentale del dato e alla valorizzazione delle pratiche tassonomiche, cioè l’affermarsi del metodo bibliografico, esautora gradualmente il filone della biografia pura che quando non assorbe questo nuovo abito filologico, sembra ripiegarsi in esercitazioni di puro intrat. La presente comunicazione rielabora nell’ottica del paratesto alcuni temi emersi nei miei studi dedicati alle bio-bibliografie seicentesche : Antonella Orlandi, Tra bibliografia e teatro : la Scena letteraria di Donato Calvi, « Studi secenteschi », xliii (2002), pp. 24-263 ; Ead., Sondaggi su paratesto e testo della Biblioteca napoletana di Niccolò Toppi, « Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari », xvii (2003), pp. 49-8 ; Ead., La « Bibliotheca » di Filippo Picinelli : l’Ateneo dei letterati milanesi, « Studi secenteschi », xlv (2004), pp. 27-25 ; Ead, Biografia e bibliografia nell’opera di Prospero Mandosio, « Esperienze letterarie », xxix (2004), 3, pp. 65-98. 2. Anton Francesco Doni, La libraria, Venezia, Giolito de Ferrari, 550.

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antonella orlandi

tenimento accademico. Nei miei studi dedicati a questo tema ho cercato di cogliere la particolare fisionomia di queste sillogi nel contesto della peculiare realtà regionale e di individuare la natura del linguaggio metatestuale adottato, al fine di tracciare una mappa geoletteraria di tale tipologia bio-bibliografica, sospesa tra letteratura e storiografia. Le peculiarità locali recano poi a queste raccolte seicentesche un’impronta particolare sia a livello testuale che paratestuale : si pensi alla centuria per la Bibliotheca romana del cavalier Mandosio, 3 raggruppamento numerologico evocatore della romanità ; al teatro per la bergamasca Scena letteraria dell’agostiniano Calvi, 4 in un territorio come quello veneziano dove anche in periferia assai viva era la cultura dello spettacolo ; al gusto monumentale per la Biblioteca napoletana del teatino Toppi, 5 opera che nel rilanciare l’entità ‘regnicola’ voleva essere organica al governo spagnolo nella fase dell’irreversibile crisi ; ed ancora al protagonismo della categoria dei Medici e dei Musici per l’Ateneo dei letterati milanesi dell’abate Picinelli,6 in una città piegata dalla peste e dalla guerra. A considerare per rapidi cenni gli esordi del genere risalenti all’antichità ci si può rendere conto che l’ordine, anima di qualsivoglia costruzione bibliografica, è nei repertori di primissima generazione, un ordine essenzialmente pratico, aderente alla materialità del libro manoscritto e dunque basato sulla enumerazione di elementi tangibili sequenziali, che sono i capitoli delle biografie. Si veda la traduzione a stampa di uno dei prototipi della letteratura bio-bibliografica, il De viris illustribus, di San Gerolamo (392 d. C.), stampato ad Augsburg nel 473 : 7 in apertura una sorta di indice, anzi di tavola dei capitoli, l’ Oculos pro catalogo illustrium virorum (Fig. ), si limita ad elencare i nomi dei personaggi a cui sono intestati i vari profili aderendo empiricamente alla forma concreta di un testo in cui le biografie si susseguono senza soluzione di continuità, separate dai capilettera e dal numero romano del capitolo (Fig. 2). Il libro diversifica dunque, in un processo di lungo periodo, in una ricerca dinamica di una specifica identità paratestuale, la sua forma visuale per renderla interprete dell’idea che un’opera ed un genere letterario esprimono. Se vedere significa cogliere gli aspetti essenziali di un oggetto, le sue caratteristiche strutturali preminenti, per dirla come i teorici della gestalt, è fondamentale che un oggetto si strutturi in modo stabile ; nell’assestamento della forma dell’oggetto libro, nelle sue differenziate tipologie, giocano un ruolo fondamentale la sua funzione, consuetudini percettive e cognitive, la ricerca di una piena congruenza tra significato e pattern tangibile, tra semantica e confezione materiale. Il percorso evolutivo del libro, che gradualmente si affrancherà dal manoscritto, si intreccia con quello della biobibliografia che utilizzerà a fondo le risorse paratestuali del nuovo medium, cogliendo in esse la sua ragion d’essere : perché l’informazione possa configurarsi adeguatamente e dispiegare la sua potenzialità comunicativa deve poter contare su un supporto versatile per quel che riguarda capacità di manipolazione e visualizzazione della materia indicizzata, a garanzia della sua leggibilità e consultabilità. Già nel Liber de scriptoribus ecclesiasticis 3. Prospero Mandosio, Bibliotheca Romana, Roma, De Lazzari, 682-692. 4. Donato Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi, Bergamo, Eredi di Marc’Antonio Rossi, 664. 5. Niccolò Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli, Bulifon, 678. 6. Filippo Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi, Milano, Vigone, 670 7. Hieronymus, De viris illustribus, Augsburg, Gunter Zainer, 473.

l ’ incidenza del paratesto sui repertori bio-bibliografici

Fig. . Hieronymus, De viris illustribus.

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Fig. 2. Hieronymus, De viris illustribus. Indice.

(Basilea, 494) di Johann Tritheim 8 (Fig. 3), padre della bibliografia moderna, che pur afferma nella Praefatio di rifarsi espressamente a San Gerolamo, troviamo una diversa concertazione del repertorio, frutto di un distacco e di una oggettivazione della materia e perciò riflesso di un aurorale processo astrattivo che crea ordinamenti logici di accesso primario e secondario all’informazione. A parte il dispositivo editoriale dell’opera in cui comincia a delinearsi il paratesto delle moderne bibliografie con tanto di epistola prefatoria (Prologo) che dà conto del metodo di lavoro seguito, troviamo una raccolta di notizie organizzate secondo un asse cronologico e un indice di nomi Annotatio scriptorum, (Fig. 4) quale strumento primario di recupero dell’informazione che di fatto rimodella la testualità continua del corpo centrale. Fin dai suoi prototipi il genere risulta quindi nelle sue componenti formali interamente fondato ; si rafforzerà progressivamente la capacità di rappresentazione dei frutti del sapere nella cosmopolita Repubblica delle lettere grazie anche al graduale affinamento della scienza bibliografica a opera dei protagonisti della disciplina, fino ad arrivare alla frontiera seicentesca con una produzione differenziata che in Italia si caratterizza per la straordinaria fioritura. Cominciamo ad esplorare a questo punto le soglie esterne e interne di questi particolari edifici reportariali, capaci oltretutto di rappresentarsi con un profilo sostanzialmente costante per quel che riguarda l’aspetto percettivo e formale. Le titolazioni di queste particolari sillogi, articolate nei tipici verbosi frontespizi seicenteschi, mostrano emblematicamente la natura anfibologica del genere : si va dal classico sintagma, Elogia virorum literis… del Tomasini 9 e dalla formula metafori8. Johann Tritheim, Liber de scriptoribus ecclesiasticis, Basilea, Johann Auerbach, 494. 9. Giacomo Filippo Tomasini, Elogia virorum literis, Padova, Sardi, 644.

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Fig. 3. Tritheim, Liber de scriptoribus ecclesiasticis.

Fig. 4. Tritheim, Liber de scriptoribus ecclesiasticis. Indice.

ca, Ferrara d’oro… che contiene le Vite, & gli Elogi del Libanori 0 alle nominalizzazioni specifiche delle varie Bibliothecae (umbra dello Iacobilli, napoletana del Toppi, romana del Mandosio) a cui si aggiunge la Libraria bresciana del Cozzando,  dai Catalogi (Catalogo breve de gl’illustri et famosi scrittori veneziani dell’Alberici) 2 e Sillabi (il Syllabus scriptorum Pedemonti del Rossotti) 3 agli Atenei (l’Ateneo dei letterati milanesi di Picinelli, l’Athenaeum Augustum dell’Oldoini), 4 passando attraverso la polisemia iconico-verbale delle Apes urbanae dell’Allacci, l’ape come stemma del dedicatario e simbolo universale dell’erudizione e del luogo topico, e l’asciutta referenzialità de Gli Scrittori liguri del Giustiniani. Sono facciate spoglie, in generale, di elementi ornamentali di rilievo : fra le eccezioni la vignetta frontespiziale dell’ Allacci (Fig. 5). Da segnalare anche le antiporte delle bibliografie del Calvi e del Toppi : la prima (Fig. 6) con l’angelo trombettiere che tira il sipario del teatro sul cui proscenio appare un libro, a mo’ di offerta votiva, simbolo del fondamento di ogni sapere ; la seconda con l’arsenale di stemmi, figure mitologiche ed oggetti di una esuberante napoletaneità intensamente trasfigurata (Fig. 7). Quasi tutte le bio-bibliografie italiane si presentano nel formato più diffuso e quin0. Antonio Libanori, Ferrara d’oro imbrunito…, Ferrara, Maresti, 665-674. . Leonardo Cozzando, Della libraria bresciana, Brescia, Rizzardi, 694. 2. Giacomo Alberici, Catalogo breve de gl’illustri et famosi scrittori venetiani, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 605. 3. Andrea Rossotti, Syllabus scriptorum Pedemontii, Monteregali, Gislandi, 667. 4. Agostino Oldoini, Athenaeum romanum, Perugia, Eredi di Sebastiano Zechini, 676.

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Fig. 5. Allacci, Apes urbanae. Frontespizio con incisione.

Fig. 6. Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi. Antiporta.

Fig. 7. Toppi, Biblioteca napoletana. Antiporta.

di più omologato, e cioè nell’in quarto, il formato delle storie e dei trattati ma anche dei tanto amati poemi cavallereschi ; si distinguono tuttavia nel novero di questi anonimi e mimetici prodotti seicenteschi, e probabilmente non è un caso, due raccolte particolarmente significative per la maturità del linguaggio citazionale adottato : le Apes urbanae di Leone Allacci, presentato in una versione raffinata del maneggevole 8°, e la Biblioteca napoletana di Niccolò Toppi che recupera il monumentale in folio. Da una parte dunque la scelta, che appare in voluta contro-tendenza rispetto a una convenzionale tipologia libraria, di un moderno formato medio-piccolo ; dall’altra, l’opzione conservativa che restaura l’arcaico “libro da banco”, anche nell’impaginato a due colonne, per un’enciclopedia che vuole essere la summa della fertilità culturale del trascolorante Vice-regno spagnolo e connotarne, con il linguaggio del libro, la fastosa vocazione auto-celebrativa.

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La presenza di ritratti incisi è senz’altro minoritaria, vengono in mente gli Elogia padovani di Giacomo Filippo Tomasini e la Scena letteraria bergamasca di Donato Calvi. Questa particolare componente paratestuale esprime la forte influenza della tipologia libraria delle Vite su tale scrittura erudita, assumendo tuttavia significati diversi nei due prontuari : di trattamento privilegiato riservato ai “primi attori” nella scena del bergamasco, riempita di personaggi di vario rango e di diversificati ruoli (Fig. 8), di adesione alla retorica degli elogi, per intenderci quella dei Giovio e dei Crasso, nella raccolta dello scrittore padovano (Fig. 9). La dimensione iconica dei busti sfilanti in queste gallerie di carta oscilla tra la trasfigurazione venata da alcuni tratti di umanità alla vivace caratterizzazione fisionomica pur sempre tipizzata : queste immagini comunicano in ogni caso con forza quanto la rappresentazione dello scrittore sia iconica che verbale, il proporsi come exemplum, prevalgano sulla sua personalità autentica, psicologica e intellettuale. Il personaggio diventa un contrassegno dotato di virtù proprie di cui il biografo si fa cantore, al bibliografo spetta il compito importante di conferire al profilo un principio di realtà con gli accertamenti documentali. C’è da dire, inoltre, che in un processo di stabilizzazione del paradigma bibliografico, naturalmente saranno escluse le icone calcografiche diventate generalmente incompatibili con un progetto editoriale inzeppato di materiale, di voci di diversa lunghezza, oltretutto difficili da gestire dal punto di vista tipografico. La diretta filiazione delle bibliothecae dai cataloghi degli uomini illustri spiega la principale motivazione antropologica di queste operazioni celebrative di costruzione di una memoria culturale e sociale e cioè l’orgoglio municipale e nazionalistico che rafforza il sentimento identitario di appartenenza a una determinata comunità. Gli indirizzi al lettore sono intrisi di questa retorica elogiativa che risulta condensata in veri e propri luoghi comuni dove possiamo scorgere, al di là del verbalismo di rito, la preoccupazione di conquistare consenso per un genere allo stato nascente. Passiamone in rassegna alcune di queste argomentazioni convenzionali. Gli autori, dopo aver magnificato la grandezza della patria feconda di ingegni si scusano, per esempio, di aver adottato nell’organizzare le notizie bio-bibliografiche per ragioni di mera funzionalità un ordinamento alfabetico livellatore di riconosciute gerarchie sociali a cui ribadiscono la piena fedeltà ; tengono a giustificare, appellandosi a una tradizione ancora ‘giovane’, la inclusione massiccia di una schiera di scrittori di piccolo e medio calibro, vera e propria novità strutturale di tali metatesti che tendono a rappresentare la varietà assortita dei prodotti d’ingegno nei diversi ambiti disciplinari ; illustrano fonti e metodologia del loro lavoro di ricerca e sistemazione delle notizie, si dolgono di aver fornito poche notizie per alcuni scrittori a dispetto del tanto impegno profuso per tener fede al loro disegno totalizzante di catalogazione della cultura di un determinato territorio e si rammaricano diplomaticamente per le esclusioni inevitabili, addebitando infine la responsabilità di insufficienza di materiale e di omissioni alla indisponibilità e alla malafede di terzi, poiché di lavori in collaborazione in fondo si tratta. Nelle prefazioni delle diverse bibliothecae sono altresì illustrati da questi eruditi, con diversi livelli di consapevolezza, aspetti metodologici del lavoro di ricognizione, intrapreso con autentico spirito pionieristico per fondare ex novo un’anagrafe letteraria che raccogliesse dati estrapolati da altre fonti indefessamente monitorate e che si ancorasse, nei casi migliori, alla identificazione di libri manoscritti e a stampa. Ancora a un livello puramente bibliografico, possiamo osservare per quel che riguarda i criteri di inclusione, le dichiarazioni programmatiche

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Fig. 8. Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi. Ritratto inciso.

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Fig. 9. Tomasini, Elogia. Ritratto inciso.

degli ‘sciovinisti’ attenti a selezionare solo l’etnia locale sulla base di testimonianze orali e scritte, quale tributo di esibito amor patrio. Gli indirizzi al lettore sono preceduti in genere dalle dediche a eccellenze locali a significare il patrocinio finanziario e anche simbolico di personalità di indubbio prestigio per un’opera che voleva essere d’interesse collettivo. Nell’epoca della stampa manuale i frontespizi, veri e propri manifesti pubblicitari, davano particolare evidenza alla presenza di indici, l’Index locupletissimus era dunque un punto di forza della strategia promozionale di un prodotto editoriale che offrendo molteplici ingressi vedeva potenziarsi una leggibilità pluridirezionale. Le Tavole delle cose notabili avvolgevano in una rete a maglie strettissime l’intera materia del libro atomizzandola con una fitta soggettazione, mappando il testo in unità concettuali costituenti, loci communes, che potevano essere oggetto di variegati bisogni informativi : una qualsiasi trattazione e perfino un’opera letteraria si trasformavano a quel punto in vere e proprie enciclopedie del sapere. In tale contesto di accentuata passione indicizzatoria può colpire il fatto che nei libri che stiamo esaminando raramente ci imbatteremo in un indice per materie : nella Biblioteca napoletana si legge che l’indice delle materie non fu composto per “infermità dell’autore”, mentre fa eccezione in questa generale predilezione per liste di nomi, impostate secondo diverse categorie (Professione, Patria, Ordini religiosi), la struttura indicale a classi costruita da Andrea Rossotti, bibliografo di razza, nel suo Syllabus scriptorum pedemontii (667). 5 Per spiegare 5. L’Index Materiarum Quas Scriptores huius Bibliothecae illustrarunt sembra basarsi su schemi eminen-

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la generale riluttanza dei compilatori ad applicare questo tipo di classificazione ai repertori, ci si può rifare a un modello di sapere enciclopedico e interrelato contrario in fondo a qualsiasi tentativo di partizione e, soprattutto, a una rappresentazione della cultura locale personificata solidamente dalle icone degli scrittori. Di solito gli indici sono ordinati secondo il cognome degli scrittori per garantire la reversibilità della ricerca in un prontuario tradizionalmente ordinato secondo il nome e recano accanto la specifica della pagina, della carta o della centuria ; nulla di più scontato si direbbe, eppure queste liste apparentemente asettiche, a volte prive di paginazione, sono dotate nel libro antico di un alto livello di espressività, e possono rivelare a una lettura attenta i segreti e le magagne della fabbricazione repertoriale e tipografica nonché le autentiche propensioni degli autori. Oppure un indice dei nomi può assumere, come nella Bibliotheca romana del Mandosio, vero indistinto mare magnum di bio-bibliografie accorpate in centurie, una primaria funzione di ordinamento e costituire l’unica garanzia di una guida nel promiscuo bacino repertoriale. Si pensi a raccolte che presentano consistenti appendici e aggiunte di materiale eccedenti l’originario progetto editoriale ed ancora ai casi di profili stampati su fogli inseriti successivamente nel corpo centrale del prontuario e traditi da segnature fittizie : i lemmi indicali fungeranno da poli di accorpamento di dati di una stessa notizia bio-bibliografica e di integrazioni di nuove voci. Sono dunque gli indici che dispiegano la vocazione enciclopedica di queste scritture erudite. Per accertare le proprietà semantiche di questo fondamentale elemento paratestuale come non richiamarsi all’Indice dell’Ateneo dell’abate Picinelli (Fig. 0) che ri-frammenta la materia repertoriata, enucleando tra l’altro le categorie predilette delle Femmine virtuose, dei Medici, dei Musici e dei Pittori e inserendo tra le voci, oltre a sintagmi in forma di elogio di personaggi citati nel testo, anche formule a indovinello (Ospital Maggiore di Milano da chi fondato, Visconte titolo da che derivato) con un saggio che parrebbe quasi di enigmistica. Dal punto di vista grafico, la tipologia libraria in esame si caratterizza per la presenza a volte massiccia della scrittura d’apparato, interpolata nella architettura della pagina per il suo alto valore documentale e rappresentativo. La letteratura epigrafica è in effetti uno dei ceppi di una pratica di biografia resa avveduta dalla ricerca bibliografica ; era abitudine compositiva di questi eruditi richiamarsi a tale tipo di fonte con una riproduzione delle iscrizioni a suggello dei profili di personalità di un certo rango per solennizzare la pubblicazione. L’effetto visivo varia a seconda della struttura editoriale della bio-bibliografia : nella Biblioteca napoletana del Toppi, esempio di ‘monumentale cartaceo’ di accentuato gusto antiquario, questa scrittura immagine composta variando la giustifica delle righe e secondo disparate forme geometriche, contribuisce in modo determinante alla resa scenografica dell’insieme valorizzato anche dall’accordo armonico tra i bianchi e i neri (Fig. ). Interessante in questa raccolta temente empirici : i macro-scaffali in cui sono sistemate le opere della Biblioteca, identificate con un titolo brevissimo, sono quelle canoniche con interessanti variazioni per quel che riguarda disposizione e articolazione : Teologia, Storia, Diritto, Medicina, Filosofia, Matematica, Politica, Critica, Musica, Oratoria, Poesia, Epistole, “Illustri Scriptores propani”. Sorprendente la somiglianza di questo elenco di materie con la tassonomia di ispirazione naudiana applicata da Louis Jakob alla Bibliographia gallica e la Bibliographia parisina, storicamente il primo esempio di bibliografia corrente, riscontrabile nei lemmi adottatti, nella loro generale scansione (prima le sacre e poi le profane anche come partizioni di una stessa disciplina) e ulteriore specificazione. Di un certo interesse l’assegnazione alla Musica di una nicchia autonoma, vale a dire il rilancio di questa arte del quadrivio condiviso, come si è accennato, in area settentrionale dall’abate Picinelli dell’Ateneo de’i letterati milanesi.

l ’ incidenza del paratesto sui repertori bio-bibliografici

Fig. 0. Picinelli, Ateneo dei letterati milanesi. Indice.

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Fig. . Toppi, Biblioteca napoletana. Pagina.

Fig. 2. Mandosio, Bibliotheca romana. Pagina.

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è proprio l’alternanza di carte fittamente impresse in cui sono rubricati i brevi profili dei minori, secondo una scansione grafica che evoca quella di una moderna enciclopedia, e carte di elevata ricercatezza formale ospitanti i ritratti da cammeo dei grandi con un uso del paratesto che esprime in modo esemplare la ricchezza delle soluzioni informative del repertorio, il suo bifrontismo : da una parte bibliografia pura dall’altra ancora Catalogo dei virtuosi. Diverso è l’esito estetico della scrittura d’apparato nella Biblioteca romana del Mandosio : adottata per pura convenzione, essa appesantisce ulteriormente una pagina già ingolfata di inchiostro e di notizie, testimoniando tuttavia l’impegno di ricerca compiuto dal Cavaliere romano sui documenti epigrafici (Fig. 2). Fa a meno di questa particolare forma di ri-scrittura il valente Giustiniani de Gli Scrittori liguri, e non è certamente un caso che uno dei più maturi bibliografi italiani secenteschi, consulente del Toppi e in rapporto di collaborazione con l’Aprosio, non si pregi di utilizzare questo arcaico linguaggio elogiativo. Che il genovese abbia poi una propensione per funzionali soluzioni economiche è attestato dalla scelta dell’impaginato a due colonne per il suo spartano formato in quarto, a significare un’attitudine enciclopedica esplicata sul terreno della ricerca storiografica piuttosto che su quello della elaborazione letteraria. La struttura interna di queste bio-bibliografie, oltre a presentare stabili ricorrenze delle parti costituenti a riprova del consolidamento di questa specifica tipologia testuale, propone un assetto grafico abbastanza omogeneo con i profili che si susseguono in continuità come nei dizionari o in altri casi formano enfaticamente un paragrafo a se stante secondo il modulo persistente della biografia encomiastica. Varianti paratestuali, dalla differenziata qualità estetica, di questa sorta di modello editoriale medio coincidono sorprendentemente con gli esiti locali più interessanti del lavoro bibliografico oppure ne indicano emblematicamente il grado di appartenenza al genere. Queste compilazioni si fondano essenzialmente su pratiche intertestuali di riscrittura di vario grado oscillanti da duplicazioni di parti di testo prelevate da diverse fonti a mature forme citazionali rispettose della provenienza della notizia acquisita, a cui il più delle volte è data evidenza con varianti dei caratteri. Un rapido sguardo gestaltico alla pagina può essere dunque sufficiente per distinguere una mise in page ordinata e il simbolismo grafico sapientemente utilizzato per connotare il materiale di riporto e indurre quindi a formulare ipotesi sulla qualità delle procedure repertoriali, sul rigore dei meccanismi segnaletici, sulla correttezza del dialogo con le fonti. Attese elevate nel senso della soddisfazione di curiosità erudite, per il lettore avveduto delle Apes urbanae sono propiziate, per esempio, da un semplice contatto sensoriale con il sobrio libello uscito dall’officina del Grignani, dal carattere minuto e nitidamente impresso sulla carta, dalla gestione calibrata dello spazio della pagina, dalla congruenza tra contenuto e soluzioni grafiche e iconiche. La Scena letteraria di Donato Calvi, il prontuario bergamasco dominato dalla straordinaria metafora che apparenta la bibliografia e il teatro, sembra emulare nell’impianto con la galleria dei ritratti incisi l’edizione veneziana di Le glorie degli Incogniti, 6 tipica rassegna delle vite dei membri di un accademia : eppure l’acume bibliografico del suo estensore che esibisce anche un giocoso virtuosismo letterario è visualizzato dal risalto dato alle note tipografiche dei libri citati nonché dalle fitte pagine delle appendici affollate di ‘comparse’, tanto per restare dentro la macchina rappresentativa allestita dall’agostiniano. 6. Le glorie degli Incogniti o vero gli huomini illustri dell’Accademia de’ signori incogniti di Venezia, Venezia, Francesco Valvasense, 647.

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In questi archivi organizzati assume grande importanza il modo in cui una materia disposta al riuso si configura e dunque i sondaggi sul paratesto oltre a introdurci nell’ambiente del libro inevitabilmente avviano un’analisi della particolare pratica testuale e intertestuale messa in atto dal compilatore, indagine che a sua volta mostra la congruenza piena con i meccanismi paratestuali evidenziati : questi libri sono di per sé frontiera del sapere, luoghi di mediazione tra produzione di cultura e costruzione di conoscenze, straordinario paratesto del sistema gnoseologico di una particolare epoca. Abstract La scrittura erudita dei repertori seicenteschi, illustrata nei suoi caratteri essenziali, presenta una stabile identità paratestuale con varianti significative coincidenti con gli esiti locali più interessanti del lavoro bibliografico. Del genere, apparentato con altre tipologie testuali come la letteratura encomiastica, la storiografia e la memorialistica, congenitamente in bilico tra testo e paratesto, sono analizzati i formati, gli indirizzi al lettore, gli indici, l’apparato illustrativo, l’assetto grafico. Scholarly writing in 7th-century repertories, illustrated in its essential characteristics, presents a stable paratextual identity with significant variants that coincide with the more interesting local examples of bibliographic work. As in other paratextual typologies such as laudatory literature, historiography, and memorials, congenitally maintaining a balance between text and paratext, the article analyzes formats, notes to the reader, indexes, illustrations and graphic layout in this genre.

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Luca Toschi NEBBIE, VENTI E PARATESTI. COMUNICARE DIGITALE E SCENEGGIARE INFINITO

I

o abito in una casa, isolata, vicino a Firenze eppure abbastanza lontana da far sì che Internet ci possa arrivare solo lentamente, ma molto lentamente. La società che gestisce il servizio non passa di più. Sono anni ormai che chiedo di poter avere la banda larga, ma mi è stato spiegato che ancora non è possibile. Ci sarebbero altre soluzioni, costose al punto che non mi conviene. Non so quanti anni dovrò aspettare ancora, non so neppure se, quando arriverà, perché arriverà, quella sarà ancora la casa della mia famiglia. Passato il disappunto iniziale, il senso d’impotenza davanti ad atteggiamenti che sanno di monopolio, oggi mi sono convinto che questa mia condizione può essere assai interessante, quasi privilegiata. Insegnando, infatti, comunicazione ed esercitando, essenzialmente per ragioni di ricerca, la professione di comunicatore, stare dalla parte dell’utente è sempre un bagno di sano realismo, soprattutto quando si ha a che fare con i nuovi media, con i risvolti sociologici che queste nuove forme di tecnologia stanno avendo nel riscrivere le dinamiche sociali del nostro tempo. Succede così che il mio pendolarismo fra campagna e città, fra casa e Laboratorio, fra banda stretta e banda larga, sia anche un andare avanti e indietro non solo sull’asse dello spazio (una ventina di chilometri) ma soprattutto su quello del tempo : fra Internet com’era/è e Internet come è/sarà. Quando sono all’università ad un click sul web (che qui uso in un senso lato, quasi a significare – cosa altrimenti impropria – Internet tutta) risponde immediatamente una nuova pagina, fatta di parole, fisse e in movimento, di immagini, anch’esse statiche oppure in movimento, di suoni, di video. Là nell’angolo vedo il vecchio apparecchio televisivo, con le obsolete strumentazioni per la postproduzione. La videoconferenza è un normale tool di lavoro. Da qualche tempo, poi, sta prendendo campo la sperimentazione sul mobile, sui device portatili, piccoli quanto grandi negli usi innovativi che consentono nel progettare la nuova comunicazione, su quella dimensione dello spazio dove i dati viaggiano senza necessità di cavi, fili etc. : qui siamo giunti, ci dicono, alle soglie dell’infinito. A casa, lo scenario cambia, radicalmente. L’audio : il top è la musica che esce dal lettore di dischi del pc, oppure quel metallico dialogo, affascinante, fra modem lontani che sa di cavi sotterranei e al tempo stesso di stelle, con cui si avvia la connessione remota, e che io non ho messo a tacere perché mi ricorda una specie di porta monumentale, di portale verso il cyberspazio, una sonorizzazione di quel seuil, di cui ha scritto Genette (« non seulement de transition, mais de transaction »),  fra me e il resto del mondo. Niente di più. Un audio poco innovativo rispetto agli usi oggi possibili. L’idea stessa di scaricare anche un semplice slideshow con un po’ di colonna sonora, per non parlare poi dei video, film, mi appare peregrina. Impraticabile. . Gèrard Genette, Seuils, Paris, Éditions du seuil, 987, pp. 7-8.

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luca toschi

Questo stato tecnologico impone che quando decido di andare su Internet da casa debba indossare abiti comunicativi ben diversi da quelli del mio Laboratorio. Un gesto tecnico-mentale che, nei momenti domestici di attesa o di ingorgo telematico più frustranti, mi diverto ad esorcizzare ricordandomi la condizione di un famosissimo ‘esiliato’, sempre dalle mie parti, lui, non sul fronte tecnologico, bensì politico : Machiavelli. Arrestato, torturato e quindi confinato nella zona di San Casciano val di Pesa, nell’autunno del 53 vedeva la sua giornata divisa rigidamente fra il giorno, fatto di « bosco […] uccellare […] hosteria », un modo per sfogare la « malignità » della sua « sorte », e la sera, tutta dedicata allo « scrittoio » : a cui accedeva solo dopo essersi spogliato della « veste cotidiana, piena di fango e di loto » ed avere indossato « i panni reali et curiali » idonei per essere ammessi « nelle antique corti degli antiqui huomini » (missiva a Francesco Vettori del 0 dicembre). Può anche accadere così che un problema – la banda stretta – possa essere trasformato in una risorsa : quasi un privilegio che permette di studiare Internet qual era « nelle antique corti degli antiqui huomini » e fare confronti con il presente. Nessun elogio del tempo che fu/è ; né della lentezza, quasi una ripresa del celebre motto di Aldo Manuzio « festina lente » ; né intendo celebrare lo slow food contrapposto al fast food ; né riproporre la storia della vincente tartaruga, mediata da proverbi di buon senso del tipo « Chi va piano va sano e va … ». Si tratta, invece, di riflettere su una situazione che potrebbe rivelarsi un interessante osservatorio sulla comunicazione online, e la natura della sua testualità. La tendenza è quella ad occupare il tempo del download con qualche cosa di attinente o, viceversa, del tutto estranea. Per esempio, cominciando a rispondere alle email mano a mano che compaiono, con il rischio magari che fra le ultime arrivate faccia la sua comparsa una o più email che invalidano la risposta già inviata ; a volta con incidenti diplomatici di non poco conto. Oppure si decide di fare altro che non ha molto a che vedere con quanto sta arrivando dalla rete : leggere un libro, scrivere, farsi un panino etc. Insomma soluzioni alternative ci sono e se ne possono inventare delle nuove e molto personalizzate. Il problema è diverso quando si tratta di navigare fra le pagine del web. Allora il tempo dell’attesa si riduce, certo, ma resta ugualmente un tempo molto lungo se raffrontato a quello della banda larga. Attività sostituitive diventano difficili perché siamo nell’ordine, pur sempre, di alcuni secondi. Che fare ? La reazione è una forte tendenza all’economicità, ovvero a vedere nella scelta, nell’opportunità di correre un rischio ponderato, invece che procedere per tentativi, una convenienza. Si clicca quando lo si ritiene necessario ; dopo aver considerato molti aspetti, sia a livello di domande che di risposte probabili. La lentezza produce come effetto un click prudente, il che può significare un click molto pensato ; ricco di ipotesi o inferenze, in particolare abduzioni, con i salti logici e i rischi che esse comportano. 2 La strategia, si potrebbe dire, dell’« andiamo a vedere poi si valuterà », non sembra funzionare : ogni possibilità di attivare un collegamento viene accuratamente valutata, prestando attenzione al contesto e cercando d’immaginare la destinazione. L’orizzonte d’attesa, allontanando nel tempo e nello spazio il testo da venire, si arricchisce 2. Charles Sander Peirce, Abduction and Induction, 878, in Collected Papers, 8 vol., Cambridge (ma), Harvard University Press, 93-958 (trad. it. Opere, a cura di Massimo A. Bonfantini, con la collaborazione di Giampaolo Proni, Milano, Bompiani, 2003, pp. 463-476).

nebbie, venti e paratesti

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di creatività. Avviene così che quando, dopo il silenzio, prima, e lo scaricarsi lento delle varie parti che costituiscono la nuova ‘pagina’, dopo, si giunge a confrontarsi con la pagina d’arrivo nella sua concretezza, il riscontro fra testo pensato, immaginato e testo digitale, empirico, fatto byte, diventa un passaggio complesso, articolato con ricadute significative circa il senso da dare a quel testo digitale che ci è venuto lentamente incontro ; e ciò grazie alla banda stretta. Un aspetto questo della vecchia Internet di cui tenevano conto i programmatori e gli esperti di content al momento in cui sviluppavano una precisa strategia perché l’apparire sul video, a pacchetti, progressivi, dei vari elementi, che finivano poi per costruire la pagina nella sua interezza, fosse portatore di significato, indirizzando quindi il ‘lettore’ a costruire un preciso rapporto gerarchico fra i vari item. Così facendo, la sceneggiatura, con cui si regolava l’ordine di comparsa dei differenti attori sulla scena della pagina in arrivo (le immagini grandi venivano mosaicizzate in porzioni, slices, più piccole allo scopo di favorire il caricamento e dare l’illusione al ‘lettore’ che qualche cosa stava accedendo durante il downloading) finiva per animare un testo altrimenti statico e trasmetteva l’impressione di una terza dimensione; diversamente dalla pagina di oggi che appare, per assecondare la crescente impazienza dell’utente, subito tutta insieme, salvo specifica programmazione, per il momento, però, povera di significati. Il navigatore, infatti, attraversava un ambiente profondo, prima buio poi progressivamente arricchito di elementi, di significati, per raggiungere, alla fine, la visione della pagina completa. Quel tempo della scelta (cosa clicco ?) e della relativa aspettativa non va visto quindi, necessariamente, come il vuoto dell’attesa contrapposto al pieno della lettura. Si tratta altresì di una caratteristica della banda stretta che incide sulla ‘lettura’ del testo, che suggerisce un comportamento al lettore ; e poiché in Internet alla definizione della testualità collabora il lettore con le proprie scelte, con l’interazione che la contraddistingue, ecco che un elemento comunicazionale come il numero dei bit per secondo, in transito sulla banda, condiziona l’intera testualità della rete, rivelandosi un elemento di grandissimo impatto a livello relazionale, paratestuale. Un elemento che il bravo autore e l’editore elettronico professionale tengono bene in conto, sfruttandolo in chiave comunicativa ed espressiva. Nel patto comunicativo, il modem, elemento dalla caratteristiche paratestuali, avverte che quella Internet, con quei Kbps, parla a bassa voce ; dopo di che « …dite la vostra che io ho detto la mia ». �

La velocità che oggi caratterizza il passaggio da una pagina web ad un’altra, la rapidità con cui si può attivare il comportamento dei suoi vari item, ottenendo subito l’effetto programmato, tende a fare del web una sequenza veloce di scatti, di fotogrammi, che nel succedersi rapido sullo schermo danno vita ad una specie di non-storia, di non-testo senza termine. Un corrispettivo della « neotelevisione », la tv no stop, dilatata, frammentata, figlia e genitrice di zapping, dove i generi, con relativi contenuti e linguaggi, finiscono per ibridarsi in un continuum uniforme, indifferenziato. Le schermate, così, si susseguono con tale celerità da dare l’impressione di ruotare, come un’immensa galassia, attorno ad un unico centro : un baricentro non tanto mediale, lo strumento di comunicazione che esse hanno in comune, ma testuale, quasi si trattasse di un’opera sola, autoreferenziale, in continua estensione, espansione, magari tendenzialmente infinita, ma una.

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Decisamente troppo debole è ancora oggi la capacità d’Internet – pur nell’immensa varietà dei soggetti che l’affollano – di porsi come un medium attento a sollecitare lo sviluppo non soltanto di testi ma piuttosto di testualità (processi in cui la produzione di significati è inscindibile dal loro deposito), di pratiche testuali diverse, differenziate, risultate da processi divergenti. Così come Internet appare poco ricettiva, poco disposta ad assimilare ed elaborare soluzioni espresse dalle infinite entità e identità che la costituiscono, linguisticamente originali, non allineate con i format dominanti. Un universo quello dell’online che fatica a fare propria la dinamica, indispensabile, per cui la « langue » sostiene e incoraggia lo sperimentalismo della « parole », mentre lo sperimentalismo va ad alimentare la « langue » stessa, attivando il circuito virtuoso su cui si basa ogni sviluppo anche mediale. Al di là della necessaria sorveglianza, quasi militanza perché Internet non perda il proprio fondamentale carattere d’universalità, perché non vada perso il linguaggio comune che la anima, è un dato che Internet tema o almeno non sostenga come potrebbe le esperienze che paiono ispirate da forze creative, centrifughe, da strategie decentralizzanti, di fatto proponendo sempre lo stesso modello, che finisce spesso con l’identificarsi con le strumentazioni di questo nuovo linguaggio. E sempre con buone ragioni, tutte o quasi ruotanti attorno alla convinzione diffusissima che ogni sperimentalismo, ogni spinta in avanti abbia un ritorno negativo in termini di qualità della comunicazione (a cominciare da chi ricorda che tanti modem ancora viaggiano piano per finire a chi pensa che una testualità minimalista sia garanzia di accessibilità, un valore, quest’ultimo fondamentale quanto mal interpretato, che ricorda molto il paternalismo di sempre per i disabili). Una prudenza che a lungo andare, con l’allargarsi della banda, potrebbe rivelarsi assai pericolosa. Eppure, proprio il digitale dovrebbe avere la peculiarità di una grande flessibilità, sia a livello « grammaticalizzante » che « testualizzante » ; 3 certamente più degli altri media storici. Viceversa, oggi Internet continua ad essere dominata, penalizzata da forze unificanti, timorose di essere coinvolte in dinamiche che cercano la pluralità, la differenziazione ; da una testualità che tende a proporre il proprio linguaggio come l’unica testualità possibile : il mezzo è diventato il testo che tutti concorrono a scrivere, a cui tutti si adattano : c’è poco spazio per la diversità, per la libertà, che non riproduca il meccanismo di Internet. Il rischio è che le norme, le regole, la grammatica diventino sempre più il testo : e che Internet, da terra promessa in cui finalmente poter trovare la libertà necessaria per sviluppare un’inedita cultura dei testi, dove il racconto possa finalmente non ripetere all’infinito, ma concorrere a ridefinire il concetto, lo statuto stesso di regola e di norma, si faccia (per sopravvivere ?) società della grammatica. Un pericolo che è un chiaro segnale di debolezza, che porta Internet a negare la possibilità di un divenire proprio, di una storia propria, di uno sviluppo che non si esaurisca nella sperimentazione, nella ricerca, nell’innovazione del meccanismo, della propria ingegneria, ma che guardi alle applicazioni sperimentali, alle pratiche anche sbilanciate verso il confronto con altre grammatiche e altre testualità extradigitali, come ad un’occasione importante. Fragilità che si coglie già bene in quel meccanismo psicologico per cui, se, leggendo la data d’aggiornamento di un sito, ci si accorge che risale soltanto a qualche mese prima, quelle pagine perdono di autorevolezza, di efficacia, certo d’interesse, salvo restando, forse, quello documentario : ne diffidiamo, 3. Jurij Mihajlovic Lotman, La semiosfera : l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, trad. it. di vari testi, Venezia, Marsilio, 985.

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istruiti in questo dalle migliori grammatiche sulla usability. Il presente assoluto come autorevolezza assoluta, in un mondo in continua trasformazione di cui Internet dovrebbe essere, ironia della sorte, non solo l’espressione ma uno dei migliori ambienti di progettazione e di sviluppo. Tempo e velocità. Basti confrontare la rapidità, con cui la banda si è allargata in questi ultimi anni, con la lentezza, se si tolgono quegli elementi audio e video oggi possibili, con cui si è evoluto il linguaggio del web, ancora oggi caratterizzato da una marcata immobilità (e non perché non abbia i suoi bravi data base dinamici o altro). Come se la nuova velocità stentasse a trovare il proprio corrispettivo comunicativo ‘largo’, restando ancorata ad una visione ‘stretta’, immutabile della rete : molto televisiva, verrebbe da dire, da un lato (si veda l’uso ‘stretto’, vecchio, del video online, là dove è possibile) e cartacea dall’altro. In questo senso molto template oriented. Cartacea in quanto garante di un testo senza rughe, fuori dal tempo, dal divenire della vita ; un supporto sì meccanicamente digitale, ma ispirato da una cultura cartacea più cartacea della carta stessa, in quanto portatrice certa della verità, quella del presente, l’ultima per definizione ; la quale, essendo senza memoria – l’ultima notizia, necessariamente autosufficiente, cancella la\le precedente\i (l’archivio di come eravamo, quando c’è, è peggio dei musei, vecchi, di una volta) –, sembra che sia sempre stata quella, oltre i rischi dell’età, di ogni datazione possibile. Un tempo assoluto, assoluto come il nostro presente, appunto. Una condizione che fa sì che la prospettiva caratterizzante il web, al di là di pur suggestive indicazioni di metodo o di prospettive ‘ideologiche’ sul suo futuro, sia quella che riguarda l’accumulo, l’ammasso per stratificazioni sincrone, in un ambiente comunicativo che si pone come sostanzialmente immobile nel suo essere presente. Un data base in continuo accrescimento, lontano dal dare l’impressione di una realtà in movimento, che muta nel profondo, che è e che può diventare più cose, soprattutto capace di elaborare forme di testualità inedite, che vadano oltre il quotidiano omaggio al grande testo-contenitore di Internet, lo schema di base, appunto, che si ripete all’infinito nei vari siti, secondo variabili paratestuali ben definite. Per decifrare ulteriormente la situazione che ci sta davanti può essere di grande aiuto considerare che la lettura del web oggi si risolve principalmente in una consultazione, dominata da un immaginario fatto di un mare di documenti, rintracciabili secondo uno schema sempre uguale : il motore di ricerca per trovare il sito che interessa (se non si ha l’indirizzo), i menu per muoversi sui rami di un albero le cui diramazioni, la cui rete di collegamenti non è di tipo associativo, ma è di tipo tassonomico che poi finisce con il rimandare allo schema matriciale, un piccolo data base nel grande mare dei data base. I click così tracciano strade, portano verso ; perciò, come ammoniscono le neogrammatiche del digitale, meno sono e meglio è : i click si guardano bene dal costruire testualità. Leggere significa soprattutto trovare il prodotto giusto nello scaffale giusto nell’immenso mercato della rete, giungere a destinazione ; e una volta trovato ciò che si cercava, o quanto strada facendo ci è venuto voglia di cercare, se il materiale è poco si legge, altrimenti si stampa o si scarica per farne uso successivamente. Internet come mezzo per, non come mezzo con. Così stando le cose, è comprensibile che il Web di oggi si configuri sempre più come un luogo di risposte, meno di domande : un ambiente costruito per dare risposte a quesiti definiti e previsti, programmati, come appunto si addice ad un buon data base ; meno per farsi venire in mente delle domande, per sollecitare l’inatteso,

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inaspettato, per scuotere gli schemi cognitivi ; per pensare l’imprevedibile, per scrivere ‘storie’ inedite. Si tratta, cioè, di una testualità che non ha interesse a incidere sul piano dello scenario, della struttura profonda, della strategia complessiva che raramente viene messa in discussione (anche là dove è espressione di tensioni politiche, sociali, economiche) ; una testualità che si sta rivelando assai efficace per consolidare, rafforzare lo status quo, i ruoli oggi dominanti. Una cultura conservativa forte, dominante in Internet, che si coglie molto bene tutte le volte che si va ad analizzare i punti di contatto fra la rete e le forme di comunicazione tradizionali, cartacee ma non solo, con cui si trova ad operare. Qui balza subito agli occhi, infatti, la tendenza ad evitare una ridefinizione generale, complessiva, un ripensamento della strategia di comunicazione, la quale è ancora in attesa di essere ‘agita’ come un processo, un ambiente unitario ; la logica della spartizione regna sovrana, salva restando l’opzione per la mimesi, per il camuffamento (si veda la ricordata presenza della dimensione cartacea e televisiva nella rete). Si tende, cioè, a procedere per canali paralleli, dove l’espressione « canali » vuole sottolineare il persistere di una vecchia cultura della comunicazione di tipo idraulico, cioè caratterizzata dall’idea del trasporto – magari bidirezionale – di dati, informazioni, dove ogni medium può convivere accanto agli altri, senza problemi, se non spartitori. Vite essenzialmente parallele, raramente intrecciate, scarsamente interessate a valorizzare interazioni transmediali, restie cioè ad operare per un obiettivo comunicativo comune che andrebbe, con ogni probabilità, a ridefinire gli equilibri raggiunti, le funzioni tradizionali dei media, la loro stessa identità. Vite parallele, restie a considerare la possibilità di orchestrare il proprio essere e agire in vista di un’unità che trascenda le singole, diverse identità ; le quali, singolarmente prese, dedicano molte delle proprie risorse ad una strategia autoreferenziale, tesa a giustificare la propria ragion d’essere. Una situazione in cui la comunicazione non stabilisce nessi, non crea legami, non scopre relazioni e continuità fino ad oggi ignorate o impensate ; non intende riscrivere distanze e prossimità, e, così operando, rivedere o addirittura reinventare lo schema combinatorio dei link sociali, l’identità dei soggetti ; una comunicazione, insomma, che non intende costruire una nuova socialità ma che, nel migliore dei casi, si limita a raccontare l’esistente e, nella sostanza, a consolidarlo. Una comunicazione, quindi, che, indipendentemente dalla tecnologia del momento, ‘comunica’ poco ; semmai utile perché ci alfabetizza a socialità già consolidate : meglio perché attraverso una buona usability ci risparmia anche la fatica di alfabeticizzarci : s’impara facendo. Da più parti, da tempo, si sottolinea la forza di ‘rimediazione’ di Internet. 4 Ma forse, per il momento, corrisponderebbe maggiormente alla realtà, quella misurata sui grandi numeri, limitarsi a parlare delle potenzialità inedite (ogni medium, infatti, ‘rimedia’ ed è ‘rimediato’) della rete, le quali però sono ancora in attesa di interpretazioni adeguate alle loro caratteristiche indubbiamente originali. Una situazione, questa che, è importantissimo ribadirlo, ha trovato e trova una ragione nella necessità di creare un linguaggio condiviso, di diffondere una cultura digitale. Insomma una specie di prezzo da pagare perché questo medium possa rafforzarsi ; una strategia che però ha avuto come contropartita quella di favorire l’uniformità, di fare sì che la risposta – come si ricordava – e non la domanda fosse la figura retorica oggi dominante in Internet. 4. Jay D. Bolter, Richard Grusin, Remediation. Uderstanding New Media, Cambridge (ma), The mit Press, 999.

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Eppure, proprio in nome del digitale (ormai ogni medium, e non solo, ogni dimensione effettuale della realtà ha o tende ad avere un cuore digitale), di quella convergenza che si presenta come una delle sue caratteristiche più forti dell’attuale fase storica, Internet potrebbe aspirare, né mancano conferme in tal senso, sia a ricercare e pretendere una propria, forte, identità, di medium fra i media, sia, soprattutto, a proporsi come un’occasione preziosa, nella storia dell’umanità, per tracciare un paradigma dei processi comunicativi radicalmente nuovo ; antropologicamente inedito. In questo finalmente capace, non solo di dare risposte, ma di porre domande, di sostenere e agevolare meccanismi d’interrogazione che investano l’orizzonte d’attesa dei suoi utenti, sconvolgendone le aspettative, le previsioni ; obbligandoli a ridiscutere lo scenario del loro agire comunicativo. Il che poi significa entrare nel profondo nelle dinamiche sociali. Perché la comunicazione digitale mostra di avere l’attrezzatura necessaria, anzi di essere espressione di un bisogno, negli ultimi decenni sempre più forte, di riscrivere il ruolo dell’identità soggettiva, non in antagonismo puro e semplice alla socialità ma in un’ottica di totale e radicale ripensamento dello scenario sociologico nel suo complesso, dove sono i concetti stessi di « sé » e di « altro » a dover essere rivisti. Si pensi alla stessa velocità – indicata prima non necessariamente come energia, vitalità ma anche come forte rischio di rumore, di monotonia, di prevedibilità – che può rivelarsi in una luce completamente diversa. Il susseguirsi di schermate potrebbe non sembrare più un elemento paratestuale che induce/induceva l’utente ad abbandonare un comportamento più attento, più attivo nel costruire un rapporto creativo fra testo immaginato e testo digitale ; la velocità potrebbe non essere più considerata la causa dell’indebolimento di quella multitestualità, anzi multimedialità che si stabilisce fra la mente e il supporto fisico esterno digitale, il testo empirico. Poiché proprio quella stessa velocità è anche un punto di forza per rendere sostenibile il desiderio di abbandonarsi ad un girovagare sulla rete che non è necessariamente perdita di progettualità, di strategia, o peggio di libertà ; non è abbandono cieco alla nenia dei click. Nell’andare veloce e rapido senza mappe, senza piani di volo certificati e chiari, senza rotte definite c’è anche la possibilità di imbattersi in quell’imprevedibile, inaspettato, impensato che è parte essenziale della conoscenza ; l’occasione per esplorare effettivamente sentieri che, poi, si può decidere di abbandonare per altri affatto diversi, traendo dall’esperienza diretta indicazioni preziose, insostituibili con l’immaginazione, per ridefinire progetti e percorsi. Non è poco. A questo va aggiunta un’altra importante considerazione. Internet ‘larga’ consente ‘oggettivamente’ un utilizzo dei codici comunicativi (basti pensare al video) inimmaginabile in un ambiente dove il paratesto sia ‘stretto’. Ancora : questo uso dovrà misurarsi con quei device, espressione della recente dimensione del mobile, che stanno aprendo un capitolo ancora tutto da capire circa il rapporto possibile fra Internet e il mobilities paradigm. Qui, infatti, entra in gioco un aspetto centrale per la comunicazione, e cioè la mobilità attraverso lo spazio, che può diventare una variabile fondamentale, portatrice di significati essenziali per il processo comunicativo al punto da trasformare radicalmente il rapporto stesso fra mondo online e offline, con le importantissime ricadute che la cosa potrebbe avere sulla dimensione dello cyberspazio. Una rete che collega non più nodi fissi, ma in movimento : una rete di movimenti, anzi networks of moviments. 5 5. John Urry, The Sociology of Space and Place, in *The Blackwell Companion to Sociology, ed. by Judith R. Blau, Malden (ma) usa-Oxford uk-Victoria australia, Blackwell Publishing, 20042 .

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In quest’ultimo contesto, la velocità d’Internet, infatti, si troverà nella necessità di confrontarsi con la velocità a cui si stanno muovendo nello spazio i soggetti che ne fanno parte, e quindi proprio con lo spazio che in quel tempo stanno attraversando, con tutte le ricadute che il mutamento dei contesti spazio-temporali potrà avere a livello comunicativo. Dall’incontro fra le varie grandezze, dalla composizione dei vari vettori, emergerà una visione ancora diversa da quella attuale dello spazio, del linguaggio e dei contenuti. L’elemento velocità nella fisicità di Internet, sia lato sistema sia lato utenza, quindi, risulta, e a maggior ragione risulterà essere un paratesto variabile e per questo ancora più forte di quanto già non lo sia al presente : al punto che i progettisti della rete, che tanto attenti stanno a valutare l’opportunità di soluzioni comunicative diverse in base alla larghezza della banda di cui realisticamente possono disporre i soggetti coinvolti, si troveranno davanti ad una situazione ulteriormente complessa, seppure di grande fascino, dove determinante apparirà lo spazio non digitale. Se lo spazio di Internet già oggi è un paratesto di tutto rispetto, la mobilità ne rafforzerà ulteriormente la funzione paratestuale, creando situazioni sconosciute. �

Quindi, se, come ha ben spiegato Genette, il paratesto serve a « présenter » il testo, « au sens habituel de ce verbe, mais aussi en son sens le plus fort : pour le rendre présent, pour assurer sa présence au monde, sa “réception” et sa consommation », 6 è necessario rilevare che il tempo presente, il modo di ‘presentarsi’, nel web, cioè il suo paratesto, è una variabile assai complessa, determinata da infinite altre micro variabili, sia lato server sia client, le quali, da entrambe le parti, fanno riferimento a scenari mutevoli, in continua evoluzione ; con la fondamentale differenza, rispetto agli altri media, che la dinamicità digitale può investire sia il testo sia, nel caso che qui interessa, il paratesto. Cosicché Internet si caratterizza per la mutevolezza potenziale non solo dei suoi testi, definiti spesso dinamici, dei suoi contesti ma anche dei suoi paratesti : le Leggi stanno lasciando il paratesto della pietra e della carta. Eppure, Internet, e il web che molto la rappresenta, è ancora oggi dominata da una tendenza omogeneizzante, uniformante, centripeta, che fa riferimento a questo modello che offre, in orizzontale, il piano infinito di un grande data base in continua espansione, in verticale, le foreste di alberi, i siti le cui radici affondano in quella terra ; matrici e gerarchie entrambe assai poco flessibili. Uno scenario che non sembra poter cambiare molto tenendo conto anche del prossimo, auspicabile, per molti versi indispensabile affinamento della dimensione semantica del web e del conseguente rafforzamento dei motori di ricerca. Lo sviluppo del web in direzione semantica, infatti, se appare un passaggio fondamentale per potenziare la rete, dando all’uomo ma anche alla macchina sempre più il ruolo di creatori e elaboratori di informazioni, entrambi sostenuti nel loro aspetto inventivo, non basterà però a mutare l’attuale identità linguistica, mediale della rete, a meno che non venga sostenuto da un cambiamento rivoluzionario nell’elaborazione teorica e applicativa della dimensione testuale ; una testualità nuova che interpreti la dimensione inferenziale in termini più ampi da quelli auspicati dall’inventore del web, Tim Berners-Lee : 6. G. Genette, Seuils, cit., p. 7.

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Inference languages allow computers to explain to each other that two terms that may seem different are in some way the same […] Inference languages will allow computers to convert data from one format to another. 7

Il che significa dover affiancare alla già dominante metafora del magazzino quella, non meno importante, dell’ambiente (enviroment), su cui poter ‘agire’ i dati, andando oltre la consueta architettura di un repository infinito fatto diventare, di necessità, ricorrendo al pur importantissimo rafforzamento semantico della sua struttura logica, la scena. Un ambiente con cui recuperare la possibilità di tessere trame e orditi, di progettare storie e di portarle sulla scena, magari per rendersi conto di non poterle ancora rappresentare, ‘presentare’ nell’accezione che intende Genette,…. perché mancanti proprio di dati ulteriori. I racconti, in questo modo, diventeranno un valido strumento per orientare la raccolta dei ‘dati’ e le modalità del sistema di processarli. La debolezza di cui continua a soffrire questo medium, infatti, sembra essere la sua tendenza a confondere il linguaggio, il congegno, il sistema che produce segni, e di cui lo stoccaggio è momento centrale, con la varietà infinita dei ‘testi’, intesi nell’accezione più ampia del termine (dal sociologico all’antropologico), che quel linguaggio può produrre : è così che l’archiviazione e il suo linguaggio sono diventati il linguaggio di Internet. Il che porta poi a pensare alla rete come ad un’unità monotestuale in continua espansione (monitorizzata dai motori di ricerca) piuttosto che come ad un medium tutto da sperimentare e interpretare per produrre ‘testi’. Una visione rafforzata da un fraintendimento ricco di echi neoidealistici : che l’esigenza di tenere distinto « form » e « content », 8 e cioè gli strumenti usati per creare testi dai testi stessi, significasse un affrancamento di quei testi dalla complessità e dalla varietà del linguaggio ; ma anche viceversa, che il linguaggio, il meccanismo potesse avere vita autonoma dai testi che esprimeva. Insomma essere sul web non garantisce niente ; o almeno molto poco. Il punto non è, infatti, definire una ‘scrittura’ per il web, come si scrive per il web, magari tenendo conto delle sue potenzialità multimediali. Ma, viceversa, che tipo di scrittura sia il web. La distinzione merita riguardo perché va a scontrarsi con scenari che hanno dominato la nostra cultura per secoli, tanto che chi vuole scrivere per il web si dovrebbe mettere nella condizione di scrivere con il web, e non di scrivere fuori del web per poi ‘pubblicare’ sul web ; pena la debolezza testuale del testo, sia rispetto al web stesso sia all’interazione con gli altri media. Pena anche il progressivo indebolimento delle promettenti potenzialità del linguaggio digitale. Quindi, sostenendo la necessità di valorizzare la testualità del web, come altro dal bipolarismo conflittuale fra form e content, s’intende il bisogno di cercare una dimensione comunicativa che vada finalmente al di là della seuil, dei limiti di questa situazione. Tenendo ben fermo che, nella dimensione del digitale, grammatica e testualità, oltre ad essere inscindibili, se vogliono esprimere le reciproche promesse, devono recuperare urgentemente un rapporto di pari dignità : allora, soltanto allora, infatti, potranno integrarsi, attivando finalmente quel processo di semiosi illimitata (Peirce e Eco) che è il garante dello sviluppo linguistico e mediale. Un cambiamento di rotta questo necessario. A meno che, per la comprensibile difficoltà di affrontare una visione dinamica, in continua trasformazione della realtà, per un eccesso di reazione 7. Tim Berners-Lee (with Mark Fischetti), Weaving the Web. The Original Design and Ultimate Destinity of the World Wide Web by Its Inventor, London-New York, Texere, 2000, p. 200. 8. Ivi, p. 82.

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al relativismo un po’ becero in cui c’imbattiamo, per il timore di avere spinto oltre la nostra voglia di capire e di costruire, non si voglia trovare rifugio nel pensiero che il dato è un elemento pre-linguistico, metalinguistico… Per evitare quest’ultima ipotesi, un’interessante strada che aspetta ancora di essere indagata potrebbe essere quella che fa capo all’idea di sceneggiatura ; una sceneggiatura digitale. 9 Vincenzo Cerami, a metà degli anni Novanta, consigliando ai giovani scrittori, in un volumetto che ebbe un notevole successo di pubblico e di critica, come muoversi per raggiungere una buona professionalità, lui già autore di sceneggiature famose, spiegava che il copione era un modo « di scrivere un film ma con il linguaggio della lingua scritta : le immagini e i personaggi li deve “suggerire” con le parole ». Avvertiva quindi trattarsi di « una scrittura particolare », priva di « vita propria », « in funzione dello schermo ». 0 La parola « sceneggiatura » ha la peculiarità di rinviare ad uno strumento di lavoro fondamentale per la realizzazione di testi che necessitano di competenze diverse, anche conflittuali fra sé se vogliono essersi reciprocamente di stimolo ; di far pensare ad un gruppo di persone che collaborano ad un’attività comune. È uno scrivere che è un fare. Si può dire che si tratta di un ambiente operativo, quindi, a tutti gli effetti, utilissimo per far convergere varie conoscenze e pratiche su un prodotto da realizzare, per orchestrarle al meglio : uno strumento per svolgere un lavoro di équipe, dove è presente anche una dimensione fortemente economica, si pensi al produttore che ha bisogno della sceneggiatura per trovare i soldi per il film. Difficile pensare ad una sceneggiatura senza fare riferimento ad ‘altro’ prodotto finito. Il film, per restare all’interno del genere che meglio si associa alla parola sceneggiatura, una volta realizzato scardina la centralità della sceneggiatura relegandola, in un attimo, in quell’attimo che viene detta la parola « fine », a zone d’ombra che presto si traducono in oblio totale. Soltanto nel caso, infatti, che lo sceneggiatore sia tale da meritare una qualche attenzione, viene pubblicata, fissata in una sua autonomia ; ma anche in quel caso ‘rimediata’ dall’immaginario filmico che continua a giocare un ruolo insostituibile nella lettura ; così come nella strategia marketing dell’editore. Diverso il discorso per sceneggiature come quelle teatrali o quelle legate alla realizzazione di opere d’arte celebri, dove il significato documentario che rivestono nella ricostruzione del farsi dell’opera (narrativa, poesia, musica, pittura etc.) può conferire loro un valore suggestivo non trascurabile. Altrimenti, scrittura invisibile, molto « back » e per niente « stage », destinata alla distruzione. Alcuni registi, poi, vedono la sceneggiatura tutt’altro che blindata, di ferro (Pudovkin, René Clair etc.) : la considerano un semplice punto di partenza, poco più di uno spunto per la vera scrittura che è quella sul set (Ejzenstejn, Jean Luc Godard e molti altri). Due scuole di pensiero antagoniste ma concordi nel ritenere quel tipo di composizione un tool in vista del prodotto finito. Eppure, e qui sta l’elemento importante, la sceneggiatura è testualità (nell’accezione di pratica testuale, prima rilevata) a tutti gli effetti, degna di quel nome in quanto essa è entità autonoma caratterizzata da intenzione comunicativa, ambiente comu9. Luca Toschi, La comunicazione multimediale, in Il linguaggio dei nuovi media. Principi e tecniche delle nuove forme di comunicazione, a cura di Luca Toschi, Milano, Apogeo, 200. 0. Vincenzo Cerami, Consigli ad un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio, Torino, Einaudi, 996, p. 92.

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nicativo per costruzione di sensi : nello specifico capace di far immaginare, di far prevedere un testo che ancora non c’è, al punto da permettere anche di trovare le risorse finanziarie per produrlo. La sceneggiatura, quindi, comunque la si veda, presenta la peculiarità di avere un paratesto molto forte. E questo vale sempre, indipendentemente dallo stile con cui è realizzata. Nella sceneggiatura all’italiana, che appare in crisi nell’uso corrente, la pagina è divisa in due colonne, a sinistra vanno le indicazioni della parte visiva, la descrizione dell’azione che viene ripresa dalla macchina da presa, a destra tutto ciò che ha a che fare con ciò che si sente (dialoghi, rumori che abbiano un significato sul piano del racconto, etc.) ; si va a pagina nuova tutte le volte che finisce una scena, per facilitare la stesura del piano di lavorazione. Nella sceneggiatura all’americana, invece, non ci sono le due colonne ; l’azione viene descritta lungo tutto il rigo, mentre nome personaggio e battuta relativa vanno sotto la descrizione dell’azione, centrati. Contrariamente alla sceneggiatura all’italiana non si va a pagina nuova a scena conclusa. Questa differenza è dovuta al fatto che la versione americana presenta delle convenzioni di scrittura assai rigide (margini, numero righe, carattere del testo, grandezza del carattere – Courier New, font size 2, che meglio corrisponde ai caratteri delle vecchie macchine da scrivere – etc.) per cui una pagina standard dovrebbe indicare un minuto di film da girare (di qui le 20 pagine corrispondenti a circa due ore di proiezione). Un’attenzione che ha trovato il suo corrispettivo in software utilizzati a livello internazionale (da Final Draft a Movie Magic Screenwriter, a Dramatica, Story View). La sceneggiatura alla francese, infine, mostra la variabile di avere i dialoghi sulla parte destra della pagina. Brevi spunti, sufficienti, spero, per ricordare la dimensione paratestuale presente in questo genere di testualità (uso, strumentalmente questa espressione, senza nessuna ambizione normativa, naturalmente, soltanto per indicare il risultato dell’interazione fra testo e paratesto) : particolare perché non si propone soltanto come « lieu privilégié d’une pragmatique et d’une stratégie, d’une action sur le public au service, bien ou mal compris et accompli, d’un meilleur accueil du texte et d’une lecture plus pertinente – plus pertinente, s’entend, aux yeux de l’auteur et des alliés » ;  ma serve ad indirizzare, operativamente, fattivamente, verso una seconda scrittura – spesso mediata da un’altra sceneggiatura, fatta di disegni, lo story board – che è quella filmica. Non solo racconto di un racconto ma, anche sotto quel profilo, immaginifico, strumento di ‘scrittura’ ; funzionale alla comunicazione interna dell’équipe che intende realizzare il film, investendone l’intera attività, da quella creativa a quella amministrativa e gestionale. La sceneggiatura ( T à sc ), quindi, è una testualità (T à ), risultante dall’interazione fra testo (T à \T ) e paratesto (T à \P ), la quale ha come obiettivo principale – tanto che, quando è raggiunto, essa può essere, tranquillamente, buttata via – quello di guidare i suoi ‘lettori’ (ognuno mosso da interessi diversi : lo scenografo, l’attore, il regista, l’elettricista, il fonico, l’operatore, etc.) a ricostruire sì il testo mentale dell’autore/editore della sceneggiatura, ma in un duplice senso : . in quello tradizionale, di tipo negoziale, che consiste nel dare significato, nell’impossessarsi dell’opera, cioè nell’interpretarla e nell’interiorizzarla, nel realizzare il testo immaginario, nello ‘scrivere’ il testo mentale corrispondente (T à m ) ; 2. e soprattutto in quello, del tutto peculiare, di dare vita fisicamente, di costruire . G. Genette, Seuils, cit., p. 8.

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materialmente, al di fuori del testo mentale, interiore, una testualità ancora diversa (T à altro ). Insomma, un testo empirico, autonomo dallo scenario di partenza, che, a sua volta attiverà il processo di negoziazione di senso, d’interpretazione, di scrittura mentale. Nel nostro caso, il film, che vivrà di vita autonoma rispetto alla sceneggiatura, al suo autore, ai suoi lettori etc., ponendosi, nei confronti del proprio pubblico, a sua volta sì come una sorta di sceneggiatura, ma non più nel senso che qui intendiamo ; bensì nella prospettiva, per esempio, che Goffman, circa mezzo secolo fa indicava, quando parlò di « modello drammaturgico ». 2 La sceneggiatura, quindi, potrebbe essere definita un tipo di testualità (T à sc ) dove la dimensione paratestuale (T à \P ), colta da una crisi di megalomania, aspira a diventare testualità a spese del testo (T à \T ), attivando un processo di paratestualizzazione progressiva della testualità. Non essendo possibile che il paratesto esista senza il testo e viceversa (un po’ come accade, con il polo negativo e quello positivo nell’immagine apparente di un campo elettromagnetico), ecco che contemporaneamente prende vita una nuova testualità, all’inizio non riconosciuta come tale, ma che alla fine del processo apparirà autonoma e composta, come tutte, da un nuovo testo e un nuovo paratesto.

Genette conclude il suo ampio lavoro di ricerca sulle tante variabili di paratesto, avvertendo che a suo parere sarebbe un errore sostituire « à certaine idole du Texte clos – qui a régné sur notre conscience littéraire […] et que la considération du paratexte contribue largement […] à déstabiliser – un nouveau fétiche, encore plus vain, qui serait celui du paratexte ». La sua conclusione quindi è che il paratesto non è altro 2. Erving Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Garden City (n.y.), Doubleday, 959.

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che un « auxiliaire », un accessorio al testo. Conferma ne verrebbe dal fatto che se il testo senza paratesto si presenta come un « éléphant sans cornac », senza conducente, ridotto a « puissance infirme » : il paratesto senza il testo è « un cornac sans éléphant », « parade inepte ». 3 Una presa di posizione, questa, che va associata ad almeno altre due osservazioni dello stesso Genette : . Le funzioni del paratesto costituiscono un oggetto molto empirico, e diversificato al punto che deve essere colto induttivamente, genere per genere, specie per specie. 4 2. I modi e le possibilità del paratesto si modificano incessantemente secondo le epoche, le culture etc. ; in particolare la storia del paratesto sarebbe ritmata da un’evoluzione tecnologica. Spunti che, rapportati alla sceneggiatura, inducono ad indagare la dimensione pragmatica del paratesto, e cioè le « caractéristiques de son instance, ou situation, de communication ». 5 Di qui il fatto che il suo obiettivo sia performativo nella duplice direzione già indicata : . aiutare ad immaginare il film che verrà, svolgendo così un ruolo importante dal punto di vista maieutico, creativo, inventivo, economico, organizzativo etc. ; 2. porsi come strumento effettivo per la realizzazione materiale del film.

Insomma si è davanti ad un meccanismo testuale che può produrre testi generatori di nuove grammatiche, nuovi modelli, di una testualità grammaticalizzante e modellizzante. Un punto centrale questo per cogliere la peculiarità, non solo del paratesto in questione, ma, in senso più ampio, del genere sceneggiatura, perché rivela come la sua vocazione primaria sia quella di creare un ‘ambiente’ che possa dare vita ad una nuova forma di testualità diversa dalla propria : il film. Un linguaggio, quindi, il cui senso sta nel creare altri linguaggi ; quello cinematografico, quello di uno spot, di un programma televisivo, radiofonico o altro. �

La forza innovativa del web è in linea con questo filone della creatività umana, che del resto, si sa, proviene da lontano (basti pensare agli spartiti, ai canovacci, ai bozzetti etc.). 3. G. Genette, Seuils, cit., p. 404 4. Ivi, p. 4 5. Ivi, pp. 5-6.

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La cosa davvero stupefacente, però, è quella di aver riunito in un unico medium queste due forme di testualità che pure restano ben separate : fatto resosi possibile grazie alla specificità del supporto-codice digitale. Restando all’esempio della sceneggiatura filmica, si può affermare che il web mentre realizza una sceneggiatura realizza già film, già lo pubblica, e quindi permette agli autori e ad un ipotetico pubblico di vederlo in divenire : inducendo così i soggetti coinvolti nell’atto comunicativo a ripensare radicalmente il rapporto fra back e front. Per questa peculiarità del digitale, non sembra aver esagerato chi ha voluto indicare in Internet un ambiente che consentirà sempre più un dialogo diretto fra testi mentali (« mind to mind »), 6 fra i loro immaginari. Con l’affermarsi della testualità digitale i tempi e i modi della progettazione e quelli della realizzazione risultano in fase di radicale trasformazione. Il web tende a riassumere in sé progettualità e pratica testuale, al punto che pare riduttivo parlare di simulazione, di realtà virtuale poiché il testo digitale può essere parte integrante dell’altro testo, quello non-digitale, insomma quello «reale», secondo una terminologia corrente quanto impropria. Un intervento chirurgico dove il medico opera su un paziente lontano migliaia di chilometri, tramite un’interfaccia virtuale, appare assai reale a chi vi vede una possibilità di guarigione. La continuità fra ambiente di progettazione, di produzione e l’ambiente di pubblicazione e quindi di interpretazione, la velocità di elaborazione del testo digitale, la possibilità di andare a vedere come viene, mano a mano che procede il lavoro (un po’ come si fa quando si produce un qualsiasi testo, avvalendosi delle varie anteprime), queste e altre caratteristiche del digitale fanno sì che il tradizionale, ‘predigitale’ rapporto fra progettazione e realizzazione sia sostanzialmente mutato. E non soltanto perché è ancora più importante che la progettazione abbia chiaro il senso del proprio tempo e dei propri spazi, rivendicando la propria centralità in questo scenario così nuovo ; altrimenti rischierebbe di farsi trascinare dal pur suggestivo e inebriante senso di onnipotenza che viene dal digitale molto « doing oriented », reso apparentemente innocuo dalla facilità – illusoria, dovuta ad un errore di prospettiva da parte di chi osserva situazioni nuove con mentalità vecchie –, dalla quasi impunità del poter fare e disfare. Giocare con i grandi, grandissimi numeri, quali sono quelli d’Internet, necessita di una cautela ancora maggiore nell’ideare e nel progettare, perché tornare indietro non è poi così facile come sembra, o come ti dicono. Ma soprattutto il rapporto fra progettazione e realizzazione è mutato perché si è rivelato essenziale l’abbandono della consueta impostazione che li allineava in sequenza, separando il tempo/spazio del progetto dal tempo/spazio del prodotto. Mentre risulta necessario rafforzare la progettazione, è altrettanto indispensabile superare l’idea che la realizzazione sia qualcosa di esecutivo, di prevedibile, previsto, di automatico. L’immaginario che muoveva/muove quest’ultima convinzione era/è uno strano miscuglio di pregiudizi e di luoghi comuni ; specialmente là dove s’insisteva sulla netta contrapposizione fra pensare e fare. Un pensare e un fare che sembrano delegati rigidamente, il primo all’uomo, che deve progettare, il secondo alla macchina e ai suoi operai, che devono limitarsi ad eseguire il piano organico e dettagliato del programma. Una dualità che, al di là di ogni altra considerazione, indebolisce fino ad inficiare l’intero processo. Il mondo d’Internet rappresenta, rispetto a questo scenario culturale, una soluzione di continuità radicale. 6. T. Berners-Lee (with M.Fischetti), Weaving the Web..., cit., p. 69.

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I testi digitali, come si sa, rompono definitivamente con una cultura e il relativo scenario in cui la garanzia di rigidità, d’immutabilità, d’invariabilità era il punto di forza. La fissità della carta era notabilmente un valore, « scripta manent » : l’autorevolezza e l’efficacia del supporto si misurava in secoli, tenendo conto di quanto a lungo potesse tutelare la creatività umana dalla minaccia del tempo. Accanto al vertiginoso crescere del consumo della carta (ancora alla fine dell’Ottocento, illustri scrittori avrebbero fatto attenzione a gettare un foglio scritto solo in parte ; oggi si raccomanda senza problemi di usare fogli nuovi per andare in caccia d’idee, per redigere una semplice scaletta) si è assistito al sorgere di un nuovo supporto, quello digitale, che si è affermato per la sua facile, infinita riscrivibilità ; per quanto essa sia poi controbilanciata da una debole garanzia di longevità considerando la delicatezza del supporto e il divenire continuo del soft/hardware. La possibilità di fare e disfare, di memorizzare senza limiti fisici né di codice (parole, immagini, suoni) ha abbattuto molti confini mentali, psicologici oltre che fisici. La cura, l’attenzione con cui uno scrittore correggeva i suoi manoscritti, i geroglifici che realizzava, i « taglia e incolla » che faceva prima di doversi rassegnare a riscrivere una sola pagina, o a ribatterla a macchina – gli artisti del bianchetto (una vernice con cui si cancellava la battitura per ribatterci sopra) di quegli anni, peraltro neppure troppo lontani, lo ricordano bene – oggi, con il testo digitale, parrebbero incomprensibili. Risparmiare la pellicola oggi ha poco senso ; la televisione nonstop, dagli infiniti canali, è un’ulteriore conferma. La soglia che divideva la scrittura dalla lettura, il prima e il dopo, d’altro canto, non è cancellata, come a volte parrebbe in presenza di testi davvero sconfortanti, che vorrebbero fare dell’eterno presente la misura di ogni cosa ; la velocità di passaggio, di transizione, cioè, non deve essere confusa con la fine o la negazione delle distinzioni ; anche dei ruoli e delle reciproche competenze. Ugualmente, le possibilità che si hanno oggi di comunicazione, di scambio, fra dimensioni tradizionalmente tenute distinte (autore e lettore, per esempio ; produzione di servizi e relativa utenza, etc.) non significano azzeramento d’identità : queste, sapendole riconoscere, non sono scomparse, semmai sono mutate, ma spesso con l’effetto di rafforzarsi. E lo si capisce bene, per esempio, quando, molto semplicemente, navigando su Internet, si valutano gli effetti negativi, oltre a quelli positivi, ben noti, che sortiscono dalla possibilità data da questo medium a tutti di farsi editori ; la web credibility 7 ha subito un gran colpo. La fine dello spazio come dimensione stabile, fissa, ai limiti dell’immutabilità, ha comportato anche la fine delle corrispondenti distinzioni temporali. Concetti come prima, dopo, dentro, fuori appaiono inadeguati alle realtà che i nuovi media possono promuovere. Si pensi al definitivo superamento della consueta divisione fra comunicazione interna e comunicazione esterna nelle aziende, nelle istituzioni, nel mondo delle associazioni ; al superamento del bipolarismo che contrapponeva il mittente al destinatario, la produzione all’uso, la qualità alla quantità, il soggetto all’oggetto. 8 7. B. J. Fogg, Persuasive Technology. Using Computers to Change What We Think and Do, San Francisco (ca), Kaufmann, 2003. 8. Luca Toschi, Il treno non ferma più a Firenze. Ipotesi sull’identità comunicativa, in *Firenze e il (neo-) umanesimo. Arte, cultura, comunicazione multimediale all’alba del terzo millennio, a cura di Sergio Moravia, Firenze, Le Lettere, 2005.

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L’avvento del digitale rappresenta la domanda e la risposta a questo clima d’incertezza. La convergenza in corso su un supporto unico, infatti, nonostante gli infiniti tentativi, non fosse altro per paura e per insipienza, di mantenere lo status quo precedente, riversando in digitale l’analogico di sempre, sta già travolgendo i consueti confini e soglie. I paratesti saltano, confondono le proprie funzioni, involontariamente portano verso spazi, tempi, pragmatiche che non hanno più niente a che vedere con quelle degli old media ; la testualità, nella sua accezione più sociale, è sconvolta. Come avviene ai popoli che ormai migrano incessantemente con il corpo o con la mente, così la noosfera di Morin e la semiosfera di Lotman registrano terremoti continui, destinati a distruggere gli assetti tradizionali e a crearne di totalmente nuovi. Nuovi comunque perché, anche se dovesse passare un’operazione mirata a conservare i vecchi assetti, quell’equilibrio di allora sarà comunque perso e un cambiamento – magari privo di un qualsiasi governo – subentrerà agli scenari consueti. L’incertezza così, vissuta come un continuo divenire, risulta scaturire non solo dalla difficoltà ma anche dal desiderio di accettare, vivendola nella sua pienezza, la condizione umana, quella che il xx secolo ha contribuito a portare alla luce sconvolgendo equilibri, assetti antichi di secoli e secoli. Internet in questo senso è un’opera d’arte di rara bellezza. La convergenza fra testo e paratesto, fra testo e ambiente, va nella direzione di far interagire strategia con scommessa, il finito con l’infinito, il definito con l’indefinito, il soggetto con l’oggetto. Rispecchia cioè, come poche altre opere dell’ingegno e della fantasia, il divenire presente della condizione umana segnata da un’umanità, da una cultura che testimonia lo sforzo dell’uomo, magari a sua stessa insaputa, di scrivere ma anche di essere scritto, di darsi una testualità che non necessita d’assoluto, d’immobilità, d’immutabilità. Al contrario, la credibilità, l’autorevolezza del testo sta proprio nella capacità che dimostra di costruire la propria identità comunicativa attraverso entità comunicative in continua trasformazione ; di accettare la propria fragilità, debolezza, instabilità, provvisorietà come patrimonio della propria umanità ; come risorsa vitale. Mettere insieme, come fa Internet, il fine (il testo) e il mezzo (il paratesto) non significa azzerare la distinzione, rinunciare alla diversità : al contrario. Questa comunicazione centripeta, fortemente mondializzante, questa centralità della rete necessita di fortissime spinte centrifughe, di diversità creative, di fragilità infinite, di testi provvisori perché sensibili, attenti al divenire degli uomini e delle cose. Testi sensori di una condizione che vuole cocciutamente affrontare la propria fragilità come un valore, una speranza per costruire una testualità nuova basata sull’uomo e meno sui testi ; più o meno sacri che possano essere. Avere restituito umanità al testo, accettandone la sua mortalità, caratterizza il paradosso Internet e la condizione esistenziale che faticosamente ci avviamo ad accettare. Dare un testo e al contempo un paratesto che ci metta in condizione di negarlo, di contraddirlo, di farne ‘altro’ è l’occasione del nostro tempo – ben oltre ogni possibile fede religiosa oppure laica – per affrancarsi dal verbo affidato alla pietra indistruttibile. La comunicazione e i suoi paratesti stanno faticosamente abbandonando i porti sicuri dominati dalle metafore della vecchia comunicazione, per addentrarsi in un mare che non è inesplorato, è da inventare.

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Nuovi equilibri fra testi e paratesti non segnano la presenza di nebbie ma di forti venti. Sta a noi saperne fare un buon uso. 9 Abstract Internet è un medium dominato dalle funzioni grammaticalizzanti, ma tutto ancora da inventare nella sua dimensione testualizzante ( J. M. Lotman); per questo si configura principalmente come luogo di risposte e assai poco di domande, tanto che le sue ricadute sociali appaiono ancora estremamente fragili e la sua identità mediale incerta. Questa debolezza inferenziale sembra derivare dal linguaggio digitale della rete, caratterizzato da strutture matriciali e tassonomiche (a data base e ad albero, secondo una linea che va 9. Mi limito, qui in chiusura, ad indicare alcuni di quei volumi che, a vario titolo, sono stati più presenti durante la stesura di questo saggio: Alberto Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Genova, Costa & Nolan, 996; Alberto Abruzzese, Isabella Pezzini, Dal romanzo alle reti. Soggetti e territori della grande narrazione moderna, Torino, Testo & Immagine, 2004; Marc Augé, Non-lieux. Introduction à une antropologie de la surmodernité, Paris, Editions Seuil, 992; Jay D. Bolter, Writing Space. The Computer, Hypertext and the History of Writing, Hillsdale (nj), Lawrence Erlbaum Associates, 99; Jay D. Bolter, Richard Grusin, La costruzione della “realtà”, in Rappresentazioni e narrazioni, a cura di Massimo Ammaniti, Daniel Stern, Roma-Bari, Laterza, 99; Andrea Bonomi, Alberto Abruzzese, La città infinita, Milano, Bruno Mondadori, 2005; Italo Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, Milano, A. Mondadori, 20004; Manuel Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture, voll. i-iii, Oxford, Blackwell, 20002; La centralità sociale della comunicazione: da cenerentola a principessa. Scritti in onore di Gilberto Tinacci Mannelli, a cura di Enrico Cheli, Mario Morcellini, Milano, F. Angeli, 2005; Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 990; Interpretazione e sovrainterpretazione, Milano, Bompiani, 995; Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 9997; Robert M. Farr, Serge Moscovici, Social Representations, Cambridge, Cambridge University Press & Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, 984; Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au seconde degré, Paris, Éditions du seuil, 982; Roberto Grandi, I mass media fra testo e contesto. Informazione, pubblicità, intrattenimento, consumo sotto analisi, con due saggi di Giovanni Manetti, Maria Pia Pozzato, Milano, Lupetti, 994; Pierre Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, Paris, La Découverte, 994; Cyberculture. Rapport au Conseil de l’Europe dans le cadre du projet «Nouvelles technologies: cooperation culturelle et communication», Paris, Édition Odile Jacob, 997; Marino Livolsi et al., Il pubblico dei media, Firenze, La Nuova Italia, 992; Roberto Maragliano, Nuovo manuale di didattica multimediale, Roma-Bari, Laterza, 20049; Marshall McLuhan, Understanding Media. The Extensions of Man, New York (ny), McGraw-Hill, 964; No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior, New York (ny), Oxford University Press, 985; Le carte della memoria. Archivi e nuove tecnologie, a cura di Marcello Morelli, Mario Ricciardi, Roma-Bari, Laterza, 997; Edgard Morin, Les sept savoirs necessaries à l’éducation du future, Paris, unesco, 999; Serge Moscovici, The Phenomenon of Social Representation, in Social Representations, ed. by Raymond Farr, Serge Moscovici, Cambridge, Cambridge University Press, 984; Geoffrey Nunberg, The Future of the Book, with an Afterword by Umberto Eco, Berkeley and Los Angeles (ca), Brepols-University of California Press, 996; Charles Sander Peirce, Semiotica, Torino, Einaudi, 980; Le leggi dell’ipotesi. Antologia dai “Collected Papers”, testi scelti e introdotti da Massimo A. Bonfantini, Roberto Grazia, Giampaolo Proni, Milano, Bompiani, 984; Neil Postman, Technopoly: The Surrender of Culture to Technology, Vancouver wa, Vintage Books, 993; Neil Postman, Charles Weingartner, Teaching As a Subversive Activity, New York (ny), Delta, 97; Scrivere comunicare apprendere con le nuove tecnologie, a cura di Mario Ricciardi, Torino, Bollati Boringhieri, 995; Sharry Turkle, Life on the Screen. Identity in the Age of the Internet, New York (ny), Simon & Schuster, 995; John Urry, Sociology beyond Societies, Mobilities for the Twenty-First Century, London, Routledge, 2000; Global Complexity, Cambridge, Polity Press, 2002; Gianni Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 989; Ugo Volli, Manuale di semiotica, Roma-Bari, Laterza, 2000; Jan van Dijk, The Network Society. An Introduction to the Social Aspects of New Media, London, Sage Publications Ltd., 999; Paul Watzlawick. Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, The Pragmatics of Human Communication, New York (ny), W. W. Norton & Co., 967; Lennart Weibull, Structural Factors in Gratifications Research, in Media Gratifications Research. Current Perspectives, ed. by Karl Erik Rosengren, Lawrence A. Wenner, Philip Palmgreen, Beverly Hills (ca), Sage Publications Ltd., 985.

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dal generale al particolare). È necessario che la rete esprima testi che vadano oltre la riproduzione delle funzioni grammaticali, testi che, per la forza inedita del proprio linguaggio, possano influenzare la grammatica di cui sono espressione. Si tratta cioè di dare vita ad un processo linguistico a spirale, dinamico e vitale, dove un ruolo centrale dovrà essere occupato dalla sceneggiatura, intesa come una ‘scrittura’ che produce testi ma anche nuove grammatiche (qui sta il nesso fra testo e paratesto). Si ‘scrive’ non per la rete ma nella rete, poiché quest’ultima non è un territorio inesplorato da descrivere o da raccontare ma è una dimensione, cioè un linguaggio, da inventare, da creare: una soglia sociologica da varcare. Internet is a medium dominated by grammaticalizing functions, but on the whole still to be invented in its textualizing dimension ( J. M. Lotman). For this reason, Internet mainly represents a place for answers rather than questions, in so far as its social effects still seem extremely fragile and its media identity uncertain. This inferential weakness appears to derive from the digital language of the net, characterized by matrix-type and taxonomic structures (such as database or tree structures, according to pyramid-type, top-bottom thinking, from general to details. It is necessary for the net to express texts that go beyond the reproduction of grammatical functions, texts that, due to the original force of their own language, can influence the grammar itself. The issue is therefore to generate a spiral linguistic process, dynamic and vital, where a central role should be given to scripting seen as the “writing” that produces texts and also new grammars (here lies the nexus between text and paratext). The net is not an unexplored territory to be described or narrated, but rather a dimension, that is a language to be invented, to be created: a threshold to overcome.

Rossano De Laurentiis · Mauro Guerrini FRBR E PARATESTO Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca. Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali : lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Stabilì, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato : non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele.

L’

Premessa

etichetta dell’intervento FRBR e paratesto ambisce a gettare un ponte tra la fenomenologia paratestuale, che muove dai primordi della storia del libro, e il documento Requisiti funzionali per record bibliografici (frbr), emanato dall’ifla nel 998.  Da quella data sono stati presentati diversi contributi su come frbr possa essere utilizzato in virtù della sua architettura relazionale E-R (modello entità-relazioni) 2 per la descrizione dei documenti : libri, film, musica a stampa, ecc. Il modello entità-relazioni rappresenta la novità specifica di frbr. Le entità sono divise in tre gruppi : Gruppo  : opera, espressione, manifestazione, item (esemplare). 3 Gruppo 2 : persona, ente. Gruppo 3: concetto, oggetto, evento, luogo (utilizzate soltanto come argomento di un’opera). Le relazioni sono le linee logiche tramite cui gli utenti si spostano nella ricerca delle entità documentali. 4 I gruppi 2 e 3 esistono solo per effetto delle loro relazioni con il primo gruppo. . ifla Study Group on the Functional Requirements for Bibliographic Records, Functional requirements for bibliographic records : final report, approved by the Standing Committee of the ifla, Section on Cataloguing. München : Saur, 998 ; disponibile anche in rete : http ://www.ifla.org/VII/s3/frbr/frbr. pdf ; ed. italiana : Requisiti funzionali per record bibliografici : rapporto conclusivo. Roma, iccu, 2000. 2. La tecnica di analisi utilizzata per frbr è la stessa di quella per la costruzione di basi dati relazionali. La scelta del linguaggio di comunicazione è significativa, anche se gli autori di frbr sottolineano che la preferenza non è finalizzata alla costruzione di basi dati bibliografiche automatizzate, almeno nell’immediato. Il catalogo resta « uno strumento storicamente determinato : legato quindi ai bisogni di chi lo usa da una parte, ai modi in cui si organizza e si manifesta il processo informativo dall’altra » (Marco Santoro, I cataloghi a stampa : ipotesi per una metodologia “funzionale”, in Il futuro della descrizione bibliografica. Atti della giornata di studio, Firenze, 13 novembre 1987, a cura di Mauro Guerrini, Roma, Associazione italiana biblioteche, 988, p. 59) ; cfr. inoltre Michael Heaney, Object-oriented cataloging, « Information technology and libraries », 4 (995), n. 3, pp. 35-53. 3. Il termine item è reso nella versione ufficiale italiana di frbr con “documento”. 4. Giovanni Bergamin (FRBR e nuove tecnologie, in Seminario FRBR. Functional requirements for bibliographic

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Si cercherà di analizzare gli elementi di frbr che riguardano più direttamente il concetto di paratesto nel libro a stampa, vale a dire gli “attributi”, cioè l’insieme delle caratteristiche che possiede ciascuna entità del modello frbr. Gli attributi infatti costituiscono gli agganci per mezzo dei quali gli utenti formulano « richieste e interpretano i risultati della ricerca bibliografica nel momento dell’interrogazione su una determinata entità ». 5 Il paratesto dei documenti librari stupisce per la sua varietà, la cui analisi richiede la competenza di più saperi : tecnici, professionali, teorici. Infatti : a. paratesto è il carattere tipografico (il font, per usare una terminologia corrente), la cui valutazione consapevole implica il bagaglio di esperienza del disegnatore di caratteri e dello storico della grafica ; b. paratesto è il supporto (papiro, pergamena, carta) su cui viene scritto o stampato il testo del libro : si ricordano le tirature speciali su pergamena o su carta colorata e pregiata, come dono per lettori di riguardo. 6 c. paratesto è la prefazione, la premessa dello stesso autore o più spesso di un altro, che fornisce al lettore una chiave d’interpretazione dell’opera che si accinge a leggere ; a volte può essere una postfazione. Per esempio l’Evangeliario delle chiese d’Italia del 989 7 offre uno straordinario concentrato di elementi materiali del libro, in chiave liturgica e simbolica. Il volume, in folio, è un’edizione d’arte a tiratura limitata su torchi manuali, con legatura eseguita utilizzando la tecnica della cucitura alla monastica su cinque doppi nervi, capitelli in seta rosa cuciti a mano, illustrazioni di artisti contemporanei in varie tecniche (Guttuso, Manzù, Sassu, ecc.), caratteri nobilissimi nella loro semplicità, su carta filigranata in cotone, eccezionalmente pura (« è come lino, ha qualcosa del pane, una sorta di ‘corporale’ che riceve con suprema devozione le Sue parole », dalla prefazione di Adrien Nocent, p. 7), strappata manualmente foglio a foglio, i fogli di guardia sono in pergamena, la copertina è in vetro soffiato e resina (« una materia contemporanea resa teca di parole eterne fatte presenti qui e ora », ivi, p. 6). * Per riprendere i termini del titolo del convegno, i dintorni, le periferie del libro sono appunto il paratesto, nella sua doppia natura di peritesto (ciò che più esattamente è vicino al libro) e di epitesto (elementi vicini al libro per contenuto, ma dislocati altrove nello spazio : recensioni, premi letterari, trasposizioni filmiche, ecc.). Ciò che importa è un approccio efficace a questi elementi, che per loro natura si presentano necessariamente multiformi. Non si creda che si affrontino aspetti pleonastici quando consideriamo alcuni motivi del paratesto che possono influenzare la fruizione di un testo. Elementi quali interpunzione, formato, dediche, fregi, annunci pubblicitari su riviste records = Requisiti funzionali per record bibliografici. Firenze, 27-28 gennaio 2000. Atti, a cura di Mauro Guerrini, Roma, Associazione italiana biblioteche, 2000, p. 6) mette in guardia dalla confusione fra i termini relation e relationship, resi nella traduzione italiana entrambi con relazione. 5. frbr, 4. ; le entità sono gli oggetti della ricerca delle quattro « funzioni utente » : trovare, identificare, selezionare, ottenere. 6. Cfr. Conor Fahy, La carta nell’analisi bibliologica, in Società Dante Alighieri, Comitato veneziano-Biblioteca nazionale marciana, Sul libro antico : bibliografia, filologia, catalogo, spazi della funzione bibliografica, a cura di Alessandro Scarsella, Viterbo, BetaGamma, 995, pp. 3-4. 7. Palermo, Fratelli Accetta Editori, 989.

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e giornali, elenchi dei sottoscrittori, forme varie delle legature, timbri di possesso, ecc. sono investiti di una funzione ‘espressiva’ e contribuiscono alla costruzione del significato. 8 Dall’altro lato gli attributi costituiscono il tessuto connettivo della registrazione bibliografica. 9 Se l’opera è il cuore o il cervello di un libro (a seconda dei gusti e dei generi di scrittura), gli attributi che caratterizzano l’espressione, la manifestazione e l’item sono i gangli tramite i quali essa trova il suo inveramento. Il valore precipuo di frbr risiede nel porsi come un modello teorico a larghe maglie dal punto di vista ontologico delle entità e al contempo serrato in un’architettura relazionale flessibile e solida, quindi capace di accogliere l’eterogeneità documentale e di ricondurla all’unicità del paradigma. È indubbio che frbr rappresenta un’opportunità di giungere a rinnovare la catalogazione. 0 La completezza del record tradizionale onnicomprensivo viene raggiunta dinamicamente quando il percorso tra i legami significativi abbia dato accesso a tutte le registrazioni catalografiche delle entità coinvolte.  Modello frbr e paratesto nel libro moderno Cerchiamo di verificare il funzionamento del modello frbr nello specifico del paratesto. 2 Si cercherà pertanto di illustrare la reazione di frbr con alcuni elementi paratestuali. Si è scelta una campionatura – dal libro antico al libro moderno – che cercasse di offrire esempi efficaci o problematici sulla ricettività di frbr rispetto alle forme liminari del libro. Se scorriamo l’elenco di attributi troviamo un’ampia varietà di elementi che, in 8. Cfr. Donald Francis McKenzie, Bibliography and the sociology of texts, London, British Library, 986 (trad. it. Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Sylvestre Bonnard, 999). 9. frbr delinea « con l’uso di termini chiaramente definiti, le funzioni svolte da un record bibliografico rispetto ai vari media, alle varie applicazioni ed ai vari bisogni dell’utente ». Definisce il record un « aggregato di dati che è associato ad una entità descritta in un catalogo di biblioteca e in una bibliografia nazionale » (frbr, 2.2). 0. In ambito ifla, tramite l’ime icc (ifla Meeting of Experts on an International Cataloguing Code), si sta lavorando a una nuova formulazione di principi e linee guida che tengano conto della struttura relazionale del catalogo, tipica della nuova dimensione tecnologica, che sostituisca i Principi di Parigi sulla base dei concetti e della terminologia formulati in frbr e in franar ; cfr. Carlo Bianchini, Pino Buizza, Mauro Guerrini, Verso nuovi principi di catalogazione : riflessioni sull’IME ICC di Francoforte, « Bollettino aib », 44 (2004), n. 2, p. [33-52]. Il primo incontro si è tenuto a Francoforte il 28-29 luglio 2003 (http ://www. ddb.de/news/fla_conf_index.htm) ; il secondo a Buenos Aires dal 7 al 8 agosto 2004 (http ://www.loc. gov/imeicc2), entrambi come appuntamenti preliminari del congresso annuale dell’ifla. . « Attraverso uno qualsiasi dei punti di accesso il lettore può puntare direttamente all’entità collegata e da questa percorrendo una qualsiasi delle ramificazioni puntare ad un’altra entità o ad un altro grappolo di entità e così via, fino all’espletamento della propria ricerca. Il catalogo diventa un archivio la cui organizzazione si definisce dinamicamente a seconda delle scelte via via impostate dal lettore. Ovviamente, per rendere efficacemente percorribile questo universo di ramificazioni, occorre che il lettore venga sistematicamente informato e con la massima chiarezza possibile, della natura delle informazioni che gli vengono presentate, e che gli sia altrettanto chiara l’informazione relativa a tutte le opzioni praticabili dal nodo in cui si trova » (Paul Gabriele Weston, FRBR e utente : considerazioni sulla ricerca, in Seminario FRBR, cit., p. 24-25). 2. « È evidente che il nuovo modello di analisi evidenzia una molteplicità di entità diverse e disomogenee, appartenenti a livelli concettuali diversi ; di conseguenza, altrettanto diversi e disomogenei sono gli oggetti della catalogazione descrittiva, a cui dovranno corrispondere differenti formati e procedure di indicizzazione » (Teresa Grimaldi, L’oggetto della catalogazione, in Seminario FRBR, cit., p. 79).

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nome della funzione paradigmatica di frbr, intende coprire tutte le “occorrenze”, ovvero « le singole materializzazioni di un’entità nel mondo reale » ; 3 ci limitiamo all’oggetto libro, quindi ci muoviamo a livello di manifestazione – la base della registrazione catalografica per le agenzie bibliografiche nazionali 4 –, a scendere fino alla singola copia, su cui avviene la catalogazione nelle singole biblioteche. Necessaria premessa è lo snellimento del record della manifestazione, che dovrebbe ridurre a legami gli elementi relativi ai livelli superiori (opera, espressione), conservando come propri quelli inerenti alla manifattura, pubblicazione, distribuzione e alla forma materiale, relativi cioè al momento editoriale e ai dati fisici, in modo da avere un’altrettanto efficace e sintetica rappresentazione complessiva. 5 La realtà tipografica e poi editoriale (a partire dall’industrializzazione del fenomeno) ha sempre trovato delle strategie, spesso risultato di adattamenti naturali e inconsci (pensiamo al frontespizio che nasce anche come esigenza di protezione del manufatto), che nel tempo hanno dato vita a un articolato e sofisticato complesso di pratiche, 6 e che ha trovato degli acuti indagatori, come Gérard Genette, al quale va il merito di aver inventato la categoria del paratesto 7 e di aver dato l’avvio a una serie di studi condotti su una nuova consapevolezza, di cui il nostro convegno è l’ultima espressione temporale. 8 L’altro corno della questione è la resa di questa fenomenologia sulla scorta di frbr, tenendo conto dell’ospitalità della griglia catalografica in ordine alle due condizioni dell’individuazione descrittiva e della caratterizzazione bibliografica, postulate dal cosiddetto Rapporto Henkle, nella parte scritta da Seymour Lubetzky, 9 e di come di volta in volta esse hanno affrontato (o anche trascurato) il paratesto. 3. Carlo Ghilli, Mauro Guerrini, Introduzione a FRBR. Functional Requirements for Bibliographic Records = Requisiti funzionali per record bibliografici, Milano, Editrice Bibliografica, 200, p. 58. 4. La manifestazione pertiene alle aree del formato isbd, tranne l’area 7 delle note che può riguardare anche l’opera, l’espressione o l’item. 5. Secondo compito del gruppo di studio su frbr nel 990 era raccomandare una struttura standard per le registrazioni create dalle agenzie bibliografiche nazionali. 6. Marco Santoro, Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, « Accademie e biblioteche d’Italia », 68, n.s. 5 (2000), n. , p. 5-38 ; poi in : Libri, edizioni, biblioteche tra Cinque e Seicento. Con un percorso bibliografico, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 5-92. 7. Gérard Genette, Seuils. Paris, Editions du Seuil, 987 (trad. it. Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 989) ; cfr. la recensione di Luigi Crocetti in « Biblioteche oggi », 8 (990), n. 4, pp. 509-5, poi in Il nuovo in biblioteca e altri scritti, Roma, Associazione italiana biblioteche, 994, pp. 8-23 con il titolo Soglie. 8. Di recente si sono svolti tre convegni che hanno avuto per motivo conduttore aspetti del paratesto : Libri a stampa postillati. Atti del colloquio internazionale, Milano, 3-5 maggio 2001, a cura di Edoardo Barbieri e Giuseppe Frasso, Milano, Edizioni cusl, 2003 ; Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali. Atti del convegno (Urbino, 1-3 ottobre 2001), Roma, Salerno, 2003 ; I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del convegno internazionale di studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004. 9. Cfr. Appendix A : Principles of descriptive cataloging (945) ; Seymour Lubetzky, Appendix E : Analysis of current descriptive cataloging practice (943), ora in Il futuro della descrizione bibliografica, cit., pp. 8-26, 49-54 ; cfr. inoltre dello stesso autore, Code of cataloging rules : author and title entry. An unfinished draft for a new edition of cataloging rules prepared for the Catalog Code Revision Committee, with an explanatory commentary by Paul Dunkin. Chicago, ala, 960 ; le opere del grande bibliotecario americano di origine polacca sono ora consultabili in Seymour Lubetzky, Writings on the classical art of cataloging, compiled and edited by Elaine Svenonius, Dorothy McGarry, Enlewood, Colorado, Libraries Unlimited, 200 ; cfr. inoltre Diego Maltese, Introduzione critica alla descrizione catalografica, Milano, Editrice Bibliografica, 988.

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Se in una visione radicale tutto è paratesto – come ci suggerisce l’epigrafe di Jorge Luis Borges tratta da La biblioteca di Babele – allora tutto è attributo. 20 Se diamo fiducia a questa affermazione, siamo di fronte alla necessità di classificare gli attributi secondo criteri stringenti ; e qui altre discipline possono essere chiamate in causa. 2 Infatti se ci spostiamo all’estremo opposto, cioè dal grande della storia del libro e dell’editoria al dettaglio di un elemento paratestuale, come può essere la scelta di una particolare legatura, 22 la grafica di copertina che diventa simbolo di genere (ad esempio, il giallo Mondadori), 23 le collane di larga circolazione che, dando una nuova forma a testi già pubblicati per i lettori colti, hanno potuto conquistare un altro pubblico, più ampio e più umile, 24 siamo di fronte a fattori importanti che hanno bisogno di essere in qualche modo spiegati. Secondo frbr le registrazioni catalografiche dovranno infatti modularsi su stratigrafie semiotiche (dal generale al particolare), dall’opera al supporto insomma. E i segni paratestuali a livello di manufatto dovranno trovare una loro dignità, grazie a rilevamenti autoptici eseguiti da persone capaci di porre quesiti al libro e abili a cogliere le sue mute risposte. 25 Pertanto, cosa può darci FRBR come valore aggiunto a proposito del paratesto ? La scelta degli attributi funzionali alla descrizione dipende dal contesto. 26 frbr prende in considerazione inoltre gli attributi delle entità del 20. « Tutte le cose nominabili, esterne alla mente, si ritengono appartenenti o alla classe delle sostanze o a quella degli attributi. Un attributo [...] dev’essere attributo di qualche cosa [...]. Una sostanza invece esiste per sé [...]. Abbiamo detto che le qualità di un corpo sono gli attributi, fondati sulle sensazioni che la presenza di quel particolare corpo ai nostri organi eccita nelle nostre menti » ( John Stuart Mill, Sistema di logica raziocinativa e induttiva ; citato in esergo nella Premessa a Ghilli, Guerrini, Introduzione a FRBR, cit., p. 7). 2. « In realtà, non esistendo un modo di presentare le edizioni che sia esauriente, e legittimi accertamenti differenziali sicuri, alla bibliografia conviene abbandonare, perché vana e insidiosa, la tentazione delle trascrizioni più o meno elaborate o semplificate, e lasciare alla bibliologia la definizione dei problemi riguardanti l’identificazione facsimilare, l’individuazione degli elementi di discriminazione delle tirature e degli esemplari e la determinazione della copia ‘ideale’, e alla storia letteraria e alla filologia la soluzione delle questioni relative alla origine delle opere, alle loro varianti e alla loro paternità », Alfredo Serrai, La struttura di un censimento bibliografico, in Libri antichi e catalogazione : metodologie e esperienze. Atti del seminario di Roma, 23-25 settembre 1981, a cura di Claudia Leoncini, Rosaria Maria Servello, Roma, iccu, 984, p. 23. 22. Cfr. Franca Nardelli Petrucci, La legatura italiana : storia, descrizione, tecniche (XV-XIX secolo), Roma, nis, 989 ; Miriam M. Foot, La legatura come specchio della società, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000. 23. Un altro esempio di supporto che si presta a indicare un genere è il pulp magazine che fa riferimento alla pasta di cellulosa per fare la carta (di bassa qualità), su cui erano stampate le riviste popolari e scandalistiche ; si veda Paola Puglisi, Sopraccoperta, Roma, Associazione italiana biblioteche, 2003, dove oltre all’aspetto materiale, viene descritta la funzione paratestuale dei “vestiti del libro” : risvolti, quarte, fascette. 24. Chapbooks inglesi, pliegos castigliani, plecs catalani, Bibliothèque bleue francese. In Italia hanno fatto storia, per il Novecento, i volumetti della bur (Rizzoli) e gli Oscar Mondadori, peraltro ottimamente commentati ; cfr. Giovanni Ragone, Tascabile e nuovi lettori, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di Gabriele Turi, Firenze, Giunti, 997, p. 449-477. 25. « Prodotti e strumenti del leggere e dello scrivere vanno sempre studiati direttamente, nella loro materialità fisica : non esiste segno che non abbia una funzione ; e non esiste segno che, appropriatamente interrogato, non possa e non sappia rivelarla », Armando Petrucci, Conclusioni, in Escribir y leer en Occidente, Valencia, Departamento de historia de la antiguedad y de la cultura escrita, Universitat de Valencia, 995, p. 249. 26. frbr, .2 : « Gli attributi e le relazioni identificati nello studio riflettono la varietà di uso che viene fatto delle informazioni bibliografiche e l’importanza per gli utenti degli aspetti, sia di contenuto sia di forma, dei materiali descritti nei record bibliografici ».

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secondo e terzo gruppo : persone, enti, concetto, oggetto, evento e luogo, che, in modo normalizzato, sono mostrati come parte della registrazione ; mentre esclude gli attributi addizionali : quelli che, ad esempio, sono tipici delle registrazioni d’autorità e che pertanto rientrano nella sfera di franar (Functional Requirements and Numbering for Authority Records). 27 Gli attributi si dividono in due categorie : a. gli attributi direttamente collegati all’entità ; b. gli attributi esterni all’entità. La prima categoria comprende gli aspetti formali che distinguono una manifestazione (per esempio, la formulazione del titolo che compare sul frontespizio, sulla coperta o sul dorso di una pubblicazione). 28 La seconda comprende gli identificativi dell’entità (per esempio, la serie entro la quale esce un titolo) e le informazioni contestuali (per esempio, se si tratta dell’opera prima di un autore). Per dare un ordine alla magna pars degli attributi possiamo usare vari criteri : quest’ultimo riecheggia la distinzione genettiana tra peritesto ed epitesto ; un secondo è la divisione fra attributi che compaiono nella registrazione catalografica 29 (autore, 30 ente, 3 27. Mauro Guerrini, Le funzioni del catalogo dall’ICCP a FRBR, in Seminario FRBR cit., pp. 63-64. ; dal Congresso ifla 2004 l’acronimo franar sembra evolversi verso frar (Functional Requirements for Authority Records). franar è un gruppo di lavoro dell’ifla, presieduto attualmente da Glenn Patton, il cui scopo principale è definire i requisiti funzionali delle registrazioni di autorità (authority records), proseguendo il lavoro iniziato da frbr per le registrazioni bibliografiche. 28. E siamo al primo problema, dal momento che sarà necessario rendere conto delle eventuali varianti del titolo, ma anche scegliere un’intestazione uniforme per l’accesso ; e qui ci viene in aiuto l’authority control. Tuttavia seguendo il modello filosofico (user-oriented) di frbr pare più opportuno lasciare a ogni sistema di biblioteche stabilire la forma preferita per l’accesso in considerazione della propria natura, della tipologia del materiale conservato, dei bisogni informazionali e delle conoscenze dei propri utenti. Esigenze locali ed esigenze internazionali possono entrare in conflitto ; si veda il progetto viaf (Virtual International Authority File) ; cfr. Barbara Tillett, FRBR e VIAF. Esempi delle attuali iniziative internazionali sulla catalogazione in Studi e testimonianze offerti a Luigi Crocetti, a cura di Daniele Danesi, Laura Desideri, Mauro Guerrini, Piero Innocenti, Giovanni Solimine, Milano, Editrice Bibliografica, 2004, pp. 679-692 ; Barbara Tillett, Authority control. Stato dell’arte e nuove prospettive in Authority control : definizione ed esperienze internazionali. Atti del convegno internazionale, Firenze, 10-12 febbraio 2003, a cura di Mauro Guerrini e Barbara B. Tillett, con la collaborazione di Lucia Sardo, Firenze, Firenze University Press ; Roma, Associazione italiana biblioteche, 2003, pp. 29-45. 29. Si veda Mapping ISBD elements to FRBR entity attributes and relationships, a cura dei gruppi di revisione di isbd e frbr (versione del 28 luglio 2004), http ://www.ifla.org/VII/s3/pubs/ISBD-FRBR-mappingFinal.pdf ; e Carlo Ghilli, Mauro Guerrini, Antonella Novelli, FRBR : analisi del record e nuovi codici di catalogazione, « Bollettino aib », 43 (2003), n. 2, pp. 45-59. 30. Il catalogatore del libro antico deve affrontare la normalizzazione della intestazione con frequenza maggiore rispetto al catalogatore del libro moderno ; cfr. Mauro Guerrini, Le cinquecentine empolesi : un tassello di un mosaico, in Biblioteca comunale Renato Fucini, Empoli, Catalogo delle edizioni del Cinquecento, a cura di Eleonora Gargiulo, Empoli, Comune di Empoli, Regione Toscana, 999, su cd-rom e in linea all’indirizzo www.comune.empoli.fi.it/biblioteca/biblioteca.html. 3. Mauro Guerrini, Il trattamento catalografico degli enti collettivi dalla Conferenza di Parigi (1961) al First IFLA Meeting of Experts on an International Cataloguing Code (2003), con la collaborazione di Pino Buizza e Lucia Sardo, « Biblioteche oggi », 2 (2003), n. 0, pp. 37-53 ; ed. orig. : Corporate bodies from ICCP up to 2003, with the assistance of Pino Buizza and Lucia Sardo in IFLA cataloguing principles : steps towards an international cataloguing code. Report from the 1st Meeting of Experts on an International Cataloguing Code, Frankfurt, 2003, edited by Barbara B. Tillett, Renate Gömpel and Susanne Oehlschläger, München, Saur, 2004, p. 05-29 ; disponibile in linea in inglese http ://www.ddb.de/news/ifla_conf.htm e in spagnolo http :// www.loc.gov/loc/ifla/imeicc, presentato all’ime icc2 di Buenos Aires.

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titolo, edizione, luogo, tipografo o editore, anno, descrizione fisica, serie, note, 34 ISBN, impronta, 35 stringa di soggetto, 36 simbolo di classificazione) e quelli che – a meno di una particolare esigenza descrittiva (cataloghi speciali, bibliografie speciali, ecc.) – non trovano posto nella registrazione tradizionale. 37 Si verrebbe così ad avere una categoria formalizzata di attributi e una categoria generalmente non prevista nelle registrazioni catalografiche ; 38 sappiamo tuttavia che nel mondo della ricerca storica sull’utilità di una fonte non si può mai dire l’ultima parola : tanto più per quanto riguarda l’oggetto libro e i suoi attributi, più saperi possono rivendicare una pertinenza, e a tutte queste richieste bisognerebbe essere attrezzati per rispondere. 39 Qualche scettico potrà lamentarsi di fronte a questo oltranzismo documentale, 40 sventolando il mito della descrizione  :  del libro ; ma si lasci al normale corso delle ricerche delineare i propri confini, confidando nell’intelligenza critica degli stessi studiosi, dei loro maestri e anche dei loro (re)censori per capire quando accada che si sia superata una certa misura. 4 R. D. L. 32. Anche qui la necessità di formulazione e formalizzazione di titoli uniformi (cfr. Marielisa Rossi, Presupposti e attribuzioni della catalogazione del libro antico, in Seminario FRBR, cit., p. 04, note 2 e 3). 33. Cfr. Lorenzo Baldacchini, L’authority control di stampatori, editori e librai, in Authority control : definizione ed esperienze internazionali. Atti del convegno internazionale, Firenze, 10-12 febbraio 2003, cit., pp. 25-222. 34. « Le note qualificano e ampliano la descrizione formale nei casi in cui le regole per tale descrizione non consentano di includere determinate informazioni. Esse possono pertanto riferirsi a qualsiasi aspetto delle caratteristiche fisiche della pubblicazione o del contenuto della pubblicazione » (iccu, Guida alla catalogazione in SBN. Libro antico, Roma, iccu, 995, p. 7). 35. Nel trattamento dei libri antichi, l’impronta – oggetto di scetticismo – è considerata opzionale e non è certo distintiva come lo è l’isbn per il libro moderno. Il doi (Digital Object Identifier) è l’elemento distintivo dei documenti elettronici ; si veda Giuseppe Vitiello, L’identificazione degli identificatori, « Biblioteche oggi », 22 (2004), n. 2, pp. 67-80 ; cfr. inoltre Stefano Gambari, Mauro Guerrini, Definire e catalogare le risorse elettroniche. Un’introduzione a ISBD(ER), AACR2 e metadati, saggio introduttivo di Paul Gabriele Weston, Milano, Editrice Bibliografica, 2002. 36. Pino Buizza, Mauro Guerrini, Un modello concettuale per il nuovo Soggettario. L’indicizzazione per soggetto alla luce di FRBR, « Bollettino aib », 4 (200), n. 3, pp. 327-336 ; ed. ingl. A conceptual model for the new Soggettario. Subject indexing in the light of FRBR, « Cataloging & classification quarterly », 34 (2002), no. 4, pp. 3-45. Ora in: Mauro Guerrini, Il catalogo di qualità, presentazione di Luigi Cuocetti, Firenze, Pagnini e Martinelli, Regione Toscana, 2002, pp. 2-35. 37. Ma che potrebbero trovare una citazione nell’area delle note. Nei casi di fondi speciali la successione delle notizie in questo campo può, anzi dovrebbe essere ribaltata, poiché gli attributi pertinenti alla natura della raccolta hanno più valore euristico di altri. D’altronde frbr nel suo ‘statuto epistemologico’ prevede dei “requisiti funzionali” all’utente per i dati da inserire nella registrazione bibliografica. 38. Delle attuali normative catalografiche – nel mondo anglo-americano e anche nel nostro paese – è stata più volte sottolineata la insoddisfacente struttura informazionale relativa ai dati specifici della copia ; di recente il formato unimarc è stato allargato per incorporare elementi specifici di provenienza e informazioni sulla legatura. 39. Le tabelle da 6. a 6.4 di frbr elencano gli attributi e le relazioni associate a ciascuna delle quattro entità primarie. I simboli di importanza – grande, media, scarsa – utilizzati nelle tabelle indicano il valore di ciascun attributo e ciascuna relazione in rapporto a una determinata “funzione utente”. Ma oltre a trovare, identificare, selezionare, ottenere, c’è l’esigenza (funzione) dello studioso, che spesso non sa in anticipo cosa troverà e quanto gli servirà ciò che ha trovato. 40. La bibliografia analitica o filologia dei testi a stampa (textual bibliography) ha per oggetto prevalentemente gli aspetti paratestuali del libro antico (tutto quello che entra in gioco nel processo di stampa, dalla fabbricazione della carta alla legatura). Tale metodologia si attenua per l’editoria moderna dove, accanto a una standardizzazione dei processi di produzione, si hanno più testimoni (esemplari) e maggiore documentazione d’archivio. 4. « Il catalogo deve servire alle necessità di chi lo usa » (Diego Maltese, Principi di catalogazione e regole italiane, Firenze, Olschki, 965, p. 3). Con una metafora si potrebbe parlare di registrazione ‘a fisarmoni-

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rossano de laurentiis · mauro guerrini Modello frbr e paratesto nel libro antico

Per il libro antico, occorre ricordare – anche come ossequio alla tradizione della bibliografia testuale di scuola anglo-americana 42 – le tipologie bibliologiche di copia ideale, 43 edizione, impressione, emissione e stato ; 44 e un loro possibile accostamento alle entità del primo gruppo di frbr, che può indurre a qualche riflessione. La copia ideale infatti è l’opera (astrazione fisica da una parte, di pensiero dall’altra). L’espressione (originaria) è da considerare il manoscritto (archetipo) che l’autore fa avere all’officina tipografica per la composizione delle forme di stampa. La manifestazione è la stampa dell’edizione, 45 dell’impressione 46 e dell’emissione, 47 dove le tre categorie bibliologiche verranno eventualmente distinte dallo studioso tramite gli attributi idonei. E in ultimo l’item, la copia, l’esemplare, cioè il singolo pezzo che proprio nell’antico regime tipografico trova una sua validazione concettuale, se pensiamo che per i complessi e faticosi processi della stampa tipografica manuale le varianti di stato (carattere rovesciato, correzione d’autore o di errori a stampa in corso) erano assai diffusi. 48 ca’ o ‘a soffietto’ per il libro, che copre l’essenzialità del livello minimo di descrizione nelle bibliografie nazionali (o ancora più in breve nella citazione bibliografica) fino alle descrizioni analitiche compilate sulle stesse manifestazioni e sugli esemplari ; frbr viene a essere il telaio di queste opzioni indicali. 42. Fredson T. Bowers, Principles of bibliographical description. Princeton, n.j., Princeton University Press, 949 ; rist., Winchester, St. Paul’s Bibliographies, 986. Philip Gaskell, A new introduction to bibliography, repr. with corrections. Oxford, at the Clarendon Press, 974 (i ed. : ivi, 972). Conor Fahy, The view from another planet : textual bibliography and the editing of Sixteenth-century Italian texts, « Italian studies », 34 (979), pp. 7-92 ; Idem, Storia della bibliografia testuale, in Bibliografia testuale o filologia dei testi a stampa ? Definizioni metodologiche e prospettive future. Convegno di studi in onore di Conor Fahy, Udine, 24-25-26 febbraio 1997, a cura di Neil Harris, Udine, Forum, 999, pp. 23-34. 43. Cfr. G. T. Tanselle, The concept of ideal copy, « Studies in bibliography », 33 (980), pp. 8-53 e Conor Fahy, Il concetto di “esemplare ideale”, in Idem, Saggi di bibliografia testuale, Padova, Antenore, 988, pp. 89-03. 44. Conor Fahy, Edizione, impressione, emissione, stato, ivi, pp. 65-88 ; si veda anche John Attig, Editions, issues, and states, or, when to create a new record [preliminary draft for discussion in preparation for the Descriptive cataloging of rare materials conference, held March 0-3, 2003 at Yale University], disponibile a http ://www.folger.edu/bsc/dcrb/wg6.doc. 45. Il formato e il registro delle segnature dei fascicoli sono determinanti per l’individuazione di un’edizione. Insieme al tipo e alla misura del carattere (frbr, 4.4.8-4.4.9) sono quanto può continuare a offrire il catalogo sul piano della conoscenza di quei dispositivi formali che, organizzati dalle intenzioni dell’autore o dell’editore, acquistano un valore testimoniale. 46. Per la maggior parte del periodo della stampa manuale i concetti di edizione e di impressione vengono a coincidere. Ma la situazione cambia, anzi, in un certo senso si capovolge, con l’introduzione della stereotipia a metà Ottocento ; e permane con l’uso dell’offset (fotolitografia). Le edizioni che si succedono nei romanzi di successo sono più propriamente delle impressioni, cioè tirature in tempi diversi della stessa matrice. 47. I fogli invenduti sono ripresentati al pubblico con un nuovo frontespizio e talvolta anche nuovi preliminari e altro materiale nuovo. In questo caso gli attributi del frontespizio indicano – falsamente – una nuova edizione, quando un’attenta analisi di raffronto della forma tipografica con l’emissione precedente rivelerà solo una nuova emissione. 48. Uno stato può essere definito come una forma tipografica con una determinata composizione tipografica, e anche, e più normalmente, come tutti i fogli stampati da una forma tipografica in uno stato determinato. Francesco Barberi, Biblioteche in Italia. Saggi e conversazioni, Firenze, Giunta regionale toscana-La nuova Italia, 98, pp. 208-209, avvertiva che per la « poca chiarezza e la tendenza in alcuni bibliotecari a un superfluo virtuosismo » accade che « la catalogazione delle antiche edizioni si concepisca [...] più vicina in un certo senso a quella dei manoscritti che non dei comuni stampati ; non si riflette che, a differenza dei manoscritti, gli stampati non sono degli “unici” ». Pur dando ragione alla precisazione

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Il problema della catalogazione del libro antico si pone in relazione a una duplice necessità conoscitiva : a. la prima, della resa bibliografica (copre l’arco di vita del manufatto che giunge fino alla fase della legatura) : da un punto di vista bibliologico è improprio considerare conosciuto un libro a stampa solo catalogato ; b. la seconda, della conservazione e tutela (libro come oggetto materiale con la sua storia individuale). 50 Nell’ottica dello storico la segnalazione delle provenienze, insieme ad altri elementi quali dimensioni, lingua, soggetto, applicata con metodo e capillarità, consente di costruire grandi affreschi dei modelli di appartenenza dei libri e di constatare come questi cambino nel corso dei secoli ; questi stessi dati nell’ottica del bibliotecario possono e debbono essere impiegati in modo funzionale, come nel caso di un’eventuale scheda di conservazione e restauro. 5 Conclusioni Se frbr è un modello che mira a dare dell’universo documentale la resa spaziale di un reticolo tridimensionale (catalogazione relazionale), 52 che visto dall’alto dovrebbe permettere di ricostruire, in senso bibliografico, la storia culturale, 53 per il leitmotiv di questo convegno, che per certi versi si pone agli estremi opposti dell’universo bibliografico (vogliamo dire che si ragiona pur sempre di un singolo libro o di una famiglia di libri), è invece opportuno munirsi di una lente da entomologo, affinché si possano rinvenire le piccole tracce, consapevoli e meno chiare, lasciate dalla storia tipografica ed editoriale di un documento e dalla sua fruizione – in una prospettiva diacronica (attenzione alle varianti, 54 di Barberi, bisogna tenere presente (cfr. l’epigrafe) che l’unicità di un esemplare può realizzarsi sia in tipografia che nella sua fruizione. 49. Cfr. Piero Innocenti, Il libro antico : campo, oggetto, tecnica e tecnologia, Roma, L’Officina tipografica, [992] ; e di recente Daniele Danesi, Codici, formati e interfacce per il libro antico : una critica, in Studi e testimonianze offerti a Luigi Crocetti, cit., pp. 575-597. 50. « L’entusiasmo per lo studio e la registrazione delle note di provenienza nell’ambito della comunità di catalogatori degli antichi libri a stampa – nei quali includiamo a pieno titolo librai antiquari ed appassionati, collezionisti, esperti di vendite all’asta, oltre, naturalmente ai bibliotecari – sta crescendo progressivamente e stabilmente ma è ancora lungi dall’essere un principio universalmente accettato », David Pearson, Exploring and recording provenance : initiatives and possibilities, « Papers of the Bibliographical Society of America », 9 (997), no. 4, p. 505. frbr dovrebbe portare così alla creazione di registrazioni, che consentano una sorta di monitoraggio integrale del posseduto della biblioteca, tenuto sotto osservazione lungo il percorso sia dei servizi più propriamente gestionali (disponibilità, prestito, conservazione, ecc.) sia di quelli d’informazione (valenza bibliografica, storica). 5. frbr, 4.5.6-4.5.7-4.5.8 ; il punto 4.5.5 prevede l’inclusione delle indicazioni della storia dell’esibizione pubblica di una copia. Cfr. Marielisa Rossi, Provenienze, cataloghi, esemplari. Studi sulle raccolte librarie antiche, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 200. 52. In questo contesto l’uso del termine « navigazione » pare particolarmente appropriato, in quanto definisce una metodologia di ricerca ipertestuale propria dei cataloghi elettronici. Elaine Svenonius, The intellectual foundation of information organization, Cambridge, Mass., mit Press, 2000, la considera come una quinta « funzione utente ». 53. « Al catalogo elettronico spetterà il compito di segnare la via del ritorno a casa, sotto il tetto della biblioteca digitale, alle figlie di Giove e di Mnemosine », Paul G. Weston, Catalogazione bibliografica : dal formato MARC a FRBR, « Bollettino aib », 4 (200), n. 3, p. 277. 54. Si vedano i due convegni svolti a Udine (Il libro antico fra bibliografia e catalogo, 0-2 dicembre 2002) e a Firenze (La tipografia e la sua variante, 0-2 dicembre 2003), coordinati da Neil Harris. I programmi

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critica genetica, stratificazioni all’interno di fondi bibliotecari 56) – per riportare alla luce un microcosmo altrettanto complesso e utile del macrocosmo bibliografico sopra accennato. In una ideale declinazione di volontà significanti si potrebbe parlare di intentio auctoris per l’opera e l’espressione, intentio editoris per la manifestazione 57 e intentio lectoris per ogni singolo esemplare letto e postillato. 58 Su questa similarità si potrebbe insistere in futuro : delineare un modello entità-relazioni (e-r) ad hoc per il paratesto, dove le entità prodotto dell’attività artigianale, artistica o intellettuale diventerebbero il carattere tipografico, 59 il marchio editoriale, 60 le “soglie” del libro, la grafica di copertina o di sopraccoperta ; risultato del lavoro e delle scelte di un editore 6 (ente) e di un direttore di serie, 62 di un grafico (persona). Si e le presentazioni si possono consultare in linea http ://www.uniud.it/poliphilo/programma.htm ; gli atti, cumulativi, sono in corso di stampa. 55. George Thomas Tanselle, The editorial problem of final authorial intention, « Studies in bibliography », 29 (976), pp. 67-2. Teresa Grimaldi, Catalogazione e ricerca dell’informazione, parte iii, « Il bibliotecario », 0 (993), n. 38, pp. 23-37. Si individuano due tipi di revisione dei testi d’autore : . quella orizzontale, che mira a modificare il fine, l’indirizzo o il carattere di un’opera, tentando di farne qualcosa di altro genere (come nel caso dell’adattamento di un’opera per un pubblico diverso) ; 2. quella verticale, che cerca di migliorare l’opera modificandone la qualità e non il carattere e la concezione organica d’insieme. Il primo tipo di revisione dà luogo a un’opera diversa, in quanto la volontà attiva dell’autore rispetto all’opera è mutata ; la seconda dà luogo a versioni diverse di una stessa opera, tra le quali in molti casi non è facile decidere quale esprima la volontà finale. 56. Piero Innocenti, Stratigrafia dei cataloghi : procedure di destratificazione del maggior nucleo italiano di manoscritti e libri antichi, in Il bosco e gli alberi. Storie di libri, storie di biblioteche, storie di idee, prefazione di Renzo Pecchioli, Firenze, Giunta regionale toscana ; Scandicci, La nuova Italia, 984, vol. , pp. 295-523. Nell’ottobre 2004 a Udine si è tenuto il convegno internazionale Biblioteche private in età moderna e contemporanea (http ://web.uniud.it/libroantico/biblprivate/index.htm). 57. Cfr. Prefazione di George Thomas Tanselle al suo Literature and artifacts, Charlottesville, Virginia, Bibliographical Society of the University of Virginia, 998 ; recentemente uscito in italiano : Letteratura e manufatti, traduzione di Luigi Crocetti, introduzione di Neil Harris, Firenze, Le Lettere, 2004, volume inaugurale della serie Pinakes. 58. La sola analisi del contenuto librario di una biblioteca privata rivela in modo superficiale e approssimativo gli interessi del proprietario, se non gli viene unito lo studio di postille e note di commento. Giacché un libro rimasto intonso testimonierebbe un disinteresse del proprietario ; cum grano salis il discorso si rovescia se parliamo della raccolta di un bibliofilo, che magari punta alla massima integrità dei pezzi. Cfr. Laura Desideri, Le biblioteche d’autore dell’Archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux, in Conservare il Novecento : convegno nazionale. Ferrara, Salone internazionale dell’arte, del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali, 25-26 marzo 2000. Atti, a cura di Maurizio Messina e Giuliana Zagra, Roma, Associazione italiana biblioteche, 200, pp. 58-73. 59. Cfr. Warren Chappel, Robert Bringhurst, A short history of the printed word, Point Roberts, wa, Hartley & Marks, 999, 2. ed. (trad. it. Breve storia della parola stampata, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004). Manuela Rattin - Matteo Ricci, Questioni di carattere. La tipografia in Italia dall’Unità nazionale agli anni Settanta, prefazione di Giovanni Anceschi, Roma, Stampa alternativa-Graffiti, 997. 60. I repertori di marche tipografiche sono diversi e tutti ormai classici (Ascarelli, Kristeller, Vaccaro, Zappella), citati in Edit 6, il censimento delle edizioni italiane del xvi secolo, che a sua volta si presenta come un repertorio on line (http ://edit6.iccu.sbn.it/) e Claudia Leoncini, Rosaria Maria Servello, Le attività di authority control in Edit 16. Autori, titoli, editori/tipografi, marche e luoghi, in Authority control, cit., pp. 299-305. 6. Alcune case editrici sono rimaste storicamente legate ad un carattere tipografico nato – o assurto a fama – con la loro attività ; si ricordi il corsivo di Manuzio, il baskerville che fa da ponte tra i caratteri aldini e i “moderni” di Bodoni e Didot, o più recentemente il Pastonchi di Mondadori, il Garamond Simoncini di Einaudi. Stesso discorso per i marchi : il delfino con àncora di Manuzio, la fenice di Giolito, lo struzzo di Einaudi, ecc. 62. Si veda il filone di critica letteraria i cui esiti hanno spostato l’interesse dall’autore all’azione tipo-

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pensi alla scelta dell’illustrazione di copertina, sulla quale spesso hanno influito nell’editoria di qualità novecentesca gli stessi editor (Italo Calvino, Giulio Bollati, Leonardo Sciascia amavano scegliere personalmente i temi figurativi per le copertine). Non si possono poi tralasciare i veri grafici che pure hanno legato il loro nome a case editrici : Bruno Munari per Einaudi, Bob Noorda per Feltrinelli, Leonardo Mattioli per Vallecchi. 63 In effetti un varco in frbr per la proposta di questo ulteriore modello è nelle entità aggregate (o sussidiarie) e componenti, comprese nel primo gruppo, ma senza l’obbligo di registrarle. In particolare le opere aggregate (introduzioni, commenti, ecc.) vengono o non vengono registrate, in base alla pratica catalografica specifica ; tuttavia le basi dati bibliografiche possono essere disegnate in modo da accogliere la creazione di registrazioni per opere componenti e aggregate, con interventi di arricchimento della registrazione, 64 creata originariamente per assicurare l’accesso solo all’opera principale contenuta in una manifestazione. 65 L’obiettivo consiste nell’avere una o più banche dati a livello di attività e scrittura editoriale, che dovrebbero però interagire con gli archivi bibliografici di altre biblioteche (interoperabilità), 66 in modo da facilitare verifiche e raffronti agli studiosi (interdisciplinarità). 67 frbr come modello relazionale, un portato dell’era informatica, può contribuire a queste ambizioni con le caratteristiche dell’ipertestualità (link = relazioni) e della multimedialità (paratesto = immagini, allegati). 68 Attualmente le ricerche di storia del libro (relativa alla stampa manuale) e dell’editoria (relativa al periodo della meccanizzazione e conseguente industrializzazione della produzione tipografica) viaggiano parallele. Ognuna con importanti risultati scientifici conseguiti e con molto altro che resta da fare. Solo per fare qualche esemgrafico-editoriale. Cfr. Alberto Cadioli, Letterati editori. L’editoria come progetto culturale e letterario, Milano, Il Saggiatore, 995 (in 2. ed. : Letterati editori. L’industria culturale come progetto, Milano, Il Saggiatore, 2003) e dello stesso L’editore e i suoi lettori, Bellinzona, Casagrande, 2000. 63. Si veda per l’Ottocento Antonio Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Torino, Einaudi, 972. 64. Cfr. Meris Bellei, Un catalogo “ricco”, « Biblioteche oggi », 6 (998), n. 6, pp. 6-2. 65. « For the purposes of the model, entities at the aggregate or component level operate in the same way as entities at the integral unit level ; they are defined in the same terms, they share the same characteristics, and they are related to one another in the same way as entities at the integral unit level » (frbr, 3.3, p. 28) ; cfr. Isa De Pinedo, Alberto Petrucciani, Un approccio all’applicazione del modello FRBR alle regole di catalogazione italiane : problemi e possibili soluzioni, « Bollettino aib », 42 (2002), n. 3, p. 277 ; Shoichi Taniguchi, Conceptual modeling of component parts of bibliographic resources in cataloging, « Journal of documentation », 59 (2003), n. 6, pp. 692-708. 66. A Firenze è nata nel 993 iris, Associazione di biblioteche storico-artistiche e umanistiche, che ha messo in comune le collezioni di alcune biblioteche con un focus sulla storia dell’arte e sul Rinascimento. Il 6 e 7 maggio 2004 si è tenuto il convegno, coordinato da Claudio Di Benedetto, Dall’arcipelago al continente. Reti di biblioteche e materiali speciali verso un approdo possibile, che ha tirato un primo bilancio sui progetti di cooperazione fra cataloghi in linea di diversa natura (opac, cataloghi speciali, ecc.) per fare un ulteriore passo verso il controllo bibliografico universale, cfr. http ://www.iris.firenze.it/ ; si veda anche Martin Doerr, Jane Hunter, Carl Lagoze, Towards a core ontology for information integration, « Journal of digital information » [on line], 4 (2003), no.  ; disponibile a http ://jodi.ecs.soton.ac.uk/Articles/v04/ i0/Doerr/. 67. La biblioteca deve demandare ad altre sedi il compito di conoscere e stabilire le espressioni ; si veda in proposito Alessandro Scarsella, Bibliografia e critica letteraria, in : Sul libro antico, cit., pp. 79-88. 68. Il paratesto visivo potrebbe essere meglio reso con immagini a loro volta collegate con delle banche dati di genere, capaci di fornire il necessario riscontro iconografico. Si pensi alle immagini di copertina, spesso particolari di quadri conservati nei principali musei del mondo.

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pio, la base dati sul libro italiano del xvi secolo (Edit 6) per la prima e per la seconda, la funzione di raccordo e di modello per gli archivi letterari ed editoriali svolta dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a Milano 69 e dall’Archivio per l’immagine e la comunicazione editoriale (apice) dell’Università di Milano. Il potenziale di frbr in questo ambito di ricerche 70 è ancora da vagliare ; per il momento si può dire che aver portato le luci della ribalta sulla materia degli attributi e sugli elementi che siano da ritenere tali è un aiuto alla presa di coscienza e al trattamento descrittivo di queste risorse indiziarie ; le quali, ognuna secondo la propria natura e nel proprio alveo tecnico-disciplinare, dovranno trovare gli indagatori più adatti. Questo convegno, nella sua « modulata variazione sul tema », rappresenta un laboratorio metodologico per il futuro, oltre che una preziosa ricognizione sullo stato dell’arte internazionale. M. G. Abstract L’intervento tratta i Requisiti funzionali per record bibliografici (frbr) in relazione al paratesto del libro, antico e moderno. La categoria teorizzata da Gérard Genette, che si divide in peritesto ed epitesto, corrisponde nel modello frbr agli attributi delle entità ; nello specifico della trattazione quelli che riguardano la manifestazione e l’esemplare. Gli attributi sono il tessuto connettivo con cui l’opera o l’espressione possono trovare una mediazione indicale nelle registrazioni catalografiche e bibliografiche, sono pure gli agganci per mezzo dei quali gli utenti formulano richieste nelle loro ricerche. L’esperienza sulla descrizione del libro antico (bibliografia analitica) si presta a essere ripercorsa alla luce delle entità di frbr. Dove si può parlare di intentio auctoris per l’opera/espressione ; intentio editoris per la manifestazione ; intentio lectoris per l’esemplare letto e postillato. Il paratesto non è meno importante nell’editoria moderna, dove assume peso la documentazione sul libro (epitesto : pareri di lettura, recensioni, premi letterari). A conclusione della disamina della fenomenologia paratestuale, necessariamente ridotta ad alcuni esempi, i relatori sentono di lanciare una modesta proposta per un modello e-r (entità-relazioni) specifico per le testimonianze paratestuali, dove la parte autoriale della produzione libraria sarebbe costituita dall’editore (stampatore), dall’editor che prepara il testo per la stampa e la presentazione per il pubblico, dal grafico che cura la copertina e le illustrazioni. Un’architettura relazionale che, in astratto, ci mette tuttavia di fronte alle implicazioni del paratesto, alla sua importanza documentale meritevole di essere affrontata con i mezzi che l’informatica offre. Interoperabilità : la necessità di mettere in comunicazione opac di biblioteche con cataloghi di collezioni speciali, in cui la registrazione bibliografica sia stata più approfondita. Multimedialità : il catalogo elettronico che consente di allegare testi e immagini 69. L’attività ha portato a innovativi studi di settore (cfr. http ://www.fondazionemondadori.it). Si pensi alle schede per i pareri di lettura : Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 994 ; Il mestiere di leggere. La narrativa italiana nei pareri di lettura della Mondadori (1950-1971), a cura di Annalisa Gimmi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori ; Il Saggiatore, 2002 ; come anche al lavoro sull’agente letterario Erich Linder. Autori, editori, librai, lettori, a cura di Martino Marazzi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2003. 70. La constatazione che sia un settore di nicchia non deve esimere da studi e sviluppi di indagine, che possano recare beneficio alla storia della cultura tout court. Ne è esempio l’ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Romanzo illustrato, Milano, Bompiani, 2004, in cui il protagonista ripercorre con la memoria il suo imprinting di letture e intrattenimenti colti quali fumetti, film, dischi e libri, che sono richiamati con copertine e locandine nelle illustrazioni a colori che intercalano il viaggio a rebours nei ricordi ; insomma al paratesto è demandato di condensare icasticamente le sensazioni di un passato culturale.

frbr e paratesto

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paratestuali alla registrazione di base. Il risultato potrebbe essere la mappa di un microcosmo bibliografico relativo a un singolo libro, alla sua fattura e alla ricezione presso il pubblico, che grazie alla “navigazione” ipertestuale propria dei cataloghi elettronici consente una resa della descrizione paratestuale di tipo reticolare, per mezzo del modello relazionale che si instaura tra le entità (autori di occorrenze paratestuali, paratesto in sé) e gli authority file per il paratesto (banche dati per i caratteri tipografici, per le marche, per la grafica editoriale, raccolte di pareri di lettura e di risvolti). The paper discusses Functional requirements for bibliographical records (Frbr) regarding the paratext of the ancient and modern book. The category theorized by Gérard Genette, which is divided in peritext and epitext, corresponds in the Frbr model to the entity characteristics : in this study those that concern the manifestation and the example. Characteristics are the connective tissue, the work or the expression can find mediation in catalogue and bibliography records with, they also are connections that help users to express requests in their searches. The experience on the description of the ancient book (analytic bibliography) is suitable for being retraced according to Frbr entities. We talk about intentio auctoris to specify the work/expression ; about intentio editoris to signify the show and intentio lectoris to indicate the example read and annotated. Paratext is no less important in the modern publishing, where documentation on the book becomes significant (epitext : reading opinions, reviews, literary awards). In order to bring the examination of the paratextual phenomenology to a close, necessarily reduced to some examples, the speakers intend to throw out a modest proposal for an e-r model (entity-connections) specific for paratextual elements, where the author contribution in the book production would be constituted by the publisher (printer), by the editor that revises the text for printing and for the presentation to the audience, by the designer that edits cover and pictures. It is a relational architecture that, in the abstract, puts us nevertheless facing the paratext implications and its documentary importance, worthy to be discussed trough the means that the information technology offers. Interoperabilità : the necessity of putting the opac system of libraries in contact with special collections catalogues, where the bibliographical recording has been studied in depth. Multimedialità : the electronic catalogue that allows to enclose texts and paratextual pictures to the basic recording. The result should be the map of a bibliographical micro cosmos, relative to an individual book, to its design and to the reception of the audience that, tanks to the hypertextual “navigation”, typical of electronic catalogues, allows a paratextual reticular description, by means of the relational model that is established among the entities (authors of paratextual events, paratext) and the authority files for the paratext (databank for typographical characters, for the marks, for the publishing graphic art, for reading opinions and implications).

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Michael Gorman ELEMENTI PARATESTUALI NEGLI ARCHIVI BIBLIOGRAFICI Un testo è un testo è un testo

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Prologo

a domenica prima del convegno ho partecipato alla Messa nella Basilica del Sacro Cuore a Roma. Alcuni ragazzi stavano facendo la Cresima e, durante la cerimonia, si sono fatti avanti per baciare le pagine di una grande Bibbia rilegata accuratamente. Mi sono chiesto se stessero baciando il libro od il testo o, forse, entrambi. In altre parole, poiché un libro è un oggetto, e quindi, in quanto tale, non suscettibile di venerazione, la sua virtù deve risiedere nell’essere la manifestazione di un testo – un’entità astratta e senza corpo che necessita di quella decorazione del libro per ricevere un bacio di adorazione. . Testo La domanda più importante alla quale rispondere, nel considerare l’argomento, è paradossalmente, “Cos’è un testo ? Il termine “testo” indica sia le parole originarie dell’autore presentate all’editore (dopo essere già passate attraverso diverse iterazioni) sia la parte principale di un libro, con l’esclusione del materiale aggiuntivo. Di solito la seconda definizione non coincide esattamente con la prima. Il dato fondamentale da evidenziare è che gli scrittori non creano libri – creano testi. Questi testi esistono come minimo su tre livelli. Il primo è il testo fisico (le parole su pagine o in microformato, i suoni delle parole su registrazioni sonore) che può variare da pubblicazione a pubblicazione perché il processo di pubblicazione introduce quasi invariabilmente cambiamenti e anomalie. Il secondo livello è il testo erudito – il prodotto delle ricerche secondo l’intento originario dell’autore che producono quanto di più vicino a tale intento quella erudizione può raggiungere. Il terzo è il livello idealizzato – l’Urtext che si cela dietro a qualunque particolare manifestazione fisica e costituisce quell’astrazione chiamata opera. Prendiamo ad esempio il celebre romanzo americano di Thomas Wolfe dal titolo Look homeward, angel. Oggi questo lungo romanzo può essere acquistato in brossura a circa 0 dollari. Il testo originale scritto da Wolfe era più lungo di quello pubblicato almeno del 25%. Wolfe e il suo editore Maxwell Perkins lavorarono insieme al manoscritto, che però rimaneva ancora troppo lungo e confuso ; allora Perkins, un editore geniale, eliminò ulteriori passaggi e ne risistemò altri per proprio conto.  Non sappiamo di preciso quale sia stata la vera natura di quella collaborazione, ma sicuramente Perkins oltrepassò ampiamente quello che è il normale ruolo di un editore. Il manoscritto originale (prima di Perkins) è stato ripreso molti anni dopo da altri editori e pubblicato con un altro titolo. 2 Il testo di Look homeward, . Elizabeth Newell, Thomas Wolfe, Garden City, Doubleday, 960, pp. 26-29. 2. O lost : the story of the buried life/ text established by Arlyn and Matthew Bruccoli. Columbia, University of South Carolina Press, 2000.

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angel, quindi, esiste su quattro livelli : nella moderna versione in brossura risultante dalla collaborazione Wolfe/Perkins ; nel testo completo originale pubblicato e curato successivamente da altri editori ; nel manoscritto originale conservato alla Houghton Library di Harvard ; e nell’opera “ideale” che chiamiamo Look homeward, angel. I testi possono essere trasmessi in una quantità di formati – su microfilm, su rotoli, in forma elettronica, ecc. – come pure nella consueta forma del codice, esistente da molti secoli e diventata la norma negli ultimi cinque. Una forma moderna di trasmissione dei testi particolarmente interessante è l’audiocassetta – comunemente definita “libro parlante”. Specie quando il testo è letto dall’autore, questo formato rappresenta la forma più pura di trasmissione dopo il manoscritto realizzato dall’autore. 2. Paratesto Samuel Kinser definisce paratesto gli « elementi che incorniciano il testo, come il frontespizio con le indicazioni di titolo, autore e editore, l’indice, la dedica e la prefazione ; il paratesto comprende elementi sparsi in tutto il testo come le illustrazioni, le note, le indicazioni a margine e i sottotitoli ; esso comprende anche il formato di un libro : carattere tipografico, rilegatura, estensione, qualità della carta ». 3 Oltre al paratesto che si trova in tutte le copie di un’edizione di un libro, ci sono anche elementi paratestuali che sono unici di una singola copia, come le note manoscritte, gli schizzi e le note a margine. Lo scrittore francese Gérard Genette propone un approccio più ampio dividendo il paratesto in peritesto e epitesto. Il primo (che io preferisco chiamare “paratesto bibliografico”) comprende tutti gli elementi paratestuali presenti nel libro in sé (in sostanza quelli contemplati dalla definizione di Kinser) ; il secondo consiste di elementi esterni al libro – interviste, cataloghi, recensioni, ecc. Anche se la catalogazione è interessata in larga misura al paratesto bibliografico, essa, come vedremo, tiene anche conto degli scritti epitestuali. Entrambi questi autori si concentrano sul codice – il libro stampato – ma è doveroso notare che in qualunque forma essi siano, i testi possono avere e hanno elementi paratestuali. Prendiamo ad esempio il caso dei “libri parlanti” citati poc’anzi. Di solito queste audiocassette contengono del paratesto parlato, come il titolo, l’autore del testo e il nome del lettore all’inizio, e il nome dell’editore alla fine. La custodia della cassetta di solito riporta dell’altro paratesto, e la scatola che contiene la custodia ne ha dell’altro ancora. 3. I primi libri Un libro moderno è un testo accompagnato da testi secondari, segni, immagini e simboli che aiutano il lettore a individuare e interpretare il testo o che fungono da informazione visiva supplementare o da decorazione. Questo libro moderno è il risultato di un’evoluzione e di un processo di standardizzazione di cinque secoli che ha raggiunto un elevato grado di formalizzazione e di coerenza di presentazione. Molti dei primi libri stampati contenevano nel migliore dei casi soltanto alcuni di quei segni accessori e denotazioni, e la presentazione mancava di uniformità. Non era insolito per libri di quel genere avere incorporato nel testo stesso il titolo, il nome dell’autore, il luogo di attività e il nome dello stampatore/editore e molti altri elementi che oggi vengono presentati in maniera formalizzata al di fuori del testo centrale. Lo stesso 3. Samuel Kinser, Rabelais’s carnival, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 990. p. 7.

elementi paratestuali negli archivi bibliografici

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frontespizio è stato inventato soltanto nel 470, e la pagina intera di frontespizio, più o meno nella forma che conosciamo oggi, non era molto diffusa prima del 520. 4 Alfred Pollard cita la prassi dell’antico stampatore inglese William Caxton, il quale « ... preferiva comunicare ai suoi lettori il titolo del libro e la data di stampa all’inizio o alla fine del prologo, dell’indice, del testo o dell’epilogo ; in pratica ovunque tranne che su una prima pagina vuota ». E così nel suo Mirror of the world riusciamo a ottenere la maggior parte delle informazioni nell’indice, che reca l’intestazione : Ha inizio qui la tavola degli argomenti del presente volume intitolato lo Specchio del Mondo o l’Immagine del medesimo.

Questo è un esempio relativamente semplice di paratesto (il titolo e il parziale titolo alternativo) incorporato in un paratesto (l’indice). 4. Documenti elettronici A prima vista può sembrare strano e casuale il fatto che quei primi libri stampati abbiano molti aspetti in comune con gli odierni documenti elettronici. La formalizzazione della presentazione è assente dalle pagine web e da altri montaggi elettronici ; spesso questi non riportano il nome dell’autore, la data di “pubblicazione” e revisione, la numerazione delle “pagine”, le indicazioni di “edizione” e tutte le altre informazioni che si trovano nei libri moderni e la cui assenza è così evidente nei primi libri stampati. Ricordiamo tuttavia che ci vollero circa 70 anni prima che i dati paratestuali formalizzati divenissero di uso comune. Se consideriamo ciascuno dei formati che l’uomo ha inventato per comunicare ai propri simili e alle generazioni future testi e immagini, notiamo che per ognuno di questi formati ad una prima fase di immaturità nella presentazione, caratterizzata dall’assenza di segni esterni che aiutino l’interpretazione e la comprensione, segue una maturità della presentazione in cui tutti questi segni (gli elementi paratestuali) non solo sono presenti ma vengono anche indicati in modo standardizzato e prevedibile. Facciamo qualche esempio estraneo al mondo dei libri : i moderni film hanno sequenze di titoli ed elenchi del cast standardizzati, in cui compaiono i nomi di registi, produttori, attori, ecc. come pure le date di produzione e distribuzione, ecc. ; i moderni microformati hanno intestazioni visibili e sequenze di titoli ; le moderne registrazioni sonore sono accompagnate da etichette e custodie che contengono informazioni formalizzate su titoli, esecutori, arrangiatori, ecc. Grandi eccezioni a questa regola sono i manoscritti ed altri manufatti unici e inediti realizzati in molti formati diversi (videocassette private, registrazioni sonore inedite, foto di famiglia, ecc.). In breve, ogni forma di comunicazione che si avvale di una tiratura in molte copie ha sviluppato o, nel caso della comunicazione elettronica, sta sviluppando un sistema maturo e standardizzato di segni esterni a testi, suoni e immagini che, fra le altre cose, permettono l’esistenza di un sistema internazionale di controllo bibliografico. Vale la pena notare qui che alcuni di questi elementi vengono forniti dall’autore (normalmente il titolo, la prefazione – anche se questa è scritta da un’altra persona – e i ringraziamenti) ed altri dall’editore.

4. Alfred W. Pollard, Last words on the history of the title page…, London, J. C. Nimmo, 89 (repr. 97).

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michael gorman 6. Il paratesto nei libri moderni

Quali sono gli elementi paratestuali di un tipico libro moderno prodotto commercialmente ? La sopraccoperta (che, va notato, è separata dal libro – ed è quindi epitesto – e spesso non gli sopravvive) solitamente contiene il titolo e il sottotitolo, il nome dell’autore, il nome abbreviato e il simbolo dell’editore, un sommario del libro, estratti di recensioni positive del libro ed una breve biografia con foto dell’autore. Nel caso di edizioni economiche (di qualità) “commerciali” senza sopraccoperta, molti di questi elementi si spostano all’esterno e all’interno della copertina del libro. All’interno del libro il lettore trova una serie di pagine e fogli di carattere introduttivo. Di solito il primo elemento paratestuale è l’occhiello, ma la fonte più importante e preminente di paratesto è il foglio di frontespizio. Questo normalmente reca sul recto (“il frontespizio”) il titolo ufficiale del libro, altri elementi che fanno parte del titolo (sottotitoli, titoli alternativi e titoli paralleli), indicazione/i di paternità ed il nome e (talvolta) sede/i dell’editore. Il verso del foglio di frontespizio di solito contiene una grande dovizia di elementi paratestuali. Prendiamo un libro di recente pubblicazione negli Stati Uniti ; il verso della pagina di frontespizio contiene i seguenti elementi : nome del fotografo che ha scattato la foto del frontespizio e della società che detiene i diritti su altre foto presenti nel libro ; una dichiarazione che il libro è stato stampato su carta prodotta senza uso di acidi ; la notifica di copyright dell’autore e la data ; nome e indirizzi dell’editore ; una lunga notifica sui diritti pertinenti all’us Copyright Act e un indirizzo presso il quale è possibile richiedere eventuali autorizzazioni ; una dichiarazione sui limiti di responsabilità legale dell’autore e dell’editore ; gli indirizzi per ottenere informazioni su altri prodotti dell’editore, compresi formati elettronici ; i dati di catalogazione presso la Library of Congress (una scarna voce di catalogo con intestazioni e numeri di classificazione) ; una dichiarazione che il libro è stato stampato negli Stati Uniti e che questa è la prima edizione ; il nome di chi ha curato la grafica del libro. L’epigrafe del libro è posta sulla pagina a fronte. Di solito il foglio con la dedica si trova tra il frontespizio ed altri testi a carattere introduttivo. Normalmente troviamo poi un indice con l’indicazione di capitoli e sottocapitoli, una prefazione e/ o introduzione ed un elenco di ringraziamenti. È consuetudine molto diffusa che tutte queste pagine (partendo dall’occhiello per finire con l’ultimo foglio con notizie di carattere introduttivo) siano numerate con numeri romani minuscoli per distinguerle dal testo vero e proprio che segue invece la numerazione con numeri arabi. In molti casi l’uso dei numeri romani è implicito. Ad esempio, il frontespizio non è quasi mai numerato con questa sequenza, nonostante ne faccia parte. Entrambe le sequenze di numerazione sono elementi paratestuali forniti dall’editore in sostituzione della numerazione presente sui fogli del manoscritto dell’autore. All’interno del testo spesso si trovano foto e altre illustrazioni che sono incorporate nel testo o collocate in tavole, fogli o pagine numerati separatamente o privi di numerazione. Sempre all’interno del testo a volte è possibile trovare altri segni come la numerazione dei “fascicoli” e simboli che indicano che la stampa è stata effettuata in una tipografia sindacalizzata – lo “union bug”. Dopo la fine del testo è abbastanza frequente trovare uno, alcuni o tutti i seguenti elementi : appendici, note, bibliografie e indici analitici (di solito in quest’ordine). I colophon (indicazioni sulla produzione del libro, comprendenti nome della tipografia, del grafico, carattere tipografico, ecc. poste al termine del libro) oggi compaiono sempre più di rado, ma erano molto comuni fino a pochi decenni fa.

elementi paratestuali negli archivi bibliografici

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Anche il libro moderno più modesto – uno delle decine di migliaia che vengono pubblicati ogni anno in lingua inglese – contiene un’abbondanza di informazioni (testuali, grafiche e simboliche) che aumentano la conoscenza del lettore sulla produzione e sulla estensione del libro ; su contenuto e fonti del testo nonché sulla vita e le opere dell’autore. Un testo è un testo è un testo (prendendo spunto dalla frase di Gertrude Stein) ma senza il contesto fornito dagli elementi paratestuali che si aggiungono al testo per costituire un libro, quel testo sarebbe difficile da collocare nell’universo bibliografico creato dalle moderne reti di catalogazione e risulterebbe pertanto difficile da localizzare e identificare. 7. Il paratesto privato dei manoscritti Quando un autore scrive un testo complesso, normalmente adotta dei propri elementi paratestuali privati – il frontespizio dell’autore, la numerazione di pagine e capitoli dell’autore, i ringraziamenti dell’autore e così via – pochi dei quali sopravvivono in quella forma una volta che il libro che contiene il testo viene pubblicato. Di conseguenza, il risultato della catalogazione del manoscritto originale (di solito, nel xxi secolo, un dattiloscritto stampato da un programma di elaborazione testi) apparirà molto diverso dalla scheda bibliografica creata in base al libro stesso. 8. Obiettivi di un catalogo Charles Ammi Cutter, eminente bibliotecario americano del xix secolo, fissò gli obiettivi di un catalogo più di 30 anni fa. 5 Quegli obiettivi sono tanto validi oggi nel mondo delle banche dati bibliografiche globali quanto lo erano ai tempi di Cutter quando i cataloghi erano isolati, stampati e a schede. Cutter affermava che il catalogo doveva servire a ÿ • • • ÿ • • • ÿ • •

Trovare un libro del quale si conoscano L’autore, o Il titolo, o Il soggetto Indicare cosa possieda la biblioteca Per un determinato autore, o Su un determinato soggetto, o In un determinato genere letterario Facilitare la scelta di un libro Attraverso la sua edizione (in senso bibliografico) Attraverso la sua caratterizzazione (in senso letterario o topico)

Al fine di soddisfare questi “obiettivi del catalogo”, una voce di catalogo contiene una descrizione altamente formalizzata e dettagliata del libro o di altre risorse bibliografiche presentata in maniera stilizzata, con punteggiatura stilizzata e in un ordine invariabile, accompagnata da punti di accesso per nome e per titolo che raggruppano voci di catalogo collegate. 9. Libri e opere Le descrizioni presenti nei cataloghi sono tratte dalla manifestazione del testo (libro, nastro, documento elettronico) che è stata catalogata. Ogni risorsa è una manifesta5. Charles Ammi Cutter, Rules for a dictionary catalog, Washington, Govt.print off, 9044.

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zione di un’opera — una struttura mentale che non esiste fisicamente ; una versione idealizzata di un testo senza gli errori e le anomalie che si insinuano in tante manifestazioni di tale opera. La catalogazione rende disponibili le descrizioni delle risorse attraverso punti di accesso per nome e per titolo che contengono i nomi degli autori e i titoli delle opere formalizzati e normalizzati. Questi nomi e titoli sono tratti da un « authority file » (« schedario di autorità », un meccanismo per il quale ogni identità bibliografica – una persona può avere più d’una identità bibliografica – ed ogni opera è identificata attraverso un’unica forma standard di nome e titolo). È fondamentale notare che la descrizione è tratta dall’oggetto (libro, video, ecc.) e i punti d’accesso sono tratti dall’“opera” – l’astrazione della quale le tante risorse bibliografiche sono le manifestazioni. Ad esempio, una biblioteca può acquisire alcune versioni a stampa dell’Amleto di Shakespeare in diverse lingue sotto diversi titoli, le videoregistrazioni dei tanti film su Amleto e le registrazioni sonore delle rappresentazioni teatrali. Ognuna ha un proprio titolo e autori secondari, e questi saranno dichiarati nella rispettiva descrizione. Tuttavia, ognuna di esse è una manifestazione di un’unica opera che noi identifichiamo come di Shakespeare e intitolata Amleto. Il nome formalizzato per Shakespeare è « Shakespeare, William, 564-66 », e il titolo formalizzato (« uniforme ») dell’opera è Amleto (non “La tragedia di Amleto, principe di Danimarca” o “Hamlet” o uno qualunque degli altri titoli con i quali sono pubblicate le manifestazioni di Amleto). Un’importante differenza fra il titolo di una manifestazione (libro, ecc.) di un’opera e il titolo usato per identificare l’opera, è che il primo è sempre tratto dal paratesto bibliografico della risorsa (libro, ecc.) che è stata catalogata e il secondo deriva dalla convergenza del paratesto bibliografico delle manifestazioni e da quello che Genette chiama l’epitesto – le opere critiche e di riferimento. Il paratesto bibliografico delle manifestazioni di un’opera è ritenuto una prova centrale, ma non l’unica, necessaria per formulare nomi standardizzati di autori e titoli standardizzati di opere. Per creare le forme standardizzate usate nella catalogazione, le prove trovate nei libri devono essere verificate alla luce delle prove trovate nelle opere di riferimento e in altre fonti. 0. Fonti paratestuali dei dati presenti nelle descrizioni Le Anglo-American cataloguing rules, second edition (aacr2), le norme di catalogazione a più larga diffusione mondiale, definiscono le fonti privilegiate per ciascun elemento della descrizione di tutti i materiali bibliotecari. Nell’ambito di questo mio intervento mi limiterò alla descrizione relativa ai codici moderni, ma mi pare doveroso ribadire che i testi possono comparire in molti formati, e l’equivalente del paratesto che accompagna i testi stampati può essere rintracciato, in forme diverse, in manoscritti, pamphlet, volantini, materiali cartografici, registrazioni musicali, registrazioni sonore, documenti elettronici e microformati, per non parlare degli stampati che accompagnano materiale non stampato e che si trovano in kit di vario genere. Ecco uno schema di descrizione bibliografica in un catalogo : Titolo : sottotitolo ed altre informazioni sul titolo / indicazione di paternità ; altre indicazioni di paternità. – Indicazione dell’edizione / indicazione di paternità dell’edizione. – Luogo/ luoghi di pubblicazione : editore/i, data di pubblicazione. --- Indicazione dell’estensione [es. pagine o volumi] ; altri dettagli fisici [es. illustrazioni], dimensioni. – (Serie ; numerazione della serie). – Numero di riferimento.

elementi paratestuali negli archivi bibliografici

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Le aacr2 stabiliscono un complesso elenco di fonti privilegiate per le varie parti della descrizione bibliografica. La fonte più autorevole di informazioni (« chief source ») per un moderno libro di tipo occidentale è il frontespizio (il recto del foglio del titolo) ; le informazioni sui titoli principali (« titles proper »), sottotitoli e indicazioni di responsabilità sono tratte da questa pagina. I libri in caratteri non romani a volte danno queste informazioni nel colophon (una dichiarazione posta al termine del libro), nel qual caso il colophon viene considerato la fonte principale. Le indicazioni relative ai dettagli su edizione e pubblicazione vengono tratti dal frontespizio, se vi compaiono. Diversamente, vengono prese dal verso del foglio di frontespizio e da eventuali altri materiali paratestuali preliminari e/o dal colophon. La descrizione fisica (numerazione di pagine/volumi, dettagli di carattere illustrativo e dimensioni) è tratta in parte dagli elementi paratestuali (numerazione delle pagine e delle tavole, ecc.) in parte dall’evidenza fisica del libro stesso. Le informazioni relative ad una serie e/o sottoserie sono prese, in questo ordine di preferenza, da : un frontespizio della serie, il frontespizio, la copertina del libro, il resto della pubblicazione. Le informazioni sul numero di riferimento (isbn, ecc.) sono tratte da qualunque elemento, interno o esterno al libro. Possiamo subito osservare che, per quanto riguarda la descrizione bibliografica, certo paratesto è più importante di altro e che l’ordine di preferenza viene stabilito in particolare da quello più ricco d’informazioni e formalizzato (il frontespizio) a quello meno ricco (la numerazione più o meno automatica di pagine, illustrazioni, ecc., e da altro paratesto secondario). Inoltre, risulta chiaramente da queste norme che, quando le informazioni trovate nel paratesto del libro che si cataloga sono insufficienti, il catalogatore deve fare riferimento a fonti esterne al libro fisico per informazioni quali date, indicazioni di pubblicazione e numerazione standard. . Fonti dei punti d’accesso (nome e titolo) I punti di accesso nei cataloghi fanno riferimento all’opera e non ad una particolare manifestazione (libro, ecc.) di quell’opera. Tuttavia, la prova primaria delle opere moderne (a partire dall’anno 50) è tratta dai frontespizi dei libri che sono manifestazioni di quelle opere. Pertanto, il paratesto bibliografico degli oggetti fisici è fondamentale al fine di stabilire la denotazione dell’opera astratta. Le aacr2 dicono al catalogatore di usare le informazioni del frontespizio ; poi « altre preminenti indicazioni » (intese come indicazioni paratestuali) all’interno del libro ; poi il contenuto del libro ; in ultimo le fonti esterne al libro (l’epitesto). Le norme provvedono poi a elaborare tutto questo in una serie di regole relative a particolari tipi di paternità e a particolari tipi di nome. La regola generale per persone note con più di un nome o forma di nome è di usare la forma con la quale queste persone sono più comunemente note in base a quanto contenuto nei frontespizi dei libri che contengono le loro opere. In alcuni casi speciali questa regola generale varia. Ad esempio, al catalogatore viene detto di scegliere tra diverse forme linguistiche dello stesso nome in base, prima, ai frontespizi dei libri e poi a « fonti di riferimento della nazione di residenza o di attività della persona ». Il paratesto bibliografico è preferito ma le fonti epitestuali vengono usate per risolvere i casi complessi. Analogamente, i punti d’accesso per persone il cui nome originariamente non è scritto in caratteri romani devono essere tratti da « fonti di riferimento in lingua inglese ».

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Anche il « titolo uniforme » (il titolo standard col quale un’opera è elencata nei cataloghi) è derivato da una combinazione di elementi paratestuali e da fonti esterne. Le opere create dopo il 500 devono essere identificate dal titolo nella lingua originale nella quale sono conosciute attraverso l’uso in a) manifestazioni dell’opera o b) nelle fonti di riferimento. La regola per le opere create prima del 50 ribalta questa preferenza optando per a) « fonti di riferimento moderne » o b) (anche qui in ordine di preferenza) edizioni moderne, prime edizioni e copie manoscritte. 2. Infine… Il paratesto è fondamentale per la catalogazione di libri ed altri materiali da biblioteca. Esso fornisce la quasi totalità dei dati usati nella descrizione delle manifestazioni delle opere ed è una fonte primaria di informazioni nella formulazione dei punti d’accesso per nome e per titolo che vengono utilizzati per accedere a, e raggruppare, queste descrizioni. Alla pari di forme più antiche di comunicazione che hanno sviluppato elementi paratestuali complessi ed elaborati, la catalogazione di libri ed altre forme più antiche hanno sviluppato una serie complessa di regole utilizzando questo paratesto. Le nuove forme di testo, in particolare i testi elettronici, non hanno ancora sviluppato un paratesto elaborato, e non è un caso che la catalogazione di questi testi viva ancora in una sorta di infanzia inarticolata Abstract La relazione si apre con la definizione di “testo” e “paratesto” (e introduce il termine di “paratesto bibliografico” a indicare il paratesto presente nel libro fisico). Si passa quindi ad una trattazione del paratesto nei primi libri, nei documenti elettronici e nei libri moderni per poi definire gli obiettivi dei cataloghi delle biblioteche e le differenze fra opere e libri. Il ruolo del paratesto nella formulazione di descrizioni bibliografiche è considerato centrale. Importante, ma non in maniera peculiare, è considerato invece il ruolo del paratesto nella formulazione di punti di accesso in relazione all’opera. The paper opens by defining “text” and “paratext” (introducing the term “bibliographic paratext” to mean paratext found in the physical book). It discusses paratext in early books, electronic documents, and modern books before going on to define the objectives of library catalogues and the differences between works and books. The role of paratext in formulating bibliographic descriptions is seen as being central. The role of paratext in formulating access points relating to the work is seen as important, but not uniquely important.

Alberto Cadioli IL PATTO EDITORIALE NELLE EDIZIONI MODERNE E CONTEMPORANEE

I

l titolo di questo intervento è modellato su due espressioni ormai consolidate e diffuse nella critica letteraria : ‘patto narrativo’ e ‘patto autobiografico’. La ragione di questa scelta si trova nell’intenzione di approfondire, anche in riferimento alla storia delle edizioni, l’idea che la parola ‘patto’ suggerisca « l’orizzonte negoziale della modernità, dove autore e lettore, ciascuno nel suo ruolo distinto ma su base paritaria, convengono sulle regole del gioco » (secondo le precisazioni di Giovanna Rosa).  Proprio nella direzione di indicare le ‘regole del gioco’, dunque, le tre istanze del ‘patto’ con il lettore, pur nelle loro specificità, possono essere poste sullo stesso piano. Se infatti le dichiarazioni d’intenti inserite dagli autori nei loro testi – ricorrendo per lo più a un narratario, esplicito o meno, emblema non del lettore com’è ma tutt’al più di come si vorrebbe che fosse – danno origine a un ‘patto narrativo’ che, invitando ad entrare, per convenzione, nel mondo della finzione letteraria, orienta l’atto della lettura ; e se d’altro canto il ‘patto autobiografico’, secondo le ampie analisi condotte da Philippe Lejeune, 2 promette al lettore la verità di ciò che il testo racconta, il ‘patto editoriale’, facendo risuonare la voce di chi trasforma il testo in libro, suggerisce, a volte ambiguamente al lettore e all’acquirente, la bontà del testo offerto e i modi migliori del suo uso. Questa voce, affidata a un ‘avviso’ – che si rivolge a chi legge con un’invocazione (« Al lettore », « Benigno lettore ») o con un intento più descrittivo (« Lo stampatore ai lettori ») – è ricorrente nelle edizioni a stampa fin dagli esordi : se in molti casi partecipa dei caratteri della dedica e altre volte propone le forme di un appello retoricamente e convenzionalmente codificato, in altri ha già i tratti del ‘patto’ moderno, per cui, ricercando un rapporto dinamico tra colui che pubblica e colui che legge, fissa le ‘regole del gioco’ e indica in modo puntuale sia il rapporto stampatore-lettore sia la modalità di lettura che l’edizione vuole suggerire. Scritti paralleli, si potrebbe dire, alle dediche, ai prologhi, alle prefazioni, gli ‘avvisi al lettore’ – a volte esplicitamente ricondotti allo stampatore o all’editore, altre non firmati ma di evidente ispirazione editoriale – meritano di essere esaminati e indagati nei loro diversi aspetti, per conoscerne i caratteri stabili e quelli via via modificati nel tempo, fino ad arrivare a quelle forme tipicamente novecentesche che in gran parte li hanno sostituiti, trasferendosi dall’interno all’esterno del libro : i risvolti e le quarte di copertina. Qui, per evidenti ragioni di brevità, ci si limiterà solo ad alcuni spunti relativi al primo Ottocento : il periodo è stato scelto per l’interesse che suscita in quanto tempo di passaggio tra gli stampatori dell’Antico Regime Tipografico (per altro pienamente attivi anche nell’Ottocento) e l’editore ‘moderno’, imprenditore che persegue e . Giovanna Rosa, Patto narrativo e civiltà del romanzo, « Allegoria », 34-35 (2000), p. 38 (pp. 35-67). 2. Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 975 (tr. it. Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 986).

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finanzia un progetto librario rivolgendosi a una variegata molteplicità di acquirentilettori da conquistare, la fisionomia dei quali è molto diversa rispetto a quella del pubblico più ristretto (e per molti aspetti più omogeneo) del passato. Sono lettori, in particolare, che non si sono formati sulle letterature classiche e sui testi canonici della letteratura italiana, ma che tuttavia non sono nemmeno assimilabili ai consumatori delle pubblicazioni ‘popolari’ (per il loro desiderio di lettura, la pratica della lettura silenziosa, la scelta dei generi). Non si può del resto parlare di editoria moderna senza prendere atto di una riconfigurazione del sistema letterario nel suo complesso, dentro il quale ai generi della tradizione si va affiancando (e poi addirittura sostituendo) il genere del romanzo, che, inizialmente emarginato, è destinato a quei gruppi nuovi di lettori, cui gli editori devono rivolgersi con sempre maggiore attenzione. Prima di alcune citazioni ottocentesche, tuttavia, può essere utile tentare una prima ricognizione di alcuni caratteri generali del ‘patto editoriale’. A differenza del ‘patto narrativo’ o del ‘patto autobiografico’, infatti, il ‘patto editoriale’ non sollecita, a proposito del testo che introduce, alcuna sospensione di giudizio e non richiede alcun credito in bianco ; e tuttavia, come « sulla soglia del racconto, il narratore porge le istruzioni per l’uso, rende esplicito il codice formalizzatore, delinea la fisionomia del lettore elettivo, ne orienta l’attenzione fruitiva, si confronta con i modelli e i canoni della tradizione, chiarisce i suoi intenti », 3 così anche il ‘patto editoriale’ ha il ruolo, da un lato, di richiamare l’attenzione del lettore giustificando le scelte dell’edizione e dei suoi caratteri, e, dall’altro, di dare un suggerimento d’uso e di lettura. All’origine del ‘patto editoriale’, per la parte che qui interessa, e cioè il rapporto con il lettore e non con l’acquirente, c’è l’intenzione dell’editore di portare alla condivisione dell’interpretazione del testo offerta dalla propria edizione. A differenza dell’accettazione del ‘patto narrativo’ e del ‘patto autobiografico’ – accomunati dall’essere inseriti in una strategia testuale riconducibile all’autore e alle modalità della sua scrittura – l’accettazione del ‘patto editoriale’ comporta dunque il confronto con un’interpretazione proposta dall’esterno del testo. Un’interpretazione che, di volta in volta, è differente in rapporto alle diversità delle edizioni (anche quando trasmettono lo stesso testo) e al fatto che si tratti di una prima pubblicazione o di una successiva. Quanto più, per altro, l’edizione di un testo è distante dalla prima, tanto più lo scritto che ne giustifica la pubblicazione proponendo una modalità di lettura mette in risalto l’intentio editionis, allontanando, o interpretando, l’intentio auctoris. Il patto editoriale, cioè, può esplicitare su un piano storico e reale il patto suggerito dalla presenza di un narratario (e in particolare da un ‘narratario di gruppo’ 4) o instaurarne uno del tutto diverso, poiché l’intentio editionis è legata alle convinzioni letterarie dell’editore, alle convenzioni letterarie del suo tempo, al contesto storico-culturale, ai dibattiti in corso e via dicendo. Su questo aspetto della differenza delle letture generate da ogni diversa edizione non è nemmeno il caso di insistere, tanto ormai la sua importanza è stata sottolineata dagli studiosi di bibliografia analitica e di storia della lettura. 5 Gli editori (così come 3. G. Rosa, Patto narrativo…, cit., p. 37. 4. Sul ‘narratario di gruppo’ cfr. Gérard Prince, Narratologia. La forma e il funzionamento della narrativa (982), Parma, Pratiche, 984 (« Il narratario può essere costituito da un gruppo a cui si rivolge il narratore » : p. 36) e la lettura de I promessi sposi condotta dal punto di vista del ‘narratario di gruppo’, in Giovanna Rosa, I venticinque lettori dei “Promessi sposi”, in Identità di una metropoli. La letteratura della Milano moderna, Milano, Aragno, 2004 (pp. 79-4), p. 83. 5. È sufficiente rimandare, a questo proposito, ai nomi di G. Thomas Tanselle (del quale, in traduzio-

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gli stampatori) si rivolgono necessariamente a lettori che hanno una fisionomia reale dentro un tempo storico : è a questi lettori reali che, cercando di instaurare un patto con chi legge, indirizzano scritti più o meno ampi (forse non ancora pienamente indagati dal punto di vista della critica letteraria). Tra i vari elementi degli scritti dell’editore che presentano un’edizione, tre ricorrono in modo significativo, a volte presenti singolarmente, altre volte integrati tra loro : ) l’individuazione del lettore (dei lettori) cui l’edizione si rivolge, prefigurandone i tratti ; 2) i principi ispiratori dell’edizione e i caratteri del testo riprodotto ; 3) le modalità di lettura del testo. Quest’ultimo punto, per altro, è spesso intrecciato con il primo, e quindi, sempre per brevità, l’uno e l’altro saranno qui accorpati negli stessi esempi, che hanno l’obiettivo di porre ipotesi di lavoro, più che di esporre risultati finali di ricerche condotte. Giovanni Pirotta, dando alle stampe nel 82 la traduzione del romanzo Le confessioni al sepolcro di Augusto Lafontaine, nello scritto intitolato « Gli editori alle persone che amano le letture amene ed istruttive » 6 fornisce insieme l’indicazione dei destinatari – i nuovi gruppi di lettori – e il genere prescelto : il romanzo. Già il titolo, per altro, richiamando « le letture amene e istruttive », propone una modalità di lettura, poi resa esplicita nel lungo testo : « Fra i diversi rami della bella letteratura, quello che generalmente piace più ed alletta, ma che pure più degli altri viene censurato, è il ramo delle composizioni romanzesche. Ora disegnato avendo noi, per la Raccolta che meditiamo, di servirci di esso, come atto meglio di tutti a dilettare e ad istruire a un tempo, prenderemo in prima a giustificarlo, rivolgendoci in particolare a chi ne’ piacevoli trattenimenti ama trovare istruzione ». 7 I buoni romanzi, dunque, per continuare la citazione, « conducono l’uomo per la via dei più innocenti e sicuri artifizii, come si è quello del maraviglioso, che ha somma forza per allettarci ; quello pure delle tenere commozioni, ch’è il nutrimento dell’uman cuore, e quello infine della curiosità, che, eccitata con diletto, è avida sempre di apprendere ». 8 La prima preoccupazione, tuttavia, era legata alla giustificazione delle scelta di pubblicare un genere nuovo e ‘censurato’ come il romanzo, e si tratta di una giustificazione che è, prima di tutto, pienamente dentro l’esperienza della lettura, rifacendosi alla proiezione del lettore nella narrazione che legge. Quei princìpi generali, infatti, che nelle opere di istruzione vengono « additati », « ne’ romanzi vengono applicati ad una tanta varietà di casi, in alcuno de’ quali raro è che chi legge non trovisi, o non siasi trovato, o non sia per trovarsi ». 9 Per questo, tra l’altro, il romanzo è preferibile alle novelle, che, proprio per il loro fondarsi su brevi episodi, « non possono bastantemenne italiana, è uscita la raccolta di scritti Letteratura e manufatto, Firenze, Le Lettere, 2004), di Donald F. McKenzie e di Roger Chartier (dei quali andranno almeno ricordati, rispettivamente, Bibliography and the sociology of texts, (986), trad. it. Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 999 e L’ordre des livres. Lecteurs, auteurs, bibliothèques en Europe entre XIV et XVIII siècle (992), trad. it., L’ordine dei libri, Milano, Il Saggiatore, 994). 6. Augusto Lafontaine, Le confessioni al Sepolcro, corredata di note, osservazioni e tavole incise in rame, Milano, Giovanni Pirotta, 82, p. v. Sugli stampatori e sugli editori milanesi dei primi decenni dell’Ottocento non si può non rimandare a Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 980. 7. A. Lafontaine, Le confessioni…, cit., p. v. 8. Ivi, p. ix. 9. Ivi, pp. viii-ix.

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te fermar l’attenzione del leggitore, o almeno impegnarlo come viene impegnato dalla lettura dei romanzi, da cui il frutto che si può sperare è ben maggiore ». 0 E il frutto (o uno dei frutti) è precisato così : « i buoni romanzi sono il supplimento della storia, e vengono in soccorso di essa ».  L’indicazione è dunque quella di leggere il romanzo in generale, e Le confessioni al sepolcro in particolare, come uno strumento di educazione e di conoscenza, per « apprendere quello che all’uomo deve essenzialmente importare per sapere ben difendersi e condursi sì nello stato pubblico che nel privato ». 2 L’esempio di Pirotta, che porta direttamente dentro il dibattito dell’epoca sulla legittimità del genere romanzo, è solo uno dei tanti possibili. Ancora il « 3 gennaro 825 », i « librai Antonio Fortunato Stella e Figli », continuatori della collezione di libri « istruttivi » ed « ameni » pubblicata da Pirotta – il cui scarso successo ne aveva consigliato la cessione ad un’azienda più dinamica (ma Pirotta continua ad esserne lo stampatore) – si rivolgono preliminarmente « A chi ama di leggere con diletto e profitto », nella loro presentazione di un altro romanzo di Lafontaine, Maria Menzikoff ossia La sposa promessa di Pietro. Dichiarando di volere pubblicare « opere soltanto dilettevoli ed istruttive » 3 (e non necessariamente solo romanzi), i nuovi editori annunciano la prossima uscita di un ulteriore romanzo di Lafontaine, « scelto a fine di far conoscere questo insigne Autore anche dal lato dei romanzi storici, in cui a noi sembra che abbia superato se stesso, e perfino il celebre Scozzese sig. Walter Scott, che cotanta rinomanza si acquistò co’ suoi, tutti di genere storico ». 4 È evidente come gli esempi appena riportati offrano suggerimenti e giudizi, ed è ugualmente evidente come non possano essere sottratti al loro tempo storico : è proprio della fine del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento sia l’apertura di orizzonti nei confronti di un genere nuovo, guardato con sospetto dai letterati tradizionali, soprattutto perché destinato a un pubblico ampio, sia, nello stesso tempo, la riproposta della lettura utile e istruttiva. Chi scrive, si potrebbe aggiungere, le note degli editori ? Salvo casi particolari di editori che possiedono un bagaglio culturale consolidato (e di coloro che non possedendo né officine tipografiche né librerie, finanziano una pubblicazione), dietro le dichiarazioni con le quali l’editore si rivolge al lettore, si nascondono letterati spesso noti. Per essere correttamente individuati, i nomi di questi collaboratori meriterebbero tuttavia una ricerca approfondita (ciò che è stato fatto per il Cinquecento, non ancora per l’Ottocento) : insieme con l’editore ottocentesco, infatti, acquisiscono sempre maggiore importanza il lettore dei testi italiani contemporanei e il traduttore dei testi contemporanei stranieri, che, anche quando non intervengono direttamente sulla scelta, contribuiscono alla pubblicazione, alla giustificazione, all’indicazione dei modi possibili di lettura. Paradossalmente – ma l’osservazione serve solo per introdurre un ulteriore elemento di riflessione, non per suggerire una spiegazione storicamente plausibile – il plurale « editori », nella nota di Pirotta sopra ricordata, congiungerebbe sia l’editore 0. Ivi, p. xv. . Ivi, pp. xxiv-xxv. Il corsivo è nel testo. 2. Ivi, p. xxvii. 3. « A chi ama di leggere con diletto e profitto », in Augusto Lafontaine, Maria Menzikoff ossia La sposa promessa di Pietro, Milano, Stella, 825, p. 6. 4. Ivi, p. 7.

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in quanto finanziatore della collezione sia gli intellettuali che lo circondano (in primo luogo il traduttore), in una commistione di ruoli tutti definiti dallo stesso termine, « editore » appunto. Del resto è ben noto come il passaggio dall’Antico Regime Tipografico al nuovo sistema editoriale si sviluppi in un percorso che, esteso nel tempo, conserva a lungo tratti contradditori. Nello stesso scritto di Pirotta si dichiara, a chi è potenzialmente acquirente e lettore del libro, che l’apertura di credito concessa al nuovo genere non significa abdicazione alla qualità del prodotto. Vi si legge infatti : « E nuova pur crediamo di riuscir debba questa nostra Raccolta, la quale, almeno rispetto all’Italia, per la scelta dei componimenti, per l’accuratezza delle traduzioni, che congiungono alla fedeltà del testo la purità della lingua, non lombarda né fiorentina, ma colta italiana, e si pure per la eleganza delle incisioni e la forma stessa del libro, che vaga e comoda comparisce, sarà la prima anch’essa di questo genere che a bennate signore non disdica di possedere, e sia degna quindi di portare il titolo che le abbiam dato di Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili ». 5 Nella stipulazione del patto con il lettore entrano in questo caso, congiuntamente, la valorizzazione sia degli aspetti stilistici (con la sottolineatura della scelta linguistica della traduzione), sia di quelli materiali dell’edizione (con il richiamo alla forma del libro, alla sua fisicità « vaga » e « comoda », che non richiama solo un carattere commerciale, ma un’intrinseca e ben riuscita compenetrazione della scrittura e del suo supporto). L’espressione « bennate signore », in prima istanza riconducibile a un contesto sociologico, è in realtà da riportare anche questa ai dibattiti sulle letture, e quelle femminili in particolare, diffusi negli anni venti dell’Ottocento. 6 Si conferma, anche a partire da questa osservazione, lo stretto legame tra gli avvisi degli editori e il tempo storico in cui la pubblicazione è collocata. Non solo le edizioni di romanzi, all’altezza dei primi decenni dell’Ottocento, offrono interessanti spunti di riflessione. Lo conferma la pubblicazione, nel 827, nella Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne di Giovanni Silvestri (uno dei più attivi e noti stampatori-editori di Milano), della « Prima edizione milanese » dell’Odissea, le versioni della quale entrano a far parte integrante della tradizione poetica italiana (e in questo caso il traduttore è un poeta già molto noto come Ippolito Pindemonte). L’‘avviso al lettore’, che porta come titolo solo il nome del precedente editore – « la/societa’ tipografica/di verona » – pone subito nell’incipit il problema della proprietà letteraria, ed è opportuno trascriverne alcune righe : Questa è l’unica edizione che abbia ceduto allo Stampatore Gio. Silvestri la Società Tipografica di Verona, sola legittima proprietaria dell’originale dell’Odissea, la qual edizione ha il pregio di alcune correzioni fatte dal celebre Autore, e in nessun’altra introdotte. Siccome poi non sarà mai abbastanza parlato in Italia sull’abuso della proprietà letteraria, così giova far ora conoscere come nella Toscana si faccia ogni sforzo di replicar l’edizione altrui, a solo oggetto di sordida speculazione, senza mai curarsi del miglioramento delle ristampe anche nel caso di errori sfuggiti. E a persuadersi di ciò basti osservare le diverse impressioni dell’Odissea pubblicate in To5. A. Lafontaine, Le confessioni…, cit., p. xxix. 6. Sui dibattiti relativi alle letture romanzesche ci si permette di rimandare a : Alberto Cadioli, La storia finta. Il romanzo e i suoi lettori nei dibattiti di primo Ottocento, Milano, il Saggiatore, 200.

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scana, e si vedrà che tutte hanno Proci in vece di Prenci, sbaglio ch’ebbe luogo in pochi esemplari della Società Tipografica di Verona nel vol. II, p. 6, v. 5, e poscia da essa corretto. 7

È evidente che l’indicazione, di cinquecentesca memoria, della propria edizione come di quella « più diligentemente corretta » – « Una vera e propria istanza di certificazione, un marchio di controllo di qualità », per citare le parole di Amedeo Quondam 8 – si arricchisce di un tratto nuovo, pienamente collocato dentro le trasformazioni del sistema editoriale sette-ottocentesco : quello che rimanda alle questioni, tutte moderne, della proprietà intellettuale e dei diritti di pubblicazione. Da parte sua, continuando questo avviso, senza l’introduzione di alcun nuovo titolo (solo un filetto nero separa le due parti), Giovanni Silvestri individuava il suo potenziale lettore con queste parole : « Quanto a me, onde mettere a portata della gioventù, ed a più chiara intelligenza quest’Opera, vi ho aggiunto un copioso Indice o Tavola delle Cose notabili, e dei Nomi proprj che si contengono in essa, per cui l’attual mia ristampa per questo lato si rende unica, e più di ogni altra meritevole d’accoglienza, ed i cortesi Lettori spero che vorranno applaudire a siffatto mio divisamento, e mi saranno grati dei loro suffragi col proteggere la mia Biblioteca Scelta, per la quale è pure destinata questa piccola impresa ». 9 Le osservazione appena sopra riportate di Pirotta, ma soprattutto le annotazioni di quest’ultimo scritto appartengono, non c’è dubbio, al secondo dei tre punti sopra ricordati che caratterizzano il ‘patto editoriale’ : quello relativo ai caratteri dell’edizione. In questa direzione il patto con il lettore diventa la ricerca di fiducia reciproca tra editore e acquirente : la sottolineatura dell’importanza dei diritti dell’edizione è infatti la garanzia della correttezza del testo. La frequenza con la quale questa preoccupazione ricorre in tutta l’editoria ottocentesca, con numerosi ‘avvisi al lettore’ che richiamano la questione dei diritti, rivela l’importanza ormai assunta dalla proprietà letteraria, soprattutto di fronte alla divisioni dell’Italia in Stati con legislazione e procedure amministrative differenti. Proprio a partire da questo aspetto, si potrebbe concludere con un ultimo esempio, che, riportando alla riflessione sul rapporto tra ‘patto editoriale’ e ‘patto narrativo’, mostra nel contempo come, nei primi decenni dell’Ottocento, dietro il termine « editore » si presupponessero e confondessero ruoli diversi, e quindi si creassero interferenze tra i diversi patti cercati o stipulati con il lettore. Nella prima edizione del 802 delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (uscita senza nome dell’autore e senza indicazione dell’editore, ma fatta stampare a Milano dallo stesso Foscolo per i tipo della Stamperia del Genio Tipografico), 20 c’è un’avvertenza, datata « ottobre 802 », che, pur avendo ampi riferimenti ai caratteri dell’edizione e al contesto commerciale, si confonde con il gioco narrativo. Alla p. 3, dopo il primo occhietto che riporta il titolo Ultime lettere di Jacopo Ortis e l’indicazione « Tratte dagli autografi », 7. « La Società Tipografica di Verona », in Odissea di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte, veronese, Prima edizione milanese, a cui si aggiunge la tavola delle cose notabili e dei nomi propri in essa contenuti, volume I, Milano, Giovanni Silvestri, 827, s.i.p. (ma pp. v-vi). 8. Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in * Letteratura italiana, dir. Alberto Asor Rosa, vol. i, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 982 (pp. 555-686), p. 655. 9. « La Società Tipografica di Verona », cit., s.i.p. (ma p. vi). 20. Non si prendono qui in considerazione le precedenti edizioni del romanzo, per le quali si rimanda invece all’approfondito studio di Maria Antonietta Terzoli, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale tra politica e censura, Roma, Salerno editrice, 2004.

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si legge infatti la ‘protesta’ dell’« Editore, depositario degli autografi », che « smentisce ogni edizione dissimile a questa, e segnatamente le tre anteriori al 802 ». La ragione (già avanzata negli stessi termini in una diffida fatta pubblicare da Foscolo sulla « Gazzetta universale » del 3 gennaio 80) era così precisata : perché derivanti tutte da una edizione da lui intrapresa e per fieri casi interrotta, e abbandonata a uno stampatore, il quale fece mercantilmente continuare il libro e la stampa ; ond’è che in quelle edizioni la vita dell’Ortis s’è convertita in romanzo, contaminando anche le sue poche vere lettere con barbare frasi, e con note servili. Ed a scanso di nuove frodi il rame del frontespizio attesterà l’autenticità di questa edizione.

Sulla veridicità delle dichiarazioni è inutile indagare : può essere significativo, invece, riportare quanto scrive Maria Antonietta Terzoli, secondo la quale, nel rifiutare le pubblicazioni precedenti, « Foscolo sapeva anche di doversi cautelare e assicurare la proprietà letteraria del romanzo per ogni eventuale edizione futura ». 2 La ‘protesta’, con il richiamo al lettore perché guardasse l’autenticità del testo, era compilata dall’‘editore’ indicato come il depositario degli autografi : quindi quel Lorenzo A*** introdotto dopo il frontespizio in un ulteriore appello intitolato proprio « Al lettore ». Foscolo, che resta di fatto estraneo al contesto dell’editoria moderna, introduce il termine editore secondo i significati più correnti al suo tempo, ma, proprio per questo (si potrebbe dire), si moltiplicano le ambiguità : chi, nella finzione narrativa, aveva raccolto e sistemato per la pubblicazione le lettere del giovane Ortis, e firmava in quanto tale il ‘patto narrativo’ con il lettore, veniva indicato anche come colui che ne aveva procurato la stampa. Non solo : condannando la trasformazione delle lettere di Jacopo « in romanzo », l’editore cerca di stipulare anche un ‘patto autobiografico’, per quanto ‘per conto terzi’, rivolto ad affermare l’autenticità degli scritti e quindi a richiedere la fiducia del lettore sulla verità delle vicende narrate. Molti degli stampatori che, fin dal 802, si diedero a riprodurre illegalmente il romanzo di Foscolo tolsero la ‘protesta’, considerandone soprattutto il suo carattere commerciale, e non il suo essere, nello stesso tempo, un testo introdotto per stipulare con il lettore un patto relativo alle modalità di lettura. A proposito dell’appello al lettore firmato Lorenzo, c’è da aggiungere che anche questo veniva considerato dai contemporanei come una pagina esterna alla narrazione, da equiparare a quella destinata a mettere in guardia dalle false edizioni ; prova ne sia che, a sua volta omessa in varie edizioni, in altre è presente prima della ‘protesta’ (e quest’ultima si viene dunque a trovare tra l’appello di Lorenzo e la prima lettera di Jacopo). Se nella ricezione odierna il ‘patto narrativo’ annulla quello ‘editoriale’, non è detto che nella ricezione delle tante edizioni (almeno fino alla pubblicazione zurighese del 86) il ‘patto editoriale’ non risultasse più forte di quello narrativo, proprio per l’ambiguità corrente e la fluidità del termine editore. Può confermare questa osservazione una frase che si legge nelle « Notizie intorno all’autore » dell’edizione di Romualdo Zotti pubblicata a Londra nel 8 (e considerata una buona edizione dallo stesso Foscolo, almeno fino alla lite con Zotti, nel 87, per la nuova edizione delle Ultime lettere 22). Lo Zotti, dunque, che in questa occasio2. Ivi, p. 68. 22. Sulla vicenda, cui si può qui fare solo un rapido accenno, si rimanda a Giovanni Gambarin, « Introduzione », in Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, edizione critica a cura di Giovanni Gambarin,

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ne agiva come finanziatore più che come curatore della pubblicazione (e indicava nel verso del frontespizio, insieme all’errata corrige, il nome dello stampatore : « Gio. Dean »), rivolgendosi al lettore a chiusura delle « Notizie intorno all’autore », scriveva : « L’Edizione che abbiamo seguita in questa nostra ristampa è perfettamente conforme a quella pubblicata in Milano nell’anno 802, che porta in fronte la seguente protesta di quell’Editore : … ». 23 Il riferimento di Zotti a « quell’editore » sembra proprio essere a chi svolge il suo stesso ruolo : non a un personaggio, dunque, ma a una persona che, rischiando denaro, paga la stampa del volume e ne cura la pubblicazione e la messa in vendita. Non sarà senza significato, del resto, il fatto che l’edizione londinese del 8 porti le « Notizie intorno all’autore », che, svelando la paternità delle lettere, le sottraggono prima di tutto alla questione dell’autenticità. Del resto, ormai, gli editori che procurano la stampa dell’Ortis intervengono sempre di più, aggiungendo scritti che cancellano ogni possibilità di lettura autobiografica. L’avviso al lettore si sta per altro trasformando in una « Prefazione », anche questa scritta, per lo più su incarico dell’editore, da un letterato. In un’edizione di Lugano datata 80 (ma quasi sicuramente successiva), lo scritto editoriale interpreta ampiamente il testo proposto, dichiarando che le « lettere d’Jacopo Ortis » sono « uscite dalla penna di uno de’ più fervidi ingegni italiani de’ nostri tempi, impaziente di giogo straniero perché amante oltremodo della sua patria ». 24 E più avanti : « L’autore di queste lettere angustiato dai mali, che a quel tempo opprimevano l’infelice sua patria, si mosse a scriverle per minorarne a sé il dolore, mettendone a parte i suoi concittadini ». È evidente l’avvenuta trasformazione delle lettere in un testo di finzione, e il suggerimento di una lettura di taglio politico. Dall’aspetto politico deriva anche, secondo lo stesso scritto, il fatto che le lettere « furono avidamente lette e ricercate, e se ne moltiplicarono oltremodo le edizioni ». Le pagine dell’editore chiudono con un esplicito giudizio critico : « noi siam di parere, che la somma dei pregi racchiusi in queste lettere superi di gran lunga i difetti, nel che siamo abbastanza giustificati dall’incontro che hanno sempre avuto in Italia e fuori, e dalle infinite edizioni che ne sono state fatte ». L’editore si avvicina ormai alla sua figura moderna. Prima di concludere questo intervento può essere utile avanzare altre due osservazioni, tratte dal nuovo contesto venutosi a creare con la rivisitazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis nell’edizione di Zurigo del 86 (che portava la data 84 e il luogo di stampa Londra). Non c’è più la protesta dell’editore, ma un « Avviso dello stampatore » che, eliminando l’ambiguità del termine ‘editore’, si apre con la seguente dichiarazione : « quanto l’edizione presente differisca da tante altre le quali si spacciano per fatte sopra il testo (che infatti è l’unico attendibile) della prima ; e quante cure ed indagini s’abbia posto a restituire questa operetta alla sua vera lezione, tu, Lettore, il vedrai nella notizia bibliografica compilata da personaggi letterati, e da me collocata in calce al volume : però non ti rincresca di esaminarla ». Nell’avviso al lettore non c’è più posto per l’opposizione vero/falso, epistolario/ romanzo : il ‘patto narrativo’ ha ormai ceduto, qui, il posto al ‘patto editoriale’, grazie a un testo (dietro il quale non importa ci sia ancora l’autore) che rimanda a un nuovo Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. iv, Firenze, Le Monnier, 955, pp. liii-liv e pp. lxxii-lxxvi. 23. [Ugo Foscolo], Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nuova edizione, Londra, Zotti, 8, s.i.p. (ma p. vii). 24. [Ugo Foscolo], Ultime lettere di Jacopo Ortis, Lugano, 80. Per la citazione e la possibile falsa datazione cfr. G. Gambarin, « Introduzione », cit., p. lii.

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scritto informativo e critico. L’ambiguità si sposta su quest’ultimo, nel quale non è più in gioco l’opposizione autore/editore, quanto quella autore/stampatore/critici. Fingendo, nella « Notizia bibliografica », che alcuni letterati parlino delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e della sua ricezione, Foscolo scivola inesorabilmente dalla condizione di ‘editore’ delle lettere (rivendicata nel 802) a quello di ‘autore’, con un’analisi del testo che conduce il lettore direttamente nei dibattiti sulla natura e sul carattere dei romanzi. Il gioco narrativo fondato sulla ricerca di un ‘patto’ con il lettore si arricchisce comunque di un nuovo episodio, tutto esterno al testo, dentro il quale è possibile isolare un ulteriore ‘patto editoriale’ – per quanto fasullo –, con la presentazione di una ‘prima edizione’, condotta « da un gentiluomo » a « casa propria », a Venezia nel 802, della quale si sarebbe perduta ogni copia. La descrizione bibliografica è precisa, e solo attraverso di essa, e cioè dei suoi caratteri fisici, Foscolo poteva accreditare l’esistenza di un libro inesistente : « Consiste in un volume di pagine 274, in carta tenuissima, a caratteri minuti e quasi illeggibili, con quattro rami… ». Queste incisioni, descritte altrettanto minuziosamente, sono riprodotte nell’edizione del 86 : ma, come scrive Gambarin, « si devono a due artisti svizzeri […] i cui nomi minutissimi si leggono in calce alle incisioni », e sono stati imposti dalla casa editrice Orell Füssli, secondo una testimonianza dello stesso Foscolo. 25 L’inesistente prima edizione serviva per datare al 802 la lettera antinapoleonica del 7 marzo, aggiunta solo nel 86, e proprio su questa lettera si può chiudere, citando questa volta una nota a piè di pagina : anche questo utile elemento paratestuale per la ricerca del ‘patto editoriale’. In un’edizione che porta l’indicazione « Londra / presso H. Taylor /830 », 26 segnalata nelle « Note bibliografiche » da Martinetti, 27 ma anche in una successiva datata « Londra 833 », 28 la nota richiamata nella data del 7 marzo (con la quale si precisa l’omissione della lettera « in tutte le edizioni posteriori alla prima nella quale unicamente si legge »), si conclude non con un ennesimo richiamo alla « Notizia bibliografica », ma con la seguente aggiunta dell’‘editore’ : « Noi l’abbiamo tratta dall’edizione di Londra del 84, ma non essendoci pervenuta in tempo, non abbiamo potuto collocarla nel posto che secondo la sua data le conveniva, il quale nella presente ristampa sarebbe alla pag. 6 ; la poniamo qui poiché questa posposizione non altera punto l’andamento dei fatti nell’altre lettere narrati ». 29 Se la prima voce che dava conto della presenza della lettera nell’edizione perduta era quella dell’editore-personaggio, la seconda voce è indubitabilmente quella del25. Anche su questo punto ci si può qui limitare a un rimando a G. Gambarin, « Introduzione », cit., p. lxviii. 26. Cfr. [Ugo Foscolo], Ultime lettere di Jacopo Ortis, settima edizione, « Aggiuntovi i ragguagli intorno alla vita di Ugo Foscolo, il carme sui Sepolcri e varie critiche osservazioni », Londra, Taylor, 830. 27. « Note bibliografiche », in Ugo Foscolo, Utime lettere di Jacopo Ortis, edizione critica con riscontri su tutte le stampe originali e la riproduzione della vera storia di due amanti infelici ; corredata di uno studio su l’origine di esse, di note bibliografiche e documenti sconosciuti a cura di Giovanni Antonio Martinetti e Camillo Antona-Traversi, Saluzzo, Tipografia fratelli Lobetti-Bodoni, 887, p. 450. 28. [Ugo Foscolo],Ultime lettere di Jacopo Ortis, settima edizione, « Aggiuntovi i ragguagli intorno alla vita di Ugo Foscolo, il carme sui Sepolcri e varie critiche osservazioni », Londra, 833. Anche Martinetti ricorda questa edizione, ma, probabilmente per un errore di stampa nel richiamo (27 al posto di 28), la segnala conforme ad un’altra londinese del 829, in realtà molto diversa. Cfr. « Note bibliografiche », cit., p. 450. 29. La lettera è collocata tra quella del 4 maggio e quella del 5 maggio. L’edizione di Londra 833 invece di p. 6 ha p. 66, essendo stato ricomposto il testo.

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l’editore-stampatore del 830. La confusione tra le voci diverse che intervengono a vario titolo a spiegare i caratteri dell’edizione è a questo punto evidente. Coinvolto dall’autore mascherato da editore nel gioco narrativo dell’edizione perduta, il lettore si trova poi a fare i conti con un improvvido editore reale che, pur nell’evidente trascuratezza del testo, gli suggerisce una modalità di lettura : il fatto cioè di badare all’insieme del racconto, non modificato dalla scorretta successione di alcuni episodi. Con questo ultimo esempio siamo di fronte, naturalmente, a un caso limite, ma proprio per questo di particolare rilevanza, sia per quanto riguarda la storia delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, sia per quanto riguarda gli editori ottocenteschi e i loro rapporti con i lettori. La nota citata, dunque, se da un lato manifesta quanto sia complesso il gioco della macchina romanzesca foscoliana e della sua lettura, dall’altro rivela come gli stampatori-editori si fossero riappropriati, attraverso la manipolazione del testo, di un ruolo che consideravano specificamente loro. Abstract A fianco del patto narrativo e del patto autobiografico, espressioni ampiamente diffuse nella critica letteraria, si propone qui di approfondire un possibile ‘patto editoriale’ : la ricerca, cioè, da parte dell’editore, di un rapporto con un lettore reale, mutevole nel tempo e nello spazio, e quindi diverso da edizione a edizione. Questo rapporto è spesso instaurato grazie a scritti firmai dall’editore o comunque dall’editore ispirati, che si presentano come un « appello dell’editore al lettore ». Sulla base di alcune osservazioni teoriche condotte sulla via appena sopra indicata, e sulla base di esempi tratti dalle edizioni primo ottocentesche di alcuni romanzi di Augusto Lafontaine, tradotti e pubblicati a Milano negli anni venti dell’Ottocento, dall’Odissea tradotta da Ippolito Pindemonte, da diverse edizioni di primo Ottocento delle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, l’intervento che qui si presenta vuole richiamare l’attenzione della critica letteraria sull’importanza delle note editoriali (chiunque si celi dietro il termine « editore ») per esaminare le modalità di lettura che vengono da esse suggerite a chi si accinge a leggere il testo. The “narrative pact” and “autobiographical pact” are common expressions in literary criticism; this article investigates a possible “editorial pact”, that is, the editorial search for a relationship with a real reader, changing according to time and place, and therefore differing from edition to edition. This relationship is often established with a written piece signed or at least inspired by the editor, and presented as an “appeal from the editor to the reader”. Based on various theoretical observations made along the abovementioned lines, and based on the examples from early 9th-century editions of several novels by Augusto Lafontaine, translated and published in Milan in the 820s, from the Odyssey translated by Ippolito Pindemonte, from various early 9th-century editions of Ultime lettere di Jacopo Ortis by Ugo Foscolo, the article wishes to call the attention of literary criticism to the importance of editorial notes (by anyone referred to by the term “editor”) in order to examine the reading procedures they suggest to the individual wishing to read the text.

Riccardo Fedriga GLI ABITI DEI LIBRI E I MODI DI LEGGERE L’EVOLUZIONE DELLE PRATICHE DI LETTURA NELL’ITALIA CONTEMPORANEA

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ella costruzione delle strategie di presentazione dei testi ai lettori, ogni editore si trova a stabilire (in modo più o meno programmato e controllato) alcuni “criteri di pubblicabilità” che definiscono lo stile di una Casa editrice, la sua fisionomia, rendendola identificabile e stabilendone l’identità.  Con criteri di pubblicabilità si intendono quei criteri impliciti ed espliciti, di forma e contenuto, che regolano l’attività della casa editrice in relazione a) alla gestione della mediazione del prodotto libro in se stesso e b) al suo posizionamento in un catalogo e/o in una collana. Tali criteri, norme di rilevanza che definiscono l’attitudine di un testo a essere trasformato in libro, 2 non vanno confusi con gli aspetti paratestuali ; sono piuttosto da intendersi come principi normativi all’interno dei quali l’editore, con la struttura organizzativa che sovrintende, direttamente e indirettamente, 3 compie le pratiche che circondano un testo, prolungandolo sino al lettore. Un criterio di pubblicabilità è, ad esempio, quello dell’anticipazione, cioè quello di cercare di “anticipare le tendenze”, costruire e affermare il proprio stile sul concetto di rottura nella tradizione, culturale ed editoriale : 4 sulla forza normativa di questo criterio, si regola poi il modo (che comprende la scelta dei testi come anche la grafica e l’immagine visiva delle collane), attraverso il quale si fanno arrivare i libri ai lettori. 2. Criteri e stile : l’editoria come aspettativa I criteri di pubblicabilità dettano le linee di una coerenza editoriale che percorre tutto il processo di vita del libro : dalla selezione dei testi alle traduzioni, dalla revisione sino a quelle forme di comunicazione a proposito del libro che sono la manifestazione delle routines all’interno del sistema editoriale − copertinari, giri di vendita, presentazione alla forza vendita etc. − e alle regole economiche (prezzo, tiratura, operazioni di sconto, etc.) che consentono l’arrivo del libro sul punto vendita. Un unico stile, riconoscibile tra le differenti varianti dei singoli tipi, consente all’editore di essere . Cfr. F. Sciolla, L’Editrice Einaudi : dalle riunioni del mercoledì all’immagine comunicata, « Economia della Cultura », xii (2002), 3, pp. 407-409. 2. Cfr. per quanto concerne il concetto analogo di notiziabilità nei mass media, M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 985. 3. Oltre ai titoli (criteri contenutistici) la scelta del formato di una collana, ad esempio, deve essere stabilita ed eventualmente modificata dopo aver presentato il progetto alla struttura commerciale (criteri materiali) che dovrà fare arrivare il libro o la collezione sui differenti punti vendita in modo che possano raggiungere la maggiore visibilità possibile. 4. Cfr. quanto afferma C. Stajano in un consiglio editoriale Einaudi del 985, quando la casa torinese, in piena bufera, stava pensando a ridefinire la propria identità : « Il problema non è tenere dietro alla trasformazione, ma guidarla, prevenirla, così come è sempre stato fatto dalla Casa editrice ». ae, Verbali, 985. Circa l’analisi del criterio della rottura cfr. Sciolla, cit.

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riconosciuto : in tal modo, l’editore prefigura, e si prefigura, quello che sarà il modo 5 di leggere del suo lettore e, sulla base di questa presupposizione, egli prepara l’abito di ogni singolo libro, appronta l’identità delle collane, decide il formato. Attraverso un riposizionamento delle teorie della ricezione, Vittorio Spinazzola e Alberto Cadioli in seguito, hanno mostrato con chiarezza che la mediazione editoriale, proprio attraverso la scelta e la stesura materiale degli apparati paratestuali del libro, è un’operazione d’interpretazione del testo al pari di quelle del lettore e dell’autore. 6 Questo avviene sulla base di quello che l’editore crede che si aspetti da lui il suo lettore, ed è proprio in relazione a questa aspettativa che si stabilisce lo stile editoriale. È, poi, sull’interpretazione offerta dalla mediazione che riposa, a sua volta, la credenza su quello che, per il lettore stavolta, sarà il contenuto di quella “scatola nera” che è il libro. “Scatola nera” sia nel senso che registra (e materialmente porta su di sé), tutti i cambiamenti che il testo subisce sino ad arrivare al lettore, sia nel senso di involucro che, rendendolo presente, cela in una penombra sfumata il lavoro dell’autore. Il paratesto definisce e allenta i contorni di questa penombra e, come la lanterna che eccita la fantasia del piccolo Swann, 7 svela il mondo fantastico in cui si trova immerso il testo. Non solo. Gli abiti di un libro compiono un’azione sul pubblico : possono proporre al lettore una serie di letture preferenziali, ma anche fargli fare qualcosa ; nell’editoria contemporanea ciò significa, in primo luogo, far fermare l’attenzione su quel particolare libro che sembra, o meglio, che promette di soddisfare un bisogno, quello di leggere in una certa maniera, già appagato da uno o un’altra serie di testi, apparentati dai medesimi abiti : di quel formato, con quella copertina, quel titolo, quel marchio editoriale di quella Casa editrice, quella legatura etc. È la combinazione di quegli abiti a far scegliere al lettore di aprire un libro, sfogliarlo, riconoscerne la componente sconosciuta (il testo) tranquillamente al riparo tra le pagine del già noto (il libro). In questo modo si segna lo spazio di un’area di aspettativa/credibilità che fa seguito a un processo di azione e reazione. Infatti l’editore si aspetta che il lettore creda al suo progetto. D’altro canto, il lettore, grazie agli apparati paratestuali del libro, situa la 5. Trattandosi di un oggetto per un mercato, il concetto di modo va qui esteso sino a comprendere anche le predisposizioni al consumo, come la disponibilità economiche ad esempio, e non solo fruizioni intellettuali di un ..... 6. Cfr. i saggi di Spinazzola contenuti nel volume La modernità letteraria, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 200. Per quanto concerne la tesi di Alberto Cadioli circa l’editore “iper” lettore, che cioè segna la prima interpretazione dell’opera per la comunità dei suoi lettori, essa è comparsa per la prima volta in Il costituirsi del libro letterario, « Igitur », v (993) ed è stata poi perfezionata e ampliamente applicata con successo nelle opere successive (particolarmente in Letterati Editori, il Saggiatore, Milano, 995, La Ricezione, Roma-Bari, Laterza, 998 e L’editore e i suoi lettori, Bellinzona, Casagrande, 2000. 7. Cfr. M. Proust, Recherche du temps perdu, i, Du côté de chez Swann, trad. it. Natalia Ginzburg, Alla ricerca del tempo perduto, i, La strada di Swann, Torino, Einaudi, 96, p.  : « Avevo escogitato […], di regalarmi una lanterna magica, con cui, mentre si aspettava l’ora del pranzo, coprivano la mia lampada ; e, al modo dei primi architetti e maestri vetrai dell’età gotica, essa sostituiva all’opacità delle pareti impalpabili iridescenze, soprannaturali apparenze multicolori, dov’erano dipinte leggende come in una vetrata vacillante e momentanea. […] Se si faceva muovere la lanterna, scorgevo il cavallo di Golo continuare ad avanzare sulle tende della finestra gonfiandosi delle loro pieghe, scendendo nelle loro fessure. Il corpo dello stesso Golo, che era di un’essenza non meno soprannaturale di quello della sua cavalcatura, s’adattava a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi oggetto ingombrante che gli capitasse di incontrare, assumendolo come ossatura e rendendoselo interno, si trattasse anche della maniglia della porta alla quale si affrettava ad aderire e sulla quale galleggiavano invincibilmente la sua veste rossa e il suo volto pallido […] ».

l’evoluzione delle pratiche di lettura nell’italia contemporanea 675 sua credenza su quello che sarà il testo, si predispone al soddisfacimento del suo bisogno di leggere e si prepara a rispondere, con la pratica della sua lettura, alla proposta dell’editore. Talvolta la risposta suggella la più semplice forma di affermazione della propria libera volontà, forse la più nobile perché compiuta nel silenzio discreto della propria solitudine : contro ogni suggerimento, ammiccamento, contro ogni imposizione il lettore si ribella e decide di chiudere un libro che non gli piace. Dunque un oggetto scritto acquista significato non solo se vi è chi lo legge ma anche chi ne appronta l’edizione. Parafrasando Sartre, potremmo dire che solo lo sforzo congiunto dell’autore, dell’editore e del lettore fa nascere quell’oggetto concreto e immaginario che è il libro. 8 Infatti, le diverse forme materiali dei libri influiscono sul significato dei testi, nonché sul significato sociale che i libri hanno avuto nel corso del tempo. Per comprendere il senso e il valore da attribuire ai messaggi scritti nella loro esistenza storica, occorre attribuire loro un’identità che s’inserisce in un contesto di produzione e ricezione materiali, necessariamente mediate e produttrici di senso. Il che coinvolge, nella corretta definizione del concetto di testo, oltre alle intenzioni autoriali, a quelle dei lettori e alla forma di mediazione che li fa circolare, anche il riferimento ai supporti che lo hanno trasportato e lo trasportano. 9 3. Modi di leggere L’indagine si estende allora da una relazione testo – lettore a una più ampia che tiene conto dell’uso che si fa del testo 0 come anche delle modalità di lettura attraverso le quali il lettore si appropria del testo. In questo contesto, la dinamicità del sistema editoriale non è più concentrata su un solo canale che collega l’editore, primo interprete dell’opera (nel senso di colui che la “tiene a battesimo”) a un lettore concreto per il quale tale opera è “vestita”. La concezione che vede l’editore, con il suo lavoro, segnare un carattere paradigmatico della lettura di una particolare opera – determinando la percezione di un dato testo – si lega qui con il punto di vista che mette al centro dell’attività editoriale il tentativo di intercettare e/o reinterpretare una modalità di lettura. Fulcro di questa prospettiva non è più il solo lettore ma l’analisi dei modi attraverso i quali un lettore soddisfa di continuo sempre nuovi bisogni di leggere a partire da bisogni dati : un’analisi (e una storia) delle pratiche di lettura non può essere scritta se non a partire dai modi attraverso i quali tali parole divengono lettrici.  8. Cfr. J. P. Sartre, Che cos’è la letteratura, trad. it., Milano, il Saggiatore, Milano, 966, p. 35. Cfr. in un contesto molto più attento all’analisi materiale della pratiche di lettura e rispettoso delle modalità socioeconomiche di realizzazione anche V. Spinazzola, Critica della lettura, Roma, Editori Riuniti, 992. 9. Contributi decisivi per quanto concerne l’analisi e la registrazione dell’evoluzione delle forme materiali in direzione di una sociologia dei testi vengono da D. Mc Kenzie, (Bibliography and the Sociology of texts, 986, tr. it., Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 999) e R. Chartier, Meanings : Texts, Performances and Audiences form Codex to Computer, 995, trad. it. Cultura scritta e società, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 999). 0. Si impiega qui il termine nel senso, distinto da interpretazione, di uso slegato dalle istruzioni testuali, ma in ogni caso possibile e non necessariamente negativo. Cfr. U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 979, p. 59. . Cfr. G. Cavallo, R. Chartier, Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 995, con particolare riferimento al saggio di Petrucci. Cfr. anche V. Spinazzola, La teoria della lettura, in La modernità letteraria, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 200, p. ix come anche pp. 99 e 0. In un contesto meno legato all’evoluzione della critica e più attento al consumo, e quindi alle pratiche messe in atto quotidianamente dai lettori per ri-appropriarsi dei prodotti imposti dall’ordine economico dominante, si veda M. de Certeau, L’invention du quotidien, 1. arts du faire, Gallimard folio, 990, p. 245.

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Non è più solo in oggetto chi fa arrivare il testo a un generico “pubblico” o a una “comunità” ma, soprattutto e in prima analisi, come, in base a una serie di regole (di criteri identitari e identificativi), lo si fa giungere a qualcuno. 2 Così, le offerte editoriali corrispondono alle maniere di “vestire” i testi in relazione ai modi in cui ciascuno di essi può essere letto. 3 E, dato che il paratesto è il modo attraverso il quale si prolunga il testo sino al lettore, i mutamenti delle forme paratestuali possono rappresentare i mutamenti nelle formule proposte, essere la spia di nuovi bisogni soddisfatti (o non soddisfatti oppure ancora che seguono percorsi inaspettati e, per questo, utili da seguire) e, in ultima istanza, registrare cambiamenti nella pratica della lettura. Tali cambiamenti possono dirsi “nuovi” nel senso che, senza cancellare i precedenti, si aggiungono loro in una continua stratificazione di senso. Ma possiamo parlare di nuovi modi di leggere anche in presenza di una continua risituazione di modalità precedenti. L’idea è che tali modalità non vadano a sostituirsi le une sulle altre come in un palinsesto, quanto che si aggiungano di continuo le une alle altre. 4. Un libro alla maniera di un tascabile Si è detto che dal mutare degli aspetti paratestuali del libro – come il formato ad esempio – si può evincere come cambiano le modalità di lettura. A produrre il mutamento è l’esistenza di una formula nuova ; tale formula può provenire da svariate fonti – anche concomitanti : può nascere da fattori economici, cioè essere il tentativo di reagire a una crisi del mercato ; oppure dalla necessità di trovare un contenitore per un testo – e una famiglia di testi a quello apparentati – in cui si crede molto, etc. In ogni caso, la considerazione dei vantaggi di una nuova formula, che incontra il bisogno di una classe di lettori, decreta un nuovo modo di percepire e di appropriarsi dell’oggetto libro. Il quale, confermando così la sua duttilità, muta. 4 In un’analisi 2. L’esistenza di criteri di pubblicabilità evidenti ed esibiti pubblicamente, per quando rinegoziabili, impedisce anche a livello della materialità del libro una deriva interpretativa basata sulla dittatura del lettore. 3. L’interpretazione del bisogno può essere pianificata basandosi sull’analisi dei dati di vendita dei prodotti attraverso indagini e rilevazioni (in Italia, Istat, Aie, Demoskopea e indagini interne) ; oppure può partire da un testo che l’editore ritiene possa incontrare il favore del suo pubblico e crea un contenitore adatto a rivestirlo : si inventa così una nuova formula che, in seguito al primo “prototipo”, viene confrontata con l’idea che i promotori hanno delle abitudini di vendita dei librai e osservare le risposte del pubblico (è il caso della collezione Assaggi e Passaggi Bompiani) ; ma si può anche reinterpretare un bisogno, che precedentemente era espresso in un certo modo in un altro, anche sfruttando un differente formato e/o un allargando l’ambito dei canali di vendita per un prodotto già edito – di solito di genere o che viene rivalorizzato dal nuovo marchio o dalla nuova collana (si pensi alla strategia di risituazione operata da Adelphi, o alla collezione dei “Bassotti” Polillo o, ancora, a Minimum Fax) ; oppure si creano sinergie tra forme paratestuali creando “collane autore” (Philip K. Dick per Fanucci o le serie di Biagi e Montanelli di Rizzoli). E poi libri che escono contemporaneamente in diversi formati, con differenti copertine e prezzi, indipendemente dal rapporto tra mercato principale e secondari (alcuni titoli Laterza uscirono sullo stesso mercato con due copertine differenti e le differenti edizioni del Signore degli Anelli di Tolkien per Bompiani) ; o infine pensare come declinare un medesimo testo attraverso differenti supporti secondo diverse funzioni. Sono tutti esempi di una progettazione che trova il suo senso nel fatto che prima ancora del referente/lettore cui è destinato l’oggetto si preoccupa delle modalità attraverso le quali si soddisfa un bisogno di leggere. 4. Cfr. A. Petrucci, Leggere per leggere. Un avvenire per la lettura in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. Cavallo, R. Chartier, Bari-Roma, Laterza, 995, p. 433 : « i modelli, le strutture, l’aspetto esterno di questo privilegiato e funzionale supporto della scrittura [scil. il libro] vengono rinnovati solo

l’evoluzione delle pratiche di lettura nell’italia contemporanea 677 che va alla scoperta (o riscoperta) di una differente modalità d’uso per soddisfare il bisogno di leggere, tale affermazione può tradursi nell’osservazione della risituazione culturale dell’oggetto libro a partire dalla selezione di alcune forme paratestuali rispetto ad altre ritenute meno efficaci e funzionali dall’editore e considerate come tali dal lettore. Tale fenomeno si è verificato – ad esempio – nella cultura italiana degli anni Novanta allorché il sistema del libro e della lettura si sono orientati sotto il segno del “tascabile”, inteso come una formula legata non tanto all’aumento delle collane di tascabili quanto alla funzionalità e proprietà associate al formato, al prezzo contenuto, alla maneggevolezza. Si è diffusa e accettata l’idea del libro come di un prodotto anche di consumo che permette la rottura di uno schema di lettura tradizionale per affiancarne un altro connotato dalla libertà di leggere anche in modo non sequenziale, interrotto e poi ripreso, veloce e frammentario, intermittente. Orientare il bisogno di leggere sotto il segno del tascabile significa che il libro non è più solo un oggetto sacro, da esibire come elemento di distinzione sociale, o uno strumento di educazione delle masse, o il tassello di un universo chiuso nei dettami di un canone. Il libro diventa un supporto agile ed economico, facile da leggere, di poche pagine, persino pronto a essere dimenticato in treno o nelle stazioni senza eccessivi drammi. Sicuramente adatto a stare in tasca. A incrociare questo bisogno, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si afferma la “formula tascabile” come diversa modalità di acquisto, percezione e fruizione del libro in generale. Il libro “tascabilizzato” affianca il rapporto tradizionale tra il Trade (cioè la prima edizione sul mercato) e il secondo mercato, quello degli economici, segnati dalla rotazione di titoli a catalogo, serialità, prezzo contenuto, apertura a campagne di sconto e strategie di alleggerimento del magazzino. Anzi, nel periodo compreso tra il 993 e il 996, in particolare, parlare di “libro” significa, nella maggior parte dei casi parlare, di un prodotto economico, agile, dalla foliazione sempre minore (si pensi che nel decennio 990-2000 i titoli immessi sul mercato sino a 00 pagine sono aumentati del 73,7% e del 00,3% in termini di copie). 5 5. La crisi e la nascita di una formula “nuova” : la tascabilizzazione La prima spinta che, dalla parte degli editori, avvia il processo di tascabilizzazione è la ricerca di una formula 6 in grado di uscire dalla crisi che attanaglia l’editoria italiana già dagli anni Ottanta del secolo scorso ; una crisi che si aggrava con il sorgere del decennio successivo. Per tutti gli anni Ottanta, gli editori cercano di fronteggiare la crisi 7 con un aumento delle tirature nella convinzione che, essendo il valore di produzione dato dal prezzo di copertina moltiplicato per le copie vendute, un maggior numero di copie sul mercato si sarebbe trasformato in un aumento delle vendite. Cosa che non si verificò e il mercato fu invaso da copie che ben presto rientrarono a magazzino con un quando e dove nella società nasce un nuovo bisogno di scrittura e lettura che ignori o respinga le suggestioni del passato e sia capace di imporre nuove soluzioni finalizzate a favorire nuovi modi di lettura e uso ». 5. Dati confermati da tutti i rapporti aie a partire dal 995 sino a oggi. 6. Intesa come combinazione di prezzo, tipo di presentazione paratestuale, tipo di servizio (reperibilità, velocità di soddisfacimento degli ordini, canali di vendita etc.). 7. Determinata da un mix di aumento del petrolio, inflazione e aumento del costo del lavoro.

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vertiginoso aumento delle perdite. Si decise allora di modificare la politica del prezzo, adeguandolo alla crescita dell’inflazione e aumentandolo progressivamente sino a giungere a una sorta di equazione secondo la quale al prezzo venne fatta corrispondere una certa tiratura. Ma fu una politica di corto respiro che portò in breve a una parallela diminuzione di fatturati e copie vendute. Di fronte all’ulteriore aggravarsi della crisi, negli anni Novanta, quasi tutte le strategie editoriali si concentrano sulla riduzione del prezzo di copertina come elemento per il rilancio del prodotto, suggerendo con decisione al lettore la percezione del libro come un prodotto di scarso valore : se costa poco e ce ne sono molti, poco vale. Tutta l’editoria slitta di conseguenza verso fasce economiche e (anche per risparmiare sulla carta), sui formati più piccoli e sulla diminuzione della foliazione. 8 Così, dagli inizi degli anni Novanta, al libro tascabile (e sulla base delle sue caratteristiche) si affianca la “formula tascabilizzata” del libro tout court : una rivoluzione che ha come riferimento il formato tascabile, ma è stabilita a partire dalle edizioni maggiori e la loro insufficiente formula editoriale. 9 6. Un “continuo rapporto col pubblico” Il segnale concreto che prova l’incontro dell’offerta con le mutate esigenze della domanda si ha nel 992 con i libri Millelire : un’ iniziativa di segno nettamente libertario che poco ha a che fare con strategie di mercato. Quella dei Millelire era un’operazione volta a rivendicare un “diritto democratico alla lettura”. 20 I libri, di piccolo formato (9 x 2) con una legatura a punto metallico si propongono – come si legge sulla terza di copertina – di “gettare scompiglio nel mondo editoriale italiano di aiutare una vera e propria rivoluzione nel mondo editoriale attraverso la proposta di volumi agili, di piccolo formato, molto economici e, al tempo stesso, molto curati. La collana vuole essere un grande laboratorio per scoprire, sperimentare e recuperare in un continuo rapporto col pubblico”. Il lettore, in particolare quello giovane, 2 raccoglie la sfida di questa rivoluzione silenziosa e il mercato dell’editoria italiana cambia e si “tascabilizza”. 8. Il sistema del libro si allinea verso un bene di consumo di valore inferiore se paragonato, ad esempio, al valore associato al libro negli anni Settanta ; il libro deve costare meno, essere economico, facilmente reperibile, maneggevole attraente, e la formula che meglio soddisfa queste condizioni è quella del tascabile. Cfr. G. Ragone, Tascabili e nuovi lettori, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Giunti, Firenze, 990, p. 453. 9. Tra i primi a sostenere la tesi della tascabilizzazione fu Giuliano Vigini, Cfr. l’intervento dello studioso nel Catalogo storico Bur (Milano, Rizzoli, 999). Cfr. anche il fatto che le vendite di tascabili e super economici tra il 992 e il 993, ad esempio, non si sovrappongono le une alle altre. Secondo i dati dell’aie, infatti, « i super economici (prezzo sino a 8 mila lire) arrivano quasi a raddoppiare la loro quota di mercato in termini di numero di copie vendute (dal 5,4 al 28,6%). Questa crescita, però, non sembra aver danneggiato le altre edizioni economiche che anzi hanno visto anche loro incrementare la loro quota di mercato : più 3,3% in numero di copie acquistate e più 6,2% a valore (nella fascia di prezzo di copertina tra le 8 e le 8.000 lire) ». Cfr. Il mercato dei tascabili negli anni Novanta, Ufficio Studi aie, 994, p. 5. Sempre secondo questo rapporto, le vendite a valore dei tascabili negli anni Novanta sono complessivamente cresciute del 20% rispetto a una crescita di tutto il settore dello 0,4%. 20. I Millelire ebbero un immediato successo con la pubblicazione della Lettera sulla felicità di Epicureo che rimase in vetta alla classifica delle vendite per trenta settimane e vendetta più di un milione di copie. Cfr. P. Di Giampaolo, La creazione di un’immagine « alternativa », « Il Giornale della Libreria », ix, (996) ; cfr. anche G. Giorello, Democrazia è un libro a basso costo, « Il Corriere della Sera », 22 marzo 993. 2. Secondo una ricerca Adhoc (società gpf e associati) del 994, il 48% della produzione di super economici veniva acquistata da un pubblico di età inferiore ai 25 anni.

l’evoluzione delle pratiche di lettura nell’italia contemporanea 679 Insieme ai Millelire e al loro titolo guida, La lettera sulla felicità di Epicuro, fioriscono una serie di collane supereconomiche. Si distingue la collezione Cento pagine, mille lire, che, adottando la modularità pagine/prezzo tipica dei primi Bur, propone classici fuori diritti (tra cui la Divina Commedia che tocca la vetta delle 700.000 mila copie). Ma soprattutto, a partire dal 995, inizia la stagione dei Miti Mondadori, subito seguiti dai Superpocket, 22 che inaugurano l’era dei super economici e del mass market all’italiana. I Miti sono libri di formato più piccolo dei tascabili tradizionali (0,5 per 7,5 cm), con titoli scelti tra autori e/o temi in grado di assicurare un richiamo mediatico, dalla copertina molto accattivante e il prezzo segnalato bene in evidenza in un riquadro. Spesso impiegano apparati (e impianti) molto curati, predisposti per edizioni precedenti. Il prezzo dei Miti è di sole 5900 lire e corrisponde a 2/5 del prezzo di un tascabile di allora. I super-economici sono una collezione “one shot”, tiratura unica e molto alta (fino a 200.000 copie senza possibilità di ristampa), sostenuti da una decisa e ingente campagna di marketing e comunicazione, parte integrante del progetto della collana. Sono prodotti che cercano di sfruttare tutte le possibilità offerte da una distribuzione su più canali, per lo più in circuiti alternativi alla libreria, 23 che devono essere esauriti in un periodo limitato nel tempo perché, come suggeriscono le campagne, il loro acquisto è un’occasione unica e irripetibile. In tal modo, si cerca di allargare il mercato (e di liberare i magazzini dai resi degli anni precedenti) dei lettori/consumatori : un livello di strategia che dura finché dura la campagna di comunicazione, o poco più. 24 Ma il successo non finisce con l’esaurirsi della spinta del marketing, perché un livello più profondo della strategia intercetta un nuovo, e mutato, modo di leggere dei lettori tradizionali, i lettori medio forti. I super economici (come i “Miti”), in Italia, sono stati prodotti che non si rivolgevano (se non per un breve ciclo di vita del prodotto) a un mercato di massa ma erano prodotti costruiti con tutte le proprietà commerciali dei prodotti di massa per un mercato comunque limitato che voleva leggere in modo diverso. 25 7. Un catalogo orizzontale ? Come era avvenuto per i Millelire, anche nel caso dei Miti Mondadori la maggiore differenza rispetto alle tradizionali collane di tascabili risiede proprio nello svincolarsi dal concetto di catalogo. 26 Come non c’è alcun legame con la tradizione editoriale (il 22. Nati in seguito a un accordo tra Longanesi e Rcs libri. 23. I Superpocket erano distribuiti per un 30% in edicola, 40 nella gdo e solo il rimanente 30% andava in libreria (dati Mach2). 24. Il tascabile stesso risente di questa ondata perché consente alte tirature a un prezzo contenuto ; non necessita del tutto l’uso di nuovi impianti (si afferma in questi anni la pratica del ricopertinato) né l’impiego di carta di qualità. Il tascabile permette inoltre un progressivo alleggerimento dei magazzini stracolmi di giacenze e, infine, sfrutta tutta la gamma dei canali di vendita che l’edizione maggiore (Trade) non può fare. 25. Cfr. G. A. Ferrari, « I miti sono acquistati in larghissima parte da quel 6% di lettori forti, che per una volta vuole risparmiare […] e producono solo un piccolissimo consolidamento dei lettori deboli ». Più manager per l’editoria, in Tirature 1998, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori-Il Saggiatore, 998. In occasione del lancio dei Miti venne commissionata una ricerca di mercato dalla Mondadori dalla quale emerse che, se il formato era risultato accattivante per tutti i lettori con una maggiore propensione di lettori deboli, il potenziale lettore del libro era comunque risultato essere un lettore medio-forte. 26. Secondo i documenti risalenti al consiglio editoriale del 22 novembre 995, « Stile Libero » viene concepita per aprire una « fase nuova : dopo l’uso del catalogo, si tratta di lanciare una linea di proposte »

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catalogo) così la lettura si fa errabonda, estemporanea, una forma di “zapping” che dura per un tempo dato e poi finisce, senza la preoccupazione di considerare la conoscenza veicolata come un accumulo di sapere quanto, piuttosto, un divertimento da non lasciarsi sfuggire (I Miti) o una provocazione da esibire (I Millelire). Non è in gioco la distinzione tra tipi di lettori o tipi di mercato (principale e secondario) quanto quella tra modi di fruire e di leggere. Da una parte sta un modo tradizionale, che si regge sui due mercati – novità e catalogo-serialità (tascabili) – dall’altra un nuovo modo che poggia sul processo di tascabilizzazione. Non si tratta di sistemi impermeabili o privi di qualunque connessione: le formule, pur rimanendo distinte, non sono idiosincratiche ; tutto il mondo del libro risente dell’influsso del processo di tascabilizzazione, a partire dai tascabili stessi per giungere a mutamenti nella progettazione delle linee delle novità : si fanno libri più snelli, sempre più brossure, nascono le prime collane di libri per un lettore “tascabilizzato” (la più celebre, « Stile Libero Einaudi », è del 995). 27 Le diverse edizioni costituiscono testi differenti agli occhi di un lettore e modificano nel tempo il loro senso (un tascabile Bur non ha il medesimo senso di un tascabile Oscar o, come abbiamo visto, di un Millelire). Ma non solo : il prevalere di alcune formule, in determinati momenti storici, crea e riorienta nuovi sensi attraverso l’affermarsi di nuovi modi di leggere. Modi che, vale la pena ripeterlo, non vengono meno con il mutare della formula. Quindi, e nonostante il parere contrario di Genette, la distinzione tra edizione corrente e formato rimane anche oggi carica di valore paratestuale. Non è vero, infatti, che essa ha un valore puramente quantitativo ; o meglio, forse tale affermazione può essere vera se limitata al rapporto tra primo e secondo mercato, ma perde di significato se si allarga il contesto alla formula del libro tascabilizzato. Forse essa non connoterà più il rapporto tra edizione maggiore e popolare (o “classico”) 28 ma certo connota il rapporto tra un modo di leggere e un altro, diverso, proiettato verso forme più sincopate e veloci. Non si tratta di una portata paratestuale di poco conto : la rilevanza dei significati veicolati dal paratesto non è statica ma trova la sua forza proprio nel continuo risituarsi e ridistribuirsi in relazione a un tipo di conoscenza sempre differente che fa riferimento a contesti e interlocutori, pratiche di lettura e di appropriazione sempre variabili e in costante evoluzione. 29 (intervento di Fazio) che « recuperi una fascia di lettori diversa […] altrimenti si corre il rischio di restare ancorati a schemi del passato, di non avere la capacità di cogliere le novità. Si tratta in ogni caso di uno stimolo a raccontarci cose nuove » (intervento di Barberis – c.vo nostro). La collana presenta una fortissima autonomia – « la collana deve essere nella sostanza autonoma » (intervento di Einaudi) nonostante sia stata avviata all’interno dei tascabili, per vivificarli e per creare un lungo percorso di lettura che dalla apertura all’immediatezza portasse sino al catalogo (e viceversa per quanto concerne le strategie editoriali delle politiche di acquisto delle novità, soprattutto di letteratura straniera, e riposizionamento del catalogo (le citazioni provengono dai verbali dell’Archivio Einaudi). 27. Cfr. G. Ragone, cit., p. 452 : « si definisce come tascabile o paperback un libro dal prezzo limitato e dal formato maneggevole, ma anche la riedizione economica di opere antiche e recenti dopo averle sottoposte alla prova commerciale dell’edizione corrente, che diviene così uno strumento di cultura, e naturalmente di diffusione di un fondo relativamente permanente di opere ipso facto considerate classici ». Si noti come Ragone faccia rientrare nella stessa definizione di tascabile il riferimento al doppio mercato e al catalogo. 28. Cfr. G. Genette, Seuils (987), trad. it. Soglie, i dintorni del testo, Einaudi, Torino, 989, pp. 8-22. 29. Se si abitua a il lettore considerare il libro un prodotto stabilito a partire da un prezzo di 4 euro e 99 euro (anche facendo astrazione dal fatto sono spinto all’acquisto dall’impulso che tale occasione durerà sino a esaurimento dello stock), allorché lo si vede in vendita a 5-6 si rimane costernati o si ha l’impressione che l’editore stia violando il patto di credibilità con il lettore circa quello che il libro presenta.

l’evoluzione delle pratiche di lettura nell’italia contemporanea 681 Lo sfruttamento del ciclo di vendita e di vita dei Miti – eliminazione di qualsiasi soluzione di continuità tra l’uscita del Trade e quella successiva del Mito (un altro titolo del medesimo autore) che mantiene viva l’attenzione sull’autore, prolungandone l’esistenza fino all’uscita del tascabile – offre un’idea di come si possa intendere il catalogo in un’editoria tascabilizzata: esso è uno strumento che si muove e trova la propria forza (economica in primo luogo ma non solo) in una dimensione orizzontale e non più nella profondità della tradizione. 8. Normalizzazione Intorno alla fine degli anni Novanta la rivoluzione compie il suo ciclo e la situazione si normalizza. I Miti e, soprattutto, i Millelire cedono progressivamente il passo al loro essere stati un fenomeno di costume i primi, e all’impossibilità di continuare a sostenere così ingenti campagne di comunicazione i secondi. Si è così tornati a un mercato normale, con i tascabili che hanno aumentato il loro prezzo (sceso per rincorrere i supereconomici sino al 997) e i Trade che hanno visto aumentare il loro di circa il 5% nel solo periodo compreso tra il 996 e il 998. La percezione del libro, che negli anni Novanta era in molti casi stabilita a partire dal tascabile, si è riequilibrata. 30 Ma non è venuto meno il nuovo modo di leggere. La diminuzione della forza di una formula e la sua normalizzazione non annulla i modi delle pratiche di lettura. E la qualità nella cura delle collane esistenti, pur nella varietà degli stili e dei criteri di pubblicabilità adottati, contrasta decisamente con una impropria interpretazione, che si regge sull’equazione tascabilizzazione = economicità = bassa qualità. Il fatto che il libro sia fatto anche per un certo tipo di lettura non implica che essa debba essere di bassa qualità : la lettura tascabilizzata non è una lettura sciatta, è una lettura altra, una lettura rapsodica, alla ricerca di veloci novità, errabonda, alla riscoperta del fatto che il piacere di leggere risiede anche nel piacere di poterlo fare in forme sempre diverse. Ritrovare titoli di un tempo sotto nuove forme e in luoghi prima impensati – come i gialli in libreria – con nuovi editing o traduzioni rinfrescate : dal punto di vista editoriale, ciò che rende innovativo un progetto non è il concetto di novità, di scoperta, di creazione dal nulla, quanto l’esistenza di una strategia editoriale volta all’introduzione o al recupero di un modo di leggere. E la sua vitalità risiederà nella risposta del lettore. Conclusioni Oggi l’editoria è percorsa nelle sue linee principali dal successo dell’offerta di nuove formule editoriali, come quelle dei libri con i giornali, che vivono nella riproposizione di un Canone di letture di qualità, a basso costo, spesso indotte dagli aspetti classicisti del peritesto esterno più che da un reale servizio offerto alla lettura. Il meticciato di registri e generi, titoli e cataloghi si è esteso sino a comprendere i canali di vendita. I 30. Il mutamento di funzione è legato all’uso materiale e alla pratica della lettura ; non coinvolge gli apparati, l’editing, la cura del testo. La tascabilizzazione è legata alle pratiche di lettura, alla loro risituazione grazie al formato, alle traduzioni e ai canali di vendita (come nei « Bassotti » Polillo), a una seria politica d’autore (come nelle « Fenici Rosse » di Guanda), al posizionamento del marchio (come nella collezione « Strade blu » di Mondadori), alla citazione della sperimentazione (« Intemperanti » di Meridiano Zero), ancora al formato che lega passato e presente di un catalogo (Arcipelago e “TE” Einaudi) o, infine, al legame con un altro mezzo come il cinema per il tramite della “metamorfosi” tra testi letterari e sceneggiature (« Colorado Noir »).

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libri e il mutare o meno delle pratiche di lettura, ancora una volta, ci riveleranno dove si annida l’ideologia che tradisce il testo. Ma la tascabilizzazione ha lasciato il suo segno e quasi tutti marchi editoriali di varia (narrativa e saggistica) tengono conto dell’esistenza di pratiche di lettura “tascabilizzate”. Grazie alla tascabilizzazione si è insomma affermata la consapevolezza che, grazie ai suoi abiti, il libro deve esaudire il desiderio di fermare l’attenzione del lettore e consentire la compresenza di diversi modi di articolare gli atti del leggere. Si tratta di vere e proprie prospettive intenzionali nel senso filosofico del termine : 3 diversi punti di vista su un universo, quello del libro, che continua a mantenere la sua forza di organica analogia con il nostro stare al mondo. Abstract Dall’analisi del mutare degli aspetti paratestuali del libro – come il formato ad esempio – si può evincere come cambiano le modalità di lettura. L´idea è che tali modalità non vadano ad sostituirsi le une sulle altre come in un palinsesto, quanto che si aggiungano di continuo le une alle altre. A produrre il mutamento è l´esistenza di una formula nuova ; tale formula può nascere da svariate fonti – anche concomitanti : può nascere da fattori economici, cioè essere il tentativo di reagire a una crisi del mercato ; oppure dalla necessità di trovare un contenitore per un testo – e una famiglia di testi a quello apparentati – in cui si crede molto, etc. In ogni caso, la considerazione dei vantaggi di una nuova formula, che incontra il bisogno di una classe di lettori, decreta un nuovo modo di percepire e di appropriarsi dell´oggetto libro. A incrociare questo bisogno, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in Italia, si afferma la “formula tascabile” come diversa modalità di acquisto, percezione e fruizione del libro in generale. La percezione del libro si orienta sotto il segno del tascabile e l’intera produzione editoriale, nelle sue linee principali, si “tascabilizza”. Con la tascabilizzazione si afferma presso lettori ed editori, la consapevolezza che grazie ai suoi abiti il libro deve esaudire il desiderio di fermare l´attenzione del lettore e consentire la compresenza di diversi modi di articolare gli atti del leggere. From the analysis of the changing paratextual aspects of books – such as format – one can deduce the changes in the process of reading. The idea is that these procedures are not substituted one for another as in a palimpsest, but are continually added onto one another. This change is the result of a new formula, which can arise from various sources, sometimes simultaneously. These can be economic factors, that is, as an attempt to react to a market crisis, or from the need to find a “container” for a text, or any related family of texts in which one believes wholeheartedly, etc. In any case, considering the advantages of a new formula which meets the needs of a class of readers, requires a new way of perceiving and appropriating the book- object. To meet this need, starting in the 90s of the last century in Italy, the “pocket book formula” became established as a different procedure for buying, perceiving and enjoying books in general. The perception of the book was oriented to the pocket-book and the entire editorial production, generally speaking became “pocket-sized”. This “pocketization” affirmed with readers and editors the awareness that by its appearance a book should catch the reader’s attention, and allow simultaneously for various ways of articulating the act of reading.

3. Si svincola così l’intenzione della lettura dal solo disvelamento dei meccanismi ermeneutici di un testo, apparentandola anche alla peculiarità degli atteggiamenti epistemici (come pensare, credere, sapere, percepire etc.).

l’evoluzione delle pratiche di lettura nell’italia contemporanea 683 Bibliografia Cadioli, A., Il costituirsi del libro letterario, « Igitur », v, (993). Cadioli, A., Letterati Editori, Milano, Il Saggiatore, 995. Cadioli, A., La ricezione, Roma-Bari, Laterza, 998. Cavallo, G., Chartier, R., Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 995. Certeau, Michel (de), L’invention du quotidien, 1. arts du faire, Gallimard folio, 990. Chartier, R., Meanings : Texts, Performances and Audiences form Codex to Computer, 995 (trad. it. Cultura scritta e società, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 999). Di Giampaolo, G., La creazione di un’immagine « alternativa », « Il Giornale della Libreria », ix, (996). Eco, U., Lector in fabula, Milano, Bompiani, 979. Ferrari, G. A., Più manager per l’editoria, in Tirature 1998, a cura di V. Spinazzola, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori-Il Saggiatore, 998. Mc Kenzie, D., Bibliography and the Sociology of texts, 986 (trad. it., Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 999). Peresson, G. ( a cura di), Il mercato dei tascabili negli anni Novanta, Quaderni dell’Ufficio Studi aie, 994. Peresson, G., Libro tascabile, mercato finito o infinito, Livingstone, 995. Ragone, G., Tascabili e nuovi lettori, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 990. Sciolla, F., L’Editrice Einaudi : dalle riunioni del mercoledì all’immagine comunicata, in L’editoria italiana tra cartaceo e digitale, numero monografico di « Economia della Cultura », a cura di Riccardo Fedriga, xii (2002), n. 3. Spinazzola, V., Critica della lettura, Roma, Editori Riuniti, 992. Spinazzola, V., La modernità letteraria, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 200. Turi, G. (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Firenze, Giunti, 990. Vigini, G. Presente e futuro del tascabile, « Libri e riviste d’Italia », xlvii, (995). Wolf, M., Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 985.

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Maria Antonietta Terzoli WWW.MARGINI.UNIBAS.CH : UN ARCHIVIO INFORMATICO DEI TESTI DI DEDICA NELLA TRADIZIONE ITALIANA (AIDI)

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orrei anzitutto ringraziare gli organizzatori, in particolare Marco Santoro e Maria Gioia Tavoni, per l’invito a partecipare a questo interessante convegno e per l’occasione che mi è offerta di presentare a un pubblico così qualificato i primi risultati di un progetto per lo studio e la catalogazione dei testi di dedica nella tradizione italiana, che mi occupa ormai da vari anni e, dopo uno studio tipologico sulla dedica di antico regime e sul suo modificarsi tra fine Settecento e primo Ottocento (presentato a Ginevra nel novembre 2000 in occasione del Convegno « Dénoument des Lumières et invention romantique »),  ha preso forma istituzionale all’Università di Basilea nell’agosto del 2002. L’équipe diretta da chi scrive è stata finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero dall’agosto 2002 al luglio 2004. Era composta da cinque ricercatori : Rodolfo Zucco, Anna Laura Puliafito, Sara Garau, Nicole Equey e Gabriele Balducci. Scopo di questa ricerca era tentare un censimento e un’indagine tipologica e storica del genere della dedica, per individuarne forme, modalità e strategie di funzionamento. Una prima fase, di natura storica e teorica, è documentata in un volume uscito nel febbraio 2004 presso Antenore, che raccoglie gli Atti di un Convegno di studi, I margini del libro : indagine teorica e storica sui testi di dedica, svoltosi a Basilea nel novembre del 2002. 2 A partire da alcuni casi esemplari – diversi per epoca, autore, destinatario, tipologia e funzione – si è tentato di tracciare una prima, e naturalmente ancora parziale, storia della dedica in Italia dai primi secoli fino agli autori contemporanei : per studiarne regole e convenzioni, e fornire qualche indicazione comparativa rispetto ad altre letterature romanze, con due escursioni nella letteratura barocca spagnola e nella letteratura francese del Novecento. Indagando puntualmente i cambiamenti di forme nella prassi dedicatoria, e analizzando il modificarsi di funzioni e di strategie, l’insieme dei saggi fornisce anche un’immagine del ruolo dello scrittore e del suo mutamento attraverso i secoli e le culture. Il volume degli Atti basilesi è cortesemente ricordato da Maria Gioia Tavoni nelle pagine che aprono il catalogo della mostra inau. Cfr. Maria Antonietta Terzoli, I testi di dedica tra secondo Settecento e primo Ottocento : metamorfosi di un genere, in *Dénouement des Lumières et invention romantique, Actes du Colloque de Genève 24-25 novembre 2000, Réunis par Giovanni Bardazzi et Alain Grosrichard, Genève, Droz, 2003, pp. 6-92. 2. *I margini del libro : indagine teorica e storica sui testi di dedica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea 2-23 novembre 2002, a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004. Il convegno, presentato sul « Corriere della Sera » da Paolo Di Stefano (Segreti d’autore, dimmi a chi dedichi e ti dirò chi sei, 2 novembre 2002, p. 37), è stato recensito tra l’altro da Irene Scariati, I margini del libro, « Italianistica », xxxii (maggio-agosto 2003), 2, pp. 32-37 ; Jacqueline Aerne, Kongressbericht : I margini del libro : indagine teorica e storica sui testi di dedica. Basel, 21. bis 23. November 2002, « Pro Saeculo xviii Societas Helvetica. Bulletin », Juni 2003, 22, pp. 6-9 ; Mara Santi, Resoconto sul convegno ‘I margini del libro : indagine teorica e storica sui testi di dedica’, « Per leggere », iii, autunno 2003, 5, pp. 35-46.

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gurata a Bologna in occasione di questo convegno sul paratesto e messo a frutto da Marco Santoro nel suo saggio Andar per dediche, che si legge nello stesso catalogo. 3 Una seconda e più ampia fase della ricerca è stata l’elaborazione di un Archivio informatico della dedica italiana (aidi), in progressiva espansione e interrogabile on line, di cui vorrei più ampiamente parlare oggi. L’Archivio è inserito in una Home Page bilingue italiano-tedesco (www.margini.unibas.ch) dove è proposta una serie di materiali e strumenti : una Bibliografia della dedica, un Glossario, un calendario di Eventi, una Galleria e un Giornale con cadenza annuale intitolato « Margini ». Per ragioni di spazio non mi è possibile presentare qui puntualmente queste diverse sezioni : mi limiterò dunque a una sintetica descrizione, nell’auspicio che il lettore voglia poi accostare i vari materiali proposti navigando a suo agio su Internet.

Fig. . Home Page.

La Bibliografia della dedica raccoglie una bibliografia specifica sull’argomento e vuole offrire allo studioso un riferimento bibliografico regolarmente incrementato e aggiornato. Comprende saggi in varie lingue, relativi a diverse tradizioni e ambiti culturali, anche se con prevalenza di quelli che riguardano dediche di opere letterarie italiane. È divisa in tre sezioni, Studi e saggi (i), Testi (ii) e Cataloghi e indici (iii). La seconda sezione contiene indicazioni di raccolte, antologie e manuali con esempi di dediche.

3. Cfr. Maria Gioia Tavoni, Avant Genette fra trattati e “curiosità”, in *Sulle tracce del paratesto, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, M. G. Tavoni, Bologna, Bononia University Press, 2004, pp. -8 ; M. Santoro, Andar per dediche, ivi, pp. 9-29.

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Fig. 2. Bibliografia.

Il Glossario propone una serie di termini utili a chi si occupa di questo genere di testi. Si tratta di definizioni d’uso, elaborate nel corso del progetto o già impiegate nella bibliografia antica e moderna sull’argomento e da lì riprese con eventuali adattamenti. Per maggior chiarezza le definizioni sono accompagnate da esempi storici di facile riconoscibilità, con segnalazione bibliografica minima dell’autore e del titolo. La sezione Eventi fornisce un calendario completo delle attività scientifiche e didattiche organizzate a Basilea in questo ambito di ricerca. Le singole manifestazioni (convegni, giornate di studio, conferenze, corsi e seminari) sono corredate di programma, bibliografia specifica, materiale documentario, rassegna stampa, eventuale documentazione fotografica. In questa sezione vengono segnalate e collegate con un link anche manifestazioni organizzate da altre università e da altri gruppi di ricerca, che abbiano attinenza con l’argomento. La prima manifestazione esterna che abbiamo segnalato è proprio questo convegno romano-bolognese sul paratesto. La sezione intitolata Galleria, raccoglie materiali iconografici di diversa provenienza attinenti alla dedica. Pensata in progressiva espansione, è divisa in due parti : Iconografia della dedica e Ritratti di dedicatari. La prima propone immagini di varia natura

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(miniature, incisioni, quadri, affreschi) in cui sono rappresentate scene di offerta e di dedica. Le immagini sono reperibili grazie a un indice alfabetico col nome dell’artista o, se anonime, con indicazione cronologica del secolo. La seconda parte di questa sezione riunisce in un’ideale galleria, senza pretesa di esaustività, i ritratti di alcuni dedicatari che figurano in aidi. I ritratti, eventualmente plurimi, possono essere di varia natura (pittorici, fotografici, e così via) e sono organizzati alfabeticamente secondo il nome del personaggio rappresentato.

Fig. 3. Galleria.

Nell’ambito del progetto, è prevista una rivista on line, con un comitato scientifico internazionale, intitolata « Margini. Giornale della dedica e altro ». La rivista avrà cadenza annuale e pubblicherà saggi, testi e materiali attinenti alla dedica e ai generi paratestuali, redatti in varie lingue, pur con prevalenza dell’italiano, e accompagnati da un abstract in inglese. Articoli e materiali riguarderanno dediche e paratesti provenienti da diverse tradizioni culturali e relativi a opere di vario genere : letterarie, storiche, filosofiche, artistiche, musicali e così via. La rivista prevede quattro sezioni : Saggi (articoli inediti), Biblioteca (articoli ‘classici’, già editi in formato cartaceo), Wunderkammer (testi narrativi e trattatistica antica sulla dedica, voci di enciclopedia e di dizionario, curiosità), Novità (recensioni, libri ricevuti, annunci di manifestazioni). L’uscita del primo numero è prevista per il settembre 2005.

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Fig. 4. Giornale.

Vengo ora all’Archivio informatico della dedica italiana (aidi), consultabile on line, che ha rappresentato il principale impegno di questa fase della ricerca e ha richiesto un notevole investimento di energie. È stato in effetti particolarmente delicato – ma metodologicamente e scientificamente appassionante – elaborare una serie di schede formalizzate per l’immissione di dati relativi a oggetti non interamente formalizzabili e costruire un sistema complesso (e variabile) di interrogazione dei materiali immessi nella banca-dati. Lo sviluppo tecnico del sistema operativo è frutto di una cooperazione con l’Istituto di Informatica della Fachhochschule Kaiserslautern, Standort Zweibrücken (Germania), in particolare con Dieter Wallach che ha diretto due lavori di licenza (Normen Deutschmann e Mirco Wernerus) volti a preparare una prima versione dell’applicazione informatica. Il prototipo di aidi è entrato in funzione con i primi testi il ° luglio 2004.

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Fig. 5. aidi.

Il corpus da immettere nell’Archivio è costituito da dediche di opere a stampa, in italiano o in altra lingua purché l’autore dell’opera o della traduzione sia italiano. Nei casi di particolare rilevanza culturale il censimento può essere esteso anche a dediche di tipografi, editori e curatori. Nonostante la prevalenza di opere letterarie in senso stretto, possono essere prese in considerazione anche opere storiche e filosofiche, testi teatrali, musicali, scientifici e critici. Un indice automaticamente aggiornato fornisce in tempo reale una mappa precisa degli autori, delle opere, dei dedicanti e dei dedicatari già inseriti. Si è proceduto finora su alcuni casi esemplari e differenziati per prevedere tutte le possibili varianti tipologiche legate al genere dell’opera a cui è premessa la dedica, alla sua collocazione cronologica e all’ambito culturale di appartenenza. L’immissione sistematica e su larga scala di altre dediche consentirà di valutare pienamente la funzionalità del modello elaborato, di perfezionarlo e di correggerne gli eventuali punti deboli, affinando e precisando le ipotesi di partenza. Nella banca dati una serie di informazioni significative sono organizzate in gruppi omogenei e predisposte per un sistema di interrogazione on line che opera sia sui testi sia sui parametri inseriti. L’interrogazione può avvenire a diversi livelli di complessità (Ricerca semplice, avanzata e complessa) e secondo parametri di ricerca (quasi un centinaio nel tipo più elaborato), combinabili liberamente a partire dagli interessi e dalle esigenze di chi consulta l’Archivio : luogo e anno di edizione, genere dell’opera, lingua e forma della dedica, occasione e data, identità e tipologia del dedicante o del dedicatario, forma del nome, relazione tra i personaggi implicati, e così via. Nelle due immagini che seguono ho riprodotto un esempio di Ricerca semplice e un esempio di Ricerca avanzata. In fondo alla pagina sono elencate tutte le dediche che rispondono ai criteri selezionati, con l’indicazione dell’autore, del titolo abbreviato dell’opera, dell’anno di edizione. Cliccando sulle icone che compaiono alla fine della stringa, per ogni dedica è possibile ottenere una trascrizione del testo interrogabile a tutto campo e una sintetica scheda di descrizione, chiamata Scheda finale.

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Fig. 6. Ricerca semplice.

Fig. 7. Ricerca avanzata.

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Nella trascrizione interrogabile sono evidenziate in rosso e in corsivo la o le parole ricercate, come in questo esempio (“gloria”) :

Fig. 8. Esempio di ricerca di parole.

Nella Scheda finale (che porta la firma del singolo redattore) compaiono i dati essenziali relativi all’opera e alla dedica selezionata : trascrizione del frontespizio, indicazione dell’edizione e provenienza dell’esemplare, nome del dedicante e del dedicatario, relazione reciproca, posizione e tipologia della dedica, eventuali note e bibliografia.

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Fig. 9. Scheda finale.

Sulla scheda compaiono inoltre alcune icone che consentono l’accesso : – all’immagine del frontespizio (corredato anche da eventuali ritratti), – alla riproduzione fotografica della dedica o delle dediche contenute nell’opera, – a una trascrizione linguisticamente e tipograficamente fedele, che rispetta anche la variazione dei caratteri, – a una versione stampabile della stessa Scheda finale – a una più complessa Scheda analitica, dove figura una descrizione formalizzata e completa dell‘opera e della dedica.

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Fig. 0. Scheda analitica opera e dedica (parziale).

Tramite la funzione “Ricerca personalizzata” ogni utente ha inoltre la possibilità di costruire e memorizzare uno o più profili di ricerca che rispondono ai suoi interessi specifici. È stato predisposto anche un sistema di Help molto articolato che, a richiesta dell’utente, accompagna e illustra puntualmente ogni operazione di ricerca e di immissione dei dati.

Fig. . Help.

Mi auguro che il lettore navigando su Internet avrà la curiosità e il piacere di verificare le potenzialità e le offerte della nostra banca-dati, costruendo anche percorsi di ricerca complessi e personali.

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Vorrei concludere la mia presentazione, ricordando qual è l’intento che sta dietro a questo progetto. È innanzi tutto l’idea di offrire l’accesso immediato a testi di non sempre agevole reperimento, riunendoli in un’ideale ‘biblioteca’ di consultazione, e costituendo una banca-dati on line in continua crescita, a disposizione degli studiosi, ma anche aperta ad altri interessati. In secondo luogo è il tentativo di applicare una tecnologia avanzata a materiali letterari e storici, con la possibilità di effettuare ricerche a tutto campo e secondo differenti parametri, combinabili e memorizzabili a piacere. Un elemento di particolare interesse consiste naturalmente nel fatto che in questo caso la ricerca, anche molto sofisticata, può essere effettuata on line da qualunque utente, senza dover passare attraverso il supporto materiale di un cdrom e di un programma particolare. Il modello di classificazione e di interrogazione allestito per le dediche nella tradizione italiana potrà inoltre essere impiegato anche per raccogliere e catalogare dediche di altre tradizioni culturali : tanto più che il sistema operativo, ora disponibile in italiano e in tedesco, in un secondo momento potrà funzionare anche in inglese. Ci si può anche chiedere se il modello di classificazione predisposto, che si è cercato di elaborare in maniera complessa ma flessibile, non possa in séguito essere adattato alla classificazione e all’organizzazione di materiali letterari di altro genere e di altra natura. Il progetto di ricerca che ho presentato è nato nel segno di una collaborazione internazionale con altre università e altri ricercatori. E solo in una prospettiva multidisciplinare la banca-dati – il cui allestimento ha richiesto un notevole impegno teorico e un grande lavoro scientifico e tecnico – potrà davvero essere incrementata e offrire una massa critica di testi utilizzabili da studiosi di diverse discipline storiche e letterarie. Gruppi di ricerca di altre università potrebbero partecipare all’incremento della banca-dati per settori specifici, secondo modalità di cooperazione da definire : ed è certo molto confortante sapere che già alcuni colleghi dell’Università di Basilea e di altre Università hanno manifestato il loro interesse in tal senso. Ma nel sistema operativo è prevista anche la possibilità per singoli ricercatori di partecipare individualmente, secondo i propri interessi specifici, all’incremento dell’Archivio, lavorando on line e pubblicando a proprio nome le schede via via allestite. Voglio dunque chiudere il mio intervento con un auspicio di collaborazione, rivolto a chi è interessato a questo genere di studi e ha voglia di sperimentare nuove forme di scambio e di confronto intellettuale. Abstract La relazione presenta un progetto di ricerca per lo studio e la catalogazione dei testi di dedica nella tradizione italiana, che ha preso avvio all’Università di Basilea nell’agosto 2002. Scopo della ricerca è tentare un censimento e un’indagine storica e teorica di questo genere testuale, per individuarne regole, convenzioni e strategie di funzionamento. A tal fine è stato elaborato il prototipo di un Archivio informatico della dedica italiana, in progressiva espansione e interrogabile on line (aidi). Il prototipo dell’Archivio è inserito in una Home Page (www.margini. unibas.ch), dove sono organizzati una serie di materiali e di strumenti di studio attinenti : una Bibliografia della dedica, un Glossario, un calendario di Eventi, una Galleria e un Giornale con cadenza annuale (« Margini »). Il prototipo è entrato in funzione con i primi testi nel luglio 2004. Per ogni dedica è fornita la riproduzione fotografica (corredata anche dal frontespizio dell’opera e da eventuali ritratti), una trascrizione interrogabile a tutto campo, una trascrizione tipograficamente fedele, una sintetica scheda finale e una più dettagliata scheda analitica.

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Nella banca dati una serie di informazioni significative sono organizzate in gruppi omogenei e predisposte per un sistema di interrogazione che opera sia sui testi sia sui parametri inseriti. L‘interrogazione può avvenire a diversi livelli di complessità e secondo parametri di ricerca combinabili liberamente. The report introduces a researching plan for the study and the classification of dedication texts in the Italian tradition, which started at the University of Basel in August 2002. Purpose of this research is to try a census and an historical and theoretical study of this textual class, in order to characterize rules, conventions and working strategies. For this end it has been processed the prototype of an Italian dedication database, in progressive expansion and testable on line (aidi). The prototype of the Database is published in an Home Page (www.margini. unibas.ch), where groups of many materials and relevant studying tools are organized : Glossary, Dedication Bibliography, calendar of Events, Gallery and annual Journal (« Margini »). The prototype is on line with its first texts since July 2004. Every dedication is provided with the photographic image (coming also with the work’s title-page image and with possible portraits), an hypertextual transcription, a synthetic final index form and a more detailed analytic one. In the database there are lots of meaningful informations organized within homogenous groups and arranged for a search system operating whether on the texts or on the inserted parameters. The search can be done through several levels of complexity and according to freely combinable searching parameters.

Florindo Rubbettino L’EPITESTO COME STRATEGIA

I

l mio intervento intende portare un modesto contributo ai lavori focalizzando l’attenzione su come un medio editore qual è Rubbettino ha utilizzato e utilizza l’epitesto editoriale all’interno delle proprie strategie promozionali e di marketing con riferimento all’impatto con il lettore o con il potenziale lettore. La Rubbettino è considerata da molti una delle case editrici emergenti nel panorama editoriale italiano. Nata nel 972, è presente sul mercato nazionale e internazionale dal 993. La sua produzione è particolarmente orientata alla saggistica e si segnala per l’ampiezza e per la varietà tematica delle collane. L’obiettivo è quello di partecipare al dibattito culturale con contributi originali e di costruire un catalogo durevole. La produzione può essere divisa in tre macro aree : la saggistica orientata al mercato, la saggistica universitaria, il service per istituzioni e altri soggetti che intendono pubblicare. Alla prima area appartengono, tra le altre, la collana « Focus », che presenta testi di piccolo formato che in non più di 80 pagine fanno il punto su alcune tematiche di attualità ; la collana « Problemi aperti », che con taglio giornalistico e divulgativo interviene su tematiche di attualità ; le collane « Saggi » e « Supersaggi »; che propongono analisi più approfondite, spesso di taglio scientifico, sull’universo sociologico, storico, economico, politico e filosofico e all’interno delle quali sono presenti importanti traduzioni. Tra le collane più importanti vi è poi « Biblioteca austriaca », che ha il merito di aver introdotto in Italia testi classici della Scuola austriaca di economia e scienze sociali. Dalla collaborazione sempre più stretta col mondo universitario provengono importanti contributi da proporre anche al grande pubblico e spunti di riflessione e tematiche altrimenti confinate al solo mondo accademico. La storia, l’economia, le scienze sociali, la filosofia, la critica letteraria, il diritto sono tutte discipline presenti nelle collane della Casa Editrice. Un’ulteriore e vasta area è quella delle Istituzioni che si avvalgono dei servizi della Rubbettino per pubblicare e promuovere al meglio i propri contenuti. Tra di esse il Senato della Repubblica, il Dipartimento della Funzione Pubblica, il Censis, la Fondazione Einaudi, la Fondazione De Gasperi, l’Istituto Sturzo, il Centro per la Storia dell’impresa e dell’innovazione, il Circolo di Studi Diplomatici, il Centro Alti Studi della Difesa. Il titolo che ho voluto dare alla mia testimonianza è L’epitesto come strategia, volendomi riferire ai risultati che la Casa Editrice ha nel tempo ottenuto grazie ad una attenta opera di costruzione di una serie di strumenti epitestuali che hanno agevolato la circolazione e la promozione della propria produzione. Il tutto è frutto di una attenta pianificazione, prima, cui è seguita la politica editoriale. Come in altri settori, anche nel mercato editoriale costruire un’immagine di marca non è operazione facile, né di breve periodo. Gli editori hanno sempre più la necessità di differenziarsi per poter avere una maggiore visibilità in un mercato sovraffollato qual è quello editoriale.

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Rispetto ad altri settori, in quello editoriale tale operazione è ancor più difficile : ogni nuovo titolo è un nuovo prodotto, nessun libro è uguale all’altro, per cui l’Editore si trova nella necessità non solo di dover promuovere il marchio, ma anche di dover promuovere ogni singolo prodotto. Molti editori hanno puntato ad una attenta opera d’immagine che provvedesse ad esempio ad aumentare il grado di differenziazione rispetto ai concorrenti con riferimento ad aspetti peritestuali. Il restyling grafico è una delle strade più battute in questo senso. È un fatto ormai conclamato anche nel settore editoriale che la confezione migliora l’efficacia dell’azione di marketing. Altri aspetti, ancora peritestuali, come la scelta della carta, la scelta dei caratteri, la rilegatura, la valorizzazione delle copertine hanno una grande importanza da questo punto di vista. La Rubbettino ha rivolto particolare attenzione anche a questi aspetti, ricavandone notevoli benefici di immagine e risultati commerciali a volte anche inaspettati. Ma non è questo l’aspetto che vorrei qui trattare. Il titolo dell’intervento, dicevo, l’epitesto come strategia, vuole sottolineare l’importanza che l’epitesto riveste nelle strategie della Casa Editrice. La definizione più bella e che trovo più affascinante che dà Gèrard Genette dell’epitesto è quella di un elemento che circola in libertà, in uno spazio fisico e sociale virtualmente illimitato.  L’essenza dell’epitesto è dunque quella di non avere limiti esterni, essere veicolo del prodotto cui fa riferimento, ma allo stesso tempo di essere sganciato da esso e in virtù di questo di essere potenzialmente un veicolo formidabile di circolazione per il prodotto editoriale. La ricchezza di una casa editrice è data dagli autori e dai titoli che ha in portafoglio. Quando un titolo entra nel catalogo entra a far parte della vita della casa editrice. Portafoglio e catalogo rappresentano quindi la vera ricchezza della casa editrice e la loro gestione e promozione è il momento più importante. L’esigenza dell’editore è quella di far circolare il più possibile le informazioni riguardo al proprio catalogo e al proprio magazzino. L’epitesto supera i limiti fisici e vola per raggiungere i potenziali lettori. L’ambiguità del libro fra prodotto culturale e bene economico – come ha messo in evidenza Paola Dubini nel libro Voltare Pagina 2 – influenza anche la natura e le strategie degli editori. Immaginando un ideale continuum i due estremi idealtipici di editore possono essere rappresentati da una parte dai cosiddetti editori di cultura, che privilegiano la fase “editoriale” e contenutistica a discapito degli aspetti promozionali, pubblicitari e di marketing e dall’altro lato dagli editori di consumo, fortemente orientati al mercato, le cui strategie privilegiano gli aspetti di marketing spingendo, a volte, fino all’eccesso tali loro azioni. La sfida per gli editori che vogliono collocarsi in posizione intermedia tra questi due estremi è quella di far convivere le due anime, entrambe indispensabili per garantire la continuità delle Case editrici di cultura e allo stesso tempo la possibilità di allargare il mercato. Da tempo la Casa Editrice Rubbettino ha imboccato la strada della svolta imprenditoriale e manageriale che l’ha allontanata dal modello tipico di piccolo editore artigiano, cosa che ha portato, tra gli altri effetti, anche ad una grande attenzione alle strategie di comunicazione e quindi agli aspetti che riguardano l’epitesto editoriale. . Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Cederna, Milano, Einaudi, 980. 2. Paola Dubini, Voltare Pagina, Milano, Etas, 997.

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A questo punto ci siamo chiesti come ampliare la gamma dei contenitori di epitesto in modo da avere a disposizione ulteriori strumenti di promozione e veicolazione della nostra produzione. Vorrei segnalare alla vostra attenzione i quattro strumenti messi in campo per raggiungere questi obiettivi : . Grande attenzione agli strumenti promozionali tradizionali (cataloghi, segnalibri, depliant, gadget, presentazioni, pubblicità). 2. Un’attenzione allo sviluppo di Internet fin dal suo affermarsi (il primo sito della Casa Editrice con negozio on line è del 995, uno tra i primi in Italia) come straordinario veicolo per diffondere epitesto ; 3. Il lancio di una rivista della Casa Editrice di promozione delle pubblicazioni ; 4. Il lancio di una rivista telematica mensile.

Cataloghi, segnalibri, depliant, gadget, pubblicità L’abitudine a realizzare cataloghi periodicamente aggiornati, nonché altri strumenti quali ad esempio segnalibri promozionali dei volumi, gadget, come le carte da gioco con le copertine dei volumi, sono tecniche ampiamente utilizzate nel passato che hanno consentito alla Casa Editrice di misurare i reali benefici di tali strumenti epitestuali. Su questi supporti di epitesto editoriale non c’è molto da dire. Sono stati da sempre strumento di promozione per la Casa Editrice e qui ci interessano solo per evidenziare che il loro utilizzo, abbastanza massiccio, fin dai primi anni ha consentito di misurarne costantemente la reale efficacia. Negli ultimi periodi però si sono concepiti anche nuovi strumenti come una newsletter telematica inviata ai lettori che si sono registrati sul sito e che informa tempestivamente sulle novità, gli eventi o temi di particolare interesse. Internet Dicevo che il sito della Casa Editrice è stato realizzato fin dal 995. Come tutti i siti del periodo si presentava con delle pagine statiche, non aggiornate periodicamente. L’unico elemento di movimento era il catalogo, che veniva puntualmente aggiornato con le copertine e le schede dei volumi. Si è puntato fin dal principio, invece, sul negozio on line, con transazioni dirette e pagamenti con carta di credito. Questa prima esperienza è interessante perché ha fatto intuire alla Casa Editrice le potenzialità dello strumento e ha consentito di misurare, in termini di contatti e di vendite, l’effettiva forza del canale. Forti di questa esperienza, nel 998, abbiamo progettato lo sviluppo di un sito dinamico (anche questa volta mi permetto di dire in anticipo sui tempi). Le caratteristiche principali di questo sito sono state appunto la presenza sulla home page di articoli di presentazione di libri Rubbettino, un costante aggiornamento sul vasto programma di presentazioni della Casa Editrice, la top ten dei libri più venduti del mese, una selezione delle migliori recensioni apparse sulla stampa collegate alle schede del catalogo, una sezione denominata “Incipit” nella quale è possibile scaricare in formato pdf un assaggio del libro, una pagina dedicata alle offerte del mese. L’idea è quella di far trascorrere più tempo possibile all’utente sul sito, in modo da sperare che prima o poi egli vi possa tornare. In particolare quest’ultimo esperimento, ancora una volta pionieristico, ha avuto e continua ad avere un notevole

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successo sia in termini di contatti sia in termini di transazioni completate, rivelandosi un efficace strumento di marketing e di promozione dei volumi. Il sito internet della Casa Editrice si presenta dunque come un grande contenitore di epitesto utile a far circolare in libertà i contenuti delle opere in catalogo della Rubbettino. Rivista « Rnotes » Il nostro sistema editoriale esprime a grandi linee due tipologie di approccio, consumo e promozione. La prima può essere considerata quella dei libri destinati al grande pubblico, acquirenti che non sono identificabili in una precisa categoria, fruitori di best seller e più in generale di libri di consumo. La seconda vede, se non un prodotto, quantomeno un pubblico meglio definito. A lettori forti, studenti, intellettuali, accademici è indirizzato il variegato settore della saggistica cui la Rubbettino principalmente fa riferimento. Un pubblico, quindi, che manifesta un interesse non occasionale per il mondo del libro. A prodotti diversi corrispondono formule di promozione diversa. Ai best seller e ai titoli di consumo sono infatti riservate tecniche e circuiti comuni più al cinema, alla televisione e ai video che all’editoria. L’editoria per così dire tradizionale è invece limitata a circuiti meno estesi e in un certo qual modo abbandonata a se stessa. Oggi il libro è un mezzo di comunicazione in mezzo agli altri. Ha perso il suo status privilegiato ed è costretto a competere nell’arena con mezzi nuovi, più allettanti. Proporre un libro da solo non basta. Intorno al libro è necessario che si crei un’attenzione, direi mediatica, che attragga e incuriosisca il lettore. Proprio partendo da questa considerazione abbiamo pensato a « Rnotes », uno strumento che attrae l’attenzione sul libro con le sue stesse armi, quelle della lettura e non dei gadget. Armi che, su quei lettori forti che sono il nostro target privilegiato, hanno una presa sicuramente più forte. D’altro canto la stampa è da sempre stata la principale, la più affidabile e la più antica tribuna per il libro. Ci siamo accorti che il mondo che ruota intorno alla Casa Editrice è molto più esteso e ramificato di quello che noi stessi potevamo immaginare. Alla rivista prestano la loro collaborazione intellettuali, direttori di collana e gli stessi autori della Rubbettino che magari recensiscono volumi di altri colleghi. «Rnotes» è comunque una rivista. In ciascun numero è presente una riflessione sul mondo dei libro, della lettura, dei nuovi media. Le pubblicazioni Rubbettino sono spesso un pretesto per articoli e riflessioni a più ampio raggio. Si dà poi conto delle attività della Rubbettino, degli appuntamenti, delle recensioni, delle novità. Allegata alla rivista vi è una cedolina per l’ordinazione dei libri. Rappresenta quindi anche uno strumento di informazione bibliografica continua per librerie, lettori, biblioteche. Si tratta di un investimento consistente. Viene stampata in 20.000 copie e attraverso il distributore della Rubbettino viene diffuso gratuitamente in tutte le librerie italiane. Inoltre viene inviato gratuitamente a tutti coloro che ne fanno richiesta. Oltre naturalmente alle biblioteche. Febvre e Martin nel loro La nascita del libro 3 ci ricordano che gli editori, già nel Seicento, con l’aumentare del numero dei loro lettori, presero l’abitudine di informarli 3. Luciene Febvre, Henry Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Bari, Laterza, 977.

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dapprima con la stampa dei cataloghi delle opere alla fine del libro, poi via via con la stampa di vere e proprie pubblicazioni periodiche che erano allo stesso tempo i progenitori dei nostri cataloghi editoriali e delle nostre riviste di informazione bibliografica. Questo per dire che strumenti di informazione bibliografica nacquero già quasi con il libro per informare librai ed eruditi che all’epoca, come unica fonte di informazione sulla produzione libraria, disponevano soltanto delle informazioni fornite dagli amici e dai corrispondenti. «Scriptamanent» Proprio l’inaspettato successo di « Rnotes » ci ha portato a pensare ad un nuovo progetto da affiancare e cioè alla creazione di una rivista telematica che avesse caratteristiche in qualche modo analoghe ma che proprio per la sua natura di strumento telematico avesse la possibilità di raggiungere con più facilità i lettori, potesse avere una periodicità più stringente e un linguaggio più adatto al lettore della rete. Ci siamo chiesti : perché non coniugare libro e nuovi media e farli convergere ? La rivista on line solo apparentemente si disperde tra i fili invisibili della rete, rivendicando nel suo stesso nome il diritto alla convivenza degli opposti. L’informazione editoriale, dei vecchi e nuovi libri della casa editrice, è l’elemento centrale, ma non esclusivo, della rivista sulla quale, come peraltro accade per Rnotes, trovano spazio segnalazioni e recensioni di libri di altri editori e temi che riguardano il mercato editoriale più in generale. Un discorso a parte merita l’impostazione grafica che tiene conto delle ricerche più avanzate sulle modalità di lettura della pagina web. A differenza della lettura su carta, che avviene secondo modalità a esse o a zeta, si è visto che la lettura della pagina web avviene per blocchi. In base a questo criterio abbiamo impostato le nostre pagine web della rivista telematica. L’altra considerazione da cui siamo partiti è che una rivista telematica efficace deve offrire ai visitatori buone ragioni per trascorrere del tempo su di essa e ritornarvi. Grafica accattivante e trucchi tecnologici attraggono l’attenzione, ma l’interesse finisce subito se la rivista è priva di sostanza. La maggior parte degli esperti del web concorda sul fatto che « il contenuto è re ». Una buona rivista di settore deve anche offrire informazioni utili sul mondo editoriale indipendentemente dal fatto se il lettore acquisterà o meno il prodotto. Se i lettori imparano qualcosa dalla rivista o trovano contenuti di loro interesse, sicuramente vi torneranno per saperne di più. Tutto ciò conferisce all’editore una posizione primaria nel proprio settore e fa guadagnare il rispetto dei visitatori e potenzialmente anche l’interesse all’acquisto. Vorrei concludere con gli sviluppi possibili dell’epitesto editoriale. Già oggi esiste una personalizzazione dell’epitesto in funzione del target della comunicazione editoriale. Le schede dei volumi redatte dall’ufficio stampa tendono a evidenziare determinati aspetti delle opere, mentre le schede redatte dall’ufficio commerciale destinate alla rete di promozione enfatizzano altri aspetti. La sfida che la Rubbettino ha già intrapreso è quella di personalizzare l’epitesto in funzione del lettore. Già oggi i cookie possono essere molto utili per identificare un visitatore che ritorna sul sito e quindi fornirgli sul momento pagine web personalizzate sulla base dei libri precedentemente acquistati e delle pagine lette. Lo sviluppo di ciò è quello di far godere un’esperienza molto personalizzata e fargli arrivare pagine, e quindi epitesti, appena predisposti per lui. Una sfida affascinante che la Rubbettino è pronta ad intraprendere.

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florindo rubbettino Abstract

L’intervento è una testimonianza su come un medio editore qual è Rubbettino ha utilizzato e utilizza l’epitesto editoriale all’interno delle proprie strategie promozionali e di marketing con riferimento all’impatto sul lettore o potenziale lettore. The article explores how a medium-sized publisher, Rubbettino, continues to use the editorial epitext in its own promotional and marketing strategy, with reference to its impact on the current or potential reader.

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Francesco Iusi DAL CARTACEO AL DIGITALE : RESE PARATESTUALI DELLA COMUNICAZIONE PRESENTE NEGLI ARCHIVI LETTERARI

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a quando l’informatica è diventata uno strumento abituale di lavoro e di comunicazione delle informazioni, anche la gestione degli archivi e i servizi al pubblico si stanno progressivamente trasformando, con tempi, soluzioni e modi diversi.  Con l’espressione ‘archivi on line’ ci si può riferire sia all’equivalente in ambiente elettronico e accessibile via rete degli archivi su supporti tradizionali, cioè alla documentazione accumulata da un soggetto produttore nel corso della propria attività e per i propri fini, sia ai servizi forniti attraverso Internet da istituti che operano una concentrazione delle raccolte classiche di documenti. Prima di prendere in considerazione un esempio specifico di archivi on line, l’Archivio Francesco Flora (su cd rom e su Internet 2), vorrei fare alcune considerazioni in merito alla pubblicazione di informazioni on line e, in particolare, sull’uso degli elementi paratestuali presenti nelle pagine web, partendo dal paradigma che è stato denominato dell’usabilità. Internet, nonostante non rappresenti ancora un mezzo di comunicazione accessibile a tutti, grazie alle sue caratteristiche è in grado di raggiungere e di offrire una vasta gamma di servizi ad un elevato numero di utenti. In questo contesto è importante che chi si occupa di comunicazione on line si renda conto della specificità dei nuovi mezzi per poter comunicare in modo chiaro ed efficace. Questi nuovi mezzi richiedono nuovi linguaggi e nuove regole. Sul web il testo assume un nuovo significato : è tessuto di elementi eterogenei che devono essere amalgamati sulla pagina, si tratta in vero di una serie di testi verbali e non verbali che l’autore deve far convivere nello stesso spazio per comunicare. Il riferimento paratestuale non è caduto, ma si è spostato all’interno del testo, diventandone parte integrante ; il paratesto, in pratica, non consiste soltanto nelle parole con cui vengono espresse le scelte dell’autore, ma anche nella struttura delle decisioni da lui predisposte e che il lettore esplora. L’obiettivo del cosiddetto paradigma dell’usabilità è quello di creare ambienti familiari, facili da usare, in cui processi trasparenti consentano all’utilizzatore di raggiungere precisi obiettivi con il minimo sforzo. Questo concetto è stato ben sintetizzato in uno slogan da George Eastman, fonda. Claudia Salmini, L’informatica e i servizi al pubblico, in . 2. Nella Sezione Archivi Letterari, un Laboratorio per gli archivi letterari del Novecento, consultabile all’indirizzo www.fil.unical.it/archilet.htm (una sezione del sito del Dipartimento di Filologia - Facoltà di Lettere e Filosofia - dell’Università della Calabria), sono depositati due importanti archivi letterari novecenteschi : gli archivi privati di Francesco Flora (89-962) e di Albino Pierro (96-995).

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tore della Kodak : « You Press the Button, We Do the Rest » (« Tu premi il bottone, noi facciamo il resto »). 3 Nel web l’usabilità è riferita alla capacità di un sito di soddisfare « i bisogni informativi dell’utente finale che lo sta visitando e interrogando, fornendogli facilità di accesso e di navigabilità e consentendo un adeguato livello di comprensione dei contenuti ». 4 Come sappiamo, gli elementi paratestuali concorrono a rendere più agevole la fruizione e la comprensione del testo. Questi microcontents, come li chiama Jakob Nilsen, definendoli « perle di chiarezza », in Internet assumono un ruolo nuovo e indispensabile : devono contenere, anticipare il “macrocontent” di intere pagine o di un sito intero ; aiutano a muoversi e a orientarsi meglio in uno spazio in cui l’informazione è organizzata per relazioni e in modo non lineare mettendo in evidenza la parte centrale dell’informazione stessa, che il lettore può cogliere con uno sguardo e giudicare interessante o meno ai fini della sua ricerca. Il paratesto nel web (la segnaletica del web), rappresentato dai dispositivi di navigazione, assume un ruolo particolarmente importante : guidare e orientare il lettore all’interno del sito. Un impiego funzionale e pertinente degli elementi paratestuali rende più comoda la scansione del testo, più agevole il riconoscimento del tema di fondo e di quelli collaterali, più evidente la logica secondo la quale il testo è stato organizzato, più facile il ritrovamento delle notizie che interessano. Il primo livello di paratesto lo ritroviamo nell’interfaccia offerta dal sistema operativo (Windows, MacOs o Linux). I sistemi operativi, sempre più familiari e amichevoli, consentono anche a chi ha poca dimestichezza con gli strumenti informatici di muoversi con una certa agilità e di effettuare le operazioni più comuni col minimo sforzo : lanciare programmi, ridimensionare finestre, eliminare file e cartelle, ecc. Entrando nel web troviamo il secondo livello di paratesto che è costituito dai pulsanti di navigazione presenti nei browser che, oltre a guidare nella navigazione (avanti, indietro, ecc.), consentono anche di costruire un livello paratestuale personalizzato : per esempio la ‘cronologia’, cioè l’indice dei siti visitati in ordine cronologico, e i ‘preferiti’ (collegamento a siti o cartelle visitati di particolare interesse). Il terzo livello è rappresentato dagli elementi paratestuali presenti sul sito : essi consentono la navigazione nelle pagine che compongono il sito stesso senza necessità di ricorrere ad ulteriori sistemi. La fase progettuale di un sito web è fondamentale in vista del suo successo : ogni elemento deve essere inserito nel posto giusto per far sì che il messaggio sia chiaro ed immediato. Avere ben chiaro l’obiettivo del progetto, disporre di un’immagine nitida del pubblico a cui ci si rivolge, sono i punti di forza che permettono di procedere alla progettazione vera e propria. Definiti i contenuti, si passa alla scelta del linguaggio appropriato al progetto, linguaggio inteso come insiemi di segni convenzionali verbali, ma anche come codice simbolico della grafica e delle funzionalità da rendere attive sul web, identificando una precisa tipologia di fruizione del sito in base al target cui esso si rivolge. 3. Miani Di Mattia, La semplificazione amministrativa nell’era di Internet, in http ://www.mattiamiani. it/pubblicazioni/20020930_accessibilita.doc. 4. Michele Visciola, Usabilità dei siti Web, Milano, Apogeo, 2000.

rese paratestuali negli archivi letterari

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Una pagina Internet è una creazione multimediale, una tipologia importante di scrittura : al tempo stesso testo scritto, immagine, suono, link, movimento ; per scriverla occorre fare appello a quasi tutti i sensi e quindi va creata mettendo in campo tutte le conoscenze e la sensibilità che si posseggono. 5 L’efficacia del testo di una pagina web non risiede solo nel contenuto, ma anche, come si diceva, nella sua forma grafica : ogni tipo di carattere (font) esprime uno stile comunicativo (formale, classico, informale, giovanile, ecc.). Per essere graficamente comprensibile il font deve garantire una buona leggibilità a video (dimensione non troppo piccola e in netto contrasto con il colore dello sfondo) e i collegamenti devono far capire al lettore, nel minor tempo possibile, cosa può aspettarsi dal ‘macrocontent’ ad esso collegato. Il paratesto del web deve incuriosire, indirizzare e informare. Per svolgere correttamente queste funzioni è opportuno che venga definito in modo corretto osservando regole ben precise. Nelle pagine Web ritroviamo gli stessi elementi paratestuali del testo a stampa e in più ne abbiamo di specifici, come quelli contenuti nei tag di intestazione : e . 6 Gli elementi più importanti e decisivi per la visita di un sito web sono : il titolo, equivalente del titolo di un libro ; l’home page, equivalente della copertina ; il nome del dominio e l’indirizzo del sito. In particolare il titolo non deve essere generico perché trasmette quello che è l’obiettivo del sito, e l’indirizzo deve essere il meno complicato e tortuoso possibile, per consentire una facile consultazione. L’home page di un sito dovrà essere contenuta completamente in una videata (non dovrà cioè costringere all’uso delle barre di scorrimento) ; deve inoltre facilitare l’utilizzo del sito stesso, fornendo una breve ma efficace spiegazione di ciò che l’utente troverà nelle varie sezioni. Naturalmente questo compito non deve far dimenticare che la home page è anche una pagina di benvenuto. Nel tag ( … ) si definisce il titolo della pagina web che viene visualizzato sulla barra superiore della finestra del browser durante la navigazione ed è ciò che appare quando il lettore inserisce la pagina tra i preferiti. È buona norma specificare il titolo, che non può essere troppo lungo, di ogni pagina web perché una pagina senza titolo è anonima e poco professionale. Il tag , inserito subito il tag , consente di immettere nell’intestazione dei dati che non vengono visualizzati nella pagina (il nome dell’autore, una breve descrizione dei contenuti ed un elenco schematico di parole-chiave), ma servono al browser e ai motori di ricerca per gestirne i contenuti in modo più efficace. In particolare le parole-chiave (, essenziali ai fini del posizionamento del sito nei risultati dei motori di ricerca) devono rappresentare, in estrema sintesi, il contenuto della pagina. Vengono individuate dai motori di ricerca ed esaminate per stabilire se la pagina è più o meno coerente con la ricerca effettuata dall’utente, mentre la descrizione del contenuto () compare di solito come abstract nei risultati prodotti dai motori di ricerca. Il titolo della pagina, ben visibile, deve dare l’idea di ciò che in essa è contenuto ; i sottotitoli vengono invece utilizzati per titolare i paragrafi : è consigliabile farne un uso frequente per suddividere il testo in blocchi, onde evitare di avere un documento monotono e lungo. Particolarmente utili, quando il testo della pagina è lungo, sono gli indici ; si può creare un indice dei paragrafi, da porre in alto, con un collegamento a ciascuno dei paragrafi stessi. Altro elemento importante di una pagina web sono i link : devono essere brevi, chiari e informativi al massimo, un vero e proprio concentrato di contenuto, invogliando il lettore a cliccare, a proseguire la navigazione. Una funzione molto utile per le immagini che trasmettono informazioni è svolta dal tag () ; si tratta di un testo breve che compare quando si passa col mouse su un’immagine e che viene visualizzato quando il browser non riesce a caricare l’immagine stessa. Considerato che i motori di ricerca possono usare il testo nell’indicizzazione delle pagine, esso deve svolgere la stessa funzione o scopo dell’immagine. Descrizione siti archivi letterari Una rete per gli archivi letterari del ’900 URL : http ://www.bncrm.librari.beniculturali.it/ita/archivi/fsarchivi.htm. Descrizione sito : È una sezione del sito della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Raccoglie e redistribuisce informazioni su archivi e fondi pubblici e privati di scrittori italiani del Novecento. Il sito, costituito da un’unica sezione, consente di avere inoltre informazioni sulle biblioteche, organizzate per regioni, che conservano gli archivi. Elementi paratestuali presenti sul sito : • Titolo - Una rete per gli archivi letterari del ’900 • Barra di orientamento - Assente sull’home page. A partire dal secondo livello è presente un menu di navigazione che orienta il visitatore ; purtroppo è poco funzionale perché posizionata in fondo a ciascuna pagina • Indici - Nel frame di destra, fisso in tutte le pagine, sono presenti i collegamenti all’home page, alla pagina contenente l’elenco lincabile delle biblioteche, al modulo di adesione al progetto e all’home page della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

rese paratestuali negli archivi letterari

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• Link - I link sono tutti testuali tranne quelli del frame a destra che hanno icone corredate di indicazione testuale • Informazioni e responsabilità - I riferimenti ai curatori del sito sono presenti nella home page, mentre nelle pagine di ciascuna biblioteca è presente un link ad una pagina contenente informazioni sulla biblioteca visualizzata. Elementi paratestuali contenuti nei tag di intestazione • Title : Una rete per gli archivi letterari del ’900 • Meta name : Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti” URL : http ://www.vieusseux.fi.it/archivio.html. Descrizione sito : L’Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti”, sezione del sito del “Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux”, raccogliere materiale vario relativo a personalità del mondo contemporaneo. Elementi paratestuali presenti sul sito : • Titolo - Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti” • Barra di orientamento - Non esiste una vera e propria barra di orientamento. L’unico elemento che consente di orientarsi è dato dal bordo superiore dell’icona della sezione che è più spesso • Indici - L’indice, presente a destra delle pagine, sparisce seguendo il link “Il Palazzo” ; per ritornare alla pagina precedente si deve ripartire dall’home page della sezione • Link - I link, corredati di tag , sono tutti testuali tranne quelli che rimandano alle varie sezioni del sito • Informazioni e responsabilità - Nella pagina iniziale di ciascuna sezione sono riportare le informazioni generali e le indicazioni di responsabilità. Elementi paratestuali contenuti nei tag di intestazione • Title : Archivio Contemporaneo A. Bonsanti • Meta name : keywords : < Sull’home page del sito. Solo in italiano. Superano i .000 car. Progetto Graphè URL : http ://www.ibc.regione.emilia-romagna.it/soprintendenza/grafe/index.htm. Descrizione sito :

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Il progetto Graphé è finalizzato alla costituzione di un archivio generale dei fondi di cultura dell’Otto-Novecento in Emilia-Romagna. Esso si pone l’obiettivo di facilitare l’individuazione e la localizzazione dei fondi di cultura disponibili per lo studio e la ricerca. Per ogni singolo fondo è presente una scheda introduttiva contenente un profilo biografico del soggetto cui è intestato l’archivio, una descrizione del fondo stesso, fornendo utili informazioni circa la consistenza, le diverse tipologie documentarie individuate, la presenza o meno dell’inventario, la bibliografia. Elementi paratestuali presenti sul sito : • Titolo - Progetto Graphè - Home Page • Barra di orientamento - No • Indici - No • Link - In alto nella pagina quelli che rimandano alla pagina visitata immediatamente prima, all’elenco dei fondi e un collegamento al programma di posta elettronica. Le immagini sono corredate di tag che non forniscono alcuna indicazione in quanto visualizzano il nome dell’immagine ad essi collegata. Solo nella parte inferiore di ciascuna scheda di un fondo, e quindi poco funzionale, troviamo i pulsanti di collegamento alla “Scheda di consistenza, all’“Ente di appartenenza” e all’Home page • Informazioni e responsabilità - Le informazioni su ciascun fondo sono riportate nella scheda “Ente di appartenenza”. Non sono indicate le responsabilità. Elementi paratestuali contenuti nei tag di intestazione • Title : Progetto Graphè - Home Page (varia al variare della pagina) • Meta name : ; . Archivio del Novecento URL : http ://archivionovecento.scu.uniroma.it/default.htm. Descrizione sito : Archivio del Novecento è raggiungibile dalla sezione “Strutture” della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Organizza e conserva fondi archivistici relativi alla cultura del Novecento. La sezione Fondi fornisce elenchi di -archivi interi, -parti di archivi, -varia e -archivi disponibili in fotocopia. La sezione Autori si apre sull’Indice dei nomi da cui si accede a singole pagine biografiche. La sezione Ricerca è in fase di allestimento. Le Informazioni danno notizie su indirizzo, telefono, e-mail, consultazione. Elementi paratestuali presenti sul sito : • Titolo - Archivio del Novecento • Barra di orientamento - L’orientamento è svolto con molta efficacia dall’indice e dalla barra del titolo che è aggiornato con l’indicazione della pagina che si sta navigando

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• Indici - L’indice del sito è costantemente presente nella parte destra della pagina. La posizione corrente è evidenziata dal carattere corsivo del link • Link - I link sono tutti testuali tranne quello che rimanda all’home page • Informazioni e responsabilità - Tutte le informazioni sul sito sono evidenziate subito dopo la pagina di benvenuto del sito. Elementi paratestuali contenuti nei tag di intestazione • Title : ARCHIVIO DEL NOVECENTO ; Archivio del Novecento > Fondi > ARCHIVIO FALQUI • Meta name : ; . ArchiLET – Laboratorio archivi letterari novecenteschi URL : http ://www.fil.unical.it/ArchiLet.htm. Descrizione sito : ArchiLet è un laboratorio archivistico istituito presso il Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria per lo studio e la valorizzazione di archivi letterari. Vi sono attualmente depositati due importanti fondi novecenteschi : gli archivi privati di Francesco Flora e di Albino Pierro, entrambi dichiarati di notevole interesse storico dalla competente Soprintendenza Archivistica. Elementi paratestuali presenti sul sito : • Titolo - ARCHILET Laboratorio archivi • Barra di orientamento È presente in tutte le pagine • Indici - A sinistra della pagina • Link - Corredati di tag , sono tutti testuali tranne quelli che rimandano ai siti dell’UNICAL, del Dipartimento di Filologia e della Biblioteca di Area Umanistica

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• Informazioni e responsabilità - Le informazioni e le indicazioni di responsabilità sono visualizzabili seguendo il collegamento “Info” che apre una nuova pagina ; in basso, inoltre, è riportato il nome del curatore della pagina web. Elementi paratestuali contenuti nei tag di intestazione • Title : ARCHILET - Laboratorio archivi letterari - Dipartimento di Filologia - UNICAL • author : • description : • copyright :