Corpus dei papiri storici greci e latini. Parte B. Storici latini. Vol. 1: Autori noti. Titus Livius. 9788862273480, 9788862273473

Molti anni dopo le prime pubblicazioni, per questa nuova edizione dei papiri di Tito Livio l'Autore ha compiuto un

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Corpus dei papiri storici greci e latini. Parte B. Storici latini. Vol. 1: Autori noti. Titus Livius.
 9788862273480, 9788862273473

Table of contents :
SOMMARIO
PREMESSA
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE
TITI LIVI CODICES; EDITIONES, ADNOTATIONES ANTIQUIORES
PERIOCHARUM CODICES; EDITIONES, ADNOTATIONES ANTIQUIORES
AUCTORES GRAECI
AUCTORES LATINI
GRAMMATICI
ABBREVIAZIONI USATE NEGLI APPARATI
SIGLE USATE NEGLI APPARATI
ALTRE ABBREVIAZIONI
AVVERTENZE
PAPIRI E RICEZIONE DI LIVIO NELL’EGITTO ROMANO
1 LIVIUS
POxy IV 668 + PSI XII 1291
POxy XI 1379
PNaqlun inv. 15/86
TAVOLA DI CONGUAGLIO PER POXY IV 668
TAVOLE

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CORPUS DEI PAPIRI STORICI GRECI E LATINI

D E LL’ U N IV E R S IT À D E L S A LE N T O

CORPUS D E I PA P I R I S T O R I C I G R E C I E LAT I N I PARTE B · STOR IC I L ATINI · 1. AU TOR I NOTI VOL. 1

TITUS LIVIUS a cur a di rodolfo funari

parte b · storici latini · 1. autori noti · vol. 1

isbn 978-88-6227-348-0 (brossura) isbn 978-88-6227-347-3 (rilegato) issn 1970-142x

C E N T RO D I S T U D I PA P IRO LO GIC I

P I SA · RO MA FABR IZIO SER R A EDITOR E MMXI

C E N T R O D I S T U D I PA P I R O L O G I C I D E L L’ U N I V E R S I T À D E L S A L E N T O

*

CORPUS D E I PA P I R I S T O R I C I G R E C I E L AT I N I

COMITATO EDITORIALE Emilio Gabba (Presidente) Delfino Ambaglio Anna Angeli Luciano Canfora Sergio Daris Daniele Foraboschi Tristano Gargiulo Luigi Lehnus Marie-Hélène Marganne Francesco Prontera Natascia Pellé Paolo Radiciotti Lucio Troiani Mario Capasso (Segretario)

CORPUS D E I PA P I R I S T O R I C I G R E C I E LAT I N I PARTE B · STORICI LATINI · 1. AUTORI NOTI VOL. 1

TITUS LIVIUS a cur a di rodolfo funari

PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMXI

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma, Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, i 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I, 48, i 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] www.libraweb.net isbn 978-88-6227-348-0 (brossura) isbn 978-88-6227-347-3 (rilegato) issn 1970-142x

SOMMARIO Premessa Abbreviazioni bibliografiche Titi Livi codices; editiones, adnotationes antiquiores Periocharum codices; editiones, adnotationes antiquiores Auctores Graeci Auctores Latini Grammatici Abbreviazioni usate negli apparati Sigle usate negli apparati Altre abbreviazioni Avvertenze

09 11 21 22 23 26 31 33 34 35 37

Papiri e ricezione di Livio nell’Egitto romano POxy iv 668 + PSI xii 1291 POxy xi 1379 PNaqlun inv. 15/86

39 49 229 239

Tavola di concordanza per POxy iv 668

259

Tavole

267

PREMESSA

M

olti anni dopo le prime edizioni, per questa nuova edizione dei papiri di Tito Livio ho compiuto un esame autoptico completo sia dei frammenti di un’Epitoma liviana da un rotolo di papiro, rinvenuti a Oxyrhynchus, dei quali ampi resti sono conservati nella British Library in London, mentre una sottile striscia da una colonna si trova nell’Egyptian Museum al Cairo, sia del frammento dal libro I degli Annales, anche questo da un rotolo di papiro e rinvenuto a Oxyrhynchus, che si conserva nella Bodleian Library di Oxford. Per un impedimento sopraggiunto non ho potuto compiere, invece, contrariamente alla mia intenzione, l’esame autoptico del frammento di pergamena, a buon diritto attribuito allo stesso Livio, scoperto assai più di recente presso Naqlun e ora conservato nel Coptic Museum al Cairo; per questo reperto mi sono così affidato, oltre che all’ispezione delle fotografie, alla meticolosa e puntualissima analisi che ne è stata offerta nella prima edizione. Alle autorità e ai curatori delle varie istituzioni, che mi hanno permesso di studiare direttamente i pezzi in loro custodia, va il mio ringraziamento.

Profonda e sincera gratitudine esprimo al prof. Mario Capasso, che mi ha affidato l’edizione commentata dei papiri di Tito Livio e ha accolto l’opera nel Corpus dei Papiri Storici Greci e Latini. Egli ha sempre seguito, con generosa attenzione, umanità e dottrina, lo svolgimento delle mie ricerche e in queste mi ha costantemente coadiuvato. Vivamente ringrazio la dott.ssa Natascia Pellé per le preziose cure redazionali che, nell’ambito del Centro di Studi Papirologici dell’Università del Salento, ha dedicato a questo volume. Con animo devoto dichiaro inoltre la mia riconoscenza all’antico Maestro prof. Mario Geymonat, che mi ha sostenuto, anche con l’ausilio della Venice International University, nel lavoro di questi anni. Rodolfo Funari San Quirico d’Orcia, 23 Luglio 2010

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE Abrégés 1 Abrégés des livres de l’Histoire romaine de Tite-Live, Tome xxxiv-1e partie, Texte étab. et trad. par Paul Jal, Paris 1984. Abrégés 2 Abrégés des livres de l’Histoire romaine de Tite-Live, Tome xxxiv -2e partie, Texte étab. et trad. par Paul Jal, Paris 1984. Afzelius, Lex Annalis Adam Afzelius, Lex Annalis, C&M 8 (1946), 263-278. Aland, Studien Kurt Aland, Studien zur Überlieferung des Neuen Testaments und seines Textes, Berlin 1967. A historical commentary A historical commentary on Polybius, by Frank W. Walbank, vol. iii (Commentary on books xix-xl), Oxford 1979. An Exhibition of Papyri An Exhibition of Papyri, mainly in Greek, at the Bodleian Library and at the Ashmolean Museum, for the xiv International Congress of Papyrologists (Oxford, 24-31 July 1974), by J. R. Rea, Bodleian Library, Oxford 1974. Appien, Histoire romaine, ii Appien, Histoire romaine, Tome ii (Livre vi: L’Ibérique), Texte étab. et trad. par Paul Goukowsky, Paris 1997. Appien, Histoire romaine, iv Appien, Histoire romaine, Tome iv (Livre viii: Le livre africain), Texte étab. et trad. par Paul Goukowsky, Paris 2001. Astin, The Roman Commander Alan E. Astin, The Roman Commander in Hispania Ulterior in 142 B.C., Historia 13 (1964), 245-254. Bassi, MIG Stelio Bassi, Monumenta Italiae Graphica, ii : La scrittura calligrafica greco-romana, Cremona 1957. Bayet Tite-Live, Histoire romaine, Tome i: Livre i, Texte étab. par Jean Bayet, Paris 1947. Begbie, The Epitome Cynthia M. Begbie, The Epitome of Livy, CQ 17 (1967), 332-338. Bessone, La tradizione epitomatoria Luigi Bessone, La tradizione epitomatoria liviana in età imperiale, ANRW ii 30.2 (1982), 1230-1263. Bilabel, Siglae Friedrich Bilabel, Siglae, RE ii A, 2, 2279-2315. Bingham, A study William J. Bingham, A study of the Livian periochae and their relation to Livy’s Ab urbe condita, Diss. Univ. of Illinois at Urbana-Champaign 1978. Bischoff, Paläographie

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abbreviazioni bibliografiche

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Schulze, Zur Geschichte Wilhelm Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin 1904. Seider, Beiträge Richard Seider, Beiträge zur Geschichte der antiken Livius-Handschriften, B & W 14 (1980), 128-152. Seider, PlP, ii , 1 Richard Seider, Paläographie der lateinischen Papyri, Bd. ii, 1, Stuttgart 1978. Seider, PlP, ii , 2 Richard Seider, Paläographie der lateinischen Papyri, Bd. ii, 2, Stuttgart 1981. SLl2 Scriptura Latina libraria, cura Ioachimi Kirchner, München 21970. Sommer, Handbuch Ferdinand Sommer, Handbuch der lateinischen Laut- und Formenlehre, 2. u. 3. Aufl., Heidelberg 1914. Steffens, Lateinische Paläographie Franz Steffens, Lateinische Paläographie, 2Berlin 1929. Storie, Libri xxxvi -xl Storie (Libri xxxvi -xl ) di Tito Livio, a cura di Alessandro Ronconi e Barbara Scardigli, Torino 1980. Stuart, P. Oxyrhynchus 668 Meriwether Stuart, P. Oxyrhynchus 668.188-90, CPh 39 (1944), 40-44 Suerbaum, Sex and Crime Werner Suerbaum, Sex and Crime im Alten Rom: von der humanistischen Zensur zu Cato dem Censor, WJA N. F. 19 (1993), 85-109. Texts and Transmission Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, ed. by Leighton D. Reynolds, Oxford 1986. ThlL Thesaurus linguae Latinae. Thompson, An Introduction Edward M. Thompson, An Introduction to Greek and Latin Palaeography, Oxford 1912. Tite-Live, xxix Tite-Live, Histoire romaine, Tome xxix (Livre xxxix), Texte étab. et traduit par Anne-Marie Adam, Paris 1994. Tite-Live, xxx Tite-Live, Histoire romaine, Tome xxx (Livre xl), Texte étab. et traduit par Christian Gouillart, Paris 1986. T. Livi ab urbe condita, I T. Livi ab urbe condita libri, bearb. von Wilhelm Weissenborn und Hermann J. Müller, i. Bd.: Buch i, ix. Aufl., Berlin 1908. T. Livi ab urbe condita, x T. Livi ab urbe condita libri, erklärt von Wilhelm Weissenborn, x. Bd., ii. Heft: Buch xxxv und Fragmente, ii. Aufl., besorgt von Hermann J. Müller, Berlin 1881. T. Livi periochae T. Livi ab urbe condita librorum cxlii periochae, Iulii Obsequentis prodigiorum liber, recens. et emend. Otto Iahn, Lipsiae 1853. T. Livi periochae, fragmenta

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corpus dei papiri storici greci e latini

T. Livi periochae omnium librorum, fragmenta Oxyrhynchi reperta, Iulii Obsequentis prodigiorum liber, ed. Otto Rossbach, Lipsiae 1910. T. Livius, Römische Geschichte xxxv -xxxviii T. Livius, Römische Geschichte (Buch xxxv -xxxviii ), lat. u. dt. hrsg. von Hans Jürgen Hillen, München-Zürich 1982. T. Livius, Römische Geschichte xxxix -xli T. Livius, Römische Geschichte (Buch xxxix -xli ), lat. u. dt. hrsg. von Hans Jürgen Hillen, München-Zürich 1983. T. Livius, Römische Geschichte xlv T. Livius, Römische Geschichte (Buch xlv . Antike Inhaltsangaben und Fragmente der Bücher xlvi -cxlii ), lat. u. dt. hrsg. von Hans Jürgen Hillen, Darmstadt 2000. Traube, Forschungen Ludwig Traube, Palaeographische Forschungen, T. iv: Bamberger Fragmente der vierten Dekade des Livius (...), Aus den Abhandlungen der K. Bayer. Akademie der Wiss. iii. Kl., 24. Bd., 1. Abt., München 1904. Turner, Oxyrhynchus Eric G. Turner, Oxyrhynchus and its papyri, G&R 21 (1952), 127-144, pl. cxxi-cxxiv. Turner, Oxyrhyncus and Rome Eric G. Turner, Oxyrhyncus and Rome, in: Oxyrhyncus [vd. Bibl.], 155-170. Turner, Roman Oxyrhyncus Eric G. Turner, Roman Oxyrhyncus, in: Oxyrhyncus [vd. Bibl.], 141-154. Valmaggi, Livio Luigi Valmaggi, Livio, Epitome di Ossirinco, 204, BFC 12 (1905-1906), 43. van Haelst, Catalogue Joseph van Haelst, Catalogue des papyrus littéraires juifs et chrétiens, Paris 1976. van Wageningen, Ad Livi Epitomam Jacob van Wageningen, Ad Livi Epitomam Oxyrhynchi inventam, BPhW 25 (1905), 717. van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae Jacob van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae van Livius, MPh 12 (1905), 107-110. Varros Logistoricus Varros Logistoricus über die Götterverehrung, Ausg. und Erkl. der Fragmente von Burkhart Cardauns, Würzburg 1960. Vinchesi, Notizia Maria Assunta Vinchesi, Notizia su un probabile frammento di Tito Livio, A&R 35 (1990), 176-182. Watt, Notes William S. Watt, Notes on Livy, Books 1-5, CQ 39 (1989), 415-420. Wingo, Latin Punctuation E. Otha Wingo, Latin Punctuation in the Classical Age, The Hague-Paris 1972. Wissowa, Religion und Kultus Georg Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München 21912. Witte, Bericht Kurt Witte, Bericht über die Literatur zu Livius aus den Jahren 1910-1919, JAW 188 (1921), 1-33. Wölfflin, Das Breviarium Eduard Wölfflin, Das Breviarium des Festus. ii , ALLG xiii (1904), 173-180. Wölfflin, Zum Chronicon Livianum Eduard Wölfflin, Zum Chronicon Livianum von Oxyrhynchus, ALLG xiv (1906), 221-232.

TITI LIVI CODICES; EDITIONES, ADNOTATIONES ANTIQUIORES ad l. I D = Dominicanus, olim in Monasterio Dominicano S. Marci Florentiae, nunc in Bibl. Laurentiana “Cod. S. Marci 326”, saec. xi vel xii. E = Fr. Einsiedlense Bibl. Monasterii S. Benedicti Einsiedlensis 348, saec. x. H = Harleianus Musei Britannici Harl. 2672; 70b, saec. x ex. K = fr. codicis Hauniensis. M = Mediceus Bibl. Laurentianae Plut. lxiii . 19, saec. x vel xi in. O = Oxoniensis Bibl. Bodleianae 20631, saec. xi in. P = Parisiensis Bibl. Nationalis 5725 Lat., saec. x. U = Upsaliensis Bibl. Academiae Upsal. C 908, saec. x. W = fr. codicis Fuldensis. ad ll. XXXVII-XL A = Aginnensis Bibl. Brit. Harl. 2493, annis 1328/1329. B = Bambergensis Bibl. rei publicae Class. 35, saec. xi. E = Escorialensis Bibl. Escorial. R. I. 4, saec. xiv med. L = Florentinus Mediceus Laurentianus 89 inf. 33, c. a. 1445. L2 = codicis eiusdem corrector aequalis. Mg = Moguntinus a Carbachio in editione Moguntiae a. 1519 in adnotationibus divolgatus, fort. saec. ix. N = Oxoniensis Bibl. Coll. Novi 279, annis 1430/1440. P = Parisiensis Bibl. Nationalis 5690 Lat., annis 1328/1329. V = Vaticanus Bibl. Vaticanae 3331 Lat., annis 1453/1454. Vaticanus lat. 6803, saec. xv. Ves. = Vesont. Bibl. Munic., a. 1427. · = consensus codicum Bibl. Holk. 344, saec. xiv in.; Lips. Univ. Rep. 1. 1, saec. xiv med.; Par. Bibl. Nat. Lat. 5740, saec. xiv. Ê = consensus codicum N V. ¯ = consensus stirpium Ê et „. „ = consensus codicum P A E. Ald. = ed. Aldina, tom. iii, Venetiis 1520. Carb. = Nicolaus Carbachius, qui codicis deperditi Moguntini lectiones nonnullas primum divolgavit in editione Moguntiae a. 1519 impressa. Frob.1-2 = ed. Frobeniana, Basileae 1531; ed. Frobeniana, Basileae 1535. Gel. = Sig. Gelenii adnotationes ad Livi quartam decadem, quas in ed. Frobeniana Basileae 1535 impressae edidit. Glar. = H. Glareani adnotationes in ed. Basileae 1540. M. Müller = ed. Lipsiae, pars iv, 1887, 1890. Mog. = ed. Moguntiae 1519. Sig. = C. Sigonius, ed. Venetiis 1555.

PERIOCHARUM CODICES; EDITIONES, ADNOTATIONES ANTIQUIORES E = Parisinus lat. 5744, saec. xv. Gronovianus = Leidensis Gronovianus 107, saec. xv. Guelf. = Guelferbytanus 175, olim Gudianus 4, saec. xv. K = Harleianus lat. 3694, saec. xv. Leid. 19 = Leidensis Bibl. Publ. lat. 19, saec. xv. N = Palatinus lat. Heidelbergensis 894, olim Laurishamensis, saec. ix. P = Parisinus lat. Bibl. Nationalis 7701, olim Claudii Puteani, saec. xiii. Q = Burneianus 204, saec. xiv. R = Vaticanus lat. 5129, saec. xv. Ry. = Rylandanus lat. Ms. 48, saec. xv. Á = Vesontientis (Bibl. urb.) 840, saec. xv. Ë = Vaticanus Ottob. Lat. 2852, saec. xv. ı = Vaticanus Urb. lat. 462, saec. xiv. È = Vaticanus lat. 1859, saec. xiv-xv. Ï = Ambrosianus S 16 sup., saec. xv. Ì = Ambrosianus C 109 inf., saec. xv. Ó = Vaticanus lat. 6803, saec. xv.  = codex nunc deperditus, a Pithoeo collatus, saec. xii ? Ú = Vaticanus lat. 3334, saec. xv. Û = Vaticanus lat. 5258, saec. xv. Ù = Vaticanus lat. 7313, saec. xv. Gronovius = Johann Fr. Gronovius, Ad T. Livi Patavini libros superstites notae, Leyden 1645. Gruterus = J. Gruytere, Livi editiones, Francofurti ad Moenum 1612-1628. Iahn = T. Livi periochae [vd. Bibl.]. Sigonius = T. Livi historiarum ab urbe condita libri qui extant xxxv cum universae historiae epitomis a Carolo Sigonio emendati (...), Venetiis 1555.

AUCTORES GRAECI Appian. = Appianus. Celt. = Celtica. Civ. = Bellum civile. Lib. = Libyca. Iber. = Iberica. Mithrid. = Mithridatica. Syr. = Syriaca. V = Vaticanus graecus 141, saec. xi/xii. M = Laurentianus lxx 26, saec. xv. Appiani Historia Romana, Vol. I, ed. Paulus Viereck et A. G. Roos, addenda et corrigenda adiecit Emilio Gabba, Lipsiae 1962; Appiani Historia Romana, vol. ii, ex recensione Ludovici Mendelssohnii editio altera correctior curante Paulo Viereck, Lipsiae 1905. Cass. Dio = Cassius Dio. Historiae Romanae. Cassii Dionis Cocceiani Historiarum Romanarum quae supersunt, edidit Ursulus Ph. Boissevain, vol. i, Berolini 1895. Charax Pergamenus. Chronica. FHG iii, 636-645; FGrH 2. Teil, A, 482-493 (nr. 103). Diodor. = Diodorus Siculus. Bibliotheca historica. Diodori Bibliotheca historica, rec. C. Th. Fischer, vol. vi, ex recensione Ludovici Dindorfii, Lipsiae 1867/1868 (= Stutgardiae 1969). Dionysius Halicarnassensis. Ant. Rom. = Antiquitates Romanae. Dionysii Halicarnasei Antiquitatum Romanarum quae supersunt, ed. Carolus Jacoby, vol. iv, Lipsiae 1905. Euseb. = Eusebius Caesariensis. Chron. = Chronica. Eusebi Chronicorum liber prior, ed. Alfred Schöne, Berolini 1875 [= i]; Eusebi Chronicorum Canonum quae supersunt, ed. Alfred Schöne, Berolini 1876 [= ii]. Excerpta Constantiniana. Excerpta Historica iussu imp. Constantini Porphyrogeniti confecta. Excerpta Historica iussu imp. Constantini Porphyrogeniti confecta, ed. U. Ph. Boissevain (et al.): vol. i: Excerpta de legationibus, ed. Carolus de Boor, Berolini 1903; vol. ii, 2: Excerpta de virtutibus et vitiis, recens. et praef. Antonius Gerardus Roos, Berolini 1910; vol. iii: Excerpta de insidiis, ed. Carolus de Boor, Berolini 1905.

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Excerpta Maiana. Scriptorum veterum nova collectio e Vaticanis codicibus edita ab Angelo Maio, Tomus ii, Romae 1827. Excerpta Planudea. Excerpta historica a Maximo Planude collecta. Vd. Cassii Dionis Cocceiani Historiarum Romanarum quae supersunt, edidit Ursulus Ph. Boissevain, vol. i, Berolini 1895, cxiv-cxxiii. Ioann. Antioch. = Ioannes Antiochenus. Chron. = Chronica. FHG iv, 535-622. Ioseph. = Iosephus Flavius. Ant. Iud. = Antiquitates Iudaicae.

i Macc. = Liber i Macchabaeorum. Plutarch. = Plutarchus. Cato mai. = Cato Maior. C. Gracch. = C. Gracchus. Coriol. = Marcius Coriolanus. Flaminin. = Titus Flamininus. Marc. = Marcellus. Tib. Gracch. = Tiberius Gracchus. Mulier. virt. = Mulierum uirtutes. Praec. gerend. reipubl. = Praecepta gerendae reipublicae. Quaest. Rom. = Quaestiones Romanae. Polyb. = Polybius. Historiae. Excerpta Constantiniana, De sententiis. M = Vaticanus 73 palimpsestus, sec. x/xi. Polybii Historiae, Vol. iv: Libri xx-xxxix, Fragmenta, ed. Theodorus Buettner-Wobst, Lipsiae 1904. Porphyr. = Porphyrius. Chron. = Chronica. FHG iii, 688-725; FGrH 2. Teil, B, 1197-1220 (nr. 260). Strabo. Geographica. Suida. Lexicon. Suidae Lexicon, ed. Ada Adler, Pars i, Lipsiae 1928; Pars iv, Lipsiae 1935.

auctores graeci Zonar. = Ioannes Zonaras. Epitome historiarum. Ioannis Zonarae Epitome historiarum, ed. Ludovicus Dindorf, vol. i, Lipsiae 1868. Zosimus. Historia noua. V = Vaticanus Graecus 156, saec. xi/xii. Apographa codicis Vaticani a Leunclauio, Stephano, Sylburgio usurpata. Zosime, Histoire Nouvelle, Tome i: Livres i et ii, cur. François Paschoud, Paris 1971.

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AUCTORES LATINI Ampel. = L. Ampelius. Liber memorialis. Ascon. = Q. Asconius Pedianus. Pis. = Ciceronis orationis in senatu contra L. Pisonem enarratio. Ciceronis orationum scholiastae, rec. Thomas Stangl, vol. ii, Vindobonae/Lipsiae 1912, 11-21. Ps. Ascon. = Commentarii vel scholia Ciceronis orationum tradita una cum Asconio, sed non ab eo confecta. Diu. in Caec. = Commentarius in diuinationem in Q. Caecilium. C = cod. Sangallensis deperditus. Ciceronis orationum scholiastae, rec. Thomas Stangl, vol. ii, ibid., 185-204. At. Cap. = C. Ateius Capito. C. Atei Capitonis fragmenta ed. Władysław Strzelecki, Lipsiae 1967. Aug. = Aurelius Augustinus. Civ. = De ciuitate Dei. Sancti Aurelii Augustini episcopi de ciuitate Dei libri xxii , rec. Bernardus Dombart et Alfonsus Kalb, Stuttgart 51981. L. Calpurnius Piso Frugi. Annalium fragmenta. HRR, 120-138. Cassiod. = Flauius Magnus Aurelius Cassiodorus. Chron. = Chronica. P = Parisinus 4860, saec. x. M = Monacensis 14613, saec. xi. Chronica minora (saec. iv , v , vi , vii ), ed. Theodorus Mommsen, vol. ii (MGH auct. ant. xi), Berolini 1894, 120-161. Cato = M. Porcius Cato. Orat. = Orationum fragmenta. M. Porci Catonis Orationum Reliquiae, (...) a cura di Maria Teresa Sblendorio Cugusi, Torino 1982. Orig. = Origines. HRR, 55-93. Chronogr. a. 354 = Chronographus anni 354 A = Argentoratensis, iam Bernensis nr. 108, saec. x. V = Vindobonensis nr. 3416, saec. xv. Chronica minora (saec. iv , v , vi , vii ), ed. Theodorus Mommsen, vol. i (MGH auct. ant. ix), Berolini 1892, 39-76.

auctores latini

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Cic. = M. Tullius Cicero. Att. = Epistulae ad Atticum. Antonianus, Venetiis in bibl. Antoniana olim servatus, cuius lectiones a L. Malaespina (Emendationes et suspiciones, 1564) prolatae sunt. Tornesianus, ex commentario S. Bosii in editione Ratiasti Lemovicum 1580. V = Palatinus Bibl. Vaticanae 1510, saec. xv ex. Manutius = ed. Venetiis 1563. Brut. = Brutus. Diu. in Caec. = Diuinatio in Q. Caecilium Nigrum. Lael. = Laelius de amicitia. P = Berolinensis Lat. qu. 404, saec. ix. M = Monacensis Lat. 15514, saec. ix/x. Leg. = De legibus. B = Leidensis Vossianus Latinus F. 86, saec. ix med. A = Leidensis Vossianus Latinus F. 84, saec. ix med. Victorius = M. Tulli Ciceronis opera (...), ed. Petrus Victorius, Venetiis 1536. Mur. = Pro L. Murena oratio. Or. frr. = Orationum deperditarum fragmenta. M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, vol. viii, Fasc. 29: Orationum deperditarum fragmenta, rec. Friedrich Schoell, Lipsiae 1917. CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum consilio et auctoritate Academiae litterarum regiae Borussicae editum (1863 sqq.). Consul. Constant. = Consularia Constantinopolitana vel Hydatiana. Chronica minora (saec. iv , v , vi , vii ), ed. Theodorus Mommsen, vol. i (MGH auct. ant. ix), Berolini 1892, 205-247. Eutr. = Eutropius. Breviarium ab urbe condita. L = Leidensis B. P. L. 141, saec. x in. Vt = Vaticanus Latinus 1860, a. 1313. Fast. Antiat. mai. = Fasti Antiates maiores. Inscriptiones Italiae, vol. xiii: Fasti et elogia, Fasc. i: Fasti consulares et triumphales, cur. Atilius Degrassi, Roma 1947, 161-165. Fast. Capitol. = Fasti Capitolini. Inscriptiones Italiae, vol. xiii: Fasti et elogia, Fasc. i: Fasti consulares et triumphales, cur. Atilius Degrassi, ibid., 25-63. Fest. = Sex. Pompeius Festus. Epitomae operis de verborum significatu Verrii Flacci quae exstant. Ursinus = ed. Romae 1581. Sexti Pompei Festi de verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome, emend. et annot. a Carolo O. Muellero, Lipsiae 1839; cf. ed. Wallace M. Lindsay, Lipsiae 1913.

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Flor. = L. Annaeus Florus. Epitoma de Tito Liuio. B = Bambergensis E iii 22, saec. ix in. L = Leidensis Vossianus 14, saec. xi. N = Palatinus Lat. Heidelbergensis 894, saec. ix. R = Classensis Ravennas 245, saec. xv. T = Ticinensis Ald. 228, saec. xiv. V = Vallicellianus R 33, saec. xiv/xv. Frontin. = Sex. Iulius Frontinus. Aq. = De aquaeductu urbis Romae commentarius. C = Casinensis 361, anno c. 1130 a Petro Diacono exaratus. · = fons codicum recentiorum, anno c. 1430 ex C descriptus. Ed.: Frontinus, De aquaeductu [vd. Bibl.]. Strat. = Stratagemata. Fronto = M. Cornelius Fronto. Operum reliquiae. M. Cornelii Frontonis Epistulae, ed. Michael P. J. van den Hout, Leipzig 1988. Gelasius. Epistulae. Epistulae imperatorum pontificum aliorum (...) Auellana quae dicitur collectio, rec. (…) Otto Günther, Pars i (CSEL, xxxv, 1), Vindobonae 1895, 453-464. Gell. = A. Gellius. Noctes Atticae. A. Gelli Noctium Atticarum libri xx ex recensione (…) Martini Hertz, vol. i, Berolini 1883; vol. ii, ibid. 1885. Hier. = Hieronymus Chron. a. Abr. = Chronicon ad annum post natum Abraham. M = Middlehillensis Berolinensis Phillips. 1829, saec. viii. N = Turonensis Berolinensis Phillips. 1872, saec. ix. P = Patavianus Leidensis ms. Lat. Voss. Q. 110, saec. ix. Eusebius Werke, 7. Bd.: Die Chronik des Hieronymus, hrsg. und in 2. Aufl. bearb. von Rudolf Helm, Berlin 1956. Iust. = M. Iunianius Iustinus. Epitoma Historiarum Philippicarum Pompei Trogi. Lucil. = C. Lucilius. Saturarum fragmenta. C. Lucilii carminum reliquiae, recens. enarr. Fridericus Marx, vol. i, Lipsiae 1904; Vol. II (Commentarius), Lipsiae 1905. Mela = Pomponius Mela. De chorographia.

auctores latini

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Nepotian. = Ianuarius Nepotianus. Epitomae Valerii Maximi quae exstant. Valeri Maximi facta et dicta memorabilia, ed. John Briscoe, voll. i-ii, Stutgardiae et Lipsiae 1998, 800-846. Obseq. = Iulius Obsequens. Prodigiorum libri quae exstant. a = Julii Obsequentis prodigiorum liber, Venetiis 1508. Thomas Hearne, ed. Oxonii 1703. Oros. = Paulus Orosius. Hist. = Historiae aduersum paganos. C = Monacensis 6308, saec. viii. D = Donaueschingensis 18.2, saec. viii. F = Laudunensis 137, saec. viii. H = Parisinus lat. 9665, olim Cluniacensis, saec. viii. J = Einsiedelensis 351, saec. ix/x. L = Laurentianus pl. 65, 1, saec. vi med. Q = Vaticanus Reg. Lat. 296, saec. ix. S = Schedae Sancti Remacli, saec. vii/viii. U = Valentinianus 545, saec. ix. Z = Leningradensis FV 1 nr. 9, saec. ix. ¢ = Rehdigeranus 107, saec. ix/x. Paris = Iulius Paris. Epitome Valerii Maximi. Valeri Maximi facta et dicta memorabilia, ed. John Briscoe, voll. i-ii, Stutgardiae et Lipsiae 1998, 638-793. P = Vaticanus Latinus 4929, saec. ix med. Plin. = C. Plinius Secundus. Nat. = Naturalis historia. C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri xxxvii , post Ludovici Iani obitum recognovit et (...) edidit Carolus Mayhoff, vol. iii: Libri xvi-xxii, Lipsiae 1892. Pomp. Trog. = Pompeius Trogus. Hist. = Historiae Philippicae. Prol. = Prologi eiusdem operae indicantes quae singulis libris contineantur. Quint. = M. Fabius Quintilianus. Inst. = Institutio oratoria. Ruf. Fest. = Rufius (?) Festus. Breuiarium. The Breviarium of Festus. A Critical Edition with Historical Commentary by J. W. Eadie, London 1967. Festus. Abrégé des Hauts faits du peuple romain, Texte étab. et trad. par Marie-Pierre Arnaud-Lindet, Paris 1994.

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Scip. min. = P. Cornelius Scipio Aemilianus Africanus minor. Orationum fragmenta. ORF Malcovati, 123-134. L. Annaeus Seneca rhetor. Contr. = Controuersiae. Schol. Hor. = Scholia in Horatium pseudoacroniana. Pseudoacronis Scholia in Horatium uetustiora recens. Otto Keller, vol. i, Lipsiae 1902. Schol. Iuv. = Scholia in Iuuenalem. Scholia in Iuuenalem uetustiora colleg. recens. illustr. Paulus Wessner, Lipsiae 1931. Serv. = Servius grammaticus. Aen. = Commentarius in Vergilii Aeneida. Servii grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, rec. Georgius Thilo et Hermannus Hagen, vol. ii: Aen. lib. vi -xii comm., rec. G. Thilo, Lipsiae 1884. Tert. = Q. Septimius Florens Tertullianus. Nat. = Ad nationes. Quinti Septimi Florentis Tertulliani Opera, Pars i, Turnholti 1954, 11-75, cura et studio J. G. Ph. Borleffs. Val. Max. = Valerius Maximus. Facta et dicta memorabilia. A = Bernensis bibl. civium 366, saec. ix. A1 = secundae manus emendationes annotationesque in margine. C = Berolinensis lat. 1008 (Lat. fol. 48), saec. xiv. D = Berolinensis lat. 1007 (Lat. fol. 46), saec. xv. E = Guelferbytanus 4365 (Gudianus lat. 61), saec. xiv. F = Guelferbytanus 4344 (Gudianus lat. 39), saec. xii. G = Bruxellensis bibl. reg. 5336, saec. xi. L = Laurentianus olim Ashburnhamensis 1899, saec. ix. M = Montepessulanus 131, saec. xii. V = Vindobonensis 196, saec. xiii. Halm = Valeri Maximi (...) libri novem, rec. Carolus Halm, Lipsiae 1856. Varro = M. Terentius Varro. Ling. = De lingua latina. Vell. = Velleius Paterculus. Historiae Romanae quae exstant. (M) = cod. Murbacensis deperditus, saec. viii. B = lectiones quas e codice Murbacensi se hausisse a. 1520 (in P) Burer testatur. P = editio princeps quam Beatus Rhenanus Basileae anno 1520 imprimendam curavit. A = apographon a Bonifacio Amerbach a. 1516 confectum. Vir. ill. = Incerti auctoris liber de uiris illustribus urbis Romae.

GRAMMATICI Charis. = Flauius Sosipater Charisius. Ars grammatica. Flavii Sosipatri Charisii artis grammaticae libri v , ex rec. Henrici Keilii, in: Grammatici Latini, ex rec. Henrici Keil, vol. i, Leipzig 1857 (= Hildesheim 1961), 1-296; Flavii Sosipatri Charisii artis grammaticae libri v , ed. Carolus Barwick; addenda et corrigenda coll. et adi. F. Kühnert, Lipsiae 1964. Non. = Nonius Marcellus. De compendiosa doctrina. Nonii Marcelli de compendiosa doctrina, ed. Wallace M. Lindsay, voll. i-iii, Lipsiae 1903. Prisc. = Priscianus. Inst. = Institutiones grammaticae. Prisciani institutionum grammaticarum libri xviii , ex recensione Martini Hertz, in: Grammatici latini, ex recensione Henrici Keil, vol. ii, Lipsiae 1855 (= Hildesheim 1961).

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ABBREVIAZIONI USATE NEGLI APPARATI acc. = accusativus. add. = addidit/-erunt. cett. = ceteri. cf. = confer. codd. = codices/-um (…). col., coll. = columna/-ae. coni. = coniecit/-erunt. corr. = correxit/-erunt. def. = defendit/-erunt. del. = delevit/-erunt. dett. = codices deteriores. dub. = dubitanter. edd. = editores. err. = erratum. fort. = fortasse. fr. = fragmentum. i. e. = id est. i. q. = idem quod. l., ll. = linea/-ae. leg. = legit/-erunt. litt. inc. = littera incerta. m. pr. = manus prior papyri. m..alt. = manus altera papyri (sive eiusdem scribae manus sive alia). nom. = nominativus. om. = omisit/-erunt. pap. = papyrus/-i, (…). pl. = plerique, plerisque. pos. = posuit/-erunt. post corr. = post correctionem. praepos. = praepositio/-nis (...). prob. = probabiliter. s., ss. = sequens, sequentes. scil. = scilicet. scr. = scripsit/-erunt. secl. = seclusit/-erunt. s. l. = supra lineam. suppl. = supplevit/-erunt. suspic. = suspicatus est/-i sunt. vd. = vide.

SIGLE USATE NEGLI APPARATI Bart. = Bartoletti: PSI, xii [vd. Bibl.]. Bravo = Bravo-Griffin, Un frammento [vd. Bibl.]. Fuhr = Fuhr, Liviusepitome [vd. Bibl.]. G.-H. = Grenfell-Hunt: POxy, iv [ad POxy iv 668; vd. Bibl.]; POxy, xi [ad POxy xi 1379; vd. Bibl.]. Gigante = Gigante, Sul nuovo testo [vd. Bibl.]. Greenidge in POxy, iv [vd. Bibl.]. Gronovius [vd. Periocharum codices …]. Gruter. = Gruterus [vd. Periocharum codices …]. Gund. = Gundermann, in Die neue Livius-Epitome [vd. Bibl.]. Gwyn Morgan = Gwyn Morgan, The Introduction [vd. Bibl.]. Halm [vd. Auctores latini: Val. Max.]. Hillen = T. Livius, Römische Geschichte xlv [vd. Bibl.]. Iahn [vd. Periocharum codices …]. Jal = Abrégés 2 [vd. Bibl.]. Korn. = Kornemann, Die neue Livius-Epitome [vd. Bibl.]. Lejay = Lejay, Die neue Livius-Epitome [vd. Bibl.]. Liberman = Liberman, À propos d’un fragment [vd. Bibl.]. Luterb. = Luterbacher, Die neue Livius-Epitome; Id., T. Livi periochae [vd. Bibl.]. Mattingly = Mattingly, Scipio Aemilianus [vd. Bibl.]. Meyer = Stefan Meyer in Bravo-Griffin, Un frammento [vd. supra]. M. Müller [vd. Titi Livi codices …]. Müller 1 = Müller, Jahresbericht 1 [vd. Bibl.]. Müller 2 = Müller, Jahresbericht 2 [vd. Bibl.]. Münzer = Münzer, Anmerkungen [vd. Bibl.]. Nicolet in Abrégés 2 [vd. Bibl.]. Oudendorp = Iulii Obsequentis quae supersunt [vd. Bibl.]. Reid = Reid, Fragments [vd. Bibl.]. Reinhold = Reinhold, Die neue Livius-Epitome [vd. Bibl.]. Ross. = Rossbach: T. Livi periochae, fragmenta; Id., Beiträge; Id., Die neuen Periochae [vd. Bibl.]. Rostovtzev = Rostovtzev, Otryvki [vd. Bibl.]. Sanders = Sanders, The Oxyrhynchus Epitome [vd. Bibl.]. Sigonius [vd. Periocharum codices …]. Stuart = Stuart, P. Oxyrhynchus 668 [vd. Bibl.]. van Wageningen 1 = van Wageningen, Ad Livi Epitomam [vd. Bibl.]. van Wageningen 2 = van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae [vd. Bibl.]. Warde Fowler in POxy, iv [vd. Bibl.]. Wissowa in POxy, iv [vd. Bibl.]. Woelfflin = Wölfflin, Zum Chronicon Livianum [vd. Bibl.].

ALTRE ABBREVIAZIONI AE L’Année Épigraphique. CSEL, xxxv, 1 Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum, vol. xxxv, Pars i, Vindobonae 1895. FHG iii Fragmenta Historicorum Graecorum, colleg. (...) Carolus Müller, vol. iii, Parisiis 1883. FHG iv Fragmenta Historicorum Graecorum, colleg. (...) Carolus Müller, vol. iv, Parisiis 1851. FGrH 2. Teil, A Die Fragmente der Griechischen Historiker, von Felix Jacoby, 2. Teil, A, Berlin 1926. FGrH 2. Teil, B Die Fragmente der Griechischen Historiker, von Felix Jacoby, 2. Teil, B, Berlin 1929. HRR Historicorum Romanorum Reliquiae, disp. recens. praef. Hermannus Peter, vol. i, Lipsiae 21914. MGH auct. ant. ix Monumenta Germaniae Historica, Auctorum antiquissimorum Tomus ix , Berolini 1892. MGH auct. ant. xi Monumenta Germaniae Historica, Auctorum antiquissimorum Tomus xi , Berolini 1894. ORF Malcovati Oratorum Romanorum Fragmenta liberae rei publicae, quartum edidit Henrica Malcovati, vol. i: Textus, Augustae Taurinorum 1976. RE Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. ThlL Thesaurus linguae Latinae.

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AVVERTENZE

L

a presente edizione dei papiri di Livio è stata concepita e realizzata sul fondamento dei dati testuali superstiti. Ho integrato direttamente nel testo edito, ma non ogni volta, soprattutto quelle lezioni di cui si sia conservata almeno qualche traccia e che si possano perciò ritenere un po’ più sicure. Altre integrazioni, e specialmente molte delle congetture, sono riportate negli apparati critici. Tale scelta, ne sono consapevole, rende meno agile la lettura del testo, ma è dettata dall’esigenza di riproporre fedelmente le genuine vestigia dei papiri. Sono state indicate, sia con cifre sia con puntini sulla riga di scrittura, il numero delle lettere che, conformemente a criteri paleografici interni, si suppongono cadute. Negli apparati critici, con l’indicazione G.-H. (= Grenfell e Hunt), non seguita da altri nomi, spesso si sottintende il consenso degli editori successivi. Anche se seguita da una diversa congettura (ad es. nella col. iii, l. 18), specie se in prima posizione, tale indicazione G.-H., da sola, implica il consenso degli altri editori. Quando invece richiesto da ragioni di maggiore chiarezza, sono stati distinti o indicati in modo più specifico gli autori delle singole congetture. Quando poi si susseguano due diverse integrazioni o correzioni di uno stesso punto, s’intenda, in mancanza di altre avvertenze, che quella riportata per prima è, in genere, preferita alla seguente (o alle seguenti), o perché accreditata dal consenso di più editori o perché ritenuta migliore. Nell’edizione di POxy iv 668 non è riportato, di solito, il numero di lettere mancanti nelle lacune di destra, a causa della lunghezza sempre diversa e quindi non prevedibile delle righe di scrittura. In generale, sono date indicazioni sul numero delle lettere mancanti soltanto dove si possano accertare in modo sicuro o ben probabile le misure del testo caduto. Il simbolo *** indica un numero non precisato di lettere mancanti: nel testo è stato inserito solo dove necessario (vd., ad es., il caso particolare nella col. iv, l. 13); indicazione della misura indeterminata della lacuna di una riga è data, per lo più, col solo spazio libero, non chiuso o delimitato da altra parentesi quadra. Tale simbolo *** è usato invece più largamente nelle traduzioni. Il testo edito non riproduce di solito la forma dei frammenti del papiro, se non dove si hanno rilevanti particolarità grafiche nella disposizione delle righe (rientri in avanti e in dentro). La traduzione, pur attenendosi strettamente alle reliquie testuali, aggiunge alcune parole o frasi, desunte soprattutto dalle interpretazioni e integrazioni, in specie dove l’originale è lacunoso. Singole questioni linguistiche o storiche, in specie nelle parti riguardanti l’Epitoma, sono discusse per lo più nel commento, ciascuna a sé e nel punto in cui si trova. Non ho inserito, tranne alcuni cenni essenziali nel capitolo introduttivo, trattazioni generali o di sintesi su tali questioni, alle quali converrebbe dedicare, semmai, uno studio specifico. Elenchi e considerazioni complessive si possono ricavare utilmente dall’introduzione di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 1-9. Nella discussione sulle fonti dell’Epitoma, nei libri di cui s’è conservato anche l’originale liviano, ho considerato con maggiore attenzione il confronto con lo stesso Livio rispetto ad altri autori, in specie a quelli greci, che pure non ho trascurato di menzionare

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corpus dei papiri storici greci e latini

e discutere. Riguardo alla materia dei testi esaminati non è data, se non incidentalmente, una trattazione storica generale: i commenti hanno specifica attinenza con i testi e con le questioni filologiche e papirologiche che essi possono implicare. Anche la discussione sulle fonti, quindi, è soprattutto rivolta ai problemi critici e interpretativi degli stessi testi. La trattazione su PSI xii 1291 costituisce parte integrante, naturalmente, della stessa trattazione di POxy iv 668. Il testo e il commento della colonna frammentaria sono quindi collocati nel posto a loro spettante, come è dimostrato, tra le colonne di POxy iv 668. Nei prospetti dei codici di Livio e delle Periochae sono compresi soltanto quelli che sono stati menzionati nei commenti. L’indicazione dei paragrafi nelle Periochae è tratta dall’edizione di Jal, Abrégés 1. Le indicazioni contenute nei prospetti degli Auctores Graeci e degli Auctores Latini si riferiscono soltanto a quelli citati e discussi più frequentemente, o che si considerano di maggior rilievo, nelle parti di commento; secondo lo stesso criterio sono stati menzionati i codici e le edizioni moderne.

PAPIRI E RICEZIONE DI LIVIO NELL’EGITTO ROMANO siccome Livio scrive che non erra Dante, Inferno, xxviii 12

I

ndizio di una diffusione limitata dell’opera di Livio già nei tempi antichi è forse anche il numero davvero esiguo di papiri che ne sono pervenuti (vd. Seider, PlP, ii , 1, 88 s.; Beiträge, 136). POxy xi 1379, edito per la prima volta in POxy xi , 189 (nr. 1379), unico frammento superstite del testo di Livio da un rotolo di papiro, tramanda poche righe mutile di una colonna non integra. Per la scrittura prevalentemente onciale, con rari elementi minuscoli, il papiro è datato tra la fine del secolo iii e il iv. Dall’eleganza delle forme grafiche e dalla composizione regolare della colonna possiamo credere che il libro originario fosse un esemplare di buon pregio editoriale, anche se non un prodotto di gran lusso o di carattere monumentale. Corredato già nella redazione dello scriba da segni di punteggiatura numerosi e abbastanza precisi, il testo doveva essere rivolto a lettori istruiti o concepito per un uso scolastico. Non sembra casuale che l’unico papiro superstite del testo liviano appartenga al racconto delle remote origini. Se è verosimile, infatti, che dell’opera di Livio, per l’ingente mole, esistesse sin dall’inizio un numero complessivamente esiguo di edizioni integrali, possiamo ritenere che sorte migliore avessero avuto i primi libri e, in generale, la prima deca, come parimenti le deche terza e quarta. Così a Roma come in Egitto dovettero avere una certa diffusione anche edizioni o antologie delle parti che si leggevano con maggiore interesse, separate dal resto degli Annali (vd. Begbie, The Epitome, 337). Forse i primi libri dell’opera liviana, col racconto di Romolo e Remo, cui appartiene il passo di POxy xi 1379, erano testo di lettura nella scuola per i rampolli di famiglie di provenienza romana o italica oppure di schiatte originarie del luogo. Il rotolo da cui è derivato questo frammento potrebbe però anche aver fatto parte della cospicua biblioteca privata di un romano o di un egizio, militare o funzionario o ricco uomo di commercio. Per oriundi romani o italici la storia delle origini significava uno speciale legame con la patria; per egizi grecofoni poteva rappresentare una tappa nel processo di assimilazione culturale e linguistica alla romanità. Dalle poche righe superstiti di POxy xi 1379 non si può ricavare un giudizio certo sul suo valore come testimone della tradizione manoscritta dell’opera; si constata però che tale testo corrisponde appieno ai migliori codici medievali della prima deca. Ammessa la probabile datazione del papiro tra la fine del secolo iii e la prima metà del iv, si può credere che proprio edizioni come questa fossero collazionate come esemplari per l’emendatio dei Symmachi e dei Nicomachi (vd. Seider, PlP, ii , 1, 90; Beiträge, 129 s.; 136). Le cure filologiche e editoriali sollecitate dall’illustre famiglia e dalla sua cerchia, e delle quali sono documento una lettera del senatore Quinto Aurelio Simmaco e alcune subscriptiones nella tradizione medievale di Livio, rappresentano certamente il segno di una viva rinascita dell’interesse per l’opera liviana negli ultimi decenni del secolo iv (sull’emendatio dei Symmachi e dei Nicomachi vd. anche Texts and Transmission, 207). Un gruppo di manoscritti o frammenti di manoscritti in onciale delle deche prima, terza, quarta e quinta, prodotti in Italia, testimonia parimenti la rinnovata attenzione e diffusione degli Annali Ab urbe condita tra i secoli iv e v (vd. Seider, PlP, ii , 1, 89-91; Beiträge, 128-152). In quella che si

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può definire come «Propaganda heidnischer römischer Reformation», nel tempo in cui le glorie del paganesimo classico cominciavano a declinare, anche Livio ebbe quindi una parte di rilievo accanto a autori come Virgilio, Cicerone, Sallustio, Terenzio (vd. Seider, PlP, ii , 1, 89; Beiträge, 132). All’incirca nella stessa età, forse già un po’ prima, un frammento come POxy xi 1379 è chiara testimonianza dell’interesse per l’opera liviana, o almeno per determinate sue parti, nell’Egitto romano, dove pure si deve presupporre che la sua diffusione, come nel resto dell’orbe romano, fosse rimasta assai limitata. Si può ritenere a ragione che il frammento di un testo storico scoperto sul ritaglio di un foglio di pergamena scritto su entrambi i lati, avvenuta nel 1986 nel corso dell’esplorazione di un centro monastico tardo-antico e medievale chiamato Naqlun, sulle alture che circondano il Fayyum a sud-est, sia da includere tra i papiri di Livio. La scrittura di questo testo, edito e commentato per la prima volta da Benedetto Bravo, Un frammento, 447-496 (in particolare 472), è un’onciale del tipo più antico, elegante e fluida, nella quale attraverso il contrasto fra tratti sottili e tratti più spessi, sapientemente ricercato nell’esecuzione del ductus, e con svolazzi arcuati adornanti la parte inferiore di alcune lettere, è ottenuto un effetto spiccatamente decorativo, che possiamo ancora apprezzare appieno nel pur esiguo resto, nonostante l’alterazione materiale e il deterioramento che ha subito. In tale ragguardevole scrittura, sicuramente della stessa mano sia nel recto sia nel verso, si riconosce la perizia di uno scriba di professione. Anche qui, dunque, così come in POxy xi 1379, considerato l’elegante effetto chiaroscurale, si può affermare che sia stato utilizzato il calamo con punta larga e morbida, caratteristico delle scritture latine su papiro, il quale realizzava facilmente tratti di spessore diverso (vd. Capasso, Introduzione, 109). Dalla disposizione ordinata delle righe in due colonne per pagina, dall’accurata rigatura del foglio di pergamena e da altri particolari come i capilettera leggermente ingranditi, l’inchiostro di un intenso colore scuro, gli ampi margini della pagina, si capisce che il codice originario, da cui tale frammento è derivato, doveva essere un libro di grande pregio, seppure non un prodotto di carattere monumentale come altri esemplari antichi in scrittura capitale. Dall’esame delle forme grafiche si è collocata la datazione di PNaqlun inv. 15/86, in modo abbastanza sicuro, nel secolo v. Sembra probabile un’origine africana del manoscritto, considerati certi elementi della scrittura che si possono attribuire a scuole fiorite nell’Africa settentrionale (vd. Bravo, Un frammento, 464). Non si può tuttavia escludere che il libro fosse stato prodotto in Italia (vd. Liberman, Un fragment, 22) e solo successivamente importato in Egitto. Che il contenuto del frammento appartenesse alla narrazione di una iusta historia risulta chiaramente dal testo superstite, il quale presenta uno svolgimento narrativo ampio e circostanziato, con una parte nella forma di discorso indiretto (Bravo, Un frammento, 465-467). Miriam Griffin, nello stesso contributo in cui è comparsa la prima edizione (Un frammento, 496-519), ha dimostrato che in PNaqlun inv. 15/86 sono esposte le vicende di Lucio Postumio Megello durante il suo terzo consolato, nel 291 a.C. Dalla Periocha corrispondente risulta che il medesimo contenuto si trovava nel libro xi degli Annali Ab urbe condita. Si è giustamente osservato che il testo del frammento, nonostante qualche svista imputabile a imperizie linguistiche dello scriba, sia disceso da una buona tradizione, passata al vaglio di un grammatico: quindi, si può dire, da un’edizione critica tardo-antica. Oltre a preziose forme arcaizzanti come nouos e suom, vi è infatti fedelmente preservata, nella sua sostanza lessicale e stilistica, la genuina tradizione di un’opera che si rivela d’età classica. Nel sec. v, in Africa o in Italia, dove si crede che il libro fosse stato prodotto, simili cure filologiche e editoriali dovevano esser riservate in prevalenza

papiri e ricezione di livio nell ’ egitto romano

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a opere assurte alla dignità di monumenti letterari. Sembra perciò assai probabile che proprio Livio vada identificato come l’autore del testo contenuto nel frammento, anziché uno storico di minore rilievo oppure un antico annalista, la cui memoria poteva essere venerabile, ma che inevitabilmente era stato ormai superato e soppiantato (vd. Bravo, Un frammento, 470; Griffin, ibid. 514-519). In questi termini la questione storico-critica riguardante PNaqlun inv. 15/86 e il suo testo può essere vista più generalmente nell’ambito della tradizione di Livio nella tarda antichità, testimoniata, come detto, da diversi manoscritti e frammenti di manoscritti, specie in onciale, realizzati tra i secoli iv e v (vd. Seider, PlP, ii , 1, 88-91; Beiträge, da considerare nell’insieme). Nella rinascenza liviana, di cui s’è fatto cenno sopra, non ebbero la parte più importante monumentali esemplari in scrittura capitale, come avvenne invece per Virgilio o per pochi altri autori sommamente rappresentativi: i manoscritti che furono realizzati di Livio, per lo più, erano certamente prodotti di buon pregio, vergati in un’onciale elegante e ricercata; in essi, però, il significato simbolico e ideale, pure implicatovi, si congiunse strettamente con esigenze di più agile fruizione, rivolte alla lettura e allo studio. Si attingeva volentieri, infatti, alla sorgente del grande storico, considerato come uno dei più eloquenti autori di un passato illustre, al fine di ricavarne, con maggior copia che da altri autori, elementi e argomenti paradigmatici, valevoli nella custodia e orgogliosa rivendicazione di tradizioni avite. Nel novero dei libri liviani realizzati in tale ambito, i quali ugualmente ornavano, con opere ancor più diffuse e celebrate, cospicue biblioteche private nell’età tardo-antica, collocheremo a buon diritto il codice di PNaqlun inv. 15/86. Questo manoscritto era anch’esso di certo, così come il rotolo di POxy xi 1379, un bell’esemplare dell’opera di Livio, posseduto forse dalla biblioteca di qualche maggiorente locale, membro del ceto dirigente di provenienza romana o di stirpe indigena romanizzata, nell’Egitto romano. Anche PNaqlun inv. 15/86, come già POxy xi 1379, testimonia quindi in questa regione dell’impero, in uno stadio avanzato dell’evo antico, la ricezione e la presenza di Livio come autore ritenuto classico e forse esibito tra gli emblemi ideali di un’élite colta o del ceto dominante d’origine romana o indigena e romanizzata. Diversamente dal rotolo di POxy xi 1379, tuttavia, che si potrebbe giustamente annoverare tra gli esemplari usati per la collazione dei Symmachi e dei Nicomachi, si ritiene a ragione che l’edizione liviana tramandata nel codice originario di PNaqlun inv. 15/86, più tardo di circa un secolo e mezzo o di due secoli, fosse un frutto di quella tradizione: forse un apografo ricavato direttamente da un autorevole esemplare, esponente della medesima emendatio dei Symmachi e dei Nicomachi (vd. Bravo, Un frammento, 470). Alla seconda metà del secolo v risale anche l’Epistula del papa Gelasio i Aduersum Andromachum et ceteros Romanos qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituunt, nr. 100 della Collectio Avellana (vd. ed. Günther, CSEL, xxxv, 1, p. 457, l. 6), scritta in una data imprecisata del suo pontificato (492-496), nella quale, riguardo alle testimonianze storico-antiquarie sui Lupercali, al par. 12 è citata l’autorità di Livio: «Liuius in secunda decade loquitur». In questo passo, che costituisce inoltre la più antica testimonianza di una divisione dei libri Ab urbe condita in deche, è menzionata, come si vede, la seconda deca, proprio quella a cui apparterrebbe PNaqlun inv. 15/86, se veramente derivato da un codice del libro xi degli Annali. Per singolare congiuntura tale lettera, documentandoci che la seconda deca era ancora letta e conosciuta in quell’età, potrebbe servire indirettamente come argomento per suffragare l’attribuzione liviana della reliquia pergamenacea. Nello stesso Egitto, quindi, così come in altre regioni dell’orbe romano, si può con fondatezza ritenere che una rinascenza liviana perdurasse finanche

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nel secolo v. Dal frammento di Naqlun si ricava infatti che continuavano a esservi prodotti o importati libri di pregio elevato, scritti con ricercata eleganza, che a ragione possiamo ritenere concepiti più per una fruizione effettiva di lettura e studio che come rappresentanza ostensibile di emblematici monumenti. Tali libri liviani si presentavano ormai, in quell’età, nella forma di codici di pergamena; ma nell’imitazione visibile dei più vetusti rotoli evocavano del pari il significato ideale d’un passato ormai evanescente. Chiusa in una crisi senza sbocco, al tramonto del mondo antico, attraverso simili manoscritti di squisita fattura, come doveva essere il codice di PNaqlun inv. 15/86, la classicità pagana poté forse nostalgicamente vagheggiare un estremo sogno di gloria, fissando il tesoro immortale della sua memoria, quasi astratta idealità fuori del tempo e della storia, nell’eleganza suprema della pagina scritta. L’Epitoma di Ossirinco (d’ora in avanti semplicemente Epitoma) era un’opera completamente sconosciuta prima della scoperta, avvenuta nel 1903, dei cospicui frammenti di POxy iv 668: otto colonne, più o meno mutile, da un rotolo di papiro, a cui s’è poi aggiunto, vari decenni dopo, PSI xii 1291, con resti di un’altra colonna dello stesso testo. Poco dopo il ritrovamento uscì la prima edizione, a cura di Grenfell e Hunt (vd. POxy iv ), cui seguirono in breve le altre due, ugualmente fondamentali, di Kornemann (vd. Die neue Livius-Epitome) e di Rossbach (vd. T. Livi periochae, fragmenta). Questo testo, che si presenta come un riassunto selettivo, di carattere per lo più sommario, degli Annali ab urbe condita di Livio, ricalca la stessa suddivisione in libri e partizione temporale in anni consolari dell’opera originale: i numeri stessi dei libri sono intramezzati al testo come una sorta di titoli, messi in evidenza dallo spostamento del margine sinistro verso il centro della colonna di scrittura; i nomi dei consoli entrati in carica sono menzionati in modo formulare all’inizio di ogni nuovo anno, anch’essi in rilievo per un lieve spostamento della riga verso il campo esterno delle colonne. Non desta sorpresa che il ritrovamento più cospicuo tra i papiri liviani sia costituito proprio dai resti di un compendio. Si è detto infatti che la diffusione degli Annali di Livio, per l’ingente mole, fosse sin dagli inizi assai limitata. Edizioni complete dell’opera erano divenute rare già verso la fine dell’evo antico. Neppure nell’ambito della scuola essa poté mai essere accolta nell’estensione originale. Ben presto, d’altra parte, forse sin dalla prima età imperiale, come s’arguisce dalla nota testimonianza di Marziale 14, 190, dovettero prendere voga, specie presso un più vasto pubblico di lettori e discenti, versioni compendiate dell’opera, che ne permettevano una lettura agevole e spedita (vd., ad es., Begbie, The Epitome, 337; Seider, PlP, ii , 1; Beiträge, 132). Nel dibattito critico che, cominciato intorno alla metà dell’Ottocento, ha vigoreggiato fino ai primi decenni del secolo scorso, è stata variamente affermata, discussa o negata l’esistenza di una o più epitomi perdute, da cui sarebbero discesi i vari rami della tradizione liviana (sintesi sulla questione, con essenziali riferimenti bibliografici, in Begbie, The Epitome, 332-334; Schmidt, Iulius Obsequens, 22-31; più ampiamente Alfred Klotz, T. Livius, nr. 9, RE xiii, 1, 824-829; Bessone, La tradizione epitomatoria, in particolare 1245-1248). Si è supposto che già nel secolo i fosse stata realizzata un’epitome di tal genere, la quale poco dopo avrebbe quasi sostituito nell’uso comune l’opera originale. Quest’epitome d’età tiberiana avrebbe costituito un primo grado intermedio di rielaborazione dell’opera originale di Livio e il capostipite di gran parte dei compendi che hanno formato, nel corso dei secoli successivi, la specifica tradizione liviana. Da essa sarebbero derivate le Periochae dell’opera di Livio trasmesse dai codici medievali e altri

papiri e ricezione di livio nell ’ egitto romano 43 compendi come Floro, il De uiris illustribus, Ampelio (vd. Bessone, La tradizione epitomatoria, 1235). Nello svolgimento piuttosto narrativo di un testo come le Periochae, che rivela una cura retorica, ma tende a dare scarsa evidenza all’articolazione cronologica, si è sostenuto che si riflettesse la forma della primitiva epitome perduta. Elementi diversi che si notano in altri testimoni della tradizione liviana hanno invece suggerito l’esistenza di una seconda epitome, la quale, ricavata dalla prima in un’età posteriore, forse già nel secolo ii, si sarebbe configurata come opera autonoma: una sorta di Chronicon, contraddistinto da una netta partizione cronologica, specialmente evidente nella puntuale indicazione dei consoli al principio di ogni anno. Tale Chronicon avrebbe costituito, a sua volta, un secondo grado intermedio di rielaborazione dell’opera originale di Livio e il capostipite di un sottogruppo di compendi, tra i quali, con caratteristiche più spiccate, Ossequente e Cassiodoro (vd. Bessone, La tradizione epitomatoria, 1236 s.). Dopo la pubblicazione delle colonne del rotolo di papiro scoperto a Ossirinco, Kornemann, procedendo dai risultati del dibattito sulla tradizione liviana, ha affrontato accuratamente la questione del posto dell’Epitoma rispetto agli altri compendi (Die neue Livius-Epitome, 68-88). Come si può osservare, lo svolgimento dell’Epitoma, in generale, ricalca l’ordine con cui si susseguono gli argomenti della narrazione di Livio; alcuni punti rivelano senza dubbio un’origine genuinamente liviana del contenuto (vd. Die neue Livius-Epitome, 68 s.; anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 242 s.). Si è ritenuto tuttavia, così come generalmente anche per gli altri testi di questa tradizione, che fonte diretta dell’Epitoma non fosse stata l’opera di Livio, ma una sua versione compendiaria, la congetturale epitoma perduta d’età tiberiana, in cui si sarebbero fusi elementi di una tradizione parallela (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69-71, con bibliografia essenziale). A tale fonte intermedia sono state così attribuite le corrispondenze tra l’Epitoma e le Periochae o tra l’Epitoma e altri testi della tradizione liviana, che si suppongono derivati dalla stessa origine. Si è però notato che l’Epitoma, sia per alcuni particolari del contenuto sia più generalmente nella forma, si discosta talvolta parecchio dalle Periochae e dai testi correlati del medesimo raggruppamento (vd. già Rossbach, Die neuen Periochae, 1021 s.; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 76 s.; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243 s.). Da un sistematico confronto tra le Periochae e l’Epitoma, condotto relativamente ai libri dei quali possediamo anche il testo di Livio, Bingham, A study, 328-365 (vd. anche 458-462) ha potuto confermare che non c’è relazione diretta tra questi riassunti dell’opera liviana, ma che essi sono da ritenere come compendi indipendenti della stessa opera (vd. anche Jal, Abrégés 2, 110-113; nel suo commento, inoltre, per ogni libro liviano è istituito un confronto sintetico tra l’Epitoma e le Periochae; per un tale confronto vd. anche Períocas, 202 s.). Fonte prossima e diretta del compendio di Ossirinco non sarebbe stata quindi, direttamente, l’epitome primitiva, ma il Chronicon più tardo (sec. ii?), ricavato da quella (vd. anche sopra): una «Mittelquelle» da cui sarebbe disceso, attraverso vari gradi, un altro gruppo di testi della tradizione liviana, tra i quali Eutropio, Ossequente, Cassiodoro. Tale Chronicon non si sarebbe attenuto in modo pedissequo alla precedente epitome, ma avrebbe attinto anche a un manuale di carattere antiquario-cronologico, consultato come fonte parallela, compiendo una contaminazione di questo e della stessa epitome con Livio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 71-74; Lier, Bericht, 135; anche Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 5 s., 16-20). Gli altri elementi, poi, che si ascrivono al comune sostrato dell’epitome perduta d’età tiberiana, sarebbero confluiti in questo gruppo di testi ugualmente per il tramite del Chronicon (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 70 s.; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 255; anche Sanders, The Oxyrhynchus Epitome,

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16-29). Dalle caratteristiche di questo Chronicon dipenderebbe la forma stessa dell’Epitoma, che si distingue complessivamente dalle Periochae sia per l’evidenza data alla partizione cronologica sia per l’espressione sobria e essenziale, sovente simile a un sommario. Dal raffronto dell’Epitoma con Ossequente, nonostante qualche scostamento spiegabile per ragioni diverse, s’è osservata una particolare vicinanza di questi testi, soprattutto nell’espressione, che indicherebbe la comune derivazione dal Chronicon come capostipite diretto (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 75-77; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247-249; su tale aspetto, specialmente Schmidt, Iulius Obsequens, 32-44). Da un esame comparativo delle coppie consolari indicate al principio di ogni anno si ricava un gruppo a sé nella tradizione liviana: Cassiodoro e Ossequente, o Cassiodoro soltanto, con l’Epitoma (vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 245 s.; Schmidt, Iulius Obsequens, 50 s.). Tra i compendi discesi dal Chronicon si dovrebbe annoverare anche la breve Periocha 1 a, la quale rappresenta un compendio parallelo del libro I (testo in T. Livi periochae, fragmenta, 1 s.; Abrégés 1, 1 s.), diverso dalla Periocha 1 b, con cui s’inizia la serie conosciuta delle Periochae dei libri liviani. Tale esemplare isolato di una versione differente (che sembra quindi indicare, presumibilmente, l’inizio di un’altra serie, con caratteristiche specifiche) fu forse aggiunto per collazione, a un certo punto, nel processo di trasmissione manoscritta delle Periochae, poiché questa serie presentava una lacuna proprio al principio (Periocha 1 b). Nella forma scarna, sommaria, fatta di enunciati brevi e essenziali, si è vista a ragione una stretta somiglianza della Periocha 1 a con l’Epitoma: in entrambe si avrebbe un riflesso di specifiche caratteristiche formali del Chronicon (ammettiamo questo titolo, in senso generico e puramente indicativo, per denominare questo tipo di compendio liviano, del quale non è improbabile che esistessero altre versioni anteriori all’Epitoma), che si distaccano dalle Periochae e dagli altri compendi presumibilmente discesi dalla prima epitome perduta (vd. Kornemann, Liviusepitome, 1182 s.; Die neue Livius-Epitome, 78 s.; vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 244). La supposizione di Rossbach, Die neuen Periochae, 1022 e Zu den Auszügen, 1309 s., secondo cui l’autore della Periocha 1 a sarebbe lo stesso dell’Epitoma, è però, altrettanto giustamente, ritenuta inverosimile (vd. anche Geschichte der römischen Literatur, 304 s.). Nonostante la grande acribia con cui sono state osservate corrispondenze e discordanze dell’Epitoma con gli altri compendi, bisogna dire che il tentativo di costruire un albero genealogico della tradizione liviana, lungo i cui rami tali testimonianze sono collocate secondo i gradi diversi della loro discendenza dall’opera originale (vd. le sintesi schematiche in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 88; Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 30), resta puramente congetturale. Opportuno si rivela il prudente scetticismo della Begbie, The Epitome, 337 s., la quale, discutendo delle Periochae, nega che tali quadri genealogici delle fonti, laboriosamente approntati dagli studiosi, poggino su elementi sicuri: «the Periochae may have been made directly from the Livy text, though they could equally be from an intermediate copy». Nessun argomento, in realtà, esclude che la stessa Epitoma possa esser derivata direttamente del testo di Livio (vd. Eine Livius-Chronik, a cura di Peter L. Schmidt, in Die Literatur, 338, par. 464). Nella forma compendiaria dell’Epitoma, anzi, sembra presupposto, proprio come nel sommario di un libro, un riferimento organico all’opera originale nel suo insieme, il cui svolgimento è ricalcato secondo lo stesso ordine (vd. Schmidt, Livius-Rezeption, 195). Considerando tale carattere di esposizione per sommi capi, van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae, 108 ha supposto che nell’Epitoma fossero confluite le note marginali desunte da un’edizione di Livio: la sua redazione potrebbe esser così risultata, almeno in parte, da una serie di

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estratti del contenuto del testo liviano cuciti insieme in una successione ordinata. Riguardo alla teoria di Kornemann, secondo cui risulta dimostrata una derivazione dell’Epitoma e di altri compendi liviani da un Chronicon perduto, dubbi sostanziali sono stati espressi già in Drescher, Die neue Livius-Epitome, 293: anziché a linee di discendenza rigidamente fissate in una sorta di albero genealogico, si dovrebbe pensare piuttosto a varie versioni diramatesi da un’epitome originaria. Indice della sostanziale incertezza della questione è anche che attraverso lo stesso procedimento comparativo siano stati ottenuti risultati assai diversi. Schmidt, Iulius Obsequens, 31 (vd. inoltre Livius-Rezeption, 199), ad esempio, ha inteso dimostrare che Ossequente e Cassiodoro, forse in parte anche Rufio Festo, sarebbero derivati dall’Epitoma, la quale può esser discesa a sua volta per via diretta da Livio. Con buone ragioni, quindi, l’ipotesi dell’epitome o delle epitomi perdute è messa in dubbio e, nella sostanza, negata dallo stesso Schmidt (vd., ad es., LiviusRezeption, 200). Tale parere è sostanzialmente condiviso da Jal, Abrégés 2, 113-115, nel cui giudizio è efficacemente riassunta la posizione che oggi si può ritenere come quella più probabile: «les divergences entre POxy iv 668 et Tite-Live sont à la fois trop peu nombreuses et trop minimes pour qu’on puisse admettre l’argument (…) suivant lequel POxy iv 668 ne peut avoir été composé à partir de l’opus integrum de Tite-Live». La questione, amplissima e irrisolta, esula dai fini di questo lavoro, rivolto prevalentemente a un’edizione e commento del testo dei papiri; entrarvi per affrontarla, se si considera anche l’ingente mole di studi cresciuta in molti decenni, richiederebbe ormai uno studio a sé. Non ho inteso affatto trascurare, d’altra parte, le osservazioni su possibili discendenze e relazioni tra i compendi, ma le ho inserite e discusse nel vivo del commento, evitando di ricomporre per astrazione tali dati in un’impalcatura teorica. Poiché gli interrogativi sulla posizione dell’Epitoma in un ipotetico stemma genealogico dei compendi liviani appaiono insolubili, converrebbe ragionare anzitutto sull’aspetto peculiare che contraddistingue quest’opera. La sua natura di compendio, in cui sono abbreviati e riassunti gli Annali ab urbe condita di Livio, sembra rivolta particolarmente a fini didattici e a un uso scolastico (cf. anche Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 224). Possiamo credere, ad esempio, che la netta partizione cronologica dell’Epitoma, ispirata dallo stesso principio annalistico dell’opera liviana, rispondesse in realtà a un intento d’inquadrare fatti e personaggi in una precisa cornice storica, utile ai discenti per fissare con più sicurezza nozioni lontane e quasi astruse. Nella stessa Epitoma si nota inoltre che degli avvenimenti più rilevanti della storia della res publica, come guerre o trattati, sono di solito riportati soltanto cenni sommari, quasi come titoli (vd., ad es., col. i, ll. 6; 12; col. vi, ll. 2-3; 9; alcuni perfino tralasciati, come ha notato Lejay, Die neue Livius-Epitome, 126). Anche qui si può supporre che per esigenze didattiche fossero evitate trattazioni particolari di argomenti più complessi, difficilmente riassumibili nell’agile svolgimento del compendio manualistico e di ardua comprensione per i giovani scolari. In modo simile, la propensione dell’Epitoma a ridurre e fondere in unità sintetiche momenti di una stessa vicenda successivi e distanti nel tempo non sembra il portato di errori o approssimazioni; ciò rispondeva forse a un bisogno di semplificare la materia storica e renderla più agevole a fini didattici (vd., ad es., col. i, ll. 3; 17; col. ii, ll. 17-18). Un simile procedimento di sintesi si osserva anche nelle Periochae (vd. Begbie, The Epitome, 334). D’altra parte, alcuni fatti secondari sono esposti nell’Epitoma in enunciati abbastanza ampi, che talvolta si presentano come episodi o racconti in miniatura. Tali maggiori estensioni narrative sono riservate sovente a vicende di carattere privato o aneddotico (vd., ad es., col. i, ll. 14-17; col. ii, ll. 10-14; 2527-col. iii, ll. 1-2). Anche questo tratto dell’Epitoma si confà a una concezione didattica,

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intesa a ravvivare o suscitare l’attenzione dei discenti, indipendentemente dal significato storico della materia proposta. Anche riguardo alle Periochae, d’altra parte, si è notato un criterio apparentemente arbitrario, la cui logica non è afferrabile, sia nella scelta sia nell’estensione delle parti riassunte: particolare attenzione vi è rivolta a fatti aneddotici, ma non mancano essenziali informazioni su eventi istituzionali di grande rilievo (vd. Brunt, On Historical Fragments, 487 s.; quadro complessivo dei contenuti delle Periochae, raggruppati come categorie, in Bingham, A study, 406-443). Dalle notizie su istituzioni, riti, costumi, con particolari abbastanza precisi, risulta nell’Epitoma un quadro vario e documentato della civiltà romana (vd., ad es., col. i, ll. 3-5; col. ii, l. 4; col. iii, l. 21). Nella materia propriamente storica il racconto dell’Epitoma è più esteso e circostanziato quando si tratta delle gesta, specie militari, di un singolo personaggio: si ritiene a ragione che del legato Quinto Occio fosse riferito anche un altro atto di valore, nelle righe della colonna perduta che precedevano immediatamente l’episodio superstite nel papiro (col. vii, ll. 1-3); in due punti Scipione Emiliano è protagonista di fatti che nell’Epitoma si susseguono, tanto che il suo nome compare a breve distanza (vd. col. iv, ll. 12-15; col. v, ll. 10-15). Anche in tale evidenza concessa all’aspetto esemplare della storia sembra risiedere un intento didascalico (vd. anche Lejay, Die neue Livius-Epitome, 126). Nella ripetizione ravvicinata di certi nomi si potrebbe scorgere un mezzo per agevolare l’apprendimento, forse anche la memorizzazione. Queste osservazioni sulla natura didascalica dell’Epitoma liviana sembrano accordarsi in modo naturale con la valutazione paleografica esposta da Breveglieri, Materiali, 6 e 29 con n. 62, il quale ha individuato in un ampio gruppo di papiri dei secoli iii e iv un carattere prevalentemente scolastico (scritture «scolastiche»): essi sarebbero stati realizzati per l’apprendimento del latino ad uso di individui di lingua greca; rappresenterebbero le «espressioni grafiche più tipiche dello studio del latino (e del diritto romano), quali si poterono avere in ambiente greco-orientale». Alcune particolarità nella forma di nomi propri e vocaboli comuni, che si rilevano in più punti del testo dell’Epitoma, sono invece da imputare per lo più allo scriba stesso, come errori o trascuratezze ortografiche (un elenco ordinato e completo è in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 4-7). Una parte di questi errori doveva trovarsi già nell’esemplare da cui era tratto POxy iv 668; altri hanno avuto origine forse da incertezze di lettura nello stesso esemplare, che si è giustamente supposto «in altrömischer Kursive»; altri sono il risultato della pronuncia tardo-latina, specie se la trascrizione fosse avvenuta sotto dettatura (vd. Die neue Livius-Epitome, 5). Riguardo a certe particolarità che si notano anche nelle Periochae, specie nei nomi, Begbie, The Epitome, 334 s. ha supposto, non senza ragione, che all’origine potrebbe esservi una diversa tradizione del testo di Livio («another line of tradition»). Lo stesso si può supporre almeno per alcune delle forme che nell’Epitoma si discostano dalle versioni più certe. Alla col. i, l. 3, sarei propenso a difendere la lezione particolare Lepidinus come variante genuina, seppure storicamente inesatta (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 15): nel papiro potrebbe esser confluita una diversa tradizione. Nella stessa col. i, alla l. 19 difenderei ]ulio del papiro, tentando l’integrazione Iulio o Lulio, contro l’ovvia correzione in L]iuio, richiesta dalla correttezza del dato storico. È difficile intendere Iul- come deformazione di Liu-: tale lezione sembra quindi genuina e, come tale, derivata da una tradizione diversa, in cui variazioni nell’onomastica liviana fossero già state introdotte. In qualche punto si potrebbe perfino supporre una trasformazione voluta di nomi insoliti o difficili, come per un intento di adeguamento a forme più consuete: ad es., alla col. iii, l. 24, L. Liuius per L. Villius; alla col. i, l. 25, Metellis per Petilliis. Anche simili interventi di semplificazione ono-

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mastica potrebbero essere stati eseguiti per fini didattici, specie se si suppongono discenti di lingua e educazione greca. Di grande interesse, inoltre, certe caratteristiche del latino dell’Epitoma, che potrebbero essersi trovate già nel testo originale: forme eteroclite (homini invece di homines, col. ii, l. 24; in marem invece di in mare, col. iii, l. 17; Marco come nominativo singolare, col. v, l. 2) o particolarità sintattiche, come l’uso di un caso grammaticale diverso da quello regolarmente ammesso (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 8; più cauta, invece, sugli elementi tardo-latini o inconsueti della latinità dell’Epitoma, la valutazione linguistica in Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 224-229). Tali caratteristiche sembrano frutto di un’evoluzione periferica, seppure non necessariamente di età tarda, della lingua di Roma. In ciò, potrebbero costituire una riprova dell’origine dell’Epitoma nella terra egizia e, forse, in cerchie autoctone, non romane. Dove il testo non sia lacunoso o dubbio, si osserva inoltre una propensione dell’Epitoma a terminare gli enunciati con clausole metriche. A questo riguardo, la stessa disposizione del testo nelle colonne di scrittura, in specie dove si hanno righe più brevi, potrebbe rispondere talvolta a tale armonizzazione ritmica del discorso. Tra le clausole che si possono rilevare nelle parti superstiti, esempi di dispondeo sono nelle coll. i, l. 1: Roma¯nı¯ cæsı¯; v, l. 18: Mete¯ llo¯ ca¯ptu¯s; vii, l. 18: consultantibu¯s re¯spo¯ndı¯t; di trocheo e cretico nella col. i, l. 18: crue¯nta˘ [pr]œlı˘ a; di dicoreo nella col. v, ll. 7: de¯pre˘he¯nsı¯; 11: dı¯strı˘ bu¯tu¯m; 15: [consu¯l cre˘a¯t]u¯s; 27: Lu]sitanı¯ su˘ba¯ctı¯; col. vii, l. 9: Viriathu¯m fu˘ga¯uı¯t; di cretico e spondeo nella col. v, ll. 16: dı¯mı˘ ca¯tu¯s ¯e[s]t; exe¯rcı˘ tu¯s cæsu¯s; 25: Carthag]ine¯m cre˘brı¯s prœlı¯; di spondeo e cretico nella col. vii, l. 3: am]ici[ti]æ de¯xtra¯m de˘dı¯t. Anche tali elementi metrici, se consapevolmente attuati, dovevano esser diretti al fine dell’apprendimento, come mezzi di sussidio mnemonico, anziché a una ricerca di decoro stilistico. È verosimile che lo stesso scriba, il quale per le frequenti particolarità ortografiche, specie nei nomi, rivela una conoscenza incerta del latino, fosse di formazione greca (vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1020, che cita il caso emblematico della col. iv, l. 19: philium per filium). Sembra però ingeneroso, e sostanzialmente falso, il giudizio di chi lo vuole nesciente in tale lingua. Di certo egli non era in grado di sanare i guasti testuali, o almeno buona parte di essi, che si trovavano nella tradizione da cui era tratta la sua copia (vd., ad es., col. i, l. 7, dove si può sospettare che righe diverse siano state confuse o sovrapposte). In qualche rara correzione, però, forse eseguita dalla sua stessa mano, si coglie una certa consapevolezza linguistica (vd., ad es., col. i, l. 22; col. iv, ll. 13; 16). Difficilmente inoltre qualcuno che fosse privo di una conoscenza anche soltanto elementare del latino avrebbe potuto trascrivere in modo complessivamente corretto, come si può vedere, un testo assai lungo, seppure non di particolare difficoltà, come l’Epitoma. Tale scriba apparteneva forse allo stesso ambito egizio e grecofono nel quale l’Epitoma, secondo la supposizione che mi sembra più probabile, era letta e studiata come testo scolastico. Ciò non contraddice la supposizione, fondata su risultati archeologici, secondo cui il rotolo da cui è derivato POxy iv 668 sarebbe appartenuto alla biblioteca di un romano, forse un veterano, che abitualmente dimorava nella città di Ossirinco (Turner, Oxyrhynchus, 133; Id., Roman Oxyrhynchus, 148). Tale privato, infatti, per la difficoltà di procurarsi l’opera intera, si sarebbe potuto contentare di un compendio, anche se in una versione fatta ad uso delle scuole; oppure quello posseduto era l’unico esemplare di tal genere che, dimorando nella città egizia, avesse potuto trovare in commercio o far copiare per la sua lettura personale. La presenza dell’Epitoma liviana a Ossirinco conferma, inoltre, che i testi storici avevano suscitato speciale interesse in questa città, come si è potuto osservare dall’esame dei ritrovamenti papiracei (vd. Turner, Oxyrhyncus and Rome, 162).

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1 LIVIUS 1F Ab urbe condita librorum Epitoma, cuius fragmenta servata sunt fere POxy iv 668 et PSI xii 1291 POxy IV 668 + PSI XII 1291 Saec. iii-iv (Grenfell-Hunt, Pack2, Seider); iii ex. (Pattie-Turner); iii (Steffens); iii2 (Thompson); iii1 (Lowe, Bischoff); ii ex./iiiin. (Cavallo, Bassi); ii (Mallon). Prov.: Oxyrhynchus. Cons.: London, British Library, Papyrus 1532 (PLit Lond 120); Cairo, Egyptian Museum, S. R. 3796. Edd.: POxy iv , 95-102 (nr. 668); Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 14-34; T. Livi periochae, fragmenta, 122-148; Calderini, Papiri, 42-51 (nr. 5); PSI xii , 208 (nr. 1291); Cavenaile, CpL, 104-113 (nrr. 33-34); Livy, 2-9, 20-23, 28-31, 34-41, 44-57; T. Livius, Römische Geschichte xxxv-xxxviii , 484-489; T. Livius, Römische Geschichte xxxix-xli , 328-337; Abrégés 2, 116-127; T. Livius, Römische Geschichte xlv , 126 s., 134 s., 142 s., 146-151, 154-157, 160 s., 164 s. Tavv.: POxy iv , tav. vi; New Palaeographical Society, tav. 53; CLA, ii , 26; L’Écriture latine, tav. xxxiii (nr. 46); PSI xii , tav. ix; Bassi, MIG, tav. lv (nr. 152); SLl2, tav. 4c; CLA, ii 2, 26; Seider, PlP, ii , 1, [Abb. 34], tav. xix. Pal.: POxy iv , 90-95 (nr. 668); POxy iv , 36-48 (nr. 657) [verso]; Die neue Livius-Epitome, 112; New Palaeographical Society, [65]; Blaß, Literarische Texte (nr. 364); Catalogue of Additions, 310; Thompson, An Introduction, 298 s.; Schiaparelli, Scrittura latina, 142 s., n. 1; 149 s.; 159-161; Lowe, A hand-list, 43; Catalogue of the Literary Papyri, 93 (nr. 120); Steffens, Lateinische Paläographie, 10 CLA, ii , 26 (nr. 208); Collart, Pll, 120 (nr. 74); Calderini, Papiri, 10; PSI xii , 207-209 (nr. 1291); PSI xii , 209-210 (nr. 1292) [verso]; Mallon, Paléographie, 80-92; Marichal, Ppp iii , 132 (nr. 1291); Marichal, L’Écriture, 25 s., 34; Bassi, MIG, 108-110 (nr. 152); Cavenaile, CpL, 103 s. (nr. 33), 112 s. (nr. 34); Merkelbach, Literarische Texte, 129 (nr. 1157); Roca-Puig, Panorama, 485 s., 488; Pack2, 145 (nr. 2927); Aland, Studien, 111 [verso]; Cavallo, Ricerche, 6, n. 2; Crisci, Collezione, 93; SLl2, 12 (nr. 4c); CLA Supplement, 8 (nr. **208); CLA, ii 2, 26 (nr. *208); Pattie-Turner, Written word, 28 (nr. 35); van Haelst, Catalogue, 190 (nr. 537) [verso]; Casamassima-Staraz, Varianti e cambio grafico, 89-95; Seider, PlP, ii , 1, 88-94; Seider, Beiträge, 132-136; Breveglieri, Materiali, 7-43; Abrégés 2, 108-115; Bischoff, Paläographie, 99-104; Mertens, Les papyrus, 197 (nr. 2927); Buzi, Manoscritti, 101 s. (nr. 21); Cavallo, La scrittura, 111; 170. Comm.: MP3 2927; LDAB 2574.

P

Oxy iv 668 è costituito da sei cospicui frammenti di un rotolo di papiro, nei quali sono superstiti otto colonne non integre, scritte sul recto nel senso delle fibre orizzontali, con ampie parti del testo latino complessivamente ben leggibili; s’aggiungono,

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dallo stesso rotolo, alcuni frammenti di piccola o minima dimensione, dove restano soltanto poche lettere e quasi nessuna parola integra. Contenuto del papiro ossirinchita è un’epitome dell’opera di Livio (da qui in avanti Epitoma), nella quale libro per libro sono riassunti, più o meno sommariamente, un certo numero di argomenti desunti dall’originale, disposti in un ordine di successione conforme, per lo più, a quello della narrazione liviana e suddivisi secondo il procedimento annalistico per i singoli anni, indicati ogni volta in modo esplicito con la menzione dei consoli in carica. Sul verso degli stessi frammenti si trova il testo greco dell’Epistula ad Hebraeos di san Paolo (POxy iv 657; vd. POxy iv , 36-48), scritto nel riuso del rotolo, quando questo, forse verso l’inizio del sec. iv (sulla datazione, vd. anche più avanti), era divenuto inutile o non più utilizzabile per il proprietario, o perché danneggiato a causa della frequente lettura o perché già trascritto su fogli di pergamena (vd. Seider, Beiträge, 134). Ripartita anch’essa in colonne, un po’ più strette di quelle che si trovano sul recto, la scrittura del testo greco si svolge nel senso delle fibre verticali e nella direzione contraria a quella della stesura dell’Epitoma. I resti del Papiro 1532 sono conservati sotto vetro in sei cornici numerate, disposti nell’ordine della successione originaria. Le prime tre colonne, che si susseguono senza interruzione, contengono il compendio dei libri 37-40, nei quali è trattata la storia degli anni 190-179 a.C. Dopo la col. iii il testo s’interrompe; nell’ampia lacuna del rotolo sono cadute più colonne, il cui numero si può precisare confrontando il testo sul verso, dove risultano cadute dodici colonne dell’Epistula. Poiché in questa stesura secondaria sono un po’ più corte, rispetto al testo principale, sia le colonne (16 cm circa) sia le distanze interlineari (2 cm), si calcola che nel tratto corrispondente dell’Epitoma potrebbero esser cadute nove colonne. Il testo, che ricomincia alla col. iv, prosegue quindi in una sequenza complessivamente continua fino alla col. viii, dove s’interrompe definitivamente. In queste ultime cinque colonne è contenuto il compendio dei libri 48-55, nei quali sono trattati gli anni dal 150 al 137. Anche in questa parte dell’Epitoma, tuttavia, dopo la col. vi si constata la perdita di una colonna, dove era compendiato il libro 53, che includeva gli anni 143-142. Delle otto colonne dell’Epitoma superstiti nei sei frammenti di POxy iv 668 si può definire quasi integra, complessivamente, soltanto la colonna vii. Nella colonna ii, dove del pari le righe presentano ampiezza per intero, sono conservati tuttavia soltanto i tratti all’inizio e alla fine; il testo è mancante per una certa estensione nella lacuna al centro, dove è caduta una striscia del rotolo lungo tutta l’altezza della colonna. Tutte le altre colonne sono mutile per tratti più o meno estesi, nelle parti iniziali (coll. i e v) o finali (coll. iii, iv, vi, viii). Nella colonna i la lacuna è abbastanza limitata; nella vi il testo superstite è più esiguo che in tutte le altre. Specie dalle colonne meglio conservate si ricava una descrizione certa della configurazione del testo latino nel papiro. Tutte le colonne sono formate mediamente da ventisette righe (soltanto la terza ne ha ventotto). Le righe sono generalmente incolonnate alla pari nel punto d’inizio; soltanto quelle che contengono la menzione dei consoli, al principio di ogni nuovo anno, sono spostate all’infuori, verso sinistra per chi guarda, per un breve tratto (di solito 1,5 cm). Nella scrittura latina dell’Epitoma, una singola lettera occupa mediamente uno spazio di 0,5 cm; tale misura varia però secondo le diverse lettere e combinazioni. Lo spazio interlineare medio è di 0,4 cm. In presenza delle righe in cui è indicato il numero del libro si osserva una specie di schiacciamento, per il quale risulta ridotto lo spazio interlineare complessivo: nella col. i, ad es., dove tra le ll. 22 e 24 è interposta una riga più

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breve (l. 23), esso misura 1 cm; nella stessa col. i, dove tra le ll. 9 e 12 sono interposte due righe più brevi, una delle quali recante il numero del libro (l. 11), esso è di 1,5 cm. Nella cornice nr. 1, il primo frammento di POxy iv 668, così collocato nell’ordine di successione del testo dell’Epitoma, si può ritenere quasi integro in altezza (25,8 cm); abbastanza ampia la superficie superstite in larghezza (15,8 cm). Del campo di scrittura sono conservate tutte le ventisette righe (18 cm di altezza); nell’estensione un po’ ridotta a causa della caduta di una striscia all’inizio lungo l’intera colonna (intorno a 3 o 4 cm fino alla l. 16,5 cm dalla l. 17), le porzioni residue presentano mediamente lunghezze variabili tra 10 e 15 cm. I margini non scritti, sia superiore sia inferiore, entrambi quasi integri (come sembra indicare la linea del bordo estremo, regolare per brevi tratti), misurano ciascuno 3,9 cm. Sul verso, nella prima colonna del testo secondario, formata da ventotto righe di 13 cm circa in lunghezza e alta 19,5 cm, è contenuta l’Epistula da 2, 14 fino a 3, 9; nella seconda colonna, fino a 4,2. Lo spazio intercolonnare è di 2 cm. I due frammenti che si trovano nella cornice nr. 2, complessivamente integri in altezza (26,8 cm), pur con parecchie sbocconcellature ai bordi, formano un insieme coerente (36 cm di larghezza), che comprende una colonna intera, di cui sono superstiti i tratti iniziale e finale, interrotta al centro da una lacuna ampia da 4,3 a 5,7 cm (tale interruzione del rotolo, per la caduta di un’intera striscia abbastanza uniforme lungo tutta l’altezza, ha determinato la divisione in due frammenti), e una metà all’incirca della colonna successiva. La prima delle due colonne di questa cornice (col. ii) è preceduta dallo spazio intercolonnare, intaccato da vaste sbocconcellature laterali, che la separa dalla col. i. Chiaramente visibile, all’estremità del margine sinistro del frammento contenuto nella cornice nr. 2, alla stessa altezza della l. 17 della col. ii, una m che appartiene alla fine di una riga della col. i: è forse la lettera mancante della parola mutila alla fine della l. 16 (uiru[), che così si integra in modo sicuro: uirum. Delle ventisette righe da cui è formata la col. ii (17,8 cm di altezza) la lunghezza varia dall’una all’altra riga (da 8,9 a 17 cm). In corrispondenza di questa colonna, il margine inferiore misura 4,5 cm, quello superiore 3,7 cm. Lo spazio intercolonnare, che la separa dalla col. iii, è di 5,5 cm. Nella col. iii, interrotta poco prima della metà, è superstite soltanto il tratto iniziale delle ventotto righe da cui è formata. La superficie del frammento, più stretta in alto (5,5 cm nella parte residua della l. 5), s’allarga verso il fondo (7,4 cm nella parte residua della l. 28). In corrispondenza di questa colonna, il margine inferiore misura 4,1 cm, quello superiore 3,6 cm. Sul verso, delle ventisei righe della col. ii dell’Epistula ad Hebraeos (da 3, 9 a 4, 2; 20 cm di altezza) è superstite la seconda metà, per un’estensione di 11 cm. Delle venticinque righe della col. iii dell’Epistula (da 4, 2 a 4, 12; 19,5 cm di altezza) la parte superstite, mutila all’inizio, è di 12 cm. Delle venticinque righe della col. iv dell’Epistula (da 4, 12 a 5, 5; 19 cm di altezza) è rimasto appena il tratto iniziale, per un’estensione di 5,5 cm. Il frammento che si trova nella cornice nr. 3 è integro in altezza (25,8 cm) per un breve tratto nella parte iniziale. La superficie superstite (19,5 cm nel punto più esteso in larghezza) è poi gradualmente ridotta: nella prima metà manca un pezzo abbastanza circoscritto verso il fondo; più avanti è caduta un’ampia area di forma rettangolare. Delle ventisette righe della col. iv, contenuta nel frammento, è integra quindi soltanto la prima metà, fuorché nell’ultima riga, quasi tutta caduta, e nelle due sovrastanti, di cui è rimasta un’estensione di poco superiore a 4,5 cm; la seconda metà, invece, quasi integra nella parte superiore (lunghezza residua del campo della scrittura: più di 13 cm), è completamente perduta sotto la l. 11 fino al fondo della colonna. Il margine superiore è quasi

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integro (4,5 cm) per tutta l’estensione del frammento; del margine inferiore è rimasto soltanto un breve tratto al principio, da cui si ricava un’altezza di 3,4 cm. Sul verso si hanno due colonne mutile dell’Epistula ad Hebraeos: nelle ventiquattro righe della col. v (dalla fine di 10, 8 all’inizio di 10, 22), delle quali è mancante un breve tratto iniziale, è più ampia la parte superstite verso il fondo (fino a 11,5 cm). Dopo l’interlinea di 2 cm, compaiono, ancora nella fascia inferiore del frammento, verso la fine, per un’estensione di 2,5 cm, gli inizi delle righe finali della col. vi (da 10, 29 a 10, 33). Il frammento che si trova nella cornice nr. 4 è integro in altezza (complessivamente di 26 cm) per quasi tutta la sua estensione (23,6 cm in larghezza), eccettuata una lacuna abbastanza ristretta nella parte superiore, verso la fine. Esso include un po’ più della seconda metà delle ventisette (o ventotto) righe della col. v (17,7 cm in altezza; lunghezza media del tratto superstite tra 10 e 14 cm) e appena l’inizio delle ventisette righe della col. vi (18 cm in altezza; lunghezza media del tratto superstite: 3,5 cm circa). Lievi variazioni si rilevano nei margini: in corrispondenza della col. v, il margine inferiore misura 3,7 cm, quello superiore 4,8 cm; in corrispondenza della col. vi, il margine inferiore 3,9 cm, quello superiore 4 cm. Lo spazio intercolonnare, misurato dalla fine della riga più lunga della col. v (l. 5) fino al margine normale dell’allineamento a sinistra, è ampio 6 cm. Sul verso, le ventitré righe della col. vii (19,5 cm in altezza) dell’Epistula ad Hebraeos (da 10, 33 fino a 11, 5) sono superstiti in quasi tutta la loro estensione, mutile soltanto per un breve tratto all’inizio; integre le righe finali (16 cm circa), verso il fondo della colonna. Dopo uno spazio intercolonnare di 3 cm, delle ventitré righe della col. viii dell’Epistula (da 11, 5 fino a 11, 31) è superstite soltanto un breve tratto iniziale. Nella lacuna seguente del rotolo è caduta un’intera colonna sia nell’Epitoma sia nell’Epistula. Del frammento che si trova nella cornice nr. 5, complessivamente integro in altezza (26 cm), eccettuate alcune circoscritte sbocconcellature ai bordi superiore e inferiore, la superficie abbastanza estesa (35,7 cm in larghezza, misurata da un’estremità all’altra) comprende tutta la col. vii (una lacuna interna abbastanza grande interessa il tratto finale di molti versi, dall’alto verso il basso) e la prima metà della col. viii. Dalla fine della riga più lunga della col. vii al margine della col. viii lo spazio intercolonnare misura 7 cm. Anche nella col. vii, alta 17 cm, si rileva la lunghezza molto varia delle righe, da 16,3 cm (l. 16) a 6,5 (l. 3). Della col. viii è superstite invece soltanto la prima metà, la cui estensione è progressivamente maggiore dall’alto verso il basso; nella fascia inferiore del frammento, infatti, la superficie del papiro si prolunga per un altro tratto, dove però una buona parte del testo è mutila a causa di circoscritte lacune interne. Nel margine inferiore si rileva una leggera variazione: esso misura 4,5 cm sotto la col. vii, 3,8 cm sotto la col. viii. Uniformemente di 4 cm, invece, il margine superiore in corrispondenza di entrambe le colonne. Sul verso si trovano le ventisei righe della col. ix dell’Epistola ad Hebraeos (dalla fine di 11, 28 all’inizio di 12, 1) e le ventiquattro righe della col. x (da 12, 1 a 12, 11). All’estremità del margine destro compare appena l’inizio di poche righe della parte superiore della col. xi. Nella cornice nr. 6 sono riuniti i frammenti più piccoli provenienti dal Papiro 1532, tra i quali appartengono al testo dell’Epitoma quelli collocati all’inizio, sul lato alla sinistra di chi guarda. Sui tre frammenti collocati più in basso nella cornice (Frr. c, d, e), che hanno dimensioni minime e dove è superstite poco più di una lettera, non è possibile aggiungere altro. I due frammenti un po’ più grandi (Frr. a, b), collocati in alto nella cornice, sulla cui superficie residua si leggono alcune lettere e soltanto due o tre parole intere, sono stati disposti da Grenfell e Hunt, POxy, iv , 102, secondo l’ordine del ritro-

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vamento. Impossibile, d’altra parte, ricavare qualche elemento certo sul contenuto dei passi cui tali minimi resti appartenevano: poco rilevante, quindi, la proposta di una diversa disposizione (vd., più avanti, il commento). Ai frammenti dell’Epitoma conservati alla British Library si è aggiunto successivamente PSI xii 1291, venuto alla luce nel 1934 dagli scavi di Evaristo Breccia nel Kôm AbuTeir di Oxyrhynchos (vd. Bartoletti, PSI, xii , 207), conservato nella sezione dei papiri greci del Museo Egizio del Cairo (S. R. 3796). Sul recto di questo piccolo frammento, staccato da un rotolo di papiro, si leggono, nel senso delle fibre orizzontali, le parti finali di alcune righe di una colonna di testo latino. L’estensione del frustolo, di ampiezza assai ridotta (7,7 cm dall’uno all’altro dei punti estremi più distanti), risulta quasi integra in altezza (25 cm). La disposizione del testo e le misure, che ho potuto rilevare direttamente nell’esame autoptico del papiro, corrispondono alle caratteristiche dei frammenti maggiori dello stesso rotolo conservati a Londra. Come in questi, le righe del testo, scritte nel senso delle fibre orizzontali, presentano lunghezze disuguali, pur non oltrepassando un termine estremo di delimitazione del campo di scrittura in ciascuna colonna. L’altezza della colonna di PSI xii 1291 è di 17,1 cm, come nella colonna vii (di solito è un po’ maggiore). La porzione abbastanza ampia del margine superiore superstite misura 4,2 cm; quella del margine inferiore, che si dovrà ritenere mutilo di una striscia orizzontale, è di 3,3 cm. Dello spazio intercolonnare, misurato dall’estremità cui arrivano le righe più lunghe (ll. 2 e 27), è residua una porzione di 3,3 cm. Anche le misure del testo scritto corrispondono a quelle dei frammenti maggiori del rotolo: l’altezza di una linea varia lievemente da 0,3 a 0,5 cm, secondo la diversa altezza delle singole lettere; lo spazio interlineare ha un’estensione di 0,4 cm: per conseguenza, l’altezza media di una riga di scrittura includente l’interlinea inferiore risulta di 0,7 cm circa. Già gli elementi indicati sopra suggeriscono un’identificazione di PSI xii 1291 col papiro londinese; dal testo greco sul verso (vd. PSI, xii , 209-210, nr. 1292), scritto nella riutilizzazione del papiro, si ha poi la prova che il frammento laurenziano, ora al Cairo, è derivato dallo stesso rotolo, addirittura in posizione immediatamente contigua a uno dei frammenti di POxy iv 668. Così come nei frammenti londinesi, il testo greco è scritto a rovescio e in senso opposto. Anche la mano si rivela la medesima. Nella colonna mutila di questo frammento abbiamo il testo dell’Epistula ad Hebraeos di san Paolo, dalla fine di 10, 8 al principio di 10, 22: gli inizi delle righe combaciano precisamente con le righe mutile dello stesso passo nella col. v dell’Epistula, che si trova sul verso della col. iv dell’Epitoma. Tale constatazione vale come prova che PSI xii 1291 precedeva immediatamente, in posizione contigua, la col. iv di POxy iv 668. Esso va quindi collocato, nell’ordine di successione delle colonne, subito prima della col. iv, come col. iii bis (così denominato dal primo editore Bartoletti): all’ultima parola di questa colonna (dimicauit) seguiva direttamente, come parte dello stesso enunciato, l’inizio della colonna successiva (aduersus Cha[r]taginienses). Le colonne contengono 27-28 righe lunghe. L’altezza dello specchio di scrittura è di 18 cm circa. L’estensione delle righe varia considerevolmente, senza una regola o un criterio riconoscibili: nella medesima colonna s’avvicendano righe assai corte, non molto frequenti, e righe lunghe talvolta fino a 17 cm. La larghezza media della colonna, nella sua irregolarità, assume un aspetto complessivamente quasi quadrato: tale ampiezza del campo di scrittura risulta caratteristica dei papiri più antichi (Seider, PlP, ii , 1, 91; Beiträge, 134). Dello spazio tra le colonne, dove è superstite, non si può dare una misura precisa, a causa della lunghezza assai variabile delle righe. Tra la col. ii e la iii ho rilevato un’am-

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piezza intorno a 5,5 cm; dalla riga più lunga della col. v (l. 5) all’allineamento iniziale delle righe della col. vi, intorno a 6 cm; dalla fine delle righe più lunghe della col. vii all’allineamento iniziale delle righe della col. viii, intorno a 7 cm la misura più corta, altrimenti varie misure più lunghe. L’altezza dei margini superiore e inferiore del rotolo, nei quali si rilevano piccole variazioni da una colonna all’altra, misura mediamente 4 cm, con piccole variazioni da una colonna all’altra. L’altezza del rotolo è di 26,3 cm. La scrittura è stata tracciata “along the fibres” (Catalogue of the Literary Papyri, 93) con il medesimo strumento scrittorio del frammento POxy i 30 (De bellis Macedonicis), il calamo temperato largo (vd. Casamassima-Staraz, Varianti e cambio grafico, 92). Il cambiamento delle posizioni rispettive del foglio e dello strumento, che ha determinato un diverso angolo di scrittura, spiegherebbe almeno in parte, secondo una nota tesi, le modifiche sopraggiunte nelle forme grafiche del papiro dell’Epitoma rispetto a quelle del frammento De bellis Macedonicis (Mallon, Paléographie, 81-86; vd. più avanti). In modo vario, la scrittura del papiro dell’Epitoma è stata definita come «a medium-sized upright uncial, with some admixture of minuscule forms (b, d)» (Grenfell e Hunt, POxy, iv , 90); «a careful and regularly formed uncial bookhand», con mescolanza di forme minuscole (New Palaeographical Society, [65]); «mainly following the uncial book-hand, but admitting certain minuscle forms» e «an ancestor of the mixed-uncial and half-uncial mss.» (Thompson, An Introduction, 298); «medium sized upright uncial» (Catalogue of the Literary Papyri, 93); «Uncialschrift» con mescolanza di forme minuscole (b, d), definita perciò come semionciale e collocata fra le scritture miste (Blaß, Literarische Texte; Steffens, Lateinische Paläographie, 10; cf. anche Collart, Pll, 120); «semionciale arcaica o rustica» (Schiaparelli, Scrittura latina, 150 e 159; 142 s., n.1, con esempi). Lowe, A hand-list, 43 ha attribuito la mano di questo papiro allo stadio più antico della scrittura semionciale (vd. anche SLl2, 12: «semiuncialis antiquior»). Si tratta di una scrittura calligrafica, ma provinciale, cui dallo stesso Lowe è stata assegnata la definizione di semionciale mista (CLA, ii , 26), conformemente al criterio fissato dallo stesso studioso, A hand-list, 35, di chiamare semionciale una scrittura che, costituita sostanzialmente da elementi onciali, presenti almeno quattro elementi che non appartengono a tale sistema (ad es. b, d, m, r, oppure b, g, m, s, o simili); una categoria parzialmente diversa sarebbe rappresentata da quelle scritture che hanno soltanto una o due di tali forme non onciali. Marichal, L’Écriture, 25 ha preferito chiamare questo tipo di scrittura semplicemente «minuscule», poiché essa rappresenta effettivamente la prima forma di alfabeto minuscolo di cui si possieda un insieme coerente di testimonianze. A tale criterio, per l’Epitoma e per testimonianze simili, s’è attenuto anche Breveglieri, Materiali, 7, definendo queste scritture «minuscole antiche». Nella classificazione degli esemplari conosciuti, lo stesso Marichal ha messo in speciale evidenza la forma «droite» e lo strumento con cui è stata eseguita: un calamo «souple» e con una punta larga, mediante il quale è stato possibile compiere un marcato contrasto fra tratti più spessi e tratti più sottili. Solo uno scriba di professione era in grado di governare con tanta precisione lo strumento scrittorio. Tale raffinato effetto chiaroscurale, che si otteneva con un uso sapiente del calamo dalla punta morbida e larga, era riservato ai prodotti librari realizzati per il commercio. Alla definizione più classica è tornato Bischoff, Paläographie, 99-104, con l’aggiunta dell’area geografica in cui essa si sarebbe formata: «Die ältere (östliche) Halbunziale». La maggior parte degli esemplari, infatti, che danno testimo-

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nianza di tale scrittura, sono di provenienza egizia, anche se ciò non significa necessariamente che abbiano avuto origine in Egitto. In tale ambito, lo stesso Bischoff ha rilevato un carattere complessivamente unitario tra le numerose testimonianze, salve naturalmente le inevitabili differenze dovute anche alla varietà dei tempi e dei luoghi di produzione dei manoscritti. Si può quindi, a buon diritto, ritenere la scrittura del papiro dell’Epitoma come testimonianza di uno stadio essenziale nel processo di formazione della minuscola latina (vd. già Schiaparelli, Scrittura latina, 142 s., n. 1; 149-152; 159-161). Nell’età repubblicana, accanto alla capitale latina, si era formata una scrittura comune usuale, di tendenza corsiva, di cui si conservano testimonianze scritte su papiro o graffite su tavolette cerate e muri. Dall’influenza esercitata da queste nuove forme, con l’apporto di altri elementi esterni, in un processo di trasformazione che si intensificò tra i secoli ii e iv d. C., ebbero origine due nuove scritture: l’onciale, più legata alla scrittura classica romana e all’onciale greca, e la semionciale, vicina alla scrittura comune (su tale definizione e sulle forme grafiche caratteristiche, vd. Lowe, A hand-list, 35). Un giudizio più approfondito sulla scrittura dell’Epitoma si ha in Casamassima-Staraz, Varianti e cambio grafico, 92: saremmo di fronte a una «traduzione in forma libraria di modelli costituiti dagli esiti che sono stati elaborati sul piano corsivo». Ne deriva una definizione di tale scrittura come «usuale libraria», originatasi in un rapporto assai stretto col piano corsivo. Il sistema grafico definito semionciale rappresenta piuttosto uno stadio successivo rispetto alla scrittura dell’Epitoma. Questa si collocherebbe, così, alle origini delle mani onciale mista e semionciale, le quali sono poi divenute comuni per libri ordinari (vd. New Palaeographical Society, [65]). Nella valutazione paleografica di Breveglieri, Materiali, 43, «i caratteri minuscoli (soprattutto il gioco delle aste) si presentano più decisi che nelle altre scritture di pari livello calligrafico per posatezza, uso del chiaroscuro». Si comprova così, per la scrittura dell’Epitoma, quel «ruolo ormai tradizionale di testimonianza di un periodo in cui un simile uso librario della minuscola conservava ancora un carattere spontaneo (…) non condizionato da bisogni estetici e culturali particolari, come quelli della compattezza e uniformità, o anche soltanto di una certa regolarità nell’allineamento dei tratti». Per quanto riguarda gli sviluppi, lo stesso Breveglieri, Materiali, 17 ha osservato che molte scritture minuscole si distinguono dall’Epitoma a causa di fatti successivi di calligrafizzazione: le lettere risultano quindi inserite in un sistema grafico molto più rigido. Con Cavallo, La scrittura, 169 s., possiamo inquadrare la scrittura di POxy iv 668 + PSI xii 1291, in definitiva, fra i numerosi adattamenti posati che testimoniano una minuscola primitiva d’uso librario. Tale scrittura, depurata dagli elementi corsivi, con residui di maiuscola, appartiene pienamente al processo di sostituzione della minuscola alla maiuscola, svoltosi fra il tardo sec. ii e il iv. Un istruttivo confronto è stato istituito fra POxy iv 668 e il frammento POxy i 30 (detto De bellis Macedonicis), derivato da uno dei primi codici di pergamena, la cui datazione può essere fissata tra la fine del sec. i e il ii (London, Papyrus 745: CLA ii 2, nr. 207; Seider, PlP, ii , 1, 52 s., nr. 14). Nella scrittura di POxy i 30 l’esame paleografico mette in evidenza elementi di continuità con la capitale classica, come l’angolo e il ductus o il peso e la forma delle lettere, fuorché in d, h, q, derivate dalla scrittura comune. Anche la divisione delle parole con punti e accenti sulle lunghe ricalca l’uso della scrittura classica. Altri aspetti, invece, rifletterebbero l’influenza della scrittura comune: ad es., come nel papiro dell’Epitoma, mancano i tratti terminali d’appoggio delle aste, caratteristici

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delle forme grafiche classiche. Gli angoli retti, che nelle capitali formavano i due tratti iniziali delle lettere B , D , E , L , sono tracciati in un solo tempo e s’addolciscono in curve, divenute poi caratteristiche dell’onciale. Le speciali qualità e il carattere misto di tale testimonianza grafica erano stati ben rilevati già da Lowe, CLA ii 2, 26: «The script is expert and very ancient and the only extant specimen of its kind, combining elements from Rustic capital, uncial and cursive». Mallon, Paléographie, 81-88 ha osservato che la scrittura dell’Epitoma riflette le medesime forme grafiche del frammento De bellis Macedonicis («écritures de livres ordinaires, modestes, courants, aussi exempts que possible de toute espèce de luxe et d’affectation calligraphique»), ma ne differisce per il diverso angolo in cui è posto lo strumento scrittorio rispetto alla direzione della linea duttrice. La caratteristica distribuzione dei tratti pieni e dei tratti più fini nelle lettere del frammento De bellis Macedonicis (datato, come si è detto, tra la fine del sec. i e l’inizio del ii) dipende infatti da un angolo di scrittura che si può definire, approssimativamente, come acuto. Una rilevante mutazione di tale alternanza grafica nel ductus delle lettere in POxy iv 668 è indizio di una sopravvenuta modifica dell’angolo di scrittura, tendente a divenire angolo retto. Mallon ha potuto concludere, così, con argomenti ancora ritenuti in gran parte valevoli, che una diversa inclinazione dello strumento scrittorio, applicata a lettere assai simili a quelle testimoniate nel frammento De bellis Macedonicis, avesse costituito il fattore tecnico decisivo all’origine delle caratteristiche grafiche della scrittura dell’Epitoma. Tale cambiamento dell’angolo di scrittura, fattore determinante nell’evoluzione delle forme grafiche, sarebbe sopraggiunto in seguito a fondamentali trasformazioni nella forma del libro, col superamento del volumen e le connesse modifiche nella collocazione della superficie scrittoria e nella positura dello scriba nei confronti della stessa. Rispetto a tale assunto, in cui il processo di trasformazione grafica è visto soprattutto come risultato di fattori meccanici e materiali, non sono mancate, successivamente, osservazioni critiche e precisazioni, come quelle avanzate da Cavallo, Ricerche, 6 e n. 2, secondo cui il nuovo angolo di scrittura è stato originato da «fattori tecnici e di gusto»; così anche ibid., 42 s. e n. 3: «cambiamento di rapporto materia scrittoria-strumento (e quindi di angolo di scrittura) e sostituzione del codice al volumen sarebbero pertanto due processi separati». A questo riguardo, rilievi critici e osservazioni anche in Casamassima-Staraz, Varianti e cambio grafico, 73-77; una sintesi della questione in Palma, Per una verifica; vd. anche Cherubini-Pratesi, Paleografia latina, 67 s. Per la datazione di POxy iv 668 un importante termine di riferimento è costituito dal testo greco dell’Epistula ad Hebraeos di san Paolo scritto sul verso del papiro (fibre verticali), quando il rotolo fu riutilizzato qualche tempo dopo (Grenfell e Hunt, POxy, iv , 91). Lo stesso ambito del ritrovamento sembra indicare una datazione intorno al 300 o di poco anteriore: i frammenti del papiro furono trovati infatti con altri documenti databili dal sec. ii fino al iv, ma specialmente del sec. iii (vd. POxy, iv , 91; Seider, PlP, ii , 1, 91; Beiträge, 135). Già Grenfell e Hunt, pertanto, hanno ritenuto probabile che il papiro dell’Epitoma fosse stato scritto «not later than the beginnig of the fourth century, and it more probably belongs to the third»; tra il sec. iii e il iv Pack2, 145; intorno al 300 Seider, PlP, ii , 1, 92. Alla fine del sec. iii hanno assegnato POxy iv 668 Pattie-Turner, Written word, 28; al sec. iii, più genericamente, Steffens, Lateinische Paläographie, 10. In modo più specifico, lo hanno collocato nella seconda metà del sec. III Thompson, An Introduction, 298; nella prima metà Lowe, CLA, ii 2, 26 (in CLA, ii , 26 aveva indicato sec. iii/iv; così anche SLl2, 12), con cui concorda Bischoff, Paläographie, 99. Da queste au-

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torità, sostanzialmente aderenti alla datazione inizialmente espressa da Grenfell e Hunt, si distingue la posizione di Traube, Forschungen, 28 n. 1: «Ich halte ihn (den Papyrus scil.) für jünger als die englischen Herausgeber». Mallon, Paléographie, 80, come si è detto sopra, ha spostato indietro la datazione, ritenendola da collocare solo un po’ più tardi («d’une époque relativement assez peu postérieure») del frammento De bellis Macedonicis, datato tra la fine del sec. i e l’inizio del ii. Nell’intento di precisare tale assunto, Cavallo, Ricerche, 6 e n. 1, avendo datato il testo greco sul verso del papiro dell’Epitoma poco oltre la metà del sec. iii, ha proposto di attribuire la datazione del testo latino sul recto alla fine del sec. ii o all’inizio del iii. Bassi, MIG, 109 ha sostenuto del pari una datazione tra il sec. ii e il iii. Thompson, An Introduction, 299 ammetteva per la scrittura del papiro una datazione molto alta, intorno al periodo in cui l’onciale doveva essere soltanto in corso di formazione; ha però ritenuto più probabile che potesse essere, come altri esemplari più tardi di scritture miste, una variazione dell’onciale già pienamente evoluta. Già Steffens, Lateinische Paläographie, 10 ha descritto le lettere dell’Epitoma come tracciate in modo accurato e regolare, con i tratti principali vigorosi, quelli secondari fini. Il modulo della scrittura di POxy iv 668 è piccolo. Il corpo delle singole lettere occupa mediamente 0,5 cm, con lievi variazioni che possono dipendere o dalla forma di alcune lettere o dalle loro combinazioni. Lo spazio interlineare medio, in una colonna, misura 0,4 cm. Quando però è interposta una riga di carattere particolare, come ad es. un riga recante l’indicazione del libro, la somma di due spazi interlineari e dello spazio della stessa riga più corta è di 1 cm, come ad es. alla col. I, ll. 22-24; quando sono interposte due righe più corte, tra righe normali, tale spazio è di 1,5 cm, come si vede alla col. I, ll. 9-12. Per una specie di schiacciamento, quindi, si è ridotto al minimo lo spazio interlineare tra l’una e l’altra delle righe corte. Secondo la fine analisi compiuta da Mallon (Paléographie, 81-86 e 180 s.; cf. anche Bassi, MIG, 109), già menzionata sopra, le caratteristiche paleografiche di questo papiro dipendono, almeno in parte, da una «orientation» dello strumento scrittorio non più secondo un angolo acuto, in relazione alla riga di scrittura, bensì secondo un angolo quasi retto; ciò avrebbe determinato una diversa distribuzione dei chiaroscuri, secondo un asse verticale: si assottigliano, perciò, i tratti orizzontali, si ingrossano i tratti verticali, che non hanno più bisogno di esser messi in rilievo da un tratteggio terminale. Si ritiene quindi che, in conseguenza del cambiamento di posizione dello strumento scrittorio, la distribuzione dei tratti spessi e dei tratti sottili, nelle singole lettere, risulti invertita rispetto a una scrittura come quella del frammento De bellis Macedonicis, la quale presenta forme grafiche simili, ma è stesa con un angolo conforme all’uso più antico. Tale trasformazione si rileva attraverso un confronto delle singole lettere: nei due tratti della t, per esempio, è spessa l’asta verticale, sottile il taglio, mentre nel frammento De bellis Macedonicis si osserva il contrario; l’asta della i è molto spessa nella scrittura dell’Epitoma, più che in quella del frammento De bellis Macedonicis; nell’Epitoma l’asta della l è spessa, sottile il tratto inferiore, ma il contrario è nel frammento De bellis Macedonicis; similmente, nell’Epitoma sono spessi i tratti verticali e sottili quelli orizzontali di lettere come e e f, oppure sottile il tratto obliquo nella n. Rispetto a POxy i 30, quindi, dove i tratti più grossi sono quelli obliqui discendenti da sinistra e quelli orizzontali o prossimi all’orizzontalità, nella scrittura dell’Epitoma i tratti più grossi sono, invece, quelli verticali o prossimi alla verticale. In conseguenza di tali cambiamenti dell’angolo di scrittura, la mano è stata indotta a modificare anche la morfologia di parecchie

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lettere, come si può ugualmente rilevare attraverso il confronto con la scrittura del frammento De bellis Macedonicis: per esempio, la lunghezza dei tratti finali di t, e, f, nell’Epitoma, compensa ciò che hanno perduto in spessore, mentre gli stessi sono corti e vigorosi nel frammento De bellis Macedonicis. I tratti superiori di e, f, c, g, nell’Epitoma, sono sottili, con ispessimenti a uncino alla terminazione; nel frammento De bellis Macedonicis, invece, gli stessi sono vigorosi e tendono a incurvarsi verso l’alto. Simili differenze si osservano, così, nel tratto verticale della p, che nell’Epitoma è divenuto grosso, o nel tratto orizzontale della h; altre verticalizzazioni, rispetto al frammento De bellis Macedonicis, si osservano nella d, nella q e nella u (Mallon, Paléographie, 82 s.). Il carattere misto di questa scrittura è stato ben rilevato sin dalle prime analisi paleografiche (vd., ad es., Steffens, Lateinische Palaographie, 10): alcune lettere, come n, s, t, conservano, più o meno, le forme grafiche dell’alfabeto capitale; altre, come a, e, f, g, h, preludono già alle forme onciali; altre, come b, d, l, m, p, q, r presentano caratteristiche ormai spiccatamente minuscole. L’influenza greca sarebbe da rilevare in a, e (CLA, ii 2, 26). Nella a, in particolare, l’attacco del secondo tratto è leggermente spostato verso destra e lo stesso secondo tratto risulta verticalizzato e meno inclinato. Si può ritenere che tali caratteristiche, diverse da tendenze più o meno coeve, come per esempio nel frammento De bellis Macedonicis, siano ispirate dall’alfabeto greco, per una consapevole imitazione delle forme greche da parte dello scriba (Mallon, Paléographie, 84; per una diversa posizione, vd. Casamassima-Staraz, Varianti e cambio grafico, 75 n. 67). Secondo Bassi (MIG, 109), le lettere b, d, h, p, q, r provengono dalla scrittura comune; le lettere c, f, i, l, m, o, s, u, derivate dalla capitale, assumono il modulo della scrittura comune. Alcune lettere salgono sopra la linea: b, d, h, l; altre scendono sotto la linea: f, p, q, r. La lingua della e, il tratto medio della f, il taglio della t tendono di solito a toccare la lettera seguente (Steffens, Lateinische Paläographie, 10). Secondo le categorie elaborate da Breveglieri (Materiali, 29), delle lettere caratterizzanti per le scritture «scolastiche», l’Epitoma presenta g, r, s, t. Un indizio dell’antichità della scrittura di POxy iv 668 è stato osservato nella mancanza di un ispessimento di rinforzo («keulenförmige Verstärkung») nei tratti delle lettere che si prolungano in alto (Bischoff, Paläographie, 100). La a è triangolare, leggermente più larga delle altre lettere, simile a una delle forme comuni di ·. Netta l’opposizione nel tratteggio: vigoroso il tratto destro, discendente, con attacco a piccolo uncino; a sinistra due tratti sottili e vicini formano un angolo acuto (vd. New Palaeographical Society, [65]; Steffens, Lateinische Paläographie, 10). Si può dire che questa lettera è di forma «onciale arcaica», normale nelle altre scritture con chiaroscuro (vd. Breveglieri, Materiali, 22); costituisce una particolarità, tuttavia, la pancia molto a punta, già rilevata da Lowe (vd. CLA, ii , 26). La b è di forma minuscola: il primo tratto, discendente, con attacco a piccolo uncino, è un po’ ondulato; il secondo, che forma la pancia, talvolta aperta, s’ispessisce alla curvatura. Nella d, ugualmente di forma minuscola, il tratto destro si presenta vigoroso e dritto, ampia la linea curva (vd. Steffens, Lateinische Paläographie, 10), che s’assottiglia nei punti d’attacco. Nella e, di forma onciale, piccola goccia all’apice e tratto discendente ben curvo e ispessito; fino e molto prolungato, invece, il tratto medio, che si estende fino a 0,5 cm e tocca di solito la lettera seguente. La f, fluttuante tra onciale e minuscola (vd. Thompson, An Introduction, 298), è costituita da un’asta verticale discendente e da due tratti orizzontali: il tratto superiore è minuto e un po’ arcuato, con notevole empattement per lo staccarsi del calamo verso il punto di attacco del tratto me-

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dio (vd. Breveglieri, Materiali, 21); questo, poi, fino e lungo (vd. Steffens, Lateinische Paläographie, 10), si prolunga fino a legarsi con la lettera seguente. La g, onciale (vd. Marichal, L’Écriture, 44 s.), si distingue poco dalla c, essendo appena suggerita la coda (vd. CLA, ii , 26), fatta con un brevissimo tratto perpendicolare verso il basso dalla estremità inferiore della curva; le due lettere possono essere, perciò, facilmente confuse dallo scriba (così, ad es., nella col. i, l. 27; vd. New Palaeographical Society, [65]). In entrambe queste lettere, il corpo grafico è costituito da due tratti semilunati, opposti l’uno all’altro, ma convergenti in avanti, il cui ductus, spesso nelle curve, s’assottiglia alle giunture. Nella c, il primo tratto forma una curva regolare, senza empattement; il secondo tratto è obliquo verso l’alto (circa 20°), con la stessa inclinazione del calamo come all’attacco del primo (vd. Marichal, L’Écriture, 47 s.). Il medesimo procedimento si può presupporre per descrivere la sommità delle lettere e, f, m, r, s. La h è onciale di forma regolare, costituita da due tratti discendenti: un’asta verticale dritta e un po’ spessa, con minimo trattino d’attacco all’apice; una gamba con arco ben pronunziato, il cui ductus modulandosi è sottile all’inizio, più spesso nella linea discendente, fino allo stacco un po’ marcato. Nella l, lettera che sale sopra la riga e spesso anche scende un po’ sotto, il tratto inferiore è ora ad angolo, ora arrotondato («flat», vd. New Palaeographical Society, [65]); all’apice superiore c’è talvolta un trattino d’attacco, che curva un po’ indietro (vd. Steffens, Lateinische Paläographie, 10). Nel giudizio di Breveglieri (Materiali, 11), le caratteristiche di questa lettera, con l’asta sviluppata in altezza e prevalente sulla base, corrispondono alla minuscola corsiva. La m è di forma minuscola: alla prima gamba rettilinea ne seguono altre due, in cui la parte iniziale, esile e attaccata sotto l’estremità superiore del precedente, sale leggermente da sinistra a destra, prima di ricadere per formare il pieno (vd. Breveglieri, Materiali, 30). L’ultimo tratto, allungandosi, tende talvolta a legarsi con la lettera seguente. Nella n, di forma capitale, il primo tratto spesso scende sotto la linea; è da rilevare la posizione particolare del tratto medio, che si attacca un po’ sotto l’apice della prima gamba e, terminando verso la metà della seconda, risulta poco inclinato (vd. Steffens, Lateinische Paläographie, 10; CLA, ii , 26). La dimensione piccola della o, costituita da due tratti semilunati con ispessimento nella curvatura, è derivata senza dubbio dalla calligrafia greca (CLA, ii , 26). Simili le forme della p e della q, imperniate su spesse aste perpendicolari, che scendono molto sotto la riga. La pancia della p è poco sviluppata e resta in alto rispetto alla riga di scrittura (vd. CLA, ii , 26); la pancia della q, un po’ più estesa in lunghezza, è formata da due tratti convergenti verso l’asta, che si saldano all’attacco curvilineo, con ispessimento nel punto di svolta, di quello inferiore. Nella r l’asta verticale è lunga e discendente. Il secondo tratto, ondulato, si distacca dall’asta, ma con l’estremità della curva finale tocca la riga o arriva quasi a toccarla; il ductus, modulandosi, è sottile nell’attacco a punta e più spesso nelle curvature. Nel giudizio di Breveglieri (Materiali, 15) questa lettera conserva molto della forma capitale, come dovrebbe mostrare il confronto, ad es., con la capitale semicorsiva o corsiva usata nei testi militari per mettere in rilievo certe righe o anche per intere liste di soldati e in documenti di altra natura. Nella s, capitale, «rather stiffly formed» (New Palaeographical Society, [65]), il tratto superiore si attacca spesso ad angolo, come nella corsiva (vd. Steffens, Lateinische Paläographie, 10). In questa lettera le forme della capitale hanno subito un processo di riduzione e appiattimento; tracciata in due tempi, il primo ha uno svelto rivolto all’indietro, nella stessa direzione (e verso opposto) del secondo, costituito da un tratto, a sua volta ben poco incurvato (vd. Breveglieri, Materiali, 22).

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Possiamo anche definirla costituita da tre tratti (vd. CLA, ii , 26), se si considera che quello medio è una linea spezzata, la quale piegandosi a angolo cambia direzione. Nella t, capitale, l’asta verticale è breve, la traversa alquanto ampia e fine, tracciata con svelto movimento da sinistra a destra e con distacco del calamo nella direzione stessa di questo movimento, senza empattement (vd. Breveglieri, Materiali, 21); con il suo prolungamento, essa tende a congiungersi alla lettera seguente. Simile il tratto verticale della i, piuttosto corto e spesso; punte lievemente marcate all’attacco e al distacco. Più larga delle altre lettere la x, dei cui tratti obliqui l’uno, più spesso, con attacco a punta, s’oppone all’altro sottile, con estremità a piccola goccia. Nella u, in due tempi, il primo tratto ha un attacco verticale e s’incurva in basso piegando verso destra, per assottigliarsi e toccare con una punta il secondo tratto, che invece, scendendo a piombo, serba compatto il suo spessore. I titoli recanti l’indicazione di un nuovo libro dell’opera liviana, il cui compendio è contenuto nel testo successivo, sono collocati nella fila stessa delle righe di una colonna, ma spostati nettamente, di parecchi centimetri, più al centro; non presentano particolari ornamenti. Le righe in cui sono menzionati i consoli dell’anno sono spostate verso l’esterno, nel margine sinistro (per chi guarda), di tre lettere circa (1,5 cm). Le prime lettere di una riga, specie al principio di una colonna, possono presentarsi un po’ ingrandite. Non c’è punteggiatura. Il punto si trova sovente, ma non ogni volta, dopo le abbreviazioni. Usualmente sono abbreviati, secondo le normali consuetudini, i praenomina. Costituisce invece una particolarità del papiro dell’Epitoma l’abbreviazione dei titoli ufficiali (vd. Bilabel, Siglae, 2310, ll. 27-36): cos., pr., trib. pl. (trb. pl. alla col. vii, l. 20). Regolarmente si ha anche l’abbreviazione lib., titolo caratteristico di ciascuno dei libri compendiati. Alcune abbreviazioni meno consuete compaiono raramente: b. = -bus in omnib. (= omnibus), alla col. viii, l. 17. Altre abbreviazioni risultano proprie soltanto dell’Epitoma: pass. = passa (col. i, l. 15); Masiniss. = Masinissae (col. v, l. 13). Alla col. iv, l. 3, la scritta dcu ․ è stata intesa come un’indicazione numerica, con cui s’esprimeva la cifra totale di una pena pecuniaria: dc (seicento). Anche la lettera seguente, incerta a causa della lacuna (u, i ?), faceva forse parte della stessa cifra: dci. Un’indicazione numerica si cela forse anche nell’abbreviazione ccd– ∞[∞ alla col. ii, l. 24, che è stata intesa in modo vario. Nella col. vi, l. 9, come iniziale del praenomen abbreviato L. (L. Mumanus: il nomen è una variante erronea per L. Mummius: vd. l’apparato critico), si osserva un tratto congiuntivo nella forma di una s rovesciata, con curvature arcuate, che unisce senza stacchi l’abbreviazione e la m iniziale del nome seguente. La stessa rarità delle abbreviazioni, nel testo dell’Epitoma, può essere compresa come un segno di antichità del papiro (Seider, Beiträge, 134). Un ampio elenco delle testimonianze di questa scrittura si trova in Marichal, L’Écriture, 26-29. Riguardo a questo elenco, tuttavia, si vedano anche le importanti osservazioni e precisazioni di Breveglieri, Materiali, 8-28 e 42 (la scrittura dell’Epitoma ha «rapporti solo generali con le altre dell’insieme delle minuscole»). Un cospicuo numero di testimoni è attribuito da Marichal allo stesso raggruppamento dei papiri di Livio POxy iv 668 e POxy xi 1379, nel quale sono riunite, secondo i criteri di classificazione adottati in questo elenco, le scritture che presentano una forma diritta delle lettere e che sono state eseguite con un calamo morbido e dalla punta larga, mediante il quale è stato compiuto un contrasto fra tratti più spessi e tratti più sottili. Si può ritenere anzitutto, con Breveglieri, Materiali, 32, lo stesso POxy xi 1379 come «rap-

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presentativo dello stesso episodio della scrittura latina»; la scrittura di questo papiro è giudicata infatti «sulla stessa linea di quella dell’Epitome e forse ancor più di quella del papiro bolognese, se si considera la forte bilinearità». Una notevole somiglianza con POxy iv 668 si rileva nelle forme grafiche di PBon 5, costituito da tre frammenti derivati da un rotolo di papiro della fine del sec. iii, su cui è scritto un epistolario greco-romano (CLA Supplement, nr. 1677; vd. Marichal, L’Écriture, 26 e 34; Seider, PlP, ii , 1, 94 s.; Bischoff, Paläographie, 98). Più in particolare, Breveglieri, Materiali, 30-32 ha notato un legame della s alla fine della riga con la s nel papiro dell’Epitoma; anche nella m i tratti risultano disposti come in quell’esemplare. In modo simile, le pance delle lettere astate s’allungano nella direzione della riga di scrittura, specie in b e q. Tale allungamento delle pance, che è nota dominante nella a, rappresenterebbe lo sviluppo di una tendenza già implicita nell’Epitoma: sarebbero favoriti i movimenti del calamo che si compiono nella stessa direzione in cui si svolge la scrittura. Si coglie quindi, in tale esemplare, il massimo avvicinamento alla scrittura dell’Epitoma, ma con un carattere più nettamente bilineare e un minore slancio verticale. PBon 5, derivato del pari da rotolo di papiro, appartiene ancora, così, alla tradizione libraria dell’Epitoma. Molto a simile a quella dell’Epitoma, ma un po’ più calligrafica, è anche la scrittura dei fogli PCairo 85644 + PMil 1 + PRyl iii 478, da un codice di papiro di uso scolastico (sec. iii-iv o iv-v), in cui gruppi di versi dal libro i dell’Eneide sono suddivisi ciascuno in due o tre righe, con traduzione sull’altra colonna del foglio, a destra di chi guarda (vd. CLA ii 2, nr. 227; CLA iii , nr. 478; Marichal, L’Ecriture, 26 e 34-36; Seider, PlP, ii , 1, 98100; Bischoff, Paläographie, 99; di questi frammenti si veda ora l’edizione in Fressura, PRyl 478). Secondo Bassi, MIG, 109, questo papiro, con POxy iv 668 e altri esemplari coevi o poco più tardi, come ad es. POxy i 31 e PRyl iii 472, rappresenta assai bene il processo di formazione della nuova scrittura romana. Notevoli vi risultano lettere come la s e la g, più evolute per la vitale influenza della scrittura comune (vd. già Mallon, Paléographie, 88). Con la scrittura greca a fronte è notata inoltre un’analogia formale nelle lettere comuni: a, n, o, p, t. Anche in PBerol 6757, frammento De iudiciis da un codice di pergamena (sec. iii-iv o iv-v), si trova la stessa scrittura, definita da Lowe «squarish, early half-uncial recalling the archaic half-uncial of the Livy Epitome», che si può supporre sia stato scritto nella stessa regione dell’Epitoma (CLA viii , nr. 1033; Marichal, L’Écriture, 26; Seider, PlP, ii , 2, 61-63.; Bischoff, Paläographie, 99). In questo frammento Breveglieri, Materiali, 29 s., ha riconosciuto una «corrispondenza effettiva con le forme dell’Epitome», tuttavia ha osservato qualche diversità nell’esecuzione di certe forme grafiche, come le pance meno allungate, per una tendenza a ridurre le curvature; inoltre, i pieni e i tratti sottili, rispettivamente, sono disposti in modo perpendicolare e parallelo alla riga. Forme più o meno simili, pertinenti a questo sistema grafico, si osservano anche in altri testimoni, come PAntin i 22, frammento di un’opera giuridica da un codice di pergamena con due colonne per pagina (sec. iv), la cui scrittura è stata definita da Roberts, PAntin, i , 48 «a small and elegant mixed oncial» (vd. PAntin, i , 47-51; Marichal, L’Écriture, 26); PArangio-Ruiz, frammento da un codice di papiro (sec. iv) sulla successione ereditaria (Marichal, L’Écriture, 26; Seider, PlP, ii , 2, 55 s.); PReinach 2140, due frammenti da un codice di papiro (sec. v) con un glossario latino-greco (vd. CLA V, nr. 699; Marichal, L’Écriture, 26); il Frammento Leidense (Cod. Leid. B.P.L. 2589), da un codice di pergamena (sec. iv) con le Sententiae di Paolo (vd. CLA x , nr. 1033; specifico oggetto dell’ampia trattazione di Marichal, L’Écriture; Seider, PlP, ii , 2, 48-50; Bischoff, Paläo-

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graphie, 99). PAntin i 29 è formato da cinque frammenti di una pagina da un codice di papiro di buona qualità, datato al sec. iv, che conteneva «a superb edition of the Georgics»; «the hand (…) an impressive and square mixed uncial: m and r have the half-uncial form, while b and d both show cursive influence»; «a fully literary hand in which the mixed script was used (…) because it was preferred» (Roberts, PAntin, i , 75). Tale scrittura del testo principale, in cui è riportato un passo delle Georgiche virgiliane tra i libri ii e iii, è tracciata in forme diritte per mezzo di un calamo con punta larga e morbida (Marichal, L’Écriture, 26). Ai margini si trova quindi un commento, le cui forme grafiche si avvicinano ancora di più alla mano dell’Epitoma, con alcuni particolari quasi uguali, come ha notato Lowe, CLA Supplement, 13 (nr. 1708): «The script of the commentary is essentially the same as that of the text and might be described as its “lower case” (…) the first upright of n goes below the line as in the Livy Epitome». Dal gruppo dei manoscritti di origine orientale si distingue l’unico scritto in ambito occidentale, in cui si è ravvisata una vera semionciale con le medesime caratteristiche: è il Cod. Basilicanus D. 182 con il De Trinitate di sant’Ilario di Poitiers (sec. iv-v, prima del 509-510), scritto probabilmente a Cagliari nella scuola di Fulgenzio di Ruspe e Fulgenzio Ferrando (vd. CLA i , nr. 1a; Marichal, L’Écriture, 27). Forme grafiche diritte, ma tendenti più o meno agli sviluppi corsivi e tracciate con un calamo dalla punta dura, sono caratteristiche di un altro raggruppamento di testimonianze, tra cui si notano ugualmente, tuttavia, esemplari assai vicini al papiro dell’Epitoma. PRyl iii 472, un frammento liturgico latino da un codice di papiro (sec. iiiiv), è stato definito da Roberts, PRyl, iii , 51, in confronto all’Epitoma, «the closest parallel to this hand»; a parere dello stesso editore, inoltre, «the two manuscripts are not separated by any long period» (vd. PRyl, iii , 49-56; CLA Supplement, nr. 1720; Marichal, L’Écriture, 28; Seider, PlP, ii , 2, 136-139; Bischoff, Paläographie, 99). A tale gruppo appartengono anche i frammenti POxy viii 1097 + POxy x 1251, da un codice di papiro (sec. v), con orazioni di Cicerone, la cui scrittura è stata definita da Lowe «a very tiny uncalligraphical half-uncial with some cursive elements» (vd. CLA ii 2, nr. 210; Marichal, L’Écriture, 28). In questo frammento si è osservata la somiglianza di forme grafiche come la s e la g con gli esemplari, già menzionati e descritti, di PBerol 6757 e del gruppo PCairo 85644 + PMil 1 + PRyl iii 478 (vd. Mallon, Paléographie, 88 s.). In POxy i 31, un piccolo frammento virgiliano da un codice di papiro (sec. v) scritto sul recto e sul verso (vd. CLA ii 2, nr. 134; Marichal, L’Écriture, 28; Seider, PlP, ii , 1, 119 s.) si è ravvisata qualche somiglianza con il papiro dell’Epitoma; la sua scrittura è stata giudicata però più nettamente semionciale, la mano più piccola e meno ornamentale (New Palaeographical Society, [2]). Altre testimonianze simili a questa, come POxy vi 884, da un codice di papiro (sec. v), con passi del De Catilinae coniuratione su entrambi i lati (vd. CLA ii 2, nr. 246; Marichal, L’Écriture, 28; Seider, PlP, ii , 1, 102-104; Corpus dei Papiri Storici, B, 2, 33-50; in particolare, 34-40), e il frammento De formula Fabiana, PVindob L. 90 + PBerol 11753, scritto con calamo duro su codice di pergamena (sec. iv), con lettere inclinate a destra (vd. CLA viii e CLA x , nr. 1042; Marichal, L’Écriture, 27; Seider, PlP, ii , 2, 56-59; Bischoff, Paläographie, 101-103), mostrano che l’uso di scritture «mixed hand» proseguì in Egitto per le opere classiche (vd. Thompson, An Introduction, 298, nr. 95, n. 2). Pintaudi, Frammenti letterari inediti, 160 s. ha osservato che la scrittura di una lacinia membranacea con citazione virgiliana (Aen. 11, 12-13) in Carisio, Ars gramm. 275, 12-15 Keil I (= 362, 23-26 Barwick), ricavata dalla parte superiore di un foglio di codice di per-

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gamena, presenta una scrittura assai vicina a quella del papiro dell’Epitoma e alla semionciale del tipo b-n. Testimonianze di una mano simile a quella delle scritture del gruppo ora descritto si rilevano anche in alcuni marginalia coevi. Come già lo stesso Thompson, ibid., aveva notato, costituiscono un bell’esempio di «mixed writing» le note aggiunte a un manoscritto di san Girolamo con la versione latina del Chronicon di Eusebio (Oxford, Bodleian Library, Ms. Auct. T. II.26; CLA II2, nr. 233a). Le forme grafiche di questi marginalia, che corredano il testo principale (in onciale; metà del sec. v), sono parimenti da classificare tra le varie espressioni dell’onciale mista, forse da attribuire al sec. vi: esse appaiono eseguite in «a highly skillful hand» (Lowe, ibid., 32); diversamente dall’Epitoma, però, sono inclinate e scritte con un calamo dalla punta dura (Marichal, L’Écriture, 27). Assimilabili a questi sono i marginalia del Codex Vaticanus Lat. 5750, un palinsesto di Giovenale e Persio. Coevi alla scrittura principale, una capitale rustica dell’inizio del sec. vi, tali marginalia sono stati eseguiti in un’onciale mista, che include elementi semionciali (b, d, s): «sloping mixed script» (Lowe, CLA i , 11, nr. 30). Mallon, Paléographie, 89-92 ha registrato testimonianze di lettere molto simili anche nelle iscrizioni, fuori dell’Egitto. In Tunisia, a Sousse (antica Adrumetum), nella catacomba del Buon Pastore, la scritta donata in pace, incisa su una tegola, appare come «un type parfait de l’écriture de l’Epitome». In un’iscrizione cristiana (Aen. 5, 1 e chrismon) tracciata con punta secca, prima della cottura, su un mattone trovato a Aceuchal, in Spagna, e conservato al Museo di Mérida (nr. 492), si osserva che la forma di alcune lettere, verso la fine del breve testo, è quella della scrittura comune, molto simile all’alfabeto dell’Epitoma. Anche nelle lettere precedenti, tuttavia, che presentano la forma capitale e sono tracciate nel ductus classico, l’angolo di scrittura è mutato: non più chiuso, ma aperto. Si può ritenere che la mano fosse quella di uno scriba abituato a scrivere con l’inchiostro su papiro e pergamena, ma incaricato questa volta di eseguire la scritta su un mattone. Lo stesso si può dire dell’iscrizione latina, per lo più in esametri, incisa su un cippo funerario in forma di altare, costituito da un blocco di calcare, trovato nel 1953 e conservato nel museo di Mactar (vd. AE, 1969-1970, nr. 658; Mallon, Le Cippe; Corbier, Donner à voir, 80 s.). Queste iscrizioni risultano essere quindi testimonianze di notevole interesse per l’origine dell’alfabeto misto di cui si è parlato, complementari ai papiri egizi: rivelano che tale scrittura era usata correntemente anche in altre regioni del mondo romano, fino all’estremo Occidente, già nei primi secoli dell’era cristiana; inoltre, che in tale alfabeto si può ravvisare l’origine di tutte le scritture latine succedute al sistema classico. Non essendo un’edizione di lusso, il papiro dell’Epitoma può essere considerato come «a characteristic working copy for ordinary use» (Thompson, An Introduction, 298), da classificare tra i libri ordinari, modesti, correnti, privi di lusso e di ricercatezza (vd. Mallon, Paléographie, 80 s.). Si può supporre che il rotolo di cui facevano parte le colonne superstiti contenesse la prima parte dell’Epitoma, costituita dal compendio di circa sessanta libri di Livio, sin dal libro i. Come indicano alcuni particolari, la scrittura del papiro rivelerebbe uno scriba di formazione greca (ad es. phil- in col. iv, l. 19; vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1020). Successivamente, come era consuetudine per numerosi papiri letterari e documentari dell’antico Egitto, il retro del rotolo fu usato per scrivervi il testo greco dell’Epistula ad Hebraeos (POxy iv 657 + PSI xii 1292), di cui nel papiro sono superstiti ampi

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frammenti (2, 14-5, 5; 10, 8-11, 13; 11, 28-12, 17). La scrittura è stata definita «a sloping uncial of the oval type, but somewhat coarse and irregular, and apparently in the transitional stage between the Roman and Byzantine variety» (Grenfell-Hunt, POxy, iv , 36). Con Cavallo, La scrittura, 111, possiamo classificare questo esemplare come maiuscola di stile severo, secondo la definizione data da Wilhelm Schubart a simili forme grafiche testimoniate fin dal sec. ii. La scrittura di POxy iv 657, eseguita inizialmente con asse inclinato, poi, dalla stessa mano, con asse diritto, mostra una pratica simultanea delle due varietà di questo stile. Riguardo all’età di tale scrittura, che costituisce un dato considerevole come termine di riferimento ante quem per la scrittura latina (CLA, ii , 26), Grenfell e Hunt, ibid., 37 hanno indicato il primo quarto del sec. iv, ritenendo che non possa esser separata da un intervallo troppo ampio di tempo dalla scrittura principale, quella del testo latino, e dagli altri documenti con cui il papiro è stato ritrovato (vd. più avanti). Essa è stata successivamente datata alla metà o seconda metà del secolo iii da Lowe, CLA, ii 2, 26 e da Cavallo, Ricerche, 6 e n. 2 (poco oltre la metà del sec. iii); alla fine del sec. iii o nella prima metà del secolo iv da Seider, PlP, ii , 1, 91. Altre proposte di datazione, ancora tra il sec. iii e il iv, avanzate anche da studiosi del testo paolino, sono riportate in Marichal, L’Écriture, 34. L’indicazione piuttosto ampia del sec. iii/iv si trova anche in van Haelst, Catalogue, 190 (nr. 537); già in Aland, Studien, 111. Il rotolo da cui sono derivate le colonne di POxy iv 668 e la striscia frammentaria di PSI xii 1291 fu vergato probabilmente in Egitto (CLA, ii , 26; SLl2, 12): «ciò dimostrerebbe una vivace evoluzione dell’attività di tradizione testuale e porrebbe l’Egitto come attivo protagonista dell’evoluzione della scrittura libraria» (Buzi, Manoscritti, 64). I frammenti di POxy iv 668 furono trovati a Oxyrhynchos nel 1903, con documenti in corsiva dei secoli ii, iii, iv, soprattutto del sec. iii (POxy, iv , 91), in una delle campagne di scavo guidate da Grenfell e Hunt (vd. Grenfell-Hunt, Excavations, 354; Turner, Oxyrhynchus, 128). Attribuite al sec. iii, anche le strisce di documenti in corsiva che furono utilizzate per compattare e rinforzare il papiro, come preparazione del manoscritto prima che la superficie del verso fosse impiegata per la scrittura del testo greco, confermano la stessa datazione (vd. POxy, iv , 37). Il papiro fu acquistato dal British Museum nel 1906 (Catalogue of Additions, 310), come parte dello Egypt Exploration Fund, Graeco-Roman Branch. L’altro frammento dello stesso rotolo, PSI xii 1291, proviene dagli scavi compiuti da Evaristo Breccia nel Kôm Abu-Teir di Oxyrhynchos nel 1934. Anche per questo reperto vale ciò che è stato affermato da Grenfell e Hunt sugli altri frammenti: si trovava con documenti in corsiva databili tra il sec. ii e il iv (vd. PSI, xii , 207; Turner, Oxyrhynchus, 129). Tale frammento, come si è detto sopra, è attualmente conservato al Museo del Cairo (S. R. 3796; vd. Crisci, Collezione, 93). Si è supposto, su un buon fondamento archeologico, che proprietario del rotolo fosse stato, nel sec. iii, un cittadino romano (forse un veterano), il quale possedeva una casa nella città egizia e vi dimorava stabilmente, com’era consuetudine nei primi secoli della dominazione romana in Egitto (Turner, Oxyrhynchus, 133; «Roman citizens also owned property in the town and district»; Id., Roman Oxyrhinchus, 148).

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[ ± 6/7 ]nia Romani caesi. [ ± 6/7 ] Cn. Manlio cos. [ ± 6/7 ]s pax iterum data est. P. Lepidinus maximus [ pontif ]e.x maximus Q. Fabium pr. quod flamen [ Quirin ]alem erat proficisci in Sardiniam [ ± 6/7 ]u. nt. Antiocho regi pax data. Lusitani [ ± 6/7 ] Rhodonia †de soli† deducta. Acilius [ ± 6/7 ] c.ensuram petens minantes [ ± 6/7 ]tionem †compellitoribus† conposito [ ± 6/7 ]t. [ ± 6/7 ] lib. xxxviii [Ambra]cia capta. [Gallog]raecis in Pamphylia proe..l io uastatis [ ± 6 ]a liberata. Origiacontis †captian† nobilis [centuri]o.nem cuius uim pass(a) erat aurum admit[ ± 7 ] p.oscentem occidit caputque eius ad uirum. [ ± 10 ] Campanis conubium datum [ ] [ ± 10 ]os et Lacedaemonios cruenta [pr]o.elia [ [ ]ulio Salinatore cos. [ ± 9 p]raeda ex Gallograecia per †cras.[ [ ± 7/8 L. M]inucius Myrtilus et L. Man{i}li[us [ ± 5 legat]os Chartaginientsium qui [ ± 10 ]t. [ ± 7 C. Fl]aminio cos. [ ± 10 ] Africanus a Quintis Metellis dies [ [ ± 10 ]tratum† abit; qui ne reuocaretur [ ± 9 t]rib. pl. intercessit. L. Cornelius

1 spazio dopo romani 2 punto a media altezza e stacco dopo cn ampio spazio dopo manlio 3 punto a media altezza e stacco dopo p lieve stacco tra lepidinus e maximus 4 punti a media altezza e stacchi dopo q e dopo pr 6 stacco tra ]u. nt e antiocho 7 stacco prima e dopo de soli 8 stacchi tra le singole parole 11 punto a media altezza dopo lib 12 ampio spazio tra le due parole 15 punto a media altezza e lieve stacco dopo pass 19 spazi tra le singole parole (più ampio tra calinatore e cos) punto a media altezza dopo cos 21 punto a media altezza (appena visibile) dopo l 22 correzione di t in s (-sium) per mano dello scriba 24 spazio assai ampio tra ]aminio e cos punto a media altezza dopo cos 27 punti a media altezza e lievi stacchi dopo t]rib e pl spazio dopo intergessit punto a media altezza dopo l 1 [in Hispa]nia G.-H. 2 [M. Fuluio] G.-H. 3 [Aetoli]s G.-H. data (?) coni. G.-H., negata Reid, denegata Fuhr, data Ross. pap. (Lepid.) def. Korn.: Licinius G.-H. maximus def. Münzer (P. Licinius maximus pontifex), del. G.-H.; Crassus ante pontifex coni. Müller 2 4 suppl. G.-H. maximus del. Münzer pr(aetorem) scil. 5 suppl. et corr. (-lis) G.-H., pap. (-lem) def. Korn. 6 ]u. nt vel -a.nt pap.: tenuit vel retinuit G.-H., impediuit vel denegauit Reid, impediit vel prohibuit Korn., inhibuit Fuhr 7 [uastati] G.-H. pap. (rhod.) def. Gund., Jal: Bononia G.-H., Ross. cruces posui: de Soli fort. recte Korn. (Rhod de Soli dub. coni.), Jal; colonia vel de Gallis G.-H., de scto vel de Boiis Reid, de s.c. Fuhr, Ross., de scti Müller 1 Acilius om. G.H. 8 [Glabrio] G.-H. pap. (minantes) def. Korn.: -ibus G.-H., Ross. 9 [accusa]tionem G.-H. cruces posui (compellatoribus?): competitoribus G.-H. pap. (conp.) def. Korn.: proposito G.-H.,

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Ross. 10 destitit G.-H., Korn., Ross.; abstitit Müller 1, Luterb. 12 suppl. G.-H. 13 suppl. G.-H. in Bithynia Luterb. 14 [Phrygi]a G.-H. (vel Asia tota), cett. pap. (origiac.) def. Ross.: Ortiagontis G.H. Or{i}giacontis Korn.; uxor Orgiagontis Luterb. cruces posui, †captiannobilis Ross.: captiua fort. recte G.-H. (uxor scil.), captiua nobilis Müller 2; capta Galli nobilis uxor vel uxor capta Galli nobilis dub. coni. Ross. nobilis err. suspic. G.-H. 15 suppl. G.-H. 15-16 admit|[ti nocte] (vel dub. admittendum) Korn., admissum Luterb., ad eam [missum] Müller 1; ad mit|[tendam se] Gund., ad mittendam Ross., ad dimittendam eam Wölfflin poscentem err. suspic. G.-H. (pensantem corr.) 17 [secum tulit] dub. coni. G.-H., reportauit Korn., cett. pap. (conurium) corr. Korn. (connG.-H.) e[s]t post datum scr. Korn., Ross., sed in pap. hanc lectionem non conspexi 18 [inter Achae]os G.-H. 19 M. Messala suppl. Korn., Ross.: M. Valerio G.-H. ]ulio pap. defendi (Iul- vel Lul-): L]iuio G.-H., cett. pap. (calin-) corr. G.-H. 20 [deportata] Gund., permagna Korn., immensa Reid, pretiosa Ross. crucem posui: Thra[ciam G.-H. (Thrae- Korn., Ross.), Traeces Gund. (Thraec. Luterb.) 21 ducta initio huius versus coni. G.-H., direpta Gund., tracta Korn., rapta Reid, auecta Ross., abacta Müller 1 L. M]in. G.-H. Man{i}l. G.-H. 22 [per legat]os G.-H., penes -os Gund., dediti -is Ross. (ducti ad -os dub. coni.) Chartaginiensium corr. m. sec. (-ent- m. pr.) Romae post qui coni. Luterb.; ab iis add. Müller 2 23 [pulsi eran]t G.-H., pulsati Korn., Ross. auecti post erant dub. add.G.H., Carthaginem auecti Luterb. 24 M. Lepido Korn., cett., M. Aemilio G.-H. 25 P. Scipio suppl. G.-H., P. Cornelius dub. Korn. pap. nomen ut lectionem peculiarem recte tradidisse putavi: Petillis Korn. (-lliis G.-H.) pap. (dies) def. Korn., Gund.: -s del. G.-H. (dub.), Ross. 26 crucem posui, dies [longas impe]tratum Gund., sed dicta fort. recte suppl. edd. cett. in lacuna: [dicta in Li]terninum G.H., d. in Liternum Korn. (sed contra vd. Wölfflin), ei d. Liternum Müller 1 (ei et antea Ross.); in exilium uoluntarium dub. coni. Ross. abit G.-H. 27 Gracchus initio huius versus suppl. G.-H. (Ti. Gr. Luterb.) trib(unus) pl(ebis) scil. pap. (interg.) corr. G.-H.

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[In Spagna] i Romani furono sbaragliati. Sotto i consoli [Marco Fulvio e] Gneo Manlio. [Agli Etoli ?] fu di nuovo concessa la pace. Il pontefice massimo P. Lepidino (?) [impedì] al pretore Q. Fabio di partire per la Sardegna, poiché era flamine di Quirino. Al re Antioco fu concessa la pace. I Lusitani [furono sbaragliati]. I Rodiesi furono distolti da Soli. Acilio Glabrione, che aspirava alla censura, desistette di comune accordo (dalla sua candidatura) perché i suoi avversari (?) minacciavano un’accusa. Libro xxxviii Ambracia fu conquistata. Sbaragliati i Gallogreci in battaglia in Panfilia, la *** fu liberata. La prigioniera di nobile lignaggio, (moglie) di Orgiagonte, uccise un centurione, da cui aveva subito violenza, mentre questi reclamava di ricevere l’oro, e portò la sua testa al marito. Ai Campani fu concesso il diritto di connubio. Sanguinosi combattimenti [tra Achei] e Lacedemoni. Sotto i consoli [Marco Messalla e] Giulio (?) Salinatore. Il bottino di guerra [portato ?] dalla Gallogrecia attraverso [i Traci ?] [fu trafugato ?. Lucio] Minucio Mirtilo e Lucio Manlio [furono condotti via ?] per mezzo dei legati cartaginesi che [erano stati percossi ?].

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Sotto i consoli [Marco Lepido e Gaio] Flaminio. [P. Scipione] Africano, [citato] in giudizio dai Quinti Metelli (?), se ne andò a [Liternino ?]; il tribuno della plebe [Ti. Sempronio Gracco] impedì che questi fosse richiamato indietro. L. 1.

L’Epitoma riferisce, in questo punto, la grave sconfitta subita nel 190 a.C. dall’esercito romano nella Hispania Ulterior, sotto il comando del proconsole Lucio Emilio Paolo: seimila uomini caduti in un combattimento contro i Lusitani presso Lyco, città non identificata nella Spagna del sud, secondo il racconto di Livio 37, 46, 7-8: (7) «nuntius ex Hispania tristis, adversa pugna in Bastetanis (Vastetanis codd. plerique) ductu L. Aemilii proconsulis apud oppidum Lyconem cum Lusitanis sex milia de exercitu Romano cecidisse». Il passo liviano fa parte della sezione conclusiva dell’anno 190, nella quale sono riportati fatti accaduti a Roma e in Italia e altri eventi minori. La notizia della disfatta giunse a Roma mentre Manio Acilio Glabrione celebrava il trionfo per la vittoria alle Termopili (37, 46, 1-6). Questa sezione segue immediatamente l’ampia narrazione dei fatti della guerra in Asia (l. 37, capp. 8-45), comprendente la battaglia di Magnesia (capp. 33-45). La menzione della sconfitta di Lucio Emilio alla fine del libro 37, nell’Epitoma, corrisponde quindi all’ordine dell’esposizione in Livio; nel tratto precedente dovevano essere compendiati i fatti della guerra in Asia. L’integrazione in Hispa]nia, richiesta dal contenuto storico e su cui gli editori concordano, è conforme al numero delle lettere (da cinque a sette) che si calcolano cadute nella lacuna iniziale, la quale ha più o meno la stessa estensione fino alla l. 16. Sembra, d’altra parte, che questo avvenimento assuma nell’Epitoma un rilievo maggiore che nel racconto liviano, dove la sua importanza risulta quasi sminuita, anche perché una buona parte dei soldati romani si sarebbe messa in salvo. In Plutarco, Aemil. Paul. 4, 3, l’avvenimento militare è perfino trasformato in una vittoria romana (vd. Briscoe, A commentary, xxxiv-xxxvii , 363). Dalla versione di Livio si discosta sostanzialmente Orosio, Hist. 4, 20, 23, che accentua la gravità della sconfitta: «in Hispania ulteriore L. Aemilius proconsole a Lusitanis cum uniuerso exercitu caesus interiit». Lo storico cristiano dipende qui da fonti o tradizioni non liviane. Da notare che Orosio e l’Epitoma concordano nell’uso di caedere (vd. Schmidt, Iulius Obsequens, 45). Tale uso del verbo come equivalente di deuincere, debellare, nel significato di «battere interamente, sbaragliare» un esercito o simile complemento oggetto, (vd. anche col. v, l. 17 e col. vii, l. 8), è già liviano (vd. ThlL iii, 1, 62, ll. 16 ss.). In Livio, però, di solito queste espressioni hanno come oggetto exercitus, legiones, acies; il verbo si trova direttamente costruito col nome di un popolo, come nell’Epitoma, in Floro, Epit. 3, 5, 28: Colchos cecidit. Si è supposto che entrambe le versioni dell’Epitoma e di Orosio siano derivate in questo punto dalla perduta Epitoma liviana approntata nel sec. i (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69). L. 2. La menzione dei consoli Marco Fulvio Nobiliore e Gneo Manlio Vulsone, incompleta a causa della lacuna, indica l’inizio del 189 a.C. (a.u.c. 565). I due nomi sono riportati nella forma completa in Livio 37, 48, 1: «M. Fuluio Nobiliore et Cn. Manlio Vulsone consulibus»; così anche ibid. 47, 7 (elezioni consolari nel novembre del 190). Nei Fasti Capitolini,

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a. 189 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49), l’ordine è invertito: «Cn. Manlius (...) Vulso M. Fuluius (...) Nobilior». In questa forma Fulvio è menzionato in CIL i2 2, 1 nr. 615. Forma simile in Velleio 1, 15, 2: «Cn. (...) Manlio Vulsone et Fuluio Nobiliore consulibus» (così, senza praenomen, la menzione del secondo console in P e A). Da notare che segue immediatamente, nel testo di Velleio, la notizia della deduzione della colonia di Bologna (tutto questo capitolo è dedicato alle colonie dedotte dal 188 al 100 a.C.); da tale notizia è ricavata la congettura di alcuni editori per il testo controverso dell’Epitoma alla l. 7 (vd. più avanti). Nello stesso ordine come in Livio, ma senza il cognomen, i due consoli sono menzionati in Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 369 Mommsen: «M. Fuluius et Cn. Manlius». È da ritenere che in questa forma i due nomi fossero riportati anche nell’Epitoma, nel cui testo superstite il nome di Manlio è costituito dagli stessi elementi e si trova ugualmente al secondo posto. Sicura, pertanto, anche l’integrazione M. Fuluio (vd. POxy, iv , 95), ammessa da tutti gli editori. La stessa coppia consolare è citata anche in Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 565 Mommsen: «Volso et Nobiliore»; Consularia Constantinopolitana, Chron. I p. 54, 565 Mommsen: «Vulsone et Nobiliore». L. 3. L’espressione pacem dare (vd. anche col. i, l. 6), in cui il verbo è equivalente di concedere, praebere, è di uso assai frequente in Livio (circa quaranta volte; vd. ThlL v, 1, 1677, ll. 5 ss.). Una minima traccia della s, fuori della lacuna, conferma l’integrazione Aetoli]s. Argomento dell’Epitoma è qui la seconda ambasceria degli Etoli a Roma, narrata da Livio nel cap. 49 del libro 37, al principio del 189 a.C. Suscita perplessità la versione dell’Epitoma, secondo cui la pace fu concessa (dal senato agli Etoli), mentre da Livio si apprende che i legati etolici se ne andarono da Roma e dall’Italia senza avere ottenuto la pace che erano venuti a chiedere. Tale incongruenza ha indotto gli editori a sospettare un errore nel testo dell’Epitoma, che sarebbe quindi da correggere, ad es., negata in Reid, Fragments, 291, poi Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 124 (e in T. Livi periochae, fragmenta, 123); data est in Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229; vd. inoltre l’apparato critico. Soltanto Gundermann, in Kornemann Die neue Livius-Epitome, 35, difende il testo del papiro, ritenendo che pax sia da intendere in un senso ampio, come promessa o intenzione di concedere la pace. Possiamo tentare una difesa del testo dell’Epitoma considerando in modo complessivo la tormentata vicenda della relazione degli Etoli con Roma in quel periodo. Nel 191, schieratisi dalla parte di Antioco nella guerra siriaca, gli Etoli sono sconfitti da Catone alle Termopili (vd. Liv. 36, 18, 8); dopo essersi asserragliati dentro le mura di Eraclea, devono arrendersi ai Romani (ibid. 24, 10-12). Hanno quindi inizio trattative di pace nelle quali, affidandosi alla protezione di Roma, chiedono e ottengono una tregua (ibid. 28, 78). Contro il parere dei capi, la moltitudine si concentra a Naupatto, sperando in una ripresa della guerra; messi sotto l’assedio, però, alcuni di loro vanno da Tito Quinzio Flaminino e implorano la salvezza. È quindi concessa una tregua, affinché sia inviata un’ambasceria a Roma (ibid. 35, 1-6; settembre 191). Proprio con l’ambasceria degli Etoli, arrivata a Roma forse tra novembre e dicembre del 191, comincia il racconto del 190 al principio del libro 37 (1, 1-6). I legati supplicano il senato, ma, a causa del risentimento di molti senatori, è presa la risoluzione di non concedere né di rifiutare la pace: (5) «postremo neque dari neque negari pacem placuit». Dopo il ritorno dell’ambasceria, gli Etoli occupano il monte Corace, con l’intento di tagliare la strada ai Romani, qualora tor-

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nassero per assaltare Naupatto. Proseguono così le ostilità tra i due popoli. Sotto la minaccia dell’esercito romano, guidato dal console Lucio Scipione, mandano legati per trattare la pace; invece della pace, è concessa una tregua di sei mesi, affinché in questo tempo un’altra ambasceria etolica possa recarsi a Roma (ibid. 7, 4-6): (6) «prius P. Scipione conuento, per eum indutias temporis eius quod petebant ab consule impetrauerunt». Ancora una volta, nel libro 37 (vd., sopra, 1, 1-6, per l’anno 190) la narrazione del nuovo anno si apre con l’ambasceria degli Etoli: arrivati a Roma nel dicembre del 190, al principio del 189 questi legati sono introdotti nel senato per concludere la trattativa di pace più volte fallita e rinviata. Questo fatto, che occupa il cap. 49, è accompagnato da voci circolanti nella città, secondo cui gli Etoli, nei luoghi del conflitto, stavano per riprendere coraggio e tornare a farsi minacciosi. Tali dicerie e l’atteggiamento baldanzoso dei legati inducono il senato a ritenerli ancora dalla parte di Antioco: è negato quindi ogni accordo. Un senatoconsulto li obbliga a partire subito da Roma e entro quindici giorni dall’Italia. In questa circostanza, gli Etoli sono giudicati ancora come nemici. Vista tutta la vicenda, anche negli antefatti, risulta chiaro che iterum dell’Epitoma richiama la prima ambasceria degli Etoli presso il senato di Roma, nell’anno 190 (vd. 37, 1, 1-6). Si possono considerare, però, anche gli sviluppi successivi della vicenda. Nei capitoli iniziali del libro 38, dopo aver parlato dell’assegnazione dei comandi nelle province, Livio narra estesamente la campagna militare del nuovo console Marco Fulvio contro gli Etoli, dove ha un largo spazio il racconto dell’assedio di Ambracia (3, 9-7, 13). Gli Etoli, alla fine, ottengono la pace dopo altre difficili trattative (capp. 10-11; in particolare, al cap. 11 sono riportati testualmente i termini del trattato di pace). Da questi sviluppi, che susseguono la seconda ambasceria dell’inizio del 189, apprendiamo che la pace fu veramente concessa agli Etoli. Non è da escludere, quindi, che il testo dell’Epitoma possa essere conservato così come si presenta, cioè nella sua forma affermativa e senza alcuna negazione. Considerata la tendenza dell’Epitoma a riunire sinteticamente in una sola frase momenti diversi e perfino distanti di una medesima vicenda, si può pensare che anche qui essa, nel compendiare il fatto avvenuto all’inizio del 189 (vd. il cap. 49 del libro 37 di Livio), vi abbia incluso, con un riferimento alla precedente ambasceria, anche gli sviluppi successivi fino alla conclusione della storia. Della complessa e tormentata relazione tra Roma e gli Etoli, svoltasi in vari momenti per un lungo periodo di tempo, è così riassunto il succo essenziale e evitata una ripetizione degli stessi termini a breve distanza nello stesso svolgimento del compendio. Ll. 3-6. L’episodio è narrato in Livio 37, 51, 1-6 (vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 242 s.: «[Epitoma] occasionally paraphrases Livy’s account»). Ancora nei primi mesi del 189 a.C. scoppiò una disputa tra il pontifex maximus P. Licinio Crasso Divite e il flamen Quirinalis Q. Fabio Pittore, il quale, eletto pretore (vd. ibid. 47, 8) e avendo ottenuto in sorte la Sardegna (vd. ibid. 50, 8), si apprestava a partire per la provincia assegnata. Il pontefice massimo lo trattenne a Roma: compito del flamen Quirinalis era infatti di esercitare nell’Urbe il suo ufficio religioso, mentre Q. Fabio, chiamato a esercitare la magistratura in una provincia, stava per allontanarsene. Nello stesso passo, Livio ricorda una contesa analoga avvenuta nel 242, nella quale il pontifex maximus L. Cecilio Metello aveva trattenuto a Roma il console A. Postumio Albino, anch’egli flamen, quando era in partenza per la Sicilia (ibid. 51, 1-2).

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L’esercizio della magistratura a Roma, invece, non era mai stato impedito a un flamen Quirinalis. A Quinto Fabio fu assegnata, alla fine, la carica di praetor peregrinus. L’Epitoma concorda specialmente con le espressioni seguenti del passo liviano: par. 1: «certamen inter P. Licinium maximum pontificem (max- pont- B ¯: pont- max- Mg) fuit et Q. Fabium praetorem (praet- B ¯: Pictorem Ald., Frob.1-2) flaminem Quirinalem, quale patrum memoria inter L. Metellum et Postumium Albinum fuerat»; par. 2: «praetorem hunc, ne in Sardiniam proficisceretur, P. Licinius (Lic- B · V: Lucinius A P N; Becinius E) tenuit». La Periocha del libro 37 non riporta questo fatto. L’analoga contesa tra pontifex maximus e flamen, ricordata da Livio nello stesso passo, si trova invece nella Periocha 19, 1: «Caecilius Metellus, pontifex maximus, A. Postumium consulem, quoniam idem et flamen Martialis erat, cum is ad bellum gerendum proficisci uellet, in urbe tenuit nec passus est a sacris recedere». Confrontata con il testo di Livio, la forma Lepidinus risulta errata; Grenfell e Hunt (POxy iv , 96) e Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 123) concordano nella correzione in Licinius. Appare improbabile, però, un’origine paleografica dell’errore. Si può ritenere possibile che nel papiro sia confluita una diversa tradizione, storicamente meno precisa (nel testo stesso di Livio si rilevano varianti erronee nella forma di tale nome; vd. sopra): sembra lecito, in tal modo, difendere la lezione particolare Lepidinus come variante genuina (così Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 15). Della stessa forma si conoscono inoltre varie testimonianze epigrafiche, come, ad es., CIL iii 1, nr. 3411: «D(is) M(anibus) Q(uinti) Postumi Lepidini praef(ecti) eq(uitum)»; vi 1, nr. 3258; xiii 1, 2 nr. 4548. Alla l. 3, maximus è espunto dagli editori come dittografia (vd. l. 4). Nel testo di Livio, però, secondo la tradizione di B e di altri codici tardomedievali discendenti in vario modo dall’antico Codex Placentinus (perduto), i due termini compaiono, rispetto alla disposizione più comune, nell’ordine inverso (37, 51, 1, citato sopra): maximus pontifex. Si può così supporre che lo scriba o un correttore, trovandosi davanti a una situazione testuale poco chiara, forse con una variante scritta a margine, abbia ripetuto subito dopo, per conformità all’espressione più consueta, la lezione maximus (vd. anche Münzer, Anmerkungen, 137). Müller, Jahresbericht 2, 12, supponendo che maximus della l. 3, forse scritto per errore, abbia provocato la soppressione del terzo elemento del nome di questo personaggio, Crassus, restituisce il testo nel modo seguente: P. Licinius Crassus pontifex maximus. Nell’Epitoma però i due termini potrebbero essersi trovati nello stesso ordine che si vede nei manoscritti liviani citati sopra (max- pont-): non dovremmo quindi espungere maximus alla l. 3; sembrerebbe anzi più sospetto, come aggiunta arbitraria, la successiva ripetizione della parola. In tale incertezza mi è sembrato più opportuno riportare il testo del papiro così come si presenta. L’attributo del soggetto, nella proposizione causale (quod flamen … erat), dovrebbe trovarsi al nominativo (Quirinalis); la confusione può esser scaturita da una falsa concordanza con l’accusativo nella reggente (Q. Fabium). Anche in questo punto, tuttavia, il testo del papiro è difeso da Kornemann, ibid., 8 come «Accusativus pro Nominativo»). Alla l. 6, assai incerte le lettere iniziali dopo la lacuna: la prima lettera, di cui si scorge soltanto un minimo residuo nella parte superiore, mi è sembrata più una u che una a (]u. nt). Comune alle varie congetture la correzione in -uit, ritenuta necessaria per la concordanza del predicato verbale principale, che sicuramente si presuppone in questa lezione mutila, col soggetto P. Lepidinus.

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L. 6. Subito dopo la battaglia di Magnesia, Antioco dette inizio alle trattative con i Romani per chiedere la pace, verso la fine del 190 a.C. In un primo incontro a Sardi, Scipione Africano presentò ai legati del re le condizioni per l’accordo, come si apprende da Livio 37, 45, 4-21. Nel discorso di Scipione è già preannunciata la futura conclusione della pace (ibid. 14): «cum senatus populusque Romanus pacem comprobauerint»; (18): «in deteriore sua fortuna pacem faciet rex». I negoziati si trasferirono, quindi, a Roma, dove ebbe luogo, nell’inverno 190-189, una conferenza di pace al cospetto del senato, cui parteciparono i legati di Antioco e di altri stati dell’Asia minore (ibid. capp. 52-56). Nell’Epitoma tale avvenimento, così come nella narrazione liviana, segue immediatamente l’ambasceria degli Etoli e la disputa tra Publio Licinio e Quinto Fabio Pittore. In particolare, nella versione compendiata sembra richiamato il punto in cui i legati di Antioco, supplici davanti al senato, chiedono il perdono per le colpe del loro re e la conferma della pace già accordata dal comandante Lucio Scipione dopo la battaglia di Magnesia, secondo le condizioni da lui stabilite. Il testo dell’Epitoma concorda infatti con le parole dei legati, riportate in forma indiretta: (2) «pacem datam a L. Scipione imperatore, quibus legibus dedisset, confirmarent auctoritate sua (patres conscripti scil.)». L’espressione dell’Epitoma (su pacem dare vd., sopra, il comm. alla l. 3), riguardante gli stessi negoziati per la pace dopo la battaglia di Magnesia, si trova anche nella Periocha 37, 4: «uicto (...) Antiocho ab L. Cornelio Scipione … pax data est ea condicione ut omnibus prouinciis citra Taurum montem cederent»; similmente, in Floro, Epit. 2, 8, 18: «uicto et supplici (regi Antiocho scil.) pacem partemque regni dari placuit»; Eutr. 4, 4, 3: «isdem condicionibus data est (pax scil.) a senatu». Di questi negoziati di pace è giunto anche un tratto della narrazione Polibio dal libro 21, fr. 16, 1-17, 12, da cui è derivata, con aggiunte, la versione liviana (vd. Briscoe, A commentary, xxxiv-xxxvii , 358). Altre testimonianze degli stessi fatti in Diodoro 29, fr. 10; Appiano, Syr. capp. 38-39; Zonara 9, 20, 9 (dal libro 19 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 289); Giustino 31, 8, 6-9; Rufo Festo 12, 1; Orosio, Hist. 4, 20, 22. Ll. 6-7. L’Epitoma riporta il fatto narrato da Livio in 37, 57, 5-6. Nella Hispania Ulterior, verso la fine dell’anno consolare 190-189 a.C. (vd. Briscoe, A commentary, xxxiv-xxxvii , 389 s.), Lucio Emilio Paolo, prima dell’arrivo del suo successore al governo della provincia, messo insieme un esercito di fortuna, sconfigge i Lusitani in battaglia campale: «L. Aemilius Paullus (...) signis conlatis cum Lusitanis pugnauit. fusi fugatique hostes». Anche qui l’Epitoma osserva l’ordine della narrazione liviana, dove la vittoria militare di Emilio Paolo è ricordata nel capitolo successivo alla sezione sui negoziati di pace a Roma tra Antioco e il senato. Con questa vittoria il condottiero, che stava per terminare il suo mandato proconsolare, si rifà della sconfitta subita l’anno precedente (ibid. 46, 7-8 e, sopra, l. 1). In Plutarco, Aemil. Paul. 4, 3, invece, come si è notato, sono menzionate due vittorie romane. L’integrazione uastati, accolta in modo unanime dagli editori, è conforme al numero delle lettere (da cinque a sette) che si calcolano cadute nella lacuna fino alla l. 16; è inoltre molto probabile, perché altre volte s’incontra nell’Epitoma l’uso (non classico) del verbo in questo significato (vd. col. i, l. 13; col. iv, l. 1; col. viii, l. 22).

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Non si escluda, tuttavia, la possibilità di una congettura diversa per il predicato verbale perduto (ad es. caesi, benché tale verbo si trovi già poco sopra, alla l. 1). L. 7. La lezione del papiro Rhodonia sembra connessa al nome dell’isola (Rhodos/-us) o dei suoi abitanti (Rhodii, Rhodienses). Rarissime le testimonianze di questa forma. In Virgilio, Ecl. 10, 59, una forma molto simile (con valore di aggettivo) è costituita da una variante del codice M (Mediceus Laurentianus lat. xxxix, 1, sec. v): «rhodonea (...) spicula» (lo stesso M corregge in cydonia, lezione che si trova in altri codici e che è comunemente accolta dagli editori); cf. CIL xiv nr. 4569 DEC. iii 4, come nomen gentilicium: Rodonius Iustus. La lezione del papiro potrebbe rappresentare, quindi, o una forma di età tarda (Gundermann in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 15) o una deformazione del nome Rhodos (Jal, Abrégés 2, 129). Se questa lezione rimane dubbia, è invece da ritenere certa, nel papiro, la menzione di Soli, città della Cilicia, colonia greca (vd., ad esempio, le seguenti testimonianze antiche: Liv. 33, 20, 4; Vitr. 8, 3, 8; Curt. 3, 7, 2; Plin., Nat. 13, 5). Il nome di questa città è connesso con Rodi nei negoziati per la pace in Asia, che ebbero luogo a Roma al principio del 189 a.C., dopo la battaglia di Magnesia e la conseguente fine delle ostilità con Antioco. Un’estesa narrazione di tali negoziati si trova nei capitoli 52-56 del libro 37. Venuti a Roma con gli inviati del re Antioco e il re Eumene, nella delegazione guidata da M. Aurelio Cotta, i legati rodiesi, rivolgendosi ai senatori nella seduta ufficiale, presentano le loro benemerenze nei confronti di Roma (ibid. 54, 3-28). Il senato propone quindi di assegnare loro la Licia e la Caria, con l’esclusione delle città telmessie e del loro territorio (ibid. 55, 5). In questa circostanza, i Rodiesi intercedono per la città di Soli, antica colonia di Rodi, che si trovava sulla costa orientale della Cilicia, affinché ottenesse l’indipendenza dal re Antioco. A tale richiesta si oppongono però i legati di Antioco; mentre il senato si dichiara disposto a insistere, i Rodiesi rinunciano a chiedere l’indipendenza per Soli, guardando al superiore bene della pace (ibid. 56, 7-10). La frase dell’Epitoma sembra riassumere alcuni punti salienti della vicenda, specie il par. 7: «Rhodii de Solis urbe, quae in Cilicia (Ê: Lycia B, Sicilia „) est, egerunt»; cf. 8: «testante foedera Antipatro, aduersus quae ab Rhodiis non Solos, sed Ciliciam peti et iuga Tauri transcendi»; 10: «ita nihil de Solis mutatum est». Essa va però direttamente alla conclusione: i Rodiesi, indicati complessivamente col nome della patria (la forma Rhodonia, che rimane dubbia, dovrebbe equivalere a Rodi), furono indotti a recedere dal proposito di ottenere per Soli l’indipendenza da Antioco. Se s’intende l’uso di deducere nel senso figurato di «allontanare, distogliere», completato con de e l’ablativo (non «da», ma «riguardo» a qualcosa) nel passo dell’Epitoma, il testo può essere difeso come è tramandato nel papiro, con la sola correzione Soli; così lo intende Jal, Abrégés 2, 116: «Rhodes fut amenée à renoncer à Soles». Nel commento, però, lo stesso Jal sembra discostarsi da tale traduzione, attribuendo al verbo il significato di «détourner de», di cui indica usi paralleli in Livio 37, 2, 5 e 34, 58, 6 (vd. Abrégés 2, 129). Nella Periocha non è riportato lo stesso fatto dell’Epitoma, ma si parla genericamente di concessioni territoriali ai Rodiesi (37, 8): «Rhodiis quoque, qui et ipsi iuuerant, quaedam ciuitates concessae». Simile a questa è la versione di Eutropio (4, 4, 3): «et Rhodiis, qui auxilium Romanis contra regem Antiochum tulerant, multae urbes concessae sunt». Una diversa interpretazione della frase (vd. già Grenfell e Hunt in POxy iv , 95 s. e 102)

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è suggerita, d’altra parte, dal confronto con il passo sulla fondazione della colonia di Bologna (37, 57, 7-8; cf. già 33, 37, 2; 37, 47, 2), avvenuta il 26 dicembre 189: «eodem anno (...) Bononiam Latinam coloniam ex senatus consulto L. Valerius Flaccus, M. Atilius Serranus, L. Valerius Tappo triumuiri deduxerunt. Tria milia hominum sunt deducta». Diventa necessaria, così, la corrrezione di Rhodonia in Bononia. Sparisce anche la lezione de soli, giudicata o come mera interpolazione dal cap. 56 di Livio o come corruzione di colonia o di de Gallis (vd. POxy iv , 102). Il testo così modificato è accolto nell’edizione di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 123): Bononia de s. c. deducta. Nel testo così restituito deducere va inteso nel più comune significato, che si riferisce alla fondazione di colonie. Un argomento a favore di questa lettura è che l’Epitoma risulterebbe, così, più conforme all’ordine della narrazione di Livio, dove si parla della fondazione di Bologna subito dopo la notizia della sconfitta dei Lusitani. La fondazione di Bologna è ricordata anche nella Periocha 37, 6, dove il fatto, però, è collocato un po’ prima rispetto all’ordine dell’originale liviano. Per questa ragione, Iahn, T. Livi periochae, 40, modifica la collocazione della frase nella Periocha, spostandola più avanti, dopo Rhodiis quoque … quaedam ciuitates concessae. In Velleio 1, 15, 2 si nota una imprecisione cronologica, poiché nel séguito del passo risulta indicato l’anno 187. All’interpretazione della frase dell’Epitoma come riferita alla fondazione di Bologna si possono opporre, tuttavia, due argomenti: 1. sembra che notizie di fondazioni di colonie restassero escluse, di norma, dall’Epitoma, poiché non se ne trovano nelle parti conservate (vd. Jal, Abrégés 2, 129); 2. nel testo quasi completamente trasformato, come risulta nell’altra interpretazione, è difficile da accettare la soppressione di de soli che sembra, anche in quanto difficilior, lezione genuina. Proprio a difesa della lezione del papiro, che richiede la sola lieve correzione del caso grammaticale (de Soli), propenderei per la soluzione di Gundermann. Kornemann ha supposto, infine, come terza ipotesi di ricostruzione testuale, che sia avvenuta una mescolanza, nelle vicende della trasmissione manoscritta, tra due frasi originariamente distinte (vd. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 15): 1. Rhod de Soli ; 2. onia deducta. Ll. 7-10. Il fatto qui riassunto segue immediatamente, come in Livio, le notizie della vittoria di Lucio Emilio contro i Lusitani (37, 57, 5-6: Epit. col. i, ll. 6-7) e della fondazione di Bologna (ibid. 57, 7-8; ma, come si è visto sopra, non è certo che Epit. col. i, l. 7 riguardi proprio la fondazione di una colonia). Livio ibid. 57, 9-58, 2 racconta che Manio Acilio Glabrione, candidato alla censura nel 189 a.C., fu chiamato in giudizio da due tribuni della plebe, con l’accusa di avere occultato una parte del tesoro regio e del bottino conquistati dopo la vittoria su Antioco. Tale accusa nasceva, in realtà, dagli intrighi dei nobili, i quali non accettavano di buon grado che un plebeo e homo novus, cui si indirizzava il favore popolare, li superasse nelle elezioni, e di Marco Porcio Catone, anch’egli candidato alla censura. Dopo che anche Catone ebbe deposto contro di lui, rivelando di voler screditare il competitore, Glabrione ritirò la propria candidatura; poté evitare, così, il processo e la multa che gli era stata irrogata. Nell’Epitoma sono rielaborate soprattutto le seguenti parti del racconto liviano: (ibid. 9) «eodem anno censuram multi et clari uiri petierunt»; (10) «M’. Acilius Glabrio»; (13) «M. Cato ante alios testes conspiciebatur»; (15) «postremo in huius (Catonis scil.) inuidiam desistere se petitione Glabrio dixit, quando, quod taciti indignarentur nobiles homines, id aeque nouus competitor intestabili periurio incesseret».

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Nel modo seguente sono da intendere queste righe dell’Epitoma secondo il testo di Grenfell e Hunt, POxy IV, 95 s. e 102, con cui consentono Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 123) e Jal (Abrégés 2, 117): «Acilio Glabrione, che aspirava alla censura, desistette (destiti]t, che rappresenta l’integrazione più probabile alla l. 10; cf. Liv. ibid. 57, 15: desistere se petitione Glabrio dixit) dal proposito» (della sua candidatura) (proposito è emendamento per conposito del papiro); segue un ablativo assoluto con valore causale: «perché i concorrenti (competitoribus è emendamento per compellitoribus del papiro; cf. Liv. ibid. 57, 15: quando … nouus competitor …) minacciavano un’accusa» (minantibus [accusa]tionem). Nel testo così restituito rimangono due divergenze rispetto all’originale liviano (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 36 s.): 1. plurale (competitoribus) nell’Epitoma, singolare (competitor) in Livio; 2. minaccia di un’accusa, nell’Epitoma, contro un’accusa effettivamente pronunciata e convocazione dell’accusato, in Livio (anche se poi l’accusa decade in séguito al ritiro della candidatura di Acilio). A questa sistemazione testuale ritengo preferibile, tuttavia, quella di Kornemann, che conserva le lezioni del papiro minantes (vd. Die neue Livius-Epitome, 15 e 8: «Der Accusativ statt des Ablativ») e conposito, inteso come forma avverbiale di ablativo nel senso di ex composito o ex pacto («secondo l’accordo», «di concerto»). Se si conserva conposito del papiro, bisogna ritenere che la voce verbale destitit, integrata per congettura alla l. 10, sia usata in senso assoluto («si ritirò»), non determinata da complemento in ablativo, come presupposto nella restituzione testuale con proposito (vd. sopra). Nella stessa l. 9, si può tentare di restituire diversamente anche †compellitoribus†, emendato di solito in competitoribus. Con un minimo ritocco apportato al suffisso si ottiene infatti compellatoribus (su compellator vd. ThlL iii, 2, 2027, l. 78), vocabolo che, nel significato di qui compellat, vituperat, si adatta bene all’episodio, specie se si attribuisce a compellare, da cui il sostantivo è derivato, l’accezione tecnica di «attaccare in giudizio». Ho cercato quindi di rendere questo termine, nella traduzione italiana, con «avversari», soprattutto per evitare una ripetizione «accusa/accusatori». L. 12. Al primo punto, nel sommario del libro 38, l’Epitoma menziona la conquista di Ambracia. Nella lettera mutila, di cui si scorge traccia al margine della lacuna, si riconosce una c; va ritenuta come sicura, quindi, l’integrazione: Ambra]cia. È questo il primo argomento che Livio mette in risalto, nella parte iniziale del libro, dove, anche con altri fatti, è presentata la situazione della Grecia nel 189 a.C. Dopo aver parlato della cacciata dei Macedoni dall’Atamania e del ritorno del re Aminandro (vd. ibid. 1, 1-3, 2), la narrazione liviana si concentra sul conflitto tra Roma e gli Etoli: mentre la lega etolica ricuperava regioni vicine come l’Amfilochia, l’Aperantia e la Dolopia, il console Marco Fulvio Nobiliore, avendo ottenuto in sorte l’Etolia, arriva con l’esercito a Apollonia, nella primavera del 189, e vi tiene consiglio con gli Epiroti sulla campagna militare che intendeva condurre (3, 3-11). Per consiglio degli stessi alleati, il console decide di stringere d’assedio Ambracia (Arta), ricca e popolosa città sul confine meridionale dell’Epiro, nella Thesprotia, presso il fiume Arachthos. Si svolge quindi il racconto, alquanto esteso, dell’assedio, cui pone fine, dopo un negoziato con i Romani, la resa della città (ibid. 4, 1-9, 14). La sommaria enunciazione dell’Epitoma (vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243: «an extreme case [of condensation]») concerne la conclusione della vicenda. Si noterà, tuttavia, che capta non corrisponde precisamente all’originale liviano, ibid. 9, 7, se-

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condo il quale la città si arrese ai Romani in séguito alle trattative condotte dal re Aminandro: «id (codd.: id M. Müller) cum per conloquia principum succedens murum parum proficere (Amynander scil.), postremo, consulis permissu ingressus urbem, partim consilio partim precibus euicit ut permitterent se Romanis (Ambracienses scil.); cf., inoltre, par. 9: «Ambracienses (...) aperuerunt portas». Seguono quindi, alla fine della narrazione liviana sui fatti della Grecia nel 189, gli ultimi negoziati con gli Etoli, che si svolsero a Roma al cospetto del senato, e il trattato di pace (ibid. 10, 1-11, 9). Un po’ più ampio, rispetto all’Epitoma, si presenta il riassunto di questa stessa parte iniziale del libro nella Periocha 38, 1: «M. Fuluius cos. in Epiro Ambracienses obsessos in deditionem accepit, Cephallaniam subegit, Aetolis perdomitis pacem dedit». Sono menzionate qui, come si vede, oltre alla resa degli Ambracensi, anche la pace con gli Etoli, con cui si conclude la sezione iniziale sulla Grecia, e la sottomissione dell’isola di Cefallenia, narrata più avanti, ancora nel libro 38, tra gli avvenimenti della Grecia nel 188 (vd. 28, 5-29, 11). In modo più preciso, inoltre, rispetto all’Epitoma, l’espressione della Periocha (in deditionem accipere) corrisponde all’originale liviano. Così anche altre fonti (vd. Flor., Epit. 2, 9, 2; Vir. ill. 52, 2) parlano di deditio. In uno stato frammentario, l’assedio e la resa di Ambracia sono narrati in Polibio 21, 27, 1-28, 18 (vd. altre fonti in Briscoe, A commentary, 38-40, 36). Il testo dell’Epitoma si rivela quindi più simile al titulus appartenente a una delle statue fatte portare dal console a Roma e consacrate nel tempio di Hercules Musarum; vd. CIL vi 1 nr. 1307 (= i2 2, 1 nr. 615; vd. anche vi 8, 3, p. 4677; MRR i , 362): «M. Foluius (...) Nobilior cos. Ambracia cepit» (sulla particolare costruzione con l’ablativo, che si ritrova in altre epigrafi, vd. Inscriptiones Latinae, 93). Ll. 13-14. Nella lacuna alla l. 13 si integra sicuramente Gallog]raecis. Argomento dell’Epitoma, in queste righe, è la campagna militare condotta dal console Gneo Manlio Vulsone in Asia Minore nel 189 a.C., la cui narrazione comprende i capp. 12-27 del libro 38 di Livio. Dopo aver attraversato varie regioni dell’Asia Minore, in una lunga marcia verso sud-est e, successivamente, verso nord-est, il console con il suo esercito giunse ai confini della Galazia, in cui dominava la popolazione dei Galati (Gallograeci), di origine gallica e divisa in tre gruppi principali, mentre la popolazione dei Frigi, originaria di quei luoghi, era in stato di sottomissione. Partito all’attacco, alla fine dell’estate del 189, il console sbaragliò i Galati, con due offensive dirette ai luoghi in cui questi si erano asserragliati: parte sul monte Olimpo, parte sul monte Magaba. Proprio questa azione, esposta da Livio nei capp. 20-27, è compendiata nel passo dell’Epitoma. L’espressione Gallograecis (...) uastatis sembra richiamare vari punti del racconto liviano della campagna militare (vd. ibid. capp. 12-27), nei quali si parla dei Galli sbaragliati o messi in fuga dai soldati romani: 17, 6 (in generale, riguardo alle vittorie riportate dai Romani sui Galli negli ultimi duecento anni); 18, 6 (scontro iniziale presso il castello di Cuballo): «equitatus Romanus fudit fugauitque Gallos»; 21, 14; 23, 1-2. 5 (momenti diversi nella disfatta sul monte Olimpo); 25, 15 (scontro secondario, in conseguenza di un agguato teso dai Galli); 26, 2-6 (strage di Galli nella battaglia sul monte Magaba). Postclassico l’uso di uastare con un nome di popolo come suo oggetto (così anche col. viii, l. 22 a e col. iv, l. l, con integrazione quasi certa); in età classica il verbo si riferisce di solito a terre o a regioni (vd. Wölfflin, Das Breviarium, 179). Alla l. 14, gli editori ammettono concordemente l’integrazione Phrygi]a, probabile in quanto il territorio

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occupato dai Galati, poi chiamato Galatia (o Gallograecia), era in realtà una parte della Frigia. Dopo le vittorie militari di Vulsone, essa fu quindi «liberata». Errata, d’altra parte, nell’Epitoma, l’indicazione in Pamphylia. La Panfilia si trova infatti nella regione meridionale dell’Asia Minore, sul mare, tra la Cilicia e la Licia; gli scontri di cui parla l’Epitoma, invece, ebbero luogo nell’area centro-settentrionale, interna, della penisola anatolica. Difficile risalire all’origine dell’errore, nato forse da confusione o sovrapposizione con un nome simile; vano, tuttavia, tentarne la correzione, anche perché non si tratta di guasto testuale, ma di una lezione ortograficamente corretta, quindi genuina, che il testo dell’Epitoma ha trasmesso come pertinente al passo. L’esito vittorioso della campagna di Vulsone, con alcune informazioni supplementari (divisione dei Gallograeci in tre gruppi; loro stanziamento nell’Asia Minore; essi soli, nella regione anatolica, disobbedienti a Roma), è riportato anche nella Periocha 38, 2, dove tali avvenimenti, nell’ordine cronologico, seguono la campagna di Marco Fulvio contro gli Etoli: «Cn. Manlius cos. (...) Gallograecos, Tolostobigios et Tectosagos et Trocmos, qui Brenno duce in Asiam transierant, cum soli citra Taurum montem non apparerent, uicit». Altre testimonianze in Valerio Massimo 6, 1 ext. 2: «exercitu et copiis Gallograecorum a Cn. Manlio consule in Olympo monte ex parte deletis ex parte captis»; Floro, Epit. 2, 11, 5: «duobus (...) proeliis fusi fugatique sunt (Gallograeci scil.)»; Vir. ill. 55, 1: «Gaius Manlius Vulso (...) bellum Pisidis et Gallograecis (...) intulit. his facile uictis». Cf., inoltre, Rufo Festo, 11, 3, che menziona erroneamente L. Mummius invece di Cn. Manlius Vulso; Orosio, Hist. 4, 20, 25, che confonde Manlius con l’altro console Fuluius. Nei frammenti di Polibio la narrazione della guerra di Manlio Vulsone contro i Galati si trova ai capp. 33-39 del libro 21 (vd. un elenco delle fonti in Briscoe, A commentary, 38-40, 56). Ll. 14-17. In queste righe è compendiata la storia della moglie del principe Orgiagonte. Nella versione di Livio 38, 24, 2-11, il fatto avvenne a Ancyra, capoluogo dei Galli Tectosagi, dove erano stati concentrati, dopo la sconfitta subita sul monte Olimpo, i prigionieri galati di ogni età, uomini e donne. Tra i prigionieri la protagonista della storia, donna di straordinaria bellezza, essendosi negata alle brame di un centurione, subisce violenza da parte di questo. Stabilita poi una quantità d’oro come riscatto per liberarla, il centurione accompagna la donna a un luogo convenuto per l’incontro con due parenti di lei. Lì giunti, però, ella ordina loro di decapitarlo; con la testa mozzata, torna quindi dal marito, confessandogli sia l’oltraggio subito sia la vendetta. La lezione del papiro (Origiacontis) è l’unica testimonianza nota di questa forma (Orig-) del nome. In diverse varianti è testimoniato il nome del principe della tribù galata dei Tolistobogioi, marito della donna. In Livio si trovano, con varie lezioni nei codici, le forme seguenti: 1) in 38, 19, 2, Ortiago (B ¯) cui si aggiungono le correzioni Orgiago (Frob.2), Ortiagon (Sig.); cf. Pomp. Trog. prol. 32: Ortiagontem; 2) in 38, 24, 9, Orgysgontem (B), Orgisg- (¯), cui si aggiungono le correzioni: Ortiagontem (Sig.), Orgiag- (Frob.2, Carb.). In Valerio Massimo 6, 1, ext. 2 c’è Orgiagontis (B, codd. plerique: Orgiac- B sec. m.); in Floro, Epit. 2, 11, 6: Orgiacontis (edd.: orgia cunctis T, orgiaguntis V, orgiagontis R); Vir. ill. 55, 2: Orgiagontis. In Plutarco, Mulier. virt. 22, derivato da Polibio, c’è \OÚÙÈ¿ÁÔÓÙÔ˜; cf. anche Suida, s. v. \OÚÙÈ¿ÁˆÓ. Nelle testimonianze latine (Valerio Massimo e De viris illustribus) prevale la forma Orgiagon-, che è da supporre probabile anche nel testo evi-

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dentemente corrotto della seconda testimonianza di Livio (38, 24, 9). Da tale corrispondenza nella forma alterata del nome, così come dalla mancanza del nome della donna (Chiomara), si ricava un argomento a favore della derivazione sia dell’Epitoma sia delle altre testimonianze da Livio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 68 s.). Nell’ambito di questa forma onomastica si distingue la lezione particolare di Floro, desunta anch’essa dal testo corrotto di vari codici. A questo gruppo si oppone la prima testimonianza di Livio (38, 19, 2), che, nel testo dei codici, ricalca la forma testimoniata dalle fonti greche. Nell’Epitoma, pertanto, non sembra necessaria la correzione Ortiagontis (Grenfell e Hunt), forse nemmeno l’espunzione di una lettera (Kornemann): Or{i}giacontis. Si può conservare, invece, la lezione particolare del papiro (Rossbach e Jal). Il testo del papiro, in queste righe, si rivela indubbiamente corrotto soltanto nella lezione captian. Tra le correzioni proposte è assai probabile captiua (Kornemann), già suggerita da Grenfell e Hunt, i quali però vorrebbero uxor in quel punto e sospettano che sia corrotta anche la lezione nobilis (forse, a loro giudizio, in séguito a un’involontaria contaminazione con le parole Ancyram nobilem, all’inizio della narrazione liviana). Si può sospettare che la parola uxor sia stata omessa per errore, ma non è da escludere che sia sottintesa nell’espressione captiua nobilis, che sembra l’emendamento più plausibile: «la prigioniera di nobile lignaggio, (moglie) di Orgiagonte». Una confusione può essere avvenuta tra sillabe omofone: or igiacontis, captiua nobilis (vd. Müller, Jahresbericht 2, 12). Tale espressione, indipendentemente da correzioni e integrazioni, enuncia il soggetto dell’azione; il predicato verbale si trova alla l. 16 e ha come oggetto centuri]onem, integrazione sicura nella lacuna (l. 15). Nella proposizione relativa che segue, ovvie le integrazioni di due lettere: una quasi scomparsa nella lunga fessura che attraversa longitudinalmente il foglio (cuius), l’altra omessa dallo scriba per un’inconsueta abbreviazione (pass.): «uccise un centurione, da cui aveva subito violenza» (letteralmente: «di cui aveva subito la violenza»). A centurionem si riferisce anche poscentem (la puntiforme traccia della p, che esce dalla lacuna, sembra confermare l’ovvia integrazione), determinato (l. 15) dall’oggetto aurum o, a quanto pare, dalla proposizione oggettiva comprendente aurum e admit[***, parola spezzata, la cui fine è caduta nella lacuna della riga seguente. Grenfell e Hunt sospettano che questa lezione mutila del papiro sia errata (vd. POxy iv , 103: «a corruption of a word meaning “promised”»). Alcuni editori integrano admit[ come voce verbale riferita a aurum (ad es., admitti o admittendum, Kornemann), intendendo admittere in un’accezione simile a accipere (vd. ThlL i, 1, 752, ll. 1-29). Secondo tali congetture, il senso del passo sarebbe il seguente: «il quale chiedeva che (gli) fosse dato oro», ovviamente come riscatto per liberare la prigioniera. Altri editori ritengono che lo stesso verbo sia da riferire alla prigioniera, nel senso che il centurione chiedeva l’oro al fine di liberarla: ad mit[tendam se] (Gundermann in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 15), ad mittendam (Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 125), ad dimit[tendam eam] (Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 229 s.). Sarei più propenso ad accogliere la prima soluzione, ma è impossibile decidere. Credo che sia da escludere, invece, la correzione di poscentem in pensantem, suggerita da Grenfell e Hunt per conformità al testo di Livio. Tale conformità non va assunta come norma, poiché l’Epitoma modifica frequentemente l’originale liviano. L’Epitoma si avvicina al racconto di Livio (38, 24, 2-11) soprattutto nelle frasi seguenti: «facinus memorabile a captiua factum est; corpori (...) uim fecit (centurio scil.); cum aurum ostenderent (necessarii mulieris scil.) (...) mulier (...) stringerent ferrum et centurionem pensantem aurum occiderent impetrauit; iugulati praecisum caput ipsa (...)

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ferens ad uirum Orgiagontem (...) peruenit». La versione liviana è molto simile, nello svolgimento narrativo così come nei particolari, al racconto di Plutarco (Mulier. virt. 22, 258 D-F), il quale dichiara come sua fonte Polibio (ï ¶Ôχ‚Èfi˜ ÊËÛÈ), che sembra aver raccolto la storia dalla testimonianza diretta della protagonista stessa del fatto (vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 94 s.). Valerio Massimo 6, 1 ext. 2 segue fedelmente la versione di Livio e, in modo simile all’Epitoma, ricorda concisamente, prima della storia della moglie di Orgiagonte, la disfatta dei Gallogreci: «exercitu et copiis (...) deletis» (cf. anche Vir. ill. 55, 2: «his … uictis»). Seguono quindi altre analogie: a centurione … stuprum pati coacta; aurum expendentem centurione; imperauit (mulier scil.) ut eum occiderent; caput abscisum manibus retinens ad coniugem uenit. La versione della Periocha è simile a quella dell’Epitoma, ma ancora più corta (sulla differenza tra i due testi vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243 s.): «capta centurionem, qui ei uim intulerat, occidit». Un po’ differente la versione di Floro, Epit. 2, 11, 6: dopo aver subito la violenza, la moglie di Orgiagonte sfugge alla sorveglianza e porta al marito la testa del centurione, che ella stessa aveva tagliato. In questa versione si notano le seguenti analogie con l’Epitoma: a centurione stuprum passa; reuolsumque … caput ad maritum reportauit. L’espressione uim passa, tuttavia, che si discosta da Livio (uim fecit) e concorda con Floro e Valerio Massimo, sembra indicare una comune derivazione di queste testimonianze da una fonte intermedia, che si è ritenuto fosse l’Epitoma del sec. i (vd. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 69). Secondo De uiris illustribus 55, 2, la nobile donna, una volta liberata, fa uccidere dal marito il centurione che le ha fatto la violenza. Si rileva qui soprattutto la seguente analogia: a quo ui stuprata. Da un esame comparativo Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 250-252 ricava che le versioni dell’episodio sono derivate tutte da Livio, ma il loro grado di vicinanza è diverso: l’Epitoma e la Periocha sarebbero le più vicine, dopo Valerio Massimo, ma indipendenti l’una dall’altra; Floro e De viris illustribus starebbero a un grado più lontano. Il passo si conclude con un altro enunciato principale, il cui predicato verbale, caduto nella lacuna all’inizio della l. 17, è integrato in vario modo: secum tulit (Grenfell e Hunt, POxy iv , 95); reportauit (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 15). La m con cui è completata la desinenza di uiru[ è abbastanza chiaramente visibile all’estremità del bordo sinistro, per chi guarda, del frammento successivo (cornice nr. 2; vd. anche il commento papirologico), alla stessa altezza della l. 17 della col. ii. Si scriverà quindi, correttamente, uirum (o uirum . ), non uiru[m, poiché la lettera, in realtà, è superstite. L. 17. La frase, integra nel testo dell’Epitoma (nella lacuna iniziale si trovava la fine del passo precedente; nella riga seguente comincia una nuova proposizione), riassume nei termini essenziali la notizia della concessione del diritto di conubium ai Campani, che nel libro 38 di Livio è riportata, con altre riguardanti le province e gli eserciti, all’inizio del racconto del 188 a.C. (vd. ibid. 36, 5-7): «Campani, cum eos ex senatus consulto, quod priore anno factum erat, censores Romae censeri coegissent (nam antea incertum fuerat ubi censerentur), petierunt ut sibi ciues Romanas ducere uxores liceret, et si qui prius duxissent, ut habere eas, et nati ante eam diem ut iusti sibi liberi heredesque essent, utraque res impetrata». Come si vede, i Campani chiesero e ottennero il diritto di conubium con donne romane dopo che i censori avevano decretato che i Campani fossero censiti a Roma. Era posto rimedio, così, a una precedente situazione di incertezza

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giuridica. Nel racconto sull’attività dei censori nel 189 (vd. ibid. 28, 1-4), infatti, apprendiamo che gli stessi Campani si erano rivolti al senato per sapere dove dovessero censirsi (par. 4): «Campani ubi censerentur senatum consuluerunt; decretum uti Romae censerentur». Nello stesso libro 38, tra i due momenti della vicenda dei Campani (questione del censimento e diritto di conubium), si svolgono narrazioni di avvenimenti esterni: 1. 28, 5-29, 11, campagna di Cefallenia e espugnazione di Same (da settembre 189 a gennaio 188); 2. capp. 30-34, Sparta sottomessa da Filopemene, capo della lega achea. Si noterà giustamente che, nell’Epitoma, la collocazione del riferimento ai Campani tra gli avvenimenti del 189 è «an falscher Stelle» (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 39); è pur vero, d’altra parte, che le due notizie sono strettamente collegate e che la seconda riporta la conseguenza della prima (vd. Mommsen, Römisches Staatsrecht ii , 374 n. 2). Se ne può concludere che l’Epitoma, dopo aver fuso in una sintesi i due momenti della vicenda dei Campani, deve aver collocato tale sintesi nel momento iniziale, in cui fu deciso dove fossero censiti (vd. POxy iv , 103). Non c’è quindi errore cronologico; più volte, infatti, l’Epitoma riunisce insieme avvenimenti riportati in parti diverse della narrazione liviana di uno stesso libro, anche separati da una certa distanza di tempo, ma che rappresentano lo svolgimento di una medesima vicenda (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 71). Così facendo, l’Epitoma sembra concepire le due fasi della storia come una sequenza coerente. Si osserverà, inoltre, che lo stesso Livio suggerisce un collegamento tra queste parti, richiamando nel secondo passo l’inizio della questione: «cum eos ex senatus consulto, quod priore anno factum erat, censores Romae censeri coegissent». Nel riferimento a tale decreto dell’anno precedente è data anche la ragione della richiesta dei Campani: se dovevano essere censiti a Roma, sembrava conseguente poter godere del diritto di matrimonium iustum con donne romane. Nemmeno dall’esame autoptico si può confermare la presenza della voce verbale e[s]t, un po’ staccata da datum, alla fine della riga. Molto difficilmente si può scorgere l’ombra di un tratto arcuato, che potrebbe essere di una e, prima della piccola lacuna che si apre a una certa distanza, dopo la fine della scrittura conservata in questa riga. Non si vede traccia di una t fuori della lacuna. Se anche tale voce verbale vi fosse stata scritta, bisogna ritenere che sia stata accuratamente cancellata. Conviene tornare, quindi, alla soluzione di Grenfell e Hunt, i quali indicano semplicemente [ ] dopo datum. L. 18. Il contenuto di questa riga riguarda il conflitto tra la lega achea e gli Spartani, che ebbe luogo nel Peloponneso dalla fine del 189 al principio del 188 e che nel libro 38 di Livio, dopo il racconto della campagna di Cefallenia e della presa di Same (vd. ibid. 28, 5-29, 11), è narrato nei capp. 30-34. La sommaria notizia dell’Epitoma può rappresentare un estratto del cap. 34 del libro liviano in cui si narra che, nella primavera del 188, una spedizione achea guidata da Filopemene si recò nel territorio di Sparta per reclamare la consegna di un gruppo di facinorosi, i quali avevano ucciso trenta Lacedemoni filoachei; quando questi giunsero al campo acheo, gli esuli di Sparta uniti agli Achei provocarono un tumulto, che degenerò in aperta violenza: una ventina di Lacedemoni furono uccisi nello scontro, altri giustiziati il giorno successivo (vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 109 s., con le altre fonti su questi avvenimenti; 115 s.). Si osserverà che l’espressione dell’Epitoma non riprende in modo letterale nessun elemento del racconto liviano; riferisce soltanto che lo scontro fu cruento, ma non dà altri

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particolari (vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243: «mere condensation with no verbal similarity»). Si può rilevare (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 39) una corrispondenza con un punto dell’originale (cf. ibid. 32, 7): «controuersias inter Achaeos ac Lacedaemonios» (anche 35, 1). Sembra tuttavia che la frase dell’Epitoma, in cui è usato il plurale (cruenta [pr]oelia), richiami complessivamente le ostilità tra le due parti, compresi gli scontri di cui si parla nei capitoli precedenti, come, ad esempio, ibid. 30, 78 (nel tentativo di aprirsi un accesso al mare, gli Spartani occupano di sorpresa una borgata costiera, ma ben presto sono cacciati via dagli abitanti); oppure cap. 31 (dopo che Filopemene, nell’assemblea della lega achea riunita a Argo, ha ordinato che fossero consegnati i responsabili dell’attacco, gli Spartani reagiscono uccidendo trenta cittadini del partito filoacheo e offrono la sottomissione della città ai Romani, pregandoli di prenderli sotto la loro protezione). Tale giuntura, di uso postclassico, è testimoniata in Solino 7, 19: proelii cruentissimi (altri usi successivi; vd. ThlL iv, 1240, ll. 14 s.). L. 19. Con i nomi dei consoli Marco Valerio Messalla e Gaio Livio Salinatore è indicato l’inizio del 188 a.C. (a.u.c. 566). Nel libro 38 di Livio, una prima menzione dei due consoli si trova in 35, 1: «M. Fuluius (...) creauit consules (L: -lem B¯) M. Valerium Messallam et C. Liuium Salinatorem»; in questo passo, M. Fulvio, console in carica nel 189, proclama ufficialmente, tra ottobre e novembre dello stesso anno, i consoli eletti per il 188. Per tale ragione, M. Fulvio dovette tornare dalla Grecia, dove era impegnato nelle operazioni militari. Al par. 7 del cap. 35, apprendiamo che i due consoli del 188, entrati in carica alle idi di marzo, ricevono l’imperium e assumono le loro funzioni, secondo la lex curiata de imperio: «M. Valerius Messalla (...) et C. Liuius Salinator consulatum idibus Martiis cum inissent». Nel medesimo ordine come in Livio i due nomi sono riportati in Cassiodoro, Chron. II p. 130, 370 Mommsen: «M. Messala et C. Liuius Salinator»; cf. anche Obseq. 2: «M. Messala C. Liuio coss.». È probabile che nell’Epitoma, così come in Cassiodoro, il nome del primo console fosse costituito da due elementi, mentre quello dell’altro è riportato nella forma completa (nel papiro, Calinatore è di certo una svista dello scriba, che conviene emendare nel testo stesso). Da preferire, per conformità a Cassiodoro, l’integrazione M. Messala (o -lla). Propongo di conservare la lezione mutila del papiro (I]ulio o L]ulio), anziché emendarla per conformità al dato storicamente corretto (L]iuio): non essendo infatti imputabile a una svista nella copiatura, essa può esser considerata come testimonianza genuina di una diversa tradizione del nome. Nella stessa tradizione manoscritta di Livio, d’altra parte, un simile esempio di confusione tra gli stessi due nomi si trova in 39, 3, 5, dove i codici recano concordemente M. Liuio, mentre Mg aveva M. Iulio. L’ordine dei due nomi, menzionati nella forma completa, è invertito nei Fasti Capitolini, a. 188 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49): «C. Liuius (...) Salinator M. Valerius (...) Messalla». Così anche in Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 566 Mommsen; Consularia Constantinopolitana, Chron. I p. 212, 566 Mommsen: «Salinatore et Messala». Ll. 20-21. L’Epitoma compendia, in questo punto, il racconto della marcia di ritorno dell’esercito romano, nel 188, sotto il comando del proconsole Gneo Manlio Vulsone, dalla campagna condotta nell’Asia minore. Nel testo dell’Epitoma è dato speciale risalto al bottino di

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guerra: p]raeda. Il testo resta incerto, a causa delle lacune e di un presumibile errore: cras. [***, che gli editori correggono in Thra[ciam o in un termine simile. Nella lacuna iniziale della l. 20 poteva trovarsi un aggettivo riferito alla praeda, come pretiosa (Rossbach) o simile (vd. le varie congetture nell’apparato critico). Quanto al predicato verbale, che doveva trovarsi nella lacuna iniziale della l. 21, gli editori hanno dato soluzioni diverse. L’integrazione ducta (Grenfell e Hunt) implica semplicemente il trasporto del bottino, senza riferimento agli assalti dei barbari (in questa edizione non è integrata la lacuna alla l. 20). Gli altri editori e studiosi, invece, ritenendo che il predicato verbale enunciasse proprio tali assalti, integrano in modo conseguente, con grande varietà di congetture (vd. apparato critico). Alla fine del testo superstite della l. 20, il testo del papiro sembra errato, poiché le lettere iniziali della parola mutila, cra (prima della lacuna si scorge soltanto una traccia indecifrabile della quarta lettera), verosimilmente un nome, non sono riferibili a nessun termine del corrispondente passo liviano. La parola andrebbe quindi emendata in Thra[ciam o Thra[ces; si ottiene così una determinazione di moto per luogo, che esprime bene, conformemente all’originale liviano, il passaggio dell’esercito attraverso la regione ostile. Non si escluda tuttavia una diversa soluzione. Nel papiro, l’emendamento comunemente ammesso (Thra[ciam o simile) non risulta confermato nemmeno da una minima traccia della lettera mutila che segue cra: attraverso l’esame autoptico mi è sembrato di scorgere, infatti, la punta della curva angolata superiore di una s (cras[***), che rende abbastanza improbabile un’integrazione col nome della regione, desunta da Livio. Ai capitoli 37-39 del libro 38 di Livio è narrata la conclusione della campagna di Vulsone nell’Asia Minore nel 188 a.C.: Gneo Manlio riceve legazioni delle città poste di qua dal Tauro; si reca quindi in Panfilia con l’esercito e torna infine a Apamea, dove è steso il testo del trattato tra Roma e Antioco iii. La marcia di ritorno dell’esercito romano con il bottino dalla campagna d’Asia, sotto il comando di Vulsone, è narrata alquanto estesamente in Livio ai capitoli 40-41. Della narrazione polibiana, dal libro 21, possediamo soltanto l’esiguo fr. 47, incompleto e di difficile lettura (vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 143 s.). Nel racconto della marcia, sono posti bene in risalto pericoli e difficoltà che i Romani dovettero affrontare soprattutto nell’attraversamento della Tracia, in cui avvennero agguati di predoni locali attratti dal bottino di guerra che i soldati trasportavano. Proprio questo contenuto del racconto è posto al centro della proposizione dell’Epitoma, nella quale sono compendiati vari elementi del testo liviano, come, ad esempio, i seguenti: (40, 4) «per Chersonesum modicis itineribus graue praeda omnis generis agmen trahens, Lysimachiae statiua habuit, ut quam maxime recentibus et integris iumentis Thraciam, per quam iter uolgo horrebant, ingrederetur (Cn. Manlius scil.)»; (ibid. 6) «plaustra cum pecunia publica erant pretiosaque alia praeda»; (ibid. 8) «eum (Philippum scil.) scisse non alia quam per Thraciam redituros Romanos, et quantam pecuniam secum portarent» (si sospettava che dietro all’agguato ci fosse una macchinazione di Filippo di Macedonia); cf. anche i parr. 12, 14, 15. Un successivo tentativo di incursione è sventato facilmente dai Romani, che questa volta possono combattere in campo aperto (vd. ibid. 41, 6-7). Ll. 21-23. Il passo riguardante l’episodio di Minucio Mirtilo e di Manlio, ricordati per avere oltraggiato i legati cartaginesi e essere stati per questo consegnati dai feziali ai legati stessi e

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deportati a Cartagine, comincia, nel papiro, nella lacuna iniziale della l. 21, subito dopo la fine del passo precedente. I nomi dei due protagonisti del fatto dovrebbero costituire il soggetto della proposizione principale; la struttura del periodo, tuttavia, nel suo insieme, risulta poco chiara, poiché non vi si individua il predicato verbale principale. Considerando che sono cadute dieci lettere circa nella lacuna iniziale di queste righe, calcoliamo infatti che alla l. 22, dove si sarebbe potuto trovare tale predicato verbale, lo spazio basta soltanto per il complemento di mezzo per (Grenfell e Hunt) o penes (Gundermann) legat]os, integrazione da ritenere quasi certa, conformemente alle fonti dell’episodio. Per ovviare a tale difficoltà logica, alla l. 23 Grenfell e Hunt hanno aggiunto, in modo dubitativo, auecti, desunto dallo stesso testo liviano (vd. più avanti), supponendo, per di più, nel séguito della riga, alcune parole svanite, delle quali si scorgerebbero tracce d’inchiostro (vd. anche T. Livi periochae, fragmenta, 124), che però non posso affermare in alcun modo di aver scorto nell’esame autoptico. La soluzione data da Rossbach (dediti legat]is) è interessante, ma va considerata con cautela, poiché impone l’emendamento della lezione originale del papiro (***]os). Una sistemazione complessiva, che risulta più come interpretazione del passo, è data dallo stesso Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229: Myrtilus et L. Manlius, [quod legat]os Carthaginiensium, qui [Romae eran]t, pulsauerant, his dediti. Non è da escludere che il predicato verbale si trovasse nella lacuna alla fine della l. 21, supponendo che questa fosse più lunga delle altre: è possibile, considerata la misura irregolare delle righe del papiro, che un perfetto passivo in forma ellittica (auecti, ad es.) fosse scritto dopo Manili[us. Ancora riguardo al testo del papiro, c’è da osservare che nella lezione Chartaginiensium è stata emendata, probabilmente dallo stesso scriba, la t erronea della prima mano (-nt-) in -ns-. La lezione Manili[us del papiro è stata giustamente emendata in Manlius, secondo la forma correttamente testimoniata del nome (vd. anche col. V, l. 4). L’episodio compendiato dall’Epitoma si trova in Livio 38, 42, 7: «eo anno L. Minucius Myrtilus et L. Manlius, quod legatos Carthaginienses pulsasse dicebantur, iussu M. Claudi praetoris urbani per fetiales traditi sunt legatis et Carthaginem auecti (au- B E „: adu- P L2)». L’Epitoma segue l’ordine della narrazione liviana, poiché la sezione del libro 38 in cui l’avvenimento è riportato, con altre vicende interne dello stesso 188 a.C. (42, 150, 3), si trova immediatamente dopo il racconto del travagliato ritorno dell’esercito romano dall’Asia. Sembra degno di nota, d’altra parte, che nell’Epitoma sia stato posto tanto in rilievo proprio questo fatto, che in Livio resta alquanto circoscritto. Valerio Massimo (6, 6, 3) riferisce la stessa storia come exemplum di fides publica, ma la colloca nell’anno successivo (187): «M. Aemilio Lepido L. Flaminio consulibus L. Minucium et L. Manlium Carthaginiensium legatis, quia manus his attulerant, per fetiales a M. Claudio praetore dedendos curauerunt». Un’altra testimonianza si trova nel fr. 61 del libro 19 di Cassio Dione (ed. Boissevain, I, 292). L. 24. Con i nomi dei consoli Marco Emilio Lepido e Gaio Flaminio è indicato il principio del 187 a.C. (a.u.c. 567). I due consoli sono menzionati nella notizia delle elezioni consolari in Livio 38, 42, 3: «creati M. Aemilius Lepidus et C. Flaminius»; cf. anche 39, 6, 1 (Flaminio sostituisce il collega nella direzione dei comizi elettorali). In questo stesso ordine i due nomi si susseguono nella maggior parte delle testimonianze. Così in Valerio Massimo 6, 6, 3: «M. (...) Aemilio Lepido L. (A L: C. dett.) Flaminio consulibus». Indi-

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cando questi consoli, Valerio Massimo attribuisce al 187 lo stesso episodio che Livio e l’Epitoma collocano correttamente nel 188 (vd., sopra, ll. 21-23 e il commento). I due nomi sono riportati nella forma completa nei Fasti Capitolini, a. 187 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49): «M. Aimilius (...) Lepidus C. Flaminius». Così il nome di Emilio Lepido in CIL i2 2, 1 nrr. 617-620. Nell’Epitoma entrambi i nomi dovevano essere costituiti da due elementi, come in Cassiodoro, Chron. II p. 130, 371 Mommsen: «M. Lepidus et C. Flaminius». Per conformità a questa testimonianza, nel testo del papiro risulta più probabile l’integrazione M. Lepido di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17 che M. Aemilio di Grenfell e Hunt, POxy iv , 95. Simile la menzione di questi consoli in Strabone 5, 1, 11 C 217: Û˘Ó˘¿ÙÂ˘Û·Ó (...) M¿ÚÎÔ˜ §¤ȉԘ ηd °¿˚Ô˜ ºÏ·Ì›ÓÈÔ˜. In questo ordine anche nella forma ridotta del Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 567 Mommsen e dei Consularia Constantinopolitana, Chron. I p. 212, 567 Mommsen. Gli stessi due elementi, ma nell’ordine invertito, sono riportati anche in Zonara, 9, 21, 5 (dal libro xix di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 292): °·˝Ô˘ (...) ºÏ·ÌÈÓ›Ô˘ ηd AåÌÈÏ›Ô˘ §Â›‰Ô˘ ñ·Ù¢fiÓÙˆÓ. Ll. 25-27. Argomento di queste righe dell’Epitoma è il processo contro Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore, avvenuto nel 187 a.C., la cui fonte principale è Livio 38, 50, 4-53, 11. Il racconto liviano di tale avvenimento si trova subito dopo la parte dedicata alle elezioni per l’anno 187 e ad altre vicende politiche interne (ibid. 42, 1-50, 3); segue quindi il processo contro Lucio Cornelio Scipione Asiatico, con il quale si conclude il libro 38 (capp. 54-60). Nel secondo processo, il tribuno della plebe Ti. Sempronio Gracco prende le difese dell’accusato e non permette che Scipione sia tratto in carcere (ibid. 57, 4-5), opponendosi al suo arresto (ibid. 60, 3-6). Il passo riguardante il primo processo si estende dall’inizio della l. 25 (nella lacuna) fino a intercessit (l. 27). In questa area della lacuna, la stessa che interessa la col. I in tutta la sua lunghezza, sono cadute dieci lettere circa all’inizio di ogni riga. Assai probabile che alla l. 25, dove il passo comincia, sia da integrare P. Cornelius, che corrisponde meglio al numero delle lettere mancanti, anziché P. Scipio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17). L’Africano è quindi soggetto della proposizione principale, che ha abit (non necessaria l’integrazione di un’altra i) come predicato verbale. Comunemente accolto dagli editori l’emendamento di Metellis del papiro in Petillis, ritenuto necessario per conformità a Livio, dove si legge che gli accusatori di Scipione, secondo la testimonianza di Valerio Anziate, furono i due Quinti Petilli. Ho preferito tuttavia conservare la lezione del papiro come variante genuina, supponendola derivata da una diversa tradizione o da un tentativo di adattamento del nome più raro a un nome più conosciuto. Il modo di procedere dell’Epitoma, in casi come questo, potrebbe corrispondere a un’esigenza di semplificazione rivolta a un pubblico di lettori o di discenti di lingua e formazione greca oppure a un uso scolastico del compendio liviano (vd. anche col. iii, l. 24 e il commento). Il complemento a Quintis Metellis determina come agente un’espressione come dies [dicta (integrazione sicura all’inizio della l. 26), che qui indica il giorno fissato per la convocazione in giudizio. Gli editori, in genere, espungono la s di dies per assicurare la forma corretta dell’ablativo assoluto. Con una diversa interpunzione propongo di difendere la lezione del papiro, supponendo un periodo composto non come un insieme coerente e continuo, ma come una somma di frasi giustapposte, legate piuttosto

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dal senso come unità narrativa: ***] Africanus: a Quintis Metellis dies [dicta; ***]tratum abit. Con argomento diverso, la stessa lezione dies invece di die è stata difesa anche come particolarità del latino postclassico (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 8). Non si possono integrare in modo certo le cinque lettere circa che dovevano trovarsi subito dopo dicta nella medesima lacuna della l. 26. Gli editori sono per lo più propensi a integrare la lezione mutila ]tratum modificandola lievemente per adattarvi un nome di città o di luogo all’accusativo, inteso come complemento di moto con abit (soggetto è lo stesso Scipione): in Literninum (Grenfell e Hunt, quindi Rossbach) o in Liternum (Kornemann; ma vd. Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 230); ancor più felice la soluzione di Müller, Jahresbericht 1, 32: ei (Scipioni scil.; cf. Perioch. 38, 11) dicta Li]ternum. Con una congettura diversa, degna di considerazione, Gundermann difende la lezione mutila del papiro (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17): dies [longas impe]tratum. L’Epitoma presenta alcune corrispondenze col testo liviano. Publio Scipione è citato in giudizio dai due Quinti Petillii (ibid. 50, 5): «P. Scipioni Africano (...) duo Q. Petilii (codd.: Petillii Sig. in Frob.1, edd. plerique) diem dixerunt» (in 56, 2 è riportata un’altra versione, secondo cui l’accusatore di Scipione sarebbe stato Marco Nevio, tribuno della plebe nel 185 a.C.: «alii M. Naeuium, alii Petilios diem dixisse scribunt»); cf. Perioch. 38, 10: «Scipio Africanus die ei dicta, ut quidam tradunt, a Q. Petilio (Q. Sig.: om. pars codd.; p. rell.) tr. pl., ut quidam, a Naeuio (...) postquam is dies uenit, euocatus in rostra»; cf. anche Val. Max. 3, 7, 1e. Probabile, come si è visto, che nell’Epitoma si trovasse la medesima espressione di Livio e della Periocha (diem dicere, die dicta). Successivamente, P. Scipione si ritira a Literno (ibid. 52, 1): «die longiore prodicta in Literninum (corr. Gel. apud Frob.2: Liternum codd.) concessit (P. Scipio scil.)»; cf. Perioch. 38, 11: «ne amplius tribuniciis iniuriis uexaretur, in uoluntarium exilium concessit» (Liternum post exilium add. Vaticanus lat. 6803, saec. xv ; deest in N P). Tiberio Sempronio Gracco, tribuno della plebe al tempo del processo contro Scipione, dichiara che non avrebbe permesso che Publio Scipione fosse processato prima di tornare a Roma (ibid. 52, 9-10): «tribunus plebis (...) Ti. Sempronius Gracchus (...) cum uetuisset suum nomen decreto conlegarum adscribi (...) ita decreuit (...) se P. Scipionem priusquam Romam redisset accusari non passurum». Questo punto del racconto liviano è compendiato nella proposizione conclusiva del passo dell’Epitoma, costituita da una proposizione reggente (intercessit), il cui soggetto è Gracchus (integrazione probabile) con l’apposizione t]rib. pl., e da una subordinata: qui (Scipio scil.) ne reuocaretur. Già classico l’uso di intercedere nel significato di «impedire, opporsi», specie quando si riferisce ai tribuni della plebe che opponevano il veto; così anche con un enunciato secondario introdotto da ne (vd. ThlL vii, 1, 2155, ll. 64 s.), di cui si hanno esempi già nella Rhetorica ad Herennium 2, 28, 45: Sulpicius, qui intercesserat, ne exulis (…) reducerentur; Livio 10, 37, 9: intercessuros (tribunos plebis scil.) ne nouo exemplo triumpharet. Il tribuno della plebe Ti. Sempronio Gracco, interpostosi affinché Scipione non fosse richiamato indietro, impedì quindi che il glorioso generale fosse processato (vd. anche Reid, Fragments, 291: «ne reuocaretur represents Livy’s ne causam dicat»). Testimonianza del fatto anche in Cicerone, Prov. 18. La Periocha del libro 38 ricorda l’intervento di Tiberio Sempronio Gracco soltanto nel processo contro l’Asiatico (par. 13); qui l’uso di intercedere concorda con l’Epitoma: «L. Scipio Asiaticus, frater Africani, cum in uincula et carcerem duceretur, Tib. Sempronius Gracchus tr. pl. (...) intercessit»; stesso uso di intercedere, per l’intervento di Tiberio Gracco a favore dell’Asiatico, in Valerio Massimo 4, 1, 8; Seneca, Consolatio ad Polybium 14, 4; inoltre Gellio 6, 19, 8 (anche 5); Vir. ill. 53, 2 (cf. 57, 1). Sembra pertanto che l’Epitoma abbia adattato al processo dell’Africa-

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no un particolare desunto dal racconto del processo all’Asiatico, usando non l’espressione liviana, ma quella che si trova in altre fonti parallele. Altre testimonianze considerevoli sul processo a Publio Cornelio Scipione si trovano in Polibio 23, 14, 1-4, con particolare interesse per l’aspetto aneddotico (cf. Diodoro 29, 21); Valerio Massimo 3, 7, 1e; 5, 3, 2b; Plutarco, Cato mai. 15, 1-2; Regum et imperatorum apophthegmata 196 F; De se ipsum citra inuidiam laudando 540 F-541 A; Appiano, Syr. 40, 205211; Cassio Dione 19 frr. 63; 65, 1 e il compendio in Zonara 9, 20, 12-13 (ed. Boissevain, i, 290-292); Gellio 4, 18; 6, 19; Vir. ill. 49, 17-19. Un elenco complessivo delle fonti riguardanti i processi agli Scipioni (vd. anche Epit., coll. i, l. 27-II, 1 e il commento) si trova nell’edizione Briscoe, ii, Stutgardiae 1991, 591; vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 170. POxy IV 668, Col. II (Ab urbe condita librorum 38-39 Epitoma)

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Scipio dam[natus ± 6/7 ]ns.. [ lib. xxxv]iiii per C. Flami[nium ± 7/8 ]m cos. Ligures perdomiti. u. [iae ± 8 e]t Aemilia munitae sunt. Latinorum [ ± 9 hom]i. num coacta ab Roma re[dire ± 8 ]m de [G]allograecis int[ ± 12 ]ap[. pe]cunia quae trans[ ± 12 ]tis p[e]r.s.oluta. Sp. Postumo [ ± 7 co]s. Hispala Fa[ecenia meretri]ce et pupillo Aebutio qu[ ± 11 ] Rutil{i}us tutor et ma[ter ± 6 ci]rcumscribserant indicium re.[ ± 9 Ba]cchan]alia subla[ta ± 9/10 ]pan.[.] s.ubacti at[hletarum cert]amina primum a Fu[luio ± 6 ]e edita. Galli in Ital[iam ± 5 Ma]r.cellum p.ersuasit [ ± 12 ]n.t. L. Cornelius Scipio pos[t ± 10/11 ] ludos uotiuos conl[ata ± 9 ]t. App[i]o Claud[io ± 9 ]o cos. Ligures fu[gati ± 6/7 i]llis accepta. P. Claudio Pulchr[o ± 6/7 Li]cin{i}o cos. h.omini ccd ∞[∞ uen]efici damnati. L. Quintius Fla[mininus ..] Gallia quod Philippo [ ± 10 ] suo desiderante gladia[torium specta]culum

3 punti a media altezza dopo sp e cos 9 ampio spazio dopo postumo, già leggermente staccata dalla parola precedente 18 punto a media altezza e lieve stacco dopo l 21 spazio tra appio e claud[io ampio spazio tra ]o e cos; in mezzo, a media altezza, quasi a contatto con cos, sottile linea orizzontale, un po’ allungata, tracciata con inchiostro diverso punto a media altezza dopo cos 23 punti a media altezza dopo p e cos stacchi tra le singole parole 25 punto a media altezza e stacco dopo l — pecuniae post damn. 1 ]ns in pap. legi, quadragi]ens van Wageningen 1: ***]eni G.-H.; L. C. S. d. xl coni. Reid, furti (vel peculatus) crimine Ross.; damnatus est, bona uenierunt Luterb. 2 suppl. G.-

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H. 3 M. Aemiliu]m G.-H. (et recte om. cett.); M. Lepidum Luterb. 4 u[iae Flaminia et] G.-H. (uia Luterb.) 5 [xii milia hom]i.num Ross. (vel do]mum Luterb.), Korn.; multitudo hom. Reid 6 re[dire. Manlius cu]m G.-H., Korn., Manliu]m Reid, a Manlio Luterb. 7 in t[riumpho G.-H., intra urbem Müller 2; interuallo Korn., intentatus Gund., intemperate Ross., integre Luterb., immerito Müller 1 ]ap[ pap., ut mihi videtur: an leg. G.-H.; triumph]ar[et Korn. pe]cunia G.-H. 8 trans[lata erat G.-H. toga]tis Korn., priuatis (vel stipendiis) Ross., tributis Gund.; e pecunia … xxvs aeris persolutum coni. Reid 9 corr. G.-H. Q. Marcio suppl. G.-H. 10 pap. (hispata) corr. G.-H. suppl. G.-H. (Fa[c-), Faecenia Korn. (-ennia Luterb.) 11 qu[em T. Sempronius] G.-H. -i- papyri (-tilius) del. Korn. 12 ma[ter Duronia] G.-H. pap. (iudic-) corr. G.-H. re[ferentibus G.-H., defer- Reid 13-14 -[n]alia Ross., ego: -alia G.-H., Korn. 14 subla[ta G.-H. in Italia coni. Korn., per s. consultum Reid, ab senatu Müller 1 His]pan[i] G.-H. 15 suppl. G.-H. 16 Fu[luio Nobilior]e G.-H. 17 Galli … ducti (vel traducti) Korn., uenere, his Luterb.; Galli … transgressis G.-H., profectis Ross. Ma]rcellum acc. pro nom., fort. recte (vel per Marc.) Korn.: Marcellus G.-H., Ross. 18 [trans Alpes redire]nt G.-H., ut redirent (vel ut domum red., fort. recte, vel senatus) Korn., Ross.; ut Italia excederent Reid 19 pos[t damnationem] fort. recte Luterb., bellum Antiochi G.-H., cett. 20 pecunia feci]t G.-H. 21 M. Semproni]o G.-H. 22 fu[gati G.-H. clade ab i]llis fort. recte Korn. (clades Müller 1), VI oppida ab illis Ross. (opp. ex ill. sex capta Luterb.); multa millia capta vel in Hispanis cladis coni. G.-H. 23 II post Pulchr[o coni. Sanders L. Porcio suppl. G.-H. -i- papyri (-nio) del. Korn. 24 pap. (homini ccd– ∞[∞) def. Korn. (-ini pro nom.), c(e)c(i)d(ere) ∞∞ Gund.: -um ad Reid, Ross., -inum circa d(uo) (millia) dub. G.-H.; Romae ad duo milia Luterb. (ad duo leg. et Lejay) a Naeuio pr. uen]efici G.-H. (a Naeu. Korn., a Q. Naeu. Ross.) 25 Fla[mininus G.-H. cos. in] Korn., Ross., ob nefas in Gallia Luterb. 26 [Poeno scorto] G.-H. 27 suppl. G.-H. (an gladiatorum?)

Col. i, l. 27 L. Cornelio Col. ii (Ab urbe condita librorum 38-39 Epitoma) Scipione fu condannato [***].

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Libro xxxviiii Per opera dei consoli Gaio Flaminio [e Marco Emilio] i Liguri furono sottomessi. Furono costruite [le vie Flaminia] e Emilia. [Dodicimila] Latini furono costretti a ritornare da Roma. [*** nel trionfo ?] sui Gallogreci[***]; il denaro che era stato trasportato fu versato interamente [ai cittadini romani ?]. Sotto i consoli Spurio Postumio, [Quinto Marcio]. Per la denuncia fatta da[lla meretrice] Ispala Fecennia e dall’orfano Ebuzio, che il tutore [T. Sempronio] Rutilo e la madre [Duronia] avevano raggirato, i Baccanali furono soppressi. [***] Gli Ispani furono sottomessi. Gare di atleti furono istituite per la prima volta da Fulvio [Nobiliore ?]. I Galli [si spinsero ?] fino in Italia; Marcello li persuase [a tornare ?] nel loro paese. Lucio Cornelio Scipione dopo [***] apprestò i giochi votivi con il denaro che aveva raccolto. Sotto i consoli Appio Claudio, [Marco Sempronio].

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I Liguri furono messi in fuga, subita [una sconfitta ad opera ?] loro. Sotto i consoli Publio Claudio Pulcro, [Lucio Porcio] Licino. Furono condannati per veneficio [duemila] uomini circa (?). Lucio Quinzio Flaminino, poiché in Gallia, per il capriccio del suo concubino punico Filippo di assistere a uno spettacolo di gladiatori, Col. iii , ll. 1-2 (Ab urbe condita librorum 39-40 Epitoma) [aveva ucciso] con le sue mani un Boio, [fu espulso dal senato ?] dal censore Catone. L. 1.

Il passo comincia alla fine della colonna i (l. 27: L. Cornelius) e occupa l’intera l. 1 della colonna ii. Nella lacuna centrale, estesa per tutta la lunghezza di questa colonna, si calcola che siano cadute, nella l. 1, undici lettere circa (5,7 cm). Da tale lacuna escono le tracce di due lettere, con cui termina la riga: la prima è sicuramente n; l’altra, assai incerta, è stata letta come i (o e), ma mi sembra più probabile intenderla come s. Grenfell e Hunt, seguiti dagli altri editori, hanno letto ]eni in queste vestigia (ma vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 16: «sehr unsicher»). Dall’esame autoptico, tuttavia, non ritengo di poter confermare quella e prima di n; a mio avviso, si possono scorgere soltanto due lettere dopo la lacuna. Questo passo (col. i, l. 27-col. ii, l. 1) conclude il compendio del libro 38 e, restando aderente all’ordine dell’esposizione liviana, concerne l’ultima sezione dello stesso libro: il processo, avvenuto anch’esso nel 187 a.C., contro Lucio Cornelio Scipione Asiatico, fratello dell’Africano Maggiore (capp. 54-60). Altre testimonianze considerevoli su questo processo si trovano in Valerio Massimo 8, 1, damn. 1; Plutarco, Cato mai. 15, 2. Un elenco complessivo delle fonti riguardanti i processi agli Scipioni (vd. anche, sopra, Epit., col. i, ll. 25-27 e il commento) si trova nell’edizione Briscoe, ii, Stutgardiae 1991, 591; vd. inoltre Briscoe, A commentary, 38-40, 170. La sintetica frase dell’Epitoma, enunciando il fatto saliente di tutta la vicenda, sembra richiamare alcune espressioni di Livio 38, 55, 4-5 (Lucio Scipione è denunciato e condannato), in particolar modo il par. 4 «ad hunc (...) praetorem (Q. Terentium Culleonem scil.) reus extemplo coactus L. Scipio»; 5: «Scipio et A. Hostilius legatus et C. Furius damnati»; cf. 56, 8: «cum L. Scipio et accusatus et damnatus sit pecuniae captae ab rege». Integrazioni congetturali per la lacuna del papiro sono state ricavate da vari punti del racconto liviano del libro 38. Reid, Fragments, 291 s., ha supposto che vi fosse indicata la somma di cui fu chiesto conto in senato a Scipione (cf. ibid. 55, 9): L. C. S. d. — pecuniae. Simile la congettura di van Wageningen, Ad Livi Epitomam (cf. ibid. 55, 4; xl 9; 12; 60, 8): (...) dam[natus quadragi]ens (per questo uso del verbum damnandi, cf. Liv. 5, 32, 9; 10, 1, 3); un’integrazione che, per di più, sarebbe confermata dalla mia lettura autoptica (***]ns. ; vd. sopra). Da una diversa lettura delle stesse vestigia del papiro (***]ine) dipende, invece, la congettura di Rossbach: furti (o peculatus) crimine. Non mi sembra fondata, tuttavia, l’affermazione secondo cui tale lettura risulterebbe certa (vd. T. Livi periochae, fragmenta, 124). Dal confronto con Livio 39, 22, 9 («post damnationem et bona uendita») Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 125 ha congetturato bona uenierunt alla fine della l. 1.

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È noto che l’intervento del tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco in difesa di Lucio Scipione riuscì decisivo per la soluzione della vicenda giudiziaria. A questo riguardo, il fatto è ben riassunto nella Periocha 38, 13: «L. Scipio Asiaticus, frater Africani, eodem crimine peculatus accusatus damnatusque cum in uincula et carcerem duceretur, Tib. Sempronius Gracchus tr. pl. (...) intercessit». Nell’Epitoma, però, come si è detto (vd. col. i, ll. 26-27 e il commento), forse a causa di una riduzione sintetica che tende a compendiare momenti successivi di un’unità narrativa, tale intervento è menzionato nel passo riguardante il primo processo. Ll. 3-4. Sicura la menzione dei nomi dei due consoli del 187 a.C. (vd. sopra, l. 24) al centro di questa riga; del secondo, tuttavia, si può integrare ugualmente bene M. Lepidu]m anziché M. Aemiliu]m. Va omessa, invece, la congiunzione et, con cui il numero delle lettere diventa eccessivo (nella lacuna lunga 5,7 cm si calcolano non più di dodici lettere; vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17). Nel passo dell’Epitoma è riassunto l’inizio del libro 39 di Livio: la guerra di Roma contro i Liguri nel 187 a.C. (capp. 1-2). Tale sintesi corrisponde bene alla narrazione liviana, secondo cui entrambi i consoli furono impegnati nelle operazioni militari. Il testo dell’Epitoma si avvicina in alcuni punti alla narrazione liviana. In 1, 1, ad es., entrambi i consoli Gaio Flaminio e Marco Emilio Lepido conducono la campagna militare: «consules ambo in Liguribus gerebant (recc.: regebant ¯) bellum»; in 2, 1-4, Flaminio sconfigge i Liguri del Frignano; in 2, 6, lo stesso console sottomette i Liguri Apuani: «his (...) perdomitis»; in 2, 7-9, Marco Emilio sconfigge e sottomette tutti i Liguri, di qua e di là dall’Appennino: «subactis cis Appenninum omnibus, tum transmontanos adortus (...) omnes Aemilius subegit»; cf. anche ibid., 10: «pacatis Liguribus». A questo racconto, d’altra parte, prelude già 38, 42, 8-13: entrambi i consoli eletti per il 187 sono assegnati alla guerra contro i Liguri. La versione dell’Epitoma, inoltre, risulta più completa di quella della Periocha 39, 1, dove è menzionato soltanto il console Marco Emilio e la stessa campagna contro i Liguri non è argomento principale, ma è introdotta in una subordinata, come riferimento temporale per un altro fatto: «M. Aemilius cos. Liguribus subactis uiam Placentia usque Ariminum productam Flaminiae iunxit» (sulla costruzione della nuova strada, vd. più avanti, l. 4). Un cenno a questi avvenimenti anche nel fr. 65, 2 del libro 19 di Cassio Dione (ed. Boissevain, i, 292). L. 4. Al racconto della guerra contro i Liguri, nell’Epitoma, segue immediatamente la notizia della costruzione della via Emilia, secondo l’ordine della narrazione di Livio. In 39, 2, 10 apprendiamo che, dopo la sottomissione dei Liguri, M. Emilio fece costruire, ancora nel 187 a.C., la via Emilia, da Piacenza fino a Rimini, dove si congiungeva con la via Flaminia: «pacatis Liguribus exercitum in Gallicum agrum duxit (recc.: deduxit ¯) uiamque a Placentia, ut Flaminiae committeret, Ariminum perduxit (M. Aemilium scil.)». Simile la notizia della Periocha 39, 1, nel punto corrispondente: «M. Aemilius cos. Liguribus subactis uiam Placentia usque Ariminum productam Flaminiae iunxit». Gli editori concordano sull’integrazione u[iae Flaminia e]t, pienamente conforme alla lunghezza di 5,7 cm della lacuna centrale di questa riga, ritenendo che alla menzione

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della via Emilia, superstite nel testo, fosse congiunta quella della via Flaminia. Potrebbe trattarsi della più nota uia Flaminia, che fu fatta costruire dal padre del console Gaio Flaminio nel 220 a.C., l’anno della sua censura (vd. Perioch. 20, 17). Nella notizia dell’Epitoma sarebbero confuse, così, la costruzione della via Emilia, correttamente collocata nel 187, come risulta anche dal racconto liviano, e quella della via Flaminia, che in realtà era stata costruita molti anni prima dal padre del console. Tale confusione si può supporre derivata dalla menzione di entrambe queste uiae nel passo di Livio citato sopra e, forse, anche dallo spontaneo collegamento tra il console del 187 e il padre di lui, censore nel 220 (vd. Abrégés 2, 131; così già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 41). Diversamente da tale spiegazione, tuttavia, e in modo ancora più semplice e plausibile, si può ritenere che nel passo dell’Epitoma la menzione della uia Flaminia, plausibilmente congetturata dagli editori, non sia un errore storico, ma riguardi la uia Flaminia minor, che il console Gaio Flaminio, nel corso della stessa guerra contro i Liguri, nel 187, aveva tracciato da Bologna fino a Arezzo, e su cui Livio dà un cenno poco sopra, ibid. 2, 6: «uiam a Bononia perduxit Arretium (consul scil.)» (vd. Müller, Jahresbericht 1, 32; Briscoe, Tite-Live, xxix , 115; A commentary, 38-40, 214). È probabile che per comodità di sintesi, come anche altre volte, l’Epitoma abbia menzionato congiuntamente la costruzione di queste due uiae alla l. 4, riunendo in un solo passo le notizie desunte dal testo liviano. Si può anche ritenere, d’altra parte, che tale particolarità dell’Epitoma abbia avuto origine non direttamente da Livio, ma da una fonte intermedia, che si è supposto fosse l’epitome perduta (vd. Bessone, La tradizione epitomatoria, 1245). Alla notizia dell’Epitoma corrisponde bene un passo di Strabone 5, 1, 11 C 217, da cui si apprende che Gaio Flaminio, nell’anno in cui fu console con Marco Lepido, dopo aver sottomesso i Liguri, costruì la via Flaminia, da Roma alla regione di Rimini, attraverso la regione tirrenica e l’Umbria. Tale testimonianza di Strabone conferma l’attendibilità storica di una variante (uia Flaminia minor) fatta costruire dal console Flaminio nel 187, con la quale erano abbreviati e resi più agevoli alcuni tratti della vecchia Flaminia. Da notare, ancora in questo passo, che la notizia della costruzione della uia è preceduta dalla menzione congiunta dei due consoli dello stesso anno (vd. sopra, col. I, l. 24 e commento) e da un accenno alla sottomissione dei Liguri: ηıÂÏfiÓÙ˜ (...) §›Á˘·˜ (cf. Perioch. 39, 1: «Liguribus subactis»). Ll. 5-6. Immediatamente successivo al racconto delle guerre contro i Liguri, il capitolo 3 del libro 39 comprende due avvenimenti del 187 a.C. riguardanti le relazioni tra Roma e altri popoli del territorio italico: la disputa tra i Cenomani e il pretore Marco Furio Crassipede (parr. 1-3) e l’espulsione di numerosi Latini da Roma (parr. 4-6), che è il fatto riportato nell’Epitoma. In séguito alle lamentele dei legati della confederazione latina, i quali avevano denunciato in senato che numerosi loro cittadini erano immigrati a Roma e lì si erano fatti censire, fu dato incarico a Quinto Terenzio Colleone, praetor peregrinus nel 187 (vd. 38, 42, 4), di ricercare quei Latini che erano già stati censiti nelle loro liste sotto i censori C. Claudio Nerone e M. Livio Salinatore, nel 204 (vd. 27, 37, 7), e ora si trovavano a Roma. Eseguita l’inchiesta, si comanda a dodicimila Latini di tornare alle loro città d’origine. Nel passo dell’Epitoma, che comincia all’inizio della l. 5, sono riferite direttamente le conseguenze dell’inchiesta di Q. Terenzio, che consistettero nel rimpatrio coattivo dei

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Latini, con espressioni che richiamano il passo liviano: (5) «Q. Terentio Culleoni praetori negotium datum est (...) ut redire eo cogeret (Latinos scil.) ubi censi essent»; (6) «duodecim milia Latinorum domos redierunt, iam tum multitudine alienigenarum urbem onerante». Nella lacuna centrale della l. 5, in cui si calcolano cadute undici o dodici lettere (5,7 cm di lunghezza) l’integrazione [xii milia hom]inum di Rossbach, Die neuen Periochae, 1020 s., desunta dallo stesso testo di Livio citato sopra, si può ritenere come la più probabile (così già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17). Simile la congettura [multitudo hom]inum di Reid, Fragments, 292. Alla fine della lacuna si scorge sul bordo l’asticella di una lettera, probabilmente una i (vd. anche Die neue Livius-Epitome, 17); essendo la lettera successiva una n, risulta attendibile la lettura ]i.num, cui ben s’adatta l’integrazione avanzata da Rossbach. Non c’è, invece, fondamento paleografico per l’integrazione do]mum dello stesso Rossbach, che può essere introdotta soltanto con un emendamento testuale, di cui però non si vede l’opportunità. Il passo dell’Epitoma termina nella lacuna centrale della l. 6 con re[dire, integrazione sicura, che restituisce un altro vocabolo del testo liviano. Ll. 6-8. Al racconto del trionfo di Marco Fulvio Nobiliore sugli Etoli (vd. Liv. 39, capp. 4-5) segue quello del trionfo di Gneo Manlio Vulsone sui Gallogreci, compendiato dall’Epitoma in queste righe. Preceduto da un’accesa disputa e decretato fin dal principio del 187 a.C. (vd. 38, 44, 9-50, 3), esso era stato celebrato, con molto ritardo, alla fine del 187-186 (39, 6, 3-7, 5). Livio ha visto in questa circostanza l’inizio del lusso a Roma, penetrato col bottino di quella guerra, che già nel corteo trionfale era stato esibito con la sua ingente ricchezza di denaro e di beni voluttuari. Molto incerta, specie nella prima parte, a causa dell’ampia lacuna al centro della colonna (5,6 cm di lunghezza in questo tratto), la ricostruzione del passo dell’Epitoma, che dalla l. 6 si estende fino a tutta la l. 8. È probabile che all’inizio si trovasse il nome del protagonista dell’avvenimento (Manlius, integrazione di Grenfell e Hunt nella lacuna alla l. 6). Nella restituzione congetturale di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17, accolta anche da Rossbach, il nome del generale romano sarebbe soggetto di una proposizione subordinata (cu]m … triumph]ar[et). A tale integrazione si oppone, però, il dato testuale del papiro: per le due lettere superstiti tra le parti cadute, infatti, mi sembra più attendibile la lettura ap (benché la seconda lettera resti incertissima) che non ar (si tenga presente, inoltre, che Grenfell e Hunt vi hanno letto an). Comunque sia, non si può condividere la sicurezza con cui Kornemann ha ritenuto di poter restituire triumph]ar[et. Puramente congetturali, inoltre, i tentativi di integrazione della parola (o del sintagma) di cui sono superstiti le lettere int- prima della lacuna, nella stessa l. 7 (vd. l’apparato critico): un po’ più plausibile mi sembra in t[riumpho di Grenfell e Hunt (ma vd. Müller, Jahresbericht 1, 33); notevole anche intra urbem di Müller, Jahresbericht 2, 12. Con una scelta opportuna, pertanto, Jal (Abrégés 2, 117), non ha integrato il testo mutilo del papiro. È certo, d’altra parte, che nella prima metà del passo fosse richiamato il trionfo di Manlio Vulsone sui Gallogreci (de [G]allograecis, lezione sicura alle ll. 6-7), o in una proposizione subordinata (Kornemann) o in una principale coordinata alla successiva (vd. Reid, Fragments, 292: Cn. Manlius de Gallograecis in triumpho tulit aurum), conforme al contenuto con cui comincia il brano di Livio (39, 6, 3): «extremo anni, magistratibus iam creatis, ante diem tertium nonas Martias Cn. Manlius Vulso de Gallis qui Asiam inco-

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lunt triumphauit». Quanto al testo del papiro, però, bisogna ammettere che una restituzione certa di queste righe appare impossibile. Nella seconda parte del passo dell’Epitoma, che sembra costituire la proposizione principale dell’unico periodo (ll. 7-8), le lezioni sicure pe]cunia e p[e]r[s]oluta (è visibile la punta inferiore di r, come ho constatato nell’esame autoptico), alle quali si può aggiungere l’integrazione molto probabile trans[lata, richiamano un punto successivo del passo liviano (ibid. 7, 5): «quibus adnitentibus (Cn. Manli amici scil.) senatus consultum factum est ut ex pecunia quae in triumpho translata esset stipendium conlatum a populo in publicum, quod eius solutum antea non esset, solueretur. uicenos quinos et semisses in milia aeris quaestores urbani cum fide et cura soluerunt». Volendo conciliare a Manlio il favore popolare, i suoi amici indussero il senato a decretare che, col denaro portato nel trionfo dall’Oriente, fosse rimborsata la parte del tributo che il popolo aveva versato per le spese della guerra e che non era stata ancora restituita; i pretori urbani eseguirono quindi prontamente il decreto, pagando il venticinque e mezzo per mille. Nel testo dell’Epitoma è controversa l’integrazione della parola di cui sono superstiti le ultime lettere (compresa la traccia quasi certa di una t) dopo la lacuna: toga]tis (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17, dove togati è inteso e giustificato come termine equivalente di plebs urbana) o priua]tis, Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 127; in precedenza, lo stesso, Die neuen Periochae, 1021, aveva congetturato stipen]dis). Si può dire, inoltre, che sul trionfo di Gneo Manlio l’Epitoma offre una notizia assai più precisa che non la Periocha 39, 2, la quale accenna genericamente all’inizio del lusso a Roma: «initia luxuriae in urbem introducta ab exercitu Asiatico referuntur». Di questo avvenimento, ritenuto di grande rilievo soprattutto per l’influsso che esercitò sui costumi romani, si contano varie testimonianze negli autori antichi. La narrazione originaria si trovava nell’opera storica di L. Calpurnio Pisone Frugi: vd. HRR fr. 34 (da Plinio, Nat. 34, 14; cf. anche ibid. 37, 12). Si consideri, in particolare, l’accenno in Agostino, Civ. 3, 21 p. 132, 19 5Dombart/Kalb: «deinde tunc primum per Gneum Manlium proconsulem de Gallograecis triumphantem Asiatica luxuria Romam omni hoste peior inrepsit». Su questo punto vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 225 s. L. 9. Alla l. 9, l’inizio del 186 a.C. (a.u.c. 568) è indicato con la coppia dei consoli in carica Spurio Postumio Albino e Quinto Marcio Filippo. Necessaria l’integrazione di una lettera (vd. già Grenfell e Hunt, POxy, iv , 96) nel nome superstite, la cui forma corretta si trova nelle altre testimonianze. Questi consoli sono menzionati insieme in Livio 39, 6, 1 (elezioni e proclamazione dei consoli per il 186): «ab eo (C. Flaminio scil.) creati consules Sp. Postumius Albinus Q. Marcius Philippus»; vd. anche ibid. 8, 1, al principio del racconto del nuovo anno. I due nomi sono riportati ugualmente nella forma completa anche in Fast. Capitol., a. 186 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49) e Eutr. 4, 5, 1. Valerio Massimo menziona i due consoli riguardo alla questione dei Baccanali, il cui compendio segue immediatamente nella stessa col. ii dell’Epitoma (vd. ll. 10-14 e il commento): «Sp. Postumio Albino, Q. Marcio Philippo consulibus mandauit (senatus scil.) ut (...) inquirerent». Da notare che gli stessi consoli del 186 a.C. sono menzionati anche all’inizio (l. 1) del Senatus Consultum de Bacchanalibus (CIL i2 2, 1 nr. 581): «[Q.] Marcius (...) S(p.) Postumius (...) cos.». Nella forma costituita da due elementi i loro nomi compaiono in Plinio, Nat. 33, 138: «Sp. Postumio Q. Marcio cos.»; Cassiodoro, Chron. II p. 130, 372 Mommsen:

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«Sp. Postumius et Q. Marcius»; cf. Liv. 39, 23, 1. In questa stessa forma è riportato il nome superstite del primo console nell’Epitoma (Sp. Postumo); da ritenere certa, quindi, anche per conformità alla misura della lacuna (5,4 cm), l’integrazione dell’altro nome (Q. Marcio). La coppia consolare è menzionata col solo cognomen in Chronographus a. 354, Chron. I p. 54, 568 Mommsen; Consul. Constant., Chron. i p. 212, 568 Mommsen. Ll. 10-14. Il contenuto di queste righe riguarda la questione dei Baccanali, estesamente narrata tra gli avvenimenti del 186 a.C. in Livio 39, 8, 3-19, 7. L’Epitoma riassume i tratti essenziali di tale narrazione, con alcuni particolari precisi. La collocazione dei nomi dei consoli nella riga che precede immediatamente il passo, oltre alla funzione di indicare l’anno, corrisponde bene alla versione liviana (ibid. 8, 3), secondo cui, data la gravità del fatto, l’inchiesta fu affidata a entrambi i consoli in carica: «consulibus ambobus quaestio de clandestinis coniurationibus decreta est». Il particolare dei due consoli impegnati nell’inchiesta si trova anche nella versione di Valerio Massimo 6, 3, 7, per il resto alquanto diversa: «senatus (...) Sp. Postumio Albino Q. Marcio Philippo consulibus mandauit ut de iis (...) inquirerent». La narrazione liviana è introdotta da un fatto che anticipa il momento decisivo della vicenda: la denuncia (indicium, come nell’Epitoma) attraverso cui il console Postumio viene a conoscenza dei fatti (ibid. 9, 1): «tandem indicium hoc maxime modo ad Postumium consulem peruenit». All’inizio sono presentati i protagonisti della storia (ibid. 9, 2-7). Il primo è P. Ebuzio, rimasto orfano in età minore e educato sotto la tutela della madre Duronia e del patrigno T. Sempronio Rutilo: (2) «P. Aebutius (...) pupillus relictus (...) sub tutela Duroniae matris et uitrici T. Semproni Rutili educatus fuerat». Il patrigno, che avendo amministrato male i beni del minorenne temeva di doverne render conto, tenta subdolamente di compromettere il ragazzo inducendolo a compiere un delitto, in modo da poterlo privare dei suoi diritti; con la complicità di Duronia, così, Ebuzio è sollecitato a farsi iniziare al culto di Bacco (3-4). Questo tratto della narrazione è riassunto nella proposizione relativa dell’Epitoma che segue immediatamente la menzione di Ebuzio e nella quale il giovane è presentato, allo stesso modo, come vittima dei raggiri tentati dal tutore Sempronio Rutilo (necessaria la correzione della forma Rutilius del papiro; vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17) di concerto con la madre: qu[em (...) circumscribserant. Ebuzio aveva, nello stesso tempo, una relazione con la liberta Ispala Fecennia, meretrice famosa, la quale era legata al giovane da affetto disinteressato (5-7): (5) «scortum nobile libertina Hispala Faecenia» (Faec- Ves.: Fec- Mg ¯). Il nome di questa donna, con quello di Ebuzio, è menzionato anche nell’Epitoma alla l. 10. Si riporta direttamente nel testo dell’Epitoma l’emendamento Hispala (vd. soprattutto Kornemann, ibid., 16 s.) per la forma Hispata del papiro, nata come mera svista di trascrizione. Informata della novità, la donna dissuade con forza l’amato, intuendo subito l’inganno che si celava dietro la proposta di iniziazione; gli rivela, così, di aver conosciuto quei riti depravati, quando da schiava dovette recarvisi con la padrona: se Ebuzio vi fosse andato, il suo onore e la sua vita sarebbero stati rovinati (10, 1-9). Un primo momento culminante è quando il giovane, cacciato di casa dal patrigno e dalla madre per avere rifiutato l’iniziazione, denuncia tutto (11, 1-7); vd., in particolare, par. 3: «ad consulem Postumium arbitris remotis rem detulit (Aebutius scil.)», e l’espressione dell’Epitoma: indicium re[ferentibus. Convocata dal console, Ispala dapprima nega di essere al corrente

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dei misteri di Bacco, ma alla fine rivela le origini e molti altri particolari di quei riti (12, 1-14, 3); vd. specialmente 13, 8: «tum Hispala originem sacrorum expromit». Nella proposizione Hispala (...) et pupillo Aebutio (...) indicium re[ferentibus sono così riassunti, nell’Epitoma, sia la parte della narrazione liviana in cui sono presentati i principali personaggi della vicenda (capp. 9-10) sia quella in cui Ebuzio denuncia l’intrigo ordito a suo danno e Ispala rivela i segreti dei Baccanali (11, 1-14, 3). Alla l. 10, l’integrazione Fa[ecenia (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17), la quale, restituendo la forma testimoniata anche da alcuni recenziori di Livio, conserva la lezione del papiro, pare certamente da anteporre alla correzione Fe[cenia di Grenfell e Hunt, pur ugualmente ammissibile (sulla oscillazione -ae-/-e-, vd. Schulze, Zur Geschichte, 185). Si consideri però anche un argomento contrario: il numero di tredici lettere, che l’integrazione di Kornemann implica, sembra leggermente eccessivo per la lacuna centrale, lunga 5,3 cm in questo tratto della colonna. Medesimo rilievo si può muovere anche all’integrazione alla l. 11, dove ugualmente Grenfell e Hunt, seguiti dagli altri editori, integrano tredici lettere in uno spazio di 5,3 cm (qu[em T. Sempronius). In questa riga, invece, è forse da ritenere che nel resto della lacuna, dopo qu[em (integrazione sicura), il nome di Rutilo comparisse o in una forma ridotta (ad es., senza il praenomen) o in altra variante onomastica. Alla l. 12, probabile, ma non certa, la congettura Duronia di Grenfell e Hunt, desunta da Livio, sulla quale concordano gli editori. Da conservare nel testo la forma -scribserant del predicato verbale: la restituzione della consonante media è un mutamento fonetico del latino tardo, documentato per lo più nelle iscrizioni (vd. Leumann, 196: «restituiertes bt bs»; Sommer, Handbuch, 247). Attraverso il necessario emendamento di iudicium del papiro è restituita la forma corretta indicium, che concorda col testo di Livio; vocabolo da connettere con index («scopritore, denunciatore»), usato nello stesso racconto liviano (vd. ibid. 13, 1; 14, 4 e 6). Alla l. 13 è da ritenere quasi sicura l’integrazione re[ferentibus di Grenfell e Hunt; pare da escludere, invece, la congettura deferentibus di Reid, Fragments, 292 (cf. Liv. ibid. 14, 2). Insolita l’espressione indicium referre; per il concetto di «presentare una denuncia», infatti, sono usati in latino vari composti di fero (ad-, de-, prae-, ob-; vd. ThlL vii, 1, ll. 1146, 20-28), ma non si hanno esempi con re-. Nella proposizione principale Ba]cchanalia sublata, alla conclusione del periodo, sono compendiati tutti i provvedimenti presi in séguito alla relazione del console Postumio al senato, cioè la repressione fino alla soppressione dei misteri di Bacco a Roma (vd. ibid. 14, 4-19, 7). La parola spezzata (e mutila all’inizio) Bacchanalia è stata integrata come se lo scriba avesse omesso per errore una lettera: Baccha|alia in Grenfell e Hunt (POxy, iv , 96); Baccha|alia in Kornemann (Die neue Livius-Epitome, 17; vd. anche 4). Già Rossbach, però, ha ritenuto, giustamente a mio parere, che la lettera fosse scritta nel testo, poi caduta in lacuna (T. Livi periochae, fragmenta, 127): Baccha[n]|alia. Diversamente da questa soluzione, integrerei alla l. 14 la lettera mancante: Baccha|[n]alia. Mi sembra infatti di avere individuato una traccia della gamba discendente della n prima della lunga fessura che corre lungo le fibre subito davanti all’inizio della colonna di scrittura, e che a mio avviso costituisce la lacuna in cui tale lettera è scomparsa. Per cautela ho riportato nel testo la lettera come se fosse interamente caduta nella lacuna, collocandola tuttavia nel punto in cui credo che si trovasse. Si può osservare che l’impiego di sublata, nell’Epitoma, non concorda con le espressioni del racconto di Livio riguardanti la soppressione del culto, ad es. ibid. 16, 10 (nel discorso di Postumio): «demolientes nos Bacchanalia»; 18, 7: «datum (...) consulibus

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negotium est omnia Bacchanalia Romae primum, deinde per totam Italiam diruerent»; 18, 8: «senatus consulto cautum est ne qua Bacchanalia Romae neu in Italia essent». L’uso di tale vocabolo concorda, invece, con Periocha 39, 4: «Bacchanalia (…) omnium scelerum seminarium (…) inuestigatum et multorum poena sublatum est» (vd. anche Schmidt, Iulius Obsequens, 45); Giulio Paride 1, 3, 1 p. 29, 1 Briscoe: «Bacchanalium sacrorum mos nouus institutus, cum ad perniciosam uaesaniam iret, sublatus est»; cf. anche Nepoziano 1, 3, 1 p. 29, 3 ss. Briscoe: «peregrina sacra abolita sunt». Possiamo osservare, pertanto, che attraverso scelte lessicali diverse (sublata o abolita) le epitomi di età tarda, distinguendosi da Livio, si rivelano più vicine a una fonte di diversa natura, come è il Senatus Consultum de Bacchanalibus (CIL2 i 2, 1 nr. 581), ll. 28 e 30: «utei ea Bacanalia (...) faciatis utei dismota sient» (su questo testo epigrafico vd. anche sopra, nel commento alla l. 9). Si è supposto che tale variazione, rispetto a Livio, fosse derivata per influsso della perduta Epitoma del sec. I (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69). Tale varietà di espressioni risulta anche da Tertulliano, Nat. 1, 10, 16 (eliminauerunt); Agostino, Civ. 6, 9 p. 263, 15 (auferri); 18, 13 p. 273, 27 (esse prohibere). Altre testimonianze sullo scandalo dei Baccanali: Cic., Leg. 2, 37; Val. Max. 6, 3, 7; Firm., Err. 6, 9; Schol. Iuv. 2, 3 (vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 230 s.). Molto incerta, alla fine del passo, la congettura in Italia di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 17, ritenuta «überflußig» da Müller, Jahresbericht 1, 33, il quale suggerisce, invece, ab senatu. Simile la congettura per s. consultum proposta già prima da Reid, Fragments, 292, la quale contiene però un numero di lettere eccessivo per la misura di 5,5 cm della lacuna centrale in questa riga. Non sarebbe da escludere, tuttavia, una congettura come per S. C. Ll. 14-15. La sommaria proposizione, secondo il restauro testuale comunemente ammesso dagli editori, consta di due soli termini: His]pan. [i] (integrazione di Grenfell e Hunt, da ritenere sicura) subacti. È certa la lettura del predicato verbale subacti, dove s è parzialmente mutila (esempi paralleli di questo uso si hanno in Obsequens, 4; 48; vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 248). Della lezione precedente, alla l. 14, si scorge con sicurezza una p che esce dalla lacuna centrale, quindi la punta del tratto iniziale di un’altra lettera, che per la posizione inclinata si può identificare con sicurezza come a. Quanto alla lettera successiva, nell’esame autoptico ho notato che il pezzetto della superficie del papiro, su cui è tracciata la punta inferiore di un’asta verticale, è scivolato pochi millimetri più in basso e così è stato fissato sotto le lastre di vetro; immaginando però questo pezzetto al suo posto, ritengo attendibile identificare il residuo della lettera come n (nella scrittura del papiro, la punta della prima asta di n scende sotto la riga). Il passo dell’Epitoma, se è giusta la restituzione ammessa dagli editori, riassume il cap. 21 del libro 39, dove Livio, dopo aver riferito la sconfitta del console Quinto Marcio Filippo in Liguria (vd. ibid. cap. 20), dà notizia delle operazioni militari in Spagna: Gaio Atinio, propretore della Spagna Ulteriore, perde la vita durante l’assedio di Hasta, dopo una vittoria sui Lusitani (ibid. 1-3); Lucio Manlio Acidino, propretore della Spagna Citeriore, consegue una vittoria sui Celtiberi presso la città fortificata di Calahorra (ibid. 6-9). Si può ritenere che l’Epitoma abbia riunito sinteticamente questi due fatti, avvenuti nel corso delle operazioni militari in Spagna, designando come Hispani, in modo generico, i due diversi popoli con cui si erano scontrate le armi romane. In particolare, l’Epitoma sembra richiamare passi liviani come 21, 2: «ad sex milia hostium sunt caesa,

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ceteri fusi et fugati castrisque exuti»; ibid. 9: «superati proelio sunt (Celtiberi scil.); ad duodecim milia hominum caesa, plus duo capta, et castri Romanus potitur». Il predicato verbale dell’Epitoma concorda con un’espressione che si trova alla fine del medesimo capitolo, dove Livio svolge un ragionamento ipotetico, considerando che l’arrivo di Lucio Quinzio Crispino, nuovo governatore della Spagna Citeriore, ha frenato lo slancio dei vincitori verso la definitiva sottomissione dei Celtiberi (ibid. 10): «et nisi successor aduentu suo inhibuisset impetum uictoris, subacti Celtiberi forent» (vd. anche Reid, Fragments, 292). Si consideri, d’altra parte, che i Romani riportarono una schiacciante vittoria sugli Ispani l’anno successivo (185 a.C.), con le forze riunite dei due propretori Gaio Calpurnio e Lucio Quinzio (vd. Liv. 39, capp. 30-31). L’Epitoma può aver compendiato in un solo passo (ll. 14-15) momenti diversi delle operazioni militari romane nella penisola iberica tra il 186 e il 185, includendo anche le conclusioni della campagna. Ll. 15-20. L’Epitoma si riferisce a tre avvenimenti compresi nello stesso capitolo 22 di Livio, nel quale, subito dopo il racconto delle operazioni in Spagna (vd. sopra), sono raccolte notizie su vari fatti minori del 186: giochi, rituali, prodigi, migrazioni. Ll. 15-16. L’argomento dell’Epitoma corrisponde qui a Livio 39, 22, 1-2: dopo avere ottenuto e celebrato il trionfo sugli Etoli (verso la fine del 187 a.C.; vd. i capp. 4-5 del libro 39), Marco Fulvio Nobiliore tiene, per la durata di dieci giorni, i ludi promessi in voto nella guerra etolica (ibid. 5, 7-10). Tra le varie manifestazioni dei ludi di Marco Fulvio, elencate in breve nel passo di Livio, sono menzionate nell’Epitoma soltanto le gare atletiche (at[hletarum cert]amina), le quali furono organizzate allora per la prima volta a Roma (primum … edita). Sicura l’integrazione alla l. 14; l’espressione si avvicina, infatti, con qualche adattamento, al testo liviano, ibid. par. 2 (cf. Briscoe, Tite-Live, xxix , 116): «athletarum quoque certamen tum primo Romanis spectaculo fuit». L’espressione cert]amina (...) edita, in cui il verbo è usato nel significato di «apprestare, istituire» spettacoli o giochi, si trova già in Livio 28, 21, 1: Scipio Carthaginem ad (…) munus gladiatorium (…) edendum rediit (vd. ThlL v, 2, 94, ll. 19 ss.). Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 70, osservando che nell’Epitoma è menzionato il cognomen di Marco Fulvio, mentre nel passo di Livio compare soltanto il nomen (ibid. par. 1: M. Fuluius), suppone che l’Epitoma abbia attinto da una fonte diversa. Tale argomento non poggia, però, su un dato testuale certo, poiché Nobiliore risulta da un’integrazione congetturale, seppure probabile. Lo stesso cognomen, inoltre, appare un po’ lungo, se consideriamo che in questo tratto della colonna la lacuna centrale si restringe leggermente fino a 4,8 cm, in cui si possono calcolare una decina di lettere cadute, non di più. Sarebbe forse da congetturare consule? Rispetto al testo di Livio, l’Epitoma si distingue per l’espressione edita, forse più sintetica (vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243: «when there is little or no condensation, [Epitoma] employs a different phrase from Livy»). L’impiego di primum, invece di primo (Livio), può anche essere stato desunto da una variante isolata del testo liviano, della quale, tuttavia, non si hanno testimonianze nei manoscritti conosciuti. Con l’Epitoma concorda quasi integralmente Cassiodoro (Chron. ii p. 130, 373 Mommsen): «his conss. athletarum certamina primum

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a Fuluio edita». Si è quindi supposto che entrambi i testi fossero derivati da una fonte comune come il Chronicon perduto (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 70; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 245: «common source (...) a chronicle»; Schmidt, Iulius Obsequens, 35). Ll. 17-18. Nell’Epitoma sono riuniti momenti diversi di un’unica vicenda, che Livio comincia a narrare in 39, 22, 6-7. Nel 186 a.C. un folto gruppo di Galli Transalpini, emigrato nel Veneto, occupò un luogo adatto alla costruzione di una piazzaforte (ibid. 6): «Galli Transalpini transgressi in Venetiam (...) locum oppido condendo ceperunt». Gli sviluppi successivi della vicenda si trovano nello stesso libro 39, ma nel racconto del 183 (ibid. 45, 6-7): all’inizio di questo anno il pretore Lucio Giulio doveva impedire a quei Galli Transalpini di costruire una piazzaforte nel territorio in cui si erano insediati; se fosse stato necessario, uno dei consoli avrebbe condotto le legioni contro di loro. Segue, nello stesso 183, la conclusione della vicenda (ibid. 54, 1-55, 4). Il console M. Claudio Marcello, preceduto dal proconsole Lucio Porcio Licino, mosse in armi contro quei Galli Transalpini, i quali, al sopraggiungere del console, si arresero (54, 2): «Marcellus nuntium praemisit ad L. Porcium proconsulem, ut ad nouum Gallorum oppidum legiones admoveret. aduenienti consuli Galli sese dediderunt». Una loro ambasceria a Roma ottenne quindi l’indulgenza del senato e condizioni miti per la resa. Alla fine, i Galli si ritirarono dall’Italia (13): «Galli (...) Italia excesserunt». Brevemente, quindi, nel passaggio alla narrazione successiva, è riassunta la conclusione del fatto: (55, 5) «M. Claudius consul, Gallis ex prouincia exactis, Histricum bellum moliri coepit». Nel testo lacunoso dell’Epitoma si riconoscono i due momenti essenziali della vicenda. Anzitutto è ricordato il passaggio dei Galli Transalpini in Italia: (l. 17) Galli in Ital[iam ***; quindi si afferma che essi furono persuasi dal console Marcello a ritirarsi: (l. 17-18) *** Ma]rcellum persuasit [***]nt. Questo enunciato, in cui il predicato verbale principale (persuasit) doveva essere completato da una proposizione con ut e il congiuntivo (superstite soltanto la desinenza -n. t che esce dalla lacuna), non corrisponde precisamente alla narrazione di Livio, dalla quale si apprende che i Galli, in realtà, furono costretti, più che persuasi, a ritirarsi dal territorio dell’Italia che avevano occupato. Al contenuto liviano corrisponde più fedelmente, invece, la versione compendiata di Ossequente, cap. 3: «Galli, qui Alpis transierunt in Italiam, sine proelio eiecti». Si è ritenuto, d’altra parte, che le due testimonianze compendiarie dell’Epitoma e di Ossequente fossero derivate da una fonte comune intermedia (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 71; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247; sulla particolare posizione di Ossequente nei confronti dell’Epitoma vd. Schmidt, Iulius Obsequens, 35 s.). Un’altra testimonianza di tali avvenimenti, che ugualmente non si discosta dalla narrazione di Livio, si ha in Zonara 9, 21, 6, nel compendio del libro 19 di Cassio Dione (ed. Boissevain, i, 293). Tra le congetture avanzate per il testo lacunoso del papiro, è preferibile, a mio giudizio, quella di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 19, perché lascia inalterato il testo superstite, suddividendo il passo in due proposizioni indipendenti coordinate, la prima delle quali termina nella lacuna della l. 17: Galli in Ital[iam ***. Calcolando dodici o tredici lettere cadute in questa lacuna, Kornemann integra, come predicato verbale della stessa, ducti o traducti, con scelta dell’una o dell’altra congettura a seconda dell’integrazione accolta nell’enunciato successivo. Riguardo a questo, che termina con la le-

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zione mutila dopo la lacuna alla l. 18, Kornemann prospetta due possibili soluzioni: per Ma]rcellum persuasit [senatus ut redire]nt oppure Ma]rcellum (inteso come soggetto del predicato verbale principale; sull’accusativo per il nominativo vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 8) persuasit [ut domum redire]nt. Tale integrazione, alla l. 18, sembra la più probabile (così anche Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 127). Attendibile anche la seconda soluzione proposta da Kornemann alla l. 17: lezione Marcellum del papiro difesa come soggetto di persuasit. Più artificiosa, invece, mi sembra la restituzione del testo offerta dagli altri editori, i quali, presupponendo un unico periodo nel passo dell’Epitoma, emendano il testo del papiro: Galli (...) profectis (Rossbach: transgressis Grenfell e Hunt) Marcellus persuasit (...). Ancora riguardo alla l. 17, va notato che, a causa del lieve restringimento della lacuna centrale fino a 4,7 cm (vd. anche, sopra, il commento alla l. 16), il numero delle lettere da integrare risulta di una decina, da cui si devono sottrarre le lettere richieste dalle due integrazioni ovvie (Ital[iam e Ma]rc-). Tale calcolo indurrebbe a escludere, pertanto, le congetture profectis e, a maggior ragione, transgressis (vd. sopra). Quanto alla restituzione di Kornemann, che ritengo assai probabile, lascerei la congettura ducti, conforme al numero delle lettere mancanti, con la quale termina la prima proposizione del passo. Quanto all’interpretazione di questo predicato verbale, non sembra molto rilevante l’obiezione di Rossbach, Die neue LiviusEpitome, 228, secondo cui ducti sarebbe da escludere perché in contraddizione con Livio 39, 55, 2; una conformità con la fonte principale o con altre fonti non risulta quasi mai decisiva per la corretta restituzione del testo dell’Epitoma. Inoltre, si può ammettere che lo stesso predicato verbale non sia usato come passivo, ma abbia un valore mediale, nel significato di «recarsi, spingersi» (in un luogo). Ancora secondo la restituzione di Kornemann, riveduta in considerazione della misura lievemente minore della lacuna centrale, stabilirei subito dopo ducti l’inizio della proposizione successiva (Marcellum). Ll. 18-20. Come si apprende da Livio 39, 22, 8-10, nel 186 a.C. Lucio Cornelio Scipione Asiatico celebrò, per dieci giorni, i ludi promessi in voto nella guerra con Antioco. Il contenuto principale dell’avvenimento è esposto ibid. 8: «L. Scipio ludos eo tempore, quos bello Antiochi uouisse sese dicebat, ex conlata ad id pecunia ab regibus ciuitatibusque per dies decem fecit». I particolari che seguono, nel medesimo passo, su una ambasceria di Scipione in Asia (storicamente poco probabile; vd. MRR i , 371), ricavati da Valerio Anziate, si riferiscono soprattutto al finanziamento di quei giochi (su tale questione, vd. Adam in Tite-Live, xxix , 127 s.) e devono essere stati aggiunti da Livio come argomento inteso a giustificare la provenienza dei contributi finanziari; vd. specialmente ibid. 10: «conlatas ei pecunias». Di collette a favore dello stesso Lucio Scipione, dopo la sua condanna, si parla, d’altra parte, già in 38, 60, 9: «conlata ea pecunia ab cognatis amicisque et clientibus est L. Scipioni». L’Epitoma concorda col testo liviano negli elementi essenziali; si può quindi ritenere sicura l’integrazione alla l. 20 (si osservi anche l’ortografia del papiro): conl[ata pecunia feci]t. Probabile, ma meno certa, anche per il numero delle lettere che sembra un po’ eccessivo, l’integrazione di Grenfell e Hunt alla l. 19 (pos[t bellum Antiochi); mi sembra più attendibile la congettura pos[t damnationem di Luterbacher, T. Livi periochae, 1191 s., che presenta un numero inferiore di lettere e corrisponde ugualmente al testo di Livio, ibid. 22, 9: «legatum eum post damnationem et bona uendita missum in Asiam ad

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dirimenda inter Antiochum et Eumenem reges certamina Valerius Antias est auctor». Poiché nell’Epitoma, inoltre, compare anche il nomen di Scipione, che in Livio è omesso, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 43 e 70 suppone un’altra fonte che si sia aggiunta a Livio. Un altro accenno al fatto si trova in Plinio, Nat. 33, 138, secondo il quale, per i giochi di Lucio Scipione, il popolo romano cominciò l’usanza di versare contribuzioni straordinarie per circostanze speciali: «tanta abundantia pecuniae erat, ut eam conferret (populus Romanus scil.) L. Scipioni, ex qua is ludos fecit». L. 21. I consoli del 185 a.C. (a.u.c. 569) Appio Claudio Pulcro e Marco Sempronio Tuditano sono menzionati insieme in Livio 39, 23, 2 (elezioni consolari): «creati consules sunt Ap. Claudius Pulcher M. Sempronius Tuditanus». I due nomi nella forma completa e nello stesso ordine anche nei Fasti Capitolini, a. 185 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49): «Ap. Claudius (...) Pulcher M. Sempronius (...) Tuditanus». Menzione congiunta di questi consoli ancora in Livio ibid. 32, 15: «haec eo anno, quo Ap. Claudius M. Sempronius consules fuerunt, domi militiaeque gesta». In questa forma, con due elementi, i nomi dei consoli in Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 374 Mommsen: «App. Claudius et M. Sempronius». Così anche alla l. 21 dell’Epitoma il nome di Claudio (si osservi, inoltre, che il praenomen è scritto per esteso, non abbreviato come di consueto). Allo stesso modo va integrato il nome dell’altro console; una riprova anche nella misura della lacuna, la cui lunghezza di 5,5 cm in questa riga permette di calcolare, dopo Claud]io, un’altra decina di lettere, non di più: M. Sempronio o M. Tuditano (restituzione più probabile, a mio avviso, per il minor numero di lettere). I due consoli del 185 sono menzionati insieme, nello stesso ordine, anche nel Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 569 Mommsen: «Pulchro (-cro V) et Tuditano»; così anche nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 212, 569 Mommsen. L. 22. A più riprese, nel libro 39, Livio parla di campagne militari e combattimenti dell’esercito romano contro i Liguri. All’inizio del libro (vd. capp. 1-2 e, sopra, Epit. col. ii, ll. 3-4) apprendiamo che, nel 187 a.C., i Liguri furono sottomessi dai consoli Marco Emilio Lepido e Gaio Flaminio in una campagna militare condotta di concerto. Un successivo fatto d’armi è riportato nel cap. 20: nel 186, dopo la questione dei Baccanali, il console Quinto Marcio, partito con il collega per combattere nel territorio dei Liguri, durante un inseguimento cade in un’imboscata dei Liguri Apuani e subisce una pesante sconfitta (6-10). Le operazioni militari contro i Liguri ricominciano nel 185, sotto i consoli Appio Claudio Pulcro e Marco Sempronio Tuditano (ibid. 32, 1-4). Fatti gli arruolamenti, Sempronio si dirige contro i Liguri Apuani; apertosi un varco fino al fiume Magra e al porto di Luni, li mette in fuga scacciandoli dalla roccaforte naturale (forse il monte Augino) dove si erano riuniti (ibid. 3): «inde superata locorum iniquitate proelio deiecti sunt (hostes scil.) ». Sembra corrispondere a questo passo la prima frase della Epitoma, alla l. 22, Ligures fu[gati: i Liguri furono infatti snidati e messi in fuga (fugati corrisponde quindi a deiecti) dall’esercito romano. Incerta, invece, l’interpretazione di quello che segue, nella stessa riga, compresa la lacuna, in cui si calcolano, dopo l’integrazione sicura, altre otto o nove lettere cadute. La congettura clades ab i]llis accepta (vd. Müller, Jahresbericht 1, 33) in-

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troduce una seconda proposizione, sintatticamente autonoma, che compendia l’altra parte del racconto liviano. A tale restituzione si oppone, però, una difficoltà logica: cladem accipere ab aliquo significa, infatti, subire una sconfitta da parte di un nemico; ma illis, in questa forma, si riferirebbe ai Liguri, intesi come coloro che hanno compiuto la strage, mentre i Romani sarebbero coloro che hanno subito la sconfitta. Nella seconda parte del racconto di Livio, invece, Appio Claudio conduce una campagna vittoriosa contro i Liguri Ingauni, nel corso della quale espugna sei loro cittadelle e cattura molte migliaia di soldati (ibid. 4): «Ap. Claudius felicitatem uirtutemque collegae in Liguribus Ingaunis aequauit secundis aliquot proeliis; sex praeterea oppida eorum expugnauit, multa milia hominum in iis cepit; belli auctores (...) securi percussit». Non si può affermare, pertanto, che i Romani siano stati sconfitti dai Liguri. Grenfell e Hunt, POxy, iv , 103 inclinano a emendare il papiro: multa mi]llia capta (cf. Liv. ibid. 32, 4); ammettono anche la possibilità che questo tratto della l. 22 sia riconducibile al cap. 30, 3, dove si parla della sconfitta dei Romani in un combattimento contro gli Ispani (in o a Hispanis cladis). Mi sembra più probabile, tuttavia, la soluzione di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 43: clade ab i]llis accepta. L’ablativo assoluto, in rapporto di anteriorità rispetto alla principale (Ligures fugati), richiamerebbe la precedente sconfitta subita dai Romani (vd. 39, 20, 6-10, citato sopra) nella guerra con i Liguri. Sarebbero compendiati, così, secondo un procedimento non insolito nell’Epitoma, due momenti diversi di una medesima vicenda (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 71); secondo tale restituzione, che ritengo da anteporre senza dubbio a quella di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 127: ui oppida ab i]llis accepta; cf. Liv. ibid. 32, 4), si dovrebbe tradurre come segue: «I Liguri furono messi in fuga dopo che si era subita (in una precedente circostanza) una sconfitta ad opera loro». Nell’Epitoma sarebbero comprese, quindi, soltanto le operazioni contro i Liguri Apuani (Quinto Marcio era stato battuto da loro; Sempronio rivolge le armi contro di loro). Di sicuro concerne queste vittorie dei Romani anche l’accenno nella Periocha 39, 3: «Ligures, quicumque citra Appenninum erant, subacti (sublati N P ) sunt». Secondo l’ordine cronologico e la narrazione liviana, però, tale notizia sembra da collocare dopo la storia dei Baccanali (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 43). Dalla restituzione comunemente ammessa si è distaccato Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 125, che ha giudicato l’espressione cladem accipere «nicht verständlich» in questo punto e ha proposto oppida ex illis sex capta. L. 23. Nella menzione dei consoli del 184 a.C. (a.u.c. 570) Publio Claudio Pulcro e Lucio Porcio Licino, è riportato nella forma completa il nome superstite del primo. Considerata la lacuna di 4,3 cm, dove si possono stimare cadute dieci lettere circa, anche per il secondo nome saranno da integrare tutti i tre elementi (ovviamente soltanto l’iniziale del praenomen), come già in Grenfell e Hunt (POxy, iv , 96). In questa forma e nello stesso ordine i due consoli sono menzionati insieme in Livio 39, 32, 13, nella narrazione della burrascosa campagna elettorale (ibid. 5-14): «creatus P. Claudius Pulcher (...) locum suum tenuit L. Porcius Licinus (-inus „: -inius Ê)». Così anche nei Fasti Capitolini, a. 184 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49). Menzione congiunta dei due consoli ancora in Livio ibid. 33, 1: «P. Claudius L. Porcius consules». La stessa forma in Cicerone, Brut. 60: «P. Claudio L. Porcio (...) consulibus»; così anche in Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 375 Mommsen: «P. Claudius et L. Porcius Licinius». Da notare qui la confusione tra -inus e -inius, come nell’Epi-

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toma e nella tradizione manoscritta di Livio. La stessa confusione anche nei Consularia Constantinopolitana, Chron. I p. 212, 570 Mommsen: «Pulchro II et Licinio». Diversamente il Chronographus a. 354, Chron. I p. 54, 570 Mommsen: «Pulchro (pulcro V) et Licino». Nella forma Li]cinio del papiro va espunta la -i del suffisso (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 19, seguito dagli editori successivi: -in{i}us), la quale appartiene all’ortografia del nomen (vd. Schulze, Zur Geschichte, 108); per il console qui menzionato è richiesta, invece, la forma onomastica originaria -inus, usuale per il cognomen (vd. Kajanto, Cognomina, 236). La terminazione onomastica -inius, che si trova nell’Epitoma e nelle altre testimonianze citate sopra, potrebbe essere intesa, in realtà, non come errore di copiatura, ma come variante genuina, derivata da una peculiare tradizione storica: una fonte comune, che si è anche supposto fosse l’Epitoma liviana perduta del sec. i (vd. Die neue Livius-Epitome, 70). Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 25 s., procedendo da una stima di dodici lettere circa mancanti (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 18), ha supposto che nella lacuna di questa riga andrebbe integrato dopo Pulchr[o anche il numero ii , che indica erroneamente un secondo consolato, come nei Consularia Constantinopolitana. L. 24. Nella narrazione di Livio 39, 41, 5-6, il pretore Quinto Nevio Matone, prima di partire per la provincia che gli era stata assegnata (la Sardegna, vd. ibid. 38, 3), si trattiene a Roma e in altre località minori essendo incaricato dei processi per veneficio (ibid. 5): «consules praetoresque in prouincias profecti praeter Q. Naeuium, quem quattuor non minus menses (...) quaestiones ueneficii, quarum magnam partem extra urbem per municipia conciliabulaque habuit, quia ita aptius uisum erat, tenuerunt». In séguito a questi processi, che sono da collegare ancora con la questione dei Baccanali e con focolai fuori Roma (vd. Scardigli in Storie, Libri xxxvi-xl , 623 e 612), furono inflitte circa duemila condanne; un numero molto alto, che lo stesso Livio deve avere ritenuto esagerato, come sembra voler suggerire attribuendo esplicitamente la notizia alla fonte annalistica (ibid. 6): «si Antiati Valerio credere libet, ad duo milia hominum damnauit (Q. Naeuius scil.)». Tra questi fatti rientra anche la notizia che segue (ibid. 6-7): il pretore Postumio Tempsano conduce a termine i processi sui Baccanali. Nel racconto del 184 a.C., le due notizie formano così una sezione minore riguardante gli ultimi strascichi della questione dei Baccanali. L’Epitoma riassume l’inchiesta del pretore Nevio Matone adattando soprattutto due frasi dell’originale: 1. «Q. Naeuium (...) quaestiones ueneficii (...) tenuerunt»; 2. «ad duo milia hominum damnauit». L’espressione numerica, nel papiro, è indicata con il simbolo della cifra corrispondente al migliaio, di cui è superstite una traccia prima della lacuna; nella parte caduta del testo, doveva trovarsi, di séguito, lo stesso simbolo scritto un’altra volta (cf. Livio: duo milia). Di difficile decifrazione, invece, il segno ccd, che è stato inteso come un’abbreviazione: circa d(uo) (millia), secondo Grenfell e Hunt in POxy, iv , 96 (ma vd., per contro, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 19); c(e)c(i)d(ere), secondo Gundermann (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, ibid.). Più probabile che tale segno sia derivato, per trasformazione grafica o errore, da un ad originario («circa») riferito al numero, come in Livio: «ad duo milia hominum» (vd. già Reid, Fragments, 292; congettura poi accolta da Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 127). Forse errata la prima parola della riga, homini (h di lettura incerta), che gli editori correggono in ho-

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minum (partitivo che determina milia), secondo il testo liviano. Si può conservare, tuttavia, la lezione del papiro come forma eteroclita di nominativo plurale (-i invece di -es; vd. Die neue Livius-Epitome, 8); tale soluzione, d’altra parte, è recisamente negata da Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 125. Nella seconda metà della proposizione dell’Epitoma è da ritenere sicura l’integrazione uen]efici, già di Grenfell e Hunt (non occorre però la correzione -i della desinenza), richiesta dall’argomento dello stesso passo di Livio. Nella lacuna, gli editori accolgono comunemente la congettura a Naeuio pr. (vd. POxy, iv , 96), desunta dal testo liviano, come complemento d’agente di damnati. Si osservi, però, che nel tratto finale della colonna, dalla l. 23 al termine, la lacuna centrale si restringe leggermente fino a poco più di 4 cm (4,3 cm alla l. 24) e in questa misura non si possono calcolare più di una decina di lettere cadute. Preferirei integrare, pertanto, la forma più breve a Naeuio (Kornemann), dopo il segno numerico delle migliaia. Sarei anche propenso a ritenere che dopo tale segno, in forma di un otto disteso, che qui era tracciato due volte e forse un po’ spazieggiato, si trovasse direttamente uen]efici. Ll. 25-27; Col. iii, ll. 1-2. Dopo le notizie su vari avvenimenti interni e delle province in Livio 39, 41,5-42,4, tra i quali anche l’inchiesta del pretore Quinto Nevio (vd. sopra), nel proseguimento della sezione sui censori del 184 a.C., che si riallaccia al racconto dell’elezione e al ritratto di Catone (ibid. 40, 1-41, 4), è riportata con speciale rilievo l’espulsione di Lucio Quinzio Flaminino dal senato, disposta per nota censoria nell’ambito della revisione del senato (ibid. 42, 5-44, 11). Nella versione principale, che Livio ha desunto dalla requisitoria dello stesso Catone (ibid. 42, 5-12), il fatto era avvenuto in Gallia nell’anno del consolato di Lucio Quinzio (192): durante un banchetto, simulando uno spettacolo di gladiatori per compiacere al suo amasio, il console aveva ucciso un nobile dei Boi, venuto da lui a colloquio. Il passo dell’Epitoma comincia nelle ultime righe della col. ii. Alla l. 25 è sicura l’integrazione Fla[mininus (non è da escludere, tuttavia, che nell’Epitoma si leggesse la forma Flaminius, testimoniata, per il medesimo personaggio storico, sia da varianti della tradizione manoscritta di Livio sia in altre fonti); così in Livio ibid. 5: «L. Quinctium Flamininum (-mininum P E: -minium N V L) consularem (questo termine si intende, naturalmente, in relazione al 184)». L’integrazione cos., dopo Flamininus, è opportunamente chiarita da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 19 (poco fondata sembra invece l’obiezione di Luterbacher, T. Livi periochae, 1191), ma forse non è necessaria; la lacuna centrale, lunga 4,3 cm in questo punto, sembra infatti convenientemente integrata anche con la sola preposizione in dopo il nome di Flaminino. Anche per la determinazione di luogo, così introdotta, si ha una forma corrispondente nel passo di Livio, ibid. 8: «in Galliam prouinciam». Nel testo comunemente ammesso dagli editori il nome di Lucio Quinzio è soggetto della proposizione principale, con cui si conclude il periodo alla col. iii, l. 2: a M. Catone cen[sore senatu motus est (emendamento e integrazione già di Grenfell e Hunt); enunciato conforme a Livio in più punti, come ibid. 5: «septem mouerunt senatu, ex quibus unum insignem nobilitate et honoribus L. Quinctium Flamininum»; cf. anche 6: «motis e senatu» (così, secondo i codici, Adam in Tite-Live, xxix , 65; diverso il parere di Briscoe, Tite-Live, xxix , 119); ibid.: «quos (...) senatorio loco mouit»; inoltre, Valerio Massimo, 4, 5, 1: «L. Flamininus (...) a M. Catone et L. Flacco censoribus senatu motus fuerat».

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Il contenuto essenziale del fatto si trova riassunto nella proposizione causale, che include anche l’ablativo assoluto, al centro del periodo. Si rivela una cura attenta dei particolari, notata anche in altri passi dell’Epitoma, specie nei confronti di argomenti insoliti e di carattere privato o amoroso: per compiacere al desiderio del suo favorito, il cartaginese Filippo, di assistere a uno spettacolo di gladiatori, Lucio Quinzio aveva ucciso di sua mano un nobile boico. Alle ll. 26-27, dove compare l’importante particolare del nome di Filippo (è pertanto da ritenere quasi sicura anche l’integrazione Poeno scorto nella lacuna), l’Epitoma risulta fedele all’originale di Livio (vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 254); cf., in particolare, par. 8: «Philippum Poenum (-num Ê: -nium „ ·), carum ac nobile scortum, ab Roma in Galliam (...) spe ingentium donorum perductum»; 9: «cum puerum (...) exprobrare consuli persaepe solitum quod sub ipsum spectaculum gladiatorium abductus ab Roma esset»; 10: «nuntiatum in conuiuio esse nobilem Boium (P E N L: hominum V) cum liberis transfugam uenisse»; 11: «inter cuius sermonem Quinctius scorto “uis tu, inquit, quoniam gladiatorium spectaculum reliquisti, iam hunc Gallum morientem uidere?”»; 12: «ad nutum scorti consulem stricto gladio qui super caput pendebat loquenti Gallo primum percussisse, deinde fugienti (...) latus transfodisse». Per quanto riguarda la l. 27, mi sembra che l’integrazione gladia[torum si adatti meglio, per il minor numero di lettere, al tratto in cui la lacuna centrale della colonna è un po’ più stretta (qui misura 4,3 cm: si calcolano mancanti una decina di lettere). Considerato il testo liviano, appare necessario correggere e integrare, alla l. 1 della col. iii, bonu[ del papiro in Boium. Quasi certa si può ritenere anche l’integrazione, comunemente accolta, nobilem occiderat di Grenfell e Hunt (POxy, iv , 97), suggerita soprattutto dal confronto con la Periocha 39, 5-6, che conferma, anche più in generale, la restituzione di queste righe dell’Epitoma: «a censoribus L. Valerio Flacco et M. Porcio Catone (K Leid.: M. ualerio catone N, M. Valeo Catone P) (...) motus est senatu L. Quintius Flamininus (...) eo quod, Galliam provinciam optineret, rogatus in conuiuio a Poeno Philippo, quem amabat, scorto nobili, Gallum quendam sua manu occiderat». Questo testo può suggerire anche, ad esempio, l’integrazione quendam invece di nobilem nella lacuna dell’Epitoma. Alla l. 2 della col. iii, gli editori emendano concordemente con Catone la lezione guasta lanatone del papiro, che non sembra potersi spiegare né per ragioni paleografiche né per una eventuale confusione con un termine simile come, ad esempio, Lanatus, che è il cognomen di alcuni Menenii (vd. Kajanto, Cognomina, 346; vd. questo raggruppamento in RE xv, 1, coll. 840-844). La soluzione del problema testuale potrebbe anche presentare altre implicazioni, non abbastanza considerate, come, ad es., la possibilità che nel papiro si siano confusi qui due diversi tratti della versione originale dell’Epitoma. Per questa ragione ho riportato lo stato corrotto del papiro, in modo da evitare una semplificazione critica. Alla versione principale della vicenda di Lucio Flaminino, la cui origine è fatta risalire alla requisitoria di Catone, Livio giustappone un’altra versione, ritenuta secondaria, che egli attribuisce a Valerio Anziate (sulla questione delle diverse versioni in Livio, vd. Suerbaum, Sex and Crime, 87-97): a Piacenza, ancora durante un banchetto, Lucio Quinzio avrebbe giustiziato un condannato a morte, volendo compiacere alla richiesta di una meretrice, di cui era invaghito (ibid. 43, 1-3; cf. Perioch. 39, 5). Simile a questa la versione che Cicerone fa rievocare allo stesso censore (Cato 42), secondo la quale Quinzio fu indotto dalle preghiere di uno scortum (non è specificato se fosse un amasio o una meretrice) a giustiziare, sembra con le proprie mani, un condannato a morte (sulla versione

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ciceroniana e su altre appartenenti alla medesima tradizione, vd. Suerbaum, Sex and Crime, 97-99): «inuitus feci ut fortissimi uiri Titi Flaminini fratrem Lucium Flamininum e senatu eicerem (...) sed notandam putaui libidinem: ille enim cum esset consul in Gallia, exoratus in conuiuio a scorto est, ut securi feriret aliquem eorum qui in uinculis essent, damnati rei capitalis». Dalla medesima fonte deve essere derivato l’exemplum di Valerio Massimo, dove è menzionata esplicitamente una muliercula (2, 9, 3): «sicut Porcio Cato L. Flamininum (Flaminium codd. plerique) quem e numero senatorum sustulit, quia in prouincia quendam damnatum securi percusserat, tempore supplicii ad arbitrium et spectaculum mulierculae, cuius amore tenebatur, electo». Simile, nell’ambito della medesima tradizione, De uiris illustribus 47, 4: «censor (M. Porcius Cato scil.) L. Flaminium consularem (consulem codd. al.) senatu mouit, quod ille in Gallia ad cuiusdam scorti spectaculum eiectum quendam e carcere in conuiuio iugulari iussisset»; cf. anche s. Girolamo, in Matth. 14, 11. Particolare lo svolgimento narrativo nella lunga controuersia di Seneca retore (9, 2), dove la vicenda di Lucio Quinzio è ripercorsa attraverso argomentazioni retoriche e giuridiche (vd. Suerbaum, Sex and Crime, 102-108). Anche da Plutarco, Cato mai. 17, 1-6, il medesimo fatto è presentato come causa del provvedimento di espulsione di Lucio Quinzio dal senato, ma secondo la versione ritenuta più comune e testimoniata anche da Cicerone: Lucio Quinzio è accompagnato da un amasio, non da una meretrice; per compiacere a un desiderio dell’amasio, il console ordinò a un littore, durante il banchetto, l’esecuzione capitale di un condannato a morte. La versione di Livio è citata di séguito dallo stesso Plutarco, come variante meno comune, desunta, a quanto pare, dallo stesso discorso con cui Catone aveva giustificato la nota censoria. Va notato che, nel riassunto plutarcheo, l’elemento forse più caratteristico della versione di Livio, cioè che il console uccise con le sue mani il nobile boico, è messo in risalto con l’espressione 剛0 ¯ÂÈÚ›, che corrisponde a sua manu dell’Epitoma, ma di cui non c’è concordanza testuale nell’originale liviano; come se entrambe le versioni, quella riportata da Plutarco e quella dell’Epitoma, avessero attinto da una comune fonte intermedia, derivata da Livio stesso, ma un po’ diversa (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69; Schmidt, Iulius Obsequens, 45). Anche in un altro passo (Flaminin. 18, 4-19, 5) Plutarco riporta il fatto nella versione qui evidentemente ritenuta principale; menziona quindi, come variante secondaria, le versioni di Valerio Anziate (al séguito di Lucio Quinzio sarebbe stata una cortigiana) e di Livio (da Catone). Dalle tre versioni del fatto, così messe a confronto, si capisce che la questione era controversa. Plutarco, alla fine, espone una sua valutazione critica: è degna di fede la versione da lui considerata più comune, avvalorata anche dall’autorità di Cicerone; nella versione catoniana (fatta propria da Livio), invece, al fine di accentuare l’odiosità del fatto, deve essere stato omesso di proposito che l’ucciso era in realtà un condannato a morte e che l’esecuzione era avvenuta per mano di un littore. Anche in questo secondo passo, nel punto in cui è esposta la versione liviana, si trova l’espressione 剛0 ¯ÂÈÚ›, la quale, evidentemente, qualificava in modo caratteristico tale racconto. Dal confronto con Plutarco si può notare, come ipotesi, quanto segue: l’Epitoma riporta certamente la versione del fatto che è propria di Livio, ma sembra che essa, nell’Epitoma e in Plutarco (che la riassume nella sua sinossi), sia derivata da una fonte intermedia, non direttamente da Livio, soprattutto per l’espressione sua manu (剛0 ¯ÂÈÚ›), che è concordante in queste testimonianze successive, ma non compare in Livio.

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sua manu boiu[m a †lanatone† cen[sore basilica Porcia [ M. Claudio Marcello [ P. Licini Crassi po[ntificis ludis funeribus [ taber.naculis po[sitis uate[s] c.ecin.[e]rat [ in foro futura i[ dim[ ± 4 ]m Han[nibal .e.[ ± 3 ]a...i e[ ] l[ib. xxxx C]n. Baebio.[ cos. ± 7 ] bellum p.[ ± 6 u]e.l lites in[ ± 6/7 ] Theoxen[a in marem [f]ugien[s fictis crim.inibus [ per patrem. coactu[s P. Lentulo M. Baebio [cos. in agro L. Nerylli sc[ribae A. Postumio c [ cum Li. guribus Hisp.[ani L. Liuius trib. pl. quot. [ magistratum pete[rent est. Q. Fuluio L. Manlio c[os. M. Lepidi et Fuluii No[bilioris

3 nello spazio interlineare superiore, con attacco nel margine esterno, tratto sottile, un po’ irregolare, che scende obliquamente fin sopra la prima gamba della u di uastaita, seguito da un punto tracciato proprio sopra la stessa lettera 4 punto a media altezza e stacco dopo m iniziale 5 punto a media altezza e stacco dopo p iniziale lievi stacchi tra le singole parole 13 punto a media altezza e stacco dopo n 18 spazio tra le due parole 20 spazio tra i due nomi 21 spazio dopo agro stacchi tra le singole parole seguenti 22 punto a media altezza e lieve stacco dopo a iniziale ampi spazi dopo postumio e dopo c, presumibile abbreviazione dell’altro nome, che però non si trova scritto nella riga 24 punti a media altezza e lievi stacchi dopo l iniziale, trib, pl 27 punti a media altezza e stacchi dopo q, l ampi spazi tra i due nomi e prima di c[ 1 pap. (bonu[) corr. G.-H. nobilem occiderat suppl. G.-H. 2 cruces posui: M. Catone cen[sore senatu motus est G.-H., senatorio loco motus Reid 3 pap. (uastaita) corr. G.-H. facta suppl. G.-H., aedificata Ross. 4 Q. Fabio Labeone cos. suppl. G.-H. 5 po[ntificis maximi G.-H. 6 funerG.-H. factis epulum datum coni. Korn. (fact. om. Ross., epulum factum in quo Müller 1; per triduum Reid, tempestate Fuhr 7 po[sitis G.-H. in foro id quod coni. Korn., Ross., *** in foro] (l. 6) … euenit id q. G.-H., defunctum q. Reid 8 pap. (nate[) corr. et suppl. G.-H. [euenit tabernacula] Korn., Ross., tabern. *** G.-H., fato (vel fatale) tabern. Reid 9-10 i[n Hispania prospere] dim[icatu]m Luterb., in Celtiberia Müller 1; in senatu de rebus exteris diiudicatum Ross. 10

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Han[nibal G.-H. ueneno periit dub. coni. Korn. 10-11 per T. Quintium] Fl[aminin]um e[xpostulatus se necauit Fuhr, se occidit Müller 1, Luterb.; apud Prusiam re]ge[m per]le[gatos Romanos expetitus] [ueneno pe]rit Ross. (ultimum versum add., sed perperam vestigia litterarum rit conspexisse mihi videtur) 12 suppl. G.-H. 13 L. Aemilio suppl. G.-H., L. Paulo ego potius pap. (ber-) corr. G.-H. 14 Hispani (G.-H.)] bellum p[arauerunt dub. Korn., in Liguras bell. renouatum et Hispanos Ross., Ligurum bell. decretum a senatu Reid; spectare bell. Philippus Luterb. 15 bella ue]l lites in[ter Asiae reges composita Korn., in [Graecia et Asia comp. Ross.; equites pedites in Hispaniam utrumque scripti Reid, et Romanorum satellites interficere coepit (Philippus scil.) Luterb. 16 Thessala] Ross., apud Aeniam Luterb. cum uiro liberisque coni. Korn. (marito Luterb., filiisque Ross.), enecatis liberis Reid 17 marem defendi (mare m[ G.-H.): -e{m} Reid [f]ugien[s se iecit Reid (vel dedit), cett., deiecit Müller 1 18 pap. (ficti egrim . onibus[) corr. G.-H.: fictis querimoniis Reid Demetrius] (l. 17 in fine) [accusatus a fratre G.-H., a fratre petitus Fuhr 19 coactu[s G.-H. poculum haurire coni. Korn., mori Luterb., uenenum hausit vel ueneno necatus (condemnatus pro coactus) Fuhr; causam perorare (uocatus pro coactus) Reid 20 paeb- in pap. leg. edd., sed et baeb- legi posse mihi videtur 21 pap. def. Korn., Ross.: Petillii G.-H. suppl. G.-H. libri Numae inuenti in lacuna coni. G.-H. (li. Reid) 22 post c nomen consulis om. pap.: Calpurnio add. G.-H. 23 Hisp[ani subacti G.-H., Korn.; Hispanisque prospere pugnatum Ross., dimicatum Luterb. 24 trib(unus) pl(ebis) scil. [annos nati quemque] G.-H. 25 pete[rent G.-H. quot (l. 24) … rogauit. Annalis appellatus (vel uocatus) fort. recte coni. Korn., dictus Ross.; a L. Villio... quod (pap. corr. l. 24) … rogatio lata G.-H., legem tulit L. Villius … peterent. ipse Annalis appellatus Luterb. 28 No[bilioris G.-H. lis fuit coni. Reid; composita inimicitia versu sequenti addito coni. G.-H., censorum] (l. 28) inimicitiae finitae Korn. (simultates Luterb.)

Ll. 1-2: vd., sopra, col. ii, alla fine.

5

10

(Ab urbe condita librorum 39-40 Epitoma) La basilica Porcia [fu costruita ?]. [Sotto i consoli] Marco Claudio Marcello e [Quinto Fabio Labeone]. Ai ludi funebri del pontefice [massimo ?] Publio Licinio Crasso [***] montate le tende [***] un vate aveva predetto che ci sarebbero state [tende] nel foro. [***] si combatté. Annibale [***] [***]. Lib. [xxxx

15

20

[Sotto i consoli Lucio Paolo ? e] Gneo Bebio. [***] la guerra [***]. [***] o le liti [***]. [***] Teossena [***] fuggendo [si gettò ?] in mare. [Demetrio ?] con false imputazioni [***] fu costretto dal padre [***]. [Sotto i consoli] Publio Lentulo e Marco Bebio. Nel campo dello scriba Nerillio [***]. Sotto [i consoli] Aulo Postumio C (?) . Coi Liguri gli Ispani [furono sottomessi ?]. Lucio Livio tribuno della plebe [***] a quanti [anni]

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corpus dei papiri storici greci e latini potessero aspirare alla magistratura. Fu [chiamato Annale ?]. Sotto i consoli Quinto Fulvio e Lucio Manlio. Di Marco Lepido e Fulvio Nobiliore [***]. L. 3.

Come si ricava dal termine Porcia, l’Epitoma in questo punto riassume Livio 39, 44, 7, dove si apprende che, tra le varie attività dei censori nel 184 a.C. (vd. tutto il cap. 44, subito dopo la vicenda di Lucio Quinzio Flaminino), Catone fece costruire, tra il Campidoglio e la Curia, la basilica Porcia: «Cato atria duo, Maenium et Titium, in Lautumiis et quattuor tabernas in publicum emit basilicamque fecit, quae Porcia (P E: porcia ibi L, ubiporci N, porti ubi V) appellata est». Inevitabile, pertanto, la correzione (basilica, già in Grenfell e Hunt in POxy, iv , 97) della lezione guasta del papiro uastaita, causata forse da un fraintendimento nel corso della dettatura (vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1020). Simile a Livio il De uiris illustribus 47, 5: «basilicam suo nomine primus fecit (Cato scil.)». Da notare che in questa versione il fatto, riportato nel capitolo su Marco Porcio Catone, si trova subito dopo la vicenda di Lucio Quinzio. Accenni essenziali alla costruzione della basilica Porcia anche in Plutarco, Cato Mai. 19, 3; Cato Min. 5, 1. Alla fine della l. 3, la congettura aedificata di Rossbach, Die neuen Periochae, 1021, è desunta da una testimonianza di Prisciano, Inst. p. 433, 3 Keil ii, riguardante l’orazione di Catone sulla basilica Porcia: «Cato in oratione, quae inscribitur “uti basilica aedificetur”» (vd. l’orazione xv in ORF Malcovati, 37; ed. Sblendorio Cugusi, 245 s.). L. 4. È probabile che nella menzione congiunta dei consoli Marco Claudio Marcello e Quinto Fabio Labeone, all’inizio del 183 a.C. (a.u.c. 571), anche il nome dell’altro console comparisse, come il primo, nella forma completa: Q. Fabio Labeone (così gli editori concordemente). I due consoli sono menzionati insieme in Livio 39, 45, 1: «in insequentem annum crearunt consules M. Claudium Marcellum Q. Fabium Labeonem. M. Claudius Q. Fabius idibus Martiis, quo die consulatum inierunt, de prouinciis suis praetorumque retulerunt». Menzione simile in Nepote, Hann. 13, 1 (datazione della morte di Annibale): «M. Claudio Marcello (et add. R M) Q. Fabio Labeone consulibus». Così anche Orosio, Hist. 4, 20, 27: «M. Claudio Marcello Q. Fabio Labeone». Forma ridotta del primo nome in Ossequente, 4: «M. Claudio Q. Fabio Labeone consulibus»; così Cassiodoro, Chron. II p. 130, 376 Mommsen: «M. Claudius et Q. Fabius Labeon». Nei Fasti Capitolini, a. 183 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49) la successione dei due nomi è invertita; nello stesso ordine anche nel Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 571 Mommsen e nei Consularia Constantinopolitana, Chron. I p. 212, 571 Mommsen. L. 5-9. Sono ricordate le grandi celebrazioni che furono compiute a Roma, al principio del 183 a.C., per i funerali di Publio Licinio Crasso Divite, pontefice massimo dal 212 (sull’elezione, vd. Liv. 25, 5, 2-4; suo ritratto in 30, 1, 3-6), divenuto membro del collegio pontificale dal 216. L’avvenimento è esposto in Livio 39, 46, 1-2, all’inizio della narrazione del

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nuovo anno: «huius principio anni P. Licinius Crassus pontifex maximus mortuus est (...) P. Licini funeris causa uisceratio data et gladiatores centum uiginti pugnarunt et ludi funebres per triduum facti, post ludos epulum». Nella stessa circostanza, dopo aver innalzato tende nel foro per ripararsi da un temporale, i Romani si sentirono liberati dal timore superstizioso: si credeva infatti che certe profezie su tende drizzate nel foro accennassero a una calamità o a una guerra nella stessa Roma (ibid. 3-4): «in quo cum toto foro triclinia strata essent, tempesta cum magnis procellis coorta coegit plerosque tabernacula statuere in foro; eadem paulo post, cum undique disserenasset, sublata; defunctosque uolgo ferebant quod inter fatalia uates cecinissent, necesse esse tabernacula in foro statui». Come osserva Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 44, il testo dell’Epitoma si discosta dal racconto di Livio in alcuni punti: po[sitis e futura invece di statuere e statui; uates (emendamento necessario; vd. già Grenfell e Hunt in POxy, iv , 97) al singolare invece che al plurale. Alla l. 5, il nome di Publio Licinio è riportato nella forma completa, seguito dal titolo della carica: po[ntificis maximi (ho ritenuto più prudente riportare nel testo soltanto il primo elemento dell’espressione). Alla l. 6, necessario l’emendamento funeribus (vd. già Grenfell e Hunt in POxy, iv , 97). Nell’attendibile restituzione testuale di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 19, termina alla l. 6 il primo dei due enunciati in cui si può suddividere il passo dell’Epitoma: ludis (...) [factis, epulum datum (est scil.); così anche Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 129), che però sopprime factis. Müller, Jahresbericht 1, 33 ha proposto la seguente restituzione: epulum factum, in quo, confermata in Müller, Jahresbericht 2, 13 (ma con datum invece di factum). Diversamente, Reid, Fragments, 292, restituisce il passo come un enunciato unico, congetturando il predicato verbale principale nella lacuna della l. 7 (defunctum quod): «si era scongiurato ciò che (...)» (cf. Liv. ibid. 4: « defunctosque uolgo ferebant quod inter fatalia uates cecinissent»). Alla l. 7, dove comincia la seconda parte dell’estratto, è sicura l’integrazione po[sitis. Nella restituzione testuale di Kornemann, comincia qui una seconda unità logica: tabernaculis po[sitis in foro, id, quod] vates cecinerat, [euenit, tabernacula] in foro futura. Conforme alla diversa restituzione del passo la congettura di Reid fato (o fatale), ugualmente desunta da Livio, ibid. 4. Si può ritenere sicura, alla l. 8, l’integrazione cecinerat; anche dall’esame autoptico ritengo di poter confermare la lettura cecin[ di Grenfell e Hunt, di cui dubita Kornemann, ibid. 18. La fine del passo è comunemente stabilita alla l. 9 (futura). Ll. 9-10. È probabile, come ritengono gli editori, che nella seconda metà della l. 9 (da i[***) e nel primo tratto della l. 10 dell’Epitoma si trovasse un altro argomento, esposto in modo sommario. Minime le vestigia testuali: alla l. 9, prima della lacuna che dimezza la colonna, mi sembra certa, anche dall’esame autoptico, la lettura di una i (i[n ?), sulla quale è invece dubbioso Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 18. Alla l. 10, incerto anche nella prima metà il testo del papiro: si legge sicuramente una parola mutila (dim[); dalla lacuna iniziale, lunga 2,1 cm, è superstite una m, forse appartenente alla medesima lezione. Col nome di Annibale, che si trova subito dopo, comincia quindi il passo successivo. Come ho rilevato nell’esame autoptico, sopra la lacuna minore, che interessa il tratto iniziale della riga, prima di ]m compare la punta della lettera che immediatamente precede: probabile, seppure non certo, che sia una u. Da tale lettura risulta avvalorata la congettura dim[icatu]m.

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corpus dei papiri storici greci e latini

Grenfell e Hunt in POxy, iv , 103, senza tentare una restituzione testuale, suppongono un riferimento alla cattura e alla morte del generale greco Filopemene, caduto nelle mani dei Messeni (vd. Liv. 39, capp. 49-50). Da altri punti della parte finale del libro 39 di Livio sono state ricavate integrazioni diverse: 1. i[n Hispania prospere] dim[icatu]m (Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 126), cf. ibid. 56, 1 (Aulo Terenzio Varrone, proconsole della Spagna Citeriore nel 183, combatté con esito favorevole contro i Celtiberi e espugnò alcune città fortificate presso l’Ebro); 2. i[n senatu de rebus exteris] dii[udicatu]m (Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229; ma vd. poi T. Livi periochae, fragmenta, 129, dove è accolta, nel testo, la congettura di Luterbacher), cf. ibid. 46, 6-48, 1 (ambascerie d’oltremare a Roma nell’inverno 183-182; lagnanze contro Filippo di Macedonia e altre questioni riguardanti la Grecia e l’Asia Minore). Alla restituzione avanzata da Luterbacher si può obiettare che il passo liviano indicato come fonte di questo argomento (39, 56, 1: combattimento di Terenzio Varrone in Spagna) si trova dopo il passo da cui è estratto l’argomento successivo dell’Epitoma (vd. oltre, ll. 10-11: morte di Annibale; cf. Liv. ibid. 51, 12). Tale inversione dell’ordine degli argomenti rispetto al testo di Livio, tuttavia, non è insolita nell’Epitoma. La restituzione di Luterbacher, suffragata anche dagli indizi del papiro, si può perciò ritenere come quella più probabile. La felice congettura con cui è integrata l’espressione del predicato verbale è accolta, con un ritocco, anche da Müller, Jahresbericht 1, 33: i[n Celtiberia prospere] dim[icatu]m.

Ll. 10-11. Alla l. 10, prima della lacuna, la lezione mutila han[ va sicuramente integrata con il nome di Annibale. L’ultimo passo dell’Epitoma del libro 39, comprendente anche l. 11, riguarda quindi la morte di Annibale (vd. già POxy, iv , 103), narrata da Livio nel cap. 51; in particolare, ibid. 12 (fonti dell’avvenimento esposte in Briscoe, A commentary, 38-40, 391 s.). A meno che non si accettino le congetture di Grenfell e Hunt e di Rossbach riportate nel passo precedente (vd. sopra, ll. 9-10 e il commento), si può notare nell’Epitoma una riduzione selettiva degli argomenti della narrazione liviana: dopo i ludi funebri per Licinio Crasso, infatti, sono tralasciati sia il racconto delle ambascerie recatesi a Roma dalla Grecia e dalla Macedonia nell’inverno 184-183 (ibid. 46, 6-48, 6) sia quello della morte di Filopemene (ibid. capp. 49-50); dopo un cenno alla campagna di Terenzio Varrone in Spagna (secondo la congettura di Luterbacher; vd. sopra, ll. 9-10 e il commento), è direttamente riportato, quindi, l’avvenimento ritenuto più rilevante nella parte finale del libro liviano. Si potrebbe supporre nell’Epitoma, per questa stessa ragione, forse nell’ultima riga riservata al libro 39 (l. 11), anche una menzione della morte di Scipione Africano, di cui Livio tratta nel cap. 52, subito dopo quella di Annibale. Un elenco di morti illustri è congetturato in queste righe dell’Epitoma da Reid, Fragments, 292: interiisse tradunt (o traditum) Philopoenem Hannibalem P. Scipionem. Per vari motivi si può supporre che non siano stati riassunti nell’Epitoma gli ultimi capitoli del libro liviano: 1. i fatti e le relazioni diplomatiche riguardanti la Grecia (ibid. cap. 53) sono tralasciate, di norma, nel sommario del libro 39; 2. la vicenda dei Galli Transalpini, che avevano tentato di insediarsi nel Veneto e che sono mandati via da Claudio Marcello (ibid. 54, 1-55, 4), è stata già riassunta, in modo sintetico, nella col. ii, ll. 17-18;

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3. l’argomento che segue, nel cap. 55 (parr. 7-9), cioè la fondazione di varie colonie, non è incluso, di solito, nell’Epitoma; 4. la notizia dell’elezione dei consoli per il 182, che si trova nell’ultimo capitolo (56, 4), è implicita nell’indicazione dei nomi degli stessi al principio dell’anno successivo. Qualche elemento per la restituzione del testo, gravemente lacunoso in questo tratto della colonna, si può ricavare da Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 377 Mommsen, dove, nell’anno 183 a.C., alla nuda elencazione dei consoli si aggiunge la breve notizia della morte di Annibale: «his conss. (M. Claudius et Q. Fabius scil.) Hannibal apud Prusiam ueneno periit». In modo simile, nell’anno a.u.c. 568 è aggiunta una sommaria notizia, che si trova anche nell’Epitoma (col. ii, ll. 15-16: gare atletiche istituite da Fulvio Nobiliore). Poiché Cassiodoro e l’Epitoma, per la supposta dipendenza da una fonte comune, più volte concordano, la stessa frase di Cassiodoro Hannibal (...) periit può essere indizio di quello che si leggeva nel papiro (vd. anche Obsequens 4: «Hannibal in Bithynia ueneno periit»); da qui l’integrazione congetturale più probabile: Han[nibal ueneno periit. Sulla morte di Annibale, già Nepote, Hann. cap. 12, in particolare par. 5: «uenenum … sumpsit». Schmidt, Iulius Obsequens, 184-186 ha mostrato la comune derivazione da una fonte intermedia, come l’epitoma perduta, anziché direttamente dall’originale liviano, nella Periocha 39, 7: «Hannibal a Prusia, Bithyniae rege, ad quem uicto Antiocho confugerat, cum dederetur Romanis, qui ad exposcendum eum T. Quintium Flamininum miserant, ueneno morte consciit»; Ampelio, 34, 2: «Prusias rex (…) ad quem Hannibal uicto Antiocho confugit, et cum a rege exposceretur per legatos, ueneno se liberauit»; Orosio, Hist. 4, 20, 29: «Hannibal apud Prusiam Bithyniae regem, cum a Romanis reposceretur ueneno se necauit»; Eutropio 4, 5, 2: «Hannibal, qui uicto Antiocho ne Romanis traderetur ad Prusiam Bithyniae regem fugerat, repetitus etiam ab eo est per Titum Quintium Flamininum, et cum tradendus Romanis esset, uenenum bibit»; Vir. ill. 42, 6: «Hannibal (…) ad Antiochum regem Syriae confugit (…) quo uicto ad Prusiam regem Bithyniae concessit; unde Romana legatione repetitus hausto, quod sub gemma anuli habebat, ueneno absumptus est». La restituzione della l. 11 è resa più complicata dalla giuntura di due pezzetti del papiro che si erano staccati proprio in questo punto. Come ho potuto rilevare dall’esame autoptico, quando sono stati ricomposti, i due bordi della frattura sono stati fatti combaciare; ciò ha ridotto di alcuni millimetri la misura reale della riga. Immaginando di riportare la riga al suo vero stato, troviamo all’inizio la punta superiore di due lettere che escono in alto dalla lacuna: nella prima si può riconoscere una lettera come c o g o f; nella seconda, più probabilmente, e. Segue una lacuna di 1,3 cm (due lettere mancanti, esclusa la porzione di quella che ne esce). Dalla lacuna esce la punta della gamba inclinata, distesa alla fine, di una lettera che si può identificare come r o, in modo più probabile, come a. Nello spazio seguente, lungo 0,9 cm, si scorge la parte inferiore delle gambe verticali di due lettere, le quali appaiono di difficile lettura. Da tale lacuna minore esce integra una i; segue, leggermente staccata e un po’ più in basso nella riga, una e, anch’essa integra. A causa della lieve sovrapposizione nella giuntura dei due pezzetti staccati, questa e e la l della riga sottostante, che è quella dell’indicazione del libro successivo (l[ib.), si toccano, senza interlinea. Mi sembra errata, quindi, l’affermazione di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 128), secondo cui si dovrebbe calcolare una riga in più prima della l. 12, dove è indicato il nuovo libro; in questa riga così individuata (l. 65 a) trova posto la congettura ueneno pe]rit. Invece di ]rit, pertanto, leggerei in questo punto ]a...i e, attribuendo queste tracce ancora alla l. 11.

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corpus dei papiri storici greci e latini L. 13.

Con la menzione dei consoli Lucio Emilio Paolo e Gneo Bebio Tamfilo è indicato l’inizio del 182 a.C. (a.u.c. 572). Necessario l’emendamento della lezione del papiro Berio (l’errore può aver avuto origine dalla grafia Bebio, che si trova in alcune testimonianze del nome; vd. anche più avanti) in Baebio, che è la forma corretta del nomen. Nella lacuna all’inizio della riga il nome del primo console doveva essere costituito da due elementi. Gli editori accolgono comunemente l’integrazione L. Aemilio di Grenfell e Hunt in POxy, iv , 97. Infondata, tuttavia, nel testo di questa edizione, la lettura L. A[emilio, come hanno opportunamente rilevato Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 20, e Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 128). Dall’esame autoptico posso confermare che nel papiro non si scorgono tracce di l e a all’inizio della riga, prima della lacuna. Per il minor numero di lettere, inoltre, riterrei più probabile l’integrazione L. Paulo: si considerino infatti, nel calcolo delle lettere che possono essere incluse nella lacuna iniziale (già di modesta estensione), sia la lettera del praenomen del nome seguente (C]n.) sia la scrittura spazieggiata, consueta in tali menzioni formulari dei consoli. La testimonianza di Cassiodoro, citata più avanti, sembra convalidare tale lezione per il nome del primo console. I due consoli sono menzionati insieme nel passo liviano riguardante la loro elezione, 39, 56, 4: «creauit (M. Claudius Marcellus scil.) consules Cn. Baebium Tamphilum et L. Aemilium Paulum». Così anche in 40, 44, 11, riguardo a un senatoconsulto sui ludi, emesso sotto il loro consolato: «L. Aemilio Cn. (Glar.: C. Mog.) Baebio consulibus». In modo simile i due nomi sono riportati in Cassiodoro, Chron. II p. 130, 378 Mommsen: «L. Paulus et Cn.Baebius». Probabile che in questa stessa forma si presentasse la loro menzione nell’Epitoma. Il medesimo ordine di successione è testimoniato anche nei Fasti Capitolini, a. 182 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49); Nepote, Hann. 13, 1: «L. Aemilio Paulo Cn. Baebio (Beb- codd.) Tamphilo (consulibus scil.)»; Ossequente 5; Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 572 Mommsen. L’ordine è invertito nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 212, 572 Mommsen. L. 14. Tra le due lacune è ben leggibile bellum. Nella seguente lettera mutila, di cui è superstite soltanto l’asticella verticale che scende un po’ sotto la riga di scrittura, si può riconoscere p o r; nemmeno dall’esame autoptico ho potuto ricavare una lettura più certa. È probabile, come hanno supposto gli editori, che questa riga compendiasse il cap. 1 del libro 40 di Livio, riguardante la divisione delle competenze tra consoli e pretori, quindi l’assegnazione delle province e degli arruolamenti; in particolare, dove sono menzionati i popoli che in quel momento minacciavano una guerra o erano già in armi: (3) «Apuanos ad rebellionem spectare periculumque esse ne impetum an agrum Pisanum facerent»; (4) «ex Hispaniis citeriorem in armis esse et cum Celtiberis bellari sciebant». Da questo tratto del testo liviano Grenfell e Hunt in POxy, iv , 104, hanno ricavato la congettura Hispani, cui è seguita l’integrazione p[arauerunt di Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 21. Ritenendo incompleta tale restituzione, Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 228 s. ha congetturato anche, nello stesso estratto dell’Epitoma, una menzione dei Liguri, desunta anch’essa dal passo di Livio citato sopra, par. 5. Nella lacuna iniziale, tuttavia, in cui non si possono calcolare più di sette lettere mancanti, l’integrazione in Li-

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guras] sembra troppo lunga. Per tale spazio potrebbe andare bene, invece, Apuani (vd. Liv. ibid. 3, citato sopra). Rispetto all’enunciato un po’ complesso proposto da Rossbach, inoltre, preferirei la forma più semplice restituita da Kornemann. Nel papiro gravemente lacunoso, tuttavia, ogni tentativo di integrazione resta puramente ipotetico. Appare quindi opportuna la scelta di non integrare il testo (Jal, Abrégés 2, 119). L. 15. Dal testo superstite (u]e.l lites in[ter o semplicemente in) Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 45 ha supposto che in questa riga fosse riassunto il passo liviano 40, 2, 6-8, riguardante varie ambascerie venute a Roma, nei primi mesi del 182 a.C., sia dall’Asia (legati di Eumene, di Farnace, dei Rodii) sia dalla Grecia (legati di Filippo, degli Achei, degli Spartani). Di questi fatti si conserva un ampio frammento della narrazione di Polibio: 23, 9, 1-15. Lo stesso Kornemann, ibid. 21 ha avanzato così la seguente integrazione congetturale del testo lacunoso: bella ue]l lites in[ter Asiae reges composita; essa è stata accolta nella sostanza da Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229, ma leggermente modificata: in [Graecia et Asia. L’Epitoma, traendo direttamente le conclusioni dai negoziati avvenuti sotto l’egida del senato, affermerebbe che con l’intervento di Roma erano stati composti i conflitti e le ostilità in quelle regioni: bella u]el lites … composita. Da altri riferimenti a passi dello stesso libro 40 sono state ricavate, invece, le congetture di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 126 (azioni di Filippo contro i fiancheggiatori di Roma; cf., ad esempio, ibid. 3, 2; ma la proposta è giudicata “peu vraisemblable” in Abrégés 2, 132), e di Reid, Fragments, 293 (arruolamenti militari per entrambe le province della Spagna; cf. Livio ibid. 1, 7). Più opportunamente, a mio avviso, Jal (Abrégés 2, 119), non ha integrato il testo. Ll. 16-17. La drammatica storia di Teossena, riassunta in queste righe dell’Epitoma, è narrata da Livio nel cap. 4 del libro 40. Nel libro liviano, dopo alcuni cenni sugli inizi del 182 a.C., da cui si suppongono derivati gli argomenti delle ll. 14 e 15 dell’Epitoma (vd. sopra), la narrazione storica ha il suo vero principio con le notizie sulle legazioni d’oltremare venute a Roma nei primi mesi dell’anno (ibid. 2, 6-8). Come dichiarava anche il resoconto fatto precedentemente dal legato Quinto Marcio, nell’inverno 183-182, le azioni del re di Macedonia Filippo v preludevano a una ripresa delle ostilità; a queste si aggiungeva l’odioso provvedimento con cui aveva fatto emigrare nell’interno gli abitanti delle città della costa (ibid. cap. 3). La vicenda di Teossena rappresenta efficacemente, quindi, come exemplum storico, tali drammatiche circostanze, nelle quali si gettavano i semi della terza guerra macedonica. Filippo aveva già fatto uccidere il padre di lei Erodico, principe dei Tessali, e il marito; dopo che il re macedone aveva ordinato con un editto l’arresto dei figli delle sue vittime, Teossena concepisce il proposito di uccidere il proprio figlio e quelli della sorella defunta, perché non cadessero nelle mani di Filippo. Durante la fuga, così, prima che le guardie del re catturassero la loro nave, Teossena incita i suoi congiunti a darsi la morte, o con la spada o col veleno, e a gettarsi in mare. Non si può stabilire con certezza se il passo dell’Epitoma cominciasse nella lacuna della l. 16 o col nome stesso della protagonista (Theoxen[a), probabile soggetto dell’enunciato. Nel testo superstite del papiro, alla l. 17, con [f]ugiens (integrazione sicura, nella felice restituzione di Reid, in POxy, iv , 104; quindi Fragments, 293) sembra riassunta la

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fuga di Teossena (cf. 40, 4, 10-12); in marem va inteso come complemento del predicato verbale principale, riguardo al quale se iecit (o deiecit) è congettura molto probabile, desunta dal par. 15 del racconto di Livio: «alii alio leto absumpti semianimes e naue praecipitantur; ipsa deinde uirum comitem mortis complexa in mare sese deiecit». La forma dell’accusativo marem (sostituzione di genere) dovrebbe essere conservata nel testo, senza l’espunzione della desinenza -m (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 8), come particolarità del latino tardo, di cui si trovano parecchie testimonianze (vd. ThlL viii, 377, l. 58), specialmente nella Vetus Latina. Così, ad esempio, nel cod. 100 (Lugdunensis, saec. vi; ed. Robert, Paris 1881 et Lyon 1900), num. 3, 23 e 10, 6: ad marem; deut. 34, 2: usque ad marem; Ios. 16, 3; 15, 8; psalm. 73, 13, nel cod. 136 (Casinensis; ed. Amelli, Roma 1912): Tu stabilisti … marem; Ezech. 42, 17, nel cod. 177 (Wirceburgensis, saec. v; ed. Ranke, Wien 1871); Marc. 6, 48, nel cod. 3 (Vercellensis, saec. IV; ed. Gasquet, Roma 1914); 6, 49, nel cod. 4 (Veronensis, saec. v; ed. Buchanan, Oxford 1911) e cod. 151 (Corbeiensis 2, saec. V; ed. Buchanan, Oxford 1907). La stessa particolarità anche in CIL vi 4,3 nr. 37529, v. 5; x 1 nr. 6430, v. 5; Tabella devotionis (ed. Audollent, Paris 1904) 250 A, 16. Un compendio alquanto esteso della storia di Teossena nella Periocha 40, 1: «cum Philippus liberos eorum, quos in uinculis habebat, nobilium hominum conquiri ad mortem iussisset, Theoxena, uerita pro liberis suis admodum pueris regis libidinem, prolatis in medium gladiis et poculo, in quo uenenum erat, suasit his, ut imminens ludibrium morte effugerent et cum persuasisset, et ipsa se interemit». Considerando in questo passo la frase ut imminens ludibrium morte effugerent (così anche la variante fugerent in alcuni codici più tardi, come Gronovianus, E Ï Ú Ù), potremmo supporre anche in [f]ugien[s (o [tes) dell’Epitoma un significato come «sfuggire al ludibrio» o simile; ne conseguirebbe, quindi, l’integrazione di ludibrium o di un vocabolo simile nella lacuna. Ll. 17-19. Argomento dell’Epitoma è qui la storia di Demetrio, figlio del re di Macedonia Filippo V, narrata da Livio in 40, 5, 1-16, 3; 20, 3-24, 8: tornato in patria dopo avere difeso a Roma il padre da accuse e lamentele, riscuotendo personalmente la fiducia del senato (vd. 39, 35, 2-3; ibid. 46, 6-47, 11), egli fu vittima delle manovre del fratello maggiore Perseo, che ambiva al trono del padre. Di questi fatti si conserva anche la narrazione di Polibio nel fr. 10, 12-16 del libro 23. Nel testo dell’Epitoma, alla fine della l. 17, Demetrius, come prima parola e soggetto grammaticale dell’enunciato, è congettura di Grenfell e Hunt (POxy, iv , 97), accolta comunemente dagli altri editori. Dall’espressione fictis criminibus, felice correzione di ficti egrim. onibus del papiro (errore causato forse da fraintendimento nel corso della dettatura; vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1020), sembra probabile che alla l. 18 fossero riassunti, come enunciato iniziale, gli antefatti della vicenda, che si svolsero presso la corte macedone nel corso del 182 a.C.; conseguente la congettura accusatus a fratre, con cui è integrato il resto della riga, di Grenfell e Hunt (ibid.), e Reid, Fragments, 293, quindi Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 21. La giuntura fictis criminibus risulta già di uso classico; cf. Cic., S. Rosc. 128 (altri esempi in ThlL vi, 1, 779, l. 26; riguardo all’espressione crimina fingere, vd. ibid. 776, ll. 71 ss.). Nella narrazione di Livio, la prima parte, che ben riflette la torbida atmosfera degli intrighi di corte, comprende più capitoli. Perseo, dominato da gelosia verso il fratello Demetrio, cui si rivolgeva il favore popolare e la simpatia di Roma, medita il delitto; a questo fine, guadagnatasi la complicità di alcuni influenti amici del padre, insinua abil-

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mente nell’animo del re sospetti contro Demetrio. Parecchie espressioni mettono in risalto le trame dolose del fratello maggiore (cf. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 45); vd., in particolare, già al cap. 5, par. 5 (gli amici del re passano dalla parte di Perseo, prevedendo la fine dell’altro fratello): «exitum incauti a fraude fraterna iuuenis»; 8 (Demetrio incautamente presta il fianco alle accuse): «se (...) opportunum criminibus faciebat»; 14 (Filippo accoglie le insinuazioni contro il figlio minore): «animo (...) ea crimina accipiebat». Al cap. 7 la circostanza di un torneo mette in evidenza il contrasto tra i due fratelli; vd. par. 7 (lo scontro ha offerto un pretesto per accusare il giovane): «rem (...) praebituram causam criminandi iuuenis». Al cap. 8 Perseo, prendendo a pretesto l’occasione del banchetto, costruisce una falsa accusa contro il fratello, affermando che egli era andato per ucciderlo. Il padre, allora, deplora gravemente la loro inimicizia; vd. par. 7: «sedeo (...) miserrimus pater, iudex inter duos filios, accusatorem parricidii et reum, aut conficti aut admissi criminis labem apud meos inuenturus». Segue quindi il discorso di accusa di Perseo contro il fratello (capp. 9-11); vd., in particolare, 9, 3, dove egli si difende dalla eventuale obiezione di accusa temeraria o di calunnia: «nihil ego, tamquam accusator, criminose nec dubia argumentis conligendo ago». Nei capitoli successivi (12-15) Demetrio pronuncia la sua difesa, rovesciando le accuse mossegli dal fratello; indica in lui, quindi, il vero autore di intrighi per arrivare al regno; vd., in particolare, 12, 3 (Perseo agisce da simulatore, dichiarandosi vittima): «simulatis lacrimis in alterius perniciem ueras meas lacrimas suspectas tibi fecit»; ibid. 6-7 (Perseo, in realtà, costruisce subdolamente le accuse): «iam illud quam accusatorie, quod noctis huius crimen miscuit cum cetera insectatione uitae meae, ut et hoc (...) suspectum alio uitae nostrae tenorem faceret, et illam uanam criminationem spei uoluntatis consiliorum meorum nocturno hoc ficto et composito argumento fulciret»; ibid. 10 (sono accuse vuote): «uana accusatio erat»; ibid. 13 (egli vuole che Demetrio passi per l’attentatore). Rispondendo alle singole accuse, lo stesso Demetrio parla di macchinazione (13, 1): «conficti ordinis criminis»; afferma che la mente di Perseo è accecata dalla brama di accusare e sparge il sospetto dappertutto (ibid. 5): «caecus criminandi cupiditate animus, dum omnia suspecta efficere uult, aliud alio confundit». La difesa del giovane diviene sempre più una requisitoria; vd., in particolare, 14, 7 (Perseo fa supposizioni soltanto per accusare): «criminose argumentari»; ibid. 8 (egli vuole far credere che i compagni di Demetrio avessero intenzioni omicide): «hoc (...) uideri uis». Alla fine Demetrio assicura la sua lealtà nei confronti del padre, contro le false accuse del fratello; vd. 15, 1 (la tentata aggressione notturna è un’invenzione): «nocturna fabula»; ibid. 3 (le insinuazioni di Demetrio riempiono la casa e il regno di sospetti e di accuse): «haec domum, haec regnum tuum criminibus et suspicionibus replent». Come si vede, più volte, in questo lungo svolgimento, sono ripetuti termini e concetti caratteristici dell’intera vicenda: da un lato, crimen, criminari, criminose, che indicano le accuse contro Demetrio; dall’altro, fictus, confictus, che svelano la calunnia nascosta. La seconda parte della narrazione (40, 20, 3-24, 8) volge al drammatico epilogo, che ebbe luogo nel 181, l’anno successivo agli antefatti. Tra le ambascerie mandate a Roma, al principio dell’anno, c’è anche quella macedone, che però ha segretamente il compito di indagare sulle relazioni di Demetrio con i Romani. Sempre più il re macedone è manovrato, senza che se ne avveda, da Perseo, il quale intensifica i suoi intrighi contro il fratello, al fine di assicurarsi un controllo incontrastato sul regno (ibid. 20, 3-6). Nella circostanza della spedizione sul monte Emo divengono sempre più evidenti l’isolamento di Demetrio e la congiura ordita ai suoi danni da Perseo, che ormai si è guadagnato il favore

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del padre e degli uomini di corte più influenti (cap. 21). Al ritorno dalla inutile salita sul monte Emo (cap. 22), il generale Dida è incaricato di carpire i segreti di Demetrio, il quale nutriva veramente una segreta intenzione di cercare scampo presso i Romani (cap. 23). Nuove accuse sono mosse contro Demetrio dal fratello (24, 1): «Demetrium iterum ad patrem accusauit (Perseus scil.)». Il re decide quindi di farlo uccidere a tradimento e incarica di ciò il generale Dida. Durante un sacrificio è somministrato veleno a Demetrio in una tazza; si manifestano subito dolori e spasimi e, mentre impreca contro i suoi uccisori, il giovane è soffocato da due sicari; vd., in particolare, ibid. 2: «nihil (...) palam grauius pronuntiatum de eo est, ut dolo potius interficeretur»; 4: «digredienti ab se Didae mandata dedisse dicitur (Philippus scil.) de filio occidendo»; 6: «in ea cena dicitur uenenum datum; poculo epoto extemplo sensit, et mox coortis doloribus, relicto conuiuio cum in cubiculum recepisset sese, crudelitatem patris conquerens, parricidium fratris ac Didae scelus incusans torquebatur». Dall’ultimo tratto del racconto liviano, in cui si compie il dramma di Demetrio, ucciso dal veleno subdolamente somministratogli nella tazza durante il sacrificio, sono desunte le integrazioni congetturali alla l. 19, comunemente accolte dagli editori: poculum (Kornemann, ibid.) o uenenum (Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229, da Fuhr, Liviusepitome, 1183; cf. Liv. ibid. 24, 5; Periocha 40, 2; 9) haurire, espressione che completa coactu[s, da intendere come predicato verbale principale. Dopo coactu[s, tuttavia, Grenfell e Hunt, ibid. 104, ammettono anche la possibilità («it is not clear whether (...)») che nel tratto mancante fosse contenuta l’accusa contro Demetrio; da tale supposizione, la congettura causam perorare di Reid, Fragments, 293. Nell’Epitoma è omessa la causa secondaria, ma definitiva, di morte, di cui invece parla Livio (ibid. 24, 7-8): mentre Demetrio si contorce negli spasimi causati dall’avvelenamento, due sicari, soffocandolo, accelerano la sua fine e gli impediscono di lanciare le ultime accuse contro il padre e il fratello. Notiamo, in conclusione, che nel riportare la vicenda di Demetrio, così come altre volte, l’Epitoma riassume sinteticamente parti non continue della narrazione di Livio, collegando sezioni narrative e anni diversi. Qui, per saldare in una unità coerente le due parti del racconto liviano, l’Epitoma non tiene conto del confine tra il 182 e il 181. Livio, invece, nel suo modo di procedere annalistico, interrompe la storia di Demetrio verso la fine del racconto del 182 e introduce, per conformità allo schema cronologico, altri fatti più vicini, tra cui le elezioni consolari per il 181 e gli inizi delle nuove magistrature. Si osserverà, d’altra parte, che la Periocha 40, 2, nel punto corrispondente, congiungendo in una unità logica le sezioni diverse del racconto liviano (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 46), segue un procedimento analogo all’Epitoma: «certamina inter filios Philippi, Macedoniae regis, Persen et Demetrium, referuntur; et ut fraude fratris sui Demetrius fictis (confictis K Q Ry Á Ë ı È Ó Ú Û) criminibus, inter quae accusatione parricidii et adfectatione regni, primum petitus, ad ultimum, quoniam populi R. amicus erat, ueneno necatus est, regnumque Macedoniae mortuo Philippo ad Persen uenit». Anche nel passo in cui la stessa Periocha del libro 40 riferisce la morte di Filippo, più avanti (par. 8; cf. capp. 54-56 del libro 40 di Livio), sono richiamati alcuni termini e concetti della vicenda già narrata di Demetrio: «Philippus aegritudine animi confectus, quod Demetrium filium falsis (E K Q Ry Ï Ú Û Ù: falsi cett.) Persei, alterius fili, in eum delationibus impulsus ueneno sustulisset, et de poena Persei cogitauit». Dalla concordanza dell’Epitoma con la Periocha nell’uso della forma semplice fictus, contro la preferenza mostrata da Livio per quella composta (confictus), si può trarre un argomento a favore della comune

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derivazione di queste testimonianze compendiarie da una fonte intermedia, che si è supposto essere l’Epitoma perduta del sec. i (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 70). In modo simile la storia di Demetrio è compendiata nell’Epitoma di Giustino in un’esposizione unitaria (32, 2, 3-10), che comprende i fatti più rilevanti dalla missione diplomatica, di cui il giovane era stato protagonista a Roma (cf. il cap. 47 del libro 39 di Livio), fino alle sue vicissitudini come vittima degli intrighi di Perseo, dove si ritrovano più elementi delle versioni viste sopra; vd., in particolare, par. 7: «apud fratrem Perseum aemulatio illi (Demetrio scil.) inuidiam contraxit»; 8: «Perseus perspecta patris aegritudine cotidie absentem Demetrium apud eum criminari et primo inuisum, post etiam suspectum reddere; nunc amicitiam Romanorum, nunc proditionem patris ei obiectare»; 9: «ad postremum insidias sibi ab eo paratas confingit, ad cuius rei probationem inmittit indices, testes subornat et facinus, quod obicit, admittit»; 10: «quibus rebus conpulso ad parricidium patre funestam omnem regiam facit». Si trova poi, nella stessa versione di Giustino, il racconto della morte di Filippo, in cui, come in Livio e nella Periocha, è rievocata, con il pentimento del re, la fine di Demetrio (ibid. 3, 1-5). I diversi fatti concernenti Demetrio, dalla fortunata missione diplomatica a Roma fino al tradimento ordito da Perseo, sono concentrati insieme anche nella riduzione di Orosio, Hist. 4, 20, 27-28; vd. in particolare, par. 28: «eundemque (Demetrium scil.) continuo uelut Romanis amicum suique proditorem, fratre quoque ipsius ad parricidium patris ministro, nihil de utroque miserum mali suspicantem ueneno necauit». L. 20. Menzione congiunta dei consoli Publio Lentulo (in realtà Publio Cornelio Cetego; vd. più avanti) e Marco Bebio Tamfilo, all’inizio del 181 a.C. (a.u.c. 573). Il primo dei due era un Cornelius; il cognomen di Lentulus gli è attribuito da Livio, che lo menziona con il collega in 40, 18, 1 nel passo sui comizi per la designazione dei consoli del 181: «creati P. Cornelius Lentulus M. Baebius Tamphilus». Così anche Valerio Massimo in 2, 5, 1: «P. Cornelio Lentulo M. Baebio Tamphilo consulibus»; in una forma ridotta, in 1, 1, 12: «P. Cornelio Baebio Tamphilo consulibus» (in entrambi questi passi, i codici di Valerio Massimo scrivono pamphilo). Nella medesima forma e successione, come nell’Epitoma, i due nomi sono riportati in Cassiodoro, Chron. II p. 130, 379 Mommsen: «P. Lentulus et M. Baebius». (cf. anche Livio ibid. 35, 1: «M. Baebius»). Tali concordanze onomastiche valgono come prova di una derivazione dell’Epitoma e delle altre testimonianze da Livio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69). Il cognomen corretto del console, chiamato Lentulus nell’Epitoma e nella tradizione liviana, è in realtà Cethegus (vd. anche MRR i , 386 n. 1), testimoniato nei Fasti Capitolini, a. 181 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49); così anche in Nepote, Hann. 13, 1; Plinio, Nat. 13, 85 (con tale menzione è indicato l’anno del rinvenimento dei libri di Numa; vd., più avanti, l. 21); Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 573 Mommsen; Consul. Constant., Chron. i p. 212, 573 Mommsen. I due consoli sono menzionati senza il cognomen in Plutarco, Numa 22, 7. Lo scambio del cognomen, riconducibile a Livio, rientrerebbe, in generale, in una falsificazione sistematica sospettata per i cognomina di questa gens (vd. Fr. Münzer, Cornelius nr. 74, RE iv, 1, 1272, ll. 40-48). Opportunamente, nell’Epitoma, con Kornemann e gli editori seguenti, si conserverà Lentulo come lezione genuina, conseguente allo scambio onomastico rilevato nella tradizione liviana; estraneo al testo, quindi, l’emendamento in Cornelio o Cethego suggerito da Grenfell e Hunt, POxy iv 97.

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Nel papiro la lettera iniziale del nome Baebius (-o nel testo) è mutila, a causa di una lacuna che interessa una piccola porzione al centro della colonna. Nel residuo appartenente a questa lettera, costituito da una virgola molto arcuata e sottile, in forma di semiluna, che si scorge al margine della lacuna, Grenfell e Hunt hanno identificato l’arco di una p: risulta necessario, per conseguenza, l’emendamento in b, come richiesto dalla forma corretta del nome. Se consideriamo però la posizione consueta della p, nella scrittura del papiro, l’arco residuo della lettera sembra un po’ troppo basso, rispetto alla riga, come ho potuto rilevare dall’esame autoptico. Si può ammettere, così, anche la lettura di una b, in questo punto, la quale assicurerebbe la lezione corretta del nome. È questa la soluzione che ho adottato nel testo. L. 21. Il rinvenimento dei libri di Numa, riassunto in questa riga, è narrato in Livio 40, 29, 314. Nel 181 a.C., in un campo di proprietà dello scriba L. Petillio, sotto il Gianicolo, furono trovate due arche di pietra: secondo quello che dichiarava un’iscrizione, in una erano contenute le spoglie mortali di Numa Pompilio, delle quali non restava alcuna traccia; nell’altra i suoi libri, che erano invece ben conservati, sette sul diritto dei pontefici e sette di scienza filosofica. Dopo varie discussioni, il pretore Q. Petillio decise infine che i libri di Numa (forse soltanto quelli filosofici, in greco) fossero dati pubblicamente alle fiamme nel comizio. La metà superstite della riga dell’Epitoma concerne il luogo del rinvenimento, di cui Livio parla all’inizio, ibid. 3-4: «eodem anno in agro L. Petilli scribae sub Ianiculo (...) duae lapideae arcae (...) inuentae sunt (...) in altera Numam Pompilium (...) sepultum esse, in altera libros Numae Pompili inesse». Come si vede, il nome dello scriba proprietario del terreno differisce, nella versione dell’Epitoma (L. Nerylli), da quello che si trova in Livio e in altre fonti (L. Petilli). Non converrà correggere la lezione del papiro (così anche Kornemann e gli editori seguenti), da ritenere come genuina, benché non si possa accertare se sia derivata da un’altra tradizione antica riguardante lo stesso fatto. Si esclude, pertanto, l’emendamento Petillii suggerito da Grenfell e Hunt, POxy iv , 97. La testimonianza dell’Epitoma sarà tuttavia da collegare con la tradizione liviana, contro quella antiquaria che menziona il nome di Cn. Terentius (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 69). Sicura, secondo il testo liviano, l’integrazione sc[ribae al margine della lacuna. Probabile la congettura libri Numae inuenti di Grenfell e Hunt, ibid., accolta comunemente dagli editori, per il tratto mancante della l. 21. Alla difficoltà notata dagli stessi Grenfell e Hunt, ibid., 104 («the restoration is however rather long for the lacuna»), tenta di rimediare Reid, Fragments, 293, supponendo l’abbreviazione li. per libri. Il fatto è ben compendiato nella Periocha 40, 5-7; si veda, in particolare, l’inizio (par. 5), riguardante il rinvenimento: «libri Numae Pompili in agro L. Petilli scribae sub Ianiculo a cultoribus agri arca lapidea clusi inuenti sunt et Graeci et Latini». Concorda in più punti con il testo di Livio la versione di Valerio Massimo (1, 1, 12), dove si noterà che il racconto, così come in altre fonti, è preceduto dall’indicazione dei consoli del 181: «P. Cornelio Baebio Tamphilo (pamph- codd.) (...) in agro L. Petilli (Halm; petilii vel petili codd.) scribae sub Ianiculo (...) duabus arcis lapideis repertis». Così comincia anche la versione di Lattanzio, Inst. 1, 22, 5, che si può credere derivata, parimenti, dal racconto di Livio: «Cornelio et Balbo consulibus, in agro scribae Petili sub Ianiculo arcae duae repertae a fossoribus». Nella versione di Plutarco, Numa 22, due arche di pietra, interrate

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ai piedi del Gianicolo, contenevano, rispettivamente, il corpo di Numa e i libri sacri scritti di suo pugno (ibid. 2), i quali, secondo Anziate citato esplicitamente come fonte, erano dodici pontificali e dodici filosofici (ibid. 6; ma il numero, che non concorda con i dati di altre fonti, potrebbe essere un errore nel testo dello stesso Plutarco). Nel racconto del rinvenimento (ibid. 7-8), l’indicazione cronologica corrisponde alle altre fonti: ≈·ÙÔÈ (...) qÛ·Ó ¶fiÏÈÔ˜ KÔÚÓ‹ÏÈÔ˜ ηd MÄÚÎÔ˜ B·›‚ÈÔ˜. Quanto alle circostanze, però, è accentuato il carattere prodigioso del fatto: le arche furono messe allo scoperto da una grande pioggia, che aveva fatto franare il tumulo sepolcrale. La notizia del rinvenimento dei libri di Numa è riportata da Plinio, Nat. 13, 84-87, con alcuni particolari diversi, desunti da Cassio Emina, esplicitamente citato come fonte: il nome dello scriba, nel cui terreno avvenne il rinvenimento, è Cn. Terentius; fu rinvenuta una sola arca, nella quale i libri erano stati deposti con le spoglie mortali del re. Seguono, nello stesso passo, precisazioni sui libri e sul loro stato di conservazione; dal confronto delle fonti annalistiche e antiquarie sono desunti altri dati sul contenuto e sul numero (par. 87: Calpurnio Pisone, Sempronio Tuditano, Antiquitates humanae di Varrone). Nella medesima tradizione (Cn. Terentius; rinvenimento di una sola arca) si colloca la breve notizia di Festo, p. 173 Müller (= 178, 19-22 Lindsay); così anche De uiris illustribus, 3, 2: «arcula cum libris a Terentio quodam exarata». La citazione testuale di un passo di Varrone, dal Curio de cultu deorum, nota attraverso la testimonianza di Agostino, Civ. 7, 34, va annoverata tra le fonti più antiche dell’avvenimento (vd. il commento in Varros Logistoricus, 3 s.; 19-28). L. 22. Menzione incompleta dei consoli del 180 a.C. (a.u.c. 574) Aulo Postumio Albino Lusco e Gaio Calpurnio Pisone. L’anno del loro consolato fa parte della narrazione del libro 40 di Livio. I due consoli vi sono menzionati insieme nella notizia delle elezioni, ibid. 35, 1: «M. Baebius, comitiorum causa Romam reuocatus, consules creauit A. Postumium Albinum Luscum (codd. nonulli: lust- et iust-, falsae var. lect., cett.) et C. (codd. plerique: Cn., falsa var. lect., L) Calpurnium Pisonem»; quindi, all’inizio dell’anno consolare, ibid. 3: «principio eius anni, quo A. Postumius Albinus et C. Calpurnius Piso consules fuerunt». I due nomi compaiono nella forma ridotta in Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 380 Mommsen: «A. Postumius et C. Calpurnius», con un evidente errore nei codici (tarpurnius per Calp-). Nella riga del papiro, dopo l’iniziale del praenomen abbreviato del secondo console (C.), consueta in tali menzioni, segue uno spazio non scritto di una certa estensione, interrotto dalla lacuna centrale della colonna di scrittura; uno spazio in cui, dall’esame autoptico, non ho rilevato tracce di rasura. Improbabile, d’altra parte, che il nomen del secondo console sia scomparso tutto nella lacuna, perché si sarebbe trovato a una distanza eccessiva dal praenomen abbreviato (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 21). Tale omissione del nome del console potrebbe essere legata all’interruzione dell’anno consolare per la morte di Calpurnio, che avvenne poco dopo la sua entrata in carica, riportata da Livio poco dopo l’inizio della narrazione riguardante il 180, ibid. 37, 1. Münzer, Anmerkungen, 137, rileva opportunamente che in Cassiodoro risulta guasta la lezione del nome dello stesso console omesso dall’Epitoma. Di questa morte, che si era voluta attribuire a una pestilenza, fu poi accusata la moglie Quarta Ostilia, la quale avrebbe avvelenato il console per spianare la strada al figlio Quinto Fulvio Flacco, che infatti fu designato, lo stesso anno, consul suffectus al suo posto

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(ibid. 37, 5-7). Nei Fasti Capitolini, a. 180 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49), alla menzione del console Calpurnio è aggiunta la notizia della sua morte e della sostituzione nel corso dell’anno consolare: «A. Postumius (...) Albinus C. Calpurnius (...) Piso in m(agistratu) m(ortuus) e(st). in e(ius) l(ocum) f(actus) e(st) Q. Fuluius (...) Flaccus». Il raffronto con una simile fonte epigrafica, nella quale la consueta menzione dei consoli contiene anche l’indicazione della morte e della sostituzione di uno dei due, potrebbe avere indotto a omettere, o cancellare successivamente, il nome di quello che non poté compiere l’intero anno del suo incarico. L. 23. Sono menzionati i due popoli (anche senza la traccia della p, che pure è visibile nel papiro, risulta chiaro il nome di Hispani prima della lacuna) contro cui Roma condusse le principali operazioni militari nel 180 a.C., secondo la narrazione del libro 40 di Livio. Impossibile accertare, nel tratto caduto della l. 23, se gli Hispani fossero soggetto dell’enunciato principale (subacti o simile; vd. POxy iv , 97) o se si avesse una costruzione diversa (vd. Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229; quindi T. Livi periochae, fragmenta, 130 s.: cum Liguribus Hisp[anisque pugnatum est, o simile). Sembra preferibile, tuttavia, la congettura più semplice e lineare proposta da Grenfell e Hunt. Nel sommario enunciato dell’Epitoma, che occupa una sola riga della colonna, sono compendiate più parti, anche separate tra loro, della narrazione liviana, contenuta nel libro 40, delle campagne militari condotte nel 180 dai Romani contro Liguri e Celtiberi. Come altre volte nell’Epitoma, si può supporre che la stessa frase comprenda sinteticamente fatti decisivi di entrambe le campagne, avvenuti anche nel 179. Livio comincia a esporre i fatti riguardanti la penisola iberica sin dal principio del racconto dell’anno (ibid. 35, 3-7): delegati venuti dalla Spagna Citeriore fanno una relazione in senato sulla campagna militare contro i Celtiberi felicemente condotta dal pretore Q. Fulvio Flacco nel 181, alla quale erano seguite la resa della Celtiberia e la sistemazione della provincia (su questi avvenimenti, vd. ibid. 30, 1-34, 1). Dopo una discussione sulla richiesta di Flacco di poter congedare il suo esercito e sul conseguente nuovo arruolamento (ibid. 35, 1036, 12), è riportato un rilevante fatto d’armi avvenuto nel corso dell’anno (ibid. capp. 3940): lo stesso Flacco, ormai in procinto di andarsene dalla provincia e di congedare, secondo gli accordi, una parte dei suoi, cade in un’imboscata dei Celtiberi durante uno spostamento con l’esercito; reagendo in modo ordinato, consegue una schiacciante vittoria. Il proseguimento della campagna militare in Spagna è narrato ancora nel libro 40, ma tra gli avvenimenti del 179 (ibid. 47, 1-50, 7): attuando il piano concertato con il collega L. Postumio Albino, il pretore Ti. Sempronio Gracco, successore di Flacco al comando delle operazioni militari, espugna dapprima la città di Munda, quindi conquista gran parte della regione dei Celtiberi. Anche i fatti della campagna nel territorio ligure sono narrati a più riprese nel libro 40. Nelle assegnazioni degli eserciti e degli incarichi, a M. Bebio Tamfilo e P. Cornelio Cetego, i consoli dell’anno precedente, è prorogato l’imperium e dato il compito di portar guerra ai Liguri Apuani (ibid. 36, 6). Una prima sequenza di fatti si colloca al principio della primavera, con l’inizio delle operazioni militari (ibid. 37, 9-38, 9): i Liguri si arrendono ai due generali, che erano penetrati nel loro territorio. Gli stessi Cornelio e Bebio, quindi, per far cessare la continua belligeranza con i Liguri, decidono di trasferirne un ingente numero nella terra dei Sanniti, lontano dalla sede d’origine. Alla fine ai due è decretato un trionfo, benché non abbiano vinto con le armi. Successivamente,

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nello stesso anno (ibid. 41, 1-6), i consoli penetrano con le legioni nel territorio dei Liguri da parti diverse: Fulvio Flacco, da sud, ottiene la sottomissione dei Liguri Apuani, che poi trasporta nel Sannio; Postumio Albino, da nord-est, costringe alla resa i Liguri montanari. Nel medesimo libro 40 è riportato anche un fatto successivo, nella campagna contro i Liguri: nel 179, il console Fulvio Flacco, penetrato con l’esercito in una regione impervia, li sconfigge in una battaglia e si impadronisce del loro accampamento (ibid. 53, 1-3); ottiene quindi il trionfo sui Liguri (ibid. 59, 1). Delle campagne condotte in Liguria e in Spagna dà notizia anche la Periocha, 40, 3: «item res in Liguribus et in Hispania contra Celtiberibus a compluribus ducibus feliciter gestas continet». L’espressione sommaria, che compendia in una frase intere parti del racconto liviano, si presenta molto simile a quella dell’Epitoma. È diversa, però, la collocazione: nell’Epitoma, infatti, la notizia è posta sotto il consolato di A. Postumio, quindi, in modo preciso, nel 180. Nella Periocha, invece, dove le suddivisioni cronologiche sono più generiche, essa è posta prima della fondazione di Aquileia (vd. Livio 40, 34, 2-3) e del rinvenimento dei libri di Numa (ibid. cap. 29); quindi, per il legame cronologico con questi fatti, sembra riferita al 181. Anche sotto questo anno, d’altra parte, sono narrate, nel libro 40, campagne dei Romani contro i Liguri (ibid. capp. 25-28: vittorie di L. Emilio Paolo) e in Spagna contro i Celtiberi (ibid. capp. 30-32: vittoria di Fulvio Flacco a Ebura; 33, 1-34, 1: rotta dei Celtiberi a Contrebia). La notizia delle imprese vittoriose contro Liguri e Celtiberi, in una forma così sommaria dell’enunciato, può essere attribuita, pertanto, ugualmente bene sia al 181 sia al 180. Si può anche pensare che la medesima frase fosse collocata, nei due compendi, ora in una, ora nell’altra posizione. Nell’Epitoma, dove è collocata nell’anno successivo, la frase può essere riferita anche ai fatti precedenti, oltre che, come detto sopra, alla prosecuzione delle campagne nel 179. Ciò non sorprende: più volte l’Epitoma tende a riunire in una sintesi fatti avvenuti in tempi diversi e narrati separatamente nell’originale liviano, i quali siano riconducibili a una medesima vicenda. Ll. 24-26. In Livio 40, 44, 1, dopo il racconto delle campagne militari (ibid. 37, 8-38, 9: Liguria; capp. 39-40: Spagna; cap. 41: Liguria), che si trova riassunto nella l. 23 dell’Epitoma (vd. sopra), è menzionata, tra vari altri fatti politici, religiosi, diplomatici avvenuti a Roma verso la fine del 180 a.C. (ibid. capp. 42-46), una legge proposta dal tribuno della plebe L. Villio, la quale stabiliva i limiti di età per presentare la propria candidatura e per assumere le varie magistrature: «eo anno rogatio primum lata est ab L. Villio (corr. Sigonius: Iulio cod. Moguntinus) tribuno plebis quot annos nati quemque magistratum peterent caperentque; inde cognomen familiae inditum ut Annales appellarentur». L’Epitoma, nella forma non meramente sommaria in cui riassume l’avvenimento (il passo comincia alla l. 24, col nome del tribuno della plebe, soggetto dell’enunciato principale, e termina alla l. 26), concorda con tratti del passo corrispondente di Livio (vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 243: «The most striking instance in which Livy’s words have been preserved»): quot (una traccia puntiforme prima della lacuna sembra appartenere al taglio orizzontale della t; non sembra esservi motivo, quindi, di leggere quod e emendare la lezione del papiro) con quot annos nati (è questa l’integrazione probabile, di conseguenza, all’inizio della lacuna); magistratum pete[rent, come nell’originale liviano, dovrebbe costituire la proposizione subordinata con cui si completa la principale, caduta nella lacuna, e in cui è esposto il contenuto della rogatio (a che età si potesse porre la

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propria candidatura per ogni singola carica). Il nome corretto del tribuno della plebe è L. Villius, dal quale la legge è stata denominata Villia annalis (vd. Rotondi, Leges publicae, 278 s.). Anche nel testo di Livio, che verso la fine del libro 40, tra 37, 3 e 59, 8, è noto soltanto nella trascrizione del codex Moguntinus fatta da Carbachius nella editio Moguntina del 1519 (essa ha quindi, in questa parte, il valore di un codice; vd. Tite-Live, xxx , cxxvi), il nome del tribuno della plebe è tramandato in modo erroneo: Iulio, poi emendato da Sigonius (vd. anche Briscoe, A commentary, 38-40, 523). Nella sua restituzione, accolta dagli altri editori, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 21 ha opportunamente conservato il testo del papiro, pur con l’erronea forma onomastica; a un primo enunciato più complesso (L. Liuius … quot [annos nati quemque] magistratum pete[rent rogauit) egli ha fatto seguire, come coordinata, un’altra proposizione indipendente più semplice (Annalis appellatus] est). Meno persuasiva, invece, la congettura di Grenfell e Hunt in POxy iv , 97 (rogatio lata] est), la quale, se da una parte permette di ricostruire il passo come un unico enunciato, obbliga dall’altra a un emendamento (a L. Villio per L. Liuius) che a mio parere non è necessario. La lezione L. Liuius del papiro sembra infatti far parte di una diversa tradizione, nella quale, forse per ragioni didattiche, l’insolito e difficile L. Villius potrebbe esser stato deliberatamente trasformato, senza una reale cura per l’esattezza storica. Tale modo di procedere era forse rivolto a un pubblico di lettori o di discenti di lingua e formazione greca oppure a esigenze di semplificazione forse legate a un uso scolastico del compendio liviano (vd. anche col. i, l. 24 e il commento). Il testo dell’Epitoma può così essere ritenuto genuino e conservato nell’edizione. L. 27. Con la menzione dei consoli Quinto Fulvio Flacco e Lucio Manlio Acidino Fulviano è indicato l’inizio del compendio del 179 a.C. (a.u.c. 575). In Livio 40, 43, 4 i due sono menzionati insieme nella notizia dell’elezione al consolato: «Q. Fuluius Flaccus ex Hispania rediit Romam cum magna fama gestarum rerum. qui cum extra urbem triumphi causa esset, consul est creatus cum L. Manlio Acidino»; inoltre, all’inizio del racconto dei fatti del 179, ibid. 44, 3): «Q. Fuluio et L. Manlio consulibus eadem prouincia quae superioribus, pari numero copiae peditum, equitum, ciuium, sociorum decretae». Più avanti, i loro nomi sono richiamati, per ragioni diverse, in 42, 22, 5: «post Q. Fuluium, L. Manlium consules»; 45, 9, 3: «Perseus Q. Fuluio (suppl. ed. Frobeniana) Manlio consulibus regnum accepit». Nella menzione dei nomi di questi consoli in Ossequente, 7, è errata l’iniziale del praenomen di Manlio: «Q. Fuluio C. Manlio coss.»; poi emendata da Hearnius. In Cassiodoro, Chron. ii p. 130, 381 Mommsen, essi sono riportati nella forma ridotta, ma senza errori: «Q. Fuluius et L. Manlius». Nei Fasti Capitolini, a. 179 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 49) l’ordine dei due nomi è invertito: «L. Manlius (...) Acidinus Fuluian(us) Q. Fuluius (...) Flaccus»; così anche Plinio, Nat. 35, 14; Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 575 Mommsen; Consul. Constant., Chron. i p. 212, 575 Mommsen. Era una singolarità che i consoli dello stesso anno fossero fratelli; perciò l’iscrizione, di séguito, lo fa notare: «hei fratres germani fuerunt»; su ciò, anche Velleio 2, 8, 2. L. 28. La vicenda di M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore è riportata da Livio, all’inizio della narrazione del 179 a.C., in 40, 45, 6-46-16: eletti censori, pongono fine all’antica ini-

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micizia personale, per la quale erano stati più volte divisi nel passato, e si riconciliano pubblicamente, indotti anche dalle esortazioni di Q. Cecilio Metello. Conforme a Livio, l’Epitoma colloca lo stesso avvenimento al primo posto nel riassunto del 179. Nel testo mutilo sono superstiti soltanto i nomi dei due protagonisti: dopo questa riga, che è l’ultima della colonna, il papiro è interrotto da una lacuna di nove o dieci colonne; è perduta quindi anche la continuazione del passo, che terminava nella riga seguente, all’inizio della colonna successiva. Nella menzione dei due nomi, l’uno accanto all’altro, si può cogliere una corrispondenza con l’originale liviano, nel punto in cui è introdotto il racconto, ibid. 45, 6-7: «censorum (...) comitia habita: creati M. Aemilius Lepidus pontifex maximus et M. Fuluius Nobilior qui ex Aetolis triumphauerat. inter hos uiros nobiles inimicitiae erant, saepe multis et in senatu et ad populum atrocibus (ed. Frobeniana prior: ciuibus atrox cod. Moguntinus a Carbachio transcriptus) celebratae certaminibus». Nell’Epitoma i due nomi al genitivo completavano un sostantivo come inimicitia (così Grenfell e Hunt in POxy iv , 104) o simultates (Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 126; T. Livi periochae, fragmenta, 131, approvato da Müller, Jahresbericht 1, 33; cf. Liv. 40, 46, 7; 11), che si trovava, con il predicato verbale, nella riga successiva. La vicenda dei censori, ricordata anche da Cicerone, Prov. 21, divenne forse già in Varrone un exemplum, come si desumerebbe da Festo, p. 285 Müller (= 358, 30 ss. Lindsay), secondo le integrazioni di Ursinus. I due nomi si trovano accostati anche in Gellio, 12, 8, 56: «Aemilius (...) Lepidus et Fuluius Flaccus» (errato, come si vede, il cognomen di Fulvio). Lo stesso errore già in Valerio Massimo, 4, 2, 1, nella cui versione il fatto è stato assunto come exemplum. Discussione su queste fonti in Briscoe, A commentary, 38-40, 528. PSI XII 1291, Col. III bis (Ab urbe condita librorum 47-48 Epitoma)

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]geri ]e.tulerunt ] ] ] ]rmasi ]i.olati ] ]i.t dicens ] ]t.o uetuit se ] ] ] ] ]eros ] ]H . ispania ] ]. ] ]tia Nasica

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corpus dei papiri storici greci e latini ]es ]a tolli ] ] ]ae dimicauit

1 con]geri ? 2 r]e.tulerunt Bart. 6 pe]r Masi|[nissam Bart.; an inter M. ? 7 u]i.olati Bart. 9 praecep]it ? 16 Celtib]eros Bart. 18 in] Hispania Bart. 20 ]s. Bart.

(Ab urbe condita librorum 47-48 Epitoma) 1-2 6 7 9 11 16 18 22 24

[***] riferirono che era ammassato [a Cartagine legname per la costruzione di navi ?] [***] tra Massinissa [e i Cartaginesi ?] [i legati romani ?] furono oltraggiati [***] prescrisse (?) dicendo proibì [di essere sepolto con esequie più costose di una decina di assi] [***] i Celtiberi [***] in Spagna [per consiglio di ?] Scipione Nasica [il senato ordinò ? che fossero portati via i sedili ?] Ll. 1-2.

Si può ritenere certo che le righe iniziali della colonna del papiro appartenessero al tratto conclusivo del compendio del libro 47. Con l’integrazione r]e. tulerunt (incerta ma probabile la prima e), alla fine della l. 2, Bartoletti, PSI xii , 209 ha opportunamente supposto, in questo punto, una corrispondenza dell’Epitoma con la notizia della Periocha 47, 15, secondo cui la commissione mandata da Roma per decidere tra i Cartaginesi e Massinissa riferì di aver scoperto a Cartagine una grande quantità di legname per la costruzione di navi: «legati ad disceptandum inter Carthaginienses et Masinissam missi nuntiauerunt (renunciauerunt Guelf., Leid. 19) uim naualis materiae se Carthagine deprehendisse». Argomento dell’Epitoma potrebbe essere, quindi, il ritorno della delegazione a Roma (vd. anche T. Livius, Römische Geschichte xlv , 409) e il contenuto della relazione presentata al senato. È probabile che tale missione diplomatica romana, collocata nella Periocha verso la fine del compendio del libro 47 (vi erano trattati gli anni dal 159 al 153), fosse avvenuta tra il 153 e il 152 a.C. (vd. Rudolf Helm, Porcius, nr. 9, RE xxii, 1, 139, ll. 7-21). Jal (Abrégés 1, 120) indica in modo dubitativo il 152 (vd. anche Appien, Histoire romaine, iv , 169 s., n. 238); MRR i , 453 la colloca nel 153. Massinissa, venuto di nuovo a contesa con i Cartaginesi per il possesso di terre e città nella regione chiamata dei Campi Magni, cercava l’appoggio dei Romani, sapendoli a suo favore. Dopo qualche indugio, essi mandarono un’ambasceria, di cui faceva parte Catone. Alla richiesta dei Romani di sottomettersi a un loro arbitrato i Cartaginesi opposero un rifiuto, ritenendo di essere stati lesi dal re numida nella controversia territoriale. Astenutisi dal giudizio, i legati poterono osservare, al ritorno, la ricchezza della campagna e la potenza della città di Cartagine, che si era risollevata dopo la sconfitta subita nella seconda guerra punica; giunti a Roma, riferirono tutto al senato. È questo il punto in cui la versione dell’Epitoma dovrebbe concordare con la ver-

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sione della Periocha. Compiuta tale missione, Catone prese quindi a insistere sulla necessità di distruggere Cartagine. In Plutarco, Cato maior 26, 2-4 è posta ancor più in risalto la grande impressione che la rinata potenza di Cartagine aveva provocato sui legati e, in particolare, su Catone. Il tratto in cui sono menzionati gli armamenti sembra specialmente avvicinarsi alla notizia della Periocha: ÔÏÏ” ÌbÓ Âé·Ó‰ÚÔÜÛ·Ó ìÏÈΛ0, ÌÂÁ¿ÏˆÓ ‰b ÏÔ‡ÙˆÓ Á¤ÌÔ˘Û·Ó, ¬ÏˆÓ ‰b ·ÓÙÔ‰·áÓ Î·d ·Ú·ÛÎÂ˘É˜ ÔÏÂÌÈÛÙËÚ›Ô˘ ÌÂÛÙcÓ (…). Si può ritenere che ]geri, alla fine della l. 1, facesse parte dello stesso passo in cui r]e. tulerunt è predicato verbale principale. Hillen (T. Livius, Römische Geschichte xlv , 127) intende giustamente tale lezione (mutila?) del papiro come infinito passivo di una subordinata oggettiva dipendente dal verbum dicendi dell’enunciato principale: «daß (…) betrieben werde (…) berichteten». Supponendo nell’infinitiva un soggetto simile all’espressione del passo della Periocha (uis naualis materiae), potremmo congetturare nel testo dell’Epitoma l’integrazione con]geri: «riferirono che era ammassato (a Cartagine) legname per la costruzione di navi» oppure, più genericamente, «materiale per la fabbricazione di armi». Sarebbe tuttavia ammissibile, in un significato analogo, anche la forma semplice del verbo (] geri). Ll. 3-5. Fra r]e. tulerunt e ]rmasi si ha uno spazio di 2,2 cm in altezza privo di tracce di scrittura: qui evidentemente le righe del testo non oltrepassavano il limite della vasta lacuna in cui è caduta gran parte della colonna scritta. Dal calcolo complessivo delle righe di testo mancanti in PSI xii 1291 si può congetturare, con Bartoletti (PSI, xii , 208), che in questo spazio fossero comprese tre righe della colonna del papiro. Tale congettura si rivela probabile se si considera il frammento papiraceo nel suo insieme: tredici righe s’individuano con certezza perché vi è conservato, con estensioni diverse, il tratto finale (una di queste righe, nella metà inferiore della colonna, è rappresentata dalla traccia illeggibile di una sola lettera); cinque righe interamente cadute del testo, nella sequenza verticale della colonna, si ricavano da altrettanti intervalli di spazio non scritto, la cui misura (fra 0,1 e 1,1 cm in altezza) corrisponde precisamente alla porzione del campo scritto pertinente a una riga con le relative interlinee. A questi dati s’aggiungono altri due spazi d’estensione un po’ più ampia ugualmente privi di tracce di scrittura, a ciascuno dei quali devono corrispondere più righe di testo interamente cadute: uno, della misura di 2,8 cm in altezza, si trova sotto uetuit se; l’altro, di 1,6 cm in altezza, verso il fondo della colonna, fra ]a tolli e ]ae dimicauit. Per ricapitolare, sapendo che in genere ogni colonna dell’Epitoma annovera mediamente ventisette (più raramente ventotto) righe, nella colonna mutila di PSI xii 1291, considerate le evidenze residue e gli spazi non scritti che corrispondono con buona probabilità a singole righe, abbiamo così individuato, in modo pressoché certo, diciotto righe del testo. Le altre nove righe sono quindi da distribuire fra i tre spazi di maggiore estensione che si scorgono nello sviluppo verticale del frammento. È plausibile, pertanto, assegnare tre righe al primo di questi spazi, sotto a r]e. tulerunt, che ha estensione verticale di 2,2 cm (ll. 3-5); quattro al secondo, sotto a uetuit se, di 2,8 cm (ll. 12-15); due al terzo, sotto a ]a tolli, di 1,6 cm (ll. 25-26). Si può osservare, d’altra parte, che tali misure risultano leggermente inferiori in confronto alla pura somma del numero corrispondente di righe considerate nella loro estensione normale, incluse le interlinee. Bisogna quindi ritenere che in questi

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tre tratti della colonna di PSI xii 1291 fossero comprese, rispettivamente, alcune di quelle righe assai brevi nelle quali erano esposte le menzioni formulari dei consoli dell’anno che s’iniziava. Nel primo dei tre di questi tratti, inoltre, doveva trovarsi l’indicazione del nuovo libro liviano, come si può arguire dal contenuto dell’Epitoma nelle righe successive. Una prova della presenza di tali righe brevi negli intervalli lacunosi di maggiore estensione in PSI xii 1291 si ricava anche dal confronto con le altre colonne superstiti del rotolo di Ossirinco: a tali righe più brevi, infatti, specialmente dove esse contengano dati formulari come l’indicazione del libro, corrisponde di solito uno schiacciamento dello spazio interlineare; in questi punti, per conseguenza, la porzione del campo di scrittura risulta complessivamente ridotta (cf., ad es., Col. i, ll. 10-11, dove lo spazio complessivo occupato da due righe brevi, comprese le interlinee, è di 1,5 cm). Ammessa così la presenza di almeno due righe brevi nel testo caduto corrispondente allo spazio fra r]e. tulerunt e ]rmasi, possiamo congetturare che l’indicazione del libro 48 si trovasse alla l. 3 o alla l. 4 e che alla l. 5 fossero menzionati i consoli del 152 a.C.: Marco Claudio Marcello e Lucio Valerio Flacco (vd. PSI xii , 207; T. Livius, Römische Geschichte xlv , 135). Ll. 6-7. Giustamente Bartoletti (PSI xii , 209) ha riconosciuto nel gruppo di quattro lettere alla l. 6 (]rmasi) l’inizio del nome, spezzato alla fine della riga, del re numida preceduto dall’ultima lettera di un’altra parola, quasi certamente una preposizione: pe]r Masi|[nissam. Nella Periocha 48, 5-6 è riferito l’inizio dell’ambasceria romana inviata a Cartagine nel 152, che fu poi costretta a ripartire precipitosamente (ibid. 7; vd., più avanti, Epitoma l. 7). Si può anche congetturare l’integrazione, ugualmente plausibile, inte]r Masinissam, da cui si ricava ancora più chiaramente una corrispondenza col passo della Periocha: «pacem inter eos (Carthaginienses scil.) et Masinissam facere uoluerunt (legati scil.)». Si può ritenere che anche la l. 7 dell’Epitoma (u]i. olati, integrazione sicura, anche se resta incerta la lettura della prima i) facesse parte del medesimo argomento, di cui dà testimonianza la Periocha 48, 5-7, Bartoletti (ibid.). Dopo l’ambasceria che aveva sospettato l’allestimento di una flotta (vd., sopra, ll. 1-2 e il commento), una successiva missione inviata a Cartagine nel 152 a.C., sollecitata dall’opposizione senatoria di Publio Cornelio Nasica alla volontà di Catone di dichiarare subito guerra alla potenza punica, rappresentava l’estremo tentativo di conciliazione diplomatica delle vertenze nell’Africa settentrionale. I legati romani, tra cui si trovava lo stesso Scipione Nasica (vd. MRR I, 454), dopo avere rimproverato il senato cartaginese perché, contro i patti, teneva ancora un esercito e materiale per la costruzione di una flotta (vd. Perioch. 47, 15), avrebbero voluto concludere la pace tra i Cartaginesi e Massinissa; dovettero però fuggire ben presto, per non esser malmenati dalla popolazione locale, istigata da Gisgone, figlio di Amilcare: «cum senatus pariturum se iudicio legatis dixisset, ita (corr. Iahn: ita bellum concitauit aduersus codd.) concitauit bellum aduersus Romanos suadendo, ut legatos, quo minus uiolarentur, fuga explicuerit». Nella notizia di Zonara 9, 26, 1-2 (da Cassio Dione, libro 21; vd. ed. Boissevain, i, 306) è dato speciale risalto alla partecipazione di Nasica all’ambasceria.

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Ll. 9-11. Bartoletti (PSI xii , 209 ha supposto che in questo tratto dell’Epitoma si trovasse lo stesso episodio riportato nella Periocha 48, 11, in cui Marco Emilio Lepido, prima di morire, prescrisse ai figli di dargli una sepoltura modesta e senza grandi spese. Per la voce verbale mutila alla l. 9 si potrebbe quindi plausibilmente congetturare l’integrazione praecep]i. t (incerta la i), che concorda con l’espressione del passo corrispondente della Periocha: «M. Aemilius Lepidus (…) antequam espirare, praecepit filiis lecto se strato [sine] linteis sine purpura efferrent». Alla l. 11, uetuit se potrebbe far parte dello stesso argomento. Nella Periocha, infatti, da praecepit dipende anche la proibizione di spendere più di una decina di assi per le esequie: «in reliquum funus ne plus quam aeris decies consumerent». Nell’Epitoma lo stesso concetto poteva essere espresso con uetuit come predicato principale, completato da un’oggettiva: ad es., «di essere sepolto (se come soggetto dell’infinitiva) con esequie più costose di una decina di assi». Qui più che in altri punti della stessa colonna, tuttavia, la supposta corrispondenza con la Periocha va considerata come puramente congetturale. Ll. 12-15, 17, 19, 21, 25-26. Dalla l. 12 alla fine della colonna del papiro, se consideriamo la ricostruzione più probabile del contenuto, occorre ritenere (vd. T. Livius, Römische Geschichte xlv , 413) che fossero menzionate, rispettivamente, le coppie consolari con cui avevano inizio gli anni 151 a.C. (Lucio Licinio Lucullo e Aulo Postumio Albino) e 150 (Tito Quinzio Flaminino e Manio Acilio Balbo). Come si è visto, la colonna mutila di PSI xii 1291 comprende all’inizio avvenimenti collocabili nell’anno 153 e ancora nel libro 47 (vd. ll. 1-2) e doveva presentare, subito dopo (vd. ll. 3-5), un primo cambiamento di anno (152) e di libro (48). Una prova che i due cambiamenti di anno dovessero susseguirsi nell’ambito di questa stessa colonna è che nella colonna IV, immediatamente successiva, conservata tra i frammenti maggiori della British Library, il testo dell’Epitoma comincia col compendio dei fatti appartenenti allo stesso anno 150. Si è notato sopra (vd. il commento alle ll. 3-5) che anche gli altri due tratti di maggiore estensione privi di tracce di scrittura, che si trovano sotto a uetuit se e ]a tolli, occupano, nello sviluppo verticale della colonna, uno spazio leggermente inferiore a quello che risulterebbe dalla pura somma delle righe e delle interlinee assegnate ad essi per congettura. Si è anche visto, d’altra parte, che alle righe brevi con i dati formulari (nomi dei consoli, indicazione del libro) può corrispondere una riduzione del campo di scrittura. Appare probabile, pertanto, che proprio in questi due tratti del testo della colonna di PSI xii 1291 fossero comprese le menzioni dei consoli degli anni 151 e 150: la prima in una riga fra le ll. 12-15, l’altra in una riga fra le ll. 25-26. L. 16. Plausibile l’integrazione proposta in modo dubitativo da Bartoletti (PSI xii , 209): Celtib]eros. Le menzione dei Celtiberi potrebbe corrispondere, come suggerisce lo stesso editore del frammento, ibid., alla Periocha 48, 19, dove è riassunta la campagna del console Lucullo contro alcuni popoli iberici nel 151 a.C. (nell’Epitoma, quindi, l’indicazione formulare dello stesso anno dovrebbe trovarsi in una delle righe precedenti): «Lucullus

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cos., cum Claudius Marcellus, successerat, pacasse omnes Celtiberiae populos uideretur, Vaccaeos et Cantabros (…) subegit». Sembra ben probabile che tale argomento fosse incluso nell’Epitoma, anche perché in questa circostanza emerse per la prima volta il valore di Publio Cornelio Scipione Emiliano, il futuro eroe della terza guerra punica, come si apprende dalla stessa Periocha 48, 17-18. Anche Orosio, Hist. 4, 21, 1 accenna ai Celtiberi riguardo a tale campagna: «anno ab urbe condita DC, L. Licinio Lucullo A. Postumio Albino consulibus, cum omnes Romanos ingens Celtiberorum metus inuasisset (…) P. Scipio (…) ultro sese militaturum in Hispaniam obtulit». Si osservi qui, d’altra parte, un’indicazione imprecisa dell’anno, che era in realtà il 603 a.u.c. (151 a.C.). Floro, Epit. 2, 17, 11, riguardo alle operazioni militari di questo anno, menziona vittorie riportate da Lucullo sui Turduli e sui Vaccei. Che la guerra contro i Celtiberi e altre tribù iberiche fosse stata uno degli avvenimenti principali, prima della terza guerra punica, si ricava anche dalla narrazione ricca di particolari testimoniata nei frammenti del libro 35 di Polibio, specialmente 1, 1-6, sul carattere particolare della guerra contro i Celtiberi, e 4, 1-14. In questo passo si considera con quanta difficoltà fosse stata intrapresa la guerra contro i Celtiberi nel 151 a.C., perché non si trovava chi fosse disposto a prendersi l’incarico di tribunus militum, finché non si presentò il giovane Publio Cornelio Scipione Emiliano, che assunse tale incarico. Le operazioni condotte in Spagna sotto la guida del console Lucullo nel 151 contro tribù celtiberiche sono estesamente narrate in Appiano, Hiber. 49, 210-54, 230. L. 18. Superstite quasi per intero la lezione Hispania: assai probabilmente la prima lettera che compare, dimezzata, subito dopo la lacuna è una h, come si ricava dal piccolo arco di destra. L’Epitoma, in questo punto, doveva riportare le operazioni condotte dal console Lucullo nella penisola iberica contro tribù ribelli. Come ha suggerito Bartoletti (PSI xii , 209), è probabile una corrispondenza anche di questa riga col contenuto della Periocha 48, 17: «Lucullus cos. (…) Vaccaeos et Cantabros et alias incognitas adhuc in Hispania gentes subegit». Si può quindi supporre che sia la l. 18 sia la l. 16 facessero parte del medesimo passo (o di due enunciati strettamente connessi) riguardante la campagna iberica condotta dal console Lucullo nel 151 a.C. L. 20. In questo punto, dalla traccia di una lettera s’individua con sicurezza la presenza di una riga del testo del papiro; incertissima, tuttavia, mi sembra la lettura della stessa (Bartoletti, ibid., vi legge una s). Ll. 22-24. Dal nome di Nasica, superstite alla fine della l. 22, si può supporre che questo passo dell’Epitoma corrispondesse alla testimonianza della Periocha 48, 25 (vd. PSI xii , 209), secondo cui Publio Scipione Nasica Corculo indusse il senato a far demolire il teatro che i censori avevano dato in appalto: «cum locatum a censoribus theatrum exstrueretur, P. Cornelio Nasica auctore tamquam inutile et nociturum publicis morbus ex S. C. destructum est». Da Valerio Massimo 2, 4, 2 si ricava che tale vicenda avvenne nel perio-

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do della censura di Marco Valerio Messalla e Gaio Cassio Longino, dal 154 a.C., durante il quale cominciarono gli spettacoli teatrali a Roma. Se si considera che tale notizia si trova verso la fine della Periocha del libro 48, che include il quadriennio 153-150, e che nell’Epitoma essa dovrebbe far parte del compendio riguardante il 151 o il 150, possiamo collocare il fatto in uno di questi due anni, più probabilmente nel 151. Nel racconto di Valerio Massimo, protagonista del fatto è ugualmente Scipione Nasica; ma qui il provvedimento consiste in una vendita all’asta del materiale per la costruzione: «auctore P. Scipione Nasica omnem apparatum operis eorum subiectum hastae uenire placuit». Segue quindi, nello stesso passo, una menzione del divieto di mettere posti a sedere; notizia riportata anche nella Periocha, ibid., ma come conseguenza della demolizione del teatro stabile. Ampio spazio a tale avvenimento è dato in Orosio, Hist. 4, 21, 4: «quod (theatrum lapideum scil.) ne tunc fieret, Scipio Nasica grauissima oratione obstitit dicens inimicissimum hoc fore bellatori populo ad nutriendam desidiam lasciuiamque commentum, adeoque mouit senatum, ut non solum uendi omnia theatro comparata iusserit, sed etiam subsellia ludis poni prohibuerit». Da qui Orosio ha preso spunto per una polemica sulla degenerazione dei costumi (ibid. 5-10). Se nell’Epitoma la notizia di tale avvenimento fosse stata riportata in modo similmente esteso, sarebbe da ritenere che del pari le seguenti ll. 23-24 facessero parte del medesimo argomento. Ammesso ciò per ipotesi, si potrebbe intendere, ad es., la lezione tolli, che si distingue chiaramente nel papiro, come predicato verbale di un’infinitiva il cui soggetto fosse subsellia: «(il senato ordinò ?) che fossero portati via i sedili (?)». Ancora più precisa la testimonianza di Agostino, Ciu. 1, 31 p. 48, 16 ss. 5Dombart-Kalb, dove Scipione Nasica, soggetto dell’enunciato, è definito pontifex maximus: «caueam theatri senatum construere molientem ab hac dispositione et cupiditate compescuit (…) tantumque auctoritate ualuit, ut (…) senatoria prouidentia etiam subsellia, quibus ad horam congestis in ludorum spectaculo iam uti ciuitas coeperat, deinceps prohiberet adponi». Nelle considerazioni polemiche che seguono, la figura di Scipione Nasica è quindi proposta come esemplare di virtù incorrotta: «quanto studio iste ab urbe Roma ludos ipsos scaenicos abstulisset»; ibid. 32 p. 49, 16: «propter animorum cauendam pestilentiam ipsam scaenam constitui prohibebat (Nasica scil.)»; vd. anche Oros., ibid. 9: «illi (Nasicae scil.) de theatro quod haberi prohibuerat». Altre testimonianze indipendenti dalla tradizione di Livio collocano erroneamente lo stesso avvenimento in anni diversi: in Velleio 1, 15, 3 protagonista dell’episodio è Gneo Servilio Cepione, console nel 169; in Appiano, Ciu. 1, 28, 125 il fatto è collocato nel 111, quando era console uno Scipione. Un esame della tradizione storica, con le sue varianti, si trova in Fr. Münzer, Cornelius, nr. 353, RE iv, 1, 1499, ll. 37 ss. Nella stessa Periocha del libro 48, d’altra parte, Scipione Nasica è menzionato anche poco sopra, al par. 24, nella notizia sul dibattito senatorio di quegli anni, nel quale egli contrastava Catone e altri sostenitori dell’immediato intervento militare contro Cartagine condotto direttamente nel territorio africano. La menzione di Nasica nell’Epitoma, pertanto, potrebbe riguardare anche questo diverso argomento delle vicende di quello stesso periodo.

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aduersus Cha[r]taginienses. Lusitani ua[stati. C. Cornelius. C. [et]h.egus quod P. Decim. su[ a.d.a.ctam ingenu. [a]m stuprauerat dcu. damnatus. Li[b.] xxxxv[i]iii L. M . arcio Censorino M. Mani.lio cos. bellum Punicum t.ertium exortum. Utic.[enses benigne locant. †auxiliate†. Chartagini.e.[nses [i]n. [d]edicionem uenerunt. iussi omn[i]a [ in alium locum tra.n.[ ± 5 ]e mo[ redierunt. Roman[ ± 7 ]..[ pepulerunt. Scipio[ Aemiliani foidem p[*** Aemiliani uirtute exer[citus a Poenis erat liber[atus. per Chari.demum poe[ tanis reus product[ fili quos flens com.[*** ab Andrisco ? qui se Philippi filiu[m *** Macedonia ? per arma occupata. [ Manlio et Marco c[os. *** saeculare[s] factos quos opo[rtuit carminibus [...]en.[ [lib. L per. soc..ios popu[li in ultimam c[ lat[ ± 4 ]a.[..]a.t..[

2 punti a media altezza dopo le iniziali abbreviate c, p stacchi tra le singole parole 3 ampio spazio dopo stuprauerat 4 posizione isolata, al centro della riga, dell’unica parola 6 punti a media altezza e stacchi dopo le iniziali abbreviate l, m spazi tra i nomi dei due consoli e dopo mani.lio 10 al margine sinistro, prima di in e un po’ sotto la riga, segno in forma di forcella allungata 13 nella seconda parola (f.dem), cancellata una lettera, non ben identificabile, e aggiunta una i sopra la riga nella posizione corrispondente 16 una lettera più piccola (h) inserita un po’ sopra la riga tra c e a (Char-) 21 stacco dopo il secondo nome 1 suppl. G.-H. 2-3 C[et]hegus G.-H. (-ecus pap.) crucem post decim pos. Ross. P. Decim(am) Su[lpicio ?] a[dd]ictam ingenu[a]m (vel P. Decim … ingenuum) Korn., P. Decio Subuloni Luterb.; P. Decii Su[bulonis ancillam] Reid, [adulescentem] Fuhr 3 DCI Korn., DC aeris Reid, DCL denariis Luterb.; D(e)ci[mae dub. Gund., HS vel N post DC Nicolet 3-4 uinculis] damnatus Fuhr 5 suppl. G.-H. 7 suppl. G.-H. 8 cruces posui: locant auxilium (vel auxilia) et fort. recte Korn., loca dabant auxiliaque Luterb., locauere auxilia Ross. (Uticensibus … locantibus auxilia coni.); Romanis (?) auxiliati (sunt scil.) G.-H., locuti auditique Reid, liciti auxilia Hillen Chartaginie[nses G.-H. 9 [sua G.-H. 10 tr.a.[nsferr]e G.-H. mo[ta ira ad arma] Reid, Korn., moti ira Luterb., Müller 1, Ross.; i.n. [rebellionem] Fuhr 11 Roman[os ***]s. [ G.-H., -os equites Reid; Roman[orum con]s. [ules Poeni obsessi Korn., -os obses]s. [i Carthaginienses Ross., -os muro]s [transgressos] Fuhr; -i urbem obsedere. Poeni eos pepul. Luterb. 12 [trib. mil. fugientes defendit Korn., Ross.;

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Scipio[nis pugnam uitauit Phamea Reid, Scipio Aemilianus trib. mil. erat Luterb. 13 fidem corr. m. alt. (fo- ? m. pr.) P[oeni admirati sunt dub. coni. Korn., suspexerunt Ross., experti Müller 1, Poeni (l. 12) Aemiliani fidem plurimi faciebant Luterb.; Aemilianus … p[raestitit hostibus Reid 13-14 Aemi]liani G.-H. 14 exer[citus qui obsessus G.-H.; in castris obs. Luterb., in saltu Ross. 15 suppl. G.-H. 15-16 a Catone laudatus (Scipio scil.) per Homerum poemate vel uir perfidissimus per Scribonium (i. e. Libonem) pro rostris coni. Reid; Scipionis nomen semper clarissimum Poenis erat Luterb. 16 Charidemum suppl. m. sec. addita littera h s. l. poe[tam G.-H. Ser. Galba a Lusi]tanis sequentis sententiae initium suppl. G.-H., Korn., de Lus. fort. recte Luterb., Ross. 17 product[us vel -i (filii scil.) G.-H. quem seruauerunt huius versus in fine coni. Korn., liberauerunt eum Luterb., Ross.; II filios duxit et Galli] fili (l. 18) Reid 18 com[plexus est G.-H., commendauit Korn. (-bat Ross.) Andrisco huius versus in fine suppl. G.-H., ab -o fort. recte Korn. 19 q]ui se Philippi Korn. (t.u. i leg.), Ross.: ti.i pro qui leg. G.-H., Per]sei se Philippum coni. Reid pap. (phil-) corr. G.-H. ferebat Korn. (ferente G.-H.) Macedonia huius versus in fine suppl. G.-H. 21 corr. et suppl. G.-H. quarti ludi coni. G.-H.; dicunt factos Korn., plerique prodiderunt (l. 20) … factos Luterb.; coss. dicunt (?) ludos saeculares factos, quos oportebat (…) fieri Müller 2 22 suppl. G.-H. (oportebat Luterb.) Diti ex Sibyllinis coni. Wissowa (-llae Korn., Ross.), fieri ex Sibyllae Korn. 23 [Ter]en[ti facti sunt G.-H. (Tar- Korn.), dis centesimo quoque anno fieri coni. Luterb.; [Cn. L]en[tulo L. Mummio cos.] Korn. 24 suppl. G.-H. 25 popu[li Romani Pseudophilippus G.-H., Korn., Andriscus ex Thessalia pulsus Ross.; per soc. populos Nasica Andriscum coegit Luterb. 26 c[alamitatem deductus Fuhr; T[hraciam Ross., in ultimam cedere Thessaliam Luterb.; in ultimum Greciae finem repulsus latitabat Reid, in ultimum c[oactus Rostovtzev 26-27 lex de pecuniis repetundis] lat[a Korn., de tribunis pl.] lat[a est] l[ex] At[inia Luterb., Ross. 27 quae ad sententiam sequentem pertinent vd. in col. V

Col. iii bis, l. 27 [***] combatté Col. iv (Ab urbe condita librorum 48-50 Epitoma)

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contro i Cartaginesi. I Lusitani furono sbaragliati. Gaio Cornelio Cetego, poiché aveva fatto violenza a P. Decima (?) [***] donna libera di nascita, avendola costretta (?) [***] fu condannato. Libro xxxxviiii Sotto i consoli Lucio Marcio Censorino e Marco (?) Manilio. Scoppiò la terza guerra punica. Gli Uticensi di buon grado fanno acquartierare le milizie ausiliarie (?). I Cartaginesi vennero per offrire la resa. Ricevuto l’ordine di [trasportare ?] tutto in un altro luogo, [***] ritornarono. [I Cartaginesi ***] ricacciarono i Romani. Scipione [***]. [I Punici ? ***] la lealtà di Emiliano. Per il valore di Emiliano, l’esercito, che era stato [accerchiato ?] dai Punici, fu liberato. Per mezzo del poeta Caridemo (?) [Scipione fu celebrato ?]. [Servio Galba] fu portato in giudizio con imputazione sui (?) Lusitani; [lo salvarono ?] i figli, che egli piangendo [abbracciava ?]. [Da Andrisco, ?] che [si spacciava ?] per il figlio di Filippo, [la Macedonia ?] fu occupata con le armi.

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corpus dei papiri storici greci e latini Sotto il consolato di Manilio e Marcio [*** i ludi] secolari furono celebrati, i quali convenne [***] secondo i responsi [***]. Libro L Per mezzo degli alleati del popolo [Romano ? ***] fino all’estrema [***]. [***]. Col. iii bis, l. 27-col. iv, l. 1.

Alla l. 1 un tratto della a di Cha[r]taginienses si scorge prima della piccola lacuna al centro della riga; nella traccia quasi puntiforme che esce dalla stessa lacuna, a mezza altezza, è riconoscibile l’estremità del taglio di una t. Alla fine della col. iii bis (l. 27), dimicauit è il predicato verbale principale dell’enunciato lacunoso, che poteva avere inizio nella stessa riga o nella precedente. Tale enunciato proseguiva e terminava, col complemento dello stesso verbo, nella col. iv, l. 1: aduersus Cha[r]taginienses. Possiamo identificare l’argomento del passo considerando che queste righe appartengono al libro 48 dell’Epitoma, nel quale erano trattati gli anni 152-150 a.C. Nella stessa col. iii bis, poco sopra, alle ll. 18/22 o 24/27, doveva esser contenuta l’indicazione dei consoli del 150 Tito Quinzio Flaminino e Manio Acilio Balbo (vd., sopra, il commento alla col. iii bis, 12-15 e ss., e T. Livius, Römische Geschichte xlv , 413). Nella col. iv, che si è provato essere quella immediatamente successiva alla iii bis, troviamo infatti, quasi al principio, il titolo del libro 49 (l. 5) e l’indicazione dei consoli del 149 Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio (l. 6). Da ciò possiamo fondatamente ritenere che l’Epitoma compendiasse, in questo punto, gli scontri tra Massinissa e i Cartaginesi che si svolsero verso la fine del 151 e i primi mesi del 150; in particolare, la sanguinosa battaglia, durata un’intera giornata, che fu combattuta tra Massinissa, intento all’assedio di Oroscopa, e il beotarca Asdrubale, il quale era andato all’attacco con l’esercito nel tentativo di liberare il territorio cartaginese dall’invasore numida. Per queste ragioni, soggetto dell’enunciato lacunoso dell’Epitoma doveva essere il re numida Massinissa. Nella lacuna della l. 27 si può quindi congetturare rex Numidi]ae. Il nome dello stesso re doveva trovarsi in questa riga o nella precedente. Nella Periocha del libro 48, che comprende gli anni dal 153 al 150 a.C., sono menzionate più volte le vicende dell’Africa, nelle quali, come è dichiarato all’inizio, si gettavano i semi della terza guerra punica. Mentre le operazioni militari di Massinissa, il quale ambiva a espandere il suo dominio, preludevano allo scontro con Cartagine, a Roma già si discuteva di un possibile intervento in armi contro la potenza cartaginese, voluto soprattutto da M. Porcio Catone, ma osteggiato da P. Cornelio Nasica. L’avvenimento esterno in cui culmina la lunga tensione, cioè lo scontro tra Massinissa e Cartagine, è riassunto in breve al par. 26: «Carthaginienses cum aduersus foedus bellum Masinissae intulissent, uicti ab eo (...) insuper Romanum bellum meruerunt». Come si apprende dai Libyca di Appiano, che costituisce l’unica testimonianza di questi fatti, derivata dal testo perduto di Polibio (vd. Appien, Histoire romaine, iv , 171, n. 246), le annose tensioni tra regno numida e potenza cartaginese sfociarono nell’azione di forza con cui Massinissa, ormai assai vecchio, validamente coadiuvato dai figli e dai suoi generali, strinse d’assedio la cittadina di Oroscopa, probabilmente negli ultimi mesi del 151 a.C. La reazione cartaginese non tardò: contro di lui mosse il beotarco Asdrubale con numerose truppe di fanteria e un folto gruppo di cavalieri, cui s’aggiunsero due capi numidi che

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avevano disertato e altre milizie. In queste circostanze Asdrubale, incoraggiato dall’accresciuta forza militare, ottenne una certa supremazia sui nemici (70, 319-321). Dopo le prime scaramucce, i due eserciti furono ben presto impegnati in un’aspra battaglia, che durò un’intera giornata e alla quale assistette, da lontano, il giovane Scipione Emiliano. Alla fine furono numerose le perdite per entrambi, ma il re numida risultò in vantaggio (71, 322-72, 328, eccettuata la digressione sui Numidi a 324-325). Tale conflitto, che precedette immediatamente lo scoppio della terza guerra punica e ne rappresentò una delle cause prossime, si protrasse fino ai primi mesi del 150. Ancora Appiano, ibid. 73, 332-337 narra che l’esercito cartaginese fu cinto d’assedio nel suo campo da Massinissa, finché si ridusse allo stremo per la fame e le pestilenze; quando poi le truppe inermi uscirono per arrendersi, furono massacrate dalla cavalleria mandata da Gulussa e soltanto pochi riuscirono a tornare a Cartagine. Un cenno a questi avvenimenti anche in Diodoro Siculo 32, 1, il quale imputa ai Cartaginesi la responsabilità di aver violato i patti: K·Ú¯Ë‰fiÓÈÔÈ ÔÏÂÌ‹Û·ÓÙ˜ Úe˜ M·Û·Ó¿ÛÛËÓ. Diodoro si avvicina così alla versione della Periocha, che tende a giustificare l’intervento romano anche come difesa legittima degli interessi dei Numidi. La sua affermazione sembra il rovesciamento di quella dell’Epitoma, dove Massinissa risulta invece come soggetto dell’azione di guerra e i Cartaginesi come oggetto dell’attacco. Per quello che si può ricavare dal testo lacunoso, la versione dell’Epitoma, come quella di Appiano, evidenzia almeno la corresponsabilità del re numida nello stato di belligeranza tra i due popoli africani. Che questo conflitto interno fosse compreso tra gli argomenti dell’Epitoma, e vi fosse posto anche in un certo risalto, non deve sorprendere: esso fu infatti considerato tra le cause prossime della terza guerra punica, che scoppiò poco tempo dopo; inoltre, in questa circostanza Scipione Emiliano comparve per la prima volta sulla scena dei fatti d’Africa, di cui diverrà poi protagonista glorioso. Non si trascuri un’altra possibile implicazione: se l’Epitoma, come non è da escludere, fu composta in Egitto o in qualche altro luogo nell’ambito dell’Africa o del Vicino Oriente, si può ben credere che uno speciale interesse fosse rivolto a avvenimenti notevoli, come il conflitto tra Cartagine e la Numidia, svoltisi in tale area geografica. L. 1. Notizia sommaria, riassunta nella frase nominale, restituita dall’integrazione sicura di Grenfell e Hunt (POxy iv , 97). Nella corrispondente Periocha del libro 48 le campagne militari condotte dai Romani nella penisola iberica sono compendiate ai paragrafi 17-22; dei Lusitani è fatta menzione soltanto al par. 22: «Seruius Sulpicius Galba praetor male aduersus Lusitanos pugnauit». La Periocha pone l’accento sulla sconfitta di Servio Sulpicio Galba, pretore della Spagna Ulteriore nel 151 a.C.; così anche Orosio, Hist. 4, 21, 3 (da notare la variante Serg- del nome): «Sergius (...) Galba praetor a Lusitanis magno proelio uictus est uniuersoque exercitu amisso ipse cum paucis uix elapsus euasit». Dal più ampio racconto di Appiano, Iber. 58, 244-246, apprendiamo che, all’inizio della campagna militare contro i Lusitani, Servio Galba era accorso in difesa di alcuni sudditi romani, assediati da quei nemici; dispersi e messi in fuga al primo assalto, essi riuscirono successivamente a fare strage dei Romani, i quali, nell’inseguimento, si erano rilassati e distratti. Tale versione dei fatti sembra in contrasto con l’Epitoma, che indica chiaramente una schiacciante vittoria dei Romani. Non si può pensare, infatti, che essa riguardi il primo assalto condotto da Galba: i Lusitani erano stati messi in fuga, ma non

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sconfitti, tanto che, rivoltatisi contro gli inseguitori, causarono ingenti perdite all’esercito romano (settemila uomini circa). Nello stesso passo della Periocha si parla, è vero, di vittorie romane su popoli iberici, nel corso della campagna militare del 151, conseguite dal console Lucio Licinio Lucullo (ibid. par. 19); ma tra questi popoli della Spagna sono menzionati i Vaccei e i Cantabri (si accenna anche a altri popoli sconosciuti), non i Lusitani. La frase dell’Epitoma potrebbe riguardare, allora, avvenimenti dell’anno successivo, il 150, quando Lucullo e Galba, rispettivamente come proconsole e propretore, furono incaricati di proseguire le operazioni contro i Lusitani. Al primo attacco, Lucullo fece strage dei nemici e li obbligò alla resa, secondo la narrazione di Appiano, Iber. 59, 247-248. Tale riferimento sembra probabile, anche perché l’uso di uastare nel significato di «sconfiggere, sbaragliare» i nemici in una guerra, che si trova anche altre volte nell’Epitoma (si veda il commento a col. i, ll. 13-14), corrisponde bene all’azione descritta da Appiano. Meno probabile, invece, un riferimento al proditorio massacro di moltissimi Lusitani perpetrato da Galba, il quale, operando parallelamente a nord del Tago di concerto con il collega Lucullo, li aveva indotti con false promesse a deporre le armi. Successivamente, per questa azione illegale e proditoria, di cui danno testimonianza numerose fonti (vd. Appian., Iber. 59, 249-60, 254; cf. Cic., Brut. 89; Nep., Cato 3, 4; Val. Max. 8, 1, 2; 9, 6, 2; Suet., Galba 3, 2; Ps. Ascon., Div. in Caec. p. 203, 24 s.; Oros., Hist. 4, 21, 10), Galba fu processato davanti a un tribunale speciale, ma riuscì a farsi assolvere. Da rivedere, pertanto, il parere di Grenfell e Hunt (POxy iv , 104), secondo cui il riferimento dell’Epitoma sarebbe rivolto «to treacherous attack of Sulpicius Galba»; come già osservato da Reid, Fragments, 293, poco probabile anche l’argomentazione addotta, secondo cui male, nella Periocha 48, 22, andrebbe inteso come «dishonourably» (Kornemann in POxy iv , 104). La Periocha, in questo punto, sembra riguardare veramente, invece, come si è detto sopra, la sconfitta subita da Galba al principio della sua campagna contro i Lusitani. Ll. 2-4. Il passo dell’Epitoma, la cui interpretazione resta incertissima, soprattutto perché il contenuto non risulta noto da altre testimonianze, è formato da una proposizione principale (C. C. ornelius. C. [et]h. egus … damnatus) e da una subordinata causale (quod … stuprauerat); uno spazio bianco abbastanza esteso, alla l. 3, dopo il predicato verbale della subordinata, potrebbe forse indicare una delimitazione logica. Come ho potuto rilevare dall’esame autoptico, in mezzo alla l. 2 un tratto del testo, lungo 1,6 cm, è in parte lacunoso (0,5 cm), in parte in rasura; si scorgono in questa tenuissime tracce di lettere, specie della h. Sicura, pertanto, l’integrazione C. [et]h. egus (forse si legge -ecus nel papiro) già di Grenfell e Hunt, POxy iv , 104. A sostegno di ciò, Münzer, Anmerkungen, 136, ha notato che, tra le famiglie più in vista dei Corneli, quasi soltanto i Cethegi avevano Gaius come praenomen. Difficile, tuttavia, l’identificazione di questo personaggio. Altri due Cethegi conosciuti attraverso le fonti, nella medesima età, hanno un praenomen diverso (vd. Abrégés 2, 133): M. Cornelius Cethegus, console nel 160 a.C. (cf. Perioch. 46, 15); L. Cornelius Cethegus, uno degli accusatori di Servio Galba, contro il quale lo stesso Galba, al tempo del suo processo, pronunciò un discorso (cf. Perioch. 49, 20). Controversa, alla fine della l. 2, la lezione P. Decim: i due elementi sembrano abbreviazioni di un nome (nel testo del papiro, il punto è tracciato soltanto dopo il primo termine). Grenfell e Hunt, POxy iv , 104, hanno sospettato Decim come

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corruzione testuale per Decimi o Decii. Kornemann, ibid., ha congetturato P. Decim (...) ingenu[u]m, supponendo una corrispondenza con il fatto del centurione Gaio Cornelio condannato per avere abusato di un giovinetto, secondo Valerio Massimo 6, 1, 10. Successivamente, in Die neue Livius-Epitome, 21, lo stesso Kornemann ha ritenuto tale forma come abbreviazione di un nome femminile: P. Decim(am). Nella rasura al principio della l. 3 si scorge bene la punta iniziale di una a, pur essendo tale traccia molto debole; la lettera successiva (una sola, non due; vd. già POxy iv , 98), quasi completamente svanita, potrebbe esser letta come d. Nella lettera che segue (la terza dal principio della riga, secondo la mia lettura) si può riconoscere una a, benché un po’ anomala (causa di ciò potrebbe essere, tuttavia, anche una sovrapposizione delle fibre del papiro); mi sembra da escludere una i. Credo quindi di poter constatare la lettura a. d. a. ctam, che intenderei come participio congiunto dopo il nome di una donna, oggetto di stuprauerat; tale voce verbale, nel significato di «forzare, costringere», si adatterebbe bene al passo dell’Epitoma, riguardante un atto di violenza. La traduzione segue la restituzione congetturale così proposta: nel fatto riassunto dall’Epitoma, non conosciuto attraverso altre testimonianze, un Gaio Cornelio Cetego sarebbe stato condannato a un’ingente ammenda per avere abusato, con la violenza, di una donna di condizione libera (a. d. a. ctam ingenu. [a]m stuprauerat), forse di nome P. Decima (?). Diversamente, nel punto in cui ho indicato una lettera svanita (forse d), gli editori calcolano due le lettere svanite; nella lettera incerta che segue, di forma molto stretta, leggono una i. Conseguente, pertanto, la congettura a[dd]ictam di Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 21. Nella restituzione congetturale del passo, proposta con qualche dubbio, Su[lpicio è forse da intendere come dativo di un nome retto da a[dd]ictam: la violenza sarebbe stata commessa su una donna di nascita libera, ma in condizione di schiavitù (addicere nel senso di «aggiudicare, dare in proprietà»; così anche la traduzione in T. Livius, Römische Geschichte xlv , 135: «zugesprochen»). Reid, Fragments, 293, ritiene Decim abbreviazione di un nome (cf., ad es., Liv. 39, 39, 1: C. Decimi o Decimii), che unisce come genitivo esprimente appartenenza (P. Decii Su[bulonis; cf., ad es., Liv. 43, 17, 2) alla congettura ancillam nella riga seguente. Similmente, Fuhr, Liviusepitome, 1183, oltre alla congettura adulescentem, ha supposto che nella lacuna dovesse trovarsi un cognomen come P. Decius Subulo (cf. Liv. 43, 17, 1). Così anche Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 126, il quale ritiene che qui sia menzionato P. Decius Subulo triumviro del 169 per Aquileia. Münzer, Anmerkungen, 136 s. ha riproposto la congettura di Kornemann (P. Decim … ingenu[u]m): l’Epitoma, in queste righe, riporterebbe il medesimo fatto esposto in Valerio Massimo 6, 1, 10. Nella sua sottile argomentazione, egli trae da Cicerone, De orat. 2, 277, una testimonianza dell’antica consuetudine di dileggiare gli effeminati appellandoli con nomi volti al femminile. È probabile che la lezione Egilia, che si trova nei manoscritti di Cicerone, sia guasta (così anche il vero nome del personaggio oggetto di scherno: Egilius). Attendibile, invece, la forma citata da Nonio, testimone del passo ciceroniano (p. 198, 15 M.): Decilla, vezzeggiativo femminile di Decius, da cui si ricava che con l’appellativo di Decilla si dileggiassero per antonomasia, a quel tempo, gli effeminati (il personaggio del fatto raccontato da Cicerone non doveva chiamarsi Decius). Tale uso di Decilla potrebbe avere avuto origine da un Decius, che sarebbe il personaggio, lasciato anonimo, dell’exemplum di Valerio Massimo: un giovinetto che aveva una cattiva fama, come si desume dall’accusa, rivoltagli dal centurione, di aver fatto palesemente mercimonio del proprio corpo. Si è quindi supposto come argomento

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dell’Epitoma (e di Livio prima di essa, naturalmente), in queste righe, il medesimo fatto ricordato in Valerio Massimo; un fatto di minore importanza nella storia di Roma, è vero, ma emblematico del malcostume da cui era afflitta la società romana al tempo della terza guerra punica. Diversa la ricostruzione di Reid, Fragments, 293: l’uso di damnatus, nell’Epitoma, non corrisponderebbe alla fine del centurione, il quale, nel racconto di Valerio Massimo, fu costretto a morire in carcere (mori coactus); si dovrebbe pensare, invece, alla condanna a una pena pecuniaria dopo il processo per stuprum per vim illatum. Comunque si voglia intendere questo fatto, è probabile che le due lettere sicuramente leggibili alla fine della l. 3 (vd. già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 20) formino un’indicazione numerica, con cui doveva essere espressa la cifra totale della pena pecuniaria irrogata per l’atto di violenza: dc. Anche nella lettera seguente, mutila a causa della lacuna, quindi di lettura incerta (u, i ?), va forse riconosciuta una parte della stessa cifra: dci. Secondo tale congettura, il numero indicato è seicento (dc); l’asticella mutila della lettera seguente, se non è l’indicazione numerica dell’unità (I), potrebbe appartenere (vd. Abrégés 2, 133) a un’abbreviazione riferibile al denaro, come HS o N (nummi). L. 6. Con la menzione dei consoli Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio è indicato l’inizio dell’anno 149 a.C. (a.u.c. 605), nel quale, come è detto subito dopo, alla l. 7, ebbe inizio la terza guerra punica. Nell’Epitoma i nomi dei due consoli sono scritti in modo corretto, mentre altre testimonianze presentano confusioni ortografiche, soprattutto nel nomen di Manilio (vd. più avanti). Unica svista nell’Epitoma, come d’altra parte in quasi tutte le altre testimonianze, l’abbreviazione M., per il praenomen di Manilio, invece di M’. (vd. MRR I , 460 n. 1: la forma M. è ritenuta propria della tradizione fondata su Livio e sulle fonti greche). Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 22, ha opportunamente notato che nel papiro era correttamente scritta la prima i del nome di Manilio, tra n e l, ora quasi svanita: occorre quindi restituirla nel testo come lettera di lettura incerta o come integrazione (-n[i]l-), non come correzione (-nl-). In modo simile all’Epitoma, nei Fasti Capitolini, a. 149 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53), ai nomi dei due consoli, riportati nella forma completa («[L. Marci]us … Censorinus M’. Manilius»), è strettamente congiunta la menzione della terza guerra punica, che ebbe inizio quello stesso anno: «bellum punicum tertium». Anche nella Periocha 49, 10 i consoli del 149 sono menzionati insieme, al principio del discorso sulla terza guerra punica: «obsideri obpugnarique coepta est Carthago a L. Marcio M. Manlio consulibus». La lezione Manlio si trova nella maggior parte dei codici della Periocha; soltanto due recenziori, Leidensis 19 e Ì, hanno la corretta lezione Manilio. Quasi uguale alla frase dell’Epitoma il testo di Orosio, Hist. 4, 22, 1: «anno ab urbe condita dcii L. Censorino et M. Manilio consulibus tertium Punicum bellum exortum est» (la corretta lezione Manilio è testimoniata dai codici ¢ D L U Z; Manlio da F H Q C J). Simile anche Eutropio 4, 10, 1: «tertium (...) bellum contra Carthaginem suscipitur, sexcentesimo et altero ab urbe condita anno, L. Manlio Censorino et M. Manilio consulibus» (errato il nomen di Censorino). Al principio della narrazione sulla terza guerra punica, Appiano, Lib. 75, 349, afferma che entrambi i consoli del 149 furono inviati per condurre le operazioni militari, Manilio alla guida delle forze di terra, Marcio Censorino a capo della flotta: MÄÚÎÔÓ M·Ó›ÏÈÔÓ (...) §Â‡ÎÈÔÓ M¿ÚÎÈÔÓ KËÓÛˆÚÖÓÔÓ (da notare che il praenomen di Manilio è conforme alla tradizione più comune, e meno corretta, che usa l’abbreviazione M.; del nomen di

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Censorino si registra una variante erronea negli Excerpta de legationibus gentium, ed. de Boor, i, 548, 13: M¿ÚÎÔÓ, mentre il cognomen dello stesso è scritto nella forma ÎËÓÛÔÚ, con Ô invece di ˆ, in V). In modo simile i due consoli sono menzionati in Zonara 9, 26, 4 (dal perduto libro 21 di Cassio Dione, ed. Boissevain, i, 306), il quale riferisce che essi si recarono in Sicilia, prima dello scoppio della guerra, per ricevere gli ostaggi cartaginesi e inviarli a Roma: §Ô‡ÎÈÔ˜ M¿ÚÎÈÔ˜ ηd M¿ÚÎÔ˜ M·Ó›ÏÈÔ˜ (così, nella forma corretta, i due nomi sono scritti anche in séguito, nello stesso cap. 26 e nel seguente, ma senza il praenomen). Menzione congiunta dei due consoli, inoltre, in Zosimo 2, 4, 2, come indicazione cronologica per una celebrazione dei ludi saeculares: ñ¿ÙˆÓ ùÓÙˆÓ §Ô‡ÎÈÔ˘ KËÓÛˆÚ›ÓÔ˘ ηd M¿ÚÎÔ˘ M·ÏÏ›Ô˘ (scritto così, erroneamente, il nomen di Manilio, in V e negli Apographa; segue un terzo elemento dello stesso nome, ¶Ô˘ËÏ›Ô˘, giustamente espunto dagli editori). Il nomen del solo Manilio, nella forma corretta, senza il praenomen, in Polibio 36, 11, 1: ·Úa ÙÔÜ M·Ó›ÏÈÔ˘. Incertezze nell’ortografia di questi nomi anche in altre testimonianze. In Cicerone, Brut. 61, sono riportati nella forma corretta entrambi gli elementi del nome dello stesso Manilio: «L. Marcio M’. Manilio consulibus» (cf. anche Ac. 2, 102). Così anche in Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 605 Mommsen e in Consul. Constant., Chron. i p. 213, 605 Mommsen: «Censorino et Manilio». In Cicerone, Att. 12, 5b, invece, la maggior parte dei codici presenta il testo seguente: «Censorino (...) et Manlio», con l’erronea confusione tra il nomen (Manil-) e il praenomen molto simile (Manl-); la forma corretta Manilio si legge soltanto nel cod. Antoninianus, citato da Malaspina, e nel cod. Tornesianus (dalle annotazioni di Bosius). In altre fonti, in cui i due consoli del 149 sono menzionati insieme, si trova la medesima confusione tra nomen e praenomen. Così Velleio 1, 13, 1: «L. Censorino M. Manlio consulibus»; Censorino 17, 11 (la menzione dei consoli indica qui l’anno in cui furono tenuti i quarti ludi saeculares, secondo la tradizione di Valerio Anziate, Varrone e Livio, espressamente citati in questo passo): «L. Marcio Censorino M. Manlio cons.»; Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 431 Mommsen: «L. Marcius et M. Manlius» (sulla relazione tra l’Epitoma e Cassiodoro, vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 245: «This agreement in the error Manlio points to a close connection between [Epitoma] and Cassiodorus»). L. 7. L’espressione dell’Epitoma è già di uso classico: così, ad es., in Cicerone, Div. 1, 105; Fam. 12, 18, 2; Livio 2, 53, 1; 4, 52, 8. Come si è notato nel commento alla l. 6 (vd. sopra; cf. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 47), con la frase dell’Epitoma concorda testualmente il passo di Orosio, Hist. 4, 22, 1, sulla terza guerra punica: «anno ab urbe condita dcii L. Censorino et M. Manilio consulibus tertium Punicum bellum exortum est» (riguardo alla corretta lezione Manilio e alla variante Manlio, vd. sopra). L’indicazione cronologica supplementare dell’anno, che non si trova nell’Epitoma, concorda, invece, con quella offerta nel passo corrispondente della Periocha 49, 1, dove sono indicati sia l’inizio sia la durata della guerra: «Tertii Punici belli initium altero et sescentesimo ab urbe condita anno, intra quintum annum, quam erat coeptum, consummati». Bisogna precisare che tale indicazione del 602 a.u.c., come data dell’inizio della terza guerra punica, corrisponde certamente al 150/149 a.C., poiché nel passo di Orosio, citato sopra, lo stesso anno coincide col consolato di Censorino e Manilio. Essa presuppone, quindi, il 752/1 a.C. come anno della fondazione di Roma, così come era stato fissato dalla cronologia di Catone (cf. Abrégés

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1, 123 n. 2). La stessa indicazione cronologica del 602 a.u.c., per l’inizio della terza guerra punica, si trova nel passo di Eutropio visto sopra (4, 10, 1; vd. il commento a l. 6), il quale, abbastanza simile anche nell’espressione alle altre fonti qui citate, sembra dipendere ugualmente dalla tradizione storica di Livio (da notare l’errore nel nomen di Censorino): «tertium (...) bellum contra Carthaginem suscipitur, sexcentesimo et altero ab urbe condita anno, L. Manlio Censorino et M. Manilio consulibus, anno quinquagesimo primo postquam secundum Punicum transactum erat». Indicazioni cronologiche più generiche nel corrispondente passo di Floro, Epit. 2, 15, 1, anch’esso derivato dalla tradizione liviana: «tertium cum Africa bellum et tempore exiguum, nam quadriennio raptum est, et in comparationem priorum minimum labore (...) sed plane maximum euentu». Da tali confronti sembra probabile che anche nel libro perduto di Livio l’avvenimento storico fosse annunciato, in una simile forma sommaria, quasi come un titolo posto all’inizio. Anche in Zonara 9, 26, 1 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, I, 306), al principio della narrazione sulla terza guerra punica, un enunciato generale e sintetico sembra riecheggiare lo schema visto sopra, di probabile ascendenza liviana: \EÓÙÂÜıÂÓ ·sıȘ ï Úe˜ ÙÔf˜ K·Ú¯Ë‰ÔÓ›Ô˘˜ Ùe ÙÚ›ÙÔÓ àÓÂÚÚÈ›˙ÂÙÔ fiÏÂÌÔ˜. Precedente agli stessi antefatti, tale enunciato, come un’introduzione generale, prelude al racconto del conflitto nel suo svolgimento complessivo. Ll. 7-8. Dalle fonti apprendiamo che l’esercito romano, giunto nell’Africa punica per le operazioni militari della guerra imminente, si acquartierò a Utica, dove era avvenuto anche lo sbarco. Polibio, in 36, 6, 1 e 38, 7, 8 afferma che i Romani approdarono nelle vicinanze di Utica e furono acquartierati in questa città. Diodoro 32, 6, 2 e Appiano, Lib. 75, 350 riferiscono che la flotta con l’esercito, direttasi a Utica, era sbarcata in quel luogo. Dell’accampamento romano a Utica dà testimonianza lo stesso Appiano, Lib. 110, 522; cf. 113, 535; 114, 539; inoltre, Zonara 9, 27, 7. Gli Uticensi agivano quindi come alleati dei Romani in séguito alla loro deditio, avvenuta poco tempo prima, secondo gli accordi pattuiti. Argomento dell’Epitoma, in questo passo, è proprio l’acquartieramento dell’esercito romano a Utica, permesso di buon grado dagli abitanti (Utic[enses, integrazione sicura nella lacuna alla fine della l. 7, è il soggetto grammaticale dell’enunciato). Tale notizia presuppone quindi la deditio di Utica, avvenuta verso l’inizio della terza guerra punica, nell’inverno del 150/149 a. C. Come si apprende dalla Periocha 49, 4-5, gli ambasciatori di Utica giunsero a Roma per consegnarsi con tutte le loro cose, subito dopo la dichiarazione di guerra contro Cartagine, ancora prima che le truppe romane fossero imbarcate per la campagna in Africa: «prius quam ullae copiae in naues imponerentur, Uticenses legati Romam uenerunt se suaque omnia dedentes. ea legatio uelut omen grata patribus, acerba Carthaginiensibus fuit». A causa dell’importanza di Utica, che era a quel tempo la seconda città nell’Africa punica, tale deditio influì decisivamente sul corso degli avvenimenti all’inizio del conflitto tra Roma e Cartagine, poiché determinò l’isolamento della stessa Cartagine nella sua regione. Ciò apparve ben chiaro agli storici greci, come si desume da Polibio 36, 3, 1. Anche dal racconto abbastanza ampio di Appiano, Libyc. 75, 347, risulta confermata la rilevanza della deditio di Utica agli inizi della terza guerra punica. Riguardo al contenuto dell’Epitoma si può obiettare che, secondo la cronologia dei

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fatti, l’arrivo e lo stanziamento dell’esercito romano nel territorio punico furono successivi al tentativo di deditio che i Cartaginesi, nella speranza di scongiurare il conflitto, compirono subito dopo la deditio di Utica; un episodio che invece, nell’Epitoma, si trova subito dopo, alle ll. 8-9 (vd. più avanti). Per tale dubbio sul contenuto storico si è sospettata una corruzione del testo dell’Epitoma alla l. 8. In vario modo sono stati quindi avanzati emendamenti sia della lezione auxiliate, in cui è ovvio che si celi un guasto testuale, sia di locant. Un giudizio sfavorevole sul testo del papiro già in Grenfell e Hunt (POxy iv , 104): «locant auxilium (...) is unlikely, for the verbs in the papyrus are uniformly in the perfect tense and generally come at the end of the sentence». Reid, Fragments, 293, pensando all’ambasceria degli Uticensi a Roma, suppone di poter emendare il punto sospetto con un’espressione propria dell’uso liviano: benigne locuti auditique (cf. 43, 17, 4). Anche con la congettura liciti auxilia di Hillen (T. Livius, Römische Geschichte, 142), l’argomento dell’Epitoma sembra adattato alla deditio di Utica: gli auxilia sarebbero stati promessi, infatti, dagli stessi Uticensi nel corso delle trattative per la resa. Simile già l’interpretazione di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 127: Uticenses benigne loca dabant auxiliaque. Scettico il giudizio di Rostovtzev, Otryvki, 68, secondo cui le diverse congetture proposte non hanno veramente restituito il testo in una forma accettabile; a suo parere, nel testo guasto potrebbe celarsi un’espressione come locant(e) auxilia(n)te. Si consideri che l’Epitoma, talvolta propensa a riassumere i fatti in sintesi complessive, anche qui potrebbe aver compendiato due momenti diversi della medesima vicenda coerentemente svoltasi: sia la deditio degli Uticensi, con gli accordi che in quella circostanza furono pattuiti, sia la loro attuazione, avvenuta quando l’esercito romano, sbarcato in Africa per la campagna di guerra, si acquartierò presso Utica. Si può supporre che nell’Epitoma, rimasto implicito (o caduto nella trasmissione del testo) il momento della deditio stessa, fossero riportate soltanto le conseguenze pratiche della stessa. Ammesso ciò, come a me sembra probabile, anche il testo del papiro può essere opportunamente difeso. Così già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23 (locant auxilium o locant auxilia), con la sola correzione dell’ultima sillaba te in et (correzione molto verosimile) e Rossbach (locauere auxilia; in Die neue Livius-Epitome, 230, invece, lo stesso Rossbach proponeva di formare un unico enunciato con il passo seguente: Uticensibus benigne locantibus auxilia, Carthaginienses in dedicionem uenerunt). Non sembrano decisivi gli argomenti di Grenfell e Hunt (vd. sopra), che vorrebbero emendare il testo del papiro notando una difformità dagli usi linguistici dell’Epitoma. Nel significato di ‘dare alloggio’, quindi ‘far acquartierare milizie’, locare è di uso comune: cf., ad es., Tacito, Agr. 38, 3; Ann. 4, 5, 3. Non c’è ragione di dubitare di auxilia come lezione genuina, che potrebbe esprimere l’oggetto di locant: uno specifico contingente di stanza nella città. Indicherei con la crux un sospetto guasto testuale avvenuto in questo punto, di cui sembra indizio l’incomprensibile te. Probabile l’emendamento in et, ma non inteso come congiunzione che coordini questo passo col successivo. Si può supporre che seguisse, invece, o un altro oggetto di locant o un predicato verbale giustapposto appartenente al medesimo enunciato, tralasciati per omissione, l’uno o l’altro, nella copiatura. Ll. 8-9. L’Epitoma riferisce, in questo punto, l’ambasceria che i Cartaginesi, alla notizia della deditio di Utica e della minaccia di un attacco romano in Africa, inviarono a Roma, offrendo di consegnare la loro città come estremo tentativo di scongiurare il conflitto. Di

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questa ambasceria dà sommaria notizia la Periocha 49, 7, la quale colloca il fatto immediatamente prima della partenza dell’esercito da Roma (su questo particolare vd. anche più avanti) e indica, in modo autonomo rispetto alle altre fonti, il numero di trenta componenti: «legati xxx Romam uenerunt, per quos se Carthaginienses dedebant». Lo stesso avvenimento, collocato nell’immediata prossimità della guerra, si trova in Polibio 36, 3, 7-9: informato della deditio di Utica, il governo cartaginese invia a Roma cinque ambasciatori plenipotenziari, a cui è data l’autorizzazione di decidere ciò che sembrasse più utile al loro popolo; al loro arrivo a Roma, venuti a sapere che la guerra era stata decretata e che l’esercito si era già imbarcato per l’Africa, tentarono l’unica mossa possibile in quella circostanza estrema, cioè di offrire la resa di Cartagine quasi senza condizioni (non una vera deditio, quindi, la quale presuppone un negoziato tra le parti; vd. A historical commentary, 656). Derivata probabilmente da Polibio la simile testimonianza di Diodoro 32, 6, 1. Il racconto di Appiano, più ampio, concorda nella sostanza con la versione polibiana, da cui si distingue riferendo che l’ambasceria fu inviata soltanto dopo che a Cartagine si era saputo della partenza dell’esercito romano per l’Africa (vd. A historical commentary, 656). Qualche differenza si nota anche nella versione di Zonara 9, 26, 3-4 (dal perduto libro 21 di Cassio Dione; vd. ed. Boissevain, i, 306): impiega infatti il vocabolo ÛÔÓ‰·› e pone l’accento sulla malafede dei Cartaginesi, i quali avrebbero condotto queste trattative con doppiezza, già pensando di trasgredire, successivamente, gli accordi pattuiti. Ll. 9-11. Come si apprende dalle fonti, dopo lo sbarco dell’esercito romano nell’Africa punica e il suo acquartieramento a Utica, a una prima ambasceria cartaginese fu ordinato di consegnare tutte le armi. Fatto ciò, fu successivamente ordinato che gli abitanti evacuassero la città, perché questa fosse rasa al suolo, e si trasferissero in un altro luogo verso l’interno, a una certa distanza dalla costa. A tale ingiunzione, però, giudicata inaccettabile, i Cartaginesi non si piegarono e si risolsero alla dichiarazione di guerra, che fino a quel momento avevano tentato di scongiurare sottomettendosi a tutte le richieste dei Romani. Tale vicenda doveva essere narrata ampiamente nel libro 49 di Livio. Sostanziale concordanza si rileva nelle versioni che discendono da Livio, tra le quali può essere ritenuta assai prossima quella della Periocha 49, 9: «qui (Romani scil.) ubi in Africam transierunt, acceptis quos imperauerant ccc obsidibus et armis omnibus instrumentisque belli, si qua Carthagine erant, cum (corr. Iahn: tum vel tunc codd.; tunc cum Ó) ex auctoritate patrum iuberent, ut in alium locum, dum a mari x– passuum ne minus remotum, oppidum facerent, indignitate rei ad bellandum Carthaginienses compulerunt». Simile la versione di Orosio, Hist. 4, 22, 3: «sed Carthaginienses postquam arma tradiderunt et relicta urbe recedere procul a mari decem milibus passuum iussi sunt, dolorem ad desperationem contulerunt aut defensuri ciuitatem aut cum ipsa per ipsam sepeliendi, ducesque sibi duos Hasdrubales creauerunt». Elaborata in forma retorica e più generica la versione di Floro, Epit. 2, 15, 8-9: «tum euocatis principibus, si salui esse uellent, ut migrarent finibus imperauit (populus Romanus scil.). quod pro rei atrocitate adeo mouit iras, ut extrema mallent. comploratum igitur publice statim et pari uoce clamatum est “ad arma!” seditque sententia quoquo modo rebellandum; non quia iam spes ulla superesset, sed quia patriam suam mallent hostium quam suis manibus euerti».

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Il più ampio racconto di questi fatti, nello stesso ordine cronologico, è nei Libyca di Appiano: all’ordine di evacuazione della città impartito da Censorino (81, 378) seguono manifestazioni di sdegno e di disperazione dei delegati cartaginesi (ibid. 379-383). Dopo i lunghi discorsi di Bannone (83, 386-85, 403) e di Censorino (86, 404-89, 422), quando gli ambasciatori tornati a Cartagine annunciano che i Romani avevano deciso di radere al suolo la città, la popolazione è presa da disperazione e sgomento (90, 423-92, 438). Il senato cartaginese, in tale circostanza, vota la dichiarazione di guerra e cominciano i preparativi per affrontare il nemico (93, 439-441). Del racconto di Polibio, che è forse da ritenere all’origine delle tradizioni storiche sia greche sia latine su tali avvenimenti, è pervenuta soltanto una parte ridotta, fino all’ambasceria cartaginese recatasi presso i consoli a Utica e all’ingiunzione di consegnare le armi (36, 6, 1-6). È probabile che il frammento 7, 1-5 dello stesso libro riguardi le reazioni di ira e sconcerto nella popolazione di Cartagine quando fu annunciato l’ordine di evacuazione della città. Il medesimo svolgimento dei fatti, seppure in una forma piuttosto concisa, anche in Diodoro 32, 6, 2-4, secondo cui l’ingiunzione di evacuare la città e di fondarne un’altra, nell’interno della regione, fu impartita dal console Manilio. Una versione compendiata degli stessi fatti si trova in Zonara 9, 26, 5-7 (da Cassio Dione, vd. ed. Boissevain, i, 307). Dopo aver riferito la resa offerta da una precedente ambasceria cartaginese recatasi a Roma (vd. ll. 8-9), l’Epitoma passa quindi direttamente all’episodio decisivo, in conseguenza del quale Cartagine fu spinta a prendere le armi contro l’esercito romano già stanziatosi nella regione punica. Il testo del papiro, seppur lacunoso, risulta complessivamente comprensibile. Tracce tenuissime, dopo le lettere sicure tr, sembrano avvalorare la lettura tra. n. [; assai probabile, quindi, l’integrazione tran[sferr]e di Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), ispirata dalla congettura transferrent con cui Gronovius aveva corretto facerent di Periocha 49, 9, citato sopra (vd. ibid. 104); conforme, inoltre, al calcolo di quattro o cinque lettere cadute nella lacuna di 2,2 cm. Rimane incerta, a causa dell’ampia lacuna nel testo della l. 10, l’interpretazione di redierunt, con cui si conclude il passo. All’opinione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 104 s.: «It is more likely that redierunt refers to the renewal of the war») si conformano i restauri testuali di Reid, Fragments, 293 (mo[ta ira ad arma], poi lievemente modificato da Rossbach: moti) e Fuhr, Liviusepitome, 1183 (i. n. [rebellionem]), da cui non si discostano gli editori successivi. Accanto a questa interpretazione, la quale è da ritenere come la più probabile, si può anche supporre che redierunt riguardasse agli ambasciatori, i quali «tornarono» a Cartagine portando la notizia dell’intollerabile ingiunzione. Ll. 11-12. In questo passo dell’Epitoma, gravemente ridotto a causa dell’ampia lacuna nella metà di destra della colonna, l’unica lezione sicura è pepulerunt, predicato verbale principale, con cui l’enunciato si conclude. Mutila già la prima parola (Roman[),la sola altra superstite nel medesimo passo, la quale rappresenta forse l’oggetto del verbo (da integrare quindi con -os). Soggetto della frase devono essere i Cartaginesi, i quali, messi sotto assedio dopo la loro dichiarazione di guerra, opposero strenua resistenza e respinsero gli assalti dei Romani (vd. POxy iv , 105). In modo simile all’Epitoma la Periocha 49, 11, dopo aver riferito l’inizio dell’assedio posto dai Romani a Cartagine, si sofferma sulle gravi difficoltà incontrate dagli stessi nell’impresa. Due tribuni con le loro coorti, che avevano fatto irruzione attraverso un

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varco delle mura, furono gravemente battuti dai difensori e solo l’intervento di Scipione Emiliano (sulle possibili ragioni della lezione corrotta, in questo passo della Periocha, vd. Abrégés 1, 123) li trasse in salvo: «in qua obpugnatione cum neglectos ab una parte muros duo tribuni temere cum cohortibus suis inrupissent et ab oppidanis grauiter caederentur, a Scipione † Orfitiano (N P1 Ry : orfiticio ı, Hamiliano Ì, africano alii codd.) expliciti sunt». Così Orosio, Hist. 4, 22, 7: «consules (...) quamuis aliquantam muri partem quassatam machinis diruissent, tamen a Cartaginiensibus uicti ac repulsi sunt; quos fugientes Scipio repulso intra muros hoste defendit». Del medesimo fatto Appiano, nei Libyca, offre un racconto ricco di particolari: due grandi macchine da guerra, portate verso le mura, sono ricacciate indietro e quasi distrutte (98, 461-463); il mattino seguente le truppe romane tentano di penetrare nella città attraverso una breccia nelle mura, ma sono attaccate da tutte le parti dai Cartaginesi; nella ritirata sono soccorse e tratte in salvo da Scipione Emiliano (ibid. 464-465). Nella sua estesa narrazione già in precedenza Appiano parla delle difficoltà incontrate dai Romani sin dal principio: i consoli sono costretti a ritirarsi (97, 457); lo stesso avviene in un secondo tentativo di assalto alle mura (ibid. 458); Imilcone, attaccando di sorpresa, fa strage di un distaccamento romano (ibid. 459); gli attacchi congiunti dei due consoli alla città falliscono ancora una volta (ibid. 460). Delle difficoltà dei consoli dà notizia anche Zonara (9, 26, 10 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 308), che presenta, seppure in forma compendiata, uno svolgimento dei fatti simile a quello di Appiano. La frase dell’Epitoma può riferirsi, pertanto, o, complessivamente, al periodo iniziale del conflitto, durante il quale l’esercito romano, tentando di espugnare la città assediata, fu più volte ricacciato indietro; oppure, più in particolare, alla circostanza in cui si distinse, per la prima volta nel corso della guerra, il valore di Scipione Emiliano, il quale evitò una strage accorrendo in soccorso delle truppe in ritirata. Nella prima lacuna della l. 11, lunga 3,7 cm, si calcolano mancanti sette lettere circa; segue, prima dell’interruzione al centro della colonna, un piccola superficie residua del papiro, nella quale si scorge la punta superiore di una lettera (forse anche di due lettere) pertinente alla stessa l. 11: forse l’estremità del taglio di una t (è anche possibile che la riga terminasse con questa parola). La lettura di tale traccia come s, secondo Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), ha influito sulle successive integrazioni congetturali. Abbastanza ovvio intendere Roman[os come oggetto di pepulerunt (così già Grenfell e Hunt, ibid.): i Cartaginesi assediati (obsessi già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23) ricacciarono indietro i Romani (o i loro consoli). Fuhr, Liviusepitome, 1183, ha posto più in risalto l’atto dell’invasione nella città assediata (Romanos muros transgressos). Reid, Fragments, 294, invece, ha supposto che argomento del passo fossero le perdite inflitte ai Romani dalla cavalleria punica guidata da Imilcone. Può darsi che nell’espressione sintetica dell’Epitoma sia incluso un riferimento anche a questo fatto, menzionato anche sopra, di cui parla Appiano, Lib. 97, 459; non sono certamente da escludere, tuttavia, riferimenti agli altri fatti, specie a quelli menzionati anche nelle fonti latine. L. 12. Considerato il riferimento a Scipione (Scipio[ si legge sicuramente; incerto, però, se sia al nominativo), questo passo dell’Epitoma, probabilmente limitato alla sola l. 12, dovrebbe costituire il conseguente sviluppo del passo che precede: i Romani subirono, agli inizi dell’assedio di Cartagine, sconfitte e perdite e furono salvati soltanto dall’inter-

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vento di Scipione, il quale ebbe modo così di mettere in bella evidenza il suo valore (vd. POxy iv , 105). Il testo caduto nell’ampia lacuna della metà di destra della colonna (calcolate, in modo congetturale, ventuno lettere circa; vd. POxy iv , 98), doveva riguardare, perciò, le prime imprese del giovane tribuno militare. Desunta dal già citato passo di Orosio, Hist. 4, 22, 7, e comunemente accolta, l’integrazione di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23, presuppone un riferimento alla stessa azione di Scipione, accorso in aiuto delle truppe penetrate attraverso una breccia nella città assediata e ricacciate dai Cartaginesi (vd. il commento alle ll. 11-12): [trib. mil. fugientes defendit. Lo stesso passo dell’Epitoma contenuto nella l. 12 potrebbe riguardare, però, anche qualcun’altra delle azioni successive in cui Scipione, nei primi mesi della guerra, dette prova del suo valore. Apprendiamo infatti da Appiano, Lib. 99, 468-469, che dopo la partenza di Censorino, andato a presiedere le elezioni consolari a Roma, i Cartaginesi, fattisi più audaci, attaccarono di notte il campo di Manilio e Scipione, intervenuto tempestivamente con la cavalleria, li mise in fuga; in tale circostanza il giovane tribuno apparve per la seconda volta come salvatore delle sorti di Roma nella guerra in corso. In un’altra sortita notturna i Cartaginesi tentarono di distruggere una fortificazione che Manilio aveva eretto a difesa delle navi, ma ancora una volta Scipione, con uno stratagemma, li mise in fuga; impresa che confermò e accrebbe la sua rinomanza di valoroso combattente e stratega (ibid. 101, 476-478). Un compendio di questi fatti è anche nella versione di Zonara, 9, 27, 2 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 308 s.). Da notare che tali imprese di Scipione assumono un certo rilievo nella Periocha 49, 12: «per quem et castellum Romanorum, quod nocte expugnabant, paucis equitibus iuuantibus liberatum est castrorumque, quae Carthaginienses omnibus copiis ab urbe pariter egressi obpugnabant, liberatorum is ipse praecipuam gloriam tulit». Alla l. 12 dell’Epitoma, pertanto, possiamo ammettere, oltre al riferimento alla prima impresa, nella quale Scipione soccorse le truppe cacciate dopo l’incursione dentro le mura, anche un più ampio riferimento alle altre imprese del giovane Scipione, con le quali egli si distinse nei primi mesi della guerra. L’integrazione di Reid, Fragments, 294, invece, dipende dalla notizia di Polibio 36, 8, 3 (cf. Appian., Lib. 100, 472), secondo cui Famea evitava di attaccare Scipione e le schiere che erano sotto il suo comando, temendo di non potere nulla contro la loro disciplina e organizzazione militare. L. 13. Probabile che questo passo, il quale comincia con le parole Aemiliani fidem, fosse contenuto tutto nella l. 13. La successiva anafora del nome proprio, infatti, formante un’espressione simile ([Aemi]liani uirtute, tra la l. 13 e la l. 14), dovrebbe indicare l’inizio del nuovo passo che segue. Si noti, quindi, come anche nella parte dell’Epitoma del libro 49 riguardante la terza guerra punica, probabilmente in modo conforme all’originale liviano, sia posto in grande risalto il valore personale di Scipione Emiliano, il cui nome spicca al principio di tre passi successivi, alle ll. 12 e 13 (due volte). Menzionando la fides di Emiliano, l’Epitoma, oltre a celebrare le virtù militari e morali del giovane condottiero, sembra riferirsi a una circostanza particolare, testimoniata dalle fonti (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 48). Appiano, Lib. 101, 474-475 narra che, ancora nel primo anno del conflitto (vd. Epit. ll. 11-12 e il commento), quando alcuni Africani cercavano rifugio nei posti fortificati, gli altri tribuni militari romani accordavano loro il permesso, ma poi li attaccavano; Scipione, invece, li scortava

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lasciandoli incolumi. Nessuno, perciò, voleva più patteggiare con i Romani se Scipione non fosse stato presente: tale condotta aggiunse, così, ai meriti del condottiero la buona reputazione per la lealtà mostrata anche nei confronti dei nemici: ÙÔÛ·‡ÙË ‰fiÍ· ·éÙÔÜ àÓ‰Ú›·˜ Ù ¤ÚÈ Î·d ›ÛÙˆ˜ (...) âÁÂÁ¤ÓËÙÔ. Sulla lealtà di Scipione Emiliano nel rispettare gli accordi con i nemici assediati, per la quale egli godette di un’ottima reputazione in tutta la Libia, concorda sostanzialmente Diodoro 32, fr. 7, derivato ugualmente, come il racconto di Appiano, da una parte perduta di Polibio: Ùa˜ ‰Ôı›۷˜ ›ÛÙÂȘ ÙÔÖ˜ ÔÏÈÔÚÎÔ˘Ì¤ÓÔȘ âÙ‹ÚÂÈ. Anche Cassio Dione, nel fr. 70, 4 (dal libro 21; ed. Boissevain, i, 309 s.), afferma che l’Emiliano osservò accuratamente la lealtà (ÙcÓ ÈÛÙfiÙËÙ· … àÎÚÈ‚É âΤÎÙËÙÔ), non soltanto nei confronti dei concittadini e degli alleati, ma anche degli stranieri e dei nemici; per questa ragione, molti individui e molte città passarono dalla sua parte. Nel papiro, la correzione di o in i (foidem) sembra eseguita dalla mano dello scriba, poiché non si rileva differenza di inchiostro. La lettera cancellata è stata interamente coperta, l’altra è stata aggiunta sopra. All’inizio della lacuna è generalmente accolta l’integrazione P[oeni già di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23. Varie le congetture, invece, per il predicato verbale mancante: admirati sunt di Kornemann, ibid.; suspexerunt di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 133); experti di Müller, Jahresbericht 1, 34. Non sembra in alcun modo necessaria la correzione testuale richiesta dalla congettura di Reid, Fragments, 294 (cf. Appian., Iber. 54, 229): Aemilianus fidem p[raestitit hostibus. Ll. 13-15. Il passo, che comincia tra la fine della l. 13 e la l. 14 con le parole Aemi]liani uirtute, termina, nella restituzione testuale di Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), e di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23, intorno alla metà della l. 15 (liber[atus); non ne è determinata la fine, invece, nel testo dato da Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 133). Pur essendo mutila per metà la colonna di scrittura, il senso del periodo risulta chiaro e trova riscontro in altre fonti. La vicenda qui riferita è quella in cui Scipione trasse in salvo l’esercito romano a Nepheris (vd. POxy iv , 105). Il fatto d’armi è narrato nella Periocha 49, 13-15: «praeterea cum ab inrita obpugnatione Carthaginis consul (...) exercitum duceret aduersus Hasdrubalem (cum ampla manu saltum iniquum insederat) suasit primo consuli ne tam iniquo loco confligeret. uictus deinde conplurium, qui et prudentiae et uirtuti eius inuidebant, sententiis et ipse saltum ingressus est. cum, sicut praedixerat, fusus fugatusque esset Romanus exercitus et duae cohortes ab hoste obsiderentur, cum paucis equitum turmis in saltum reuersus liberauit eas et incolumes reduxit». In questo racconto si noti, in particolare, al par. 15, liberauit eas (cohortes scil.), che concorda con exer[citus (...) liber[atus dell’Epitoma (cf. anche, al par. 12, le espressioni castellum … liberatum est; castrorum … liberatorum). Dal medesimo passo della Periocha (cum … duae cohortes ab hoste obsiderentur) già Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), hanno desunto l’integrazione congetturale obsessus, predicato verbale (con erat) di una proposizione relativa il cui soggetto è ancora exercitus; cf. anche par. 12: quae (castra) Carthaginienses (...) obpugnabant. Nell’estesa narrazione di Appiano, Lib. 102, 479-103, 490 (cf. anche Zonara 9, 27, 2-3, dal libro 21 di Cassio Dione), il fatto è inquadrato nello svolgimento dei primi mesi della guerra. Manilio, nell’intento di colpire le truppe di Asdrubale, compie una spedizione contro il castello di Nepheris. Non ascoltando gli avvertimenti di Scipione (sulla sua previdenza di consigliere, vd. Polyb. 36, 8, 4-5), va allo scontro con Asdrubale, ma non

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riporta la vittoria sperata; costretto a tornare indietro in un territorio accidentato, è assalito da Asdrubale, che aveva osservato dall’alto il percorso dei Romani: molti cadono nell’agguato, ma la strage è evitata dall’intervento di Scipione, il quale, con assalti continui della cavalleria, distoglie il nemico e permette alle truppe accerchiate di guadare. Nello stesso tempo, egli soccorre e mette in salvo quattro coorti di cavalieri (numero variabile nelle fonti), accerchiate anch’esse dai Cartaginesi. Come si constata soprattutto dal confronto con la narrazione di Appiano, l’Epitoma riassume in modo preciso i momenti essenziali dello scontro: Scipione libera e trae in salvo le truppe di Manilio accerchiate dai Cartaginesi. Per la sua impresa Scipione è celebrato come grande condottiero; ma egli si rivela saggio anche dopo, quando si accorda con Asdrubale per provvedere alla sepoltura dei caduti (ibid. 104, 492-493; su questo particolare, vd. anche Diodoro 32, fr. 8). Già in Velleio 1, 12, 4 si fa menzione della corona ossidionale che era stata conferita a Scipione per la sua impresa. Plinio, Nat. 22, 13, cita Varrone come fonte e dà notizia di una statua di Scipione, collocata nel Foro di Augusto, nel cui titolo celebrativo era ricordato questo fatto d’armi; particolare che mostra, come altre volte, una concordanza tra contenuti dell’Epitoma e testimonianze epigrafiche: «Aemilianum quoque Scipionem Varro auctor est donatum obsidionali in Africa Manilio consule, iii cohortibus seruatis totidemque ad seruandos eas eductis, quod et statuae eius in foro suo diuus Augustus inscripsit (edd.: scripsit codd.)». Sul conferimento della corona ossidionale fa un cenno anche De uiris illustribus 58, 4 (nel capitolo su Scipione Emiliano): «tribunus in Africa sub Tito Mallio (vel Manlio codd. perperam) imperatore octo cohortes obsidione uallatas consilio et uirtute seruauit, a quibus corona obsidionali aurea donatus». Da notare, in questo passo, uirtute, che concorda con il testo dell’Epitoma. L. 16. Questo Charidemus (la h è stata aggiunta sopra la linea di scrittura, tra la c e la a) rimane sconosciuto; incerto, perciò, ogni tentativo di integrazione. Reid, Fragments, 294, ha supposto qui un’altra testimonianza della famosa lode, intessuta di una citazione omerica (da Odyss. 10, 495), che Catone aveva rivolto nel senato a Scipione Emiliano per i suoi atti di valore compiuti agli inizi della guerra con Cartagine (vd. Polyb. 36, 8, 7; Diodor. 32, 9a, 2; Plutarch. Cato mai. 27, 5-7): a Catone laudatus per Homerum (così è emendata la lezione del papiro) poemate (l’integrazione include naturalmente anche la parte caduta della l. 15). Dello stesso fatto dà testimonianza la Periocha 49, 16, in séguito al racconto delle gesta di Scipione. Meno probabile l’altra congettura dello stesso Reid, ibid., secondo cui tra la fine della l. 15, nella lacuna, e la parte superstite della l. 16, che riporterebbe quindi un testo corrotto, poteva esser contenuto l’inizio dello stesso passo riguardante Sulpicio Galba accusato dai Lusitani: uir perfidissimus (cf. Val. Max. 9, 6, 2) per Scribonium (i. e. Libonem) pro rostris (cf. Val. Max. 8, 1, absol. 2). Completamente diversa la restituzione congetturale di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 127: Scipionis nomen semper clarissimum Poenis erat. Ll. 16-18. In questo passo dell’Epitoma è compendiata la vicenda di Servio Sulpicio Galba, di cui si conservano parecchie testimonianze. Una notizia abbastanza estesa si trova nella

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Periocha 49, 17-19: «cum L. Scribonius tr. pl. rogationem promulgasset, ut Lusitani, qui in fidem populo Romano dediti ab Seruio Galba in Galliam uenissent, in libertatem restituerentur, M. Cato acerrime suasit (...) ipse quoque Galba cum se damnari uideret, complexus duos filios praetextatos et Sulpicii Galli filium, cuius tutor erat, ita miserabiliter pro se locutus est ut rogatio antiquaretur». La questione riguardava un fatto avvenuto l’anno precedente: violando gli accordi conclusi con i Lusitani e approfittando della loro buona fede, Servio Sulpicio Galba, propretore in Spagna nel 150 (pretore nel 151), mentre questi si trasferivano da un luogo a un altro, ne fece trucidare dall’esercito un grande numero; altri furono poi venduti come schiavi (sul proditorio eccidio dei Lusitani vd. Appian., Iber. 59, 249-60, 253; cf. anche Val. Max. 9, 6, 2; Suet., Galba 3, 2; Oros., Hist. 4, 21, 10). Per questa violazione della fides romana il tribuno della plebe L. Scribonio Libone, nel 149, aveva presentato una rogazione affinché i Lusitani ridotti in schiavitù fossero liberati e un tribunale speciale giudicasse l’operato di Galba. Catone, nonostante l’età ormai avanzata, difese con un appassionato discorso tale rogazione, volendo che fosse punito un magistrato il quale, nella sua provincia, si era reso colpevole di un così empio abuso di potere. L’accusato, però, nella sua difesa, fece in modo di suscitare la commozione abbracciando i suoi figli e il figlio di Sulpicio Gallo, di cui era tutore: la proposta di Libone, così, fu respinta e Galba assolto. Di questo fatto dà notizia già Cicerone, Brut. 89-90: (...) «cum Lusitanis a Ser. Galba praetore contra interpositam (...) fidem interfectis, L. Libone tribuno plebis populum incitante et rogationem in Galbam priuilegi similem ferente, summa senectute (...) M. Cato legem suadens in Galbam multa dixit (su Catone accusatore di Galba vd. anche Mur. 59; Liv. 39, 40, 12; Val. Max. 8, 7, 1; Tac., Ann. 3, 66, 1; Vir. ill. 47, 7). tum (...) recusans Galba pro sese et populi Romani fidem implorans cum suos pueros tum C. Gali etiam filium flens commendabat, cuius orbitas et fletus mire miserabilis fuit propter recentem memoriam clarissimi patris; isque se tum eripuit flamma, propter pueros misericordia populi commota, sicut idem scriptum reliquit Cato». Sull’orazione di Catone, che costituì probabilmente la fonte principale del fatto, si veda ancora Cicerone, ibid. 80. Tenuto nel 149 e tramandato con i titoli contra Seruium Galbam e pro direptis Lusitanis, tale discorso era inserito nel libro vii delle Origines (vd. frr. 106-109 2Peter e 150154 Sblendorio Cugusi; cf. anche Gell. 1, 12, 17; 13, 25, 15). La testimonianza di Cicerone, De orat. i, 227-228, prende spunto da un rimprovero mosso a Galba per aver basato su atteggiamenti patetici la propria difesa: (...) «quod is (Galba scil.) C. Sulpici Gali propinqui sui Q. pupillum filium ipse paene in umeros suos extulisset, qui patris clarissimi recordatione et memoria fletum populo moueret, et duos filios suos paruos tutelae populi commendasset ac se tamquam in procinctu testamentum faceret sine libra atque tabulis, populum Romanum tutorem instituere dixisset illorum orbitati». In Valerio Massimo 8, 1, absol. 2, similmente, è posta in risalto la fides romana (interposita fide) violata da Galba: (...) «reus pro se iam nihil recusans paruulos liberos suos et Galli sanguine sibi coniunctum filium flens conmendare coepit eoque facto mitigata contione qui omnium consensu periturus erat paene nullum triste suffragium habuit». Notizia più essenziale in Quintiliano, Inst. 2, 15, 8: «Seruium (...) Galbam miseratione sola, qua non suos modo liberos paruolos in contione perduxerat, sed Galli etiam Sulpici filium suis ipse manibus circumtulerat, elapsum esse cum aliorum monumentis, tum Catonis oratione testatum est». Da questa, come anche da un cenno in Frontone, p. 52, 1 van den Hout, si può dedurre che la storia di Sulpicio Galba doveva esser divenuta esemplare presso i retori.

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Il passo dell’Epitoma, del quale una parte (compreso l’inizio, alla l. 16) è caduta nell’ampia lacuna della metà di destra della colonna di scrittura (20 lettere mancanti alla l. 17; vd. POxy iv , 98) e che si conclude con la parola mutila com[, compendia i due momenti cruciali della storia, che consistono nell’accusa contro Galba (Lusi]tanis reus) e nella difesa basata sull’espediente patetico (fili quos flens complexus est o commendauit). Tra le parole cadute nella lacuna alla l. 16 doveva trovarsi, come inizio del periodo, il nome dell’accusato, con funzione di soggetto: Ser. Galba (così concordemente gli editori). Probabile che la preposizione con Lusi]tanis (integrazione da ritenere sicura, tra le ll. 16 e 17) fosse de (Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 133), per indicare che il procedimento a carico di Galba verteva su una questione riguardante questo popolo (così interpretano anche Schlesinger (cf. Livy, 31); Jal (vd. Abrégés 2, 121); Hillen (cf. T. Livius, Römische Geschichte xlv , 143). Il termine mutilo product[ è comunemente integrato dagli editori con -us e riferito, quindi, a reus. Secondo la testimonianza di Quintiliano (vd. sopra), però, non sarebbe da escludere un riferimento a fili e, di conseguenza, una integrazione con -i (cf. anche POxy iv , 105): non l’accusato, ma i figli furono portati al cospetto di tutti (la prima proposizione del passo, così, risulterebbe puramente nominale: Servio Galba imputato riguardo ai ? Lusitani). Assai probabile che com . [ (anche dall’esame autoptico risulta quasi sicura la lettura di m) fossero le prime lettere del predicato verbale principale, con cui si conclude il passo. Invece di complexus est di Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), gli editori sono più propensi a integrare la lezione mutila con com[mendauit (o -abat), derivata dalle testimonianze parallele di Cicerone e di Valerio Massimo, citate sopra: «cum suos pueros tum C. Gali etiam filium flens commendabat; quod (...) duos filios suos paruos tutelae populi commendasset; paruulos liberos suos et Galli (...) filium flens conmendare coepit». Ll. 18-20. È compendiata in questo passo la storia di Andrisco, o Pseudofilippo, della quale dà testimonianza anche la Periocha 49, 21: «Andriscus quidam, ultimae sortis homo, Persei regis se filium ferens et mutato nomine Philippus uocatus cum ab urbe Romana, quo illum Demetrius, Syriae rex, ob hoc ipsum mendacium miserat, clam profugisset, multis ad falsam eius fabulam uelut ad ueram coeuntibus, contracto exercitu totam Macedoniam aut uoluntate incolentium aut armis occupauit». Un certo Andrisco, di oscuri natali, si era presentato come figlio del re Perseo e si faceva chiamare Filippo; radunato un esercito, soprattutto con l’aiuto di regoli traci, occupò militarmente la Macedonia. Nella Periocha, a questo passo, in cui sono esposte le circostanze tra il 150 e il 149, segue una specie di digressione retrospettiva, in cui si racconta per sommi capi la vicenda di Andrisco fino al suo arrivo da Demetrio I di Siria, dal quale pretendeva aiuti per ottenere il trono macedone (ibid. 22-27; su questa parte della storia, vd. anche Diodor. 31, fr. 40a; 32, fr. 15, 1-2; Zonar. 9, 28, 2, dal libro 21 di Cassio Dione). Consegnato dal re ai Romani come impostore, Andrisco era quindi fuggito dall’Italia e aveva intrapreso senza esitazioni la sua avventura. In modo simile anche la narrazione di Livio, verso la fine del perduto libro 49, doveva culminare con il reclutamento di truppe e la conquista della Macedonia. I punti salienti del passo della Periocha, specie del par. 21, si trovano compendiati anche nell’Epitoma: Andrisco, per avallare le sue pretese, si spacciava per un discendente della dinastia macedone; radunato un esercito, aveva occupato tutta la Macedonia. Que-

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sta sequenza di avvenimenti, attraverso il contributo dell’Epitoma, si può correttamente attribuire al 149, primo anno della guerra contro Andrisco (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 91 s.). Gli editori congetturano, con buona probabilità, che il nome di Andrisco, come complemento d’agente del predicato verbale principale (occupata), si trovasse verso la fine della l. 18: ab Andrisco; con questo, poi, è collegata la proposizione relativa della l. 19: qui se Philippi filiu[m (la scrittura phil-, nel papiro, rivelerebbe uno scriba di formazione greca; vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1020) ferebat. Come ho accertato nell’esame autoptico, risulta sicura la lettura qui, soprattutto della prima lettera, di cui si scorge bene la gamba inferiore che scende sotto la riga; anche la u si può ritenere sicura. Probabile, nell’insieme, la restituzione testuale integrata da ferebat, congettura di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23, intesa come predicato verbale della proposizione relativa (dalla lettura ti.i Grenfell e Hunt in POxy iv , 98, avevano congetturato ferente). Si rileva qui una confusione tra il nome di Perseo, del quale Andrisco si dichiarava figlio, e quello di Filippo, con cui lo stesso Andrisco si faceva chiamare (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23). Tale confusione, tuttavia, non è imputabile a un guasto testuale nel papiro o nella trasmissione manoscritta, ma risulta propria di questo passo dell’Epitoma o di una tradizione storica particolare da cui esso sia derivato; non occorrerà quindi adattare il testo alla versione corretta della notizia, come proposto da Reid in POxy iv , 105 e Fragments, 294 (Per]sei se Philippum), il quale si basava, però, sulla lettura ti.i, che si può ritenere superata (vd. sopra). I particolari sull’impostura dello Pseudofilippo si apprendono già da Velleio 1, 11, 1: «Pseudophilippus, a mendacio simulatae originis appellatus, qui se Philippum regiaeque stirpis ferebat, cum esset ultimae»; Floro, Epit. 2, 14, 3: «quippe regnum pariter et bellum uir ultimae sortis Andriscus inuaserat, dubium liber an seruus, mercennarius certe; sed qui uolgo Philippus ex similitudine Philippi Persae filii uocabatur, regiam formam, regium nomen, animum quoque regis impleuit». Con il nome di Pseudofilippo, inoltre, questo personaggio è denominato comunemente nelle fonti latine (vd., ad es., Tac., Ann. 12, 62, 1). Le fonti greche presentano in modo simile la pretesa discendenza di Andrisco da Perseo (vd. Diodor. 31, fr. 40a; 32, fr. 15, 1; inoltre, Zonar. 9, 28, 2, da Cass. Dio, lib. 21; Porphyr., Chron. fr. 4, 13 FHG iii p. 702 = fr. 3, 19 FGrHist nr. 260) e il falso nome di Filippo che egli si era dato (vd. Polyb. 36, 10, 2; Zonar. e Porphyr., ibid.). Con la versione dell’Epitoma, invece, concorda Ampelio 16, 5, che è la sola altra fonte in cui Andrisco è detto figlio di Filippo: «Pseudophilippus, uir plebeius et degener, cum ex similitudine formae Philippi filium se persuasisset et Macedonas in bellum excitasset (...) concitata rursus Macedonia Thraciam bello recepit». La concordanza delle due fonti farebbe supporre, più che un semplice errore, una tradizione diversa, come si è detto sopra. Verso la fine della l. 19 doveva trovarsi il nome della Macedonia, comunemente integrato dagli editori, come soggetto del predicato verbale principale, con cui si ritiene sicuro che il passo avesse termine: Macedonia] per arma occupata; cf. Perioch. 49, 21: «Andriscus (...) contracto exercitu totam Macedoniam aut uoluntate incolentium aut armis occupauit». Anche Velleio 1, 11, 1, citato sopra, riferisce in modo simile la conquista della Macedonia compiuta da Andrisco: «armis occupata Macedonia» (cf. Eutr. 4, 13: «in Macedonia quidam Pseudophilippus arma mouit»). Della Macedonia conquistata dallo Pseudofilippo parlano anche Polibio 36, 10, 4-5; Diodoro 32, fr. 15, 6-7; Zonara 9, 28, 3 (dal lib. 21 di Cassio Dione); Porfirio, Chron. fr. 4, 13 FHG iii p. 702. Nel sintagma per arma con valore strumentale, mentre in Livio si trovano soltanto le frasi armis occupare e obtinere, Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 227 s. ha colto un’evoluzione dell’uso sintattico.

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L. 20. Nella lacuna di questa riga (calcolate venti lettere circa; vd. POxy iv , 98) Reid, Fragments, 294, suppone che potesse trovarsi un riferimento alla missione di Scipione Nasica, mandato in Grecia all’inizio del conflitto con lo Pseudofilippo (vd. Zonara 9, 28, 4; oppure, meno probabilmente, un riferimento agli antefatti della vicenda dello stesso nemico di Roma (vd. Periocha 49, 22-27). Ll. 21-23. L’Epitoma riferisce, in questo punto, la celebrazione dei quarti ludi saeculares, avvenuta a Roma nel 149 a.C., sotto il consolato di Manilio e Marcio Censorino (vd. POxy iv , 105; Wissowa, Religion und Kultus, 309; 430-432). Si nota che, contrariamente alla consuetudine dell’Epitoma, i nomi dei due consoli sono ripetuti, dopo la regolare indicazione collocata al principio dell’anno; inoltre, mentre la prima volta sono scritti nella forma completa e in modo corretto (eccettuata l’iniziale del praenomen: M. invece di M’.; vd., sopra, il commento alla l. 6), nella l. 21 risultano entrambi imprecisi: Manlio invece di Manilio; Marco invece di Marcio (discussione in Schmidt, Iulius Obsequens, 52 n. 3). Anche la Periocha 49, 6 colloca tale avvenimento nel 149, sotto i medesimi consoli: «ludi Diti patri ad Tarentum ex praecepto librorum facti, qui (add. Gronovius) annum centesimum primo Punico bello, quingentesimo et altero anno ab urbe condita facti erant». Nel passo della Periocha, però, la notizia è inserita tra le due ambascerie che si recarono a Roma prima dello scoppio della guerra, cioè l’ambasceria degli Uticensi (vd. parr. 4-5 e, sopra, Epit. ll. 7-8) e quella dei Cartaginesi (vd. par. 7 e, sopra, Epit. ll. 8-9). Ciò significa che essa doveva trovarsi nella parte iniziale del libro liviano, tra i fatti del principio dell’anno. Così anche nell’Epitoma liviana perduta del sec. I. La collocazione nell’Epitoma del papiro, invece, potrebbe essere derivata da una più tarda rielaborazione, che si è supposto fosse il Chronicon adottato come fonte supplementare (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 74). Dal testo dell’Epitoma, mutilo per una buona metà anche in questo punto del papiro, si ricavano pochi elementi sicuri. Il passo, comprendente tre righe intere, comincia alla l. 21, con la menzione dei consoli. Alla l. 22 l’ultima lettera di quos è caduta quasi interamente in una lacuna di dimensione minima, che occupa quasi soltanto la superficie della stessa lettera; sono tuttavia visibili due punte, dalle quali risulta quasi certa la lettura di s. Alla l. 23 carminibus può riferirsi alle prescrizioni dei libri sibillini, che regolavano tali cerimonie; le lettere superstiti tra le due lacune che interessano questa riga (en.) sembrano parte del nome Terentum (o Tarentum), che era il luogo, nel Campo Marzio, presso il quale furono celebrati i ludi (la misura della lacuna, lunga 1,5 cm, giustifica l’integrazione di tre lettere). Tale restituzione presuppone quindi nell’Epitoma una versione conforme alla Periocha, riguardo alla celebrazione dei ludi saeculares, «i quali convenne che fossero celebrati secondo i responsi della Sibilla». Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 127, non ammettendo che il nome del luogo di Roma comparisse nella stessa forma declinata come il nome della città (Ter- o Tarenti: «zu Tarent»), ha restituito il testo nel modo seguente: dis centesimo quoque anno fieri. Müller, Jahresbericht 2, ritenendo improbabile che nell’Epitoma potesse trovarsi l’espressione factos quos oportuit, ha congetturato una diversa ricostruzione dell’insieme: c[oss. dicunt (?) ludos saecula]res factos, quos opo[rtebat Diti ex Sibyllae] carminibus Taren[ti fieri]. Un’altra testimonianza della celebrazione dei ludi saeculares nel 149 è data da Zosimo

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2, 4, 2, il quale afferma che tale festa, prima che fosse ripristinata da Ottaviano Augusto, era stata celebrata l’ultima volta sotto i consoli Lucio Censorino e Marco Manilio (Ì¿ÚÎÔ˘ Ì·ÏÏ›Ô˘ in V e negli Apographa codicis Vaticani); i tempi nei quali conveniva (ö‰ÂÈ, cf. opo[rtuit nell’Epitoma) celebrare il sacrificio e condurre la processione erano stati fissati dai quindicemviri preposti a conservare le prescrizioni della Sibilla. Altri particolari si trovano negli Scholia pseudoacroniana in Hor. carm. saec. 8: «si Diti et Proserpinae triduo (...) ludi fuissent celebrati et carmen cantatum inter sacrificia» (cf. carminibus nell’Epitoma: possibile una diversa integrazione?) e in Agostino, Civ. 3, 18. Quanto all’anno in cui furono celebrati i quarti ludi saeculares, Censorino 17, 11 riporta tre pareri diversi negli autori antichi: «Antias «(...) et Varro et Liuius relatos esse prodiderunt L. Marcio Censorino M’. Manilio (Manlio codd.) cons. post Romam conditam anno dcv. at Piso Censorius et Cn. Gellius, sed et Cassius Hemina, qui illo tempore uiuebat, post annum factos tertium adfirmant Cn. Cornelio Lentulo Lucio Mummio Achaico cons., id est anno dciii; in xv uirorum autem commentariis notantur sub anno dcxxviii Aemilio Lepido L. Aurelio Oreste cons.». Una divergenza si rileva, pertanto, tra gli stessi annalisti: secondo il calcolo di Valerio Anziate, Varrone, Livio, da cui dipendono anche le due versioni compendiate, l’anno fu il 605 a.u.c. (149 a.C.); secondo il calcolo di Pisone, Gneo Gellio e Cassio Emina, che è quello da ritenere più corretto, l’anno fu il 608 a.u.c. (146 a.C.). Secondo i quindicemviri, invece, l’anno fu il 628 a.u.c. (126 a.C.). Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 50, ritiene che proprio in questa controversia cronologica sia da cercare la ragione della diversa collocazione della notizia dei ludi saeculares nell’Epitoma, la quale sarebbe stata spostata intenzionalmente dall’inizio dell’anno, dove si trova nella Periocha (così anche in Livio), alla fine del compendio del libro 49, per dare maggiore risalto all’incertezza della data. Si giustificherebbe, così, la seguente congettura dello stesso, ibid.: Manlio et Marco c[os. Dicunt ludos saecula]re[s] factos quos opo[rtuit fieri ex Sibyllae] carminibus [Cn. L]en[tulo L. Mummio cos.]. L. 24. Non si scorge nel papiro alcuna traccia di una l. L’indicazione del libro risulta quindi caduta tutta nella lacuna (così già Grenfell e Hunt in POxy iv , 98); diversa la lettura di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 22 s. (l[ib.). Ll. 25-26. Probabile che questo passo dell’Epitoma, esteso fino alla metà della l. 26, riguardasse gli sviluppi dell’azione dello Pseudofilippo dopo la conquista della Macedonia. In modo simile comincia il compendio del nuovo libro la Periocha 50, 1: «Thessalia, cum et illam inuadere armis atque occupare Pseudophilippus uellet, per legatos Romanorum auxiliis Achaeorum defensa est». Qui l’argomento verte sul tentativo compiuto dallo Pseudofilippo di conquistare anche la Tessaglia, la quale fu difesa dai legati romani con truppe di rinforzo degli Achei. Degli aiuti richiesti dai Tessali agli Achei, nella stessa circostanza, parla anche Polibio 36, 10, 5. Da Zonara 9, 28, 3, nel compendio dal perduto libro 21 di Cassio Dione (ed. Boissevain, i, 312), apprendiamo che lo Pseudofilippo, dopo avere occupato la Macedonia, conquistò una parte non piccola della Tessaglia; successivamente, dopo la sconfitta di Publio Iuventio Thalna, invase la Tessaglia e ne devastò gran parte (ibid. 5). Dopo aver tentato più volte di sottomettere la Tessaglia, lo Pseudofilippo riuscì quindi a invadere una parte di tale regione, ma non a conquistarla tutta. Si può pensare che

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con l’aiuto degli Achei, arrivati tempestivamente, i Tessali abbiano potuto organizzare un’efficace resistenza. Da parte di Roma fu mandato, con un po’ di ritardo, il tribuno militare Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo, il quale dovette contribuire alla resistenza nella Tessaglia, ma soprattutto avvisò il senato della difficile congiuntura (ibid. 4). Ammessa tale corrispondenza con l’inizio della Periocha all’inizio del compendio del libro 50, Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 133, vd. lo stesso Rossbach già in Die neue Livius-Epitome, 230) ha congetturato che questo passo dell’Epitoma riguardasse lo Pseudofilippo ricacciato dalla Tessaglia: Pseudophilippus (o Andriscus) ex Thessalia pulsus; tale resistenza sarebbe stata attuata per mezzo di alleati del popolo romano, come gli Achei, accorsi in aiuto dei Tessali: pe[r] so[ci]os popu[li Romani (cf. il passo della Periocha citato sopra: per legatos Romanorum auxiliis Acheorum). Riguardo all’espressione socios populi Romani (così secondo l’integrazione più plausibile), alla l. 25, si può supporre un riferimento anche più ampio. Nel medesimo racconto di questi avvenimenti, Zonara 9, 28, 5 narra che la flotta di Attalo, re di Pergamo, si unì alla spedizione del pretore Quinto Cecilio Metello, mandato da Roma nel 148, con ingenti forze, per debellare lo Pseudofilippo: ηd Ôî ï òAÙÙ·ÏÔ˜ ÚÔÛ‹Ì˘Ó ӷ˘ÙÈΆ. Di ciò dà testimonianza anche Strabone, 13, 4, 2: (ï òAÙÙ·ÏÔ˜ scil.) Û˘ÓÂÌ¿¯ËÛ ^PˆÌ·›ÔȘ âd ÙeÓ æ¢‰ÔÊ›ÏÈÔÓ. Questo fatto avvenne di certo molti mesi dopo (già nel 148), mentre le circostanze di cui parlano all’inizio i compendi del libro 50 si collocano ancora nei primi mesi del 149 (vd. A historical commentary, 670; nel 150, secondo MRR i , 457). L’Epitoma, tuttavia, come si è visto altre volte, potrebbe avere compendiato nella frase per socios populi Romani anche riferimenti a sviluppi posteriori, eppure coerenti, della stessa azione, così da comprendervi, sinteticamente, i vari aiuti che operarono con le forze romane contro lo Pseudofilippo nel corso del conflitto. Anche la prima metà della l. 26 doveva far parte del medesimo passo. Nella lezione del papiro ultimam si riconosce in modo abbastanza sicuro il tratto superiore discendente della a, nella traccia visibile lungo il bordo della piccola lacuna in mezzo alla riga. Plausibile l’integrazione congetturale di Rossbach, ibid. (vd. lo stesso Rossbach già in Die neue Livius-Epitome, 230): in ultim[a]m T[hraciam. Il predicato verbale (pulsus) sarebbe completato dalla determinazione del luogo (gli estremi confini della Tracia; cf. Zonara 9, 28, 7) in cui lo Pseudofilippo, ricacciato dalla Tessaglia, trovò rifugio, soprattutto dopo l’intervento di Quinto Cecilio Metello. Ciò significa che anche qui si avrebbe nell’Epitoma una sintesi di momenti successivi: lo Pseudofilippo non dovette rifugiarsi subito in Tracia, ma soltanto più tardi, quando l’arrivo di Metello aveva già fatto volgere le sorti del conflitto a favore di Roma. Non sembra opportuno, però, correggere in t l’ultima lettera che si scorge prima della lacuna alla l. 26, in modo da adattare il testo alla congettura desunta dal ragionamento storico. Si potrebbe pensare a un diverso nome di luogo; in ogni modo è bene che il testo, nell’incertezza, rimanga inalterato così come si presenta nel papiro: c[***. A tale dato testuale si attiene la congettura di Fuhr, Liviusepitome, 1183: c[alamitatem deductus. Un riferimento geografico a un nome caduto nella lacuna è presupposto nella restituzione di Rostovtzev, Otryvki, 68: in ultimum c[oactus. Un duplice ritocco del testo del papiro è invece richiesto dalla congettura di Reid, Fragments, 294: in ultimum G[reciae finem repulsus latitabat. Ll. 26-27. Nella l. 27, come ho accertato dall’esame autoptico, dalla prima lacuna, lunga 1,7 cm, escono le estreme punte del tratto leggermente inclinato e discendente di una lettera,

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la cui lettura rimane molto incerta: a (più probabile) oppure l. Dopo un’altra lacuna di dimensione minima (0,8 cm), si scorgono, in un breve tratto residuo della superficie del papiro (0,8 cm) le tracce di tre lettere: nelle prime due sono forse riconoscibili at, mentre la terza resta indecifrabile (a. .t.). Tra l’ampia lacuna della l. 26 (circa ventiquattro lettere; vd. POxy iv , 98) e la prima metà della l. 27 Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23, prendendo spunto dalle lettere superstiti in questa riga (lat[ potrebbe essere lata est), ha congetturato che si trovasse una sommaria menzione della lex Calpurnia de repetundis, la quale, votata nel 149 come plebiscito su proposta del tribuno Lucio Calpurnio Pisone Frugi, istituiva la quaestio de repetundis (vd. Rotondi, Leges publicae, 292). Con una più estesa integrazione, anch’essa puramente ipotetica (vd. Abrégés 2, 135 n. 1), Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 133), accogliendo la congettura di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 127 ha supposto che sia menzionata qui la lex Atinia, votata anch’essa come plebiscito, la quale decretava che i tribuni della plebe fossero membri regolari del senato (vd. MRR i , 458 s.), secondo la testimonianza di Ateio Capitone (fr. 2 Strzelecki), citata in Gellio 14, 8, 2. Non si hanno, tuttavia, elementi sicuri per la datazione di questa legge (altri la attribuiscono a un tribuno del 196). Nessun dato storico certo si può quindi ricavare da questo passo gravemente lacunoso dell’Epitoma.

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POxy IV 668, Col. V (Ab urbe condita librorum 50-51 Epitoma) [ ± 3 Bithy]niae potitus est. ad Attalum regem [ ± 7 ]inpugnamentasi† sunt legati †Marco† [ ± 3 poda]g. ricus A. Hostilius Mancinus capite [ ± 7 ]a quondam L. Man{i}lius Volso stolidus [ ± 7 ] legationem dixerunt, M. Cato respondit [ ± 9 ] n.ec pedes nec cor haberent. M. Sca[n]tius [ ± 9 ]am tulit in stupro depre.h.ensi ] Piso]ne cos. [ ± 6 ult]imae senectutis liberos iiii [ ± 9 ]s reliquit decedens; cuius re[gnum legit]i.mis filis per Aemilianum distributum. [ ± 6/7 leg]a.tus ad Masinissam missus [ ± 8 H]asdrubal quod adfinis Masiniss. erat [ ± 9 ]ta subsellis occisus est. Scipio Aemilianus [ ± 9 ]u. s. [ ± 9 ] in Africam pr[o]s.pere dimicatus e.[s]t. [ ± 9 ] Thessalia exercitus caesus. [ ± 9 ] Metello captus. sacrarium [ ± 9 ]us †soci† maximo incendio ] lib. li] ] cos. [ ± 4 Cartha]gine in captos crudelissime [ ± 10 ]re obsidentis Romanos non [ ± 4 Carthag]inem crebris proeli. [ ± 10 ]um pr. Corinthi legati Romano[rum ± 5 Lu]sitani subacti.

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3 punto a media altezza dopo a iniziale di abbrev. lievi stacchi tra le singole parole 4 spazio tra ]a e quondam punto a media altezza e lieve stacco dopo l iniziale abbreviata 5 punto a media altezza e lieve stacco dopo m iniziale di abbrev. 6 punto a media altezza dopo m iniziale di abbrev. 8 ampio spazio tra ]ne e cos punto a media altezza dopo cos 9 lungo e sottile tratto orizzontale sopra le asticelle del numero iiii 11 ultime due lettere (-um) di distributum scritte un po’ più in alto, quasi sopra la riga 12 breve tratto leggermente arcuato, in posizione un po’ obliqua, quasi come un accento grave, discendente da sinistra verso destra, sopra la i di missus 13 punto a media altezza dopo Masiniss 14 stacco tra subselli e socius 22 ampio spazio prima di cos punto a media altezza dopo cos 23 sopra appius, tra u e s, ma più vicino a u, è tracciato un segno più piccolo delle altre lettere, leggermente inclinato in avanti, simile a una p con la pancia superiore rivolta a destra 26 stacco dopo ]um punto a media altezza e stacco dopo pr iv, 27-v, 1 p]at[re occiso ? Nicomedes re- (col. iv , l. 27)] [gno Bithy]niae Korn., Prusia occiso Luterb., Ross.; Prusias ?] [rex Bithy]niae G.-H., per Nicomedem filium Prusias rex Bith. Reid m. pr. papyri (pos.) corr. scriba: positus leg. G.-H., positus dub. corr.; occisus coni. Reid 2 crucem posui: in Pergamenos ? missi G.-H., [et Prusia]m Pergamum missi Reid, [deductum (Attalum scil.)] in pugnam missi (vel [a Romanis] in Pergamum) Gund. et Korn., [et Nicomeden, ne] in pugnam irent Luterb., [iturum] in pugnam missi Müller 2; [Pergami] et Prusiam endati Ross. (vel in pugnam euntem Müller 2) cruces posui: M(arcus) Archias dub. G.-H., Marc[us] Korn., Ross. 3 suppl. G.-H., uir podagr. Korn. 4 test]a G.-H., ictus t. Korn. (icto Müller 1); laeso tegula Luterb., comminuto (-us) vel deminuto (-us) quond. Reid i papyri (Manil-) del. Korn. 5 [his qui eam] (vel quos esse) Korn., qui cum ob Reid; bonam eam Müller 1, cunctari Ross., ubi morari Luterb. pap. (lig-) corr. G.-H. 6 [nec caput] … habere{nt} G.-H., eam nec c. … -ere Ross.; (qui ?) cum nec c. … haberent Korn., quod pro cum fort. recte Wölfflin, Lejay Sca[n]tius Korn.: -tius G.-H., Scaptius Luterb. 7 [x– aeris mult]am Reid, qui repulsam Korn., turpem famam Luterb., grauem poenam Müller 1, censoris notam Ross.; [plebiscit]um G.-H., [rogation]em Fuhr, [de uiris leg]em van Wageningen 2, [legem bon]am Rostovtzev … deprehensi G.-H. (de uiris … deprehensi van Wageningen 2), deprehens[us] Korn. 7a versum add. Korn., se occidit coni. 8 [Sp. Albino L. Piso]ne G.-H. 9 [Masinis(sa) ult]imae G.-H. 10 et xl uirile]s Luterb., Ross. (et L opesque magnas coni.), superstites Reid, numero Müller 1; [et xl notho]s Korn.; [legitimo]s (liberos iiii, l. 9) Rostovtzev 11 pap. suppl. (vel natu max]imis) et corr. (permiliaannum) G.-H. iii ante legit. fil. add. Reid; iii max]imis fil. Rostovtzev 12 Marcellus leg. G.-H., Ross., Claudius Korn. 13 obrutus coni. G.-H., interiit vel absumptus Korn., perit in mare Luterb., Ross. Masiniss(ae) scil. 14 [per fragmen]ta subselli vel a suis in cur]ia -is Korn. (a suis in curia … Luterb., Ross.); suspicione or]ta Fuhr pap. (ocius; soc- scr. G.-H.) corr. G.-H.; saucius Lejay 15 [consul creat]u.s G.-H. 16 [M’. Manilius] G.-H. m papyri (Africam) del. G.-H. pap. (dimicatus e.) def. Korn.: dimicauit G.H., a M’. -io] … dimicatum est Müller 1, Ross. 17 [Iuuentii pr. in] G.-H. (-ti Korn.); ab Andrisco Luterb. 18 [Philippus a] G.-H., Andriscus a Korn., Ross. 19 *** et laur]us G.-H., Opis et laur. Korn. (Iouis Reid, regiae Ross., van Wageningen 2), et altera laur. Opis Luterb. cruces posui, pap. (soci) def. Gund. et Korn.: foci Ross., Opis G.-H., loci Gund., sacra Reid (vel una cum omnib]us sacris), sola Reinhold 20 versum add. G.-H., inuiolata coni. (-um Reid), non uiolata Luterb. 21 suppl. G.-H. 22 [P. Cornelio C. Liuio] G.-H. 23 suppl. G.-H. clausa ante Carth. coni. Ross.; captos (vel patres)] Carthaginiensis (-es) Reid in captos ego (appius pap.), in aptius Gund., Ross.; Hasdrubal G.-H., Rostovtzev 24 Poeni saeuie]re fort. recte Ross., saeuitum quare Korn.; [captos] … Hasdrubal... interemit. lone Reid, [Hasdrubal Cartha]gine captiuos … occidit. (Hasdrubal scil.) pellere … non potuit (l. 25) Luterb. obsidentes G.-H., -is ego (-iis pap.) pap. (Romanos) def. Korn. (acc. pro nom.): -i G.-H., Ross. [saeuit (vel -iit). expugna]re obsidentes Romanos (lege Romani) dub. Rostovtzev 24-25 non | cepere Reid, non pepulere Müller 2, non possunt Rostovtzev; con|ciunt (vel conterunt) Korn., no|cent Ross. 25 suppl. et corr. G.-H. inclusere (Carthaginem scil.) huius versus in fine add. Luterb., petentis vel qui Carthaginem (...) petebant Müller 2 26 [per Achaeor]um G.-H., Critolaum Ross., Diaeum Luterb. 26-27 Romano|rum Ross. (-no|um Korn.): Romani

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G.-H. 27 suppl. et corr. (subalti pap.) G.-H. pulsati coni. G.-H., uiolati Korn.; an pulsi, irrisi? pr(aetorem scil.)

Col. iv, l. 27

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[*** Nicomede ?] Col. v (Ab urbe condita librorum 50-51 Epitoma) s’impadronì [del regno] di Bitinia. Al re Attalo [***] *** furono mandati (?) come ambasciatori Marco, gottoso, Aulo Ostilio Mancino [colpito ?] un tempo al capo, Lucio Manlio Volsone, stolto. Dissero che la legazione (?) [***], Marco Catone rispose [che] non avevano [né testa] né piedi né mente. M. Scantio (Scantinio ?) emanò [una pena ?] per chi fosse sorpreso a commettere abuso sessuale. [?] Sotto i consoli [Spurio Albino, Lucio] Pisone. [Massinissa] morendo nell’estrema vecchiaia lasciò quattro figli [***]; il suo regno fu spartito tra i figli legittimi da Emiliano. [Claudio (Marcello ?)] mandato come ambasciatore a Massinissa [perì ?]. Asdrubale, poiché era parente di Massinissa, [***] fu ucciso con gli scanni. Scipione Emiliano [fu creato console]. [Manio Manilio ?] combatté con buon successo in Africa. In Tessaglia fu sbaragliato l’esercito [di Iuventio ?]. [Filippo ?] fu catturato da Metello. Il santuario [***] da (?) un grandissimo incendio; inviolato l’alloro. ?] Libro li] Sotto i consoli [Publio Cornelio, Gaio Livio]. [***] a (?) Cartagine, nel modo più crudele, [i Punici infierirono ?] sui prigionieri. I Romani che assediavano non [***]Cartagine per (?) i frequenti scontri. [*** da Critolao ?] capo supremo a Corinto gli ambasciatori dei Romani [furono maltrattati ?]. I Lusitani furono sottomessi. Col. iv, l. 27-col. v, l. 1.

Si può ritenere sicura, tranne possibili particolarità grafiche nella parte caduta della parola, l’integrazione Bithy]niae all’inizio della l. 1. Così la Periocha 50, 2 riassume i fatti interni della Bitinia, ugualmente nel tratto iniziale del nuovo libro: «Prusias, rex Bithyniae, omnium humillimorumque uitiorum, a Nichomede filio adiuuante Attalo, rege Pergami, occisus». Anche altri autori riferiscono che nel 149 a.C. il re di Bitinia Prusia ii fu fatto uccidere dal figlio Nicomede, il quale si assicurò così l’ascesa al regno, negatagli dal padre, a quanto pare, a favore di altri eredi. Diodoro 32, fr. 21 riferisce che Nicomede prese il regno della Bitinia dopo aver fatto uccidere il padre, il quale si era rifugiato nel tempio di Zeus: ·Ù¤Ú· (...) Î·Ù·Ê˘ÁfiÓÙ· Âå˜ Ùe ÙÔÜ ¢Èe˜ îÂÚeÓ àÓÂÏÒÓ, ·Ú¤Ï·‚ ÙcÓ ‚·ÛÈÏ›·Ó Ùɘ BÈı˘Ó›·˜. Secondo la narrazione complessiva di Appiano,

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Mithrid. 4, 9-7, 23, da cui si ricavano anche gli antefatti della storia (cf. anche Iust. 34, 4, 1-5), gli abitanti di Nicomedia, dove Prusia si era rifugiato dopo l’inutile missione dei legati romani, fecero entrare nella città Nicomede con il suo esercito; alcuni uomini, mandati dallo stesso Nicomede, uccisero Prusia nel tempio di Giove (7, 22). Nicomede regnò così sulla Bitinia al posto del padre (7, 23). La medesima connessione tra la presa del potere da parte di Nicomede e l’uccisione di Prusia anche nelle versioni compendiate di Zonara 9, 28, 1 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 311 s.) e di Giustino 34, 4, 5. Si discosta parzialmente Strabone 13, 4, 2, secondo cui Prusia fu fatto uccidere da Attalo ii, dopo che questi aveva incitato Nicomede a cospirare contro il padre. Alla l. 1, dalla lettura positus Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), hanno sospettato un guasto testuale nel papiro (positus? ibid. 105; occisus, Reid, Fragments, 294). Dubbia, tuttavia, si rivela la terza lettera in questa parola: più alta delle altre lettere e sovrastata da un corto tratto orizzontale. Dall’esame autoptico mi è sembrato di poter constatare che tale forma particolare sia frutto di una correzione, eseguita probabilmente dallo stesso scriba (identico appare infatti il colore dell’inchiostro), di s, scritta all’inizio per errore, in t, che assicura la lezione corretta: potitus. Questa, d’altronde, la lezione che già Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25, aveva restituito, come necessaria per il senso, come correzione del presunto errore del papiro (anch’egli leggeva pos-, ma notando che la s appare incerta; ibid. 24). Pienamente conforme al contenuto storico del fatto, la lezione potitus est è da intendere come predicato verbale principale, da cui è assai probabile che dipendesse regno Bithy]niae, come ha integrato lo stesso Kornemann (alla l. 1 si sarebbe trovata soltanto la sillaba -gno della parola, divisa tra le due colonne, poiché nella lacuna iniziale della l. 1, lunga 3 cm circa, non c’è spazio residuo per un numero maggiore di lettere mancanti). Si può ritenere, di conseguenza, che soggetto della proposizione fosse Nicomedes, caduto alla fine della colonna precedente (iv, l. 27; vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 23); non Prusias, secondo la congettura di Grenfell e Hunt. Impossibile confermare, invece, se prima del nome di Nicomede si trovasse una frase appartenente al medesimo passo (patre o Prusia occiso), inserita come integrazione congetturale da Kornemann, ibid., e Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 133). Ll. 1-6. In questo passo, ancora riguardante la Bitinia al tempo della contesa tra Prusia e il figlio primogenito Nicomede per il trono (150/149 a.C.), l’Epitoma menziona la curiosa ambasceria mandata dal senato nel tentativo di pacificare i contendenti, fatta bersaglio del dileggio di Catone. In modo simile, ma meno preciso, poiché omette i nomi dei tre legati, la Periocha 50, 3 riferisce la notizia dell’ambasceria romana: «cum iii legati ad pacem inter Nicomeden et Prusiam faciendam ab Romanis missi essent, cum unus ex his multis cicatricibus sartum caput haberet, alter pedibus aeger esset, tertius ingenio socors haberetur, M. Cato dixit eam in legationem, nec caput nec pedes nec cor habere» (testo corretto in alcuni punti da Gronovius e Iahn). Le circostanze dell’ambasceria si apprendono dalla più ampia narrazione di Appiano, Mithrid. 6, 17-20: scoppiata la rivolta di Nicomede, mentre il re Attalo penetrava nella Bitinia, Prusia mandò a Roma suoi delegati per accusare coloro che volevano conquistare il regno. Il pretore urbano incaricato di formare l’ambasceria, volendo favorire Attalo contro Prusia, scelse tre uomini affetti da varie infermità, i quali apparvero tanto inadeguati da suscitare il dileggio di Catone. Anche qui, come nella Periocha citata sopra e in Plutarco, Cato mai. 9, 1, non sono riportati

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i loro nomi. Tale particolarità dell’Epitoma, in confronto alle altre versioni, è più ampiamente discussa in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 77. Nella narrazione di Polibio 36, 14, 1-5, invece, sono menzionati i nomi dei tre legati: Marco Licinio, quello ammalato di gotta; Aulo Mancino, la cui testa era coperta di cicatrici; Lucio Malleolo (Ì·ÏÏÈÔϤˆÓ in M, corretto in §Â‡ÎÈÔ˜ M·ÏϤÔÏÔ˜ nell’ed. Buettner-Wobst, ma forse da correggere, secondo il testo dell’Epitoma, in §Â‡ÎÈÔ˜ M¿ÏÏÈÔ[˜ Oéfi]ÏÛˆÓ; vd. POxy iv , 94; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 51; A historical commentary, 673), considerato l’uomo più stolto tra i Romani. Polibio riporta in una forma più estesa il motto sarcastico di Catone, divenuto proverbiale (vd. Die Sprichwörter, 74 s.): Prusia sarebbe morto e Nicomede invecchiato, prima che questa ambasceria giungesse in Bitinia; nulla avrebbe potuto compiere una missione senza gambe né testa né mente. Nella versione di Diodoro 32, fr. 20, gli stessi nomi degli ambasciatori sono riportati in una forma ridotta: Licinio, Mancino, Lucio. Alla l. 1 l’Epitoma dichiara che la missione diplomatica romana era rivolta anche al re Attalo II di Pergamo: ad Attalum regem. Nella lezione sicura del papiro, l’ultima m è coperta da un alone abbastanza esteso, che tocca anche la fine della riga sottostante; più che una correzione, potrebbe trattarsi di una macchia involontaria di inchiostro, solo parzialmente ripulita. Quanto al contenuto storico, gli altri autori, benché non riportino esplicitamente questo particolare, testimoniano tuttavia l’impegno massiccio di Attalo nella guerra. Polibio 36, 14, 1 riferisce che i Romani mandarono l’ambasceria con l’intento di impedire che Attalo facesse la guerra contro Prusia. Da Appiano, Mithr. 6, 18 si apprende che Attalo invase con l’esercito la Bitinia per spianare la strada al giovane Nicomede. Tale collaborazione di Attalo alla presa del potere da parte del figlio di Prusia risulta anche dalla Periocha 50, 2. Strabone 13, 4, 2 attribuisce a questo re addirittura la responsabilità di avere incitato Nicomede contro il padre. Non è improbabile, quindi, che le trattative tentate da Roma fossero rivolte anche al re di Pergamo e che l’ambasceria qui menzionata si fosse recata da lui (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 51). Soltanto l’Epitoma darebbe testimonianza di questo particolare, che doveva trovarsi in Livio. Alla l. 2, secondo Grenfell e Hunt (POxy iv , 105), dal testo corrotto del papiro (inpugnamentasi) si può restituire missi, che formerebbe con sunt il predicato verbale principale dell’enunciato: «furono mandati come ambasciatori». Nel tratto compreso tra la lacuna iniziale e la corruzione testuale potevano trovarsi determinazioni sui destinatari (ad es. Prusiam) o sui luoghi (ad es. Pergamum) o altre simili (ad es. Pergami come genitivo di regem; a Romanis come agente di missi). La restituzione di Gundermann (in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25: deductum] in pugnam), forse la più aderente al dato testuale del papiro, riflette le testimonianze storiche citate sopra sulla partecipazione di Attalo alla guerra. Due possibili soluzioni anche in Müller, Jahresbericht 2, 13: iturum] in pugnam, missi; oppure: Pergami (con regem della l. 1)] in pugnam euntem missi. Alla fine della stessa riga, invece di Marco si dovrebbe avere, correttamente, un nominativo (così alle ll. 3-4 i nomi degli altri legati formano il soggetto della proposizione). Si può supporre, con Grenfell e Hunt (POxy iv , 106), che tale forma del papiro sia derivata dalla corruzione di un altro nome proprio (ad es. M. Archias) oppure che sia caduto un tratto del testo alla fine (Marc[us] ; vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25). Nel papiro, tuttavia, non si scorgono altre lettere in séguito e la lettura Marco risulta certa. Ho scelto quindi di lasciare il testo così come si presenta, indicando con le croci la lezione dubbia.

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I nomi degli altri due legati (con la necessaria correzione di Manilius in Manlius, già in Grenfell POxy iv , 105 s.; vd. anche col. i, l. 21) e i particolari sulle loro infermità concordano con i dati delle altre fonti citate sopra. Alla l. 3 l’integrazione poda]g. ricus (molto probabilmente è di una g la traccia di lettera che esce dalla lacuna) riproduce l’aggettivo Ô‰·ÁÚÈÎfi˜, che si trova nei passi di Polibio, Diodoro e Plutarco. Anche la restituzione capite [ictus (o icto, come ha suggerito Müller, Jahresbericht 1, 34) test]a quondam, alla l. 4, è stata desunta da espressioni corrispondenti negli autori paralleli citati sopra, come ηٷÙÂÙÚË̤ÓÔ˜ (...) ÙcÓ ÎÂÊ·ÏcÓ ÎÂÚ·Ì›‰Ô˜ âÈÂÛÔ‡Û˘ (Diodoro; cf. anche Polibio); Ù‹Ó ÎÂÊ·ÏcÓ ÔÙ ϛıÅ ÏËÁ›˜ (Appiano). Da notare che la versione di Appiano attribuisce a una pietra, non a una tegola (come dicono invece le altre fonti), la causa delle lesioni di Aulo Ostilio Mancino alla testa; così anche Gellio (4, 14, 1-6), il quale racconta, secondo la testimonianza dei coniectanea di Ateio Capitone (fr. 5 Strzelecki), la circostanza nella quale questo membro dell’ambasceria sarebbe stato colpito alla testa da una pietra: quod e tabulato eius (meretricis scil.) noctu lapide ictus esset. Nelle ll. 5-6 dell’Epitoma prosegue il compendio del medesimo fatto, ma l’enunciato va ritenuto indipendente da quanto precede. La risposta di Catone (M. Cato respondit) sembra indirizzata a qualcosa che si diceva della discutibile legazione romana (legationem è emendamento sicuro per lig- del papiro), nella lacuna all’inizio della l. 5, in forma di infinitiva o di complemento predicativo dell’oggetto dipendenti da dixerunt (ad es., cunctari di Rossbach o bonam eam di Müller), oppure a coloro che si pronunziavano intorno alla stessa legazione (his qui eam di Kornemann o qui cum ob di Reid). Il contenuto della risposta di Catone si trova quindi alla l. 6. Si ritiene sicura, forse anche troppo breve, l’integrazione nec caput, nella lacuna iniziale, che da questa riga lungo tutta la colonna, fino al fondo, accresce di 1 cm circa la sua estensione (sono quindi da calcolare mediamente, per ciascuna riga, nove o dieci lettere mancanti). Grenfell e Hunt (POxy iv , 28), hanno emendato il testo del papiro supponendo la dipendenza di un’infinitiva da respondit (habere{nt}); così anche Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 135). Ritengo però di gran lunga più opportuna la scelta di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25, che ha conservato la lezione del papiro (cum … haberent). L’ottima congettura di Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 228, suffragata da validi argomenti linguistici, evitando la correzione del testo del papiro, sembra da preferire alle altre: quod nec caput (...) haberent, anche se il numero delle lettere integrate appare leggermente eccessivo. Ll. 6-7a. Alla l. 6, nella piccola lacuna al centro dell’ultima parola, si calcola una lettera mancante, già integrata da Grenfell e Hunt (POxy iv , 98), che però correggono il nome (vd. più avanti), e da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25: M. Sca[n]tius. Con questo nome proprio comincia il nuovo passo, che di certo comprende tutta la riga seguente. Alla l. 7, la prima lettera dopo la lacuna iniziale è riconoscibile in modo quasi sicuro come a per il tratto arcuato discendente. Nell’ultima parola, probabile la lettura -eh; sicura la -i finale. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 24, ritiene, forse con buona ragione, che tra la l. 7 e la l. 8, nello spazio interlineare che si presenta più ampio del consueto, si trovasse un’altra riga di scrittura (l. 7 a), non annoverata da Grenfell e Hunt, più breve delle altre e non più visibile perché scomparsa nella lacuna al margine destro (lo stesso Kornemann ha congetturato se occidit). Molto difficile accertare tale supposizione. Di solito

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lo spazio interlineare tra due righe normali, quando in mezzo vi sia una riga più corta, misura 1 cm; qui misura 0,8 cm. Inoltre, non vi si scorgono tracce di lettere. Il contenuto dell’Epitoma, in questo punto, sembra richiamare, anche per la somiglianza del nome che vi è menzionato (Sca[n]tius), la vicenda dell’edile della plebe Gaio Scantinio Capitolino (vd. Fr. Münzer, Scantinius, nr. 1, RE ii A, 1, 352), citato in tribunale e condannato per avere adescato il figlio di Marco Claudio Marcello (vd. Val. Max. 6, 1, 7; Plutarch., Marc. 2, 5-8). La data di questo fatto è però molto anteriore (226 a.C.) rispetto agli anni di cui tratta il libro 50 di Livio. È improbabile, d’altra parte, come rileva Warde Fowler in POxy iv , 106, che due Scantinii fossero stati condannati, seppure a distanza di molti anni, per il medesimo reato di stuprum. Il passo dell’Epitoma potrebbe riguardare, quindi, l’emanazione della lex Scantinia (o Scatinia) de nefanda Venere (testimoniata dalle fonti, ma di età incerta), la quale puniva gli atti di pederastia commessi contro fanciulli di nascita libera comminando una multa di diecimila sesterzi (vd. Mommsen, Römisches Strafrecht, 703 s.; Rotondi, Leges publicae, 293; Adolf Berger, Lex Scatinia, RE Suppl. vii, 411 s.); costituirebbe, inoltre, l’unico riferimento cronologico per tale legge, che sarebbe da datare al 149 a.C. (così lo stesso Warde Fowler, POxy iv , 106; vd. anche ibid. 94: «Lines 115-6 probably fix the hitherto uncertain date of the Lex Scantinia»). A tale ricostruzione del contenuto si è conformato il testo di Grenfell e Hunt (POxy iv , 98 e 106): M. Sca[n]tius [***]am tulit in stupro deprehensi. L’uso di deprehendere nel significato di «sorprendere» qualcuno in flagrante, con in e l’ablativo come complemento che indica il delitto commesso, è già classico (vd. ThlL v, 1, 605, ll. 15 ss.); cf. ad es. Cic., Verr. ii 5, 111: quasi esset in aliquo manifesto scelere deprehensus. Nella lacuna iniziale della l. 7, conformemente alla ricostruzione proposta, sono state congetturate le integrazioni [plebiscit]um (vd. POxy iv , 106) o [rogation]em (vd. Fuhr, The Oxyrhynchus Papyri, 1508), entrambe con emendamento della lezione certa del papiro ]am (vd. sopra). Dall’ipotesi di Warde Fowler, tuttavia, si può desumere una restituzione del passo che conserva in buona parte il testo del papiro: lo stesso edile della plebe Marco Scantinio, menzionato sopra, avrebbe decretato una pena (ferre poenam; vd. ThlL vi, 547, l. 59) per colui che fosse colto in flagrante abuso sessuale: poen]am tulit in stupro deprehensi, con il genitivo inteso come indicazione di colui che ha commesso il reato (vd. ThlL x, 1, 2510, ll. 11 ss.). Diversamente, Reid, Fragments, 295, ha supposto che l’Epitoma riferisse qui una vicenda particolare, in cui la sanzione pecuniaria comminata dalla stessa lex Scantinia sarebbe stata applicata a un certo Marco Scantio, il quale doveva aver commesso il reato previsto: M. Scantius x– aeris multam tulit in stupro deprehensus (quanto all’espressione, cf. Cic., Deiot. 36: multam sustulerat; oppure poenam ferre, vd. Cic., Dom. 134; 135; cf. Flacc. 96). Da questa stessa interpretazione del passo sono derivate anche altre congetture, come censoris notam di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 135); turpem famam di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 51, ha rifiutato, invece, la proposta congetturale di un argomento riguardante la lex Scantinia e ha supposto una vicenda avvenuta a Roma nel 149, della quale non si conoscerebbero altre testimonianze oltre all’Epitoma, ma che nell’originale liviano poteva avere assunto un certo rilievo per le implicazioni politiche: repuls]am tulit (integrazione congetturale già di Grenfell e Hunt). Il protagonista del fatto avrebbe subito una sconfitta elettorale a causa del reato sessuale, una volta scoperto. Considerata tuttavia l’incertezza di questo passo, sembra più opportuno, con Jal, Abrégés 2, 122, lasciare il testo così come si presenta

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nel papiro. Converrebbe conservare inalterato anche il nome del protagonista del fatto e soggetto dell’enunciato; qualora si ammetta l’interpretazione storica legata alla lex Scantia, tale forma del nome sarebbe da intendere come variante genuina. Diversamente, Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 127 s. ha proposto di leggere il nome Scaptius (cf. Liv. 3, 71, 3). L. 8. Con la menzione dei consoli Spurio Postumio Albino Magno e Lucio Calpurnio Pisone Cesonino è indicato l’inizio del 148 a.C. (606 a.u.c.). Integrazione probabile dei due nomi data da Grenfell e Hunt (POxy iv , 98): [Sp. Albino L. Piso]ne; così anche gli altri editori. Non si può escludere, tuttavia, che al posto del cognomen del primo dei due consoli si trovasse il nomen, così come in Ossequente, 19: «Spurio Postumio L. Pisone coss.»; simile anche Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 414 Mommsen: «Sp. Postumius et L. Piso». Diversamente nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 213, 606 Mommsen: «Albino et Pisone». La successione dei due nomi in questo ordine è confermata dalle testimonianze epigrafiche dei Fasti Capitolini, a. 148 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53) e dei Fasti Antiates maiores a. 148 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1 p. 161). Ll. 9-11. L’Epitoma contribuisce in modo determinante a stabilire la datazione della morte di Massinissa, re della Numidia amico dei Romani, e della conseguente successione al trono, regolata secondo le disposizioni di Scipione Emiliano. Nel compendio del libro 50, infatti, tali vicende figurano come primo argomento del 148 a.C.; è da ritenere, quindi, che siano avvenute all’inizio dell’anno, forse già nel mese di gennaio. È superata, così, la supposizione secondo cui tali fatti fossero avvenuti ancora nel 149 (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 87 s.). Il passo dell’Epitoma, che comprende tre righe della colonna, si suddivide in due parti: dalla proposizione principale apprendiamo che il re, morendo nell’estrema vecchiaia, lasciò un certo numero di figli (e, presumibilmente, di beni); nella proposizione relativa (cuius), che si può meglio intendere, forse, come coordinata mediante il nesso relativo, è riassunta la successione al regno, che non fu diviso, ma distribuito da Scipione Emiliano ai tre figli legittimi. La sommaria esposizione dell’Epitoma concorda, nella sostanza, con le altre fonti. La Periocha 50, 7 riferisce che Massinissa morì a più di novanta anni (sulla longevità del re e sul suo vigore anche nella vecchiaia, cf. Cic., Cato 34; Val. Max. 8, 13, ext. 1; Frontin., Strat. 4, 3, 11; Plutarch., An seni sit gerenda res publica 15, 791 F) e che il regno fu spartito da Scipione Emiliano fra i suoi tre figli. In Valerio Massimo 5, 2, ext. 4, mentre sul letto di morte, intorno all’età di cento anni, si accingeva a lasciare il suo regno ai cinquantaquattro figli, il re pregò il proconsole Manio Manilio di far venire presso di lui Scipione Emiliano, per consegnargli le sue ultime volontà; temendo di spirare prima del suo arrivo, dette ordine di affidare allo stesso Scipione, al suo arrivo, l’eredità indivisa e di considerarlo arbitro indiscusso per la divisione del regno. Similmente, nelle versioni compendiate di Eutropio 4, 11, secondo cui Massinissa morì a novantasette anni e lasciò quarantaquattro figli, e di Orosio, Hist. 4, 22, 8, Scipione fu incaricato dallo stesso re della spartizione del regno. Già nel frammento di Polibio 36, 16, 1-10 (cf. Diodor. 32, fr. 16), sulla morte di Massinissa, i diversi particolari sono riuniti in una specie di elogio funebre: vissuto

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fino a novanta anni, dopo un regno di sessanta, sempre in pieno vigore, alla sua morte il re lasciò un figlio di quattro anni e altri nove figli (parr. 1-5); Scipione arrivò a Cirta due giorni dopo la sua morte e mise tutto in ordine (par. 10). Dal racconto di Appiano, Lib. 105, 497-498, più ampio degli altri, si apprende che verso la fine della vita, avendo numerosi figli illegittimi, ai quali aveva fatto molti doni, e tre figli legittimi, molto diversi tra loro, il re chiamò Scipione come consigliere per la spartizione del regno; prima di spirare, ordinò ai figli di obbedire alle disposizioni che egli avrebbe dato. Nel sistemare l’eredità di Massinissa, Scipione, fatti altri doni ai figli illegittimi, dispose che i figli legittimi avessero in comune i tesori, le entrate e il titolo regale, mentre ripartì il resto dell’eredità conformemente all’indole e alle aspirazioni degli stessi tre figli legittimi (ibid. 501-502). Un contenuto simile è compendiato nella versione di Zonara 9, 27, 5-6 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 310 s.), secondo la quale Massinissa, sul letto di morte, mandò a chiamare Scipione, facendolo arbitro della successione, perché non sapeva come sistemare l’eredità del suo regno, a causa del grande numero di figli e delle varie relazioni familiari. Nell’Epitoma, all’inizio della l. 9 si può ritenere sicura, con tutti gli editori, l’integrazione del nome del re, soggetto dell’enunciato. Sembra più probabile, per il minor numero di lettere, la forma abbreviata (così, più sotto, alla l. 13) proposta da Grenfell e Hunt, ibid., 99: Masinis(sa). L’età molto avanzata del re rimane indeterminata (ult]imae senectutis … decedens), senza che siano specificati, anche in modo approssimativo, i suoi anni al momento della morte. Indicazioni più precise si trovano, invece, con alcune varianti, nella maggior parte delle testimonianze: novanta anni e più; novantasette; cento (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 52). A causa della lacuna iniziale alla l. 10 rimane incerto il numero dei figli che Massinissa lasciò al momento della morte, che il testo dell’Epitoma indicava in modo preciso. Su tale numero le fonti non concordano e la questione è resa più complicata dalla necessaria distinzione tra figli legittimi e figli illegittimi (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 52 s.). Nel testo dell’Epitoma è superstite l’indicazione di quattro figli: liberos IIII [***]s reliquit decedens, ma bisogna ritenere che lo stesso numero fosse completato all’inizio della riga seguente (l ; xl ?). Il numero completo menzionato dall’Epitoma potrebbe essere stato lo stesso che si trova in Valerio Massimo 5, 2, ext. 4 (vd. sopra): «cum iam aetate deficiente magnas regni opes quattuor et quinquaginta filiorum numero relinquens»; o in Eutropio 4, 11 (vd. sopra): «quadraginta et quattuor filiis relictis». Nello spazio residuo della lacuna, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25, ha supposto che in questo punto comparisse il numero dei soli figli illegittimi, come indicazione distinta rispetto al numero dei figli legittimi (iiii ), dato alla l. 9: et xl notho]s. Tale congettura esclude, naturalmente, la somma di iiii con il numero indicante le decine, come determinazione complessiva di tutti i figli del re. Proprio quella della somma con l’indicazione delle decine che segue, tuttavia, è forse da ritenere come la restituzione più plausibile, specie nella forma proposta da Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128: et xl uirile]s; meno probabile, a causa del numero un po’ eccessivo di lettere integrate, quella di Rossbach, Die neuen Periochae, 1021: L opesque magna]s. Necessaria, invece, la specificazione fatta alla l. 11 (legit]i.mis si può ritenere integrazione sicura, anche per il numero giusto di lettere integrate), poiché l’eredità del regno fu equamente distribuita fra i soli tre figli legittimi. Rostovtzev, Otryvki, 69 ha proposto invece una diversa restituzione delle ll. 9-11: liberos iii | [legitimo]s reliquit decedens. cuius re|[gnum iii max]imis filis. Reid, Fragments, 295 (vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 78) osserva giustamente che l’uso di distributum, nell’Epitoma, è più pre-

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ciso di diuidere, che si trova nella Periocha 50, 7: «inter tres liberos eius (...) P. Scipio Aemilianus, cum commune his regnum pater reliquisset et diuidere eos arbitro Scipione iussisset, partes administrandi regni diuisit»; in Valerio Massimo 5, 2, ext. 4: «integra omnia Aemiliano reseruare, eum diuidendi regni arbitrum haberent, quod is statuisset perinde ac testamento cautum immutabile ac sanctum optinerent»; in Orosio, Hist. 4, 22, 8: «Scipio Masinissa mortuo inter Masinissae filios tres Numidiae regnum diuisit»; cf. anche Eutropio 4, 11: «Scipionem diuisorem regni inter filios suos esse iussit». Da tali testimonianze è suffragata, inoltre, la correzione dell’evidente guasto testuale miliaannum, alla l. 11, con Aemilianum. Ll. 12-13. Marco Claudio Marcello, uno dei tre membri dell’ambasceria romana mandata a Massinissa, perì in un naufragio mentre si recava in Africa (vd. Fr. Münzer, Claudius, nr. 225, RE iii, 2, 2760, ll. 5-10; Suppl. iii, 253, ll. 10-13). Nella lacuna all’inizio della l. 12 doveva trovarsi un elemento del nome dello stesso Marcello, soggetto della proposizione. Considerato lo spazio residuo davanti all’integrazione sicura leg]atus, Claudius sembra più plausibile di Marcellus (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25). Nella lacuna della l. 13 si suppone caduto il predicato verbale principale, con cui si concludeva l’enunciato dell’Epitoma; subito dopo, col nome del protagonista (H]asdrubal) comincia il passo successivo (vd., più avanti, ll. 13-14). Se consideriamo che per l’integrazione del predicato verbale si calcolano circa sette o otto lettere mancanti, risultano ugualmente adeguate le congetture interiit di Kornemann, ibid., o obrutus di Grenfell e Hunt (POxy iv , 99); appaiono ingiustificate, invece, altre congetture miranti a integrare un numero maggiore di lettere (absumptus di Kornemann, perit in mare di Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 135). Un po’ più ampio dell’estratto dell’Epitoma il passo corrispondente nella Periocha 50, 9: «ex tribus legatis qui ad Masinissam missi erant, M. Claudius Marcellus cohorta tempestate fluctibus obrutus est». Già Cicerone, Pis. 44 menziona questo naufragio: «M. Marcellus (...) periit in mari» (l’abbreviazione del praenomen è omessa per aplografia in V1 e nei manoscritti di Asconio). Il fatto era ritenuto celebre, essendo la vittima del naufragio un importante uomo di stato, tre volte console (cf. anche Div. 2, 14; Fat. 33). Della medesima ambasceria dà notizia anche Appiano, Lib. 105, 496-497: il senato la mandò per chiedere a Massinissa forze ausiliarie nella guerra contro Cartagine, ma il re morì poco prima dell’arrivo dei legati. Attraverso le testimonianze di Appiano e dei compendi liviani, le quali collocano concordemente l’ambasceria in prossimità della morte di Massinissa, si può stabilire la data del naufragio di Marcello nell’inverno tra la fine del 149 e l’inizio del 148. Meno probabile la diversa indicazione di Asconio, Pis. p. 18, 15 Stangl, che colloca l’avvenimento prima dell’inizio della guerra (vd. MRR i , 462 n. 2): «de quo (Marcello scil.) Cicero dicit naufragio ad ipsam Africam perit paulo ante coeptum bellum Punicum tertium». Ll. 13-14. Nel medesimo ordine di successione, l’avvenimento compendiato dall’Epitoma in questo passo si trova anche nella Periocha 50, 10: «Carthaginienses Hasdrubalem, Masinissae nepotem, quem praetorem habebant, hominem proditionis suspectum, in curia

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occiderunt; quae suspicio inde manauit, quod propincus esset Gulussae Romanorum auxilia iuuantis». Per sospetto di tradimento i Cartaginesi uccisero nella curia Asdrubale, loro secondo capo supremo, preposto alla difesa della città (vd. Appian., Lib. 93, 439; Thomas Lenschau, Hasdrubal, nr. 14, RE vii, 2, 2477, ll. 31 ss.). Dalla narrazione di Appiano, più circostanziata, si apprende che l’altro Asdrubale, generale cartaginese preposto alle operazioni esterne alla città (vd. Th. Lenschau, Hasdrubal, nr. 13, RE vii, 2, 2476 s.), essendo in competizione con il suo omonimo per occuparne la carica, lo accusò calunniosamente presso il senato di voler tradire la patria e consegnarla a Gulussa. Egli infatti, figlio di una figlia di Massinissa, era consanguineo di Gulussa, il quale, discendente e erede di una parte del potere nel regno di Numidia, si era schierato dalla parte di Roma e dava aiuto alle sue truppe. Divulgata l’accusa, i cittadini uccisero Asdrubale colpendolo con pezzi degli scanni. Questo particolare è riportato anche da Orosio, Hist. 4, 22, 8: «Hasdrubal, Poenorum imperator, Masinissae nepos, subselliorum fragmentis in curia a suis propter suspicionem proditionis occisus est». Anche l’uccisione di Tiberio Gracco fu provocata da colpi inferti con i pezzi degli scanni (vd. Plutarch., Tib. Gracch. 19, 7-8; Perioch. 58, 7: «Gracchus … ab optimatibus occisus est, ictus … fragmentis subselli»; cf. Oros., Hist. 5, 9, 2: «ictus fragmento subselli»; simile Nepotian. 1, 4, 2 p. 19, 26 Kempf; cf. anche Vell. 2, 3, 2: «fragmine subselli ictus»). Alla l. 13 l’estratto dell’Epitoma comincia col nome del protagonista della vicenda, subito dopo la conclusione del passo precedente: H]asdrubal. Fuori della lacuna iniziale si scorge l’estrema punta del tratto discendente della a, che quasi tocca la coda inferiore della s; benché minima, tale traccia giustifica l’indicazione della lettera nel testo (diversamente, gli editori scrivono Ha]sdrubal). L’abbreviazione Masiniss. si completa naturalmente con -ae, come genitivo unito a adfinis. Tale vocabolo dell’Epitoma esprime la parentela in modo più generico che nelle altre testimonianze (vd. sopra; sull’uso del vocabolo vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 78): Masinissae nepotem (Periocha e Orosio); à‰ÂÏÊȉÔÜÓ (...) °ÔÏfiÛÛÔ˘ (Appiano). Alla l. 14, l’integrazione congetturale per fragmen]ta di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25 (fragmenta già Grenfell e Hunt in POxy iv , 106; per con l’accusativo è usato altre volte nell’Epitoma per il complemento di mezzo con oggetti inanimati: vd. col. iv, l. 20; col. viii, l. 4; vd. anche Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 227 s.), corrisponde bene alle testimonianze, citate sopra, di Orosio (subselliorum fragmentis … occisus est) e di Appiano (Ù‡ÙÔÓÙ˜ ·éÙeÓ ÙÔÖ˜ ñÔ‚¿ıÚÔȘ η٤‚·ÏÔÓ). Sembra poco persuasiva, tuttavia, l’espunzione di s, la quale, in una diversa restituzione del testo, può essere plausibilmente conservata come desinenza (subsellis); ancor meno accettabile, poi, l’emendamento avanzato da Reid, Fragments, 295 (subselli). Evidentemente guasto, invece, ocius del papiro (spostano qui la s Grenfell e Hunt in POxy iv , 99: socius), il cui emendamento più probabile, considerato il contenuto storico, è occisus (così già Grenfell e Hunt, ibid.). Con buona ragione, al fine di conservare la s finale di subsellis, inteso come ablativo di causa efficiente, Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 135), ha accolto l’altra integrazione congetturale proposta da Kornemann, ibid.: a suis in cur]ia subsellis occisus est. Tale restituzione richiede però l’emendamento della t che esce dalla lacuna, la cui lettura, diversamente da quanto ha affermato Kornemann («das t am Anfang wenig sicher ist»), mi sembra certa. L’esigenza di conservare questa t è stata giustamente avvertita da Fuhr, Liviusepitome, 1183, che avanza però una congettura un po’ troppo lunga per lo spazio della lacuna: suspicione or]ta. Considerevole anche la proposta di Lejay, Die neue Livius-Epitome, 129 n. 1, che intende socius del papiro (ammessa questa suddivisione delle parole) come saucius.

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Ll. 14-15. Alla l. 15, dopo la lacuna iniziale, compaiono due lettere, di cui soltanto l’ultima (s) si riconosce in modo sicuro. Anche con l’esame autoptico ho accertato che non si scorgono tracce di altre lettere, eventualmente su rasura, nello spazio che segue. Tale riga risulta quindi più corta delle altre. Dal nome di Scipione Emiliano, alla l. 14, soggetto e principio del nuovo enunciato, si può ricavare l’argomento del sommario estratto dell’Epitoma, che corrisponde alla Periocha 50, 11: «P. Scipio Aemilianus cum aedilitatem peteret, consul a populo dictus». Per poter essere eletto al consolato, Scipione Emiliano fu esentato dalle restrizioni della legge attraverso una deroga speciale (ibid., 12): «quoniam per annos consuli fieri non licebat, cum magno certamine suffragantis plebis et repugnantibus ei aliquamdiu patribus, legibus solutus et consul creatus». Dal più esteso racconto di Appiano, Lib. 112, 529-533 si apprendono altri particolari della vicenda: non potendo candidarsi al consolato perché più giovane dell’età prescritta (trentotto anni invece di quarantatre; vd. Afzelius, Lex Annalis, 267), Scipione Emiliano aspirava all’edilità; ma il popolo, considerando il valore dimostrato da lui come tribuno militare in Africa, voleva eleggerlo console e affidargli la conduzione della guerra in corso contro Cartagine. Benché il console Postumio Albino, il quale presiedeva alle elezioni, mostrasse l’ostacolo della legge, il popolo reclamava la sovranità nella scelta per il superiore bene della patria. Fu deciso, alla fine, di derogare alla legge, per quella sola determinata circostanza, e Scipione fu eletto console con Gaio Livio Druso (ibid. 533): ï ™ÎÈ›ˆÓ flÚÂÙÔ ≈·ÙÔ˜. Conseguentemente, l’Africa fu assegnata come provincia a Scipione per suffragio del popolo, anziché per estrazione a sorte. Lo stesso Appiano menziona altre volte questa vicenda (Iber. 84, 364; Civ. 1, 19, 81; 3, 88, 361). Con una frase molto simile a quella della Periocha è menzionata l’elezione dell’Emiliano in Velleio 1, 12, 3: «P. Scipio Aemilianus (...) aedilitatem petens consul creatus est». Nella Rhetorica ad Herennium 3, 2, il senato discute se si debba dispensare Scipione dalle leggi vigenti, affinché possa divenire console prima del tempo consentito: «ut eum liceat ante tempus consulem fieri». In modo simile riportano il fatto Eutropio 4, 12, 1: «cum (...) clarum Scipionis nomen esset, iuuenis adhuc consul est factus et contra Carthaginem»; De uiris illustribus 58, 5: «cum aedilitatem peteret, consul ante annos ultro factus Carthaginem intra sex menses deleuit (Scipio scil.)»; si confronti anche Valerio Massimo 8, 15, 4: «Aemilianum (...) populus ex candidato aedilitatis consulem fecit». Più generiche le frasi di Cicerone, Phil. 11, 17: «ad quod (bellum Punicum tertium scil.) populus Romanus (...) sibi ipse delegit idoneum ducem, P. Scipionem»; e di Floro, Epit. 2, 15, 12: «in alium Scipionem conuersa res publica finem belli reposcebat». Anche le fonti greche presentano varietà di espressione. Diodoro 32, fr. 9a (vi sono riuniti due excerpta del medesimo testo originale) riferisce che il popolo aveva tanta benevolenza nei confronti di Scipione, da adoperarsi perché fosse eletto console (≈·ÙÔÓ ·éÙeÓ ÁÂÓ¤Ûı·È), anche se non aveva ancora l’età legale per questa carica. Plutarco, Praec. gerend. reipubl. 10, 804 F rileva che l’elezione fu voluta dal popolo: ≈·ÙÔÓ à¤‰ÂÈÍÂ. Così Zonara 9, 29, 2: ≈·ÙÔÓ ·éÙeÓ â„Ëʛ۷ÓÙÔ. In modo più generico, Plutarco, Apophth. Scip. min. 4, 200 A: âοÏÔ˘Ó ·éÙfiÓ. Probabilmente va attribuito a Scipione Emiliano anche un brano da un discorso tenuto davanti al senato in Cassio Dione, 21, fr. 70, 2-3 (ed. Boissevain, i, 313 s.). Dalla brevità dell’enunciato si arguisce che nell’Epitoma non si facesse alcun cenno sulle singolari circostanze di tale elezione. Dal confronto col passo della Periocha, citato

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sopra, risulta assai probabile l’integrazione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 99): consul creat]u. s. Non sono da escludere, tuttavia, altre possibili congetture, considerate anche le diverse espressioni con cui lo stesso avvenimento è esposto negli autori latini: factus, ad esempio, si adatterebbe meglio alla misura della lacuna, in cui si calcolano, come per gran parte di questa colonna, nove o dieci lettere mancanti. L. 16. Nel testo del papiro è caduto nella lacuna iniziale della l. 16 il nome del generale romano sotto il cui comando la campagna in Africa fu felicemente condotta. Si può quindi ritenere sicura, anche per il numero giusto delle lettere, l’integrazione M’. Manilius; si può supporre, tuttavia, che nel testo del papiro il praenomen comparisse nella forma M., come nella col. iv, l. 6 (vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25). L’estratto dell’Epitoma, trovandosi verso la fine del libro, dovrebbe corrispondere, secondo l’ordine di successione, alla Periocha 50, 13: «M’. Manilius (corr. Sigonius) aliquot urbes circumpositas Carthagini expugnauit». Nel 148 a.C., essendo proconsole (vd. Val. Max. 5, 2, ext. 4), Manilio espugnò alcune città nei dintorni di Cartagine. Alla notizia della Periocha sembra corrispondere il passo di Orosio, Hist. 4, 22, 8, secondo cui, mentre Scipione tornava all’assedio di Cartagine dopo aver provveduto alle questioni dinastiche del regno di Numidia, Manilio espugnò e saccheggiò la città di Tezaga: «quo (Scipione scil.) circa Carthaginem reuerso Manlius (err. in codd. pro Manil-) Tezagam urbem expugnauit atque diripuit; duodecim milia ibi Afrorum caesa, sex capta sunt». A questa tradizione si aggiunge Zonara 9, 27, 6 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 309), secondo cui all’inizio della primavera del 148, prima dell’arrivo del console Calpurnio Pisone, Manilio, ora proconsole, nella campagna militare condotta di concerto con Scipione, costrinse alla resa molti degli alleati dei Cartaginesi. Da Appiano, Lib. 108, 507-508 si apprende, però, che l’operato di Manilio, in questa circostanza, non sortì alcun risultato apprezzabile, tanto che, dopo alcuni giorni, dovette tornare indietro (ibid. 109, 515). Si può quindi ritenere che l’originale liviano, da cui sono derivate le versioni della Periocha e dell’Epitoma, tendesse a amplificare i meriti di Manilio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 90). La tradizione rappresentata da Appiano, invece, riconosce che qualche buon risultato fu ottenuto dalla campagna condotta dal nuovo console Calpurnio (Lib. 110, 519): arrivato in Africa tra aprile e maggio del 148, portando con sé Lucio Ostilio Mancino come comandante della flotta, dette l’assalto a alcune città costiere nelle vicinanze di Cartagine; non ebbe buon esito l’attacco a Aspis, ma il console poté espugnare un altro centro poco lontano, di cui non è menzionato il nome (forse Neapolis, come risulta da Zonara 9, 29, 1, il quale offre una testimonianza parallela di questi fatti). L’assedio di Hippo Diarrhyto (Biserta), posto successivamente, causò molte perdite tra i Romani, che alla fine dovettero ritirarsi (ibid. 520-521). Nella primavera del 147, poi, si registra una audace azione di Mancino sotto le mura di Cartagine; ma il buon risultato è provvisorio e deve intervenire Scipione, appena tornato in Africa, per salvare le truppe romane (ibid. 113, 535-537). Nella versione di Diodoro 32, fr. 18, il console Calpurnio, dopo avere accettato la resa di alcune città, le saccheggiò e le distrusse; di conseguenza, perse ogni credibilità e in séguito non gli riuscì bene nessuna impresa. Considerata complessivamente la questione, si può ritenere, con Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 54; 89-91, che, intorno a questi fatti, una tradizione annalistica e li-

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viana, riflessa nei compendi, tende a attribuire qualche merito militare a Manilio (il cui nome, però, nella Periocha è restituito per congettura e nell’Epitoma va integrato!), nella sua carica di proconsole, al principio del 148; un’altra tradizione, rappresentata da Appiano, riconosce soltanto al console Calpurnio, arrivato in Africa nella primavera inoltrata, alcune azioni ben riuscite. Non si escluda, tuttavia, che l’espressione dell’Epitoma, più generica, riassuma nel medesimo passo, come altre volte, l’insieme dei risultati positivi conseguiti, in modo sporadico, dalle armi romane in questo tempo, compresa, forse, la marcia di Scipione Emiliano, accompagnato da Famea, che era passato proprio allora dalla parte dei Romani, e da altri verso la piana detta Magnum Barathrum, dalla quale i protagonisti tornarono onusti di bottino (vd. Appiano, Lib. 109, 516). Nel testo dell’Epitoma la lezione dimicatus e. [s]t è emendata in dimicauit da Grenfell e Hunt in POxy iv , 99; trasformando la costruzione, Müller, Jahresbericht 1, 34 ha congetturato a M’. Manilio (...) dimicatum est (così anche Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 135; Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 226 s.). Una seconda forma del perfetto di questo verbo, però, la quale potrebbe essere intesa come deponente, è testimoniata da Carisio, Ars gramm. p. 468, 8 Barwick: «dimico dimicaui e dimicatus sum»; e da Prisciano, Inst. p. 472, 22 Keil II: «ab eo uerbo (mico scil.) compositum “dimico” “dimicaui” facit et “dimicatus”». Non è forse da escludere che l’Epitoma presenti qui una testimonianza dell’uso rarissimo di dimicatus sum con un significato attivo. Propongo quindi, con Kornemann, ibid., 25, di non correggere il testo conservato; nella lacuna, di conseguenza, s’integrerebbe il nome di Manilio al nominativo, come soggetto dell’enunciato. Opportunamente, invece, gli editori hanno emendato in Africam espungendo m. Poco probabile, seppure non impossibile, che tale sintagma, così come si legge nel testo, rappresenti una particolarità linguistica dell’Epitoma e sia quindi da conservare come lezione genuina. Proprio ammettendo tale possibilità, tuttavia, per quanto remota, e derogando consapevolmente alle comuni norme grammaticali, sarei propenso a lasciare inalterata la lezione del papiro. Quanto all’avverbio prospere, poiché si scorge la punta di s in alto, fuori della circoscritta rasura che interessa la parte centrale della parola, mi sembra fondata la scelta di scrivere pr[o]s. pere nel testo edito, come già Grenfell e Hunt, ibid. (pr[os]pere hanno scritto gli altri editori). L’uso di tale avverbio con dimicatum (pugnatum) è ritenuta «distinctive» da Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 21, come indizio che qui l’Epitoma sarebbe derivata da una fonte diversa dalle Periochae («the periochae have regularly combinations with male, dubio euentu, or feliciter and the active»). Ll. 17-18. All’argomento dell’Epitoma corrisponde la Periocha 50, 14: «Pseudophilippus in Macedonia, caeso cum exercitu P. (corr. Gruter.: m. codd.) Iuuentio praetore, ab Q. Caecilio uictus captusque est, et reuicta (corr. Rossbach: relicta codd.) Macedonia». Il pretore P. Iuventio Thalna (vd. Fr. Münzer, Iuventius, nr. 31, RE x, 2, 1371 s.), mandato da Roma per ristabilire l’ordine in Grecia, fu massacrato, con il suo esercito, dallo Pseudofilippo, il quale fu poi vinto e catturato da Cecilio Metello. Questa sequenza di fatti, attraverso il contributo dell’Epitoma, può ora esser attribuita, più precisamente, al 148, secondo anno della guerra contro Andrisco (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 91 s.). Per conformità alla Periocha, citata sopra, conviene considerare come un unico passo i due distinti enunciati che si trovano alle ll. 17-18 dell’Epitoma: caesus (...) captus (su questo uso

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di caedere con un oggetto come exercitus o simile, vd., sopra, col. I, l. 1 e comm.). Dalle testimonianze congiunte della Periocha e dell’Epitoma si desume che i due fatti dovevano susseguirsi nella medesima sezione narrativa dell’originale liviano. In modo simile, essi sono esposti l’uno di séguito all’altro nelle versioni di Floro, Epit. 2, 14, 4-5: «dum haec ipsa contemnit populus Romanus, Iuuentio praetore contentus, uirum non Macedonicis modo, sed Thraciae quoque auxiliis ingentibus ualidum temere temptauit (...) ab illo imaginario et scaenico rege superatus est. sed consul Metellus amissum cum legionem praetorem plenissime ultus est»; e di Eutropio 4, 13: «in Macedonia quidam Pseudophilippus arma mouit et Romanum praetorem P. Iuuentium, contra se missum, ad internecionem uicit. post eum Q. Caecilius Metellus dux a Romanis contra Pseudophilippum missus est et xxv milibus eius occisis Macedoniam recepit». Nel racconto di Zonara 9, 28, 4-7 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 312), Iuventio, mandato con un esercito dal popolo romano, nello scontro con lo Psudofilippo in prossimità della Macedonia rimase ucciso: ï \AÓ‰Ú›ÛÎÔ˜ âÎÂÖÓÔÓ à¤ÎÙÂÈÓ (cf. caesus nell’Epitoma); dell’esercito soltanto una piccola parte scampò alla strage. Quando poi lo Pseudofilippo devastò la Tessaglia e strinse legami più forti con la Tracia, Roma decise di mandare un ingente esercito, sotto il comando del pretore Quinto Cecilio Metello, il quale, giunto nella Macedonia, ricevette i rinforzi navali di Attalo. Spintosi fin verso Pidna, il pretore non riuscì a prevalere in un primo scontro di cavalleria; ma successivamente, ancora presso Pidna, ottenne la piena vittoria nella battaglia decisiva contro lo Pseudofilippo, il quale aveva raccolto truppe nella Tracia. Orosio, Hist. 4, 22, 9, invece, menziona soltanto la sconfitta di Iuventio: «Iuuentius praetor in Macedonia aduersus Pseudophilippum congressus, cum maxima clade totius Romani exercitus interfectus est». È probabile che Polibio 36, 17, 13-14 alluda alla disfatta subita da Iuventio, mentre svolge una riflessione sui Macedoni (vd. A historical commentary, 678 e 682): pur avendo ricevuto molti favori e benefici da Roma, essi combatterono dalla parte dello Pseudofilippo, il quale invece li tiranneggiava con crudeltà, e sconfissero i Romani (cf. anche Diodor. 32, fr. 9a). Speciale risalto è dato alla vittoria di Cecilio Metello, mentre sono omesse le disfatte, nelle versioni di Velleio 1, 11, 2: «quippe Q. Metellus praetor (...) praeclara uictoria ipsum gentemque superauit»; Rufo Festo 7, 3: «Pseudophilippum Metellus oppressit»; De uiris illustribus 61, 1: «Quintus Caecilius Metellus (...) praetor Pseudophilippum (...) uicit»; Ampelio 16, 5: «mox a Caecilio Metello ingenti proelio uictus cum profugisset in Thraciam, a regibus deditus et in triumphum deportatus»; Obsequens, 19: «Pseudophilippus deuictus» (sul confronto con questo autore, vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247); Girolamo, Chron. a. 150 a. C. p. 143 Helm: «interfecto Pseudofilippo (pseudophilippo P N M)». Simili le versioni di Diodoro 32, fr. 15, 6-7 (cf. ibid., fr. 9b), Pausania 7, 13, 1, Porfirio, Chron. fr. 4, 13 FHG iii p. 702 = fr. 3, 19 FGrHist nr. 260, il quale colloca il fatto nel quarto anno dell’olimpiade 157 (149/148). Nel testo dell’Epitoma, alla l. 17, è assai probabile l’integrazione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 99): Iuuentii (o -ti, vd. Die neue Livius-Epitome, 25), come genitivo che determina exercitus. Ancor più sicura si può ritenere l’integrazione di in, richiesta dalla determinazione di luogo. Non sembra fondata, però, la forma i]n nel testo edito di Grenfell e Hunt, poiché nel papiro non si scorgono tracce della lettera. Comunemente è accolta dagli editori anche l’apposizione indicante la carica di Iuventio, congetturata dagli stessi Grenfell e Hunt nella forma abbreviata pr(aetoris). Tale aggiunta mi pare tuttavia superflua, specie perché accresce il numero delle lettere integrate, mentre la sola menzione del nome,

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seguita direttamente da in, si adatta appieno alle nove lettere circa mancanti. Alla l. 18, la congettura Philippus o Andriscus risulta come la più probabile. Ll. 18-20. La notizia di un incendio nella Regia, a Roma, nel 148 a.C., non è riportata nella Periocha corrispondente, ma si trova in Ossequente, 19: «uasto incendio Romae cum regia quoque ureretur, sacrarium et ex duabus altera laurus ex mediis ignibus inuiolata steterunt», dove steterunt è una delle correzioni possibili (vd. Rossbach, Der prodigiorum liber, 12) per la lezione dubbia che è stata tramandata: i. est et erunt. Già Grenfell e Hunt (POxy iv , 94) hanno richiamato l’attenzione su tale corrispondenza tra i due autori («It is also a matter of interest that we can now connect with Livy... statements of later writers, e. g. … Obsequens»). È questa una delle «Übereinstimmungen» dell’Epitoma con Giulio Ossequente che sembrano rivelare una tradizione particolare seguita in comune dai due autori, nonostante qualche lieve divergenza, che può esser dovuta al modo peculiare con cui Ossequente espone i fatti: vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 74 s.; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247 («adherence to a common source»); sulla relazione di Ossequente con l’Epitoma, in particolare, Schmidt, Iulius Obsequens, 38. La stessa scelta di tale argomento rafforza la supposizione che il contenuto dell’Epitoma fosse derivato da una tradizione, anch’essa epitomatoria, in cui i fatti prodigiosi dovevano occupare una parte cospicua, cioè la medesima tradizione da cui aveva attinto la sua materia l’autore del Prodigiorum liber (vd. Moore, ibid., 249). Gli studiosi ritengono (vd. già Oudendorp in Iulii Obsequentis quae supersunt, 72) che tale sacrarium fosse quello situato nella Regia del Forum Romanum lungo la via sacra, dedicato a Ops Consiua, sul quale si vedano le testimonianze di Varrone, Ling. 6, 21 e Festo, p. 186 Müller (= p. 202, 19 Lindsay); inoltre, Wissowa, Religion und Kultus, 502 n. 5. Cenni sul santuario e sull’incendio in Richter, Topographie, 91. Simili esempi di oggetti scampati alla distruzione, in séguito a incendi divampati in santuari e luoghi di culto, sono riuniti in Valerio Massimo 1, 8, 11 (vd. Reid, Fragments, 295): così il lituus di Romolo e le statue di Servio Tullio e di Claudia Quinta. Considerata tale localizzazione del fatto esposto nell’Epitoma, van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae, 110 ha congetturato alle ll. 18-19 l’integrazione sacrarium | [regiae, prendendo spunto da Gellio 4, 6, 2, che si riferisce allo stesso luogo sacro nella dimora del re: «in sacrario in regia (regiae codd. recentiores; vd. ed. Hertz, i, 256)». Dal passo di Ossequente sono state desunte varie congetture per la restituzione del testo dell’Epitoma alle ll. 18-20. Probabile l’integrazione et laur]us, già di Grenfell e Hunt in POxy iv , 99. Testimonianza di alberi sacri presso gli altari delle divinità sin da Omero, Odyss. 6, 162-167 (vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1021). La prima lezione integra (soci) dopo la lacuna della l. 19 è ritenuta sospetta da Grenfell e Hunt, ibid., 106, che hanno suggerito l’emendamento Opis. Lo stesso genitivo di Ops, indicante l’appartenenza del santuario e della pianta sacra a tale divinità, è integrato nella lacuna, all’inizio della riga, da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 25 (così poi anche gli altri editori). Dal confronto col cap. 56 b di Ossequente, dove è riferito un simile prodigio, Reinhold, Die neue Livius-Epitome, 568 trae una conferma che l’integrazione del nome della divinità, come è in Kornemann, sia corretta («Ilio … incenso cum aedes quoque Mineruae deflagrasset»). Una difesa della lezione del papiro è tentata da Gundermann, ibid.: laur]us soci (laurus inteso come nominativo plurale della quarta declinazione, soci come

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apposizione); nel passo di Ossequente, però, si osservi che soltanto una delle piante scampa all’incendio. A tale testimonianza parallela aderisce più strettamente, invece, la congettura di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128: et altera laurus Opis. Altre proposte di emendamento di soci del papiro: loci (Gundermann), foci (Rossbach), Iouis et laurus sacra (Reid, ibid.). Lo stesso Reid ha prospettato anche una diversa restituzione, supponendo che nel passo dell’Epitoma non fosse menzionata la pianta sacra di alloro: una cum omnib]us sacris. Allargando il confronto al cap. 56 b di Ossequente e a Agostino, Civ. 3, 7 p. 104, 29, che riportano parallelamente un simile prodigio desunto da Livio, Reinhold, Die neue Livius-Epitome, 567 ha proposto di correggere soci in sola. Possibile, ma non sicura, l’aggiunta della l. 20 congetturata da Grenfell e Hunt e ammessa comunemente dagli editori (vd., sotto, ll. 20-21 e il commento). In tale riga, più corta delle altre e per questo sparita completamente nella lacuna iniziale, sarebbe stato contenuto un solo vocabolo, come, ad es., inuiolata, predicato nominale in forma ellittica, concordante con i due soggetti dell’enunciato, sacrarium e laur]us, mentre alla l. 19 tale integrazione, richiesta per la completezza logica, non trova spazio sufficiente. Altri argomenti, ugualmente validi, si rivelano tuttavia contrari all’aggiunta di una riga (vd. il commento alle ll. 20-21). Ll. 20-21. Tra la l. 19 e la l. 22, nella lacuna iniziale della colonna, si suppongono cadute due righe del testo: nella prima (l. 20) doveva trovarsi la fine del passo che comincia alla l. 18 (vd. sopra); nella seconda, l’indicazione del libro 51, il cui compendio s’inizia con i nomi dei due consoli del 147 a.C. (vd. sotto). Non si può ammettere che tali elementi, ritenuti entrambi necessari per la completezza del testo, si susseguissero nella stessa riga, poiché nell’Epitoma, di norma, per l’inizio di ogni nuovo libro è impiegata una riga a sé. Alla loro stessa congettura, tuttavia, Grenfell e Hunt (POxy iv , 106 s.) obiettano che lo spazio libero, nel quale avrebbero dovuto trovar posto le due righe cadute, sembra in realtà un po’ esiguo; si potrebbe pensare, quindi, a un’omissione del titolo lib. li (secondo la forma consueta di tali indicazioni) nel testo del papiro. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 26, invece, difende la probabile congettura: poiché la fine del passo precedente (l. 20) doveva constare di una sola parola (inuiolata ?; vd. sopra) e il titolo lib. li doveva essere scritto, come di solito, un po’ più avanti dell’inizio della riga, può darsi che le due righe di scrittura, pur rimanendo distinte (e come tali sono da numerare), si fossero sovrapposte; senza un effettivo spazio interlineare, così, la somma dello spazio complessivamente occupato dalle due righe nella colonna risulta minore della misura media che normalmente si rileva. Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 136), da parte sua, giudica che lo spazio libero sia sufficiente per contenere le due righe. In realtà, l’altezza interlineare di 1,1 cm, quanto misura questo spazio, sembra un po’ esigua perché si possa ammettere la supposizione di due righe più corte l’una dopo l’altra. Nella col. I, ll. 9-12, ad esempio, si presenta una congiuntura simile, ma lì lo spazio interlineare misura 1,5 cm. Sembra quindi veramente necessario ricorrere a un’argomentazione supplementare, come quella di Kornemann, se si vuole difendere tale assunto. L. 22. Con la menzione dei consoli Publio Cornelio Scipione Africano Emiliano e Gaio Livio Druso (vd. Fr. Münzer, Livius, nr. 14, RE xiii, 1, 855) ha inizio il compendio del 147 a.C.

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(607 a.u.c.). La forma completa dei due nomi è testimoniata nei Fasti Capitolini, a. 147 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53): «P. Cornelius (...) African(us) Aimil(ianus) C. Liuius (...) [D]rusus». Per la forma ridotta, vd. Obsequens, 20: «P. Africano C. Liuio (post Pighium rest. Oudendorp) coss.»; Cassiod., Chron. ii p. 131, 415 Mommsen: «P. Africanus et C. Liuius»; Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 607 Mommsen: «Aemiliano et Druso»; Consul. Constant., Chron. i p. 213, 607 Mommsen: «Scipione Aemiliano et Druso». I due consoli sono menzionati insieme anche in Appiano, Lib. 112, 533, dove si dice che l’Africa fu assegnata all’Emiliano per decisione del popolo, anziché per estrazione a sorte. Probabile l’integrazione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 99): P. Cornelio C. Liuio; non sono da escludere, tuttavia, altre combinazioni che si possono ricavare per congettura dagli elementi dei due nomi. Come si vede, l’integrazione di Grenfell e Hunt, accolta dagli altri editori, implica un numero di lettere mancanti maggiore delle nove o dieci mediamente calcolate nella lacuna iniziale di questo tratto della colonna. In tale stima si è considerato che la riga con l’indicazione dei consoli, al principio dell’anno, doveva esser collocata anche qui, come di consuetudine, un po’ più avanti delle altre (1,5 cm circa) rispetto all’allineamento verticale del lato sinistro. Ll. 23-24. Sicura, nel testo del papiro, l’integrazione Cartha]gine; plausibile, anche se con un numero di lettere leggermente eccessivo, la congettura clausa di Rossbach, con cui è riassunta la condizione della città stretta d’assedio. Specialmente da crudelissime si ricava che questo passo dell’Epitoma riguarda un fatto avvenuto nel 147 a.C., durante l’assedio di Cartagine, quando la sorte del conflitto, sotto la guida di Scipione, cominciava a volgere in favore dei Romani. Notizia del fatto, non riportato dalla Periocha del libro 51, si trova in Ossequente, 20: «et (suspic. Oudendorp, del. Müller) cum Carthago obsideretur, in captiuos Romanorum per Hasdrubalem barbaro more saeuitum, mox Carthago per Aemilianum diruta». Tale convergenza dell’Epitoma e di Ossequente in questo episodio sembra rivelare, come in qualche altro punto, una tradizione particolare seguita in comune dai due autori (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 74 s.). Come si vede, il passo di Ossequente fonde due avvenimenti diversi (vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247; Schmidt, Iulius Obsequens, 38 s.): l’atto efferato di Asdrubale e la conclusione della terza guerra punica, avvenuta nel 146. Nella coordinazione asindetica, gli argomenti compendiati si corrispondono in modo simmetrico (... per Hasdrublem … saeuitum, … per Aemilianum diruta). Un racconto del fatto, inserito nella narrazione generale della guerra, si trova in Appiano, Lib. 118, 560-562: Asdrubale, il quale aveva ormai assunto il controllo di tutte le operazioni della guerra, attuò una crudele ritorsione, dopo che Scipione era penetrato con i soldati in quella parte di Cartagine chiamata Megara. Soprattutto per dissuadere i Cartaginesi da ogni speranza di venire a patti col nemico, ordinò di portare i prigionieri romani sulle mura, in modo che fossero bene in vista anche per gli assedianti, e dopo avere inflitto mutilazioni e torture li fece gettare giù. Tale azione non ottenne però l’effetto previsto, poiché in questo modo Asdrubale si alienò il consenso della cittadinanza. Inoltre, avendo fatto trucidare alcuni senatori cartaginesi per soffocare l’indignazione che fermentava nel supremo consesso, si palesò come tiranno che non esitava a soggiogare col terrore la popolazione. Anche Zonara, 9, 29, 9 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 315), collocando l’avvenimento nella medesima circostanza, riferisce che Asdrubale, con un atto così efferato,

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intendeva inasprire il conflitto e sopprimere qualsiasi possibile patteggiamento; inoltre, che fece uccidere anche molti Cartaginesi, sospettati di volerlo tradire. Un riferimento a questo fatto si coglie anche nelle parole di Scipione in Polibio 38, 8, 1 (vd. A historical commentary, 697): ÙÔÈ·‡ÙËÓ Î·d ÙËÏÈη‡ÙËÓ àÛ¤‚ÂÈ·Ó Âå˜ ÙÔf˜ ·å¯Ì·ÏÒÙÔ˘˜ ìÌáÓ âÓ(·)‰›͈. Nel testo dell’Epitoma risulta quindi necessario l’emendamento di appius, alla l. 23, in captiuos (Gundermann in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27); andrebbe bene, a mio parere, anche in captos, il cui numero di lettere è pari alla lezione guasta del papiro. Il piccolo segno collocato sopra appius, tra u e s, ma più vicino a u, simile a una p, con la pancia rivolta a destra e leggermente inclinato in avanti, può essere inteso come una o, tracciata con un trattino d’attacco esterno, quasi come nesso congiuntivo, con ductus risalente verso l’alto. L’aggiunta di tale lettera sopra la linea sembra indicare una correzione della u in o, richiesta dalla sintassi del testo. Alla l. 24 l’integrazione congetturale di saeuitum come predicato verbale principale, che Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27, ha desunto dal passo di Ossequente, si confà al costrutto con in e l’accusativo, ottenuto nel testo emendato alla riga precedente. Con la sua congettura, Kornemann fa terminare l’enunciato nella lacuna e considera le lettere re, che si leggono in modo sicuro subito dopo la lacuna, come inizio del passo successivo: qua]re. Più plausibile, a mio parere, saeuie]re di Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 137, che incorpora tali lettere nel predicato verbale dello stesso enunciato. Diversamente, ma in modo meno probabile, Reid, Fragments, 296 ha emendato appius del papiro in Hasdrubal, intendendo questo nome come soggetto di un predicato verbale caduto nella lacuna, con cui si conclude l’enunciato: [captos] Carthaginiensis Hasdrubal crudelissime interemit. Simile forma transitiva dell’enunciato nella restituzione di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128, dove però Hasdrubal è presupposto in lacuna: Hasdrubal Carthagine captiuos (per inappius del papiro) crudelissime occidit. Ll. 24-25. Alla l. 24, con la probabile integrazione congetturale di Rossbach (saeuie]re), già notata sopra, si conclude in modo nitido il precedente enunciato. Nel testo mutilo, s’intuisce che il passo successivo, comprendente la seconda metà della l. 24 e tutta la l. 25, riguardava i frequenti scontri (crebris proeli, correzione necessaria) intorno a Cartagine (Carthag]inem, integrazione sicura) tenuta sotto assedio dai Romani (obsidentes, correzione più probabile da obsidentiis del papiro, Romanos). Soprattutto dall’espressione crebris proelis Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 55, ha ricavato, con buona ragione, che siano qui riassunte le vicende dell’assedio di Cartagine nell’estate del 147 a.C., condotto sotto il comando di Scipione Emiliano. Un cenno su questi fatti anche nella Periocha 51, 1: «Carthago (...) magno labore obsessa et per partes capta est; primum a Mancino legato, deinde a Scipione cos., cui extra sortem Africa prouincia data erat». Appiano, Lib. 119, 563 riferisce, con maggiori particolari, che Scipione Emiliano aveva fatto costruire opere di fortificazione nell’area dell’istmo, nell’intento di bloccare la città anche dalla parte della terraferma. Mentre questa lunga opera era in corso, le truppe romane erano impegnate, allo stesso tempo, nei lavori e nei combattimenti: ÔQ ‰b â¤ÎÂÈÓÙÔ, ηd qÓ ·éÙ† Ùe öÚÁÔÓ âd ÛÙ·‰›Ô˘˜ ÙÔÜ ÌÂÙÒÔ˘ ¤ÓÙ ηd ÂúÎÔÛÈÓ âÚÁ·˙Ô̤ÓÅ Ù ïÌÔÜ Î·d Ì·¯Ô̤ÓÅ (cf. anche ibid. 566). In modo simile, da Zonara 9, 29, 10 (dal libro 21 di Cas-

sio Dione; ed. Boissevain, i, 316) si apprende che, per isolare la città, la quale si difende-

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va gagliardamente, Scipione fece costruire fortificazioni nell’area portuale; ma si susseguirono frequenti combattimenti, per i tentativi dei Cartaginesi di contrastarlo: ÂúÚÁÂÈÓ ·éÙÔf˜ â¯›ÚÔ˘Ó Ôî K·Ú¯Ë‰fiÓÈÔÈ, ηd ÔÏÏ·d Ì¿¯·È âÓ ÙÔ‡ÙÅ âÁ›ÓÔÓÙÔ. Nel suo esteso racconto, Appiano Lib. 124, 587-125, 595 riporta anche un successivo combattimento, avvenuto lo stesso anno, per l’occupazione di una banchina ai piedi delle mura. In questo frangente s’inserisce un’incursione notturna dei Cartaginesi, che si portarono a nuoto verso le macchine romane e le incendiarono. Alla fine, però, Scipione ebbe la meglio; occupando anche tutta la banchina, poté completare il blocco della città assediata (vd. anche Zonara 9, 30, 2; Flor., Epit. 2, 15, 14-15). Nel passo dell’Epitoma, oltre agli avvenimenti del cap. 119 di Appiano, potrebbero esser compendiati anche questi altri combattimenti, secondo il consueto procedimento di sintesi. Nel testo il passo risulta privo di un soggetto al nominativo. In Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27, soggetto dell’enunciato è ritenuto Romanos, difeso come accusativus pro nominativo; il predicato verbale si troverebbe tra le ll. 24-25: con[ciunt (o conterunt). Bisogna osservare, tuttavia, che nel papiro la lezione non è sicura. Una spiegazione diversa della presunta anomalia grammaticale di Romanos è tentata da Reid, Fragments, 296: «the compiler took the wrong case from Livy’s text and did not trouble to adapt it»; è ugualmente ammessa, poi, la stessa costruzione transitiva: non cepere Carthaginem. Nello strenuo tentativo di conservare la lezione della fine della l. 24, è stato congetturato il costrutto transitivo di nocere, proprio del latino tardo, in Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 137 (vd. lo stesso Rossbach già in Die neue Livius-Epitome, 230): Romani no[cent] Carthaginem; da tale restituzione dissente però Luterbacher, T. Livi periochae, 1191. Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128, inoltre, ha supposto come soggetto del nuovo passo lo stesso Hasdrubal ottenuto per emendamento alla l. 23: pelle]re (...) Romanos non [potuit]. In tanta incertezza, sembra più prudente non modificare il testo. Più ovvia la correzione di obsidentiis del papiro in obsidentes (vd. già Grenfell e Hunt in POxy, iv , 99; così anche gli editori successivi). Si può ammettere, d’altra parte, anche la correzione della voce participiale in obsidentis (vd. Leumann, 440; Sommer, Handbuch, 385 s.), più aderente al dato testuale del papiro. Ll. 26-27. Come si apprende dalla Periocha 51, 7, un’ambasceria romana era stata mandata alla lega achea, riunita a Corinto, per intimare che alcune città peloponnesiache, le quali volevano tornare all’indipendenza, fossero libere di staccarsi dalla stessa lega. Dalla reazione violenta contro i legati scaturirono le scintille della guerra che sarebbe scoppiata poco dopo contro gli Achei: «belli Achaici semina referuntur haec, quod legati Romani ab Achaeis pulsati sint Corinthi, missi ut eas ciuitates, quae sub dicione Philippi fuerant, ab Achaico concilio secernerent». Come osserva Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 55, nella Periocha «ist die chronologische Ordnung verlassen (...) ein Nachtrag am Ende des Auszuges gegeben». Nell’Epitoma, invece, la notizia dell’ambasceria è correttamente collocata tra gli avvenimenti del 147 a.C. (vd. Kornemann, ibid., 92, dove sono inoltre discusse le tradizioni riguardanti questi fatti). Anche Floro, Epit. 2, 16, 2 dà notizia di maltrattamenti fisici o verbali subiti dai legati romani in tale circostanza; menziona inoltre Critolao, stratego della lega achea in quell’anno, come principale responsabile del comportamento oltraggioso, che fu causa della guerra: «Critolaus causa belli, qui libertate a Romanis data aduersus ipsos usus est legatosque Romanos,

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dubium an et manu, certe oratione uiolauit». Alquanto estesa, con alcuni particolari forse poco attendibili, la notizia di Giustino 34, 1, 1-9, dove è detto, alla fine, che i legati scamparono all’aggressione fuggendo (ibid. 9): «legatos quoque ipsos Romanorum uiolassent, ni audito tumultu trepidi fugissent». Più generica l’indicazione in Eutropio 4, 14, 1: «Corinthiis quoque bellum indictum est (...) propter iniuriam legatorum Romanorum». Non si è conservato il racconto polibiano dell’ambasceria di Aurelio Oreste a Corinto, ma in un frammento sono riferiti i fatti immediatamente successivi (38, 9, 1-2): Aurelio Oreste e gli altri membri dell’ambasceria romana, al loro ritorno, informano il senato dell’accaduto, dichiarando che la loro vita era stata in pericolo. Aggiungendo una sua osservazione personale, Polibio giudica esagerata questa versione dei fatti; è da credere, quindi, che la sua esposizione del fatto fosse diversa. Testimonianza principale si trova in Pausania 7, 14, 1-3: arrivato a Corinto nell’estate del 147, Aurelio Oreste, capo dell’ambasceria romana, presentò la richiesta che un certo numero di città peloponnesiache potessero staccarsi dalla lega achea e ritornare indipendenti. A ciò seguì una reazione violenta degli Achei, rivolta soprattutto contro gli Spartani allora residenti a Corinto, alcuni di quali si sottrassero all’arresto rifugiandosi nell’abitazione di Oreste. Si noti che anche Pausania, come forse già Polibio, non fa menzione di violenze commesse a danno dei legati romani. Queste sembrano da presupporre, invece, in Cassio Dione fr. 72, 1-2 (dal libro 21; ed. Boissevain, I, 318), dove alla notizia di una fuga dei legati romani da Corinto segue quella delle scuse recate a Roma da una successiva ambasceria achea. Probabili, pertanto, nell’Epitoma, le congetture avanzate per il predicato verbale principale, che si presume caduto nella lacuna della l. 27, tra -rum, desinenza della parola spezzata alla riga precedente, e Lu]sitani, all’inizio del passo successivo: pulsati di Grenfell e Hunt (POxy iv , 99); o uiolati di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27. Secondo Reinhold, Die neue Livius-Epitome, 572, dal confronto con Rufo Festo 7, 2 («ad extremum legatis Romanorum apud Corinthum violatis») sarebbe confermata l’integrazione di Kornemann; la concordanza dell’espressione, che in tal modo si ammette, rivelerebbe inoltre, in alcuni passi, una comune dipendenza di entrambi questi testimoni dalla fonte perduta, il Chronicon (sul confronto tra l’Epitoma e Rufo Festo si sofferma lo stesso Reinhold, ibid., 568). Considerata la particolare versione di Pausania, tuttavia, non sembrano da escludere altre possibili congetture, da cui l’atto di aggressione verso i legati romani risulti meno esplicito (potrebbero essere stati, ad es., pulsi o irrisi). Tali congetture, inoltre, per il numero minore di lettere da integrare, sembrano più confacenti allo spazio residuo nella lacuna della l. 27, dove, sottratte le integrazioni sicure della fine della parola che precede e l’inizio di quella che segue, si dovrebbero calcolare non più di cinque o sei lettere mancanti, se si considera che la lacuna iniziale, in questo tratto della col. v, dovrebbe esser lunga 4-5 cm circa. Polibio, inoltre, ai capp. 12-13 del libro 38, riferisce che, nella primavera del 146, furono mandati da Roma quattro legati, nell’estremo tentativo di dissuadere i Greci dalla guerra. Anche questa ambasceria si recò a Corinto, dove era riunita l’assemblea della lega achea, ma, come le precedenti legazioni, non ottenne il risultato sperato; anzi, anche questa volta i legati furono bersaglio di scherno e invettive, mentre la lega achea dichiarava la guerra a Sparta. Proprio dal passo di Polibio, tuttavia, nel quale è posta in speciale risalto l’azione di Critolao come fomentatore della reazione antiromana (vd., in particolare, ibid. 12, 7-13, 8; anche Diodor. 32, 26, 4), sembrano avvalorate le conget-

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ture plausibili per Achaeor]um pr(aetorem) di Grenfell e Hunt, ibid., o per Critolaum di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 137), nella lacuna della l. 26. Poiché l’Epitoma, talvolta, tende a compendiare avvenimenti simili di una stessa vicenda, pur separati da intervalli di tempo, non sarebbe improbabile che, nell’argomento delle ll. 26-27, fosse inclusa in sintesi anche l’ambasceria dei quattro romani, la quale era stata mandata, ugualmente invano, pochi mesi dopo quella di Oreste. Anche il passo di Floro citato sopra, d’altra parte, si presenta come una sintesi composita, includendo come elemento essenziale l’azione di Critolao, che nella Periocha citata sopra, invece, non è menzionata come causa diretta dell’oltraggio recato alla prima legazione romana. Si consideri, inoltre, che la notizia di Velleio 1, 12, 1, riguardante i fatti del 146 (rivolta della lega achea sotto il nuovo comandante Dieo e oltraggio all’ambasceria dei quattro romani), richiamando nell’espressione le fonti sulla legazione di Aurelio Oreste, potrebbe suffragare la supposizione che nell’Epitoma sia stata fatta una sintesi delle due successive ambascerie. Tale supposto riferimento anche all’ambasceria del 146 andrebbe inteso, naturalmente, come contenuto supplementare, compendiato con l’argomento principale delle ll. 2627, che rimane indiscutibilmente l’ambasceria di Aurelio Oreste, come indica anche la collocazione dello stesso nel quadro del libro 51, tra i fatti del 147. L. 27. Alla fine della col. v, prima dell’inizio del nuovo anno 146 a.C. (vd. col. vi, l. 1), nell’Epitoma è sommariamente menzionata una sconfitta dei Lusitani. Necessaria la correzione di subalti, lezione errata del papiro, in subacti (vd. già Grenfell e Hunt, POxy iv , 99), verbo usato anche in col. ii, l. 15 (esempi paralleli di questo uso in Obsequens, 4; 48; vd. Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 248). In Lu]sitani, benché sia visibile soltanto la punta estrema del tratto superiore, si riconosce in modo abbastanza sicuro come s la lettera mutila che esce dalla lacuna all’inizio della riga. Per questo passo il solo riferimento probabile risulta Appiano, Iber. 61, 256-258 (vd. POxy iv , 107; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 55 s.; 97): nel 147 il pretore Gaio Vetilio aveva iniziato una campagna contro un folto gruppo di Lusitani (diecimila circa), i quali, scampati al proditorio eccidio perpetrato da Galba (vd., sopra, col. iv, ll. 16-18, e il commento), si erano dati a compiere incursioni nella Turdetania; dopo averne ucciso un grande numero, li costrinse a chiudersi in un luogo fortificato. Non potendo resistere a lungo, mandarono ambasciatori a Vetilio per fare atto di sottomissione. Nella Periocha del libro 51, così come in altre fonti, non si trova testimonianza di tale avvenimento (vd. POxy iv , 94: «does the papyrus supply new facts of importance»), forse perché era stato oscurato dallo straordinario rilievo della rivolta di Viriato, che sarebbe scoppiata poco tempo dopo (vd. la Periocha 52, 8, cui corrispondono le ll. 10-12 della col. vi dell’Epitoma). Inserendo la notizia tra i fatti del 147, nel libro 51, l’Epitoma sembra aver rispecchiato fedelmente l’originale liviano: nel momento iniziale delle operazioni contro i Lusitani e nella provvisoria affermazione delle armi romane, che giustifica pienamente l’enunciato (Lu]sitani subacti), è ravvisato, con buona ragione, un momento intermedio non trascurabile tra il proditorio eccidio perpetrato da Galba e lo scoppio della imponente rivolta contro Roma.

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] Cn. Cornel. [io [p]er Scipion[em Carthago [d]irepta. qu[ uisset uxo[r duobus fil[is potestate[m ? Aemiliaqu. [ [lib. lii L. Mummius C[orinthum uxore o[ peruria u. [ accepta. [ Q. Fabio Max[imo M. Petron.[ aduersu[s Ser. Galba L. [ L. Metell[us *** consulatum [ qui inuis[us petituru[s Syria ua.[stata c[on]tent[ [lib. liii Q. Metello [ Rethog. [ liberos ..[ proposito a.[

1 punto a media altezza dopo Cn ampio spazio tra cn e cornel.[io 9 tratto congiuntivo, come una s rovesciata, con curvature arcuate, che unisce senza stacchi l iniziale di abbrev. e m iniziale del nome seguente 13 punto a media altezza e stacco dopo q iniziale abbreviata 14 punto a media altezza e stacco dopo m 16 punto a media altezza e stacco dopo ser stacco dopo galba 17 punto a media altezza e stacco dopo l iniziale di abbrev. tracce di correzione nella t 1 L. Mummio cos. suppl. G.-H. 2 suppl. G.-H. expugnata et add. Korn. 3-4 qu[am cum Aemilianus inflamma]uisset Korn. (cum inflamm. Luterb.), qui cum etiam arcem inflamm. Ross.; quum duci exprobrauisset (uxor scil.) … [impietatem (vel perfidiam vel proditionem) Reid, quom Hasdrubal se Scipioni (vel ultro) dedidisset Fuhr 4-5 uxo[r Hasdrubalis praeceps cum] duob. fil. [in medium incendium iacta Korn., se ipsa … iecit Ross. (se ex arce … in medium ignem Luterb.), uxor in incendium se iecit Fuhr, in medium se cum duobus filiis praecipitauit incendium Müller 2 5-6 ne in Romanorum] potestate[m uenirent Fuhr, ne in potest. uictoris ueniret Müller 1 (Romanorum Luterb.); potestatem uictoris euasit Korn., duob. fil. [secum incensis se] potestate [liberauit Scipionis] Aemilia qu[o modo Dido regina (l. 7) Reid 6-7 singula verba non distinxi, Aemilia qu[ G.H.: Scipio exemplo] Aemili, a qu[o Perseus uictus est, ludos fecit Korn. (uictus erat Ross.), a quo Macedonia uicta erat Luterb. 8 suppl. G.-H. 9 suppl. et corr. (mumanus pap.) G.-H. diruit coni. G.-H. (ex sc. add. Luterb.), diripuit Korn. 9-10 Diaeus] uxore o[ccisa periit Korn. (pr. post Diaeus et ueneno post occisa add. Luterb.), se necauit Ross. 11 pap. (peruria) corr. Korn. 11-12 a Lusitanis clades] accepta G.-H.; a Lusit. Romanorum] (l. 10) periuria u[ltis grauis clades] acc. Ross. (Romanorum post

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ultis Müller 2), Lusitani Romanorum periuria ulti Luterb. (ibi post grauis add.); a Viriatho Romanorum periuria m[emoria tenente graues clades] accepta[e Korn. 13 L. Hostilio cos. suppl. G.-H. 14 Petron[i G.-H., -ius Korn.; [-ius et L. Apulei legati in Asiam,] aduersu[s Viriatum … (l. 15, vd. ultra) Ross.; C. Plaut[io fugato Claudius Unimanus] adu. Vir. …, vel re male gesta Reid 15 Viriathum in lacuna suppl. G.-H., Fabius cos. missus est add. Korn. 16 Cotta cos. suppl. G.-H. 17-18 a Metell[o Macedonico, cui populus con]sulatum [iam bis negauerat Korn. (L. Metello Wölfflin); Q. Metellus, qui de Pseudophilippo triumphauerat, cons. post duas repulsas tandem impetrauit Luterb., Q. Met., qui pr. Andriscum uicerat, consulatum … aegre obtinuit Ross. 19 inuis[us plebi fort. recte G.H., Luterb., Ross., inuis. erat Korn. ob nimiam seueritatem coni. Korn., Ross. 20 petituru[s fort. recte Ross., Hispaniam conuiciis laceratus est dub. coni., sed tertium petiturus mitior factus est Luterb.; petitur u[ leg. G.-H., uehementissime consulatus Korn. 21 suppl. G.-H. 22 content[io Reid, contentiones erant Ross., quod inter reges (l. 21) contentum est Korn., inter reges contentione orta Luterb.; bellis regum populus R. (l. 21) contentus fuit legatis ad eos missis Ross. (mittere vel misisse Müller 2) 23 suppl. G.-H. 24 [Appio Claudio cos. G.-H. 25-26 Rethog[enes a Centobrigensibus obsessis] liberos t.[*** occidi passurus erat Korn. (liberos captos Ross.); Rethogenis transfugae Centobrigenses lib. tormentorum ictibus obiecerunt Ross., -es Centobriga obsessa transfugit; cuius lib. tormentis hostes obiecere Luterb.; -e inuito … ne lib. eius caedi pateretur (Metellus scil.) 27 Metellus (l. 26) prop. abstitit Korn. (Met. post abst. Ross.), Q. Met. (l. 25) … prop. abst. Reid

(Ab urbe condita librorum 51-53 Epitoma)

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[Sotto i consoli] Gneo Cornelio e [Lucio Mummio]. Per opera di Scipione [Cartagine ***] fu messa a sacco. [***] la moglie [di Asdrubale ***] con i due figli [*** per non cadere] in potere (?) [***].[***] di Emilio (?) [***]. Libro lii Lucio Mummio [espugnò ?] Corinto. [***] la moglie [***]. [Dai Lusitani, ?] [come vendetta degli ?] spergiuri, [i Romani] subirono [una sconfitta]. [Sotto i consoli] Quinto Fabio Massimo e [Lucio Ostilio]. Marco Petronio [***]. Contro [Viriato ? ***]. [Sotto i consoli] Servio Galba e [Lucio Cotta]. Lucio (o Quinto ?) Metello [***] [ottenne ? ***] il consolato; egli era inviso [alla plebe ? ***], nell’intento di candidarsi (?) [***]. La Siria devastata [***], contese (?) [***]. Libro liii [Sotto i consoli] Quinto Metello e [Appio Claudio]. Retogene [***] i figli [***]; [Metello si astenne ?] dall’intento.

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corpus dei papiri storici greci e latini L. 1.

Con la menzione dei consoli Gneo Cornelio Lentulo e Lucio Mummio ha inizio il compendio del 146 a.C. (608 a.u.c.). Da notare (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 26) che l’inizio di questa riga, diversamente dalla consuetudine riscontrata nelle simili indicazioni dei consoli dell’anno, non è spostato un po’ in fuori, verso il margine esterno, ma è allineato in verticale alla pari con le altre righe. In due passi di Orosio i nomi dei consoli in carica indicano il 146 come anno delle distruzioni di Cartagine e di Corinto. In Hist. 4, 23, 1 è riferito l’estremo assalto contro Cartagine: «anno ab Urbe condita dcvi (...) Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio consulibus P. Scipio (...) delere Carthaginem suprema sorte molitus»; segue un racconto compendiato della espugnazione di Cartagine (parr. 2-7; vd., in particolare, 6: «diruta est … Carthago»), concluso da altre riflessioni dello scrittore (parr. 8-11). Poco più avanti, a 5, 3, 1, è stabilito un parallelo con la distruzione di Corinto: «anno ab Urbe condita dcvi, hoc est eodem anno quo et Carthago deleta est, Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio consulibus, ruinam Carthaginis euersio Corinthi subsecuta est»; segue, anche qui, un riassunto della distruzione della città (parr. 2-7). Similmente, in Velleio 1, 12, 5, all’indicazione formulare è connessa la notizia della distruzione di Cartagine: «Carthago diruta est (...) Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio consulibus»; precede, in questo passo, una specie di compendio sulla terza guerra punica, dove è dato speciale risalto all’azione di Scipione Emiliano (parr. 2-4). Facendo un confronto, possiamo supporre una derivazione sia di queste testimonianze sia del passo dell’Epitoma da comuni fonti compendiarie. Come si vede dai passi citati sopra, del nome del console Cornelio sono riportati, di solito, tre elementi; del nome di Mummio, soltanto due. Così anche nei Fasti Capitolini, a. 146 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53): «Cn. Cor[nelius (...)] Lentulus L. Mummius (...)». Si distingue la formula usata da Censorino 17, 11, dove è riportata la controversia cronologica sulla datazione dei quarti giochi secolari: «Cn. Cornelio Lentulo Lucio Mummio Achaico cons.». I due nomi compaiono in una forma ridotta in Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 416 Mommsen: «Cn. Cornelius et L. Mummius» (nummius P). È probabile che in questa stessa forma i consoli fossero menzionati nell’Epitoma. Così anche in Cicerone, Att. 13, 33, 3: «Cn. Cornelio L. (add. Manutius) consulibus». Varianti erronee del secondo nome in Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 608 Mommsen: «Lentulo et Mumnio»; Consul. Constant., Chron. i p. 213, 608 Mommsen: «Lentulo et Numicio». Ll. 2-3. La notizia dell’espugnazione di Cartagine sotto il comando di Scipione Emiliano, all’inizio del 146 a.C., occupa la l. 2 per intero e termina col predicato verbale direpta (est), alla l. 3. Poiché con l’integrazione del solo soggetto Carthago la riga del papiro risulta ancora un po’ corta, è probabile che seguisse almeno un altro vocabolo come, ad es., expugnata (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27). Dalla stessa collocazione di tale argomento nell’Epitoma si può credere, con buona ragione, che la presa di Cartagine si trovasse verso la conclusione del libro 51 di Livio (vd. Kornemann, ibid., 56). Nella Periocha del libro 51, dopo una sintesi dei principali avvenimenti del conflitto nel 147 (parr. 1-2), sono riassunte insieme la disfatta di Asdrubale presso Nepheris e l’espu-

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gnazione di Cartagine, imprese con le quali Scipione Emiliano portò a termine la guerra punica (par. 3): «Hasdrubalis (...) castra (...) deleta sunt a Scipione, qui tandem expugnauit septingentesimo anno quam erat condita». Compendiata nello stesso passo, in cui sono riportate le sevizie contro i prigionieri romani (vd. Epitoma, col. V, ll. 23-24), l’espugnazione di Cartagine risulta attribuita al 147 in Obsequens, 20: «mox Carthago per Aemilianum diruta». Simili, anche nell’espressione, altre versioni compendiarie come Eutropio 4, 12, 2: «is (Scipio scil.) eam (Carthaginem scil.) cepit ac diruit»; 3: «ita Carthago septingentesimo anno quam condita erat deleta est»; Orosio, Hist. 4, 23, 1-7, nel passo sulla fine di Cartagine (vd., sopra, il commento alla l. 1), in particolare ai parr. 1: «P. Scipio (...) delere Carthaginem suprema sorte molitus»; 6: «diruta est (...) Carthago»; De uiris illustribus 58, 5, che mette in connessione con la fine di Cartagine l’elezione dell’Emiliano al consolato (vd. Epitoma, col. v, ll. 14-15): «consul ante annos ultro factus (Scipio scil.), Carthaginem intra sex menses deleuit». Scipione è protagonista anche nella versione di Velleio 1, 12, 5: «eamque urbem (...) funditus sustulit (Scipio scil.) (...) Carthago diruta est»; ai parr. 3-4 è riassunta la sua azione. La distruzione di Cartagine è menzionata, con varie espressioni, ancora in Velleio 2, 4, 2: «qui (Scipio scil.) Carthaginem deleuerat» (cf. Flor., Epit. 2, 15, 18); ibid. 3: «excisa Carthagine»; 2, 38, 2: «eruta Carthagine»; Valerio Massimo 5, 1, 6: «expugnata (...) Carthagine»; Ampelio 16, 5: «Scipio minor Numantinus (...) Carthaginem (...) diruendo». Da notare, in particolare, Rufo Festo, 4, 3: «deleta per Africanum Scipionem Carthagine» (secondo Reinhold, Die neue Livius-Epitome, 572, la concordanza qui osservata è indizio di una comune dipendenza dell’Epitoma, Rufo Festo, Ossequente e Cassiodoro da una fonte comune, che potrebbe essere il perduto Chronicon); Girolamo, Chron. a. 146 a.C. p. 143 Helm: «Carthago in dicionem Romanam per Scipionem redigitur». Per descrivere la devastazione di Cartagine, soltanto nell’Epitoma è usato diripere (vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 56; 78), di cui nella stessa Epitoma è questa l’unica testimonianza. Nel significato di «saccheggiare, predare», il verbo è già di uso classico (vd., ad es., Cic., Sest. 38: «ad diripiendam urbem»; Liv. 4, 34, 3: «urbs castraque diripiuntur»). Indicando con diripere piuttosto il saccheggio che la distruzione definitiva della città, l’Epitoma si avvicina a certi particolari delle fonti greche sulla presa di Cartagine. Nella narrazione di Appiano, Lib. 127, 605-128, 613, il fatto d’armi decisivo avvenne al principio della primavera del 146, quando Scipione Emiliano, ancora al comando delle operazioni come proconsole, essendo riuscito a occupare il porto chiamato Cothone, decise di sferrare l’ultimo attacco per espugnare la roccaforte di Byrsa, dove si era concentrata l’estrema resistenza dei Cartaginesi. Nella descrizione dell’assalto romano contro l’acropoli, dove si era ormai rifugiata la maggior parte della popolazione, tra gli orrori del massacro, la distruzione e il saccheggio della città proseguirono senza sosta per sei giorni e sei notti, fino alla resa degli ultimi assediati nella vetta dell’arce (129, 614-130, 624). In questo passo, in particolare, è messa in risalto l’azione del saccheggio (par. 621): ÔÏÏáÓ (...) ÔÚıÔ˘Ì¤ÓˆÓ. Quando la città era ormai in rovina, Scipione permise all’esercito il saccheggio per più giorni (133, 631); si veda, in particolare, il passo che segue: ™ÎÈ›ˆÓ ‰\, âÂd η٤ÛηÙÔ K·Ú¯Ë‰ÒÓ, âd Ì¤Ó ÙÈÓ· ìÌÂÚáÓ àÚÈıÌeÓ â¤ÙÚ„ÂÓ Ù” ÛÙÚ·ÙÈ3 ‰È·Ú¿˙ÂÈÓ. Una versione parallela sull’espugnazione di Cartagine è in Zonara 9, 30, 4-5 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 316 s.).

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corpus dei papiri storici greci e latini Ll. 3-6.

Con certezza si riconosce, in queste righe, l’episodio della moglie del generale cartaginese Asdrubale, la quale, nell’estrema rovina della città, vedendo il marito consegnarsi a Scipione, si dette la morte con i due figli. Data l’esiguità delle vestigia testuali del papiro, soltanto per congettura, attraverso il confronto con le versioni parallele, di natura similmente compendiaria, si può tentare una ricostruzione del passo dell’Epitoma. Nel racconto della Periocha 51, 5, la donna con i due figli si precipitò dalla rocca tra le fiamme: «ultimo urbis excidio cum se Hasdrubal Scipioni dedisset, uxor eius, quae paucis ante diebus de marito impetrare non potuerat ut ad uictorem transfugerent, in medium se flagrantis urbis incendium cum duobus liberis ex arce praecipitauit». Il gesto diviene esemplare della fortitudo in Valerio Massimo 3, 2, ext. 8: «Karthagine capta uxor Hasdrubalis exprobrata ei impietate, quod a Scipione soli sibi impetrare uitam contentus fuisset, dextra laeuaque communes filios mortem non recusantis trahens incendio se flagrantis patriae obiecit». In Floro, Epit. 2, 15, 17, esso è contrapposto, come esempio di forza d’animo, alla resa del generale e dei suoi uomini: «quanto fortius femina et uxor ducis! quae conprehensis duobus liberis a culmine se domus in medium misit incendium, imitata reginam quae Carthaginem condidit». Anche in Orosio, Hist. 4, 23, 4, si trova il paragone con Didone, forse già evocato nell’originale liviano (vd. Reid, Fragments, 296, il quale congettura anche nel testo dell’Epitoma un simile riferimento): «uxor Hasdrubalis se duosque filios secum uirili dolore et furore femineo in medium iecit incendium, eundem nunc mortis exitum faciens nouissima regina Carthaginis, quem quondam prima fecisset». In questa versione il suicidio della moglie di Asdrubale è preceduto dalla fine dei disertori romani, i quali, visto il tradimento del generale, si dettero la morte appiccando il fuoco al tempio nel quale si erano chiusi. È da ritenere che la narrazione originaria sia quella di Polibio 38, fr. 20, 1-10, che fu testimone oculare del fatto: vedendo Asdrubale supplice alle ginocchia di Scipione, i disertori romani, assediati nel tempio sulla vetta dell’arce, inveivano contro di lui accusandolo di tradimento; nello stesso gruppo degli assediati si presentò quindi la moglie di Asdrubale con i figli, la quale similmente rampognò il generale di avere abbandonato i cittadini e essersi consegnato al nemico. Nella parte gravemente lacunosa di M, che segue, si congettura che fossero altre frasi di accusa della donna al marito e il gesto finale del suicidio con i figli (par. 11; vd. A historical commentary, 722). Tra i frammenti di Diodoro, invece, si conserva soltanto il passo in cui Asdrubale si consegna a Scipione (32, fr. 23). Attraverso la narrazione di Appiano, Lib. 130, 622-131, 627 si può collocare più precisamente l’episodio nel quadro della fine di Cartagine. Dopo la resa della popolazione assediata nell’acropoli di Byrsa, Asdrubale si era rifugiato, con la moglie, i figli e novecento disertori romani, nel tempio di Esculapio, in un luogo scosceso dell’arce. Quando ormai allo stremo, saliti sul tetto del tempio, videro Asdrubale consegnarsi supplice a Scipione, perirono nell’incendio da loro stessi provocato. A questo punto s’inserisce l’atto estremo della donna: mentre era appiccato il fuoco, decorosamente abbigliata, tenendo al fianco i due figli, pronunciò un’invettiva contro il marito e si gettò nel rogo con loro dopo averli sgozzati (ibid. 626-627). Un compendio si trova in Zonara 9, 30, 6, nella cui versione il generale si reca da Scipione dopo che i disertori erano periti nel tempio. Nonostante tale dovizia di particolari nelle fonti parallele, va tuttavia ritenuta incertissima la restituzione del testo dell’Epitoma. Il passo cominciava di certo alla l. 3 (qu[***)

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e doveva terminare nella lacuna della l. 6. Come di consuetudine nell’Epitoma, quando fatti particolari, sia pur marginali, si distinguano per la forza drammatica, anche questo episodio è esposto assai estesamente, quasi fosse un racconto in miniatura. Alla l. 4 mi è sembrata quasi certa la lettura come u (-uisset) della minima porzione di lettera che esce dalla lacuna. Probabili le diverse integrazioni desunte dalle testimonianze latine citate sopra, dove si rilevano, come nel testo dell’Epitoma, gli stessi termini caratteristici uxor, invariabilmente al nominativo come soggetto, e filii o liberi, in varie forme: cum duobus liberis (Perioch.), conprehensis duobus liberis (Flor.); se duosque filios secum (...) iecit (Oros.), communes filios (...) trahens (Val. Max.). In modo simile, le congetture di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27 e di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 137) restituiscono la prima proposizione come una subordinata con cum, riguardante il fuoco appiccato al tempio (qu[am cum Aemilianus inflamma]uisset o qui cum etiam arcem infl.). Il gesto drammatico della moglie di Asdrubale gettatasi tra le fiamme con i figli doveva costituire la proposizione principale dell’enunciato (se iecit; vd. Fuhr, Liviusepitome, 1183). In modo plausibile è restituita l’ultima proposizione come una subordinata in Fuhr, ibid. e Müller, Jahresbericht 1, 34: ne in potestatem uictoris ueniret. Diversa la ricostruzione di Kornemann, il quale colloca la principale alla fine del passo: uxor (...) iacta, potestatem uictoris euasit. Non trascurabili le congetture di Reid, Fragments, 296, che si distaccano assai dalle altre: qu[um duci exprobra]uisset uxo[r impietatem], duobus fil[is secum incensis se] potestate [liberauit Scipionis (poco probabile, alla l. 7, il riferimento a Didone, come conclusione del medesimo passo). Invece del più ovvio cum unito a duobus filis, alla l. 5 lo stesso Reid ha congetturato un ablativo assoluto (duobus filis secum incensis) conforme al passo di Floro (conprehensis duobus liberis). Ll. 6-7. Nella Periocha 51, 6, dopo l’episodio della moglie di Asdrubale sono menzionati i giochi con cui Scipione Emiliano, ricalcando le orme del padre Lucio Emilio Paolo a Amfipoli (vd. Liv. 45, 32, 8-33, 7), aveva celebrato la sua vittoria contro Cartagine: «Scipio exemplo patris sui, Aemili Pauli, qui Macedoniam uicerat, ludos fecit transfugasque ac fugitiuos bestiis obiecit». In special modo, riguarda la parte cruenta dello spettacolo il passo di Valerio Massimo 2, 7, 13, da cui si apprende che le vittime furono disertori stranieri: «posterior Africanus euerso Punico imperio exterarum gentium transfugas in edendis populo spectaculis feris bestiis obiecit». Un’altra testimonianza di questi giochi si trova in Appiano, Lib. 135, 624 (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 57): ï ‰b ™ÎÈ›ˆÓ âÔ›ÂÈ Ùa ‰fiÍ·ÓÙ· ηd ı˘Û›·˜ âÙ¤ÏÂÈ Î·d àÁáÓ·˜ âd Ù” ӛΖ. Sulla lezione del papiro Aemili è fondata la felice congettura di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27, accolta quasi senza variazioni dagli editori successivi: (l. 6) Scipio exemplo] (l. 7) Aemili a qu[o Perseus uictus est, ludos fecit]. Alla l. 7, prima della lacuna, mi è sembrato di poter leggere in modo abbastanza sicuro le due lettere qu, specie la q (vd. anche POxy IV, 99; T. Livi periochae, fragmenta, 136; più incerto Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 26). Nell’Epitoma, così, prima della fine del compendio del libro 51, tra le ll. 6 e 7, è verosimile che trovasse posto un argomento conclusivo sulle vicende di Cartagine e di Scipione Emiliano, dopo la fine della guerra e la distruzione della città. Meno probabile congetturare qui qualche altro episodio avvenuto in quelle stesse circostanze, come, ad es., il pianto di Scipione di fronte alla città distrutta, che secondo Appiano, Lib. 132, 628-630 seguì il fatto della moglie di Asdrubale (vd. già Polyb. 38, 21,

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1-3; Diodor. 32, fr. 24). È altresì evidente, tuttavia, che le ridottissime vestigia testuali non offrono indizi sufficienti per una sicura ricostruzione del contenuto del passo. Ho scelto quindi, per cautela, di lasciare il testo così come si presenta nel papiro, ritenendo plausibile, ma non certa, la restituzione di Kornemann. L. 9. Da rilevare, anzitutto, che questa prima riga del compendio del libro 52, rispetto all’allineamento verticale della colonna VI, è spostata un po’ in fuori verso il margine esterno (1,2 cm), similmente alle righe con l’indicazione dei consoli al principio di un nuovo anno. Tale particolarità del papiro sembra controbilanciare quello che si è notato riguardo alla l. 1, la quale, pur contenendo l’indicazione formulare dei consoli, è allineata, contro la norma, alla pari con le altre (vd., sopra, il commento). In modo sommario l’Epitoma riferisce qui la presa di Corinto, con cui si concluse il bellum Achaicum condotto dal console Lucio Mummio nel 146 a.C. Il nome del console, soggetto della proposizione, è chiaramente leggibile, ma in una variante errata del papiro: Mumanus; necessaria, quindi, la correzione in Mummius. Giusta, invece, l’iniziale abbreviata del praenomen: L. Anche nella Periocha del libro 52 il compendio del bellum Achaicum si trova all’inizio. La distruzione di Cartagine è menzionata al par. 4: «qui (L. Mummius scil.) omni Achaia in deditionem accepta Corinthon ex S. C. diruit, quia ibi legati Romani uiolati erant». Lo svolgimento della guerra è riassunto prima (parr. 1-3): Q. Cecilio Metello sconfigge presso le Termopili gli Achei, alleati con Beoti e Calcidesi; a Critolao succede Dieo come loro comandante; Dieo è sconfitto dal console Mummio presso l’Istmo. Seguono quindi argomenti connessi (parr. 5-6): anche Tebe e Calcide sono distrutte; integrità di Mummio, che non trafuga le ricchezze di Corinto (cf. Cic., Off. 2, 76). Parimenti da Livio è derivato l’estratto sul bellum Achaicum in Floro, Epit. 2, 16: ai parr. 1-4, l’antefatto (responsabile della guerra fu Critolao per avere offeso i legati romani) è riassunto con le operazioni militari, affidate all’inizio a Quinto Cecilio Metello, pretore nel 148 e promagistrato in Grecia fino al 146, il quale sconfisse l’esercito acheo guidato da Critolao. Il console Mummio, intervenuto dopo, sconfisse in modo definitivo l’esercito della lega achea, guidato dal nuovo comandante Dieo, nei pressi di Corinto, alla fine dell’estate del 146; Corinto fu quindi saccheggiata e distrutta (par. 5): «tum ab incolis deserta ciuitas direpta primum, deinde tuba praecinente deleta est». Da notare che la versione di Floro presenta distinti i due momenti della presa di Corinto, forse come nell’originale liviano: prima il saccheggio, poi la distruzione (vd. anche A historical commentary, 728). Una drammatica descrizione dell’incendio e del saccheggio della città si trova in Orosio, Hist. 5, 3, in particolare ai parr. 6-7, preceduti dalle enunciazioni generali, di carattere compendiario, ai parr. 1: «ruinam Carthaginis euersio Corinthi subsecuta est»; 5: «qui (Mummius scil.) dimisso statim Metello Corinthum sine mora expugnauit». L’avvenimento è collocato nel quadro della guerra dichiarata da Roma agli Achei dopo l’offesa ai legati (cf. Cic., Nat. deor. 3, 91) in Eutropio 4, 14, 1: «hanc (Corinthum scil.) Mummius (nummius L Vt) consul cepit et diruit». Anche in Velleio 1, 12, 1 e Giustino 34, 2 la guerra è vista come conseguenza degli oltraggi verso i legati romani. Nel De uiris illustribus 60, 3 è posta in risalto la depredazione dei beni nella città espugnata: «Mummius Corinthum signis tabulisque spoliauit» (sulla sorte di Dieo, al par. 2, vd., oltre, ll. 9-10 e il commento). Il racconto di Polibio sul bellum Achaicum doveva svolgersi nel libro 38 e ter-

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minare con la capitolazione di Corinto (vd. A historical commentary, 728). In Strabone 8, 6, 23 C 381 è testimoniata la descrizione polibiana dello scempio delle opere d’arte compiuto dai soldati romani (39, fr. 2, 1-3). Poco sopra, nello stesso passo, Strabone riferisce la stessa versione, già osservata nelle fonti latine, che addossa la causa del conflitto agli oltraggi compiuti verso i legati romani. Al perduto originale polibiano supplisce in parte l’estesa narrazione della guerra e della sua conclusione, con la presa e il sacco di Corinto, che si trova in Pausania 7, 16, 7-8. Racconto parallelo in Zonara 9, 31, 5-7 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, i, 319). Alla l. 9 dell’Epitoma, della parola che seguiva al nome del console è superstite, prima della lacuna, una sola lettera: c[***, quasi sicuramente l’inizio di Corinthum, all’accusativo perché oggetto del predicato verbale principale. Le integrazioni per il verbo caduto nella lacuna sono tratte dalle fonti principali (citate sopra): diruit (Grenfell e Hunt in POxy iv , 99; poi Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 139) si trova nella Periocha (cf. Eutropio e Giustino; anche Plin., Nat. 34, 12; Pomp. Trog., Hist. prol. 34); diripuit (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 27) soltanto in Floro. Altre congetture possono esser tratte da varie espressioni riguardanti l’espugnazione di Corinto negli autori citati sopra: deleta (Floro), cepit (Eutropio), expugnauit (Orosio); inoltre, sustulit (Cic., Verr. ii, 1, 55; cf. Off. 2, 76), eruit (Vell. 1, 13, 1), euerterit (Plin., Nat. 35, 151), excidit (Suet., Galba 3, 4). Cicerone impiega anche un’immagine più eloquente, in Manil. 11: «Corinthum patres uestri totius Graeciae lumen exstinctum esse uoluerunt». Luterbacher, Die neue LiviusEpitome, 128 nega che direpta sia da intendere in un’accezione analoga a diruta, deleta. All’Epitoma può essere avvicinata, specie per la forma essenziale, la testimonianza epigrafica in CIL I2 2, 1 nr. 626, vv. 1-5: «L. Mummi (...) co(n)s(ul) duct(u), auspicio imperioque eius Achaia capt(a), Corinto deleto, Romam redieit triumphans» (da notare Corinthus di genere maschile e senza l’aspirata; vd. Courtney, Musa Lapidaria, 208). Dubbia, invece, ibid. nr. 630, l’espressione «Corintho capta» (vd. Inscriptiones Latinae, 326). Ll. 9-10. Dall’unica parola superstite (uxore), alla l. 10, si può supporre una vicenda particolare inserita tra gli avvenimenti principali, come altre volte nell’Epitoma. Probabile il riferimento alla moglie di Dieo, congetturato da Kornemann in POxy iv , 107 (poi Die neue Livius-Epitome, 57). Tale vicenda avvenne subito dopo la sconfitta subita dagli Achei sull’Istmo nello scontro decisivo con il console Lucio Mummio (settembre del 146 a.C.). Dal De uiris illustribus 60, 2 si apprende che il comandante Dieo, il quale era subentrato a Critolao, si rifugiò nella sua città; dopo aver bruciato la casa e ucciso la moglie, si dette anch’egli la morte: «Corinthios apud Leucopetram uicit (Mummius scil.) duce Diaeo, qui domum refugit eamque incendit, coniugem iterfecit et in ignem praecipitauit, ipse ueneno interiit». Già Pausania 7, 16, nello stesso passo in cui narra la definitiva sconfitta della lega achea e la presa di Corinto, riferisce che Dieo, rifugiatosi a Megalopoli (par. 4), dopo avere ucciso la moglie con le sue mani, si tolse la vita egli stesso bevendo il veleno (par. 6). Non sono menzionati, invece, i particolari del ritorno nella città natale e dell’uccisione della moglie nella versione di Zonara 9, 31, 5 (dal libro 21 di Cassio Dione; ed. Boissevain, I, 319). Si osservi, però, che questi autori collocano concordemente la fine di Dieo prima della distruzione di Corinto; secondo l’Epitoma, invece, lo stesso fatto sarebbe avvenuto dopo tale evento (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 92). Possono essere facilmente avvenuti, d’altra parte, lievi spostamenti e

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inversioni nelle diverse esposizioni di fatti vicini nel tempo e quasi simultanei (vd. ibid., 57). Secondo lo stesso Kornemann, ibid. 92 s., con tale inversione l’Epitoma rivelerebbe un procedimento caratteristico della propria fonte compendiaria (il Chronicon?): la collocazione del fatto principale al primo posto. Ammesso che l’Epitoma riguardasse qui la fine di Dieo, l’integrazione più ovvia, nella lacuna della l. 10, sarebbe o[ccisa; tale ablativo assoluto, con uxore, nella restituzione complessiva del passo, dovrebbe stare tra i termini della proposizione principale, anch’essi integrati per congettura nelle lacune: Diaeus, alla l. 9; perit o se necauit, alla l. 10. Diversamente, ma in modo meno probabile, Reid, Fragments, 296 suppone un riferimento a vicende private di Viriato; non avanza, però, alcuna congettura per l’integrazione del testo. Nemmeno in questo punto lo stato lacunoso del papiro permette conclusioni certe. Ll. 10-12. Prima dell’inizio del nuovo anno (l. 13), si può ritenere che l’ultimo argomento dell’Epitoma incluso tra i fatti del 146 a.C. avesse inizio nella lacuna della l. 10 e occupasse le ll. 11-12. Il testo superstite in queste due righe non sembra avere un argomento corrispondente fra i contenuti della Periocha del libro 52 dopo la fine di Corinto: distruzione di Tebe e Calcide (par. 5), integrità di Mummio (par. 6), trionfi di Cecilio Metello e di Scipione Emiliano (par. 7). Probabile, invece, il riferimento al passo che segue (par. 8), riguardante gli inizi della guerra di Roma contro il comandante lusitano Viriato. Già Grenfell e Hunt (POxy iv , 107) hanno congetturato clades come soggetto di accepta (l. 12), riguardo alle sconfitte subite dai Romani all’inizio delle operazioni contro l’esercito di Viriato. L’integrazione clades, assai probabile e necessaria per l’interpretazione data dagli studiosi, è ampiamente suffragata dall’uso della stessa Epitoma (vd. col. ii, l. 27 e col. vii, l. 12). L’espressione è già di uso classico, frequente in Livio e in numerosi autori successivi (vd. ThlL iii, 2, 1245, ll. 20 ss.; Lexicon, 278 s.), anche nella costruzione con a e l’ablativo, congetturata con buona ragione dagli editori (vd., ad es., Liv. 2, 48, 5: «a Veiente hoste clades accepta»; 3, 43, 1: «clades ab hostibus acceptas»). Con cladem accipere si trovano anche altre determinazioni, soprattutto di luogo (vd., ad es., Liv. 4, 58, 3: «in Volscis accepta clades»; 9, 38, 16: «ad Cremeram»; 27, 1, 3: «haud procul Heronea urbe»; cf. anche 2, 63, 5: «ex insidiis»). Per conseguenza, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 57 s. ha riferito periuria (l. 11; emendamento necessario di peruria del papiro) alle violazioni dei patti commesse anche poco tempo prima da magistrati romani in Spagna (vd. Epitoma col. iv, ll. 16-18 e il commento), a causa delle quali Viriato aveva incitato i Lusitani alla rivolta. Nella narrazione di Appiano, Iber. 61, 259, infatti, mentre i Lusitani trattavano la resa con Gaio Vetilio (vd. Epit. col. v, l. 27 e il commento), Viriato li indusse a ricordare la perfidia dei Romani, quante volte avessero infranto i patti stabiliti: OéÚ›·ÙıÔ˜ ‰\, ï âÎ Ùɘ °¿Ï‚· ·Ú·ÓÔÌ›·˜ âÎÊ˘ÁÒÓ, ÙfiÙÂ Û˘ÓgÓ ·éÙÔÖ˜ ñÂÌ›ÌÓËÛΠÙɘ ^PˆÌ·›ˆÓ àÈÛÙ›·˜, ïÛ¿ÎȘ Ù ·éÙÔÖ˜ çÌfiÛ·ÓÙ˜ âÈıÔÖÓÙÔ Î·d ó˜ ¬‰Â Ę ï ÛÙÚ·Ùe˜ âÎ ÙÔÈáӉ âÈÔÚÎÈáÓ °¿Ï‚· ηd §Ô˘Î‡ÏÏÔ˘ ‰È·Ê‡ÁÔÈÌÂÓ. Meno persuasiva, però, l’integrazione che Kornemann, ibid., 27 ricava da questo riferimento: a Viriatho Romanorum] peruria m[emoria tenente graues clades] accepta[e. Preferibile la restituzione proposta da Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 139), avvalorata anche dall’esame del papiro: a Lusitanis Romanorum] periuria u[ltis grauis clades] accepta. È da escludere, infatti, che la lettera mutila prima della lacuna, alla l. 11, sia m (così l’ha letta Kornemann, ibid., 26);

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sembra certa, invece, la lettura u (vd. anche Rossbach, ibid. 138). Occorre però rilevare che, data l’esiguità del testo residuo, qualsiasi integrazione, ancorché probabile, resta puramente congetturale (vd. anche Abrégés 2, 137). Dopo l’inizio della rivolta guidata da Viriato si susseguirono le sconfitte subite dai pretori della Hispania Ulterior Gaio (o Marco?) Vetilio, nel 147, e Gaio Plautio, nel 146, menzionate nella Periocha 52, 8: «Viriathus in Hispania (...) totam Lusitaniam occupauit, M. Vetilium praetorem fuso eius exercitu cepit, post quem C. Plautius praetor nihilo felicius rem gessit». Anche il passo di Floro, Epit. 2, 17, 16 sembra riguardare, dapprima, le sconfitte dei due stessi pretori; menziona esplicitamente, quindi, la sconfitta subita nello scontro con Viriato da Gaio Unimano, pretore della Hispania Citerior, nel 146: «castra etiam praetorum (B: praetoriorum cett., -arum L) praesidia adgressus (Viriathus scil.), Claudion Unimanum paene ad internecionem exercitus cecidisset». Nel De uiris illustribus 71, 7 è menzionato, oltre a Unimano, anche Gaio Nigidio, il quale sarebbe stato il quarto magistrato romano (forse anch’egli un pretore) sconfitto da Viriato (nel 145?); ma la notizia sembra poco sicura: «Viriathus (...) bellum aduersum Romanos sumpsit eorumque imperatorem Claudium Unimanum, dein C. Nigidium oppressit». Orosio, Hist. 5, 4, 1-4 riassume le diverse disfatte subite dai Romani nei primi anni della campagna contro Viriato: «isdem consulibus (Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio scil.) Viriathus in Hispania (...) postremo exercitum praetorum et consulum Romanorum uincendo fugando subigendo, maximo terrori Romanis omnibus fuit. siquidem Hiberum et Tagum (...) late transgredienti et peruaganti C. Vetilius praetor occurrit; qui continuo caeso usque ad internecionem paene omni exercitu suo uix ipse praetor cum paucis fuga lapsus euasit. deinde C. Plautium praetorem idem Viriatus multis proeliis fractum fugauit. post etiam Claudius Unimammus cum magno instructu belli contra Viriatum missus quasi pro abolenda superiore macula turpiorem ipse auxit infamiam. nam congressus cum Viriato uniuersas quas secum deduxerat copias maximasque uires Romani amisit exercitus». A questi fatti dovrebbe essere ricondotto anche lo scontro descritto da Orosio, ibid., 5-6, per il quale è citata la testimonianza di Claudio Quadrigario. Appiano, Iber. 63, 265266 riferisce la grave sconfitta dell’esercito romano, guidato da Vetilio, vicino a Tribola, località ignota in Lusitania, nel 147. Nel suo racconto il particolare del pretore catturato e ucciso concorda con la Periocha 52, 8 e con Diodoro 33, 1, 3; Orosio, invece, afferma che lo stesso aveva trovato scampo. Ancora secondo Appiano, ibid. 64, 269-271, arrivato da Roma con nuove truppe, nel 146, il pretore Gaio Plautio mandò prima quattromila uomini all’inseguimento di Viriato, i quali furono quasi tutti sterminati; decise quindi di attaccare battaglia a sud del Tago, ma subì anch’egli una pesante sconfitta. Con l’invio del console Fabio Massimo Emiliano, tra il 145 e il 144, sopraggiunse una svolta e le vicende del conflitto cominciarono a volgere a favore di Roma (ibid., da 65, 273). Come un compendio si presenta la notizia superstite di Diodoro: tra le sconfitte subite dai Romani all’inizio della guerra è menzionata quella di Vetilio. Considerate tali testimonianze parallele, si può supporre, con Kornemann, che l’Epitoma avesse riassunto nello stesso enunciato almeno le due prime sconfitte, subite dai pretori Vetilio e Plautio, e forse, pur oltrepassando i confini cronologici, anche quella di Unimano; si giustifica, perciò, l’uso del plurale nell’integrazione accepta[e. Anche al singolare, tuttavia, si potrebbero intendere sinteticamente riuniti i diversi fatti d’armi. Concordemente gli editori ritengono che il passo dell’Epitoma si concludesse con accepta (o -ae), predicato verbale principale dell’enunciato.

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La Periocha del libro 51 non menziona la situazione della Spagna, ma dall’Epitoma si desume che nella narrazione liviana di questo stesso libro dovevano essere esposti gli inizi delle operazioni del pretore Vetilio nella Hispania Ulterior (vd. col. v, l. 27). Può darsi che tale argomento, nell’originale liviano del libro 51, risultasse quasi secondario e per questa ragione può esser stato tralasciato nella Periocha. Dall’Epitoma, ma soprattutto da Appiano, Iber. 61, 257-258 si ricava che, nella narrazione di Livio, la notizia sulla situazione in Spagna doveva restare circoscritta alle prime operazioni, condotte con qualche buon risultato da Vetilio, e all’assedio a cui furono sottoposti i Lusitani, fino alle trattative con lo stesso pretore, le quali, come si è visto, furono soltanto avviate. L’ingresso di Viriato nella scena degli avvenimenti principali, invece, con il ritratto del protagonista, le esortazioni da lui rivolte ai Lusitani perché non venissero a patti con Roma, forse corredato da una breve digressione retrospettiva sulle precedenti azioni come predone e l’arruolamento di una banda armata ai suoi ordini, doveva essere narrato, in una sequenza unitaria, comprendente anche le sue prime vittorie sui magistrati romani, al centro del libro 52, come risulta chiaramente dalla Periocha. Dalla stessa narrazione dell’originale liviano devono esser poi derivate, anch’esse come compendi, le altre versioni di autori latini, citate sopra, dove si notano elementi simili e concordanti anche nel lessico. L. 13. Con la menzione dei consoli Quinto Fabio Massimo Emiliano e Lucio Ostilio Mancino è indicato l’inizio dell’anno 145 a.C. (609 a.u.c.). Del nome di Fabio Massimo l’Epitoma riporta i tre elementi principali. Così Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 417 Mommsen: «Q. Fabius Maximus et L. Hostilius» (forse concordante con l’Epitoma anche la forma del secondo nome); cf. Fast. Antiat. mai., a. 145 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 161): [Q. Fabi(us) Ma]x(imus) L. Hostili(us) Man(cinus). In una forma ridotta i nomi sono citati in Cicerone, Lael. 96: «Q. (que PM, om. alii) Maximo fratre Scipionis et L. Mancino consulibus» (indicazione cronologica per la proposta di legge di Gaio Licinio Crasso sull’elezione del collegio sacerdotale). Cf., inoltre, Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 609 Mommsen: «Aemiliano et Mancino». I due nomi compaiono nella forma completa nei Fasti Capitolini, a. 145 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53): «Q. Fabius [(...) Maximu]s Aimilian(us) L. Hostilius (...) [Ma]ncinus». L. 14. Non si hanno testimonianze, negli anni compresi nel libro 52, del nome M. Petron. [ius ?] (probabile, anche se non del tutto certa, la lettura di n prima della lacuna; vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 26; T. Livi periochae, fragmenta, 138). Grenfell e Hunt (POxy iv , 107; vd., per contro, A historical commentary, 541) hanno supposto che il passo dell’Epitoma riguardasse Gaio Petronio, il quale, con Lucio Apuleio, fu mandato da Roma come ambasciatore, nel 156 a.C., per ispezionare la situazione nel conflitto tra Attalo ii e Prusia ii (vd. Polyb. 32, fr. 16, 5). Non si capisce perché, tuttavia, questo fatto, anteriore di parecchi anni, sarebbe stato inserito nel compendio del 145 a.C. A buon diritto, quindi, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 58 dubita di tale supposizione. Dallo stesso passo polibiano, invece, Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 138 s.) ha ricavato un’integrazione congetturale della l. 14, cui ha supposto fosse unita in un unico enunciato, il cui predicato verbale si sarebbe trovato alla fine, anche la l. 15, accolta secondo la restituzione di Kornemann (vd., più avanti, l. 15): M. Petron[ius et L. Apuleius le-

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gati in Asiam,] aduersu[s Viriathum Fabius cos. missus est]. Anche a causa del diverso praenomen (M. nell’Epitoma; °¿ÈÔ˜ in Polibio, a cui dovrebbe corrispondere C.), però, essa appare assai incerta (vd. Abrégés 2, 137). Reid, Fragments, 296 s. ha sospettato un guasto nella lezione M. Petron[ del papiro; l’argomento dell’Epitoma avrebbe potuto ancora riguardare le travagliate vicende della campagna militare romana contro Viriato. L. 15. Dall’unico termine superstite (aduersu[s, integrazione ovvia, probabilmente da intendere come sintagma con l’accusativo; cf. col. iv, l. 1) si è supposto (vd. POxy iv , 107; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 58) che in questa riga fosse contenuto il medesimo argomento della Periocha 52, 8, riguardante l’invio di Quinto Fabio Massimo Emiliano in Spagna come console, nel 145 a.C., dopo le sconfitte subite dai pretori Vetilio e Plautio (vd. col. vi, ll. 9-12): «tantum (...) terroris is (corr. edd.: his codd.) hostis intulit (corr. edd.: impulit codd.) ut aduersus eum consulari opus esset et duce et exercitu». La campagna di Fabio Massimo Emiliano contro Viriato si era svolta con gradualità: nel 145, come console, aveva rafforzato l’esercito e preparato gli uomini al combattimento; nel 144, come proconsole della Hispania Ulterior (cf. Val. Max. 6, 4, 2), andato all’attacco, aveva inflitto gravi perdite al nemico. Sommaria la versione di Floro, Epit. 2, 17, 17: «tandem eum (Viriatum scil.) Fabius Maximus consul oppresserat». Diodoro 33, 1, 3 afferma che Viriato sconfisse più volte i Romani, finché Fabio Massimo Emiliano fu posto alla guida delle operazioni. Nella versione di Appiano, Iber. 65, 273-278, similmente, l’arrivo del console determinò una svolta nella conduzione della guerra: con la sua strategia temporeggiatrice, il console trascorse un lungo periodo senza impegnare in combattimenti diretti l’esercito, ancora inesperto; l’anno successivo, quindi, passato all’attacco, inflisse una pesante sconfitta a Viriato presso Baicor (forse Baecula). Benché probabile, questa interpretazione del passo come riferito alla campagna di Fabio Massimo Emiliano non sarà tuttavia da ritenere l’unica possibile. Un sintagma con aduersus/-um si trova anche nel passo del De uiris illustribus 71, 1 su Viriato: «bellum aduersum Romanos sumpsit (Viriathus scil.) eorumque imperatorem Claudium Unimanum, dein C. Nigidium oppressit». Nella versione di Valerio Massimo sui consoli del 144, i quali contendevano su quale dei due dovesse essere mandato in Spagna contro Viriato, è usato lo stesso sintagma, anche se in senso contrario (6, 4, 2; vd. anche, sotto, l. 16 e il commento): «cum Seruius Sulpicius Galba et Aurelius consules in senatu contenderent uter aduersus Viriathum in Hispaniam mitteretur». Un’espressione simile, come già ha osservato Reid, Fragments, 296, riguarda la spedizione del pretore della Spagna Citeriore Claudio Unimano contro Viriato nel 146 in Orosio, Hist. 5, 4, 3: «post etiam Claudius Unimammus cum magno instructu belli contra Viriatum missus». Il riferimento al console Fabio Massimo Emiliano, in questo punto dell’Epitoma, va quindi ritenuto puramente congetturale, anche se probabile; in nessun modo può costituire fondamento indiscusso della ricostruzione storica. Nella restituzione del testo, bisognerebbe fermarsi a ciò che è superstite (vd. già Abrégés 2, 124). L. 16. Con la menzione dei consoli Servio Sulpicio Galba e Lucio Aurelio Cotta è indicato l’inizio del 144 a.C. (610 a.u.c.). I due nomi si trovano congiunti già in Valerio Massimo

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6, 4, 2 (vd., sopra, il commento a l. 15): «Seruius Sulpicius Galba et Aurelius». Come indicazione cronologica, nella forma completa, essi sono menzionati già in Frontino, Aq. 7, 1: «Ser. (recc.: S. C) Sulpicio Galba L. (Lucio C) Aurelio Cotta consulibus»; ugualmente nella forma completa, al nominativo (Ser. Sulpicius Galba, L. Aurelius Cotta), nei Fasti Capitolini, a. 144 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53) e nei Fasti Antiates maiores, a. 144 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 161). Due soli gli elementi del nome in Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 418 Mommsen: «Ser. Galba et L. Aurelius». Così si legge il nome superstite del primo dei due consoli nel testo dell’Epitoma; probabile che anche l’altro, di cui si conserva l’iniziale del praenomen, concordasse con la forma testimoniata in Cassiodoro. Menzione ancor più ridotta, con lievi alterazioni del primo nome, in Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 610 Mommsen: «Gallo et Cotta»; Consul. Constant., Chron. i p. 213, 610 Mommsen: «Galua et Cotta». Ll. 17-20. Dal testo mutilo si riconosce in modo abbastanza sicuro, come argomento di questo passo dell’Epitoma, esteso per quattro righe, l’elezione di Quinto Cecilio Metello Macedonico al consolato per l’anno 143 a.C. (vd. POxy iv , 107; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 58); notizia non riportata nella Periocha del libro 52 (vd. Abrégés 2, 138). Avvenuta tra contrasti e dopo due insuccessi dello stesso Metello nelle precedenti candidature al consolato, tale affermazione elettorale è ricordata tra i fatti salienti del 144, anno in cui si erano svolti i comizi, perché sembrava paradossale che per un generale glorioso fosse stata così ardua l’ascesa alla somma magistratura. Dal De uiris illustribus 61, 1-3 si apprende che, dopo aver conseguito la vittoria sullo Pseudofilippo (vd. Epit. col. v, l. 18 e commento) e preparato quella sugli Achei (vd. ibid. col. vi, l. 9), Quinto Cecilio Metello, candidatosi al consolato, non fu eletto per ben due volte (per gli anni 145 e 144; vd. Abrégés 2, 137), essendo forse inviso alla plebe a causa della sua intransigenza; eletto console per il 143, fu incaricato di condurre la guerra celtiberica in Spagna (vd. Fr. Münzer, Caecilius, nr. 94, RE iii, 1, 1215, ll. 5 ss.): «Quintus Caecilius Metellus, domita Macedonia Macedonicus dictus, praetor Pseudophilippum (...) uicit. Achaeos bis proelio fudit triumphandos Mummio tradidit. inuisus plebi ob nimiam seueritatem et ideo post duas repulsas consul aegre factus Arbacos in Hispania domuit». Oltre che per il nome del personaggio (vd. anche più avanti) e la menzione del consolato (con]sulatum), l’attribuzione del passo dell’Epitoma all’argomento richiamato sopra è suffragata anche dalla concordanza testuale che si nota alla l. 19 (qui inuis[us) con un’espressione della testimonianza citata (inuisus plebi ob nimiam seueritatem), da cui Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29 ha desunto la sua integrazione congetturale. Lo stesso fatto è riferito da Valerio Massimo 7, 5, 4 nel capitolo De repulsis: «Q. (...) Caecilium Metellum pauci et maesti amici consulatus repulsa adflictum tristitia ac rubore plenum domum reduxerunt. eundem de Pseudophilippo triumphantem uniuersus senatus laetum et alacrem in Capitolium prosecutus est. Achaici etiam belli (...) maxima pars ab hoc uiro profligata est. eine ergo populus consulatum negare potuit, cui mox duas et clarissimas prouincias aut daturus erat aut debiturus, Achaiam et Macedoniam?». Sia in questa versione sia in quella parallela del De uiris illustribus si osserva una composizione simile: vittorie di Metello in Macedonia contro lo Pseudofilippo e nella guerra contro gli Achei; ingiuste sconfitte elettorali per la malevolenza della plebe o del po-

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polo nei suoi confronti; difficile elezione al consolato e nuovi incarichi militari, questa volta in Spagna. All’origine di queste testimonianze, e per conseguenza anche del passo dell’Epitoma, si può forse supporre, pertanto, la narrazione di Livio o un estratto derivato da Livio come fonte comune. Alla fine del racconto di Valerio Massimo occorre rilevare un’incongruenza storica: si accenna infatti all’assegnazione delle province di Acaia e Macedonia a Metello, quando questi doveva essere eletto console, come se si trattasse di un evento futuro; egli però aveva ottenuto tali incarichi ben prima di candidarsi al consolato. La frase Achaiam et Macedoniam (con varianti di et) potrebbe quindi esser penetrata nel testo come una glossa, mentre l’assegnazione delle province dovrebbe riferirsi alla Spagna (vd. Val. Max. 9, 3, 7). Con l’attribuzione del passo dell’Epitoma all’episodio citato di Metello Macedonico sembra contrastare l’iniziale del praenomen nel papiro: L., invece di Q., sarebbe infatti pertinente piuttosto a Metello Calvo, fratello del Macedonico, il quale fu console l’anno successivo (vd. Fr. Münzer, Caecilius, nr. 83, RE iii, 1, 1208, ll. 12 ss. e Suppl. iii, 222, ll. 48 ss.). Possibile, però, che la stessa Epitoma abbia fatto confusione tra i due fratelli (vd. POxy iv , 107); L. sarebbe perciò da conservare come lezione genuina, anche se storicamente erronea. Simili scambi, specie nei nomi abbreviati, sono d’altra parte abbastanza comuni, come si vede altre volte anche nell’Epitoma. Ammessa questa argomentazione, nemmeno l’emendamento in Q., introdotto da Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 139), risulta necessario. Nell’esame autoptico ho notato, inoltre, che nel nome mutilo di Metello la t, leggibile in modo sicuro, ma un po’ sbiadita, potrebbe essere frutto di una correzione, apportata dallo stesso scriba, di una lettera precedente (forse s?). La correzione congetturale in a è strettamente connessa con la forma dell’enunciato principale (l. 20) nella restituzione avanzata da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29: a Metello (...) petitur u[ehementissime consulatus. Osservando che in un testo di età più tarda, come l’Epitoma, la medesima costruzione può essere ammessa anche con il dativo (Dativus graecus), Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 230 assai opportunamente ha proposto di lasciare invariata l’iniziale del praenomen. Identificato in modo abbastanza certo l’argomento del passo dell’Epitoma, bisogna rilevare, d’altra parte, che ogni tentativo di restituzione testuale rimane puramente congetturale (vd. anche Abrégés 2, 137); in tal modo sono da considerare, alle ll. 17-18, sia quello di Kornemann, ibid. (Metello cui populus consulatum iam bis negauerat) sia quello di Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 139: Metellus, qui pr. Andriscum uicerat, consulatum post duas repulsas aegre obtinuit). Preferibile, invece, prospettare integrazioni circoscritte, specie nei punti dove le vestigia testuali del papiro offrono buoni indizi. Plausibile, pertanto, e quasi sicura, per la concordanza già notata con il De uiris illustribus, appare l’integrazione congetturale inuis[us plebi, alla l. 19 (Grenfell e Hunt, cf. POxy iv , 100). Alla l. 20, petituru[s sembra più verisimile di petitur u[. La scelta di petiturus è giustificata attraverso l’uso dell’Epitoma in Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128: «Das Präs. hist. findet sich sonst im Pap. nicht». Ll. 21-22. Con questo passo, che con buona ragione si ritiene comprendente due righe, si conclude il compendio del libro 52 dell’Epitoma. Sicura appare la corrispondenza con la Periocha del libro 52, dove le res Syriae sono similmente collocate verso la fine in una narrazione unitaria; così, si può supporre, già nell’originale liviano. Negli antefatti (ibid.

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10-11), forse anche in Livio compendiati nello stesso racconto con gli avvenimenti più recenti, Alessandro Balas, il quale, seppure di origine incerta, si dichiarava figlio di Antioco iv Epifane (vd. Perioch. 50, 4), era divenuto re della Siria dopo aver sconfitto Demetrio I nel 151-150 a.C. (vd. Perioch. 48, 28). Il figlio di Demetrio i, che allo scoppio della guerra era stato mandato a Cnido, sbarcò quindi in Cilicia, nel 147, con truppe cretesi, appoggiato da Tolemeo vi Philometor re dell’Egitto, per muover guerra all’usurpatore del regno paterno e cacciarlo dalla Siria. Nella battaglia decisiva, a Oinoparas, nell’estate del 145, Alessandro Balas fu sconfitto e ucciso: «Alexander, homo ignotus et incertae stirpis, occiso (...) Demetrio rege in Syria regnabat. hunc Demetrius, Demetri filius, qui a patre quondam ob incertos belli casus ablegatus Cnidon fuerat, contempta socordia inertiaque eius, adiuuante Ptolemaeo, Aegypti rege, cuius filiam Cleopatram in matrimonium acceperat, bello interemit». Giunta alla stessa età degli altri avvenimenti trattati nel libro 52 (145-144), la Periocha riferisce quindi che Demetrio ii, a causa della sua crudeltà, fu rovesciato e si rifugiò a Seleucia; Diodoto, comandante della guarnigione di Apamea, lo sconfisse e proclamò re, con il nome di Antioco vi, un giovane figlio di Balas (ibid. 13): «Demetrius ob crudelitatem, quam in suos per tormenta exercebat, ab Diodoto quodam, uno ex subiectis, qui Alexandri filio bimulo admodum regnum adserebat, bello superatus Seleuceam confugit». Su Alessandro Balas, il quale aveva invaso la Siria e spodestato Demetrio i, con l’aiuto di Tolemeo, si hanno testimonianze anche in Giuseppe Flavio, Ant. Iud. 13, 35-37 e 5861 (vd. anche i Macc. 10, 1-2 e 48-50) e Appiano, Syr. 67, 354, mentre i frammenti superstiti di Polibio, dal libro 33, riguardano le vicende di Balas a Roma, prima della sua ascesa al trono (15, 1-2; 18, 1-14); su Demetrio, figlio di Demetrio i, il quale aveva riconquistato il regno con l’aiuto di Tolemeo, col nome di Demetrio II, testimonianze in Diodoro nel libro 32, frr. 9c e 9d-10, 1, Giuseppe Flavio, ibid. 86-87 e 109-115 (vd. anche i Macc. 10, 67-68 e 11, 9-16) e Appiano, ibid. 355-356; su Demetrio ii, spodestato dalle trame di Diodoto e sostituito con un figlio di Balas, in Diodoro nel libro 33, frr. 4 e 4a, Giuseppe Flavio, ibid. 131-132, 135-141 e 144 (vd. anche I Macc. 11, 39-40; 45-51; 54-56) e Appiano, ibid. 68, 357. Un ampio riassunto delle medesime tormentate vicissitudini del regno di Siria si trova nell’Epitome di Giustino: Balas portato sul trono dagli Antiocheni in rivolta contro Demetrio i (35, 1, 6-11); vittoria di Demetrio, il più grande dei figli di Demetrio i, su Alessandro (ibid. 2, 14); degenerazione del potere di Demetrio ii, fatto poi prigioniero dai Parti (36, 1, 1-6). Approfittando del trono rimasto vacante, Trifone, ucciso il figliastro di Demetrio, prese il potere (ibid. 7): «Trypho (...) occiso pupillo regnum Syriae inuadit». Assai probabile che la notizia di devastazioni causate da una guerra (Syria ua. [stata, integrazione da ritenere sicura) nel 144 a.C., secondo quanto è riportato alla l. 21 dell’Epitoma, riguardi in particolare proprio tali drammatiche circostanze, nelle quali era culminata la lotta tra i vari pretendenti (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 94), come anche l’espressione di Giustino citata sopra induce a credere. All’argomento dell’Epitoma si avvicina anche Diodoro 33, fr. 4a: Demetrio ii, regnando da despota, incendiò Antiochia, che gli si opponeva, e compì sanguinose vendette, mentre infuriavano continue guerre e avvicendamenti al potere nella Siria (vd. anche, in particolare, Giuseppe, Antiq. Iud. 13, 144 e i Macc. 11, 54-56). Considerate tali testimonianze parallele, alla l. 22 (c[on]tent[***) sembra assai probabile l’integrazione contentio o -nes (vd. Reid, Fragments, 297; Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 230; Müller, Jahresbericht 1, 34), da cui hanno preso spunto le più ampie congetture di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29 (quod

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inter reges contentum est) e di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128 (int. reg. contentione orta). Da tale ricostruzione del passo si è distaccato nettamente Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 139, secondo cui l’Epitoma, nella menzione delle guerre tra re in Siria, avrebbe posto l’accento piuttosto sull’atteggiamento di Roma nei confronti di quei fatti (populus R. contentus fuit legatis ad eos missis). Si è opportunamente osservato, d’altra parte, che, ammessa tale restituzione, «the implication that the Romans might have been expected to intervene directly in Syria at this time would seem to be a notion of the epitomator rather than of Livy» (Livy, 45). Nel lessico si distingue la particolarità di uastare, alla l. 21, nel significato di «devastare» una regione, a confronto degli altri usi del verbo nell’Epitoma nel significato di «sterminare» popoli, eserciti (vd. coll. i, l. 13; iv, l. 1; viii, l. 22). L. 24. Con la menzione dei due consoli Appio Claudio Pulcro e Quinto Cecilio Metello Macedonico è indicato l’inizio del 143 a.C. (611 a.u.c.). Nel papiro è superstite soltanto il nome di Cecilio Metello, collocato al primo posto, diversamente dall’ordine consueto nelle formulazioni di questa coppia consolare, dove Appio Claudio precede (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 59). La lettura dell’iniziale abbreviata del praenomen di Metello come Q. (POxy iv , 100) è ritenuta incerta da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 28, il quale ha suggerito che la stessa lettera potrebbe esser letta come l. Dall’esame autoptico ritengo tuttavia di comprovare come certa la lettura di q, già difesa da Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 138), la quale corrisponde anche al dato storicamente corretto. Si rileva, così, nella forma in cui è riportato il nome del console, la concordanza dell’Epitoma con Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 419 Mommsen: «App. Claudius et (om. M) Q. Metellus». Medesima combinazione in Ossequente, cap. 21: «Appio Claudio P. Metello coss.»; ma qui è da notare l’erronea variante P. Il terzo elemento del nome, da solo, nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 213, 611 Mommsen: «Claudio et Metello»; cf. Cassio Dione, lib. 22, fr. 74, 1 (ed. Boissevain, i, 322): ï KÏ·‡‰ÈÔ˜ ï Û˘Ó¿Ú¯ˆÓ MÂÙ¤ÏÏÔ˘. Altre forme del nome dello stesso console si trovano in Frontino, Aq. 7, 5: «Appio Claudio Q. (·: que C) Caecilius consulibus»; Orosio, Hist. 5, 4, 7: «Appio Claudio Q. (L: quinto D, quinto et ¢) Caecilio Metello consulibus»; Chronogr. a. 354, Chron. i p. 54, 611 Mommsen: «Pulchrino et Macedonico». I due nomi completi figurano nei Fasti Capitolini, a. 143 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53): «Ap. Clau[dius (...) Pu]lcher Q. Caeciliu[s (...) Metell(us)] Macedon(icus)». Per la concordanza riscontrata sopra, è probabile che nell’Epitoma anche il nome dell’altro console avesse la stessa forma che si trova in Cassiodoro: App. Claudius; cf. anche la testimonianza dei Fasti Capitolini: Ap. Claudius. Tale forma (App. Claudio) andrebbe quindi prospettata come un’altra possibile integrazione, alla pari con quella comunemente accolta (Appio Claudio). Ll. 25-27. Dalle vestigia del testo (vd., in particolare, Rethog. [enes e liberos) s’identifica come argomento di queste righe un episodio della guerra contro i Celtiberi combattuta in Spagna. Valerio Massimo 5, 1, 5 riporta come esempio di humanitas tale fatto (vd. POxy iv , 94: «It is also a matter of interest that we can now connect with Livy … statements of later writers, e.g. … Valerius Maximus»), avvenuto nel momento in cui il console e capo supremo delle operazioni militari Quinto Cecilio Metello, nel 143 a.C., stava per

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espugnare Centobriga (nome di cui non si hanno altre testimonianze, forse da scrivere Centobrica o Contobriga; vd. Emil Hübner, Centobriga, RE iii, 2, 1933, ll. 25 ss.). Mentre l’esercito attaccava con la macchina da guerra un tratto delle mura meno difeso, gli abitanti esposero ai colpi i figli di Retogene, loro concittadino passato ai Romani; per risparmiarli, Metello decise di togliere l’assedio: «Q. uero Metellus, Celtibericum in Hispania gerens bellum, cum urbem Centobrigam (A1 M, Paris: -bricam rell.) obsideret et iam admota machina partem muri quae sola conuelli poterat disiecturus uidebatur, humanitatem propinquae uictoriae praetulit: nam cum Rhetogenis (A L: Rhoet- A1, Paris) filios, qui ad eum transierat, Centobricenses (vel -is codd.: -brig- edd.) machinae ictibus obiecissent, ne pueri in conspectu patris crudeli genere mortis consumerentur, quamquam ipse Rhetogenes (A L: Rhoet- A1) negabat esse impedimento quominus etiam per exitum sanguinis sui expugnationem perageret, ab obsidione discessit». È probabile che sia la stessa città menzionata nell’exemplum di Valerio Massimo, pur avendo un nome diverso (vd. Adolf Schulten, Nertobriga, nr. 1, RE xvii, 1, 54, ll. 48 ss.; cf. Appian., Iber. 50, 213: NÂÚÁfi‚ÚÈÁ·), quella che Floro, Epit. 2, 17, 10 dice risparmiata da Metello: «Metellus ille (...) et Celtibericus fieri meruit, cum et Contrebiam memorabili cepisset exemplo et Nertobrigae (corr. edd.: nectobricae B, neros. brigis N, nersobrigis rell.) maiore gloria pepercisset». Impossibile, tuttavia, una restituzione sicura di queste righe dell’Epitoma; sono da ritenere puramente congetturali le integrazioni proposte. Dall’esame autoptico del papiro mi è sembrata molto probabile alla l. 25 la lettura di g prima della lacuna, poiché nella traccia residua è ben visibile il tratto arcuato che forma il dorso della lettera. Alla l. 26 dopo liberos si scorgono le tracce di due lettere: nella prima Grenfell e Hunt, POxy iv , 100 vedono una t, Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 140) vi legge .to.. Più prudentemente, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 28 descrive la prima traccia come un’asta verticale: può essere t, ma anche i. Vano, invece, il tentativo di identificare la lettera successiva, nella cui minima traccia superstite si può intuire un tratto un po’ spesso e forse arcuato. Alla l. 27, prima della lacuna, la traccia allungata e sottile, in posizione obliqua, della lettera mutila è probabilmente di una a. Si può supporre che, nell’Epitoma, Rethog. [enes] (ovvia l’integrazione del nome, che in questa forma concorda con la lezione dei codici di Valerio Massimo), probabilmente al nominativo come soggetto, si dichiarasse disposto a tollerare che i figli fossero uccisi dagli abitanti di Centobriga, secondo la ricostruzione di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29: a Centobrigensis obsessis] liberos [*** occidi passurus erat. Rossbach dapprima ha congetturato captos dopo liberos (Die neue Livius-Epitome, 230); successivamente (T. Livi periochae, fragmenta, 139-141), in una restituzione complessiva delle ll. 25-26, Retogene è divenuto genitivo di liberos: Rethogenis transfugae Centobrigenses liberos tormentorum ictibus obiecerunt. È probabile, poi, che l’atto di clemenza del console fosse espresso in un secondo enunciato giustapposto: proposito a. [bstitit (Kornemann, ibid.; Fuhr, Liviusepitome, 1183). Qui come predicato verbale si può anche congetturare, ugualmente bene, abstinuit. Il soggetto Metellus può essere integrato, nella lacuna, alla fine della l. 26 o della l. 27. Non trascurabile, ma forse meno plausibile la restituzione offerta da Reid, Fragments, 297 di tutti gli elementi noti dell’episodio in un unico enunciato più complesso: Rhoetogene inuito Q. Metellus ne liberos eius caedi pateretur proposito abstitit.

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occidit. a Tyresio quem deuici[t gla]dium dono accepit saguloque rem[isso am]ici[ti]ae dextram dedit. [M]etellus cos. a Lusitanis uex[atus ] signa status tabulas Corinth[ias L. M]u. mmius distribuit circa oppid.a et Rom[am ± 4]uit. [C]n. Caepione Q. Pompei.o cos. [ ] Q. Fabius Maximus Lusitani.s ca[esis ] Viriathum fugauit. [ ] lib. liiii [ ] Pompeius cos. a{n} Nu{a}mantinis d[euictu]s. in Scordiscis cladis accepta. [ ] Q. Cae]pione C..[] Laelio Salasso c[os. ] Appius Claudius euicit ne duos [ ± 6/7 ] annus haberet . .. e.milius Torquatus D. S.[ila]nu. m filium suu. [m ] d.e Macedonia da.mn[auit, f]uneri non interfuit eademque die [i]n do[mo] sua consultantibus respondit. [C]aepio co.s. †indelegem† Ti. C..laudium Assellum t.rb. pl. interpellantem profectionem [s]uam l[i]ctore †strigemred† deterruit. [Q.] Fabius Maximus a Virath{i}o deuictus de[f]ormem cum hostibus pacem fecit. Q. Occius [ ± 11 ] .insidiis Lussitanorum fortissime [ ± 11 ] in aede uota est aqua An{n}io; aqua [ ± 4 in Capi]tolium contra Sibyllae carmina [perducta. ]

4 stacco prima di cos, punto a media altezza e spazio dopo 5 stacco tra signa e status 7 punti a media altezza dopo le abbreviazioni ]n, q, cos lievi stacchi tra le iniziali abbreviate e i nomi seguenti ampi spazi tra i due nomi e prima di cos. 8 punto a media altezza e lieve stacco dopo q 11 punto a media altezza e stacco dopo cos 13 ampi spazi tra le singole parole 15 punto a media altezza e lieve stacco dopo l’iniziale abbreviata d 19 punti a media altezza dopo cos e ti, stacchi prima e dopo le due abbreviazioni stacco tra claudi e amassilium 20 punti a media altezza dopo trb e pl 21 stacco prima di strigem 23 punto a media altezza dopo q, stacchi prima e dopo l’iniziale abbreviata 24 cancellata con sottile sbarra obliqua la prima s in lussitanorum 1 suppl. G.-H., deuicerat Luterb. 2 suppl. G.-H., remittendo Luterb. 4 suppl. G.-H., est add. Ross. 5 suppl. et corr. G.-H., Corinthium aes Mumm. Reid 6 Romam ornauit Korn., Ross., repleuit Reid 8 suppl. G.-H. 11 suppl. et corr. G.-H. 13 suppl. G.-H. pap. (Salasso) def. Korn., crucem pos. Ross.: Sapiente G.-H., Sopho Luterb. 14 [delectus] Warde Fowler, cett., duo stipendia Greenidge, noxios Luterb.; s[ecum Aemili]a{n}nus dub. coni. Reid 15 T. Manlius G.-H. (U.emilius leg.) S[ila]num G.H. 16 suppl. G.-H. 17 eodemque Müller 1 suppl. G.-H. 19 cruces posui, inlegem fort. recte Wölfflin: intellegens (vel Intemelium pergens) Ross., in dilectu Luterb. pap. (c..laudi amassilium) corr. G.-H. (Claudium Asellum), Korn., Ross. (Cl. Assell.); an Assellium? 20 tr(i)b(unum) pl(ebis) scil. 21 uiator pro lictor- coni. Fuhr lictores ***ens (adhibens ?) G.-H., derigendo Luterb.; “lictor{e}

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stragem redde” Gund. (estragem redde Lejay), -e stragem red ego; -e strigens ensem Ross. deterruit G.-H. (deterb- pap.), terr. Gund. 22 suppl. et corr. Korn. (uirathio pap.) 24 [interceptus] insidiis fort. recte Korn., oppressus Ross.; *** i]n insid. G.-H., exceptus in insid. Reid Lusitanorum corr. m. sec. (Luss- m. pr.) 25 pugnauit in principio huius versus coni. G.-H., depugn. Reid; pugnans cecidit Luterb., cecidit Stuart reliqua, quae in lacuna huius versus coniecta sunt, sententiae sequenti rettulerunt edd. Ioui] in aede uota Gund. et Korn., Vestae Luterb.; renouata vel refecta G.-H., inaedificata vel uindicata Reid, in urbe reaedificata dub. Ross.; ]inae deuota leg. G.-H., Proserp]inae van Wageningen 2, M. Porc]inae deuota Stuart uota est atua Gwyn Morgan (aqua ante Anio err. suspic.) An{n}io G.-H. 26 [Marcia in Capi]tolium G.-H., cett., refecta Gwyn Morgan 27 suppl. G.-H.

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Da Tyresio, che aveva sconfitto, (Quinto Occio) ricevette in dono la spada e, restituito il mantello, dette la destra in segno di amicizia. Il console Metello fu messo in angustie dai Lusitani. Immagini, statue, tavole corinzie Lucio Mummio distribuì per le città e ne [riempì (o adornò)] Roma. Sotto i consoli Gneo Cepione e Quinto Pompeo. Quinto Fabio Massimo, dopo aver massacrato i Lusitani, mise in fuga Viriato. Libro liiii Il console Pompeo [fu battuto] dai Numantini. Nella regione degli Scordisci fu subita una sconfitta. Sotto i consoli [Quinto] Cepione e Gaio Lelio Salasso (?). Appio Claudio ottenne che nello stesso anno non si facessero due leve militari. Manlio (?) Torquato condannò suo figlio Decimo Silano per l’affare della Macedonia, non partecipò al funerale e lo stesso giorno, nella sua casa, rispose a quelli che domandavano udienza. Il console Cepione riuscì a distogliere il tribuno della plebe Tiberio Claudio Assello, che contrariamente alla legge (?) ostacolava la sua partenza, mentre il littore già minacciava strage (?). Quinto Fabio Massimo, duramente sconfitto da Viriato, concluse una pace disonorevole coi nemici. Quinto Occio, [sorpreso] da un agguato dei Lusitani, [cadde] da forte. ***] nel tempio fu offerta in voto l’aqua Anio; l’aqua [***] contrariamente ai responsi della Sibilla [fu fatta arrivare] fino al Campidoglio. Ll. 1-3.

Come si desume dal racconto parallelo di Valerio Massimo 3, 2, 21, è compendiato in queste righe un episodio che mette in luce il valore di combattente di Quinto Occio, venuto in Spagna come legato del console Quinto Metello per la campagna contro i Celtiberi, nel 143 a.C., e rimastovi con la stessa carica anche negli anni successivi (vd. Fr. Münzer, Occius, nr. 1, RE xvii, 2, 1763, ll. 9 ss.; MRR i , 473; 476; 478). Il testo dell’Epito-

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ma, in queste righe, concorda con la seconda parte dell’exemplum di Valerio Massimo (vd. POxy iv , 107 s.; anche ibid. 94: «It is also a matter of interest that we can now connect with Livy … statements of later writers, e.g. … Valerius Maximus»), in cui si narra che Occio costrinse alla resa lo sfidante Pyreso, insigne tra i Celtiberi; questi non si vergognò di consegnargli, sotto gli occhi di tutti, la spada e il mantello e chiese che potessero essere uniti nel vincolo di ospitalità, una volta conclusa la guerra: «idem (Q. Occius scil.) Pyresum (L G: Pyrresum A) nobilitate ac uirtute omnes Celtiberos praestantem, cum ab eo in certamen pugnae deuocatus esset, succumbere sibi coegit. nec erubuit flagrantissimi pectoris iuuenis gladium ei suum et sagulum, utroque exercitu spectante, tradere. ille uero etiam petiit ut hospitii iure inter se iuncti essent, quando inter Romanos et Celtiberos pax foret restituta». Alla l. 1, la prima parola (occidit) rappresenta la conclusione dell’enunciato precedente, caduto con tutta la colonna che si trovava tra le coll. vi e vii. Poiché nelle ll. 1-3 manca un soggetto esplicito dei predicati verbali (deuicit … accepit … dedit), si può ritenere che esso, lo stesso di occidit, fosse contenuto nel passo mancante. Giustamente Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 248 ha notato l’uso parallelo di deuincere in Ossequente (vd. anche Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 21); così alle ll. 22-23 della stessa col. vii (vd., più avanti, il commento). È assai probabile che nell’enunciato precedente fosse riportato in compendio l’altro eroico fatto d’armi di cui era stato protagonista lo stesso Occio, come narrato nella testimonianza di Valerio Massimo: il legato romano, sfidato da un giovane celtibero, dopo averlo inseguito a cavallo, uccise e spogliò delle armi l’insolente avversario: «illum Celtiberum insolentissime obequitantem consectatus interemit». Una restituzione congetturale della versione dell’Epitoma è proposta in Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 128: Q. Occius Celtiberum, a quo prouocatus erat, occidit. Dalla menzione dei consoli alla l. 7 (vd. più avanti), che indica l’inizio dell’anno 141, si ricava che nelle prime righe di questa colonna, così come per un tratto di estensione non determinabile nella colonna precedente perduta, l’Epitoma del libro 53 riassumesse fatti avvenuti nel 142 a.C., tra i quali s’inserisce il duplice esempio di valore militare esibito da Occio (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 103). Tale data, d’altra parte, non è in contrasto con l’indicazione del 143, contenuta nel passo di Valerio Massimo, dove si afferma che Quinto Occio fu legato del console Quinto Metello: questa va intesa, infatti, come riguardante soltanto l’anno in cui il legato era arrivato in Spagna per combattere nella guerra celtiberica (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 59 s.); non sono specificate, invece, altre determinazioni per gli anni successivi, nei quali il legato continuò a adempire valorosamente il suo servizio. Gli atti eroici di Occio, avvenuti in anni diversi, potevano esser stati riuniti in una coerente sequenza narrativa, rivolta a fini esemplari, forse già nell’originale liviano (vd. anche Münzer, Anmerkungen, 138). Dal racconto di Valerio Massimo si distingue in qualche particolare la versione dell’Epitoma (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 60), forse più fedele all’originale liviano, nella quale si afferma che il romano ricevette la spada dal celtibero sconfitto, ma restituì il mantello; inoltre, semplicemente che gli dette la destra in segno di amicizia, mentre può essere derivata da un’amplificazione retorica la promessa di futuri legami di ospitalità. L’espressione am]ici[ti]ae dextram dedit è probabilmente da intendere come forma brachilogica nel senso di «dette la destra (in segno) di amicizia»; con significato simile si ha una frase più tornita in Livio 1, 1, 8: dextra data fidem futurae amicitiae sanxisse. Al nome del Celtibero che si trova in Valerio Massimo (Pyresus) va preferito quello di cui dà testimonianza l’Epitoma (Tyresius), avvalorato da una forma simile in Orosio, Hist. 5,

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8, 1, che dovrebbe riferirsi al medesimo personaggio (vd. Fr. Münzer, Thyresus, RE vi A, 1, 743, ll. 25 ss.; Tyresius, RE vii A, 2, 1864, ll. 65 ss.): «Thyresum (codd. plerique: aliter rell.) quendam, Celticum principem, consuluit (Scipio scil.)». Le integrazioni di Grenfell e Hunt (POxy vi , 100) al testo caduto nella seconda metà della colonna risultano conformi alla diversa lunghezza dei due punti lacunosi: deuici[t gla]d. (2,7 cm), rem[isso am]ic. (4 cm). Supponendo nel secondo un numero maggiore di lettere da integrare, Luterbacher, T. Livi periochae, 1191 ha congetturato deuicerat e remittendo. L. 4. Dalla sola testimonianza dell’Epitoma (vd. POxy iv , 94: «does the papyrus supply new facts of importance») si apprende che Lucio Cecilio Metello fu attaccato e subì perdite o una vera sconfitta dai Lusitani (uex[atus) nel corso della campagna iberica, che egli dovette condurre, forse per breve tempo, nel 142 a.C., anno del suo consolato. A uexare si può attribuire, in questo uso, il significato già classico (vd., ad es., Cic., Fam. 2, 10, 3) di «tormentare, affliggere»; corredato, in ambito militare, dalla nozione di provocare danni, perdite al nemico. In senso stretto, però, non sembra che la frase indichi una disfatta. All’Epitoma si può accostare Ossequente, 22 (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 60; 99 s.; Schmidt, Iulius Obsequens, 39), secondo cui, nello stesso anno del consolato di Lucio Cecilio Metello e Quinto Fabio Massimo Serviliano, l’esercito romano aveva combattuto con esito incerto contro Viriato: «in Macedonia exercitus Romanus proelio uexatus; aduersus Viriathum dubie dimicauit». Poco comprensibile, in questo anno, la notizia di avversità incontrate dall’esercito romano in Macedonia (vd. Iulii Obsequentis quae supersunt, 76 s.): tale menzione della Macedonia potrebbe essersi quindi mescolata, forse per un errore della tradizione manoscritta nel passo di Ossequente, con i dati genuini dell’originale narrazione liviana. Potrebbe essersi trovato nell’originale liviano anche l’uso di uexare; diversamente, esso è giudicato «distinctive» da Sanders, The Oxyrhynchus Epitome, 21, come indizio di una più stretta relazione tra l’Epitoma e Ossequente, che sarebbero derivati da una fonte comune. Va ritenuta corretta, quindi, la notizia dell’Epitoma, dove la sconfitta è attribuita soltanto alla guerra con i Lusitani. Molto più fortunata, nello stesso anno, la campagna di Quinto Cecilio Metello Macedonico, proconsole della Spagna Citeriore (vd. MRR i , 475), il quale prevalse nettamente sui Celtiberi, come si apprende dalla Periocha 53, 3: «Q. Caecilius Metellus procos. Celtiberos cecidit» (segue, nello stesso punto della Periocha, una menzione dei buoni risultati conseguiti da Fabio Massimo Serviliano contro i Lusitani nel 141, quando egli rivestiva la carica di proconsole: vd. il commento di Jal allo stesso passo della Periocha, Abrégés 1, 129; MRR i , 477). Soltanto da questa notizia dell’Epitoma, come detto, si ricava che Lucio Cecilio Metello, console nel 142 (vd. MRR i , 474), avrebbe rivestito un incarico di governo e di comando nella Hispania Ulterior. In precedenza, invece, si riteneva che il governo della provincia fosse passato direttamente da Quinto Pompeo a Quinto Fabio Massimo Serviliano con la carica di proconsole. Da Appiano, Iber. 67, 283 si ricava infatti che l’anno seguente (ÙÔÜ ‰’ âÈfiÓÙÔ˜ öÙÔ˘˜) Fabio Massimo Serviliano, fratello di Emiliano, succedette a un Quinctius (KÔ˚ÓٛŠ… qÏıÂÓ âd ÙcÓ ÛÙÚ·ÙËÁ›·Ó ‰È¿‰Ô¯Ô˜), il quale proprio l’anno precedente, il 143, come governatore e capo militare nella Spagna Ulteriore, era stato sconfitto nella campagna contro Viriato (vd. ibid., cap. 66). Il nome del successore menzionato in Appiano appare però in contraddizione con la notizia che si trova nella l. 4 di questa colonna dell’Epitoma, da cui apprendiamo appunto che il console Lucio

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Metello, sconfitto dai Lusitani, era colui il quale aveva il comando militare, quindi il governo, nella Hispania Ulterior nel 142. Come loro soluzione, Grenfell e Hunt, (POxy iv , 108-111) hanno pensato che nella tradizione manoscritta del passo di Appiano possa essere avvenuta una confusione di nomi: il nome Quinctius (KÔ›ÓÙÈÔ˜) sarebbe in realtà una corruzione testuale per Lucius (§Ô‡ÎÈÔ˜) o per Caecilius (K·ÈΛÏÈÔ˜) e proprio Lucio Cecilio Metello, invece dell’inesistente Quinctius, sarebbe il capo militare romano le cui vicissitudini, per lo più avverse, sono riportate nel cap. 66 di Appiano; egli stesso, ancora col nome deformato di Quinctius (KÔ˚ÓÙ›Å), sarebbe quindi il magistrato sostituito da Quinto Fabio Massimo Serviliano come proconsole (vd. ibid. 67, 283, citato sopra). Del pari si deve ritenere corrotto il passo di Appiano alla fine del cap. 65, dove è menzionato un Quinto Pompeo Aulo; tale passo è espunto, infatti, nell’edizione Viereck-Roos, (vd. pp. 111, 11 e 113, 23-27; vd. anche Appien, Histoire romaine, ii , lxvii-lxx). La contraddizione tra l’Epitoma e Appiano sarebbe quindi soltanto apparente: la redazione genuina di Appiano potrebbe invece essere stata concordante con la versione liviana riassunta nell’Epitoma, riportando correttamente il nome del console Lucio Metello. Ammessa questa spiegazione, si deve però constatare un’incongruenza cronologica. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 99-101, dal canto suo, nega infatti, giustamente, che si possa attribuire il cap. 66 di Appiano a un anno diverso dal 143, considerato il collegamento diretto del cap. 66 con il cap. 76 (Quinto Cecilio Metello inviato in Spagna), dove Appiano torna indietro appunto al 143. Resta quindi incerto il riferimento della determinazione temporale «l’anno seguente» in Appiano, Iber. 67, 283. Per ovviare alla contraddizione tra l’Epitoma e Appiano si può ammettere, semmai, a suo parere, un vuoto nella narrazione (o nel testo?) di Appiano per quanto riguarda il 142. Diversamente, Astin, The Roman Commander, in particolare 248 s. e 252, supponendo incerto il dato testuale dell’Epitoma in questo punto, ha pensato che nel 142 a.C. i Lusitani, accorsi in aiuto dei Celtiberi spinti da Viriato alla guerra con i Romani, potrebbero essersi scontrati con le forze di Quinto Cecilio Metello Macedonico, il quale era proconsole della Hispania Citerior quell’anno; si dovrebbe quindi ritenere l’indicazione cos. dell’Epitoma, col. vii, l. 4, come un errore per procos. e riferire la stessa notizia a Metello Macedonico. Ll. 5-6. Il ricchissimo bottino, comprendente statue e quadri, di cui Lucio Mummio si era impadronito con la presa di Corinto, nel 146 a.C. (vd. Epitoma del libro 52, col. vi, l. 9), fu esibito nel trionfo del generale, l’anno successivo (vd. Perioch. 52, 14; Eutr. 4, 14, 2; MRR i , 470); Mummio, tuttavia, non prese per sé nessuno di questi tesori (vd. Perioch. 52, 6), i quali, si può credere, furono incamerati dalla res publica. Riferimenti alla enorme quantità di opere d’arte e oggetti preziosi, che furono trafugati da Corinto o incendiati e dispersi nella distruzione della città, anche in Cicerone, Verr. ii, 1, 55 e Floro, Epit. 2, 16, 6; cf. Orosio, Hist. 5, 3, 5. Alle ll. 5-6 della col. vii, tra gli avvenimenti del 142 a.C. contenuti nel libro 53 di Livio, l’Epitoma riferisce che Lucio Mummio distribuì tra le città d’Italia i tesori di Corinto trafugati come bottino di guerra, gran parte dei quali servì a ornare la stessa Roma (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 60). Solo attraverso l’Epitoma si è potuta fissare precisamente la data di tale fatto (vd. ibid. 93; 104). Testimonianza della generosa distribuzione decisa da Mummio già in Cicerone, Orat. 232 (= Or. fr. A 8, 9 Schoell): «qui (L. Paullus et L. Mummius scil.) rebus his (ornamentis scil.) urbem Italiamque omnem

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referserunt»; Off. 2, 76, passo di speciale rilievo per la menzione della carica di censore, che Mummio ricopriva nello stesso anno in cui fece tale distribuzione (vd. MRR I , 474): «qui eius (Scipionis Aemiliani scil.) collega fuit in censura, L. Mummius, num quid copiosior, cum copiosissimam urbem funditus sustulisset? Italiam ornare quam domum suam maluit». Anche Plinio, Nat. 34, 36 celebra l’integrità di Mummio, il quale aveva riempito di tesori la città, ma non era abbastanza facoltoso per assicurare una dote alla figlia: «Mummius Achaia deuicta repleuit urbem, non relicturus filiae dotem»; cf. anche 34, 12, sui Corinthia candelabra: «Mummi uictoria Corintum quidem diruit, sed e compluribus Achaiae oppidis simul aera dispersit». Lo stesso autore, però, non trascura di notare la caduta dei costumi in séguito all’introduzione dei tesori corinzi a Roma, ibid. 33, 149: «signa et tabulas pictas»; 37, 12: «Corinthia et tabulas pictas»; cf. anche 35, 24. Altre testimonianze in Frontino, Strat. 4, 3, 15: «L. Mummius (...) Corintho capta non Italiam solum sed etiam prouincias tabulis statuisque ornauit» (Mummio tuttavia non ne trasse vantaggio personale); De uiris illustribus 60, 3: «Mummius Corinthum signis tabulisque spoliauit; quibus cum totam replesset Italiam, in domum suam nihil contulit». Si può osservare che l’Epitoma, forse riflettendo un elenco completo contenuto nell’originale liviano, include tutti i generi di opere d’arte (signa statuas tabulas Corinthias) menzionati, in varie combinazioni, nelle testimonianze citate sopra. Come integrazione congetturale alla l. 6, oltre a ornauit di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29, comunemente accolta dagli editori, è ammissibile anche repleuit di Reid, Fragments, 297 (vd. Plin., Nat. 34, 36 e Vir. ill. 60, 3). Altri particolari si aggiungono nella versione di Strabone, 8, 6, 23 C 381: le opere d’arte che si ammiravano come offerte nei templi, a Roma e nelle città dei dintorni, provenivano in gran parte da Corinto, generosamente donate da Mummio a coloro che le avevano richieste. Anche Lucullo ottenne in prestito da Mummio alcune statue per il tempio della Buona Fortuna, che aveva fatto costruire; ma poi, fatte consacrare alla divinità non le restituì; cf. anche Cassio Dione, 22, fr. 76 (ed. Boissevain, i, 322 s.). La distribuzione di opere d’arte è documentata, inoltre, da alcune iscrizioni dedicatorie che si riferiscono a Mummio e alla presa di Corinto («tituli Mummiani»), trovate a Roma e in altre città italiche (Trebula, Nursia, Parma): vd. CIL i2 2, 1, nr. 626-631, in particolare, nr. 626, su cui anche Courtney, Musa Lapidaria, 207 s. L. 7. Con la menzione dei consoli Gneo Servilio Cepione e Quinto Pompeo è indicato l’inizio del 141 a.C. (613 a.u.c.). Assai probabilmente il praenomen di Cepione, di lettura incerta nel papiro, è Cn. come nelle altre testimonianze. In particolare, la forma dei nomi riportati nell’Epitoma concorda con Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 421 Mommsen: «Cn. Caepio et Q. Pompeius». Un’altra menzione dei consoli si trova in Cicerone, Att. 12, 5b: «Caepione et Pompeio (consulibus scil.)»; cf. anche Velleio 2, 21, 5: «Q. Pompeius cum Cn. Seruilio consul fuit». Si distingue Chronographus a. 354, Chron. i p. 54, 613 Mommsen: «Ceplo et Nepote». Nei Fasti Capitolini, a. 141 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53) il primo nome è integrato nella lacuna: «[Cn. Seruilius (...) Caepio] Q. Pompeius». Ll. 8-9. Nella Periocha 53, 3 sono menzionate insieme sia le vittorie del proconsole della Hispania Citerior Quinto Cecilio Metello sui Celtiberi, nel 142 a.C. (vd. MRR i , 475), sia la ricon-

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quista di gran parte della Lusitania compiuta da Quinto Fabio Massimo nell’anno del suo proconsolato: «Q. Caecilius Metellus procos. Celtiberos cecidit et a Q. Fabio procos. magna pars Lusitaniae expugnatis aliquot urbibus recepta est». Per la determinazione dell’anno consolare, che nell’Epitoma precede immediatamente le ll. 8-9, queste affermazioni militari di Serviliano come proconsole, nella guerra in Lusitania, si collocano nel 141 a.C. (vd. POxy iv , 112 e 108-111; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 61 e 101; Fr. Münzer, Fabius, nr. 115, RE vi, 2, 1812, ll. 21 ss. e 1813, ll. 18 ss.; MRR i , 477 s.). Simile uso di caedere, col nome di un popolo come oggetto, si trova nella col. I, l. 1 (vd. comm.; anche col. v, l. 17). Un cenno sulle stesse imprese anche nella Periocha 54, 7: «rebus in Hispania prospere gestis». Nello stesso passo, Serviliano è biasimato per aver macchiato i suoi buoni risultati, l’anno successivo, quando era ancora proconsole della Hispania Ulterior (vd. MRR i , 480), concludendo una pace favorevole a Viriato; cf. anche Charax Pergamenus, Chronica, fr. 36 FHG iii p. 643 (= frr. 26 e 27 FGrHist nr. 103). Testimonianze delle vittorie del proconsole contro Viriato e i Lusitani anche in Floro, Epit. 2, 17, 7: «tandem eum (Viriatum scil.) Fabius Maximus consul oppresserat»; Orosio, Hist. 5, 4, 12: «Fabius consul contra Lusitanos et Viriatum dimicans Bucciam oppidum quod Viriatus obsidebat, depulsis hostibus, liberauit et in deditionem cum plurimis aliis castellis recepit». Si osservi che la notizia dell’espugnazione di alcune fortezze, tra le quali Buccia (cittadina sconosciuta dei Lusitani; vd. Emil Hübner, Buccia, RE iii, 1, 934, ll. 26 ss.), corrisponde alla testimonianza della Periocha 53, 3 (vd. sopra). Nel séguito, lo stesso Orosio riferisce, come atto esecrabile, l’ordine dato dal proconsole di tagliare le mani a molti nemici (cf. anche Val. Max. 2, 7, 11; Frontin., Strat. 4, 1, 42; vd. inoltre, più avanti, Appiano). Dal racconto di Appiano, Iber. 67, 283-287 sulla campagna del proconsole apprendiamo che all’inizio Viriato mise in difficoltà l’esercito romano, soprattutto con le rapide scorribande della cavalleria, finché Serviliano non fu costretto a levare il campo e tornare a Itucca. Successivamente però, dopo che Viriato era tornato nella Lusitania a causa degli scarsi rifornimenti e delle perdite di uomini, Serviliano invase la Beturia e mise a sacco cinque città che erano state con i ribelli; quindi, scontratosi con bande di briganti, prese le città di Escadia, Gemella e Olbocola, ancora nella Baetica, nelle quali si trovavano guarnigioni di ribelli (sono le espugnazioni di cittadine fortificate di cui fanno menzione anche la Periocha e Orosio; vd. sopra), attuò crudeli misure punitive contro i ribelli e i loro capi, come la decapitazione (ibid. 68, 288-291) e il taglio delle mani (ibid. 69, 292; vd., sopra, anche Orosio e fonti parallele); alla fine prese alloggio nei quartieri d’inverno. L. 11. Dalla testimonianza di Eutropio 4, 16, 1 si apprende che nel 141 a.C., anno del suo consolato (vd. MRR i , 477; Franz Miltner, Pompeius, nr. 12, RE xxi, 2, 2056, ll. 36 ss.), Quinto Pompeo era succeduto, come capo supremo della guerra contro Numanzia, a Quinto Cecilio Metello, il quale aveva guidato le operazioni militari nel 143, come console, e nel 142, come proconsole (vd. MRR i , 471 s.; 475). Poco più avanti (4, 17, 1), la sconfitta di Quinto Pompeo nella guerra contro Numanzia è posta in stretta connessione con la notizia dell’accordo che lo stesso generale aveva concluso con il nemico: «Q. Pompeius (...) consul a Numantinis, quae Hispaniae ciuitas fuit opulentissima, superatus, pacem ignobilem fecit». Sotto il consolato di Pompeo sono quindi riassunte in Eutropio sia la sconfitta subita nel 141, nel primo tentativo di espugnare Numanzia, sia gli avvenimenti dei due anni successivi, nei quali, rimasto al comando della campagna come proconsole, alla fine aveva concluso l’accordo coi Numantini, poi annullato dal senato (vd. MRR i , 480 e

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482). In Orosio, Hist. 5, 4, 13, invece, come nell’Epitoma, la notizia della sconfitta è riferita separatamente: «Pompeius sequentis anni consul fines Numantinorum ingressus accepta maxima clade discessit: non solum exercitu paene omni profligato, uerum etiam plurimis nobilium, qui ei militiae aderant, interemptis». Un accenno all’accordo ignominioso si trova solo più avanti (ibid. 5, 4, 21). Nel racconto di Appiano, Iber. 76, 325-326 sin dall’inizio delle operazioni condotte dal console Pompeo, nel 141, i Romani furono messi in difficoltà dagli attacchi dei Numantini. Nel proseguimento della campagna militare, l’anno successivo, Pompeo, che conservava il comando come proconsole, tentò di nuovo di espugnare Numanzia, ma i nemici inflissero danni e perdite all’esercito (ibid. 78, 332-337). Nel secondo anno del proconsolato (139), vedendo troppo ardua l’impresa, anche a causa delle avversità climatiche e ambientali, si risolse a concludere l’accordo segreto con i Numantini (ibid. 79, 338-341). Nella Periocha 54, 1-2 è fatta menzione soltanto dell’accordo, non delle contrarietà nella campagna militare. Altre testimonianze sul biasimevole negoziato del generale romano si trovano in Diodoro 33, fr. 16; Velleio 2, 1, 4; 90, 3; Floro, Epit. 2, 18, 4, secondo il quale Pompeo sarebbe stato sconfitto se l’accordo non fosse stato concluso. La vicenda di Pompeo, esposta più ampiamente nelle testimonianze parallele, nell’Epitoma si presenta ridotta all’avvenimento della sconfitta. Da ritenere sicura, alla l. 11, anche per il numero delle lettere integrate conforme alla lunghezza di 3 cm della lacuna, l’integrazione d[euictu]s di Grenfell e Hunt (POxy iv , 100), comunemente accolta dagli editori. L’uso già classico del verbo in questa accezione, di cui si hanno altri esempi nell’Epitoma (vd. col. vii, ll. 1 e 22), concorda, in particolare, col predicato verbale âÛÊ¿ÏË della testimonianza di Cassio Dione (libro 22, fr. 77; ed. Boissevain, i, 323), dove è detto che Pompeo fu sconfitto e perse molti uomini in séguito a incursioni dei Numantini, quando si accingeva a far deviare un fiume dal suo corso. Ll. 11-12. È questa dell’Epitoma l’unica testimonianza (vd. POxy iv , 94: «hitherto unknown») di una sconfitta subita dai Romani nel 141 a.C. presso gli Scordisci, popolazione di origine celtica che si era insediata nella regione pannonica (vd. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 93: il fatto avvenne al tempo delle operazioni romane in Macedonia e nell’area balcanica). Si può supporre che fosse a capo dell’esercito il console Servilio Cepione (vd. POxy iv , 112) o, più probabilmente, Decimo Giunio Silano, pretore nella Macedonia (vd. MRR i , 477). Notizie di combattimenti dei Romani contro questo popolo si trovano in Ossequente, 16 (anno 156), e nelle Periochae 56, 7 (anno 135); 63, 1 (anno 114) e 7 (anno 112). Secondo Reinhold, Die neue Livius-Epitome, 568, anche l’avvenimento di cui dà notizia l’Epitoma andrebbe incluso nella testimonianza di Rufo Festo 9, 1 sulle sconfitte subite dall’esercito romano in Tracia negli scontri con gli Scordisci. Nella sequenza di questi fatti s’inserisce bene la menzione degli Scordisci e della loro espansione territoriale, che si trova nella descrizione dell’Illiria in Strabone 7, 5, 12 C 318 (vd. Kornemann, ibid.). La ferocia di questo popolo è menzionata in Floro, Epit. 3, 4, 3 s.; Orosio, Hist. 5, 23, 18. L. 13. Con la menzione dei consoli Quinto Servilio Cepione e Gaio Lelio è indicato l’inizio del 140 a.C. (614 a.u.c.). Da notare, nell’Epitoma, la conformità dei due nomi con la testi-

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monianza di Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 422 Mommsen: «Q. Caepio et C. Laelius». Così già Cicerone, Brut. 161: «Q. Caepione consule (...) et C. Laelio». In Ossequente, 23 si rileva una variante erronea nel praenomen del primo console menzionato: «Q. (corr. Oudendorp: Gn. a) Caepione C. Laelio coss.». Imprecisa la forma semplificata dei due nomi nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 213, 614 Mommsen: «Cepione et Lacrio»; nel Chronographus a. 354, Chron. i p. 55, 614 Mommsen: «Lellio et Coepio». Stesso ordine inverso dei due nomi anche in Frontino, Aq. 7, 5: «C. Laelio Q. (·: que C) Seruilio consulibus»; nei Fasti Capitolini, a. 140 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53), dove il nome di Lelio è caduto nella lacuna. Assai probabile, nel testo dell’Epitoma, l’integrazione Q. Cae]pione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 100), secondo la forma storicamente accertata; non sono tuttavia da escludere varianti nel praenomen (vd., ad es., Ossequente) o nel cognomen (poteva esser scritto senza il dittongo; vd. Consularia Constantinopolitana) di Cepione. Della c che costituisce il praenomen abbreviato di Gaio Lelio si scorge una debole traccia prima della corta lacuna alla metà della riga. Oscuro risulta il cognomen di Salassus, attribuito inopinatamente a Gaio Lelio nel papiro. Di Salassus come cognomen si trovano testimonianze in Cicerone, Fam. 6, 18, 2 (Q. Curtius Salassus) e Valerio Massimo 9, 11, 7 (Vettius Salassus, su cui vd. anche Appiano, civ. 4, 24, 98-100). Si può sospettare, in modo puramente congetturale, una contaminazione con un diverso passo non conservato della stessa Epitoma, nel quale fossero riportate le operazioni condotte da Appio Claudio Pulcro nel 143, anno del suo consolato, contro i Salassi, popolazione alpina nella valle della Duria (vd. Perioch. 53, 1; Obseq. 21; Oros., Hist. 5, 4, 7; Cass. Dio 22, fr. 74, ed. Boissevain, i, 322). Il nome dei Salassi (forse nella forma -os?) potrebbe così esser penetrato in questo punto da tale passo non conservato, forse per una confusione avvenuta nel corso della copiatura, e successivamente incorporato nel testo della l. 13. Alla soluzione dell’emendamento, prospettata da Grenfell e Hunt in POxy iv , 101 e 112 (Sapiente) e da Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 129 (Sopho; cf. Liv. 10, 9, 2) è preferibile, a mio parere, che si conservi la lezione del papiro (così Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29), ritenuta genuina, anche se storicamente errata o frutto di un guasto testuale di difficile decifrazione. Ll. 14-15. Del fatto riferito in queste righe, col quale ha inizio il compendio del 140 a.C., non si possiedono altre testimonianze oltre all’Epitoma (vd. POxy, IV, 94: «Among details which are new (…) the important military reform introduced by Appius Claudius in B. C. 140»). Soggetto dell’enunciato principale è Appio Claudio Pulcro, console nel 143 a.C., il quale non risulta però menzionato da altre fonti tra i magistrati del 140 (vd. MRR i , 479-481). Nella lacuna centrale, alla l. 14, è scomparso proprio il termine con cui era definito l’oggetto del suo provvedimento, restituito in modo probabile dalle integrazioni delectus (Warde Fowler) o stipendia (Greenidge), citate in POxy iv , 112. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 29, tuttavia, osserva opportunamente che le parole così integrate eccedono, seppure di poco, le sei o sette lettere mancanti che si possono calcolare nella lacuna lunga 3,1 cm. Nel significato di «ottenere, conseguire», euincere seguito da subordinata con ut e il congiuntivo si trova già in Livio 2, 4, 3: «euincunt instando ut litterae sibi (…) darentur» (così anche in altri passi; vd. ThlL v, 2, 1043, ll. 42 ss.; Kühner/Stegmann ii 2, 214-217); un esempio di tale costrutto, in cui la subordinata è introdotta da ne, si ha in Irzio, Gall. 8, 52, 5 (il testo però vi è restituito per congettura;

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vd. ThlL, ibid., 1041, ll. 84 s.). Si può ritenere che il passo dell’Epitoma riguardi un divieto, che sarebbe stato opposto da Appio Claudio, di fare due leve militari nello stesso anno (vd. POxy iv , 112; Die neue Livius-Epitome, 61 s. e 108); soggetto grammaticale della subordinata sembra lo stesso annus. Simili contrasti, a Roma, per le leve militari sono testimoniati nelle Periochae 48, 16, nel 151, e 55, 1-3, nel 138. È da ritenere, dunque, che l’opposizione riguardasse una leva del console Quinto Servilio Cepione per operazioni nella Spagna Ulteriore (vd. Fr. Münzer, Claudius, nr. 295, RE Suppl. iii, 253, ll. 23 ss.). Meno probabile, per il numero eccessivo delle lettere e per la correzione che introduce nel testo del papiro, la congettura avanzata in modo dubitativo da Reid, Fragments, 298 su un’ambasceria di Scipione ai re orientali: ne duo s[ecum Aemili]a{n}us haberet. Ll. 15-18. Alla l. 15, dove il passo comincia, assai incerta la lettura del primo nome. Il grafema indecifrabile che esce dalla circoscritta lacuna, in alto, è stato letto come u da Grenfell e Hunt (POxy iv , 100 s.). Benché la forma sia somigliante, le aste sembrano tuttavia un po’ troppo lunghe. Si ha invece l’impressione che la seconda asta appartenga a una b. Si scorge poi un’altra debole traccia che potrebbe appartenere a una e. Dalla parte finale dello stesso nome, -milius, ben leggibile, si può supporre che nel papiro fosse scritta una forma corrotta di Aemilius (U. emilius secondo Grenfell e Hunt, ibid.) o derivata da esso. Nella prima metà della l. 16, mi è sembrato di poter leggere l’ultima lettera prima della lacuna piuttosto come o (suo. [), cancellata e forse corretta (suu. [) nello stesso papiro. L’Epitoma riferisce, in queste righe, il fatto di Tito Manlio Torquato, che era stato console nel 165 a.C., il quale condannò con giudizio privato il figlio Decimo Giunio Silano per malversazioni commesse l’anno precedente (141), quando questi era pretore in Macedonia (vd. MRR i , 477; Fr. Münzer, Iunius, nr. 161, RE x, 1, 1089, ll. 38 ss.). Decisivo per la datazione il contributo dell’Epitoma, che ha riportato l’episodio sotto il 140 a.C. (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 104). Argomento del primo enunciato è la sentenza di condanna emessa contro il figlio da Torquato, soggetto comune dei tre predicati verbali coordinati (su tale costruzione del passo, vd. Rossbach, Die neuen Periochae, 1022; Zu den Auszügen, 1309). Con l’emendamento T. Manlius (Grenfell e Hunt, ibid.) il testo è adattato alla forma corretta del nome. Non si escluda, tuttavia, come constato altre volte nell’onomastica del papiro, un’originaria lezione Aemilius, la quale, indipendentemente dalla sopraggiunta corruzione, potrebbe esser conservata come variante genuina (tale soluzione è presupposta nel testo qui edito). Col sintagma de Macedonia (questa l’integrazione più probabile, anche per la punta rimasta visibile di una lettera, verosimilmente d) si è giustamente ritenuto che sia indicata la causa del giudizio di condanna (vd. Kühner/Stegmann ii 1, 465; esempi simili dell’uso di de in ThlL v, 1, 14, ll. 77-83): il nome stesso della provincia implicherebbe le malversazioni commesse da Giunio Silano durante il suo governo come pretore. Meno probabile, seppure non impossibile, che tale sintagma sia da intendere come riguardante la provenienza: Silano sarebbe quindi incorso nell’accusa al suo ritorno dalla Macedonia (cf. Cic., Scaur. 40: «damnatus est T. Albucius, C. Megaboecus ex Sardinia»; Vell. 2, 8, 1: «C. Cato consularis … repetundarum ex Macedonia damnatus est»). Sicuri il testo e il significato nel séguito del passo, concordante con le altre testimonianze del fatto: Manlio Torquato non partecipò alle esequie del figlio, che si era dato la morte per il dolore e il disonore, ma proseguì la sua consueta occupazione di giureconsulto restando nella sua casa.

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Nella più ampia narrazione della Periocha 54, 5-6, Manlio Torquato condannò Giunio Silano dopo aver ottenuto l’inchiesta ordinata dal senato sulle malversazioni da lui commesse nella Macedonia; ripudiatolo come figlio, per averlo trovato colpevole, nemmeno prese parte al suo funerale: «cum Macedonum legati questum de D. Iunio Silano praetore uenissent, quod acceptis pecuniis prouinciam spoliasset, et senatus de querellis eorum uellet cognoscere, T. (om. N) Manlius Torquatus, pater Silani, petiit impetrauitque ut sibi cognitio mandaretur; et domi causa cognita filium condemnauit abdicauitque. ac ne funeri quidem eius, cum suspendio uitam finisset, interfuit sedensque domi potestatem consultantibus ex instituto fecit». Con essa concorda Valerio Massimo 5, 8, 3: «Titus (B C D E: t G L M, g F) Manlius (B1 D M: manilius B C F G L) Torquatus (...) cum ad senatum Macedonia de filio eius D. Silano (B1 M: sill- E F G L), qui eam prouinciam obtinuerat, querellas per legatos detulisset, a patribus conscriptis petiit ne quid ante de ea re statuerent, quam ipse Macedonum filiique sui causam inspexisset. Summo deinde cum amplissimi ordinis tum etiam eorum qui questum uenerant consensu cognitione suscepta, domi consedit solusque utrique parti per totum biduum uacauit ac tertio plenissime die diligentissimeque auditis testibus ita pronuntiauit: “cum Silanum filium meum pecunias a sociis accepisse probatum mihi sit, et re publica eum et domo mea indignum iudico protinusque e conspectu meo abire iubeo”. tam tristi patris sententia perculsus Silanus (B C L M: sill- E F G) lucem ulterius intueri non sustinuit suspendioque se proxima nocte consumpsit. (...) ille neque exsequis adulescentis interfuit et, cum maxime funus eius duceretur, consulere se uolentibus uacuas aures accommodauit». Versione parziale del fatto, ma simile nella sostanza, in Cicerone, De fin. 1, 24: «T. (corr. edd.: L. codd.) Torquatus, is qui consul cum Cn. Octauio fuit, cum illam seueritatem in eo filio adhibuit, quem in adoptionem D. Silano emancipauerat, ut eum Macedonum legatis accusantibus, quod pecunias praetorem in prouincia cepisse arguerent, causam apud se dicere iuberet reque ex utraque parte audita pronuntiaret eum non talem uideri fuisse in imperio, quales eius maiores fuissent, et in conspectum suum uenire uetuit». Numerose le concordanze, anche nella stessa espressione, tra l’Epitoma e i passi citati qui sopra, soprattutto i primi due. Ll. 19-21. La partenza di Quinto Servilio Cepione, console del 140 a.C., con il suo esercito per la Spagna Ulteriore fu ostacolata dal tribuno della plebe Tiberio Claudio Asello; di tale notizia l’Epitoma fornisce l’unica testimonianza nota (vd. POxy iv , 94: «does the papyrus supply new facts of importance»; «among details which are new (…) the dispute between the consul and the tribunes»). Conseguenza del ritardo della partenza fu, forse, anche la sconfitta di Fabio Massimo Serviliano, che l’Epitoma riporta subito dopo, alle ll. 22 s. (vd. POxy iv , 112 e 109; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 62 s. e 101 s.; MRR i , 479; inoltre, Fr. Münzer, Claudius, nr. 63, RE iii, 2, 2676, ll. 21 ss.; Suppl. iii, 252, ll. 63 ss.). Reid, Fragments, 298 ha supposto che l’opposizione tribunizia fosse avvenuta in modo arbitrario, fuori dei procedimenti legali o istituzionali: «the words interpellantem profectionem suam are unsuited to the exercise of the tribunician veto, and point rather to some personal insult» (nell’accezione di «impedire, ostacolare» un’azione, vd. interpello, c. obi. solo, ThlL vii, 1, 2241, ll. 7 ss.). Sembra pertinente il confronto (vd. Greenidge in POxy iv , 112) con Sallustio, Iug. 39, 4, su Spurio Postumio Albino, console nel 110 a.C., cui fu impedito dai tribuni della plebe di portare con sé le truppe già apprestate: «consul inpeditus a tribunis

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plebis, ne quas parauerat copias secum portaret». Riguardo al tribuno Claudio Asello, la sua ostilità verso i personaggi in vista si manifesta anche nel più noto episodio dell’accusa che egli intentò contro Publio Scipione Emiliano, in Gellio 3, 4, 1. Nella stessa testimonianza si trova una conferma che Asello fosse tribuno della plebe intorno al 140, poiché vi è dichiarato che il fatto avvenne dopo il trionfo di Scipione sui Cartaginesi e dopo la sua censura (142 a.C.). Al 140 come anno di questo tribunato è derivata una decisiva conferma, contro altre datazioni, proprio dall’Epitoma (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 104). Al medesimo avvenimento alludono i versi di Lucilio (frr. 394-395 Marx) citati in Gellio 4, 17, 10. Ancora Gellio dà testimonianza di orazioni di Scipione Emiliano contra Claudium Asellum (2, 20, 6; da notare la variante asellium di alcuni codici) o pro se contra Tiberium Asellum de multa ad populum (6, 11, 9; da notare anche qui la medesima variante), i cui frammenti sono raccolti in ORF Malcovati, 127-129. Accenni all’ostilità tra Scipione Emiliano e Claudio Asello già in Cicerone, De orat. 2, 258 e 268. L’inizio della l. 19, con il nome di Cepione, soggetto dell’enunciato principale (C]aepio co. s, probabilmente senza praenomen), è spostato leggermente all’infuori rispetto all’allineamento verticale della colonna di scrittura, come nelle righe con le formule binomie dei consoli in carica all’inizio di un nuovo anno. Nella stessa riga sono opportunamente da emendare gli elementi del nome di Tiberio Claudio Asello: Claudi am (così scritto, con leggero stacco) in Claudium, Assilium in Assellum (si può conservare la grafia particolare -ss- invece di -s-, più comune). Da notare che in alcuni codici di Gellio (vd. sopra) si registra, nella terminazione del nome, una variante -ium, gruppo di lettere che si legge anche nel testo corrotto del papiro: si potrebbe quindi, forse, emendare in Assellium? Non sembra necessario, invece, un emendamento dell’abbreviazione trb. (l. 20). In vario modo gli editori hanno tentato di sanare gli altri guasti testuali del papiro. Alla l. 19, la congettura intellegens reggente l’accusativo col participio (Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 143; vd. lo stesso Rossbach già in Die neue Livius-Epitome, 230) è giudicata poco plausibile da Luterbacher, T. Livi periochae, 1191. Gundermann, Die neue Livius-Epitome, 31 ha supposto che dietro a indelegem del papiro si trovasse inserita anche qui, come alla l. 21 (vd. più avanti), una frase di discorso diretto, forse con un imperativo. La restituzione più persuasiva sembra, tuttavia, quella di Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 231: inlegem («gesetzwidrig»), come aggettivo con funzione avverbiale (contrariamente alla legge ostacolava la partenza). Alla l. 21, da ritenere quasi certa, sia per probabilità paleografica sia per significato, la correzione deterruit, già di Grenfell e Hunt, POxy iv , 112. Gli stessi scorgono nel corrotto trigem un participio in -ens (ad es., lictores adhibens): il console avrebbe stornato il tribuno dalla sua azione facendo intervenire i littori. Non c’è motivo di dubitare della lezione lictor (o -es, secondo le diverse restituzioni congetturali) per sostituirla con uiator, come ha supposto Fuhr, The Oxyrhynchus Papyri, 1508, pensando che sarebbe più pertinente al contenuto del passo una menzione dell’ausiliario dei tribuni della plebe. L’azione principale, infatti, alla quale è connesso l’intervento di rinforzo, è da intendere quella del console. Nello stesso punto della l. 21, Gundermann ha supposto che s’inserisse, come frase di discorso diretto, l’ordine impartito al littore dal console nell’atto di intimidire il tribuno con minacce (Ti. Claudium Assellum … terruit): “lictor{e} stragem redde” (Lejay, Die neue Livius-Epitome, 129 n. 1 conserverebbe estragem: «c’est une forme vulgaire comme escola, espiritum»). Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 143), diversamente, avendo fatto Claudium Asellum oggetto del congetturale intellegens, ha supposto che il console, stringendo la spada

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(strigens ensem) avrebbe trattenuto il littore (lictore terruit) dal far violenza. Ben si vede come sia impossibile arrivare a una soluzione sicura. Recuperando parzialmente l’intuizione di Gundermann, il quale ha colto nelle lettere red l’indizio di una lezione genuina, e supponendo che, per un salto da uguale a uguale, un tratto di questa lezione sia stato omesso nel corso della trasmissione manoscritta, provo a avanzare come altra possibile congettura, presupponendo la restituzione complessiva data da Kornemann, lictore stragem red: mentre il littore già faceva strage, il console Cepione riuscì a distogliere Tiberio Claudio che ostacolava la sua partenza. Ll. 22-23. Nel 140 a.C., Quinto Fabio Massimo Serviliano, ancora in carica come proconsole della Spagna Ulteriore (sul suo governo, da collocare nel biennio 141-140, vd. POxy iv , 109 e 110 s.; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 101; Fr. Münzer, Fabius, nr. 115, RE vi, 2, 1813, ll. 45 ss.), dopo aver condotto bene la campagna contro Viriato (necessaria la duplice correzione della forma Virathio testimoniata nel papiro; vd. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 30 s.) nel primo anno del suo mandato proconsolare (vd. Epit. col. vii, ll. 8-9 e commento; MRR i , 477 s.), ma trovatosi poi in grave difficoltà per aver subito una sconfitta dai Lusitani con la perdita di molti uomini, concluse una pace disonorevole col nemico (vd. Die neue Livius-Epitome, 63; MRR i , 480). Dal testo originale liviano potrebbe essere derivata nell’Epitoma la giuntura pax deformis, di cui si trovano esempi in Valerio Massimo 8, 13, 5 e Quintiliano, Inst. 2, 16, 7 (vd. ThlL v, 1, 369, ll. 2 ss.). La pace conclusa dal proconsole è biasimata anche nel passo corrispondente della Periocha 54, 7: «Q. Fabius procos. rebus in Hispania prospere gestis labem imposuit pace cum Viriatho aequis condicionibus facta». Diversamente dall’Epitoma (sulla differenza tra i due testi, vd. anche Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 244), non si trova qui menzione della sconfitta subita, ma soltanto dei precedenti buoni risultati, già esposti nella Periocha 53, 3. In modo simile, anche Floro, Epit. 2, 17, 17 mette in risalto le vittorie di Serviliano, di cui è citato il solo titolo di console: «tandem eum Fabius Maximus consul oppresserat». Anche qui, come in altri punti, l’Epitoma si mostra poco propensa a abbellire o sottacere i fatti, quando i Romani siano incappati in sconfitte o situazioni critiche (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 77). Opposta, per errore, la versione del fatto in Ossequente, 23 (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 75; Schmidt, Iulius Obsequens, 39 s.): «annus pacatus fuit Viriatho uicto». Secondo Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 248, l’uso di deuincere può costituire un buon argomento a favore di una specifica relazione tra lo stesso Ossequente e l’Epitoma: esso non risulta infatti peculiare delle Periochae, dove è preferita la forma semplice del verbo, ma se ne trovano più esempi paralleli nell’autore del Prodigiorum liber (vd. anche, sopra, l. 1 e il commento). La notizia dell’Epitoma corrisponde invece, più puntualmente, al racconto di Appiano, Iber. 69: nella campagna del 140, mentre il proconsole Fabio Massimo Serviliano, in attesa dell’arrivo del console Cepione, teneva sotto assedio Eurisano, una sortita di Viriato, introdottosi nella città durante la notte, sbaragliò gli assedianti, molti dei quali perirono nella fuga precipitosa affondando in un burrone paludoso (292-294; cf. Frontin., Strat. 2, 5, 7). Viriato non si esaltò, tuttavia, per questa vittoria, ma concluse un accordo con i Romani, poi ratificato, il quale dichiarava Viriato stesso amico di Roma e sanciva la sovranità dei suoi sudditi nei loro territori (ibid. 294-295). L’accordo fu però severamente biasimato da Cepione (ibid. 70, 296): K·È›ˆÓ (...) ‰È¤‚·ÏÏ Ùa˜ Û˘Óı‹Î·˜ ηd

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â¤ÛÙÂÏÏ ^PˆÌ·›ÔȘ àÚÂÂÛٿٷ˜ ÂrÓ·È. Anche secondo Diodoro, 33, fr. 1, 4, Viriato,

risollevatosi dopo un transitorio declino, aveva costretto Serviliano, prevalendo temporaneamente nel conflitto, a un accordo indecoroso per i Romani: Âå˜ Û˘Óı‹Î·˜ ·éÙeÓ âÏıÂÖÓ àӷ͛Ԣ˜ ^PˆÌ·›ˆÓ äÓ¿ÁηÛÂÓ. In modo simile, la vicenda è riferita anche in Carace di Pergamo, Chronica, fr. 27 FGrH 2. Teil, A, nr. 103, 488 (= fr. 36 FHG iii, 643): K‡ÈÓÙÔ˜ ï ÙáÓ ^PˆÌ·›ˆÓ ÔϤ̷گԘ âÓ àÌÊÔ٤ڷȘ Ù·Ö˜ ^IÛ·Ó›·È˜, ìÛÛÒÌÂÓÔ˜ ‰b ñe OéÈÚÈ¿ıÔ˘, ÛÔÓ‰a˜ Úe˜ ·éÙeÓ âÔÈ‹Û·ÙÔ. Il duplice incarico di Serviliano nella campagna iberica, menzionato in questo frammento, va inteso, da un lato, come prolungamento del mandato proconsolare del 141 nella Spagna Ulteriore, in attesa del console Cepione; dall’altro, come supplenza di Quinto Pompeo nella Spagna Citeriore (vd. Münzer, Fabius, citato sopra). Ll. 23-25. Alla fine della colonna, un’estesa rasura interessa la prima metà del campo di scrittura, dalla l. 24 alla l. 27 (l’ultima riga , più corta, è scomparsa del tutto), per una lunghezza di 4,6 cm; nella striscia iniziale delle stesse righe, di 1 cm circa, è caduta anche la superficie del papiro: la lacuna nel campo di scrittura, così, in questa area della colonna, risulta lunga complessivamente 5,6 cm. In questo passo, che si estende dalla fine della l. 23 all’inizio della l. 25, soggetto dell’azione è di nuovo Quinto Occio (Q. Occius), già menzionato nell’Epitoma per la sua virtù militare (vd., sopra, col. vii, ll. 1-3), il quale, dopo vari anni di servizio come legato nella guerra contro i Lusitani (vd. MRR i , 473; 476; 478; 480; Fr. Münzer, Occius, RE xvii, 2, 1763, ll. 9 ss. e, in particolare, 35 ss.), preso in un agguato dei nemici, cadde combattendo coraggiosamente. Alla l. 24, dopo la lacuna, ho potuto accertare la lettura ]i.nsidiis; escluderei, pertanto, i]n ins. di Grenfell e Hunt (POxy iv , 101) e oppress]us [i]ns. di Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 143. Nello stesso esame autoptico si sono rivelate indecifrabili alcune tracce puntiformi di lettere che si scorgono in alto, sopra la superficie abrasa, pertinenti alla stessa l. 24, sulle quali si può presumere che sia stata fondata la lettura congetturale di Rossbach. Se si tiene conto delle undici o dodici lettere mancanti, così calcolate in proporzione alla lunghezza della parte caduta del testo, risulta pienamente adeguata la congettura interceptus di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31, cui è unito il complemento insidiis (su tale costruzione, vd. ThlL vii, 1, 2164, ll. 35 ss.; in particolare, Liv. 29, 18, 13: «legatus … insidiis tribunorum interceptus»). Ben argomentata l’obiezione di Stuart, P. Oxyrhynchus 668, 40 s. alla congettura pugnauit, adottata dagli editori nella rasura della l. 25. Nello spazio di undici o dodici lettere mancanti è quindi proposta l’integrazione cecidit (suggerita da pugnans cecidit di Luterbacher, Die neue Livius-Epitome, 129) come predicato verbale principale e conclusione dell’enunciato; dell’espressione fortiter cadere, così ottenuta, si ha un esempio in Cicerone, Fam. 14, 3, 1. Il tratto residuo della lacuna iniziale, nella l. 25, in cui si calcolano cinque lettere mancanti, appartiene invece al passo successivo (vd., più avanti, ll. 25-27 e il commento). Le gesta di questo legato, che meritò il soprannome di Achille, sono compendiate nell’exemplum di fortitudo in Valerio Massimo 3, 2, 21, il quale concorda, in una parte, con la testimonianza dell’Epitoma citata sopra (vd., ibid., il commento). Valerio Massimo dichiara di aver scelto due episodi adatti a illustrare il valore di Occio come combattente e di aver tralasciato altre imprese: «Q. Occius (B C G L M V: coccius D, cocius E) qui propter fortitudinem Achilles cognominatus est (...) ut reliqua eius opera non exsequar». Sia

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la versione esemplare di Valerio Massimo sia quella compendiata dell’Epitoma sono da ritenere derivate da Livio (vd. Münzer, Anmerkungen, 138). Appare confermata, così, la predilezione dell’Epitoma per fatti in sé secondari, i quali però, presentando particolari motivi d’interesse, come questo episodio di natura esemplare, sono esposti in modo meno sommario (vd. anche POxy iv , 112; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 63). Non andrà confusa la fine di Occio, di cui parla l’Epitoma in queste righe, con quella, avvenuta ugualmente nel 140 a. C., del tribuno militare Oppio, il quale prestava servizio sotto Quinto Pompeo a Numanzia, nel fronte della Spagna Citeriore (vd. Appiano, Iber. 78, 333; MRR i , 476 n. 4). Ll. 25-27. Benché il testo superstite sia molto ridotto a causa di un’estesa rasura (vd., sopra, il commento alle ll. 23-25), appare evidente che l’argomento dell’Epitoma, in queste ultime righe della colonna, con le quali termina il compendio del 140 a.C., corrisponde, nella sostanza, a un passo dal cap. 7 del De aquaeductu urbis Romae di Frontino (citato qui secondo l’edizione Rodgers; vd. Frontinus, De aquaeductu). Ai parr. 1-5, l’autore riferisce che, nel 144 a. C., il pretore urbano Quinto Marcio Re fu incaricato dal senato di rifare di nuovo e restituire all’uso pubblico gli acquedotti aqua Appia e aqua Anio, rovinati dal tempo e dagli abusi: «cum Appiae Anionisque (·: amion- C) ductus uetustate quassati priuatorum etiam fraudibus interciperentur (...) eorum ductuum reficiendorum ac uindicandorum». Per le accresciute esigenze di approvvigionamento idrico, il pretore avrebbe dovuto, inoltre, far affluire nell’Urbe la maggiore quantità possibile di acqua: «curaret alias aquas quatinus posset in urbem perducere». Ripristinati così gli acquedotti che già esistevano, egli fece costruire, per rifornire in modo ancor più abbondante la città, un nuovo acquedotto, che fu chiamato aqua Marcia: «[itaque pri]ores ductus ref[ecit et] tertiam illaprio ri[uo in urbem per]duxit, cui ab auctore Marciae nomen est». Secondo Fenestella, citato esplicitamente come fonte, per questi lavori furono stanziati centottanta milioni di sesterzi e l’incarico di Marcio fu prorogato per un anno. Nel 143, anno del completamento dei lavori, i decemviri obiettarono che secondo i libri sibillini, da loro consultati per altre ragioni, non era lecito far pervenire l’aqua Marcia, o piuttosto l’aqua Anio (tradizione più consistente), fino al Campidoglio (vd. Rodgers, What the Sibyl said, 176 s.; Frontinus, De aquaeductu, 164): «decemuiri, dum aliis ex causis libros Sibyllinos inspiciunt, inuenisse dicuntur non esse [fas] (lac. 3 litt. in C) aquam Marciam seu potius Anionem (de hoc enim constantius traditur) in Capitolium perduci». In un primo dibattito nel senato intervenne Marco Lepido, ma è questione controversa se a favore di Marcio (secondo la lezione collega di C) o dei decemviri (congettura collegio di Pighius, per la quale ora propende, con buoni argomenti, Rodgers; vd. Frontinus, De aquaeductu, 69 e 165). Il dibattito si riaccese nel 140, con l’intervento del pretore Cornelio Lentulo (vd. MRR i , 479), ma prevalse, come già la prima volta, l’autorità di Marcio (vd. Frontinus, De aquaeductu, 165 s.): «utroque tempore uicisse gratiam Marcii Regis, atque ita in Capitolium esse aquam perductam». Alla testimonianza di Frontino si affianca Plinio, Nat. 36, 121, che, in complesso, ne dà conferma: «Q. Marcius Rex, iussus a senatu aquarum Appiae, Anienis, Tepulae ductus reficere, nouam a nomine suo appellatam cuniculis per montes actis intra praeturae suae tempus adduxit» (inesatta la menzione, che non si trova nel passo di Frontino, dell’acquedotto aqua Tepula, costruito in realtà più tardi; vd. Frontin., Aq. 8). Lo stesso

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Plinio, ibid. 31, 41, lodando l’aqua Marcia, la considera come un dono degli dei: «clarissima aquarum omnium in toto orbe frigoris salubritatisque palma praeconio urbis Marcia est, inter reliqua deum munera urbi tributa». Dopo aver parlato delle sorgenti, osserva, forse con velata allusione alle polemiche senatorie, che il suo corso si dirigeva in modo naturale verso Roma: «Romam non dubie petens». Accenna quindi all’opera architettonica dell’acquedotto che la conduceva: «nouem milibus passuum fornicibus structis perducta». Diversamente dalle testimonianze citate sopra, Plinio afferma che il re Anco Marcio, non il pretore della res publica, per primo aveva voluto portare questo acquedotto fino a Roma: «primus eam in urbem ducere auspicatus est Ancus Marcius, unus e regibus, postea Q. Marcius in praetura, rursusque restituit M. Agrippa». Una versione parzialmente diversa in Plutarco, Coriol. 1, 1, secondo cui non il pretore Quinto da solo, ma due membri della gens Marcia, Publio e Quinto, fecero arrivare l’aqua Marcia fino a Roma. Tralasciando queste altre tradizioni, osserviamo che la notizia dell’Epitoma può essere ben compresa, nella sostanza, attraverso il confronto con il passo di Frontino. Il testo sembra suddividersi in due parti. Nella seconda, che comincia da aqua, alla fine della l. 25, è riassunta la conclusione della vicenda: l’acquedotto di cui è fatta menzione (non si può stabilire con certezza, a mio parere, se nella lacuna iniziale alla l. 26 sia da integrare Marcia o un altro aggettivo riferito a aqua) fu finalmente portato (perducta]: integrazione da ritenere sicura alla l. 27) fino al Campidoglio (in Capi]tolium, l. 26), contro i vaticini della Sibilla. L’espressione contra Sibyllae carmina allude di certo ai libri sibillini, nei quali i decemviri avevano trovato un responso sfavorevole al prolungamento dell’acquedotto fino all’Urbe, in special modo fino al Campidoglio. Meno chiaro, invece, il testo nella prima parte del passo, alla l. 25. La lezione aqua Anio (correzione necessaria per Annio del papiro) riguarda senza dubbio l’acquedotto Anio Vetus, che Quinto Marcio era stato incaricato di riparare nell’anno della sua pretura, così come doveva ripristinare, nello stesso tempo, l’altro vecchio acquedotto aqua Appia. Dal passo di Frontino citato sopra prendono spunto gli emendamenti al testo ritenuto corrotto (letto così nel papiro: ]inae deuota est) in Grenfell e Hunt in POxy iv , 113 (renouata o refecta) e Reid, Fragments, 298 (inaedificata o uindicata), secondo cui sarebbe riassunto qui il restauro del vecchio acquedotto aqua Anio. Nella sua restituzione testuale, invece, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31 conserva quasi immutato il testo del papiro (diversamente compartito: ]in aede uota est), ammettendo che la frase possa veramente riguardare una consacrazione dell’acquedotto nella circostanza del suo pieno ripristino: in aede uota est. Conforme a tale lettura l’integrazione di Gundermann, secondo cui al predicato verbale uota est va unito come complemento di termine il nome di una divinità (Ioui]). Ancor più aderente al papiro la soluzione di Rossbach (vd. T. Livi periochae, fragmenta, 143), il quale preferisce non integrare le quattro o cinque lettere mancanti all’inizio del passo: ***] in aede uota est. Diversamente dalle precedenti restituzioni testuali, Stuart, P. Oxyrhynchus 668, 40-44 ha supposto che alla l. 25 si celi in realtà un sommario riferimento allo scontro accesosi ben due volte nel senato (143 e 140 a.C.) intorno alla conduzione dell’aqua Marcia fino al Campidoglio. Dopo cecidit, congettura ammessa come più probabile nella conclusione dell’enunciato precedente, sarebbe da integrare, considerato il numero delle lettere mancanti, M. Porc]inae (è presupposta la lettura ]i.nae; vd. POxy iv , 101) cioè il nome di M. Emilio Lepido Porcina, lo stesso Marco Lepido menzionato da Frontino, Aq. 7, 5 (vd. sopra). A questo personaggio, pretore nel 143 a.C. e, come ritiene Stuart (secondo

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la lezione pro collega di C, accettata anche in MRR i , 473 n. 1), ardente sostenitore della causa di Marcio, sarebbe stata metaforicamente sacrificata, come una vittima sull’altare delle fazioni politiche in conflitto, la conduzione dell’aqua Anio fino al Campidoglio, voluta dal senato, mentre prevaleva definitivamente il disegno di Marcio. In tale lettura, la prima parte del passo si salda convenientemente con la successiva, nella quale apprendiamo che l’aqua Marcia fu condotta finalmente al Campidoglio, pur contro i responsi della Sibilla. Si tenga conto, però, che nel testo di Frontino, la correzione congetturale collegio, stabilita con argomenti assai probabili in Rodgers, Frontinus, De aquaeductu, 69 e 165, induce a considerare Lepido come fautore dei decemviri. La congettura di Stuart, che poggia sulla lezione collega di C, risulterebbe pertanto confutata. È ugualmente presupposta la lettura ]i.nae nell’integrazione Proserp]inae di van Wageningen, Die nieuw gevonden epitomae, 110. Secondo Gwyn Morgan, The Introduction, 57 s., invece, alla l. 25 è da conservare l’espressione in aede uota est; dopo cecidit dell’enunciato precedente, le quattro o cinque lettere mancanti sarebbero da integrare col nome della divinità (ad es. Ioui]; vd., sopra, Gundermann). È ritenuto impossibile, tuttavia, che il soggetto della stessa proposizione sia un acquedotto: la lezione del papiro (acqua dopo est), intesa come dittografia (cf., ad es., col. I, l. 3) nata da una variante errata, sarebbe da correggere in statua. Nel modo seguente si presenta quindi il testo restituito da Gwyn Morgan: Iouis] in aede uota est atua. Con Anio aqua comincerebbe invece la seconda parte del passo. L’Epitoma non riguarderebbe quindi l’aqua Marcia, come hanno ritenuto la maggior parte degli editori, ma il restauro dell’acquedotto aqua Anio, e il suo prolungamento fino al Campidoglio, secondo la tradizione più persistente testimoniata nel passo di Frontino (vd. sopra): Anio aqua [refecta in Capi]tolium contra Sibyllae carmina [perducta]. Difficile arrivare a una restituzione certa del testo alla l. 25. Tra le varie congetture, quelle di Kornemann (con Gundermann) e Rossbach assicurano un senso plausibile senza modificare il testo del papiro. Si può ammettere, infatti, che l’acquedotto aqua Anio, una volta restaurato e ripristinato per l’uso pubblico, fosse stato offerto in voto nel tempio di una divinità, il cui nome è caduto nella rasura: *** i]n aede uota est aqua Anio. A questa soluzione, benché neppure essa pienamente persuasiva, ho adattato il testo edito. POxy IV 668, Col. VIII (Ab urbe condita librorum 54-55 Epitoma)

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Cn. Pisone C. Polli[o cos. Chaldaei urbe t It[alia A. Gabinius uerna[ suffragium per ta[bellam Seruilius Caepio a[ obiecerat clauo[lis ? Audax, Minurus, ita.[lco Viriathum iugula[uerunt. lib. [lv P. Sc[i]pione D. Iunio c.[os. interfectores Viri[athi negatum. .[ ±7 ]..[ †d.ecemuiru[m …]s. Licini[us t.rib. pl. in carc.[er]em [c]oll[

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corpus dei papiri storici greci e latini p.recibus populi mul[t]a re[missa. trib. pl. pro commodis pop.[uli omnib. lucti expirauit co[.]u.n[*** desertores in comitio uirgis cae[si singulis uenierunt. [ ] P. Africanus cum L. Cottam. [accu]sar[et magnitudinem nom[inis ..]. ca.[ Lusitani uastati. an† N[uman]tin[i Diodotus Tryphon An[tioc]h.um [*** occidit Suriaque potitus. e[st. ] M. Aemilio C. Hostilio M[an]cino [cos. Decimus Brutus in Hispania re b[ene gesta Obliuionis flumen planus trans[

1 punto a media altezza dopo le iniziali abbreviate cn, c 2 stacco dopo chaldaei 5 stacchi dopo i due nomi 6 spazio dopo obiecerat 7 stacco dopo minurus 10 punti a media altezza dopo le iniziali abbreviate p, d spazi dopo scipione e l’iniziale d; ampio spazio dopo iunio 13 punto a media altezza dopo la traccia di lettera (s ?) che esce dalla lacuna 14 punti a media altezza e stacchi dopo trib e pl 16 punti a media altezza e stacchi dopo trib e pl 17 punto a media altezza dopo omnib stacchi tra le singole parole p iniziale ampiamente spostata verso l’esterno della colonna e isolata sul margine sinistro punti a media altezza dopo le iniziali abbreviate p, l stacchi più o meno ampi tra le singole parole 21 spazio davanti a ca.[ trattino a media altezza tra suriague e potitus 25 punti a media altezza dopo le iniziali abbreviate m e c stacchi dopo m e hostilio ampi spazi dopo aemilio e m[an]cino 1 C. papyri def. Korn., M. G.-H. Poll- G.-H. (Poll- pap.) 2 pap. (urbetil[) corr. G.-H. intra X dies expulsi post t It[alia coni. Korn. (Italia exp. Luterb.), edicto abire iussi van Wageningen 2 (abire iussi coni. et Wölfflin, sunt add. Ross.) 3 pap. (Cab-) corr. G.-H. uerna[e nepos (vel, minus bene, filius) G.-H., -a natus Reid rogationem tulit coni. G.-H., Korn., legem Luterb., Ross. 4 per ta[bellam ferri G.-H., Korn., ut (l. 3, in fine) … ferretur Luterb., Ross. in Hispania in fine huius versus ad sequentem sententiam rettulit Korn. 5 a[b equitibus quos periculo] G.-H., Korn., Viriatho Ross. 6 clauo[lis paene inflammatus est] fort. recte Korn., procos. Q. Seruilius (ll. 4-5) … clauis cinctus paene ustus est Reid, clausus praetorio et paene ustus Ross.; clauo (i. q. claua) ictus G.-H., gladio Luterb., clauo [lignis tabernaculo paene ustus dub. Rostovtzev 7 corr. et suppl. G.-H. consilio Caepionis coni. Reid et Fuhr, Korn., a Caepione corrupti Ross. 8 suppl. G.-H. 9 suppl. G.H. 10 suppl. G.-H. 11 suppl. G.-H. interfectoribus … praemium G.-H., promissum pr. Fuhr; -es … pr. petunt, quod fort. recte Korn. (petiuere, id Luterb.), urbe pulsi sunt, pr. Ross. 12 c[um P. Scipi]on[em Nasicam et G.-H. (dub.) et Korn., ex cu]ria [P. Scipionem et Ross. 13 crucem posui: Decim(um) Bru[tum cos. G.-H. Licini[us et Curiatius G.-H., S. (ex ]s. papyri; co]s. leg. G.-H.) Licin. et C. Cur. Korn., Ross. 14 trib(uni) pl(ebis) scil. collocarent G.-H., Korn., -uissent Luterb., Ross.; collo obtorto ducerent van Wageningen 1 totius vel uniuersi (populi scil., vd. l. s.) coni. Reid, utrique vel ambob(us) Müller 1 15 suppl. G.-H.; est post remissa add. Luterb. Nasicae filius vel frater sequentis sententiae initium coni. Warde Fowler, ***, qui Ross. 16 trib(unus) pl(ebis) scil. pop[uli G.-H. agens, qui coni. Korn., cum Luterb., agebat et Ross. 17 omnib(us) scil. lucti fort. recte Korn. (lucti pap.); omnibus luctus G.-H., -ibus sine praepos. Wölfflin; et cum (l.16, in fine) omnium luctu dub. Müller 2 co[e]un[te plebe elatus Korn., Ross. post expirauit sequentis sententiae initium posuit G.-H.; communi delectu coni. Reid, ad eam rettulit 17-18 de]sertores G.-H. cae[si sestertiis G.-H., sunt et sest. Luterb., Ross. 20 suppl. G.-H., incus. Mattingly 20-21 propter] magnitudinem Korn., iudices ob Ross., in senatu ob Mattingly; fugit per vel solutus -e Reid 21 nom[inis sui] Korn., -inum Mattingly, eius Reid cad[it in iudicio Korn., causam non tenuit Luterb., eum] cad[ere noluerunt (iudices scil., vd. l. 20), ut caderet ille fecit Mattingly; caede ingenti (cae[ leg. G.-H.) ad sequentem sententiam rettulit Reid 22 crucem posui a{n} -inis G.-H. clades accepta

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coni. G.-H. 23 suppl. G.-H. 23-24 regem occi]dit G.-H. 24 pap. (Suriague) corr. G.-H. (Syr-), Korn. (Sur-) 25 suppl. G.-H. 26 suppl. G.-H. 27 Obliuionis recte def. Korn.: -em G.-H. planus def. Ross.: primus G.-H., Korn. trans[iuit G.-H., -iit Luterb., Ross.

(Ab urbe condita librorum 54-55 Epitoma)

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[Sotto i consoli] Gneo Pisone e Gaio Popillio. Ai Caldei [fu ordinato] di andar via dalla città [e dall’Italia]. Aulo Gabinio, [nato ?] da uno schiavo, [propose una legge che prescriveva] [di dare ?] il voto per mezzo di una tavoletta. Servilio Cepione [per poco non fu arso vivo dai cavalieri ?] che egli aveva esposto [al pericolo ?] nel rogo acceso coi pezzi di legno. Audax, Minuro e Ditalcone [***] sgozzarono Viriato. Libro [lv [Sotto i consoli] Publio Scipione, Decimo Iunio. Gli uccisori di Viriato [***]; fu negata [la ricompensa ?]. [Quando] il tribuno della plebe Sesto (?) Licinio, [uno] dei decemviri (?) metteva in carcere [i consoli Scipione e Bruto ?], la pena fu condonata per le preghiere del popolo. [***] tribuno della plebe, [che aveva agito ?] per gli interessi del popolo, spirò nel compianto di tutti [***]. I disertori, percossi con le verghe nel comizio, furono venduti [al prezzo di un sesterzo] per ciascuno. Quando Publio Africano accusò Lucio Cotta, [a causa della ?] grandezza del suo nome [quegli fu assolto ?]. I Lusitani furono sbaragliati. (Dai ?) Numantini [***]. Diodoto Trifone fece uccidere [il re] Antioco e s’impadronì della Siria. [Sotto i consoli] Marco Emilio, Gaio Ostilio Mancino. Decimo Bruto, [condotte bene] le operazioni in Spagna, attraversò il fiume dell’Oblio senza difficoltà (?). L. 1.

Con la menzione dei due consoli Gneo Calpurnio Pisone e Marco Popillio Lenate è indicato l’inizio del 139 a.C. (615 a.u.c.). Si può ritenere certo che anche il nome di Popillio, mutilo alla fine nel papiro, fosse formato, come quello precedente, da due soli elementi: C. Polli[o (sulla correzione, vd. anche più avanti). Molto simile all’Epitoma la testimonianza di Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 423 Mommsen: «Cn. Piso et M. Popilius (pompilius P)» (il praenomen di Popillio vi è riportato nella forma storicamente corretta). Lievi imprecisioni nella forma dei due nomi, citati nell’ordine inverso, nel codice P di Giulio Paride 1, 3, 3 p. 30, 20 s. Briscoe: «M. Pompilio Laenate L. Calpurnio coss.» (sul praenomen di Calpurnio, che nella versione di Paride risulta L., vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 73 n. 3; argomentazione decisiva a favore di Cn. in Münzer, Das Konsulpaar). Imprecisioni anche nel Chronographus a. 354, Chron. i p. 55, 615 Mommsen: «Pisone et Laenas» (discordanza grammaticale); nei Consularia Constantinopolitana, Chron.

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i p. 213, 615 Mommsen: «Baenate et Pisone» (errore evidente nel primo nome). I documenti epigrafici, molto lacunosi, contribuiscono limitatamente a accertare l’ortografia dei due nomi. Nei Fasti Capitolini, a. 139 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53) si ha lo stesso ordine di successione come nell’Epitoma; (caduto il nome di Calpurnio Pisone) sicura l’integrazione P]op[ill]ius. Nei Fasti Antiates maiores, a. 139 a. C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 161) si conserva soltanto l’abbreviazione Cn. del praenomen di Pisone, che nell’ordine di successione è collocato al secondo posto. Nell’Epitoma risulta quindi corretta la forma del primo nome. Nel secondo, invece, il praenomen dovrebbe essere M. (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 63 e 74); C. tuttavia è giustamente difesa dallo stesso Kornemann, ibid., 31 come variante genuina (nell’onomastica del papiro si hanno altri esempi simili di confusione nelle iniziali abbreviate del praenomen). Anche il nomen di questo console risulta impreciso nel papiro (Polli[o?; la i prima della lacuna sembra certa, anche se ne resta soltanto una traccia puntiforme); corrette, invece, le forme Popillius (Fasti Capitolini) o Popilius (Cassiodoro). Nella versione degli Excerpta Constantiniana (vd. Vol. i, ed. de Boor, 531) di Appiano, Iber. 79, il nomen del console risulta come abbreviato nel corpo della parola, mentre la lezione dei codici del testo di Appiano concorda con la forma corretta: al par. 342, M¿ÚÎÔ˘ ¶ÔÏ›Ô˘ (M¿ÚÎÔ˘ ¶ÔÈÏ›Ô˘ §·›Ó· V M Appiani); ai parr. 343 e 345, ¶fiÏÈÔ˜ (¶Ô›ÏÈÔ˜ V M Appiani). Se la forma Pollius dell’Epitoma non è un semplice errore di copiatura, si potrebbe supporre che in essa sia avvenuta una specie di riduzione abbreviativa del nome, analoga a quella degli Excerpta di Appiano (forse per una tendenza all’abbreviazione anche nel corpo della parola?); la forma integra Popillius (o Popilius), così, potrebbe essere stata ridotta a Poplius (cf. ¶fiÏÈÔ˜ in Appiano), quindi, per assimilazione, Pollius. Ammesso ciò per pura ipotesi, la lezione C. Polli[o (o -pl-?) del papiro potrebbe essere difesa come variante specifica di una tradizione genuina. La stessa forma particolare ¶fiÏÈÔ˜, d’altra parte, è testimoniata anche in Plutarco, Caes. 5, 1 (emendata in ¶Ô›ÏÈÔ˜ dagli editori). Per quanto riguarda l’ortografia del nome, entrambe le forme (Popil- o Popill-) sono ampiamente testimoniate. In Lucilio, fr. 621 Marx, da Nonio, p. 255, 11 M. (= 386 Lindsay), Popili è correzione da Pompili dei codici (la stessa confusione si trova anche nella tradizione manoscritta di altri autori; vd. anche ed. Marx, ii, 230). Nell’età classica prevale nettamente la forma Popil- (vd., ad es., Rhetorica ad Herennium 1, 15, 25); così nelle numerose menzioni del nome in Cicerone (più volte nei codici c’è la variante Pompil-), fuorché in Brut. 56, dove un codice principale reca la lezione Popill-. In Livio, parimenti, dalla forma classica, testimoniata nella maggior parte dei casi, si distingue la forma Popill- in 40, 43, 1. Negli autori successivi si hanno entrambe le forme: in Seneca retore, ad es., prevale nettamente Popill-; in Valerio Massimo, Popil-. Anche nelle frequenti menzioni del nome nelle epigrafi sono testimoniate entrambe le forme. La stessa alternanza si rileva nel greco. In Appiano, oltre al caso visto sopra, prevale la forma ¶Ô›ÏÈÔ˜ (Civ. 2, 115, 484; Mithrid. 17, 61; Syr. 66, 350 s.), ma è usata anche l’altra forma ¶Ô›ÏÏÈÔ˜ (Celt., fr. 4 p. 45 Viereck-Ross). Una simile varietà di forme si ha in Plutarco (vd. anche sopra): ad es., ¶Ô›ÏÏÈÔ˜ in C. Gracch. 4, 3; un’alternanza delle due forme si cela forse nelle erronee varianti ›ÏÏÈÔ˜ o ›ÏÈÔ˜ in Cic. 48, 1. L. 2. L’Epitoma riferisce, in questa riga, l’espulsione dei Caldei da Roma e dall’Italia in séguito a un editto del pretore Gneo Cornelio Ispano (o Ipsalo) nel 139 a.C. (vd. POxy iv , 113;

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Die neue Livius-Epitome, 64; 104; anche MRR i , 482; Fr. Münzer, Cornelius, nr. 347, RE iv, 1, 1493, ll. 51 ss.; Suppl. iii, 261, ll. 17-19). Del racconto di Valerio Massimo, parimenti desunto da Livio e collocato nella sezione de superstitionibus del libro I, si conoscono le versioni compendiate. In modo simile all’Epitoma, dove l’avvenimento è riportato subito dopo la menzione dei consoli del 139 a.C. (vd. anche, sopra, l. 1 e il commento), in Giulio Paride 1, 3, 3 p. 30, 20 ss. Briscoe è collegata con tale episodio la stessa indicazione formulare dell’anno: «Cn. Cornelius Hispalus praetor peregrinus M. Pompilio Laenate L. Calpurnio cos. edicto Chaldeos circa decimum die abire ex urbe atque Italia iussit, leuibus et ineptis ingeniis fallaci siderum interpretatione quaestuosam mendaciis suis caliginem inicientes». Più concisa la versione di Ianuario Nepoziano, 1, 3, 3 p. 31, 27 ss. Briscoe: «Caldeos (...) Cornelius Hippalus urbe expulit et intra decem dies Italia abire iussit, ne peregrinam scientiam uenditarent». Sia in Paride sia in Nepoziano segue alla notizia dell’espulsione dei Caldei quella dei Giudei, decretata per ragioni analoghe come provvedimento contro i culti stranieri. Discussione approfondita su queste fonti e sulla loro tradizione manoscritta, oltre che sugli aspetti storici dell’espulsione degli Ebrei e dei Caldei da Roma nel 139 a.C., in Cappelletti, Jewish Community, 33-37. I due gruppi, Caldei e Giudei, sono parimenti uniti nella testimonianza di Servio, Aen. 8, 187: «cautum (...) fuerat et apud Athenienses et apud Romanos, ne quis nouas introduceret religiones: unde et Socrates damnatus est et Chaldaei uel Iudaei sunt urbe depulsi». Anche la concordanza delle lezioni sicure dell’Epitoma, Chaldaei (soggetto dell’unico enunciato, che presuppone un predicato verbale passivo) e urbe (ablativo di allontanamento senza preposizione) con le testimonianze parallele sembra confermare un’origine comune. Dopo urbe, è impossibile ricondurre a una parola conosciuta le ultime lettere visibili nella riga del papiro: til[ (risulta certa la lettura di l al bordo della lacuna). Probabile e comunemente accolto dagli editori l’emendamento di Grenfell e Hunt (POxy iv , 102 e 113), ispirato dal passo di Paride: urbe et Italia. Nella lacuna della stessa riga, opportunamente lasciata senza integrazione da Grenfell e Hunt, invece della congettura intra x dies expulsi di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31 forse più plausibile abire iussi di Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 231, similmente ricavata dalle epitomi di Valerio Massimo, accolta anche dagli altri editori. Da escludere, anche per la ridotta estensione del passo, circoscritto alla sola l. 2, che fossero menzionati nell’Epitoma anche i Giudei, colpiti dal medesimo provvedimento di espulsione. Si osservi, a questo riguardo, che l’espulsione dei Giudei viene dopo quella dei Caldei sia nella versione di Paride, ibid. (vd. sopra): «idem (Cornelius Hispalus scil.) Iudaeos (...) repetere domos suas coegit»; sia in quella di Nepoziano, ibid. (vd. sopra): «Iudeos quoque (...) idem Hippalus urbe exterminauit». In Servio, la coordinazione dei due nomi mediante una disgiuntiva (uel) sembra indicare, similmente, l’intento di distinguere i due momenti della vicenda. Si può supporre che l’Epitoma abbia riportato per brevità soltanto il primo avvenimento, forse già abbastanza rappresentativo, e tralasciato l’altro, che doveva seguire a poca distanza nella medesima narrazione di Livio. Dalla scelta di tale episodio si conferma, ancora una volta, lo speciale interesse dell’Epitoma per fatti in sé marginali, ma rilevanti nell’ambito dei costumi privati e della religione. Ll. 3-4. In queste righe (è incerto se l’inizio del passo successivo si trovasse già nella lacuna della l. 4; vd. anche ll. 5-6 e il commento), argomento dell’Epitoma è la prima lex tabellaria,

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fatta approvare dal tribuno della plebe Aulo Gabinio (l. 3: A. Gabinius, correzione necessaria di Cab- del papiro) nel 139 a.C., con la quale era introdotta la votazione segreta nei comizi elettorali per le magistrature (vd. POxy iv , 113; MRR i , 482; Fr. Münzer, Gabinius, nr. 6, RE vii, 1, 423, ll. 44 ss.). Con giusta ragione si ritiene che l’enunciato principale, caduto nella seconda metà della colonna, alla l. 3, riferisse la proposta di legge del tribuno della plebe, approvata, come plebiscito (prima lex tabellaria): legem (Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 143) o rogationem (Grenfell e Hunt in POxy iv , 101) tulit. Alla l. 4 è riportato il contenuto della legge, la quale prescriveva la votazione segreta (suffragium per ta[bellam; il sintagma significa che era usata una tavoletta come mezzo per dar il voto). Probabile che nella lacuna fosse indicata l’azione del votare in una subordinata infinitiva (ferri, Grenfell e Hunt, ibid.) o col congiuntivo (ut … ferretur, Rossbach, ibid.). Nella tradizione liviana non si hanno cenni su tale argomento (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 64). Le fondamentali testimonianze si trovano in Cicerone, anzitutto Leg. 3, 35: «sunt (...) quattuor leges tabellariae, quarum prima de magistratibus mandandis: ea est Gabinia, lata ab homine ignoto et sordido». La definizione data qui di Gabinio, come uomo di oscura e bassa condizione, sembra corrispondere all’origine da schiavo indicata nell’Epitoma con l’espressione uerna[e nepos (vd. POxy iv , 94: «Among details which are new (...) the statement about the ancestry of A. Gabinius»); meno probabili sono ritenute le integrazioni filius (vd. POxy iv , 113; Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 64, con altri riferimenti) o uerna natus (vd. Reid, Fragments, 298). In Lael. 41 la legge è rappresentata dalla tabella stessa che si usava per il voto: «uidetis in tabella (...) quanta sit facta labes, primo Gabinia lege, biennio post Cassia» (cf. Leg. agr. 2, 4: «tabellam uindicem tacitae libertatis»; Leg. 3, 39; anche Sest. 103; Planc. 16). In questo passo, la legge di Gabinio è detta anteriore di due anni a quella del tribuno della plebe Lucio Cassio Longino Ravilla (la seconda lex tabellaria), con la quale il provvedimento del voto segreto era esteso ai giudizi del popolo. In Brut. 106 la lex Cassia è datata in modo certo, con la menzione dei consoli, al 137 a.C.: «iudicia populi (...) iam magis patronum desiderabant tabella data; quam legem L. Cassius Lepido et Mancino consulibus tulit». Ne consegue che la lex Gabinia, anteriore di due anni, sia da datare, secondo la cronologia desunta dalle sole testimonianze di Cicerone, al 139 a.C. Tale datazione è pienamente confermata dall’Epitoma, la quale colloca il provvedimento legislativo tra i fatti di questo stesso anno (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 104). Ll. 5-6. Già Warde Fowler (POxy iv , 113 s.) ha identificato come argomento di queste due righe un fatto avvenuto in Lusitania nella campagna contro Viriato condotta da Quinto Servilio Cepione, allora proconsole, nel 139 a.C. (vd. Kornemann, anche Die neue LiviusEpitome, 64; MRR i , 482; Fr. Münzer, Servilius, nr. 48, RE ii A, 2, 1782, ll. 50 ss.). Cassio Dione, nel frammento 78, 1-3 del libro 22 (ed. Boissevain, I, 323 s.), testimonianza principale di tale episodio (vd. POxy iv , 94: «It is also a matter of interest that we can now connect with Livy … statements of later writers, e.g. Dio Cassius»), riferisce che Servilio Cepione, circondato dall’ostilità dell’esercito, in specie della cavalleria, non potendo individuare i responsabili, ordinò ai seicento cavalieri di recarsi, quasi disarmati, a raccogliere legna sul monte dove Viriato aveva messo i suoi accampamenti, così da esporli a un pericolo gravissimo. L’ordine fu mantenuto, nonostante che alcuni tribuni e le-

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gati avessero pregato il generale di revocarlo. Accompagnati da volontari, i cavalieri compirono la missione; al loro ritorno, per rappresaglia, circondarono con la legna la tenda del generale, che avrebbero bruciato vivo, se non fosse fuggito: (3) ÙcÓ ≈ÏËÓ ÙÂÌfiÓÙ˜ ÂÚd Ùe ÛÙÚ·Ù‹ÁÈÔÓ ·éÙÔÜ ·ÚÂÓ¤‚·ÏÔÓ ó˜ ηd ηٷÚ‹ÛÔÓÙ˜ ·éÙfiÓ. ÎiÓ Î·ÙÂη‡ıÂ, Âå Ìc ÚÔÂÍ¤Ê˘ÁÂÓ. Nel passo dell’Epitoma, che forse era compreso tutto nelle ll. 5-6 (diversamente, collocano l’inizio nella l. 4 Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31: in Hispania; Reid, Fragments, 298: procos. Q.), sono state avanzate varie integrazioni congetturali per il predicato verbale principale (il soggetto è Seruilius Caepio, l. 5) e le altre parti del testo cadute nelle lacune. Come ha notato Kornemann, ibid., è discordante con la testimonianza di Cassio Dione l’integrazione proposta da Grenfell e Hunt in POxy iv , 101 e 114: clauo (claua ?) [ictus. Plausibile, invece, la congettura di Reid, conforme al testo di Cassio Dione: circondato (Servilio nella sua tenda da generale) da pezzi di legno (claui[s cinctus), per poco non fu arso vivo (paene ustus est). In modo ancora più calzante, Kornemann ha evitato l’emendamento del papiro congetturando un termine raro (clauula/-uola, «pollone, ramoscello tagliato»; cf. Varro, Rust. 1, 40, 4): clauo[lis paene inflammatus est. Poco giustificata appare l’obiezione di Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 229, secondo cui questo vocabolo non avrebbe il significato di «Brennholz». Nel confronto con la congettura dello stesso Rossbach, poi accolta nel suo testo (T. Livi periochae, fragmenta, 143), la quale obbliga a correggere il papiro (claus[us), sembra da preferire la restituzione di Kornemann. Concordemente obiecerat (l. 6) è inteso come predicato verbale di una relativa inserita in mezzo all’enunciato principale: a[b equitibus quos periculo] obiecerat (meno persuasiva appare la congettura di Rossbach Viriatho al posto di periculo). Ll. 7-8. Nella conclusione del libro 54, probabilmente come nell’originale liviano, l’Epitoma riferisce l’uccisione di Viriato per mano di tre dei suoi uomini (vd. POxy iv , 114; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 64 s.; MRR i , 482). Nel testo lacunoso dell’Epitoma sono superstiti le parti essenziali del passo, compreso tutto in queste due righe: soggetto sono gli stessi uccisori, menzionati con i loro nomi, due dei quali, integri, nella forma corretta (Audax e Minurus), il terzo, mutilo, da emendare (ita[lco: ritengo certa la lettura di a, la cui punta inferiore è visibile fuori della lacuna); oggetto e predicato verbale principale si trovano alla l. 8: Viriathum iugula[uerunt (assai probabile che la riga terminasse qui). Nella lacuna alla l. 7 (diciassette lettere mancanti, secondo Grenfell e Hunt in POxy iv , 101), risultano congetture ugualmente plausibili, desunte dalle testimonianze parallele citate più avanti (cf., in particolare, la Periocha e il De uiris illustribus), sia consilio Caepionis in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31 (vd. anche Fuhr, Liviusepitome, 1183; Reid, Fragments, 298) sia a Caepione corrupti di Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 143. Anche nella Periocha 54, 8, verso la fine del compendio del libro, si trova una sommaria notizia di tale avvenimento: «Viriathus a proditoribus consilio Seruili Caepionis interfectus est». Dai cenni sulle esequie e sulla figura di Viriato, che seguono nel passo della Periocha, tralasciati nell’Epitoma, si può supporre più articolata, dopo il racconto della proditoria uccisione, la conclusione del libro liviano. L’azione fraudolenta di Servilio, il quale era riuscito a sopprimere Viriato servendosi del tradimento degli uomini a lui più vicini, è giudicata con biasimo in Velleio 2, 1, 3: «interempto Viriatho, fraude

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magis quam uirtute Seruili Caepionis». Così anche in Valerio Massimo 9, 6, 4: «Viriathi (...) caedes duplicem perfidiae accusationem recipit, in amicis quod eorum manibus interemptus est, in Q. Seruilio Caepione consule, quia is sceleris huius auctor impunitate promissa fuit, uictoriamque non meruit sed emit». A questa tradizione, secondo cui Servilio Cepione avrebbe favorito il delitto corrompendo gli uomini di Viriato, appartiene anche la testimonianza del De uiris illustribus, 71, 3, la quale indica però due uccisori invece di tre: «Caepio cum uincere aliter non posset, duos satellites pecunia corrupit, qui Viriathum uino depositum peremerunt». Da queste si distingue la versione di Floro, Epit. 2, 17, 17, nella quale come istigatore del delitto è menzionato Popilio, console del 139 a.C.: «quippe qui (Popilius scil.) conficiendae rei cupidus, fractum ducem et extrema deditionis agitantem per fraudem et insidias et domesticos percussores adgressus». Le particolarità dell’Epitoma in questo episodio, anche lessicali, in confronto alle altre testimonianze derivate da una tradizione liviana, sono più ampiamente discusse in Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 77; Moore, The Oxyrhynchus Epitome, 247. Nella narrazione di Appiano, Iber. 74, 311-313 i nomi dei tre uccisori, Audax, Ditalcone, Minuro, concordano con quelli dell’Epitoma (sulla duplice tradizione di questi nomi, rappresentata da Appiano e da Diodoro, citato più avanti, vd. anche Münzer, Anmerkungen, 137): mandati da Viriato per negoziare un accordo coi Romani, si fecero corrompere dai doni di Cepione; tornati al campo, approfittando della fiducia di cui godevano come uomini addetti alla sicurezza del capo supremo, penetrarono di notte nella sua tenda e lo sgozzarono. Appiano mette bene in risalto questo particolare, precisando che il comandante dormiva rivestito della sua armatura, quindi lasciava scoperta soltanto la gola: ÎÂÓÙÔÜÛÈ (Viereck et Roos e coni.; vd. ed. Lipsiae 1962, p. 117) óÏÈṲ̂ÓÔÓ â˜ ÙcÓ ÛÊ·Á‹ÓØ Ôé ÁaÚ qÓ ôÏÏÔıÈ. Anche iugulare, usato nell’Epitoma, ha il medesimo significato di «uccidere tagliando la gola, sgozzare». A questa versione dei fatti aderisce, nella sostanza, anche il frammento 1, 4 del libro 33 di Diodoro, dove si afferma che Servilio Cepione, alla guida delle operazioni in Spagna, prima come console, poi come proconsole, piegò a favore di Roma il corso della guerra sia sconfiggendo più volte Viriato sia, alla fine, facendolo uccidere da uomini a lui vicini: ‰Èa ÙáÓ ÔåΛˆÓ â‰ÔÏÔÊfiÓËÛÂ. Nella maggior parte degli autori, pertanto, è attribuita a Cepione, come mandante, la responsabilità del proditorio delitto: da un lato Appiano, derivato da Polibio; dall’altro le epitomi liviane, Velleio, Valerio Massimo, Floro, De uiris illustribus, derivati da una tradizione ufficiale romana (vd. Hans Gundel, Viriatus, RE ix A, 1, 223, ll. 13 ss.). Da tali versioni si distacca, costituendo anche una diversa tradizione dei nomi degli uccisori, quella di Diodoro nel frammento 21 del libro 33, che si può ritenere derivata da Posidonio. Secondo tale racconto, Audax, Ditalkes e Nicoronte, uomini di Viriato, vedendo in declino la fortuna della loro parte e pensando di guadagnarsi il favore di Roma, si fecero mandare presso Cepione, come per condurre una trattativa di pace; recatisi da lui, però, promisero di uccidere Viriato in cambio della loro incolumità personale. Giunti di nuovo al campo, mentre nessuno sospettava di loro, s’introdussero di notte nella tenda del supremo comandante e, uccisolo a colpi di spada, si dettero alla fuga: ÙÔÖ˜ Í›ÊÂÛÈ ‰È·¯ÚËÛ¿ÌÂÓÔÈ ÙeÓ ^YÚ›·ÙıÔÓ ÏËÁ·Ö˜ Âéη›ÚÔȘ. Da questa tradizione meno ostile al generale romano si possono ritenere derivate anche le versioni di Eutropio 4, 16, 2: «quo metu Viriathus a suis interfectus est»; di Orosio, Hist. 5, 4, 14: «Viriatus (...) insidiis suorum interfectus est». Il tradimento vi è presentato come iniziativa decisa dagli stessi uomini di Viriato, non istigati o corrotti da Servilio Cepione (o da Popilio, come in Floro). Similmente, l’uccisione di Viriato è imputata all’iniziativa autonoma dei suoi uomini,

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spinti dalla paura (cf. Eutropio: quo metu), nella testimonianza di Giovanni Antiocheno, Chron. fr. 60 FHG iv, p. 559, tratta dagli Excerpta Constantiniana de insidiis (vd. ed. de Boor, III, p. 66, 5-8): zÓ Ì¿ÏÈÛÙ· ¿ÓÙˆÓ ≤ÓÂη ‰Â›Û·ÓÙ˜ Ôî ‚¿Ú‚·ÚÔÈ ÎÙ›ÓÔ˘ÛÈÓ ÙeÓ BÔÚ›·ÓıÔÓ. Quasi uguale la versione degli Excerpta Planudea, nr. 35 (vd. ed. Boissevain, i, cxxi), probabilmente desunta dallo stesso passo di Giovanni Antiocheno (vd. ibid., cxii). Secondo la Suida, s. v. BÔÚ›·ÓıÔ˜ (vd. ed. Adler, I, 481, 8-10), i traditori di Viriato cercarono di accattivarsi la benevolenza del generale romano: Ù·‡Ù– ÚÔÛ¿ÁÂÛı·È ÙeÓ ÙáÓ ^PˆÌ·›ˆÓ ÛÙÚ·ÙËÁeÓ ìÁÔ‡ÌÂÓÔÈ â˜ ÂûÓÔÈ·Ó. In tutte queste versioni, molto simili tra loro, si afferma che, subito dopo il delitto, gli uccisori di Viriato reclamarono una ricompensa dai Romani, ma Servilio Cepione oppose un rifiuto, dicendo che non era costume dei Romani comprare la vittoria; notizia che anche nell’Epitoma rappresenta il séguito immediato dell’assassinio del capo iberico, ma è collocata, come doveva essere anche in Livio, tra gli avvenimenti del libro 55 (vd. più avanti, ll. 11-12 e il commento). L. 10. Con la menzione dei due consoli ha inizio il compendio del libro 55 e dell’anno 138 a.C. (616 a.u.c.). Così anche all’inizio della Periocha 55, 1, nello stesso passo in cui è riferita la punizione esemplare inflitta a un disertore (vd., più avanti, Epit. ll. 17-19 e il commento): «P. (om. Q Û) Cornelio Nasica (...) et Dec. Iunio Bruto coss. dilectum habentibus». Nella medesima forma dell’Epitoma sono riportati i due nomi in Cicerone, Brut. 85: «P. Scipio et D. Brutus consulibus»; in Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 424 Mommsen: «P. Scipio et D. Brutus». L’ordine della successione è lo stesso nella maggior parte delle testimonianze. I due nomi figurano nella forma più estesa in Frontino, Strat. 4, 1, 20, passo che, come quello della Periocha citato sopra, corrisponde all’Epitoma, ll. 17-19 (vd. più avanti): «P. Cornelio Nasica Decimo Iunio consulibus»; così anche nei Fasti Capitolini, lacunosi in questo punto, e nei Fasti Antiates maiores, a. 138 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 161): «[P.] Corne[li(us) Scip(io)] D. Iuni(us) [Brutus]». In una forma ridotta, nel Chronographus. a. 354, Chron. i p. 55, 616 Mommsen: «Nasica et Brutus»; nei Consularia Constantinopolitana, Chron. i p. 213, 616 Mommsen: «Nasica Rabione et Bruto». Nell’ordine invertito, soltanto in Cicerone, Leg. 3, 20: «Decimum (Victorius: du¯ B; dum A, decium s. l.) Brutum et P. Scipionem consules». Il passo ciceroniano, si noti, accenna allo stesso argomento che l’Epitoma espone alle ll. 12-15 (vd. più avanti): la vicenda dei consoli del 138 a.C., che furono fatti incarcerare dai tribuni della plebe, ma liberati per le preghiere del popolo. Ll. 11-12. In queste righe è riassunto ciò che seguì all’assassinio di Viriato, nel corso dello stesso 138 a.C. (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 102): agli uccisori fu negata la ricompensa che reclamavano per il loro delitto. Giustamente si ritiene che il passo termini col predicato verbale principale negatum (perfetto passivo forse senza est). Nella lacuna alla l. 11, sicura soltanto l’integrazione Viri[athi (in questa forma, come anche nelle altre menzioni dello stesso nome nel papiro); praemium come soggetto è congettura assai plausibile, conformemente alle testimonianze parallele. Non potendo costituire l’oggetto di negatum, interfectores, cui è unito il genitivo Viriathi, va inteso come nominativo. Se però nella restituzione testuale si ammette un unico enunciato, come in Grenfell e Hunt in POxy iv , 102 (apparato critico), appare necessario l’emendamento interfectoribus, presupposto anche nella congettura di Fuhr, Liviusepitome, 1183 (promissum praemium). Più opportu-

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namente, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 31 s. ha congetturato due enunciati giustapposti, con cui si può conservare il testo del papiro: praemium petunt. quod negatum (il secondo enunciato, invece che come proposizione coordinata mediante il nesso relativo, può essere inteso anche come subordinata relativa); similmente Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 145): urbe pulsi sunt, praemium negatum. Nello stato lacunoso del papiro, tuttavia, tali proposte sono da ritenere puramente congetturali (vd. Abrégés 2, 126). Una testimonianza dello stesso avvenimento si trova in Eutropio 4, 16, 3, secondo cui la ricompensa fu negata dallo stesso Servilio Cepione, al quale gli uccisori di Viriato si erano rivolti per reclamarla: «et cum interfectores eius (Viriathi scil.) praemium a Caepione consule peterent, responsum est numquam Romanis placuisse imperatorem a suis militibus interfici». Similmente, Giovanni Antiocheno, Chron. fr. 60 FHG iv, p. 559 (dagli Excerpta de insidiis; vd. ed. de Boor, iii, 66, 9-13) riferisce che gli uccisori di Viriato si recarono da Scipione (errore per Cepione) al fine di ottenere la ricompensa del delitto, ma il generale rispose che i Romani non ammettevano tali delitti perpetrati dai sudditi contro i loro capi. Quasi uguale la versione degli Excerpta Planudea, nr. 35 (vd. ed. Boissevain, i, cxxi), probabilmente derivati, in questo punto, da Giovanni Antiocheno (vd. ed. Boissevain, i, cxii). Così anche la Suida, s. v. BÔÚ›·ÓıÔ˜ (vd. ed. Adler, i, 481, 1014). Secondo tali versioni, probabilmente derivate da una stessa fonte e connesse l’una con l’altra, Cepione non ebbe responsabilità nell’assassinio di Viriato, ma tale atto fu deciso in modo autonomo da alcuni tra i suoi uomini più vicini (vd. Epit., sopra, ll. 7-8 e il commento); anzi, proprio Cepione rifiutò di dare la ricompensa per il delitto, quando gli uccisori si recarono da lui per reclamarla. A tale tradizione, favorevole ai Romani, si avvicina anche Orosio, Hist. 5, 4, 14, il quale, dopo avere esplicitamente dichiarato responsabili dell’uccisione di Viriato gli stessi suoi uomini (vd. Epit., sopra, ll. 7-8 e il commento: «Viriatus … insidiis suorum interfectus est»), riferisce, seppure in modo un po’ meno puntuale, che ai Romani va riconosciuto almeno il merito di non avere concesso alcuna ricompensa agli uccisori del capo iberico: «in hoc solo Romanis circa eum fortiter agentibus quod percussores eius indignos praemio iudicarunt». Come riprova, lo stesso Orosio, più avanti (ibid. 5, 23, 15), afferma che gli uccisori di Sertorio, ricordando ciò che era avvenuto dopo l’uccisione di Viriato, ritennero inutile reclamare una ricompensa dai Romani: «percussores Sertorii praemium ne petendum quidem a Romanis esse duxerunt, quippe qui meminissent antea Viriati percussoribus denegatum». Da notare in questo passo l’uso del verbo, molto vicino a negatum dell’Epitoma. Uno svolgimento diverso risulta, invece, dalla narrazione di Appiano, Iber. 74, 314, dove la responsabilità di avere istigato il delitto è addossata a Cepione (vd. Epit., sopra, ll. 7-8 e il commento): dopo il delitto, i tre uccisori si recarono dal generale romano e richiesero la loro ricompensa; quegli permise loro di godere tranquillamente di ciò che avevano già ricevuto e li mandò a Roma, perché reclamassero là quanto da loro preteso. È esposto così l’inizio del fatto, che resta però come in sospeso. Può darsi che nella versione originaria di Livio, da cui hanno attinto anche i vari compendi e adattamenti, il racconto del fatto si presentasse similmente interrotto, per l’immediata successione dei funerali di Viriato, e che fosse poi ripreso nel tratto conclusivo, riguardante la ricompensa negata dal senato agli uccisori. Appiano potrebbe aver riportato soltanto la parte iniziale, quella che si riferisce a Cepione, corresponsabile del delitto, e tralasciato il momento del rifiuto opposto dal senato. Nel De uiris illustribus, 71, invece, dove è detto chiaramente che Servilio Cepione corruppe col denaro gli esecutori del delitto (par. 3: «duos satellites pecunia corrupit»; vd. Epit., sopra, ll. 7-8), tale conclusione della vi-

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cenda è riportata (par. 4): «quae uictoria, quia empta erat, a senatu non probata». Nella medesima tradizione, probabilmente derivata da Livio, la quale accentua la responsabilità romana, s’inseriscono altre testimonianze connesse all’uccisione di Viriato. Servilio Cepione, secondo Velleio 2, 1, 3, prevalse su Viriato con la frode (vd. Epit., sopra, ll. 7-8); secondo Valerio Massimo 9, 6, 4, comprò la vittoria, non la ottenne col merito, promettendo l’impunità per la proditoria uccisione di Viriato (vd. Epit., sopra, ll. 7-8): «impunitate promissa (...) uictoriam (...) non meruit sed emit». Lo stesso si ricava dalla Periocha 54, 8 (vd. Epit., sopra, ll. 7-8): «Viriathus a proditoribus consilio Seruili Caepionis interfectus est». Ugualmente sui Romani ricade la responsabilità del delitto nella versione di Floro, Epit. 2, 17, 17, benché vi sia indicato Popilio anziché Cepione (vd. Epit., sopra, ll. 7-8): «ducem (...) per fraudem et insidiis et domesticos percussores adgressus (Popilius scil.)». Ll. 12-15. È compendiata in queste righe la vicenda dei consoli del 138 a.C., i quali, fatti incarcerare dai tribuni della plebe, furono liberati per le preghiere del popolo (vd. POxy iv , 114; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 66; 104; MRR i , 483, 484). Sullo stesso avvenimento, la Periocha 55, 3, riferisce che i tribuni della plebe, non ottenendo di poter esentare dal servizio militare dieci soldati ciascuno, dettero ordine di mettere in carcere i consoli: «tribuni pleb. quia non inpetrarent ut sibi denos quos uellent milites eximere liceret, consules in carcerem duci iusserunt». Da notare che l’ordine di successione di questo episodio e dell’altro consimile, ugualmente legato alla storia interna di Roma (la punizione di uno o più disertori: vd., più avanti, ll. 17-19 e il commento; anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 66), nella Periocha è inverso rispetto all’Epitoma. In Cicerone, Leg. 3, 20, riguardo ai poteri dei tribuni della plebe, considerati come una minaccia per l’ordine istituzionale, all’esempio storico di Tiberio Gracco segue quello, quasi coevo, dei consoli del 138 a.C., i quali furono fatti mettere in carcere dal tribuno della plebe Gaio Curiazio: «(...) Decimum Brutum et P. Scipionem consules, quos et quantos uiros, homo omnium infimus et sordidissimus tribunus plebis C. Curiatius in uincula coniecit, quod ante factum non erat». Sull’ostilità di questo tribuno della plebe verso Scipione Nasica dà testimonianza anche la Periocha 55, 1, dove è detto che Curiazio affibbiò al console il soprannome dispregiativo di Serapione (cf. Val. Max. 9, 14, 3; Plin., Nat. 7, 54; 21, 10). Valerio Massimo 3, 7, 3 riferisce anche un’altra rovente polemica mossa da Curiazio contro Scipione Nasica, nell’anno del consolato di questi, sulle misure da prendere nel corso di una carestia (vd. Reid, Fragments, 299). Un episodio simile si trova inoltre nella Periocha 48, 16: i consoli del 151 a.C. Licinio Lucullo e Postumio Albino furono fatti mettere in carcere dai tribuni della plebe, perché questi non riuscivano a ottenere l’esonero a favore dei loro amici. L’inizio del passo va posto alla l. 12, dove però non si possono ricavare integrazioni certe dalle vestigia residue. Dopo negatum, con cui termina il passo precedente, all’orlo della prima lacuna, lunga 3,2 cm, si scorge un tratto ispessito che si piega a cerchio: vi si può riconoscere il dorso di una c, ma anche di e, lettura che a me è sembrata più probabile. Anch’essa pertinente alla l. 12, tra la prima limitata lacuna e l’interruzione alla metà della colonna è superstite una strisciolina della superficie del papiro, sulla quale, nell’esame autoptico, ho ritenuto di calcolare le tracce di due lettere illeggibili (]o. n. [ in Grenfell e Hunt, cf. POxy iv , 101; ]r. i. a. [ in Rossbach, T. Livi periochae, fragmenta, 144): escluderei n, ma anche o mi è sembrata poco probabile; la seconda lettera potrebbe es-

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sere una s, incertissima la prima. È congettura plausibile, ma priva di elementi testuali di convalida (vd. già POxy iv , 114: «very doubtful»), che nella parte lacunosa di questa riga si trovasse il nome del primo dei due consoli: P. Scipi]o. n. [em Nasicam (Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 33) o ex cu]r. i. a. [ P. Scipionem (Rossbach, ibid., 145). I nomi dei due consoli (gli editori hanno ricavato quello dell’altro con un emendamento del testo del papiro all’inizio della riga seguente; vd. più avanti) costituirebbero, così, l’oggetto del provvedimento punitivo irrogato dai tribuni della plebe. Alla l. 13 si distingue bene il nome Licini. [us, comunemente inteso come soggetto dell’enunciato, preceduto da una s (lettura incerta), forse l’iniziale del praenomen (quindi: S.). La lezione sicura trib. pl., con cui comincia la l. 14, può essere intesa come singolare, quindi attribuita o al solo Sesto (?) Licinio, oppure come plurale, comprendente un altro personaggio che poteva essere menzionato nella lacuna della l. 13 (si è supposto C. Curiatius, come nel passo di Cicerone). Certamente il nome di Licinio, aggiunto a quello di Curiazio noto da Cicerone, confermerebbe il plurale con cui la Periocha indica gli accusatori dei consoli: tribuni pleb. (vd. POxy iv , 114; MRR i , 484; Fr. Münzer, Licinius, nr. 2, RE xiii, 1, 216, ll. 22 ss.). La precedente lezione superstite del papiro (d. ecemuiru[m), all’inizio della l. 13, ritenuta errata dagli editori, è emendata in Decimum (Grenfell e Hunt) o Decim. (Kornemann e successivi) Brutum, cioè l’altro console colpito dal drastico provvedimento tribunizio. Si ritiene pertanto che, nella parte iniziale del periodo, una subordinata introdotta da cum e col verbo al congiuntivo esprimesse la circostanza temporale in cui si era svolta quella vicenda: (quando) il tribuno (o i tribuni?) della plebe Sesto Licinio (e Gaio Curiazio?, congetturato alla fine della l. 13) metteva in carcere (i consoli Publio Cornelio Scipione, integrazione alla l. 12, e Decimo Bruto, all’inizio della l. 13?). Benché l’emendamento Decim(um) Brutum risani plausibilmente il testo, non si escluda una difesa del papiro giudicato guasto: d. ecemuiru[m, come genitivo plurale con funzione partitiva rispetto a un nome o a un pronome (ad es., unus oppure e collegio), potrebbe essere una lezione genuina, indicante la carica di Licinio (decemuir litibus iudicandis?). Con la crux, nel testo edito, ho osato richiamare a una più cauta valutazione di questo punto. Dalla restituzione congetturale comunemente ammessa dagli editori si distacca, in modo abbastanza netto, van Wageningen, Ad Livi Epitomam, il quale, ritenendo poco probabile l’espressione collocare in carcerem, del cui uso non si hanno testimonianze, presenta una diversa integrazione delle parti lacunose: [c]oll[o obtorto ducerent (cf. Cic., Cluent. 59; Liv. 4, 53, 8; Donat. ad Ter., Phorm. 988; a questi si aggiungano i confronti indicati in Valmaggi, Livio: Plaut., Poen. 790; Sen., Apocol. 11; anche Cic., Verr. ii 4, 24). A tale argomento, che poggia sul criterio dell’autorità dell’uso letterario, si può obiettare che non tutto il lessico di un testo come l’Epitoma sarebbe convenientemente valutato con tale criterio: buona parte di esso presenta infatti particolarità anche notevoli, legate per lo più a sviluppi d’età tarda o alla regione in cui l’opera è stata composta, che sono sottratte a un vaglio modellato sull’uso classico. Anche per l’espressione collocare in carcerem, d’altra parte, si può indicare un confronto abbastanza calzante con Lucifero, Athan. 2, 21 (ll. 23 s. ed. G. F. Diercks, Turnholti 1978): «mittit in carcerem, deducit ad exilia, conlocat in metalla (misericordia scil.)». La conclusione del passo è da porre alla l. 15: la pena del carcere, irrogata dai tribuni della plebe, fu condonata (re[missa, integrazione da ritenere sicura) per le preghiere del popolo. Né nella Periocha né in Cicerone compare questo particolare dell’intervento diretto del popolo, riportato soltanto dall’Epitoma (vd. Abrégés 2, 141); se ne desume che la misura coercitiva comminata dai tribuni della plebe doveva essersi rivelata assai impo-

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polare: scaturita da un’iniziativa arbitraria, appariva forse sollecitata da interessi personali. Tale contenuto dell’episodio si addice molto bene alla rappresentazione liviana, simile in ciò a quella di Cicerone, del potere tribunizio come di una minaccia sovvertitrice dell’ordine costituito. Giustamente si è osservato che multa assume qui il significato più ampio di «punizione, pena»; cf. Liv. 24, 16, 13 (anche ThlL viii, 1581, ll. 38 ss.). Ll. 15-17. Argomento dell’Epitoma, in queste righe, è il compianto per la morte di un tribuno della plebe, il quale aveva agito per gli interessi del popolo. Il nome di questo personaggio, che si trovava certamente nel testo, è sparito nella metà lacunosa della colonna. Warde Fowler e Reid, in POxy iv , 114, hanno supposto come testimonianza parallela Plinio, Nat. 21, 10, da cui si apprende che uno Scipione soprannominato Serapione, morto durante il tribunato (in tribunatu), carissimo alla plebe, fu onorato straordinariamente, nella circostanza del funerale, dal popolo romano, che sparse fiori per ogni dove. Nel personaggio del passo di Plinio si deve riconoscere Publio Cornelio Scipione Nasica Serapione, console nel 111 a.C. e morto durante il suo consolato (vd. Cic., Brut. 128; Diod. 34, 33, 1 e 8; Fr. Münzer, Cornelius, nr. 355, RE iv, 1, 1504-1505), figlio dell’omonimo console del 138, morto nel 132. Presupposta tale corrispondenza e considerando che nell’Epitoma la morte del tribuno della plebe si trova subito dopo la menzione di Scipione Nasica (vd. l. 12, secondo l’integrazione di Grenfell e Hunt), Warde Fowler, ibid., ha congetturato Nasicae filius (o frater) nella lacuna alla fine della l. 15. Bisogna notare, però, che il personaggio di cui parla Plinio morì mentre era console, non tribuno della plebe. Nel passo di Plinio, citato sopra, l’indicazione corretta, anziché in tribunatu, dovrebbe quindi essere in consulatu (così scrivono alcuni editori; vd. ed. Ian-Mayhoff, III, 383, nell’apparato critico). Conviene escludere, per conseguenza, il riferimento al passo di Plinio; per la mancanza di testimonianze su tale episodio, risulta impossibile identificare il personaggio storico. Nel testo del papiro, il nome dello sconosciuto tribuno, soggetto e inizio del passo, doveva trovarsi, secondo Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 33, alla l. 15, dopo re[missa, dove Warde Fowler, in POxy iv , 114, ha collocato la sua integrazione congetturale (Nasicae filius o frater). Alla fine della l. 16, Kornemann ha supposto due elementi del passo in riferimento a tribunus plebis: agens, con pro commodis populi, e qui, soggetto di una relativa (expirauit); l’enunciato principale, alla fine (l. 17), riguarderebbe il funerale del tribuno (co[e]un[te plebe elatus). Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 145) ha accettato, nella sostanza, tale restituzione congetturale, con una lieve modifica nella parte centrale (qui, alla fine della l. 15, introduce una proposizione relativa composta da due frasi: agebat … expirauit). In POxy iv , 101 s., alla l. 17, è stata emendata la lezione dubbia del papiro (lucti) in un participio passato (luctus), che dovrebbe significare «compianto, deplorato»; omnib(us) è quindi inteso come complemento d’agente (ab sarebbe da integrare o alla fine della riga precedente o nella stretta lacuna, quasi una fessura, lungo il bordo sinistro della colonna di scrittura). Il passo si concluderebbe, così, con expirauit. Kornemann, invece, con l’integrazione di una sola lettera, ha restituito qui un dativo, che esprimerebbe l’effetto della morte del tribuno su tutto il popolo: omnibus lucti (congettura prospettata già in POxy iv , 114). Tale soluzione è accolta in Rossbach, il quale, tuttavia, aveva precedentemente avanzato una riserva a tale riguardo (vd. Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 228:

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«wenig geeignet»). Alla proposta di Grenfell e Hunt è quindi tornato Wölfflin, Zum Chronicon Livianum, 231, secondo cui il sintagma omnibus luctus, con lo stesso valore indicato sopra, può rimanere senza preposizione. Tale congettura, però, risulta poco plausibile, poiché non si hanno simili esempi dell’uso del participio passato luctus, come lo stesso Wölfflin deve ammettere. Poco fondata, d’altra parte, appare anche una difesa di lucti del papiro, inteso come genitivo singolare eteroclito (vd. Leumann, 442): il genitivo potrebbe corrispondere a un dativo di effetto, ma tale funzione è insolita per questo caso grammaticale (cf. Hofmann-Szantyr, ii, 71 s.). Difficilmente ammissibile la stessa forma eteroclita, testimoniata due sole volte nell’uso di luctus (in Accio citato da Nonio, p. 485, 33 M.). Restituzione più plausibile, pertanto, si può ritenere lucti. Ll. 17-19. L’Epitoma riferisce, in queste righe, un avvenimento interno: la punizione inflitta pubblicamente a disertori nel comizio, a Roma. Il medesimo avvenimento è presentato come esempio salutare di disciplina nella Periocha 55, 1-2, secondo cui, durante la leva militare dei consoli del 138 a.C. (vd. anche, sopra, l. 10), un certo Gaio Matienio, accusato di diserzione dalla Spagna, fu messo alla forca e percosso sotto lo sguardo delle reclute, quindi venduto per un sesterzo; punizione che doveva essere consueta per i disertori (vd. Abrégés 1, 130): «P. Cornelio Nasica (...) et Dec. Iunio Bruto coss. dilectum habentibus in conspectu tironum res saluberrimi exempli facta est. nam C. Matienius accusatus est apud tribunos pl., quod exercitum ex Hispania deseruisset, damnatusque sub furca diu uirgis caesus est et sestertio nummo ueniit». Lo stesso episodio è riportato in Frontino, Strat. 4, 1, 20 (vd. anche, sopra, l. 10 e il commento), dove, diversamente dalla Periocha, i disertori puniti sono più d’uno e non c’è menzione di un singolo nome: «P. Cornelio Nasica Decimo Iunio consulibus, qui exercitum deseruerant, damnati, uirgis caesi, publice uenierunt». L’Epitoma è quindi più simile a questa versione del fatto che a quella della Periocha (vd. Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 67: «Hier hat … wieder nicht die Per. den unserem Pap. zunächstehenden Text»). Il passo dell’Epitoma comincia nella lacuna della l. 17, in cui sicuramente si leggeva la prima sillaba di [de]sertores, soggetto dell’enunciato principale. Nelle tracce difficilmente decifrabili dopo expirauit (co[.]u. n[), Reid, Fragments, 299 s. ha congetturato communi delectu come inizio del nuovo passo dell’Epitoma. Grenfell e Hunt (POxy iv , 114) hanno supposto qui una breve frase compiuta in sé, forse riguardante il ruolo dei consoli nella punizione. Come si è visto sopra, invece, secondo Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 33, in questo breve tratto terminava il passo precedente (vd., sopra, ll. 15-17 e il commento). Giustamente ritenuta sicura, alla fine della l. 18, l’integrazione cae[si sestertiis. È forse preferibile intendere caesi, cui sono uniti i complementi uirgis e in comitio, come participio congiunto (vd. Kornemann, ibid.), anziché farne il predicato verbale di un enunciato indipendente (caesi sunt in Rossbach in T. Livi periochae, fragmenta, 145). Con sestertiis, unito a singulis della riga seguente, si completa invece l’enunciato principale (uenierunt). Nella stessa l. 19, come si rileva anche dalla mancanza di tracce di lettere sul bordo superiore della lacuna, sembra certo che al predicato verbale non seguissero altre parole e che il passo terminasse dopo le sole due parole superstiti. Un’altra differenza dell’Epitoma dalla Periocha, oltre al numero dei disertori puniti, si rileva nell’ordine di successione. Alle ll. 12-19 dell’Epitoma gli avvenimenti sono esposti nell’ordine seguente: per primo si trova quello riguardante i consoli portati in carcere

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dai tribuni della plebe e liberati per le preghiere del popolo; seguono quindi il funerale di un tribuno della plebe compianto da tutti e la punizione dei disertori. Nella Periocha, invece, il fatto esemplare della punizione precede l’incarcerazione dei consoli, mentre non è riportato il funerale del tribuno. Opportunamente, a questo riguardo, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 66, ritiene che l’Epitoma aderisse più fedelmente all’ordine della narrazione liviana originale; la Periocha, invece, potrebbe aver dato speciale rilievo al castigo di Matienio per un fine retorico. Allo stesso modo, nella Periocha, la menzione di un singolo anziché di un gruppo (elemento che sembra più sicuro per l’accordo di Frontino con l’Epitoma), per di più col nome esplicitamente riportato, seconderebbe l’intento di amplificare l’esempio di severità nella disciplina militare. Ll. 20-21. L’Epitoma riporta, in queste righe, la vicenda di Lucio Aurelio Cotta messo sotto accusa da Scipione Emiliano. Secondo Cicerone, Mur. 58, coloro che giudicarono la questione non vollero che Lucio Cotta risultasse sconfitto a causa del nome illustre del suo accusatore: «bis consul fuerat P. Africanus et (...) Carthaginem Numantiamque deleuerat cum accusauit L. Cottam. (...) saepe hoc maiores natu dicere audiui hanc accusatoris eximiam uim et (nonnulli dett.: uim cett.) dignitatem plurimum L. Cottae profuisse. noluerunt sapientissimi homines qui tum rem illam iudicabant ita quemquam cadere in iudicio ut nimiis aduersarii uiribus abiectus uideretur». Un cenno più breve nella Diuinatio in Caecilium 69: «cum P. Africanus, (...) posteaquam bis consul et censor fuerat, L. Cottam in iudicium uocabat». Dalle testimonianze ciceroniane, che menzionano il secondo consolato di Scipione e la vittoria su Numanzia (134-133 a.C.) come anteriori all’accusa contro Cotta, si ricava una datazione dell’avvenimento tra il 133 e il 129 (anno della morte di Scipione), diversa da quella dell’Epitoma, che lo colloca tra i fatti del 138. Questa datazione è però ritenuta più attendibile da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 67 e 104-106 (vd. anche Münzer, Anmerkungen, 135). Una comprova di essa può esser tratta dal commento dello Pseudo-Asconio al passo della Diuinatio in Caecilium, p. 204, 3 s. Stangl, dove la tradizione testuale derivata dall’archetipo C reca la lezione ante (che qui trascrivo), emendata in post dagli editori (così già nella ed. Lodoici Tiletani, 1536) per conformità al testo ciceroniano: «hunc (Cottam) P. Africanus ante (C: post corr. edd.) secundum consulatum et censuram dicitur accusasse». Nella lezione ante di C, ammessa come genuina, si potrebbe cogliere, in realtà, una rettifica introdotta dallo stesso scoliaste al testo ciceroniano commentato (vd. POxy iv , 115; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 104-106). Nel passo dello Pseudo-Asconio, tuttavia, se l’indicazione ante secundum consulatum convalida la data del 138, lo stesso ante riferito alla censura di Scipione, che fu nel 142, sembra contraddirla. Si potrebbe anche supporre, nel testo dello scoliaste, una diversa determinazione di tempo riguardante la censura: censuram. La questione resta tuttavia insoluta. Altri accenni al processo di Cotta ancora in Cicerone, Brut. 81, da cui si apprende che la difesa dell’accusato fu assunta da Quinto Cecilio Metello Macedonico, e in Tacito, Ann. 3, 66, 1. Mattingly, Scipio Aemilianus, 117 s., con argomenti non trascurabili, ritiene invece più attendibile la cronologia dei fatti che si ricava da Cicerone, il quale, poteva avvalersi di ottimi testimoni, come Publio Rutilio Rufo; l’Epitoma costituirebbe quindi l’unica testimonianza di un precedente episodio, avvenuto veramente nel 138 a.C., nel corso dell’annoso contrasto tra Scipione e Cotta: «In 138 B.C. Scipio may have felt impelled to block Cotta’s ambitions again [rispetto a una conflittualità già manifestatasi], and on the

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same grounds. (...) Cotta will have come to grief somehow. If this stopped him standing for the censorship, we can see why te incident attracted the epitomator». Conforme alla testimonianza ciceroniana, nella sostanza, Valerio Massimo 8, 1, absol. 11, da cui non si ricavano elementi utili per la datazione del fatto, ma si apprende che il processo fu rinviato per sette volte; all’ottavo giorno fu pronunciata una sentenza d’assoluzione, poiché il popolo temeva che una condanna dell’imputato fosse considerata come un cedimento all’autorità dell’accusatore: «P. Scipio Aemilianus Cottam apud populum accusauit. cuius causa, quamquam grauissimis criminibus erat confossa, septiens ampliata et ad ultimum octauo iudicio absoluta est, quia homines uerebantur ne praecipue accusatoris amplitudini damnatio eius donata existimaretur». Alla magnitudo nominis di Scipione Emiliano, cui già secondo Cicerone andava attribuita l’assoluzione di Cotta, corrisponde la accusatoris amplitudo di questo passo. Una versione differente si trova in Appiano, Civ. 1, 22, 92, secondo cui la vicenda di Aurelio Cotta fu menzionata come uno dei casi più recenti che mostravano la corruzione delle giurie senatorie, quando si dovette giustificare il provvedimento con cui Gaio Gracco trasferiva dai senatori ai cavalieri le corti giudicanti. Può darsi che l’ostilità abbia avuto origine quando Scipione Emiliano, nel 144 a.C., si dichiarò contrario all’assegnazione della Spagna sia all’uno sia all’altro console, cioè a Servio Sulpicio Galba e allo stesso Cotta. Secondo Valerio Massimo 6, 4, 2, Scipione giustificò tale opposizione affermando che la povertà dell’uno e l’avidità dell’altro erano condizioni ugualmente inadatte al governo di una provincia; ottenne quindi che né l’uno né l’altro fosse mandato in Spagna. In questo episodio, il sospetto che interessi materiali potessero inquinare il governo provinciale sembra già preludere all’accusa poi mossa dallo stesso Scipione, in séguito alla quale Cotta dovette esser sottoposto a un processo de repetundis. Alla l. 20 dell’Epitoma, dove comincia il passo, il nome P. Africanus, spostato verso il margine esterno, fuori dell’allineamento iniziale della colonna (come nelle righe in cui sono menzionati i consoli al principio di un nuovo anno) è il soggetto della proposizione secondaria in cui è riferita, secondo l’integrazione assai plausibile già di Grenfell e Hunt (POxy iv , 101), la circostanza dell’accusa (cum … [accu]sar[et). Il passo termina alla l. 21, assai lacunosa, dove doveva trovarsi l’enunciato principale. Alla l. 21, fuori della prima lacuna, è indecifrabile la traccia minima di una lettera; seguono, ben leggibili, le lettere ca. La traccia di una lettera mutila, nel punto in cui la colonna s’interrompe, può appartenere a una e oppure a una d, ma è impossibile decidere in modo sicuro. Le due letture, naturalmente, danno luogo a congetture diverse. Kornemann, Die neue LiviusEpitome, 33 e Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 145) fanno terminare la l. 20 supponendo una preposizione (propter oppure ob) unita con magnitudinem come sintagma causale; alla riga seguente, scorgendo una d nel trattino semilunato che sporge dalla lacuna (vd. Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 226 s.), integrano l’enunciato principale con cadere, nel significato giudiziario di «perdere la causa, essere condannato» (come in Cicerone, Mur. 58, citato sopra). Con la congettura cad[it in iudicio, Kornemann considera come soggetto lo stesso Scipione, il quale avrebbe così «perso la causa». Abbastanza simile la restituzione testuale in Mattingly, Scipio Aemilianus, 118: P. Africanus, cum L. Cottam [incu]sar[et in senatu ob] magnitudinem nom[inum, ut] cad[eret ille fecit]. Lo stesso cadere, però, con lo specifico significato giudiziario, nel passo della Pro Murena citato sopra è riferito a Cotta, ovviamente in forma negativa (la giuria senatoria non aveva voluto che Cotta perdesse il processo). Assai più opportuna, quindi, la soluzione offerta da Rossbach (vd. già Id., Die neuen Periochae, 1021): eum] cad[ere noluerunt. Essa sembra, d’altra

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parte, un po’ troppo aderente al passo ciceroniano da cui è tratta. Reid, Fragments, 300, ha congetturato già alla l. 20 il predicato verbale: fugit, col significato giudiziario di «scampare (all’accusa, al processo)»; nella lacuna della seconda metà della l. 21, invece, colloca l’inizio del passo successivo (caede ingenti). Benché il senso complessivo appaia sicuro, restano puramente ipotetiche le integrazioni proposte. In tanta incertezza, è forse preferibile lasciare la lacuna senza integrazioni. L. 22 a. La sommaria notizia dell’Epitoma riguarda la campagna con la quale il console Decimo Giunio Bruto conquistò e sottomise i Lusitani (vd. POxy iv , 115; MRR i , 483). Di questa campagna dà testimonianza anche la Periocha del libro 55 in due punti distinti. Al par. 4, essa riferisce la concessione di terre e della città di Valentia ai soldati di Viriato: «Iunius Brutus cos. in Hispania is qui sub Viriatho militauerant agros et oppidum dedit, quod uocatum est Valentia»; al par. 10, la sottomissione della Lusitania e l’espugnazione di città fino all’oceano, che furono gli stadi successivi della campagna militare: «Decimus Iunius Lusitaniam expugnationibus urbium usque ad Oceanum perdomuit». Con tale articolazione in due momenti, la Periocha doveva aderire più fedelmente al racconto di Livio. Nell’Epitoma, invece, l’intero svolgimento delle operazioni del console, nel 138 a.C., è compendiato in un solo punto (vd. anche Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 67). Sull’uso postclassico di uastare si veda il commento a col. i, ll. 13-14. Secondo la più ampia narrazione di Appiano, Iber. 71, 301-303, Sesto (errore di Appiano o della sua fonte; in realtà, come si è visto, Decimo) Giunio Bruto, console del 138, ebbe l’incarico di condurre una campagna contro bande di Lusitani che compivano scorrerie nella regione tra il Tago e il Duero; ritenendo inutile inseguirli nei loro rapidi spostamenti, il console decise di attaccare le loro città. Nonostante la strenua resistenza opposta dalle popolazioni, Bruto poté procedere verso nord e sottomettere gran parte del territorio lusitano fino al Minho e alla costa atlantica. Tale azione di conquista, nel testo di Appiano, è compendiata con una frase a cui sembra corrispondere quasi letteralmente l’enunciato dell’Epitoma: ≓Ԣ Ùa âÓ ÔÛdÓ ±·ÓÙ·. Si può ritenere che questa prima parte della campagna fosse stata compiuta da Bruto nel 138 (vd. Fr. Münzer, Iunius, nr. 57, RE x, 1, 1021, ll. 60 ss.; 1022, ll. 28 ss.). Le operazioni furono quindi completate negli anni successivi, con la proroga del comando a Bruto (vd. MRR i , 485 e 487, rispettivamente per gli anni 137 e 136). L. 22 b. Nella metà lacunosa di questa riga è comunemente accolta la restituzione di Grenfell e Hunt (POxy iv , 101): a{n} N[uman]tin[is clades accepta. Se appare sicuro il nome del popolo (anche il numero delle lettere integrate è conforme alla lacuna di 1,9 cm), la congettura clades accepta (POxy iv , 115), tratta da un passo di argomento simile della stessa Epitoma (col. vii, l. 12), è giudicata «etwas lang» da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 33, che però la riporta ugualmente nel testo. In modo più opportuno, non è accolta alcuna congettura dopo a Numantinis nel testo di Jal in Abrégés 2, 127. Nemmeno l’emendamento di an del papiro, giustamente ritenuto sospetto, in a è sicuro (la lezione corrotta potrebbe essere stata, ad esempio, anche ad): per cautela mi sembra preferibile indicare il guasto con la crux.

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La restituzione testuale dell’Epitoma deriva qui dal confronto con la Periocha 55, 5, secondo la quale, dopo che il senato a Roma ebbe invalidato i patti conclusi da Quinto Pompeo nel 140 a.C., fu dato l’ordine a Popilio Laenate, proconsole nel 138, di riprendere le operazioni contro i Lusitani; egli fu però ben presto battuto e messo in fuga: «M. Popilius a Numantinis, cum quibus pacem factam inritam fieri senatus censuerat, cum exercitu fusus fugatusque est». Notizia della sconfitta subita da Popilio, con più particolari, anche in Frontino, Strat. 3, 17, 9: «Numantini obsessi ne pro uallo quidem instruxerunt aciem, adeoque se continuerunt ut Popilio Laenati fiducia fieret scalis oppidum adgrediendi; quo deinde suspicante insidias (...) ac suos reuocante, eruptione facta auersos et descendentis adorti sunt». Un’allusione a tale avvenimento si coglie in un verso polemico di Lucilio, fr. 621 Marx, tramandato da Nonio (p. 255, 11 M.), nel quale il poeta è esortato a denunciare la sconfitta di Popilio e a celebrare la vittoria di Scipione: «percrepa pugnam Popili (corr. edd.: pompili codd.), facta Corneli cane». Il generale sconfitto dai Numantini è lo stesso console del 139, succeduto, con incarico proconsolare, a Quinto Pompeo nella Spagna Citeriore (vd. POxy iv , 108; MRR i , 484; Hans Volkmann, Popillius, nr. 22, RE xxii, 1, 60, ll. 67 ss.). Dalla tradizione liviana, che afferma la sconfitta del proconsole, si distacca la versione di Appiano, Iber. 79, 342-344: dopo la decisione del senato di continuare la guerra contro Numantia, Popilio attaccò i Lusoni, una popolazione vicina, ma tornò a Roma senza avere ottenuto alcun risultato. Non vi si accenna, quindi, a una sconfitta dello stesso proconsole. Ll. 23-24. Tra i fatti del 138 a.C. desunti dal libro 55 di Livio, ultimo argomento dell’Epitoma è la vicenda di Diodoto Trifone, il quale fece uccidere il re Antioco vi e s’impossessò del regno di Siria al posto suo. Sicura l’integrazione An[tioc]h. um, alla l. 23, anche per il numero delle lettere conforme alla misura della lacuna (2,1 cm). Dell’uccisione del re di appena dieci anni, figlio di Alessandro Balas, dà testimonianza anche la Periocha del libro 55, alla fine (par. 11), dove si apprende che essa fu compiuta con l’inganno da medici che erano stati corrotti: «Alexandri filius, rex Syriae, x annos admodum habens, a Diodoto, qui Tryphon cognominabatur, tutore suo, per fraudem occisus est corruptis medicis qui illum calculi dolore consumi ad populum mentiti, dum secant, occiderunt». Rispetto alla datazione dell’Epitoma, nella Periocha il fatto sembra datato un anno più tardi, nel 137, poiché è collocato dopo la notizia che il proconsole Giunio Bruto era giunto alle estreme regioni nord-occidentali della penisola iberica (vd., più avanti, ll. 26-27). Può darsi, tuttavia, che nel passo della Periocha la menzione di Antioco sia stata spostata alla fine perché non risultasse interrotta la sequenza della campagna spagnola; l’ordine degli argomenti non implicherebbe necessariamente, così, una diversa datazione. L’esplicita indicazione dell’età di dieci anni, che Antioco aveva quando fu ucciso, nel medesimo passo, si accorda con l’età di due anni indicata precedentemente nella Periocha 52, 13, riguardo all’ascesa del fanciullo sul trono della Siria, intorno al 145. Il testo di Orosio, Hist. 5, 4, 18, avvalora l’integrazione di occidere, tra la l. 23 e la l. 24 dell’Epitoma: «qui (Diodotus scil.) postea Alexandrum filium, quem participem periculi in peruadendo regno habuerat, ne in obtinendo consortem haberet, occidit». Anche la datazione del fatto, in Orosio, dovrebbe corrispondere a quella dell’Epitoma (138), poiché la menzione dei consoli del 137 viene dopo, al par. 19. Nel frammento 28 del libro 33

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di Diodoro si susseguono in stretta coerenza, come nell’Epitoma, i due momenti cruciali della vicenda, l’uccisione di Antioco e la conquista del regno: ¢Èfi‰ÔÙÔ˜ ï TÚ‡ÊˆÓ âÈηÏÔ‡ÌÂÓÔ˜ àÓ–ÚËÎg˜ \AÓÙ›Ô¯ÔÓ ÙeÓ \AÏÂÍ¿Ó‰ÚÔ˘ (...) ÂÚȤıÂÙÔ ‰È¿‰ËÌ· Ùɘ ‚·ÛÈÏ›·˜, ηd ÎÚ·Ù‹Û·˜ öÚËÌÔÓ ·ñÙeÓ àÓËÁfiÚ¢Û ‚·ÛÈϤ·. Simile la versione di Appiano, Syr. 68, 357, secondo cui Diodoto, uno schiavo della casa reale, mise sul trono un ragazzo di nome Alessandro, figlio di Alessandro Balas e della figlia di Tolemeo; egli fece quindi uccidere il ragazzo e prese il regno per sé, col nome di Trifone: ηd Ùe ·È‰›ÔÓ ÎÙ›ӷ˜ ·éÙe˜ (¢Èfi‰ÔÙÔ˜ scil.) âÂÙfiÏÌËÛ ٔ àÚ¯”. Dal passo di Appiano si ricava anche una conferma della data del 138 circa, poiché l’azione delittuosa di Diodoto è riportata dopo la notizia della spedizione di Demetrio II contro i Parti, conclusa con la sua cattura e prigionia (vd. par. 356), e di tale spedizione si conosce la data dalla testimonianza di Eusebio, Chron. i p. 256 Schöne, che la colloca nell’Olimpiade 160, 2-3 (139/38 e 138/37). Anche nella testimonianza di Giustino l’azione di Diodoto (36, 1, 7) risulta posteriore alla cattura di Demetrio ii (ibid. 5-6; inoltre, 38, 9, 3). Dalla narrazione di Flavio Giuseppe, Ant. Iud. 13, 187 apprendiamo anzitutto in che modo il piano fosse stato concepito, allorché, dopo la cattura di Demetrio, Trifone aveva cessato di appoggiare Antioco e, nello stesso tempo, brigava per ucciderlo e impossessarsi del regno: â‚ԇÏ¢ÂÓ œÛÙ\ ·éÙeÓ àÔÎÙ›ӷ˜ ÙcÓ ‚·ÛÈÏ›·Ó ·éÙe˜ ηٷۯÂÖÓ. Il piano fu quindi attuato con l’uccisione di Antioco, di cui Trifone era tutore, dopo quattro anni di regno: ÙeÓ \AÏÂÍ¿Ó‰ÚÔ˘ ˘îeÓ \AÓÙ›Ô¯ÔÓ (...) TÚ‡ÊˆÓ ‰È¤ÊıÂÈÚÂÓ. Il numero degli anni di regno del sovrano fanciullo (Ù¤ÛÛ·Ú· ‚·ÛÈχ۷ÓÙ· öÙË) sembra però in contraddizione con la notizia della cattura di Demetrio ii, riportata in precedenza: questa indica infatti una data intorno al 138; i quattro anni di regno, invece, se si calcola che Antioco vi fu posto sul trono verso il 145, portano a una data intorno al 141. Proprio questa diversa datazione si presuppone per l’assassinio del re Antioco e la conseguente ascesa di Diodoto Trifone al trono della Siria nel Liber i Macchabaeorum 13, 31 s.: ï ‰b TÚ‡ÊˆÓ (...) à¤ÎÙÂÈÓÂÓ ·éÙeÓ Î·d ₷ۛϢÂÓ àÓÙ\ ·éÙÔÜ. Essa sembra confermata in Girolamo, Chron. a. Abr. 1877 (140 a.C.) p. 144 Helm: «Tryfo Antiochum occidit Alexandri filium»; lo stesso fatto, tuttavia, è menzionato di nuovo più avanti ibid. 1879 (138 a.C.) p. 145 Helm: «Tryfo Syriae regnum conatus inuadere Antiocho filio Alexandri interfecto ad extremum et ipse supermoritur» (per entrambe queste notizie, vd. anche Euseb., Chron. ii p. 128 Schöne). Gli studiosi hanno notato, inoltre, che la datazione del Liber i Macchabaeorum è suffragata dalle monete del regno di Siria, nelle quali il conio del giovane Antioco è testimoniato soltanto fino al 143/42 (sulla questione cronologica, vd. anche Wilhelm Hoffmann, Tryphon, nr. 1, RE vii A, 1, 720-721; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 94-96). L. 25. Con la menzione dei consoli comincia il compendio del 137 a.C. (617 a.u.c.). Nella stessa forma dell’Epitoma sono riportati i due nomi in Ossequente, 24: «M. Aemilio C. Hostilio Mancino coss.»; Cassiodoro, Chron. ii p. 131, 425 Mommsen: «M. Aemilius et C. Hostilius Mancinus». Entrambi i nomi nella forma completa in Orosio, Hist. 5, 4, 19: «M. Aemilio (L U S: marco emilio F, marco aemilio H) Lepido C. Hostilio Mancino consulibus prodigia apparuere diuersa». Così già nei Fasti Capitolini, a. 137 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 53), dove si conserva soltanto il nome del secondo console: «[C. Ho]stilius (...) Manci[nus]»; Fasti Antiates maiores, a. 137 a.C. (Inscr. Ital. xiii 1, p. 161): «M. A[e]mli(us) Lepid(us) [C.

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H]ostili(us) Man(cinus)». In una forma abbreviata, con il solo cognomen, singolo o doppio (così quello di Emilio), senza il praenomen, i due consoli sono menzionati in Cicerone, Brut. 106: «Lepido et Mancino consulibus»; Chronogr. a. 354, Chron. i p. 55, 617 Mommsen: «Porcina et Mancino»; Consul. Constant., Chron. i p. 213, 617 Mommsen: «Lepido Porcina et Mancino». I due nomi compaiono a breve distanza in Appiano, Iber. 80, 348: AåÌ›ÏÈÔÓ §¤ȉÔÓ (...) M·ÁÎÖÓÔÓ. Nella stessa narrazione, tuttavia, si trova anche il nomen del primo da solo (ibid. 349; 81, 351; 353; 82, 355); dell’altro si trovano o il nomen e il cognomen (ibid. 79, 345: ^OÛÙ›ÏÈÔ˜ M·ÁÎÖÓÔ˜) o il solo cognomen (ibid. 80, 346; 83, 358; 359; 361). Ll. 26-27. In questo passo, che occupa le due ultime righe della colonna e col quale è probabile che si concludesse il compendio del libro 55 di Livio (vd. POxy iv , 116; Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 68), l’Epitoma accenna anzitutto alla buona conduzione della campagna di Decimo Giunio Bruto (re b[ene gesta), già menzionata sopra riguardo al primo anno (vd. l. 22 e il commento); espone quindi l’attraversamento del fiume dell’Oblio, che avvenne nel secondo anno della campagna militare, quando Bruto, avendo ricevuto una proroga dei poteri come proconsole, ampliò le conquiste romane e la sottomissione dei ribelli fino alla regione nord-occidentale della penisola iberica. L’attraversamento di questo fiume, pur essendo un fatto in sé abbastanza marginale, dovette esser giudicato come un’impresa straordinaria; così è ricordato negli autori che ne danno testimonianza: con tale gesto si aprivano infatti, per le armi romane, territori non ancora conosciuti. Eroico apparve inoltre il comportamento del generale, il quale spronò i soldati a valicare il fiume mostrando vano, col suo esempio, il timore superstizioso da cui dovevano esser stati presi, forse a causa del nome Obliuio. In modo più puntuale riferisce il fatto la Periocha 55, 10, dopo avere riassunto i felici risultati della campagna di Giunio Bruto (vd., sopra, la frase citata nel commento alla l. 22 a dell’Epitoma): «Decimus Iunius (...) et cum flumen Obliuionem transire nollent (milites scil.), raptum signifero signum ipse transtulit et sic ut transgrederentur persuasit». Anche Floro, Epit. 2, 17, 12 dà speciale rilievo a questo episodio nella sintesi della campagna di Bruto: «Decimus Brutus aliquanto latius Celticos Lusitanosque et omnis Callaeciae populos formidatumque militibus flumen Obliuionis, peragratoque uictor Oceani litore non prius signa conuertit quam cadentem in maria solem obrutumque aquis ignem non sine quodam sacrilegi metu et horrore deprendit». Da Appiano apprendiamo che, dopo aver attraversato il fiume Durius, la marcia di Giunio Bruto proseguì fino al Lete, cioè lo stesso fiume dell’Oblio; primo tra i Romani, egli concepì quindi il proposito di valicare anche questo fiume, un’impresa che doveva essere considerata straordinaria: âd §‹ıËÓ ÌÂÙ“ÂÈ, ÚáÙÔ˜ ¬‰Â ^PˆÌ·›ˆÓ âÈÓÔáÓ ÙeÓ ÔÙ·ÌeÓ ÙfiӉ ‰È·‚ÉÓ·È. Nel séguito l’autore riferisce che il fiume fu attraversato verso mete ulteriori, ma non accenna al gesto eroico di Giunio: ÂÚ¿Û·˜ (...) ηd ÙfiÓ‰Â. Una menzione sintetica del fatto anche in Plutarco, Quaest. Rom. 34, 272 D: per primo Decimo Bruto visitò i luoghi remoti della Lusitania, dopo avere attraversato col suo esercito il fiume Lete. Nel frammento 26 del libro 33 di Diodoro, il brano di un discorso con cui Giunio Bruto incoraggia i soldati a proseguire nell’impresa potrebbe esser derivato da un momento cruciale della narrazione, come l’attraversamento del Lete. Dell’appellativo di Obliuio, attribuito a questo fiume, danno testimonianza Mela 3, 10: «cui Obliuionis cognomen est Limia»; Plinio, Nat. 4, 115: «Aeminius, quen alibi quidem intellegunt et Limaeam uo-

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cant; Obliuionis antiquis dictus multumque fabulosus». Similmente in Strabone 3, 3, 4 C 152, tra i fiumi della Lusitania, nella parte settentrionale, è menzionato il Lete, che altri chiamano Limaea, altri Belio, nome da cui è forse derivato Obliuio; cf. anche par. 5. Da notare che nello stesso passo, in precedenza, l’autore accenna alla campagna militare di Giunio Bruto, che ebbe come base una città sulle rive del Tago; in tale circostanza, il generale fece fortificare anche Olisipo (ibid. 1 C 152; anche par. 2). Per la sua esplicita suddivisione nei singoli anni consolari, l’Epitoma contribuisce in modo essenziale a chiarire i diversi momenti della campagna di Bruto (vd. Fr. Münzer, Iunius, nr. 57, RE x, 1, 1021-1025): alla l. 22 a essa concerne la sottomissione dei Lusitani fino all’Oceano e al Durius, nel primo anno della campagna, quando Bruto era console (vd. MRR i , 483); alle ll. 26-27, il secondo anno, quando Bruto, da proconsole, s’inoltrò nella Lusitania dopo aver attraversato il fiume dell’Oblio (vd. MRR i , 485). È da ritenere che la campagna si sia protratta fino a un terzo anno, in cui Bruto, ancora proconsole, sottomise e riconquistò alcune città che si erano ribellate (vd. MRR i , 487). Una sintesi complessiva di queste operazioni, senza un riferimento specifico all’attraversamento del fiume, in Velleio 2, 5, 1: «ante tempus excisae Numantiae praeclara in Hispania militia D. Bruti fuit, qui penetratis omnibus Hispaniae gentibus, ingenti ui hominum urbiumque potitus numero, aditis quae uix audita erant, Gallaeci cognomen meruit». Alle conquiste romane nella campagna di Bruto accenna, in generale, Strabone 3, 3, 2 C 152 (già citato sopra); vd. anche Ampel. 47,3; Ruf. Fest. 5, 1; Euseb., Chron. ii p. 128 i Schöne; Hier., Chron. a. Abr. 1875 (142 a.C.) p. 144 Helm (datazione errata). Un riferimento più specifico alla vittoria di Bruto sui Gallaeci, nella prosecuzione della campagna a nord-ovest della penisola iberica, nel 137, in Orosio, Hist. 5, 5, 12. A questo riguardo, anche Ovidio, Fast. 6, 461 s. tramanda che Bruto ebbe il suo soprannome (Callaicus) per aver sconfitto i Gallaeci, popolazione della Galizia. Quanto al testo, si possono ritenere sicure le integrazioni alle ll. 26: re b[ene gesta, con cui concordano gli altri editori; 27: trans[iuit (Grenfell e Hunt; ma vd., contro, Müller, Jahresbericht 1, 34) o -iit (Rossbach). A proposito di quest’ultima, mi sembra più opportuno non riportare un’integrazione nel testo, supponendo che nell’Epitoma potesse trovarsi un sinonimo, ugualmente probabile, di transire (ad es., transgredi). Alla l. 27, della correzione di planus in primus (vd. POxy iv , 102), accolta nel testo da Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 33, dubita Rossbach, Die neue Livius-Epitome, 230 s., poiché la sola versione di Appiano, da cui risulta che il console attraversò il fiume per primo, non giustificherebbe adeguatamente l’intervento testuale; egli difende invece planus del papiro (vd. T. Livi periochae, fragmenta, 145), attribuendo all’aggettivo l’accezione particolare di planipes, che qui significherebbe «auf gleicher, ebener Erde», cioè «zu Fuß». Opportuna la difesa di planus; in nessun modo sembra necessario un emendamento («de aguas tranquilas» traduce Villar Vidal, Períocas, 219). A difesa del papiro si può addurre anche un diverso argomento: l’aggettivo, usato in funzione predicativa, quasi come avverbio, potrebbe assumere qui il significato traslato di «senza pericolo» (cf., ad es., Cic., Flacc. 105: «uiam uitae … ante praecipitem et lubricam … huic planae et stabili praeponendam»): Decimo Bruto, attraversando il fiume dell’Oblio, non avrebbe subito le funeste conseguenze temute dai soldati, i quali, nella loro superstizione, attribuivano forse a tale nome il potere di far perdere la memoria o supponevano che, all’ingresso in regioni ancor più remote, si sarebbero manifestati nuovi e sconosciuti pericoli.

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corpus dei papiri storici greci e latini POxy IV 668, Fr. a (Ab urbe condita libri incerti Epitoma) ] …[ ] Sullanis [ ].eum [ ]e non re [ ] [ co]s. [ ].s.amin[ ]auit p.[ ].[

5

6 punto a media altezza dopo ]s 3 ]n.eum G.-H., Korn., m . eum Ross. 4 nomin]e (vel specie) non re Ross. 5 lib. lxxx]viii Ross., sed in pap. nulla litterarum vestigia conspiciuntur 6 C. Mario Cn. Papirio coni. Ross. co]s. suppl. G.H. 7-9 Sulla cum] Samn[itibus ante] [portam Collinam debell]auit p[ulcherrimam-] [que uictoriam summa crudelitate inquinauit] coni. Ross.

All’inizio del frammento le punte inferiori di due o tre lettere visibili nel papiro, anche se non decifrabili, testimoniano la presenza di una riga (l. 1), non rilevata nelle precedenti edizioni. Alla l. 3, fuori della lacuna si scorge un pezzetto dell’asta verticale di una lettera molto incerta; non si può affermare con sicurezza che sia una n. Lo spazio interlineare di 1,1 cm tra la base della l. 4 e la sommità della l. 6 giustifica pienamente l’inserimento di una riga intermedia, nella quale non si sono conservate però tracce di scrittura. Il piccolo frammento, così come il successivo, era stato incollato alla col. iv per rinforzare il rotolo; ma, se il riferimento ai Sullani è corretto, si può ritenere che questo tra i due, in particolare, sia stato tagliato via da una parte del testo che si trovava molto più avanti nell’Epitoma (POxy iv , 90; 116). Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 34 assegna a tale frammento la lettera b e lo colloca, nell’ordine cronologico, dopo l’altro, contrassegnato come a. La menzione dei Sullani, infatti, indica un’età storica in cui esisteva già una fazione di Silla, come testimonia, ad es., nella Periocha 88, 3, l’espressione Syllanarum partium, riguardo a avvenimenti dell’anno 82 a.C. Opportuna, pertanto, l’attribuzione congetturale di questo frammento a un libro liviano compreso tra il 77 e il 90. Infondata, però, l’integrazione del numero del libro riportata da Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 147): liber lxxxviii . Le tracce di lettere che l’editore afferma di aver individuato (ibid., 146) non si riscontrano in realtà nell’esame autoptico. Benché l’argomentazione di Kornemann sia ineccepibile, ho preferito conservare l’indicazione con la lettera a, assegnata originariamente da Grenfell e Hunt. POxy IV 668, Fr. b (Ab urbe condita libri incerti Epitoma)

5

].[ ]amili[ ] [ ] [ ]m . om[

titus livius · poxy iv 668 + psi xii 1291

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] u¯ .[ ]i.sme.[ cu]stodia.[ ] [ ]. [

10 6 linea lunga e sottile sopra u

5 rom leg. Ross. (Roma vel Romanus coni.) 6 M.’ Aquilio C. Mario u¯ cos. coni. Fuhr 8 suppl. G.-H.

All’inizio del frammento è visibile tra le lacune l’estremità inferiore di almeno una lettera, che testimonia la presenza della riga (l. 1), non rilevata nelle precedenti edizioni. Dopo la l. 2, nello spazio interlineare più esteso, in cui non compaiono tracce di scrittura, potevano essere contenute due righe, come hanno ben supposto gli editori: corretta quindi la numerazione complessiva di quattro righe (ll. 2-5). Alla l. 5 escluderei che la prima lettera visibile dopo la lacuna sia una n; mi sembra abbastanza certa, invece, la lettura di una m. Alla l. 6, fondandosi sulla lettura della seconda lettera come c, Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 34 ha supposto che fosse indicato il quinto (u¯) consolato (c[os.) di Mario (101 a.C.; 653 a.u.c.). Fuhr, Liviusepitome, 1183 ha quindi restituito il testo nel modo seguente: M.’ Aquilio C. Mario u¯ cos. Per conseguenza, alla l. 8, lo stesso Kornemann, notando una concordanza di custodia del papiro (si riconosce abbastanza sicuramente l’ultima lettera come a) con lo stesso termine in Valerio Massimo 9, 7, 1, dove è narrato l’episodio di Lucio Equizio, che avvenne appunto durante il quinto consolato di Mario, ha supposto che lo stesso episodio fosse contenuto in questo punto dell’Epitoma. Ammessa tale interpretazione delle ll. 6 e 8, il frammento andrebbe attribuito al libro 68 o all’inizio del 69 dell’Epitoma. Bisogna osservare, però, che dopo la lettera chiaramente leggibile col tratto lineare sovrastante, indicante il numero ordinale, la lettura della lettera successiva, di cui si scorge soltanto una traccia nella superficie residua del papiro, è assai incerta; appare poco plausibile un’identificazione di essa come c. Il frammento, incollato alla col. V (vd. POxy iv , 116), è stato contrassegnato come b. Kornemann, ritenendolo precedente nella successione cronologica, ha preferito contrassegnare questo come a, l’altro come b, invertendo l’ordine fissato da Grenfell e Hunt. Preferirei però conservare questa successione, semplicemente fondata sull’ordine in cui i due frammenti si trovavano nel loro provvisorio stato di conservazione. POxy IV 668, Fr. c (Ab urbe condita libri incerti Epitoma) ].[ ]st[ POxy IV 668, Fr. d (Ab urbe condita libri incerti Epitoma) ]uir.[ POxy IV 668, Fr. e (Ab urbe condita libri incerti Epitoma) ].t.[

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Nelle edizioni di Grenfell-Hunt (POxy iv , 102) e di Kornemann, Die neue Livius-Epitome, 34, è contrassegnato come c un frammento, in cui si leggerebbero soltanto le lettere hif (l. 1); completamente cancellate le righe seguenti (ll. 2-3). Non mi è però riuscito di individuare questo frammento tra i resti più piccoli o minimi del papiro, nella cornice nr. 6. Può darsi che sia stato letto così dai primi editori il medesimo frammento che io ho contrassegnato come Fr. c (vd. sopra). Anche in Rossbach (T. Livi periochae, fragmenta, 146-148) non è riportato il frammento c nella forma data dalle precedenti edizioni, mentre compare come Fr. d lo stesso che in questa è il Fr. c e delle cui uniche lettere superstiti la lettura sembra certa: ]st[.

1 LIVIUS 2F Ab urbe condita liber i, 5, 7-6, 1. POxy XI 1379 Saec. iii ex. (Grenfell-Hunt); iii/iv (Pack2); iv vel iv-v (Lowe). Prov.: Oxyrhynchus. Cons.: Oxford, Bodleian Library, MS. Lat. class. f. 5 (P.). Edd.: POxy xi , 189 (nr. 1379); Cavenaile, CpL, 113 s. (nr. 35); Seider, PlP, ii , 1, 96. Tavv.: POxy xi , tav. vi; CLA, ii , 36; Seider, PlP, ii , 1, [Abb. 36], tav. xx. Pal.: POxy xi , 188 s. (nr. 1379); CLA, ii , 36 (nr. 247); Collart, Pll, 120 (nr. 73); Calderini, Papiri, 10; Marichal, L’Ecriture, 26; Cavenaile, CpL, 113 (nr. 35); Roca-Puig, Panorama, 488; Müller, Interpunktion, 43; Pack2, 145 (nr. 2926); CLA, ii 2, 36 (nr. 247); Wingo, Latin Punctuation, 27 s.; An Exhibition of Papyri, 20 (nr. 44); Seider, PlP, ii , 1, 95-97; Seider, Beiträge, 130; 136 s.; Breveglieri, Materiali, 32; Bischoff, Paläographie, 99; Mertens, Les papyrus, 196 (nr. 2926); Buzi, Manoscritti, 102 (nr. 22); Luque Moreno, Puntos y comas, 264; 281, n. 199. Comm.: MP3 2926; LDAB 2575.

I

l frammento, staccato dalla parte superiore di un rotolo di papiro, ha una forma approssimativamente rettangolare, col lato lungo verticale; è largo, dall’uno all’altro dei punti più distanti alle estremità opposte, 10,3 cm, alto 14,3 cm. La parte superiore è un po’ più estesa e, nell’insieme, più compatta; man mano viepiù ridotta la parte inferiore verso il basso, per la caduta di pezzetti della superficie e sfilacciature ai margini. Il colore di fondo è ocra tenue, con tonalità cinerina; in alcune aree più scuro, rossastro. Il testo latino, scritto sul recto nel senso delle fibre orizzontali e formato da diciotto righe mutile che appartenevano alla parte superiore di una colonna non integra, è un passo del libro I di Livio, complessivamente ben leggibile: 5, 7-6, 1. Soltanto poche lettere sono cadute nelle lacune ai bordi della colonna. Di alcune righe è rimasta la fine (ll. 2, 3, 5, 6, 12, 18). Dall’unica riga di cui è superstite l’inizio, su una sottile strisciolina allungata verso lo spazio intercolonnare (alla sinistra di chi guarda), e che può quindi esser misurata per quasi tutta la sua estensione (è lacunosa alla fine), si ricava con sicurezza che la colonna doveva avere una larghezza media di 8 cm (77 mm secondo Lowe, CLA, ii , 36; 7/8 cm secondo Seider, PlP, ii , 1, 95; Beiträge, 137). Non si può invece accertare l’altezza della colonna di scrittura: le diciotto righe superstiti, che misurano 10,2 cm, ne costituivano di certo più della metà; per arrivare all’intero manca un breve tratto. Le singole lettere sono alte, in media, 0,3 cm; 0,4 cm quelle che scendono sotto la riga. La larghezza delle lettere va mediamente da 0,3 a 0,5 cm; lo spazio

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tra le lettere è di 0,1 cm. Lo spazio interlineare è di 0,3 cm. Fuori del campo della scrittura è superstite una porzione del margine superiore, che si estende un po’ più ampiamente degli stessi limiti della colonna: l’altezza, nei punti in cui mi è sembrata integra fino all’estremità del bordo, misura 3,6 cm; secondo Seider, PlP, ii , 1, 95, invece, essa arrivava a 4 cm. La stessa misura si può presupporre per il margine inferiore. Si può ritenere che il rotolo originario fosse altro tra 20 e 30 cm, un formato che era gradito e abituale (Seider, PlP, ii , 1, 95; Beiträge, 136). L’inchiostro bruno, di buona composizione, con cui è vergato il papiro, ha permesso una stesura densa, compatta; assai duttile al tratteggio, ha assecondato il calamo anche nelle sfumature, soprattutto nei trattini d’attacco e di distacco e nei rari tratti aggiuntivi (vd. Capasso, Introduzione, 109). Anche l’inchiostro con cui sono stati tracciati i segni di punteggiatura sembra lo stesso delle lettere; appare forse un po’ più sbiadito quello del segno alla l. 4. La scrittura di POxy xi 1379 è un tipo particolare, ben formato, di onciale, in cui b e d hanno la forma semionciale (Lowe, CLA, ii , 36). «Onciale mêlée d’éléments cursifs» (Collart, Pll, 120). Breveglieri, Materiali, 32 ha giudicato la scrittura di questo frammento, nel suo carattere nettamente bilineare, ancor più vicina al papiro dell’Epitoma che quella di PBon 5 (CLA Supplement, nr. 1677; vd. il commento a POxy iv 668). Non privo di difficoltà, a causa della mescolanza di lettere onciali e semionciali, il tentativo di datare la bella scrittura del papiro (An Exhibition of Papyri, 20). I primi editori Grenfell e Hunt (POxy xi , 189), per la generale rassomiglianza da loro notata col papiro dell’Epitoma, hanno assegnato il frammento, «with little hesitation», alla fine del sec. III. Dopo una prima datazione tra il sec. iv e il v (CLA, ii , 36), lo stesso Lowe ha poi collocato il frammento in modo più netto nel sec. iv (CLA, ii 2, 36). Assai regolare si presenta il modulo delle lettere, le quali tendono a restare nelle misure di 0,3 × 0,3 cm. Alcune lettere sono leggermente più alte: a, b, d; altre scendono un po’ sotto la riga: f, p, r; l alla l. 3 (non alla l. 7). Non sono ricercate congiunzioni tra le lettere; si avverte quasi una tendenza a contenere i tratti di prolungamento. In questa scrittura regolare, ogni lettera rimane quindi nel suo spazio e normalmente non eccede, o eccede di poco, il proprio modulo. Essa non appare forse particolarmente elegante, se considerata nelle singole lettere; un’impressione di eleganza è data però dall’effetto d’insieme, per la regolarità e la calma che governa il tratteggio in ogni punto e in ogni particolare. Su alcune lettere, in particolare, si è soffermata l’attenzione degli studiosi. Soltanto la m si distingue per la pura forma onciale (Breveglieri, Materiali, 32). Questa lettera misura poco più di 0,2 cm in altezza, ma quasi 0,5 cm in larghezza. Le gambe sono spesse, un po’ rientranti, quasi arcuate la prima e la terza. La r presenta un carattere intermedio fra l’onciale e la minuscola (Grenfell e Hunt in POxy xi , 189). Si nota una piccola punta all’attacco dell’asta verticale, la quale, un po’ spessa, scende sotto la linea (0,4 cm). La pancia, che rimane aperta, e il tratto conclusivo, corto, risultano eseguiti in due tempi. Sono inoltre da notare, in questa lettera, una reminiscenza della capitale e un preannuncio dell’aspetto parzialmente squadrato che assumerà in séguito, col tratto finale arcuato (Breveglieri, Materiali, 32). La s richiama la forma del papiro dell’Epitoma, di cui sembra un successivo sviluppo (Lowe, CLA, ii 2, 36). Il tratto verticale, spesso, leggermente obliquo, non eccede la misura di 0,3 cm; vi s’innestano, come due codette, i tratti superiore e inferiore, sottili e un po’ ondulati, specie quello inferiore. La

titus livius · poxy xi 1379

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concezione bilineare della scrittura di POxy xi 1379 può essere osservata anche in questa lettera, che appare come schiacciata tra due linee orizzontali (Breveglieri, Materiali, 32). La a, in tre tempi, con la punta superiore eccede di poco la misura di 0,3 cm. Il terzo tratto, leggermente arcuato verso il fondo, con l’estremità destra si protende verso la lettera successiva; la tocca alla l. 3. La pancia appuntita (Lowe, CLA, ii , 36) è formata dai primi due tratti che s’incontrano convergendo verso sinistra. La b, usualmente di forma minuscola, eccede di poco, con la gamba superiore, la misura di 0,3 cm. Il primo tratto presenta un attacco a uncino all’apice; il secondo, corto e spesso, forma una pancia assai ampia e aperta in alto (0,4 cm in larghezza). Nella d, parimenti minuscola, la gamba verticale, a destra, arriva a 0,4 cm. La pancia a sinistra, ampia e chiusa, è formata da due tratti (larga 0,4 cm). In entrambe queste lettere sono sembrate notevoli, nell’ambito di una concezione nettamente bilineare, le pance ampie, ma un po’ allungate (Breveglieri, Materiali, 32). Nella n, di forma maiuscola, sono corti e spessi il primo e il terzo tratto; allungato, obliquo, quello medio, discendente. La c, alla l. 9, col tratto superiore tocca la lettera successiva. Il tratto inferiore, a mezza luna, protendendosi in avanti si assottiglia verso l’estremità. La e, alla l. 2, col tratto superiore si congiunge alla t seguente. Il tratto sinistro, a mezza luna, spesso al centro, s’assottiglia all’estremità; quello medio, sottile, non tende a allungarsi. La o, piuttosto larga, è formata da due tratti curvi, a semiluna, più spessi al centro, che si assottigliano alle estremità. La g eccede di poco l’altezza di 0,3 cm; con la sua coda pronunciata, spessa, scende sotto la riga. Il corpo della lettera, eseguito in tre tempi, è molto incurvato, quasi schiacciato. Una piccola punta di attacco si trova all’apice del primo tratto della u, che, lungo e arcuato, si assottiglia in fondo; alla giuntura tocca l’asticella verticale (secondo tratto), un po’ spessa. Lieve attacco a uncino all’apice sinistro nel primo tratto, più spesso, della x (0,4 cm in larghezza); lo stesso si osserva anche all’apice del secondo tratto, che scende da sinistra verso destra, ma più come appoggio del calamo. L’asta verticale della f, un po’ spessa, misura quasi 0,4 cm; scende sotto la riga. La h, che misura regolarmente 0,3 cm sia in altezza sia in larghezza, presenta un trattino aggiuntivo alla base dell’asta verticale. Nella i, alta 0,3 cm, si nota talvolta un attacco a uncino, appena accennato, all’apice. La l scende sotto la riga alla l. 3; misura 0,4 cm in altezza, ma alla l. 7, dove la forma è più contenuta, 0,3 cm. Il secondo tratto appare quasi un prolungamento del primo, ma l’estensione rimane contenuta (0,3 in larghezza). L’attacco della lettera è a uncino all’apice. L’asta verticale, spessa, si assottiglia verso la coda. L’asta della p scende sotto la riga (0,4 cm). Si notano una piccola punta all’attacco, in alto, e un trattino aggiuntivo in basso, alla base dell’asta. La pancia, piuttosto ristretta (poco più di 0,2 cm in larghezza), si presenta chiusa al di sotto. Nel testo superstite non sono contenuti esempi di q. L’asta verticale della t è piuttosto spessa, non allungata (0,3 cm in altezza); alla base si nota una minima punta di distacco. Il taglio, solo un po’ più lungo di 0,3 cm, ha un lieve ispessimento all’estremità destra. Diversamente dall’Epitoma, dove si rileva un uso normale dei punti soltanto per le abbreviazioni, nel frammento del libro i di Livio compaiono segni di punteggiatura frequenti e nitidi, che si rivelano frutto di un’elaborazione meditata (POxy xi , 189). Dagli spazi intermedi lasciati appositamente liberi si arguisce che tali segni dovettero essere inseriti direttamente dallo scriba (Müller, Interpunktion, 43). Qualche sfumatura di valore si rileva nell’uso del punto a media altezza: alla l. 4, dopo l’ablativo assoluto (alia [com]parata manu), indica una pausa debole, mettendo in evidenza la stessa costruzione

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assoluta (Wingo, Latin Punctuation, 28), così come anche alla l. 17, dopo f..r [at]ris; alla l. 5, invece, dopo l’enunciato principale (adiuua[t | Rem]us), esso corrisponde a una pausa più forte, per mostrare che Remo non è il soggetto di obtruncat (Wingo, Latin Punctuation, 28). Alla l. 6 la forcella in alto sostituisce il punto nella stessa posizione (Müller, Interpunktion, 43; vd. anche 137, n. 29, dove è messo a confronto il codice Mediceus laurentianus lat. xxxix , 1 di Virgilio) e indica una divisione principale, che qui riguarda, oltre che la fine dell’enunciato (ita regem optrun|[cat]), anche l’intera unità narrativa. Si può considerare questo come uno dei pochi esempi di un segno superiore che corrisponde alla piena distinctio dei grammatici (Wingo, Latin Punctuation, 27; Luque Moreno, Puntos y comas, 264). Alla l. 15 il punto in basso (g[ra]|tulantis uidit) indica una pausa minore, che qui serve come distinzione tra subordinate. Lo stesso uso del punto in basso si rileva alla l. 16 (aduoca]t. o. c. [on]cilio), forse collegato col punto che segue alla l. 17 (vd. sopra), come indicazione che scelera e originem sono oggetti paralleli del predicato verbale ostendit, non conservato nel frammento (Wingo, Latin Punctuation, 28). Difficile comprendere, più in generale, in che consista la differenza di valore tra il punto a media altezza e il punto in basso (Müller, Interpunktion, 43; vd. anche Geymonat, Grafia e interpunzione, 49-62). Sembra che lo scriba non abbia usato in modo molto regolare tali segni di punteggiatura (Seider, PlP, ii , 1, 96). Opportunamente Grenfell e Hunt (POxy xi , 188 s.) hanno notato una generale rassomiglianza di POxy ix 1379 con i resti dell’Epitoma, sia per le caratteristiche della scrittura mista prevalente nelle aree provinciali sia perché anche questo frammento è derivato da un rotolo di papiro. In confronto all’Epitoma, però, qui l’alfabeto basilare è costituito dall’onciale, mentre le forme minuscole risultano assai più rare. Nella classificazione di Marichal, L’Écriture, 25 s., la scrittura di POxy xi 1379 è collocata, con altre considerevoli testimonianze coeve, nello stesso raggruppamento dell’Épitoma, come «minuscule (…) sous forme “droite” et écrite avec un calame “souple” et à bec large», in cui spicca il contrasto, sapientemente eseguito, fra tratti più spessi e tratti sottili nel ductus delle singole lettere (su tali esemplari, altri cenni nel commento a POxy iv 668; vd. anche Bischoff, Paläographie, 99 s. e n. 135). Alla somiglianza con l’Epitoma dà particolare rilievo Breveglieri, Materiali, 32: POxy xi 1379 sarebbe «rappresentante dello stesso episodio della scrittura latina»; la sua scrittura «è sulla stessa linea di quella dell’Epitome e forse ancor più di quella del papiro bolognese, se si considera la forte bilinearità». A confronto del papiro dell’Epitoma, la scrittura del frammento dal libro i di Livio presenta, come si è osservato, una più stretta aderenza alle forme dell’onciale, da cui si discosta in modo più netto, soprattutto per l’influsso della scrittura comune, nelle sole lettere b e d, che sono tuttavia bastanti per giustificarne la definizione di onciale mista (precisamente onciale bd). Si può individuare, così, un insieme più ristretto di testimonianze, le quali appaiono accomunate dalla più specifica caratteristica dei due elementi minuscoli frammisti al sistema grafico di base, complessivamente omogeneo. Tra le testimonianze di tal genere, molto simile a POxy xi 1379 si rivela soprattutto il Codex Claromontanus, probabilmente di origine orientale (CLA v , nr. 521; vd. anche Bischoff, Paläographie, 103), con le Epistulae di san Paolo in greco e in latino. Vi si avverte sensibilmente l’influsso del greco, tanto che Lowe, ibid., 3 lo ha giudicato scritto in un centro dove per secoli il greco era più familiare del latino. Rispetto al papiro liviano, in questa scrittura appare assai più avanzato il processo di stilizzazione calligrafica, indizio evidente di un’età più tarda (sec. v). Forme grafiche simili, quasi in tutto l’alfabeto, si rilevano anche in POxy xvii 2089 (CLA Supplement, nr. 1715; vd. anche Marichal,

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L’Écriture, 26 e 36; Seider, PlP, ii , 2, 52 s.), frammento da un codice di pergamena con un’opera giuridica (ad legem Iuliam et Papiam?). Anche qui è netto il contrasto chiaroscurale nel tratteggio, realizzato per mezzo di un calamo con la punta piuttosto larga e morbida. Per la sua eleganza tale scrittura sembra riflettere uno stadio più maturo (Marichal, ibid., 36); così già Hunt (POxy xvii , 116): «The small upright hand, a well-written example of the mixed uncial type (b and d show minuscule forms), is not likely to be earlier than the fourth nor later than the fifth century». Si possono includere nel medesimo ambito anche il Codex Vaticanus Palatinus Lat. 24, un palinsesto del sec. v con il De amicitia di Seneca (CLA i , nr. 69), e il Codex Bezae (Cambridge, Univ. Libr. Nr. ii. 41), con i Vangeli e gli Atti degli Apostoli, del sec. v (CLA ii , nr. 140), scritto da mano poco esperta (Lowe, ibid., 7), testimonianze che sembrano avuto origine entrambe da un ambiente di cultura greca (vd. Bischoff, Paläographie, 103). Dagli elementi considerati si può ritenere, in generale, che il rotolo di papiro da cui è derivato questo frammento di Livio fosse un libro di buon pregio e di ragguardevole bellezza (Seider, PlP, ii , 1, 95; Beiträge, 136). Il frammento, trovato a Oxyrhynchus in Egitto, fu acquistato dalla Bodleian Library di Oxford nel 1923. POxy XI 1379, recto (Ab urbe condita liber i, 5, 7-6, 1)

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[gi]am uenire pastoribu[s [ ± 2 reg]em impetum facit [ [ ± 3 do]mo Numitoris alia [ [com]parata manu, adiuua[t [Rem]us; ita regem optrun- [ [cat.] N[u]mitor int[er] p.ri- [ [mu]m. t.[u]multum hos.[tes [ ± 6 ]se u[r]bem at[que [ ± 6/7 r]e.g. iam dict[ ± 4/5 [ ± 3/4 pube]m. Albanam [ ± 2/3 [ ± 4/5 pra]e.sidio armis[que [ ± 6 ]ndam auocasset, [ ± 2? [ ± 7/8 i]u. u. [e]nes per[ ± 2 [ ± 2/3 caed]e pergere ad se g[ratulantis uidit, extempl[o [ ± 7 ].o. c.[on]cilio, sce[le[ra ± 4 ] f. r.[at]ris, orig[inem [ ± 7 ] u. t. geniti [ –––

4 punto a media altezza dopo manu 5 punto a media altezza dopo ]us 6 diple in alto, che si restringe da sinistra a destra (per chi guarda), dopo la lacuna iniziale, davanti a n[ 15 punto in basso dopo uidit 16 punto in basso dopo c.[..]cilio 17 punto a media altezza dopo f. r.[..]ris 1 regiam codd. 2 ad regem codd., G.-H. 3 et a domo codd., G.-H. 4 an con-? 5-6 ob- codd. -at codd. pl., in quibus potiores (M R D), G.-H.: -ant codd. eorundem correctores, dett. 8 inuasisse codd., G.-H. 9 adortos regiam codd., G.-H. dictitans codd., G.-H. 10 cum pubem codd., G.-H.

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in post Alban. codd., G.-H. 11 arcem praesidio codd., G.-H. 12 obtinendam codd., G.-H. (opt-) 13 postquam iuuenes codd., G.-H. 13-14 perpetrata codd., G.-H. (per[petra]|ta), sed l. 13 supplementum litterarum spatium excedit; an perac|ta? 16 aduocato codd., G.-H. 16-17 scelera codd. pl., G.-H.: scelus M 17 in se ante fratris codd., G.-H. 18 nepotum codd., G.-H.

(Ab urbe condita liber i 5, 7-6, 1)

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(Romolo, dato l’ordine) [***] ai pastori di andare alla reggia, attua l’assalto contro il re; uscendo dalla casa di Numitore con un’altra schiera viene in aiuto Remo. Così massacra il re. Numitore, all’inizio del tumulto, ripetendo che i nemici [avevano invaso] la città e [assalito] la reggia, fece radunare la gioventù di Alba alla rocca per difenderla con un presidio armato. Quando vide i giovani, [dopo aver compiuto l’uccisione], venirgli incontro con esultanza, [convocata] subito un’assemblea, [rivelò] i delitti del fratello contro di lui, l’origine dei nipoti, come erano nati

Nel frammento di papiro è superstite un tratto di Livio 1, 5, 7-6, 1, dove sono narrate le gesta di Romolo e Remo contro lo zio usurpatore del trono. Dopo aver cacciato il fratello Numitore e essersi impossessato del regno di Alba Longa, Amulio aveva indotto la figlia di lui Rea Silvia a divenire vestale, volendo impedire che avesse discendenza (ibid. 3, 10 s.). Ordinò quindi che i gemelli, nati successivamente da lei, fossero gettati nel Tevere. Scampati alla morte e allevati dal pastore Faustolo e dalla moglie di lui Larenzia, una volta divenuti grandi si misero a capo di una gruppo di giovani e con loro andavano a caccia e assalivano i predoni (4, 1-8). Fatto prigioniero in un’incursione di questi nemici, Remo fu falsamente accusato davanti a Amulio di aver preso bottino dalle terre di Numitore; consegnato poi allo stesso Numitore, doveva essere condannato da lui (5, 1-4). In tale circostanza, Faustolo svelò a Romolo il segreto dell’origine di lui e del fratello, mentre anche Numitore, il quale teneva Remo come suo prigioniero, arrivava da sé a intuire tutta la verità (5, 5 s.). Nel testo del papiro è conservato quel tratto della narrazione che si svolge da questo punto. Romolo pensò bene di non muovere un attacco in massa contro Amulio, ma fece arrivare i pastori alla reggia per vie diverse, a un’ora convenuta. Mentre anche Remo, uscendo dalla casa di Numitore, veniva in aiuto con un’altra schiera, fu dato l’assalto e il re fu ucciso (5, 7). Numitore intanto, spargendo la voce che la città era ormai invasa dai nemici, aveva attirato la gioventù di Alba nella rocca, come se occorresse impegnare tutte le forze per difenderla: la reggia era così rimasta non custodita di fronte all’assalto dei vendicatori. Allo stesso modo che nell’antica Roma, anche in Alba Longa la dimora del re (regia) e la rocca della città (arx) risultano in questo passo come luoghi separati (vd. T. Livi ab urbe condita, i , 100). Quando poi i due giovani si pre-

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sentarono festanti, riunita subito un’assemblea, Numitore rivelò tutto l’accaduto: i delitti commessi dal fratello contro di lui, l’origine e le vicende dei nipoti (6, 1). Alla l. 1, ben riconoscibile, sul bordo superiore della lacuna, la punta della a, prima lettera visibile nel frammento ([re|gi]am). Alla fine della l. 2, da un’estremità del taglio si riconosce in modo sicuro come t (facit) la traccia della lettera mutila. Evidente che il tratto di forma arcuata della lettera mutila all’inizio della l. 3 sia di una m (do]mo). Con la parola spezzata optrun terminava la l. 5, come si ricava dalla mancanza di ulteriori tracce di scrittura nello spazio seguente, benché millimetrico. Alla l. 6, nella prima lacuna interna al campo della scrittura è caduta una sola lettera: N[u]mitor. Davanti alla seconda lacuna interna della stessa riga si legge int (la t identificabile dall’estremità del taglio); dall’altra parte, sul bordo, da un tratto della pancia superiore risulta quasi certa la lettura di una p. Nella lacuna di 0,9 cm si possono calcolare cadute due lettere: int[er] pri[. In un brandello residuo della superficie del papiro, che scende fino all’area lacunosa in corrispondenza del campo di scrittura della l. 7, si riconoscono in modo abbastanza chiaro le lettere m e t, di cui sono superstiti i minimi resti di un tratto arcuato e dell’estremità del taglio:]m . t. [. Nella piccola lacuna (0,6 cm) al principio della superficie residua si calcola caduta una sola lettera: t. [u]multum. Prima della lacuna con cui s’interrompe questa riga, incerta l’ultima lettera, di cui si scorge una minima punta, che può tuttavia esser letta come l’estremità di una s: hos. [tes. Nella superficie superstite della l. 8 è caduta una lettera per rasura: u[r]bem. Alla l. 9, in un brandello della superficie lacera, in prossimità del margine della lacuna iniziale, si scorge la traccia puntiforme di una lettera; al principio del tratto superstite della riga, è appena visibile (lettura non del tutto certa) la coda inferiore della g: r] e. g. iam. Incerta, ma plausibile, la lettura della lettera mutila al principio della l. 10 come m: pube]m .. All’inizio della l. 11, in alto, la minima traccia di una lettera sul bordo della lacuna può appartenere a una e: pra]e. sidio. All’inizio della l. 12, tra le sfilacciature al bordo sinistro (per chi guarda) del frammento, del campo scritto resta qualcosa su una strisciolina leggermente divisa e divaricata che si protende in avanti. Specie nella lingua inferiore di questo brandello le lettere, compresa la n, si leggono in modo abbastanza sicuro: ]ndam. Illeggibili, invece, precedenti tracce puntiformi, allineate su un filamento del papiro ancor più divaricato, che nell’esame autoptico ho potuto calcolare come cinque minuscoli punti. Poiché queste tracce, tuttavia, pur appartenendo di certo alla l. 12, rimangono completamente avulse dalla compagine testuale, tanto da apparire prive di qualsiasi significato perfino grafico, ho preferito non riportarle nel testo, neppure come semplici punti. Non mi sembra giustificata, pertanto, la lettura ]nendam di Grenfell e Hunt (POxy xi , 189): le prime due lettere (ne) non dovrebbero essere incluse nel testo conservato. Fin troppo prudente, d’altra parte, quella di Seider, PlP, ii , 1, 96, che trascrive soltanto punti fino a (au)ocasset. Nella stessa l. 12, dopo auocasset, resta ancora un piccolo spazio (due lettere circa) nella colonna di scrittura, dove si sarebbe potuto trovare l’inizio della parola che segue nei manoscritti, caduta del tutto nel papiro (postquam). Sembra tuttavia più verosimile che la riga terminasse con auocasset (forse il taglio della t era leggermente prolungato alla fine) e la congiunzione postquam fosse collocata per intero nella riga seguente. All’inizio della superficie superstite della l. 13 ho rilevato tracce delle lettere uu, cui segue lo spazio di una sola lettera illeggibile; riterrei abbastanza sicura soprattutto la

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prima traccia, nella quale il tratto mutilo della lettera è leggermente arcuato (i]u. u. [e]nes). Al principio della l. 14, dove la superficie del papiro è molto sfilacciata, si scorge, prima di pergere (p mutila, ma ben leggibile), una lettera incerta, in cui si può plausibilmente identificare una e: caed]e. Nella lacuna finale di questa riga si possono calcolare due lettere mancanti, con cui si completa la parola spezzata gra|tulantis: ad se g[ra]. La riga seguente (l. 15) è l’unica di cui sia superstite l’inizio, su una sottile striscia allungata verso lo spazio intercolonnare (alla sinistra di chi guarda). Alla l. 16, prima della piccola lacuna che s’apre nell’interno della stessa riga, è assai plausibile la lettura di una c: c. [on]cilio. Davanti a questa si scorgono le tracce di due lettere; nella seconda sono forse visibili i contorni di una o (aduoca].o. ). Alla l. 17, nelle punte inferiori di due lettere, ben visibili sotto l’area lacunosa che interessa l’inizio della colonna (le due lettere che seguono sono invece interamente cadute), si può identificare l’inizio della medesima lezione testimoniata dalla restante tradizione manoscritta: f. .r [at]ris. Nelle due principali divergenze testuali che si registrano nella tradizione manoscritta del passo testimoniato da POxy xi 1379 non soccorre l’autorità del papiro, lacunoso in questi punti. Entrambe le volte, tuttavia, sembra probabile che nel testo del papiro comparisse la lezione che si può ritenere come la migliore. Nella lacuna iniziale della l. 6, dove si completava la voce verbale spezzata alla l. 5 (obtrun|), l’integrazione più plausibile appare -cat, già indicata in Grenfell e Hunt (POxy xi , 189), che ben si adatta allo spazio di 1,3 cm (nel campo di scrittura della colonna), dove si calcolano tre lettere mancanti. Nella migliore tradizione manoscritta di Livio, costituita da M e dai codici simmachiani, è testimoniata proprio tale terminazione al singolare (nel testo di ConwayWalters e Ogilvie), con cui la responsabilità dell’atto è attribuita al solo Remo; -cant è invece variante di una mano successiva di M e di altri testimoni di minor valore (in Weissenborn-Müller, T. Livi ab urbe condita, i , 100 e 271; Bayet). Nella lacuna alla fine della l. 16 (0,8 cm del campo di scrittura della colonna) si possono calcolare cadute due lettere della prima metà della parola spezzata, con cui terminava la stessa riga (sce[..). Col sintagma in se si integrano quattro delle sei lettere mancanti nella lacuna al principio della l. 17 (2,2 cm del campo di scrittura della colonna); le due rimanenti dovevano appartenere alla fine della parola spezzata: sce[le|ra, così Grenfell e Hunt (ibid., 189). Si può quindi affermare, con buona probabilità, che nel papiro si trovasse proprio questa lezione del testo di Livio, concordemente testimoniata dalla maggior parte dei codici medievali (H W K E O P U: gruppo ¢ nell’edizione di Ogilvie) e preferita nel testo delle principali edizioni più recenti (Conway-Walters, Bayet, Ogilvie); scelus compare invece nel solo M, che si allontana qui dal resto della tradizione manoscritta (vd. anche Witte, Bericht, 25), ma risulta, in tale variante, di minor valore. Alla fine della l. 13 l’integrazione per[petra|ta, che Grenfell e Hunt (ibid., 189) hanno ricavato dalla collazione con i codici medievali, eccede di tre lettere il termine della colonna, che in questo papiro, come si è già notato, doveva regolarmente presentare un margine uniforme del campo della scrittura anche nell’allineamento finale delle righe (a destra di chi guarda). Gli stessi Grenfell e Hunt, rilevando tale difficoltà, hanno supposto che potesse esser caduta in questo punto una lezione diversa da quella testimoniata dalla tradizione manoscritta più tarda; hanno considerato però poco plausibile la possibilità di una variante antica del testo di Livio, in questo punto, come, ad es., peracta, da loro suggerita. Proprio tale integrazione, invece, anch’essa come parola spezzata

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(per[ac|ta), si adatterebbe molto bene allo spazio di due lettere o poco più nella lacuna finale della l. 13. L’uso di perago, inoltre, non soltanto assicura il medesimo significato, ma dà alla frase un distinto colore poetico (vd. ThlL x, 1, 1177, ll. 17 ss.: Verg., Aen. 9, 242, parimenti in ablativo assoluto; così anche gli usi successivi dell’espressione). Nelle altre lezioni, il testo del papiro concorda con la migliore tradizione manoscritta. Alla l. 3, nello spazio di tre lettere mancanti, prima dell’integrazione sicura della parola mutila (do]mo), assai probabilmente si trovava la stessa lezione dei codici: et a, Grenfell e Hunt (ibid., 189). Alle integrazioni di parole mutile di cui si è discusso sopra possiamo aggiungerne altre da ritenere parimenti sicure o assai plausibili, per la precisa corrispondenza che si rileva tra le lettere mancanti nel papiro e le lezioni della rimanente tradizione manoscritta: alla l. 1, [re]|gi]am e pastoribu[s; l. 2, reg]em; l. 3, do]mo; l. 4, com]parata e adiuua[t; l. 5, Rem]us; ll. 6-7, p.ri|[mu]m. ; l. 8, at[que; l. 11, armis[que; l. 15, extempl[o; l. 17, orig[inem. Watt, Notes, 415, osservando che l’uso di ad, invece di in, con l’espressione impetum facere risulta insolito, ha avanzato qualche dubbio sul testo di Livio 1, 5, 7: ad regem impetum facit (forse un’erronea ripetizione del precedente ad regiam?). La particolarità del sintagma è illustrata, invece, come corrispondente alle espressioni ad hostem ire, ducere, e simili (vd. anche Prisc., Inst. p. 37, 12 Keil iii: ad illum mihi pugna est), in Weissenborn-Müller (T. Livi ab urbe condita, i , 99). A tal riguardo, per risolvere la questione sollevata da Watt, non viene alcun contributo dal papiro, lacunoso all’inizio della l. 2: nello spazio di due lettere mancanti, prima della successiva parola mutila (re]gem), possono trovar posto, ovviamente, entrambe le forme, ad o in.

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1 LIVIUS 3F Ab urbe condita liber xi? PNaqlun inv. 15/86 Saec. v. Prov.: Deir el-Naqlun. Cons.: Cairo, Coptic Museum, nr. 15/86. Edd.: Bravo-Griffin, Un frammento, 471-472. Tavv.: Bravo-Griffin, Un frammento, Tavv. i-viii. Pal.: Bravo-Griffin, Un frammento, 447-493; CLA, Addenda ii , 288 s. (nr. 1867); Buzi, Manoscritti, 102 (nr. 23). Comm.: MP3 2926.01; LDAB 2576.

F

rammento di un foglio di pergamena gravemente mutilo. Sul recto e sul verso, i resti di due colonne di scrittura latina, seppur lacunosi, sono ancora abbastanza ben leggibili. Si è denominato lato A quello in cui la porzione più ampiamente conservata della colonna si trova a sinistra di chi guarda; lato B quello in cui la porzione più ampiamente conservata della colonna si trova a destra di chi guarda. Probabile che il recto, più nettamente bianco avorio, un po’ meno poroso, sia quello della carne; il verso quello del pelo. Sembra confermarlo il diverso stato di conservazione dell’inchiostro, il quale, assorbito labilmente sulla superficie meno porosa, si è staccato in quantità maggiore proprio sul recto. Lo stesso inchiostro traspare molto fortemente da un lato all’altro. Per questa ragione i guasti della pergamena sono avvenuti lungo i tratti delle lettere (vd. Bravo, Un frammento, 452). Un fenomeno simile è avvenuto anche in PVindob L 117 (vd. Corpus dei Papiri Storici, B, 2, 99). In alcuni tratti sottili, inoltre, l’inchiostro si è completamente staccato in superficie. Che il lato A sia il recto del foglio e il lato B il verso può essere ben dimostrato anche per il contenuto (vd. Bravo, Un frammento, 484); su ciò si veda più avanti la trattazione specifica. Larghezza: 11,4 cm; altezza: 9,6 cm (ottobre 1987). In una precedente misurazione, eseguita subito dopo la scoperta del frammento (aprile 1986), furono rilevate dimensioni più grandi: 14 × 12 cm. Riguardo a tale differenza, occorre ritenere che la pergamena si sia notevolmente ristretta. Probabile che i dati della prima misurazione fossero più vicini allo stato originale del manoscritto che quelli della seconda, eseguita dopo qualche tempo e in seguito a un considerevole mutamento delle condizioni ambientali. Un indizio di tale restringimento, non uniforme, si può osservare anche nella lieve deformazione delle righe di scrittura e delle linee verticali della rigatura. Un’alterazione

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sostanziale si deve presupporre anche nel colore del reperto, in cui l’originale colore avorio, su una buona parte della superficie, è diventato marrone chiaro (vd. Bravo, Un frammento, 450 s.). Il frammento è un ritaglio da un foglio di un codice di pergamena sottile: serviva forse per rafforzare la copertina di un codice. Probabilmente esso ha avuto origine come cascame prodotto dal lavoro di un monaco rilegatore (vd. Bravo, Un frammento, 448 s.). Su entrambi i lati del frammento sono superstiti i resti di due colonne parallele, una di fronte all’altra, della scrittura originaria; di ciascuna delle due colonne si sono conservate dodici righe. Queste sono quasi tutte integre in una delle due colonne, quasi completamente cadute nell’altra. Sul lato A, che, come detto sopra, si ritiene a ragione il recto e la parte che precede nell’ordine del testo, è quasi integra la prima colonna, mentre nell’altra sono residue soltanto singole lettere dell’inizio, per tutta la lunghezza, all’orlo lacerato del foglio. Sul lato B che dovrebbe costituire il verso e la parte che segue nell’ordine del testo, si presenta alla rovescia il medesimo stato della scrittura conservata: della prima colonna, caduta quasi per intero, compaiono soltanto singole lettere della fine delle righe, per tutta la lunghezza all’orlo del foglio lacerato; quasi integra è invece, per quello che ne resta, la seconda colonna. Sul numero totale delle righe da cui erano formate le due colonne di ciascuna pagina si possono avanzare soltanto congetture (su ciò si veda più avanti). All’estremità sinistra (per chi guarda) del recto, e destra del verso, è assai più probabile intendere la porzione di spazio priva di scrittura come margine esterno della pagina del codice anziché come spazio intercolonnare: supporre infatti tre colonne, nella stessa pagina, implicherebbe un formato complessivo troppo largo del libro. Si può ritenere che nella parte superiore del foglio sia compresa una minuscola porzione del margine superiore (vd. Bravo, Un frammento, 449). Anche altri argomenti, come vedremo, sono a sostegno dell’identificazione del frammento come ritaglio dalla parte superiore di un foglio. Sulla superficie superstite si vedono i segni di un’accurata rigatura, forse incisa con una punta dura direttamente sul recto, dalla quale si ha uno schema della partizione di una pagina. Per ogni riga della scrittura è stata tracciata una linea orizzontale, a intervalli di 0,8 cm circa. Nello spazio intercolonnare tali linee appaiono incise più debolmente; anche in questo, però, è incisa fortemente per tutta la lunghezza la linea che corre più vicina all’orlo superiore e su cui si svolgeva quella che, con ottima probabilità, va intesa come la prima riga di ciascuna colonna. Si rilevano inoltre una linea verticale come limite sinistro e un’altra linea verticale come limite destro di ciascuna colonna, le quali racchiudono, come campo di scrittura per ogni colonna, uno spazio di 6,6 cm (vd. Bravo, Un frammento, 452). Tra tali limiti delle colonne, lo spazio intercolonnare misura 2,5 cm. Un’altra linea verticale è tracciata in mezzo all’intercolumnio, a distanza uguale dall’una e dall’altra colonna. Lungo questa linea intermedia lo scriba ha praticato, alla stessa distanza di 0,8 cm che separa una linea orizzontale dall’altra, minuscoli fori, che servivano appunto per eseguire correttamente tali linee (vd. Bravo, Un frammento, 453). Dalla quinta riga sono tracciate una linea obliqua a sinistra del limite verticale sinistro e un’altra linea a destra del limite verticale destro della stessa colonna; ognuna di queste linee oblique congiunge il punto d’intersezione della quinta linea orizzontale e di un limite verticale della colonna con un punto situato nella parte superiore, perduta, della pagina, formando con lo stesso limite verticale un angolo di 6°. È chiaro che le due linee oblique ai lati di una stessa colonna servivano per segnare i limiti sinistro e de-

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stro delle righe 1 e 2, le quali sporgono infatti nettamente fuori sia del normale allineamento verticale a sinistra sia di quello a destra della colonna e le cui lettere iniziali sono più grandi delle altre: due righe, quindi, che nella configurazione grafica della pagina assumevano speciale evidenza. Se prolungate nella parte superiore della pagina fino a incontrarsi, il punto d’intersezione di queste due linee oblique, lungo la linea verticale che passa in mezzo allo spazio intercolonnare, doveva trovarsi a 7,8 cm più in alto della prima linea orizzontale: si può così supporre, in modo congetturale, che la stessa, o simile, fosse la misura del margine superiore di una pagina del codice. Che linee oblique siano tracciate per delimitare l’estensione di righe sporgenti del campo di scrittura appare un fatto insolito nei codici latini tardoantichi, dove comunemente anche lo spazio delle righe eccedenti è delimitato ai confini da linee verticali. Si può inoltre ritenere, a ragione, che sopra la prima riga parzialmente conservata nelle due colonne del frammento non potessero trovarsi altre righe di scrittura: se ve ne fossero, infatti, lo spazio intercolonnare diverrebbe troppo stretto. Nel testo superstite, la distanza tra la fine della prima riga nella colonna di destra e l’inizio di quella parallela nella colonna di sinistra è già assai esigua (1,3 cm). Ciò costituisce un altro buon argomento per l’identificazione dei resti della prima riga di scrittura conservati nel frammento con la prima riga delle colonne del foglio (vd. Bravo, Un frammento, 453 s.). All’atto pratico, lo scriba di PNaqlun inv. 15/86 tendeva normalmente a oltrepassare, seppur di poco, l’ampiezza di 6,6 cm in cui due linee parallele verticali, tracciate nella rigatura del foglio (vd. più avanti), delimitavano il campo di scrittura di ogni colonna e che ne rappresentano, quindi, la misura teorica. Per la speciale evidenza che dovevano assumere nella pagina (vd. più avanti), le righe 1 e 2, rispettivamente di 7,2 e 7,1 cm, eccedono leggermente in larghezza i confini, sia pratici sia teorici, di una colonna. Delle quindici righe che si leggono per intero o che si possono restituire interamente, una sola è di undici lettere, una sola di sedici; le altre sono di dodici, tredici, quattordici, quindici lettere. Nelle ventiquattro righe di cui si vede l’ultima lettera, soltanto tre terminano al limite destro della colonna; quattro lo oltrepassano di poco (1 o 2 mm), dieci un po’ di più (da 3 a 4 mm), due ancora di più (tra 5 e 6 mm); nelle due righe che eccedono maggiormente tale limite (7 e 11 mm) le lettere sono più piccole del normale. Soltanto tre righe terminano un po’ prima del limite della colonna, lasciando spazi liberi che misurano da 1 a quasi 5 mm. Da tutti questi dati si ricava una larghezza media delle ventiquattro righe, escluse le righe 1 e 2, tra 6,8 e 6,9 cm. Appare evidente che lo scriba non andava a capo prima di aver riempito lo spazio della riga; spesso lo oltrepassava, e in ciò tendeva a rimpicciolire le lettere (vd. col. A i, l. 11). Particolarità come quelle notate alla fine delle righe 5 e 6 della col. A i inducono a credere che lo scriba fosse tenuto a riprodurre la divisione in righe di scrittura come si trovava nel modello da cui era tratta la copia. Posto che una pagina non potesse contenere tre colonne, perché così sarebbe stata troppo larga (vd. anche sopra), dalla somma dell’ampiezza di ciascuna delle due colonne (6,6 cm, nella rigatura; in pratica, una media leggermente più grande) e dello spazio intercolonnare (2,5 cm nella rigatura; vd. anche sopra) si può determinare la larghezza complessiva del campo di scrittura, la cui misura risulta così di circa 16 cm. (vd. Bravo, Un frammento, 455 s.). Essendo la colonna mutila per una metà all’incirca, non si può determinare in modo certo l’altezza dello spazio scritto. Per tentarne una stima approssimativa, si terrà presente che nei codici tardoantichi essa non risulta mai molto superiore alla larghezza del campo di scrittura. Per il frammento PNaqlun inv. 15/86, quindi, data una larghezza

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complessiva intorno a 16 cm e considerato che l’intervallo tra le linee orizzontali nella rigatura è di 0,8 cm e l’altezza media delle lettere è di 0,4 cm, si prospettano, con buona probabilità, le seguenti congetture: 16,4 cm con ventuno righe; 17,2 cm con ventidue righe; 18 cm con ventitré righe; 18,8 cm con ventiquattro righe; 19,6 cm con venticinque righe. Non è tuttavia da escludere la possibilità di un’altezza anche superiore a queste (vd. Bravo, Un frammento, 456). Neppure sui margini non scritti superiore e inferiore, caduti col resto della pagina, si può dire alcunché di certo. Come s’è accennato, è probabile che appartenga al margine superiore una minima porzione residua sopra la prima riga di scrittura. Una stima congetturale si può tentare ragionando sulle due linee oblique che, tracciate nella rigatura del foglio dai margini destro e sinistro delle due colonne superstiti, convergono verso l’alto nello spazio intercolonnare. Se prolungate nella parte superiore della pagina, che presumiamo quindi non scritta, fino al loro punto d’intersezione, si ottiene un’altezza di 7,8 cm sopra la prima linea orizzontale, che possiamo supporre come la misura del margine superiore di una pagina del codice (vd. Bravo, Un frammento, 456). È inoltre da credere, come detto sopra, che la piccola porzione di spazio priva di scrittura all’estremità sinistra del recto e destra del verso appartenesse al margine esterno della pagina anziché a un altro spazio intercolonnare. Elementi utili mancano però anche per una determinazione della misura di questi margini laterali. Si può osservare che la pergamena è stata vergata con almeno due diversi inchiostri. In tutte le righe di ogni colonna, eccettuata la prima, è stato usato un inchiostro di color marrone scuro, quasi nero; dove in parte s’è staccato, è divenuto marrone chiaro, verso il rossastro. Nella prima riga di ogni colonna, invece, l’inchiostro appare diverso da quello usato nel resto della scrittura: molto deteriorato, si potrebbe definire forse come un colore nero misto con un po’ di rosso, ma non è da escludere che fosse originariamente rosso. Con lo stesso inchiostro diverso, o forse con un terzo inchiostro, è stata tracciata una lettera aggiunta nella col. B ii, nell’interlinea sopra la l. 9. Si è notato inoltre che le lettere iniziale e finale della prima riga di ogni colonna sono circondate da un anello di forma irregolare, tracciato con un inchiostro chiaro (visibile soltanto nell’immagine fotografica) e adattato ai contorni delle lettere stesse. Anche da tale particolare risulta una spiccata differenza della prima riga, già distinta per il colore dell’inchiostro, rispetto alle altre righe nella colonna di scrittura. Da queste altre righe, però, si distingue anche la seconda riga di ciascuna colonna, che sporge sia a destra sia a sinistra dai limiti dello spazio scritto e la cui lettera iniziale è più grande di quelle normali (ciò è del resto abbastanza usuale nei codici tardo antichi). Specialmente l’osservazione del carattere distinto della prima riga, oltre a confermare la probabilità che veramente da questa cominciasse ogni colonna, autorizza a supporre che tale riga avesse una funzione speciale nello spazio scritto della pagina (vd. Bravo, Un frammento, 456-458). Su questo particolare aspetto si tornerà più avanti. Appare evidente che il testo contenuto in PNaqlun inv. 15/86 sia da attribuire a un’opera storica perduta: come ha ben visto Miriam Griffin, esso è infatti una narrazione di avvenimenti del 291 a.C., il cui protagonista fu il console Lucio Postumio Megello (su ciò si veda più avanti). Dai pur esigui resti si ricava in modo certo che tale racconto molto ampio e circostanziato, in cui è compresa anche una oratio obliqua, fosse quello di una iusta historia, non di un compendio, come risulta anche dal confronto con la versione parallela di Dionigi. Occorre quindi ritenere che il codice da cui è derivato il frammento contenesse un intero libro, o più libri, di tale opera storica, non una rac-

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colta di excerpta. È assai probabile che nelle righe fuori testo poste in cima a ciascuna colonna della scrittura (vd. più avanti), le quali dovevano esser lette l’una di séguito all’altra in senso orizzontale, fosse esposto un sommario del testo delle quattro colonne contenute nelle due pagine contigue, verso e recto, del codice aperto. Anche da tale fondata supposizione di un sommario compreso nella compagine del campo di scrittura si può credere a ragione che il codice originario, oltre a essere un prodotto librario di elevata qualità (vd. anche più avanti), fosse il discendente assai prossimo di un esemplare curato da un grammatico: probabilmente di un’edizione filologica tardoantica di un’opera storica, della quale lo scriba sembra aver riprodotto la divisione del testo in righe e in pagine, forse al fine di conservare inalterate le indicazioni fuori testo. È altresì verosimile che le cure filologiche di un’edizione critica, in un territorio dell’Africa romana intorno alla metà del secolo v, fossero riservate a opere considerate ormai classiche, forse anche indipendentemente dall’ampiezza della loro diffusione e ricezione nel mercato librario e presso il pubblico dei lettori. Considerati tali aspetti della questione, con i quali s’accordano anche gli altri risultati dell’analisi che segue, sembra pienamente ammissibile che il frammento sia attribuito a un libro perduto dell’opera di Livio, e in particolare al libro xi, dove erano esposti, come si ricava dalla Periocha corrispondente, i fatti di Lucio Postumio Megello durante il consolato nel 291 a.C. (vd. Bravo, Un frammento, 464-467 e 470). La scrittura latina del frammento è «onciale del tipo più antico, (…) elegante, fluente, regolare, ma non (…) uniforme, (…) lussureggiante di svolazzi arcuati». Nella fioritura decorativa, sono frequenti code di lettere che scendono sotto la linea orizzontale e poi risalgono; ma di queste, tracciate con meno inchiostro, appaiono ormai soltanto i solchi sbiaditi. Tale scrittura è di una mano unica; per l’eleganza e regolarità delle forme grafiche e per il contrasto sapientemente ricercato nel ductus delle singole lettere fra tratti grossi e tratti sottili essa si rivela molto esperta (vd. Bravo, Un frammento, 458; vd. anche CLA, Addenda ii : «a bold, angular uncial of the oldest type»). Sembra evidente che anche qui l’elegante effetto chiaroscurale sia stato ottenuto per mezzo del calamo con punta larga e morbida, caratteristico delle scritture latine su papiro, il quale realizzava facilmente tratti di spessore diverso (vd. Capasso, Introduzione, 109). Secondo il giudizio di Armando Petrucci (vd. Bravo, Un frammento, 464), la scrittura, appartenendo certamente al periodo più antico (old style) della storia dell’onciale, va datata anteriormente al 500. Ci sono però elementi, tra cui sarebbero da porre la a a foglietta e la l alta, che non appartengono agli esempi più antichi. Il frammento dovrebbe esser collocato sicuramente, perciò, nel secolo v: non nei primi decenni, ma subito dopo la metà, nel terzo quarto del secolo. Dicendosi dubbioso sull’origine africana di PNaqlun inv. 15/86 e sulla datazione proposta, Liberman, Un fragment, 22 ha proposto, per contro, di poter determinare l’età e l’origine del frammento attraverso il confronto con il codex Parisinus 5730 (detto Puteanus dal nome di uno dei possessori), in cui è contenuta la terza deca di Livio. Scritto in un’onciale calligrafica del tipo più antico, secondo la definizione data da Lowe, CLA v , 13 (nr. 562), il codice della Bibliothèque Nationale di Parigi fu realizzato in Italia nella prima metà del sec. v. Anche al codice originario del frammento si dovrebbero quindi attribuire, secondo tale confronto, un’origine italiana; la datazione andrebbe invece spostata indietro di qualche decennio. È vero che nel codex Parisinus la scrittura e la disposizione grafica si rivelano molti simili a quelle di PNaqlun inv. 15/86; concordano del pari certe caratteristiche, come le abbreviazioni di m, n alla fine della riga, e anche alcune

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lettere dell’uno e dell’altro manoscritto sono molto vicine. Mettendo a confronto le forme grafiche annotate dallo stesso Lowe nel suo esame del codex Parisinus, si osserva che, sia in questo sia nel frammento, la pancia della a è appuntita, l’occhiello superiore della b è assai piccolo, l’occhio della e aperto e la lingua allungata, la coda della g è corta, il piede della l, di estensione limitata, è arrotondato sulla linea di base, la m è ampia e con la prima asta dritta, la n è ampia, altre lettere come f, p, t sono strette. Si devono notare però anche alcune differenze, come ad es. nella o, il cui asse nel codex Parisinus è inclinato verso sinistra, mentre in PNaqlun inv. 15/86 si presenta senza inclinazione. Nel codice di Parigi mancano poi quegli svolazzi e quei prolungamenti decorativi discendenti sotto la linea di scrittura, peculiari di PNaqlun inv. 15/86, seppure ormai visibili soltanto in un esame ravvicinato della reliquia, nei quali sono stati riconosciuti i veri elementi che caratterizzano tale scrittura come d’origine africana (su questo punto vd. anche, più avanti, i confronti con manoscritti africani, desunti da indicazioni di Lowe). Oltre a tali svolazzi e archi, altri aspetti caratteristici nel ductus delle singole lettere in PNaqlun inv. 15/86 sono certi tratti discendenti, come nella n o nella p, che ugualmente prolungano le forme grafiche nella parte inferiore, o la tendenza a svasare lettere come la r. La scrittura del codex Parisinus, invece, sembra complessivamente più sobria, sorvegliata, contenuta in un modulo regolare e per lo più uniforme. L’innegabile somiglianza rilevata nelle scritture di questo codice e del frammento sembra quindi attenere piuttosto alla concezione generale dell’onciale, la quale certamente, nel corso del sec. v, rappresentava un sistema comune di riferimento. Elementi specifici come i tratti prolungati sotto la linea di scrittura indicano invece nelle scuole grafiche africane, più precisamente, un determinato ambito locale di origine. La maggior parte delle lettere è alta, in media, 0,4 cm o poco più: a, i, m, n, o, u non sono mai più alte di 0,4 cm; la b, la c e la e sono un po’ più alte di 0,4 cm; d, h, l sono più alte di 0,5 cm. Le lettere, in genere, toccano appena la linea orizzontale o scendono di pochissimo. La t, con la sua base a uncino, scende anche di 0,1 cm. Diversamente, le lettere a, f, g, i, n, p, q, x scendono con un tratto più o meno lungo (tra 0,2 e 0,4 cm) sotto la linea orizzontale: questo tratto non è più di 0,2 cm nelle lettere a, g, x; è di 0,4 cm nella f. Notevole la forma della parte inferiore di alcune lettere, che si può descrivere ormai soltanto attraverso un’osservazione diretta dei solchi tracciati dal calamo, poiché l’inchiostro è svanito. Il tratto discendente di f, i, n, p, q, una grossa asta più o meno verticale, sotto la linea orizzontale s’assottiglia a destra fino a diventare una punta, la quale, prolungandosi in un tratto sottile verso sinistra (ormai visibile soltanto come solco privo d’inchiostro), forma un arco, di solito semicircolare (nella f a sesto acuto) e risale fino alla linea, dove tocca o attraversa la lettera precedente. Un po’ diversa la forma della r, la cui asta verticale s’assottiglia prima della linea; il tratto sottile sotto la linea ha un’inclinazione un po’ diversa, l’arco è ogivale, lo svolazzo più ampio. Dalla sua forma usuale si distingue la n nella col. A ii, l. 7: il tratto arcuato che s’assottiglia gradatamente scende sotto la linea e, prolungandosi fino a tornare alla stessa linea, forma un semicerchio. Simile a questa la forma della p alla col. A i, l. 11 e B ii, l. 6. I tratti discendenti di a, g, x sono diversi da quelli delle altre lettere, ma formano ugualmente un arco e risalgono fino alla linea: l’arco della a è molto largo; di g e x ha forma quasi ogivale (vd. Bravo, Un frammento, 458 s.). In un esame particolare di questa scrittura, le forme grafiche comuni dell’onciale, acquisite con maestria da una scriba di professione, appaiono riproposte in una concezione matura di grande eleganza, scevra da calligrafismi, capace di vitalizzarle con le

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coloriture di una vena originale. Già nel gruppo di lettere propriamente onciali si possono notare alcune sfumature originali nell’esecuzione del ductus, che pure ricalca i modelli comuni. I due tratti sottili dell’arco della a, molto appuntito, formano, a sinistra, un angolo acuto, i cui lati si divaricano verso l’alto; quello inferiore termina di solito in un filetto che scende verso il basso (vd. CLA, Addenda ii , 289). La gamba discendente, a destra, spessa, un po’ inclinata, termina con un trattino di stacco all’insù. La d è formata, a sinistra, da un arco ampio, spesso, molto arrotondato, a forma di ferro di cavallo, leggermente volto verso l’alto; sull’apertura è appoggiata la gamba di destra, in posizione obliqua, eseguita con un solo tratto spesso e dritto, un po’ più alto delle altre lettere. La e è formata da un ampio arco a semiluna, più spesso nella curva e che s’assottiglia a punta nelle estremità. L’occhio superiore, molto piccolo, talvolta chiuso, (vd. CLA, Addenda ii , 289), si presenta come un apice che s’impenna leggermente, poi ridiscende a forma di piccola goccia; la lingua mediana è un filetto, abbastanza dritto, solo un po’ ondulato, che tocca la lettera seguente. La m è piuttosto bassa, ma assai larga. Il primo tratto è un’asticella corta e dritta (vd. CLA, Addenda ii , 289), in posizione leggermente obliqua; il secondo e il terzo tratto sono eseguiti come archi sottili alle estremità, più spessi nelle curvature: quello attaccato all’asticella è piuttosto stretto e un po’ rialzato, l’altro più ampio e allargato, ma un po’ più basso. Pari eleganza e capacità di modulazione del tratteggio si rivelano nel gruppo delle lettere d’origine minuscola. L’asta verticale della h, piuttosto lunga e dritta, un po’ più alta delle altre lettere, con trattino d’attacco a piccolo uncino, s’assottiglia gradualmente dall’alto verso il basso; la gamba a destra, ben arcuata nella parte superiore, aperta verso l’esterno, ha la forma di una punta sottile alla giuntura con l’asta verticale, ma s’ispessisce nello sviluppo del ductus. Nella q l’arco piuttosto ampio, più spesso nella curvatura e sottile alle estremità, s’inserisce nel quadrato normale; l’asticella verticale, invece, si prolunga sotto la linea di scrittura e termina con una punta molto sottile. Anche le lettere d’origine capitale presentano simile cura nel tratteggio, armonizzandosi nell’effetto complessivo di ricercata eleganza. L’asta verticale della b è dritta e piuttosto spessa; l’arco superiore è costituito da una semplice virgola, stretta e appuntita (vd. CLA, Addenda ii , 289); quello inferiore è costituito da un largo tratto discendente, chiuso da uno più sottile, sulla linea di scrittura, leggermente piegato verso l’alto. L’asta verticale della f, di forma lievemente ondulata, discende di poco sotto la linea, terminando con una punta sottile. Il taglio superiore è eseguito con un tratto di una certa consistenza, né lungo né corto, il cui attacco precede la stessa asta verticale; corto, invece, il tratto mediano, non esile, ben inserito nell’asta. Nella p, più stretta delle altre lettere, l’asticella verticale s’inserisce appieno in altezza nel quadrato normale di 0,5 cm, ma scende sotto la linea terminando con una punta sottile; l’altro tratto è eseguito come una virgola, più spessa in alto, dove s’incurva, e filiforme nella discesa. L’asticella verticale della r, non spessa, con trattino d’attacco a punta all’apice superiore, scende sotto la linea con prolungamento filiforme leggermente divaricato all’infuori. L’arco ha la forma di un’ampia virgola, nettamente angolata all’estremità superiore (vd. CLA, Addenda ii , 289). Il terzo tratto, leggermente incurvato, quasi disteso sulla linea di scrittura, ispessito nel nodo di giuntura con l’asta verticale e con l’arco superiore, s’assottiglia nello sviluppo del ductus fino a toccare la lettera seguente. Il tratto principale della c, lievemente arcuato e piuttosto spesso al centro, s’assottiglia verso le giunture; quello superiore è eseguito come una virgola, fine all’attacco, desinente a goccia. In basso, come prolungamento della punta con cui termina il tratto principale, c’è un filetto obli-

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quo tendente verso l’alto, quasi come una congiunzione con la lettera seguente (vd. B col. ii, l. 7, dove questo filetto tocca la i seguente). La g è formata da una semiluna ben arrotondata e aperta, più spessa nella curvatura, assottigliata alle estremità. A forma di virgola il tratto superiore, sottile alla giuntura, desinente a goccia; come un filetto lievemente obliquo la coda, solo un poco discendente sotto la linea. La o è eseguita con due tratti a semiluna, i quali, più spessi nelle curvature centrali, s’assottigliano nei punti di giuntura; non presenta inclinazione, ma è ben centrata sulla linea di scrittura. Nella n, di forma maiuscola e più larga delle altre lettere, la prima asticella dritta, con trattino d’attacco a piccolo uncino, si prolunga sotto la linea terminando con una punta sottile (vd. CLA, Addenda ii , 289); il secondo elemento scende trasversalmente con ductus più spesso; il terzo, piuttosto corto, dritto, è leggermente inclinato all’indietro. La u eccede un po’ in larghezza il limite normale di 0,5 cm, ma non in altezza. Il primo elemento, eseguito in un solo tempo, presenta un ductus spesso, curvo alla base e leggermente risalente verso la giuntura, dove termina quasi a punta; il secondo è un’asta piuttosto breve, leggermente inclinata all’indentro e non perfettamente dritta, con trattino d’attacco all’apice superiore. La i è costituita da un’asticella piuttosto dritta e spessa, con un lieve trattino d’attacco all’apice superiore; s’assottiglia in una punta nell’estremità inferiore e discende sotto la linea di scrittura. L’asta verticale della l, piuttosto spessa, più alta delle altre lettere, con trattino d’attacco a piccolo uncino, termina in basso, sulla linea di scrittura, con una curva non ampia, ma spessa; il tratto inferiore formante il piede della lettera, molto corto, quasi un prolungamento della stessa asta verticale, risale leggermente e finisce con una breve punta. La t resta inclusa nel quadrato normale. L’asticella, non lunga, diventa più spessa verso il fondo; dalla base, poi, un tratto corto e spesso risale leggermente fino a toccare la lettera seguente. Taglio superiore contenuto, eseguito con un tratto un po’ ondulato, sottile alle estremità e più spesso al centro. Nella s, fortemente obliquo e spesso, in specie all’estremità superiore, l’ampio tratto mediano. Al tratto superiore, a forma di virgola, desinente a goccia, corrisponde il tratto inferiore, che si svolge leggermente sotto la linea, anch’esso simile a una virgola, con attacco puntiforme, a goccia, e ductus gradualmente più sottile, fino al punto di giuntura. Si può dire che questi due elementi siano eseguiti in modo simmetrico, ma in senso inverso. La x è inclusa nel quadrato normale quanto alla larghezza. L’asta diagonale da sinistra verso destra è spessa e eseguita con ductus uniforme; l’altra ha le estremità a goccia e scende un po’ sotto la linea di scrittura. La lettera iniziale della l. 2, in entrambe le colonne dove è superstite, è più alta e più larga delle altre e presenta tratti più grossi nel ductus; oltrepassa di poco il confine della colonna, che, per questo breve settore superiore, è segnato da linee oblique che, come detto sopra, partono da un certo punto della rigatura, tracciata verticalmente nel resto della colonna (vd. Bravo, Un frammento, 459). Ancora più marcate, d’altra parte, le specifiche caratteristiche che si possono rilevare nelle forme grafiche superstiti nella prima riga di ciascuna colonna. Alla fine della col. A i, l. 1 è superstite una e sovrastata da una lineetta abbreviativa: la forma è simile a quella delle altre e finali di una riga (cf. col. B ii, l. 9); il tratto mediano, prolungato e formante una linea curva rivolta verso l’alto (cf. B ii, l. 9), appare un po’ più grosso e termina con una semplice svasatura. La lineetta abbreviativa sopra la e, un po’ più grossa del solito, termina a destra con un ingrossamento. Probabile che le particolarità grafiche di questa riga siano state determinate da un inchiostro diverso da quello usato per il resto della scrittura. Alla col. A ii, l. 1, dagli elementi grafici residui, visibili un po’ prima del confine segnato dalla linea obliqua, si

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può individuare in modo abbastanza sicuro una p, più grande delle altre. Alla col. B i, l. 1 si osserva il resto di una i, il cui tratto sottile quasi non scende, ma svolta formando un grande arco ed è molto più grosso degli altri simili. Tale particolarità sembra rivelare che è stato usato uno strumento scrittorio diverso da quello delle altre. Alla col. B ii, l. 1, il resto di una g mostra una forma simile a quella della stessa lettera alla col B i, l. 8, ma più grande. Si nota anche che tale lettera non esce per niente fuori del confine segnato dalla linea obliqua. Dalle osservazioni fatte si ricava che la prima riga di ciascuna colonna cominciava da una lettera più grande delle altre, così come rilevato nella prima lettera della seconda riga; che era della stessa mano che ha scritto il resto, come mostrano gli svolazzi sotto la linea orizzontale (vd. Bravo, Un frammento, 461-463). Essa doveva assumere però, complessivamente, una maggiore evidenza sia nella configurazione grafica della singola pagina sia in quella d’insieme delle due pagine aperte del recto e del verso: tale risalto era determinato in parte anche dai margini più ampi, così previsti già nella rigatura del foglio, in parte dall’inchiostro e dallo strumento scrittorio particolari che lo scriba aveva usato per essa. Sulla specifica funzione che poteva essere riservata a queste prime righe di ciascuna colonna si tornerà più avanti. Le abbreviazioni sono di tipo antico. La desinenza -bus è abbreviata in b con un punto accanto. Nelle sillabe che terminano in m e n alla fine di una riga, se la vocale è scritta del tutto o in parte fuori della linea di confine della colonna, si trovano segni abbreviativi che sostituiscono m e n (col. A i, ll. 1: -em?; 4 e 11: -um; col. B i, l. 8: -am o -an?; col. B ii, l. 9: -en); tracciati con lo stesso inchiostro delle altre lettere, come lineette allungate in senso orizzontale, con ispessimenti puntiformi o lineari o a uncino alle estremità, essi sono collocati sopra la lettera, ma anche spostati un po’ a destra e più o meno protratti oltre lo spazio della lettera stessa. La scrittura è continua; non ci sono né spazi liberi né segni d’interpunzione. Nella col. B ii, l. 4, l’espunzione di una lettera (e) è indicata con un grosso punto in alto, sopra la lettera, e una sottile sbarra trasversale che cancella la lettera stessa, come di norma nei codici tardo antichi (vd. Bravo, Un frammento, 459 s.). Considerando una caratteristica come «le aste desinenti in basso con curva a sinistra, in particolare quella della r», Petrucci, nello stesso giudizio citato sopra, ha supposto che il frammento non sia da attribuire all’Italia, ma all’Africa, pur non escludendo un’altra localizzazione. Tale parere si riferisce opportunamente alla questione dell’esistenza di una scuola africana di scrittura, che Lowe ha affrontato in CLA Supplement, vii-viii, fondandosi sull’evidenza paleografica di un intero gruppo di manoscritti di san Cipriano datati tra il tardo sec. iv e l’inizio del sec. v. Se teniamo conto che vi operarono importanti autori cristiani e vi avvennero concili, possiamo ammettere facilmente che esistessero scuole di scrittura nell’Africa romana durante l’età imperiale; sembra confermarlo una testimonianza di Cassiodoro, Inst. i 8, 9: «qui (liber) uobis inter alios codices (…) de Africana parte mittendus est». In questa «Uncial Evidence» si possono accomunare, per certi caratteri distintivi, i manoscritti elencati ibid., viii, nrr. 1-5; ix, nrr. 6 ss. (tavv. i-ii e ss.): aste verticali desinenti in basso con curva a sinistra, in particolare quella della r; in alcuni, anche svolazzi nella parte inferiore delle lettere. Si possono menzionare, in particolare, il foglio di Marburg, Staatsarchiv Hr. 1, 1 (CLA Supplement, nr. 1728) e il codice di S. Pietroburgo di sant’Agostino (nr. 6 nell’elenco), in cui una delle mani presenta definitivamente i caratteri onciali del medesimo tipo come nel gruppo di Cipriano. Iscrizioni da Timgad e Makter dei secoli iii-iv, nelle quali si rilevano caratteristiche onciali, testimoniano uno stadio già avanzato della calligrafia in Africa e

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potrebbero esser considerate come remoto esemplare di tale scrittura (vd. ibid., tav. vii a-b). Come documenta un manoscritto di sant’Ilario del 509/510 nella Basilica di S. Pietro, la calligrafa latina elaborata nelle scuole africane era perfino superiore a quella di esemplari italici coevi. Il codice da cui è derivato PNaqlun inv. 15/86 era dunque un prodotto librario di ottima qualità (vd. Bravo, Un frammento, 464) e proveniva forse dall’Africa (vd. Bravo, Un frammento, 464). Si conosce in modo circostanziato la vicenda della scoperta. Nella primavera del 1986, una équipe del Centre Polonais d’Archèologie Méditerranéenne dell’Università di Varsavia compì una campagna di scavi, sotto la direzione di Włodzimierz Godlewsky, presso il monastero copto Deir el Malak, nella catena di colline desertiche (Gebel el Naqlun) che divide la parte meridionale dell’oasi del Fayyum dalla valle del Nilo. Obiettivo della campagna era l’esplorazione dei resti del centro monastico tardo antico e medievale chiamato in copto Neklone o Nekloni, in arabo Naqlun. In quest’area si trovavano un grande monastero costruito sulla parte bassa del gebel e più di sessanta eremi scavati nella parte alta del gebel. Il piccolo frammento di un foglio di pergamena derivato da un codice latino fu scoperto nella cella più grande dell’eremo 1 A, in uno strato di sabbia mista a detriti organici; con esso, frammenti di ceramica e di papiri greci e copti databili alla fine del secolo vi o al vii, in piccola parte ai secoli viii-ix. In tale luogo il frammento potrebbe esser stato portato dal vento; prima poteva trovarsi in un mucchio di rifiuti. È attualmente conservato nel reparto manoscritti della biblioteca del Museo Copto del Cairo, numero d’inventario 15/86 (vd. Bravo, Un frammento, 447 s.). PNaqlun inv. 15/86, Col. A I , recto (Ab urbe condita liber xi?)

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].e ]ens [ ± 4/5].nt. h.a[u]t pro[ ± 3/4 G]a.biis [u]rbe cu(m) [..]u. .ios nouos exer[cit]us indictus [e]s.set ibique centuriati milites essent, cum duob(us) milib(us) pe[.]ditum profect[u]s in agru(m) suom cons[ ± 3/4 ]

4 sopra l’ultima lettera della riga (u), sottile lineetta allungata in senso orizzontale, lievemente inclinata dal basso verso l’alto e protratta un po’ oltre lo spazio della lettera 9 punto in alto dopo duob 10 punto in alto dopo milib 11 sopra l’ultima lettera della riga (u), sottile lineetta allungata in senso orizzontale 2 ing]ens Bravo uilla et ager vel ager et saltus ante ingens coni. Bravo 3 [ei era]nt Bravo 3-4 pro|[cul G]a.biis Bravo (G]a.biis Meyer), an procul a Gabiis? 5 [Ga]u. i.os Bravo 6-7 suppl. Bravo 10 litteram in lacuna deperditam ut perperam scriptam del., peditum recte leg. Bravo 12 cons[ul coni. Bravo, consuluit Gigante

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PNaqlun inv. 15/86, Col. A II , recto (Ab urbe condita liber xi?) p.[ n[ c.[ ce[ u.[ [ [ u[ h[ [ .[ o[

5

10

PNaqlun inv. 15/86, Col. B I , verso (Ab urbe condita liber xi?) ]i ]ui ]e ]c.as ]e ] ] ].a¯ ]n.us ] ].. ]i.

5

10

8 sopra l’ultima lettera della riga (a), sottile lineetta allungata in senso orizzontale, lievemente spostata a destra e protratta un po’ oltre lo spazio della lettera 8 ]d.a(m), -d.a(n) vel -b.a(n) suspic. Bravo

PNaqlun inv. 15/86, Col. B II , verso (Ab urbe condita liber xi?)

5

10

g. [ a.[ se[d] r.e.aps.[e ± 4/5 ] tam e.o edic.[.].[ ± 3 ] turum quoa[d in-] iussu suo in p.r.[oui(n)-] cia maneat et [ ± 2] pergat dicto non parer[e], [s]e [i]n praese(n)tem ha.b.iturum

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corpus dei papiri storici greci e latini imper[i]um. Fabius [acc]eptis manda.

4 sopra e di edic. [, punto in alto, un po’ a sinistra, e sottile sbarra trasversale, dal basso verso l’alto, tracciata con lo stesso inchiostro e dalla stessa mano del resto della scrittura 9 sopra e di parer[, aggiunte con inchiostro diverso una piccola lettera (e) e una crocetta; probabilmente le precedeva un’altra lettera, scritta nello stesso modo, poi caduta sopra l’ultima lettera della riga (e), ma spostata a destra e protratta oltre lo spazio della lettera, sottile lineetta allungata in senso orizzontale, lievemente saliente dalla metà verso l’alto 2 ar. Bravo [rem specie (vel specie quidem) ***] ante ar. coni. Bravo suo arbitrio vel arbitrio suo coni. Bravo 3 suppl. Bravo 3-4 nega]|tam (vel uetitam) Bravo; rem ab se (e re¯abse) [nega]tam Liberman 4 e del. scriba (edic- m. pr.); e.o dic.t.o. Bravo, eo edicto Liberman 4-5 f. [ac]|turum Bravo 5-6 suppl. Bravo 6-7 suppl. Bravo 7 [si] Bravo 9 suppl. Bravo [.]e s. l. add. m. sec. (scribae?) 10 inhibiturum corr. Bravo 12 suppl. Bravo manda.|[tis] Bravo

(Col. A i, recto; Ab urbe condita liber xi?)

5

10

[***] [***] [***] non lontano dalla città di Gabii. Poiché il nuovo esercito era stato convocato a Gabii (?) e là i soldati erano stati divisi in centurie, andato con duemila fanti nel terreno di sua proprietà, il console (?) (provvide?) [***] (Col. B ii, verso; Ab urbe condita liber xi?)

5

10

[***] [***] ma in realtà [***] secondo quel comando (?) avrebbe fatto (?), finché rimanesse nell’incarico senza la sua (del console) autorizzazione e continuasse a non ubbidire al comando, su di lui in persona avrebbe esercitato il suo potere. Fabio, ricevuto il messaggio [***]

Come detto sopra, Bravo ha supposto a ragione che la prima riga di ciascuna colonna, per le specifiche caratteristiche grafiche che vi si rilevano, non appartenesse al testo dell’opera, benché sia stata scritta dalla stessa mano e appaia pienamente inserita nella con-

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figurazione dello spazio di scrittura nella pagina. Si può credere che vi fossero riportate indicazioni sommarie riguardanti il contenuto delle due colonne di testo comprese in una pagina o, più probabilmente, delle quattro colonne di due pagine, le quali, nel codice aperto, offrivano allo sguardo un insieme unitario. Del testo dell’opera fa parte, invece, la seconda riga di ciascuna colonna, la quale, mostrando ugualmente caratteristiche distinte, come la prima lettera più grande e margini leggermente allargati, sembra corrispondere a quella che usualmente, in altri codici latini tardoantichi, è la prima riga di ogni colonna. Caratteristiche arcaiche dell’ortografia si hanno in nouos invece di nouus (col. A i, l. 5) e in suom invece di suum (col. A i, l. 12), non però in cum (col. A i, l. 9). Si rilevano inoltre errori testuali, commessi dallo scriba oppure contenuti già nell’esemplare da cui copiava. Nella col. A i, l. 5, la confusione di b e u in ga]u. i.os, invece di gabios, può esser nata dalla pronuncia tardo antica: nell’evoluzione parallela dei due suoni verso la fricativa, b e u erano facilmente scambiate. Non compaiono indizi di una correzione di b in u, anche se non si può escludere che essa sia stata compiuta e poi sia scomparsa senza lasciare traccia, a causa dell’inchiostro facilmente deteriorabile. Nella col. A i, l. 10 si ha pe[.]ditum (perditum?) invece di peditum. A causa della piccola lacuna intermedia, non si può dire se l’errore di una lettera in più sia stato corretto. Nella col. B ii, l. 4, edic. t. o. invece di dicto è errore banalizzante. Qui l’espunzione della e superflua (sul modo di tale espunzione si veda sopra) è stata eseguita per mano dello scriba stesso, forse quasi subito, con lo stesso inchiostro, come sembra, usato normalmente nel testo. Nella col. B ii, l. 9, tra parer[e] e [i]n è stato omesso il pronome se: errore che sembra causato dalle due sillabe simili che precedono (rere). La parola omessa è stata aggiunta più tardi sopra la r. Nell’interlinea sovrastante si vede infatti una piccola e onciale, con tratto mediano prolungato e terminante con un ingrossamento, come si presenta di norma in questo frammento la e alla fine di una riga. A destra del tratto mediano s’individua il solco lasciato da una piccola croce; a sinistra della lacuna, ancora sopra la r, il solco di una lunga linea retta che da sotto la a di pergat (l. 8) scendeva obliquamente verso la lacuna. Può darsi che l’aggiunta del pronome se sopra la riga sia stata eseguita per mano dello scriba stesso, ma l’inchiostro, diverso da quello normalmente usato nel resto della scrittura, appare identico a quello della prima riga (su tale differenza si veda sopra). Nella col. B ii, l. 10, ha. b. iturum, secondo Bravo, potrebbe essere una deformazione banalizzante di inhibiturum; non sembra necessario, d’altra parte, emendare il papiro (vd. anche più avanti). Nella col. A i, l. 3, invece, la confusione di d e t in h. a[u]t non si può veramente considerare come un errore: questa forma particolare, originatasi per ragioni fonetiche, ricorre abbastanza frequentemente, dopo la fine dell’età repubblicana, specie nelle iscrizioni (vd. Sommer, Handbuch, 274 s.; Leo, Forschungen, 250). La prima parte del testo superstite di PNaqlun inv. 15/86 si trova nella metà superiore della col. A i. Benché anche qui sia caduto, con estensione decrescente dall’alto verso il basso, il tratto iniziale delle ll. 1-7, si capisce bene il senso del brano. Più incerto si presenta l’inizio, a causa delle lacune più estese e numerose. Assai probabile che fosse menzionata la cospicua proprietà terriera del personaggio che è soggetto della proposizione principale nel passo conservato, secondo l’interpretazione e la restituzione testuale di Bravo, Un frammento, 472 e 484-486: ing]ens [ei era]nt.. La determinazione che segue riguarda sicuramente questo luogo, indicando che era nel territorio di Gabii: ha[u]t pro|[cul G]abiis [u]rbe (si può ritenere sicura l’integrazione del nome della città; vd. Bra-

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vo, Un frammento, 473 s.). Subito dopo, in una subordinata temporale che sembra costituire la premessa del racconto, apprendiamo che proprio a Gabii l’esercito era stato radunato e organizzato in centurie. Si narra quindi che il personaggio posto al centro dell’azione si diresse verso la terra di sua proprietà, in quelle vicinanze, portando con sé duemila soldati presi dall’esercito. Nell’altro lato, che si può riconoscere come il verso del foglio, è superstite la metà superiore della col. B ii. È molto difficile decifrare le righe iniziali, a causa delle vaste lacune e del deterioramento della superficie scritta. Dove il testo è leggibile più chiaramente, s’intuisce che si sta svolgendo un discorso riportato in forma indiretta. Sembra che al destinatario sia mossa l’imputazione di occupare irregolarmente, cioè senza l’autorizzazione di colui che indirizza il discorso, una certa funzione di comando: quoa[d in]|iussu suo in p. .r [oui(n)]|cia maneat. Nello stesso discorso è poi affermato esplicitamente che, se tale destinatario continuasse a non ubbidire all’ordine, colui che rivolge il discorso userà il suo potere direttamente contro di lui: et [si]| pergat dicto non | parer[e], [s]e [i]n praese(n)|tem ha. b. iturum | imper[i]um (qui il testo è riportato secondo l’edizione Bravo, Un frammento, 472). Prima che il testo s’interrompa è conservato il nome del destinatario del messaggio: Fabius. Apprendiamo alla fine che il discorso è stato riportato da qualche latore di ordini, ma non si può sapere se il messaggio fosse contenuto in uno scritto o riferito soltanto a voce: [acc]eptis manda. [tis]. Come ha mostrato Miriam Griffin, Un frammento, 496-521, dal confronto con altre testimonianze storiche si può identificare in modo sicuro il contenuto del frammento. Nell’ampio estratto da Dionigi di Alicarnasso, Ant. Rom. 17-18, 4, 1-6 (Excerpta Constantiniana de virtutibus et vitiis, ed. Roos, 77, 3-79, 4) è riassunta la vicenda di Lucio Postumio Megello durante il suo terzo consolato, nel 291 a.C. (463 a.u.c.; vd. MRR i , 182; Palmer, A new Fragment, 5). Sin dall’inizio del brano è posta in risalto la sua condotta arrogante, cui davano alimento sia il blasone sia i precedenti consolati. Non potendo opporsi a lui, l’altro console Gaio Iunio, d’estrazione plebea, dovette tirarsi indietro e cedergli il comando di tutta la guerra contro i Sanniti (1-2). Un episodio avvenuto prima della campagna militare (Úe Ùɘ âÍfi‰Ô˘) attirò il biasimo generale su di lui: fece lavorare come braccianti o schiavi nella sua proprietà circa duemila uomini scelti dal suo esercito, ai quali dette anche l’ordine di tagliare un boschetto (ibid. 3). Questa prima parte del passo è riportata in modo molto simile nella Suida, s.v. ¶ÔÛÙfiÌÈÔ˜ ≈·ÙÔ˜ (vd. ed. Adler, Pars iv, nr. 2118). È evidente la corrispondenza tra il contenuto dell’excerptum di Dionigi e il fatto narrato nel frammento. Si rivelano concordanti, nei due testi, soprattutto il numero dei soldati e il particolare della partenza verso la proprietà di Postumio (col. A i, ll. 9-12): âÈÏÂÍ¿ÌÂÓÔ˜ (…) âÎ Ùɘ ë·˘ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÈĘ ÂÚd ÙÔf˜ ‰ÈÛ¯ÈÏ›Ô˘˜ ôÓ‰Ú·˜ Âå˜ ÙÔf˜ å‰›Ô˘˜ àÁÚÔf˜ à‹Á·ÁÂÓ (vd. Griffin, Un frammento, 497 s.). Nel séguito dell’excerptum (ibid. 4-6) si apprende che altri atti tracotanti, compiuti da Postumio anche nel corso della campagna, dettero al senato e al popolo giusti motivi di odiarlo. Il senato aveva votato che il console dell’anno precedente Quinto Fabio Massimo Gurgite, il quale aveva sconfitto la tribù sannitica dei Pentri, rimanesse in carica con potere proconsolare e continuasse a condurre una parte della guerra contro i Sanniti. Postumio però, con una lettera (ÁÚ¿ÌÌ·Ù·), gli dette l’ordine di andarsene dal territorio sannitico, adducendo come ragione che il comando spettava soltanto a lui (ibid. 4). Agli inviati del senato, i quali gli chiedevano che non impedisse al proconsole di proseguire la campagna e di non opporsi ai decreti del senato, Postumio rispose in modo arrogante, da tiranno, dichiarando che il senato non poteva dargli ordini,

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finché era console, mentre lui poteva darli al senato (ibid. 5). Dopo aver congedato gli inviati, condusse l’esercito contro Fabio, con l’intenzione, se egli non lasciasse il suo comando, di costringerlo con le armi. Nel pieno disprezzo delle antiche consuetudini e con terribile arroganza, cacciò quindi Fabio dal comando mentre questi assediava la città di Cominio Ocrito (ibid. 6). Sembra certo che la lettera menzionata nell’excerptum di Dionigi, con la quale Postumio ordinava al proconsole di lasciargli il comando, corrisponda al messaggio indirizzato a Fabio, il cui contenuto è riportato in forma indiretta nei resti testuali della col. B ii, ll. 6-13 di PNaqlun inv. 15/86 (vd. Griffin, Un frammento, 497 s.). La Periocha del libro xi di Livio, comprendente gli avvenimenti dal 292 al 285/4 a.C., al par. 4 riferisce che Lucio Postumio, uscito di carica (consularis), quindi probabilmente nel 290, fu condannato perché, quando era al comando dell’esercito, s’era servito del lavoro dei soldati nella sua proprietà. Appare chiaro che il fatto riportato nella Periocha come causa della condanna fosse lo stesso di cui è fatta menzione nell’excerptum di Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 3 e nel recto del frammento: «L. Postumius consularis, quoniam, cum exercitui praeesset, opera militum in agro suo usus erat, damnatus est (esset codd. nonnulli)». L’espressione in agro suo sembra veramente modellata sul testo di PNaqlun inv. 15/86, col. A i, ll. 11 s.: in agru(m) suom (vd. Griffin, Un frammento, 499). Poiché nella Periocha è dato maggiore risalto alla condanna, ne consegue che la vicenda nel suo sviluppo sia riassunta complessivamente, in modo sintetico. È assai probabile, d’altra parte, che in Livio i due momenti della vicenda, cioè l’abusivo sfruttamento dei soldati e le conseguenze che questo fatto ebbe, fossero esposti con ordine nella successione del racconto storico, ciascuno nel suo anno (291 e 290), proprio nello stesso modo in cui si svolge l’esposizione dell’excerptum di Dionigi, dove la notizia della condanna, che include anche la somma della pena pecuniaria, conclude, dopo la celebrazione del trionfo, la storia del terzo consolato di Postumio, (Ant. Rom. 17-18, 5, 3-4; sulle implicazioni religiose e sacrali della condanna vd. Palmer, A new Fragment, 5, 16 e 18). Una testimonianza dal libro 8 di Cassio Dione, fr. 36, 32 (ed. Boissevain, i, 109) riguarda gli stessi avvenimenti, ma aggiunge altri particolari. Derivato dagli Excerpta Maiana, 166, nr. xli, tale brano si presenta gravemente lacunoso nel proseguimento, tanto da risultare illeggibile («Exin pagina in codice magnam partem obliterata est, quam etsi saepe conatus sum legere, oleum tamen et operam me denique perdere agnovi», come annota lo stesso Mai, ibid.); dalla parte iniziale integra, tuttavia, si desume chiaramente il contenuto. I soldati, dopo essere stati impiegati come manodopera da Postumio, si ammalarono; si pensò che causa della malattia fosse stato il taglio del bosco, in quanto profanazione di un luogo sacro. Come ha giustamente osservato Gabrielli, Lucius Postumius Megellus, 250, dai termini ‰Ú˘Ìfi˜ («wood», in Dionigi e Suida) e ôÏÛÔ˜ («sacred glade», in Cassio Dione) si ricava che la proprietà terriera del console doveva comprendere «a woodland area containing a lucus». Si può credere a ragione che, vietando l’uso del ferro per tagliare il bosco (ôÓ¢ Ûȉ‹ÚÔ˘, in Dionigi), Postumio volesse evitare un sacrilegio; i soldati dovettero quindi servirsi, presumibilmente, di attrezzi di bronzo (vd. Gabrielli, Lucius Postumius Megellus, 250 s.; Palmer, A new Fragment, 12). È incerto, d’altra parte, se Postumio, nell’ordinare il taglio del bosco, intendesse ripristinare un’area sacra nel territorio di sua proprietà o adibire la terra all’uso agricolo o per la costruzione di una strada o di un acquedotto (vd. Gabrielli, Lucius Postumius Megellus, 251 e 259). Che la proprietà di Postumio comprendesse un lucus sembra confermato dalla scoperta di un santuario extra-urbano a est di Gabii. Dal grande numero di soldati impiegati per l’opera di disboscamento si arguisce inoltre che tale proprietà

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agraria dovesse essere molto estesa. Nel trattamento di quei soldati è stato notato a ragione il persistere di una vecchia concezione dei clientes, in un’età in cui il nexum era stato abolito e la natura della clientela stava cambiando (vd. Gabba, La società romana, 11). Si può supporre che parecchi soldati, che erano stati portati lì per quel lavoro, si fossero ammalati a causa del prolungato soggiorno in un clima reso insalubre da un’area paludosa nelle vicinanze (vd. Gabrielli, Lucius Postumius Megellus, 252 e 259). Per conseguenza Postumio fu citato, ma la sua condotta, presumibilmente nei confronti dei senatori, fu di nuovo arrogante: egli disse infatti che il senato non poteva dare ordini a lui, ma che lui poteva darli al senato. È la stessa risposta che l’estratto di Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 5 attribuisce a Postumio nella circostanza in cui gli inviati del senato si recarono al suo cospetto per chiedergli osservanza del comando prorogato a Fabio Gurgite (vd. sopra). Nel testo di Cassio Dione, l’espressione ÎàÓÙ·Üı· sembra suggerire che Postumio in questa circostanza ebbe la stessa condotta arrogante già manifestata prima: nelle differenti versioni del fatto, così, si potevano facilmente attribuire ora all’uno ora all’altro episodio le medesime parole pronunciate con insolenza da Postumio nei confronti del senato (vd. Griffin, Un frammento, 499; Fr. Münzer, Postumius, nr. 55, RE xxii, 1, 939, ll. 62 ss.; sull’arroganza di Postumio, in particolare, vd. Palmer, A new Fragment, 13 e 16). Un richiamo rivolto dal senato a Postumio (àÓ·ÎÏËı›˜) non è menzionato né in Dionigi né nella Periocha, ma si può dire che la vicenda, così come risulta dal frammento di Cassio Dione, sia complessivamente conforme alle altre testimonianze parallele (vd. Griffin, Un frammento, 500). Non si sa in modo preciso quali fossero i capi d’accusa mossi contro Postumio; può darsi però che fosse stato imputato non tanto per l’abuso di potere, quanto perché aveva tenuto i soldati troppo a lungo nel terreno di sua proprietà (vd. Gabrielli, Lucius Postumius Megellus, 257). Nell’insubordinazione del console al senato va forse osservato il riflesso di una concezione arcaica dell’imperium, secondo cui il detentore del potere consolare poteva arrogarsi il diritto di rappresentare lo stato ancor più del sommo consesso dei patres. Vi è espressa anche, d’altra parte, una condotta caratteristica del patriziato conservatore, il quale aveva la pretesa di primeggiare sugli altri ad ogni costo. A tale disposizione di attento rispetto delle tradizioni sembra conformata anche l’osservanza delle norme sacre, della quale Postumio aveva dato prova nel vietare l’uso del ferro (vd. Gabrielli, ibid., 254 e 259). Dal confronto con i passi di Dionigi, della Periocha e di Cassio Dione risulta quindi assai probabile, se non certo, che PNaqlun inv. 15/86 facesse parte della narrazione del terzo consolato di Lucio Postumio Megello nel 291 a.C. Il primo dei due tratti superstiti nel frammento, pertanto, risulta come parte della narrazione dell’episodio in cui il console condusse come manodopera nella sua proprietà circa duemila soldati, i quali erano stati arruolati per combattere contro i Sanniti; l’altro come parte del messaggio, riportato in forma indiretta, con cui, poco dopo, lo stesso Postumio ingiunse al proconsole Fabio Gurgite, mentre questi assediava Cominio Ocrito, di lasciare a lui solo il comando delle operazioni di guerra. Il primo di questi due momenti della vicenda si trova nei resti della col. A i. In particolare, alle ll. 2-4 erano menzionati i possedimenti di Postumio nel territorio della città di Gabii (su questo punto si veda, in particolare, Palmer, A new Fragment, 5). All’inizio della l. 4, nella lacuna, sicure le integrazioni di pro|[cul], che completa la parola divisa alla fine della riga precedente e di G]a. biis: h. a[u]t pro[cul G]a. biis urbe (vd. Bravo, Un frammento, 484-486). Nel tratto della l. 4 caduto in lacuna si può anche ammettere che vi fos-

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se una lettera in più, come una a, parte della stessa espressione haud procul con l’ablativo: h. a[u]t pro[cul a G]a. biis urbe (cf., ad es., Liv. 10, 26, 11: «haud procul a Clusio aberant»; 28, 37, 1: «h. p. a Gadibus is locus abest»; 29, 7, 3: «h. p. is ab urbe Locris abest»; cf. anche 2, 26, 5; 38, 14, 3). L’indicazione del luogo in cui Postumio aveva i suoi possedimenti è legata allo svolgimento dei fatti, poiché l’esercito di cui egli prese il comando come console si era radunato proprio a Gabii e lì era stato raggruppato in centurie (ibid. 4-9): cu(m) [Ga]u. i. os nouos exer[cit]us indictus [e]s. set ibique centuriati milites essent. Tale circostanza non era stata determinata dalla volontà del console, ma, quando gli si presentò, questi pensò di sfruttarla a suo vantaggio. Dalla frase di Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 2, secondo cui Iunio aveva lasciato al collega il comando della guerra contro i Sanniti, e dall’uso di indicere nel frammento (l. 6), nel significato di «convocare» (un esercito), si può ricavare che quelle milizie fossero state già reclutate da Iunio. Postumio, nell’arrogarsi tutto il comando della guerra, prendeva quindi l’esercito già arruolato dal collega, nel luogo in cui esso era stato radunato. Anche il testo dell’excerptum di Cassio Dione, che nel manoscritto risulta illeggibile in questo punto, dà probabilmente, secondo la restituzione di Boissevain, un’indicazione simile: Ôî ÙÔÜ \IÔ˘Ó›Ô˘ ÛÙÚ·ÙÈáÙ·È ÛfÓ ¶ÔÛÙÔ˘Ì›Å (vd. Bravo-Griffin, Un frammento, 485-487; 501 s.; 510 s.). Nell’ultima riga superstite della col. A I del frammento, Bravo ha integrato, in modo dubitativo, cons[ul. Ritenendo però verosimile che questo nome fosse stato già menzionato sopra, Gigante, Sul nuovo testo, 263 ha proposto l’integrazione consuluit («provvide»). Nel testo della col. B ii, alle ll. 2-11, doveva essere riportato in forma indiretta, come s’è detto, il messaggio con cui Postumio ingiungeva a Fabio di non continuare a esercitare il comando come proconsole e lo minacciava, se non avesse obbedito, di usare il suo potere contro di lui. Dall’excerptum di Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 4, citato sopra, si apprende che il senato aveva decretato una proroga dei poteri di Fabio Gurgite, il quale l’anno precedente, da console, aveva sconfitto la tribù sannitica dei Pentri. Per il voto del senato, così, egli avrebbe potuto continuare a guidare le operazioni con potere proconsolare, nel settore di sua spettanza, nello stesso anno in cui Postumio era in carica come console. Si crede a ragione, tuttavia, che tale proroga del comando, nei tempi più antichi, valesse soprattutto come provvedimento accettato nella consuetudine piuttosto che come atto ufficiale. Condizione perché avesse vigore, inoltre, era che i consoli in carica accordassero il loro consenso all’attribuzione di poteri supplementari. Proprio per l’indeterminatezza istituzionale della proroga del mandato concessa a Fabio, e poiché si sapeva che essa era sottoposta al necessario consenso del console in carica, Postumio, contro il tentativo del senato, colse l’opportunità di comunicare al proconsole designato il suo rifiuto, minacciandolo inoltre d’intervenire con le armi se non gli avesse obbedito. Come detto, è probabile che i mandata trasmessi da Postumio a Fabio e i ÁÚ¿ÌÌ·Ù· di cui si ha notizia dalla testimonianza di Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 4 siano da identificare. Non si può tuttavia determinare, a causa dello stato lacunoso del frammento, se il testo latino indicasse ordini soltanto orali o ordini scritti (vd. Griffin, Un frammento, 511 s.). In particolare, all’inizio del testo superstite, in cui i mandata sono riportati in forma indiretta, sembra di riconoscere un’argomentazione con cui Postumio giustificava il suo rifiuto (ll. 2-4). Alla l. 2, quasi interamente caduta, congetturando suo arbitrio o arbitrio suo, Bravo, Un frammento, 491, ha supposto che Postumio intendesse mostrare i termini ambigui o ingannevoli del permesso senatorio: rispondendo a una richiesta di Fabio, il senato avrebbe dichiarato che egli era libero di decidere lui stesso se rimanere in prouincia.

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Alla l. 3, il termine .r e. aps. [e, che il primo editore del frammento ritiene lezione sicura del papiro, può esser difeso come voce arcaizzante, pur non appartenendo al consueto lessico liviano. Sembra che in questo punto, nelle parole di Postumio, una realtà di fatto fosse contrapposta alla falsa interpretazione del comando senatorio: pur essendo stato votato dal senato, infatti, tale decreto era sottoposto a sostanziali restrizioni. Alla l. 4, nel punto in cui lo scriba ha espunto una lettera da lui scritta per errore, si può restituire, seppure in modo non del tutto certo, la lezione e. o dic. .t o. (così Bravo; a mio avviso, le ultime due lettere, interessate da una piccola lacuna intermedia, non sono leggibili). Si può credere che tale dictum fosse la dichiarazione con la quale il senato autorizzava Fabio a rimanere nelle sue funzioni di capo militare per le operazioni della guerra contro i Sanniti, ma nella quale, nello stesso tempo, si sottintendeva quella clausola restrittiva, sfruttata poi da Postumio: l’autorizzazione avrebbe avuto vigore, in realtà, soltanto col consenso del console in carica. Nel testo, tale risoluzione senatoria sarebbe quindi espressa, sinteticamente, col termine dictum, implicante un’accezione intermedia fra «parere» e «ordine» (vd. ThlL v, 2, 992, ll. 4 ss.). Secondo Bravo, Un frammento, 488-491, in questo punto del suo messaggio Postumio chiarisce a Fabio che il comando votato dal senato (id dictum), sul quale si basava la proroga del suo mandato nella guerra contro i Sanniti, in realtà non era da ritenere in vigore, poiché il console non lo aveva autorizzato. Si può supporre che Postumio non avesse espresso subito la sua volontà, ma avesse aspettato una richiesta di Fabio, e che questi, dal canto suo, avesse inteso il silenzio di Postumio come assenso. Postumio avrebbe quindi sfruttato tale fraintendimento come pretesto per togliere il comando al proconsole: nel messaggio minatorio, ciò che Fabio avrebbe compiuto ([fac]turum?), confidando in quel comando (e. o dic. [t]o. ?), era quindi, in realtà (r. e. aps. [e), stato vietato o rifiutato (nega]tam?). È inevitabile che tale interpretazione, per quanto sottile e persuasiva, resti puramente congetturale. Sullo stesso punto, un po’ diversa, e ritenuta più convincente da Vinchesi, Notizia, 181, la lettura di Miriam Griffin, Un frammento, 512-514, secondo cui la proroga del comando di Fabio, votata dal senato, era stata sottoposta alle condizioni che il console in carica desse il suo consenso e che il proconsole collaborasse con lui. Postumio avrebbe quindi reclamato ubbidienza da Fabio in conseguenza delle clausole poste dallo stesso senato; nello stesso modo, sarebbe stato suo diritto ordinare al proconsole di spogliarsi del comando ottenuto per proroga. Dubitando delle lezioni reapse e eo dicto stabilite da Bravo e dell’interpretazione data dallo stesso («con quella dichiarazione»), Liberman, À propos d’un fragment, 193 ha proposto di restituire diversamente il testo in questo punto: sed rem ab se (da re¯abse, che lo scriba avrebbe erroneamente trasformato in reapse per una confusione nella pronuncia della labiale) [nega]tam eo edicto (la lezione genuina edic- sarebbe stata improvvidamente emendata dallo scriba). Si ottiene così la seguente interpretazione del testo: Fabio avrebbe fatto «une chose qui lui est défendue par Postumius aux termes de cet édit». Postumio avrebbe giustificato il suo divieto menzionando un editto emesso al fine di regolare tale conflitto di poteri. Successivamente, lo stesso Liberman, Un fragment, 24, ammettendo la correzione di edicto compiuta dallo scriba, ha proposto di intendere dicto nel significato di «ordine»: «Fabius fera une chose que Postumius lui a interdite par cet ordre». Restando al posto assegnatogli con la proroga, Fabio avrebbe agito contro gli ordini di Postumio. Nel séguito del messaggio Postumio dichiarava che Fabio, rimanendo in carica come proconsole senza la sua autorizzazione, sarebbe stato disubbidiente alla sua volontà e che egli stesso, come console, avrebbe fatto uso del suo potere per costringerlo (ll. 4-10):

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[fac?]turum quoa[d in]iussu suo in p. .r [oui(n)]cia maneat et [..] pergat dicto non parer[e] [s]e [i]n praese(n)tem ha. b. iturum imper[i]um (vd. Griffin, Un frammento, 512 s.). Probabile che il sintagma in]iussu suo (ll. 5-6) sia da intendere nel senso più specifico di «senza l’autorizzazione di». L’espressione in p. .r [oui(n)]cia maneat dovrebbe avere l’accezione tecnica riguardante un magistrato che rimane nelle proprie funzioni. Probabile l’integrazione [si] alla fine della l. 7. Pergere è usato qui, con l’infinito, nel senso di continuare. Con l’espressione dicto non parere Postumio indica la disubbidienza di Fabio nel tenere un comando a cui non aveva più diritto. Incerto se il dictum, cui si fa cenno, sia la dichiarazione del senato o un ordine di Postumio (vd. anche, sopra, le diverse interpretazioni degli studiosi su e. o dic. [t]o. della l. 4). È presentata come conseguenza necessaria, d’altra parte, l’azione di forza minacciata dal console, se la situazione non fosse cambiata. Alle ll. 9-10, [i]n praese(n)tem, resta sottinteso il nome di colui al quale è rivolta la minaccia: ovviamente Fabio, lo stesso destinatario del messaggio. L’aggettivo, usato come sostantivo (vd. ThlL x 2, 838, ll. 70 ss.; cf., ad es., Varrone, Ling. 9, 101:«cum aut praesenti aut absenti imperamus»), diventa pregnante, forse con una sfumatura del lessico specifico degli atti ufficiali: egli avrebbe esercitato il suo potere direttamente su Fabio presente; espressione da intendere nel senso che lo avrebbe esercitato su Fabio stesso (ipse), «in persona» (vd. Griffin, Un frammento, 496; Liberman, Un fragment, 25, n. 14) oppure nel senso che lo avrebbe esercitato su Fabio quando questi fosse stato al suo cospetto (Bravo, Un frammento, 482 s.). Postumio fa capire al suo antagonista che intendeva affrontarlo con le armi, e questo è ciò che effettivamente avvenne, quando, come si apprende da Dionigi, Ant. Rom. 17-18, 4, 6, licenziati i nunzi del senato, il console mosse contro Fabio, intento all’assedio di Cominio Ocrito, e lo cacciò dal comando. Alle ll. 10-11 è esposto il contenuto della minaccia, ancora con parole che sembrano riecheggiare il lessico denso e sintetico degli atti e delle disposizioni militari: ha. b. iturum imper[i]um. Per il significato di «esercitare il (proprio) potere» ci si aspetterebbe l’espressione inhibere imperium. Sospettando un errore banalizzante del papiro, Bravo, Un frammento, 482 s. ha così proposto di correggere habiturum, che è in ogni modo lezione sicura del testo, in inhibiturum, che, nella costruzione transitiva con imperium, assicurerebbe un’espressione più appropriata, nel senso specifico qui richiesto. Così anche Liberman, À propos d’un fragment, 193, secondo il quale l’errore ha avuto origine dal fraintendimento della forma praese(n)te¯in | hibiturum, che lo scriba avrebbe trovato nell’esemplare da cui copiava. Mi sembra tuttavia che tale correzione non sia necessaria, poiché si può ammettere un uso particolare di habere, seppure abbastanza insolito, nel significato estensivo di agere, facere (cf., ad es., ThlL vi, 3, 2441, ll. 49 ss.). Dall’esiguo avanzo della narrazione storica, che ricomincia alle ll. 11-12, nel punto in cui poco dopo s’interrompe il testo, si capisce che seguiva, nella parte perduta, la reazione di Fabio agli ordini fattigli pervenire dal console: Fabius [acc]eptis manda. [tis] *** (vd. Bravo, Un frammento, 482 s.; 491-493). Nei resti del foglio di pergamena di PNaqlun inv. 15/86, tra il punto in cui s’interrompe la prima parte del testo superstite (col. A i, l. 12) e quello in cui comincia l’altra (col. B ii, l. 2) si può calcolare che siano cadute al minimo quarantanove righe, al massimo probabilmente sessantuno. Si è visto infatti, nell’esame del frammento, che l’altezza media dello spazio scritto, quindi delle singole colonne, poteva misurare da 16,4 cm (ventuno righe) a 19,6 cm (venticinque righe) o forse anche un po’ di più. In tale spazio erano sicuramente compresi la fine dell’episodio in cui Postumio faceva lavorare nelle sue terre duemila soldati dell’esercito e l’inizio dell’altro episodio in cui era ripor-

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corpus dei papiri storici greci e latini

tato il messaggio di Postumio a Fabio. Poiché questo secondo momento doveva essere avvenuto durante la campagna militare, si può ritenere che nel testo perduto fosse incluso anche un cenno all’inizio delle operazioni guidate da Postumio. Una ricostruzione attendibile della parte mancante si può ricavare dall’excerptum di Dionigi di Alicarnasso, Ant. Rom. 17-18, 4, 4, che presenta con ordine lo svolgimento complessivo dei fatti. Come già detto, da questo racconto si apprende che, dopo aver dato prova di tanta arroganza nella vicenda dei soldati sfruttati come manodopera, Postumio si mostrò ancora più prepotente nel corso della campagna militare, tanto da rendersi inviso al senato e al popolo. Il senato aveva infatti espresso voto favorevole alla proroga del mandato di Fabio Gurgite, il quale, avendo sconfitto l’anno precedente la tribù sannitica dei Pentri, avrebbe potuto così continuare a guidare le operazioni come proconsole in quel settore. A tale decisione s’oppose però Postumio, il quale mandò a Fabio un messaggio intimandogli di lasciare il comando. In questo punto ricomincia anche il testo superstite nella col. B ii. Si può ammettere senza difficoltà, anche conformemente all’estensione calcolata sopra, che il tratto dello svolgimento narrativo desunto dall’excerptum di Dionigi potesse esser contenuto nel testo mancante del foglio di PNaqlun inv. 15/86. Dal confronto con l’excerptum di Dionigi Miriam Griffin, Un frammento, 511 s. ha supposto tre soluzioni per una ricostruzione complessiva del testo del frammento tra le parti mancanti e il tratto superstite nella col. B ii: i mandata menzionati nel frammento possono essere l’equivalente dei ÁÚ¿ÌÌ·Ù· menzionati da Dionigi, ai quali seguirebbe immediatamente il punto in cui Postumio manda le sue truppe da Fabio per minacciarlo, mentre sarebbe omessa la delegazione del senato che riceve la sprezzante risposta del console; oppure i mandata possono corrispondere al punto in cui Postumio manda le sue truppe e marcia di persona contro Fabio, mentre i punti precedenti si sarebbero trovati nella parte caduta; o, ancora, i mandata possono essere l’equivalente dei ÁÚ¿ÌÌ·Ù·, ma già in questi (punto che non risulta dal brano di Dionigi) sarebbe incluso un contenuto di minaccia, a cui Fabio reagirebbe inizialmente non rinunciando al comando, bensì chiedendo un intervento del senato, che sarebbe quindi seguito con l’invio della delegazione. Oltre alle considerazioni sulla diversità materiale dei due lati della pergamena, che sono state esposte sopra, si arguisce con sicurezza dallo stesso svolgimento dei fatti narrati, ricostruito specialmente attraverso l’excerptum di Dionigi di Alicarnasso, che l’ordine A-B, ossia recto e verso, dei due lati del frammento, sia quello correttamente indicato dal primo editore (vd. Bravo, Un frammento, 456; 483 s.). Dall’esame complessivo accuratamente eseguito nella prima edizione risulta assai probabile, come s’è già visto sopra, l’attribuzione di PNaqlun inv. 15/86 a Livio. Oltre al contenuto, che dal confronto con la Periocha si può riferire al libro xi dell’opera Ab urbe condita, inducono a credere che il frammento sia di Livio fondate ragioni di lessico e stile. Parecchie espressioni infatti, le quali appartengono appieno al latino classico, si rivelano particolarmente conformi all’uso liviano; così anche le clausole metriche (vd. Bravo, Un frammento, 484-493; sinteticamente, 494-496). Altri buoni argomenti, più specificamente storici, a sostegno di tale attribuzione sono esposti da Griffin, Un frammento, 516-519.

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Fr. a

Fr. a G.-H.

Fr. b Korn. et Ross.

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Fr. b

Fr. b G.-H.

Fr. a Korn. et Ross.

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Fr. c

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ll. 1 2

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Fr. d

Fr. d G.-H.

Fr. d Korn.

Fr. c Ross.

l. 1

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Fr. e l. 1

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TAVOLE

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tavole

Tav. i: POxy iv 668, Col. i.

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Tav. ii: POxy iv 668, Coll. ii-iii.

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tavole

Tav.iii: PSI xii 1291.

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tavole

Tav. iv. POxy iv 668, Col. iv.

tavole

Tav. v. POxy iv 668, Coll. v-vi.

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Tav. vi. POxy iv 668, Col. vii-viii.

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Tav. vii: POxy iv 668, Fragmenta.

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tavole

Tav. viii: POxy xi 1379.

tavole

Tav. ix: PNaqlun inv. 15/86.

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composto in car attere dante monotype dalla fabrizio serr a editore, pisa · roma. stampato e rilegato nella tipo gr afia di agnano, agnano pisano (pisa).

* Febbraio 2011 (cz 3 · fg 22)

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