La paternità spirituale nella tradizione ortodossa. Atti del convegno (Bose, 18-21 settembre 2008) 8882272885, 9788882272883

La prassi della paternità spirituale è il terreno in cui le Chiese misurano l'unità che già sperimentano nella cost

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La paternità spirituale nella tradizione ortodossa. Atti del convegno (Bose, 18-21 settembre 2008)
 8882272885, 9788882272883

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Enzo Bianchi, Serafim Joant˘ a, Gheorghios Martzelos, Athenagoras Peckstadt, Gelian Prochorov, Michel Van Parys e Aa.Vv.

LA PATERNITA` SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA

EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE

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LA PATERNIT‘ SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA

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Nella stessa collana SPIRITUALIT‘ ORIENTALE Fuoco ardente. Guida spirituale Paisij Velicˇkovskij, Autobiografia di uno starec N. Arseniev, V. Lossky, Padri nello Spirito. La paternitÜ spirituale in Russia J. B. Dunlop, Amvrosij di Optina Aa.Vv., Simeone il Nuovo Teologo e il monachesimo a Costantinopoli Aa.Vv., Atanasio e il monachesimo al Monte Athos Aa.Vv., Nicola Cabasilas e la divina liturgia Aa.Vv., Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia Aa.Vv., San Sergio e il suo tempo Aa.Vv., Paisij, lo starec Aa.Vv., San Serafim: da Sarov a Diveevo Aa.Vv., Forme della santitÜ russa Aa.Vv., Optina Pustyn’ e la paternitÜ spirituale Aa.Vv., Le missioni della chiesa ortodossa russa Aa.Vv., Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa

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CURATORE: TITOLO: COLLANA: FORMATO: PAGINE: IN COPERTINA:

N. Abou Mrad, A. Arjakovsky, E. Bianchi, P. Chondzinskij, G. Chrysostomou, O. Delouis, D. Gavalas, G. Gluchova, S. Joanta˘, G. D. Martzelos, N. Kauchtschischwili, A. Peckstadt, D. Perovic´, G. M. Prochorov, N. Ju. Suchova, M. Van Parys, S. Yangazoglou Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi La paternitÜ spirituale nella tradizione ortodossa SpiritualitÜ orientale 21 cm 371 M. Panselinos, Giovanni e Procoro, affresco (secolo xiii), Protathon, Monte Athos

Volume pubblicato con il contributo della Regione Piemonte e della Compagnia di San Paolo Prima edizione digitale: 2016 ß 2009, 2016 EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290

isbn 978-88-8227-730-7

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N. ABOU MRAD, A. ARJAKOVSKY, E. BIANCHI, P. CHONDZINSKIJ, G. CHRYSOSTOMOU, O. DELOUIS, D. GAVALAS, G. GLUCHOVA, ˘ , G. D. MARTZELOS, N. KAUCHTSCHISCHWILI, S. JOANTA A. PECKSTADT, D. PEROVIC´, G. M. PROCHOROV, N. JU. SUCHOVA, M. VAN PARYS, S. YANGAZOGLOU

LA PATERNIT‘ SPIRITUALE nella tradizione ortodossa Atti del XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualitÜ ortodossa Bose, 18-21 settembre 2008 a cura di Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi monaci di Bose

EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE

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Alla memoria di padre Emilianos Timiadis

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PREFAZIONE

“Cristiani non si nasce ma si diventa”: le parole di Tertulliano (Apologetico 18,4) dicono bene quel mistero della generazione alla vita in Cristo, più profondo del dono stesso della vita naturale, che si realizza grazie alla mediazione di un padre o di una madre esperti nell’arte dell’accompagnamento spirituale. La tradizione dei padri, soprattutto nella Chiesa d’oriente, è unanime nel riconoscere il carattere fondamentale di questa relazione: “Quanti non hanno avuto padre, non sono divenuti figli. E quanti non sono divenuti figli, è chiaro che non sono venuti all’esistenza. E quelli che non sono venuti all’esistenza non sono entrati nel mondo spirituale …”, scrive Simeone il Nuovo Teologo all’inizio del secondo millennio. Il tema della “Paternità spirituale nella tradizione ortodossa” è stato al centro del XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Monastero di Bose, 18-21 settembre 2008), organizzato in collaborazione con le Chiese ortodosse e del quale il presente volume documenta gli atti. Il Convegno ha offerto un’occasione di scambio fraterno e di riflessione comune su uno dei temi cardine della vita cristiana, come hanno sottolineato papa Bendetto XVI, nel telegramma pervenuto per il tramite del cardinale Tarcisio Bertone, e i messaggi di saluto del patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli e del compianto patriarca Alessio II di Mosca: nella ricerca di un’autentica paternità spirituale, le tradizioni cristiane d’oriente e d’occidente intersecano gli interrogativi profondi dell’uomo contemporaneo. È infatti la figura del padre spirituale che rivela la dimensione relazionale della fede cristiana, la sua capacità di allargare l’orizzonte esistenzia7

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Prefazione

le della persona, di condurla alla sua autentica misura: “La fede si trasmette da persona a persona”, ha ricordato il cardinale Walter Kasper nella sua lettera al Convegno, “e addirittura l’insegnamento e la catechesi non dovrebbero svincolarsi da quest’arte agapica”. Il colloquio si è svolto “ai piedi di un padre spirituale del nostro tempo”, il metropolita Emilianos Timiadis di Silyvria (1916-2008), che ha condiviso come un padre e un fratello i suoi ultimi anni nella nostra Comunità, e il cui sguardo sapeva penetrare la tradizione dei padri per scrutare il divenire della Chiesa e del mondo di oggi. L’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture, meditata e realizzata nella grande tradizione, ha costituito il filo conduttore dei lavori del convegno. Oltre a considerare la ricchissima riflessione della Chiesa antica sulla figura del padre spirituale, dai padri del deserto a Basilio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, da Giovanni Climaco in oriente a Benedetto in occidente fino agli importanti sviluppi della tradizione studita, le relazioni hanno esaminato anche l’evoluzione del rapporto di paternità nelle diverse tradizioni ortodosse: nella Grecia moderna con Nicodemo l’Aghiorita, in Russia, da Nil Sorskij agli starcy di Optina pustyn’, a Ignatij Brjan™aninov e Teofane il Recluso, fino alla novità rappresentata dai padri e madri spirituali nel XX secolo, anche in aree apparentemente marginali come la Georgia e la Serbia contemporanea. Se la relazione di paternità spirituale può essere letta come un fenomeno antropologico che il cristianesimo condivide con altre religioni, per la fede cristiana resta fondamentale l’innesto del discepolo nella vita spirituale in Cristo. È quello che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime mettendo in bocca a Gesù asceso al cielo le parole del profeta Isaia: “Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato” (Eb 2,13; cf. Is 8,18); nasce qui la tradizione patristica sulla “paternità del Cristo”, che trova un’eco anche nella Regola di Benedetto (2,1-3), e dice la coscienza del fondamento cristologico che i padri riconoscevano alla prassi della paternità spirituale. È Cristo, infatti, in ogni relazione di paternità spirituale matura, a guidare in prima persona il figlio, nella libertà e nell’amore, verso la pienezza della vita. 8

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Prefazione

Su questo fine essenziale si misurano anche le pratiche specifiche che la tradizione ha riconosciuto al ministero della paternità spirituale, come l’apertura dei pensieri (exagóreusis) al proprio padre spirituale, affinché questi possa discernervi ciò che è secondo Dio, secondo la piena umanità e libertà di colui che si è affidato alla sua guida spirituale. Di qui anche la vigilanza che occorre avere verso gli abusi nell’esercizio di quest’arte delicatissima, quando viene conculcata la libertà della persona, trasformando un cammino di liberazione in una via senza uscita. Rischi e pericoli che le Chiese ortodosse condividono con i cristiani d’occidente, come ha mostrato il metropolita romeno Serafim di Germania nella relazione conclusiva su “Paternità spirituale e mondo contemporaneo”. La paternità spirituale, che la tradizione ortodossa ha saputo custodire e approfondire come vivente prassi della trasmissione della fede, è diventata così l’occasione di misurare l’unità che le Chiese già sperimentano nella costante preoccupazione della trasmissione della vita cristiana, della vita di fede come il bene più prezioso, viva traditio del depositum fidei che si rinnova nell’oggi, e che sempre più ha bisogno di padri e madri spirituali, che sappiano farsi interpreti fedeli e intelligenti, pazienti e misericordiosi, della paternità di Dio come Gesù Cristo l’ha narrata nella sua vita tra gli uomini.

Bose, 24 giugno 2009 Natività di san Giovanni il Precursore 9

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Il Patriarca ecumenico, Bartholomeos I

Costantinopoli, 19 settembre 2008

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Al reverendissimo padre Enzo Bianchi, igumeno della Comunità monastica di Bose, e ai fratelli e alle sorelle che vivono con lui grazia e pace da Dio. Con sentimenti di grande affetto salutiamo da Costantinopoli sia voi sia tutti i partecipanti al XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa convocato sotto il patrocinio della vostra amata Comunità monastica. Conosciamo la profonda stima che nutrite per i tesori della tradizione ecclesiastica orientale e per la ricchissima miniera della spiritualità orientale, traboccante di pietre preziose, d’oro e d’argento. Ne dà testimonianza la stessa pluriennale organizzazione di convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa, che sono felicemente giunti alla sedicesima edizione. Questa vostra stima nei confronti della spiritualità dell’ortodossia orientale che, in ultima analisi, non è altro che la spiritualità dell’antica Chiesa indivisa la quale, per grazia e misericordia di Dio, ha continuato a vivere ininterrottamente nella nostra Chiesa, testimonia che voi riconoscete le comuni sante radici, le comuni sante origini, la nostra comune eredità! E questo è indubbiamente fonte di gioia perché i secoli bui dell’interruzione della comunione sacramentale hanno allontanato gran parte dei nostri fratelli di occidente dalla linfa vitale della pratica neptica ed esicastica e dall’esperienza che ne deriva, e dall’attività spirituale della preghiera del cuore, fatto che ebbe un immediato contraccolpo su tutte le manifestazioni della vita ecclesiale come pure sulla trama dei rapporti tra gli uomini di Chiesa e i loro figli in Cristo. Grazie a Dio, abbiamo dinanzi a noi molti esempi di santi pastori e di venerabili padri spirituali che furono vere guide sulla via della perfezione in Cristo; davanti a loro possiamo – e dobbiamo! – inchinarci tutti, tanto noi in oriente quanto voi in occidente, per scoprire in che modo da essi zampillò l’amore di Dio nei cuori dei loro figli, in che modo li educarono alla virtù, in che modo insegnarono loro l’arte della lotta contro le passioni peccaminose, in che modo guidarono i loro passi alla purificazione delle profondità del cuore attraverso la conversione e l’ascesi e, in ultima analisi, in che modo riuscirono a presentare uomini perfetti “nella misura della piena maturità di Cristo” (Ef 4,13), senza annien-

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tare la loro libertà personale, “vegliando non per forza ma volentieri ... non spadroneggiando sulle persone affidate loro, ma diventando modelli del gregge” (1Pt 5,2-3). Rallegrandoci dunque nel profondo del cuore per l’organizzazione e la convocazione del Convegno, auguriamo di cuore un felice esito dei lavori, ottimi frutti e ogni bene a utilità delle anime. Possa il vostro Convegno compiere un passo verso il vicendevole avvicinamento e incontro grazie alle preghiere della Madre di Dio e di tutti i santi, a gloria del Dio dell’amore, della pace e dell’unità.

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Benedicendovi nel Signore, ✠ Bartholomeos I Arcivescovo di Costantinopoli ardente intercessore presso Dio

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Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij II

Mosca, settembre 2008

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Molto reverendo padre Enzo Bianchi, egregi organizzatori e partecipanti del seminario. Saluto di cuore tutti i partecipanti all’annuale Convegno di spiritualità ortodossa, che si svolge tra le ospitali mura della Comunità monastica di Bose, nota per la sua sincera apertura al dialogo cordiale tra i rappresentanti di diverse confessioni. Il tema di quest’anno, “La paternità spirituale nella tradizione ortodossa”, va alle fondamenta della vita cristiana. Dai primi secoli del cristianesimo, e specialmente con la comparsa del monachesimo, nella Chiesa si è sempre sottolineata l’importanza di una guida esperta per la giusta sequela sul cammino della salvezza. Perciò ha sempre avuto grandissima importanza la via dell’ubbidienza al proprio padre spirituale per la maturazione nella docilità alla legge divina. Oggi possiamo affermare che la direzione spirituale nacque nella Chiesa antica come un dono per la guida pastorale dei credenti, basato sulla personale vita virtuosa del direttore spirituale. I primi padri spirituali non erano certo motivati dal desiderio di esercitare un potere sul gregge dei fedeli, ma dal desiderio di condividere la propria esperienza, il cui unico fine, come disse molti secoli dopo san Serafim di Sarov, è quello di attingere il santo Spirito di Dio. La storia della Chiesa ha visto periodi di fioritura della direzione spirituale, in cui una pleiade di grandi santi si sono distinti operando su questo terreno. Il primo periodo è senz’altro quello del monachesimo antico. Con gli anacoreti del deserto egiziano e siriaco dei secoli iv-vii la Chiesa ha avuto autentici fari spirituali, verso i quali confluivano credenti da tutto il mondo cristiano alla ricerca di consiglio, conforto e guida. Possiamo ricordare sant’Antonio il Grande, i grandi padri Doroteo, Marco e Barsanufio, Giovanni Climaco e molti altri, il cui personale esempio di vita ascetica e i benefici insegnamenti furono e sono tuttora una guida sicura per molte generazioni di credenti ortodossi. Il rivelarsi degli starcy russi tra la fine del xviii e l’inizio del xx secolo è stato in sostanza una ripresa di quella tradizione spirituale germogliata nell’oriente cristiano. In questo periodo rifulsero colonne di santità e di saggia direzione spirituale come san Serafim di Sarov, gli starcy di Optina: i santi mona-

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ci Makarij, Amvrosij, Anatolij, Varsonofij, Nektarij, Nikon e altri. Nell’ambito del clero parrocchiale le personalità più venerate sono san Ioann di Kronstadt e il sant’Aleksij Me™ev. Come un tempo dai padri del deserto della Chiesa antica, così dagli starcy andavano persone provenienti da tutta la Russia e dai più diversi strati sociali: poveri contadini analfabeti e insigni rappresentanti del pensiero russo, che comprendevano tutta la limitatezza della ragione umana e cercavano consiglio dagli asceti illuminati dallo Spirito santo. Ivan Kireevskij, noto pensatore slavofilo, scrisse: “Vi è una realtà più considerevole di tutti i libri e le idee esistenti: è lo starec ortodosso, dinanzi al quale potete rivelare i vostri pensieri e dal quale potete ascoltare non una personale opinione più o meno utile, ma il giudizio dei santi padri. Grazie a Dio, di questi starcy ve ne sono ancora in Russia”. Agli starcy di Optina pustyn’ si rivolsero per avere una saggia direttiva anche Fedor Dostoevskij, che dopo la conoscenza con sant’Amvrosij di Optina creò l’immortale immagine dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov, e Vladimir Solo’vev, che nella sua Leggenda dell’Anticristo incarnò nella figura dello starec Ioann un vero padre spirituale ortodosso. Negli anni del delirio rivoluzionario e delle persecuzioni antireligiose Dio non lasciò i fedeli della Chiesa ortodossa russa senza la guida di esperti padri spirituali. Molti di loro, come il santo starec Nikon di Optina (Beljaev), dovettero soffrire per Cristo nei campi di prigionia e in esilio, e spesso andare incontro al martirio. E tuttavia, anche in queste pesantissime circostanze rifulsero i luminari dello Spirito, che nei pochi monasteri e parrocchie rimaste, continuarono a dirigere il gregge alla salvezza in Cristo. Sono certo che l’abnegazione pastorale di questi uomini dello Spirito ha contribuito molto a quel risveglio religioso che è iniziato nel nostro paese dopo la caduta del regime ateistico. Nel periodo postsovietico, quando la Chiesa ortodossa russa ha avuto finalmente la possibilità di assolvere senza ostacoli la propria missione di salvezza e milioni di persone hanno cominciato a rivolgersi a lei alla ricerca di nutrimento spirituale, si è posta con forza l’esigenza di pastori sapienti, capaci di orientare i credenti sul giusto cammino spirituale. Riconoscenti a Dio per la sua grande benevolenza verso il nostro popolo cristiano, noi preghiamo perché continui a inviare a questa immensa messe degli operai che pienamente corrispondano a quello che disse il venerando Filaret (Amfiteatrov): “Sono lodevoli quei pastori che conducono il gregge non verso se stessi, ma verso Dio”. Concludendo, esprimo la convinzione che questo Convegno, al di là del suo profondo carattere teologico, abbia anche un’importanza pratica di grande attualità. La ricca esperienza di direzione spirituale dell’ortodossia può

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senz’altro aiutare molti cristiani, i quali si trovano ai crocicchi della vita e sono esposti a tante tentazioni e dubbi, a ritrovare un saldo orientamento nel proprio cammino spirituale. Con tutto l’animo auguro agli organizzatori e ai partecipanti convenuti il copioso aiuto di Dio nel loro lavoro. ✠ Aleksij II Patriarca di Mosca e di tutta la Russia

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Il 5 dicembre 2008 il patriarca di Mosca Aleksij II ha compiuto il suo esodo da questo mondo al Padre. Lo ricordiamo con affetto, grati della sua paterna vicinanza alla nostra Comunità e per la sua costante attenzione ai Convegni ecumenici di spiritualità russa e ortodossa sin dal loro inizio.

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Segreteria di stato della Città del Vaticano

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Città del Vaticano, 12 settembre 2008

In occasione dell’incontro ecumenico di spiritualità ortodossa, promosso dalla Comunità di Bose unitamente ai Patriarcati di Costantinopoli e di Mosca, il sommo Pontefice rivolge agli organizzatori e ai partecipanti un beneaugurante saluto e, mentre auspica che la provvida iniziativa – che si propone di attingere alla ricchezza religiosa orientale e occidentale – favorisca una comune riflessione e condivisione della fede suscitando un rinnovato impegno di testimonianza evangelica, invoca larga effusione di favori celesti e invia l’implorata benedizione apostolica. ✠ Tarcisio cardinale Bertone Segretario di stato

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Patriarca della Chiesa ortodossa serba, Pavle

Belgrado, settembre 2008

Al vescovo della diocesi di Biella, al venerabile igumeno Enzo Bianchi della Comunità monastica di Bose. Reverendi padri, professori, fratelli e sorelle,

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in qualità di presidente del Santo Sinodo trasmetto i miei saluti a questa assemblea anche da parte dei vescovi della Chiesa ortodossa serba. Siamo convinti che questo Convegno aiuti a chiarire e a illuminare uno dei temi più importanti della teologia cristiana: la paternità spirituale nella tradizione ortodossa. Il nostro voto è che noi tutti siamo illuminati dal buon pastore, il Signore Gesù. Esprimiamo quindi i nostri auguri a tutti i presenti e a tutti gli studiosi di teologia. Ci attendiamo che contribuiscano al meglio affinché questo Convegno porti frutti abbondanti. ✠ Pavle Patriarca della Chiesa ortodossa serba

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Il Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel

Bucarest, settembre 2008

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Cari partecipanti, è per noi una grande gioia indirizzarci a voi partecipanti al XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, che ha come tema “La paternità spirituale nella tradizione ortodossa”. Certo, la preghiera di Gesù Cristo nostro Signore “che tutti siano uno” è realizzata in maniera specifica da coloro che, dopo aver ricevuto la vocazione dall’alto, hanno pronunciato i tre voti monastici in vista della loro salvezza personale e di quella dei loro simili. Così la paternità spirituale, principio fondamentale della spiritualità ortodossa, rappresenta la manifestazione del legame che esiste tra l’amore divino del Padre e l’amore divino del Figlio, comunicati agli uomini attraverso lo Spirito santo nella vita della Chiesa. La paternità spirituale nella Chiesa ha per fine l’orientamento dell’uomo verso la comunione salutare con la santa Trinità, assolutamente rispettosa della personalità del figlio spirituale e della sua libertà. La vera paternità spirituale aiuta l’uomo a liberarsi dalle passioni egoiste e ad acquisire la vera carità e la capacità di amare liberamente e senza remore Dio e il prossimo. Nel mondo contemporaneo sempre più secolarizzato la necessità di un padre spirituale, di un uomo di Dio, diventa pressante, dal momento che l’uomo moderno si confronta con il pericolo di perdere la propria identità spirituale, soprattutto a causa del processo di secolarizzazione, fenomeno culturale e sociale che tende a cancellare e ad appiattire tutto ciò che costituisce lo specifico spirituale religioso di una comunità. In questo contesto, il significato della paternità spirituale cristiana deve essere maggiormente approfondito e chiarito. Grazie a una paternità spirituale autentica il cristiano, sostenuto dal suo padre spirituale, può progredire nella comunione con le Persone della santa Trinità e con le persone umane all’interno della Chiesa e della società. Preghiamo il Signore di benedire gli organizzatori e i partecipanti a questo Convegno spirituale e missionario per una buona riuscita dei suoi lavori. ✠ Daniel Patriarca della Chiesa ortodossa romena

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L’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos

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Atene, 16 settembre 2008

Con grande gioia saluto i partecipanti al XVI Convegno ecumenico internazionale dedicato alla paternità spirituale nell’ortodossia. Questo tema è particolarmente importante ed è strettamente legato alla struttura stessa della vita spirituale ortodossa. Come ciascuno di noi viene al mondo da un padre fisico, così non può esistere senza un padre spirituale. E come il padre fisico mostra un particolare interesse per il progresso dei suoi figli e se ne preoccupa, così anche il padre spirituale, che ha la responsabilità davanti a Dio di chi gli è stato affidato, si preoccupa e si sacrifica per il cammino spirituale e la saldezza nella fede dei suoi figli spirituali. È un’ottima guida spirituale chi, illuminato dallo Spirito santo, ha da Dio la grazia di individuare e discernere i doni di ogni credente. Secondo la tradizione apostolica e patristica, il padre spirituale possiede la capacità di condurre i suoi figli spirituali alla divinizzazione e alla piena relazione con Dio Padre. L’istituzione della paternità spirituale, che rappresenta il perno attorno al quale ruota l’intera vita spirituale, fu attiva fin dai primi stadi della vita della Chiesa e ci offre un vasto campo di ricerca e di analisi sotto molti punti di vista. La mia umile opinione è che tale tema deve essere accostato pregando sinceramente e fondandosi sulla secolare esperienza della Chiesa. È anche importante sottolineare la necessaria illuminazione dello Spirito santo e il discernimento spirituale che caratterizzano ogni padre spirituale, come decretò chiaramente, del resto, un concilio ecumenico, il Quinisesto, nel centoduesimo canone in cui, a proposito della più autentica istituzione della vita della Chiesa, afferma che i pastori devono accogliere ciascun credente attenendosi sia al principio dell’oikonomía sia a quello dell’akríbeia avendo come scopo la cura dell’anima. Con queste semplici riflessioni vi saluto nel nome di Gesù Cristo e vi auguro un felice svolgimento del Convegno. Possa il vostro lavoro consolidare i nostri legami spirituali con la ricchissima tradizione ortodossa! Nell’amore di Cristo, ✠ Ieronymos Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia

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Il Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr

Kiev, settembre 2008

Eminentissimi vescovi, venerandi padri, fratelli e sorelle, signore e signori.

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Saluto con gioia spirituale organizzatori, partecipanti e ospiti del XVI Convegno internazionale “La paternità spirituale nella tradizione ortodossa”. Il tema di questo incontro ha una speciale importanza. In diversi paesi e su diverse basi storiche assistiamo oggi a un processo di rinascita spirituale ortodossa. Persino uomini lontani da Dio, che magari disprezzavano tutto ciò che riguarda la spiritualità, per grazia di Dio d’un tratto sentono nel cuore il fuoco dell’amore divino, e con questo fuoco si accende nel loro animo un desiderio profondo e sincero di crescita spirituale, di preghiera mentale, di pentimento. Tuttavia, volgendosi dalla terra al cielo, da quaggiù a lassù, ogni uomo cerca qualcuno che lo istruisca e lo guidi, che gli riveli la volontà divina e gli mostri lo splendore della santità e la luce della vita eterna. Come Mosè condusse il suo popolo alla terra promessa, così – secondo lo stato d’animo di chi si accosta alla vita spirituale – sarebbe bene che anche il padre spirituale, ascoltando la parola di Dio, conduca i suoi figli spirituali alle altezze della santità e del superamento delle passioni. E come l’apostolo Filippo, ispirato da Dio, si accostò alla carrozza del dignitario che leggeva il libro di Isaia e, rivelategli le questioni principali della salvezza e della fede, battezzò colui che cercava la vita eterna (cf. At 8,26-40) così il padre spirituale – pensano i neofiti cristiani – per speciale ispirazione deve accostarsi a ognuno che cerca la salvezza e rivelare le profondità della teologia. Come facevano gli apostoli, deve anche condannare i peccati occulti e i vizi di coloro che vivono nell’errore, come capitò ad Anania e Saffira (cf. At 5,1-11). Nella realtà invece ciò non avviene. Precettori spirituali e maestri informati alla divina sapienza sono sempre più rari. A volte vengono dati come fossero “spirituali” consigli e opinioni del tutto carnali, o nel migliore dei casi di carattere psicologico (cf. 1Cor 2,1-3,3). Perciò oggi più che mai è importante studiare l’esperienza della direzione spirituale ortodossa. Dice Anastasio Sinaita: “L’ortodossia è un’idea vera

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su Dio e la creazione, cioè una veridica concezione del tutto, una dottrina sull’essere come è”. Effettivamente la concezione ortodossa della paternità spirituale svela al mondo su questo tema fondamentale un insegnamento autentico, incorrotto e fondato sulla parola di Dio. Il padre spirituale è un’espressione cara al cuore di ogni credente. Avendo ricevuto “il dono del discernimento”, che è “non terreno e non piccolo, ma un grandissimo dono della grazia divina” (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci 2,1), le vere guide spirituali generano i propri figli alla vita eterna. Con gioia spirituale ricordo il venerabile Paisij Veli™kovskij, nato in Ucraina, rinnovatore della tradizione degli starcy ortodossi, e la schiera degli autentici padri spirituali formati alla fonte della spiritualità ortodossa: gli starcy di Optina e di Glinskaja pustyn’. Essi ci hanno lasciato il tesoro incorruttibile della loro esperienza, che dobbiamo studiare con cura, amore e devozione. Di tutto cuore vi auguro che il vostro lavoro, usando le parole del venerabile Paisij, sia per la gloria del santo nome di Dio e per il bene di coloro che vogliono aderire al nostro Signore e portare lui, perla inestimabile, nella propria anima e nel proprio cuore (cf. Paisij Veli™kovskij, Sulla preghiera interiore o della mente). ✠ Volodymyr Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina Primate della Chiesa ortodossa ucraina

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Il Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II

Etchmiadzin, 5 settembre 2008

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In qualità di Supremo Patriarca e Pontefice della santa Chiesa apostolica armena, dal centro spirituale di tutti gli armeni, la Sede madre della santa Etchmiadzin, inviamo la nostra benedizione e i migliori auguri ai partecipanti del XVI Convegno ecumenico internazionale. Tale iniziativa è gradita a Dio dal momento che, nel nostro mondo contemporaneo, padri spirituali che sono a servizio del Signore e intellettuali cristiani che rendono testimonianza della loro fede accordata dal cielo si sono radunati per presentare le loro riflessioni, le loro idee e la loro visione della paternità spirituale. Voi avrete modo di apprezzare la grande esperienza e l’eredità a noi lasciata dai santi padri della Chiesa, dagli eremiti, dai santi monaci, come da tutti quelli che nei tempi moderni vivono con grande fede in Dio. La santa Chiesa di Gesù Cristo, attraverso i suoi secoli di storia, ha sempre condotto gli uomini all’eternità dei cieli, liberandoli dalle menzognere illusioni demoniache. Questa missione affidatale da Dio si è realizzata grazie al ministero della paternità spirituale che occupa un posto di primaria importanza nella vita del credente. La paternità spirituale, anche nella ricca tradizione della nostra Chiesa ha svolto, lungo i secoli, un ruolo vitale nel liberare il credente dai disordini provocati dal peccato e per proteggere la vera armonia dell’uomo interiore; nello svolgere questo suo compito, essa segue l’esempio del sacrificio di Isacco nell’Antico Testamento (cf. Gen 22,1-18), propone cioè un sacrificio vivente offerto a Dio. Abramo, che aveva una fede salda e trovava rifugio in Dio, condusse suo figlio sul monte del sacrificio e suo figlio lo seguì obbediente, senza protestare; così il padre spirituale conduce il figlio o la figlia a lui affidati mediante la grazia divina alle vette della conoscenza di sé e del dono della propria vita. Per questa via tutti i credenti armeni hanno trovato rifugio nel loro Signore nei momenti più difficili della loro storia, sono ripetutamente saliti sul monte del sacrificio di sé e sono stati offerti a Dio, ma la potenza salvifica e le energie della resurrezione di nostro Signore ha spesso accordato loro di ascendere a una nuova vita e a nuove imprese. Oggi, alla luce dei mutevoli sviluppi del mondo e nell’attuale condizione di globalizzazione, è indispensabile per la vita cristiana porre l’accento sulla

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spiritualità e sull’importanza della paternità spirituale. Tutto questo diventa necessario e utile per ogni credente come uno scudo contro l’intolleranza e le sue nefaste conseguenze, che rialzano la testa nella società umana, e come catalizzatore con il quale consolidare la riconciliazione e l’amore, il rispetto vicendevole e la fiducia.

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Trasmettiamo la nostra benedizione pontificale agli organizzatori di questo Convegno, ringraziandoli per la loro encomiabile diligenza e per la realizzazione di questa iniziativa gradita a Dio, e con le nostre preghiere auguriamo un felice esito ai lavori di questa assise. Invochiamo la guida dello Spirito santo sulla vostra missione, e la compassionevole misericordia del Signore e la sua protezione sul mondo intero e su tutti i popoli. La grazia, l’amore e la misericordia del nostro Signore Gesù Cristo siano con voi e con tutti. Amen. Benedicendovi, ✠ Karekin II Supremo Patriarca, Catholicos di tutti gli armeni

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L’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Lambeth Palace, 13 settembre 2008

Reverendo padre priore, fratelli e sorelle della Comunità di Bose,

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ospiti e partecipanti al XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa. Ancora una volta sono felice di poter inviare i miei saluti e la mia benedizione a voi, fratel Enzo, a tutti i membri dell’amata Comunità di Bose, a tutti i delegati al Convegno di quest’anno sul tema della paternità e maternità spirituale. Sono molto dispiaciuto di non poter essere con voi di persona, ma vi porterò nelle mie preghiere in questa settimana. Il tema del vostro Convegno ci ricorda che nessun cristiano giunge alla maturità della fede da solo. L’apostolo Paolo più di una volta afferma di generare i credenti e di nutrirli fino alla maturità e tutti noi abbiamo bisogno di sperimentare il potere che Dio ha di nutrirci attraverso la sapienza e l’amore di quelli che favoriscono la nostra crescita nella fede. E ancor più, ci viene ricordato che anche noi possiamo essere chiamati alla responsabilità di aiutare altri a crescere, aiutandoli a pervenire a una vita piena e a una più piena conoscenza della nuova nascita in Gesù Cristo. Le vostre riflessioni siano guidate da Dio così da servire alla maturità di tutti i credenti e alla prosperità della Chiesa di Cristo. Il vostro compagno di servizio, ✠ Rowan Williams Arcivescovo di Canterbury

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Consiglio ecumenico delle Chiese Ginevra, 15 settembre 2008

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Caro padre Enzo, priore del Monastero di Bose, cari fratelli e sorelle, membri della Comunità, eminenti partecipanti al Convegno, sincere felicitazioni per questo XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, evento ecclesiale, accademico, spirituale ed ecumenico che riunirà nel Monastero di Bose, una volta ancora, numerosi rappresentanti di tutte le tradizioni cristiane. Quest’anno seguiremo con molto interesse le presentazioni e le conclusioni sul tema della “Paternità spirituale nella tradizione ortodossa”. Con nostro grande dispiacere, però, e per la prima volta, il Consiglio ecumenico delle Chiese non sarà rappresentato. Siamo tutti mobilitati per la preparazione della riunione del comitato esecutivo che si terrà in questi stessi giorni in Germania. Tuttavia i miei colleghi e io saremo presenti tra voi in spirito e preghiera. Il tema scelto per il XVI Convegno ha una potenzialità enorme per il nostro cammino oggi attraverso le numerose difficoltà e i grandi ostacoli sulla via dell’unità dei cristiani. La tradizione cristiana della guida spirituale risale agli stessi apostoli, come, per esempio, l’apostolo delle genti Paolo, che circonda i propri discepoli di amore e tenerezza, guida i loro passi, segue con attenzione il loro ministero, li incoraggia e li corregge secondo le circostanze e assicura il loro radicamento nella vita evangelica. I suoi collaboratori più preziosi sono i suoi “bambini”, i figli e le figlie in Cristo, i figli e le figlie spirituali. Questa tradizione ha trovato la sua massima espressione nella pratica della paternità e maternità spirituali, esercitate fin dal iv secolo dai monaci e dalle monache, dagli uomini e dalle donne che si sono ritirati nel deserto. Essi sono divenuti molto presto poli d’attrazione spirituale, soprattutto quando i giovani di questo periodo – ma anche i fedeli attraverso le epoche e le generazioni – cercavano consiglio presso una persona che avesse consacrato la propria vita alla preghiera, all’ascesi e alla lotta spirituale; una persona che potesse servire allo stesso tempo da modello e da guida nella ricerca di una vita evangelica. È vero che la paternità e la maternità spirituali vengono assai spesso identificate con i monaci e le monache, ma esse sono state indubbiamente pra-

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ticate anche nella vita di tutti i giorni da presbiteri e da laici che avevano consacrato la loro vita intera al servizio di Cristo e del suo evangelo, e che tentavano di vivere in pienezza questa verità evangelica capace di trasformare il mondo.

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Sono particolarmente fiero che anche il movimento ecumenico possa riferirsi a numerosi esempi di guide spirituali, di uomini e di donne che hanno dato prova – alla loro maniera e nei rispettivi contesti – del dono del discernimento, della capacità di amare gli altri e del potere di trasformare l’ambiente umano (per riprendere i tre carismi del padre spirituale descritti dal Metropolita Kallistos Ware). Sono dunque riconoscente perché, in occasione di questo XVI Convegno, abbiate voluto presentare la vita, l’opera e la testimonianza del Metropolita Emilianos di beata memoria. Il Metropolita Emilianos, che ha servito il Cristo con fedeltà e passione e che molti tra di noi hanno avuto l’onore di conoscere, era una vera guida spirituale del nostro tempo. Operaio instancabile e infaticabile, è rimasto a disposizione della sua Chiesa, il Patriarcato ecumenico; ha servito il dialogo tra le Chiese e le tradizioni cristiane e lo ha praticato in atti e parole durante lunghi anni; ha lasciato la sua impronta in seno al Consiglio ecumenico delle Chiese dove ha trascorso gli anni più produttivi della sua vita e del suo ministero; ha incoraggiato il movimento monastico che ha tanto desiderato vedere svilupparsi in forza spirituale capace di operare per la riconciliazione e l’unità dei cristiani. Vi auguriamo un incontro ricco di esperienze e di conclusioni. Cogliamo l’occasione di questo incontro ecumenico internazionale per sottolineare, una volta ancora, l’importanza della nostra collaborazione sulla via dell’unità cristiana. Vi preghiamo di gradire, cari fratelli e care sorelle in Cristo, i nostri cordiali saluti. Pastore Samuel Kobia Segretario generale

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Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

Città del Vaticano, 10 settembre 2008

Caro fratel Enzo,

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in occasione del XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa voglio farmi presente con la mia preghiera e il mio saluto a lei e a tutti i partecipanti al Convegno. Sono lieto di apprendere che anche quest’anno tante persone si incontrano al Monastero di Bose, che diventa un luogo sempre più importante di incontro, di riflessione teologico-spirituale e di preghiera. Si incontrano qui in occidente, due tradizioni bizantine, quella greca e quella slava, che, insieme a quella occidentale, malgrado molte diversità, conservano e sviluppano tanti tesori della Chiesa una e indivisa. Uno di questi tesori è anche la paternità spirituale, scelta come tema per quest’anno. Si tratta di un aspetto molto importante e – oserei dire – essenziale nella Chiesa per vivere la vocazione cristiana alla santità. La fede, infatti, è al primo posto nella relazione personale con Dio Padre che allo stesso tempo diventa relazione comunitaria tra i battezzati. Allora è evidente che per la trasmissione della fede è essenziale la relazionalità. La fede si trasmette da persona a persona, e addirittura l’insegnamento e la catechesi non dovrebbero svincolarsi da quest’arte agapica. Soprattutto oggi che viviamo una certa sofferenza a causa di relazioni tormentate e violente, è importante quest’arte spirituale di relazioni sane e feconde. Essendo immagine della santissima Trinità, della comunione delle Persone divine, la Chiesa favorisce la relazione fra il padre spirituale e i suoi figli spirituali, rapporto personale donato e sostenuto dallo Spirito santo che riversa l’amore nei nostri cuori secondo la parola di san Paolo (cf. Rm 5,5). Lo stesso vale anche per il rapporto tra la madre spirituale ed i suoi figli o figlie spirituali. Nella Chiesa, infatti si è “generati”, dapprima attraverso il battesimo, e in seguito da un padre o da una madre spirituali, accanto ai quali si cresce e si matura. I modi sono diversi e possono anche chiamarsi altrimenti, ma lo Spirito è lo stesso e ci porta verso la sempre più piena comunione in Cristo.

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Auspico che anche questo Convegno e gli incontri personali vissuti tra i partecipanti possano essere dei passi decisivi verso la comunione sempre più piena tra i cristiani di diverse tradizioni e confessioni. Vi accompagno con la mia preghiera e invoco su di voi la benedizione del Signore.

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✠ Walter cardinale Kasper Presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

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LA PATERNITÀ SPIRITUALE: ELEMENTI BIBLICI

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Enzo Bianchi*

Introduzione

Il tema della paternità spirituale, così caro alla tradizione monastica d’oriente e d’occidente, non è trattato esplicitamente nelle sante Scritture. E tuttavia è vero che ben presto quanti in ambito prima giudaico e poi cristiano hanno praticato questo ministero hanno fatto ricorso ad alcuni personaggi biblici ritenuti precursori ed exempla della paternità spirituale. In proposito mi limito a citare due testi contenuti nella Filocalia1, che si colloca alla foce di questa lunga tradizione: Non vi è altra via sicura di salvezza che quella di manifestare i propri pensieri ai padri e di ricevere da essi la regola della virtù piuttosto che seguire il proprio giudizio … La verità di questo ci è possibile apprenderla da molti passi delle Scritture

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Priore del Monastero di Bose. La traduzione italiana integrale di quest’opera è curata da M. B. Artioli e M. F. Lovato, La filocalia I-IV, Torino 1982-1987. Per un’antologia ragionata, cf. La Filocalia, amore del bello, a cura di L. Cremaschi, Bose 2006 (in particolare le pp. 291-324, dedicate al tema della paternità spirituale). 1

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Enzo Bianchi

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ispirate, in particolare dalla storia del santo Samuele. Egli, chiamato da Dio una e due volte, corse dall’anziano Eli e si lasciò formare dal suo insegnamento, per sapere come rispondere a Dio (cf. 1Sam 3,1-9)2. Il Signore ha detto: Se uno non rinasce dall’alto, non può entrare nel regno dei cieli (Gv 3,3). Ma questa nascita si attua grazie alla sottomissione ai padri spirituali … Così i dodici sono nati da Cristo e i settanta sono nati dai dodici e sono divenuti figli di Dio Padre, come aveva detto il Signore: Voi siete figli del Padre mio che è nei cieli (Mt 5,45). E Paolo ugualmente dice: Anche se aveste mille pedagoghi, non avete però molti padri; io vi ho generato, divenite miei imitatori (cf. 1Cor 4,15; 11,1)3.

Prendendo spunto da questi e altri passi che si potrebbero citare, il mio intento sarà quello di ripercorrere le più significative figure di padri spirituali ante litteram presenti nella Bibbia, analizzando volta per volta le caratteristiche salienti del rapporto con quanti sono stati da loro generati quali figli: sono infatti convinto che tali elementi possano ispirare la prassi di paternità spirituale di ogni tempo.

La paternità spirituale nell’Antico Testamento

Il primo esempio biblico di un uso figurato dell’appellativo “padre” è attestato a proposito di Giuseppe, definito “padre

2 Giovanni Cassiano, A Leonzio igumeno, in La filocalia I, pp. 167-168. Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci I,2,13-14, a cura di L. Dattrino, Roma 2000, pp. 119-126 . 3 Niceta Stethatos, Capitoli naturali 53, in La filocalia III, p. 439.

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La paternità spirituale: elementi biblici

(av) per il faraone”, cioè, come si specifica subito dopo, “signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto” (Gen 45,8). La sua saggezza, la sua intelligenza e il suo discernimento nell’interpretare i sogni fanno di Giuseppe, benché molto giovane, una guida per il re, che si rivolge a lui riconoscendolo abitato dallo Spirito di Dio (cf. Gen 41,38). Ma il primo rapporto tra padre e figlio spirituale, anche se i termini non appaiono esplicitamente, è quello tra Mosè e Giosuè. Giosuè figlio di Nun viene presentato come il giovane servo di Mosè, che non si allontanava mai dalla tenda dell’incontro (cf. Es 33,11). Quale segno di una nuova nascita Mosè gli cambia il nome, da Osea a Giosuè appunto (cf. Nm 13,16). E come lo aveva portato con sé sul Sinai al momento di entrare nell’intimità con il Signore (cf. Es 24,13), così lo eleggerà quale suo successore nella missione di guida di Israele: su Giosuè infatti – dice la Scrittura – riposa lo Spirito e Mosè per ordine di Dio gli impone le mani, facendolo partecipe della sua autorità, affinché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore (cf. Nm 27,15-20). In questo rapporto tra Mosè e Giosuè sono già presenti in nuce gli elementi fondamentali di una relazione di paternità spirituale: Mosè trasmette a Giosuè gli ordini di Dio, rendendolo intrepido e coraggioso (cf. Dt 3,21-28)4; gli assicura che il Signore camminerà davanti a lui, non lo lascerà e non lo abbandonerà (cf. Dt 31,8); e al termine della Torà si legge: “Giosuè era pieno dello spirito di sapienza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui; i figli di Israele gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè” (Dt 34,9)5. Ascoltando Giosuè ormai si può ascoltare Mosè: ecco la trasmissione, l’autentica traditio

4 Sulla funzione di Mosè quale mediatore della parola di Dio, cf. Origene, Omelie sui Numeri 12,1, a cura di M. I. Danieli, Roma 1988, pp. 156-161. 5 Cf. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi battesimali 16,26, in Id., Le catechesi, a cura di C. Riggi, Roma 1993, p. 369: “Mosè ai suoi tempi trasmise lo Spirito precisamente come l’avrebbe trasmesso anche Pietro: con l’imposizione delle mani (cf. At 8,17)”.

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Enzo Bianchi

da padre a figlio, che ispirerà il celebre assunto con cui si aprono i Pirqè Avot: “Mosè ricevette la Torà dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea ”6. All’interno di questa relazione mi pare significativo notare anche la presenza di quella che potremmo chiamare “correzione paterna”. Quando Giosuè è stizzito per l’estensione del carisma spirituale-profetico a Eldad e Medad, che profetizzano nell’accampamento senza essersi recati all’assemblea comune nella tenda, Mosè gli risponde risolutamente: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo Spirito!” (Nm 11,29). Questa divergenza mostra con chiarezza che in una relazione di accompagnamento spirituale il padre ha il grave dovere di correggere il figlio, mostrandogli sempre la centralità della volontà di Dio: egli deve farsi tramite di quell’amore di Dio per tutti gli uomini che travalica ogni chiusura frutto di un cattivo zelo, sovente rinfocolato dagli entusiasmi giovanili… Se con Mosè e Giosuè si ha il prototipo della relazione maestro-discepolo, tale relazione si fa manifesta nel caso di Eli e Samuele. Eli, sacerdote a Silo, è testimone della preghiera bisbigliata tra le lacrime da parte di Anna, una donna sterile salita al santuario per chiedere un figlio. Costui non sembra molto dotato del carisma del discernimento, se è vero che interpreta il movimento delle labbra di Anna come dovuto a uno stato di ubriachezza; tuttavia, dopo averla ascoltata, nella sua funzione istituzionale le impartisce la benedizione (cf. 1Sam 1,9-18). In seguito, al compimento della preghiera di Anna, Eli accoglie Samuele appena svezzato quale “ceduto al Signore per tutti i giorni della sua vita” (1Sam 1,28) e lo tiene accanto a sé, istruendolo e facendolo crescere. I figli carnali di Eli sono degeneri e invano l’anziano sacerdote li ammonisce, senza riuscire a distoglierli dalla loro condotta

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Mishnà Avot 1,1, cf. Detti di rabbini. Pirqè Avot, a cura di A. Mello, Bose 20092, p. 53.

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La paternità spirituale: elementi biblici

che contraddice la volontà del Signore (cf. 1Sam 2,22-26)7. Tuttavia nella sua sventura è consolato dalla presenza di un figlio spirituale, il giovane Samuele, che “continuava a servire il Signore sotto la sua guida” (1Sam 3,1). Siamo in un tempo in cui, annota il narratore, “la parola del Signore è rara”; ovvero, Dio continua sempre a donare con premura la sua Parola, ma sono gli uomini che, nella loro durezza di cuore, non vogliono ascoltarla né obbedire a essa con la loro vita. La pagina che si apre a questo punto è assai nota. Mentre Samuele dorme presso l’arca del Signore, per tre volte si sente chiamare per nome, e ogni volta si alza e va dal sacerdote Eli, pensando che sia stato lui a chiamarlo. Solo alla terza volta Eli comprende e gli dice: “Se ti si chiamerà ancora, dirai: ‘Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta’” (1Sam 3,9). È un’affermazione straordinaria che riassume in sé mirabilmente il movimento della preghiera e, più in generale, della nostra relazione con Dio quale ci viene rivelata nelle Scritture: l’ascolto è inizio della preghiera e ha un primato assoluto in quanto riconosce l’iniziativa di Dio, il fatto che la nostra vita non sia che una risposta costante alla sua chiamata sempre preveniente. Eli, “pur se fa fatica perché evidentemente non ha mai fatto l’esperienza personale di Dio”8, tuttavia nella sua povertà compie l’essenziale: si fa mediatore della parola di Dio per Samuele e lo aiuta a discernerla. Sì, l’importante è che il padre spirituale assuma la propria debolezza e ne sia consapevole; se è disposto a fare questo e a mettersi con fedeltà al servizio del Signore e del discepolo, anche attraverso la sua pochezza e miseria il Signore farà passare la propria voce. Di più, Eli si sottometterà pure alla dura parola di giudizio pronunciata da Dio sulla sua famiglia per 7 La Regola di Benedetto 2,26 cita questo esempio di correzione fallita per mettere in guardia l’abate: “Non dissimuli i peccati di coloro che commettono mancanze, ma non appena cominciano a spuntare li tronchi alla radice quanto più può, ricordandosi della condanna di Eli, sacerdote di Silo (cf. 1Sam 4,12-18)” (in Regole monastiche d’occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Torino 2001, p. 202). 8 C. M. Martini, Samuele profeta religioso e civile, Casale Monferrato 1990, p. 45.

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Enzo Bianchi

bocca di Samuele (cf. 1Sam 3,11-14.18), umiliandosi fino a farsi discepolo di colui che aveva definito “figlio mio” (benì: 1Sam 3,6.16)9. “Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò cadere una sola delle sue parole” (1Sam 3,19): così si conclude il brano, attestando la qualità profetica di Samuele (cf. 1Sam 3,20). Certo, è il Signore ad averlo costituito profeta, ma a Eli va il grande merito di aver compiuto ciò che più tardi Palamone esprimerà così al giovane Pacomio: “Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu conosca te stesso”10. L’ultimo esempio veterotestamentario che vorrei analizzare è costituito dalla relazione di paternità spirituale di Elia nei confronti di Eliseo11. Nello sviluppo della profezia in Israele il Signore suscita con il suo Spirito delle forme di paternità diverse da quelle “istituzionali”, come potevano essere quella di Eli o dei giudici: “Il capo di una corporazione profetica, che ne era allo stesso tempo il padre ‘spirituale’, veniva forse chiamato av”12, padre, nella consapevolezza che il vero padre non è colui che genera fisicamente, ma colui che educa e istruisce il discepolo sulle vie del Signore13. Elia il Tisbita, “uomo di Dio” (2Re 1,9), subito dopo l’incontro con il Signore sul monte Oreb (cf. 1Re 19,9-18) chiama Eliseo alla sua sequela, gettandogli sulle spalle il mantello, segno della

9 Cf. Regola di Benedetto 63,6: “Samuele e Daniele, ancora fanciulli, giudicarono gli anziani” (Regole monastiche d’occidente, p. 255). 10 Vita bohairica di Pacomio 10, in Oeuvres de s. Pachôme et de ses disciples, a cura di Th. Lefort, CSCO 159, Louvain 1956, p. 8. 11 Su questo tema, cf. E. Bianchi, “La sequela profetica. ‘Eliseo si alzò e seguì Elia’ (1Re 19,21)”, in Parola, Spirito e Vita 2 (1980), pp. 44-52. Cf. anche É. Poirot, Les prophètes Élie et Élisée dans la littérature chrétienne ancienne, Turnhout 1997. 12 E. Jenni, s.v. “av”, in Dizionario teologico dell’Antico Testamento I, a cura di E. Jenni e C. Westermann, Torino 1978, col. 5. 13 Cf. Esodo rabbà 46,5: “Si chiama padre colui che educa, non colui che genera” (cf. The Midrash rabbah II, a cura di H. Freedman, London-Jerusalem-New York 1977, p. 534); Sanhedrin 19b: “Rabbi Samuel ben Nachmani disse a nome di rabbi Jonatan: ‘Chi insegna al figlio di un altro la conoscenza della Torà, è come se l’avesse generato’”(cf. Der Babylonische Talmud, a cura di L. Goldschmidt, Regensburg 1981, p. 531).

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La paternità spirituale: elementi biblici

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sua qualità profetica, mentre questi sta arando un campo. Il suo è un gesto subitaneo e istituisce l’unico esempio esplicito di sequela di un uomo a un altro uomo attestato nell’Antico Testamento. Il testo è estremamente scarno, a testimonianza del fatto che è la parola di Dio, sovrana e pienamente efficace, a suscitare la chiamata e a sostenere la risposta. Eliseo, congedatosi dalla famiglia e dal lavoro, “si alza e segue Elia, entrando al suo servizio” (1Re 19,21), “versandogli l’acqua sulle mani” (2Re 3,11), cioè condividendo con lui l’intimità di una vita comune. Quest’ultima annotazione conosce un commento significativo nella tradizione rabbinica: Rabbi Jochanan disse a nome di rabbi Shimon ben Jochaj: “È più importante la pratica della Torà che non il suo studio teorico, secondo quanto fu detto: ‘Eliseo, figlio di Safat, versò acqua sulle mani di Elia’ (2Re 3,11). Non si dice: ‘Studiò’, ma: ‘Versò’; da qui risulta che la pratica è più importante dello studio teorico”14.

In altri termini, come diranno a più riprese i padri del deserto, è la condivisione quotidiana dell’esistenza la fonte più sicura di insegnamento per il discepolo; spesso si impara più da un’attenta osservazione dei gesti del padre che non da tante parole, perché la sua stessa vita è messaggio: “Abba, a me basta vederti!”, come disse un monaco recatosi a visitare il grande Antonio15. Anche per questo – credo – dopo il racconto della vocazione di Eliseo non ci è narrato nulla di preciso a proposito del servizio prestato dal discepolo presso il grande profeta.

14 Berakhot 7b (cf. Il trattato delle benedizioni, a cura di S. Cavalletti, Torino 1968, p. 109). 15 Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 27, in Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Roma 1997, p. 89. Si vedano anche Poimen 65, ibid., p. 388 (“Attaccati a un uomo che teme Dio e, standogli vicino, imparerai anche tu a temere Dio”) e Sisoes 45, ibid., pp. 459-460 (“Un fratello chiese al padre Sisoes: ‘Dimmi una parola’. Gli disse: ‘Perché mi costringi a parlare inutilmente? Ecco, fa’ ciò che vedi’”).

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Enzo Bianchi

La loro vicenda trova però un compendio paradigmatico al momento del congedo, quando Elia è rapito da Dio in cielo in un carro di fuoco (cf. 2Re 2,1-18). In quel frangente Eliseo grida rivolto a Elia: “Padre mio, padre mio (avì avì), carro di Israele e sua cavalleria!” (2Re 2,12) e, per averne contemplato l’ascensione, riceve in cambio una doppia parte dello spirito del profeta: questa era infatti la parte che spettava al figlio primogenito nella divisione dell’eredità paterna (cf. Dt 21,17). Il passaggio di consegne tra Elia ed Eliseo è nuovamente significato dal mantello raccolto da quest’ultimo, pegno della continuità del ministero carismatico e dell’identità della funzione (cf. 2Re 2,8.13-14). Così Eliseo da figlio diventa padre spirituale per tutto Israele, che attraverso il re Ioas gli rivolgerà lo stesso titolo da lui riservato a Elia: “Padre mio, padre mio, carro di Israele e sua cavalleria!” (2Re 13,14). E i presenti, vedendo Eliseo aprire le acque del Giordano con un colpo del mantello, devono riconoscere: “Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo!” (2Re 2,15). Ecco una definizione sintetica della paternità spirituale: il padre trasmette al figlio il proprio spirito, inestricabilmente connesso con lo Spirito di Dio, fonte di vita in abbondanza e vero protagonista della vita spirituale.

La paternità spirituale nel Nuovo Testamento

Su questo sfondo veterotestamentario, cui si potrebbero aggiungere alcuni passi tratti dalla letteratura sapienziale – si pensi, per esempio, al libro dei Proverbi 1,8: “Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre”16, oppure a Proverbi 4,1-2: “Ascoltate, o figli,

16 È noto che a questo passo – oltre che ad altri due luoghi dello stesso libro biblico, Pr 4,20 e 6,20 – si ispira l’incipit della Regola di Benedetto: “Ascolta, o figlio, i precet-

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La paternità spirituale: elementi biblici

l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere il discernimento, poiché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio insegnamento”17 –, si comprendono meglio le relazioni di paternità spirituale implicite in molte pagine del Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento si apre presentando, pur in modo molto sobrio, la funzione di paternità spirituale svolta da Giovanni Battista nei confronti di Gesù, definito dal Precursore “colui che viene dietro a me” (opíso moû: Gv 1,15.30), con un’espressione tecnica che indica appunto una relazione di discepolato. Gesù sembra dunque aver seguito Giovanni come discepolo per un certo tempo, fino a farsi battezzare da lui (cf. Mt 3,13-17 e par.). Quanto alla relazione di Gesù con i suoi discepoli, va innanzitutto notato che la sua chiamata rivolta ai suoi discepoli affinché abbandonino casa, famiglia e campi per “stare con lui” (Mc 3,14) rinnova e radicalizza quanto era stato vissuto da Elia ed Eliseo: questa volta non c’è nemmeno più il tempo per congedarsi da quelli di casa né per seppellire il proprio padre (cf. Lc 9,59-62). Gesù si rivolge talvolta ai discepoli chiamandoli “figli” (tékna: Mc 10,24) o “piccoli figli” (teknía: Gv 13,33; paidía: Gv 21,5), così come farà anche l’apostolo Giovanni verso i cristiani della sua comunità (teknía: 1Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21). Ma a prescindere da questi pochi esempi, tutta la vita comune di Gesù con i suoi può essere interpretata come un paziente lavoro mediante il quale egli cerca di narrare loro il volto di Dio e di generarli quali “figli del Padre che è nei cieli” (Mt 5,45), “figli del Regno” (Mt 13,38), a quella fede di cui egli è l’iniziatore (cf. Eb 12,2): nessuna autoreferenzialità da parte sua, ma la chiara coscienza di avere tutto ricevuto dal Padre e, di conseguenza, la gioia di restituirgli ogni cosa e ogni relazione. È dunque con gran-

ti del maestro e piega l’orecchio del tuo cuore. Accogli volentieri l’esortazione di un padre pieno d’affetto” (Prologo 1, p. 195). 17 Sul tema, cf. P. Papone, “Il rapporto padre/figlio nei libri sapienziali”, in Parola, Spirito e Vita 39 (1999), pp. 71-83.

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de intelligenza che l’autore della Lettera agli Ebrei può mettere in bocca a Gesù che ascende al cielo e si presenta davanti a Dio le parole del profeta Isaia: “Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato” (Eb 2,13; cf. Is 8,18), le quali a loro volta daranno origine a una tradizione patristica18 confluita, com’è noto, nel passo della Regola di Benedetto in cui l’abate è detto fare le veci di Cristo19. Ora, è vero che Gesù nell’Evangelo secondo Matteo afferma con forza: “Non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,9). Una volta privato della sua vis polemica dovuta alla concorrenza tra il nascente movimento cristiano e quello rabbinico, che si serviva di tale appellativo per designare le guide spirituali, questo detto non va inteso in senso letteralistico bensì compreso in profondità: la fonte di ogni paternità è Dio e ogni paternità umana, inclusa quella spirituale, discende da lui, è donata per partecipazione alla sua. Nello stesso senso Gesù ammonisce che “uno solo è buono” (Mt 19,17), Dio. Ma come non ci è impedito di giudicare buone delle creature, in quanto donne e uomini abitati dalla bontà di Dio, così ci è dato di scorgere la maternità e la paternità in credenti che non se la arrogano indebitamente ma ne sono testimoni tra i fratelli per dono esclusivo di Dio; in persone che, come Giovanni Battista, conducono altri a Cristo e poi escono di scena, pronte a diminuire affinché Cristo cresca (cf. Gv 3,30). Paolo non è dunque un trasgressore delle parole di Gesù, lui che più di ogni altro chiama in causa il rapporto di paternità spi-

18 Cf. Origene, Omelie su Isaia 7,1-2, a cura di M. I. Danieli, Roma 1996, pp. 144-152; Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 76,5, a cura di S. Zincone, Roma 2003, vol. III, pp. 206-208; Théodoret de Cyr, Commentaire sur Isaïe 8,18, a cura di J.N. Guinot, Paris 1980, vol. I, p. 313. 19 “Un abate che sia degno di presiedere un monastero deve ricordarsi sempre di come viene chiamato, e adempiere con i fatti al suo nome di superiore. Crediamo, infatti, che egli compia nel monastero le veci di Cristo, poiché viene chiamato con lo stesso nome di lui, come dice l’Apostolo: ‘Avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi, nel quale gridiamo: Abba, Padre’ (Rm 8,15)” (Regola di Benedetto 2,1-3, p. 200). Si veda anche ibid., Prologo 1, p. 195, dove l’appellativo “pius pater” può essere riferito a Cristo.

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rituale nei confronti dei suoi discepoli20. E fa questo – non lo si dimentichi – essendo stato a sua volta generato alla vita cristiana da Anania, che si prende cura di lui e lo battezza dopo che Cristo gli si è rivelato sulla via di Damasco (cf. At 9,10-19; 22,12-16). Scrive Giovanni Cassiano: Cristo chiamò pure Paolo direttamente e gli parlò personalmente. Tuttavia, pur potendo manifestargli subito la via della perfezione, preferì inviarlo ad Anania, ordinandogli di apprendere da lui la via della verità. “Alzati – gli disse – ed entra in città; là ti sarà detto quello che dovrai fare” (At 9,6). Cristo, dunque, inviò anche lui a un anziano e ritenne che dovesse essere istruito per mezzo del suo insegnamento anziché attraverso la sua propria dottrina: volle così disporre che quanto era avvenuto rettamente per Paolo servisse ad evitare per i cristiani futuri un cattivo comportamento di presunzione, nel caso che ognuno finisse per persuadersi di doversi uniformare alle istruzioni di Dio soltanto e al suo diretto insegnamento anziché alle direttive degli anziani21.

Inoltre Paolo ha avuto bisogno che Barnaba lo accompagnasse nell’opera di maturazione della fede, inserendolo progressivamente nella comunità di Gerusalemme (cf. At 9,26-30; 11,22-30) e sostenendolo durante le traversie del primo viaggio missionario (cf. At 13,1-15,40)22. Sì, anche Paolo, che non aveva conosciuto personalmente Gesù, è stato iniziato da altri alla vita in Cristo, da lui poi vissuta con grande intensità e, di conseguenza, trasmessa ad altri figli… 20 Sul tema, cf. P. Gutierrez, La paternité spirituelle selon saint Paul, Paris 1968; L. Gianantoni, La paternità apostolica di Paolo, Bologna 1993. 21 Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci II,15, a cura di L. Dattrino, Roma 2000, p. 126. 22 Cf. R. Gisana, “La paternità spirituale di Anania e Barnaba”, in Horeb 32 (2002), pp. 25-34.

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Nelle sue lettere l’Apostolo più volte allude alla sua opera di paternità nei confronti di singoli figli spirituali: parla di Onesimo come di “mio figlio (toû emoû téknou) che ho generato in catene” (Fm 10); di Tito come “mio vero figlio (gnesío tékno) nella fede comune” (Tt 1,4). Paolo utilizza accenti particolarmente affettuosi nei confronti di Timoteo, che definisce “mio figlio amato e fedele nel Signore (mou téknon agapetòn kaì pistòn en Kyrío)” (1Cor 4,17; cf. 1Tm 1,2.18; 2Tm 1,2; 2,1); di lui dice anche: “Ha servito l’evangelo con me, quale un figlio con il padre (hos patrì téknon)” (Fil 2,22). Quest’ultimo passo ci introduce a un tema centrale toccato da Paolo in relazione alle comunità cristiane da lui fondate: la sua è una paternità strettamente connessa alla trasmissione dell’evangelo; ovvero, se non va trascurato lo stretto legame umano esistente tra l’apostolo e i suoi figli, nondimeno è l’evangelo di Dio e di Gesù Cristo che costituisce il metro oggettivo e determinante delle sue relazioni con loro. Questa duplice dimensione appare chiaramente in un passo della sua lettera più antica, la prima scritta ai cristiani di Tessalonica: Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre si prende teneramente cura dei propri figli. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo l’evangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari … E sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a camminare in maniera degna del Dio che vi chiama al suo Regno e alla sua gloria (1Ts 2,7-8.11-12)23.

23 Un passo degli Inni di Qumran (1QH XV,20-22) presenta interessanti parallelismi con il nostro testo. Scrive il Maestro di giustizia: “[Mio Dio,] mi hai posto come un padre per i figli della grazia, come un educatore per gli uomini del prodigio. Aprono la bocca come un lattante verso le mammelle della madre, come un bambino gioisce al petto del suo educatore” (cf. Testi di Qumran, a cura di F. García Martínez e C. Martone, Brescia 1996, p. 545).

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Paolo è dunque nello stesso tempo madre e padre per i suoi figli spirituali, e la sua autorevolezza si fonda sull’esempio da lui dato in prima persona: “Lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato l’evangelo di Dio” (1Ts 2,9). Chi al contrario pretende di imporre agli altri ciò che non è disposto a vivere, va inevitabilmente incontro al severo giudizio di Cristo su quanti “legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,4). Ma se nel precedente passo vi era solo il paragone – “come una madre … come un padre” –, ai cristiani di Corinto Paolo si rivolge con un’affermazione ancor più netta: “Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante l’evangelo (en Christô Iesoû dià toû euanghelíou egò hymâs eghénnesa)” (1Cor 4,15)24. Certamente qui l’Apostolo vuole distinguere la propria funzione da quella di quanti gli sono subentrati a Corinto per guidare la comunità in sua assenza: questi ultimi non devono attribuirsi nulla di più della funzione che spetta loro, quella di tutori, di precettori incaricati solo di proseguire l’opera da lui iniziata. Ma più in profondità queste parole rivelano la consapevolezza che abita il cuore di Paolo: egli è reso padre dalla fecondità dell’evangelo, della Parola che per primo ha accolto in sé come seme e fonte di vita. Solo da questo essere radicato nell’evangelo discende la sua capacità di chiamare altri a una nuova nascita, di destarli alla vita secondo Dio: ecco il “senso nascosto”25 ravvisato da Origene in questo passo paolino. Nessun protagonismo deve dunque animare il padre spirituale, ma la chiara consapevolezza che egli è chiamato a essere una

24 Cf. M. Saillard, “C’est moi qui, par l’Évangile, vous ai enfantés dans le Christ Jésus (1Co 4,15)”, in Recherches de Science Religieuse 56 (1968), pp. 5-41, articolo che riporta un’ampia antologia di commenti patristici a questo versetto. 25 Origene, Frammenti del Commento alla Prima lettera ai Corinti (su 1Cor 4,15).

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sequentia sancti evangelii, un brano vivente di evangelo per i suoi figli. Questo comporta una dura lotta, una fatica che può essere sostenuta nella misura in cui si ha chiaro il fine cui si tende, come scrive lo stesso Paolo ai cristiani della Galazia: “O figli miei, che di nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi (méchris hoû morphothê Christòs en hymîn)” (Gal 4,19). Ecco lo statuto paradossale della paternità spirituale: il padre soffre per una gestazione di Cristo che spetta al figlio condurre, una gestazione che può anche essere lunga e travagliata26. Ma prima o poi viene il giorno in cui il parto si compie: quando il figlio diviene “un uomo maturo, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13), allora il padre deve farsi umilmente da parte. Il suo compito è terminato: da quel momento sarà Cristo, il terzo in ogni relazione di paternità spirituale, a guidare in prima persona il figlio, a condurlo nel cammino della vita.

Conclusione

Parafrasando un’affermazione di Pierre Lenhardt a proposito della trasmissione della Torà da parte dei maestri di Israele27, potremmo dire che come non si riceve la vita senza genitori, così non si ricevono la parola di Dio e i fondamenti della vita nello Spirito senza un padre spirituale saldamente radicato nell’evan26 Commenta Girolamo: “Quando il seme della parola di Cristo cade nell’anima di chi la ascolta, cresce secondo i propri gradi … e rimane in pericolo finché colui che l’ha concepito è in travaglio. Né la fatica finisce appena nasce; anzi, questo è l’inizio di un nuovo lavoro con cui poter condurre il bambino, con diligente nutrimento e impegno, alla piena maturità di Cristo (cf. Ef 4,13)” (Girolamo, Commento alla Lettera ai Galati II,4,19, PL 26,385C). 27 Cf. P. Lenhardt, “Voies de la continuité juive. Aspects de la relation maître-disciple d’après la littérature rabbinique ancienne”, in Recherches de Science Religieuse 66 (1978), p. 504.

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gelo di Cristo. Sì, il cristiano è chiamato a ricevere la vita da chi è stato reso capace di donarla, per essere poi in grado di trasmetterla a sua volta a quanti verranno dopo di lui. È quel movimento ben espresso ancora da Origene: “Prendiamo come esempio Paolo che istruisce Timoteo: Timoteo riceve da Paolo dei suggerimenti e poi va lui stesso alla fonte da cui Paolo è venuto; vi attinge e Timoteo diventa uguale a Paolo”28. “Cristiani non si nasce ma si diventa”29 grazie alla mediazione di un padre o di una madre che sappiano esercitare l’arte maieutica dell’accompagnamento nello Spirito. Che sappiano cioè guidare nella libertà e per amore, e con infinita pazienza, alla vita in Cristo, alla vita secondo Dio, “il Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3,14-15).

28

Origene, Frammenti del Commento alla Prima lettera ai Corinti (su 1Cor 2,12-15). Tertulliano, Apologetico 18,4, in Id., Opere apologetiche, a cura di C. Moreschini e P. Podolak, Roma 2006, p. 241. 29

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UN PADRE SPIRITUALE CONTEMPORANEO: RICORDO DEL METROPOLITA EMILIANOS DI SILYVRIA (1916-2008)

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Athenagoras Peckstadt*

Introduzione

La presenza da tanti anni del metropolita Emilianos Timiadis in questo monastero così come a questo convegno annuale era un dato acquisito, o meglio, un dono! Ogni partecipante a questo convegno come pure ogni membro di questa comunità beneficiava, in pubblico o in privato, della sua semplicità, della sua sollecitudine paterna, dei suoi consigli e dei suoi interventi durante i dibattiti. Con le sue parole ispirate era un vero padre per tutti noi. Quest’anno non è più con noi! Per questo desideriamo fare memoria della sua persona. L’amicizia e la fraternità che unisce il rimpianto metropolita e la Comunità di Bose risale a tempi antichi. Infatti, fin dal 1968, il metropolita Emilianos visitò Bose e incontrò Enzo Bianchi e i suoi compagni. Ritornava ogni anno e il legame si rinsaldava, a tal punto che nel 1995 chiese di vivere gran parte dell’anno come fratel-

* Vescovo di Sinope, assistente del Metropolita del Belgio del Patriarcato ecumenico. Traduzione dall’originale francese.

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Athenagoras Peckstadt

lo di Bose. Vi ha vissuto “in armonia con quell’unità che è nel cuore e nella mente di Dio e che Dio attende dai suoi discepoli”1. Tutti quelli che l’hanno incontrato ricordano certamente la sua semplicità e il suo dinamismo evangelico, il modo con cui si interessava della chiesa di oggi, ma soprattutto di quella di domani. Ciò che lo distingueva era la sua grande sollecitudine per l’attualizzazione del messaggio evangelico in un mondo che spesso non conosce più Dio, non lo cerca o resiste alla sua grazia. Sottolineava incessantemente il bisogno di utilizzare un linguaggio comprensibile e di cercare l’essenziale della nostra fede piuttosto che occuparsi dei dettagli. Stimolava la ricerca di una risposta alla questione relativa alle possibilità di ridare senso alla nostra società che troppo spesso dimentica le sue radici. È questo che faceva di lui un vero padre del nostro tempo: si preoccupava della felicità di tutti quelli che non sempre comprendono di essere chiamati a vivere in comunione con il loro Creatore e Redentore. Diceva che vivere in Cristo deve essere il frutto di una “opzione personale” e non il risultato di una sottomissione a qualche pressione o a qualche obbligo, e che occorre che in ogni nuova generazione vi siano persone preparate – teologi, monaci e monache, eccetera – che lavorino all’incessante rivitalizzazione della fede in Cristo. Oltre a questo – e in che modo! – era un grande promotore dell’ideale dell’unità dei cristiani. Abbozziamo anzitutto la sua biografia.

Cenni biografici

Il rimpianto metropolita Emilianos nacque nel 1916 a Iconio, in Cappadocia, e al momento del battesimo ricevette il

1

E. Bianchi, “Prefazione”, in E. Timiadis, Chiamati alla libertà, Bose 2004, p. 14.

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Un padre spirituale contemporaneo …

nome di suo zio – fratello di sua madre – il neomartire Emilianos Lazaridis, metropolita di Grevena, in Grecia2. Dopo la catastrofe dell’Asia minore, con la giovane madre già vedova e i suoi tre fratelli e sorelle, si rifugiò dapprima a Costantinopoli, poi ad Atene, dove i ragazzi poterono frequentare la scuola. Terminò i suoi studi alla scuola commerciale di Atene, ma comprese rapidamente che questo non gli bastava e che doveva studiare teologia. Così, nel 1935, si iscrisse al celebre Istituto teologico di Halki. L’8 agosto 1940 fu consacrato diacono dal direttore dell’Istituto, il metropolita Emilianos di Filadelfia. Il 29 giugno 1942 fu ordinato presbitero dal metropolita Ioakim di Derka e nominato rettore della celebre parrocchia Makrochorion, nella diocesi di Derka, adiacente a Costantinopoli. Vi restò cinque anni dedicandosi a un lavoro pastorale e catechetico esemplare. La sua attività ecumenica era già iniziata: incontrava il prete cattolico-romano e collaborava all’Ymca (Young Men’s Christian Association). Nel 1947 il metropolita Ghermanos Strinopoulos lo nominò vicario generale della diocesi di Thyatira (Europa occidentale), con sede a Londra, dove terminò i suoi studi all’Università di Oxford3. Lo stesso anno ottenne il dottorato in teologia all’Università di Tessalonica con una tesi sull’impossibilità del perdono nella Lettera agli Ebrei. Questo periodo segnò profondamente il giovane archimandrita Emilianos. Il fatto di essere diventato il più stretto collaboratore del metropolita Ghermanos Strinopoulos lo rese partecipe di tutta la problematica del movimento ecumenico4. Il metropolita Ghermanos si interessò della 2 Cf. G. Tsetsis, “In memoriam. Métropolite Émilianos de Silivri (†)”, in Episkepsis 685 (2008), pp. 36-37. 3 Ottenne il baccalaureato in lettere all’Università di Oxford con una tesi intitolata The Aims of Penance: Public and Private Confession in History (1951). 4 Era membro della delegazione del Patriarcato ecumenico alla prima assemblea generale del Consiglio ecumenico delle chiese ad Amsterdam, nel 1948.

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Athenagoras Peckstadt

questione ecumenica fin dagli anni venti e certamente per l’ortodossia rappresenta un pioniere e una delle più eminenti figure dell’ecumenismo. Fu lui l’autore della celebre enciclica del Patriarcato ecumenico, del 1920, a tutte le chiese: un vivo appello rivolto a tutte le chiese del mondo a creare legami reciproci. In un’intervista alla rivista francese Unité des Chrétiens, monsignor Emilianos confidò di aver imparato molto durante il suo soggiorno in Gran Bretagna dai preti della chiesa presbiteriana di Scozia. Diceva: “Ammiravo le loro omelie, brevi e vivaci, ricche di aneddoti e di immagini, capaci di condurre all’essenziale”5. Nel 1952 il successore del metropolita Ghermanos, monsignor Athenagoras Kavadas, inviò padre Emilianos in Belgio; qui egli si mise a servizio anzitutto delle due parrocchie greche di Anversa e Bruxelles, poi anche di quella di Rotterdam. Ad Anversa prestava assistenza spirituale ai marinai greci. Ben presto si mise a collaborare con i suoi confratelli delle altre confessioni cristiane e organizzò un piano pastorale ecumenico. Qualche anno più tardi arrivarono in Belgio i primi minatori di cui avrebbe assunto la cura pastorale. Nel 1959 padre Emilianos Timiadis fu nominato dal patriarca ecumenico Athenagoras e dal Santo Sinodo rappresentante permanente presso il Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) a Ginevra. L’anno successivo, il Santo Sinodo del Patriarcato ecumenico lo scelse come vescovo di Meloa. La sua ordinazione episcopale ebbe luogo a Parigi, nella cattedrale ortodossa di Saint Étienne. Per un quarto di secolo, dal 1959 al 1984, occupò la funzione di rappresentante permanente presso il Cec; lo fece con il proprio stile, ma sempre in piena fedeltà al Patriarcato ecumenico e si prodigò per la promozione dell’unità dei cristiani. Più tardi fu promosso metropolita titolare di Calabria (1965) e più tardi ancora metropolita di Silyvria (1977).

5

C. Aubé-Elie, “Le métropolite Emilianos”, in Unité des Chrétiens 149 (2008), p. 29.

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Un padre spirituale contemporaneo …

Il suo successore al Cec, il grande protopresbitero Ghiorghios Tsetsis, qualche tempo fa in un articolo dedicato al rimpianto metropolita scriveva:

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Monsignor Emilianos si considerava più come un missionario e un padre spirituale che come un “diplomatico ecclesiastico” … come uno che si impegnava anima e corpo per imprimere un timbro ortodosso ai congressi e agli incontri concernenti il monachesimo o la testimonianza della chiesa nel mondo contemporaneo6.

Il ritiro in pensione nel 1985 non significò affatto che da quel momento rimase inattivo… Al contrario! Scrisse libri e articoli, insegnò negli istituti teologici di Boston e Joensuu, in Finlandia, partecipò a numerosi convegni e incontri a carattere spirituale ed ecumenico. Uno dei grandi problemi che sollevava spesso era che la chiesa ortodossa non possiede una casa in cui i chierici in pensione possano degnamente vivere insieme. Alla fine degli anni novanta decise di lasciare definitivamente Ginevra e da allora divise il suo tempo tra la Grecia (dapprima a Preveza e poi a Eghion) e l’Italia (Monastero di Bose). A Bose trascorreva molte ore in biblioteca, scriveva articoli e teneva conferenze ai fratelli e alle sorelle della Comunità. Amava parlare della vita e soprattutto degli scritti dei padri della chiesa. Ad Eghion andava infaticabilmente di villaggio in villaggio a presiedere la Divina liturgia e a predicare la parola di Dio nel suo stile infuocato. Nella residenza dove viveva, Ho ághios Charálampos, era come un faro spirituale per i compagni. Era un esempio vivente di come si possa utilizzare bene il proprio tempo. Organizzava gruppi di incontro su temi spirituali, riceveva le confessioni, trovava il tempo per riflet-

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G. Tsetsis, “In memoriam”, p. 37.

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tere e scriveva articoli nei giornali locali7. Su richiesta del vescovo locale8, partecipò attivamente ai lavori dei seminari e degli incontri tra presbiteri. Anche in questi ambienti era considerato un padre spirituale, profondamente interrogato dai problemi del proprio tempo, dall’avvenire della chiesa e della vita in comune dei preti. Tutti quelli che l’hanno conosciuto concorderanno con me nel dire che, senza essere eccentrico, era una persona decisamente originale!

Un bisogno di fede viva

Monsignor Emilianos era un vero padre, preoccupato della gioia di tutti. Si interessava particolarmente dei giovani e di quelli che assumevano o desideravano assumere posti di responsabilità nella chiesa. Ho avuto l’opportunità di vivere personalmente questa paternità e non sono certamente il solo! Quando ero studente all’Istituto ecumenico di Bossey, presso Ginevra, veniva di tanto in tanto a trovarmi e a guidarmi nel mio impegno ecumenico. Sottolineava sempre l’importanza di custodire nella mia vita un equilibrio spirituale che, accanto ai doveri connessi con la mia funzione, mi consentisse di trovare ogni giorno un po’ di tempo per la lettura e la preghiera personale. La formazione intellettuale e la vita spirituale erano per lui due capisaldi importanti su cui doveva fondarsi la personalità del presbitero. Per formazione personale intendeva anzitutto un contatto vivente 7 Cf. “Τελευταο ντο στ ν μακαριστ Μητροπολτη Σηλυβρας”, in ΣΤΟΡΓΗ –Eνημεροτικ Δελτο το δρματος “Ο Αγιος Χαρλαμπος” τ"ς ερ#ς Μητροπ%λεως Καλαβρτων κα) Αγιαλεας (marzo 2008), p. 26. 8

Il metropolita Amvrosios di Kalavrita ed Eghialia.

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Un padre spirituale contemporaneo …

con la santa Scrittura e con la letteratura patristica in generale. “Vivere l’evangelo deve essere il frutto di una scelta personale, senza costrizioni né sanzioni … Siamo chiamati a vivere l’evangelo in maniera autentica, a porlo al centro della vita europea”9. Tutto il suo pensiero si fondava sulla figura di Cristo. “Egli è il fondatore della chiesa e della vita monastica, l’ispiratore della vita ascetica in seno alla chiesa”10. Tutto il suo essere e il suo modo di vivere testimoniava una grande semplicità evangelica e una grande solidarietà. Dal suo posto di rappresentante del Patriarcato al Consiglio ecumenico delle chiese si impegnava nella lotta contro la povertà e la fame nel mondo. Nelle sue numerose conferenze e nei suoi interventi testimoniava anche un grande amore per gli scritti dei padri della chiesa, in particolare per i padri del deserto. Negli ultimi anni era attratto soprattutto dai padri siri i cui scritti sono stati particolarmente studiati e analizzati in tempi recenti. La lucidità spirituale, la disciplina e la sobrietà dei padri neptici erano virtù cui egli stesso si esercitava nella sua lotta contro tutto quello che conduce alla corruzione.

La responsabilità cristiana non conosce frontiere

Come prete e più tardi come vescovo, il metropolita Emilianos si sentiva responsabile dinanzi a tutti quelli che incrociava nel suo cammino. Senza eccezioni. Non era di quelli che si impegnano soltanto per le persone che sono state loro formalmente affidate, ma sapeva rendersi utile a tutti quelli che incontrava. Negli anni in cui era giovane prete ad Anversa, si confrontò con 9 E. Timiadis, Le zèle d’Élie et l’Europe au seuil du troisième millénaire, Saint-Rémy 1996, pp. 24-26. 10 Id., Le monachisme orthodoxe. Hier. Demain, Paris 1981, p. 45.

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la dura realtà della vita in un porto e nei dintorni di un porto. Vedeva il bisogno di lavorare insieme ai suoi confratelli, cappellani delle altre confessioni cristiane e di consultarli regolarmente. Non era concepibile che i marinai fossero avvicinati separatamente secondo la confessione cristiana cui appartenevano, quando nel volgere di poco tempo sarebbero ripartiti per vivere dei mesi insieme sulla stessa nave. Fu iniziatore di un piano pastorale ecumenico che, del resto, si riuniva a casa sua. Ricordo come spesso parlava, quasi come un bambino, delle delizie culinarie con cui sua madre accoglieva i suoi colleghi. Gli capitava talvolta di tentare, accompagnato da sua madre, di far capire a delle giovani donne che si prostituivano a qual punto si privavano della loro dignità. Tali iniziative audaci sono tipiche di monsignor Emilianos! Perché per lui la responsabilità cristiana non conosce frontiere, non si occupa unicamente di ciò che è suo, dimenticando tutto quanto non lo è; la responsabilità cristiana si nutre d’amore e ha quale ragion d’essere e quale fine l’intero corpo ecclesiale sociale, con tutti i suoi bisogni11.

Un uomo degno di fiducia, un uomo di dialogo

Una sapienza cristiana vissuta nella semplicità ha fatto di lui un uomo di dialogo e un uomo degno di fiducia. Non soltanto numerosi fedeli ortodossi, ma anche diversi presbiteri e pastori facevano appello alla sua capacità di ascolto, gli chiedevano consiglio e gli aprivano il loro cuore12.

11 12

Cf. Id., Υπεθυνοι – Συνυπεθυνοι – Ανευθνοι, Preveza 1995, pp. 13-14. Cf. E. Bianchi, “Prefazione”.

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Un padre spirituale contemporaneo …

Era un vero padre spirituale anche per le migliaia di giovani greci venuti in Belgio per faticare duramente nelle miniere di carbone. In occasione della grande catastrofe mineraria del 1956 a Marcinelle, insieme con i confratelli delle chiese sorelle, istituì – con lo stesso spirito di collaborazione di cui aveva dato prova ad Anversa – “un centro di crisi interpastorale”. Come avrebbe potuto preoccuparsi soltanto dei suoi parrocchiani? Il dolore era uguale per tutti! Ogni giorno si teneva una riunione per aiutare moralmente e materialmente la gente13. Comprese subito che il lavoro pastorale con i minatori oltrepassava le capacità di una sola persona e chiese un aiuto al patriarca ecumenico Athenagoras. Poco tempo dopo (1956-1957), in qualità di vicario episcopale, riceveva alcuni giovani preti, tra i quali il giovane Pantaleimon Kontoghiannis, oggi metropolita del Belgio. Quest’ultimo lo accompagnò fino a Mons e, una volta giunto alla stazione, padre Emilianos gli consegnò una valigia di cartone contenente i vasi liturgici, un evangeliario, un antimínsion e i paramenti, e indicandogli la città, gli disse: “Ecco la tua parrocchia”. Metteva i suoi giovani preti di fronte alla dura realtà, ma non li lasciava soli; anche con loro teneva riunioni, cercando di rendere il più efficace possibile il lavoro pastorale presso i giovani immigrati. Tutto questo è impensabile al giorno d’oggi nel contesto europeo nel quale ci troviamo a vivere. Monsignor Emilianos era un uomo che ispirava fiducia e un uomo di dialogo; un uomo di buon senso, aperto e tollerante, un uomo con un forte senso della responsabilità. Furono queste qualità che lo fecero scegliere come successore di monsignor Iakovos Koukouzis quale rappresentante permanente del Patriarcato ecumenico presso il Consiglio ecumenico delle chiese a Ginevra. Monsignor Emilianos vedeva questo compito con uno sguardo più ampio. Per lui non si trattava semplicemente di mantenere il collegamento tra i due organismi e di

13

Cf. C. Aubé-Elie, “Le métropolite Émilianos”, pp. 29-32.

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Athenagoras Peckstadt

far conoscere a ogni livello il punto di vista ortodosso. Accanto al lavoro necessario per la buona comprensione reciproca tra protestanti e ortodossi, vedeva anche la necessità di diffondere nelle chiese ortodosse locali il pensiero ecumenico. Molti paesi ortodossi vivevano sotto il giogo comunista e non avevano né la libertà, né la possibilità di entrare in contatto con altre confessioni cristiane. Fu così che il metropolita Emilianos divenne il negoziatore dell’adesione del Patriarcato di Mosca al Consiglio ecumenico delle chiese nel 196114. Dei suoi contatti con i fratelli e le sorelle cattolico-romani amava dire come era stato da loro accolto: con amicizia e rettitudine.

Ho un sogno…

Monsignor Emilianos era una persona onesta nei suoi dialoghi: spesso raccontava ai cristiani ortodossi quello che potevano imparare dalle chiese sorelle. Nonostante il suo amore per la tradizione liturgica della chiesa ortodossa, sapeva essere critico e teneva in grande considerazione la semplicità e l’essenzialità della liturgia occidentale. Non amava molto le numerose ripetizioni e lo stile pomposo delle liturgie pontificali ortodosse e non capiva perché in tante chiese i fedeli rimanessero passivi durante la liturgia, quando in origine, tutto il popolo celebrava la liturgia nella lingua popolare del tempo15. Era un grande sostenitore della partecipazione regolare alla comunione, come “dono di Dio”. Benché non si fosse mai effettivamente trovato a presiedere una diocesi, mostrava grande interesse per i problemi e i temi 14

Cf. ibid., p. 30. Cf. Que tous soient un! Mélanges offerts en hommage par la Fraternité Saint-Élie à son éminence le Métropolite de Silyvria, Émilianos Timiadis, Ia¸si 2005, pp. 12-13. 15

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Un padre spirituale contemporaneo …

pastorali. Molti dei suoi studi sono consacrati, infatti, a temi del tipo: la vita sacramentale, la confessione, l’eucaristia, la parrocchia, il matrimonio, l’ascesi, i bambini… Sapeva distinguere e discernere tra ciò che è essenziale e ciò che è formale. Mi ha spesso raccontato che aveva un grande sogno, quello di creare un centro di incontro in Grecia, dove si lavorasse all’unità dei cristiani. Sapeva bene che ancor oggi l’ecumenismo resta in Grecia un argomento difficile, e ne soffriva. Ma qui, a Bose, si rallegrava dei contatti ecumenici e del dialogo che prende vita poco a poco. Gli era particolarmente caro il dialogo tra i monaci e le monache d’oriente e d’occidente. A tal fine, insieme con il prete spagnolo don Julian Hernando, morto anch’egli quest’anno, diede vita nel 1970 a un’associazione internazionale di incontro dei religiosi (EIIR). Una decina di anni fa mi ha chiesto di continuare questo servizio al suo posto, cosa che faccio con tutto il cuore. Mi ha chiesto più volte anche di fondare un piccolo monastero ortodosso che rappresentasse un faro per la spiritualità e i contatti ecumenici in Belgio. Non sarei in grado di contare le numerose lettere che ho ricevuto da lui, scritte a mano, colme di consigli e di incoraggiamenti. L’ultima volta che ho potuto incontrarmi con lui fu qui, in questo monastero, alcuni giorni prima della sua morte. Sapeva che la sua ora era venuta e per questo volle a ogni costo passare un po’ di tempo con fratel Enzo e la sua comunità per conversare con loro. Noi ringraziamo Dio per tutto quello che abbiamo ricevuto da lui.

Conclusione: il suo testamento spirituale

Per quanto riguarda la ricerca dell’unità visibile delle chiese – come del resto su molti altri temi – monsignor Emilianos era assai chiaro: diceva che occorre distinguere tra unità e uniformi55

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Athenagoras Peckstadt

tà16. Spesso tradizioni legate a culture locali vengono assolutizzate. Amava ripetere che dobbiamo realizzare l’unità nella diversità come era nella chiesa antica; si pensi, ad esempio, alla quantità di riti liturgici che ci sono stati trasmessi. Al cuore di tutti questi riti si trova l’eucaristia dei battezzati. Costoro, in quanto rivestiti del sacerdozio regale, sono corresponsabili in vista di una vita nuova in Cristo. L’Europa, e più in generale il mondo intero, ha più che mai bisogno di valori e di senso. Come lievito nella pasta, dobbiamo sentirci chiamati tutti insieme, in quanto eredi di Cristo, a far crescere il dinamismo dei cristiani. Per questo dobbiamo, in certo senso, “declericalizzare” e “decostituzionalizzar”e la chiesa affinché i fedeli, da spettatori quali sono diventati, ritornino a essere di nuovo attori e partecipino alla vita spirituale. Diceva nella già menzionata intervista a Unité des Chrétiens: Dio ha donato grandi energie al battesimo di ciascuno. Questa energia è un capitale che deve portare frutto. Ciascuno di noi è responsabile e deve mettersi in discussione, ma non abbiamo il diritto di dichiararci troppo deboli17.

Fino all’ultimo, il nostro compianto metropolita continuò a mettere l’accento sulla necessità della formazione dei cristiani attraverso la lettura quotidiana, ma aggiungeva che non bisognava separare la teoria dalla pratica perché “l’evangelo è un filo conduttore non soltanto per la fede, ma anche per la vita”. Il metropolita Emilianos desiderava ardentemente l’unità visibile dei cristiani, ma sapeva “che solo l’amore incondizionato di Dio per gli uomini, donato attraverso lo Spirito santo, può restaurare l’unità dei cristiani”18. È con questa speranza e con molto amore che 16 17 18

Cf. C. Aubé-Elie, “Le métropolite Émilianos”, p. 32. Ibid. Ibid.

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Un padre spirituale contemporaneo …

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si è addormentato nel Signore il 22 febbraio 2008 a Eghion, in Grecia, dopo aver pronunciato all’indirizzo di quanti lo circondavano e con grande umiltà la parola eucharistô, “grazie”! Ringraziamo il Signore nostro Dio che ha inviato a vivere tra di noi un simile servo e padre per tanti anni! Eccolo ora nell’eternità, presso il giusto Giudice.

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BASILIO DI CESAREA, MODELLO DI PATERNITÀ SPIRITUALE

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Gheorghios D. Martzelos*

Introduzione

Nella nostra epoca, in cui la paternità spirituale sperimenta una crisi profonda ed estesa a motivo del clima moderno e soprattutto postmoderno1 che influenza sensibilmente la vita spirituale dei membri della chiesa, è quanto mai necessario cercare autentici modelli di paternità spirituale attingendo alla ricchezza della tradizione ortodossa dal momento che essa custodisce e tramanda un’autentica spiritualità ortodossa. Il grande Basilio rappresenta sicuramente un modello di paternità spirituale, come mostreremo in seguito, e tale è ritenuto dalla tradizione ortodossa. Accingendoci a esaminare le fonti relative alla paternità spirituale così come fu vissuta da Basilio, bisogna fin da principio ricordare che nessuno conobbe la sua persona e la sua opera meglio di colui che fu suo intimo amico fin dagli anni dei loro studi ad Atene, Gregorio il Teologo (Gregorio di Nazianzo), e di suo * Docente di teologia dogmatica presso il Dipartimento teologico dell’Università Aristotele di Tessalonica. Traduzione dall’originale greco. 1 Si veda a questo proposito H.-R. Müller-Schwefe, Welt ohne Väter, Hamburg 19592, p. 77; H. Arendt, “Qu’est-ce que l’autorité?”, in Ead., La crise de la culture, Saint-Amand 1992, pp. 123 ss.; A. Renault, La fin de l’autorité, Paris 2004.

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Gheorghios D. Martzelos

fratello Gregorio, vescovo di Nissa. Le informazioni offerteci da questi due cappadoci, sebbene profondamente segnate dall’amicizia nel primo caso e dal rapporto fraterno nel secondo, corrispondono tuttavia perfettamente ai dati che ci vengono dagli scritti di Basilio e lo rappresentano, in modo fedele e convincente, non solo come un uomo erudito nella scienza profana e in quella divina o come un grande santo e uno strenuo difensore dei dogmi ortodossi, ma anche come modello di padre e di pastore. Certamente la paternità spirituale nel pensiero di Basilio, quale emerge dai suoi scritti e dalle informazioni offerte dai due Gregorio, è strettamente legata alla sua personalità e alla sua attività di presbitero e di vescovo e non può essere compresa indipendentemente da essa. Oggi forse abbiamo difficoltà a vedere la paternità come legata esclusivamente alla persona e al ministero del vescovo e del presbitero, poiché siamo influenzati, in misura più o meno grande, da una concezione più tarda della paternità spirituale, quale cominciò a delinearsi nella tradizione della chiesa a partire dal iv, e soprattutto nel v secolo e in quelli successivi, con l’apparizione delle grandi forme carismatiche della tradizione monastica e particolarmente di quella neptica2, che influenzarono profondamente la vita spirituale e la prassi pastorale della chiesa. L’imporsi di tale modello più tardo di paternità spirituale andò a riempire un vuoto che si era creato nella vita della chiesa in seguito al venir meno delle grandi figure carismatiche tra i rappresentanti delle istituzioni, principalmente tra i vescovi3. Alla coscienza pastorale ed ecclesiologica dell’an2 Sulla concezione posteriore della paternità spirituale nella tradizione ortodossa si veda l’interessante studio di S. P. Tsichlis, The Spiritual Father in the Pachomian Tradition, in http://www.stpaulsirvine.org/html/pachomian.htm (ultimo accesso 12 maggio 2009). 3 Questo vuoto, che è un chiaro frutto della mondanizzazione della vita della chiesa, fu segnalato già da Gregorio di Nazianzo (cf. Discorsi XLIII,11,26, in Id., Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 1060-1063; Id., Lettres 87; 95, a cura di P. Gallay, Paris 1964, vol. I, pp. 108-109, 114-115; Id., Poesie II,1,12, a cura di C. Crimi e I. Costa, Roma 1999, vol. II, pp. 74-104; Id., A se stesso e intorno ai vescovi, PG 37,1169A) come da molti altri padri della chiesa (cf., ad esempio, Giovanni Crisostomo, A Innocen-

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Basilio di Cesarea, modello di paternità spirituale

tica chiesa, che prosegue ed esplicita relativamente a questo tema l’opera di Basilio, tale concezione più tarda della paternità spirituale era completamente sconosciuta. E questo perché per la chiesa antica il vescovo, e il presbitero che era alle sue dipendenze, costituivano il centro e il fulcro della vita ecclesiastica in senso ampio, come pure erano considerati padri spirituali e mistagoghi del proprio gregge4. Cominciamo a vedere, dunque, quale era la concezione della paternità spirituale praticata da Basilio per passare poi a vedere quali sono le sue caratteristiche e i frutti che essa produsse e che fanno del padre cappadoce un vero modello di padre spirituale e di pastore della chiesa.

La concezione della paternità spirituale secondo Basilio

La paternità spirituale in Basilio, in quanto presbitero e successivamente vescovo di Cesarea di Cappadocia, non si esaurisce nel suo essere un esempio e un modello di guida spirituale del suo gregge – secondo il modo in cui spesso viene intesa la paternità spirituale nel nostro tempo – ma si ricollega indissolubil-

zo, vescovo di Roma, in Id., Dall’esilio. Lettere, a cura di R. Callegari, Milano 1975, pp. 268-269; Id., A Ciriaco vescovo, ibid., pp. 86-87; Pseudo-Giovanni Crisostomo, Discorso sugli pseudo-profeti e gli pseudo-maestri 8, PG 59,562-563; Siméon le Nouveau Théologien, Hymnes 58,25-401, a cura di J. Paramelle e L. Neyrand, Paris 1973, vol. III, pp. 280-309; Id., Traités éthiques 5, in Id., Traités théologiques et éthiques, a cura di J. Darrouzès, vol. II, pp. 78-119. Vedi anche W. Völker, Praxis und Theoria bei Symeon dem Neuen Theologen. Ein Beitrag zur byzantinischen Mystik, Wiesbaden 1974, pp. 13 ss.). 4 Sulla concezione della paternità spirituale nella coscienza pastorale ed ecclesiologica della chiesa antica, cf. Les constitutions apostoliques 2,33, a cura di M. Metzger, SC 320, Paris 1985, vol. I, pp. 252-254: “Attraverso il tuo vescovo, Dio ti adotta come figlio, o uomo; riconosci, figlio, questa mano destra, tua madre, amala e venera colui che è tuo padre dopo Dio. Se già la Parola divina dice dei genitori secondo la carne: ‘Onora tuo padre e tua madre per essere felice’ (Dt 5,16), e: ‘Chiunque maledice il padre o la

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mente con il suo impegno di pastore, maestro e filantropo che si proponeva quale scopo la nascita spirituale, la crescita e il perfezionamento delle anime affidategli da Dio. E questo è assolutamente logico perché la paternità spirituale, secondo la tradizione ortodossa, non si risolve in un impegno di un momento ma comporta una dedizione continua connessa non solo con la nascita in Cristo, ma anche con la crescita in Cristo e il perfezionamento delle membra della chiesa5. Del resto, è questo che vuol dire l’apostolo Paolo quando scrive ai galati: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi” (Gal 4,19). È significativo che, sebbene qualifichi i galati come suoi “figlioli”, considerandosi dunque loro padre spirituale, provi continuamente le doglie, in una sorta di continuo travaglio spirituale finché non sia formato Cristo in loro6. Del madre, perisca e muoia’ (Es 21,16), quanto più, trattandosi di genitori spirituali, la Parola vi ordina di onorarli e amarli in quanto vostri benefattori e ambasciatori presso Dio! Non vi ‘hanno fatto rinascere attraverso l’acqua’ (Gv 3,5), colmati di Spirito santo, nutriti con il latte della Parola (cf. 1Cor 3,2), innalzati con il loro insegnamento, confermati con le loro ammonizioni? Non vi hanno fatto dono del corpo salutare e del ‘sangue prezioso’ (1Pt 1,19), non vi hanno liberati dai vostri peccati, non hanno fatto partecipi dell’eucaristia santa e sacra i compagni e gli eredi della promessa di Dio (cf. Ef 3,6)? Venerateli, onorateli con ogni sorta di onori perché essi hanno ricevuto da Dio potere di vita e di morte per giudicare i peccatori, condannare a morte nel fuoco eterno (cf. Mt 25,41), liberare dai peccati quelli che si pentono e restituirli alla vita”. Secondo Epifanio di Cipro la concezione della paternità spirituale è strettamente intrecciata con l’istituzione e l’ufficio del vescovo mentre non rientra affatto nell’istituzione e nell’ufficio del presbitero, e questo perché, come spiega egli stesso, “l’ordine (táxis) del vescovo è orientato alla generazione; genera padri per la chiesa. Quello dei preti non è in grado di generare padri; con il lavacro della rigenerazione genera figli per la chiesa, ma non padri né maestri” (Epifanio di Cipro, Panarion 55,4, PG 42,508D). Cf. anche V. Kalliakmanis, “Μετνοια κα πνευματικ πατρτητα”, in Βελλ IV, Ioannina 2007, pp. 128 ss.; S. Koutsas, “Ο Πνευματικ ς Πατρ: Η πνευματικ πατρτης !π τ φ#ς τ$ς %ρθοδξου παραδσεως”, in http://www.alopsis.gr/modules.php?name=News&file=article&sid=684 (ultimo accesso 29 giugno 2009). Cf. anche I. Zizioulas, Η .ν%της τ"ς Εκκλησας .ν τ1" Θεα Ε3χαριστα κα) τ5 .πισκ%πω κατ6 το7ς τρε8ς πρ9τους α5νας, Athinai 19902, pp. 96 ss., 153 ss., 190 ss. 5 Sulla paternità spirituale nella tradizione ortodossa in generale, cf. l’interessantissimo articolo del monaco Samuele, “Spiritual Paternity: The Holy Spirit and Spiritual Birth”, in http://www.cjoc.ca/pdf/BrSamuel.pdf (ultimo accesso 29 giugno 2009). 6 Cf. anche V. Kalliakmanis, “ Η πνευματικ πατρτητα κατ* τ ν +Απστολο Πα.λο”, in Καιρ%ς. Τ%μος Τιμητικ;ς στ;ν Ομ%τιμο Καθηγητ< Δαμιαν; Αθ. Δ%ϊκο IV, Thessaloniki 1994, pp. 670 ss.

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Basilio di Cesarea, modello di paternità spirituale

resto va tenuto presente che il modello di paternità spirituale ha una base eminentemente trinitaria; mutatis mutandis, si fonda sulla stessa paternità divina, la quale non è di un momento, ma duratura e incessante tanto sul versante della comunione trinitaria quanto su quello della divina economia. Di conseguenza, la paternità spirituale come impegno continuo e incessante, non deve essere limitata a una sola fase della vita spirituale del credente, e concretamente alla sua nascita in Cristo considerata indipendente dalla crescita in Cristo e dal compimento nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cf. Ef 4,13). In altre parole, la paternità spirituale, oltre alla nascita in Cristo, concerne anche tutte le forme spirituali di direzione e di guida del credente che tendono alla sua piena maturità in Cristo. Per questo motivo padre spirituale, pastore e maestro, per la tradizione ortodossa e, di conseguenza, anche per Basilio sono concetti reciprocamente collegati e quasi sinonimi. La fama di Basilio come padre spirituale della diocesi, secondo tale concezione della paternità, si era ampiamente diffusa ed era comunemente accettata già ai suoi tempi. È significativo che tanto Gregorio il Teologo quanto Gregorio di Nissa, nonostante il diverso legame che ebbero con lui, non esitano a chiamarlo anch’essi espressamente e apertamente loro “padre”7, esprimendo in questo modo non solo il rispetto e la venerazione che nutrivano per la sua persona, ma anche l’importanza che egli ebbe nella loro storia personale. In altre parole la paternità spirituale che gli riconoscono non va intesa in senso stretto; essa ricopre l’intera relazione spirituale, di dipendenza da parte loro e di guida da parte sua. Ricordiamo, inoltre, che Basilio, come vedremo più estesamente in seguito, aveva istituito numerosi centri

7 Cf. Gregorio di Nazianzo, La sua vita 221-235, in Id., Autobiografia. Carmen de vita sua, a cura di F. Trisoglio, Brescia 2005, pp. 60-61; Gregorio di Nissa, L’uomo 1, a cura di B. Salmona, Roma 1982, pp. 29-33; Id., Contro gli usurai, PG 46,452D; Id., Lettere 13, in Id., Epistole, a cura di R. Criscuolo, Napoli 1981, pp. 109-111.

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monastici nei quali non solo vivevano, ma anche venivano formati i monaci mediante insegnamenti teologici, filosofici e di altro genere, in modo da preparare dei cristiani maturi a servizio della chiesa. In uno di questi centri si formò suo fratello, Gregorio di Nissa, come pure, in un certo qual modo, anche Gregorio il Teologo8. A proposito di questa formazione, Gregorio di Nissa, in una lettera al sofista pagano Libanio, chiama suo fratello “padre e maestro mio” e dice che “il suo divino eloquio mi ha dirozzato tanto quanto basta a riconoscere il danno dei non iniziati all’eloquenza”9. Dobbiamo pertanto notare che le definizioni di “padre e maestro”10 o “pastore e maestro”11 che Gregorio di Nissa impiega riferendosi alla persona di Basilio hanno anche un significato più vasto e rappresentano, in un certo senso, dei termini tecnici con i quali si sottolinea chiaramente che la paternità spirituale e l’impegno di maestro, così come furono esercitati da Basilio, sono inseparabili. La stessa cosa si osserva anche in Gregorio il Teologo. Mentre nel poema Sulla sua vita considera Basilio come “un secondo padre ... assai più gravoso da sopportare”12 del padre naturale, a motivo del grande peso spirituale della sua persona e della sua opera, in una lettera indirizzata allo stesso Basilio lo giudica una straordinaria guida spirituale e un maestro, tratteggiando in questo modo le caratteristiche fondamentali della paternità spirituale del grande vescovo: Fin da principio ho visto in te, e lo vedo tuttora, la guida della mia vita, il maestro per la mia fede e tutto ciò che si può dire di 8 Cf. P. K. Christos, Ο Μγας Βασ λειος. Β ος κα πολιτε α – Συγγρμματα – Θεολογικ σκψις, Thessaloniki 1978, pp. 76 ss. 9

Gregorio di Nissa, Lettere 13, p. 110. Id., L’uomo, Prologo, p. 27. Id., Discorso funebre per suo fratello Basilio il Grande, PG 46,789B. 12 Gregorio di Nazianzo, La sua vita 391, pp. 68-69. 10 11

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bello. Se qualcun altro vanta i tuoi meriti, lo fa certamente con me e dopo di me, a tal punto sono vinto dalla tua pietà e sono interamente tuo. Non v’è da stupirsi: là dove più grande è l’intimità, più grande è anche la conoscenza; e dove la conoscenza è più ricca, anche la testimonianza è più perfetta. E il più grande bene di questa mia vita è l’amicizia e l’intimità con te13.

Per Gregorio il Teologo, Basilio, come padre spirituale e maestro, fu “l’uomo più saggio”, colui che per la sua vita e le sue parole superò tutti gli altri e perciò non esita a considerarlo “il più grande bene che è toccato in questi tempi in cui viviamo”14. Di conseguenza, si può capire come per i due Gregorio, padre spirituale, pastore e maestro sono caratteristiche strettamente collegate nella persona di Basilio. I due osano paragonare il loro padre e maestro alle grandi figure dell’Antico e del Nuovo Testamento: Giuseppe, Mosè, Aronne, Samuele, David, Salomone, Elia, Giovanni Battista, Pietro, Paolo e i figli di Zebedeo. Tutti costoro furono le guide e i maestri che guidarono spiritualmente e fecero avanzare il popolo di Dio15. Gregorio di Nissa istituisce un confronto eloquente tra Basilio e Mosè; nella contemplazione tipologica dell’opera di questa grande guida biblica fa trasparire la figura di Basilio in quanto padre spirituale. Secondo Gregorio, anche Basilio al pari di Mosè, mutatis mutandis, fece attraversare a molti l’acqua – da intendersi come l’acqua del battesimo – li illuminò con la sua parola che teneva il posto della colonna di fuoco di Mosè, li nutrì con la manna celeste. Come Mosè colpì con il bastone la roccia e ne fece sgorgare l’acqua con cui dissetare il suo popolo, così anche Basilio facendo il segno della croce riuscì a dissetare spiritualmente

13

Id., Lettres 58,1-2, vol. I, p. 73. Id., La sua vita 222; 225, pp. 60-61. Cf. Id., Discorsi XLIII,33,72-34,76, pp. 1110-1117; Gregorio di Nissa, Discorso funebre, PG 46,792A.797B-812D. 14 15

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il suo popolo con l’acqua viva e abbondante che sgorgava dalla sua bocca. Anch’egli costruì alla periferia della città una tenda materiale della testimonianza – la Basiliade – ottenendo, con i suoi insegnamenti sulla carità, che i poveri nel corpo divenissero anche poveri in spirito e fossero proclamati beati, degni del regno dei cieli. Oltre alla tenda materiale edificò con le sue parole anche una tenda della testimonianza spirituale nell’anima di ciascun fedele del suo gregge, innalzò in essa le colonne dei pensieri che confermano il faticoso cammino verso la virtù e l’adornò con lavacri spirituali, con le lampade della sua parola, con gli incensieri e i sacrifici delle sue preghiere. Inoltre apprestò nell’anima di ciascuno un’arca mistica, in cui pose le tavole dell’alleanza, cioè i divini comandamenti, che scrisse con il suo dito divino. In tal modo dispose nel cuore di ciascuno un’arca di misteri spirituali, nella quale la Legge è scritta con le opere e l’energia dello Spirito. In essa il bastone del sacerdozio portava sempre il suo santo frutto, germogliando continuamente grazie alla partecipazione alla santificazione, e la brocca, cioè il vaso dell’anima, non si svuotava mai della celeste manna. Molte volte, annota tra gli altri il Nisseno, abbiamo capito che era entrato come Mosè dentro la nube, dove era Dio. E questo perché quello che gli altri non potevano spiegare era a lui comprensibile grazie alla potenza dello Spirito santo, come se si trovasse realmente in mezzo a una nube divina16. Dopo questi parallelismi che fanno emergere chiaramente la profondità e l’ampiezza che è nascosta nella concezione di paternità spirituale di Basilio, così come è stata compresa e presentata dai due cappadoci, passiamo a considerare in qual modo il santo padre esercitò concretamente la paternità spirituale.

16

Cf. Gregorio di Nissa, Discorso funebre, PG 46,809C-812C.

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Basilio di Cesarea, modello di paternità spirituale

L’esercizio della paternità spirituale da parte di Basilio

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La paternità spirituale di Basilio all’epoca del presbiterato I tratti specifici della paternità spirituale di Basilio cominciarono a mostrarsi chiaramente quando era ancora presbitero a Cesarea, collaboratore di Eusebio suo predecessore nella sede episcopale. Principale tratto caratteristico è la sua sollecitudine per l’unità e la pace della chiesa, senza la quale non è possibile coltivare una vita spirituale. Tale sollecitudine si manifestò chiaramente un anno circa dopo la sua ordinazione a presbitero. Eusebio, travolto dall’invidia davanti al suo attivissimo presbitero, come accenna Gregorio il Teologo, si rivoltò contro di lui e minacciò uno scisma all’interno della chiesa di Cesarea. Basilio, allora, preoccupato di salvare l’unità del corpo della chiesa che si trovava in una situazione delicatissima a motivo di varie eresie, non volle intraprendere una lotta e una pericolosa battaglia contro di lui; su consiglio del suo amico Gregorio, fuggì nel solitario possedimento del Ponto dove era vissuto per almeno tre anni prima della sua ordinazione presbiterale. Non ebbe tuttavia la fortuna di restare nella quiete monastica per più di tre mesi. Quando, nell’estate del 365, l’imperatore Valente entrò in Cesarea con il suo esercito minacciando di sottomettere la chiesa e di indurla ad abbracciare l’eresia ariana, Basilio, scongiurato ancora una volta dall’amico Gregorio e animato da zelo divino, mise da parte qualsiasi risentimento e tornò indietro schierandosi al fianco del vescovo Eusebio e lottando strenuamente per difendere la fede ortodossa; così l’imperatore fu costretto a ritirarsi senza aver ottenuto nulla e nella chiesa di Cappadocia fu ristabilita la pace17.

17 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,12,28-15,33, pp. 1062-1069; P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, p. 57.

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Parallelamente cercò di riportare l’unità sul fronte interno che era diviso e fragile. Si preoccupò di proteggere la chiesa cappadoce e con il suo atteggiamento dissolse i sospetti nei suoi confronti, convincendo quanti stavano attorno a lui che i dispiaceri e le tribolazioni che aveva sopportato erano una tentazione del demonio. Era presente in tutte le questioni che riguardavano il vescovo e il popolo di Cesarea, mostrando docilità e discernimento18. Come osserva Gregorio il Teologo, Basilio era diventato per il vescovo consigliere fidato, abile assistente, esegeta delle cose divine, guida nelle cose da fare, bastone della vecchiaia, sostegno della fede, il più fidato per gli affari interni, il più abile in quelli esterni: in una sola parola, era tenuto in considerazione per l’amicizia tanto quanto in precedenza per l’ostilità19.

A causa di tale comportamento, ogni potere sulla chiesa passò nelle sue mani sebbene fosse ancora presbitero. In altre parole, non acquistò autorità nella chiesa, né ottenne il ruolo di padre spirituale con uno spirito di rivendicazione, ma soltanto con l’amore. Offrendo amore ebbe come contraccambio autorevolezza e fu riconosciuto dal popolo come padre spirituale. Ed era meraviglioso, come annota Gregorio, il suo equilibrio e l’accordo perfetto tra offerta e risposta; ne conseguì che il vescovo era istituzionalmente la guida del popolo, ma Basilio era diventato in realtà la guida del suo vescovo20. La seconda nota caratteristica della sua paternità spirituale è legata al suo multiforme impegno pastorale e sociale, già notevole al tempo in cui era presbitero. Vero padre spirituale, animato da 18 19 20

Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,15,33, pp. 1068-1069. Ibid. Cf. ibid.

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Basilio di Cesarea, modello di paternità spirituale

grande amore per Dio e per il prossimo, non restava indifferente dinanzi ai diversi problemi pastorali e sociali del suo gregge21. Un importante segnale dei suoi interessi all’epoca del presbiterato è la meravigliosa omelia pedagogica Ai giovani su come trarre profitto dalla letteratura greca, che intende condurre i giovani a una corretta visione e utilizzo della cultura classica in un tempo difficile, in particolare dopo la pubblicazione del decreto di Giuliano con il quale veniva proibito ai maestri cristiani l’insegnamento della letteratura greca classica22. Ma ciò che più manifesta le sue preoccupazioni di presbitero è la sua azione al momento della terribile carestia che nel 368 colpì la Cappadocia, tragedia che fu ulteriormente aggravata dall’indifferenza e dall’avarizia dei ricchi. Per tutta la durata della carestia, Basilio non solo mise a disposizione quella parte di beni che gli era rimasta dopo quanto aveva distribuito al momento del suo ritiro nel Ponto, ma riuscì anche ad aprire i depositi dei ricchi pronunciando due omelie infuocate, Contro i ricchi23 e Durante l’arida carestia24, e assicurò così il cibo per i poveri e gli affamati. Radunò tutti quelli che erano colpiti dalla carestia, uomini, donne, vecchi e bambini e organizzò mense comuni per nutrirli. Le sue cure non si limitarono soltanto agli ortodossi, ma si estesero senza distinzione anche agli ariani, agli ebrei e ai pagani. Non si fermò qui; imitando la diaconia di Cristo, con l’aiuto

21 Si veda il parallelismo proposto da Gregorio di Nissa tra l’apostolo Paolo e Basilio per quanto concerne l’amore per Dio e per il prossimo (cf. Discorso funebre, PG 46,797D-800C). Molto giustamente S. Koutsas annota che i più importanti tratti distintivi “del padre spirituale sono l’amore, la capacità di amare gli altri e di accogliere come proprie le tribolazioni e le tentazioni degli altri. Senza amore non vi può essere paternità spirituale. L’amore per i discepoli spirituali non rappresenta soltanto il principale merito del padre spirituale, ma il fondamento e l’essenza della paternità spirituale” (“Ο Πνευματικ ς Πατρ”, A,4). 22 Cf. P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, p. 188. 23 Basilio di Cesarea, Contro i ricchi, in Id., Che cosa è tuo?, a cura di L. Cremaschi, Bose 2000 (Testi dei padri della chiesa 47), pp. 23-38. 24 Id., Durante l’arida carestia, PG 31,304D-328C.

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dei suoi figli spirituali, curò non solo i malati nel corpo, ma anche i malati nello spirito. In altre parole, non si limitò semplicemente ed esclusivamente a sovvenire alle necessità di quei disgraziati, ma si preoccupò anche dei bisogni spirituali offrendo insieme al cibo materiale anche quello spirituale, la parola di Dio25. Così il suo impegno sociale era strettamente legato a quello pastorale e a esso finalizzato a tal punto da costituire un aspetto fondamentale della sua paternità spirituale. Gregorio il Teologo, rievocando la sua azione pastorale e sociale durante il presbiterato, la descrive con poche ma chiare parole: Molti altri sono i segni che fanno conoscere quale fu lo zelo di Basilio e come protesse la chiesa: la franchezza nei riguardi dei magistrati, di tutti in generale e, in particolare, di quelli più potenti in città; le soluzioni dei dissidi, non messe in discussione una volta che avevano ricevuto il sigillo della sua voce, ma aventi l’autorità di leggi; l’assistenza dei bisognosi, di natura spirituale la maggior parte delle volte, materiale in non pochi casi (infatti, spesso porta profitto all’anima essere attirato con la benevolenza); l’assistenza ai poveri, l’ospitalità offerta agli stranieri, la cura delle vergini, le regole per i monaci, scritte e orali; le disposizioni delle preghiere, l’ordine nelle tribune e le altre cose che un uomo veramente di Dio e collocato dalla parte di Dio può fare per giovare al popolo26.

La paternità spirituale di Basilio al tempo dell’episcopato La piena maturità della paternità spirituale di Basilio si rivelò a partire dal momento della sua nomina a vescovo della dioce25 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,15,34-36, pp. 1068-1073; Gregorio di Nissa, Discorso funebre, PG 46,805D-808A; P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 59 ss. 26 Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,15,34, p. 1069.

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Basilio di Cesarea, modello di paternità spirituale

si di Cesarea e durante i suoi otto anni di episcopato. L’esercizio della paternità spirituale in quanto vescovo, come annota Gregorio il Teologo, si fondava sull’assoluta convinzione che la virtù di una persona semplice consiste nell’essere buono, nella misura del possibile, o nel non essere cattivo; per chi è al governo o presiede, invece, è malvagità non superare di molto gli altri e non diventare ogni giorno migliore, oppure non possedere una virtù adeguata al posto che occupa27. Sulla base di questa assoluta convinzione, Basilio si dedicò a un multiforme impegno pastorale e sociale, continuando dalla sua sede episcopale il lavoro che aveva intrapreso da presbitero. Fin dall’inizio, secondo la testimonianza dell’amico Gregorio, fu chiaro a tutti che la dignità episcopale non l’aveva ricevuta dagli uomini, ma era Dio stesso che gliela aveva donata28. In seguito, con la sua grandezza d’animo, riuscì ad addolcire i cuori di quelli che gli si opponevano e lo contestavano. E questo non l’ottenne, annota Gregorio, con sanzioni e abusi di potere, ma con la rettitudine e la magnanimità del suo atteggiamento; non gli interessava soltanto una momentanea obbedienza, ma la piena sottomissione al vescovo e padre spirituale. A tal fine, unì alla severità la condiscendenza, alla mitezza la fermezza. Per questo non gli servivano tanto le parole, ma le azioni. Riuscì a trascinare gli avversari dalla sua parte e a farli diventare suoi alleati con l’amore e non sottomettendoli con astuzie o con il potere. Il mezzo principale di cui si servì per tale opera fu, secondo Gregorio, la potenza del suo spirito e la sua straordinaria virtù. I suoi fedeli pensavano che per loro vi era una sola via di salvezza, essere suoi amici e stargli sottomessi, e un solo pericolo, entrare in contrasto con lui; consideravano lo stare lontani da lui come un allontanarsi da Dio stesso. Questo destò in essi un libero desiderio di

27 28

Cf. ibid. XLIII,16,38, pp. 1072-1075. Cf. ibid. XLIII,17,39, pp. 1074-1075.

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sottomissione al loro vescovo e padre spirituale, e trasformò la loro inimicizia in amicizia29. Dopo aver ristabilito l’unità e la pace nella chiesa locale di Cesarea, Basilio si dedicó alla realizzazione del suo sogno ecumenico, vale a dire del suo desiderio di ristabilire l’unità di tutta la chiesa che, com’è noto, era lacerata da diverse eresie. Come dice l’amico Gregorio, non si limitava a lamentarsi delle tristi condizioni della chiesa e a innalzare le mani a Dio chiedendogli di risolvere la situazione, restandosene inattivo. Credeva invece di dover essere lui stesso d’aiuto e di dover fare qualcosa per curare i mali della chiesa30. Aveva già mostrato essendo ancora presbitero la sua preoccupazione per l’unità e la pace della chiesa intera, quando a nome del vescovo era entrato in contatto con le più grandi personalità ecclesiastiche del suo tempo – Atanasio, Eusebio di Samosata e Melezio di Antiochia – nel tentativo di consolidare il fronte del partito ortodosso opposto agli ariani31. E questo perché comprendeva che il benessere o il malessere del singolo non ha alcuna conseguenza per il gruppo mentre, al contrario, il benessere o il malessere del gruppo ha immediate ricadute anche sul benessere o il malessere del singolo. Di conseguenza il suo interesse ecumenico fu direttamente e consequenzialmente legato al suo impegno pastorale nella chiesa locale della sua diocesi. Questo lo portò a mostrare una sensibilità particolare che, in qualità di “tutore e guida”32 della comunità, lo condusse a trovare soluzioni per il ristabilimento dell’unità di tutte le chiese con la reintegrazione di quanti si erano lasciati sviare dall’eresia. A tale scopo, da un lato, scrisse lettere e discorsi teologici con i quali combatté l’eresia e presentò l’insegnamento ortodosso la-

29

Cf. ibid. XLIII,17,40, pp. 1074-1077. Cf. ibid. XLIII,17,41, pp. 1076-1077. 31 Cf. Saint Basile, Lettres 61; 30-31; 57, a cura di Y. Courtonne, Paris 1957, vol. I, pp. 151-152, 72-73, 144-145; P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, p. 59. 32 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,17,42, pp. 1076-1077. 30

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sciando così in eredità la sua opera dogmatica quale canone di fede non solo alla chiesa locale di Cesarea, ma a tutta la chiesa; dall’altro, poiché credeva che una prassi senza parole è incompleta come lo è una parola senza prassi, insieme ai suoi discorsi contro gli eretici lavorò attivamente per un corretto approccio a questi problemi. Come ci racconta Gregorio il Teologo, da alcuni si recò egli stesso o inviò i suoi uomini, altri li fece chiamare, li ammonì, li rimproverò, li redarguì, e se era necessario, li minacciò; spesso si vide costretto a difendere popoli, città, singole persone, e in generale, si preoccupò in tutti i modi della salvezza della chiesa intera curando le sue ferite33. Nella sua attività ecumenica entrò in relazione con Atanasio, Melezio di Antiochia, Damaso di Roma, intervenendo per la risoluzione dello scisma antiocheno e il ristabilimento dell’unità nel partito ortodosso della chiesa antiochena, e chiedendo a Roma l’invio in oriente di delegati che si rendessero personalmente conto della situazione caotica in cui si trovava la chiesa orientale e giudicassero essi stessi chi, in seguito, avrebbe dovuto godere della comunione ecclesiale con loro e chi no34. Indipendentemente dal fatto che le sue proposte non avessero ottenuto i risultati sperati, tuttavia, come risulta dalla lettera agli abitanti di Neocesarea scritta nel 375, si ritenne soddisfatto della risposta che aveva ottenuto e del riconoscimento del suo operato da parte dei vescovi di una gran parte della chiesa, come quelli della Pisidia, della Licaonia, dell’Isauria, della Frigia, dell’Armenia, della Macedonia, dell’Acaia, dell’Illiria, della Gallia, della Spagna, dell’Italia, della Sicilia, dell’Africa, dell’Egitto e della Siria, i quali erano in continue relazioni con lui35.

33

Cf. ibid. XLIII,18,43, pp. 1076-1079. Cf. Saint Basile, Lettres 66-70; 80; 89, vol. I, pp. 156-166, 181-182, 193-194; 216, Paris 1961, vol. II, pp. 207-208; 242-243; 263, Paris 1966, vol. III, pp. 65-73, 121-126. 35 Cf. ibid. 204, vol. II, pp. 172-180; vedi anche P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 110 ss. 34

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Ciò che lo consacrò nella comune coscienza ortodossa come difensore della fede ortodossa e guida della chiesa fu la sua resistenza al potere politico e, concretamente, all’imperatore Valente che, nell’estate del 370, venne una seconda volta a Cesarea con il suo esercito per sottomettere l’unica città dell’Asia minore che era rimasta ortodossa. Egli trovò tuttavia un’ostinata resistenza nella persona di Basilio e, ancora una volta, non poté realizzare il suo piano. Nonostante le sue aggressioni, le promesse e le minacce, non riuscì a piegare il grande vescovo36. È significativo il dialogo tra Basilio e il prefetto Modesto che su ordine dell’imperatore l’aveva fatto chiamare per piegarlo e convincerlo a passare all’eresia omea. Riportiamo questo dialogo per ammirare, come dice Gregorio, “la resistenza che Basilio opponeva con intelligenza”37, cioè la ferma risoluzione che il grande padre oppose al potere politico che minacciava l’integrità della fede. “Ehi tu – disse il prefetto, aggiungendo il nome, dal momento che non credeva giusto chiamarlo vescovo – cosa cerchi di ottenere con questa sfrontatezza nei confronti di una così alta autorità, e con l’essere tu solo tra gli altri arrogante?”. “Qual è il problema? – rispose quell’uomo nobile –. E di che arroganza parli? Ancora non riesco a capire”. “Il problema è che tu – rispose il prefetto – non ti curi della religione del re, quando ormai tutti gli altri sono stati piegati e vinti”. Basilio, allora, disse: “Il mio Re non ammette queste cose, né io accetto di prostrarmi ai piedi di una creatura, dal momento che anche io sono una creatura di Dio, che ha ricevuto l’invito a essere Dio”. “E noi, che cosa rappresentiamo per te?”. “Proprio niente – rispose Basilio – quando date simili ordini”. “Non è

36 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,19,44-47, pp. 1078-1081; vedi anche P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 65 ss. 37 Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,20,48, p. 1083.

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forse importante per te avere un posto nel nostro seguito e averci come alleati?”. “Voi siete prefetti e fate parte degli uomini illustri, non voglio negarlo, ma sicuramente non meritate la venerazione più di Dio. Avervi come alleati è cosa importante: come, infatti, non potrebbe esserlo? Anche voi siete creature di Dio, ma siete sullo stesso piano di quelli che ricevono ordini da noi: il cristianesimo si contraddistingue, infatti, non per i personaggi, ma per la fede”. Allora il prefetto, colpito, si accese di maggior sdegno, si alzò dal seggio e usò nei suoi confronti parole più violente. “Tu non temi il potere?”, disse. “Cosa mai sarà, cosa posso soffrire?”. “Non temi nessuna delle molte pene che io ho il potere di infliggere?”. “Quali sarebbero queste pene? Fammi sentire?”. “Confische, esili, torture e morte”. “Se c’è qualcos’altro, minacciami: infatti non mi tocca nessuna di queste pene”. “Come sarebbe?”, rispose il prefetto. “È che – rispose – non posso essere colpito dalla confisca, dal momento che non possiedo niente, a meno che tu non voglia i miei cenci ridotti a brandelli, o i pochi libri, che per me sono tutta la vita. Non so cosa possa essere l’esilio, dal momento che non sono circoscritto da alcun luogo e considero mia non la terra in cui ora abito, ma tutte quelle in cui io potrei finire, o meglio considero di Dio ogni terra; in esse io non sono nient’altro che un pellegrino in cerca di temporanea dimora. Che cosa poi otterrebbero le torture, se non c’è il corpo? A meno che tu non ti riferisca al primo colpo. L’unica cosa di cui puoi farti forte è la morte, che però è una benefattrice: infatti mi manda prima presso Dio, per il quale io vivo e opero, per il quale sono in massima parte morto e verso il quale già da tempo mi affretto”. Il prefetto, stupito da queste parole, disse: “Nessuno fino a ora si è rivolto a me in questo modo e con una simile libertà di espressione”, aggiungendo il proprio nome. “Tu, forse – rispose Basilio – non hai mai incontrato un vescovo, altrimenti ti avrebbe di certo parlato allo stesso modo, battendosi in difesa di simili cause. Infatti, prefetto, noi siamo miti in altre circostanze, e umili più di chiunque altro, perché i comandamenti prescrivono che non solo con un’autorità di 75

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tale importanza, ma anche con il primo venuto non bisogna alzare il sopracciglio. Però, quando Dio è messo in discussione e in pericolo, lui soltanto guardiamo, trascurando ogni altra cosa. Fuoco, chiodi, bestie feroci, unghie che lacerano le carni per noi sono godimento più che spavento. Per questo tu sii pure prepotente, minaccia pure, fa’ tutto quello che vuoi, trai i vantaggi del tuo potere. Anche l’imperatore, però, sappia che non riuscirai a trarci dalla tua parte e non ci convincerai ad accordarci con voi nell’empietà, anche se rivolgerai minacce più tremende”38.

Quando l’imperatore fu informato dal prefetto dell’accaduto, stupito della resistenza di Basilio, diede ordine di lasciarlo stare. In seguito, recatosi nel giorno dell’Epifania nella cattedrale di Cesarea che era piena di gente, rimase sbalordito al vedere l’atmosfera e l’ordine che regnavano nella chiesa e, dopo il colloquio che ebbe con Basilio, cambiò atteggiamento e si ritirò dando ordine di lasciarlo in pace 39. La conclusione di questa “intelligente resistenza” fu che Basilio guadagnò l’ammirazione e il rispetto tanto del prefetto quanto dell’imperatore40. L’ammirazione del prefetto crebbe ulteriormente quando fu guarito da una grave malattia grazie alle preghiere del santo41. Da allora Basilio fu in corrispondenza con lui; gli scriveva riguardo a diverse questioni della sua diocesi, soprattutto di natura sociale42. Quanto all’imperatore, la sua ammi-

38

Ibid. XLIII,20,48-50, pp. 1083, 1085. Cf. ibid. XLIII,20,51-21,53, pp. 1084-1087. 40 Si veda il resoconto del prefetto all’imperatore: “Imperatore, siamo sconfitti da colui che è a capo di questa chiesa. Quell’uomo è più forte delle minacce, più saldo dei discorsi, refrattario alla persuasione. Sono altri gli uomini, quelli più vili, che vanno messi alla prova; Basilio, o viene fatto oggetto di palese violenza oppure è inutile aspettare che ceda alle minacce” (ibid. XLIII,20,51, p. 1085). 41 Cf. ibid. XLIII,23,55, pp. 1088-1089. 42 Cf. Saint Basile, Lettres 110-111, vol. II, pp. 11-12; 279-281, vol. III, pp. 151-153. 39

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razione durò soltanto un momento; a causa delle pressioni di quanti lo attorniavano, tra i quali sua moglie Domnina, nonostante un’iniziale esitazione, decise alla fine di sottoscrivere il decreto che condannava Basilio all’esilio, ma poiché la penna, a causa del tremito della sua mano, gli si ruppe tre volte, strappò il decreto e così il grande vescovo non andò in esilio43. Di grande interesse è anche la condotta di Basilio nel cercare di ricondurre nella chiesa quanti erano caduti nell’eresia; questo mostra la sua profonda coscienza di essere padre spirituale non solo degli ortodossi, ma anche degli eretici della sua diocesi. La sua azione pastorale si basava sulla convinzione che a volte per presentare la fede ortodossa nel dialogo con gli eretici e, in generale, con i nemici della fede, non è indispensabile esprimere in modo minuzioso e dettagliato la dottrina ortodossa. Al contrario, in certi casi, l’assenza di acribia dottrinale è assolutamente giustificabile e necessaria, perché in tal modo si crea l’impressione che vi sia qualche accordo con il modo di pensare dell’avversario su temi di minor importanza e ne consegue che egli non può concentrare la sua aggressività sulle questioni essenziali e fondamentali della fede o, ancor più, che può accogliere certe posizioni del suo interlocutore. Molto illuminante per la comprensione di tale convinzione di Basilio è quanto riferisce egli stesso in una lettera agli abitanti di Neocesarea, giustificando l’inesattezza di alcune formulazioni dottrinali di Gregorio di Neocesarea il quale, difendendo le verità della fede cristiana davanti al pagano Geliano, non riteneva di dover discutere troppo minuziosamente sui termini, ma di dover concedere qualcosa al temperamento di

43 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,22,54, pp. 1086-1089; Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica IV,19,14-16, a cura di A. Gallico, Roma 2000, p. 292; P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, p. 70.

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colui che voleva convincere, per timore che si opponesse all’essenziale44.

Per questo motivo Basilio ironizza su coloro che prendono alla lettera le espressioni imprecise di Gregorio di Neocesarea e non capiscono che tali espressioni sono state proferite “non per insegnare ... ma per discutere”45, e perciò non possiedono il rigore richiesto. In altre parole, secondo Basilio, un conto è il linguaggio del dialogo o del confronto con gli eretici e con i nemici della fede, in quanto essa non si esprime necessariamente in una forma precisa e rigorosa; altra cosa è invece la deliberazione dogmatica, che non può essere concepita senza un assoluto rigore nelle sue affermazioni. Si tratta, diremmo, da un lato, del linguaggio dell’akribeía dogmatica che è necessaria per la formulazione e la confessione della fede da parte degli ortodossi, d’altro lato del linguaggio dell’oikonomía pastorale che talvolta è necessario nell’incontro con gli eretici e i nemici della fede, per cercare di far loro capire l’inganno in cui sono caduti e farli ritornare nella chiesa46. Sulla base di questa distinzione, che, come si è visto, è fondata sui padri, come nel caso di Gregorio di Neocesarea, Basilio ha la possibilità di utilizzare nel dialogo con gli eretici il linguaggio dell’oikonomía pastorale, inaugurando così nel dialogo ecumenico un’apparente arrendevolezza, che, come è dimostrato da quanto segue, rappresenta una linea pastorale assai efficace. A questo punto è bene segnalare a proposito della linea pastorale di cui si è detto, che Basilio la utilizzò in modo unico e straordinario principalmente con i pneumatomachi, correndo il rischio

44

Saint Basile, Lettres 210, vol. II, p. 195. Ibid. Si veda a questo proposito G. D. Martzelos, Ορθοδοξα κα) σγχρονοι διλογοι, Thessaloniki 2008, pp. 176 ss. 45 46

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di essere accusato di svendere la fede47. Come è noto, i pneumatomachi dell’Asia minore, che provenivano dalla cerchia degli omoiousiani, se da un lato accettavano la consustanzialità del Figlio con il Padre, non erano d’altro lato disposti ad accettare la consustanzialità dello Spirito santo perché, secondo loro, questo li avrebbe portati al triteismo. Sebbene già Atanasio estendesse la consustanzialità del Figlio anche alla persona dello Spirito santo, definendo esplicitamente lo Spirito santo come consustanziale nella sua prima lettera a Serapione48, Basilio, nel tentativo di riportare i pneumatomachi alla chiesa, evitava di provocarli chiamando esplicitamente lo Spirito santo “Dio” e definendolo homooúsion al Padre e al Figlio. E agì in tal modo nonostante la posizione differente dell’amico Gregorio che era fedele ad Atanasio49. Assumendo tale posizione, non svendeva la fede, ma ricorreva al principio dell’oikonomía. Come ci assicura Gregorio il Teologo, Basilio, più di ogni altro, riconosceva lo Spirito come Dio, poiché confessava pubblicamente la sua divinità quando gli si presentava l’occasione, e a lui, cui del resto non aveva mai nascosto niente, diceva chiaramente che venerava lo Spirito insieme al Padre e al Figlio come “consustanziale” e degno di pari onore, ma per ragioni pastorali, come precisa Gregorio, custodiva queste cose per sé attenendosi al principio dell’oikonomía, mentre a Gregorio consentiva di parlare liberamente, con parrhesía50. Tale distinzione tra oikonomía e parrhesía in una questione dogmatica così importante come quella della persona dello Spi-

47 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,32,68, pp. 1104-1107; Id., Lettres 58, vol. I, pp. 73-77. Si veda anche V. I. Kalliakmanis, Μεθοδολογικ6 πρ%τερα τ"ς Ποιμαντικ"ς. Λεντω ζωννμενοι I, Thessaloniki 2005, pp. 76 ss. 48 Cf. Atanasio di Alessandria, Lettere a Serapione 1,27, a cura di E. Cattaneo, Roma 1986, pp. 92-93. 49 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XXXI,8,10; XLIII,32,69, pp. 754-755, 1106-1109. Si veda anche K. V. Skouteris, Ιστορα δογμτων II, Athinai 2004, pp. 387 ss. 50 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,32,69, pp. 1106-1109.

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rito santo, per Basilio non è arbitraria né cela un qualche minimalismo dogmatico, dovuto all’opportunità politico-ecclesiale, ma discende essenzialmente dalla distinzione tra dogma e kerygma che egli spiega esaurientemente nel trattato Lo Spirito santo51. Il dogma in se stesso non è per tutti, ma solo per gli iniziati e i credenti maturi nella fede; per questo, per non correre il pericolo che venga svilito, bisogna proteggerlo dai non iniziati e da chi non è ancora spiritualmente maturo, custodendo davanti a loro il silenzio. Solo il kerygma è destinato a tutti e può essere divulgato52. Del resto per Basilio la potenza della fede non si trova nelle parole, ma nei fatti53. È per questo motivo che egli crede che utilizzando altre definizioni di ugual significato per lo Spirito santo, come “divino”, “degno di pari onore”, “degno di pari gloria”, avrebbe facilitato la ricezione dell’insegnamento trinitario ortodosso da parte dei pneumatomachi e il loro ritorno nella chiesa. La sola cosa che chiedeva per il loro ritorno nella chiesa era che accettassero il simbolo di Nicea e la natura increata dello Spirito santo54. Come fosse corretta la sua posizione risultò chiaro

51 Cf. Basilio di Cesarea, Lo Spirito santo 65-68, a cura di G. Azzali Bernardelli, Roma 1993, pp. 180-186. 52 “Allo stesso modo gli apostoli e i padri, che fin da principio hanno disposto le cose che concernono le chiese, hanno custodito nel segreto e nel silenzio il carattere sacro dei misteri. Non è più assolutamente mistero, infatti, ciò che perviene all’orecchio popolare e volgare. Questa è la ragione della tradizione delle cose non scritte, che in mancanza di una seria protezione, la conoscenza delle dottrine non divenga, per abitudine, oggetto di dispregio per le masse” (ibid. 66, pp. 182-183). “Tu hai ciò che può essere divulgato del nostro mistero, ciò che non è interdetto alle orecchie della maggior parte degli uomini. Il resto lo apprenderai quando sarai all’interno, quando sarà la Trinità stessa a fartene grazia: tu lo dovrai tenere nascosto dentro di te, come fosse trattenuto da un sigillo” (Gregorio di Nazianzo, Discorsi XL,17,45, p. 977). Sulla distinzione tra “dogma” e “kerygma” in Basilio, cf. H. Dörries, De Spiritu Sancto. Der Beitrag des Basilius zum Abschluß des trinitarischen Dogmas, Göttingen 1956, pp. 125 ss.; Id., “Basilius und das Dogma vom Heiligen Geist”, in Lutherische Rundschau 6 (1956/57), pp. 253 ss.; P. K. Christos, “Η περ το. Αγου Πνε0ματος διδασκαλα το. Μεγλου Βασιλεου”, in Επετηρ)ς Θεολογικ"ς Σχολ"ς Αριστοτελεου Πανεπιστημου Θεσσαλονκης 10 (1965), p. 230; Id., Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 232 ss. 53 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,32,68, pp. 1104-1107. 54 Cf. Saint Basile, Lettres 113, vol. II, pp. 16-17.

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due anni dopo la sua morte, quando il secondo concilio ecumenico adottò integralmente nel suo simbolo la sua pneumatologia e in particolare la sua oikonomía pastorale relativa alla persona dello Spirito santo55. Oltre a operare continuamente e infaticabilmente per custodire la fede ortodossa e l’unità della chiesa, Basilio esercitò la sua paternità spirituale anche attraverso il suo insegnamento e il suo impegno sociale. Come già si è visto, in tutta la sua eparchia vi erano numerose comunità monastiche che erano contemporaneamente centri di ascesi e di formazione cristiana a servizio della chiesa locale. Basilio si propose di riconciliare e di armonizzare la vita eremitica con quella cenobitica che spesso erano diametralmente opposte. Per questo le comunità che egli fondò erano di tipo misto; i contemplativi e gli spirituali non restavano privi di vita comunitaria e i monaci di vita attiva non restavano privi di nutrimento spirituale, “cosicché non ci fosse vita contemplativa senza quella attiva né vita attiva senza quella contemplativa”56. Questo suo tentativo prese avvio prima ancora che entrasse a servizio attivo della chiesa, nel momento in cui si ritirò nel suo possedimento solitario nel Ponto. Qui poté creare il suo primo centro monastico che, come riferisce Gregorio il Teologo, portava il nome di “casa di meditazione”, “monastero”, “scuola”57. Gli allievi della sua “casa di meditazione” o della sua “scuola”, oltre alla formazione spirituale, ricevevano lezioni di teologia, di filosofia, di calligrafia, di tachigrafia, di infermieristica e di medicina. Basilio fondò centri monastici simili, anche se di minor grandezza, in altri luoghi del Ponto e della Cappadocia durante i suoi 55 Su questo vedi A. M. Ritter, Das Konzil von Konstantinopel und sein Symbol. Studien zur Geschichte und Theologie des II. Ökumenischen Konzils, Göttingen 1965, p. 159; K. V. Skouteris, Ιστορα δογμτων II, pp. 521 ss. 56 Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,27,62, p. 1099. 57 Cf. Id., Lettres 4, vol. I, pp. 3-4. Per una traduzione italiana si veda Id., A un amico, a cura di L. Cremaschi, Bose 2003 (Testi dei padri della chiesa 62), p. 11.

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soggiorni in quelle regioni. Già prima di diventare vescovo fondò un centro simile anche a Cesarea58. Da tali centri provengono anche importanti personalità ecclesiastiche. Nella “scuola” del Ponto vi fu Gregorio di Nissa, che, come si è visto, proprio per questo motivo chiama Basilio “padre e maestro”, poi Evagrio Pontico, ma anche, in certo senso, Gregorio il Teologo. Allievi della “scuola” di Cesarea furono invece Anfilochio di Iconio ed Elladio, che successe a Basilio nella sede di Cesarea. Per la formazione spirituale dei suoi discepoli, Basilio, in collaborazione con l’amico Gregorio, compose quando era ancora nel Ponto, un’antologia delle opere di Origene, nota sotto il titolo di Filocalia, e scrisse, inoltre, alcuni testi spirituali59. Molti suoi allievi furono anche suoi figli spirituali e, in quanto vescovo, li ordinò nel corso delle sue visite pastorali60. Oltre a fondare varie comunità monastiche, con i suoi numerosi scritti, le omelie, le lettere, le opere dogmatiche e ascetiche, provvide al nutrimento teologico e spirituale dei suoi figli spirituali. Gregorio il Teologo considera i suoi scritti come fonte di “diletto” unico e irripetibile: Unico è questo diletto, che interessa tutti i campi ed è di grande importanza: si tratta di ciò che egli ha scritto e per cui si è affaticato. Gli scrittori non hanno più una simile abbondanza di materiale dopo di lui e dopo i suoi scritti61.

Ma il coronamento della sua opera di padre spirituale, non solo della stretta cerchia dei suoi discepoli ma di tutta la popolazione della sua diocesi, fu quell’opera filantropica impareggiabile per il

Cf. P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 74 ss. Cf. ibid., p. 77. Vedi inoltre Id., Γρηγριος F Θεολγος, F μστης τ"ς θεας .λλμψεως, Thessaloniki 1990, p. 49. 60 Cf. Id., Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 75 ss. 61 Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,30,66, p. 1105. 58

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suo tempo che manifesta la grandezza del suo amore per Dio e per il prossimo. Fin dalla giovinezza Basilio ebbe coscienza che la perfezione della vita cristiana si identifica con la povertà62. Per questo motivo, ancor prima di ritirarsi nel Ponto, distribuì una gran parte dei suoi averi ai poveri. La sua sensibilità filantropica si manifestò chiaramente quando, presbitero, distribuì un’altra grande parte dei suoi beni in occasione della carestia del 368. Quello che gli era rimasto lo devolse, durante il periodo dell’episcopato, alla costruzione di un grandioso centro di accoglienza alla periferia di Cesarea che i posteri chiameranno Basiliade63. Questo centro comprendeva una maestosa chiesa cattedrale, residenze per il vescovo e i suoi chierici, edifici per accogliere pubblici funzionari, un ospedale per la cura dei malati provvisto di ogni attrezzatura per la loro degenza oltre che di personale medico e infermieristico, case per accogliere quanti venivano dalla città o accompagnavano i malati, altri edifici che ospitavano vari laboratori d’artigianato64. Si trattava, secondo l’espressione di Gregorio il Teologo, di una vera “nuova città” a breve distanza da Cesarea65. Come ha giustamente osservato l’indimenticabile professor Christos, la Basiliade costituiva il primo centro medico e sociale di tutta la storia66.

I frutti della paternità spirituale di Basilio

Com’è naturale, la multiforme opera di Basilio in quanto padre spirituale e pastore ebbe immediati e prodigiosi risultati. Median62

Cf. ibid. XLIII,27,60-61, pp. 1094-1097. Cf. ibid. XLIII,28,63, pp. 1098-1101. Vedi anche P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 63, 84 ss. 64 Cf. Saint Basile, Lettres 94, vol. I, pp. 204-207. 65 Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,28,63, p. 1099. 66 Cf. P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, p. 87. 63

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te il suo servizio di presbitero e di vescovo, come annota Gregorio il Teologo, egli si arricchì di molti e ottimi figli spirituali67. Colpisce l’ampia accoglienza e il riconoscimento della sua persona come grande padre spirituale e pastore della chiesa non solo da parte del suo gregge, ma anche da parte della chiesa universale e perfino da parte dei suoi nemici. Nel suo gregge la sua influenza spirituale fu talmente grande che molti cercavano di imitare perfino i tratti esteriori della sua persona, il pallore del volto, la barba, il modo di camminare e di parlare, la prudenza e la riservatezza, il modo di vestire, la forma del sedile su cui sedeva, il suo modo di mangiare, eccetera. Molti si vantavano di averlo potuto avvicinare, di poterlo servire, o di custodire il ricordo di qualcosa che aveva fatto o detto68. Il popolo manifestava una tale devozione nei confronti della sua persona che sarebbe stato disposto a fare per lui qualunque cosa. Ne è un esempio un episodio ricordato da Gregorio il Teologo. Un giudice voleva costringere una vedova a sposarlo, ma quella non voleva. Non potendo sopportare più a lungo le pressioni del giudice, la vedova cercò rifugio presso l’altare, supplicando la protezione di Dio. Quando Basilio fu informato dell’accaduto, intervenne immediatamente e prese le sue difese di fronte al giudice. Questi, adiratosi per la condotta del santo, inviò alcune delle sue guardie a perquisire la sua dimora esclusivamente per offenderlo, lo accusò di non essere disinteressato nel prendere le difese della vedova e gli diede ordine di presentarsi personalmente per difendersi come fosse un accusato. Quando il santo si presentò, quello, benché fosse un funzionario della giustizia, si comportò in modo scorretto e disumano, minacciandolo di farlo battere e di sottoporlo a supplizio. Non appena si diffuse per la città la notizia dell’accaduto, subito, spontaneamen-

67 68

Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,33,71, pp. 1110-1111. Cf. ibid. XLIII,34,77, pp. 1116-1117.

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te, si mossero contro il giudice uomini, donne, piccoli e grandi; erano infuriati e volevano farsi giustizia da se stessi. Tenevano in mano torce, pietre, randelli, ogni genere di armi improvvisate, pronti ad aggredire il giudice perché quello che era accaduto al loro pastore lo consideravano un’offesa personale. Ritenevano, come annota Gregorio, che fare a pezzi il giudice sarebbe stata un’opera santa. E quel giudice arrogante e borioso, terrorizzato da quell’assalto furioso, si gettò ai piedi di Basilio supplicandolo di fermare la folla infuriata. Non appena il santo apparve, il popolo placò la sua ira e il giudice si salvò grazie alla devota sottomissione del popolo al suo vescovo69. Di questa grande devozione e venerazione del popolo per Basilio si ebbe una chiara dimostrazione al momento della sua morte e dei suoi funerali. Non si era mai vista tanta gente e tali dimostrazioni di affetto. Uno cercava di lambire l’orlo del suo mantello, un altro di essere ricoperto dalla sua ombra, un altro di toccare il suo letto funebre o quelli che lo trasportavano, un altro ancora di vedere anche solo il suo volto. Le vie, i portici, le piazze erano pieni di gente di ogni età, accorsa da ogni contrada. Vi erano anche dei pagani e degli ebrei che si univano al lutto e ai lamenti dei cristiani. Tale era la calca che l’uno schiacciava l’altro al punto che vi furono dei morti70. La grande venerazione e l’affetto del popolo non ebbero fine con la morte di Basilio, ma anzi si intensificarono e si diffusero per ogni dove tanto che egli, nella coscienza della cristianità ortodossa, subito dopo la sua morte fu ritenuto santo e grande padre della chiesa. Già Gregorio il Teologo e Gregorio di Nissa nei loro discorsi funebri lo chiamano ripetutamente “santo”71, e

69

Cf. ibid. XLIII,24,56-57, pp. 1088-1091. Cf. ibid. XLIII,35,80, pp. 1118-1121. 71 Cf. Id., Lettres 115, Paris 1967, vol. II, pp. 9-10; Gregorio di Nissa, Lettera al fratello Pietro, PG 37,212C; Id., La vita di Macrina, PG 46,973B; Id., Discorso funebre, PG 46,789B; Id., L’anima e la resurrezione, a cura di S. Lilla, Roma 1981, p. 37. 70

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anche “grande”72. Del resto, il fatto che il simbolo di fede del secondo concilio ecumenico adottasse, come già abbiamo detto, la sua pneumatologia e anche la sua condotta pastorale nei confronti dei pneumatomachi esprime a livello ecumenico la venerazione e la stima per quel grande padre, confermando contemporaneamente anche la correttezza della sua prassi pastorale volta a far rientrare nella chiesa gli eretici. Va ricordato anche che l’imperatore Teodosio I diede prova di venerazione e di stima nei confronti di Basilio, dal momento che i modelli di ortodossia che tramite i suoi decreti stabilì per l’Asia minore e l’Armenia furono Elladio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Otreio di Metilene, Anfilochio di Iconio e Ottimo di Antiochia di Pisidia, tutti figli spirituali di Basilio73.

Conclusioni

Da quanto abbiamo detto si può concludere che se cerchiamo nella storia della chiesa una figura che rappresenti un modello ideale di padre spirituale questi è indubbiamente Basilio. Tutta la sua vita e la sua opera di presbitero e particolarmente di vescovo fu una viva testimonianza del suo atteggiamento paterno dinanzi ai vari problemi del suo tempo, sia che si trattasse di pro-

72 Cf. Saint-Grégoire de Nazianze, Lettres 25; 53; 58, vol. I, pp. 33, 70, 73-77; Id., Discorsi XLIII,1,1; 7,16; 11,27; 24,56, pp. 1030-1031, 1046-1049, 1062-1063, 1088-1091; Gregorio di Nissa, Apologia al fratello Pietro sull’esamerone, PG 44,61B; Id., La vita di Mosè 2, a cura di M. Simonetti, Milano 1984, p. 123; Id., Contro Eunomio 1; 5; 8; 12, PG 45,247A-464C.679A-708D.767A-800C.909A-1122B; Id., Sui quaranta martiri, PG 46,776A; Id., Discorso funebre, PG 46,795D.800D.813A; Id., Encomio per il nostro santo padre Efrem, PG 46,821D-824A.833C; Id., La vita di Macrina, PG 46,965D.972D.977A. 73 Cf. P. K. Christos, Ο Μ>γας Βασλειος, pp. 101 ss.; A. M. Ritter, Das Konzil von Konstantinopel, p. 128.

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blemi della chiesa locale, sia anche davanti ai problemi della chiesa universale. Dice Gregorio nel suo Discorso funebre:

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Disponetevi qua, intorno a me, tutti voi che costituivate il coro di Basilio, quanti state sulla tribuna e quanti state in basso, quanti siete dei nostri e quanti no, e aiutatemi nell’elogio, descrivendo ciascuno i diversi aspetti delle virtù di quell’uomo, cercando di scoprire, voi che state sui troni, il legislatore; voi che siete addetti all’amministrazione della città, il fondatore di città; voi uomini del popolo, la sua disciplina; voi, che vi interessate di eloquenza, l’educatore. Le vergini facciano conoscere colui che conduceva le spose nella casa dello Sposo; quelle sotto il giogo del matrimonio, colui che insegnava la temperanza; quelli che vivono in solitudine, colui che dava le ali; quelli che vivono tra gli altri uomini, il giudice; quelli che amano la semplicità, la loro guida; quelli che si dedicano alla contemplazione, il teologo; gli uomini che vivono nella gioia, il freno; quelli che vivono nella disgrazia, il consolatore. I vecchi facciano conoscere il loro sostegno; i giovani, il loro pedagogo; i poveri, il loro fornitore di mezzi; i ricchi, il loro economo. Io credo che anche le vedove elogeranno il loro tutore; gli orfani, il loro padre; i mendicanti, il loro protettore; gli stranieri, l’amico degli stranieri; i fratelli, l’amico dei fratelli; i malati potranno elogiare il medico – di qualsivoglia malattia o cura si tratti –; gli uomini di buona salute, il custode di buona salute; e tutti, colui che per tutti rappresentò tutto per potersi guadagnare tutti gli uomini o la maggior parte di essi (cf. 1Cor 9,22)74.

Oltre alle cure paterne per il suo gregge, anche la sua incomparabile sensibilità ecumenica, come il suo sapiente utilizzo dell’oikonomía nella pastorale e nei temi di ordine dogmatico nel-

74

Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi XLIII,35,81, pp. 1120-1121.

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l’intento di ristabilire l’unità della chiesa – ad esempio nella questione della divinità dello Spirito santo – fa di lui un modello ideale e un luminoso esempio per certi “padri spirituali” del nostro tempo che, contrariamente a quella che fu la prassi pastorale di Basilio, aderiscono a pregiudizi e a una mentalità antiecumenica credendo di seguire in questo modo i grandi padri della chiesa. In tal modo essi alimentano, anche nei loro discepoli spirituali, concezioni e mentalità chiuse e fondamentalistiche, spingendoli a nocive contrapposizioni dogmatiche e a estremismi ideologici, considerando a priori minimalismo dogmatico o tradimento della fede qualsiasi sforzo ecclesiale e teologico da parte ortodossa per ristabilire l’unità della chiesa divisa. A questo proposito crediamo particolarmente significativo e quanto mai attuale il fatto che già Gregorio il Teologo presenti Basilio come modello di padre spirituale e di pastore, dicendo ai suoi ascoltatori: Io che altro potrei consigliare a voi ... se non di rivolgere sempre a lui il vostro sguardo e di perfezionarvi nello Spirito75?

Queste parole di Gregorio il Teologo esortano indubbiamente anche noi a studiare e a presentare quale modello da imitare la vita e l’opera di questo grande padre della chiesa. È quello che afferma anche Gregorio di Nissa con parole che voglio porre a conclusione della mia relazione: Così anche noi, che ci vantiamo di avere Basilio quale maestro, mostriamo nella nostra vita il suo insegnamento, realizzando ciò che lo rese famoso e grande davanti a Dio e davanti agli uomini76.

75 76

Cf. ibid. XLIII,35,80, pp. 1120-1121. Gregorio di Nissa, Discorso funebre, PG 46,817D.

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LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLE LETTERE DI GIOVANNI CRISOSTOMO A OLIMPIA

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Nicolas Abou Mrad*

In qualità di docente di scienze bibliche ho letto quasi tutti i commenti di Giovanni Crisostomo e ho ammirato la sua capacità di rendere comprensibile la Bibbia alle sue comunità e ai suoi parrocchiani. Ho sempre ammirato la sua arte retorica e la sua abilità nell’analizzare il testo biblico indicando le nozioni e le espressioni chiave e conducendo i suoi ascoltatori a scoprire insieme a lui il senso sublime celato in esso. Tutto questo mi ha convinto di quello che avevo compreso quando cominciavo a occuparmi di letteratura biblica in ambito accademico, e cioè che lo scopo ultimo dell’esegesi non può mai essere accademico, ma pastorale. Solo quando l’esegeta è consapevole del valore del libro sacro per sé e per i suoi parrocchiani, soltanto allora può rendere giustizia ai testi biblici. Devo ammettere, invece, di aver letto per la prima volta le lettere a Olimpia allorché mi è stato chiesto di preparare la presente relazione per questo convegno. Le ho lette con la stessa ammirazione e lo stesso interesse con cui ho accostato le opere maggiori del Crisostomo. Con la loro profondità, con il loro tono

* Docente presso la facoltà teologica dell’Università greco ortodossa di Balamand (Libano), del patriarcato greco ortodosso di Antiochia. Traduzione dall’originale inglese.

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Nicolas Abou Mrad

intensamente affettivo, con il loro carattere spirituale, esse hanno il potere di conquistare il lettore fin dall’inizio. Le ho trovate ancor più interessanti perché ho scoperto in esse lo stesso interprete e predicatore che fa ricorso a testi e racconti biblici e li applica in modo magistrale a una data situazione, in questo caso a una donna triste e afflitta non solo per la partenza forzata del suo vescovo, ma anche a causa delle molte tristi esperienze vissute, l’ultima delle quali era stata la morte del marito, pochi giorni dopo il loro matrimonio. L’importanza delle lettere a Olimpia, accanto al loro intenso carattere pastorale, risiede nel fatto che furono scritte dal Crisostomo sulla via dell’esilio, in una condizione di estrema afflizione. Nella lettera 10, scritta verso la fine del 404, Giovanni, alcuni mesi dopo gli eventi, racconta alla destinataria del suo scritto cosa è accaduto lungo il suo viaggio, descrivendo con parole vivaci le insopportabili difficoltà e umiliazioni incontrate mentre si trovava a Cesarea. Ricordo questo perché credo che la particolarità di queste lettere risieda non nel fatto che sono state scritte a una vedova per consolarla e confortarla nella sua situazione, ma perché esse rappresentano un raro esempio in cui, oltre alla situazione, conosciamo anche lo stato psicologico del loro autore. Nei suoi commenti biblici Crisostomo ci appare come un vescovo che dall’ambone della sua cattedrale rivolge prediche dal contenuto biblico ai suoi fedeli. Il massimo che possiamo dire sulla sua disposizione interiore, qualunque essa fosse, è che egli era veramente impegnato ad ammonire i suoi e a condurli alla comprensione e all’applicazione delle verità rivelate. Nelle lettere a Olimpia invece si ha l’impressione, e in qualche modo la convinzione, che le lettere di consolazione non fossero indirizzate a Olimpia per guarirla dalla tristezza e dal dispiacere, come Giovanni ripete spesso, ma che fossero rivolte, con la stessa intensità e in risposta a un identico bisogno, anche a se stesso, dal momento che non si trovava in una situazione migliore. 90

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La paternità spirituale nelle lettere di Giovanni Crisostomo …

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Nella lettera 1, scritta alla fine del giugno 404, Giovanni delinea un confronto tra la sua situazione e quella di Olimpia. Scrive: Più cresce la violenza delle prove, più aumentano i motivi di consolazione per noi, e migliori diventano le nostre speranze riguardo al futuro. Ora tutto procede per noi nel senso della corrente e navighiamo con vento favorevole. Chi ha visto? Chi ha udito? Ci imbattiamo in terre sommerse dall’acqua e in scogli, in gorghi e in tempeste; notte senza luna, tenebra profonda, dirupi e rocce. E pur navigando su simile mare, non stiamo affatto peggio di chi si culla nel porto ... Noi stiamo bene e siamo sereni. Il nostro corpo è diventato più forte, respiriamo aria pura; inoltre, le guardie del governatore che ci scortano hanno cura di noi a tal punto che non ci lasciano rimpiangere i servi perché fanno loro da servi ... Una cosa soltanto ci fa soffrire: non avere la certezza che anche tu sei serena. Faccelo sapere, perché gustiamo anche questa gioia1.

Nella commovente lettera 7 scrive: Ma fino a quando cercheremo di raggiungere l’irraggiungibile? Qualunque sia il quadro che cerco di rappresentare della situazione presente, la parola si ritrae vinta dalla grandezza dei mali. Eppure, pur conoscendo queste cose, non rinuncio alla migliore speranza, penso al pilota dell’universo, che non sconfigge la tempesta con la sua arte, ma con un cenno calma la tempesta2.

Nella stessa lettera presenta tre esempi biblici di persone che hanno vissuto quello che lui stesso e anche Olimpia stavano vi-

1 Jean Chrysostome, Lettres à Olympias 1, a cura di A.-M. Malingrey, SC 13 bis, Paris 1968, pp. 106-108 (tr. it. in Giovanni Crisostomo, Lettere a Olimpia 1, a cura di L. Cremaschi, Bose 2001 [Testi dei padri della chiesa 53], p. 11). 2 Ibid. 7,1, p. 134.

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vendo e cioè: i tre fanciulli nella fornace, Gesù Cristo, e infine l’apostolo Paolo come questi testimonia di sé nella Seconda lettera ai cristiani di Corinto. Leggendo questa lettera, mi sono chiesto a chi essa è realmente indirizzata. Apparentemente a Olimpia, ma il messaggio in essa contenuto è indirizzato da Crisostomo a Crisostomo. Egli ricorda a se stesso la conclusione della storia dei tre fanciulli nella fornace (cf. Dn 3,1-97); erano felici di essere torturati dal re oppressore, e alla fine quest’ultimo si pentì perché vide la loro perseveranza. Gesù, il Signore, è stato umiliato, torturato e crocifisso, ma è risorto da morte e la sua parola ha trionfato. Paolo, il suo maestro, come egli stesso lo chiama, non ebbe una sorte migliore di quella del suo Signore, Gesù Cristo. A conclusione della lettera egli scrive: Se ora vuoi valutare le cose buone e quelle dolorose, vedrai che molti eventi, anche se non erano miracoli e prodigi, erano tuttavia simili a dei miracoli, segni ineffabili della grande provvidenza di Dio e della sua sollecitudine ... Ti lascio il compito di raccogliere con ogni cura tutto quello che è accaduto, di confrontarlo con le tue disgrazie e, intenta a questa bella occupazione, di abbandonare la tristezza; ne riceverai una grande consolazione3.

Le lettere a Olimpia, a mio avviso, sono allo stesso tempo indirizzate a Giovanni, al padre spirituale stesso. Egli stesso nella lettera 10 confessa di aver scritto a Olimpia lunghe lettere di consolazione, ma di non avergliele spedite. Potremmo chiederci: agì così solo perché, come egli stesso dice, non le erano di alcun vantaggio? O non forse anche perché Giovanni aveva bisogno di scrivere per essere consolato egli stesso? Tale questione fa delle lettere a Olimpia un testo particolare perché ci rivela un aspet-

3

Ibid. 7,5, p. 154.

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La paternità spirituale nelle lettere di Giovanni Crisostomo …

to specifico della paternità spirituale, di cui Crisostomo era sicuramente consapevole. Ambedue, predicatore e ascoltatore, padre spirituale e figlio o figlia spirituale, sono parimenti destinatari della medesima parola divina. Non c’è da stupirsi che tutte le diciassette lettere siano state scritte per un solo motivo, come afferma Crisostomo stesso in ciascuna di esse, per aiutare Olimpia a vincere la sua tristezza e la sua tribolazione. Nello stesso tempo, ciascuna di esse descrive una nuova tappa dell’esilio di Giovanni, colma di tristezza e tribolazione. Nelle lettere troviamo una chiara allusione alla fragilità della natura umana. Nella lettera 10 scrive: C’è qualcosa di peggiore della morte? Non è forse il male più grande tra gli uomini? Non è un male temibile, intollerabile, non merita mille lamenti? ... Certo la natura della morte è quanto mai temibile. Essa opprime ogni giorno la nostra razza, ci colpisce e desta turbamento e scoramento dinanzi a ogni cadavere4.

Eppure neanche la morte va temuta quanto il peccato. Quindi Crisostomo elenca alcuni esempi biblici di uomini giusti che, senza temere la morte, commisero peccato, quali Abramo, Elia e Mosè, tre delle principali figure bibliche. È interessante che egli scrivesse questo per convincere Olimpia e per ricordare a se stesso che le sofferenze e le tribolazioni purificano l’anima – essendo essa più grande della morte – a condizione che la propria tristezza sia causata da sofferenze e afflizioni, e non dal proprio peccato. Riporta qui l’esempio di Giobbe e spiega come tutto ciò che egli aveva attraversato lo aveva reso ancora più giusto quando riconobbe di essere orgoglioso della propria giustizia. Con sollecitudine paterna, profonda fede e speranza, invita Olimpia a trarre

4

Ibid. 10,3, pp. 248, 254.

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Nicolas Abou Mrad

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profitto dalla sua tristezza e dalla sua tribolazione, a non rattristarsi per questioni materiali e a non lasciarsi trascinare da emozioni, esortandola a utilizzarle per purificare la propria anima e per sperare il riposo ultimo e la salvezza. Cerca di convincerla che quella tristezza è molto più utile delle buone azioni: Il nostro discorso ha mostrato che la tristezza è il più penoso di tutti i mali, il più temibile e il più grave. Ci resta da tracciare un confronto tra le virtù e le sofferenze, perché tu capisca chiaramente che ci sono ricompense non solo per le virtù, ma anche per le sofferenze; anzi, a volte ve ne sono di più per le sofferenze5.

Con questo vorrei sottolineare un aspetto particolare del ricco epistolario in questione: “Nessun discepolo è migliore del suo maestro e nessun servo è migliore del suo padrone” (cf. Mt 10,24). Oserei dire anche il contrario: “Nessun maestro è migliore del suo discepolo e nessun padrone è migliore del suo servo”. Olimpia, Giovanni, Paolo e Gesù hanno sopportato le medesime sofferenze, e come gli ultimi due hanno ricevuto la corona, anche Olimpia e Giovanni potevano sperare nella stessa sorte. Con autorevolezza, ma non con arroganza, con severità, ma non con disprezzo, il Crisostomo esercita la sua paternità spirituale e il suo compito di vero pastore.

5

Ibid. 10,6, p. 262.

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L’UMANESIMO DEL DESERTO. IL DISCERNIMENTO SPIRITUALE SECONDO LA TRADIZIONE ASCETICA

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Stavros Yangazoglou*

Il corpo riceve luce dai due occhi sensibili, mentre gli occhi del cuore sono illuminati dal discernimento delle cose visibili e di quelle spirituali. Giovanni Climaco, La scala XXVI/2,70

Il discernimento nel Nuovo Testamento

Nella chiesa antica il “discernimento degli spiriti” era considerato uno dei carismi dello Spirito santo, strettamente legato alla profezia. “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito … A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro, invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spiri-

* Vice presidente dell’Istituto pedagogico di Grecia ad Atene, è specialista dell’opera teologica di Gregorio Palamas. Traduzione dall’originale greco.

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Stavros Yangazoglou

to; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti” (cf. 1Cor 12,4-10). Come tutti i carismi, la profezia e il discernimento degli spiriti non sono manifestazioni o facoltà esclusive di determinati individui, ma espressioni carismatiche e uffici che hanno quale scopo l’edificazione della comunità eucaristica. La profezia non era intesa come rivelazione di eventi futuri o di verità sovrannaturali, ma come segno della grazia e dell’energia dello Spirito. In quanto rivelazione della volontà di Dio, il carisma della profezia mirava all’edificazione, alla comunione, all’unità dell’assemblea liturgica1. Il carisma profetico “giudica” (cf. 1Cor 2,15), “riprende” (cf. 1Tm 5,20) e manifesta “i segreti del cuore” (cf. 1Cor 14,25) rivelando e interpretando la volontà di Dio nelle concrete situazioni storiche in cui gli uomini vivono. Si tratta di un’espressione eminentemente escatologica della vita della chiesa, in accordo con la quale il profeta che ha “il pensiero di Cristo” (cf. 1Cor 2,16), adempie l’opera dello Spirito santo discernendo e illuminando la condizione interiore dell’uomo. La spiegazione profetica, pertanto, sebbene fosse un ministero eccelso nella chiesa antica, non avveniva al di fuori dell’assemblea eucaristica. Lo Spirito santo saggiava la sincerità e l’autenticità del carisma profetico con altri carismi, tra cui il “discernimento”. “I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino” (cf. 1Cor 14,29). Questo significa che la profezia non agisce senza il controllo della chiesa e indipendentemente da essa. “Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti” (cf. 1Cor 14,32). Il carisma del discernimento degli spiriti, in quanto è un’altra dimensione del carisma profetico, denuncia la verità e l’identità della profezia insieme alla testi-

1 Cf. I. Panagopoulos, Η .κκλησα τ5ν προφητ5ν. Τ; προφητικ;ν χρισμα .ν τ" Εκκλησα τ5ν δο πρ5των α9νων, Athinai 1979, pp. 159-164; G. Galitis, s.v. “Δικρισις πνευμτων”, in Θρησκευτικ< κα) Ηθικ< Εγκυκλοπαδεια IV, Athinai

1965, pp. 1167-1168.

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L’umanesimo del deserto …

monianza degli altri profeti e di tutta la chiesa. Come possibilità la profezia e il discernimento degli spiriti appartengono, di conseguenza, all’intera comunità e non a una determinata cerchia di carismatici. L’origine della profezia dallo Spirito, la confessione di Gesù Cristo come veramente incarnato, come “venuto nella carne” (cf. 1Gv 4,2), ma anche il fine dell’edificazione della chiesa, “perché tutti possano imparare ed essere esortati” (cf. 1Cor 14,31), rappresentano criteri teologici consolidati con i quali la comunità eucaristica discerneva e riconosceva la volontà di Dio, distinguendola dall’attività separatista dei falsi profeti2. Un altro approccio biblico al discernimento degli spiriti in rapporto alla situazione interiore dell’uomo considera l’occhio come lampada del corpo. Nel discorso della montagna (cf. Mt 6,22-24) è evidente la relazione tra discernimento e occhio. Nella concezione biblica tutto il corpo e in seguito, nella tradizione ascetica, l’anima e la mente, cioè tutta l’esistenza dell’uomo, diventano “interamente occhio”, cioè immagine e riflesso della realtà spirituale dell’esistenza umana. L’occhio, poiché accoglie e riflette la luce, diventa, in certo modo, l’organo della conoscenza e del discernimento dell’uomo. Se l’occhio, cioè la facoltà del discernimento spirituale, è semplice e puro, il corpo è luminoso. Viceversa, la mancanza di purezza nell’occhio, l’ottenebramento del discernimento, comporta una condizione di tenebra per tutto l’essere umano3.

2 “Carissimi, non prestate fede a ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. In questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo” (1Gv 4,1-3); “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1Ts 5,21-22); “Il nutrimento solido è per gli adulti, per quelli che, mediante l’esperienza, hanno le facoltà esercitate a distinguere il bene dal male” (Eb 5,14); “Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male” (Rm 16,19). 3 “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se

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Mantenendo quale orizzonte l’esperienza escatologica della chiesa e accentuando l’elemento profetico, la vita monastica anacoretica prese questo carisma del cristianesimo primitivo e lo pose al cuore della dura lotta ascetica.

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L’esperienza del discernimento nell’antica tradizione ascetica

Fin dalle origini della vita ascetica nel deserto, i giovani monaci erano soliti manifestare al loro padre spirituale i diversi pensieri della giornata. I demoni, onnipresenti nella letteratura neptica e ascetica, rappresentano la personificazione delle passioni e dei cattivi pensieri. “Chi vuole cacciare i demoni, soggioghi prima le passioni. Perché, quando si vince una passione, si caccia anche il suo demone”4. La scure con la quale si abbattono le passioni è il discernimento5. Il silenzio, ad esempio, è una forma particolare di estraneità: chiude la porta della lingua6 e impedisce di ferire il fratello. La parola è necessaria quando mira a confermare con il suo discernimento il fratello senza tuttavia umiliarlo. In nessun caso si devono manifestare i peccati dell’altro, perché questo finisce per diventare maldicenza e calunnia contro il prossi-

dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6,22-24); “La lampada del corpo è il tuo occhio. Quando il tuo occhio è semplice, anche tutto il tuo corpo è luminoso; ma se è cattivo, anche il tuo corpo è tenebroso. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra. Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore” (Lc 11,34-36). 4 Detti dei padri, Serie alfabetica, Pitiroun, in Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Roma 1997, p. 428. 5 Cf. ibid., Poimen 52, p. 385. 6 Cf. ibid., Pisto, pp. 425-426; Poimen 58, p. 386.

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mo, cosa che, secondo abba Or, comporta la morte dell’anima7. Per questo motivo i padri del deserto raccomandano:

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Non voler essere un giudice troppo severo di coloro che a parole danno grandi insegnamenti, se vedi che sono meno solleciti nel metterli in pratica: spesso infatti i benefici recati con la parola riescono a compensare la carenza di opere. Non tutti possediamo tutto in ugual misura: in alcuni infatti la parola supera le opere; in altri, al contrario, sono le opere a superare la parola8.

Il monaco non è un isolato. L’altro rappresenta un punto fermo della vita monastica. Il monaco è l’uomo sociale per eccellenza e i suoi rapporti, la sua comunione con gli altri, in quanto ascesi e disciplina di amore, passano attraverso il discernimento. La lotta ascetica del monaco si compie al confine tra la vita e la morte. Secondo Antonio: È dal prossimo che ci vengono la vita e la morte. Perché, se guadagniamo il fratello, è Dio che guadagniamo; e se scandalizziamo il fratello, è contro Cristo che pecchiamo9.

La custodia di una coscienza pura dinanzi al prossimo non solo “nell’azione, nelle parole, nell’atteggiamento o in uno sguardo”10, ma anche nei pensieri inconsci del cuore è un presupposto dell’ascesi monastica. Scopo dell’ascesi non è il diventare più duri, ma più miti. I padri del deserto erano spesso duri con se stessi, ma si mostravano con-

7 Cf. ibid., Or 15, p. 503; cf. anche Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali 4,50, in Id., Scritti e insegnamenti spirituali, a cura di L. Cremaschi, Roma 1980, pp. 100-102. 8 Giovanni Climaco, La scala XXVI/2,40, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, p. 391. 9 Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 9, p. 83. 10 Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali 3,44, p. 96.

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discendenti e benevoli con gli altri. Quando abba Mosè fu chiamato a Scete a giudicare un monaco che aveva peccato, si caricò di una cesta piena di sabbia; la cesta era forata e la sabbia scendeva dietro le sue spalle. Abba Mosè spiegò che essa rappresentava i suoi peccati che scorrevano dietro di lui senza che egli li vedesse e che, nonostante questo, era stato chiamato a giudicare i peccati di un altro11. E la dolcezza di abba Poimen, cantato come “fiaccola di discernimento” in un tropario della chiesa, era tale che quando gli fu chiesto se bisognava rimproverare un fratello caduto in peccato, rispose che lui al vederlo peccare, sarebbe passato oltre e avrebbe fatto finta di niente. Dice infatti che non solo non avrebbe svegliato un fratello che si fosse addormentato durante la veglia, ma che avrebbe messo la sua testa sulle proprie ginocchia per lasciarlo riposare12. Si dice ancora che il monaco che vive con altri non deve essere come un cubo, ma rotondo come una sfera per poter rotolare con amore verso tutti13. Nell’umanesimo del deserto, quando l’ascesi procura afflizione agli altri, uccide se stessa. E quando diventa fine a se stessa, costruisce intorno all’asceta muri invalicabili, crea una corazza invece di dilatare il cuore dell’uomo. La lotta ascetica è una spada a doppio taglio. Il grande Antonio afferma che l’ascesi, per quanto grande essa sia, quando è priva di discernimento allontana da Dio14. Come osservano spesso i padri, l’errore peggiore sarebbe quello di trasformare in passione la lotta contro la passione. Cassiano racconta che una volta in un’assemblea di anziani nella Tebaide si pose il problema di quale fosse la virtù più grande. E poiché altri abba definivano più grande il digiuno, la veglia, il non possedere nulla e varie altre virtù, il grande Antonio prese la parola e disse che molti mona-

11

Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Mosè 2, p. 324. Cf. ibid., Poimen 113; 92, pp. 400, 395. 13 Cf. ibid., Matoes 13, pp. 334-335. 14 Cf. ibid., Antonio 8, p. 83. 12

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ci, pur possedendo queste virtù, si allontanarono dal retto cammino, perché non possedevano il carisma del discernimento. Questa è la via regale che conduce l’uomo al discernimento del bene e del male, all’accettazione della volontà di Dio, facendogli evitare ogni eccesso da una parte e dall’altra. Il discernimento è infatti una specie di occhio e di lampada dell’anima, secondo la parola evangelica: “La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio: se dunque il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso, ma se il tuo occhio è tenebroso, tutto il tuo corpo sarà tenebroso” (cf. Mt 6,22-23)15.

Il discernimento è il timone della nostra vita e nella Scrittura è chiamato “consiglio”. È chiaro, continua Cassiano, che senza il carisma del discernimento nessuna virtù può essere raggiunta né può rimanere fino alla fine. I padri furono tutti d’accordo con la definizione e l’opinione di Antonio16. Il discernimento viene ad annullare la chiusura egocentrica dell’ascesi, a trasformarla in grazia e gioia per il dono e l’apertura autotrascendente dell’esistenza. La prima applicazione del discernimento concerne la stessa ascesi e la sua severità. Che senso avrebbe l’osservanza legalistica dello sforzo ascetico se portasse alla rovina del fratello debole? L’ascesi non è fine a se stessa e la salvezza non viene dallo smisurato dominio di sé che spesso indurisce l’uomo con la mancanza di discernimento e il suo senso del dovere. E inoltre il corpo per servire la vita spirituale abbisogna di cure e non di affaticamento e oppressione senza misura. “Bisogna fare tutto con discernimento e il misurare se stesso è discernimento e sicurezza per il

15 Giovanni Cassiano, A Leonzio igumeno, in La filocalia I, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1982, p. 160. 16 Cf. ibid., p. 161.

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pensiero perché in seguito non sia turbato”17. Con la virtù spirituale del discernimento, l’uomo raggiunge una purezza molto più grande di quella che offre il digiuno. Secondo Cassiano il guadagno che ricaviamo dal digiuno e dall’ascesi si trasforma in danno quando non è accompagnato dall’amore per il fratello:

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I digiuni, le veglie, la meditazione delle Scritture, la spogliazione dalle ricchezze e la rinuncia a tutto il mondo non costituiscono la perfezione, come già si è detto, ma sono piuttosto strumenti della perfezione stessa18.

Strumenti della mancanza di discernimento sono il formalismo e un errato senso del dovere. L’essenziale della vita in Cristo non sono le prestazioni eroiche dell’ascesi, ma l’avanzare seguendo la bussola del discernimento dei pensieri, quel modo di pensare carismatico che riconosce e accoglie la volontà di Dio. Il discernimento dei pensieri, degli stati spirituali, delle virtù e delle passioni, secondo i padri neptici, costituisce uno dei più eccelsi doni dello Spirito. Tale carisma è generato nell’uomo dall’umiltà ed è un frutto dell’ascesi e dell’obbedienza alla volontà di Dio. Secondo abba Isaia è impossibile che qualcuno ottenga il discernimento senza averlo prima ricercato con la lotta ascetica19. Esso è considerato padre e custode di tutte le virtù20. Giovanni Climaco afferma che “è discernimento la comprensio17 Barsanufio di Gaza, Lettere 621, in Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, a cura di M. F. T. Lovato e L. Mortari, Roma 1991, p. 507. “Con tutte le forze e con ogni zelo dobbiamo procurare di avere in noi l’eccellente carisma del discernimento: esso saprà custodirci immuni da ogni eccesso” (Cassiano, A Leonzio igumeno, p. 169); cf. le parole di Talassio citate da Callisto e Ignazio Xanthopouloi: “L’indigenza e le strettezze vissute con ragione e discernimento sono la via regale, mentre il maltrattare il corpo senza discernimento o la condiscendenza irrazionale sono dannose perché, da un lato e dall’altro, si procede contro ragione” (Metodo e canone rigoroso, in La filocalia IV, Torino 1987, p. 203). 18 Giovanni Cassiano, A Leonzio igumeno, p. 156. 19 Cf. Isaia di Gaza, Ascetikon 16,114, Grafitalica, s.l. e s.d., p. 173. 20 Cf. ibid.

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ne sicura della volontà di Dio in ogni tempo, luogo e circostanza”21. Spesso l’asceta è incerto e si chiede se identifica la propria volontà con la volontà di Dio. Il problema non è discernere e scegliere tra due o più possibilità, ma discernere l’unico e solo, “la sola cosa di cui c’è bisogno” (cf. Lc 10,42). Il discernimento, dunque, è una virtù22 che guida lungo le vie tortuose e i dilemmi della vita monastica, è una luce interiore con la quale l’anacoreta può avanzare sicuro verso la vita in Cristo e guardarsi dagli scogli dell’inganno demoniaco. Il discernimento costituisce una manifestazione interiore di stabilità, che tutto governa. Secondo Barsanufio il discernimento è un dono di Dio che, scandagliando la qualità e l’origine dei pensieri, dispiega ovunque la luce di Dio. Ogni pensiero che non ha la quiete dell’umiltà non viene da Dio23. Dice ancora: Se indaghi con scienza e discernimento, troverai sempre, in ciò che proviene dal diavolo anche se è ritenuto bene, che non c’è la minima traccia di bene, ma solo vanagloria o turbamento o qualcos’altro di simile24.

La lotta ascetica non è un combattimento contro i mulini a vento ma questione di vita e di morte. “Da’ sangue e prendi Spirito”25. Secondo abba Longino, l’asceta riconosce il dono e la grazia dello Spirito santo quando con la sua lotta fino al sangue vince la corruzione delle passioni. Nell’esposizione del loro pensiero sull’ascesi, i padri del deserto evitavano, di solito, di occuparsi di questioni e discussioni dog-

21

Giovanni Climaco, La scala XXVI/1,1, p. 353. Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Giovanni il Nano 34, pp. 240-241; cf. anche Isaia di Gaza, Ascetikon 7,12, p. 101. 23 Cf. Barsanufio di Gaza, Lettere 21, p. 97. 24 Ibid. 405, p. 370. Cf. ibid. 60, pp. 126-127; Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali 5,67, pp. 119-120. 25 Detti dei padri, Serie alfabetica, Longino 5, p. 299. 22

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matiche per non provocare contese e ostilità. Per la stessa ragione raramente affrontavano problemi di esegesi biblica per non essere trascinati in dispute26. Sebbene preferissero la prassi alla semplice teoria e spesso accettassero umilmente di essere accusati davanti a tutti, tuttavia di fronte all’accusa di eresia si comportavano con mirabile discernimento, perché “l’eresia è separazione da Dio e io non voglio essere separato da Dio”, dice abba Agatone27. Il timore di cadere nell’eresia li conduceva a cercare padri spirituali che avessero il dono del discernimento28. Il padre spirituale, l’abba o l’anziano come viene chiamato nella letteratura ascetica, è colui che conosce per esperienza la via della vita in Cristo e accetta di guidare e aiutare “con grande misericordia” i più deboli29. Dice Giovanni Climaco: Come chi non ha una guida è facile che sbagli strada, anche se è molto prudente, così chi percorre il cammino della vita monastica guidato solo dalla propria volontà è facile che si perda, anche se possiede tutta la sapienza di questo mondo30.

La paternità spirituale è uno strumento carismatico e profetico nella tradizione ascetica del monachesimo, perché non è di tutti guidare anche altri, ma solo di quelli ai quali è stato dato il divino discernimento, come dice l’Apostolo: il discernimento degli spiriti (cf. 1Cor 12,10) che separa il peggio dal meglio con la spada della Parola (cf. Ef 6,17; Eb 5,14)31.

26

Cf. ibid., Ammonio 2, pp. 133-134. Cf. ibid., Agatone 5, p. 113. 28 Cf. Barsanufio di Gaza, Lettere 538, p. 443. 29 Basilio di Cesarea, Regole morali 80,17, in Id., Opere ascetiche, a cura di U. Neri, Torino 1980, p. 206. 30 Giovanni Climaco, La scala XXVI/3,45, p. 406. 31 Gregorio Sinaita, Come l’esicasta deve vivere, in La filocalia III, Torino 1985, p. 606. 27

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Caratteri fondamentali della paternità spirituale sono il discernimento e l’amore. Il padre spirituale ha il carisma della profezia e quello del discernimento per manifestare la volontà di Dio, penetrando nelle segrete profondità dell’esistenza dell’altro. Nell’opera di discernimento dei pensieri diventa destinatario della volontà divina. Raggiungendo al di là delle apparenze la verità della persona umana, lotta facendo uso del discernimento per restaurare l’essere a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26). Secondo Cassiano, nella vita monastica non è possibile trovare altra via sicura di salvezza se non nel dichiarare i propri pensieri ai padri più capaci di discernimento e nel ricevere da loro le regole della virtù, evitando di seguire il proprio pensiero e il proprio criterio32.

Non si tratta semplicemente, tuttavia, di distinguere tra giusto e sbagliato, ma di qualcosa di più profondo. Il discernimento non concerne semplicemente il riconoscimento dei pensieri e della loro origine e i moti interiori, ma anche la terapia adeguata da adottare di volta in volta per combattere le passioni. Il discernimento dei pensieri non costituisce una specie di procedimento giudiziario, ma una via di conoscenza di sé. La vita psichica si apre all’umile rivelazione dei suoi moti più profondi e alla familiarità con la volontà di Dio. L’azione terapeutica del discernimento oltrepassa le capacità della natura e la percezione sovrasensibile dell’uomo e costituisce un dono e un frutto della grazia dello Spirito santo al padre spirituale e ai suoi figli, come risultato dell’incessante collaborazione ascetica. Ma il discernimento non consiste in un qualcosa di impersonale. È accoglienza amorevole dell’altro, grazie alla quale il padre spirituale assume i pesi e le angosce del suo figlio, soffre e pati-

32

Giovanni Cassiano, A Leonzio igumeno, p. 167.

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sce con lui33. Di abba Isidoro di Scete nei detti dei padri del deserto si racconta che

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se qualcuno aveva un fratello ostinato e debole, oppure negligente e protervo, e voleva cacciarlo, egli diceva: “Portatemelo qui”. Lo accoglieva e con la sua pazienza lo salvava34.

L’amore del padre spirituale per i suoi figli è tale che egli prega Dio di farlo entrare nel Regno con i suoi figli oppure di cancellarlo dal libro dei salvati35. Qui il discernimento del padre spirituale si rivela come disegno di amore, che volentieri mette da parte se stesso per amore dell’altro, per i suoi figli spirituali. E abba Barsanufio mostrò l’amore del padre spirituale quando scrisse a un anziano monaco malato queste parole: Fratello e diletto della mia anima, Andrea … Come Dio stesso sa, non c’è attimo, non c’è ora, in cui io non ti abbia nella mente e nella preghiera. E se io ti amo tanto, Dio che ti ha fatto ti ama molto di più. Io lo prego di guidarti e di governarti secondo la sua volontà36.

Il discernimento nella teologia dei padri greci

I primi padri del deserto erano principalmente contadini copti privi di formazione secolare. Sebbene non conoscessero la lingua e 33 “E dopo di lui (Dio), io ho steso sopra di te le mie ali fino ad oggi; e porto i tuoi pesi e i peccati e il tuo disprezzo delle parole che io ti rivolgo, e la tua negligenza” (Barsanufio di Gaza, Lettere 239, p. 270). 34 Detti dei padri, Serie alfabetica, Isidoro di Scete 1, p. 247. 35 Cf. Barsanufio di Gaza, Lettere 118, p. 184. 36 Ibid. 114, pp. 181-182.

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L’umanesimo del deserto …

la cultura greca, tuttavia non ignoravano i fondamenti della morale e del pensiero greco. La vita anacoretica nel deserto, come pure nelle scuole filosofiche del mondo antico, richiedeva una certa istruzione e formazione; accadeva però che nel deserto la ricerca di sapienza e cultura secolare si trasformasse in vita in Cristo, in ascesi per l’acquisizione delle virtù e in lotta contro le passioni. Quanti desideravano vivere la vita monastica andavano a cercarsi degli anziani già formati nella vita spirituale. I grandi padri del deserto, tranne alcune eccezioni, non scrissero ma tramandarono a parole e con l’esempio la loro esperienza spirituale. “Il padre Poimen disse: ‘Sta scritto: Testimonia ciò che i tuoi occhi hanno visto (cf. Pr 25,7). Ma io vi dico: non rendete testimonianza nemmeno di ciò che toccate con mano’”37. Nei detti dei padri del deserto si racconta che Arsenio, che era vissuto a corte, uomo di grande cultura e precettore dei figli di Teodosio I, quando gli fu chiesto perché cercasse risposte alle sue domande sui pensieri da un rozzo anziano egiziano, rispose: “Certo possiedo la cultura greco-romana, ma non ho ancora imparato l’alfabeto di questo semplice contadino!”38. L’abbecedario di quegli egiziani incolti per abba Arsenio era la conquista delle virtù attraverso le fatiche39. I padri greci avevano dunque strettamente unito la teologia dogmatica con la vita ascetica. Prassi e teoria, egiziani e greci, collaborarono per formare con la prassi e la teoria il fenomeno spirituale monastico che si diffuse in quasi tutto il mondo cristiano. Una ricca letteratura ascetica e neptica, proveniente dalla tradizione monastica, diede forma a partire dall’esperienza vissuta a quello che chiameremo civiltà o umanesimo del deserto. Basilio il Grande ritiene che non si possano interpretare le parole dello Spirito, cioè della Scrittura, attraverso la sapienza se37 38 39

Detti dei padri, Serie alfabetica, Poimen 114, p. 400. Ibid., Arsenio 6, pp. 95-96. Cf. ibid. 5, p. 95.

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colare. Sono indispensabili criteri teologici e soprattutto il carisma del discernimento dello Spirito santo40. Il teologo cappadoce, quando tratta il tema della conoscenza di sé, in accordo con l’esortazione veterotestamentaria “Veglia su di te” (cf. Dt 15,9), parla della virtù del discernimento come dell’occhio insonne dell’anima che osserva l’uomo intero e discende anche nelle profondità della sua esistenza41. Giovanni Climaco estende questa esortazione anche ai rapporti con gli altri, alla correzione sincera e piena di discernimento del fratello42. Come osserva Pietro Damasceno, il discernimento spirituale è un carisma, mentre il discernimento razionale e la conoscenza naturale sono “un insegnamento umano”43. Per Diadoco di Fotica il discernimento è la luce della vera conoscenza ed è un carisma dello Spirito santo. È, tuttavia, una conoscenza pratica che si manifesta nel raggiungimento di un amore per Dio e per il prossimo proporzionato all’umile purificazione dalle passioni44, poiché colui che ama Dio è conosciuto da Dio ed è trasformato dal suo amore, mentre nel suo cuore non smette di bruciare del fuoco di tale conoscenza d’amore. “Il discernimento è una lampada nelle tenebre”45. Il discernimento nei principianti, nel cammino della vita spirituale, è la retta conoscenza del proprio io, nei mediani è la sensibilità spirituale, che discerne infallibilmente il bene essenziale dal bene naturale e dal male. Nei perfetti il discernimento costituisce una conoscenza carismatica la quale ha la forza di penetrare e illuminare anche quanto di tenebroso vi è negli altri. È la conoscenza della

40 Cf. Saint Basile, Lettres 204,5, a cura di Y. Courtonne, Paris 1961, vol. II, pp. 176-178. 41 Cf. Id., Veglia su di te 2, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993 (Testi dei padri della chiesa 6), pp. 13-15. 42 Cf. Giovanni Climaco, La scala XXVI/2,16, p. 385. 43 Pietro Damasceno, Argomento del libro, in La filocalia III, p. 137. 44 Cf. Diadoco di Fotica, Discorso ascetico 6, in La filocalia I, p. 351. 45 Giovanni Climaco, La scala XXVI/2,22, p. 386.

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volontà divina in ogni situazione, in ogni luogo e in ogni circostanza46. Per questo Giovanni Climaco esorta: “In tutte le azioni, sia in quelle urgenti sia in quelle che richiedono di essere rimandate, ciò che dobbiamo valutare davanti al Signore è l’intenzione”47. Sebbene si tratti di un carisma e di un dono dello Spirito santo, ciononostante il discernimento dipende anche dalla collaborazione umana, nella misura in cui l’uomo lotta per custodire la purezza della sua coscienza e la santificazione del suo corpo. Per Simeone il Nuovo Teologo, il discernimento è l’occhio spirituale con il quale il padre spirituale vede nel proprio cuore ma anche nel cuore dei suoi figli in modo da poter compiere rettamente il suo lavoro. Esperto nell’arte spirituale e chiaroveggente, penetra nella profondità degli eventi e delle cose e può discernere anche i pensieri più inconsci del cuore, le più segrete inclinazioni della coscienza, i moti passionali e le fantasie dell’anima. Il discernimento, come carisma dello Spirito santo e contemporaneamente frutto di lotta ascetica e di conoscenza, rende il padre spirituale un “medico sapiente”, che può procedere alla retta diagnosi e alla cura delle passioni dell’anima48. L’intelletto, come organo conoscitivo e occhio dell’anima, nella misura in cui accoglie liberamente il dono dello Spirito santo, è illuminato dalla grazia e può, inoltre, discernere i pensieri buoni e divini da quelli malvagi e diabolici; e soprattutto, discerne e accoglie la volontà di Dio. Così discerne gli esseri, le creature sensibili e i pensieri “secondo natura”, cioè in accordo con il disegno divino. Questo costituisce esattamente la perfezione della conoscenza49. Tale funzione dell’intelletto non è una condizione naturale, ma opera e dono dello Spirito santo. Lo Spirito santo abita 46

Cf. ibid. XXVI/1,1, p. 353. Ibid. XXVI/2,5, pp. 381-382. 48 Cf. V. Christophoridis, Η πνευματικ< πατρ%της κατ6 ΣυμεIν τ;ν Ν>ο Θεολ%γο, Thessaloniki 1977, pp. 82-89. 49 Cf. Pietro Damasceno, Libro secondo. Ventiquattro discorsi sinottici 3, in La filocalia III, p. 201. 47

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come luce e riposa nell’intelletto dell’uomo e nei recessi del suo cuore, il quale è suggellato dalla divina bellezza. “La luce del tuo volto è impressa su di noi”, dice il salmista (Sal 4,7). Si tratta della luce della conoscenza e per questo l’apostolo Paolo esorta: “Non spegnete lo Spirito” (1Ts 5,19)50. Nonostante gli assalti delle passioni diaboliche, l’intelletto, attraverso la grazia dello Spirito e la preghiera rivolta a Gesù Cristo, perviene a fare esperienza di discernimento e a dilatare i limiti della conoscenza. L’intelletto “quando incomincia a essere frequentemente oggetto dell’operazione della luce divina, diventa tutto trasparente così da vedere la propria luce”51. Nella letteratura ascetica si dice che, quando l’intelletto è illuminato dalla luce di Cristo e dello Spirito diventa tutto intero una specie di occhio, che è illuminato e illumina, trasfigurando anche i sensi fisici del monaco. Secondo Gregorio Palamas, molti segni della divina illuminazione dell’intelletto si riflettono, con la collaborazione dello Spirito santo, anche sul corpo, cosicché la dimensione sensibile dell’esistenza umana non solo percepisce l’indicibile mistero della relazione con Dio, ma anche partecipa alla comunione con la divinità nel suo insieme52. Espressioni del tipo l’intelletto “è come un occhio dell’anima”53, oppure “essendo tutto occhio”, l’anima “tutta occhio” o “tutta luce”, “tutta spirito”54 o, ancora, il detto di Bessarione: “Il monaco deve essere come i cherubini e i serafini, tutto occhi”55, mostrano che l’illuminazione in Cristo e la trasparenza dell’esistenza sono il più alto grado della conoscenza spirituale.

50

Cf. Diadoco di Fotica, Discorso ascetico 28, p. 358. Ibid. 40, p. 363. 52 Cf. Gregorio Palamas, Confutazioni di Acindino 7,36, in Id., Dal sovraessenziale all’essenza, a cura di E. Perrella, Milano 2005, p. 53. 53 Id., Triadi I,3,9, in Id., Atto e luce divina, a cura di E. Perrella, Milano 2003, p. 381. 54 Cf. Pseudo-Macario, Omelie spirituali 1,2; 4,1-2.7; 8,3; 15,38, in Id., Spirito e fuoco, a cura di L. Cremaschi, Bose 1995, pp. 55-57, 81-82, 86-88, 136-137, 206. 55 Detti dei padri, Serie alfabetica, Bessarione 11, p. 152. 51

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L’intelletto, insomma, è l’occhio del discernimento spirituale del cuore56. La grazia divina fin dal battesimo abita segretamente nelle profondità dell’intelletto e del cuore57, dove ha sede il ripostiglio dei pensieri, e offre la sottigliezza del discernimento dei pensieri, per quanto dopo la caduta di Adamo la memoria dell’uomo sia sottoposta a una tragica disgregazione. L’intelletto per primo, in quanto autonomo, è sottoposto alle tragiche conseguenze dell’allontanamento da parte di Dio e insieme alla caduta ha fatto proprie anche le tenebre di quest’ultima. La grazia del battesimo, tuttavia, rinnova nell’uomo il suo essere “a immagine” (cf. Gen 1,26). Ma l’“a somiglianza” esige la collaborazione dell’uomo. “Quando l’intelletto incomincia a gustare, con una sensazione profonda, la bontà dello Spirito santo, allora dobbiamo sapere che la grazia incomincia come a dipingere, nell’immagine, la somiglianza”58. Secondo la tradizione filocalica ed esicasta, insomma, tale esperienza carismatica si compie quando l’intelletto, andando oltre se stesso, “vede Dio nello Spirito”59. Il discernimento è la luce che risplende nelle tenebre di questo mondo e guida alla vera luce, alla vita, alla verità che sono la persona di Cristo (cf. Gv 14,6). Cristo è la luce vera (cf. Gv 1,9), la luce della vita, la luce del mondo (cf. Gv 8,12). “Dio che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’ (Gen 1,3), rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio [che rifulge] sul volto di Cristo” (2Cor 4,6)60. La gnoseologia del discernimento spirituale non è un misticismo astratto, ma è conoscenza eminentemente personale. La grazia di Dio, in quanto luce ipostatica inseparabile dallo Spirito santo, si dona e rinnova perso-

56

Cf. Pseudo-Macario, Omelie spirituali 4,2; 43,7, pp. 81-82, 376-377. Cf. Diadoco di Fotica, Discorso ascetico 78, pp. 379-380. 58 Ibid. 89, p. 387. 59 Gregorio Palamas, Triadi II,3,11, p. 637. Vedi anche S. Yangazoglou, Κοινωνα 57

θε5σεως. Η σνθεση Χριστολογας κα) Πνευματολογας στ; Kργο το Lγου Γρηγορου το Παλαμ#, Athinai 2001, pp. 450-456. 60

Cf. anche Mt 5,14; Sal 35 (36),10; Gv 8,12.

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nalmente concrete esistenze umane61. Il discernimento si rivela così come un’esperienza eminentemente cristocentrica e non una divinazione santificata o una facoltà naturale. Di conseguenza, costituisce un segno di riconoscimento della vita sacramentale del corpo ecclesiale e distingue l’esperienza della vita ascetica in Cristo da ogni altra esperienza mistica non cristiana. Tanto il carattere liturgico della preghiera mentale, quanto la vita sacramentale degli asceti costituiscono la base e il presupposto ecclesiologico del discernimento spirituale. Si tratta, certamente, del mistero della sinergia divino-umana nella vita in Cristo. Per i padri del deserto, la vita eucaristica era un fondamento sicuro e il presupposto imprescindibile della vita ascetica, mentre rifuggire dai santi misteri a motivo di eccessi ascetici era sinonimo di disprezzo, di arroganza, di inganno e di ottenebramento della mente62. Abba Poimen disse: “Sta scritto: ‘Come la cerva anela alle fonti delle acque, così l’anima mia brama a te, o Dio’ (cf. Sal 41 [42],2). Come i cervi nel deserto divorano molti rettili e, quando il veleno li brucia, bramano venire alle acque e, dopo aver bevuto, trovano sollievo dal veleno dei rettili, così anche i monaci che vivono nel deserto sono arsi dal veleno dei demoni malvagi e bramano il sabato e la domenica per venire alle fonti delle acque, cioè al corpo e al sangue del Signore, per essere purificati dall’amarezza del Maligno63.

61

Cf. Pseudo-Macario, Omelie spirituali 11,3, pp. 154-155. Vedi S. Yangazoglou,

Προλεγμενα στ θεολογα τν κτστων νεργειν, Katerini 1992; Id., “The Person

in the Trinitarian Theology of Gregory Palamas. The Palamite Synthesis of a Prosopocentric Ontology”, in Philoteos. International Journal for Philosophy and Theology 1 (2001), pp. 137-143. 62 Cf. Palladio, Storia lausiaca 25-27, a cura di G. J. M. Bartelink, Firenze-Milano 1974, pp. 134-143. 63 Detti dei padri, Serie alfabetica, Poimen 30, p. 380.

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L’umanesimo del deserto …

Lungi dalla spiritualità neoplatonizzante di Origene e di Evagrio, la gnoseologia ascetica è profondamente sacramentale e personale. La conoscenza di Cristo non si realizza nell’ambito dell’intelletto incorporeo e della mente, ma personalmente e fisicamente attraverso l’eucaristia. “Il cristianesimo è cibo e bevanda, e quanto più uno ne gusta, tanto più il cuore è invogliato dalla sua dolcezza, non conosce freno né sazietà, richiede cibo e mangia senza sfamarsi”64. La divina grazia increata fattasi carne entra nell’uomo e quando, con la collaborazione ascetica, l’intelletto diventa “un solo spirito” (1Cor 6,17) con Cristo, allora si trasforma e diventa tutto occhio, tutta luce e tutto spirito65. Nell’ethos ascetico della tradizione ortodossa, la collaborazione umana e la vita sacramentale, che ha al suo centro la comunità eucaristica, costituiscono due componenti ecclesiologiche che si influenzano reciprocamente. Un’esperienza della grazia divina, come esercizio autonomo o univoco del discernimento spirituale, non può esistere fuori della vita liturgica e sacramentale della chiesa né può oltrepassarla. L’ascesi monastica nel suo valore gnoseologico e in quello terapeutico è strettamente legata all’eucaristia. Nelle grandi sintesi dei padri greci, a partire dai cappadoci, passando attraverso Giovanni Crisostomo, Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore fino a Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio Palamas e Nicola Cabasilas, il pensiero teologico dell’oriente cristiano afferma che nessuna esperienza mistica e nessuna “spiritualità”, ma neppure l’esercizio della paternità spirituale e del discernimento, possono essere compresi nella chiesa se non hanno quale fondamento e riferimento la vita eucaristica della comunità ecclesiale66. 64

Pseudo-Macario, Omelie spirituali 17,13, p. 232. Cf. I. Popovic´, Τ; πρ%βλημα τ"ς προσωπικ%τητας κα) τ"ς γν5σεως κατ6 τ;ν Mγιον Μακριον τ;ν Αγπτιον, Athinai 1926, pp. 102-106. 66 Cf. S. Yangazoglou, “Ε4χαριστιακ +Εκκλησιολογα κα μοναστικ πνευματικτητα. Τ πρβλημα το. γεροντισμο.”, in AA.VV., +Αναταρξεις στ< θεολογα το ’60, Athinai 2008. 65

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Il discernimento nel nostro tempo

Il significato biblico e ascetico del discernimento è molto diverso da ciò che i più oggi ritengono. Nella nostra epoca è considerato dotato di discernimento chi affronta le situazioni con delicatezza e cortesia, con modi gentili. La discrezione è una questione di tatto o di contegno nobile e si collega a una buona formazione ed educazione. L’uomo di discernimento secondo il mondo mette in atto abili strategie quando vuole aver successo in situazioni difficili, attento a non creare problemi né a se stesso né agli altri. E infine, il discernimento, secondo la visione mondana contemporanea, non si allontana di molto dal discernimento morale del bene e del male proprio del mondo antico, in quanto viene spesso inteso come discernimento tra giusto e sbagliato, utile e dannoso. La contemporanea psicologia del profondo e la psicanalisi cercano di discernere l’origine, l’identità e l’attività del subconscio e dell’inconscio nell’ambito della salute psichica. Le radici irrazionali dell’anima, dove agiscono gli istinti abissali e le passioni, le rimozioni e le sostituzioni, i diversi intrecci psicologici e i dedali della fantasia, si plasmano ai confini della coscienza. Il desiderio di afferrare il tenebroso mondo invisibile dell’anima è qualcosa che intriga l’uomo contemporaneo, particolarmente quello occidentale. Il discernimento spirituale, invece, ritiene che nulla sia inconscio, ma presuppone la vigilanza neptica e la conversione. Ed è un carisma non solo perché discerne il bene dal male, ma anche perché, nel discernimento dei pensieri, cioè nella conoscenza della volontà di Dio e nella libera e attiva conoscenza e accoglienza di essa, le potenze naturali o mentali dell’uomo non sono sufficienti, ma sono sorrette dalla sinergia della grazia divina. Non si tratta di un’astratta deontologia o anche di una vaga idea del bene, ma della rivelazione di Cristo come verità enipostatica e personale 114

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L’umanesimo del deserto …

degli esseri. Cristo diventa la nostra sottigliezza interiore, il Regno dentro di noi (cf. Lc 17,21)67. Le impenetrabili tenebre della vita umana sono rischiarate dalla luce radiosa che con la sua venuta ci permette di discernere i pensieri dei nostri cuori e di volgerci liberamente verso la verità. Tale chiarezza è un dono e per mezzo di essa si manifesta la luce di Dio ma anche la bellezza dell’uomo prima di qualunque comprensione razionale e comando giuridico. La morte e la corruzione, questo diabolico annientamento dell’esistenza, sopraffanno la sottigliezza e la trasparenza che dona lo Spirito santo. Il discernimento spirituale diventa pregustazione delle realtà ultime, donando la luce trasparente della resurrezione che brilla senza tramonto nei cuori degli uomini68. Nel nostro tempo, il discorso relativo all’ascesi e al discernimento spirituale è all’ordine del giorno. Una vera patologia della paternità spirituale69 e del discernimento e, d’altro lato, un ritorno positivo alla tradizione ascetica e neptica sembrano zampillare dal fianco di una rinnovata gnoseologia evagriana e origeniana. Il problema dei padri spirituali nell’odierna ortodossia, la radicalizzazione dell’antagonismo tra gerarchia istituzionale e fattore carismatico, tra vescovi e monaci, tra vita eucaristica e purezza ascetica, il culto della personalità nella vita pastorale e spirituale, l’obbedienza cieca e l’oppressione delle coscienze da parte di anziani “carismatici”, la confusione dell’obbedienza monastica con l’obbedienza dei cristiani che vivono nel mondo, l’ipersensibilità, il vanto e lo sfoggio di carismi da parte del padre spirituale, la ricerca insistente di un anziano dioratico e preveggente e di altri fenomeni simili che possono anche essere malsani, manife-

67

Cf. K. Ware, Riconoscete Cristo in voi?, Bose 1994. Cf. S. Ramphos, Πελεκνοι .ρημικο. Ξενγησι στ; Γεροντικ%ν, Athinai 1994, pp. 373-388. 69 Cf. K. Ware, Riconoscete Cristo in voi?, pp. 65-96; S. Koutsas, Ο πνευματικ;ς πατOρ. Η πνευματικ< πατρ%της Pπ; τ; φ5ς τ"ς Qρθοδ%ξου παραδ%σεως, Eghion 2000. 68

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stano quanto meno un disordine e una confusione nell’ambito spirituale, che aveva già segnalato l’apostolo Paolo nella Prima lettera ai Corinti. Il discernimento degli spiriti si rivela uno strumento indispensabile nella confusione degli spiriti che caratterizza il nostro tempo.

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LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE MONASTICA OCCIDENTALE

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Michel Van Parys*

Il titolo dato a questa conferenza sfida il semplice buon senso. Non basterebbero alcuni volumi a delineare i contorni di una tradizione vissuta di cui non possediamo se non le tracce scritte, seppure molto abbondanti. Come nell’oriente cristiano, la paternità e la maternità spirituale nel monachesimo latino rientrano nell’ambito del mistero della generazione carismatica alla vita in Cristo. Le sue modalità sono imprevedibili e infinitamente varie, perché sempre personali, e suscitate dallo Spirito. Eppure, sull’esempio delle genealogie nella Bibbia, possiamo discernere alcune grandi “discendenze” spirituali, alcune famiglie spirituali. Aggiungiamo anche che la vita monastica è lungi dall’essere l’unica “discendenza” spirituale nella chiesa latina. Basti ricordare Francesco di Assisi, Domenico di Guzman, Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce e tanti altri.

* Monaco benedettino, è stato abate del Monastero di Chevetogne (Belgio) e consultore della Congregazione per le chiese orientali. Traduzione dall’originale francese.

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Introduzione

È meglio dunque limitarsi a una grande figura di padre spirituale del monachesimo occidentale. La prima che viene in mente, naturalmente, è quella di Benedetto di Norcia. Per chi vive nella sua tradizione monastica resta un padre vicino e amato. Del resto, la sua influenza sul monachesimo latino è stata profonda e durevole, fino a oggi. Benedetto visse nell’Italia centrale in un tempo di disordini politici ed economici. Nato a Norcia verso il 480, dopo aver studiato per qualche tempo a Roma, fa un primo tentativo di vita ascetica, seguito ben presto da un ritiro eremitico di tre anni. Eletto abate della comunità di Vicovaro sperimenta un doloroso fallimento. Ritornato nella solitudine, la sua personalità carismatica raduna ben presto gruppi di discepoli a Subiaco. A una data difficile da stabilire, lascia queste prime fondazioni per Montecassino, dove fonda una nuova comunità. Il suo irradiamento spirituale si estende tuttavia al di là del suo monastero. Muore tra il 550 e il 560. È dunque contemporaneo, in questa prima metà del vi secolo, dei grandi monaci di Gaza, Barsanufio, Giovanni e Doroteo. È importante osservare che Benedetto, più di due secoli dopo il ritiro di Antonio il Grande nel deserto, si considera come l’umile discepolo dei padri monastici che l’hanno preceduto1. Due sono le testimonianze scritte in nostro possesso su Benedetto: la Regola redatta da lui stesso, che da molti dettagli rivela di essere frutto di una elaborazione progressiva, e la Vita raccontata da Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi, vera icona letteraria costruita a partire dalle testimonianze raccolte presso i figli spirituali del santo patriarca dei monaci di occiden-

1 Cf. Regola di Benedetto 73, in Regole monastiche d’occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Torino 2001, pp. 263-264.

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La paternità spirituale nella tradizione monastica occidentale

te. La tradizione monastica latina ha considerato complementari questi due scritti. Quali che siano i problemi sollevati dalla storiografia moderna, la tradizione spirituale vivente li ha ricevuti insieme, come testi che si chiariscono a vicenda. L’oriente bizantino ha conosciuto la Vita grazie alla traduzione dal latino al greco di papa Zaccaria († 752). Questa traduzione greca, che ha goduto di una grande diffusione, è stata tradotta a sua volta, intorno ai secoli ix-x, in slavo antico e, più tardi, in georgiano e in armeno. Alcuni estratti della Vita si trovano in alcuni grandi florilegi spirituali bizantini, ad esempio in quelli di Paolo Everghetinos e di Nicone della Montagna Nera. La liturgia bizantina fa memoria di Benedetto il 14 marzo. È dunque un santo monaco della chiesa indivisa. Benedetto è l’erede di una tradizione spirituale precedente. Lui stesso cita esplicitamente i suoi modelli: i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, i padri del deserto, Giovanni Cassiano, Basilio il Grande2. La Vita racconta che all’inizio della sua esperienza eremitica egli ricevette l’abito monastico da un monaco di nome Romano, lui stesso discepolo di un certo abba Adeodato. Il monaco Romano gli porta di nascosto provviste di pane e, certamente, lo inizia alla lotta spirituale 3. Benedetto, a sua volta, dà inizio a una tradizione di paternità spirituale. Bisognerebbe evocare qui la pleiade dei grandi santi monaci di questa tradizione molto varia, da Gregorio Magno al beato Columba Marmion, passando per Bernardo di Clairvaux, Romualdo, Giovanni Gualberto, e molti altri.

2 3

Cf. ibid. Cf. Gregorio Magno, Dialoghi II,1,4-5, a cura di B. Calati, Roma 2000, pp. 138-141.

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La paternità spirituale di Benedetto secondo Gregorio Magno: un primo sguardo

La Vita, come ha ben dimostrato padre Adalbert de Vogüé, è “un’icona letteraria” della vita di Benedetto. Essa descrive l’ascesa spirituale del patriarca dei monaci di occidente, dalla rinuncia al mondo fino alla morte e all’ingresso nella gloria. Una lettura superficiale si lascia innanzitutto impressionare dai miracoli compiuti dal santo. Una lettura attenta scopre poi le tappe della sua lotta spirituale: la vittoria sulle pulsioni della lussuria e della collera, l’amore per i nemici, la compassione per i poveri e i malati, la conoscenza dei cuori, la pazienza, la visione mistica della santa morte. Alla fine della Vita, Gregorio Magno menziona il fatto che Benedetto ha scritto una Regola (kanón in greco!). Il papa, di cui si può ragionevolmente pensare che visse nella tradizione della paternità spirituale di Benedetto, caratterizza la Regola lasciata da Benedetto con due tratti: un notevole discernimento e una dottrina spirituale frutto di un’autentica esperienza. “Egli scrisse una Regola per i monaci, insigne per il suo discernimento”4. Queste poche parole richiedono una serie di considerazioni. La parola regula nel latino tardo cristiano possiede una ricchezza di significato ben più vasta del termine italiano “regola”. La regula è anzitutto l’insieme delle norme e dei comandamenti di vita che la parola di Dio nelle sante Scritture impone alla vita dei cristiani e dei monaci e delle monache. La regula indica anche la tradizione orale in una società monastica5. La Vita di Antonio, redatta da Atanasio di Alessandria, diventa una re-

4

Ibid. II,36, p. 209. “La comune regola del monastero”, “Communis monasterii regula” (Regola di Benedetto 7,55, p. 214). 5

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La paternità spirituale nella tradizione monastica occidentale

gula esemplare per i monaci. La parola dell’abba può divenire una regula. Infine, ed è il senso abituale di regula oggi, essa indica la regola, cioè uno scritto normativo per monaci e monache e per i loro superiori che prescrive come pregare e lavorare, obbedire e vivere insieme nella concretezza della vita quotidiana. Questa regola, nel caso di Benedetto, si ispira a tradizioni monastiche anteriori. Come ogni riformatore monastico, Benedetto ha operato un discernimento all’interno di queste tradizioni e di queste consuetudini monastiche copiose e parzialmente divergenti. Ai suoi occhi la via del monaco è quella dell’umile obbedienza, perché questa è stata la via di Cristo. L’umiltà è il cuore mistico della Regola6, così come lo è nella Lettera ai figli di Dio di Macario l’Egiziano7, e la si vive nell’obbedienza e nel servizio8. È in questo senso che il discernimento di Benedetto è “insigne”. Il suo senso della misura ne è il frutto. Papa Gregorio sottolinea inoltre che la Regola scritta da Benedetto è frutto della sua esperienza vissuta: “Il santo non poté nel modo più assoluto insegnare (papa Zaccaria traduce in greco ‘insegnare o formare’) diversamente da come visse”9. La doctrina (insegnamento o formazione), unita all’esempio della conversione (cf. At 1,1), la si ritrova come criterio nell’elezione dell’abate10 e del servizio abbaziale11. Ne riparleremo come riparleremo della figura di Benedetto in quanto padre spirituale nella Vita.

6

Ibid. 7, pp. 209-215. Cf. Saint Macaire l’Égyptien, Lettre à ses fils, in Lettres des Pères du désert, a cura di A. Louf, Bellefontaine 1985, pp. 72-81; in italiano, ampi stralci sono riportati nelle Virtù di san Macario, a cura di L. Cremaschi, Bose 1996. 8 Cf. Regola di Benedetto 5, pp. 207-208. Vedi anche 71,2 (p. 262): “Sapendo che attraverso questa via dell’obbedienza andranno a Dio”. 9 Gregorio Magno, Dialoghi II,36, p. 209. 10 Cf. Regola di Benedetto 64,2, p. 257. 11 Cf. ibid. 2,4-5.11-12, pp. 200-201. 7

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L’abate come padre spirituale nella “Regola” (RB 2 e 64)

Il capitolo 2 della Regola propone un ritratto dell’abate. Il capitolo 64, parlando dell’elezione dell’abate da parte della comunità, propone un nuovo ritratto dell’abate. I tratti essenziali restano gli stessi: responsabilità, insegnamento ed esempio, guida del gregge di Cristo, fermezza e condiscendenza nella prassi pastorale. La Regola di Benedetto 64 addolcisce tuttavia i tratti dell’abate, servitore di Cristo e dei suoi fratelli. La sua sapiente prudenza, il suo discernimento tinto di discrezione e la sua misericordia sono maggiormente sottolineati. Indubbiamente Benedetto nel corso dei lunghi anni del suo servizio abbaziale ha subito un’evoluzione nel senso di una maggior bontà. Si potrebbe del resto supporre che Benedetto si sia lasciato ispirare sempre di più nel corso degli anni dai modelli di autorità nella chiesa raccomandati da Basilio il Grande e da Agostino di Ippona. Un abate che sia degno di presiedere un monastero deve ricordarsi sempre di come viene chiamato, e adempiere con i fatti al suo nome di superiore. Crediamo, infatti, che egli compia nel monastero le veci di Cristo (Christi vices agere creditur), poiché viene chiamato con lo stesso nome di lui, come dice l’Apostolo: “Avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi, nel quale gridiamo: ‘Abba, padre’” (Rm 8,15; cf. Gal 4,6)12.

Il modello dell’abate benedettino è il Cristo-Padre. Benedetto non fa che riprendere su questo punto una tradizione patristica molto antica. Cristo è il padre e il maestro di ogni cristiano, perché la sua croce e la sua resurrezione lo generano alla vita vera e poiché il suo Spirito gli insegna la dottrina della vita. Il prologo

12

Ibid. 2,1-2, p. 200.

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della Regola lo conferma. Non si sa se è Cristo o l’abate che prende la parola e designa se stesso come “maestro” (“magister”) e come “padre affettuoso” (“pius pater”)13. Tutta la dottrina implicita di Benedetto sulla paternità spirituale dipende da una convinzione fondamentale: la paternità spirituale dell’abate, e come vedremo degli “anziani spirituali” (“seniores spirituales”)14 dipende dalla paternità spirituale di Cristo. Questo spiega anche i severi avvertimenti rivolti da Benedetto all’abate che può fallire nel suo servizio. Tutte le altre indicazioni sul padre spirituale deriveranno da questa visione principale. L’abate insegna. Non insegna una propria dottrina, ma quella dell’unico Maestro, il Cristo Gesù: “L’abate non deve insegnare né stabilire o comandare nulla che sia estraneo al comandamento del Signore”15. L’abate è dunque un maestro solo nella misura in cui egli stesso si fa discepolo del Maestro, il Cristo. La Parola, Gesù in persona, nella forza dello Spirito santo, grida e interpella i monaci a vivere nell’obbedienza all’evangelo. Al centro del prologo della Regola si trova l’espressione “sotto la guida dell’evangelo”16. L’abate, anche lui, è dapprima un discepolo all’ascolto del Signore e di ciò che lo Spirito dice alle chiese17. La “doctrina abbatis”, l’insegnamento dell’abate, è l’applicazione, fatta con discernimento, della legge di Dio e si rivolge sia a ciascun monaco nella sua concreta situazione spirituale, psicologica e fisica, sia alla comunità tutta intera. La predicazione della parola di Dio raduna la comunità intorno a Cristo e insegna a ciascuno a non preferire nulla all’amore di Cristo18. La paternità spirituale dell’abate, a immagine di quella di Cristo, è la paternità del buon pastore. Benedetto ha affrontato si13

Ibid. 2,24, p. 202. Cf. ibid. 46,5; 48,10, pp. 241-242. 15 Ibid. 2,4, p. 200. 16 “Per ducatum evangelii” (ibid., Prologo 21, p. 196). 17 Cf. ibid., Prologo 11, p. 196. 18 Cf. ibid. 4,21; 72,11, pp. 205, 263. 14

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tuazioni dolorose. In seno alla comunità possono sorgere conflitti in occasione dei quali l’abate dovrà correggere e anche sanzionare dei monaci, privandoli della preghiera liturgica e della mensa comune. Ma questo dovere di correzione non lo dispensa dal correre alla ricerca della pecora perduta19. Egli invierà dei monaci provati a consolare il fratello ribelle, che non è un delinquente ma un malato. Mostrerà grande compassione per lui e lo ricondurrà alla comunione fraterna (cf. Lc 15,4-7). Benedetto si mostra energico nel correggere le colpe e i vizi, e richiama l’esempio del sacerdote Eli a Silo (cf. 1Sam 2,17-34; 3,11-14; 4,12-18). La correzione sarà tuttavia proporzionale alla gravità delle colpe e alla capacità di comprensione dei fratelli. Il capitolo 2 è rigoroso. Bisogna troncare i peccati alla radice20. Il capitolo 64, più misericordioso, raccomanda di correggere con prudenza e senza eccessi21, perché l’abate deve odiare i vizi e amare i fratelli22. Ogni correzione, infatti, ha uno scopo terapeutico. L’abate è invitato a prendersi cura delle persone che Cristo gli affida. Il vocabolario della sollecitudine pastorale ritorna spesso: “cura”, “sollicitudo”, “diligentia”. Questa sollecitudine concerne le persone, ma anche il bene della comunità. Un passo del capitolo 64 è particolarmente eloquente a questo proposito. L’abate anche nei suoi ordini sia previdente e riflessivo; e sia che i lavori che egli assegna riguardino Dio sia che riguardino il mondo, agisca con discernimento e misura, considerando la discrezione del santo Giacobbe, che disse: “Se farò affaticare ancora le mie greggi a camminare moriranno tutte in un solo giorno” (Gen 33,13)23.

19

Cf. ibid. 27, pp. 227-228. Cf. ibid. 2,26, p. 202. 21 Cf. ibid. 64,12-15, pp. 257-258. 22 Cf. ibid. 64,11, p. 257. 23 Ibid. 64,17-19, p. 258. 20

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Il discernimento è la virtù-madre24. Bisogna avanzare sul cammino verso il Regno insieme25, senza scoraggiare i fratelli più deboli a causa del ritmo forzato, senza esasperare i più fervorosi con la lentezza del cammino. La scelta che la gestione materiale del monastero dipenda dalla responsabilità spirituale dell’abate è propria di Benedetto. Certamente l’abate deve delegare i diversi compiti ai fratelli, al cellerario, all’infermiere, a chi è incaricato di suonare la campana… ma tutto ha una portata spirituale in questa casa di Dio che è il monastero. “Tutti gli oggetti e tutti i beni del monastero [il cellerario] li consideri come i vasi sacri dell’altare”26. La Regola vede tuttavia anche il pericolo di questo approccio olistico: l’abate, padre spirituale della comunità, può essere tentato di dare maggior importanza al benessere materiale che alla crescita spirituale del monastero27. La tranquillità della comunità, la pax benedictina, dipende dal buon ordine (ordo nel senso agostiniano di armonia) delle cose e dei servizi. Il concatenamento dello spirituale con il materiale si esprime magnificamente in una frase del capitolo dedicato all’accoglienza degli ospiti: Le stanze degli ospiti siano assegnate a un fratello la cui anima possieda il timor di Dio. Vi siano letti sufficientemente coperti. E la casa di Dio sia amministrata con sapienza da persone sapienti28.

L’abate nel suo servizio corre rischi per la propria anima. Benedetto non idealizza il padre spirituale. Deve aver sempre presente che è egli stesso un peccatore, un uomo fragile29. Per questo la24

Cf. ibid. 64,19, p. 258. Cf. ibid. 72,12, p. 263. 26 Ibid. 31,10, p. 230. 27 Cf. ibid. 2,33-34, pp. 202-203. 28 Ibid. 53,21-22, p. 247. 29 Cf. ibid. 64,13, p. 257. 25

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scerà più spazio alla misericordia che alla severità30. A forza di predicare la parola di Dio agli altri, finirà per obbedirle anche lui31. Ci è già stato detto che l’abate non deve sottrarsi alla sua responsabilità spirituale preoccupandosi più degli aspetti materiali che del bene spirituale32. La paternità dell’abate non deve trasformarsi in tirannia: “Deve essere ben consapevole che si è assunto la responsabilità di curare delle anime malate, e non un dominio dispotico su delle sane”33. Il terribile capitolo 65 della Regola sui conflitti devastanti tra l’abate e il suo vice si conclude con un avvertimento sulla gelosia: “L’abate, tuttavia, rifletta che di tutti i suoi giudizi dovrà rendere conto a Dio, perché non accada che il fuoco dell’invidia o della gelosia faccia ardere la sua anima”34. L’abate, coscientemente o incoscientemente, può soccombere alla gelosia. La gelosia, in colui che è investito di un’autorità, lo spinge a non rispettare la crescita dell’altro, a misconoscere l’opera dello Spirito in lui. La gelosia tra padri spirituali non è rara. Benedetto si mostra attento anche alla salute psichica dell’abate: “Non sia agitato e ansioso, non sia esagerato e ostinato, non sia geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai riposo”35. Uno dei tratti della Regola che più colpiscono è la sua insistenza sul giudizio di Dio: l’abate renderà conto, come l’economo della parabola (cf. Lc 12,41-46)36, di ogni suo atto davanti al tribunale di Dio. Sarà giudicato: non deve mai dimenticarselo. Quest’ultimo tratto spiega infine l’importanza che riveste per Benedetto la consultazione della comunità da parte dell’abate. Non si tratta tanto di un’anticipazione della democrazia, ma di una disponibilità allo Spirito santo nella ricerca della volontà

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Cf. ibid. 64,10, p. 257. Cf. ibid. 2,13.40, pp. 201, 203. 32 Cf. ibid. 2,33-36, pp. 202-203. 33 Ibid. 27,6, pp. 227-228. 34 Ibid. 65,22, pp. 259-260. 35 Ibid. 64,16, p. 258. 36 Cf. ibid. 64,7, p. 257. 31

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di Dio. L’abate consulterà per problemi importanti tutta la comunità radunandola in capitolo e per quelli meno importanti il consiglio degli anziani37. Il capitolo 3 della Regola, nel corso della storia, ha dato luogo a sviluppi istituzionali importanti, di tipo giuridico, che limitano il potere dell’abate. Quello che ci interessa in questa sede è osservare che un certo diritto monastico – le Costituzioni – protegge e garantisce la libertà cristiana delle persone, pur rimanendo aperto all’imprevedibile visita di Dio. Così un monaco straniero, di passaggio nella comunità, può essere inviato da Dio per correggerla: Se poi con ragionevolezza e nell’umiltà della carità critica o fa notare qualcosa, l’abate rifletta prudentemente se forse il Signore non glielo abbia mandato proprio per questo38.

Si potrebbe affinare a lungo questo ritratto dell’abate come padre spirituale nella Regola di Benedetto. Ci basti ricordare un fatto evidente: Benedetto ha fondato monasteri di cenobiti. Ha consapevolmente scelto di riunire idealmente nella persona dell’abate il superiore della comunità e il padre spirituale. Questa scelta tuttavia è moderata dalla presenza – sperata – nella comunità monastica di anziani spirituali.

Gli anziani spirituali

Gli anziani svolgono un ruolo importante nella comunità monastica. Sono oggetto di venerazione nel monastero39. 37 38 39

Cf. ibid. 3, pp. 203-204. Ibid. 61,4, pp. 253-254. “Seniores venerare” (ibid. 4,70, p. 206).

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Il loro ministero è anzitutto spirituale. In un capitolo consacrato alla confessione spontanea delle mancanze commesse nell’ambito dei lavori materiali, Benedetto parla delle colpe nascoste40. Dice:

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Se invece si tratta di un peccato dell’anima, la cui materia è rimasta nascosta, la manifesti solo all’abate o ad anziani spirituali, a chi, cioè, sappia curare le ferite sia proprie che altrui senza scoprirle e renderle pubbliche41.

Due osservazioni si impongono immediatamente: l’abate non è l’unico padre spirituale in comunità e non tutti i monaci anziani sono padri spirituali. Benedetto si riferisce all’apertura del cuore che egli non limita ai soli fratelli giovani. Tutti devono ricorrervi. L’aveva già raccomandato nel capitolo sugli strumenti dell’arte spirituale: “Quando dei pensieri cattivi sopraggiungono al proprio cuore spezzarli subito contro Cristo e manifestarli a un anziano spirituale”42. Il monaco, come ogni cristiano, deve custodire il suo cuore perché è dal cuore che vengono i pensieri malvagi, insegnava già Gesù (cf. Mt 15,19). Cristo è il primo a cui ricorrere nella tentazione. Egli è la roccia contro la quale bisogna spezzare i germogli dei pensieri ispirati dal diavolo43. La mediazione umana dell’apertura del cuore (exagóreusis) a un padre spirituale non è meno necessaria. Si tratta di una tradizione imprescindibile proveniente da Antonio il Grande e dai padri del deserto44, che la Regola inculca ancora nel quinto gra-

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Cf. ibid. 46,1-4, p. 241. Ibid. 46,5-6, p. 241. 42 Ibid. 4,50, p. 206. 43 Cf. ibid., Prologo 28, p. 197, con un’allusione al Sal 136 (137),9 e a 1Cor 10,4, conformemente a una certa esegesi patristica. 44 Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci 2,10, a cura di L. Dattrino, Roma 2000, vol. I, pp. 114-115. 41

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dino dell’umiltà45. Un pensiero manifestato, giudicato con sapiente discernimento, perde il suo potere di illusione e la sua nocività. In Regola di Benedetto 46,5-6 più che dell’apertura del cuore si parla delle qualità dell’anziano spirituale. Quest’ultimo deve imitare il Cristo medico46, deve padroneggiare la scienza della guarigione spirituale. Questa scienza la si ottiene attraverso il riconoscimento dei propri peccati e delle proprie debolezze, che corrispondono ad altrettante ferite dell’anima. Il medico spirituale è dunque un fratello che è pienamente cosciente del proprio stato di peccatore perdonato47, che ha provato lui per primo i rimedi e ha ottenuto la guarigione. Non condanna, cura con lucidità e compassione. Cosciente della propria fragilità48, si accosta umilmente alla sofferenza degli altri. Ma questo non basta: deve anche mostrarsi delicato, custodendo una discrezione assoluta. “Sappia curare le ferite sia proprie che altrui senza scoprirle e renderle pubbliche”49; non si tratta soltanto di non umiliare pubblicamente il fratello50, ma soprattutto di custodire integra questa fiducia assoluta del discepolo nel maestro spirituale. Al di là dell’abituale apertura del cuore, si presentano situazioni drammatiche. Accade che dei fratelli, a motivo di colpe gravi, siano esclusi dall’abate dalla preghiera e dalla mensa fraterna. Benedetto consacra i capitoli 23-30 alle sanzioni, sempre terapeutiche, che si mostrano a volte necessarie in comunità. Questo ci fa pensare che la cosa non dovesse essere rara. Anche in questo caso il santo invoca l’intervento degli anziani spirituali:

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Cf. Regola di Benedetto 7,44-48, p. 213. Cf. ibid. 27, pp. 227-228. 47 Cf. ibid. 7,62-66, pp. 214-215, dodicesimo gradino dell’umiltà. 48 Cf. ibid. 64,13, p. 257. 49 Ibid. 46,6, p. 241. 50 Cf. ibid. 23,2; 27,3, pp. 226-227. 46

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L’abate si prenda cura con ogni sollecitudine dei fratelli che sono caduti, poiché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (cf. Mt 9,12). Egli deve, perciò, impiegare tutti i mezzi, come fa un sapiente medico: mandi dei senpectaes, cioè dei fratelli anziani sapienti, che quasi segretamente sostengano il fratello vacillante, lo stimolino a un’umile riparazione e lo consolino, perché non sprofondi in un’eccessiva tristezza (cf. 2Cor 2,7); anzi, come dice ancora l’Apostolo, si intensifichi nei suoi confronti la carità (cf. 2Cor 2,8), e tutti preghino per lui51.

Benedetto impiega due volte il verbo “consolare”. L’abate che ha dovuto pronunciare la scomunica di un fratello non può intervenire di persona. Lo faranno altri “senpectaes”, qualunque sia il significato del termine latino. Dinanzi alla tristezza e allo scoraggiamento che Benedetto teme tanto, l’anziano spirituale cercherà di confortare il fratello in difficoltà, che è anzitutto un malato che bisogna aiutare. Lo si esorterà a riprendersi. Tutta la comunità lo porterà nella preghiera. In altri passi la Regola parla più sommariamente degli anziani. I novizi sono affidati “a un anziano capace di guadagnare le anime, che vigili su di loro con la massima attenzione”52. L’espressione biblica “guadagnare il proprio fratello” (Mt 18,15) è molto vicina. L’anziano cui sono affidati i novizi deve dunque sforzarsi di condurre il candidato a Cristo e di discernere l’autenticità della sua ricerca di Dio. Se la comunità è grande, Benedetto prevede l’istituzione di “decani”, che condividono i pesi dell’abate e alleggeriscono le sue responsabilità53. Le qualità richieste ai decani sono quelle dell’abate e degli anziani spirituali: la stima dei fratelli, una vita 51 52 53

Ibid. 27,1-4, p. 227. Ibid. 58,6, p. 250. Cf. ibid. 21, p. 224.

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monastica esemplare, una dottrina sapiente54. L’abate li nomina non in virtù della loro anzianità nella comunità ma in virtù di queste qualità. Tali criteri mostrano, se ve ne fosse ancora bisogno, che l’anziano spirituale non è necessariamente un monaco anziano per età o per tempo di professione55. Il ruolo degli anziani spirituali, come già quello dell’abate, non è unicamente spirituale. Essi vegliano sulla buona osservanza comunitaria. Sono discretamente presenti durante la notte nel dormitorio dei fratelli56; sono i primi, prima dell’abate, a riprendere i fratelli recalcitranti, disobbedienti, orgogliosi o mormoratori57. Durante le ore della lectio divina vigileranno che i fratelli vi si applichino realmente e che nessuno con la sua dissipazione impedisca a un altro di farla58. Quando l’abate mangia con gli ospiti, gli anziani mangeranno con i fratelli in refettorio per prevenire possibili disordini59. Un’altra pennellata al ritratto dell’anziano spirituale si trova nel capitolo relativo ai portinai del monastero. Si dice: Alla porta del monastero sia posto un anziano sapiente, che sia capace di ricevere e di dare una risposta, e la cui maturità non gli consenta di andarsene vagando in giro60.

Il fratello portinaio assicura la prima accoglienza dell’ospite, che è Cristo. È assolutamente importante, da un punto di vista evangelico, la qualità di questa accoglienza. Benedetto sottolinea lo spirito soprannaturale che deve rivestire la sua ospitalità: “Con tutta la mitezza del timore di Dio, si affretti a offrire una rispo-

54

Cf. ibid. 21,1-4, p. 224. Cf. ibid. 3, pp. 203-204. 56 Cf. ibid. 22,3.7, p. 225. 57 Cf. ibid. 23,1-2, pp. 225-226. 58 Cf. ibid. 48,17-18, p. 243. 59 Cf. ibid. 56,3, p. 249. 60 Ibid. 66,1, p. 260. 55

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sta nel fervore della carità”61. Elenca anche le sue qualità naturali: la capacità di ascoltare veramente, di trasmettere con oggettività, di rispondere alle domande che gli vengono poste… La grandissima frequenza delle comunicazioni non facilita il compito degli odierni portinai. Le entrate e le uscite, le chiamate telefoniche, la posta… spezzettano la giornata con il rischio di far loro perdere il gusto della preghiera, della lectio divina, del lavoro. Devono dunque avere una vera maturità spirituale e umana. Manca ancora, tuttavia, un ultimo tratto essenziale a questo ritratto degli anziani spirituali: l’amore per i più giovani62. Benedetto riprende la raccomandazione nel capitolo sul posto da custodire in comunità: “I più giovani onorino coloro che sono più anziani di loro, e i più anziani amino coloro che sono più giovani di loro”63. Non è facile cogliere il senso preciso del vocabolario della dilezione nella Regola. Si vuole certamente indicare la bontà affettuosa dei monaci anziani per i più giovani. Di cosa è fatta questa dilezione? Certamente di fiducia e di speranza. Si tratta dei presupposti stessi di ogni tradizione vivente. Si può, tuttavia, andare oltre questa constatazione fondamentale. Nella prospettiva della rivelazione biblica, l’avvento del Messia e del regno di Dio dipendono dalla “conversione” del cuore dei padri verso i figli e dei figli verso i padri (cf. Ml 3,23-24; Sir 48,10). È quello che annuncia l’angelo del Signore a Zaccaria nel tempio prima della nascita di Giovanni Battista: “Ricondurrà molti figli di Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1,16-17). È significativo che la “conversione” dei padri verso i figli preceda quella dei figli verso i padri e che Luca non ricordi che questa. Benedetto ci vuol forse collocare già in questa

61 62 63

Ibid. 66,4, p. 260. “Iuniores diligere” (ibid. 4,71, p. 206). “Priores minores suos diligant” (ibid. 63,10, p. 256).

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istanza escatologica ricordando all’abate che sarà giudicato anche sull’obbedienza dei suoi discepoli64? Sarebbe interessante studiare la ricezione dei passi della Regola da noi evocati nel corso dei secoli. Si potrebbe farlo attraverso i commenti della Regola, analizzando le costituzioni delle comunità o delle congregazioni monastiche, attraverso le vite dei santi monaci e abati. Se mi è concesso manifestare un’impressione, frutto di letture occasionali, si potrebbe affermare che la figura della paternità spirituale nel corso dei secoli si trova in costante dialogo, anche in tensione, con la figura della paternità naturale e culturale. Ogni generazione monastica deve ritrovare il modello evangelico del Cristo-abba, secondo il quale l’abate e gli anziani spirituali devono formarsi e riformarsi.

La maternità spirituale della comunità

Parlare di maternità spirituale della comunità potrebbe sembrare un abuso. La comunità benedettina è spesso chiamata “congregatio” dalla Regola. L’amore di Cristo ci ha radunati insieme (“congregavit nos in unum Christi amor”). Il primo senso della frase è che il Cristo risorto, nella forza dello Spirito santo, raduna il suo “gregge” (“grex”). È il suo amore che fa di questo gregge una comunione fraterna65. In questo senso la “congregazione”, così come Benedetto la comprende al seguito di Basilio di Cesarea, di Agostino e di Giovanni Cassiano, aspira a divenire sempre di più un’icona della chiesa, sposa e madre. Evidentemente essa non si appropria della

64 65

Cf. ibid. 2,6, p. 200. Cf. ibid. 72,8, p. 263.

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maternità sacramentale della chiesa, ma ne imita, per quanto è possibile, i tratti sponsali e materni. La comunità infatti agli occhi di Benedetto è fondamentalmente una comunità che loda e adora. L’opera di Dio (l’“opus Dei”), la lode liturgica, esprime giorno dopo giorno e sette volte al giorno il suo amore preferenziale per Cristo66. L’opzione esistenziale di adorazione si estende a tutta la vita, anche nei suoi aspetti economici. È la ragione per cui la Regola conclude il capitolo sugli artigiani del monastero con la formula lapidaria ripresa dalla Scrittura: “Affinché in tutto (o in tutti?) Dio sia glorificato” (1Pt 4,11)67. La comunità si prende cura dei monaci con spirito materno. Benedetto crea una famiglia spirituale in cui ciascuno può attendersi in tutta tranquillità il pane quotidiano, spirituale e materiale. Ma al di là di questo, la “congregazione” non è quel luogo materno, a volte rude, in cui monaci e monache entrano in un ritmo di uffici liturgici, di lectio divina, di agapi fraterne, di lavoro? La vicinanza tra fratelli crea emulazione e purifica dagli egoismi attraverso le frizioni e l’abbandono della volontà propria68. I fratelli che sono di servizio durante la settimana lavano i piedi di tutta la comunità69, così come l’abate e la comunità lavano i piedi degli ospiti70.

Benedetto, abate e padre spirituale secondo Gregorio Magno

Al termine di questo rapido schizzo della figura dell’abate, possiamo ritornare alla vita di Benedetto. Vi constatiamo che 66

Cf. ibid. 43,4; 72,11, pp. 239, 263. Ibid. 57,8, p. 250. 68 Cf. ibid. 13,12-14, p. 219. 69 Cf. ibid. 55,9, p. 248. 70 Cf. ibid. 53,12-14, pp. 246-247; cf. Gv 13,1-20 e Lc 7,36-50. 67

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La paternità spirituale nella tradizione monastica occidentale

l’irradiamento della personalità spirituale di Benedetto si dilata al di là dei monasteri che egli ha fondato a Subiaco, a Montecassino e a Terracina. Egli vive al centro di una rete di relazioni e, tramite persone amiche interposte, entra in rapporto anche con l’oriente monastico. Vediamo dei laici che gli rendono visita. Il suo amico Teoprobo viene a trovarlo nella sua cella71, un altro laico, suo figlio spirituale, gli invia due fiasconi di vino72. Diverse donne consacrate (“sanctimoniales foeminae”) delle vicinanze sono in relazione con lui. Le redarguisce aspramente per i loro pettegolezzi. E pur essendo un semplice abate laico, le scomunica, cosa che pone problemi perché Benedetto sembra abusare in tal caso della sua autorità carismatica73. Un’amicizia profonda lega Benedetto a sua sorella Scolastica74 e all’abate di un altro monastero, Servando. L’amicizia porta a visite (reciproche?). È in occasione di una di queste visite che, durante la sua preghiera notturna, il santo è rapito nella luce di Dio e desidera condividere con l’amico Servando la visione celeste75. Leggiamo un unico esempio di direzione spirituale esercitata da Benedetto76. Mentre è ancora a Subiaco, accade che in uno dei monasteri da lui fondati un monaco è incapace di restare in chiesa al momento della preghiera silenziosa (alla fine della recita dei salmi?). Va a passeggiare e a distendersi fuori della chiesa. Il suo abate lo riprende diverse volte, ma invano. Il fratello continua a uscire di chiesa e a distrarsi. Il suo abate lo conduce allora da Benedetto che lo rimprovera. La correzione porta i suoi frutti per due giorni, ma il terzo giorno riprendono le cattive abitudini. Il suo abate allora avverte Benedetto, che decide di recarsi 71

Cf. Gregorio Magno, Dialoghi II,17,1, pp. 176-177. Cf. ibid. II,18, pp. 176-179. 73 Cf. ibid. II,19; 23,2-5, pp. 178-179, 184-187. 74 Cf. ibid. II,33, pp. 200-203. 75 Cf. ibid. II,35,3-4, pp. 204-207. 76 Cf. ibid. II,4, pp. 150-153. 72

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lui stesso al monastero e porta con sé il suo discepolo Mauro. E, infatti, il fratello esce di nuovo di chiesa durante il tempo della preghiera silenziosa. Benedetto vede “dioraticamente” che è un piccolo diavolo a trascinarlo fuori! Mauro e l’abate del monastero, Pompeiano, non vedono il piccolo diavolo. Benedetto allora ordina loro di pregare con lui per due giorni, affinché essi stessi possano vedere colui che è la vera causa della disgrazia di questo monaco. Dopo due giorni di preghiera, Mauro vede; il povero abate del monastero invece non vede ancora il piccolo diavolo. Notiamo, en passant, che Benedetto associa altri monaci alla sua paternità spirituale e forma i suoi discepoli al servizio abbaziale. Al termine di questi sforzi, il terzo giorno (?), esaurite le sue risorse spirituali, Benedetto trovando il fratello fuori di chiesa al momento della preghiera silenziosa, lo colpisce con un vigoroso colpo di bastone. Papa Gregorio ci assicura che il fratello dissipato, dopo questa bastonata, diventa un modello di preghiera silenziosa.

Conclusione Gregorio Magno, verso la fine della Vita di Benedetto77, riporta l’ultimo incontro con sua sorella Scolastica, anch’essa monaca. L’incontro aveva luogo ai piedi di Montecassino, una volta all’anno. Scolastica sentendo avvicinarsi la sua fine, dopo una giornata trascorsa nelle lodi di Dio e in colloqui spirituali, al momento del pasto, al calare della notte, domanda a suo fratello di prolungare il colloquio. Benedetto, modello di osservanza della Regola, si rifiuta78. Scolastica allora ricorre alla preghiera. Il

77 78

Cf. ibid. II,33, pp. 200-203. Cf. Regola di Benedetto 51, p. 245.

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La paternità spirituale nella tradizione monastica occidentale

cielo, sereno fino a quel momento, si copre e una pioggia torrenziale si riversa sul luogo a tal punto che Benedetto e i monaci che l’accompagnano non possono uscire di casa. Benedetto si indigna, ma Scolastica è esaudita da Dio stesso. Gregorio spiega: “Secondo la parola di Giovanni, infatti, ‘Dio è amore’ (1Gv 4,8.16); per giustissimo giudizio, dunque, poté di più colei che amò di più (cf. Lc 7,47)”79. Questo incontro non ha nulla di anedottico. Benedetto ha trovato il suo maestro spirituale in sua sorella. Scolastica l’ha condotto ad approfondire la sua immagine di Dio. Si potrebbe anche parlare di una vera conversione: al di là di un’obbedienza fedele alla giustizia della Regola, il santo monaco accede a un Dio-Amore che pone l’amore del prossimo al di sopra del sacrificio. Il superamento della legge apre una breccia nel cuore di Benedetto e poco tempo dopo, nel 541, il Signore gli accorda la grande visione della luce divina, che significativamente include in questa stessa luce la visione del mondo e dell’anima del suo amico, Germano, vescovo di Capua, che era morto quella notte stessa. Ecco ciò che certamente spiega la finale del prologo della Regola, dagli accenti così personali: Man mano che si avanza nella vita di conversione e nella fede, con il cuore dilatato (cf. Sal 118 [119],32) nell’inesprimibile dolcezza dell’amore, si corre sulla via dei comandamenti di Dio80.

Ecco indubbiamente anche la fonte della paternità spirituale di Benedetto di Norcia.

79 80

Gregorio Magno, Dialoghi II,33,5, p. 203. Regola di Benedetto, Prologo 49, p. 198.

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RIFLESSIONI SULLA FIGURA DEL PADRE SPIRITUALE NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI CLIMACO

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Damaskinos Gavalas*

Introduzione

È per me una benedizione e un onore essere invitato a partecipare al Convegno sulla paternità spirituale nella tradizione ortodossa che si svolge presso l’ospitale Monastero di Bose a cura di questa comunità che ama Cristo e l’ortodossia e lavora per l’unità dei cristiani in obbedienza al comando dell’evangelo. Il compito e il servizio del padre spirituale sono di grande importanza e di grande responsabilità, ma richiedono piena coscienza di tale responsabilità da parte del pastore. Il padre spirituale, in quanto responsabile della salvezza delle pecore spirituali a lui affidate dalla grazia di Dio, deve cercare il bene e la salvezza di tutti gli uomini, attenendosi fedelmente agli insegnamenti della chiesa fondata da Cristo così come sono sintetizzati nell’esperienza spirituale trasmessa dagli scritti dei santi padri. Il grande Basilio, Giovanni Crisostomo, i padri e le madri del deserto, Nil Sor-

* Igumeno del Monastero di Sant’Elia di Thira-Santorini. Traduzione dall’originale greco.

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Damaskinos Gavalas

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skij, Nicodemo l’Aghiorita, Giovanni Climaco e tanti altri padri e maestri sono fonti di acqua viva per quanto riguarda il tema della paternità spirituale. La nostra relazione, che indagherà il tema del padre spirituale nell’opera Il pastore di Giovanni Climaco, non riferisce speculazioni teologiche, ma riporta affermazioni nate dall’esperienza, dalle lotte e dai progressi spirituali del nostro santo padre teoforo Giovanni Sinaita, l’autore della Scala1, padre e maestro del deserto. Nella nostra esposizione cercheremo di raccogliere e di trasmettervi quanto il padre teoforo dice su questo tema.

La vita

Le notizie biografiche relative a Giovanni Climaco sono scarsissime. Non conosciamo la provenienza di questo santo monaco. Alcuni ipotizzano che sia nato in una località marina o in un’isola, perché nella sua opera sono frequenti le immagini legate al mondo marittimo. Nacque probabilmente verso la fine del vi secolo2. La sua famiglia era benestante, dal momento che gli diede la possibilità di seguire gli studi superiori. Sappiamo che aveva anche un fratello di nome Giorgio che si distinse anch’egli nella vita monastica sul Sinai. All’età di sedici anni, Giovanni si recò nel deserto del Sinai e venne affidato alla guida spirituale di abba Martirio. Dopo la morte del suo padre spirituale, si ritirò in una grotta, nella regione di Tola, a otto chilometri di distanza dal monastero e qui visse in solitudine per quarant’anni. 1 Per un’edizione italiana della Scala e del Discorso al pastore rinviamo a: Giovanni Climaco, La scala, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005. 2 Per la cronologia relativa a Giovanni Climaco, cf. B. Flusin, “Il monachesimo sinaitico al tempo di Giovanni Climaco”, in Giovanni Climaco e il Sinai. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 16-18 settembre 2001, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2002, pp. 28-31.

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Riflessioni sulla figura del padre spirituale …

La vita nel deserto lo plasmò, lo rese sapiente, alimentò il suo desiderio di Dio. Mangiava di tutti i cibi permessi ai monaci, seppure in piccola misura, vincendo in tal modo la vanagloria che sarebbe derivata da un’ascesi più austera. Dormiva poco, ma quanto era necessario, per non danneggiare la sua salute psichica e fisica. Prima di dormire, pregava a lungo e lavorava ai suoi scritti per combattere l’acedia. A età avanzata fu chiamato a presiedere il monastero del monte Sinai. Non sappiamo per quanti anni svolse tale funzione, ma sicuramente verso la fine della sua vita ritornò all’amata solitudine. Morì il 30 marzo di un anno intorno al 670. La chiesa ortodossa venera la sua memoria due volte all’anno: il 30 marzo e la quarta domenica di quaresima.

Il padre spirituale

Gli insegnamenti dei padri del deserto non intendono presentare un sistema etico ben definito, attraverso affermazioni di carattere logico. I padri rispondono a parole e con la vita alle domande della fede e lo fanno attraverso un breve detto, un racconto, un gesto, un prodigio. Devo riconoscere davanti al Signore e davanti a voi che per quanto abbia letto molte volte la Scala di Giovanni Climaco, non mi ero mai reso conto di quanto questo testo avesse valore per ogni tempo e anche per oggi, e non solo per noi monaci, ma per ogni cristiano che abbia cura della propria vita spirituale. Nella tradizione ecclesiale ortodossa, non è concepibile la vita spirituale come separata dal sacramento della conversione, la santa confessione, e di conseguenza il ruolo del padre spirituale, medico e aiuto nella lotta contro le passioni, è fondamentale. Una cosa è certa innanzitutto: il padre spirituale deve lottare per tutta la sua vita per salire fino alla cima i gradini spirituali della scala delle 141

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Damaskinos Gavalas

virtù, affinché non solo il nostro santo Dio lo veda, ma anche i suoi figli spirituali possano osservare la sua lotta e vengano da essa fortificati. E dunque chi mai, e tanto più quale padre spirituale, non dovrà lottare per scacciare il rancore, la maldicenza, le chiacchiere, la menzogna, l’acedia, l’ingordigia, l’avarizia, la viltà, la vanagloria, la superbia, i pensieri di bestemmia, e non dovrà lottare per vivere una vita da straniero, l’obbedienza, la conversione, il ricordo della morte, la compunzione apportatrice di gioia, l’assenza di collera, la purezza, l’insensibilità o meglio l’impassibilità, la preghiera, la veglia, la mitezza, la semplicità, l’umiltà, il discernimento, la quiete, la speranza, la fede e l’amore? Il padre spirituale, secondo Giovanni, riceve molti nomi legati alle sue qualità e alle sue virtù. È medico, maestro, pilota, pastore, cane che veglia sul gregge, anziano, guida, padre, ottimo stratega, collaboratore delle potenze incorporee e spirituali. Il padre spirituale è chiamato ad adottare spiritualmente l’anima che gli è affidata e a manifestarle ciò che è nascosto e segreto. L’adozione spirituale o la paternità consiste essenzialmente nel donare la propria vita per la vita dell’altro. In quanto medico, il padre spirituale deve ricorrere alla scienza spirituale per guarire spiritualmente i malati. Come ci dice significativamente Giovanni Climaco: Anche questo è un tratto tipico della nostra natura quale il nostro Signore buono l’ha creata: che il malato si rallegri al solo vedere il medico, anche se forse non può ricevere da lui alcun beneficio. Anche tu, mio eccellente amico, procurati impiastri, pozioni, polveri, colliri, spugne, lancette da salasso, cauteri, unguenti, sonniferi, bisturi, bende, e la cosiddetta “immunità alla nausea”. Ma se siamo privi di queste cose, come faremo a dimostrare la nostra competenza? È impossibile! Del resto si riceve un compenso non per delle parole ma per delle opere. L’“impiastro” è il rimedio per le passioni visibili, cioè del corpo. La “pozione” è il rimedio per le passioni interiori, che permette di spurgare tutte le impurità nascoste. La “polvere” è l’umiliazio142

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Riflessioni sulla figura del padre spirituale …

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ne che brucia e purifica la putredine dell’orgoglio. Il “collirio” è il rimedio che purifica l’occhio dell’anima quando è intorbidato dalle turbolenze dell’ira; il collirio è anche il rimprovero tagliente, che dopo un po’ di tempo procura la guarigione. Il “salasso” è la rapida evacuazione di un fetore nascosto, ma precisamente il salasso è un’incisione energica e decisa per la salvezza dei malati. La “spugna” è la cura refrigerante che il medico applica al malato dopo il salasso o dopo l’operazione chirurgica, per mezzo di parole gradevoli, dolci e tenere. Il “cauterio” è l’ordine o la punizione dati con misericordia per un certo tempo, in vista della penitenza. L’“unguento” è il conforto che si dà al malato dopo aver applicato il cauterio, tramite parole o altre forme di consolazione. Il “sonnifero” significa prendere su di sé il fardello del discepolo offrendogli in cambio, attraverso la sottomissione, il riposo, un sonno insonne e una santa cecità, perché non veda le proprie virtù. Le “bende” consistono nel ridare forza e tensione, attraverso una pazienza fino alla morte, a coloro che sono rilassati e infiacchiti per la vanagloria. E infine il “bisturi” è la decisione estrema di operare un’amputazione su un corpo spiritualmente morto, o su un membro incancrenito, perché l’impurità non si estenda anche agli altri membri. Cosa beata e degna di lode è l’“immunità alla nausea” per i medici, e l’impassibilità per i superiori! Gli uni, infatti, non provando alcuna nausea, potranno curare senza indugio qualunque piaga maleodorante; gli altri potranno resuscitare qualunque anima morta3.

Padre spirituale, cioè pastore, è colui che sa ritrovare le pecore spirituali perdute con la sua innocenza, il suo zelo, la sua preghiera. È padre spirituale chi ha ricevuto da Dio e tramite le sue fatiche la potenza spirituale e può trascinare in salvo la nave, cioè l’uomo caduto in peccato, non solo dalla tempesta ma anche dall’abisso. Il capitano esperto sa prevedere la burrasca e dà

3

Giovanni Climaco, Discorso al pastore 10-12, pp. 464-466.

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Damaskinos Gavalas

buone e sapienti indicazioni a quanti si trovano sulla nave. Diversamente sarebbe responsabile del naufragio poiché si è assunto la guida della nave tranquillizzando gli altri. Come la nave che ha un bravo pilota con l’aiuto di Dio raggiunge il porto, così anche l’anima che ha un buon pastore sale facilmente al cielo anche se ha compiuto molti mali. Dice Giovanni:

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Il superiore non deve né sempre umiliarsi, in modo irragionevole, né sempre esaltarsi, in modo sciocco, ma deve guardare a Paolo che seguiva sia l’una che l’altra via (cf. 2Cor 10,10; 12,10)4.

Il padre spirituale deve sapere a chi, come e quando devono applicarsi quelle parole della santa Scrittura che dice: “Taglia [il fico]. Perché deve sfruttare il terreno?” (Lc 13,6-7)5. Giovanni Climaco esorta il padre spirituale a non scrutare dettagliatamente i minimi peccati, perché così facendo non imiterebbe la compassione di Dio, e considera una grande vergogna per l’anziano pregare perché sia dato al figlio spirituale quello che egli stesso non ha ancora raggiunto. Il padre spirituale, nel suo compito di maestro, non merita lode quando rende sapienti i discepoli buoni e docili all’insegnamento, ma quando rende sapienti quelli che sono ignoranti e lenti a imparare. Come un bravo comandante, il padre spirituale deve conoscere il luogo, l’ordine e le possibilità di ciascun soldato di Cristo. Forse tra i suoi soldati ve ne sono alcuni che si distinguono nella battaglia e nella lotta corpo a corpo. Da vero anziano, il padre spirituale, quanto più vede da parte di quelli che gli sono affidati e degli altri, devozione per la sua persona, tanto più deve vegliare su tutto ciò che fa e che dice. Per-

4 5

Ibid. 38, p. 471. Cf. ibid. 86, p. 480.

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Riflessioni sulla figura del padre spirituale …

ciò Giovanni Climaco afferma che tutti guardano a lui come a un modello e considerano le sue parole e le sue azioni come regola e legge della loro vita. L’anziano deve anche esaminare con attenzione ogni pecora che chiede di essere accolta nel suo gregge, perché Dio non proibisce di rimandare e di allontanare chi è giudicato inadatto per questa vita. È meglio allontanare qualcuno dal monastero piuttosto che permettergli di fare la propria volontà. A colui che viene rifiutato si insegna a diventare più umile e a spezzare la volontà propria, invece colui che per non crearsi inimicizie e per condiscendenza ha accettato di accogliere quanti rimanevano attaccati alla propria volontà sarà da loro maledetto nell’ora della loro morte perché li ha ingannati invece di collaborare alla loro salvezza.

Conclusione

L’insegnamento dogmatico e antropologico della chiesa è stato tramandato ai cristiani di oggi ed è sempre attuale. Non ne dobbiamo tuttavia fare un sistema, una dottrina o dei principi generali, ma accoglierlo come traccia e fare in modo che esso diventi un nutrimento quotidiano che ci mostra come fuggire i lacci e gli ostacoli nel difficile cammino verso la santità. È questo che l’esperienza personale di Giovanni Climaco ci vuole insegnare. Il padre spirituale non deve dimenticare che non c’è dono più accetto a Dio del fatto di presentargli discepoli che, mediante la conversione, si avvicinano a lui. Il mondo intero non vale tanto quanto l’anima di un uomo, perché il mondo è corruttibile e passa, mentre l’anima è e resta incorruttibile. Il vero pastore sarà reso manifesto dal suo amore per quell’icona di Dio che è l’uomo. Per amore e in vista di quest’amore, del resto, è stato crocifisso il nostro buon pastore Gesù Cristo. 145

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L’IGUMENO COME PADRE SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE STUDITA

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Olivier Delouis*

Teodoro Studita, nato nel 759 e morto nell’826, è un personaggio celebre della storia bizantina e un santo venerato sia in oriente sia in occidente1. Celebre Teodoro lo è innanzitutto per la sua azione in difesa delle icone. Con il fatto di essersi sollevato contro gli imperatori iconoclasti e d’aver subito non meno di cinque esili a motivo della sua opposizione alla politica imperiale, Teodoro evidenzia il peso che può avere a Bisanzio il tágma monastico di fronte al potere secolare e al clero patriarcale. Con la sua riflessione teologica, contribuì insieme al suo contemporaneo, il patriarca di Costantinopoli Niceforo I (806-815), a dotare l’ortodossia di un vero corpus dottrinale sul culto delle immagini che oggi è interamente recepito. Celebre Teodoro lo è anche per il suo itinerario monastico. Igumeno esemplare, organizzò una riforma della vita cenobitica dapprima nel monastero di Sakkudion in Bitinia, poi in quello di Studios a Costantinopoli; tale riforma influenzò la vita monastica sul Monte Athos, in Italia meridionale, in Asia minore, in Bulgaria e anche nella Russia di Kiev, dove una

* Ricercatore presso il Cnrs di Parigi, è esperto di monachesimo e agiografia bizantini. Traduzione dall’originale francese. 1 Si veda R. Cholij, Theodore the Stoudite. The Ordering of Holiness, Oxford 2002; T. Pratsch, Theodoros Studites (759-826) – zwischen Dogma und Pragma, Frankfurt 1998.

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Olivier Delouis

regola segnata dall’eredità studita fu adottata nella seconda metà dell’xi secolo; il monachesimo studita può dunque essere considerato come una delle fonti del monachesimo slavo. Celebre Teodoro lo è, infine, per il suo talento di scrittore. Autore prolisso e poligrafo, esperto in ogni genere letterario, egli lasciò una corrispondenza che, per quanto giunta a noi lacunosa, può essere annoverata tra le più voluminose dell’alto medioevo, essendo composta di circa cinquecentosessanta lettere; mentre quattrocento sono le sue catechesi, anch’esse conservate in modo incompleto. Su Teodoro sono stati pubblicati numerosissimi studi, ma un aspetto della sua opera resta sconosciuto, e cioè la sua concezione della paternità spirituale2. Eppure, una delle preoccupazioni principali della sua vita fu quella di guidare alla salvezza i suoi monaci o i suoi amici che vivevano fuori del monastero, e questo ardente zelo attraversa costantemente le sue lettere e le sue catechesi. Se il tema è stato poco studiato, è dovuto al fatto che Teodoro non ha lasciato nessun trattato di direzione spirituale né un manuale per i confessori. Paradossalmente, Teodoro, che da alcuni autori moderni è visto come uno zelota piuttosto rigido, in passato fu accusato di mancare di formalismo. “Teodoro non ha nulla del teorico; parla attenendosi alla verità psicologica del momento”, scriveva Irénée Hausherr 3; e Julien Leroy aggiungeva: “Non si possono leggere le catechesi come un’opera di teologia, e se vi sono in esse elementi di una teologia monastica, sono espressi in termini semplici, spesso abbozzati, mai analizzati a fondo”4. Questo è assolutamente vero per l’argomento che ci interessa; non 2 A eccezione delle eccellenti pagine consacrate a questo tema da I. Hausherr in Saint Théodore Studite. L’homme et l’ascète (d’après ses catéchèses), Roma 1926, e in Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955, in cui sono già stati evidenziati numerosi passi importanti dell’opera di Teodoro. Nonostante il suo titolo, l’articolo di T. √pidlík, “Superiore-padre: l’ideale di san Teodoro Studita”, in Studia Missionalia 36 (1987), pp. 109126, è un’analisi generale in cui Teodoro occupa uno spazio ristretto. 3 I. Hausherr, Saint Théodore, p. 49. ´ 4 J. Leroy, “Saint Théodore Studite”, in Théologie de la vie monastique. Etudes sur la ´ Tradition patristique, Paris 1961, pp. 423-436 (qui p. 424), ripreso in Id., Etudes sur le mo-

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L’igumeno come padre spirituale …

aspettiamoci che Teodoro definisca con precisione la direzione spirituale, che ci indichi una modalità di governo dei monaci, che spieghi la natura della relazione esistente tra padre e figlio spirituale. Teodoro Studita fu anzitutto un uomo di azione che non si dedicò mai all’analisi delle categorie che qualificano l’operato dell’igumeno. L’abate studita, nella tradizione monastica assunta da Teodoro, è per principio un padre spirituale. Si tratta per lui di un’evidenza che comporta dunque l’inconveniente, nei suoi scritti, di fondere la direzione spirituale con altri attributi dell’igumeno, si pensi ad esempio ai temi della disciplina o dell’obbedienza che logicamente si potrebbero distinguere 5. Così, l’analisi che segue non si fonda su una teoria della paternità spirituale esplicita in Teodoro Studita; essa procede piuttosto da una lettura paziente di quei testi di carattere quotidiano, ma ricchi di insegnamento sulla pratica monastica, che sono le catechesi e le lettere. In un secondo momento, tenteremo, a partire da documenti posteriori, di esaminare quale fu la posterità di Teodoro e di individuare se sia esistita o meno una tradizione studita della direzione spirituale.

La regola studita

Mi sembra che per Teodoro vi siano tre strumenti essenziali per la direzione spirituale, anche se non tutti riguardano la relazione individuale tra padre e figlio. Se infatti privassimo l’analisi della dimensione “familiare” della paternità dell’igumeno, sot-

nachisme byzantin. Textes rassemblés et présentés par Olivier Delouis, Bégrolles-en-Mauge 2007, pp. 193-210. 5 Sull’obbedienza in Teodoro si veda il capitolo di R. Cholij, “Obedience and Authority”, in Theodore the Stoudite, pp. 81-126.

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Olivier Delouis

trarremmo molto all’idea che Teodoro si faceva del suo ruolo di igumeno-padre spirituale. Questi tre strumenti sono la regola, la catechesi e l’exagóreusis o rivelazione dei pensieri, un aspetto che occuperà particolarmente la nostra attenzione. La regola studita, elemento di un inquadramento tanto disciplinare quanto spirituale, è il prodotto della formazione monastica di Teodoro in Bitinia e del suo desiderio di ritornare all’eredità dei padri del cenobitismo, in particolare Basilio e Pacomio. L’esperienza pratica, cioè la sperimentazione di Teodoro, svolse in questa riforma monastica un ruolo più importante di quanto si pensi solitamente. Analogamente nessuno ha pensato che se non è stata conservata nessuna regola scritta del tempo di Teodoro, ciò è certamente perché l’igumeno giudicava il suo sistema perfettibile e incompiuto, fatto che può essere compreso anche come una forma di elasticità. I testi normativi del monachesimo studita gli sono dunque posteriori: l’HypotØposis studita – ne sono state pubblicate due recensioni – menziona due volte Teodoro come morto6, mentre il Testamento monastico di Teodoro deriva da un adattamento di testi di Teodoro di epoche diverse che può essere attribuito al suo successore, l’igumeno Naucrazio7. Il fatto che il Testamento e l’HypotØposis non siano stati redatti da Teodoro non getta alcun discredito su tali documenti. Al contrario, la lettura delle catechesi e delle lettere mostra che esse con-

6 Cf. Teodoro Studita, HypotØposis, in Nova Patrum Bibliotheca V/2, a cura di A. Mai, Romae 1849, pp. 11-125, ripresa in PG 99,1703-1720 (dal manoscritto Vaticano gr. 2029, dell’xi secolo) e A. Dmitrievskij, Opisanie liturgicesckich rukopisej, Kiev 1895, ristampato nel 1965, pp. 224-237 (dal manoscritto Athos Vatopedi 322/956, del xiii-xiv secolo). La prima recensione è tradotta da V. Desprez, “Saint Théodore Stoudite: Testament et Typikon”, in Lettre de Ligugé 310 (2004), pp. 4-36 (qui pp. 20-33). 7 Cf. Teodoro Studita, Testamento (BHG 1759), in Opera Varia V. Sancti Theodori Studitae epistolae aliaque scripta dogmatica graece et latine pleraque Sirmondo interprete, a cura di J. Sirmond, Parisiis 1696, pp. 80-88 e Venezia 1728, pp. 63-69, ripreso in PG 99,1813-1824. Cf. O. Delouis, “Le Testament de Théodore Stoudite est-il de Théodo´ re?”, in Revue des Etudes Byzantines 66 (2008), pp. 173-190; Id., “Le Testament de Théodore Stoudite: édition critique et traduction”, ibid. 67 (2009), di prossima pubblicazione. Cf. anche V. Desprez, “Saint Théodore”, pp. 9-20.

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L’igumeno come padre spirituale …

segnano, con estremo rispetto, quello che Teodoro aveva praticato nel corso della sua vita. Uomo d’azione, Teodoro legiferò attraverso il suo esempio per il tempo in cui visse e non per la posterità; la posta in gioco nel monachesimo del suo tempo era troppo scottante perché si preoccupasse di elaborare un typikón esaustivo8. L’uomo stesso si considerava contemporaneamente una sintesi dei padri e una regola incarnata; e i suoi contemporanei vedevano in lui, ancora in vita, un nuovo Basilio di Cesarea9. Gli igumeni che succedettero a Teodoro riconobbero la validità di questi principi, si decisero infine a formalizzarli, li diffusero ampiamente e di questa eredità fecero il fondamento del successo del monastero di Studios che conobbe il suo periodo di splendore non sotto Teodoro, ma tra la fine del ix secolo e l’xi secolo10.

La catechesi

Dopo la regola – strumento strutturale di direzione spirituale sintetizzata nella persona del fondatore – la catechesi è il secondo strumento, anch’esso collettivo, della direzione spirituale studita. Più che la diaconia dell’igumeno in senso largo, è l’esercizio della catechesi che restò legato alla persona di Teodoro. Dopo la morte di quest’ultimo, infatti, gli igumeni studiti non composero nuove catechesi, se non eccezionalmente. Ormai, tre

8 Un typikón liturgico dettagliato d’origine studita è tuttavia conservato in slavo. È attribuito al patriarca Alessio Studita (1025-1043) ed è stato edito da A. M. Pentkovskij, Tipikon patriarcha Aleksija Studita v Vizantii i na Rusi, Moskva 2001. 9 “Ai suoi tempi aveva la fama di un altro Basilio” (Vita B di Teodoro Studita [BHG 1754], PG 99,236A). 10 Sul periodo successivo a Teodoro, cf. O. Delouis, Saint Jean-Baptiste de Stoudios à Constantinople: la contribution d’un monastère à l’histoire de l’Empire byzantin (v. 454-1204), tesi dell’Università Paris I-Panthéon Sorbonne 2005, di prossima pubblicazione.

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volte alla settimana, sono i testi di Teodoro a essere letti, come se fossero insuperabili, come se Teodoro avesse trattato in questo corpus l’insieme completo delle situazioni che potevano darsi nella vita monastica, lasciando ai suoi successori la sola possibilità di commentarne la lettura11. Teodoro parla spesso di questo dovere della catechesi, che lo sfinisce e lo rallegra al tempo stesso: “Il giorno della catechesi per me è sempre un giorno di gioia e di esultanza: un pretendente non si affretta a recarsi a parlare alla sua promessa sposa quanto io a essere sempre ricolmato della vostra compagnia”12. La catechesi, riportata in auge da Teodoro, era un elemento tradizionale della vita cenobitica ben attestato fino al vi secolo, ma in seguito non ovunque praticato. Dedicandosi a restaurare la tradizione, Teodoro reintrodusse dapprima a Sakkudion, poi a Studios, la catechesi del superiore13. E per mettersi al livello dei suoi monaci, l’igumeno abbandona in questi documenti ogni artificio letterario o retorica ricercata; le catechesi sono redatte in una lingua semplice e in uno stile caratteristico, molto vivace, che cerca di stimolare l’uditorio per rimetterlo sulla buona strada. Il loro contenuto non può essere riassunto in poche parole. In esse si apre dinanzi agli occhi del lettore la vita quotidiana di un grande monastero bizantino con le sue verità generali e con i suoi problemi particolari. Il gran numero di dettagli presenti nelle Grandi catechesi (libri I-III) di Teodoro ha certamente nuociuto alla loro diffusione nell’ambiente studita; non è stato così per le Piccole catechesi (libro IV), d’argomento molto più generale e più largamente diffuse14. 11 “Alla fine dell’órthros viene letta la catechesi del nostro padre teoforo Teodoro” (Teodoro Studita, HypotØposis, PG 99,1709C). 12 Cat. II,94, p. 670 (cf. qui sotto la n. 14). ´ 13 Sulla pratica della catechesi da parte di Teodoro, cf. J. Leroy, Etudes sur les Grandes Catéchèses de s. Théodore Studite, Città del Vaticano 2008, pp. 25-37. 14 Citeremo gli scritti di Teodoro nel modo seguente: Cat. I = libro I delle Grandi catechesi, in preparazione presso la collana Sources chrétiennes, parzialmente inedito; tr. fr. a cura di F. de Montleau a partire dagli archivi di J. Leroy in Théodore Stoudite, Les Grandes Catéchèses (Livre I): les épigrammes (I-XXIX), précédées d’une étude de Julien

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L’igumeno come padre spirituale …

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L’“exagóreusis” come illuminazione

Il terzo strumento di direzione spirituale, individuale questa volta, è la rivelazione dei pensieri o exagóreusis. Il termine exagóreusis è costantemente presente sotto la penna di Teodoro, che lo impiega preferendolo agli altri termini per lui sinonimi come exánghelsis o exomologhía; è talmente presente che l’igumeno ne parla senza darsi la pena di definirlo, senza originalità, ricorrendo ad antiche immagini della letteratura monastica familiare ai lettori15. La prima immagine è quella della nave che imbarca acqua: Abbracciamo rapidamente la via di Dio, confessando per prima cosa e innanzitutto quello che abbiamo nel cuore, affinché l’acqua dei molteplici pensieri, circondando le nostre anime, non ci trascini nel profondo dell’abisso secondo la parola profetica (cf. Gn 2,6). Voi [monaci], accontentatevi di togliere l’acqua dalla stiva e noi, con l’aiuto di Dio, condurremo la nave e vi daremo tranquillità16.

Per non affondare, il monaco, come un buon marinaio, deve costantemente respingere l’acqua dei suoi peccati e affidarsi al Leroy sur le monachisme stoudite, Bégrolles-en-Mauge 2002. Cat. II = libro II delle Grandi catechesi: Το σου Θεοδ ρου το Στουδτου Μεγλη Κατχησις. Βιβλον δετερον κδοθ#ν $π& τ'ς (Αυτοκρατορικ'ς (Αρχαιογραφικ'ς (Επιτροπ'ς, Sankt-Peterburg 1904. Cat. III = libro III delle Grandi catechesi, in preparazione presso la collana Sources chrétiennes, in parte inedito. Cat. IV = Piccole catechesi: Sancti patris Nostri et Confessoris Theodori Studitis Praepositi parva Catechesis, a cura di E. Auvray, Parisiis 1891; tr. it.: Teodoro Studita, Nelle prove la fiducia, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2006. CL IX/2 = Sancti Theodori Studitae sermones magnae catecheseos, in Nova Patrum Bibliotheca IX/2, a cura di J. Cozza-Luzi, Romae 1888. CL X/1 = Theodori Studitae sermones reliqui magnae catecheseos, ibid. X/11, Romae 1905. Ep. = Theodori Studitae Epistulae I-II, a cura di G. Fatouros, Berlin 1991. 15 Cf. l’ottimo studio di R. Cholij, Theodore the Stoudite, pp. 173-181. I canoni attribuiti a Teodoro che contengono una definizione dell’exagóreusis sono certamente apocrifi (cf. PG 99,1721A-B). 16 Cat. I,6 (= CL 49, IX/2, pp. 135-136).

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suo capitano-igumeno. La seconda metafora impiegata è quella del verme del peccato che rode la pianta:

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È impossibile che una pianta che ha un verme non perisca, poiché questo la rode costantemente; così, l’anima che ha un serpente, cioè qualcosa che non viene confessato, non può non corrompersi, non andare in putrefazione e non venire completamente distrutta17.

La terza immagine collegata all’exagóreusis, per quanto banale18, è quella della malattia. Scrive Teodoro: “Chi è ferito nel corpo, ricorre a un medicamento; così accade anche per lo spirito. Il medicamento è la penitenza dell’exagóreusis”19. E altrove: “Non si può alleviare la fatica se non riposandosi a letto, così neppure una mente gravata da pensieri cattivi se non sollevandola dal peso attraverso l’exagóreusis”20. Il riferimento, anch’esso tradizionale, che domina gli scritti di Teodoro, tuttavia, è quello della luce purificante. Quelli che si confessano, scrive l’igumeno, sono resi “puri come il sole”21, “siete tutti purificati dall’exagóreusis”22, “illuminati dall’exagóreusis”23, e il monaco virtuoso a sua volta irradia luce grazie all’exagóreusis 24. “È puro chi si è confessato alla mia umile persona”25. L’exagóreusis produce luce; essa è photopoiós 26, photistiké 27. E se, scrive Teodoro,

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Cat. II,87, pp. 623-624. Cf. I. Hausherr, Penthos, Roma 1944, pp. 28-31. Cat. II,103, p. 753. 20 Cat. IV,98, p. 337; nella tr. it., p. 416. 21 Cat. III,35 (= CL 99, IX/2, p. 25). 22 Cat. II,56, p. 401. 23 Cat. IV,79, pp. 274-275; nella tr. it., p. 341. 24 Cf. Cat. I,19 (= CL 45, IX/2, p. 126). 25 Cat. I,14 (= CL 17, IX/2, p. 50). 26 Ep. 9, p. 30. 27 Ibid. 431, p. 604. 18 19

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L’igumeno come padre spirituale …

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tutto ciò che è rivelato è luce, chi erra nelle tenebre astenendosi dal confessare i suoi pensieri cade nel precipizio e, pur credendo di essere gradito a Dio, lo irrita con la resistenza che oppone28.

Questa purificazione, questa luce, non devono ricondurci al vecchio dibattito sulla natura sacramentale dell’exagóreusis nel cristianesimo orientale. Sembra ormai lontano il tempo in cui si distingueva rigidamente “tra due generi di confessione: l’accusa dei peccati in vista dell’assoluzione e la ‘manifestazione dei pensieri’ per ricevere un orientamento spirituale”29. Da allora si è sottolineata la differenza di approccio all’exagóreusis e il fatto che la distinzione tra l’assoluzione sacramentale e l’intercessione del padre spirituale per i suoi discepoli era indubbiamente meno forte in oriente rispetto all’occidente 30. Per quanto riguarda Teodoro, in ogni caso, sarebbe difficile stabilire una qualsiasi distinzione tra exagóreusis sacramentale e rivelazione dei pensieri31. Del resto, il perdono dell’igumeno è talvolta accordato in modo molto insolito: per lettera o collettivamente, sul suo letto di morte 32.

L’“exagóreusis” come virtù ascetica

Se l’effetto dell’exagóreusis è un’illuminazione dell’anima, la pratica dell’exagóreusis è considerata da Teodoro come una virtù 28 Cat. I,36 (inedita); cf. anche Ep. 438: “Tutto ciò che è manifestato è luce” (testo inedito). 29 I. Hausherr, Direction spirituelle, p. 106. 30 Si veda ad esempio H. J. M. Turner, St Symeon the New Theologian and Spiritual Fatherhood, Leiden 1990, pp. 56-58; oppure H. Alfeyev, St Symeon the New Theologian and Orthodox Tradition, Oxford 2000, pp. 18-19. 31 Come osserva R. Cholij, Theodore the Stoudite, p. 173. 32 Si veda rispettivamente la Ep. 394 a Luciano, che riceve così l’assoluzione che ha domandato a Teodoro attraverso la mediazione del discepolo Naucrazio (“Chiedi l’as-

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specificamente ascetica. Questo punto è importante nella misura in cui Teodoro non evoca mai la rivelazione dei pensieri al di fuori del monastero. Dire che l’exagóreusis è una virtù, significa ammettere che c’è una difficoltà a praticarla, e Teodoro non ignora la vergogna che suscita l’exagóreusis, vergogna che può frenare il monaco nel suo cammino di apertura33. Teodoro sa che bisogna collocare l’exagóreusis tra le cose esigenti e pesanti che bisogna sopportare nel nome del Signore34. Fedele a uno stile che appartiene soltanto a lui e che indulge a lunghe elencazioni, Teodoro non tralascia di includere l’exagóreusis nei cataloghi di virtù che egli propone ai suoi monaci nelle sue catechesi e nelle sue lettere35. Nell’“abituale disordine” della catechesi, e al di là degli effetti del suo stile, Teodoro a volte dispone in ordine gerarchico i suoi pensieri. Allora, tra queste virtù, l’exagóreusis occupa un posto privilegiato: “Voglio farvi sapere che non c’è altro farmaco più rapido e più straordinario, in vista della salvezza, dell’exagóreusis”36. E Teodoro prosegue: “L’exagóreusis è la vera nascita spirituale, è la legittima sottomissione, è la via senza preoccupazioni, è la soluzione ... ti sarà data dal Signore”, pp. 548-549) e il perdono collettivo dato da Teodoro prima della sua morte ai monaci penitenti nell’Encyclica de obitu sancti Theodori Studitae (BHG 1756), in Historia haeresis monothelitarum sanctaeque in eam sextae synodi actorum vindiciae..., a cura di F. Combefis, Parisiis 1648, coll. 855-888, ripreso in PG 99,1825-1849 (qui col. 1844C) con la formula: “Il Signore perdoni tutti”. 33 “Per vergogna della confessione” (Cat. I,31, testo greco inedito); “La vergogna della confessione, l’imbarazzo delle confessioni, l’imbarazzo della manifestazione dei peccati” (Cat. I,61, idem); “L’imbarazzo delle confessioni” (Cat. II,104, p. 762). 34 “Perché non sopportiamo tutto ciò che vi è di penoso e faticoso nel servizio del Signore? Il dominio di sé, le penitenze, la sottomissione, le obbedienze, la confessione dei peccati, le veglie?” (Cat. I,32 [= CL 108, X/1, p. 138]). 35 Il modo di procedere di Teodoro è talmente ripetitivo che sono sufficienti due esempi: “Ogni [monaco] che progredisce nell’umiltà, nell’obbedienza, nella confessione, nella compunzione, nella preghiera, nelle lacrime, nelle genuflessioni, nella recitazione dei salmi, nei lavori manuali, nell’amore, nella purezza, in ogni buona condotta ...” (Cat. II,45, p. 329). Altrove: “E saremo inoltre obbedienti, vigili, ben disposti, timorati di Dio, uniti al pensiero di Cristo, devoti, privi di impudenza, amorevoli verso gli altri, privi di invidia, miti, modesti, pacifici, laboriosi, amanti della confessione [in greco: exagoreutikoí; si noti l’aggettivo], obbedientissimi, pazienti, grati per tutto quello che ci è dato” (Cat. II,42, p. 303). 36 Cat. II,25, p. 176.

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L’igumeno come padre spirituale …

dolce preghiera, il profitto ininterrotto, l’ascensione e la divinizzazione del dono che è stato ottenuto”37. Si coglie già in questa frase il beneficio atteso dall’exagóreusis, considerata come una tappa e non come fine a se stessa, origine di molti beni. La formula è ancora più chiara nell’elogio di Platone di Sakkudion: “Là dove c’è l’exagóreusis, vi è anche la fiducia; là dove vi è la fiducia, vi è la rinuncia alla volontà; dove la volontà è spezzata, là vi è la perfezione della sottomissione”38. E più avanti, mostrando come le due virtù si consolidano a vicenda, Teodoro scrive: “Niente è pari per il [monaco] sottomesso, non c’è nulla che eguagli il combattimento dell’exagóreusis e la correzione attraverso l’obbedienza, attraverso i quali l’anima è illuminata e la volontà messa a morte”39. Infine, se al monaco non restasse da esercitare che una sola virtù, Teodoro probabilmente sceglierebbe quest’ultima: “Il solo e primo aiuto è la sicurezza che dona l’exagóreusis con l’aiuto e il soccorso di Dio”40. Si può ben comprendere che l’exagóreusis, così riconsiderata, è al servizio di una causa che oltrepassa il singolo monaco, cosa che appare ancora nettamente nei consigli di Teodoro all’igumeno Gregorio: “Ci sia un’unica volontà per tutti, un solo cuore, una sola anima, non ciò che è mio e ciò che è tuo, che tutto sia comune, tutto purificato dall’exagóreusis”41. L’exagóreusis, dunque, non soltanto purifica il monaco come singolo, ma serve all’intero corpo monastico, cementa, alimentando l’umiltà e dunque la sottomissione, la coerenza di questo corpo. In questo l’exagóreusis non è soltanto una virtù ascetica per Teodoro, ma rappresenta una vera e propria virtù cenobitica.

37

Ibid., p. 177. Id., Lode dell’igumeno Platone (BHG 1553), PG 99,836B. 39 Ibid., PG 99,812C-D. 40 Cat. II,82, pp. 578-579. 41 Ep. 61, p. 173. 38

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L’igumeno, unico padre spirituale?

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Chi può ricevere l’apertura del cuore e chi sarà il padre spirituale dei monaci? Prima di tutto, secondo Teodoro, chi avrà esperienza. Un’esperienza monastica innanzitutto: per ben governare bisogna essere stati capaci di sottomissione, essere stati capaci di essere governati42. L’igumeno è il primo tra i pari, secondo Teodoro, ma egli non dimentica che in precedenza è stato lui stesso sottomesso: Non sono stato forse anch’io un monaco che ha esercitato la sottomissione? Non ho avuto forse anch’io un igumeno e un economo? Non forse un padre spirituale e uno carnale? Non forse fratelli spirituali e carnali, tra i quali vivevo come in mezzo al fuoco, colpito da una parte e dall’altra, combattendo contro due vite tra loro contrapposte? Ma non ho potuto salvarmi se non attraverso la perseveranza, la necessaria exagóreusis e l’abitudine di fare continuamente a me stesso dei rimproveri43.

La seconda qualità che ci si attende dal confessore è quella di una conoscenza intima della natura umana, della sua psicologia, e l’esperienza della vittoria sulla tentazione. Nonostante la distanza che separava Teodoro Studita dai suoi monaci – la cui provenienza sociologica era fortemente variegata –, questi non smette mai di dirsi pari dei suoi monaci e di ricordare la triste perseveranza della natura umana, in lui come in loro, nell’oscillare tra la colpa e la correzione. Egli invoca il proprio peccato: “Io, il primo a essere stato tentato, tendo la mano a voi che siete provati: gran42 “Per il fatto di essere ben governato uno giunge a governare rettamente” (ibid. 530, p. 793). 43 Cat. IV,95; nella tr. it., p. 404.

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L’igumeno come padre spirituale …

de è la sicurezza che viene dalla custodia degli occhi e dall’exagóreusis sincera”44. E altrove dice:

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“Ma la nostra natura è negligente e cade facilmente!” – dirà qualcuno –. Sì, lo riconosco anch’io – del resto appartengo alla stessa natura –, ma ogni volta che questo ci accade c’è per noi la possibilità della penitenza, dell’exagóreusis, della contrizione del cuore, del ritorno alla sobrietà, e quindi, di un rapido ritorno alla condizione precedente45.

All’interno del monastero, l’igumeno è dunque il primo qualificato a essere il padre spirituale dei suoi monaci, a ricevere i loro pensieri. La concezione di Teodoro, già evidenziata in passato da Irénée Hausherr, è tradizionale: il monaco sottomesso deve amare l’igumeno e obbedirgli come il discepolo ama Cristo e gli obbedisce. “Nessun bene è invisibile agli occhi di Dio … Ma anch’io devo conoscervi. Per questo chiedo l’exánghelsis, per conoscere i miei figli e per essere conosciuto da loro”46. È così che le due recensioni dell’HypotØposis studita non prevedono altra soluzione che quella della persona dell’igumeno per confessare i monaci. Dice la regola studita: “A ogni órthros l’igumeno esce dal coro per intonare la quarta ode. Sedutosi, riceve in confessione i fratelli che vengono a trovarlo e cura ciascuno così come gli è utile”47. Un passo merita tuttavia attenzione. Si tratta di una catechesi inedita in greco che appartiene al primo libro delle Grandi catechesi, sotto il numero 57. Datata intorno all’anno 798, essa pre-

44

Cat. I,48 (= CL 39, IX/2, p. 110). Cat. IV,36, p. 134; nella tr. it., pp. 184-185. 46 Cat. II,25, pp. 176-177. 47 Teodoro Studita, HypotØposis, PG 99,1712B. Stessa cosa nella recensione athonita (cf. supra, p. 150, n. 6). 45

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senta Teodoro che deve recarsi dal monastero di Sakkudion, in Bitinia, alla capitale, a Costantinopoli48. Teodoro scrive: Se in mia assenza, uno di voi è preda di un pensiero che l’affligge su tentazione del diavolo, si apra con il nostro signore e padre [Platone] – acconsenta a questo a motivo della mia partenza – oppure al presbitero – è per questo che egli è là – oppure al vice-economo per le cose più lievi o ai superiori per quello che li concerne, o ai responsabili di settimana per quello che dipende da loro. Non voglio, infatti, che si rivelino i pensieri al primo che capita49.

Sembra per lo meno curioso che Teodoro sia improvvisamente sostituito durante la sua assenza da cinque persone, se fosse stato il solo ad assicurare l’exagóreusis di questi monaci. È al contrario probabile che Teodoro fosse già stato in precedenza aiutato in questo compito da altri fratelli appartenenti alla gerarchia del monastero, ai quali i monaci andavano a confessarsi secondo la gravità dei peccati commessi o secondo la natura dei loro pensieri. Questa disposizione si trova del resto esattamente nel Typikón del monastero dell’Everghetis del 1054-1070, di cui si sa che reca traccia dell’influenza studita e secondo cui i presbiteri e i diaconi, così come i monaci più sperimentati, sono autorizzati a ricevere i pensieri di altri monaci a eccezione dell’exagóreusis ricevuta al momento della consegna dell’abito50.

48 Su questo testo ha già richiamato l’attenzione J. Leroy in “La vie quotidienne du ´ moine stoudite”, in Irénikon 27 (1954), pp. 21-50 (qui p. 32), ripreso in Id., Études sur le monachisme byzantin, pp. 47-49 e in Id., Studitisches Mönchtum. Spiritualität und Lebensform, Graz-Wien-Köln 1969; una traduzione francese è pubblicata con il titolo “Le monachisme stoudite”, in Théodore Stoudite, Les Grandes Catéchèses, pp. 41-116 (qui pp. 78-79). 49 Cat. I,57 (inedita in greco); nella tr. fr., p. 427. 50 “Ordiniamo che si faccia quotidianamente la confessione al superiore stesso e a quelli che egli giudicherà atti a ricevere confessioni, ma la prima e grande confessione, quella che dobbiamo fare quando abbandoniamo la capigliatura mondana, bisogna farla sol-

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L’igumeno come padre spirituale …

Questo significa che Teodoro ammetteva che i monaci avessero un altro direttore spirituale oltre a lui? È dubbio: sembra che per Teodoro il vero padre/direttore spirituale, in questa stretta piramide gerarchica che era il monastero studita, non potesse essere altri che l’igumeno. Per contro, alla gerarchizzazione delle colpe doveva corrispondere una gerarchizzazione dei confessori, i quali dovevano anch’essi denunciare i casi più gravi, in ultima istanza, al padre spirituale, cioè all’igumeno. Se più tardi, come al tempo di Simeone il Nuovo Teologo, il dono carismatico della direzione spirituale potrà opporsi alla funzione ufficiale del presbitero in seno al monastero51, per Teodoro questa distinzione non ha ragion d’essere: la funzione di direttore spirituale non è né carismatica né funzionale, è “organica”, essenziale all’organizzazione cenobitica, è un ingranaggio fondamentale.

Alla ricerca di un’applicazione pratica

Ci piacerebbe, trasgredendo la regola della discrezione, riuscire a essere testimoni di un colloquio tra Teodoro e uno dei suoi monaci e assistere al discernimento dei pensieri. Rivolgersi al penitenziale studita conservato nella Patrologia graeca non ci è di aiuto52, innanzitutto perché manca un’edizione critica: questa raccolta è infatti doppia; una prima parte 53, forse autentica, comprende le penitenze per le mancanze nell’adempimento delle

tanto davanti al superiore e a nessun altro, perché egli possa conoscere personalmente ciascuno e preparare i rimedi appropriati a ciascuno. È tutto per quanto riguarda questo ´ tema” (“Le Typikon de la Théotokos Évergètis”, in Revue desÉtudes Byzantines 40 [1982], pp. 5-101 [qui p. 33]). 51 Cf. H. J. M. Turner, St Symeon the New Theologian, p. 56. 52 Cf. Penitenze monastiche, PG 99,1721-1729.1733-1757. 53 Corrispondente a PG 99,1733-1757.

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diaconie; la seconda parte, apparentemente spuria, presenta le penitenze per le colpe d’ordine morale. Certamente, mentre Teodoro era in vita, veniva applicato un penitenziale; così ci testimoniano le Catechesi 54. Questa regola delle penitenze è quella conservata nelle recensioni della Patrologia graeca del Migne? Non lo sappiamo. Rileviamo che le penitenze note sono in numero limitato: si trova la scomunica temporanea, la xeropaghía (assunzione di cibi non cotti), la parástasis (restare in piedi senza muoversi), e le genuflessioni. Qual è l’originalità di Teodoro? Il futuro editore di questi testi dovrà necessariamente mettere in parallelo le Epitimíe (o penitenze) studite con le Epitimíe dello Pseudo-Basilio di Cesarea che conobbero ugualmente una grande diffusione nel mondo bizantino. Questo comunque non fa di queste raccolte studite un manuale per il confessore. Nella sua pratica di direzione spirituale, Teodoro deve lottare contro molteplici deviazioni. Ci sono innanzitutto i monaci che fanno mostra di confessare le loro colpe, ma che giocano con le parole: Date l’impressione di praticare la exagóreusis, ma in realtà non è un’exagóreusis la vostra, anzi costruite una disputa verbale e un tribunale degno di un pretore, per la rovina delle vostre anime, del ruolo che io, pover’uomo, ricopro e di tutti coloro che ascoltano55.

Ci sono quelli che non confessano niente ma che vanno indagando sui segreti altrui per svelarli e riferirli in comunità, come

54 Questo risulta dal seguente passo: “Qualcuno mangia di nascosto? Sia punito. Riceve, fosse pure per caso, qualcosa senza benedizione? Sia punito. Distribuisce cibo, senza averne il potere, o fa lo scambio di una tavoletta o di qualcosa di simile? Sia punito. Mormora? Ugualmente. Incorre in una disobbedienza? Sia punito. Non vuole lavorare? Non mangi. Complotta o ruba? Sia separato dagli altri, come prevedono le penitenze” (Cat. II,60, p. 429). 55 Cat. IV,95, p. 327; nella tr. it., p. 404.

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dice crudamente Teodoro “fornicando con la lingua”56. Vi è soprattutto il rilassamento in questa pratica dell’exagóreusis, cosa che Teodoro deve regolarmente combattere:

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Ma perché in questi giorni sono stato rattristato a causa vostra con un dolore insopportabile? Perché, a quanto pare, si trascura l’exagóreusis, questo grande mezzo di salvezza! ... Infatti, da dove viene, ditemi, l’eccessiva familiarità tra di voi e le azioni sconvenienti che ne derivano? Non forse dal fatto che non praticate l’exagóreusis, ma tenete nascosti i vostri pensieri funesti57?

La concreta illustrazione del legame individuale tra padre e figlio spirituale si trova talvolta meno nelle Catechesi (ciò che è assolutamente evidente per i monaci non è sempre detto) che nelle Lettere, e particolarmente nelle lettere alle donne che formano un vero manuale di spiritualità pratica58. Lungi dal riproporre ancora una volta l’immagine di un Teodoro rigorista, vediamo nell’igumeno studita un modello di prudenza. Ecco alcuni passi di una lettera all’igumena Eufrosina: Governa il gregge che Dio ti ha affidato, santamente, in quanto madre spirituale, non governando secondo gli uomini, mostrando in te stessa il modello di ciò che viene comandato, non esigendo da nessuna niente che sia al di sopra delle sue forze, dando a tutte una parte uguale del tuo affetto e non avendo preferenze per nessuna … Le sorelle che ti hanno come alla loro testa devono confidarti

56 “Queste cose sono garantite anche riguardo alla confessione, ma voi vi comportate in modo tale che di vostra iniziativa andate ricercando e indagando anche quello che non è stato confessato e lo raccontate agli altri e iniettate nei vostri cuori il veleno eccitando e lasciandovi eccitare dalle passioni e fornicando con la lingua, cosa che forse riuscite a fare facilmente” (Cat. II,92, p. 660). 57 Cat. IV,133; nella tr. it., pp. 557-558. 58 Analisi parziale di queste lettere (quelle a Eufrosina) in I. Hausherr, Direction spirituelle, pp. 276-285.

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le loro inclinazioni e devono dirti a che cosa ciascuna più è incline. Tu devi accogliere queste confidenze, consolare l’una, incoraggiare l’altra, mettere in guardia un’altra ancora e, in una parola, offrire a ciascuna il rimedio conveniente. Non lasciarti vincere dall’acedia su questo punto; Dio ci protegge, il Signore ci sostiene. Noi dobbiamo soltanto cominciare ed egli ci insegna la conoscenza59.

Nella lettera 42 alla monaca Anna, si trova un metodo di preghiera e di esame individuale simile al “Confesso al Dio onnipotente che ho peccato”, ma che, nella fattispecie, è previsto solo per un uso personale60. Ecco le indicazioni che si possono raccogliere sulla direzione spirituale e la pratica dell’exagóreusis in Teodoro: un magro florilegio che certo non rende forzatamente conto della fama che avvolse Teodoro in vita (come mostra la rete della sua corrispondenza) come guida spirituale e come fondamento dell’ortodossia.

Esiste una tradizione studita di direzione spirituale?

Si può ora cercare di esaminare in che misura esista una tradizione studita di direzione spirituale. Per questo saranno qui presi in esame quattro personaggi: Antonio III Studita, Simeone Studita, Simeone il Nuovo Teologo e Atanasio l’Athonita.

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Ep. 465, pp. 666-667. Cf. ibid. 42, pp. 123-124. La preghiera comincia con queste parole: “Tu sai, Signore, quanto ho peccato e quanto pecco in ogni momento”. 60

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L’igumeno come padre spirituale …

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Antonio III Studita Alcuni anni or sono, sono state pubblicate a partire dagli archivi di Julien Leroy quattro catechesi inedite dell’igumeno Antonio Studita datate agli anni 963 e 973, prima che quest’ultimo diventasse patriarca di Costantinopoli dal 973 al 978 sotto il nome di Antonio III. La catechesi 1 di questo insieme è senz’altro la più bella catechesi studita sull’exagóreusis di cui disponiamo, dal momento che, come già si è detto, Teodoro non ha espressamente scritto niente su questo tema61. Antonio comincia con il ricordare, in accordo con Doroteo di Gaza, che se il digiuno e la veglia sono le radici della virtù pratica per il giovane monaco, il vero fondamento della vita monastica è la manifestazione dei pensieri. Dopo aver raccolto le testimonianze delle Scritture e dei padri sull’exagóreusis, Antonio ne ricorda tutto il beneficio: Che cosa vi è di più luminoso di un’anima che si attiene a tale modo di procedere? Quelli che ne hanno fatta l’esperienza lo sanno: quale speranza, quale quiete, quale libertà – e l’assenza di paura anche dinanzi alla morte, la cessazione delle lotte, la calma dei pensieri e, infine, l’esito desiderato, la purezza dell’anima – non acquista chi manifesta ogni giorno i suoi pensieri malvagi? Le confessioni fatte ogni giorno illuminano il quotidiano.

Prima però, il monaco deve giungere a una sua decisione personale e combattere nel suo intimo ciò che lo spinge a rinviare l’exagóreusis. Infine, l’igumeno invoca il proprio esempio e la debolezza della natura umana: 61 Cf. Antonio Studita, Catechesi 1, in J. Leroy, O. Delouis, “Quelques inédits attri´ bués à Antoine III Stoudite”, in Revue des Études Byzantines 62 (2004), pp. 5-82 (qui pp. 32-39).

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Sarò forse il solo, tormentato dai cattivi pensieri, a dire questo e a giudicare in questo modo, fantasticando sulle passioni interiori degli altri a partire dalle mie, mentre voi non avreste nella vostra mente né passioni, né pensieri cattivi, né desideri? Signore, Signore di tutte le cose, se soltanto questo fosse possibile! Perché anch’io voglio questo, che dimoriate nella santità e nella rettitudine di cuore. Ma non è così, non può essere! Essendo anche voi degli esseri umani, siete soggetti alla perdizione e alle passioni ed è una cosa impossibile che la vostra santa anima non sia insozzata dai sensi, dagli spiriti impuri e dalle passioni che germogliano nel vostro cuore.

Infine, l’umiltà deve nutrire la decisione dell’exagóreusis, o piuttosto, l’umiltà e l’exagóreusis si nutrono a vicenda: “Chi si umilia si confesserà e chi si confessa si umilierà”. E al di là del singolo, ciò avrà conseguenze comunitarie: “Chi si è umiliato, si abbasserà anche dinanzi al suo prossimo”. “Da ciò procede la mitezza … da ciò procede il riposo, come la carità e la compassione nei confronti del prossimo”. Fa impressione vedere come questo testo di Antonio Studita sintetizzi perfettamente quello che Teodoro aveva enunciato in maniera non organica centocinquantanni prima. Vi è qui un innegabile accordo tra Teodoro e Antonio, una sintesi delle virtù dell’exagóreusis in ambito cenobitico che Teodoro avrebbe accettato senza nulla ribattere.

Simeone Studita e Simeone il Nuovo Teologo Più noto come padre spirituale di Simeone il Nuovo Teologo, Simeone Studita62 fu monaco a Studios dal 942 al 986-987, dun-

62 Sui due Simeone vi sono numerosi eccellenti studi; si veda, in particolare, H. J. M. Turner, St Symeon the New Theologian; H. Alfeyev, St Symeon the New Theologian e il

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L’igumeno come padre spirituale …

que sotto l’igumenato di Antonio. La sua concezione è anch’essa conforme all’eredità di Teodoro, particolarmente a proposito dell’exagóreusis quotidiana: “Bisogna che quotidianamente confessi ogni tuo pensiero al padre spirituale e poi tu accolga, con piena convinzione, tutto ciò che ti vien detto da lui come dalla bocca di Dio”63; “Se hai preso l’abitudine di riferire i tuoi pensieri a uno dei fratelli della comunità che ti dà fiducia e sicurezza, guarda di non smettere mai di frequentarlo e di confessargli i pensieri che ti assalgono a ogni ora e a ogni giorno”64. Il suo discepolo Simeone il Nuovo Teologo (949-1022), che non restò a Studios se non per breve tempo, esige anch’egli un’exagóreusis quotidiana: Ci sono anche i pensieri del tuo cuore da confessare, se possibile a ogni ora, al tuo padre spirituale: altrimenti, almeno non lasciar passare la sera, o mio carissimo, ma fin dal momento dell’órthros esamina te stesso e confessagli tutto ciò che ti è accaduto. Abbi in lui una fede senza esitazioni, anche se tutto il mondo lo insultasse e ne facesse vilipendio65.

Come sappiamo, tuttavia, l’innovazione in quest’epoca nel monastero di Studios fu di accettare la distinzione tra padre spirituale e igumeno. Bisogna qui ridare la parola a Simeone Studita: Bisognerebbe, a dir la verità, che per questo scopo tutti andassero dall’igumeno, ma poiché alcuni, per eccesso di timidezza e di diffidenza nei confronti dell’igumeno, si rifiutano di farlo,

recente Simeone il Nuovo Teologo e il monachesimo a Costantinopoli. Atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 15-17 settembre 2002, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2003. 63 Simeone Studita, Discorso ascetico 6, in Id., Padri e figli nello Spirito, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2002 (Testi dei padri della chiesa 59), p. 17. 64 Ibid. 35, p. 36. 65 Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 26, a cura di U. Neri, Roma 1995, p. 404. Segnaliamo anche un altro testo sul medesimo tema: Id., Sulla confessione dei peccati, in

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proprio per questo, per condiscendenza, facciamo questa concessione. Ma bisogna evitare di andare in giro da una persona all’altra – è il Nemico che ce lo suggerisce! – con la scusa che siamo di peso, con le nostre continue visite, a chi si è preso in carico i nostri pensieri, oppure perché ci vergogniamo di riferirgli spesso questo genere di cose e, dunque, per questo motivo o smettiamo proprio di confessarci o corriamo da un altro ... Per questo, se all’inizio del tuo cammino hai consegnato te stesso a un fratello in cui avevi fiducia, sforzati di rimanergli fedele fino alla morte, senza dubitare e senza scandalizzarti di lui66.

Questa distinzione fu il dramma di Simeone il Nuovo Teologo, cui l’attaccamento al proprio padre spirituale causò numerose difficoltà. Era, in questo, in contraddizione con Teodoro? Certamente meno di quanto si pensi. Infatti – e questo implica che si ritorni un poco indietro – Teodoro stesso aveva avuto un padre spirituale nella persona del suo zio materno Platone, l’igumeno del monastero di Sakkudion dal 782 al 794, che, dopo aver rinunciato agli incarichi in monastero, visse da recluso dal 794 all’814, anno della sua morte. La devozione di cui Teodoro dava prova nei confronti del suo padre spirituale, che egli designava ai suoi monaci come “il padre mio che è anche il vostro”, era decisamente considerevole: Voi siete la mia luce, la fiaccola sempre accesa che dissipa i pensieri tenebrosi della mia anima. Voi siete il bastone che sostiene il languore del mio cuore, il rimedio alle mie tristezze, il balsamo che rinnova il mio coraggio, il mio evangelo, il mio giorno, la mia festa, la mia gloria. Senza di voi il sole mi sem-

K. Koll, Enthusiasmus und Bussgewalt beim griechischen Mönchtum: eine Studie zu Symeon dem neuen Theologen, Leipzig 1898, pp. 110-127; per una tr. it., cf. Id., Sulla confessione dei peccati, a cura di L. Cremaschi, Bose 2002 (Testi dei padri della chiesa 56). 66 Simeone Studita, Discorso ascetico 35, pp. 36-37.

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bra oscuro ... Niente mi piace sulla terra senza la vostra presenza. Perché che cosa c’è di più invidiabile di un vero padre e di un padre in Dio? Un figlio amorevole lo capisce, se è degno del suo nome. Ma c’è forse bisogno di molte parole? Dirò francamente quello che provavo: spesso, pur senza pensare di venirvi a trovare nella vostra santa cella, per così dire inconsapevolmente, come se qualcuno mi trascinasse, entravo da voi, al punto che spesso, quando mi chiedevate: “Perché vieni?” non sapevo rispondere. A tal punto la mia felicità era sospesa alla vostra67.

Questo passo richiama le più belle pagine di Simeone il Nuovo Teologo consacrate a Simeone Studita. Teodoro che, alla morte dello zio, redasse il racconto agiografico della sua vita, lo considerò immediatamente come un santo, cosa che la chiesa accettò iscrivendolo ben presto nel suo sinassario68. Non si può legittimamente pensare che la fedeltà di Simeone il Nuovo Teologo all’eredità di Teodoro sia da cercare anche in questo atteggiamento parallelo?

I “typiká” o regole monastiche

Usciamo ora dalla sfera di influenza più immediata del monastero di Studios per volgerci più in generale al monachesimo bizantino posteriore a Teodoro. Se Atanasio l’Athonita (925/930-1001) fu grandemente influenzato dall’eredità di Teodoro al punto di

67

Ep. 2, p. 9. Cf. Synaxarium ecclesiae Constantinopolitanae, Propylaeum ad Acta Sanctorum Novembris, a cura di H. Delehaye, Bruxelles 1902, col. 586 (edizione basata tuttavia su un solo manoscritto). 68

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riutilizzare una gran parte del suo Testamento nella propria HypotØposis69, il fondatore del monastero di Lavra resta discreto sulla questione della paternità spirituale. A proposito dell’exagóreusis, Atanasio nel suo typikón70 si riferisce vagamente a un’antica tradizione e legislazione e solo le Vite del santo testimoniano l’importanza che Atanasio riconosce a questa pratica, senza tuttavia rinviare a Teodoro71. L’analisi dei typiká, o regole monastiche, facilitata dalla loro recente edizione in versione inglese72, mostra l’alternanza tra due soluzioni: l’igumeno come padre spirituale, oppure la libertà di scelta del monaco. Con il moltiplicarsi dei testi di fondazione – che contrariamente all’occidente dipendono unicamente dal fondatore e non da un’abbazia madre – il riferimento al monastero di Studios non concerne affatto la direzione spirituale, eccetto quei casi in cui si tratta della lettura delle catechesi di Teodoro. Nel monastero dell’Everghetis, il sinassario liturgico per la Grande quaresima ne prevede la lettura dopo l’ufficio dell’ora prima di ogni domenica, mercoledì e venerdì, e questo a partire dalla domenica della Tyrophaghía. Nicone della Montagna Nera, nel 1055-1060, prescrive esplicitamente la lettura del typikón studita (certamente l’HypotØposis). Nel monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos, stando all’inventario del 1200, si disponeva di ottime copie delle Catechesi di Teodoro, ma il loro uso quotidiano o liturgico non è noto. Il secondo typikón del 1149 del monastero di Areia, fondato dal vescovo 69 Sull’influenza di Teodoro Studita su Atanasio l’Athonita, cf. O. Delouis, “Le Testament de Théodore Stoudite”. 70 “Bisogna sapere che esiste un’antica tradizione e legislazione dei santi padri per la quale i fratelli devono confessare al superiore i loro pensieri e le loro azioni segrete e ricevere la penitenza da lui o da chi egli ha stabilito” (Typikón di Atanasio l’Athonita, in Die Haupturkunden für die Geschichte der Athosklöster. Größtenteils zum ersten Male herausgegeben und mit Einleitungen Versehen, a cura di Ph. Meyer, Leipzig 1894, ristampato nel 2005, pp. 139-140). 71 Cf. Vitae duae antiquae sancti Athanasii Athonitae, a cura di J. Noret, CCSG 9, Turnhout 1982 (Vita A 143; 174, pp. 68, 82; Vita B 45, p. 181). 72 Cf. Byzantine Monastic Foundation Documents I-V, a cura di J. P. Thomas, A. C. Hero e G. Constable, Washington dc 2000.

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L’igumeno come padre spirituale …

Leone di Nauplia, utilizza l’HypotØposis studita come pure il typikón di Niceforo il Mistico per il monastero d’Elegmoi o Heliou Bomon (1162)73. Sono tracce disperse che ci si guarderà dall’ingigantire. Nulla in questi documenti, infatti, ricorda una vera tradizione teodoriana della direzione spirituale.

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Conclusione

Al pari di molte riforme religiose nel corso della storia, è per una volontà di “restaurazione” del passato che Teodoro è stato condotto a elaborare una “riforma” del monachesimo del suo tempo. L’ambito della direzione spirituale si iscrive in questo quadro. Si è cercato invano una teoria originale, una pratica nuova della direzione dei monaci, qui esaminata in particolare attraverso uno dei suoi strumenti, la manifestazione dei pensieri. Il principio dell’exagóreusis in verità è molto antico, è già presente negli apoftegmi: “Se è possibile, il monaco deve confidare agli anziani quanti passi fa e quante gocce d’acqua beve nella sua cella, se non vuole sbagliare in queste cose”, dice Antonio74. Secondo Barsanufio occorre “non tacere riguardo ai propri pensieri”75. Teodoro non fa che sottolineare quest’usanza tramandata dai padri al punto da apparire non tanto come un innovatore, ma come un anello privilegiato della catena della tradizione; la sua originalità consiste nell’aver introdotto questa prassi in un quadro strettamente cenobitico. Il fatto che a Studios stesso, fin dal x seco-

73

Cf. O. Delouis, Saint Jean-Baptiste de Stoudios à Constantinople. Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 38, in Atanasio di Alessandria, Antonio abate, Vita di Antonio. Detti-Lettere, a cura di L. Cremaschi, Milano 1995, p. 237. 75 Barsanufio di Gaza, Lettere 320, in Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, a cura di M. F. Lovato e L. Mortari, Roma 1991, p. 318. 74

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lo, Simeone il Pio potesse accogliere una pluralità di direttori spirituali, il fatto che la tradizione successiva del monachesimo, sintetizzata nei typiká, potesse tralasciare di riferirsi alla tradizione studita nel trattare questo tema, indica una rapida distanziazione del monachesimo bizantino dall’eredità teodoriana. La posterità spirituale di Teodoro sta indubbiamente altrove. Si conservano oggi circa centosessanta manoscritti delle Piccole catechesi di Teodoro Studita, le ultime da lui redatte in ordine di tempo, nel corso di un esilio da Costantinopoli dall’821 all’826. Quest’ultimo libro, non più spirituale dei precedenti ma più spoglio dei realia che riguardavano specificamente il monastero di Sakkudion o di Studios, fu il libro prediletto di generazioni e generazioni di monaci orientali, e fu soprattutto utilizzato come supporto liturgico in numerosi monasteri. È forse in questi testi che si può meglio riconoscere, a Bisanzio, l’eredità studita sul discernimento dei pensieri. Non si tratta tanto di una rigida regola, quanto piuttosto di una pratica osservata in seno al quotidiano della vita cenobitica, una direzione segnata dal sigillo dell’esperienza e della prudenza pastorale, e dunque rivestita, per quanto riguarda il monachesimo orientale, di una certa universalità.

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IL RAPPORTO MAESTRO-DISCEPOLO NELLE LETTERE DI NIL SORSKIJ (1433-1508)

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Gelian M. Prochorov*

Tutte le opere di Nil Sorskij, si può dire, hanno carattere pedagogico1. L’atteggiamento di san Nil non è però quello del docente che guarda i suoi discepoli-lettori dall’alto in basso, ma quello di chi impara insieme a loro, come se fosse in mezzo a loro. All’inizio della sua opera Vita secondo le sacre Scritture, che noi chiamiamo Tradizione, Nil chiama i discepoli “fratelli nell’animo”: Ho vergato uno scritto utile all’anima dei miei fratelli vicini nel Signore, di indole uguali a me. Così infatti io vi chiamo, e non discepoli, perché per noi c’è un solo maestro, Gesù il Cristo Figlio di Dio … Ho trasmesso l’insegnamento divino ai miei

* Membro dell’Accademia delle scienze russa (Pu∫kinskij Dom) di San Pietroburgo. Traduzione dall’originale russo di Leonardo Paleari. 1 Le opere sono ora integralmente pubblicate sulla base degli autografi in: Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, a cura di G. M. Prochorov, Sankt-Peterburg 2005. Una traduzione italiana, comprendente la Storia dello “skit” di Nil Sorskij, l’Insegnamento ai discepoli (Predanie), la Regola (Ustav), la Preghiera (Molitva) e le lettere, è apparsa una ventina d’anni fa: Nil Sorskij, Vita e scritti, a cura di E. Bianchi, Torino 1988. Per la bibliografia su Nil Sorskij, rimandiamo al volume che raccoglie gli atti del convegno internazionale a lui dedicato: Nil Sorskij e l’esicasmo. Atti del II Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 21-24 settembre 1994, a cura di A. Mainardi, Qiqajon 1995.

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Gelian M. Prochorov

fratelli e signori per la salvezza mia e di tutti quelli che la desiderano, elevando la coscienza a ciò che è buono2.

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S) vˇest’ si può tradurre qui con “coscienza”3. Come in tutte le altre sue opere, Nil sta parlando qui precisamente dell’attività della mente (il nome tecnico della preghiera mentale o del cuore), necessaria a chi vuole essere suo discepolo, al pari della pratica corrispondente: E poiché molti devoti fratelli vengono da me, volendo vivere con noi, a lungo io mi rifiuto di accoglierli, perché sono un peccatore, debole di mente e di corpo; ma poiché malgrado il rifiuto non se ne vanno, non cessano di assillarmi, e per questo motivo ci causano preoccupazione, ho deciso dunque che, se questa è la volontà di Dio, vengano pure da noi, perché ricevano la tradizione dei santi e conservino gli insegnamenti divini e adempiano le tradizioni dei santi padri … A queste persone che vengono a noi e chiedono queste verità, noi le trasmettiamo, avendo studiato le divine Scritture, tanto più che non siamo noi, indegni, a trasmetterle, ma i santi padri, che le hanno ricevute dalle divine Scritture; noi solo le conserviamo con cura per coloro che vengono da noi. Così disponiamo e amiamo4.

Una regola trasmessa dai santi padri è quella di “ottenere il cibo quotidiano e le altre cose necessarie attraverso il lavoro delle proprie mani … Poiché l’apostolo dice: ‘Chi non vuole lavorare, neppure mangi’ (2Ts 3,10) … Bisogna occuparsi di tutto ciò che è nella propria casa. Ma non bisogna avere il superfluo”. Il mo-

2

Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, p. 82. Cf. G. M. Prochorov, “Drevnerusskoe slovo s) veˇ st’ i sovremennye russkie slova sovest’ i soznanie. Zametki istorika kul’tury”, in Trudy otdela drevnerusskoj literatury 55 (2004), pp. 523-535. 4 Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, pp. 82-84. 3

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Il rapporto maestro-discepolo …

naco deve aiutare gli altri non con l’elemosina, ma con la parola “perché l’elemosina monastica è aiutare il fratello con la parola quando ne ha bisogno e confortarlo nel dolore con pensieri spirituali, ma anche questo lo fa solo chi ne è capace”5. Nella breve Lettera a un fratello d’oriente che chiede un consiglio utile all’anima, Nil indica quello che è necessario per un monaco: “Adempiere la regola degli esercizi corporali secondo le forze, e non oltre misura, studiare le Scritture divine, apprendere il lavoro manuale e amare la quiete”6. Alla quiete (letteralmente bezmolvie, “silenzio”), ovvero all’esichia, san Nil dedica la sua opera maggiore, Sull’attività della mente (O myslennom dˇelanii), la cosiddetta Regola. Nil scrive nel capitolo “Sull’ordine di ogni attività della nostra vita”: “Svegliato dal sonno anzitutto glorificare Dio, confessarsi a lui, e poi queste cose: preghiera, canto, lettura, lavori artigianali o qualche altra occupazione”7. L’impegno principale del monaco è la lotta alle passioni. Le “tendenze passionali” indicate da Nil, secondo la tradizione, sono otto: gola, lussuria, avarizia, ira, malinconia, accidia, vanità, superbia. A ciascuna di esse egli dedica molta attenzione, insegnando come opporsi a ogni passione presa singolarmente e a tutte insieme, come conservare il ricordo della morte e del giudizio finale, come ottenere il dono delle lacrime per piangere i propri peccati, come poi “guardarsi dallo spirito iracondo e dalle altre passioni” e come ottenere la conseguente rinuncia alle sollecitudini e “l’autentica assenza di preoccupazioni, che è mortificare se stessi in tutto ed esercitarsi e attendere all’unica opera di Dio”8. Ripetendo le parole di Isacco di Ninive, Nil parla allora dell’uomo che riesce ad attingere il regno dei cieli: “E quando la

5

Ibid., pp. 86-88. Ibid., p. 244. 7 Ibid., p. 130. 8 Ibid., p. 186. 6

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mente riesce a percepire la futura beatitudine, dimentica se stessa e tutte le cose di quaggiù, e ormai non v’è nulla che possa influire su di lei”9. Poi cita Simeone il Nuovo Teologo:

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Ciò è tremendo, veramente tremendo e indicibile: vedo una luce, che non è di questo mondo, stando seduto sul letto nella mia cella. Vedo dentro di me il Creatore del mondo, e parlo, e amo, e mangio, e mi sazio di questa visione divina, e unendomi a lui, salgo al cielo. Questo a tutti è noto ed è vero. Dove sia allora il corpo, non so10.

Nil scrive della realtà di questa esperienza anche al suo tempo: Così molti antichi padri facevano e insegnavano, e l’un l’altro si edificavano e si confermavano. Oggi che di questo siamo così impoveriti, se qualcuno aspira all’opera di Dio, è soprattutto la grazia a illuminarlo e aiutarlo, ora e sempre. Ma chi non desidera impegnarsi nell’ascesi, ma induce gli altri alla negligenza e all’inconcludenza, e dice che oggi questi antichi doni di Dio non ci sono più, costoro l’Apostolo li definisce ingannati e ingannatori (cf. 2Tm 3,13). Alcuni non vogliono nemmeno sentir dire che al nostro tempo esiste la grazia. Essi hanno perso ogni sentimento, ragione e fede e si trovano nelle tenebre, dice Gregorio Sinaita. Noi però, conoscendo tutto ciò dalle sacre Scritture, poiché vogliamo dedicarci all’opera di Dio con autentico zelo, anzitutto ci allontaniamo quanto possibile dalla vanità di questo mondo e cerchiamo di diminuire le passioni, ovvero di custodire il cuore dai pensieri malvagi11.

9

Ibid., p. 118. Ibid., p. 118. Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inno 13, PG 120,526CD. Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, pp. 122-124.

10 11

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Il rapporto maestro-discepolo …

Ma, ammonisce Nil, “non bisogna applicarsi a questa attività in tal misura prima del tempo”12. Si tratta di un avvertimento che Nil rivolge ai suoi lettori in generale: “Noi, irragionevoli per la debolezza del nostro intelletto, abbiamo scritto queste cose per ricordarle a noi stessi e a quelli come noi, a coloro che sono nella condizione di discepoli, se lo accettano”13. Nella corrispondenza che ci è pervenuta, invece, Nil si rivolge a persone concrete, rispondendo alle loro lettere. Un principe costretto a forza a farsi monaco, Vassian Patrikeev, il quale “soffriva per i continui ricordi della precedente vita mondana”, chiese insistentemente a Nil che gli dettasse “un insegnamento per la pratica della virtù”. Il monaco gli scrisse sull’inganno dei beni mondani, sui “pensieri impuri che ci infonde il nemico delle nostre anime”, sulla necessità di fare qualche lavoro artigianale, di “ubbidire al superiore e agli altri padri e di compiere nel Signore ogni opera buona”, di aver zelo, di obbedire alle sacre Scritture, di pazientare nelle afflizioni e di pregare per chi ci fa soffrire. “E il Dio di ogni gioia e consolazione conforterà il tuo cuore e ti conserverà nel suo timore per le preghiere della Madre di Dio e di tutti i santi”14. In seguito Vassian Patrikeev, dopo la morte del suo maestro, fu un audace difensore della povertà monastica, contro il possesso di patrimoni da parte dei monasteri, e combatté anche contro la pena di morte per gli eretici voluta da Iosif Volockij. Fu ingiustamente condannato dai seguaci di Iosif e morì imprigionato nel monastero di Iosif di Volokolamsk15. Un’altra lunga lettera giunta fino a noi fu scritta da Nil a Gurij Tu∫in, monaco e per un periodo igumeno del monastero di San Kirill di Beloozero. A seguito di una conversazione “faccia a faccia”, Gurij scrisse a Nil una lettera con la richiesta che gli invias-

12

Ibid., p. 192. Ibid., p. 200. Ibid., pp. 222-230. 15 Cf. N. A. Kazakova, Vassian Patrikeev i ego so™inenija, Leningrad 1960. 13 14

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se “un insegnamento scritto … utile per compiacere Dio e a vantaggio dell’anima”. A tali richieste Nil rispose con alcune lettere. La prima è dedicata ai “pensieri lussuriosi”, e a “come resistere ad essi”; la seconda alla maldicenza e la terza a “come rinunciare al mondo”. Su questa terza questione, Nil affronta un problema allora di bruciante attualità, quello dei possedimenti monastici: Evita i discorsi di coloro che pensano secondo le abitudini del mondo e si affaticano in preoccupazioni irragionevoli, cioè moltiplicare le ricchezze del monastero e acquisire patrimoni. Essi sbagliano pensando di fare queste cose a fin di bene, ma non avendo compreso le Scritture e a motivo delle loro passioni ritengono di fare una cosa buona. Ma tu, uomo di Dio, non unirti a loro16.

È interessante che Nil, evidentemente secondo il proprio carattere, trattiene Gurij dall’entrare in polemica con i monaci favorevoli al possesso dei beni: “Non bisogna entrare con loro in discussione, accusarli e rimproverarli, ma lasciare questo a Dio, solo Dio ha il potere di correggerli”17. Alla quarta questione di Gurij, come non perdere la giusta strada, Nil risponde con una raccomandazione: “Impara le regole delle Scritture divine e seguile: le Scritture autentiche, divine”. A questo punto Nil introduce un’interessante considerazione su quelle che definisce scritture “non autentiche”: Poiché vi sono molte scritture, ma non tutte sono divine, tu dopo esserti assicurato della loro autenticità attraverso la loro lettura e la conversazione con persone sagge e spirituali – perché non tutti, ma solo le persone sagge le comprendono – non 16 17

Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, p. 234. Ibid.

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fare nulla che non sia testimoniato in queste Scritture, come faccio anch’io … Io infatti non compio nulla senza la testimonianza delle divine Scritture, ma seguendole, faccio quello che è nelle mie possibilità. Quando infatti devo fare qualcosa, interrogo prima le divine Scritture, e se non trovo nelle Scritture divine una conferma a quello che penso, non inizio l’opera, finché non trovo una conferma. Quando la trovo, con la grazia di Dio, allora compio l’opera, rassicurato della sua bontà. Non ardisco agire con la mia sola volontà, perché sono un semplice contadino ignorante. Così anche tu, se vuoi, agisci secondo le sante Scritture18…

Anche la lettera a German Podol’nyj è scritta dopo una discussione con Nil, in seguito alla quale German riteneva che il suo interlocutore fosse rimasto offeso: “Mi sembra che, quando eri qui, tu ti sia rattristato per alcune parole della nostra conversazione”. Anche Nil aveva avuto la stessa impressione: “Anch’io mi rattristo, per il fatto che tu sia rattristato”. A lui Nil ripete le stesse parole indirizzate a Gurij: “Noi dobbiamo agire non così come ci passa per la testa, ma secondo le Scritture e la tradizione dei santi padri”. Questo è il tema costante dell’insegnamento di Nil ai discepoli e la sua regola di vita: “Io non ho parlato per compiacerti, non ti ho nascosto le difficoltà della strada stretta e piena di afflizioni che ti ho proposto. A ciascuno io parlo secondo la sua misura”. L’osservazione è molto importante: quanto più “ampia” è la capacità di ascolto del discepolo, tanto più è severa la regola che Nil gli propone. A German, uomo a lui vicino, Nil parla di sé, ricordando la comune esperienza: Quando noi eravamo insieme nel monastero [di San Kirill di Beloozero], come sai, io mi allontanavo dal coinvolgimento

18

Ibid., p. 236.

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Gelian M. Prochorov

nelle cose mondane e agivo, a misura delle mie forze, secondo le divine Scritture, pur non riuscendoci per la mia pigrizia e negligenza. Anche dopo il ritorno dal mio pellegrinaggio [nell’oriente cristiano soggetto ai turchi], mi costruii una cella fuori dal monastero, poco lontano, e vivevo secondo le mie forze. Ora mi sono stabilito lontano dal monastero, dove, per grazia di Dio ho trovato un luogo [sulle rive boscose della Sora] secondo le mie intenzioni, poiché è difficilmente accessibile ai figli del mondo, come tu stesso hai veduto. Studio le Scritture, anzitutto gli insegnamenti del Signore e i commenti dei padri e le tradizioni degli apostoli come anche le vite e gli insegnamenti dei santi padri, e ad essi consacro tutta la mia attenzione. E a misura del mio intelletto per essere gradito a Dio e per la salute dell’anima trascrivo per me e così imparo: e in questo trovo la mia vita e il mio respiro … E se qualcuno si avvicina a me con amore spirituale, gli consiglio di fare lo stesso, e specialmente a te, poiché sin dall’inizio ti sei legato a me con amore spirituale19.

È interessante il rapporto che Nil ebbe con il suo discepolo più vicino, Innokentij Ochljabinin-Komel’skij, che era stato con lui “sul santo Monte Athos e nel paese di Costantinopoli”20 e poi aveva vissuto con lui sul fiume Sora. Secondo quanto attestato in una silloge manoscritta del xviii secolo, conservata nella Biblioteca nazionale russa di San Pietroburgo, Nil lo mandò via dal suo skit: “Il mio discepolo Innokentij l’ho mandato nella provincia di Vologda sul fiume Merma e gli ho detto: ‘Là Iddio ti darà gloria, e il tuo monastero sarà di vita comune, mentre il mio skit rimarrà così com’è durante la mia vita anche dopo la mia morte, e i fratelli vivranno da soli nelle celle’”21. Il fatto è che Innokentij, come risulta dai commenti (Nadslovie e PristeΔenie) 19 20 21

Ibid., pp. 238-244. Ibid., p. 198. Ms. RNB O. I. 274, f. 2.

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Il rapporto maestro-discepolo …

da lui scritti alle opere del suo maestro Nil, giunse alla convinzione che i monaci devono vivere in due o in tre nella stessa cella, perché il monaco non si trovi “da solo a lottare con il demonio”. Nil su questo non era d’accordo e inviò Innokentij a fondare il monastero della Trasfigurazione di Komel’22. Nel suo skit, invece, come sappiamo dalla Storia dello “skit” di Nil Sorskij del secolo xvii, e negli skity dei suoi prosecutori in Russia (lo skit di Eleazar Anzerskij) e in altri paesi, come in Moldavia nel xviii secolo (gli skity di Basilio di Poiana Ma˘ rului e Paisij Veli™kovskij) e in Germania nei secoli xx e xxi (lo skit dello ieromonaco Vasilij Grolimund) rimase immutata la regola di vivere in celle singole. Rimane immutato anche l’insegnamento fondamentale di Nil Sorskij ai suoi discepoli e prosecutori: leggere le divine Scritture e vivere secondo l’evangelo.

22 Cf. Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, pp. 287-318. Cf. G. M. Prochorov, “La vita di quiete in comune. Basilio di Poiana Ma˘rului o Innokentij di Komel’?”, in Vie del monachesimo russo. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 20-22 settembre 2001, a cura di A. Mainardi, Qiqajon 2002, pp. 171-202.

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L’ESERCIZIO DELLA PATERNITÀ SPIRITUALE NELL’“EXOMOLOGHITÁRION” DI NICODEMO L’AGHIORITA

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Gheorghios Chrysostomou*

La figura di Nicodemo l’Aghiorita occupa un posto di grande rilievo nella storia e nella spiritualità dell’ortodossia contemporanea. Nato nel 1749 nell’isola greca di Naxos, Nicodemo studiò a Smirne, ove acquisì una straordinaria cultura sia religiosa sia profana. La sua vera realizzazione di uomo, di cristiano e di maestro spirituale e scrittore, si compì tuttavia nei lunghi anni che trascorse come monaco al Monte Athos. Qui praticò l’ascesi, la lotta contro le passioni e la preghiera del cuore; qui redasse le sue grandi opere letterarie: l’Exomologhitárion, che sarà oggetto della nostra relazione, l’Enchirídion Symbouleutikón (Manuale dei consigli spirituali) e molte altre, per non parlare dell’ingente lavoro di cura e commento dei sacri canoni (il Pidálion) e dei testi patristici sulla preghiera esicasta (la Philokalía)1. Le sue posizioni teologiche e pastorali, fermamente ancorate ai padri della chiesa, faranno di lui uno strenuo paladino dell’or* Vicario generale della diocesi di Veria e professore dell’Accademia ecclesiastica superiore di Tessalonica (Grecia). Testo originale in italiano. 1 Sulla vita e sull’opera di Nicodemo si veda: T. Dionysiatis, ,Αγιος Νικ δημος  /Αγιορετης: βος κα0 τ1 2ργα του (1749-1809), Athinai 1959; N. Vidalis, Ο4 πρωτ τυποι

βοι το 6γου Νικοδμου το 6γιορετου. Κριτικ& κεμενο 7π& τ& μοναδικ& σωζ μενο χειρ γραφο, Athinai 1983 2; Νικοδμου το /Αγιορετου το Ναξου πνευματικ;

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Gheorghios Chrysostomou

todossia, ma lo metteranno anche in contrasto con le idee, ben più concilianti e mondane, delle autorità ecclesiastiche a lui contemporanee. Non solo egli dovette sopportare l’ostilità di molti teologi e vescovi, ma alcuni suoi scritti ricevettero addirittura condanne ufficiali. Ciononostante la chiesa, con il passare del tempo, comprese la sua santità e l’integrità della sua ortodossia e, nel 1955, con decreto del Patriarcato ecumenico, Nicodemo l’Aghiorita fu proclamato santo della chiesa ortodossa2. L’Exomologhitárion – termine che corrisponde esattamente al latino Poenitentiale – è certamente da annoverare tra le opere fondamentali di Nicodemo. Fu edito per la prima volta nel 1794 e il suo titolo completo è: “Penitenziale, ovvero libro di grande utilità spirituale, contenente un breve insegnamento indirizzato al padre spirituale, sul modo in cui debba confessare servendosi dei canoni di san Giovanni il Digiunatore, dettagliatamente spiegati, nonché avveduti consigli rivolti a colui che si confessa, sul modo di confessarsi come si deve, e infine un edificante discorso sulla penitenza”. L’Exomologhitárion, infatti, è diviso in tre parti (consigli al padre spirituale, esposizione dei canoni di Giovanni il Digiunatore, consigli a chi si confessa), con l’aggiunta di un’appendice (“Discorso edificante”). Nella chiesa greca l’Exomologhitárion è stato un punto di riferimento fondamentale per generazioni intere di confessori3. μαρτυρα. Πρακτικ1 Συμποσου, Νξος 8-11 (Iουλου 1993, Athinai 2000; E. Citterio,

“Nicodemo Agiorita”, in La théologie byzantine et sa tradition II, a cura di C. G. e V. Conticello, Turnhout 2002, pp. 905-978. Per una disamina critica dell’opera di Nicodemo si veda: G. Podskalsky, Griechische Theologie in der Zeit der Türkenherrschaft (1453-1821), München 1988, pp. 377-382. In questa stessa opera il lettore potrà trovare un’ampia e dettagliata bibliografia su Nicodemo a p. 377, n. 1587. 2 Per l’atto di canonizzazione si veda: (Ακολουθα το σου κα0 θεοφ ρου πατρ&ς =μ>ν κα0 διδασκλου Νικοδμου το /Αγιορετου, Aghion Oros 20043, che contiene anche le ufficiature liturgiche in onore del santo, composte dal monaco Gerasimo Mikraghiannanitis; cf. G. Chrysostomou, Τ& 2ργον το $μνογρφου Γερασμου μοναχο Μικραγιανναντου: Ε$ρετρια, Thessaloniki 1997, p. 72. 3 “Durante il xix e il xx secolo questo manuale ha conosciuto un maggior numero di ristampe rispetto a tutte le altre opere di Nicodemo (nonché una traduzione in turco ka-

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

Esso infatti ha il merito di essere scritto in un linguaggio abbastanza semplice e comprensibile anche per i preti meno istruiti; ha il vantaggio, inoltre, di essere molto fedele alla dottrina patristica, anche se è innegabile che in esso siano confluiti molti elementi propri della theologia moralis latina di ispirazione scolastica e post-tridentina (ad esempio la distinzione tra peccati mortali e peccati veniali, il concetto di espiazione come satisfactio, e altri)4. In verità il gesuita Podskalsky definisce l’Exomologhitárion opera “autonoma quanto al contenuto, ma basata probabilmente su un originale latino quanto alla strutturazione del libro”5 e Metallinos aggiunge: La tesi dei modelli latini di san Nicodemo, tesi che nel passato ha portato a ipotesi inaccettabili, è stata ormai definitivamente superata … [Nicodemo] non traduce da un originale in lingua greca o straniera, ma semplicemente si basa in maniera eclettica su opere analoghe … e il suo retroterra rimane saldamente biblico e patristico6.

Il celebre teologo ortodosso Christos Yannaras, invece, afferma: La pastorale dell’Exomologhitárion si fonda, senza riserve, sulla distorsione romano-cattolica dei termini della buona novella della salvezza portata dalla chiesa7.

ramanli)”, afferma G. Podskalsky, /Η Aλληνικ; θεολογα π0 Τουρκοκρατας (1453-1821), Athinai 2005, p. 470 (revisione dell’originale tedesco Griechische Theologie). 4 Per una trattazione generale sull’Exomologhitárion si veda: G. Metallinos, “Τ Εξομολογητ ριον το Αγου Νικοδμου”, in (Επιστημονικ; (Επετηρ0ς Θεολογικ'ς Σχολ'ς (Αθην>ν 34 (1999), pp. 191-208. 5 G. Podskalsky, Griechische Theologie, p. 380. 6 G. Metallinos, “Τ Εξομολογητ ριον”, pp. 193, 203. 7 Ch. Yannaras, (Ορθοδοξα κα0 Δση στ; νεCτερη /Ελλδα, Athinai 1992, p. 201.

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Gheorghios Chrysostomou

A questa tesi un messaggio della Sacra comunità del Monte Athos del 1993 replica:

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Se nella sua opera si sono insinuate inavvertitamente, per comprensibili motivi storici, alcune espressioni che richiamano la scolastica latina, esse tuttavia non intaccano minimamente la prospettiva e la linea sostanzialmente ortodossa del libro8.

Negli ultimi decenni, l’Exomologhitárion, pur continuando a essere pubblicato e letto, è progressivamente caduto in disuso come manuale dei confessori. Ciò è dovuto sostanzialmente a tre motivi: i preti greci di oggi hanno sempre più difficoltà nel capire il linguaggio un po’ arcaizzante del greco dei secoli scorsi; in secondo luogo le posizioni che Nicodemo sostiene, e che si basano sui canoni conciliari antichi e sui penitenziali medievali, vengono giudicate oggi in genere troppo severe e inapplicabili nel contesto sociale odierno; infine, l’Exomologhitárion, pur esaminando sulla base del penitenziale di Giovanni il Digiunatore un’ampia gamma di peccati concreti, non è però sufficientemente sistematico e completo: troppi peccati e troppe realtà della vita quotidiana del cristiano non trovano in esso risposta. Per questo Metallinos, ad esempio, sostiene che la lettura di questo libro oggi da parte del cristiano che non abbia familiarità con la lingua e con la prassi ascetica della chiesa deve essere accompagnata da adeguate spiegazioni introduttive9.

8 “ Αναρεσις τν πεπλανημνων θσεων το κ. Χρ. Γιανναρ% περ& το 'ν (γοις πατρς )μν Νικοδμου το Αγιορετου”, in (Ορθ δοξος Μαρτυρα 40 (1993), pp. 2-10.

Sul tema delle influenze della teologia latina sull’Exomologhitárion si veda anche I. Karmiris, Λ γοι περ0 τ>ν ξωτερικ>ν πιδρσεων π0 τ;ν (Ορθ δοξον Θεολογαν, Athinai 1938. 9 G. Metallinos, “Τ Εξομολογητ ριον”, p. 208.

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

Va tenuto presente, invero, che l’Exomologhitárion fu scritto in un contesto storico-politico e sociale molto particolare: la turcocrazia rendeva la fedeltà all’ortodossia una scelta difficile e pericolosa. La tentazione di convertirsi all’islam per comodità e vantaggi pratici era costante. L’epopea dei neomartiri costituiva la spina dorsale di una chiesa continuamente a rischio di sopravvivenza (lo stesso Nicodemo, del resto, scrisse il grande Nuovo martirologio, per divulgare e glorificare il ricordo di questi santi testimoni cristiani degli ultimi secoli10). Non bisogna dunque dimenticare le particolari condizioni storiche della turcocrazia se si vuole operare una oggettiva e serena valutazione dell’opera di Nicodemo. Ma passiamo ora ad analizzare il tema che ci preme: l’esercizio della paternità spirituale nell’Exomologhitárion di Nicodemo. Questo aspetto, in effetti, cioè quale debba essere il comportamento spirituale e pastorale del confessore e padre spirituale11, è approfondito con una sistematicità che supera senz’altro la trattazione dei singoli peccati. E questo non è casuale. Nicodemo riconosce che l’importante non è tanto stilare una lista di peccati e pene, quanto di fornire al confessore adeguati consigli spirituali e pastorali: il suo compito infatti non è quello di applicare semplicemente delle leggi, ma di guidare il fedele, con saggezza e prudenza, alla conversione interiore e alla salvezza della propria anima12. 10 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, ΝEον Μαρτυρολ γιον, Gτοι μαρτυρα τ>ν νεοφαν>ν μαρτρων, Athinai 1993; [Macario di Corinto, Nicodemo l’Aghiorita, Niceforo di Chio, Atanasio di Paro], Συναξαριστ;ς Νεομαρτρων, Thessaloniki 1984.

11 Per la paternità spirituale nella tradizione cristiana si veda: G. Bunge, La paternità spirituale nel pensiero di Evagrio, Bose 1991; N. Arseniev, V. Lossky, Padri nello spirito. La paternità spirituale in Russia nei secoli XVIII e XIX, Bose 1997; A. Scrima, Il padre spirituale, Bose 2000; A. Louf, “La paternità spirituale nel monachesimo d’occidente oggi”, in Optina Pustyn’ e la paternità spirituale. Atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 19-21 settembre 2002, a cura di A. Mainardi, Bose 2003, pp. 157-185. 12 Su questo tema si veda: I. Hausherr, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955.

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Si capisce allora l’equivalenza che Nicodemo propone tra confessore e padre spirituale. Il confessore è chiamato pneumatikós 13, cioè uomo spirituale, in quanto il suo primo dovere è quello di coltivare dentro di sé una vita spirituale14. L’Exomologhitárion comincia proprio con queste parole: Innanzitutto tu, o padre, che intendi diventare guida spirituale ( pneumatikós), devi … aver guarito e vinto le passioni dentro di te e avere una santità superiore rispetto a quella degli altri, poiché tu, che stai per essere nominato guida spirituale, devi condurre una vita spirituale … se intendi davvero illuminare e guidare alla perfezione gli altri, bisogna innanzitutto che tu illumini e perfezioni te stesso15.

Il presbitero che è sempre occupato in faccende pratiche e amministrative non ha il tempo e la calma di dedicarsi alla preghiera interiore, alla lotta contro le passioni, alla lettura della sacra Scrittura e dei libri spirituali, e rischia quindi di diventare un uomo mondano; e come potrà costui avere la saggezza, la sapienza, la lucidità mentale per aiutare gli altri a uscire dal baratro dei peccati e dai torbidi marosi della vita, se lui stesso vi è immerso16?

13 Cf. G. Lampe, s. v. “πνευματικ*ς”, in A Patristic Greek Lexicon, Oxford 199110, pp. 1104-1105. Sul ruolo del padre spirituale nella tradizione ortodossa si veda: K. Ware, “The spiritual father in St. John Climacus and St. Symeon the New Theologian”, in Studia Patristica XVIII/2, Leuven-Kalamazoo 1989, pp. 299-316; I. Simonopetritis, “Ο ,γιος Συμε/ν 0 νος θεολ*γος 1ς πνευματικς 0δηγ*ς”, in Σναξη 10 (1984), pp. 37-42. 14 Cf. V. Grolimund, “La vita spirituale secondo l’insegnamento di Nicodemo l’Aghiorita”, in Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia. Atti dell’VIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 16-19 settembre 2000, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2001, pp. 133-149. 15 Nicodemo l’Aghiorita, (Εξομολογητριον, a cura di N. Panagopoulos, Athinai 20026, pp. 17-18. 16 Cf. G. Chrysostomou, “San Giovanni Crisostomo: maestro di liturgia e pastorale per la Chiesa Ortodossa”, in Πρακτικ1 Διεθνος (Επιστημονικο Συνεδρου: (Απ& τ&ν (Απ στολο Παλο στ&ν /Iερ Χρυσ στομο, Veria 2007, p. 310.

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Se dunque il lavoro spirituale su se stessi è assolutamente prioritario, Nicodemo sottolinea però anche un altro aspetto fondamentale: la conoscenza delle fonti della fede. Come può un confessore guidare il fedele sulla retta strada, allontanarlo dal peccato e dal vizio, se lui stesso non conosce esattamente quali sono, secondo la morale cristiana, i peccati e i vizi17? E come può conoscere con precisione i precetti della morale cristiana se non legge e non studia la sacra Scrittura, i padri della chiesa e i canoni dei concili18? Perciò, tu che diventerai guida spirituale devi avere, ben più degli altri, conoscenza e familiarità con l’Antico e il Nuovo Testamento, con i dogmi della fede e i contenuti del Credo, ma soprattutto e in maniera speciale con tutti i canoni degli apostoli, dei concili e dei padri, che sono contenuti nel libro che da pochi anni è stato dato alle stampe [il Pidálion]19; allo studio di questi testi tu devi dedicarti notte e giorno, fino a conoscerli a memoria20.

Altrimenti, prosegue Nicodemo, “se non hai questa necessaria conoscenza, anziché diventare medico, diventerai omicida di innumerevoli anime”21. Certo, il confessore e padre spirituale deve anche avere “legittima investitura sacerdotale”, nonché “aver ricevuto l’imposizione delle mani e la licenza, tramite lettera decretale, da parte del vescovo locale”22. Quest’ultimo aspetto è molto importante: nessun padre spirituale, per quanto possa essere dotto, santo e carismatico, può agire indipendentemente, o – peggio ancora –

17

Cf. D. Tessore, I vizi capitali, Roma 2007. Su questo tema si veda: V. Thermos, Ποιμανοντες μετ’ πιστμης, Athinai, 1996. 19 Cf. T. Yangou, “Il Pedálion in rapporto con le antiche raccolte canoniche”, in Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia, pp. 223-241. 20 Nicodemo l’Aghiorita, (Εξομολογητριον, pp. 21-22. 21 Ibid., p. 63. 22 Ibid., p. 64. 18

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in contrasto con il proprio vescovo. L’obbedienza e l’umile sottomissione al vescovo sono la conditio sine qua non di ogni santità, e a maggior ragione per un prete e un confessore. Come scriveva già nel ii secolo Ignazio di Antiochia: Nessuno senza il vescovo faccia qualcosa che riguardi la chiesa. Sia ritenuta legittima [solo] quell’eucaristia che avviene sotto il vescovo o sotto colui che egli abbia autorizzato. Dove si fa vedere il vescovo, là vi sia anche l’insieme [della chiesa]; così come là dov’è Gesù Cristo, c’è la chiesa cattolica. Non è permesso senza il vescovo né battezzare né fare l’agape. [Solo] ciò che egli approva è gradito a Dio23.

Ma, tornando alla necessità fondamentale della conoscenza della sacra Scrittura, dei canoni e dei padri da parte del presbitero, Nicodemo afferma: È inutile che tu dica: “Ho avuto dal mio vescovo l’approvazione per questo [incarico di confessore]”; l’approvazione del vescovo infatti presuppone e sottintende che tu abbia già da te questa conoscenza [della Bibbia, dei canoni, eccetera] e non è la sua approvazione che te la dà, poiché egli non può darti occhi per vedere, se tu sei cieco24.

Tutta la vita e l’opera spirituale e culturale di Nicodemo testimoniano questa priorità: lo studio e la conoscenza delle fonti della fede. Egli riteneva che se i vescovi e i presbiteri, troppo occupati in altre faccende sostanzialmente mondane e pratiche, non avessero avuto una sufficiente conoscenza dei sacri canoni e degli insegnamenti dei padri della chiesa, evidentemente non avreb23 Ignazio di Antiochia, Lettera agli Smirnesi 8,1-2, in Id., Ora comincio a essere discepolo, a cura di S. Chialà, Bose 2004 (Testi dei padri della chiesa 68), p. 45. 24 Nicodemo l’Aghiorita, (Εξομολογητριον, p. 63.

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

bero saputo trasmettere al popolo cristiano adeguate direttive morali e spirituali, dal momento che essi stessi non le conoscevano, e così, poco per volta, la stessa sostanza dell’ortodossia e dell’ortoprassi sarebbero state intaccate. Tutto questo costituiva un serio rischio per l’ortodossia. Presupposta dunque nel confessore innanzitutto una solida preparazione teologica e canonico-patristica, accompagnata dall’essenziale impegno a percorrere un cammino ascetico e spirituale, Nicodemo spiega che in lui si concentrano “tre figure: del padre, del medico e del giudice”25. Questi tre aspetti si trovano così nel loro giusto ordine progressivo: a immagine di Dio, la guida spirituale è innanzitutto un padre per i fedeli26. Ciò che lo anima, prima di ogni altra cosa, è l’amore sincero verso i suoi figli spirituali, il desiderio di aiutarli a liberarsi dagli abbagli penosi della vita e a risollevarsi dalla palude dei piaceri ingannevoli, cioè dei peccati. Qualunque altro movente, che non sia questo amore sincero, sarebbe viziato. Il primo scopo del confessore è quindi quello di essere un padre, saggio e prudente, per i suoi figli spirituali. In secondo luogo viene la funzione di medico: poiché egli ama i suoi figli e vuole guarirli dalle loro malattie dell’anima, applica loro le terapie adatte. Talvolta esse sono dure e penose, altre volte più blande e dolci; farà questo guidato esclusivamente dall’amore e con l’unica finalità di far giungere il malato a una rapida guarigione. I mezzi e i farmaci possono essere molto diversi, ma lo scopo è sempre e soltanto la guarigione27.

25

Ibid., p. 65. Cf. G. Schrenk, G. Quell, s. v. “Πατρ”, in Grande lessico del Nuovo Testamento IX, a cura di G. Kittel e G. Friedrich, Brescia 1974, coll. 1111-1306. Su questo tema si veda anche: V. Κalliakmanis, “Η πνευματικ5 πατρ*τητα”, in Τ& μυστριο τ'ς 26

4ερωσνης. Πρακτικ1 ΖK Πανελλνιου Λειτουργικο Συμποσου Στελεχ>ν /Iερ>ν Μητροπ λεων, Athinai 2005, pp. 197-216; S. Koutsas, /Η πνευματικ; πατρ της $π& τ& φ>ς τ'ς Lρθοδ ξου παραδ σεως, Eghion 1995; V. Phanaras, “Πατρες κα& πατρ*τητα: θεολογικ5 6ποψη”, in Κοινωνα 47 (2004), pp. 74-78. 27 Cf. A. Augoustidis, ΠοιμEνας κα0 θεραπευτς, Athinai 1999; I. Vlachos, (Ορθ δοξη ψυχοθεραπεα. Πατερικ; θεραπευτικ; 7γωγ, Athinai 20047; I. Zizioulas, “Ν*σος κα&

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Infine, il padre spirituale è anche giudice, nel senso che deve giudicare, condannare e punire i peccati con una certa severità; severità che però non ha uno scopo meramente punitivo, ma più che altro correttivo e pedagogico. Il sentirsi giudicato e condannato in molti casi aiuta più efficacemente il fedele ad abbandonare i propri vizi e i propri peccati28. Da quanto si è detto, si capisce che il padre spirituale, nell’esaminare e giudicare il fedele, non si basa su una sterile lista di peccati, ma cerca di comprendere in profondità le motivazioni del suo agire e del suo peccare. Perciò non basterà che constati la presenza di un peccato, ma dovrà analizzare anche tutte le “circostanze del peccato”, che Nicodemo descrive accuratamente29 (si sconsiglia comunque al confessore di interrogare direttamente il penitente; è meglio che sia quest’ultimo a parlare e a dire tutto senza che il confessore lo interroghi: “E perciò tu, figlio, a vergogna del peccato e del diavolo, esponi le tue colpe di tua iniziativa, per poter essere giustificato”30). Studiando tutti questi aspetti con attenzione, i padri spirituali, come sapienti medici, sapranno quali ferite cauterizzare, cosa asportare, cosa curare con impiastri, a quali pazienti versare il vino della severità e a quali somministrare l’olio della mitezza31.

In questo modo il confessore, pur attenendosi sempre ai canoni penitenziali dei concili e dei padri, applicherà ogni cosa secondo l’oikonomía, ossia in vista del vero bene spirituale del fedele 32. θεραπεα στ ν Ορθδοξη θεολογα”, in Θεολογα κα Ψυχιατρικ σ Διλογο, Athi-

nai 1999, pp. 133-156. 28 Cf. G. Mantzaridis, Χριστιανικ Ηθικ II, Thessaloniki 2003, p. 134. 29 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, pp. 39-44. 30 Ibid., p. 69. 31 Ibid., p. 12. 32 Su questo tema: A. Alivizatos, Η ο!κονομα κατ" τ# κανονικ#ν δκαιον τ%ς Ορθοδ(ξου Εκκλησας, Athinai 1949; E. Vittis, “ Απ τ ν ρθδοξη πνευματικτητα:

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

In quest’ottica, Nicodemo sottolinea un aspetto molto importante: è vero che esistono peccati più gravi e meno gravi, ma la vera differenza fondamentale non sta tanto nei peccati in sé, quanto piuttosto nella disposizione d’animo di colui che pecca, e a tal proposito, citando Agostino di Ippona, spiega che non bisogna disprezzare i piccoli peccati in quanto piccoli; anche chi ruba piccole cose, se continua a farlo, pecca mortalmente; così anche Basilio di Cesarea, che pure sapeva che nel santo evangelo è posta una differenza tra il moscerino e il cammello (cf. Mt 23,24), tra la pagliuzza e la trave (cf. Mt 7,3-5), e per dirla con termini più chiari, tra piccoli e grandi peccati, afferma tuttavia che nel Nuovo Testamento non esiste differenza tra peccato grande e piccolo. Dice: Non bisogna disprezzare nulla come fosse piccola cosa … E d’altra parte, quale peccato si oserà chiamare piccolo se l’Apostolo ha dichiarato che “mediante la trasgressione della legge offendi Dio” (Rm 2,23)33?

Sia il piccolo sia il grande peccato costituiscono ugualmente una trasgressione della legge34. È questo “spirito di trasgressione”, questo vizio dell’anima che il confessore deve valutare, giudicare e curare, più che i peccati in sé, i quali non sono entità autonome e indipendenti dalla disposizione psicologica di colui che pecca35. Nicodemo, sulla base della sua approfondita conoscenza dei padri, ma anche della sua personale esperienza di confessore e padre spirituale, dà nell’Exomologhitárion dettagliati e precisi conΗ δικριση”, in Γρηγ(ριος * Παλαμ,ς 61 (1978), p. 82; M. Michailidis, H δικριση, Athinai 1993. 33 Basilio di Cesarea, Regole brevi 4, in Id., Le regole, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993, pp. 245-246. 34 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 25. 35 Cf. G. Mantzaridis, Χριστιανικ Ηθικ II, p. 133.

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sigli su come rapportarsi al proprio figlio spirituale durante un colloquio, ovvero una confessione36. Suggerisce anche le parole da usare, il modo di comportarsi, di ascoltare e di interrogare, i gesti, il tono della voce, i momenti adatti per rimproverare o incoraggiare, e così via. Può accadere che un peccatore, se rimproverato troppo severamente, ceda alla disperazione e si allontani dalla chiesa, o, viceversa, se non è rimproverato a sufficienza, può darsi che continui a vivere nel vizio senza preoccuparsene troppo; perciò il modo in cui il confessore gli parla, le parole stesse che usa, la voce, lo sguardo e tanti altri piccoli dettagli sono assolutamente determinanti per la buona riuscita di un colloquio spirituale. Se il confessore conosce e applica con esattezza i sacri canoni, ma trascura questi aspetti, non potrà in nessun caso essere considerato un buon padre spirituale e un bravo medico delle anime37. L’Exomologhitárion dà consigli al vescovo per una saggia scelta della persona del confessore. Dice: I vescovi dovrebbero scegliere i presbiteri più anziani di età e con più esperienza … non dovrebbero invece nominare confessori i preti giovani, i quali, a motivo della loro giovinezza hanno insufficiente conoscenza e, inoltre, hanno ancora vive e indomite le passioni [della carne], a meno che capiti di trovarne uno giovane che abbia però la virtù e la saggezza di un anziano. A mio parere a una persona del genere non bisogna impedire di diventare guida spirituale … Alcuni poi sostengono che sia più sicuro e sia meglio che diventino confessori i presbiteri sposati – purché degni in tutto il resto – e non i celibi e gli ieromonaci non sposati, poiché nei primi la lotta della carne è minore38.

Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, pp. 65-88. Per ulteriori approfondimenti: A. Stavropoulos, Ποιμαντικ τ%ς μετανοας, Athinai 1998; A. Romaios, “Η πανορθωτικ ! διορθωτικ "γωγ πο# "σκε$ται "π τν ποιμ%να "παιτε$ ψυχολογικ(ς γν*σεις κα+ ,καντητες”, in Πρακτικ" Συμποσου Ποιμαντικ%ς Ψυχολογας κα Εξομολογητικ%ς, Thessaloniki 1981, pp. 17-51. 38 Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 21. 36 37

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

Nicodemo, come è noto e come abbiamo ricordato in precedenza, fu il curatore, insieme a Macario di Corinto, della voluminosa raccolta di testi spirituali ed esicastici antichi nota come Filocalia 39. Questo fatto non è irrilevante. Egli diede sempre un’importanza estrema alla preghiera interiore (in greco noerà proseuché ), al lavoro interiore che ogni cristiano è chiamato a compiere su se stesso per osservare, esaminare, discernere i propri loghismoí (pensieri e sentimenti) che intorbidano e inquinano la mente. Questo argomento è trattato in maniera sistematica da Nicodemo nell’Enchirídion Symbouleutikón e in altre sue opere. Ma quel che a noi qui più interessa è che il tema dei loghismoí e della noerà proseuché si ritrova anche nell’Exomologhitárion40. Quest’ultimo – osserva Metallinos – fu redatto da Nicodemo dopo essersi occupato degli scritti di san Simeone il Nuovo Teologo, quindi in un clima spirituale prettamente esicastico-filocalico41.

Egli era cioè consapevole del fatto che la vera guarigione del peccatore si ottiene soltanto tramite una “ripulitura” della sua mente e non semplicemente applicando i sacri canoni e comminando pene. In tal modo è posta una barriera invalicabile contro ogni rischio di fariseismo. I canoni penitenziali e le altre leggi della chiesa non sono fine a se stessi, ma sono stati dettati da Cristo o ideati dai santi padri all’unico scopo di aiutare l’uomo a liberarsi dalle sue passioni e dai suoi attaccamenti, e per guidarlo all’acquisizione di un’anima libera e limpida42. 39 In particolare sulla Filocalia si veda: P. Deseille, La spiritualité orthodoxe et la Philocalie, Paris 1997; K. Karaisaridis, “Nicodemo l’Aghiorita e Macario di Corinto”, in Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia, pp. 43-65; La Filocalia, amore del bello, a cura di L. Cremaschi, Bose 2006, pp. 9-13. 40 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 54. 41 G. Metallinos, “Τ Εξομολογητριον”, p. 193. 42 Cf. S. Balatsoukas, “ Η "πθεια /ς κατσταση τελεωσης στ ν 0γιοπατερικ

μπειρα”, in Γρηγ(ριος * Παλαμ,ς 80 (1997), pp. 81-92.

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Questa saggezza non deve però essere fraintesa o distorta. Nicodemo fu anche l’autore del Pidálion, un commento sistematico ai sacri canoni dei concili e dei padri. Egli non riteneva affatto relativi o discutibili, né tanto meno superflui, questi canoni che da circa millecinquecento anni costituiscono il nucleo essenziale della legge della chiesa. L’atteggiamento, oggi alquanto diffuso anche nell’ortodossia, di minimizzare l’importanza dei canoni, di relativizzarli a ogni occasione, di proclamarli e applicarli quando fanno comodo, ma di nasconderli e non applicarli quando non fanno comodo, sarebbe stato certamente giudicato negativamente da Nicodemo, il quale, conformemente alla dottrina dei padri, riteneva che i sacri canoni, come del resto tutti i precetti divini, costituiscano il percorso obbligato tanto per la chiesa quanto per ogni singola anima cristiana e che quindi possano essere momentaneamente sospesi o modificati, secondo lo spirito della oikonomía, soltanto in presenza di gravi e ineludibili impedimenti. Pertanto anche l’Exomologhitárion, pur sottolineando di continuo l’importanza di un genuino lavoro interiore sulle passioni e opponendosi nettamente a ogni mero formalismo farisaico, si mantiene però fedelissimo ai sacri canoni per quel che concerne la morale e le pene da impartire ai peccatori. Il confessore, secondo Nicodemo, nel giudicare e condannare i peccati, ha il dovere di attenersi alle sentenze dei sacri canoni. In particolare egli consiglia al confessore di seguire scrupolosamente il Kanonikón di Giovanni il Digiunatore (vi secolo)43, che presenta il vantaggio di essere chiaro, ma anche abbastanza sistematico, sia nella disamina dei peccati, sia nell’impartire le giuste pene espiatorie. In verità, fin dalle sue origini, la chiesa aveva stabilito delle pene per i peccatori44 (poteva trattarsi di digiuni, di un certo nuCf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 89. Cf. S. Kraghiopoulos, “Ο θεσμς τ1ν πιτιμων στο#ς περ+ μετανοας ,ερο#ς καννες”, in Πρακτικ" Συμποσου Ποιμαντικ%ς, pp. 65-82. 43

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mero di prostrazioni, di un periodo più o meno lungo di obbligatoria astensione dalla comunione, e così via). Lo scopo di tali pene era in parte punitivo, in quanto esse erano intese come espiazione e satisfactio della giustizia divina45, ma soprattutto era terapeutico e correttivo: grazie a una salutare punizione, si offriva al fedele la possibilità di prendere atto della gravità del proprio peccato e di ravvedersi. Questa concezione delle pene canoniche è sempre rimasta viva nell’ortodossia e si è attenuata – quasi fino a scomparire dalla pratica della confessione – soltanto nell’ultimo secolo. Nicodemo, invece, sempre fedelissimo alla tradizione della chiesa, ribadì continuamente che il confessore – e in generale ogni padre spirituale – non ha il diritto di giudicare a suo arbitrio i peccati, ma deve sempre rigorosamente attenersi al giudizio espresso dai sacri canoni, e deve impartire la pena così come stabilita da essi (a meno che, come abbiamo detto, seri e gravi motivi costringano momentaneamente a ricorrere all’oikonomía). La consuetudine di non impartire pene espiatorie dopo la confessione, secondo l’Exomologhitárion, è assolutamente contraria alla tradizione ortodossa. In certi casi, inoltre, il confessore deve rimandare il peccatore senza assolverlo, in attesa di adeguati atti di penitenza da parte sua46. In realtà, il Kanonikón di Giovanni il Digiunatore, che Nicodemo addita come il migliore modello da seguire nella pratica della confessione e che addirittura riporta per intero nell’Exomologhitárion, commentandone dettagliatamente i trentacinque canoni penitenziali47, è assai più condiscendente e indulgente di molti altri canoni dei concili e dei padri antichi. Per questo motivo – dice Nicodemo – esso 45 Cf. V. Kalliakmanis, “Η διδασκαλα περ+ ,κανοποι2σεως τ3ς θεας δικαιοσ4νης στ ν νεοελληνικ θεολογα”, in Γρηγ(ριος * Παλαμ,ς 71 (1988), pp. 529-537. 46 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 77. 47

Cf. ibid., pp. 130-163.

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può condurre alla rovina molte persone, quando i confessori che lo utilizzano sono indulgenti quanto alla durata delle pene impartite ai peccatori, seguendo in questo il Digiunatore, e dall’altro lato però non impartiscono le pene che egli stabilisce – mi riferisco ad esempio al digiunare fino all’ora nona, al numero di prostrazioni da fare, eccetera … Questo che fanno è contro la legge e contro i canoni e dovranno renderne conto a Dio, perché causano la rovina delle anime dei penitenti aprendo loro la strada larga [della perdizione]48.

Conclusione

L’Exomologhitárion, conformemente al titolo stesso dell’opera, è sostanzialmente un dettagliato manuale a uso dei confessori49. In realtà, però, è ben più di questo: è una preziosa guida, teorica ma anche pratica, per ogni padre spirituale. Ed è, infine, anche un libro dalla cui lettura ogni cristiano, consacrato o laico, trae gran beneficio spirituale. Vi si trovano poi trattati temi che, anche se in apparenza sono poco attinenti all’argomento principale, risultano di grande utilità, come nel caso della breve trattazione sul digiuno del mercoledì e del venerdì50 e del discorso sull’abbigliamento dei monaci51. L’Exomologhitárion ha poi il merito di essere un’opera che, pur essendo scritta da un monaco

48

Ibid., p. 129. Sul tema della confessione si veda: D. Vakaros, Τ# μυστριο τ%ς μετανοας κα

0ξομολογσεως. Iστορα κα πρξις, Thessaloniki 1999; A. Ghikas, Ο πνευματικ#ς κα

τ# μυστριο τ%ς μετανοας, Thessaloniki 2002; T. Yangou, “Η ξομολγηση: Τ μυστ2ριο το5 νμου κα+ τ3ς χριτος”, in Τ# Iερ#ν Μυστριον τ%ς Μετανοας, Drama 2002, pp. 139-167. 50 Cf. Nicodemo l’Aghiorita, Εξομολογητριον, p. 169. 51 Cf. ibid., p. 180. 49

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L’esercizio della paternità spirituale nell’“exomologhitárion” …

greco-ortodosso del xviii secolo, alquanto severo e intransigente nella sua difesa della tradizione ortodossa orientale, si colloca però nel genuino solco della chiesa indivisa del primo millennio e non teme quindi di citare, con rispetto e venerazione, Ambrogio, Agostino e altri padri latini52, nonché gli antichi concili latini, come ad esempio il concilio spagnolo di Elvira53. Anche questo aspetto ci pare importante, mostrandoci come questo libro, non molto voluminoso ma densissimo di contenuto, non solo mantenga ancor oggi tutto il suo valore e tutta la sua attualità54, ma si presenti come manuale dell’autentico cristianesimo dei padri, prima e al di là di ogni scisma e divisione tra ortodossi e cattolici.

52

Cf. ibid., p. 85. Cf. ibid., p. 128. 54 Ancor oggi nei giornali e nelle riviste religiose in Grecia la figura di Nicodemo l’Aghiorita è di continuo richiamata all’attenzione dei lettori. Si veda ad esempio Εκκλησα, rivista ufficiale della chiesa di Grecia (luglio 2008, pp. 506-512), che contiene un lungo servizio su san Nicodemo; e Πληροφ(ρηση, giornale della metropoli di Dimitriados-Volos (luglio-agosto 2008), dedicato interamente a Nicodemo. 53

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PATERNITÀ SPIRITUALE E MATURITÀ CRISTIANA. LE LETTERE ALLE MONACHE DI MAKARIJ DI OPTINA, IGNATIJ BRJANΩANINOV, TEOFANE IL RECLUSO

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Natalija Ju. Suchova*

Tu che vivi da monaco, uomo di fede e di ascesi, impara la vita secondo l’evangelo, il dominio del corpo, l’umiltà del pensiero, la purezza delle intenzioni, lo sradicamento delle passioni1. E gli assegnerete uno di voi, quello che egli avrà chiesto, che gli sia tutore nella pratica delle virtù2. Il legame tra l’idea dello star™estvo e la via alla perfezione cristiana è molto stretto e, direi, una cosa è quasi impossibile senza l’altra3. I pensieri, le prime e più sottili forme mentali di attivazione del peccato e della virtù … furono per i monaci il punto di preminente attenzione nella missione educativa degli starcy4.

* Professore di storia della chiesa russa all’Università umanistica ortodossa San Tichon di Mosca. Traduzione dall’originale russo di Leonardo Paleari. 1 Saint Basile, Lettres 43, a cura di Y. Courtonne, Paris 1957, vol. I, p. 108. 2 Ibid. 23, p. 59. 3 Trifon (Turkestanov), Drevnechristianskie i optinskie starcy, Moskva 1996, p. 21. 4 Nikolaj (Ωufarovskij), “Pastyrstvo monastyrskoe, ili star™estvo”, in Al’fa i Omega 2 (1999), pp. 173-184.

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Natalija Ju. Suchova

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Introduzione. Specificità dello “star™estvo” nella chiesa ortodossa russa

Lo star™estvo in Russia, pur essendo connaturato a quello della chiesa antica, ebbe e ha caratteri specifici. Fin dalla prima predicazione dell’evangelo nella Rus’, dal tempo del suo battesimo, la vita della chiesa si costituì in modo tale che i maestri e le autorità spirituali del popolo fossero spesso i padri spirituali (duchovniki): i monaci e gli starcy di importanti monasteri. Ovviamente, lo star™estvo non si limitava ai monasteri o ai soli monaci. Ma il monachesimo, nel cui ambito più che altrove si rifletteva lo stato spirituale, l’attività spirituale, la lotta alle passioni, il discernimento dei pensieri più sottili, apportò alla chiesa una ricca esperienza e una preziosa eredità in quello che è il nucleo essenziale della vita ecclesiale. Perciò in questa relazione si parlerà proprio della paternità spirituale in ambito monastico, e in particolare in quello femminile. La tradizione monastica e lo star™estvo a essa collegato, la direzione spirituale come base della vita monastica non si interruppero mai in seno alla chiesa russa, malgrado gravissimi eventi storici, invasioni, vari influssi cristiani e anticristiani, svolte storiche, passioni epocali. Nei diversi secoli assunse strutture diverse, talora nascondendosi nelle solitudini della foresta e in eremi quasi invisibili al mondo, talora attirando un gran numero di persone desiderose di acquisire lo Spirito e la salvezza dell’anima. Uno di questi straordinari periodi di crescita dello star™estvo fu tra la fine del xviii e l’inizio del xix secolo. Si deve allo starec Paisij Veli™kovskij (canonizzato nel 1988) l’introduzione in Russia, come era avvenuto anticamente, delle tradizioni del monachesimo del Monte Athos, con l’infusione di nuova vita nei monasteri e la formazione di schiere di discepoli. Questa tradizione si sviluppò, facendo propria l’esperienza dell’ascetismo monastico russo, cercando risposte sia alle eterne domande spirituali 202

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Paternità spirituale e maturazione cristiana …

sia ai concreti problemi spirituali di chi in essa cercava una guida per il proprio cammino. Particolare importanza in questa tradizione ebbe lo star™estvo praticato dai monaci di Optina e del connesso skit di San Giovanni Battista, ma anche di alcuni altri monasteri. Una delle forme con cui gli starcy esercitavano la direzione spirituale era la corrispondenza che intrattenevano con i propri figli spirituali. Questi documenti si sono conservati e ci consentono di esaminare gli insegnamenti che queste grandi guide spirituali dispensavano per iscritto alle proprie figlie spirituali, che vivevano in monasteri diversi.

Gli “starcy” del xix secolo: Makarij di Optina, Ignatij (Brjan™aninov), Teofane il Recluso

Alcune parole sugli autori di cui ci occuperemo. Uno dei primi starcy di Optina fu Makarij (Ivanov). Ha lasciato molte lettere ai suoi figli spirituali, monaci e laici5. Il suo discepolo ed erede nello star™estvo, il non meno celebre Amvrosij di Optina, scrisse riguardo alle lettere del maestro: “Leggete queste lettere. Troverete in esse abbondante edificazione e consolazione nei vostri dolori e la soluzione dei dubbi che vi assillano”6. E ancora: “Il compianto padre Makarij per la sua umiltà spesso non diceva molte cose, avendo compassione della nostra debolezza, ma nelle sue lettere mette a nudo la verità in modo diretto e senza reti5 Cf. Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im, Moskva 1862, in due parti (rist.: Sankt-Peterburg 1994); Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mirskim osobam, Moskva 1862 (rist.: Sankt-Peterburg 1993). 6 Sobranie pisem optinskogo starca ieroschimonacha Amvrosija. K mona∫estvuju∫™im i mirjanam I, Moskva 1995, p. 163.

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cenze”7. Makarij (1788-1860), di famiglia nobile, dall’età di ventidue anni fino alla morte, per cinquant’anni condusse vita monastica: ieromonaco, due anni prima di morire assunse il grande abito (schima). La sua figura si innesta nella tradizione di Paisij (Veli™kovskij) – anche per quanto riguarda il lavoro letterario e di traduzione – mediante un discepolo di Paisij, lo starec Afanasij. Nel xix secolo tra i grandi padri spirituali figurano due vescovi santi: Teofane (Govorov), detto il Recluso, e Ignatij (Brjan™aninov). L’inserimento di vescovi nella schiera delle guide spirituali – fatto non caratteristico della Russia del xix secolo – evidenzia ancora una volta che lo star™estvo è una speciale vocazione spirituale. Ambedue erano anzitutto eremiti e uomini di preghiera, guide spirituali quindi nel senso più profondo della parola. Sebbene essi – come asceti, fini teologi, uomini di chiesa – siano ben noti, diremo qualcosa anche su di loro. Il vescovo Ignatij (Brjan™aninov, 1807-1867), di famiglia nobile, ebbe una formazione di ingegnere militare, ma ben presto seguì la vocazione monastica. Conobbe la tradizione di Optina, fu priore del monastero della Trinità e San Sergio presso San Pietroburgo, dal 1857 fu vescovo del Caucaso e Stavropol’. Le lettere di Ignatij hanno un particolare rilievo nel patrimonio epistolare degli starcy russi8. Ignatij, avendo studiato profondamente l’antica esperienza di direzione pastorale e spirituale, era piuttosto severo nei confronti dello star™estvo del suo tempo. Egli dice che una tale obbedienza esisteva forse nei tempi antichi, sebbene anche allora tali starcy “furono sempre pochissimi”. Nell’epo7

Ibid., p. 89. Cf. æizneopisanie episkopa Ignatija Brjan™aninova, sostavlennoe ego bliΔaj∫imi u™enikami, i pis’ma Preosvja∫™ennej∫ego k blizkim emu licam, Sankt-Peterburg 1881, pp. 1-144; So™inenija episkopa Ignatija Brjan™aninova, IV. Pis’ma k mirjanam, Sankt-Peterburg 1905; Pis’ma episkopa Ignatija (Brjan™aninova) k raznym licam I, Sergiev Posad 1913; “Pis’ma asketa (iz perepiski archim[andrita] Ignatija Brjan™aninova s S. D. Ne™aevym)”, in Christianskoe ™tenie 3 (1895), pp. 553-595; Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma, Moskva 1993; Episkop Ignatij (Brjan™aninov), Pis’ma o podviΔni™eskoj Δizni (555 pisem iz sobranija igumena Marka [Lozinskogo]), Paris-Moskva 1996. 8

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Paternità spirituale e maturazione cristiana …

ca a lui contemporanea egli non vedeva degli starcy. Ignatij dava consigli basandosi sugli insegnamenti e sulla vita dei santi padri della chiesa, aiutando i suoi figli a condurre la vita sotto la guida degli scritti patristici. Il vescovo Teofane (Govorov, 1815-1884) era un rappresentante di quel monachesimo colto, tipico del xix secolo, la cui attività era legata più all’insegnamento nelle scuole teologiche che ai monasteri. Come molti esponenti del monachesimo colto, anch’egli divenne vescovo, prima a Tambov (1859-1863) e poi a Vladimir (1863-1871), ma dal 1871 si rinchiuse nella Vy∫enkaja pustyn’, nella foresta di Tambov. Teofane ci ha lasciato un gran numero di scritti. Particolare importanza hanno le sue lettere come starec, direttore di vita spirituale9. In esse si riflette lo spirito dell’autore: l’edificazione si accompagna non solo a una profonda analisi spirituale e a una cordiale umanità, ma anche a un acuto senso dell’umorismo. Non possiamo analizzare tutte le lettere scritte dai tre starcy alle monache loro figlie spirituali. Perciò sulla base di specifici consigli cercheremo di cogliere il tono generale, lo spirito della direzione che gli starcy trasmettevano nelle loro lettere.

L’entrata in monastero, un passo decisivo nella vita spirituale

I tre starcy ritenevano che una vita spirituale intensa fosse necessaria per ogni cristiano e scrissero spesso a persone che volevano iniziare un tale cammino. Molte raccomandazioni su questo

9 Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana, Moskva 1901 (rist.: Pskovo-Pe™erskaja Uspenskaja Lavra-Moskva 1994).

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tema erano uguali sia per i laici sia per chi entrava in monastero. Tuttavia l’inizio della vita monastica era un passo importante, che richiedeva una speciale assistenza spirituale. È inevitabile all’inizio un periodo di tentazioni, che è importante affrontare nel modo giusto, per evitare di cadere nel turbamento e nella delusione: “Ogni buona opera deve essere contrastata da tentazioni, perché sia assunta in modo consapevole, e non in modo illusorio e vanaglorioso”10. Makarij scrive: “Ecco hai ricevuto la tua cella, ma insieme a essa hai ricevuto anche ciò che non ti aspettavi, un gravame interno, una tristezza … Sono le tue passioni che ti tormentano: orgoglio, rabbia, invidia, odio; come le vincerai?”11. Lo starec consolava, nei difficili momenti della loro battaglia, coloro che avevano intrapreso il cammino monastico, assicurando l’aiuto divino, poiché “egli ti ha ritenuta degna di essere tra le sorelle che lavorano per lui, e il cui unico desiderio è la salvezza!”12. Il vescovo Ignatij era sempre “consolato nel pensiero”, quando qualcuna delle sue pecorelle decideva di prendere la tonsura monastica. Egli per esperienza era convinto che “la permanenza nel monastero ci dà almeno questo frutto, che cominciamo a vedere le nostre debolezze, e tutta la nostra speranza la poniamo non in noi stessi, ma nel nostro Redentore”13. Però “sia l’esaltazione, sia lo sconforto, che nel mondo dominavano il nostro animo, nel monastero possono rafforzarsi”14. “La mente che ha subito l’influsso della distrazione mondana, continua a sentire questo influsso anche dopo che se ne è allontanata per un lungo periodo”15. Qual

10 Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 199, Moskva 1862 (rist.: Sankt-Peterburg 1994), p. 339. 11 Ibid. 69, p. 161. 12 Ibid. 103, p. 216. 13 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 24-25, pp. 31-32. 14 Ibid. 51, p. 71. 15 Ibid. 30, p. 33.

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è il rimedio? “Allontanare la mente da queste distrazioni, con il pensiero della morte e del giudizio divino”16. Tutti gli starcy riservavano molta attenzione al buon ordinamento della vita personale e al comportamento esteriore delle loro figlie spirituali in monastero, alle relazioni con l’igumena e con le sorelle. Spesso le discepole stesse domandavano come comportarsi in certe situazioni. I casi di incomprensione, di “turbamento”, di rancori per questo o quel motivo, per le parole dei superiori o delle consorelle sono inevitabili in qualunque società umana, in cui le relazioni siano così strette e si svolgano attività così impegnative. Lo scopo per cui ognuna delle destinatarie delle lettere era arrivata al monastero – crescita spirituale, edificazione dell’“uomo interiore” – doveva offrire un particolare angolo visuale sui rapporti umani e sui problemi connessi. Questi problemi vengono spiegati non con questo o quel difetto della vicina di cella o con l’abuso di potere della superiora, ma con le tentazioni spirituali e la mancanza di amore e umiltà. “Il nemico si arma contro di voi e cerca di distruggere la vostra pace, ma non avrà di che rallegrarsene”. Contro questo nemico vi sono due armi: “Amore e umiltà”17. I consigli sul comportamento esteriore sono vari. Makarij e Ignatij ritenevano che vivere in una sola cella con altre monache, sebbene non fosse facile, era però utile, specialmente per una novizia: “Nella cella moderati nel guardare, nell’udire e nel parlare; coltivando pensieri meschini non conoscerai le tue debolezze … concentrati sulla tua correzione, e gli altri pensieri ti appariranno cattivi”18. L’allontanarsi dalla relazione con gli altri “è dannoso per chi è lontano dalla perfezione”, poiché “nasconde a se stessi la propria debolezza ”, “rende sterili”19.

16

Ibid. Ibid. 4, pp. 11-12. 18 Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 216, p. 360. 19 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 7, p. 16. 17

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Ignatij raccomandava alle sue figlie spirituali di non passare “da un monastero all’altro”, poiché i pensieri “che ci inducono a cambiare luogo non sono altro che astuti suggerimenti del demonio”20. Basandosi su Giovanni Climaco e Gregorio Sinaita, il santo dice che nel desiderio di cambiare luogo si rivela impazienza e “nulla più dell’impazienza rende sterile l’anima”. Se anche nel trapianto l’albero non muore, perde però parte della sua forza, così l’uomo può perdere “quella espiazione, con la quale Cristo ha riscattato anche te”21. E i disordini che si vivono nel monastero non fanno che evidenziare che la strada verso la salvezza “è sempre stretta e difficoltosa”22. Il vescovo Teofane riteneva essenziale la solitudine interiore: “Si può stare in solitudine in mezzo al rumore mondano, e si può stare in una cella solitaria come se si fosse nel trambusto mondano”23. Comunque Teofane talora consigliava di cercare anche l’isolamento esteriore. Così alla destinataria di una sua lettera, che aveva appena ricevuto il grande abito monastico, raccomandava di consacrarsi soprattutto al silenzio e alla cella24.

La lettura della sacra Scrittura e il suo ruolo nella vita spirituale

Sia Makarij di Optina, sia i due vescovi citano spesso nelle loro lettere alle monache l’evangelo, gli Atti degli apostoli, i salmi. Anche la loro vita, infatti, era radicata nella Scrittura, ogni pagina veniva da loro vissuta e confermata di persona con l’esperien-

20

Ibid. 5, p. 13. Ibid. Si tratta di una citazione dal quarto gradino della Scala di Giovanni Climaco. 22 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 5, p. 14. 23 Sobranie pisem Svjatitelja Feofana IV,738, p. 227. 24 Cf. ibid. V,986, p. 119. 21

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za. È questa stessa dinamica esistenziale che essi desiderano per il loro gregge, perciò parlano non solo dell’opportunità, ma della necessità di cercare consigli e risposte, evidenti o nascosti, nei testi sacri. Scrive Ignatij: “Imparate umilmente. Dove? Nell’evangelo. Da chi? Dal ladrone, dal pubblicano, dall’adultera …”25. Nei consigli di Ignatij la lettura della sacra Scrittura offre le linee portanti di un vero e proprio sistema di ascetica, che deve accompagnare la monaca per tutto il giorno: ci sono di esempio gli antichi padri del deserto d’oriente, per i quali “l’evangelo e il Salterio erano quasi gli unici libri”26. Talora Ignatij riporta le parole di questi asceti: “Cristo è racchiuso nell’evangelo, se vuoi trovare Cristo, lo troverai nell’evangelo”27.

La lettura dei santi padri

La costante lettura dei santi padri ha un posto importante nell’arte di vita che gli starcy trasmettono alle figlie spirituali. Questa lettura, però, non ha come scopo la conoscenza, ma l’edificazione. Tutti e tre i nostri autori erano istruiti nella tradizione dei padri, e non solo nell’ascetica, ma anche nell’esegesi patristica e nelle opere di dogmatica. Ma nei loro consigli – se leggere l’opera di questo o quell’autore – il punto di partenza è fornito da una questione pratica o da una questione sorta nella vita spirituale. Vengono consigliati, specialmente da Makarij, diversi autori, scegliendo quello che nella data occasione risulta più adatto, più ac-

25 26 27

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 49, p. 69. Ibid. 44, p. 62. Ibid.

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cessibile. Sia Makarij di Optina sia i due vescovi spesso consigliano alle loro figlie spirituali di leggere Giovanni Climaco, Doroteo di Gaza, Macario l’Egiziano, Isacco di Ninive, Pietro Damasceno, Giovanni Cassiano, Teodoro Studita e, all’occorrenza, altri autori della Filocalia. Tra gli autori russi rimandano spesso a Nil Sorskij, ai vescovi Dimitrij di Rostov e Tichon di Zadonsk. Makarij consiglia di leggere gli insegnamenti pratici dei padri, “evitando quelli speculativi, per quanto possano essere allettanti”, poichè “non è una via sicura”. Bisogna leggere “non per amore della conoscenza, ma per l’utilità dell’anima … cercando di avanzare nelle opere, in base alle proprie forze”28. Makarij raccomanda che tutte le relazioni nel monastero siano basate “sulla roccia dell’insegnamento dei padri”29. “La via della guida spirituale” è molto importante. Senza la possibilità di consultarsi con un maestro, diviene penosa “la situazione di quei monaci e monache che, vivendo in una numerosa comunità, non hanno a chi ricorrere per un consiglio nei momenti di abbattimento interiore”30. Il vescovo Ignatij riteneva che ogni monaco, pur seguendo un proprio cammino spirituale, attraversa nella sua vita le stesse fasi: così anche i padri spirituali delle epoche precedenti guidano i monaci novizi di oggi31. “Seguiamo il consiglio di Antonio il Grande, di compiere nella nostra vita solo quelle opere che sono attestate dalla sacra Scrittura e dai santi padri”32. Il vescovo Teofane, basandosi sullo stesso genere di opere ascetiche dei santi padri, consigliava di leggere “non molto, ma molto”, cioè non molto in quantità, ma in profondità, applicando tutto ciò che si legge alle questioni concrete e unendolo al pensiero di Dio33.

28 Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 94, p. 200. 29 Ibid. 272, p. 481. 30 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 45, p. 63. 31 Cf. ibid. 29, p. 33. 32 Ibid. 46, p. 65. 33 Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana 987, p. 119.

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Il vescovo Ignatij vede nelle opere dei santi padri un ottimo mezzo per capire l’evangelo, poiché essi furono ispirati dal medesimo Spirito della sacra Scrittura34. Ignatij era attento anche agli autori delle traduzioni delle opere dei padri: non solo la descrizione ma anche la traduzione di un’esperienza spirituale in un’altra lingua non può essere fatta da chi non vive quell’esperienza. Così riteneva che le opere tradotte da Paisij (Veli™kovskij) avessero un valore ascetico superiore a quello di ogni altra traduzione35. Spesso gli starcy consigliavano di leggere le Vite dei santi, come esempi di applicazione nella vita di quei consigli spirituali che venivano dati negli scritti dei padri. Leggendo gli scritti ascetici e le Vite “vedi la tua piccolezza, e che sei ancora lontano dalla perfezione di chi compie l’opera di Dio”36. Solo così “l’attuazione delle virtù sarà rischiarata dall’umiltà”37.

La tradizione teologica

L’atteggiamento dei nostri autori verso la lettura di altre opere teologiche non è altrettanto univoco, specialmente per quanto riguarda la teologia contemporanea, e specialmente in relazione alle riflessioni teologiche delle monache. Naturalmente ogni credente, e tanto più chi ha scelto la difficile via del monachesimo, deve conoscere e riflettere sui dogmi della chiesa ortodossa. Ma le vie per le quali si riceve una conoscenza teologica devono essere verificate e non mettere in pericolo la vita spirituale.

34

Cf. Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 45, p. 63. Cf. ibid. 23, p. 31. 36 Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 161, p. 287. 37 Ibid. 35

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Ignatij era abbastanza severo nel definire quali libri potessero leggere le monache e consigliava di “limitarsi alla lettura dei santi padri, la cui ispirazione divina non è oggetto di dubbio”. Metteva severamente in guardia rispetto alle “traduzioni da lingue moderne”: “Quasi tutte sono scritte in spirito di lusinga”38. Comunque i consigli di Ignatij sono basati sulla teologia: le sue raccomandazioni sono cristologiche, poiché tutte le vie che egli suggerisce alle monache portano a Cristo. Anche della tradizione dei padri egli dà la propria interpretazione teologica. Comunque quelle monache che prima di entrare in monastero avevano un’istruzione e un’abitudine alla riflessione, egli le esortava a “riflettere sulle cose divine”39. Anche Teofane dà vari consigli per la lettura di libri teologici, secondo il livello di formazione dell’interlocutrice. Consiglia a tutte di leggere i santi padri, e ad alcune figlie spirituali, che conoscono lingue straniere, consiglia di fare traduzioni di opere teologiche. Così una monaca seguendo il suo consiglio tradusse la Introduction à la vie dévote (1608) di Francesco di Sales. Peraltro, riconoscendo che non tutto di questo e simili libri può essere raccomandato per la lettura da parte di tutti, il vescovo proponeva di trasformare poi la traduzione diretta in un “adattamento”40.

La preghiera

La preghiera, secondo i nostri tre autori, è il fondamento della vita spirituale, che deve essere ritmata dalla regola della preghiera.

38 39 40

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 47, pp. 66-67. Ibid. 19, p. 29. Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,982; 986, pp. 11, 117 ss.

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Ignatij ritiene importante inchinarsi fisicamente durante la preghiera: bisogna compiere tante prostrazioni, “finché il corpo senta una certa stanchezza, che favorisce la contrizione del cuore”. Il vescovo si basa sulle parole di Isacco di Ninive: “La preghiera in cui il corpo non si affatica e il cuore non si affligge va in senso contrario: quella preghiera è priva di anima”41. Ignatij distingue la “preghiera dei principianti”, la “preghiera corporea” che, come il canto, è accompagnata da una “forte tensione esteriore”, attraverso la quale “la persona raggiunge l’attenzione del cuore e della mente”42. Talora egli stesso formula la regola di preghiera per la monaca: l’ordine e la quantità delle preghiere e delle prostrazioni43. Tuttavia, malgrado la severità e i frequenti ammonimenti contro la rilassatezza, Ignatij dice che “non l’uomo è per la regola, ma la regola è per l’uomo”, perciò bisogna “attenersi al buon senso”: in caso di “debolezza fisica”, si corre infatti il rischio di “indebolire il corpo, finché non giunga allo sfinimento”44. Teofane sottolinea più volte che l’impegno nella preghiera è più importante “persino della riflessione teologica”45. Componente necessaria del cammino spirituale è la “sobria attenzione a se stessi”, basata sulla preghiera incessante ovvero la continua disposizione alla preghiera, che consiste nella “memoria di Dio con pio timore e con la volontà di pensare, sentire e desiderare solo ciò che è gradito a Dio”46. La regola personale di preghiera si può cambiare “nel tempo, nella durata e nella composizione”, l’importante è che questo sia fatto “non per la pigrizia, ma perché la preghiera venga dall’anima”47. Teofane raccomanda di in-

41

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 47, p. 65. Ibid., p. 66. 43 Cf. ibid. 70, p. 97. 44 Ibid. 48, p. 67. Cf. ibid. 5, p. 14. 45 Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,986, p. 117. 46 Ibid. V,987, pp. 118-119. 47 Ibid. III,516, p. 205. 42

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serire nella regola brevi preghiere e singoli versetti dei salmi, che aiutano la mente a rimanere costantemente rivolta a Dio. I nostri tre autori ritengono che, con il progredire nel cammino e il rafforzamento della preghiera del cuore sia naturale cambiare la regola di preghiera: si riduce il volume delle letture, ma si rafforza e approfondisce l’attenzione. Questo è “più vicino alla tradizione dei padri, all’immagine divina” e “a chi pratica l’esichia non si addicono le molte parole neanche nella regola di preghiera”48. Ignatij talora consigliava di togliere dalla regola serale un káthisma49 o un certo numero di prostrazioni, per pronunciare le parole con più lentezza e attenzione, preferendo “la qualità alla quantità”50. Egli raccomanda con forza che “la mente segua la lingua, che pronuncia piano la preghiera” e di badare alla disposizione della mente e del cuore durante la preghiera per evitare di “lasciarsi andare ad arbitrarie fantasie”51. Gli starcy parlano spesso della preghiera di Gesù, la cui pratica “inizialmente sembra arida, ma poi risulta molto fruttuosa”52. Mettevano in guardia però da modalità arbitrarie di questa pratica. La preghiera costante che dal cuore sale a Dio è un dono della grazia, che Dio concede a chi prega con zelo e sincerità53.

Il digiuno

Il digiuno, come ascesi fisica e spirituale, compito salvifico, secondo i tre autori è necessario. Tuttavia rispetto a tutte queste 48

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 3, pp. 8-9. Una delle sezioni in cui il salterio è suddiviso per l’impiego liturgico [N.d.C.]. 50 Ibid. 7, p. 16. 51 Ibid. 47, p. 66 e 45, p. 63. 52 Ibid. 62, p. 103. 53 Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana III,516, pp. 205-206. 49

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pratiche, bisogna ricordare che “esse sono per l’uomo, e non l’uomo per esse”54. Perciò tutti i precettori consigliano alle sorelle nel caso di debolezza fisica di alleggerire il digiuno, e in caso di malattia di usare il pesce anche in quaresima. Il Signore vede nel cuore, lì avviene ciò che conta per la salvezza, non nelle pratiche esterne. Allo stesso modo, in caso di necessità, “si comportavano anche molti grandi santi”55. Ignatij riporta a una sua figlia due consigli di padri spirituali di epoche passate. Giovanni Cassiano, nel suo discorso sul discernimento ritiene dannosi ambedue gli estremi, sia l’eccesso di digiuno, sia l’abbondanza di cibo, poiché vedeva come “il vizio della gola rende indocili, ma l’eccesso di digiuno induce sconforto”. Poimen il Grande esortava il fratello a essere “uccisore di passioni”, non “uccisore del corpo”56.

Confessione e comunione

Tutti e tre i padri consigliano alle monache di accostarsi più spesso alla confessione dei peccati. Nei monasteri femminili si tratta verosimilmente non del sacramento, ma di una confessione alla starica che guida la giovane monaca sul cammino spirituale. Ignatij raccomanda di confessare i peccati alla starica, perché solo la confessione frequente consente di “ottenere la misericordia di Dio”57. Ritiene utile anche rivelare alla starica i pensieri, allora Dio aiuta a “compiere la vera vocazione monastica”58. Il vescovo riconosce che questo cammino non è facile, può indurre a

54

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 61, p. 102. Ibid. 61, pp. 102-103. 56 Ibid. 63, pp. 92-93. 57 Ibid. 69-74, pp. 96-99. 58 Ibid. 73, p. 98. 55

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tentazioni, ma “riconoscendo apertamente le proprie mancanze in opere, parole e pensieri si può in un solo anno fare più progressi che con altre pratiche più faticose nel corso di dieci anni”59. La comunione eucaristica è ritenuta una componente importante della vita cristiana delle monache, ma la frequenza della comunione viene stabilita singolarmente, in base alla situazione spirituale di ciascuna60.

Il pentimento

La vita cristiana e la pratica monastica cominciano con il pentimento. Ignatij ricorda che Gesù, la verità celeste scesa sulla terra per gli uomini peccatori e deboli, iniziò il suo insegnamento dicendo: “Pentitevi!”. Da qui comincia la vita cristiana, che è sequela di Cristo, e così continua “fino all’ultimo respiro”, poiché “la verità, esortandoci al pentimento, non vi ha posto altro limite sulla terra che la sua fine naturale con la fine della vita terrena dell’uomo”61. Ignatij insegna a pentirsi con tale forza, da sentire nel cuore “come se la vita fosse sprofondata definitivamente in un oscuro carcere, come si sente un lebbroso cacciato via dal villaggio”62. La ricompensa sarà nella vita terrena “il pianto e la contrizione”. E il regno dei cieli, come dice l’evangelo, si aprirà alla “preghiera del pubblicano” e alla “confessione del ladrone”63. Teofane consiglia di riesaminare tutte le proprie azioni e, se necessario, purificarsi con la confessione e con un’adeguata peni-

59

Ibid. 73, p. 99. Cf. ibid. 71, p. 97 e passim. 61 Ibid. 12, p. 22. 62 Ibid. 63 Ibid., p. 23. 60

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tenza. Nella vita cristiana e ancor più monastica vi sono cadute, talvolta invisibili a uno sguardo esterno. Ma in ogni situazione “è sempre possibile sollevarsi” se ci si rivolge a Dio “con pentimento e la promessa di mantenersi nel bene”64.

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Umane debolezze e afflizioni

Le debolezze – fisiche, psichiche, spirituali – sono considerate un aiuto per la salvezza e persino una consolazione. Anche le afflizioni hanno un tale valore salvifico. Tuttavia, dato che le afflizioni possono portare alla tristezza, gli starcy davano delle raccomandazioni su come affrontarle. Makarij invitava ad avere pazienza e a comprendere in profondità le afflizioni. “Esse non vengono dal di fuori di noi, ma da come siamo fatti dentro”65. “Se Dio ci manda delle afflizioni, in esse ci rafforza, e ci arricchisce di doni spirituali”66. Ignatij a questo proposito ricorda che la salvezza dalle debolezze, come dalle difficoltà e dalla prigionia delle passioni, è solo in Cristo, poiché solo “lui è la fonte della forza”67. Egli non consiglia di essere troppo severi verso le proprie debolezze, ma invece di essere pazienti, poiché “l’eccessiva severità distoglie dal pentimento, portando tristezza e sconforto”68. Il vescovo scrisse spesso sulle afflizioni, sulle angustie, sul ruolo della croce nella vita del cristiano. “Preparatevi alle afflizioni, ed esse saranno più leggere; non cercate la consolazione, ed essa verrà a colui che se 64

Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,981, p. 109. Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 194, p. 333. 66 Ibid. 94, p. 198. 67 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 83, p. 104. 68 Ibid. 15, p. 26. 65

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ne ritiene indegno”69. La silenziosa sopportazione delle afflizioni ha il suo modello in Cristo, come in tutti gli apostoli e i santi, che vissero tra molte e varie afflizioni70. “Non si può essere di Cristo senza la croce”71. Teofane insegnava che la paziente sopportazione delle debolezze “è una trebbiatura … quanti più sono i colpi, tanto più sono i chicchi, e più ricco il raccolto”. E da questo raccolto si fa “pane per la mensa di Dio”72. Tutte le debolezze, insegnava Teofane, sono consentite dal Signore, che mette alla prova la sincerità del servizio reso a lui. Talora vengono meno anche le consolazioni che accompagnano le pratiche spirituali. Ma quando l’anima, privata delle consolazioni e cosciente della sua debolezza, continua a servire Dio con zelo, il Signore le restituisce le consolazioni73.

Lotta alle passioni e superamento delle tentazioni

La lotta alle passioni è uno dei temi principali negli scritti di cui ci occupiamo. Delle passioni sono vittime tanto novizi e novizie, quanto monaci e monache esperti: si tratta sia di lotta con le passioni del corpo, sia di durezza di cuore, sospetto, ansia, aridità, sterilità e pigrizia nella preghiera, accidia, disobbedienza e altri offuscamenti. Ignatij esorta a combattere le passioni “come un servo fedele e un soldato di Cristo”74, seguace del suo esempio. Riporta molti consigli dei santi padri sulla lotta alle passioni, esempi di asceti che ne 69

Ibid. 12, p. 23. Cf. ibid. 53, p. 73. 71 Ibid. 20, p. 30. 72 Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,991, p. 125. 73 Cf. ibid. V,981, p. 109. 74 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 77, p. 100. 70

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sostennero vittoriosamente gli assalti, ma ribadisce che l’unica speranza nella lotta alle passioni è nel Signore, e che l’unica strada è la consapevolezza del proprio peccato e debolezza. Allora il Signore sarà “la vostra fortezza”, “il vostro canto” e “la vostra salvezza”75. Teofane dava consigli sulla lotta alle passioni tenendo conto della singola persona concreta. La cosa principale è “l’interiore dedizione a Dio secondo la fede, in speranza e carità”, tutti questi “fattori spirituali sono nel campo della nostra volontà che, con l’aiuto di Dio, possiamo governare”76. Il comportamento esteriore peraltro dipende dalla situazione; il silenzio, ad esempio, è spesso una pratica opportuna. Affinchè la monaca non cada nell’orgoglio e nella presunzione, Teofane le vieta di “dire quel che non è necessario, e del necessario parlare solo a scopo di edificazione”77. Talora Teofane, in base ai consigli dei padri antichi, mette in guardia anche dal cercare consolazioni spirituali, scorgendovi un pericolo, quello di “un compiacimento, che a Dio non è gradito”78. Tutti gli starcy riconoscono che le tentazioni accompagnano inevitabilmente la vita cristiana e ancor più quella monastica. Makarij evidenzia due tentazioni frequenti nei novizi: il turbamento e la paura, e i pensieri sulla starica, lo starec e le altre sorelle. Nei momenti difficili, quando la novizia è presa da pensieri verso lo stesso starec, egli non si turba, ne sostiene l’animo debole, sebbene le rimproveri la pusillanimità79. Secondo Ignatij, talora le tentazioni vengono da una mancanza di umiltà e da una fiducia nelle proprie forze, dall’aver assunto impegni superiori alle forze, il che è segno di orgoglio e presunzione80. Ma Dio non ci dà tentazioni superiori alle forze, perciò da-

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Ibid. 12, p. 23. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,987, p. 118. 77 Ibid. 78 Ibid. V,981, p. 109. 79 Cf. Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 191, pp. 481-482. 80 Cf. Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 78, p. 101. 76

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vanti alle tentazioni bisogna saper “abbassare la testa”81. Riporta le parole di Isacco di Ninive, secondo il quale “l’uomo, prima di avere la tentazione, prega Dio sentendosi a lui estraneo, ma quando è assalito dalla tentazione a causa di Dio, allora lo prega sentendosi suo”82. Talora Ignatij ritiene l’apparire delle tentazioni un buon segno, cioè l’inizio di una preghiera giusta e benefica. Quando le monache si lamentano con il vescovo che all’inizio della pratica della preghiera di Gesù nascono “tristezza e le sue conseguenze: sgomento, incomprensione, sonno, eccetera”, egli riporta le parole di Giovanni Climaco: “Il beneficio della preghiera … lo si nota dagli ostacoli che il demonio vi frappone”83. Un mezzo efficace per combattere le tentazioni Ignatij lo vede, secondo Giovanni Climaco, nel “ricordarsi della morte”84. Consiglia di pensare alle pene dell’inferno, e allora “le tentazioni diventano leggere”85.

Umiltà e autocritica

L’umiltà, il pensare umilmente, sono la condizione dell’anima necessaria sempre e a tutti e strettamente legata al pentimento e alla confessione dei peccati. Ignatij augura alle sue figlie spirituali di avere “l’umiltà del pubblicano”, poiché il Signore non disprezza un cuore afflitto e umiliato. La costante autocritica, riconoscere davanti a se stessi la nostra debole volontà, questa è la strada di chi si umilia giu81

Ibid. 53, p. 73. Ibid. 56, p. 75. 83 Ibid. 5, p. 13. 84 Ibid. 45, p. 63. 85 Ibid. 82

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dicando severamente se stesso, ed è allora che Dio “lo giustifica e ha pietà di lui”86. “Mi sono confortato, vedendo dalla sua lettera che lei non confida più nelle sue doti intellettuali come faceva prima”, scrive Ignatij a una monaca sotto la sua guida. Anche Teofane insegna l’umiltà alle sue figlie: egli rimprovera una monaca che desidera vestire il grande abito per la sua eccessiva autonomia e per avergli domandato quale impressione avesse dato87. Il vescovo formula un insegnamento sulle croci che l’uomo porta nella sua vita cristiana e che “nascono una dall’altra” e sono “inseparabili fino alla tomba”. C’è la croce esterna, che “sta sulle spalle, fatta di dolori, disgrazie, privazioni, malattie, calunnie”. C’è la croce interiore: “Abnegazione e automortificazione”. E c’è la croce “spirituale, divina: la crocifissione per volontà di Dio”88.

La pace nell’anima

Tutti gli starcy parlano dell’acquisizione della pace nell’anima, ma con accenti diversi. Makarij esorta le sue figlie a essere “pacifiche e tranquille”, e ciò mediante il riconoscimento delle proprie mancanze, il ritenersi “l’ultimo degli ultimi”. Allora qualunque rimprovero sarà accettato serenamente89. La mancanza di questa disposizione si manifesta nella frequenza di pensieri passionali “verso cui il cuore si dirige”, dal cedimento alle suggestioni del nostro nemico90.

86

Ibid. 18, pp. 28-29. Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,980, pp. 106-108. 88 Ibid. V,986, pp. 115-116. 89 Cf. Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 157, p. 282. 90 Cf. ibid. 139, p. 263. 87

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Natalija Ju. Suchova

Ignatij da parte sua vede solo nella fede la rappacificazione dell’inquieto spirito umano: “Il credente va per la strada della vita, ponendo la sua speranza nella provvidenza … Chi non crede non vede il disegno divino; pensa che il suo destino dipenda dalle astuzie della sua ragione”91. Teofane consiglia di “stabilirsi nel cuore dinanzi al volto di Dio, e rimanerci saldamente”. Lo stato migliore del cuore, per la sua stessa esperienza, è “la tensione verso l’interno”, “per rimanere insieme al Signore”. Quando questo avviene, tutto il resto si ordina da solo, tutto ciò che è esteriore si allontana e rimane “Dio nell’anima e l’anima in Dio”. A una monaca, per raggiungere questo stato, consiglia di isolarsi nella cella come in una tomba, e dalla cella di “costruire una scala verso il cielo”, sulla quale il cuore può ascendere, tenendosi lontano dalla vanità mondana e dagli spiriti del male92. Il fondamento per sopportare debolezze e afflizioni, ripetono i nostri tre autori, per lottare contro tentazioni e passioni, per attingere la pace dell’anima, è in ogni caso la fede in Cristo: solo la fede che il Signore prenderà su di sé ogni peso è l’unica vera saldezza e forza del cristiano.

L’amore

Corona del progresso spirituale è il raggiungimento dell’amore, quel sentimento perfetto senza il quale, come dice san Paolo, non contano nulla le virtù e i sacrifici; esso è l’unico che “non viene mai meno” (cf. 1Cor 13,1-12). Ma anche qui non tutto è semplice.

91 92

Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 10, p. 19. Cf. Sobranie pisem Svjatitelja Feofana V,987, p. 119.

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“Amore e umiltà: ecco le vostre armi contro il nemico” scrive Makarij93. Ignatij, seguendo i santi padri, distingue due tipi di amore: naturale ed evangelico, cioè “in Cristo”94. L’amore naturale è dato all’uomo dalla creazione, ed è in ognuno, sebbene deteriorato dal peccato originale. Ora Cristo, “guarendo in modo divino tutte le nostre infermità, guarisce anche l’amore deteriorato”. Cristo non solo ristabilisce ciò che era prima del peccato: egli “innalza l’amore a un supremo grado di ardore, gli dà purezza, spiritualità, santità” e ci dice di amare negli uomini lui, il Signore. La fiamma dell’amore in Cristo spegne così “la fiamma disarmonica e fumosa dell’amore carnale, un amore ibrido, fatto di un piacere illusorio e insussistente, di duro e mortifero tormento”95.

Conclusione

Il ruolo della paternità nella vita spirituale Perché è tanto importante la direzione spirituale nella crescita spirituale e quindi per la salvezza? Qual è la specificità di questo insegnamento? Anzitutto gli starcy hanno saputo far crescere dentro di sé un uomo nuovo, che vive secondo la grazia cristiana. Un uomo umile, che si rallegra in Cristo, un uomo che ama, che non teme gli impedimenti esterni. È proprio quest’uomo interiore, non condizionato dalle circostanze, che gli starcy formavano anche in chi ricorreva al loro aiuto. Attuando nella propria

93 Sobranie pisem blaΔennoj pamjati optinskogo starca ieroschimonacha Makarija. Pis’ma k mona∫estvuju∫™im. Pis’ma k monachinjam 164, p. 289. 94 Ignatij (Brjan™aninov), Sobranie so™inenij, VII. Pis’ma 3, p. 9. 95 Ibid.

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Natalija Ju. Suchova

vita i comandamenti evangelici e l’insegnamento dei padri della chiesa, essi aiutavano i propri figli spirituali a divenire vasi di grazia divina, ad assumere un nuovo contenuto, che per l’uomo non esperto è difficile comprendere e discernere. Gli starcy testimoniavano la coincidenza dell’esperienza personale con la tradizione della chiesa, per questo osavano assumersi la responsabilità della vita spirituale di chi ricorreva a loro, per radicarli nella tradizione ecclesiale. In questa guida, in questo penetrare nel destino dell’uomo, in questa fede e gioia nel Signore per le anime che si lasciano guidare si evidenzia la specificità dello star™estvo. Gli starcy si riconoscevano servitori di queste anime, come scriveva Ignatij: “Io esulto nello spirito, quando guardo la schiera dei miei figli spirituali, dei quali non sono degno di chiamarmi padre ma servitore”96. Quale potere può avere un servitore? Il grande potere di un amore paterno, l’invisibile vita contemplativa, attinta nel corso del proprio cammino di allontanamento dal peccato e obbedienza al padre spirituale. Lo starec per umiltà non usa rivelare il suo mondo interiore, le sue alte visioni, ma si rivela nelle sue lettere e talora in poche righe. Le parole e le forme degli insegnamenti patristici non solo venivano trasmesse in una lingua comprensibile ai contemporanei, ma erano vissute insieme a loro, dunque erano e sono salvifiche nel pieno significato di questa parola. Perciò le lettere degli starcy non solo sono documenti storici del pensiero ecclesiale, ma ci fanno partecipi anche della grande eredità spirituale della chiesa, fatta di parola e di esperienza, aiutandoci nel nostro cammino spirituale. Ricordiamo l’epoca in cui vissero gli starcy di cui abbiamo parlato. Il secolo successivo, il xx secolo, sarà segnato per la Russia da un’immane persecuzione. Gli starcy dei monasteri russi, come se presentissero la bufera imminente, si misero al servizio del

96

Ibid. 11, p. 21.

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Paternità spirituale e maturazione cristiana …

mondo. La chiesa ortodossa russa, nutrita dallo star™estvo, seppe entrare negli anni delle persecuzioni e superarli, e ora alla schiera dei santi monaci e vescovi ha aggiunto la schiera dei nuovi martiri. Questa eredità di santità ha confermato ancora una volta non solo la continuità dell’azione dello Spirito santo nella chiesa, ma anche l’acquisizione dei suoi doni, cioè la perenne identità atemporale della chiesa di Cristo.

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Multiformità nell’unità e unità nella multiformità All’interno dell’unico concetto di direzione spirituale, i tre autori di cui abbiamo parlato rappresentano una notevole multiformità. Le loro lettere sono sempre una risposta viva alla vita reale dei loro figli, ai problemi concreti delle persone. Per ogni figlio spirituale cercavano di discernere la sua strada, rivelavano e spiegavano l’inattingibile mistero di ciò che il Creatore ha immesso in ogni singola anima. Malgrado le diversità nelle singole risposte, le loro raccomandazioni evidenziano una sostanziale unitarietà, talvolta una coincidenza anche nelle parole. Questo perché esse vengono da un’esperienza ecclesiale unitaria, di cui essi erano partecipi, pur senza possederla pienamente. Le loro raccomandazioni davano il diapason nella vita spirituale, l’orientamento verso la verità e la salvezza, perché con le loro labbra parlava la chiesa.

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LA MATERNITÀ SPIRITUALE NEL MONACHESIMO RUSSO DEL XX SECOLO

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Gavriila Gluchova*

Nella vita storica della chiesa di Cristo il compito della guida spirituale è sempre stato una questione attuale e importante, perché da tale nutrimento dipende la crescita spirituale dell’uomo, dunque la sua salvezza eterna. Già nel x secolo inizia un processo di impoverimento del magistero spirituale. Ne scriveva, sulla base degli scritti di Simeone il Nuovo Teologo, Ignatij (Brjan™aninov), constatando che al suo tempo (prima metà del xix secolo) quel processo di impoverimento era oltremodo avanzato. Prima di riflettere sulla direzione spirituale è bene soffermarci per chiedere a noi stessi che cosa è la vita spirituale. Oggi questo concetto si identifica con quello di cultura, di arte, con le diverse forme di vita spirituale dell’uomo. Per molti la vita spirituale è legata alla chiesa. Tuttavia l’essenza stessa della spiritualità è difficile da definire con precisione. Si può parlare a lungo di spiritualità, ma questo può essere utile solo se questo tema è in diretta relazione alla persona concreta, cioè a ciascuno di noi. Il cammino della vita spirituale ci è indicato, ma ognuno lo deve

* Igumena del Monastero della Natività della Madre di Dio di Grodno. Traduzione dall’originale russo di Leonardo Paleari.

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Gavriila Gluchova

percorrere da sé. Ivan Il’in, un pensatore russo, ha scritto: “Non si può né vivere, né creare al posto degli altri. Vivere e creare è compito di ciascuno. E questo avviene tanto più e tanto meglio, quanto più profondamente ciascuno è radicato nella propria esperienza spirituale, sofferta e pregata”1. Nella crescita spirituale dell’uomo ha un posto centrale la coscienza, che è la forza stessa del Divino che vive in noi. La sventura dell’uomo contemporaneo è che ha disimparato ad ascoltare la voce della propria coscienza. La coscienza cristiana sembra quasi zittita negli ultimi decenni di progresso tecnico-scientifico. Già all’inizio del xx secolo Ivan Il’in prevedeva che all’uomo contemporaneo sarebbe toccato un cammino di grandi sofferenze e turbamenti. Noi che in questo secolo abbiamo vissuto, bene o male siamo testimoni di questa realtà. Di questo xx secolo, in cui la grande maggioranza delle guide spirituali è stata annientata, inviata nei lager e nelle prigioni, possiamo solo esclamare con il salmista David: “Salvami, Signore! Non c’è più un uomo giusto” (Sal 11 [12],2). Malgrado tutte le difficoltà e prove della sua storia, in tutti i tempi il Signore ha dato alla chiesa delle guide spirituali che hanno indicato la via della verità a chi cerca la salvezza. Nella storia della chiesa ortodossa l’azione salvifica e educativa dello Spirito santo si è manifestata in ogni epoca nella vita e nelle opere degli uomini da lui illuminati. Il secolo xx è stato un tempo di sofferenza, di pazienza, di confessione e di martirio per molti figli della chiesa della santa terra di Russia. Per quasi settant’anni la stessa confessione del nome di Cristo è stata in diversi modi motivo di condanna. Furono chiuse migliaia di chiese e centinaia di monasteri e quasi tutte le scuole di teologia esistenti prima del 1917 cessarono la loro attività. Molte decine di migliaia di credenti furono costrette a tenere segrete le proprie convinzio-

1

I. A. Il’in, Put’ duchovnogo obnovlenija, Belgrad 1937 (rist.: Moskva 2003, p. 4).

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La maternità spirituale nel monachesimo russo …

ni, centinaia di migliaia furono i cristiani martirizzati e uccisi. Basti ricordare alcuni luoghi di sofferenza come il lager speciale sulle isole Solovki, costruito nel territorio del monastero maschile delle Solovki, il poligono di Butovo, detto il Golgota russo, e altri luoghi arrossati dal sangue dei nostri compatrioti. È stupefacente come la chiesa di Cristo non solo sopravvisse in Urss negli anni del delirio ateistico, e alla ricorrenza del millennio del battesimo della Rus’ riportò milioni di uomini al fonte battesimale, ma espresse anche dei modelli di santità in condizioni di persecuzione e di crudeltà inaudite prima di allora. Particolare significato ha il fatto che, nella situazione in cui quasi tutte le chiese erano chiuse e quasi tutto il clero oggetto di repressione, mentre i pochi sacerdoti rimasti dovevano limitarsi a officiare la liturgia, e anche questo sotto lo stretto controllo del Ministero per gli affari religiosi e dei suoi funzionari locali, a predicare la verità e a esercitare la cura e il sostegno spirituale dei credenti furono chiamati, per disegno divino, monaci e semplici laici. Tra essi non poche furono le donne, anziane donne con il fazzoletto bianco in testa, spesso provenienti da famiglie contadine, le quali capivano bene i bisogni e i problemi dell’uomo semplice, parlavano una lingua accessibile e hanno così conservato per noi la santa chiesa ortodossa russa, che ora è forte e spiritualmente salda. La tradizione dell’ortodossia russa conosce molti nomi di donne che hanno glorificato Dio con la loro eroica devozione. Nel xx secolo in Urss, quando la stessa fede in Dio era dichiarata una follia, la vita e le opere delle ascete cristiane era accompagnata da scherno, ingiuria e persecuzione da parte della gente sovietica che credeva nel “luminoso futuro del comunismo”. Esse vivevano fuori dal sistema dei rapporti sociali, nel migliore dei casi ignorate dall’autorità statale, sostenute solo dai credenti. La maggior parte di loro seguiva l’esempio dei “folli in Cristo”, sopportando disagi e offese, testimoniando con tutta la loro vita che “quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confonde229

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Gavriila Gluchova

re i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,27-29). Qual è l’ideale della donna cristiana lo spiegò bene l’apostolo Pietro nella sua lettera, parlando della sacra interiorità dell’uomo: “Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti – ma piuttosto, nel profondo del vostro cuore, un’anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio” (1Pt 3,3-4). In Cristo non vi è differenza tra uomo e donna nel senso che per tutti vi è l’aiuto della grazia divina. Ma la grazia non elimina le diversità: le donne hanno una specifica dignità, propri doni e vocazione, un proprio servizio. In Russia le donne creavano quell’ambiente di devozione e purezza che ha fatto crescere tante cristiane esemplari. Un’enorme ricchezza spirituale è rappresentata proprio dalle figure di donne cristiane nel vivo fluire della vita religiosa e culturale russa. Quanta luce e quanto calore grazie a loro sono stati dati all’anima del prossimo! Esse insegnano, anzitutto, con il loro esempio di amore, compassione, pazienza. Queste qualità delle credenti russe si rivelarono specialmente negli anni delle persecuzioni e dell’ateismo militante. I nomi di queste donne sono noti e stimati dai figli fedeli della madre chiesa. Esse sapevano trovare risposte semplici e necessarie alle complesse questioni della vita, sapevano consolare, sostenere e indirizzare verso la via della salvezza. È notevole il fatto che esse diedero sempre una giusta valutazione della situazione di ateismo che imperava nella società. Enumeriamo solo alcune di esse: Paraskeva di Diveevo, Marija di Diveevo, Matrona di Mosca, Pelagija di Rjazan’, Ljubov’ di Susanino, l’igumena Arsenija (Serebrjakova), l’igumena dal grande abito (schiigumenija) Marija (Dochtorova), l’igumena dal grande abito Gavriila (Risickaja), 230

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la beata monaca dal grande abito Makarija (Artem’eva), Valentina di Minsk, Manefa di Gomel’. Attraverso molte prove fisiche e materiali, esse purificarono la loro anima “da ogni macchia della carne e dello spirito” (2Cor 7,1) e il loro percorso di vita ci mostra un saldissimo indissolubile legame con la chiesa e la tradizione spirituale ortodossa. Il percorso di vita della beata Paraskeva di Diveevo è segnato dal fatto che lo stesso Serafim di Sarov la benedisse per la vita ascetica nei boschi di Sarov, popolati da fiere, dove ella visse in digiuno, preghiera e consunzione per circa trent’anni. Il metropolita martire Serafim Ωi™agov nella cronaca del monastero di San Serafim a Diveevo dice che Paraskeva durante la sua lunga ascesi aveva l’aspetto di santa Maria Egiziaca. I contemporanei notarono che l’aspetto della santa mutava secondo i suoi sentimenti: talora era severa, quasi minacciosa; talora gentile e amabile. Questi mutamenti erano determinati da un’immediata relazione verso lo stato spirituale delle persone che andavano da lei. Passava le notti in preghiera e il giorno, dopo la liturgia, falciava l’erba, lavorava a maglia e svolgeva altri lavori, senza mai cessare nella preghiera di Gesù. Ogni giorno sempre più persone andavano da lei per un consiglio, un aiuto e la richiesta di pregare per loro. Sono noti molti casi della sua chiaroveggenza, allorché la santa premuniva le persone dal commettere un peccato. La pedagogia spirituale di Paraskeva fu ereditata dalla beata Marija di Diveevo. Rimasta orfana a quattordici anni, vestita di stracci al freddo praticava il digiuno e l’ascesi tra Diveevo e Sarov. A Diveevo spesso andava da Paraskeva per consigli spirituali. La monaca Serafina Bulgakova ricorda: La santa Marija Ivanovna veniva dalla provincia di Tambov. Finché visse Paraskeva andava in giro sporca, malvestita, dormiva sotto un ponte. Il suo vero patronimico era Zacharovna, ma lei diceva che siamo tutti santi, tutti Ivanovi™, figli di Giovanni Battista. Marija aveva un parlare veloce e preciso, spes231

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so in versi poetici. Era anche una mente arguta, amava sorprendere e consolare le persone che si rivolgevano a lei. Una volta un ufficiale venne da lei per avere udienza. La custode di cella, Dosifeja, avvertì Marija affinché non dicesse nulla di inopportuno in presenza di quella persona, poiché era già l’epoca sovietica e nere nuvole si addensavano sulla chiesa. Invece, appena quello entrò da lei, Marija esplose di sdegno e lo assalì così: “Governava Nikola∫ka2, avevamo pane e pasta; ora c’è un regime nuovo, non abbiamo neanche un uovo”.

Il percorso di vita di queste beate è per noi importante per il fatto che esse riprendono l’eredità di san Serafim di Sarov. Fu lui a benedire il cammino ascetico della venerabile Pelagija, la prima starica di Diveevo, prevedendo l’importanza della loro opera e della loro preghiera ascetica per l’epoca a venire. In seguito nei più diversi luoghi della Russia la loro gloria si moltiplicò ad opera di altre venerabili staricy. Un posto importante in questa storia della devozione, ignota a molti, è quello della beata Matrona di Mosca. Le testimonianze sulla sua vita ci dicono che esteriormente la veneranda starica conduceva una vita uniforme: di giorno riceveva le persone che venivano da lei, la notte pregava per tutti i sofferenti che chiedevano l’aiuto della sua preghiera. Non dormiva mai pienamente in un comodo letto, solo sonnecchiava su di un fianco, poggiando il capo sulla mano chiusa. Le persone venivano da lei con le loro sofferenze fisiche e psichiche. Talvolta in un giorno riceveva anche più di quaranta persone e non rifiutava mai a nessuno il suo aiuto, tranne a coloro che venivano con intenzione maligna. Aiutava tutti disinte-

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Nicola II (1868-1918).

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ressatamente, pregava con i visitatori ad alta voce con le preghiere più conosciute, sempre sottolineando che non era lei ad aiutare, ma Dio mediante le sue preghiere. Guarendo i malati chiedeva loro fede in Dio e pentimento dei peccati. Insegnava a non condannare mai nessuno, ma ad affidarsi alla volontà di Dio, comunicarsi regolarmente e segnare se stessi e ciò che ci circonda con il segno della croce, riparandosi così dalla forza del male. Diceva: “Difendetevi con la croce, la preghiera, l’acqua santa, la partecipazione frequente ai santi sacramenti”. Insegnava ad amare gli anziani e i deboli, a scusarli, ad aiutarli volonterosamente. Insegnava a non dare importanza ai sogni, poiché vengono dal maligno, che vuole distruggere l’uomo e immergerlo nella tristezza. Pregava le ragazze e le donne che si vestissero modestamente, senza truccarsi, perché non dobbiamo guastare l’immagine divina in noi creando una bellezza artificiale e falsa. Rispondendo alle più varie questioni, la veneranda Matrona mirava al risanamento spirituale della gente che veniva da lei. Sia le persone più semplici che quelle di grado più elevato ricevevano da lei insegnamenti chiari e positivi, che condussero molti alla fede e alla salvezza. Questo è un tratto caratteristico delle venerande staricy del xx secolo. Un altro esempio è la beata Pelagija di Rjazan’, che operò nei duri tempi dell’ateismo militante. Nacque nel 1890 ed era completamente cieca. Ma Dio le donò la visione spirituale. Dall’infanzia condusse la sua vita in incessante preghiera, ricevendo il dono della capacità di guarire e della chiaroveggenza. L’accademico Anatolij Orlov, dottore in medicina, ha scritto: Come medico posso testimoniare che Pelagija guariva molte persone, che soffrivano di malattie psichiche o fisiche. Faceva questo senza alcun farmaco. Poneva le mani sulla testa del malato, faceva segni di croce e pregava. Era dotata di chiaroveggenza. Precisando il giorno e l’ora, previde con anni di anticipo l’inizio della seconda guerra mondiale. 233

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Come raccontano molti testimoni che ebbero un colloquio personale con lei, è noto che la veneranda Pelagija, pur essendo cieca, sapeva a memoria il Salterio e molti inni acatisti. Ogni giorno si inchinava migliaia di volte e diceva che incrociando le dita nel modo giusto ne esce un fuoco: Quando ci facciamo il segno della croce, un fuoco benefico arde e purifica il nostro corpo. Il sangue spinto dal cuore attraversa una croce di fuoco e brucia tutto ciò che è maligno, marcio e peccaminoso. Perciò quanto più spesso ci segniamo, tanto più si purifica il nostro sangue, tanto più s’innalza la mente verso Dio, tanto prima la nostra preghiera arriva a Dio. Ecco l’importanza della croce!

Per provvidenziale volere divino molte staricy soffrirono di varie malattie e miserie. La veneranda Marija di Diveevo era costretta a letto, Matrona di Mosca e Pelagija di Rjazan erano cieche, la monaca Makarija (Artem’eva) non poteva camminare. Con la loro vita testimoniarono quello che un giorno il Signore disse all’apostolo Paolo: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). La venerabile starica monaca Makarija (Artem’eva) convertì a Dio le anime di molti che si rivolsero a lei. Il suo figlio spirituale Durasov scrisse: Ogni udienza ai malati richiedeva alla starica una grande tensione di forze fisiche e mentali. Andavano da lei persone disperate, alle cui malattie i medici non avevano saputo dare sollievo. Ella li assisteva, ponendo come condizione della guarigione la fede in Dio! Di se stessa e del suo operare madre Makarija diceva: “Cosa mai faccio io? Me ne sto sul letto, cieca, ho male alle mani, i piedi non camminano”. Lo Spirito di sapienza consentì alla madre, grazie al dono di chiaroveggenza, di ricevere rivelazioni divine e dare risposte esaurienti ai 234

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La maternità spirituale nel monachesimo russo …

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problemi della gente. A molti diceva di pregare così: “Signore, sii con me, non lasciarmi. Madre di Dio, assistimi”. Basta una preghiera per arrivare a Dio. Coricandosi la sera: “Accoglimi, Signore e benedici il mio sonno”; subito al risveglio: “Benedici, Signore, questo giorno, che trascorra secondo i tuoi insegnamenti”.

Un’altra starica da ricordare è Ljubov’ di Susanino, nata nel 1912 nella provincia di Smolensk. A diciotto anni si trasferì dal fratello a Leningrado, lavorò qui alcuni anni, poi lasciò tutti i beni del mondo e assunse la vocazione di pellegrina (stannica) per la gloria di Dio. Visitò molte chiese e monasteri dell’Unione Sovietica. Ebbe particolarmente caro il villaggio di Vyrica, nella regione di Leningrado, dove abitava il suo padre spirituale, Serafim di Vyrica, recentemente proclamato santo dalla chiesa ortodossa russa. I testimoni raccontano come Ljubov’ pregava in un modo che suscitava emozione negli astanti. Parlava con le icone in una lingua comprensibile solo a lei. Talora chiedeva qualcosa piangendo, talora si rallegrava. Pregava per tutti quelli che si rivolgevano a lei e per la Russia sofferente. Pregava tra le lacrime per lunghe ore. Non dormiva in modo normale. Si avvolgeva in una coperta, si assopiva un po’, non si concedeva di sdraiarsi né di sedersi comodamente. Pregava senza sosta, parlava poco. Amava molto i bambini e i colombi, che spesso nutriva. Dal pane che le portavano i fedeli staccava un pezzetto e con semplici parole infantili pregava per chi le dava quel pane quotidiano. Con il pane rimasto nutriva i colombi nel cortile della chiesa. Vedendo il suo modo di fare semplice e ingenuo molti piangevano lacrime di affetto e tenerezza. Io stessa nel 1991 ebbi la fortuna di parlare con questa insolita starica a Susanino. Non posso riferire quello che personalmente mi disse, in forma allegorica. A distanza di anni, tuttavia, sono testimone che molte cose della sua conversazione apparen235

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Gavriila Gluchova

temente insensata e oscura mi diventano ora pienamente comprensibili e si sono rivelate profondamente giuste. Ljubov’ diceva che se gli uomini continuano a peccare, non pregano e non si pentono, verranno tempi crudeli. Senza la preghiera sorgono problemi fisici e spirituali, come conseguenza della vita in una casa “costruita sulla sabbia”. Per le comunità monastiche rinate dopo le celebrazioni per il millenario del battesimo della Rus’, affinché potessero ritrovare il legame spirituale che univa le monache prima della chiusura forzata dei monasteri, è importante conoscere la vita, le opere e gli insegnamenti di alcune igumene vissute nel xx secolo. Per brevità ricorderemo solo i nomi dell’igumena Arsenija (Serebrjakova, 1838-1915) e delle monache igumene Gavriila (Risickaja, 1894-1976) e Marija (Dochtorova, 1896-1978). L’igumena Arsenija (Serebrjakova) entrò nel monastero di Ust’-Medvedica (oggi regione di Volgograd) nel 1859. Sua madre spirituale fu la monaca Ardaliona, che fin dall’inizio insegnò alla figlia spirituale a vedere solo i propri peccati e difetti, e attribuire ogni buona opera a Dio. Vedendo nella figlia spirituale una persona vicina a Dio, la starica cercava di allontanarla dalle abitudini mondane. Una volta Arsenija senza la benedizione della starica diede a una donna povera mezzo rublo. La superiora spiegò alla giovane monaca che con tali generose elemosine lei si era come messa in evidenza, e perciò poteva nascere nel suo animo un senso di superiorità e vanagloria. La saggia starica educava la futura igumena a una profonda umiltà e obbedienza. La via della lotta alle passioni – diceva – è molto difficile. È stata indicata dal Signore stesso, il quale disse che è una via difficile e stretta. L’altra via, per la quale molti vanno, è più facile: è la via delle passioni. La maggior parte di chi fa vita monastica non conosce altra strada oltre a quella per la quale va. Sei andata in chiesa, hai letto la regola, hai fatto tutte le genuflessioni previste, hai obbedito a quello che ti hanno detto di 236

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fare: sei convinta di aver fatto tutto. Purtroppo, costoro non lavorano sul proprio uomo interiore, non cercano, non si sforzano di distruggere le passioni nella loro radice. Se una monaca osserva l’obbedienza, ma non mette in questo il suo cuore, ciò non vale nulla. In quello che fa devono prendere parte tutti i sentimenti del cuore, tutte le capacità dell’anima. Allora vedrà che nel suo cuore vivono passioni che lei stessa non conosce: amor proprio, orgoglio, vanagloria, ira.

A trent’anni la giovane monaca Arsenija fu consacrata igumena. Ricordando gli insegnamenti della sua madre spirituale, ella stessa con l’aiuto di Dio prese a istruire le sorelle. “Il monaco deve avere tre pensieri: quello della morte, quello del giudizio e quello della ricompensa. Bisogna rinunciare a tutto, dare tutto al prossimo, e allora insieme al prossimo l’anima si avvicinerà a Dio”. Molto esigente verso di sé era benevola con il prossimo, soffriva per quelli che sbagliavano, si affrettava a prestare aiuto. Nella vita di coloro che vogliono superare le passioni distingueva tre fasi: la vita secondo le passioni, quando l’uomo accondiscende ai desideri del corpo; la vita secondo i comandamenti, quando l’uomo lotta con le passioni; infine quando l’uomo può raggiungere l’assenza di passioni: allora egli ama i suoi nemici, sopporta le ingiurie senza dolore nel suo cuore. L’igumena Arsenija insegnava alle sorelle il pensiero che la santa obbedienza è data a ciascuno di noi dal Signore stesso, perciò, quando era già anziana e soffriva di malanni e debolezze, portava pazientemente la sua croce e diceva: “Ecco, quando le forze verranno meno compiendo l’obbedienza, allora si potrà dire che l’ho adempiuta”. L’igumena Marija (Dochtorova), nata a Kiev in una devota famiglia nobile, dalla fanciullezza mise la vita al servizio di Dio. Trovatasi fuori della Russia dopo il 1917, soffrì molte prove e dolori; falsamente accusata, fu arrestata e messa in prigione. Nel 1924 arrivò in Serbia, entrò nel monastero dei Santi Kirik e Iu237

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liitta. Da igumena conduceva una vita ascetica, si riteneva più peccatrice di tutti, dormiva sul pavimento, mangiava pane e verdure crude. Se le sorelle commettevano determinate mancanze, ella le puniva in un modo insolito: per qualche giorno lei stessa rimaneva senza mangiare né bere. Per le suore che la amavano non ci poteva essere castigo più grave. Madre Marija raggiunse il grado più alto della preghiera di Gesù, quello della discesa della mente nel cuore. Pur essendo fuori della sua terra, madre Marija rimase sempre legata alla Russia e obbediente al patriarca di Mosca. Amava ardentemente la Russia e pregava per essa. “Bisogna pregare Dio che doni un grande pentimento al popolo ortodosso. Solo in questo è la salvezza della Russia e del mondo”, diceva. Era molto misericordiosa, non condannava mai nessuno. Ai suoi figli spirituali rimproverava il peccato di chi condanna il prossimo. Aveva il dono della chiaroveggenza e della preghiera taumaturgica. Ricorda il vescovo Gavriil di Makariopolis: “L’igumena Marija, anche nelle ultime ore della vita terrena, non si preoccupava per se stessa, ma soffriva per coloro che restavano sulla terra, per coloro che venivano privati della loro madre spirituale”. L’igumena Gavriila (Risickaja), nata a San Pietroburgo nel 1894, all’età di sette anni fu accolta nell’orfanotrofio presso il monastero femminile di Krasnostok e Grodno. Percorse tutte le obbedienze monastiche, ottenne dal Signore il dono dell’umiltà e della perfetta sottomissione ai superiori. Consacrò interamente i doni di sapienza avuti da Dio per la guida spirituale delle sorelle affidate a lei dalla Provvidenza. Donna di grandissima fede, diceva a chi andava da lei venendo da un mondo contagiato dal veleno della miscredenza: “L’ateismo è una follia. Non credere è povertà di mente e incapacità di guardare intorno a sé. Guardate come il mondo è armonico. Che bellezza intorno a noi! Come non riconoscere che questa è opera di un Creatore?”. Fu testimone degli orrori dell’ateismo militante: chiusura e distruzione di chiese e monasteri e in particolare, nel 1960, del monastero di Grodno; torture, ingiurie e fucilazioni di monache, di 238

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vescovi (sotto i suoi occhi i nazionalisti ucraini fucilarono il metropolita Aleksij Gromadskij a Kremenec), di sacerdoti e semplici fedeli non spezzarono il suo animo, ma danneggiarono la sua salute. La madre si ammalò, le sue gambe non camminavano più. Inizialmente andava in carrozzella, poi anche questo le fu impossibile e negli ultimi dodici anni rimase sempre a letto. Trovandosi esiliata nel monastero maschile di æirovicy, Gavriila continuava a dirigere le sue monache di Grodno e cercava di alleviare le pene spirituali di chiunque venisse da lei per un aiuto. Quando ci fu la minaccia di chiusura del monastero di æirovicy, la madre per alcuni giorni rimase senza mangiare e senza bere e pregava la Madonna. Si adoperò fino all’ultimo respiro, adempiendo la regola e leggendo ogni giorno il breviario. Compose l’acatisto alla Madre di Dio donatrice di pace, che oggi è letto alla preghiera mattutina nel rinato monastero di Grodno. Le sorelle amavano l’igumena e, quando sentivano avvicinarsi la morte, chiedevano di poter morire accanto alla madre. Come molti eletti da Dio, madre Gavriila evitava di condannare alcuno, per questo pregava il Signore e sant’Isacco di Dalmazia, che aveva la virtù dell’astensione dal giudizio. Gavriila morì precisamente il giorno di sant’Isacco. Il cammino delle donne russe, sia laiche beate e folli in Cristo (jurodivye), sia monache, è attuazione dell’amore e della gioia spirituale. Questo cammino ci insegna l’amore di Cristo, l’amore che dimentica se stesso e si preoccupa del prossimo intorno a noi; l’amore che risplende sui buoni e sui malvagi; l’amore che sopporta ogni prova e minaccia, rimanendo fedele a Dio, alla chiesa ortodossa e alla patria. Questo amore portavano in sé le staricy del xx secolo, eredi spirituali delle donne sante di Russia. “Con il vincolo dell’amore hai legato i tuoi apostoli, Cristo, così anche noi, tuoi servi fedeli hai legato strettamente a te”, si canta nel tropario sulla moltiplicazione dell’amore. E davvero non v’è unione più salda di quella creata dall’amore. L’amore in Cristo è l’unica forza capace di combattere e vincere la morte. 239

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Per le opere e le preghiere delle persone di cui ho parlato e di molti altri santi asceti la fede si è conservata e molti si sono convertiti a Dio. Rivolgendosi a loro per risolvere i problemi della vita e dell’anima, molte persone ricevettero insegnamenti profondi e spesso cambiarono del tutto il loro modo di vita. Molte di queste madri spirituali ebbero dolori e malattie; molte andarono pellegrinando senza un tetto, la loro vita era solo al servizio di Dio e del prossimo, testimonianza di fede negli anni dell’ateismo sovietico. Con la loro attività di guide spirituali, con il martirio, la confessione di fede e le sofferenze la fede ortodossa si è conservata. Verissime sono le parole del salmista David: “Mirabile è Dio nei suoi santi” (Sal 67 [68],36a lxx). Come dice l’apostolo Paolo, attraverso la virtù dei santi, nelle loro opere per la gloria dell’Onnipotente, “dalla creazione del mondo le sue perfezioni invisibili, la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese” (Rm 1,20). Non è dunque strano che i monaci abbiano sempre onorato i santi servi di Dio, cercando di imitare le loro opere e virtù, conducendo la vita monastica secondo la loro esperienza spirituale. I monasteri sono luoghi di una peculiare ascesi, invisibile agli occhi umani; luoghi di costante lotta con il principio del male che è in noi. L’ascetismo è una virtù molto difficile. È difficile rompere tutti i legami con il mondo, rinunciare alla propria libertà, cambiare le abitudini di peccato, sostituire l’arbitrio del proprio “io” con la disciplina monastica, con la dedizione alle opere e alla preghiera. La virtù della preghiera è un’opera difficile ma fruttuosa, essenziale per ogni monaco, senza la quale diventano insensate tutte le altre opere terrene. Un tale cammino di distacco dal mondo è possibile a pochi. “La nostra vita – insegnava padre Doroteo – è un cammino verso la perfezione, verso l’amore nel rapporto con Dio e con il prossimo”. Il fine della vita monastica è la comunione con Dio, cioè la salvezza dell’anima, la beatitudine eterna. La strada è l’adempimento dei precetti divini, la sottomissione della nostra volontà alla 240

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volontà di Dio, che si manifesta nelle circostanze della vita. L’opera è la purificazione del cuore dalle passioni, l’umiltà che porta alla fede, alla sua grazia, senza la quale nulla di buono e santo può attuarsi. I buoni esempi delle nostre devote staricy, attraverso tutte le afflizioni terrene e tutte le gioie spirituali e attraverso i gradini dell’ascetismo cristiano, sono la miglior guida spirituale delle persone che oggi conducono vita monastica. Le nostre venerande staricy vissero e operarono nell’amore di Dio e del prossimo: in esse vediamo la vita monastica come vita di gioia e di amore in Cristo. E questo si ottiene solo attraverso l’umiltà e l’amore che si sacrifica. È importante che nella nostra epoca il Signore abbia voluto glorificarsi nella vita e nelle opere di tante donne sante. Non tutti i loro nomi ci sono noti, ma tutte con la loro preghiera dinanzi a Dio ci salvano e ci difendono. Il santo vescovo Ignatij (Brjan™aninov) insegnava ai suoi discepoli che nel tempo delle prove dolorose, così come nei momenti di gioia, ripetessero parole di riconoscenza a Dio: “Gloria a Dio per tutto!”, spesso e a lungo come diciamo la preghiera di Gesù. Le staricy del xx secolo ringraziavano Dio per la sua misericordia verso il popolo russo che, malgrado si fosse allontanato dal proprio Creatore per l’invidia del maligno, dopo tante dure prove nuovamente ritornava tra le braccia del Padre.

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UNA MADRE SPIRITUALE TRA RIVOLUZIONI E PERSECUZIONI: L’IGUMENA FAMAR’ MARDæANI√VILI (1869-1936) Nina Kauchtschischwili*

Il compito che mi sono posta non è facile. Penso tuttavia che la figura di matu∫ka Famar’, questa monaca georgiana relativamente poco nota nell’area russa e meno ancora in occidente, non sia priva di interesse per la storia della spiritualità ortodossa e in particolare della maternità spirituale, anche se le fonti di cui si dispone risultano piuttosto scarne. La mia comunicazione è di una certa attualità proprio in questa sede, dove era intervenuto qualche anno fa il compianto metropolita Nikolaj di NiΔnij Novgorod, uno dei pochi autori che hanno dedicato uno scritto a questa matu∫ka1. Ho dunque deciso di dare un taglio particolare al mio intervento. È probabilmente noto che il processo di beatificazione richiede nella chiesa ortodossa, oltre a miracoli e spoglie incorrotte, oggetti di grande venerazione, e anche l’icona. L’immagine sacra è considerata la testimonianza della venerazione popolare di cui gode un santo nella chiesa locale anche prima della sua canoniz*

Professore emerito di lingua e letteratura russa dell’Università di Bergamo. Pubblicato a Diveevo nel 2000. Il metropolita Nikolaj (Kutepov, 1924-2001) partecipò al convegno di Bose dedicato a san Serafim di Sarov nel 1996. 1

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zazione. Tuttavia il caso della nostra matu∫ka è un po’ particolare, perché di lei si conosce solo un ritratto, che oso definire un’icona sui generis, ad opera del pittore Pavel Dmitrievi™ Korin (18921967)2, figlio di un iconografo di Palech3. La mia conoscenza di questo ritratto è legata a un ricordo personale. Una ventina d’anni fa mi trovavo a Mosca per incontrare l’archimandrita Innokentij (Prosvirnin), allora vicedirettore della casa editrice del patriarcato. Il nostro colloquio si era protratto fino a tarda ora e padre Innokentij propose di invitarmi a cena, invito che nella Mosca di allora fu molto gradito. Il padre mi condusse in una casa, di fronte al monastero di Novodevi™i, dove egli si fermava quando non faceva in tempo a rientrare al monastero della Trinità a Sergiev Posad. Arrivati all’ingresso suonammo e la porta ci fu aperta da una piccola donnina anziana, il cui viso mi stupì per la finezza dei tratti. Quando padre Innokentij le disse: “Stasera abbiamo ospiti dall’Italia”, gli occhi della donnina si illuminarono e tradirono una forte emozione. Poi fui condotta verso la tavola da pranzo e padre Innokentij mi rivelò che avevo incontrato una monaca che vestiva abiti civili secondo le norme in vigore in Urss. Dopo cena il padre mi mostrò un’immagine, che raffigurava un viso delicato che ricordava quello della donnina appena vista. Allora il padre mi spiegò che si trattava proprio di lei, anche se nell’immagine era rivestita di abiti monastici. Poi padre Innokentij mi mostrò un album con le illustrazioni di Korin che aveva più volte ritrat-

2 P. D. Korin appartiene a una corrente pittorica detta “simbolica”. Essendosi formato all’antica tradizione russa ha rivolto l’attenzione ai personaggi eroici del passato. Nel 1911 aiutò M. V. Nesterov a eseguire gli affreschi per la chiesa del monastero di Marta e Maria della granduchessa Elizaveta Fedorovna, oggi sede di una scuola di restauro. Nel 1925, anno della morte del patriarca Tichon, Korin ha dedicato un ritratto a quel patriarca perseguitato dal regime sovietico. Però Korin poté godere della protezione dello scrittore Maksim Gor’kij, che a lungo ha soggiornato a Sorrento e che invitò Korin in Italia, dove il pittore è rimasto particolarmente impressionato dell’antica pittura sacra. 3 Città sull’Anello d’oro a circa 150 km a est di Mosca, località tuttora sede di una famosa scuola di antica tradizione iconografica.

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to il bellissimo volto di questa piccola monaca. Mi è sembrato che quel viso avesse qualcosa di angelico. Parlando pochi giorni dopo con un’amica russa della scoperta che avevo fatto in casa dell’archimandrita, ella mi spiegò che Korin era un pittore profondamente religioso e rievocò il suo funerale nel 1967 che, in piena era sovietica, aveva visto una spettacolare partecipazione popolare, del tutto inusitata nel clima ateista di allora. Poco dopo scoprii che Korin aveva ritratto matu∫ka Famar’, ma non sono purtroppo riuscita a reperire una bella riproduzione di quel ritratto-icona. Il dipinto avrebbe dovuto far parte di un grandioso affresco ideato da Korin nel 1925 durante il funerale del patriarca Tichon4 e il pittore lo avrebbe voluto chiamare Requiem. Però nel 1931 lo scrittore Maksim Gor’kij, visitando l’atelier di Korin, rimase stupito vedendo il ritratto del patriarca e suggerì di chiamarlo piuttosto Rus’ uchodja∫™aja (“la Russia che sta per tramontare”), titolo certamente più idoneo al clima ideologico dell’Urss5. È dunque grazie al dipinto di Korin se ho scoperto la figura di madre Famar’, che il pittore ritrasse nel 1935 quando la religiosa era appena ritornata dal confino in Siberia. Questo quadro conferma inoltre il coraggio di Korin, che negli anni del terrore staliniano non esitò a dipingere il ritratto di una monaca condannata ed ebbe l’ardire di creare un’immagine commovente, che testimoniava quanto questa monaca avesse sofferto, mostrandola gravemente provata dalla malattia contratta in Siberia. L’artista ce la presenta seduta su una poltrona con le braccia appoggiate sui

4 Il patriarca Tichon (Bellavin, 1865-1925) fu il primo patriarca eletto allorché il patriarcato fu nuovamente istituito nel 1917 dopo la sua abolizione da parte di Pietro il Grande nel 1721. 5 Purtroppo Korin non riuscì a portare a termine il suo affresco. La sua vita fu tormentata da una profonda conflittualità tra le sue aspirazioni spirituali e l’imposizione ideologica sovietica. Una parte dei suoi dipinti si è conservata e testimonia che della sua collezione dovevano far parte ritratti di alcune tra le figure più rilevanti nella storia della chiesa ortodossa russa.

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braccioli, che contrastano con il bianco del grande velo che ne avvolge il capo e il busto. L’attenzione dell’artista si concentra sul volto e sull’espressività degli occhi, ripresa dal movimento delle mani. Gli occhi trasmettono uno sguardo profondo, carico di spiritualità che viene completato dal gesto delle mani che sembrano sprigionare la grande forza interiore di questa donna provata dalla dura sorte e dalla malattia: il velo è di un bianco azzurrognolo che scende sull’abito nero, mentre lo sfondo del quadro è di un azzurro grigiastro che contrasta con il marrone dei braccioli. Matu∫ka Famar’, nata Thamar MardΔani∫vili (1869-1936)6, discendeva da una ricca famiglia della nobiltà georgiana, ed era sorella del noto regista teatrale Kote MardΔani∫vili7, che dopo la rivoluzione del 1917 contribuì a creare il cinema nazionale georgiano. Thamar restò per tutta la vita affezionata alla tradizione culturale georgiana, alla sua famiglia e in particolare al fratello. In tenera età rimase orfana di padre e all’età di vent’anni perse la madre. Molto dotata per la musica, era un’ottima pianista e aveva una bellissima voce. Poco dopo la morte della madre visitò il convento di Bodbe, luogo dove si venera tuttora la tomba di santa Ninò, apostolo della Georgia, che ivi morì nel 354. La giovane rimase impressionata dall’intensità del rito liturgico e, sug-

6 Queste le date salienti della sua biografia: 1868 (o 1869): Thamar Aleksandrovna MardΔani∫vili nasce nella proprietà di famiglia vicino a Tiflis; 1871: muore il padre; 1888: muore la madre; visita per la prima volta il monastero di Bodbe; 1889: entra nel monastero di Bodbe; 1891: accompagna la superiora in Russia e incontra per la prima volta Ioann di Kronstadt; 1902: diventa superiora del monastero di Bodbe; 1903: deve recarsi a Pietroburgo, dove incontra di nuovo Ioann di Kronstadt; 1904: si reca a Mosca; nuovo incontro con padre Ioann; 1905: viene trasferita come superiora a Mosca; 1906: incontra per l’ultima volta Ioann di Kronstadt; 1910: inizia la costruzione di un suo skit; 1912: inaugurazione dello skit; 1924: lo skit viene chiuso d’autorità e la matu∫ka s’insedia con alcune monache a Perchu∫kovo a pochi chilometri da Mosca; 1931: la piccola comunità viene soppressa, madre Famar’ arrestata e condannata alla deportazione; 1935: ritorna malata dalla Siberia e si stabilisce nella piccola località di Dimitrovo; 1936: muore consumata dalla tubercolosi contratta in Siberia. 7 Kote è la versione georgiana del nome Konstantin. Come regista ha lavorato anche a Mosca, Kiev, Char’kov. Egli intervenne per la liberazione di Famar’ dall’esilio. Kote morì nel marzo del 1933. La sorella lo pianse in una lettera dalla Siberia e gli dedicò una

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gestionata da tale bellezza, percepì di essere chiamata alla vita religiosa. Superata la resistenza dei familiari entrò l’anno successivo a Bodbe e questa scelta risultò di sua grande soddisfazione. I biografi mettono in luce che la sua forte personalità religiosa appare in contrasto con la sua figura eccezionalmente esile, come ricorda una delle sue figlie spirituali: Davanti a me stava una donna molto bella ma piccolissima. Il suo viso era incorniciato da un velo monastico bianco come la neve. Aveva occhi eccezionalmente grandi, neri come quelli di una georgiana. Questi occhi esprimevano grande intelligenza, fermezza e inoltre un’inconsueta bontà. Si rimaneva quasi turbati da questa piccola figura, piuttosto simile a una nana, che le conferiva un aspetto del tutto particolare: una caratteristica specifica della sua persona. Rimasi colpita dalla bellezza non solo degli occhi ma anche delle mani8.

La piccola e fragile struttura fisica è stata messa in rilievo da tutti gli autori, perché contrastava con la forza spirituale che emanava dai suoi grandi occhi scuri: alcuni biografi affermano che i suoi piedi erano talmente piccoli che una bambina di cinque anni ne avrebbe potuto calzare le scarpe. Il suo rigore religioso fu presto notato dalle autorità ecclesiastiche e nel 1902, quando la superiora venne trasferita a Mosca, Famar’ fu nominata igumena, e all’età di trentatré anni divenne superiora di un monastero in cui vivevano trecento monache. Il trasferimento della superiora

lunga poesia: Na smert’ moego brata K. A. (Per la morte di mio fratello K. A.). Ella ricevette, dopo la sua morte, una composizione di fiori di lilla bianco, unica decorazione della baracca in cui abitava in Siberia, dove era stata deportata, a Ust’ Uda, a 200 km al di là di Irkutsk. Nello stesso anno gli dedicò la poesia da cui emerge un quadro vivace della figura del fratello, un ritratto veritiero di un grande regista che non ebbe vita facile nella Georgia sovietica. 8 “Detki moi ljubimye…”. Schiigumenija Famar’ (knjaΔna MardΔanova). Vospominanija. Pis’ma. Stichi, a cura di S. Fomin, Moskva 2002, p. 187.

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le causò grande dispiacere perché in lei vedeva non solo la madre e la guida spirituale (duchovnaja mat’), ma le si era tanto affezionata, da sentirla come la propria madre che aveva perso poco prima di entrare in monastero. La comunità di Bodbe aveva dovuto affrontare molte difficoltà al tempo in cui Thamar vi era entrata: da poco eretta a monastero femminile autonomo, era infatti costretta a risolvere impegnativi problemi economici. Allora si verificò un evento miracoloso. Le monache non sapevano più come procurarsi il cibo, quando l’invio di una cospicua somma di denaro da parte di Ioann di Kronstadt (1829-1909) permise loro di superare il momento critico. Da allora la matu∫ka divenne fedele seguace di san Ioann e, quando poco tempo dopo dovette accompagnare la superiora a San Pietroburgo, ebbe occasione di ringraziarlo di persona. Gli incontri con il santo prete assunsero un’importanza determinante nella vita spirituale di Famar’: durante uno degli incontri Ioann le mise tre croci al collo, gesto simbolico e profetico, perché in seguito sarebbe divenuta igumena di tre monasteri. Da allora nacque un profondo legame con il santo: lei s’ispirava al modello spirituale da lui proposto. Padre Ioann fu per lei una figura esemplare e rimase tale anche dopo l’ultimo incontro, avvenuto quando Famar’ era stata stabilmente trasferita come igumena a Mosca, poco prima della morte di Ioann. Come già accennavo, Famar’ divenne igumena e superiora nel 1902, ma i primi moti rivoluzionari del 1905 coinvolsero anche la Georgia e la giovane igumena non rimase indifferente di fronte a tali fatti e cercò di soccorrere i perseguitati. Queste iniziative destarono allarme nel Santo Sinodo che temeva per la sua incolumità e la fece perciò trasferire a Mosca9. Famar’ fu allora costretta con suo rammarico ad abbandonare l’amato monastero geor-

9 La chiesa georgiana dipendeva, sotto gli zar come pure per un certo periodo sotto i sovietici, da quella russa, come era stato stabilito da Pietro il Grande.

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giano, la tomba di santa Ninò e la terra della sua famiglia. Questi sentimenti testimoniano ulteriormente il profondo legame della matu∫ka con la sua terra, l’amore che nutriva per la Georgia e per tutto ciò che proveniva dal Caucaso. Famar’ divenne a Mosca igumena della comunità RoΔdestvenskaja, che si dedicava all’assistenza di malati come la comunità di Marta e Maria fondata dopo il 1905 dalla granduchessa Elizaveta Fedorovna, di cui Famar’ divenne intima amica. Tuttavia la vita attiva non riusciva a soddisfare le sue aspirazioni spirituali: era propensa a un’intensa vita di preghiera, di contemplazione e voleva vivere da eremita in uno skit, ma i suoi padri spirituali le suggerirono di non isolarsi. Allora si recò dal recluso Aleksij dello skit di Zosima, che le suggerì di fondare uno skit a cui potesse dare un’impostazione personale, riservando spazio sia all’attività caritativa sia alla contemplazione. Secondo Aleksij avrebbe dovuto creare uno skit svoj, una sua fondazione aperta verso i fedeli, ma di rigore ascetico. Il recluso le suggerì inoltre di dedicare il suo skit a Serafim di Sarov, un santo che ella sentiva come una persona viva con cui conversava, si consigliava e sentiva che la sosteneva nei momenti difficili, particolarmente da quando Serafim era stato proclamato santo nel 1903. Famar’ era particolarmente devota alla Madre di Dio del Segno e Aleksij le suggerì di affidare se stessa e il suo skit a lei. Però quando era in corso la costruzione del monastero, in una località non lontana da Mosca, ella non dimenticò la sua patria e dedicò un altare a santa Ninò. Nel 1910 fu posta la prima pietra del suo skit e la consacrazione ebbe luogo nel 1912. Al momento dell’inaugurazione vivevano nel suo monastero trentatré monache che praticavano, secondo le intenzioni di Famar’, la preghiera di Gesù. Accanto al monastero fu creata un’azienda agricola, in cui vivevano e lavoravano le novizie, e che forniva al monastero i prodotti della terra. Le fonti sottolineano che il complesso era circondato da un grande bosco che fu chiamato “il bosco del monastero”, nome conservatosi tutt’oggi. 249

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Lo skit di Famar’ ebbe tuttavia vita breve. Sopravvennero gli anni difficili della guerra, lo skit fu poi sconvolto dal conflitto civile; vi trovò rifugio il vescovo di Serpuchov Arsenij (æadanovskij), secondo quanto aveva disposto il patriarca Tichon. Ciò fu provvidenziale per la nostra conoscenza di Famar’, poiché il vescovo Arsenij sarebbe stato uno dei più autorevoli biografi della matu∫ka10. Però lo skit esistette solo dodici anni: nel 1924 fu chiuso dalle autorità, le monache si dispersero e nel 1925 l’edificio fu trasformato in ospedale, nel 1967 fu adibito a campo per i giovani “pionieri”; infine tutto il complesso fu trasformato in un’azienda per la fabbricazione di radio e materiale radiofonico. Nel 1997 si è di nuovo installata una comunità monastica e nel 1998 il complesso è stato restituito alla chiesa ed è nato un nuovo skit. Tentando di mettere a fuoco la sorte dello skit sotto il regime sovietico vorrei ancora una volta ricorrere al binomio lotmaniano svoe (“proprio”) e ™uΔoe (“altrui”). Le autorità, sopprimendo lo skit, cercavano di distruggere lo svoe, quanto la matu∫ka aveva fatto per salvaguardare la sua concezione di vita spirituale in mezzo al ™uΔoe, alla vita del mondo fortemente irruente. Allontanatasi dal suo skit Famar’ ha tentato di salvare almeno in parte lo svoe, rifugiandosi con dieci monache in una piccola casa, definita dalle fonti una da™a prerivoluzionaria, nel villaggio di Perchu∫kovo vicino a Mosca, ma priva di una chiesa. La matu∫ka cercava di tenere vivo lo svoe, quello che aveva retto la vita del suo skit guidato da una parte dallo spirito di Ioann e dall’altra da quello di Serafim e affidato alla protezione della Madre di Dio del Segno. Tutto questo costituiva il più prezioso svoe per la matu∫ka, che non risparmiava sforzi per salvaguardarlo in una realtà dominata da un feroce ™uΔoe.

10 Cf. Episkop Arsenij (æadanovskij), “Schiigumenja Famar’”, in “Detki moi ljubimye…”, pp. 3-69.

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Una madre spirituale tra persecuzioni e rivoluzioni …

Dalle memorie di una figlia spirituale sappiamo come la matu∫ka riuscisse a restar fedele allo svoe. Ella descrive per esempio i solenni festeggiamenti pasquali celebrati nel nuovo skit. La celebrazione della Pasqua si protrasse, secondo la tradizione russo-ortodossa, per tutta la settimana. In quei giorni si unì alle monache il già ricordato vescovo Arsenij, contribuendo a salvaguardare lo svoe come risulta dalla descrizione della festa. In mezzo al ™uΔoe riuscirono a far sopravvivere le tradizioni caratteristiche dello svoe. Tra l’altro prima di sedersi a tavola tutti fecero gli auguri di buona Pasqua alla matu∫ka, che rispose porgendo a ciascuno un uovo rosso, simbolo della bellezza e della luminosità della festa pasquale. In tavola non mancarono certo i tradizionali cibi pasquali russi. C’era molta gente. Per lo meno una trentina di persone. Il vescovo celebrava la liturgia nella cella della matu∫ka11 e lei lo serviva durante il rito, fungendo da lettore e cantore, e colmava l’atmosfera con il suo entusiasmo religioso. Poi cantavano tutti coloro che erano in grado di farlo. Il vescovo confessava e distribuiva la comunione a tutti i presenti. Penso che coloro che hanno assistito una volta a tale solenne celebrazione non la dimenticheranno per tutta la vita. Molti piangevano12.

La celebrazione di una solenne liturgia nel clima repressivo sovietico diventò non solo l’occasione per mettere meglio a fuoco la personalità della matu∫ka che si consumava per salvaguardare lo svoe, cioè il clima spirituale e monastico del suo skit, che potremmo chiamare il suo “deserto spirituale”, ma anche l’occasione per trasmettere lo spirito dello svoe ai figli spirituali che si

11 In quella casa-da™a non esisteva una chiesetta: penso che siamo in molti a ricordare come si celebravano le messe nelle camere d’albergo nella Russia sovietica! 12 “Detki moi ljubimye…”, p. 43.

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erano riuniti intorno a lei. Però quando c’era il vescovo lo svoe veniva arricchito dalla sua presenza e la matu∫ka provvedeva affinché i figli potessero appartarsi13 con lui per consigliarsi, mentre tutti sapevano che il vescovo agiva secondo le intenzioni della matu∫ka. Così ella condivideva la responsabilità per i suoi figli spirituali almeno temporaneamente con un sacerdote, facendo però in modo che i figli spirituali non si sentissero imbarazzati di fronte a un vescovo che lei considerava parte importante dello svoe e non aveva nulla del ™uΔoe. La madre era inoltre consapevole di dover fare da ponte perché il ™uΔoe era talmente forte da imporre alcune regole ineluttabili. Lei cercava per esempio di impedire che gli ospiti partissero14 senza aver preso il tè in compagnia del vescovo, creando così un clima di familiarità. Tentava di salvare lo svoe anche sapendo che correva un certo rischio di fronte al ™uΔoe del potere sovietico, sospettoso verso i “colossali assembramenti” in una casa relativamente piccola. Si doveva dunque stare attenti, cercando di mascherare tutto, ricorrendo a espedienti per giustificare la presenza di una comunità monastica in una vecchia da™a con un via vai di gente. Per mascherare il clima spirituale Famar’ creò una cooperativa per la confezione di trapunte, un articolo che non era disponibile nei negozi, ma che era indispensabile nel rigore dell’inverno russo. Questo è stato possibile perché le monache e la matu∫ka stessa erano abili nei lavori di cucito. Quest’attività permetteva di godere di un certo reddito e contribuiva nel contempo a “giustificare” la vita del monastero di fronte al ™uΔoe ufficiale. Credo che si possa dire che nello skit-da™a15 di Perchu∫kovo si svolse la fase più significativa della maternità spirituale della ma13 Ciò avveniva in cucina, perché era l’unico locale disponibile oltre a quello dove tutti erano riuniti. 14 Alcuni ospiti si affrettavano a partire tra l’altro per sgombrare la casa tanto affollata, per non suscitare troppo sospetto presso le autorità locali. 15 In uno dei testi viene precisato che si trattava di una da™a costruita prima della rivoluzione, relativamente spaziosa e circondata da un giardino.

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tu∫ka. Il metropolita Nikolaj di NiΔnij-Novgorod ha soprattutto sottolineato che la matu∫ka aveva stupito tutti perché aveva saputo esercitare nella situazione socio-politica di quegli anni un’intensa assistenza spirituale, frutto del suo grande amore per il prossimo. La sua bontà era accompagnata da un forte zelo spirituale quando le chiese aperte erano oramai poche, e i preti costretti dall’autorità a limitarsi alla celebrazione della liturgia. Era infatti assai pericoloso intrattenersi con un padre spirituale e così diventava attuale la maternità spirituale: era infatti meno pericoloso intrattenersi con una donna, tanto più se questa faceva parte di una cooperativa dove si poteva acquistare un oggetto utile e pratico. Bisogna ricordare però che una forma di maternità spirituale è sempre esistita nella chiesa russo-ortodossa come conferma la vita di madre Taisija (1845-1915), igumena vicina a Ioann di Kronstadt, che si preoccupava, secondo padre Ioann, di stimolare nelle figlie spirituali soprattutto l’amore del prossimo. Taisija esercitava una maternità che si muoveva tra la carità e un’elevata spiritualità ascetica, ed ebbe grande successo tra le giovani: alla sua morte si contavano settecento monache nel suo monastero. Però il concetto di maternità spirituale ha radici remote e lo s’incontra già tra le vergini del deserto, come testimonia l’opera pubblicata di recente anche in Italia16. Questo aspetto della spiritualità era diventato dunque attuale nel clima repressivo del periodo sovietico. Non sorprende che una delle raccolte dedicate a madre Famar’ sia stata titolata: “Figlioli miei amatissimi…” (“Detki moi ljubimye…”). Si resta inoltre stupiti che fin dalle prime pagine si sottolinea che non solo Famar’, ma anche altre monache, specialmen16 Faccio riferimento al Meterikon del monaco Isaia (xv secolo). L’edizione italiana (Meterikon. I detti delle madri del deserto, a cura di L. Coco, Milano 2002) è una traduzione dal russo; l’originale greco è tràdito tra gli altri da un manoscritto datato 1450, conservato nella Biblioteca nazionale russa di San Pietroburgo (RNB, nr. 243), tradotto in russo da Teofane il Recluso (1815-1894): Miterikon. Sobranie nastavlenij Avvi Isaii vse™esnoj inokine Feodore, Moskva 1891.

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te le igumene, vengano considerate matu∫ki dotate di sensibilità spirituale eccezionale, abilitate a esercitare la maternità spirituale. Dal contesto risulta che il termine materinstvo (“maternità spirituale”) riassume la fiducia che si aveva per questa figura femminile, che sapeva confortare e risolvere i problemi spirituali e materiali che angosciavano tutti in tempi sovietici. Le fonti indicano inoltre che le madri rassicuravano i figli spirituali disorientati, fattore importante quando tutti erano terrorizzati dal ™uΔoe. Pare che si possa aggiungere che la madre spirituale sapeva trasmettere ai suoi figlioli un senso di gioiosa certezza. Ascoltiamo una di queste figlie: Volevo cominciare a parlare, ma la matu∫ka mi fece due, tre domande e cominciò a parlare, rispondendo a ciò che io avrei voluto dire, e mi stupì facendo riferimento ai miei pensieri più segreti. Non dimenticherò mai come ne rimasi stupita, sconvolta. Si può dunque dire che matu∫ka Famar’ era dotata di straordinaria perspicacia spirituale, forse addirittura di chiaroveggenza e aveva grande esperienza spirituale17.

Dopo gli incontri con la matu∫ka, la figlia spirituale si sentiva come percorsa da stimoli nuovi e aveva la sensazione che le fossero cresciute le ali e le sembrava di volare. Poi aggiunge che si sentiva turbata, perché era stata trattata con affetto e interiormente era come pervasa da grande serenità. Da allora si era affezionata alla matu∫ka, affidandosi alla sua guida con “assoluta fiducia”. A questo punto bisognerebbe chiedersi perché ho insistito sullo svoe parlando di questa matu∫ka. Come già accennavo, la giovane monaca si era sentita attratta dalla santità caritativa

17 Monachina Serafima (Osorgina), “Iz vospominanij o Matu∫ke Schiigumeni Famari”, in “Detki moi ljubimye…”, p. 159.

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praticata da Ioann di Kronstadt, dotato di grande sensibilità per i problemi e i bisogni del prossimo. Ioann soccorreva tutti e non esitava a elargire consigli pratici a chi ricorreva a lui, senza distinzione di fede o di ceto sociale; nel contempo guidava i suoi figli spirituali con mano ferma. Si può dire la stessa cosa della matu∫ka, che dalla Siberia scrive: Tanju∫a18, gioia mia, mi congratulo con te perché la tua bambina ha ricevuto il sacramento del santo battesimo … Ora inizia un periodo nuovo nella tua vita di madre cristiana e educatrice … e tutto dipende ormai da te.

Poi passa ai consigli pratici: Quando stai allattando cerca di non pensare a nulla di frivolo o mondano, ritirati nella tua camera … cerca di dire la preghiera di Gesù e il Salve Regina mentre stai allattando. Però ti raccomando di non essere agitata quando allatti, anzi devi cercare di calmarti, fare il segno della croce e segnare anche la piccolina.

Inoltre non esita a suggerirle come deve nutrirsi in quel particolare periodo e conclude: Io ti ho scritto quello che la Regina del cielo e san Serafim mi hanno suggerito. Che la Regina del cielo guidi la tua vita e ti insegni a essere una vera madre. Affida te stessa e la piccina a lei19.

18 Quando nasce la bambina di Tanja, il marito era stato arrestato e la matu∫ka sentiva il dovere di sostenere e incoraggiare la sua figlia spirituale anche con consigli pratici. 19 “Detki moi ljubimye…”, pp. 97-98.

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Questa lettera dimostra come la matu∫ka viveva guidata dalla spiritualità di Ioann e da quella ascetica di Serafim, la cui vita era interamente dedicata alla preghiera di Gesù, non solo nel periodo in cui praticò il silenzio assoluto (mol™anie), ma anche quando fece ritorno alla vita comunitaria. Avevo sottolineato anni fa che Serafim si distingueva tra gli starcy perché irradiava un’intensa luce intorno a sé, un potere che gli veniva dall’aver sperimentato il soffio dello Spirito santo. L’importanza della luce nella vita di Serafim è stata probabilmente determinante per la matu∫ka, che ha scelto, in contrasto con la regola monastica abituale, un velo bianco anziché nero. Questo particolare diventa segno della presa di coscienza dello svoe, del suo skit che si muoveva tra le due spiritualità a cui già accennavo: esse si completano a vicenda per fondersi in un’eccezionale fonte di luminosità. La matu∫ka si rifugiava inoltre sotto il manto ( pokrov) della Madre di Dio perché sentiva che la Regina del cielo aveva impresso anche a lei il suo segno. Ciò m’incoraggia a dire che madre Famar’ visse nel quotidiano l’onnipresenza della Trinità: l’amore del prossimo praticato da Gesù con i miracoli, la marcata e luminosa presenza del Padre e il soffio dello Spirito santo che irradia con una luce straordinaria l’anima che aspira a vivere pienamente il mistero della Trinità. Vorrei dunque concludere dicendo che lo svoe ricercato e realizzato da matu∫ka Famar’ ci offre una straordinaria fusione di due tra i più luminosi esempi di santità russa: della forza spirituale non solo di Ioann di Kronstadt, ma anche di Serafim di Sarov. Questo le permise di sopravvivere nel periodo dominato dal ™uΔoe per diventare un luminoso punto di riferimento perfino in carcere20 e nell’esilio in Siberia, dove fu un rifugio per coloro che desideravano appoggiarsi a una madre spirituale, come confermano i ricordi del carcere:

20 In prigione era anche circondata da tende bianche composte con le lenzuola che le portavano.

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Una prostituta cominciò a esibire un’oscenità. La matu∫ka le disse: “Amica mia, perché fai così? Io non potrò più volerti bene”. La guardò così intensamente che la prostituta interruppe per sempre le sue esibizioni21.

La nostra matu∫ka veniva incontro al desiderio dell’anima altrui, avvolgendo tutti con il manto del suo amore, sapendo che sacerdoti, monaci e starcy stavano gradualmente scomparendo. Però la maternità, come conferma l’esempio della presenza del vescovo Arsenij, veniva praticata da Famar’ con umiltà, perché si sentiva responsabile di fronte al Signore per l’anima che si affidava a lei. Le testimonianze ricordano di lei che si preoccupava per le sue figlie fino all’ultimo respiro e non si dimenticava nemmeno di coloro che erano morte22: affidando i suoi amati figli spirituali alla Madre di Dio, serbava in cuor suo ciò che le veniva confidato. L’assoluta fiducia nella Madre di Dio la dotava di quella forza interiore che le permetteva di fare di tutto e di tutti lo svoe, ciò che le era proprio, di identificarsi con la vita interiore dei suoi figli spirituali, diventando strumento di chiaroveggenza per intuire ciò che occorreva ai suoi figli prima di averlo udito dalla loro viva voce. A questo punto mi permetto di aggiungere un pensiero personale. Mi sembra che il senso di potenziale maternità spirituale sia da sempre un prezioso patrimonio del monachesimo femminile russo. Ricordo un episodio accaduto durante un nostro pellegrinaggio. Mentre visitavamo un monastero femminile ancora semidistrutto, il nostro pullman era sprofondato nelle sabbie di una strada non asfaltata. Mentre eravamo disperatamente in attesa di qualche soccorso, giunse l’igumena e benedisse noi e il nostro pullman con la sua croce pettorale, dicendo: “Vedrete che tutto andrà

21 22

“Detki moi ljubimye…”, p. 39. Cf. ibid., p. 31.

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bene”. Infatti fu così. Non ho mai visto una nostra monaca fare un gesto simile con la croce che una volta tutte le monache portavano. La monaca russa, come l’igumena che avevamo incontrato, è convinta di essere dotata di una grazia eccezionale che le conferisce il potere di soccorrere materialmente e spiritualmente il prossimo benedicendolo. È questo un aspetto della maternità spirituale. Madre Famar’ non esitava a elargire la sua benedizione ai figli spirituali mentre era esiliata in Siberia, come confermano le lettere commoventi colme della sua maternità spirituale: Tane™ka, tesoro mio, vorrei poterti ispirare il solito coraggio. Tutto passerà23, mia cara, e tu godrai di nuovo giorni tranquilli e sereni. Leggi l’apostolo Pietro, che parla chiaro di tutto questo. Guariranno, se Dio vuole, anche i tuoi malati24.

Ella ricorre qui al linguaggio crittografico25 sovietico mentre accenna ai parenti arrestati (“i tuoi malati”). In un’altra lettera, recapitata evitando la censura, parla delle ansie che vivono altre sue figlie, affidandole alla Regina del cielo: tutte devono sapere che le ha nel cuore, che prega intensamente per loro anche nella sua reclusione. Sorprende che dava consigli pratici anche dalla Siberia, suggerendo dove si poteva trovare un luogo adatto per la villeggiatura, dove trovare il latte indispensabile per i bambini, raccomandando di evitare l’umidità e di godere di aria buona e secca. Ella valuta tutto e afferma: “Non c’è momento in cui

23

Il marito di questa sua figlia era in quei mesi in carcere. “Detki moi ljubimye…”, p. 105. 25 Lo fa anche quando accenna al fratello che si era adoperato per ottenere la sua liberazione: “Ti dico sinceramente che non ho la minima speranza che le medicine di K. A. [il fratello Konstantin Aleksandrovi™] serviranno a qualcosa. Il mio fisico è troppo fragile e lo può salvare solo un miracolo” (ibid., p. 114). Da quando era stata esiliata, il fratello regista si era attivamente impegnato per ottenere la sua liberazione e riesce a far ridurre a tre i cinque anni d’esilio, ma era oramai denutrita e i suoi polmoni erano stati gravemente lesionati. 24

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Una madre spirituale tra persecuzioni e rivoluzioni …

tutto ciò non passi davanti ai miei occhi che vi pensano sempre”26. Le preoccupazioni di questa madre spirituale si rivolgono anche alla vita di coppia: incoraggia la moglie a sostenere il marito nelle ricerche scientifiche, a condividere i suoi interessi. Le lettere dalla Siberia confermano che i suoi figli spirituali sono iscritti nel suo cuore. La sua maternità, carica di forza spirituale, dopo una certa diffidenza iniziale, conquistò persino i contadini presso i quali abitava in Siberia. Il figlio di quella famiglia, un ragazzo rozzo, aveva a tal punto subito il fascino della matu∫ka che dopo il suo ritorno a Mosca le scrisse di rimpiangere di non poter farle sentire quali progressi aveva fatto negli studi musicali ai quali lei l’aveva incoraggiato. Queste lettere sono una straordinaria testimonianza di maternità e varrebbe la pena pubblicarle! Ottenuta la riduzione della pena e ritornata a Mosca, matu∫ka Famar’ era ormai logorata dalla denutrizione, dal freddo siberiano (che scendeva anche sotto i 50°C), e i suoi polmoni erano stati ormai consumati dalla tubercolosi. Morì pochi mesi dopo.

26

Ibid., p 107.

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PATERNITÀ SPIRITUALE E CURA PASTORALE NELL’OPERA DI PADRE PONTIJ RUPY√EV (1877-1939)

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Uno dei fenomeni più interessanti della spiritualità russa tra la fine del xix e la prima metà del xx secolo è la presenza, tra il clero secolare uxorato (il cosiddetto “clero bianco”), di grandi figure di padri spirituali. Nella preghiera della litija dell’ufficio per “Tutti i santi che hanno brillato nella terra russa”, composto da sant’Afanasij (Sacharov), troviamo il nome di un solo prete non monaco: il santo giusto Maksim Totemskij. Non c’è da stupirsene, poiché l’ufficio di sant’Afanasij, scritto a metà del Novecento, si basava sulle canonizzazioni dell’epoca sinodale e precedenti; dovrebbe perciò essere completato almeno dai nomi di Aleksij Bartsurmanskij, Ioann di Kronstadt, Aleksij e Sergij di Mosca (Me™ev), dal padre spirituale del monastero di Marta e Maria Mitrofanij Srebrjanskij (poi monaco Sergij), Iona di Odessa. Accanto a questi possono poi essere ricordati i nomi di coloro che ancora attendono di essere canonizzati: i protoierej Valentin Amfiteatrov, Pontij Rupy∫ev, Petr Seregin e molti altri padri spirituali e pastori appartenenti al clero bianco, particolarmente venerati nel xx secolo.

* Professore di teologia pastorale all’Università umanistica ortodossa San Tichon di Mosca. Traduzione dall’originale russo.

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Pavel Chondzinskij

Non è difficile indicare le cause dell’assenza di santi di questo “rango” nella pressoché millenaria storia della chiesa russa: da un lato l’ideale monastico dell’antica Rus’; dall’altro il livello spesso effettivamente molto basso, soprattutto in provincia, del clero parrocchiale, la cui vita si confondeva con quella del popolo, mentre la rappresentazione dell’“uomo santo” coincideva con una sua certa “separatezza” dalla quotidianità, e molte altre ragioni analoghe. Più importante è porsi però un’altra domanda: perché questa figura di santo appare in uno specifico periodo storico? Certo, c’è una santità nascosta, ma ci si può chiedere perché questa venga alla luce proprio alla fine dell’epoca sinodale. In altre parole: che cosa è cambiato nella vita russa, se il tipo di santità che sembrava esserle congeniale, quello del “santo monaco”, si rivela sostanzialmente insufficiente, nonostante la nota fioritura dello star™estvo monastico proprio nel xix secolo? Quali sono i tratti, irriducibili all’antica tipologia, che la nuova figura di santo apporta alla tradizionale comprensione della santità nella spiritualità russa? Occorre notare che l’eredità dei santi pastori dalle fila del clero bianco finora non è mai stata considerata quale corpus unitario, come invece potrebbe esserlo in forza del comune servizio pastorale degli autori e di una certa unità delle premesse, del campo di applicazione e delle conclusioni, senza considerare che molte opere fino ad oggi restano semplicemente inedite e non studiate. Mi limiterò in questo contributo a una breve panoramica delle concezioni teologiche del protoierej Pontij Rupy∫ev, quale esempio delle originali e importanti riflessioni elaborate nel quadro di questa tradizione poco nota, ma di essenziale importanza per la comprensione delle profonde trasformazioni della spiritualità russa nel secolo scorso. Nato nel 1877 nel governatorato di Vilensk da una famiglia nobile, Pontij ebbe a sedici anni la visione della Madre di Dio con Gesù bambino. Pur essendosi preparato al cammino monastico, con la benedizione del suo padre spirituale decise di sposarsi; dopo aver sostenuto come esterno gli esami di teologia nel seminario 262

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Paternità spirituale e cura pastorale …

di Vilensk, nel 1901 fu ordinato presbitero. Svolse diversi incarichi pastorali, anche come cappellano nella marina militare. Trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita nella proprietà di famiglia di Mere™-Michnovskoe (attualmente in Lituania), dove fondò una comunità spirituale, che esiste ancora oggi, cosa che di per sé rappresenta un fatto abbastanza unico. La storia di questa comunità, caratterizzata da drammatici avvenimenti, sia durante la vita del fondatore, sia dopo la sua morte (10 gennaio 1939), meriterebbe di essere oggetto di una trattazione a parte: per questo qui non vi faremo deliberatamente riferimento. L’opera di padre Pontij è pubblicata fino ad oggi solo in minima parte e pochissimo studiata1. Essa consiste essenzialmente in vari appunti, la cui caratteristica è di essere meno riflessioni su esperienze ed eventi e vissuti, che meditazioni sulla Scrittura, commentari incompleti a singoli versetti o frammenti dei testi biblici, sovente ripetuti: così padre Pontij ritorna cinque volte su Giovanni 13,10, sviluppandone progressivamente l’interpretazione, tanto che l’ultima esegesi comprende le precedenti. Un’altra caratteristica dei testi di padre Pontij è la totale mancanza di citazioni patristiche (nonostante alcuni dettagli facciano credere che ne avesse un’ottima conoscenza), e una invece notevole quantità di commenti ai testi liturgici, attinti all’Octoechus, al triodo e ai minei, cosa che è probabilmente dovuta alle precarie condizioni della sua esistenza e ai costanti trasferimenti, dove spesso solo la Scrittura e i libri liturgici erano facilmente accessibili, se non altro nelle chiese in cui padre Pontij celebrava. D’altra parte abbiamo qui già occasione di osservare il nesso diretto e di principio tra le costruzioni teologiche di padre Pon1 Chi scrive dispone attualmente dei testi delle opere inedite di padre Pontij composti in formato elettronico, senza tuttavia l’indicazione dell’inizio e della fine dei singoli manoscritti, né del numero dei fogli, cosa che rende purtroppo impossibile precisi rimandi nelle citazioni. Frammenti dalle opere di padre Pontij sono stati pubblicati una sola volta: Ne ostavlju vas sirotami… æizneopisanie i blagodatnye mysli protoiereja Pontija Rupy∫eva, Moskva 1999.

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tij e la sua esperienza pastorale, come speriamo di mostrare nel prosieguo dell’analisi. In ogni caso è proprio in queste due fonti, anzitutto la sacra Scrittura e quindi la liturgia, che padre Pontij cerca una risposta alle domande della vita. L’esegesi “scientifica” della Scrittura chiaramente non lo soddisfa, poiché essa non possiede la chiave capace di aprire il senso attuale della rivelazione. Ma questa chiave la si acquisisce partecipando alla vita di grazia della chiesa, e proprio in questo senso egli interpreta Giovanni 13,10: “Soggiunse Gesù: ‘Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti’”. La continua presenza di Cristo in mezzo ai discepoli e il suo insegnamento li purificano. Così anche noi possiamo essere purificati dalla costante unione con Cristo nel sacramento della santa comunione e nella lettura della parola di Dio.

La fedeltà alla tradizione, condizione necessaria della veridicità dell’interpretazione della rivelazione, si fonda innanzitutto non tanto sui testi patristici, quanto su una vita conforme all’insegnamento dei padri. In questo senso l’approccio di padre Pontij può essere paragonato all’analogo atteggiamento verso l’ermeneutica scritturistica di Filaret di Mosca, anche se in Rupy∫ev non troviamo rimandi espliciti all’opera del metropolita. Se Filaret applica agli eventi contemporanei soprattutto testi veterotestamentari, padre Pontij tende sempre a cogliere il senso degli avvenimenti per il tramite della “chiave” della storia evangelica. In questo consiste il pregio delle sue interpretazioni, che potrebbero essere definite una raccolta di teologia pastorale neotestamentaria, nonostante un certo numero di paralleli apparentemente arrischiati, come quando la polemica antifarisaica degli evangeli2 2 “‘Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia

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Paternità spirituale e cura pastorale …

viene direttamente trasferita alla situazione ecclesiastica contemporanea. Bisogna d’altra parte tenere presente che padre Pontij non ha mai fornito un’esposizione sistematica del suo pensiero: per questo alcune sue interpretazioni che paiono unilaterali devono essere completate da altre, che considerano altri aspetti dello stesso problema. In particolare, occorre sottolineare che tutte o quasi tutte le riflessioni di padre Pontij hanno un concreto orientamento pastorale, e trovano conferma nella personale esperienza pastorale dell’autore, o ne costituiscono il necessario fondamento teologico. Talvolta incontriamo uno sviluppo delle interpretazioni bibliche in singoli scritti, che a prima vista ne sono del tutto indipendenti, ma che di regola toccano in certa misura gli stessi argomenti: il pastore nella sua relazione con il Pastore dei pastori, Cristo; il posto del pastore nella chiesa; il legame tra la vita del pastore e la vita del gregge; l’attività del pastore in connessione con la situazione della chiesa contemporanea. Sono anche i punti che toccheremo nella nostra esposizione.

Il pastore in relazione a Cristo

Nella trattazione di questo tema si manifesta forse con maggior chiarezza la ferma fede di padre Pontij nel radicamento dell’evangelo nella vita. In alcuni casi il suo commento si limita ad appuntare: “Così deve fare anche il pastore (ovvero: così dobbiamo fare anche noi)”. Ma s’incontrano anche interpretazioni decisamente più complesse e sviluppate, dove il confronto evidenziato

e la fedeltà’ (Mt 23,23). Gli scribi sono i teologi contemporanei: intendono la sacra Scrittura esteriormente, ma non possono penetrarne il senso interiore”.

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sta tutt’altro che in superficie. Così il versetto di Matteo 9,10 (“Mentre [Gesù] sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con lui e con i suoi discepoli”), gli suggerisce il pensiero che se al posto del Salvatore ci fosse stato un “comune credente”, la moltitudine della gente che lo seguiva e gli si attaccava con tutti i suoi peccati gli avrebbe creato un forte disagio. Ma il Signore, il buon pastore, che nella sua “santa libertà non è imbarazzato dai peccatori (Marco 2,17: ‘Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori’)”, ha mostrato che a ogni pastore è data tale grazia, e perciò anche il pastore “deve rallegrarsi della loro aspirazione alla salvezza, se essi vengono a lui con lo spirito, e di conseguenza, anche con l’anima. Egli non ha nulla da temere. In forza della grazia del suo ministero, l’anima del pastore è custodita libera e non è macchiata dai loro peccati”. In tale argomentazione non è interessante solo la conclusione, ma lo stesso corso dei pensieri, che è potuto sorgere solo “elevando” la propria esperienza alla situazione evangelica, dal cui confronto scaturisce anche la soluzione al problema contingente. In modo analogo è costruito il commento a Matteo 8,23-27. Cristo dorme in mezzo alla tempesta sul fondo della barca, poiché sa che la sua ora non è venuta, che non ha ancora accolto tutta la misura della cattiveria, della crudeltà e della malvagità umana. Così anche noi non dobbiamo turbarci per nessun tipo di afflizione; fino a che non siamo giunti alla misura dell’età di Cristo in noi, la malizia del diavolo non potrà farci nulla, per quanti marosi sollevi contro di noi per il tramite degli uomini o attraverso le cosiddette calamità naturali. Occorre solo dimorare in Cristo e nella santa chiesa.

L’ultimo esempio è importante anche perché vi è indicato il momento più importante che lega il primo Pastore e i suoi pastori: la passione, o per meglio dire, l’amore com-passionevole, la cui menzione ricorre spessissimo nelle pagine di padre Pontij. Se ne 266

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può rintracciare la derivazione dall’insegnamento pastorale del metropolita Antonij Chrapovickij, nonostante anche qui padre Pontij conservi la propria indipendenza, senza separare l’idea dell’amore crocifisso dall’idea del giusto giudizio di Dio. Così infatti commenta lo stico dell’Octoechus: “Veneriamo le divine piaghe della tua passione, Cristo Dio, e il tuo sacrificio di Signore in Sion, teofanicamente compiuto nella pienezza dei secoli”3: La sofferenza sulla croce e la morte di Gesù Cristo sono chiamate qui “sacrificio del Signore” (vlady™noe svja∫™ennodejstvie), ossia, certamente, giusto giudizio di Dio. Così anche ogni pastore deve essere con la sua vita un’offerta a Dio per il suo gregge.

Questo pensiero più volte ripetuto, tuttavia, non oltrepassa mai il limite per cui si possa parlare di una “co-espiazione”. La pienezza del sacrificio di Cristo è assoluta, ma la pienezza della passione si realizza nella chiesa: In quanto uomo, Gesù Cristo, nel tempo della sua vita terrena, non poté effettivamente sperimentare tutte le sofferenze e gli stati dell’anima e del corpo dell’uomo originati dal peccato, cosa che compie ora e compirà fino alla sua seconda terribile venuta sia nei credenti, che vivono per lui e in lui, sia soprattutto e in particolare nei suoi veri pastori, che in lui rimangono. Oh, beato ministero pastorale!”4.

In tal modo, il discorso non riguarda tanto il compimento, quanto la prosecuzione delle sofferenze di Cristo nei pastori, ma anche questo è possibile solo nella misura in cui il pastore “rima-

3

Octoechus, tono 1, domenica, mattutino, stichiro delle lodi. Commento a Col 1,24: “Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la chiesa”. 4

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ne” in Cristo e Cristo in lui: “Prendere e portare su di sé i peccati del prossimo o del gregge: questo significa assumere tutta la follia, la malvagità e l’abiezione del diavolo, tutta la perversione della vita spirituale che agisce attraverso il peccato. E chi può portare questo peso? Solo il Signore e colui che è in lui e con lui”. Ancor più precisamente questo pensiero è espresso nel commento alla parabola del Pastore buono di Giovanni 10,1-18: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo”. Se il Signore è la porta, allora colui che entra attraverso la porta (“chi entra dalla porta è pastore delle pecore”) è colui che vive per lui, cioè il pastore. Allora anche i fedeli lo ascolteranno: “Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori”. Ecco dove sta la sostanza della vita comune del pastore e delle pecore: il pastore vive per Cristo e le conduce a lui: “E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”.

In tal modo, nel pastore è Cristo stesso che attrae a sé coloro che devono essere salvati, e da questo punto di vista la grazia del ministero pastorale è l’“ingiusta ricchezza”5 di Luca 16,9 (“Io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”), poiché essa è data ai pastori gratuitamente, senza alcuna ascesi e premura da parte loro, e perché essa non è loro proprietà, ma è di Dio, è bene altrui (Luca 16,12: “Se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”); ma la grazia di Dio acquisita con molta ascesi e premure è quella vera, cioè nostra proprietà.

5

Il riferimento è alla parabola dell’amministratore disonesto di Lc 16,1-13.

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Nell’ideale, certamente, l’una e l’altra sono attributi ineliminabili del ministero del pastore, ma qui tuttavia, con ogni evidenza, sorge il problema della relazione tra la grazia “ministeriale” e quella personale, vale a dire “acquisita”, questione per la cui soluzione padre Pontij prende ancora una volta le mosse anzitutto da un’esegesi “esperienziale” del dettato evangelico. Occorre sempre tener presente che padre Rupy∫ev scriveva i propri appunti per sé, senza avere in mente una pubblicazione: il loro valore sta proprio nel fatto che essi danno la possibilità di osservare il corso dei pensieri dell’autore in presa diretta.

Paternità spirituale e dimensione ecclesiale nel ministero ordinato

I giudizi di padre Pontij sulla chiesa contemporanea suonano spesso estremamente taglienti. Per esempio, commentando Matteo 16,21 (“Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”), scrive: “Gli anziani sono le figure più venerate della chiesa (ufficiale), i sommi sacerdoti sono i capi delle chiese, gli scribi sono il partito degli intellettuali nella chiesa”6. Innanzitutto necessita un commento il termine “ufficiale”, che potrebbe far pensare a prima vista alla contrapposizione tra chiesa “storica” e chiesa “interiore” – come era diffuso per esempio tra i mistici russi del xix secolo – oppure a quel-

6 O anche: “‘Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani’ (Mt 26,57). Così anche adesso i servi di Dio nella chiesa contemporanea sono giudicati dagli intellettuali e dalle persone che in essa godono stima e dai vescovi”.

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la tra gerarchia ecclesiastica e un certo movimento carismatico. Tuttavia tutto l’intero corpus degli scritti di padre Pontij mostra che non sarebbe corretto attribuirgli simili intenzioni. Egli è incontestabilmente fermo nel confessare la chiesa ortodossa come l’unica chiesa che custodisce la verità evangelica e da essa egli non si è mai separato7, né ha mai contestato la legittimità della sua gerarchia8. Ma i tragici eventi dell’epoca, come anche il dato della storia evangelica, in cui egli cerca la loro “chiave di comprensione”, lo costringono a considerare il parallelismo tra la posizione della “chiesa veterotestamentaria” rispetto alla prima venuta del Salvatore e la posizione ortodossa davanti all’evidente avvicinarsi della sua seconda venuta9: “‘Sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto’ (Lc 3,2). La presenza di due sommi sacerdoti, chiaramente illegale, testimonia la sottomissione della chiesa veterotestamentaria degli ebrei al potere secolare, ma la sua parte spirituale non ne era compromessa”. La stessa forma esteriore della “chiesa veterotestamentaria … che ormai non corrispondeva più alla sostanza” della grazia, “testimoniava la fine della sua missione e del suo ministero”.

7 “Pentekostarion, mercoledì di mezza quaresima, mattutino, primo canone, terza ode, primo tropario: ‘Hai aperto per la chiesa le sorgenti di fiumi vivificanti, gridando, o buono: Se uno ha sete, venga prontamente e beva’. Cristo ha donato ai fedeli, a questi piccoli, la santa chiesa come pozzo inestinguibile di acqua viva: ‘Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me’ (Gv 7,37-38). Per questo bisogna stare strettamente attaccati alla vera chiesa, per non esser privati della vita spirituale, e non aderire alle comunità che si autodefiniscono la vera chiesa”. 8 “‘In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore … In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore’ (Gv 10,1-2.7). Colui che riceve il ministero da ministri canonici, che hanno la grazia del sacerdozio, la successione apostolica, è a sua volta un pastore delle pecore. Ma oltre a questa successione è necessario che anche coloro che lo consacrano dimorino in Cristo, per poter essi stessi entrare nel regno dei cieli attraverso di lui”. 9 È noto che gli starcy di Optina attendevano la venuta di Cristo negli anni venti del secolo scorso.

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Era del tutto naturale per padre Pontij chiedersi se proprio allora “non avvenisse lo stesso con la chiesa ortodossa”: è il problema di tutti “questi vescovi e metropoliti nominali, privi di diocesi (soprattutto nei patriarcati di Costantinopoli e Gerusalemme)”. E se il primo caso rispecchiava la situazione “prima dell’avvento della grazia del regno di Cristo, la situazione attuale non indica forse la vicinanza della seconda venuta di Cristo e del regno eterno della gloria? Concedilo, o Dio! Anima, sii pronta!”. Il discorso non riguarda naturalmente la fine del mandato della chiesa, sulla quale “le potenze degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18), ma la qualità delle sue strutture formali e amministrative: è proprio questo che intende Rupy∫ev con “ufficiale”, come si può vedere dall’uso del termine in altri contesti. In sostanza il suo pensiero è del tutto consonante con quello dello stesso metropolita Antonij Chrapovickij: Lo starec Zosima e il monachesimo: ecco quella forza organizzatrice, ma priva di garanzie esteriori, attraverso la quale essenzialmente la chiesa estende la sua crescente influenza sulla vita. Quello che è notevole, è il fatto che Dostoevskij non contrapponga all’organizzazione del grande inquisitore la forza organizzatrice della gerarchia ortodossa, né del Santo Sinodo di governo e nemmeno i patriarchi orientali, né i vescovi intellettuali russi, ma un’umile comunità monastica sorta vicino a una cittadina di provincia, assolutamente al di fuori della loro influenza attiva, dal seno stesso della chiesa e del popolo10.

Tuttavia, a differenza del metropolita Antonij, che non esitava ad attribuire al monachesimo la primazia spirituale nella chiesa, padre Pontij al contrario pone al primo posto il ministero pasto10 Mitr. Antonij Chrapovickij. æizneopisanie i sobranie so™inenij v 17-tomach XVII, izdanie Severoamerikanskoj i Kanadskoj eparchii, s.l. 1956-1971, p. 177. È da notare che anche questo scritto risale agli anni venti.

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rale, oltretutto su fondamenti argomentati in modo estremamente interessante. In linea di principio, i carismi del monachesimo e del ministero pastorale sono simili: all’uno e all’altro è data la “grazia della santità”, ma il monaco vive per il cielo, il pastore per il gregge: Nel monachesimo l’umanità della persona è come se scomparisse, mentre nel pastore essa rimane con tutte le sue debolezze. Se al monachesimo è necessaria una grande grazia per mantenersi in stato di grazia nello spirito, per il ministero pastorale bisogna che questa grazia sia ancor più ricca di doni, affinché oltre a mantenere lo stato di grazia, sia possibile anche vincere il male che è nel mondo e dare nel mondo testimonianza alla verità.

Il pastore “per l’elevatezza e la sostanza del suo ministero” è come l’apostolo11: e la vocazione dell’apostolo “racchiude in sé il monachesimo, il ministero pastorale e il martirio, poiché essa è rinuncia al mondo fino a farsi crocifiggere dal mondo ed essere al mondo crocifissi a causa di Cristo, per l’eterna salvezza del prossimo”. Solo in prospettiva escatologica, quando il bisogno degli aspetti terreni del servizio pastorale verrà meno, il monachesimo e il ministero pastorale tenderanno a identificarsi nella loro costituzione e nei loro doni. Nei confronti dei fedeli la gerarchia ecclesiale stabilita nello Spirito santo indubbiamente possiede tutta la pienezza della potestà12 e della responsabilità, e sopra di essa c’è solo l’autorità della verità di Cristo13. Relazioni più complesse sorgono là dove si in11 Rupy∫ev considerava padre Ioann di Kronstadt quale modello di pastore uguale agli apostoli. 12 “Gli apostoli e i presbiteri si riunirono per esaminare questo problema: i laici non possono decidere nei concili questioni di fede e di culto”. 13 “‘Gli rispose Gesù: Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?’ (Gv 18,23). Con la sua risposta il Signore Gesù mostrò

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trecciano l’autorità della gerarchia e “l’autorità della santità”. I vescovi ereditano la grazia della successione apostolica e agiscono con lo Spirito e a nome degli apostoli, ma più in alto – non come autorità nella chiesa terrena, ma dinanzi al volto del Signore – stanno coloro nei quali lo Spirito agisce “come in prima persona”, vale a dire nel carisma personale dell’asceta. Tale fu per esempio padre Ioann di Kronstadt, a cui gli stessi vescovi rendevano e rendono un onore superiore al proprio. Per questo non bisogna guardare all’aspetto esteriore dell’uomo, ma allo Spirito nel quale egli permane, e come egli operi nello Spirito: con autorità propria, ovvero lasciandosi guidare da quello stesso Spirito nel quale permane, non osando essere né agire indipendentemente se non in obbedienza allo Spirito.

Per questo colui che è investito della grazia del ministero ecclesiale, conferitagli affinché porti le debolezze e le afflizioni del gregge, che sono essenzialmente dell’anima e del corpo, deve possedere anzitutto sufficienti forze nell’anima, quando anche nello spirito possa essere debole. Se nel suo gregge vive un asceta spirituale, allora questi, pregando per il suo vescovo, ne fortifica lo spirito, senza al tempo stesso caricargli il peso delle proprie debolezze, in quanto è più forte di spirito. Per questo “i pastori si devono scegliere e nominare secondo lo spirito, e non in base alla formazione, a qualità psichiche o motivi analoghi, di carattere non spirituale”14. Per chiarire meglio il pensiero di padre Pontij, occorre considerarne la concezione del rapporto tra pastore e gregge.

che il potere ecclesiastico ed esteriore non è superiore alla giustizia morale, alla quale esso stesso deve sottomettersi”. 14 Commento a At 20,28: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio”.

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Il pastore, padre spirituale del suo gregge

Nella vita terrena a tutti i membri della chiesa è data la grazia necessaria alla salvezza, tuttavia se essa non è acquisita personalmente, dopo la morte viene tolta15. Questa grazia “ecclesiale” condiziona anche il legame tra il pastore e il suo gregge: essi saranno uniti nella misura in cui, sforzandosi senza rimpianti di entrare a servizio della chiesa acquisiranno lo spirito di Cristo che vive in essa16. Con la differenza che “se per ciascun fedele la vita eterna è conoscenza di chi è per lui il Signore Gesù Cristo” (con riferimento a Gv 17,3), “per il pastore essa è conoscenza di chi è il Signore Gesù Cristo per il gregge”. Questo significa che “egli deve portare tutta la bruttura del peccato” dei suoi figli spirituali “e delle condizioni che ne derivano”, ma al tempo stesso “rimanere nell’amore” per loro e “nella fede, sopportando le sofferenze che essi gli infliggono a causa del peccato”17. E tuttavia, poiché il pastore condivide le stesse debolezze del suo gregge, tanto più necessaria questa sofferenza si rivela non solo per la salvezza dei suoi figli spirituali, ma di se stesso, e non soltanto perché altrimenti egli sarà giudicato per essere stato una guida negligente, e nemmeno perché solo così potrà acquisire quell’amore grazie al quale molto gli sarà perdonato, ma perché “se egli si tiene allo spirito di grazia del ministero pastorale e della consacrazione, stando al di sopra delle loro [cioè dei fedeli] passioni e idiosincrasie psichiche, con ciò stesso vince le proprie [pas15 Commento a Mc 4,25: “Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. 16 Nel commento al terzo stichiro del grande vespro di Pentecoste, sul salmo 142,2 “Con la mia voce grido al Signore” (“Lo Spirito santo dona ogni cosa, fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, insegna la sapienza agli illetterati, rende teologi i pescatori, raduna tutto l’armonico ordinamento della chiesa”), Rupy∫ev scrive: “Lo Spirito santo ordina (sover∫aet) i sacerdoti, cioè li conduce a perfezione (sover∫enstvo) attraverso un’autentica vita pastorale in relazione con i fedeli loro affidati”. 17 “1938. Cella”.

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sioni e idiosincrasie], ponendosene al di sopra. In tal modo le combatte attraverso le sue pecore”. Questo pensiero può essere espresso anche in un altro modo. Patendo le debolezze delle sue pecore e portandole su di sé, tali afflizioni diventano per ciò stesso purificatrici e il pastore permette che in quei suoi figli spirituali si sviluppi la vita di grazia nello Spirito, non più impedita da tali debolezze; e questa a sua volta nutre il suo spirito. E al contrario, il pastore che non se ne curi può egli stesso “venir meno per la fame spirituale”. Al tempo stesso, questo coinvolgimento nella vita del gregge richiede discernimento e vigilanza spirituali, poiché sorge il pericolo reale di “contaminarsi con il peccato”. Per non assecondare l’indebolimento peccaminoso dello spirito, “si deve essere in Cristo, il quale solo ha preso su di sé i peccati e le debolezze di tutti gli uomini. Per questo occorre considerare il grado di fede che ci è stato donato e non avventurarsi oltre”. In pratica, suggerisce il nostro autore, è utile ricordare quanto segue. Essere uniti al gregge non significa affidare se stessi al gregge18. In altre parole, il pastore deve essere uno in Cristo insieme ai suoi figli spirituali, in uno spirito di amore, deve appartenere loro anima e corpo, nel senso di aver consegnato loro se stesso, anima e corpo, per “sperimentare e portare insieme tutte le loro debolezze, afflizioni e malattie”, ma non deve vivere la vita della società e della parrocchia, “poiché la società è la mondanità, mentre la parrocchia è solo l’aspetto ufficiale e formale” del mistero della chiesa. Se il pastore vive solo queste dimensioni (società e parrocchia), “o insorgeranno conflitti tra lui e i fedeli, o forti tentazioni, o ne diverrà schiavo”. Questa contraddizione si risolve

18 “‘Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui non si fidava di loro, perché conosceva tutti’ (Gv 2,23-24). Non si può affidare ai fedeli se stessi, il proprio mondo interiore, poiché essi possono non accoglierlo, e in questo sarebbe contristato l’amore; e il mondo interiore stesso sarebbe una perla calpestata dai porci”.

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nel duplice compito che sta di fronte al pastore: da un lato preoccuparsi dell’iniziazione cristiana del popolo, dall’altro della crescita della vita di grazia di coloro che vivono nello Spirito. Ma all’altezza di quest’ultima missione sarà solo chi vive a sua volta una vita spirituale, realizzando in se stesso, con un’ascesi personale, i carismi del sacerdozio che gli sono stati dati, di cui il primo e più importante è il dono della santità. Se questo dono si realizza nei pastori, allora perfino la cristianizzazione esteriore non sarà così urgente, essa si compirà nel fatto stesso della vita ecclesiale; ma se tutte le energie sono rivolte solo a quest’ultima, allora sarà pericolosamente trascurata quella che è la vocazione principale della chiesa: la salvezza dei fedeli19. E viceversa, quanto più profonda è la vita di grazia di un asceta, quanto in lui più riluce il dono della santità, tanto meno egli stesso sarà in grado di promuovere i fini esteriori della cristianizzazione della società: la società stessa, infatti, non potrà accoglierlo. Egli dovrà essere allora solo un lucerniere per i fedeli, “con i loro pastori e vescovi”, i quali, vivendo una vita psichica e non ancora spirituale, possono avere liberamente commercio con il mondo. In tal modo, ogni pastore deve decidere l’ambito dei propri compiti e la misura del proprio coinvolgimento con il mondo e le debolezze del gregge, tenendo conto della propria vita spirituale. E tuttavia, a qualsiasi grado, si tratta sempre di un servizio al prossimo: Ringrazia Dio, quando egli volge a te i cuori dei fedeli e ti introduce nella loro ampia cerchia perché siano più strettamente in comunione con te. È egli stesso, che vive in te, ad attrarli a sé, e tu in tal modo entri nella conoscenza e nella contemplazione della multiforme bellezza della vita divina. E così ricerca il benedetto servizio al prossimo.

19 “‘Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamenti’ (2Tm 4,2). Può ammonire con franchezza soltanto colui che è giustificato dalla grazia di Dio, ed è reso vero,

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Infine, l’attività pastorale deve conformarsi anche al corso del tempo: “Il pastore deve ricordare che egli porta su di sé, rivolta verso di lui, la medesima relazione che la società, lo stato e il mondo hanno verso Gesù Cristo e la sua santa chiesa in una determinata epoca”. Questa consapevolezza “deve anche determinare l’esercizio del suo ministero nel suo carattere essenziale”20. Occorre ora chiarire la concezione della storia ecclesiastica di Rupy∫ev, anch’essa fondata su un’originale interpretazione della parola di Dio.

Il pastore e la storia

Padre Pontij divide la storia della chiesa in sette epoche, che corrispondono alle sette chiese dell’Apocalisse. Questa periodizzazione, a dire il vero, è piuttosto convenzionale, poiché l’accento è posto soprattutto sulle caratteristiche spirituali di una data epoca, e una persona che vive in un determinato periodo può appartenere “spiritualmente” a un altro. Il centro di gravità della maggior parte delle riflessioni di Rupy∫ev è spostato sul lato degli eventi a lui più vicini (nel passato e nel futuro), e proprio qui le sue caratterizzazioni risultano più santo; rimproverare può colui che è forte in spirito di pietà, che ha l’autorità dello Spirito di Dio; è in grado di esortare solo colui che dimora nell’amore, in Dio. Ecco che il pastore deve essere saldo nello spirito di pietà, pieno della forza dello Spirito di Cristo ed essere crocifisso nell’amore: soltanto così guadagnerà i fedeli a Cristo, o meglio Cristo stesso in loro, nei pastori, attirerà i fedeli a sé, li nutrirà della vita in lui. Ma che accade da noi? Non c’è né pietà, né fortezza spirituale, né amore. La pietà è diventata un’esteriore affettazione religiosa in tutto, esteriorità clericale, conformismo e simili; la fortezza sta tutta nel potere e nella sottomissione all’autorità esteriore e alla forza; mentre l’amore, non c’è per nulla: al suo posto non c’è che egoismo ipocrita, dissolutezza, spettacoli di beneficienza, fiori e gagliardetti e così via. Così i pastori corrompono la vigna di Dio”. 20 “1936, villaggio di Knjaginino”.

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persuasive e articolate, e per la maggior parte conducono a conclusioni pratiche. Così, dopo le prime tre epoche (delle chiese di “Efeso”, di “Smirne” e di “Pergamo”, corrispondenti alla chiesa primitiva, alla chiesa dei martiri e alla chiesa costantiniana), la rivoluzione russa avrebbe concluso la “quarta epoca”, quella “patriarcale-formativa”, in cui la vita naturale si conformava a quella spirituale, come dimostrava l’apparizione, alla fine di quest’epoca, “delle grandi figure di giusti quali Amvrosij di Optina, Varnava del Getsemani, Varsonofij e Iosif [di Optina], Aleksij [il cognome è illeggibile], Valentin Amfiteatrov, Georgij Kosov e molti altri, e persino di un apostolo: padre Ioann di Kronstadt”. Al tempo stesso sarebbe apparsa anche “un’evidente apostasia nella persona di Lev Tolstoj e dei suoi seguaci”. Il titolo di “formativa”, che padre Pontij dà a quest’epoca, allude al fatto che dopo di essa inizia il tempo della libera scelta spirituale del popolo. A sua volta, la rivoluzione inaugura il quinto periodo, quello della purificazione, nel quale, anzitutto attraverso la prova delle afflizioni, si sarebbero dovuti manifestare coloro che senza diventare apertamente apostati non avrebbero nemmeno perseguito la santità. Subito dopo sarebbe seguito il sesto periodo (della “chiesa di Filadelfia”), il cui spirito avrebbe avvinto “quasi tutto il popolo russo, soprattutto la sua intelligencija, allora sarà la fine per i bolscevichi. Per questo deve crescere una nuova generazione, nutrita di uno spirito nuovo”. Questa conoscenza è importante, poiché l’uomo è “figlio del proprio tempo” e deve predisporsi per accogliere i doni dello Spirito, corrispondenti alla sua epoca, o prepararsi all’avvento di un’epoca nuova: Se il sesto periodo della storia della chiesa sulla terra è l’epoca della gloria della verità di Dio, che è amore, allora i credenti in quest’epoca dovranno portare le mancanze del mondo (soprattutto i pastori e i capi della chiesa), e tanto più le mancanze delle autorità e dello stato! Qui veramente occorre essere par278

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ticolarmente astuti, e insieme puri come colombi, per restare saldi sotto la pressione del male.

Da queste riflessioni di carattere apparentemente generale segue una serie di importanti conseguenze sulla relazione tra la chiesa e lo stato, e in particolare riguardo alla posizione del metropolita Sergij (Stragorodskij), che padre Pontij difende coerentemente in base alle propria concezione della storia sacra. Poiché il Signore ha dato a ciascuno la libertà di scegliere tra Cristo e il diavolo, si può pensare che anche i popoli siano maturi per questa libertà. I bolscevichi si sono messi alla guida del popolo per sua libera scelta e, da questo punto di vista, andare contro di loro significa andare contro “lo spirito del tempo” (che va inteso come il “senso spirituale” dell’attuale periodo storico)21: Per questo la lettera del metropolita Sergij22 è giusta, e non ha senso essere contro di essa. Altrimenti occorrerebbe rigettare il significato storico del popolo russo, quale è stato chiaramente indicato dai destini della sua storia precedente, dalle sue guide e dai suoi santi asceti. Senza dubbio, da questo punto di vista dello spirito del tempo, sono necessarie anche le autocefalie delle chiese delle diverse nazionalità, che vivono in stati diversi, quali sono anche state stabilite dai decreti della provvidenza divina.

21 D’altra parte padre Pontij non si faceva illusioni: “Il nostro tempo è un tempo particolarmente periglioso e duro, poiché questa follia del peccato assume le forme positive della vita stabilita dalla legge, come vediamo nelle incivili manifestazioni della realtà della Russia sovietica, e nei sottili fenomeni, più difficili da discernere, diffusi in tutta l’Europa occidentale, che ha cacciato Cristo dalla propria vita; e come vediamo nel corso della storia dei popoli e nella politica. D’altronde, ogni popolo riceve quello che si merita”. Bisogna ricordare che Rupy∫ev si trovava allora in Lituania, fuori dai confini dell’Urss, e perciò guardava all’attività del metropolita Sergij non come partecipe degli eventi, ma come commentatore dal punto di vista della storia universale. 22 Il riferimento è alla Dichiarazione del 1927 in cui il metropolita Sergij (Stragorodskij), vicario del luogotenente del trono patriarcale vacante, riconosceva a nome della chiesa la legittimità dello stato sovietico [N.d.C.].

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Questa posizione è confermata da come Rupy∫ev considera l’altro lato del problema: se lo stato cerca l’alleanza con la chiesa o, al contrario, la perseguita, significa che, in un modo o nell’altro, fa i conti con essa. Se invece la chiesa fosse completamente lasciata a se stessa, essa sarebbe per così dire impotente a cambiare qualcosa nella vita sociale: di conseguenza, Sergij ha ragione anche in questo caso. In generale, nella posizione del metropolita Sergij, padre Pontij vede la vittoria della semplicità della fede sulle disquisizioni teologiche, tributando al metropolita un alto apprezzamento personale: Il metropolita di Mosca Sergij ha rinunciato a ogni intellettualismo teologico, ma vive della semplicità della fede, e solo con essa è possibile opporsi al bolscevismo e al comunismo. Qualsiasi sapere non farebbe qui che rovinare la situazione e provocare l’effetto contrario. Questa è anche la vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre, che non si trova in Europa occidentale e in Polonia, dove il male e la tenebra del maligno sono nascosti, e si pensa di vincerli con gli stessi metodi, cosa che è sbagliata.

In ultima istanza, tuttavia, la cosa più importante per il nostro autore è un’altra: la realtà e la potenza della parola evangelica sopravanzano la realtà del male. Leggiamo nel suo commento a Matteo 28,18 (“Gesù si avvicinò e disse loro: ‘A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra’”): Quali che siano le condizioni della vita terrena – personale, sociale, statale –, quali che sia la libertà concessa al diavolo di agire in questa vita, non ci si deve in nulla turbare, poiché Cristo resta il re di tutta la creazione, e senza il suo volere non potrà accaderci nulla.

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Paternità spirituale e cura pastorale …

Da questo consegue che

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colui che vive in Dio, è immancabilmente partecipe anche della vita del mondo intero, poiché Dio è l’unico reggitore dell’universo. Perciò non aspirare né al potere, né alla partecipazione alla vita sociale o statale solo in base alle tue convinzioni, ma vivi in Dio e, nella condizione in cui egli ti avrà posto, là opera per il suo regno.

Il cerchio, in tal modo, si chiude, facendoci ritornare a quell’unità di spirito in Cristo il cui raggiungimento (secondo la corretta comprensione del rapporto tra eterno e temporale in ciascuna epoca) costituisce anche il compito di ogni attività pastorale.

Conclusione

Possiamo riassumere le intuizioni teologiche di padre Pontij, in relazione alle domande poste all’inizio del nostro articolo: 1. i suoi scritti – nei presupposti teologici, nella tematica, nelle conclusioni – sono condizionati dal suo impegno pastorale; 2. un grande spazio occupa la riflessione sul rapporto del pastore e del suo gregge con il mondo, problema che per gran parte era rimasto al di fuori della “teologia monastica” (l’espressione è di John Meyendorff) dei secoli precedenti; 3. le relazioni tra pastore e gregge (in analogia a quelle tra padre e figli spirituali) non sono considerate sul piano canonico o pratico, ma sul piano mistico ed ecclesiale; 4. nella misura in cui il pastore agisce sempre in un concreto contesto storico, viene elaborata una teologia della storia; 5. in generale, i giudizi teologici di padre Rupy∫ev sono condizionati dalla nuova epoca storica in cui la chiesa russa era en281

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Pavel Chondzinskij

trata, dove la via per la salvezza ormai non poteva essere garantita dalle tradizionali forme di vita. L’ultima osservazione consente di tentare conclusioni più generali. Il monachesimo, nato a suo tempo come una sorta di “antitesi” all’impero, in ultima analisi finì per costituire con l’impero d’oriente un unico mondo cristiano, dove lo stile monastico completava il modo di vita ecclesiastico-statale dell’impero stesso. Ma se la vita ecclesiale, nel pensiero del metropolita Antonij Chrapovickij, rappresenta “la volontà collettiva del popolo”23, che il pastore deve realizzare, sostenere e alimentare, questo naturalmente significa non solo che il pastore dà forma a questo stile di vita, ma che anche un determinato stile di vita ecclesiastico e storico genera il proprio tipo di pastore. Nella Rus’, dove si erano imposti gli ideali della paternità spirituale monastica bizantina, era stato Iosif di Volokolamsk († 1515) a codificare definitivamente lo “stile di vita”. Iosif guardava il mondo con gli occhi dell’iconografo che desidera portarvi ordine, conferendogli una struttura simmetrica e armonica a imitazione della perfezione divina, proprio come lo si contempla nell’icona. Cristo era per lui il Dio della regola. Lo stile di vita del mondo si doveva uniformare a quello monastico e non aveva significato autonomo: il mondo non era che un calco imperfetto del monastero. A questa concezione corrispondeva anche uno specifico tipo di pastore: “Sappi, figlio mio, che Dio non chiede tanto altri servizi ecclesiastici, quanto di insegnare e pascere i figli spirituali”24. In altre parole, si richiedeva la capacità di realizzare in buon ordine lo stile di vita consolidato. In questo senso si può interpretare il raskol o scisma dei vecchi credenti (metà del xvii secolo) come crisi della pietà fondata sulla regola, altrettanto bene che come crisi del modello di pastore dell’antica Rus’. 23

Mitr. Antonij Chrapovickij XII, p. 178. S. Smirnov, Drevneruskij duchovnik. Issledovanie iz istorii cerkovnogo byta, Moskva 1913, p. 20. 24

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Paternità spirituale e cura pastorale …

La situazione cambia definitivamente dopo le riforme di Pietro il Grande. Nel suo trattato Il diritto del monarca di scegliere l’erede al trono (Pravda voli monar∫ej na opredelenii naslednika derΔavy svoej, 1722) Feofan Prokopovi™, l’interprete ecclesiastico della secolarizzazione petrina, afferma che il popolo ha rinunciato alla propria volontà a vantaggio dell’imperatore, conferendogli il potere assoluto su di sé, e in particolare il diritto “di cambiare i costumi”. Il Regolamento ecclesiastico (Duchovnyj Reglament, 1721) dello stesso autore limita drasticamente le prerogative del confessore: lo stile di vita tradizionale è distrutto e si conserva soltanto tra i contadini e il basso clero. I monasteri, secondo l’espressione di sant’Ignatij Brjan™aninov, ricevono un “colpo mortale”. Ma proprio in questo periodo e in queste condizioni il clero parrocchiale russo – inferiore, debole, incolto – discerne la propria vocazione alla santità e, al tempo stesso, alla soluzione di quei problemi sostanziali della vita ecclesiale che la “teologia monastica”, nel quadro dell’unità antinomica di impero e deserto, aveva lasciato irrisolti. L’opera e la vita di padre Pontij Rupy∫ev testimoniano che quella vocazione non si rivelò vana.

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LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA COMPAGNIA DEGLI UOMINI: ALEKSIJ MEΩEV (1859-1923)

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Antoine Arjakovsky* A mio padre

Permettetemi di ringraziare qui i monaci e le monache della Comunità di Bose per avermi invitato a parlare sul tema della paternità spirituale a partire dall’esempio di padre Aleksij Me™ev. È un grande onore scoprire questa comunità, che è un segno vivo dell’unità già presente nella chiesa e del lavoro da compiere per riconciliare, tra di loro e con se stessi, il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Per capire meglio la dimensione contemporanea dell’antica tradizione cristiana della paternità spirituale, vorrei in un primo momento soffermarmi sull’epoca in cui viviamo. Infatti, nonostante la sua ostilità verso Dio, il nostro tempo è sempre più cosciente dei limiti della terapia psicanalitica, figlia della perdita del referente paterno. È ciò che ricavo dalle opere recenti di Julia Kristeva, dal successo dei libri di Jean-Claude Larchet, ma anche dalla riabilitazione della dimensione mitica della realtà

* Direttore dell’Istituto di studi ecumenici dell’Università cattolica d’Ucraina, L’viv. Traduzione dall’originale francese.

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Antoine Arjakovsky

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nel campo delle scienze umane che Frédéric Lenoir descrive in Le metamorfosi di Dio1. In un secondo momento presenterò alcuni aspetti della vita di sant’Aleksij che – penso – rappresentano una risposta viva alla profonda crisi della coscienza contemporanea. Infine farò riferimento all’opera di Rowan Williams, Bernard Stiegler e Maurice Dantec: questi autori ci mostrano oggi la via per un nuovo tipo di paternità spirituale postmoderna in grado di rispondere, se li si ascolta con discernimento, alle sfide più gravi del nostro mondo.

La paternità perduta e riscoperta

La nostra epoca, che vive sotto l’influenza di Marx, Nietzsche e Freud, è globalmente ostile alla relazione di fiducia che si può stabilire tra un padre e un figlio. In Francia come in Ucraina il pensiero dominante è l’ateismo: non un ateismo dichiarato come in Unione Sovietica dal 1930 al 1970, ma un ateismo che si nasconde sotto la maschera dell’agnosticismo caritatevole. Ho letto con autentico spavento Il secolo di Alain Badiou2, dove l’autore, stilando il bilancio di tutti i genocidi del xx secolo, arriva a scrivere che per l’umanesimo “la volontà politica del superuomo ha generato solo l’inumano. Ma è da questo inumano che bisogna partire: dalle verità cui ci può capitare di partecipare. E solo di là prefigurare il superuomo”. Questo vuol dire che le ideologie sono lungi dall’essere morte, che si cerca sempre di co-

1 F. Lenoir, Les métamorphoses de Dieu, Paris 2003 (tr. it. Le metamorfosi di Dio, Milano 2005). 2 A. Badiou, Le siècle, Paris 2005.

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struire contro i “criminali delle società per azioni” un uomo nuovo di cui si modificherà ciò che ha di più profondo, come diceva Lin Biao, uno dei teorici-assassini della rivoluzione culturale cinese. I filosofi della repubblica, come Badiou e Onfray, uno degli autori più prolifici e mediatici del momento a Parigi, sognano solo di costruire una “nuova laicità postcristiana”3, una laicità che permetterà finalmente all’uomo di dare libero sfogo a tutte le sue pulsioni senza incontrare più ostacoli4. Il pensiero dominante, come ha mostrato Olivier Mongin nel 1994, è lo scetticismo5. La responsabilità ricade in primo luogo – temo – sulla maggioranza dei teologi cristiani che sono stati i primi nel xiv secolo a mettere una croce sul mistero del Padre, come ha mostrato bene Marie Joseph Le Guillou nel 19736. Una teologa canadese, che insegna in un’università cattolica, ha recentemente presentato un’interpretazione della parabola del figlio prodigo in cui Dio Padre assume i tratti di una figura castrante e sadica. Se il figlio se ne è andato da casa aveva i suoi motivi, spiega la teologa, facendo allusione agli abusi dei padri pedofili. Dunque è ora di smettere di presentare Dio come Padre e di cominciare, invece, a considerarlo come Madre7… Ecco un altro esempio della crisi della paternità divina. In Francia, come ciascuno può rilevare, i giovani non sanno più né leggere né scrivere. Come ha mostrato Gilles Philippe, ripreso poi da Jean-Marc Ferry, questo si deve al fatto che la grammatica francese è stata colpita al suo cuore, quello della vita trinitaria della

3

Cf. M. Onfray, Trattato di ateologia, Roma 2005, pp. 181-198. Ringrazio Antoine Lambrechts del monastero di Chevetogne di avermi comunicato la recensione tagliente come un rasoio di Emilio Brito sul libro di Onfray. Cf. E. Brito, “L’athéologie sans peine de Michel Onfray”, in Revue théologique de Louvain 37 (2006), pp. 79-85. 5 Cf. O. Mongin, Face au scepticisme. Les mutations du paysage intellectuel, Paris 1994. 6 Cf. M. J. Le Guillou, Foi des Apôtres, gnoses actuelles, Paris 1973. 7 Cf. M. A. Beavis, The Lost Coin: Parables of Women, Work and Wisdom, New York 2002. 4

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nostra esistenza, il momento soggetto-verbo-complemento8. La generazione di Roland Barthes, sostituendo la grammatica con la semiotica, non ha fatto altro che accompagnare un momento della coscienza degli intellettuali in Europa. Gli intellettuali hanno incominciato con il rifiuto di Dio, identificato con un Padre vendicativo o assente, per finire con il rigettare l’uomo e, come Alain Badiou, parlare solo di “essere non-inumano”. La conseguenza di questo, ben inteso, è il rigetto di ogni figura di autorità paterna. Da allora il sospetto verso ogni figura di autorità si è diffuso ovunque. Oggi non sono più solo i maestri di scuola, i giudici, i politici a essere incapaci di farsi rispettare. Gli eroi stessi della nostra nuova civiltà atea si fanno mettere in ridicolo: i vip che si fanno inseguire dai paparazzi; i ciclisti che si lasciano braccare sul loro stato fisico da giornalisti, furiosi per essersi lasciati coinvolgere in casi di doping; i presentatori televisivi cui si farà pagare quanto prima il conto per aver rovesciato sullo schermo della televisione tutte le sere giochi e notizie apocalittiche per preparare al meglio i “tempi dei cervelli disponibili”9 al momento delle pubblicità che incorniciano il giornale detto di “informazioni”. La crisi dunque è profonda. C’è una riflessione intellettuale molto voluminosa e interessante su tale evoluzione della nostra società. Penso in particolare agli articoli di Olivier Clément, Pavel Evdokimov o Michel de Certeau sulla crisi dell’autorità paterna pubblicati nel 1968. Si tratta di una riflessione molto interessante, poiché credo sia oggi in corso una reazione molto promettente contro le tendenze mortifere della nostra civiltà occidentale, una riabilitazione della paternità. Jean Borella, un autore

8 Cf. G. Philippe, Sujet, verbe, complement. Le moment grammatical de la littérature française (1890-1940), Paris 2002. Si veda il mio articolo sul libro di J.-M. Ferry, Les grammaires de l’intelligence, Paris 2004, in A. Arjakovsky, Culture and Identity: Reflections on Orthodoxy in the Modern World, L’viv 2007. 9 Espressione impiegata nel 2006 da Patrick Le Lay, presidente di Tf1, primo canale televisivo in Europa.

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che vi consiglio di leggere, nel suo importante libro sulla crisi del simbolismo religioso)10, mostra che la nostra civiltà può riuscire a riconciliare il significante con il significato facendo di nuovo appello al referente. Questa nuova apertura è resa ancora più facile per le straordinarie scoperte degli scienziati nel xx secolo. Il mondo non è frutto del caso o della necessità, come mostrano François Euvé o Besarab Nicolescu, ma è creato, calibrato quasi al millimetro, ed evolve per mezzo del gioco delle responsabilità reciproche tra il Creatore e la creatura. Grazie al lavoro di teologi quali Sergij Bulgakov o John Milbank, Christos Yannaras o Jean Luc Marion, il referente divino ha ritrovato l’unicità personale che aveva perso nel corso dei secoli per il predominio dell’ontoteologia occidentale o dell’apofatismo orientale. Penso in particolare al trattato su Il Padre che, scritto da Bulgakov nel 1935, è all’origine della riscoperta che l’unità di Dio si ritrova nella persona trinitaria del Padre11. Si ritrova questa riscoperta nello stesso periodo negli affreschi del monastero di Ouniv e in particolare nella Trinità, copia di quella di Andrej Rublev con la differenza che l’angelo che rappresenta il Padre ha tre volti. In Francia François-Xavier Durrwell nel suo libro Il Padre (1987) ha ricordato in modo efficace che in Paolo “Dio” designa il Padre, come nella formula: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13)12. Dio non è né vendicativo né assente. È il Dio dell’amore trinitario presente dove due o tre sono riuniti nel suo Nome. La riscoperta gioiosa di Dio come Padre che compie nella totalità “io-noi” le potenzialità della coscienza umana affiora anche nelle recenti encicliche di papa Benedetto XVI sull’amore e la speranza.

10

J. Borella, La crise du symbolisme religieux, Lausanne 1990. Cf. S. Bulgakov, Il Padre, in Id., Il Paraclito, Bologna 1971, pp. 497-538. Il Padre è la terza parte del secondo periodo delle ricerche di Bulgakov sulla divino-umanità. 12 Cf. F.-X. Durrwell, Il Padre. Dio nel suo mistero, Roma 1995, pp. 11-16. 11

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Soprattutto le nostre società riscoprono la paternità in un modo nuovo. Vorrei fare l’esempio di tre film, perché nel nostro mondo globalizzato – si sa – sono i media a contare. Il padre nella serie televisiva I Waltons, una serie che ha forgiato la coscienza degli americani negli anni settanta-ottanta, non era proprio un cristiano come quelli che si incontrano nella chiesa battista sotto casa. Ma era così ricolmo d’amore che i figli e la moglie possono parlargli. È capace di parlare della propria intimità nonostante la coscienza della sua responsabilità simbolica verso i figli. Ama sua moglie dando tutto per lei… In uno dei principali episodi della serie, An Easter Story (Una storia di Pasqua), del 1973 come il libro di Le Guillou, la moglie Olivia si ammala di poliomielite. John Walton non è certo ancora in grado di rispondere alle domande del figlio John Boy sulle ragioni del male. Ma la fede del figlio nel fatto che Dio non c’entri per nulla con la malattia, la sua determinazione a lottare contro la rassegnazione di fronte al male sono tali che il giorno successivo alla loro discussione Olivia Walton si rimette a camminare e può cantare degli inni di gioia per la festa di Pasqua. Anche The Day after Tomorrow (Usa 2004), tradotto in italiano come L’alba del giorno dopo, è un film emblematico del rinnovamento spirituale della nostra epoca. New York è ricoperta da un mare di ghiaccio per una deviazione delle correnti marine dovuta al surriscaldamento del pianeta. Le figure paterne fanno pietà. Il padre del ragazzo rimasto bloccato in una biblioteca della città è un uomo che prima degli eventi era incapace di partecipare alla vita del figlio. Il presidente degli Stati Uniti è paralizzato dalla sua rappresentazione della sovranità del suo paese. Ma la kenosi del padre che accetta di affrontare qualunque rischio per raggiungere il figlio o per chiedere umilmente al Messico di accogliere i rifugiati americani è segno che il rinnovamento ecologico del nostro pianeta sarà possibile solo a condizione che gli esseri umani siano capaci di ritrovare con umiltà e a prezzo di lotte un dialogo con il Creatore che è anche il loro Padre celeste. 290

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Infine il film L’isola di Pavel Lungin (Russia 2006) rappresenta una nuova tappa della riscoperta contemporanea della paternità spirituale. Il film mette in scena direttamente un padre spirituale nel senso ecclesiale del termine. Pëtr Mamonov, un attore ex suonatore di jazz che interpreta in modo splendido il padre Anatolij, nel film è dotato di carismi straordinari. Ha il dono delle visioni, della preveggenza, è capace di guarire i posseduti. E il segreto di una tale sovraumanità non è, come pensa Alain Badiou, nella sua “passione del reale”, ma nella sua profonda umiltà: “Annientare il proprio orgoglio personale sino ad accettare la propria natura e il proprio crimine” è la scelta eroica che permette al padre Anatolij di trasfigurare il reale.

Sant’Aleksij Me™ev, un’icona vivente

Era necessario ricordare questo contesto di distruzione e riscoperta della paternità nel quale viviamo per apprezzare nel suo giusto valore la santità contemporanea di Aleksij Me™ev (1859-1923). Egli ha messo l’amore al cuore della propria vita spirituale, ha saputo parlare della responsabilità che hanno gli uomini su questa terra ed è stato uno dei rappresentanti più esemplari della tradizione filocalica della vittoria possibile dell’essere umano in comunione con Dio sulle passioni di questo mondo. Conosciamo la vita di sant’Aleksij principalmente grazie al libro di madre Iulianija (Marija Nikolaevna Sokolova, 1899-1981)13. Madre Iulianija conosceva bene lo starec Aleksij,

13 Cf. M. N. Sokolova, æizneopisanie moskovskovo starca otca Aleksija Me™eva, Moskva 1999. Ringrazio il professor Jonathan Sutton di avermelo spedito quest’anno: conoscevo solo il libro pubblicato dalle edizioni YMCA Press prima della canonizzazione di Aleksij.

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avendo fatto parte della sua parrocchia di San Nicola di Klennikach a Mosca. Per lei fu un secondo padre, perché lo incontrò a dodici anni subito dopo la perdita del padre naturale, prete di una parrocchia moscovita. Padre Aleksij la accolse dicendole delle parole che le fecero subito capire di essere arrivata in un porto sicuro: “Da quanto tempo aspettavo questi occhi!”. Progressivamente Aleksij Me™ev le propose di essere come una monaca nel mondo capace di attualizzare i doni dello Spirito santo ricevuti nel battesimo. Aleksij Me™ev fa parte di quella generazione di spirituali che ha infranto la separazione ontologica fra clero e laici. Tutti i cristiani nell’evangelo sono chiamati a essere re, sacerdoti e profeti. E tutti sono guidati dalla provvidenza a ricevere responsabilità specifiche dalla comunità ecclesiale. Queste responsabilità non sono funzioni interscambiabili. Devono corrispondere a una vocazione, cioè a una chiamata specifica di Dio. Ma tutti ricevono la totalità dei doni dello Spirito al momento del battesimo, cioè ogni volta che si rinnova, lungo il corso della loro vita, questo dono nell’atto della confessione e del dono di sé eucaristico, caritativo e/o ministeriale. Iulianija era incaricata di alcuni servizi in parrocchia, come assistere il padre per le confessioni, ma doveva testimoniare prima di tutto la gioia cristiana della resurrezione in una società che rigettava in modo violento il cristianesimo nella sua incarnazione confessionale ortodossa. Dopo la morte di padre Aleksij essa raccolse delle testimonianze e scrisse un libro che di anno in anno cresceva di nuovi racconti. Essa stessa fece parte della chiesa catacombale e divenne un’iconografa di talento e, a partire dalla legalizzazione della chiesa nel 1944, contribuì alla conservazione della tradizione iconografica durante l’epoca sovietica. Si fece monaca e rappresentò un legame tra padre Aleksij Me™ev e padre Aleksandr Men’, che essa conobbe bene dalla sua più giovane età sino alla maturità, poiché anche lei viveva a Semchoz. Era vicina a monsignor Afanasij Sacharov (1887-1962), un confessore della fede che accolse i fedeli di padre Aleksij dopo l’ar292

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resto di suo figlio, padre Sergij Me™ev. Alla fine del suo libro rende omaggio a questo erede di padre Aleksij che fu il padre spirituale di padre Aleksandr Men’14. Madre Iulianija racconta, con l’autorità dei testimoni della fede, alcuni fatti straordinari della vita di padre Aleksij. Spiega anzitutto che la vita di padre Aleksij era stata preparata dalla provvidenza da lungo tempo. Infatti, il padre di Aleksij era un maestro di coro notato già dal metropolita Filaret di Mosca (1782-1867), uno dei santi vescovi più importanti nella storia della chiesa russa. Aleksij, nato nel 1859 il giorno di sant’Alessio uomo di Dio, ebbe dunque occasione di conoscere san Filaret fino all’età di otto anni. Questa amicizia tra il giovane Aleksij e il metropolita contribuì alla decisione del giovane di entrare in seminario e di divenire diacono (1884) e poi presbitero (1893). Padre Aleksij, divenuto presbitero, svolse il suo servizio per tutta la sua vita nella parrocchia di San Nicola, dedicata anche alla Vergine di Kazan’, situata in via Marosseika (oggi via Bohdan Chmelnic’kyj). Questa chiesa era, dunque, sotto la protezione particolare della Madre di Dio e possedeva anche un’icona miracolosa della Vergine presso la quale padre Aleksij celebrava regolarmente degli acatisti. Madre Iulianija non divenne iconografa per caso. Provvidenziale fu anche l’incontro tra padre Aleksij e padre Ioann di Kronstadt e gli starcy di Optina. Anche Pavel Florenskij gli era molto vicino e gli dedicò due lunghi articoli nell’agosto 1923 e nel giugno 192415. Aleksij Me™ev fa parte di quella lunga tradizione spirituale russa che inizia dai santi Boris e Gleb e passa per san Sergio di RadoneΔ, Tichon di Zadonsk e Serafim di Sarov per cui aveva una venerazione particolare. Era anche 14

Cf. Y. Hamant, Alexandre Men, un témoin pour la Russie de ce temps, Paris 1993, p. 41. Cf. P. A. Florenskij, So™inenija v ™ertyrech tomach II, a cura di A. Truba™ev, M. S. Truba™eva e P. V. Florenskij, Moskva 1996, pp. 591-627. Ringrazio Milan æust per avermi comunicato questi due strani articoli di Pavel Florenskij colmi di una tale venerazione per padre Aleksij, quasi da immaginare che sia stato lo stesso starec a scrivere la propria orazione funebre, cosa alquanto dubbia a causa del suo tono apologetico. 15

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stimato da un altro santo della chiesa russa del tempo, il patriarca Tichon che, appena rimesso in libertà, celebrò di persona un ufficio dopo la morte di Aleksij nel 1923. Madre Iulianija insiste nella sua biografia su un secondo tratto che mi piace ricordare perché mi sembra emblematico: l’amore che univa Aleksij Me™ev alla moglie Anna Petrovna Mol™anova, che sposò l’anno del suo diaconato e che gli diede quattro figli tra il 1888 e il 1892 (Aleksandra, Anna, Aleksej che morì a dieci mesi, e Sergej)16. Iulianija pubblica le ardenti lettere che Aleksij inviava alla moglie. Questo amore potente che univa i due sposi proseguì oltre la morte prematura di Anna Petrovna il 29 agosto 1902. Aleksij fu per tutta la vita in comunione invisibile con la sposa, come testimoniano i racconti di madre Iulianija. Il figlio Sergej diceva che il padre dialogava di frequente con la moglie dopo la sua morte. Due anni prima della morte di padre Aleksij, la moglie gli disse: “Non essere triste, mio amato, saremo presto insieme”17. Potremmo allargare questa capacità di amare a tutta la vita di padre Aleksij, sia alla sua vita pastorale sia alla sua apertura ecumenica. Ricordiamo che per un periodo insegnò in un collegio privato protestante di Mosca, il ginnasio Winkler. Sapeva far amicizia con dei bambini ebrei. E Iulianija racconta che durante l’estate del 1915 assisteva di buon grado alle messe celebrate da un metropolita cattolico18.

16 La comprensione biblica dell’amore coniugale come vocazione di Dio fu riscoperta da Lutero. L’amore non è soltanto un contratto. Questo permetterà l’apprezzamento di una nuova comprensione dell’amore tra l’uomo e la donna. Cf. P. Neuner, Teologia ecumenica. La ricerca dell’unità tra le chiese cristiane, Brescia 2000; D. de Rougemont, L’amore e l’occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea, Milano 1998. Quest’ultimo è un libro contestabile in alcuni punti ma non come dimostrazione d’insieme. Il pensiero sapienziale parla anche dell’amore divino come un salto, un gioco, e non solo come un contratto verticale dal basso verso l’alto. Tra le molte opere di Christos Yannaras su questo argomento, cf. Variazioni sul Cantico dei Cantici, Milano 1992. 17 Cf. M. N. Sokolova, æizneopisanie, p. 51. 18 Cf. ibid., p. 85.

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Infine, terza caratteristica saliente della personalità di padre Aleksij: i suoi doni spirituali di chiaroveggenza, di cui Iulianija parla solo nell’ultimo capitolo del suo libro, quasi a dire che pur essendo questi fenomeni ben reali l’essenziale non è qui. Per lei l’essenziale è il progetto folle di padre Aleksij di un “monastero nel mondo”, di cui ho già parlato. I doni spirituali poterono essere accolti dal padre solo grazie a questa straordinaria intuizione, che attraversa l’intera tradizione filocalica da Doroteo di Gaza, che sant’Aleksij amava leggere19, a san Tichon di Zadonsk, ma anche la filosofia religiosa russa del xx secolo, da Aleksandr Bucharev a madre Marija Skobcova e Pavel Evdokimov. Quest’ultimo riassunse questo grande movimento della coscienza ecclesiale portato da Aleksij Me™ev nel suo libro Le età della vita spirituale. Cita particolarmente questa frase di Tichon di Zadonsk riportata da Anna Gippius – e mi piace menzionarla a Bose –: “L’abito nero non salva. Colui che porta l’abito bianco, che ha lo spirito di obbedienza, di umiltà, di purezza, costui è un vero monaco del monachesimo interiorizzato”20. Sempre Iulianija cita numerosi casi di chiaroveggenza. Racconta così che l’icona miracolosa si mise a piangere nel 1915 mentre il padre celebrava un moleben e altre storie sorprendenti. Ma a causa del rischio che correva un siffatto manoscritto all’epoca sovietica, sia all’esterno sia all’interno della chiesa, menziona solo brevemente l’amicizia tra il celebre filosofo russo Berdjaev e padre Aleksij. E non cita il famoso ultimo incontro nel 1922 tra Berdjaev e il suo padre spirituale. Permettetemi di ricordarlo per colmare questa lacuna a partire dall’Autobiografia spirituale di Nicolaj Berdjaev, scritta durante la seconda guerra mondiale: La chiesa, come istituzione sociale tradizionale, prevaleva sulla chiesa intesa come unione mistica. Tuttavia, avanti di la19 20

Cf. ibid., p. 136. P. Evdokimov, Le età della vita spirituale, Bologna 1968, p. 143.

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sciare la Russia per l’esilio, ebbi a ricevere una luminosa impressione della chiesa ortodossa. Si trattò del mio incontro con Aleksij Me™ev. Egli apparteneva al clero bianco, ma era tenuto in conto di starec: la sua figura ispirava venerazione, non ebbi a osservare nessuna delle solite caratteristiche che di solito si osservano negli appartenenti a istituzioni clericali … Grazie ad Aleksij Me™ev avvertivo il legame tra me e la chiesa, legame che sussisteva nonostante le mie aspre critiche e la mia speranza di un’epoca cristiana assolutamente nuova. Mi sono sempre sentito membro del corpo mistico della chiesa di Cristo21.

La cognata di Berdjaev, Evgenija Rapp, che pubblicò il manoscritto in francese nel 1954 dopo la morte del filosofo, aggiunse in calce il seguente episodio: Alcuni giorni prima di partire per l’esilio, N. A. [Nicolaj Berdjaev] andò a salutarlo: N. A. era molto dispiacente di dover lasciare la sua patria … Dopo l’ultimo colloquio con Me™ev, N. A. tornò a casa molto commosso: “Appena entrato nella stanza, Aleksij Me™ev – mi raccontò – si alzò e mi venne incontro, tutto vestito di bianco, tanto che mi parve che anche dalla sua persona emanassero raggi bianchi. Gli dissi quanto dolore mi procurava dover lasciare la patria. ‘Voi dovete andare – mi rispose Aleksij – l’occidente deve ascoltare la vostra parola’”22.

Permettetemi ora di fare tre commenti complementari a partire da questo breve ritratto del padre Aleksij. In primo luogo voglio insistere sulla vicinanza di sant’Aleksij con i monaci di Optina ma anche su ciò che lo distingue da chi aveva trasformato questa spiritualità in una spiritualità fatalista. Come loro egli

21 22

N. Berdjaev, Autobiografia spirituale, Firenze 1953, pp. 231-232 (con vari ritocchi). Ibid., p. 232, n. 2.

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La paternità spirituale nella compagnia degli uomini …

spiegava che il mondo era attraversato da teofanie. Era l’antiKant che apprezzava gli intellettuali russi come padre Pavel Florenskij e Nicolaj Berdjaev. Il motivo, però, per cui gli starcy di Optina gli mandavano numerose anime, era la sua capacità di condividere con essi la verità paradossale della presenza di Dio in questo mondo. Il professor Stavros Yangazoglou ha spiegato molto bene che il discernimento nella tradizione cristiana ortodossa consiste nel riconoscere la volontà di Dio in ogni circostanza ma, soprattutto, nel non identificare il male di questo mondo decaduto con la volontà di Dio23. Sì, tutto accade secondo la santa volontà di Dio, come dicevano i monaci di Optina ogni giorno nella loro famosa preghiera. Ma padre Aleksij, erede di san Tichon e di Dostoevskij, sapeva che questo “tutto” era una sintesi di “tutto ciò che è eterno è secondo la santa volontà di Dio”24. “Dio non vuole le lacrime dei bambini”, diceva Aleksej Karamazov. La soluzione evangelica dell’antinomia fra l’onnipresenza e l’onniassenza di Dio si trova nello stare di Dio dalla parte dei viventi. Incarnandosi, Dio ha messo fine alle speculazioni sulle origini del male. Il male, infatti, “il Figlio di Dio lo ha ricevuto in pieno volto”, secondo l’espressione di Léon Bloy. Come dice il teologo cattolico François-Xavier Durrwell, il Dio dalla dominazione sovrana di fatto non esiste; la croce ne ha proclamato la morte, nel momento in cui il Figlio di Dio soccombeva alla cattiveria degli uomini … Sembra che, nel di-

23

Cf. supra, pp. 98-113. Secondo il pensiero di Berdjaev Dio non permette (dopuskat’) il male, nemmeno come è stato falsamente interpretato a partire dal libro di Giobbe. Dio è solo nell’azione creatrice, non nella legittimazione del non essere. Agli occhi degli uomini lascia crescere insieme il grano e la zizzania. Agli occhi di Dio non c’è che sapienza in divenire. Dio agisce quando l’uomo lotta a suo fianco per condurre il mondo all’ottavo giorno consolatore, presente-avvenire eterno della creazione. È la grande lezione di Me™ev trasmessa a Berdjaev: Dio non immagina il male (che diverrebbe eterno), prende su di sé l’incompiuto per farne luce. 24

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segno del Padre, il mistero della sofferenza sia al servizio della nascita filiale, della trasformazione in Dio25.

La signoria di Dio si esercita dove c’è la divino-umanità, cioè dove c’è preghiera, dove c’è vita trinitaria. La paura, la sofferenza e la morte stanno dalla parte del nulla. La libertà dell’uomo di rifiutare Dio non è la libertà autentica, come si pensa, ma un’oggettivazione della libertà. La libertà autentica è in Dio. In realtà la capacità dell’uomo di rigettare l’amore di Dio non fa che testimoniare che la creazione è una realtà escatologica26. L’eternità dell’ottavo giorno è raggiunta solo quando la polvere caotica con la quale Dio creò il mondo il sesto giorno riconosce la propria dimensione creata e accetta di lasciarsi conformare a immagine e somiglianza del Creatore. E Dio non avrebbe potuto creare il mondo direttamente in un giorno, proprio perché l’eternità è una storia d’amore che integra il tempo, cioè la libertà della creatura… Il rifiuto dell’uomo nel sesto giorno di essere spinto “oggi stesso” verso l’ottavo giorno è l’opera di Dio, ma essa appartiene all’uomo solo, come mostra l’episodio dei due ladroni sulla croce27.

25

F.-X. Durrwell, Il Padre, p. 169. È la risposta ad Alain Badiou che pensa: “Se c’è una positività ontologica del Male, ne consegue che Dio ne è il creatore, dunque il responsabile” (Le siècle, p. 15). Badiou rifiuta una tale assurdità, concludendo però che Dio e, dunque, il bene e il male non esistono. Ora, c’è una realtà del Male, proprio l’ontologia per Berdjaev, sotto l’influenza dell’uomo luciferino che si ripiega su quello che crede essere la sua propria luce. Ma questo non vuol dire che Dio ne sia responsabile. Dio, infatti, è dono, antidoto assoluto all’essere come ripiegamento (o lavoro, cura). Il mondo dell’ontologia è incapace in sé di accedere alla vita dello Spirito; è la parte di verità di Kant. L’ontologia come mondo autonomo è un’illusione dell’uomo del sesto giorno. 27 Nella sua antropodicea Bulgakov aggiungeva che ogni essere creato nel suo stato angelico aveva la capacità di conoscere-vedere le conseguenze del suo rifiuto della vita in Dio. Questa visione corrisponde proprio alla vita autistica dell’uomo ricco del sesto giorno a cui Dio invia Mosè e i profeti. Dio sconsiglia all’uomo questo tipo di vita-conoscenza. Ma la libertà increata, di cui l’uomo deve imparare a disporre, è esigente e chiede sacrificio. Chi rifiuta il sacrificio dell’Agnello “immolato dal principio”, può regredire allo spazio-tempo della libertà di scelta dell’“io” con la sua sequela di illusioni, frustra26

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La paternità spirituale nella compagnia degli uomini …

Le conseguenze di questa teodicea, di questa postura spirituale dinanzi al male, nella relazione tra il padre-madre, immagine del Padre-Sapienza celeste, e il figlio-figlia, consiste, da parte del padre, nella capacità di prendere su di sé e, da parte del figlio, nell’obbedire all’ingiunzione paterna di amare il prossimo come se stessi. Anche se questa ingiunzione conduce a continue cadute dei figli, il padre perdonerà e rialzerà il figlio che si confessa, che “conserva la propria coscienza (sovest’)” secondo le parole di padre Aleksij28. L’apprendistato della vita spirituale conduce gli uomini a scoprire grazie all’amore una nuova carne, compimento della verginità, luogo dal quale il mondo diventa trasparente e si trasfigura. Da parte del padre il cammino non è meno arduo. È senza dubbio noto che Aleksandr Bucharev, quando veniva contestato dai suoi alunni, non li puniva ma si imponeva digiuni molto stretti. Padre è colui che si svuota. E che per svuotarsi si ritira dalla vita, dalla gioia della vita. Meritiamo di vivere se siamo degni d’amore. La ricompensa qui è la gloria, gloria che dobbiamo avere la semplicità di accogliere come bambini, come dice Clive Staples Lewis. Tale capacità di prendere su di sé le insufficienze altrui si ritrova nei santi strastoterpcy, già da Boris e Gleb. Non si tratta di pacifismo, sia chiaro! Non è il rifiuto di resistere al male, al contrario si tratta di una trasformazione del male dall’interno, con un profondo senso della responsabilità personale. Quando il governo sovietico decise di requisire i beni della chiesa, padre Aleksij diede i beni della parrocchia ma si tenne le cose necessarie per il culto, il che poteva costargli il gulag. Lo sapeva ma diceva ai presbiteri che venivano a chiedere consiglio: “La responsabilità è mia. Decido solo per me”.

zioni e sofferenze. L’autentica immolazione, il sacrificio del cuore spezzato cantato dai salmi, è proprio quello dell’incarnazione salvifica. Tutto ciò che tende verso l’eternità è secondo la santa volontà di Dio. 28 M. N. Sokolova, æizneopisanie, p. 137.

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Il padre aveva anche molto humour. Lasciatemi raccontare un aneddoto. Arrestato e condotto alla Lubjanka, si divertiva a spaventare gli ufficiali della gpu fingendo delle crisi di apoplessia e dicendo loro di poter morire nei loro locali, cosa che li terrorizzava poiché gli ordini erano di non andare troppo oltre negli interrogatori. Tutti sapevano infatti quanto il popolo lo amava. Questo senso della responsabilità personale che prende su di sé i pesi altrui, è la caratteristica principale della paternità che, secondo la tradizione ecclesiale commentata da Albert de Halleux o Michel Van Parys, è la sorgente della potenza divina. Infatti, la potenza divina si identifica con la sua paternità, ci ricorda Durrwell. Per questo motivo la chiesa confessa: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”. L’onnipotenza è paterna e creatrice. Vorrei attirare l’attenzione dei cristiani ortodossi sui pericoli prodotti dalla pseudospiritualità apofatica che non accorda importanza ai fenomeni extra-razionali29. Da una parte, si afferma la povertà della ragione nell’afferrare la luce delle energie increate e, dall’altra, quando queste energie si manifestano, si evita di guardarle in faccia per non cadere nell’illusione (prelest’). Questo pone un problema molto importante per la direzione spirituale, cioè come parlare del demonio, ma anche come discernere se questo o quel fenomeno viene da Dio oppure no. La risposta di mistici come Myrna Nazour o Serafim di Sarov è riconoscere la presenza del maligno ma non accordargli l’importanza che desidera ottenere. È in effetti, a dire il vero, tempo perso. Il mondo oggettivo costruito dall’intelligenza demoniaca, ci dice l’evangelo, è un regno diviso.

29 Trovo chiarificatore al riguardo l’articolo di Françoise Jeanlin, professore all’Institut Saint-Serge di Parigi: “Les apparitions de la Mère de Dieu dans l’Église orthodoxe”, in http://www.saint-serge.net/article.php3?id–article=275 (ultimo accesso 12 maggio 2009).

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Ciò non vuol dire che si debba rifiutare il mondo dello Spirito come cerca di convincerci la nostra coscienza paurosa. Il mondo di Matrix, come dice Maurice Dantec, non dispone di alcun potere al di fuori di quello che gli attribuiamo. Cristo ha vinto il mondo con la resurrezione, si tratta certo di un atto di fede, ma un atto di fede a cui l’intelligenza umana può pervenire se, come raccomanda tutta una schiera di pensatori come Bulgakov, Berdjaev, Rowan Williams e John Milbank, essa si libera dalla sua prigione ontocentrata. Le testimonianze dei fenomeni spirituali straordinari vissuti da padre Aleksij Me™ev ce lo dimostrano. E basta leggere la vita di Marthe Robin scritta da Jean Guitton, la vita del padre Arsenij, un altro famoso starec dell’epoca sovietica, o le opere di Joachim Bouflet sulle apparizioni mariane per convincersi che si tratta di fenomeni nello stesso tempo eccezionali e molto reali. La chiesa dispone di un criterio per discernere l’autenticità delle apparizioni: i frutti spirituali. Se un’apparizione della Vergine continua, si ripete e trasmette messaggi di pace conformi alle Scritture, e dà frutti quali la preghiera, l’ascesi, la pace, l’amore, allora per la chiesa è una conferma dell’autenticità del fenomeno. Perciò a mio avviso è urgente che i teologi ortodossi escano dal loro torpore pseudoapofatico e si mettano a integrare nella loro teologia i messaggi contemporanei della Vergine e del Cristo per l’oggi. Chi oggi interpreta i fenomeni di Soufanieh o i numerosi casi di icone miracolose nella chiesa ortodossa? L’ultimo elemento lo ricavo dalla vita della comunità dello starec Aleksij. I figli spirituali del padre Aleksij avevano totale libertà. Il padre raccomandava loro semplicemente di tenere un diario e di venire a confessarsi regolarmente. Madre Iulianija racconta che i suoi figli spirituali a più riprese non seguivano le raccomandazioni del padre Aleksij. Il padre spirituale non ha alcun diritto a impedire ai propri figli spirituali di prendere le loro decisioni. Padre Aleksij poteva accordare una tale libertà, poiché aveva il carisma e il desiderio di assomigliare al Padre. Diceva: “Governare la vita spetta al cuore. L’intelligenza è la forza-lavoro del 301

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cuore”. Pavel Evdokimov ha ricordato un aspetto molto importante della tradizione della paternità spirituale, cioè che se il figlio spirituale doveva un’obbedienza totale al padre spirituale, se il suo lavoro era mettere una croce sulla sua volontà propria, questo non voleva dire però che doveva abbandonare la propria coscienza. Ora, la coscienza ha un criterio che le permette di mantenere il suo voto di fedeltà al padre, la capacità del padre spirituale di comportarsi a immagine del Padre.

La paternità spirituale per gli uomini e le donne del xxi secolo

Una chiesa che riscopre il Padre attraverso i santi, è una chiesa che diviene meno istituzionale, meno giuridica, più familiare, nel senso più ampio del termine30. Perciò ritengo sinceramente che il compito più urgente delle nostre rispettive confessioni è riaprire il cantiere dei loro codici di diritto canonico, di far sgorgare i diamanti più belli e di abbandonare le regole più sorpassate. Ma soprattutto far prevalere uno spirito corrispondente alla nuova immagine di padre che Aleksij Me™ev ci ha fatto conoscere, un padre che dà tutto, che perdona tutto. Si è lontani in questa visione della paternità dalla soteriologia del metropolita Sergij Stragorodskij e del metropolita Antonij Chrapovickij. La chiesa può ricordare certe norme ma deve distinguere la regola contestuale dallo spirito delle leggi. Michel Onfray e i suoi amici hanno troppo buon gioco nell’identificare il cristianesimo con una realtà in cui il corpo è una punizione, “la terra una valle di lacrime, la vita una catastrofe, il piacere un peccato, le donne 30 Questo tentativo di aprire nuove vie per la direzione spirituale nel sottobosco delle gnosi contemporanee considera acquisiti i fondamenti della direzione spirituale esposti dal vescovo Kallistos Ware nel suo libro Le Royaume intérieur, Pully 1993.

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una maledizione, l’intelligenza una presunzione, la voluttà una dannazione”31. È dovere di chi assume una vocazione di paternità nella chiesa di facilitare il cammino degli uomini, anche ricordando loro le parole più responsabilizzanti di Cristo. Ma il suo giudizio sempre deve scomparire davanti all’immagine del Padre che ci ha trasmesso Cristo, per mezzo delle Scritture e della tradizione della chiesa, quella di un Padre che fa sempre il primo passo, che perdona a chi si pente e colma del centuplo chi dà. E tutto questo affinchè la chiesa non sia più considerata come un’istanza esteriore alla nostra umanità, come un’istituzione che giudica il bene e il male, ma come una comunità di persone dove avvengono le nozze d’amore tra Dio e gli uomini, e che in proporzione a questo si trasforma nel regno della Trinità celeste sulla terra. Nei primi tempi della chiesa il vescovo disponeva solo del potere della carità, la cui legittimità risiedeva nella sua capacità di martirio, come dice bene questa frase: “Non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). In definitiva il grande ritorno ai padri della chiesa che ha segnato i secoli xix e xx è stato solo il preludio di un movimento più profondo di riscoperta della paternità amante di Dio. Ma la sintesi neopatristica aveva il dovere di essere creatrice. Doveva sbarazzarsi degli antropomorfismi e dei sociomorfismi che hanno offuscato la rappresentazione del referente assoluto. Oggi, se mi è permesso dirlo, a dover essere riscoperti non sono più solo i padri della chiesa, ma soprattutto una paternità capace d’amore nella chiesa. E la relazione padrefiglio quale appare nell’Evangelo di Giovanni deve servire da paradigma facendo evolvere tutta la società verso il Regno. Se le chiese non prenderanno rapidamente coscienza del compito che le attende, la trasformazione del potere-sovranità in servizio-creatore, il mondo secolarizzato neoateo potrà riserva-

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M. Onfray, Trattato di ateologia, p. 67.

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re loro la stessa sorte della parrocchia di padre Aleksij. All’inizio degli anni trenta la chiesa è distrutta, le icone profanate, i parrocchiani dispersi o arrestati. Rowan Williams lo scrive con chiarezza nel suo libro Icone perdute:

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Il senso dell’umano, della lenta ed esigente costruzione di un io non più immediato e reattivo, ma capace di scelte ed esistenzialmente interlocutore e solidale dell’altro, è ciò che abbiamo perso e che occorre ritrovare con urgenza32.

Per Williams gli esseri umani potranno ritrovare delle appartenenze ecclesiali che permetteranno loro di far corpo solo se si capteranno i loro desideri per mezzo di icone postmoderne, cioè per mezzo di “strutture che permettono sia di vedere sia di creare legami alla luce di qualcos’altro rispetto alle nostre decisioni individuali e collettive”33. In definitiva, la libertà, secondo l’espressione di Iris Murdoch, non è la realizzazione della volontà, bensì “l’esperienza della visione esatta che provoca l’azione”34. Oggi se non reinvestiamo l’immaginazione degli uomini con il volto pacifico e onnipotente di Dio, se non riusciamo a convincere che solo il Padre celeste può offrire all’uomo ciò che desidera di più al mondo, cioè il compimento della sua libertà creatrice nell’amore, lo psicopotere mondiale contemporaneo manipolerà sempre di più gli spiriti imponendo loro quella pseudolibertà da ricerca di marketing. Questo potere fenomenotecnico si basa sulle tecnologie della conoscenza e della cultura. Scrive il filosofo Bernard Stiegler:

32 R. Williams, Icônes perdues. Réflexions sur une culture en deuil, Paris 2005, quarta di copertina (ed. orig.: Lost Icons. Reflections on Cultural Bereavement, London 2000). 33 Id., Lost Icons, p. 4. 34 Citata in J. Sutton, The Religious Philosophy of Vladimir Solovyov. Towards a Reassessment, Basingstoke-New York 1988.

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Funzionano come strumenti che privano i cervelli della coscienza, cioè del loro rapporto con il sapere (il loro saper-vivere, il loro saper-fare, i loro saperi formali e teorici), se è vero che con-scientia significa “con-sapere”35.

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L’autore prosegue: Ma il capitalismo può “istanziare” solo entità calcolabili, e il singolare è proprio ciò che non è calcolabile, perché è l’incomparabile. Ora, senza singolarità non può esistere il desiderio. In questo modo la libido è liquidata, conducendo così al capitalismo pulsionale, alla televisione pulsionale, e anche alla politica pulsionale36.

Come si sa, quando la libido è distrutta, le pulsioni si scatenano. E le pulsioni umane diverranno sempre più selvagge: Si cattura l’attenzione del lupo, lo si affascina, gli si dà una forza enorme, ma egli ritornerà un lupo per non aver potuto e saputo divenire un uomo37.

Ci saranno eredi di sant’Aleksij che indichino dove trovar riparo dal branco? Lo scrittore Maurice Dantec è così affascinato da questa violenza animale endemica, la caratteristica più profonda del pensiero moderno secondo John Milbank, da non esitare a immaginarsi le torture più raccapriccianti contro tutti questi nemici. Nel suo romanzo Le radici del male mette in scena un serial killer non amato dai suoi genitori. In Villa Vortex si tratta di un androide killer incarnazione della tecnica metafisica. In Artefact, il ´ B. Stiegler, Économie de l’hypermatériel et psychopouvoir, Paris 2008, p. 93. Ibid., pp. 95-96. 37 Ibid., p. 120. 35 36

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racconto più insostenibile di Dantec, l’autore di successo descrive torture abominevoli citando san Giovanni: “Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2). Dantec, il cui approdo al cristianesimo è recente, non si è liberato di un’idea antimanichea che si trova nella cabala, secondo la quale: “Anche l’Avversario è lo strumento del Dio unico e assoluto”38. Siamo distanti da san Giacomo: “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno è tentato piuttosto dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce” (Gc 1,13-14). Ma Dantec è anche uno dei rari pensatori a comprendere oggi che l’Apocalisse non è un mito per teologi eruditi e marginali. Essa è una realtà viva, una componente essenziale del nostro spazio-tempo. Anche Dantec, Dostoevskij della postmodernità, sa di che parla quando scrive che solo il perdono, “nome della Grazia”, permette di liberarsi da questo mondo decaduto e di entrare nel cronotopo del Regno39.

Conclusione

Ho consapevolezza che parlando di Rowan Williams, Bernard Stiegler e Maurice Dantec sono uscito dal tema che mi era assegnato. Ma in agiologia mi sembra più adeguato il fuoripista che l’edificazione di sepolcri storici a coloro che la memoria della chiesa riconosce viventi. È una lezione che ho ricevuto da sant’Aleksij attraverso la filosofia dell’oggettivazione di Nicolaj Berdjaev.

38 39

M. G. Dantec, Artefact. Machines à écrire 1.0, Paris 2007, p. 521. Sviluppo un’analisi del pensiero di Dantec in un articolo non ancora pubblicato.

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Il santo e giusto Aleksij Me™ev è stato canonizzato nel 2000 dal sinodo dei vescovi della chiesa ortodossa russa. Le sue reliquie riposano nella sua ex parrocchia di San Nicola di Klennikach a Mosca. La chiesa fa memoria di lui quattro volte all’anno: 29 gennaio-11 febbraio (sinassi dei neomartiri), 9-22 giugno e 20 agosto-2 settembre (santi di Mosca), 16-29 settembre (traslazione delle reliquie). Suo figlio, padre Sergij Me™ev, arrestato per la sua fede e fucilato il 6 gennaio 1943, è stato canonizzato insieme a lui: la sua memoria cade il 24 dicembre.

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IL PATRIARCA DI SERBIA PAVLE, PASTORE E PADRE SPIRITUALE

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David Perovic´*

Introduzione

Il nostro contributo al Convegno organizzato dal Monastero di Bose per riflettere sul tema della paternità e maternità spirituale nella tradizione ortodossa consisterà nel presentare il ritratto spirituale del beatissimo Pavle, arcivescovo di Pec´, metropolita di Belgrado e Karlovci e patriarca di Serbia. Trent’anni or sono abbiamo lavorato sul ritratto di questo anziano, pastore e padre spirituale. Questa nostra relazione completerà il suo ritratto spirituale; la sua figura emergerà dai suoi consigli e dai suoi pensieri spirituali, dalle sue sentenze e dagli aneddoti da lui narrati. Vi presenteremo soltanto i tratti fondamentali della sua personalità spirituale, rischiarandoli con le sue esortazioni e i pensieri che abbiamo raccolto negli anni 2005-2008. L’unico scopo che egli si proponeva era di guidare spiritualmente i cristiani e anche tutti gli uomini di buona volontà che in quel tempo si rivolgevano a lui cercando rassicurazione e consolazione.

* Monaco e docente presso la facoltà teologica dell’Università ortodossa di Belgrado. Traduzione dall’originale greco.

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David Perovic´

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I suoi consigli, i suoi pensieri, le sue sentenze sono un’espressione della tradizione ortodossa, della tradizione biblica, liturgica, patristica, filocalica, pastorale… Le sue storielle si propongono di risvegliare la coscienza dei cristiani, di rinfrancarla ed edificarla. Insomma, nelle parole dell’anziano predominano la pietà tradizionale e l’umiltà, l’amore per gli uomini e la sollecitudine per la salvezza di tutta l’umanità, il dominio di sé, la serietà e la sobrietà, la memoria del temibile giudizio e del regno dei cieli.

Ammonimenti spirituali e riflessioni raccolti per tema

Il regno di Dio 1. Tutti abbiamo bisogno di gustare già in questa vita la beatitudine del regno di Dio. 2. Dobbiamo avvicinarci a Dio con i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni. 3. Dobbiamo camminare nella via che conduce al regno dei cieli e percorrerla fino a raggiungere il Signore. Allora egli ci riconoscerà come suoi. Sarebbe spaventoso non seguire questa via fino alla fine e sentirci dire dal Signore: “Non vi conosco” (Mt 25,12). 4. Il cuore che è dominato dall’orgoglio non è pronto per il regno dei cieli. Dunque, chi è dominato dalla vanità e dall’orgoglio, non potrà entrare nel regno dei cieli.

La divina eucaristia 5. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Il pane terreno, l’acqua e altre bevande hanno un compito e un utilizzo mo310

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Il patriarca di Serbia Pavle, pastore e padre spirituale

mentanei: ci sostentano in questa vita terrena, ma non ci offrono anche la vita eterna. Per questo possiamo dire, per quanto concerne il nostro cibo e le nostre bevande, che il frutto del loro consumo è la morte. Il frutto della comunione divina, invece, è la vita eterna.

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La santa Scrittura 6. Non avremo alcun vantaggio se proclameremo o scriveremo le più belle omelie teologiche, ma non conformeremo la nostra vita all’evangelo. 7. “Se possibile, per quanto sta in voi, siate in pace con tutti gli uomini” (Rm 12,18). Questo vuol dire che non dobbiamo aspettare che siano gli altri per primi a cercare la pace e poi seguirli, ma il contrario. Perciò dipende da loro che la chiedano o meno per primi, ma noi, ai quali è stato ordinato di stare in pace con tutti, dobbiamo essere i primi a cercarla. Il fatto che qualcuno non voglia la pace, non ci esonera dal dovere di cercare di ottenerla. 8. “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16). Questo vuol dire che dobbiamo essere le due cose contemporaneamente, perché, se siamo soltanto prudenti, la prudenza si trasformerà in malvagità, mentre se siamo soltanto innocenti, la nostra innocenza si rivelerà stoltezza. 9. Raccogliete le briciole di pane che cadono dalla tavola e non gettate via nulla. Il pane è energia di luce che si trasforma in energia chimica. Dunque, ci nutriamo di luce. 10. Il più grande e miglior servizio che possiamo offrire agli uomini è quello di permettere loro di vedere le nostre opere buone e rendere gloria al Padre che è in cielo. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). 11. Se qualcuno non comprende il significato delle parole: “E quello che volete che gli uomini facciano a voi, fatelo anche voi 311

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David Perovic´

a loro” (Lc 6,31), pensi più semplicemente: “Fa’ agli altri quello che fai per te”, o ancora meglio: “Farò agli altri quello che faccio per me”. 12. Caino uccise suo fratello Abele (cf. Gen 4,8); ogni omicidio è dunque un fratricidio, cioè il primo omicidio è un fratricidio avvenuto a motivo dell’invidia. Satana manifestò la sua invidia per l’uomo tentando Adamo ed Eva (cf. Gen 3) e continuò poi con Caino istigandolo ad uccidere Abele. 13. Queste parole dell’apostolo Paolo rimasero sempre come un comandamento per il patriarca Pavle: comportatevi “in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio. Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto, ringraziate con gioia il Padre” (Col 1,10-12). 14. Parlare in modo conforme all’evangelo significa parlare dal profondo dell’anima. Sia che parliate sia che restiate in silenzio, la vostra fede diventa percepibile; ugualmente, significa non ingiungere nulla e non vergognarsi della propria fede. Ogni parola ha il suo posto e la sua strada. E la nostra fede è ciò che è perché è stata trasmessa di generazione in generazione e si è radicata.

La fede 15. La fede è per tutti gli uomini, ha un carattere universale, e tutti sono chiamati a credere. Alcuni, tuttavia, la osteggiano in quanto non hanno fede, sono atei e mettono in pratica la loro mancanza di fede. 16. Che uno resista o si sottometta, ci sono molti eventi tristi nella sua vita e in quella del prossimo, se non c’è la fede che dà senso a tutto questo.

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La teologia 17. La teologia istituzionale o accademica ha respinto la teologia carismatica o la parola viva ai margini del pensiero e della vita della chiesa. 18. La teologia contemporanea è di due specie: è prosaica come tutta la vita attorno a noi e non nutre le anime, oppure è così profonda che finisce per diventare inaccessibile alle anime. E invece la teologia deve essere accessibile a tutti. 19. Dobbiamo pensare agli eventi per poterli interpretare. Dobbiamo protrarre il nostro pensare fino in fondo per non cadere in tentazione, perché non possiamo discernere gli eventi su cui non abbiamo meditato e, quando ci manca il discernimento, siamo esitanti nell’azione.

Cristo e la santità dei santi 20. Dopo il nostro Signore Gesù Cristo, l’apostolo Paolo è la più grande personalità del cristianesimo. L’apostolo Paolo non accolse superficialmente il cristianesimo, né lo impose superficialmente a nessuno, ma lo fece suo in tutta la sua profondità e lo visse. 21. La chiesa non rende santi, ma aiuta i cristiani a vivere secondo l’evangelo e a camminare nello Spirito. 22. I sentimenti di fede cambiano completamente il modo di porsi davanti al mondo e davanti agli uomini. 23. Un conto è il nostro desiderio che qualcuno diventi santo e altra cosa la sua santità. Se uno provocasse il suo martirio, cioè si sottoponesse volontariamente a torture fisiche e alla morte violenta, non per questo sarebbe un santo martire, anche se fosse ucciso.

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Cristianesimo pratico 24. È cristiano colui che conforma all’evangelo la propria vita e in questo modo annuncia la sua fede. 25. La conoscenza della dottrina cristiana senza vita cristiana non è sufficiente per la pienezza della fede.

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Razionalità e sensibilità 26. Il rapporto tra razionalità e sensibilità è per noi fondamentale e significativo. L’unione dei due ci rende persone serie, responsabili, condiscendenti. Con l’una o l’altra soltanto, invece, diventiamo giudici inesorabili o zelanti e implacabili censori.

Libertà e responsabilità 27. Il tema della libertà è il più difficile perché dalla risposta a questo tema dipende quello della responsabilità e, di conseguenza, il tema della persona. Senza la persona, non possiamo parlare di uomo, di angelo, di Dio. 28. Alcune creature di Dio sono create libere, ad esempio gli angeli e gli uomini; altre invece, gli animali ad esempio, non hanno libertà. Dalla libertà deriva la responsabilità. Alla luce della libertà in Cristo ogni distinzione: maschio-femmina, giudeo-greco, schiavo-libero, diventa secondaria. “Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Scelta vitale: vivere con o senza Cristo. 29. La nostra libertà e le nostre scelte sono in rapporto reciproco. Non dipende da noi nascere, ma da noi dipende come vivere. Tutti noi siamo nati per vivere. Con uno scopo e delle mete o, se lo vogliamo, senza scopo. 314

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La collaborazione tra Dio e l’uomo e la vita davanti a Dio 30. Diventiamo collaboratori di Dio, facendo ciò che dipende da noi, e Dio ci aiuterà a liberarci da quanto non possiamo sopportare. 31. Quando parliamo, occorre che lo facciamo davanti a Dio. Del resto, il Signore ci ha detto che renderemo conto di ogni parola vana e inutile. Dal momento che lo sappiamo, mettiamolo in pratica; chi vuole ci ascolterà in segreto. 32. Non siate imprudenti nelle parole e nelle azioni perché non abbiamo coscienza delle nostre debolezze, così come non sappiamo quali siano le conseguenze del nostro comportarci in questo modo.

L’uso e l’abuso delle nostre energie 33. L’uomo non è né un diavolo, né un angelo; è la creatura di Dio che non deve peccare per non diventare diavolo, ma deve vivere secondo virtù per diventare angelico, simile agli angeli. 34. Se un membro della chiesa cresce, tutto il corpo della chiesa cresce, se un singolo membro patisce danno, anche le restanti membra della chiesa patiscono danno (cf. 1Cor 12,26). 35. Una prassi cattiva non dà frutti buoni. 36. Il piacere è un rimprovero indiretto al mancato sacrificio delle passioni. Il piacere risveglia la vanità e viceversa. Di conseguenza, il sacrificio domina la vanità o, in altre parole, ristabilisce l’uso razionale delle energie umane.

L’abitudine 37. Gli uomini sono fondamentalmente buonissimi, ma sono trasformati dalle cattive abitudini. 315

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38. La forza dell’abitudine viene da Dio, ma dipende da noi da quale abitudine lasciarci dominare.

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La provvidenza di Dio 39. Se rimanessimo nelle mani di Dio ogni momento di questa nostra povera vita, potremmo resistere a qualsiasi difficoltà che incontriamo. L’idea che niente accade senza il permesso di Dio ci deve consolare. Di molte difficoltà siamo responsabili noi stessi. Per quanto dipende da noi, stiamo attenti perché Dio, nel temibile giudizio, ci riconosce suoi insieme a tutti i nostri pensieri, sentimenti, parole e azioni. 40. Le tentazioni ci dividono, le difficoltà transitorie ci devono unificare.

La buona e la cattiva volontà 41. Se usiamo le nostre energie come uomini di buona volontà, faremo sì che gli uomini di cattiva volontà rivolgano le loro energie alla buona volontà. 42. Preghiamo per gli uomini di cattiva volontà, affinché divengano uomini di buona volontà (cf. Lc 2,14), perché anch’essi hanno bisogno di essere salvati.

Il dominio di sé e la moderazione 43. Quanto prima ci dedichiamo all’ascesi del dominio di sé, tanto più facile sarà in seguito la nostra lotta e duratura la nostra padronanza delle passioni; e inversamente, quanto più tardi ci dedichiamo a quest’ascesi, tanto più difficile sarà tenere a freno le passioni perché ci tengono in loro potere. 316

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L’ascesi e le passioni 44. Le tentazioni ci fanno del bene, perché attraverso di esse veniamo a conoscere la reale condizione della nostra anima; inversamente, se non ci sono tentazioni, molto rapidamente si potenzia in noi l’egoismo. Con le tentazioni, invece, diventiamo più prudenti e aderiamo alla realtà. Attraverso di esse veniamo a conoscere il nostro stato, lottiamo e desideriamo divenire migliori. Considerate quanto è cresciuta la zizzania del peccato nelle anime di quelli che non hanno coscienza della loro condizione! 45. Le tentazioni, per quanto piccole, sono reali. Questo è il loro turno, più tardi vengono quelle grandi.

I tempi, le circostanze, gli uomini 46. Non è il tempo in cui viviamo che ci spinge a mostrarci buoni o a comportarci con durezza, ma siamo noi stessi. Se mostriamo un volto più umano, per quanto le circostanze siano difficili, coltiveremo la bontà e l’amore. Se invece abbiamo il cuore indurito, per quanto i tempi siano buoni, renderemo il mondo ancora più duro e disumano. 47. Il nostro è un tempo di grandi tentazioni e prove, ma il Signore conosce il motivo per cui permette che esse ci giungano. Certamente, comunque, non lo fa perché rendiamo il nostro tempo ancora più difficile di quello che è. Alcune persone si comportano come se volessero rendere più grandi le nostre tentazioni e più insopportabili le nostre prove. 48. In tempi difficili, quando il male cresce, gli uomini moralmente deboli non possono denunciare il male che è dentro di loro; allora gli uomini retti sopravvivono contrapponendo alla menzogna la verità. 49. Tutte le cose hanno due facce. In circostanze favorevoli al lavoro spirituale, appaiono uomini duri e insensibili e, in circo317

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stanze inadatte a una vita spirituale, in mezzo agli uomini insensibili appaiono uomini buoni. Dipende da noi mostrarci buoni indipendentemente dalle circostanze nelle quali viviamo. La nostra libertà di scelta è assicurata. Con gli uomini in generale comportiamoci in modo umano, con gli uomini privi di principi etici siamo circospetti. 50. Anche in mezzo a dei disgraziati si può trovare un uomo, così come in mezzo a uomini si può trovare un mascalzone.

L’umiltà e il giudizio 51. Dentro di noi l’uomo vecchio è molto potente. Ci poniamo di fronte alla realtà mettendo al centro il nostro io e non l’umiltà evangelica e le virtù. È inconcepibile che tu ti senta giusto quando vedi l’altro peccare. Siamo molto lontani dall’umiltà a cui guardiamo. Avanziamo verso di essa, ma a piccoli passi. Soltanto quando gettiamo come fondamento l’umiltà, possiamo costruire sopra qualcosa, cioè l’amore evangelico per Dio e per il prossimo. Dobbiamo soffrire per il peccato del prossimo, ma non prendere su di noi gli assalti del male e nuocere a noi stessi. Non interessiamoci dei peccati degli altri, ma preoccupiamoci di non diventare corresponsabili del loro peccato. 52. Non temete mai l’umiltà, temete soltanto l’egoismo. 53. Stiamo in pace con tutti. Molte volte, tuttavia, perdiamo il senso della misura, ci facciamo avanti dove non dovremmo e provochiamo guerre! 54. Per qual motivo dobbiamo apprezzare I miserabili di Victor Hugo? Perché in quel romanzo troviamo tante cose che ci aiutano a capire altra gente, gli uomini. L’uomo si avvicina al suo prossimo quando capisce gli altri e quando gli altri lo capiscono. 55. Dobbiamo discutere con tutti; questo dobbiamo permettercelo perché abbiamo la Verità: Cristo uomo-Dio che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Dobbiamo dunque discutere con 318

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tutti quelli che non conoscono la verità e che desideriamo vengano salvati. E se quelli possono perdersi, noi al massimo riceveremo un rimprovero.

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La moderazione 56. Gli opposti estremi sono situazioni contro natura: se tutto fosse molto serio, sarebbe insopportabile; se tutto fosse sempre oggetto di riso, neanche questo lo sopporteremmo. Ridiamo per non diventare musoni, e siamo seri per non diventare frivoli e superficiali. 57. Che siamo austeri nella nostra condotta oppure bonaccioni, ambedue le cose sono eccessive. L’ottimo è la via di mezzo. 58. Non abbiamo niente in comune con il mondo, ma siamo invece soltanto pellegrini in questo mondo.

La pazienza 59. Tutti i problemi vengono dai bisogni dell’uomo. 60. La pazienza è indispensabile a tutti, in particolare a quelli che pazientano, perché lo facciano fino alla fine.

Doveri, obblighi e promesse 61. Dobbiamo assolvere ai nostri doveri senza ostentazione: così soltanto compiamo il nostro dovere. 62. Chi mescola la vanità al suo dovere, varca i confini del dovere e mostra egoismo. Perciò la vanità si trova a un passo di distanza dal merito reale. Molte volte la vanità si traveste da efficienza e abilità; persone di tal fatta tentano di provocare l’invidia degli altri. 319

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63. È meglio che facciamo qualcosa che non abbiamo promesso piuttosto che fare promesse che non possiamo mantenere. Dobbiamo adempiere le nostre promesse.

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Il discernimento 64. Gli uomini hanno pensieri, sentimenti, parole disumani. Uccideremo uomini innocenti perché altri hanno ucciso degli innocenti? Le nostre azioni non devono essere disumane per il solo fatto che gli altri si comportano in modo disumano. 65. Se vediamo che la nostra vita è in pericolo, consolidiamo in ogni momento ciò che costituisce la nostra ricchezza così da accogliere il pericolo nella pace senza temere il duplice danno: non essere preparati alla morte e lasciare compiti non assolti dietro di noi. 66. Quando Dio concede a qualcuno di fare il possibile, quello chiede l’impossibile e comincia a ricercarlo perdendo interesse al possibile. Così finisce sventuratamente per preferire l’impossibile al possibile. 67. Tutti ricevono un vantaggio dall’uomo che compie opere buone: quello stesso che le compie, innanzitutto, poi i suoi genitori, e quindi tutti quelli che sono confermati e rinfrancati al vederlo compiere il bene.

L’inganno 68. I peccati portano con sé abitudini, le abitudini le passioni e le passioni bisogni immaginari.

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L’orgoglio 69. Tutti combattiamo contro il nostro orgoglio e tutti patiamo a causa sua. 70. A causa dell’orgoglio l’uomo cade nell’inganno e si mette a servizio del diavolo invece che di Dio, al quale dovrebbe appartenere ogni nostro servizio.

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L’odio 71. Odiare è amare in modo stupido o dissipare l’amore e avere una volontà debole. 72. Perché alcuni uomini possono odiare senza limiti? Quando qualcuno si trova in alto, viene guidato fin dall’inizio per non sbagliare il primo passo, perché se sbaglia, cadendo da tale altezza, la sua caduta è più grave ed è impensabile che si salvi, perché l’amore si è trasformato in odio. Ciò che segue non ha nulla a che fare con l’amore. 73. Dove appare un eros sfrenato, si osserva la sua progressiva trasformazione in un odio furibondo.

Le passioni 74. Quando l’uomo è vinto dalla passione, se gli obiettivi che si è prefissato sono cattivi, questi lo spingono al male nella misura in cui il male ha trovato spazio dentro di lui.

La conversione 75. Chi non confessa i suoi errori e il suo peccato, non può convertirsi. 321

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L’essere umano 76. Nessuno diventa una persona matura giocando a basket o a calcio; lo diviene soltanto se supera la misura, cioè se non diventa schiavo di nessuno e non si trasforma nell’ingranaggio di un meccanismo. 77. Il battesimo non è battesimo di un sesso, ma di un essere umano, mentre il cambiamento di sesso non è cambiamento dell’essere umano, ma semplicemente cambiamento di sesso. Nel fenomeno del cambiamento di sesso ci troviamo dinanzi a una maturazione e a una formazione del sesso che non è giunta a compimento, cioè allo stato di essere umano. 78. La donna si edifica spiritualmente attraverso il servizio, come Maria, Madre di Dio. Nel cristianesimo e nella chiesa la donna non può celebrare, ma può divenire sacerdotessa in casa sua.

L’amore del prossimo 79. Non c’è uomo senza peccato, né uomo che non abbia mai compiuto una buona azione. Dobbiamo avvicinare tutti come nostro prossimo, anche gli albanesi siptari e gli ustascia croati e amarli almeno come nostri nemici, se non come nostro prossimo. L’amore per i nemici non è un vago sentimento ma è la coscienza che l’altro si può perdere se non capisce e non si converte. Dobbiamo amarli e anche pregare per loro e benedirli perché Dio manda la pioggia e il sole sui buoni e sui malvagi (cf. Mt 5,45). 80. Questioni morali e sociali fanno inevitabilmente parte della nostra vita. Noi che siamo pluriassicurati non dobbiamo restare insensibili davanti a quelli che non hanno nessuna sicurezza.

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Lo humour 81. La comicità è l’altra faccia della serietà. 82. Una barzelletta indovinata e uno scherzo riuscito risollevano lo spirito.

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La giustizia divina 83. È meglio patire essendo innocente che essere lodato essendo colpevole. 84. Il Signore manderà ciascuno di noi là dove nessuno ci potrà lodare né biasimare, come forse vorrebbe, ma tutto avverrà secondo la sua verità, perché egli è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). 85. Se pensassimo incessantemente alla nostra difesa davanti al giusto giudice, libereremmo noi stessi e gli altri da molti mali e molte sciagure.

L’immortalità 86. L’uomo e la sua volontà sono due questioni perenni. Se le affrontiamo in un’ottica biblica, vedremo quanto segue. Ai progenitori fu detto che era permesso loro mangiare qualunque frutto si trovasse nel giardino, eccetto quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Perciò, il giorno in cui Adamo ed Eva avessero mangiato il suo frutto, sarebbero morti; non in quello stesso giorno, ma più tardi (cf. Gen 3,1-24). Siamo dunque stati creati non per morire, ma per vivere per sempre. Per questo non ci è estranea l’idea della vita immortale. Tuttavia, con il nostro peccato impediamo quello che avrebbe dovuto essere naturale e fisiologico. Che cosa c’è di più naturale della vita eterna? 323

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87. La vita immortale ci ha dato forza. Dipende da noi essere degni di questo dono. La bontà, la bellezza, la vita, l’immortalità sono destinate a noi, ma sta in noi acquistarle o meno. 88. La vita immortale è possibile a queste condizioni: possiamo raggiungerla solo quando le nostre azioni corrispondono alla volontà di Dio e quando abbiamo la benedizione di Dio per quello che facciamo. La volontà di Dio e la sua benedizione sono la nostra immortalità.

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PATERNITÀ SPIRITUALE E MONDO CONTEMPORANEO

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Serafim Joanta˘*

Poiché uno studio approfondito sul tema della “paternità spirituale e mondo contemporaneo” richiederebbe un’ampia informazione sulla vita della chiesa sia in oriente che in occidente, nella mia presentazione, a causa della mancanza di tempo per una tale ricerca, farò soprattutto riferimento alla chiesa ortodossa in Romania. Sono tuttavia convinto che il caso della Romania e della sua chiesa ortodossa, largamente maggioritaria, non sia isolato e che la tradizione della paternità spirituale sia la stessa, più o meno viva, in tutte le chiese ortodosse locali. L’occidente, invece, ha conosciuto a questo riguardo una sorta di rottura della tradizione (dom Silouane); tuttavia la paternità spirituale, per quanto diminuita, resta una realtà nel monachesimo soprattutto benedettino. L’importanza attribuita in occidente alla Regola – penso – ha indebolito il ruolo del padre spirituale: se si fa costantemente riferimento a questa, se è costantemente letta durante il capitolo, essa prende impercettibilmente il posto del padre spirituale. Questo può anche avere un aspetto positivo: quando i padri spirituali mancano, in qualche modo è la Regola che prende il loro posto.

* Metropolita di Germania della chiesa ortodossa romena. Traduzione dall’originale francese.

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Serafim Joanta˘

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Perciò, come sottolinea padre Teofil del monastero di Sâmba˘ta, in occidente più che a un padre spirituale i giovani fanno riferimento a una comunità. Il ruolo della comunità è importante, perché qui si può fare esperienza della comunione. La comunità monastica e quella parrocchiale sono simili: hanno lo stesso scopo ma i mezzi sono diversi. In oriente, dove la Regola è quasi sconosciuta, la penuria di padri spirituali può danneggiare gravemente la vita monastica. Placide Deseille dà questa valutazione del monachesimo come fonte di paternità spirituale: Il monachesimo non è mai divenuto una semplice istituzione: una catena ininterrotta di autentici padri spirituali ha preservato il suo carattere profetico, ovunque è rimasto fedele a se stesso. Il monachesimo occidentale non fa eccezione: i testi del monachesimo di san Martino, di Lerins, celtico, i Dialoghi di san Gregorio Magno, la Regola di san Benedetto, l’agiografia medievale riportano la stessa testimonianza1.

Deseille conclude: Fino ad oggi, nella chiesa cattolica d’occidente il monachesimo è rimasto il luogo ove il radicamento originale di questa chiesa nelle tradizioni comuni dell’epoca patristica è più percettibile2.

Dopo queste osservazioni preliminari, vorrei presentare ora il ritratto spirituale di uno dei più grandi padri spirituali della Roma-

1 P. Deseille, Nous avons vu la vraie lumière. La vie monastique: son esprit et ses textes fondamentaux, Lausanne 1990, pp. 91-92. 2 Ibid., p. 91.

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nia del xx secolo: padre Paisie3 di Sihla, morto a novantatré anni nel 1990 nel monastero di Siha˘stria da cui dipende lo skit di Sihla. Padre Paisie è in qualche modo un Serafim di Sarov della spiritualità romena. I fedeli lo chiamano pa˘rintele pustnic, “il padre eremita”. Ma non è un eremita in senso stretto. Vive in una comunità. Un po’ isolato ma non fuori dalla comunità. L’appellativo di pustnic si riferisce piuttosto alle sue qualità interiori. Lo skit dove vive è un po’ ai margini, a 15 o 20 km dal villaggio più vicino, ma sulla via dei turisti. Ha una cella, sotto una parete rocciosa, e vicino si trova una piccola chiesa costruita con il legno di un solo abete; tutte e due sono in prossimità dello skit di Sihla, delle sue celle e della sua chiesa. Difficile dire con precisione quale sia il dono specifico di padre Paisie. Non compie miracoli. Non predica, nessuno lo ha ascoltato predicare in chiesa. Non è neppure un bravo cantore, come celebrante non è dotato; ha una voce tenue, benché chiara e gradevole. Malato più che sano. A sessant’anni sembrava averne ottanta; ora che ne ha ottanta sembra averne però sessanta. Non è né teologo né diplomato o licenziato in una qualsiasi disciplina. Eppure ha qualcosa che avvince. Ha la grazia. Ha il dono di attirare, di ispirare fiducia e di trovare sempre le risposte migliori ai problemi e alle domande più difficili. Ha calore e amore per gli uomini. La sua porta è aperta a tutti. E se qualcuno gli porta un dono, lo offre al visitatore successivo. È molto spirituale perché è molto umano. Aspira incessantemente all’esichia e alla solitudine, ma nessuno lo ha mai sentito lamentarsi del rumore causato dai numerosi visitatori. Il dovere della sua vita è essere “uomo per gli altri”. Padre Paisie è sempre ferito dai dolori, dalle sofferenze, dalle malattie delle persone, dal numero enorme dei loro peccati

3 Sulla figura di padre Paisij Olaru, cf. I. Balan, Volti e parole dei padri del deserto romeno, Bose 1991, pp. 78-89.

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ma, al tempo stesso, è sereno, pieno di benevolenza, indulgente, compassionevole e clemente. Chi entra nella sua cella ne esce deciso a cambiare vita, ritrova la fede e la fiducia e ricentra la propria vita su Dio e sulla sua Parola. Il miracolo è che tutto ciò accade grazie a padre Paisie. Nessuno sa se egli sia consapevole di questi miracoli. Forse no, forse sì, nella misura in cui sa di ridare fiducia a quanti l’hanno persa. La ridà innanzitutto con la fede che in essi rinascerà la speranza. Ma per lui tutto questo appartiene all’ordine della natura, alle cose normali ed evidenti. Accoglie le persone lì dove si trovano e le mette sul cammino che devono seguire, e loro lo seguono. Ha tuttavia un dono particolare, che potrebbe spiegare, almeno parzialmente, il suo “segreto” spirituale (benché la parola “segreto” non convenga affatto nel suo caso). Quanti lo lasciano partono con la convinzione che i loro peccati sono rimessi. E questo accade perché lui stesso è fermamente convinto di aver assunto dinanzi a Dio la responsabilità del peccato al loro posto. In qualche modo, rimane lui debitore dinanzi a Dio al posto dell’altro. Un monaco diceva: “Padre Paisie porta i peccati di tutti gli uomini”. Questo spiega il suo stato permanente di penitente. Molti presbiteri del suo monastero, e altri che si sono avvicinati a lui, sono giunti a sentire la stessa responsabilità e hanno paura a confessare, pensandosi troppo deboli per portare i peccati degli altri e per riscattarli con la loro vita. La maggior parte dei visitatori di padre Paisie viene per confessarsi. Certo, egli parla in modo amichevole con tutti, ma con i fedeli il dialogo assume la forma liturgica del sacramento. Sente di doversi sempre tenere nel sacro per comunicare agli altri il senso del sacro. Anche quando riceve persone che vengono senza intenzione di confessarsi, finge di essersi dimenticato di togliersi la stola per poter parlare loro come presbitero e nella funzione del suo ufficio sacro. È un uomo di grande e autentica umiltà e non è affatto colpito dalla sua popolarità perché non le presta attenzione. Guarda piuttosto al dolore di chi viene con la speranza di essere guarito. Tutto quel che dona lo riceve da Dio. È Dio a perdonare e a ispirare le soluzioni. Ma egli non parla di questa con328

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vinzione. D’altronde non è necessario, perché lo si vede e lo si sente4.

L’archimandrita Ioanichie Ba˘lan († 2007) del monastero di Siha˘stria, monastero che può essere definito l’Optina di Romania, nel 1980 ci diede un grande Paterikon romeno con trecento vite e insegnamenti dei grandi spirituali, uomini e donne, conosciuti nella storia della chiesa ortodossa in Romania: dal 1950 al 1980 enumera trentun spirituali con le loro vite e insegnamenti, tutti morti in questo periodo. Nel 1984 padre Ioanichie pubblicò altri due volumi, di circa millecinquecento pagine, contenenti dialoghi spirituali con quasi cento grandi spirituali, quasi tutti oggi addormentatisi nel Signore. Questi dialoghi contengono un’enorme ricchezza di sapienza nello spirito della tradizione, sempre in riferimento alle realtà di oggi. Fu un vero miracolo che questi libri di padre Ioanichie potessero vedere la luce all’epoca della dittatura comunista. D’altronde si deve dire che non fu tanto la chiesa ufficiale a tenere viva la fede in Romania durante l’epoca comunista, ma proprio questi spirituali ai quali accorreva il popolo con i suoi bisogni e problemi. Infatti, il monachesimo in Romania è sempre stato aperto ai fedeli che trovavano nei monaci il perdono dei peccati nel sacramento della confessione, aiuto spirituale per mezzo della preghiera, consolazione, insegnamento… Alla discussione della mia tesi nel 1985 all’Istituto Saint-Serge sulla tradizione esicasta nei paesi romeni, il professor Olivier Clément diceva: “Si ha davvero l’impressione di una civiltà monastica: non un monachesimo che si sarebbe costituito come una specie di mondo in sé, come è stata forse la tentazione in Cappa-

4 A. Pla˘ma˘deala˘, “Monastic Spirituality in Romania Today”, in Eastern Churches Review 4 (1969), pp. 377-379. Cf. Id., Tradit¸ ie s¸i libertade în spiritualitatea ortodoxa˘, Alba Iulia 2004, pp. 201-202. Il metropolita Antonie Pla˘ma˘deala˘, morto nel 2005, fu discepolo di padre Paisie.

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docia, sul Monte Olimpo in Asia o sul Monte Athos, ma un monachesimo come fermento veramente in osmosi con un popolo e che ha ispirato tutta una cultura”. Ma che cosa resta oggi di questa fioritura monastica dovuta a questi padri spirituali, che, tranne qualche eccezione, riposano tutti nel Signore? Penso molto poco. Viviamo oggi in Romania una crisi molto grande non solo della vita monastica ma anche della vita della chiesa in generale, dovuta proprio alla mancanza di padri spirituali. Per una dozzina di anni, dopo la caduta del comunismo, abbiamo conosciuto una vera esplosione della vita monastica per quel che riguarda il numero delle vocazioni e dei nuovi monasteri e skiti. Nell’entusiasmo generale, dopo quarantacinque anni di regime ateo, molti vescovi, presbiteri e anche laici volevano costruire un monastero o almeno uno skit. Così il numero dei monasteri e degli skiti è salito vertiginosamente: da centoquattordici a seicento, e il numero dei monaci e delle monache da millecinquecento a settemilacinquecento. Ma oggi è sempre più chiaro che questo entusiasmo, per quanto sincero, non aveva un fondamento realistico. Infatti, non si può edificare un’autentica comunità soltanto con giovani senza alcuna esperienza della vita monastica, come era il caso della maggior parte di questi nuovi monasteri e skiti. Non è allora sorprendente vedere che cresce sempre più l’instabilità di questi giovani e che alcuni lasciano la vita monastica e ritornano nel mondo. A questa instabilità – e da qualche anno anche a una dolorosa mancanza di vocazioni – contribuisce anche lo spirito del mondo che invade sempre più i monasteri. Molti visitatori dei nostri monasteri non sono più i credenti devoti di un tempo in cerca di preghiera e di aiuto spirituale, ma turisti, anche se il popolo fedele accorre anch’esso in gran numero verso i monasteri. Inoltre un buon numero di monaci sono stipendiati dallo stato; hanno posizioni e diritti come ogni stipendiato, compreso il diritto alle ferie! Nei nostri monasteri c’è poi molto lavoro per la costruzione degli edifici e nei campi, poiché i monasteri più an330

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tichi possiedono talvolta grandi superfici agricole e foreste. Così i monaci non hanno più tempo per la vita monastica in sé, per la preghiera personale e gli uffici quotidiani, per la lettura e la formazione spirituale. Un altro vero problema è la penuria di cappellani per i monasteri femminili. Si trova a fatica un monaco presbitero che celebri gli uffici e l’eucaristia in questi monasteri. Spesso per la confessione le monache chiamano ieromonaci più anziani e più esperti dagli antichi monasteri. È una situazione anormale, soprattutto se si pensa che in Romania la confessione precede ogni comunione eucaristica: il che fa sì che questa sia molto rara. Vi è oggi anche una gravissima carenza di padri spirituali in grado di assicurare una vera direzione spirituale. Molti monaci e molte monache sono alla ricerca di un padre spirituale, che si trova a fatica solo in alcuni monasteri come quello di Techirghiol5, di Sâmba˘ta de Sus6, di Petru Voda˘7, di Fra˘sinei8, di Hus¸i9, di Putna10, di Rohia11, di Lazes¸ti12, di Râmet¸13, di Ca˘s¸iel14… Sta nascendo a fatica una nuova generazione di padri spirituali: nel monastero di Pa˘tra˘ut¸i-Bot¸os¸ani15, nel monastero di Parva-Bistrita16, nel monastero di Alba Iulia17, nel monastero di Ca˘mârzani18 e nel monastero di Lainici19. 5 Padre Arsenie Papacioc, di novantaquattro anni, di cui quattordici passati nelle prigioni comuniste. 6 Padre Teofil Pa˘ra˘ian, di ottant’anni, cieco dall’età di tre anni. Cf. I. Balan, Volti e parole dei padri del deserto romeno, pp. 109-145, 189-192. 7 Padre Iustin Pârvu, di novant’anni, di cui una decina nelle prigioni comuniste. 8 I padri Paisie, Ioachim e Ioanichie. 9 Padre Mina Dobzeu, di ottantasette anni, molti dei quali trascorsi in prigione. 10 Padre Adrian Fa˘get¸eanu, di novantaquattro anni, passato anche lui per le prigioni comuniste. 11 Padre Serafim Man, di settantotto anni. 12 Padre Rafael Noica, di sessantotto anni. 13 Padre Filotei, di sessantacinque anni. 14 Padre Serafim Ba˘dila˘, di sessant’anni. 15 Padre Ioan Harpa, di quarant’anni. 16 Padre Paisie, di quarant’anni. 17 Padre Ioan Cojan, di quarantasette anni. 18 Padre Ignatie Suciu, di trentotto anni. 19 Padre Ioachim Pârvulescu, di quarantun anni.

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Menziono anche una madre spirituale, molto nota e amata oggi in Romania: madre Siluana del monastero di Jitianu, vicino a Craiova. Il vescovo vicario di Cluj-Napoca, Vasilj Somes¸anul, di sessant’anni, ha tra i vescovi la reputazione più grande di padre spirituale: riceve la confessione non solo dei vescovi, dei presbiteri e dei monaci ma anche dei fedeli tra cui molti giovani. Il ministero di un padre spirituale è legato soprattutto alla confessione dei peccati, atto sacramentale durante il quale il discepolo apre la sua anima davanti a colui che tiene il posto di Dio per ricevere non solo il perdono dei peccati e la purificazione delle passioni, ma anche consigli nella lotta contro i demoni che agiscono attraverso i pensieri cattivi. Ma l’esercizio della paternità spirituale non si limita certamente all’atto sacramentale della confessione dei peccati. La relazione del figlio con il padre spirituale deve essere costante e può rivestire in ogni momento un carattere sacramentale, in funzione della disposizione interiore dell’uno come dell’altro. Infatti in ogni relazione i due devono avere l’umiltà di Cristo ed essere obbedienti allo stesso Spirito santo per mezzo della preghiera. Padre Sofronio scrive del suo santo starec Silvano: Lo starec dava un’importanza tutta particolare all’obbedienza spirituale verso l’igumeno e al padre spirituale, considerandola dono della grazia, come un mistero sacramentale della chiesa. Quando incontrava il padre spirituale, pregava il Signore di avere misericordia di lui per mezzo della mediazione del suo servo, e di rivelargli la sua volontà e la via che conduce alla salvezza. Egli sapeva che il primo pensiero che con la preghiera nasce nell’anima è un’indicazione che viene data dall’alto perciò egli coglieva la prima parola del proprio padre spirituale, la sua prima allusione, e non prolungava il colloquio. Questa è la sapienza e il segreto della vera obbedienza, il cui scopo sta nel conoscere e nel compiere la volontà di Dio e non quella di un uomo. Una tale obbedienza spirituale, senza alcuna obiezione o resistenza, non soltanto manifestata ma anche interiore, è, 332

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in un modo generale, la condizione sine qua non per recepire la viva tradizione20.

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Più avanti padre Sofronio ci mostra come comportarsi con il proprio padre spirituale: Un discepolo o penitente accorto si comporterà con il padre spirituale nel modo seguente: con poche parole esporrà il suo pensiero e l’essenza del suo stato, dopodiché tacerà. Da parte sua il confessore, che fin dall’inizio dell’incontro si era messo in preghiera, domanda a Dio di essere illuminato dalla grazia; e se percepirà nell’anima sua un’indicazione, darà la risposta sulla quale sarà bene soffermarsi. Poiché se ci si lascia sfuggire la prima parola del padre spirituale, la forza del sacramento si affievolirà e la confessione rischierà di trasformarsi in una semplice discussione umana21.

In Romania oggi la pratica della paternità spirituale si riduce il più delle volte alla confessione dei peccati. Per necessità pratica tutti i presbiteri monaci e tutti i presbiteri di parrocchia sono nel contempo confessori. Non è così in Grecia dove la formazione teologica dei presbiteri è più precaria che in Romania. Padre Cleopa22 raccomanda ai monaci la confessione settimanale e la comunione ogni quaranta giorni. Per i più ferventi, ammette la comunione una volta alla settimana. Bisogna anche dire che l’eucaristia in quasi tutti i monasteri è celebrata ogni giorno, ma il più delle volte senza che ci siano comunioni. In parrocchia i fedeli si confessano abbastanza raramente: da una a quattro volte l’an20 Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos (1866-1938). Vita, dottrina, scritti, Torino 1978, pp. 97-98. 21 Ibid., p. 98. 22 Sulla figura dell’archimandrita Cleopa Ilie, per molti anni guida spirituale del monastero di Siha˘stria, morto nel 1998, cf. I. Balan, Volti e parole dei padri del deserto romeno, pp. 49-77.

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no, cioè nelle grandi quaresime. Molti non si confessano mai. Secondo la tradizione ogni comunione è preceduta non solo dalla confessione ma anche da un digiuno alimentare di almeno tre giorni. La pratica della comunione è dunque rara sia nei monasteri che nelle parrocchie. Da diversi anni alcuni vescovi e presbiteri cercano di incoraggiare una comunione più frequente. L’accento messo sulla confessione dei peccati e molto meno sulla comunione eucaristica è abbastanza specifico del monachesimo romeno. Tutti i nostri grandi spirituali insistono sulla confessione e sulla penitenza per i peccati in quanto essenza stessa della vita spirituale, battesimo delle lacrime o secondo battesimo. I canoni dei concili della chiesa o di alcuni padri, come san Basilio di Cesarea o Giovanni il Digiunatore, sulle epitimie (penitenze) per i peccati sono abbastanza conosciuti ma applicati in modo molto diverso. In generale, i presbiteri monaci sono molto più esigenti dei presbiteri di parrocchia. Ci sono anche degli estremi: per lo stesso peccato grave (l’aborto, per esempio) un presbitero monaco può proibire la comunione eucaristica per sette anni o anche più, mentre un prete di parrocchia dà come epitimia di accendere quaranta candele! I fedeli amano confessarsi nei monasteri, ma spesso sono caricati di epitimie che non possono compiere, come il digiuno totale il mercoledì e il venerdì, l’astinenza coniugale nei giorni di digiuno e nelle lunghe quaresime, numerose metanie, le letture degli acatisti o di altre preghiere… Padre Dumitru Sta˘niloae, morto nel 1993, raccomanda nella sua Dogmatica la moderazione nelle epitimie: è dell’avviso che oggi non bisogna proibire la comunione per più di tre anni ai penitenti che si pentono veramente dei loro peccati. Nella stessa direzione si esprime padre Cleopa: Con chi ha commesso dei peccati mortali e insiste a comunicarsi il più presto possibile, ecco come procedere. Se si confessa con compunzione, con lacrime e con un grande dispiacere per i peccati commessi, il confessore che gli ha proibito la santa co334

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munione per un certo tempo, in conformità con i santi canoni, può procedere per economia nel modo seguente: deve dividere l’epitimia e il numero di anni di penitenza per tre. Affiderà una parte dell’epitimia alla misericordia e all’amore del nostro Dio per gli uomini, poiché nessuno è senza peccato; una seconda parte spetterà al penitente e la terza al confessore stesso, poiché detiene dal suo vescovo il potere di legare e sciogliere secondo l’irremovibile promessa del Signore nostro Gesù Cristo23.

Questo non diminuisce per niente l’importanza della penitenza e dell’ascesi che sono al cuore della spiritualità ortodossa. È impossibile liberarsi del peccato e tanto più di una passione cattiva senza una lotta accanita, i cui mezzi sono proprio la penitenza e l’ascesi nei suoi molteplici aspetti: la preghiera, il digiuno, le genuflessioni, le stazioni in piedi, la moderazione in tutto, l’obbedienza, che per i padri è al di sopra anche della preghiera e del digiuno. Un adagio della tradizione ascetica dice: “Da’ il sangue, ricevi lo Spirito”. Non è pelagianesimo! Infatti, i monaci sono consapevoli che “tutto è grazia”. Ma solo con l’ascesi il nostro essere (corpo, anima e spirito) diviene sensibile e si apre all’azione della grazia. Malgrado l’assenza di padri spirituali esperti, san Silvano dell’Athos ci consiglia di rivolgerci in ogni circostanza a un presbitero, anche se non ha un’esperienza adeguata: Tutte le disavventure ci accadono perché non ci consigliamo presso i padri spirituali, i quali sono stati costituiti per guidarci, e perché i pastori e i padri spirituali non interrogano il Signore su come devono agire … Se il padre spirituale non ha l’esperienza dell’orazione, gli si chiederà comunque il suo con-

23 Id., Convorbiri duhovnicesti, Hus¸i 1984, p. 60. L’opera è stata parzialmente tradotta in italiano in Id., Volti e parole dei padri del deserto romeno.

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siglio e le sue preghiere, e per la tua umiltà il Signore avrà misericordia di noi e ci terrà lontani dalla via dell’errore. Se tu pensi: “Il padre spirituale è inesperto nella preghiera contemplativa e distratto da cose vane” e: “Conviene che io stesso trovi la strada attraverso la lettura dei libri”, allora ti trovi già su una china pericolosa e non lontano dall’errore24.

Vorrei toccare anche, di passaggio, l’atteggiamento nei confronti dell’ecumenismo di alcuni padri spirituali che ho conosciuto. Come si sa, i monaci del Monte Athos sono in generale antiecumenici, poiché vedono nel dialogo ecumenico una sorta di mercanteggiamento della verità confessata dalla chiesa ortodossa. L’influenza del Monte Athos è molto grande in tutti i paesi a maggioranza ortodossa, dove ci sono degli ambienti antiecumenici talvolta molto aggressivi. La Romania non fa eccezione. L’antiecumenismo, come si manifesta oggi, è una forma di fanatismo religioso. Infatti, nella gerarchia ortodossa nessuno ammette il compromesso in materia di fede. Ora, il fanatismo religioso è una negazione della religione stessa. Perciò per me è inimmaginabile un’ortodossia fanatica, militante, rivoluzionaria, benché essa abbia difeso nel corso della storia la verità evangelica a prezzo di innumerevoli sofferenze e martirî. Vorrei vedere, invece, un’ortodossia missionaria, aperta, duttile, capace di testimoniare la propria ricchezza mistica. La nostra epoca non assomiglia più a quella dei regimi della cristianità, quando i cristiani si facevano guerra, benché il proselitismo delle sette e di certe chiese – penso alla chiesa greco-cattolica nei paesi dell’est – sia ancora attivo. Il nostro tempo non è più nemmeno quello dei primi secoli, quando la fede cristiana fu definita dai concili ecumenici ogni volta in un’atmosfera estremamente agitata e la chiesa dovette prendere fermamente le distan-

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Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, pp. 361, 363.

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ze dall’eresia. Oggi ciascuna confessione storica ha la propria teologia e la propria pratica liturgica ben precisate, e i fedeli vi sono attaccati se non con molta consapevolezza, almeno per l’inerzia della tradizione. La chiesa ortodossa ha coscienza di essere la chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”. È la continuazione storica della chiesa indivisa dei primi secoli. Custodisce la pienezza della verità e della vita in Cristo. Di conseguenza, il suo ruolo nel dialogo ecumenico è proprio quello di testimoniare questa pienezza. Ma non in modo puramente teorico, intellettuale, poiché allora la verità diviene un idolo. Il che purtroppo spesso avviene nel dialogo con gli altri. E non solo da parte ortodossa! Infatti, ciascuno è attaccato alla propria tradizione, spesso in modo passionale. Ora, la vita in Cristo trascende ogni concettualizzazione, ogni formulazione… Perciò abbiamo bisogno di un ecumenismo spirituale, il solo che può davvero riavvicinare i cristiani. La libertà in Cristo, propria degli spirituali, li rende anche capaci di non assolutizzare niente, senza però relativizzare; di vedere l’essenziale e di non trasformare tutto in dogma; di distinguere tra la verità rivelata e le diverse pratiche, riti o tradizioni che non sono immutabili e, soprattutto, di non strumentalizzare la verità, di non trasformarla cioè in arma contro gli altri. La libertà in Cristo, propria degli spirituali, li rende anche capaci di vedere i frutti dell’azione dello Spirito santo ovunque Cristo è accostato con fede e sincerità. Infatti, in tutte le confessioni ci sono dei fedeli sinceri che amano Cristo e il prossimo e fanno tutto per la loro salvezza. La libertà in Cristo ci dà soprattutto uno spirito di autocritica. L’ortodossia deve essere capace di autocritica non riguardo alla verità della sua fede, ma riguardo ai peccati storici dei suoi membri: il ripiegamento su di sé e la sua fuga dal mondo, la pietrificazione delle lingue liturgiche e il formalismo religioso, l’assenza di spirito missionario, il filetismo religioso e le interminabili liti di giurisdizione, la mancanza di spirito conciliare e di unità a livello panortodosso… 337

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Serafim Joanta˘

Credo fermamente che i padri spirituali che conosco e che si sono espressi contro l’ecumenismo, l’hanno fatto perché il dialogo ecumenico è stato loro presentato come relativizzazione della fede ortodossa o come compromesso con la verità. Il che non è assolutamente il caso. È vero, tuttavia, che in alcune chiese con cui gli ortodossi sono in dialogo, ci sono degli sbandamenti in materia di morale evangelica che vanno criticati con fermezza ma anche con amore. Gli ortodossi esecitano questa critica nella carità, anche se non sempre la loro voce è ascoltata. Inoltre, tutti questi padri soffrono per i peccati del mondo intero, tra i quali vi è anche la divisione dei cristiani, e pregano per l’unione di tutti.

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CONCLUSIONI

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Michel Van Parys*

Il nostro XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa è stato dedicato alla Paternità spirituale. Siamo tutti profondamente riconoscenti alla Comunità monastica di Bose per l’interesse e l’abnegazione con la quale organizza questi convegni annuali che si svolgono con la benedizione paterna del patriarca ecumenico Bartolomeo I e del patriarca di Mosca Alessio II, e che sono un autentico dono d’amicizia alle chiese d’occidente, oltre che luogo di scambi ed esperienze spirituali per le chiese ortodosse. Il Convegno di quest’anno si è svolto, per così dire, “ai piedi” di un padre spirituale del nostro tempo, il metropolita Emilianos di Silyvria (1916-2008), che si è addormentato nel Signore alcuni mesi fa. Era un uomo retro et ante oculatus, che considerava con attenzione la tradizione della parola di Dio e dei padri della chiesa e, nello stesso tempo, come profeta-sentinella, scrutava l’evoluzione della chiesa e del mondo d’oggi. La testimonianza di monsignor Athenagoras di Sinope lo ha reso presente tra di noi. Certamente è stato un bene che le nostre discussioni abbiano ri-

* Le conclusioni sono state lette da Michel Van Parys a nome del comitato scientifico del Convegno, composto da: Enzo Bianchi, Lino Breda, Sabino Chialà, Giorgio Cracco, Nina Kauchtschischwili, Hervé Legrand, Adalberto Mainardi, Antonio Rigo, Roberto Salizzoni, Michel Van Parys.

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Conclusioni

flettuto la sua preoccupazione di radicamento e di discernimento lungimirante. Il tema della paternità spirituale è troppo vasto perché lo si possa trattare adeguatamente nell’ambito di un solo convegno: abbiamo potuto presentare soltanto poche grandi figure di padri e madri spirituali, del passato più lontano e di quello recente. Inoltre, abbiamo dovuto limitarci ad alcune chiese ortodosse: abbiamo così potuto incontrare grandi figure spirituali dell’ortodossia bizantina, greca, russa, serba, romena e georgiana. Ma sarebbe stato bello poter presentare anche i padri e le madri spirituali dell’ortodossia bulgara, araba, albanese… Va osservato, tuttavia, che i convegni precedenti hanno già evocato un gran numero di queste figure spirituali1.

La paternità spirituale come obbedienza alla parola di Dio

Come Gesù, anche il padre spirituale insegna con la sua vita e la sua dottrina (bíos kaì didaskalía; práxis e lógos). Padre e figlio spirituale vivono insieme nell’obbedienza alla parola di Dio che li interpella nelle sante Scritture.

1 Si potrebbe dire che il tema della paternità spirituale ha costituito un filo rosso attraverso l’intero percorso tracciato dai Convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa. Segnaliamo qui in particolare i contributi di: A. Piovano, “La paternità spirituale nell’antico monachesimo russo (secoli xi-xv)”, in Nil Sorskij e l’esicasmo. Atti del II Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 21-24 settembre 1994, a cura di A. Mainardi, Bose 1995, pp. 171-203; E. Citterio, “La dottrina spirituale dello starec Paisij. Radiografia di una comunità”, in Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Bose 1997, pp. 55-82; A. Piovano, “Sarov prima di Serafim. La tradizione dello star™estvo”, in San Serafim: da Sarov a Diveevo. Atti del IV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 18-21 settembre 1996, a cura di A. Mainardi, Bose 1998, pp. 61-98; S. Senyk, “L’altro monachesimo: san Serafim e la comunità di Diveevo”, ibid., pp. 99-125; Ead., “Il monachesimo secondo Taisija di Leu∫ino”, in La Grande Vigilia. Atti del V Convegno ecumeni-

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Conclusioni

La Bibbia ci presenta modelli di paternità e filialità spirituale: Mosè e Giosuè, Elia ed Eliseo, Gesù e i suoi discepoli, Paolo e i suoi discepoli. La vita comune condivisa ne è una dimensione determinante. Dove Cristo Gesù è al centro di una comunione vissuta, là lo Spirito santo trasforma il battezzato in modo crescente conformandolo al Cristo crocifisso e glorificato. A più riprese abbiamo avuto occasione di sentire come la tradizione viva della paternità spirituale abbia giocato un ruolo provvidenziale durante la turcocrazia e il periodo delle persecuzioni comuniste nelle chiese ortodosse. La parola di Dio ascoltata insieme nelle sante Scritture feconda la relazione tra padre e figlio spirituale (cf. Giovanni Crisostomo e Olimpia). Nil Sorskij ricorda che in tempo di crisi e di povertà spirituale bisogna cercare le risposte nelle Scritture, leggerle e meditarle continuamente, interpretarle con l’aiuto dei padri. Amvrosij di Optina, Ignatij Brjan™aninov e Teofane il Recluso, nella Russia del xix secolo, raccomandano lo stesso approccio. L’ascolto della parola di Dio e dei padri richiede inoltre uno sforzo d’intelligenza: bisogna tradurre, pubblicare, studiare e

co internazionale di spiritualità russa, Bose, 17-20 settembre 1997, a cura di A. Mainardi, Bose 1998, pp. 121-150; Ead., “Monachesimo e società nella Russia moderna. L’accompagnamento spirituale”, in Vie del monachesimo russo. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 20-22 settembre 2001, a cura di A. Mainardi, Bose 2001, pp. 223-245; Meletios di Nikopolis, “Discernimento e vita monastica in sant’Ignatij Brjan™aninov”, ibid., pp. 21-32; S. Senyk, “Un ministero monastico: la paternità spirituale a Optina”, in Optina pustyn’ e la paternità spirituale. Atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 19-21 settembre 2002, a cura di A. Mainardi, Bose 2003, pp. 135-156; A. Lambrechts, “L’insegnamento spirituale nelle lettere dello starec Makarij”, ibid., pp. 115-124; A. Louf, “La paternità spirituale nel monachesimo d’occidente oggi”, ibid., pp. 157-185; S. S. ChoruΔij, “I fondamenti spirituali e antropologici dello star™estvo russo”, ibid., pp. 187-210; I. Alfeev, “Simeone Studita e Simeone il Nuovo Teologo”, in Simeone il Nuovo Teologo. Atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 15-17 settembre 2002, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2003, pp. 45-102; H. J. M. Turner, “La paternità spirituale in Simeone il Nuovo Teologo”, ibid., pp. 199-223; A. Louf, “Barsanufio e Giovanni: un accompagnamento spirituale ‘concertato’”, in Il deserto di Gaza. Atti dell’XI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 14-16 settembre 2003, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2004, pp. 179-204.

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Conclusioni

commentare. È la grande lezione di Nicodemo l’Aghiorita e degli starcy di Optina. Ciò ha permesso a intellettuali, scrittori e artisti di trovare o ritrovare la fede in Cristo. Eventualmente ci si può chiedere se il nostro Convegno non avrebbe dovuto studiare più da vicino qualche esempio di attualizzazione della tradizione in contesti spirituali e intellettuali precisi, per trarne lezione per noi oggi. Un solo esempio: i padri del deserto, nel iv e nel v secolo, non erano unicamente dei fellah egiziani senza cultura. Alcuni, preoccupati di fare discernimento e con il desiderio di chiarire le regole della lotta spirituale, non hanno esitato a riproporre le tecniche d’analisi della vita psichica dei filosofi pagani (considerati come maestri di sapienza). Hanno preso in prestito alcune tecniche di direzione spirituale da quelle che attualmente chiamiamo le “scienze umane”. Che cosa possiamo fare noi oggi in quest’ambito senza tradire l’unicità della rivelazione cristiana?

Il ministero del padre spirituale

Il discernimento è il cuore del carisma della paternità spirituale. L’apertura del cuore (exagóreusis), cioè la confessione dei pensieri (loghismoí, cogitationes), è il cammino del discernimento. La pratica cristiana frequente, se non quotidiana, dell’exagóreusis porta il discepolo a una lucida conoscenza di sé e all’autentica umiltà. Abbiamo potuto ascoltare quanta importanza accordi al discernimento ancor oggi – diciassette secoli dopo Antonio il Grande (come trasmesso da Cassiano) – un padre spirituale contemporaneo, il patriarca Pavle di Belgrado. Il ministero del padre spirituale è sotto il segno della croce. Benedetto e Giovanni Climaco ci hanno ricordato che il padre spirituale deve donare la vita (deporre la propria anima) per i suoi 342

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Conclusioni

figli spirituali. È invitato a portare il peso dei loro peccati (oltre a quello dei propri), a curare le malattie e le passioni dell’anima. Si farà tutto a tutti, ai semplici come agli intelligenti. Correggerà e riprenderà gli errori e i vizi, sempre amando i suoi figli spirituali. Forse abbiamo parlato troppo poco della responsabilità dei figli spirituali. Si osservi tuttavia che essi devono mostrarsi onesti e trasparenti, imitare l’obbedienza di Gesù al Padre. Sono invitati a pregare affinché lo Spirito santo metta nel cuore del padre spirituale le parole utili alla loro salvezza. Il dovere di coscienza (sovest’, syneídesis; cf. Isaia di Scete) è stato evocato più volte: si tratta di un aspetto della libertà dei figli di Dio, presente anche nella relazione spirituale, che sarebbe da approfondire.

Una tradizione unica con infinite sfaccettature diverse

La paternità spirituale è una tradizione che annovera in sé molti volti. Elenchiamone alcuni: – la tradizione dei padri del deserto, che hanno uno o più discepoli; e poi quella di Giovanni Climaco, che a sua volta si diversifica poiché la Scala presenta come luogo dell’umile obbedienza il cenobio2; – la tradizione cenobitica: Benedetto e Teodoro Studita, che sono padri della loro comunità in quanto tale e nel contempo di ciascun monaco; – la tradizione di direzione spirituale dei laici, rappresentata da Nilo l’Asceta, Isidoro di Pelusio, Benedetto... – la tradizione dei preti sposati, padri spirituali: Ioann di Kronstadt, Aleksij Me™ev… dove si vede emergere l’immagine del “mo-

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Cf. Giovanni Climaco, La scala IV, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, pp. 117-164.

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Conclusioni

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nastero nel mondo” (che probabilmente ha ispirato padre Paul Couturier e la sua idea di “monastero invisibile” in vista della preghiera per l’unità dei cristiani); – bisogna avere uno o più padri spirituali? Spesso gli incontri provvidenziali sono visite di Dio che mettono sul cammino che conduce al Padre, come si vede ad esempio negli Apoftegmi (dove si incontra la figura di un bambino o la prassi della consultazione di più padri).

Sacramenti e paternità spirituale

Una questione fondamentale posta nel corso di questo Convegno è quella del legame tra i sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, cresima, eucaristia), come anche il sacramento della confessione, e la paternità spirituale. La paternità spirituale, “in Spirito”, del vescovo e del prete in quanto mistagoghi deve supportare e fare da contesto al carisma della paternità spirituale. Questo rapporto, potenzialmente conflittuale, spesso ha trovato un equilibrio nel corso della storia della chiesa attraverso l’identificazione della direzione spirituale con la confessione sacramentale. Nicodemo l’Aghiorita, in un tempo di crisi pastorale, ne è un esempio. Non è avvenuto diversamente nell’occidente latino. Questa confusione, se di confusione si tratta, è già presente nella prima esposizione un po’ sistematica sul sacerdozio giunta in nostro possesso. Gregorio il Teologo, nella sua Dodicesima orazione (nel 362), tratteggiando il ritratto del prete ideale, delinea di fatto il ritratto del padre spirituale, e accenna a mala pena agli aspetti liturgici del ministero sacerdotale3. Venticinque anni dopo, 3 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 12, in Id., Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 320-327.

344

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Conclusioni

Giovanni Crisostomo nel suo trattato Il sacerdozio imboccherà ancora in gran parte la stessa via4. Forse non bisogna separare nettamente i due carismi, ma accettare l’opera che lo Spirito santo compie in entrambi. Ma ciò non fa che riproporre la questione di quale sia il posto della paternità spirituale in seno alla koinonia ecclesiale. Qualcuno ha attirato l’attenzione sul pericolo di individualizzazione (atomizzazione) che può comportare un rapporto padre-figlio spirituale a detrimento della comunione ecclesiale. Probabilmente a questo bisogna accostare una certa ambiguità nella ricezione da parte del popolo di Dio dei carismi della paternità spirituale. Dostoevskij ne presenta un bell’esempio romanzato nei Fratelli Karamazov, con le figure antitetiche dello starec Zosima e dello starec Ferapont.

La formazione spirituale

Ci si è chiesti come rimediare alla crisi della formazione spirituale. La testimonianza delle monache russe e georgiane – sovente donne semplici e segnate dalla debolezza – ci ha insegnato che lo Spirito santo trasmette la fede e la tradizione attraverso ciò che è fragile e disprezzato agli occhi dei potenti di questo mondo. Esse amavano, provavano compassione, si mostravano infinitamente pazienti nel portare la croce. Madre Gavriila ci ha ricordato anche che la vita monastica non si esaurisce nella preghiera liturgica, la regola della cella e l’ascesi. Il compito dei padri e delle madri spirituali è quello di iniziare all’ascesi interiore, di aprire un cammino di preghiera continua

4

Cf. Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, a cura di A. Quacquarelli, Roma 1980.

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Conclusioni

e di carità. Bisognerà aggiungere a ciò la formazione alla lettura delle Scritture e dei padri, che già abbiamo menzionato.

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I pericoli della paternità spirituale

Fin da Giovanni Cassiano e Nilo l’Asceta, i padri hanno messo in guardia da coloro che si autoproclamano o che si improvvisano padri spirituali. Il patriarca Alessio II e monsignor Savvatij hanno riaffermato l’attualità di questi avvertimenti (mladostar™estvo). Il padre spirituale è a sua volta in cammino verso la guarigione, un malato che il Cristo medico guarisce attraverso lo Spirito santo. Egli deve portare e assumere i propri limiti e le proprie miserie. Non è che uno strumento di cui la Parola viva vuole servirsi. Fin dove giunge l’autorità dei padri spirituali sulle coscienze dei loro figli spirituali, nella chiesa? Che dire di quei padri spirituali che si arrogano un magistero antiecumenico e apocalittico? La venerazione che circonda certi padri spirituali non sconfina forse nel culto della personalità, nel settarismo?

Crisi della paternità?

Dobbiamo chiederci se non stiamo per caso vivendo in una società, in una cultura moderna (o postmoderna) in preda a una crisi dell’autorità, e in particolare dell’autorità paterna. Se sì, in che modo questa crisi tocca la pratica della paternità spirituale? Quali insegnamenti la paternità naturale può dare alla paternità spirituale? E per la paternità naturale non potrebbe essere occasio346

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Conclusioni

ne di rinnovamento il riflettere sul modello, o sui modelli, della paternità spirituale e, al di là di questa, della sua fonte, la paternità di Dio Padre? Il padre: colui che si spossessa, si svuota di tutto per i propri figli; è il padre kenotico, l’umile amore. Si pensi al padre nella parabola del figlio prodigo: perdona il figlio minore, ma rispetta la sua libertà; pazienta, ama, ha già perdonato. Perderà anche il figlio maggiore? Quest’ultimo accetterà di rientrare in casa? Gesù nella parabola lascia aperta la domanda. Sta a noi rispondere oggi… Concludiamo con un tratto del padre spirituale contemporaneo, messo in luce da una conferenza di questi giorni: uomo di elevata spiritualità e di grande calore umano5.

5

Cf. supra, p. 327.

347

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SIGLE

BHG

Bibliotheca hagiographica graeca I-III, a cura di F. Halkin, Bruxelles 19573 (Subsidia Hagiographica 8a); Novum auctarium bibliothecae hagiographicae graecae, a cura di F. Halkin, Bruxelles 1984 (Subsidia Hagiographica 65).

CCSG

Corpus christianorum. Series graeca, Brepols, Turnhout 1977 ss.

CSCO

Corpus scriptorum christianorum orientalium, Secrétariat du CorpusSCO, Louvain 1903 ss.

PG

Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Paris-Turnhout 1857-1866.

PL

Patrologiae cursus completus. Series latina, a cura di J.-P. Migne, Paris-Turnhout 1844-1864.

RNB

Rossijskaja nacional’naja biblioteka, San Pietroburgo.

SC

Sources chrétiennes, Cerf, Paris 1942 ss. *

GPU

Gosudarstvennoe politi™eskoe upravlenie.

349

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INDICE DEI NOMI

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Non sono segnalati i nomi dei santi dedicatari di chiese e di monasteri. In corsivo i numeri di pagina dove il nome ricorre solo in nota.

Abele, personaggio biblico 312

Amvrosij di Optina 14, 203, 278, 341

Abramo, personaggio biblico 22, 93

Amvrosios, metropolita di Kalavrita 50

Adamo, personaggio biblico 111, 323

Anania, personaggio biblico 20, 39

Adeodato, abba 119

Anastasio Sinaita 20

Afanasij (Sacharov) 261, 292

Anatolij di Optina 14

Afanasij (Zacharov), starec 204

Andrea, discepolo di Barsanufio 106

Agatone, abba 104

Anfilochio di Iconio 82, 86

Agostino di Ippona 122, 133, 193

Anna, monaca 164

Aleksij, giusto 278

Anna, personaggio biblico 32

Aleksij, recluso dello skit di Zosima 249

Anna, sommo sacerdote 270

Aleksij II, patriarca di Mosca 7, 15, 339, 346

Antonij (Chrapovickij) 267, 271, 282, 302

Aleksij (Gromadskij) 239 Aleksij Me™ev 14, 343 Alessio Studita, patriarca di Costantinopoli 151

Antonio III Studita, patriarca di Costantinopoli 164-167 Antonio il Grande 13, 35, 99-101, 118, 128, 171, 210, 342 Arendt H. 59

Alfeev I. 155, 341

Arjakovsky A. 288

Alivizatos A. 192

Aronne, personaggio biblico 65

Ambrogio di Milano 199

Arseniev N. 187

Amfiteatrov V. 14, 261, 278

Arsenij (æadanovskij) 250-251, 257

Ammonio, abba 104

Arsenija (Serebrjakova) 230, 236-237

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Indice dei nomi Arsenio, abba 107

Bertone T. 7

Artioli M. B. 29, 101

Bessarione, abba 110

Atanasio di Alessandria 72-73, 79, 120, 171

Bianchi E. 11, 13, 17, 24-25, 27, 33, 34, 45, 52, 118

Atanasio di Paro 187

Bloy L. 297

Atanasio l’Athonita 164, 169, 170

Borella J. 288, 289

Aubé-Elie C. 48, 53, 56

Boris, santo 293

Augoustidis A. 191

Bouflet J. 301

Auvray E. 153

Brito E. 287

Azzali Bernardelli G. 80

Brjan™aninov I., v. Ignatij (Brjan™aninov)

Ba˘dila˘ S. 331

Bucharev A. 295, 299

Badiou A. 286-288, 291, 298

Bulgakov S. 289, 298, 301

Balan I. 327, 329, 331, 333

Bunge G. 187

Balatsoukas S. 195

Caifa, sommo sacerdote 269, 270

Barnaba, personaggio biblico 39

Caino, personaggio biblico 312

Barsanufio di Gaza 13, 102, 103, 104, 106, 118, 171

Calati B. 119

Bartelink J. M. 112 Barthes R. 288 Bartholomeos I, patriarca di Costantinopoli 7, 339

Callegari R. 61 Callisto Xanthopoulos 102 Cattaneo E. 79 Cavalletti S. 35

Bartsurmanskij A. 261

Certeau M. de 288

Basilio di Cesarea 8, 59-88, 104, 107, 108, 119, 122, 133, 139, 150-151, 193, 201, 334

Chialà S. 140, 167, 188, 190, 341

Basilio di Poiana Ma˘rului 181

ChoruΔij S. S. 341

Basilio il Grande, v. Basilio di Cesarea

Christophoridis V. 109

Beavis M. A. 287

Christos P. K. 64, 67, 69-70, 72-74, 77, 80, 82, 83, 86

Benedetto XVI, papa 7, 289

Cholij R. 147, 149, 153, 155

Chrysostomou G. 184, 188

Benedetto di Norcia 8, 118-126, 128-132, 134-137, 326, 342-343

Ωi™agov S. 231

Berdjaev N. A. 295-297, 301, 306

Cirillo di Gerusalemme 31

Bernardo di Clairvaux 119

Citterio E. 184, 340

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Indice dei nomi Clément O. 288, 329

Dionigi l’Areopagita 113

Cleopa (Ilie) 333, 334

Dionysiatis T. 183

Coco L. 253

Dmitrievskij A. 150

Cojan I. 331

Dobzeu M. 331

Combefis F. 156

Domenico di Guzman 117

Constable G. 170

Domnina, moglie di Valente 77

Conticello C. G. 184

Doroteo di Gaza 13, 99, 103, 118, 210, 295

Conticello V. 184

Dörries H. 80

Costa I. 60

Dostoevskij F. M. 14, 297, 306, 345

Courtonne Y. 72, 108, 201

Durwell R.-X. 289, 297, 298, 300

Couturier P. 344

Eldad, personaggio biblico 32

Cozza-Luzi J. 153

Eleazar di Anzer 181

Cremaschi L. 29, 69, 81, 91, 99, 108, 110, 121, 140, 167-168, 171, 188, 193, 195, 341

Eli, personaggio biblico 30, 32-34, 124

Crimi C. 60

Eliseo, profeta 34-36, 341

Criscuolo R. 63

Elizaveta Fedorovna 244, 249

D’Ayala Valva L. 99, 140, 153, 167, 343

Elladio di Cesarea 82, 86

Damaso, papa 73

Emilianos di Filadelfia 47

Daniel, patriarca di Romania 18

Epifanio di Cipro 62

Daniele, personaggio biblico 34

Eufrosina, igumena 163

Danieli M. I. 31, 38

Eusebio di Cesarea 67

Dantec M. 286, 301, 305-306

Eusebio di Samosata 72

Dattrino L. 30, 39, 128

Euvé F. 289

David, personaggio biblico 65, 228

Eva, personaggio biblico 323

Delehaye H. 169

Evagrio Pontico 113

Delouis O. 150, 151, 165, 170, 171

Evdokimov P. 288, 295, 302

Deseille P. 195, 326

Fa˘get¸eanu A. 331

Desprez V. 150

Falchini C. 33, 118

Diadoco di Fotica 108, 110, 111

Fatouros G. 153

Dimitrij di Rostov 210

Ferry J.-M. 287, 288

Elia, profeta 34-36, 65, 93, 341

353

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Indice dei nomi Filaret (Drozdov), metropolita di Mosca 264, 293

Giovanni Cassiano 21, 30, 39, 100-102, 105, 119, 128, 133, 210, 215, 342, 346

Filotei di Ramet 331

Giovanni Climaco 8, 13, 95, 99, 102, 103, 104, 108-109, 139-145, 208, 210, 220, 342-343

Florenskij P. A. 293, 297

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Florenskij P. V. 293 Flusin B. 140

Giovanni Crisostomo 8, 38, 60, 89-94, 113, 139, 341, 345

Fomin S. 247

Giovanni della Croce 117

Francesco di Assisi 117

Giovanni di Gaza 102, 118, 171

Francesco di Sales 212

Giovanni Gualberto 119

Freedman H. 34

Giovanni il Digiunatore 184, 186, 196-197, 334

Friedrich G. 191 Galitis G. 96 Gallay P. 60 Gallico A. 77 García Martínez F. 40 Gavriil di Makariopolis 238 Gavriila (Gluchova) 345 Gavriila (Risickaja) 230, 237 Geliano, retore pagano 77 Gerasimo Mikraghiannanitis 184

Giovanni il Nano, abba 103 Giovanni Sinaita 140 Gippius A. 295 Girolamo 42 Gisana R. 39 Giuliano, imperatore 69 Giuseppe, personaggio biblico 30, 65 Gleb, santo 293 Goldschmidt L. 34 Gor’kij M. 244, 245

Germano, vescovo di Capua 137

Govorov F., v. Teofane il Recluso

Ghermanos Strinopoulos, metropolita 48

Gregorio, igumeno 157

Giacobbe, personaggio biblico 124 Giacomo, apostolo 306

Gregorio di Nazianzo 59, 63-65, 67-68, 70-74, 77, 79, 80, 81-88, 344

Gianantoni L. 39

Gregorio di Neocesarea 77-78

Giobbe, personaggio biblico 93

Gregorio di Nissa 60, 63-66, 69-70, 82

Giorgio, fratello di Giovanni Climaco 140

Gregorio il Teologo, v. Gregorio di Nazianzo

Giosuè, personaggio biblico 31-32, 341 Giovanni, apostolo 37, 306

Gregorio Magno 118-121, 134, 135, 136, 137, 326

Giovanni Battista 37-38, 65, 132, 270

Gregorio Palamas 95, 110, 111, 113

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Indice dei nomi Gregorio Sinaita 104, 176, 208

Isacco di Dalmazia 239

Grolimund V. 181, 188

Isacco di Ninive 175, 210, 213, 220

Guinot N. 38

Isaia, profeta 20, 38

Guitton J. 301

Isaia di Gaza 102, 343

Gutierrez P. 39

Isidoro di Pelusio 343

Hamant Y. 293

Isidoro di Scete, abba 106

Harpa I. 331

Iulianija (Sokolova) 291, 294, 295, 299

Halleux A. de 300

Jeanlin F. 300

Hausherr I. 148, 155, 159, 163, 187

Jenni E. 34

Hernando J. 55

Kalliakmanis V. 62, 79, 191, 197

Hero A. C. 170

Kant I. 297, 298

Ieronymos, arcivescovo di Atene 19

Karaisaridis K. 195

Ignatij (Brjan™aninov) 8, 201, 203-204, 206-224, 227, 241, 341

Karekin II, catholicos di tutti gli armeni 23

Ignazio di Antiochia 190 Ignazio di Loyola 117 Ignazio Xanthopoulos 102 Il’in I. A. 228 Ilie C., v. Cleopa (Ilie) Innokentij (Prosvirnin) 244 Innokentij di Komel’ 173-174, 176, 178, 180, 181 Ioachim di Fra˘sinei 331 Ioakim di Derka 47 Ioanichie di Fra˘sinei 331 Ioann di Kronstadt 14, 246, 248, 250, 253, 255-256, 261, 273, 278, 293, 343

Karmiris I. 186 Kasper W. 8 Kavadas A. 48 Kazakova N. A. 177 Kittel G. 191 Kobia S. 26 Koll K. 168 Kontoghiannis P. 53 Korin P. D. 244-245 Kosov G. 278 Koukouzis I. 53 Koutsas S. 62, 69, 115, 191 Kraghiopoulos S. 196

Ioas, personaggio biblico 36

Kristeva J. 285

Iona di Odessa 261

Lambrechts A. 287, 341

Iosif di Optina 278

Lampe G. 188

Iosif di Volokolamsk 177

Larchet J.-Cl. 285

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Indice dei nomi Lazaridis E. 47

Mantzaridis G. 192-193

Le Guillot M. J. 287, 290

Marco l’Asceta 13

Le Lay P. 288

MardΔani∫vili F. 243-259

Lefort Th. 34

MardΔani∫vili K. 246, 258

Lenhardt P. 42

Maria, madre di Gesù 322

Lenoir F. 286

Maria Egiziaca 231

Leone di Nauplia 171

Marija di Diveevo 230-231, 234

Leroy J. 148, 152, 160, 165

Marija (Dochtorova) 230, 236-238

Lewis C. S. 299

Marija (Skobcova) 295

Libanio 64

Marion J. L. 289

Lilla S. 85

Marmion C. 119

Lin Biao 287

Martini C. M. 33

Ljubov’ di Susanino 230, 235-236

Martino di Lérins 326

Longino, abba 103

Martirio, abba 140

Lossky V. 187 Louf A. 121, 187, 341 Lovato M. F. 29, 101-102, 171 Luciano, monaco 155 Lungin P. 291 Lutero M. 294 Macario di Corinto 187, 195 Macario l’Egiziano 110-113, 121, 210 Mai A. 150 Mainardi A. 173, 181, 187, 340-341 Makarij di Optina 13, 201, 203-204, 206-210, 217, 221, 223

Martzelos G. D. 78 Massimo il Confessore 113 Matoes, abba 100 Matrona di Mosca 230, 232-234 Matteo, apostolo 38 Mauro, monaco 136 Me™ev A., v. Aleksij Me™ev Me™ev A. 261, 294 Me™ev S., v. Sergij Me™ev Me™eva Aleksandra 294 Me™eva Anna 294

Makarija (Artem’eva) 231, 234

Medad, personaggio biblico 32

Malingrey A.-M. 91

Meletios di Nikopolis 341

Mamonov P. 291

Melezio di Antiochia 72-73

Man S. 331

Mello A. 32

Manefa di Gomel’ 231

Men’ A. 292-293

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Indice dei nomi Metallinos G. 185-186, 195

Nicola Cabasilas 113

Metzger M. 61

Nicolescu B. 289

Meyendorff J. 281

Nicone della Montagna Nera 119, 170

Meyer Ph. 170

Nikolaj (Ωufarovskij) 201

Michailidis M. 193

Nikolaj (Kutepov) 243, 253

Milbank J. 289, 301, 305

Nikon di Optina 14

Modesto, prefetto romano 74

Nil Sorskij 8, 139, 173-181, 210, 341

Mol™anova A. P. 29

Nilo l’Asceta 343, 346

Mongin O. 287

Ninò, santa 249

Montleau F. de 152

Noica R. 331

Moreschini C. 43, 60, 344

Noret J. 170

Mortari L. 35, 98, 102, 171

Olaru P., v. Paisie di Sihla

Mosè, abba 100

Olimpia, diaconessa 89-93, 341

Mosè, personaggio biblico 20, 31-32, 65-66, 93, 298, 341

Onesimo, personaggio biblico 40

Müller-Schwefe H.-R. 59

Or, abba 99

Onfray M. 287, 302, 303

Murdoch I. 304

Origene 31, 38, 41, 43, 82, 113

Naucrazio, igumeno 150, 155

Orlov A. 233

Nazour M. 300

Osea, profeta 31

Nektarij di Optina 14

Otreio di Mitiliene 86

Neri U. 104, 167

Ottimo di Antiochia 86

Nesterov M. V. 244

Pacomio 34, 150

Neuner P. 294

Paisie di Fra˘sinei 331

Neyrand L. 61

Paisie di Parva-Bistrita 331

Niceforo I, patriarca di Costantinopoli 147

Paisie di Sihla 327, 329

Niceforo di Chio 187

Paisij Veli™kovskij 21, 181, 202, 204, 211

Niceforo il Mistico 171

Palamone, abba 34

Niceta Stethatos 30

Palladio 112

Nicodemo l’Aghiorita 8, 140, 183-199, 342, 344

Panagopoulos I. 96, 188

Nicola II, imperatore di Russia 232

Paolo, apostolo 24-25, 27, 39-43, 65, 69, 92, 94, 110, 116, 222, 312-313, 341

357

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Indice dei nomi Paolo Everghetinos 119

Pompeiano, abate 136

Papacioc A. 331

Popovic´ I. 113

Papone P. 37

Pratsch T. 147

Pa˘ra˘ian T. 331

Prochorov G. M. 173-174, 181

Paramelle J. 61

Prokopovi™ F. 283

Paraskeva di Diveevo 230-231

Pseudo-Basilio di Cesarea 162

Pârvu I. 331

Pseudo-Giovanni Crisostomo 61

Pârvulescu I. 331

Pseudo-Macario, v. Macario l’Egiziano

Patrikeev V. 177

Quacquarelli A. 345

Pavle, patriarca di Serbia 309-324, 342

Quell G. 191

Peckstadt A. 339

Ramphos S. 115

Pelagija di Rjazan’ 230, 233-234

Rapp E. 296

Pentkovskij A. M. 151

Renault A. 59

Perrella E. 110

Riggi C. 31

Phanaras V. 191 Philippe G. 287, 288 Pietro Damasceno 108, 109, 210 Pietro, apostolo 31, 65, 258

Ritter A. M. 81, 86 Robin M. 301 Romaios A. 194 Romano, monaco 119

Pietro il Grande, imperatore di Russia 245, 248, 283

Romualdo 119

Piovano A. 340

Rougemont D. de 294

Pisto, abba 98

Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury 286, 301, 304, 306

Pitiroun, abba 98 Pla˘ma˘deala˘ A. 329

Rublev A. 289 Rupy∫ev P. 261-283

Platone, igumeno di Sakkudion 157, 160, 168

Sacharov A., v. Afanasij (Sacharov)

Podol’nyj G. 179

Saffira, personaggio biblico 20

Podolak P. 43

Saillard M. 41

Podskalsky G. 184, 185

Salmona B. 63

Poimen, abba 35, 98, 100, 107, 112, 215

Salomone, personaggio biblico 65

Poirot É. 34

Samuele, monaco 62

358

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Indice dei nomi Samuele, personaggio biblico 30, 32-34, 65 Savvatij di Ωeboksary 346 Schrenk G. 191 Scolastica, sorella di Benedetto 135 Scrima A. 187 Senyk S. 340-341

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Serafim di Sarov 13, 231-232, 243, 249-250, 256, 293, 300, 327

Smirnov S. 282 Sofronio 332-333, 336 Sokolova M. N., v. Iulianija (Sokolova) Solov’ev V. S. 14 Somes¸anul V. 332 √pidlík T. 148 Srebrjanskij M., v. Sergij (Srebrjanskij) Sta˘niloae D. 334

Serafim di Vyrica 235

Stavropoulos A. 194

Serafim Joanta˘ 9

Stiegler B. 286, 304, 305, 306

Serafim Man 331

Strinopoulos G. 47

Serafima (Osorgina) 254

Suciu I. 331

Seregin P. 261

Sutton J. 304

Sergij (Srebrjanskij) 261

Taisija, igumena 253

Sergij (Stragorodskij), patriarca di Mosca 279-280, 302

Talassio, abba 102

Sergio di RadoneΔ 293 Sergij Me™ev 261 Servando, abate 135 Siluana di Jitianu 332 Silvano del Monte Athos 335 Simeone il Nuovo Teologo 61, 109, 113, 161, 164, 166-169, 176, 227 Simeone il Pio, v. Simeone Studita Simeone Studita 164, 166-169, 172 Simonetti M. 86 Simonopetritis I. 188 Sirmond J. 150 Sisoes, abba 35

Tanja 255 Teodoreto di Cirro 38, 77 Teodoro Studita 147-172, 210, 343 Teodosio I, imperatore d’oriente 86, 107 Teofane il Recluso 8, 201, 203-205, 208, 210, 212-213, 216, 218-219, 221- 222, 253, 341 Teoprobo, amico di Benedetto 135 Teresa d’Avila 117 Tertulliano 7, 43 Tessore D. 189 Thermos V. 189 Thomas J. P. 170

Skobcova M., v. Marija (Skobcova)

Tichon, patriarca di Mosca 244, 245, 250, 294

Skouteris K. V. 79, 81

Tichon di Zadonsk 210, 293, 295, 297

359

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Indice dei nomi Timiadis E. 5, 8, 26, 45-57, 339

Varsonofij di Optina 14, 278

Timoteo, personaggio biblico 40, 43

Vidalis N. 183

Tito, personaggio biblico 40

Vittis E. 192

Tolstoj L. N. 278

Vlachos I. 191

Totemskij M. 261

Völker W. 61

Trifon (Turkestanov) 201

Volodymyr, metropolita di Kiev 21

Trisoglio F. 63

Vogüé A. de 120

Truba™ev A. 293

Ware K. 26, 115, 188, 302

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Truba™eva M. S. 293 Tsetsis G. 47, 49 Tsichlis S. P. 60 Turner H. J. M. 155, 161, 341

Westermann C. 34 Yangazoglou S. 111-114, 297 Yangou T. 189, 198 Yannaras Ch. 185, 289, 294

Tu∫in G. 177-178

Zaccaria, padre di Giovanni Battista 132, 270

Vakaros D. 198

Zaccaria, papa 119, 121

Valente, imperatore d’oriente 67, 74

Zebedeo, personaggio biblico 65

Valentina di Minsk 231

Zincone S. 38

Van Parys M. 300

Zizioulas I. 62, 191

Varnava del Getsemani 278

æust M. 293

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PARTECIPANTI AL CONVEGNO

✠ Athenagoras di Sinope, Patriarcato di Costantinopoli (Bruxelles – Belgio) ✠ Savvatij di Ωeboksary, Patriarcato di Mosca (Ωeboksary – Fed. russa) ✠ Filipp di Poltava e Kremen™ug, Patriarcato di Mosca, Chiesa ortodossa ucraina (Poltava – Ucraina) ✠ Serafim di Germania, Patriarcato di Romania (Nürnberg – Germania) ✠ Grigorij di Veliko Tarnovo, Patriarcato di Bulgaria (Veliko Tarnovo – Bulgaria) ✠ Kiprian di Traianopol, Patriarcato di Bulgaria (Vratza – Bulgaria) ✠ Ioannis di Thermopyli, Chiesa di Grecia (Pendeli – Grecia) ✠ Achille Silvestrini, prefetto emerito della Congregazione per le chiese orientali (Città del Vaticano) ✠ Brian Farrell, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) ✠ Gabriele Mana, vescovo di Biella (Biella – Italia) ✠ Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea (Ivrea, Torino – Italia) ✠ Massimo Giustetti, vescovo emerito di Biella (Muzzano, Biella – Italia) Milan æust, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) Gerasim (Dja™kov), Patriarcato di Mosca, Lavra della Trinità di San Sergio (Sergiev Posad – Fed. russa) Daniil (Vasilenko), Lavra della Trinità di San Sergio (Sergiev Posad – Fed. russa) Pavel Chondzinskij, Patriarcato di Mosca, Università ortodossa San Tichon (Mosca – Fed. russa) Georgij Sergeev, Patriarcato di Mosca, Dipartimento per le relazioni esterne (Mosca – Fed. russa) David (Perovic´), Patriarcato di Serbia (Belgrado – Serbia) David (Karamyan), Patriarcato armeno di Etchmiadzin (Etchmiadzin – Armenia) Hugh Wybrew, Chiesa di Inghilterra (Oxford – Regno Unito) † Settimo Ribotto, sindaco di Magnano (Magnano, Biella – Italia)

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Partecipanti al convegno Nina Kauchtschischwili, Università di Bergamo (Milano – Italia) – Comitato Scientifico Michel Van Parys, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne – Belgio) – Comitato Scientifico Antonio Rigo, Università di Venezia (Venezia – Italia) – Comitato Scientifico Roberto Salizzoni, Università di Torino (Torino – Italia) – Comitato Scientifico Adalberto Piovano, Monastero SS. Trinità (Dumenza, Varese – Italia) Amvrosia (Sulte), Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Amvrosios (Sioros), Iera Moni Prophitis Ilias (Preveza – Grecia)

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Anastasios, Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Andrej (Sidorov), Monastero della Natività (Vladimir – Fed. russa) Andrej ΩilerdΔic´ (Monaco – Germania) Anna Eva (Ozolina), Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Anna Maria Cànopi, Monastero Mater Ecclesiae (Isola San Giulio d’Orta, Novara – Italia) Antoine Lambrechts, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne – Belgio) Arsenij (Sokolov) (Lisbona – Portogallo) Athenagoras (Fasiolo), Arcidiocesi ortodossa d’Italia e di Malta (Montaner, Treviso – Italia) Avgustina, Holy Monastery of Saint George Karaiskaki (Mavrommati, Karditsa – Grecia) Cesare Falletti, Monastero Dominus Tecum (Pra ’d Mill, Cuneo – Italia) Damaskina, Holy Monastery of Saint George Karaiskaki (Mavrommati, Karditsa – Grecia) Damaskinos (Gavalas), Iera Moni Prophitis Ilias (Santorini – Grecia) Daniela Magnan, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Daniela Turato, Piccola Famiglia della Risurrezione (Marango di Caorle, Venezia – Italia) Eleftheria (Moldeanu), Mânâstirea Copou (Ias¸i – Romania) Eliane Poirot, Carmel de Saint Elie (St. Remy/Stânceni – Romania) Elisée (Marzin) (Aubazine – Francia) Enzo Bianchi, Monastero di Bose (Bose – Italia) Filaret (Ku™erov) – Lavra delle Grotte (Kiev – Ucraina) Francisco Medina, Monastero di Camaldoli (Arezzo – Italia) Gabriel Bunge, Eremo S. Croce (Roveredo – Svizzera) Gavriila (Gluchova), Monastero della Natività della Madre di Dio (Grodno – Bielorussia) Gheorghios (Chrysostomou), Iera Moni Veroias (Veria – Grecia) Gigliola Zaghetto, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Giuseppe Cicchi, Monastero di Camaldoli (Arezzo – Italia)

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Partecipanti al convegno Grigorios (El-Jamous), Monastero di Santa Caterina – Monte Sinai (Il Cairo – Egitto) Ildegarde Geerinck, Monastère Notre-Dame (Ermeton-sur-Biert – Belgio) Jean-Albert Dumoulin, Monastère Saint Remacle, Wavreumont (Stavelot – Belgio) Jean-Baptiste Droulers, Abbaye de Fleury (St. Benoît sur Loire – Francia) Jean-Louis Verstrepen, Abbaye Sainte Marie de la Pierre-qui-Vire (Saint Leger Vauban – Francia) Jerusalim, Holy Monastery of St. George Karaiskaki (Mavrommati, Karditsa – Grecia) Loyse Morard, Monastère Notre-Dame (Ermeton-sur-Biert – Belgio) Maria Grazia Girolimetto, Monastero Regina Pacis (St. Oyen, Aosta – Italia) Mariam, Holy Monastery of St. George Karaiskaki (Mavrommati, Karditsa – Grecia) Maristella Marchesin, Monastero S. Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Marja Magdalena (Vrânceanu), Mânâstirea Copou (Ias¸i – Romania) Mitrofan (Badanin) (Murmansk – Fed. russa) Nicodème Majalli (Nice – Francia) Nicolas Molinier, Monastère Saint Antoine le Grand (Saint Laurent en Royans – Francia) Noëlle Devilliers (Albi – Francia) Petros (Semikov), Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Pietro Reiss, Eremo S. Croce (Roveredo – Svizzera) Sebastian Hacker, Benediktinerabtei Unserer Lieben Frau zu den Schotten (Vienna – Austria) Sergij (Yaremtso) (Atene – Grecia) Simeon (Durasov) (Mosca – Fed. russa) Simeon (Kharon), Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Varnavas, Iera Moni Prophitis Ilias (Preveza – Grecia) Vasilije (Grolimund), Serbisch-Orth. Skite S. Spyridon (Geilnau – Germania) Veronika, Holy Monastery of Saint George Karaiskaki (Mavrommati, Karditsa – Grecia) Abatzidis Theofilos (Kozani – Grecia) Abou Mrad Nicolas e Lina (Balamand – Libano) Adami Luigi (Colognola ai Colli, Verona – Italia) Agosta Cesare (Bisegna, Aquila – Italia) Agrano Piero (Ivrea, Torino – Italia) Androniki Barla (Atene – Grecia) Arjakovsky Antoine (L’viv – Ucraina) Arrigoni Cosetta (Bologna – Italia) Asparuhov Asparuh (Vratza – Bulgaria) Athanasiou Stefanos (Tessalonica – Grecia)

363

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Partecipanti al convegno Avtzy Kiriaki (Tessalonica – Grecia) Bagration-Muchraneli Irina (Mosca – Fed. russa) Bandini Teresa (Lucca – Italia) Barbaro Teresio (Roma – Italia) Bazarinskij Igor (Kiev – Ucraina) Belikov Vitalij (Poltava – Ucraina) Bellini Agnese (Verona – Italia) Bergamaschi Paolo (Bologna – Italia) Bergner Richard (Sturefors – Svezia) Biancardi Giacomo (Lodi – Italia)

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Bianchi Luca (Roma – Italia) Bol∫akova Natalia (Riga – Lettonia) Bortignon Michele (Bassano del Grappa, Vicenza – Italia) Bucci Monia (Riccione, Rimini – Italia) Caspani Luigi (Costa Masnaga, Lecco – Italia) Castore Lorenzo (Roma – Italia) Cavaliere Nelly (Torino – Italia) Ωesnokov Aleksej (Cadiz – Spagna) Chiaro Mario (Bologna – Italia) Cini Umberto (Roma – Italia) Cioteanu Nicoleta (Ginevra – Svizzera) Dakalakis Eleftherios (Patrasso – Grecia) Dalla Libera M. Grazia (Verona – Italia) De Mottoni Paolo e Tiziana (Trieste – Italia) Delouis Olivier (Orléans – Francia) Di Monte Michele (Imbersago, Lecco – Italia) Fanesi Anna Lisa (Bologna – Italia) Fastré Jean-Marie (Dalhem – Belgio) Fedele Marisa (Milano – Italia) Forte Agnello (Camerota, Salerno – Italia) Gambardella Bruna (Saviano, Napoli – Italia) Gambuti Andrea (Riccione, Rimini – Italia) Garetto Paola (Torino – Italia) Gasak Dmitrij (Mosca – Fed. russa) Gaviglio Bianca (Givoletto, Torino – Italia) Gavrylyuk Olena (Mosca – Fed. russa)

364

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Partecipanti al convegno Genoni Gianfranco (Milano – Italia) George Martin (Berna – Svizzera) Giuliano Antonio (Milano – Italia) Gkitsi Anastasia (Tessalonica – Grecia) Gobbi M. Grazia (Saluzzo, Cuneo – Italia) Gorba™uk Georgij (Vladimir – Fed. russa) Gottardi Giovanni (Verona – Italia) Gribodo Carla (Susa, Torino – Italia) Hadjiev Mihail (Veliko Tarnovo – Bulgaria) Halldorf Peter (Sturefors – Svezia)

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Hauzar Josef (Mariánské Lázne˘ – Rep. Ceca) Jung André (Ginevra – Svizzera) Karadimas Fotios (Atene – Grecia) Karamanidou Anna (Panestimioupoli – Grecia) Karnilova Ljudmila (Grodno – Bielorussia) Kasimova-Zouchra Aikaterini (Atene – Grecia) Ko™etkov Georgij (Mosca – Fed. russa) Konkiov Zahari (Sofia – Bulgaria) Kontoyannis Spyridon (Atene – Grecia) Krasikov Anatolij (Mosca – Fed. russa) Kroussouloudis Nikolaos (Kalamaria – Grecia) Kurtanidze Kakhaber (Tblisi – Georgia) La Rosa Michele (Cremona – Italia) Lauber Thomas (Düsseldorf – Germania) Loru Maria Giuseppina (Parigi – Francia) Lovera Sereno (Saluzzo, Cuneo – Italia) Makar Mykola (Milano – Italia) Malachov Viktor (Kiev – Ucraina) Malavolti Gianni (Modena – Italia) Malescu Coulpas Nicolette (Torino – Italia) Malinverni Michele (Piacenza – Italia) Mancuso Valentina (Ivrea, Torino – Italia) Manikas Konstantinos (Atene – Grecia) Martini Teresa (Firenze – Italia) Martzelos Gheorghios (Tessalonica – Grecia) Mastrolonardo Francesco (Riccione, Rimini – Italia)

365

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Partecipanti al convegno Messina Cristian (Riccione, Rimini – Italia) Mihajlov Vihren (Sofia – Bulgaria) Miltos Amfilochios (Volos – Grecia) Min™enko Vasilij (Riga – Lettonia) Minin Sergey (Vladimir – Fed. russa) Misser Joan e Françoise (Bailleul – Francia) Mladenov Mladen (Vratza – Bulgaria) Morassut Giuseppe e Nadia (Pordenone – Italia) Morbioli Piergiorgio (Custoza, Verona – Italia) Mozgov Kirill (Mosca – Fed. russa)

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Munari Serena (Ivrea, Torino – Italia) Münch Harald (Ijmuiden – Olanda) Nikolaou Charikleia (Volos – Grecia) Paleari Leonardo (Roma – Italia) Pandele Gabriel Dorin (Galat¸i – Romania) Papagheorghiou Fotios (Atene – Grecia) Pavlov Nikolay (Gorna Orjahovica – Bulgaria) Pellegrini Giancarlo (Bologna – Italia) Pentzikis Gavriil (Tessalonica – Grecia) Ponzone Andrea (Casale Monferrato, Asti – Italia) Printzos Theodoros (Volos – Grecia) Prochorov Gelian (San Pietroburgo – Fed. russa) Ramananjnahary M. Ange (Ginevra – Svizzera) Ratner Lilia (Mosca – Fed. russa) Reati Fiorenzo (San Pietroburgo – Fed. russa) Record Nicholas (Leeds – Regno Unito) Ria Antonio (Milano – Italia) Romanov Andrey (Kiev – Ucraina) Rosso Stefano (Torino – Italia) Russo Tonio (Montecatini Terme, Pistoia – Italia) Santi Pasquale (Cirié, Torino – Italia) Savi™ Aleksandr (Kiev – Ucraina) Savova Ljudmila (Sofia – Bulgaria) Scaglioni Vittoria (Novara – Italia) Scarpa Marco (Venezia – Italia) Sessa Loretta (Cirié, Torino – Italia)

366

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Partecipanti al convegno √eko Ekaterina (Mosca – Fed. russa) Signori Lino (Verona – Italia) Sigov Konstantin (Kiev – Ucraina) Simeonov Georgij (Vratza – Bulgaria) Sizonenko Dmitrij (San Pietroburgo – Fed. russa) Smirnova Irina (Mosca – Russia) Smytsunyuk Pavlo (Ivano-Frankivsk – Ucraina) Solyankina Viktorija, Università ortodossa San Tichon (Mosca – Fed. russa) Spiliopoulos Panaghiotis (Eghion – Grecia) Spokojnaja Natalija (Berlino – Germania)

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Squizzato Paolo (Torino – Italia) Stocchi Sarah (Riccione, Rimini – Italia) Stoyanov Vihren (Sofia – Bulgaria) Suchova Natalija (Mosca – Fed. russa) Sutton Jonathan (Leeds – Regno Unito) Tessore Agostino (Veria – Grecia) Tocco Giustina (Palermo – Italia) Torcivia Mario (Palermo – Italia) Tosi Teresa (Lucca San Concordio, Lucca – Italia) Tsecov Georgij (Vratza – Bulgaria) Turco Emilia (Torino – Italia) Turner John e Jean (Frinton-on-Sea – Regno Unito) Vasilescu Gheorghe (Torino – Italia) Verbeke Dominique (Gent – Belgio) Vestel’ Yurj (Kiev – Ucraina) Worontzoff Ania (Firenze – Italia) Yangazoglou Stavros (Atene – Grecia) Yannaras Christos (Atene – Grecia) Yazykova Irina (Mosca – Fed. russa) Zalakostas Achilleas (Tessalonica – Grecia) Zarantonello Cristina (Verona – Italia)

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INDICE

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7 11 13 16 17 18 19 20 22 24 25 27

PREFAZIONE Messaggio del Patriarca ecumenico, Bartholomeos I Messaggio del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Aleksij II Messaggio del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato Messaggio del Patriarca della Chiesa ortodossa serba, Pavle Messaggio del Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel Messaggio dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos Messaggio del Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Messaggio del Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II Messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Messaggio del reverendo Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese Messaggio del Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

29

LA PATERNITÀ SPIRITUALE: ELEMENTI BIBLICI Enzo Bianchi

45

UN PADRE SPIRITUALE CONTEMPORANEO: RICORDO DEL METROPOLITA EMILIANOS DI SILYVRIA (1916-2008) Athenagoras Peckstadt

59

BASILIO DI CESAREA, MODELLO DI PATERNITÀ SPIRITUALE Gheorghios D. Martzelos

89

LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLE LETTERE DI GIOVANNI CRISOSTOMO A OLIMPIA Nicolas Abou Mrad

369

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95

L’UMANESIMO DEL DESERTO. IL DISCERNIMENTO SPIRITUALE SECONDO LA TRADIZIONE ASCETICA Stavros Yangazoglou

117

LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE MONASTICA OCCIDENTALE Michel Van Parys

139

RIFLESSIONI SULLA FIGURA DEL PADRE SPIRITUALE NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI CLIMACO Damaskinos Gavalas

147

L’IGUMENO COME PADRE SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE STUDITA Olivier Delouis

173

IL RAPPORTO MAESTRO-DISCEPOLO NELLE LETTERE DI NIL SORSKIJ (1433-1508) Gelian M. Prochorov

183

L’ESERCIZIO DELLA PATERNITÀ SPIRITUALE NELL’“EXOMOLOGHITÁRION” DI NICODEMO L’AGHIORITA Gheorghios Chrysostomou

201

PATERNITÀ SPIRITUALE E MATURITÀ CRISTIANA. LE LETTERE ALLE MONACHE DI MAKARIJ DI OPTINA, IGNATIJ BRJANΩANINOV, TEOFANE IL RECLUSO Natalija Ju. Suchova

227

LA MATERNITÀ SPIRITUALE NEL MONACHESIMO RUSSO DEL XX SECOLO Gavriila Gluchova

243

UNA MADRE SPIRITUALE TRA RIVOLUZIONI E PERSECUZIONI: L’IGUMENA FAMAR’ MARDæANI√VILI (1869-1936) Nina Kauchtschischwili

261

PATERNITÀ SPIRITUALE E CURA PASTORALE NELL’OPERA DI PADRE PONTIJ RUPY√EV (1877-1939) Pavel Chondzinskij

370

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285

LA PATERNITÀ SPIRITUALE NELLA COMPAGNIA DEGLI UOMINI: ALEKSIJ MEΩEV (1859-1923) Antoine Arjakovsky

309

IL PATRIARCA DI SERBIA PAVLE, PASTORE E PADRE SPIRITUALE David Perovic´

325

PATERNITÀ SPIRITUALE E MONDO CONTEMPORANEO Serafim Joanta˘

339

CONCLUSIONI Michel Van Parys

349

SIGLE

351

INDICE DEI NOMI

361

PARTECIPANTI AL CONVEGNO

371

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