La trasmissione dei testi latini. Storia e metodo critico 9788843094455

La conoscenza che abbiamo delle opere latine dell’antichità e del medioevo è legata all'affascinante percorso attra

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La trasmissione dei testi latini. Storia e metodo critico
 9788843094455

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La trasm.issione dei testi latini Storia e metodo critico

Paolo Chiesa

Carocci editore

@, Studi Superiori

Carocci editore

@ Studi Superiori

La conoscenza che abbiamo delle opere latine dell'antichità e del medioevo è legata all'affascinante percorso attraverso il quale

esse sono giunte fmo a noi. Un percorso che fu condizionato da fattori materiali, economici e culturali: la forza o la debolezza di scuole e biblioteche, la posizione sociale e l'attività di lettori e studiosi, i meccanismi di circolazione dei testi, l'evoluzione delle tecniche librarie e scrittorie, l'interesse o il disinteresse per i singoli generi letterari. Conoscere e saper interpretare queste vicende è un presupposto necessario per la ricostruzione e la comprensione dei testi originari. Il volume propone una storia sintetica della trasmissione delle opere latine, dall'antichità fmo alla prima età moderna, e illustra i metodi critici con cui i filologi di oggi analizzano quanto è tramandato nei manoscritti, alla ricerca delle forme primitive. La trattazione è basata prevalentemente su casi di studio, divisi in due serie: la prima presenta alcuni episodi e temi significativi della trasmissione storica dei testi, a partire dalla loro circolazione antica fino allo studio di cui furono oggetto nell'umanesimo; la seconda esemplifica i principali punti del metodo critico, chiamando in causa le opere di alcuni grandi scrittori latini classici e medievali, da Lucrezio adApuleio, da Tacito a Dante. Paolo Chiesa insegna Filologia mediolatina all'Università degli Studi di Milano. Ha curato edizioni critiche e studi sulla trasmissione di varie opere latine della tarda antichità e del medioevo. Per Carocci editore ha pubblicato La letteratura latina del medioevo. Un profilo storico (1 • rist. ~018).

ISBN 978-88-430-9445-5

€ 26,00

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9 788843 094455

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 2.2.9 00186 Roma telefono 06 42. 81 84 17

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Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.twitter.com/ caroccieditore

Paolo Chiesa

La trasmissione dei testi latini Storia e metodo critico

@ Carocci editore

1'

© copyright

edizione, febbraio 2.019 by Carocci editore S.p.A., Roma

2.019

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino Finito di stampare nel febbraio 2.019 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-9445-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

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Un'introduzione storica. La trasmissione delle opere latine

15

Parte prima Storia della tradizione I.

Varianti antiche. Due casi da Cicerone e da Virgilio

2.

Produzione e circolazione dei libri nella tarda antichità. L'archivio di Agostino

71

Un'edizione tardoantica. I Nicomachi e i Simmachi studiano Livio

79

Filologi carolingi. Lupo di Ferrières e i suoi corrispondenti

85

Gli umanisti a caccia dei classici. Poggio e Quintiliano a San Gallo

91

6.

Il fascino dei palinsesti. Qualche caso famoso

99

7.

Manoscritti perduti. Catullo e i suoi compagni

103

8.

La storia dei manoscritti. Il codice Palatino dell 'Historia Augusta

109

3.

4.

5.

7

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

Parte seconda Metodo critico Tradizioni numerose e fruizione del testo. Le opere di Virgilio

117

IO.

Uno stemma perfetto. Il De vulgari eloquentia di Dante

127

I I.

L'archetipo più famoso. Lachmann e Lucrezio

135

12.

Derivazione o indipendenza? Il codex Leidensis di Tacito

143

13.

Stemma bipartito e selectio. Le commedie di Plauto

155

14.

Una tradizione a tre rami. Le Epistulae di Seneca

15.

Un'imbarazzante interpolazione. Le Metamorphoses di Apuleio

171

16.

Tradizioni contaminate. Le monografie di Sallustio

177

17.

Quando lo stemma non riesce. Il Bellum ciuile di Lucano

18.

Tra florilegi ed edizioni antiche. Il Satyricon di Petronio

19.

La tradizione indiretta. Eutropio e Festo nelle mani di Paolo Diacono

195

Varianti d'autore. Il Policraticus di Giovanni di Salisbury

203

Regola ed estro della congettura. Marziale, Ovidio, Orazio, i Digesta

213

Metodi critici degli umanisti. Le regole di Angelo Poliziano

223

9.

20.

21.

22.

8

INDICE

Filologia e verità. Lo studio critico della Bibbia latina fra tarda antichità ed età moderna Bibliografia

231 247

Indice dei nomi e delle cose notevoli Indice dei manoscritti

271

Indice dei termini e dei concetti filologici

273

9

Premessa

Le opere latine dell'antichità e del medioevo sono giunte fino a noi attraverso un percorso di trasmissione lungo e affascinante. Nella costruzione di tale percorso ebbero parte fattori materiali, economici, sociali e culturali; al suo svolgimento contribuirono in varia misura le scelte degli uomini e il caso. La trasmissione dei testi è collegata in diverso modo alle modalità con cui essi vennero concepiti e prodotti, agli strumenti e alle tecniche usate per la scrittura, al pubblico cui erano destinati e alle persone che in seguito li lessero, all'esistenza o meno di un mercato librario, ali' attività delle scuole e ai metodi di insegnamento, alla coscienza dei dotti, alla sorte delle biblioteche; ognuno di questi elementi ebbe nei vari periodi peculiarità proprie, che almeno in parte si conoscono e sono suscettibili di descrizione. Un quadro storico d'insieme si può dunque tracciare; anche se poi la trasmissione di ogni singola opera ebbe vicende particolari, talvolta imprevedibili, e sarebbe illusorio ricondurre questa varietà a schemi e paradigmi troppo rigidi. Ricostruire, o quanto meno individuare, questo percorso storico di trasmissione è per noi un presupposto necessario per conoscere le opere letterarie dell'antichità e del medioevo. Le forme in cui le possediamo oggi dipendono dalle strade che esse hanno seguito nel tempo. La filologia è la disciplina scientifica che si propone di comprendere e interpretare questo processo nella sua dimensione storica, identificandone le fasi e i momenti, a partire (se possibile, e per quanto possibile) da quelli originari. A tal fine la filologia ha elaborato propri strumenti, raffinati in secoli di esperienza e resi via via più versatili dalla consapevolezza che le condizioni dei singoli testi sono diverse, e diverso deve essere anche l'approccio. I due aspetti, quello dello sviluppo storico della tradizione e quello dei metodi critici con cui si ricostruiscono i testi, hanno ciascuno

II

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

una propria autonomia di studio, ma sono fra loro inscindibilmente legati, come i due versanti di una medesima montagna. In questo libro abbiamo tentato di illustrare a un tempo l'autonomia e il collegamento. Si parte da una sintesi di quello che sappiamo o possiamo intuire sulla trasmissione delle opere latine, sottolineando come le diverse circostanze di produzione e diffusione condizionarono e talvolta modificarono i testi stessi; e si prosegue con alcuni "casi di studio", che ci sono sembrati efficaci come strumento esemplificativo. Li abbiamo suddivisi in due serie, per mantenere l'autonomia nell'unità di oggetto: prima gli episodi che illustrano il percorso storico compiuto dai testi (cfr. Parte prima); poi quelli che presentano il metodo con cui, interpretando il percorso storico, la filologia tenta di risalire alle loro forme originarie (cfr. Parte seconda). Abbiamo cercato, nei limiti del possibile, di offrire un certo numero di passi significativi, in latino e accompagnati da una nostra traduzione italiana, che servissero da esempio. Con carattere s p a z i a t o si evidenziano i termini oggetto di discussione. Questo volume è concepito come un sussidio didattico, con pubblico di elezione negli studenti dei corsi di laurea di Lettere di primo e di secondo livello. Richiede una discreta familiarità con la lingua e la letteratura latina, nonché il possesso delle nozioni essenziali di storia romana e medievale. La piena comprensione degli argomenti trattati, e soprattutto dei casi di studio, presuppone altresì che il lettore abbia una conoscenza di base delle tecniche della critica testuale, meglio se anche del dibattito teorico che è a esse collegato. Questa conoscenza è di norma acquisita nei corsi di studio di Lettere di primo livello; l'argomento è trattato del resto da numerosi e spesso ottimi manuali. In ogni caso, nel PAR. 8 dell'Introduzione storica abbiamo (molto) sinteticamente presentato i più importanti principi della critica, e in apertura dei singoli capitoli abbiamo sempre riassunto il problema teorico che viene affrontato nell'esempio proposto. Dato lo scopo didattico, la Bibliografia è semplicemente introduttiva e limitata all'essenziale, senza alcun intento di esaustività scientifica; abbiamo però segnalato sempre i siti web in cui si possono visualizzare i manoscritti che via via sono citati nel testo, quando disponibili, perché la consultazione diretta dei libri è ciò che permette di capire davvero come avveniva la trasmissione dei testi. In questi casi si è cercato di indicare un link "stabile" che risultava attivo nel novembre 2.018.

I 2.

PREMESSA

Questo libro deve molto ai suggerimenti di amici e colleghi, che mi hanno permesso di perfezionarlo notevolmente e mi hanno evitato imprecisioni ed errori (molti altri, ahimè, saranno rimasti, ma qui la colpa è mia); in particolare Emanuela Colombi, Maria Luisa Delvigo, Rossana Guglielmetti, Ermanno Malaspina, Stefano Martinelli Tempesta, Nicola Pace, Marina Passalacqua, Tonino Pecere, Caterina Pentericci, Marco Petoletti, Michael Reeve, Michela Rosellini, Ernesto Stagni, Antonio Stramaglia. Ma ancora di più deve agli studenti dei corsi che ho tenuto negli ultimi anni all'Università di Milano, cui varie parti del testo sono state via via propinate in forma di dispensa, e che mi accorgo ora essere stati (non se ne abbiano a male) le mie cavie didattiche. Se il volume è giunto a pubblicazione è soprattutto colpa o merito loro: perché hanno dimostrato interesse per gli argomenti, e perché hanno giudicato efficace il modo in cui si sono affrontati.

13

Un'introduzione storica. La trasmissione delle opere latine

I

Produzione e circolazione dei testi nel mondo romano Nell'antichità romana, il supporto di scrittura più consueto per la trascrizione e la diffusione dei testi letterari era il papiro, un materiale ricavato dal fusto dell'omonima pianta che cresceva in zone calde e umide, soprattutto in Egitto. Con un opportuno trattamento, la fibra del papiro si poteva ridurre in fogli adatti per la scrittura; tali fogli venivano poi incollati l'uno dopo l'altro fino a formare una striscia di lunghezza variabile (anche una decina di metri), che veniva arrotolata per poter essere utilizzata più comodamente; la lettura avveniva svolgendo progressivamente il rotolo. Il modello del libro in forma di rotolo di papiro era di origine greca, e si era diffuso a Roma negli ultimi secoli della repubblica; accanto a esso esistevano anche altre forme e supporti di scrittura, destinati in genere a usi diversi dalla copiatura dei testi letterari. Diffusissime erano, ad esempio, le tavolette di legno, dei piccoli riquadri (chiamati talvoltapugillares perché potevano essere tenuti con un pugillus, cioè con una mano chiusa) sui quali veniva colato uno strato uniforme di cera: la superficie morbida così ottenuta veniva incisa con uno stilo per tracciare i caratteri. Si trattava di un materiale scrittorio semplice ed economico, adatto però solo per testi non permanenti: quando ciò che era stato scritto non serviva più, lo si cancellava scaldando la cera, e la tavoletta ritornava pronta per un impiego ulteriore. Sempre per testi provvisori potevano essere utilizzati frammenti di coccio, cortecce d'albero, assicelle di legno, che si potevano trovare ovunque, ma questi materiali erano rozzi, scomodi e facilmente deperibili. Per testi permanenti, invece, si poteva usare la pergamena, pelle di animale opportunamente conciata, ammorbidita e sbiancata per accogliere l'inchiostro; nell'antichità veniva impiegata

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

soprattutto per registrazioni di carattere ufficiale, come ad esempio la trascrizione di documenti. Senza contare, naturalmente, le epigrafi su pietra e metallo, concepite per avere la massima durevolezza, potenzialmente (come in qualche caso viene dichiarato) per essere eterne. Possiamo pensare che le opere letterarie antiche, almeno in larga maggioranza, siano state abbozzate dai loro autori su tavolette cerate o su foglietti sciolti di papiro, dove il testo era trascritto dall'autore di proprio pugno, o da uno scriba sotto dettatura. In questa fase preliminare, sembra essere stato frequente il caso in cui l'autore sottoponeva l' abbozzo dell'opera al giudizio di un gruppo di amici letterati, che avanzavano eventuali suggerimenti e consigli su come migliorarla. Una volta portata a compimento, l'opera veniva alla luce nella forma di rotolo di papiro, la quale implicava una certa stabilità: si trattava, in sostanza, di una "bella copia" su cui si evitava di apportare modifiche. Per quanto riguarda la diffusione del testo finale così prodotto, le circostanze erano diverse: esso poteva essere letto pubblicamente dal!' autore stesso, fatto circolare all'interno di un gruppo di amici colti, presentato in via esclusiva al dedicatario, che decideva in seguito se e come renderlo pubblico. Ma prima o poi, almeno nel caso degli scrittori più in voga o per le opere più richieste, il testo diventava oggetto di un vero e proprio commercio, effettuato da un libraio (bibliopola) che era in collegamento con degli scribi di professione. Le notizie sull'attività del bibliopola sono in realtà piuttosto scarse, e non è facile farsi un'idea di come esattamente si svolgesse e di quanto fosse praticata. A Roma e nelle città più ricche, fin dagli ultimi decenni della repubblica, esistevano diverse botteghe di questo tipo, ma molto più rare dovevano essere nelle zone periferiche; e del resto il libro era un oggetto di lusso, accessibile solo a strati limitati della popolazione. Le librerie più grandi avevano disponibilità diretta dei testi, almeno di quelli "di moda", che venivano conservati su appositi scaffali; ma in altri casi il libraio sarà stato un intermediario che riceveva da parte di un cliente l'ordine di procurare un determinato testo e ne faceva eseguire ogni volta una singola copia. L'autore di un'opera non otteneva, a quanto si sa, particolari compensi dalla vendita di libri ( il concetto di "diritto d'autore" non è più antico dell'età industriale); il suo vantaggio nella diffusione dei suoi testi consisteva in un aumento di popolarità, che gli permetteva di ottenere maggiore favore presso i suoi patroni. In ogni caso, il fatto che a un certo punto l'opera venisse resa pubblica, e spesso alienata dall'autore a un altro soggetto - al bibliopola, o a un intermediario che provvedeva alla diffusione -, faceva sì che

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UN'INTRODUZIONE STORICA

si ponesse, all'interno del processo creativo, un momento finale, oltre il quale eventuali ripensamenti o modifiche diventavano più difficili: non era ovviamente impossibile effettuare ulteriori correzioni, ma le copie già diffuse erano per lo più irraggiungibili, e del resto se si andava a modificare quanto era scritto sul papiro, l'evidenza della correzione rischiava di denunciare in maniera plateale l'errore commesso. Il modo di produzione e di diffusione del testo nella Roma antica riduceva perciò la possibilità che nei manoscritti circolami sussistessero delle varianti d'autore; e questo appare particolarmente evidente in confronto con quanto avverrà in epoca medievale, quando, come vedremo, non esistette in genere un momento di vera e propria "pubblicazione" del testo, e l'autore continuò a detenerlo presso di sé emettendo singole copie individuali. Nella Roma classica, non solo era difficile apportare modifiche dopo la pubblicazione, in testi che già circolavano, ma anche le variami "provvisorie" che saranno state inevitabilmente prodotte durante il processo creativo tendevano a scomparire, dato che temporaneo era il supporto di scrittura che le poteva documentare; anche le varie forme preliminari, sottoposte agli amici, avevano evidente carattere transitorio, e tendevano nel corso del tempo a essere dimenticate. Per questa ragione gli studiosi sono oggi molto cauti nel valutare l'incidenza delle varianti d'autore all'interno delle opere classiche latine, nonché sulla reale possibilità di individuarle all'interno della massa di variami testuali giunte fino a noi. Nei casi dubbi si preferisce prudenzialmente considerare le varianti "sospette" come nate nel corso della trasmissione successiva, senza un'impegnativa dichiarazione a favore della loro autorialità. È pur vero che per alcune opere abbiamo testimonianze esplicite, da parte dello scrittore stesso o di qualche altra fonte antica, di una revisione da parte dell'autore, che è dunque indubitabile (di un celebre caso ciceroniano si parlerà nel PAR. I.I); e talvolta la tipologia delle varianti che si ritrovano nei manoscritti successivi è tale da far ritenere più probabile che esse risalgano all'autore (così, ad esempio, per i carmi del poeta tardoantico Ausonio). La più completa testimonianza di come le opere letterarie giungessero alla pubblicazione, delle vicende spesso imprevedibili della loro storia editoriale, e dello spazio che potevano avere ripensamenti e revisioni d'autore in un momento successivo alla pubblicazione, è quella offerta per l'età tardoamica da Agostino di Ippona nelle Retractationes (cfr. CAP. 1.). Dopo la morte dell'autore, la trasmissione delle opere letterarie antiche sembra essere stata improntata a una certa stabilità: le forme ine-

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

vitabilmente diverse presenti nei manoscritti tendevano a confluire in una sorta di versione standard, comunemente diffusa e accettata. Fra gli elementi che permettevano questa sostanziale uniformità vi era la forza delle biblioteche e delle scuole. A Roma esistevano, a partire dalla tarda età repubblicana, varie biblioteche pubbliche, e altre dovettero esistere nelle più importanti città dell'impero. Era inevitabile che la copia di un'opera depositata presso la biblioteca fosse considerata di maggiore autorità rispetto a quella detenuta da un privato, e diventasse un testo di riferimento: alla copia "pubblica" potevano accedere più studiosi o lettori, e questa maggiore notorietà le avrà conferito prestigio. Quanto alla scuola, essa contribuì a formare, almeno dalla prima età imperiale, un canone di autori "maggiori" - come Virgilio, Cicerone, Sallustio che costituivano la base dell'istruzione; le opere di questi scrittori, che venivano spesso imparate a memoria, tendevano ad assumere una forma omogenea, che corrispondeva a quella prevalente o più diffusa. I grammatici riscontravano talvolta nei manoscritti delle varianti, e quand'era il caso le discutevano; proponevano altresì congetture a passi che ritenevano corrotti; ma, nonostante quest'attività filologica, il testo degli autori letti nelle scuole rimaneva più o meno stabile, dato che la quantità di copie circolanti rendeva impossibile una sostituzione sistematica con le nuove forme ideate o riscoperte. Un'attività filologica di emendazione dei testi è attestata fin dall'età di Varrone; essa sembra essere divenuta più intensa con i grammatici del I-II secolo d.C., ma meglio la conosciamo per la tarda antichità, quando abbiamo documentazione di varie edizioni di opere precedenti elaborate grazie al lavoro critico di grammatici e studiosi. Fra queste edizioni tardoantiche, una delle più famose è quella delle Storie (Ab urbe condita) di Tito Livio (cfr. CAP. 3). Non è facile per noi giudicare l'effettivo valore degli interventi filologici svolti dagli eruditi della Roma antica; non sembra comunque che essi siano mai giunti a formulare dei principi metodologici precisi. Nella valutazione delle varianti e nelle proposte di congetture le ragioni di carattere grammaticale sembrano aver avuto spesso maggiore importanza di quelle di segno poetico; le mode del momento parrebbero aver condizionato il giudizio degli studiosi. Nel II secolo d.C., ad esempio, epoca in cui prevalse il gusto arcaizzante, i filologi erano portati aprivilegiare, nel caso di varianti dei manoscritti, quelle che apparivano linguisticamente antiquate, sul piano lessicale o morfologico; un atteggiamento che corrispondeva in realtà al desiderio di proporre all'interno della scuola quel modello culturale, e non a una reale ricerca di quanto

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UN'INTRODUZIONE STORICA

scritto in origine dall'autore. Al di là di tali debolezze metodiche, le tracce rimaste dell'opera di questi filologi sono per noi interessanti soprattutto quando attraverso la loro testimonianza ci sono conservate delle varianti che circolavano nei manoscritti del tempo, ma che successivamente si sono perdute (si parla in questi casi di tradizione indiretta; un esempio relativo a un passo dell'Eneide sarà illustrato nel PAR. 1.2).

2

Dall'antichità al medioevo Un momento cruciale nella storia della trasmissione dei testi latini fu quello che portò alla sostituzione del papiro con la pergamena come materiale standard per la trascrizione dei testi permanenti, e in particolare per quelli letterari. Tale sostituzione avvenne in Occidente gradualmente fra il II e il VI secolo, per il concorrere di vari fattori non sempre facili da determinare; fra gli altri ve ne furono probabilmente di carattere commerciale (una minore disponibilità sul mercato del papiro orientale, che rendeva più vantaggioso ricorrere a un materiale che era acquisibile in Europa, come la pergamena) e di carattere ideologico (come vedremo, il successo del cristianesimo portò con sé anche un diverso modo di produrre libri). Parallelamente al mutamento del supporto di scrittura, cominciò a prevalere anche una diversa forma del libro, il codice, nel quale i fogli - di pergamena, o ancora di papiro -, anziché essere incollati l'uno dopo l'altro in una striscia, erano uniti fra loro in fascicoli, a loro volta legati insieme per costituire un volume (il nome codex, letteralmente 'ceppo d'albero', deriva dall'abitudine di unire insieme un gruppo di tavolette di legno per ospitare una porzione maggiore di testo): la forma del codice era perciò del tutto analoga a quella di un libro di oggi. Non si trattava di una novità assoluta: il codice era da tempo in uso per la scrittura di testi non letterari, di frequente consultazione, di utilità pratica e spesso di basso pregio. Il fatto nuovo è che divenne la forma abituale anche per i testi di carattere letterario, che fino a quel momento circolavano principalmente su rotolo. Sulla sostituzione del rotolo con il codice - avvenuta in un periodo sovrapponibile a quello del passaggio da papiro a pergamena, ma che non sembra essere stata automaticamente correlata a esso: sono attestati infatti rotoli di pergamena e codici di papiro - possono aver avuto un certo peso le esigenze della cultura cristiana, divenuta a partire dal

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

secolo una componente importante, e progressivamente egemone, ali' interno dell'impero. A differenza della religione tradizionale romana, il cristianesimo si serviva di libri, e altri ne produceva. La rivelazione divina, secondo i cristiani, era affidata a una serie di libri (Bibbia, dal greco Tà Bt~À[a.) ispirati direttamente da Dio agli scrittori sacri; tale rivelazione non si configurava come misterica o destinata a un piccolo gruppo di iniziati, ma come universale, e perciò doveva giungere potenzialmente a chiunque. Inoltre, la nuova religione si era sviluppata fin dalle origini attraverso un'intensa comunicazione scritta: i suoi più antichi documenti - le lettere che Paolo di Tarso aveva indirizzato ad alcune comunità - furono concepiti come testi normativi, fatti per essere conservati e pubblicamente letti; e la medesima dimensione "pubblica" e "normativa'' ebbero le prime opere teologiche ed esegetiche. Il prevalere del cristianesimo, perciò, conferì ai testi scritti dei compiti in parte inediti, e comportò la formazione di un nuovo pubblico di fruitori della letteratura, anche in strati della popolazione che in precedenza ne erano rimasti esclusi. Queste novità avranno certo avuto parte nel cambio del materiale scrittorio e della forma del libro, anche se non è facile individuare precisi rapporti di causa-effetto. È probabile, ad esempio, che il codice fosse più funzionale del rotolo per accogliere un testo molto lungo e articolato com'era la Bibbia, che poteva essere trascritta in un numero limitato di codici (anche in uno soltanto), ma che se conservata in rotoli richiedeva una grande quantità di spazio. Inoltre la cultura cristiana, almeno nei primi secoli, cercò il modo di differenziarsi da quella pagana anche in aspetti materiali e simbolici: l'adozione di una forma del libro più economica e "popolare" (perché, come si è detto, fino ad allora riservata a testi di pregio modesto e di natura pratica) come il codice potrebbe essere stata indotta da un simile intento. Sempre sul piano della rappresentazione identitaria, bisogna ricordare che la religione ebraica conservava i propri testi sacri ali' interno di rotoli: lo sforzo di distinguersi da questa tradizione, da cui il cristianesimo direttamente derivava, può costituire una spiegazione ulteriore. È possibile, infine, che abbia favorito l'adozione del codice anche la presenza di esempi precedenti, autorevoli o funzionali: forse le lettere di san Paolo circolavano ali' interno di codici fin dall'inizio, e a questo modello possono essersi adeguati gli scrittori cristiani successivi, o forse vennero imitati modelli di libri giuridici, perché anche le opere della nuova religione si presentavano come testi di legge. È un fatto, comunIV

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UN'INTRODUZIONE STORICA

que, che gli scritti religiosi cristiani si diffusero molto presto in forma di codice, almeno in area latina, mentre quelli pagani continuarono più a lungo a circolare in forma di rotolo. Quanto al prevalere della pergamena a svantaggio del papiro, potrebbe aver giocato il desiderio di trasmettere la parola di Dio su un materiale scrittorio che appariva più resistente. Quando, a partire dal IV secolo, il cristianesimo cominciò a darsi un'organizzazione gerarchica meglio determinata, si pose anche il problema della validità dei testi che circolavano. Dato che la base della religione erano degli scritti - ormai non più soltanto la Bibbia, ma anche le opere degli ecclesiastici più importanti-, e dato che essi valevano come normativi, ci si preoccupò del fatto che si diffondessero in una forma corretta e autorizzata. Per la Bibbia, a questa esigenza cercò di rispondere la grande traduzione curata da Girolamo alla fine del IV secolo ( in seguito chiamata Vulgata), che si proponeva di presentare un testo "migliore" (ossia più conforme all'originale, che era scritto, a seconda delle parti, in ebraico, aramaico e greco) rispetto a quello che offrivano le traduzioni precedenti; e vari scrittori cristiani, come Agostino o Gregorio Magno, si preoccuparono del fatto che quanto scrivevano fosse riprodotto in modo corretto dai copisti successivi, o che se ne conservasse una copia "ufficiale" che avesse valore di autorità. Del resto, il dibattito teologico, che fu molto intenso negli ultimi secoli dell'antichità, si svolgeva a partire da testi; era importante che essi fossero disponibili in una forma sicura e accettata, perché in caso contrario potevano nascere equivoci e incomprensioni. Si può dire che nell'ambito della letteratura cristiana, dove il principio di autorità era fortemente sentito e dove la correttezza dottrinale era avvertita come una necessità, fosse viva la preoccupazione di conservare le opere in modo conforme all'originale, e questo abbia favorito un atteggiamento filologico verso il testo. Illustreremo qualche esempio di operazioni critiche che hanno per oggetto la Bibbia, nella tarda antichità e successivamente nel medioevo, nel CAP. l3. Il cambio della forma del libro e del supporto di scrittura che si verificò negli ultimi secoli dell'antichità ebbe conseguenze importanti per la conservazione della letteratura precedente. I testi che in tale periodo si trovarono a essere di moda - ad esempio, perché diffusi nei circoli letterari o nelle scuole, o perché impiegati nella pratica religiosa - vennero naturalmente trascritti in codici di pergamena. Quelli che in quel momento non godevano di popolarità rimasero confinati nei rotoli di papiro, e questo segnò la loro condanna. Non occorre pensare, be-

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

ninteso, a una sistematica e intenzionale distruzione di tali opere: esse continuarono a essere conservate sui vecchi supporti nelle biblioteche, dove all'occorrenza potevano essere consultate. Ma quando, in seguito alle crisi politiche e sociali che accompagnarono la fine dell'impero d'Occidente, le biblioteche non vennero più curate e i libri che ne facevano parte andarono dispersi, i rotoli di papiro, scomodi, ingombranti e deperibili, furono i primi a scomparire, e si persero così molte delle opere che solo su di essi erano ospitate. Come si è detto, nel mondo romano erano esistite varie biblioteche pubbliche, e molto diffuse dovevano essere quelle private. Poiché l'appartenenza all' élite culturale era considerata un elemento di prestigio, si deve pensare che i personaggi e le famiglie illustri possedessero di regola una propria biblioteca, di minori o maggiori dimensioni. Ma quando lo stato non fu più in grado di mantenere un sistema di cultura pubblica, o non ebbe più interesse a farlo, e quando l'antica classe dirigente romana venne progressivamente sostituita dalla nuova nobiltà militare di origine germanica, meno o per nulla interessata all' istruzione letteraria, le biblioteche cessarono di funzionare e caddero in rovina. Si trattò di un processo lungo e discontinuo, di cui abbiamo scarse notizie - com'è normale che accada quando ciò che si registra è una dissoluzione, e non una creazione -, e che avvenne in momenti diversi e con intensità diversa nelle varie regioni dell'Occidente. La perdita delle biblioteche antiche andò in parallelo con la chiusura delle scuole, prive ormai della funzione sociale che avevano esercitato nel mondo romano: la loro attività era stata indirizzata soprattutto alla formazione del retore, dedito alla pratica politica e forense, ma nei nuovi "regni barbarici" che si sostituirono all'impero questa figura non serviva più. Delle scuole, anche se di profilo ben minore rispetto a quelle precedenti, continuarono comunque a esistere nei principali centri amministrativi, dov'era necessario assicurare una pratica di governo che utilizzava pur sempre documenti scritti; ma soprattutto sopravvissero, insieme alle biblioteche, presso le istituzioni religiose. Come si è detto, alla religione cristiana servivano libri, e questi potevano essere conservati solo in biblioteche e archivi, fossero pure piccoli e poveri; i ministri del culto dovevano possedere un'istruzione sufficiente per celebrare la liturgia e leggere le Scritture, e ciò poteva essere garantito solo da scuole, anche rudimentali. Le istituzioni ecclesiastiche, come si vennero organizzando nella tarda antichità, subirono assai meno distruzioni di quelle in cui incorsero le strutture pubbliche e i patrimoni

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UN'INTRODUZIONE STORICA

privati. I libri antichi che sono stati trasmessi fino a noi sono quelli che presero, prima o poi, la via delle biblioteche ecclesiastiche, ed esse permisero una continuità fra il mondo tardoantico e l'età moderna. Un esempio emblematico di questo passaggio - e uno dei pochi a essere relativamente ben conosciuti - è quello della biblioteca del Vivarium, fondato in Calabria dopo la metà del VI secolo da Cassiodoro, un senatore romano che in precedenza aveva rivestito importanti incarichi di governo durante il regno degli Ostrogoti in Italia. Si trattava di un monastero in cui la pratica religiosa era associata allo studio delle discipline sacre e profane; un monastero "colto", almeno nelle intenzioni del fondatore, che l'aveva dotato di un'importante biblioteca, continuamente incrementata attraverso la copiatura di codici e la traduzione di testi greci. In una delle sue opere, le lnstitutiones, Cassiodoro elenca i principali sussidi per la lettura e lo studio della Bibbia, che costituisce nella sua ottica religiosa il coronamento del sapere; ma nel contempo offre un manuale per l'apprendimento delle artes, le discipline letterarie e scientifiche, che l'autore riteneva la necessaria base per la conoscenza delle Scritture, presentando anche in questo caso i libri più importanti da leggere per approfondire i vari argomenti. Le Institutiones diventano così ai nostri occhi anche una sorta di catalogo della biblioteca del Vivarium, dato che si può supporre che le opere qui citate fossero a disposizione dei suoi monaci. Poco sappiamo delle vicende del monastero dopo la morte del fondatore e della sorte di quei libri; alcuni indizi farebbero supporre che essi siano poi passati, almeno in parte, a Roma, dove sarebbero stati acquisiti dalla biblioteca papale, allora al Laterano, e di questa biblioteca abbiano poi seguito le sorti e subito le dispersioni. Sono stati ascritti al Vivarium, con motivazioni più o meno valide, alcuni codici del VI secolo tuttora esistenti. Una delle opere di cui abbiamo tracce più sicure, anche se non ci è più fisicamente conservata, è una Bibbia in nove volumi di cui ci parla Cassiodoro, che sappiamo essere stata trasportata in Britannia durante il VII secolo. Quello del Vivarium è un caso molto particolare, per la personalità del fondatore e per la caratteristica missione culturale del monastero; è però indicativo del fatto che i manoscritti di alcune opere erudite profane, oltre che di molte opere patristiche, trovarono accoglienza alla fine dell'antichità in biblioteche religiose. Di regola, l'istruzione dei monaci e del clero non era di livello elevato: il fatto che certi libri fossero depositati nella biblioteca non significava automaticamente che venissero letti, ma intanto questo ne assicurava la conservazione.

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Il passaggio da rotolo a codice e il prevalere della pergamena come supporto di scrittura, due fenomeni che avvennero in un momento di crisi e successivamente di rovina delle biblioteche antiche, costituirono in sostanza un doppio filtro che provocò una selezione drastica dei testi disponibili. Buona parte della letteratura latina classica, e anche molte opere della letteratura latina cristiana, andarono distrutte in questi secoli per le ragioni che si sono dette. Al di là delle perdite delle opere di alto livello letterario - dell'entità delle quali abbiamo spesso notizia da quanto indirettamente ci raccontano altri scrittori -, andò quasi totalmente perduta quella che potremmo chiamare la letteratura d'uso, cioè destinata a scopi pratici e temporanei (documenti, note, promemoria, appunti, lettere, biglietti, ricette, indovinelli, giochi, esercizi scolastici, e qualsiasi altro tipo di scritti contingenti). Si trattava di un tipo di letteratura che, per la sua natura e destinazione, non nasceva per essere conservata a lungo; ma che poteva esserlo per circostanze fortuite, non diversamente da come oggi le carte di un parente defunto vengono per lo più distrutte a distanza di anni o decenni, ma possono essere occasionalmente conservate per secoli. Per l'antichità latina, pressoché nulla è rimasto di questo materiale, perché non sono sussistite le circostanze materiali che potevano permetterne la conservazione; mentre a partire dall'alto medioevo - quando ormai la pergamena era diventata materiale scrittorio unico, utilizzato perciò anche per scopi contingenti - ne sono sopravvissuti vari esempi, sempre più numerosi con il passare del tempo.

3 L'età barbarica e il rinnovamento carolingio Nella percezione comune, i secoli che vanno all'incirca dalla metà del vr alla metà dell'vm sono considerati i più illetterati nella storia dell'Occidente medievale: un'età in cui la scuola era quasi inesistente, la conoscenza del latino - ancora l'unica lingua in grado di veicolare testi letterari - era riservata a pochi, e anche per questi pochi era assai stentata, e gli scrittori classici erano ignorati. Questo fosco quadro conosce in realtà parecchie eccezioni, forse anche più numerose e più variegate di quanto si sospetterebbe; ma è vero che in questi secoli, quelli comunemente definiti come eta barbarica, l'attenzione verso la cultura letteraria appare, nel suo complesso, molto modesta. Il numero di nuovi testi prodotti diminuisce drasticamente, e ancor più drasticamente

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si riducono i generi coltivati: si continuano a produrre quasi solo opere agiografiche, liturgiche, giuridiche, che avevano scopi essenzialmente pratici, mentre passano in secondo piano gli aspetti estetici. I classici pagani sembrano esser stati particolarmente trascurati: delle opere di tali scrittori sopravvivono soltanto pochissimi manoscritti copiati fra la fine del VI e la metà dell'vm secolo. Un interesse modesto risulta rivolto anche agli scritti dei Padri della Chiesa, coinvolti nella crisi generale degli studi, per quanto venissero talvolta usati per l'istruzione religiosa. Come ci si poteva attendere, minime, se non del tutto inesistenti, sembrano essere state in questi secoli le preoccupazioni filologiche verso l'esattezza dei testi: la scarsa circolazione di manoscritti e la ridotta pratica scolastica riducevano del resto inevitabilmente la consapevolezza del problema. Per quali percorsi, in questo quadro di recessione culturale, le opere della letteratura classica e tardoantica furono trasmesse all'età successiva, quando tornarono a essere lette, copiate e valorizzate? Individuare le tracce della sopravvivenza delle opere antiche nei primi secoli del medioevo, quelli per i quali la docwnentazione è più scarsa, è unaricerca complessa e affascinante, che può essere svolta intrecciando dati di provenienza diversa: la storia e gli spostamenti dei manoscritti della tarda antichità che ancora oggi si conservano; il luogo o gli ambienti in cui i testi ricompariranno in seguito; eventuali indizi della conoscenza di opere precedenti da parte di scrittori medievali. Per questa strada è possibile farsi un'idea almeno approssimativa di quale sia stata in questi secoli la sorte dei libri precedenti, o almeno di quelli che ricompariranno più avanti, dopo avere attraversato come un fiume carsico il periodo per noi più oscuro. Le certezze, in realtà, non sono molte; ma un quadro geografico indicativo si può in qualche misura tracciare. In Italia dovettero sopravvivere vari fondi librari tardoantichi; essi potevano derivare da biblioteche sia pubbliche, sia signorili, sia religiose, e spesso saranno stati semplici luoghi di deposito, più che di lettura e di consultazione. Sappiamo, ad esempio, che a Roma nel VII secolo erano disponibili parecchi libri, ma che essi non erano particolarmente considerati, tanto da venire ceduti senza difficoltà (come vedremo, monaci e intellettuali anglosassoni ne fecero incetta per portarli nella propria terra); lo stesso archivio dei papi non sembra esser stato in grado di conservare adeguatamente il materiale che deteneva. Nell'Italia meridionale, e in particolare in Campania, dovevano conservarsi i resti di varie biblioteche private, forse provenienti da ville di nobili romani

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e passati in fondazioni religiose; ma a Napoli sembra essersi mantenuta fìno al x secolo anche una tradizione di studi "laica", sostenuta dai duchi della città. Altri libri dovevano trovarsi a Ravenna, che era stata capitale nell'ultima fase dell'impero d'Occidente e poi durante il regno ostrogoto, e che poco risentì di distruzioni belliche; a Pavia, sede principale dei sovrani longobardi, dove sappiamo essere esistita una scuola e dove sono testimoniati studi giuridici, in funzione dell' amministrazione del regno; e a Verona, altra città regia, dove si conservavano - e in parte si conservano ancora, presso la biblioteca della cattedrale vari pregevoli manoscritti della tarda antichità e dei primi secoli del medioevo, che sembrano in parte provenienti da biblioteche private. Il monastero di Bobbio, fondato dal missionario irlandese Colombano nel 613 sull'Appennino piacentino, incrementò nei secoli la sua biblioteca, in particolare con opere patristiche, ma anche grammaticali, e in minor misura con classici, ricevendo materiale anche da Roma, da Pavia e forse dall'antico fondo del Vivarium. Parecchie opere classiche e tardoantiche sembrano essere sopravvissute anche nella penisola iberica, una terra in cui la monarchia visigota, che era subentrata all'impero, per lunghi periodi si pose in continuità con le consuetudini e le scuole romane. Gli scrittori iberici del VI e del VII secolo mostrano una buona conoscenza del latino e della letteratura antica. In particolare sono conservate qui molte opere di scrittori dell'Africa settentrionale, pagani e soprattutto cristiani, che potrebbero esservi giunte in seguito a migrazioni di intellettuali in contrasto con la dominazione vandalica ( iniziata nel 429 ), o per la via di Costantinopoli; in questo modo, la penisola iberica ereditava anche una parte delle esperienze di questa regione, che era stata una delle zone culturalmente più sviluppate e propositive del tardo impero. La tradizione di studi nella penisola iberica durò almeno fìno all'inizio dell'vm secolo, e non sembra essersi del tutto interrotta neppure con la conquista araba della regione (7 II). Verso la fìne dell' VIII secolo, quando sotto il regno di Carlo Magno si registrò una netta ripresa del livello d' istruzione nell'Europa centrale, vari intellettuali ed ecclesiastici visigoti sono attestati nella Gallia centro-settentrionale, e si è supposto che una parte delle tradizioni di testi antichi che riemergeranno qui nell'età carolingia provengano dalla penisola iberica e siano state importate da costoro. Ricche di conseguenze sono le vicende che interessarono la Britannia. Occupata per diversi secoli dai Romani, ma da loro solo superficialmente colonizzata, a partire dalla fìne del VI secolo divenne terra di

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evangelizzazione da parte di missionari inviati dapprima da papa Gregorio Magno (596-97 ), poi da papa Vitaliano ( 668), che si proponevano di convertire al cristianesimo romano gli Angli e i Sassoni, i popoli germanici che nel V-VI secolo avevano progressivamente assoggettato gran parte dell'isola. Soprattutto la seconda di queste missioni, condotta da due monaci di origine greca, Teodoro e Adriano, presentava ambizioni culturali notevoli, in quanto mirava a porre le condizioni perché in Britannia si formasse un clero autoctono, in grado di insegnare le Scritture e praticare la liturgia senza deviazioni dottrinali. Teodoro e Adriano governarono a lungo la chiesa locale e poterono fondare e consolidare a Canterbury un'importante scuola, che ebbe un ruolo centrale nell'educazione degli intellettuali anglosassoni dei decenni successivi. Certamente i due portarono con sé parecchi libri; altri ancora vennero procurati a Roma (e forse in Gallia) da ecclesiastici e nobili locali, come il vescovo Wilfrid e l'abate Biscop-Benedetto, che si recarono più volte nella città pontificia. Data la relativa stabilità di cui la chiesa anglosassone godette dall'inizio dell' VIII alla metà del IX secolo, qui si poterono organizzare buone biblioteche, come quella del monastero doppio di Monkwearmouth-Jarrow, fondato da Biscop-Benedetto al limite settentrionale della Britannia romana, che riusciamo in parte a ricostruire grazie alle opere del più importante scrittore anglosassone dell'epoca, Beda (m. 735), che a questo monastero apparteneva. Uno sviluppo della tradizione si ebbe anche in Irlanda. L'isola non era mai stata occupata dai Romani; la cultura latina vi giunse negli ultimi secoli dell'impero grazie all'attività di missionari cristiani, che vi importarono i libri sacri e liturgici. La nuova religione - che nelle forme organizzative e cultuali tendeva ad armonizzarsi con le tradizioni celtiche preesistenti - attecchì rapidamente, e ampia diffusione ebbe la pratica monastica; questo permise uno sviluppo della scuola, finalizzata soprattutto all'apprendimento del latino, studiato come lingua nobile e sacra, ma irrimediabilmente straniera. Tipici della produzione irlandese sono soprattutto i trattati di grammatica, che recuperano tradizioni della tarda antichità, alcune delle quali altrimenti andate perdute; e grande fama, anche fuori della loro terra, ebbero i maestri locali. Se in Italia, nella penisola iberica, in Britannia e in Irlanda riusciamo a seguire alcune tracce della sopravvivenza dei libri e della cultura amica, grazie a piccoli indizi e sporadiche testimonianze, più difficile è dire cosa si sia conservato nella Gallia. La parte meridionale della re-

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gione, dove si trovavano importanti città episcopali come Arles, Vienne e Lione, e che in parte - nella zona occidentale - era occupata da Visigoti, non sembra avere perso del tutto la sua tradizione di studi, che era stata fiorente in età antica; qualche biblioteca deve essere altresì sopravvissuta, come dimostrano le citazioni di classici che si incontrano in opere di scrittori formatisi in questo territorio. Non abbiamo analoghe notizie per la Gallia settentrionale, che pare essere caduta fra il VI e l'vm secolo in uno stato di recessione culturale. Ma è appunto in questa zona, controllata fin dal V secolo dai Franchi - un popolo che occupava un'area molto più vasta della Francia attuale, comprendente anche le regioni che oggi corrispondono al Belgio, all'Olanda e a buona parte della Germania - che a partire dalla seconda metà dell'vm secolo si segnala un netto risveglio di attività intellettuale, all'interno del quale parte importante ha il recupero dei libri e delle opere classiche e, soprattutto, tardoantiche. Questa ripresa è nota come riforma carolingia - dal nome della dinastia che governò il regno franco dalla metà dell'vm secolo-, ed è collegata con il rafforzamento del potere monarchico, che richiedeva l'organizzazione di strutture statali centralizzate e lo sviluppo di un apparato di funzionari delegati all'amministrazione locale del regno. Le scuole, in questo contesto, tornavano a essere necessarie; la lingua della comunicazione scritta continuava a essere il latino, che si studiava come lingua straniera nei territori germanici, ma che si allontanava ormai molto dalla lingua parlata anche nelle regioni romanze. Nell'uno e nell'altro caso, si poteva apprendere solo dai libri. Il progetto culturale carolingio richiedeva l'esistenza di scuole, che vennero riformate e adeguatamente sostenute. Più che della fondazione di nuove scuole di stato, delle quali pure vi è qualche traccia, si trattò soprattutto di un consistente appoggio dato dalla corte al potenziamento di quelle religiose, costituite presso i principali vescovati e monasteri. In generale, i programmi scolastici ricalcarono quelli della tarda antichità. L'insegnamento era strutturato su sette discipline fondamentali, le cosiddette artes, a loro volta suddivise in due gruppi: quelle del trivio, di carattere linguistico e logico (la grammatica, che mirava a una corretta conoscenza della lingua latina; la retorica, che studiava gli argomenti e la struttura del discorso; la dialettica, che presentava i metodi del ragionamento), e quelle del quadrivio (ossia a base matematica: l'aritmetica; la geometria; l'astronomia; la musica). Negli studi di grammatica e di retorica, che erano quelli prevalenti,

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alcuni autori classici e tardoantichi erano usati come testi scolastici, sia in quanto esempi di stile, sia in quanto fonti di nozioni enciclopediche. Alla formazione disciplinare si accompagnava una parallela formazione religiosa, com'era ovvio in una situazione in cui la stretta alleanza, se non la commistione, fra il potere politico e quello religioso era programma di governo e trovava espressione ufficiale nella fondazione di un impero cristiano. A sua volta, l'esistenza di scuole comportava l'esistenza di libri. Al rinnovamento culturale carolingio contribuirono dotti e maestri provenienti da varie zone d'Europa (visigoti, longobardi, anglosassoni, irlandesi): la prima generazione di intellettuali carolingi non fu rappresentata, tranne eccezione, da franchi. È probabile che questi intellettuali abbiano portato con sé anche dei libri, che iniziarono a circolare in un'area geografica omogenea e costituirono una ricca base per lo sviluppo. La riforma carolingia fu preceduta, ad esempio, da varie spedizioni di missionari anglosassoni (Willibrord, Wynfrid-Bonifacio, Sturmi) che fondarono monasteri nella regione orientale del regno franco, fino a quel momento poco o per nulla evangelizzata, e che sembrano avere portato con sé parecchi manoscritti e opere; e proprio in alcuni di questi monasteri (come Fulda, nella Germania centrale) ritroviamo poi esemplari di opere classiche. Nella sede arcivescovile di Lione, una delle più importanti della Gallia nella prima metà del rx secolo, erano presenti numerosi libri e testi provenienti dall'area visigotica, intendendo con questo termine sia la Gallia sud-occidentale, sia la penisola iberica. La corte franca commissionò a Teodemaro, abate di Montecassino, nel Lazio meridionale, una copia "autentica" della Regula che Benedetto da Norcia aveva assegnato al monastero da lui fondato nel 529, perché a essa si adeguasse il monachesimo praticato nel regno. Paolo Diacono, un maestro italiano che visse per alcuni anni alla corte carolingia, sembra avervi portato una selezione delle lettere di Gregorio Magno, che poteva essere utile come strumento di governo ecclesiastico. Il principale animatore della riforma culturale carolingia, Alcuino di York, un monaco anglosassone che divenne poi abate di Tours, lamenta il fatto di non poter disporre sul continente della quantità di libri che aveva in Britannia; ma è quanto mai probabile che, almeno dei più importanti, si sia fatto mandare una copia. E naturalmente, oltre a questi manoscritti provenienti dall'esterno, i carolingi avranno recuperato e valorizzato quanto ancora delle biblioteche tardoanriche esisteva sul loro stesso territorio.

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Un fatto notevole, che caratterizzò questo periodo culturale ed ebbe importanti conseguenze, fu l'introduzione in molte regioni d'Europa di una scrittura comune, chiamata oggi dai paleografi minuscola carolina. Questa nuova scrittura andò precisandosi a partire dalla seconda metà dell'vnr secolo in una forma che si distingueva per eleganza e chiarezza, e finì per soppiantare (rapidamente nei territori dell'impero, più lentamente in alcune zone esterne, come l'Inghilterra) le scritture precedenti, ereditate dalla tarda antichità e in parte poi differenziatesi nelle diverse aree geografiche. L'entrata in uso della nuova scrittura, che consentiva una maggiore facilità di comunicazione dei testi, in quanto essi erano vergati in ogni luogo nello stesso modo, ebbe subito effetti sulla trasmissione delle opere letterarie: com'era già avvenuto nel passaggio dal papiro alla pergamena e dal rotolo al codice, anche stavolta i testi di moda, o comunque ritenuti utili, vennero copiati nella nuova forma, mentre quelli giudicati meno interessanti si conservarono solo nelle vecchie scritture, che con il tempo si perse l'abitudine di leggere, e finirono in scaffali dimenticati, con più gravi rischi di deterioramento e di distruzione. Non è un caso che la maggior parte dei manoscritti di seri ttori antichi precedenti all'età carolingia siano giunti fino a noi frammentari: i codici di pergamena dei secoli v-vm, vergati in scritture ormai desuete, venivano sfascicolati, e i loro fogli erano frequentemente usati come copertine, come schede per appunti, come rinforzi per la rilegatura di volumi più moderni. Nello spirito pratico di certi bibliotecari medievali, una volta che di un libro si possedeva una copia "recente': e dunque più leggibile, era inutile continuare a tenere quella vecchia, che non serviva più; essa poteva essere smembrata per usi migliori. Un esempio di manoscritto dismesso e riutilizzato poi per ricavarne copertine e legature è il Virgilio di San Gallo (cfr. CAP. 9). Fra le pratiche di sostituzione di materiali antichi, la più famosa, anche perché per certi versi spettacolare, è quella dei cosiddetti codici palinsesti (dal greco rra.Àl[-lìj,YjO-TOL, 'raschiati una seconda volta'). I fogli di pergamena, soprattutto quando erano di un certo spessore, potevano essere cancellati (con la raschiatura della scrittura precedente o con lo sbiancamento mediante sostanze chimiche); e a questo punto erano pronti per ospitare una nuova scrittura. I testi obsoleti subirono talvolta la sorte di essere cancellati in questo modo e di essere sostituiti con altri. Pratiche del genere furono comuni per tutto il medioevo; ma mentre nei secoli e negli ambienti più poveri esse derivavano dalla mera necessità di procurarsi materiale scrittorio a basso costo (e ve-

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nivano perciò cancellate anche opere di cui non si possedeva una seconda copia, semplicemente per il fatto che il testo in questione era considerato inutile), nelle biblioteche più organizzate potevano essere conseguenza di una razionalizzazione del materiale librario: si poteva cancellare e riciclare la pergamena di quei libri di cui si possedeva un'altra copia meglio leggibile, o magari preparare apposta una copia renovata (questo il termine usato dai bibliotecari medievali) a partire dal vecchio manoscritto, che a questo punto smetteva di servire e poteva essere reimpiegato. Soprattutto nei casi in cui la raschiatura comportò la distruzione di un'opera preesistente di cui non c'erano altre copie, la cosa ebbe conseguenze di rilievo per la trasmissione dei cesti, perché in certi casi portò alla cancellazione dell'unico esemplare superstite di uno scritto antico; oggi, grazie all'impiego di strumenti ottici ed elettronici, è possibile nei casi fortunati riportare in evidenza le scritture cancellate - non però quelle raschiate in profondità - e recuperare almeno in parte il testo sottostante. Di qualche esempio famoso di palinsesto di opere classiche si parlerà nel CAP. 6. L'età carolingia è tradizionalmente nota come un periodo nel quale gli scrittori antichi tornarono a essere oggetto di lettura e di studio; canto che essa è qualificata talvolta come rinascita, termine che sottolinea il rinsaldarsi di un legame con il periodo classico. Non bisogna tuttavia pensare a quest'epoca come a una sorta di umanesimo ante litteram: la rivalutazione dei classici, che pure vi fu, avvenne lentamente e in un arco di tempo molto lungo, tanto che i suoi effetti si possono cogliere pienamente soltanto nei secoli successivi; la larga maggioranza dei manoscritti carolingi ospita opere di carattere religioso, e anche fra i cesti antichi che vennero in questo periodo recuperati e studiati le opere dei Padri della Chiesa hanno uno spazio preponderante rispetto ai classici pagani; solo una percentuale modesta dei molti autori che scrissero opere in latino fra gli ultimi decenni dell'vm e la fine del rx secolo mostra di conoscere bene e di apprezzare i classici. I modelli culturali carolingi non sono quelli della Roma pagana, ma piuttosto quelli della tarda antichità cristiana, così come all'impero costantiniano e teodosiano, e non a quello augusteo, si richiamava il progetto politico di Carlo Magno. Si era ripreso a leggere Virgilio nelle scuole, come esempio di versificazione esametrica e come repertorio di informazioni storiche e geografiche; ma oltre che dalle sue opere - e forse in misura maggiore - gli esametri si imparavano da quelle di poeti cristiani, come Giovenco, Sedulio, Aratore, mentre la storia e la geografia si

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potevano conoscere attraverso Girolamo e Isidoro di Siviglia, più che attraverso Livio e Plinio. L'impressione è che gli studiosi davvero interessati ai testi classici in età carolingia non siano stati molti, così come non molte furono le biblioteche interessate a possedere tali testi. Si trattava di opere ancora poco usate nella scuola, e - in un'epoca in cui la religione era considerata fondamento di tutte le attività umane, e dunque anche di quelle intellettuali - non era stata dissipata la diffidenza ideologica verso gli scrittori pagani; erano, in molti casi, testi "difficili", sia perché linguisticamente e stilisticamente molto raffinati, sia perché composti in un contesto alquanto diverso da quello medievale, e quindi non semplici da decodificare per un lettore dell'epoca. Ma, anche se non molto numerosi, i dotti carolingi che si interessarono ai classici svolsero un lavoro di studio appassionato e intenso. Emendarono i testi conservati nei manoscritti quando li ritenevano corrotti, li dotarono di glosse, ne ricercarono fonti e paralleli, ne ricavarono estratti e antologie; un'attività che andò progressivamente incrementandosi nei secoli successivi, grazie alla crescente disponibilità di libri e al prevalere di una mentalità più "laica" nei confronti degli scrittori pagani, e che creò un vero e proprio metodo di studio e di commento, che venne applicato e diffuso grazie ad alcune importanti scuole. Fra gli altri problemi che questi studiosi dovettero affrontare vi fu anche quello della qualità dei testi a loro disposizione, che non era sempre elevata. L'impressione che si ha è che essi fossero perfettamente coscienti del fatto che le opere che leggevano nei codici erano viziate da errori di trasmissione, e che i testi di cui disponevano non potessero essere acriticamente assunti come corrispondenti a quanto aveva scritto a suo tempo l'autore; ma, sul piano della critica testuale, non poterono far altro che adottare alcuni procedimenti empirici, la cui maggiore o minore efficacia dipendeva dalla maggiore o minore abilità dello studioso che li utilizzava. Questo empirismo dei filologi di allora, che molto raramente dichiararono le procedure e mai le fecero divenire sistema, mette talvolta in difficoltà i filologi di oggi. Sarebbe per noi molto utile, ad esempio, conoscere quanto i dotti carolingi - e coloro che li seguirono nei secoli successivi - fossero in grado di emendare i testi che avevano davanti, e con che criterio lo facessero. Quando in un manoscritto carolingio di un autore precedente si ritrova una buona variante, a fronte di una meno buona (ma pur sempre accettabile) di altri manoscritti, dobbiamo ritenere che la prima risalga ali' antichità e sia dunque presumibilmente

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originaria? Oppure un dotto medievale poteva avere l'abilità e la competenza per escogitarla, e in tal caso dovrà essere rifiutata come emendamento indebito? La risposta a questa domanda, con le conseguenze cescuali che se ne traggono, dipende dall'opinione che oggi ci possiamo fare del livello di competenza degli studiosi del medioevo; un'opinione difficile da formarsi, perché cali studiosi non costituiscono un insieme omogeneo, ma ognuno di essi va considerato un singolo caso con proprie caratteristiche e una propria storia. Fra i dotti carolingi che si occuparono di classici, il più celebre è Lupo di Ferrières, del quale conosciamo bene interessi e metodi (di lui parleremo nel CAP. 4). Quando poteva, egli si procurava più manoscritti della stessa opera, per migliorare il cesto confrontandoli era loro; l'operazione "materiale" che, allora come oggi, sta alla base di qualsiasi studio filologico, e che veniva e viene chiamata collazione. L'idea della collazione partiva dalla semplice consapevolezza - che qualsiasi dotto medievale certamente aveva - dell'inevitabile diversità fra le copie, ma implicava un forte impegno di ricerca, perché gli esemplari disponibili erano pochi e spesso conservaci in biblioteche distanti centinaia di chilometri. Operazioni del genere erano state già compiute nei decenni precedenti per i testi religiosi che avevano importanza strategica nel quadro della politica culturale "di governo" dei sovrani carolingi, e per i quali vi era l'esigenza di approntare un'edizione "ufficiale". Un'edizione della Bibbia con registrazione delle varianti che si trovavano in diversi manoscritti era stata preparata all'inizio del IX secolo da Teodolfo, vescovo di Orléans; un lavoro analogo era stato compiuto per la Regula benedettina, che come si è detto era proposta come cesto fondamentale del monachesimo carolingio; frequenti segni di collazioni si ritrovano nei manoscritti dei Padri della Chiesa all'epoca più lecci, come Agostino e Gregorio Magno. In generale, anche quando non si giungeva al punto di effettuare faticosi confronti fra manoscritti, si può dire che l'età carolingia sentisse l'importanza di dotare le opere autorevoli di vere e proprie nuove edizioni, nelle quali il cesto era presentato in una vesce grafica aggiornata - con l'uso della minuscola carolina - e in un più comodo assecco strutturale - con divisioni di paragrafi, sommari, talvolta introduzioni e commenti -, in modo da renderle più adatte al gusto e alle esigenze dell'epoca. Nell'età carolingia si sviluppò dunque una ripresa complessiva degli scudi, soprattutto di carattere religioso, e in questo contesto alcuni dotti dimostrarono un rinnovato interesse verso gli autori classici.

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Analogamente, gli scriptoria del tempo andarono producendo una gran mole di nuovi libri destinati alle biblioteche, e questi libri furono in larga maggioranza testi di carattere religioso; ma non mancarono centri in cui anche i classici vennero valorizzati. Nelle biblioteche dei monasteri di Corbie, nella Gallia nord-orientale, e in quello di Lorsch, nella regione renana, trovavano posto, ad esempio, opere di molti autori pagani (fra gli altri Cicerone, Sallustio, Vegezio, Plinio il Giovane, Stazio, Marziale, Terenzio, Ovidio, Vitruvio, Svetonio, Seneca); entrambi i monasteri erano strettamente legati alla coree carolingia, e probabilmente questo interesse è un riflesso di quello dei maestri e degli intellettuali che la frequentavano. Altre importanti raccolte di testi classici si trovavano nel monastero di Fulda, che era stato fondato dal missionario anglosassone Wynfrid-Bonifacio e che avrà forse acquisito parte di quel patrimonio per la via della Britannia; e a Fleury, nella valle della Loira, controllato fra la fine dell'vm e l'inizio del IX secolo dal già citato Teodolfo di Orléans, che era di origine iberica e che può avere procurato libri per quella via. Anche in questi casi, però, l' attenzione ai classici non deve essere sopravvalutata: la parte più consistente dei libri conservati nei monasteri che abbiamo citato, nonché la quasi totalità di quelli disponibili in altre biblioteche ecclesiastiche e monastiche dell'epoca, era di carattere religioso, e le operazioni di copiatura di questo tipo di opere costituiva l'attività prevalente degli scribi carolingi. Quanto di filologico c'è nello studio degli autori classici in questo periodo - collazioni, emendamenti, ricerca delle fonti, nuovi assetti editoriali - veniva comunemente praticato anche per la Bibbia e per gli scrittori cristiani.

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Scuole, biblioteche e copisti nel mondo medievale Al di là dell'attenzione verso le opere del passato, e della ripresa più o meno esplicita del fìlo culturale che proveniva dalla tarda antichità, l'età carolingia fu soprattutto un periodo di ampia produzione letteraria. In quest'epoca venne scritto un numero consistente di opere nuove, di vario genere, che dimostrano la vitalità della scuola e il dinamismo dell'attività intellettuale. Anche le nuove opere medievali diventarono naturalmente oggetto di studio e di copiatura, come lo erano quelle antiche; la trasmissione degli auctores ueteres, cioè dei classici latini,

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quella degli auctores sacri, cioè delle opere bibliche e patristiche, e quella degli auctores noui, cioè degli scrittori latini del medioevo, risponde a meccanismi e logiche analoghe, fatte salve le specificità di genere, di cui parleremo più avanti. I luoghi in cui venivano copiati i classici erano gli stessi nei quali venivano copiate le opere medievali; medesime erano le biblioteche in cui i codici degli uni e delle altre erano conservati; e i medesimi dotti le leggevano, usavano e studiavano allo stesso modo. I meccanismi della trasmissione per gli uni e per gli altri testi rispondono a un'analoga struttura profonda, e analoghi sono di conseguenza i metodi impiegati dalla critica per l'analisi delle loro vicende e per la loro ricostruzione. A partire dall'età carolingia la storia dei testi latini - classici, tardoantichi, patristici e a questo punto anche medievali - non conosce più crisi drammatiche, tali da comportare drastiche perdite di materiali. Per tutto il medioevo le biblioteche delle istituzioni religiose, in particolare monastiche, godettero di una certa continuità, essendo protette dalle vicissitudini politiche; e più tardi, quando all'inizio dell'età moderna le guerre di religione, almeno in alcune aree d'Europa, provocarono gravi distruzioni alle istituzioni ecclesiastiche, mettendo a rischio il loro patrimonio librario, la continuità fu assicurata dalle corti reali e signorili, dove ormai si era sviluppata una mentalità che valorizzava i libri e ne favoriva la conservazione. Dall'età carolingia in poi i manoscritti che sono pervenuti fino a noi sono in numero crescente, con un rapporto abbastanza costante di proporzionalità inversa rispetto alla distanza da noi nel tempo, un rapporto dunque del tutto fisiologico. Vi furono, naturalmente, momenti di minor produzione, in seguito a crisi di carattere politico ed economico (ad esempio, nel x secolo, per il quale i codici prodotti sembrano essere in numero inferiore rispetto a quelli del precedente); ma bisogna tenere anche conto del fatto che i libri, una volta copiati e depositati in una biblioteca, continuavano a essere disponibili per la lettura, e in periodi di crisi non c'era motivo di eseguire ulteriori copie di testi che già si possedevano. Le scuole e le biblioteche che si erano sviluppate nel periodo carolingio sopravvissero alla decadenza dell'impero, evidente fin dalla metà del IX secolo. Nelle scuole andò progressivamente crescendo l'attenzione ai classici, che entrarono in modo consistente nel canone degli autori studiati, affiancando e poi soppiantando quelli tardoantichi; la diffidenza verso i contenuti pagani venne superata grazie alla valorizzazione degli aspetti tecnici ed estetici. Gli scrittori medievali

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fecero ricorso in maniera sempre più massiccia ai classici come fonti e modello di stile, con interesse e attenzione diversa verso i singoli autori a seconda della moda del tempo. Gli studi continuarono e si svilupparono, e i maestri più avvertiti li praticarono con attenzioni filologiche, non diversamente da quanto avevano fatto quelli dell'età carolingia. L'atteggiamento dei medievali verso le opere letterarie era in larga misura diverso da quello proprio dell'antichità, e, per ragioni diverse, da quello dell'età moderna e contemporanea. Se nell'antichità nella produzione letteraria contava un principio di emulazione, in base al quale l'autore tendeva a gareggiare con i suoi modelli per realizzare opere superiori, nel medioevo vigeva piuttosto il principio opposto, quello del reimpiego: i testi precedenti erano considerati di grande valore, spesso di qualità insuperabile, e venivano perciò aggiornati e riproposti, in una nuova contestualizzazione adatta all'uso contemporaneo. Rispetto a quella antica, la produzione letteraria latina medievale punta dunque molto sulla rielaborazione dell'esistente, e assai meno sulla creazione del nuovo: la scarsa originalità che talvolta le si attribuisce dipende da questa sua caratteristica. Spesso le opere precedenti venivano riutilizzate mediante riduzione, come nel caso dei florilegi (raccolte antologiche di brani di un singolo autore o anche di diverse opere e autori, destinate a fini didattici) o delle epitomi (abbreviazioni di opere più ampie mediante drastici tagli, cali da conservare solo ciò che effettivamente interessava a uno specifico pubblico); ma talvolta il procedimento era di segno opposto, e l'opera precedente veniva arricchita con aggiunte originali o con l'unione di brani tratti da fonti diverse, fino a formarne una di mole più ampia. Le opere classiche furono soggette a questa pratica, così come - in misura anche maggiore lo furono i Padri della Chiesa e gli stessi scrittori medievali. Le riscritture medievali possono rivelarsi per noi una risorsa per l'esame e la ricostruzione critica dei testi antichi: un'opera precedente che veniva ripresa o incorporata in una successiva veniva spesso copiata in modo fedele, tanto che la seconda può costituire una preziosa testimonianza della prima. Queste vicende rientrano nella cosiddetta tradizione indiretta; un paio di casi saranno illustrati nel CAP. 19. Se il reimpiego di testi precedenti ebbe così largo spazio nel quadro della produzione letteraria medievale, ciò dipende anche dal fatto che il concetto di "proprietà letterarià' - quello per cui l'autore di un'opera ne detiene in qualche modo i diritti - è estraneo alla mentalità del tempo. Se è vero che i testi classici e gli scritti sacri, quelli che costituivano

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delle auctoritates, non dovevano essere modificati per il loro valore di norma dottrinale o stilistica, nulla impediva che da essi venissero ricavati estratti da impiegare con specifiche finalità e in contesti diversi; ma per i testi meno autorevoli riscritture e rielaborazioni anche profonde erano lecite e spesso incoraggiate. Quando perciò un autore medievale riprendeva l'opera di un suo predecessore - antico, o anche contemporaneo - non commetteva una scorrettezza, ma anzi valorizzava quanto questi aveva scritto; non è raro incontrare del resto, nei prologhi delle opere medievali, inviti ai lettori a emendare il testo, correggere eventuali errori, e riutilizzarlo nel senso che appariva loro più opportuno. Non si può comprendere la trasmissione dei testi nel medioevo se non si tiene conto delle circostanze e delle condizioni nelle quali essi venivano trascritti e dei metodi utilizzati per l'attività di copiatura. Il medioevo aveva ereditato dall'antichità la pratica di scrivere i testi provvisori su tavolette cerate, cui si affiancavano frammenti di pergamena di scarto o di recupero; i testi definitivi venivano riportati su codici di pergamena; su questi ultimi venivano naturalmente realizzati anche nuovi esemplari di testi preesistenti. La copiatura "in pulito" era in genere affidata a professionisti della scrittura, che potevano essere laici, ma più frequentemente erano ecclesiastici, data anche la maggiore percentuale di persone istruite che appartenevano a questa seconda categoria. Esistevano anche atelier destinati a questo specifico compito (scriptoria), sui quali però abbiamo scarsa documentazione, soprattutto per i primi secoli del medioevo; un po' meglio conosciamo quelli che erano collegati a istituzioni religiose, in particolare ai monasteri, dei quali la copiatura dei libri sembra essere stata un'attività tipica. Si può supporre che la produzione di manoscritti in uno scriptorium avesse anzitutto finalità interne: a essere copiati erano i libri che servivano ali' istituzione che lo controllava, e dunque - nel caso di monasteri o vescovati - testi liturgici, dottrinali, esegetici, agiografici, normativi; ma anche quelli che servivano alla scuola, e perciò grammatiche, lessici, manuali, e gli autori che venivano utilizzati come modelli di stile o come fonti di informazione. Ma uno scriptorium religioso poteva anche lavorare per soggetti esterni: per istituzioni analoghe che non avevano la possibilità di organizzare in proprio delle copiature, ma anche per laici, maestri e uomini di cultura in genere che avessero necessità di libri. Presso le corti esistevano altresì degli uffici che effettuavano attività di scrittura, prevalentemente di atti amministrativi, di cui erano incaricati dei notarii; è probabile che almeno nelle più importanti di esse si siano effettuate anche trascrizioni di

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opere letterarie, ma abbiamo scarsissime testimonianze di tale attività fino a tutto il medioevo centrale. La copiatura avveniva in diverse fasi, e potevano contribuirvi persone diverse. Occorreva anzitutto preparare il materiale scrittorio, che in Occidente rimase fino al XIII secolo quasi esclusivamente la pergamena. La pelle doveva essere conciata in modo adatto per poter ospitare la scrittura: occorreva quindi eliminare ogni residuo di carne o di pelo dell'animale, sistemare eventuali asperità e imperfezioni, rendere il supporto più bianco e morbido. Si doveva poi piegare e tagliare la pergamena in modo da creare dei fogli della misura voluta; tali fogli venivano quindi squadrati e rigati in modo da fornire una guida per lo scriba, e raggruppati in fascicoli ( la misura più comune era la composizione detta quaternio, che comprendeva quattro fogli doppi, piegati a metà a formarne otto singoli, ossia sedici pagine). Terminata la copiatura del testo, si procedeva a introdurre eventuali decorazioni (da semplici letterine in colore per evidenziare un nuovo argomento o paragrafo, a più estesi titoli rubricati di capitolo, fino a elaborate ornamentazioni e miniature); a questo punto i vari fascicoli venivano assemblati fra loro a costituire il codice, che veniva infine protetto con una copertina di legno (spesso rivestita di cuoio) o di pergamena più spessa. L'azione materiale della copiatura non era sostanzialmente cambiata rispetto all'antichità. L'esemplare veniva letto dal copista parola per parola, o per gruppi di parole, e la stessa porzione di testo veniva trascritta sul foglio vergine; poteva anche capitare che l'esemplare fosse letto ad alta voce da un'altra persona, e il copista trascrivesse sotto dettatura (un sistema particolarmente adatto se si dovevano produrre più copie della stessa opera, perché più copisti potevano trascrivere contemporaneamente il medesimo testo dettato da un solo lettore). Lo strumento che il copista usava per scrivere era in genere il fusto di una penna di uccello tagliata; quando essa veniva intinta nel calamaio, l'inchiostro risaliva per capillarità al suo interno, che è cavo, e piegandola opportunamente era possibile tracciare linee più spesse o più sottili a seconda della bisogna. Lo scriba aveva inoltre a disposizione un raschietto, con cui poteva effettuare piccole correzioni immediate nel testo che andava producendo. Nonostante il suo carattere di opera intellettuale, non si trattava di un lavoro leggero: al di là dell'attenzione costante che era richiesta, la postura che assumeva lo scriba comportava un affaticamento delle braccia e della schiena, e non meno affaticati erano gli occhi, dato che non era facile all'epoca disporre di una luce ottimale.

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Questa è una descrizione, di massima e molto sintetica, di come avvenivano le operazioni di copiatura nel medioevo; ma è ben chiaro che, all'interno di un quadro siffatto, le variabili potevano essere innumerevoli, in rapporto alle diverse situazioni contingenti. Come si è detto, nel procedimento di produzione di un codice potevano intervenire soggetti diversi: chi preparava la pergamena era in genere un artigiano specializzato, diverso dallo scriba; ugualmente il miniatore - e spesso anche chi tracciava decorazioni di minor impegno - era un artista specializzato in quest'opera; ma nulla impediva che altre volte una sola persona si occupasse di tutto il lavoro dall'inizio alla fine. Soggetti diversi potevano intervenire anche nelle attività che riguardavano la vera e propria copiatura dell'opera; e questo è per noi un elemento di particolare interesse, perché la cosa può avere conseguenze dirette sulla trasmissione del testo. I copisti, ad esempio, potevano essere più di uno e alternarsi al lavoro: una simile alternanza permetteva di svolgere il lavoro in modo più celere, riducendo le inevitabili pause di riposo che dovevano essere concesse al lavorante se era da solo. Negli scriptoria più ricchi e meglio organizzati, diversi scribi potevano procedere alla copiatura dello stesso testo, oltre che in successione, anche in parallelo, guadagnando ulteriormente in rapidità. In questo caso, il codice che costituiva il modello da copiare veniva sfascicolato e distribuito a più copisti, ognuno dei quali doveva riprodurre, in un numero predeterminato di fogli, una porzione di testo; alla fine i vari fogli così prodotti venivano assemblati fra loro. La possibilità che più scribi abbiano contribuito alla produzione di un medesimo manoscritto rende per noi più difficile la valutazione filologica del prodotto, ossia la formulazione di un giudizio sulla qualità del testo ivi riportato. Ogni copista era un tecnico della scrittura, ma non aveva in genere conoscenza specifica delle opere che stava trascrivendo e del loro contenuto; a seconda della sua indole, della sua esperienza e degli ordini che aveva ricevuto, egli poteva assumersi compiti di "cura" del testo, intervenendo a correggerlo o a modificarlo, oppure mantenere un atteggiamento più passivo, limitandosi a trascrivere quanto trovava senza alcuna ingerenza. Se all'interno di uno stesso manoscritto avevano lavorato più scribi, le varie parti possono avere maggiore o minore fedeltà al modello, a seconda dell'atteggiamento di ognuno di loro; una differenza che è facile percepire se possediamo il codice originario, dove "vediamo" le mani diverse, ma che finisce per nascondersi nelle eventuali copie derivate dal codice copiato a più mani.

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I copisti veri e propri, tuttavia, non erano gli unici a intervenire nel processo di trascrizione di un testo. Quando il centro di produzione libraria era grande e ben organizzato, doveva esserci un responsabile che coordinasse le varie operazioni. I compiti di questo personaggio non erano soltanto tecnici: possiamo immaginare che fosse lui a stabilire quali opere andavano copiate e con che tempi, in accordo con il responsabile della biblioteca (se non era lui stesso), una scelta che aveva implicazioni di politica culturale; ed era lui a ricevere eventuali commissioni da parte di terzi. Si deve pensare che, quando l'opera da copiare era avvertita come particolarmente importante, il responsabile controllasse in anticipo la qualità dell'esemplare: può avere corretto eventuali errori, reali o presunti, che si trovavano in esso, o può avere collazionato il testo su esemplari diversi (se gli erano accessibili). In molti casi, egli avrà anche svolto un'operazione di verifica del lavoro degli scribi: rileggendo il prodotto finito, o ricontrollandolo - occasionalmente o sistematicamente - sull'esemplare e apponendo eventuali correzioni. Beninteso, tali operazioni potevano essere svolte anche dal copista stesso, o da altri collaboratori dello scriptorium, magari su indicazione del responsabile. Uno scriptorium, si è detto, era in genere collegato a una biblioteca, ed era primariamente indirizzato a rispondere alle sue necessità. Una biblioteca avrà avuto bisogno anzitutto di una manutenzione costante: fogli o fascicoli rovinati dall'uso o da incidenti (umidità, muffe, insetti, roditori) andavano sostituiti; testi vergati in una scrittura obsoleta diventavano di lettura ostica, ed era comodo copiarli in una scrittura più in voga. Se l'istituzione di cui lo scriptorium faceva parte era in crescita, sarà stato necessario anche un mero incremento numerico dei libri: un monastero in espansione, che creava sedi minori dipendenti dalla casa madre, ad esempio, avrà avuto bisogno di dotare le nuove fondazioni dei libri necessari alla liturgia e alla lettura da parte dei monaci. In questi casi lo scriptorium produceva ulteriori copie di libri che la biblioteca già possedeva: si registrava perciò un ampliamento della quantità di codici, ma non un aumento delle opere a disposizione, che rimanevano le stesse. Altre volte, scopo dell'attività di copiatura sarà stato invece quello di acquisire per la biblioteca certe opere che prima non vi erano ospitate. In questo caso si pongono due questioni, entrambe per noi molto importanti: quali erano le ragioni dell'interesse della biblioteca verso quella specifica opera, e da dove proveniva l'esemplare che dava origine

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alla copia. Sono due domande cui non è facile rispondere, e soltanto gli studi sempre più accurati che vengono oggi compiuti sui singoli scriptoria medievali permettono di ricavare qualche indicazione. Talvolta l'acquisizione di un nuovo testo - o di un determinato genere di testi rispondeva alle esigenze programmatiche della biblioteca o dell'istituzione cui essa apparteneva: così, ad esempio, il procurarsi molte regole monastiche nella prospettiva di una riforma religiosa, o molte omelie di Padri della Chiesa per compilare una raccolta ufficiale. Altre volte la necessità era quella di colmare delle lacune nel catalogo a disposizione. Una biblioteca religiosa ben organizzata, ad esempio, aveva certo interesse a possedere una serie completa di commenti per tutti i libri della Bibbia; ma nella pratica esegetica erano stati composti per lo più commenti a singoli libri o gruppi di libri, e la biblioteca avrà progressivamente provveduto a integrare il proprio catalogo con quelli che mancavano. In una biblioteca anche modesta certe opere di consultazione di base (come le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, o le grammatiche fondamentali di Donato e di Prisciano) dovevano comunque essere presenti, e se non c'erano era necessario procurarsele. Altre volte, invece, l'interesse era legato alla scuola, e derivava dall'introduzione di nuovi canoni nelle letture o di nuovi strumenti per le lezioni. Abbiamo già citato l'esempio di Lupo di Ferrières, che andava chiedendo ai bibliotecari di altri monasteri esemplari di opere classiche, comprese quelle all'epoca poco comuni, per incrementare la biblioteca del proprio monastero o poter effettuare collazioni. Una tale pratica, che sembra essere stata solo occasionale in età carolingia, diverrà più frequente nell'x1 e soprattutto nel XII secolo, quando gli scrittori antichi vennero sempre più largamente apprezzati e usati nella scuola. I manoscritti tendevano così a spostarsi, o si spostavano le copie che dagli esemplari più antichi venivano prodotte. Si può immaginare che gli scriptoria collegati a grandi biblioteche ricevessero delle vere e proprie commissioni da parte di strutture meno dotate e organizzate, che chiedevano di produrre una copia di un'opera lì disponibile e di inviarla poi al committente, probabilmente a fronte di qualche sorta di compensazione o pagamento. Perché questo avvenisse, però, era necessario che circolassero notizie sulla dotazione della prima biblioteca, in modo che il responsabile della seconda sapesse che per acquisire una determinata opera poteva rivolgersi a essa. Spesso il canale di circolazione di queste notizie saranno state le voci che correvano in quella cerchia ristretta che erano all'epoca gli eruditi di alto livello; ma si può

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pensare che in certi casi alcuni emissari venissero incaricati di vere e proprie visite ed esplorazioni presso altre biblioteche. Poteva altresì accadere che un bibliotecario, avuta notizia che in un'altra biblioteca esisteva un'opera per lui interessante, inviasse lì i propri scribi, o che il lavoro venisse effettuato in loco, ma da scribi di un'altra istituzione; o ancora, che il codice fosse inviato in prestito dalla biblioteca che lo deteneva a quella che ne desiderava una copia, e che una volta effettuata la copiatura presso la struttura di destinazione l'esemplare (o eventualmente la copia) venisse restituito. Se si verificavano queste circostanze, individuare la provenienza geografica del copista - spesso riconoscibile in base alle caratteristiche della sua scrittura - non permette più di dedurre automaticamente che il testo fosse disponibile nello stesso luogo: lo diventava dopo la copiatura. La possibilità degli spostamenti degli scribi e degli esemplari di copia, molto difficile da accertare, induce a qualche cautela nel tracciare delle mappe troppo precise della disponibilità di alcune opere nelle biblioteche medievali; quanto meno, le indicazioni che si ricavano circa l'origine geografica dei copisti potrebbero non essere sufficienti. Per ricerche di questo genere occorre tener conto che nel medioevo la rete di relazioni fra biblioteche e istituzioni rispondeva a logiche piuttosto diverse da quelle cui siamo oggi abituati: non esisteva un concetto di "continuità nazionale" o "territoriale': come quella che venne poi assicurata dagli Stati moderni, e la vicinanza geografica era perciò meno importante dei legami che si creavano per affinità di fondazione o tradizione. Due monasteri appartenenti allo stesso ordine religioso, ad esempio, situati a grande distanza l'uno dall'altro, potevano avere fra loro maggiore quantità di scambi - anche di libri - rispetto a due monasteri vicini, ma che appartenevano a ordini diversi. La conoscenza delle biblioteche medievali e dei loro fondi librari fornisce un sussidio importante allo studio della trasmissione dei testi perché permette di individuare gli ambiti nei quali determinate opere erano materialmente reperibili e venivano lette. Esistono biblioteche monastiche ed ecclesiastiche che hanno attraversato il tempo con una certa stabilità, e che conservano tuttora molti dei codici che a esse appartenevano nel medioevo; possiamo citare, ad esempio, quella dell 'abbazia di San Gallo, nella Svizzera settentrionale, o quella episcopale di Lione, dove troviamo ancora oggi una parte dei codici che vi erano presenti in epoca carolingia, o quelle di varie chiese vescovili dell' Italia settentrionale (come Verona, Ivrea, Novara, Vercelli, Modena), che

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non hanno subito grandi distruzioni perché protette dalla permanenza dell'istituzione cui appartenevano. Ma molte altre sono andate disperse - fra queste pressoché tutte le biblioteche non ecclesiastiche fino al Quattrocento -, e anche quelle che si sono meglio conservate non sono andate immuni da perdite o cambiamenti. La loro storia può essere ricostruita attraverso l'analisi dei documenti (inventari e cataloghi stilati da antichi bibliotecari, note di possesso vergate sulle prime o le ultime pagine di codici, altre menzioni occasionali) e attraverso lo studio della scrittura e della configurazione materiale dei codici, che permettono di circoscrivere l'epoca e l'area di produzione dei manoscritti anche quando su di essi non sono riportate indicazioni esplicite; in circostanze favorevoli, è possibile attribuire la produzione di un codice a uno scriptorium e a W1 periodo precisi. Si possono in questo modo ricostruire le vicende di importanti biblioteche medievali che oggi non esistono più. Per fare qualche esempio illustre, i libri che si trovavano a Corbie, forse il più significativo deposito di opere classiche dell'impero carolingio, nel 1638 passarono in gran parte all'abbazia parigina di Saint-Germain-des-Prés. Alla chiusura di questo monastero durante la Rivoluzione francese, un diplomatico russo a Parigi si impossessò della parte più antica e preziosa del fondo e lo portò in patria, dove ancora oggi si trova (alla Biblioteca di Stato di San Pietroburgo); un'altra parte finì in quella che oggi è la Bibliothèque Nationale de France; ma vari altri manoscritti passarono, in uno o in un altro momento della storia, in mani diverse, e sono oggi conservati in strutture sparse; altri ancora non sono più reperibili. La biblioteca dell'abbazia di Montecassino conserva tuttora un ricco patrimonio di codici, ma esso corrisponde a quello che si è accumulato in una parte relativamente "tarda" della sua storia, e cioè a partire dall'xr secolo: i manoscritti che dovevano costituire il suo fondo più antico sono andati perduti nei diversi incendi che l'abbazia subì nell'alto medioevo. L'ultima distruzione del monastero è invero molto recente, e risale ai bombardamenti che lo colpirono durante la Seconda guerra mondiale; fortunatamente i libri della biblioteca erano stati portati in tempo altrove, e in questo modo hanno potuto salvarsi. Abbiamo citato i casi di due celebri biblioteche monastiche. È in genere più difficile ricostruire la storia delle biblioteche di sovrani e signori, che pure dovettero esistere e che potrebbero essere state molto importanti specialmente per la trasmissione di testi profani: le collezioni dei laici sono per loro natura soggette a vicende politiche,

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economiche e dinastiche che ne pregiudicano una lunga durata. Vari tentativi sono stati fatti per ricostruire la biblioteca di corte di Carlo Magno - dove si può pensare si trovasse un importante patrimonio di opere classiche-, di suo figlio Ludovico il Pio, dell'imperatore Ottone III. Per quest'ultimo si ritiene che una parte dei suoi libri, acquisiti in Italia, siano rimasti nelle mani del suo successore, Enrico II, e siano stati da questi donati alla chiesa vescovile da lui fondata a Bamberga, in Germania; poiché la biblioteca di questo vescovato non subì in seguito gravi distruzioni, i suoi codici più antichi - che sarebbero in parte quelli di Ottone - sono giunti fino a noi. Più in generale, i manoscritti posseduti da signori e studiosi laici fino al XIII secolo sembrano essersi conservati quasi esclusivamente quando sono finiti in seguito in una biblioteca ecclesiastica; caso molto frequente, perché i libri erano - oltre che portatori di un testo - oggetti preziosi, che potevano essere donati o lasciati in eredità a enti religiosi pro salute animae, com'era uso comune all'epoca. È stato ipotizzato, con buoni argomenti, che questa provenienza abbiano in particolare parecchi manoscritti di opere classiche entrati nelle biblioteche monastiche fra VIII e XII secolo, e divenuti qui in seguito oggetto di lettura e di studio.

s Il basso medioevo: le botteghe librarie Per tutto il medioevo alto e centrale non esistette in Europa un vero e proprio mercato del libro. Poteva naturalmente capitare che qualcuno (come Biscop-Benedetto a Roma nel VII secolo) comprasse manoscritti, così come che uno scriptorium producesse su commissione una specifica copia di un'opera per un'altra biblioteca, e che in cambio di questa ottenesse qualche forma di compenso; ma nell'uno e nell'altro caso si trattava di situazioni contingenti, e non di un commercio organizzato. L'assenza di un mercato del libro è un elemento di cui occorre tenere conto anche per meglio comprendere i modi con cui un autore medievale produceva una nuova opera letteraria. Come accadeva nell'antichità e com'è sempre accaduto fino a epoca molto recente, anche nel medioevo l'autore incominciava l'opera con uno o più abbozzi non destinati a essere conservati, stesi su supporti "a perdere" (le tavolette cerate, ereditate dall'antichità, e ritagli di pergamena, magari palinsesti); da questi abbozzi veniva poi tratta una copia pulita,

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che valeva come esemplare finale e che potremmo assimilare intuitivamente all"'originale" dell'opera. Ma a differenza di quanto in genere avviene oggi, e in parte anche di quanto avveniva nell'antichità, questo esemplare finale non veniva consegnato a un altro soggetto - l'editore o il libraio - perché ne facesse delle copie riservate alla vendita: esso rimaneva nelle mani dell'autore, che ne traeva o ne procurava una serie di copie individuali, ognuna delle quali concepita per uno specifico destinatario. Si spiega così la frequenza, nelle opere medievali, di varianti che risalgono all'autore: nel corso del tempo, chi l'aveva scritta avrà inevitabilmente riveduto l'opera che continuava a detenere, e a ogni nuova copiatura avrà apportato piccole o grandi modifiche o aggiornamenti, anche per andare incontro ai gusti e alle esigenze del singolo destinatario (un esempio eclatante, quello del Policraticus di Giovanni di Salisbury, sarà presentato nel CAP. 20 ). Si può pensare che per le opere latine scritte nel medioevo la presenza di varianti d'autore sia piuttosto la regola che l'eccezione; molte volte, quando un'opera di questo periodo appare conservata in una forma unitaria, si può sospettare che altre forme esistessero un tempo, ma non si siano conservate fino a noi. Una grossa novità fu dunque il sorgere, fra il XII e il XIII secolo, di una vera e propria attività imprenditoriale di produzione e di commercio del libro, legata soprattutto al nuovo pubblico della cultura che venne a crearsi con la nascita delle prime università. Anche se in queste nuove scuole gli ecclesiastici continuarono ad avere parte importante nella docenza, chi le frequentava non erano soltanto religiosi: i clerici - nome con cui venivano designati studenti e maestri - potevano essere e spesso erano laici, che avevano magari ricevuto ordini ecclesiastici minori. Con l'università nasceva l'esigenza di disporre di un gran numero di copie delle opere oggetto di studio, che andavano trascritte in tempi rapidi e a costi contenuti. A tale esigenza diedero risposta gli stationarii, bottegai che producevano libri per scopi commerciali, spesso in collegamento con le università e a servizio delle richieste di maestri e studenti. Gli stationarii avevano obiettivi diversi rispetto agli scriptoria tradizionali; pur senza rivoluzionarne le tecniche, essi le razionalizzarono secondo criteri di maggiore economicità ed efficienza. Andò generalizzandosi, ad esempio, la copiatura in serie, che prima era praticata solo occasionalmente: un copista aveva il compito di riprodurre più volte la medesima parte di testo, e ogni copia così prodotta veniva unita a quella delle altre parti realizzate ciascuna da un copista diverso. Gli stessi studenti potevano talvolta, anziché

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acquistare i libri, prenderli in prestito dagli stationarii e copiarli autonomamente; nella bottega erano a disposizione i singoli fascicoli non rilegati (peciae), che lo studente poteva affittare. A ridurre i costi e ad allargare il mercato contribuì anche il prevalere di un nuovo supporto di scrittura, la carta, prodotta con stracci macerati, già da lungo tempo in uso in Oriente, ma giunta in Europa nel XII secolo e diffusasi massicciamente a partire dal XIII. Questo nuovo sistema di copiatura e di diffusione del libro, per quanto rapido ed economico, non garantiva però la qualità dei testi. È vero che gli esemplari depositati presso gli stationarii erano in molti casi certificati dall'università; ma le copie che ne venivano tratte erano in genere piuttosto difformi, vuoi perché entravano in gioco interessi economici - da parte dell'utente a risparmiare, da parte dello stationarius a produrre più copie in un tempo minore - che generavano trascrizioni scadenti, vuoi perché la copia tratta era in genere destinata a uso personale, ed era condizionata dalle esigenze di chi la richiedeva. Uno studente poteva, ad esempio, saltare nella copiatura delle parti che erano per lui meno interessanti, abbreviarne delle altre, ampliarne altre ancora con glosse, commenti o note proprie; operazioni che, quando dal manoscritto così copiato si traeva una copia ulteriore, non erano più riconoscibili. Inoltre, per le opere di maggior mercato uno stationarius disponeva di più esemplari, e quando affittava a un cliente peciae successive della stessa opera, poteva capitare che esse derivassero da esemplari diversi. Quando si verifica l' incrocio di più modelli nella produzione di una copia del testo - una circostanza definita con il termine tecnico di contaminazione -, la trasmissione non si svolge più in modo lineare, e risulta più difficile per il filologo di oggi ricostruire con qualche precisione i rapporti fra i manoscritti, e di conseguenza il loro valore come testimoni dell'opera; una difficoltà che appare molto evidente per le opere che hanno una trasmissione legata all'attività degli stationarii e agli ambienti di studio universitari. All'inizio i libri che più degli altri conobbero una simile modalità di diffusione furono ovviamente quelli in uso nelle università: i testi filosofici, ad esempio, o quelli giuridici, oggetto di intenso studio ed esercitazione, o i manuali per l'apprendimento delle artes. Ma con l'andare del tempo l'ampliarsi del pubblico di lettori e di uomini di cultura - legato a molteplici fattori economici e sociali, e del quale le università furono a un tempo causa ed effetto - fece sì che

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la produzione commerciale dei libri si generalizzasse. A partire dal Duecento, e poi sempre più di frequente nei secoli successivi, gli incellectuali (maestri, giuristi, ecclesiastici, ma spesso anche nobili e borghesi) tornarono a possedere biblioteche personali, che si procuravano acquistando o facendo copiare opere di loro interesse; le botteghe librarie trovarono così un mercato in espansione e andarono moltiplicandosi. Se si considerano i metodi della produzione dei codici nel medioevo, si può concludere che le modalità tecniche con cui essi furono realizzati condizionarono notevolmente la trasmissione dei testi che vi erano contenuti. Negli scriptoria tradizionali, come si è visto, il copista era uno specialista dell'attività di scrittura, ma non aveva in genere particolare interesse per lo specifico testo che copiava; interesse che poteva avere invece il supervisore del lavoro, che si identificava di solito con il bibliotecario o con il capo dello scriptorium stesso. Il risultato della copiatura era frutto di un'interazione fra il copista e il supervisore, che preparava il testo per la copia e lo verificava una volta terminata; o di più interazioni, se i copisti erano più di uno. Il testo riportato nell'esemplare di partenza poteva essere perciò copiato in modo molto fedele, oppure deturpato da errori prodotti dal copista, oppure modificato con correzioni e congetture del supervisore, o anche con collazioni su esemplari diversi; con un'infinita gamma di situazioni miste e possibilità intermedie. Il codice così prodotto poteva diventare a sua volta, nel medesimo luogo o in uno diverso, esemplare di copiatura, e nella copia derivata, soggetta agli stessi meccanismi, la situazione si complicava in modo esponenziale. Nel sistema di produzione della pecia e delle botteghe librarie tardomedievali, identiche restavano le caratteristiche del copista, che era sempre un professionista specializzato nella scrittura e poco interessato al testo in quanto tale; alla figura del supervisore dello scriptorium si sostituiva o si affiancava quella dell'imprenditore che gestiva il commercio, il cui interesse era prevalentemente economico; mentre maggior peso aveva il committente, trasformatosi ora in cliente. Il meccanismo di produzione commerciale, puntando alla rapidità piuttosto che alla qualità, penalizzava l'esattezza del testo; e il sistema della pecia produceva di frequente contatti fra esemplari diversi, inevitabili fonti di contaminazione. All'interno del quadro generale che abbiamo tracciato, percorsi di trasmissione specifici si possono riscontrare per i diversi generi letterari, in relazione alle differenze di pubblico e di circolazione di ciascuno

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di essi. Le opere classiche ad esempio, considerate auctoritates, ebbero una trasmissione abbastanza conservativa: in genere i copisti non intervenivano a modificare volontariamente il testo, anche se potevano inavvertitamente commettere errori, e gli interventi dei supervisori andavano per lo più a correggere quelli che essi ritenevano - ma non sempre erano - errori occorsi in qualche trascrizione precedente. I testi giuridici, che pure di per sé non potevano essere modificati, erano invece sottoposti a continui ampliamenti, dovuti alla produzione di nuove norme, sentenze o commenti. I testi agiografici, in cui l'interesse era soprattutto narrativo, erano invece suscettibili di frequenti modifiche nello stesso assetto linguistico, che veniva mutato in relazione alle esigenze del pubblico cui il singolo manoscritto era destinato. I testi filosofici furono tra i più soggetti alla trasmissione per peciae, in quanto di circolazione soprattutto universitaria, e mostrano frequentemente l'inserimento di glosse e commenti del lettore che li usava. La varietà è dunque notevole; e ancora più varie sono le vicende di ogni specifica opera, perché - come si è detto - su di esse domina l'imprevedibilità delle scelte umane e dei casi della scoria.

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La trasmissione dei testi nell'età umanistica Una nuova consapevolezza verso il cesto e una nuova sensibilità verso il problema della sua esattezza sorse con l'umanesimo, in Italia fin dall'inizio del Trecento, nel resto d'Europa con molto ritardo. Come si sa, è questa l'epoca in cui i classici tornarono al centro dell'attenzione dei dotti, che ne fecero modello di lingua, di stile, e financo di vita; e cale attenzione non rimase confinata a pochi circoli culturali, ma raggiunse i centri stessi del potere, quelle corti principesche presso le quali la tradizione antica divenne moda, canone estetico e proposizione di valori. Uno dei fenomeni più caratteristici dell'umanesimo italiano è la ricerca e il recupero delle opere degli scrittori antichi, compresi quelli che il medioevo aveva trascurato o non aveva conosciuto. Gli umanisti - non più solo uomini di Chiesa, ma anche più spesso laici, legati alle nuove professioni della società cittadina e signorile - esplorarono le biblioteche ecclesiastiche e monastiche, comprese quelle ormai in decadenza e all'epoca poco o per nulla conosciute; scoprirono una gran quantità di nuovi esemplari di opere già note, e altri di opere scono-

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sciute o che si ritenevano perdute. Una volta ritrovati, tali manoscritti diventavano immediatamente produttivi: opere rinvenute dopo secoli venivano copiate e diffuse nei circoli dei dotti, e assunte a fonti e modelli letterari; nuovi codici di opere note in precedenza venivano collazionati con quelli che già si conoscevano, nel tentativo di determinare un testo "migliore". I primi esempi di questa attività di scoperta e di riutilizzo - ancora pionieristica e non esplicitamente dichiarata - si ebbero tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento nell'area veneta: a Padova, dove visse il giudice Lavato Lavati, che recuperò testi antichi dalle biblioteche della regione, e a Verona, dove tornarono in circolazione alcune opere rarissime che erano conservate presso la biblioteca del Duomo della città, grazie all'opera di alcuni studiosi ecclesiastici (come Giovanni de Matociis, noto anche come Giovanni Mansionario) e laici (come Guglielmo da Pastrengo). Ma un formidabile progresso, tanto nella scala geografica quanto nella prospettiva culturale, si ebbe verso la metà del secolo con l'azione di Francesco Petrarca, che poté giovarsi delle sue relazioni e dei suoi viaggi per incrementare le scoperte e, soprattutto, per diffondere interessi e metodi che erano ormai quelli dell'umanesimo. Di molti scrittori classici Petrarca si procurò manoscritti, li collazionò e li annotò con proprie osservazioni; alcuni dei codici da lui posseduti, come quello di Virgilio (oggi Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 79 inf ), si possono annoverare fra i monumenti più illustri della storia della filologia. Un altro manoscritto studiato da Petrarca, il codice Palatino dell 'Historia Augusta ( Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 899 ), verrà illustrato nel CAP. 8, come esempio di un codice di eccezionale valore per il significato che ebbe nella storia della cultura europea. L'età delle esplorazioni delle biblioteche e delle grandi scoperte di manoscritti durò per tutto il Quattrocento, e anche oltre. Fra i suoi momenti topici possiamo citare il recupero dei classici di Montecassino, iniziato nei primi decenni del XIV secolo e poi intensificatosi verso la metà del secolo grazie all'azione di studiosi toscani come Zanobi da Strada e Giovanni Boccaccio (per un autore antico che tornò a essere conosciuto grazie a queste esplorazioni, Apuleio, cfr. CAP. 15); e le indagini propiziate dal Concilio di Costanza (1414-18), che diede occasione al segretario papale, Poggio Bracciolini, di perlustrare le biblioteche della regione renana (una delle sue scoperte più famose, quella di un codice dell' lnstitutio oratoria di Quintiliano, sarà illustrata nel CAP. 5). Contemporaneamente si svolgeva un'intensissima atti-

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vità di copiatura, perché non soltanto gli eruditi, ma le corti e gli stessi borghesi cercavano di procurarsi buone biblioteche; e la presenza di un mercato molto più vario e dinamico di quanto non fosse stato in precedenza portò a uno sviluppo degli aspetti imprenditoriali e commerciali della produzione di manoscritti. A Firenze, ad esempio - la città che fu il centro dell'umanesimo italiano -, il libraio Vespasiano da Bisticci impiantò una bottega nella quale in certi periodi lavorarono oltre quaranta copisti, e che produsse fra l'altro molte decine di codici per la biblioteca di Cosimo de' Medici. Fra gli studiosi dell'epoca c'era anche chi preferiva trascrivere di proprio pugno gli autori più amati (celebre è il caso di Boccaccio), secondo una pratica poco consueta nei secoli precedenti, e chi preferiva ricorrere a copisti di fiducia, dotati di buona preparazione culturale oltre che della necessaria tecnica (così spesso fece Petrarca), anziché affidarsi alla bottega, che assicurava ottimi risultati calligrafici ma poteva trascurare la qualità del testo. L'interesse che circondava le opere antiche provocò importanti modifiche anche nei meccanismi di trasmissione dei testi. In primo luogo, la quantità di codici esistenti di una stessa opera consentiva e induceva continue collazioni fra l'uno e l'altro; le varianti venivano segnate in margine o nell'interlinea di un manoscritto, ma talvolta venivano direttamente introdotte eradendo e sostituendo il testo precedente: quando dal manoscritto così trattato veniva ricavata una copia, questa finiva inevitabilmente per essere contaminata. Nella scelta fra varianti concorrenti si tendeva talvolta a privilegiare quelle che figuravano nei manoscritti più di recente scoperti, anche per ragioni legate all'orgoglio dello scopritore; ma si trattava di un criterio quanto mai arbitrario. In secondo luogo, alcuni studiosi dell'epoca non si facevano scrupolo di effettuare emendamenti ai testi classici, seguendo il proprio gusto stilistico ed estetico; emendamenti spesso ingiustificati, ma apparentemente di buona qualità, dato che buona era la formazione linguistica e antiquaria degli umanisti, e difficili da riconoscere come tali. Se tali operazioni dimostrano la consapevolezza da parte dei dotti quattrocenteschi del "problema del testo", il modo in cui le eseguirono dimostra invece che parecchi di loro non avevano una mentalità filologica, per così dire, "scientifica": la scelta fra le varianti e le congetture rispondeva per lo più a criteri estemporanei e casuali e, soprattutto, quasi mai veniva dichiarato il lavoro fatto, cosa che rende impossibile ad altri ricostruirlo o giudicarlo. Del resto, come tutti i fenomeni cul-

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curali, l'umanesimo fu anche in certa misura una moda. Gli studiosi godevano all'epoca di alto prestigio sociale, e questo favoriva qualche comportamento discutibile: non tutti quelli che si arrogavano le capacità di emendare i classici erano davvero in grado di farlo, e le gelosie e rivalità, anche fra i migliori studiosi, potevano generare occultamenti e falsificazioni. Non mancò comunque chi studiò i testi con attenzione e metodo critico, anticipando procedimenti che saranno poi propri dei filologi di età più recenti. I nomi che vanno qui obbligatoriamente citati sono quelli di Lorenzo Valla e di Angelo Poliziano. Questi studiosi posero al centro dell'attenzione l"'esattezzà' del testo, ossia la sua corrispondenza potenziale all'originale antico, e non soltanto la sua "correttezza" esteriore, ossia il rispetto delle norme grammaticali e stilistiche; la domanda che essi si ponevano era abbastanza simile a quella che si pone un filologo di oggi ("quale forma, fra quelle attestate o quelle congetturabili, corrisponde meglio a quanto ha scritto l'autore?"), mentre la maggior parte dei loro colleghi dell'epoca non andava oltre criteri di valutazione estetica o retorica ("quale forma, fra quelle attestate o quelle congetturabili, è la più elegante, la più conforme al bello stile latino?"). Alcuni cenni al metodo di lavoro di Poliziano saranno fatti nel CAP. 22. Anche sul versante della scoperta e del recupero dei manoscritti l 'attività degli umanisti può essere valutata, con gli occhi di oggi, nelle sue luci e ombre. Sottratti alle biblioteche ecclesiastiche, dove erano stati fino a quel momento custoditi e magari dimenticati, molti codici medievali vennero salvati dall'oblio e dal deterioramento, e contribuirono a una più ampia e sicura conoscenza dei testi dell'antichità; ma in altri casi l'uscita dalla loro precedente sede ne provocò la scomparsa. Non sempre gli scopritori di codici seppero conservarli in modo adeguato: solo alcuni - come Poliziano - ebbero la percezione che il valore di un manoscritto antico era superiore a quello di un codice moderno, e dunque esso andava protetto con maggiore attenzione. A questo si aggiunse il fatto che non sempre i codici "ritrovati" venivano acquisiti in modo regolare; chi se ne impossessava, pertanto, poteva avere interesse a comunicare la scoperta solo in modo vago e fuorviante e a nascondere a occhi indiscreti i manoscritti rinvenuti, ma questo aumentava la possibilità che dopo la sua morte essi andassero perduti. Presenteremo alcuni esempi di codici recuperati a suo tempo dagli umanisti e in seguito scomparsi nel CAP. 7.

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Entusiasti cultori della letteratura antica, gli umanisti furono relativamente meno interessati alle opere latine dei Padri della Chiesa, e trascurarono gli scrittori medievali: il canone estetico assunto a modello era infatti quello della classicità in senso stretto, rispetto alla quale la tarda antichità cristiana rappresentava una decadenza (fra i Padri della Chiesa vennero valorizzati e studiati soprattutto quelli più colti e "classici", come Agostino e Lattanzio), e il medioevo un vero e proprio imbarbarimento. Questo condannò gli uni e gli altri a un'emarginazione dal canone letterario dei secoli successivi, nei quali gli studi sulla letteratura latina cristiana e medievale rimasero per lo più appannaggio degli eruditi ecclesiastici; ma, paradossalmente, fece sì che la trasmissione di questi testi mantenesse una maggiore trasparenza filologica, visto che meno frequentemente andarono soggetti alle operazioni di collazione ed emendazione praticate dagli umanisti. Un'eccezione fu il testo biblico, che venne invece esaminato con nuove attenzioni critiche. Dalla fine del Trecento era tornato prepotentemente in auge lo studio della lingua greca, fino a quel momento praticato solo in modo sporadico ed empirico nell'Occidente latino; grazie a questa nuova competenza, gli umanisti erano in grado di leggere direttamente il modello, almeno per quelle parti della Bibbia in cui esso era greco, come il Nuovo Testamento, e verificare la precisione della versione latina "canonica", la Vulgata di Girolamo. Si riprese perciò - con maggiore sistematicità e maggiore consapevolezza - una tradizione di studi di filologia biblica mai abbandonata nel medioevo; i principali esponenti ne furono ancora Valla e soprattutto Erasmo da Rotterdam, all'epoca del quale lo studio del testo sacro andava ormai a intrecciarsi con più delicate questioni di carattere religioso, connesse alle tensioni che portarono alla Riforma protestante. Sulle attenzioni filologiche di cui fu oggetto la Bibbia latina nell'epoca umanistica ci soffermeremo nel CAP. 2.3. Nella storia della trasmissione dei testi antichi l'umanesimo rappresenta dunque un punto di svolta, e non soltanto per l'imponente attività filologica svolta dai dotti dell'epoca o per le conseguenze che essa ebbe. L'eredità più duratura degli umanisti è certo il fatto che essi proposero il mondo antico come centro del canone culturale, facendone un modello su cui si confrontarono - accettandolo o rifiutandolo - tutti i movimenti intellettuali dei secoli successivi. Ma non bisogna dimenticare altre e più concrete modifiche che ebbero luogo in quest'epoca, insieme causa e conseguenza della nuova mentalità. Le istituzioni religiose persero definitivamente il monopolio della con-

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servazione e della produzione dei libri, già messo in discussione nei secoli precedenti dallo sviluppo della cultura cittadina e dalla nascita delle università; le biblioteche costituite presso le corti divennero da quel momento i punti di raccolta più stabili e autorevoli del materiale librario. Fu con l'umanesimo, inoltre, che si sviluppò verso il libro un interesse antiquario, che fu alla base delle forme di collezionismo moderno; si vennero così a costituire ricche biblioteche private, secondo una pratica che si sviluppò ulteriormente nei secoli successivi e che ebbe un ruolo importante nella trasmissione e nella conservazione di manoscritti medievali. A differenza di quelle di corte, e poi di quelle statali, le biblioteche private erano però soggette a notevole instabilità: raccolte in genere per interesse di un singolo individuo, difficilmente potevano mantenersi per più generazioni successive, e la sorte dei volumi che vi erano ospitati diventava incerta. Ancora ai nostri giorni, non è facile conoscere la consistenza di fondi manoscritti in mano a privati; e molti codici che erano conservati in grandi biblioteche personali, smembrate e vendute all'asta dopo la morte del loro proprietario (un fatto anche oggi abituale), sono attualmente irreperibili.

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L'introduzione della stampa Nel pieno dell'epoca umanistica si colloca l'introduzione in Occidente della stampa a caratteri mobili, un fatto che ebbe incalcolabili conseguenze su ogni aspetto della vita culturale, compresa la trasmissione dei testi. Questa nuova tecnica di riproduzione era, dal punto di vista testuale, rivoluzionaria: rispetto a quanto avveniva in precedenza, quando ogni singola copia manoscritta era di necessità differente dalle altre - inevitabilmente per quanto riguarda elementi fisici, come l' impaginazione, la divisione delle righe, i tratti della scrittura, ma in pratica anche per quanto riguarda il contenuto -, il procedimento della stampa creava una serie di copie tutte per principio identiche (anche se poteva avvenire, e spesso avvenne, che vi fossero piccole o grandi differenze dovute a cambiamenti volontari o accidentali occorsi durante la lavorazione). Si potrebbe dire che con l'introduzione della stampa venisse perciò a capovolgersi l'assioma fondamentale della trasmissione dei testi: a un principio di difformità (o di instabilità), tipico della

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trasmissione manoscritta in cui tutte le copie sono necessariamente diverse, si sostituiva un principio di uniformità (o di stabilità), secondo il quale tutte le copie prodotte da una medesima tiratura a stampa dovrebbero essere - tranne eccezioni, che furono per la verità frequenti identiche fra loro. L'introduzione della stampa comportò profonde modifiche nelle procedure di riproduzione del testo. Questa avveniva ora per mezzo di una macchina, il possesso e l'utilizzo della quale richiedevano un investimento economico e delle conoscenze tecniche particolari. Lo stampatore era perciò in genere un imprenditore, che si giovava del lavoro di operai specializzati; intervenivano inoltre altri soggetti che avevano competenze sul testo, in particolare il correttore di bozze, che rileggeva quanto stampato, individuava eventuali errori e provvedeva a sistemarli. La separazione fra chi aveva preparato il testo - l'autore, o il "curatore", se si trattava ad esempio dell'edizione dell'opera di uno scrittore antico - e chi effettuava la pubblicazione, una distinzione che si era già manifestata nella pratica delle botteghe librarie universitarie e umanistiche, diventava ora più profonda e irreversibile. L'interesse dei primi stampatori era principalmente quello di ottenere un profitto economico, anche se parecchi di essi non erano privi di genuine motivazioni culturali. La scelta delle opere da stampare rispondeva perciò anzitutto a esigenze di mercato; e, analogamente, motivazioni di carattere economico intervenivano nell'acquisizione del modello da stampare. Se si voleva pubblicare l'opera di uno scrittore antico, ad esempio - un genere che nella seconda metà del Quattrocento era, come si è detto, molto richiesto, - bisognava individuare quale, fra i molti manoscritti disponibili, dovesse essere assunto a base dell'edizione. In parecchi casi, la scelta sembra essere ricaduta sull'esemplare più "comodo" (perché già posseduto dal curatore dell'edizione o dallo stampatore; perché scritto in modo chiaro e facilmente comprensibile a chi doveva comporre le matrici; perché disponibile nel luogo in cui veniva effettuata la stampa; perché acquisibile a un prezzo minore ecc.), e che permetteva perciò di risparmiare tempo e denaro. In genere questo esemplare passava poi nelle mani di un dotto - quello che abbiamo chiamato curatore dell'edizione - che ne verificava ed eventualmente ne correggeva il testo, in base alla propria sensibilità o anche collazionando altri esemplari, secondo la prassi degli umanisti; ma il testo di base rimaneva quello del manoscritto prescelto, la cui bontà era più o meno casuale.

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La qualità del testo stampato era dunque piuttosto aleatoria; ma tale cesto, di qualunque valore esso fosse, era destinato ad acquisire importanza, indipendentemente dai suoi meriti. Il nuovo veicolo e la nuova tecnica assicuravano al testo stampato un'autorevolezza e una potenza che non erano correlate alla bontà del modello. Questo avveniva per ragioni che erano insieme psicologiche e pratiche: le edizioni a stampa davano l'impressione di stabilità e sicurezza e, in ragione dell'uniformità tendenziale delle copie, consentivano migliore comunicazione fra gli studiosi, se essi riuscivano ad accontentarsi di un'opera magari imperfetta, ma comunemente nota a tutti. Il testo della prima edizione a stampa di una determinata opera (editio princeps) tendeva a imporsi su quello dei manoscritti (che era talvolta migliore), e anzi portava lentamente i manoscritti all'obsolescenza. In uno dei casi meglio studiati, quello di Virgilio, l' editio princeps (pubblicata a Roma nel 1469 per cura di Giovanni Andrea Bussi) si fondò su un codice quattrocentesco, anche se molti altri manoscritti virgiliani più antichi erano ben noti e disponibili (fra cui il cosiddetto Vergilius Mediceus del v secolo, oggi Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 39.1). Questa edizione fu a sua volta assunta come base di quasi tutte le innumerevoli edizioni virgiliane del Quattrocento; solo nel 1501 ne uscì una filologicamente più accurata, pubblicata a Venezia da Aldo Manuzio, che teneva conto di vari manoscritti più antichi; ma anche in questo caso continuarono per inerzia a essere preferite molte varianti dell' editio princeps, che ormai tutti conoscevano ed erano considerate tradizionali, rispetto ad altre, attestate da manoscritti antichi, che erano con tutta evidenza di gran lunga migliori. L'introduzione della stampa permise uno sviluppo della comunicazione e ampliò ulteriormente il pubblico della cultura, anche grazie al fatto che con l'andar del tempo il prezzo dei libri così prodotti divenne notevolmente inferiore a quello dei manoscritti; per le opere antiche, lo scotto da pagare fu la conseguente fissazione di una forma testuale di qualità incerta, ma che era riconosciuta autorevole in virtù della sua diffusione (il cosiddetto textus receptus, 'quello accettato da tutti'). Nei secoli successivi i filologi più avvertiti e più consapevoli del problema cercarono in vario modo di migliorare la situazione, producendo testi che avessero maggiore fondamento critico: in particolare procedettero a nuove collazioni di manoscritti, valorizzando le varianti più antiche, ed elaborarono più meditate strategie per l' emendatio. Alcuni si interrogarono anche sui meccanismi della trasmissione, intuendo che il loro stu-

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dio avrebbe potuto rivelarsi utile per la ricostruzione dei testi originali. Fu solo con la nascita della "filologia scientifica~ in un lungo processo che iniziò nel Settecento per giungere a compimento nella seconda metà dell'Ottocento ed essere ancora perfezionato in seguito, che queste intuizioni andarono organizzandosi in un sistema metodico preciso.

8 La "filologia scientifica" Si può dire che la filologia scientifica abbia definitivamente interrotto il processo di trasmissione delle opere antiche e medievali. Essa infatti si è posta consapevolmente lo scopo di risalire la corrente, andando alla ricerca del punto di partenza e tentando di eliminare ciò che, nel corso della storia, ha allontanato il testo dalle forme originarie. Si potrebbe obiettare - come è stato fatto, talvolta in modo provocatorio che un'edizione critica di oggi si colloca in realtà pur sempre all'interno della trasmissione dell'opera, non diversamente da quanto avveniva per le "edizioni" tardoantiche, carolinge o umanistiche: anche l'edizione di oggi parte in fin dei conti dai manoscritti conservati, e li supera in una prospettiva propria, che sembra a noi migliore solo perché è quella dei nostri giorni; la selezione fra le varianti attestate nei manoscritti, anche se eseguita da uno studioso di oggi, è pur sempre una forma di contaminazione; le congetture volte a migliorare il testo, anche se tecnicamente più evolute, non hanno natura diversa da quelle che proponevano con altri criteri i dotti di qualsiasi epoca. A questa obiezione si può rispondere che la vera novità dell'edizione di oggi, il cambio di natura e di qualità rispetto a quelle prescientifiche che fanno ancora parte della trasmissione dell'opera, è il fatto che il filologo che la prepara - l'"editore critico", che chiameremo da qui in poi semplicemente "editore" - rende il processo reversibile, attraverso la dichiarazione esplicita dei metodi e delle fonti utilizzate (cosa che vien fatta nell'introduzione e nell'apparato di un'edizione critica): uno studioso successivo potrà ripartire dallo stesso punto cui è giunto lo studioso di oggi, magari criticandolo, capovolgendone le conclusioni e ricostruendo un testo diverso. Per le opere di cui non si conservino gli originali, del resto, non esistono edizioni definitive; l'approssimazione all'obiettivo, in un processo di collaborazione corale fra gli studiosi che attraversa i secoli, è uno degli aspetti più nobili della filologia.

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Non è possibile in questa sede presentare in dettaglio i principi della filologia scientifica, e l'evoluzione che questa disciplina ha registrato nei tre secoli della sua esistenza. In estrema sintesi, diremo che la filologia scientifica iniziò quando si acquisì la consapevolezza metodica che il valore di una forma testuale (lezione) dipende dal valore del testimone che la riporta. Non ha senso pertanto discutere delle singole varianti che si incontrano all'interno di un testo, e quindi neppure giudicare la superiorità di una di esse rispetto a un'altra, senza una considerazione preliminare dei manoscritti che le riportano, e dei rapporti che tali manoscritti hanno fra loro e con tutti gli altri: è necessario pertanto un esame storico e comparativo dell'insieme dei documenti (che nel loro complesso formano la tradizione di un'opera). Sulla base di questa nuova consapevolezza, le operazioni di critica testuale si andarono perciò distinguendo in due fasi logicamente separate, che si succedono in un ordine cronologico preciso: la prima (chiamata recensio) mira a individuare i rapporti fra i manoscritti, la seconda (chiamata constitutio textus ), a partire da tali rapporti ormai individuati, punta alla ricostruzione testuale, e viene avviata una volta che si sia conclusa la precedente. Per descrivere i rapporti fra i manoscritti, la filologia scientifica ha utilizzato per lo più un paradigma di carattere genealogico, rappresentando le fasi della trasmissione storica di un testo come lo sviluppo progressivo di una parentela: da un capostipite, che corrisponde al presunto originale dell'opera, derivano dei discendenti, che corrispondono alle copie successive, e che via via danno origine a ulteriori discendenti, in una serie di ramificazioni progressive. I manoscritti dell'opera sopravvissuti fino a noi (spesso chiamati testimoni, in accordo con un'altra metafora invalsa nel linguaggio della critica testuale, quella giudiziaria) costituiscono una parte soltanto di questa discendenza familiare, perché altri - di cui in genere non si può conoscere l'entità - sono andati perduti nel corso del tempo. Lo strumento classico di rappresentazione di questa discendenza è l'albero genealogico dei manoscritti (stemma codicum): una rappresentazione schematica, e in quanto tale spesso insufficiente a dar pieno conto della complessità delle situazioni, ma che permette di cogliere a colpo d'occhio le linee storiche della trasmissione, e di apprezzare il valore reciproco dei singoli manoscritti nella loro funzione di testimoni dell'opera. Attraverso la recensio si possono individuare, ad esempio, eventuali manoscritti derivati da altri ancora esistenti (si parla in questo caso di codices descripti), e che perdono perciò

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valore testimoniale; o singoli manoscritti o gruppi di manoscritti che hanno scarso peso per la ricostruzione del testo, in quanto si trovano in posizione "debole". Al contrario, verranno evidenziaci i rami e i testimoni più affidabili, perché derivano più direttamente dal presunto originale. Ancora, la recensio potrebbe rivelare che l'incera tradizione è affetta da innovazioni comuni: ciò significa che i testimoni che possediamo oggi discendono in ultima analisi non direttamente dall'originale, ma da un manoscritto già derivato, dove si erano introdotte cali innovazioni (un manoscritto tecnicamente chiamato archetipo); una circostanza che va considerata nel valutare la qualità del testo che ci è pervenuto. La recensio fornisce perciò indicazioni preziose per la ricostruzione del cesto. Il principale metodo per praticarla, individuando i rapporti reciproci fra i testimoni, è quello chiamato degli errori-guida (o anche, con il corrispondente tedesco, Leitfehler). Il principio di base è che la parentela fra due testimoni si ricava dalla loro associazione in elementi che, per loro natura, non possono essere originari: errori patenti e irreversibili di copiatura; modifiche volontariamente apportate al cesto da parte di scribi o redattori successivi, da qualsiasi ragione motivate (spiegazioni, aggiunte, censure, riduzioni, cambi stilistici ecc.); trasformazioni indotte da modifiche nelle condizioni materiali dei libri (ad esempio, la perdita di un foglio, una macchia che rende illeggibile una parte del cesto ecc.). Quando una medesima innovazione di questo genere ricorre in diversi testimoni, cale presenza denuncia una parentela fra essi: se il guasto, per la sua natura, è cale da non potersi essere prodotto più volte indipendentemente, si dovrà concludere che cucci i testimoni che ne sono affetti sono collegaci, e appartengono dunque a una medesima famiglia. Raggruppando progressivamente i testimoni con questo metodo, si tenta di ricostruire l'incera storia della loro discendenza. Una volta conclusa la recensio si può procedere alla constitutio textus. L'analisi preliminare avrà consenti co di scartare come non originarie non solo cucce le varianti riportate dai soli codices descripti, ma anche quelle riferite da singoli manoscritti e gruppi di manoscritti che abbiano una posizione debole nello stemma codicum (un'operazione nota come eliminatio lectionum singularium): a questo punto i testimoni più affidabili sono noci, e per la ricostruzione del cesto ci si appoggerà sulle loro lezioni. Nei punti in cui i testimoni e gruppi "migliori" presentano delle varianti concorrenti, queste dovranno essere sottoposte

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a un ulteriore esame per comprendere quale fra esse ha maggiori probabilità di essere originaria: una procedura chiamata selectio. Quando poi la tradizione abbia a capo un archetipo, sarà necessario eliminare le innovazioni da cui esso era già affetto: un'operazione che viene chiamata emendatio. La procedura che abbiamo (troppo) sommariamente descritto è nota come metodo stemmatico o metodo genealogico, o anche come metodo di Lachmann, dal nome del filologo tedesco dell'Ottocento cui è attribuita - un po' indebitamente, come vedremo (cfr. CAP. n) la sua codificazione. Due secoli di riflessioni e di discussioni, spesso molto accese, hanno permesso di evidenziare i limiti della sua applicabilità, hanno sepolto la pretesa che essa possa servire a risolvere qualsiasi problema e ad analizzare qualsiasi tradizione, e hanno definitivamente sconfessato il mito che sia possibile una ricostruzione testuale, di qualsiasi genere, secondo procedimenti meccanici. Ma, pur se utilmente ridimensionato e sanamente privato dall'enfasi retorica, il metodo scemmacico fornisce sempre una guida ineludibile per chi voglia praticare la critica di cesti antichi e medievali. Quello genealogico rappresenta una sorca di "modello teorico" dello svolgimento della tradizione delle opere; il metodo degli errori-guida lo strumento attraverso il quale il modello teorico può essere ricostruito. È vero che nella pratica della trasmissione dei singoli cesti il modello teorico non si realizza quasi mai (forse mai): elementi di vario genere - dovuti, come abbiamo detto, alle scelte degli uomini e alla casualità della scoria, che sfuggono alla prevedibilità - intervengono quasi sempre (forse sempre), e impediscono un'applicazione automatica delle procedure metodiche. Ma, anche così, il modello teorico resta comunque la base per la comprensione dei facci reali, così come il metodo degli errori-guida mantiene tutta la sua potenza di strumento di lavoro. È quanto ali' incirca accade alle leggi generali, in ogni campo del sapere: il moto rettilineo uniforme non si realizza probabilmente mai in natura nella sua forma pura, ma l'equazione che lo descrive serve a interpretare i singoli e individuali moti che effettivamente avvengono, quand'anche poco o canto diversi. Abbiamo riservato la Parte seconda di questo libro a illustrare l' applicazione pratica del metodo scemmacico, attraverso l'esame della storia concreta di alcune opere latine. Abbiamo scelto casi che evidenziano punti problematici diversi, per ognuno dei quali abbiamo richiamato un esempio. L'obiettivo è indicare le strade lungo le quali

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procede la critica, le questioni che deve affrontare, il modo in cui tenta di risolverle, con maggiore o minore successo, e il diverso grado di sicurezza che possiamo ottenere nella ricostruzione - e quindi nella conoscenza - dei testi antichi e medievali. La filologia è, anzitutto, una disciplina di consapevolezza, e di consapevolezza della problematicità.

Approfondimenti bibliografici Su produzione e circolazione libraria nella Roma antica e cristiana: Starr (1987 ); Cavallo (1989 ); Ci troni (1995, pp. 3-29 ); Cavallo (1997; 19986 ); De Nonno (1998, pp. 2.2.1-39 ); Pecere (2010 ). Sui materiali scrittori in uso nell'antichita e nel medioevo: Roberts, Skeat (1983); Lemaire (1989); Maniaci (1996); Degni (1998); Agati (2003); Arduini (2008); Cursi (2016). Sulla storia della scrittura antica e medievale: Steffens (1910 ); Cencetti (1978); Bischoff(1992); Petrucci (1992); Cencetti (1997); Battelli (1999); Bertelo et al. (2004); Cherubini, Pratesi (2014); Petrucci (2017 ). Su "scriptoria" e biblioteche medievali: Frioli (1992); Holtz (1992); NebbiaiDalla Guarda (1992); Cavallo (1998a); Steinmann (2013); Munk Olsen (2014). Sulla trasmissione dei classici nel medioevo: Canfora (1974); Munk Olsen (1982; 1985; 1987; 1991; 2009; 2014); Cavallo (2002); Reynolds, Wilson (2013 ); Berté, Petoletti (2017 ). Sui metodi e il linguaggio della critica testuale: Maas (1960); Frankel (1964); West (1973); Kenney (1974); Avalle (1978); Blecua (1983); Chiesa (2012); Reynolds, Wilson (2013, trad. it. pp. 194-224); Trovato (2014); Duval (2015). Su critica testuale e storia della tradizione: Pasquali (1952); Canfora (1974); Reynolds (1983); Chiesa, Castaldi (2004-08); Orlandi (2008); Tarrant (2016).

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Parte prima Storia della tradizione

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Varianti antiche. Due casi da Cicerone e da Virgilio

Com'è inevitabile quando la trasmissione avviene attraverso manoscritti, ciascuno dei quali dotato di caratteristiche uniche e individuali, anche nell'antichità i testi letterari circolavano con varianti. Poiché però solo in casi rari ci sono rimasti manoscritti prodotti in quel periodo, quelli cioè che potrebbero fornire indicazioni immediate e incontrovertibili su una pluralità di forme testuali a quell'altezza cronologica, l'esistenza e la natura di tali varianti si ricavano solo attraverso un paziente recupero di testimonianze indirette, o attraverso una difficile e spesso scivolosa analisi delle lezioni attestate in codici più recenti. Le testimonianze indirette sono costituite soprattutto dalle citazioni prodotte dai grammatici tardoantichi di opere precedenti: talvolta essi stessi attestano l'esistenza di una pluralità di lezioni concorrenti, mentre altre volte riferiscono un passo in una forma diversa da quella che ci è conservata nei manoscritti medievali, ma che evidentemente era diffusa all'epoca. L'analisi della tradizione successiva permette invece di individuare in codici più recenti delle lezioni alternative che, per le loro caratteristiche, sembrerebbero risalire ancora all'antichità; ma in questo caso i risultati sono in genere più controversi, perché non è facile escludere del tutto che si tratti invece di modifiche medievali. Le varianti - non soltanto quelle antiche, ma a queste specificamente è dedicato il presente capitolo - possono risalire all'autore, che dopo aver licenziato una prima versione dell'opera ha ripreso in mano il lavoro, apponendovi delle modifiche; o possono essere di tradizione, cioè prodottesi nel normale processo di copiatura dell'opera, come errori dello scriba o modifiche volontarie. A parte il caso degli errori banali, che non possono essere imputati all'autore, distinguere fra le modifiche dell'autore e quelle successive è molto difficile,

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

e spesso impossibile. Presenteremo qui due casi di varianti antiche: il primo è quello di una modifica d'autore che possiamo dimostrare essere tale grazie a una dichiarazione esplicita; il secondo quello di una modifica di tradizione - o almeno ritenuta tale - che conosciamo attraverso la testimonianza di un grammatico. Entrambi sono casi, in un certo senso, "estremi": il primo perché riguarda un'opera di tradizione ristrettissima (un solo codice); l'altro perché riguarda un'opera per la quale, al contrario, la tradizione manoscritta è vastissima e compatta, ma la sua testimonianza si oppone a un'unica attestazione indiretta.

I.I

L'autore si corregge: un errore grammaticale di Cicerone In una lettera ad Attico (VI 2, 3), l'amico che svolgeva anche le funzioni di suo "agente letterario", Cicerone riconosce di avere commesso un errore di grammatica, cui spera di poter rimediare. Ecco il passo: Peloponnesias ciuitates omnis maritimas esse hominis non nequam sed etiam tuo iudicio probati Dicaearchi tabulis credidi [... ]. Itaque istum ego locum totidem uerbis a Dicaearcho transtuli. Phliasios autem dici sciebam, et ita fac ut habeas; nos quidem sic habemus. Sed primo me avaÀoy(a deceperat, Àtoiiç, 'Orroiiç, Lmoiiç quod 'OrrovvTtot, Ll'IT01JVT101. Sed hoc continuo correximus. Sul fatto che tutte le città del Peloponneso si trovino lungo le coste, mi sono fidato di quanto asseriscono gli elenchi di Dicearco, uno che anche tu reputi affidabile [... ]. Quel passo l'ho tradotto letteralmente da Dicearco. Sapevo che gli abitanti di Fliunte si chiamano Fliasii, e fai conto che ci sia scritto così; però all'inizio sono stato tradito dall' analogia: la località si chiama Fliunte, come Opunte e Sipunte, e gli abitanti di queste ultime due si chiamano Opuntii e Sipuntii. Ma abbiamo subito corretto. Non possediamo la lettera di Attico cui Cicerone sta rispondendo, ma evidentemente l'amico gli ha rimproverato di aver dato informazioni sbagliate, e lui si difende. Il primo rimprovero sembra quello di aver generalizzato troppo: non è vero - parrebbe aver detto Attico - che tutte

I. VARIANTI ANTICHE. DUE CASI DA CICERONE E DA VIRGILIO

le città del Peloponneso si trovano sul mare. Cicerone risponde che su questo punto la responsabilità è della sua fonte, il grande geografo greco Dicearco: lui non ha fatto altro che tradurre quanto leggeva nelle tabulae (un elenco, o forse una mappa) composte da quello. Il secondo rimprovero riguarda invece proprio la traduzione: Cicerone ha sbagliato il nome degli abitanti di Phlious (in greco hahaha ere quieuit > hahaha ercle quieuit: un copista ha corretto ere, che non dava senso, in [h Jercle, un'altra interiezione comunissima della commedia, con una congettura intelligente, ma sbagliata). 7. Nel caso di domi al v. 2.13, Leo, insieme ad altri editori, preferisce non accogliere la forma de bonis attestata, in modo identico, dai manoscritti di entrambi i rami, e aderisce invece alla tradizione indiretta, rappresentata da una probabile citazione di questo stesso passo che si legge nel De uerborum significatione di Pompeo Festa (cfr. CAP. 19). L'editore suppone perciò che la lezione originaria sia domi, e che de bonis sia un errore di archetipo, risalente a un progenitore comune di entrambi i rami della tradizione. Su questo punto, tuttavia, altri filologi dissentono: ad esempio, un'altra edizione "storica", quella di Wallace M. Lindsay (1905), scrive bonis (eliminando comunque la preposizione de, che crea problemi metrici). 8. Il caso di demus e danunt del v. 2.45 è piuttosto complesso. In A si legge demum occerunt o demum oggerunt (la lettura del verbo è controversa, ma in ogni caso dovrebbe trattarsi di una forma di oggerere, 'fornire in quantità'); la lezione di P è demus danunt, dove danunt è una forma arcaica per dant, frequente in Plauto. Leo preferisce il verbo di P, che è perfettamente adeguato al senso della frase e risponde alla ripetizione seriale di dare, che come si è detto è 1'artificio comico della frase; di P accetta anche l'avverbio demus, intendendolo come una forma secondaria di demum, di cui si ha notizia da grammatici tardoantichi. Resta però da spiegare come sia nato lo strano occeruntloggerunt di A. Questo verbo da un lato sembrerebbe una lectio difficilior, in quanto termine più raro e corposo di danunt; dall'altro si intona meno con il gioco stilistico del passo. Si potrebbe pensare che occeruntl oggerunt sia una glossa che spiegava o raddoppiava un originario danunt, poi finita

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

indebitamente a testo: un fenomeno di cui si riscontrano altri esempi in A. Se la direzione della corruttela andasse da danunt a occeruntl oggerunt, si spiegherebbe anche il passaggio da demus a demum: una volta che il verbo bisillabo aveva lasciato il posto al trisillabo bisognava eliminare una sillaba altrove, cosa che si poteva fare agevolmente sostituendo demus con demum, la cui sillaba finale si elide con la vocale successiva. Un passaggio inverso, da occerunt/ oggerunt a danunt, non spiegherebbe invece perché demum sia stato trasformato in demus (una forma per altro più rara), dato che davanti a consonante le due parole sono metricamente equivalenti. Le edizioni più recenti scelgono demus danunt; ma in passato altri editori hanno preferito demum oggerunt. Siccome comunque il senso di demus/ demum in questa frase non è del tutto perspicuo, c'è anche chi ha proposto di emendare questo termine in demunt (mantenendo danunt, con cui verrebbe a crearsi un ulteriore gioco di parole: «dai loro tesori integri prendono e danno»). L'analisi di un lotto di una dozzina di versi soltanto (e senza nemmeno comprendere tutte le varianti, come si è detto) mostra la complessità dei problemi e le molteplicità di strategie adottate per risolverli. Se si considerano le scelte effettuate da Leo e dalla maggior parte degli editori - all'interno di tutta la commedia o dell'intero corpus plautino, ma anche nei brevi passi che abbiamo qui esaminato -, si può rilevare che il manoscritto A, pur essendo più antico dei testimoni superstiti di P, non è per questo sempre privilegiato: talvolta la scelta ricade sulla variante di P, e in altri casi i due rami concorrono ciascuno per la sua parte alla ricostruzione della presunta lezione dell'archetipo (un procedimento filologico che in alcuni manuali è chiamato combinatio ). La scelta è compiuta caso per caso, utilizzando criteri diversi: correttezza linguistica; plausibilità del senso; adeguatezza con lo stile e il lessico di Plauto; compatibilità metrica; lectio difficilior; possibilità di spiegare la corruttela; comportamento dei codici; attestazioni esterne. Solo nelle rare eventualità in cui le due varianti contrapposte siano realmente indecidibili l'editore sarà costretto a scegliere in base a criteri non testuali, come la maggiore antichità del testimone (e dunque la minor probabilità storica che il testo da esso riportato sia andato soggetto a corruttele), o - meglio - la maggiore affidabilità di un ramo rispetto all'altro, riscontrata sui casi che è stato possibile risolvere. Tale strategia non porterà sempre a una scelta esatta, ma riduce la percentuale di errore, che pure continuerà a esistere.

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13, STEMMA BIPARTITO E SELECTJO. LE COMMEDIE DI PLAUTO

Il testo di Plauto che possediamo oggi è piuttosto incerto: sia A che P sono viziati da numerosissimi errori individuali, e altri errori - non tutti per noi visibili - si possono imputare a un archetipo da cui entrambi discendono. Un'ulteriore e forse più grave difficoltà è data dal fatto che, per buona parte delle commedie, manca la testimonianza di A, nei punti in cui questo codice è lacunoso o illeggibile, e possiamo servirci solo della recensio Palatina. L'affidabilità del testo plautino è dunque diversa per le singole commedie e parti di commedie, a seconda della possibilità di utilizzare o no il contributo del palinsesto Ambrosiano.

Approfondimenti bibliografici Edizioni (talvolta commentate) di riferimento per Plauto, "Truculentus": Spengel (1868); Leo (1896); Lindsay (1905); Enk (1953); Questa (1995); Hofmann (2.001). Sulla tradizione di Plauto: Reynolds (1983, pp. 302.-7); Tontini, Raffaelli (2.017 ). Manoscritti digitalizzati: Vaticano Pal. lat. 1615 (hctps:/ /digi.vaclib.ic/mss); Heidelberg, Pal. lat. 1613 (http:/ /digi.ub.uni-heidelberg.de/de/bpd/vircuelle_bibliochek/codpallac/i6xx.hcml); Vat. lac. 3870 (hctps:/ /digi.vaclib.it/mss).

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Una tradizione a tre rami. Le Epistulae di Seneca

Quando lo stemma presenta una bipartizione iniziale, l'editore deve effettuare una selectio fra le varianti alternative che figurano nei due rami principali ragionando singolarmente su ciascuna di esse (cfr. CAP. 13). Non così avviene quando dal vertice dello stemma discendono più di due rami, perché in questo caso l'editore può procedere a unaselectio su base maggioritaria. Nel caso di una tradizione a tre rami, ad esempio, quando due di essi concordano contro il terzo si può accettare la lezione dei primi due, considerando quella del terzo un'innovazione individuale di questo. Una condizione perciò apparentemente vantaggiosa; ma quanto tale vantaggio sia ambiguo lo dimostra il celebre "paradosso di Bédier". Questo studioso francese di inizio Novecento rilevò che, negli stemmi a quel tempo prodotti, quelli a tre o più rami erano una sparuta minoranza, ben più limitata di quanto sarebbe stato lecito attendersi; a suo parere, tale risultato era dovuto non all'effettiva realtà delle tradizioni, ma al desiderio degli editori di mantenere il proprio potere decisionale nel momento della selectio, altrimenti vanificato dalle tripartizioni (o pluripartizioni), che avrebbero reso questa operazione poco più che meccanica. Gli editori sarebbero stati perciò più o meno inconsciamente portati a creare stemmi bipartiti per salvaguardare la propria autonomia: l'esito era una sorta di bosco impossibile, una « silva portentosa», come la chiamava ironicamente Bédier (1928, p. 172), nella quale tutti gli alberi si sviluppavano sempre e soltanto con due rami, mai con tre o più. Al vantaggio "oggettivo" di semplificare la scelta, propria delle tradizioni tri o pluripartite, molti filologi sembrerebbero dunque rinunciare volentieri. Più che da un desiderio inconscio di mantenere un potere decisionale, la presunta "ostilità" verso gli stemmi tripartiti dipende in effetti - com'è stato in seguito evidenziato da Sebastiano Timpanaro e da

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

altri studiosi - da fattori diversi, e in particolare dalla tendenza del metodo a procedere sempre in modo dicotomico (a lezione esatta si contrappone lezione corrotta), cosa che può provocare forzature e distorsioni. Ma una ragione non secondaria che può indurre a costituire indebitamente stemmi a due rami è il facto che la tradizione tripartita, come vedremo, presenta una debolezza intrinseca: quella di non poter essere positivamente dimostrata, ma di essere accettata come ipotesi migliore in mancanza di alternative comprovabili. Data questa sua natura, la tradizione tripartita è sempre per il filologo un ripiego, prudente ma non entusiasmante: prima di rassegnarsi a questa soluzione egli sonderà quindi cucce le possibilità di bipartizione, magari anche a rischio di valorizzare eccessivamente elementi poco consistenti che possano spingere in questa direzione. Le numerose Epistulae morales ad Lucilium di Seneca erano già anticamente riunite in libri. Oggi ne possediamo 12.4, divise in più libri; due di essi, all'interno della serie (xn-xm), sono perduti, e almeno altri due mancano alla fine, dopo il xx. I libri, probabilmente compresi all'inizio in più piccoli rotuli, vennero poi raggruppaci in unità codicologiche più ampie. Si riesce a ricostruire l'esistenza di una suddivisione in tre codici, rispettivamente riservaci alle lettere 1-52, 53-88, 89-124; le prime due parei vennero successivamente unite, e i più antichi manoscritti superstiti, che risalgono all'epoca carolingia, attestano una scansione in due codici, il primo comprendente le lettere 1-88 (libri I-XI), il secondo le lettere 89-124 (libri XIV-xx). Queste due parti ebbero inizialmente una tradizione indipendente l'una dall'altra; ci occuperemo qui di quella relativa al primo gruppo (1-88). Gli scudi fondamentali in proposito si devono a Otto Foerscer (1936) e a Leighton D. Reynolds (1965), e giungono, nelle linee principali, a conclusioni analoghe. Le Epistulae 1-88 rappresentano un caso esemplare di presunta tradizione a tre rami. I primi due sono rappresentaci da due subarchecipi ricostruiti, chiamaci rispettivamente a e y, da ciascuno dei quali derivano vari codici, i più antichi risalenti al IX secolo; i codici appartenenti ad a hanno chiari errori comuni che permettono di identificare la famiglia, e lo stesso quelli appartenenti a y. Il terzo ramo è costituito invece da un unico manoscritto (Parigi, Bibliochèque Nacionale, lac. 8540, in sigla p), pure del IX secolo, che si interrompe a metà della lettera 71. In capo alla tradizione è da ipotizzare un archetipo, come dimostrano alcuni errori comuni a cucci i testimoni. Al piano più alto, e

14, UNA TRADIZIONE A TRE RAMI, LE EPISTULAE DI SENECA

a prescindere da possibili contatti orizzontali, lo stemma si configura perciò come segue:

o

I

w

(1,

y

p

Stemma tripartito, dunque; ma per dimostrare che questa era la configurazione, Foerster chiamava in causa "l'assenza" di lacune ( i più sicuri fra gli errori separativi) che accomunassero due dei tre subarchetipi, non "la presenza" di prove certe di divisione in tre rami. Così si esprime lo studioso (Foerster, 1936, pp. 24-32): A proposito delle relazioni reciproche fra a., -y e p, esistono due possibilità: che essi derivino indipendentemente uno dall'altro dall'archetipo, oppure che due di essi siano più strettamente imparentati, tanto da poter ipotizzare che a monte esista un progenitore comune. L'indizio più importante a favore di una parentela di manoscritti o gruppi di manoscritti è la presenza di uguali lacune di qualche consistenza, che si possono ascrivere alla svista di uno scriba. Ma -y non presenta mai un testo completo di fronte a una lacuna di questo genere comune ad a. e p; allo stesso modo p non presenta mai un testo completo di fronte a una lacuna di -y e oc. E anche per a. si può concludere che non abbia mai un testo completo di fronte a una lacuna consistente di -y e p [diremo in seguito perché Foerster tratta quest'ultimo caso in modo leggermente diverso dai primi due]. Al contrario, troviamo una quantità di piccole lacune, trasposizioni, aggiunte, lezioni erronee ecc. comuni a due dei tre gruppi, ma dai quali il terzo è esente. Simili errori si ritrovano sia in a. -y, sia in p-y, sia in p et [e Foerster ne fornisce un elenco ragionato]. Ognuna delle tre classi presenta perciò, ciascuna da sola, la lezione originaria e genuina in un buon numero di punti, dove le altre due hanno il medesimo errore. Sulla base degli errori condivisi solo da a. y si dovrebbe dedurre che esista un progenitore comune a queste due classi, dal quale non è derivato invece p; ma una cale conclusione risulta impossibile, perché in altri punti a. p hanno un medesimo errore, mentre y riporta la

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

lezione originaria, e in altri ancora hanno un medesimo errore ì' p, mentre a riporta la lezione originaria. Sappiamo che a monte della tradizione esiste un archetipo; sappiamo ora che ciascuna delle coppie a y, ì' p e a p concorda in errori parziali, ma mai in fenomeni continui e indiscutibili che dimostrino con sicurezza la derivazione da un progenitore comune. Si conclude percio che y, a e p sono derivati ciascuno in linea indipendente dall'archetipo. Ma poiché la concordanza di due rappresentanti indipendenti di un gruppo contro un terzo riferisce sempre la lezione del modello, le lezioni esatte che si incontrano nei singoli manoscritti a, ì' op (contro una lezione erronea degli altri due) non possono derivare dall'archetipo, a meno che questo non avesse delle lezioni doppie. Le eccezioni [cioè i casi in cui la lezione di uno solo dei tre gruppi contro gli altri due si riveli esatta] andranno spiegate come correzioni [effettuate dai copisti di a, ì' e p] delle lezioni dell'archetipo, o attraverso una propria congettura, o grazie al controllo di un altro modello. Abbiamo riportato per intero, in traduzione italiana, il ragionamento di Foerster, perché ci sembra rappresentare bene le difficoltà e i dubbi che pone la determinazione di uno stemma tripartito. Nonostante il linguaggio quasi matematico e l'apparente sicurezza del ragionamento, esso è, come si vede, schiettamente negativo: poiché non esistono elementi che accomunino con sicurezza due gruppi su tre (quali sarebbero delle consistenti lacune), se ne deduce che lo stemma è tripartito. Si deduce, però, non si dimostra. È ben vero - osserva Foerscer - che esiste una quantità di piccoli errori che accomunano di volta in volta due dei tre testimoni contro il terzo; ma poiché nessuno di essi è un errore distintivo, se ne ricava che i due testimoni che concordano in errore riportano una lezione che si trovava nell'archetipo, e che la lezione esatta che si legge nel terzo codice è cale perché è ricostruita (nel caso più semplice per congettura, anche se si lascia aperta la strada a scenari più complessi: doppia lezione nell'archetipo, controllo su un altro manoscritto). Lo strumento principe individuato da Foerster per accomunare i manoscritti è, come si è detto, la lacuna. Una volta che una parte consistente di testo sia caduca, il passo non può essere più sanato da un copista successivo. Se, nonostante la perdita di parole, il testo continua a scorrere (e la lacuna è dunque "invisibile"), il copista non potrà nemmeno rendersi conto dell'accaduto; se invece il testo risulterà insostenibile egli potrà tentare di sistemarlo, ma se la lacuna è abbastanza ampia non potrà mai ricostruirlo esattamente (così come, tranne casi fortunati, non è possibi-

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14. UNA TRADIZIONE A TRE RAMI. LE EPISTULAE DI SENECA

le nemmeno per un tìlologo di oggi). Ma, oltre che separativo, l'errore deve essere anche congiuntivo, tale cioè da non poter essere stato commesso in linea indipendente da due copisti diversi; non hanno valore perciò lacune di estensione non identica, perché risaliranno a cadute indipendenti di materiale in copie diverse, e lacune, anche identiche, che ricorrano in un punto "rischioso" del testo. A dimostrare una parentela poco vale, ad esempio, il cosiddetto saut du meme au meme, cioè la lacuna che si crea quando un copista tralascia una parte di testo fra due parole (o spezzoni di parola) uguali o molto simili, perché si tratta di un errore comunissimo, che può essersi prodotto più volte; anche se naturalmente ritrovare più salti del genere nelle stesse coppie di manoscritti rende molto più probabile un loro collegamento stemmatico. Un caso interessante di lacuna "equivoca", cale cioè che potrebbe essere intesa come un errore distintivo per individuare una famiglia comune -y p, ricorre a Ep. 66, 32, e viene ampiamente discusso da Foerster; è questa la ragione per la quale, come si è detto, lo studioso tratta la possibile parentela di -y p in modo diverso dalle altre. Qui nelle tre famiglie si leggono le seguenti forme: 1. in IX: Sola ratio inmutabilis et iudicii tenax est: non enim seruit, sed imperat sensibus. Ratio rationi par est, sicut rectum recto; ergo et uirtus uirtuti: nihil enim aliud est uirtus quam recta ratio. Omnes uirtutes rationes sunt; rationes sunt, si rectae sunt; si rectae sunt, et pares sunt; 2. in -y: [•.. } ergo et uirtus non aliud quam recta ratio. Omnes uirtutes rationes sunt; 3. in p: [ .. } ergo et uirtus rationes sunt. Il testo integro è riportato solo da IX, mentre in -y e in p ricorre una lacuna; p evidentemente ha effettuato un saut du méme au méme dal primo uirtus a uirtutes; -y un salto analogo dal primo uirtus al secondo uirtus, e in una successiva copia un correttore ha tentato di dare senso a una frase che non l' aveva più inserendo non aliud quam, una congettura intelligente, ma che non riesce a ricostruire la lezione originale. Uno stesso passo è dunque viziato da lacuna sia in -y che in p; ma come si vede non si tratta della medesima, perché le parti omesse sono di misura diversa, e la ricorrenza non vale a istituire una parentela fra i due testimoni. Il caso esaminato ricorre in un punto del testo "rischioso", a causa dell'accumularsi di termini uguali e di concetti analoghi, che rende più facile la produzione di errori poligenetici.

L'ultima frase delle conclusioni di Foerster sopra riportate («[le lezioni esatte che si riscontrano in un solo ramo della tradizione contro una corruttela comune agli altri due] andranno spiegate come correzioni

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

delle lezioni dell'archetipo, o attraverso una propria congettura, o grazie al controllo di un altro modello») è un'esplicitazione della regola secondo la quale le corruttele "correggibili" (e che perciò non sono "separative", nella terminologia tecnica) sono prive di valore genetico: un manoscritto che è immune da un errore di questo genere può appartenere alla stessa famiglia dei manoscritti in cui l'errore ricorre, ma l'evidenza è mascherata dal facto che il copista è stato abbastanza abile da sanarlo.

Ep. 64, 5: Libet aliquid habere quod uincam, cuius patientia exercear ( «voglio avere qualcosa da vincere, con la sopportazione del quale debba misurarmi»). Il verbo exercear si trova solo in y; et e p hanno invece exerceatur, che è lezione decisamente peggiore, anche se non impossibile dal punto di vista sintattico ( «la sopportazione del quale debba essere praticata»). Se exerceatur è effettivamente sbagliato, può trattarsi tanto di un errore poligenetico (sia et che p possono avere inteso il vicino patientia come soggetto), quanto di un errore di archetipo sanato da una buona congettura da parte di y, che, pur trovando nel suo modello exerceatur, ha corretto in exercear per creare continuità con il precedente uincam. Ep. 61, r: Desinamus quod uoluimus uelle ( «cessiamo di desiderare ciò che abbiamo desiderato in passato»). Così in et; ma y e p hanno uolumus, inefficace e un po' ridicolo nel contesto. Anche in questo caso può trattarsi sia di errore poligenetico di y p, sia di correzione autonoma di a, ancora più ovvia della precedente. Ep. 6 6, 40: Non erit dubium quin maius bonum sit gaudium quam obnixus animus ad perpetiendos cruciatus uulnerum aut ignium ( «non ci sarà dubbio che il piacere è un bene maggiore di quanto non lo sia un animo fermo a sopportare i tormenti dei colpi e del fuoco»). Al posto di obnixus di p, et e y hanno obnoxius ('soggetto'), un aggettivo che è sintatticamente corretto e dà un senso in apparenza plausibile. Chi parla è un interlocutore fittizio che presenta le posizioni epicuree sulla felicità, e irride le pretese di chi considera l'eroismo una virtù superiore alla tranquillità: è miglior cosa non avere sofferenze - dice tale interlocutore - che doversi opporre a esse. Il testo dunque richiede obnixus; ma la variante obnoxius non è palesemente sbagliata. In questo caso, dato che sembra difficile spiegare perché p sarebbe dovuto intervenire con una propria congettura su un testo di per sé accettabile, si penserebbe che obnoxius sia una lectio facilior in cui sono incorsi indipendentemente i copisti di et e y. Ep. 9, 12.: "Non agitur - inquis - nunc de hoc, an amicitia propter se ipsam adpetenda sit''. lmmo uero nihil magis probandum est; nam si propter se ipsam expetenda est, potest ad illam accedere qui se ipso contentus est ( «"Non stiamo

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14. UNA TRADIZIONE A TRE RAMI. LE EPISTULAE DI SENECA

parlando del fatto che l'amicizia sia da ricercare di per se stessa", dici. Invece è proprio questo il punto principale da dimostrare, perché, se è da ricercare di per se stessa, può avvicinarsi a essa chi è soddisfatto di se stesso»). Le parole da propter se ipsa a probandum est non si trovano in -y e p. Nei due testimoni del gruppo et di livello stemmatico più elevato (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 76.40, f. 7v; Brescia, Biblioteca Queriniana, B.11.6), il pezzo mancante invece si trova, ma in ambedue i casi scritto nel margine; una situazione che risalirà già al progenitore IX. Una possibilità è che nell'archetipo le parole mancanti fossero state scritte in margine, e che le due copie -y e p le abbiano inavvertitamente saltate, mentre in margine sono state fedelmente copiate da IX e poi dai suoi discendenti; oppure che IX (o i suoi due discendenti) abbiano tratto la frase collazionando una copia diversa. In ogni caso, è evidente che un errore simile non vale a fondare una parentela fra -y e p, perché la lezione di IX è ambigua.

Come si vede, errori che accomunano due dei tre rami esistono; ma sono sempre deboli, discutibili, equivoci, mai realmente distintivi. In nessun caso essi possiedono le due caratteristiche che si richiedono a un Leitfehler: di essere insieme congiuntivo (e dunque tale da non poter essere commesso più volte da copisti diversi) e separativo (e dunque tale da non poter essere corretto, una volta entrato nella tradizione). In mancanza di Leitfehler - e perciò di elementi certi che accomunino due dei tre rami - il filologo si attiene all'ipotesi alternativa, cioè della divisione in tre rami; una configurazione stemmatica che tuttavia si deduce, e non si dimostra, ed è perciò più fragile. In una tradizione a tre rami, la selectio procede in genere su base matematica: si assume che la lezione originaria sia quella conservata da due testimoni contro il terzo. Gli esempi che abbiamo riportato, però, dimostrano che talvolta questo criterio è fallace, o almeno che non può essere utilizzato senza attenzione critica. In alcuni dei passi citati la lezione originaria sembra quella riferita da un solo manoscritto, e quella comune agli altri due è più debole o francamente sbagliata. Se questo può spiegarsi come un errore poligenetico dei due manoscritti che riportano la lezione "scorretta", si dovrà supporre che la lezione "esatta" dell'unico manoscritto fosse già nell'archetipo, e dunque sia di grande valore, in quanto riportata dalla tradizione più antica; se invece è più probabile che la lezione "scorretta" si trovasse già nell'archetipo, e che la lezione "esatta" che figura in un solo testimone sia una buona congettura del copista, essa va trattata come tale, cioè come una possibile soluzione a un problema testuale, come altre potrebbero essercene.

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

Approfondimenti bibliografici Edizione di riferimento per Seneca, "Epistulae": Reynolds (1966-76). Sulla tradizione dell'opera: Foerster (1936); Reynolds (1965); Reynolds (1983, pp. 369-75); Spallone (1995); Fohlen (2.000); Malaspina (2.018). Sulla discussione teorica sugli stemmi bipartiti e tripartiti: Bédier (192.8 ); Timpanaro (1981, pp. 12.3-50 ); Reeve (2.011, pp. 2.7-44); Trovato (2.014, pp. 82.-104). Manoscritti digitalizzati: Parigino lat. 8540 (https://gallica.bnf.fr); Laurenziano Plut. 76.40 (http:/ /teca.bmlonline.it).

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Un'imbarazzante interpolazione. Le Metamorphoses di Apuleio

Il corpus delle opere retoriche e narrative di Apuleio (Metamorphoses, Apologia e Florida) ci è giunto grazie a un"'edizione" tardoantica dovuta a un certo Sallustio, che corresse a due riprese i testi, una prima volta a Roma nel 395, una seconda a Costantinopoli nel 397; queste operazioni sono attestate in sottoscrizioni - analoghe a quelle che abbiamo visto per la prima decade di Livio (cfr. CAP. 3) -, che figurano in alcuni codici medievali. Fra questi, il più antico e importante è il manoscritto Laurenziano Plur. 68.2 (in sigla F), che è anche il testimone principale della seconda parte degli Annales e delle Historiae di Tacito (cfr. CAP. 12); ma l'unione fra la sezione che contiene Tacito e quella che contiene Apuleio non è originaria, e la tradizione delle due opere va analizzata in modo distinto. Anche la parte apuleiana del manoscritto, come quella tacitiana, è in scrittura beneventana e fu vergata nell'x1 secolo a Montecassino, dove all'epoca si registra un vivo interesse verso gli scrittori classici; e l'arrivo a Firenze delle due sezioni si riconduce alle intense esplorazioni di codici condotte dai dotti fiorentini del Trecento in quell'abbazia. Curiosamente, anche per Apuleio, come per Tacito, esiste la possibilità che il codice Laurenziano sia il capostipite conservato dell'intera tradizione: secondo alcuni studiosi, tutti i manoscritti successivi, piuttosto numerosi nel XIV e nel xv secolo, ne deriverebbero. Altri ritengono invece che un altro codice in beneventana (Assisi, Biblioteca Comunale, 706), di cui rimangono solo pochi fogli, e un gruppo di codici recentiores (la cosiddetta classis 1) siano indipendenti da F, pur risalendo sempre alla recensio Sallustiana e a una tradizione cassinese. La questione è a tutt'oggi dibattuta. Per un gruppo di codici di particolare interesse, comunque, la dipendenza da F si può dimostrare in modo sicuro, grazie a un guasto

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di carattere materiale. Un foglio di F (f. 16 o) risulta danneggiato da uno strappo, poi risarcito con l'apposizione di un pezzo di pergamena bianca; il guasto interessa diverse righe, in ciascuna delle quali alcune parole sono andate perdute. Un altro codice in beneventana ora a Firenze (Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 29.2, in sigla q,), presenta in questo punto (f. 53r) degli spazi bianchi, corrispondenti ai passaggi in cui F non era più leggibile: a quanto pare il copista seguiva fedelmente il suo modello, senza azzardarsi a proporre emendamenti per colmare le lacune. Esse sono tuttavia integrate in q, da una mano successiva: o per congettura o - come ritiene chi suppone l'esistenza di un ramo indipendente da F - per collazione da un altro manoscritto che non aveva la lacuna. Altri codici italiani del XIV e xv secolo presentano un testo che si dimostra esito di tale guasto, e denuncia la derivazione da F danneggiato o da q,. Si tratta di manoscritti di grande interesse per la storia della cultura, perché si ricollegano alla riscoperta e alla diffusione di Apuleio nell'ambito dei primi umanisti fiorentini: Giovanni Boccaccio, ad esempio, ebbe in mano il manoscritto q, e vi appose sue annotazioni, anche se poi si procurò un codice diverso, e a partire da questo trasse una copia di propria mano (è il codice Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 54.32, in sigla LI). All'interno di questa tradizione esiste un passaggio che ha sempre suscitato un'appassionata discussione fra gli studiosi. Nel libro x delle Metamorphoses (cap. 21), Apuleio racconta che Lucio, trasformato in asino per una magia mal riuscita, suscita le voglie di una matrona, che organizza un convegno amoroso con lui; l'incontro è descritto in modo dettagliato, anche nei suoi particolari scabrosi, ma sempre con un linguaggio leggero e misurato, quello caratteristico dell'autore. Nel punto in cui si introducono i preparativi all'amplesso, dopo aver detto che la matrona aveva cosparso di balsamo se stessa e il muso dell'asino, alcuni codici presentano un passaggio che completa il racconto con ulteriori dettagli. Eccolo, nell'edizione critica che ne ha dato Scevola Mariotti (1956; con il solo ripristino del dittongo, che nei codici non è mai indicato); ma avvisiamo che la sua ricostruzione esatta è piuttosto problematica, perché come si presenta nei manoscritti il dettato appare molto corrotto. Chi parla in prima persona è l"'asino" Lucio. Et ercle orcium pigam perteretem Hyaci fragrantis et Chiae rosaceae lotionibus expiavit; ac dein digitis, hypate, licanos, mese, paramese et nete, hastam mei inguinis nivei spurcitiei plusculae excorians emundavit. Et cum

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15. UN'IMBARAZZANTE INTERPOLAZIONE. LEMETAMORPHOSES Di APULEIO

ad inguinis cephalum formosa mulier concitim veniebat ab orcibus, ganniens ego et dentes ad lovem elevans, priapon frequenti frixura porrixabam, ipsoque panda et repando ventrem saepiuscule tactabam. Ipsa quoque, inspiciens quod genius inter antheras excreverat, modicum illud morulae, qualustrum sterni mandaverat, anni sibi revolutionem autumabat. E, per Ercole, [ la matrona] ripulì la liscia sacca dei testicoli cospargendola di vino profumato e di rosacea di Chio, e poi con le dita - il pollice, I' indice, il medio, l'anulare e il mignolo - mondò l'asta del mio candido inguine, scoperchiandola, di un po' di sporcizia. Quella bella donna arrivava in fretta alla testa, salendo dai testicoli; e io, mugolando e alzando i denti verso Giove, allungavo il priapo per lo sfregamento continuo: si piegava ali' insù e all'ingiù, e spesso arrivava a toccare il ventre. Lei, vedendo che il genitale era spuntato in mezzo ai fiori, tollerava male, come fosse un'eternità, quel po' di attesa dovuta alla preparazione del letto.

Questo brano non si trova né in F né nei manoscritti della classis I, ma compare come aggiunta nel margine inferiore in alcuni codici derivaci daF, come q, (f. 66r), e nel manoscritto di Boccaccio (LI, f. 56r). InLI la nota è di mano del Boccaccio; in q, è stata attribuita a un suo amico, il dotto fiorentino Zanobi da Strada, che fu vicario a Montecassino verso la metà del Trecento e studiò i codici lì conservaci, un'attribuzione considerata oggi piuttosto dubbia. In un altro codice che deriva da uno di questi esemplari glossaci ( Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. lac. 199, f. 89v), il brano è inserito a cesto, senza alcun segnale della sua condizione originaria di nota aggiuntiva. Nelle trascrizioni marginali sono presenti dei piccoli errori, alcuni dei quali comuni, che dimostrano che il cesto deriva da una fonte precedente che viene qui copiata, e non è nata originariamente in nessuno di questi codici. Poiché il brano non è presente in F, ed è riportato soltanto da manoscritti che da F derivano, la logica stemmatica imporrebbe di considerare il passaggio come spurio, un'aggiunta creata da qualche lettore medievale e trascritta poi in quei codici. Tuttavia, la nota appare di ottimo livello stilistico, sia nel suo andamento sintattico, sia soprattutto nel lessico: essa è ricca di termini rari, molti dei quali di origine greca, che poco corrispondono all'idea di ignoranza spesso associata a copisti o lettori medievali. Essa ha perciò suscitato un lungo e vivacissimo dibattito. È davvero un'aggiunta medievale, quella che nel linguaggio filologico viene talvolta chiamata interpolazione? In questo caso, va ascritta a uno studioso di prima qualità, che si è divertito a comporre

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

un testo dal sapore e dallo stile apuleiano, senza arrestarsi davanti all' oscenità del rema, e anzi accentuandola. Poiché la tradizione dell'opera sembra doversi ricondurre all'ambiente monastico di Montecassino, si dovrebbe anche pensare a un dotto piuttosto trasgressivo rispetto al contesto in cui si trovava a vivere e a operare. Non potrebbe trattarsi invece di un testo antico, autenticamente di Apuleio o forse attribuibile a un successivo lettore, conservatosi in un ramo separato della tradizione, oggi perduto, e fortunosamente salvatosi grazie alle collazioni effettuate dagli umanisti fiorentini? In questo caso si potrebbe pensare che, proprio per il suo contenuto osceno, il passaggio sia stato censurato in F; ma, per la verità, se questo fosse stato l'intento si sarebbe dovuto censurare l'intero episodio, e non soltanto quel brano. La maggior parte degli studiosi ritiene oggi che il passo sia spurio, e che sia stato creato da un lettore medievale; il nome con cui esso è noto, spurcum additamentum, dichiara già da solo la sua supposta qualità di aggiunta, e insieme di scherzo osceno. A sostegno di questa tesi si possono chiamare i seguenti argomenti: 1. l'autore dello spurcum additamentum, nel suo tentativo di impiegare un linguaggio scurrile e di rendere il passo il più osceno possibile, utilizza alcune parole rare o rarissime, di ascendenza classica, senza avere però piena consapevolezza della loro accezione. Il termine piga, ad esempio, che nel passaggio incriminato significa 'scroto' (orcium pigam, 'borsa dei testicoli'), nel latino classico (puga o pyga) era un grecismo per indicare invece le 'natiche' (dal greco 7ruy~, parola di uso frequente). Nessun autore antico avrebbe commesso un errore del genere; ma un simile travisamento del significato del vocabolo è attestato altrove nel medioevo, in particolare nel vocabolario del grammatico Papia (XI secolo); 2.. i nomi delle dita (hypate, licanos, mese, paramese, nete), che scimmiottano forme greche, riproducono - per un fraintendimento o per una voluta parodia - i nomi delle corde dell'eptacordo, come presentati nel De musica di Boezio (I 2.0); questi termini (che nel nostro passaggio sono di genere femminile) non corrispondono ai nomi greci delle dita (che sono per altro di genere maschile), né tanto meno ai loro equivalenti latini; 3. le scelte lessicali sono in genere raffinate ed echeggiano il linguaggio di Apuleio, ma in alcuni casi vengono usate parole non altrove attestate nelle opere dell'autore; termini come perteres, concitim, saepiuscule suonano come abili imitazioni, create seguendo procedimenti grammaticali;

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15. UN'IMBARAZZANTE INTERPOLAZIONE. LE METAMORPHOSES DI APULEIO

4. il numero di grecismi impiegati nel brano è particolarmente alto, molto più rispetto all'uso normale di Apuleio; l'autore dello spurcum additamentum gioca sul preziosismo, ma finisce per esagerare, superando il modello che vorrebbe imitare; 5. il termine revolutio, nel senso tecnico con cui qui è usato ('ritorno ciclico dell'anno'), non è attestato prima del medioevo; 6. il tema del rapporto sessuale fra un asino e una donna non è esclusivo di Apuleio: se ne conoscono altre espressioni narrative, e anche rappresentazioni figurative. Un episodio analogo si ritrova, fra l'altro, nel breve romanzo greco Aou1C1oç ~ ovoç che circolava sotto il nome di Luciano di Samosata (cap. 51), la trama del quale è in parte parallela a quella delle Metamorphoses. I particolari narrativi presentati dai due testi sono molto simili, anche se le coincidenze non sono mai letterali: in ambedue, ad esempio, si parla dell'unzione del muso dell'asino fra i preparativi dell'amplesso. Ma nel dialogo (pseudo )lucianeo non vi è alcuna traccia dei dettagli esposti nel brano incriminato, come sarebbe lecito aspettarsi se esso fosse genuinamente apuleiano. Su base filologica, le ragioni per considerare spurio il passaggio sembrerebbero molto solide. Ma ancora di recente la sua autenticità apuleiana è stata sostenuta in base a motivazioni "tecniche": l'episodio farebbe riferimento a una procedura consueta nelle pratiche di allevamento del bestiame, nelle quali l'accoppiamento veniva fatto precedere dall'unzione del membro dell'animale; il brano sarebbe perciò necessario allo sviluppo dell'azione. Chi sostiene questa interpretazione ritiene che i filologi che hanno espunto il passo l'abbiano fatto per il condizionamento di scrupoli moralistici: gli studiosi di Apuleio, dal Seicento in poi, si sarebbero rifiutati di attribuire al loro autore un testo così apertamente osceno, in nome di una generale misura che l'autore avrebbe nel narrare temi scabrosi ( «un passo ripugnante alla lettura», l'ha definito un critico italiano del secolo scorso, «e ripugnante già sarebbe stato per Apuleio»; Mazzarino, 1950, p. 43); la stessa qualifica di spurcum attribuita al passo - e di Spurcus assegnata al suo autore tradirebbe questo retropensiero moralistico. La vicenda è istruttiva sia dei metodi con cui si analizzano passi dubbi del testo, sia dei rischi insiti nella tradizione. Abbiamo detto che in un codice, il Vaticano Urb. lat. 199, lo spurcum additamentum si trova all'interno del testo, senza nessun segno che permetta di riconoscere il suo status precedente di nota marginale. Un'analisi filologica permette di capire che questo manoscritto è regolarmente derivato da

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

F, attraverso una catena di descripti umanistici: il copista del Vaticano non ha facto alcro che inserire nel punto più appropriato un passaggio che trovava nel margine. Possiamo chiederci però cosa sarebbe successo se della tradizione di Apuleio si fosse conservato solo quel codice: probabilmente il passaggio non avrebbe suscitato alcun sospetto, e sarebbe stato serenamente accettato come testo autentico.

Approfondimenti bibliografici Edizione di riferimento per Apuleio, "Metamorphoses": Zimmerman (2.o!l). Sulla tradizione di Apuleio: Robertson (192.4); Pecere (1984; 1987 ); Fiorilla (1999 ); Stramaglia (2.0w ); Baglio (2.013). Discussioni sull'"additamentum": Mariotti (1956); Pennisi (1970 ); Pizzica (1981); Winkler (1985, p. 193); Zimmerman (2.000, pp. 433-9); Lyde (2.003); Hunink (2.006); Haig Gaisser (2.008, pp. 64-6). Sulle interpolazioni come problema metodologico: Tarrant (1989 ). Manoscritti digitalizzati: Laurenziani Plut. 68.2., Plut. 2.9.2. e Plut. 54.32. (http:/ /teca.bmlonline.it); Vaticano Urb. lat. 199 (https:/ /digi.vadib.it/ mss).

Tradizioni contaminate. Le monografie di Sallustio

La tradizione manoscritta di Sallustio presenta un caso clamoroso di contaminazione (cfr. PAR. s dell'Introduzione storica), forse il più celebre di tutta la letteratura latina classica. Lo presenteremo qui nelle sue linee fondamentali, con qualche inevitabile semplificazione. La Coniuratio Catilinae e il Bellum Iugurthinum sono tramandati insieme, in un gran numero di manoscritti, che datano dall'età carolingia in poi. I codici più antichi delle due opere, scritti fra il IX e l'x1 secolo, presentano tutti una consistente lacuna (corrispondente a Iug. 103, 2-112, 3), che rende incomprensibile il racconto. Tale lacuna è sufficiente a dimostrare la discendenza di questi manoscritti da un archetipo comune in cui si era prodotto il guasto, evidentemente per la caduta di qualche foglio; essi sono tradizionalmente chiamati codices mutili. Ma a partire dall'x1 secolo si trovano vari manoscritti nei quali la lacuna non è presente, e che riportano perciò il testo nella forma completa. In alcuni di essi (tradizionalmente chiamati codices integri) della lacuna non c'è la minima traccia: il Bellum Iugurthinum è copiato senza scompensi e senza soluzione di continuità. In altri (chiamati codices suppleti) il testo originario presentava la lacuna, ma la parte mancante è stata aggiunta in un secondo tempo, in genere in coda ali' opera, con un segno di richiamo nel punto in cui va inserita. La lacuna costituisce un errore distintivo di grande rilevanza: presumibilmente un simile guasto si sarà verificato in un esemplare soltanto (e dunque l'errore sarà monogenetico), e una volta occorso non era possibile sanarlo per via congetturale (e dunque l'errore era irreversibile). I codices mutili appartengono perciò evidentemente a una stessa famiglia, nel capostipite della quale si era perso del materiale, e a questa famiglia appartengono pure i suppleti, nei quali ricorre lo stesso guasto, anche se sanato. I codices integri, invece, che sono esenti dall'errore, dovrebbero

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

a rigore appartenere a un ramo indipendente; e data la loro maggiore completezza verrebbe da pensare che anche il loro valore testuale sia superiore. Una raffigurazione schematica della tradizione dovrebbe essere la seguente: w

[esemplare lacunoso]

codim integri

,, codices mutili

,'

codices suppleti

Accettando questo stemma, ci si può chiedere però cosa sarebbe successo se uno dei codices suppleti fosse divenuto a sua volta esemplare per un'ulteriore copiatura. In questo caso, lo scriba dell'apografo avrebbe inserito l'integrazione al posto che le spettava, producendo un testo continuo; una volta sistemato il testo, egli non aveva particolari ragioni di lasciare memoria del fatto che quella sezione era trascritta in coda nel suo esemplare. Se esistono copie che derivano da un suppletus, perciò, si può presumere che esse abbiano lo stesso aspetto dei codices integri. La classificazione sulla base di un dato "esteriore': quale la completezza, appare pertanto poco sicura: per ricostruire i rapporti fra i manoscritti è necessario ricorrere a più precisi elementi di carattere testuale. Chi chiarì definitivamente la situazione, ribaltando l'opinione tradizionale che riteneva i codices integri indipendenti dai mutili e - data la loro completezza - sostanzialmente superiori, fu Axel Ahlberg, che nel 1911 pubblicò un contributo fondamentale sulla tradizione della Coniuratio Catilinae e del Bellum lugurthinum. Le sue conclusioni sono state in seguito meglio precisate, e vari punti sono stati chiariti riguardo alla trasmissione antica e medievale

16. TRADIZIONI CONTAMINATE. LE MONOGRAFIE DI SALLUSTIO

delle due opere; ma l'impianto generale della dimostrazione può essere considerato ancora oggi valido, e di questo qui tratteremo. Ahlberg osservò che, se davvero i codices integri fossero stati indipendenti dai mutili, questi ultimi avrebbero dovuto costituire una famiglia stemmatica, dimostrata - oltre che dalla lacuna - da varie altre corruttele comuni nel testo, che si sarebbero dovute evidenziare alla luce di un testo non corrotto riportato dagli integri. Invece i mutili condividevano soltanto la lacuna, ed erano totalmente privi di altri errori distintivi comuni che non fossero presenti anche negli integri: non accadeva cioè mai che i codices integri, o anche solo qualcuno di essi, presentasse delle forme sicuramente originarie dove i mutili concordavano in errore. In compenso, i singoli codices integri condividevano errori con singoli codices mutili, o famiglie di codices mutili; segno che ognuno di essi aveva una storia diversa, e che derivavano in linea indipendente da qualche mutilus che era diventato poi suppletus. La tradizione dei codices integri non era perciò indipendente da quella dei mutili, ma anzi ne derivava. La conclusione di Ahlberg era che quelli che a noi appaiono come codices integri non sono altro che copie di codices suppleti, nelle quali la lacuna è stata sanata collocando al posto giusto la sezione aggiuntiva. w

[esemplare lacunoso]

X

[codices integri deperditi] ,

,'

codices mutili

codices suppleti

codices integri

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

Se queste sono le relazioni fra i testimoni, i codices mutili hanno evidentemente un valore superiore agli integri, che per la massima parte del testo ne sono derivati. Perfino per la parte in cui i mutili presentano la lacuna gli integri escono ridimensionati: i suppleti, a rigore, hanno maggior valore di loro. Beninteso, lo schema che abbiamo presentato non è un vero e proprio stemma, ma una rappresentazione grafica semplificata della situazione: per un'analisi più minuta sarà necessario esaminare la situazione dei singoli codici, perché ognuno degli integri ha una storia a sé e sarà collegato a famiglie diverse di mutili. Non si deve dimenticare, ad esempio, che i manoscritti medievali non sono tutti conservati: anche se si può dimostrare che un integer deriva da un mutilus attraverso un suppletus, non è detto che quel determinato mutilus e quel determinato suppletus esistano ancora; se sono scomparsi, l' integer non è da considerare come un codex descriptus, e torna ad avere un proprio valore testimoniale. Nonostante la contaminazione sia smascherata, e perciò in parte neutralizzata, la situazione resta comunque complessa. La tradizione più diffusa di Sallustio parte evidentemente da un manoscritto in cui era presente la lacuna; ma esisteva ancora una copia integra (o forse più di una? Nello schema a pagina precedente abbiamo parlato, prudenzialmente, di codices deperditi), che venne utilizzata per sanare la corruttela e poi andò perduta. Non sappiamo dove e quando questo avvenne; sappiamo però che i segnali di uno studio filologico di Sallustio iniziano già in età carolingia, quando Lupo di Ferrières tentò di procurarsi una copia del testo: è possibile che egli possedesse già un esemplare mutilo, e che la sua ricerca mirasse proprio a colmare la lacuna. L'integrazione risponde in effetti a un'esigenza di miglioramento filologico del testo; ed è quanto mai probabile che gli studiosi medievali che la realizzarono abbiano effettuato anche una più ampia collazione dell'esemplare integro, una collazione che avrà avuto ripercussioni nelle altre parti del testo. Quanto alla tradizione di epoca umanistica - fatta ormai prevalentemente di codices integri -, essa è assai ampia, e non è ancora stata sondata in modo completo. Il caso che abbiamo illustrato è molto significativo e, per certi versi, sconcertante. I codici apparentemente "migliori", cioè gli integri, si rivelano alla luce dei fatti i peggiori, in quanto derivati dai mutili; quello che pareva un sicuro errore separativo, la grande lacuna, si rivela fragile, se non del tutto inutile, perché passibile di essere sanato per contaminazione. Noi riusciamo a capire tutto questo perché la docu-

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16. TRADIZIONI CONTAMINATE. LE MONOGRAFIE DI SALLUSTIO

mentazione è sufficientemente abbondante e ben conservata: il fatto che i codici più antichi siano tutti mutili induce al sospetto sull'effettivo valore degli integri, e il fatto che esistano parecchi codici suppleti nei quali possiamo osservare fisicamente l'integrazione mostra il procedimento contaminatorio in atto. Ma cosa sarebbe successo se la tradizione fosse stata più limitata e peggio conservata? Se, ad esempio, la contaminazione non avesse lasciato traccia di sé nei codices suppleti, e si fossero conservate solo le copie finali "pulite': ossia solo codices integri e codices mutili? O se fosse esistito qualche codex integer carolingio, di età comparabile ai più antichi dei mutili? Sarebbe stato certo assai più difficile cogliere l'attività emendatoria dei dotti medievali, e forse i codices integri sarebbero stati considerati superiori ai mutili senza troppe discussioni. Ciò può essere effettivamente accaduto nella tradizione di altri scrittori antichi, per i quali abbiamo minore documentazione.

Approfondimenti bibliografici Edizione di riferimento per Sallustio, "Coniuratio Catilinae'' e "Bellum Iugurthinum": Reynolds (1991). Sulla tradizione di Sallustio: Ahlberg (r9u); Zimmermann (1929); Reynolds (1983, pp. 341-7; 1984-85); Canfora (1987 ); Pabon (1991, pp. XLVII-LXX); Munk Olsen (1995); Reynolds (2000 ); Munk Olsen (2003). Manoscritti digitalizzati: come esempi delle ere "classi" di codici sallusciani sono facilmente accessibili i manoscritti Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 10195 (suppletus; https:/ /gallica.bnf.fr); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 887 (integer) e Pal. lat. 889 (mutilus; https:/ / digi.vaclib.it/ mss).

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Quando lo stemma non riesce. Il Bellum ciuile di Lucano

In traditione large contaminata stemmata nihil faciunt, iudicio critico locus in discrepantiis dandus est. In una tradizione molto contaminata gli stemmi non servono a nulla: per dirimere fra le varianti concorrenti bisogna dar spazio al giudizio critico.

È un'affermazione di David R. Shackleton Bailey, editore di Lucano per la "Bibliotheca Teubnerianà' ( 1988, p. v). La tradizione delBellum ciuile, oltre che molto vasta (sono censiti oltre quattrocento codici), appare in effetti irriducibile a una ricostruzione stemmatica coerente; più ancora che inutili, in una tradizione del genere gli stemmi sono impossibili da costruire. Un successivo editore, Renato Badalì (1992, p. XI), riassume in questo modo: Cwn igitur codicum affinitates satis perspicue dispicere in uniuersum nequeamus, eorum stemma delineare ac rationes denique inter codices ipsos intercedentes penitus agnoscere ac plane distincteque recensere nullo pacto posswnus. Poiché nel complesso non riusciamo a individuare con chiarezza le parentele dei codici, non possiamo in alcun modo tracciare uno stemma o ricono scere le relazioni fra loro, né effettuare una recensio che sia sicura ed efficace.

Più figurativamente, Alfred E. Housman, curatore di una storica edizione dell'opera (1926, pp. VI-VII; su di lui, cfr. CAP. 21), rappresentava la situazione in questo modo: The fìve manuscripts on which we chiefly depend, Z P G U V, cannot be divided and united into families or even classes. The circumstances in which Lucan's text was transmitted from his own time to the scholars of

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

the Carolingian renascence did not afford the requisite privacy and isolation. There were no sequestered valleys through which streams of tradition might flow unmixed, and the picture to be set before the mind's eye is rather the Egyptian Delta, a network of watercourses and canals. Lucan was popular; variant readings were present not only in the margin ofbooks but in the memory of transcribers; and the true line of division is between the variants themselves, not between the manuscripts that offer them. The manuscripts group themselves not in families but in factions; their dissidences and agreements are temporary and transient, like the splits and coalitions of politica! party; and the utmost which can be done to classify them is to note the comparative frequency of their shifting allegiances. I cinque manoscritti dai quali principalmente dipendiamo, Z P G U V, non possono essere divisi o uniti in famiglie, e neppure in classi. Le circostanze nelle quali il testo di Lucano fu trasmesso dai tempi dell'autore fino ai dotti della rinascita carolingia non gli hanno permesso di godere della separatezza e dell'isolamento che sarebbero stati necessari. Non esistettero valli appartate dove la corrente della tradizione potesse scorrere incontaminata; l'immagine mentale che meglio rappresenta la situazione è piuttosto quella del delta del Nilo, che è una rete intrecciata di corsi d'acqua e di canali. Lucano era popolare: varianti al testo erano presenti non solo nei margini dei manoscritti, ma anche nella memoria di chi li copiava; e la vera linea di divisione passa perciò fra le varianti stesse, non fra i manoscritti che le riportano. Più che in famiglie, i codici si raggruppano in fazioni: essi si trovano in accordo o in disaccordo fra loro in modo temporaneo e transitorio, come succede per le divisioni e le coalizioni di un partito politico; il massimo che si può fare per classificarli è registrare la frequenza relativa delle loro mutevoli alleanze. Lo studioso proseguiva osservando, ad esempio, che i codici Z P da un lato e i codici G U V dall'altro si contrappongono fra loro in un numero molto elevato di varianti, e che in questi casi Z P «riportano molto più spesso una lezione erronea che una esatta» (ibid.). Ma d'altra parte anche Z G presentano molte lezioni comuni che li contrappongono aP U V. e in questi casi Z G riportano più spesso una lezione esatta. Meno frequente è una contrapposizione fra P G V da un lato e Z U dall'altro, con prevalenza di lezione esatta per il primo gruppo; e così via. Una classificazione di carattere statistico come questa può risultare utile - e oggi si può praticare con una certa facilità grazie alle tecnologie informatiche - perché fornisce qualche elemento in più per effettuare la selectio fra lezioni che appaiono del tutto indecidibili (fra due lezioni

17. QUANDO LO STEMMA NON RIESCE. IL BELLUM CIU/LE DI LUCANO

concorrenti di questo tipo si darà alla fine la preferenza a quella attestata dai manoscritti che più frequentemente riportino lezioni esatte), ma evidentemente costituisce una rinuncia al metodo stemmatico. L'impossibilità di stabilire un quadro coerente e unitario della tradizione è confermata dal fatto che ognuno dei cinque codici "principali" citati da Housman - a cui dovrà esserne aggiunto qualche altro, fra i quali M (Montpellier, Bibliothèque de l'École de Médecine, H.113, del rx secolo), che il filologo inglese toglieva polemicamente dal conto perché lo considerava sopravvalutato dai precedenti editori - riporta autonomamente qualche lezione che pare superiore a quella restituita dagli altri, e che si trova accolta a testo nelle edizioni oggi più usate. Solo il manoscritto V (Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. lat. Q51, del X secolo), ad esempio, ripona a II 558 (disces non esse ad bellafogaces I qui pacem potuere pati; «imparerai che non fuggono in guerra quelli che hanno sopportato la pace») la lezione disces, che è una forma difficilior in luogo di discet o discent degli altri codici; il manoscritto Z (Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. w314, del IX secolo, f. 2.2.r), che scrive discent, presenta poi la lezione disces come correzione, a dimostrazione ulteriore della frequente contaminazione. Solo il manoscritto U (Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. lat. F.63, del X secolo) riporta invece la parola pacis a II 650 (At numquam patiens pacis longaeque quietis I armorum; « mai sopportando la pace e il lungo silenzio delle armi»), che negli altri codici appare nella forma segnis. Ambedue le lezioni sono accettabili e possono vantare una certa qualità stilistica (se è originario pacis, il successivo sostantivo quietis ne diventa una sorta di elegante conseguenza; se è originario segnis, 1'aggettivo, di tono negativo, ha una sfumatura ossimorica rispetto al collegato quietis). Se si accetta come lezione originaria pacis, però, si può trovare una buona spiegazione di come da essa si sia prodotta segnis (pacis potrebbe essere caduto per un salto d'occhio con patiens, e un copista sarebbe stato costretto a inserire una parola per far tornare il metro). Quale che sia la variante originaria, anche in questo caso il manoscritto Z (f. 2.3v) le presenta entrambe: segnis come primitiva, pacis come correzione. Nemmeno dove si possono individuare delle parentele fra singoli codici o gruppi di codici la situazione è netta e inequivoca. Due codici carolingi, Me Z, derivano, ad esempio, da un progenitore ~. come si può dimostrare grazie al fatto che essi presentano un gran numero di errori comuni. Tuttavia questo non vale per tutta l'opera, ma soltanto per la sezione I 486-rx 85, perché per la parte precedente e quella successiva la parentela non sussiste: a quanto sembra, prima che ne venisse

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

tratta la copia M (o il progeni tare da cui M deriva), ~ aveva perduto dei fogli all'inizio e alla fìne, e l'apografo integrò il testo sulla base di altri manoscritti. Paradossalmente, quello che è uno dei pochi punti sicuri della genealogia dei testimoni dell'opera si trasforma nella prova che la tradizione, proprio in questo snodo, è contaminata. Per altri codici del IX secolo si può dimostrare una derivazione da Z, ma alcuni di essi mostrano a loro volta segni di contaminazione da fonti diverse; e certi codici del x secolo risultano invece indipendenti da tutti costoro, e riportano spesso lezioni superiori. Nel caso di Lucano, le varianti della tradizione sono in gran parte già antiche. La cosa si può dimostrare grazie al fatto che si sono conservati alcuni frammenti dell'opera in palinsesti del IV-V secolo, e che alcuni dei successivi codici carolingi accolgono talvolta le lezioni tipiche dell'uno o dell'altro di questi; mai però in modo coerente, e questo è indizio del fatto che già a quest'altezza cronologica la trasmissione doveva essere contaminata. Per alcune varianti - in particolare per alcuni versi presenti in certi manoscritti e assenti in altri, oppure collocati nei vari testimoni in posizione diversa - si è anche discusso della possibilità che si tratti di varianti d'autore. Quello di Lucano non è certo un caso isolato: situazioni del genere sono molto frequenti, per non dire normali, soprattutto per quelle opere che erano molto diffuse e oggetto di studio già nella tarda antichità, e che continuarono a essere studiate anche nel medioevo. Bisogna tener presente, come osservava Housman, che, per i testi molto popolari, ai meccanismi tradizionali della contaminazione (quelli che hanno moventi di carattere "filologico") vanno ad aggiungersi le interferenze che possono crearsi dalla memoria del copista, che conosceva lo stesso testo in una forma diversa, o ricordava passi simili ( magari di un altro autore) e tendeva a riprodurli; un meccanismo molto più frequente per i testi poetici che per quelli in prosa. Per Virgilio, ad esempio, analogamente non si riesce a ricostruire uno stemma; ma lo stesso avviene per altre opere famose, come le Heroides di Ovidio, la Thebais di Stazio o le Saturae di Persia. Citeremo ancora il caso dei Panegyrici e delle Inuectiuae di Claudiano (fìne IV-inizio v secolo), conservati - per intero o parzialmente - in oltre duecento manoscritti. La tradizione sembra risalire a varie forme tardoantiche del testo, la presenza delle quali rende impossibile individuare un archetipo; già nell'arco di pochi decenni queste forme non avevano più una linea di trasmissione distinta, e con il passare del tempo, eviden-

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17. QUANDO LO STEMMA NON RIESCE. IL BELLUM CIUILE DI LUCANO

temente in seguito al lavoro di studio e di collazione di dotti medievali, si andarono a confondere sempre più. Anche nel caso di Claudiano l'editore della "Bibliotheca Teubneriana",John Barrie Hall (1985, p. 11), è costretto a constatare che stemmata nilfaciunt: si riesce in qualche modo a stabilire che un certo codice è più vicino o vicinissimo a un altro, oppure che è da un altro più lontano o lontanissimo (hunc codicem illi propius uel proxime accedere, illum ab hoc longius uel longissime recedere), ma tutto questo serve poco a chi cerca di ricostruire il testo dell'autore (auctoris ipsissima uerba recuperare conanti quid hoc prodest?). L'editore in questo caso dovrà procedere ÈKÀEKTLKwç, conclude Hall, assumendo quanto appare migliore dai vari testimoni, indipendentemente dalle loro presunte parentele e dalla loro età. Procedendo con questo sistema empirico, si riesce a posteriori a formulare una graduatoria dei codici "migliori': quelli cioè che appaiono essere stati preferiti nel maggior numero di casi; e a questo punto tale maggiore utilità "pratica" può permettere di indirizzare la scelta negli altri casi dubbi o incerti. I manoscritti che si dimostrano "migliori" quando la situazione si può dirimere, diverranno preferenziali per tutte le situazioni che non possono essere risolte. Preferenziali, tuttavia, non vuol dire esatti: la preferenza per quei codici si basa sul fatto che, sul campione dei casi decidibili, la lezione che essi riportano è "migliore" in una percentuale superiore rispetto ad altri codici, non che è sempre "migliore". Sarà giocoforza dunque attenersi alla loro lezione: ma bisognerà avere consapevolezza che in una certa percentuale dei casi indecidibili la lezione che andremo così ad accogliere sarà presumibilmente "sbagliata", come lo era in una certa percentuale dei casi decidibili. Quello che figurerà nell'edizione, qui come sempre, sarà il testo "migliore possibile", non un testo "esatto".

Approfondimenti bibliografici Edizioni di riferimento per Lucano, "Bellum ciuile": Housman (192.6); Shackleton Bailey (1988); Badalì (1992.). Sulla tradizione di Lucano: Gotoff (1971); Reynolds (1983, pp. 2.15-8); Asso

(2.011). Edizione di riferimento per Claudiano, "Panegyrici" e '1nuectiuae": Hall (1985). Manoscritti digitalizzati: Parigino lat. 10314 (https:/ /gallica.bnf.fr). I due codici Leidensi Voss. lat. Q.51 e Voss. lat. F.63 sono consultabili online solo a pagamento (https:/ /brill.com/view/db/cvlo).

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Tra florilegi ed edizioni antiche. Il Satyricon di Petronio

Quello del Satyricon di Petronio è il caso di un 'opera giunta fino a noi in forma frammentaria, per vie avventurose e contorte, dove molte e inopinate sono state le perdite e le distruzioni; oggi è possibile ricostruirla - in modo per altro molto lacunoso - soltanto come somma di parti diverse. Dell'incompletezza del testo si aveva piena coscienza già in età umanistica: il Satyricon era un'opera sensazionale, di grande attrattiva, in certe epoche perfino di moda, e questo produsse anche delle falsificazioni. Nel 1691 in Francia venne pubblicato un improbabile frammento, che si diceva essere stato ritrovato a Belgrado - una città di tradizione non latina, a quel tempo in mano agli Ottomani, che si direbbe essere stata scelta apposta perché non si potesse verificare la notizia; e nell'Ottocento in Spagna fu stampata un'altra parte apocrifa, che si pretendeva essere stata recuperata in un palinsesto dell'abbazia di San Gallo. Quanto è rimasto dell'opera si può ricondurre nella sostanza a cinque fonti (o tipologie di fonti). 1. Degli estratti più brevi (excerpta breuia, noti anche come excerpta uulgaria, in sigla O) che circolavano in età carolingia nella valle della Loira (a Fleury o ad Auxerre). Chi ha effettuato la selezione ha privilegiato in particolare le parti in versi, mentre sembra aver censurato sistematicamente quelle in cui comparivano accenni all'amore omosessuale; l'una e l'altra caratteristica fa pensare che la raccolta sia stata concepita per un uso di scuola, forse in ambito monastico. Il manoscritto che era all'origine della raccolta O è oggi perduto, ma ne rimangono tre copie: B (Berna, Burgerbibliothek, 357 e Leida, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. lat. Q.30, del IX secolo), R (Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 6842-D) e P (Parigi,

LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

Bibliothèque Nationale, lat. 8049 ). Da un manoscritto imparentato con P, pure perduto e che si indica con la sigla ò, derivano molti codici umanistici e l' editio princeps dell'opera, pubblicata a Milano intorno al 1482.. 2.. Degli estratti più lunghi (excerpta longa, in sigla L), che vennero reperiti nel Cinquecento in manoscritti più antichi. Si ha notizia dell'esistenza di diversi codici di tale raccolta, i principali dei quali sono chiamati Cuiacianus e Pithoeanus dai nomi degli eruditi che li possedettero, i francesi Jacques Cujas e Pierre Pithou. I manoscritti antichi di L oggi sono irreperibili; ma possiamo avere notizia del testo della raccolta grazie al fatto che essi sono alla base di una nuova edizione del Satyricon realizzata nel 1575 (chiamata Tornaesiana perché curata daJean de Tournes), di due edizioni del 1577 e 1587 curate dallo stesso Pithou (e perciò dette Pithoeanae) e di alcuni manoscritti cinquecenteschi collegati a tali edizioni. Né le edizioni né i manoscritti, però, riportano un testo "pulito": spesso infatti si adagiano sul textus receptus che già circolava a partire dall' editio princeps, e solo talvolta indicano le fonti delle loro varianti, come si farebbe oggi in un apparato critico. Risulta perciò difficile individuare con qualche precisione il testo di L. 3. Un codice scritto intorno al 1423 per iniziativa di Poggio Bracciolini, in sigla H. Questo manoscritto include, dopo un testo petroniano appartenente ai già citati excerpta breuia (e in particolare alla famiglia ò), la trascrizione di un più antico codice «contenente il quindicesimo libro» dell'opera (Harth, 1984-87, pp. 64-5), che Poggio dice di aver trovato a Colonia e che attualmente è irreperibile. La copia prodotta per Poggio in seguito scomparve anch'essa, ma venne ritrovata intorno al 1645 a Traù, in Dalmazia; oggi è conservata a Parigi, Bibliothèque Nationale, lat. 7989. Il testo qui riportato corrisponde alla sezione più ampia dell'opera conservata in forma continua, la cosiddetta Cena Trimalchionis. Questa parte venne pubblicata per la prima volta nel 1664, e venne poi unita, a partire da una successiva edizione del 1669-71, a tutti gli altri frammenti del Satyricon che già si conoscevano. 4. Alcuni florilegi medievali che riportano parti antologiche del testo petroniano. Il più importante di questi è il cosiddetto Florilegium Gallicum (in sigla q,), risalente al XII secolo e conservato in diversi manoscritti, che comprende cinquantatré estratti del Satyricon (per lo più sentenze in versi, oltre alla celebre storia della matrona di Efeso); molti

18. TRA FLORILEGI ED EDIZIONI ANTICHE. IL SATYRJCON Di PETRONIO

di essi sono leggermente modificati nella sintassi per poter essere estrapolati dal loro contesto. 5. La tradizione indiretta. Alcuni autori tardoantichi citano brani di Petronio; vari scrittori medievali mostrano occasionalmente di conoscerlo. Di particolare interesse sono i casi di Giovanni di Salisbury (su di lui, cfr. CAP. 20 ), che cita parti della Cena che non si ritrovavano nei florilegi; di Elia di Thriplow, attivo in Inghilterra nel XIII secolo, autore di una raccolta di aneddoti in cui figurano vari paralleli con gli excerpta longa, ma anche con la Cena; di Guido di Grana, maestro francese del XIII secolo, che conosce passi petroniani che sono altrimenti per noi perduti. Queste testimonianze (di modesta utilità per la ricostruzione esatta del testo del Satyricon, dato che per lo più non si tratta di citazioni letterali) dimostrano che l'opera ebbe nel corso del tempo una vitalità maggiore di quanto farebbero pensare i pochi manoscritti rimasti. Gli excerpta uulgaria ( O) e le parti comprese nel Florilegium Gallicum (q,) sono pressoché totalmente compresi negli excerpta longa (L); inoltre, L presenta parecchi estratti in più rispetto a quelli che figurano nelle altre due raccolte. Questo ha fatto per molto tempo ritenere che O e q, fossero stati ricavati da L mediante una selezione dei passi; ma successivi studi hanno invece dimostrato il contrario. È infatti il redattore di L ad aver messo insieme fonti diverse, probabilmente nel tentativo di produrre un'"edizione" quanto più possibile completa del testo di Petronio: egli aveva a disposizione una copia di O, forse un esemplare di q,, e certamente una raccolta ancora diversa (A), che comprendeva materiali non inclusi nei due manoscritti precedenti. Che non siano gli excerpta breuia a derivare dai longa, bensì il contrario, si può dimostrare analizzando i rapporti fra L e i singoli codici di O (un procedimento analogo a quello che abbiamo incontrato nello studio delle opere di Sallustio, cfr. CAP. 16). Nei punti in cui L riporta passi compresi anche in O, il testo di L presenta degli errori comuni con una sottofamiglia di manoscritti di O, chiamata n; da questi errori sono esenti altri manoscritti di O, in particolare B, che è il più antico del gruppo. Se O derivasse da L, tutti i codici della raccolta dovrebbero condividere gli errori di L; poiché questo non avviene, sarà L a derivare da uno specifico manoscritto di O.

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LA TRASMISSIONE DEI TESTI LATINI

Sat. 19, 1. Dopo avere minacciato cupe sventure in seguito a un presunto sacrilegio perpetrato, Quartilla e le sue ancelle scoppiano in un'inattesa e fragorosa risata: omnia mimico risu exsonuerant, cum interim nos, quae tam repentina esset mutatio animorum facta, ignoraremus ac modo nosmet modo mulieres intueremur ( «tutto risuonava di una risata sguaiata, mentre noi non capivamo la ragione di quell'improvviso cambiamento di umore e passavamo lo sguardo ora su noi stessi, ora sulle donne»). L'espressione mimico risu ('risata da guitto', o 'risata volgare') si trova solo in B, ma è certamente da preferire, in quanto lectio difficilior, a nimium risu che si trova in L e in altri testimoni del gruppo O. Nimium è evidentemente un errore nato da una lettura sbagliata di mimico, e rivela un legame genetico fra tutti i testimoni che lo riportano. Sat. 133, 3. Encolpio prega il dio Priapo di restituirgli la virilità. La preghiera occupa diciassette versi; i vv. 13-15 sono i seguenti: Non sine honore tuum patiar decus. !bit ad aras I sancte, tuas hircus, pecoris pater, ibit ad aras I corniger et querulae Jetus suis, hostia lactens ( «Non lascerò che la tua dignità rimanga senza onori. Ai tuoi altari, / o santo, andrà un montone, padre del gregge, andrà ai tuoi altari / un capro, e vittima sarà un lattonzolo di scrofa grugnente»). Il secondo dei versi citati non si ritrova però in L, e nemmeno nella famiglia 7r degli excerpta breuia, ma soltanto in B: l'ipotesi più probabile è che sia stato omesso per la svista di un copista, che ha saltato dal primo al secondo ibit ad aras. Un'omissione del genere, da sola, è di scarso valore dimostrativo, perché non si può escludere che il salto sia stato commesso più volte da copisti diversi; ma aumenta il suo peso in associazione con casi come il precedente, che sono di segno analogo. Nel suo tentativo di costituire una raccolta petroniana L avrà dunque utilizzato un manoscritto di O appartenente alla famiglia n, e l'avrà integrata con la raccolta A; è possibile che abbia utilizzato anche il florilegio