Terapie psichedeliche. Aspetti generali e storici (Vol. 1) 8897109799, 9788897109792

Che le droghe non siano solo sostanze d'abuso problematiche ma anche fonti medicinali, è un dato più o meno acquisi

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Terapie psichedeliche. Aspetti generali e storici (Vol. 1)
 8897109799, 9788897109792

Table of contents :
Prefazione
Introduzione
Capitolo 1. Psichedelici: uno sguardo d’insieme
Terminologia
Gli effetti degli psichedelici
Gli psichedelici d’impiego terapeutico
I culti sincretici
Il fenomeno delle “cerimonie”
Capitolo 2. I precedenti
Le terapie psichedeliche tradizionali
Le terapie da shock abreattive
Narcoanalisi
Coma insulinico
Terapia carbonica
Coma atropinico
Capitolo 3. Aspetti teorici delle terapie psichedeliche
Tipologie delle esperienze psichedeliche
Set e setting
Modelli teorici delle TP
Tipi di terapie psichedeliche
Indicazioni e controindicazioni
Capitolo 4. Aspetti storici delle terapie psichedeliche
Cronologia delle terapie psichedeliche
Il paradigma psicotomimetico
La fase mescalinica delle TP
La mescalina nella psichiatria italiana
La fase indolica delle TP
LSD e psilocibina nella psichiatria italiana
Il paradigma psicoterapeutico
L’interruzione della ricerca clinica
Capitolo 5. La seduta clinica psichedelica
Modalità della seduta
Modalità d’assunzione e posologie
Combinazioni con altre droghe
Il ruolo della musica
Reazioni avverse
Il problema del placebo e del doppio-cieco
Valutazioni e misurazioni dei risultati
Capitolo 6. Casistica dalle terapie psichedeliche del passato
Psicosi
Autismo infantile
PTSD e sindrome da campo di concentramento
Nevrosi e disturbi ossessivi-compulsivi
Disturbi di conversione
Disturbi sessuali
Stati depressivi
Dipendenze
Disturbi antisociali di personalità
Varie
Bibliografia

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ADRIANA D’ARIENZO GIORGIO SAMORINI TERAPIE PSICHEDELICHE Dal paradigma psicotomimetico all’approccio neurofenomenologico

Aspetti generali e storici volume 1 Prefazione di Torsten Passie

© 2019 ShaKe ShaKe Edizioni vicolo Calusca 10/E - 20123 Milano ISBN ebook: 9788888865386

Alla memoria di Humphry Osmond psichiatra che coniò il termine “psichedelico”

PREFAZIONE

Le origini delle terapie psichedeliche e psicolitiche possono essere viste nella tradizione delle pratiche sciamaniche che da millenni usano gli psichedelici. Agli inizi degli anni ‘50, dopo la scoperta dell’LSD, le neuroscienze fecero molti progressi, e l’LSD fu impiegato come coadiuvante per la psicoterapia. Dopo alcuni primi tentativi, in Inghilterra Ronald Sandison creò il primo reparto ospedaliero esclusivamente per la terapia con l’LSD. Dalla metà degli anni 1950 agli anni 1990 sono stati pubblicati i risultati di più di 700 studi svolti con terapia psicolitica e psichedelica (Passie, 1997). Ma a partire dalla metà degli anni 1960, la ricerca in queste opzioni terapeutiche fu bloccata a livello internazionale e, come scrisse Lester Grinspoon, docente di psichiatria di Harvard: “la terapia psichedelica è morta di una morte prematura, non di morte naturale”. Ciò perché non avvenne a causa di un obiettivo riscontro di pericolosità o di inefficacia, ma fu indotto dall’uso laico degli psichedelici, soprattutto negli Stati Uniti, e dal 1966 il governo USA prese di fatto il comando del rispetto della proibizione internazionale di queste sostanze, anche in ambito clinico. Fu praticamente bloccata tutta la ricerca, con pochissime eccezioni in Svizzera, Germania e Cecoslovacchia. Da una ventina d’anni si sta assistendo a un ritorno di interesse per l’impiego clinico degli psichedelici. Ma l’entusiasmo riguardo i nuovi approcci alla terapia, specialmente nel trattamento dei disturbi psicologici, deve essere filtrato dall’informazione storica. È noto che i nuovi approcci terapeutici tendono a essere enfatizzati da ricercatori entusiasti e da pazienti che investono speranze per un nuovo trattamento, considerato a volte come un’ultima risorsa. Questi due elementi psicologici da soli possono innescare il “successo” anche con trattamenti di fatto inefficaci. Un altro problema riguarda i moderni criteri di inclusione dei pazienti, che

escludono una maggioranza della popolazione di pazienti “reali”. E quando si arriva a trattare popolazioni reali più ampie (ad esempio con maggiore comorbidità), l’efficacia terapeutica solitamente si abbassa. Tuttavia, gli effetti della terapia assistita con MDMA nel PTSD (disturbo da stress posttraumatico) sono stati talmente ampi, che ci si può aspettare che questa sarà un’opzione di trattamento significativa in un futuro vicino. Ed effettivamente sembra essere proprio l’MDMA a raggiungere per primo il traguardo di farmaco da prescrizione. Alla fine degli anni 1970, l’efficacia della MDMA in combinazione con la psicoterapia fu scoperta e usata legalmente fino alla sua illegalizzazione nel 1985/1986. Furono sviluppate nuove tecniche e furono stabilite nuove indicazioni (Passie, 2018). Ad ogni modo, sono stati necessari più di 20 anni per realizzare i primi studi scientifici controllati nella terapia assistita con MDMA (Mithoefer et al., 2010), e per questo sono stati necessari finanziamenti da parte di istituzioni private e senza scopo di lucro, perché le istituzioni pubbliche e le case farmaceutiche si sono tenute lontane dal finanziare questi (dal loro punto di vista) “studi con le droghe”. Istituzioni private non-profit quali il Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS), l’Heffter Research Institute (HRI), la Swiss Physicians Society for Psycholytic Therapy (SAPT), il Council of Spiritual Practice statunitense (CSP) e molti individui benestanti, hanno progettato e finanziato la nuova fase della ricerca con gli psichedelici a partire dalla metà degli anni ’90. Alcuni ricercatori hanno dedicato la vita intera alla ricerca con gli psichedelici. Ne sono esempi David Nichols, precedentemente docente di chimica medicinale all’Università di Purdue (USA), e Franz Vollenweider, della Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo in Svizzera. Questo libro voluminoso contiene un grande schema storico degli approcci e delle applicazioni terapeutiche con gli psichedelici. Gli autori offrono una presentazione globale dell’intero spettro di differenti approcci per l’uso delle sostanze psicoattive (delle quali non tutte sono psichedeliche) in psichiatria e in psicoterapia. Il loro studio storico comprende anche una rivisitazione dei precursori della terapia assistita con sostanze psicoattive, come l’uso di basse dosi di barbiturici (“narcoanalisi”) e specifiche miscele di anidride carbonica/ossigeno in psicoterapia. Alcuni lettori potrebbero restare scettici di quanto i classici trattamenti shock psichiatrici indotti dall’overdose di insulina o di atropina abbiano fatto da precursori teorici agli approcci delle

terapie psichedeliche. La presentazione degli autori si estende dalla storia antica ai recenti tentativi del trattamento clinico della depressione mediante la somministrazione di una o due dosi di psilocibina. Questo approccio potrebbe sembrare contro-intuitivo agli psicoterapeuti che ritengono che le alterazioni che inducono una personalità nevrotica richiedano molto tempo, e conseguentemente anche le relative terapie. Si vedrà comunque nel libro ciò che questi studi scientifici con la psilocibina stanno mostrando, specialmente riguardo agli effetti a lungo termine. Personalmente ritengo che questo tipo di approccio possa essere reso ancor più efficace incorporandolo in un lungo percorso di psicoterapia convenzionale. Oltre a un’approfondita disanima della storia passata delle terapie psichedeliche, dedicando ad esempio non poche energie nel concettualizzare i meccanismi psicologici della terapia psicolitica, nel secondo volume vengono presentati i dati farmacologici più recenti sugli psichedelici e sulle loro azioni, fino ai moderni approcci per la comprensione dell’azione degli psichedelici mediante le tecniche di neuroimaging e i modelli delle dinamiche funzionali cerebrali. Gli autori si sono impegnati nel descrivere l’esperienza psichedelica, la sua natura psicologica e i suoi correlati neurobiologici, e i lettori possono usufruire molto dalla loro ricerca nella letteratura e su quello che hanno trovato riguardo ai modelli proposti. Ciò che rende ancor più unico questo libro è il fatto che gli autori hanno una profonda conoscenza della letteratura italiana sull’argomento; una storia degli studi clinici italiani perlopiù sconosciuta nell’orizzonte internazionale, e che è supportata da ricerche e risultati interessanti. Gli autori hanno svolto un grande lavoro nel riunire le conoscenze e presentarle al livello dello stato attuale dell’arte. Da parte mia e di altri studiosi, sono in preparazione altri libri che saranno maggiormente focalizzati sui processi psicoterapeutici delle terapie psichedeliche. La nuova ondata di ricerche cliniche si sta ampliando, producendo i primi risultati molto promettenti. Ciò ha cambiato il panorama della ricerca, e oggi sembra plausibile quello che è stato scritto recentemente in un editoriale dello Scientific American: “Le sostanze psichedeliche sono pronte per essere il prossimo maggiore fronte nel trattamento della salute mentale”. Per questo motivo è necessario raccogliere e presentare sistematicamente dati della ricerca passata, per fondare un lavoro di base per l’uso di questi approcci, i quali hanno una lunga tradizione e, come sembra giusto riconoscere, anche

un grande futuro. Torsten Passie*

* Torsten Passie è professore di psichiatria e psicoterapia presso l’Hannover Medical School (Germania). È stato allievo del prof. Hanscarl Leuner, la principale autorità europea riguardo la terapia psicolitica. La sua ricerca copre gli stati di coscienza e l’uso terapeutico delle sostanze psichedeliche. Ha scoperto l’utilità terapeutica del derivato lisergico BOL-148 nel trattamento delle emicranie a grappolo. Dal 2012 al 2015 è stato professore visitante presso l’Harvard University di Boston (USA).

INTRODUZIONE

Che le droghe non siano solo sostanze d’abuso problematiche ma anche fonti medicinali, è un dato più o meno acquisito dall’uomo comune della società occidentale moderna. Esempi che subito vengono in mente alla maggior parte delle persone sono quelli della morfina, presente nel papavero da oppio e usato come analgesico, e della cannabis, quest’ultimo caso ben noto, non fosse altro per l’enorme eco mediatica a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni e che ha come tema la canapa medica. Un dato meno conosciuto è il fatto che anche gli psichedelici o allucinogeni – una classe di droghe di cui la più famosa è l’LSD – possono essere usati come medicine, e che addirittura vengono impiegati come “droghe che curano i drogati”, cioè come medicine coadiuvanti l’interruzione delle tossicodipendenze da alcol, eroina, cocaina, tabacco. Ancora oggi l’uomo comune può sorprendersi all’idea di dare dell’LSD a un alcolista per aiutarlo a smettere di bere, non comprendendo come delle allucinazioni possano essere al servizio della sobrietà. Questa difficoltà di comprensione è dovuta a una visione distorta di cosa siano gli psichedelici e di cosa siano le “allucinazioni” da questi indotte. Nella società occidentale moderna, l’uso terapeutico degli psichedelici ha una storia di oltre un secolo; una storia medica sofferta e conflittuale, parallelamente alla conflittualità che l’arrivo di queste droghe, in particolare l’LSD, ha comportato nella società. Si potrebbero definire gli psichedelici come degli “eterni incompresi”, droghe che più di qualunque altra sono state soggette a giudizi preconcetti, fraintendimenti, isterie di massa, droghe che più di qualunque altra hanno fatto e continuano a fare paura. L’eroina è fonte di problemi sociali e di salute pubblica di gran lunga più seri di quelli indotti dagli psichedelici, per non parlare dell’alcol, della cocaina o del tabacco; i numeri epidemiologici parlano da soli e non stiamo a riproporli in questa

sede, tanto noti e ovvi che sono. Eppure, gli psichedelici hanno sempre fatto più paura di tutte le altre droghe, paura alle istituzioni, all’uomo comune, agli psicologi e agli altri professionisti della psiche, per via di quella proprietà di “rivelare la mente”, così differente, spiazzante e in qualche modo così poco rassicurante, in confronto alle droghe che semplicemente spengono o stimolano la mente. Ma è proprio la proprietà di “rivelare la mente” che può rendere gli psichedelici delle medicine importanti per tutto un insieme di patologie, soprattutto psichiche, di cui soffre l’umanità. A evidenza di ciò è sufficiente prendere in considerazione il millenario uso sciamanico delle fonti vegetali psichedeliche, considerando che la funzione primaria dello sciamano è quella di curare. Dell’utilità di queste sostanze come strumenti che possono aiutare a comprendere la psiche umana, se ne erano già accorti nella prima metà del Ventesimo secolo gli psichiatri che provarono a somministrare la mescalina – una molecola psichedelica estratta dal cactus del peyote – a diversi malati mentali, oltre che a sé medesimi, pur ottenendo risultati contrastanti ma soprattutto confusi, per via dell’inadeguatezza dell’approccio nei confronti di queste particolari sostanze, a quei tempi denominati fantastica. Tale “inadeguatezza dell’approccio” ha accompagnato a lungo la classe medica psichiatrica, espressione del fatto che gli psichiatri, come altre figure professionali, per molti decenni non hanno capito i fantastica, li hanno avuti fra le loro mani come dei “giocattoli” troppo complessi e senza manuali o bugiardini che indicassero come farli funzionare. Gli articolati motivi di questa incomprensione si chiariranno mano a mano che il lettore si addentrerà fra i capitoli del libro. Basti anticipare il fatto che a indirizzare gli psichiatri verso un più adeguato impiego dei fantastica, furono i suggerimenti e le esperienze che alcuni nobili personaggi al di fuori della classe medica fecero con queste sostanze. A metà del Ventesimo secolo giunse il “bambino difficile” di Albert Hofmann, l’LSD, e si può affermare senza peccare di troppa enfasi che nulla fu più come prima, né nel panorama della psichiatria, né in quello della farmacologia (quanto certe conquiste della neurofarmacologia siano dovute all’LSD è un fatto ancora poco riconosciuto al di fuori degli stretti ambiti specialistici), né nella società comune. Nel bene e nel male l’LSD ha fatto tanto rumore, ha dato molto fastidio, e soprattutto ha fatto tanta paura, così tanta che l’establishment non ha trovato altra risposta che metterlo fuorilegge

perfino nella ricerca scientifica; anzi, si potrebbe dire solo negli ambienti scientifici e medici, poiché la legge non è riuscita a eliminare la sua presenza nella società comune, tutt’altro. Dopo un trentennio di tabù/divieto medico nei confronti degli psichedelici, in questi ultimi anni – più precisamente dagli inizi del terzo millennio – si sta osservando una ripresa di interessi per queste sostanze come possibili farmaci, con l’avvio di una serie di sperimentazioni di laboratorio e di studi clinici che comportano l’impiego di sostanze quali l’LSD, la psilocibina, la ketamina nel trattamento dei disturbi depressivi, dei disturbi da stress post-traumatici, delle tossicodipendenze, delle emicranie, delle malattie neurodegenerative quali il Parkinsonismo, ecc. Studi che nella maggior parte dei casi sono ancora pilota e preliminari, ma che vengono riportati e risaltati con grande enfasi dai giornali e dalle televisioni; un’eco che ha raggiunto il nostro paese, occupando pagine di importanti organi mediatici nazionali. Accanto agli articoli dei giornali e ai programmi televisivi, anche in Italia si sta osservando un fiorire di interessi editoriali, con pubblicazioni di libri nostrani o frutto di traduzioni di testi stranieri, centrati sul tema degli psichedelici e delle nuove frontiere terapeutiche. Pure nell’ambito accademico si può notare il risveglio di interesse per il tema della terapie psichedeliche, come attesterebbero alcune recenti tesi universitarie.1 In questo libro abbiamo esposto la storia delle terapie psichedeliche occidentali, dalle origini sino ai più recenti sviluppi, mantenendo uno sguardo mondiale e con una sistematizzazione storica, concettuale e terminologica di nostra elaborazione e originalità. Nella fase precedente il trentennio di divieto di studi medici con gli psichedelici (1970-2000), anche in Italia fu intrapresa una cospicua serie di studi clinici, prima con la mescalina e in seguito con l’LSD e la psilocibina; un pezzo di storia della medicina italiana costituita da studi totalmente dimenticati, le cui relative pubblicazioni abbiamo pazientemente raccolto fra biblioteche e scantinati di ospedali psichiatrici (a quei tempi chiamati “manicomi”), e che per la prima volta vengono qui descritti e riportati alla luce. È stato un lavoro lungo, difficile, faticoso, sempre entusiasmante. I due autori, pur lavorando in costante sinergia, si sono suddivisi i compiti in base alle loro competenze professionali. Da una parte uno di noi (G.S.), specializzato nell’etnobotanica delle piante psicoattive e nella storia delle

droghe sia naturali che sintetiche, si è occupato degli aspetti storici delle terapie psichedeliche (che per brevità indicheremo frequentemente nel corso di questo libro con l’acronimo TP), mentre l’altra autrice (A.D.), medico anestesista, si è occupata delle nuove ricerche e degli aspetti farmacologici, fisiologici e cognitivi degli psichedelici. Come trattato di divulgazione scientifica, in questo libro vi sono parti più descrittive e alla portata del lettore comune, e parti maggiormente specialistiche, indirizzate ai medici, agli psicologi e ad altre figure professionali. Nel primo volume, dopo un primo capitolo in cui vengono presentati gli psichedelici che sono impiegati in medicina, seguono cinque capitoli (cap. 26) dedicati agli aspetti storici, teorici e pratici delle TP sviluppate nell’arco di tempo 1900-1972. Nel volume due, dopo un capitolo introduttivo (cap. 7), seguono due capitoli (cap. 8-9) in cui sono presentati i principi teorici e pratici della neurofenomenologia, e le più moderne acquisizioni e strumentazioni d’indagine nei campi della farmacologia e della neurofarmacologia degli psichedelici; capitoli preparatori per quelli successivi (cap. 10-12), in cui sono descritti i moderni studi clinici e le nuove frontiere terapeutiche con gli psichedelici, mentre nel capitolo 13 vengono descritti gli aspetti terapeutici di un’altra classe di sostanze psicoattive, gli empatogeni (MDMA e affini). Chiude l’opera un capitolo (cap. 14) dedicato all’impiego degli psichedelici per alleviare l’ansia e la depressione nei malati terminali; un impiego che abbiamo denominato “approccio tanatodelico alla morte”, la cui recente rivalutazione nella clinica oncologica è stata oggetto di attenzione dei media, e che descriviamo estesamente con lo scopo di chiarirne le finalità e di proporre alcuni originali futuri sviluppi che giungono a toccare l’argomento dell’eutanasia. Nel corso di questo studio ci siamo avvalsi della consulenza di alcune figure professionali che intendiamo qui ringraziare: Leonardo Montecchi (psichiatra di Rimini), Ernesto De Bernardis (farmacologo del Ser.T. di Lentini, Siracusa), Salvatore Giancane (tossicologo del Ser.T. di Bologna), Pierangelo Garzia (medico dell’Istituto Auxologico Italiano di Milano). Per il recupero della documentazione letteraria, specie quella italiana, è stata fondamentale la disponibilità (e la pazienza) di Simona Zanasi, cui va tutta la nostra gratitudine, direttrice della Biblioteca della Salute Mentale e

delle Scienze Umane “Gian Franco Minguzzi” e “Carlo Gentili” dell’Università degli Studi di Bologna e della Città Metropolitana di Bologna, biblioteca che ha sede nell’ex Ospedale Provinciale Psichiatrico “Francesco Roncati” di Bologna. Ringraziamo anche Gustavo Filippucci, dirigente della Biblioteca Interdipartimentale di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università degli Studi di Bologna. Rivolgiamo un particolare ringraziamento allo psichiatra catalano Joan Obiols i Llandrich e all’organizzazione ICEERS di Barcellona (International Center for Ethnobotanical Education Research & Service), per averci fornito e dato il permesso di presentare un raro documento, costituito dalla lettera che la casa farmaceutica svizzera Sandoz inviò nel 1961, in accompagnamento a una partita di psilocibina, allo psichiatra catalano Joan Obiols i Vié, padre di Joan Obiols i Llandrich. Per il recupero di alcuni rari documenti ringraziamo il chimico tedesco Jochen Gartz dell’Università di Leipzig, lo studioso di arti visive Constantino Manuel Torres dell’Università di Miami, l’etnobotanico catalano Ferran Obiols Galí, lo studioso tedesco Markus Berger, l’argentina Aurelia Claudia Ramallo e Valentina Aquilino di Lecce. Ringraziamo infine la casa editrice Shake di Milano per la sensibilità e l’interesse espressi nei confronti del nostro lavoro e per essersi prodigata nella sua elaborazione editoriale.

CAPITOLO 1

PSICHEDELICI: UNO SGUARDO D’INSIEME

Nell’occuparsi di terapie occidentali moderne che impiegano gli psichedelici, prime questioni da affrontare sono gli aspetti terminologici, l’inquadramento degli effetti di queste particolari fonti psicoattive, e una presentazione generale degli psichedelici impiegati in terapia.

Terminologia Negli ultimi cento anni, presso la cultura occidentale gli psichedelici sono stati indicati con una cospicua rosa di nomi, di cui di seguito presentiamo i principali, procedendo per ordine cronologico. A partire dagli anni ’20 e sino a oltre la metà del Ventesimo secolo, gli psichedelici venivano chiamati per lo più con il termine fantastica, “induttori di stati fantastici”, e il primo studioso a definirli in questo modo fu il farmacologo tedesco Louis Lewin, nella sua monumentale opera su tutte le droghe note a quei tempi, e che intitolò proprio con il nome Phantastika con cui aveva denotato la classe di droghe che includeva la cannabis, il peyote, la datura, ecc. e che oggi chiamiamo psichedelici (Lewin, 1924). Il termine allucinogeni, “induttori di allucinazioni”,2 fu coniato in Canada da Abram Hoffer e coll. nel 1954. Ampiamente utilizzato ancora oggigiorno negli ambiti della comunicazione sociale e in buona parte di quella scientifica, è tuttavia un termine eccessivamente focalizzato sugli aspetti meramente percettivi degli effetti di queste sostanze; inoltre, non rende conto del fatto che il più delle volte ciò che si sperimenta con il coinvolgimento del senso della vista appartiene maggiormente alla sfera delle visioni piuttosto

che a quella delle allucinazioni, e nella maggior parte dei casi viene impiegato con un’aggettivazione implicita riduttiva, in quanto non considera il cuore dell’esperienza psichedelica: quello che “avvolge” ciò che si “vede”, e cioè il profondo significato che accompagna le visioni. In un’ottica psicologica questa è la principale differenza (per chi le esperisce) fra le visioni e le allucinazioni. In un’accezione più prettamente psichiatrica, le vere allucinazioni non sono solamente definite come “cose che si vedono, o più in generale che si percepiscono, e che non esistono nella realtà”, ma si intende anche che chi le esperisce le ritiene reali, le confonde con la realtà – un evento raro nell’esperienza psichedelica, che si presenta solamente in particolari situazioni di innesco di sindromi psicotiche acute – e da ciò risalta ancor maggiormente l’inadeguatezza del termine allucinogeno per definire queste sostanze.3 Gli stessi studiosi che coniarono questo termine avevano puntualizzato che lo avevano scelto “per convenienza”, semplicemente perché non ne avevano trovato uno più soddisfacente: “Non è una buona parola, ma ci sembra meno oscura di ‘eidetico’ o ‘fantastico’ e fa sollevare la questione meno di ‘schizogeno’ o ‘schizofrenogeno’. Come Klüver ha osservato, quando prendiamo queste particolari sostanze entriamo in un mondo al di là del linguaggio, per cui non sorprende che vi possa essere difficoltà nel denominarli” (Hoffer et al., 1954: 30). Nel 1955, durante la Seconda Conferenza di Neurofarmacologia tenutasi a Princeton (New Jersey), Ralph W. Gerard propose di denominare queste droghe psicotomimetici, cioè droghe “che mimano uno stato psicotico”.4 Più raramente, nell’ambiente psichiatrico erano già stati denominati con gli affini termini di psicotogeni, psicotica, schizogeni, quest’ultimo con il significato di “induttori di uno stato schizofrenico”. Più avanti esporremo estesamente le motivazioni e i conflitti generati da questa interpretazione psichiatrica. Nel 1957 fu proposto il termine con il quale queste sostanze sono oggigiorno maggiormente denominate, quello di psichedelici, “rivelatori della mente”, anche questo, come il termine allucinogeni, coniato dallo psichiatra Humphry Osmond, che presenteremo più dettagliatamente oltre. È il termine che abbiamo adottato in questo libro. Nel contesto della psicoterapia coadiuvata da queste sostanze, negli anni ‘60 si diffuse il termine di psicolitici, cioè sostanze in grado, mediante una rottura (lisi), di far fuoriuscire materiale inconscio per facilitarne l’esplorazione. Questo termine è in associazione con la “terapia psicolitica”, una delle principali tecniche di TP in voga in Europa negli anni ‘50-’60.

Il termine psicodislettici fu coniato nel 1961 dagli psichiatri francesi Jean Delay e Pierre Deniker, per definire le “droghe che inducono modifiche qualitative delle facoltà mentali”, accanto agli psicoanalettici (droghe che producono eccitazione del sistema nervoso) e agli psicolettici (droghe che producono depressione del sistema nervoso) (Delay e Deniker, 1961). La radice -lettico presente in tutti questi termini viene dal greco lepticós, “atto a prendere”, mentre il prefisso dis- in psicodislettico è stato aggiunto in contrapposizione a psicolettico, quindi indicativo di un effetto opposto a quello depressivo. Ma gli psichedelici non hanno un mero effetto opposto a quello depressivo, e dalla derivazione etimologica di psicodislettico non risaltano quelle “modifiche qualitative” definite dai due psichiatri francesi, per cui tale termine resta fuorviante e confuso nella sua elaborazione.

Fig. 1 – I principali termini con cui sono stati indicati gli psichedelici.

A partire dagli anni ‘90 si è diffuso un nuovo vocabolo, quello di enteogeni, “che rivelano la divinità interiore”, con un esplicito riferimento di carattere religioso. Tale associazione partiva dall’ipotesi dell’etnomicologo Gordon Wasson – forse un po’ forzata –, in base alla quale alle origini dello spirito religioso umano ci sarebbero state le esperienze con le piante e i funghi visionari (Wasson, 1961); una tale premessa giustificava l’adozione di un termine di natura teologica per definire questi vegetali particolari (Ruck et al., 1979). Tale vocabolo non ha tuttavia incontrato successo nella letteratura scientifica e umanistica. A nostro avviso il concetto di enteogeno va impiegato in maniera differente: più che di una fonte psichedelica da definire come un enteogeno, è opportuno considerare una funzione enteogena dello

psichedelico quando impiegato in un contesto religioso, o quando fa esperire contenuti di natura religiosa; enteogena è una qualità dell’esperienza, non della sostanza in sé. È un dato consolidato il fatto che gli psichedelici possano indurre esperienze a interpretazione religiosa-spirituale; conosciamo diversi casi di moderni movimenti religiosi “enteogenici” che impiegano come fonte di rivelazione divina uno psichedelico – dal peyotismo nordamericano al Buiti africano, al Santo Daime amazzonico – ed è riconosciuta una discreta casistica di esperienze enteogene anche nel mondo occidentale. Ma gli psichedelici possono indurre altre esperienze, prive di una spiccata interpretazione religiosa; possono indurre rivelazioni degne di essere chiamate come tali pur libere dai gioghi interpretativi dei sistemi teologici, spirituali e religiosi. È per questo motivo che escludiamo qui il termine enteogeno per definire gli psichedelici o una parte di questi, e lo impieghiamo solamente in forma aggettivale per definire una qualità o una funzione dell’esperienza psichedelica.

Gli effetti degli psichedelici Nelle moderne classificazioni delle droghe psicoattive, gli psichedelici sono considerati una classe a sé, accanto alle altre classi degli ipnoticosedativi, analgesici, stimolanti, empatogeni, ecc. Non è mai stato facile definire gli psichedelici, e la rosa di nomi con cui sono stati denominati nel corso del tempo testimonia la difficoltà di inquadrare con una sola parola i loro peculiari effetti. Di seguito presentiamo un inquadramento delle principali qualità degli psichedelici, partendo da quelle con cui si differenziano dalle altre droghe: – Gli psichedelici classici – LSD, mescalina, psilocibina – sono caratterizzati da una bassa tossicità fisica.5 Nonostante una certa letteratura basata più su pregiudizi che su dati obiettivi, il numero di casi accertati di fatalità in seguito all’assunzione di LSD o di funghi psilocibinici e causati dai loro meri effetti farmacologici è minimo, e ciò anche nei contesti dell’impiego tradizionale.6 Durante gli anni ‘60-70 del Ventesimo secolo, diverse pubblicazioni mediche riportarono i risultati di ricerche di laboratorio che evidenziavano la significativa possibilità di abnormalità cromosomiche e rischi teratogeni

come conseguenza dell’assunzione di LSD e altri psichedelici; a questi studi ne fecero eco altri che non confermarono i risultati, e la disputa continuò per diversi anni, con risultati sempre più conflittuali, di pari passo con l’innalzarsi della conflittualità nei contesti sociali e scientifici nei riguardi degli psichedelici. Si giunse perfino a somministrare LSD a plantule di orzo per evidenziare dei danni genetici.7 Appare oggi evidente che si trattava di ricerche guidate da interessi di natura politica, che di fatto contribuirono alla messa al bando dell’LSD e degli altri psichedelici. Che i risultati di quelle ricerche non fossero attendibili, è testimoniato fra l’altro dalla ripresa attuale della somministrazione clinica dell’LSD. – Gli psichedelici non inducono dipendenza fisica; al contrario, possono essere impiegati come coadiuvanti delle terapie di disintossicazione dalle droghe che inducono dipendenza, fra cui cocaina, eroina, alcol. Nella maggior parte dei casi, gli psichedelici sono caratterizzati da un’elevata tolleranza, anche crociata, tale per cui la loro reiterata assunzione li rende in breve tempo inefficaci.8 – L’effetto degli psichedelici non è valutabile sulla scala “aumento/diminuzione” dei fenomeni psico-fisici appartenenti alla normale sfera esperienziale (± rilassato, ± fisicamente stimolato, ± mentalmente lucido, ± euforico, ± depresso, ecc.). Gli sperimentatori parlano di una qualità unica e ineffabile dell’esperienza psichedelica. – Gli psichedelici non hanno un vero e proprio down; una volta terminati gli effetti principali (plateau) non lasciano l’individuo in uno stato depresso e di scarica energetica, come accade con gli stimolanti e gli empatogeni, ma sono caratterizzati da una fase terminale (discesa) che è parte integrante dell’esperienza psichica.9 Oltre a questo inquadramento generale, elenchiamo altri effetti psichici degli psichedelici, prendendo spunto dalla sistematizzazione data da Blewett e Chwelos (1959: 4-5), e considerando che ciò che caratterizza gli psichedelici è la manifestazione simultanea di questi effetti: – Cambiamento usuale del Sé e cambiamento della per-cezione del proprio corpo. – Cambiamento della percezione dello spazio e del tempo. – Aumento degli spettri percettivo-sensoriali. – Un più ampio e sensibile spettro emotivo.

– Sensibilità aumentata nell’interazione con gli altri. – Modifiche nel pensiero e nella comprensione. In un’ottica psicoanalitica, si può affermare che l’azione degli psichedelici passa attraverso una dissoluzione dell’ego, o una rottura dei confini dell’ego o, seguendo Stanislav Grof (1970), una “morte dell’ego”;10 questo evento rappresenta la caratteristica cardinale delle esperienze mistiche, così come di quelle dei profondi stati modificati di coscienza indotti principalmente dalle pratiche meditative e dagli psichedelici, e forse anche degli stati psicotici schizofrenici. Sono riconosciute tre sottoclassi di psichedelici che più delle altre possono indurre una dissoluzione dell’ego (indicata oggigiorno come DIED, Drug-Induced Ego Dissolution): gli psichedelici agonisti del recettore serotoninico 2A (LSD, psilocibina, mescalina),11 gli anestetici dissociativi (ketamina, PCP, destrometorfano), e gli agonisti del recettore kappa oppioide, quest’ultimo indicato con l’acronimo KOR (salvinorina A). La dissoluzione dell’ego viene oggigiorno misurata mediante specifiche scale psicometriche, quale la Ego-Dissolution Inventory (EDI) proposta dall’équipe londinese di David Nutt (Nour et al., 2016), ed è in atto un ampio dibattito sulla natura del DIED, in cui sono coinvolte le scienze psicologiche, psichiatriche, neurologiche, filosofiche, e il cui perno principale è la relazione (quale relazione) fra la dissoluzione dell’ego e la consapevolezza, che porta di fatto al complesso problema di cosa sia la consapevolezza; Si tratta di un dibattito che presenteremo più avanti, di cui ora accenniamo solamente la considerazione pressoché unanime che il DIED sia un’esperienza comunque consapevole e di cui resta memoria, e che si stia sospettando che le dissoluzioni dell’ego indotte dagli psichedelici e quelle indotte dagli stati meditativi e quelle intrinseche agli stati psicotici siano differenti fra loro; in altri termini, potrebbero esistere differenti modalità ed esperienze di dissoluzione dell’ego.12 Riguardo la dilatazione del tempo, gli psichedelici tendono generalmente a prolungare il tempo soggettivo, per via degli aumentati input per unità di tempo oggettivo. Roland Fischer ha denominato cronosistole questa contrazione del tempo indotta dagli psichedelici, intesa come sovrastima del tempo, in contrasto con il cronodiastole, o dilatazione del tempo, indotto ad esempio dai farmaci sedativi. Con gli psichedelici la contrazione del tempo è accompagnata anche da una sovrastima della lunghezza e dello spazio vicinale (lo spazio della scrittura), in contrasto allo spazio visivo lontano che

appare allungato con una maggiore profondità (Fischer, 1975: 371-2). È opportuno evidenziare come molti sperimentatori di psichedelici riportino la sensazione di una dimensione “priva di tempo”, o dove viene perso il senso del concetto stesso di tempo. Da un punto di vista della sfera emotiva, nelle condizioni adatte gli psichedelici promuovono sensazioni di verità, empatia, euforia, legame, vicinanza, tenerezza, perdono, accettazione (Swanson, 2018: 5); dimensioni emotive che facilitano la focalizzazione e consapevolizzazione dei problemi psicologici dell’individuo. Più di tutte le altre sostanze psicoattive, gli psichedelici sono stati e continuano a essere impiegati, sia nel mondo tradizionale che in quello occidentale-globalizzato, per scopi rivelatori e di conoscenza. L’esperienza psichedelica predispone l’individuo in uno stato preferenziale di introspezione, che comporta interpretazioni più “dirette” o “lungimiranti” di questioni, eventi, relazioni, problematiche, modalità comportamentali, ecc., che il soggetto si pone in mente di osservare. Esiste un termine inglese – insight – che non ha un corrispondente termine italiano preciso (e che per questo motivo lasceremo non tradotto nel corso del nostro libro), che indica questa dimensione introspettiva accompagnata da intuizione e comprensione. Come vedremo in seguito, tale proprietà rivelatrice, soggiacente a un generale effetto “entropico”, è evidenziata dai risultati delle recenti ricerche neurofenomenologiche. Ancor più che con altre droghe, con gli psichedelici v’è una tendenza a sviluppare un profondo esistenzialismo. È noto come sin dall’antichità classica sia riconosciuto un pensiero filosofico che può essere indotto dal vino e altre fonti alcoliche, per lo meno in certi individui; con gli psichedelici questo aspetto è ancor più accentuato. L’associazione delle idee è molto più rapida e chiara e si instaura una maggiore diversificazione di soluzioni per ogni problema, così come una generale tendenza al pensiero analogico. Seguendo la terminologia e concettualizzazione della psicologia moderna, fra gli effetti cognitivi degli psichedelici sono stati riconosciuti un aumento del pensiero divergente, l’espansione dell’attivazione semantica, una maggiore attribuzione di significato degli stimoli percettivi, un aumento del pensiero di processo primario (Swanson, 2018).

Gli psichedelici d’impiego terapeutico

Le sostanze psichedeliche possono essere raggruppate in distinte classi seguendo diversi criteri; li distinguiamo ora in base alla struttura chimica, mentre nella sezione riguardante le TP moderne tenderemo a classificarli in base alle proprietà neurofarmacologiche. Presentiamo di seguito solamente le sostanze e le fonti vegetali il cui impiego terapeutico occidentale, sia del passato che attuale, sarà esposto nel corso di questo libro; di ciascuna sostanza riportiamo alcuni dati storici e sociologici, inclusi gli utilizzi non medici, e ciò in funzione di una maggior comprensione dei loro moderni impieghi terapeutici, sia nei contesti clinici che non clinici. Indolici classici – LSD, LSA, psilocibina, ibogaina Si può definire l’LSD come la molecola psichedelica “per eccellenza”. Insieme alla salvinorina A presente nella Salvia divinorum, è l’unico psichedelico i cui dosaggi vengono misurati in milionesimi di grammo e non in millesimi di grammo; ciò significa che, da un punto di vista di dosaggio assoluto, LSD e salvinorina A sono le sostanze psichedeliche più potenti sinora note. I dosaggi medi dell’LSD si aggirano attorno ai 100-250 milionesimi di grammo (indicati con mcg, μg e in passato anche con γ), e per percepirne i primi effetti sono sufficienti alcune decine di mcg; si tratta di dosaggi difficilmente visibili a occhio nudo, che nel mercato clandestino vengono disciolti in piccoli pezzi di carta assorbente (blotter), oppure resi disponibili in forma liquida in contenitori dotati di contagocce. In questa sede non ci dilunghiamo nel descrivere la storia sociale dell’LSD,13 ma capiterà più avanti di soffermarci sull’influenza che alcuni aspetti ed eventi di questa storia, in particolare della conflittualità sociale a cui fu soggetta questa sostanza, ebbero negli ambienti clinici e scientifici. Sintetizzato nel 1938 a partire dall’ergotamina, un alcaloide della segale cornuta o ergot – fungo parassita delle graminacee – e scoperti i suoi effetti psicoattivi nel 1943 dal chimico svizzero Albert Hofmann, l’LSD non è per ora stato ritrovato in natura, ed è da considerare quindi come un composto semi-sintetico, dato che viene sintetizzato a partire da una molecola organica, l’acido lisergico. Ma è lecito sospettare che un giorno questa molecola potrà essere scoperta prodotta da chissà quale essere vivente terrestre o marino, dato che la natura ha già elaborato una molecola assai vicina all’LSD, denominata con la sigla LSA.14 Come vedremo estesamente nel corso di questo testo, l’LSD è stato

sperimentato e impiegato in terapia per un ampio insieme di affezioni psichiche, e attualmente è in corso di rivalutazione il suo impiego come agente tanatodelico.15 Come abbiamo detto, la molecola naturale più vicina all’LSD è l’LSA, altrimenti nota come ergina e in passato siglata come LAE-32 e LA-111. Sintetizzata in laboratorio a metà degli anni ‘50 e in seguito ritrovata in natura (Stoll e Hofmann, 1955; Hofmann, 1963), si tratta dell’amide dell’acido lisergico, mentre l’LSD è il dietilamide dell’acido lisergico, per cui le due molecole differiscono solamente per un gruppo amidico. L’LSA è anch’esso psicoattivo, sebbene meno potente dell’LSD (in un rapporto di circa 25:1 rispetto a quest’ultimo), e caratterizzato da una componente maggiormente sedativa (Solms, 1954). L’LSA è il principale principio attivo dei semi di alcune piante convolvulaceae impiegati tradizionalmente come fonti visionarie da alcune popolazioni del Messico e dell’America Centrale (MacDouglas, 1960; Quintanilla e Spencer, 2012). I semi più potenti in assoluto sono stati individuati nel corso di moderni screening biochimici di laboratorio e appartengono alle specie Argyreia nervosa e Merremia peltata, diffuse in Asia e nel Pacifico; non sono tuttavia noti impieghi tradizionali.

Fig. 2 – Sclerozi del fungo Claviceps purpurea (ergot) che crescono su una spiga di cereale.

Per quanto riguarda la loro disponibilità, Ipomoea violacea e altre Ipomoea psicoattive sono piante ornamentali coltivate in diverse regioni del mondo, inclusa l’Italia; la parte psicoattiva è il seme, e il dosaggio varia dai 100 ai 400 semi, a seconda della specie o della varietà floriculturale. Il dosaggio dei semini hawaiiani – come vengono chiamati popolarmente i semi di Argyreia nervosa – si aggira fra i 3 e gli 8 semi; questi ultimi sono sottoposti a limitazioni legislative in Italia come in altre nazioni europee, ma

reperibili nel mercato nero (Samorini, 2006). Riportiamo questi dati in funzione sociologica poiché, come vedremo, i semi ergolinici delle Convolvulaceae, in particolare i semini hawaiiani, oltre all’impiego come fonte visionaria, vengono oggigiorno ricercati e assunti come automedicazione dai malati sofferenti di una particolare patologia dolorosa, la cefalea a grappolo. In passato l’LSA fu studiato nel trattamento delle nevrosi e delle psicosi, in particolare in Italia. Un’altra importante molecola indolica è la psilocibina, prodotta da funghi superiori dei generi Psilocybe, Conocybe, Copelandia, Panaeolus, Pluteus, ecc. Sono note circa 200 specie diffuse in tutto il mondo, e quasi ogni anno ne vengono scoperte delle nuove. A partire dalle Alpi, lungo tutta la penisola italiana crescono alcune potenti specie, fra cui Psilocybe semilanceata e P. serbica (Samorini, 1993, Pasquali et al., 2018), e da circa 40 anni si è diffusa la ricerca e la raccolta stagionale (autunnale) di questi funghi come fonte inebriante e in alcuni casi come fonte terapeutica.16 I dati archeologici hanno evidenziato una grande antichità del rapporto dell’uomo con i funghi psilocibinici, e il loro impiego come fonte visionaria in contesti religiosi e terapeutici si è conservato presso alcune popolazioni tradizionali del Messico (Samorini, 2001). Questi funghi possono essere raccolti direttamente in natura, oppure sono coltivabili in casa. Oggigiorno sono disponibili kit di coltivazione che nel giro di alcune settimane fruttificano. La specie maggiormente coltivata è Psilocybe o Stropharia cubensis (popolarmente strofaria), fungo ubiquitario nelle regioni tropicali del globo, che in natura cresce sugli sterchi dei grandi quadrupedi; è reperibile in differenti ceppi culturali con concentrazione di principi attivi che possono variare notevolmente. Le specie italiane selvatiche P. semilanceata e P. serbica sono generalmente più potenti della strofaria, e per questo motivo si può presentare il problema del dosaggio, specialmente se non si conosce la specie di appartenenza.17 I principi attivi di questi funghi sono psilocibina e psilocina, che furono identificati nel 1958 da Albert Hofmann, il medesimo chimico svizzero che aveva scoperto l’LSD; una volta ingerito il fungo, la psilocina viene assorbita a livello gastrico, mentre la psilocibina viene trasformata in psilocina e quindi assorbita, ed è quest’ultima molecola a essere in definitiva responsabile degli effetti psicoattivi e terapeutici dei funghi psilocibinici (Passie et al., 2002).

I dati epidemiologici relativi al consumo occidentale moderno di questi funghi evidenziano una bassa incidenza di eventi problematici seri, rispetto a quella relativa al consumo di altre droghe e anche di altri psichedelici (Samorini e Festi, 1989). Il motivo risiede in parte nella bassa tossicità fisica di questi funghi, comprovata dagli studi clinici in cui la psilocibina è attualmente impiegata nel trattamento della depressione maggiore, del disturbo compulsivo-ossessivo, dell’alcolismo, e come agente tanatodelico. Anche in passato, durante gli anni ‘60, la psilocibina fu sperimentata per diverse patologie mentali, e similmente all’LSA fu particolarmente studiata nelle cliniche psichiatriche italiane. Fra gli psichedelici indolici si annovera l’ibogaina, il principale alcaloide dell’iboga, Tabernanthe iboga, un arbusto della famiglia delle Apocynaceae. Questa pianta visionaria è impiegata da diverse etnie dell’Africa Equatoriale internamente a riti iniziatici, magici e religiosi. Il culto religioso più noto è il Buiti.

Fig. 3 – Funghi psilocibinici: (s) carpofori selvatici di Psilocybe semilanceata; (d) carpofori coltivati di Psilocybe (Stropharia) cubensis (quest’ultima foto da wikimedia).

Fig. 4 – (s) L’autrice (A.D.) accanto a un arbusto di iboga in Gabon; (d) l’autore (G.S.) davanti a una palizzata di cactus di San Pedro in un’isola del Mediterraneo.

La parte effettiva della pianta dell’iboga è la scorza della radice, che contiene elevate concentrazioni di un folto gruppo di alcaloidi indolici – denominati generalmente alcaloidi dell’iboga – di cui il più abbondante è l’ibogaina. Quest’ultima è una molecola francamente psichedelica, ma una diffusa aneddotica riporta effetti visionari differenti fra quelli della sola ibogaina e quelli della droga vegetale intera; ciò porta a ritenere che l’effetto visionario (e terapeutico) completo richieda la presenza, oltre che dell’ibogaina, degli altri alcaloidi o altri composti presenti nella scorza della radice. L’iboga è uno psichedelico particolare, che agisce sulla psiche in maniera differente dagli psichedelici serotoninergici (LSD, psilocibina, mescalina), essendo caratterizzata da modalità specifiche di sviluppo delle visioni e di azione sulla sfera dell’ego. Fra tutti gli psichedelici è quello con maggior durata (18-24 ore) e ciò anche a bassi dosaggi. Considerando come droga la sola scorza secca della radice di una pianta matura,18 i dosaggi psichedelici variano da 2-3 g sino a 8-10 g. Nel corso del rito iniziatico buitista dei Fang,

il novizio ne assume diversi etti. Da una trentina d’anni l’ibogaina è soggetta a un interesse come agente disintossicante dalle dipendenze chimiche, in particolare l’eroina, con una complessa e a volte contraddittoria storia in cui si intersecano rapporti aneddotici di automedicazioni e studi scientifici. Triptamine allucinogene Un tempo denominate “triptamine allucinogene a breve durata”, anche questi composti sono caratterizzati da un nucleo indolico, ma con una farmacologia e con effetti differenti da quelli degli altri indolici classici, e per questo motivo sono riunite in una sottoclasse a sé stante. Le più importanti, simili fra loro in struttura, sono sostanze classificabili come alcaloidi, poiché presenti in natura: N,N-dimetiltriptamina, nota comunemente con la sigla DMT; 5-metossi-N,N-dimetiltriptamina, nota con la sigla 5-MeO-DMT; e bufotenina (5-idrossi-DMT). Queste molecole hanno una storia articolata, che va dall’archeologia e l’etnografia dell’impiego tradizionale, alla possibilità di una loro presenza naturale e funzionale nell’organismo umano. Il DMT è uno dei due principi attivi di base dell’ayahuasca, la bevanda visionaria dell’Amazzonia che presenteremo poco oltre. In quantità ancor maggiori, è presente nella corteccia di alcuni alberi del genere Mimosa – fra cui Mimosa tenuiflora, denominata jurema – impiegati nel Brasile nordoccidentale nel corso di riti religiosi tradizionali e di riti di possessione afrobrasiliani.19 Il DMT fu sintetizzato in laboratorio nel 1931 (Manske, 1931), ma non ne fu subito compreso il potenziale psicoattivo; solamente quando la sua presenza fu riscontrata in polveri vegetali inalate tradizionalmente come fonti visionarie, fu scoperta la sua psicoattività (Szára, 1956). La principale via di somministrazione nell’uso voluttuario moderno è l’aspirazione dei suoi vapori. L’effetto sopraggiunge nel giro di pochi secondi e il plateau dura solamente 5-15 minuti, ma può essere un effetto imponente e sovrastante. Inizialmente denigrato dai “figli dei fiori” della cultura psichedelica degli anni ‘60 e ‘70, e in seguito a una sua rivalutazione iniziata negli anni ‘90, oggigiorno fra gli assuntori di psichedelici va molto di moda fumare DMT, ricavato dalla corteccia di M. tenuiflora o da quella di alcune specie australiane di Acacia. Il dosaggio medio assunto per scopi visionari è di 50 mg quando se ne aspirano i vapori, e di 20-40 mg quando ingerito (congiuntamente a un MAO-inibitore) (Berger, 2017).

Il DMT è tornato alla ribalta anche per importanti implicazioni neurofarmacologiche e terapeutiche, e per il suo peculiare abbinamento con i MAO-inibitori, come vedremo a breve. Negli anni ‘60 del secolo scorso fu scoperta la sua presenza nelle urine e in altri fluidi corporei degli schizofrenici, e da ciò si sospettò che questa molecola fosse coinvolta nell’induzione dei sintomi psicotici (la cosiddetta “ipotesi della transmetilazione”). Ma poco dopo il DMT fu ritrovato anche nelle urine delle persone sane, e fu quindi interpretato come un normale prodotto metabolico di scarto (Angrist et al., 1976). Con il proseguire delle ricerche e mediante l’impiego di strumentazioni sempre più sofisticate, la presenza di piccolissime quantità di triptamine allucinogene parrebbe essere stata riscontrata in altri fluidi umani: DMT e 5-Meo-DMT nel liquido cerebrospinale, DMT e bufotenina nel sangue e, forse, DMT nell’epifisi (Barker et al., 2012, 2013). È stata suggerita l’ipotesi che il DMT, lungi dall’essere un mero prodotto metabolico di scarto, insieme alla triptamina funga da neurotrasmettitore per la famiglia di neurorecettori TA (Trace Amine receptors) e che entrambi siano coinvolti nella percezione sensoriale (Fontanilla et al., 2009). Questi dati, che hanno indotto una serie di aneddoti circa funzioni e ruoli attribuiti al DMT a volte un po’ forzati o fantasiosi, sono attualmente oggetto di discussione e attendono di essere confermati.20 Internamente alla combinazione dell’ayahuasca, il DMT è attualmente valutato nel trattamento degli stati depressivi, delle dipendenze, delle sociopatie, e aneddoticamente nel trattamento del cancro e nei disturbi dell’alimentazione. Il 5-MeO-DMT è presente nelle cortecce di alberi del genere Virola, della famiglia delle Myristicaceae, impiegate come polveri da fiuto da alcune etnie amazzoniche e note perlopiù con il termine epená; si ritrova anche nell’essudato di alcuni rospi, in particolare il Bufo alvarius, un rospo del deserto nordamericano del Sonora, che può contenerne concentrazioni sino al 15% (Weil e Davis, 1994). Da alcuni decenni si è diffusa la pratica occidentale di catturare il Bufo alvarius, maneggiarlo con cura premendo leggermente le grosse ghiandole parotidi e le ghiandole sottocutanee localizzate lungo le zampe, e secernerne un essudato giallastro, che è la fonte della droga psicoattiva; essudato che viene fatto seccare su un vetro e quindi fumato o inalato. Ogni “raccolta” fornisce una quantità pari a 12-25 dosi, a seconda della grandezza del rospo e dell’abilità del raccoglitore. Il 5-MeoDMT non ha sinora un impiego terapeutico, a eccezione di un recente case

report dove è stato impiegato insieme all’ibogaina nel trattamento di un alcolista (Barsuglia et al., 2018) e di una survey in cui è stato analizzato il potenziale terapeutico su utilizzatori di 5-MeO-DMT in un contesto cerimoniale a scopi spirituali (Davis et al., 2019). Sempre fra gli indoli si annovera una schiera di composti sintetici o semisintetici, di cui alcuni sono stati impiegati nelle TP. Nella clinica psichiatrica in rare occasioni sono state sperimentate molecole di sintesi congenere dell’LSD, fra cui l’ALD-52 (1-acetil-d-LSD) e il MLD-41 (1-metil-d-LSD), somministrati in dosaggi di 500 mcg.21 Studi sull’uomo determinarono per l’ALD-52 un potenziale psicoattivo pressoché simile all’LSD, e di circa un terzo per il MLD-41 (Isbell et al., 1959). Fra i derivati sintetici della psilocibina, è stato impiegato in clinica il CZ74, altrimenti noto come 4-HO-DET (4-idrossi-N-dietiltriptamina). Hanscarl Leuner fu il primo psichiatra a condurre esperimenti umani con questa molecola, trovandola utile nella terapia psicolitica,22 con una durata inferiore a quella della psilocibina (10 mg di psilocibina corrispondono a 15 mg di CZ74). Il CZ-74 offre una sensazione estatica e travolgente di breve durata, ritenuta particolarmente adatta per trattare persone eccessivamente razionali e quelle compulsive. Leuner (1967) ha provato oltre 160 volte dosaggi di CZ74 superiori ai 40 mg, evidenziando come sia particolarmente sicuro. Fra i derivati triptaminici sintetici, va citato il DPT (dipropil-triptamina), sperimentato nel trattamento dell’alcolismo e come agente tanatodelico. La prima sperimentazione sull’uomo fu svolta su un gruppo di alcolisti volontari, nel contesto di una più generale ricerca di nuove sostanze psichedeliche utilizzabili in terapia e che fossero differenti dall’LSD, avendo questo oramai acquisito un alone negativo, per via degli eventi di conflitto sociale che avevano portato alla sua recente messa al bando dalla ricerca scientifica (Faillace et al., 1967). Nell’assunzione orale il dosaggio medio del DPT è di circa 150 mg, con una durata dell’effetto di 2-4 ore. Nell’impiego clinico è somministrato via intramuscolo, mentre nell’uso non clinico viene anche fumato (Shulgin e Shulgin, 1997: 428-30). Fenetilaminici – mescalina (peyote, San Pedro) Alle fenetilamine appartiene la folta classe degli empatogeni, sostanze in buona parte sintetiche e di cui la più nota è l’ecstasy o MDMA (si veda oltre). Oltre a questi, fra le fentilamine si annovera una molecola francamente psichedelica, la mescalina. In natura è presente principalmente in due specie

di cactus, il peyote, Lophophora williamsii, diffuso nell’America settentrionale, e il San Pedro, costituito dalle due specie colonnari Trichocereus pachanoi e peruvianus,23 diffuse nelle Ande sudamericane. La relazione umana con entrambi i cactus è molto antica, e per il San Pedro l’archeologia ha attestato un periodo di almeno 10.000 anni (Samorini, 2016b). Il peyote è tuttora utilizzato come agente visionario da alcune popolazioni messicane, fra cui gli Huichol e i Tarahumara, e a partire dal XIX secolo si è diffuso il suo uso presso i nativi del Nord America, i quali hanno elaborato un culto religioso sincretico con il Cristianesimo, denominato Chiesa Nativa Americana (NAC), che descriveremo poco oltre. Nel mondo occidentale la mescalina in polvere è difficilmente reperibile, e l’unica fonte mescalinica di fatto disponibile è il San Pedro, un cactus che, a differenza del peyote, cresce con una discreta velocità anche in Europa e nel Mediterraneo. Dal cactus si staccano dei pezzi, si tagliano e si fanno bollire a lungo, e il liquido restante, filtrato, viene bevuto. Il plateau mescalinico dura 6-10 ore e i dosaggi medi sono di 300-400 mg. Isolata nel 1896 dal chimico e farmacologo tedesco Arthur Heffter, la mescalina è stata studiata e impiegata nella terapia psichiatrica per molto tempo, dagli anni ‘10 sino agli anni ‘60 del Ventesimo secolo, e anche in Italia è stata oggetto di studi clinici. Resta per il momento assente nella nuova ondata di interessi medici per gli psichedelici; le conoscenze farmacologiche, farmacodinamiche e neurologiche relative a questa molecola sono obsolete,24 e sarebbe auspicabile un aggiornamento di questi studi. Delirogeni tropanici – scopolamina, atropina, Solanacee tropaniche I delirogeni sono chiamati anche atropinici o anticolinergici, e i principali sono scopolamina, iosciamina e la forma racemica di quest’ultima, l’atropina. Sono gli alcaloidi presenti nella datura, mandragora, belladonna, giusquiamo e numerose altre piante e generi della famiglia delle Solanaceae diffuse in tutto il mondo. Sono le piante “stregoniche” per eccellenza, immancabili ingredienti degli unguenti per i voli sabbatici dei periodi medievali e rinascimentali europei (Piomelli e Pollio 1994; Toro e Samorini, 2019). Pur rientrando nella classe degli psichedelici, queste piante e sostanze agiscono in una maniera particolare, e tendono più o meno costantemente a indurre uno stato di delirio; sono anche i composti più pericolosi, con dosaggi tossici che sono poco oltre quelli inebrianti. Non sono infrequenti, nemmeno

in Italia, casi di intossicazioni accidentali dovuti a errori di raccolta di piante solanacee tropaniche scambiate per piante eduli, così come di intossicazioni da uso voluttuario (Festi, 1995). Nonostante la pericolosità, ancora oggigiorno è diffuso il loro impiego tradizionale per un eterogeneo insieme di motivi: iniziatici, divinatori, magico-terapeutici, pedagogici e correttivi del carattere, ordalici, giudiziari (come “siero della verità”), afrodisiaci, terogeni (per combattere) (Samorini, 2018b). Una caratteristica dei composti tropanici è l’amnesia che segue l’esperienza, tale per cui il soggetto non ricorda ciò che ha esperito. La scopolamina è stata impiegata nei primi decenni del Ventesimo secolo negli Stati Uniti come “siero della verità” (Geis, 1959). Da oltre due secoli l’atropina e la scopolamina sono ampiamente impiegate in medicina e continuano a esserlo in ambito ospedaliero e farmaceutico, congiuntamente a un insieme di derivati sintetici; fonti tropaniche sono state impiegate sino alla prima metà del Ventesimo secolo come coadiuvanti l’interruzione dell’alcolismo e delle dipendenze oppiacee, e in questi ultimi anni la scopolamina è oggetto di studi e impieghi clinici come farmaco antidepressivo.

Fig. 5 – (s) Belladonna (Atropa belladonna); (d) giusquiamo bianco (Hyoscyamus albus).

Anestetici dissociativi – fenciclidina, ketamina Queste molecole sono state sintetizzate in laboratorio a partire dalla seconda metà del Ventesimo secolo. Da un punto di vista chimico, sono di frequente considerate come derivate della piperidina – un alcaloide presente nel pepe e in poche altre piante superiori –, ma la loro affinità con molecole organiche resta piuttosto lontana; sono più propriamente considerabili appartenenti al gruppo chimico delle arilcicloesilamine. Per il tipo di effetto psicoattivo rientrano a giusto titolo nella classe degli psichedelici, dove sono riunite nella sottoclasse degli anestetici dissociativi. Le più note sono la fenciclidina e la ketamina.25 La fenciclidina, siglata come PCP, fu sintetizzata nel 1956 e immessa nel mercato farmaceutico come anestetico generale sotto il nome di Sernyl, con l’utile peculiarità di non deprimere la respirazione come gli altri anestetici generali. Tuttavia, ben presto ci si accorse di effetti collaterali indesiderati fra cui allucinazioni, agitazione e catatonia, e il suo impiego clinico umano fu abbandonato, restando unicamente quello veterinario, dove era noto con il nome commerciale di Sernylan. Attorno alla metà degli anni ‘60, il PCP iniziò a diffondersi come droga voluttuaria nelle metropoli statunitensi, principalmente con il nome gergale di “polvere degli angeli” (Reed e Kane, 1972). Come è accaduto con molti psichedelici, anche al PCP furono riconosciute caratteristiche “schizofrenicomimetiche”, sulla base di quel paradigma psicotomimetico che discuteremo oltre (Luby et al., 1959; Domino e Luby, 1973), e fra l’impiego come anestetico generale, presto abbandonato, e l’uso voluttuario negli anni ‘60, il PCP ha conosciuto un breve interesse come agente psicoterapeutico nel trattamento delle nevrosi ossessive. L’abbandono clinico del PCP non assopì tuttavia gli interessi nei confronti di una classe di anestetici generali che per la prima volta prometteva maggiori stabilità cardio-respiratorie, e fra i numerosi derivati dell’arilcicloesilamina fu posta l’attenzione sul CL-581, ridenominato in seguito con il termine ketamina. Nel 1964 questa molecola fu sperimentata su 20 detenuti del reparto maschile della Prigione Statale di Jackson (Michigan), e ne furono riscontrate le qualità anestetiche e la bassa tossicità fisica; furono subito osservate anche le medesime alterazioni psichiche prodotte dal PCP, ma di più breve durata e considerate non ostacolanti un suo impiego nelle anestesie

generali. Osservando la peculiarità dei suoi effetti psicoattivi, fu nel contesto di questo medesimo esperimento che venne coniato il termine di “anestetici dissociativi” per tali derivati dell’arilcicloesilamina (Domino et al., 1965). La ketamina parrebbe essere dotata di una proprietà tanto specifica quanto enigmatica, osservata aneddoticamente sia nel contesto dell’impiego clinico come anestetico generale che nell’uso non medico, e cioè quella di poter indurre le esperienze psichiche note come OBE (Out of Body Experiences), “uscite dal corpo”, nel corso delle quali il soggetto ha l’impressione di fluttuare nell’aria potendo vedere il suo corpo e l’ambiente circostante da differenti angolazioni (Jansen, 2001; Corazza, 2014). Anche gli effetti della ketamina sono stati valutati per le loro analogie con il quadro sintomatologico della schizofrenia, e per le quali è stata sviluppata l’ipotesi di una disfunzione glutammatergica di questo tipo di malattia mentale (Frohlich e Van Horn, 2014). Il suo impiego come droga voluttuaria, iniziata alla fine degli anni ‘60, ha visto una notevole espansione negli anni ‘90 in tutto il mondo occidentale, Italia inclusa, attraverso soprattutto i canali culturali dei rave e della musica elettronica (Vidotto Fonda, 2013; Corazza et al., 2013). Molecola studiatissima nel profilo farmacologico, in quanto anestetico tutt’ora impiegato in clinica umana e veterinaria, come agente psicoterapeutico è attualmente valutata nel trattamento delle dipendenze (alcol, eroina), degli stati depressivi maggiori e di alcune forme di emicrania. Non-alcaloidici – THC (Cannabis), salvinorina A (Salvia divinorum) Fra gli psichedelici naturali che non rientrano nella classe biochimica degli alcaloidi (cioè non sono basi azotate), v’è il tetraidrocannabinolo o THC prodotto dal genere Cannabis. Nelle classificazioni delle droghe la cannabis è stata sempre fatta rientrare nella classe degli psichedelici, comunque questi venissero denominati. Si potrà semmai disquisire su una riduzione delle componenti psichedeliche con un’assunzione continuativa di canapa, ed effettivamente le qualità più psichedeliche, “rivelatrici” di questa pianta si manifestano soprattutto quando ingerita o quando fumata occasionalmente. La canapa è soggetta in questi ultimi decenni a un grande interesse medico, un argomento che esula dagli scopi del presente lavoro, che intende focalizzare l’attenzione sugli altri psichedelici. Riferiamo solamente di un suo impiego in terapia in Italia già a partire dalla seconda metà del XIX secolo (Samorini,

2018a). Un altro psichedelico non-alcaloidico è la salvinorina A, prodotto dalla Salvia divinorum, una specie di salvia che cresce nelle regioni montuose del Messico meridionale e che è ancora impiegata dai Mazatechi come agente visionario e diagnostico-terapeutico (Valdés III et al., 1987). Come già riferito, insieme all’LSD la salvinorina A è lo psichedelico più potente al mondo, in quanto sono sufficienti dosaggi di 100 milionesimi di grammo in somministrazione sublinguale per conseguire degli effetti psicoattivi (Ott, 1995). Oltre alla sua presenza nella S. divinorum, recentemente la salvinorina A è stata ritrovata in altre 15 specie di Salvia, a diverse concentrazioni, tutte comunque basse, a eccezione forse di Salvia recognita, che potrebbe risultare psicoattiva (Hatiplogu et al., 2017). Nell’impiego non medico le foglie di S. divinorum vengono generalmente fumate, essiccate o in estratti concentrati; l’effetto è immediato e breve, della durata di 7-15 minuti, e può essere molto potente, come accade con il DMT fumato (Samorini, 2006). Per la sua specifica azione neurofarmacologica, la salvinorina A è attualmente oggetto di studio per possibili applicazioni mediche come antidiarroico e nel trattamento delle dipendenze (cocaina, oppiacei). Beta-carboline – armala, armalina (ayahuasca, Peganum harmala) Le beta-carboline semplici hanno una struttura indolica a cui è associato un altro anello aromatico dal lato libero dell’anello pirrolico. Fra queste si annovera un gruppo di sostanze, denominate alcaloidi dell’armala, di cui i principali sono armina e armalina, presenti in diverse piante e come secondo ingrediente chiave della bevanda dell’ayahuasca, accanto al primo ingrediente, che è il DMT. A elevate concentrazioni i medesimi alcaloidi sono presenti nei semi del Peganum harmala – da cui il nome di alcaloidi dell’armala – un arbusto della famiglia delle Nitrariaceae, diffuso nel Mediterraneo e in Asia, che cresce anche in alcune regioni meridionali italiane, sebbene in esigue stazioni. Questa pianta è stata impiegata come agente visionario sin da una remota antichità nel Vicino Oriente e in Asia. Chiamata in Italia popolarmente pègano, i suoi piccoli semi dalla caratteristica forma di spicchio d’agrume sono impiegati principalmente come potenziante o addirittura innescante gli effetti di altre fonti psicoattive, in base al meccanismo di Holmsted-Lindgren che presenteremo a breve (Samorini, 2016c). La principale proprietà degli alcaloidi dell’armala non è di

natura prettamente visionaria ma farmacologica, e consiste nell’inibire il sistema enzimatico delle MAO (monoaminossidasi), che è alla base del meccanismo d’azione dell’ayahuasca e di determinati fenomeni fisiologici umani. Oltre a questa proprietà farmacologica, armala e armalina sono dotati di una componente psicoattiva di natura psichedelica, sottile ma ben percepibile a dosi robuste, di natura ipnotica e producente un tipo di visioni di tipo imagerie. A questi particolari stati psichici indotti dalle beta-carboline che, pur rinforzando l’attività di “fantasia” non interferiscono con le funzioni dell’ego, Claudio Naranjo (1969) ha dato il nome di onirofrenia, reintroducendo un vecchio termine dell’ambiente psichiatrico coniato da Ladislas Meduna (1950b) e in seguito ripreso da William Turner (1963). Forse l’armala e l’armalina non sono considerabili degli psichedelici “puri”, ma il loro intimo rapporto con il DMT e più in generale con il meccanismo d’interazione con gli psichedelici, espresso anche in preparati tradizionali quali l’ayahuasca, li fa rientrare nell’orbita della classe degli psichedelici. Ayahuasca e meccanismo di Holmstedt-Lindgren Presentiamo ora un’importante fonte psichedelica, l’ayahuasca, insieme a uno specifico meccanismo d’interazione che avviene fra due classi di sostanze quando sono combinate fra loro, il DMT e le beta-carboline. È opportuno comprendere questo meccanismo, le cui implicazioni, anche terapeutiche, vanno oltre la bevanda amazzonica. Quando assunte oralmente, il DMT e le altre triptamine allucinogene non producono alcun effetto, mentre manifestano le proprietà visionarie quando assunte per altra via, mediante aspirazione, inalazione o per via rettale. Il motivo di questa inefficacia dell’ingestione è dovuto agli enzimi MAO presenti nello stomaco (e in altri tessuti e fluidi), che disattivano la triptamina ingerita trasformandola in una molecola inerte. Il sistema enzimatico MAO gastrico è una barriera fenomenale che blocca l’assorbimento di molte molecole pericolose per il corpo umano; ad esempio la tiramina, una molecola tossica presente in abbondanza in diversi cibi quali i formaggi stagionati, gli insaccati, i prodotti di soia. Se possiamo impunemente ingerire questi cibi è per merito degli enzimi MAO che nello stomaco metabolizzano la tiramina, rendendola inefficace. Similmente, il DMT viene metabolizzato dagli enzimi MAO e trasformato in composti inerti che vengono eliminati.

Diversi studiosi – fra cui il chimico ungherese Stephen Szára, pioniere degli studi sul DMT – si sono cimentati in prove d’assunzione orale fino a 1 g di DMT, senza che si sia presentato alcun effetto psico-fisico.26 Eppure, la bevanda dell’ayahuasca viene assunta oralmente, e i suoi effetti visionari sono dovuti alla presenza di DMT. A spiegare questa apparente contraddizione è il secondo ingrediente dell’ayahuasca, contenente gli alcaloidi beta-carbolinici armina e armalina, che sappiamo essere dei potenti inibitori proprio delle MAO. Con l’azione degli enzimi MAO bloccata dalle beta-carboline, il DMT può essere assorbito attraverso la mucosa gastro-enterica ed entrare nel circolo sanguigno, esplicando quindi la sua azione visionaria passando attraverso la barriera emato-encefalica. In tutte le bevande dell’ayahuasca sono costantemente presenti due ingredienti vegetali, uno contenente DMT (foglie di Psychotria viridis o di Diplopteris cabrerana), e l’altro contenente le beta-carboline (liana di Banisteriopsis caapi), e l’interazione farmacologica che abbiamo appena descritto è denominato “meccanismo di Holmstedt-Lindgren”, in onore ai due studiosi che per primi lo ipotizzarono (Holmstedt e Lindgren, 1967: 365), e che fu confermato da studi successivi (McKenna et al., 1984). Sono quindi gli inibitori della MAO, siglati comunemente come i-MAO, a rendere attivo il DMT nell’ayahuasca, e per gli etnobotanici resta ancora un mistero come i nativi dell’Amazzonia abbiano scoperto che le foglie di “quella pianta lì” insieme al legno di “quella liana là”, fra le migliaia di piante della foresta, solo se unite insieme producono un effetto visionario. È difficile che una tale scoperta possa essersi verificata accidentalmente, e sorge il sospetto che i nativi l’abbiano scoperta poiché cercata. I vegetalista, gli ayahuasquero, i curandero, gli sciamani sudamericani sono sempre stati dei grandi sperimentatori e combinatori di droghe medicinali e psicoattive (Torres, 2018). Lo dimostra la medesima ayahuasca nella quale, oltre ai due ingredienti chiave, i nativi aggiungono numerosi altri ingredienti vegetali mentre la cuociono, per potenziarne ma soprattutto per modularne gli effetti visionari (Bianchi e Samorini, 1993).27 Sul fronte della ricerca occidentale, l’acquisizione cognitiva di questa interazione ha contribuito alla comprensione di meccanismi farmacologici e neurofisiologici e di alcune patologie psichiche, mentre sul fronte del consumo non-clinico di psichedelici, in questi ultimi 30 anni l’ayahuasca ha visto una sorprendente diffusione e fama a livello mondiale,

attraverso principalmente i canali new-age delle “cerimonie” (si veda poco oltre); ha acquisito una notorietà anche come fonte terapeutica per diverse patologie (dipendenze, depressioni, cancro), che in breve tempo ha trasformato le cittadine amazzoniche peruviane in grandi ospedali per malati provenienti da tutto il mondo, alla ricerca del miracolo della “sacra medicina”. Quanto di scientificamente comprovato riguardo le proprietà terapeutiche dell’ayahuasca, avremo modo di esporlo nel secondo volume dedicato alle terapie moderne. L’ambiente occidentale di consumo degli psichedelici, in particolare l’ambiente degli psiconauti,28 ha fatto sua la conoscenza del meccanismo di Holmstedt-Lindgren, allargando il potenziale di fonti inebrianti affini all’ayahuasca, in base al seguente ragionamento: le proprietà visionarie dell’ayahuasca sono dovute a una coppia di principi attivi – DMT e i-MAO (armina, armalina); questi medesimi composti si trovano in natura in diverse altre specie vegetali diffuse in tutto il mondo, per cui è teoricamente possibile elaborare ricette dove vengono combinate specifiche piante e conseguirne un effetto simile a quello dell’ayahuasca. A queste combinazioni è stato dato il nome di anahuasca o analoghi dell’ayahuasca. Combinando invece le sostanze pure, si ottiene una pharmahuasca o ayahuasca farmacologica (Ott, 1994). Sul fronte della ricerca medica, è stato compreso il coinvolgimento dei meccanismi MAO e i-MAO in diverse patologie, dalle malattie degenerative senili alla depressione maggiore, alle dipendenze patologiche, e da tempo è sorta una classe di farmaci sintetici dalle specifiche attività i-MAO.29 Empatogeni (MDA e MDMA) Pur riguardando il tema di questo libro l’impiego terapeutico degli psichedelici, non possiamo non prendere in considerazione anche una molecola appartenente a una differente classe di sostanze psicoattive, quella degli empatogeni, dato che la relativa ricerca terapeutica si sta sviluppando con modalità in un certo modo parallela a quella degli psichedelici, sia dal punto di vista d’indagine clinica che di nuova “immagine sociale” che queste sostanze si stanno riguadagnando. La molecola in questione è la MDMA, nota popolarmente come “ecstasy”, e chimicamente come 3,4-metilenediossiN-metilamfetamina. La MDMA fa parte di un corposo gruppo di molecole, per la maggior parte sintetiche, inclusa la medesima ecstasy, che furono classificate negli

anni ‘70 come “amfetamine allucinogene”, e che a partire dagli anni ‘80 sono state riunite nella classe degli empatogeni, “induttori di empatia”, altrimenti denominati entactogeni, “che inducono il contatto interiore”.30 Sia in ambito sociale e mediatico che in quello scientifico e medico, continua con una certa frequenza a essere riportata una confusione che riteniamo un serio errore concettuale e in definitiva farmacologico, e cioè l’assimilazione degli empatogeni agli psichedelici. Gli empatogeni sono caratterizzati da una farmacodinamica, da un’azione cerebrale e da una tossicologia totalmente differenti da quelli degli psichedelici, e a nostro avviso non è ammissibile, soprattutto in ambito medico, considerare l’MDMA come un allucinogeno o psichedelico.31 Sintetizzata presso i laboratori tedeschi della Merck nel 1912, gli effetti psicologici sull’uomo della MDMA furono valutati da Alexander Shulgin alla fine degli anni ‘70 (Shulgin e Nichols, 1978), e a partire dagli anni ‘80 è dilagato il suo uso voluttuario in tutto il mondo.32 Oltre a un interesse terapeutico dell’MDMA durante gli anni ‘80 come antidepressivo, e a un suo impiego come coadiuvante il lavoro psicoanalitico in contesti non sempre ufficiali,33 in questi ultimi anni questa molecola ha visto aprirsi la strada verso un impiego nel trattamento dei disordini da stress post-traumatico, avendo oggigiorno raggiunto la Fase III della relativa sperimentazione clinica, ed essendo in previsione per il 1921 la sua immissione nel mercato farmaceutico.34 Prima del sopraggiungere della MDMA, una molecola affine fu utilizzata per breve tempo in terapia, la MDA (3,4-metilenediossiamfetamina). Questo empatogeno fu sintetizzato dalla casa farmaceutica tedesca Merck nel 1914 a partire dal safrolo – un costituente dell’olio essenziale della noce moscata e di diverse altre piante –, ma le sue proprietà psicoattive furono scoperte solamente alcuni decenni più tardi da Gordon Alles, il medesimo chimico e farmacologo statunitense che scoprì gli effetti dell’amfetamina (Alles, 1959). Negli anni ‘60-’70 la MDA fu sperimentata nel trattamento delle nevrosi e della depressione, e fu impiegato in maniera pionieristica da Claudio Naranjo come coadiuvante psicoanalitico.

I culti sincretici Nella storia delle terapie psichedeliche occidentali si sono presentati e

continuano a presentarsi casi in cui sono coinvolti dei culti religiosi che usano come sacramento rivelatore fonti vegetali visionarie. Si tratta perlopiù di culti sincretici, cioè culti tradizionali che hanno assorbito elementi religiosi e culturali occidentali, attraverso una complessa e a volte sorprendente elaborazione sinergica, che in più casi va oltre il fenomeno del sincretismo, sfociando in un vero e proprio processo di ibridismo.35 I culti che incontreremo nel corso del libro sono il Buiti dell’Africa Equatoriale Occidentale, in cui è usato come sacramento l’iboga, la Chiesa Nativa Americana (NAC) dei nativi dell’America settentrionale, che usano il cactus del peyote, e l’insieme di movimenti sincretici amazzonici che usano l’ayahuasca, i cui principali sono il Santo Daime, la União do Vegetal (UDV) e le Barquinha. Il coinvolgimento di questi culti nelle TP è dovuto, in alcuni casi al fatto di essere presi come esempio o paragone (come per certi trattamenti delle tossicodipendenze), in altri per essere la sede di studi di popolazioni non occidentali che assumono con continuità fonti psichedeliche, e in altri ancora per ospitare o coadiuvare progetti occidentali di determinati trattamenti terapeutici. Per loro natura, e soprattutto per la grande libertà creativa e d’espressione, i culti sincretici sono soggetti a forte movimentazione, reinterpretazione e, soprattutto, ramificazione settoriale. Tale frammentazione è spesso conseguenza della formazione (e rivalità) di nuovi leader spirituali, che si fanno carico di interpretazioni “personalizzate” delle visioni mistiche e profetiche indotte dal sacramento enteogeno, e da cui può conseguire uno scisma interno alla comunità religiosa. Il Buiti è diffuso in cinque nazioni dell’Africa Equatoriale: Gabon, Nuova Guinea, Camerun, Congo, Repubblica Democratica del Congo. Si distinguono una forma tradizionale, tramandata dagli Apindji, Mitsogho, Eshira e altre etnie, soprattutto gabonesi, e una forma sincretica con il Cristianesimo, quest’ultima elaborata dai Fang del Gabon e delle nazioni limitrofe. È in questa forma sincretica, originata verso la fine del XIX secolo, che si osserva una formidabile elaborazione sinergica di tre culti religiosi: il culto tradizionale del Buiti, un antico culto degli antenati proprio dei Fang – il Byeri, dove è usato un altro agente visionario, l’alan (Alchornea floribunda) – e il Cristianesimo; un sinergismo che ha portato all’adozione di tre sacramenti religiosi: l’iboga, l’alan e l’ostia cattolica.36 Accanto al

Cristianesimo e all’Islamismo, il Buiti è la terza religione dello Stato del Gabon, e molti suoi adepti sono membri dell’élite governativa, militare ed economica del paese. Nel Buiti dei Fang è presente un rito iniziatico (tobe si) durante il quale il novizio deve assumere una quantità enorme di iboga, che lo mantiene per molto tempo al confine fra la vita e la morte e lo porta, attraverso un’imponente visione, al contatto diretto con il dio supremo, Nzamé. La quantità di iboga assunta nel corso del rito iniziatico è considerata letale dalla medicina occidentale, sufficiente per uccidere numerose persone, e varia dai 200g sino a 1 kg di scorza di radice polverizzata; ma gli officianti buitisti (kombo) hanno specifiche conoscenze su come introdurre nel corpo siffatta quantità, evitando che l’individuo oltrepassi il confine della vita, e facendo in modo che si risvegli dal lungo stato comatoso indotto dalla pianta, che può durare 50-80 ore (Samorini, 1997-98). Il Buiti è un culto misterico, in quanto gli iniziati (bandzi) hanno l’obbligo di mantenere il segreto su certi aspetti del culto, in particolare del rito iniziatico, e di non comunicarli ai non iniziati. La parola bandzi ha come radice -dzi, “mangiare”, e significa “colui che ha già mangiato”, intendendo l’aver già mangiato l’iboga. Una caratteristica del Buiti sincretico si basa su una comunanza visionaria, cioè tutti gli individui che passano attraverso il rito iniziatico di una medesima setta hanno la medesima visione mistica, identica perfino nei particolari (colori degli oggetti, azioni delle entità spirituali che incontrano, ecc.), e ciò viene scrupolosamente verificato al risveglio dalla grande visione iniziatica attraverso una serie di domande che gli officianti rivolgono al novizio. Se essi ritengono che il novizio abbia avuto la visione che hanno avuto tutti (e che fa parte del segreto iniziatico), lo considerano iniziato, altrimenti lo rifiutano e dovrà sottoporsi a un’ulteriore iniziazione. Può accadere che qualcuno non accetti di essere rifiutato dalla comunità per il fatto d’aver avuto una visione differente, alla quale crede fermamente, e crea quindi una nuova setta, dove tutti i futuri iniziati esperiranno la medesima nuova visione mistica. La ramificazione delle sette del Buiti sincretico rappresenta quindi una “mappa”, o meglio una “cartografia” delle visioni mistiche – delle “esperienze di picco”, per dirla con un concetto occidentale che incontreremo frequentemente nel corso del libro – esperite dai vari leader spirituali e dalle rispettive comunità (Samorini, 2005).

Per quanto riguarda il peyote, questo cactus è ancora tradizionalmente impiegato da alcune etnie del Messico settentrionale, in particolare Huichol, Tarahumara e Cora. Verso la metà del XIX secolo, in seguito a scorribande nei territori messicani, alcuni gruppi nativi delle Grandi Pianure ebbero l’opportunità di conoscere le proprietà visionarie di questa pianta. I primi sembrano essere stati i Lipan Apache, che elaborarono una prima forma di culto che si diffuse velocemente presso gli Oto, Caddo, Arapaho, Delaware, Cheyenne, e attualmente questo culto, denominato Chiesa Nativa Americana (NAC), è diffuso presso la maggior parte delle etnie nord americane, inclusi alcuni gruppi nativi del Canada, stanziati a migliaia di chilometri di distanza dalle aree di crescita del peyote. In questo culto il cactus, identificato con il “Cristo rosso”, svolge le funzioni di sacramento e di fattore salvifico per il popolo “dalla pelle rossa”. La storia della NAC è ricca di personaggi carismatici, di “profeti del peyote”, promotori di innovazioni teologiche e rituali che hanno dato origine a sette e frammentazioni interne al culto. Il più noto di questi profeti è John Wilson, un nativo caddo-delaware vissuto a cavallo del 1900, fondatore del rito della Grande Luna, caratterizzato da una significativa influenza con il Cristianesimo. Il rito si svolge di notte all’interno di uno specifico tipi (la caratteristica tenda dei nativi), dove i partecipanti siedono in circolo attorno al fuoco centrale, consumano il peyote, suonano e cantano seguendo un complesso sistema di protocolli e gerarchie cerimoniali. Accusati inizialmente dai Bianchi di essere dei drogati, poiché mangiavano il peyote, dopo un lungo contenzioso giuridico i peyotisti ottennero il riconoscimento legale dal governo degli Stati Uniti. I peyotisti non hanno mai considerato il peyote come una droga – nel confuso senso occidentale di questo termine – e sin dagli inizi del loro rapporto con questo cactus l’hanno sempre percepito come una medicina sacra, che con il suo potenziale rivelatore si era presentato per salvarli dai loro mali sociali e psicologici, fra cui l’alcolismo (Stewart, 1987). Riguardo l’ayahuasca, il suo uso tradizionale è diffuso presso alcune decine di gruppi etnici del Brasile, Venezuela, Colombia, Ecuador, Peru, e ultimamente una serie di studi di differenti discipline convergono verso l’ipotesi di una scoperta della bevanda avvenuta di recente, forse non più di 3-4 secoli fa (Samorini, 2016b). Nel Ventesimo secolo, in Brasile si sono formati diversi culti sincretici

che impiegano l’ayahuasca, il cui inquadramento storico sarebbe da ricondurre a quel crogiolo sperimentale – tipicamente brasiliano e caratterizzato da uno spiccato eclettismo religioso – di culti e pratiche religiose che continuamente si ramificano, si frammentano, si accorpano, si “intersecano”, al punto che in diversi casi risulta difficile determinare i contesti d’origine degli elementi culturali, rituali e teologici che li compongono e, soprattutto, resta offuscato che cosa sia sincretico con che cosa. Ciò vale in particolare per i culti che impiegano l’ayahuasca, che vengono generalmente indicati come culti sincretici con il Cristianesimo, ma che sarebbe forse più opportuno indicare come culti cattolici sincretici con altri culti sincretici, e dove di tradizionale – nel senso di “tribale” – c’è ben poco, salvo la bevanda sacramentale, l’ayahuasca. Wladimyr Araújo (2002: 507) parla di “cosmologia in costruzione” per definire un insieme di pratiche religiose che tendono a formare una dottrina specifica in cui esiste una grande velocità nell’incorporazione e ritirata di elementi di differenti pratiche religiose, e ritiene questa definizione particolarmente adatta ai nuovi culti ayahuasqueri. Il più noto e il più antico di questi culti è il Santo Daime, fondato a Río Branco (Acre) nel 1930 da un caporale della Guardia Territoriale, Raimundo Irineu Serra.37 Il daime è il nome che viene dato all’ayahuasca, traducibile con “dammi”, “dai a me”. Nella chiesa daimista, che ha preso come simbolo una croce con doppia barra orizzontale, vi sono differenti riti. I più comuni e quelli a cui tutti possono accedere, inclusi i non iniziati, sono i trabajos (“lavori”), incontri notturni dove i partecipanti, vestiti di bianco (in alcune occasioni di azzurro), dopo aver bevuto il daime stanno in piedi disponendosi in file, distinte fra uomini, donne, giovani, bambini, eseguono piccoli passi di danza restando essenzialmente ai loro posti e cantando inni scritti su dei libretti che tengono in mano. Due volte al mese vengono svolti i riti della concentración, a cui possono partecipare solamente i fardados (gli aderenti al Santo Daime), e dove i partecipanti, bevuto il daime, restano seduti con la spalla dritta, in silenzio e in meditazione. Altri riti sono focalizzati sulla cura dei malati (trabalhos de cura), e certe sette hanno adottato in alcuni rituali elementi kardecisti e dell’Umbanda.38 Nel 1945, nell’area di Río Branco (Acre) fu fondata da Daniel Pereira de Mattos la prima Barquinha, con il nome di Centro Espírita e Culto de Oraçaˉo Casa de Jesus fonte de Luz. Mestre Daniel aveva iniziato la sua devozione

ayahuasquera con Mestre Irineu Serra, il fondatore del Santo Daime, dal quale successivamente si distaccò per creare una sua propria linea dottrinale, e per questo motivo la Barquinha è considerata, soprattutto dai daimisti, come un ramo del tronco daimista. In effetti anche nella Barquinha l’ayahuasca viene chiamata daime. Questo movimento ayahuasquero si basa su un sincretismo di valori e pratiche cristiane, spiritistiche e dei culti di possessione afro-brasiliani. Il suo principale simbolo è la barca (da cui il nome barquinha), intesa come il viaggio nella vita di ogni membro della comunità; anche la chiesa in cui si svolgono i riti è intesa come una barca, la “barca Santa Cruza”, abitata dai marinai-adepti al culto. Il luogo del culto è costituito da un salone al cui centro v’è una tavola in forma di croce, sopra cui è riposto un libro azzurro con scritti i 10 comandamenti cristiani, e con attorno 12 sedie, che rappresentano i 12 apostoli. Questo simbolismo fortemente cristiano, reiterato nella prima parte della riunione collettiva a base di daime, lascia il posto nella fase successiva a un rito, chiamato Obras de Caridade, di natura maggiormente spiritistica e di possessione (con connotazioni del culto Quimbanda). Dietro al salone principale la notte del sabato vengono svolti riti che coinvolgono dei medium e in cui vengono trattate le malattie o problemi familiari e psicologici dei “clienti” (Araújo, 2002). Nel 1961, José Gabriel da Costa – noto come Mestre Gabriel fra i fedeli – fondò la União do Vegetal a Porto Velho (Rondônia), un culto anch’esso di stampo cattolico, sincretico con lo spiritismo kardecista, e che basa il suo credo su una visione escatologica di tipo reincarnazionista. In questo movimento l’ayahuasca è chiamata hoasca, e viene assunta dai devoti in incontri rituali, denominati sessoˉes de escala, che si tengono il primo e il terzo sabato di ogni mese. L’uniforme dell’UDV è costituita da una camicia verde con ricamate delle lettere che indicano il grado gerarchico dell’individuo. L’UDV è strutturato in maniera fortemente gerarchica, mediante una piramide di quattro gradi, dove in cima v’è il gruppo dei Mestre e in fondo il gruppo dei Soci. A differenza del Santo Daime, gli incontri dell’UDV vengono svolti in un luogo pressoché privo di immagini di culto, viene mantenuto basilarmente un certo silenzio, con i partecipanti seduti in cerchi concentrici, dove in quelli centrali stanno i membri di più elevato grado gerarchico, e con la possibilità, sotto effetto dell’hoasca, di un dialogo personalizzato, sebbene pubblico, fra i Mestre e gli adepti. Viene ascoltata musica tradizionale brasiliana, ma anche

musica andina o new-age. La principale differenza cerimoniale fra Santo Daime e UDV risiede nel fatto che i daimisti cercano l’illuminazione per mezzo delle visioni estatiche indotte dall’ayahuasca, mentre i seguaci dell’UDV usano gli effetti dell’hoasca per dialogare approfondendo concetti spirituali quali la giustizia, la verità, l’eternità, il bene e il male, l’amore (Fericgla, 1998). Sebbene originato nel contesto rurale, l’UDV ha visto un rapido sviluppo nelle aree metropolitane del Brasile, e dal 1982 la sua sede centrale si trova a Brasilia. Oggigiorno è la congregazione ayahuasquera con maggior numero di devoti nel Brasile, e quella maggiormente strutturata e relazionata con le istituzioni statali. Nel 1985 la UDV ha creato un Centro di Studi Medici, attualmente denominato DEMEC, che riunisce professionisti della salute e che ha come obbiettivo studiare la hoasca “nei suoi aspetti psicobiomedici e farmacologici, attraverso la promozione e l’accompagnamento di ricerche scientifiche e scambi con ricercatori nazionali e stranieri dedicati allo studio del tema” (Gentil Brocanelo e Salles Gentil, 2002: 522). Per via di questa disponibilità nel “farsi studiare”, l’UDV è diventata la struttura ayahuasquera preferita dai ricercatori brasiliani e internazionali per svolgere studi sociologici, epidemiologici e farmacologici degli utilizzatori di ayahuasca. Il Santo Daime e l’UDV si dovettero confrontare con la repressione governativa, specie nel periodo del golpe militare (1964-1985). In seguito, uno studio governativo durato alcuni anni – in cui un’équipe interdisciplinare costituito da psichiatri, antropologi, psicologi, giuristi, medici, sociologi, filosofi, poliziotti, sviluppò un intenso lavoro di osservazione dei riti daimisti e dell’UDV, e dove alcuni membri dell’équipe assunsero l’ayahuasca – portò alla conclusione che non si erano registrati effetti collaterali fisici nell’assunzione dell’ayahuasca, che la complessità della sua preparazione non avrebbe potuto dare adito a un possibile abuso indiscriminato esterno alle comunità religiose, che i membri di queste comunità convivevano in maniera armoniosa e positivamente integrata nella società, che le comunità seguivano sufficienti principi etici e morali, e nel 1987 questi culti ayahuasqueri furono legalizzati in Brasile. Dagli inizi degli anni ‘90 questi culti, in particolare il Santo Daime e l’UDV, si sono diffusi nelle altre nazioni, del Sud America prima, e subito dopo del Nord America e dell’Europa, e attualmente comunità di questi movimenti religiosi sono presenti in tutto il mondo.

Il fenomeno delle “cerimonie” Concludiamo questa rassegna di dati preliminari descrivendo un fenomeno sociale che, come nel caso dei culti enteogenici sincretici, ha a che fare, pur in maniera indiretta, con la moderna ricerca clinica degli psichedelici. Si tratta del fenomeno delle cosiddette “cerimonie”, dove gruppi di individui si incontrano e assumono una o più sostanze psichedeliche guidati da una figura carismatica quale uno sciamano o un neo-sciamano. Sono incontri organizzati da centri new-age o da strutture specificatamente preposte per le cerimonie, o anche da singoli individui, e sono diffusi in tutto il mondo negli ambiti della cultura occidentale o d’influenza occidentale. Per meglio comprendere di cosa si tratta, descriviamo la genesi di questo fenomeno, che abbiamo schematizzato in fig. 6. Negli anni ‘80, in nord America e in Europa originò un movimento culturale noto come New Age (Nuova Era), in cui in maniera fortemente polimorfa venivano fatti incrociare, amalgamare, ibridare correnti spirituali, filosofiche e psicologiche di tutto il mondo, e che ha abbracciato tutte le pratiche “alternative” nei campi della medicina, esoterismo, sciamanesimo, alchimia, astrologia, ecc. In pratica, si è trattato del primo grande movimento culturale globalizzato, fondato su sistemi teorici e pratici nella maggior parte non riconosciuti dalla scienza ufficiale. Sin dalle sue origini, questo movimento ha promosso l’interscambio culturale fra differenti scuole di pensiero e di pratiche spirituali, invitando ad esempio monaci tibetani o sciamani nordamericani o nepalesi a tenere conferenze o stage pratici presso le sedi occidentali delle organizzazioni new-age. Questo aspetto – l’invito di personaggi carismatici delle varie etnie e scuole spirituali di tutto il mondo – è stato e continua a essere un fattore chiave per lo sviluppo delle pratiche new-age e delle moderne cerimonie. Nel primo decennio d’esistenza, la New Age rifiutava categoricamente qualunque droga, conformemente alla visione delle droghe dettata dai luoghi comuni sociali e mediatici, e senza essere in grado di metterla in discussione, né di fare distinzioni fra fonti visionarieenteogene e le altre droghe.

Fig. 6 – Genesi cronologica del fenomeno delle “cerimonie”.

Agli inizi degli anni ‘90, conseguentemente alla legalizzazione del Santo Daime in Brasile, questo movimento religioso inizia a diffondersi al di fuori dei confini nazionali, raggiungendo gli Stati Uniti e l’Europa. Gruppi newage – un movimento che nel frattempo è diventato sempre più sensibile e interessato a tutto ciò che è sincretico e ibrido – incontrano in questi contesti occidentali il Santo Daime e ne restano affascinati, al punto che viene rimosso il tabù nei confronti delle “droghe” e viene promossa un’apertura nei confronti degli psichedelici. Nei medesimi anni ‘90, in Amazzonia si assiste a una crisi vocazionale dello sciamanesimo tradizionale. Il vegetalista, l’ayahuasquero e più in generale lo sciamano, era sempre stato fra gli individui più poveri del villaggio, venendo pagato per le sue prestazioni con delle offerte nella maggior parte dei casi materiali (sigarette, polli, candele, ecc.) e a discrezione del cliente e delle sue magre tasche, e i giovani del villaggio non volevano più diventare sciamani, cioè poveri, mirando ai valori occidentali della ricchezza materiale. Dalla seconda metà degli anni ‘90 si assiste a un flusso di occidentali interessati all’impiego tradizionale delle fonti visionarie – inizialmente antropologi, etnobotanici e altri studiosi – che prende sempre più forma in ciò che può essere chiamato “turismo psichedelico”, e che inizia a influenzare gli sciamani e le loro pratiche d’impiego dell’ayahuasca, sino a

indurre modifiche dei riti sciamanici, portando in tal modo all’elaborazione delle prime “cerimonie” ad hoc per i Bianchi. Parallelamente al turismo psichedelico, in Amazzonia si osserva lo sviluppo di un neo-sciamanesimo, dove individui di cultura occidentale si recano presso gli sciamani e si sottopongono a una fase di apprendistato per diventare essi medesimi sciamani, apprendendo le tecniche d’impiego delle piante medicinali e di quelle visionarie, in particolare l’ayahuasca. Nel frattempo e dagli inizi degli anni 2000, si assiste a un vero e proprio “boom” di sciamani amerindi che viaggiano negli altri continenti, invitati soprattutto da organizzazioni new-age per “cerimoniare”, un fenomeno che non si limita agli sciamani ayahuasqueri, poiché la New Age a questo punto si è aperta a tutte le altre pratiche sciamaniche dove sono impiegate fonti psichedeliche, e vengono quindi coinvolti anche curandero delle Ande che usano il San Pedro e nativi nordamericani che usano il peyote. Tutto ciò ha portato a una situazione attuale dove, all’insegna dei più sfrenati e globalizzati sinergismi e ibridismi, e con forti interessi spirituali e al contempo economici, si verificano contemporaneamente i seguenti eventi: – nel contesto tradizionale, nelle Americhe, lo sciamano è ora diventato l’individuo più ricco del villaggio (ciò che uno sciamano amazzonico guadagna in una singola tournée in giro per l’Europa, nessun abitante del villaggio amazzonico lo guadagna in tutta la sua vita) e si assiste a una ripresa dello sciamanesimo, dove la crisi vocazionale ha lasciato velocemente posto a una corsa a diventare sciamano, con i genitori che spingono i figli verso quella lucrosa e rispettabile professione, con conseguente sviluppo dell’indotto formativo in strutturate scuole per sciamani. – da alcuni anni si assiste a una diffusione dell’ayahuasca in tutto il mondo, a una vera e propria “globalizzazione dell’ayahuasca” che, attraverso le strutture delle “cerimonie”, oltrepassa tutti i confini geografici e i distinguo religiosi e sociali, promuovendo un suo impiego con finalità che stanno a cavallo fra la ricerca spirituale e la funzione terapeutica. – Riguardo specificatamente l’ayahuasca e restando nei territori tradizionali, per via delle proprietà “miracolose” attribuite a questa bevanda visionaria, inneggiate principalmente dagli ambienti new-age – ad esempio sue supposte proprietà curative del cancro – le cittadine amazzoniche peruviane sono state invase da malati provenienti da tutto il mondo in cerca della sacra medicina; un fenomeno che ricorda da vicino quello dei pellegrinaggi cattolici a Lourdes.

– In ambito occidentale, la crescente industria delle ceri-monie sta facendo promuovere un po’ ovunque figure di neo-sciamani, guide e “facilitatori”, spesso auto-qualificatisi come tali e con una formazione improvvisata. Si assiste anche alla promozione individuale di cerimonie, al di fuori delle “storiche” strutture new-age. – Un luogo tanto comune quanto errato fa ritenere il feno-meno delle cerimonie frutto della cultura psichedelica, probabilmente per il fatto che nelle cerimonie vengono assunte delle fonti psichedeliche. In realtà, osservando attentamente la genesi storica qui esposta, si può evincere come il fenomeno delle cerimonie sia un frutto della cultura new-age. La cultura psichedelica e quella psiconautica – quest’ultima un’evoluzione moderna della prima – inizialmente disdegnava, e nella maggior parte dei casi ancora oggi disdegna, il fenomeno delle cerimonie. Ma con lo sviluppo esponenziale delle cerimonie e attratti dalle possibilità economiche, alcuni individui di cultura psiconautica vi si sono avvicinati, apportandovi le loro conoscenze globali in materia di fonti inebrianti. Ciò ha portato a un arricchimento delle cerimonie di nuove fonti inebrianti vegetali (ad esempio il pègano) e animali (il rospo Bufo alvarius e il kambo) e di nuove modalità d’assunzione (ad esempio strumenti di inalazione per il rapé).39 – il fenomeno delle cerimonie si è evoluto al punto che oggigiorno tutte le tecniche antiche e moderne di modificazione della coscienza senza inebrianti (dalla capanna sudatoria alle tecniche di deprivazione sensoriale), tutte quelle new-age e tutte le medicine alternative sono confluite nelle cerimonie psichedeliche, un fenomeno al quale diamo il nome di ibridismo cerimoniale globalizzato. Chiariamo con alcuni esempi presi da contesti italiani. Cerimonie organizzate sugli appennini bolognesi: 8 settembre 2017, incontro compreso di cerimonia dei 4 tabacchi Lakota (dove si fumano diversi tipi di tabacchi da una pipa cerimoniale), inipi (capanna sudatoria), e cerimonia wixarika (con peyote), il tutto nel giro di 24 ore; 23 settembre 2017, incontro notturno comprensivo di cerimonia “tradizionale” di ayahuasca e temazcal (capanna sudatoria). Nel settembre del 2017 è stata organizzata in un ritiro dell’Italia centrale un evento di “Cinque giorni di trattamento con piante maestre e psicoterapia bioemotiva”. L’incontro includeva: due cerimonie con ayahuasca, una cerimonia con wachuma (San Pedro), due cerimonie con kambo (l’essudato di rana che viene introdotto nel corpo mediante scarificazioni dermiche), una cerimonia del Fuoco (un rito rielaborato da quello dei Sioux del Nord America, in cui viene fumato il tabacco in una pipa

cerimoniale), dieta con piante curative, tecniche di rilascio emotivo, biorespirazione, yoga, mindfulness, psicoterapia, psicomagia, terapia del suono, pulizia energetica. In pratica, e lo esprimiamo con un accento innegabilmente un po’ sarcastico, è come andare in una SPA e uscirne “come nuovi”, con la differenza che nella SPA si persegue principalmente il benessere fisico, mentre nelle cerimonie si persegue principalmente il benessere psichico o spirituale. Le cerimonie sono oggigiorno diffuse in maniera quasi capillare nella cultura occidentale, e nella maggioranza dei casi vengono promosse alla luce del giorno, conformemente alle possibilità legali d’impiego delle fonti inebrianti adottate, che variano nazione per nazione. In diversi casi, gli organizzatori delle cerimonie si stanno avvalendo di un “limbo di permessività” in cui, sebbene non stabilito in maniera esplicita, si vengono ancora a trovare in diverse nazioni, Italia compresa, le fonti visionarie tradizionali come l’ayahuasca. È opportuno tenere anche in considerazione che la partecipazione alle cerimonie è frequentemente giustificata da motivi terapeutici: dalla speranza di interrompere una dipendenza, inclusa quella indotta dagli psicofarmaci, al tentativo di guarire da una bulimia o altro disturbo alimentare, o per cercare di uscire da un circuito di pensiero ossessivo, o per trovare sollievo da un trauma affettivo, ecc.40 Al di là delle possibili critiche che si possono avanzare nei confronti di un fenomeno deregolamentato, dalle oscure economie, e con problemi di qualità formativa e assistenziale da parte di chi guida esperienze collettive con potenti fonti psichedeliche, resta indubbio il ruolo delle cerimonie nell’aver facilitato l’esperienza psichedelica a un esteso insieme di individui che altrimenti non avrebbero potuto crearsi questa opportunità, ad aver fatto conoscere ovunque l’ayahuasca, e ad aver in tal modo contribuito alla riduzione di percezione del pericolo, dei rischi, dei “gravi danni” degli psichedelici; una visione che era stata inculcata acriticamente nel periodo della messa al bando di queste sostanze alla fine degli anni ‘60, e che per 30 anni ha ostacolato la ricerca scientifica e medica degli psichedelici. Quindi, pur in maniera indiretta, il fenomeno delle cerimonie ha contribuito a quel cambio di paradigma nei confronti degli psichedelici che ha permesso il ritorno di queste sostanze nelle cliniche e nella ricerca medica. Alcune recenti ricerche scientifiche con l’ayahuasca si sono potute realizzare in Europa avvalendosi della disponibilità a “farsi studiare” di partecipanti alle cerimonie, che si sono sottoposti a studi farmacologici e psicologici prima e

dopo l’assunzione dell’ayahuasca.

CAPITOLO 2

I PRECEDENTI

Le terapie psichedeliche tradizionali Le fonti psicoattive psichedeliche sono impiegate dall’uomo sin da remota antichità, e ancor oggigiorno sono utilizzate tradizionalmente come agenti visionari in riti religiosi, magico-divinatori e terapeutici. Tali impieghi tradizionali si sono conservati soprattutto nelle Americhe, ma nel passato erano ampiamente diffusi anche nel Vecchio Mondo. È stato ipotizzato che il motivo di questa disparità geografica sia dovuto al fatto che l’impiego di fonti visionarie è specifico delle tradizioni sciamaniche, le quali, pur diffuse nel passato anche in Eurasia, si sono preservate maggiormente nelle Americhe (La Barre, 1964). È opportuno osservare come la figura dello sciamano, del curandero, del medicine-man, o dello “specialista del sacro”, per dirla con Mircea Eliade (1983), è strettamente associato all’impiego di tecniche di modificazione dello stato di coscienza, fra cui quelle che prevedono l’utilizzo di fonti inebrianti, principalmente di natura psichedelica. Per sua intrinseca funzione, lo sciamano è un individuo che agisce per curare, che si occupa di guarire i malati, e la sua figura è quindi da vedere come quella che sin da antica data effettua terapie che usano fonti psichedeliche; più esplicitamente, lo sciamano è il “padre”, il “fondatore” delle terapie psichedeliche. In questa sede non ci occuperemo di tali terapie tradizionali, per le quali rimandiamo alla vasta letteratura etnografica e antropologica.41 Citiamo solamente un caso, che riteniamo esemplare in quanto riguarda un impiego tradizionale che più di altri è comparabile con le moderne terapie psicoanalitiche che fanno impiego di psichedelici.

Nelle Ande peruviane si sono preservate pratiche di cura sciamaniche che rientrano sotto il termine di curanderismo e che prevedono l’impiego del cactus visionario del San Pedro come agente psico-diagnostico. Gli antropologi occidentali che a partire dagli anni cinquanta hanno effettuato ricerche sul campo, attraverso il contatto con gli sciamani locali – i curandero –, non avevano mai contemplato la possibilità che potessero esistere donne curandera, partendo dal presupposto che il curanderismo riguardasse unicamente persone di genere maschile. I motivi di questa convinzione, rivelatasi errata, hanno per causa diversi fattori, fra cui la gelosia dei curandero nei confronti della loro professione “maschile”, il fatto che i ricercatori che li studiavano erano tutti uomini, e il fatto che le donne curandera hanno la tendenza a non rivelarsi a degli stranieri (studiosi) maschi, così come la loro attività è meno pubblica di quella dei colleghi maschi. Si dovette attendere lo studio sul campo di un’antropologa dell’Utah State University di Logan, Bonnie Glass-Coffin, per correggere questa grossa svista nello studio del curanderismo nord-peruviano; iniziando la sua fruttuosa ricerca nel 1988, rivelò l’esistenza di donne curandera nei dipartimenti peruviani di Piura, Cajamarca e Lambayeque, cioè nelle medesime aree geografiche dove è diffuso il curanderismo maschile. Congiuntamente alle similitudini che si possono riscontrare nelle ideologie e nelle pratiche dei curandero maschi e femmine, vi sono importanti differenze, fra cui il fatto che nel curanderismo femminile la malattia è concepita per lo più come causa dei propri errori, piuttosto che come frutto di stregonerie altrui (interpretazione quest’ultima tipica del curanderismo maschile): “In altre parole, queste donne non curano ‘per conto dei loro pazienti’, ma insistono che i pazienti partecipino attivamente nelle loro cure e si assumano la responsabilità delle cause della loro sofferenza. Invece di trattare i clienti come vittime passive, dipendenti dal potere dello sciamano per trasformare la loro sofferenza, queste donne enfatizzano l’azione del sofferente, sia agevolando che dominando la propria malattia; esse enfatizzano il fatto che la cura non sopraggiunge mediante la vittoria di un nemico invisibile da parte del curatore, bensì che la cura è ottenuta solamente attraverso l’accettazione delle circostanze della vita e mediante una specie di ‘mettersi giusti’ con le forze dell’universo. Il compito del curatore è solo quello di guidare il paziente verso una comprensione consapevole di questo sforzo” (Glass-Coffin, 1998: 185-6).

Riportiamo come esempio il caso di una coppia sposata, José e Rosa, che si recò dalla curandera per via delle emicranie intermittenti di cui soffriva il marito sin da quando era bambino, e che visite ed esami presso medici e ospedali non avevano mai risolto. Quando gli effetti del San Pedro si fecero sentire fra tutti i partecipanti al rito sciamanico, la curandera, di nome Isabel, aiutò José a ricordarsi di un evento della sua infanzia, di quando all’età di sette anni perdette un cappello di lana, e ad associare questo evento con l’inizio dei mal di testa, oltre che della difficoltà di concentrazione, di pensiero e di memorizzazione che lo avevano sempre accompagnato nella vita. Nel corso del dialogo, il discorso passò alla constatazione che quando José doveva affrontare situazioni difficili, diventava immancabilmente depresso e immotivato, sino all’abbandono della situazione senza risolverla. Ciò era sempre stata la causa principale del suo fallimento professionale, nonostante egli avesse un buon grado di intelligenza, con conseguente delusione e mancanza di stima da parte dei genitori e di sé medesimo. In seguito alla visione-consapevolizzazione di queste dinamiche psicologiche, José iniziò a ripetere convinto: “Ora farò qualcosa per la mia vita, costruirò qualcosa per il mio futuro”. A questo punto la curandera rivolse l’attenzione alla moglie Rosa, che era presente e anch’ella sotto effetto del San Pedro; essa fu inizialmente restia nel riconoscere certi problemi relazionali che avrebbe avuto con la suocera e le sorelle del marito, e che la curandera “vide” con una sicurezza sconcertante, al punto che a Rosa non restò che affrontarli ed esternarli apertamente: era vero, i parenti di José le mettevano continuamente i bastoni fra le ruote, erano piene di malizia, e le rendevano la vita familiare un inferno. La nitida visualizzazione di questi problemi indusse nella coppia un processo catartico utile per la risoluzione delle emicranie di lui e per affrontare meglio la vita di entrambi (Glass-Coffin, 1998: 180-2). Chi ha familiarità con la psicoanalisi, in questo esempio di pratica curativa di una curandera peruviana riconoscerà facilmente una notevole analogia con le dinamiche e tecniche occidentali, dove l’agente psichedelico, il San Pedro, funge da fattore facilitante (“rivelatore”) l’emersione di ricordi repressi e da catalizzatore di processi introspettivi e di consapevolizzazione. Numerose sono le storie come quella di José che abbiamo lette nel corso della nostra osservazione delle centinaia di protocolli delle sedute cliniche occidentali basate sull’assunzione di mescalina, LSD, psilocibina.

Le terapie da shock abreattive Passando ora alla cultura occidentale, per prima cosa riteniamo utile contestualizzare il sopraggiungere delle terapie psichedeliche del Ventesimo secolo, osservando il contesto storico psichiatrico in cui si formarono. Agli inizi del Ventesimo secolo, il personale medico e infermieristico dei luoghi a quei tempi denominati “manicomi” disponeva di pochi strumenti per affrontare gli attacchi psicotici e maniacali dei loro pazienti, e ancor meno per cercare di “guarire” il malato mentale, il “pazzo”. Generalmente si trovavano a dover scegliere fra il lasciare il malato al suo destino di paziente fisso del nosocomio, gestendolo “alla meno peggio”, con l’impiego anche di una serie di collaudati trattamenti fisici e chimici forzati; o inserirlo in un programma di lunga e tediosa psicoterapia, dai risultati il più delle volte incerti. Detto secondo altre prospettive, la psichiatria era frustrata dalle sue incapacità di erigersi a ruolo di scienza medica curante. Fu con l’arrivo delle “terapie da shock” che questa frustrazione lasciò spazio ai successi e soprattutto alle speranze, dotando la scienza psichiatrica di un primo complesso terapeutico credibile sia a livello teorico che clinico. Con le terapie da shock lo psichiatra iniziò a sentirsi medico a tutti gli effetti.42 Le terapie da shock – meccaniche, elettriche, farmacologiche – si basavano sull’induzione nel malato mentale di uno stato di shock psicofisico, in definitiva neurologico, che per un qualche meccanismo, più o meno teorizzato nei rapporti di quei tempi, fermava o rallentava gli attacchi maniacali. Per esempio, Silbermann (1940) riteneva la paura della morte esperita dal paziente nel corso dello shock un fattore psicologico decisivo per il risultato terapeutico, in quanto generava un’esperienza di rinascita con associata euforia; inoltre, lo shock induceva un dissolvimento dell’ego psicotico, e la reiterazione dello shock, con continui dissolvimenti dell’ego psicotico, portava gradualmente all’impossibilità della sua ricostituzione, lasciando spazio alla rigenerazione di un ego normalizzato. A partire dal XVIII secolo sino alla prima metà del Ventesimo secolo, nei manicomi fu praticata una lunga serie di terapie da shock, alcune sorprendenti, altre “creative”, molte di dubbia efficacia, alcune che ricordavano le pratiche di tortura: dall’uso di salassi, emetici, purganti e clisteri, agli interventi chirurgici quali la castrazione e la rimozione del clitoride, questi ultimi sulla base di supposti rapporti eziologici fra gli organi genitali e l’isterismo; dall’induzione nello schizofrenico di una meningite

asettica mediante iniezione intrarachidea di siero di cavallo, alle varie pratiche di piretoterapia, inclusa la malarioterapia, sulla base della constatazione di riduzione dei sintomi psicotici nel contesto di stati febbrili dei malati mentali. Altre terapie erano quelle convulsivanti, che cercavano di indurre e controllare gli stati convulsivi nel malato; fra queste ricordiamo quelle elaborate da Ladislas Meduna: la canfora-terapia e la cardiazolterapia, quest’ultima impiegante un derivato sintetico della canfora, il cardiazolo.43 Alcune terapie da shock sono definibili più specificatamente come terapie abreattive da shock, avendo in comune come scopo principale o fra i principali quello di indurre delle abreazioni, utili per il processo psicoanalitico. Il termine e il concetto di abreazione, derivante da “abreagire”, furono elaborati nel 1893 da Josef Breuer e Sigmund Freud, internamente a osservazioni cliniche e concettualizzazioni teoriche nel campo delle isterie. L’abreazione è una scarica emozionale, quindi affettiva, spesso violenta, attraverso la quale riemergono nella mente del paziente memorie represse relative ad antichi traumi o eventi problematici, che erano state rimosse poiché considerate inopportune o, più frequentemente, troppo dolorose e di difficile integrazione al momento del loro accadimento. L’abreazione ha un immediato effetto catartico, risolutore delle patogenicità causate dalla rimozione degli eventi traumatici, attraverso soprattutto la dissoluzione dell’emozione correlata all’evento traumatico e che era rimasta repressa e “intrappolata” nell’atto di rimozione. Non è un caso che negli scritti di Breuer e Freud il termine “catartico” venga presentato per la prima volta insieme a quello di abreazione.44 Ai fini di un processo di guarigione, è fondamentale che l’abreazione sia accompagnata da intensa emozione, da intensi elementi affettivi, e che venga verbalizzata dal paziente: Trovammo infatti, in principio con nostra grandissima sorpresa, che i singoli sintomi isterici scomparivano subito e in modo definitivo, quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto. Il ricordo privo di elementi affettivi è quasi sempre del tutto inefficiente; il processo psichico svoltosi in origine deve ripetersi con la maggiore vivacità possibile, deve essere riportato nello status nascendi e deve poi essere ‘espresso in parole’ (Breuer e Freud, 1893: 7).45

L’induzione di eventi abreattivi diventerà l’obbiettivo principale del processo psicoanalitico freudiano.

Di seguito esponiamo succintamente le principali terapie da shock abreattive, in quanto è dalle loro basi teoriche che originarono le moderne terapie psichedeliche.

Narcoanalisi Il termine generico narco-analisi includeva un insieme di tecniche che differivano notevolmente fra loro e alle quali erano stati attribuiti nomi più specifici quali narco-suggestione, narco-catarsi, narco-ipnosi, narco-sintesi, psicoanalisi chimica, narcoesame, narco-analisi vera e propria, ecc. In una primissima fase di queste tecniche fu impiegato principalmente l’etere, abbandonato nel Ventesimo secolo in favore dei barbiturici e delle amfetamine. Queste tecniche possono essere considerate, per lo meno sul profilo storico, come delle variazioni della terapia catartica, che impiegava l’ipnosi per cercare di richiamare alla memoria avvenimenti dimenticati, e di cui si servì inizialmente anche Freud e dalla quale di fatto originò la psicoanalisi. Oltre allo scopo prettamente terapeutico – nel qual caso si parlava di narco-terapia – le droghe menzionate furono impiegate per diagnosticare le malattie mentali (narco-diagnosi), sebbene non fosse sempre possibile separare i risultati meramente diagnostici da quelli terapeutici (Sullivan, 1942); furono impiegati anche per avere indizi utili sulla prognosi dei trattamenti shock quali quello insulinico (narco-prognosi). Il barbiturico maggiormente impiegato nella narco-analisi è stato il sodio amitale; usato inizialmente per sedare pazienti disturbati, successivamente si rivelò utile per stimolare quei pazienti intrattabili, negativisti, muti, che rifiutavano il cibo. Fu somministrato anche a pazienti catatonici, con lo scopo di indurre un “intervallo lucido” in cui il farmaco facilitasse la comunicazione verbale del paziente, con conseguente rilascio di informazioni utili per la diagnosi e il trattamento psicoterapeutico. Non tutti i barbiturici si mostrarono adatti per sbloccare le resistenze dei pazienti che avevano difficoltà di comunicazione, e di fatto furono impiegati per questo scopo solo il sodio amitale e il pentotal, mentre furono esclusi il luminal e l’evipal, per via della loro carenza di rilascio di materiale psichico e l’assenza di influenza sui meccanismi inibitori e repressivi (Hoch, 1946). Questa tecnica fu estesa da Horsley (1936) a diversi tipi di pazienti

psichiatrici, seguendo un percorso consequenziale ciclico che iniziava con una lieve narcosi, quindi induzione di ipnosi, analisi, sintesi, narcosi profonda, ripetizione del trattamento, rieducazione. Fu Horsley a coniare il termine narco-analisi per la sua tecnica, che godette di molta fortuna e fu positivamente impiegata nelle nevrosi emotive traumatiche, oltre a diventare popolare nel trattamento delle conversioni isteriche causate dai traumi bellici durante la Seconda guerra mondiale, dove in alcuni casi venne impiegata la tecnica di fare udire al paziente, nel corso della narcosi, suoni di battaglie e di bombe, con lo scopo di indurre e rafforzare i processi abreattivi (Kupper, 1947). Horsley definì come segue la sua tecnica: La teoria della narco-analisi coinvolge entrambi i concetti biochimico e psicodinamico. Il concetto biochimico è che persone che per una serie di motivi sono scontrose, reticenti, inibite o anche mute, possono durante la narcosi parlare spontaneamente, rivelare ansie, conflitti o memorie dolorose dalle quali, sia consapevolmente che inconsapevolmente, cercano rifugio. Il concetto psicodinamico incorpora le visioni generalmente accettate del conflitto, della repressione e dell’amnesia, con riferimento alla loro modificazione mediante l’ipnosi e l’analisi. Gli studiosi del passato hanno avuto la tendenza a porre più o meno enfasi su uno o l’altro di questi concetti, trascurando quindi il possibile vantaggio dell’approccio combinato narco-analitico (Horsley, 1936: 418).

Sempre riguardo il sodio amitale, fece scalpore il suo impiego per il recupero della memoria in sei casi di amnesia isterica, dove in tutti i casi la memoria si ripresentò nel giro di pochi minuti dopo la somministrazione del barbiturico (Herman, 1938). Oltre che come agente terapeutico, il sodio amitale fu impiegato come agente diagnostico, come ausilio nella differenziazione fra le nevrosi e le psicosi, per distinguere lo stupore maniacale da quello catatonico, il mutismo schizofrenico dall’amnesia e afonia isterica, le psicosi organiche – che richiedono una quantità maggiore del barbiturico per ottenere effetti sia stimolanti che narcotici – da quelle funzionali (Hoch, 1946; Sullivan, 1942). Il medesimo barbiturico fu impiegato in qualità di agente pronostico, come test preliminare negli schizofrenici prima dei trattamenti shock con insulina o metrazolo; coloro che avrebbero risposto positivamente con il barbiturico, avrebbero presumibilmente risposto bene anche al trattamento shock (Harris et al., 1939). I barbiturici furono usati anche nella “terapia del sonno”, una tecnica che si basava nell’indurre un’anestesia o stati profondamente sonnolenti, con lo scopo di smuovere meccanismi psicotici. Si trattava di una tecnica già elaborata nella seconda metà del XIX secolo, ma che vide un salto di qualità

con il sopraggiungere dei barbiturici nel Ventesimo secolo. L’obbiettivo era quello di mantenere il paziente addormentato o profondamente sonnolento per 15-20 ore al giorno, per un periodo medio di 10-12 giorni. Il paziente veniva svegliato due volte nelle 24 ore per fargli assumere dei liquidi e per i bisogni fisiologici. La dose di barbiturico veniva di giorno in giorno velocemente aumentata sino a raggiungere un plateau generalmente al quarto giorno. Il paziente era tenuto sdraiato di lato in una stanza quieta e con poca luce. In una prima fase di questa tecnica, non veniva fatto alcun tentativo di psicoterapia profonda, semplicemente venivano rivolte rassicurazioni e incoraggiamenti al paziente. I risultati consistevano in una discreta riduzione degli attacchi maniacali nei mesi successivi, e i risultati migliori furono osservati con i maniaco-depressivi, specialmente durante l’attacco acuto maniacale (Palmer e Braceland, 1937). Questa tecnica di narcosi prolungata fu in seguito perfezionata, quando si scoprì che l’interruzione improvvisa del barbiturico nel corso della lunga narcosi induceva nel paziente uno stato delirante con produzione di forti abreazioni, utili per il lavoro psicoterapeutico. Successivamente si poteva presentare amnesia, ma solo parziale, e il personale infermieristico prendeva nota di tutto ciò che il paziente diceva. Una parte metodologica importante per la buona riuscita del trattamento era la registrazione completa delle parole e frasi pronunciate dal paziente, spesso in maniera “automatica”, o più propriamente mediate dal sub- e preconscio. Il sodio amitale veniva interrotto improvvisamente solitamente fra il sesto e il dodicesimo giorno di narcosi continua, e il delirio si presentava mediamente 2-3 giorni dopo l’interruzione; occasionalmente si presentava dopo 4-6 giorni, e raramente dopo 7-8 giorni. Lo stato delirante durava generalmente 3-6 giorni e in questo periodo, approfittando della “finestra aperta” di potenziale comunicativo, veniva praticata la psicoterapia, sia analitica che sintetica (Heldt, 1947). Nella narco-analisi sono stati impiegati anche gli stimolanti quali caffeina e amfetamine, e si formò una branca terapeutica specifica, chiamata weckanalisi, che impiegava le cosiddette “ammine del risveglio” o ammine simpaticomimetiche, cioè le amfetamine. In Italia e in Germania furono particolarmente impiegate per scopi diagnostici, mentre in Francia e in Inghilterra furono usate soprattutto come agenti psicoterapeutici.46 A Parigi Jean Delay praticò lo “shock amfetaminico” (con iniezione intravenosa di 30 mg di metedrina), per indurre nei malati mentali un’esplosiva scarica emotiva con esteriorizzazione verbale disinibita. Delay preferiva l’amfetamina per

l’esplorazione del materiale cosciente, mentre impiegava i barbiturici per l’esplorazione del materiale subconscio (Delay, 1949). Simon e Taube (1946) sperimentarono per primi la metedrina su pazienti afflitti da psiconevrosi con depressione, con lo scopo di facilitare la verbalizzazione e l’afflusso di materiale inconscio; una facilità di verbalizzazione che fu riconosciuta e ironicamente commentata da uno dei pazienti con l’affermazione “devo essere stato iniettato con una punta di fonografo”. Levine et al. (1948) studiarono l’effetto del Pervitin su 75 pazienti psichiatrici, riuscendo a indurre nella maggior parte dei casi un flusso di materiale psicologico carico emotivamente, inclusa l’emersione di memorie dolorose ed esperienze traumatiche, con conseguente sollievo da tensioni e sensazioni di rilassamento. La metedrina risultò utile particolarmente negli stati depressivi e ansiosi, e pure nelle balbuzie, ma solo se somministrata in un contesto psicoanalitico, mentre risultò di poca utilità nei compulsivo-ossessivi (Straker, 1953). In una tipica seduta di narco-analisi con amfetamine, in prima mattinata e nel giro di 3-4 secondi veniva effettuata un’iniezione intravenosa di 20 mg di metedrina, seguita da un lavoro psicoterapeutico di 20-60 minuti, e il paziente veniva in seguito incoraggiato a scrivere. La reazione più caratteristica era il rilascio dei meccanismi difensivi e inibitori, ed era stata osservata una differenza fra l’azione della metedrina, capace di fare emergere sensazioni emotive più localizzate e definite, e quella della benzedrina, che pareva provocare una reazione emotiva più diffusa e non così conscia (Jonas, 1954). La ripetizione troppo frequente della somministrazione dell’amfetamina ne riduceva gli effetti utili, e per questo veniva rispettato un intervallo di alcune settimane (fino a sei) fra le diverse somministrazioni. Riguardo i barbiturici, fu osservato che inducono un effetto narcotico e atassico che spesso ostacolava la comunicazione verbale, fondamentale per il processo psicoterapico, e per ovviare a questo inconveniente fu sperimentata la tecnica di accoppiare al barbiturico un poco di amfetamina. Myerson (1939) provò per primo questa combinazione, osservando come risultato un’induzione di loquacità che non avrebbe altrimenti ottenuto con il solo barbiturico, e che gli permise di impiegare quest’ultimo come agente diagnostico. Una tipica combinazione era di 2,9 mg di sodio amitale per kg di peso corporeo + 0,15 mg/kg di metedrina; l’effetto della loquacità si presentava 30-50 minuti dopo la somministrazione e durava 1-3 ore (Wedge, 1950). Con il medesimo scopo di indurre la verbalizzazione, fu sperimentata

la caffeina circa 20 minuti dopo il sodio amitale (Sullivan, 1942). Come si vedrà oltre, la tecnica di combinare un agente psicoattivo con uno stimolante amfetaminico fu adottata nelle terapie psichedeliche. Un esempio di tecniche di narcoanalisi combinate riguarda lo studio clinico dell’équipe londinese di Shorvon, che si cimentò in una serie di applicazioni su una cinquantina di pazienti affetti da disordini della pelle di natura psicogena (psoriasi, pruritus ani, pruritus vulvae, eczemi, urticarie, ecc.). Ai pazienti venivano somministrati per endovena barbiturici, etere, metedrina, o fatta aspirare la miscela carbonica di Meduna (si veda oltre), in una serie di sedute, una o due volte alla settimana, e di frequente cambiando la sostanza somministrata, con lo scopo specifico di indurre abreazioni, spesso violente, che venivano monitorate e guidate con supporto psicoterapeutico. Con un follow-up a un anno gli autori riportarono come risultati un 42% di risoluzione totale dell’affezione dermica e un 44% di miglioramenti (Shorvon e Rook, 1950). Le tecniche di narcoanalisi furono ampiamente impiegate anche in Italia, soprattutto negli anni ‘40 sino a metà degli anni ‘50.47 Le ultime sperimentazioni classificabili come narcoanalisi possono essere considerate quelle sviluppate con la ketamina agli inizi degli anni ‘70 in un ospedale psichiatrico universitario dell’Iran meridionale. Questo anestetico dissociativo fu somministrato a un centinaio di pazienti affetti da diverse patologie – ossessivo-compulsivi, isterici, depressi, ansiosi, ecc. – in dosaggi sub-anestetici, con lo scopo di valutare il potenziale abreattivo del farmaco. I dosaggi in intramuscolo variavano da 0,2-0,3 a 0,7-1,0 mg/kg. Tutti i pazienti passarono attraverso una fase di “perdita di contatto” della durata variabile dai 25 secondi ai 4 minuti, in cui evidenziavano una tipica apparenza “schizoanestetica, con la mente assente e lo sguardo fisso verso l’infinito”. Con i dosaggi medi e alti il 95% dei pazienti evidenziò risposte abreattive, utili per il conseguente trattamento psicoterapico. Il 51% rivisse vividamente eventi dolorosi della propria infanzia; nel 4% dei casi l’evento abreattivo o l’esplorazione mentale durò più di 2 ore, nel 6% 45 minuti, e nel restante 90% durò 75 minuti. A un follow-up di 6 mesi fu riscontrata la permanenza del miglioramento nel 90% dei casi trattati. A un anno di distanza, furono ricontattati 88 dei 100 pazienti trattati, e in tutti tranne 2 fu riscontrato il perdurare del miglioramento. Ai due pazienti peggiorati (uno soffrente di colite ulcerosa e l’altro di emicranie) fu somministrata un’ulteriore dose di ketamina, che portò al sollievo dai sintomi almeno sino al breve periodo

prima della pubblicazione dello studio (Khorramzadeh e Lotfy, 1973). A nostra conoscenza questo studio iraniano è l’unico trattamento di narcoanalisi in cui sia stata impiegata la ketamina.

Coma insulinico La terapia da shock insulinico fu elaborata da Manfred Sakel a Vienna alla fine degli anni ‘20 del Ventesimo secolo, in seguito a un classico caso di “serendipità”. Egli provò a somministrare dell’insulina a un morfinomane, nel tentativo di ridurgli i sintomi di astinenza inducendogli una lieve ipoglicemia, ma in alcune somministrazioni il dosaggio risultò eccessivo, provocando uno stato comatoso nel paziente, risoltosi prontamente mediante somministrazione di glucosio. Eppure, proprio lo stato comatoso così indotto produsse inattesi effetti benefici sul morfinomane (Sakel, 1930). Da ciò Sakel elaborò un programma di trattamento con induzione intenzionale dello shock insulinico, prima su altri morfinomani (Sakel, 1933), e in seguito su altri malati, principalmente schizofrenici (Sakel, 1937). Questa tecnica si diffuse velocemente presso numerose cliniche psichiatriche in tutto il mondo, e fu impiegata fino alla fine degli anni 1950; fu applicata principalmente agli schizofrenici, e con dosaggi minori ai nevrotici. La base teorica del coma insulinico è stata così spiegata dallo psichiatra italiano Liberati: Si tratta di provocare una dissoluzione progressiva delle funzioni psichiche fino al raggiungimento di uno stato di coma, che con particolari accorgimenti viene mantenuto in uno stato di reversibilità e alla cui interruzione segue una graduale reintegrazione delle funzioni psichiche precedentemente interrotte; detta reintegrazione rappresenterebbe il meccanismo genetico dell’effetto terapeutico indotto dallo shock insulinico. Infatti, seguendo il concetto che le funzioni neurologiche e psichiche sono organizzate in integrazioni successive, a cominciare da quelle spinali inferiori e risalendo in alto fino a quelle corticali, in modo da costituire un sistema di centri sovrapposti, in cui il superiore controlla e in parte assume le funzioni dell’inferiore, e dato che anche le funzioni psichiche superiori, funzionalmente localizzabili a livello dei centri corticali, sono integrate in detto sistema di centri sovrapposti, l’effetto terapeutico indotto dallo shock insulinico consisterebbe nell’approfittare della reintegrazione successiva alla dissoluzione terapeutica totale, per tentare di oltrepassare, risalendo lungo la catena dei centri, la tappa raggiunta dalla malattia fino al livello normale o a uno intermedio superiore a quello di partenza (Liberati, 1955: 302).

La terapia consisteva nel somministrare al paziente, ogni giorno della

settimana e per alcuni mesi, una dose di insulina sufficiente per produrre uno stato di coma, che veniva fatto terminare dopo alcune ore con somministrazione di glucosio mediante tubo nasale-gastrico o iniezioni endovenose. In tal modo il paziente veniva portato ogni giorno verso il confine fra la vita e la morte, e a volte moriva veramente. Spesso si presentavano amnesie, che non permettevano ai pazienti di ricordare il vissuto esperienziale; ma un certo numero di pazienti ricordava, e al risveglio riportava “l’esperienza di essere nato nuovamente, di essere nuovamente bambino, o di ‘evolvere’ nuovamente”. Alcuni pazienti rivivevano episodi del loro passato (Power, 1955). Questo trattamento non era scevro di pericoli, e si presentavano casi fatali statisticamente calcolati a quei tempi fra lo 0,5 e l’1,5%, un calcolo percentuale che probabilmente fu maggiore per i tanti casi più o meno intenzionalmente non registrati. Era frequente l’induzione di sintomi neurologici anomali, incluse convulsioni epilettiformi, e al risveglio si presentavano con una certa frequenza comportamenti di natura erotica dei pazienti. Venivano esclusi dalla terapia i pazienti che soffrivano di danno miocardico, tubercolosi e arteriosclerosi severa. Si riteneva che i supposti benefìci della terapia insulinica fossero dovuti sia a meccanismi fisiologici che a meccanismi di natura psicologica, in particolare a un processo di “catarsi emotiva” cui andava incontro il paziente (Shipley e Kant, 1940).

Terapia carbonica La terapia carbonica fu elaborata nel 1946 dallo psichiatra d’origine ungherese Ladislas Meduna (1896-1964). Egli aveva già elaborato un’altra terapia divenuta famosa, basata teoricamente sull’idea che se gli epilettici erano protetti dalla schizofrenia – come sembrava dai dati statistici di quei tempi –, l’induzione di sintomi epilettici avrebbe potuto rivelarsi utile per gli schizofrenici. Da ciò Meduna elaborò una pericolosa terapia convulsiva con l’ausilio farmacologico del cardiazolo, ma che lasciò velocemente spazio alla tecnica dell’elettroshock. La terapia carbonica consisteva nel fare inalare al paziente, mediante una maschera per anestesia, una miscela gassosa costituita dal 30% di CO2 e il 70% di O2 (chiamata miscela di Meduna), sino a che non veniva raggiunto, mediamente dopo 17-45 respirazioni, un breve stato di coma, della durata di

meno di un minuto. La maschera veniva quindi rimossa e il paziente riprendeva velocemente coscienza (Meduna, 1950a). Meduna raccomandava tre trattamenti alla settimana con un minimo di 15 trattamenti, che potevano raggiungere il numero di 150. Egli trovò che il 62% dei nevrotici migliorava, a parte i nevrotici ossessivi che non rispondevano al trattamento, e giunse a considerare l’anidride carbonica come un agente terapeutico specifico per le psiconevrosi. L’inalazione del gas produceva un aumento della pressione sanguigna e del polso, con arrossamento del viso e aumento della frequenza dell’ammiccamento. Alcuni pazienti perdevano conoscenza dopo sole 3-4 inalazioni del gas, mentre altri dopo 15-20, e furono osservati casi dove il paziente non perdeva conoscenza nemmeno con 45 o più inalazioni. L’overdose di inalazioni produceva convulsioni di breve durata (Bustamante, 1953). Meduna considerò la sua tecnica una terapia prettamente farmacodinamica, e non l’associava ad alcun trattamento psicoterapeutico, pur avendo notato la frequente apparizione di processi abreattivi e di successive analisi e reintegrazioni spontanee da parte dei pazienti. Si presentavano casi dove il paziente non manifestava alcuna scarica emotiva nel corso del trattamento, ma molte ore dopo ricordava esperienze patogene soppresse e scopriva relazioni causali con la propria malattia (Meduna, 1953). Durante le prime 10-40 respirazioni, le estremità inferiori si flettevano all’anca e al ginocchio ed erano leggermente abdotte; una posizione che Meduna ipotizzava avesse un significato sessuale, e che era frequentemente accompagnato da uno spasmo carpale delle mani. I pazienti esperivano di frequente dei fenomeni sensoriali, soprattutto di natura ottica, consistenti nell’apparizione di luci rossastre o piccole macchie nel campo visivo. Questi punti si disponevano dando forma a schemi geometrici o, più frequentemente, a più elaborate figure in movimento. In alcuni casi si osservava una dimensione psichica di natura estatica. Meduna non osservò serie reazioni avverse fisiche nel corso delle oltre 20.000 somministrazioni del suo gas carbonico, avendo l’accortezza di escludere dal trattamento i pazienti affetti da tubercolosi attiva dei polmoni, pressione sanguigna elevata e disturbi cardiaci organici (Meduna, 1948). Con il diffondersi della terapia carbonica presso altre cliniche nordamericane, in Europa e in America Latina, diversi psichiatri si accorsero dell’utilità di associare la somministrazione del gas carbonico alla

psicoterapia. Lo psichiatra californiano John Moriarty, che praticò la terapia carbonica su 290 pazienti per un totale di 7500 somministrazioni, comprese l’importanza del raggiungimento della breve perdita di coscienza ai fini del processo terapeutico, e associò sempre la somministrazione del gas alla psicoterapia. Inoltre, consigliò vivamente gli psichiatri che volessero cimentarsi con la terapia carbonica di provare prima su sé medesimi l’effetto del gas, e possibilmente più volte, con lo scopo di comprendere meglio le sensazioni non verbali e i meccanismi di liberazione di materiale subconscio e preconscio dei pazienti. Egli osservò anche come i processi abreattivi si presentassero in alcuni pazienti solo dopo 50 trattamenti – un numero che per molti altri pazienti rappresentava un’overdose del gas, con produzione del breve stato convulsivo –, e confermò che la terapia carbonica non era adatta per le psicosi e i profondi stati compulsivo-ossessivi (Moriarty, 1954). Anche lo psichiatra cubano J.A. Bustamante osservò risultati notevolmente migliori quando la somministrazione del gas veniva combinata con la psicoterapia, specie nei casi di isteria, rispetto a quelli in cui il gas veniva somministrato come mero farmaco (Bustamante, 1953). La terapia carbonica fu impiegata anche in Italia. Presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Padova fu osservata una sua efficacia nelle psiconevrosi e soprattutto negli stati depressivi, e una sua inefficacia nelle psicosi. In alcuni casi di prolungata somministrazione della terapia carbonica (60-70 sedute), fu osservata una specie di dipendenza, tale per cui i pazienti, sebbene ormai guariti, non volevano interrompere il trattamento. Presso la medesima clinica padovana fu constatato un elevato numero (circa il 40%) di rifiuti nel continuare il trattamento dopo le prime sedute, indotti da un’apparente sensazione di soffocamento percepita dai pazienti (Rigotti e Fontanari, 1952). Fra le motivazioni date dai pazienti al rifiuto di continuare il trattamento carbonico citiamo: “I miei genitori sono stati uccisi nelle camere a gas dai nazisti e ho avuto sogni terrificanti durante il trattamento in cui anch’io morivo nella camera a gas”; “[il trattamento] ha toccato ciò che mi preoccupa, ma mi ha fatto paura”; “il gas mi fa sentire in un mondo più sognante del mio solito” (Frank e McGraw, 1956: 565). Anche Frank e McGraw, che trattarono 200 pazienti in un ospedale di New York, riscontrarono in alcuni casi un comportamento di dipendenza dal gas, che risolsero mediante riduzione graduale della quantità somministrata di gas; inoltre, ritenevano che la causa principale del risultato terapeutico fosse dovuta a fattori psicologici.

In definitiva, questa terapia risultava adatta negli stati ansiosi, nelle reazioni fobiche, più in generale nelle nevrosi e nei problemi psicosomatici quali le coliti spastiche e certe forme di emicranie. Curiosamente e come nel caso della terapia da shock insulinico, durante il trattamento carbonico, oltre a presentarsi fenomeni di transfert e di abreazione, molte donne riportavano sensazioni orgiastiche, e alcune addirittura, al risveglio dallo stato di perdita di coscienza, rivolgevano della avance di natura erotica al terapeuta (Frank e McGraw, 1956).

Coma atropinico Questa tecnica, chiamata anche “terapia farmacotossica con atropina”, ci interessa particolarmente poiché venivano impiegati i delirogeni tropanici, che fanno parte della classe degli psichedelici. L’idea originò da un incidente ospedaliero, dove, nel corso di un intervento chirurgico operato su una lesione cutanea con anestesia locale, a un paziente fu somministrata accidentalmente atropina in luogo di procaina. Le proprietà anestetiche locali dell’atropina permisero l’operazione chirurgica senza dolore, ma il paziente entrò in uno stato di coma, di cui i medici non si accorsero immediatamente poiché il suo volto era coperto. Accortisi dell’errore e dopo aver consultato dei testi, i medici decisero di non fare nulla e attesero che il paziente uscisse da solo dal coma. Quando anni dopo si diffuse la terapia del coma insulinico, Gordon Forrer – uno dei medici che aveva assistito a quell’incidente – se ne ricordò e volle approfondire, provando a indurre un coma atropinico in alcuni schizofrenici (Forrer, 1950). La tecnica consisteva nel produrre multipli periodi di tossicità atropinica mediante iniezione intramuscolo di grandi quantità di atropina, tre volte alla settimana per 4-10 settimane. Come terapia somatica risultò particolarmente utile durante la fase maniacale delle psicosi maniacali-depressive, e il principale risultato consisteva nell’immediato sollievo dallo stato ansioso (Miller, 1956a). Ciò che sorprende in questa terapia sono i forti dosaggi somministrati di atropina, e in certi casi di scopolamina, e in effetti questo trattamento sollevò numerose critiche. L’impiego di atropina solfato nella terapia tossica richiedeva la somministrazione di ben 50-400 volte la normale dose terapeutica della droga (0,5-1 mg), con quantità di 32-200 mg per trattamento (Miller, 1956a). Goldner (1956) usava 212 mg di atropina solfato o 5-50 mg

di scopolamina. Eppure, i risultati parlavano di una bassa tossicità, per lo meno calcolata in termini di casi fatali: su 500 pazienti trattati con dosaggi di 32-200 mg di atropina, con un totale di 10.000 trattamenti (20 per paziente), fu registrato un solo decesso (Forrer, 1956). I medici che trattavano con i tropanici risposero alle critiche facendo notare come il numero di casi fatali nella pur consistente casistica di intossicazioni accidentali con le piante tropaniche (belladonna, datura, ecc.), non fosse in realtà così elevato, e che nella maggior parte di questi la fatalità era stata causata dalla mancanza critica della realtà e non da fattori tossicologici; inoltre, dato che nel contesto di medicina d’urgenza in cui si viene a trovare quasi sempre l’intossicato tropanico venivano intrapresi – per lo meno a quei tempi – i più svariati tipi di trattamenti farmacologici, era possibile che ad aggravare lo stato comatoso potessero contribuire questi medesimi trattamenti farmacologici. Nel metodo da loro adottato, invece, non facevano nulla durante il profondo stato di coma atropinico, e “il trucco” – a loro dire – era proprio quello di non fare assolutamente nulla, attendendo fiduciosi il risveglio naturale del paziente. In pratica, questo era ciò che avevano scoperto, e lo avevano dimostrato sperimentalmente, e cioè che l’atropina ha grandi margini di sicurezza e che può produrre un livello di coma prevedibile da cui ci si risveglia spontaneamente. Sempre rispondendo alle critiche, si meravigliavano come fosse considerato così pericoloso il coma controllato atropinico dai medesimi medici che praticavano con disinvoltura il coma insulinico, segnato da un numero di incidenti – anche questi calcolati in numero di casi fatali – ben più funesto (Forrer, 1956: 257). Nella terapia da coma atropinico le controindicazioni d’obbligo erano: glaucoma, alterazioni della funzione cardiaca, problemi epatici (essendo l’atropina metabolizzata dal fegato), otite cronica e sinusiti importanti. Il trattamento portava a una perdita di peso corporeo, per cui altra controindicazione era la malnutrizione. Fra i pazienti selezionati doveva essere evidente una qualche forma di ansia e che il paziente stesse lottando con la sua malattia. Buoni candidati erano i nevrotici ossessivi che evidenziavano ansia, mentre appariva inefficace negli stati depressivi. Durante la terapia il paziente esperiva fenomeni in cui emergeva materiale conflittuale, con conseguente scarica abreattiva emotiva. Per quanto riguarda la frequenza del trattamento, e prendendo come esempio Jacob Miller, che praticava in un ospedale psichiatrico di Northwille, nel Michigan (USA), di routine egli eseguiva trattamenti il lunedì, martedì, mercoledì e giovedì,

lasciando quindi riposare il paziente per tre giorni, per poi ricominciare il ciclo settimanale (Miller, 1956b). Durante il coma atropinico sorgevano esperienze emotive, evidenziate dalla variazione dell’espressione facciale, da pacifica a dolorosa e piangente, variazioni rapide, che passavano anche attraverso il sorriso e le risa. Con una certa frequenza si presentavano azioni orali quali succhiare, “fumare”, “mangiare” (Miller, 1956a). Forrer riportò con questa terapia un miglioramento del 50% dei pazienti trattati e fra le reazioni psicologiche più frequenti osservò forti meccanismi di transfert, dove il medico e il personale infermieristico veniva associato al padre, alla madre e ai fratelli; eventi abreattivi generalmente apprezzati dai pazienti; un’acuta consapevolezza e un apprezzamento sottolineato dal paziente per gli interessi e gli sforzi del terapeuta nei suoi riguardi; inoltre si presentava, sebbene più raramente ed evidentemente indotto dallo stato delirante-allucinatorio, la sensazione del trattamento come un procedimento misterioso, minaccioso, magico, somministrato da una figura “onnipotente” (Forrer, 1954). Goldner sostituì e paragonò l’atropina con la scopolamina, e osservò i medesimi effetti terapeutici, con dosi di quest’ultima di 5-50 mg somministrate intramuscolo, e anche in questo caso senza complicazioni. Nel corso dei trattamenti ebbe l’accortezza di applicare un unguento oculare di eserina oftalmica per contrastare la midriasi e la ciclopegia,48 e crema fredda sulle labbra per contrastarne la secchezza. Il dosaggio iniziale di atropina solfato era di 32-48 mg, con incrementi di 16-32 mg, sino a raggiungere i 144 mg. Il livello terapeutico desiderato si raggiungeva solitamente a un’ora dall’iniezione. Dopo mediamente sei ore, il paziente si svegliava e gli veniva dato un gelato per alleviare la secchezza alle fauci residua. I trattamenti venivano eseguiti al massimo quattro volte alla settimana, in alternativa alla terapia elettroconvulsiva e, occasionalmente, iniezioni di atropina venivano date nel giro di un’ora dopo il completamento di un trattamento elettroconvulsivo (Goldner, 1956).

CAPITOLO 3

ASPETTI TEORICI DELLE TERAPIE PSICHEDELICHE

Tipologie delle esperienze psichedeliche Le esperienze psichedeliche sono suscettibili di una forte variabilità, e le differenze non sono solo a livello visivo o più generale estetico, ma anche e soprattutto nelle qualità ultime delle esperienze, in definitiva nelle modalità d’azione sulla psiche umana. Sono state riconosciute differenti tipologie di modalità d’azione, in base alle quali sono state proposte alcune sistematizzazioni, di cui presentiamo quelle che hanno goduto di maggior apprezzamento, elaborate da studiosi preparati, che hanno avuto l’opportunità di osservare e seguire di persona centinaia di soggetti sotto effetto di psichedelici. Tre di queste sono presentate in fig. 7. Secondo Grof (1994: 110) i primi due livelli della cartografia di Master e Houston possono corrispondere ai primi due tipi di esperienze della sua cartografia, mentre il terzo e quarto livello rientrano in quelle che nella sua cartografia ha definito come esperienze transpersonali. Pahnke è l’unico studioso a considerare l’esperienza psicotica, che occasionalmente può presentarsi assumendo uno psichedelico, come una tipologia esperienziale a sé stante, mentre gli altri studiosi la considerano fra le reazioni avverse. In questa tipologia rientrano attacchi di forte ansia e stati di agitazione, manie persecutorie o di auto-referenziamento, condotte paranoiche, aggressività, delirio verbale e generale confusione; gergalmente questa reazione avversa è chiamata bad trip.

Fig. 7 – Alcune cartografie delle esperienze psichedeliche

In una visione psicologica e psicoanalitica, queste reazioni avverse sono indotte dalla paura e dal terrore di sentirsi psicologicamente “nudi”, senza difese e senza possibilità di creare difese per far fronte alle ondate di consapevolezza; in definitiva sono reazioni al panico di lasciarsi andare (Pahnke e Richards, 1966). È il caso di osservare che non tutti i professionisti del settore, in particolare psichiatri e psicoanalisti, ritenevano e continuano a ritenere negativa l’esperienza del bad trip, a condizione che sia monitorata in un contesto professionale psicoanalitico. Grof (1994: 159) è dell’opinione che ogni tipo di esperienza psicotica dovrebbe essere incoraggiata e non ostacolata nel corso delle sedute terapeutiche. Una prima tipologia d’esperienza riconosciuta da tutti gli studiosi è quella estetica, altrimenti detta astratta o sensoriale. Sono esperienze tutto sommato non comuni, soprattutto i casi in cui per tutto il corso dell’esperienza il livello rimane quello meramente estetico. Il soggetto “si perde” dietro agli aspetti puramente visivi, con un grado più o meno elevato di emozioni di sorpresa e di fascinazione, senza la contemporanea captazione di significato. Pur essendo le esperienze estetiche integrali rare, accade con una notevole frequenza che l’aspetto estetico si presenti nelle fasi iniziali di tutte le tipologie di esperienze psichedeliche, quasi come fase “prodromica”, al punto che sorge il sospetto che la tipologia di esperienza denominata estetica possa essere vista in realtà come una complicazione, in cui il soggetto non esce dalla fase prodromica dell’esperienza che dovrebbe fare; ciò rimanda istintivamente e forse non a caso alla “sindrome di Peter Pan”. Le esperienze meramente estetiche non sono mai risultate molto dannose, presupponendo un setting ambientale adeguato; semplicemente, sono infruttuose e di scarsa utilità terapeutica. Una seconda dimensione esperienziale è quella psicodinamica, o reminiscente-analitica. Si tratta di esperienze dove conflitti, emozioni e

rimozioni di eventi personali, per lo più delle sfere affettive e familiari e provenienti dall’inconscio o dal preconscio, affiorano alla consapevolezza con un livello generalmente elevato di intensità emotiva. Possono presentarsi fenomeni di abreazione e l’intera esperienza può essere considerata con forti implicazioni, ma forse ancor più connotazioni catartiche; catarsi psicologiche che possono rientrare fra le più profonde che l’uomo possa esperire. È interessante osservare, come già fatto notare da altri studiosi (Pahnke e Richards, 1966), che questo tipo di esperienze si presenta con una certa frequenza anche al di fuori del contesto psicoanalitico, nelle esperienze dell’uomo comune, dell’“individuo sano”, e perfino senza una precisa precostituita strutturazione del set e del setting.49 Ciò contribuisce alla sensazione “rivelatrice” che accompagna l’esperienza psichedelica, ovunque venga esperita, sia in una capanna tribale tropicale che nei contesti sociali e clinici occidentali. È soprattutto all’interno di questo tipo di esperienza psicodinamiche che si può presentare una tipica reazione intellettiva emotivamente esternata, nota come esperienza “eureka!” o esperienza “a-ha!”,50 dove le vecchie idee possono essere viste sotto una nuova luce e le nuove idee sono più facilmente accettate. Queste idee tendono a diventare imbevute di un nuovo senso di apprezzamento intellettivo ed emotivo (Levine e Ludwig, 1966: 212). Riguardo l’abreazione, è stato osservato che frequentemente si presenta nelle primissime fasi del plateau psichedelico (Baker, 1964: 1201). Seguono un insieme di esperienze che differiscono nelle varie cartografie sia come terminologia impiegata per indicarli, che probabilmente anche nel loro significato. Un particolare tipo di esperienza è quella che Grof denomina perinatale. Si tratta di esperienze drammatiche, quasi sempre positive, in cui l’individuo ha la sensazione di rivivere la sua nascita biologica. Nella forma più pura, l’individuo viene con la mente “risucchiato all’indietro”, un indietro relativo alla cronologia della sua vita personale, sino a raggiungere le fasi del neonato e addirittura quelle pre-natali, quando era nel feto materno. Il soggetto assume gradualmente e inconsapevolmente una posizione rannicchiata, fetale; nella forma più estrema (più “pura”) perde conoscenza, pur i parametri vitali restando normali per tutto il corso dell’esperienza. Viene suggerito di non importunare il soggetto – una volta accertata la benignità della sua perdita di coscienza – mantenendo semplicemente monitorati i parametri vitali per tutto

il corso dell’esperienza, che dura mediamente alcune ore. Le esperienze perinatali possono anche essere più movimentate, sia nei comportamenti del soggetto che nei parametri vitali, pur non superando mai i livelli di allerta. Si possono presentare forti componenti somatiche, quali tensioni muscolari, tremori, contrazioni, contorsioni, accelerazione del polso e, quando il soggetto rimane a uno stato cosciente, può esperire la sensazione di una imminente morte reale, con conseguente stato di agitazione. L’esperienza perinatale può accadere anche nell’impiego non clinico degli psichedelici e spontaneamente nei vari percorsi psicoanalitici, e si può indurre anche con tecniche meditative o che comunque agiscono sulla modificazione della coscienza. Circa la spontaneità con cui si presenta questo tipo di esperienza, non si limita alla differenziazione fra tecniche con o senza psichedelici con cui vengono indotte le esperienze perinatali, ma in tutte le tecniche l’esperienza è di tipo “spontaneo”, cioè avviene senza cercarla, o si potrà cercarla con questa o con quella tecnica a lungo e infruttuosamente, restando per lo più nel campo delle esperienze imprevedibili; al massimo si potrà sospettare una loro maggior frequenza nel contesto psicoanalitico professionale. Sono numerosissimi – anzi è quasi una costante comune – coloro che riportano di essersi percepiti all’interno del ventre materno, e di avere addirittura “visto” eventi esterni perlopiù della vita familiare, il cui “ricordo” così riaffiorato ha solitamente avuto una significativa importanza per il percorso psicoterapeutico dell’individuo. La realtà di queste esperienze è stata oggetto di discussione; in particolare ci si è chiesti se si tratti di esperienze simboliche o se siano basate su fatti reali. Lo psichiatra inglese J.T. Robinson le riteneva false memorie, adducendo il fatto che “una delle difficoltà nell’impiego dell’LSD è che, come tutti gli altri agenti abreattivi, coloro che lo usano sembrano sempre ottenere il materiale che vogliono e per il quale sono interessati che accada, proprio come Freud, quando si interessò alle figlie che dormivano con i loro padri, ottenne consecutivamente i resoconti di non meno di dieci isteriche che ricordavano i medesimi eventi di natura sessuale, un fatto ch’egli in seguito considerò insensato.51 Così sono quasi certo che molte delle fantasie di nascita che sono riportate [durante l’abreazione] siano il risultato della suggestione del terapeuta sul paziente” (Robinson, in Bierer e Browne, 1960: 933). Betty Eisner (1964: 320) le riteneva una combinazione di questi due

fattori, mentre Sandison (1956: 32) pensava che non fosse così importante dover distinguere e riconoscere fra realtà e fantasia di queste esperienze, dato che ciò che è importante è che il paziente, attraverso queste esperienze, “entri in contatto con l’archetipo dell’esperienza della nascita, che si senta separato da sua madre, e anche, forse, che possa realizzare, indipendentemente da cosa accadde più tardi nella sua infanzia, che c’era una volta in cui egli era connesso a sua madre con i legami dell’amore materno”. Grof considera le esperienze perinatali “profonde esperienze di prima mano, piuttosto che meramente un confronto simbolico” (Grof, 1994: 69), e nei contesti psicoterapeutici o di autoanalisi risultano profondamente costruttive, come esperienze “miliari” del personale percorso psicoanalitico. Non a caso è frequente l’insorgenza di un profondo senso di gratitudine nei confronti dell’esperienza stessa. Sempre Grof (1975: 95-153) ha approfondito lo studio delle esperienze perinatali distinguendone quattro sottocategorie, ciascuna associata a una fase del parto: dall’unione originale con la madre nel grembo, corrispondente all’esperienza uterina prima del parto (Matrice I), all’antagonismo con la madre nel contesto delle contrazioni nel sistema uterino chiuso (Matrice II), al sinergismo con la madre nella situazione di propulsione attraverso il canale della nascita (Matrice III), sino alla separazione dalla madre, corrispondente alla terminazione dell’unione simbiotica e alla formazione di un nuovo tipo di relazione (Matrice IV), e ciascuna sarebbe caratterizzata da specifiche somatizzazioni e stati d’animo. Un altro gruppo di esperienze psichedeliche è riunito sotto il termine di esperienze transpersonali. La parola “trans personale” fu coniata per la prima volta da Jung (Überpersönliche) come aggettivazione dell’inconscio collettivo; fu ripresa dallo psichiatra italiano Roberto Assagioli, che per primo concepì una psicologia transpersonale; fu quindi impiegata da Maslow e dagli altri fondatori della prima associazione di psicologia transpersonale (negli USA, 1969), e in seguito utilizzata da Grof (1972) nella sua classificazione delle esperienze psichedeliche. Grof definisce le esperienze transpersonali come esperienze che si possono raggiungere quando si superano i confini del proprio ego, e che si “espandono” oltre i limiti temporali e spaziali. L’individuo riporta esperienze di carattere “primordiale”, memorie di vite precedenti, personali o dei propri antenati, percezioni dell’inconscio collettivo, identificazioni o

sovrapposizioni con la vita di un’altra persona, o anche con animali o vegetali, visioni dell’universo o percezioni/fusioni con particolari parti del proprio corpo. Spesso queste esperienze sono accompagnate da fenomeni di percezione extrasensoriale, telepatia, precognizioni, uscite dal corpo (Grof, 1975: 154-214). Un gruppo più specifico di esperienze transpersonali riguarda le cosiddette esperienze di picco, sulle quali è opportuno soffermarci poiché hanno importanti implicazioni terapeutiche. Denominate anche esperienze cosmiche, trascendentali, mistiche, preferiamo adottare il termine più neutro di esperienze di picco. Questo termine fu coniato da Abraham Maslow nel 1962 osservando un contesto molto profano, estraneo agli ambienti e alle interpretazioni religiose e spiritualiste. Come specialista della psicologia della salute, egli intraprese lo studio di soggetti sani, scelti fra i più sani, belli e contenti della loro vita. Si accorse che questi individui tendevano a riportare un’esperienza vissuta particolare, che li aveva colpiti e che rimaneva loro molto impressa, un’esperienza di natura estatica e di beatitudine. Momenti di felicità pura, dove “tutti i dubbi, tutte le paure, tutte le inibizioni, tutte le tensioni, tutte le debolezze, si dissolvevano, tutte le separazioni e le distanze dal mondo sparivano come se si sentissero uno con il mondo, fusi con esso, come se avessero visto la verità ultima, l’essenza delle cose, il segreto della vita [...] la perfezione finalmente raggiunta”. Queste esperienze non avevano nulla a che vedere con la religione, e provenivano dai grandi momenti dell’amore e del sesso, dai grandi momenti estetici (in particolare musicali), dagli scoppi di creatività e di furore creativo (la grande ispirazione), dai grandi momenti di introspezione e di scoperta, dalle donne che partorivano, da momenti di fusione con la natura, da certe esperienze atletiche, dalla danza, ecc. Maslow interpretò queste esperienze come naturali e non sovrannaturali, e abbandonò il termine di esperienza mistica, nominandole esperienze di picco: “sono esperienze raggiungibili della conoscenza umana, non sono misteri eterni. Sono nel mondo, non fuori dal mondo” (Maslow, 1962: 10). Queste esperienze possono originare da molte fonti, in generale dove viene raggiunta la perfezione, o soddisfazione della speranza o gratificazione perfetta. Secondo Maslow, tutte le esperienze di picco tendono a sovrapporsi, tendono a essere simili, e accadono inaspettatamente. L’esperienza di picco potrebbe quindi presentarsi in maniera molto più frequente negli individui normali di quanto registrato e registrabile dalle

casistiche psichiatriche e psicologiche. I casi più noti e più imponenti riguardano le estasi vissute dai grandi mistici delle differenti religioni, un fenomeno che da tempo ha aperto un campo d’indagine specifico, quello del misticismo religioso. Nella maggior parte dei casi, queste esperienze di picco si presentano senza aver assunto sostanze, spontaneamente, sia improvvisamente che come risultato cercato mediante specifiche tecniche di modificazione dello stato di coscienza. Se un religioso o uno studioso di misticismo osservasse le caratteristiche dell’esperienza di picco, facilmente le riconoscerebbe nel suo schema interpretativo come esperienze mistiche, di contatto diretto con la divinità, o potrebbe definirle come “mistico-mimetiche”, come effettivamente sono state denominate.52 Ma v’è chi – e fra questi ci includiamo – seguendo più moderni paradigmi “post-spiritualisti”, ritiene che non siano le esperienze di picco ad avvicinarsi a quelle mistiche, bensì siano le esperienze definite come mistiche a essere esperienze di picco interpretate in senso religioso-spirituale. Abbiamo scelto di seguire questo approccio “post-spiritualista” nel corso di tutto il nostro libro, in aperta e franca opposizione all’interpretazione “spiritualistica” che ancora oggi persiste perfino a livello dei risultati della ricerca clinica e della letteratura neurofarmacologica che trattano delle esperienze psichedeliche.53 Pahnke e Richards (1966) hanno elencato le caratteristiche dell’esperienza di picco, e presentiamo questo elenco in forma da noi emendata, tenendo conto che condizione dell’esperienza di picco è la manifestazione contemporanea di tutti i fattori elencati: Dissoluzione dei confini del Sé e senso di riunificazione Un senso di unificazione o riunificazione è la prima generale sensazione che percepisce un osservatore attento in tutte le esperienze psichedeliche costruttive, ma nel caso dell’esperienza di picco questa percezione è più forte, quasi “sovrastante a priori” l’esperienza. I limiti del proprio ego si dissolvono, il proprio ego con il suo sistema di compartimentazione si dissolve, liberando ovunque processi psicologici di micro- e macrounificazione. Trascendenza del tempo e dello spazio Se nelle più comuni esperienze psichedeliche il tempo e lo spazio si contraggono, nelle esperienze di picco parrebbero “fermarsi”, dileguarsi, o forse fanno trovare lo sperimentatore in un ambiente in cui tutti gli spazi e

tutti i tempi sono contemporaneamente inclusi. Senso di beatitudine, magnificenza e reverenza Dopo il senso di riunificazione, un altro elemento immediato dell’esperienza è il profondo senso di beatitudine che pervade qualunque ambito argomentativo il soggetto mentalmente visiti. Inoltre, il soggetto diventa consapevole della rarità, univocità, grandiosità dell’esperienza che sta esperendo, e ne diventa di conseguenza profondamente grato e reverente, indipendentemente da chi o cosa sia ciò a cui è grato – se una divinità, sé medesimi, le eventuali fonti psichedeliche impiegate, ecc. Profondo stato di intuizione e di illuminazione Ogni questione, ogni dinamica, ogni perplessità, problematica o meno, della propria vita personale o della vita in generale, che il soggetto sottopone alla sua osservazione, è vista sotto una nuova luce, con livelli di intuizione e di illuminazione percepiti come “perfetti”, o comunque come i migliori che l’individuo avrebbe potuto elaborare. Appagamento totale, assenza di qualunque bisogno Un’altra conseguenza diretta, del momento, è l’appagamento di qualunque bisogno dell’individuo, anche di quelli che eventualmente stava rincorrendo; come nel caso delle esperienze di picco indotte da forti dosi di LSD somministrate una tantum agli alcolisti cronici; in buona parte dei casi, come vedremo in altra parte di questo libro, il problema dell’alcolismo si autorisolveva per sempre generalmente seduta-stante, nel contesto della più generale conseguenza di rilascio immediato catartico dell’esperienza di picco. Qualità noetica dell’esperienza Nel momento in cui il soggetto esperisce i contenuti dell’esperienza di picco, questi sono accompagnati da una sensazione di “verità”, come minimo con la consapevolezza che ciò che si sta esperendo è “vero” quanto lo è la realtà, e come massimo con la netta sensazione che ciò che si sta esperendo è “più vero” della realtà. Questa impressione permane anche dopo l’esperienza. Ineffabilità dell’esperienza Una qualità ascrivibile all’esperienza psichedelica è la grande differenza da tutte le altre tipologie di droghe conosciute, quindi la sua grande peculiarità, accompagnata dall’impossibilità o l’estrema difficoltà di descriverla.54 Netta e duratura percezione di vivere l’esperienza più importante della propria vita, e per molti sensazione di aver raggiunto lo scopo della propria vita

Questo punto è uno degli elementi aggiuntivi del nostro emendamento alla classificazione di Pahnke e Richards (1966), e che intende sottolineare il posto e il ruolo che questo tipo di esperienze trova nella vita degli individui che le esperiscono, sia durante che dopo il contesto esperienziale. Un’altra sensazione comune e caratterizzante queste esperienze è la consapevolizzazione di trovarsi di fronte all’esperienza più importante della propria vita, e vedere in maniera “perfetta” tutto il proprio vissuto personale, avendone trovato un senso nell’aver contribuito a fare confluire il soggetto verso quest’esperienza, indipendentemente da come gli si sia innescata e l’intenzionalità o meno di cercarla. Molti soggetti non solamente la considerano l’esperienza psicologica più importante della propria vita, ma ritengono che attraverso di questa abbiano raggiunto lo scopo della propria vita, o per lo meno un “livello” di scopi, di “soddisfazioni” della propria vita. Nel corso del tempo, degli anni e dei decenni, queste esperienze continuano a essere riconosciute da chi le ha esperite come importanti e “fondanti” la propria crescita personale. Il potenziale risolutorio immediato della maggior parte dei conflitti dell’individuo è molto elevato con le esperienze di picco, che sono considerabili dal punto di vista psicoterapeutico “auto-risolutorie”. Come dicevamo, l’esperienza di picco non è peculiare delle esperienze psichedeliche, e può presentarsi in diversi altri ambiti esperienziali umani senza l’impiego di droghe. E anche quando si presentano in seguito ad avere assunto degli psichedelici, il soggetto ha la netta sensazione che “la droga non c’entri”, che era solo una chiave, una delle chiavi, per innescare un’esperienza che trascende qualunque tecnica d’induzione, che esiste al di là di qualunque droga così come di qualunque credo religioso. A differenza dei fenomeni psicodinamici, che sono radicati nella storia della vita personale del soggetto dalla nascita al presente, le forme “mistiche” e archetipiche di esperienze spesso sono viste come universali e intrinseche alla psiche umana. È stato suggerito che, internamente al paradigma proposto da Jung, i fenomeni psicodinamici possano essere considerati espressioni dell’inconscio personale, mentre i fenomeni “mistici” e archetipici possano essere visti come manifestazioni dell’inconscio collettivo (Richards, 1978: 117-8). La buona qualità della seduta psichedelica terapeutica dipende in buona

parte dalla capacità-maturità-fiducia del soggetto nel lasciarsi andare, accettare la dissoluzione dell’ego senza resistenze, accettare di sentirsi “messo a nudo” dal di dentro e in maniera “irreparabile-irrifugiabile”; e per l’altra parte dipende dall’abilità del terapeuta nel guidare e sostenere il soggetto psichedelizzato lungo questo processo, facendogli superare gli ostacoli delle fasi di resistenza e psicotomimetiche per farlo approdare quanto prima alle fasi psichedeliche dell’esperienza. Il sinergismo fra maturità/immaturità del soggetto e abilità/esitazioni del terapeuta produce la qualità dell’esperienza, e quindi il livello di utilità terapeutica, ed è tale per cui vi sono individui che entrano immediatamente nella fase più psichedelica, nel senso di “rivelatrice della mente”, e altri che ristagnano nelle fasi di resistenza o nelle più dolorose fasi psicotomimetiche. A questo proposito, e osservando altre sistematizzazioni delle tipologie di esperienze con gli psichedelici, nel contesto delle mere sedute terapeutiche Kenneth Godfrey (1974: 51) riconosceva tre tipologie e sei fasi di esperienze provate dai pazienti, che vanno dalla resistenza alla totale accettazione, e inquadrate come segue: Fasi di resistenza: sembra teso, irritato, nega mutamenti interiori, concentra l’attenzione su oggetti esterni o cose insignificanti (Fase I); somatizza, avverte vertigini, formicolii, ronzii alle orecchie, nausea, cefalea, tensione tachicardica, sudori, brividi (Fase II). Fasi psicotomimetiche: ha paura, appare confuso, sente il corpo in maniera differente, manifesta disturbi di percezione e allucinazioni, è sommerso da idee, difficoltà di concentrazione, labilità emotiva, parla in modo disorganizzato e dissociato, teme di perdere il controllo della realtà e di impazzire (Fase III); idee di auto-riferimento, diffidenza, fuga di idee, manie di grandezza, arroganza, superbia, senso di impotente debolezza, allucinazioni, disorientamento nel tempo, si lamenta di essere soggetto a imposizioni, accessi di malumore, si lamenta di essere torturato (Fase IV). Fasi psichedeliche: autocritica, i pensieri divagano, è depresso, triste, piange, dice sciocchezze, fa finta che gli altri dicano sciocchezze, se incoraggiato parla di sé e della sua infanzia, volendo rispondere a domande del terapeuta soffre di inibizioni del pensiero, preferisce stare da solo, tende a un altezzoso silenzio, parla di sé spontaneamente, parla spontaneamente della sua infanzia, desidera stare in compagnia del terapeuta (Fase V); appare felice, euforico, estatico, ritiene di vedere le cose con maggiore chiarezza, appare disteso, ha fiducia in sé, è persuaso di importanti intuizioni, è fraterno

e cordiale con il terapeuta, sente di dovergli essere grato, scorge una nuova bellezza nelle cose, sente in sé una nuova forza intellettuale (Fase VI). Riportiamo un’ultima sistematizzazione proposta dall’équipe californiana di Sherwood, che distingue tre tipi di esperienza riscontrati con gli psichedelici: lo stadio delle manovre evasive, quello della percezione simbolica, e quello della percezione immediata: Lo stadio evasivo si presenta in concomitanza di un tentativo di controllo, anche inconscio, degli effetti dirompenti della sostanza, e ciò può produrre sintomi psicosomatici di vario tipo, quale dolore localizzato, intorpidimento, nausea. La stranezza delle sensazioni e percezioni può mettere l’individuo in uno stato di confusione, paura, angoscia, che può ricordare lo stato schizofrenico (fu la frequente apparizione di questo stato, in contesti di set e setting inadeguati, che portò inizialmente a considerare queste sostanze come psicotomimetiche). L’individuo può quindi vivere delle allucinazioni e altre delizie estetiche: “È come se l’ego, avendo perduto la battaglia nel cercare di deviare l’attenzione mediante la spiacevolezza, cerchi di incantare e distrarre la mente conscia mettendole davanti una tavolozza di allucinazioni per nascondere verità profonde di cui teme” (Sherwood et al., 1968: 98). Nello stadio simbolico la mente inconscia impiega rappresentazioni visive e comunque simboliche per convergere degli insight verso la mente conscia; insight che possono essere di natura filosofico-esistenziale e che possono fare emergere e rivalutare materiale represso, falsi concetti o attitudini, attuando una specie di pulizia nel contesto dell’imagerie soggettiva. Nello stadio della percezione immediata l’individuo sviluppa una consapevolezza di altri aspetti della realtà, di “altre dimensioni” spaziali e temporali, di unione con gli altri, e ciò comporta una rivisitazione critica di certe sue azioni, se non addirittura un vero e proprio cambio di paradigma comportamentale, che può essere la base per la guarigione dai suoi mali psicologici (Sherwood et al., 1968).

Set e setting Con il susseguirsi degli studi sugli psichedelici per tutto il Ventesimo secolo, e soprattutto con l’abbandono delle forzature del paradigma psicotomimetico (di cui parleremo ampiamente nel prossimo capitolo), sia nell’impiego clinico che in quello non-clinico ci si rese sempre più conto che

l’effetto di un modificatore dello stato di coscienza dipende da diversi fattori, e non unicamente dalla qualità della sostanza assunta. Questi fattori, oggi riuniti nei termini e concetti di set, setting e placebo, sono alternativamente indicati come nondrug parameters o come “variabili extra-farmacologiche”. Come ha evidenziato lo studioso israeliano Ido Hartogsohn (2017) in una recente analisi storica dei concetti di set e setting, la consapevolezza che i fattori ambientali e psicologici influiscono sull’esperienza con le droghe è di lunga data, e raggiunge le pratiche tradizionali sciamaniche. Sin dai tempi antichi lo sciamano condiziona, controlla e influenza l’esperienza con le piante visionarie mediante una serie di elementi ambientali (musica, canto, danza, oscurità notturne, ecc.) e di condizioni dell’individuo (digiuno, suggestione, isolamento, ecc.). Volgendo lo sguardo alla cultura occidentale moderna, furono numerosi gli studiosi e gli sperimentatori che si accorsero dell’importanza delle “variabili extra-farmacologiche”, da Moreau de Tours ai “poeti maledetti” parigini del XIX secolo, dagli etnografi studiosi del culto del peyote a diversi ricercatori nel campo degli psichedelici, di cui basti citare come eccellente esempio Alfred Hubbard, che incontreremo più avanti e che promosse una vera e propria rivoluzione nella logistica della seduta psichedelica impiegata nel trattamento degli alcolisti, e basata su una forte manipolazione dell’ambiente fisico e umano. Lavorando con la mescalina, i due psichiatri londinesi Guttmann e Maclay (1936) erano giunti alla conclusione che gli effetti dipendono sia dalla droga che dalla personalità dell’individuo, inserendo fra i fattori della personalità la resistenza individuale, la disposizione corporea (eventuale stato infettivo, fatica, precedenti intossicazioni, metabolismo, ecc.), la costituzione psichica e la disposizione psichica (umore). Non si deve dimenticare lo studio seminale dell’antropologo canadese Anthony Wallace datato al 1959, che confrontò gli effetti del peyote percepiti dai nativi nord-americani nel corso dei riti religiosi della Chiesa Nativa Americana con quelli, diametralmente opposti, percepiti con la mescalina dagli studiosi occidentali nei contesti clinici ospedalieri. Egli spiegò questa grande differenza d’effetti con la differenza d’opinione e di considerazione sociale, quindi del contesto culturale, nei confronti dell’esperienza “allucinatoria”, intesa come visionaria presso i nativi americani e come patologico-psicotica presso la società occidentale. Cogliamo l’occasione per ricordare un contributo italiano a questa tematica, nella figura dello psichiatra Giuseppe Tonini, che svolse importanti

ricerche con gli psichedelici presso l’Ospedale Psichiatrico di Imola, accorgendosi dell’influenza dei fattori ambientali e psicologici: I fattori d’ordine psicologico che possono influenzare l’andamento della psicosi sperimentale, specie se le dosi del farmaco usate sono basse o medie (0,2-0,4 gr. per la mescalina, 0,05-0,15 mgr. per la LAE32 e 0,04-0,06 mgr. per la LSD 25) sono i seguenti. In primo luogo sono da considerare le condizioni e le sfumature dell’ambiente in cui l’intossicazione viene vissuta. Si vuol alludere a un complesso di condizioni che comprendono: il fatto che l’ambiente fisico e psicologico sia gradito o meno al soggetto, il fatto che il soggetto si trovi solo o in compagnia di altre persone, il fatto che egli venga lasciato in preda alle manifestazioni psicotiche (particolarmente allucinatorie) o venga invece sollecitato a prestazioni attraverso domande, interventi e discussioni. Ha in secondo luogo grande importanza il comportamento dell’osservatore; se esso comportamento è intelligente e ben adattato, il soggetto troverà facile esprimere preoccupazioni e pensieri [...] terzo elemento determinante il modo e l’intenzione con cui la persona affronta l’esperimento ed il modo con cui alla prova viene preparato dallo sperimentatore. Il fattore psicologico fondamentale è rappresentato tuttavia dalla costituzione individuale, intesa in senso dinamico come somma di disposizioni genotipiche con fattori acquisiti per il sovrapporsi di nuove esperienze e di adattamenti svariati (Tonini, 1957b: 502).

In queste considerazioni vi sono molti degli elementi facenti parte di ciò che oggi definiamo come set e setting esperienziali. Difatto, oggi sappiamo che l’effetto di una droga è il risultato della combinazione di tre fattori: droga, setting e set, e ciascuno di questi ultimi due può influire in maniera preponderante sull’andamento e sui risultati dell’esperienza. Anzi, come ha fatto notare Grof (1967: 160), sono ben pochi i sintomi e gli effetti di uno psichedelico che possono essere ascrivibili con sicurezza alla sostanza per se. Il setting riguarda l’ambiente fisico e umano in cui viene fatta l’esperienza. L’estetica dell’ambiente ospedaliero in cui venivano svolte le TP subì un’importante evoluzione nel periodo di passaggio dal paradigma psicotomimetico a quello psichedelico.55 Durante la lunga fase psicotomimetica, il paziente (spesso psicotico) o l’individuo sano impiegato come “controllo” per lo studio clinico, veniva fatto disporre su una branda di ferro o seduto su una sedia, sotto le bianche luci dei neon e, dopo avergli somministrato mescalina, LSD o altro psichedelico, veniva circondato da uno staff di 2-5 persone, fra medici e infermieri, che gli si sedeva attorno, lo guardava attentamente e impassibilmente facendo attenzione a qualunque movimento facesse o parola che dicesse. Non sorprende il fatto che il più delle volte gli psichiatri osservassero dei sintomi psicotici nel soggetto studiato, poiché qualunque individuo, pur mentalmente sano o ben esperito con gli psichedelici, in una tale situazione facilmente cadrebbe vittima di

insorgenza di sintomi di natura paranoide e psicotica. In questo tipo di esperienze, una luce troppo forte, lo stridio prodotto dallo spostamento di una sedia di ferro, lo squillo di un telefono, un urlo di un paziente proveniente dalla stanza accanto, una porta che sbatte, sono elementi sufficienti per innescare stati di allarme, diffidenze, timori, se non addirittura attacchi di panico, specie in persone psichicamente malate. Oltre all’ambiente fisico, anche l’ambiente umano è di fondamentale importanza ai fini di una riuscita positiva dell’esperienza psichedelica. Gli psichiatri canadesi che trattavano gli alcolisti cronici con le TP, a un certo punto si resero conto che il tono della loro voce, se freddo o affabile, e i loro movimenti, se bruschi o lenti, influenzavano le reazioni emotive del paziente. Nel corso del plateau psichedelico l’ingresso di persone estranee al gruppo di lavoro nell’ambiente esperienziale è altamente sconsigliato, in quanto può diventare una fonte di distrazione o, ancor peggio, innescare reazioni di sospetto se non addirittura di panico. Anche il carattere e la formazione professionale dello psicoterapeuta possono incidere sulla tipologia di esperienza del paziente. Fra i membri dell’équipe di Mortimer Hartman, dell’Istituto Psichiatrico di Beverly Hills (California), v’erano due psicoterapeuti di formazione freudiana e due di formazione junghiana, e fu osservato che questi ultimi riuscivano a indurre un’esperienza trascendentale nel paziente in maniera più veloce dei primi, mentre i due freudiani riuscivano a evocare nel paziente memorie dell’infanzia in maniera più veloce dei due junghiani (Hartman, in Sandison, 1960: 132). In buona parte delle sperimentazioni cliniche con la mescalina e con l’LSD, soprattutto in quelle sviluppate in Italia, il soggetto, sano o paziente mentale che fosse, al momento della normale routine ospedaliera corrispondente all’ora del pranzo, veniva puntualmente lasciato che pranzasse, anzi incoraggiato e a volte insistentemente invitato a pranzare, pur trovandosi nel pieno del plateau psichedelico. Non meraviglia il fatto che il più delle volte il soggetto incontrasse difficoltà nel maneggiare le posate, o che facesse resistenza nei confronti di una siffatta operazione. Ciò che i medici si preoccupavano di registrare accuratamente nei loro taccuini come “inappetenza, disinteresse, svogliatezza” nei confronti del cibo, come fosse chissà quale importante indizio utile per la terapia in corso, era più obiettivamente un fattore di disturbo del processo psichico allucinatorio, visionario o introspettivo che il soggetto stava esperendo. È un fatto noto fra

gli sperimentatori tradizionali e di cultura occidentale moderna di fonti psichedeliche, che nel corso del plateau dell’esperienza l’atto di cibarsi è l’ultimo dei pensieri che possono venire alla mente, anzi può risultare “privo di senso”, come privi di senso possono diventare l’ora indicata da un orologio o comportamenti e azioni materiali della normale routine quotidiana. Un momento invece più utile da dedicare all’azione del cibarsi è nel corso della discesa degli effetti psichedelici. Quando gli effetti scendono, accade che la fame si risvegli, specie dopo molte ore di digiuno, e diversi psichiatri si erano resi conto dell’utilità terapeutica del cimentarsi in un pranzo comune nel corso della discesa degli effetti, che facilitava e rafforzava i legami di fiducia e affettivi fra il paziente e l’équipe medica e infermieristica. Nel loro manuale sulla conduzione delle TP, Blewett e Chwelos enfatizzavano l’importanza del pasto collettivo come segue: Dove la situazione terapeutica lo consenta, è spesso un’esperienza molto utile per il soggetto trovarsi in una situazione in cui sta osservando e interagendo con altre persone mentre è ancora leggermente sotto influenza del farmaco. Può essere una sorta di primo passo per colmare il divario tra l’esperienza dell’LSD e il suo normale vivere giorno per giorno. Uscire per un pasto a tarda sera quando il soggetto è affamato, offre a questi una facile opportunità per apprendere come incontrare e accettare le persone in un modo che si accorda con ciò che ha imparato nell’esperienza. Questo apprendimento è rafforzato dalla sua associazione con il piacere di mangiare dopo diverse ore di digiuno. Se necessario, il cibo dovrebbe essere portato nella sala trattamenti, omettendo la visita al ristorante. Alcuni soggetti, specialmente tra gli alcolisti, potrebbero non avere alcun desiderio di cibo e se sono irremovibili nel loro rifiuto, questi desideri dovrebbero essere rispettati (Blewett e Chwelos, 1959: 44).

Sempre riguardo il setting, in molte sedute psichedeliche, soprattutto quelle sviluppate con scopi di ricerca clinica, nel corso del plateau esperienziale furono somministrati ai soggetti dei questionari considerati necessari per la misurazione delle variabili psicologiche. Ma ciò altera invariabilmente la natura dell’esperienza, la possibilità di indurre un’esperienza trascendentale viene notevolmente ridotta, e molto facilmente si presenta una distorsione delle medesime misurazioni; tutto un insieme di risultati negativi dal punto di vista terapeutico che si ottennero quando le TP iniziarono a essere sottoposte a più rigidi controlli sperimentali, potrebbe essere stato causato da questo “disturbo esperienziale”. Desideriamo porre l’attenzione su un altro fattore che non ci sembra sia stato preso in considerazione, perlomeno stando alla vasta letteratura che abbiamo visionato, e che sospettiamo possa anch’esso influenzare

significativamente la qualità e i risultati terapeutici delle sedute psichedeliche cliniche: il periodo diurno o notturno delle sedute. Quasi tutte le terapie psichedeliche che abbiamo visionato sono state eseguite durante il giorno, quasi sempre di mattina. Molto probabilmente questa scelta veniva fatta – e ancora oggi viene fatta – per scopi logistici, in quanto durante il giorno in un ospedale è più facile usufruire delle necessarie disponibilità infermieristiche e assistenziali, e forse anche per una maggiore facilitazione della gestione burocratica e inclusa una probabile riduzione dei costi finanziari del programma di ricerca. Il dubbio che la scelta del contesto diurno o notturno nella pratica delle TP cliniche possa influire sui risultati terapeutici, sorge dall’osservazione dell’impiego tradizionale delle fonti psichedeliche: sia nei contesti a scopo enteogenico (mistico-religioso) che in quelli terapeutici, nel mondo tradizionale le fonti visionarie vengono assunte quasi esclusivamente durante la notte. È un luogo comune nelle culture tradizionali ritenere il contesto notturno il più adatto per “vedere” il mondo degli spiriti, l’aldilà, o la causa dei propri problemi e malattie. A questa valutazione del mondo tradizionale si possono aggiungere alcune considerazioni contestualizzate ai criteri valutativi della psicologia e farmacologia occidentale: nelle terapie psicolitiche e psichedeliche si cercava di indurre processi di insight e di autocritica, basati su un direzionamento e potenziamento dell’attenzione dell’individuo verso le proprie problematiche, e si cercava, sempre mediante la somministrazione dello psichedelico, di facilitare l’insorgenza di abreazioni o comunque di emersione di ricordi repressi. Per quanto ne sappiamo, ci sembra che nessuno studioso si sia mai posto la questione di valutare eventuali differenze di risultati nel condurre questi processi psicologici in contesti diurni o notturni. Il silenzio e la pace notturna, quando il “mondo reale” è dormiente, è classicamente il contesto preferenziale per lo svolgimento delle attività intellettuali quali pensare, scrivere, analizzare, filosofeggiare; è un dato acquisito che molti scrittori e artisti riescono meglio a concentrarsi nelle loro attività durante le ore notturne. Anche da un punto di vista fisiologico e biologico è lecito sospettare che le riconosciute differenze degli stati di vigilanza, allerta e attività fra il giorno e la notte potrebbero influenzare i contesti psicoterapeutici e le modificazioni degli stati di coscienza richieste dalle TP. Su centinaia di studi clinici osservati, ne abbiamo incontrato solamente due in cui le sedute psichedeliche erano programmate con l’arrivo del buio:

quelle svolte da Volterra e Tiberi (1961, 1962) presso l’Ospedale Psichiatrico “F. Roncati” di Bologna, in cui fu utilizzata la psilocibina; e quelle sviluppate dallo psichiatra olandese van Rhijn (1967: 212), che preferiva il pomeriggio o la notte, e comunque un ambiente buio: “Il buio è associato al subconscio e all’ansia, e le cause dell’ansia, quali la punizione in una cella o in una credenza, vengono più facilmente alla superficie quando si è al buio”.56 Abbiamo inteso sollevare una tale considerazione non solamente come disquisizione di natura critica relativa alle TP del passato, ma come costruttivo spunto ideativo per le future terapie psichedeliche. Per quanto riguarda il set, si tratta di un concetto che ha subito un’evoluzione nel corso della storia della psicoanalisi e degli studi sugli psichedelici di questi ultimi decenni, e sono stati via via inclusi diversi fattori. Innanzitutto la predisposizione psicologica, ovvero lo stato d’animo in cui si trova l’individuo al momento dell’assunzione della sostanza. Se una persona è appena uscita da un litigio con un parente, o si trova in una situazione di ferita affettiva per via di un lutto o di rottura di un importante legame affettivo, o ha terminato di guardare un film d’azione, di terrore o erotico, le conseguenti dimensioni psichiche così predisposte potranno influenzare profondamente l’attenzione e gli stati emotivi e visionari, e in definitiva i contenuti dell’esperienza. Nel set rientra anche la percezione della propria forma fisica e lo stato di salute dell’individuo al momento di affrontare l’esperienza; il percepirsi problematicamente troppo magri o troppo obesi, essere fisicamente troppo stanchi, o uno stato influenzale, dolori fisici, il ciclo mestruale, o la preoccupazione per un sintomo fisico non ancora diagnosticato, influiscono sull’esperienza. Lo psichiatra statunitense Norman Zinberg, in un testo del 1984 che ha fatto storia, Drug, Set and Setting, incluse nel set la struttura della personalità dell’individuo. Ma nel set c’è più di questo: c’è tutta la cultura dell’individuo, la sua visione sociale, filosofica, spirituale, c’è tutto ciò in cui crede e tutto ciò in cui non crede; ci sono i suoi tabù, la sua moralità/immoralità, la sua etica, le sue certezze e i suoi dubbi. Non ultimi in ordine di importanza, nel set rientrano le aspettative e gli scopi che l’individuo più o meno consapevolmente si dà nell’affrontare l’esperienza, e ciò che ritiene di conoscere della sostanza che sta per assumere. Fra i tre fattori – droga, set e setting – il set risulta quindi essere il fattore più aleatorio nell’esperienza psichedelica. È possibile controllare totalmente

la sostanza psicoattiva, in termini di purezza e dosaggio, e anche il setting è suscettibile di un discreto controllo e quindi di un monitoraggio della sua influenza sugli effetti della sostanza. L’influenza del set, invece, rimarrà sempre indeterminabile, almeno in buona parte, e di fatto questa aleatorietà è il punto debole, se non nella conduzione delle TP, nella misurazione clinica dell’efficacia e dei risultati di queste terapie. Hartogsohn (2017: 10) riconosce un set e un setting collettivi dentro cui sempre si annidano i set e setting individuali, e li definisce come “la somma composita di fattori quali valori, credenze, copertura mediatica, leggi sulle droghe, tendenze sociali, ed elementi di discorso culturale che determinano quale tipo di set e setting individuali probabilmente emergono in una data società e quali tipi sono improbabili, irraggiungibili, forse anche impensabili”. Con uno sguardo più allargato, il medesimo studioso riconosce una interrelazione fra il set e setting e il placebo e nocebo;57 e cioè l’effetto placebo/nocebo è in ultima analisi causato dal set e setting associato alla somministrazione di un farmaco, e dove in questo set e setting nuovamente rientrano un ampio insieme di fattori individuali e sociali, incluso perfino l’umore e il “tono” con cui un medico prescrive al paziente il farmaco (Hartogsohn, 2016). Proponendo l’analogia con la storia della conflittualità sociale della cannabis, Howard Becker ha osservato una connessione fra le fasi storiche nello sviluppo di una subcultura che fa uso di una data droga, ad esempio l’LSD, e la natura dell’esperienza individuale soggettiva. Ciò che si dice socialmente di quella droga influenza gli effetti soggettivi esperiti da chi la consuma, e se la società esprime una conflittualità nei confronti di quella droga, ciò si rispecchierà in una conflittualità fra effetti positivi e negativi esperiti dagli utilizzatori. In quest’ottica, i luoghi comuni sociali di devianza e di patologia dell’esperienza con le droghe portano a conseguenze devastanti per gli utilizzatori di droghe, formando negativamente le loro esperienze (Becker, 1967). A fare rientrare nel set la formazione culturale dell’individuo, “che dà significato all’esperienza con la droga”, furono gli studiosi olandesi Stephen Snelders e Charles Kaplan, in un interessante studio sull’influenza dei conflitti sociali nelle terapie psichedeliche svolte in Olanda prima e dopo il 1966. Essi presero questo anno come “spartiacque” cronologico nella storia del conflitto sociale e politico indotto dal dilagare dell’uso non-clinico dell’LSD e del movimento psichedelico olandese, quest’ultimo originato

nella scena pleiner, che può essere considerata la versione olandese della Beat Generation. In seguito a una dettagliata analisi di comparazione, anno per anno, fra gli eventi del conflitto sociale e le TP lisergiche sviluppate nelle cliniche olandesi, i due studiosi si accorsero di come i promettenti risultati delle TP sviluppate prima del 1966, cioè prima dello scoppio del conflitto sociale, si fossero ridotti significativamente nelle TP sviluppate dopo quell’anno. Essi addussero questo cambiamento al modificato e conflittuale cambiamento dei punti di vista nei confronti dell’LSD da parte degli psicoterapeuti che si cimentavano nelle TP, risaltando quindi l’importanza dell’influenza del set, non solo dei pazienti, ma anche e soprattutto del personale (medici, infermieri, ecc.) che partecipavano al setting umano delle sedute lisergiche (Snelders e Kaplan, 2002). Definiamo questa influenza della conflittualità sociale degli psichedelici sull’efficacia delle terapie psichedeliche e più in generale sugli studi clinici e farmacologici con queste sostanze come effetto sixties; un effetto che, pur originato e ascrivibile principalmente agli anni ‘60 del Ventesimo secolo, può “attivarsi” ogni qual volta si presentino forme di pregiudizio individuale o di gruppo di natura sociale, politica o morale nei confronti dell’esperienza psichedelica.

Modelli teorici delle TP Quali sono i meccanismi che possono far risultare utili le esperienze psichedeliche nei contesti terapeutici delle malattie mentali? La base psicologica del trattamento con l’LSD e con gli altri psichedelici risiede nella proprietà peculiare di rilasciare materiale inconscio. Tale ipotesi fu riconosciuta pressoché all’unanimità dagli psichiatri che praticavano le TP, in particolare coloro che praticavano la terapia psicolitica (che descriveremo poco oltre), e si basava originalmente sull’osservazione della similitudine fra le fantasie dello stato psichedelico e i risultati dell’analisi dei sogni proposta da Freud e da Jung. I tre principali fenomeni associati al rilascio di materiale inconscio a differenti livelli sono l’abreazione, la regressione e le esperienze archetipiche: L’abreazione porta al rilascio di complessi carichi emotivamente che sono stati imbottigliati a causa di attitudini difettose durante l’infanzia. La regressione a uno stato infantile rende disponibile nel conscio esperienze primordiali che non sono state integrate. L’esperienza archetipica, o più profonda, che van Rhijn ha equiparato con alcune delle manifestazioni

allucinatorie dell’LSD e che ha chiamato ‘simbolisi’,58 è la più importante di tutte, poiché sono questi archetipi a essere simboli curativi. In questa regione dell’esperienza psicologica il paziente incontra sé stesso, riguadagna speranza e può esperire una rinascita spirituale simbolizzata nell’esperienza di nascita nota a così tanti terapeuti che lavorano con l’LSD. È in questo modo che si ottiene l’insight (Sandison, 1963: 34).

Fred Langner, direttore della Langer Clinic di Albuquerque (New Mexico), offriva questa descrizione del meccanismo d’azione dell’LSD sulle patologie mentali: L’LSD è un agente che diminuisce la compartimentazione all’interno della mente, attenua e spesso frantuma gli adattamenti difensivi multipli che soggiaciono al comportamento nevrotico, permette in molti pazienti esperienze pesantemente represse portate rapidamente alla consapevolezza e, in generale, catalizza la revoca e la comprensione delle radici traumatiche delle malattie mentali (Langner, 1967: 118).

Stanislav Grof parla di un’affinità specifica per l’LSD per i nuclei inconsci ad alta carica emotiva, e vedeva l’LSD come uno strumento da impiegare come “radar interno” per scandagliare l’inconscio e le problematiche dell’individuo: Un importante principio che influenza la selezione degli elementi inconsci per l’esteriorizzazione e la rappresentazione conscia in una particolare seduta con LSD è la preferenza definita per il materiale con una forte carica emotiva. Sembra che gli elementi inconsci che sono in quel momento connessi con il più intenso affetto negativo o positivo vengano attivati dalla droga, emergono nel conscio, e diventano contenuto manifesto dell’esperienza lisergica. L’affinità specifica dell’LSD per le strutture ad alta carica emotiva ha significato diagnostico e implicazioni terapeutiche. Per via di questa proprietà inusuale, l’LSD può essere usato come una specie di “radar interno” che scannerizza l’inconscio, identifica le aree di alta tensione affettiva, e le porta all’aperto. Aiuta il paziente e il terapeuta a distinguere materiale rilevante da quello banale e non importante, stabilisce adeguate gerarchie di priorità e riconosce le aree più urgenti per il lavoro terapeutico (Grof, 1975: 216).

Secondo William Richards (1978: 120), del Maryland Psychiatric Research Center di Baltimora, gli psichedelici possono essere visti come agenti che evocano una “attivazione indifferenziata” all’interno del sistema nervoso centrale. L’attività psicofarmacologica aspecifica, a sua volta, costituisce un’opportunità per la risoluzione dei conflitti psicologici e l’esplorazione dei cosiddetti “livelli più profondi” della coscienza. Lo psichiatra statunitense Duncan Blewett, rifacendosi alle “teorie della filtrazione”,59 espose il seguente meccanismo teorico: Solitamente, la coscienza agisce come una valvola di riduzione sulla quantità di

informazione permessa alla consapevolezza, ma la droga disturba questa funzione, e i processi di pensiero del soggetto sono sommersi da un “sovraccarico d’informazione”. L’ideazione diventa così rapida ed estesa tale da essere più propriamente descrivibile come intuizione. Ciò che potrebbe essere normalmente visto come una sovra-inclusività di concetti, diventa nell’esperienza psichedelica la base per modi d’ideazione velocizzati, arricchiti ed estesi [...]. La rottura delle difese induce una depersonalizzazione. Dato che le difese limitano la nostra capacità di vedere noi stessi con chiarezza e obiettività, il potenziale terapeutico degli psichedelici risiede nel fatto che, attraverso la depersonalizzazione, essi permettono una temporanea fuga dalla componente prigioniera della propria condizione. Il risultato è un confronto con il sé, senza mezzi di difesa contro il proprio giudizio o inimicizia. A questo punto l’individuo deve o lottare per riassemblare le sue difese distrutte – un processo agonizzante che molto probabilmente indurrà l’estrema ansia e confusione della risposta psicotomimetica – oppure deve rinunciare alle sue normali difese e arrendersi accettando una revisione del suo concetto di sé. Questo punto della resa è il punto cruciale dell’esperienza, poiché costituisce la grande divisione nella risposta psicologica dell’individuo all’impatto della droga. Da un lato c’è il processo di risposta psicotomimetica nella forma di depersonalizzazione psicotica e la sua accompagnante perdita di orientamento nel tempo, spazio e identità. Dall’altro lato, le reazioni psichedeliche sembrano estendersi attraverso una serie di livelli di perdita dell’ego nell’esperienza della trascendenza, esperienza di picco (Blewett, 1971: 345-6).

Sempre Blewett aggiungeva un’ulteriore considerazione sul meccanismo della “resa”: Il rilascio di una particolare area di repressione altera solamente quell’area di attitudini condizionanti verso il sé. Altre, forse più profonde, aree di repressione restano immutate. La resa del sé non è un evento che accade una sola volta, ma deve essere ripetuta quando ulteriore materiale represso viene rilasciato. Ogni ripetizione diventa più facile per via del positivo rinforzo dato da ogni precedente resa del sé. A volte, tuttavia, il forte impatto emotivo del materiale represso particolare emergente può intensificare le difficoltà incontrate. È per questo che reazioni psicotomimetiche possono presentarsi anche dopo che un individuo ha già esperito un certo numero di sessioni psichedeliche (Blewett, 1971: 348).

Eisner e Cohen (1958: 533), che svilupparono importanti studi clinici con l’LSD presso lo Neuropsychiatric Hospital di Los Angeles, parlano di esperienza integrativa a cui può andare incontro il paziente lisergicizzato. Con questo concetto essi intendono “uno stato in cui il paziente accetta se stesso come è, e dove si presenta una massiccia riduzione dell’auto-conflitto. V’è una sensazione di armonia con il suo ambiente e uno slancio di creatività. A volte ciò è percepito come una fusione del soggetto con l’oggetto [...]. V’è solitamente una componente percettiva che consiste nell’osservare la bellezza e la luce. Affettivamente, v’è una sensazione di grande rilassamento. I pazienti descrivono una visione acuta di se stessi, una consapevolezza del loro posto nell’ambiente, e un senso di ordine nella vita. Queste sensazioni sono tutte fuse in un episodio pieno di significato, che riteniamo di

significativo valore terapeutico”. Similmente, gli italiani Giberti e Gregoretti, che operavano presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova, consideravano il processo analitico psichedelico differente dai meccanismi di disinibizione e di stimolazione indotti dalla narcoanalisi e dalla weckanalisi:60 Nell’analisi lisergica ci si trova piuttosto di fronte ad una nuova e straordinaria esperienza psicologica, durante e dopo la quale il soggetto avverte la propria esistenza, il proprio dramma, i propri conflitti per mezzo di una esperienza spersonalizzante e attraverso richiami mnemonici (talora assai vivi e di antica data) rivissuti in uno stato affettivo del tutto inconsueto e inabituale. Si potrebbe dire che il paziente, dopo l’esperienza lisergica, può avere avuto modo di vedere se stesso quasi dal punto di vista di un altro; egli si è estraniato, mediante lo stato psicotossico, dai suoi modi abituali di essere e di esistere [...]. Sia mediante quell’insieme di fenomeni definiti spersonalizzanti sia mediante la rievocazione mnemonica, l’esperienza lisergica può assumere un valore capitale nella dinamica psichica del paziente: essa potrebbe consentire al paziente di liberarsi dei propri conflitti non tanto attraverso un affiorare degli stessi ai livelli coscienti, quanto mediante un nuovo modo di considerarli e di viverli; è il cangiamento stesso della posizione dell’Io del paziente di fronte ai propri problemi, che ne può determinare, superata la esperienza lisergica, una nuova elaborazione e forse una soluzione soddisfacente (Giberti e Gregoretti, 1955a: 8-9).

Una nota interessante dell’équipe di MacLean, dell’Hollywood Hospital (Vancouver, Canada), che trattò con TP (principalmente LSD e/o mescalina) centinaia di alcolisti e di pazienti affetti da disturbi mentali di varia natura, riguarda il fatto che nelle analisi di follow-up appare una discrepanza fra miglioramento “vocazionale” e miglioramento “finanziario”. Fra gli individui per i quali la TP risultò utile (guarigione totale o netto miglioramento), è stato notato un miglioramento vocazionale (cambio di lavoro, aumentata responsabilità, senso di realizzazione e altre soddisfazioni lavorative) maggiore del miglioramento finanziario (risparmi, possedimenti, investimenti e altri guadagni materiali). La probabile spiegazione di questo “gap” si basa sul fatto che i pazienti che hanno vissuto positivamente l’esperienza psichedelica diventano più sensibili o desiderosi di guadagni non materiali; si tratterrebbe quindi di un riorientamento dei fini in termini di “soddisfazioni” piuttosto che di “possedimenti” (MacLean et al., 1967: 418). Un altro punto di discussione nel corso delle TP degli anni ‘50-’60 è stato quello relativo alla eventuale componente terapeutica chimica e neurofarmacologica, in definitiva chemioterapica, accanto a quella psicologica. Lo psichiatra danese Geert-Jörgensen (1968: 199), che trattò con

LSD e psilocibina numerosi nevrotici, e che fu testimone di diverse guarigioni “miracolose”, cioè senza l’ausilio del lavoro psicoanalitico, era dell’opinione che nelle TP “abbiano luogo delle modifiche chimiche e neuropsicologiche, che condizionano un cambiamento positivo, fondamentale, nell’attitudine dei pazienti nei confronti di se stessi e dell’ambiente circostante, manifestantesi in un cambiamento nello schema comportamentale. Quanto questo effetto sia sufficiente per ottenere il risultato migliore, solo il futuro potrà mostrarlo”. Il rapporto fra azione chemioterapica e azione psicologica nel processo terapeutico conseguente all’esperienza psichedelica risalterà più chiaramente nell’approccio neurofenomenologico delle TP moderne.

Tipi di terapie psichedeliche In tutto il mondo furono elaborate le più disparate metodologie e tecniche con gli psichedelici, al punto che ogni ricerca clinica seguiva un protocollo molto personalizzato, prendendo spunto da tecniche già confermate e introducendo le immancabili innovazioni, che rendono ancora oggigiorno difficilmente paragonabili i risultati. Fra le centinaia di studi clinici che abbiamo visionato, non ne abbiamo mai incontrati due sviluppati con la medesima metodologia. Fermo restando questa variabilità “intrinseca”, sono state elaborate e denominate delle tecniche generali, che presentiamo in sommi capi: Impiego psicodiagnostico e di indirizzamento terapeutico – La somministrazione una tantum di sostanze psicoattive per scopi psicodiagnostici è una pratica psichiatrica di lunga data, che ha visto coinvolte la maggior parte delle droghe psicoattive. Basti qui citare, per mera curiosità storica, l’impiego di alcol etilico, somministrato in endovena, per l’individuazione delle tipologie caratteriali, come test di funzionalità cerebellare e per la distinzione diagnostica delle schizofrenie.61 Anche gli psichedelici sono stati impiegati come agenti psicodiagnostici; si facevano assumere al paziente una tantum nel corso della diagnosi, e a seconda del tipo di reazione psico-fisica che veniva osservato, il medico ne traeva segni considerati specifici del tipo di malattia mentale del paziente. Questa funzione psicodiagnostica era già stata attribuita alla mescalina da

alcuni studiosi tedeschi nei primi decenni del Novecento. Hanns Bensheim (1929) osservò come i ciclotimici e gli schizotimici reagissero in maniera alquanto differente a questo psichedelico; nei primi predominerebbero euforia-depressione, la visione di singole figure plastiche, immaginazioni impressionistiche, processi marcatamente associativi e realistici; nei secondi sarebbero specifici stati di estasi, serie di percezioni visive uniformi e persistenti, immaginazioni espressionistiche, perseveranza, emozione cosmica, in definitiva quella che gli psichiatri italiani Sogliani e Sagripanti (1957: 188) consideravano come una “risposta di natura autistica”. Descriviamo come esempio la scala diagnostica sviluppata da Jean Delay e dalla sua équipe a Parigi. Egli somministrava ai suoi pazienti via intramuscolo o per os 6-10 mg di psilocibina, riscontrando le seguenti reazioni: Ebefrenici – eccitazione atipica o stato catalettico senza alcun segno emotivo a parte esagerazione di riso inappropriato. Paranoidi e delusi cronici – depersonalizzazione o de-realizzazione, episodi oniroidi, con ricordi degli eventi deliranti, aumento dell’affettività con ansia, diminuzione della reticenza e opposizione. Psiconevrotici – manifestazioni mentali costanti, spesso della natura dell’ansia o della disforia sofferta. Nevrotici – coinvolgimento nell’esperienza maggiormente che nell’individuo normale, e focalizzazione dell’attenzione sulle situazioni drammatiche e conflittuali del suo passato, evocandoli con un’abreazione emotiva spettacolare. Isterici – reazione teatrale, con espressione esagerata delle emozioni, regressione ad attitudini infantili, proiezione delle fantasie su un livello allucinatorio visivo con evidente contenuto sessuale. Fobici – domina l’ansia, con sensazioni di colpa, le allucinazioni visive sono rare. Ossessivi – intensa depersonalizzazione e annebbiamento della coscienza, accompagnata da ansia; in un secondo momento i sensi di colpa vengono alla superficie insieme ad aggressività (Delay et al., 1963: 40). Al di là del potenziale psico-diagnostico che Delay ha studiato così approfonditamente e a cui dava il nome di oniroanalisi, allo psichiatra francese non era sfuggita l’osservazione di come gli effetti dello psichedelico fossero benefici anche nel campo più prettamente terapeutico:

Il carattere speciale dell’oniroanalisi risiede nel fatto che il paziente può seguire con lucidità il processo dell’esperimento e rimanerne in un qualche modo distaccato: la sua aumentata capacità dell’auto-analisi gli permette di percepire il ricco simbolismo della sua fantasia, le sue reazioni allucinatorie, le sue implicazioni emotive. L’emergenza di memorie dell’infanzia o di situazioni conflittuali spiacevoli produce reazioni emotive intense di valore catartico. Ricordando bene cosa è accaduto durante l’esperimento, il paziente può offrirne un rapporto dettagliato. È infatti nelle ore o giorni successivi l’esperimento che continuano i processi associativi e interpretativi più fruttuosi [...]. Le modificazioni dell’umore e dell’affetto portano a un cambiamento della relazione dottore/paziente. Viene stabilita una relazione di transfert che può essere utile da un punto di vista terapeutico (Delay et al., 1963: 41).

In Norvegia, Gordon Johnsen (1964) impiegava LSD o psilocibina come strumenti diagnostici, per chiarire l’inizio/ sviluppo della schizofrenia, le psicosi endogene e le nevrosi severe, e allo stesso tempo per ricevere indicazioni sulle migliori opzioni per il futuro trattamento. Aiutava anche a decidere quali pazienti avrebbero beneficiato dell’analisi profonda. Paragonava i risultati di queste esplorazioni con i risultati dei test psicologici e il quadro clinico, per decidere le terapie da seguire. In questo senso impiegava lo psichedelico con funzione pronostica, e non solo prognostica. Nell’ospedale psichiatrico inglese di Manchester, Sedman e Kenna (1965) impiegarono dosaggi di 50-200 mcg di LSD nel tentativo di diagnosticare i casi dubbi di schizofrenia, paragonandoli con casi accertati di psicosi, nevrosi e disturbi della personalità, ottenendo tuttavia risultati ambigui; un eccesso di ambiguità che portò all’abbandono di questa pratica. Come si è visto, gli psichedelici sono stati impiegati anche con funzione esplorativa, per aiutare a capire il tipo di terapia più appropriata, quindi con funzioni di indirizzamento terapeutico. Veniva usato in tal modo presso l’ospedale norvegese Modum Bads Nervesanatorium; ad esempio, se un paziente depresso esperiva con lo psichedelico (LSD o psilocibina) una sensazione di vuoto e di oscurità, ciò faceva indirizzare verso forme di trattamento somatiche e terapie di supporto, mentre se esperiva meccanismi di conflitto e psicogeni, lo si indirizzava verso programmi di psicoterapia con introspezione dinamica profonda (Madsen e Hoffart, 1996: 479). Terapia psicolitica – Il termine psicolitico fu coniato dal promotore di questa terapia, lo psichiatra inglese Ronald Sandison (1916-2010).62 Comportava la somministrazione di LSD o altro psichedelico a intervalli di 12 settimane, con dosaggi da bassi a mediamente forti (75-300 mcg per l’LSD), in un contesto di percorso psicoanalitico. Il numero di sedute variava

da 15 a oltre 100, mediamente 40. Questa tecnica fu sviluppata principalmente in Europa, ed era considerata principalmente adatta ai disordini emotivi quali psiconevrosi, disordini del carattere e disturbi psicosomatici. Lo psichiatra tedesco Hanscarl Leuner (1919-1996) è stato uno dei principali fautori della terapia psicolitica. Egli lavorò presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Göttingen (Germania), dove trattò più di 120 casi con terapia psicolitica (Leuner, 1963, 1997). I suoi studi portarono alla fondazione di molti centri europei di trattamento psicolitico, che si radunarono nell’European Medical Society for Psycholytic Therapy. Nel 1960 questa società organizzò a Göttingen il primo simposio, dove fu coniato il termine “terapia psicolitica” da Sandison. La lunghezza media ottimale del trattamento psicolitico, che in linea generale riduceva di almeno due terzi il tempo e le energie impiegati nel processo psicoterapeutico classico, era di 38 sedute lisergiche, e forti cambiamenti della personalità venivano generalmente registrati fra la 30° e la 50° seduta. Il miglioramento essenziale, finale o “cura” spesso si presentava solamente sei mesi dopo il completamento della terapia psicolitica (Leuner, 1967). Sandison verificò che non v’era relazione fra la durata della malattia e il numero di trattamenti psichedelici richiesti per ottenere una guarigione o almeno un ottimo miglioramento, e che i pazienti che avevano in precedenza subito trattamenti di elettroshock o lobotomia frontale erano svantaggiati nell’ottenere risultati positivi con le TP (Sandison et al., 1963). V’era chi interpolava le sedute psichedeliche con normali sessioni psicoterapeutiche, con lo scopo di intensificare e di approfondire il processo psicoterapeutico. Le terapie psicolitiche venivano precedute da un periodo di diverse settimane di psicoterapia convenzionale, che aveva lo scopo di far conoscere al terapeuta con una certa profondità la biografia, la personalità e le problematiche del paziente, e anche di permettere l’instaurazione di quel rapporto di fiducia indispensabile per affrontare un profondo stato modificato di coscienza. Il fattore terapeutico basilare, se non unico, delle terapie psicolitiche era considerata l’abreazione, e tutto il processo era indirizzato secondo il modello della psicoterapia dinamica, quasi sempre di stampo freudiano. Secondo Leuner, si presentavano due generali tendenze o modalità d’intervento psicolitico, che dipendevano principalmente dalla personalità del terapeuta; da una parte la tendenza a dare la priorità all’induzione dell’abreazione,

agendo anche sulla variabile droga, quindi con una tendenza a somministrare dosaggi dello psichedelico maggiori, impiegando la sua combinazione sinergica con un’amfetamina,63 e con una riduzione della cura simpatetica e della discussione psicoanalitia-psicodinamica. Dall’altra, la tendenza a risaltare il valore della comunicazione paziente-terapeuta, soprattutto per facilitare processi di rilettura del materiale che riemergeva dall’inconscio, e avvalendosi anche di tutto l’arsenale di cui la psicoterapia e la psicoanalisi di quei tempi disponeva, incluso un certo grado di “calore” e di “maternità” relazionale (Leuner, 1967: 103). Comunque fosse la modalità dell’approccio psicolitico, “fredda” o “calda”, l’obbiettivo restava l’abreazione, e non sempre il suo raggiungimento implicava l’immediata fine del processo terapeutico: Le abreazioni possono essere ripetute per un certo numero di episodi, ciascuno sostenuto per diverse ore, sino a che il conflitto così rappresentato viene risolto. Numerosi pazienti, in seguito a episodi in cui un conflitto veniva esperito in maniera abreattiva ma non risolto, richiedevano la droga i giorni successivi, con lo scopo di tornare e raccogliere i fili ancora impigliati che intendevano dipanare: “C’è qualcos’altro che vuole uscire”; “qualcosa ancora mi soffoca. Sono riuscito a capire cos’è”; “Ho quasi avuto una risposta, ma non mi sono lasciato andare in profondità a sufficienza. Credo che questa volta non avrò paura a lasciarmi andare”. La droga, per questi pazienti, era uno strumento di “ritorno”, uno strumento per esperire nuovamente e, così facendo, di comprensione delle difficoltà presenti in termini delle loro radici antiche (Langner, 1967:121).

Stanislav Grof (1970) riconosceva nelle terapie psicolitiche, soprattutto in quelle costituite da almeno alcune decine di sedute, un processo che tendeva a svilupparsi su tre fasi consequenziali: freudiana, rankiana e junghiana. Nel corso delle prime sedute tenderebbe a presentarsi il materiale biografico (Freud), la parte intermedia della terapia sarebbe dominata dal processo di morte-rinascita (Rank), mentre in una fase avanzata della terapia le sedute tenderebbero a essere di natura metafisica e filosofica (Jung). Egli riteneva anche che l’orientamento psicoanalitico rigidamente freudiano non fosse adatto alla terapia psicolitica (e a maggior ragione a quella psichedelica), in quanto questo modello tende a scoraggiare le esperienze trascendentali, interpretandole come una fuga da materiale psicodinamico significativo o come fenomeni di natura schizofrenica (Grof, 1994: 37, 114), mentre, se e quando si presentano, sono parte importante del processo di guarigione. Questa considerazione rimanda implicitamente al gravoso e irrisolto problema dell’approccio freudiano agli stati modificati di coscienza, argomento la cui complessità esula dagli scopi del nostro lavoro.

Terapia psichedelica – Questa tecnica fu sviluppata inizialmente specificatamente per il trattamento degli alcolisti. Prevedeva una singola (o al massimo doppia) seduta con somministrazione di una forte, in realtà fortissima dose di psichedelico (sino a 800-2000 mcg di LSD). A differenza dell’approccio psicolitico, che cercava la guarigione attraverso consapevoli processi abreattivi, lo scopo dell’approccio psichedelico era quello di indurre una repentina “morte dell’ego” e una conseguente esperienza di picco che, come abbiamo visto, è potenzialmente curativa in quanto tende a essere autorisolutoria dei conflitti e dei problemi psicologici dell’individuo. Per dirla con le parole di Grof: L’introspezione che emerge dalle sessioni con elevate dosi di psichedelici è di una natura globale, intuitiva e olografica [...]. È un’insight illuminante nell’essenza profonda dell’esistenza. Lo sperimentatore non raggiunge una comprensione razionale del processo cosmico, ma raggiunge la comprensione istantanea perdendo la sua identità separata e diventando letteralmente il processo [...]. È necessario aggiungere che ciò è frequentemente accompagnato dalla convinzione che alcune delle questioni che erano in precedenza considerate importanti o anche urgenti, sono irrilevanti nel contesto del nuovo sistema di riferimento. Invece di trovare risposte a questioni specifiche, si raggiunge uno stato in cui queste questioni non esistono o non sono rilevanti, o dove non v’è bisogno di domandarsi su di esse; entrambi il trovare le risposte e trascenderle rappresentano soluzioni del problema, sebbene su differenti livelli e di differenti tipi (Grof, 1994: 121-2).

Questo tipo di terapia comportava una maggior responsabilità del paziente, e aveva il vantaggio che veniva ridotta la dipendenza psicologica a lungo termine e i fenomeni di transfert con lo psicoterapeuta. Nel setting della terapia psichedelica (e in realtà anche in molte terapie psicolitiche) era considerata fondamentale la musica e la non interferenza dello psichiatra nel “viaggio” del paziente, che veniva tenuto steso su un comodo divano con un copri-occhi e una cuffia alle orecchie. Si cercava in tal modo di evitare il più possibile il fenomeno del transfert paziente-terapeuta. La terapia psichedelica è stata sviluppata principalmente in Nord America (USA e Canada), e poco in Europa, ed è risultata sperimentalmente più adatta per l’alcolismo e altri tipi di dipendenze, nelle depressioni maggiori e nei malati terminali. Verso la fine della fase del paradigma psicoanalitico venne progettato un’altro approccio terapeutico, quello psicodelitico. Riguardo chi e quando coniò questo termine appaiono dati contraddittori nella letteratura.64 Questo nuovo approccio partiva dall’osservazione che diversi pazienti alcolisti che erano stati trattati con la terapia psichedelica, con una sola forte dose di LSD,

pur essendo rimasti astemi per alcuni anni, tornavano a richiedere un altro trattamento lisergico, evidentemente per via di una ricaduta alcolica. Ciò fece sospettare che, nonostante il forte senso di significato indotto dall’esperienza di picco conseguente dalla robusta dose di LSD, i conflitti psicologici non fossero stati completamente risolti nella terapia integrativa pre- e post-seduta lisergica. Ciò portò a elaborare una terapia in cui l’esperienza psichedelica fosse inclusa in un programma di approccio analitico tradizionale più incisivo, e con un’esposizione plurima ad elevate dosi di psichedelico, ma non così elevate come nella terapia psichedelica, né così basse come in quella psicolitica (Yensen, 1985: 274). Torsten Passie ritiene sovrastimato il valore dell’esperienza di picco (a quei tempi considerata un’esperienza mistica) indotta dalla forte dose dell’approccio psichedelico, poiché “vi sono altre cose che accadono durante l’esperienza [...]. L’approccio psicodelitico integra i vantaggi dei due approcci classici [psicolitico e psichedelico]. Sembra che con una dose intermedia sia più facile per coprire o attraversare tutti gli aspetti dell’esperienza, sia quelli psicodinamici che quelli transpersonali, un fatto che può spiegare un maggiore potenziale terapeutico”.65 La terapia psicodelitica non passò oltre la fase della sua ideazione, per via dell’interruzione della ricerca clinica con gli psichedelici. Le terapie psicolitiche e psichedeliche prevalsero velocemente sulle altre. Ne osserviamo qualcun’altra: Terapia anaclitica o analisi LSD – Sviluppata da Joyce Martin (1957) e dalla sua assistente Pauline McCrick del Marlborough Day Hospital di Londra, questa terapia differiva dalla psicoanalisi con LSD nell’approccio con il paziente e nella risposta ai suoi bisogni. Il terapeuta assumeva il ruolo più adatto di caso in caso, e lo scopo era quello di sviluppare una relazione di trasferimento il più velocemente possibile. Erano inclusi i contatti fisici, contrariamente al metodo ortodosso freudiano. Nel trattamento erano previsti comportamenti affettivi dei terapeuti, dal nutrire il paziente con un biberon di latte caldo, all’accarezzare e toccare il paziente, sino a giungere alla “tecnica di fusione”, con un contatto completo dei corpi paziente-terapeuta, mantenendo comunque e rigorosamente un livello pre-genitale. La tecnica di fusione era raccomandata solamente nelle fasi di profonda regressione. Questa tecnica era già sviluppata nel contesto delle metodologie psicoanalitiche, e in alcuni casi fu integrata nelle

esperienze psichedeliche. I dosaggi lisergici mediamente usati erano di 100200 mcg di LSD, con eventuale aggiunta di Ritalin nelle ore finali dell’esperienza lisergica (Martin, 1967). Terapia ipnodelica – Gli psichiatri Levine e Ludwig elaborarono una tecnica di combinazione di LSD con l’ipnosi, che chiamarono trattamento ipnodelico. Come affermato dai medesimi psichiatri, l’idea di questa combinazione fu elaborata originalmente da Aldous Huxley, che la propose in una sua conferenza nel 1961. In realtà lo scrittore inglese – che può essere considerato come il “vero padre” della cultura e filosofia psichedelica, e che incontreremo in più occasioni – ne aveva già parlato dal 1956 in alcune epistole indirizzate ad amici medici, fra cui Howard Fabing e Humphry Osmond, dove scrisse: L’uso dell’ipnosi in congiunzione con la mescalina o l’LSD. Mi sembra che l’ipnosi potrebbe essere utile in tre modi. Primo, per preparare il soggetto nell’assumere la droga. Metterlo in una lieve trance e dirgli cosa probabilmente starà per esperire, sottolineando che non v’è nulla di che impaurirsi [...]. In secondo luogo, sarebbe interessante vedere cosa potrebbe essere fatto sotto ipnosi mentre il soggetto è sotto l’influenza della droga. Innanzitutto, una persona mescalinizzata è ipnotizzabile? Se sì, possono le influenze ipnotiche dirigere le sue nuove capacità visionarie verso canali specifici, ad esempio verso il regno delle memorie sepolte dell’infanzia, o verso specifiche aree del pensiero e dell’immaginazione? [...]. Infine, sarebbe interessante ipnotizzare la persona dopo che è tornata dall’esperienza mescalinica, cercando di fargli esperire nuovamente ciò che ha vissuto sotto mescalina, ma senza l’aiuto della droga [...]. e ripetere l’esperimento i giorni seguenti, e verificare se l’ipnosi possa stabilire non solamente una memoria dell’esperienza mescalinica, ma un richiamo totale o anche una nuova esperienza dello stesso tipo.66

Nel medesimo anno 1956, Huxley eseguì un esperimento insieme a sua moglie Laura, dove provò a combinare l’ipnosi con l’assunzione di basse dosi di LSD (50 mcg Aldous e 25 mcg Laura). In una lettera ad Humphry Osmond egli riportò che l’esperimento non ebbe successo, e che probabilmente si doveva sperimentare più volte e in diversi modi. L’unico dato che trovò interessante fu che le basse dosi lisergiche utilizzate con l’ipnosi avevano indotto nella coppia di sperimentatori delle esperienze psichedeliche piene, facendo sospettare che un preliminare ipnotismo possa aiutare nel massimizzare gli effetti della sostanza chimica (Huxley, 1977: 112). In un’altra lettera dell’anno successivo, il 1957, sempre indirizzata ad Humphry Osmond, Huxley riportò che il dr. L.J. West, del Medical School dell’Università dell’Oklahoma, provò a ipnotizzare soggetti mescalinizzati, ma senza successo. Huxley gli suggerì di provare a ipnotizzare il soggetto

non durante il plateau psichedelico ma prima della salita degli effetti (ibid., :131). Alla fine degli anni ‘50, presso il Dipartimento Psichiatrico del San Jacinto Memorial Hospital di Baytown (Texas), lo psichiatra T.T. Peck eseguì un esperimento che per certi aspetti rientra nell’argomento che stiamo trattando. Egli somministrò dell’LSD a quei pazienti che erano risultati refrattari al trattamento ipnotico; nel corso del plateau lisergico li suggestionò dicendo loro: “D’ora in poi, sarai in grado di esperire l’ipnosi”. Circa il 90% dei pazienti così trattati furono successivamente in grado di essere ipnotizzati (Peck, in Sandison, 1960: 130). Seguì l’esperimento degli psichiatri canadesi Fogel e Hoffer (1962) su un singolo malato mentale lisergicizzato, i cui effetti furono interrotti e in seguito riprodotti mediante l’ipnosi. Sulla base di questi spunti, Levine e Ludwig svilupparono delle ricerche specifiche, sperimentando inizialmente su alcuni ex tossicomani presso il Federal Hospital for Narcotic Drug Addicts di Lexington (Kentucky, USA). Al paziente veniva somministrato LSD in dosaggi di 100-150 mcg, e 30-60 minuti prima del sopraggiungere degli effetti lisergici veniva ipnotizzato il più profondamente possibile e gli veniva suggerito (“comandato”) di esaminare le sue difficoltà, osservandole nel contesto delle prime esperienze di vita, dei suoi eventi traumatici e delle sue relazioni con persone importanti della sua vita. Dopo circa tre ore il paziente veniva svegliato dall’ipnosi, e seguiva un lavoro psicoanalitico, con il quale gli psichiatri osservarono una maggiore malleabilità e risposta interattiva dei pazienti rispetto a quando venivano lisergicizzati senza l’apporto dell’ipnosi (Levine et al., 1963). I medesimi psichiatri svilupparono in seguito uno studio più approfondito presso l’USPHS Hospital di Lexington, coinvolgendo 70 pazienti ex tossicodipendenti, che suddivisero in cinque gruppi di 14 persone ciascuno, trattati come segue: 1) trattamento ipnodelico (HD), costituito da LSD + ipnosi + psicoterapia; 2) trattamento psichedelico (PD), costituito da LSD + psicoterapia; 3) trattamento delico (D), costituito dalla semplice somministrazione di LSD; 4) trattamento ipnoterapico (HT), costituito da ipnosi + psicoterapia; 5) trattamento psicoterapico (PT), costituito dalla sola psicoterapia. Il dosaggio dell’LSD era di 2 mcg/kg, somministrato oralmente. L’ipnosi veniva praticata immediatamente dopo l’assunzione del lisergico, prima che sopraggiungessero i suoi effetti, e mediante la tecnica della fissazione dell’occhio. Nel trattamento delico, con la sola somministrazione

del lisergico, al soggetto veniva data istruzione di pensare da solo ai suoi problemi, e lo scambio verbale con gli psichiatri era ridotto al minimo necessario. L’efficacia dei cinque trattamenti fu misurata mediante tre somministrazioni di uno specifico questionario (Linton-Langs modificato) in differenti tempi dell’esperimento, e i risultati evidenziarono una maggiore efficacia del trattamento ipnodelico (HD), seguito da una parità d’efficacia dei trattamenti psichedelico (PD), delico (D) e ipnoterapico (HT), e da un’efficacia minima del trattamento psicoterapico (PT), quest’ultima paragonabile a quella del gruppo di controllo (B), soggetto alla totale mancanza di trattamenti (Levine e Ludwig, 1965). Dal punto di vista teorico, la maggiore efficacia della combinazione ipnosi + psichedelico potrebbe essere dovuta al fatto che lo stato ipnotico, attivato prima del sopraggiungere degli effetti psichedelici, comporta nel soggetto uno stato di rilassamento che induce una migliore “arrendevolezza” agli effetti lisergici. Inoltre, lo stato ipnotico comporta una minore esigenza da parte del paziente di essere strettamente logico per comunicare con il terapeuta, con una maggiore accettazione delle sensazioni e dei pensieri inattesi, irrazionali o nuovi. Fra i diversi trattamenti impiegati in questo studio, gli psichiatri non considerarono quello dell’LSD + ipnosi senza psicoterapia, ma sospettarono che la psicoterapia non fosse così essenziale ai fini di una buona efficacia del trattamento, ritenendo l’orientamento teorico (freudiano, junghiano, adleriano, ecc.) meno importante del grande potenziale di insight fornito dalla combinazione ipnosi + psichedelico (Levine e Ludwig, 1966). Non sembra che questi interessanti esperimenti di combinazione dell’ipnosi con gli psichedelici siano stati ulteriormente sviluppati da altri ricercatori, e la tecnica “ipnodelica” fondata da Levine e Ludwig fu destinata a essere costantemente citata come mera curiosità nelle successive rassegne storiche delle TP. Nel corso di un programma di trattamento lisergico degli alcolisti presso il Topeka Veterans Administration Hospital (Kansas, USA), Kenneth Godfrey volle verificare se la reattività all’LSD potesse dipendere dalla capacità di subire l’ipnosi. Egli fece quindi sottoporre a ipnosi di gruppo i pazienti per due volte alla settimana per le tre settimane precedenti l’esperienza lisergica, e dopo questa fece loro subire il medesimo trattamento ipnotico per altre tre settimane. Ne risultò che i soggetti che reagivano maggiormente all’LSD

manifestavano anche uno stato di trance più profonda nel corso dell’ipnosi (Godfrey, 1967: 459). Circa la possibilità degli assuntori di psichedelici di essere ipnotizzati, era stato compreso che è piuttosto difficile ipnotizzare un soggetto nel corso del plateau lisergico o mescalinico, ma alcune meta-analisi avrebbero evidenziato una maggiore suscettibilità all’ipnosi dei soggetti che hanno sperimentato la cannabis o gli psichedelici rispetto a quelli privi di esperienze personali con queste droghe. Ciò può essere dovuto a fattori della personalità comuni agli individui interessati all’esperienza psichedelica e a quelli interessati all’ipnosi (quali un potenziale di distacco dalla rigida razionalità e una certa tolleranza alle esperienze “surreali”), oppure al fatto che l’assunzione di droghe potrebbe influenzare direttamente la suscettibilità all’ipnosi (Van Nuys, 1972). Purtroppo, l’interruzione degli studi scientifici con gli psichedelici non permise di approfondire queste interessanti tematiche.67 Terapia psicoaggiuntiva – Nell’ottica psicoterapeutica più zelante, per terapia psicoaggiuntiva si intendeva l’impiego una tantum o comunque saltuario degli psichedelici nel contesto della psicoanalisi tradizionale (terapia analitica). Lo psicoanalista tradizionale se ne serviva come di uno dei tanti strumenti che aveva a disposizione e che metteva occasionalmente in campo nel corso del lungo percorso analitico, con lo scopo di “smuovere” i blocchi e le resistenze del paziente. Veniva considerato particolarmente utile in quei casi dove il processo analitico ortodosso a un certo punto si “bloccava”, e una o due sessioni con lo psichedelico mettevano in grado il paziente di “ripartire”. Secondo Spencer (1964), l’LSD non era lo psichedelico più adatto per questo scopo, ed era preferibile la psilocibina per via della sua più breve azione. In Norvegia, presso il Modum Bads Nervesanatorium, l’LSD veniva somministrato una o due volte nella parte finale di una lunga psicoterapia analitica basata sull’analisi dei sogni, con lo scopo di sottolineare e integrare l’esperienza emotiva e l’insight che il paziente aveva ottenuto nel corso della psicoterapia (Madsen e Hoffart, 1996: 479). È probabile che dietro al concetto di terapia psicoaggiuntiva in diversi casi rientrassero interessi degli psicoanalisti di natura personale, sebbene sempre in ambito professionale. Non si deve dimenticare il contesto storico e la notorietà degli psichedelici, che indubbiamente raggiunse anche l’ampio insieme di medici professionisti che non avevano adottato gli psichedelici fra

i personali trattamenti clinici, e che comunque ne saranno rimasti incuriositi. Ed è proprio la curiosità, qui positivamente vista come curiosità professionale, che probabilmente indusse molti psicoanalisti a provare una tantum su un proprio cliente, consapevole e consenziente, il così tanto acclamato “psicolitico perfetto”. In alcuni più rari casi, come nello studio promosso dall’équipe di Ruth Mechanek a New York, lo psichedelico veniva somministrato in più sedute (sino a 22) a pazienti che seguivano da anni un percorso psicoterapeutico. Purtroppo la valutazione di queste terapie psicoaggiuntive è inficiata dalla cronica carenza di descrizioni più specifiche del trattamento. Mechanek, ad esempio, non riportò nemmeno i dosaggi di LSD somministrato, affermando in maniera vaga che “i dosaggi variavano ma erano sempre sub-allucinatori e dipendevano dalle reazioni del paziente e dalla necessità di mantenere la comunicazione verbale” (Mechaneck et al., 1968). Terapie di gruppo – Vanno ricordate anche le terapie psichedeliche di gruppo, dove queste tecniche psicoanalitiche si inserivano nel contesto dell’esperienza psichedelica. La terapia di gruppo consisteva nella somministrazione di basse dosi di LSD a tutti i partecipanti, e in diversi casi ne assumeva anche il personale medico presente. Gli scopi principali erano quelli di ridurre il tempo del processo psicoterapeutico e di usufruire “dello sviluppo della verità di base fra i partecipanti, che aumenta la coesione di gruppo e permette una maggior libertà di espressione e di auto-esplorazione” (Blewett, 1971: 342). La situazione ideale era che in ogni sessione di gruppo vi fosse solo una persona che provava lo psichedelico per la prima volta (Blewett e Chwelos, 1959: 14). Il numero ottimale di pazienti coinvolti nella terapia psichedelica di gruppo era tre, al massimo cinque, nel caso della presenza di un solo psicoterapeuta; in caso di sessioni con più terapeuti, si poteva giungere fino a 25 pazienti (Blewett, 1971). Eisner (1964) aveva trovato che dosi anche bassissime di l’LSD nelle terapia di gruppo rispondono sorprendentemente, per una qualche forma di “contagio” fra i partecipanti. Giunse a provare con soli 10 mcg, e dedusse dal suo campione che più grande è il numero di partecipanti orientati verso il gruppo e che già si conoscono l’un l’altro, più piccola è la dose lisergica necessaria. In questa situazione sarebbero sufficienti dosaggi da mezzo a un decimo di quella solita media effettiva. I gruppi con cui praticò erano formati

da 10-12 partecipanti, e non sempre erano pazienti psichiatrici. Fontana e Álvarez de Toledo (1960), che praticarono TP lisergiche di gruppo a Buenos Aires, ritenevano la situazione di gruppo particolarmente adatta per vedere, drammaticamente espressi, i meccanismi di difesa: “Fondamentalmente, ciò che in una seduta di acido lisergico individuale si esprime temporalmente, nel gruppo appare drammatizzato spazialmente”. Nella sessione individuale è possibile osservare in successione temporale l’apparizione dei diversi meccanismi di difesa – psicopatie, proiezioni, dissociazioni, introiezioni, ipocondrie fugaci o durature, ecc. –, mentre nel gruppo ogni partecipante si fa carico di un singolo ruolo difensivo, tale per cui a un certo momento è possibile osservare un partecipante in piena crisi psicopatica, un altro ipocondriaco, un altro dissociato, ecc. I medesimi psichiatri argentini trovavano particolarmente adatta la terapia lisergica di gruppo (che denominavano “terapia di gruppo combinata”), nei casi di psicopatie, di ipocondrie e con gli adolescenti. Nel gruppo è difficile negare il comportamento psicopatico – che è una caratteristica della psicopatia –, essendo controllato nel tempo e nello spazio da tutto il gruppo; similmente, il gruppo lisergicizzato rende flagrante la dissociazione mente-corpo e favorisce quindi la connessione con la somatizzazione generalmente negata dall’ipocondriaco. Tuttavia, in linea generale le terapie di gruppo psichedeliche non portarono a risultati incoraggianti – forse per via dei dosaggi troppo bassi impiegati, il cui aumento avrebbe portato alla disintegrazione della dinamica di gruppo – e furono presto abbandonate, lasciando lo spazio alle più solide terapie individuali. Furono eseguiti alcuni studi clinici di confronto dell’efficacia delle terapie di gruppo con quelle individuali, come quello sviluppato presso il Centro di Riabilitazione per Nevrotici di Lobecˇ, vicino a Praga, nell’allora Cecoslovacchia, dove 39 nevrotici furono sottoposti a entrambi i tipi di terapia, con tanto di gruppo di controllo e di placebo. Ne risultò che i risultati migliori furono ottenuti con le terapie individuali (71% di forte miglioramento), in confronto a quelli ottenuti con la terapia di gruppo (25% di forte miglioramento) (Hausner e Doležal, 1963). La modalità dove il terapeuta assume lo psichedelico nel contesto della seduta, insieme al paziente, è stata provata anche nelle terapie individuali. Ad esempio, nel contesto di un programma canadese di trattamento con LSD degli alcolisti, per una parte di questi (24 individui) fu sperimentata la seduta dove oltre al paziente, due terapeuti assumevano LSD. Un follow-up a 4-5

anni ha evidenziato solamente un 22% di totale astinenza dall’alcol, paragonato al 45-64% % ottenuto con tre affini gruppi di TP lisergica senza co-assunzione dell’LSD da parte dei terapeuti. Fu tratta la conclusione che evidentemente il terapeuta sotto LSD è meno abile nel soddisfare i bisogni del paziente (Hoffer, 1967). Terapie con multiterapeuti – Quando nella psicoanalisi si diffusero le tecniche che impiegano più di un terapeuta nel percorso analitico e nel contesto della medesima seduta, queste furono in alcuni casi provate e integrate nelle terapie psichedeliche. L’équipe di André Rolo, del South Oaks Psychiatric Hospital di Amytiville, Long Island (New York), fu la prima a cimentarsi nella tecnica delle sedute con LSD con più d’un terapeuta. Quasi invariabilmente, un terapeuta veniva selezionato dal paziente come un “genitore” o “protettore”; un altro con il ruolo di “nemico” o comunque astioso, e un terzo veniva variamente identificato come un insegnante o un professore. Si preferiva un dosaggio non troppo elevato (100 mcg di LSD), in quanto dosaggi forti tendevano a inibire la comunicazione con gli psicoterapeuti (Rolo et al., 1964). Il numero ottimale era di tre terapeuti più un’infermiera presenti contemporaneamente nel corso della seduta lisergica. Uno psicoterapeuta interagiva direttamente con il paziente, mentre gli altri due prendevano note, e dopo un po’ di tempo veniva ruotato il ruolo fra gli psicoterapeuti in maniera graduale e non intrusiva. Gli psicoterapeuti potevano avere differenti orientamenti psicoanalitici, e ciò permetteva a maggior ragione il raggiungimento di visioni ed elaborazione di materiale che un singolo psicoterapeuta non avrebbe potuto ottenere (Rolo et al., 1960).

Indicazioni e controindicazioni Esponiamo ora i pareri raggiunti dalle équipe psichiatriche che trattarono i pazienti con le TP riguardo quali fossero le patologie più adatte da sottoporre ai trattamenti psichedelici; pareri che per alcuni profili patologici risultavano discordanti. Lasciamo la terminologia diagnostica di quel periodo, che non sempre trova corrispondenza con la sistematizzazione e terminologia diagnostica del DSM-5 attualmente in voga. L’équipe londinese di Sandison riteneva che la terapia lisergica fosse di grande aiuto nelle patologie ansiose e ossessive (Sandison et al., 1954). Più

specificatamente, Sandison (1956: 29) riteneva che quei “pazienti con grinta, che hanno fatto qualcosa nelle loro vite, anche se delle cose sbagliate, sono casi buoni da prendere in considerazione. Verificando ch’essi hanno questa grinta, non sembra importante se siano caduti in una nevrosi ansiosa, o in uno stato ossessivo, o in una depressione nevrotica”. Johnsen (1964) in Norvegia giunse alla conclusione che le TP erano adatte agli alcolisti e agli psicopatici, ma non ai nevrotici, mentre due équipe danesi (Geert-Jörgensen et al., 1964; Kristensen, 1963b) ritenevano adatta la TP lisergica ai pazienti con nevrosi ansiose, nevrosi caratteriali e nevrosi sessuali. Eisner (1963) riteneva che la TP lisergica potesse essere indicata in tutti i tipi di patologie mentali, dagli stati depressivi sino a quelli schizofrenici, “a condizione che vi sia la volontà di spendere la quantità di tempo necessaria. Tuttavia, con la personalità inadeguata o con lo schizoide, la spesa di tempo ed energia richiesta non è solitamente consona con il risultato raggiunto”. Per Baker (1967: 198), che lavorò al Western Hospital di Toronto (Canada), e fra il 1961 e il 1964 trattò con l’LSD 150 pazienti psichiatrici, l’LSD poteva risultare utile nel trattamento di disordini psiconevrotici (conversione, fobia, depressione, reazione depressive nevrotica, depressione reattiva), psiconevrosi miste, pan-nevrosi, schizofrenici pseudonevrotici, schizofrenici borderline o latenti, nei disordini della personalità (ciclotimico, ossessivo), nei quadri passivi-aggressivi (ossessivo, compulsivo, deviazioni sessuali, dipendenze), disordini della personalità situazionale transitorio, reazione maniaco-depressiva. In Argentina Alberto Tallaferro, che trattò con mescalina e LSD alcune decine di pazienti psichiatrici, vedeva un’utilità delle TP nelle nevrosi ossessive, nei casi di inibizioni o blocchi affettivi che possono portare a un fallimento di una psicoterapia, nei casi in cui il paziente non può effettuare una psicoanalisi prolungata, e anche nella schizofrenia (Tallaferro, 1956; cfr. Scholten, 2017). Grof (1994: 249) riuniva in quattro categorie le patologie per le quali le TP erano state positive: 1) depressioni, nevrosi e sintomi psicosomatici; 2) alcolismo e altre dipendenze, disordini del carattere;68 3) stati border-line e psicosi endogene; 4) stress emotivo e dolore fisico associati al processo del morire, in particolare pazienti morenti di cancro. In uno studio svolto su 29 pazienti mentali con LSD, Cohen e Eisner (1959) ottennero miglioramenti con queste categorie di pazienti: nevrotici

(compulsivi e ansiosi cronici), depressi, con disordini di carattere passivoaggressivo, schizofrenici borderline e personalità isteriche immature, mentre il trattamento non si mostrò adatto alle personalità schizoidi. Gli inglesi Ling e Buckman (1960) trovavano la terapia lisergica particolarmente utile negli stati d’ansia accompagnati da tensione, nelle depressioni nevrotiche con associata ansia, nel caso la personalità fosse adeguata. Essi ottennero particolari successi nei casi di emicranie e ritenevano adatti anche i casi di dispareunia, eiaculazione precoce, frigidità e altre difficoltà “maritali”. Lo psichiatra danese Vanggaard (1964) riteneva il trattamento lisergico contro-indicato nei casi di pazienti le cui sintomatologie e la personalità generale rivelavano segni di quelle forme di debolezza dell’ego che possibilmente portano a uno sviluppo psicopatico, depressivo, schizofreniforme borderline, schizofrenico o paranoide. Curiosamente, Eisner (1964) in California osservò come, su 194 soggetti sani e malati a cui diede l’LSD o la mescalina in contesti di psicoterapia di gruppo, gli individui che come professione erano psichiatri, altri medici o psicologi, risultarono i più refrattari all’esperienza, mentre gli artisti ebbero le migliori esperienze. Riguardo la fascia d’età dei pazienti, per Randolf Alnaes, che trattò in Norvegia pazienti nevrotici, la fascia più indicata era quella di 35-45 anni, che corrisponde al miglior periodo per l’analisi junghiana, ed era particolarmente indicata “nei pazienti che hanno perso il loro stile di vita, che sono caduti in una situazione di vuoto, le cosiddette nevrosi da vuoto, i cui sintomi diretti prendono la forma di depressioni, ansia, compulsione, abuso di alcol” (Alnaes, 1964: 405). L’équipe dello Spring Grove State Hospital escludeva i minori di 18 anni e i maggiori di 55, senza apparentemente darne una giustificazione (McCabe et al., 1972). Curiosa e quasi umoristica la scelta di Ling e Buckman (1963: 19-20) di inserire fra i soggetti sconsigliati per le TP le “zitelle sui 45”, per le quali era sconsigliabile “esporle alle ragioni inconsce che le avevano fatto fallire nella loro vita amorosa quando erano ventenni e che le avevano lasciate non amate, prive di figli e fallite biologicamente”; così come sconsigliavano le TP agli uomini di mezz’età, considerati un fallimento dalla nostra cultura e per i quali era “ora troppo tardi per un nuovo inizio”. Secondo il parere dei due medici londinesi, entrambe queste tipologie avrebbero potuto cadere in una

depressione severa, con rischi di suicidio. Sempre Ling e Buckman (1963: 19-20) indicavano le seguenti caratteristiche idonee per le TP: un buon grado di motivazione; un’adeguata integrazione, buoni confini e difese dell’ego; un’adeguata percezione della realtà; una buona intelligenza; capacità di tollerare ansia, frustrazione e depressione; ragionevole controllo emotivo. Fra le caratteristiche non idonee: scarsa motivazione; psicosi passate o presenti; isteria dovuta a lesioni organiche, isteria di conversione;69 livello basso d’intelligenza; infanzia molto deprivata; malattie fisiche severe, specialmente condizioni cardiovascolari. È possibile paragonare questi dati con quelli delle linee guida moderne, dove nella selezione di volontari sani per le ricerche psichedeliche vengono esclusi: gli utilizzatori di determinati farmaci, fra cui antidepressivi triciclici e litio, inibitori del reuptake della serotonina, e l’antipsicotico aloperidolo; individui con una storia presente o passata di schizofrenia o altri disordini psicotici (a meno che non siano stati indotti da sostanze o da specifiche condizioni mediche), o con disordini bipolari delle forme I e II; vengono esclusi anche gli individui che abbiano parenti di primo o secondo grado con i suddetti disordini psichici; individui con personalità caratterizzata da forti tratti di rigidità o di labilità emotiva. Nei casi di studi clinici di terapie psichedeliche volte al trattamento degli stati depressivi e di ansia, vengono esclusi i pazienti i cui sintomi depressivi o ansiosi sono così forti da dover richiedere un immediato trattamento farmacologico (ad esempio nei casi di forte ideazione suicidaria)70 (Johnson et al., 2008). Con una sintesi generale sulle centinaia di rapporti clinici che abbiamo consultato, si possono riassumere le seguenti indicazioni risultate a quei tempi sperimentalmente efficaci, lasciando la terminologia nosologica di quei tempi: stati depressivi (persistenti, periodici, ecc.) nevrosi da ansia generalizzata nevrosi fobiche nevrosi ossessive disturbo di conversione disturbo ossessivo-compulsivo disturbo da stress post-traumatico disturbi della sfera sessuale

dipendenze (alcol, oppioidi, sedativi) sociopatie stati ansiosi e depressivi nei morenti Altre: balbuzie, amenorrea, psoriasi e altre patologie della pelle. In linea generale, ciò che risultò inadatto, anzi pericolosamente controproducente – a parte nel periodo del paradigma psicotomimetico – era l’impiego delle TP negli stati psicotici – paranoidi, schizofrenici o bipolari che fossero. Lo psichiatra canadese Edward Baker (1964) considerava controindicati per il trattamento con LSD anche la gravidanza e l’epilessia.

CAPITOLO 4

ASPETTI STORICI DELLE TERAPIE PSICHEDELICHE

Cronologia delle terapie psichedeliche La storia delle terapie psichedeliche occidentali ricopre ormai un secolo71 ed è suddivisibile in tre grandi fasi, che si sono succedute a partire dagli inizi del Ventesimo secolo sino ai nostri giorni, e che definiamo come segue: – la fase del paradigma psicotomimetico, parte dagli inizi del Ventesimo secolo e raggiunge il 1957, anno in cui fu coniato il termine psichedelico, ed è caratterizzata dall’interpretazione degli psichedelici come induttori di stati psicotici. È distinguibile in due sotto-fasi: la fase mescalinica, che va dal 1905 al 1945 circa, dove lo psichedelico maggiormente usato in clinica fu la mescalina; e la fase lisergica, che va dal 1945 al 1957, dove predominò l’uso dell’LSD. – la fase del paradigma psicoterapeutico, corrisponde al periodo d’oro delle TP e in cui la principale sostanza impiegata continuò a essere l’LSD, insieme a psilocibina, LSA e altri indolici; va dal 1957 al 1972 ed è caratterizzata dalla valutazione di queste sostanze per il loro potenziale abreattivo e di catalizzazione dei processi di liberazione e di consapevolizzazione del materiale inconscio; gli psichedelici vengono quindi impiegati come strumenti coadiuvanti il lavoro psicoterapeutico. Anche la seconda fase è suddivisibile in due sotto-fasi: il periodo del set e setting (1957-1965), dove viene acquisita l’importanza del setting ambientale e sociale e della predisposizione psicologica e culturale dell’individuo (set); e il periodo delle metodologie di controllo (1965-1972), dove si inizia a dare importanza ai sistemi di verifica e controllo degli esperimenti clinici (con l’adozione delle tecniche di placebo, doppio-cieco, ecc.), e ciò in tutto il

campo medico e non solo nel contesto delle TP. Agli inizi degli anni ‘70 terminarono le ricerche cliniche con psichedelici, per via della loro messa al bando non solo sociale ma anche dalla ricerca scientifica, prima negli USA e successivamente negli altri paesi occidentali. La messa al bando degli psichedelici dalla ricerca scientifica è durato circa un trentennio. – la fase dell’approccio neurofenomenologico, che parte dagli inizi del 2000 e che presenteremo nella sezione dedicata alle TP moderne.72 Trattando di terapie psichedeliche, è opportuno evidenziare una distinzione che non sempre viene osservata, e cioè le differenze nell’approccio agli studi clinici. In numerosi di questi studi prevaleva uno scopo osservativo, cioè si somministrava lo psichedelico ai pazienti per osservare il tipo di reazione psicologica, quindi senza un’immediata finalità terapeutica. È l’approccio che Louis Faillace (1966) ha denominato “behaviorista”, e che distinguiamo dall’approccio “fisiologico”, che aveva come scopo lo studio dell’azione farmacologica della droga, e da quello vero e proprio “terapeutico”.

Il paradigma psicotomimetico Nei medesimi decenni della prima metà del Ventesimo secolo in cui si svilupparono terapie psichiatriche con psicofarmaci, per lo più narcotici e stimolanti, i fantastica furono trattati dal mondo medico in una maniera del tutto particolare, venendo principalmente considerati come farmaci che mimano gli stati di psicosi, da cui il termine attribuito nel mondo psichiatrico di psicotomimetici. Questo concetto ha radici teoriche remote, sebbene diversi autori lo facciano originare da date e studiosi più recenti.

Fig. 8 – Cronologia delle terapie psichedeliche.

Tale concetto originò nel lontano 1845, quando il medico francese Moreau de Tours scrisse un libro sulla cannabis, Du hachisch et de l’aliénation mentale, che influenzò e contribuì a formare diverse generazioni di psichiatri. Il saggio era volto a dimostrare la tesi che gli effetti dell’haschish avevano qualcosa in comune con gli stati psicotici patologici, e suggeriva di usufruire di questo potenziale psicotomimetico (ma Moreau non impiegava questo termine) in due modi: lo psichiatra avrebbe dovuto provarlo su di sé, sperimentando in tal modo di persona ciò che prova un malato sotto attacco psicotico, quindi considerandolo come un tassello del suo personale bagaglio esperienziale e formativo; o altrimenti, la droga avrebbe potuto essere sperimentata sui malati mentali, nella fattispecie gli psicotici, in base all’antico e radicato principio del similia similibus curantibur, e cioè che il simile può curare il simile: Avevo visto nell’hachisch, o piuttosto nella sua azione sulle facoltà morali, un mezzo potente, unico, di esplorazione in materia di patogenia mentale; mi ero persuaso che mediante questa ci si sarebbe potuti iniziare ai misteri dell’alienazione, risalire alla fonte nascosta di questi disordini così numerosi, così vari, così strani che si è soliti designare sotto il nome collettivo di follia (Moreau de Tours, 1845: 29-30).

Questa interpretazione si fissò profondamente nel mondo psichiatrico, fondando di fatto il paradigma psicotomimetico, che perdurò per oltre un secolo e che fu invariabilmente applicato alle fonti psichedeliche via via scoperte o riscoperte dalla cultura occidentale moderna, dalla Cannabis alla mescalina, dall’LSD alla psilocibina. Moreau teorizzò anche l’impiego dell’haschisch su certe tipologie di malati mentali. La specie di “eccitazione maniacale” che, in base alle sue

esperienze, offriva la canapa, sempre accompagnata da gaiezza e buon umore, avrebbe potuto combattere le idee fisse dei melanconici, e fu proprio con questi soggetti che osservò sperimentalmente un risultato positivo, sebbene non duraturo. Egli dava inoltre valore alla fase acuta dell’attacco delirante negli psicotici: “sino a che il delirio conserva qualche acuità, non si deve disperare nella guarigione”. Sulla base di questo “assioma”, l’indicazione era quindi quella di “conservare la qualità acuta del delirio tendente allo stato cronico, cioè ricordare questa acutezza, ravvivarla quando minaccia di estinguersi”, ravvivarla quindi con l’haschisch, dato che “il delirio nella sua forma generale è ciò che presenta la maggior chance di guarigione” (Moreau, 1845: 404-5). Vedremo come questo valore terapeutico dell’attacco acuto dello stato delirante sarà rivalutato da alcuni psichiatri del secolo successivo con l’impiego terapeutico della mescalina negli schizofrenici. Nell’impiego delle droghe per studiare le patologie mentali va citato lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin (1883), che, mediante psicosi indotte sperimentalmente, sarebbe stato il primo a tentare di esplorare il meccanismo dei complicati fenomeni mentali dell’insano. Egli e i suoi alunni stabilirono precisi metodi sperimentali, mediante i quali studiarono l’azione di tè, alcol, morfina, trional, bromuro e altre droghe sui processi mentali, senza tuttavia raggiungere risultati interessanti, per via del fatto che le sostanze da loro impiegate producono stati mentali che hanno poca assonanza con le psicosi acute. L’idea di un effetto psicotomimetico dei fantastica si sviluppò di pari passo con l’ipotesi che la causa della schizofrenia dipendesse da una disfunzione metabolica producente una sostanza simile, o in alcune teorie identica, a qualche molecola psicoattiva, generalmente ascritta alla classe dei fantastica. Con il susseguirsi delle scoperte dei vari psichedelici nel corso del Ventesimo secolo, questa sostanza endogena, variamente denominata tossina X, schizotossina, psicotossina, sostanza M, ecc., fu di volta in volta associata alla mescalina, all’LSD, al DMT. Con una maggiore precisazione storica e limitandoci a una breve e incompleta rassegna, il primissimo studioso che sospettò l’esistenza di endotossine come fattore eziologico delle malattie mentali parrebbe essere stato nel 1884 Johann Ludwig Thudicum, considerato il padre della neurochimica (rip. in Blaumeister, 2011). Questa idea fu ribadita nei decenni successivi da diversi altri studiosi, fra cui merita ricordare Carl Gustav Jung.

In uno scritto del 1907 dedicato allo studio psicologico della dementia praecox (come veniva a quei tempi denominata la schizofrenia), e osservando la differenza fra il complesso isterico, che produce sintomi riparabili, e quello della dementia praecox, “che ferisce il cervello in una maniera più o meno irreparabile e tale da paralizzare le funzioni psichiche più elevate”, egli ipotizzò lo sviluppo metabolico di una tossina X come responsabile di quest’ultima condizione patologica (Jung, 1907: 40-41). Con gli studi di Eugen Bleuler (1911), che ridefinì il quadro della dementia praecox attribuendole il nome di schizofrenia, l’idea che questa patologia mentale fosse dovuta a un disordine metabolico si trasformò in un assioma organicistico generalizzato nel mondo psichiatrico, nonostante questa ipotesi continuasse a lungo a essere osteggiata dagli psicoanalisti, che ritenevano la schizofrenia una patologia di natura psicogena. Proseguendo in ordine cronologico, vale la pena citare un contributo italiano pressoché ignorato all’estero, riguardante la “dottrina generale autotossica” della schizofrenia, elaborata da Giuseppe Buscaino all’Università di Napoli a partire dal 1921, e che prevedeva come fattore eziologico un’intossicazione amminica cronica prodotta da un’alterazione entero-epatica (rip. in De Giacomo, 1951). Prendendo spunto dagli esperimenti olandesi di De Jong (1930), che aveva osservato negli animali sottoposti a mescalina uno stato catatonico affine a quello della dementia praecox catatonica negli uomini, e osservando la similitudine delle strutture chimiche dell’epinefrina (adrenalina) e della mescalina, Lindemann (1935: 1006) sospettò che la mescalina potesse essere formata nel corpo degli schizofrenici come il prodotto di un metabolismo anomalo dell’adrenalina. Con il sopraggiungere dell’LSD, anche questa molecola fu prontamente coinvolta nel modello della schizotossina endogena, e già nel primissimo studio clinico, che vedremo più dettagliatamente in seguito, venne sospettata la sua presenza negli psicotici come causa della loro malattia (Stoll, 1947). Nello studio clinico successivo fu sospettato non più l’LSD ma una sostanza “simile all’LSD” (Condrau, 1949). Negli stessi anni furono elaborate teorie che vedevano la schizofrenia causata da un’anomalia del percorso metabolico dell’acetilcolina (Fiamberti, 1952) e della serotonina cerebrale (Woolley e Shaw, 1954a), e durante le decadi ‘50-60 le ricerche volte all’individuazione della tossina endogena responsabile della schizofrenia si susseguirono a ritmo serrato, vedendo

anche alcune clamorose teorie destinate all’insuccesso; clamorose per la loro ridondanza nel mondo psichiatrico e poiché basate su molecole e/o ipotesi “fantasma”, come fu il caso della tarasseina. Nel 1956 Robert Heath riportò di avere isolato dal sangue degli schizofrenici una proteina che a suo dire produceva i sintomi schizofrenici quando iniettata in soggetti umani sani. A questa molecola diede il nome di tarasseina, rifacendosi all’etimologia greca di “mente confusa”, e la inserì in un modello di malattia autoimmune della schizofrenia. I suoi filmati in 16 mm che riprendevano le reazioni schizofrenico-simili in soggetti sani (volontari detenuti di un carcere della Louisiana) a cui era stato iniettato un estratto di siero di schizofrenici, fecero il giro del mondo. Nonostante la struttura chimica della tarasseina non sia mai stata identificata, e i numerosi insuccessi nel replicare gli esperimenti di Heath, questi rimase per tutta la vita tenacemente convinto della sua scoperta, noncurante del grande “flop” mediatico e scientifico di cui era stato responsabile.73 Più degno di nota è il caso dell’adrenocromo. Gli psichiatri canadesi Osmond e Smythies (1952), osservando le analogie degli effetti della mescalina con i sintomi schizofrenici e, ancora una volta, la similitudine della struttura molecolare della mescalina con quella dell’adrenalina, ipotizzarono come fattore eziologico della schizofrenia una disfunzione metabolica dell’adrenalina che portasse alla costituzione di un composto, che definirono “sostanza M” (dove questa M si rifaceva in un qualche modo alla mescalina), avente una struttura intermedia fra quelle della mescalina e dell’adrenalina. Nella ricerca della sostanza M, i medesimi psichiatri canadesi posero l’attenzione sull’adrenocromo, un prodotto dell’ossidazione dell’adrenalina sospettato di essere presente nel corpo umano74 e le cui proprietà psicoattive furono confermate da una serie di esperimenti sugli uomini (Hoffer et al., 1954). Le sue proprietà psicoattive furono tuttavia messe in dubbio da successive ricerche, le quali furono a loro volta criticate, e l’interesse per questa ipotetica endotossina svanì fra le righe di tale diatriba. Senza entrare in merito alle ragioni e contraddizioni di questa diatriba (rivisitate e discusse da Hoffer e Osmond, 1990), è opportuno puntualizzare che la cosiddetta ipotesi aminocromica della schizofrenia – un modello modernizzato dell’ipotesi adrenocromica – non è stata ancora del tutto scartata (Smythies, 2002). Quando fu disponibile come nuovo psichedelico il DMT, non mancò chi sviluppò ipotesi affini alle precedenti. Psichiatri dell’Istituto Centrale delle Malattie Nervosi e Mentali di Budapest somministrarono questa molecola via

intramuscolo al dosaggio di 1 mg/kg a 24 malate mentali, la maggior parte sofferenti di schizofrenia cronica, osservando una generale reazione ostile nei confronti dei medici e deducendone una inadeguatezza di questa sostanza per gli studi esplorativi. Ciò nonostante, constatando una minore intensità dei sintomi vegetativi e una pressoché totale mancanza di allucinazioni visive negli schizofrenici, gli psichiatri ungheresi ipotizzarono che in questi malati metaboliti simili al DMT venissero formati come risultato di uno squilibrio primario o secondario del triptofano, e che potessero essere almeno in parte responsabili dei sintomi patologici. L’assenza di allucinazioni negli schizofrenici in seguito a somministrazione di DMT poteva essere spiegata col fatto che nei malati alcuni recettori fossero già occupati da endotossine affini al DMT.75 È sulla base di queste idee e ricerche di tossine endogene responsabili della schizofrenia, sviluppate a partire dalla fine del XIX secolo, che si consolidò quel concetto di effetti psicotomimetici attribuiti alle sostanze psichedeliche fondato da Moreau de Tours; un concetto che in più casi si trasformava quasi automaticamente (cioè inavvertitamente) in ferrea convinzione, al punto da portare a un’identificazione semantica dei sintomi schizofrenici con gli effetti degli psichedelici. Venne persino definita una nuova branca della psichiatria, la “psichiatria sperimentale”, intesa come “lo studio comprensivo delle psicosi prodotte sperimentalmente” attraverso l’impiego dell’LSD, psilocibina e altri fantastica (Rinkel et al., 1955, 1960).76 È tuttavia opportuno precisare che, nonostante la generale adozione del paradigma psicotomimetico da parte degli psichiatri della prima metà del Ventesimo secolo, non furono poche le voci contrarie, e già con il sopraggiungere della mescalina si sviluppò un acceso dibattito fra gli studiosi, sebbene questa discussione vertesse essenzialmente sulle tipologie di esperienze comunque di natura psicotica da ascrivere a questo nuovo farmaco; in particolare, si discuteva se la mescalina inducesse psicosi simili o identiche a quelle degli schizofrenici, o se scatenasse altri tipi di sindromi psicotiche, vuoi generiche o specifiche. Tale diatriba fra gli psichiatri fu così accesa – coinvolgendo ampiamente anche la psichiatria italiana – che per delineare il primo periodo storico delle terapie psichedeliche occidentali sarebbe quasi più adatto sostituire la “fase del paradigma psicotomimetico” con la “fase del conflitto psicotomimetico”.

Nel lontano 1927, Kurt Beringer – uno dei principali studiosi della mescalina – identificava in toto gli effetti di questa molecola come una “schizofrenia sperimentale”. Roland Fischer e coll. (1951) furono i primi a definire gli stati indotti dalla mescalina e dall’LSD come “psicosi modello”, contribuendo alla loro identificazione con la schizofrenia. E sebbene da uno stretto punto di vista etimologico il termine psicotomimetico indichi una mimica, cioè una similitudine e non un’identificazione con gli effetti psicotici,77 di fatto il termine fu ampiamente e spesso inconsciamente impiegato per denotare una tale identificazione fenomenologica o, più propriamente, patologica. Anche Humphry Osmond riteneva che la mescalina producesse ogni singolo sintomo principale della schizofrenia acuta (Osmond e Smythies, 1952); ciò prima di ricredersi profondamente, sino a diventare il principale promulgatore del paradigma psichedelico, antitetico a quello psicotomimetico. Paul Hoch (in Cholden, 1956: 73) riteneva che non si potessero introdurre due o tre differenti sistemi per descrivere le medesime manifestazioni cliniche, ed era dell’opinione che il termine “psicosi” ben si adattasse allo stato indotto dagli psicotomimetici e che quindi fosse appropriato, “per via dei sintomi che producono, quali allucinazioni, illusioni, distorsioni della realtà, e la netta menomazione della funzione dell’ego”. In Inghilterra, un convinto fautore dell’identità degli effetti mescalinici con quelli schizofrenici fu Tayleur Stockings, che lavorava presso lo Warlingham Park Hospital (nella contea del Surrey). Basandosi essenzialmente su una serie di esperienze svolte su sé medesimo e su altri soggetti normali, egli osservò come le allucinazioni fossero simili a quelle trovate negli psicotici, in quanto il loro contenuto era sempre in linea con l’esperienza mentale del passato del soggetto; si trattava perlopiù di fantasie dei desideri, e in queste le fantasie infantili potevano essere facilmente riconoscibili: Il mescalinizzato regressa a un modo infantile di pensiero, un’età arcaica dorata, in cui tutti i suoi desideri sono soddisfatti nella fantasia [...]. Come quelle degli psicotici, le allucinazioni mescaliniche sono favorite dal silenzio, solitudine e auto-assorbimento, e mitigate o abolite dalla semplice occupazione [...]. Molti soggetti mescalinizzati riportano di visioni terrificanti. Riportano anche cambiamenti delle facce delle altre persone, e questo fenomeno è apparentemente la causa principale degli attacchi impulsivi contro gli altri. I cambiamenti facciali si presentano anche nella schizofrenia. Le idee illusorie della mescalina sono le stesse della schizofrenia, principalmente idee di grandezza, persecuzione e cambiamento corporeo. L’intossicazione mescalinica è una vera e propria “schizofrenia”, se usiamo il termine nel suo senso letterale di “mente divisa”, dato che l’effetto

caratteristico della mescalina è una frammentazione molecolare dell’intera personalità, esattamente simile a quella trovata negli schizofrenici (Stockings, 1940).

Lo psichiatra inglese aveva osservato anche impulsi suicidi e omicidi, indotti dalle visioni terrifiche e dalle idee di persecuzione sperimentate dai soggetti mescalinizzati. Riguardo la sfera intellettiva, la conclusione più appariscente e forse più sconcertante è che “non c’è bisogno di dire che il soggetto con psicosi mescalinica è interamente mancante di insight”. Sorge il sospetto di un setting inadeguato, così come di forme di immaturità caratteriale da parte dei soggetti “normali” che fecero queste prove, come fattori induttori di siffatte esperienze di natura psicotica, o anche di forzature interpretative volte alla dimostrazione della qualità psicotomimetica della mescalina. Bowers e Freedman (1966) andarono oltre nelle analogie: riconoscendo componenti di natura psichedelica fra i sintomi dei primi attacchi psicotici nei malati mentali, dedussero che “i fenomeni psichedelici e quelli psicotomimetici sono strettamente associati fra di loro”; inoltre, i fenomeni estatici che si possono presentare con l’LSD, nonostante le apparenti conseguenze positive quali nuove forme di apprendimento, cambi di valori e di comportamenti, rientrano comunque nello “stato psicotomimetico”, dato che si presentano anche presso gli psicotici. Parrebbe come se qualunque fenomeno di modificazione della coscienza venisse valutato e fatto ricondurre allo stato psicotico, inteso questo come unico punto di riferimento e unità di misura della differenziazione psichica. Uno psichiatra italiano fermamente convinto della qualità psicotomimetica della mescalina è stato Enrico Morselli, che nel 1931 fu vittima di un prolungato strascico di effetti psicotici in seguito a un’esperienza personale con il forte dosaggio di 750 mg di mescalina solfato: “La difettosa integrazione dell’io somato-psichico all’io conoscitivo, insieme alle altre turbe della serie spersonalizzante, costituiscono dati press’a poco costanti nella fenomenologia mescalinica, che evolve come un vero processo regressivo e metamorfosante della persona” (Morselli, 1961: 27). Altro ferreo sostenitore degli effetti schizogeni degli psichedelici fu Giuseppe Buscaino, Direttore della Clinica delle Malattie del Sistema Nervoso dell’Università di Napoli, che per primo portò la conoscenza in Italia dell’LSD in un articolo datato al 1949, dove riassunse i risultati dei primi esperimenti svizzeri. Nell’esposizione egli scelse accuratamente e sottolineò come effetti la mancanza d’impulso al movimento, l’intoppo psichico, il senso di estraneità

dell’ambiente, l’indifferenza affettiva e gli spunti deliranti paranoidi, per giungere a concludere, influenzando con ciò la prima generazione di interessati italiani: “insomma si è di fronte alla riproduzione artificiale transitoria di una tipica schizofrenia”. Pur di avvalorare la tesi “schizofrenicosimile”, vi fu chi, fra gli italiani, eseguì esperimenti somministrando LSD a dei cani, e osservando “una sintomatologia subiettiva e obbiettiva per molti aspetti sovrapponibile a quella degli schizofrenici, sia reazioni umorali del tipo di quelle osservabili in schizofrenici” (Buscaino e Frongia, 1953: 692); un’analogia, quella fra il cane lisergicizzato e l’umano schizofrenico, fortemente discutibile, data l’aleatorietà dell’osservazione in un animale di una sindrome schizofrenica, in quanto “scissione della mente”. Anche in Germania fu sviluppato nel medesimo periodo uno studio sui cani, con tanto di somministrazione di mescalina radioattiva per evidenziare i percorsi cerebrali che sarebbero stati sovrapponibili con quelli schizofrenici; una ricerca che richiedeva ovviamente il sacrificio degli animali così trattati per gli studi istopatologici (Patzig, 1953). Queste ricerche erano ancor più prive di senso in un periodo in cui in etologia vigeva il ferreo paradigma behavioristico che negava qualunque forma di pensiero negli animali; e senza pensiero non avrebbero potuto esistere forme patologiche di pensiero. Osservando attentamente i rapporti degli psichiatri che seguivano il modello psicotomimetico, appaiono evidenti le rigidità e le forzature delle loro deduzioni. Ad esempio, a un soggetto sotto effetto di psichedelico fu chiesto di pronunciare il più grande numero possibile di aggettivi; questi rispose con un prolungato silenzio, che fu interpretato dallo psichiatra come “un tipo di risposta non-cooperante, persecutoria”, che addirittura sarebbe stata confermata dalla successiva “patetica” affermazione del soggetto: “stavo cercando di pensare cosa fosse un aggettivo” (McKellar, 1957: 181). Indicativo il caso di un certo dottor Bercel, che presentò all’incontro annuale dell’American Psychiatric Association del 1956 un film dal titolo “The schizophrenic model psychosis induced by LSD”,78 dove mostrava gli effetti schizofrenico-simili di soggetti normali lisergicizzati. Fu merito di Juliana Day (1957) aver fatto notare che in questa ricerca, quando il paziente iniziava a descrivere di sentirsi trasportato da sensazioni meravigliose, lo psichiatra subito interrompeva il suo stato ordinandogli ripetutamente di andare a mangiare; e alle lamentele del soggetto per essere stato così malamente interrotto, lo psichiatra rispondeva ch’egli riteneva che

l’esperienza stesse diventando troppo forte per lui. Come ha fatto notare la Day, ciò che accadeva era di fatto il trasporto violento dell’ansia dello psichiatra nel contesto dell’esperienza, con conseguente influenza negativa (Day, 1957). Anche Harold Abramson (1956a: 52) aveva sottolineato che “se il terapeuta non è ansioso nella somministrazione della droga, l’ansia nel paziente sarà notevolmente minore”, e viene da chiedersi quanto abbia influito sui risultati terapeutici l’insicurezza e la bassa preparazione di terapeuti non avvezzi all’esperienza psichedelica. È significativo il fatto che, in un’approfondita analisi teorica delle “psicosi modello” e nel distinguere i vari effetti indotti dalla mescalina, Peter McKellar (1957: 172, 179) si fosse preoccupato di indicare che “non tutto ciò che accade in un esperimento di psicosi modello è rilevante” e che “l’unico interesse per uno psicoanalista deve essere il materiale esclusivamente di natura psicotica”. Sul fronte della critica al modello psicotomimetico degli psichedelici, uno dei più accaniti critici fu Manfred Bleuler, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo, che giunse ad affermare che gli agenti psicotomimetici fino ad allora “non avevano contribuito per nulla alla comprensione della patogenesi della schizofrenia”.79 Un altro psichiatra svizzero, Walther-Büel (1953), riteneva che l’LSD presenti solamente un’analogia sintomatologica oggettiva e soggettiva con quella schizofrenica, e che non esisterebbero identità eziologiche fra psicosi endogene e psicosi lisergiche. Fra gli psichiatri italiani, Giuseppe Tonini, pur ritenendo che queste sostanze inducano “alterazioni psichiche a tipo schizofrenico”, aggiungeva una considerazione che di fatto creava una distanza fra i due fenomeni: Caratterizza la psicosi sperimentale e ne rappresenta l’elemento più peculiare il fatto che durante l’azione dissociativa affiora al livello della coscienza un flusso di pensieri che risultano “nuovi” all’osservatore, che ha in precedenza studiato la psicologia del soggetto che si è sottoposto alla prova, e al soggetto stesso. Questo flusso di pensieri non può essere altrimenti considerato che come manifestazione di uno psichismo latente od inconscio e viene spesso interiormente vissuto come fatto d’esperienza primaria (Tonini, 1957b: 501, corsivo suo).

L’équipe di Gustavo Gamna di Torino, in seguito ad auto-sperimentazioni con LSD, giunse alla conclusione che: La sintomatologia prodotta dall’intossicazione per LSD, non ci pare assimilabile in alcun

modo ai disturbi prodotti dalle malattie mentali, e forse si può ritenere soltanto avvicinabile, ma in modo grossolano, a quel gruppo di sindromi oniroidi, con coscienza conservata ma crepuscolare, con stati allucinosici e sognanti, con sintomi generali di una piccola intossicazione, che sono frequenti ad osservarsi, ma attendono ancora uno studio accurato ed una più chiara classificazione e differenziazione (Gamna et al., 1954: 986).

Osservando ancora le opinioni di psichiatri italiani, forse coloro che si sono maggiormente allontanati dal paradigma psicotomimetico sono stati Bruno Callieri e Mario Ravetta, della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, i quali, in seguito al riscontro negli schizofrenici lisergicizzati di un arricchimento tematico della sintomatologia preesistente, ma senza produzione ex novo di sintomi processuali primari, non solamente hanno negato all’LSD la proprietà schizofrenizzante, ma hanno ritenuto i suoi effetti nemmeno classificabili come quelli di una psicosi sintomatica, mancando la caratteristica di queste ultime dell’obnubilamento della coscienza, attribuendogli in definitiva il valore di “eidetico” del gruppo dei fantastici nei soggetti normali, e quello di psicotico nei malati (Callieri e Ravetta, 1955, 1957a: 276). In altri termini, questi psichiatri consideravano l’LSD e gli altri fantastica degli psicotomimetici solamente per gli schizofrenici e gli altri psicotici. A un’affine conclusione erano giunti due psichiatri di New York in seguito a studi comparativi fra schizofrenici e soggetti sani lisergicizzati. Osservando che “né lo stato LSD né lo stato schizofrenico sono una sindrome uniforme, ma piuttosto che ciascuno può essere concepito come un complesso di sindromi entro cui si può trovare una varietà di quadri sintomatologici”, essi riscontrarono che “i soggetti che avevano una reazione simil-paranoica con l’LSD possono essere visti come caratteri paranoidi o persone vulnerabili alle reazioni paranoidi e schizofreniche quando sotto stress. Le loro personalità al di fuori della droga, in realtà, hanno caratteristiche paranoidi e il potenziale per un disturbo del pensiero” (Langs e Barr, 1968: 169). Tornando agli psichiatri italiani, l’équipe palermitana di Guido Smorto, che somministrò l’LSD a 12 schizofrenici, giunse alla conclusione che l’LSD provoca sia nei soggetti psicotici che in quelli normali un’intossicazione acuta definibile come “reazione aspecifica di tipo esogeno” (Smorto et al., 1955). La critica italiana più acuta e strutturata al paradigma psicotomimetico fu sviluppata dai due psichiatri lombardi Manzini e Saraval (1960), i quali, in seguito a esperienze cliniche con l’LSD, dedussero: “non abbiamo mai

osservato nei nostri soggetti un quadro che nell’insieme ricordasse la schizofrenia e nemmeno sintomi che, a un’accurata analisi, risultassero di schietta struttura schizofrenica”, e aggiunsero: Vi sono sintomi, come l’alterazione dell’umore, l’angoscia, i disturbi percettivi, che possono comparire in malattie mentali diversissime e, talora, anche nel normale, e non è quindi la semplice loro constatazione che ci permette di arrivare ad una diagnosi psichiatrica. Quello che conta è semmai il modo come il sintomo è strutturato e come viene vissuto dal paziente. L’angoscia, per non fare che l’esempio più banale, è un’esperienza che può essere vissuta dal normale, dal nevrotico, dal melanconico, dallo schizofrenico, e le sue manifestazioni apparenti sono simili; ciò che è diverso è l’atteggiamento del soggetto di fronte al sintomo. Il normale la controlla e riesce a difendersene, il nevrotico la vive come un sintomo patologico in certo modo estraneo alla integrità del suo Io, ma da cui si difende male, o comunque sempre con mezzi di difesa patologici. Il melanconico la subisce per lo più passivamente, senza criticarla, anzi da essa trae ragioni per autopunirsi o, se insopportabile, autodistruggersi; lo schizofrenico, infine, vive l’angoscia come un’emozione dilagante che travolge l’unità del suo Io o l’essenza della realtà. Lo stesso discorso si potrebbe fare per altri sintomi, come la depressione, che sono strutturati e vissuti non solo in grado, ma in modo diverso nelle diverse malattie, o per quei sintomi, come i disturbi percettivi, illusioni, allucinosi, allucinazioni, che non sono di per sé appannaggio specifico di alcuna sindrome psicotica. Quei sintomi che apparentemente avvicinano la sindrome da LSD alla schizofrenia sono in realtà vissuti, strutturati ed elaborati dal soggetto in modo sostanzialmente diverso (Manzini e Saraval 1960: 606).

I due psichiatri lombardi proseguirono la critica al paradigma psicotomimetico facendo notare una certa superficialità fra i sostenitori di un’analogia fra schizofrenia ed effetto lisergico nel trascurare l’insieme di condizioni che caratterizzano e definiscono la schizofrenia: disturbo delle associazioni logiche (discordanza), delirio, autismo. Queste condizioni, che si presentano costantemente nella schizofrenia, non si presentano, se non saltuariamente, nelle esperienze lisergiche, che si distinguono per un insieme di elementi sintetizzati come segue: I sintomi più clamorosi, come ad esempio i fenomeni dispercettivi e la depersonalizzazione, sono instabili e vengono spontaneamente criticati dal paziente; la capacità di contatto che il lisergicizzato ha con lo sperimentatore, il desiderio di comunicare i suoi stati d’animo, di farsi comprendere e aiutare, sono agli antipodi con gli atteggiamenti autistici dello schizofrenico; mancano nel lisergicizzato fenomeni di discordanza; i fenomeni catatonici e le vere allucinazioni sono infrequenti; il delirio, quando è presente, ha struttura di delirio interpretativo di riferimento e si sviluppa solo in rapporto alle persone presenti nell’ambiente. Per la sua fugacità e per lo scarso convincimento con cui è vissuto dal paziente è poco avvicinabile ai deliri schizofrenici, senza tener conto che esso costituisce un evento raro nel corso dell’intossicazione lisergica, mentre è un fenomeno pressoché costante nel corso di una psicosi schizofrenica (Manzini e Saraval 1960: 616).

Sogliani e Sagripanti (1957: 190), dell’Ospedale Psichiatrico di Pavia,

hanno in definitiva riassunto le ipotesi degli psichiatri in quattro tipologie di azioni dei fantastica: 1) azione puramente schizogena; 2) azione schizofrenosimile; 3) azione psicotossica aspecifica; 4) azione psicotossica specifica (psicosi mescalinica, psicosi lisergica, ecc.). Aggiungiamo, 5) azione eidetica, come osservata da Callieri e Ravetta (1957a: 276) e, ancor prima, dallo svizzero Stoll (1947). Il punto debole del paradigma psicotomimetico consisteva nel fatto che molti psichiatri ritenevano come unico effetto possibile degli psichedelici la produzione di uno stato psicotico, escludendo a priori, e spesso senza nemmeno essere in grado di immaginare, la possibilità di effetti psichici di altra natura. Questa interpretazione era così radicata presso diverse scuole psichiatriche, che numerosi psichiatri che provarono su sé medesimi la mescalina o più tardi l’LSD, sperimentarono stati psicotici, come di fatto si aspettavano di esperire, senza essere consapevoli che il tipo di risposta così promossa era semplicemente il frutto dell’interazione del set, cioè delle aspettative e del bagaglio culturale dello sperimentatore. E quando nel 1954 Aldous Huxley diede alle stampe il libro Le porte della percezione – un testo destinato a diventare uno scritto cult della cultura psichedelica – dove descriveva gli effetti visionari di una sua esperienza con 400 mg di mescalina, tutt’altro che di natura psicotica – gli psichiatri cercarono di spiegare questa “anomalia” con ragionamenti riduttivi e in definitiva denigranti il pensiero del grande letterato e filosofo inglese: “non è scientificamente interessante, data la mancanza nel soggetto di intuire gli effetti prettamente psicotici. Lo scritto di Huxley soffre di un eccesso di influenza della sua personalità, e di una insufficiente capacità di sottrarsi alla loro influenza”. Vi fu chi addirittura affermò, con un certo tono irriverente: “Credo che nell’esperienza del signor Huxley con la mescalina vi sia il 99% di Aldous Huxley e solo l’1% di grano di mescalina”.80 Si potrebbe ribattere affermando che in queste idee c’è il 99 per cento delle convinzioni degli psichiatri e un solo grano di mescalina, e si potrebbe anche sospettare un fastidio da parte degli psichiatri nell’affermazione di Huxley che “la maggioranza dei consumatori di mescalina sperimenta solo la parte celestiale della schizofrenia” (Huxley, 2014: 47). È infine il caso di puntualizzare che le analogie fra le esperienze psichedeliche e gli stati psicotici schizofrenici non sono state del tutto discreditate e che, pur sotto una nuova luce, continuano a essere tenute in considerazione dalla moderna psichiatria e neurofarmacologia. È sufficiente

osservare titoli come quelli dell’articolo dell’équipe svizzera di Franz Vollenweider, che ha eseguito studi neurofarmacologici su soggetti umani con la psilocibina, che inizia con “Psilocybin induces schizophrenia-like psychosis in humans”.81 Ciò che è stato abbandonato, per lo meno da buona parte degli studiosi chiamati in causa, è l’univocità e il valore esclusivistico di queste analogie, internamente a quella più ampia visione neurofenomenologica delle esperienze psichedeliche che descriveremo nel secondo volume.

La fase mescalinica delle TP Per oltre cinquant’anni – dagli inizi sino alla metà del Ventesimo secolo – il principale fantastica sperimentato in clinica terapeutica fu la mescalina. Tuttavia, nei primi decenni di questa lunga fase questa sostanza fu maggiormente soggetta a sperimentazione per comprenderne gli effetti, sia in soggetti normali che malati, piuttosto che per un diretto interesse terapeutico, quindi fu più soggetta all’approccio “behaviorista”. Tantissimi medici la sperimentarono su sé medesimi, mossi principalmente dalla curiosità, o al massimo adducendo come motivo il suggerimento di Moreau de Tours dell’utilità di tali auto-sperimentazioni per comprendere meglio le dimensioni mentali degli psicotici e di altri malati mentali. E anche quando i medici prelevavano dalle corsie dei nosocomi psichiatrici impauriti e ignari pazienti per somministrargli più o meno volontariamente da esigue a massicce dosi di mescalina, lo facevano con uno spirito di “curiosità scientifica”, piuttosto che per cercare di curare individui sfiduciatamente etichettati come degli eterni inguaribili. Lo psichiatra tedesco Johannes Bresler (1905) sembra essere stato il primo studioso a riferire di esperimenti con mescalina eseguiti su soggetti malati, due schizofrenici e tre epilettici. Si tratta della prima somministrazione di uno psichedelico a dei malati in un contesto occidentale, e per questo motivo facciamo partire le terapie psichedeliche all’anno 1905. Egli riportò che quattro di questi provarono effetti visivi, mentre il quinto, oltre ad aver perduto la sensibilità tattile e al dolore, provò effetti acustici (percezione di musica nell’orecchio sinistro) che si prolungarono per sei ore. Verso la fine degli anni ‘20, presso l’ospedale psichiatrico di Bucarest, in Romania, Georghe Marinesco intraprese delle sperimentazioni con la

mescalina insieme ad alcuni suoi allievi, somministrandola a soggetti normali e anche a qualche malato, fra cui un isterico e un balbuziente. Descrivendo l’esperimento sul balbuziente, il medico rumeno riportò di avergli somministrato due dosi di 250 mg di mescalina a distanza di un’ora l’una dall’altra, e di avere quindi registrato le modificazioni percettive riportate dal soggetto, in particolare megalopsie, micropsie e distorsioni del proprio corpo; al balbuziente venne eseguita la prova dell’associazione parola-immagine, molto comune a quei tempi, in cui alla pronuncia di una parola il soggetto doveva dire cosa vedeva o immaginava subito dopo il suo ascolto (con “madre” egli vide una donna con bambino, con “Irlanda”, una miscela di terra e acqua, ecc.). Ciò che appare strano in questo esperimento con un balbuziente è che Marinesco non si fosse preoccupato di come la mescalina avesse potuto influire sul problema della balbuzie, e il non farne il benché minimo accenno evidenzia un totale disinteresse terapeutico di questo esperimento (Marinesco, 1933: 1435). Con scopi maggiormente attinenti ai fini terapeutici, Konrad Zucker somministrò la mescalina in dosaggi di 350400 mg a nove pazienti mentali, schizofrenici e deliranti, presso la Clinica Psichiatrica e Nervosa dell’Università di Greifswald (Germania), osservando come gli schizofrenici fossero in grado di distinguere le allucinazioni mescaliniche da quelle dei loro attacchi psicotici, mentre i soggetti deliranti non ne erano in grado. Ciò fu spiegato tenendo conto che gli schizofrenici hanno una tendenza maggiore alle allucinazioni uditive, mentre i pazienti confusi a quelle visive, per cui il contrasto fra i fenomeni mescalinici e le allucinazioni degli psicotici potrebbe risultare più incisivo presso gli schizofrenici (Zucker, 1930). A volte si presentavano casi di guarigione “completa” di malati a cui era stata somministrata la mescalina, sebbene non come risultato di un mirato approccio terapeutico. Un primo caso sembra essere stato quello osservato a Parigi dai due psichiatri Claude ed Ey (1934), riguardante una depressa melanconica che da tempo viveva sensazioni di depersonalizzazione. Con una singola somministrazione di mescalina la paziente recuperò la personalità e la normale percezione corporea, al punto che dopo qualche giorno venne dimessa poiché considerata guarita. Non ci è dato sapere quanto durò questo netto miglioramento, poiché a quei tempi non venivano riportati metodici controlli di follow-up. Alcuni casi interessanti si trovano fra le prove cliniche promosse dagli

psichiatri londinesi Guttmann e Maclay (1936), che somministrarono una tantum dosaggi di 100200 mg di mescalina a 11 pazienti, di cui la maggior parte erano donne afflitte da stati depressivi di differente gravità. Nel corso del plateau mescalinico diverse di queste evidenziarono un ricco processo introspettivo, focalizzato sul proprio problema psichiatrico e testimoniato da loro resoconti scritti sia durante che successivamente l’esperienza psichedelica. Fu questo processo introspettivo che sorprese i due psichiatri e che indusse l’idea di impiegare la mescalina in psicoterapia. Altre ricerche terapeutiche con la mescalina di un certo interesse, che esporremo nel capitolo 6, furono sviluppate negli anni ‘50 dall’équipe newyorkese di Herman Denber.

La mescalina nella psichiatria italiana Le prime ricerche italiane con la mescalina sono contornate da un’aurea di mistero e un poco sinistra. Iniziate verso la metà del 1927, furono promosse dallo psichiatra Dario Baroni, che operava presso l’Ospedale Psichiatrico di Pergine, in Valsugana (provincia di Trento). Baroni intraprese una serie di studi su una cinquantina di pazienti, dei quali 22 erano schedati come criminali, con lo scopo di “favorire e velocizzare il processo psicoanalitico”. Egli elaborò e somministrò innanzitutto una composizione che denominò “liquor stramonii”, in cui rientravano come ingredienti, oltre alle foglie di stramonio, caffeina, noce vomica, cola, cognac e glicerina. Quindi provò con la cocaina, in alcuni casi addizionata di stramonio, e dalla metà del 1927 iniziò a somministrare la mescalina, anche questa in alcuni casi addizionata con lo stramonio. Iniettando sottocute quantità di 100-200 mg di mescalina, i pazienti esperivano uno stato euforico, con un’inclinazione all’esternazione e alla disinibizione che li induceva a confidarsi liberamente. Nei casi con esito positivo, seguivano altre 5-6 sedute notturne, per ottenere dal soggetto ulteriori informazioni. Si poteva osservare una certa amnesia, ma ciò che era stato confessato non veniva successivamente negato. In diversi casi si ottenne la rivelazione di crimini vari (furti, uxoricidi), l’esternazione di tendenze omosessuali e confessioni di rapporti sessuali “anormali”. Stranamente, Baroni pubblicò in forma molto sommaria le tecniche e i risultati delle sue ricerche in un articolo in tedesco in una rivista tedesca, con il titolo “Confessioni sotto l’effetto della mescalina”,82 e solamente sotto

richiesta dello psichiatra tedesco Wilhelm Stenkel, che era direttore di quella rivista (Baroni, 1931)83. Parrebbe quasi come se Baroni non avesse voluto far conoscere le sue ricerche in Italia; ricerche probabilmente sviluppate con un certo grado di coercizione sui pazienti, in particolare i criminali. Viene il sospetto che si trattasse di ricerche segrete al servizio del regime fascista. Non è forse un caso che più tardi i nazisti sembra avessero impiegato la mescalina nel campo di concentramento di Dachau per interrogare i detenuti,84 ed è plausibile che avessero tratto ispirazione proprio dall’articolo di Baroni pubblicato in Germania. Il secondo riferimento in ordine cronologico a un impiego italiano di una fonte mescalinica parrebbe essere quello di Ferdinando Cazzamalli (1931), della Clinica Psichiatrica e Neuropatologica dell’Università di Milano; in una breve comunicazione egli accennava al fatto di avere sperimentato estratti di peyote su soggetti umani non meglio precisati, in particolare non viene specificato se fossero individui sani o malati. Affermava solamente di aver impiegato pillole di panpeyotl, un estratto molle cloroformico di peyote. Come la maggior parte degli studiosi del peyote e della mescalina di quegli anni, anche Cazzamalli si soffermò essenzialmente sugli effetti visivi, addirittura negando che la loro percezione fosse accompagnata dal benché minimo stato emotivo. Nei medesimi anni, G. Lippi fece conoscere la mescalina all’ambiente psichiatrico italiano esponendo un’estesa rassegna degli studi clinici sino allora sviluppati nei paesi stranieri, soprattutto nei territori di lingua tedesca (Lippi, 1930, 1931).

Fig. 9 – I titoli di alcune pubblicazioni italiane sulla mescalina.

La prima esperienza italiana riportata estesamente in letteratura fu quella di Luigi Ceroni, psichiatra dell’Ospedale Provinciale Psichiatrico di Como. Egli eseguì una serie di autosperimentazioni, la prima il 25 gennaio 1931, l’ultima il 6 aprile del medesimo anno, che a suo dire lo lasciarono un po’ deluso, e che comunque descrisse con una certa dovizia di particolari. Riportò di aver percepito un generale restringimento della coscienza, e si soffermò pressoché unicamente sugli aspetti estetici e fisici, non riscontrando effetti particolari, se non spiacevoli, sullo stato affettivo, ed effetti sulla coscienza e sulla personalità di tipo riduttivo e disgregante. Nel corso dell’esperienza cercò di svolgere comuni operazioni quotidiane quali pranzare e visitare i malati nel suo reparto ospedaliero, non senza una certa difficoltà, e queste azioni, apparentemente inadatte a un setting di una sostanza psichedelica, saranno curiosamente un luogo comune per gli psichiatri italiani che si cimenteranno nei decenni successivi nelle autosperimentazioni con mescalina, LSD e altri fantastica. I momenti in cui egli percepì una “immanenza divina”, Ceroni li considerò come un’idea “da filosofastro malamente intinto di misticismo”, e in definitiva come una “ideazione bislacca” (Ceroni, 1932: 90), senza quindi riuscire ad apprezzarli in quanto risorsa filosofica e rivelatrice. Concluse osservando analogie dello stato psichico mescalinizzato con lo stato schizofrenico, individuando fra i tratti comuni l’incipiente disgregazione della personalità, la tendenza all’automatismo, le estrinsecazioni di un’ideazione bislacca, gli impulsi verbali, il senso di estraneità. Pochi mesi dopo, nel 1932, Enrico Morselli, allora Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Novara, eseguì un’autosperimentazione ingerendo la forte dose di 750 mg di solfato di mescalina. Non fu un’esperienza felice, ma l’abilità descrittiva di questo rinomato psichiatra d’origini modenesi fece del suo rapporto il più interessante e notorio resoconto di esperienza mescalinica dell’ambiente medico italiano. Egli assunse la forte dose in una sola volta, verso l’una di notte, nel suo appartamento privato a Milano. L’esperienza si sviluppò particolarmente su delle allucinazioni visive progressive sempre più intense, sempre più ‘reali’, che giunsero a ossessionarlo; fu posseduto da impulsi aggressivi e di timore: “Non ho ormai dubbio di essermi messo in una situazione grave, senza le indispensabili precauzioni, e che va di minuto in minuto aggravandosi [...]. Ho l’esatta percezione di quanto mi accade, e

vorrei fare qualche cosa, predisporre una difesa qualsiasi contro la marea dilagante degli impulsi sviluppantisi e dei quali sento tutta l’estraneità”. La notte passò tra impulsi a gettarsi dal balcone e impulsi “da selvaggio”, tutti faticosamente repressi, e la mattina riuscì a raggiungere incolume la sua Clinica, dove fu accolto e sorvegliato da un collega, che constatò il suo grave stato psicotico. L’esperienza delirante si affievolì verso mezzogiorno, ma alcune delle allucinazioni vissute durante lo stato psicotico costituirono il motore basilare di fobie che perseguitarono l’autore ancora per un paio di mesi (Morselli, 1935). Una siffatta esperienza di natura psicotica fece di Morselli un ferreo propugnatore del paradigma psicotomimetico, convinto dell’appartenenza strutturale e clinica delle turbe psichiche da mescalina alle psicosi deliranti di certi malati mentali. Negli anni successivi seguirono alcuni altri studi basati essenzialmente su autosperimentazioni dei medici o su osservazioni su individui sani.85 Presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Firenze, Roberti e Heymann intrapresero un lungo studio clinico e teorico sulle allucinazioni, e una parte fu dedicata alle esperienze mescaliniche. La mescalina fu dapprima somministrata a 12 soggetti normali, presso i quali furono osservati quei fenomeni già descritti dagli autori tedeschi, fra cui disturbi della localizzazione dei fenomeni acustici, disturbi della sensibilità termica, allucinazioni cinestetiche, effetti neuro-vegetativi, in particolare la midriasi, effetti mentali quali il disorientamento nel tempo, un’alterazione spiccata della capacità ideativa ed euforia. Quindi la mescalina fu somministrata a 14 pazienti, tutti maschi, ricoverati presso la clinica S. Salvi. Si trattava di individui di livello intellettuale molto basso, ed è questa caratteristica che, a detta dagli autori, fece sì che le esperienze fossero state poco costruttive e che le aggettivazioni più frequenti nei commenti dei medesimi pazienti fossero quelle di sentirsi confusi o intontiti. I dosaggi somministrati erano di 400-600 mg di mescalina solfato, e dopo alcune ore veniva aggiunta atropina (in un caso fisostigmina), per osservare eventuali variazioni dei fenomeni ottici (Roberti e Heyman, 1937). Durante gli anni in cui era disponibile anche l’LSD, troviamo gli studi dell’équipe lombarda di Sanguineti, che sviluppò ricerche su 32 malati mentali somministrando loro sia la mescalina che l’LSD, sia entrambi i farmaci in momenti differenti, con scarsi risultati, al punto da giungere a dubitare sulla loro utilità diagnostica, così come più in generale su una loro

utilità terapeutica (Sanguineti et al., 1956). A partire dal 1953, Giuseppe Tonini, dell’Ospedale Psichiatrico di Imola, condusse oltre 400 esperimenti sull’uomo con mescalina, LSD e LSA (a quei tempi denominata con la sigla LAE-32), su soggetti sani, incluso egli medesimo, e su malati mentali. Per l’impiego clinico egli preferiva l’LSA, per via della maggiore rapidità d’insorgenza dell’effetto, minore durata della sintomatologia e assenza di postumi. Egli giunse alla conclusione che queste sostanze erano adatte a qualunque forma di nevrosi, e la maggior probabilità di successo si presentava nelle forme maggiormente intellettualizzate e basate, in senso generico, su elementi di repressione più radicati (Tonini, 1957a). Gli ultimi studi italiani con la mescalina sembrano essere stati quelli di Sogliani e Sagripanti (1957) presso l’Ospedale Neuropsichiatrico di Voghera (Pavia). Dopo aver sviluppato un’estesa e accurata rassegna sulla discussione generata a livello mondiale sul problema degli effetti schizogeni o schizofrenosimili della mescalina, essi riportarono le esperienze condotte con LSD su 3 soggetti normali e su 62 malati mentali, e con mescalina su 10 malati già sottoposti a LSD. Anche questi medici ottennero risultati pressoché insignificanti, e somministrarono ai malati l’LSD quotidianamente per 30-40 giorni consecutivi. Riguardo la mescalina, somministrata in 10 soggetti una sola volta dopo la serie lisergica, essi riscontrarono che “non ha dato luogo a reazioni sia somatiche che psichiche offrenti caratteri di una qualsiasi diversità”. Come si può osservare, il contributo italiano alla fase mescalinica delle TP fu scarso e poco incisivo, e rispecchia lo stato ancora acerbo dell’approccio della psichiatria di quei tempi con i fantastica.

La fase indolica delle TP Riguardo la genesi delle terapie psichedeliche con l’LSD, abbiamo trovato nella letteratura anglofona una certa incompletezza, quasi certamente dovuta a problemi linguistici, dato che i resoconti dei primi studi furono pubblicati in tedesco, polacco e italiano, quindi in lingue ostiche alla maggior parte degli studiosi anglofoni. Abbiamo d’altronde constatato una maggiore completezza di dati internazionali nella letteratura specialistica italiana, francese e tedesca. Per motivi soprattutto di completezza e d’importanza storica, esponiamo di

seguito in ordine cronologico i primi studi clinici con l’LSD del periodo 1945-1950.86 Il primissimo studio clinico con l’LSD fu sviluppato nel 1945 presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo, diretta a quei tempi da Manfred Bleuler, e fu sviluppata dallo psichiatra Werner Stoll, figlio del chimico Arthur Stoll; quest’ultimo, a partire dal 1949 ricoprì la carica di presidente della casa farmaceutica Sandoz di Basilea, la medesima in cui Albert Hofmann aveva sintetizzato e scoperto gli effetti dell’LSD. Hofmann non pubblicò immediatamente una sua relazione su quanto aveva scoperto, e la prima comunicazione della sua esperienza fu fatta da Werner Stoll internamente all’articolo in cui questi pubblicò anche i risultati del primo studio clinico (Stoll, 1947). In questo studio l’LSD fu somministrato a 6 malati schizofrenici (1 ebefrenico e 5 paranoidi, 3 maschi e 3 femmine) che si erano mostrati resistenti alle terapie convenzionali (elettroshock, terapia insulinica, idroterapia, ecc.) e a 13 soggetti sani. I dosaggi variavano dai 10 ai 200 mcg, assunti per os, e il numero di sedute variava da 2 a 6, con somministrazioni successive quotidiane. Già in questa prima ricerca fu osservata una maggior resistenza agli effetti lisergici da parte dei malati mentali rispetto agli individui sani, come era stato osservato nel caso della mescalina. In seguito a somministrazioni ripetute di LSD a distanza di un solo giorno l’una dall’altra, in un soggetto catatonico fu osservata una riduzione degli effetti, e da ciò Stoll ipotizzò lo sviluppo di tolleranza del farmaco. Da questa prima limitata ricerca clinica lo psichiatra svizzero giunse a considerare l’LSD come un eidetico o un fantastico, e sospettò che, dati i dosaggi molto bassi – dosaggi che per la prima volta fra le droghe psicoattive venivano calcolati in milionesimi di grammo – questa molecola potesse essere presente in tracce negli psicotici ed essere la causa della loro malattia. Stoll riferì anche di un caso di suicidio “in seguito” al trattamento lisergico (Stoll, 1947: 308), un caso che fu riportato in maniera quasi ossessiva dagli studiosi che si interessarono alle TP nei 30 anni successivi, ma che non fu analizzato criticamente dalla maggior parte di coloro che lo riferirono.87 Poco dopo seguì un secondo studio clinico, sviluppato da Gion Condrau (1949) sempre presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Zurigo. Egli somministrò l’LSD per 6-10 giorni con intervalli di 2 giorni in dosaggi da 20 fino a 100 mcg o più (in un caso 280 mcg) a 30 psicopatici (schizofrenici, oligofrenici, distimici, paralitici progressivi) e a 7 soggetti sani (medici),

riscontrando nuovamente una maggiore resistenza e una minor durata degli effetti lisergici da parte dei malati mentali. I risultati di questo studio furono considerati da Condrau deludenti, al punto ch’egli ritenne l’LSD non impiegabile in terapia. Avendo osservato nei soggetti sani un effetto euforico, lo psichiatra svizzero sospettò un’utilità del farmaco nelle depressioni, e intraprese un’ulteriore indagine clinica su 5 pazienti depressi, ai quali somministrò quantità crescenti di LSD per diversi giorni. A parte in due pazienti, dove fu constatata una maggiore accessibilità e apertura, fu osservato un generale peggioramento della sindrome depressiva, e da ciò Condrau ipotizzò che l’LSD agisse come rinforzante dell’umore di base. Avendo inoltre osservato un potente effetto psicologico sui volontari sani, Condrau suggerì che al massimo l’LSD poteva essere sperimentato in psichiatria per indurre uno shock farmacologico. Infine, anche Condrau, seguendo l’ipotesi di Stoll, ipotizzò che le psicosi nei malati mentali potessero essere indotte da una sostanza simile all’LSD (e non più dall’LSD come detto da Stoll), prodotta nel corpo in concentrazioni significative, che giustificava la maggior tolleranza al lisergico dei pazienti rispetto agli individui sani. Seguì lo studio di A.M. Becker (1949) a Vienna presso la Clinica Universitaria di Psichiatria e Neurologia, dove questo psichiatra somministrò dosi variabili di LSD (in media 40 mcg) a 19 soggetti sani, descrivendone gli effetti acuti sulla percezione, sul sistema vegetativo, sulla psicomotricità e sulla personalità, compresi gli effetti di alterazione dell’Io. Becker osservò come l’LSD inducesse quella che nei suoi aspetti poteva essere definita una sindrome “simil-psicotica”, e propose per l’LSD la definizione di Psychotikum, in contrapposizione con quella data da Stoll di “eidetico”; una definizione che contribuì al rafforzamento del paradigma psicotomimetico nell’area di lingua germanica.

Fig. 10 – Paziente schizofrenico lisergicizzato in stato catatonico (da De Giacomo, 1951, fig. 2, p. 8).

Continuando in ordine cronologico, seguì il primo studio clinico italiano, sviluppato da Umberto De Giacomo, allora Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Interprovinciale Salentino di Lecce “Giuseppe Libertini”. Negli anni ‘30 egli si era cimentato in studi nel campo della cosiddetta “catatonia sperimentale”, volti a riprodurre e studiare la catatonia schizofrenica mediante l’impiego di determinati farmaci, in particolare la bulbocapnina.88 Forte sostenitore dell’azione puramente schizogena dell’LSD, De Giacomo cercò nella sua azione unicamente i sintomi “schizofrenici”, che ovviamente trovò senza badare a forzature e incongruenze metodologiche. Fu il caso di un’esperienza su un giovane affetto da schizofrenia ebefrenica, “assolutamente privo di spunti catatonici in condizioni ordinarie”, che sotto effetto di LSD (senza specificare dosaggio e modalità di somministrazione) manifestò “una catalessia vistosa con mutacismo, anch’esso insolito in quel malato e interrotto da scoppi di riso immotivato” (De Giacomo, 1950: 29). Nel 1949 De Giacomo somministrò l’LSD a 12 pazienti dell’ospedale leccese, di cui 3 oligofrenici e 9 schizofrenici non catatonici, con dosaggi variabili dai 30 sino ai 500 mcg. Il forte dosaggio di 500 mcg non era ancora stato sperimentato sull’uomo (Hofmann ne aveva assunto 250 mcg), trattandosi quindi di un primato italiano. In 5 soggetti egli osservò un quadro

catatonico completo della durata di un paio d’ore, di cui riprodusse alcune foto (De Giacomo, 1951). I risultati di un altro studio clinico italiano furono pubblicati l’anno successivo da Rodolfo Belsanti, il quale, presso il medesimo ospedale di Lecce, somministrò dosaggi di 80-480 mcg di LSD a 14 schizofrenici e 2 oligofrenici, concludendo che l’LSD ha un’azione specifica schizofrenica, che aumenta gli effetti schizofrenici e che ne produce dei nuovi negli oligofrenici (Belsanti, 1952). Alcuni anni più tardi lo psichiatra pugliese riconobbe tuttavia altre proprietà dello psichedelico, quando somministrò nuovamente l’LSD a tre schizofrenici ebefrenici in dosaggi di 100 mcg somministrati per os, per due volte a distanza di tre giorni, e osservando in due di questi “una maggiore aderenza all’ambiente esterno, un più facile contatto con il personale ospedaliero, una maggiore facilità del linguaggio”; miglioramenti che osservò anche in alcuni nevrotici e che resero possibile un tentativo di trattamento psicoterapeutico. Da questo studio ne concluse che basse dosi di lisergico (60-100 mcg) inducono un’azione euforizzante, disinibente, utilizzabile in psicoterapia soprattutto nei nevrotici (Belsanti, 1955). Si tratta dei primi tentativi italiani di approccio psicoterapeutico con gli psichedelici. Riguardo l’effetto catatonico registrato da De Giacomo, fu raramente riscontrato negli studi successivi, e solamente in soggetti psicotici. Ad esempio, fra i pazienti trattati a Toronto da Edward Baker (1967: 197), in uno psicotico paranoide che prima della seduta lisergica aveva subito dei trattamenti elettroncovulsivi, fu osservata una intermittente flessibilità cerea catatonica. Un altro precoce studio europeo fu promosso dallo psichiatra polacco Michał Rostafin´ski (1950), che nel 1949 somministrò l’LSD a 8 epilettici con dosi di 60-240 mcg. (due pazienti furono sottoposti per due volte al trattamento lisergico), con lo scopo principale di paragonare le allucinazioni indotte dallo psichedelico con quelle percepite nel corso degli attacchi epilettici. Non furono osservate similitudini fra i due tipi di allucinazioni. In una paziente fu osservato un fenomeno di abreazione, con l’emersione di un ricordo dell’età di 6 anni, in cui il padre, alcolista, le rivolse avance di natura sessuale, e ciò ha fatto sospettare un possibile impiego dell’LSD nella narcoanalisi. Nella discussione che seguì la comunicazione di Rostafin´ski, un certo dott. Brzezicki accennò a suoi esperimenti con l’LSD, avvenuti sempre in Polonia, somministrandolo a 8 soggetti sani e a 2 pazienti, uno

schizofrenico e un isterico. I sintomi vegetativi apparvero così forti, che decise di non continuare la ricerca. Curiosamente, altri due psichiatri, Komorowski e Pomianowski, attaccarono violentemente Rostafin´ski, accusandolo di aver eseguito esperimenti con una sostanza velenosa, senza il consenso dei pazienti, e che la scelta di impiegare degli epilettici era stata avventata in quanto molto pericolosa. Sarà forse per queste critiche che, nonostante Rostafin´ski avesse comunicato l’intenzione di sviluppare ulteriori indagini con l’LSD, non abbiamo trovato notizie su ulteriori pubblicazioni polacche su questo tema. I tentativi di trattamento degli epilettici con l’LSD proseguirono negli anni successivi in diverse nazioni. Citiamo lo studio italiano presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Padova, dove a otto epilettici furono somministrati 100-200 mcg di LSD per os, deducendo che nel plateau lisergico l’epilettico rivive perlopiù le esperienze che costituiscono le sue auree (Balestrieri e Fontanari, 195657, 1957). Per completezza d’esposizione storica dobbiamo riferire che nella letteratura appaiono rari e scarsi riferimenti a uno studio clinico sviluppato in questi medesimi anni, probabilmente nel 1949, eseguito da un certo Stig Johnson, che avrebbe trattato con l’LSD 80 malati mentali, concludendo per una promettente azione ansiolitica del lisergico. Le nostre ricerche bibliografiche non ci hanno permesso di individuare la relativa documentazione, né di comprendere la nazionalità di Johnson.89 Nel 1949, lo psichiatra di Boston Max Rinkel visitò in Svizzera la casa farmaceutica Sandoz, dove incontrò Albert Hofmann, che lo rifornì di una prima partita di LSD, e fu così che questo psichedelico approdò in America. Rinkel provò il lisergico su sé medesimo e su diversi colleghi del Boston Psychopathic Hospital, e quindi lo sperimentò con un approccio “behaviorista” su un primo gruppo di pazienti, schizofrenici e depressi (Rinkel et al., 1952). Parallelamente agli studi di Rinkel, Busch e Johnson (1950) svilupparono uno studio presso l’Ospedale Psichiatrico di St. Louis (Missouri, USA). Essi somministrarono l’LSD a 29 schizofrenici in dosaggi bassi (30-40 mcg). Alcuni pazienti evidenziarono un’acutizzazione dello stato psicotico, al punto da dover essere sottoposti a idroterapia. Gli psichiatri osservarono tuttavia “tentativi della maggior parte dei pazienti nel cercare di stabilire qualche tipo di relazione interpersonale con il personale”. Alla luce di ciò, i due psichiatri pensarono che potesse essere di qualche valore somministrare lo psichedelico

nel corso del percorso psicoterapeutico. Furono scelti 8 pazienti che stavano conducendo una psicoterapia, affetti da psiconevrosi e schizofrenia catatonica. Fu osservato un “disturbo della barriera della repressione”, che permise un riesame delle esperienze significative del passato, a volte rivissute con timoroso realismo. Stando agli psichiatri, alcuni pazienti migliorarono, due in maniera completa. Questo studio di Bush e Johnson viene generalmente indicato come il primo in cui è proposto l’impiego dell’LSD come coadiuvante nella psicoterapia, sebbene sia stato preceduto di pochi mesi dall’indicazione proposta dagli studiosi polacchi. Come ultimo studio svolto entro l’anno 1950, in una nota di discussione all’articolo di Hoch (1951: 611) che trattava delle ricerche con la mescalina, Victor Vogel, del Public Health Service Hospital di Lexington (Kentucky) riportò i risultati di esperimenti con LSD, probabilmente svolti da egli medesimo, sebbene non lo abbia specificato. Esperimenti che portarono alla considerazione che, “siccome le reazioni collaterali con l’acido lisergico non sono così severe come quelle della mescalina, potrebbe essere un composto più utile della mescalina nello studio delle psicosi indotte, o nello svelare le psicosi latenti”. A partire dal 1951, gli studi clinici con l’LSD si moltiplicarono e si diffusero a macchia d’olio in Europa e in America, e nei primi periodi furono eseguiti principalmente sui malati psicotici, e in minor misura su altri tipi di malati mentali; con il passare degli anni, e con l’evoluzione concettuale dal paradigma psicotomimetico a quello psicoterapeutico, le TP lisergiche furono maggiormente indirizzate verso le varie forme di nevrosi, le dipendenze e gli stati depressivi. Di seguito elenchiamo alcune date che riguardano i primi esperimenti clinici con l’LSD in diverse nazioni, facendo notare come queste si riferiscano ai primi studi svolti su soggetti malati, escludendo quindi gli studi e le auto-sperimentazioni su soggetti sani, che in diversi casi precedettero quelli clinici: Svizzera, 1947 (Stoll, 1947) Austria, 1949 (Becker, 1949) Italia, 1949 (De Giacomo, 1950) Polonia, 1950 (Rostafin´ski, 1950) USA, 1950 (Busch e Johnson, 1950) Germania, 1951 (Frederking, 1953)

Inghilterra, 1952 (Sandison et al., 1954) Cile, 1952 (Ferrer, in Téllez, 1954: 300) Canada, 1953 (Hoffer e Osmond, 1967: 155) Brasile, 1955 (Portella Nunes, 1955) Argentina, 1955 (Saurí e Onorato, 1955) Venezuela, 1955 (Hirsch e Quintero Muro, 1955) Spagna, 1955 (Ruiz-Ogara et al., 1955-56) Cecoslovacchia, 1956 (Doležal e Hausner, 1962) Peru, 1956 (Mariátegui, 1956) Olanda, 1956 (van Rhijn, in Snelders e Kaplan, 2002: 226) Uruguay, 1957 (Rey Rosar, 1957) Svezia, 1957 (Kaij, 1963) Francia, 1958 (Delay e Benda, 1958) Danimarca, 1960 (Geert-Jörgensen et al., 1964) Norvegia, 1961 (Madsen e Hoffart, 1996) Egitto, 1963 (Kafkalidis, 1963) Fra gli studiosi che si occuparono di TP si erge la figura di Stanislav Grof, sia per la quantità di “lavoro psichedelico” di cui si fece carico – egli condusse oltre 3000 sedute con l’LSD (Grof, 1994: 156), e ne studiò 5000 (id: 201) – e, soprattutto, per il grande lavoro di inquadramento metodologico e teorico, che lo portò, fra l’altro, a elaborare una sistematizzazione delle tipologie delle esperienze psichedeliche e all’individuazione delle già citate matrici perinatali, un sistema di “impronte” caratteriali dettate ciascuna dalle quattro fasi che si susseguono nel processo fisiologico del parto (Grof, 1975). Formatosi come psichiatra nell’allora Cecoslovacchia, e dopo alcuni anni di trattamenti clinici con l’LSD a Praga, Grof si spostò negli Stati Uniti, dove continuò gli studi e le pratiche cliniche, prima a Baltimora (Maryland), e in seguito in California. Iniziò a praticare seguendo il modello della psicoanalisi freudiana, dalla quale tuttavia si allontanò sempre più, non ritenendola adeguata per l’inquadramento e il trattamento clinico di tutto un insieme di esperienze soggettive che si manifestavano nel corso delle sedute psichedeliche, e contribuì, insieme ad Abraham Maslow, allo sviluppo della psicologia transpersonale, le cui radici affondano nel pensiero di Jung, Assagioli e Tart. Grof è noto al grande pubblico per la tecnica di modificazione dello stato di coscienza conosciuta come respirazione olotropica, ch’egli elaborò in seguito alla messa al bando degli psichedelici,

ma il suo contributo nei campi della psicologia e della psicoterapia è di una portata ben più strutturata e solida. Egli fu anche uno dei più importanti studiosi che si cimentarono nel trattamento psichedelico dei malati terminali o, seguendo la nostra definizione, dell’approccio tanatodelico alla morte, come si vedrà nel capitolo 14 del secondo volume. Con il sopraggiungere della psilocibina, scoperta da Hofmann nel 1958, questa molecola fu introdotta nei progetti di ricerca delle TP; per quello che abbiamo potuto osservare dalla letteratura a noi disponibile, il volume di studi clinici con la psilocibina appare scarso, rispetto a quello con l’LSD, e ci sembra di poter affermare che fra le varie nazioni l’Italia può vantare il maggior numero di studi clinici con questo psichedelico. La psilocibina fu innanzitutto saggiata in clinica psichiatrica dall’équipe francese di Jean Delay presso l’Hôpital Sainte-Anne di Parigi, osservando come anche con questa nuova sostanza psichedelica si potesse ottenere con una certa frequenza una rievocazione di ricordi latenti, e ottenendo un primo interessante risultato in un caso di una nevrosi compulsiva riguardante una donna di 35 anni afflitta da una pesante forma di bulimia (Delay et al., 1958, 1959). Un altro studio clinico precoce fu sviluppato presso la Clinica Neurologica Universitaria di Hradec Králové, nell’allora Cecoslovacchia, dove la psilocibina fu somministrata, oltre a un insieme di soggetti sani, a 30 pazienti nevrotici. Di questi, 15 erano affetti da nevrosi organiche secondarie a patologie del sistema nervoso (sclerosi multipla, polineurite, postencefalite) che avevano indotto una depressione secondaria; gli altri 15 pazienti presentavano una nevrosi reattiva o depressiva. La psilocibina fu somministrata per circa 10 giorni consecutivi in dosaggi molto bassi, 1-2 mg per os, oppure 3-6 mg con iniezione sottocutanea. In tutti i casi fu impiegata la tecnica di controllo con un placebo. Fu osservato un generale miglioramento in tutti i pazienti, dove l’effetto euforizzante delle pur basse e ripetute dosi di psilocibina miglioravano lo stato depressivo, facendo ciò intuire una possibilità di impiego nella psicoterapia (Sercl et al., 1961). Nel 1962, presso l’Ospedale psichiatrico danese di Frederiksberg, Ketty Kristensen impiegò la psilocibina su 23 pazienti stenico-depressivi, immaturi, isterici e fortemente ansiosi. I primi tre pazienti trattati, tutte donne, dopo 6-9 trattamenti migliorarono al punto da poter tornare alla loro normale vita familiare, pur continuando a seguire una volta alla settimana una terapia di gruppo senza l’ausilio di sostanze psicoattive. Con questo successo iniziale,

lo studio fu ampliato su un’altra ventina di pazienti, facendoli partecipare sia a terapie di gruppo che individuali. Quando la terapia era di gruppo, la psilocibina veniva somministrata per via orale, quando individuale, per via sottocutanea. Le dosi erano di 4-15 mg. Undici pazienti conseguirono significativi miglioramenti (Kristensen, 1963a). Presso il Marlborough Day Hospital di Londra, lo psichiatra neozelandese B. Clark impiegò la psilocibina nel trattamento di 20 pazienti affetti da problemi sessuali, ansia, depressione, sociopatie. Sui medesimi pazienti egli provò anche l’LSD, e trovò la psilocibina utile come trattamento preliminare per preparare il paziente alle esperienze lisergiche, che considerava più potenti dal punto di vista del potenziale abreattivo (Clark, 1968). La psilocibina fu provata anche da Einar Geert-Jörgensen (1968) presso la clinica psichiatrica di Copenhagen, e in diversi casi lo psichiatra danese la preferiva all’LSD poiché riteneva avesse un effetto meno intenso e di conseguenza meno spiacevole di quello prodotto dal lisergico; di conseguenza, i pazienti erano meno storditi con la psilocibina, maggiormente in grado di utilizzare la relativa esperienza in un modo positivo, e tale per cui il processo intellettivo e il resoconto scritto degli effetti e degli effetti postumi risultava più dettagliato. Quei pazienti che avevano provato entrambe le sostanze erano in grado di distinguere fra le due forme di trattamento, e riferivano che a parità di dosaggio la psilocibina era più “gentile”, meno pesante, e con effetti collaterali meno spiacevoli dell’LSD. Un caso di isteria in una ragazza di 17 anni trattato positivamente a Parigi con la psilocibina sarà descritto nella sezione dedicata ai trattamenti dei disturbi di conversione (capitolo 6), mentre gli studi clinici italiani con psilocibina vengono trattati nel paragrafo che segue. Presentiamo ora un documento unico nel suo genere, riguardante una delle lettere che la casa farmaceutica svizzera Sandoz allegava in accompagnamento alle partite di psilocibina che inviava agli psichiatri desiderosi di provare questo psichedelico nei loro studi clinici. Questa lettera fu inviata nel 1961 allo psichiatra catalano Joan Obiols i Vié, ed è stata conservata dal figlio Joan Obiols i Llandrich, divenuto anch’egli psichiatra. Incontreremo quest’ultimo, tutt’ora attivo nella sua professione, come collaboratore di una ricerca svolta negli anni 1992-93 da José Maria Fericgla presso gli Shuar dell’Ecuador, volta alla valutazione della salute mentale degli utilizzatori tradizionali di ayahuasca.90 La suddetta lettera è attualmente

di proprietà dell’ICEERS di Barcellona (International Center for Ethnobotanical Education Research and Service), che ce ne ha gentilmente fornita copia, con il permesso di presentarla nel nostro libro. Joan Obiols i Vié (1918-1980) fu un noto psichiatra catalano, cattedratico dell’Università di Santiago e in seguito dell’Università di Barcellona, di cui resse per un breve periodo anche il ruolo di Rettore. Fu uno dei promotori di quel ramo della psichiatria denominata “psichiatria biologica”, e resse la carica di Presidente della Federazione Mondiale di Psichiatria Biologica. Fu uno psichiatra aperto alle nuove tecniche terapeutiche, dallo psicodramma all’arte-terapia, alla musicoterapia, e alle nuove frontiere della psicofarmacologia. Ed è in questo contesto di continua apertura alle innovazioni che si interessò anche agli psichedelici. A un congresso di psichiatria tenutosi a Vienna venne a contatto con i rappresentanti della casa farmaceutica svizzera Sandoz, dove Albert Hofmann aveva sintetizzato l’LSD e, più recentemente, la psilocibina. Fu così che poco tempo dopo ricevette dalla Sandoz una partita di psilocibina, accompagnata da questa lettera, originalmente scritta in castigliano (fig. 11), di cui riportiamo la traduzione italiana: Sandoz S.A.E. Dipartimento Farmaceutico VC/f 27 Ottobre 1961 Distinto Dottore, nel corso della sua visita allo stand che la Sandoz S.A. aveva installato durante il Congresso Internazionale di psichiatria celebrato a Vienna, Lei richiese informazione sul nostro farmaco psicoattivo PSILOCYBINA (CY 39). Questo preparato non è ancora commercializzato nel nostro paese, né sappiamo quando ciò sarà realtà. Per una sua buona informazione, siamo lieti nel fornirle per posta separata alcuni lavori scritti sulla PSILOCYBINA, nei quali potrà verificare le sue proprietà farmacologiche e le esperienze cliniche e psicologiche realizzate sino ad oggi da diversi autori. Attualmente, le esperienze comunicate su questo preparato possono riassumersi in due aspetti: da una parte, l’applicazione continuativa della droga a piccole dosi giornalmente dell’ordine di ½ mg ripartite in 2 volte al giorno, sino ai 6 mg ripartiti in 3 volte, somministrati per via orale. Questa modalità è stata applicata nelle nevrosi ansiose o in quelle ossessive. D’altra parte, la somministrazione di dosi isolate più elevate dell’ordine dei 10 mg per via orale o intramuscolo, come mezzo ausiliario per il trattamento psicoanalitico. Posteriormente, nella Clinica Psichiatrica di Basilea è stata utilizzata la PSILOCYBINA in malati melanconici, in oligofrenici depressivi, ecc., con risultati molto incoraggianti. Fra gli autori che l’hanno provata v’è il Dr. Jaggi, di Berna, che ha impiegato la PSILOCYBINA in 39 malati ambulatoriali, ottenendo le migliori risposte nelle nevrosi ossessive. Per il trattamento psicoanalitico, il Prof. Pichot ha utilizzato questa sostanza in 50 casi, con

la somministrazione di dosi isolate di 10 mg in iniezioni subcutanee o per via orale. Questa dose provoca uno stato oniroide nello spazio di 4 ore, durante le quali il malato esterna i suoi processi più reconditi. Alla mattina seguente a queste sessioni, il malato conserva il ricordo esatto dell’esperienza effettuata il giorno precedente sotto effetto della droga. Questa esperienza può essere ripetuta con una settimana di intervallo. Per posta certificata ci è gradito spedirle due flaconi di 25 capsule ciascuno di PSILOCYBINA, con lo scopo che Lei possa realizzare alcune prove. Sperando di averla soddisfatta, approfittiamo questa opportunità per salutarla distintamente.

Il prof. Pichot citato nella lettera (Pierre Pichot) fece parte dell’équipe francese di Jean Delay, che agli inizi degli anni ‘60 sviluppò ricerche cliniche con la psilocibina a Parigi (si veda ad es. Delay et al., 1963). Non abbiamo trovato alcun riferimento riguardo l’altro medico citato nella lettera, il Dr. Jaggi di Berna.91 Sospettiamo che gli studi clinici di Jaggi riguardassero ricerche promosse internamente alla Sandoz che non furono pubblicate, e che a questi studi siano forse da ascrivere quei bassissimi dosaggi indicati nella medesima lettera e somministrati quotidianamente e con funzioni meramente chemioterapiche nei casi di nevrosi ansiose e ossessive; una modalità di “microdosing” che ci risulta rara se non unica per quei tempi.

Fig. 11 - La lettera che la casa farmaceutica svizzera Sandoz inviò nel 1961 allo psichiatra catalano Joan Obiols i Vié in accompagnamento a una partita di psilocibina per studi clinici (ringraziamo il figlio Joan Obiols i Llandrich e l’ICEERS di Barcellona per il permesso di pubblicare questo documento).

LSD e psilocibina nella psichiatria italiana A differenza dei magri e inconcludenti studi clinici con la mescalina, gli studi italiani condotti con gli indoli (LSD, LSA, psilocibina) furono più strutturati e interessanti. Salvo rare occasioni, i risultati degli studi con le sostanze psichedeliche sviluppati nel nostro paese durante gli anni ‘50’60 non raggiunsero le sedi delle pubblicazioni internazionali, e ancora oggigiorno queste ricerche sono totalmente ignote all’estero e pressoché dimenticate in Italia. È indicativo che nella recente rassegna storica mondiale sulle TP di Ben Sessa (2016) non vi sia alcun riferimento a lavori italiani. La nostra indagine storica ha riportato alla luce una copiosa attività di studi clinici sviluppati in tutto il territorio italiano, incluse alcune ricerche sorprendenti per la loro originarietà, uniche al mondo. Fu in Italia che negli umani per la prima volta fu somministrata la forte dose di 500 mcg di LSD (De Giacomo, 1951), che furono somministrati contemporaneamente LSD ed LSA (Callieri e Ravetta, 1957a), che per la prima volta l’LSA fu somministrata per via endovenosa (Callieri e Ravetta, 1957a: 280), che fu scoperta l’interazione sinergica di uno stimolante amfetaminico somministrato nel corso del plateau psichedelico (Tonini e Montanari, 1955), ed è l’Italia ad avere il primato di maggiori studi clinici eseguiti con la psilocibina. Escludendo i non pochi studi svolti su soggetti normali,92 i nostri calcoli vedono almeno 60 studi clinici in cui un totale di almeno 900 pazienti (il 54% maschi) furono trattati su tutto il territorio italiano, mediante più di 2800 trattamenti, di cui 238 con mescalina, 1492 con LSD, 225 con LSA e 877 con psilocibina. Nella mappa qui pubblicata (fig. 12) è possibile osservare la distribuzione territoriale di questi trattamenti, tenendo conto del fatto che la stragrande maggioranza furono eseguiti nelle Cliniche Neurologiche e Psichiatriche. Le principali affezioni trattate sono state la schizofrenia e altre psicosi; seguono le varie forme di nevrosi, gli stati

depressivi e in minor misura l’epilessia e l’alcolismo. Un dato che ci è rimasto inspiegabile è la totale assenza nell’approccio italiano agli studi clinici con gli psichedelici dei concetti e delle metodologie psicolitiche e psichedeliche che si erano sviluppate nei medesimi anni all’estero. Pur mostrando di conoscere la letteratura straniera sulle TP, in tutti gli studi italiani da noi presi in visione non appaiono mai i termini “psicolitico” e “psichedelico”, ed è come se venissero appositamente ignorati, non sappiamo per quali motivi.93 Anche il linguaggio impiegato nella discussione e descrizione degli effetti degli psichedelici e delle patologie mentali è notevolmente differente da quello impiegato dalle scuole anglofone, tedesche, francesi94 e sudamericane, come sarà possibile constatare nelle pagine che seguono. Non mancarono studi svolti sugli animali, con somministrazione di LSD ai pesci, ai conigli, ai cani; studi che non riportiamo in questa sede. Citiamo solo una ricerca degli inizi degli anni ‘60 al contempo curiosa e sorprendente per la sua originalità, che ricorda quelle svolte all’estero nel medesimo periodo sui ragni esposti alle più svariate droghe e sulle conseguenti ragnatele “pazze” (Witt, 1971), le cui immagini acquisirono una grande notorietà e continuano a decorare i testi di psicofarmacologia e di letteratura psichedelica. La fama di queste ricerche sui ragni fu dovuta, oltre a una certa eccentricità e “creatività” metodologica, al fatto che avevano dimostrato che le droghe psicoattive hanno un qualche effetto anche sugli animali inferiori privi di un sistema nervoso centrale.

Fig. 12 – Mappa delle sperimentazioni cliniche su malati sviluppate in Italia nel periodo 1930-1967. Non sono incluse le autosperimentazioni né gli studi su soggetti sani. Legenda: p = numero di pazienti trattati; M = numero di sedute con Mescalina; L = numero di sedute con LSD; LSA = numero di sedute con LSA; P = numero di sedute con psilocibina.

La ricerca italiana che qui descriviamo fu svolta da Gustavo Gamna e collaboratori presso gli Ospedali Psichiatrici Provinciali di Torino, e riguardò la somministrazione di LSD alla processionaria del pino, rappresentata da quelle larve del lepidottero Thaumetopoea pityiocampa note per muoversi in fila indiana e per la loro pericolosità per l’uomo, dovuta ai peli urticanti. Gruppi di 20 bruchi furono disposti in grandi recipienti piatti di vetro (scatole Petri), dove, in condizioni normali, si muovevano lungo i bordi in un’unica fila indiana. Dopo alcuni tentativi fallimentari di fare assumere ai bruchi

l’LSD per via orale o mediante spruzzamento, gli psichiatri torinesi procedettero a iniezioni addominali su ciascun bruco. Nel corso dell’esperimento i bruchi così lisergicizzati furono più di mille, senza contare i bruchi di controllo, a cui era stata iniettata una soluzione fisiologica o acqua distillata. Tutti i bruchi passavano attraverso una prima fase di alcuni minuti in cui restavano totalmente immobili (“periodo di shock”), dopodiché riprendevano a muoversi. Mentre i bruchi di controllo tornavano a disporsi e a muoversi in fila indiana, quelli lisergicizzati si muovevano in maniera irregolare, ognuno per i fatti propri, senza radunarsi in fila indiana. Solamente dopo 4-8 ore dall’iniezione venivano abbozzate nuovamente delle file indiane, spesso multiple e in direzioni opposte, e solo a fine giornata si poteva osservare nuovamente la singola fila indiana classica e distribuita lungo il bordo del recipiente circolare (fig. 13). Le conclusioni degli psichiatri torinesi, che partirono da astratti concetti filosofici di “antropofenomenologia sul modo di essere nel mondo”, ci sono apparse poco comprensibili e comunque tortuose: Il trovare, per una droga che nell’uomo produce transitoriamente manifestazioni mentali, per quanto non assimilabili alle psicosi, talune delle quali ravvicinabili alla schizofrenia, degli effetti di essa, nella scala biologica, man mano più evidenti quanto più elementare è l’essere vivente esaminato, che si producono con alterazioni del comportamento implicanti un’anormale modo di vivere nello spazio, è quindi un elemento di notevole interesse e tale da portare un piccolo contributo nell’aprire la via ad un’interpretazione psicopatologica nella quale l’integrazione fra biologico e psichico in un’unità sintetica, come già tentato nella dottrina organodinamicista di H. Ey, si avveri e fornisca alla fine uno strumento di effettiva ricerca e di reale progresso per la psichiatria (Pascal e Gamna, 1961: 580).

Seguendo il modello organicista dell’ipotizzata endotossina presente negli schizofrenici, i medesimi psichiatri torinesi svilupparono con le processionarie del pino un esperimento parallelo, iniettandovi sieri, urine e urine bollite di malate mentali, servendosi di siero e urina di un soggetto sano come controllo. Nel caso del soggetto sano, i bruchi, dopo alcune ore di immobilità e disorganizzazione, tornarono alla normalità con costituzione della singola fila indiana; si osservò il medesimo risultato con il siero, l’urina e l’urina bollita di una donna di 72 anni affetta da malinconia involutiva. Per tre ebefreniche e una ebefreno-catatonica, si osservò la morte di tutti o quasi tutti i bruchi in seguito a iniezione dei loro sieri e urine, mentre in un caso l’ebollizione dell’urina non portò al decesso degli animali. Da ciò fu dedotta una certa termolabilità del principio tossico ipoteticamente presente nelle urine degli schizofrenici (Gamna e Pascal, 1962).

Fig. 13 – Esperimento svolto sui bruchi delle processionarie del pino (Thaumetopoea pityiocampa); paragone dopo 4h e 30’ dalla iniezione di soluzione fisiologica (s) e LSD (d). Con l’LSD i bruchi smettono di stare in fila indiana (da Pascal e Gamna, 1961, figg. 7-8, p. 580).

Venendo ora alle ricerche cliniche sugli umani, Rodolfo Belsanti proseguì gli studi iniziati da De Giacomo presso l’Ospedale Psichiatrico di Lecce, somministrando l’LSD in dosaggi da 80 a 400 mcg a 16 pazienti, di cui 14 erano schizofrenici. In 4 casi provò somministrazioni ripetute da 2 a 3 volte a distanza di 2-3 giorni. Egli confermò quanto era già stato riscontrato da Condrau (1949) in Svizzera, e cioè che gli schizofrenici sono più resistenti dei frenastenici al lisergico, e osservò come nei primi “si ha di solito un accentuarsi della sintomatologia precedente, nel senso che un ebefrenico diventa più fatuo, più bizzarro, una paranoide più diffidente e sospettoso, un catatonico più negativista, muto, ecc.” (Belsanti, 1952: 346). Presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Palermo, Terrana e Corrao sperimentarono la somministrazione continuata dell’LSD su un gruppo di donne schizofreniche, con dosaggi di 50-75 mcg somministrati quotidianamente per 60 giorni consecutivi. Sebbene siano rimasti costanti “i fondamenti basali del quadro morboso dal punto di vista clinico-diagnostico”, gli psichiatri osservarono delle evidenti modificazioni comportamentali soprattutto a partire dall’ottavo giorno del trattamento, consistenti in “un’attenuazione dei processi inibitori con corrispondente fluttuazione produttiva delle correnti endotimiche e arricchimento del tono affettivo, e un abbassamento di soglia dei meccanismi di repressione profonda con esteriorizzazioni mnestiche di nuclei emozionali e ideazionali che apparivano inseriti nell’attività dell’Io cosciente, il quale, in generale, ha manifestato un livello funzionale meno disintegrato”. In definitiva, fu osservata una discreta riduzione della sfera autistica, con un conseguente

maggior contatto e comunicabilità sociale. Gli psichiatri ne dedussero un’utilità dell’LSD nel campo psicoterapeutico “in quanto farmaco facilitante per attivazione psicodinamica diretta” (Terrana e Corrao, 1956). La somministrazione quotidiana di psichedelici per periodi di tempo più o meno lunghi (da alcune settimane sino a oltre un anno) è una pratica che abbiamo incontrato con una certa frequenza nelle TP del passato, e che apparentemente sarebbe in contraddizione con la riconosciuta forte tolleranza di cui sono caratterizzati gli psichedelici serotoninergici LSD, psilocibina e mescalina. Abramson e coll. (1956) avevano evidenziato una riduzione pressoché totale degli effetti percepibili nel giro di 4-7 giorni di assunzione consecutiva di 100 mcg di LSD (fig. 14), mentre Cholden e coll. (1955: 217) avevano osservato negli schizofrenici una tolleranza apparentemente ancor più forte e tale per cui la mancanza totale di effetti veniva raggiunto al secondo o al terzo giorno di somministrazione quotidiana di 100 mcg di LSD. La tolleranza è un fenomeno ben conosciuto in farmacologia, e in riferimento agli psichedelici può essere evidenziata in termini di effetti percepiti dal soggetto, o mediante l’osservazione di segni quali la dilatazione pupillare.95 Per quanto riguarda gli psichedelici, è possibile che la tolleranza si manifesti solo per alcuni degli effetti (ad esempio quelli visivi), ma che la sostanza conservi le altre proprietà farmacodinamiche nonostante la somministrazione quotidiana. Questa possibilità potrebbe spiegare il riscontro di effetti terapeutici nei pazienti trattati con somministrazioni quotidiane di LSD o psilocibina riportato in diversi studi clinici italiani e stranieri.96 Questi effetti terapeutici, che si manifesterebbero al di là delle modificazioni percettive e cognitive acute, potrebbero spiegare ad esempio il risultato ottenuto da Terrana e Corrao sopra descritto, e cioè “evidenti modificazioni comportamentali soprattutto a partire dall’ottavo giorno” di somministrazione quotidiana di LSD.

Fig. 14 – Diagramma che pone in evidenza la riduzione degli effetti di 100 mcg di LSD somministrati per tre giorni consecutivi in un soggetto normale (rielaborato da Abramson et al., 1956, tab. 2, p. 86).

Molte ricerche cliniche italiane erano mirate, più che a una sperimentazione diretta dello psichedelico come agente terapeutico, a uno studio dell’interazione della sostanza con le diverse patologie mentali, con scopi principalmente psicodiagnostici, se non quando di acquisizioni di dati meramente fisiologici o “behavoristi”. Ne sono un evidente esempio le somministrazioni di LSD a 6 alcolisti cronici presso gli Ospedali Psichiatrici di Torino, nella cui comunicazione scritta gli psichiatri non si preoccuparono nemmeno di specificare il dosaggio e la modalità di somministrazione, e dove appare l’unico interesse di esaminare i valori biologici (glicemia, colesterinemia, globuline, ecc.), quelli elettroencefalografici, e la constatazione – superficiale in quanto non discussa – che quasi tutti gli alcolisti considerarono l’effetto lisergico simile all’ebbrezza alcolica (Gamna et al., 1965).

Fig. 15 – L’ex manicomio “F. Roncati” di Bologna, dove alla fine degli anni ‘50 furono svolti studi clinici con la psilocibina su diversi malati mentali, con la rara peculiarità di far svolgere le sedute di notte (cfr. Volterra e Tiberi, 1961, 1962). È ora sede della Biblioteca della Salute Mentale e delle Scienze Umane “Gian Franco Minguzzi” e “Carlo Gentili”, presso la quale abbiamo potuto consultare buona parte delle pubblicazioni inerenti le terapie psichedeliche svolte in Italia negli anni ‘50-’60.

Nella medesima clinica torinese, su 14 malate mentali, quasi tutte donne schizofreniche, fu sperimentata la combinazione di LSD (100 mcg) con psilocibina (6 mg) somministrati per via endovenosa uno dopo l’altro. La maggior parte delle pazienti provò sensazioni spiacevoli di ansia, angoscia, terrore (“Mi hai fatto ciò che non dovevi fare!”, “Quando è finita la condanna si esce da prigione, qui si fa la tortura!”), e appare un po’ misera la conclusione che “l’effetto dei due farmaci pare essersi sinergicamente sovrapposto, inizialmente con una prevalenza degli effetti della psilocibina in quanto questa ha azione più rapida” (Bonino e Gamna, 1964a, b). Più costruttiva appare la ricerca sviluppata da Giberti e Gregoretti presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova, dove

l’LSD fu somministrato a 12 malati allora catalogati come “isterici”, cioè che presentavano i sintomi somatici dell’isterismo di conversione (“crisi” funzionali, paralisi funzionali, afonia e vomito psicogeni). In 5 soggetti fu somministrata anche l’LSA. Dal tipo di rievocazioni di ricordi del passato e dal tipo di accentuazione della sintomatologia isterica, gli psichiatri genovesi dedussero l’esistenza di due possibili “modalità” di isteria, l’una “ricca” e l’altra “povera”. In quella “ricca” si osserva una netta e tumultuosa accentuazione dei sintomi isterici, con un’autosservazione dei propri problemi personali in forme esuberanti, drammatiche, teatrali. Secondo questi studiosi, ciò corrisponde alla forma più “pura” dell’isteria, caratterizzata dalla mitomania e dalla patomimia,97 dove il conflitto e la sofferenza interiore sembra risolversi sul piano dell’immaginazione finalistica e della finzione rappresentativa. In questi casi, l’esperire nuovamente scene traumatiche o dolorose del passato (ecmnesia) è accompagnato da riproduzioni fantasiose di scene a carattere “compensatorio”, che di fatto fanno capire o intravedere soluzioni e vie d’uscita dal conflitto, specie con un adatto e tempestivo intervento psicoterapeutico. Questo meccanismo terapeutico è stato definito dai due psichiatri “catalisi farmaco-dinamica”. Nella forma “povera” di isteria, associata a una maggiore povertà di strutturazione psico-dinamica, la risposta all’LSD è limitata alla mera riproduzione dei sintomi isterici e a comportamenti psicomotori poco differenziati. In questi casi il lisergico appare meno utile dal punto di vista terapeutico. Da tutto ciò gli psichiatri dedussero che l’LSD poteva offrire utili nozioni nella delimitazione diagnostica e nosografica dell’isteria (Giberti e Gregoretti, 1959). La medesima équipe di Genova sperimentò l’LSD su 35 pazienti nevrotici, con dosaggi fra i 30 e i 150 mcg, somministrati per os. Fu osservato un miglioramento nel 50% dei pazienti, e i migliori risultati si ebbero nelle forme ossessive. Pur non osservando una scomparsa del meccanismo anancastico, al massimo una sua attenuazione, era la pressione e l’urgenza del meccanismo coattivo che venivano ad essere alleviate; l’ossessivo avverte in minor grado e con minore partecipazione la necessità di ‘fare così’ o di ‘pensare in quel modo’. Si attenuano altresì quelle inibizioni morbose che riducono il paziente in condizioni di penosa incertezza e di inattività; alcune rappresentazioni fobicoossessive si ‘scoloriscono’ e vengono a perdere di importanza, dopo che l’esperienza con LSD e i colloqui col medico hanno chiarito diversi aspetti della manifestazione morbosa. Lo stato di tensione emotiva è apparso notevolmente ridotto; più agevole è divenuta la vita nell’ambiente familiare (Giberti et al., 1956: 198).

L’équipe genovese constatò un’utilità psicoterapeutica dei seguenti effetti

dell’esperienza psichedelica: effetto depersonalizzante-derealizzante, effetto catartico ed effetto ‘shock’. Il primo effetto riguarda quel particolare meccanismo mediante il quale il paziente si estranea, per azione dell’LSD, dal suo modo abituale di “sentire sé stesso”: “il paziente viene tolto dal suo stato consueto di consapevolezza e di familiarità, si sente un altro e vede ‘dal di fuori’ il proprio essere, le proprie manchevolezze, i problemi, le sofferenze personali e le aspirazioni; in altre parole ha modo di vivere la propria situazione con un altro Io”. V’è chi (Abramson) parla di “rinforzo dell’Io e di processi integrativi dell’Io” per azione dell’LSD; l’équipe di Giberti preferiva parlare di “modificazione temporanea dell’Io attuatasi mediante l’interruzione psicotossica dei suoi rapporti dinamici di interdipendenza e di patologica connessione”. Nell’effetto catartico avviene “la liberazione di memorie e di ricordi a significato emozionale e che hanno avuto, in maniera diretta o indiretta, importanza determinante nella genesi di complessi o di elementi costitutivi la nevrosi”. L’effetto ‘shock’ si manifesta con: uno stato di profondo malessere vegetativo, uno scatenamento di contenuti ansiosi, un peggioramento della sintomatologia, una straordinarietà dello stato psicotossico e un insieme di sofferenze da esso, in via diretta o indiretta, prodotte, che può essere considerato come un vero e proprio ‘urto’ psicologico, che interrompe tumultuosamente una cristallizzazione nevrotica; si viene a determinare con l’LSD una vera e propria rottura di equilibri e di adattamenti patologici, che già di per sé suscita e mette in moto forze e tendenze reattive, valide e ‘sane’. Altre volte l’intensa drammatizzazione provocata dall’LSD a carico di determinati contenuti psicopatogeni, assieme al netto aggravamento dei sintomi soggettivi, sembra svuotare d’importanza e di significato affettivo tali contenuti morbosi (Giberti et al., 1956: 200-2).

A partire dal 1956, iniziarono a essere pubblicati in Italia i risultati di ricerche svolte con il LAE-32, cioè l’LSA, la molecola presente in natura più vicina strutturalmente all’LSD. Tralasciando alcuni studi sviluppati su soggetti normali,98 in un primo studio clinico svolto su malati mentali, Callieri e Ravetta (1956) somministrarono questo lisergico a 21 pazienti, fra cui 15 schizofrenici e 3 epilettici, presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma. I risultati sono apparsi confusi e poco significativi dal punto di vista terapeutico, ma sufficienti per permettere ai due studiosi di distinguere gli effetti del LAE da quelli dell’LSD. Come già evidenziato dagli studi stranieri, il LAE è caratterizzato da una forte azione sedativa, “adinamizzante e di indifferenza” (“si arriva a un disseccamento esistenziale, a un abbandono del progetto del mondo”), e pur tuttavia agirebbe sugli schizofrenici in maniera maggiormente psicotica che l’LSD

(Callieri e Ravetta, 1956). In un secondo studio clinico, i medesimi psichiatri hanno studiato l’interazione fra LAE ed LSD sul medesimo soggetto, con lo scopo di approfondire le conoscenze sulle differenze ed eventuali antagonismi fra le due sostanze. A 13 schizofrenici somministrarono 100 mcg di LSD in endovena, e una volta raggiunto il plateau degli effetti, seguì la somministrazione di 0,5 mg di LAE in intramuscolo. In un caso somministrarono il LAE per endovena, trattandosi del primo caso al mondo di questa modalità di somministrazione del LAE. I risultati confermarono che l’LSD è caratterizzato da una componente maggiormente allucinatoria e il LAE da una componente maggiormente sedativa. Inoltre, non fu osservata alcuna azione antagonista del LAE nei confronti dell’LSD. Il LAE somministrato successivamente all’LSD semplicemente accentuava la sintomatologia lisergica, o al massimo “ha coperto, con il suo effetto apatizzante, la possibilità di estrinsecare la precedente esperienza vissuta, senza tuttavia cancellarne l’esistenza” (Callieri e Ravetta, 1957a: 304). In un ulteriore studio clinico, Callieri e Ravetta (1957b) sperimentarono su 21 schizofrenici l’interazione fra il LAE e il Pervitin, osservando una mancanza di effetto antagonista di questo sul LAE.

Fig. 16 – Alcuni titoli di pubblicazioni italiane riguardanti studi clinici con la psilocibina.

Nel medesimo periodo l’LSA fu provata anche presso la Clinica Psichiatrica di Torino dall’équipe di Bonfante e Gamna. Essi somministrarono per via sottocutanea 0,5 mg a una decina di donne ricoverate, riscontrando un’azione sedativa ritenuta utile per calmare le schizofreniche e le maniache. Osservarono anche come i disturbi neurovegetativi (nausea, vomito, cardiopalmo) fossero troppo forti nelle pazienti non schizofreniche, mentre nelle schizofreniche erano trascurabili o totalmente assenti. Nella breve e frettolosa nota gli psichiatri affermarono di aver somministrato l’LSA “ogni giorno”, facendo ciò sospettare un trattamento continuato nel tempo non meglio specificato (Bonfante et al., 1956). Agli inizi degli anni ‘50, diversi psichiatri stranieri iniziarono a distinguere fra effetti primari ed effetti secondari delle droghe psicoattive: quelli primari riguardano le modificazioni dell’attività psichica causate direttamente dalla sostanza (effetti neurovegetativi, allucinosi, ecc.), mentre quelli secondari sono la conseguenza reattiva agli effetti primari da parte del soggetto.99 Questa distinzione concettuale venne prontamente adottata dagli psichiatri italiani; ad esempio, Callieri e Ravetta, nell’osservare un effetto secondario più marcato con il LAE-32 che con l’LSD, lo considerarono potenzialmente utile ai fini psicoterapeutici, per via di un suo maggior grado di organizzazione dinamica rispetto agli imprevedibili e difficilmente organizzabili effetti primari. Essi notarono inoltre come in certi casi l’effetto secondario possa rafforzare, inibire o addirittura modificare completamente l’effetto primario: “alcuni pazienti hanno immediatamente integrato la loro esperienza lisergica nel contesto della loro attività delirante, costruendoci sopra, forse, fino al punto da mascherare l’azione inibente e apatizzante di esso. Altri hanno inserito l’attività dismorfizzante del farmaco nella loro impostazione allucinosica; donde una suggestiva e ricca fioritura, una vera orgia sensoriale” (Callieri e Ravetta, 1956: 73). L’équipe genovese di Giberti che sperimentò l’LSD nelle psiconevrosi – il cui studio abbiamo descritto poco sopra – osservò che l’azione favorevole dell’LSD “non ci è sembrata quasi mai dovuta direttamente agli effetti cosiddetti primari, ma piuttosto alle complesse modalità di reazione psicologica dell’individuo all’azione farmacologica diretta” (Giberti et al., 1956: 199).

Fra gli studiosi si sviluppò anche una discussione su quali fossero da intendere per effetti primari ed effetti secondari di una droga psicoattiva, e le opinioni divergevano in particolare negli effetti sul pensiero e sulle modifiche affettivo-emotive. Mentre Hoch e coll. (1953) ritenevano le reazioni emotive e comportamentali come effetti consequenziali, quindi secondari dell’LSD, l’équipe di Giberti riteneva che “la immotivazione e la incomprensibilità di alcuni cangiamenti nella sfera timica (come brusche esplosioni euforiche, improvvisi abbassamenti del tono dell’umore, ecc.) sembrerebbero confortare l’ipotesi che almeno una parte delle modificazioni affettive siano psicologicamente inderivabili e pertanto primarie” (Giberti et al., 1956: 199). I medesimi psichiatri genovesi consideravano fra gli effetti primari anche certi processi di pensiero, quali i momenti di intuizione e la sensazione di “capire tutto”, di “comprensione universale” percepita dal soggetto. Contemporaneamente agli studi clinici, anche in Italia furono sviluppate ricerche sulla chimica e sulla farmacologia dell’LSD e dei suoi derivati. Citiamo il precoce studio di Buscaino (1951) intrapreso presso i laboratori dell’Università di Cagliari e volto allo studio della fluorescenza dell’LSD. Questa molecola, quando disciolta in un liquido acquoso e sottoposto a luce ultravioletta, emana una forte fluorescenza di un brillante colore azzurro. Mediante uno spettrofotometro, Buscaino determinò che la fluorescenza si sviluppa fra i 3800 e i 6000 Å, con un picco massimale attorno ai 4460 Å. Egli studiò anche lo spettro di fluorescenza del sangue di un ebefrenico, a cui fu somministrato LSD in dose di 300 mcg, senza tuttavia rilevare differenze prima e dopo la somministrazione del farmaco. Sul fronte degli studi italiani farmacologici, vale la pena ricordare le ricerche intraprese verso la metà degli anni ‘50 da Giuseppe Tonini presso l’Ospedale Psichiatrico di Imola e volte allo studio dell’interazione fra l’LSD e l’allora denominata enteramina, la molecola endogena scoperta inizialmente dall’italiano Vittorio Erspamer, e ridenominata in seguito serotonina.100 Gli studiosi si erano accorti di un’attività antagonista reciproca fra le due sostanze, e Tonini volle verificare se questo antagonismo si presentasse anche a livello dei centri superiori del sistema nervoso umano. A tale scopo somministrò l’LSD a quattro volontari sani (50-80 mcg per os o endovena), e nel corso del plateau lisergico venne somministrata la serotonina per via intramuscolo. In tutti i casi si osservò una regressione dei fenomeni lisergici nel giro di 15-30 minuti. L’esperimento fu ripetuto su soggetti schizofrenici,

ottenendo i medesimi effetti inibitori della serotonina sull’LSD. Da ciò Tonini dedusse che la serotonina era un antagonista specifico degli effetti centrali dell’LSD (Tonini, 1955). La spiegazione di quest’azione antagonista venne proposta da Woolley e Shaw (1954a) in due modi: l’LSD agiva o spostando la serotonina dai suoi punti d’attacco o, al contrario, favorendone l’accumulo tramite un’azione inibitrice sulle MAO. Tonini escluse la seconda possibilità verificando in vitro l’assenza di inibizione della MAO da parte dell’LSD (Tonini e Barbolini, 1956). Presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Cagliari, Diego De Caro intraprese studi elettroencefalografici dell’effetto dell’LSD su soggetti normali e malati mentali, e sui medesimi soggetti precedentemente addormentati con Somnifen e Largactil, a cui veniva somministrato il lisergico durante il sonno; e anche su soggetti sotto effetto di LSD, durante il cui plateau venivano somministrati i medesimi sonniferi. Egli constatò che nei soggetti addormentati con i sonniferi l’LSD produceva un veloce risveglio, mentre negli individui lisergicizzati i sonniferi non inducevano il sonno; inoltre, l’LSD aboliva il ritmo alfa ed evocava un ritmo beta (De Caro, 1956a, b). Quando giunse la psilocibina, scoperta da Albert Hofmann nel 1958, quasi immediatamente fu sperimentata in clinica psichiatrica. Il primo studioso italiano sembra essere stato Antonio Balestrieri (1960), della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Sassari, che somministrò per via orale o in intramuscolo la psilocibina a cinque psiconevrotici. Lo scopo dello studio era tuttavia volto unicamente alla valutazione della tolleranza crociata di questa sostanza con l’LSD. Seguirono le sperimentazioni di Volterra e Tiberi (1961) presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Bologna, con somministrazione di psilocibina a 10 pazienti affetti da deliri allucinatori cronici.101 Il dosaggio fu di 20-30 mg per os. Fu osservata una generale assenza o una povertà del quadro sintomatologico psilocibinico, un dato che fu considerato come una conferma della teoria della tossina endogena responsabile della malattia di questi pazienti.

Fig. 17 – Un curioso studio comparativo sugli effetti della serotonina sviluppato all’Ospedale Provinciale Psichiatrico di Milano a metà degli anni ‘50. La serotonina fu somministrata per endovena a soggetti normali (A) e a pazienti schizoidi (B), che dovevano, prima (1) e dopo (2) la somministrazione, comporre un grappolo d’uva con dei pezzi di cartone colorati e di varie forme e dimensioni (da Zubiano e De Maio, 1957, figg. 1-4, pp. 171-2).

Più promettente fu lo studio svolto presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, con la somministrazione di psilocibina a 15 donne pazienti. I dosaggi iniettati102 erano di 3, 6, 9 e 12 mg, somministrati a giorni alterni oppure ogni terzo giorno, intercalati con iniezioni di placebo. Alcune malate furono trattate con una sola iniezione,

altre con 2-4 iniezioni a dosaggi crescenti. Nel corso delle sedute si svolgeva un’interazione di natura psicoterapeutica fra il paziente e il personale medico, cercando di sfruttare l’effetto euforizzante e soprattutto il bisogno di espansione e di contatto interpersonale che molte malate provavano, in particolare nel caso del basso dosaggio di 3 mg. In diverse ossessive fu osservata una riduzione dell’ossessione durante il plateau psilocibinico, e in una fu constatato un vero e proprio miglioramento durato 4 mesi. In un caso di personalità disforica con crisi depressive recidivanti fu osservato un netto e stabile miglioramento ottenuto attraverso la consapevolizzazione di antiche situazioni conflittuali (Reda et al., 1962). Presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale “L. Bianchi” di Napoli fu svolta un’indagine clinica con psilocibina su 20 malate mentali, con scopi di indagine preliminare, e senza preoccuparsi di associare alle pazienti precise diagnosi circa le loro patologie, partendo dalla considerazione che “in certi tipi di ricerche tenere presente una diagnosi clinica presunta possa essere talora elemento di confusione e di complicazione: mentre infatti da un lato si sono avuti tipi di reazioni similari in quadri con diagnosi descrittive differenti, dall’altro in certi casi le reazioni osservate hanno rappresentato elementi di perplessità e di dubbio nei confronti delle diagnosi cliniche preventivamente poste” (Gregoretti e Sinisi, 1962: 858). Tale indagine conoscitiva ha portato semplicemente a una distinzione in tre categorie dei tipi di risposta all’agente psichedelico: “a) Tipo espansivo: con agitazione psicomotoria, clamorosità, ansia evidente, ricca ‘produttività’ ideo-affettiva, loquacità, accettazione del colloquio (verificatosi in 6 casi su 20). b) Tipo coartato: con evidente tensione affettiva, espressioni mimicogestuali di sofferenza e di dolore, atteggiamento chiuso e diffidente, scarse espressioni produttive spontanee e ridotta possibilità di contatto (verificatosi in 10 casi su 20). c) Tipo povero: con scarsissime o (almeno apparentemente) del tutto assenti espressioni affettive, totale assenza di manifestazioni produttive, atteggiamento freddo apatico inerte e con estrema difficoltà al contatto (verificatosi in 4 casi su 20)” (Gregoretti e Sinisi, 1962: 856). L’équipe torinese di Gustavo Gamna si cimentò in tre separati studi clinici nelle sedi psichiatriche di Villa Regina Margherita, Grugliasco e Torino-

Città. In tutti i casi ai malati non furono comunicati preventivamente il tipo di effetto del farmaco né le finalità dell’esperimento. I soggetti erano perlopiù donne affette da schizofrenia non deteriorata, psicosi affettive, epilessia. Ad alcuni pazienti la psilocibina fu somministrata in dosaggi di 2 mg al giorno per 10 giorni consecutivi, ad altri in dosaggi di 8 mg sempre per 10 giorni, ad altri ancora in dosaggi di 3-9 mg una tantum. Salvo in alcuni rari casi, le esperienze non furono molto costruttive, tutt’altro: In quasi tutti i casi si è verificato uno stato di ebbrezza più o meno manifesta, talvolta con dislalia, quasi sempre accompagnata da impressioni penose, di venir meno, da senso di irrealtà, da impressioni di non essere più se stessi, di esser cambiati, strani, diversi [...]. in un caso si è verificato uno stato di eccitamento con fuga ideativa; in un altro uno stato di profonda disinibizione durante il quale la paziente ha raccontato avvenimenti personali mai prima riferiti [...]. in diversi pazienti si sono verificate distorsioni percettive od allucinosi [...]. una schizofrenica ha detto: ‘sono morta un attimo e poi sono rinvenuta. Vi vedevo strani e ne sono rimasta terrorizzata’. Questa stessa ammalata sotto l’effetto della droga continuava a ripetere: ‘chi sono io? Perché mi avete fatto questo scherzo? Il mondo è un giocattolo? Lei è il diavolo? Io non lo riconosco. Si muore di paura’ [...]. Un’altra paziente ha detto: ‘Mi sono sentita come uno strumento nelle vostre mani’ (Gamna et al., 1962).

L’équipe di G. Sogliani, che operava presso l’Ospedale NeuroPsichiatrico Provinciale di Treviso, parrebbe avere ottenuto risultati più interessanti con la somministrazione endovenosa od orale di psilocibina a 32 pazienti, principalmente psicotici, sebbene lasci sconcertati la superficialità del rapporto scritto, dove non viene nemmeno menzionato il dosaggio del farmaco somministrato. Fu osservata una generale azione psicolitica in tutti i pazienti, e in alcuni una “salutare eliminazione di stati conflittuali”, e i migliori risultati furono riscontrati nelle psiconevrosi. In alcuni pazienti si procedette alla somministrazione quotidiana di psilocibina per periodi di 1020 giorni, un trattamento prolungato considerato utile poiché portava, a detta degli psichiatri, a modificazioni più stabili della personalità del soggetto, in particolare nella sfera emotiva (Sogliani et al., 1963). Questo effetto ottenuto dopo giorni di somministrazione consecutiva di psilocibina potrebbe essere spiegato, in questo caso e come già sospettato dagli autori della ricerca, dalla assidua presenza di interventi psicoanalitici che accompagnavano ogni seduta, e non dalla sola sostanza. Un caso interessante riguardò la somministrazione di una singola dose di psilocibina (12 mg, per os) a un paziente dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale “L. Lolli” di Imola, affetto da delirio ossessivo cronico. Si trattava di un uomo di 68 internato da oltre 35 anni, che non faceva altro che

disegnare delle immagini stereotipate (stereomorfismi)103, nella maggior parte costituite da dei crocifissi, che poi ritagliava, ricuciva e numerava in progressione. Solo di crocifissi ne aveva già disegnati 5831. Firmava i dipinti col nome di Giotto, ed era evidente come sfondo un delirio di grandezza. Mentre stava elaborando l’ennesimo crocifisso, a sua insaputa gli fu somministrata una dose orale di psilocibina. Nel corso del plateau psichedelico i soggetti dei suoi disegni cambiarono radicalmente, diversi dei quali manifestarono un elevato contenuto erotico. Ma ciò che più sorprese gli psichiatri imolesi fu il radicale cambiamento nei mesi successivi, che vide una trasformazione psicopatologica da un quadro delirante ossessivo a un quadro depressivo, con un certo grado di consapevolizzazione della sua precedente situazione. Richiestogli sul significato degli innumerevoli crocifissi per tanto tempo eseguiti, rispose che con quelli egli voleva dire “Signore, soccorso!”: “Io ero terrorizzato di tutto, avevo vergogna, non sapevo essere io, temevo di non riuscire a commuovere sufficientemente per richiamare l’attenzione di chi avevo intorno”. Dopo un breve periodo in cui continuò a disegnare, non più crocifissi ma dei pinocchi, il paziente smise di dipingere, per cui si interrompette la compulsione ossessiva che lo aveva legato per i decenni precedenti. Ma, come detto, il paziente non tornò alla normalità, si rinchiuse in una sindrome depressiva, stando oziosamente a letto, dicendo di attendere solo la morte come unica liberazione. Due anni dopo la prima somministrazione di psilocibina, gli fu somministrata un’ulteriore dose (altri 12 mg, per os), che non fece altro che confermare la nuova sindrome (Maccagnani et al., 1966). Da questo e affini casi gli psichiatri imolesi dedussero che LSD e psilocibina “sono soprattutto dei profondi e pronti attivatori dell’affettività latente anche negli psicotici”, e mettevano in guardia i medici: dall’eventuale uso indiscriminato di questi farmaci anche per una semplice somministrazione a scopo propedeutico. La facilità, infatti, che ad un quadro psicopatologico preesistente ben sistematizzato se ne sostituisca quasi improvvisamente uno nuovo – la facilità in altre parole, con cui può essere rotto l’equilibrio della psicosi con l’innesto di nuove motivazioni in modo brusco – è un’evenienza possibile e che noi abbiamo osservato, la quale può portare in certi casi a situazioni più complicate, più dolorose anche, e talvolta più difficili da risolvere (Maccagnani et al., 1964: 206).

Viene il sospetto di un certo difetto d’intervento degli psichiatri, che evidentemente erano maggiormente interessati a studiare passivamente gli effetti dello psichedelico che a curare il malato, il quale, se fosse stato

sottoposto a un assiduo programma psicoanalitico, ne avrebbe tratto molto probabilmente maggiori benefici. In pratica, l’operato degli psichiatri può apparire in questo caso come un “lavoro lasciato a metà”. Nella lettura delle decine di rapporti degli studi clinici con psichedelici, appare evidente una differenza di vedute e di valutazione da parte degli psichiatri riguardo i veri e propri effetti psichedelici che potevano essere vissuti dai pazienti, e che includevano stati intuitivi, illuminanti, estatici, o anche solo di profondo benessere psichico; da chi li liquidava come meri “disturbi del pensiero” o “disturbi della coscienza” (ad es. Giberti et al., 1956: 199), a chi ne sottolineava l’importanza lamentandosi di come passassero generalmente inosservati. Tale fu il caso di R. Priori dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale “S. Maria della Pietà” di Roma, che rimase colpito “dalla straordinaria proprietà di linguaggio che i soggetti usavano per esprimere le loro esperienze interiori. Era sorprendente osservare come malati rozzi, analfabeti, con un patrimonio linguistico povero, impiegassero espressioni verbali di notevole penetrazione psicologica per comunicare il loro stato d’animo”. Priori pose l’accento sull’importanza nel tenere in considerazione certe affermazioni dei pazienti – psicopatici, nevrotici, oligofrenici, alcolisti, ecc. – che troppo spesso non venivano nemmeno registrate poiché considerate poco importanti ai fini della comprensione dell’azione dello psichedelico sul paziente: “L’anima mi vola dal corpo, non ho mai provato cose simili, io e l’anima siamo la stessa cosa, è un’unione divina”; “Ho intuizioni che non ho mai avuto, comprendo e conosco cose che prima mi sfuggivano”; “Mi sento psichicamente più maturo, posso guardare il mondo e le cose dall’alto, mi sento disposto verso tutto ciò che è bello”; I ricordi spiacevoli li considero differentemente, li posso guardare dall’alto”; “Mi sento come se l’anima dovesse uscire dal mio corpo, come se fossi un moribondo che sta al trapasso, è una cosa meravigliosa”; “Tutto diventa più chiaro, vi è un altro valore delle cose”; “Non ho parlato mai così bene in italiano, mi sento più padrone dei miei discorsi, adatti al mio stato d’animo” (Priori, 1957).

Se si considera che una grande parte, se non la maggior parte, delle descrizioni delle esperienze psichedeliche cliniche ci sono sorprendentemente apparse aride, decisamente spiacevoli se non quasi insulse, ricche solamente di stati di delirio, angoscia, ansia, terrore, di frasi disconnesse e di comportamenti compulsivi, sorge il sospetto, in base alla denuncia di Priori – rimasta del resto inascoltata –, di una mirata e costante censura, pur probabilmente in buona fede, di quegli elementi delle esperienze cliniche che

venivano considerati poco importanti o che stridevano con i modelli interpretativi preconcetti, più o meno psicotomimetici, che si intendevano “dimostrare” e “confermare”. Ricordiamo quanto aveva riportato lo psichiatra Peter McKellar (1957: 172, 179), che “non tutto ciò che accade in un esperimento di psicosi modello è rilevante, e l’unico interesse per uno psicoanalista deve essere il materiale esclusivamente di natura psicotica”. Lo studio con psilocibina forse più riuscito, dal punto di vista di risultati terapeutici, fu quello condotto da Volterra e Tiberi presso la Clinica di Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Bologna, i quali somministrarono per os la sostanza indolica a 40 nevrotici in dosaggi medi di 0,25 mg/kg (ma in alcuni casi fu raggiunta la forte dose di 40 mg). In 11 casi la prova psilocibinica fu ripetuta dopo 8-10 giorni, mentre in 16 fu somministrato in seguito dell’LSD. A tre pazienti la psilocibina fu somministrata per 5 o più volte, distanziate nel tempo. Le sedute erano accompagnate da supporto psicoterapeutico, che proseguiva successivamente e anche al di fuori del trattamento farmacologico. A differenza della maggior parte degli altri studi clinici con psichedelici, in questo caso fu scelta la sera e non il giorno per le sedute, con la stanza buia o in penombra, e facendo mantenere al paziente la posizione supina ad occhi chiusi. Una scelta quasi unica nel mondo delle TP occidentali e che abbiamo già discusso nel corso della trattazione del setting. I migliori risultati furono ottenuti nei soggetti “bloccati in un circolo ripetitivo di attitudini stereotipate”, in pratica nei compulsivi-ossessivi, e anche nelle forme di depressione cronica: “L’effetto timolettico è risultato assai chiaro nelle forme a forte componente astenica e depressiva, con comparsa di un sentimento di riacquistata fiducia, legato all’improvvisa rivelazione di possibilità insperate e al riconoscimento da parte del malato di una prospettiva, di un mondo proprio, latente, non depressivo e nevrotico [...] contemporaneamente c’è stata un’azione psicodinamica con grande vantaggio nella relazione paziente-medico” (Volterra e Tiberi, 1962: 88). Presso alcuni pazienti fu osservata nel corso del plateau psilocibinico una presa di coscienza così acuta da essere di per sé fortemente terapeutica, come nel caso di Libero, un medico di 33 anni. Fin dall’adolescenza egli avvertiva un grave senso di inferiorità e soffriva parzialmente di impotentia coeundi. Nel corso dell’esperienza psilocibinica egli esclamò: È una cosa stupenda, non riferibile. Mai riuscirei a dire cosa percepisco. So solo che sono

diverso, che il mio orizzonte si è aperto, che c’è la possibilità anche per me di un mondo migliore dal quale non ne sono escluso. Il bello poi è proprio questo: che nonostante sappia che è la psilocibina che mi fa provare tutto ciò, tuttavia so che queste sensazioni splendide sono mie e che quindi ho veramente anch’io un mondo meraviglioso in me, del tutto sconosciuto (Volterra e Tiberi, 1962: 93).

Riteniamo estremamente interessante questa valutazione data da un paziente, che la psilocibina gli avrebbe manifestato sensazioni e “mondi meravigliosi” che sono suoi propri, intesi quindi come risorsa e ricchezza personale, e non della sostanza che ha assunto; una considerazione in netto contrasto con la generale valutazione da parte degli psichiatri di questo medesimo pensiero come uno dei tanti elementi “allucinatori” dell’esperienza. Nel caso dei due psichiatri bolognesi, invece, tale considerazione viene valutata positivamente, in quanto: “questo processo di ‘rinforzo’ delle funzioni integrative dell’Io, questa condizione in cui il soggetto ha compreso che ‘potrebbe essere così’ anche nella vita di ogni giorno, ha costituito per il paziente un tangibile, diretto e vissuto incentivo per un impegno psicoterapeutico, che in seguito ha portato a un netto miglioramento della sua sintomatologia” (id.: 93). È opportuno considerare che il soggetto in questione era un medico, dotato di una certa intelligenza e capacità autocritica, e ciò conferma quanto gli psichiatri avevano dedotto già a partire dai più antichi studi con la mescalina, e cioè che i risultati migliori nei trattamenti terapeutici con psichedelici si hanno con i soggetti dotati di un certo livello di quoziente intellettivo. Sul più generale quadro sintomatologico dei nevrotici, i medesimi psichiatri giunsero a queste conclusioni: Il significato dell’esperienza psicodislettica è apparso perciò del tutto analogo a quello del sogno: essa ha riprodotto un avvenimento o ribadito un problema; ha messo in guardia i soggetti sulle alternative delle azioni personali; ha indicato le cause dei disturbi; ha rivelato i punti deboli della personalità e messo di fronte l’individuo alle situazioni che aveva cercato di evitare; ha proposto talvolta anche una soluzione ai suoi problemi; ha in conclusione denunciato il ‘bluff’ del nevrotico, rendendolo edotto delle sue disponibilità, costringendolo a responsabilizzarsi e restituendolo alla sua integrità [...]. La prospettiva, che a Freud sembrava molto distante,104 di potere influenzare direttamente la libido e la vita mentale anche mediante l’uso di sostanze chimiche, è apparsa attuata in questo trattamento, dato che un agente farmacologico è stato capace di influenzare l’attività psichica in un quadro di rapporti psicodinamici. La farmacoterapia e la psicoterapia sono quindi arrivate, nella prova psicodislettica, ad una reciproca integrazione (Volterra e Tiberi, 1962: 113, 115).

Un risultato interessante fu lo “sblocco” di tre pazienti catatoniche in

seguito a un secondo studio sviluppato presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma dall’équipe di Reda; una di queste, dopo 20’ dalla somministrazione della psilocibina, “cominciò a ricollegarsi all’ambiente, esplodendo poi in una specie di gioia incontenibile”, e questa dimensione relazionale durò per tutto il plateau psilocibinico. Risultati promettenti furono ottenuti anche nei casi dei disturbi ossessivi, e in uno di questi, in seguito a un ciclo di 10 somministrazioni di psilocibina a giorni alterni, la paziente fu considerata guarita e venne dimessa (Reda et al., 1964). Altri psichiatri non furono in grado di vedere un’utilità terapeutica nella psilocibina, come nel caso dell’équipe di Bruno Callieri, che somministrò questo indolico a 15 pazienti della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, per lo più schizofrenici. Dalla serie di sperimentazioni questi psichiatri dedussero che, permanendo nel soggetto la consapevolezza dello stato artificioso indotto dalla psilocibina, anche questa sostanza “non supera la barriera dell’esogeno, non è cioè un farmaco schizogeno e non consente quindi facili illazioni etiopatologiche [...]. La sindrome da psilocibina è essenzialmente ‘dispercettiva’ e ‘perplessizzante’ [...]. Sotto psilocibina si fa della fenomenologia senza volerlo. La ‘coscienza’ si occupa della contemplazione della percezione stessa, non dell’oggetto. Non pretende spiegare gli atti della percezione, ma soltanto vederli. La percezione non spiega l’oggetto ma lo presenta in perfetta passività”. Si tratta di deduzioni limitate dai limiti stessi della sperimentazione, svolta unicamente su schizofrenici cronici, e della relativa osservazione; un limite intuito dai medesimi psichiatri, soggiacente alla constatazione che “abbiamo avuto l’impressione che spesso quel che i malati provano senza raccontare è più importante di quello che raccontano” (Garelli et al., 1964). Stando alle nostre ricerche bibliografiche, il 1965 parrebbe essere l’anno delle ultime ricerche cliniche con psichedelici pubblicate in Italia.105

Il paradigma psicoterapeutico Allo psichiatra inglese Erich Guttmann, che svolse studi clinici con la mescalina, va riconosciuto il merito di essere stato il primo studioso occidentale a suggerire l’impiego di uno psichedelico nella psicoterapia: “V’è ragione di supporre che i pazienti in un simile stato [mescalinico] possano

essere molto suscettibili all’influenza psicoterapeutica. Con lo scopo di utilizzare questo sconvolgimento, è necessario comprendere se il materiale che viene alla superficie durante l’ebbrezza è, nel suo significato psicologico, equivalente alle fantasie spontanee, alle associazioni libere e ai sogni. Se così fosse, l’ebbrezza potrebbe essere usata come una specie di analisi forzata o concentrata” (Guttmann, 1936: 217-8). Insieme al collega Maclay, Guttmann si cimentò in una serie di studi clinici somministrando la mescalina a dei pazienti – principalmente ossessivi depressi – giungendo alla conclusione che nel paziente è la risposta psichica allo stato mescalinico a produrre qualche effetto terapeutico, e non lo stato mescalinico per se; e questa risposta può essere influenzata e guidata con un lavoro psicoterapeutico (Guttmann e Maclay, 1936: 201-2).106 Nonostante questo suggerimento fosse stato elaborato negli anni ‘30, furono pochi gli psichiatri che l’adottarono nel corso degli studi clinici con la mescalina, continuando nella caparbia idea dell’impiego psicotomimetico, e si dovette attendere l’era dell’LSD e un decennio di un suo uso come psicotomimetico prima di vedere un generale cambio di paradigma. A dare un fondamentale impulso a questo cambiamento fu lo psichiatra inglese Humphry Osmond (1917-2004). Osmond era uno dei tanti psichiatri che si era formato nel contesto del paradigma psicotomimetico; trasferitosi in Canada e successivamente negli USA, si specializzò nel trattamento degli alcolisti con le TP ed elaborò una tecnica – definita in seguito terapia psichedelica – che si basava sulla somministrazione una tantum all’alcolista di una fortissima dose di LSD, con lo scopo di indurgli un’esperienza di picco caratterizzata da un forte potenziale di auto-risoluzione terapeutica. Osmond era uno studioso molto attento e ricettivo, ed ebbe la fortuna di avere come amico intimo Aldous Huxley, con il quale mantenne un’assiduo confronto sui vari temi e scoperte in materia di psichedelici.107 Fu Osmond a fornire Huxley di una dose di 400 mg di mescalina, la cui esperienza fu descritta dallo scrittore inglese nel libro Le porte della percezione; un’esperienza rivelatrice di carattere mistico (Huxley, 2014). Erano anche gli anni degli studi antropologici che fecero conoscere al mondo occidentale l’impiego tradizionale delle fonti visionarie: il peyote impiegato come “fonte di vita” dagli Huichol del Messico settentrionale, i funghi psilocibinici usati nei riti diagnostico-terapeutici delle velada del Messico meridionale, il San Pedro assunto nel corso dei riti magicoterapeutici andini noti come mesada, ecc. Osmond si accorse che nella

descrizione di questi impieghi tradizionali non v’era alcun riferimento a esperienze di tipo psicotomimetico. Egli aveva davanti a sé anche un’altro dato che contraddiceva il paradigma psicotomimetico: le esperienze di picco dei “suoi” alcolisti; esperienze che hanno un profondo carattere rivelatore e che, nuovamente, nulla hanno a che vedere con gli stati psicotici. Da tutto ciò, e dall’incontro dell’influente Alfred Hubbard,108 Osmond dedusse l’erroneità del paradigma psicotomimetico, e riportò le sue argomentazioni in un memorabile articolo pubblicato nel 1957, in cui si rivolgeva ai colleghi psichiatri con una critica dura quanto costruttiva. Innanzitutto criticò quei colleghi che impiegavano queste sostanze senza averle provate prima su sé medesimi: Lasciatemi enfatizzare nuovamente che coloro [fra gli psichiatri] che non hanno assunto la sostanza con la quale desiderano lavorare, preferibilmente numerose volte, sarebbe saggio che non usassero questi agenti in terapia. Possibilmente nessuno ha fatto questo, ma nessun articolo che ho letto lo ha considerato una precondizione essenziale per tale lavoro (Osmond, 1957: 423).

Quindi espose le critiche al paradigma psicotomimetico, a cui soggiacevano in realtà critiche più generali alla psichiatria e alla psicoterapia: Se il mimare la malattia mentale era la principale caratteristica di questi agenti, “psicotomimetici” sarebbe quindi un termine generico appropriato. È vero che lo fanno, ma fanno molto di più. Perché siamo sempre preoccupati con il patologico, con il negativo? È la salute solo la mancanza di malattia? È il buono solamente la mancanza del cattivo? È la patologia l’unico metro? Dobbiamo scimmiottare gli umori più cupi di Freud, che lo persuasero che un uomo felice è un auto-ingannatore che evade l’angoscia per la quale non v’è anodino? Non è un bambino un potenziale infinito piuttosto che un perverso polimorfo? [...]. Credo che questi agenti abbiano un ruolo da ricoprire nella nostra sopravvivenza come specie (Osmond, 1957: 429).

Osmond aveva compreso la relazione fra gli stati psichici indotti da queste sostanze e i profondi stati modificati di coscienza del misticismo religioso spontaneo, anche questi ultimi per molto tempo interpretati dalla psichiatria in un’ottica patologica: Non abbiamo bisogno di escludere gli occhi di un visionario perché non condividiamo la sua visione. Non dobbiamo azzittire la voce del mistico perché non possiamo udirla, o forzare le nostre razionalizzazioni su di lui per la nostra propria rassicurazione (Osmond, 1957: 430).

La critica di Osmond aveva toccato il cuore della teoria e del metodo psichiatrico, e aveva evidenziato come gli psichiatri non avessero di fatto

compreso gli psichedelici. A conclusione della sua coraggiosa arringa, Osmond propose di dare un nuovo nome a queste sostanze, quello di psichedelici, “rivelatori della psiche”. Egli aveva discusso a lungo con l’amico Huxley nel cercare un nuovo termine, e fra i tanti elaborati insieme al filosofo inglese – psicheforico, psicheressico, psicheormico, ecc. – alla fine scelse quello di psichedelico. Seguendo la recente sistematizzazione degli aspetti teorici degli studi degli psichedelici proposta da Link Swanson (2018), i modelli elaborati da Huxley e da Osmond rientrano nel gruppo delle cosiddette “teorie della filtrazione”, elaborate in ambito psicologico, psicofarmacologico e parapsicologico, che partono tutte dal concetto che la coscienza è mantenuta stretta da processi selettivi biologici e psicologici che limitano (“filtrano”) la consapevolizzazione di una grande quantità di materiale subconscio. Huxley metaforizzava questo meccanismo in termini di “valvola di riduzione cerebrale”, e i mal funzionamenti di questa valvola, tendenti all’iperattiva o all’ipoattiva, erano causa, da una parte di una modalità mentale rigida e nevrotica, e dall’altra di una modalità confusa, psicotica, allucinatoria.109 Anche Osmond seguiva un simile modello di filtrazione, e Swanson ha evidenziato la differenza semantica fra le visioni di Huxley e Osmond, basata su un differente concetto di che cosa la mente filtri e soprattutto di che cosa emerga alla consapevolezza nel contesto dell’esperienza psichedelica: Huxley indicava un “altro mondo”, un “altrove” totalmente differente, se non addirittura “opposto” alle normali dimensioni psichiche,110 mentre Osmond riteneva che emergessero aspetti nascosti, latenti, e comunque “pertinenti” della mente. Sarebbe più opportuno definire il nuovo paradigma che si sviluppò verso la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60 come “paradigma psichedelico”, ma la conflittuale connotazione sociale che soggiace al termine psichedelico, specie per i turbolenti periodi dei sixties, e il contesto medico di questa esposizione storica, ci portano a preferire il termine di “paradigma psicoterapeutico”, in quanto questo cambio di paradigma comportò nel contesto terapeutico l’adozione delle tecniche psicoanalitiche e psicoterapeutiche in congiunzione con l’assunzione di queste sostanze.

L’interruzione della ricerca clinica

La brusca fine della ricerca clinica con gli psichedelici è profondamente dipesa da ciò che può essere definito l’“affaire Leary”, che originò negli anni 1961-63, quando gli psicologi Timothy Leary e Richard Alpert guidavano l’Harvard Psilocybin Research Project. Nel 1960 Leary fece in Messico un’esperienza con i funghi psilocibinici che lo influenzò profondamente, e che promosse quello spirito di ribellione che non gli permise più di rispettare le regole e i protocolli dettati dall’Università di Harvard, sino al punto in cui, insieme ad Alpert, si fece cacciare via da questa istituzione accademica.111 Gli anni che seguirono portarono Leary a cavalcare l’onda della crescente cultura psichedelica in maniera fortemente rabbiosa e socialmente conflittuale, ma non è questa la sede per valutare quanto la cultura psichedelica avesse realmente bisogno di questo leader, o quanto questi abbia arrecato danni d’immagine alla cultura psichedelica. Ciò che qui ci interessa è valutare l’influenza dell’“affaire Leary” nel contesto delle terapie psichedeliche e del mondo medico e scientifico. Personaggio al contempo scomodo e comodo per l’establishment, tanto brillante nella comunicazione quanto caratterialmente mitomane, se da una parte il suo ruolo nella cultura psichedelica può essere discutibile, lo è in minor misura il suo contributo alla ricerca scientifica degli psichedelici. È sufficiente osservare come i risultati del suo studio più noto, basato sulla somministrazione di psilocibina a detenuti sociopatici della prigione di Concord, sono stati recentemente rivisti e tacciati come errati se non intenzionalmente contraffatti.112 La comunità scientifica di ieri e di oggi non fa sconti a Leary. Albert Hofmann (2005: 49) considerava Leary come un personaggio che “aveva bisogno di troppa attenzione”, alludendo al suo carattere mitomane, e “un uomo pervaso dalla fede negli effetti miracolosi delle sostanze psichedeliche, da cui risultava un ottimismo che lo portava a vivere tra le nuvole e quindi a sottostimare o ignorare del tutto le difficoltà pratiche, i fatti spiacevoli e i rischi” (Hofmann, 1995: 76); Charles Gorb – lo psichiatra statunitense che, come vedremo, è stato fra i primi ad aprire la nuova fase delle TP con esperienze cliniche sui malati terminali – non ha esitato a definire Leary un “pifferaio magico” (Grob e Bravo, 2005: 8), mentre Claudio Naranjo parla di “disprezzo” per il mondo psichiatrico manifestato da Leary, e aggiunge questa considerazione: Si potrebbe simpatizzare con lui per quanto lentamente i professionisti della salute mentale abbiano realizzato il potenziale terapeutico dell’LSD [...]. Eppure, ho sempre pensato che la

sua ribellione anche troppo eroica e la sua impazienza messianica per liberare il mondo sia paradossalmente risultato in un’interferenza nell’adozione dell’LSD da parte dell’establishment (Naranjo, 2001: 208-9).

Nel voluminoso libro The Hallucinogens del 1967, dove viene presentata la ricerca scientifica sugli psichedelici sino ad allora svolta nella cultura occidentale, Hoffer e Osmond non citano nemmeno una volta il nome di Leary, manifestando evidentemente con questo silenzio la loro bassa considerazione scientifica nei suoi confronti. Betty Eisner (2005: 93, 97), che insieme a Sidney Cohen eseguì importanti e corposi studi clinici con gli psichedelici presso l’Ospedale Neuropsichiatrico del Veterans Administration Center di Los Angeles, è certa della grande responsabilità personale di Leary della messa al bando dalla ricerca scientifica degli psichedelici, e che le cose sarebbero andate diversamente senza il suo delirante messaggio “turn on, tune in, and drop out”. Ella udì personalmente sia Aldous Huxley che Humphry Osmond parlare con Leary dicendogli “Ti prego, questo non è il modo di fare!”. Ma Leary non diede retta a nessuno, ed era loro evidente, come lo è anche per noi oggi, il suo squilibrio psicologico dovuto all’incapacità di integrare la “scoperta”, la “rivelazione” indotta da un impiego personale in un qualche modo inappropriato degli psichedelici. Esprimiamo il sospetto ch’egli sia stato vittima di quella sindrome psichedelica individuata e studiata da David E. Smith (1970), e che preferiamo rielaborare e ridenominare sindrome da rivelazione psichedelica, che porta l’individuo a essere impressionato, shockato per ciò che ha provato con gli psichedelici; questi soggetti tendono a interpretare tutto ciò che gli passa davanti agli occhi o alla mente in termini fortemente ideologici, e si cimentano in un proselitismo forsennato e convulso, sulla base del loro “credo psichedelico”. Lungi dall’essere stato quello che altri individui con problemi psicologici – riuniti nel quadro clinico dei “Complottisti” – hanno detto di lui, Leary fu “semplicemente” uno di questi soggetti afflitti dalla sindrome da rivelazione psichedelica, vittima delle sue incapacità e debolezze psicologiche. Fatto sta che lo sbraitante operato antisociale di un ricercatore accademico ribelle penalizzò terribilmente la ricerca scientifica. La messa al bando degli psichedelici, avvenuta alla fine degli anni ‘60, non portò alla scomparsa di queste sostanze – semmai alla loro ampia diffusione underground – ma colpì principalmente i luoghi accademici, dove per tre decenni di psichedelici nessuno osò più nemmeno parlarne. È come se la ricerca clinica fosse stata

“punita” per colpa della ribellione di uno dei suoi ricercatori. Per Charles Grob (2002: 276), gli psichiatri che facevano ricerca con gli psichedelici “furono sempre più identificati come parte del problema”. È significativo il fatto che Leary, ammalato e poco prima di morire, rivolse le sue scuse a Betty Eisner per il guaio che aveva combinato, cioè per essere stato la causa dell’interruzione delle ricerche scientifiche (Eisner, 2005: 93). In alcune recenti rivisitazioni del declino delle TP negli anni ‘60, lo storico della medicina Matthew Oram ha inteso ridurre il ruolo del conflitto sociale sviluppatosi a quei tempi nei confronti degli psichedelici, attribuendo piuttosto la causa del declino ai Kefauver Harris Amendments redatti nel 1962 dalla FDA, che stabilirono le nuove metodologie della ricerca clinica, basate su più rigorosi sistemi di controllo (placebo, doppio-cieco, ampio numero di pazienti testati), difficili da mettere in atto nella ricerca medica con gli psichedelici (Oram, 2012). In realtà, il volume di ricerche cliniche con gli psichedelici, valutabile in termini di numero di pubblicazioni scientifiche, ha visto un incremento proprio dopo il 1962, con due picchi nel 1964 e 1968, come è possibile osservare dallo studio bibliografico di Torsten Passie (1997, Tabella 1, p. 10). Inoltre, secondo Oram la FDA statunitense non avrebbe mai proibito la ricerca con l’LSD, ma anzi avrebbe continuato a incoraggiarla anche dopo l’illegalizzazione del suo impiego non medico (Oram, 2016). A nostro avviso si tratta di rivisitazioni storiche incomplete, in quanto non tengono conto del fatto che la forte conflittualità sociale influenzò profondamente tutti gli ambienti della ricerca, inclusi quelli della FDA, dei medici e delle accademie universitarie, e che, nonostante la possibilità di continuare a fare ricerca con gli psichedelici non fosse stata totalmente proibita dalla legge, l’alone di critica, biasimo, imbarazzo, o anche solo la mancanza di coraggio nell’assumersi le dovute responsabilità da parte degli individui in grado di approntare queste ricerche, fu ancor più forte degli ostacoli burocratici, al punto da far desistere anche il più caparbio degli studiosi interessati. Gli psichedelici divennero un vero e proprio tabù negli ambienti medici e accademici, e il manifestare interesse verso queste sostanze metteva a rischio la carriera di ricercatore. Questo fu un più concreto fattore che portò al declino delle TP.

Nel 1966 la casa farmaceutica svizzera Sandoz, che fino ad allora aveva fornito le varie cliniche dove venivano sviluppate le ricerche con l’LSD, sospese la sua distribuzione in tutto il mondo. Nel medesimo anno lo stato della California rese illegale il possesso di LSD; seguirono simili azioni in altri stati degli USA, sino a che, nel 1970, l’LSD e gli altri psichedelici furono messi nella Lista 1 delle droghe controllate, dove rientrano quelle droghe caratterizzate da “mancanza di sicurezza anche nell’impiego medico, alto potenziale d’abuso, e nessuna utilità medica attualmente accettata” e che possono essere impiegate unicamente nella ricerca con animali da laboratorio:113 la “punizione” fu così messa in atto. È opportuno precisare che, dopo la messa al bando negli USA, gli studi clinici con psichedelici proseguirono per alcuni anni allo Spring Grove di Baltimora, potendo usufruire di un permesso speciale; ma il gruppo che aveva costituito la formidabile équipe di Baltimora si sfaldò, e rimase solo William Richards con due segretarie, senza più finanziamenti né sede per le ricerche. L’ultima seduta TP fu sviluppata con un malato di cancro nel 1977.114 Anche in Europa vi furono alcune équipe che poterono usufruire di permessi speciali, quali quelle di Bastiaans in Olanda, di Leuner in Germania, di Hausner in Cecoslovacchia e di Krupitsky in Russia. Ma alla fine dovettero anch’essi arrendersi sotto la scure proibizionista. Un’altra importante eccezione al regime di proibizione delle ricerche cliniche fu quella della Swiss Medical Society for Psycholytic Therapy, fondata nel 1985, che dal 1988 al 1993 poté usufruire di un permesso speciale dal Governo svizzero che permise di svolgere un programma terapeutico impiegando LSD e MDMA, nel corso del quale furono trattati 171 pazienti. Peter Gasser – uno dei fondatori della società psicolitica svizzera e promotore del suddetto programma – sviluppò uno studio di follow-up che poté raggiungere 121 pazienti fra i 171 trattati. I trattamenti si erano basati su terapie di gruppo nel corso delle quali venivano somministrati 125 mg di MDMA, e in diversi casi, dopo 3-4 sedute con questo empatogeno, veniva somministrato LSD in dosaggi di 100-400 mcg. Le sedute con queste sostanze si inserivano in un più lungo percorso psicoterapeutico privo di sostanze, per cui si trattò di TP del tipo psicoaggiuntive, come abbiamo definito in precedenza. Il follow-up fu in media di quasi 2 anni. Il 38% dei pazienti era affetto da disordini della personalità, il 25% da disordini affettivi, e l’1,7% da problemi di dipendenza. Il 46,3% dei pazienti riportò un buon miglioramento dei suoi problemi in seguito al trattamento psicoterapeutico, e

un altro 38,8% un lieve miglioramento, seguito dal 5,8% di condizione stazionaria e un 4,2% di lieve peggioramento (Gasser, 1994-95). Accenniamo al fatto che la storia delle terapie psichedeliche è costellata di personaggi che svilupparono un lavoro che, sebbene in più casi quantitativamente e qualitativamente significativo, non abbiamo potuto utilizzare in questa nostra analisi storica e scientifica, sia per il livello “underground” (non riconosciuto se non quando illegale) in cui furono praticate queste terapie, sia per la mancanza di pubblicazioni delle metodologie e dei risultati ottenuti. Citiamo il caso dello psicoterapeuta californiano Leo Zeff (1912-1988), che decise di continuare a usare segretamente gli psichedelici nella sua attività terapeutica anche dopo la loro messa al bando (Stolaroff, 1997). Ancora oggigiorno in Svizzera, così come in Inghilterra e in altre nazioni, esisterebbero decine di gruppi di psicoterapia psicolitica che operano in maniera underground, impiegando nascostamente LSD, MDMA e altre sostanze. Significativo è il caso della psichiatra tedesca Friederike Fischer, che in Svizzera praticò terapie psicolitiche per quasi un decennio, sino al suo arresto e condanna nel 2009 (Sessa, 2015).

CAPITOLO 5

LA SEDUTA CLINICA PSICHEDELICA

In questo capitolo descriviamo le modalità con cui venivano svolte le sedute psichedeliche nei contesti clinici, che nella stragrande maggioranza dei casi avevano sede presso gli istituti psichiatrici, in luoghi ricavati dai reparti ospedalieri o, più raramente, costruiti ad hoc. Durante la fase mescalinica delle TP, nella prima metà del Ventesimo secolo, i pazienti generalmente non venivano informati su ciò che stava per essere loro somministrato, e ciò in un contesto di somministrazione dello psichedelico prettamente sperimentale e “behaviorista”, se non quando in un’ottica meramente chemioterapica. Nella ricerca clinica della fase lisergica del paradigma psicotomimetico si continuò a prestare poca attenzione alla preparazione psicologica del paziente, al massimo informandolo il giorno prima che avrebbe ricevuto un trattamento farmacologico (ad es. Sandison et al., 1954: 506). Quando subentrarono le modalità d’approccio dettate dal paradigma psicoterapeutico, prima della seduta o della serie di sedute psichedeliche il paziente veniva psicologicamente preparato all’esperienza con incontri preliminari, durante i quali si cercava di informarlo sulla qualità dell’esperienza e si davano suggerimenti sulla sua gestione. V’era chi, fra gli psicoterapeuti, spiegava con una certa profondità gli effetti che si sarebbero manifestati, ritenendo ciò utile per la risposta terapeutica, ad esempio riducendo i rischi di attacchi di ansia (Chandler e Hartman, 1960). Grof faceva sempre precedere l’esperienza psichedelica con sedute psicoterapeutiche senza droghe per diverse settimane, che avevano lo scopo di esplorare in profondità la biografia e le problematiche del paziente e, congiuntamente, di stabilire quel rapporto di fiducia fra il terapeuta e il paziente ritenuto fondamentale per l’interazione di questi due soggetti nel

corso della modificazione dello stato di coscienza indotto dallo psichedelico (Grof, 1970).

Modalità della seduta Una volta compresa l’importanza del setting che deve avvolgere la seduta psichedelica, negli ambienti ospedalieri si iniziò a prestare attenzione alla preparazione dell’ambiente fisico, dando un aspetto maggiormente salottiero alla stanza che avrebbe ospitato l’evento, curando l’illuminazione, sostituendo il letto con un divano, collocando dei tappeti e dei quadri, e non mancando di disporre su un tavolino un vaso di fiori freschi. Altro accorgimento importante era il controllo dei rumori, evitando lo squillo di telefoni, lo stridio delle porte, rumori fastidiosi provenienti dagli ambienti vicini, in particolare vocifero o urla di altri pazienti o del personale ospedaliero. Nei casi in cui fosse previsto un dialogo fra il paziente e lo psicoterapeuta durante il plateau psichedelico – un confronto verbale solitamente reso possibile solo con dosaggi bassi della sostanza – il soggetto veniva invitato a mantenere una posizione seduta sul divano o sulla poltrona; altrimenti, era invitato a sdraiarsi sul divano o sul letto e a mantenere il più possibile questa posizione. Era stato osservato che i fenomeni di regressione si potevano verificare più facilmente quando il paziente si trovava in una posizione supina (Ling e Buckman, 1963: 16). Di frequente venivano resi disponibili alcuni oggetti, quali orsacchiotti di peluche, fotografie di famiglia, succhiotti, biberon, con lo scopo di facilitare il riaffiorare di ricordi infantili mediante azioni mimiche o di rinforzare gli elementi abreattivi. A parte nei casi di dosaggi bassi dello psichedelico, in linea generale v’era una tendenza a scoraggiare la verbalizzazione durante il plateau esperienziale, sia per la difficoltà intrinseche di verbalizzazione cui va incontro il soggetto a partire da un certo dosaggio della sostanza, sia perché si riteneva che le parole potessero essere una forma di difesa contro le sensazioni profonde e il riaffiorare di memorie represse. Per questo medesimo motivo si invitava il paziente a non perdersi nel cercare di intellettualizzare verbalmente l’esperienza che stava esperendo. Anche il terapeuta, nel corso del plateau esperienziale, evitava il più possibile di analizzare o di interpretare, e tendeva

a far scoprire al paziente come le sue proprie risorse fossero più che adeguate ai suoi bisogni (Sherwood et al., 1968). La buona qualità del setting esperienziale dipendeva, e continua a dipendere, non solo dall’ambiente fisico ma anche da quello umano. Si evitava il più possibile la brusca entrata nella stanza sede dell’esperienza di personale medico o infermieristico, specie se non faceva parte del team che conduceva l’esperienza e che era noto al paziente. Inoltre, numerosi medici che praticavano le TP si erano accorti dell’importanza della presenza di una figura femminile nel gruppo di lavoro, che potesse assumere un ruolo di figura materna, specie nei momenti cruciali dei processi abreattivi o di consapevolizzazione di determinate dinamiche familiari. Per Ling e Buckman (1963: 22) la figura femminile più adatta era una donna vedova di mezz’età, che non parlasse mai durante la seduta e che fosse una buona ascoltatrice. Eisner e Cohen (1958: 532) ritenevano che il processo terapeutico subisse un’accelerazione in presenza di una coppia maschio-femmina di terapeuti. Butterworth (1962) si era accorto che il miglioramento ottenuto da un paziente – nevrotico, depresso, ecc. – nel corso di una terapia psicolitica, influenzava i suoi familiari o le altre persone che gli stavano vicino, e che questa influenza non sempre era positiva. Ad esempio, nello sposo/a o compagno/a si potevano creare forme inconsce di risentimento o gelosia che potevano sfociare in tentavi inconsci di sabotaggio dei traguardi positivi raggiunti dal paziente. Per contrastare queste dinamiche, controproducenti per l’esito terapeutico, lo psichiatra invitava il familiare a partecipare occasionalmente a una seduta psichedelica congiuntamente con il paziente. Ling e Buckman (1960) trovarono particolarmente gratificante i risultati dei trattamenti di coppie nel corso delle medesime sedute e nella medesima stanza. Anche Fred Langner, che era direttore della Langer Clinic di Albuquerque (New Mexico), introdusse come proficua innovazione il coinvolgimento del coniuge nella seduta terapeutica. Egli iniziava con una seduta psicoanalitica su uno dei due, mentre l’altro ascoltava. Quando il primo era pronto ad assumere LSD, il coniuge veniva lasciato interagire, e quando il primo coniuge aveva ricevuto sufficiente attenzione e aiuto, il secondo assumeva il lisergico e il primo coniuge agiva come un terapeuta sul secondo coniuge (Langner, 1967). Il dott. Ward, del Mercer Hospital di Trenton, riportò un caso di coinvolgimento del secondo coniuge: la moglie assunse LSD in presenza del marito; quindi il marito assunse LSD. La donna ogni tanto piangeva, e il

marito usciva dal suo “viaggio” per confortarla. Ciò accadde numerose volte nel corso della seduta (in Rolo et al., 1967: 319). Di un certo interesse è la modalità della seduta psichedelica che fu impiegata da due psichiatri canadesi del Mental Health Centre di Penetanguishene (Ontario). Essi somministrarono via intramuscolo in sedute multiple una forte dose di LSD (500 mcg) a 30 individui che si trovavano in un ospedale psichiatrico giudiziario di massima sicurezza. Diversi fra questi – che rientravano nei due distinti gruppi diagnostici degli psicopatici e degli schizofrenici – avevano commesso omicidi o gravi atti di violenza sessuale. Inizialmente, per timore di reazioni avverse violente, il soggetto venne mantenuto costretto fisicamente, con il suo consenso. Osservata tuttavia l’assenza di reazioni violente, i medici decisero di abbandonare la pratica della costrizione fisica e, dietro suggerimento di persone che facevano un impiego non-clinico, “di strada”, dell’LSD, modificarono il setting della seduta, ridefinendolo “Modello di Strada Responsabile” (Responsible Street Model), eliminando dalla stanza i letti e introducendovi dei cuscini e dei materassi messi a terra, fiori, incenso e dipinti colorati. Fu introdotto anche un registratore con altoparlanti, mediante il quale veniva fatta ascoltare pressoché continuamente musica pop “acida” (cioè musica psichedelica dei sixties). Curiosamente, i medici si accorsero che gli attacchi di vomito, apparentemente frequenti in queste sedute, venivano interrotti dall’ascolto di uno specifico brano musicale, e cioè All You Need Is Love dei Beatles. I due psichiatri andarono oltre nella modificazione del setting esperienziale, eliminando il modello clinico del dialogo psicoterapeutico, che si basava sui classici temi delle figure del padre, della madre, della morte, o ancora dei sensi di colpa, la violenza, l’insicurezza, ecc., e impostarono un modello nondirettivo impiegando la “Capsula d’Incontro Totale”. Questa Capsula consisteva di una stanza priva di finestre e insonorizzata, illuminata artificialmente e continuamente ventilata, di circa 2,5 x 3 m di dimensione, in cui era presente una toilette, lavabo e dispensatore di liquidi e cibi, e in cui poteva risiedere un piccolo numero di persone per diversi giorni e notti consecutive. L’innovazione più particolare di questo setting era l’ambiente relazionale: era stata eliminata totalmente la relazione fra il soggetto lisergicizzato e i medici e il personale infermieristico. Insieme al paziente che assumeva l’LSD entrava nella Capsula solamente un amico del paziente, scelto da quest’ultimo. Spesso la persona scelta era un altro paziente che aveva già provato l’esperienza lisergica. L’amico veniva istruito nel non

cercare di dirigere o interpretare gli effetti percepiti dal soggetto, ma solo di supportarlo nell’autoanalisi delle sue problematiche. Il periodo di permanenza nella Capsula andava oltre la durata degli effetti dell’LSD ed era solitamente di 2-3 giorni (Barker e Buck, 1977). Per quanto riguarda la fase della discesa degli effetti dello psichedelico, si trovano opinioni e metodiche d’approccio alquanto discordanti. Diversi psichiatri interrompevano bruscamente l’effetto dello psichedelico con mezzi farmacologici verso la fine del plateau, se non addirittura prima, per ragioni di sicurezza o per ridurre l’insofferenza del paziente. Abbiamo già sottolineato come la discesa degli effetti degli psichedelici non sia un down psico-fisico, come si presenta con gli stimolanti o altre droghe psicoattive, bensì sia una fase, spesso lunga, che fa parte intrinseca dell’esperienza; il “ritorno a questo mondo” è un processo graduale ricco di spunti, deduzioni e processi introspettivi. A favore dell’interruzione brusca della discesa era, ad esempio, l’équipe newyorkese di André Rolo, che la eseguiva a 4 ½ – 5 ore dall’assunzione di LSD (Rolo et al., 1964). Sandison riteneva opportuno interrompere l’esperienza dopo 3 o al massimo 8 ore, “spegnendola” con barbiturici o fenotiazine, e adduceva come principale motivazione il pericolo di manifestazioni di flashback,115 che sembra venisse ridotto con questo trattamento farmacologico di supporto (Sandison e Whitelaw, 1957: 338). L’équipe di John Rhead, che lavorava negli ospedali del Maryland (USA), considerava controproducente la lunga discesa dell’LSD: “sebbene alcuni soggetti trovino questo periodo piacevole e/o produttivo dal punto di vista terapeutico, molti altri ne farebbero a meno se ne avessero l’opportunità” (Rhead et al., 1977). Al contrario, Randolf Alnaes, che trattò con psichedelici le nevrosi presso il Lier Mental Hospital (Norvegia), riteneva che l’integrazione delle esperienze continuasse anche dopo il trattamento, e faceva in modo che il paziente fosse totalmente libero da qualunque impegno per tutto il giorno e possibilmente anche il giorno successivo, in modo da lasciarlo “lavorare su se stesso” (Alnaes, 1964: 403). L’équipe canadese di MacLean, che utilizzava forti dosaggi di mescalina e LSD nel trattamento degli alcolisti, non procedeva mai a un’interruzione farmacologica dell’esperienza, ed era dell’opinione che molti processi introspettivi e integrativi dell’esperienza si presentassero nel periodo di discesa degli effetti (MacLean et al., 1967). Anche in Italia v’era chi si era accorto dell’utilità della fase della discesa,

dando una specifica definizione di “analisi post-lisergica”, e facendo notare come: lo studio del paziente durante l’azione della LSD sia particolarmente difficile e spesso poco fruttifero, perché le possibilità descrittive ed espressive dello stesso sono spesso ridotte notevolmente durante l’esperienza lisergica; è soprattutto dopo l’esperienza lisergica, passato il periodo acuto dell’azione dell’LSD, che bisogna far raccontare al paziente ciò che egli ha ‘provato’ con la LSD: a tale tipo di indagine psicofarmacologica ci è sembrato opportuno dare il nome di analisi ‘post-lisergica’ (Giberti e Gregoretti, 1955b: 303).

Spesso al paziente veniva richiesta la stesura di una relazione scritta nel corso della discesa degli effetti, o il giorno dopo la seduta, e di frequente un’altra a una settimana di distanza dall’esperienza. Le sedute venivano svolte nella maggior parte dei casi ogni una o due settimane, e nei casi di terapie prolungate (sono state eseguite fino a oltre 100 sedute lisergiche) si procedeva a delle interruzioni della durata di un mese, con lo scopo di contrastare la tolleranza allo psichedelico. A volte i pazienti si rivolgevano allo psicoanalista mesi o anni dopo il termine della TP per una nuova sessione, e questo tipo di sedute risultava spesso molto costruttivo (Ling e Buckman, 1963: 21-2). Vogliamo sottolineare l’importanza di queste “sedute di follow-up”, che fu compresa solamente da una parte degli psichiatri. Ripetere l’esperienza psichedelica a distanza di tempo, sempre in un controllato e guidato contesto clinico, non serve solo per rinforzare i fattori terapeutici che sono stati risolutivi del problema psicopatologico, ma serve per il processo di integrazione psicologica di quelle che sono state esperienze fondamentali e “fondanti” i nuovi paradigmi comportamentali scaturiti dalla risoluzione del problema patologico; un processo di integrazione che non si arresta al momento in cui lo psichiatra, pur insieme al paziente, considera terminato l’atto curativo, ma che continua, di frequente in andamento ciclico, a “riassestare” i nuovi valori e paradigmi nel contesto della più generale vita psicologica dell’individuo. Ritornare occasionalmente, o anche solamente “un’altra volta”, a distanza di qualche anno, a quell’illud tempore in cui è rinato, meglio dire forse morto-rinato, è spesso percepito come un bisogno dal paziente, che il medico dovrebbe il più possibile cercare di soddisfare.

Modalità d’assunzione e posologie

I dosaggi degli psichedelici variavano notevolmente, principalmente a seconda del tipo di terapia, se psicolitica o psichedelica, dato che quest’ultima richiedeva una dose molto forte, mentre con la prima i dosaggi potevano variare da bassi a robusti o forti. Gary Fischer (1963) aveva indicato i seguenti dosaggi bassi e “standard”, dove con quest’ultimo termine intendeva il dosaggio per una prima esperienza psichedelica completa: LSD, 25-75 mcg (basso), 300-500 mcg (standard); psilocibina, 2-8 mg (basso), 20-40 mg (standard); mescalina, 100200 mg (basso), 500-800 mg (standard).116 La maggior parte dei dosaggi lisergici rientrava nella fascia dei 100-300 mcg di LSD, somministrati ogni 1-2- settimane, per 3-100 volte. Ma erano frequenti le eccezioni. Baker (1967), nel trattamento dei disturbi di conversione, giunse a somministrare per endovena 1600 mcg di LSD, e anche l’équipe danese di Geert-Jörgensen (et al., 1964) giunse a somministrare dosaggi di 1600 mcg di LSD, mentre McLean faceva assumere oralmente agli alcolisti sino a 1400 mg di mescalina (McLean et al., 1967: 410). Circa la velocità d’introduzione nel corpo dello psichedelico e del sopraggiungere dei suoi effetti, l’équipe norvegese di Alnaes utilizzava la tecnica della somministrazione via intramuscolo, poiché riteneva utile il sopraggiungere veloce degli effetti (nel giro di 1-2 minuti), affinché il paziente venisse “preso di sorpresa”, e rompere quindi più facilmente le resistenze psicologiche (Alnaes, 1964: 399). Anche Blewett e Chwelos (1959: 12-3) consideravano controproducente la somministrazione graduale dello psichedelico, che molti psicoterapeuti adottavano per prevenire gli attacchi di ansia, poiché ciò portava allo sviluppo di metodi di controllo degli effetti della droga da parte del paziente. Al contrario, Cohen e Eisner preferivano un’assunzione graduale dello psichedelico, con lo scopo di fare abbandonare progressivamente il controllo e per dare tempo al paziente di fidarsi sia del terapeuta che della droga, che del processo di dissolvimento dell’Io (Eisner, 1997). V’era chi suddivideva la dose impiegando somministrazioni multiple. Frederking (1955), che lavorava ad Amburgo (Germania), e che trattò circa 200 pazienti con mescalina o LSD, riportò che nel caso i dosaggi di mescalina superassero i 300 mg, era raccomandabile dividere la dose in due iniezioni somministrate a un’ora di distanza l’una dall’altra. Butterworth (1962: 736), del Central Lousiana State Hospital, somministrava i dosaggi di

LSD, che potevano raggiungere i 250 mcg, con iniezioni multiple di 50 mcg ciascuna distanziate fra di loro di 30-60 minuti. Riguardo la tecnica del rinforzo (booster), cioè la somministrazione di un’ulteriore dose a un certo punto del plateau psichedelico, Fischer era dell’idea di evitarla, poiché si correva il rischio di stigmatizzare in maniera inappropriata nel soggetto l’importanza maggiore della droga che non dell’esperienza da questa generata, e di evidenziare la perdita di fiducia da parte del terapeuta nelle abilità personali del soggetto ad affrontare e risolvere i propri conflitti e problemi. L’unico caso in cui poteva valere la pena la pratica del rinforzo era quando “il soggetto si impigliava completamente in un’area in cui si trovava in un legame circolare dove era incapace di prospettiva e di concepire qualunque soluzione alternativa al suo conflitto. Questo solitamente coinvolgeva qualche processo decisionale in cui l’individuo vedeva che tutte le vecchie attitudini e schemi di comportamento lo lasciavano con soluzioni insoddisfacenti. In questi casi l’individuo semplicemente rimbalzava da un vecchio schema di reazione a un altro, senza beneficio. La soluzione si trovava allora al di fuori del limite delle possibilità considerate dalla persona”. Nel caso di somministrazione di un rinforzo, Fischer (1963: 212) consigliava di effettuarlo entro le tre ore dall’assunzione del lisergico (quindi in pieno plateau) e con un dosaggio pari ad almeno la prima dose somministrata.

Combinazioni con altre droghe Gli psichiatri hanno provato le più disparate combinazioni dei farmaci che avevano a disposizione, e in questo “crogiolo neuroalchemico” sono rientrati ampiamente gli psichedelici, che venivano combinati fra di loro e con altre sostanze psicoattive, con un’eterogeneità combinatoria tale da rendere difficoltosa un’elencazione esaustiva. A semplice titolo d’esempio di questa eterogeneità, Betty Eisner (1964) in California, nel contesto di TP di gruppo, usava LSD+mescalina, LSD+amfetamina, LSD+Ritalin e mescalina+amfetamina. Van Rhijn (1967), nella sua clinica olandese, nei casi di forte rigidità del paziente aggiungeva all’esperienza lisergica 1 mg di atropina, oppure 4 mg di Artane (triesifenidile) o 100 mg di Orphenadrine, essendo questi ultimi tre dei farmaci anticolinergici. Nel trattamento delle nevrosi lo psichiatra norvegese Randolf Alnaes somministrò la psilocibina in

combinazione con l’LSD o con il CZ-74, e anche la combinazione LSD + CZ-74 (Alnaes, 1964: 399). Una felice combinazione fu quella dell’aggiunta di sostanze stimolanti, in particolare le amfetamine: in una prima fase la metamfetamina (metedrina), in seguito il metilfenidato (Ritalin). La pratica di rinforzare o sinergicizzare gli effetti dello psichedelico con un’amfetamina originò da un esperimento eseguito durante gli anni ‘50 da due psichiatri italiani – di cui uno è Giuseppe Tonini, che abbiamo già incontrato nei capitoli precedenti – presso l’Ospedale psichiatrico “L. Lolli” di Imola; esperimento che godette di una certa notorietà anche all’estero, poiché i risultati furono pubblicati in lingua inglese. A un pittore trentenne, mentalmente sano, furono somministrati a distanza di due settimane l’una dall’altra: mescalina solfato (500 mg), LSD (60 mcg), LAE-32 (LSA), metedrina (30 mg), combinazioni di LSD (80 mcg) + metedrina (30 mg) e di mescalina (600 mg.) + metedrina (30 mg). Lo scopo di questa sperimentazione era osservare la produzione artistica sotto effetto di queste sostanze, e rilevarne il contenuto “schizofrenico”, seguendo il paradigma psicotomimetico allora in voga. Tale paradigma fu ampiamente “dimostrato” dai risultati di questo esperimento, considerato innovativo per quei tempi, e che promosse questo tipo di considerazioni: “i dipinti [eseguiti sotto effetto degli psichedelici] non contengono nuovi elementi nel senso creativo, bensì riflettono manifestazioni psicopatologiche del tipo osservato nella schizofrenia”. Si potrebbero obiettare diverse carenze metodologiche di questa ricerca, non ultima delle quali il fatto che il pittore soggetto a questi esperimenti non era un artista qualunque, ma era a capo del dipartimento di terapia occupazionale del medesimo ospedale psichiatrico imolese, quindi fortemente influenzato dall’ambiente clinico e dalle credenze allora in voga in materia di teorie psichiatriche. O ancora, l’osservazione che l’abilità pratica di dipingere nel contesto del plateau psichedelico viene generalmente ridotta, e che sperimentare sulla produzione artistica psichedelica comporterebbe lo studio comparato della produzione artistica prima e dopo, e non durante, il plateau psichedelico. Ma ciò che ci interessa qui evidenziare è la scoperta fatta nel contesto di questo esperimento, che le amfetamine somministrate un paio d’ore dopo l’assunzione di LSD o di mescalina potenziano e allungano l’intera gamma di effetti “psicotici” (alias psichedelici) di queste sostanze (Tonini e Montanari, 1955). In pratica, il meccanismo scoperto dai due psichiatri italiani si basa sulla constatazione che, se si somministra una basso dosaggio di un’amfetamina a

un certo punto del plateau psichedelico, verso la sua parte finale, il medesimo plateau si allunga di un’ulteriore ora mantenendo la qualità psichedelica degli effetti. Ma è opportuno che i dosaggi di amfetamina siano bassi, affinché ne risulti un prolungamento dei soli effetti psichedelici, e non il sopraggiungere degli effetti stimolanti psico-fisici tipici delle amfetamine. Questo meccanismo venne adottato da molti psicoterapeuti e psicoanalisti di tutto il mondo che operavano con gli psichedelici. Ne usufruirono, ad esempio, nei casi in cui, nel corso della seduta si stesse raggiungendo un punto importante, culminante del processo analitico proprio mentre il plateau psichedelico stava per scendere; un booster (“rinforzo”) di una bassa dose di amfetamina garantiva un’ora in più di proficuo lavoro psicoanalitico. Le amfetamine venivano introdotte nelle TP anche per altri motivi e in differenti modalità d’assunzione. Un motivo diffuso era quello di facilitare la verbalizzazione del paziente nella comunicazione con il terapeuta; verbalizzazione che nelle robuste dosi di psichedelico tende a ridursi, se non addirittura a “dissolversi”. In questo caso l’amfetamina, con un dosaggio un poco più sostenuto che nell’impiego come booster ma mai eccessivo, veniva somministrata poco dopo lo psichedelico, in modo che l’effetto psicostimolante amfetaminico “sostenesse” a livello energetico tutto il corso del plateau psichedelico. Bassi dosaggi di amfetamina venivano aggiunti anche per neutralizzare l’ansia non-specifica, e Sklarobsky (1960, rip. in Spencer, 1964: 241) faceva assumere per 3-7 giorni prima della seduta lisergica 40-165 mg di prednisone con il medesimo scopo di ridurre lo stato ansioso. Un altro metodo, sempre per controllare l’ansia, era quello di somministrare un barbiturico a breve dorata, quale il pentobarbitone (a dosaggi di 100-200 mg) circa un’ora prima dell’LSD. In alcuni casi venivano somministrati 2 mg di UK 738, un simpaticolitico (anticolinergico derivato dall’atropina) che, oltre a ridurre l’ansia, preveniva il vomito, un evento che si presentava con una certa frequenza, specie fra i pazienti con un temperamento ossessivo-compulsivo (Spencer, 1964). Sempre per prevenire l’ansia si somministravano basse dosi di atropina o scopolamina (Ling e Buckman, 1963: 24). Inizialmente, negli anni ‘50, lo psichedelico veniva accoppiato alla metedrina, ma presto ci si accorse che tale accoppiamento produceva con una certa frequenza in pazienti predisposti delle reazioni psicotiche e degli inconvenienti (deliri) di natura sessuale, che potevano persistere a lungo. La metedrina fu in seguito sostituita con il Ritalin, il cui accoppiamento con

l’LSD riduce il rischio di eventi psicotici, oltre a indurre in minor misura effetti fisici quali l’aumento della pressione arteriosa, della respirazione e del battito cardiaco. Il Ritalin veniva somministrato in endovena dopo 1015 o 30 minuti dall’iniezione di LSD, e venivano effettuati dei rinforzi di solo Ritalin a due ore di distanza e, occasionalmente e spesso su richiesta del paziente, a tre ore di distanza. La seduta si concludeva con la somministrazione orale di 50 mg di Largactyl, con lo scopo di sedare e “spegnere” gli effetti lisergici residui (Ling e Buckman, 1963: 24). Le amfetamine venivano aggiunte anche come coadiuvanti diretti insieme allo psichedelico, per incrementare il potenziale di insorgenza di fenomeni abreattivi. Il Ritalin veniva somministrato mezz’ora dopo l’LSD, e di frequente promuoveva l’emergere di materiale inconscio nel giro di alcuni secondi o di pochi minuti. In maniera non infrequente poteva aumentare la paura nel paziente, ma allo stesso tempo il medesimo effetto amfetaminico rendeva la paura più sopportabile. (Spencer, 1964). In Germania Leuner saggiò l’aggiunta di Ritalin e amfetamina in 420 sedute, riscontrando tuttavia un certo grado di risposta additiva, con comportamenti di attesa da parte del paziente dell’iniezione di questi stimolanti: “Le donne nella fase edipica tendono a vedere l’iniezione come una sorta di stupro, a volte copertamente desiderandolo. Gli uomini provano una sconfitta o castrazione, una minaccia, o eradicazione della loro esistenza. Ma, con la fase omoerotica del trattamento, possono anche percepire l’iniezione come un attacco carnale sessuale, specie quando il Ritalin produce euforia. Può quindi spiegarsi facilmente la fissazione additiva dei pazienti” (Leuner, 1967: 108-9). Il Ritalin si mostrò vantaggioso nel caso di impiego di psichedelici con durata inferiore a quella dell’LSD, quali la psilocibina e il CZ-74, con lo scopo di attivare un secondo picco d’intensità dell’esperienza, e in caso di protratta resistenza non rispondente ai mezzi psicoterapeutici. Diversi medici osservarono un’utilità terapeutica degli effetti della rottura improvvisa di tutti i controlli dovuti al Ritalin. Si presentavano anche alcuni casi dove il Ritalin, invece di attivare materiale soggiacente, induceva una nuova resistenza in forma di un umore euforico, soddisfacente e confortevole, che di fatto sprecava l’occasione del booster, per lo meno dal punto di vista del lavoro psicoterapeutico (fig. 18) (Leuner, 1967). Gli psichiatri californiani Chandler e Hartman (1960) aggiungevano uno stimolante (5mg pipradrol Meratram, 10 mg Ritalin, oppure 10 mg

amfetamine), nel caso in cui la liberazione imponente di materiale inconscio sotto effetto dello psichedelico evocasse una reazione dell’ego troppo passiva o disorganizzata. Ciò diminuiva leggermente gli effetti del lisergico, ma stimolava l’attività cerebrale integrativa nel maneggiare il materiale dall’inconscio.

Fig. 18 – Esempio di somministrazione di Ritalin dopo assunzione di psilocibina per prolungare il suo effetto (rielaborato da Leuner, 1967, fig. 2, p. 109).

Le formulazioni combinatorie di droghe psicoattive nelle sedute psichedeliche potevano raggiungere notevoli gradi di complessità e di raffinatezza. Langner, direttore della Langner Clinic di Albuquerque, New Mexico, condusse oltre 2000 sedute con LSD, e le ottimizzò combinando contemporaneamente alla dose di LSD (50-330 mcg), 1 e ½-3 grani di nembutal e 10-20 mg di metedrina. Il motivo della sedazione era quello di diminuire qualunque ansia che potesse creare resistenza, mentre la metedrina

manteneva la vigilanza (Langner, 1967). In pratica, si trattava di una tecnica di combinazione “narco-LSD”. Gary Fischer suggeriva di dare al soggetto come prima droga 10-20 mg di librium; quindi, 1015 minuti dopo 5 mg di metedrina, e 20 minuti dopo 6-16 mg di psilocibina. Tutto ciò per preparare e ottimizzare la somministrazione della sostanza principale, cioè 300-500 mcg di LSD. Il librium veniva dato principalmente per rilassare la muscolatura, di modo che “qualsiasi effetto somatico che emerge dagli psichedelici verrà esperito in un soma confortevole, e ciò porterà all’accettazione di questi effetti, piuttosto che a una resistenza nei loro confronti”. La piccola dose di metedrina serviva a stimolare e attivare l’individuo, per aumentare la sua attenzione e “fascinazione” nei confronti degli effetti psichedelici che stava per percepire. La somministrazione di psilocibina prima dell’LSD permetteva una salita degli effetti psichedelici più graduale e più manipolabile di quella dell’LSD, e una volta raggiunto il plateau psilocibinico gli effetti imponenti della forte dose di lisergico sopraggiungevano in una condizione psicofisica considerata ottimale e con una riduzione al minimo di rischio di attacchi di panico e di ansia (Fischer, 1963). V’erano équipe che impiegavano la miscela gassosa di Meduna117 come coadiuvante psicofarmacologico, considerata maneggevole e di breve durata. Ad esempio, l’équipe californiana di Sherwood, che impiegava la somministrazione simultanea di LSD e mescalina (100-200 mcg di LSD e un’ora e mezza dopo 200-400 mg di mescalina), nel corso dell’iter preparatorio facevano inalare ai pazienti la miscela di Meduna, per una serie multipla di motivi: per dare al soggetto un’opportunità di “praticare la resa” necessaria nella futura seduta lisergica, e con l’opportunità da parte dello psicoanalista di valutare le sue resistenze; fornire un certo grado di ventilazione e di abreazione validi di per sé nel contesto della terapia; aiutare a stabilire una comunicazione non-verbale fra il soggetto e il terapeuta; permetteva inoltre a quest’ultimo di osservare la reazione del soggetto al trattamento, di valutarne la struttura difensiva, e ciò risultava utile nell’individuazione del dosaggio di psichedelico più opportuno; infine, era utile nell’individuazione di soggetti pre-psicotici, per i quali era importante prendere speciali precauzioni. Le sedute iniziavano verso le ore 9 di mattina, e il dosaggio tipico era di 100-200 mcg di LSD, con l’aggiunta di 200-400 mg di mescalina un’ora e mezza dopo, il tutto in assunzione orale. Verso le h. 14-15 veniva somministrata oralmente metedrina (10 mg), che intensificava l’effetto dell’LSD e aumentava l’abilità del soggetto di integrare l’esperienza

nelle restanti ore della seduta. Prima di recarsi a dormire, al soggetto veniva somministrato sodio amobarbital (3-6 grani) o sodio secobarbital (Tuinal), a seconda del dosaggio lisergico, per “spegnere” la reazione e permettere di dormire (Sherwood et al., 1968). L’équipe di Savage, dello Spring Grove State Hospital di Baltimora, usava fare inalare la miscela di Meduna come strumento pronostico per valutare l’opportunità della TP; il paziente che rimaneva disturbato da questa momentanea sospensione del controllo dell’ego veniva generalmente escluso dalla TP (Savage et al., 1967). Non tutte le sperimentazioni di integrazione della miscela di Meduna nelle TP diedero risultati soddisfacenti. L’équipe di MacLean, dell’Hollywood Hospital di Vancouver (Canada), provò a somministrare la miscela carbogena ai pazienti nel corso delle sedute preliminari prima del trattamento con psichedelici, con lo scopo di fare avere una vaga idea dell’esperienza psichedelica; ma ciò induceva ansia e risultati controproducenti. In seguito fu usata la tecnica di tenere per un’ora il soggetto, il giorno prima dell’esperienza psichedelica, in una stanza dove veniva messa in moto una luce stroboscopica da discoteca (MacLean et al., 1967). Gli psichedelici furono combinati anche con basse dosi di insulina, con lo scopo di potenziarne gli effetti. Gli psichiatri conoscevano bene l’insulina, che avevano provato a combinarla con vari altri farmaci, sino a elaborare la pericolosa tecnica dello shock insulinico che abbiamo presentato in precedenza. Nel 1961, Spencer somministrò la bassa quantità di 25 mcg di LSD a un paziente che era stato a digiuno per 4 giorni consecutivi, e che ebbe una reazione molto profonda, mentre una successiva dose di 50 mcg somministrata la settimana successiva fu molto meno efficace. Da ciò si comprese che il paziente era diventato ipoglicemico durante i quattro giorni di digiuno precedenti la prima somministrazione, e venne quindi l’idea di somministrare insulina in quei pazienti che evidenziavano resistenza nei confronti dell’LSD e del Ritalin. L’insulina veniva data un’ora prima dell’LSD e con dosi in aumento, da 10 a 140 unità, mentre mezz’ora dopo la somministrazione dell’LSD veniva dato il Ritalin, e la combinazione di queste tre sostanze spesso induceva un profondo “salto nell’inconscio” (breakthrough). Sembra che questa tecnica risultasse particolarmente valida nelle nevrosi ossessive. Al termine della seduta terapeutica, al paziente veniva somministrata una droga atarassica e una bevanda glucosio-proteica, per aumentare il livello di zucchero nel sangue e ridurre gli effetti collaterali

e postumi dell’LSD (Spencer, 1964). Veniva prescritta anche qualche sedazione per i due giorni successivi (Butterworth, 1962: 737).

Il ruolo della musica Che la musica abbia un effetto sul comportamento umano è un dato tanto ovvio quanto noto da molto tempo. La musica coinvolge tutti i processi umani simultaneamente più di qualunque altra esperienza umana, a eccezione forse di certi stati modificati di coscienza. È un dato acquisito che l’ascolto della musica non è solamente associata al piacere, al rilassamento e al tempo libero, ma è uno stimolo sensoriale che può promuovere la crescita personale (Taylor e Paperte, 1958: 251). Fra le varie teorie che cercano di spiegare l’effetto della musica sul comportamento umano, la “teoria della provocazione profonda” afferma come “la musica, per via della sua natura astratta, devia l’ego e i controlli intellettivi e, contattando direttamente i centri inferiori, sveglia i conflitti e le emozioni latenti che possono quindi essere espressi e attivati attraverso la musica”. Un’altra teoria, maggiormente centrata sulla funzione terapeutica della musica, anch’essa basata sulla sua induzione emotiva e chiamata “teoria della facilitazione della libera associazione”, afferma che “la musica, agendo mediante i controlli dell’ego, produce un rapido sviluppo del mondo fantastico, aumentando in tal modo la velocità a cui la terapia può procedere” (Taylor e Paperte, 1958: 252). La musicoterapia moderna affonda le sue radici nella metà del XVIII secolo, con il testo del medico e musicista londinese Richard Brocklesby, Reflections on the power of music (1749), e quando nel Ventesimo secolo sopraggiunsero le TP, le tecniche di musicoterapia erano note e diffuse anche in quegli ambienti psichiatrici dove venivano praticate le TP. Che la musica fosse un elemento importante, risultata in seguito addirittura fondamentale, di accompagnamento dell’esperienza psichedelica, se ne accorsero prontamente i promotori delle terapie psicolitica e psichedelica lisergica, e furono eseguiti alcuni studi specifici per valutare il grado e i meccanismi dell’influenza dell’ascolto musicale sui processi psicoterapeutici. Prima di esporre questi studi, è opportuno sottolineare come fra i pionieri

dell’impiego della musica nei trattamenti psichedelici vi siano stati alcuni psicoterapeuti argentini, che a Buenos Aires trattarono nevrotici e psicotici a partire dal 1956. Essi introdussero la musica nelle sedute psichedeliche giustificandola come segue: La musica è stata utilizzata prima di tutto in esperienze personali che ci confermarono il suo valore come sostituto della voce, dell’oggetto e dello stesso soggetto. Per questo l’abbiamo utilizzata nei pazienti, con la speranza che facilitasse lo sblocco affettivo e canalizzasse le emozioni, per via della profonda identità che esiste fra movimento, suono, sensazione, soggetto e oggetto (interno ed esterno). Pertanto, la musica è un oggetto intermediario e un ponte nella relazione con l’analista, ponte che il paziente può utilizzare per connettersi con il mondo esterno o con il suo proprio mondo interno. L’azione congiunta della musica e dell’LSD favorisce l’apparizione di fenomeni di sinestesia, che sono, secondo il nostro modo di vedere, il sostrato che permetterà l’integrazione. D’altra parte, la musica agisce ‘scoprendo’ i fenomeni di dissociazione corpo-mente, facilitando così la loro esperienza e, pertanto, la possibilità di essere integrati dall’interpretazione. La forma in cui si vive la musica sotto l’azione dell’LSD è un indice del livello di connessione e della grandezza delle ansie paranoidi e depressive (Álvarez de Toledo et al., 1957: 8-9).

Queste argomentazioni evidenziano un articolato costrutto teorico sul rapporto fra musica, psicoanalisi e psichedelici, che fu elaborato indipendentemente dagli studi statunitensi che presentiamo di seguito, e la cui importanza, o forse addirittura meritata priorità, non ci sembra sia stata riconosciuta dagli studiosi che si sono occupati di questo argomento. Eisner e Cohen (1958), che lavoravano presso l’Ospedale Neuropsichiatrico del Veterans Administration Center di Los Angeles, furono i primi psichiatri nordamericani ad accorgersi che la musica potenziava l’effetto dell’LSD, e la impiegarono nei contesti di assenza di scambio verbale. All’inizio dell’esperienza veniva proposta una musica scelta dai pazienti o una musica di natura semi-classica, mentre durante la parte più intensa del plateau venivano fatti ascoltare concerti per piano. Sempre Eisner (1967: 552) riteneva indispensabile la musica per evitare l’intellettualizzazione dell’esperienza e per manipolare a fini psicoterapeutici l’umore del paziente. Nel corso delle terapie psichedeliche sviluppate al Maryland Psychiatric Research Center sui malati terminali, Bonny e Pahnke (1972) individuarono cinque fattori che rendono la musica complementare agli obbiettivi terapeutici:

1 – aiuta il paziente a rinunciare ai controlli usuali e a entrare più pienamente nel mondo interno dell’esperienza; 2 – facilita il rilascio dell’emotività intensa; 3 – contribuisce all’indirizzamento verso l’esperienza di picco; 4 – fornisce continuità in un’esperienza senza tempo;5 – dirige e struttura l’esperienza. Fu osservato che quando il senso del tempo è fortemente alterato (solitamente espanso), la musica può fornire un punto stabilizzante di riferimento, e che per questo deve essere il più possibile continua, senza interruzioni, ascoltata con strumentazione di qualità; inoltre, risultava che quella più idonea terapeuticamente solitamente non era quella familiare o desiderata dal paziente. Bonny e Pahnke elaborarono una playlist con i tipi di musica più adatti per ciascuna delle sei fasi in cui è suddivisibile l’esperienza psichedelica lisergica (adatta anche alle esperienze psilocibiniche): Fase 1 (Pre-inizio, 0-1h 30’) – Musica popolare o a scelta del paziente. Fase 2 (Inizio, 30’-1h 30’) – Musica con linee melodiche e ritmo regolare. Fase 3 (Verso il picco, 1h 30’-3h 30’) – Musica con ritmi insistenti, frasi fluenti lunghe, crescendo dinamici, non-vocale o vocale non familiare. Fase 4 (Picco, 3h-4h 30’) – (se c’è rigidità) fortemente strutturata con ritmi insistenti, ampia gamma di frequenze; (se non c’è rigidità) musica di picco (es. Messa S. Cecilia/ Gounod; Trasfigurazione/R. Strauss). Fase 5 (Rientro, 4h 30’-7h) – Musica quieta, pacifica, familiare. Fase 6 (Ritorno, 7-12 h) – Musica a scelta del paziente (Bonny e Pahnke, 1972). L’équipe canadese di MacLean osservava che, non solo la musica aveva qualche potenziale di indurre l’abreazione presso i pazienti “psichedelicizzati” – fra cui diversi alcolisti cronici –, ma che questi sembravano usarla come “post di suoni” durante il loro viaggio, come un viaggiatore usa post di segnalazioni (MacLean et al., 1967: 419). Altri pazienti parlano della musica ascoltata durante il plateau psichedelico come di un “coautore” delle loro esperienze (Belser et al., 2017: 21). Gaston e Eagle (1970), che operavano presso il New Jersey Neuropsychiatric Institute, svilupparono negli anni ‘60 uno studio sugli

effetti della musica su 59 pazienti alcolisti che venivano trattati con LSD (terapia psichedelica, 500 mcg). Dopo aver individuato le preferenze musicali di ciascun paziente, furono approntate cinque differenti condizioni di trattamento: nessuna musica, musica a random senza cuffie, musica familiare al paziente senza cuffia, musica familiare con cuffie, musica non familiare o spiacevole senza cuffie. A ogni paziente fu data l’indicazione “lascia che la musica ti porti dove hai bisogno di andare”. Fu studiata la valutazione del paziente su possibili differenze nel piacere dell’ascolto fra le cinque condizioni di trattamento, e il potenziale di cambiamento di preferenza musicale da parte del paziente in seguito alla variazione di tipologia musicale per ciascuna condizione di trattamento: non fu osservata alcuna differenza significativa, a parte nel caso di musica familiare con cuffie, dove fu riscontrato un maggior potenziale di cambiamento da parte del paziente delle sue preferenze musicali e un generale potenziamento degli effetti lisergici. Ma fu anche osservato un piacere nell’ascolto della musica non familiare o in precedenza considerata spiacevole dal paziente. Un dato interessante riguarda la constatazione di una frequente correlazione fra l’ascolto di tonalità acute e la produzione di una maggiore brillantezza dei colori delle visioni, contemporaneamente a una riduzione della dimensione dei disegni geometrici.118 Come dato importante ai fini terapeutici, oltre alla dimensione dei disegni geometrici, veniva evidenziata una correlazione della tipologia di musica con la rivisitazione dei passati eventi personali del paziente: certi tipi di musica sembravano suscitare spunti cognitivi più di altre tipologie musicali, e i toni acuti erano in relazione con una percezione maggiormente “realistica” dei passati eventi personali. Altro importante risultato fu la constatazione che tutti i tipi di musica ascoltati dal paziente sotto effetto di LSD non subivano alcun effetto di distorsione nella loro struttura, a differenza invece dei rumori e delle voci; più specificatamente, la musica veniva sempre identificata come musica (Gaston e Eagle, 1970).119 In uno studio successivo, basato sui risultati di quello precedente, Charles Eagle (1972) somministrò dosaggi inferiori di LSD (100-300 mcg) a 16 alcolisti, facendo loro ascoltare musica per 30 minuti ogni ora durante tutto il corso del plateau lisergico. La musica a cui maggiormente rispondeva il paziente – in termini di emozioni e di potenziamento degli effetti psichedelici – risultò essere quella a cui era maggiormente familiare, di natura religiosa o romantica (tutti i pazienti erano cattolici), e si evidenziava la sua funzione di

“guida” dell’esperienza. Se la maggior parte degli studiosi era concorde nel riconoscere un ruolo importante o addirittura fondamentale – cioè indispensabile – della musica nel contesto delle TP, si presentò anche qualche isolata opinione contraria. Stanislav Grof vi vedeva una qualche atto di “imposizione” forse non così necessaria, e suggeriva tutt’al più l’impiego di “rumore bianco”: La maggiore obiezione all’impiego di una prescelta playlist musicale nelle TP riguarda il fatto che esercitiamo un forte effetto strutturante sull’esperienza. Ciò sembra essere in netto contrasto con la tendenza di interiorizzare le sedute ed eliminare specifici stimoli ottici usando le bende paraocchi. La soluzione ideale sembra essere quella di suonare del “rumore bianco” – una sequenza casuale di schemi acustici prodotti da un generatore di suoni. Ascoltando intenso rumore bianco mediante le cuffie, i soggetti solitamente creano la loro propria musica interiore che sembra adattarsi perfettamente alla natura e al contenuto dell’esperienza, poiché proviene dalla medesima fonte (Grof, 1994: 142).

Si potrebbe aggiungere la considerazione aneddotica, da noi raccolta, che in assenza di musica esterna, accade con una certa frequenza che il soggetto psichedelizzato percepisca una “musica interna”, alla quale “aggancia” o “dondola” i pensieri e le visioni. Questo dato rimanda direttamente agli icaro, i canti che gli sciamani amazzonici che usano l’ayahuasca eseguono nel corso delle loro sedute terapeutiche, e che hanno “ricevuto dall’ayahuasca” durante il loro apprendistato (si veda ad es. Luna, 1993). Ciò porta a sospettare una possibile limitazione della musica esterna impiegata nelle TP occidentali, che potrebbe non permettere l’instaurarsi e la captazione della “musica interna”, e il dubbio che quest’ultima potrebbe essere la musica ottimale ai fini terapeutici. Gli effetti della musica (esterna) nel corso dell’esperienza psichedelica sono stati recentemente studiati con i moderni strumenti d’indagine psicometrica e neurofisiologica. Un primo studio sul rapporto fra l’esperienza lisergica e la musica è stato sviluppato dal gruppo dell’Imperial College di Londra, approfittando di una ricerca pilota volta alla determinazione dei dosaggi di LSD più adatti per un successivo studio di neuroimaging (Kaelen et al., 2015). A dieci volontari sani sono stati somministrati dosaggi di LSD variabili da 40 a 80 mcg per due volte, a distanza di 5-7 giorni l’una dall’altra, e nel corso del plateau è stata fatta loro ascoltare una playlist di cinque differenti brani strumentali. Al termine di ciascun brano veniva chiesto al soggetto il suo parere su quanta emozione gli avesse dato l’ascolto di quel brano e, sulla base di queste risposte soggettive e utilizzando scale psicometriche, i ricercatori sono giunti

alla conclusione che la risposta emotiva alla musica viene rafforzata dall’LSD; vengono potenziate in particolare le emozioni “meraviglia”, “trascendenza”, “sensazione di potere” e “tenerezza”. Si tratta tuttavia di uno studio limitato, dato che si è basato sulla mera opinione dei soggetti e non su scale più obiettive di misurazione dell’emozione, come riconosciuto dai medesimi autori di questa ricerca. Più interessante è il successivo studio svolto dalla medesima équipe dell’Imperial College, che ha visto coinvolti 20 individui sani che avevano un buon background di esperienza personale con gli psichedelici, ai quali è stato somministrato LSD (75 mcg) in un esperimento controllato con placebo; essi sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI), con una scannerizzazione della durata di 21 minuti, in cui il soggetto era ad occhi chiusi e in mezzo ai quali per un periodo di 7 minuti ascoltava passivamente della musica. L’analisi ha evidenziato un aumento della connettività funzionale ed effettiva fra il paraippocampo bilaterale e la corteccia visiva. Il paraippocampo bilaterale è un importante hub associato all’emozione evocata dalla musica, all’azione degli psichedelici e all’imagerie mentale (Kaelen et al., 2016). Una più approfondita elaborazione dei dati fMRI di questo medesimo studio ha valutato gli effetti dell’LSD sull’attività cerebrale e sulle emozioni evocate dalla musica. Sono state analizzate diverse componenti della musica: la limpidezza, la pienezza e la complessità del timbro sonoro. Le modifiche della connettività funzionale sotto LSD sono state misurate mediante le interazioni psico-fisiologiche (PPI, Psycho-Physiological Interactions), metodi di misurazione funzionale della connettività tra diverse regioni cerebrali in neuroimaging. Dai risultati si è evidenziato come nel contesto di un’esperienza con LSD la musica induca profonde modificazioni a livello corticale e sub-corticale. Le modificazioni più evidenti dell’attività cerebrale e della connettività sono risultate associate alla complessità del timbro musicale, ossia alla complessità della distribuzione spettrale della musica, e questo si verifica nei network cerebrali predisposti alla percezione della musica e all’emozione evocata dalla musica, mostrando come queste modificazioni si associno all’insorgenza di sentimenti di meraviglia sotto LSD (Kaelen et al., 2017). Inoltre, gli effetti indotti dall’LSD e dalla musica sui partecipanti di un altro studio (Lebedev et al., 2016) si sono mostrati predittivi dei cambiamenti a lungo termine di alcuni aspetti della personalità, come risultava

dall’osservazione del tratto “apertura” (openness) e dagli effetti sull’entropia cerebrale.120 Successivamente, mediante un’intervista semi-strutturata, l’equipe dell’Imperial College ha valutato l’influenza della musica sui risultati ottenuti con la terapia psilocibinica in 19 pazienti depressi. Dall’analisi è risultato che la musica aveva un’influenza sia positiva che negativa sulle esperienze soggettive dei pazienti. Tra le influenze positive, si annoveravano l’evocazione di emozioni e imagerie mentale significative e utili ai fini della terapia, un senso di accompagnamento, di apertura, la promozione di uno stato di calma e di un senso di sicurezza. Al contrario, le influenze negative comprendevano l’evocazione di emozioni e imagerie spiacevoli, un senso di essere sviati e sentimenti di resistenza. La musica sembrava portare l’ascoltatore in differenti luoghi della psiche, come possiamo osservare dal report di un paziente: Le canzoni tristi riportano ricordi dolorosi, canzoni più felici mi fanno pensare a dei periodi belli della mia vita. Ogni nuova canzone conduce a un’immagine differente. Sento che la musica guida la maggior parte dell’esperienza. Sotto l’influenza della psilocibina, la musica prende assolutamente il sopravvento. Normalmente quando ascolto un pezzo di musica triste o felice effettuo una scelta [...] sotto psilocibina sentivo di non avere scelta ma dovevo seguire la musica [...]. Sentivo di essere costretto. Avevo la sensazione che la musica mi facesse aprire al dolore, ed ero molto felice per quel che stava accadendo. Non è stato particolarmente piacevole, ma straordinariamente potente. Nonostante portasse i miei pensieri e la mia esperienza in posti scomodi, mi sentivo comunque rassicurato nel corso dell’esperienza. Sembrava che qualcosa volesse dire: ‘Ti sto portando in giro, ma ti prometto di non abbandonarti. Sta diventando difficile, e lo sai che stai per essere triturato, ma non sarai lasciato a pezzi’ (Kaelen et al., 2018).

Al contrario del senso di guida vi erano anche descrizioni di un senso di smarrimento. In questo caso, la musica veniva percepita in contrapposizione ai pensieri e alle emozioni del paziente: “La musica soave a un certo punto mi portò in un posto dove pensavo di essere al sicuro, e invece diventò pericoloso, la musica mi stava tirando in inganno, capisci, come se mi stesse dando un falso senso di sicurezza. Ricordo di aver pensato: ‘questa è una musica bellissima, perché sto andando in questo posto oscuro?’ Mi sono sentito manipolare”. La musica aveva facilitato l’insight e l’insorgenza di una “esperienza mistica”. Infine, un risultato interessante riguardava la capacità dell’influenza musicale di essere predittiva della riduzione della depressione a una settimana dalla assunzione di psilocibina, mentre l’intensità generale della droga non era predittiva di un tale miglioramento, suggerendo una funzione terapeutica fondamentale della musica nelle terapie psichedeliche

(Kaelen et al., 2018). L’équipe internazionale guidata da Frederick Barrett, della Johns Hopkins University di Baltimora, ha recentemente suggerito una lunga playlist musicale utilizzabile nelle TP, basandosi su un’indagine conoscitiva fra gli psichiatri che in questi ultimi anni si sono cimentati in ricerche neurofisiologiche o in TP con l’impiego di psilocibina, e che hanno impiegato la musica come mezzo coadiuvante il plateau psichedelico. Nello specifico, attraverso un’analisi qualitativa e quantitativa supportata da esperti musicologi, è stata individuata una lista preferenziale per la “musica di picco”, cioè quella che più facilmente può indurre esperienze di picco, o comunque ottimale per accompagnare questo tipo di esperienze. Gli stimoli del periodo di picco sono caratterizzati da una frase regolare e prevedibile, strumentazione consistente, con una caratteristica sensazione di movimento continuo che può essere lentamente costruito su un dato pezzo di musica. Inoltre, sono tipicamente composti in un metro semplice, spesso quadruplo, con un tempo relativamente lento e strumentazione omogenea (Barrett et al., 2017a). L’LSD è in grado di influenzare, mediante la sua azione sui recettori 5HT2a, varie regioni cerebrali coinvolte in aspetti variabili dell’esperienza soggettiva durante l’ascolto di musica. Questa molecola si sta rivelando utile anche nello studio della biologia e della farmacologia dell’esperienza musicale (Barrett et al., 2017b ).

Reazioni avverse Tutte le droghe psicoattive sono caratterizzate da un certo potenziale di pericolosità, dettata da parametri tossicologici e/o dal grado di difficoltà di gestione dell’esperienza psichica conseguente alla loro assunzione. Come abbiamo fatto notare nel primo capitolo, gli psichedelici classici quali l’LSD e la psilocibina sono caratterizzati da una tossicità fisica molto bassa, e i pericoli concreti rientrano per lo più nella sfera psicologica. Con uno sguardo abbastanza ampio e approfondito sulla letteratura clinica inerente le TP, si può affermare che nei contesti clinici gli incidenti seri furono pochi. Nel 1960 Sidney Cohen sviluppò un sondaggio fra gli psichiatri che trattarono 5000 individui (volontari normali e soggetti psichiatrici) nel corso di 25.000 sedute psichedeliche tenute in contesti clinici, rivelando

un’incidenza di problematiche maggiori (suicidi ed eventi psicotici nelle 24 ore) molto bassa, sia per i volontari sani (0 suicidi e 0,08% psicosi) che per i pazienti psichiatrici (0,04% suicidi completati e 0,18% psicosi). In un affine sondaggio sviluppato una decina d’anni dopo la ricerca di Cohen e focalizzata sulla sola Inghilterra, su un insieme di 4300 pazienti trattati con un totale di 49.000 sedute di LSD, fu registrato un indice di suicidi completati dello 0,07%, e di psicosi dello 0,9% (Malleson, 1971). Bad trip – La reazione avversa più comune è più temuta con gli psichedelici – sia in un contesto clinico che non clinico – è l’evento psicotico (in forma gergale denominato bad trip), che a seconda dei casi può terminare con la discesa degli effetti della sostanza, o protrarsi ben oltre, per giorni o settimane successive. Non è facile valutare statisticamente il volume di reazioni psicotiche che si sono presentate nei contesti delle TP cliniche, che tuttavia proprio il contesto clinico controllato ha generalmente permesso di monitorare e di “spegnere” farmacologicamente con degli anti-psicotici. Vittime di possibili, seppur rari, eventi psicotici conseguenti l’assunzione clinica di psichedelici sono state tutte le tipologie di pazienti – nevrotici, psicotici, epilettici, ecc. –, inclusi i volontari normali che venivano impiegati come soggetti di controllo.121 In uno studio sviluppato presso il Missouri Institute of Psychiatry di St. Louis, nel corso del quale a 65 soggetti psicotici fu somministrato dell’LSD per un totale di 158 sedute, è stata registrata un’incidenza del 2% di reazioni psicotiche avverse che si sono protratte per alcune settimane o mesi. Negli psicotici questa reazione avversa era caratterizzata “da una disorganizzazione delle componenti affettive e ideative della personalità, e apparivano come una caricatura dello stato psicopatologico precedente il trattamento [con LSD], con le nuove caratteristiche di uno stato confusionale-delirante” (Fink et al., 1966: 452). Un’altra reazione che può presentarsi con una certa frequenza è un evento di panico: il sopraggiungere degli effetti così peculiari degli psichedelici può fare paura e indurre reazioni che possono essere problematiche per la buona conduzione dell’esperienza. Grof (1994: 132) indica come principali motivazioni di panico il fatto che l’individuo venga sopraffatto dalla netta sensazione di essere in procinto di morire, oppure che l’individuo creda che ciò che sta provando non finirà mai o che è imminente il diventare folle per sempre. Questi attacchi di panico sono generalmente momentanei e

superabili; possono “auto-risolversi”, o possono essere superabili mediante una perita, inclusa decisa, assistenza psicologica da parte del terapeuta. Possono più frequentemente presentarsi durante la fase della salita e dell’assesto degli effetti dello psichedelico, e durante le primissime esperienze personali, per poi generalmente scomparire con il sopravvenire dell’esperienza e dell’abilità gestionale di questo tipo di esperienze. Flashback – Un’ulteriore reazione avversa, di entità più o meno seria, è rappresentata dal cosiddetto flashback. Si tratta di ricorrenze inattese, spontanee e transitorie di certi aspetti dell’effetto di una sostanza psichedelica, che si presentano a distanza di tempo da un’originaria esperienza con lo psichedelico. Si possono presentare anche, e forse soprattutto, nei soggetti normali, possono durare da alcuni secondi ad alcuni minuti, raramente alcune ore, con una frequenza che va da una volta alla settimana a numerose volte al giorno, e possono accadere in qualunque contesto ambientale e sociale. Shick e Smith (1970) riconoscevano tre tipi di flashback: percettivi, somatici ed emotivi. Quelli percettivi sono i più comuni e coinvolgono unicamente il senso della vista; quelli somatici sono i più rari e comportano sensazioni ricorrenti di intorpidimento, parestesia, dolore e altre sensazioni somatiche; quelli emotivi comportano l’apparizione ricorrente di emozioni quali senso di solitudine, panico, paura. I flashback somatici e quelli emotivi si presentano quasi sempre in seguito a delle forti reazioni psicotiche, a dei bad trip. Lo psichiatra norvegese Fred Holsten classificò diversamente i flashback, utilizzando i dati retrospettivi ottenuti da un campione di 91 soggetti che erano stati ricoverati a causa di effetti collaterali legati all’uso ricreativo di sostanze. Egli giunse a distinguere i flashback in quattro categorie: – Tipo I, caratterizzati da un aumento soggettivo della vi-gilanza e distorsioni degli impulsi sensoriali; i raggi solari diventano aloni, linee diritte diventano ondulate, ecc. Queste esperienze non sono totalmente spiacevoli, insorgono all’improvviso e hanno una durata di secondi o minuti. Alcune persone riferiscono di poter evocare intenzionalmente questi sintomi. – Tipo II, caratterizzati da illusioni e ripresentazione di vissuti di esperienze precedenti sotto effetto di sostanze. I colori e i suoni hanno un’intensità particolare, l’atmosfera dell’ambiente appare trasformata, gli elementi delle esperienze precedenti sono in genere accompagnati da un

vissuto ansioso; sono in genere improvvisi e possono durare da secondi a minuti. – Tipo III. Caratterizzati da allucinazioni e riesperienza degli effetti della sostanza, sia gli impulsi interni che quelli esterni sono distorti e amplificati; durano da minuti ad alcune ore e non sono accompagnati da altri disturbi cognitivi. – Tipo IV. Allucinazioni violente caratterizzate da sbalzi dell’umore, si possono osservare reazioni psicotiche di tipo depressivo, paranoide o schizofreniforme (Holsten, 1976: 295). Sebbene la maggior parte dei flashback sia stata osservata presso la popolazione che ha fatto un impiego non clinico degli psichedelici, le prime osservazioni di questo fenomeno furono registrate in concomitanza con le terapie cliniche, e furono inizialmente indicate come “allucinosi ricorrenti”. Fra i primi autori ad accorgersene vi furono gli inglesi Sandison e Whitelaw (1957: 337), che osservarono questi “effetti postumi” molto marcati in pazienti che avevano assunto non più di 50 mcg di LSD settimanalmente; essi riportarono il caso di una paziente a cui fu somministrato LSD per 16 sedute con dosaggi non superiori ai 150 mcg, che ebbe ricorrenti effetti postumi per più di due anni dalla cessazione del trattamento. Oggigiorno i flashback sono indicati con una differente terminologia e vengono inquadrati in un più esteso sistema di disturbi che possono fare seguito alle esperienze psichedeliche, indicati con la sigla HPPD (Hallucinogenic Persisting Perception Disorder).122 Suicidio – Nella folta letteratura sulle TP, sia del passato che attuale, il rischio di suicidio viene sempre indicato come uno dei principali pericoli che possono presentarsi in seguito all’assunzione di psichedelici, sia in contesti clinici che non-clinici. In realtà, l’incidenza suicidale, già molto bassa per come è stata indicata ad esempio dallo studio di Cohen (1960) sopra riportato, potrebbe ridursi ulteriormente se si potesse osservare in maniera critica la casistica indicata, che purtroppo il più delle volte non viene descritta con le dovute specifiche. In questa sede limitiamo la nostra analisi alla casistica associata ai contesti terapeutici.123 Molti autori, nell’argomentare del rischio suicidario, hanno indicato due casi di suicidio in seguito ad assunzione di LSD comunicati da Werner Stoll, riferendo il dato semplicemente come personal communication. Ricordiamo che Stoll fu lo psichiatra che diede comunicazione del primo studio clinico

lisergico, sviluppato in Svizzera nel 1945 (Stoll, 1947). Circa questi due casi di suicidio, uno fu descritto dal medesimo Stoll in quella prima comunicazione, scritta in lingua tedesca. Si trattava di un uomo di una cinquantina d’anni d’età con una vita apparentemente normale, a parte una bassa fiducia in se stesso e un lieve stato depressivo. Nella primavera del 1945 fu vittima di un incidente durante il quale perdette quattro dita della mano destra. Ciò produsse uno scompenso psichico, con slatentizzazione dei sentimenti di fastidio nei confronti della sorella e un aumento dello stato depressivo, sino alla manifestazione di manie di persecuzione, allucinazioni notturne, e ideazione suicida, che indussero un primo ricovero nell’autunno del medesimo anno. Gli fu diagnosticata una schizofrenia paranoide subacuta e depressiva. Dopo tre settimane fu dimesso dall’ospedale psichiatrico su richiesta della moglie. Seguì un secondo ricovero, a causa di ricorrenti ideazioni suicide, e gli fu propinata una terapia con elettroshock; terapia che si dovette interrompere in seguito a una frattura all’omero. Gli fu somministrata quindi una TP costituita da quattro sedute lisergiche, con un primo dosaggio di soli 20 mcg, incrementati di altri 20 a ogni successiva seduta, sino a raggiungere gli 80 mcg nell’ultima. Ne conseguì una riduzione dello stato depressivo e un progressivo miglioramento dello stato paranoide, sino al raggiungimento di un’apparente guarigione, con conseguente dimissioni dalla struttura ospedaliera nell’aprile del 1946. Due mesi dopo, a fine giugno, il soggetto si suicidò bevendo dell’acido cloridrico (Stoll, 1947: 308). Siamo in presenza di uno schizofrenico con ideazioni suicide precedenti il trattamento lisergico, a cui fu somministrata una serie di elettroshock, e in seguito quattro trattamenti con dosaggi da molto bassi a bassi di LSD; inoltre, il suicidio si verificò a due mesi di distanza dall’ultimo trattamento lisergico. Attribuire al solo LSD la causa di questo suicidio è una deduzione quanto meno frettolosa, che il medesimo Stoll del resto non sembrava riconoscere. Per quanto riguarda il secondo suicidio, questo fu comunicato personalmente da Stoll a diversi studiosi, e riguardava una donna alla quale, in un contesto non clinico, fu somministrato LSD a sua insaputa (Cohen, 1960: 33). A nostro avviso è inappropriato fare rientrare questo caso nella casistica suicidaria indotta dall’LSD, bensì andrebbe inserita nella casistica delle conseguenze dei comportamenti criminali, in quanto somministrare di nascosto a un individuo una qualunque droga, in un contesto non clinico, rientra in questo tipo di comportamenti. Le notizie riguardanti questo secondo suicidio soffrono di un certo grado di contraddizione e di inattendibilità da

parte forse dello stesso Stoll, in quanto Charles Savage udì da questi un’altra versione dei fatti, e cioè che la donna sapeva che aveva preso dell’LSD, che era un tipo depresso che era sotto trattamento clinico, e che dopo una settimana si suicidò.124 In definitiva, i due casi di suicidio ascritti all’LSD più referenziati nella letteratura medica furono anche il più dubbio il primo e il più inattendibile il secondo. Portiamo come altro esempio un caso registrato presso l’Ospedale Psichiatrico di Beverly Hills (California), dove Chandler e Hartman trattarono 110 pazienti affetti da diverse tipologie di disturbi mentali, dalle psiconevrosi ai disordini della personalità, con un totale di 690 sedute lisergiche, con dosaggi iniziali di 50 mcg, sino a raggiungere i 150 mcg. Una paziente si suicidò “in seguito” a un singolo trattamento lisergico, ma è opportuno osservare attentamente come si svolsero i fatti. La paziente aveva una lunga storia di alcolismo e di dipendenza da oppiacei, era soggetta a un perenne stato depressivo, e in precedenza aveva tentato un genuino suicidio per ben tre volte. Ogni volta fu salvata e ospedalizzata, e ogni volta le furono propinati 50 trattamenti di elettroshock. Il trattamento lisergico (con soli 50 mcg) promosse un processo di abreazione con antiche sensazioni di sensi di colpa e di ostilità. La settimana successiva chiese insistentemente al marito di procurarle del Demerol (meperidina), al quale era stata dipendente in passato. Che la donna fosse a rischio di un ennesimo tentativo di suicidio era apparso chiaro al terapeuta, poiché ella medesima gli aveva confessato la ferma intenzione di suicidarsi e, invitata dal terapeuta a farsi ricoverare in ospedale, rifiutò per il timore di venir nuovamente sottoposta a 50 elettroshock come era accaduto le volte precedenti. Contrariamente alle esortazioni del terapeuta, di far tenere sorvegliata costantemente la paziente da membri della Narcotics Anonymous, che volontariamente eseguivano questo tipo di assistenza, il marito non li chiamò, e lasciò sola la donna in casa, la quale al suo ritorno fu trovata deceduta, suicidatasi con del veleno di serpente (Chandler e Hartman, 1960). Lascia perplessi l’aver attribuito in maniera univoca alla bassa dose di LSD la responsabilità di questo suicidio, e un’analisi obiettiva farebbero maggiormente prendere in considerazione le pratiche di elettroshock, che avevano una funzione più punitiva che terapeutica, per lo meno come percepito dalla paziente, e l’omissione assistenziale del marito, per il quale è lecito sospettarne una qualche intenzionalità o esasperato fatalismo del tipo

“lasciare che accada”. Sarebbe forzato responsabilizzare la terapia psichedelica anche di un altro suicidio avvenuto in Canada, riguardante un uomo quarantenne, con una storia di sei anni di alcolismo (superalcolici); nel corso di tre anni ricevette cinque trattamenti psichedelici, e dal primo trattamento seguì un’astinenza totale dall’alcol. Ma a un certo punto egli subì un pesante tracollo finanziario (bancarotta della sua attività commerciale), e si suicidò mediante l’anidride carbonica. O ancora, il caso, sempre canadese, di una donna di 45 anni, con una storia di 20 anni di alcolismo e negli ultimi 10 anni di dipendenza anche da barbiturici, con svariati e fallimentari tentativi di disintossicazione con le più disparate tecniche terapeutiche, inclusa una terapia psichedelica. La donna fu trovata morta per overdose di barbiturici, e non fu possibile chiarire se fosse stato un atto di suicidio o un avvelenamento accidentale (MacLean et al., 1967: 425-6). Sorge il sospetto che la casistica delle reazioni avverse con gli psichedelici sia soggetta con una certa frequenza a deduzioni frettolose e superficiali. Ne è una recente testimonianza la rivisitazione critica di cinque casi di morte improvvisa che sono stati attribuiti all’LSD, mentre le reali cause riguardavano l’assunzione di una droga differente, oppure la forte costrizione fisica asfissiante in cui il soggetto fu tenuto dalle forze dell’ordine, o una overdose di LSD corrispondente a oltre 1500 dosi normali (Nichols e Grob, 2018). Per diversi altri casi di suicidio, non è chiaro quanto l’esposizione lisergica sia stata responsabile di questo finale tragico. Edward Baker (1967) ne riportò uno, nel corso dei suoi trattamenti clinici presso l’Ospedale Psichiatrico di Toronto, che riguardò un paziente di 29 anni con diagnosticata personalità schizoide con caratteristiche ansiose e depressive, che dopo due settimane da una singola esperienza con LSD (300 mcg) si tolse la vita. Bierer e Browne (1960: 931), che trattarono con LSD o LSD + metedrina 54 psiconevrotici presso il Marlborough Day Hospital di Londra, riportarono di un caso di suicidio da parte di una ragazza, ma non mentre era sotto effetto del lisergico, bensì in concomitanza di una forte delusione d’amore. I medesimi psichiatri fecero d’altro canto notare come proprio la terapia lisergica fosse stata utile in un certo numero di pazienti che avevano tentato in precedenza il suicidio, e riportarono il caso di un tossicodipendente senza speranza, a cui la terapia di gruppo lisergica aveva ridato speranze e, stando alle sue medesime affermazioni, lo aveva trasformato in una persona felice

come mai lo era stato; ma quando la terapia di gruppo fu interrotta, egli subì una ricaduta, fu trasferito in un manicomio e più tardi si suicidò (ibid.: 931). Un caso di suicidio in cui si può intravedere una maggiore responsabilità della terapia psichedelica – nello specifico l’LSD – parrebbe essere quello riportato da Charles Savage (1957: 435), riguardante una ragazza affetta da una decennale schizofrenia regressa. Lo psichiatra le somministrò l’LSD settimanalmente, riuscendo a farle dissolvere le difese: “ora lei sentiva che aveva un corpo e voleva usarlo. Voleva trovarsi fuori con me durante la luna piena piuttosto che curiosare nel reparto. L’LSD smobilitò anche una tremenda rabbia e risentimento nei confronti di entrambi i genitori e di me medesimo. A questo punto, sfortunatamente, le fu permesso di andare a casa per una visita, dove prese in prestito l’auto di famiglia e con questa si gettò sotto un treno”. Savage trasse la considerazione che “mentre l’LSD aveva smobilitato sensazioni e affetti che erano stati maneggiati con successo dai deliri nichilisti, aveva smobilitato anche la resistenza suprema: il suicidio”, e che non si deve mai dimenticare che “il paziente ha delle difese poiché ne abbisogna; non sono residui arcaici, ma una parte vivente del suo essere”. Un altro caso accertato di suicidio indotto dal trattamento psichedelico si verificò in Danimarca nel corso del programma clinico svolto presso l’ospedale di Frederiksberg di Copenhagen: un uomo in trattamento psicolitico, con dosaggi di LSD che avevano gradualmente raggiunto i 450 mcg, con l’aggiunta di 50 mg di Ritalin, nel corso di una di queste sedute aveva esperito un’esperienza cosmica, ed era stato lasciato andare liberamente via dalla struttura ospedaliera; la sera si suicidò. Gli psichiatri danesi riconobbero l’errore di non avere mantenuto sotto controllo il paziente (Kristensen, 1963b: 165). Come contributo a una più corretta valutazione del pericolo di suicidio in seguito al trattamento psichedelico, v’è l’osservazione critica, riportata dallo psichiatra canadese Robert Pos, che i dati statistici dei suicidi e dei tentativi di suicidio che seguono i trattamenti psichedelici non sono mai stati paragonati con quelli dei suicidi e tentativi di suicidio precedenti il trattamento psichedelico della medesima popolazione di malati mentali. Nel campione di 24 pazienti trattati da Pos con LSD presso il reparto psichiatrico dell’Ospedale Generale di Toronto, furono contati 6 tentativi di suicidio prima della presentazione del programma di trattamento, 4 tentativi di suicidio in seguito al primo contatto con la struttura ospedaliera, un caso dubbio di tentativo di suicidio nel corso della seduta con LSD, e un tentativo

di suicidio durante le 12 ore successive al trattamento lisergico (Pos, 1966: 340). Con questi paragoni pre- e post-trattamento psichedelico – più corretti dal punto di vista metodologico – il pericolo suicidario associato al trattamento con psichedelici è soggetto a una valutazione maggiormente obiettiva. Charles Savage fece notare come, in 15 anni di attività da psicoterapeuta, fu testimone di due suicidi dei suoi pazienti in trattamento psichedelico e, pur ammesso che questi suicidi fossero associati con il tipo di trattamento, corrisposero in numero ai casi di suicidio di suoi pazienti che in quei 15 anni furono in trattamento senza psichedelici (Savage, in Baker, 1967: 204). Harold Abramson osservò come nel corso della sua carriera da psicoterapeuta si era dovuto confrontare con il rischio ben più frequente di pazienti che assumevano barbiturici (Abramson, 1960: 63), ma le elevate statistiche di suicidi tentati o commessi nel contesto delle narcoanalisi con barbiturici, per un qualche motivo non raggiunsero la fama di quei pochi e frequentemente dubbi casi che si presentarono con le terapie lisergiche. Ancora, lo psichiatra greco Kafkalidis, che si cimentò in TP lisergiche a Il Cairo (Egitto), osservando che in ossessivi e ansiosi la tendenza al suicidio prima del trattamento con lo psichedelico non aveva subito alcuna intensificazione in seguito al trattamento, ne concluse che la tendenza al suicidio non è una contro-indicazione all’impiego dell’LSD, a meno che non si tratti di malati psicotici (Kafkalidis, 1963: 199).

Il problema del placebo e del doppio-cieco In un esperimento clinico con impiego di un farmaco, per determinare se i suoi effetti siano attribuibili specificatamente alle proprietà farmacologiche, si è soliti coinvolgere nel medesimo esperimento un gruppo di controllo che riceva una sostanza placebo o relativamente inerte. In mancanza di tale accorgimento, si dovrebbe almeno impiegare un gruppo di controllo che venga sottoposto a un’altra forma di trattamento, con cui il gruppo soggetto al farmaco possa essere paragonato nei suoi risultati. I vari gruppi, inclusi quelli sottoposti a placebo o comunque di controllo, devono essere scelti con un sistema di assegnazione casuale dei vari pazienti (sistema randomizzato), e nel caso venga impiegato un placebo, lo studio dovrebbe essere a doppiocieco, cioè né il personale che esegue il trattamento né il paziente deve conoscere quale sostanza viene somministrata – se il farmaco o il placebo

(Smart e Storm, 1964: 334). Questa è la metodologia che si esige per poter attribuire i risultati agli effetti del farmaco e non a una miriade di altri fattori, fra i quali vengono classicamente citati un maggiore interesse e/o quindi una maggiore attenzione nei confronti del nuovo farmaco da parte dello staff clinico, o quella miracolosa “guarigione spontanea” che viene sempre chiamata in causa – nonostante la diffidenza della scienza nei confronti dei miracoli – e che avrebbe potuto presentarsi, guarda caso, proprio nel contesto dell’esperimento, e che nel caso si presenti quando viene somministrato il placebo e non il farmaco, non viene registrato come “guarigione spontanea” ma è generalmente interpretato come “reazione del placebo” (Tuteur, 1958: 922). La maggior parte degli esperimenti con psichedelici svolti durante gli anni ’50-’60 mancavano di tali accorgimenti, e per questo motivo sono stati facili bersagli di critiche, in parte rivolte con onesta cognizione di causa, in parte cariche di quell’astio e forzature tipiche di chi a priori denigrava i trattamenti con psichedelici per pregiudizi e prese di posizione socio-politiche. È il caso di osservare che nel corso degli anni ’50 la mancanza di gruppi di controllo non riguardava unicamente le ricerche con psichedelici, ma oltre il 70% di tutti gli studi clinici psichiatrici i cui risultati furono pubblicati in riviste di lingua inglese (Foulds, 1958). Una persona che è sotto effetto di uno psichedelico è facilmente distinguibile da un individuo che abbia assunto del placebo inattivo (es. acqua distillata), soprattutto in un contesto di clinica TP. Un forte indizio è la significativa dilatazione pupillare indotta dagli psichedelici. Con l’LSD il diametro della pupilla può aumentare dai normali 3 mm a oltre 5 mm; un’incremento che non può passare inosservato (fig. 19) (DiMascio et al., 1957).

Fig. 19 – Variazione nel tempo del diametro pupillare nell’uomo in seguito a somministrazione di LSD (rielaborato da DiMascio, 1957, fig. 7, p. 66).

Anche Hanscarl Leuner, impiegando la ketamina presso la clinica psichiatrica di Göttinger, osservava che “al momento non esiste un placebo che possa nascondere al ricercatore gli effetti della sostanza sul soggetto già dalla prima seduta. Sia per il soggetto che per il ricercatore, gli effetti dell’allucinogeno risultano talmente evidenti, che è impossibile utilizzare un placebo. Ciò nonostante, lo stato di confine psichico sotto effetto di allucinogeni è importante, e il materiale psicologico che viene mobilizzato eccezionale” (Leuner, 1981: 221). Per questo motivo, la tecnica del placebo e quella del doppio-cieco furono abbandonate da molti psichiatri, una scelta che fu da più parti criticata, dato che è il placebo a permettere di separare “ciò che fa la droga dall’effetto dell’ambiente e della psicoterapia” (Faillace, 1966: 18). In questa critica non si teneva conto del fatto che nella stragrande maggioranza dei casi i pazienti erano passati prima per altri lunghi percorsi terapeutici e psicoterapeutici senza successo. Inoltre, non furono pochi quei medici che, conoscendo profondamente l’esperienza psichedelica, risposero alla critica della mancanza del placebo mettendo in dubbio l’utilità del medesimo placebo nel contesto dell’esperienza psichedelica. Abram Hoffer diceva che “è l’esperienza in sé e non la droga che è il fattore terapeutico, e la richiesta di studi a doppio-cieco semplicemente mostra l’ignoranza della natura delle esperienze psichedeliche” (Hoffer, 1967: 365). L’équipe californiana di Sherwood e Storaloff escluse di proposito le metodologie a doppio-cieco nei suoi studi clinici, considerandola una procedura banale e inutile, e

affermando che “gli studi ciechi, che sono di fatto studi comparativi e non necessariamente studi di controllo, non hanno mai prodotto nuove terapie, ma hanno semplicemente corroborato ciò che è stato osservato esser vero da abili clinici” (Sherwood et al., 1968: 101). Haas e coll. (1959) espressero addirittura dubbi etici sul fatto che un medico non sapesse quale droga venisse somministrata al paziente, e come le complesse prove con doppio-cieco creino la possibilità di errori nell’analisi dei risultati e come queste prove siano difficili da pianificare. Pure Yensen (1985: 274) riteneva che la critica alla mancanza di studi controllati fosse dovuta alla “non comprensione dei fattori che rendevano gli studi con LSD controllati impraticabili e non etici”. In un articolo rimasto celebre ma poco utilizzato, Karl Rickels (1963) espose una rassegna degli studi che avevano evidenziato come le “variabili extra-farmacologiche” – fra cui la personalità e le attitudini del paziente, la personalità e le attitudini del medico, il tipo di interazione fra medico e paziente – possono in medesima misura influenzare i risultati delle ricerche cliniche sia privi di controllo che quelle dotate di placebo, doppio-cieco e sistema di randomizzazione dei pazienti. Per Hoffer e Osmond (1961) gli studi ciechi potevano essere utili solamente nello studio di quelle sostanze che non hanno un effetto soggettivo immediato discernibile, cioè quelle che non producono sedazione, euforia, confusione, ecc.; erano adatti ad esempio per le vitamine, gli ormoni e gli antibiotici. Anche recentemente v’è chi ha criticato l’obbligo del doppio-cieco nel contesto delle TP. Alexander e Ann Shulgin hanno sempre ritenuto che qualunque ricerca con le droghe psichedeliche deve essere condotta con la totale consapevolezza e informazione dello sperimentatore circa l’identità, il dosaggio e la qualità della droga assunta; sperimentazioni che gli Shulgin, seguendo Gordon Alles, definirono a “doppio conscio” (double conscious), in opposizione alla tecnica del “doppio cieco” (double-blind), che gli Shulgin riconoscono, quando applicata alle droghe psichedeliche, come una pratica immorale (Shulgin e Shulgin, 1991: xxvii.). Ancor più recentemente, Varsha Dutta ritiene che “la ricerca coinvolgente un paradigma doppio-cieco e controllato con il placebo è considerevolmente fallita per mostrare la sua competenza nello studio degli effetti di queste droghe psichedeliche per il loro potenziale psicoterapeutico (Dutta, 2014: 4). Una diffusa tecnica per cercare di sopperire al problema del doppio-cieco fu quella del placebo attivo, cioè l’impiego come placebo di basse dosi del

medesimo psichedelico o di altra sostanza psicoattiva. La midriasi e i sintomi vegetativi (arrossamento al viso, ecc.) si presentano anche alle dosi basse, e ciò rende meno evidente la differenza con il placebo. Una delle prime équipe a utilizzare questo stratagemma sembra essere stata quella di Kurland e Unger, dello Spring Grove State Hospital di Baltimora, nel cui programma di trattamento degli alcolisti con TP impiegarono un gruppo di controllo al quale veniva somministrata una subdose di LSD (50 mcg), mentre agli altri veniva somministrata una dose di 400 mcg. (Kurland et al., 1967). In questa diatriba fra sostenitori e critici della tecnica del placebo, specifica per l’impiego di psichedelici, è opportuno chiarire che la sua esclusione non significa dare pericolosamente spazio alla mancanza di controllo dei risultati degli esperimenti clinici; si tratterrà piuttosto di elaborare differenti sistemi di controllo specificatamente adattati alle esperienze psichedeliche, in altri termini di cercare nuovi paradigmi metodologici.

Valutazioni e misurazioni dei risultati Il volume delle TP svolte nel mondo nei decenni precedenti la messa al bando degli psichedelici è enorme, e pur avendo avuto la possibilità di prendere visione di diverse centinaia di pubblicazioni, siamo consapevoli delle limitazioni quantitative – ma forse non qualitative – del nostro studio. Grinspoon e Bakalar (1979: 192) hanno riportato che un numero di 40.000 individui, fra pazienti e volontari sani, si sottoposero a esperienze cliniche con l’LSD durante gli anni ’50-’70. Mariavittoria Mangini (1998: 381) ha calcolato che nella decade ’50-’70 furono pubblicati più di mille rapporti di studi clinici con TP, ma riteniamo che il numero sia stato maggiore, dato che la studiosa californiana ha tenuto conto solamente delle pubblicazioni in lingua inglese, e sono decine se non centinaia le pubblicazioni scritte in altre lingue e relative a TP sviluppate nei paesi non anglofoni europei, asiatici e sudamericani; pubblicazioni la cui “riscoperta” è limitata da problemi linguistici e di recupero bibliotecario. Basti pensare al volume di studi e pubblicazioni sulle TP in Italia, che come italiani abbiamo avuto la possibilità di visionare e presentare, pur sommariamente, in questa sede. Come venivano valutati i risultati delle terapie psichedeliche? È sempre

stato difficile valutare gli effetti di un trattamento in psichiatria, e di frequente ogni nuovo rimedio è passato da un primo periodo di “luna di miele”, dove i risultati sono apparsi molto promettenti, a un successivo periodo di delusione, dove i risultati si sono ridimensionati (Smith, 1959). Gli italiani Giberti e Gregoretti (1955a: 7) ritenevano che “una valutazione quantitativa del valore psicodiagnostico e terapeutico in psicopatologia, per quanto obbiettiva essa sia, risente sempre della soggettività di giudizio del singolo osservatore e dei suoi indirizzi di scuola”. Con gli psichedelici subentrano ulteriori fattori che rendono difficile la misurazione dell’efficacia terapeutica. Le aspettative dello psicoterapeuta e la sua interazione con il paziente – fattori che notoriamente incidono nella terapia – con gli psichedelici subiscono una maggiore influenza. Tale influenza diventa ancor più aleatoria e indefinibile se si considera che nelle TP le aspettative dello psicoterapeuta sono state molteplici: da chi considerava la terapia psichedelica come una forma di terapia di avversione, a chi tendeva a interpretare l’esperienza del paziente in termini di concetti solamente freudiani, o solamente junghiani, o mistico-religiosi, a chi si affidava per lo più a un ipotetico effetto chemioterapico della sostanza somministrata. Abbiamo anche visto come a un certo punto la forte conflittualità sociale generata dall’uso non medico degli psichedelici abbia influito sull’efficacia e sui risultati terapeutici (effetto sixties). Se aggiungiamo l’estrema variabilità delle metodiche impiegate nelle TP, che rendono difficili se non impossibili i paragoni, e la carenza o la difficoltà di adozione delle tecniche di controllo, quali il placebo e il doppio-cieco, si può comprendere la difficoltà nella valutazione dell’efficacia terapeutica del grande volume di studi clinici sviluppato attorno alle TP prima del 1972. Diversi studi si basavano sulla valutazione soggettiva, osservando la scomparsa o il miglioramento del sintomo. Altri non indicavano nemmeno la metodologia di valutazione impiegata, e si può solo immaginare che fosse stata impiegata quella soggettiva (ad es. Cohen e Eisner, 1959). Molti studi clinici si basavano sulla catalogazione in tre tipi di risultati: “molto migliorato”, “migliorato”, “nessun miglioramento” (ad es. Ling e Buckman, 1960); oppure nei quattro tipi “guarito”, “molto migliorato”, “moderatamente migliorato” e “non migliorato” (ad es. Sandison e Whitelaw, 1957); altri più semplicemente consideravano il miglioramento (improved) e la mancanza di miglioramento (unimproved), decidendo di catalogare come miglioramento i casi in cui era “ovvia un’evidenza obiettiva di un

assestamento situazionale migliore” (Eisner e Cohen, 1958: 535). Qualche studioso più zelante includeva nella scala di valutazione dei risultati anche i casi di peggioramento dei sintomi. È il caso dei californiani Chandler e Hartman (1960), che avevano creato una scala valutativa che andava da +5 (miglioramento eccezionale), a +4 (miglioramento significativo) ecc., sino a -1 (lieve peggioramento) e -2 (decisamente peggiorato). Nel caso di trattamento degli alcolisti impiegando la terapia psichedelica, Blewett e Chwelos (1959: 66) consideravano quattro tipi di risultati: “molto migliorato”, in cui venivano inclusi i casi di astinenza totale per un anno e anche i casi in cui avvenivano al massimo due brevi ricadute in un anno; “moderatamente migliorato”, includeva i casi di significativa riduzione dell’esposizione all’alcol, ma con ricadute ancora frequenti; “lievemente migliorati” i casi in cui non c’era un cambiamento allo schema abituale d’esposizione all’alcol, nonostante si osservasse un tentativo di ristrutturazione dello schema; “non cambiato” i casi di nessun cambiamento dalle proprie abitudini alcoliche. Oltre all’impiego del test di Rorschach, venivano impiegati con una certa frequenza dei questionari, da complessi a molto elaborati, di cui uno dei più noti era l’MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory). Elaborato nel 1942 con scopi diagnostici dei disturbi psichiatrici e per determinare la gravità del disturbo psicopatologico, questo inventory si basava su una lunga serie di frasi affermative (566 in numero, denominati item), alle quali i soggetti dovevano rispondere con “vero” o “falso”. La struttura degli item era tale per cui era possibile valutare l’approccio del soggetto al questionario, cioè se stesse mentendo, esagerando, rispondendo casualmente, o se avesse la tendenza a non far trasparire i suoi problemi (scale di validità). Le risposte agli item permettevano di valutare una decina di fattori, quali l’ipocondria (Hs), la depressione (D), l’isteria (HY), la tendenza mascolina o femminile (Mf), ecc. Nel 1989 venne presentata una nuova versione di questo questionario, denominato MMPI-2, che è ancora oggi largamente impiegato non solo in psichiatria ma in diversi ambiti e applicazioni della psicologia, per via del fatto che, pur nato con intenti prettamente psichiatrici, può essere impiegato per studiare le personalità non patologiche. Richard Belleville, del National Institute of Mental Health di Lexington (Kentucky, USA), sembra essere stato il primo psichiatra a valutare l’MMPI come strumento per misurare i cambiamenti psicologici indotti dall’LSD. Egli eseguì lo studio su 24 carcerati ex tossicodipendenti, somministrando per

via orale 50-130 mcg di LSD, impiegando sia individui di controllo a cui non fu somministrata alcuna droga che la tecnica del placebo. Ogni soggetto ricevette, a distanza di tempo di almeno tre giorni, tutti i tre tipi di trattamento. Dopo un’ora e mezza dall’assunzione dell’LSD (e del placebo e del controllo) ai soggetti fu somministrato l’MMPI, che veniva compilato in un paio d’ore. La differenza più grande fra gli assuntori di LSD e quelli che avevano ricevuto il placebo o il controllo fu nella scala Sc, quella che misura la schizofrenia, un fatto che non sorprese in quanto “questa scala misura l’estensione con cui i pazienti deviano dai modi convenzionali di pensare e di reagire e poiché la sindrome LSD è stata paragonata frequentemente con la schizofrenia”. Altre scale in cui gli assuntori di LSD si distaccarono dal placebo e dal controllo furono la A (che misura l’ansia), la Pa (paranoia) e la Pt (psicastenia). Con questi risultati, che ben si adattavano e confermavano il paradigma psicotomimetico, lo psichiatra statunitense giunse alla conclusione che l’MMPI poteva essere utilmente impiegato per misurare gli effetti psicologici dell’LSD (Belleville, 1956). Fu così che l’MMPI divenne uno dei principali strumenti di misurazione degli effetti lisergici e degli altri psichedelici, e fu impiegato non solamente su soggetti sani ma anche sui malati, dai nevrotici ai tossicodipendenti, e ciò nonostante fosse stato evidenziata una incongrua diversità di risposta all’MMPI fra due esperienze con psilocibina a distanza di due settimane l’una dall’altra in 12 volontari sani (Keeler e Doehne, 1965).

Fig. 20 – Esempio di applicazione del questionario Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) per la valutazione del profilo psicologico degli alcolisti in seguito al trattamento con l’LSD. Media ricavata su 50 alcolisti. Le prime tre scale (L,F, K) sono scale di validità e hanno lo scopo di valutare il grado di sincerità e accuratezza impiegato dal paziente nel compilare il questionario. L=Menzogna, F=Frequenza (indica il grado di esagerazione dei sintomi), K=Correzione (indica un atteggiamento di difesa e la tendenza a non far trasparire i problemi); le altre scale sono quelle cliniche di base: Hs=Ipocondria, D=Depressione, Hy=Isteria, Pd=Deviazione psicopatica, Mf=Mascolinità-femminilità, Pa=Paranoia, Pt=Psicastenia, Sc=Schizofrenia, Ma=Mania, Si=Introversione sociale (rielaborato da Kurland et al., 1967, fig. 1, p. 498).

Un questionario impiegato all’ospedale Spring Grove di Baltimore, dove furono sviluppati importanti TP nel trattamento degli alcolisti e dei malati terminali, fu lo Psychedelic Experience Questionnaire (PEQ), che fu elaborato da Walter Pahnke per misurare le esperienze di picco. Si basava su un nucleo di 43 item e la misurazione veniva eseguita su una scala che andava da 0 a 5 per ognuna delle condizioni che si presentano in questo tipo di esperienze (“senso di unità”, “senso di trascendenza dal tempo e dallo spazio”, ecc),125 fissando ad almeno un 60% di risposte positive agli item il limite per ritenere che fosse realmente occorsa un’esperienza di picco (Richards et al., 1977: 3).

Più raramente venivano impiegati altri questionari in voga a quei tempi da somministrare ai pazienti: il Cattel’s Sixteen Personality Factor (16-PF), designato per misurare le principali dimensioni della personalità (riservato e distaccato vs. estroverso e affettuoso, meno intelligente vs. più intelligente, forza dell’ego più bassa vs. stabile emotivamente, sottomesso vs. assertivo e indipendente, fiducioso vs. sospettoso, ecc.); l’Hilden Q-Sort Decks 13 e 14, adatti per misurare il grado di auto-accettazione; il Philosophies of Human Nature Scale (PHN), che misura gli aspetti interpersonali della natura umana (fiducia, altruismo, ecc.) (Soskin, 1973a). Presso lo Spring Grove State Hospital del Maryland venivano impiegati, oltre all’MMPI, l’Eysenck Personality Inventory (EPI), che misura due dimensioni della personalità, estroversione-introversione e nevrosi-stabilità, e il Personal Orientation Inventory (POI), che si basa sul concetto di persona “auto-realizzata” di Maslow, e che fornisce una misura comprensiva di valori e comportamenti considerati importanti nell’“auto-realizzazione” (McCabe et al., 1972). Questi questionari venivano fatti compilare all’inizio e alla fine del programma di TP. In diversi punti del nostro studio solleveremo critiche ai sistemi di valutazione mediante i questionari, sia del passato che quelli attuali. Blewett e Chwelos (1959) indicavano due metodologie per la valutazione dell’effetto di uno psichedelico. La prima consisteva nel calcolare differenze di punteggi di test eseguiti prima, durante e dopo l’esperienza; la seconda cercava di osservare differenze comportamentali, di attitudini, di umore, ecc. in seguito all’esperienza psichedelica. Forse un po’ sarcasticamente, i medesimi autori facevano notare che, mentre le valutazioni basate sulla prima metodologia portavano alla conclusione che i punteggi di test aritmetici si riducevano con l’ingestione di LSD, le valutazioni basate sulla seconda metodologia portavano a concludere che la persona sotto LSD era meno incline a dedicarsi a problemi aritmetici. Inoltre, come avevano già osservato criticamente Blewett e Chwelos nel loro manuale per la conduzione delle sedute psichedeliche cliniche: La quantificazione del cambiamento indotto dall’LSD ha a che fare con variabili estranee o non importanti ed è quindi ampiamente irrilevante per qualunque valutazione dell’effetto terapeutico della droga. Nella ricerca di variabili rilevanti dobbiamo adottare criteri molto specifici di validità, poiché in questa valutazione lo stabilimento di correlazione fra ingestione di droga e variazione in una data misura non offre sufficienti motivi per l’accettazione di quella misura come un mezzo valido nel descrivere la natura dei cambiamenti indotti dalla droga. Per essere rilevante una variabile deve essere associata all’esperienza descritta dai soggetti che hanno preso l’LSD. Per questa ragione, riteniamo

estremamente infruttuoso usare i test psicologici convenzionali per valutare gli effetti della droga. I risultati di questi sono alterati dal fatto che sotto LSD i test sono vissuti come noiosi e poco interessanti. La somministrazione di questi test altera completamente l’esperienza della droga e produce un composto di effetto della droga e di effetto situazionale che non può essere risolto (Blewett e Chwelos, 1959: 49).

Oltre al fatto che il soggetto normale trova terribilmente noiosi questi questionari da compilare, i risultati risultano falsati già solo per questa noia con cui vengono compilati; inoltre, alterano l’esperienza psichedelica. Non sono solamente inutili, ma diventano perfino controproducenti. Non ha alcun senso ridurre la gioia, la sorpresa, o anche il terrore di ciò che può essere una delle più importanti esperienze della sua vita, facendo perdere il soggetto nello sforzo di mettere la croce dentro al quadratino indicato, quando quel quadratino diventa per lui una sfera luminosa, una Vagina Cosmica, un Ombelico del Mondo, o mentre ha in mente mille altre cose, forse o quasi certamente più importanti. Sempre Blewett e Chwelos (1959: 48) facevano notare come la somministrazione del lunghissimo e tedioso questionario MMPI durante il plateau psichedelico riduceva notevolmente – e secondo noi azzerava decisamente – la possibilità che si innescasse un’esperienza di picco. Come per il caso del placebo, anche la critica dell’utilità o addirittura dannosità, in quanto controproducenti, di questi questionari non implica il fatto di lasciare alla mera valutazione soggettiva il compito valutativo dei risultati, ma si tratterrà di elaborare nuovi strumenti di misurazione obiettiva per questo particolare tipo di esperienze psichiche. Fra le tecniche elaborate per misurare i cambiamenti psicologici nell’individuo psichedelizzato, citiamo per mera curiosità il caso impiegato dall’équipe newyorkese di Ruth Mechanek per valutare il potenziale dell’LSD di aumentare il richiamo di memorie infantili o di arricchire le associazioni. Questa équipe si avvalse di un programma di computer (nel 1968!) che calcolava il numero di verbi messi al passato o il numero di parole nuove dette dal paziente nel corso della seduta psicoterapeutica; oppure misurava il grado di difesa del paziente calcolando la frequenza di termini quali “in altre parole”, “così per parlare”, “a dire il vero”, ecc., intese come modalità verbali che mantengono la distanza. Anche il grado di intimità veniva monitorato calcolando la frequenza dei pronomi personali “io”, “tu”, “noi”, più intimi rispetto a “qualcuno” e “loro” (Mechaneck et al., 1968). Oggigiorno v’è la tendenza a tacciare le TP del passato come studi privi di

un’adeguata metodologia di controllo, disorganici e soggetti all’aleatorietà di una miriade di variabili, e che i loro risultati possono al massimo essere considerati come aneddotici, associando generalmente a questa forma aggettivale il lato negativo con cui viene spesso contraddittoriamente usata, a seconda se faccia comodo o meno per la tesi che si sta difendendo. Non v’è dubbio che la valutazione dei risultati di quasi nessuna delle TP del passato potrebbe passare attraverso il filtro degli standard metodologici attuali; una constatazione che vale per molti studi clinici del passato eseguiti con i più disparati farmaci e a maggior ragione con quelli che agiscono sulla psiche umana. Le ricerche farmacologiche e cliniche sono fra le branche della scienza soggette a più rapido invecchiamento, per non dire a “rottamazione”, e tale per cui i testi di farmacologia e psicofarmacologia datati a solo 20 anni prima sono considerati obsoleti e inadeguati. Eppure, esprimiamo i nostri dubbi nel liquidare i risultati degli oltre 40.000 casi trattati con le TP negli anni ’50-’60 come “semplice” aneddotica, con un valore riduzionista dato alla parola “semplice”, soprattutto se si considera che le TP furono abbandonate non perché ritenute terapie non valide, ma perché bruscamente interrotte per via degli eventi sociali e legislativi che abbiamo descritto. Come si vedrà nel prossimo capitolo nel caso del trattamento dell’alcolismo con l’LSD, le terapie psichedeliche si stavano evolvendo e sempre più adeguando e ottimizzando di pari passo con l’evoluzione delle modalità e normative metodologiche richieste nella ricerca clinica. Nel corso dei decenni le terapie psichedeliche hanno subìto un’evoluzione in conseguenza alla maggior comprensione di queste sostanze, dalle fasi psicotomimetiche a quelle psicoterapeutiche, e dalla fase del setting si era già passata a quella delle metodologie di controllo.126 Riguardo la discussione delle adatte metodologie di controllo da applicare allo studio clinico di queste particolarissime sostanze (ad esempio il problema della debolezza metodologica del placebo attivo che continua a essere sollevato nelle TP moderne),127 resta indiscutibile l’esigenza di impiegare un’adeguata metodologia di controllo; ma se questa non è ancora stata elaborata in maniera soddisfacente, è per causa dello iato di 30 anni di impossibilità di svolgere la ricerca clinica, ed è per via di questo “svantaggio storico” che è opportuno dare una maggiore chance, nel senso anche di maggiore tempo nell’elaborazione di nuovi sistemi metodologici e metrici per le TP.

CAPITOLO 6

CASISTICA DALLE TERAPIE PSICHEDELICHE DEL PASSATO

In questo capitolo presentiamo un insieme di studi e di casi di terapie psichedeliche del passato, riguardanti le fasi del paradigma psicotomimetico e del paradigma psicoterapeutico, ordinati per tipologia di patologia trattata. Come abbiamo detto, il volume delle TP prodotte nel mondo è enorme, e non pretendiamo proporne una rassegna né esaustiva né riassuntiva, limitandoci a descriverne una scelta limitata, a integrazione della rivisitazione storica fino a qui esposta.

Psicosi Gli schizofrenici e gli altri psicotici sono stati i pazienti maggiormente soggetti alla sperimentazione clinica con gli psichedelici, come del resto con molti altri farmaci, venendo sottoposti alle più disparate e a volte sorprendenti combinazioni di farmaci e di tecniche terapeutiche. Un punto su cui si sono trovati concordi molti ricercatori è la resistenza agli psichedelici da parte degli psicotici, tale da dover richiedere dosaggi maggiori di quelli impiegati per i soggetti normali. Se ne era già accorto Condrau nel corso del suo studio clinico svizzero della fine degli anni ‘40, giungendo a sospettare che gli psicotici avessero un’immunità specifica all’LSD (Condrau, 1949). È stato tuttavia espresso il sospetto che la minore sensibilità osservata possa semplicemente essere espressione di una maggiore non volontà o incapacità da parte del paziente di comunicare la presenza di sensazioni

anormali, e che il problema di fondo quindi sia di tipo metodologico, cioè come osservare e misurare gli effetti di uno psichedelico in un paziente schizofrenico (Cline e Freeman, 1956). Lincoln e Louise Clark, del Dipartimento di Psichiatria di Salt Lake City (Utah), ritenevano che, “poiché si è così dipendenti dai rapporti introspettivi per la valutazione degli effetti dell’LSD, la riluttanza o l’incapacità di comunicare l’esperienza soggettiva possono essere interpretate come mancanza di effetti. L’impressione dal nostro studio è che i pazienti schizofrenici non differiscano dai normali nella loro sensibilità farmacologica all’LSD” (Clark e Clark, 1956: 562). L’équipe di Donald Krus, dell’Università di Clark (Massachusetts), mediante uno studio di paragone fra 24 soggetti sani e 24 schizofrenici, con somministrazione orale di 75 mcg di LSD in condizioni di placebo e di doppio-cieco, avrebbe effettivamente osservato una mancanza di differenza di reazione fra i due gruppi mediante misurazioni “microscopiche”, cioè con misurazioni sperimentali obiettive più precise rispetto a quelle “macroscopiche” generalmente prese in considerazione (valutazioni psichiatriche cliniche generiche). Secondo questi autori, il problema della maggiore resistenza agli psichedelici da parte degli schizofrenici andrebbe riformulato, cercando di capire per quali comportamenti e sotto quali condizioni questa resistenza viene o non viene osservata (Krus et al., 1963). In linea generale, con gli psichedelici è stata osservata un’intensificazione del quadro sintomatologico psicotico negli schizofrenici acuti, mentre in quelli cronici deteriorati appare una bassa o nulla risposta alla sostanza. Ciò era già stato osservato con la mescalina da Hoch (1951) e da Delay (1956), e fu in seguito confermato con l’LSD. In Italia, Callieri e Ravetta (1955: 76) osservarono che “l’LSD determina negli schizofrenici un’accentuazione dei sintomi deliranti, prevalentemente del disturbo primario del pensiero e della dissociazione” e che “l’LSD non sembra introdurre elementi formalmente nuovi nel quadro sintomatologico; si tratta sempre di un’azione aspecifica disinibitrice e rinforzante sulla sintomatologia psicopatologica preesistente”. L’équipe di Louis Cholden del Maryland (USA) aveva osservato tre differenti tipi di risposte degli schizofrenici cronici all’LSD: 1) nascosta, dove il paziente solo apparentemente non mostrava reazioni all’LSD, ma in realtà mostrava una reazione ritardata con qualche comportamento insolito; 2) intensificata, dove il paziente reagiva con una regressione a precedenti forme di comportamento, o con una intensificazione dei sintomi. Tale intensificazione (maggiore ansia, maggiore agitazione, maggiore

preoccupazione, ecc.) era più comune nei pazienti in uno stato maggiormente acuto; 3) inversa, dove le manifestazioni della reazione alla droga erano piuttosto l’opposto del comportamento usuale. Pazienti che erano solitamente muti diventavano loquaci, quelli iperattivi sonnolenti, quelli ostili amichevoli (Cholden et al., 1955). Harry Pennes, che trattò presso il New York State Psychiatric Institute schizofrenici con sodio amitale, pervitin, mescalina ed LSD, aveva diversamente osservato tre tipi di risposte: normalizzazione, intensificazione e comportamento difasico. La normalizzazione consisteva in una riduzione o eliminazione di uno o più sintomi di base, facendo apparire dei miglioramenti nel soggetto; l’intensificazione si presentava o con una esacerbazione di uno o più sintomi di base, e/o con l’apparizione di manifestazioni psicopatologiche che non erano in precedenza così apparenti; il comportamento difasico, che si presentava in molti schizofrenici, consisteva nella combinazione di risposte di normalizzazione e di intensificazione, sia contemporanea che in sequenza. La mescalina induceva principalmente un’esacerbazione dei sintomi preesistenti; l’LSD comportava il 64% di intensificazione dei sintomi preesistenti, il 6% difasici, e il 3% di assenza d’effetto (Pennes, 1954). Se in rari casi fu osservata l’induzione di uno stato catatonico in schizofrenici non catatonici, come fu il caso degli esperimenti svolti a Lecce da De Giacomo (1950) con l’LSD, in altri si ottenne uno sblocco del mutismo e dell’autismo; come in uno studio sviluppato in Argentina, dove in 7 schizofrenici autistici a cui fu somministrato dell’LSD lo sblocco fu tale da indurre una ricca produzione artistica come mai era accaduto in precedenza (Saurí e Onorato, 1955). Fra le ricerche cliniche condotte con la mescalina sugli schizofrenici e altri psicotici, le più interessanti sono quelle sviluppate da Herman Denber al Manhattan State Hospital di New York. Somministrando la mescalina a pazienti schizofrenici in quantità medie di 500 mg, egli aveva osservato come principali sintomi ansia, irrequietezza, disagio, apprensione, tensione e panico. Questi sintomi, apparentemente negativi, in particolare l’ansia acuta, rappresentavano la reazione primaria difensiva dell’organismo alla sensazione di un imminente pericolo, e inducevano l’esternazione di conflitti interni, utili per il lavoro psicoterapeutico. In un’ottica clinica, Denber definì questo meccanismo psicologico lo “stato mescalinico” (Denber e Merlis, 1955a). Egli si era accorto dell’importanza della componente ansiosa del

quadro sintomatologico mescalinico per uno sviluppo rapido dei sintomi psicotici e per la liberazione di materiale represso, e i casi in cui l’ansia non si presentava erano accompagnati da ottusità e apatia e da una generale debolezza dei sintomi, con conseguente riduzione del potenziale terapeutico. In seguito a queste osservazioni, Denber si cimentò in uno studio clinico specifico svolto su 41 pazienti del suo ospedale, di cui 35 erano schizofrenici. Impiegando la tecnica del doppio cieco, una parte dei soggetti fu sottoposta a un pretrattamento con clorpromazina o altri neurolettici in intramuscolo, e l’altra parte ricevette un placebo, tutti un’ora e mezza prima della somministrazione in endovena di 500 mg di mescalina solfato. Dopodiché al paziente venne richiesto di esprimere liberamente i suoi pensieri e sensazioni; dopo 45-60 minuti il paziente veniva nuovamente trattato con un neurolettico o altrimenti con un placebo. Seguivano altri incontri psicoterapeutici nella medesima giornata e in quella successiva. La premedicazione con un neurolettico comportava una riduzione della componente ansiosa durante l’effetto mescalinico, e una generale carenza di carica emotiva. Al contrario, in quei soggetti pretrattati con un placebo, veniva osservata un’ansia sovrastante e conflittuale, che portava alla reminiscenza di memorie ed eventi passati carica di emozione. Da ciò Denber dedusse che l’ansia è un fattore essenziale nel processo terapeutico con la mescalina, indipendentemente dalla difficoltà della sua gestione (Denber, 1956). Il medico newyorkese non impiegava tutto il plateau mescalinico, ma concentrava il lavoro abreattivo in una “finestra” non più lunga di un’ora o un’ora e mezza, spegnendo in seguito l’utile ma al contempo pesante carica ansiosa con un neurolettico. Egli aveva già sviluppato in precedenza questa tecnica di riduzione della componente ansiosa indotta dalla mescalina mediante la clorpromazina (in media 50 mg), non solamente con lo scopo di ridurre al minimo lo stato penoso del paziente, ma anche perché si era accorto che la fenotiazina non spegneva del tutto gli effetti introspettivi della mescalina, e permetteva al soggetto di osservare il nuovo materiale rilasciato dal rush mescalinico in uno stato di tranquillità, proficuo ai fini terapeutici (Denber e Merlis, 1955b). In pratica, nella fase mescalinica “ammorbidita” con la clorpromazina, “il flusso di pensiero diventava rivelante e coerente, la volatizzazione delle idee scompariva, le reazioni emotive mostravano un maggiore tono, profondità e variabilità, ed erano appropriate al contenuto del pensiero; le capacità adattive ambientali del paziente mostravano un miglioramento significativo”. L’équipe di Denber riportò di aver conseguito con questa tecnica diversi casi

di totale remissione con follow-up a 10-12 mesi (Denber e Merlis, 1954). Sempre dai suoi studi clinici con la mescalina, Denber trovò conferma del fatto che le risposte migliori si avevano con pazienti malati da poco tempo, mentre negli schizofrenici cronici i risultati restavano deludenti, e addusse a ciò i risultati negativi ottenuti dal collega James Cattell (1954), che presso il New York State Psychiatric Institute aveva trattato 59 schizofrenici, la maggior parte cronici, con 400-600 mg di mescalina, e dai cui risultati deludenti aveva concluso che “il valore della mescalina in terapia non è al momento evidente”. Una inutilità del trattamento mescalinico sugli schizofrenici cronici fu in seguito ribadito da Sidney Merlis (1957) presso il Central Islip State Hospital di New York, dove trattò 24 donne schizofreniche malate da 6-9 anni, somministrando loro in due distinte sessioni 500 e 750 mg di mescalina. Anche in quei casi dove si notò un miglioramento, questo fu momentaneo, e nel giro di 4-6 settimane tutte regredirono al loro stato psicotico iniziale. Ma pure in questo caso si trattava di schizofrenici cronici. Pure gli psichiatri londinesi Bierer e Browne (1960) ritenevano che la “disorganizzazione dell’integrazione psichica” indotta negli schizofrenici dall’LSD, con l’aggiunta o meno di metedrina, comportasse una rimozione temporanea delle difese dell’ego e potesse essere quindi impiegata nel trattamento psicoterapeutico. Pur caratterizzati da un certo interesse, questi studi sugli schizofrenici e sugli altri psicotici vennero gradualmente abbandonati parallelamente con l’abbandono del paradigma psicotomimetico, e ciò a favore di altre affezioni mentali, ritenute più idonee ai trattamenti psicoterapeutici, quali le nevrosi, gli stati depressivi e le dipendenze. Curiosamente, la sostanza psichedelica che più di altre sembra indurre una forte reazione avversa quando somministrata agli schizofrenici e agli altri psicotici è risultata essere non l’LSD né la mescalina, ma la fenciclidina (PCP), in quanto innesca un rush incontrollabile degli effetti psicopatologici di cui è afflitto il paziente. Ciò fu verificato agli inizi degli anni ‘60 da un’équipe canadese del Verdun Protestant Hospital (Queensland), in seguito alla somministrazione di PCP via endovena a 55 pazienti, fra cui 49 schizofrenici e altri psicotici. Quasi tutti i soggetti sperimentarono forti attacchi di ansia e di panico, confusione mentale e depersonalizzazione, e con una caratteristica sensazione di essere in procinto di morire. Quest’ultima sensazione, meglio definibile come un’assoluta convinzione dell’imminente morte, era di una tale intensità e incontrollabilità, da far sospettare agli

psichiatri canadesi una sua eziologia fisica piuttosto che meramente psicologica. Essi fecero notare come le lesioni dell’area cerebrale della medulla oblongata, per cause traumatiche quali incidenti (traumi o accidentale puntura dell’area), vertigine labirintica, o tumori cerebrali o invadenti il nervo vago, sono note indurre invariabilmente e istantaneamente nel soggetto la convinzione dell’imminente morte; un vero e proprio sintomo che è stato variamente denominato nella letteratura scientifica come meditatio mortis, angor animi o “tempesta medullare”. Dall’analogia di questo sintomo con quello osservato negli schizofrenici sotto effetto di PCP, gli studiosi canadesi sospettarono che l’area della medulla oblongata potesse essere un possibile sito d’azione di questo anestetico dissociativo (Ban et al., 1961).

Autismo infantile Gli psichedelici furono somministrati anche ai bambini affetti da patologie variamente diagnosticate a quei tempi come “schizofrenie autistiche” o “psicosi infantili”. Queste denominazioni e relativi inquadramenti nosologici oggigiorno non sono più riconosciuti; è sufficiente osservare come nel DSMV le forme di autismo non siano fatte rientrare nella classe delle schizofrenie. Durante gli anni ’50-’60 l’autismo era considerato un sintomo della schizofrenia o, più precisamente, una versione infantile della psicosi o della schizofrenia degli adulti. Se da un lato i miglioramenti sintomatologici osservati da diversi studiosi in seguito a TP condotte su bambini fortemente disturbati possono essere considerati credibili, al di là e nonostante metodologie che oggi non esiteremmo a considerare insufficienti, dall’altro lato non è sempre possibile associare questi miglioramenti a patologie infantili chiaramente diagnosticate; si può al massimo arguire che diversi casi trattati riguardavano forme di autismo, per come vengono oggi diagnosticate. I primissimi casi di trattamento di bambini con LSD furono presentati nel contesto di una conferenza sull’LSD tenutasi nell’aprile del 1959 a Princeton (New Jersey) (Abramson, 1960). Uno di questi riguardava una bambina di 8 anni sofferente di un disordine del carattere cronico e resistente, che includeva enuresi giornaliera e conflitti sessuali non meglio specificati, e che per un anno era stata trattata invano con normale psicoterapia. Le fu somministrato LSD una volta alla settimana, con dosaggi incrementati gradualmente sino a raggiungere i 300 mcg:

L’enuresi, che era stata accanto a lei ogni giorno per sette anni, si fermò dopo la seconda seduta, che fu molto violenta, e durante la quale era disorientata e chiamava continuamente la madre. Ma dopo si presentò un profondo cambiamento di carattere. Era sempre stata una persona apatica e noiosa, una bambina a stento moralista e senza immaginazione. Puzzava di urina per la maggior parte del tempo [...]. Durante il trattamento cambiò così profondamente che fu notato da tutti, parenti e amici, inclusi madre e padre e da lei medesima. Non fu un cambiamento così “spettacolare” quanto profondo e convincente. Era lungi dall’essere libera da problemi, ma divenne così libera e creativa e così più estroversa e generosa, che fu chiaro che il suo comportamento originava da qualcosa di spontaneo dentro a se stessa, invece che dai ciechi stereotipi che in precedenza avevano controllato la sua vita. Come gli adulti che avevano risposto bene al trattamento, essa partecipava in ogni decisione nell’aumento del dosaggio, ed era lei che decideva quando riteneva di aver terminato.128

Lo studio clinico più esteso che trattò bambini autistici e/o fortemente disturbati con terapie psichedeliche fu l’équipe della neuropsichiatra Lauretta Bender, che operava presso il Creedmore State Hospital di New York. In un primo studio trattò con LSD 14 bambini affetti da “schizofrenia autistica”, aventi un’età compresa dai 6 ai 10 anni e mezzo. Il lisergico venne somministrato inizialmente via intramuscolo e poi oralmente in dosaggi e frequenze sempre maggiori, sino a raggiungere la somministrazione quotidiana di 100 mcg di LSD per 6 settimane consecutive. Furono osservati una generale diminuzione dei comportamenti aggressivi ostili, dei comportamenti ritmici e dei vortici di stereotipie, congiuntamente a un maggior contatto con gli adulti e maggiore risposta all’affettività. Bender notò anche che i bambini mostravano molto meno effetti collaterali alle droghe, e per questo a suo parere potevano essere impiegati dosaggi più elevati; inoltre, i bambini sembravano sviluppare una tolleranza più lenta che negli adulti, tale per cui “l’LSD dato quotidianamente al dosaggio di 100 mcg ai bambini schizofrenici autistici sembra essere un effettivo stimolante dei sistemi nervosi centrale e autonomo” (Bender et al., 1962). Ciò sarebbe una conferma di quell’effetto dello psichedelico serotoninergico che permarrebbe con la sua esposizione cronica e che abbiamo in precedenza sospettato.129 Sebbene l’approccio dell’équipe della Bender sia stato di tipo chemioterapico, una revisione critica di questo studio ha evidenziato come in realtà in tale trattamento abbia avuto rilevanza una certa componente psicoterapeutica anche se non intenzionale, come si evidenzierebbe dalle descrizioni delle numerose interazioni spontanee fra lo staff e i bambini riportate nello studio (Mogar e Aldrich, 1969). In un’ulteriore studio clinico, l’équipe della Bender trattò 50 bambini

affetti da “schizofrenia infantile”, di cui una metà erano classificati come autistici, regrediti, essenzialmente non verbali; gli altri come psicotici ma verbali e vigili. Anche in questo caso fu adottato un metodo chemioterapico, con somministrazione quotidiana di 50-150 mcg di LSD per 2-12 mesi. I bambini autistici: divennero allegri, felici, ridevano frequentemente, specialmente durante le prime fasi del trattamento. Quasi tutti erano più vigili, consapevoli e interessati nel guardare le altre persone. Alcuni mostrarono per la prima volta cambiamenti nell’espressione facciale in reazioni appropriate alle situazioni; molti erano in grado di capire e di seguire direzioni più facilmente. Questo aumento di consapevolezza fu notato da tutti gli osservatori, incluse le famiglie, e fu uno dei segni più incoraggianti in questi bambini introversi e regrediti. Il personale e i genitori erano entusiasti dei cambiamenti nei bambini, descrivendoli come ‘più affezionati’, ‘più consapevoli’, e interessati per la prima volta a loro o ai fratelli (Bender et al., 1963).

Nel gruppo di bambini “schizofrenici verbali” i risultati sembravano essere stati più modesti, e sebbene molti mostrassero ancora una sintomatologia schizofrenica, questa sembrava essersi trasformata maggiormente in una schizofrenia adulta, “con tentativi di formazione di difese per proiezione, negazione, repressione”. Un caso interessante fu quello trattato da Gary Fischer a Los Angeles (California), riguardante un trattamento psicolitico di una bambina di 12 anni svolto negli anni 1962-63 e che fu estesamente descritto in una comunicazione del 1970. La bambina era affetta da “schizofrenia infantile”, era bizzarra, grossolanamente regredita, aggressiva, erratica e distruttiva. Passava la maggior parte del tempo seduta in un angolo del reparto impegnata ad arrotolare pezzetti di carta, si dondolava costantemente, si masturbava, e pronunciava incessantemente una “insalata di parole” senza senso. Era fortemente aggressiva nei confronti di qualunque altro bambino le si avvicinasse. Nata prematuramente, la madre era stata internata numerose volte come schizofrenica paranoide. La bambina fu sottoposta a una terapia psicolitica costituita da 16 sedute, nella maggior parte con somministrazione di LSD (100-300 mcg) e in tre sedute con psilocibina (10-30 mg). Fu seguita da più terapeuti, poiché richiedeva un forte e prolungato impegno interrelazionale. Furono osservati miglioramenti già a partire dalle prime sedute lisergiche, con una maggiore apertura e relazione con i terapeuti e un aumento dell’insight. Più volte la bambina rivolse la domanda “come potete farmi parlare meglio?”, e dalle discussioni che seguivano i terapeuti compresero che per lei parlare e pensare erano la stessa cosa, e che riteneva

che se avesse potuto organizzare meglio il suo linguaggio in maniera soddisfacente e coerente, avrebbe anche potuto pensare in maniera coerente e comunque meno confusa. Comprendere questo suo pensiero fu fondamentale per lo sviluppo del processo psicoterapeutico. Nelle sedute successive la bambina esternò delle problematiche che aveva con la madre, ricordò traumi causati dal rifiuto di questa nei suoi confronti, rivivendoli in maniera compulsiva e con modalità tipicamente abreattive. Con il proseguo delle sedute, la bambina mostrò un cambiamento radicale del comportamento, la sua aggressività e intrattabilità si ridussero significativamente, iniziò a relazionarsi amichevolmente con una coetanea del reparto, smise di dondolarsi e di arrotolare compulsivamente foglietti di carta, e smise anche di esternare “insalate di parole”; il miglioramento fu mantenuto con un followup di 5 anni (Fischer, 1970). L’età più bassa di bambini trattati con l’LSD sembra essere stata di 3 anni e mezzo, internamente a uno studio clinico sviluppato nell’allora Cecoslovacchia da P. Bos. Egli trattò 4 bambini fortemente disturbati, “psicotici”, incluso quello di 3 anni e mezzo d’età, con dosaggi di LSD di 1,1-1,3 mcg/kg, impiegando un approccio psicoterapeutico, con tanto di musica, giochi simbolici con bambole e con l’argilla e, nel caso del bambino di 3 anni e mezzo, con un prolungato contatto fra le braccia di una donna terapeuta. In 3 dei 4 bambini fu osservato un “miglioramento significativo”, concludendo che “nelle mani di uno psicoterapeuta infantile ad orientamento psicodinamico, l’LSD può in tal modo diventare una chiave per il processo primario (Freud), uno strumento di disintegrazione positiva (Dabrowski) delle strutture psicopatologiche del periodo formativo dello sviluppo della personalità del bambino, cioè, le strutture terapeuticamente fino ad ora più inerti”.130 Un altro caso interessante riguardò il trattamento lisergico di una coppia di bambini gemelli presso l’Istituto Neuropsichiatrico dell’Università di California (UCLA) di Los Angeles. Entrambi manifestavano comportamenti autistici, fra cui la mancanza di contatto oculare con i genitori, di uso appropriato degli oggetti e di sviluppo del linguaggio, oltre a un considerevole comportamento di dondolio con schemi motori unici e ripetitivi. Entrambi i bambini furono sottoposti a due consecutive serie di TP all’età di 4 anni e 9 mesi e di 5 anni e 2 mesi, in uno studio controllato e con placebo. I dosaggi di LSD erano di 50 mcg e somministrati due volte a distanza di 3-4 giorni e in mezzo a sedute con somministrazione del placebo.

I principali risultati riguardarono un significativo aumento del “guardare la faccia” dell’interlocutore e del ridere, contemporaneamente a una significativa riduzione dei movimenti ripetitivi di dondolio. Il fatto di avere intercalato le sedute lisergiche con sedute con placebo permise di evidenziare in maniera non ambigua le differenze comportamentali indotte dall’LSD (fig. 21) (Simmons et al., 1966).

Fig. 21 – Alcuni risultati del trattamento con LSD di due bambini gemelli autistici di circa 5 anni d’età, che evidenziano un significativo aumento dell’atto del guardare in faccia l’adulto interlocutore e del riso, e una diminuzione significativa delle auto-stimolazioni patologiche (dondolio fisico reiterato). C=controllo, PL=placebo, LSD=somministrazione di 50 mcg di LSD (rielaborato da Simmons et al., 1966, fig. 1,2, pp. 1205-6).

PTSD e sindrome da campo di concentramento Jan Bastiaans (1917-1997) fu uno psichiatra olandese. Durante l’occupazione nazista dei Paesi Bassi fece parte della Resistenza, e per questo fu espulso dall’Università nel 1941. L’esperienza delle atrocità naziste lo influenzarono profondamente (140.000 olandesi furono deportati nei campi di concentramento), come del resto influenzarono milioni di europei. Nel dopoguerra Bastiaans si dedicò all’aiuto psicologico e psichiatrico dei sopravvissuti dei campi di concentramento, e negli anni ‘50 individuò uno specifico quadro psichiatrico, che denominò “sindrome KZ”, che altro non era che una forma particolare di quello che oggi è denominato disordine da stress post-traumatico (PTSD). KZ è un’abbreviazione di Ka-Tzetnik, il termine con cui i nazisti denominavano i reclusi dei campi di concentramento

e che marchiavano sulla pelle, accompagnato da un numero di sei cifre. KaTzetnik era un’ulteriore abbreviazione di Konzentration Zentrum, “campo di concentramento”. Dal 1954 al 1961 Bastiaans assunse la carica di presidente dell’Istituto Psicoanalitico di Amsterdam, e nel 1963 divenne professore in psichiatria dell’Università di Leida (Leiden, Paesi Bassi). Il suo interesse nel trattare i grandi traumi psicologici delle vittime sopravvissute dei campi di concentramento, e più in generale delle vittime dei soprusi ad opera di altri umani, fece affluire al suo istituto centinaia di pazienti da tutta l’Europa, e da Israele. Uno dei principali sintomi della sindrome KZ era l’alessitimia, cioè l’incapacità di riconoscere e di verbalizzare, quindi di comunicare, le proprie emozioni. Sin dal 1946 Bastiaans si era avvalso delle tecniche di narcoanalisi, somministrando ai pazienti dei barbiturici (sodio pentotal), combinandola con la psicoanalisi e lo psicodramma. Con l’avvento degli psichedelici, a partire dal 1961 iniziò a impiegare anche l’LSD, la psilocibina e in alcuni casi la ketamina. Giungeva alla decisione di impiegare gli psichedelici in quei contesti dove le altre tecniche non riuscivano a dare risultati soddisfacenti, e trovò la terapia psichedelica utile particolarmente a tre categorie di pazienti: quelli psicosomatici dotati di una forte rigidità e di forti meccanismi di difesa, quelli affetti dalla sindrome KZ, e i pazienti che non rispondevano ad anni di trattamento psicoanalitico. In una comunicazione del 1969 presentata alla British Psychoanalytic Association, Bastiaans riportò i risultati di un primo gruppo di 36 pazienti trattati con TP negli anni 1964-68, dei quali 9 conseguirono un notevole miglioramento, 14 un miglioramento discreto (“visibile”), mentre 11 non conseguirono alcun miglioramento. In Olanda l’impiego clinico degli psichedelici fu proibito nel 1967, e fu concesso solamente ad alcuni psichiatri, fra cui il dott. Bastiaans, che continuò la terapia psicolitica trattando dal 1969 al 1979 circa 300 pazienti. Bastiaans si accorse che in molti casi il trauma dei campi di concentramento aveva attivato precedenti traumi occorsi nell’infanzia, e che “ironicamente fu quella frustrazione e negazione affettiva infantile che spesso erano servite come una specie di ‘formazione’ per la sopravvivenza [psicologica] durante la guerra” (Bastiaans, 1983: 149). Negli anni della polemica sociale e politica sugli psichedelici – polemica che come abbiamo visto investì in pieno la ricerca clinica – anche la sua

attività fu criticata sino a trovarsi obbligato a sospendere, nonostante avesse fino a quel momento goduto di un permesso speciale governativo per poter impiegare gli psichedelici. Nel 1992 Bastiaans fu coinvolto come medico supervisore negli studi clinici sull’ibogaina nel trattamento delle dipendenze da eroina e cocaina e che si stavano sviluppando in Olanda, ma il decesso di una paziente nel 1994 pose definitivamente fine alla sua ricerca con queste sostanze (Snelders, 1998).131 Nella seconda metà degli anni ‘90, due ricercatori olandesi svilupparono un’indagine qualitativa, mettendosi alla ricerca dei pazienti ancora in vita che erano stati trattati con TP da Bastiaans nei decenni precedenti. A coloro che risposero alla chiamata, i due ricercatori sottoposero un questionario finalizzato a un follow-up del loro trattamento, e 12 pazienti lo compilarono in maniera completa e soddisfacente per le esigenze metodologiche di followup. A parte uno dei pazienti, tutti gli altri erano stati internati nei campi di concentramento nazisti o in quelli giapponesi.132 A 11 pazienti era stata somministrata da Bastiaans l’LSD, e a due di questi anche psilocibina, e ad altri due di questi anche ketamina. Le sedute lisergiche per ciascun paziente erano state da una a 16 in numero, e da 4 a 5 con la psilocibina. Tutti i pazienti che avevano risposto al questionario avevano riportato miglioramenti, da moderati a forti. Alcuni loro commenti: in seguito alla TP col dott. Bastiaans, “ho avuto meno problemi nel dormire e meno ansie”, “sono ora calmo e posso parlare del mio passato”, “posso nuovamente vivere una vita normale, e non soffro più di depressione”, “il mio comportamento aggressivo è lentamente sparito”, “sono convinto che mi abbia salvato la vita”, “mi sento pienamente integrato nella società”, “esisto, e sono qui per la mia vita e per i miei bambini” (Ossebaard e Maalste, 1999). Un caso degno di nota, fra i pazienti trattati da Bastiaans, è quello di Yehiel Finer, altrimenti noto come De Nur, o anche come Ka-Tzetnik 135633. Con quest’ultimo nome, che altro non era che il “nome” con cui Finer fu marchiato ad Auschwitz, firmò alcuni suoi libri, fra cui Shiviti, dove l’autore riportò in prima persona il processo terapeutico al quale si sottomise in Olanda a metà degli anni ‘70.133 Finer non era un paziente “qualunque”, e quando si presentò davanti a Bastiaans, gli disse: “Professore, prima di procedere le sarei molto grato se volesse capire che sono venuto qui non da paziente, ma perché ho saputo che lei possiede la chiave di un cancello che da tempo sto cercando di varcare. Per cui la prego di aprirmi quel cancello, ma una volta entrato, di volermi per

cortesia lasciare lì, da solo”. Nato in Polonia nel 1917 ed ebreo credente, Finer fu vittima dei rastrellamenti delle SS e venne deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove scampò “miracolosamente” alla morte, sino alla sua liberazione da parte delle forze alleate. Denutrito sino all’osso, come del resto tutti i sopravvissuti di Auschwitz, e considerato dai medici ormai spacciato,134 fu inviato in un ospedale italiano, dove, ancora avvolto “nel sudario di Auschwitz”, cioè ancora vestito con la divisa del campo di concentramento, in due settimane e mezzo, in uno stato mentale di trance e in una specie di “lotta contro il tempo”, scrisse un primo manoscritto, che intitolò Salamandra, e che consegnò a un soldato israeliano affinché lo portasse in Israele, dove fu pubblicato e divenne presto un best-seller mondiale. Finer non morì, riuscì a recuperare e a tornare in Israele, dove cambiò il suo nome in De Nur. Successivamente scrisse altre opere biografiche, dove descrisse con “atroce” minuzia di particolari l’inferno di Auschwitz, fra cui La casa delle bambole, anche questo diventato un bestseller tradotto in numerose lingue, compreso l’italiano. A Tel Aviv Finer viveva in uno scantinato, e passava i giorni e le notti sulle panchine di un parco, afflitto da profondi stati d’ansia e da costanti incubi notturni. Una donna, Nina Asherman, alias Nike, dopo aver letto Salamandra cercò il suo autore, la cui identità era avvolta nel mistero. Dopo un anno di ricerche, riuscì a individuarlo e a contattarlo e, nonostante le iniziali difficoltà relazionali, da questo incontro nacque una stabile storia d’amore. Quando, nel 1962, il Mossad israeliano riuscì a scovare e a rapire Adolph Eichman in Argentina – dove si era rifugiato questo alto gerarca delle SS responsabile dei rastrellamenti e delle deportazioni degli Ebrei nei campi di concentramento – trascinandolo davanti a un tribunale israeliano, Finer fu scelto fra i 111 sopravvissuti ad Auschwitz che depositarono le loro testimonianze. Ma Finer, che pur già diventato un personaggio famoso continuava a trovarsi in uno stato psicologico tale per cui non era più riuscito a dire “io” e parlava, anche nei suoi libri, in terza persona, al momento della sua deposizione svenne a terra colpito da una emiparesi facciale. Uno svenimento che fece molto scalpore nel seguitissimo “processo Eichman”. Dopo due anni di insistenze da parte della sua compagna Nike, nel 1976 Finer decise di recarsi in Olanda per sottoporsi alla TP del dott. Bastiaans. Nelle prime tre sedute lisergiche Finer si inabissò nell’inferno di Auschwitz, nelle sue torture e disumanità, ma non riuscì a comunicare con il terapeuta.

Fra i diversi momenti di vissuto infernale, rivisse il momento in cui, entrato insieme ad altri deportati in un camion che li doveva condurre verso i forni crematori, si nascose dentro a un bidone di carbone che si trovava in fondo al camion. Una volta svuotato il camion del suo carico di relitti umani, il conducente, riportato il mezzo in un garage, si accorse di quell’uomo tutto nero, poiché sporco di carbone, che uscì dal bidone. Finer pensò che fosse giunta la sua fine, ma i kapo nazisti, sorpresi per la tenacia a vivere di questo cadavere vivente tutto nero, che uscì dal camion a mani alzate urlando “Sono un essere umano, un essere umano che vuol vivere!”, lo rimandarono al campo di lavoro. Con l’aiuto del brillante e intuitivo terapeuta, giunse a comprendere che, nel momento in cui uscì dal bidone di carbone, avvenne quello sdoppiamento di personalità che non gli permise più di dire “io”, in quanto una parte di sé medesimo si identificava con tutte le vittime del campo di concentramento: “Io sono loro, sono anche i carnefici, sono tutti allo stesso tempo”. Un processo di de-personalizzazione, come verrebbe definito in termini psichiatrici, ma anche un processo di fusione, di copersonalizzazione, detto in termini di più concreto e immediato vissuto percettivo. Nella quarta seduta lisergica avvenne un “click”, qualcosa che, stando alla sua descrizione, appare essere un fenomeno di morte-rinascita. Nella visione Fider si scavava una fossa e moriva, e durante la sua morte vedeva chiaramente le sue identità separate, la frattura della sua anima che si creò uscendo da quel bidone di carbone, e la coesistenza di queste due parti nel suo corpo. Da questa esperienza il paziente uscì con un’identità più unificata, e un primo risultato fu quello di riuscire finalmente ad addormentarsi rilassato, liberandosi dagli incubi notturni che lo avevano accompagnato costantemente nei decenni passati. Giunse a comprendere che Auschwitz non era stato creato dal diavolo (Ashmadai, dio cabalistico del male), come aveva sempre ritenuto, bensì dall’uomo, che era opera dell’uomo. Si considerò guarito e decise di tornare in Israele, nonostante le insistenze del dott. Bastiaans, che avrebbe voluto concludere la terapia con altre due sedute lisergiche. Dopo dieci anni e tanti tentativi di scrivere la sua avventura psicolitica con lo psichiatra olandese, finalmente riuscì a prendere carta e penna e a stendere il libro Shiviti, e solo dopo molte pagine si accorse che per la prima volta sta scrivendo in prima persona, stava usando l’“io”, e non più la terza persona: “Tanto tempo fa ero un cercatore di solitudine, e prendevo le distanze da ogni contatto umano e dalle sue interferenze, così da poter rimanere solo con Auschwitz. Ma oggi Auschwitz si è fatta strada

pesantemente fino alla porta di casa di ognuno di noi. Ovunque ci sia umanità, là c’è Auschwitz. Non è stato Satana a creare Nucleo, ma tu e io”. Nucleo è il nome dato dal paziente all’entità satanica responsabile dei “funghi di Auschwitz”, quei fumi curiosamente a forma di fungo che uscivano dalle ciminiere dei forni crematori, un fenomeno osservato da molti testimoni (KaTzetnik 135633, 1989: 94).

Nevrosi e disturbi ossessivi-compulsivi Il termine nevrosi non è più contemplato nel DSM-5, e diverse tipologie di nevrosi rientrano oggi in varie classi diagnostiche; ad esempio, le fobie sono oggi considerate appartenenti alla classe dei disturbi d’ansia. Il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) è caratterizzato dalla presenza di pensieri e comportamenti ossessivi e compulsivi, che spesso giungono a compromettere l’attività sociale e lavorativa dell’individuo. Il soggetto è consapevole di questi comportamenti patologici. Nel descrivere i trattamenti di questi quadri patologici del passato, abbiamo tuttavia lasciato la terminologia diagnostica impiegata a quei tempi. I primi studi clinici di trattamento delle nevrosi con l’LSD sembrano essere stati sviluppati in Italia verso la fine degli anni ‘50, presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova. Un caso di nevrosi fobica trattata con successo riguardò una donna di 49 anni di nome Maria; essa era soggetta a un’imponente sintomatologia fobicoansiosa che l’aveva resa incapace di qualsiasi attività e in un continuo stato di angoscia e di inibizioni impressionanti. Ultimogenita di dieci fratelli, poco dopo la sua nascita la madre fu presa da attacchi paranoidi, tali da venire ricoverata in un ospedale psichiatrico. Nel corso di una vita coniugale infelice, dove il marito la disprezzava apertamente (“sei matta come tua madre”), la paziente fu soggetta a prime crisi ansiose, ossessionata dal timore di diventare matta come la madre, e a un certo punto il marito morì improvvisamente per un infarto cardiaco. Seguì una relazione segreta con il fidanzato di una delle sue figlie, sino al momento del matrimonio di questa, con conseguente allontanamento dalla casa materna; una relazione di cui riserberà un continuo senso di colpa. Ed è proprio con la partenza di questa figlia che i sintomi fobici subirono un rafforzamento, dove un generale senso di insicurezza lasciò il posto alla paura di non poter più accudire alle

faccende domestiche; queste venivano ripetute più volte in maniera ossessiva, e si instaurò un controllo ripetuto su tutto ciò che faceva, dovuto al timore di aver lasciato qualche ago nei vestiti rammendati, a non aver lavato bene la pentola in cui cuocere il cibo, ecc. La donna era consapevole della morbosità dei suoi comportamenti, e a suo dire erano indotti dal timore di fare del danno ai familiari, in particolare alla figlia più piccola. Dopo alcuni trattamenti elettroshock e di narcoanalisi senza successo, venne sottoposta a terapia lisergica di tipo psicolitico, con dosaggi che partirono da 70 mcg sino a raggiungere 150 mcg. Nel corso delle sedute la paziente reagì in maniera positiva all’esperienza lisergica e manifestò una notevole e spontanea abilità introspettiva; osservò tutta la sua vita, e da una prima valutazione negativa (“tutta una vita sbagliata, non c’è niente da salvare”), gradualmente le sue considerazioni si fecero più costruttive. Rielaborò il lutto per suo marito (“ora posso accettare la sua morte più affettuosamente”) e focalizzò l’attenzione sulla sua sessualità, alle sue primitive esperienze omoerotiche da bambina, e uno specifico lapsus (“come potrei essere innamorata di mia figlia? No cioè volevo dire del marito di mia figlia?”) permise di consapevolizzare una radice del comportamento fobico del timore di fare male alle sue figlie (“la mia vita è stata sempre un continuo desiderio sessuale”). Nel corso delle sei sedute lisergiche la paziente si rilassò sempre più, l’insicurezza, le fobie e le ossessioni diminuirono sino a scomparire totalmente (Giberti e Boeri, 1957). La medesima équipe genovese trattò sia con LSD che con LAE-32 altri 16 soggetti nevrotici affetti da ossessioni fobiche, disturbi di conversione, nevrastenie, ansie depressive. I dosaggi furono di 100 mcg di LSD per os, e 500 mcg di LAE32 via intramuscolo, con 2-7 somministrazioni, e fu adottata anche la tecnica del placebo. Secondo gli psichiatri, nel 50% dei soggetti fu osservato un netto miglioramento, sino alla scomparsa dei sintomi nevrotici (Giberti e Gregoretti, 1958). In un altro esperimento, condotto su 15 pazienti affetti da sindromi ossessive o fobiche, con le medesime sostanze e le medesime modalità di somministrazione, fu osservata una differenza di reazione all’esperienza lisergica: nei fobico-ansiosi l’esperienza veniva vissuta con profonda immedesimazione e intensa partecipazione, “vissuta come qualcosa di molto importante, integrata nel complesso della dinamica affettiva individuale”; mentre negli ossessivi “l’esperienza si è presentata più povera e frammentaria, più frequenti e marcati gli atteggiamenti introversivi e di ritiro dal mondo [...] l’esperienza lisergica finisce per ridurre l’ossessivo ai suoi termini essenziali: la tendenza primaria a ripetere, a precisare, la

coazione ineluttabile, ancorché contrastata o impedita dall’azione dell’LSD, persiste e contribuisce a rendere incolore, limitata, scarna la configurazione complessiva dell’esperienza lisergica” (Giberti et al., 1958: 498-9). È opportuno osservare come in molti di questi studi clinici italiani non sembra venga svolto un mirato lavoro psicoterapeutico prima, durante e dopo il trattamento psichedelico, al massimo un lavoro di supporto psicologico nel corso del plateau. Agli inizi degli anni ‘60 del Ventesimo secolo, in un ospedale londinese fu sperimentato il PCP (fenciclidina) su alcuni nevrotici da molti anni affetti da disordine nevrotico misto, ossessivo, anoressico. Il trattamento prevedeva un paio di assunzioni preliminari di sodio amitale per endovena, con lo scopo di impratichire il paziente alla psicoterapia con sostanze psicoattive; quindi si procedeva alla somministrazione del PCP due volte alla settimana mediante infusione endovenosa lenta. Veniva data una prima dose di 1 mg, incrementata di 0,5 mg a ogni successiva somministrazione, sino a raggiungere un massimo di 5 mg e per un totale di 6-16 somministrazioni. Negli ossessivi fu osservata una riduzione significativa dei rituali, che durava per molte ore dopo l’iniezione, a differenza dei trattamenti con l’LSD, che solitamente incrementavano il comportamento compulsivo nel giorno del trattamento. Ad altri 8 pazienti nevrotico-ossessivi con una storia di 2-15 anni di malattia, il PCP fu somministrato oralmente con dosaggi di 5-10 mg. Gli effetti più frequenti furono fenomeni di abreazione e facilitazioni nella comunicazione verbale, mentre in un paio di casi si osservò un controproducente blocco del pensiero. Questi studi furono eseguiti senza alcun sistema di controllo. Interessante il caso di un paziente afflitto da anni da ruminazione ossessiva, che ottenne benefici con il trattamento con PCP al punto da venire dimesso dall’ospedale, con un sostegno farmacologico di 2,5 mg di PCP da assumere oralmente 2-3 volte al giorno (Davies, 1963). Anche Carl Lambert, che a Dartford, sempre in Inghilterra, trattava i nevrotici ossessivi, in particolare gli ex-prigionieri di guerra, somministrò PCP a dieci dei suoi pazienti, e osservò come questi, in seguito alla somministrazione endovenosa, passassero attraverso tre fasi: la fase acuta, quella comunicativa e quella rilassata euforica. Raramente qualche paziente passava a una quarta fase, quella irritabile depressa. La durata media del trattamento era di tre mesi, con una media di otto somministrazioni di PCP. A parte due pazienti, che non trassero alcun beneficio dal trattamento, gli altri otto ottennero un considerevole miglioramento, e anche in questo caso il

fenomeno più frequente e incisivo fu l’abreazione (Lambert, 1963). Si presentavano con una certa frequenza e in maniera sorprendente risoluzioni delle patologie in seguito a trattamento psichedelico senza alcun accompagnamento psicoterapeutico. È il caso trattato a Copenhagen di una donna di 37 anni, sposata, che negli ultimi 5 anni soffriva di una nevrosi ansiosa che l’aveva completamente legata alla casa, e temeva di lasciarla senza essere accompagnata. Non fu trovato alcun elemento psicogeno che potesse spiegare i suoi sintomi, e tutti i precedenti trattamenti erano falliti. Fu sottoposta a 8 trattamenti con psilocibina senza psicoterapia. I suoi sintomi sparirono completamente. La donna fu seguita con un follow-up di 8 mesi (Geert-Jörgensen, 1968). Grof (1994: 53) aveva osservato che diversi ossessivo-compulsivi gravi manifestano una particolare resistenza agli effetti dell’LSD, perfino con dosaggi di 500 mcg, e osservò addirittura un caso di resistenza con 1500 mcg. Egli suggeriva di non insistere con un aumento di dosaggio nel caso non si raggiungesse un’esperienza lisergica completa con 400-500 mcg, e attribuiva la causa di questa resistenza a due condizioni psicologiche opposte: o l’eccessiva rigidità e un forte sistema di difesa psicologico, o l’estrema apertura e mancanza di barriere di separazione. A Buenos Aires, Jorge David trattò con l’LSD 16 pazienti affetti da nevrosi ossessive, con risultati promettenti. I pazienti ricevettero da 1 a 8 trattamenti, con quantità di lisergico variabile da 50 a 100 mcg. Un dato interessante riguarda il fatto che i dati positivi non si limitarono al 25% (4 casi) di scomparsa totale del disturbo ossessivo in seguito al trattamento, ma che in diversi casi in cui fu osservato solamente un lieve miglioramento o addirittura nessun miglioramento immediato, con il passar del tempo si verificò un significativo miglioramento del disturbo, senza che questi pazienti si fossero sottoposti nel frattempo ad altri trattamenti; un fenomeno di “ritardo di efficacia terapeutica” che portò a un 44% (9 casi) di risoluzione totale del disturbo con follow-up a 2-6 anni (David, 1960). Interessante il caso di un uomo di 30 anni trattato a Copenhagen. A partire dai 22 anni d’età l’uomo iniziò in maniera intermittente a vivere sintomi di natura ossessiva, quali il timore di toccare le maniglie delle porte, e un’accidentale pestata di un escremento di cane gli innescò un severo stato compulsivo con paura di contaminarsi e di infettarsi, con tanto di interminabili rituali di pulizia e di perdita del lavoro, che consisteva

nell’aprire delle lettere e rispondere a queste, dato che per il suo timore di infettarsi non le apriva e quindi non rispondeva. All’inizio della TP lisergica, il paziente si lavava le mani 200-250 volte al giorno, e usava non meno di 2-3 rotoli di carta igienica al giorno. Non era nemmeno in grado di toccare il denaro, né di prendere i mezzi pubblici. Sua moglie lo aiutava e assecondava per come poteva a queste manie igieniche, impiegando diverse ore della giornata. Durante le prime tre sedute, fu eseguita un’iniezione di 60 mcg di LSD, dopodiché 100 mcg, con un totale di 57 sedute, una alla settimana. Alcune volte vennero aggiunti 20 mg di Ritalin 45 minuti dopo l’iniezione lisergica. L’uomo veniva lasciato da solo, ma poteva richiedere la presenza dell’infermiera o del terapeuta quando lo riteneva necessario, e il terapeuta effettuava un lungo dialogo con il paziente dopo la discesa degli effetti lisergici. Il soggetto passò attraverso diverse fasi di auto-osservazione, dove consapevolizzò come considerasse il sesso e lo sporco associati fra di loro, percepì un timore di defecarsi addosso, e giunse a intuire che la chiave del problema risiedeva nel suo apprendimento a usare il bagno quando era bambino. Mano a mano che consapevolizzava tutto ciò, il disturbo compulsivo si ridusse; una riduzione che veniva calcolata nel numero di volte che si lavava le mani. A un certo punto accade una “strana coincidenza”, di quelle che Jung non considerava mere coincidenze ma sincronicità: mentre al paziente riaffiorarono vivide memorie di come da bambino fosse stato sottoposto a un severo apprendimento nella cura e pulizia del corpo, accadde un dialogo con la madre, dove questa (che era ignara della TP a cui era soggetto suo figlio) gli confessò che lo aveva sottoposto all’apprendimento dell’uso del bagno in un’età troppo prematura, a circa 12 mesi d’età. Il paziente continuò a rivivere esperienze della prima infanzia, inclusa un’importante esperienza della sua nascita, e in diversi momenti fu soggetto ad attacchi di ansia e di rabbia. In uno di questi fece a pezzi e gettò a terra la sua salvietta, ma più tardi raccolse i pezzi da terra, e in quel momento si accorse che per la prima volta in anni raccoglieva qualcosa da terra, cosa che evitava sempre per i problemi ossessivi igienici. Il numero di volte in cui si lavava le mani tornò normale e la guarigione apparve totale con un follow-up sino a 13 anni di distanza (Brandrup e Vangaard, 1977). Riportiamo un altro caso di una paziente psiconevrotica trattata da Joyce Martin al Day Hospital di Marlborough. Si trattava di una donna londinese di 27 anni, sposata da più di 6 anni, che non aveva ancora consumato il matrimonio poiché ogni volta che il marito le si avvicinava veniva presa da

attacchi di panico, nausea, vomito e una sensazione di soffocamento alla gola. Nella sua storia biografica era a conoscenza di un atto di violenza sessuale che aveva subìto all’età di cinque anni da parte di un uomo anziano; un evento di cui non aveva alcuna memoria. Sotto effetto dell’LSD vide più volte un uomo anziano con un cappello nero. Al quinto trattamento lisergico “vide” il nome del medico che la visitò subito dopo l’atto di violenza sessuale. Dopo la sessione, cercò e trovò il nome del medico nell’elenco telefonico; lo contattò e si recò a visitarlo nel suo studio, che stava dall’altra parte di Londra. Il medico si ricordava del suo caso, e le disse che non aveva subito alcuna violenza fisica, che non era stata penetrata dall’uomo anziano, ma che semplicemente i suoi vestiti erano macchiati di sperma. Le disse anche che prescrisse bagni antisettici per due settimane, e ciò spiegò l’eziologia della sua ossessione a lavarsi continuamente le mani e a cambiarsi gli slip tre volte al giorno. Questa consapevolezza promosse nella donna un ritorno alla normalità, l’ossessione compulsiva a lavarsi le mani svanì, e finalmente riuscì ad avere un rapporto sessuale con il marito senza complicazioni. La donna si era in precedenza sottoposta a narcoanalisi con pentotal, ma senza che la conseguente abreazione avesse raggiunto quell’evento infantile (Martin, 1957: 190). Sempre in Inghilterra, Kenneth Cameron (1963) trattò con l’LSD alcuni ragazzi compulsivo-ossessivi di 14-18 anni d’età, riuscendo a ottenere dei miglioramenti nel 50% dei casi. Un quindicenne era afflitto da movimenti severamente compulsivi, rituali ossessivi e grida compulsive. La sua stanza in ospedale era stata adattata in maniera da ridurre al minimo la possibilità che si facesse del male. La sua nutrizione presentava notevoli difficoltà a causa dei tanti rituali che intraprendeva prima che potesse ingerire qualcosa. Dopo due anni di psicoterapia, Cameron procedette a una terapia lisergica con dosi di 40 mcg somministrate in endovena. Durante le sedute il ragazzo esternò e discusse con lo psicoterapeuta dei problemi familiari, dei suoi sensi di colpa in questioni sessuali, manifestando un discreto livello di insight. Analizzò eventi problematici del periodo scolastico che non aveva mai menzionato in precedenza, e il climax introspettivo fu raggiunto con il ricordo di un forte momento di paura e di ostilità nei confronti del padre, cui fece seguito un’esperienza di natura estatica che portò alla immediata risoluzione delle componenti compulsive del suo comportamento patologico. Non fu risolta la componente rituale ossessiva, e non sono chiari i motivi per cui la terapia fu sospesa; il ragazzo fu dimesso e riuscì a trovarsi un lavoro, pur nella

difficoltà del rallentamento comportamentale dovuto ai rituali. Comunque sia, ciò che qui ci interessa sottolineare è il fatto che fu un’esperienza di natura estatica a dissolvere i comportamenti compulsivi di quel ragazzo. In altri casi la risoluzione dei problemi avveniva attraverso l’esperienza di una specifica visione che si presentava nel corso del ciclo psicolitico. Un pittore inglese di 31 anni aveva una voce falsetto, di cui si vergognava, che lo rendeva costantemente insicuro e che, fra l’altro, non gli permetteva di avvicinare una donna. Fu sottoposto a un ciclo psicolitico di 18 sedute lisergiche, tenute settimanalmente e con dosaggi che raggiunsero i 500 mcg. Durante la 14° seduta la sua voce divenne normale. Ciò accadde, a detta del soggetto, quando in visione vide un neonato, e subito dopo si vide essere egli medesimo quel neonato; si sdraiò nella medesima posizione tenuta dai neonati, e sentì i suoi capelli bagnati di un qualche liquido appiccicoso. Questa sensazione fu così vivida ch’egli cercò di pulirsi con le mani. Nello stesso momento udì una voce profonda che gli parlava, inizialmente in maniera balbuziente, quindi si trasformò gradualmente in una voce maschile adulta che gli si rivolgeva dicendogli ripetutamente in maniera ammonitoria “Diventa adulto!”. Nei 2-3 giorni che seguirono la sua voce balzava dalla forma falsetto a quella adulta, sino a che si stabilì definitivamente nella voce adulta (Vanggaard, 1964: 429).

Disturbi di conversione Sembravano rispondere particolarmente bene alle TP quei disturbi inquadrati come isterie di conversione o disturbi di conversione, in cui il soggetto converte un conflitto psicologico in un’affezione fisica che può essere grave al punto da comportare la perdita di funzioni motorie o sensitive. Si presentarono casi in cui l’isteria di conversione si risolse in maniera eclatante nell’immediato contesto del plateau psichedelico; in altri termini, l’LSD poteva forzare l’apertura di un meccanismo di isolamento isterico senza insight. Ne riportiamo alcuni esempi. Un uomo che aveva sofferto per alcuni anni di una triplegia isterica in seguito a una ferita da hockey, diagnosticato come “isterico di conversione refrattario con sintomatologia di conversione negativa”, fu sottoposto a TP. Un primo trattamento con LSD fece recuperare due arti. Restava una “amputazione mentale della gamba” a metà coscia. La situazione non si

mosse con dosi di 1600 mcg di LSD. Con una dose finale di 2000 mcg recuperò l’uso integrale di questo arto nel giro di 10 minuti dalla somministrazione. Sotto l’effetto dei 2000 mcg, il paziente si mise a correre per tutto l’ospedale, rincorso dai medici, e baciava e abbracciava chiunque incontrasse, ringraziandoli, medici, infermieri, portinai e gli altri pazienti (Baker, 1967: 196). Dietrich Heyder, psichiatra direttore del Centro di Salute Mentale di Norfolk (Virginia, USA), trattò positivamente un uomo di 32 anni che soffriva di un disturbo di conversione che gli aveva immobilizzato il braccio e la mano destra. Ciò in seguito a un incidente di lavoro, l’esplosione di una torcia da saldatura che gli aveva procurato ustioni di secondo grado sulla mano destra. All’esame neurologico non fu riscontrata alcuna anormalità e la paralisi fu attribuita a disturbi di natura psichica. Dopo tentativi infruttuosi con l’ipnosi, la narcoanalisi (sodio amitale) e la psicoterapia classica, il paziente fu sottoposto a una terapia psichedelica intensiva, con 3 somministrazioni di 300 mcg di LSD nel giro di otto giorni. Le prime due sedute non produssero cambiamenti di rilievo, con il paziente pressoché muto, mentre alla terza seduta si verificò una verbalizzazione centrata su eventi passati (incluso un trauma in un campo di prigionia cinese in Korea), iperattività motoria, e la sensazione del paziente di sentirsi come un mulino a vento, che lasciò libero totalmente e definitivamente i movimenti del suo braccio e mano destra. Due giorni dopo il paziente si recò a pescare, e fu osservata nel quotidiano locale una sua foto con la cattura del pesce più grosso della stagione (Heyder, 1963). Un altro caso di disturbo di conversione fu trattato al Salpêtrière di Parigi nel 1961. All’età di 12 anni, in seguito a una caduta apparentemente benigna, una bambina di nome Annick accusava un dolore vivo sul piede sinistro. Gli esami non rilevarono alcuna anomalia, nonostante la bambina continuasse a lamentarsi del dolore al piede, al punto che ne era influenzata la deambulazione. All’età di 16 anni la ragazza fu vittima di un altro incidente dove venne colpita da un’auto, ma senza grosse conseguenze fisiche. Tuttavia continuava a lamentarsi del dolore al piede, la difficoltà nel camminare si aggravava e apparve una deformazione netta dei due piedi in varo equino, dove solo il bordo esterno del piede appoggiava al suolo. Nuovamente, le analisi non trovarono alcuna anomalia articolare, muscolare, ossea o neurologica. A questo punto, all’età di 17 anni, la ragazza venne indirizzata al Salpêtrière all’attenzione dell’équipe del prof. Michaux. Lo studio degli

antecedenti e della situazione familiare non rivelarono alcunché di anomalo. Terza nata di sei figli, la figura familiare alla quale era più legata era la prima nata, ormai sposata e che per questo non viveva più in casa. Nella prima ospitalizzazione venne notata una contrazione muscolare molto forte che fissava la deformazione ai piedi, ma fu confermata l’inorganicità del fenomeno. L’esame psicologico evidenziò la percezione di un mondo ostile, un’ambivalenza affettiva nei confronti della madre e difficoltà di contatto con la figura paterna. Le fu praticata la narcoanalisi e altre tecniche terapeutiche, che migliorarono e infine fecero tornare normale la deambulazione. Dimessa dall’ospedale, dopo tre mesi accusò una ricaduta e un ritorno alla distorsione dei piedi. A questo punto venne sottoposta a TP con iniezione di psilocibina. Con 3 mg, senza successo, e poi con 9 mg. In questa seconda seduta, verso la seconda ora del plateau la ragazza disse che doveva assolutamente confessare delle cose che non aveva mai detto. Essa riferì che suo padre e sua madre erano degli alcolisti inveterati, che suo padre a più riprese era stato vittima di attacchi di delirium tremens alle quali aveva assistito da bambina. Il padre per questo era stato più volte ricoverato; l’alcolismo di entrambi i genitori aveva portato a litigi e violenze in casa creando una vita familiare insopportabile. Ed è per questo motivo che la sorella maggiore, una volta sposatasi, non era più tornata a renderle visita. Per la prima volta in sei anni la ragazza fu in grado di parlare di questioni familiari, e fu questo processo catartico che la portò a completa e permanente risoluzione del problema ai piedi, riprendendo una deambulazione normale a partire dal giorno seguente la seduta psilocibinica (Duché, 1961). In un altro caso, trattato in Inghilterra nel 1960, una donna di 51 anni, felicemente sposata, soffriva di emicrania severa sin dall’età di 9 anni e una tensione generalizzata sin dall’adolescenza. L’emicrania precipitava frequentemente quando si trovava di fronte a una situazione difficile. Aveva altri tre fratelli più anziani. Fu sottoposta a terapia LSD con dosi di 40-90 mcg. combinate con 15 mg di metedrina. Nel corso delle sedute rivisse l’intensa gelosia che a tre anni d’età provava nei confronti del fratello che era il favorito del padre, e aveva un desiderio travolgente di uccidere suo fratello. Nell’ultima seduta si “vide” all’età di dieci anni, quando giunse in famiglia la notizia che quel fratello era stato ucciso in Francia. Rivisse quindi i suoi desideri di uccidere il fratello, associati con grande rimorso e senso di colpa e un’orribile sensazione che il suo desiderio che morisse fosse stato realizzato. Il suo primo attacco di emicrania si presentò quando ricevette la notizia della

morte del fratello. L’abreazione di queste sensazioni portò alla risoluzione definitiva della sua emicrania (Ling e Buckman, 1960).

Disturbi sessuali Le terapie psichedeliche furono di frequente impiegate nei casi di omosessualità, in un tempo in cui questo orientamento sessuale era ancora visto come una patologia psichiatrica. Gli psicoterapeuti e psichiatri che intrapresero questo tipo di trattamenti durante gli anni ‘50 e ‘60, riportarono frequenti successi nel loro operato, con la trasformazione di “sofferti omosessuali” in felici eterosessuali. Ma un’attenta osservazione di questi studi rivela non poche incongruenze e ambiguità, sia concettuali che metodologiche, prime fra tutte l’avere sviluppato le ricerche su soggetti che, oltre ad avere tendenze omosessuali, soffrivano di conclamati disturbi psichiatrici di varia natura. È il caso della terapia psichedelica con LSD svolta su 12 omosessuali maschi presso il Marlborough Day Hospital di Londra, che furono scelti da un gruppo di un centinaio di pazienti nevrotici omosessuali, in base a una pur interessante serie di criteri: 1) non essere stati soggetti a precedenti episodi psicotici; 2) avere qualche conoscenza dei loro processi inconsci; 3) essere dotati di un certo potenziale introspettivo; 4) essere dotati di un’elevata intelligenza; 5) avere un buon sviluppo dell’ego; 6) avere un forte desiderio di sentirsi bene. Non furono quindi inclusi quegli omosessuali che accettavano la loro omosessualità senza desiderio di modificarla. I soggetti parteciparono a un ciclo di otto sessioni individuali psicoterapeutiche, con dosaggi di LSD che partivano da 50 mcg, con incrementi di 20 mcg a ogni seduta successiva. I risultati riportarono sette soggetti (di cui quattro soffrivano di disturbi ossessivi, due erano psicopatici, e uno sofferente di tensione cronica) con completo riorientamento eterosessuale, con un mantenimento registrato fino a 3-6 anni dalla cura. Gli altri cinque soggetti non subirono variazioni nelle loro tendenze sessuali, ma due di questi stabilirono una relazione duratura con un partner, mentre in precedenza avevano avuto solamente rapporti promiscui. Curioso fu il risultato di un altro omosessuale, che in precedenza aveva preferenze verso ragazzi molto giovani, mentre in seguito alla terapia lisergica iniziò a essere attratto dagli uomini anziani (Martin, 1962).

Nella relazione dei risultati di questa ricerca clinica non viene comunicato se i soggetti “guariti” dall’omosessualità fossero guariti anche dai loro disturbi psichiatrici, così come non viene data indicazione su eventuali relazioni fra i disturbi mentali e le preferenze sessuali che fossero state consapevolizzate dai pazienti nel corso delle sedute psicoterapeutiche. Viene solamente riferito che uno dei soggetti “guariti” continuò a frequentare l’ospedale per un lavoro di abreazione con metedrina, somministrata ogni due settimane, e che parrebbe essere guarito da una buona parte dei disturbi psichici di cui soffriva. Tenendo in conto che i soggetti avrebbero facilmente potuto appartenere a quella schiera di omosessuali psicologicamente frustrati e auto-colpevolizzati a causa dei fattori sociali, familiari e più in generale culturali dell’epoca – molti dei quali soggetti a conseguenti disturbi psichici – e che tendevano ad auto-convincersi dell’interpretazione patologica della loro preferenza sessuale, è evidente la relatività dei successi acclamati. Tutt’al più, sarebbe stato di maggior interesse se in quella ricerca fossero stati coinvolti, come soggetti “di controllo”, anche degli omosessuali “convinti”, quelli che accettavano senza problemi la loro preferenza sessuale, per studiare le eventuali differenze di reazioni di questi ultimi, e non tanto nei risultati, quanto nelle differenze dei contenuti psicoanalitici; ma l’interpretazione psichiatrica dell’omosessualità che vigeva ancora a quei tempi faceva sì che gli omosessuali “convinti” venissero catalogati in psichiatria come degli “inutili inguaribili”. Sempre riguardo la classe degli “inguaribili”, lo psichiatra norvegese Gordon Johnsen, del Modum Bads Nervesanatorium di Vikersund, impiegava l’LSD come mezzo psicodiagnostico, per individuare se l’omosessualità fosse un disordine “genuino” o di derivazione psicogenetica. Se nel primo trattamento di un travestito questo provava “solo” (virgolette nostre) la piena sensazione di sentirsi una donna, senza processi di regressione, se ne deduceva che si sarebbe trattato di un disordine genuino, e il trattamento sarebbe consistito nell’aiutare il travestito “a portare la sua croce”, considerando anche la possibilità del trattamento ormonale e dell’operazione chirurgica; altrimenti, il travestito veniva indirizzato verso un percorso psicoanalitico classico (cioè senza psichedelici) (Johnsen, 1967). Più interessante è l’impiego di LSD in un caso di travestitismo, dove il lavoro psicoanalitico con lo psichedelico non aveva lo scopo di “curare” questo costume sessuale, ma di far raggiungere un’accettazione attraverso una migliore consapevolizzazione dell’individuo. Il caso riguardava una

coppia sposata, con un complesso background familiare per entrambi i coniugi e un problematico sistema relazionale della coppia. L’uomo, il “signor X”, di 43 anni d’età, aveva una lunga storia di dipendenza da droghe e alcolismo, con tendenze sessuali di travestitismo e di masochismo. Durante l’adolescenza si sentiva rifiutato dai genitori, specialmente dalla madre – la figura forte della famiglia – e si era accorto che riceveva delle attenzioni, pur di carattere punitivo, solo quando si ribellava agli ordini materni. Era consapevole che il suo travestitismo era originato da uno specifico evento, quando fu portato a una festa di bambini, in cui per gioco i genitori avevano detto loro di vestirsi, sia maschi che femmine, con vestiti del sesso opposto. Al suo rifiuto, sua madre lo punì fisicamente, sino a fargli accettare per forza la vestizione femminile. Anni più tardi iniziò a provare piacere sessuale nell’indossare i vestiti di sua sorella, la quale accondiscese a questo gioco aiutandolo a nasconderlo a sua madre. Più tardi, durante il servizio di leva militare, fu introdotto dai camerati all’uso del “G.I. Gin”, una droga in voga a quei tempi costituita da una miscela di terpina idrato e codeina. Durante il servizio militare fu sottoposto all’asportazione di un testicolo a causa di una ferita, e da quel momento l’impulso al travestitismo, che viveva comunque con senso di colpa e di vergogna, aumentò notevolmente, e l’unico sollievo psicologico lo trovava assumendo il G.I Gin, del quale divenne dipendente. Dopo un primo matrimonio, con una donna che accettava di malgrado il suo travestitismo e uso della droga, incontrò una donna, che divenne la sua seconda moglie, che accettò le sue tendenze sessuali, e anzi vi partecipò come complice e partner completo. La moglie, la “signora X”, di 33 anni d’età, ebbe anch’essa un’infanzia problematizzata da una storia di suicidio della madre e di azioni incestuose da parte del padre. Quando incontrò il signor X, si trovò sessualmente in sintonia, dove ella assumeva con piacere il ruolo maschile, mentre egli ricopriva, travestito, il ruolo femminile, e l’attività sessuale si sviluppò sino a raggiungere toni sadomasochistici consenzienti, con lei che legava a una sedia e frustava il marito. Il piacere di questa pratica sessuale non era di natura omosessuale, ciò che eccitava entrambi era meramente lo scambio estetico e teatrale dei ruoli, e il gioco si concludeva sempre con amplessi eterosessuali. Nel tentativo di liberarsi dalla dipendenza da G.I. Gin, il signor X scivolò presto nell’alcolismo, seguendo quel processo di sostituzione che accade frequentemente nei comportamenti di dipendenza da droghe,135 ricadendo

comunque saltuariamente nell’uso della prima droga. E fu a questo punto ch’egli si sottomise a un percorso terapeutico di disintossicazione dall’alcol, durante il quale gli fu proposto di partecipare a un iter psicoterapeutico con LSD di tipo familiare, cioè insieme a sua moglie. Il trattamento consistette di una ventina di sessioni psicoanalitiche della coppia, coadiuvate dall’assunzione di LSD. Nel corso delle sedute, il signor X sperimentò esperienze di rinascita e di profonda consapevolezza della sua situazione, sino a comprendere le origini dei suoi comportamenti, in particolare dell’impulso al travestitismo, le cui radici affondavano nella dipendenza psicologica dalla madre. Questa, dotata di un forte carattere “narcisistico maschile con orientamento in una donna fallica”, aveva indotto nel figlio un rifugio e una risposta, elaborata nel travestitismo, mediante il quale egli ricreava la “donna fallica” materna, che gli faceva raggiungere l’agognata e mai realizzata accettazione materna, e che alleviava quindi la sua ansia di castrazione psicologica e, più tardi, anche fisica (con l’asportazione di un suo testicolo). Nel corso delle medesime sedute lisergiche di coppia la signora X consapevolizzò le sue tendenze omosessuali, che originavano dalla perdita violenta (suicidio) della madre quando lei aveva solamente 4 anni d’età, e dalle pratiche incestuose del padre; queste ultime le crearono un recondito rifiuto della figura maschile, e in ciò originava il piacere nell’approccio sessuale con un uomo travestito da donna. In seguito alla terapia psichedelica, la coppia continuò nei giochi sessuali di ruolo, ma liberi entrambi dai sensi di colpa. Il signor X non trovò più piacere né nell’impiego del G.I Gin né dell’alcol, e intraprese socialmente una campagna contro la dipendenza da codeina e a favore di maggiori restrizioni legislative per l’accesso a questa droga (Thorne, 1967). Gli psichedelici sono stati impiegati anche in diversi casi di impotenza e di frigidità. La casistica di trattamenti con TP dell’impotenza maschile è estesa. Citiamo un caso trattato ad Amburgo (Germania) agli inizi degli anni ‘50, di un uomo di 35 anni che era sposato già da 12 anni, ma che poco dopo il matrimonio non desiderava più la moglie, pur non volendola lasciare. Gradualmente divenne impotente, inizialmente solo con sua moglie, poi definitivamente. Sottoposto a psicoterapia classica, risolse alcune difficoltà infantili, ma l’impotenza persisteva. Fu quindi sottoposto a una singola seduta psichedelica, con somministrazione di 400 mg di mescalina. Nel corso dell’esperienza il paziente visualizzò scene erotiche, e verso la terza ora

rivisse un’esperienza omo-erotica del periodo post-puberale e l’innamoramento nei confronti di una bambina quando egli aveva sei anni. Dopo 45 minuti da un’ulteriore somministrazione di 100 mg di mescalina, il paziente ebbe un’erezione che si protrasse per il resto degli effetti mescalinici, e da quel momento non ebbe più problemi di impotenza (Frederking, 1955). Interessante il caso trattato da Einar Geert-Jörgensen a Copenhagen, di uno scienziato di 30 anni, impotente, che non aveva mai avuto relazioni sessuali, né prima né durante il suo unico matrimonio. Dopo un infruttuoso anno di psicoterapia intensiva, fu sottoposto a una serie di sei sedute di trattamento lisergico, senza alcun lavoro psicoterapico di accompagnamento. Al termine della terapia lisergica non era più impotente, e ciò in maniera permanente, controllato con un periodo di follow-up di 4 anni (GeertJörgensen, 1968). L’LSD è stato impiegato pure nella frigidità femminile. Un caso trattato a Londra nel 1959 riguardava una donna di 29 anni di origine asiatica. Pur essendo attratta dagli uomini, ogni volta che provava a congiungersi in un amplesso le si innescava una violenta reazione di rifiuto che non riusciva a controllare, e che la portava ad aggredire e a ingaggiare una lotta fisica con il sorpreso partner. Ciò era accaduto con ben otto uomini, era per questo motivo ancora vergine, e temeva di non potersi mai sposare. Si trovava in una condizione di frustrazione, con caratteri nevrotici accompagnati da ansia e depressione. Fu sottoposta a terapia psichedelica con bassi dosaggi di LSD (25-50 mcg) accompagnati da modiche quantità di metedrina (10-20 mg). Fra gli eventi traumatici della sua storia personale, all’età di 13 anni fu vittima di un assalto sessuale da parte di un uomo, che non riuscì nell’intento poiché la ragazza reagì lottando; di questo evento la ragazza era memore. La terapia lisergica le fece affiorare altri ricordi, inclusa la gelosia per l’arrivo di una sorellina, la gelosia-rivalità con la madre per l’amore di entrambe verso il padre, il costante e recondito timore di morire, originato nel corso di una malattia (malaria) che l’aveva fatta stare in punto di morte ai primissimi anni di vita, così come poté osservare le radici del timore di bagnare il letto con una diuresi incontrollata; un timore che si era trascinato sin da adulta e che le faceva evitare di bere in abbondanza, anche quando aveva molta sete. Dai ricordi che affioravano, si accorse che da bambina le piaceva bagnarsi a letto poiché questo faceva rivolgere delle attenzioni nei suoi riguardi da parte della madre, pur essendo questa arrabbiata e disgustata.

L’insieme delle sedute e del materiale psicoanalitico che via via veniva consapevolizzato, liberò gradualmente la ragazza dai timori-gelosie-blocchi dell’infanzia, tutti interconnessi. Nella prima seduta lisergica riuscì a bere per la prima volta tre bicchieri d’acqua consecutivi, senza l’ossessionante timore di bagnarsi nella notte successiva (cosa che effettivamente non si verificò). Durante le ultime sedute le accaddero importanti esperienze perinatali, dove rivisse l’esperienza di trovarsi dentro al grembo materno, in un contesto dove “ogni ritmo del corpo, del respiro, della pulsazione alle tempie, dei battiti del cuore e dei movimenti di succhiamento della bocca e della vagina erano all’unisono”; in pratica, una “unione con l’assoluto”. L’esperienza nel grembo materno la riportò a un punto di “partenza”, di “default”, dove questa “riunificazione con l’assoluto” era accompagnata costantemente da ciò che la ragazza stava proprio cercando: l’orgasmo. Nell’esperienza mentale di regresso a quella dimensione di pre-nascita, ella percepì per la prima volta la sensazione dell’orgasmo, e la utilizzò, nel contesto delle medesime sedute lisergiche e come suggeritogli dallo psicoanalista, per elaborare delle fantasie di amplesso con un uomo, dove “vide” come avrebbe dovuto fare: stendersi a pancia in giù, ritornare con la mente alla dimensione pre-natale che le avrebbe permesso di rilassarsi, al punto da potersi offrire senza opporre resistenza. E fu proprio ciò che accadde nei successivi tentativi reali di accoppiamento. A distanza di 18 mesi dal trattamento lisergico, la ragazza si considerava completamente guarita, era in grado di raggiungere l’orgasmo e di godere pienamente dei suoi incontri sessuali (Ling e Buckman, 1963: 6473). Di un altro caso di TP impiegata positivamente nel trattamento della frigidità femminile abbiamo un resoconto steso dalla paziente, che riportò con dovizia di particolari in un libro di cui esiste anche un’edizione italiana, totalmente dimenticata.136 Dietro allo pseudonimo con cui è stato firmato questo libro, si cela una giovane donna che era sempre stata frigida e che soffriva di dolorose ed enigmatiche tensioni alle braccia e di un tic costituito da un rumore ripetitivo che emetteva dalla regione del collo e della gola. Dopo un trattamento psicoanalitico della durata di 4 anni, senza aver conseguito apprezzabili miglioramenti, la donna si sottopose a una terapia psicolitica costituita da 23 sedute con LSD. Fra i ricordi che mano a mano riaffioravano nel corso del processo di

regressione indotto dall’LSD, decisivo fu quello dell’immagine di un’infermiera, di cui ricordò anche il nome, quando la paziente aveva l’età di due anni e mezzo. Quest’infermiera per un qualche motivo aveva immobilizzato la bambina legandole le braccia, e questa si era disperata ritenendo che l’infermiera non volesse che “giocasse con se stessa”; il ricordo fu accompagnato da fenomeni di intenso prurito nell’area pubica. Nel tentativo di interpretare questo ricordo accompagnato da sintomi fisici, la donna ebbe un colloquio con sua madre, prestando attenzione a non comunicarle alcunché del suo ricordo, ma semplicemente chiedendole notizie sulla sua primissima infanzia. Fra le varie notizie fornite nel corso del dialogo, la madre le comunicò che fra i 2 e 3 anni d’età aveva contratto, uno dietro l’altro, il morbillo e la varicella, e che in quel periodo veniva aiutata da un’infermiera. Senza che la figlia le avesse comunicato il nome dell’infermiera che le era riaffiorato alla mente durante la seduta lisergica, la madre disse proprio quel nome; un dato che tolse ogni dubbio alla paziente sulla realtà del ricordo. Nel corso della successiva seduta terapeutica, la donna “vide” cos’era accaduto: il morbillo o la varicella le avevano provocato un forte prurito nell’area pubica, e nel grattarsi aveva provato piacere toccandosi i genitali; l’infermiera aveva legato le braccia della bambina semplicemente per evitare che si grattasse, ma lei aveva interpretato questa forma di violenza associandola all’atto della masturbazione. Da questo fraintendimento ebbe origine la frigidità, e la sua consapevolizzazione nel corso della terapia indusse un primo grado di percezione del piacere durante il processo di immaginazione dell’atto sessuale al quale periodicamente si abbandonava sotto effetto del lisergico, come suggeritogli dallo psicoanalista. La donna riuscì finalmente a raggiungere una forma completa di orgasmo in seguito al ricordo di un altro evento della sua prima infanzia, quando vide i suoi genitori impegnati in un amplesso sessuale, con suo padre sopra la madre, mentre questa gemeva, evidentemente per il piacere, mentre la bambina aveva interpretato questa situazione come un atto di violenza del padre nei confronti della madre, che gemeva e si sentiva strangolare per la violenza subita. Una siffatta interpretazione aveva rafforzato la sua frigidità, oltre ad avere originato quel tic nell’area della gola che aumentava nel contesto dei tentativi di approccio sessuale con gli uomini, e che era evidente riflesso della percezione/interpretazione dello strangolamento materno durante quell’atto sessuale dei suoi genitori. Oltre al raggiungimento dell’orgasmo, un’altra conseguenza di questa terapia fu l’estinzione del tic

alla gola (Newland, 1962).

Stati depressivi I primi tentativi di trattare le forme depressive con gli psichedelici non furono coronati da successi, fatta eccezione di qualche caso isolato. Il motivo di questi fallimenti è probabilmente da attribuire alle modalità del trattamento – con approcci essenzialmente chemioterapici e privi di supporto psicoterapeutico – considerando che oggigiorno gli stati depressivi severi (in particolare la depressione maggiore) sono fra le patologie più indicate per i trattamenti con gli psichedelici.137 Uno dei primissimi trattamenti fu svolto a Londra da Guttmann e Maclay nel lontano 1936, con somministrazione una tantum di dosaggi di 100-200 mg di mescalina a 11 pazienti, di cui la maggior parte erano donne afflitte da stati depressivi di differente gravità, ottenendo un miglioramento solamente in un paio di casi. Abbiamo già esposta quella che è da considerare come la prima sperimentazione clinica indirizzata alla valutazione del potenziale antidepressivo dell’LSD, sviluppata dallo psichiatra svizzero Condrau nel lontano 1947 su 5 pazienti depressi, ai quali furono somministrate quantità crescenti di LSD per diversi giorni. Fu osservato un generale peggioramento della sindrome depressiva, e da ciò Condrau ipotizzò che l’LSD agisse semplicemente come rinforzante dell’umore di base (Condrau 1949). Charles Savage intraprese uno studio clinico presso il Naval Medical Research Institute di Bethesda (Maryland, USA), somministrando LSD a 15 pazienti affetti da svariate patologie – psicotici, diabetici, ecc. e che soffrivano tutti di forti depressioni –, oltre a 5 volontari “normalmente depressi”, cioè che “funzionavano adeguatamente nella loro situazione di vita immediata”, impiegati come controllo. Ai depressi somministrò dosi iniziali di 20 mcg di lisergico, aumentando il dosaggio ogni giorno sino a che “non fu osservato un preciso effetto psicofisiologico”. Il dosaggio finale variava dai 20 ai 100 mcg e il trattamento fu protratto per un mese intero. Pur osservando una guarigione totale in due soggetti che soffrivano di psicosi involutive – sebbene con solo alcuni mesi di follow-up –, e una liberazione totale dallo stato depressivo in 5 pazienti schizoidi afflitti da severa depressione (restando comunque basilarmente schizoidi), Savage concluse che “l’LSD non sembra

avere un vantaggio terapeutico significativo negli stati depressivi” (Savage, 1952: 899). Anche in Italia furono intrapresi studi clinici con psichedelici mirati al trattamento degli stati depressivi e ansiosi, per opera dei due psichiatri Giberti e Gregoretti della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Genova. Essi dapprima somministrarono 100 mcg di l’LSD per os a 17 pazienti afflitti da vari tipi di depressione (endogene episodiche semplici, endogene melanconiche, in personalità abnormi e depressioni atipiche), e in un secondo esperimento somministrarono 0,5 mg di LAE32 o 3-8 mg di psilocibina per os o intramuscolo ad altri 11 pazienti depressi (principalmente episodici monopolari e nevrotici) (Giberti e Gregoretti, 1960, 1961). I risultati che ottennero furono essenzialmente negativi, con una generale accentuazione dello stato depressivo. È il caso di osservare il tipo di approccio teorico dei due psichiatri genovesi, che considerarono come risultato positivo, antidepressivo, unicamente l’insorgenza di uno stato euforico durante il plateau psichedelico, senza considerare il potenziale terapeutico consequenziale e non immanente di altri effetti psichici, quali l’introspezione e l’auto-osservazione del proprio stato depressivo, la cui valutazione avrebbe richiesto uno studio più a lungo termine. L’équipe romana di Reda, che conseguì risultati maggiormente positivi nel trattamento delle depressioni con la psilocibina, attribuì i risultati negativi di Giberti e Gregoretti a una inadeguata assistenza. Inoltre, con un maggiore spirito di osservazione di quello di questi ultimi, si era accorta che si presentavano due tipi differenti di “euforia”: una forma violenta, immotivata, in genere di breve durata, legata al plateau psichedelico, e un’altra forma, più blanda, che si prolungava nel tempo anche per 1-2 giorni dopo l’esperienza: “questo secondo tipo di modificazione è più costante e compare, con la massima evidenza, 2-3 ore dopo l’inizio della prova, solo se sono state usate basse dosi del farmaco” (Reda et al., 1964: 47). È questo secondo tipo di “euforia” dotato di più stabili proprietà antidepressive. Abbiamo descritto in precedenza gli studi svolti a Bologna da Volterra e Tiberi, che ottennero con la psilocibina risultati di gran lunga più positivi nelle forme depressive (più di un paziente fu dimesso in seguito al trattamento), e che fece loro concludere: “la psilocibina, molto più della LSD, ha avuto un effetto timolettico che, già presente talvolta durante la prova, si è manifestato per lungo tempo anche dopo la fine di questa. Quest’azione è sembrata essere indipendente da quella psicodislettica, dato che è stata

riscontrabile anche in soggetti che non hanno presentato il caratteristico psicoma. Non è quindi del tutto impensabile l’utilizzazione di questo farmaco come antidepressivo, a dosi minime e in trattamenti prolungati” (Volterra e Tiberi, 1962: 103). Che i dosaggi ottimali di psilocibina siano quelli bassi, soprattutto nel trattamento degli stati depressivi, fu ritenuto anche dall’équipe di Reda in seguito a un secondo studio sviluppato presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, dove fu somministrata psilocibina via intramuscolo a 21 pazienti in dosaggi variabili fra i 3 e i 12 mg. Fu osservato che il miglioramento del tono dell’umore durava maggiormente con i dosaggi bassi che con quelli alti; inoltre, era ai dosaggi bassi che si presentava la netta tendenza all’estroversione, un fattore considerato utile dal punto di vista dell’interazione con il medico e in definitiva ai fini psicoterapeutici (Reda et al., 1964). La medesima équipe di Reda osservò in una paziente affetta da depressione nevrotica reattiva una soddisfacente guarigione dopo due sole somministrazioni di psilocibina, che furono seguite da un’imponente euforia e che portarono alla dimissione dell’ammalata (Reda et al., 1962). Grof (1994: 58) aveva osservato che nei casi di depressioni d’origine esogena i pazienti esperiscono sedute psichedeliche ricche in materiale biografico tematicamente e dinamicamente associato al loro problema depressivo, mentre nei casi di depressioni di natura endogena il contenuto delle sedute è solitamente molto più limitato e consiste di frequente in un’accentuazione delle sensazioni profonde e primordiali che costituiscono la depressione, con conseguente rischio in questi pazienti di intensificazione dei sintomi depressivi dopo alcune sedute lisergiche. Nel 1967 fu sviluppata una valutazione retrospettiva su 43 studi clinici di terapia psicolitica del periodo 1953-1965. Riguardo i casi di depressione trattati, principalmente con LSD, i risultati calcolarono il 62% di “molto” o “tantissimo” miglioramento, e dopo un follow-up di 2 anni, di questo 62% fu registrato un 62% che avevano mantenuto o migliorato la situazione antidepressiva, e il 35% era lievemente diminuita (Mascher, 1967).

Dipendenze Le terapie di avversione

Durante la prima metà del Ventesimo secolo e anche oltre, fra gli approcci al trattamento dell’alcolismo v’erano le cosiddette terapie d’avversione, che rientravano nella più generale categoria delle terapie comportamentali. Queste terapie, di carattere non coercitivo, si basavano sul creare un’associazione fra lo stimolo condizionato (l’alcol) e uno stimolo incondizionato spiacevole, quale poteva essere lo stimolo doloroso dell’elettroshock o una reazione avversa indotta dalla somministrazione di un farmaco. In una di queste terapie, in voga negli anni ‘40-60, il paziente veniva fatto sedere su una sedia alla quale era appesa una grande scodella per raccogliere il vomito. Al paziente veniva fatta un’iniezione contenente una miscela di emetina idroclorido per indurre la nausea e il vomito, efedrina per combattere possibili cadute di pressione sanguigna, e pilocarpina per produrre sudorazione e salivazione. Il tutto era seguito da una dose orale di emetina, che intendeva agire come irritante locale. L’irritazione gastrica addizionale di una pur piccola quantità di alcol assunta, produceva nausea in meno di un minuto e un violento vomito nel giro di un paio di minuti. Nel corso del trattamento erano offerti tutti i tipi di vini e liquori al paziente, il quale veniva incoraggiato a sciacquarsi approfonditamente la bocca e il palato per assaporare pienamente le sensazioni olfattive e gustative. I risultati di questo trattamento drastico sembravano essere significativi: in una rassegna su 4096 casi trattati in questo modo, il 44% era rimasto astinente dal primo trattamento, il 60% per un anno o più, il 51% per due anni o più, il 38% per 5 anni o più, e il 23% per 10 anni o più (Lemere e Voegtlin, 1950). Una forma alternativa di terapia d’avversione era basata su una temporanea soppressione della respirazione, con somministrazione di succinnilcolina cloruro idrato, un curaro sintetico utilizzato in anestesia per la paralisi chirurgica. Per un breve periodo di tempo immediatamente dopo l’iniezione della droga il paziente era totalmente paralizzato, incapace di muoversi e perfino di respirare, mentre era soggetto a disturbi fisiologici quali irregolarità cardiache, risposte anomale agli stimoli dermici e improvvise contrazioni muscolari. L’apnea durava per un periodo variabile dai 63 ai 150 secondi, ed era sufficiente per far esperire al paziente la spiacevole sensazione dell’asfissia. Nel corso dell’apnea, un assistente metteva nella mano del paziente paralizzato una bottiglia della sua bevanda alcolica preferita, gliela faceva portare alla bocca e faceva in modo che alcune gocce della bevanda cadessero nella sua bocca. Una volta passato

l’effetto del farmaco paralizzante, ogni qualvolta al paziente veniva mostrata la bottiglia di alcol era soggetto a contrazioni muscolari e a difficoltà respiratoria (Sanderson et al., 1963; Costello, 1969). Nella terapia avversiva con elettroshock, al paziente venivano messi di fronte sei bicchieri contenenti birra, vino, whisky, latte, acqua e succo di frutta, e gli veniva richiesto di bere uno a uno il contenuto dei sei bicchieri. Ogni volta che il paziente beveva da uno dei bicchieri contenenti una bevanda alcolica, gli veniva applicata una forte scossa elettrica della durata di 30 secondi. Veniva eseguito un trattamento di rinforzo quattro settimane dopo e sei mesi dopo il primo trattamento. In alternativa, la scossa elettrica veniva applicata non appena il paziente toccava un bicchiere contenente alcol, senza attendere che lo portasse alla bocca. Ma con questa tecnica, pur efficace per un insieme di pazienti, si presentava l’inconveniente che il 50% dei partecipanti interrompeva e abbandonava la prima seduta senza terminare la bevuta di tutti i sei bicchieri (Hsu, 1965). Nei pazienti che completavano il percorso terapeutico si osservava un prolungamento del periodo di astinenza, ma difficilmente un’interruzione definitiva della dipendenza. Presso il Patton State Hospital, in California, nella stanza dove si tenevano queste terapie fu simulato un bar pubblico, con tanto di bancone e sedie, insegne luminose blu, pubblicità di birre, reti da pesca, e musica per aumentare l’“atmosfera”. Il paziente doveva assumere 20 sorsi della sua bevanda preferita, tutti accompagnati da una scossa elettrica, ma di frequente si fermava a 5-6 sorsi. Inoltre, sebbene fossero previste otto ulteriori sessioni di questo trattamento, difficilmente il paziente tornava all’ospedale più di tre volte. Come di frequente accadeva, questi risultati, evidentemente infruttuosi, non trovano corrispondenza con l’acclamata utilità del trattamento riportata nelle conclusioni del rapporto (Vogler et al., 1970). Abbiamo presentato succintamente queste tecniche terapeutiche per meglio contestualizzare il sopraggiungere dell’impiego degli psichedelici nel trattamento dell’alcolismo. La pratica di presentare all’alcolista la sua bevanda alcolica preferita durante la terapia è stata nuovamente adottata negli anni ‘90 dallo psichiatra russo Evgeny Krupitsky nel corso delle sedute in cui somministrava all’alcolista la ketamina in dosi psichedeliche, ma con finalità differenti, cioè non per rafforzare un’associazione avversa, bensì come elemento induttore e rafforzante l’emersione di consapevolezza.138 Alcolismo e misticismo

Esiste da tempo una scuola di pensiero che associa le tossicodipendenze con la spiritualità e il misticismo e che vede le dipendenze come una ricerca “anomala” di spiritualità. Il fondatore di questo pensiero fu probabilmente lo psicologo e filosofo irlandese William James (1842-1910). Nel suo trattato del 1902, The varieties of religious experience, egli evidenziò la stretta associazione fra alcolismo e misticismo: Il potere dell’alcol sull’umanità è senza dubbio dovuto al suo potere di stimolare le facoltà mistiche della natura umana, di solito soffocate dai crudi fatti e dalle aride critiche dell’ora sobria. La sobrietà sminuisce, discrimina e dice no. L’ubriachezza espande, unisce e dice sì. È infatti la grande stimolatrice del Sì nell’uomo. Conduce il suo fedele dalla fredda periferia delle cose al loro nucleo radioso. La unisce per un momento alla verità. Non è per mera perversità che gli uomini corrono verso di lei. Per il povero e l’analfabeta essa fa le veci dei concerti sinfonici e della letteratura; e fa parte del mistero e della tragedia più profondi della vita il fatto che i fumi e i barlumi di qualcosa che immediatamente riconosciamo come eccellente siano concessi a tanti di noi solo nei primi fugaci momenti di ciò che nella sua totalità è così degradante e velenoso. La coscienza dell’ubriaco è una piccola parte di coscienza mistica, e la nostra opinione totale dell’ubriachezza deve trovare il suo posto nella nostra opinione di quel fenomeno più ampio (James, 1902: 377-378).

In quest’ottica, alquanto originale per quei tempi, l’alcolismo sarebbe quindi da interpretare come una forma d’espressione patologica di ricerca di misticismo, e osservando diversi casi di risoluzione dell’alcolismo verificatisi in seguito a esperienze mistiche, che indussero una “conversione” nell’individuo, James giunse alla conclusione che “la cura della dipsomania è la religiomania”.139 In seguito altri studiosi proseguirono lo studio della relazione fra dipendenze e ricerca di spiritualità, culminati nei tempi moderni nello studio di Morgan e Jordan (1999), Addiction and spirituality. Howard Clinebell (1963: 487), ad esempio, affermava che “uno dei fattori significativi nell’eziologia dell’alcolismo è il vano tentativo della persona di soddisfare profondi bisogni religiosi mediante l’alcol”. Come vedremo poco oltre, queste idee contribuirono significativamente all’elaborazione delle TP nel trattamento dell’alcolismo. Peyotismo vs. alcolismo I nativi del Nord America, dopo aver perso le guerre con i Bianchi, aver subito la deportazione nelle riserve ed essere stati decimati dal vaiolo, si trovarono in una profonda crisi esistenziale, e un’ultima piaga si abbatté sula loro cultura agonizzante: l’alcolismo. I livelli di alcolismo cronico superavano in molti accampamenti l’80% della popolazione adulta. Ma verso

la metà del XIX secolo si diffuse fra i nativi il movimento religioso sincretico della Chiesa Nativa Americana (che impiegava come fonte rivelatoria il peyote), di cui uno degli scopi era proprio quello di contrastare l’alcolismo, proponendo come alternativa al disfacimento morale dell’individuo un nuovo insieme di valori basati sulla sobrietà e sulla reciproca assistenza psicologica e pratica fra i suoi membri. Questo ruolo del peyotismo risolutivo della piaga dell’alcolismo fu osservato e riconosciuto dagli antropologi e dai funzionari Bianchi delle riserve; ad esempio fra i Winnebago del Nebraska nei primi decenni del Ventesimo secolo (Hill, 1990). Nella cerimonia notturna del peyote, eseguita in uno specifico tipi (capanna) e dove tutti i partecipanti consumano il peyote, il capo del rito è chiamato roadman, l’“uomo della via”, nel senso dell’uomo che indica la via giusta, ed è considerato svolgere funzioni analoghe a quelle dello psicoterapeuta nel corso della seduta psichedelica (Pascarosa et al., 1976b). Ciò che noi occidentali intendiamo per sanità e insanità, i peyotisti identificano con “la via del peyote” (sanità) e “l’altra via” (insanità, in primis l’alcolismo). Il primo atto che deve fare un partecipante al rito entrando nel tipi peyotista è una confessione pubblica, durante la quale riconosce umilmente le sue cadute ne “l’altra via” e chiede aiuto alla comunità. Questa confessione ricopre un importante ruolo catartico, e trova analogie con il concetto occidentale del “riconoscimento del problema” o del “toccare il fondo” da parte dell’alcolista, considerato come il primo indispensabile passo che apre la strada a un possibile percorso terapeutico e di guarigione. Molti nativi alcolisti smisero di bere totalmente dopo aver partecipato alla prima cerimonia peyotista. Indicativa è l’affermazione di uno di questi: “Nella visione del peyote ho visto come il mondo dell’uomo Bianco mi facesse sentire piccolo e come l’alcol mi facesse sentire grande” (Pascarosa, 1976a: 520). Spesso i nativi mettono in guardia i nuovi membri dal non cercare di “capire” il peyote. Essi dicono “stai dietro a lui”, intendendo l’esperire semplicemente la medicina senza intellettualizzarla (Pascarosa et al., 1976a: 522); così come l’individuo viene incoraggiato a consultare direttamente il peyote per i propri problemi (“chiedi alla medicina”, “ascolta cosa ha da dirti la medicina”), puntando all’auto-comprensione e all’introspezione, scavalcando quindi qualunque possibile ingerenza o gioco di potere di figure terze (Garrity, 2000). Il riconoscimento del valore terapeutico della cerimonia del peyote (e non del mero peyote) nei confronti dell’alcolismo e della dipendenza da altre

droghe, portò a una collaborazione fra i peyotisti e le strutture sanitarie occidentali. Nel 1972, i Cheyenne meridionali e gli Arapaho dell’Oklahoma aprirono un centro per l’alcolismo, noto come Capanne C e A. Durante i primi due anni di attività furono trattati 165 alcolisti. Questi dovevano restare per almeno 30 giorni alloggiati nel centro, dedicarsi a lavori utili per la comunità, svolgere terapia occupazionale, partecipare ai gruppi locali indigeni degli Alcolisti Anonimi e partecipare ai riti con il peyote, nel corso dei quali dovevano consumare da un minimo di 4 sino a un massimo di 12 bottoni di peyote, equivalenti a circa 200-500 mg di mescalina (Albaugh e Anderson, 1974). A questi programmi nativi – che sono stati definiti anche come “terapia etnopsichedelica” – parteciparono alcuni Bianchi dipendenti da eroina o altri farmaci oppioidi (in particolare il Dilaudid, idromorfone) inviati dalle strutture sanitarie occidentali (Blum et al., 1977). Bill Wilson e gli Alcolisti Anonimi Proseguiamo sugli aspetti storici dell’influenza positiva degli psichedelici sulle dipendenze, analizzando sotto una nuova luce la storia personale di Bill Wilson (1895-1971), cofondatore nel 1935 degli Alcolisti Anonimi (A.A.), la nota associazione di mutuo auto-aiuto fra gli alcolisti, nata negli USA e diffusasi in tutto il mondo. Wilson era un alcolista ormai in dirittura d’arrivo verso il “traguardo” di quella che è da sempre considerata una malattia progressiva: la morte, causata da delirium tremens o da complicazioni fisiologiche gravi legate all’alcolismo (epatiche, cardiopatie, ecc.). Nel 1934, Wilson si sottopose per la quarta volta alla “terapia d’urto” promossa dalla Town Hospital di New York, elaborata da Charles B. Town, e che si basava sulla “cura belladonna”, una medicina somministrata in dosi massicce nelle prime 50 ore del trattamento (un’assunzione ogni ora). La “cura belladonna” riguardava una miscela di tre erbe, di cui le prime due sono potenti piante tropaniche: la belladonna (Atropa belladonna L.), il giusquiamo (Hyoscyamus sp.) e una specie di Xanthoxylum (Lambert, 1912). Questa cura per l’alcolismo a base di vegetali e alcaloidi tropanici ha probabilmente origini più antiche, nel XVIII secolo o ancor precedenti. Sappiamo che il giusquiamo fu impiegato nel trattamento del delirium tremens. Per esempio, in un testo di farmacologia francese del XIX secolo, è riportato che in un soggetto sotto attacco di delirium tremens, dopo aver provato senza successo l’estratto gommoso di oppio, fu somministrato un estratto acquoso di giusquiamo nero (8 cg ogni 3

ore, e poi ogni 2 ore), che produsse sudorazione, cessazione dei tremori alle membra, calma, sedazione, cessazione dello stato delirante e infine sonno (Cazin 1850: 236). Tornando a Wilson, nel corso della “cura belladonna” – secondo quanto affermato più volte da egli medesimo – ebbe una visione, una “rivelazione” di natura mistica, che ebbe come conseguenza l’immediata e duratura liberazione dall’alcolismo: Improvvisamente la mia stanza brillò di una indescrivibile luce bianca. Fui rapito da un’estasi al di là di qualunque possibile descrizione. Tutte le gioie che avevo conosciuto erano pallide a confronto [...]. Vista nell’occhio della mente, c’era una montagna. Rimasi sulla sua sommità dove soffiava un grande vento. Un vento non di aria, ma di spirito. Con grande e pulita forza soffiava dritto verso di me. Quindi giunse il pensiero sfolgorante: ‘Sei un uomo libero’ (Lattin, 2016: 56).

In una recente rivisitazione biografica della vita di Wilson, Don Lattin (2016: 199) ha messo in evidenza ciò che è stato misconosciuto dai proseliti della A.A., e cioè il fatto che Wilson conseguì la “redenzione” dall’alcolismo esperendo una visione di natura mistica indotta da un “rivelatore della mente”, da uno psichedelico. La relazione di Wilson con gli psichedelici non si fermò a quell’evento del 1934. Negli anni che seguirono la fondazione degli A.A. insieme a Bob Smith (nel 1935), Wilson entrò in stretta relazione con Gerald Heard, Aldous Huxley, Humphry Osmond e altri promotori della filosofia e del “misticismo psichedelico”, oltre che della ricerca clinica con gli psichedelici, sino a sottoporsi nel 1956 a Los Angeles a una seduta con LSD sotto la guida spirituale di Heard. Uno degli scopi di quell’esperienza era cercare di interrompere il suo accanito tabagismo; un tabagismo che lo condusse alla morte nel 1971. Pur non riuscendo in quest’ultimo intento, Wilson rimase impressionato dall’esperienza, che subito mise in relazione con quella avuta nel 1934, e le sue opinioni pubbliche circa la possibilità dell’impiego dell’LSD come agente terapeutico nel trattamento dell’alcolismo provocarono indignazione e scandalo fra i membri dell’A.A. Wilson scrisse: “Se, quindi, sotto LSD possiamo avere una temporanea riduzione, in modo che possiamo vedere meglio cosa siamo e dove stiamo andando – bene, questo può essere d’aiuto per qualcuno. Lo scopo può diventare più chiaro. Così, considero l’LSD di qualche valore per alcuni, e praticamente privo di danni per chiunque” (Hartigan, 2001: 170-1 e 190-7). Wilson si sottopose ad altre esperienze con l’LSD, e forse anche con la

mescalina (insieme a Huxley), e quando Osmond si cimentò nella sperimentazione con un altro allora reputato psichedelico, l’adrenocromo, colse l’occasione offertagli dal medesimo Osmond di sperimentarlo su sé medesimo, sia isolatamente che insieme all’LSD (LSD + leucoadrenocromo) (Lattin, 2016: 207). Wilson fu un personaggio scomodo per la A.A. che aveva fondato con connotazioni moraliste e religiose, e questo per via del suo impiego entusiasta degli psichedelici, della sua quindicinale relazione extraconiugale con una donna, e per i suoi interessi nello spiritismo. Alcolismo e LSD L’impiego dell’LSD come coadiuvante delle terapie dell’alcolismo iniziò agli inizi degli anni ‘50. I principali promotori di questa terapia furono lo psichiatra canadese Abram Hoffer (1917-2009) dell’ospedale universitario di Saskatoon (Saskatchewan, Canada), e Humphry Osmond, lo psichiatra che abbiamo già presentato e che coniò il termine psichedelico. Inizialmente svilupparono questa terapia seguendo il modello del paradigma psicotomimetico, facendo provare l’esperienza psichedelica agli alcolisti con dosaggi di 200-400 mcg di LSD o 500 mg di mescalina nelle fredde stanze ospedaliere o, al massimo, nei loro rumorosi uffici. Nel 1957, gli psichiatri di Saskatoon conobbero un personaggio dalla biografia un po’ oscura e contraddittoria, Alfred Matthew Hubbard. Egli non era un medico140 e iniziò la sua relazione con gli psichedelici quando, agli inizi degli anni ‘50, si sottopose volontariamente come soggetto di ricerca a degli esperimenti con mescalina all’Università di Vancouver (Stolaroff, 1994: 21).141 In seguito a esperienze “folgoranti”, Hubbard divenne uno dei primi proseliti dell’esperienza psichedelica, proponendola a diversi studiosi e uomini di cultura, e cimentandosi nel trattamento psichedelico degli alcolisti nel British Columbia, sempre in Canada. Hubbard ebbe un ruolo fondamentale nel rivoluzionare le modalità delle TP, indirizzando Osmond, già pieno di dubbi sul paradigma psicotomimetico, verso l’elaborazione del paradigma psichedelico. Tutti gli psichiatri nordamericani che lavorarono con le TP riconobbero il ruolo chiave di Hubbard, ma questi non pubblicò mai i risultati del suo lavoro.142 Hubbard aveva compreso l’importanza del setting ambientale e sociale nell’esperienza psichedelica, e aveva apportato miglioramenti nel luogo fisico dell’esperienza, rendendolo più confortevole, silenzioso, “salottiero”, introducendovi elementi quali la musica, fiori,

simboli evocativi e riproduzioni artistiche, e curava particolarmente l’espressione affabile e amabile dello psicoterapeuta. La natura dei temi musicali e delle immagini era strettamente religiosa. Aveva anche adottato la tecnica della somministrazione di una singola dose forte di psichedelico, con lo scopo di indurre un’esperienza travolgente che potesse produrre cambiamenti drastici e permanenti. Hubbard fu invitato a Saskatoon per mostrare la sua tecnica terapeutica, tecnica che l’équipe di Hoffer adottò prontamente (Mangini, 1998: 384). Nel 1959, due psichiatri di questa équipe, Duncan Blewett e N. Chwelos, stesero un manuale per le TP, Handbook for the therapeutic use of LSD-25 individual and group procedures, rimasto non pubblicato e fatto girare fra le équipe che operavano con gli psichedelici, e che fu una pietra miliare nella letteratura clinica delle TP.143 Hubbard dava molta importanza all’esperienza di picco, interpretata in senso mistico, come esperienza auto-risolutiva dei problemi dell’alcolista, basandosi sulle intuizioni di William James sul rapporto fra alcolismo e misticismo. D’altra parte, Hoffer e Osmond, nel corso dei loro trattamenti iniziali “psicotomimetici”, si erano accorti che nei casi di successo (conseguimento di astinenza totale) la causa non era il fattore psicotomimetico, ma ciò che riportavano gli stessi alcolisti, e cioè il conseguimento di un’esperienza di natura spirituale o “illuminazione”. Colin Smith, che lavorò nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Universitario di Saskatoon (Canada), riteneva – per lo meno in una fase iniziale dell’impiego dell’LSD nell’alcolismo – che questo lisergico inducesse uno stato mentale confusionale affine a quello del delirum tremens, e per questo lo utilizzò sugli alcolisti cronici come “avvertimento” e per intimorirli su cosa avrebbe potuto accadergli (Smith, 1959). Anche Hoffer e Osmond cercarono inizialmente di indurre nell’alcolista cronico qualche evento psicologico positivo nel contesto dell’esperienza del delirium tremens o “delirium tremens-mimetica” (cioè indotta dall’LSD), in particolare di indurre quell’atto di “resa” (surrender) riscontrata e definito da Harry Tiebout (1949), che porta l’individuo governato da comportamenti ostili, negativi e/o presuntuosamente acritici verso un momento di “cessazione di lotta”, e quindi a un passaggio dalla “lotta contro la vita” a un’accettazione della vita e della realtà. Questo momento di “resa” è un evento inconscio che può presentarsi in determinate circostanze. Gli psichiatri canadesi ritenevano una di queste possibili circostanze l’esperienza del delirium tremens, che provavano a riprodurre con l’esperienza lisergica. Presto si accorsero che,

lungi dall’esserne intimoriti, diversi pazienti provavano la cosiddetta “esperienza di conversione”, durante la quale avevano una lucida visione dei loro problemi e delle cause che avevano originato la dipendenza, e si trovavano tutto a un tratto di fronte all’“Io sobrio”, quasi potendolo “toccare con mano”, tanto realistico e possibile appariva davanti ai loro occhi come mai era accaduto in tutti i precedenti e fallimentari tentativi di interrompere la schiavitù dall’alcol, e che con una rinnovata e rinvigorita fiducia in sé stessi spianava la strada verso una sobrietà stabile e duratura. Nel medesimo periodo, due studiosi dell’Alcoholism Research Clinic dell’Università di Los Angeles svilupparono un’indagine volta alla comparazione fra l’esperienza psichedelica e quella del delirium tremens, somministrando una corposa batteria di interviste e questionari a 70 soggetti sottoposti a un dosaggio di 100 mcg di LSD, di cui un gruppo di alcolisti, e a 20 alcolisti cronici che avevano vissuto il delirium tremens e di cui alcuni sperimentarono anche l’esperienza lisergica. Con una metodologia d’avanguardia d’elaborazione dei dati, mediante l’impiego di un computer digitale a rullo magnetico IBM-650, furono osservate più differenze che similitudini fra i due tipi di esperienza; in particolare, “l’esperienza del delirium tremens era predominantemente caratterizzata da allucinazioni che apparivano reali, ansia, orrore, depressione, irritazione e pensieri paranoidi. L’esperienza con l’LSD, invece, era caratterizzata da euforia, umorismo, rilassamento e un senso nebuloso di meraviglia” (Ditman e Whittlesey, 1959: 72). Gli psichiatri presto si accorsero che gli alcolisti cronici hanno una risposta inferiore all’LSD rispetto ai non alcolisti. Smith, che trattò 25 alcolisti cronici all’Ospedale Universitario di Saskatoon (Canada), calcolò che, mentre nei soggetti normali 100 mcg di LSD erano sufficienti per produrre una profonda reazione nell’80% dei casi, e 200 mcg nel 100% dei casi, gli alcolisti, per ottenere risultati simili, necessitavano di quantità di 200-400 mcg (Smith, 1958). Con la nuova consapevolezza che è l’esperienza psichedelica e non lo psichedelico per se a essere terapeutico (MacLean et al., 1961: 43), diversi ospedali psichiatrici canadesi, e in seguito statunitensi, si specializzarono nel trattamento dell’alcolismo con le TP. Descriviamo alcuni di questi studi. Lo psichiatra Sven Jensen trattò 58 alcolisti al Saskatchewan Hospital di Wayburn (Canada) e fu uno dei pochi in quel periodo a sviluppare una metodologia di paragone e controllo dei dati, mantenendo l’osservazione

anche su 80 alcolisti trattati nel medesimo ospedale e dalla medesima équipe con altre tecniche quali la psicoanalisi individuale o di gruppo, l’Antabuse, ecc. Prima della TP, Jensen invitava gli alcolisti a partecipare a tre sedute degli Alcolisti Anonimi; non era obbligatorio, ma caldamente consigliato. Quindi invitava gli alcolisti a partecipare a una psicoterapia di gruppo di un paio d’ore. Alla fine del periodo di ospedalizzazione (mediamente due mesi), veniva somministrato l’LSD, con dosaggi medi di 200 mcg. L’équipe di Jensen trattò alcolisti molto problematici, che erano risultati refrattari a qualunque trattamento. Fu riscontrata una totale astinenza dall’alcol sino a 18 mesi di follow-up nel 63% dei pazienti, mentre in un altro 11% fu osservato un miglioramento calcolato nella riduzione significativa dell’esposizione all’alcol (Jensen, 1962; Jensen e Ramsay, 1963). All’Union Hospital di Moose Jaw, sempre nel Saskatchewan, O’Reilly e Funk (1964) intrapresero un programma pilota di TP lisergica su 68 alcolisti. Essi somministrarono una singola dose di 200 mcg di LSD, e fu eseguito un primo follow-up a 2 mesi. Il 38% dei pazienti restò totalmente sobrio per il periodo di follow-up. Non furono osservate correlazioni significative fra i risultanti astinenti con variabili quali l’età, lo stato maritale, il livello di educazione, l’appartenenza agli A.A. o a gruppi religiosi, e nemmeno il numero di anni di esposizione all’alcolismo e la diagnosi psichiatrica. Fu trovato un solo fattore significativamente correlato con l’astinenza: i pazienti che provarono depressione e/o che affermarono di aver vissuto un’esperienza trascendentale (di picco), evidenziarono una maggiore astinenza nei periodi di follow-up. In uno studio successivo, con un controllo di follow-up sul medesimo gruppo di pazienti esteso a quasi tre anni, fu registrata una curiosa altalena di valori di astinenza: 18% a 6 mesi, 31% a 7-12-mesi, 19% a 13-18 mesi, 23% a 19-24 mesi, e infine 9% a 25-34 mesi (O’Reilly, 1967). A Praga, nell’allora Cecoslovacchia, fu osservata un’affine riduzione dell’efficacia del trattamento con il passare del tempo. 14 alcolisti cronici furono trattati con 6-8 sedute con psilocibina (9 mg) e LSD (100-800 mcg) in intramuscolo, inserendo un trattamento con psilocibina ogni tre trattamenti lisergici. Al follow-up a 3-6 mesi fu ottenuto l’85% di astinenza totale, a 1218 mesi il 35% e a 18 mesi il 14% (Rydzyn´ski et al., 1968). L’équipe di Ross MacLean, che lavorava all’Hollywood Hospital (Vancouver, Canada), trattò circa 500 alcolisti impiegando la combinazione LSD + mescalina. La mescalina con dosaggi da 250 a 1400 mg., e l’LSD in

quantità di 101000 mcg. Si trattava di dosaggi enormi, di quelli che oggigiorno verrebbero definiti “eroici”. In un primo intervento su 61 alcolisti, fu riscontrato un 49% di astinenza totale, oltre a un 26% di miglioramento, con un follow-up a 9 mesi in media. Con un secondo gruppo di 217 alcolisti, a 38 mesi di follow-up si ottenne un risultato di 31% di astinenti totali e del 22% di casi migliorati (MacLean et al., 1967). Nel trattamento dell’alcolismo fu sperimentato anche il DPT (dipropiltriptamina), ma senza risultati soddisfacenti. Lo utilizzò ad esempio l’équipe di John Rhead negli ospedali del Maryland (USA) in uno studio controllato su 51 alcolisti. Il DPT fu scelto con varie motivazioni, fra cui il fatto che l’LSD aveva già assunto un’immagine pubblica negativa, e che la discesa del DPT è pressoché immediata e non lascia “strascichi” di lunga durata. A bassi dosaggi il DPT dura un paio d’ore, ad elevati dosaggi 4-6 ore. In questo studio al paziente veniva somministrato DPT da 1 a 6 volte, con dosaggi da 15 a 165 mg. Inizialmente a basse dosi, poi, quando il terapeuta verificava che si era instaurato l’adeguato rapporto con il paziente, la dose veniva incrementata (75-165 mg). I risultati, con follow-up a 6 e a 12 mesi non furono incoraggianti. Il motivo addotto dall’équipe di Rhead fu che “i soggetti con DPT non sanno come integrare i nuovi modi di funzionare negli schemi quotidiani delle loro vite” (Rhead et al., 1977: 298). A nostro parere, nelle motivazioni potrebbe rientrare la mancanza della fase della discesa, che è una caratteristica del DPT, dato che, come abbiamo sottolineato in precedenza, lungi dall’essere una fase di meri “strascichi”, ha un ruolo integrativo d’utilità terapeutica non secondaria. Anche l’équipe di Robert Soskin, in cui partecipava Stanislav Grof, del Maryland Psychiatric Research Center di Baltimora, eseguì uno studio controllato su 18 alcolisti somministrando il DPT in dosi di 15-30 mg. Lo scopo era, nuovamente, quello di individuare uno psichedelico differente dall’LSD, per via delle restrizioni legali a cui questo stava per essere sottoposto. Lo studio evidenziò come anche il DPT potesse indurre un richiamo delle memorie, l’espressività delle emozioni e livelli profondi di auto-esplorazione, oltre a una discreta risoluzione psicodinamica, ma non fu in grado di dimostrare un’efficacia terapeutica per l’alcolismo. Gli studiosi osservarono che, nonostante la veloce discesa degli effetti, diversi pazienti evidenziavano dimensioni d’insight e di riflessione per diverse ore successive (Soskin et al., 1973a).

Fig. 22 – Tabella di comparazione dei risultati di 11 studi clinici di trattamento degli alcolisti con LSD (elaborata da Hoffer, 1967, tabella 2, p. 351).

Nel 2012, due studiosi norvegesi hanno presentato i risultati di uno studio meta-analitico sui trattamenti lisergici degli alcolisti svolti nei decenni 19501970 e pubblicati in lingua inglese. Hanno ristretto l’indagine agli studi clinici eseguiti con condizioni di controllo randomizzati e sufficientemente accettabili per le moderne metodologie, escludendo quelli che, pur rientrando in questa categoria, erano stati svolti su individui schizofrenici o altri psicotici. Con questo criterio hanno di fatto escluso la maggior parte degli studi, salvandone solamente sei, pubblicati negli anni 19661970, e riguardanti 325 adulti trattati con LSD. In tutti questi casi fu somministrata una sola dose lisergica, con dosaggio che variava da 210 a 800 mcg, con media di 500 mcg. Le condizioni di controllo (placebo) includevano basse dosi di LSD (25-50 mcg), d-amfetamina (60 mg), efedrina solfato (60 mg) o condizioni di controllo senza l’impiego di droghe. Calcoli in termini di “differenza di beneficio” – un parametro noto anche come “differenza di rischio”, che è la percentuale dei pazienti migliorati nei gruppi lisergici meno la percentuale dei pazienti migliorati nei gruppi di controllo – al follow-up di 2-3 mesi, e paragonando con altri tipi di trattamenti, hanno dato i seguenti meta-risultati: LSD, dose singola: 15%; Naltrexone, giornaliero: 3%; acamprosato, giornaliero: 11%; disulfiram, giornaliero: 11%. Risultati positivi e maggiori di qualunque altro tipo di trattamento dell’alcolismo furono ottenuti nei follow-up brevi (2-3 mesi) e medi (6 mesi), mentre non si registrarono significative differenze con i gruppi di controllo nel follow-up a 12 mesi. Da ciò è stato dedotto il fatto che il

metodo della dose unica lisergica avrebbe dovuto essere sostituito con una terapia multi-sessione, con rinforzi successivi (Krebs e Johansen, 2012). Questi medesimi risultati e deduzioni erano in realtà già stati elaborati 40 anni prima, ad esempio dall’équipe di William Bowen presso l’ospedale di Topeka (Kansas), che non giunse a ritenere della medesima efficacia la terapia lisergica e la semplice psicoterapia solamente perché nel follow-up di un anno i rispettivi risultati tornavano a equipararsi, dato che i risultati dei follow-up a 3 e 6 mesi erano di gran lunga a favore della terapia lisergica. Gli psichiatri del Kansas avevano capito che non era sufficiente una singola esposizione all’LSD, e che “si sarebbe potuto raggiungere un maggior successo se i soggetti avessero ricevuto un supporto e un aiuto aggiuntivo che si estendesse oltre il periodo di ospedalizzazione, con lo scopo di integrare e applicare le loro introspezioni ai problemi della vita di tutti i giorni”, e modificarono la TP lisergica per gli alcolisti inserendovi un programma di supporto psicoanalitico successivo all’esperienza, che includesse anche ulteriori esposizioni all’LSD (Bowen et al., 1970: 118).144 Ma il sopraggiungere della messa al bando dalla ricerca scientifica dell’LSD non permise agli psichiatri di Topeka di mettere in atto le modifiche e miglioramenti della loro terapia lisergica. Similmente Ruth Fox (1967: 482), che aveva trattato con LSD 20 alcolisti ottenendo un 55% di astinenza totale e un 25% di miglioramento a 3 anni di follow-up, giunse alla conclusione che la terapia ottimale avrebbe dovuto prevedere sino a tre trattamenti lisergici per conseguire una più profonda e duratura efficacia. Altre dipendenze L’alcolismo è stata la dipendenza maggiormente trattata con le TP. Occasionalmente furono trattati con gli psichedelici soggetti dipendenti da oppioidi e sedativi. Agli inizi degli anni ‘70, l’équipe di Charles Savage di Baltimora sperimentò la terapia psichedelica su 37 eroinomani cronici, in uno studio clinico con gruppo di controllo costituito da altri 37 eroinomani, questi ultimi trattati con psicoterapia di gruppo senza LSD. Tutti i soggetti dello studio provenivano da istituti circondariali. Agli eroinomani trattati con LSD fu somministrata una singola dose di 300-450 mcg, previa una psicoterapia preparatoria di 24 ore nelle 5 settimane precedenti il trattamento lisergico. Dopo il trattamento, i soggetti venivano sottoposti a un’altra settimana di psicoterapia con lo scopo di facilitare l’integrazione dell’esperienza. I risultati

furono promettenti, con un 33% di soggetti sottoposti a trattamento lisergico che conseguirono un’astinenza totale sino a un anno di follow-up, paragonato al 5% di soggetti del gruppo di controllo. Savage osservò come si sarebbero forse potuti ottenere risultati ancor migliori se fossero stati trattati eroinomani non provenienti da istituti circondariali, quindi maggiormente motivati, e in presenza di terapeuti di colore, poiché il 79% dei soggetti trattati erano di colore. Il sopraggiungere della messa al bando dell’LSD dalla ricerca medica non permise lo sviluppo di ulteriori studi clinici più approfonditi (Savage e McCabe, 1973). Un dato interessante di questo studio riguarda tre soggetti trattati con l’LSD che, dopo alcune ricadute nel mese successivo al trattamento, restarono anch’essi totalmente astinenti dall’eroina per i restanti 11 mesi del follow-up, per cui furono inclusi nel gruppo degli astinenti totali a un anno di follow-up. Abbiamo già osservato questo ritardo nell’efficacia terapeutica nel trattamento con LSD delle nevrosi ossessive sviluppato da David (1960) in Argentina, ed è stato osservato nuovamente nei trattamenti attuali dell’alcolismo con la psilocibina.145 Tale fenomeno, che definiamo come “posticipazione d’insorgenza dell’efficacia terapeutica”, o più semplicemente “posticipazione d’efficacia”, resta da spiegare, e sospettiamo che sia dovuto a meccanismi neurofisiologici piuttosto che meramente psicologici.

Fig. 23 – Paragone delle percentuali di eroinomani che hanno mantenuto una totale astinenza a un follow-up di 12 mesi fra quelli trattati con LSD e un gruppo di controllo (rielaborato da Savage e McCabe, 1973, fig. 1, p. 810).

Con l’LSD fu trattato un caso di dipendenza da glutetimide (Doriden, “Cibas”), un sedativo ipnotico impiegato nel trattamento dell’insonnia come alternativa “più sicura” ai barbiturici, dato che questi inducono dipendenza. Ma ben presto ci si accorse che anche la glutetimide induceva dipendenza, creando di fatto una nuova generazione di individui dipendenti da questo psicofarmaco. Il caso in questione fu trattato da Robert Soskin presso il Maryland Psychiatric Research Center di Baltimora, e riguardava un uomo di 48 anni che era dipendente dal Doriden da 10 anni. Dopo diversi anni di psicoterapia a indirizzo psicoanalitico, senza alcun successo, l’uomo si sottopose a una terapia di 5 sedute lisergiche, inserite in un programma psicoanalitico a breve termine (13 settimane), con dosaggi che partivano da 50 mcg, con incremento di 50 mcg a ogni successiva seduta, sino a raggiungere la dose di 250 mcg. Durante le prime 3-4 ore dell’esperienza l’interazione verbale paziente-terapeuta fu ridotta al minimo, e il soggetto fu incoraggiato a non cercare di controllare o dirigere l’esperienza, ma di “accettarla”; questo approccio si basava sull’assunto che l’individuo possedeva le necessarie saggezza e risorse per conseguire una crescita personale. Nel corso delle esperienze il soggetto ebbe “frequenti attacchi di sincerità acuta” e percezione di “consapevolezza universale”, come da egli medesimo riportato, che lo aiutarono a rivisitare i traumi e i sensi di colpa che si trascinava dal suo passato. Da queste consapevolezze l’uomo ottenne una “personalità riaggiustata” sempre più ottimizzata di seduta in seduta, e al termine della quinta seduta sospese l’assunzione quotidiana di Doriden; un’interruzione completa controllata dallo psichiatra sino a 16 mesi di followup (Soskin, 1973b). Gambling La terapia lisergica fu impiegata in un caso di gambling patologico, cioè il gioco d’azzardo compulsivo incontrollabile. Si trattò di una terapia assolutamente pionieristica, che rimase a nostra conoscenza isolata, e che descriviamo con lo scopo di sensibilizzare l’interesse per il trattamento psichedelico di questa particolare dipendenza non farmacologica. Il caso riguardò un uomo di 38 anni d’età, sposato e con un impiego come operatore bancario. Era diventato giocatore d’azzardo da cinque anni, e negli

ultimi tre la compulsione al gioco aveva preso il dominio sulla sua vita. Il gioco si basava sulle scommesse alle corse dei cani, e il reward (la “ricompensa” in termini di soddisfazione) era di tipo masochistico,146 cioè all’uomo piaceva perdere, al punto che nella scommesse sceglieva di proposito il cane che avesse avuto minori possibilità di vittoria. Fu sottoposto a una TP costituita da 12 sedute con LSD + Ritalin, una ogni due settimane. I dosaggi di LSD partirono da 40 mcg sino a raggiungere nelle ultime sedute i 75-80 mcg, mentre il Ritalin veniva somministrato dopo circa 15 minuti dalla somministrazione di LSD in quantità di 20-30 mg, con un booster (rinforzo) di altri 10 mg di solo Ritalin nel corso della seduta. In alcune sedute fu invitata a partecipare anche la moglie, ma senza che le venisse somministrata alcuna sostanza psicoattiva. Nel corso delle sedute psicoanalitiche l’uomo riuscì a consapevolizzare i motivi dell’inversione della soddisfazione al gioco, poiché perdendo denaro cadeva in miseria economica con conseguente sensazione di umiliazione, ed era questa la fonte perversa del suo piacere; una sensazione di umiliazione che sin dalla più tenera età lo aveva inconsciamente accompagnato. L’uomo era di origini armene da parte di madre, mentre il padre era inglese, e questi si vergognava delle origini asiatiche della moglie, che occultava in ogni occasione sociale. Ciò trasmise al figlio sin da giovane il disprezzo per la componente asiatica delle sue origini, che a sua volta occultava di fronte agli altri. Ciò indusse una sensazione di “simpatia” nei confronti della madre, soggiacente a un apparente desiderio di natura sessuale, che tuttavia non riusciva a manifestare poiché in conflitto con una parte di sé che rifiutava la componente sessuale di questa attrazione. Nel corso delle sedute, l’uomo osservò queste due tendenze opposte, questi due “io” che convivevano conflittualmente, al punto da riuscire a immedesimarsi in uno “spettatore imparziale” che osservava il conflitto, riuscendo in tal modo a superarlo. Consapevolizzò la profonda dipendenza dalla figura materna, e come anche da adulto egli continuasse a relazionarsi con questa come fosse ancora un bambino, e ciò gli fu utile per maturare finalmente un’emancipazione dalla madre. A un certo punto dell’interazione psicoanalitica, vide chiaramente come il gambling fosse stato una forma di “evasione erotica” derivante da un’infanzia instabile. L’uomo comprese anche che i suoi due genitori avevano caratteri opposti, e ciò aveva indotto in lui, da bambino, una conflittualità nei due modelli di vita da seguire, proposti dalla co-presenza del padre e della madre. Durante una seduta – la quinta in

ordine cronologico – l’uomo ebbe l’opportunità di vivere un’esperienza perinatale, ritrovandosi nel grembo materno e potendo osservare tutto ciò che accadeva all’esterno, sia alla madre che nell’ambiente circostante. Questa esperienza meravigliò molto il paziente, che la considerò importante per la sua guarigione, sebbene non fosse in grado di capirne i meccanismi. Durante il decorso della terapia, la compulsione al gioco (l’“andare a cani”) si ridusse notevolmente, ma senza estinguersi del tutto e con un ribaltamento del reward, cioè con la voglia di vincere e non più di perdere, con lo scopo di poter portare a casa qualche denaro per la famiglia. Ma verso la fine della terapia, anche la compulsione di vincere si estinse, sino a giungere alla decisione di affidare il suo stipendio totalmente nelle mani della moglie, con lo scopo di farsi aiutare nella gestione finanziaria della famiglia. A sei mesi dalla fine del trattamento, entrambi marito e moglie furono nuovamente sentiti, in separata sede. L’uomo non era più “andato a cani” e non ne aveva nemmeno più sentito l’impulso (Ling e Buckman, 1963: 88102). Citiamo un caso italiano di un uomo affetto da sindrome depressivoansiosa, che era stata apparentemente causata da un indebitamento dovuto al gioco a carte. La sindrome era accompagnata da clamorose manifestazioni di disperazione, teatrali dichiarazioni di auto-soppressione e rifiuto di lavorare. Al soggetto, un operaio di 29 anni, fu somministrata della psilocibina: Durante l’esperienza con psilocibina, il soggetto rivive una scena in cui, trovandosi a giocare in un caffè, perde tutto il suo denaro e contrae grossi debiti. Egli sembra essere realmente impegnato in una partita di ramino, inveisce contro la sfortuna, nomina le carte, commenta il gioco, colloquia con l’avversario, si agita e si emoziona [...]. Alla fine, stanco e piangente, si addormenta. Nell’analisi successiva, il soggetto commenta: ‘Vedevo davanti a me quelle carte maledette, sono state loro la causa dei miei guai; ora capisco perché stavo male; mi sentivo in colpa per aver buttato via tanti soldi con le carte invece di portarli ai miei bambini. Può star sicuro che non giocherò più. Mi sento liberato di un peso, perderò quel brutto vizio, lavorerò e pagherò i debiti e non sciuperò più il denaro nel gioco’ (Volterra e Tiberi, 1962: 92).

Disturbi antisociali di personalità La sociopatia è oggigiorno più propriamente definita come disturbo antisociale di personalità. Lo psicopatico era ed è tuttora inquadrato come un individuo con una lunga storia di difficoltà in famiglia, a scuola e al lavoro, con relazioni povere con le altre persone, instabilità e perversione nell’amore

e nel sesso, abuso di alcol, bassa tolleranza verso le frustrazioni, e una forte tendenza a proiettare i propri conflitti nel mondo esterno. In linea generale, si tratta di individui con un ego debole, con una mancanza congenita di coscienza, forza di volontà e forze inibenti (Arendsen-Hein, 1963: 101). Questo tipo di individui è generalmente destinato a finire in carcere o negli ospedali psichiatrici giudiziari. Agli inizi degli anni ‘60, lo psichiatra Arendesn-Hein sviluppò in Olanda uno studio su 21 carcerati classificati come “criminali psicopatici” o “criminali nevrotici severamente disturbati”, che erano risultati resistenti alle terapie convenzionali allora in voga, quali trattamenti di comunità, analisi individuale, terapie catartiche abreattive, terapie endocrinologiche e farmacologiche, immobilizzati dalla loro armatura di impassibilità, indifferenza, resistenze passive e attive. A questi soggetti fu somministrato LSD in dosaggi di 50-450 mcg ogni una o due settimane per 10-20 settimane. I soggetti venivano lasciati da soli a esperire gli effetti del plateau lisergico, pur costantemente controllati da uno psicoterapeuta e da un’infermiera. Verso il termine dell’esperienza lisergica, i soggetti venivano incoraggiati a esprimere la loro esperienza producendo dei disegni; seguiva quindi una discussione terapeutica di gruppo e la stesura, nei giorni successivi, di una relazione scritta da parte dei medesimi soggetti. Fu notata una generale riduzione della resistenza dei carcerati, una frequente manifestazione di intensi fenomeni abreattivi di materiale emotivo represso, insight, confessioni e una generale riorganizzazione della scala dei valori. Ne conseguiva, nei tempi successivi, un marcato miglioramento del comportamento e un’intensificazione delle relazioni con gli altri individui. Fu constatata l’assoluta esigenza di seguire il soggetto per almeno 6-12 mesi dopo la terapia, mediante un continuo lavoro psicoterapeutico. Con un tempo di follow-up purtroppo non indicato nella relativa pubblicazione, 14 dei 21 soggetti furono considerati migliorati, sino a raggiungere alcuni lo stato di “recuperati socialmente”; quando usciti di prigione, alcuni si sposarono, altri iniziarono a lavorare, diversi manifestarono vari alti e bassi, ma tutti con un maggior senso critico e più realistici nelle loro volontà (Arendsen-Hein, 1963). Riportiamo un’esperienza descritta da uno dei criminali sociopatici trattati dallo psichiatra olandese, come interessante esempio di “visionarietà” del conflitto interiore inducibile dallo psichedelico. Il soggetto manifestava evidenti sensazioni di colpa represse e tendenze di auto-distruzione che

somatizzava con dolori allo stomaco che si manifestavano specialmente sotto certe condizioni emotive. Egli provò questi dolori anche sotto effetto dell’LSD, nella fase iniziale di paura di perdere il controllo, contemporaneamente alla visione di una lunga corda con un nodo al quale era attaccata un’etichetta con la scritta “ansia”. Quindi, proseguendo con le sue parole: Fu come se stessi guardando attraverso un lungo tubo sospeso sulla superficie dell’acqua e attraverso il quale vedevo la mia faccia riflessa come in uno specchio. Guardando giù, vidi la mia faccia con un’espressione amichevole in un piacevole colore blu. Chiamai questa faccia ‘l’uomo interno’. Allo stesso tempo potevo guardare sopra, lungo il tubo, vedendo la mia faccia con aspetto distorto truce in uno spiacevole colore verdastro. Chiamai quella faccia ‘l’uomo esterno’. V’era uno spazio in mezzo, e l’uomo interno e quello esterno non formavano un’unità, di modo che i due uomini si parlavano l’uno con l’altro. L’uomo interno disse, ad esempio: ‘Vedo più di te, conosco ogni cosa’; e l’uomo esterno rispose: ‘Non lo conosco e non voglio conoscerlo’. Quando l’uomo interno disse su qualcosa che era accaduto: ‘È terribile’, l’uomo esterno disse: ‘Non reagire, non sentire nulla’. Quindi l’uomo interno rispose: ‘Aspetta un momento, te lo farò sentire’, e improvvisamente lo stomaco iniziò a dolere (Arendsen-Hein, 1963: 103).

A un certo punto il soggetto iniziò a ricordare alcuni eventi accaduti durante la guerra, quando era soldato sui campi di battaglia. Ad esempio, quando servì come artigliere su una nave da carico. Gli aeroplani si erano avvicinati per bombardare la nave e c’era panico a bordo. L’uomo interno disse: “Questa è la fine”, ma l’uomo esterno disse: “Suvvia, mostra loro come sei coraggioso, mantieni rigido il labbro superiore”, e improvvisamente lo stomaco si mise a dolere. In un altro ricordo, si imbatté in un carro armato che era totalmente esploso, e i corpi disintegrati dell’equipaggio erano sparsi ovunque. “Questo è miserabile”, disse l’uomo interno, ma l’uomo esterno disse: “Non essere sentimentale, è bello vedere i nemici morti”. Fra i commenti del soggetto dopo l’esperienza lisergica, leggiamo: Credo che ho dipinto me stesso in colori così neri e che volevo non saperne di me, perché avevo ridotto me stesso nell’uomo esterno. Adesso l’uomo interno, della cui esistenza sono ora divenuto consapevole, ha vinto la lotta ed è stato ristorato dei suoi diritti. Non mi sento più così colpevole e impaurito di me stesso, perché ho realizzato con quanta riluttanza l’uomo interno consentiva agli atti di guerra che ho commesso, come una necessità. All’inizio, questi atti, come visti attraverso gli occhi dell’uomo esterno, sembravano inaccettabili, ma attraverso gli occhi dell’uomo interno, sono ancora orribili, ma in base alle circostanze accettabili (Arendsen-Hein, 1963: 103-4).

Alcuni anni prima delle ricerche di Arendsen-Hein, era stata sviluppata da Tenenbaum (1961) una ricerca simile presso l’Atascadero State Hospital, in

California, con plurime somministrazioni di LSD a dieci criminali sessuali incarcerati, in un contesto di terapia di gruppo. Tutti i soggetti, a eccezione di uno, risposero positivamente al trattamento, con un aumento di empatia, insight, comunicazione, impegno e richiamo di memorie. A queste due ricerche fece eco quella dell’équipe di Timothy Leary,147 sviluppata negli anni 1961-63, che somministrò la psilocibina a 32 detenuti della prigione Concord, situata vicino a Cambridge, nel Massachussetts, con lo scopo di ridurre la recidività criminale misurata in termini di ritorno in carcere. I dosaggi di psilocibina erano piuttosto robusti, partendo da 20-30 mg sino a raggiungere i 50 e addirittura 70 mg, somministrati in un contesto di gruppo (5-10 soggetti con 3 psicologi, o 3 soggetti e 1 psicologo accompagnato da un altro soggetto che aveva già fatto l’esperienza psilocibinica); durante le prime sedute, uno degli psicologi assumeva una bassa quantità di psilocibina (5-10 mg). L’impostazione dell’esperimento era suscettibile di critiche in diversi punti. Ci soffermiamo solamente su una nostra perplessità, riguardo l’affermazione che il programma elaborato dall’équipe di Leary non avrebbe richiesto personale professionale costoso, ma che per condurre le sedute sarebbero state sufficienti delle figure non professionali che possedessero “una certa saggezza egualitaria”. Da ciò si può già intravedere quella superficialità e inadeguatezza metodologica che portarono di lì a breve allo scontro di Leary con l’Università di Harvard. Leary riportò risultati positivi dell’esperimento, con una recidività a 10 mesi di follow-up del 32%, in confronto al 56% del gruppo di controllo; mentre con follow-up a 1826 mesi la recidività fu misurata al 59%. Nonostante i numeri evidenziassero l’inefficacia a lungo termine dell’esperimento, Leary continuò tenacemente ad acclamare risultati positivi. I risultati proposti da Leary furono rianalizzati 34 anni dopo da Rick Doblin (1998), che dimostrò non solamente la totale inefficacia dell’esperimento, ma evidenziò grossolani errori di calcolo, se non quando vere e proprie falsificazioni, in quel 32% di recidività inizialmente forniti dall’équipe di Leary, che in realtà era notevolmente maggiore. Come ulteriore spunto valutativo del rapporto fra criminalità e impiego di psichedelici, citiamo un recente studio longitudinale sviluppato negli USA, che ha analizzato i dati provenienti da un grande campione di individui (più di 25.000) che avevano una storia d’uso di droghe e che, usciti dal carcere, si trovavano sotto la supervisione delle comunità di correzione, cioè quelle strutture che si occupano della reintegrazione sociale dei detenuti. In queste

comunità gli ex-carcerati vivono con la famiglia e gli amici, lavorano nella società e hanno accesso all’alcol e alle altre droghe. Dall’analisi incrociata fra le tipologie di sostanze usate e la recidività nel compiere atti criminali, è stata osservata una correlazione significativa fra impiego di “allucinogeni” e riduzione di recidività (Hendricks et al., 2014). Questo studio soffre dell’errore concettuale, e di conseguenza metodologico, nell’aver fatto rientrare fra gli psichedelici impiegati, accanto all’LSD e alla psilocibina (quest’ultima indicante in realtà i funghi psilocibinici), l’MDMA, che, come già evidenziato nel primo capitolo, appartiene alla classe psicofarmacologica degli empatogeni, nettamente distinta da quella degli psichedelici. Sarebbe stato interessante mantenere tale distinzione nel corso di questo studio statistico, per verificare se e quali delle due classi psicofarmacologiche degli psichedelici e degli empatogeni avesse comportato una maggiore riduzione di recidività. Infine, in questi ultimi anni in Brasile è stato avviato un programma di recupero dei carcerati che prevede la somministrazione dell’ayahuasca. Il programma è iniziato nel 2014 e ne è stato dato ampio risalto nei giornali nel 2016. È organizzato dall’associazione Acuda, una ONG brasiliana che si occupa della riabilitazione dei detenuti e che ha sede a Porto Velho, la capitale dello stato di Rondônia. Una peculiarità di questo programma è che l’assunzione della bevanda non viene fatta svolgere all’interno delle mura carcerarie, ma presso la chiesa di una delle comunità religiose che fanno uso di ayahuasca e che appartengono alla ramificazione sincretica delle Barquinha,148 denominata Casa de Jesus e Lar de Frei Manuel, situata nella zona rurale di Ji-Paraná, sempre nello stato di Rondônia. L’esperienza con l’ayahuasca è prevista come momento finale di un processo psicoterapeutico volto al recupero psicologico del carcerato. Dietro autorizzazione delle autorità giudiziarie carcerarie, gruppi di 10-20 carcerati escono dal penitenziario di Porto Velho e si recano con una frequenza di una volta al mese nella sede della comunità religiosa per assistere ai riti notturni, e assumono l’ayahuasca. Al sabato mattina i carcerati, senza scorta, viaggiano per 5 ore per raggiungere la comunità, collaborano ai lavori di preparazione del rito religioso che si tiene la notte seguente, e ritornano alla domenica al penitenziario.149

Varie

Psoriasi Diverse équipe terapeutiche riportarono la sorprendente risoluzione di casi di psoriasi, pur quando ciò non fosse stato l’obbiettivo delle sedute psichedeliche, e più in generale fu osservata la pulizia della pelle da diversi disordini dermici, soprattutto gli eczemi (Grof, 1994: 251). Negli anni ‘60 la terapia psichedelica lisergica venne impiegata in un caso di psoriasi, che risulta interessante sotto diversi punti di vista. Il caso, trattato a Londra, riguardava una ragazzina scozzese di 15 anni d’età, a cui fu dato il nome pseudonimo di Mary nella comunicazione medica. Sofferente di una grave forma di psoriasi diffusa su tutto il corpo, Mary era il frutto di una relazione a quei tempi considerata “illegittima”, cioè al di fuori di una famiglia tradizionale. Sua madre non era in grado di allevarla, e all’età di tre mesi Mary fu adottata da una famiglia scozzese, che aveva già una figlia legittima di 18 anni d’età. La madre adottiva incontrò una sola volta la vera madre, nel contesto delle pratiche burocratiche d’adozione. Mary visse i primi anni di vita abbastanza serenamente, accudita dai genitori adottivi. Ma all’età di 6 anni iniziò a sviluppare la psoriasi, che si evidenziò severa sin dagli inizi, al punto da dover essere ammessa in un centro ospedaliero per un paio di settimane. I medici avvertirono la madre adottiva dell’impossibilità di guarigione, e questa notizia in un qualche modo raggiunse anche la bambina. All’età di 10 anni Mary entrò in una scuola, dove venne trattata con simpatia e benevola accettazione dai professori e dalle compagne di classe. L’adolescente sviluppò tuttavia uno stato psicologico di frustrazione e di ansia a causa del problema dermico, diventando un soggetto emozionalmente instabile, fortemente apprensibile, e cercando inconsciamente di restare una bambina. Mary venne sottoposta a una serie di 12 sedute di terapia psicoanalitica coadiuvate dall’accoppiamento allora in voga di LSD (40-75 mcg) + Ritalin (10-30 mg + rinforzi di 10 mg). Le sedute furono distanziate fra di loro da un periodo di due settimane, e vi partecipò sempre anche la madre adottiva. Ogni seduta era costituita da due fasi, nella prima delle quali Mary viveva uno stato di rêverie, e nella seconda si cimentava in un dialogo verbale con lo psicoanalista. Nel corso delle visioni lisergiche, Mary manifestò un acuto spirito di autoosservazione, ed espresse la convinzione che la psoriasi fosse relazionata alla sua adozione e al fatto di non aver conosciuto la vera madre. Diceva che doveva assolutamente vedere il volto della sua vera madre, e che ciò le

sarebbe stato di grande aiuto ai fini della guarigione. La madre adottiva le descrisse la figura della vera madre per come l’aveva vista quell’unica volta nel corso della pratica adottiva, e che le era rimasto impresso il suo lungo collo. Mary cercò di visualizzare il volto della vera madre, aiutandosi anche con un piccolo specchio che le fu dato con lo scopo di riflettervisi. Quando “vide” nello specchio una figura femminile con un lungo collo, ne rimase terrorizzata e come reazione ruppe lo specchio. Incoraggiata dallo psicoanalista e dalla madre, e ricevuto un altro specchio, Mary non demordette, e continuò a cercarvi il volto della sua vera madre, sempre più convinta che la guarigione dalla psoriasi era a portata di mano dietro all’agognata visione. Nel corso della terza e quinta seduta, a Mary riaffiorò un “ricordo” del momento della sua nascita: vide come appena nata sembrasse e si sentisse fatta di gelatina, e come fu messa momentaneamente da parte, mentre a sua madre, che era collassata, fu fatta un’iniezione. Vide anche che nel luogo dove era nata avrebbe dovuto essere presente un binario dei treni, dato che sentiva il rumore al loro passaggio, ed è per questo motivo che nella sua giovane vita aveva sempre trovato rilassante questo suono. Con lo scopo di comprendere l’autenticità o il livello di fantasia di questi ricordi, lo psicoanalista contattò in via riservata il centro ospedaliero scozzese dove era nata Mary, dal quale ebbe la conferma della presenza di un binario di treni nelle sue vicinanze e della possibilità di udire il rumore causato dal loro passaggio. Già dalle primissime sedute l’umore di Mary migliorò, come riportato anche dalla madre adottiva, manifestando comportamenti di gaiezza e di ottimismo che non erano mai stati visti in precedenza, e a partire dalla quinta seduta anche la psoriasi iniziò a mostrare segni di regressione. Durante le sedute Mary non risparmiò nessuno dei suoi familiari, manifestando la gelosia che covava nei confronti della sorellastra sana, e adirandosi anche con la madre adottiva, accusandola di essere la causa del suo problema, di non essere stata capace di non farla allontanare dalla vera madre e di averla trasformata nella “Mary-problema”, di essere una donna priva di talenti. Continuando con la tecnica di riflessione nello specchio, decisa a “vedere” il volto della sua vera madre, a un certo punto riuscì nell’intento, senza venir presa da quel terrore che le aveva fatto rompere il primo specchio. Nella descrizione di quel volto, la madre adottiva trovò corrispondenze con quello della vera madre, perlomeno per come riusciva a ricordarselo, con quel

carattere fisionomico così distintivo: il lungo collo. Tornata a casa, Mary si accinse a disegnare una serie di ritratti basati sulla visione di quel volto, mentre la psoriasi continuava a regredire sempre più vistosamente. A scuola, i professori e le compagne di classe si sorpresero per il netto e positivo cambiamento relazionale e d’umore di Mary. Seguendo la pratica appresa e sviluppata nel corso della psicoanalisi, si mise ad analizzare una a una le sue relazioni amicali, a “vederle” secondo i suoi nuovi schemi di obiettività, e si riconciliò anche con la madre adottiva, accettandola per come era. A sei mesi dal termine della terapia la psoriasi era completamente sparita. I due psichiatri pubblicarono una foto comparativa delle gambe di Mary prima e dopo il trattamento, che qui riproponiamo (fig. 24) (Ling e Buckman, 1963: 146-59).

Fig. 24 – Ragazza di 15 anni sofferente di psoriasi sottoposta a trattamento psicolitico con 12 sedute di LSD. Confronti delle sue gambe prima e dopo il trattamento (da Ling e Buckman, 1963, tavv. I, II).

Balbuzie L’LSD fu impiegato negli anni ‘60 nel trattamento della balbuzie in un ospedale psichiatrico de Il Cairo, in Egitto. Otto pazienti che soffrivano di balbuzie da lunga data, con età dai 18 ai 35 anni, tutti maschi, furono trattati per tre volte alla settimana per tre settimane consecutive con dosi iniziali di 100 mcg di LSD, somministrati per via intramuscolo, e con incrementi sino a raggiungere i 300 mcg di lisergico. Tutti i pazienti avevano sofferto di altri

disturbi nevrotici durante l’infanzia, e da adulti soffrivano di stati ansiosi e di disperazione a causa della loro balbuzie. I risultati furono controllati per il periodo di un anno. Tutti i pazienti evidenziarono dei miglioramenti, e in tre casi si osservò una risoluzione pressoché definitiva della balbuzie. Negli altri casi, dopo un primo miglioramento, si osservò una recidività della balbuzie, e solo in due casi non si osservò alcun miglioramento del loro handicap. Tuttavia, anche in questi due casi, come negli altri, si osservò il raggiungimento di una migliore fiducia in se stessi e una riduzione dello stato ansioso (Okasha e Hassan, 1968). Forse, il trattamento fu sviluppato con una certa “ansia da risultato” che portò a elaborare un programma troppo “frettoloso”, con tre sedute alla settimana e per tre settimane, mentre una somministrazione maggiormente distribuita nel tempo, e con un accompagnamento psicoterapeutico più prolungato avrebbe potuto portare a risultati migliori. Edward Baker, che lavorava al Western Hospital di Toronto, Canada, trattò un caso di balbuzie, con qualche miglioramento. Durante la seduta lisergica il balbuziente consapevolizzò che c’erano un modo paterno e un modo materno di dire una parola, e la balbuzie si presentava (a suo parere) ogni volta che cercava di pronunciare una parola nei due modi contemporaneamente (Baker 1967). L’équipe scandinava di Einar Geert-Jörgensen riuscì a risolvere totalmente un caso di balbuzie e uno di mogigrafia presso l’Ospedale Psichiatrico di Copenhagen, con un follow-up di oltre un anno (GeertJörgensen et al., 1964). Arto fantasma Nel linguaggio dei neurologi, un “fantasma” è l’immagine o il ricordo persistente di una parte del corpo, di solito un arto, protratta per mesi o anni dopo la sua perdita. Conosciuti già dall’antichità, i “fantasmi” furono abbondantemente studiati e descritti dal neurologo nordamericano Silas Weir Mitchell, durante e dopo la guerra civile. Esistono vari tipi di “fantasmi”: alcuni strani e irreali, altri verosimili e realistici; alcuni intensamente dolorosi, altri (la maggior parte) del tutto indolori; alcuni riproducono esattamente l’arto perduto, altri sono distorti o grotteschi, e poi ci sono i “fantasmi negativi” o “fantasmi di assenza”. Qualunque sia la loro manifestazione, essi originano probabilmente da lesioni sensoriali della corteccia, specialmente di quella dei lobi parietali o da fattori periferici come

dal moncone del nervo detto neuroma, o da lesioni dei nervi periferici o dei fasci sensitivi del midollo spinale (Sacks, 1985: 101). In pochi studi clinici è stato sperimentato uno psichedelico nel trattamento dell’arto fantasma. In uno studio pionieristico del 1930, svolto presso la Clinica Psichiatrica e Neurologica dell’Università di Greifswald, in Germania, Julius Zádor somministrò la mescalina a degli amputati. Da precedenti studi sul sistema visivo, egli aveva osservato come la mescalina avesse un’azione sistemica sul sistema sensitivo, così come sulle lesioni corticali. Sulla base dell’osservazione di quest’azione centrale, Zádor ipotizzò che la mescalina potesse ristabilire la percezione dello schema corporeo nella sindrome dell’arto fantasma. Egli somministrò mescalina solfato a quattro pazienti nella dose da 0,2 a 0,35 g, osservando un miglioramento progressivo della sintomatologia dell’arto fantasma, fino alla scomparsa completa dei sintomi. Un primo caso riguardava un funzionario d’ufficio di 32 anni, con una sindrome da arto fantasma da frattura traumatica dell’arto superiore sinistro risalente a dieci anni prima. La sindrome si era manifestata subito dopo l’intervento chirurgico. Il paziente descrisse l’arto fantasma nel modo seguente: esso era più corto del braccio destro normale; il gomito si trovava quasi all’altezza del moncone; nei movimenti lenti l’arto fantasma si muoveva col moncone, mentre nei movimenti veloci era come se la mano rimanesse ferma in un posto e il movimento si verificasse a livello del gomito; l’arto fantasma veniva percepito, quando non vi si concentrava, esattamente come l’arto vero, anche se un po’ più corto; quando pensava al suo arto fantasma, gli partiva dal gomito un formicolio che saliva fino al moncone; mentre fumava una sigaretta la sensazione dell’arto gli arrivava fino alle dita, ed era in grado di muovere le dita del braccio senza muovere il moncone. Con la somministrazione di 0,35 mg di mescalina, l’arto fantasma divenne più corto, scomparve la percezione del gomito e dell’avambraccio; quindi l’arto si ritirò a livello del moncone, e la sua lunghezza cambiò continuamente; in seguito fu persa la percezione di continuità dell’arto fantasma col moncone, soprattutto con i movimenti, e il paziente perdette la percezione dell’avambraccio e della mano. Un secondo caso riguardò una guardia ferroviaria di 31 anni, a cui nel 1918, in seguito allo scoppio di una granata, fu amputata la gamba destra al di sopra del ginocchio. Dopo l’intervento gli rimase la sensazione di avere

ancora la gamba destra, sensazioni che perdette nel corso dei mesi. Negli ultimi 3-4 anni la sensazione tornò, con la percezione delle dita dei piedi, in particolare l’alluce, e di poter muoverle. Quando voleva muovere le dita dei piedi, si muovevano anche parti del moncone, ma se voleva muovere intenzionalmente i muscoli del moncone, le dita dei piedi restavano ferme. Nell’alluce poteva percepire dei formicolii di varia intensità. Non aveva percezioni della gamba e del ginocchio. Gli furono somministrati 0,3 mg di mescalina. Le percezioni dell’arto fantasma scomparvero completamente. Le dita dei piedi si avvicinarono sempre più al moncone, partendo dall’ultimo dito, per poi arrivare all’alluce. L’arto fantasma scivolò prima nella punta del moncone per poi entrare nel moncone stesso. In entrambi i casi la mescalina aveva indotto le manifestazioni più variabili dell’esperienza dell’arto fantasma, dimostrando come le possibili varianti dell’arto fantasma siano delle espressioni individuali della stessa alterazione patologica (Zádor, 1930). In periodi più recenti, l’équipe fiorentina di Fanciullacci – che aveva sviluppato in un insieme di studi clinici sul trattamento delle emicranie con derivati dell’acido lisergico, incluso l’LSD150 – si cimentò in un impiego sperimentale dell’LSD in 7 pazienti affetti da dolore da arto fantasma; essi partivano dal presupposto che la serotonina è il più importante neurotrasmettitore che modula centralmente il dolore, e che l’LSD antagonizza o potenzia, a seconda della dose, la serotonina. I pazienti, 5 maschi e 2 femmine con età comprese fra 25 e 78 anni, furono trattati con bassi dosaggi di LSD (25-50 mcg) somministrati quotidianamente per tre settimane consecutive. Prima del trattamento i pazienti furono sottoposti a una settimana di somministrazione di placebo, e ad altre 4 settimane di placebo dopo il trattamento lisergico. In 5 pazienti fu osservata una riduzione del dolore e una conseguente riduzione di assunzione di analgesici. In due di questi il miglioramento fu tale da non essere necessaria la somministrazione di analgesici per le 2-3 settimane successive all’interruzione della terapia lisergica (Fanciullacci et al., 1977). Citiamo ancora un caso di effetto opposto, riguardante un uomo di 62 anni, che a 56 anni fu vittima di un incidente con amputazione dell’arto sinistro all’altezza della spalla. Soffriva di conseguente dolore da arto fantasma; sottoposto a terapia del sonno, il disturbo scomparve, ma con la psilocibina la sensazione di arto fantasma improvvisamente ricomparve: “Non solo sento tutto il braccio che mi fa male, ma lo rivedo come era prima

dell’intervento. Mi pare proprio di non aver subito l’operazione e quasi di potermi muovere con esso come se nulla fosse accaduto” (Volterra e Tiberi, 1962: 100).

Fig. 25 – Grafico che mostra l’effetto dell’LSD sul dolore e l’uso analgesico in un paziente con dolore da arto fantasma (rielaborato da Fanciullacci et al., 1977, fig. 1, p. 119).

Ciclo mestruale Fra gli effetti prettamente chemioterapici degli psichedelici, citiamo infine i casi osservati accidentalmente in Argentina da Salerno e Tallaferro (1956), riguardante l’azione sul ciclo mestruale. Nel corso di uno studio sperimentale su 48 soggetti, normali e malati mentali, a cui furono somministrati LSD o mescalina in differenti dosaggi e modalità, in tre donne, che soffrivano da tempo di amenorrea, il trattamento lisergico comportò una riapparizione del regolare ciclo mestruale. Una di queste, una donna di 27 anni nevroticoossessiva con elementi schizofrenici, accusava da tempo periodi di amenorrea che oscillavano dai 4 agli 8 mesi. Nel corso del trattamento lisergico, alla quinta somministrazione dello psichedelico apparve una mestruazione con

caratteristiche normali, che si stabilizzò su un ciclo di 29/32 giorni e della durata di 4/6 giorni. È interessante osservare come l’inattesa normalizzazione del ciclo mestruale in tutte e tre le donne si presentò parallelamente a un miglioramento psichico. In un’altra donna di 48 anni d’età, volontaria sana che si sottomise a un’esperienza con la mescalina (500 mg), e che da diversi mesi era entrata in menopausa, riapparvero le mestruazioni con le caratteristiche di quelle giovanili, parallelamente a una generale rivitalizzazione fisica.

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1 Si vedano Martorana, 2010/11, Pollato 2015/16, Scipioni, 2016/17. Ricordiamo anche il pionieristico articolo di Carlo Vetere (2000) pubblicato nel Bollettino per le Farmacodipendenze e l’Alcolismo del Ministero Italiano della Sanità. 2 Il termine allucinazione deriva da allucinare, che in prima istanza deriva dal verbo latino alucinari, la cui etimologia è discussa. Alcuni autori lo fanno derivare dal termine greco alýo, “andar vagando”, “essere in stato di incoscienza”; altri riconoscono un’etimologia puramente latina, riconducibile alla dea Lucina, dea della luce, che invia sogni penosi e fantasmi notturni (Alinei, 201718: 63-65). 3 È il caso di puntualizzare che i farmacologi e i chimici continuano a impiegare “allucinogeni” per definire la relativa classe chimio-farmacologica, ma il loro impiego del termine non soffre della riduzione valutativa a questo associata in altri ambiti scientifici e sociali. 4 Riportato in Osmond, 1957: 418. Gli atti della conferenza di Princeton del 1955 furono editi da Abramson, 1956b. 5 Sono qui escluse la sottoclasse degli anticolinergici o tropanici e l’ibogaina. 6 Nei pochi decessi attribuiti a questi psichedelici le cause reali sono quasi sempre dovute o ad altre droghe, eventualmente miscelate con gli psichedelici, o alla mancanza di valutazione della realtà associata all’effetto degli psichedelici, e non a fattori puramente tossicologici. Riguardo alcuni decessi attribuiti all’LSD, si veda la recente analisi critica di Nichols e Grob, 2018. Su di un caso fatale attribuito ai funghi psilocibinici, si veda Gartz et al., 1996. 7 Fra le tante ricerche che intesero dimostrare danni cromosomici citiamo Abbo et al., 1968 e Geber, 1967; fra quelle che non evidenziarono danni cromosomici, Robinson et al., 1974 e Sparkes et al., 1968. Per i danni genetici all’orzo, Kalia et al., 1970. 8 Per “tolleranza crociata” si intende la riduzione degli effetti di una sostanza assunta successivamente all’assunzione di un’altra sostanza. LSD, psilocibina e mescalina sviluppano una tolleranza crociata fra di loro (Balestrieri e Fontanari, 1959; Isbell et al., 1961; Wolbach et al., 1962). 9 Perlomeno nell’assunzione orale. 10 Come ha fatto recentemente notare Millière (2017: 2, n. 1), il termine “morte dell’ego” fu adottato dalla controcultura degli anni ‘60, e per questo motivo oggi la letteratura scientifica preferisce il termine “dissoluzione dell’ego” o, più raramente, “disintegrazione dell’ego”. 11 Questo recettore viene indicato con la sigla 5-HT . 2A 12 Per una generale rassegna di queste tematiche, cfr. Millière, 2017, e per un approfondimento sulla neurofenomenologia della dissoluzione dell’ego si veda al capitolo 8 del secondo volume. 13 La letteratura a riguardo è vastissima; citiamo qui solamente per la lingua italiana Hofmann, 1995 e Guarnaccia, 2017. 14 La ricerca biochimica ha scoperto che alcaloidi dell’ergot, inclusi del tipo ergolinico – che sono gli alcaloidi più vicini all’LSD – sono prodotti da animali marini, ascidi e molluschi (Makarieva et al.,

1999; Wakimoto et al., 2013). Gli alcaloidi dell’ergot hanno in comune un nucleo di acido lisergico, e si suddividono principalmente in alcaloidi ergotici peptidici, generalmente tossici, e alcaloidi ergolinici, generalmente psicoattivi. Nel mondo vegetale, questi alcaloidi sono prodotti da diverse specie di funghi inferiori dei generi Claviceps, Balansia, Penicillium, Aspergillus, ecc., e da piante della famiglia delle Convolvulaceae appartenenti ai generi Ipomoea, Turbina, Argyreia, Merremia, ecc. (Samorini, 1992). 15 Il termine tanatodelico, da noi coniato, indica la somministrazione di psichedelici ai malati terminali, un tipo di terapia psichedelica che verrà descritta nel capitolo 14 del secondo volume. 16 Sono denominati popolarmente funghetti in Italia, cfr. Pagani, 1993. 17 In linea indicativa, le dosi medie di questi due funghi selvatici secchi sono di 1-1,5 g, mentre il dosaggio medio della strofaria può variare fra 2 e 5 g secchi. 18 Per maturare da un punto di vista di potenziale visionario, una pianta d’iboga impiega 5-7 anni. 19 Si vedano i nostri studi Samorini, 2016a e D’Arienzo e Samorini, 2017 20 Si veda la recente analisi critica di Nichols, 2018. 21 Ad esempio furono impiegati presso il Neuropsychiatric Hospital di Los Angeles da Cohen e Eisner, 1959. 22 Un tipo di TP che descriveremo nel capitolo 3. 23 La tassonomia di questi due cactus è molto sofferta, e non stiamo a esporla in questa sede, dove manteniamo la vecchia nomenclatura. 24 A parte un isolato studio tedesco di neuroimaging, Hermle et al., 1992. 25 Derivati arilcicloesilaminici erano già stati sintetizzati prima del PCP, alcuni dei quali per opera di chimici italiani, i quali tuttavia non vi fecero seguire indagini farmacologiche (Chiavarelli et al., 1953). 26 Si veda Samorini, 2016: 93, n. 146. 27 È opportuno precisare che il problema di come sia originata questa scoperta è un problema nostro, degli studiosi occidentali, e non dei nativi: alla domanda su come abbiano fatto a scoprire l’ayahuasca, essi espongono dei racconti, che si differenziano presso le diverse etnie, in cui vengono descritti gli eventi mitologici in illud tempore che diedero origine alla relazione umana con questa fonte inebriante (Samorini, 2016d: 117-27). 28 Per la definizione di “psiconauta” si veda Samorini, 2016a: 105-111. 29 Come letteratura italiana si veda D’Arienzo e Samorini, 2016. 30 Il termine entactogeno fu proposto dal farmacologo statunitense David Nichols (1986). 31 Come hanno fatto recentemente ad esempio Hendricks et al., 2014, i quali si basano nel loro studio sui dati forniti dal US Department of Health and Human Services del 2013, dove non viene riconosciuta questa distinzione. La confusione continua a essere diffusa nella letteratura scientifica; citiamo come esempio l’équipe di Zach Walsh, che ancora nel 2016 considera gli empatogeni come una “subcategoria degli allucinogeni”, rifacendosi a un obsoleto scritto del 1988 (Walsh et al., 2016: 602). 32 La letteratura sociologica ed epidemiologica riguardo la MDMA è vastissima. Per l’Italia citiamo Gatti, 1998 e Giusani e Fornai, 2004. 33 Si veda al capitolo 13 del secondo volume. 34 La ricerca clinica (sull’uomo) di un farmaco è preceduta da una fase pre-clinica, che avviene in laboratorio su animali o su colture cellulari, e si suddivide in tre fasi: nella Fase 1 vengono sviluppati studi su soggetti sani a cui viene somministrato il farmaco con lo scopo di valutarne l’efficacia e la tollerabilità; nella Fase 2 il farmaco viene somministrato in studi pilota a piccoli gruppi di soggetti

malati; nella Fase 3 vengono realizzate serie di studi su campioni più estesi di soggetti malati, con lo scopo di dimostrarne l’efficacia terapeutica ed anticiparne l’immissione sul mercato. 35 L’ibridazione è definita in antropologia ed etnografia come “l’insieme di processi socioculturali nei quali strutture e pratiche discrete, che esistevano in forma separata, si combinano per generare nuove strutture, oggetti e pratiche” (Canclini, 2008: 19). 36 Per il culto del Byeri si veda Samorini, 2002-02. Per il Buiti, S´widerski, 1990. 37 Fra gli studi sul Daime in lingua italiana si vedano l’approfondito saggio di Walter Menozzi (2007) e le tesi universitarie di Piccoli (1990-91), Prascina (199697) e Luppichini (2005-06). Per l’uso tradizionale, Cambiaghi (2004-05). 38 Il kardecismo è il movimento spiritistico fondato da Allan Kardec, molto diffuso in Brasile. L’Umbanda è un culto che riunisce elementi dei riti di possessione afro-brasiliani, kardecismo e cattolicesimo. Citiamo anche l’Ubandaime, un culto che miscela elementi dell’Umbanda e del Santo Daime, e che include l’assunzione della bevanda del daime. 39 Il kambo è la secrezione non psicoattiva di una piccola rana, Phyllomedusa bicolor, che viene introdotta nel corpo umano mediante scarificazioni dermiche ottenute con piccole bruciature della pelle; il rapé è una miscela vegetale amazzonica a base di tabacco e altre piante e fonti alcaline; viene inalato mediante un caratteristico tubo inalatorio a L, che prevede il coinvolgimento di due persone, uno che soffia dentro al tubo, e l’altro che inala dalla narice la polvere vegetale soffiata dal primo individuo. 40 Si vedano ad esempio i motivi studiati da Horák et al. (2018) in un gruppo di partecipanti a cerimonie con ayahuasca nella Repubblica Ceca. 41 Citiamo alcuni studi sull’uso sciamanico-terapeutico delle seguenti fonti visionarie: funghi (Wasson, 1974), semi delle Convolvulaceae (Fagetti, 2012), cactus del San Pedro (Bianchi e Polia, 1990), ayahuasca (Luna, 1986). 42 Si veda la rivisitazione di Golcman, 2017. 43 Per una rassegna generale italiana delle terapie da shock si veda Liberati, 1955. 44 Breuer e Freud, 1893: 8. 45 Dalla traduzione proposta nella raccolta delle opere di Freud curata da Cesare L. Musatti per conto della Bollati Boringhieri, Torino, 1967/1989, vol. 1: 178. 46 Per una rassegna generale italiana si veda Callieri e Semerari, 1952. 47 Si veda ad esempio Petrò, 1953. 48 Ciclopegia: paralisi del muscolo ciliare dell’occhio. Con la medesima finalità Forrer (1954: 40) impiegava anche colliri di pilocarpina. 49 Per la definizione di set e setting si veda oltre in questo medesimo capitolo. 50 Definita reazione “ah Ha!” da Rolo et al., 1960. 51 Di fronte a questo apparente fallimento, Freud rimase inizialmente così scoraggiato che quasi stava per abbandonare la ricerca psicoanalitica; successivamente realizzò che questi fenomeni rappresentano una realtà psichica per il paziente indipendentemente dalla loro realtà storica obiettiva; cfr. Grof, 1975: 70. 52 Ad esempio dallo psichiatra Charles Grob et al., 2013: 293. 53 Per una più approfondita disanima dell’interpretazione spiritualista si veda al capitolo 7 del secondo volume, al paragrafo “Alcuni aspetti critici delle nuove ricerche”. 54 Esiste una vasta letteratura sulle esperienze di picco, con tanto di descrizioni di prima mano, stese

da parte di chi ha vissuto queste esperienze: chi preferisce l’esperienza di picco indotta dagli psichedelici, può leggere Le porte della percezione di Aldous Huxley (1954), o La gaia cosmologia di Alan Watts (1962); chi ha una preferenza per il misticismo cristiano del XVI secolo, potrà leggere la Salita del Monte Carmelo di Giovanni della Croce (1993), o Le parole dell’estasi di Maria Maddalena de’ Pazzi (1984); per l’interpretazione estatica sufi, Il libro delle profondità interiori di Gialal al Din Ruˉmiˉ (2013), vissuto nel XIII secolo, e per la visione mistica induista, i Poemi mistici di Kabir (2000), vissuto a cavallo del XV e XVI secolo. Per i lavori saggistici, con comparazioni e analisi della fenomenologia delle esperienze di picco, restando ai testi in lingua italiana ricordiamo Fachinelli (1989), Hulin (2000) e Zolla (1992). 55 Paradigmi che verranno descritti approfonditamente nel prossimo capitolo. 56 Studi che verranno descritti estesamente nel capitolo 4. 57 Per nocebo si intende la controparte negativa del placebo, che si presenta in concomitanza di aspettative negative dell’azione di un farmaco o di una droga psicoattiva. 58 Nella tecnica della simbolisi, che è una procedura autoanalitica, l’LSD veniva dato al paziente in una stanza totalmente buia, e ogni cosa che diceva veniva registrata e letta o fatta ascoltare il giorno dopo al paziente, il quale era invitato a scrivere le sue idee e interpretazioni (Rhijn, 1960). 59 Per le teorie della filtrazione si veda al paragrafo del paradigma psicoterapeutico nel prossimo capitolo. 60 Abbiamo descritto la narcoanalisi e la weckanalisi nel secondo capitolo. 61 Per una rassegna di questa pratica diagnostica si veda lo studio italiano di Gamna, 1965. 62 Stanislav Grof, un altro protagonista delle TP che incontreremo più volte nel corso di questo libro, ha reclamato come anche sua l’idea delle sedute multiple di LSD, che mise in pratica a Praga a partire dalla fine degli anni ‘50 e in maniera indipendente da Sandison; cfr. Grof, 1975: 20. 63 Per questa combinazione si veda nel capitolo 5 al paragrafo “Combinazioni con altre droghe”. 64 Sorprende la contraddittorietà di vedute a riguardo. Torsten Passie (in Puente, 2017: 179) ha recentemente riportato che il concetto “fu proposto da Stanislav Grof a metà degli anni ‘70 in una conferenza in Germania, e che fu elaborato in seguito da Richard Yensen”. In realtà, in un articolo datato 1968, l’équipe di Ruth Mechanek, del William Alanson White Institute di New York, aveva già riportato il termine psicodelitico, aggiungendo che “L’International Association for Psychodelytic Therapy fu fondata nel maggio del 1965 come diramazione della Second International Conference on the Use of LSD in Psychotherapy, condotta sotto gli auspici del South Oaks Research Foundation, Amityville, N.Y.” (Mechanek et al., 1968: 491). Erika Dyck, invece, riporta che la International Association of Psychodelytic Therapy fu fondata da Ross MacLean, Abram Hoffer, Harold Abramson e Humphry Osmond in una data non precedente il 1967, con lo scopo di combattere la demonizzazione dell’LSD in corso in quel periodo, e impiegando il termine psicodelitico per evitare quello di psichedelico, già troppo associato alla controcultura giovanile e all’impiego non clinico dell’LSD e degli altri psichedelici (Dyck, 2008: 132-3). Ancora, Majic´ et al. (2015: 246) hanno riportato che il concetto di “terapia psicodelitica” fu introdotta da Arendsen-Hwin, Grof e altri, citando Grof S., 1969, “Psycholytic and psychedelic therapy with LSD: toward an integration of approaches”, Address to the Conference of the European Association for Psycholytic Therapy, Francoforte, Ottobre 1969. 65 Torsten Passie, in Puente, 2017: 179. 66 Lettera di Huxley a H. Fabing del 1963, in Huxley 1977a: 101-2. 67 Recentemente, l’idea di accoppiare l’ipnosi con gli psichedelici per fini terapeutici è stata riproposta da Lemercier e Terhune (2018), sulla base, oltre che degli studi passati di Levine e Fogel, della comparazione dei moderni dati della neurofisiologia degli stati ipnotici e psichedelici. Questi due autori non si sono tuttavia accorti che diverse delle metodologie proposte, e ritenute originali, erano già

state proposte da Huxley, un autore che non referenziano. 68 In questo gruppo Grof ha inserito anche le “deviazioni sessuali”, che qui non consideriamo poiché diverse di queste soggiacenti a interpretazioni moralistiche dei tempi passati. 69 Riguardo l’isteria di conversione, in realtà diversi psichiatri ottennero risultati molto positivi, come si vedrà nel capitolo 6 al paragrafo “Disturbi di conversione”. 70 In realtà, come si vedrà nel capitolo 10 del secondo volume, oggigiorno la ketamina è impiegata come antidepressivo particolarmente indicata nelle depressioni maggiori a tendenza suicidaria. 71 Si vedano le generali bibliografie di Unger, 1965, Passie (1997) e Sessa (2016a). 72 Abram Hoffer (1967: 362) ha proposto una cronologia un poco differente e meno differenziata, riconoscendo le seguenti tre fasi della ricerca psichedelica: la prima (1950-1959) è quella del paradigma psicotomimetico e della noncuranza dei fattori ambientali. La seconda (1960-1965) si preoccupa dei fattori ambientali e di quelli affettivi; la terza (1965-1970) si preoccupa di formare gruppi di controllo. Con una sistematizzazione cronologica semplificata, a nostro avviso troppo semplificata, v’è chi distingue solamente due fasi della ricerca clinica con gli psichedelici, la “prima ondata” e la “seconda ondata”, divise fra loro dal trentennio 1970-1990 caratterizzato dall’interruzione della ricerca (Swanson, 2018: 2). 73 Si veda la rivisitazione di Baumeister, 2011. 74 È stata dimostrata la presenza nel cervello umano di molecole molto vicine all’adrenocromo – il noradrenocromo e il dopaminocromo (Smythies, 2002). 75 Böszörményi e Szara, 1958. Per l’ipotesi del DMT come schizotossina si veda anche Gillin et al., 1973. 76 Questa prima forma diede origine alla moderna psichiatria sperimentale, focalizzata sull’utilizzo di agenti chimici e sullo studio delle interazioni biochimiche come mezzo di comprensione del meccanismo di sviluppo dei disordini mentali. 77 Come è stato fatto notare da Swanson, 2018: 7. 78 “La psicosi modello schizofrenica indotta dall’LSD”. 79 Manfred Bleuler, 1959, cit. in Grob, 2002b: 288. 80 McKellar (1957: 179) ha riportato che questa frase fu detta in occasione di un simposio sull’LSD da un altro psichiatra, Fischer; in realtà, negli atti di quel simposio, editi da Cholden (1956), non abbiamo trovato alcun riferimento né a quest’affermazione di Fischer, né alla presenza di Fischer in quel simposio. Più recentemente, Szára (2007: 202) ha riportato: “Sono convinto che il 90% del contenuto del libro possa essere attribuito ad Aldous Huxley come scrittore, e solo il 10% alla droga, la mescalina”. 81 “La psilocibina induce psicosi simili alla schizofrenia negli uomini”, cfr. Vollenweider et al., 1998a. 82 Geständnisse im Meskalinrausche. 83 Ripubblicato integralmente in Gartz, 1999: 39-45. 84 Divry e Bobon, 1948, cit. in Guillain, 1949: 261. 85 Fra cui Favilli e Heymann, 1937; Favilli, 1937; Palmieri, 1942. 86 Questa nostra esposizione si è basata sul recupero e sulla lettura integrale di tutti i lavori originari, indipendentemente dalla lingua di pubblicazione. 87 Come si vedrà meglio al capitolo 5 nel paragrafo dedicato alle reazioni avverse. 88 Un alcaloide isolato dalla pianta papaveracea Corydalis cava.

89 Lo studio di Stig Johnson sarebbe stato presentato al Premier Congrès mondial de psychiatrie tenutosi a Parigi nel 1950, ma la nostra visione degli atti di questo congresso non ha portato all’individuazione di tale comunicazione (che secondo Belsanti, 1952: 342, sarebbe presente in un non meglio identificato passo “22, 9” di quegli atti). 90 Si veda al capitolo 7 del secondo volume, paragrafo “La pericolosità degli psichedelici”. 91 Non è presente nella bibliografia di Passie (1997), né nel saggio alquanto completo di Vannini e Venturini (1997) dedicato alla storia delle TP svizzere. In una comunicazione personale del novembre 2018, Torsten Passie, specializzato negli aspetti storici degli studi clinici con la psilocibina, ci ha comunicato di non avere alcuna notizia su questo Dr. Jaggi. 92 Di cui un eccellente studio è quello di Cargnello e Lukinovich con l’LSD del 1958, al quale quasi tutti gli psichiatri italiani si riferirono per le loro analisi comparative. 93 Del resto, i medesimi psichiatri non impiegavano nemmeno il termine “abreazione”, preferendo lunghe circonlocuzioni per definire il relativo tipo di reazione psicologica che si presentava nel corso dei trattamenti psicoterapeutici. 94 Anche la scuola psichiatrica francese usava un linguaggio e una terminologia sua propria. 95 Si veda al capitolo 9 del secondo volume, dedicato alla neurofarmacologia degli allucinogeni. 96 Si vedano ad esempio gli studi sviluppati dall’équipe di Lauretta Bender sui bambini autistici, nel capitolo 6. 97 La patomimia è la simulazione della malattia. 98 Si veda ad esempio Balbi et al., 1959. 99 Questa distinzione fu originalmente elaborata dallo psichiatra newyorkese Paul Hoch (Hoch et al., 1953). 100 Circa il mancato pieno riconoscimento della scoperta della serotonina da parte di Erspamer si veda al capitolo 9 del secondo volume. 101 Non è chiaro se presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Bologna o presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Pesaro. Si veda anche Volterra, 1966. 102 Nell’articolo non è specificato il tipo di iniezione. 103 Maccagnani et al. (1966: 93) indicano con il termine stereomorfismo “una forma plastica invariabilmente fissa, ripetuta per lungo tempo, che spesso ha un significato latente”. 104 È il caso di puntualizzare che Freud, a detta di Emilio Servadio (1967: 492), “in una delle sue ultime opere (il Sommario di psicoanalisi, rimasto incompiuto e pubblicato dopo la sua morte), aveva anticipato il possibile uso di sostanze chimiche nella terapia delle nevrosi, e fors’anche ad altri fini”. 105 Siamo a conoscenza di un solo studio pubblicato l’anno seguente, svolto presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali “F. Roncati” di Bologna su soggetti sani, e con un differente psichedelico, il DET (N,N- dietiltriptamina) (Gentili e Tiberi, 1966). 106 Guttman e Maclay (1936: 195) riportarono che già Kurt Beringer, che sperimentò la mescalina nel decennio precedente (si veda Beringer, 1927), riteneva questa sostanza utilizzabile in psicoterapia, ma non abbiamo trovato riferimento a ciò negli scritti di Beringer. Del resto, anche Hoffer e Osmond (1967: 150) attribuivano a Guttman e Maclay la paternità dell’idea originale dell’impiego della mescalina in psicoterapia. 107 Si veda il carteggio Osmond-Huxley nel libro Moksha, di cui è stata recentemente pubblicata un’edizione italiana (Huxley, 1977a). 108 Si veda alla sezione dedicata al trattamento lisergico dell’alcolismo, capitolo 6.

109 Huxley espose questa idea in diversi suoi scritti minori e lettere, riunite nel volume Moksha; cfr. Huxley, 1977a: 29, 121, 223. 110 Si veda Huxley, 1956 e il suo libro Paradiso e inferno del 1956, di cui un’edizione italiana è in Huxley, 2014. 111 Le modalità del conflitto con l’Università di Harvard sono descritte in Mangini, 1998: 389-390. 112 Si veda il paragrafo sulle sociopatie al capitolo 6. 113 Nelle Liste 2 e 3 rientrano quelle droghe che possono essere impiegate per scopi medici. 114 Come riportato da William Richards in un’intervista per il libro di Iker Puente (2017: 78). 115 Per la definizione di flashback si veda al paragrafo “Reazioni avverse” in questo medesimo capitolo. 116 Facciamo notare come la maniera più corretta per indicare i dosaggi sarebbe quella di riportarli in mg (o nel caso dell’LSD mcg) per chilogrammo di peso corporeo; una modalità di indicazione posologica che solo una piccola parte dei medici dei tempi passati si preoccupava di utilizzare. 117 Quella al 30% di anidride carbonica + 70% ossigeno che abbiamo descritto nel capitolo 2 nel contesto delle terapie da shock abreattive. 118 La correlazione percettiva fra tonalità acute e dimensioni più piccole delle strutture geometriche che soggiacciono alle visioni, è un’osservazione frequente nell’uso non clinico degli psichedelici, come abbiamo potuto osservare dall’aneddotica da noi raccolta. 119 Aggiungiamo, seguendo i nostri dati aneddotici, che di frequente i rumori o le voci possono essere interpretati come motivi musicali. 120 Questi effetti saranno analizzati al capitolo 8 del secondo volume. 121 Per una generale rassegna, che pur accomuna le reazione avverse nei contesti clinici e non clinici, si veda Schwartz, 1968. 122 L’HPPD verrà descritta approfonditamente al capitolo 9 del secondo volume. 123 Riguardo la casistica relativa a supposti suicidi sotto effetto di uno psichedelico in contesti d’impiego non clinici, citiamo solamente l’appunto fatto da Cohen (1967), che mette in guardia nell’etichettare come comportamenti di suicidio casi che potrebbero rientrare fra i comportamenti megalomani o di errate valutazioni delle proprie capacità, quali il lanciarsi da una finestra ritenendo di poter volare. 124 Stoll avrebbe dato questa seconda versione dei fatti nel 1956 nel corso di un pannello di discussione a Chicago; cfr. Charles Savage in Abramson, 1960: 62-3. 125 Si veda la definizione data all’esperienza di picco al capitolo 3 nel paragrafo “Tipologie delle esperienze psichedeliche”. 126 Si veda la tavola cronologica presentata nel capitolo 4. 127 Si veda ad esempio la critica sollevata da Summergrad, 2016. 128 Robert C. Murphy, di Waverly (Pennsylvania), internamente a una discussione in Sandison, 1960: 91. 129 Si veda al capitolo 4, nel paragrafo “LSD e psilocibina nella psichiatria italiana”. 130 Bos, 1971, preso dal riassunto in Rhead, 1977: 95. 131 Si veda alla sezione dedicata all’ibogaina nel capitolo 11 del secondo volume. 132 Delle Indie Orientali Olandesi, quando queste furono occupate dai Giapponesi. 133 Di questo libro esiste un’edizione italiana del 1989, edito dalla casa editrice Sensibili alle

Foglie. 134 Migliaia dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti morirono nei mesi successivi a causa delle condizioni fisiche e dell’inadeguatezza e impreparazione dell’assistenza nei campi medici approntati dagli Alleati. 135 Operazione che nella terminologia delle tossicodipendenze è nota come viraggio. 136 L’edizione italiana (Newland, 1962) è liberamente disponibile nel sito samorini.it. 137 Si veda al capitolo 10 del secondo volume. 138 Si veda al capitolo 11 del secondo volume. 139 Per dipsomania si intende l’impulso irresistibile a ingerire smodatamente bevande, per lo più alcoliche. Per una più approfondita disamina sulle motivazioni dell’alcolismo si veda lo scritto italiano di Savage, 1967. 140 In un’intervista Betty Eisner (2005: 96) riportò che Hubbard ottenne un PhD via posta, per poter essere chiamato dottore. 141 Hartogsohn (2017: 6) riporta che Hubbard fu introdotto all’LSD nel 1951 dallo psichiatra inglese Ronald Sandison. 142 Abbiamo solamente trovato il suo nome fra gli autori della pubblicazione di MacLean et al., 1961, dove Hubbard appare come Direttore della Psychological Research dell’Ospedale di Hollywood, New Westminster, British Columbia, Canada. Hubbard è stato definito anche come un avventuriero, un contrabbandiere, un agente segreto, che divenne in seguito milionario con il commercio dell’uranio (Snelders e Kaplan, 2002: 231). 143 Questo scritto è stato recuperato dalle organizzazioni MAPS ed Erowid, ed è liberamente consultabile in internet. 144 Anni prima anche Betty Eisner (1963: 144) era giunta alla medesima conclusione, e suggeriva un richiamo ogni sei mesi od ogni anno. 145 Si veda al capitolo 11 del secondo volume. 146 Per una definizione di gambling masochistico si veda Rosenthal, 2015. 147 I risultati di questa ricerca furono pubblicati in un primo articolo in Psychotherapy, 2: 61-72, 1965. Per i successivi articoli con riportati i risultati di follow-up dell’esperimento si veda Doblin, 1998. 148 Per una presentazione delle comunità religiose che impiegano l’ayahuasca si veda il capitolo 1. 149 Si possono trovare informazioni nel web in diverse lingue, per ora solamente di tipo giornalistico (interviste), digitando contemporaneamente le parole chiave “ayahuasca” e “acuda”. 150 Studi che verranno presentati nella sezione riguardante le emicranie a grappolo nel capitolo 12 del secondo volume.

INDICE

Prefazione Introduzione Capitolo 1. Psichedelici: uno sguardo d’insieme Terminologia Gli effetti degli psichedelici Gli psichedelici d’impiego terapeutico I culti sincretici Il fenomeno delle “cerimonie” Capitolo 2. I precedenti Le terapie psichedeliche tradizionali Le terapie da shock abreattive Narcoanalisi Coma insulinico Terapia carbonica Coma atropinico Capitolo 3. Aspetti teorici delle terapie psichedeliche Tipologie delle esperienze psichedeliche Set e setting Modelli teorici delle TP Tipi di terapie psichedeliche Indicazioni e controindicazioni Capitolo 4. Aspetti storici delle terapie psichedeliche Cronologia delle terapie psichedeliche Il paradigma psicotomimetico La fase mescalinica delle TP La mescalina nella psichiatria italiana

La fase indolica delle TP LSD e psilocibina nella psichiatria italiana Il paradigma psicoterapeutico L’interruzione della ricerca clinica Capitolo 5. La seduta clinica psichedelica Modalità della seduta Modalità d’assunzione e posologie Combinazioni con altre droghe Il ruolo della musica Reazioni avverse Il problema del placebo e del doppio-cieco Valutazioni e misurazioni dei risultati Capitolo 6. casistica dalle terapie psichedeliche del passato Psicosi Autismo infantile PTSD e sindrome da campo di concentramento Nevrosi e disturbi ossessivi-compulsivi Disturbi di conversione Disturbi sessuali Stati depressivi Dipendenze Disturbi antisociali di personalità Varie Bibliografia