Vespasiano e l'impero dei Flavi. (Atti del Convegno, Roma, 18-20 novembre 2009) [Illustrated] 8882657477, 9788882657475

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Vespasiano e l'impero dei Flavi. (Atti del Convegno, Roma, 18-20 novembre 2009) [Illustrated]
 8882657477, 9788882657475

Table of contents :
Elio Lo Cascio, Costanti e mutamenti nell'equilibrio economico imperiale; Jean Andreau, Le Marché et les marchés à lépoque de Vespasien; Werner Eck, Der Anschlu der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian und ihre Restrukturierung unter den Flaviern; Marco Maiuro, Vespasiano tra Egitto e Danubio ovvero del buon uso delle proprie ricchezze; Martin Millett, Vespasian and the Flavian transformation of Britannia; Dennis Kehoe, Vespasian, Africa, and the Roman Economy; Julian Gonzalez, La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae; Michel Christol, La Gaule Narbonnaise sous Vespasien; Francoise Van Haeperen, Tradition et innovation dans la religion publique romaine sous les Flaviens; Duncan Fishwick, Lex de flamonio Provinciae Narbonensis. A Flavian provincial law and the government of the Roman empire; Giulio Firpo, Vespasiano e il Giudaismo; Luigi Capogrossi Colognesi, Un'immagine dell'Impero; Giovanni Lobrano, Il Municipio das Fundament unserer Civilisation: una ipotesi di ricerca giuridica; Juan Miguel Alburquerque, Dimensión social de la concesión de Vespasiano a Hispania - ius latii - y algunas observaciones sobre la política municipal Flavia; Maria Jose Bravo Bosch, L'integrazione degli Hispani nella comunità romana; A.M. Dolciotti et alii, Il complesso templare della gens Flavia a Leptis Magna (Libia) Tra scenografia, funzionalità e colorismo.

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Sotto l’alto Patronato della Presidenza della Repubblica

ComItato NazIoNale PeR le CeleBRazIoNI Del BImIlleNaRIo Della NaSCIta DI VeSPaSIaNo Istituito dal ministro per i Beni e le attività Culturali con D. m. del 20 marzo 2008 aCta FlaVIaNa II

Il Comitato Nazionale Presidente Luigi Capogrossi Colognesi Professore della «Sapienza» – Università di Roma Segretario Angelo Bottini Soprintendente per i Beni Archeologici di Roma Presidente della Regione Lazio Presidente della Regione Umbria Presidente della provincia di Roma Presidente della provincia di Rieti Sindaco di Roma Sindaco del comune di Cittareale-Rieti Rettore della «Sapienza» – Università di Roma Direttore generale Beni architettonici, storici Direttore generale Beni Archeologici Direttore generale Beni librari Direttore generale per l’Istruzione secondaria Ministero della Pubblica Istruzione Direttore generale per la Promozione e la Cooperazione Ministero Affari Esteri Direttore generale per gli Archivi Soprintendente per i beni archeologici Abbruzzo-Chieti Soprintendente speciale per i beni archeologici di Roma Soprintendente speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei Soprintendente per i beni archeologici del Lazio Direttore del Foro Romano del Palatino Direttore dell’Archivio di Stato di Roma Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Lazio Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Abruzzo Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici Umbria

Direttore dell’Istituto Archeologico Germanico Direttore della scuola spagnola di storia e archeologia Direttore della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte Direttore dell’Ecole française Direttore della ‘The British school at Rome’ Presidente della Società Dante Alighieri Presidente dell’Istituto italiano per la Storia antica Presidente dell’Istituto nazionale di Archeologia e Storia dell’arte Prof. Mario Caravale Prof. Filippo Coarelli Prof. Ing. Giorgio Croci Prof. Andrea Di Porto Prof. Luigi La Bruna Prof. Eugenio La Rocca Prof. Elio Lo Cascio Prof. Mario Mazza Prof. Silvio Panciera Dott. Franco De Bernardinis Dott.ssa Patrizia Fortini Dott.ssa Anna Sabbi Dott.ssa Maria Rosaria Salvatore Dott.ssa Maria Rita Sansi di Mino Dott.ssa Elena Tassi Avv. Gianfranco Passalacqua

www.comitatonazionalevespasiano.com

Vespasiano e l’impero dei Flavi (Atti del Convegno, Roma, Palazzo Massimo, 18-20 novembre 2009)

a cura di Luigi Capogrossi Colognesi, Elena Tassi Scandone

« L’ERMA » di BRETSCHNEIDER

Vespasiano e l’impero dei Flavi (Atti del Convegno, Roma, Palazzo Massimo, 18-20 novembre 2009) a cura di Luigi Capogrossi Colognesi, Elena Tassi Scandone © Copyright 2012 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Via Cassiodoro 19 - 00193 Roma http://www.lerma.it Progetto grafico: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Curatore redazionale: Daniele F. Maras Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore

Vespasiano e l’impero dei Flavi. - Roma : «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2012. – VI + 294 p. : ill. ; 24 cm. (Acta Flaviana ; 2) ISBN: 978-88-8265-747-5 CDD 21. 340.54 1. Vespasiano, Tito Flavio - Attività legislativa 2. Impero romano - Ordinamento - Sec. I

INDICE

Elio Lo Cascio, Costanti e mutamenti nell’equilibrio economico imperiale . . . .

1

Jean Andreau, Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien . . . . . . . .

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Werner Eck, Der Anschluß der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian und ihre Restrukturierung unter den Flaviern . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Marco Maiuro, Vespasiano tra Egitto e Danubio ovvero del buon uso delle proprie ricchezze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

45

Martin Millett, Vespasian and the Flavian transformation of Britannia . . . .

71

Dennis Kehoe, Vespasian, Africa, and the Roman Economy . . . . . . . . . .

83

Julián González, La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae . . . 97 Michel Christol, La Gaule Narbonnaise sous Vespasien . . . . . . . . . . . 111 Françoise Van Haeperen, Tradition et innovation dans la religion publique romaine sous les Flaviens . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 Duncan Fishwick, Lex de flamonio Provinciae Narbonensis. A Flavian provincial law and the government of the Roman empire . . . . . . . . . . . . 149 Giulio Firpo, Vespasiano e il Giudaismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171 Luigi Capogrossi Colognesi, Un’immagine dell’Impero . . . . . . . . . . . 183 Giovanni Lobrano, Il Municipio «das Fundament unserer Civilisation»: una ipotesi di ricerca giuridica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 Juan Miguel Alburquerque, Dimensión social de la concesión de Vespasiano a Hispania – ius Latii – y algunas observaciones sobre la política municipal Flavia 239 V

Maurizio Fallace

María José Bravo Bosch, L’integrazione degli Hispani nella comunità romana 247 A.M. Dolciotti et alii, Il complesso templare della gens Flavia a Leptis Magna (Libia). Tra scenografia, funzionalità e colorismo . . . . . . . . . . . . . . . . 263 Indice dei nomi e delle cose notevoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 Indice delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292

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Costanti e mutamenti nell’equilibrio economico imperiale

Nel suo libro di trent’anni fa su Structure and change in economic history, divenuto solo in anni a noi assai più vicini molto influente tra gli studiosi di storia delle economie antiche, Douglass North, premio Nobel per l’economia del 1993, afferma: «That per capita income of the free population of the Roman Empire in the second century A.D. may have exceeded that of any society until the nineteenth century is possible» 1, anche se North pensa a una distribuzione assai diseguale di tale reddito pro capite. È questa una valutazione impressionistica che sembra tuttavia in qualche misura confermata da alcuni fra i più recenti tentativi di stimare il reddito pro capite dell’impero romano a paragone di quello di epoche successive e di misurare il grado di ineguaglianza parimenti a paragone di altre economie agricole avanzate, sino al diciottesimo secolo, prima della transizione energetica e della rivoluzione industriale 2. Si è potuto assai di recente mostrare che, rispetto alla situazione dell’Inghilterra del diciassettesimo secolo, quale risulta dalle stime elaborate per il 1688 da Gregory King, il reddito pro capite nell’Italia augustea, calcolato in termini di equivalente di grano, si pone addirittura su un livello superiore 3. Altre stime meno ottimistiche individuano comunque un ordine di grandezza per il reddito pro capite nell’Italia romana e nelle province sostanzialmente non diverso rispetto a quello delle varie regioni europee a partire dal Tardo medioevo 4. Le valutazioni divergono a proposito di quali siano le economie europee dell’età moderna alle quali da D. North, Structure and change in economic history, New York-London 1981, 111. E. Lo Cascio, P. Malanima, GDP in Pre-Modern Agrarian Economies (1-1820 AD). A Revision of the Estimates, in Rivista di Storia Economica n.s., 25, 3, 2009, 391-419; E. Lo Cascio, P. Malanima, Per capita GDP in the early Roman empire. A reappraisal, in F. de Callataÿ, A. Wilson (eds.), Long-term quantification in ancient Mediterranean history, c.s.; si vd. ora P. Temin, Escaping Malthus? Economic growth in the Early Roman empire, in Id., The Roman market economy, c.s. (sono grato a P. Temin, per avermi consentito di leggere il saggio prima della pubblicazione). 3 Lo Cascio, Malanima, GDP in Pre-Modern Agrarian Economies, cit., 398-401. 4 W. Scheidel, S. J. Friesen, The size of the economy and the distribution of income in the Roman Empire, in JRS 99, 2009, 61-91. 1 2

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Elio Lo Cascio

questo specifico punto di vista più si apparenta l’economia romana, e in particolare quella delle regioni che godevano di condizioni migliori come ovviamente l’Italia dei conquistatori: se si tratti, cioè, dell’Olanda dell’età dell’oro o dell’Inghilterra prima dell’avvio della rivoluzione industriale o se si tratti delle meno avanzate fra le economie europee. Vale a dire che le stime per Roma (pur fondate su una base documentaria assai esile e controversa, e dunque divaricate) individuano forchette di valori tra loro non così diametralmente lontani e in ogni caso non dissimili da quelli delle varie regioni dell’Europa settecentesca. Un consenso presumibilmente maggiore si registra in ogni caso sul fatto che l’economia imperiale romana a partire dalla creazione dell’impero mediterraneo è un’economia che sperimenta una crescita complessiva, anche se si discute se e quanto la crescita duri al di là del discrimine rappresentato dall’avvento del Principato 5. Di tale crescita e della prosperità che è suo esito sono stati individuati dalla ricerca contemporanea nella documentazione materiale segnali importanti (il grado di polluzione dell’atmosfera quale può misurarsi attraverso i carotaggi della calotta polare artica in Groenlandia, o i relitti delle navi onerarie, considerati indicativi dell’intensità dei traffici marittimi, o il consumo della carne di maiale) 6. Questi segnali continuano a essere tuttavia di interpretazione controversa soprattutto per un aspetto, che è appunto quello della misura in cui sono effettivamente in grado di chiarire la durata della crescita. Per esempio, si è avuta occasione di mettere in rilievo di recente quali possano essere i fattori di distorsione del campione costituito dai relitti, fattori che pertengono non solo alla circostanza che alcune aree costiere del Mediterraneo risultano sottorappresentate perché assai meno intensamente indagate, ma soprattutto al fatto che possono essere mutati nel corso dell’età imperiale le condizioni del trasporto (non più effettuato per mero cabotaggio ma ora anche in mare aperto) e i contenitori delle merci trasportate (con l’uso delle botti al posto delle anfore) col risultato che le tracce dei naufragi divengono assai meno visibili 7. Questo della durata della crescita è un punto essenziale, perché a ben vedere si tratta di decidere quali ne siano state le determinanti. La crescita – e certo con5 Si vd. quanto osserva N. Morley, The early Roman Empire: distribution, in W. Scheidel, I. Morris, R. Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, Cambridge 2007, 570-591, a p. 589: «The economy of the Principate experienced some measure of growth…, but the great expansion of activity had already taken place under the Republic»; e i ragionamenti di Scheidel sul reddito pro capite in Egitto nei primi due secoli dell’età imperiale che sembrerebbe non in crescita. 6 Riferimenti in F. De Callataÿ, The Graeco-Roman economy in the super long-run: lead, copper, and shipwrecks, in JRA 18, 2005, 361-372; E. Lo Cascio, Crescita e declino. Studi di storia dell’economia romana, Roma 2009, 5-7; 195-200. 7 A. Wilson, Approaches to quantifying Roman trade, in A. Bowman, A. Wilson (eds.), Quantifying the Roman economy. Methods and problems, Oxford 2009, 213-249.

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Costanti e mutamenti nell’equilibrio economico imperiale

sistente – è anzitutto com’è ovvio legata alla conquista e all’impero. Angus Maddison, nel suo recente «profilo quantitativo e macroeconomico» dell’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, propone a ragione una stima del prodotto pro capite differenziata per l’Italia e le province in età augustea, assai più elevata per la prima 8. Peraltro sembra ormai realizzarsi un consenso sul fatto che questa crescita, negli ultimi due secoli dell’età repubblicana, non avrebbe riguardato solo l’élite e dunque semplicemente prodotto un’ancor più radicale divaricazione fra l’élite e la massa della popolazione italica, ma avrebbe toccato anche quest’ultima (talché è stata efficacemente messa in discussione di recente, e da varie prospettive, l’interpretazione vulgata delle trasformazioni economiche e sociali del II secolo, che avrebbe visto, con l’affermarsi del modello della villa schiavistica, il generalizzato impoverimento e il drastico ridursi del contadiname libero). 9 Nella formulazione di Scheidel, si sarebbe realizzata nella fase terminale dell’età repubblicana una massiccia redistribuzione di risorse finanziarie dalle elites romane e dalle popolazioni soggette a una grossa fetta di quella che egli definisce, con un’espressione volutamente vaga, l’«Italian commoner population» 10. Questa massiccia redistribuzione avrebbe elevato la ricchezza della famiglia media e ne avrebbe accresciuto il benessere, dal momento che l’incremento demografico che (secondo una rigida interpretazione malthusiana) ne sarebbe potuto derivare, deprimendo alla lunga il reddito pro capite della famiglia media, sarebbe stato limitato da tre fattori: la mortalità in guerra; l’emigrazione; il cosiddetto «effetto cimitero urbano», vale a dire lo squilibrio tra mortalità e natalità nelle città in conseguenza delle cattive condizioni igienico sanitarie dei centri urbani che avrebbe richiesto, perché le città mantenessero invariata la popolazione, un continuo afflusso di nuovi immigrati dalle campagne (un fattore sul quale mi sentirei di esprimere più di una riserva) 11. Ma che succede con l’unificazione mediterranea? Ancor più: che succede con lo stabilimento della pace e la cessazione delle conquiste? Si afferma un nuovo 8 A. Maddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030. Un profilo quantitativo e macroeconomico, trad. it., Milano 2008, p. 48, tab. 1.10. 9 A una ridiscussione di questa vulgata, basata sulla testimonianza appianea (o, meglio, su una particolare interpretazione della testimonianza appianea) sono volti alcuni dei contributi apparsi in L. De Ligt, S.J. Northwood (eds.), People, land, and politics. Demographic developments and the transformation of Roman Italy, 300 BC-AD 14, Leiden-Boston 2008, e in J. Carlsen, E. Lo Cascio (a cura di), Agricoltura e scambi nell’Italia tardo-repubblicana, Bari 2009; e si vd. già E. Lo Cascio, Popolazione e risorse agricole nell’Italia del II secolo a.C., in D. Vera (a cura di), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico, Bari 1999, 217-245; si vd. pure A. Launaro, Peasants and slaves. The rural population of Roman Italy (200 BC to AD 100), Cambridge 2011, e L. de Ligt, Peasants, citizens and soldiers. Studies in the demographic history of Roman Italy 225 BC – AD 100, Cambridge 2012. 10 W. Scheidel, A model of real income growth in Roman Italy, in Historia 56, 2007, 322-346. 11 E. Lo Cascio, Did the population of imperial Rome reproduce itself ?, in G. Storey (ed.), Urbanism in the preindustrial world, Univerity of Alabama Press, 2006, 52-68.

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Elio Lo Cascio

modello di crescita, che in quanto non più basata sulla brutale sottrazione delle risorse, non equivale a un arricchimento dei conquistatori a spese dei conquistati. Si determinano sostanzialmente due sviluppi, due radicali mutamenti nell’equilibrio economico imperiale, che sono intrinsecamente connessi. In primo luogo ora la crescita non riguarda più l’Italia soltanto, ma anche o forse soprattutto le province, in particolare le province occidentali. In secondo luogo, non essendo più determinata dalla conquista, né dal mero sfruttamento delle regioni soggette, non è più un «gioco a somma zero», ma è una crescita che, riguardando le popolazioni di queste stesse regioni soggette, produce verosimilmente anche in esse o anzi più ancora in esse un incremento del prodotto globale e forse dello stesso reddito pro capite. Anche se si continua a discutere su quali siano le determinanti e i meccanismi di questa crescita, e anche se si continua a discutere su quanto duri questa nuova fase di crescita nel corso dell’età imperiale, non c’è dubbio che tra questi meccanismi non c’è più, o non c’è più soltanto, la mera sottrazione di risorse. Si può persino sostenere che è proprio il venir meno o comunque la drastica limitazione di questa sottrazione di risorse a incentivare la ripresa della crescita delle regioni più avanzate, le orientali, dell’impero. Parrebbe superata la fase di quello che Weber definiva il «capitalismo antico», il «Raubkapitalismus», il capitalismo di rapina, che si avvia, sempre nella formulazione weberiana, a una «morte lenta» 12. Resta il problema di definire quali siano i caratteri e quali i limiti di questa nuova crescita: se si tratti sostanzialmente di una crescita estensiva, una crescita cioè del prodotto globale legata al semplice incremento demografico, o anche intensiva, una crescita, cioè, dello stesso prodotto pro capite. Secondo l’interpretazione neomalthusiana, favorita da una parte degli studiosi, la crescita della popolazione avrebbe sul lungo periodo determinato quanto meno in alcune aree, in assenza di importanti innovazioni tecnologiche e rimanendo immutata la dotazione dei beni capitali e delle risorse naturali, la diminuzione del prodotto marginale del lavoro e dunque un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo trend sarebbe durato sino allo scoppio della cosiddetta «peste antonina», dopo la quale sarebbe possibile rinvenire indizi di un miglioramento delle condizioni di vita dei superstiti 13. Secondo altri studiosi, pur dovendosi riconoscere che l’economia romana non può aver conosciuto che livelli modesti di crescita, come tutte le Lo Cascio, Crescita e declino, cit., 317-335 e riferimenti ivi. Il più convinto assertore di questa tesi è Walter Scheidel: si vd. Id., In search of Roman economic growth, in JRA 22, 2009, 47-70; Scheidel, Friesen, The size of the economy, cit., 61-91; W. Scheidel (with a contribution of J. Sutherland), Roman wellbeing and the economic consequences of the Antonine plague, in E. Lo Cascio (a cura di), L’impatto della ‘peste antonina’, Bari 2012, 265-295; cfr. peraltro E. Lo Cascio, Peuplement et surpeuplement: leur rapport avec les ressources naturelles, in M. Clavel-Lévêque, E. Hermon (édd.), Espaces intégrés et gestion des ressources naturelles dans l’Empire romain, Actes du colloque de l’Université Laval, Québec, 5-8 mars 2003, in Besançon 2004, 135-52; E. Lo Cascio, 12 13

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Costanti e mutamenti nell’equilibrio economico imperiale

economie agricole avanzate prima del diciannovesimo secolo, deve essere cresciuto lo stesso reddito pro capite, per il concomitante effetto di una serie di fattori 14. Anzitutto l’unificazione politica, con l’affermarsi di una maggiore sicurezza nei movimenti di persone e di cose, con il diffondersi di sistemi di misurazione comuni, di un sistema monetario integrato, di norme regolanti gli scambi, deve avere portato con sé il drastico ridursi dei costi di transazione e il conseguente intensificarsi delle relazioni mercantili sulla lunga distanza 15. Questo intensificarsi delle relazioni mercantili sulla lunga distanza può avere promosso una crescita «smithiana», legata cioè a guadagni di efficienza ottenuti attraverso la specializzazione regionale e locale delle produzioni e la divisione del lavoro. In più l’unificazione politica deve avere favorito la stessa disseminazione di talune innovazioni tecnologiche che devono avere incrementato la produttività (tipico il caso del mulino ad acqua e in generale di molti strumenti per sollevare l’acqua impiegati tanto in agricoltura che nell’attività mineraria) 16. E in ogni caso in molte regioni occidentali la mera estensione dell’area coltivata, incentivata, in varie forme, dalla stessa autorità imperiale, come accade già in età flavia in Africa con la lex Manciana, deve avere provocato un incremento della produzione 17. La crescita produttiva legata alla estensione delle aree coltivate e a un più efficiente sfruttamento agrario

Il declino economico dell’Italia e il declino dell’impero: due scenari a confronto, in Rivista di Storia Economica n.s., 22, 1, 2006, 41-57, alle pp. 52-53; Lo Cascio, Crescita e declino, cit., 165-178. 14 W. Jongman, The early Roman Empire; consumption, in W. Scheidel, I. Morris, R. Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, Cambridge 2007, 592-618; Id., Gibbon was right: the decline and fall of the Roman economy, in O. Hekster, G. de Kleijn, D. Slootjes (eds.), Crises and the Roman Empire. Proceedings of the Seventh Workshop of the International Network Impact of Empire, Leiden 2007, 183-199; Id., Roman economic change and the Antonine plague: endogenous, exogenous, or what?, in Lo Cascio (a cura di), L’impatto della ‘peste antonina’, cit., 253-263; Wilson, Approaches to quantifying Roman trade, cit., 213-249; Id., Indicators for Roman economic growth: a response to Walter Scheidel, JRA 22, 2009, 71-82; Temin, Escaping Malthus, cit. (a nt. 2); cfr. E. Lo Cascio, The early Roman Empire: the state and the economy, in W. Scheidel, I. Morris, R. Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, Cambridge 2007, 619-647, alle pp. 619-621. 15 E. Lo Cascio, The Roman Principate: the impact of the organization of the empire on production, in E. Lo Cascio, D. Rathbone (eds.), Production and public powers in Classical Antiquity, Cambridge 2000, 77-85; Id., La ‘New Institutional Economics’ e l’economia imperiale romana, in M. Pani (a cura di), Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva, Bari 2005, 69-83, 16 A. Wilson, Machines, power, and the ancient economy, in JRS 92, 2002, 1-32; J.-P. Brun, L’énergie hydraulique durant l’Empire romain: quel impact sur l’économie agricole?, in E. Lo Cascio (a cura di), Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano, Bari 2006, 101-130; E. Lo Cascio, P. Malanima, Mechanical energy and water power in Europe: a long stability?, in E. Hermon (éd.), Vers une gestion intégrée de l’eau dans l’Empire romain, Actes du Colloque International, Université Laval (Octobre 2006), Roma 2008, 201-8. 17 Per la documentazione africana delle «grandes inscriptions» si vd. in particolare D. P. Kehoe, The Economics of Agriculture on Roman Imperial Estates in North Africa, Göttingen 1988.

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fa sì che la produttività marginale del lavoro agricolo non scenda con l’incremento del numero dei lavoratori 18. Infine la crescita deve avere corrisposto a quella che Rostovtzeff definiva la «magnifica efflorescenza della vita cittadina» 19. L’accentuata urbanizzazione soprattutto delle regioni occidentali e meridionali dell’impero deve aver rappresentato assieme lo stimolo più potente e l’effetto più vistoso della crescita. Sarebbe difficile negare che la crescita numerica e dimensionale dei centri urbani sia un segnale così dell’incremento demografico, come della crescita economica 20. Né ritengo si possa escludere che la crescita urbana sia stata anche il risultato dell’incremento della produzione agricola e della sua più accentuata mercantilizzazione, come risposta alla stessa crescita della popolazione rurale, secondo i meccanismi illustrati da Jan de Vries per l’Olanda del seicento e del settecento 21. Per Rostovtzeff, la fioritura delle città sarebbe stata legata all’affermarsi della «borghesia» cittadina. Quale che sia la nostra distanza dalle prospettive del grande storico russo, è indubitabile che la crescita deve avere corrisposto anche a una più complessa articolazione dell’economia e della società imperiali e all’emergere di nuovi ceti: di nuovi ceti intermedi. Ha osservato di recente Paolo Malanima con riferimento proprio alla società romana, ma guardando anche ad altre situazioni storiche comparabili, che «Rising inequality is ordinarily correlated, in pre-modern agrarian economies, with per capita growth and rising complexity of the economic and social structure. Whenever the average income rises, private demand of commodities and services widens, intermediate social groups develop, a tiny minority enjoys considerable wealth» 22. Il contrario avviene quando c’è un declino: con una semplificazione della vita economica e sociale; la stragrande maggioranza della popolazione è in una situazione di eguale povertà e scompaiono i gruppi intermedi. I redditi divengono assai più polarizzati di prima e la «inequality» diminuisce. Ci possiamo chiedere se abbiamo modo di individuare nel processo che porta a questo riequilibrio entro l’economia imperiale l’incidenza dell’età flavia. Il venir meno della posizione di primato economico dell’Italia dei conquistatori si avvia gradualmente con gli ultimi decenni dell’età augustea, il discrimine simbo18 Per la differenza, da questo punto di vista, dell’Africa e dell’Italia nell’età flavia Lo Cascio, Crescita e declino, cit., 97-107. 19 M. Rostovtzeff, Storia economica e sociale dell’impero romano, nuova ed. della trad. italiana, corredata di una serie di testi inediti, a cura di A. Marcone, Milano 2003, p. XXXIII. 20 E. Lo Cascio, Urbanisation as a proxy of demographic and economic growth, in A. Bowman, A. Wilson (eds.), Quantifying the Roman Economy: Methods and Problems, Oxford 2009, 87-106. 21 J. de Vries, The Dutch Rural Economy in the Golden Age, 1500-1700, New Haven-London 1974, 4 ss. 22 P. Malanima, A long phase of growth 400 BC-AD 200, c.s.

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lico essendo, come già Weber rilevava, la disfatta di Teutoburgo 23. Ma il processo certo subisce accelerazioni nel corso dell’età imperiale, legate a mutamenti del quadro istituzionale. Per esempio, lo stabilirsi e il cristallizzarsi dei flussi tributari dalle province che producono le tasse alle province che le consumano e a Roma e all’Italia immuni devono avere promosso in misura significativa l’intensificarsi dei flussi commerciali in direzione delle province dove stazionavano gli eserciti e in direzione della penisola, secondo il classico modello di Keith Hopkins 24. Se, anche in conseguenza di questi meccanismi, si determinava una sempre più elevata concentrazione della domanda e della moneta in Italia e dunque i prezzi così dei fattori produttivi come dei prodotti divenivano più elevati nella penisola che nelle province, alla lunga questo processo non poteva non favorire la crescita delle province e la stagnazione dell’Italia 25. Ancor più visibili accelerazioni sperimenta il secondo di questi sviluppi – quello che vede realizzarsi, in concomitanza con la crescita soprattutto delle province occidentali, una più complessa articolazione dell’economia e della società e l’emergere di nuovi ceti, di ceti intermedi, la «borghesia cittadina» di Rostovtzeff. Per questo secondo sviluppo già la tradizione antica sottolinea in qualche modo il rilievo di discrimine rappresentato dall’età flavia, come quella che porta al potere, centrale e locale, tali nuovi ceti. È ben noto come Santo Mazzarino avesse individuato nella riforma monetaria neroniana del 64 una sorta di turning-point nella storia dell’economia e della società imperiale e in quella dei suoi ceti dirigenti, una cesura che si sarebbe approfondita con l’avvento della nuova dinastia e con il venir meno del luxus delle grandi domus senatorie e l’affermarsi di una gestione più oculata dei patrimoni così da parte dei privati come da parte della stessa amministrazione imperiale 26. Tacito, in un luogo di capitale importanza del III libro degli Annali, mette in rilievo come nel corso degli anni che avevano preceduto l’avvento di Vespasiano «uomini nuovi, venuti dai municipi, dalle colonie e anche dalle province e spesso ammessi fra i senatori, portarono a Roma la morigeratezza del loro paese e sebbene moltissimi di essi, per l’aiuto della fortuna o per la loro atti23 Nel saggio del 1896 su Die sozialen Gründe des Untergangs der antiken Kultur (Le cause sociali del tramonto della civiltà antica, trad. it. in appendice a Storia economica e sociale dell’antichità, trad. it. della terza edizione degli Agraverhältnisse im Altertum, Roma 1981, pp. 371-93). 24 K. Hopkins, Taxes and Trade in the Roman Empire, JRS 70, 1980, 101-25, con le precisazioni in K. Hopkins, Rome, Taxes, Rents and Trade, Kodai 6-7, 1995-96, 41-75, rist. in W. Scheidel, S. Von Reden (eds.), The Ancient Economy, Edinburgh 2002, 190-230 e in Id., Rents, Taxes, Trade and the City of Rome, in E. Lo Cascio (a cura di), Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Bari 2000, 253-67. 25 E. Lo Cascio, Forme dell’economia imperiale, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, II, 2, Torino 1991, 313-65, alle pp. 356 ss.; Id., The early Roman Empire: the state and the economy, cit., 646-47. 26 S. Mazzarino, L’impero romano, Roma 1956, 147 ss. e passim.

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vità, giungessero a vecchiaia molto ricchi, conservarono tuttavia il sentimento di prima. Ma colui che più di ogni altro instaurò la severità del costume fu Vespasiano, egli stesso uomo all’antica nel modo di mangiare e di vestire. Da quel momento il rispetto verso l’imperatore e il desiderio di imitarlo ebbero più efficacia delle pene minacciate dalle leggi [dalle leggi contro il lusso] e dalla paura» 27. E Svetonio, nella sua biografia di Vespasiano, con qualche malevolenza ricorda come gli inasprimenti fiscali nonché una serie di altre misure vessatorie nei confronti dei contribuenti non fossero dovuti alla volontà di ovviare a un deficit gigantesco (così parrebbe) del bilancio della res publica, come sostenevano alcuni, ma, come sostenevano altri, alla «pecuniae cupiditas», «l’avidità di denaro», che avrebbe caratterizzato l’imperatore, pronto persino a esercitare negotiationes… vel privato pudendas propalam…, coemendo quaedam tantum ut pluris postea distraheret, a esercitare «apertamente affari che avrebbero costituito motivo di vergogna per un privato, comprando certe merci solo per rivenderle in seguito a un prezzo più elevato» 28: un’osservazione certo rivelatrice di un cambio radicale di mentalità dei ceti dirigenti nei confronti delle stesse attività commerciali. Naturalmente gli indizi che consentono di individuare una periodizzazione nel corso dei primi due secoli del principato anche per quanto riguarda gli equilibri economici entro l’impero sono tenui per non dire evanescenti: soprattutto lo sono per quel che riguarda un problema fortemente dibattuto dalla storiografia contemporanea, il rapporto fra crescita delle province e «crisi», o «declino», o «stagnazione» dell’economia italica. Ha osservato Fergus Millar che l’Italia nell’età imperiale non ha una sua discernibile storia 29. L’osservazione è stata ripetuta, per esempio, da John Patterson nel suo libro su città e campagna nell’Italia della prima età imperiale, nel quale tenta, e con estrema difficoltà, di rilevare trend distinguibili così degli assetti rurali come della dinamica dell’urbanizzazione 30. Emerge (per la stessa estrema varietà degli ambiti regionali) la difficoltà di rinvenire una linea di sviluppo unitaria e una periodizzazione. Si rilevano indizi semmai più consistenti del rilievo che hanno gli anni dei Flavi per la dinamica del popolamento in Italia, essa stessa intimamente legata, come si è detto, ai ritmi della crescita. Su questi indizi, che ho studiato in altra sede 31, non mi soffermo: basti dire che alcuni luoghi dei Gromatici, e in particolare quelli sulla vicenda dei subseciva italici tra VespasiaTac. Ann. 3.55 (trad. L. Annibaletto). Suet. Vesp. 16. 29 F. Millar, Italy and the Roman Empire: Augustus to Constantine, in Phoenix 40, 1986, 295-318 (rist. in Id., Rome, the Greek World, and the East, II, Government, society, and culture in the Roman Empire, ed. by H.M. Cotton and G. Rogers, Chapel Hill and London, 2004, 372-398). 30 J.R. Patterson, Landscapes and cities. Rural settlement and civic transformation in Early Imperial Italy, Oxford 2006, 1. 31 Lo Cascio, Crescita e declino, cit., 165-172. 27 28

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no e Domiziano 32 sembrerebbero suggerire che si registri in età flavia una più accentuata occupazione dei terreni agricoli in Italia e lo sfruttamento verosimilmente di terreni marginali, indizio di una qualche pressione della popolazione sulle risorse 33. Per qualche aspetto la stessa misura domizianea che avrebbe vietato di piantare nuove viti in Italia e avrebbe addirittura imposto il taglio di metà delle viti esistenti in provincia, interpretata tradizionalmente come quella che mostrerebbe un intento protezionistico delle produzioni italiche, sarebbe da collegare, nella presentazione che ne fa Suetonio, con una congiuntura di sovrapproduzione vinicola, considerata in qualche modo alla base di una frumenti inopia 34. Qualche studioso ha voluto connettere, sulla scia di Rostovtzeff, la misura col famoso editto, rivolto ad Antiochia di Pisidia, del legato di Cappadocia-Galazia Antistio Rustico, sollecitato dai duoviri e dai decurioni della colonia, per risolvere una situazione di carestia 35. È probabile che l’editto di Domiziano, di cui non risulta nemmeno certo che sia stato effettivamente mandato ad effetto (la stessa testimonianza svetoniana parrebbe suggerire che non lo sarebbe stato), debba essere interpretato alla luce delle vicende della coltivazione della vite nell’area vesuviana, a seguito dell’eruzione del 79, come ha sostenuto André Tchernia 36. Ma che la sovrapproduzione del vino e l’inopia frumenti venissero percepite come le due facce di un’unica medaglia, lo mostra proprio il confronto istituito dallo stesso Tchernia con analoghe misure limitatrici della viticoltura nella Francia del ‘700. Ma si può davvero parlare di «crisi» dell’economia italica che si manifesterebbe già nel I secolo d.C. e segnatamente negli anni dei Flavi, una crisi legata in particolare alla crisi delle esportazioni italiche? Si può riconoscere all’origine della presunta crisi la rostovtzeffiana «concorrenza» esercitata dalle province? O la crisi del modello della villa – della villa perfecta, la villa «centrale» della tassonomia carandiniana 37 – unità produttiva razionalmente gestita, nella quale il lavoro di schiavi irreggimentati, integrato nei momenti di picco dell’attività agricola da quello di liberi salariati, era volto essenzialmente alla produzione di vino e di olio da comAg. Urb. de controv. agr., p. 41 Th.; Hyg. de limit., p. 111 La.; de gener. controv. pp. 96 s. Th.; cfr. Suet. Dom. 9.3; e vd. in part. Mazzarino, L’impero romano, cit., 181 ss. 33 Lo Cascio, Crescita e declino, cit., 169-170. 34 Suet. Dom. 7.2; 14.2; Philostr, Soph. 1.231; Vita Apoll. 6.42; nonché Stat. Silv. 4.3. 11-12; si vd. Lo Cascio, Forme dell’economia imperiale, cit., 361 ss. e ivi letteratura e discussione; E. Lo Cascio, Il ‘princeps’ e il suo impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari 2000, 255 ss. 35 B. Levick, Domitian’s vine edict, in Latomus 41, 1982, 50-73, a proposito di AE 1925, 126, su cui ora A. Baroni, La colonia e il governatore, in G. Salmeri, A. Raggi, A. Baroni (a cura di), Colonie romane nel mondo greco, Roma 2004, 8–54, e ivi lett.; cfr. anche P. Erdkamp, The grain market in the Roman Empire. A social, political and economic study, Cambridge 2005, 284-86. 36 A. Tchernia, Le vin de l’Italie romaine, Roma 1986, 224 ss. 37 A. Carandini, I paesaggi agrari dell’Italia romana visti a partire dall’Etruria, in L’Italie d’Auguste à Dioclétien, Roma 1994, 167-74. 32

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mercializzare? La difficoltà di un’utilizzazione del concetto di crisi e la stessa sua sostanziale ambiguità sono state messe in rilievo in un lucido intervento di qualche anno fa da Andrea Giardina e non ho dunque motivo di insistere su questo 38. Si rileva soprattutto la difficoltà, per non dire l’impossibilità, di rinvenire una connessione cronologica fra vari fenomeni: il declino della villa come unità produttiva, il drastico ridursi delle esportazioni di vino e altri prodotti dell’agricoltura specializzata della penisola, il venire meno in Italia (e meglio sarebbe dire in alcune limitate regioni dell’Italia) della «dominanza» del cosiddetto «modo di produzione schiavistico», l’affermarsi dell’affitto agrario. Intanto va detto che di tutti questi processi e della presunta «crisi» dell’Italia va notato in ogni caso non solo il ritmo assai più lento e progressivo, ma l’assai minore rilievo rispetto a quello che ha la contestuale crescita delle province. Va poi sottolineato che la documentazione materiale non sembra fornire alcun solido fondamento a interpretazioni univoche e comprensive dei vari fenomeni citati. Così, la documentazione archeologica nel suo complesso – quella della ceramica fine da mensa o quella delle anfore – non sembra potersi intendere semplicisticamente come quella che mostra l’innescarsi di una «concorrenza» Italia province, ma suggerisce uno scenario assai più complesso e differenziato, come ha mostrato recentemente Tchernia 39. Certo si riscontra un drastico ridursi delle esportazioni per taluni prodotti, che tuttavia può essere stato compensato da un incremento della domanda interna, legata alla stessa crescita urbana. Così l’esportazione del vino italico – e anzi sarebbe meglio dire di un’area costiera specifica dell’Italia tirrenica – verso la Gallia cessa addirittura già alla metà del I sec. a.C., ma naturalmente questo non significa che necessariamente si riduca in misura drastica la produzione del vino italico, che può bene avere trovato altri sbocchi 40. Le ricognizioni di superficie dei vari siti nelle varie regioni di Italia parimenti non sembrano dare indicazioni univoche sulle modalità dell’insediamento e sul rapporto tra fattorie e ville e meno che mai sulla condizione giuridica dei lavoratori e sull’organizzazione del lavoro (a parte gli ovvi problemi metodologici legati alla classificazione dei vari siti o alla loro visibilità) 41. Certo, pare proposizione condivisa che già con la fine delle grandi schiavizzazioni di massa si sia drasticamente ridotto il

A. Giardina, L’Italia, il modo di produzione schiavistico e i tempi di una crisi, in Id., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari 1997, 233-264. 39 A. Tchernia, La crise de l’Italie impériale et la concurrence des provinces, in Cahiers du Centre de Recherches Historiques, 37, 2006, 137-156, ora in Id., Les Romains et le commerce, Napoli 2011, 351-375. 40 Si vd. ora il bel quadro di insieme di C. Panella, Roma, il suburbio e l’Italia in età medio- e tardorepubblicana: cultura materiale, territori, economie, Facta 4, 2010, 11-123. 41 Ora A. Launaro, Peasants and slaves, cit. (a nt. 9). 38

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peso della popolazione servile sull’intera popolazione dell’Italia 42, mentre marginale deve essere stato il ruolo del lavoro servile nelle campagne provinciali: sembra certo che l’espansione economico-produttiva di alcune province occidentali e meridionali non avviene se non con l’espansione del lavoro libero nelle campagne (soprattutto nella forma dell’affitto agrario e della colonia parziaria, come in Africa) e anche l’urbanizzazione di queste aree (in qualche modo, come si è detto, indicativa dell’incremento demografico e produttivo) si realizza, parrebbe, senza alcuna connessione con un’eventuale persistenza o un incremento del lavoro servile. In conclusione la cosiddetta «crisi» dell’economia italica appare essere l’esito tutt’altro che drammatico di quel parziale riequilibrio dei flussi commerciali necessitato dall’esistenza stessa dei tributi provinciali in moneta e delle rendite che l’élite a Roma ricavava dalle sue proprietà in provincia, secondo il meccanismo tasse-commercio illustrato da Keith Hopkins e ulteriormente perfezionato a livello teorico da von Freyberg 43. Questo riequilibrio, comportando un livello più elevato dei prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti in Italia, per la presenza di risorse monetarie e finanziarie maggiori e di una domanda più accentuata, non poteva alla lunga non favorire la delocalizzazione (mi si perdoni l’ovvio anacronismo di una simile denominazione) di alcune produzioni nelle aree provinciali dove i prezzi dei fattori erano meno elevati, favorendo le importazioni in Italia di beni provinciali e rendendo più difficoltosa l’esportazione in provincia dei beni dell’agricoltura specializzata italica e i manufatti, prodotti ad alta intensità di lavoro e capitale 44. In una certa misura la stagnazione poteva essere evitata se cresceva e si diversificava la domanda entro la stessa penisola, attraverso l’ulteriore espansione delle città e dei mercati urbani, e se la tendenza a una riduzione del prodotto marginale del lavoro, effetto dell’incremento della popolazione, veniva neutralizzata, per esemE. Lo Cascio, Considerazioni sul numero degli schiavi e sulle loro fonti di approvvigionamento in età imperiale, in Etudes de démographie du monde gréco-romain. Textes réunis par Wieslaw Suder, Wrocław 2002 (Acta Universitatis Wratislaviensis, ser. Antiquitas 26), 51-65; Id., Thinking slave and free in coordinates, in U. Roth (ed.), By the sweat of your brow. Roman slavery in its socio-economic setting, London 2010, 21-30; si vd. ad es. Chr. Bruun, The Antonine plague and the ‘third-century crisis’, in O. Hekster, G. de Klejin, D. Slootjes (eds.), Crises and the Roman Empire cit. (a nt. 14), 201-217, alle pp. 215217. Una stima piuttosto bassa della popolazione servile dell’Italia è quella implicitamente o esplicitamente proposta da W. Scheidel: si vd. The slave population of Roman Italy: speculation and constraints, in Topoi 9, 1999, 129-44; Human mobility in Roman Italy. II. The slave population, in JRS 95, 2005, 64-79; Real slave prices and the relative cost of labor in the Greco-Roman World, in Ancient Society 35, 2005, 1-17; ma si vd. ora K. Harper, Slavery in the Late Roman World AD 275-425, Cambridge 2011. 43 Hopkins, Taxes and Trade in the Roman Empire, cit., 101-25; Rome, Taxes, Rents and Trade, cit., 41-75; H.-U. von Freyberg, Kapitalverkehr und Handel im römischen Kaiserreich (27 v. Chr.-235 n. Chr.), Freiburg i. B. 1988. 44 Lo Cascio, Forme dell’economia imperiale cit., 358 ss.; Crescita e declino cit., 208-209. 42

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pio, da un incremento della quantità del lavoro prestato all’interno di ogni nucleo familiare (per esempio del numero di ore di lavoro), secondo il meccanismo della «industrious revolution» illustrato di recente per l’Europa moderna da Jan de Vries 45. Ma a lungo andare gli effetti della sovrappopolazione non potevano non farsi sentire. La sovrappopolazione dell’Italia era stata in qualche misura neutralizzata, in una prima fase, oltre che dallo sfruttamento diretto delle province attraverso la riscossione dei tributi in natura, anche dall’importazione di «land-intensive goods» come i cereali, consentita dall’esportazione dei prodotti dell’agricoltura specializzata e dai manufatti. Quando l’Italia comincia a perdere i mercati di sbocco provinciali per le sue produzioni specializzate, non può più importare grano al di là di quello che perviene a Roma come tributo o rendita delle proprietà imperiali. Deve dunque ricorrere a riconversioni agrarie, destinate tuttavia a deprimere la produttività del lavoro agricolo. Ma anche questo processo sembra essere tutt’altro che drammatico e certo non può dirsi concluso con l’età flavia. Mi sembra che un maggiore rilievo lo abbia l’altro processo che si è rapidamente delineato, quello che ho definito dell’articolazione in termini di maggiore complessità della società e dell’economia imperiali. Vi è sempre incombente il pericolo dell’anacronismo quando si parla di ceti medi o di «middle class». Andrà tuttavia osservato che la più recente produzione scientifica sulla povertà oltre che sull’«economic inequality» nelle popolazioni del passato e segnatamente dell’antichità ha chiarito la sostanziale insufficienza di un semplice, e semplicistico, modello binario, che meramente contrapponga ricchi e poveri 46. A dimostrare il rilievo che nella società romana, ancora agli inizi del quarto secolo, aveva quella che è stata definita la «sub elite stratification» 47 vale il dato illuminante anche da questo punto di vista dell’edictum de pretiis, non solo con la grande varietà dell’universo merceologico, destinato a soddisfare i consumi di ceti differenziati, ma soprattutto con la stratificazione abbastanza accentuata delle retribuzioni. Per l’Italia del Principato e segnatamente dell’età flavia vale non solo la ricca documentazione epigrafica, ma il dato offerto dai due catasti, di poco successivi all’età flavia, di Veleia e dei Ligures Baebiani, che, se non sbaglio, attestano un continuum nelle fortune fondiarie dei proprietari coinvolti nel programma alimentare, non una netta polarità, e proprio come esito di un lungo processo di accorpamento e di suddivisione dei fon-

45 J. De Vries, The Industrious Revolution. Consumer behavior and the household economy, 1650 to the present, Cambridge 2008. 46 W. Scheidel, Stratification, deprivation and quality of life, in M. Atkins, R. Osborne (eds.), Poverty in the Roman World, Cambridge 2006, 40-59; Scheidel, Friesen, The size of the economy and the distribution of income cit. (a nt. 4) e la lett. ivi cit.; e W. V. Harris, Rome’s Imperial Economy. Twelve essays, Oxford 2011, 31-32. 47 Scheidel, A model of real growth cit. (a nt. 10).

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di 48. L’impero dei Flavi non testimonia solo l’avvento di una nuova dinastia, ma di nuovi ceti e di nuovi modelli di ascesa sociale e, in conclusione, di un’economia più complessa e di una società più stratificata. Elio Lo Cascio Sapienza Università di Roma

48 Si vd. R. Duncan-Jones, The economy of the Roman Empire. Quantitative Studies, Cambridge 1974, p. 336 (Appendix 4).

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Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien

Le mot «marché» peut prendre plusieurs sens. D’une part, il est utilisé en un sens concret, pour désigner une place commerciale, un lieu où se réunissent des commerçants, des producteurs et des consommateurs, en vue de l’achat et/ou de la vente de marchandises. D’autre part, en un sens abstrait, il désigne un espace dans lequel les prix se déterminent notamment sur la base de l’ensemble de l’offre et de la demande, dans le cadre d’une concurrence généralement très imparfaite. Pour l’Antiquité romaine, les marchés concrets et abstraits, dans la plupart des cas, ne peuvent guère être analysés à partir de la même documentation. Pour ce qui concerne les places commerciales, d’ailleurs mal connues, les documents sont avant tout textuels ou épigraphiques. Á l’inverse, l’ampleur des transactions, la localisation des flux commerciaux, l’éventuelle existence d’un marché abstrait, pour tel ou tel produit particulier, sont principalement déterminés sur la base de données de archéologiques, - même si, évidemment, il est bon de ne négliger ni les textes littéraires et juridiques, ni les inscriptions. Quand on étudie les marchés (aussi bien concrets qu’abstraits) en relation avec un souverain (dans notre cas, Vespasien) ou avec une dynastie (les Flaviens), une question vient tout de suite à l’esprit: quelle influence cet Empereur ou cette dynastie ont-ils eue sur les marchés? C’est la question que je me suis posée. Nous verrons quelle réponse lui apporter. Dans le cas de Vespasien, la question mérite d’autant plus d’être posée que, selon les témoignages des Anciens, et notamment selon Suétone, il était très cupide, très soucieux d’enrichissement, et que cette cupidité, encore stimulée par la relative modestie de son patrimoine, l’a incité à s’occuper de commerce, d’une manière ou d’une autre. Après avoir été consul et avoir gouverné la province d’Afrique, et alors qu’il n’était pas encore Empereur, il mena, selon Suétone, des activités commerciales, mangonici quaestus (chose qui, selon moi, n’était pas habituelle pour un sénateur, quoi qu’en disent certains 15

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logues et historiens) 1. Il y gagna le surnom de mulio (ces éléments de vocabulaire sont susceptibles de désigner soit un commerce de bêtes de somme, soit un commerce d’esclaves) 2. Plus tard, au cours de son principat, il se livra à des affaires qui, selon Suétone, étaient considérées comme honteuses, même de la part de quelqu’un qui ne fût pas Empereur. Il s’agissait d’acheter des marchandises en gros afin de les revendre ensuite plus cher au détail. Le verbe employé par Suétone, coemere, suggère qu’il s’agissait d’accaparement 3. Etait-ce à cause de sa cupidité naturelle qu’il mena une politique fiscale particulièrement exigeante, ou à cause de la pauvreté du Trésor public au début de son règne? Selon Suétone, les opinions des contemporains se divisaient sur ce point, mais Suétone écrit que lui-même est plus favorable à la seconde explication (les difficultés du Trésor public) qu’à la première 4. Est-ce que l’action officielle de Vespasien en matière de commerce, en tant qu’Empereur, rappelle, d’une façon ou d’une autre, l’attirance qu’exerçaient sur lui l’enrichissement, les affaires, et notamment l’activité commerciale? Quoi qu’il en soit, il faut d’abord insister sur le fait qu’il y a un net décalage chronologique entre l’histoire politique de l’Empire et des Empereurs et la documentation disponible en matière économique. Ce décalage est souvent observé quand on s’appuie sur une documentation archéologique. En effet, si la céramique et les amphores sont beaucoup mieux datées actuellement qu’il y a trente ou quarante ans, il reste très difficile de distinguer les vases et les amphores fabriqués pendant le règne de Vespasien de ceux qui datent des règnes de Titus ou de Domitien. D’ailleurs, le même décalage chronologique existe pour beaucoup d’inscriptions et même pour une partie des textes littéraires et juridiques: si les tablettes des cités du Vésuve sont précisément datées, et si certains textes renvoient à des situations précises et limitées dans le temps (qu’on songe aux édits de Domitien sur les vignes) 5, d’autres ne peuvent pas se dater précisément, ou concernent des périodes de temps beaucoup plus longues que le règne d’un seul Empereur. C’est assez souvent le cas des textes à caractère économique ou social.

1 Voir à ce propos J. Andreau, L’Economie du monde romain, Paris, 2010, pp. 26-34; et A. Tchernia, Les Romains et le commerce, Napoli et Aix-en-Provence, 2011, notamment 19-55 et 199-228. 2 Suét. Vesp. 4.6. 3 Suét. Vesp. 16.2 (negotiationes quoque vel privato pudendas propalam exrcuit, coemendo quaedam tantum ut pluris postea distraheret). 4 Suét. Vesp. 16. 5 Je reviendrai plus loin sur les mesures de Domitien concernant les vignes; certains pensent qu’elles ont fait l’objet d’un seul édit, et d’autres, par exemple A. Tchernia, de deux édits distincts; je me rallie à cette seconde interprétation. Voir Tchernia, Le Vin de l’Italie romaine, Essai d’histoire économique d’après les amphores, Roma 1986, 221-233.

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Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien

Cet article se compose de quatre parties. La première traite des marchés concrets à l’époque flavienne (marchés permanents, marchés périodiques, foires). La deuxième s’efforcera de montrer que les grandes évolutions commerciales, relatives à des marchandises vendues dans l’ensemble de l’Empire romain ou dans de larges régions de l’Empire, se sont poursuivies à l’époque flavienne, ou même ont pu s’accentuer à cette époque, mais sans mutations décisives. La troisième s’intéresse à trois ou quatre épisodes ou anecdotes qui, me semble-t-il, nous fournissent quelques indications sur les marchés abstraits, et sur la manière dont un Empereur romain intervenait en matière commerciale (et, plus largement, dans les secteurs économiques extérieurs à l’agriculture). Enfin, la dernière partie concerne l’exploitation des mines, dont l’évolution, au Ier siècle ap. J.-C., a récemment fait l’objet de débats intéressants. *** Dans le monde romain, comme chacun sait, les marchés permanents (c’est-à-dire plus ou moins quotidiens) se tenaient sur le forum de la cité, ou bien dans un édifice spécifique, que les Latins appelaient macellum 6. Dans la Vie d’Agricola, Tacite écrit qu’Agricola poussait les indigènes à construire des temples, des maisons (domus) et des fora, - c’est-à-dire des espaces publics qui constituaient le centre des cités, et qui étaient, en même temps, le lieu du marché 7. Mais même si Agricola a vécu à l’époque flavienne, une telle action n’était certainement pas spécifique de la seconde moitié du Ier siècle ap. J.-C. Selon toute probabilité, elle a déjà été pratiquée auparavant, et a continué à être pratiquée par la suite. Dans la ville de Rome elle-même, quant aux marchés permanents, trois nouveautés ont marqué l’époque augustéenne et le premier siècle ap. J.-C., mais toutes les trois avant l’avènement de Vespasien: la construction du Macellum Liviae, sur l’Esquilin; celle du Macellum Magnum, qui fut ouvert en 59 sur le Caelius; la destruction du vieux macellum républicain, probablement à la suite de l’incendie de 64 ap. J.-C. Á l’époque flavienne, deux macella étaient en fonctionnement, celui de Livie et le Macellum Magnum. Les nundinae, les marchés périodiques, sont mal connues. La documentation les concernant est sensiblement plus abondante dans trois régions de l’Empire: l’Italie centro-méridionale tyrrhénienne (Latium et Campanie) au Ier siècle ap. J.-C.; l’Afrique proconsulaire, la Numidie et la province d’Asie aux deuxième

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Cl. De Ruyt, Macellum, Marché alimentaire des Romains, Louvain-la-Neuve 1983. Tac. Agr. 21.1.

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et troisième siècles ap. J.-C. 8 Pour l’Italie, les marchés périodiques sont connus par deux groupes de documents, tous les deux antérieurs à l’époque de Vespasien: les listes de marchés, que les modernes ont appelées indices nundinarii, qui remontent aux règnes d’Auguste ou de Tibère et ont été probablement liées à une nouveauté s’étant produite à cette époque 9; les tablettes de Pompéi (celles de Lucius Caecilius Jucundus et celles des Sulpicii), qui datent de l’époque julio-claudienne 10. Parmi les problèmes que posent les nundinae d’Italie, il y a celui de leur fréquence. J’ai réuni quelques indices qui paraissent indiquer qu’à l’époque des tablettes des cités du Vésuve, les nundinae avaient lieu une fois par semaine, et non plus chaque période de huit jours (chaque ogdoade), selon la vieille tradition romaine 11. G. Camodeca, à partir de l’examen des dates de ventes aux enchères dans les tablettes de Murecine, a confirmé cette impression et s’est prononcé clairement en faveur d’une fréquence hebdomadaire. Je suis évidemment d’autant plus convaincu par ses analyses que j’étais parvenu, de mon côté, à un résultat semblable, mais à partir d’une documentation moins abondante et plus douteuse. En effet, je m’appuyais, pour certaines tablettes de Murecine, sur la lecture, souvent très fautive, des prédécesseurs de G. Camodeca, C. Giordano et Fr. Sbordone; et d’autre part, G. Camodeca a publié des tablettes qui n’avaient pas été lues avant lui. Si les nundinae d’Italie étaient déjà hebdomadaires à l’époque de Claude et de Néron, les listes qui nous ont été transmises, les indices nundinarii, pourraient être contemporaines de l’époque où l’on est passé du vieux système au nouveau. En effet, certains de ces indices font allusion aux deux systèmes à la fois, le système des sept jours et celui des huit jours. Notre documentation sur les foires est particulièrement limitée, surtout dans la partie latine de l’Empire. La majeure partie des foires concernaient très probablement le bétail, et avaient lieu deux fois par an, au printemps et en automne. La seule que nous connaissions un peu plus, en Italie, est celle des Campi Macri, près de Modène, dont Varron parle dans son traité sur l’agriculture. Mais elle a disparu Voir par exemple J. Nollé, Nundinas instituere et habere, Zurich-New York 1982; et E. Lo Cascio (a cura di), Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Bari 2000. 9 A. Degrassi, Inscriptiones Italiae, XIII, Deuxième partie, Roma 1963. 10 Voir J. Andreau, Les Affaires de Monsieur Jucundus, Roma 1974; et G. Camodeca, Tabulae Pompeianae Sulpiciorum, 2 vol., Roma 1999. 11 Voir Andreau, Pompéi: enchères, foires et marchés, in BSAF 976, 104-127; Id., Les marchés hebdomadaires de Latium et de Campanie au 1er siècle ap. J.-C., in E. Lo Cascio (a cura di), Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Bari, 2000, 69-91. Voir aussi A. Ziccardi, Il Ruolo dei circuiti di mercati periodici nell’ambito del sistema di scambio dell’Italia romana, ibid., 131-148. Pour des hypothèses relativement voisines, voir A. Storchi Marino, Reti interregionali integrate e circuito di mercato periodico negli Indices nundinarii del Lazio e della Campania, ibid., 93-130. 8

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Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien

à l’époque julio-claudienne, à moins qu’elle n’ait été déplacée à Crémone, où nous entendons parler d’une foire au moment de la guerre civile de 68-69 ap. J.-C. *** Dans la deuxième partie de cet article, je voudrais faire quelques remarques sur les relations entre d’une part l’époque flavienne et l’action des Empereurs flaviens, et, d’autre part, certains flux commerciaux qui, désormais, sont assez bien connus. Chaque marchandise a une diffusion spécifique, et ce qu’on sait de l’huile, par exemple, ne vaut pas pour la céramique ou pour les métaux. D’autre part, beaucoup d’échanges commerciaux se faisaient d’une province à une autre, de telle sorte que la diffusion complète des divers produits à travers l’Empire dans son ensemble constitue un écheveau extrêmement complexe, dont, pour l’instant, une très petite partie peut être démêlée. Mais les historiens et archéologues se sont particulièrement intéressés aux relations commerciales entre l’Italie et les provinces occidentales, à partir des épaves de navires et des fouilles terrestres, notamment celles de Rome et d’Ostie. Quant aux marchandises que nous connaissons le mieux grâce à l’archéologie, c’est-à-dire les produits transportés en amphores et la céramique de table, on observe depuis longtemps une forte évolution des courants commerciaux. Á la fin de la République et à l’époque augustéenne, les produits italiens se rencontraient non seulement en Italie, mais dans les diverses provinces, et même dans des régions qui ne faisaient pas encore partie de l’Empire. Á partir de la dernière partie du règne d’Auguste, les choses changent sensiblement. Je prends, très brièvement et schématiquement, deux exemples, ceux de la céramique de table et de l’huile. Sous le règne d’Auguste, la sigillée italienne, dont la variété la mieux connue est l’arétine, et qui était principalement fabriquée en Italie, même si certains ateliers se trouvaient en Gaule (à Lyon), était vendue en grandes quantités en dehors d’Italie. On en trouvait sur toutes les côtes de la Méditerranée (mais surtout en Méditerranée occidentale), ainsi que dans diverses régions de Gaule, dans les provinces alpines, sur la rive droite du Danube et même sur la côte méridionale de la Bretagne (l’Angleterre actuelle). Á partir de 15 ap. J.-C., sa diffusion se restreint sensiblement. On n’en trouve plus en Bretagne. Dans les Gaules, elle n’est plus diffusée que sur l’axe Rhône-Saône-Rhin. Á partir de 50 ap. J.-C., l’italique tardive, qui a succédé à l’arétine, ne se rencontre plus dans les régions voisines du limes. Autour des années 70 et 80 ap. J.-C., elle n’est plus vendue en Afrique du Nord, et, à l’inverse, la sigillée claire A, fabriquée en Afrique proconsulaire, commence à se rencontrer en Italie. Dans la première moitié du IIe siècle, la tardo-italique ne se rencontre plus nulle part, sauf en Italie.

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L’évolution est en gros comparable dans le cas de l’huile, même si l’huile italienne n’a jamais été vendue en dehors d’Italie aussi massivement que l’arétine ou que le vin de l’époque des amphores Dressel 1. Á la fin de la République, l’huile de Campanie était la plus renommée d’Italie. D’autre part, les amphores de Brindes, qui contenaient l’huile produite en Apulie, étaient exportées en dehors d’Italie et six cents manches de ces amphores, munis de marques, sont conservés au Musée d’Alexandrie. D’autres amphores à huile, par exemple les amphores républicaines dites ovoïdales, étaient exportées elles aussi. Après leur disparition à l’époque d’Auguste, l’huile d’Istrie, contenue dans les amphores Dressel 6B, a été largement diffusée jusqu’à la première moitié du IIe siècle, mais non pas en Méditerranée, - à Magdalensberg et en direction du Danube. Á la même époque, certaines provinces ont bien davantage contribué à l’approvisionnement en huile des sites d’Italie centrale, et tout particulièrement de Rome: la Bétique (avec les amphores Dressel 20), et ensuite la Tripolitaine, l’Afrique proconsulaire et la Maurétanie. Selon William Harris, à l’époque des Empereurs flaviens, l’huile d’Afrique proconsulaire était davantage vendue en Italie, à cause de la distance, relativement réduite. Je ne cherche ici à m’interroger ni sur la signification de cette évolution, ni sur ses causes 12. Je souhaite seulement parvenir à une conclusion sur l’époque flavienne, et notamment sur celle de Vespasien. Certes, durant le règne de Vespasien, la sigillée claire A, de fabrication africaine, semble pénétrer en Italie. Et, au cours de l’époque flavienne, l’huile africaine est davantage vendue sur les marchés italiens. Mais il est facile de comprendre que de tels phénomènes font partie d’une évolution à long terme. Même de façon indirecte, elle n’est liée ni à l’histoire politique et événementielle des règnes des Flaviens, ni a fortiori à leur personnalité et à leur politique. Si cette évolution doit être mise en relation avec la fiscalité, comme K. Hopkins et H. U. von Freyberg ont cherché à le montrer, on comprend qu’elle se soit produite de façon continue et qu’elle se soit même accentuée de demi-siècle en demi-siècle. Avec une telle évolution, nous nous situons dans le cadre d’un temps beaucoup plus long que celui des règnes. En ce cas, le décalage chronologique n’est pas seulement dû aux limites de la documentation; il est dû également à la nature même du phénomène. ***

12 Sur ces questions, voir J. Andreau, Mercati e mercato, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, II, 2, L’Impero mediterraneo. I principi e il mondo, Torino 1991, 367-385; Andreau, L’Italie impériale et les provinces, Déséquilibre des échanges et flux monétaires, in L’Italie d’Auguste à Dioclétien (ouvrage collectif), Roma 1994, 175-203; et Andreau, L’Economie, cit., 185-193.

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Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien

Je voudrais maintenant parler de certains épisodes précis et de certains aspects déterminés de la politique des Empereurs flaviens – épisodes et aspects qui me paraissent significatifs de l’attitude des Empereurs par rapport à l’économie commerciale et aux marchés. Un groupe de textes, très connus et cités, ont donné lieu, dans les années 1970, à des débats en rapport avec l’histoire économique et, plus ou moins directement, avec les marchés (concrets et abstraits). Le premier de ces textes concerne Vespasien. Suétone raconte qu’un mechanicus, un technicien, un ingénieur, avait promis à l’Empereur de lui procurer le moyen de transporter de lourdes colonnes jusqu’à la cime du Capitole, à un coût très bas. Nous ne savons rien du procédé qu’il préconisait. Selon Suétone, Vespasien lui a donné une forte récompense (praemium non mediocre), mais refusa d’appliquer la technique qu’il proposait, en ajoutant qu’il lui appartenait de donner à manger à la plèbe (plebiculam pascere) 13. Dans les années 1960 et 1970, ce texte a été commenté à plusieurs reprises, dans le cadre de la controverse entre primitivistes et modernistes. Les Grecs et les Romains entreprenaient-ils, ou même envisageaient-ils, de promouvoir de grands programmes de travaux publics avec l’objectif de combattre le chômage, et même de donner un nouveau dynamisme à l’économie? Ou bien non? Contre H. Boren, qui s’inspirait de John M. Keynes et répondait affirmativement à ces questions, sans grand souci des nuances, G. Bodei Giglioni, dans un livre très intéressant et un peu trop oublié, a étudié la question de manière approfondie 14. Selon elle, l’anecdote de Vespasien et du mechanicus est un des très rares cas dans lesquels il est sûr qu’un souverain antique ait eu conscience que les travaux publics lui permettaient de donner du travail à la plèbe. Mais, après son livre, plusieurs commentateurs de Suétone et plusieurs spécialistes de Vespasien ont conclu que cette histoire était tout à fait invraisemblable et fausse. Il est certes impossible de savoir si Vespasien a vraiment prononcé cette phrase ou non, et il est même impossible de savoir si le mechanicus est venu le trouver ou non. En un certain sens, peu importe. Selon moi, si Suétone avait considéré l’histoire comme invraisemblable, par exemple parce que tous les ouvriers des chantiers de travaux publics étaient des esclaves, il ne l’aurait pas racontée. Le mot plebicula montre d’ailleurs que certains artisans et ouvriers des chantiers étaient libres (ingénus ou affranchis) et que Vespasien n’était pas indifférent à leur sort. Même si l’anecdote cherche à mettre en valeur la générosité de Vespasien à l’égard Suét. Vesp. 18.2. G. Bodei Giglioni, Lavori pubblici e occupazione nell’Antichità classica, Bologne, 1974. Voir à son propos J. Andreau, Compte rendu de Gabriella Bodei Giglioni, Lavori pubblici e occupazione nell’Antichità classica, Bologna, 1974, in REA 82, 1980, 323-327; et J. Andreau, Echanges antiques et modernes (du présent faisons table rase?), in Les Temps Modernes 35, 410, septembre 1980, 412-428. 13 14

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des artistes et des techniciens, elle met également en relief le cas qu’il faisait des milieux modestes de la ville. Une telle attitude fait partie de ce que les Latins appelaient les libéralités de l’Empereur. Par le biais de ces libéralités, l’Empereur prenait soin de la société dans son ensemble et même de l’économie de l’Empire. Chacun devait trouver sa propre place, chacun devait pouvoir travailler, être payé, acheter des marchandises pour se nourrir, et ainsi la société dans son ensemble fonctionnait. Cette sollicitude, ces soins, que le Latins exprimaient par un vocabulaire relevant de l’évergétisme, faisaient partie de la mission de l’Empereur, de ses devoirs, de ses officia à l’égard des citoyens romains, et même à l’égard de tous les habitants libres de l’Empire. Un autre passage de Suétone, moins commenté, mais très intéressant lui aussi, a une signification comparable. Le biographe raconte que Vespasien organisait de grands dîners très coûteux et formels, ut macellarios adiuvaret, pour aider les commerçants du macellum. Je n’ai pas mentionné ce texte dans le paragraphe relatif au macellum, même s’il confirme que le macellum était un lieu où l’on pouvait acheter des produits alimentaires de grand prix, par exemple des viandes et des poissons (chose bien connue par ailleurs). Mais ce texte me semble intéressant, non pas tellement comme un signe du populisme de Vespasien, mais plutôt parce qu’il révèle le souci qu’il avait de tous les milieux sociaux de la population de la ville, et surtout le cas qu’il faisait de l’approvisionnement de cette population. Au texte sur le mechanicus du Capitole, nous pouvons ajouter le groupe de textes sur les édits de Domitien relatifs aux vignes. En effet, eux aussi ont été beaucoup commentés au cours des années 1970 et 1980, et eux aussi sont plus ou moins directement liés à l’existence des marchés, au sens abstrait du mot. La phrase sur le mechanicus est liée au marché du travail; les passages sur l’édit, eux, sont liés aux marchés du vin et du grain. André Tchernia a expliqué que les textes disponibles concernaient deux édits différents de Domitien 15. Le premier, qui remonterait à 91 ou à 92 ap. J.-C., interdisait de planter des vignes à l’intérieur des villes (in urbibus). Le second, qui semble postérieur mais dont la date n’est pas connue, interdisait de planter de nouvelles vignes en Italie et exigeait que la moitié au moins des vignes déjà plantées dans les provinces fût arrachée (utque in provinciis vineta succiderentur, relicta ubi plurimum dimidia parte) 16. Dans l’étude d’un tel épisode, il faut respecter deux principes de méthode, sur lesquels insiste A. Tchernia à juste titre. Le premier est de prêter la plus grande attention à la lettre des textes, au lieu de les réfuter ou de leur substituer d’autres interprétations, qui n’y sont pas suggérées. Le second consiste à distinguer les 15 16

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Suét. Dom. 7.2; Stat. Silv. 4.3.11-12; Philostr. Vit. Apoll. 6.42; et Philostr. Vit. Soph. 580. Tchernia, Le Vin, cit., 221-233.

Le Marché et les marchés à l’époque de Vespasien

phénomènes durables de ceux qui dépendaient d’une conjoncture à court terme. Suétone écrit: ad summam quondam ubertatem vini, frumenti vero inopiam. C’est-à-dire: alors qu’une certaine année, il y avait une grande abondance de vin et une pénurie de grain. Il évoque une situation précisément située dans le temps (même si nous n’en connaissons pas la date exacte), et non pas une crise chronique. D’autre part, l’édit, qui, dans la Vie de Suétone, fait partie du paragraphe «Vie quotidienne» (in communi rerum usu, écrit Suétone), est en rapport avec le moralisme de Domitien, avec son goût pour la répression morale, qui se manifesta tout particulièrement en matière sexuelle et contre le luxe. Stace voit dans cet édit un éloge de la sobriété et une réaction contre la manière dont on traitait la déesse Cérès. Philostrate, comme Stace, y voit une attaque contre le goût du vin et contre des habitudes de vie trop laxistes. Mais ce second édit a-t-il été appliqué? Le rhéteur Scopélianos de Smyrne s’adressa à l’Empereur au nom du commune Asiae, et le convainquit de ne pas faire arracher les vignes dans les provinces. Dans les Gaules, Chr. Goudineau dit que la production de vin a beaucoup augmenté au cours du Ier siècle ap. J.-C., et qu’aux alentours du milieu du siècle, de grands bâtiments pour le stockage des amphores à vin ont été construits dans certaines villas. Après le règne de Domitien, il semble que la production de vin ait continué à progresser, de manière considérable, de telle sorte qu’on peut penser que l’édit n’a pas été appliqué en Gaule. De toute façon, Suétone écrit: nec exequi rem perseveravit, ce qui montre qu’il n’a été appliqué nulle part. D’ailleurs, si l’on y réfléchit, on comprend qu’il était très difficile à appliquer. Il faut conclure que l’édit avait résulté d’une ou plusieurs années de vendanges surabondantes et d’une ou plusieurs mauvaises récoltes de blé. Il montre la vitalité de la viticulture, aussi bien en Italie que dans les provinces. L’avantage concédé à l’Italie est à mettre en relation avec son statut privilégié, ce qui constitue une forme indirecte de protectionnisme, mais ne résulte pas de choix explicitement protectionnistes. *** Quoique l’exploitation des mines appartenant à la cité romaine, ou, plus tard, sous l’Empire, au fisc, relève avant tout de l’administration des biens d’Etat, et non pas des marchés, je voudrais faire état d’une nouvelle interprétation défendue il y a quelques années par le juriste Antonio Mateo 17. En effet, cette nouvelle thèse n’est pas sans répercussions sur la destination des métaux, et donc sur le rôle at17 A. Mateo, Observaciones sobre el regimen jurídico de la minería en tierras públicas en época romana, in Cuadernos compostelanos de derecho romano 12, 2001.

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tribué au marché des métaux. Elle ne concerne évidemment que les mines que l’Etat donnait en adjudication à des privés. Elle ne s’applique donc pas à celles que, sous le Principat, l’Empereur exploitait directement, comme les mines d’or du Nord-Ouest de l’Espagne, dont tous les spécialistes pensent qu’elles n’étaient pas adjugées. Dans son gros ouvrage sur les mines, Cl. Domergue avait conclu que les sociétés de publicains intervenaient sous la République dans l’exploitation des mines de la péninsule ibérique et que, sous l’Empire, en particulier à Vipasca, dominait un régime «partiaire» 18. Dans ce régime partiaire, l’adjudicataire de la concession minière devait donner à l’Etat, représenté par un procurateur, la moitié du métal obtenu. Au terme d’une analyse juridique très fouillée, Antonio Mateo conclut d’une part qu’à l’époque républicaine, les sociétés de publicains se bornaient à collecter les redevances dues à l’Etat et que seuls des privés se chargeaient de l’exploitation proprement dite des mines. Dans les tables de Vipasca, le débat tourne autour de 1’interprétation de ce que le texte appelle la pars dimidia ad fiscum pertinens. Selon A. Mateo, le concessionnaire de la mine achetait la pars dimidia qui appartenait au fisc, à un prix fixé par l’autorité publique d’après la richesse de la concession. Une fois qu’il l’avait achetée, il exploitait librement la concession, et le métal lui revenait. C’est donc un régime de concession-vente, dans lequel le versement de la moitié du métal n’a plus sa place. Ce régime est très proche de celui qu’A. Mateo retient pour l’époque républicaine, mais il y a cependant quelques différences. En particulier, les publicains disparaissent complètement, même dans le rôle de collecteurs de redevances qu’ils avaient sous la République d’après A. Mateo. Dans les deux cas, si je comprends bien, les concessionnaires achètent la concession et n’ont plus, par la suite, à verser de métal à l’Etat. Une réorganisation administrative était cependant nécessaire, et A. Mateo attribue cette réorganisation à Vespasien. Á vrai dire, il n’a pas de preuves que Vespasien en soit l’auteur, mais ce sont plutôt les vraisemblances qui l’orientent vers ce choix. Quoique les idées d’A. Mateo diffèrent nettement de celles que Cl. Domergue avait précédemment défendues, à la fois sur le rôle des publicains sous la République et sur le régime de concession-vente, c’est-à-dire sur des points importants, Cl. Domergue s’est rallié aux conclusions d’A. Mateo dans un article des Mélanges de la Casa de Velazquez 19. Si ces conclusions sont justes, ce dont, à vrai dire, je ne suis pas complètement sûr, elles impliquent que l’Etat ou l’Empereur ne reçoivent pas de métal des mines Cl. Domergue, Les Mines de la péninsule ibérique dans l’Antiquité romaine, Rome, E.F.R., 1990. Cl. Domergue, Le régime juridique des mines du domaine public à Rome. A propos d’un livre récent, in MCV 34, 2004, 221-236. Voir aussi Idem, Les Mines antiques, La Production des métaux aux époques grecque et romaine, Paris 2008. 18 19

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ainsi organisées, mais une somme d’argent monnayé, et que le métal soit entièrement versé dans le commerce libre par les concessionnaires. Au contraire, selon l’ancienne thèse de Cl. Domergue, une moitié du métal extrait entrait en possession de l’Etat ou de l’Empereur 20. Vespasien n’a pas créé ce système, qui existait avant lui; mais il l’a renforcé, il l’a conforté en réorganisant, selon A. Mateo, la gestion des mines. Il faut supposer que les métaux extraits des mines que l’Empire exploitait en régie directe suffisaient à ses besoins, ou qu’il concluait des arrangements avec les adjudicataires, ou bien qu’il achetait du métal dans le cadre du commerce libre, ce qui n’est pas sans conséquences quant au marché des métaux. *** L’Empereur avait un double statut. D’une part, c’était un important membre de l’élite, le plus important des membres de l’élite, et, à ce titre, il était à la tête d’un patrimoine qu’il devait gérer et faire gérer. C’était donc, à ce titre, un acteur de la vie économique. En tant qu’Empereur, il n’était pas un acteur de la vie économique, il en était un observateur attentif, un arbitre, et aussi une sorte de meneur de jeu et de gendarme. En tant qu’Empereur, il devait d’abord veiller aux besoins et aux impératifs de la cité et de l’Empire, en tant que puissance publique. D’autre part, comme je l’ai souligné ailleurs, il ne se situait pas par rapport à la vie économique dans sa globalité, il se situait par rapport à certains secteurs qui, pour nous, font partie de l’économie, comme par exemple le secteur agricole et foncier, ou par rapport à des problèmes tels que celui de l’approvisionnement, et surtout l’approvisionnement de la ville de Rome 21. Les problèmes agraires et le secteur agricole tenaient une place à part dans la pensée et l’activité des Anciens, une place différente de celle du commerce, de la fabrication et de la vie financière. Si la cité, puis l’Empire romain n’avaient pas à proprement parler de politique économique, ils avaient une politique agraire. En pratique, les deux statuts de l’Empereur se mélangeaient, et parfois très intimement. Par exemple, les mines dont l’Empereur était propriétaire faisaient partie de son patrimoine, et, en même temps, elles faisaient partie des ressources nécessaires à Rome en tant qu’Etat, par exemple pour la frappe des monnaies. Mais, pour comprendre le rôle de l’Empereur, il faut séparer ses deux statuts, du point de vue logique. L’organisation de l’Etat romain et le comportement des Empereurs se comprennent bien mieux si l’on fait la part de ces deux statuts. Ces brèves idées générales permettent notamment de mieux comprendre la politique de Vespasien, qui s’inscrivit lui aussi dans ce système impérial. Elles per20 21

Cl. Domergue, La Mine antique d’Aljustrel (Portugal) et les tables de bronze de Vipasca, Paris, 1983. Andreau, L’Economie, cit., Paris, 201-216.

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mettent par exemple d’expliquer les différences entre une contribution telle que celle de Dennis P. Kehoe dans ce volume et la mienne. Dans la documentation disponible, il y a beaucoup plus d’éléments relatifs à la politique agraire de Vespasien et à sa politique de l’approvisionnement que sur les marchés, concrets ou abstraits. Ce n’est pas un hasard. Dans les versants commerciaux et financiers de l’économie (telle que nous la définissons), les pouvoirs publics romains intervenaient beaucoup moins, comme meneurs de jeu et même comme arbitres, que dans le secteur agraire et dans les problèmes d’approvisionnement de la ville de Rome.

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Jean Andreau Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris

Der AnschluSS der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian und ihre Restrukturierung unter den Flaviern

Die Akklamation Vespasians durch die Truppen Ägyptens am 1. Juli des Jahres 69 n. Chr. sowie durch die Truppen in Syrien und Iudaea am folgenden Tag war eine wohl vorbereitete Inszenierung 1. Intensive Überlegungen und Verhandlungen mit potentiellen Unterstützern waren der Aktion vorausgegangen, ohne dass dies alles im Detail überliefert wäre. Die Verhandlungen dienten in erster Linie dazu, die militärische Macht, die für die Auseinandersetzung mit Vitellius nötig war, abzusichern. Dass Syrien und Ägypten, die beiden einzigen transmarinae provinciae mit Legionsbesatzung, dabei eine entscheidende Rolle spielen mussten, und damit auch ihre damaligen Statthalter, C. Licinius Mucianus und Ti. Iulius Alexander, ergab sich aus der Sache. Doch es ging von Anfang an nicht nur um die militärische Macht, wichtig waren, neben der politischen Unterstützung durch die Statthalter, der Anschluss möglichst vieler führender Familien der Provinzstädte an Vespasian und seine Partei sowie die Bereitstellung der wirtschaftlichen und finanziellen Ressourcen für die Kriegsführung. All dies aber konnten auch Provinzen liefern, in denen keine oder fast keine Truppen stationiert waren. Im näheren Einzugsbereich der ursprünglichen Machtbasis Vespasians im Osten waren dies in erster Linie die bevölkerungsreichen und finanzstarlen kleinasiatischen Provinzen. Es wäre mehr als verwunderlich, wenn Vespasian und seine Berater nicht bereits in der Vorbereitungsphase der Akklamation versucht hätten, diese Regionen für den geplanten Putsch zu gewinnen.

1 Siehe z.B. G. de Kleijn, C. Licinius Mucianus, leader in time of crisis, in Historia 58, 2009, 311325. - Allgemein zur hier behandelten Problematik D. Magie, Roman Rule in Asia Minor to the end of the third century after Christ, Princeton 1950; E. Dabrowa, L’Asie mineure sous les Flaviens: recherches sur la politique provinciale, Warschau 1980. Wesentlich überholt ist die von Anfang an problematische Arbeit von B. Kreiler, Die Statthalter Kleinasiens unter den Flaviern, Diss. München 1975. Ferner B. Levick, Vespasian, London 1999.

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Werner Eck

1. Der schnelle Anschluss der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian im Jahr 69 Diese frühzeitigen Versuche und deren Erfolg lassen sich mit ziemlicher Deutlichkeit nachweisen. Denn in zweien der kleinasiatischen Provinzen finden sich epigraphische Zeugnisse, die eine Besonderheit im Namen Vespasians aufweisen, die sonst nirgendwo im Imperium zu finden ist. Vespasians Kaisername, wie wir ihn etwa dem frühesten uns bisher bekannten offiziellen Dokument aus der kaiserlichen Kanzlei, einer Bürgerrechtskonstitution vom 26. Februar des Jahres 70, entnehmen können, lautet 2: Imp. Vespasianus Caesar Augustus, was bald darauf zu der dann durchgängigen Form Imp. Caesar Vespasianus Augustus verändert wurde. Doch in insgesamt sechs Inschriften in verschiedenen Städten Lykiens sowie Pamphyliens erscheint im Namen Vespasians sein bisheriges, sonst aber in seiner Nomenklatur nie mehr verwendetes Gentilnomen Flavius 3. Es sind folgende Zeugnisse: Aujtokravtwr Kai``sar Flavouio~ Oujespasiano;~ Sebastov~ in einer Thermenbau-

inschrift aus Patara in Lykien 4; der Name Vespasians ist dort an die Stelle des eradierten Namen Neros gesetzt 5.

Aujtokravtwr Kai``sar Flavouio~ Oujespasiano;~ Sebastov~ auf der Inschrift einer

Druckrohrohrleitung ebenfalls aus Patara 6.

Aujtokravtwr Kai``sar Flavouio~ Oujespasiano;~ Sebastov~ in der Bauinschrift der Thermen in Olympos, ebenfalls in Lykien 7. Aujtokravtwr Kai``sar Flavouio~ Oujespasiano;~ Sebastov~, ebenfalls auf einer

Thermenbauinschrift aus Kadyanda in Lykien 8.

RMD III 203= AE 1997, 1771. Überraschenderweise wird dieses Gentile nach dem Tod Vespasians für Titus in mehreren Inschriften im Osten des Reiches wiederaufgenommen, ohne dass man dafür einen Grund sehen kann: Delphi: BCH 1944, 122,35 (2 Texte); Stratonikeia: M. C. S¸ahin, Die Inschriften von Stratonikeia, Bonn 1982, Nr. 1007; Myra: IGR III 723; Rhodos: IG XII 1, 58. 4 IGR III 659 = TAM II 396. 5 Die Titulatur Neros ist aber größtenteils noch lesbar, was bisher übersehen wurde; siehe W. Eck, Die Bauinschrift der neronischen Thermen in Patara. Zur methodischen Auswertung einer partiell eradierten Inschrift, in ZPE 166, 2008, 269 ff. 6 H. I˙s¸kan-Is¸ik, W. Eck, H. Engelmann, Der Leuchtturm von Patara und Sex. Marcius Priscus als Statthalter der Provinz Lycia von Nero bis Vespasian, in ZPE 164, 2008, 91 ff. 7 B. I˙plikçiog˘ lu, Zwei Statthalter vespasianischer Zeit und die „Große“ Therme in Inschriften von Olympos (Lykien), in Anzeiger der philosophisch-historischen Klasse der Österreichischen Akademie der Wissenschaften 141/2, Wien 2006, 75 ff.; vgl. ders., Die Provinz Lycia unter Galba und die Gründung der Doppelprovinz Lycia et Pamphylia unter Vespasian, in ibid.143/2, Wien 2008, 5 ff. 8 IGR III 507 = TAM II 651. 2 3

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Der Anschluß der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian und ihre Restrukturierung unter den Flaviern [Aujtokravtwr Kai``sar F]lavouio~ Oujespasiano;[; ~ Sebastov~] auf einer weiteren Bauinschrift aus Kadyanda 9. Imp(eratori) T(ito) Fl(avio) Vespasiano Caesari Aug(usto) auf der Basis einer Reiterstatue aus Perge, das damals noch zur Provinz Galatia-Pamphylia gehörte 10.

Sechs dieser Zeugnisse, zwei aus Patara, zwei aus Kadynda und eines aus Olympos stammen aus der Provinz Lycia, eines, das aus Perge, aus der Provinz (Galatia)-Pamphylia. Es sind die beiden Provinzteile, die an der Südküste Kleinasiens mit ihren Hafenplätzen für die Verbindung über das Meer zwischen dem östlichen und westlichen Teil des Imperium Romanum von größter Wichtigkeit waren. Diese Regionen und vor allem ihre Statthalter erfuhren offensichtlich sehr frühzeitig von der Absicht Vespasians, den Kampf um die Herrschaft im Reich aufzunehmen, zumindest zu einem Zeitpunkt, als es, vermutlich auch im Kreis um Vespasian selbst, noch nicht klar war, wie der neue Kaiser seinen Namen wirklich gestalten würde. Das ist nicht weiter verwunderlich; schließlich hatten die unmittelbaren Vorgänger Galba, Otho und Vitellius ihre Namen sehr unterschiedlich formuliert, so dass es kein zwingendes Vorbild gab, welche Elemente der Name enthalten müsse oder solle. Galbas Name lautet in seinen Bürgerrechtskonstitutionen, die uns über Militärdiplome erhalten sind, Ser(vius) Galba Imperator Caesar Aug(ustus) 11; Othos Name wird in den Arvalakten als Imp. M(arcus) Otho Caesar Augustus wiedergegeben 12; und Vitellius erweiterte seinen alten Namen nur um wenige Elemente 13. So braucht es nicht zu verwundern, wenn Vespasian zunächst noch sein eigenes Gentilnomen verwendet hat 14. Erst nach einiger Zeit wurde dann die endgültige Form gefunden, in der Flavius nicht mehr erschien. Doch in den ersten Schreiben, die in die nächstgelegenen Provinzen und zu deren Statthaltern gingen, fand sich, wie wir aus den Zeugnissen schließen dürfen, vermutlich noch Flavius: dieser Name wurde dann von den Statthaltern auch den Gemeinden ihrer Provinzen mitgeteilt, die konsequenterweise den neuen Herrn in ihren mit Inschriften versehenen Denk-

IGR III 508 = TAM II 652. R. Merkelbach, S. S¸ahin, Die publizierten Inschriften von Perge, in EA 11, 1988, 110 f. Nr. 11. = S. S¸ahin , Inschriften von Perge, Bonn 1998, Nr. 54; zur Interpretation als Teil einer Reiterstatue W. Eck, Latein als Sprache politischer Kommunikation in Städten der östlichen Provinzen, in Chiron 30, 2000, 641 ff. 11 Siehe CIL XVI 7-9. 12 Siehe ILS 241 = J. Scheid (Hrsg.), Commentarii fratrum Arvalium qui supersunt, Rom 1998, 99, Nr. 40 passim. 13 ILS 242 f. 14 Nicht ausschließen kann man freilich, dass Statthalter diese Form vielleicht aus den Beispielen der Vergangenheit erschlossen haben. 9

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mälern so benannten 15. Lange hat er diese Namensform allerdings nicht beibehalten, wie die Bürgerrechtskonstitution vom Februar 70 zeigt. Damit wird aber auch deutlich, dass sich zumindest die beiden Provinzen Lycia und GalatiaPamphylia unmittelbar der flavischen Partei angeschlossen haben, weil sie mit diesem Gentile die früheste Namensform verwendeten. Beweisend ist darüber hinaus vor allem auch, dass alle sechs Zeugnisse in Lycia mit dem Statthalter Sex. Marcius Priscus verbunden sind 16, der nach seiner seit 63/64 währenden Statthalterschaft die Provinz wohl noch im Jahr 70 verließ und kurz darauf in Rom zu einem Suffektkonsulat gelangte; er hatte sich als ein pronocierter Anhänger Vespasians der ersten Stunde profiliert 17. In allen kleinasiatischen Provinzen lag in dieser Zeit nur eine kleine Zahl römischer Truppen 18. Zwar standen jedem Statthalter ein oder zwei Auxiliareinheiten zur Verfügung, auch den Prokonsuln, doch unter dem Gesichtspunkt der Macht waren diese Einheiten von geringer Bedeutung; vor allem ließen sich mit ihnen die Provinzen nicht umfassend kontrollieren, falls es dort zu unterschiedlicher Parteinahme für Vitellius oder Vespasian kommen sollte. In keiner Provinz stand eine römische Legion. Es musste deshalb Vespasian zwar zunächst um die Gewinnung der römischen Amtsträger in diesen Provinzen gehen, jedoch mindestens im gleichen Maß auch um die Eliten der Städte. Denn gerade sie waren in solchen provinciae inermes, in denen keine größere Militärmacht lag, entscheidend dafür, wie sich die Städte als autonome Einheiten verhalten würden. Wie wichtig der Anschluss der Gemeinden war, zeigen viele Beispiele gerade auch der Jahre 68-70 in den westlichen Provinzen. Gallische Stämme waren davon betroffen, die CCAA im Rheinland ist dafür ein Beispiel, ebenso die civitas Helvetiorum mit Aventicum 19. Wie es offensichtlich Vespasian gelang, diese Unterstützung zu gewinnen, zeigt mit großer Deutlichkeit die einzige lateinische Inschrift, in der ebenfalls das 15 Denkbar wäre auch, dass die Statthalter, mit denen Vespasian wohl schon vor seiner Akklamation Kontakt hatte, das Gentilnomen Flavius aus den früheren Schreiben übernahmen, sobald sie von der öffentlichen Usurpation erfahren hatten. Für die Schlüsse, die aus diesem Gentile zu ziehen sind, bleibt dies jedoch ohne Belang. 16 Der durch den Text aus Perge bezeugte frühe Anschluss an Vespasian könnte durch den damaligen Statthalter der Provinz Galatia-Pamphylia, L. Nonius Calpurnius Asprenas, veranlasst worden sein; sein Aufenthalt in Perge ist direkt bezeugt (R. Haensch, in ZPE 122, 1998, 289 ff. = S. S¸ahin, Die Inschriften von Perge II, Bonn 2004, 138 ff., Nr. 466); vielleicht hat er die Stadt zu einer frühen Solidaritätsadresse an Vespasian bewogen. Mit dem in der Inschrift bezeugten öffentlichen Akt hatte er freilich nichts zu tun, da er sonst wohl im Text genannt worden wäre. 17 Zu ihm I˙s¸kan-Is¸ik, Eck, Engelmann, Der Leuchtturm von Patara (Anm. 6) und I˙plikçiog˘ lu, Die Provinz Lycia unter Galba (Anm. 7). 18 Höchstens in Galatien könnten etwas mehr Hilfstruppen stationiert gewesen sein. 19 Suet. Galba, 12.1; W. Eck, Köln in römischer Zeit, Köln 2004, 188 ff.; Tac. hist. 1.69.

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Gentile Flavius erscheint. Der Text steht auf der Basis einer Reiterstatue, die im pamphylischen Perge in den dortigen Thermen aufgestellt wurde. Er lautet 20: Imp(eratori) T(ito) Fl(avio) Vespasiano Caesari Aug(usto) ci(ves) R(omani) et ordo et res publica Pergensium.

Nach diesem Text wurde von den römischen Bürgern sowie von Rat und Volk von Perge, wie ordo et res publica Pergensium zu verstehen ist, Vespasian gleich zu Beginn seiner Herrschaft statuarisch geehrt; das Gentile Flavius ist dafür Beweis genug. Das Faktum der statuarischen Ehrung ist nicht überraschend, schon etwas überraschender ist, dass man sogleich eine Reiterstatue errichtete. Doch weit auffälliger ist die lateinische Sprache und die Nennung der cives Romani vor Rat und Volk von Perge; denn der eigentliche Repräsentant der Stadt war natürlich der Rat und die öffentlichen Inschriften in dieser Stadt sind sonst fast ausnahmslos in griechischer Sprache verfasst. Die lateinische Sprache ist hier also bereits ein Indikator, dass in dem epigraphischen Dokument etwas Außergewöhnliches seinen Ausdruck gefunden hat. Das wird aber durch die Nennung der cives Romani in dem Text noch vor Rat und Volk von Perge zusätzlich verstärkt. Da, wie das Gentile Flavius zeigt, die Ehrung mit der Statue sehr bald nach der Akklamation Vespasians durch die Truppen erfolgt sein muss, darf man aus der Kombination von Sprache und der Stellung der cives Romani vor Rat und Volk schließen, dass die die römischen Bürger in Perge wohl die Initiative ergriffen, als es darum ging, sich gegen den anerkannten Kaiser Vitellius für Vespasian zu entscheiden; immerhin konnte Vespasian damals noch als Usurpator angesehen werden. Rat und Volk von Perge haben sich offensichtlich der Entscheidung der römischen Bürger angeschlossen. Freilich waren es nach aller Wahrscheinlichkeit nicht nur einfache cives Romani, die in der Stadt lebten, sondern in erster Linie einige Personen, die bereits über die Stadt hinaus auf Grund ihrer sozio-politischen Stellung eine größere Rolle spielten. Zwei von ihnen können wir wohl benennen: M. Plancius Varus 21 und seinen Schwiegersohn C. Iulius Cornutus Tertullus, der uns später als amicus des jüngeren Plinius in dessen Briefen begegnet. Plancius Magnus gehörte bereits dem römischen Senat an und hatte schon den Rang eines Prätoriers erreicht,

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Siehe Anm. 10. PIR2 P 433.

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Cornutus Tertullus was vermutlich erst Quästor gewesen 22. Sein Vater hatte sich in der Zeit vor dem Jahr 69 als Bauherr in der Stadt betätigt und auch er hatte dabei einmal die lateinische Sprache verwendet 23. Ob die beiden Senatoren damals in der Stadt anwesend waren, wissen wir nicht; Plancius Varus könnte damals als Legat unter dem Prokonsul von Asia amtiert haben, jedenfalls nicht weit von seiner Heimat entfernt. Dass beide Senatoren mit ihrer Heimatstadt in Verbindung standen, zumal in einer so angespannten Zeit wie dem Jahr 69, ist eine Selbstverständlichkeit; schließlich lag dort auch ihre hauptsächliche ökonomische Basis. Schon um diese zu sichern, war der enge Kontakt zur Heimat nötig. Diese in die Reicharistokratie aufgestiegenen römischen Bürger Perges sowie ihre Familien dürfen deshalb mit größter Wahrscheinlichkeit unter den cives Romani mitverstanden werden 24. Sie trugen erheblich dazu bei, dass die cives Romani innerhalb der Stadt Perge ein solches Gewicht, ja sogar in dieser Situation des Jahres 69 die Präponderanz hatten. Plancius Varus und Iulius Cornutus waren römische Bürger, sogar schon Mitglieder des Senats und gleichzeitig Bürger von Perge. Um ganz deutlich zu machen, wie sie dachten und zu wem sie in der innerrömischen Auseinandersetzung standen, entschieden sie sich auch bewusst für die Sprache, die - nach ihrem Rechtsstatus als römische Bürger - auch ihre eigene Sprache war 25. Eine ähnliche Unterstützung Vespasians durch Einzelpersonen und Städte, die in Perge durch einen glücklichen Zufall etwas konkreter zu fassen ist, darf man mit einiger Berechtigung auch in anderen Städten und Provinzen voraussetzen. Das gilt nicht zum wenigsten auch deshalb, weil im Heer Vespasians und in den Heeren von Syrien und Ägypten nicht nur Soldaten aus den kleinasiatischen Re-

22 CIL XIV, 2925 = ILS 1024. Es wäre allerdings denkbar, daß er gerade infolge des politischen Umbruchs erst Zugang zum Senat erhalten hatte. Dann müßte man freilich die Quästur ins Jahr 70 setzen, seine Ädilität ins Jahr 72. Auf diese Weise wäre vielleicht auch erklärlich, warum er dann durch adlectio in die Rangklasse der Prätorier befördert wurde und nicht auf normalem Weg erst die Prätur absolvierte. Damit könnte er eine besondere Förderung durch die beiden Herrscher erhalten haben, die er freilich dann verloren haben müsste, da seine Laufbahn dann fast zum Stillstand gekommen ist. Daß er seine Laufbahn „erst in den 70‘er Jahren“ begonnen hätte, wie S¸ahin in Inschriften von Perge I (Anm. 10) 112 meint, trifft nicht zu. 23 Inschriften von Perge I (Anm. 10), Nr. 36-45; dazu Eck, Latein (Anm. 10), 655 ff. 24 S¸ahin, wollte in Inschriften von Perge I (Anm. 10), 112 f. gerade diese Personen nicht unter den cives Romani von Perge mitverstehen. Doch wäre das politisch völlig unverständlich. Auch wenn diejenigen, die dem Senatorenstand angehörten, in dieser Zeit sich sicher nicht in Perge aufgehalten haben, so standen sie doch zumindest brieflich mit ihrer Heimat in Verbindung und bestimmten nach aller Wahrscheinlichkeit ganz wesentlich die politische Haltung der Stadt. 25 Zu dieser Gesamtinterpretation siehe schon Eck, Latein (Anm. 10), 650 ff. - Es ist wohl kein Zufall, dass Perge bereits unter Vespasian einen Kaisertempel erbaute und den Titel neokoros erhielt; siehe Inschriften von Perge II (Anm. 10), Nr. 331.

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gionen dienten, sondern vor allem auch höhere Offiziere. Für folgende Personen ist die Herkunft aus Städten der Provinzen Kleinasiens bezeugt: C. Caristanius Fronto aus Antiochia in der Provinz Galatia-Pamphylia: er befehligte als praefectus die ala Bosporanorum, die in Syrien stand 26; Ti. Iulius Celsus Polemaeanus aus Sardeis in der Provinz Asia: er diente als tribunus militum legionis III Cyrenaicae in Alexandria, könnte aber mit einer Vexillation auch in Iudaea am Kampf gegen die jüdische Revolte teilgenommen haben 27; und L. Catilius Longus aus Apamea in Bithynien: er wird in einem epigraphischen Dokument aus seiner Heimatstadt praefectus cohortis III sagittariorum genannt 28; die einzigen drei cohortes, die die Ziffer III tragen und mit dem Beinnamen sagittariorum gekennzeichnet werden, sind die coh. III Cyrenaica sagittariorum, die zunächst wohl in Syrien stand 29; später ist sie im Heer von Cappadocia bezeugt; die coh. III Thracum Syriaca sagittariorum, die im Jahr 88 ebenfalls in Syrien ihr Standquartier hatte und die coh. III Bracaraugustanorum sagittariorum.

Auch im Fall von Catilius Longus ist es somit wahrscheinlich, dass er entweder in Syrien selbst oder in Cappadocia, das aber damals vielleicht noch ein Teil der Provinz Syrien war, gedient hat. Das für die Argumentation Wichtige ist aber in allen drei Fällen, dass die drei ritterlichen Offiziere von Vespasian bald darauf in den Senat aufgenommen wurden. Nach aller Wahrscheinlichkeit war dies die Folge ihrer vorhergehenden loyalen Haltung im Bürgerkrieg gegen Vitellius. Es ist leicht anzunehmen, dass sie als Mitglieder führender Familien auch einen entsprechenden Einfluss auf ihre jeweiligen Heimatstädte ausgeübt haben, sich Vespasians Partei anzuschließen. Denn sie waren in gleicher Weise wie Plancius Varus und Iulius Cornutus Tertullus, die beiden Senatoren aus Perge, an ihre Heimatstadt gebunden. Das liegt schließlich auch bei anderen Personen nahe, die aus kleinasiatischen Städten stammten und unter Vespasian in den Senat gelangten, wie etwa:

26 Zu ihm und den einschlägigen Zeugnissen H. Halfmann, Die Senatoren aus dem östlichen Teil des Imperium Romanum bis zum Ende des 2. Jahrhunderts n. Chr., Göttingen 1979, 109 f. 27 Halfmann, Die Senatoren (Anm. 26), 111 f. 28 Halfmann, Die Senatoren (Anm. 26), 115; ferner W. Eck, Miscellanea prosopographica, in ZPE 42, 1981, 227 ff. 29 Siehe M.A. Speidel, Heer und Herrschaft im Römischen Reich der Hohen Kaiserzeit, Stuttgart 2009, 614.

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Ti. Iulius Candidus Marius Celsus, cos. suff. im Jahr 86, dessen Herkunftsort zwar nicht bekannt ist, der aber sicher aus einer der Städte der Provinz Asia stammte. Sicher ist dies bei C. Antius A. Iulius Quadratus aus Pergamon, suff. im Jahr 94. Der schnelle und, soweit zu erkennen, problemlose Anschluss der Provinzen, die im kleinasiatischen Bereich lagen, an Vespasian ist somit nicht nur unter dem schlichten militärischen Machtaspekt zu sehen, dass nämlich im Osten alle drei großen Heere: das Expeditionsheer in Iudaea sowie die beiden Provinzheere von Syrien und Ägypten, zur vespasianischen Partei gehörten. Vielmehr liegt es nahe, dass auch die personalen Verbindungen einzelner Anhänger Vespasians zu ihren Heimatstädten eine unterstützende Rolle gespielt und damit den schnellen Anschluss ermöglicht haben. Solcher Anschluss diente dem neuen Kaiser in seinem Kampf um die Macht im Imperium, aber auch seinen Anhängern, die damit ihre Position in ihrem Herkunftsort und ihrer Herkunftsregion stärken konnten. 2. Die Neuordnung der kleinasiatischen Provinzen durch Vespasian Das römische Provinzialreich war das Ergebnis einer langen Entwicklung. Es war keine statische Größe, sondern veränderte sich fast kontinuierlich, was für uns angesichts der Quellenknappheit oft nur fragmentarisch zu erkennen ist. Der ausgedehnte kleinasiatische Landkomplex ist geradezu paradigmatisch für diese oftmalige Veränderung. Und gerade die flavische Zeit, speziell die Vespasians, zeigt diesen Wechsel in besonderem Maß. Das ist nicht so verwunderlich; denn unsere Übrlieferung beschreibt Vespasian als einen Kaiser, der seine Aufgabe nicht zum Wenigsten darin sah, das durch die Misswirtschaft vor allem unter Nero geschwächte Reich wieder zu stärken, auch durch deutliche Eingriffe in die Provinzen. So ist es berechtigt, danach zu fragen, ob und wie er damals im kleinasiatischen Raum, der für seine Erhebung von nicht geringer Bedeutung gewesen ist, in die provinzialen Strukturen eingegriffen und wann und warum er diese Änderungen durchgeführt hat 30. Bis zum Beginn der vespasianischen Herrschaft gehörten nach einem fast zweihundertjährigen Prozess in Kleinasien folgende Provinzen zum Imperium: Asia, das seit dem Jahr 133 v. Chr. bestand: es wurde von einem konsularen Prokonsul geleitet; Eine Gesamtdarstellung dieser Provinzen in dem fundamentalen Werk von Chr. Marek, Geschichte Kleinasiens von der Steinzeit bis zum Imperium Romanum mit einem Beitrag von Peter Frei, München 2010. 30

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Der Anschluß der kleinasiatischen Provinzen an Vespasian und ihre Restrukturierung unter den Flaviern Pontus-Bithynia, das seit 74 v. Chr. in mehreren Schritten zu seiner damaligen territorialen Form gefunden hatte: es unterstand einem prätorischen Prokonsul 31; Galatia et Pamphylia, eine Provinz, die in augusteischer Zeit eingerichtet wurde, und später im Süden erweitert worden war: es wurde von einem prätorischen legatus Augusti pro praetore geleitet; Lycia, das Claudius im Jahr 43 nach schweren inneren Unruhen zur Provinz gemacht hatte; es bildete allein eine zwar recht kleine Provinz, es war aber nicht schon seit dem Jahr der Provinzgründung mit Pamphylia zusammengeschlossen, wie das lange Zeit in der Forschung angenommen wurde, und unterstand ebenfalls einem prätorischen legatus Augusti pro praetore.

Im Osten lag schließlich Cappadocia, das seit dem Jahr 17 n. Chr. provinzialisiert war. Doch bildete es, worauf in der neueren Forschung hingewiesen wurde 32, damals vielleicht noch keine eigene Provinz, sondern könnte, wie das bei Iudaea nachgewiesen ist, 33 unter einem ritterlichen praefectus ein Teil der Provinz Syrien gewesen sein, dessen konsularer Legat auch für das ehemalige Königreich verantwortlich war. Zumindest militärisch war dies ohne Zweifel der Fall. Am Ende der Regierungszeit Vespasians war diese provinziale Struktur deutlich verändert. Die kleine Provinz Lycia war mit dem östlich anschließenden Pamphylia zu einer deutlich größeren, langestreckten Provinz zusammengeschlossen worden. Galatien aber, das über Pamphylien bis zum Mittelmeer gereicht hatte, war nunmehr mit Cappadocia zu einer Provinz zusammengebunden, die nach Osten bis zum oberen Euphrat reichte. Ferner hat wohl erst Vespasian endgültig eine provincia Cilicia eingerichtet, 34 nachdem das Klientelkönigtum Commagene im Jahr 72 nach einer kurzen militärischen Konfrontation mit Mitgliedern des dortigen Königshauses der Provinz Syrien angeschlossen worden war. 31

2003.

Siehe dazu Chr. Marek, Pontus-Bithynia. Die römischen Provinzen im Norden Kleinasiens, Mainz

32 M.A. Speidel, Kappadokien - Vom Königreich zur Provinz. Zum Prozess der strukturellen Integration unter Tiberius, in I. Piso (Hrsg.), Die römischen Provinzen. Begriff und Gründung, Colloquium (ClujNapoca, 28. September - 1. Oktober 2006), Cluj-Napoca 2009, 51 ff. = ders., Heer und Herrschaft (Anm. 29) 581 ff. 33 Zuletzt dazu W. Eck, Rom und Judaea. Fünf Vorträge zur römischen Herrschaft in Palaestina, Tübingen 2007, 24 ff. 34 Siehe dazu T. Schmitt, Provincia Cilicia. Kilikien im Imperium Romanum von Caesar bis Vespasian, in T.Schmitt, W. Schmitz, A. Winterling (Hrsg.), Gegenwärtige Antike - antike Gegenwarten, Kolloquium zum 60. Geburtstag von Rolf Rilinger, München 2005, 189 ff.; Wenn S. Pilhofer, Die Romanisierung Kilikiens, München 2006, 204 davon ausgeht, Octavius Memor, Statthalter von Cilicia wohl seit dem Jahr 75/6, habe in Lamos einen Kaisertempel gestiftet (AE 1963, 11 = S. Hagel, K. Tomaschitz, Repertorium der westkilischen Inschriften, Wien 1998, Ada Nr. 11), so trifft das nicht zu. Kein römischer Statthalter hat je in einer Provinz einen Kaisertempel gestiftet; möglich wäre höchstens eine Dedikation (das Verbum fehlt in der Inschrift).

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Von Interesse sind dabei vor allem die Veränderungen in Lycia und Pamphylia sowie in Galatia und Cappadocia. Bis vor Kurzem hatte man noch weithin gemeint, Lycia habe beim Herrschaftsbeginn Vespasians als Provinz gar nicht existiert, weil es (von Nero oder Galba?) für frei erklärt worden sei 35. Diese Vorstellung ging auf eine Bemerkung bei Sueton zurück, nach dem Vespasian auch Lycia die Freiheit genommen habe, wie das auch bei Achaia sowie verschiedenen Städten geschehen sei 36. Dabei hat man freilich übersehen, dass libertas sehr Unterschiedliches bedeuten kann, nicht nur Freiheit von der unmittelbaren Herrschaft durch einen römischen Statthalter. Vor allem aber wurde meist nicht zur Kenntnis genommen, dass gerade Lycia kontinuierlich von Nero bis zu Vespasian einem kaiserlichen Legaten unterstand, einem Sex. Marcius Priscus. Denn in einer Bauinschrift aus der lykischen Stadt Patara, auf der der Name eines Kaisers eradiert ist, wird Marcius Priscus als Legat genannt, und zwar in dem Augenblick, als das Bauwerk, ein öffentliches Bad, dediziert wurde; denn sein Name steht in dem nicht-eradierten Teil der Inschrift 37. Auf diesen Zeitpunkt bezog sich natürlich auch der eradierte Kaisername; da die Länge der Rasur viereinhalb Zeilen beträgt, muss der Kaisername sehr lang gewesen sein; das aber trifft nur auf den Namen Neros zu, insbesondere da zumeist auch seine lange Genealogie angeführt wird 38. Bei einer genauen Überprüfung des Steins mittels exzellenten Photos konnte auch dessen Name, Genealogie und Titulatur trotz der Rasur in größeren Teilen gelesen werden 39. Dieser Sex. Marcius Priscus war also bereits durch das Zeugnis der schon lange bekannten Inschrift aus Patara als Legat Neros bezeugt, er ist aber auch in zahlreichen anderen Inschriften als Legat Vespasians genannt. Zudem wurde er in einer Inschrift aus Selge nicht nur als Legat von Kaiser Vespasian, sondern auch aller Kaiser ajpo; Tiberivou Kaivsaro~ bezeichnet 40. Der allein auf Grund dieser Texte zwingende Schluss, dass Marcius Priscus ohne 35 Siehe zuletzt H. Brandt, F. Kolb, Lycia et Pamphylia. Eine römische Provinz im Südwesten Kleinasiens, Mainz 2005, 24; ebenso noch Levick, Vespasian (Anm. 1), 145-146. 36 Suet. Vesp. 8.4: Achaiam, Lyciam, Rhodum, Byzantium, Samum, libertate adempta, item Thraciam, Ciliciam et Commagenen, ditionis regiae usque ad id tempus, in provinciarum formam redegit. Cappadociae propter adsiduos barbarorum incursus legiones addidit, consularemque rectorem imposuit pro eq.R. 37 IGR III 659 = TAM II 396. 38 Zu diesem Verständnis bereits W. Eck, Die Legaten von Lykien und Pamphylien unter Vespasian, ZPE 6, 1970, 65 ff.; vor kurzem ders., Die politisch-administrative Struktur der kleinasiatischen Provinzen während der hohen Kaiserzeit, in G. Urso (Hrsg.), Tra Oriente e Occidente. Indigeni, Greci e Romani in Asia Minore, Atti del convegno internazionale (Cividale del Friuli, 28-30 settembre 2006), Pisa 2007, 189 ff. 39 Eck, Die Bauinschrift der neronischen Thermen in Patara (Anm. 5). Wieso diese «inscription recording Marcius‘ tenure remains hard to interpret», wie Levick, Vespasian (Anm. 1) 146 meint, ist schwer verständlich. Die logischen Schritte führen zu der genannten Interpretation. 40 PIR2 M 242 mit den Zeugnissen.

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Unterbrechung von Nero bis zu Vespasian als Stattalter in Lycia amtiert hat, ist nunmehr durch weitere Inschriften aus Patara direkt bezeugt. Denn sein Name steht zum einen auf der Bauinschrift eines der beiden Leuchttürme von Patara, der in den letzten Jahren Neros erbaut worden ist. Sodann aber lässt Marcius Priscus in einer Inschrift unter seiner Statue in Patara nicht nur von sich sagen, er sei Legat von Kaiser Vespasian, sondern auch aller Kaiser ajpo; Tiberivou Kaivsaro~, also völlig anlaog zu der Formulierung aus Selge; doch wird hier, fast möchte man meinen, um es nun wirklich klar zu machen, noch hinzugefügt, er habe das Ethnos der Lykier für acht Jahre geleitet: das heißt konkret von 63 bis zum Jahr 70 41. Damit ist klar, dass Lycia zu Beginn der Herrschaft Vespasians nicht eine freie politische Einheit gewesen sein kann, jedenfalls nicht in dem Sinn, dass er nicht mehr Provinz gewesen wäre; denn ein Statthalter wie Marcius Priscus, der aber keine Provinz hatte, die er administrieren konnte, wäre eine contradictio in se 42. Was aber muss man dann mit der Bemerkung Suetons anfangen, Vespasian habe Lycia die libertas wieder entzogen? Wenn es sicht nicht einfach um einen Irrtums des Biographen handelt (was man nicht grundsätzlich ausschließen sollte), dann bestünde die Lösung vielleicht darin, dass Lycia seit der Provinzwerdung unter Claudius bestimmte Vorrechte hatte, die aber Vespasian aufhob. Was diese Vorrechte allerdings, wenn es sie denn gegeben hat, waren, lässt sich bisher nicht erkennen 43. Am ehesten könnte er solche Vorrechte in dem Augenblick aufgeho41 H. I˙s¸kan-Is¸ik, W. Eck, H. Engelmann, Der Leuchtturm von Patara und Sex. Marcius Priscus als Statthalter der Provinz Lycia von Nero bis Vespasian, in ZPE 164, 2008, 91 ff. 42 Auf die lange Diskussion über die Freiheit Lykiens von jeder direkten römischen Herrschaft soll hier nicht mehr eingangen werden. Es sei nur auf die solide Zusammenfassung der Argumente gegen diese Ansicht bei B. Rémy, L‘évolution administrative de l‘Anatolie aux trois premiers siècles de notre ère, Lyon 1986, 43 ff. hingewiesen; ferner zuletzt I˙s¸kan-Is¸ik, Eck, Engelmann, Der Leuchtturm (Anm. 40). Auf die billige Polemik von S. S¸ahin, in Gephyra 5, 2008, 1 ff. braucht man nicht einzugehen; der Text spricht nur gegen den Verfasser, der offensichtlich nicht einmal in der Lage ist, wissenschaftlich anders Denkende wenigstens namentlich zu erwähnen, sondern, gegen die Reihenfolge der Namen in der Publikation, von Eck et alii spricht, wo er in seiner Diktion hätte schreiben müssen: I˙¸skan-Is¸ik et alii; denn so lautet die Reihenfolge der Autoren in der Publikation, auf die er sich bezieht. Doch den Namen der türkischen Kollegin wollte er am allerwenigsten nennen. 43 Früher hatte ich vermutet, es könnte sich dabei um die Kopfsteuer handeln, da diese am ehesten als besonderes Zeichen der Unfreiheit angesehen werden konnte. Dagegen spricht jedoch, dass gerade die Kopfsteuer bereits in einer vespasianischen Inschrift von Patara erscheint (siehe I˙s¸kan-Is¸ik, Eck, Engelmann, Der Leuchtturm (Anm. 40), 115 ff.: ejk tw``n sunthreqevntwn th``i povlei crhmavtw[n] ajpo; kefalaivwn = «von den Geldern, die für die Stadt von der Kopfsteuer verwahrt wurden»), die in die ersten Monate seiner Herrschaft gehören sollte. Denn man kann sich schwer vorstellen, dass Vespasian bei aller Notwendigkeit, die Finanzen des Reiches zu sanieren, den Lykiern das Privileg der Befreiung von der Kopfsteuer unmittelbar in den ersten Monaten nach der Akklamation genommen hätte. Denn damals ging es ganz wesentlich darum,

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ben haben, als er Lycia mit Pamphylia zu einer Provinz zusammenschloss. Denn deutlich unterschiedliche Rechte innerhalb derselben Provinz konnten leicht Anlass für innere Auseinandersetzungen bieten, machte auch die Arbeit von Statthaltern schwieriger 44. Doch muss man ohne neue Zeugnisse die Frage vorerst offen lassen In welchem Jahr erfolgte der Zusammenschluss? Den ersten Statthalter, der in seiner Amtsbezeichnung die neue Doppelprovinz nennt und auch eindeutig datiert werden kann, ist L. Luscius Ocrea, der etwa zwischen 74 und 76 beide Regionen verwaltet hat 45; zu Anfang des Jahres 76 ist er dort bezeugt 46, im Jahr 77 sollte er bereits den Konsulat erreicht haben. Dann aber kann seine Statthalterschaft kaum erst nach 74 begonnen haben; damals muss also die Doppelprovinz auf jeden Fall bestanden haben. Ob andere Statthalter, die jeweils nur durch Inschriften aus Lykien bezeugt sind, und die mindestens teilweise vor Luscius Ocrea amtiert haben (vor allem M. Hirrius Fronto Neratius Pansa, cos. suff. um 74) 47, schon für die Doppelprovinz zuständig waren, lässt sich noch nicht entscheiden. Vor Kurzem hat nun Bulent I˙plikçiog˘lu eine Inschrift aus Rhodiapolis in Lykien publiziert, in der ein unbekannter Legat genannt ist, der aber ebenfalls bereits Legat Vespasians in beiden Provinzen war. Die Inschrift selbst hat keine genauen datierenden Elemente, außer eben die vespasianische Zeit. Der Herausgeber möchte jedoch diesen Legaten mit C. Dillius Aponianus identifizieren 48, der vielleicht bereits vor dem Jahr 73/4 zum Konsulat gekommen sein könnte; dann müsste dessen Statthalterschaft aber schon in die Jahre davor, auch vor die Statthalterschaft des Hirrius Fronto Neratius Pansa gehören, also zwischen 70/71 und 72. Damit wäre dann ein sehr frühes Datum für den Zusammenschluss der beiden Provinzen gegeben, nämlich zwischen 70 und 72. Freilich ist die Zuweisung des akephalen Cursus an Aponianus keineswegs sicher, so dass sich darauf keine völlig sichere Rekonstruktion des Zusammenschlusses der beiden Teile errichten lässt. Die historischen Umstände sprechen freilich für dieses Datum. Völlig unabhängig von der genaueren Datierung lässt sich festhalten, dass beiden Teilen der Provinz ein gewisses Eigenleben verblieb, vor allem in der getrennten Zelebration des Herrscherkultes; Lykien hatte einen Lykiarches, während seine Herrschaft erst einmal im Reich durchzusetzen. Eine solche Maßnahme aber hätte gerade diesem Zweck entgegengewirkt. 44 Vgl. aber auch Cic. Ad Att. 6.1.15: Multaque sum secutus Scaevolae, in iis illud in quo sibi libertatem censent Graeci datam, ut Graeci inter se disceptent suis legibus. 45 IGR III 466 (Balbura); SEG 6, 1932, 648 (Attaleia); AE 1981, 829; A. Balland, Letoon, Paris 1981, 129-132 Nr. 49 (Xanthos). Vgl. schon W. Eck, in ZPE 1970, 72 ff. 46 J. Nollé, Die Inschriften von Side I, Bonn 1993, 303 ff. Nr. 34. 47 PIR2 N 56. 48 Vgl. I˙plikçiog˘lu, Zwei Statthalter (Anm. 7), 75 ff.

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Pamphylien seinen eigenen Pamphyliarches wählte 49. Auch dürfte die Einnahme der Zölle in Lykien in einer besonderen Form organisiert gewesen sein. Eine frühe Datierung des Zusammenschlusses von Lycia-Pamphylia, wie sie sich aus der möglichen Statthalterschaft des Dillius Aponianus ergeben würde, lässt sich aber vielleicht durch Elemente aus der Einrichtung der Doppelprovinz GalatiaCappadocia unterstützen. Denn die Vereinigung von Lycia und Pamphylia zu einer Provinz hängt, soweit man das heute sehen kann, engstens mit der Einrichtung der ebenfalls neuen Doppelprovinz Galatia-Cappadocia zusammen, ist vielleicht sogar durch diese Maßnahme verursacht worden. Nach aller Wahrscheinlichkeit blieb nämlich Pamphylia, das noch im Jahr 69 nachweislich ein Teil der Provinz Galatia war, bis zu diesem Zeitpunkt mit dem inneren Teil Anatoliens verbunden. Erst als Galatia mit Cappadocia zu einer Provinz vereinigt wurde, konnte Pamphylia an Lycia angebunden werden. Wann also wurde Galatia-Cappadocia geschaffen? Bis zu Vespasian war Cappadocia möglicherweise Teil der Militärprovinz Syria gewesen; doch schon in der Regierungszeit Neros war klar geworden, dass die lange 50, durch keine größeren Militäreinheiten, also Legionen, gedeckte Grenze am oberen Euphrat keine dauerhafte Regelung bleiben konnte. Für mehrere Jahre war deshalb Cappadocia zusammen mit Galatia-Pamphylia Domitius Corbulo übertragen worden, dem auch entsprechende Legionstruppen zur Verfügung standen. Zu dessen Entlastung innerhalb des sehr weitausgedehnten Komplexes war damals ein prätorischer Unterlegat für die allgemeine Administration Galatiens eingesetzt worden. Bekannt ist in dieser Funktion (Q. Iulius Cordinus) C. Rutilius Gallicus durch eine Inschrift aus Ephesus 51. Diese Regelung ist aber nicht beibehalten worden. Vespasian hatte jedoch offensichtlich verstanden, dass der Schutz der oberen Euphratgrenze nicht durch ad hoc Maßnahmen zu sichern war, wie man das unter Nero versucht hatte, dass dieser Schutz vielmehr dauerhaft gestaltet werden müsse 52. Bereits gegen Ende 70 wurde eine Legion, die legio XII Fulminata, nach Cappadocia gesandt, an den Stationierungsort Melitene; das veranlasste noch TiIGR III 474; TAM III 1, 127.138. Nach Marek, Kleinasien (Anm. 30) 424 maß die Grenze von Kommagene bis Trapezunt ca. 340 km Luftlinie und über 800 km Marschstrecke. 51 I. Ephesus III 715 = ILS 9499 = AE 1998, 128 (Ephesus): G(aio) Rutilio G(ai) f(ilio) Stel(latina) Gallico trib(uno) mil(itum) leg(ionis) XIII Geminae, q(uaestori), aedili curuli, legato divi Claudi leg(ionis) XV Apollinaris, pr(aetori), leg(ato) provinciae Galaticae, sodali Augustali, consuli designato, M(arcus) Aemilius M(arci) f(ilius) Pal(atina) Pius praef(ectus) coh(ortis) I Bosp(oranorum) et coh(ortis) I Hisp(anorum) legato… Vgl. G. Wesch-Klein, Provincia. Okkupation und Verwaltung der Provinzen des Imperium Romanum von der Inbesitznahme Siziliens bis auf Diokletian. Ein Abriß, Zürich-Berlin 2008, 281 ff. 52 Es bedurfte dazu nicht eines aktuellen Anlasses wie etwa speziell des Einfalls der Alanen, wohl im Jahr 72. Sueton Vesp. 8, 7 spricht allgemein vielmehr von den ständigen Einfällen der Barbaren, und Jos. bell. 7, 244 ff. verbindet deren Einfall nicht mit Veränderung des Provinzstatus. Marek, Kleinasien (Anm. 30) 424 spricht dem aber eine partielle Bedeutung zu. Doch verlangte 49 50

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tus, bevor er sich auf die Rückreise nach Rom machte 53. Damit müsste auch die Umwandlung von Cappadocia zu einer von einem Senator geleiteten Provinz bereits verbunden gewesen sein; denn sonst müsste man annehmen, es sei zwar diese Legion nach Melitene, also in das kappadokische Gebiet, gesandt worden, es hätte aber noch dem Konsularlegaten von Syria unterstanden 54. Das aber scheint ausgeschlossen, wenn man jedenfalls den Text bei Josephus wörtlich nehmen darf; denn er sagt, Titus habe es der legio XII nicht vergessen, dass sie im Jahr 66 unter dem Statthalter Cestius vor den Juden zurückgewichen war, weshalb er sie nach dem Ende des Krieges in Judaea vollständig aus Syrien verbannt habe 55. Dies muss, wenn die Bestrafung Sinn machen sollte, eine andere Provinz gewesen sein. Die zweite, dauerhaft in der Provinz Cappadocia stationierte Legion, die XVI Flavia, bezog ihr Lager in Satala angeblich erst im Jahr 75/76 56. Selbst wenn dies der Fall sein sollte, dann war jedoch die Entscheidung, Cappadocia zu einer konsularen Provinz mit zwei Legionen zu machen, sicher schon deutlich früher gefallen: Denn Cn. Pompeius Collega, der erste sicher bezeugte Statthalter der neuen Provinz, übernahm diese Position bereits als Konsular, und zwar schon vor dem Jahr 75, wohl eher schon 73/4. Für eine genauere Datierung des Beginns seiner Statthalterschaft wird man freilich neue Dokumente benötigen. Sieht man freilich in der Versetzung der legio XII Fulminata den Zeitpunkt, zu dem auch ein Senator als Statthalter nach Cappadocia ging, dann wurde die Provinz Galatia-Cappadocia spätestens im Jahr 71 eingerichtet, eher sogar schon Ende des Jahres 70. Dass Pamphylia ebenfalls zu diesem Zeitpunkt von der neuen Großprovinz abgetrennt und mit Lycia vereinigt wurde, liegt jedenfalls nahe, allein die Verlegung der Legion notwendigerweise einen senatorischen Befehlshaber und Statthalter, und das geschah bereits vor dem Einfall der Alanen. 53 Jos. bell. 7.18; T.B. Mitford, The Inscriptions of Satala (Armenia Minor), in ZPE 115, 1997, 137167; L. Keppie, Legions and Veterans. Roman Army Papers 1971-2000, Stuttgart 2000, 192. 54 Nicht völlig auszuschließen ist freilich, dass Vespasian zunächst die Absicht hatte, Cappadocia zu einer prätorischen Provinzumzugestalten, freilich mit einer Legion als Besatzung (vgl. auch Rémy, L‘évolution administrative [Anm. 41], 53). Bis zur vespasianischen Zeit hatte es diesen Provinztyp nicht gegeben. Erst mit Judaea greifen wir eine Provinz dieser Art überhaupt zum ersten Mal, wobei dies so ungewöhnlich war, dass man in der ersten Zeit dieser Provinz einige Male eigens neben der Provinzstatthalterschaft auch noch das Kommado über die legio X Fretensis erwähnte. Für Cappadocia fehlen uns bisher solche Zeugnisse. Eine Einlegionenprovinz wäre dort aber ohnehin eine nur vorübergehende Erscheinung gewesen. Selbst wenn es so gewesen sein sollte, dann wäre es nicht erstaunlich, dass Suet. Vesp. 8.4 schreibt: Cappadociae propter adsiduos barbarorum incursus legiones addidit, consularemque rectorem imposuit pro eq.R.; eine kurze Zwischenphase könnte Sueton durchaus übersehen haben. 55 Jos. bell. 7.18; Voraussetzung für diese Interpretation ist freilich, dass Josephus Syrien hier als Provinz versteht und nicht nur als geographischen Begriff. 56 L. Keppie, Legions and Veterans (Anm. 52), 192 f.; T.B. Mitford, The Inscriptions of Satala (Armenia Minor), in ZPE 115, 1997, 137-167.

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wenn man davon ausgehen dürfte, dass Vespasian und Titus die Neuordnung dieser Provinzen als einen einheitlichen Akt angesehen haben. Dies ist durchaus möglich, zwingend ist es freilich nicht. Trifft dies jedoch zu, dann müsste auch Lycia-Pamphylia entweder noch Ende 70 oder spätestens im Laufe des Jahres 71 zusammengeschlossen und einem gemeinsamen Statthalter unterstellt worden sein. Zum ersten Mal war mit der Schaffung der der konsularen Provinz GalatiaCappadocia der kleinasiatische Raum nach Osten hin von einer starken Armee abgeschirmt, insgesamt von einer Streitmacht von rund 20.000 Mann; denn neben den beiden Legionen wurden selbstverständlich auch entsprechende viele Auxiliareinheiten in der neuen Provinz stationiert, abgesehen von denen, die bereits vorher dort gelegen hatten 57. Bis vor kurzer Zeit hatte man freilich über die Alen und Kohorten in der Provinz nur den Bericht, den der Statthalter Flavius Arrianus zwischen 130/31 und 136 in seiner Ektasis gegeben hatte. Seit Kurzem aber sind aber nun zwei Militärdiplome aus den Jahren 94 und 100 bekannt (wovon eines noch nicht im Wortlaut publiziert ist). Das Diplom aus dem Jahr 94 führt wohl drei Alen und 13 Kohorten an, das für das Jahr 100 je eine Einheit mehr: vier Alen und 14 Kohorten 58. Ein weiteres Diplom aus dem Jahr 101, dessen Konstitution aber nur für zwei Personen in zwei Einheiten bestimmt war, ist für die Frage der Gesamtbesatzung irrelevant 59. Damit ist klar, dass die neue Provinz von Beginn an eine entsprechende Zahl von Hilfstruppen erhielt, die in der üblichen Relation zur Größe der Legionsbesatzung lag. Wie viele davon allerdings bereits vor der Zeit Vespasians in Galatia oder Cappadocia gestanden hatten, ist bisher noch nicht im Detail zu eruieren. Immerhin hatte wohl die ala Augusta Germaniciana seit ihrer Erstaufstellung unter Augustus stets ihr Standquartier in Galatia oder später in Cappadocia gehabt, ferner die ala I Augusta Gemina colonorum 60. Ebenso waren die cohors Apula sowie die cohors I Bosporanorum milliaria schon Teil der Besatzung von

57 Siehe insgesamt M.A. Speidel, The development of the Roman forces in northeastern Anatolia. New evidence for the history of the exercitus Cappadocicus, in A.S. Lewin, P. Pellegrini (Hrsg.), The late Roman Army in the Near East from Diocletian to the Arab Conquest. Proceedings of a colloquium held at Potenza, Acerenza and Matera, Italy (May 2005), Oxford 2007, 73 ff. = M.A. Speidel, Heer und Herrschaft (Anm. 29), 595 ff. Möglicherweise gehörte eine cohors I Italica, die im Diplom von 101 genannt ist, zu den Einheiten, die ursprünlich aus der Bevölkerung Judaeas ausgehoben waren und bis zum Jahr 70 dort gestanden hatten. Titus aber hat sie aus der Provinz verlegt, weil sie zu den Zusammenstößen zwischen Juden und Nichtjuden beigetragen hatten. 58 RGZM 7 sowie ein bisher unpubliziertes Diplom, das nur in einer Abschrift bekannt ist; es wurde auch von B. Pferdehirt bereits für die Interpretation von RGZM 7 herangezogen. 59 W. Eck, A. Pangerl, Eine Bürgerrechtskonstitution für zwei Veteranen des kappadokischen Heeres. Zur Häufigkeit von Bürgerrechtskonstitutionen für Auxiliarsoldaten, in ZPE 150, 2004, 233 - 241 = AE 2004, 1913. 60 Siehe Speidel, Heer und Herrschaft (Anm. 29), 607, 609.

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Galatia-Pamphylia gewesen 61. Unter Vespasian wurden mehrere Einheiten aus Syrien in die neue Provinz verlegt, vielleicht diejenigen, die auch schon vor dem Jahr 70/71 mit der legio XII Fulminata enger verbunden gewesen waren 62. Die neue Provinz im Osten erstreckte sich über eine sehr weite Distanz und schloss zahlreiche Regionen ein, die auch weiterhin ein gewisses Eigenleben bewahrten. Genannt werden in der Titulatur eines der ersten Statthalters der neuen Provinz: Galatia, Cappadocia, Pontus (Polemoniacus), Pisidia, Paphlagonia, Lycaonia, Armenia 63. Allerdings sind sie, obwohl manchmal zusammenfassend von provinciae im Plural gesprochen wird, nicht als Provinzen im politisch-administrativen Sinn anzusprechen; die Bezeichnung zeigt lediglich, dass sie weiterhin ein gewisses Eigenleben führen konnten, was sich vor allem in einem eigenen regionalen Herrscherkult äußerte 64. Manche dieser Regionen wurden überhaupt erst durch Vespasian Teil der Großprovinz wie etwa Lycaonia oder Armenia minor, die im Jahr 72 unter direkte römische Herrschaft kamen 65. Von Antiochia Pisidiae, der am weitesten westlich gelegenen Stadt Galatiens, bis zur Euphratgrenze waren dies weit mehr als 500 römische Meilen, mehr als 800 km (in der Luftlinie). Wohl keine andere römische Provinz hat solche Wegdistanzen aufgewiesen. Es ist deshalb auch kein Zufall, wenn bereits unter dem Statthalter Cn. Pompeius Collega im Jahr 75/76 ein Meilenstein aus Cappadocia bezeugt ist, der auf Straßenbauarbeiten in diesem Großraum verweist 66. Diese Verbesserung der Kommunikationswege scheint unter Titus und Domitian auf ein ausgreifendes Straßenbauprogramm ausgeweitet worden zu sein, das alle Teile der Provinz erfasst haben sollte. Zumindest heißt es in mehreren Straßenbauinschriften des Statthalters A. Caesennius Gallus zwischen 80 und 82 n. Chr., vias provinciarum Galatiae Cappadociae Ponti Pisidiae Paphlagoniae Lycaoniae Armeniae stravit 67. Tatsächlich lassen sich Meilensteine in vielen Provinzbereichen nachweisen. Grund für diese ausgreifenden Maßnahmen war neben den Fragen der schnellen Kommunikation mit dem westlichen Teil des Reiches und vor allem dem Zentrum Rom wohl vor allem der Zwang, das Heer an der langen Euphratgrenze mit den nötigen Nachschub versorgen zu müssen. Nollé, Side (Anm. 45) I 155; ILS 9499; Speidel, Heer und Herrschaft (Anm. 29), 611, 612. Zusammenfassend Speidel, Heer und Herrschaft (Anm. 29), 620 f. 63 Siehe z.B. CIL III 312. 318. 12218. 14184, 48. 64 Siehe z.B. einen Armeniarches in IGR III 132. Marek, Kleinasien (Anm. 30), 518. 65 Siehe Marek, Kleinasien (Anm. 30), 451. 66 CIL III 306. Siehe zur Gesamthematik der Kommunikation in diesem Raum auch S. Kilndjian, De Zeugma à Mélitène: quelques passages sur L‘Euphrate, du I er siècle av. J.-C. au II e siècle apr. J.-J., in H. Bru, F. Kirbihler, St. Lebreton (Hrsg.), L’Asie Mineure dans l’Antiquité: échanges, populations et territoires, Rennes 2009, 181 ff. 67 Siehe die verschiedenen Texte unter CIL III, 312. 318. 12218. 14184, 48. Ferner weitere Meilensteine in den Bänden von D. French, Roman Roads and Milestones of Asia Minor, 1981-1988. 61 62

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Wie schon unter Corbulo war es daneben jedoch auch nötig, die allgemeine Administration der Provinz zu gewährleisten. Das schuf wegen der langen Distanzen vor allem im Winter Probleme. So hat Vespasian nach dem Beispiel unter Nero neben dem konsularen Statthalter noch einen weiteren Senator in die Provinz abgeordnet, der mit prätorischem Rang ausgestattet war. Die Amtsbezeichnung dieses Funktionsträgers, die bei zwei Personen vollständig erhalten ist, lautet: leg(ato) Aug(ustorum) divorum Vespasiani et Titi provinciae Cappadociae et Galatiae Ponti Pisidiae Paphlagoniae Armeniae minoris 68, sowie presbeuth;~ Sebastou`` ejparceiva~ Kappadokiva~ Galativa~ Frugiva~ ªPisidiva~ ∆Antºiociva~ ∆Armeniva~ mikra``~ 69.

Bei einer weiteren Person, die wohl dieselbe Funktion übernommen hat, sind die Provinznamen nicht erhalten 70. Es war also ein Amtsträger, der Legat des Kaisers war, dem aber der Zusatz pro praetore fehlte, womit er vom Statthalter unterschieden wurde. Man hat die Funktion immer wieder mit den iuridici gleichgesetzt, die in Nordspanien 71 und in Britannien vor allem seit flavischer Zeit bezeugt sind 72. Dort werden sie freilich zumeist unmittelbar so benannt, doch bisher findet sich diese Spezifikation in Galatia-Cappadocia eben nicht. Damit liegt es eher nahe, dass die Tätigkeit dieser dem Statthalter untergeordneten legati nicht auf Rechtsprechung eingeschränkt war, dass sie vielmehr allgemein den Statthalter in allen seinen Funktionen vertreten sollten, wo es nötig war, wohl mit Ausnahme des militärischen Komandos; denn dafür waren die beiden legati legionis verantwortlich, die jeweils eine der beiden Legionen kommandierten. Auch die lange Liste der Teilregionen der Gesamtprovinz, die in ihren Amtsbezeichnungen erscheinen, spricht dafür, dass sie nicht nur in einer einzigen Gegend tätig werden konnten oder sollten, vielmehr auf dem gesamten Provinzterritorium. Sie sind damit als ein eigener Typ von Amtsträgern anzusehen, den es in dieser Form in anderen kaiserlichen Provinzen nicht gab. Vergleichbar wären sie vielleicht mit den Legaten in den prokonsularen Provinzen, denen derjeweilige Prokonsul jede Aufgabe 68 Für Ti. Iulius Celsus Polemaeanus: ILS 8971 = I. Ephesus VII 2, 5103. Die griechische Version in I. Ephesus 3033 lautet: presbeuth;n Sebastou`` ejparceiva~ Kappadokiva~ Galativa~ Frugiva~ Lukanoniva~ Paflagoniva~ ∆Armeniva~ mikra``~. 69 Für C. Antius A. Iulius Quadratus: Inschriften von Pergamon II 451. 70 AE 1964, 4 = R.P. Harper, Tituli Comanorum Cappadociae, in AS 18, 1968, 93-147, hier 96 Nr. 1. 02 für L. Iulius Poculeianus = F. Baz, Die Inschriften von Komana (Hierapolis) in Kappadokien, Istanbul 2007, 103-104, Nr. 62. 71 G. Alföldy, Fasti Hispanienses. Senatorische Reichsbeamte und Offiziere in den spanischen Provinzen des Römischen Reiches von Augustus bis Diokletian, Wiesbaden 1969, 67-114. 72 A. R. Birley, The Roman Government of Britain, Oxford 2005, 268-275.

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übertragen konnte. Diese ‚Unterstatthalter‘ in Galatia-Cappadocia verschwanden wieder, als Traian die beiden Provinzen erneut getrennt hat. Dies zeigt mit Klarheit, dass die gewaltige Ausdehnung der Provinz der Grund für die Einsetzung dieser neuen senatorischen Amtsträger war. Umgekehrt aber beweist dies zudem, wie wichtig Vespasian und seine Berater damals den Zusammenschluss der vielen Teile zu einer einzigen Großprovinz gehalten haben. Mit der Größe muss man politisch-militärische Absichten verfolgt haben, die es rechtfertigten, ein neues, von der Absicht her dauerhaftes Element in den senatorischen Aufgabenkomplex einzuführen. Vermutlich hat das Beispiel unter Corbulo dabei Pate gestanden. Rutilius Gallicus, der unter Nero eine der vespasianischen Regelung wohl vergleichbare Aufgabe in Galatien erhalten hatte, wurde bereits in den allerersten Jahren Vespasians Suffektkonsul, wohl im Jahr 72 73. Dass er wie auch andere Kommandeure, die unter Corbulo gedient hatten, Vespasian beraten haben, liegt nahe. Die vorausgegangenen Erörterungen lassen erkennen, dass Vespasian, vermutlich in Abstimmung mit Titus, nicht zum wenigsten auf Grund der Erfahrungen, die er im Osten gemacht hatte, diese deulichen Eingriffe in die provinziale Organisation vorgenommen hat. Sie erfolgten alle innerhalb der allerersten Zeit seiner Regierung, entweder noch im Jahr 70, jedenfalls nicht später als 71. Sie dienten der Stabilisierung der Gesamtregion 74. Darauf konnten dann die vielen Einzelentscheidungen der Flavier wie die Gründung neuer Städte, die Einrichtung von Organisationen des Herrscherkultes in einzelnen Untergruppen von Provinzen 75 sowie vor allem die Aufnahme von Notablen der kleinasiatischen Städte 76 in die senatorische Reichsaristokratie aufbauen. Die Grundlage aber schuf Vespasian in den ersten Anfängen seiner Herrschaft.

Werner Eck Historisches Institut I Universität zu Köln

AE 1991, 479; siehe W. Eck, Vespasian und die senatorische Führungsschicht des Reiches, in L. Capogrossi Colognesi, E. Tassi Scandone (a cura di), La Lex de Imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi, Atti del Convegno (Roma, 20-22 novembre 2008), Roma 2009, 231-258, hier 246, 252. 74 Man kann also kaum mit Rémy, L‘évolution administrative (Anm. 42), 50 davon sprechen, Vespasian habe keinen Plan gehabt, wie Kleinasien gestaltet werden solle, weil seine Maßnahmen sich über mehrere Etappen verteilt hätten. Die fast zeitgleichen Änderungen sprechen gegen eine solche Deutung. 75 Dazu die neueste Zusammenfassung bei Marek, Kleinasien (Anm. 30) 425, 517. Zu diesen Maßnahmen kann man vielleicht auch zählen, dass Vespasian den wegen seiner Vergangenheit unter Nero in Rom teilweise angefeindeten Senator Eprius Marcellus für drei Jahre in Asia als Prokonsul beließ, um in einer gewisssen Kontinuität Maßnahmen in der Provinz durchzuführen. Vergleichbares gibt es wohl in Cyrenae, wo ein Arinius Modestus in den ersten Jahren Vespasians für zwei Jahre als Prokonsul amtierte; dort waren heftige Unruhen in der Folge des jüdischen Aufstandes in Iudaea vorausgegangen. Allerdings sollte man auch nicht ausschließen, dass Vespasian durch die Entfernung des Eprius Marcellus aus Rom die Auseinandersetzungen im Senat deeskalieren wollte. 76 Siehe dazu schon oben. 73

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Vespasiano tra Egitto e Danubio ovvero del buon uso delle proprie ricchezze

Il patrimonio imperiale è certamente un oggetto di studio che richiede, per sua stessa natura, un approccio sul lungo periodo. Il patrimonium Caesaris è capitale fisso e sostanza patrimoniale della funzione imperiale, fonte di reddito e di rendita, e si presenta pertanto come un elemento strutturale dell’architettura economica, fiscale e amministrativa dell’Impero Romano. Trattare delle proprietà imperiali in età vespasianea, ovvero per un periodo storico di appena dieci anni, può sembrare quanto meno improprio. Tuttavia, ciò che cercherò di dimostrare in queste pagine è che, malgrado la breve durata del regno, Vespasiano ha svolto un ruolo decisamente rilevante nella storia della gestione del patrimonio e, più in generale, ha dato una fisionomia economica e amministrativa alla sostanza patrimoniale destinata a rimanere a lungo in vigore, sino a Diocleziano. Il mio approccio è regionale, in quanto credo che una possibile risposta alla domanda storica circa il ruolo economico della proprietà imperiale possa essere data solo se si analizzano nel dettaglio le specificità regionali dell’Impero. Non mi occuperò pertanto della vexata quaestio del possibile mutamento giuridico della sostanza patrimoniale tra i Giulio-Claudi e Vespasiano, nè del problema delle forme giuridiche di trasmissione di tal patrimonio al di fuori della casata giulio-claudia 1. Concentrerò la mia attenzione su due regioni: l’Egitto e l’area che va dal medio corso del Danubio alla * Desidero ringraziare William V. Harris e Federico de Romanis per aver letto e commentato il presente lavoro. Andrea Jördens ne ha letto e commentato una versione preliminare e mi ha gentilmente dato in lettura alcuni suoi articoli non pubblicati al momento del Convegno. 1 Ovvi limiti di spazio non hanno consentito di includere nel presente articolo discussione ed analisi di temi rilevanti e attinenti alla presente ricerca quali l’organizzazione del tabularium Caesaris centrale, l’inizio della trattatistica gromatica e gli interventi in tema di proprietà della terra in altre aree dell’impero. Temi affrontati tuttavia nella mia monografia di prossima pubblicazione ‘Res Caesaris’. Ho proposto alcune considerazioni di carattere più generale sul tema di Vespasiano, la terra e l’amministrazione in Rem publicam stabilire primo, deinde et ornare. La politica patrimoniale dei Flavi, in F. Coarelli (a cura di), Divus Vespasianus, Milano 2009, 334-343.

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regio X in Italia. La mia scelta è dovuta al fatto che in entrambe le regioni prese in considerazione l’intervento vespasianeo è incisivo e radicale. È inoltre possibile ravvisare in entrambe le regioni un elemento in comune, ovvero la precocità dell’azione politica e amministrativa, anteriore alla censura del 73/74. Inoltre, cercherò di dimostrare che il fatto che Vespasiano si sia trovato ad amministrare l’impero da Alessandria, dove apprese della sconfitta dei Vitelliani e abbia pertanto iniziato la sua opera di imperatore dall’Egitto, possa aver dato un’impronta del tutto peculiare alla sua azione riformatrice. In definitiva, egli è stato tra i pochi imperatori nei primi due secoli d.C., con Augusto, Adriano e Settimio Severo ad avere avuto conoscenza diretta e profonda della complessità economica, sociale ed amministrativa dell’Egitto. Con il mio contributo voglio sottolineare come sia possibile vedere l’Egitto, nel caso del breve decennio vespasianeo, quale terreno di sperimentazione e modello da proporre nelle altre province dell’impero. Egitto L’Egitto è, al solito, un caso privilegiato per la relativa abbondanza documentaria. Per quanto concerne il periodo flavio, tale affermazione risulta ancor più cogente in quanto Vespasiano soggiornò, come noto, ad Alessandria, dall’autunno del 69 sino alla piena estate del 70, un lasso di tempo lunghissimo, se si tengono in considerazione le drammatiche circostanze storiche 2. Si tratta di un fatto di grande importanza, ad un secolo esatto dall’ultima visita imperiale nella città, vale a dire 100 anni dopo il soggiorno di Ottaviano all’indomani della vittoria di Azio. Si può ragionevolmente ipotizzare che le riforme in tema di proprietà imperiale, gestioVespasiano apprese la notizia della vittoria di Cremona (25 ottobre 69) quando era già in Egitto e non ancora ad Alessandria: Tac. Hist. 3.48.3; anche 4.51 e Jos. BJ 4.11.5. L’ingresso ad Alessandria deve pertanto porsi al più tardi alla fine di Novembre (sulla velocità nel trasmettere notizie di capitale importanza tra Roma e l’Egitto, si v. ad es. G. Chalon, L’édit de Tiberius Julius Alexander. Etude historique et exégétique, Lousanne 1964, 45-47, in cui si calcolano 9 giorni nel periodo di migliore navigazione, verosimilmente qualche giorno di più in pieno autunno). Vespasiano era ancora ad Alessandria il 22 luglio del 70 (Tac. Hist. 4.53.2). Se possiamo attribuire un valore cronologico alla notizia di Dio 66.8.1 circa l’eccezionale piena del Nilo, Vespasiano doveva ancora trovarsi ad Alessandria in Agosto. Per la cronologia del soggiorno vespasianeo, A. Henrichs, Vespasian’s Visit to Alexandria, in ZPE 3, 1968, 51-80, spec. 54, nt. 11 e 55, nt. 15. Il soggiorno dovette pertanto durare tra i sette e i nove mesi. Tito, dopo aver trascorso l’inverno 69/70 con il padre, rientrò ad Alessandria la mattina del 25 Aprile del 71 (POxy 2725, con il commento di O. Montevecchi, Tito alla luce dei papiri, in Atti del Congresso Intern. di Studi flaviani, Rieti 1983, 345-354; ristampato in Scripta Selecta, Milano 1998 [Biblioteca di Aevum Antiquum, 12], 187-197). V. anche H. Halfmann, Itinera Principum. Geschichte und Typologie der Kaiserreisen im Römischen Reich, Stuttgart 1986 (Heidelb. Althistorische Beiträge, 2), 178-184, con bibl. precedente. 2

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ne patrimoniale e tassazione che possiamo vedere come già realizzate nei papiri dei tardi anni 70 e degli anni 80 del I secolo, siano state in realtà poste in essere da Vespasiano al momento del suo soggiorno in Egitto 3. In altre parole, nel caso egiziano possiamo vedere l’imperatore all’opera in contesto provinciale. Il dossier documentario di età flavia risulta inoltre ancora più intessante in quanto si può analizzare l’opera riformatrice di Vespasiano prendendo le mosse da quanto sappiamo dall’editto di Tiberius Iulius Alexander, pubblicato circa quindici mesi prima dell’arrivo di Vespasiano ad Alessandria 4. La situazione economica e sociale della provincia all’arrivo di Vespasiano non doveva essere radicalmente diversa da quanto solo un anno prima era stato enunciato nell’editto. Non vi è ragione di credere, a mio avviso, che l’editto sia un prodotto cancelleresco diramato a soli fini retorici o di propaganda. Le storture cui l’editto stesso cerca di porre rimedio dovevano essere reali, anche se certamente soggetta a scrutinio (e scetticismo) deve essere la possible esagerazione sulla moltitudine di petizioni ricevute dal prefetto dal momento del suo ingresso ad Alessandria nel 66 e sulla pervasività di pratiche vessatorie da parte dell’amministrazione prefettizia a livello centrale e locale 5. Ad ogni modo, l’editto interviene in 3 Per la data della istituzione del logos ousiakos, G.M. Parassoglou, Imperial Estates in Roman Egypt, Amsterdam 1978 (American Studies in Papyrology, v. 18), 28-29 con nt. 90-98 e bibl. precedente. Per l’istituzione della bibliotheke enkteseon, v. infra. 4 OGIS 2.669 = IGRR 1.1269. L’edizione critica oggi in uso è quella di Chalon, L’édit, cit., 2734, con trad. francese, 35-39, ed una lista completa delle precedenti edizioni, traduzioni e commentari, 243-245. La bibliografia precedente all’opera fondamentale di Chalon è raccolta dallo stesso: importanti A.C. Johnson, An Economic Survey of Ancient Rome. Volume II. Roman Egypt to the Reign of Diocletian, Baltimore 1936 e S.L. Wallace, Taxation in Egypt from Augustus to Diocletian, Princeton 1939. Importante articolo apparso dopo l’opera di Chalon è quello di J.-L. Mourgues, Le préambule de l’édit de Tiberius Iulius Alexander, témoin des étapes de son élaboration, in BCH, 119, 1995, 415-435, in cui, con buoni argomenti, si postula una data neroniana per la sua redazione. Ora fondamentale A. Jördens, Statthalterliche Verwaltung in der römischen Kaiserzeit. Studien zum praefectus Aegypti, Stuttgart 2009 (Historia Einzelschriften, 175), spec. 271-280, 331-334, 487-489. 5 Sull’Egitto in età neroniana, in generale, O. Montevecchi, Il significato dell’età neroniana secondo i papiri greci d’Egitto, in J.-M. Croisille et P.-M. Fauchère (éds.), Neronia 1977. Actes du 2e colloque de la Société Internationale d’Etudes Néroniennes, Clermont-Ferrand 1982, 41-54 (rist. in Scripta Selecta, cit., 153-169); in particolare, sulla situazione economica e sociale, H.I. Bell, The Economic Crisis in Egypt under Nero, in JRS 28, 1938, 1-8; teoria della ‘crisi’ in M. Rostovtzeff, Social and Economic History of the Roman Empire, Oxford 1926, 298. Nel dettaglio dei problemi che qui interessano maggiormente: sull’affitto forzoso di terra usiaca, come denunciato dall’Editto, PLond 280 (datato al 55, v. WChr. 176) con l’interpretazione di Oertel, Die Liturgie. Studien zur Ptolemäischen und kaiserliche Verwaltung Ägyptens, Leipzig 1917 (Nachdruck, Aalen 1965), 96 s., 111 s.; anche Parassoglou, Imperial Estates, cit., 59-60. V. anche SB 9224 (50-51), con commento di Oertel, Liturgie, cit., 198, e Parassoglou, Imperial Estates, cit., 61-62. Sull’affitto forzoso, ovvero la pratica di dare in affitto a comunità (eperismos) o a singoli proprietari contermini (epibole) parcelle di terra pubblica o imperiale che sarebbero altrimenti rimaste non coltivate, G. Poethke, Eperismos. Betrachtung zur Zwangspacht in Ägypten

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alcuni ambiti cruciali dell’amministrazione fiscale e giudiziaria della provincia 6: si fa divieto di assegnare forzosamente contratti di riscossione di imposte e porzioni di terra imperiale ad affittuari e conduttori usiaci; si proibisce ai funzionari a livello centrale e periferico di comprare debiti di privati e ridurre i debitori in prigione come se fossero stati debitori del fisco; lo stato si arroga il diritto di prelazione sulla proprietà di coloro che svolgono funzioni e incarichi pubblici, così come di coloro che entrano in contratti di obbligazione con lo stato, quali affittuari di terra pubblica, e detentori di contratti di sfruttamento di monopoli o esattori delle tasse; è fatto obbligo di pubblicare i nomi dei contraenti di contratti pubblici la cui integrità in materia finanziaria fosse stata sospetta; si confermano le tradizionali immunità e indennità fiscali; la terra venduta dallo stato (vale a dire cleruchica) deve essere tassata come terra privata e non pubblica; gli Alessandrini proprietari di terra privata nella valle del Nilo sono fatti esenti dalle liturgie locali; le cause passate in giudicato dal tribunale del prefetto e da quello dell’idiologo con assoluzione del convenuto non possono essere appellate; imposte e tasse create nell’ultimo lustro sono da ritenersi non valide a meno che esse non si applichino all’intera provincia e si punisce severamente il peculato di ufficiali che si sono arricchiti con nuove imposte; infine, in materia di tassazione, si ribadisce che il tributo in grano deve essere calcolato secondo le misurazioni annuali del Nilometro e non sulla base della media delle piene nell’ultimo lustro e si ribadisce l’esenzione dalla tassazione della chora alessandrina. Infine, per ogni altra questione, si rimanda alla decisione dell’Imperatore. L’editto pertanto risponde a petizioni che, in linea di principio, potevano essere state avanzate sia dai grandi proprietari e da membri dell’elite alessandrina (gli euschemonetatoi della praefatio, e tra questi dovevano senz’altro annoverarsi sia i telonai che i misthotai delle ousiai), sia da tutti coloro che, a diverso titolo, coltivavano la terra (i georgountes ten choran). Ci si soffermerà qui su due questioni rilevanti per la nostra ricerca: il problema della tassazione della terra pubblica coltivata a grano, che sembra sia stato una questione centrale, vuoi perchè gli ufficiali dell’amministrazione egiziana cercassero di circonvenire le tradizionali immunità (Alessandrini e chora alessandrina), vuoi perchè alzassero surrettiziamente la tassazione (tassando come pubblica terra privata o calcolando l’ammontare in base a rilevazioni del Nilometro non rispondenti al vero), ricorrendo pertanto a pratiche

während der Prinzipatszeit, Bruxelles 1969 (Papyrologica Bruxellensia, 8), 24 ss. e passim; A.C. Johnson, The ejpibolhv of Land in Roman Egypt, in Aegyptus 32, 1952, 61 ss; da ultimo, Jördens, Stattalterliche Verwaltung, cit., 458-468. Notevole il fatto che tali fenomeni sono sino ad ora documentati solo per l’età giulio-claudia e non oltre: Parassoglou, Imperial Estates, 58 (cui adde, SB 12713). 6 Si veda per un commento dettagliato, Chalon, L’Edit, cit., passim.

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fondamentalmente coercitive o estorsive o entrambe le cose 7. L’altro problema riguarda i rapporti tra amministrazione e contribuenti, con particolare riferimento al privilegio del fisco nei confronti dei suoi debitori (e quindi, ancora, con speciale riferimento ai prestatori di servizi pubblici quali telonai e misthotai e alla loro fungibilità patrimoniale) 8. Ovviamente nulla si può dire circa gli aspetti quantitativi né è possible analizzare l’impatto dell’editto di Alexander sull’economia agraria egiziana. È tuttavia chiaro che l’editto aveva mirato a ridurre gli effetti delle pratiche estorsive e, nel limite delle competenze prefettizie, a riportare ordine in materia di debito, tassazione, diritti delle persone e relativi privilegi. L’azione di Vespasiano si concentrò essenzialmente sulla sostanza patrimoniale imperiale e sulle procedure di accertamento e documentazione fiscale della chora egiziana. In pratica, se visto nell’ottica di quanto precedentemente promulgato da Ti. Iulius Alexander, abbiamo a che fare con interventi amministrativi nel medesimo ambito e, come vedremo, nella medesima direzione 9. Ciò non sorprende, se si riflette sul fatto che Vespasiano potè giovarsi della competenza dello stesso Ti. Alexander, che rimase ad Alessadria almeno nei primi mesi del 70 10. Inoltre, anche qualora l’editto di Alexander avesse posto momentaneante fine o limitato le pratiche estortive e irregolari, fatto di cui nulla si può dire, certamente il problema della quantità di grano esatta in Egitto e il complessivo ammontare della tassazione in natura egiziana dovevano aver occupato Vespasiano sin dalla venuta ad Alessandria. Vespasiano, secondo Tacito, decise di muoversi da Antiochia ad Alessandria 7 Riguardano la tassazione le ll. 26-32 (Chalon, L’Edit, cit., 144-157), le ll. 45-51 (ibid., 206213) e le ll. 51-58 (ibid., 214-229). Sui privilegia e i reliqua tributorum, v. le ll. 59-65 (con il commento di Chalon, L’Edit, cit., 250-256). 8 Le ll. 15-18 trattano del problema della cessione a terzi di debiti comuni fatti passare per debiti del fisco, mentre le ll. 18-24 trattano della protezione dei contraenti terzi di rapporti obbligatori con i debitori del fisco (si veda Chalon, L’Edit, cit., 110-135). 9 Sulle proprietà imperiali in Egitto anche: H.-C. Kuhnke, Oujsiakhv gh Domänenland in den Papyri der Prinzipatszeit (diss. Köln 1971); Parassoglou, Imperial Estates, cit., passim (con bibl. precedente); D.J. Crawford, Imperial Estates, in M.I. Finley (ed.), Studies in Roman Property, Cambridge 1976, 35-70 e 173-180; D.P. Kehoe, Management and Investment on Estates in Roman Egypt during the Early Empire, Bonn 1992 (Papyr. Texte und Abhandlungen, 40), spec. 18-57; J. Rowlandson, Landowners and Tenants in Roman Egypt. The Social Relations of Agriculture in the Oxyrhynchite Nome, Oxford 1996, spec. 27-40 e 55-61; Ead., The Organization of Public Land in Roman Egypt, in J.C. Moreno García (éd.), L’agricolture institutionelle en Egypte ancienne: état de la question et perspectives interdisciplinaires, Lille 2005 (Cahiers de recherches de l’Institut de Papyrologie et d’égyptologie de Lille 25), 173-196. 10 Ti. Alexander dovette rimanere in Alessandria almeno sino a febbraio/marzo, momento in cui iniziò la spedizione di Tito per Gerusalemme (Tac. Hist. 5.1.1 e sopr. Jos. BJ 4.658: alla fine dell’inverno); sua partecipazione alla spedizione giudaica in Jos. BJ 5, 45-6, 510, etc. Per tutti, si veda A. Barzanò, Tiberio Giulio Alessandro, Prefetto d’Egitto (66/70), in ANRW II.10.1, 1988, 519580, spec. 562-3. L. Peducaeus Colonus (PIR2 P 222) è già praef. Aeg. il 27 luglio 70.

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per controllare ed eventualmente bloccare la flotta alessandrina nel 69 e, secondo Dione Cassio, fece precedere la sua venuta a Roma da un’abbondantissima quantità di grano portata da Alessandria 11. Per quanto concerne le proprietà imperiali la riforma vespasianea fu drastica e, per certi aspetti, diede un assetto a questo compartimento economico, contabile e amministrativo che rimase in auge sino alla riforma dioclezianea 12. La massa patrimoniale ereditata da Nerone fu suddivisa in due parti assegnate a Vespasiano e a Tito. Non è chiaro il criterio secondo cui le ousiai egiziane furono attribuite all’imperatore e a suo figlio: certamente non geografico, visto che la distribuzione geografica della terra usiaca è più o meno la stessa per entrambi. Più probabile sembra una divisione in base alla rendita delle propretà, ovvero in base ad una più o meno equa suddivisione della quantità di terra e del relativo gettito tributario in grano. A Tito, cui troviamo assegnato un numero di ousiai sproporzionatamente inferiore a quelle del padre, fu assegnata tuttavia l’ousia Senekiane, l’unità certamente più grande tra tutte le ousiai egiziane 13. Ma al di là della disposizione della terra usiaca tra l’imperatore e suo figlio, la riforma certamente più importante fu quella di creare un logos ousiakos e quindi, contestualmente, di creare una nuova categoria di terra in Egitto, la ge ousiake i cui proventi da tassazione alimentavano la cassa usiaca 14. Le unità produttive rimasero quelle che erano state negli ultimi anni di Tac. Hist. 3.8: Vespasiano si muove verso l’Egitto, claustra annonae, alla vigilia della battaglia di Cremona per costringere alla resa Vitelli exercitum egestate stipendi frumentique; 3.48: si dirige quindi ad Alessandria una volta avuta la notizia della vittoria, per far sentire il morso della fame agli eserciti di Vitellio e all’Urbe. Dio 66.9.2a è il passo escerpito da Zonara in cui si narra del siton polun inviato a Roma prima della partenza. In effetti, è certo che Vespasiano si sia fermato ad Alessandria almeno sino a Payni ed Epiph (giugno e luglio 70, v. supra, nt. 2), ovvero alla fine sia della raccolta che della trebbiatura, quando, sin da almeno due o tre mesi, i primi convogli della flotta alessandrina avevano fatto vela per Roma. È pertanto del tutto verisimile che Vespasiano abbia potuto e voluto far sì che le naues tabellariae facessero l’ingresso al porto di Puteoli precedendo la sua venuta, portando la notizia dell’abbondante raccolta di grano. 12 La lista completa dei papiri che contengono informazioni riguardanti le ousiai pubblicati sino alla metà degli anni ’70 del XX secolo, in Parassoglou, Imperial Estates, cit., passim, spec. Appendix II; v. in seguito: P.J. Sijpesteijn, K.A. Worp, Greek texts in the possession of the Amsterdam University Library, in Talanta 8-9, 1977, 100-114, spec. 108-114; P.J. Sijpesteijn, Further Evidence of Emperial Estates in Roman Egypt, in ZPE 60, 1985, 279-282 (lista di documenti pubblicati sino al 1984); G. Messeri e R. Pintaudi, Proprietà imperiali e tasse in un papiro della Collezione Schøyen, in ZPE 130, 2000, 197-200; L. Capponi, Maecenas and Pollio, in ZPE 140, 2002, 181-184. Registri di terra e tasse pubblicate dopo l’opera di Parassoglou: PGraux 2.14. 13 A Tito fu assegnata la ousia Senekiane e quella Doryphoriane (Parassoglou, Imperial Estates, cit., 74 con lista dei papiri). La prima ammonta, nel territorio di soli quattro villaggi della Herakleidou merìs del nomo arsinoitico a più di 2400 arure. Nella stessa regione, l’ousia più grande attribuita a Vespasiano è quella Germanikianè, pari a 796 arure (PBour 42). 14 Sul logos ousiakos e la ge ousiake, è ancora importante M. Rostovzev, Per la storia del colonato romano, Brescia 1994, 135 ss. [ed. orig. 1910, 119 ss.]; A. Tomsin, Notes sur les ousiai de l’époque 11

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Nerone, mantenendo certamente sia le proprie dimensioni che le proprie forme di gestione 15. Per quanto concerne la vocazione produttiva, poco si può dire, se non ribadire che tali tenute dovevano in misura prevalente, se non quasi esclusiva, essere coltivate a grano e, per quanto si può inferire da una documentazione senz’altro insufficiente, la (quasi) monocoltura cerealicola fu accentuata in età post-flavia anche in aree, come il nomo arsinoite, dove dovevano essere relativamente più diffusi che altrove vigneti e oliveti, quanto meno nelle proprietà private e sufficientemente capitalizzate 16. Non si volle tuttavia procedere ad accorpare le proprietà imperiali con il resto delle proprietà pubbliche (ge basilike, demosia edaphe etc.), amministrate dalla dioikesis alessandrina con il resto della chora egiziana 17. La scelta di tener separato il conto economico dei proventi derivati da questa speciale maine, in Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, Milano 1957, 2, 211-223, spec. 222223; Parassoglou, Imperial Estates, cit., 26-29; L. Capponi, Augustan Egypt. The Creation of a Roman Province, London 2005, 110-112. 15 È verosimile che la sostituzione di proestotes, oikonomoi, eklemptores o membri della familia Caesaris con misthotai e georgoi ousiakoi sia avvenuta gradualmente (v. POsl. 12, datato al 71). Ad ogni modo, da età domizianea-traianea, le forme di gestione diretta che erano state tipiche dell’età giulio-claudia scompaiono completamente (Parassoglou, Imperial Estates, cit., 50 ss.). 16 Documentazione circa nuovi impianti di vigne nelle ousiai di età giulio-claudia, in Parassoglou, Imperial Estates, cit., 45 (PLond. 195: v. PRyl II, 243 ss. e 254 ss. di età tiberiana; anche PRyl 427-22 d.C.). Nuovi oliveti in PRyl 138, sempre di età tiberiana. Giustamente si è notato che nei documenti di II secolo le tenute usiache con vigneti dovevano essere molto ridotte quanto a estensione: sopr. PMich.223, 224, 225 (Karanis, 171-174) dove, secondo Parassoglou, 47, solo 12 ar. di terra usiaca era coltivata a vigna e su 1000 contribuenti la tassa in denaro su vigneti dei villaggi dell’area, solo 60 coltivavano terra usiaca. Dati simili anche per Theadelphia (BGU 1894, 157). È probabile che, al contrario, l’allevamento di ovini e caprini fosse relativamente più diffuso. Per i dati dell’Arsinoite, Parassoglou, 48. Non deve essere esclusa l’ipotesi di una certa differenziazione regionale: PTmouis 1.101.11 ss. dal nomo mendesio (con dati che si riferiscono all’81) cita il phoron praboton pagato sul diritto di pascolo per greggi. Che l’utilizzo delle ousiai nella regione del delta potesse essere in parte diverso da quello della valle del Nilo e del Fayyum, è chiaro dai dati raccolti in K. Blouin, Environnement et fisc dans le nome mendésien à l’époque romaine. Réalités et enjeux de la diversification, in BASP 44, 2007, 135-166. 17 Il problema delle funzioni del procurator usiacus è stato di ricente affrontato da F. Beutler, Wer war ein procurator usiacus? Die Verwaltung des Patrimoniums in Ägypten in der ersten Hälften des 2. Jahrhunderts, in CCG 18, 2007, 67-82. Seppure è da accogliere l’interpretazione di voler vedere in procuratori usiaci nel secondo secolo gli epitropoi tou kuriou Kaisaros, senza ulteriori attributi, non è altresì condivisibile la proposta di voler datare l’introduzione del procurator usiacus ad età traianea (v. anche Parassoglou, Imperial Estates, cit., 89-90). Ti. Claudius Blastus, epitropos genomenos kuriou Kaisaros (CPR I 1 = WChr. 220), è responsabile per la messa ad incanto di terra catecica data a garanzia di un contratto di misthosis su terra usiaca, contratto evidentemente non onorato, in una data precedente all’81-2, pertanto, molto verosimilmente, in età vespasianea. Per vendite all’asta di terreni usiaci amministrate da procuratores usiaci invece che dall’idios logos, v. D. Hagedorn, P.Col. V 1 Verso und der Procurator Aelius Socraticus, in ZPE 153, 2005, 141-146, spec. 142, nt. 7. Una convincente interpretazione in S. Alessandrì, Le vendite fiscali nell’Egitto Romano. I. Da Augusto a Domiziano, Bari 2005, 169-170.

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categoria di terra deve, a mio avviso, essere interpretata storicamente in base alle esigenze fiscali e tributarie dell’Impero. Prima di discutere del trattamento fiscale delle proprietà imperiali, occorre analizzare brevemente natura e rilevanza economica della terra usiaca. La teoria generale, prevalentemente accolta, vuole che le ousiai siano state proprietà fondiarie formatesi al momento della provincializzazione dell’Egitto, e che abbiano costituito unità gestionali sin dall’origine in proprietà imperiale (di Augusto) date in beneficio a membri della casa imperiale e ad amici Caesaris, quindi ritornate al patrimonio di Cesare per eredità e confisca. Parassoglou ha giustamente insistito sul carattere atecnico dell’espressione ‘ousia’, tanto che il termine è associato a proprietà private certamente non nella disponibilità imperiale sia nel I che nel II secolo. Anche se non è possibile seguire sino in fondo la sua proposta di interpretazione delle ousiai quali proprietà acquistate da privati nel corso del I secolo sul libero mercato (v. sotto) 18, è a mio avviso indubbio che il quadro statico proposto dalla maggior parte degli storici debba essere parzialmente rivisto. Il numero di beneficiari di ousiai nel corso dell’età giulio-claudia cresce e con esso, verosimilmente, l’estensione di terra usiaca, a meno di non voler pensare che la medesima quantità di terra sia stata di volta in volta ridivisa, riassegnata e riallocata. A tale ipotesi osta il conservativismo dei toponimi, che si mantengono inalterati per secoli e che spesso, nella nostra documentazione, citano kleroi, ovvero lotti di terra cleruchica e quindi privata (ma anche terra catecica) incorporate nelle ousiai, una spia che altra terra si è aggiunta a unità fondiarie già formatesi 19. Inoltre, vi sono ousiai che ‘ritornano’ al patrimonio imperiale sin da età augustea e non sono più riassegnate. Ad esempio, la ousia Maikenatiane, sicuramente una delle prime ad essersi formata, ritornò ad Augusto alla morte di Mecenate (8 a.C.) e, a quanto è dato sapere, non fu poi riallocata ad altri beneficiarî. Ugualmente, è difficile pensare che la più grande delle ousiai, quella di Seneca, possa essere stata interamente donata accorpando terreni precedentemente facenti parte di altre ousiai. In altre parole, se è indubbio che Augusto abbia ricavato per sè una porzione della terra egiziana al momento della conquista, e quindi l’abbia destrutturata e ridistribuita, è altrettanto verosimile che, proprio per onorare obblighi di patronato e di amicizia, nuove porzioni di territorio egiziano siano state stornate e accantonate nel corso dell’età giulio-claudia per i beneficiari di ousiai. Ovviamente, è impossibile stabili18 Tesi avanzata dapprima da Tenney Frank, argomentata con convinzione e qualche verosimiglianza da Parassoglou e accettata nella sostanza da Rowlandson, Landowners etc., cit., 56, nt. 90. Rifiutata recisamente da D. Crowford, Imperial Estates, cit., 41; D. Rathbone, Egypt, August and Roman Taxation, in CCG 4, 1991, 81-112, spec. 102-3 e E. Lo Cascio, Il Princeps il suo Impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari 2000, 122, nt. 72. 19 Lista di attestazioni in Parassoglou, Imperial Estates, cit., 9, nt. 26-7, cui adde SB 24.15904.

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re con qualsivoglia precisione quali categorie di terre potessero essere donate di volta in volta ai beneficiarî usiaci, ma certamente, la quantità di terra che il fisco possedeva in quanto terra pubblica (ge demosia) o di cui entrava in possesso tramite confisca ai danni dei debitori del fisco, era enorme. Inoltre, le ousiai costituitesi per grazia imperiale potevano ben ingrandirsi tramite acquisti o per inglobamento di proprietà dei debitori degli stessi proprietari usiaci, nelle forme e nei modi cioè proprî di qualsiasi altra grande proprietà privata. Occorre pertanto proporre un modello di sviluppo delle ousiai giulio-claudie più dinamico di quanto sinora postulato: ad un primo grande lotto di terra costituitosi per volontà di Augusto nei primi anni della formazione della provincia, nuove terre si aggiunsero man mano che si dovette provvedere a nuovi beneficiarî e man mano che i beneficiati fecero fruttare economicamente le loro proprietà e il loro status di grandi proprietari terrieri protetti dall’imperatore. Non è possibile quantificare la crescita della terra appartenente alle ousiai nel corso del secolo tra Augusto e Vespasiano, ma certamente crescita ci fu. Un documento recentemente pubblicato getta luce su questo punto e su quello della tassazione delle ousiai prima di Vespasiano. Il PShøyen MS 244/9 (= SB 16.16784) elenca una lista di pagamenti di tasse in grano per tre ousiai del nomo arsinoite, redatta tra il 54 e il 62 20. La terra in questione è classificata come catecica, ovvero privata, tassata pertanto ad un’artaba per aroura più le sovrattasse consuete. Le prime due proprietà sono di entità modesta: la prima è l’ousia di Salvius Otho (futuro imperatore), già Petroniana, ovvero in origine donata con ogni verosimiglianza da Augusto a Petronius, praef. Aeg. 25/24 -22/21 a.C., quindi in proprietà di Claudio, infine donata da Nerone a Otho 21. A quanto mi consta, questa, insieme alla seconda ousia citata nello stesso papiro, appartenente a Seneca e precedentemente a D. Valerius Asiaticus, è l’unica attestazione certa di una ousia ritornata in mano imperiale e quindi riallocata ad un privato. In altre parole, il papiro offre una prova documentale a mio avviso certa e definitiva che la teoria di Parassoglou sulla origine delle ousiai da acquisti sul libero mercato non può essere Messeri-Pentaudi, Proprietà etc., cit. a nt. 12. L’ousia Petroniane è nota da altri due papiri: PGen 2.91=SB 6.9224 e BGU 2.650=WChr. 365. Importante è quest’ultimo documento ai fini della nostra ricostruzione: una certa Potamiaine scrive nel 46/47 al proestos dell’ousia, cioè al sovrintendente in capo della proprietà, a seguito della mancata consegna da parte di altri proestotes della stessa ousia di un appezzamento di terra cleruchica confiscato ad un misthotes insolvente e aggiudicato alla scrivente. Se ne deve dedurre che gli stessi amministratori delle proprietà usiache (e non l’idios logos e i suoi amministratori) gestivano le pratiche di confisca e vendita all’asta di debitori usiaci e che i terreni confiscati rimanevano nella loro disponibilità sino ad avvenuta consegna all’assegnatario (v. Alessandrì, Le vendite fiscali, cit., 55-59). Questo deve essere stata una delle modalità attraverso cui la terra usiaca poteva crescere in dimensioni. V. anche PLond 280=WChr. 312. 20 21

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sostenuta. D’altro canto tuttavia, le proprietà di Seneca e quella di Doryphoros, liberto imperiale, terza citata nel documento, dovevano essersi formate in tempi molto più recenti rispetto all’ousia Petroniane. Inanzitutto, la proprietà di Seneca non reca il nome del prediale formato sul precedente possessore con suffisso –ianus, anzi, sarà Seneca a dare il proprio nome all’ousia Senekiane. Lo stesso valga per l’ousia Doryphoriane attestata da età post-flavia. In altre parole, al momento in cui il papiro è stato scritto le due proprietà erano in via di formazione e consolidamento e non potevano dirsi ancora unità gestionali e amministrative compiute. Prova ne sia che, alle arure della proprietà già di Narcissus ora di Doryphorus, vengono computate al fine della tassazione 158 arure di terra catecica (n. b., la proprietà più vasta tra quelle citate nel papiro) annesse (prosgegonuiai) nel 50/51 e precedentemente possedute da una certa Caecilia, figlia di Malchius. Quest’ultimo dato è di grande interesse. La donna non è nota da altre fonti e non sono noti Caecilii di rango sociale elevato in età giulio-claudia ad Alessandria e in Egitto. In altre parole, è improbabile che la donna possa essere stata beneficiaria di un’ousia. Deve, più verosimilmente, essersi trattata di una possidente nel nome arsinoitico, verosimilmente figlia di un alessandrino cittadino romano, la cui proprietà è stata acquisita (o annessa) a quella di Narcissus nel 50/51. Ci sfuggono le modalità attraverso cui la proprietà di Caecilia è stata computata con quelle di Narcissus e tuttavia il papiro testimonia come l’ousia che sarà di Doryphoros si sia inequivocabilmente ingrandita in età claudia. Altro elemento fondamentale riguarda la tassazione delle terre in questione, pari alla monartaba fissa applicata in modo consuetudinario alle proprietà private e non all’ekphorion calcolato in base alla qualità della terra, alla capacità produttiva e la piena del Nilo, metodo applicato alle terre pubbliche. La nostra documentazione circa le forme di tassazione della terra usiaca in età preflavia è purtroppo molto lacunosa 22. Sono note esenzioni dalla tassazione (ateleia) per alcune proprietà e, in considerazione del rango sociale dei possessori usiaci, è verosimile che tali forme di immunità fossero comuni, anche se è impossibile, o meglio errato, definire le ousiai giuridicamente immuni 23. Ora, se si analizzano i papiri relativi alla terra usiaca successivi all’età flavia, emergono alcune radicali differenze con la situazione precedente. Il conto usiaco è stato creato per la gestione della rendita di una massa patrimoniale di proprietà imperiale, allo stesso modo della ge demosia. La differenza fondamentale tra la ge demosia o basilike e quella usiaca sta tuttavia nei livelli di tassazione. Dalla raccolta dei dati di Wallace, emerge chiaramente che la tassazione della terra usiaca è in media più alta di qualsiasi altra terra pubblica in Egitto e, a maggior ragione, più alta di Parassoglou, Imperial Estates, cit., 50 ss.; Capponi, Augustan Egypt, cit., 111 e nt. 103 e 104; Rowlandson, Landowners, cit., 58-9. 23 Rowlandson, Landowners, cit., 57. 22

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qualsiasi terra privata 24. Se la tassazione sulla terra privata è, senza considerare le varie sovrattasse, in media, di un’artaba per aroura per i terreni coltivati a grano, la terra pubblica versa nel conto della dioikesis una media di 3 artabae per aroura, laddove invece per la terra usiaca abbiamo attestate quote in media dalle quattro alle sei artabae per aroura, con punte sino a sette, otto e nove artabe per alcune ousiai del nomo arsinoitico 25. Nei rari casi in cui possediamo catasti con indicazione delle categorie di terra presenti in una determinata area, coltivate a grano con relativa tassazione (PBour. 42), appare evidente che, a fronte di una discontinua e ineguale presenza della terra usiaca nel territorio dei vari villaggi, questa è tuttavia invariabilmente tassata più di qualsiasi altra categoria di terra 26. Per quanto riguarda l’estensione della terra usiaca sul totale della terra coltivata a grano dell’Egitto, è praticamente impossibile anche solo dare una stima di massima. I dati dell’Arsinoite parlano di una cospicua presenza, che raggiunge picchi di un terzo del totale di terra a grano nei territori di alcuni villaggi. Parassoglou ha prudentemente calcolato, come stima di minima, che nel II secolo vi fossero circa 10.000 arure di terra usiaca coltivata a grano nel nomo Arsinoitico su di un totale di 600.000 arure complessive del nomo pari a circa l’1.8% 27. Non sappiamo tuttavia quanta parte del nomo fosse coltivata a grano e quindi non è possibile stabilire quale sia stata la proporzione del contributo granario della terra usiaca in rapporto alle altre categorie di terra. Tuttavia, possiamo 24 L’opera di riferimento è ancora Wallace, Taxation, etc; per la terra usiaca, 4 e 11-12 con relative note; V. anche R. Bagnall, Agricultural Productivity and Taxation in Later Roman Egypt, in TAPhA 115, 1985, 289-308; importante J. Rowlandson, The Organization of Public Land, cit.. I prosodike edaphe sono tassati più della terra usiaca, ma si tratta di piccole particelle di terra confiscata in attesa di essere assegnate e pertanto di scarso valore ai fini della rendita fiscale. 25 PBour 42 recto, con tasse suddivise per cleruchie a Ptolemais ha una media di 6 2/3 art. per ar. con punte sino a 9¼ (ousia Germanikiane), 8 2/3 (Senekiane), sino a 14 1/3 per l’ousia Luriane (l. 470). In PRyl 127 (Psenuris, Nicapoli, Herakleia, inizi del II sec.) la tassazione varia da 5 1/6 art. per ar. sino a 7 12/18. 26 Inoltre, l’alta tassazione della terra usiaca si può inferire anche dalla inequivoca documentazione della pratica dell’epimerismos, cioè dell’imposizione forzosa di un contratto di affitto agrario di terra pubblica (sia demosia che ousiake), pratica che, senza dubbio, testimonia la difficoltà da parte dell’amministrazione imperiale a trovare volontari che prendessero in affitto la terra (questa l’interpretazione canonica di Poethke, Epimerismos, cit.; v. anche Id., Der Berliner EpimerismosPapyrus vom Jahre 139 (P11529+16015), in APF 24-25, 1976, 101-109. Si tratta di SB 14.11657 ). Meno drammaticamente, ma ugualmente spia della difficoltà di estrarre alte rendite dalla terra pubblica, la pratica è stata più di recente vista quale espediente amministrativo il cui fine è un’equa riallocazione e riaggiustamento tra terra pubblica e popolazione (v. le acute osservazioni di Rowlandson, The Organization of Public Land, cit., spec. 192-193) 27 Parassoglou, Imperial Estates, cit., 44. Ovviamente nelle 600.000 arure vanno anche conteggiati i pascoli, i vigneti, gli oliveti, la genhypologos o scarsamente produttiva, quella improduttiva etc.. La mia impressione è che, anche se le 10.000 arure fossero una stima accurata, la percentuale di terra a grano usiaca su quella coltivata a grano del nomo sarebbe ben più alta del 2% ipotizzato.

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avere una qualche idea della ‘redditività fiscale’ della terra usiaca. A Ptolemais Nea nel 167, la terra privata costituisce il 36.9% dell’estensione totale della terra coltivata a grano, ma rende fiscalmente solo l’8.9% delle 16891 artabe pagate quale tassa dal territorio del villaggio. La terra usiaca costituisce il 24% ca., ma rende il 36% del gettito fiscale del territorio, mentre la terra pubblica a sua volta è il 21% e rende il 23.6%. A Hiera Nesos, dove le ousiai sono meno numerose e vaste (12.9% del totale della terra coltivata a grano), rendono tuttavia il 17.6% dell’intero gettito annuale, mentre le proprietà private, sproporzionatamente più numerose nel dato aggregato (32.4% del territorio) rendono appena l’8.6 del gettito fiscale complessivo del villaggio, un rapporto soprendentemente analogo a quello di Ptolemais Nea. Detto altrimenti, malgrado la terra usiaca coltivata a grano sia a Ptolemais Nea, quanto ad estensione, 18/25 o poco più dei 3/5 della proprietà privata, rende fiscalmente in termini assoluti più di 4 volte il gettito in grano di quella privata, mentre a Hiera Nesos, la proporzione tra superfici usiache e private è di 2/5, mentre in termini assoluti la terra usiaca versa poco più del doppio di grano pagato sulla terra privata 28. Sfortunamentamente ad oggi non possediamo documenti di età vespasianea che ci diano, con tanta dovizia di particolari, lo stato della tassazione delle varie categorie di terra nella chora egiziana. Tuttavia, allo stato delle nostre conoscenze, è legittimo inferire dalla massa documentaria disponibile dai tardi anni di Domiziano in poi che, dal momento in cui il logos ousiakos fu creato, ovvero dacché le varie ousiai furono riordinate sotto i nomi di Tito e Vespasiano e fu creata pertanto una nuova categoria di terra, amministratata separatamente dalla restante terra pubblica, si sia provveduto ad un generale riordino dei regimi fiscali di tale terra. Prova ne siano due dati incontrovertibili: 1. la massa patrimoniale che rifonde il conto usiaco non è più suscettibile di ulteriori ingrandimenti. La quantità di terra nel patrimonio imperiale cresce sino a Vespasiano, quindi rimane stabile o diminuisce leggermente nel corso dei successivi 150 anni, dato che sono attestati casi di alienazione a privati di particelle di terra usiaca di scarsa redditività e probabilmente marginali, nel corso del II secolo 29. 2. Non sono più attestati casi di ousiai donate, assegnate o cedute a membri della casa imperiale o ad amici Caesaris, malgrado, ovviamente, di candidati a ricevere benefici imperiali ve ne dovevano essere anche in età flavia e malgrado la liberalità imperiale continui ad essere un pilastro su cui Dati desunti da PBour 42, e dai tabulati di Johnson, Roman Egypt, cit., 40 e Bagnall, Agricultural productivity, cit. 291-292. Simili proporzioni sono proposte da Bagnall anche per altri villaggi del nomo arsinoitico, ivi. 29 Si vedano ad es. SB 18.13747 (214-217), in cui è messa in vendita una particella di poco più di 5 ar.; PGiss. Bibl. 52 (222), una piccola particella in vendita; SB 10.10527 (151-2), cinque ar. di terra catecica, su cui, D.M. Parassoglou, Lurius, Aelius and Aelius. A note on SB 10527, in ZPE 11, 1973, 21-23. Anche Rowlandson, The Organization of Public Land, cit., 178-179 sull’editto di Adriano concernente la vendita di terra pubblica non produttiva e il suo impatto molto limitato. 28

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poggia l’intero edificio delle relazioni sociali a corte e con gli amici Caesaris. Tuttavia, da Vespasiano in poi il beneficium Caesaris non si applica più all’Egitto e in questa discontinuità si può ben misurare il carattere radicale della riforma 30. Col venir meno delle ousiai private, deve essere venuta meno anche la ragione del trattamento di privilegio fiscale di cui molte di esse potevano avere goduto in età giulio-claudia. Ora, anche se non sappiamo con esattezza come e quanto le ousiai fossero tassate in età vespasianea, l’intera messe di documenti successiva, prevalentemente di II secolo, testimonia senza eccezioni che la terra usiaca fu iper-tassata. L’ipotesi di lavoro, certamente suscettibile di essere modificata con la pubblicazione di nuovi documenti è pertanto che, senza alterare nulla della struttura della tassazione delle altre categorie di terra egiziana, e senza procedere ad acquisizioni forzose o confische, Vespasiano profittò della forte discontinuità politica con gli ultimi anni di Nerone e delle guerre civili, per porre fine al regime di benefici imperiali in Egitto, e al contempo sfruttare appieno le potenzialità fiscali e annonarie di una massa patrimoniale che era stata gestita, sino ad allora, prevalentemente come un oggetto di scambio, ovvero come ricompensa per buoni servigi resi e quindi con finalità, da parte imperiale, esclusivamente politiche e non economiche. Come si è visto sopra per i casi dei villaggi del nomo arsinoitico, un’alta rendita fiscale, pari almeno al doppio o triplo di quella esatta sulla terra privata, poteva essere estratta da superfici pari alla metà di quelle private. Pertanto, con la creazione di una nuova categoria di terra pubblica, non suscettibile di ulteriori ampliamenti, ma tassata regolarmente si ottenne un duplice scopo: si contribuì da un lato ad aumentare il gettito tributario complessivo in grano dell’Egitto (scaricandone il peso fiscale esclusivamente sui misthotai usiaci), e dall’altro si semplificò il quadro normativo sulla tassazione e sugli statuti delle terre egiziane, dando garanzia di stabilità e non modificabilità all’assetto della proprietà pubblica 31. Per dirla nel gergo della New Institutional Economics, si abbassarono i costi di transazione dell’economia fiscale e agraria stabilizzando un intero comparto agrario egiziano, dando Sulle liberalità imperiali in generale, H. Kloft, Liberalitas Principis. Herkunft und Bedeutung. Studien zur Prinzipatsideologie, Köln 1970 (Koelner historische Abhandlungen), spec. 103-104. Importante notare che Vespasiano fu un modello di buon uso della liberalità verso l’ordine senatorio, in Suet. Vesp. 17. Sugli amici Caesaris, A. Winterling, Aula Caesaris. Studien zur Institutionalisierung des römischen Kaiserhofes in der Zeit von Augustus bis Commodus (31 v. Chr. - 192 n. Chr.), München, 1999, spec. 161-194. Per il beneficium Caesaris e il fondamentale ruolo svolto nella società imperiale, R.P. Saller, Personal Patronage under the Early Empire, Cambridge, 1982, 41-78. 31 Il malcontento popolare ad Alessandria nei mesi in cui Vespasiano vi soggiornò è attribuita da Dio 66.8.3-4 al rigore fiscale dell’imperatore che non risparmiò agli Egiziani nessuna misura, vecchia o nuova, per aumentare il gettito tributario della provincia. È possibile, ma non dimostrabile, che tra queste misure vi fossero anche quelle relative alla terra usiaca. Per una convincente interpretazione dei tele quali imposte sui beni commerciati, F. de Romanis, Commercio, metrologia, fiscalità. Su P. Vindob. 40 822 verso, in MEFRA 110, 1998, 11-60, spec. 44-45. 30

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certezza di diritto a quanti volessero prendere in affitto le ousiai sino ad allora gestite privatamente e, verosimilmente, con contratti, diritti, privilegi ed esenzioni di volta in volta negoziati individualmente 32. Un ultimo punto val la pena qui di menzionare. La disputa sulla natura e lo statuto della terra è menzionato nell’Editto di Ti. Alexander, ove si fa divieto ai funzionari di trasformare d’autorità la terra cleruchica (ovvero privata) in terra pubblica (cioè in ge demosia), con lo scopo probabile di riscuotere una tassa in natura per i terreni coltivati a grano maggiore di quella sulla terra privata. L’altra innovazione vespasianea, l’istituzione della bibliotheke enkteseon può aver dato risposte anche a queste petizioni 33. La bibliotheke è l’archivio centrale del nomo in cui venivano registrate non solo le proprietà private, catalogate secondo la loro appartenenza ad una delle varie categorie di terra, ma anche le ipoteche e tutti i passaggi di proprietà, sia per compravendita che per eredità 34. È stato più volte notato che la capillarità nella registrazione e l’accuratezza nella pratica archivistica e di registrazione riscontrate in Egitto, non hanno eguali nel resto dell’impero. Esistono precedenti più o meno calzanti nella pratica di registrazione tolemaica, comunque caduti in disuso sin dal II secolo a.C. 35. Il dibattito recente sull’istituzione mette 32 Il concetto di transaction costs mutuato da D. North è adottato oggi da un numero di storici dell’economia antica crescente ed ha ottenuto ampio favore storiografico. Importante E. Lo Cascio, La ‘New Institutional Economics’ e l’economia imperiale romana, in M. Pani (a cura di), Storia romana e storia moderna. Fasi in prospettiva, Bari 2005, 69-83. Si veda anche per una recente lettura neoistituzionalista dei contributi nella Cambridge Economic History of the Graeco-Roman World, P.F. Bang, The ancient economy and new institutional econonomics, in JRS, 99, 2009, 194-206. V. anche il contributo di D. Kehoe nel presente volume. 33 La bibliografia sulla bibliotheke enkteseon è enorme. H.-J. Wolff, Das Recht der griechischen Papyri Ägyptens in der Zeit der Ptolemaeer und des Prinzipat, II: Organisation und Kontrolle des privaten Rechtsverkehers (HAW, X.5.2), München 1978, 222-255 è la discussione fondamentale, con bibl. precedente. Ora, si vedano anche A. Jördens, Nochmal zur Bibliotheke Enkteseon, in G. Thür (hrg.), Symposium 2009. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte (Seggau, 25-30 August 2009), Wien 2010, 277-290 e Ead., Öffentliche Archive und römische Rechtspolitik, in K. Lembke, M. Minas-Nerpel, S. Pfeiffer (eds.), Tradition and Transformation: Egypt under Roman Rule (Proceed. Int. Conf. Hildesheim, Roemer - and Pelizaeus-Museum, 3-6 July 2008), Leiden 2010, 159-179. Per quanto concerne la data di istituzione, il terminus post quem è certamente costituito dall’Editto di Ti. Alexander, in cui la bibliotheke non è nominata, mentre i primi documenti che ne fanno menzione si riferiscono entrambi alla prima metàdel 72 (BGU 1.194 e PLugd.Bat. 6.15.44). È pertanto verosimile, vista la portata e capillarità dell’istituzione, che sia stata anch’essa voluta e istituita da Vespasiano durante il suo soggiorno ad Alessandria. V. F. Burkhalter, Archives locales et archives centrales en Egypte romaine, in Chiron 20, 1990, 191-216, spec. 209-210. 34 Come noto, il documento fondamentale per la ricostruzione della bibliotheke è l’editto di Mettius Rufus (Ottobre 89), POxy 2.237 = WChr. 192 = FIRA I 60, ampiamente commentato nella lett. cit. a nt. precedente. 35 Si veda tuttavia Hygin. De limit. 202 (Lachmann): omnes significationes et formis et tabulis aeris inscribemus, data, adsignata, concessa, excepta, reddita, commutata pro suo, reddita veteri possessori, et quaecumque

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in rilievo due possibili motivi alla base della riforma. Il primo, più generale, concerne il carattere di garanzia che l’amministrazione del nomo svolge nel registrare e rendere accessibile l’informazione economica necessaria a regolamentare sia il mercato fondiario che quello dell’affitto agrario. Dalla sua istituzione in poi, qualora un atto di autocertificazione si fosse reso necessario, troviamo riferimento alla bibliotheke – o al funzionario bibliophylax – quale archivio istituzionale locale presso cui ottenere informazioni circa la terra, la proprietà e le ipoteche e pertanto la fungibilità degli attori nei rapporti obbligatori. Il secondo, connesso con quest’ultimo punto, riguarda il ruolo che la bibliotheke svolgeva nell’accertamento della situazione patrimoniale dei possibili canditati alle liturgie, soprattutto per quanto concerne situazioni debitorie dei soggetti e possibili ipoteche dei beni che il futuro liturgo aveva potuto contrarre sui beni che sarebbero stati dati a garanzia nell’esercizio della liturgia 36. L’istituzione della bibliotheke ha chiaramente facilitato l’accertamento della situazione patrimoniale non solo dei liturgi, ma anche dei misthotai delle proprietà imperiali e di tutti coloro che si fossero trovati in rapporti di obbligazione con il fisco. In altri termini, Vespasiano istituisce uno strumento di conoscenza e quindi di controllo capillare della terra e del patrimonio dei ceti possidenti egiziani, inteso a facilitare non solo il corretto funzionamento del mercato della terra, dell’affitto agrario e a facilitare i meccanismi del credito privato, intervenendo, di nuovo, sui costi di transazione e operando in modo tale che venissero ridotte le dispute giudiziarie sia sulla natura della terra, che sul tipo di proprietà, che infine sulle possibili pendenze obbligatorie degli attori economici, ma a garantire anche all’amministraalia inscriptio singularum litterarum in usu fuerit, et in aere permaneat. Il passo di Hyginus (98-105) si riferisce al liber subsecivorum omnium, citato nel paragrafo precedente, la cui istituzione si deve a Vespasiano: G. Chouquer, F. Favory, L’arpentage romain. Histoire des texts, droit, techniques, Paris 2001, 26 e 203-208. Per un’analisi degli usi del tabularium Caesaris nell’età di Galba e poi flavia, a proposito della tabula de Galillensibus (ILS 5947), A. Mastino, Tabularium Caesaris e tabularia provinciali nel processo contro i Galillenses della Barbaria sarda, in C. Castillo (ed.), Novedades de Epigrafia Jurídica Romana en el ultimo decenio, Pamplona 1989, 45-62. 36 Punto questo espresso con forza da K. Maresch, Die Bibliotheke Enkteseon im römischen Ägypten. Überlegungen zur Funktion zentraler Besitzarchive, in APF, 48, 233-246 e contestato, con buoni argomenti, soprattutto per l’ipotesi di interpretazione della creazione della bibliotheke in rapporto di causa e effetto con la diffusione delle liturgie, da Jördens nei due art. cit. a nt. 33. Tuttavia è indubbio che l’accertamento dello stato patrimoniale dei liturgi e soprattutto eventuali situazioni obbligatorie gravanti sulle proprietà dovevano essere essere un elemento di conoscenza fondamentale per l’amministrazione e per tutti coloro che volevano avere transazioni con i soggetti in questione. A questo proposito, il meccanismo del credito privato doveva certamente aver beneficiato della maggiore accessibilità di informazioni circa gli attori economici. Punto questo sviluppato, a quanto mi sembra di capire, da F. Larouxel in un paper presentato alla conferenza ‘Transaction Costs in the Ancient World’, Washington 2009, cit. da Jördens, Nochmal zur Bibliotheke, cit., e che tuttavia non ho potuto vedere.

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zione uno strumento di conoscenza e controllo sulla condizione patrimoniale di coloro che erano chiamati a contribuire alla vita delle comunità, fossero essi i liturgi o gli affittuari delle proprietà pubbliche. Vista in questa ottica, è possibile ipotizzare che il logos ousiakos e la bibliotheke enkteseon siano stati in qualche modo concepiti nello stesso momento e che, seppur si perseguissero con la loro istituzione scopi immediati molto diversi, vi fosse tuttavia una finalità condivisa, cioè quella di garantire regolarità e certezza del diritto agli attori economici egiziani. Una finalità, in altri termini, già presente nell’Editto di Ti. Alexander. Costui sicuramente garantì continuità amministrativa nei lunghissimi mesi del soggiorno di Vespasiano ad Alessandria e lavorò, come possiamo ragionevolmente supporre, a fianco dell’Imperatore, garantendo quelle conoscenze tecniche e amministrative, quell’esperienza di cose egiziane che mancavano certamente ad un senatore romano quale era stato Vespasiano sino a qualche mese prima della sua venuta ad Alessandria. Danubio e Italia Un’altra area dell’impero in cui può misurarsi l’azione politica e amministrativa di Vespasiano sul patrimonio imperiale è sicuramente quella istriana. Oggi possiamo dire che l’Istria, grazie ai lavori di Bandelli, Bezeczki, Matjasic, Tassaux, Zaccaria e di altri studiosi, è una delle aree meglio conosciute e studiate dell’Italia romana per quanto concerne gli aspetti della proprietà terriera, della capacità produttiva, del ruolo economico della regione e delle rotte commerciali dei suoi prodotti. Quanto si dirà qui di seguito deve moltissimo ai lavori dei succitati autori. Mi sembra tuttavia che, qualora si voglia intendere appieno il rilievo economico che l’Istria gioca soprattutto nel periodo vespasianeo e flavio, occorre volgere l’attenzione alle province danubiane. Il fronte danubiano aveva scelto Vespasiano nel 69, sotto il commando di Antonius Primus; in un momento immediatamente precedente, il fronte aveva subito l’attacco di Sarmati Roxolani e Jazygi, conclusosi con gravi perdite romane nel 68-69, e ancora nel 70 quando i Sarmati irruppero in Moesia e il governatore Fonteius Agrippa cadde in battaglia 37. Tuttavia, la minaccia barbarica non sembra essere l’unica ragione per il cambiamento radicale di politica e strategia militare quale è quello inaugurato nei primi anni 70. Tralasciando il problema storico della strategia difensiva dell’Impero nel suo complesso, è tuttavia un fatto accertato che il ruolo strategico-militare giocato da Noricum, Pannonia e Moesia diviene centrale dall’età flavia in poi 38. Quanto abbia pesato la scelta delle legioni Tac. Hist. 3.5.1 (anche 1.79); Jos. BJ 7.89 ss. Ancora insostituite le monografie di G. Alföldy, Noricum, London 1974, e A. Mócsy, Pannonia and Upper Moesia: History of the Middle Danubian Provinces in the Roman Empire, London 1974. 37 38

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danubiane di schierarsi con Vespasiano nella decisione di spostare gradualmente ma decisamente il baricentro militare e strategico sul fronte danubiano da quello renano è altra questione che qui non è possibile affrontare. L’intervento vespasianeo sembra essere di duplice natura. La documentazione non è particolarmente abbondante, ma è tuttavia abbastanza chiara da non lasciar dubbi circa la creazione da un lato di un cordone militare di difesa lineare sulla riva destra del Danubio e dall’altro un decisivo rafforzarmento della presenza civile tramite un’oculata politica di fondazioni di colonie e di concessione della cittadinanza nello spazio geografico di cruciale importanza tra Danubio e Sava ad est della via dell’ambra. Occorre qui di seguito ricapitolare brevemente i dati salienti di questo capitolo fondamentale nella storia delle province danubiane. Prima dell’anno 73 vengono fondate le due colonie di Siscia e (forse) Sirmium, ai due estremi della Sava, popolate in prevalenza di militari delle flotte di origine dalmata e pannonica 39. Probabilmente contestuale alla fondazione delle due città è la decisione di promuovere a municipi tre centri indigeni posti ugualmente nell’area tra Sava e Danubio, ovvero Solva 40 (nel Noricum), e soprattutto Neviodunum e Andautonia lungo la Sava 41. Il municipium flavium Latobicorum, il cui nome rapidamente mutò in Neviodunum, fu fondato alla confluenza tra Korkoras e Sava 42. L’altro municipio flavio, Andautonia, reca, come Neviodunum, numerose tracce epigrafiche di una generalizzata concessione di cittadinanza all’elemento indigeno; inoltre, la presenza di numerose gentes italiche, soprattutto aquileiesi, attive nel commercio, è attestata in questa porzione del territorio più occidentale della valle della Sava ancor per tutto il I secolo 43. Alla confluenza tra Sava e Danubio si pone quindi Taurunum (oggi Zemun, presso Belgrado), ove era stanziata la flotta danubiana Pannonica. Molto si è discusso sulla portata della riforma Siscia: Šašel, s. v., in RE, Suppl. 14, 1972, 702-714; Sirmium: Mócsy, Pannonia, cit., 76, che si basa su CIL XVI, 18 databile al 73. Tuttavia, v. M. Mirkovicˇ, Sirmium. Its history from the I century A.D. to 582, in V. Popovicˇ, Sirmium. Archaeological Investigations in Syrmian Pannonia, Beograd 1971, 5-89, spec. 15-16, ribadisce la vecchia teoria per cui la colonia fu fondata dopo il 79 (teste Plin. NH 3.148). 40 Alföldy, Noricum, cit., 93-95 41 Mócsy, Pannonia, cit., 135-6. 42 V.M. Lovenjcik, Inscriptiones Latinae Sloveniae (ILSl ), Ljubljani 1998 (Situla 37. Razprave Narodnega muzeja Slovenije). 43 M. Zaninovic´, Andautonia i Siscia u odrazu flavijevski politike, in Arheološka istraživanija u Zagrebu i Zagrebacˇkoj regiji, Znanstveni skupovi (Zagreb 1989-1992), Zagreb 1996, 59-64 (rilevante per il nostro tema ma non vidi). Gentes italiche attive nel commercio: C. Zaccaria, Il ruolo di Aquileia e dell’Istria nel processo di romanizzazione della Pannonia, in G. Hajnóczi (ed.), La Pannonia e l’Impero Romano (Atti del Convegno intern. Roma 1994), Roma 1994, 51-70; una raccolta sistematica della documentazione in Id., Testimonianze epigrafiche dei rapporti tra Aquileia e l’Illirico in età imperiale romana, in AAAdr 26, 1985, 59-127. 39

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della flotta danubiana e su chi, tra Vespasiano e Domiziano abbia dato il nome alle due classes Flaviae, Pannonica e Moesica. Un generale consenso sembrerebbe oggi attribuire la riorganizzazione a Vespasiano. Ad ogni modo, la sistemazione della nevralgica via di comunicazione lungo la Sava, con la fondazione di due importanti colonie e due municipi è la premessa necessaria per la creazione del sistema difensivo lineare sul Danubio, realizzatosi compiutamente solo con Traiano. Il vasto territorio compreso tra Sava, via dell’ambra e il Danubio, vale a dire la valle della Drava e la vasta piana ungherese del lago Balaton, saranno oggetto di provvedimenti imperiali solo nel corso del II secolo, ma l’azione di Vespasiano che si premurò di rinforzare il perimetro di questa porzione di impero ne fu la premessa necessaria. Si può attribuire a Vespasiano, in base ai dati epigrafici derivati da monumenti sepolcrali, da dediche e diplomi militari nonché sulla base delle recenti ricerche archeologiche, un numero consistente di forti di nuova costruzione lungo la riva destra del Danubio 44. Partendo da Vindobona verso est, il forte ausiliario di Klosterneuburg (Arrianis degli Itinerari?) 45 è stato attribuito con buone ragioni a Vespasiano. Nel 71 la Legio XV Apollinaris rientra a Carnuntum dalla Giudea. Più ad est, nuovi forti vengono costruiti a Esztergom (Solva) per la coh. I Batavorum milliaria pia fidelis civium Romanorum 46, a Dunabogdány (antica Cirpi) per la coh. XIIX Voluntariorum civium Romanorum 47; presso Aquincum sono attestati i forti di Budapest-Óbuda per la per la coh. I Tungrorum Frontoniana, con iscrizione di dedica nel 73, e quello di Budapest-Albertfalva, verosimilmente per un’ala, datato ad età vespasianea su base archeologica 48. Più a sud, la recente storiografia ungherese attribuisce a Vespasiano lo stanziamento di forti ausiliari sia ad Adony (Vetus Salina) che a Dunaújváros-Pentele (Intercisa), ove era stanziata l’ala Asturum II 49. Nel tratto pannonico del limes più meridionale sono attribuiti ad età flavia i forti di Várdomb (Ad Statuas), dove era stanziata la coh. I Augusta Ituraerorum sagittariorum, e quello di Dunaszekcso˝ (Lugio), dove sono stanziate le coh I Alpinorum equitata e la coh. VII Breucorum 50. Si possono ritenere creazioni flavie, molto probabilmente Si v. l’eccellente raccolta critica di J. Wilkes, The Roman Danube: An Archaeological Survey, in JRS, 95, 2005, 124-225; Z. Visy (ed.), The Roman Army in Pannonia. An Archaeological Guide of the Ripa Pannonica, Pécs 2003; Id., The Ripa Pannonica in Hungary, Budapest 2003; Lo˝rincz, Die römischen Hilfstruppen in Pannonien während der Prinzipatszeit: I Die Inschriften, Wien 2001. 45 Coh. I Montanorum? V. il diploma di Tito CIL XVI, 26. 46 Datato in età flavia da Visy, Ripa, cit., 146 e Wilkes, Roman Danube, cit., 200: ad età Claudia da Visy (ed.), Roman Army, cit., 86-87. 47 Wilkes, Roman Danube, cit., 202; Visy, Ripa, cit., 55. 48 AE 1986, 590; Wilkes, Roman Danube, cit., 204; Visy, Ripa, cit., 104-105. 49 Visy, Ripa, cit., 111-113 e 116-119 sulla base delle iscrizioni di soldati nei rispettivi cimiteri. 50 Visy, Ripa, cit., 127-133. 44

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vespasianee anche Osijek (Mursa) dove si trovano gli stanziamenti dei corpi ausiliari dell’ala II Hispanorum Aravacorum e della coh. II Alpinorum equitata, e Dalj (Teutoburgium) ove è il forte per l’ala II Hispanorum Aravacorum e l’ala I civium Romanorum, entrambe creazioni flavie, molto probabilmente vespasianee 51. Per il resto del territorio lambito del Danubio, non possediamo pubblicazioni tanto dettagliate quanto quelle per il tratto pannonico. Tuttavia, sono ritenuti vespasianei sulla base dei dati delle iscrizioni di soldati sepolti nei pressi, i forti di Acumincum (Stari Stlankamen, odierna Serbia), dove stazionava la coh. I Britannica civium romanorum equitata e quella di Tricornium (Ritopek, ancora Serbia) 52. Infine, in Moesia Inferior, è attestata epigraficamente la costruzione di un forte a Sexaginta Prista (Ruse, oggi Bulgaria), anch’esso risalente al 73 53. In conclusione, anche se il numero e la consistenza di alae e cohortes non è definibile al momento con certezza, è indubbio che alcune unità furono permanentemente dislocate nell’area del limes pannonico e, in misura minore, mesico, e che il trasferimento di militari fu quantitativamente rilevante 54. Tra fondazioni di colonie, e relativa immigrazione di nuovi cittadini, presenza di italici nei nuovi municipi e trasferimento di militari, si può stimare prudentemente ed in modo del tutto ipotetico che almeno quindici/ventimila nuovi abitanti si trasferirono nell’area danubiana. Numeri senz’altro non esorbitanti e tuttavia significativi se visti in relazione al periodo precedente quando, al di là delle legioni stanziate tra Noricum, Pannonia e Moesia, la presenza romana nell’intera, vasta regione ad est dell’asse viario Aquileia-Carnuntum era stata pressoché assente. Come recentemente ribadito da John Wilkes, i primi segni di una presenza culturale romana nella regione summenzionata si datano dal periodo vespasianeo 55. Wilkes, Roman Danube, 207. Wilkes, Roman Danube, cit. 209-8. 53 AE 1957, 307; v. Wilkes, Roman Danube, cit., 209. 54 E. Tóth, G. Vékony, Beiträge zu Pannoniens Geschichte im Zeitalter des Vespasianus, in ActaArchHung, 22, 1970, 133-161, con numeri corretti da Lo˝rincz, Die römischen Hilfstruppen, cit., 61-64 che arriva a stimare un numero complessivo di 7 alae e 18 cohortes in Pannonia, ovvero 13.000 ausiliari (ammesso che siano state tutte quingenarie), cui si devono aggiungere le legioni stanziate a Poetovio e Carnuntum. Una forza totale di ca. 25.000 soldati durante il decennio vespasianeo. Quanto al numero di soldati trasferiti, solo 2 coorti e 1 ala erano sicumente stanziate nei forti pannonici prima di Vespasiano; delle restanti 22 unità, si conosce per certo un trasferimento nella regione per 5 di esse, mentre è incerto (ma comunque probabile) per alcune delle restanti 18 unità. È difficile confrontare questo dato con i dati relativi alla situazione precedente al 68, visto lo stato molto lacunoso della documentazione. Sono tuttavia note ca. 12 formazioni ausiliarie in Pannonia negli anni 63-68 (Lo˝rincz, 59). In definitiva, è probabile che siano state stanziate nell’area tra le 10 e le 15 nuove unità ausiliarie. 55 J. Wilkes, The Danube Provinces, in CAH2 XI, 2000, 577-603, spec. 588-591 e 601-2. Un calcolo del numero totale dei soldati nella provincia alla fine del II secolo a 577-578, con cui le stime qui proposte per il period flavio sono in linea. 51 52

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Tale breve premessa è necessaria per una corretta interpretazione storica della presenza della proprietà imperiale nell’area istriana. I dati sono ben noti: prima di Vespasiano, è assai verosimile che vi fossero delle proprietà nella regione, probabilmente derivate da lasciti ereditari quali quello di Mecenate 56. La storia economica dell’Istria giulio-claudia è caratterizzata dalla presenza di grandi investimenti senatorî in praedia volti alla produzione e commercializzazione di vino, olio e probabilmente garum. I Laecanii presso Pola, gli Statilii Tauri a Loron, i Licinii Crassi sono tra le famiglie attestate con grandi possedimenti, cui si deve aggiungere Mecenate e forse alcune proprietà di Augusto sin dalla definitiva annessione dell’Istria nel 3533 a.C. 57 Soprattutto i Laecanii sono i protagonisti di una fiorente produzione vinaria e olearia e le anfore prodotte nella regione di Fasana sono presenti nell’Italia Settentrionale, in Raetia e in Noricum. In un anno precedente al 78 l’intera regione presso Fasana e le isole Pullariae, un complesso di almeno quattro enormi ville per l’esclusiva produzione di olio, la cui estensione è stata calcolata in ca. 600 ettari, furono donate da Laecanius Bassus a Vespasiano 58. Da questo momento in poi, la presenza della proprietà imperiale nella regione si fa assolutamente predominante. Occorre in via preliminare sottolineare alcuni dati che aiutano a comprendere la rilevanza storica della presenza patrimoniale imperiale nella regione. Anzitutto il testamento di C. Laecanius Bassus, cos. ord. 64 fu parziale, non integrale. Suo fratello adottivo, C. Laecanius Bassus Caecina Paetus, cos. 70, procos.

56 Dati epigrafici raccolti dapprima da A. Starac, Carski posijedi u Histriji, in Opuscula Archaeologica 18, 1994, 133-145, spec. 134-135; quindi F. Tassaux, Les propriétés impériales en Istrie d’Auguste à Constance II, in D. Pupillo, Le proprietà imperiali nell’Italia romana. Economia, produzione, amministrazione (Atti Convegno Ferrara, 2005), Firenze, 2007, 49-64; una lettura storica della proprietà imperiale in Istria anche in Maiuro, Rem Publicam, cit.. L’interpretazione di Starac per cui furono i ricchi possidenti istriani amici di Augusto a convincere costui ad annettere la regione all’Italia (Starac, Carski posijedi, cit., spec. 139-140) non convince. Al contrario, è possibile che le proprietà dei Calpurnii Pisones, di Maecenas, degli Statilii siano in realtà frutto di beneficia Caesaris al momento della conquista. Oltre al caso egiziano, sorprendentemente simile, si veda anche il SC de Cn. Pisone patre (AE 1996, 885), ll. 85-87: bona Cn. Pisonis patris publicarentur excepto saltu, qui esset in Hillyrico; eum saltum placere Ti. Caesari Augusto principi nostro, cuius a patre divo Aug(usto) Cn. Pisoni patri donatus erat, reddi. Un caso questo che potrebbe avere analogie stringenti con le proprietà senatorie istriane. 57 V. spec. F. Tassaux, L’implantation territoriale des grandes familles d’Istrie sous le Haut-Empire romain, in Problemi storici ed archeologici dell’Italia nordorientale e delle regioni limitrofe dalla preistoria al medioevo, AttiCiviciMuseiTrieste 13.2, 1982-3, 193-229. Per i Laecanii, Id., Laecanii. Recherches sur une famille senatoriale d’Istrie, in MEFRA 94.1, 1982, 227-269. 58 F. Tassaux, Apports récents de l’épigraphie à l’histoire économique et sociale de l’île de Brioni (Croatie), in Epigrafia romana in area adriatica, IXe Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain (Atti Convegno Macerata 1995), Macerata 1998, 77-99, sopr. 78-82 per la descrizione delle ville e della proprietà; anche Bezeczky, The Laecanius Amphora stamps and the Villas of Brijuni, Wien 1998 (Österreichische Akademie der Wissenschaft - Phil-Hist. Klasse, Denkschr. 261), 44-72.

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84/85 sopravvisse ai due consolari, padre e figlio di età giulio-claudia, mentre suo figlio adottivo C. Laecanius Bassus Paccius Paelignus deve evidentemente aver ereditato parte delle sostanze paterne 59. Il dato è di straordinaria importanza, in quanto sono rarissimi i casi attestati in cui un privatus di rango consolare nomina erede l’Imperatore in presenza di heredes sui e l’imperatore accetta il lascito 60. Ciò è tanto più significativo in quanto Vespasiano, lodato dalla storiografia antica come imperatore rispettoso delle sostanze patrimoniali senatorie, viene meno al codice non scritto per cui in presenza di eredi diretti e legittimi l’imperatore rifiuta il lascito. Se ne può inferire che le proprietà istriane dovevano essere particolarmente importanti all’interno dell’organizzazione del patrimonio imperiale. L’area di Fasana continua la produzione di olio anche quando entra nella proprietà imperiale; i vilici che sovraintendono alla produzione di anfore ed evidentemente di olio e che bollano le anfore Dressel 6B sono gli stessi dei Laecanii. In altre parole, la struttura organizzativa e il tipo di gestione agraria rimangono, a giudicare dal dato archeologico e dell’instrumentum, i medesimi; se tuttavia si vedono le carte di distribuzione delle anfore, si nota anzitutto che il numero totale delle anfore bollate con il nome dell’imperatore è inferiore a quello delle anfore bollate dai Laecanii. Ciò tuttavia potrebbe essere dovuto alla mancanza di indagini sistematiche nelle aree ove i bolli imperiali risultano più attestati o ad un cambiamento intervenuto nella prassi della bollatura all’interno della proprietà 61. In 59 C. Laecanius Bassus Caecina Paetus (PIR2 L 33), cos. 70, procos. 84/85, adottato dal padre del consolare del 64, ovvero dal padre naturale di costui, cos. suff. 40, deve essere stato fratello del cos. 64, mentre C. Laecanius Bassus Paccius Paelignus (PIR2 L 34) deve essere stato adottato dal cos. 64 (v. CIL VI, 21010: ipotesi di G. Alföldy, Senatoren aus Norditalien, Regiones IX, X, und XI, in Epigrafia e ordine senatorio, II, Roma 1982, 330, nt. 6). 60 Lascito o istituzione di erede rifiutati in caso di heredes sui: Suet. Aug. 66.2 (Augusto); Dio 60, 6 (Claudio); Suet. Dom. 9.2 (Domiziano); v. anche SHA Hadr. 18.5; Pius 8.5; Marc. Aur. 7.1; Pert. 7.3. Raccolta di dati in R.S. Rogers, The Roman Emperors as Heirs and Legatees, in TAPhA 78, 1947, 140-158, e E. Champlin, Final Judgements. Duty and Emotion in Roman Wills (200 B.C. - A. D. 250), Cambridge 1991, 148-154. Nuova disamina con ulteriori riflessioni in Maiuro, Res Caesaris, cit., cap. 2.2. Casi certi a me noti di Imperatori istituiti eredi o beneficiati di lasciti di cui erano extranei ed in presenza di eredi legittimi e naturali sono tre: L. Seius Strabo (Plin. NH 36.197), C. Sallustius Crispus (Tac. Ann. 3.30 e 13.47.3) e Cn. Domitius Ahenobarbus (Suet. Nero 6.3). Il caso più famoso, Tac. Agr. 43.4 non è chiaro: Tacito parla di Agricola che scrive il nome di Domiziano, non che questi abbia accettato l’eredità. 61 Vista la difficoltà nel dare un’interpretazione soddisfacente circa il problema della modalità e delle ragioni che presiedono alla bollatura nella fase di produzione, il dato del numero inferiore di esemplari bollati non deve essere interpretato necessariamente come una spia di un declino della produzione. V. ad es. il caso dei bolli su anfora da Loron, ove il bollo più attestato in numeri assoluti, sia nel sito che altrove, è quello di Nerva, appena sedici mesi di regno. Le ragioni di ciò ci sfuggono completamente. V. Y. Marion, F. Tassaux, Tuiles et amphores estampillés de Loron (Croatie), in M. Hainzmann, R. Wenedig (Hrsg.), Instrumenta Inscripta Latina II. Akten des 2. Internationalen Kolloquiums (Klagenfurt, 2005), Klagenfurt 2008, 209-222

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altre parole, il dato non deve essere letto necessariamente come una spia di una declinante produzione. Più interessante è invece constatare come emerga un dato di differenziazione geografica nella distribuzione delle anfore con bolli imperiali rispetto a quelli dei Laecanii. Quelli imperiali sono stati trovati in proporzioni maggiori rispetto al periodo giulio-claudio nella regione del limes danubiano, con una particolare concentrazione nella zona di Carnuntum e Aquincum, laddove invece la produzione dei Lecanii era presente soprattutto nel Noricum e nell’Italia Settentrionale 62. Ora, non credo che tale dato possa leggersi in modo meccanico, ammesso che esso rifletta un dato di realtà e non sia il prodotto di una distorsione statistica dovuta alla diseguale qualità dei dati a disposizione. Come insegna il caso delle anfore olearie betiche, i vettori del commercio potevano essere privati anche qualora il prodotto commerciato fosse stato di proprietà imperiale. Detto altrimenti, la presenza di anfore olearie imperiali nella zona danubiana non implica necessariamente che il fisco gestisse l’intero processo dell’approvvigionamento delle legioni. È tuttavia prova del fatto che, nella molteplicità dei fornitori di risorse alimentari per le legioni e le nuove fondazioni, il fisco sia presente quale attore economico 63. Del resto, per prodotti quali l’olio e il vino, l’Istria, calcolando la distanza in miglia lineari, rimaneva pur sempre l’area di approvvigionamento più vicina. Le ingenti quantità di sigillata nord italica, ad esempio, trovate in contesti archeologici di età tardo-flavia e traianea nei campi legionari di Singidunum, Viminacium e Novae, mostrano lo stesso processo di rifornimento organizzato con pluralità di attori, verosimilmente lungo la via Aquileia-Emona e quindi lungo la Sava fino alla confluenza con il Danubio. La centralità dell’Istria nella politica patrimoniale imperiale è dimostrata anche dal cambio di proprietà dell’altra grande tenuta per produzione di olio, quella di Loron, che passò da Calvia Crispinilla a Domiziano negli anni 80, probabilmente in concomitanza con la spedizione dacica dell’86. Anche in questo caso, l’imT. Bezeczky, The Laecanius Amphora stamps, cit., passim, spec. 76-85. F. Tassaux, Production et diffusion des amphores à huile istriennes, in Strutture portuali e rotte marittime nell’Adriatico di età romana. Atti XXIX sett. Aquileiese (Aquileia, 1998), Trieste 2001, 501-543. Nuovi esemplari di età vespazianea, A. Starac, The workshop of Laecanius at Fažana. Some recent testimonies, in ReiFautRCret 41, 2010, 61-65. 63 Sul problema storiografico del vettovegliamento delle legioni e del cd. commercio amministrato la letteratura è sterminata. Si veda, per tutti, il contributo di E. Lo Cascio, L’approvvigionamento dell’esercito romano: mercato libero o ‘commercio amministrato’?, in L. de Blois, E. Lo Cascio (eds.), The Impact of the Roman Army (200 BC - AD 476), Economic, Social, Political, Religious and Cultural Aspects. Proceed. VIth Workshop Impact of the Empire (Capri, 2005), Leiden 2007, 195-206 con una discussione del dibattito e delle varie posizioni teoriche. Sulla Pannonia e Noricum e il possibile ruolo dei centurioni nell’approvvigionamento di vino, T. Bezeczky, Amphora Inscriptions - Legionary Supply?, in Britannia 27, 1996, 329-336. 62

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peratore colse l’occasione di un lascito (o forse, più probabilmente, le proprietà furono avocate al fisco in quanto Crispinilla morì orba o vidua) e, da quanto può vedersi dal dato della distribuzione delle anfore, vi è anche in questo caso una capillare diffusione nell’area norico-pannonica degli esemplari con bolli imperiali 64. Di nuovo, il dato non può essere letto come prova dell’assunzione diretta del processo di approvvigionamento in olio dell’area danubiana da parte del fisco, ma come un documento che mostra come l’imperatore partecipi al processo. Detto altrimenti, tendo a leggere il dato documentario come processo storico propiziato in ultima analisi dalle opportunità commerciali offerte da un deciso incremento demografico e quindi di un incremento quantitativo della domanda, piuttosto che come prova dello stabilirsi di un circuito chiuso tra proprietà imperiali e approvvigionamento legionario. A riprova di quanto detto sopra, occorre menzionare anche la costruzione della via Flavia in Istria, un’arteria che correva nell’entroterra alle pendici del rilievo carsico e che collegava Pula a Trieste, l’unica via publica della regione, finanziata da Vespasiano e completata nel 78 65. Il dato mostra come si sia intervenuti sulla viabilità della regione negli anni immediatamente successivi (o contestualmente) al momento in cui Vespasiano era venuto in possesso della più grande tra le proprietà dell’agro polense; in questo caso, a mio avviso, il dato sulla viabilità va letto congiuntamente a quelli della proprietà del fisco nella regione e alla forte vocazione produttiva e commerciale di queste. La via, di fatti, lambisce tutte le maggiori proprietà senatorie e imperiali della regione e, attraverso Trieste, si connette con le arterie per il Noricum e la Pannonia. In conclusione, Vespasiano avvia una politica di romanizzazione della valle della Sava, di più intensa militarizzazione del Danubio, quindi rimette mano alla viabilità dell’Istria contestualmente alla riorganizzazione del patrimonio del fisco nella regione. Un vero e proprio progetto politico di vasto respiro, in cui si mettono a frutto, come ci è parso di segnalare per il caso egiziano, le potenzialità offerte da una radicata presenza patrimoniale. Contestuale e funzionale agli interventi economici in Istria è la formazione di un archivio patrimoniale locale: la prima attestazione di un tabularius Caesaris nel-

F. Tassaux, R. Matijašicˇ, V. Kovacˇicˇ, Loron (Croatie). Un grand centre de production d’amphores à huile histriennes (Ier - IVe s. p. C.), Bourdeaux 2001 (Mémoires Ausonius, 6). Qui i dettagli per la storia della proprietà, il fundus e i bolli. Un aggiornamento, con dati quantitativi, in Marion e Tassaux, Tuiles et amphores estampillés, cit., 209-222. Una nuova interpretazione, con buoni argomenti, dei passaggi di proprietà in età giulio-claudia in D. Manacorda, Il ‘misterioso’ MESCAE. Donne imprenditrici nell’Istria romana, in ReiCretRFaut 41, 2010, 217-227. 65 CIL V, 7987 = IIt X 1, 705 = ILS 5831. V. R. Gramaticopolo, Via Flavia. Strada romana nell’Istria romanizzata, in Archeografo Triestino 64, 2004, 127-190. 64

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la regione istriana può essere datata ad età flavia o, al più tardi, traianea 66. Il dato deve essere messo in relazione con altri documenti di età flavia provenienti da altre regioni dell’impero che testimoniano la formazione di archivi permanenti del patrimonio in aree lontane da Roma 67. Un’interpretazione generalmente accolta dalla storiografia, e sostenuta tra gli altri da Schulten, Rovstofzev e Boulvert 68, vuole che sia stato Vespasiano ad organizzare il patrimonio in distretti geografici coerenti, chiamati regiones o tractus, cui era affidata la riscossione dei proventi derivati o dallo sfruttamento diretto di tali proprietà o, nella maggior parte dei casi, dai redditi da affitto 69. Una regio implica un tabularium in cui si registrano i movimenti contabili della gestione di un patrimonio. Ora la nostra documentazione è a tal proposito relativamente abbondandante e soprendentemente coerente, anche se preme sottolineare che permane sempre il dubbio che ciò che noi leggiamo nelle iscrizioni funerarie sia in realtà un riflesso di una novità nella nomenclatura della familia Caesaris o nell’ ‘epigraphic habit’ piuttosto che il portato di una vera e propria riforma amministrativa. Un certo grado di prudenza nel leggere la nostra documentazione come un riflesso non mediato della realtà amministrativa ed economica antica è d’obbligo. In particolare, non è pensabile che solo con Vespasiano si siano creati 66 Da Pola, verosimilmente connesso con le proprietà di Fasana: CIL V, 41 = IIt X 1, 50: Dis Manibus | Euphemi Aug(usti) | lib(erti) tabulari(i) | Armonia et Gymnas | filiae piissimo patri | Flavia Prima | coniugi | fido et sibi | [v]ivae fecerunt | [et] Ianuario Aug(usti) lib(erto) | [ta]bulario a patrimonio. Altri tabularii dalla stessa area, di età post-flavia: CIL V, 40 = IIt X 1, 47; CIL V, 42 = IIt X 1, 51. 67 CIL VI, 8580 (3460, 3890) = ILS 1497, Roma: D(is) M(anibus) | T(ito) Flavio Aug(usti) lib(erto) | Ceriali tabul(ario) | reg(ionis) Picen(ae) | Phoenix Caes(aris) n(ostri) | ser(vus) filio pientiss(imo) | et P(ublius) Iunius | Frontinus | fratri dulcissim(o) | et Celerina soror; AE 1982, 537 = CIL II, 290, Corduba: T(ito) Flavio T(iti) f(ilio) Cl(audia) | Antonino | huic ordo c(olonorum) c(oloniae) P(atriciae) funeris | inpensam locum sepulturae | statuam decrevit | Speudon Aug(usti) lib(ertus) tab(ularius) | provinciae Baetic(ae) | et Antonia Rhodoe(!) | parentes honore usi | piissimo posuerunt; CIL VI, 8467, Roma: D(is) M(anibus) | T(ito) Fl(avio) Aug(usti) lib(erto) Epagatho tabular(io) | viae Salariae qui vix(it) ann(os) XLVII (etc.); CIL X, 6667 = ILS 1581, Antium: Diis Manibus | T(ito) Flavio Aug(usti) lib(erto) | Evangelo tablario | praetori Antiatini | M(arcus) Ulpius Aug(usti) lib(ertus) [P]riscus | parenti bene merenti | h(oc) m(onumentum) h(eredem) n(on) s(equetur); CIL VIII, 12595, Carthago: Dis Manibus sacrum | T(itus) Flavius Aug(usti) lib(ertus) Laetus | tabul(arius) pius vixit annis LXX | h(ic) s(itus) e(st). Anche CIL XIV, 4482, Portus: Dis Manibus | Ingenuo Aug(usti) lib(erto) | tabulario portus Aug(usti) | vixit annis XXVIIII | mensib(us) X diebus XIIII | Flavia Crispina | marito optime de se merito | et Flavius Faustus fratri | piissimo; Marmor lunensis: CIL VI, 8484 = ILS 1599: O(ssa) t(ua) b(ene) q(uiescant) | T(itus) Flavius | Aug(usti) l(ibertus) | Celadus | tabularius | marmorum | Lunensium | v(ixit) a(nnos) XXXVII | h(ic) s(itus) e(st). Cfr. anche CIL VI, 8485; AE 1974, 153. 68 M. Rostovzeff, s.v. Fiscus, in DE 3, 1921, 98 per l’Istria; sui tractus già A. Schulten, Die römische Grundherrschaften: eine agrarhistorische Untersuchung, Weimar 1896, 28 ss: spec. 60 ss.; G. Boulvert, Esclaves et affranchis imperiaux sous le Haut-Empire Romain. Rôle politique et administratif, Napoli 1970, 210-224. 69 V. i casi cit. a nt. prec. e anche AE 1982, 877 = IEph 855, Ephesus: [T(ito)] Fl(avio) Aug(usti) lib(erto) | [P]ergamo | proc(uratori) | [pr]ovinciae Asiae | [pr]oc(uratori) reg(ionis) Syriaticae etc.

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archivi contabili periferici o che il patrimonio non fosse gestito con forme, anche rudimentali, di contabilità 70. Ciò che può essere stato introdotto in età vespasianea è un più efficace controllo sui meccanismi di riscossione delle rendite attraverso uno strumento conoscitivo come un archivio organizzato dotato di personale dedicato e, soprattutto, può essere stata creata una struttura amministrativa elementare responsabile sia della comunicazione con la ratio patrimoni centrale dei dati relativi ai redditi delle proprietà periferiche sia, a livello locale, della conservazione e dell’accessibilità della documentatione relativa alla gestione di tali proprietà. In altre parole, sebbene molti aspetti rimangano oscuri, possiamo ipotizzare che l’istituzionalizzazione di regiones e tabularii in alcune aree dell’Impero sia stata concepita per servire da un lato l’amministrazione periferica del patrimonio quale strumento contabile e conoscitivo, la cui autorità poteva essere invocata in caso di dispute confinarie sulla terra, di contratti di affitto o di prestazione d’opera e relative pendenze o insolvenze o nei casi giudiziari riguardanti rapporti obbligatori e quindi creditorî del fisco; dall’altro, per servire l’amministrazione centrale a conoscere i redditi da patrimonio. In altre parole, la documentazione offre un quadro che presenta analogie stringenti con quanto sopra si è detto a proposito dell’Egitto, laddove certezza del diritto, accessibilità dell’informazione sul patrimonio imperiale (logos ousiakos) e su quello dei privati (bibliotheke enkteseon), e gestione oculata e redditizia del patrimonio imperiale sono stati i principi ispiratori dell’opera di Vespasiano. In conclusione, Vespasiano ebbe il merito di aver intuito la potenzialità di strumento di governo e risorsa economica per finalità pubbliche insita nel patrimonio giulio-claudio che si trovò a gestire all’indomani delle guerre civili. Il fatto di essersi confrontato con i problemi dell’amministrazione dell’Impero da Alessandria, caso unico nella storia imperiale, può contribuire a spiegare la sagacia amministrativa e politica che la tradizione antica unanimemente gli riconobbe e, soprattutto, contribuisce a chiarire scopo e portata di alcuni dei provvedimenti di natura economica, amministrativa e fiscale attuati dapprima in Egitto e poi nel resto dell’Impero. Marco Maiuro Columbia University 70 Mi è noto un solo caso di tabularius che può, non deve, essere di età giulio-claudia: CIL VIII, 21008, Cesarea Mauretaniae: Tu qui praeteriens spectas | monimentum meum aspice | indignans hic data morte | Ti(beri) Claudi Aug(usti) l(iberti) | [---]ii tabular[i] a ratio/[nib(us)] Cannutia T[---] | [c]oniugi bene [merenti fec(it)] | [h(ic) s(itus) e]st s(it) t(ibi) t(erra) [l(evis)]. Valga invece come indizio in favore di una istituzione vespasianea dei tabularia il dato offerto dai Fasti Antiates ministrorum domus Augustae (CIL X, 6638 = IIt XIII 2, 26), di età claudia (51) che elenca ca. 23 tipi diversi di attività/ mestieri servili o libertini all’interno della proprietà, ma nessuno di essi che può ricondursi ad un tabularium, mentre già in età flavia si trova l’isolata attestazione di un tabularius praetorii Antiatini (cit. supra, nt. 67).

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Vespasian was one of the most significant individuals in the development of the province of Britannia in the early years following the conquest by Claudius in AD 43. His importance is twofold since first he played a key role in conquest itself, and then subsequently, as Emperor, he initiated both further military expansion and oversaw a significant phase in the development of province. His importance in the history of Roman Britain has long been recognised 1 but recent changes in our interpretative frameworks as well as the discovery of new archaeological evidence mean that a re-evaluation of his role is now timely. This paper outlines the key strands of evidence and summarizes some current directions of study. Vespasian and the Claudian conquest The Claudian conquest of Britain has always attracted considerable archaeological and historical interest. Until recently there has been a broad consensus based on the reading of the sources 2 and a series of excavations on key sites of the period, notably Richborough (Rutupiae) 3 which can be summarised as follows. The invasion AD 43, primarily designed to provide the Claudius with a much-needed military victory to bolster his political position, followed earlier preparations by his predecessors, and took advantage of the military infrastructure that had already been constructed which included the development of a communications system up to the English Channel and the construction of a base on the coast at 1 R.G. Collingwood, J.N.L. Myres, Roman Britain and the English settlements, Oxford 1937, 83, 107 ff.; I.A. Richmond, Roman Britain, Harmondsworth 19632, 23, 34 ff.; S.S. Frere, Britannia: a history of Roman Britain, London 19873, 52, 182; P. Salway, Roman Britain, Oxford 1981, 92 ff., 132; D.J. Mattingly, An Imperial Possession: Britain in the Roman Empire, London 2006, 98, 114 ff. 2 Principally Dio Cassius lx, 19-22; Frere, Britannia: a history of Roman Britain, cit., 48-59. 3 B.W. Cunliffe (ed.), Fifth report on the excavations at Richborough, Kent, Oxford 1968.

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Martin Millett

Boulogne 4. The pretext for invasion was provided by the shifting balance of power within the indigenous kingdoms of south-eastern Britain apparently threatening pro-Roman interests 5. A substantial invasion force comprising about 40,000 troops drawn from the armies of Rhine and Danube was amassed at the English Channel and crossed to create a bridgehead at Richborough from which the army fanned out to annexe the polities of the south-east. The army awaited the arrival of the Emperor and his entourage before the final attack on the principal power centre of Camulodunon (Colchester). After the Emperor’s withdrawal to celebrate a his victory at Rome, the army advanced further to the west and north, with the progressive and systematic annexation of territories continuing until the governorship of Gnaeus Julius Agricola (AD 77-84), which saw the completion of the conquest. The various phases of military expansion have been mapped through the analysis of fort distributions 6. There have been a series of critiques of different aspects of this standard account of the Claudian invasion, two strands of which are relevant to an understanding of Vespasian’s role in the campaigns. From AD 41 he had been Legatus Legionis of Legio II Augusta based at Strasbourg (Argentorate) in Germania Inferior and this legion took part in the invasion of Britain, where Vespasian remained until AD 47 7. The first issue concerns the geography of the conquest and the second the nature of Roman military strategy. Conventional accounts have agreed that the invasion army took the shortest feasible crossing of the Channel to land at Richborough where a now silted channel provided a sheltered haven for the landing 8. While there can be little doubt that a substantial part of the invasion force did land here, a number of recent scholars have argued in favour of the use of multiple landing places, and have suggested that a significant part of the army came ashore much further west at Fishbourne in Sussex 9. Here, the evidence for a military base beneath the later sumptuous villa, has long been associated with the early stages of Claudius’ cam-

C. Seillier, Carte Archéologie de la Gaule: Le Pas-de-Calais 62/1, Paris 1994. Mattingly, An Imperial Possession, cit., 68-80. 6 For instance G.D.B. Jones, D.J. Mattingly, An Atlas of Roman Britain, Oxford 1990, 88-108. 7 Tac. Hist. 3.44. 8 Cunliffe (ed.), Fifth report on the excavations, cit., 224-237. 9 J.G.F. Hind, The Roman invasion of Britain in AD 43: an alternative strategy, in Britannia 20, 1989, 1-21; D.G. Bird, The Claudian invasion of Britain reconsidered, in OJA, 19/1, 2000, 91-104, and E. Sauer, The Roman invasion of Britain an imperial perspective, in OJA, 21/4, 2002, 333-363 favour multiple landings, stressing the importance of a landing place in Sussex. S.S. Frere, M.G. Fulford, The Roman invasion of Britain, in Britannia 32, 2001, 45-55 robustly defend the argument in favour of Richborough. G. Grainge, The Roman Channel crossing of AD 43, Oxford 2002, explains the navigational issues, arguing strongly against a Sussex landing place. 4 5

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paigns 10. The lack of geographically specific information provided by the ancient texts and the inherent imprecision of archaeological dating is such that it is highly unlikely that we will ever be able to say for certain where the army landed initially although it is surely significant that a commemorative arch was later erected at Richborough (see below). However, given the way in which they clearly used coastal communications in the campaigns 11, there is no doubt that the site at Fishbourne did play a key role in Vespasian’s own part in the campaigns. We can infer that his legion was responsible for the conquest of south-western Britain, advancing along the south coast, with its legionary base eventually established at Exeter by c. AD 55. Any base for the legion prior to this date has remained elusive, with the most recent suggestion being that it was at Silchester even though there is no substantial archaeological evidence for a military site there  12, and it does not lie on a strategic route to the West Country. A more plausible suggestion would be that a base for the legion remained at Fishbourne during Vespasian’s command with him almost certainly living there for significant periods 13. This brings into focus a theme which deserves consideration, namely the nature of the military strategy, questioning the whole idea that each legion had a large fixed base during the early stages of the campaigns of conquest (see below). Conventional accounts of the Roman annexation of Britain have envisaged the army of conquest moving across the countryside unaffected by the indigenous population except when they met them in battle. Hence, published maps of fort distributions paid little attention to the pre-Roman political geography. More recent analyses have paid greater attention to how military strategy was related to the settlement and power structures of the indigenous population 14. This perspective incidentally highlights a key distinction. Whilst Richborough shows no substantial B.W. Cunliffe, Excavations at Fishbourne, I, Leeds 1971, 37-76. So-called ‘supply bases’ are now attested at Bitterne, Southampton (Roman Britain in 2000, in Britannia 32, 2001, 374-376) and Hamworthy, Poole harbour (W.H. Manning, Early Roman campaigns in the south-west of Britain: the first annual Caerleon lecture, Cardiff 1998, 10). The concept of these sites – together with Fishbourne and Richborough – for military supply rather than as strategic coastal military bases seems questionable. 12 M.W.C. Hassall, Pre-Hadrianic legionary dispositions in Britain, in R.J. Brewer (ed.), Roman fortresses and their legions, London 2000, 51-67; cfr. M.G. Fulford, J. Timby, Late Iron Age and Roman Silchester. Excavations on the site of the Forum-Basilica, London, 2001, 566-567 which shows that there is no clear archaeological evidence for a fort at Silchester. 13 A later so-called vexillation fort for part of the legion is known at Lake Farm, Wimbourne, perhaps dating to c. AD 49-55 but as yet not fully published. (Most recent interim reports in Roman Britain for 1979, in Britannia 11, 1980, 391 and Roman Britain for 1981, in Britannia 13, 1982, 384). 14 M. Millett, The Romanization of Britain: an essay in archaeological interpretation, Cambridge 1990, 42-55. 10 11

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evidence for pre-Roman Iron Age settlement, Fishbourne lies within a settlement complex which formed the focus of a major Pre-Roman polity 15. It can reasonably be argued that this state was friendly to Rome at the time of the invasion, and thus provided a base for the Roman army within allied territory. This would make sense in terms of the later development of the site at Fishbourne (see below), and also reinforces the idea that the whole invasion was a more complex political business than it has sometimes seemed. If the successful establishment of a legionary base in friendly territory was a Roman priority at or very soon after the initial channel crossing, the choice of the legionary commander selected to undertake this diplomatic and military role will have been diplomatically crucial, highlighting Claudius’ choice of Vespasian, and adding a new dimension to our understanding of the relationship between Vespasian and the local king Togidubnus (see below). Understanding Vespasian’s subsequent campaigns in south-western Britain is also problematic since our source is Suetonius, (Vesp. 4.1): Duas validissimas gentes superque viginti oppida et insulam Vectem Britanniae proximam in dicionem redegit… Whilst we have no reason to doubt the factual basis of his text, his words probably exaggerate the later Emperor’s achievements. In the context of pre-Roman Britain, the ‘oppida’ he conquered were really no more than fortified hilltop villages or even unoccupied strongholds 16 and the island (the Isle of Wight) hardly a major obstacle. A critical reappraisal of the text has not been helped by archaeologists keen to relate their excavated evidence to Suetonius’ text. Whilst there can be little doubt that the site at Hod Hill excavated by Sir Ian Richmond 17, Waddon Hill examined Graham Webster 18 and that at Hembury excavated by Malcolm Todd 19 can be identified with the battles of Vespasian’s campaigns, there are serious doubts about Sir Mortimer Wheeler’s identification of the so-called war cemetery at Maiden Castle 20, Cunliffe, Excavations at Fishbourne, cit., I, 20, fig. 6. Recent work at Fishbourne has shown clearer evidence for a Pre-Roman Iron Age occupation: B. Cunliffe, A. Down, D. Rudkin, Chichester Excavations IX: Excavations at Fishbourne 1969-88, Chichester 1996, 15-16, fig. 2.4; J. Manley, D. Rudkin, Facing the palace: excavations in front of the Roman Palace at Fishbourne, Sussex, UK 1995-99, Lewes 2003, 138-145. J.D. Creighton, Britannia: the creation of a Roman province, London 2006, 5461 provides a useful and stimulating synthesis. 16 The settlement pattern of the Dorset area in the Iron Age is summarised in B.W. Cunliffe, Iron Age Communities in Britain, London 19913, 159-170. The archaeological use of the term oppidum was long ago questioned by G. Woolf, Rethinking the oppida, in OJA, 12/2, 1993, 223-234. 17 I.A. Richmond, Hod Hill Vol. 2. Excavations carried out between 1951 and 1958, London 1968. 18 G. Webster, Final report on the excavation of the Roman fort at Waddon Hill, Stoke Abbott 196369; Proceedings of the Dorset Natural History and Archaeological Society, 101, 1979, 51-90. 19 M. Todd, Excavations at Hembury, Devon, in AntJ 64, 1984, 251-268. See also M. Todd, Hembury, Devon: Roman troops in a hillfort, in Antiquity 58, 1984, 171-174. 20 R.E.M. Wheeler, Excavations at Maiden Castle, Dorset, Oxford 1943, 61 ff., 351 ff.; cfr. N. Sharples, Maiden Castle: excavations and field survey 1985-86, London 1991, 100-101. 15

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and other battle sites have remained elusive 21, perhaps suggesting that the annexation was somewhat more peaceful than conventional accounts assume. There can be little doubt that the presentation of Vespasian’s war-record at Rome was of political value. We may also note the way in which Roman military bases in this region of Britain were constructed within several of the more significant conquered sites emphasizing Rome’s perception that they were key centres of indigenous power 22. These issues may perhaps shed new light on the nature of the military strategy used by Vespasian. I have previously noted 23 that later in the campaigns of conquest in Britain the Roman army deployed its military resources with a legionary base at the rear of a theatre of war, and auxiliary camps established as the army moved forward located to control political and strategic nodes within the landscape. As already noted one key issues for understanding Vespasian’s campaign remains locating the operating base of the second legion before AD 55. The conventional approach has been to seek archaeological evidence for full legionary fortresses like that used by Legio XX Valeria at Colchester in the period AD 43-49 24 or sites large enough to have housed a legionary vexillation 25. The absence of strong evidence for full legionary bases in South-West England at this period must surely lead us to question this approach and consider the idea that the legion retained and used a series of bases located within indigenous centres in friendly territory at sites like Fishbourne, Silchester and perhaps others. This would help explain the difficulty in distinguishing unambiguous military or civilian phases on these sites and would also provide an alternative framework for understanding the forts we have noted that are located within hillforts in the area. This raises the prospect that the legionary base for Vespasian’s campaigns long remained at Fishbourne in ‘friendly territory’ forming one element of a larger complex which included the principal settlement of the local people. Such an idea, allowing the Roman army to have been remained based within a friendly settlement would provide a comprehensible context for the evidence that this territory was established as a Client state issue (see below), and would also provide an explanation for Vespasian’s close relationship to Togidubnus (see below).

The Roman military material from South Cadbury may be later in date. W.H. Manning, Early Roman campaigns in the south-west of Britain: the first annual Caerleon lecture, Cardiff 1998, 15. 22 Millett, The Romanization of Britain, cit., 50, fig. 15. 23 Ibid., 42-55, fig. 12. 24 P. Crummy, Colchester, in H. Hurst (ed.), The Coloniae of Roman Britain: new studies and a review, Portsmouth Rhode Island 1999, 89-100. 25 Hassall, Pre-Hadrianic legionary dispositions in Britain, cit., 51-67 presents the most recent attempt at this approach whilst also reviewing previous such studies. 21

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Vespasian and Military expansion in Britain AD 70-79 The conventional account of the period between Vespasian’s departure from Britain at the end of his service with the Second Legion in AD 47, and his accession as Emperor in AD 69 emphasises the systematic expansion of territorial control followed by the set-back of the Boudiccan revolt in AD 60/61, with the resumption of expansion into the unconquered areas of northern England linked to the establishment of the Flavian dynasty, culminating in the campaigns of Agricola 26. Such accounts have generally used the archaeological evidence of fort distributions in conjunction with the rather thin textual evidence to create a rational historical account of the period. I think these accounts present rather too clean a picture of the period, and some of the evidence from the Flavian period illustrates how our understanding of particular sites now suggests that the annexation of Britain was not simply a matter of progressive territorial expansion. I offer two examples. First, the fort site at Hayton, East Yorkshire which has generally been associated with the expansion into relatively friendly territory of the Parisi in north-eastern England around AD 71 and hence only occupied for a short period 27 can now be shown to have been occupied for longer, into the mid to late 80s on the basis of new coin evidence 28. This may suggest that the fort was established after the initial annexation or that the territory required military supervision for longer than usually thought, but it certainly undermines the present account of a systematic geographical conquest. In contrast, excavations at Carlisle (Luguvallium) – at the western end of the line of the later Hadrian’s Wall have demonstrated that the fort here is much earlier than previously thought, dendrochronological evidence showing that the timbers for the first fort here were cut down in the autumn or winter of AD 72/3 29. This is very significant since the conventional reading of Tacitus’ Agricola (xx-xxi) suggests that the Carlisle area was only reached in the second or third year of his campaigns (AD 78/79) 30. This underlines the way in which new archaeological evidence appears less tidy and sometimes ties in less well with the written sources than previous accounts allow. Nonetheless, the dendrochronological date for Carlisle and the suggestion that the fort there may have been a legionary base for Legio II Aduitrix (which arrived Frere, Britannia: a history of Roman Britain, cit., 81-104. S. Johnson, Excavations at Hayton Roman fort, in Britannia 9, 1978, 57-114. 28 P. Halkon, M. Millett, H. Woodhouse (eds.), Hayton, East Yorkshire: archaeological studies of the Iron Age and Roman landscapes, Leeds in preparation. 29 N. Hodgson, Hadrian’s Wall 1999-2009, Kendal 2009, 141-144. The implications are discussed by A.R. Birley, The Roman Government of Britain, Oxford 2005, 67, 80. 30 Jones, Mattingly, An Atlas of Roman Britain, cit., 74, Table 4.2; Frere, Britannia: a history of Roman Britain, cit., 90. 26 27

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from Lower Germany as the fourth legion for the province with Petillius Cerialis Cerialis in AD 71) suggests that there was a deliberate intention to make Britain a key military focus under the new emperor Vespasian. Such an objective may be read as politically significant in legitimating Vespasian’s links with the Julio-Claudian dynasty through a focus on completing the conquest of Britain. In this context it is notable that the governors sent to Britain by Vespasian were his close allies and some also seem to have been carefully selected for their previous knowledge and expertise of war in Britain. The governors of this period were first Marcus Vettius Bolanus 31 (AD 69-71), appointed by Vitellius, with no known previous British experience. He was succeeded by Quintus Petillius Cerialis 32, who was appointed in AD 70, but was delayed in Germania until AD 71, and served until AD 73/4. He had previously been legatus legionis of Legio IX Hispana (probably based at Lincoln) at time of Boudiccan revolt in AD 60/61. His successor Sextus Julius Frontinus 33 (AD 73/4-77) had no known previous British experience. Finally Gnaeus Julius Agricola 34 (AD 77-84) had been first a tribunus laticlavius at time of the Boudiccan revolt (AD 60/1), although with which legion remains uncertain, and then legatus legionis of Legio XX Valeria Victrix (probably based at Gloucester) in AD 70-73. It is notable that in the final push to complete the conquest of Britain, Agricola served an exceptionally long stint as governor, presumably to allow the successful completion of the campaign even though this stretched beyond deaths of both Vespasian and Nerva, and into Domitian’s reign. As military priorities changed under Domitian the successes of Vespasian’s governors were not fully capitalised upon. In the word of Tacitus (Hist. I.2): perdomita Britannia et statim omissa. In a sense, this lays even greater emphasis on the way in which Vespasian seems to have given military priority to the campaigns in Britain, suggesting that the province was an area of particular significance to him. The date of the completion of Agicola’s campaign raises an interesting issue concerning the great quadrifrons arch at Richborough. This was one of the greatest Roman monuments in Britain although today little of it survives 35. It was built on the site of the military bridgehead at Richborough where the Claudian army first landed and was carefully sited to straddle the Roman road from there to London with its secondary axis probably determined by the harbour location. As such it created a formal entrance for the province. Standing c. 26m high, faced Birley, The Roman Government of Britain, cit., 57-62. Ibid., 62-68. 33 Ibid., 68-71. 34 Ibid., 71-95. 35 D.E. Strong, The Monument, in Cunliffe (ed.), Fifth report on the excavations at Richborough, cit., 40-74; M. Millett, T. Wilmott, Re-thinking Richborough, in P. Wilson (ed.), The Archaeology of Roman Towns: studies in honour of John Wacher, Oxford 2003, 184-194. 31 32

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with Carrara marble and surmounted by a bronze statue, it has been dated to AD 80-90 by the late Donald Strong, who suggested that it was perhaps associated with the grant of ornamenta triumphalia to Agricola under Domitian 36. Its context indicates that it was built to mark the site of the military landing in the Claudian conquest of AD 43 and that it was constructed there to celebrate the completion of that conquest by Agricola as planned by Vespasian. The political context thus suggests that it was conceptually a Vespasianic monument even if its inauguration followed Agricola’s final battle in the reign of Domitian. Civic development in Britain under Vespasian As with military affairs, recent archaeological work has done much to change our perspectives on the development of the civil province in the early Flavian period. Indeed, there is so much new evidence that it is impossible to provide a comprehensive review. Instead, I would like to highlight the way in which the new evidence is changing perceptions through the exploration of a few examples. In the urban sphere, past interpretations have often seen the growth of the civitates as both systematic and gradual. In his classic book John Wacher 37 defined a series of phases of urban growth, from the Claudian development of the first towns at Canterbury, Chelmsford and Verulamium, through the assimilaition of the client kingdoms and the establishment of the towns of Caister, Chichester, Silchester and Winchester, then the Flavian foundation of Cirencester, Dorchester, Exeter, Leicester and Wroxeter. This view was strongly influenced by a particular reading of Tacitus Agr. xxi, emphasising direct Roman intervention in the urbanization of Britain. A more laissez-faire interpretation of the evidence, giving greater emphasis to the initiative of local elites was contained in my own account of the province 38, whilst current work is tending to further emphasise the variations in patterns of development in different regions and the key impact of varied indigenous interests 39. This trend may be explored in relation to three different, but archaeologically well documented examples which again show how the development of the province does not conform to a clean and systematic pattern of gradual development and was not wholly the product of Roman initiative. Strong, The Monument, cit., op. cit. note 34, 73. J. S. Wacher The towns of Roman Britain (2nd ed. London 1995). 38 M. Millett The Romanization of Britain: an essay in archaeological interpretation (Cambridge 1990) passim. 39 See especially J.D. Creighton Britannia: the creation of a Roman province (London, 2006). 36 37

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Returning first to consider the sites at Chichester and Fishbourne which we have previously discussed in the context of their military role at the invasion period. The site at Fishbourne developed in the Neronian period with the construction of the so-called proto-palace excavated by Cunliffe 40. This building is only part of a more extensive development in the Chichester area which includes the construction of the nearby town of Chichester (Noviomagus Regnesium) a little to the east 41 and the erection of an impressive Gallo-Roman type temple on Hayling Island a little to the west (on the site of an Iron Age sanctuary) 42. At Fishbourne there was further development with the building of the so-called palace c. AD 7580 43 extending the buildings of the previous phase and linking axially to Chichester, with large scale development of the intervening area 44. What is now very clear is that the development of the whole locality was part of a major phase of landscape development which represents the local community embracing of Roman ideas and influence. Work since Cunliffe’s excavations in the 1960s has also shown how this development must be understood in terms of local initiative, with its roots in Iron Age society, not simply as a foreign influence. Cunliffe’s conclusion that the site at Fishbourne was related to the client king Togidubnus 45, still seems the most reasonable explanation. He features in Tacitus’ account (Agr. xiv.1): quaedam civitates Togidumno regi donatae (is ad nostram usque memoriam fidissimus mansit)…, allowing him to be the person responsible for the construction of the so-called palace, although this chronology would mean that he would have been a very old man. Significiantly, he is also attested on a key inscription from Chichester, a dedication of a temple to Neptune and Minerva 46. The text, re-interpreted by Bogaers 47, refers to Ti. Clavd. Togidvbni Regis Magni Britanniae, reinforcing the view that Togidubnus acted as a client king, having been granted citizenship in the context of his support for Rome during the invasion period. It does not seem unreasonable to speculate further that at this period, Cunliffe, Excavations at Fishbourne, cit., I, 61 ff. M. Russell, Roman Sussex, Stroud 2006, 69-95 provides a summary of the development of the town, but includes questionable speculation. 42 Not yet fully published. See most recently A.C. King, G. Soffe, Hayling Island: a Gallo-Roman temple in Britain, and a bibliography of the Iron Age and Roman temple on Hayling Island’, in D. Rudling (ed.), Ritual Landscapes of Roman South-East England, King’s Lynn, 2007. 43 Cunliffe, Excavations at Fishbourne,cit., 77 ff.; E.W. Black, The Roman villas of South-East England, Oxford 1987, 84-86 suggests an alternative chronology of AD 90-110, although his argument does not convince. 44 Manley, Rudkin, Facing the palace, cit., fig. 8. 45 Conventionally the name has been reconstructed as Cogidubnus – now emended to Togidunbus –Birley, The Roman Government of Britain, cit., 466-468. 46 R.G. Collingwood, R.P. Wright, The Roman Inscriptions of Britain, I, Oxford 1965, no 91. 47 J.E. Bogaers, King Cogidubnus: another reading of RIB 91, in Britannia 10, 1979, 243-254. 40 41

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when Fishbourne may have been used as the base for Legio II Augusta (see above), Togibudnus became a close acquaintance of Vespasian, hence benefiting from imperial patronage after he became emperor. This provides the context for the strongly Mediterranean characteristics of the design and decoration of the socalled palace 48. Amongst the objects from the site we may particularly note the portrait bust of a child in Julio-Claudian style 49. Toynbee tentatively suggested possible parallels with portraits of Gaius Caesar and Lucius Caesar on the Ara Pacis 50 and an imperial link seems plausible. Whatever the exact relationship was between the client king, Vespasian and the early development of this area, what is clear is the way in which the history of annexation and subsequent development were closely linked to the personal aspirations and client relations between the those governing in Rome and those in power in Britain. A similar emphasis on the role of personal power in the development of the province, but within a contrasting context, can be seen in the development of the municipium at Verulamium (St Albans). The site has been the focus of much archaeological work and has been central to traditional accounts of the province because of the successive excavations by Sir Mortimer Wheeler and Sheppard Frere 51. An important new synthesis of the evidence for the town 52 combined with the discovery of a major princely burial dating to c. AD 55 at Folly Lane 53 on the margins of the ancient settlement suggests that the development of its early Roman history was strongly influenced by a powerful indigenous leader. Frere’s account of the development of the town 54 saw the Roman town as essentially a de-novo foundation following on from the presence of a Roman military base of the invasion period. He envisages a major role for the Roman administration in the development of the town and cited evidence of military style buildings and the construction of the forum in AD 79 as evidence to support the model derived from his reading of the tract in Tacitus, Agr. xxi (cited above). More recently emphasis has been placed on the links between the development of the early Ro48 Cunliffe, Excavations at Fishbourne, cit., II, 1-42; T.F.C. Blagg, Roman Architectural Ornament in Britain, Oxford 2002, 19-20 supports the suggestion of a South Gaulish origin for the craftsmen who undertook its decoration. 49 J.M.C. Toynbee, The marble head, in ibid., II, 156-157; CSIR Great Britain, I, 2, no. 92. 50 Toynbee, The marble head, cit., II, ibid.; Note the unconvincing suggestion that it may be a bust of Nero – M. Russell, Nero to south hero to north, in British Archaeology 89, 2006, 43-45. 51 R.E.M. and T. V. Wheeler, Verulamium: a Belgic and two Roman Cities, Oxford 1936; S.S. Frere, Verulamium Excavations, I (London 1972), II (London 1983), III (Oxford 1984). 52 R. Niblett, I. Thompson, Alban’s Buried Towns: an assessment of St Albans’ archaeology up to AD 1600, Oxford 2005. 53 R. Niblett, The Excavation of a Ceremonial Site at Folly Lane, Verulamium, London 1999. 54 S.S. Frere, Verulamium Excavations, cit., II, 1-23.

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man municipium and the extensive polyfocal pre-Roman Iron Age settlement here, noting how both the forum and the villa at Gorhambury both develop on the sites of earlier elite centres 55. Such a linkage would help to explain the award of municipal status to the local community after the Claudian invasion which must surely reflect a close alliance between the indigenous community and the Roman government. Most recently, this argument has been given greater weight by the excavation of the Folly Lane burial dated to c. AD 55. This tomb, presumed to be that of a pro-Roman local leader, was subsequently commemorated with the construction of a temple complex on the site. In a key discussion, John Creighton 56 has shown very elegantly how the topography of the early Roman town was designed to incorporate this monument as a focal point. In the Vespasianic period the centre of the town was transformed with the construction of a new Forum the dedication of which has generally been dated to c. AD 79 and thus related to Agricola’s encouragement of urban building projects, a link now brought in to question by the suggestion that it the inscription might be better dated to AD 81 57. The location of this building represents continuity with the earlier topography, occupying the site of a major Iron Age enclosure, but it is notable that its plan (unlike most others fora in Roman Britain) is of the tripartide, Gallo-Roman type indicating Gallic architectural influence. Such connections are also reflected later in the second-century theatre complex which is adjacent 58. This suggests enduring links with Gaul but again emphasizes the lack of any simple trajectory of development, and certainly undermines the conventional narrative of directed Roman intervention in Verulamium’s urban development. Within any explanation we need to allow for both the influence local elites, the role of Roman administrators and longer term cultural linkages. Finally, London (Londinium) represents a difficult case for explanation. There was no pre-Roman centre here but the town developed rapidly in the ten years before the Boudiccan revolt in AD 60/61 59. Following its destruction then, it showed rapid and dynamic development, especially in the early Flavian period, 55 C.C. Haselgrove, M. Millett, Verlamio reconsidered, A. Gwilt, C.C. Haselgrove (eds.), Reconstructing Iron Age Societies. New approaches to the British Iron Age, Oxford 1997, 282-296. 56 J.D. Creighton, Britannia: the creation of a Roman province, London 2006, 124-130. 57 R.S.O. Tomlin, R.P. Wright, M.W.C. Hassall, The Roman Inscriptions of Britain, III, Oxford 2009, no. 3123 noting that it may perhaps date to AD 81. 58 Forum: Frere Verulamium Excavations, cit., II, 59-69; cfr. P. Gros, L’architecture romaine. 1. Les monuments publics, Paris 1996, 220-223. Theatre: K.M. Kenyon, The Roman teatre at Verulamium, St Albans, in Archaeologia 84, 1935, 231-62; F.R. Sear, Roman theatres: an architectural study, Oxford 2006, 197-198 dates the first phase to AD 140-50. 59 The most recent synthesis is D. Perring, Roman London, London 1991, now rather outdated. More recent useful discussion in B. Watson (ed.), Roman London: recent archaeological work, Portsmouth, Rhode Island, 1998, especially the paper by P. Rowsome.

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with the construction of the mjor public buildings including a huge forum and public baths 60. The origins of the city have been much debated and it now seems most likely that it developed as a Conventus Civium Romanorum, perhaps populated largely by Gallic merchants who, in the wake of the conquest, established themselves at a neutral site with excellent potential as a harbour 61. Key to the development of this settlement was that it was created as the hub of the road network by the Roman administration. Equally, it was selected by the government as the base, first for the procurator (around AD 60/61) and later for the governor 62. By becoming the de facto centre of the province as well as a key port, it developed rapidly as a city. Whilst there must have been some deliberate impetus to its development under Vespasian, with patronage playing a key role, its economic vibrancy was most likely a by-product of the new military impetus of the early Flavian push to complete the conquest of the province. In this sense, Vespasian’s actions in Britain provided the indirect impetus which led to the growth of Londinium into the premier city of the province. I hope the evidence and ideas presented in this paper provide a useful insight into the archaeology and history of Britain in the first century AD. Whilst Britain was known to Vespasian, and he was influential in its establishment as part of the Roman Empire, it is important not to overemphasise his direct role in its development. My approach here has been to acknowledge his historical importance to Britain whilst also attempting to place this within a broader context thereby acknowledging also the agency of other individuals in the development of the Roman province. In doing this it is key to appreciate how much we rely on archaeological evidence understood within a proper historical framework.

Martin Millett University of Cambridge

60 P. Rowsome, The development of the town plan of early Roman London, in B. Watson (ed.), Roman London, cit., 35-46. 61 See the papers by J.J. Wilkes and M. Millett in J. Bird, M. Hassall, H. Sheldon (eds.), Interpreting Roman London: papers in memory of Hugh Chapman, Oxford 1996. See also R.S.O. Tomlin, Was London ever a colonia?, in R.J.A. Wilson (ed.), Romanitas: essays on Roman archaeology in honour of Sheppard Frere on the occasion of his ninetieth birthday, Oxford 2006, 49-64. 62 M. Hassall, London as a provincial capital, in J. Bird, M. Hassall, H. Sheldon (eds.), Interpreting Roman London: papers in memory of Hugh Chapman, Oxford 1996, 19-26; cfr. M. Millett, Introduction: London as capital?, in B. Watson (ed.), Roman London, cit., 7-12.

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Introduction Within the broad constraints imposed by population and technology, legal and social institutions could play an important role in shaping the Roman economy 1. These institutions created incentives (or disincentives) for various types of economic activities, and they affected the distribution of wealth between key sectors and players in the economy, such as the city and the countryside, and landowners and the rural labor force 2. In this paper, I would like to focus on one crucially important institution for the Roman economy, namely, the state in its role as an economic actor, to use Elio Lo Cascio’s formulation in the Cambridge Economic History 3. During the course of the early empire, property owned by the Roman state, whether defined as public land nominally under the control of the Roman senate and people, or the property under control of the emperor, played an increasing role in the imperial economy. This property included of a substantial network of lands and estates as well as other properties, including mines and quarries. Its significance of the economy was twofold. First, state property provided an important source of revenue, supplementing that achieved from direct taxes 4. In addition to this crucial function, the policies that the state (including the emperor) See especially the article by W. Scheidel, Demography, in W. Scheidel, I. Morris, R. Saller (eds.), The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, Cambridge 2007, 38-86. 2 For discussion of the role of legal institutions in the ancient economy, see B.W. Frier, D.P. Kehoe, Law and Economic Institutions, in Scheidel, Morris, Saller (eds.), Cambridge Economic History, cit., 113-143, D.P. Kehoe, Law and the Rural Economy in the Roman Empire, Ann Arbor 2007, and P.F. Bang, The Ancient Economy and New Institutional Economics, review of Scheidel, Morris, Saller (eds.), The Cambridge Economic History, in JRS 99, 2009, 194-206. 3 E. Lo Cascio, The Early Roman Empire: The State and the Economy, in Scheidel, Morris, Saller (eds.), Cambridge Economic History, cit., 619-647. 4 On revenues from imperial estates, see R.P. Duncan-Jones, Money and Government in the Roman Empire, Cambridge 1994, 5-7, and E. Lo Cascio, The State and the Economy, cit., 630-631, 642-646. 1

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implemented to manage its properties influenced conditions in the private economy. To cite one crucially important example of this, the state represented by far the largest landowner in the empire, with properties in every province. In particular, the state maintained control of extensive properties in Africa and Egypt, the most important food-producing provinces in the Roman Empire. The terms of tenure that the imperial administration maintained on its lands influenced those on private land. The institutional structure surrounding state-controlled property took many years to develop, and by the second century property that at one time could be viewed by historians as the private property of the emperor been incorporated into the administrative structure of the imperial Fiscus, under the direction of the very powerful a rationibus. As I will argue, the emperor Vespasian, in his administration of the strategic provinces of Africa and Egypt, played a decisive role in the development of the Roman state as an economic institution, laying the groundwork for the institutional structure that would affect the Roman Empire for years to come. The Flavians pursued a practice that the Roman state would continue to follow of maintaining productive land under direct state control and relying on small-scale farmers to cultivate it and provide revenues. To be sure, the Roman government under the Flavians built upon existing economic structures as it developed institutions to manage imperial properties. But the Flavian institutions helped to shape future efforts of the imperial government to address productivity in the rural economy to safeguard revenues, and they had important consequences for the distribution of wealth in the countryside and the relationship between the empire’s urban culture and the agricultural economy supporting it. Fiscal policies and land tenure An analysis of the state’s role as an economic actor in Africa appropriately begins with the imperial estates in the Bagradas valley, the organization of which is richly documented in a series of famous inscriptions that record lease regulations as well as conflicts between the people involved in their cultivation 5. These inscriptions document the efforts of the imperial Fiscus to develop land tenure arrangements designed to achieve the broad goal of securing a stable revenues, particularly in 5 D.P. Kehoe, The Economics of Agriculture on Imperial Estates in Roman North Africa, Göttingen 1988; Law and the Rural Economy in the Roman Empire, Ann Arbor 2007, 53-91, as well as D. Flach, Inschriftenuntersuchungen zum römischen Kolonat in Nordafrika, in Chiron 8, 1978, 441-492, and V. Weber, in K.-P. Johne, V. Weber, J. Köhn, Die Kolonen in Italien und den westlichen Provinzen des Römsichen Reiches: Eine Untersuchung der literarischen, juristischen und epigraphischen Quellen vom 2. Jahrhundert v.u.Z. bis zu den Severern, Berlin 1983, 289-343, and J. Kolendo, Le colonat en Afrique sous le haut-empire, Paris 19912.

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foodstuffs such as wheat, wine, and olive oil, which were needed to supply the annona, the food supply of Rome, as well as to support Rome’s military. The inscriptions were written in the second century CE, and so they allow us to trace the efforts of the imperial administration to increase production and to resolve disputes when the basic terms of land tenure had long been established. As I will argue, the Flavian emperors played a major role in establishing terms on land tenure on the North African imperial estates as part of a larger program of reorganizing the empire’s sources of revenue. To be sure, as mentioned above, the Roman administration faced constraints in establishing terms of land tenure that would help it to accomplish its goals, and it had to build upon existing institutions. Thus in Egypt, the Roman state built on the traditions of the Ptolemies by leasing out state-owned land in modest parcels to individual cultivators. In Africa, the situation was quite different. Although there are many uncertainties about the conditions under which land was occupied in pre-Roman Africa, it does seem clear that a great deal of land was held by tribes and shared out among the members in ways that are difficult to reconstruct. At the same time, wealthy Romans, beginning in the late Republic, were able to acquire large estates in Africa, although the conditions under which they were cultivated remain uncertain 6. To consider the cultivation of imperial estates in the second century, the Bagradas valley inscriptions reveal that the Roman administration was primarily concerned with encouraging small-scale farmers, or coloni, to invest their resour­ ces in the cultivation of the estates for the long-term by cultivating olives, vines, and fruit trees along with staples such as wheat and barley. The coloni occupied their land in accordance with the terms of a regulation called the lex Manciana (on whose origin, see below). They were sharecroppers, generally paying one-third of their crops as rent to middlemen, conductores, who leased the estates from the Fiscus on a short-term basis. In addition to collecting the share rent from the coloni and thus enforcing their contractual obligations, the conductores could use the labor of the coloni (generally six days each year) as well as their draft animals to cultivate certain lands within the estate. The coloni and the conductores had very different rights to the land on imperial estates. The coloni held their land under perpetual leaseholds, as long as they continued to cultivate it. The imperial administration offered them incentives to bring additional lands under cultivation, including perpetual leaseholds and rent-free seasons for vines, olives, and other crops that required considerable investment of labor, capital, and time. The administration offered these privileges at first on See C.R. Whittaker, Land and Labour in North Africa, in Klio 60, 331-362, and id. Roman Africa: Augustus to Vespasian, in A. K. Bowman, E. Champlin, A. Lintott (eds.), The Cambridge Ancient History, 2nd ed. X, The Augustan Empire, 43 B.C.-A.D. 69, Cambridge 1996, 586-618. 6

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an apparently ad hoc basis, but in the reign of Hadrian, it had developed a more comprehensive and uniform policy to encourage the cultivation of unused lands on imperial estates, the lex Hadriana de rudibus agris, or «the Hadrianic law concerning unused lands». The point is that, throughout the second century and perhaps beyond, the focal point of the imperial administration’s efforts to keep the land cultivated was the coloni. To this end, the imperial administration offered the incentives in the lex Hadriana again and again, as several copies of the sermo procuratorum implementing it, including one published under the emperor Septimius Severus 7. When the coloni came into conflict with the conductores, as revealed in a series of inscriptions from early in the reign of Commodus, it also protected their tenure rights against excessive exactions by the latter group. The system of land tenure on the North African imperial estates is consistent with a broader approach, focused on small farmers, that the imperial administration took to safeguard its revenues across the empire. This approach involved both reserving the production of certain classes of farmers for use of the imperial government, and also protecting their continued occupation and cultivation of their land against any factors that might threaten it, from abuses by tax officials or magistrates of towns to losing draft animals or equipment because of debt 8. This system of exploiting the North African imperial estates had its origins under the Flavian emperors. Certainly Vespasian had reasons to be concerned with the economic potential of Africa. The African grain supply became a major concern during the disorders of the years 68-69. The abortive revolt of the Clodius Macer, the commander of the legion stationed in Africa, the legio III Augusta, showed the vulnerability of Rome to any interruption of the African grain supply, and when Vespasian made his bid for the throne, he spent months in Alexandria to secure control over the empire’s other strategic food-producing province 9. In Africa, Vespasian is documented as re-measuring the fossa regia, the old boundary between the original Roman province and the old Numidian kingdom, presumably for fiscal purposes 10. All of this is well known, but what was not so obvious was how to organize strategic provinces to serve the long-term needs of the state.

7 CIL VIII, 25943, 26416; for a recently discovered version of the sermo, see M. de Vos (a cura di), Rus Africum: Terra acqua olio nell’Africa settentrionale. Scavo e recognizione nei dintorini di Dougga (Alto Tell tunisino), Trento 2000. 8 I discuss this approach in greater detail in Food Production in the Long Term (Roman World), in A. Bresson, E. Lo Cascio, F. Velde (eds.), Oxford Handbook of the Economies of the Ancient World, forthcoming. 9 See B. Levick, Vespasian, London-New York 1999, 46-47. 10 C.R. Whittaker, Africa, in A.K. Bowman, P. Garnsey, D. Rathbone (eds.), The Cambridge Ancient History, vol. XI, The High Empire, A.D. 70-192, Cambridge 20002, 514-546, at 515-517.

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Vespasian’s solution was to begin an ambitious re-organization of imperial finances that extended direct imperial control over substantial amounts of land in the provinces 11. This can be most clearly seen in Egypt in the disposition of the Julio-Claudian ousiai. The Julio-Claudian ousiai were properties that the emperor put at the disposal of members of the Julio-Claudian family, or other people closely associated with the court such as Seneca or the freedman M. Antonius Pallas 12. In general they were not estates in an economic sense of properties under a unified management, but were rather simply series of properties from which the beneficiary was allowed to draw an income 13. With the demise of the Julio-Claudian regime, the administration of this land was assimilated with other categories of state land, including public land, or ge demosie, and royal land, or ge basilike. The new category of state land, ge ousiake, became the responsibility of a new office, the ousiakos logos, and like the other categories of state land it was generally leased out in small parcels. The policy exemplified in the management of state lands was part of a broader one that saw the imperial treasury, or Fiscus, under the direction of the a rationibus, take on an increasing responsibility for managing the empire’s finances. Formally, of course, in the first century, many revenues were paid to the Aerarium, the treasury under the administration of the senate, whereas the imperial treasury, or Fiscus, originally was responsible to administer the private property of the emperor 14. By the second century, the Fiscus had become a state treasury with responsibility over revenues that had originally fallen to the Aerarium, such as the bona damnatorum or the bona caduca or vacantia. It seems likely that the role of the Fiscus in administering lands in the provinces increased over the course of the first century. It was probably only practical for the administrators in charge of the Aerarium, the senatorial praefecti aerarii, to administer property in Italy, and the Fiscus was likely alone to have had the administrative capacity to handle property in the provinces that passed to the state 15. To return to Africa, we can appreciate the role of the Flavian emperors in establishing the institutions shaping the state’s role in the Roman economy by considering the most likely origins of the lex Manciana. Certainly Africa was a region that offered opportunities for wealthy Romans, outsiders as well as natives of the province, to acquire large estates. As mentioned previously, North Africa lacked See Levick, Vespasian, cit., 95-106. G.M. Parássoglou, Imperial Estates in Roman Egypt, Amsterdam 1978. 13 D.P. Kehoe, Management and Investment on Estates in Egypt during the Early Empire, Bonn 1992, 16-57. 14 M. Alpers, Das nachrepublikanische Finanzsystem: Fiscus und Fisci in der frühen Kaiserzeit, Berlin-New York 1995; for a similar view see F. Millar, The Fiscus in the First Two Centuries, JRS 53, 1963, 29-42. 15 P.A. Brunt, The ‘Fiscus’ and its Development, JRS 56, 1966, 75-91. 11 12

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the institutional tradition evident in Egypt by which a central government, the Ptolemaic crown and later the Roman administration, maintained direct control over land. In Egypt, this situation impeded the creation of large estates, which, with the exception of the special case represented by the Julio-Claudian ousiai, only began to appear in the second century CE and really became an important aspect of the Egyptian economy in the third century 16. North Africa, by contrast, had had a long tradition of decentralized control over land, and when the Romans took over the region, many of the wealthiest landowners must have been displaced, creating opportunities for well-placed Romans. The report of Pliny the Elder (Nat. Hist. 18.35) that there were six landowners who owned half of Africa before Nero had them killed and their properties confiscated is certainly an exaggeration, but it does indicate a perception that large estates were characteristic of Africa in the Julio-Claudian period, and it may also suggest a growing concern on the part of Nero to assert more direct control over the strategic resources there. In all likelihood, the Lex Manciana began as a private lease regulation that the imperial administration adapted and gradually applied to imperial estates as more and more land came under imperial control 17. The only known personage who was plausibly the author of the lex Manciana is the senator T. Curtilius Mancia, who was suffect consul in 55 CE and legate of upper Germany in 56-58 18. His role in developing of the lex Manciana would most plausibly be connected with service in Africa, and it is often posited that he served as proconsul in that province during the latter part of Nero’s reign, although no such service in Africa is directly documented. Mancia hypothetically acquired property in Africa much as earlier proconsuls had done. They gave their names to estates that later became imperial property. For example, the Fundus Villae Magnae Varianae in the Trajanic Henchir-Mettich inscription (CIL VIII, 25902) apparently took its name from P. Quintilius Varus, who was consul in 13 BCE and proconsul around 7-4 BCE. The saltus Blandianus et Udensis in the Ain-el-Djemala inscription (CIL VIII, 25943) had been owned by C. Rubellius Blandus, suffect consul in 18 CE and proconsul of Africa in 35-36, and the saltus Lamianus et Domitianus in the same inscription included an estate that had at one time been the property of L. Aelius Lamia, consul in 3 CE and proconsul in 15-17. The most likely mechanism by which these senators acquired their estates was by gift from the emperor, rather than, say, by 16 See D. Rathbone, Roman Egypt, in Scheidel, Morris, and Saller (eds.), Economic History, cit., 700-705. 17 See especially L. de Ligt, Studies in Legal and Agrarian History I: The Inscription from Henchir-Mettich and the Lex Manciana, in Ancient Society 29, 1998-99, 219-39. 18 For the details, see D. P. Kehoe, Private and Imperial Management of Estates in North Africa, in Law and History Review 2.2, 1984, 241-263.

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purchase 19. There were certainly many other well-placed Romans who acquired extensive landholdings in Africa. To turn now to events during Vespasian’s reign, the careers of two brothers who were early supporters of his and gained substantial wealth as a result provide clues to the process by which imperial estates were developed. The brothers in question are Cn. Domitius Lucanus and Cn. Domitius Tullus, who are the most likely candidates to have given their name to the saltus Domitianus, an imperial estate mentioned in the inscriptions implementing the lex Hadriana de rudibus agris (the other obvious possibility would be a member of the family of the Domitii Ahenobarbi). As it turns out, the elder of the two brothers was the son in law of the Curtilius Mancia, the likely author of the lex Manciana, as we learn from Pliny the Younger’s discussion of the famous will of the wealthy but decrepit Cn. Domitius Tullus, who died some time around 107 (Ep. 8.18). The Domitii brothers were notoriously wealthy in Flavian Rome, having been named as heirs and adopted in the will of the Cn. Domitius Afer, the informer from Nemausus in Narbonese Gaul. Their wealth included brickyards around Rome, among other properties 20. Their service early in Vespasian’s reign suggests how Domitii acquired land in North Africa. They were among the many members of the senate who rallied to Vespasian’s side in the civil wars of 69 and were subsequently richly rewarded for their efforts. In the most likely reconstruction of their careers, the two brothers served as prefects of auxiliary forces in the Batavian wars in 70, and shortly thereafter moved to Africa as legates, where Lucanus served in some civil capacity, and Tullus commanded the third legion. They were adlected into the patriciate and received consulships by 73-74. The brothers would later return to Africa as proconsuls in consecutive years in the 80’s, probably in 84-86, and Lucanus remained in the province after his consulship to serve as legate under his younger brother. Interestingly, the brothers gained control over whatever land in Africa Curtilius Mancia had owned. As Pliny recounts, Curtilius Mancia’s daughter was married to Lucanus, and as Pliny tells the story, he wanted to leave his property to his granddaughter, Domitia Lucilla, but loathed his son-in-law. Accordingly, Mancia named his grandaughter as heir, on the condition that she be emancipated by Lucanus. But the brothers were able to get around this inconvenience by having Tullus This is an observation made orally by Prof. Werner Eck during the colloquium. For the careers of the Domitii, see W. Eck, Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter von 69/70 bis 138-39, in Chiron 12, 1982, 287-289, n. 28 and 309-310, nn. 115, 124; Id., Senatoren von Vespasian bis Hadrian: Prosopographische Untersuchungen mit Einschluß der Jahres- und Provinzialfasten der Statthalter, Munich 1970 (Vestigia: Beiträge zur alten Geschichte, 13), 91-92 and G. Alföldfy, Die Hilfstruppen der römischen Provinz Germania Inferior, Düsseldorf 1968 (Epigraphische Studien, VI), 131-135. 19 20

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adopt Domitia Lucilla. Since the brothers apparently operated their property in a partnership, this gave both brothers control over her property. This evidence points to the Domitii brothers’ playing a key role in extending the application of the lex Manciana as a tenure arrangement. Mancia, the Domitii, and perhaps other private owners used this type of sharecropping arrangement as a way of promoting the cultivation of their land, and offering tenure rights to tenants cultivating unused lands, that is, lands not under private ownership in some form that would be recognized by the Roman administration 21. When the properties putatively owned by Mancia were acquired by the Domitii, they extended the application of the lex Manciana to other lands they owned 22. When these lands in turn passed to imperial control, the imperial administration gradually extended the application of the lex Manciana through regulations like the Trajanic Henchir-Mettich inscription, in which, apparently in response to a petition from coloni, imperial procurators defined the rights and obligations of coloni who established cultivation rights on unused lands. Under the reign of Hadrian, such ad hoc grants became a more general program, represented by the lex Hadriana de rudibus agris. The implementation of this law involved offering the incentives discussed above for coloni to invest in the long-term cultivation of their land, including rent-free seasons for the period in which newly planted vines, olive trees and fruit trees would not produce much of a harvest, and, most important, perpetual leaseholds. In essence, the imperial administration built upon a system of exploiting lands developed by private landowners. This involved establishing small-scale tenants as autonomous farmers, and depending on them to produce the revenues that supported either the private landowner or the state. The difference with the imperial government is that it could extend the application of the lex Manciana on estates under its control and offer stronger incentives, such as the guarantee of perpetual leaseholds, to induce coloni to invest in their land. Indeed, the lex Manciana seems to have defined a recognizable class of farmers, as is suggested by a dedication on behalf of the house of Septimius Severus made by one C. Aufidius Utilis, who identified himself as a Mancian(a)e cultor (IL.Tun 629). This claim to status as an imperial tenant is paralleled is other parts of the empire, as, for example, can be seen in petitions in which petitioners identify themselves as imperial ten-

21 For discussion of the legal status of land in Africa after its incorporation as a province, see P. Ørsted, in P. Ørsted, J. Carlsen, L. L. Sebaï, H.B. Hassen (eds.), Africa Proconsularis: Regional Studies in the Segermes Valley of Northern Tunisia III, Aarhus 2000, 75-87, 96-103, and, for the early history of the lex Manciana, de Ligt, Studies, cit. 22 For the possibility that the Domitii at one time owned the Villa Magna Variana in the Henchir-Mettich inscription as a result of a prosecution by their adoptive father Cn. Domitius Afer, see Kehoe, Private and Imperial Management, cit., 257-263.

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ants and emphasize their services to the imperial treasury 23. The terms of tenure established by the lex Manciana became an enduring institution in North Africa. A dispute between coloni and emphtyeutic possessors over water rights indicates that some such form of land tenure continued to exist under the reign of Constantine (C. 11.63, 319 CE). Land tenure ultimately based on the lex Manciana endured into the Vandal period (the late fifth century CE), as is indicated by the sales of lands within a private estate in the pre-desert region of Africa documented in the Albertini Tablets. These lands had a right called culturae Mancianae, which must have meant that the cultivators had perpetual rights to their land but also paid a rent to the landowner 24. Forms of land tenure similar to that established by the lex Manciana may have been common on private land in the early imperial period. Thus David Mattingly and Bruce Hitchner suggest that a system of tenancy similar to that on imperial estates played a significant role in the development of the olive culture as a significant source of wealth in North Africa 25. The process that led to the formation of first private and then imperial estates in the Bagradas valley, in one of the most fertile and urbanized parts of the province, seems to have occurred in other less urbanized regions. For example, the Segermes valley near Hadrumetum in northern Tunisia, which has been carefully investigated by a Danish archaeological team led by Peter Ørsted, saw, beginning in the second century CE, the growth of substantial properties, including villas and other large farms. These farms, as was characteristic of Roman North Africa, were organized around a mixed agrarian regime of olives, grain, horticulture, and livestock raising; what would vary from one region to another was the degree to which there was a concentration on olive production. The Segermes valley had a least one very impressive complex, at Ksar Soudane, which was the center of a large estate, possibly on the order of 1,600 ha. This is the same size that Jean Peyras ascribes to a large estate in northern Tunisia, the fundus Aufidianus, in the region around Mateur. The organization of this estate is documented in a famous inscription recording the efforts of a conductor to restore it to productivity 26. To return to the Segermes valley, a modest number of inscriptions indicates that it had several towns, including Segermes, with orders of decurions, flamens, and other magistrates. Several inscriptions from the late second and early third centuries record dedications to a procurator from the regio Hadrumetina, which means that See Kehoe, Law and the Rural Economy, cit., 82-83. H. Weßel, Das Recht der Tablettes Albertini, Berlin 2000. 25 D. Mattingly, R. B. Hitchner, Roman Africa: An Archaeological Review, in JRS 85, 1995, 165213 at 195. 26 J. Peyras, Le Fundus Aufidianus: Étude d’un grand domaine de la région de Mateur (Tunisie du Nord), in AntAfr, 9, 181-222. 23 24

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there were also imperial estates in the region, although it is not possible to identify any particular archaeological remains as belonging to one 27. The point is that the process documented in the Bagradas and Segermes valleys repeated itself in many other areas as well, with the imperial government gaining control over extensive estates that lay alongside of land in the hands of private estate owners and also landowners in towns. The considerable role that the state played as an economic actor had important consequences not only for its ability to capture revenues from the provinces, but for the performance of the private economy as well. Distributional consequences The policy that the Flavian emperors implemented in Africa and broadened in Egypt affected the distribution of wealth in the rural economy and the relationship between cities and the countryside. The state’s continued ownership of large amounts of farmland to some degree impeded the accumulation of land in private hands, while the favorable terms of tenure that the state offered helped to foster the continuing existence of a class of cultivators independent from the domination by large landowners. The effects of this policy can be readily seen in Egypt, at least until the third century, when the state began to return some of its land, in particular royal land, to private ownership. In Egypt, the cultivators of this land enjoyed generally favorable conditions. Both under the Ptolemies and under the Romans, the status being a state cultivator offered some prestige, as petitioners often refer to this to emphasize their important contribution to state revenues 28. Moreover, tenure on public land in Egypt was secure, and could even be passed on from one generation to the next, as Jane Rowlandson has shown in her analysis of landowning in the Oxyrhynchite nome 29. The availability of public land in Egypt tended to promote a more egalitarian distribution of land than might have been the case in other parts of the Roman Empire 30. In the second century there were private estate owners in Egypt who accumulated extensive properties, but it is mainly in the early third century that a class of elite landowners emerged comparable to the wealthiest classes in other urbanized areas of the J. Carlsen, in P. Ørsted et al. (eds.), Africa Proconsularis, cit., 105-131. J.S. Manning, Hellenistic Egypt, in Scheidel, Morris, Saller (eds.), Economic History, cit., 452-453. 29 J. Rowlandson, Landowners and Tenants in Roman Egypt: The Social Relations of Agriculture in the Oxyrhynchite Nome, Oxford 1996, 70-101. 30 R.S. Bagnall, Landholding in Late Roman Egypt: the Distribution of Wealth, in JRS, 82, 1992, 128149, and M. Sharp, The Village of Theadelphia in the Fayyum: Land and Population in the Second Century, in A.K. Bowman, E. Rogan (eds.), Agriculture in Egypt from Pharaonic to Modern Times, Oxford 1999, 159-192. 27

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empire. The development of such a class made possible the administrative reform that accorded municipal status to nome metropoleis 31. In Africa, by contrast, the Romans inherited no such system of state-owned lands, and as we have seen, the most important economic institution that the Flavian emperors inherited was a highly stratified distribution of landownership. So the imperial administration built on this to create a form of land tenure designed to provide stable revenues for the long term. In a region characterized by highly stratified landownership, much of the farming population by necessity would have had to make its living by cultivating land on large estates. The Roman administration did not change this structure, but adapted it by taking direct control over large tracts of land and reserving the production of the tenants cultivating them for its own uses. It established this form of land tenure as a permanent institution by offering the coloni perpetual leaseholds. That the coloni paid their rent as shares of their produce reduced their risk for the periodic droughts characteristic of Mediterranean agriculture, which meant that the imperial administration would not have to intervene periodically to adjust the terms of tenure of the coloni. However, sharecropping contracts require a great deal of monitoring, a purpose that the administration achieved by setting the conductores over the coloni. The imperial administration, then, played a minimal role in managing its estates. The system of land tenure it maintained almost certainly did not maximize the revenues that the imperial estates could produce; instead, the imperial administration counted on a stable population of farmers with a long-term interest in the productivity of the estates. The conductores played an important role by enforcing the obligations of the coloni; they had an incentive to violate the lease terms of the coloni by increasing their share rent and exacting greater labor services from them, which led to the conflicts documented in the petitions to the emperor Commodus in the 180’s 32. The Roman administration’s policies in administering its estates in Africa necessarily affected terms of tenure on private estates, since both private landowners and the imperial administration competed for the services of coloni with sufficient resources to invest in the productivity of their land for the long term. It is not clear that, in the early empire at least, private landowners could provide the same guarantee of security of tenure that the state did, but if they could not do this it seems likely that private landowners had to be able to offer their tenants some31 D. Rathbone, Economic Rationalism and Rural Society in Third-Century A.D. Egypt: The Heroninos Archive and the Appianus Estate, Cambridge, 1991; Id., Roman Egypt, cit., 703. For the administration of Egypt, see A.K. Bowman, A.K. Rathbone, D. Rathbone, Cities and Administration in Roman Egypt, in JRS 82, 1992, 107-127. 32 The most complete of these is the petition from coloni on a saltus Burunitanus (CIL VIII, 10570, 14464), with a new edition and commentary in T. Hauken, Petition and Response: An Epigraphic Study of Petitions to Roman Emperors 181-249, Bergen 1998, no. 1.

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thing else, perhaps improved access to pressing facilities and even credit. However, the Roman government’s claims on the resources of imperial coloni inevitably led to conflicts with towns that became a basic element of Roman provincial life. This was certainly an issue that pitted private estates against towns in other parts of the empire. In a well-known passage, Frontinus discusses the conflicts in Africa between towns and large estates that apparently drew their considerable populations of farmers from the same pool that the town could be expected to call upon to fulfill its fiscal and liturgical obligations 33. In Asia Minor during the third century, such conflicts led to a series of petitions to the emperor from tenants on imperial estates 34. These tenants sought protection against inroads by officials from towns that they believed threatened the favorable terms of tenure they had long enjoyed. Indeed, the obligation of tenants on imperial estates to perform liturgies was a thorny legal issue with which the Roman government grappled from the time of Marcus Aurelius through the later empire 35. Role of the military in economic development Many scholars have drawn attention to the role that the military played in stimulating economic activity in the frontier zones, and this was certainly a phenomenon in Africa, although the scale of this economic activity has been much debated 36. The Flavian emperors played a significant role in developing what would emerge in the second and third centuries as a huge frontier zone in Africa. The long-term process involved the establishment of a series of forts and towns along the northern slopes of the Aurès mountains, as well as the construction of a series of walls and ditch works that represented a kind of boundary of the Roman Empire, the fossatum Africae. The precise strategic purpose of the fossatum Africae has been the subject of intense debate, but David Cherry argues convincingly that one major purpose of it was to channel the movements of transhumant pastoralists into areas where they could be taxed. Certainly they paid taxes on the products that they brought into the more densely populated regions of Africa, as is indicated by the early third-century inscription from Zarai recording a schedule of imposts on the products that pastoral tribes imported carried with them to trade (CIL VIII, 4508, 18643, 202 CE). At the same time, it seems likely that the fortifications that the 33 Quoted by Agennius Urbicus, in B. Campbell, The Writings of the Roman Land Surveyors: Introduction, Text, Translation and Commentary, London 2000, 42. 34 Hauken, Petition and Response, cit. 35 Kehoe, Law and the Rural Economy, cit., 79-89. 36 See D. Cherry, Frontier and Society in Roman North Africa, Oxford 1998, 24-74; Id., The Frontier Zones, in Scheidel, Morris, Saller (eds.), Economic History, cit., 720-740, at 722-726 .

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Vespasian, Africa, and the Roman Economy

Romans developed in the North African frontier zone also protected new settlements from passing transhumant pastoralists and so fostered the development of agriculture along the frontier 37. The contribution of the Flavian emperors was to establish a series of camps and towns that would begin a long-term process of developing this frontier zone. First, around 75 CE, the camp of the single legion stationed in Africa, the legio III Augusta, was moved from its Julio-Claudian headquarters at Ammaedara southwest to Theveste, about 60 km north of the Aurès mountains. In addition, a number of settlements were established along the northern slopes of the Aurès mountains as well as the Hodna mountains further to the west, including Mascula, Aquae Flavianae, Vazaivi, and Lambaesis, which in 115-117 would become the base for the third legion 38. Finally, around this same time, a road was built to link all these places; this road stretched from Tacapae on the coast in the east to Auzia in northern Numidia. The frontier that the Flavians established in Africa provided the basis for a long-term program of urbanization that would see the creation of Roman colonies and other military settlements near Lambaesis, including Thamugadi and the surrounding vici, which apparently provided a home to veterans of the third legion. The frontier zone in Numidia developed an urban culture similar to what characterized other regions in North Africa, based on a stable landowning class engaged in commercial agriculture. This is not to say that the presence of the military was absolutely essential to the economic development of underutilized areas. As we have seen, beginning in the second century, the Segermes valley saw the creation of large private estates and eventually of imperial properties as well. This region joined many others in Africa in experiencing the development of an urban culture linked with the commercial production of olive oil and other foodstuffs. Conclusion In their administration of Africa, the emperor Vespasian and his successors pursued policies that were significant for the Roman economy. As in Egypt, they expanded a system of maintaining state control over land once in the hands of private owners. In addition, they took crucial initial steps that would contribute to the urbanization and productivity of Africa’s vast frontier zone. One of the most important legacies of the Flavii was that the increased scope of state control over productive land established a kind of institutional path dependence that would

B. Shaw, Fear and Loathing: the Nomad Menace and Roman Africa, in Revue de l’Université d’Ottawa 52, 1982, 41-42. 38 Cherry, Frontier and Society, cit., 41. 37

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shape the empire’s responses to economic and fiscal issues 39. For one, the land tenure system established on imperial estates tended to foster its own continuation, as we can see from later petitions that tenants from imperial estates in Africa and Asia Minor sent to the emperors. The emperor would consistently respond to these petitions by re-asserting what had become traditional tenure arrangements. For the state, the question was not whether the system of land tenure on imperial estates promoted the most efficient use of resources, but rather how it could work within this system of land tenure to safeguard its revenues. The most important principle underlying the state’s policy toward revenues from agriculture was that maintaining the productive capacity of small-scale farmers was the surest way to ensure revenues, and this principle informed the government’s policies in a wide range of issues, whether it was dealing with the rights of tenants on imperial estates, the rights and obligations of landowners and tenants in private lease arrangements, or, in the fourth century and later, the binding of certain coloni to the land that they cultivated. A similar form of institutional path dependence can also be seen in the government’s efforts to foster the overseas trade that would support the annona. The government built upon the incentives offered under the Julio-Claudian emperors to attract private shippers to the annona, despite the costs that these incentives imposed on cities in the empire 40. When the free market, even supported by such incentives, proved inadequate to meet the needs of the annona in the fourth century, the government followed a comparable policy to the one it implemented with land tenure, by making service to the annona an obligatory liturgy. The Flavian emperors, and Vespasian in particular, played a crucial role in setting the terms under which the Roman state would manage the empire’s economy.

Dennis Kehoe Tulane University

39 On the tendency of institutions, once established, to re-enforce themselves, see G.M. Hodgson, Evolution and Institutions: On Evolutionary Economics and the Evolution of Economics, Cheltenham (UK) and Northampton (MA) 1999, 119-219, and also A. Greif, Institutions and the Path to the Modern Economy: Lessons from Medieval Trade, Cambridge 2006, 124-152. For the concept of ‘institutional path dependence’, see also D. C. North, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge 1990. 40 For discussion of the costs on the private economy created by state intervention in the grain trade, see P. Erdkamp, The Grain Market in the Roman Empire: A Social, Political and Economic Study, Cambridge 2005.

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LA LEX FLAVIA MUNICIPALIS Y LOS MUNICIPIA HISPANIAE

Los datos aportados por las fuentes literarias y epigráficas indican sin ningún género de duda que Vespasiano concedió el Latium universae Hispaniae mediante un edicto del año 73/74, mencionado en diversos capítulos de la lex Irnitana, equiparable sin duda a las leyes comiciales republicanas. Con esta decisión de Vespasiano se lograba la latinización plena de las provincias hispanas, concluyendo el proceso iniciado en los siglos precedentes, durante los cuales se desarrolla un vasto programa de integración político-cultural, que ha recibido el nombre de Romanización, y cuyo núcleo fue la difusión del modo de vida urbano en lugares donde no lo habían conocido antes de la conquista romana o lo habían hecho de una forma incompleta. La ciudad se convierte así en la base de la vida social y económica en todo el Imperio y en todas partes tuvo, en mayor o menor grado, la suficiente eficacia para producir, a través de unas condiciones socio-económicas y culturales similares, una civilización uniforme. Se puede, pues, afirmar que la organización política de Roma se apoyaba en las comunidades urbanas, especialmente colonias y municipios, consideradas como entes administrativos autónomos. Sin embargo, la transición a la vida urbana no se realizó de forma unitaria en todas las partes del Imperio, dependiendo en gran medida de la tradición urbana de cada provincia o región; así, por ejemplo la provincia senatorial de la Bética, contaba, según Plinio, con 175 ciudades, de ellas 9 colonias, 11 municipios Romanos y 27 oppida Latio antiquitus donata (en total 47 privilegiadas), en tanto que las otras dos provincias: la Tarraconense y la Lusitania, con una extensión muchísimo mayor, tenía tan sólo 224 ciudades, de ellas 17 colonias, 1 municipio Romano, 13 oppida c.R. y 21 oppida Latinorum veterum (en total 52 ciudades privilegiadas) 1. Es decir, la provincia de la Bética contaba ella sola con casi la mitad de las ciudades privilegiadas de Hispania.

1

Plin. N.H. 3.1, 3.3, 4.22.

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Los estudios sobre el desarrollo de la Colonización y/o Latinización en Hispania distinguen cronológicamente tres grandes períodos: un primero, pre-cesariano; un segundo, en el que se valora las deductiones de César e íntimamente ligado con él, la actividad legislativa de Augusto, y, por último, la concesión del ius Latii por Vespasiano el 73/74 d.C. En el primero de dichos periodos asistimos a un proceso de una importancia relativa en el que toda esta actividad fundacional estaba fuertemente condicionada e influida por la experiencia política que Roma había acumulado en sus contactos con las diversas tribus itálicas a lo largo de las largas guerras de conquista. Durante todo este amplio espacio temporal, que se extiende a lo largo del siglo II a.C. y la primera mitad del primero, se observa una fuerte oposición de los optimates a extender el sistema de colonias y municipios de ciudadanos romanos fuera del marco de la Península italiana. A las razones ya expuestas, debemos añadir también la conciencia de que la fundación de colonias o municipios, al convertirse el deductor en patrono y sus habitantes en clientes, contribuía al desarrollo de las clientelas provinciales, que podían convertirse en un claro elemento desestabilizador. La colonización a lo largo de este período se caracteriza porque o bien determinados gobernadores provinciales proceden a la fundación de núcleos urbanos, cuyo status jurídico será o no determinado con posterioridad por el Senado, o bien es el propio Senado el que concede a algunas ciudades indígenas el status de ciudad privilegiada. De acuerdo con los planteamientos ideológicos del Senado, expuestos en las líneas precedentes, el status político de estas comunidades, si es que llegaron a tener alguno, ha de ser necesariamente el de colonias Latinas, ya que la plena posesión de la ciuitas Romana estaba vetada a las ciudades provinciales por la radical oposición de los optimates. Entre las ciudades fundadas por los gobernadores provinciales, sin que haya constancia de que el Senado les concediese la condición de colonia o municipio, se mencionan un total de 11 posibles fundaciones, 3 en la Ulterior: Italica (206 a.C. Escipión el Africano), Corduba (Marcelo el 152/151 a.C.) y Metellinum (Quinto Cecilio Metelo el 80/79 a.C.); 6 en la Citerior: Gracurris (Tib. Sempronio Graco el 179 a.C.), Valentia (D. Iunius Brutus el 138/133 a.C.), Palma y Pollentia (Cecilio Metelo Baleárico el 123/122 a.C.), Valeria (Valerio Flaco el 92 a.C.), Pompaelo (Pompeyo el 75/74 a.C.), y una, Brutobriga (D. Junio Bruto el 138/133 a.C.), de emplazamiento desconocido, aunque los datos apuntan a su pertenencia a la Ulterior. Tan sólo nos consta el status de colonia Latina y su fundación por disposición explícita del Senado de una sola de ellas: Carteia, fundada el 171 a.C. por el Senado para dar una solución al problema planteado por los 4.000 hijos de soldados Romanos y mujeres peregrinas 2.

2

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Liv. 43.3.1.

La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae

La dictadura de César marcó un importante hiato en la política tradicional mantenida por el Senado de Roma a lo largo de la crisis republicana, y ello no sólo por el número de sus colonias, sino también por su ubicación en las provincias transmarinas. El fundamento legal, y por ende el posible punto de partida de su actividad colonial, se basaba en los poderes que, en su calidad de dictador, le conferían las leges Aemilia de dictatore creando del 49 a.C., y la lex de dictatore creando del 48 a.C. y en las diversas disposiciones que culminan en su nombramiento como dictador perpetuo. No olvidemos que en Abril del 44 a.C., después de los idus de marzo, se aprobaron dos leyes, propuestas por Marco Antonio, la lex Antonia de actis Caesaris confirmandis y la lex Antonia de colonis deducendis, que permitían la fundación de nuevas colonias. Suetonio refleja esta intensa actividad, cuando menciona el asentamiento en las provincias de ultramar de 80.000 ciudadanos 3. La actividad colonial de César adquiere destacado relieve en la Hispania Ulterior, en cuyo suelo, no debemos olvidarlo, tuvieron lugar decisivos acontecimientos militares, pero donde su actividad alcanza un notable relieve es en la concesión del ius Latii o Latium. En efecto, Plinio, que utiliza fuentes fechables en torno al 7 a.C., menciona, como ya he señalado, un total de 30 oppida Latio antiquitus donata. Como las fundaciones pre-cesarianas, según ya he señalado, son escasas, apenas una docena, y ni siquiera sabemos si consiguieron el status de oppida Latina, la mayoría de estas comunidades, sino todas, debieron alcanzar su status gracias a la actividad legislativa de César y/o Augusto. Sabemos que ambos concedieron el ius Latii a las regiones más urbanizadas de las provincias occidentales, sobre todo, Hispania y la Narbonense. En relación con esta actividad Casio Dión (43.39,5) dice que César, luego de varios triunfos en Hispania «a aquellos que habían sido favorables, les concedió tierras y la exención de impuestos; a otros la ciudadanía (polite…a) y a otros la consideración de colonos romanos». Con estas palabras el historiador griego destaca claramente privilegios a tres niveles: la inmunidad de impuestos y la concesión de tierras, probablemente ex iure Quiritium, la concesión de la ciudadanía, polite…a, y la deductio de colonias Romanas 4. La actividad colonizadora de César y Augusto en la Ulterior viene avalada por las 30 oppida Latio antiquitus donata de Plinio y las palabras de Estrabón, cuando dice que los turdetanos que viven cerca del río Betis se han adaptado tan completamente a la forma de vida romana que han olvidado su propia lengua y la mayoría de ellos han llegado a ser Latinos (i.e. han recibido el ius Latii), han acogido a colonos romanos, de modo que no están lejos de ser todos ellos Romanos. Más adelante añade algo similar al hablar de los Volcae Arecomici de la Narbonense y dice 3 4

Suet. Caes. 42.1. D. 43.39.5.

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que «también tienen lo que se llama Latium, así que los elegidos para ser aediles o quaestores llegan a ser Romanos» 5. Así, pues, aunque la situación en las partes más romanizadas de Hispania y la Narbonense era muy semejante, las ciuitates de la Narbonense recibieron el status de colonias latinas, en tanto que en Hispania faltan establecimientos, aunque no títulos, coloniales, por ejemplo, Segida Restituta Iulia, Nertobriga Concordia Iulia, Lacimurga Constantia Iulia, (Latinorum Laepia Regia, Carisa cognomine Aurelia, Urgia cognominata Castrum Iulium item Caesaris Salutariensis, etc.). Esta variante se aclara perfectamente, pues sabemos que Augusto, interesado en realzar el status de las colonias Romanas, menospreció el uso de este título para comunidades que nunca habían sido formalmente colonizadas, aunque sus habitantes hubiesen llegado a ser Latinos por la concesión formal del ius Latii. Estas colonias Latinas fueron transformadas en municipios que, según nuestra opinión, serían de derecho Latino. El cambio del status de colonia Latina a municipio en época de Augusto está atestiguado epigráficamente en Carteia. Esta actividad legislativa realizada por Augusto en estas provincias occidentales es bien conocida y de ella nos informan ampliamente las fuentes literarias; así, Casio Dión (54.23.7, 54.25.1) nos cuenta que en el 15 a.C. Augusto «colonizó numerosas ciudades en la Galia e Hispania», y más adelante que «una vez finalizados todos los asuntos que le habían ocupado en las Galias, Germania e Hispania, habiendo gastado grandes sumas en unos distritos … habiendo concedido la libertad y la ciudadanía a unos y arrebatándolas a otros, dejó a Druso en Germania y regresó a Roma el año 13 a.C.» 6. También el propio Augusto afirma que en el año 13 a.C. volvió a Roma rebus in his prouinciis prospere gestis  7. Resulta muy probable que, entre estos asuntos felizmente solucionados el 15/13 a.C., figurase una profunda reorganización del estatuto de las ciudades de Hispania, un programa extenso y complejo de colonización y municipalización. Un claro reflejo de aquel amplio programa legislativo que Augusto desarrollaría entre los años 15/13 a.C. lo constituye el hecho de que tan sólo conocemos 10 ciudades adscritas en la tribu Sergia, propia de las fundaciones republicanas, incluidas las de César, en tanto que 76 (33 de la Betica, 6 de la Lusitania y 37 de la Tarraconense) lo están en la Galeria, propia de las augusteas, y serán, por consiguiente, o bien fundaciones de Augusto ex novo o bien transformaciones de antiguas colonias Latinas republicanas o cesarianas en municipios, como sabemos por Carteia, donde esta epigráficamente documentada su condición de municipio 8. Strab. 3.151 C; 4.186-187 C. D. 54.23.7, 25.1. 7 RG 12. 8 Cfr. J. González, Inscripciones romanas de la provincia de Cádiz Cádiz 1982, n. 96. 5 6

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La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae

Ciertamente no es la primera vez que Roma acometió una empresa de tal envergadura, así ocurre, por ejemplo, en el 89 a.C. con la concesión de la ciudadanía Romana a los itálicos por la lex Iulia y la lex Plautia Papiria, o la concesión del derecho latino a las ciudades de la Cisalpina por Pompeius Strabo. Un proyecto legislativo tan singular, que incluía la concesión del derecho Latino y la constitución de numerosos municipios y colonias necesitaría sin duda un soporte legal, cuya necesidad se justifica por el hecho de que en las nuevas comunidades de derecho latino era necesario, por una parte, dar categoría de iudicia legitima a los litigios locales, y por otra, determinar qué personas y en qué circunstancias accedían a la civitas Romana per honorem. Sabemos que en época republicana las fundaciones de nuevas colonias o municipios se realizaban mediante una ley comicial, que en algunos casos podía contener reglas concretas sobre la constitución de las nuevas ciudades. Incluso cuando se trataba de la concesión de la ciudadanía romana o latina a una amplia base territorial o de la deductio de varias colonias de veteranos, las leyes particulares de estas colonias o municipios procedían de la adaptación de una ley-marco, válida para diversos municipios o colonias. Por ejemplo, los reglamentos de las 28 colonias de Augusto en Italia procedía efectivamente de una ley-marco. Pienso que efectivamente Augusto extendió el procedimiento urbano a los municipios hispanos mediante una ley comicial: la lex Iulia municipalis, cuya existencia aparece confirmada de forma indirecta en la ley Irnitana a través de los siguientes argumentos: a) por la presencia determinante de la legislación augustea en la lex Irnitana; b) por el hecho de que la relación de fuentes legales, cuyo cumplimiento es preceptivo (capp. 19-20, 40, 81), se inicia con el divino Augusto (adversus leges plebis scita senatus consulta edicta decreta constitutiones divi Aug(usti) Ti(beri)ve Iuli Caesaris Aug(usti)…); c) por la falta de mención de la lex Papia Poppaea (del 9 a.C.) a propósito de los derechos concedidos por el ius liberorum (cap. B); d) sobre todo, por las expresiones ante h(ac) l(egem) rogatam, mencionada dos veces en la cap. 31, hac lege nihilum (minus) rogatur de los capp. A y 79, y quacumque lege rogatione del cap. 91. Ya en mi comentario a la lex Irnitana defendía que la expresión ante hanc legem rogatam implicaba «the incorporation in our law, without proper re-phrasing, of a chapter of a general law on decuriones, passed in the comitia at Roma» 9. En resumen, creo que, después de los datos anteriormente aportados, podemos considerar muy probables los siguientes puntos:

9

J. González, The lex Irnitana: a new copy of Flavian municipal law, en JRS 76, 1986, 208.

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1) una extensión de los municipios de derecho latino a las provincias occidentales en general, y a las hispanas, en particular, realizada por Augusto en los años 15/13 a.C. durante su estancia en las mismas, de la que nos hablan las fuentes documentales; 2) la existencia de una ley comicial, a la que llamaremos lex Iulia municipalis, que sirviese para señalar los límites entre las jurisdicción local y la romana, la elección y atribuciones del ordo decurionum, de los magistrados, el acceso de éstos a la ciuitas Romana per honorem, etc., alguno de cuyos capítulos han sido reproducidos total o parcialmente en la nueva redacción de la ley Flavia municipal. Los datos aportados por las fuentes literarias y epigráficas indican sin ningún género de duda que Vespasiano concedió el Latium universae Hispaniae mediante un edicto del año 73/74, mencionado en diversos capítulos de la lex Irnitana, equiparable sin duda a las leyes comiciales republicanas 10. Con esta decisión de Vespasiano se alcanzaba la Latinización plena de las provincias hispanas, concluyendo el proceso iniciado en los siglos precedentes. La publicación de la lex Irnitana ha originado ciertos debates y discusiones sobre aspectos tales como la naturaleza del ius Latii, la finalidad de los edictos de Vespasiano y de sus hijos, la existencia o no de una ley municipal Flavio, etc. a algunos de los cuales intentaré dar respuesta en los minutos siguientes. Algunos estudiosos, especialmente italianos, han renovado la discusión sobre la naturaleza del ius Latii, considerándolo como «un diritto concesso da Roma su base territorial», es decir, un ‘Gemeinderecht’. Para estos estudiosos la existencia, según el testimonio de los capp. 19-20 de la ley Irnitana, de ediles y cuestores gracias a un edicto imperial anterior a la lex municipi implicaría que antes de la entrada en vigor de la ley existía ya una forma organizada de ordenamiento ciudadano 11. En mi opinión el intento de definir la naturaleza del ius Latii como un ‘Personenrecht`o como un ‘Gemeinderecht’ resulta un esfuerzo en cierto sentido anacrónico, pues, aunque es verdad que la concesión del ius Latii afectaba esencialmente a las personas que podían obtener la civitas Romana per honorem junto con sus ascendientes y descendientes mediante el desempeño de una magistratura, sin embargo su vigor no se agotaba en este campo, sino que implicaba un proceso de adaptación de las comunidades latinas a las normas organizativas romanas, que no siempre se concretaba en su trasformación en un municipio mediante la concesión de la correspondiente lex municipi. Por ello, me parece en cierto sentido un anacronismo el intento de definir el ius Latii como un ‘Personenrecht`o como un Plin. N.H. 3.30. Cfr. G. Mancini, Ius Latii e ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum nella lex Irnitana, en Index 18, 1990, 368 ss.; F. Lamberti, Tabulae Irnitanae. Municipalità e ‘ius Romanorum’, Nápoles 1993, 17 ss. 10 11

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La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae

‘Gemeinderecht’, y resulta mucho más acertado hablar de un derecho mixto que afectaría por igual a personas y comunidades. Algunos estudiosos, por ejemplo Lamberti 12, consideran que el nombramiento de los ediles y cuestores en cada comunidad se produciría antes de la promulgación de la lex municipii mediante edictos imperiales ad hoc, en los cuales se indicaría «los nombres de los que a título de representantes de la propia comunidad se habrían dirigido a Roma (o ante el gobernador provincial) para comunicar … la adhesión de su ciudad a los modelos institucionales de los conquistadores». Edictos imperiales que identifica con los mencionados en los capp. 19-20: ex edicto imp. Vespasiani Caesaris Aug. imperatorisue T. Caesaris Vespasiani Aug. aut imp. Caesaris Domitiani Aug. Según la Lamberti, ésta teoría tendría su confirmación en sendas inscripciones de Igabrum del 75 d.C., y de Cisimbrium, del 77 y 84, que recuerdan la «adquisición beneficio imperatoris de la civitas Romana per honorem», ya que, en su opinión, éstos habrían conseguido la civitas Romana per honorem en virtud de un edicto imperial, que identifica con el ya citado de los capp. 19-20, ya que si el edicto sobre el que se fundaba tal adquisición, fuese el mismo promulgado por Vespasiano, no se mencionaría en un caso el nombre de Domiciano y en el otro los nombres asociados de Tito y Vespasiano 13. No podemos estar de acuerdo con la hipótesis de que ediles y cuestores serían nombrados nominalmente por el gobierno imperial mediante edictos ad hoc, pues el texto de dichos capítulos no implica que hayan sido nombrados ‘por medio de’, sino que establece un paralelismo entre los magistrados anteriores a la ley que hayan sido elegidos ex edicto imp. Vespasiani… y los que sean elegidos con posterioridad a la misma, que lo serán h(ac) l(ege). En nuestra opinión, ya manifestada en la edición de la lex Irnitana, el edicto mencionado en estos artículos es el de Vespasiano, mediante el que se concedió el ius Latii a Hispania. Este edicto, renovado por Tito y Domiciano, contendría sin duda determinadas disposiciones que afectaban al gobierno de las comunidades latinas, entre ellas las normas que regulaban el nombramiento de los magistrados locales junto con su acceso a la ciuitas Romana per honorem, dejando a la autonomía de la comunidad la elección de los mismos. Lamberti se inspira sin duda en Armin Stylow, para quien las inscripciones mencionadas serían testimonios de la fase de transición entre el edicto de VesLamberti, Tabulae Irnitana, cit., 23. CIL II, 1610: Apollini Aug. | municipio Igabrensis beneficio Imp. Caesaris Aug. Vespasiani | c.R.c. cum suis per honorem | Vespasiano VI cos. | M. Aelius M.fil. Niger aed. | d.d. CIL II, 2096: [- - - - - -] | m. [F.?] C. benef[icio] | Imp. Ca[es]aris Aug. Vespa-| s[i]ani VIII T. Caesaris Aug. f. | VI cos. c.R. [c]onsecu-|[t.] cum uxor[e - - -] per hon. IIv[i]r. | [- - -] Valerius C.f Quir Rufus | d.s.p.d.d. J. González, Inscripciones inéditas de Córdoba y su provincia, en MCV 17, 1981, 44 (= AE 1981, 290). 12 13

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pasiano del 73/74 y la promulgación de las leyes municipales especificas de cada municipio. Por lo que considera la mención de Igabrum y Cisimbrium como muncipia Flavia como una ‘autodenominación’, y fecha la lex municipii de Cisimbrium en el año 84 14. Esta hipótesis de Stylow presenta, en mi opinión, el grave inconveniente de que es altamente improbable que una comunidad se autoproclame como municipio antes de haber recibido su lex constitutiva y más aún que sus magistrados ofrezcan estatuas de divinidades, en un caso incluso de una divinidad augustea, vinculada al culto imperial, a un municipio ‘oficialmente’ inexistente. Parece, pues, más probable que tanto Igabrum como Cisimbrium fuesen municipios Latinos en el momento en el que fueron dedicadas estas estatuas, es decir los años 75 y 77 respectivamente. No existe ningún impedimento para aceptar esta realidad, excepto que ambas comunidades hubiesen recibido el status municipio en una fecha tan temprana. ¿Cómo explicar entonces la expresión beneficio imperatoris? Dos son las respuestas dadas a esta cuestión: una, que con ella se recuerda la concesión del ius Latii por Vespasiano que permitió a los magistrados dedicantes alcanzar la civitas Romana per honorem, y otra, que se hace referencia al edicto imperial que permitió el nombramiento de los mismos como magistrados. En ambos supuestos se considera que ambas comunidades no habían recibido la necesaria lex municipii. La primera suposición resulta inviable, toda vez que en las inscripciones de Cisimbrium se mencionan, en una, conjuntamente a Vespasiano y Tito y, en la otra, a Domiciano, y en la de Igabrum, a Vespasiano como autores del beneficium. La segunda resulta igualmente rechazable pues ambas comunidades aparecen mencionadas como municipia Flavia, por lo que el acceso a la civitas Romana per honorem de esos magistrados se produjo después de haber conseguido sus comunidades las respectivas leyes municipales. En nuestra opinión, el beneficium imperatoris recibido por los magistrados de estos municipios es la propia civitas Romana. En efecto, los textos de las inscripciones apuntan en esa dirección: «Q. Anio Nigro, de la tribu Quirina, ofreció y dedicó al municipio Flavio Cisimbrense (esta estatua) de Venus Victrix por haber conseguido la ciudadanía Romana por el honor del dunvirato por un beneficio del emperador César Augusto Domiciano, cónsul por novena vez». No obstante, surge inmediatamente una pregunta: ¿Por qué se considera un beneficium principis el cambio de status personal, pues, «si esta mejora de status se basaba ya en una lex municipalis no hacia falta un agradecimiento expreso al emperador». Esta pregunta retórica no está correctamente planteada, pues la adquisición

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A. Stylow, Apuntes sobre epigrafía de época flavia en Hispania, en Gerion 4, 1986, 301, nn. 35-36.

La lex Flavia municipalis y los municipia Hispaniae

de la civitas Romana per honorem estaba fijada por el ius Latii, en tanto que la lex municipalis se limitaba a regular en su normativa la realidad jurídico-administrativa de los nuevos municipios Latinos. No nos olvidemos de las ciudades adtributae, en las que eran censados individuos oriundos de otras comunidades que habían recibido el ius Latii pero no el estatuto municipal, y donde podían, mediante el desempeño de sus magistraturas, acceder a la civitas Romana per honorem. Ahora bien, la inclusión de estos magistrados en el censo como ciudadanos Romanos muy probablemente no sería inmediata, pues necesitaría un documento oficial que le garantizase a él y a su familia dicha condición cívica. Esta circunstancia les asimilaba a los individuos que recibían la ciudadanía Romana viritim por un beneficium principis 15 y recibirían al igual que éstos un documento (diplomata), en el que figuraría el nombre del emperador reinante, no el de Vespasiano ni tampoco el autor de la concesión de la lex municipii. Esta hipótesis permite aclarar la expresión beneficio Vespasiani, Vespasiani Titive, o Domitiani de las inscripciones de Igabrum y Cisimbrium. Tal vez el tema más discutido en estos últimos tiempos haya sido la existencia o no de una ley marco: la lex municipalis Flavia, de la que las leyes municipales particulares serían una copia. Esta posibilidad ha sido rechazada frontalmente por Galsterer, para quien el redactor de una ley municipal «n’avait pas toujours et pas partout devant lui un modele dans lequel il n’aurait eu qu’à mettre le nom de la cité, et cela ni avant ni aprés César» 16. En realidad lo que hace es recuperar las palabras de Mommsen: «legem p.R. nego ullam exstitisse, quae statum municipiorum et coloniarum sive c.R. sive Latinorum generaliter ordinaret»  17. Sin embargo, en la exposición de Galsterer encontramos ciertas incoherencias, así, por ejemplo, cuando afirma «or, quoique promulguées par un magistrat responsable, elles ne portaient jamais le nom de leurs auteurs. On ne peut done pas plus parler d’une lex Iulia pour Urso que d’une lex Flavia por les municipes latins de l’Espagne 18». Esta afirmación resulta incoherente, pues, si no conocemos la praescriptio de ninguna ley municipal o colonial, ¿cómo es posible afirmar que no llevan jamás el nombre de sus autores? Pero, tal vez lo más llamativo de sus tesis sea que, al mismo tiempo que rechaza la existencia de una lex Iulia municipalis y de una lex Flavia municipalis, que tendría su aplicación a las 76 ciudades adscritas a la tribu Galeria y a los innumerables municipios Flavios, acepte que, cuando se traPlin. Paneg. 37.3; Gai. 1.93-95. H. Galsterer, La loi municipale des Romains chimère ou realité?, en RHD 65, 1987, 181 ss. 17 Th. Mommsen, Ges. Schirfen, I, Berlín 1905, 153. 18 H. Galsterer, La loi municipale des Romains: chimère ou realité?, en RHD 65, 1987, 181. Cfr. También Luraschi, Sulla lex Irnitana, cit., 349 ss. 15 16

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taba de la concesión de de la ciudadanía romana o latina a una amplia base territorial o de la deductio de varias colonias de veteranos, las leyes particulares de estas colonias o municipios procedan de la adaptación de una ley-marco, válida para diversos municipios o colonias. Incluso admite que los reglamentos especiales para las 28 colonias de Augusto en Italia… podrían muy bien haber figurado en una ley-marco, comparable a la ley Flavia de la península ibérica 19. En la misma línea de rechazo a la existencia de una lex Flavia municipalis se manifiestan otros estudiosos, para los cuales todas las leyes hispanas conocidas: la Irnitana, la Salpensana, la Malacitana, la Villonensis, etc., eran leges datae en Roma para los respectivos municipios «ogni singola lex municipii … era redatta a Roma ex novo». Cada una de las comunidades interesadas en constituirse en municipio enviaría a Roma unos legati para solicitar la concesión de la ley municipal y conseguir el nombramiento de los magistrados de la misma 20. Estas serían elaboradas una a una por expertos juristas, informados por estos legati de las peculiaridades locales en relación al número de habitantes, al de los miem­bros del senado, al patrimonio medio de los ciudadanos, etc. 21. A pesar de esta elaboración individualizada, estos estudiosos no pueden ignorar que existe una cierta uniformidad, que se refleja en la coincidencia en el orden de ma­terias, numeración y redacción de los capítulos e, incluso, en ciertos errores gráfi­cos comunes y cree que esta uniformidad se debe a la existencia en el archivo de la cancillería imperial de un modelo, que servía para da leyes a las ciudades hispa­nas que deseaban constituirse como municipios. La existencia de un modelo resulta, pues, indiscutible. El problema radica en averiguar si ese modelo era, en palabras de la Lamberti, simplemente «una minuta, un abbozzo, insomma un canovaccio di norme» existente en la cancillería imperial, en la que se incluirían las particularidades locales de la comunidades interesadas en conseguir su status muncipii o deberíamos hablar de una ley en sentido estricto 22. La primera posibilidad implicaría una sucesiva conce­sión de leges datae en un número difícil de precisar, pues, a través de la tribu Quiri­na, en la que figuraban inscritas las fundaciones flavias, conocemos, al menos, cerca de 70 municipios, a Galsterer, La loi municipale, cit., 199. Lamberti, Tabulae Irnitanae, cit., 237. Esta tesis lleva a la A. a rechazar la teoría de los ‘centones legales’ compilados en sede local d­ e M. W. Frederiksen, The lex Rubria, en JRS 55, 1965, 188, y la hipótesis de E. Gabba, Riflessioni sulla «lex Coloniae Genetivae luliae», en J. Arce y J. González (edd.), Estudios sobre la «Tabula Siarensis», Madrid 1988, 157 ss., sobre la existencia de un digestum compilado en Roma. 21 Cfr. H. Galsterer, Municipium Flavium Irnitanum: a Latin town in Spain, en JRS 78, 1988, 89-90. 22 Cfr. G. Luraschi, Sulla la lex Irnitana, (Rc. di D’Ors A., D’Ors X., ‘lex Irnitana’ e di Gonzalez J. The lex Irnitana), en SDHI 55, 1989, [1990], 354-355. 19 20

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los que habría que añadir todos aquéllos de los que no tenemos noticias ni epigráficas ni documentales, tal como ocu­rría con Irni y Villo. En cualquier caso, en esa sucesión de leges datae, independientes entre sí, la primera de ellas, fuese la que fuese, serviría sin duda como modelo para las siguientes. No es concebible que la cancillería imperial se plantease ex novo la redacción de las sucesivas leyes, en las que solamente cambiaría algunos detalles referentes a las peculiaridades locales. Los datos aportados por la fuentes literarias y epigráficas apuntan claramente en otra dirección. Tal como ya hemos indicado, la concesión del ius Latii implicaba un proceso de adaptación de la comunidad a las normas organizativas romanas, que se concretaba en su transformación en un municipio mediante el otorgamiento de la lex municipii. Parece pues convincente pensar que el propio Vespasiano habría adaptado la antigua lex Iulia municipalis a la nueva realidad hispana, conservando el cuerpo legislativo augusteo. Esta circunstancia se revela claramente por la men­ ción, anacrónica en época de Domiciano, de la lex Iulia de ludiciis privatis reciente­ mente promulgada, o la mención de una lex rogata en los capp. 31, A, 79 y 91, ya mencionada. Además, añadiría la legislación post-augustea, incluyendo los senatus consulta que desarrollaban e interpretaban la legislación anterior, recuérdese la expresión senatus consulta ad it kaput legis pertinentia del cap. 91, así como los edicta, decreta et cons­ tituciones imperiales mencionadas entre las fuentes del derecho. Que la lex Flavia municipalis sea obra de Vespasiano aparece confirmado, en nuestra opinión, por las mencionadas inscripciones de Igabrum del 75, de Cisimbrium del 77 y de Munigua del 79, que acreditan que ya en estas fechas todas es­tas comunidades eran ya municipios. Uno de los argumentos más utilizados para insistir en la inexistencia de una ley general es el hecho de que la competencia ratione materiae de la jurisdicción mu­ nicipal variaba según la importancia del municipio: 1000 HS en Malaca y 500 HS en Irni, Se aducía que si se tratase de un modelo común no tendría explicación es­tas diferencias. Sin embargo, recientemente se ha publicado un pequeño fragmento de un municipio desconocido, en cuyo cap. 69 figuran huecos en blanco en los lugares donde deberían figurar la cantidad de sestercios 23. Las opiniones sobre esta circunstancia han sido variadas: así, por ejemplo, su editor pensaba que se trata­ría de un modelo para ser utilizado por los copistas, en tanto que la Lamberti, aunque opina que los escribas copiaban el texto de un volumen de papi­ro, sobre el cual «il testo era già di ‘giustezza’ idonea ad essede riprodotto in co­l onne», finalmen23 Cfr. F. Fernández, Nuevos fragmentos de leyes municipales y otros bronces epigráficos de la Bética en el Museo Arqueológico de Sevilla, en ZPE. 86, 1991, 125 ss.

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te, se limita a considerar ‘dubbia’ la función de este documento, sin aportar ninguna va­loración del mismo 24. No es cierto que el escriba se ajustase exactamente al número de líneas por columna, ni a la extensión de cada línea, como demuestra el hecho de la reduc­ ción de la escritura en la última tabla de la Irnitana, fenómeno observado tam­ bién en la lex Vrsonensis. Parece más consecuente pensar que de un mismo volu­ men, facilitado por el gobernador provincial, se sacasen copias en bronce de muy diversa estructura, tanto por el número y la extensión de columnas, la anchura de las líneas y otros detalles formales, probablemente según la costumbre del taller. Por último, aunque le resulte difícil valorar esta peculiaridad, el profesor D’Ors opinaba que se trata de una copia del modelo común, que tendría cantidades únicas, en el que se dejó en blanco el lugar de esas cantidades con el fin de introducir después las que, quizá por decisión del gobernador (o por acuerdo de la curia municipal), se llegara a fijar según el nivel económico del municipio destinatario. Además, considera este testimonio significativo por el hecho de que si el texto de cada ley viniese de Roma, es imposible que vinieran con esos huecos en blanco 25. Aunque resulte difícil interpretar adecuadamente este fragmento, no obs­tante, pensamos que probablemente fuese encontrado en un taller provincial don­de se preparaba el texto para su envío a la comunidad interesada 26. Resulta lógico pensar que la comunidad que había recibido la ley municipal se dirigiese a estos talleres v encargase una copia en bronce de la misma con indica­ción del número y extensión de las columnas, el tamaño de la placa, etc., dejando en blanco las cantidades pecuniarias, hasta su aprobación por la curia municipal. En resumen. creemos que existía una lex data de Vespasiano que regulaba la concesión del status municipii a las comunidades hispanas. Esta ley fijaría los aspec­ tos normativos que Roma consideraba de absoluta obligatoriedad para los nuevos municipios, dejando a la autonomía local la concreción de aspectos tal como el número de decuriones, la competencia ratione materiae de la jurisdicción municipal, etc. Probablemente estos límites serían fijados por la propia curia local, según se deduce del mencionado fragmento con el vacat. Una copia de esta ley se encontraría en poder del gobernador provincial en Corduba. a donde acudirían los legati de las respectivas ciudades interesadas en conseguir el status municipii. No debe sorprendernos esta afirmación, pues es bien conocido, como la propia Lamberti señala, que en la capital provincial existía un archivo en el que figuraban todas las disposiciones imperiales referentes a la mis­

Lamberti, Tabulae Irnitanae, cit., 206. Cfr. A. D’Ors, Sobre legislación municipal, en Labeo 40, 1994, 98. 26 Cfr. D’Ors, Sobre legislación, cit., 98. 24 25

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ma 27. Nos parece increíble que existiese tal archivo, cuya finalidad era facilitar el conocimiento de este corpus legal a los habitantes de la provincia, y no figurase en el mismo la ley municipal que establecía los requisitos que debían reunir las co­ munidades que deseasen acceder a la condición de municipio. Ahora bien, ¿acaso alguien puede dudar de que 76 ciudades hispanas adscritas a la tribu Galeria, consecuencia de las profundas reformas de Augusto del año 15/13 a.C., o los innumerables municipios Flavios reflejan una ‘una amplia base territorial’? o ¿ acaso no existe un paralelismo evidente entre las discutidas leges Iulia y Flavia municipales mediante las cuales se concedería en dos fases sucesivas el ius Latii a las ciudades hispanas, con la lex Iulia y la lex Plautia Papiria con la que se concedió el año 89 a.C. la ciudadanía Romana a los itálicos, o la lex Pompeya, de la misma fecha con la concesión del derecho latino a las ciudades de la Cisalpina, o las leges Rupilia de iure Siculorum, del 131 a.C., o la lex Pompeia municipalis Bithyniae del 63 a.C. con idénticas concesiones a Sicilia y a Bitinia? En resumen, creemos que existía una lex data de Vespasiano que regulaba la concesión del status municipii a las comunidades hispanas. Esta ley fijaría los aspectos normativos que Roma consideraba de absoluta obligatoriedad para los nuevos municipios, dejando a la autonomía local la concreción de aspectos tales como el número de decuriones, la competencia ratione materiae de la jurisdicción municipal, el número de decuriones, etc. Probablemente estos límites serían fijados por la propia curia local. Una copia de esta ley se encontraría en poder del gobernador provincial en Corduba, a donde acudirían los legati de las respectivas ciudades interesadas en conseguir el status municipii. No debe sorprendernos esta afirmación, pues es bien conocido que en la capital provincial existía un tabularium en el que figuraban todas las disposiciones imperiales referentes a la misma.

Julián González Universidad de Sevilla

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Lamberti, Tabulae Irnitanae, cit., 239.

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Au livre III de l’Histoire naturelle, dédiée à Titus en 77 ap. J.-C., Pline l’Ancien s’engage dans la description du monde 1: nunc de partibus…, écrit-il (III.I.3). Commençant par l’Europe il en donne alors un bref éloge: altrix victoris omnium gentium populi longeque terrarum pulcherrima (III.I.5: «la nourrice du peuple qui a vaincu toutes les nations et de loin le plus beau des continents») 2. Dans le long développement qui s’annonce, placées en général dans une position introductive, de telles phrases courtes constituent une suite de jugements de valeur, dont les nuances valent hiérarchie ou classement. Les provinces ibériques viennent en premier (III.II.6 à 29). C’est alors que la Bétique (III.II.7), reçoit aussi un éloge qui la distingue de la Tarraconaise et de la Lusitanie et qui l’élève au-dessus d’elles: cunctas provinciarum diviti cultu et quodam fertile ac peculiare nitore praecedit («elle surpasse toutes les autres (provinces ibériques) par la richesse de ses cultures et par un certain éclat: il provient d’une fertilité qui lui est propre»). Il met en relief la prospérité agricole qui assurait des exportations telles que le vin 3 et surtout l’huile 4 sur les routes de l’Occident romain, sur celle de Rome aussi: comme Strabon, Pline voit dans l’essor des échanges un effet majeur de la formation de l’empire romain, mais avec des conséquences négatives aussi, surtout le développement de la luxuria 5. Lorsque, peu après, il aborde une autre partie de l’empire, il se limite à la Narbonnaise, réservant la présentation de l’ensemble de la Gaule pour le livre IV. Il lui consacre aussi un éloge, mais bien

Selon l’édition et la traduction de H. Zehnacker, CUF, Paris 1998. V. Naas, Le projet encyclopédique de Pline l’Ancien, Rome 2002 (Collection de l’EFR, 303), 418-432; sur le dernier passage cité, ibid., 91. 3 R. Etienne, Fr. Mayet, Le vin hispanique, Paris 2000, 61-97. 4 R. Etienne, Fr. Mayet, in D. Colls, R. Etienne, R. Lequément, B. Liou, Fr. Mayet, L’épave de Port-Vendres II et le commerce de la Bétique à l’époque de Claude, Paris 1977 (Archaeonautica, 1), 134-149; R. Etienne, Fr. Mayet, L’huile hispanique, Paris 2004. 5 Naas, Le projet, cit., 432-438. 1 2

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plus significatif que celui qu’avait reçu la Bétique. Même s’il est quasiment lapidaire, il va plus loin par l’amplification et par l’éclat des formules (III.V(4).31) 6: agrorum cultu virorum morumque dignatione, amplitudine opum nulli provinciarum postferenda, breviterque Italia verius quam provincia («Par la qualité de son agriculture, par la considération dont jouissent ses habitants et leurs mœurs, par l’importance de ses ressources, elle ne le cède à aucune province: bref, c’est l’Italie plutôt qu’une province»). Il s’achève par une sententia, comme pour l’Italie, plus loin (III.VI(5).39: breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret) 7. Trois thèmes apparaissent: la richesse agricole qui est importante dans l’éloge d’une région et dont les laudes Italiae avaient depuis longtemps montré la récurrence 8, l’abondance des autres ressources, qui est aussi un thème usuel de l’éloge d’un pays (Pline avait, in fine, vanté les ressources minières de la péninsule ibérique: III.IV(3).30), enfin la considération dont jouissent les habitants par leur manière d’être: virorum morumque dignatione. Dignatio: ce terme caractéristique de Pline est fort de sens 9; il se rapporte à l’estime dont une personne est entourée, à son excellence, et le terme est aussi utilisé par cet auteur pour signaler les choses les plus remarquables, qu’il faut mettre à part, au-dessus des autres. Il opère donc un dépassement par rapport à la Bétique, comme il le fera pour l’Italie (VI(5).39-42). A la transition des principats d’Auguste et de Tibère, lorsque Strabon faisait l’éloge de l’empire romain et des transformations qu’il avait apportées aux peuples provinciaux, cet auteur développait le paradigme à propos de la Turdétanie 10. Dans l’œuvre de Pline c’est la Narbonnaise qui joue ce rôle de modèle parmi les modèles, d’autant que la chute de l’éloge est remarquable par le rapprochement établi avec l’Italie. Peut-être faut-il éclairer cette particularité du propos par une familiarité de Pline avec la province: on a supposé qu’il en aurait été procurateur 11, et qu’il aurait acquis une bonne connaissance du pays et de ses élites. Mais on a aussi relevé 6 Sur ce souci de hiérarchisation, Naas, Le projet, cit., 427: mais le fondement de la description est géographique. 7 Naas, Le projet, cit., 30-31, 233-234, 422-423, 427-432. 8 R. Martin, Recherches sur les agronomes latins et sur leurs conceptions économiques et sociales, Paris 1971, 259-269. 9 ThLL, V, 1, cc. 1132-1133, s.v. dignatio. 10 Strab., Geogr., III.2.15; P. Le Roux, Romains d’Espagne. Cités et politique dans les provinces (II e siècle av. J.-C. - III e siècle ap. J.-C.), Paris 1995, 7-11; P. Thollard, Barbarie et civilisation chez Strabon, Paris 1987, 59-62. 11 P.-M. Duval, La Gaule jusqu’au milieu du Ve siècle, Paris, 1971 (Les sources de l’histoire de France des origines à la fin du XVe siècle), I, 368-379; sur la carrière administrative, H.-G. Pflaum, Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut Empire romain, Paris 1960-1961, 106-111, n. 45; Id., Les fastes de la province de Narbonnaise, Paris 1978, 112-115. Sur cette question, reprenant un article plus ancien (cité nt. 12), R. Syme, The Consular Friends of Pliny the Elder, in Roman Papers, VII, Oxford 1991, 496-511; J.F. Healy, Pliny the Elder on Science and Technology, Oxford 1999, 1-35.

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que nombre de ses amis en étaient originaires, et qu’il les avait côtoyés dans l’entourage de Vespasien 12: c’étaient aussi des canaux de l’information, en plus de la documentation livresque. Quoi qu’il en soit, la provincia devient le paradigme de l’assimilation des valeurs du peuple romain. La prospérité de la province Le développement par Pline du thème de la prospérité est confirmé par l’archéologie, dont les données sont suffisamment riches pour permettre d’aborder la province dans la diversité de ses composantes régionales. En effet, les enquêtes du programme Archeomédès ont éclairé les formes du développement agricole dans la vallée du Rhône et dans les régions méridionales 13. Attentives à la longue durée, elles ont mis en évidence que la période flavienne, et plus généralement la seconde moitié du Ier siècle ap. J.-C., correspondraient à l’aboutissement d’un long mouvement de croissance rurale. Deux mesures ont été adoptées pour cette approche de la réalité rurale, attentive aux rythmes et aux inflexions d’une analyse de long terme. Une première s’attache à comptabiliser les créations et les disparitions de sites ruraux, par tranches de demi-siècles, de la fin du IIe siècle av. J.-C. à la fin du Ve siècle ap. J.-C.: soldes positifs et soldes négatifs peuvent ainsi apparaître. Pour la période envisagée (de 50 à 100 ap. J.-C.), c’est un solde largement positif qui vient s’ajouter à d’autres soldes positifs acquis au siècle précédent. Quoique tracée à gros traits, l’évolution de longue durée est claire: un mouvement de croissance s’est engagé depuis la fin de la période proto-historique. L’amplitude est de deux siècles, sinon plus, en incluant ce qu’on appellerait le «décollage», puis la phase même de croissance, caractérisée par la continuité d’importants soldes positifs dans le rapport entre créations et disparitions de sites. Puis s’opère une décrue, plus ou moins sensible, plus ou moins étalée dans le temps aussi. Une seconde mesure, qui prend en compte la superficie des sites repérés, conduit à pondérer l’ampleur du mouvement, en améliorant la perception quantitative, mais sans altérer l’allure générale. A l’intérieur du mouvement long le temps court du règne de Vespasien (69-79) se situe remarR. Syme, Pliny the Procurator, en HStCPh 73, 1969, 201-236 (= Roman Papers, II, Oxford, 1979, 742-773); aussi J.F. Healy, Pliny the Elder, 20-23. Sur la méthode, Naas, Le projet, cit., 107-169. 13 F. Durand-Dastès, Fr. Favory, J.-L. Fiches, H. Mathian, D. Pumain, C. Raynaud, L. Sanders, S. van der Leeuw, Des oppida aux métropoles. Archéologues et géographes en vallée du Rhône, Paris 1998; S. van der Leeuw, Fr. Favory, J.-L. Fiches (éds.), Archéologie et systèmes socio-environnementaux. Etudes multiscalaires sur la vallée du Rhône dans le programme Archéomédès, Paris 2003. Déjà C. Raynaud, Les campagnes rhodaniennes: quelle crise?, in J.-L. Fiches (éd.), Le IIIe siècle en Gaule Narbonnaise, Sophia-Antipolis 1996, 189-212. 12

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quablement au moment de l’ascension finale, lorsque les deux approches mettent en évidence la poursuite d’une vive croissance. On relève aussi, à partir de la mesure des superficies observées, que cet épanouissement (en nombre de sites repérés) résulte d’une efflorescence de sites d’assez faible superficie: ils pèsent quantitativement dans l’établissement des inventaires, mais ils n’affectent pas en proportion la courbe qui tient compte de la superficie des établissements. L’analyse spatio-temporelle montre que ce sont plutôt des sites complémentaires ou intermédiaires, parachevant le maillage des terroirs, ou prolongeant sur leurs marges les terroirs cultivés. Ils traduisent des tentatives pour saisir des terres marginales, aux capacités productives fragiles, exposées à la loi des rendements décroissants, et ne récompensant pas nécessairement les efforts entrepris. Mais globalement, le mouvement fait toujours reculer le saltus devant l’ager, suivant les formules des spécialistes de géographie rurale lorsqu’ils distinguent entre terres cultivables et terrains de parcours. Dans la province les terrains de parcours sont mordus çà et là, et parfois assez fortement amputés par l’activité des hommes en vue d’une mise en valeur agricole. On a vu dans la réalisation des «cadastres d’Orange», engagée dans la première moitié de l’année 77 ap. J.-C., un témoignage épigraphique en rapport avec ce développement rural. Comme l’envisage la grande inscription qui résumait les instructions données par Vespasien au proconsul de Narbonnaise et les finalités de l’action de ce dernier 14 l’affichage des plans de marbre comportait des indications relatives aux ressources de la colonie d’Orange, méticuleusement gravées: les superficies dont l’exploitation fournissait des ressources à la caisse municipale, selon une décision remontant à Auguste lui-même; le montant du vectigal annuum, tarifé en fonction de la capacité productive estimée du sol, centurie par centurie ou même à l’intérieur des centuries. Mais ce qui se produisit à Orange n’était sûrement pas une entreprise isolée; les critères d’estimation de la capacité productive du sol, puis la fixation du taux de la redevance n’avaient pas une portée seulement locale 15. Dans la mesure où le cadre fiscal remonte à Auguste, peut-être dans les années où la Narbonnaise fut province du prince (avant 22 av. J.-C.), la définition comme sol tributaire des terres dont les revenus avaient été transférés à la colonie est une disposition ancienne, et la même condition devait caractériser d’autres A. Piganiol, Les documents cadastraux de la colonie d’Orange, Paris 1962 (XVIe supplément à «Gallia»). Pour l’inscription: ibid., 79-89 (d’où AE, 1962, 197); M. Christol, Les ressources municipales d’après la documentation épigraphique de la colonie d’Orange: l’inscription de Vespasien et l’affichage des plans de marbre, in Il capitolo delle entrate nelle finanze municipali in Occidente ed in Oriente, Actes de la Xe Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain (Rome, Mai 1996), Rome 1999 (Collection de l’Ecole française de Rome, 256), 115-136. 15 M. Christol, Ressources des colonies, ressources de l’Etat, in Actes de la XV e Rencontre franco-italienne (Paris, 2008), et Id., Remarques sur les recettes d’une colonie romaine, in MEFRA 112, 1, 2010, 15-23. 14

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terres dans la province. Mais on peut ajouter que l’œuvre de Vespasien visait avant tout à prendre en compte, par de nouvelles estimations, les changements dans la mise en valeur des terroirs, et donc à mettre à jour une matrice fiscale: à Orange et ailleurs. L’emplacement vraisemblable des zones couvertes par le «cadastre B» montre une corrélation entre les zones fournissant des revenus à la colonie et des terres de nature médiocre ou ingrate, à la mise en valeur plus incertaine. Ou bien, pour le dire autrement: dont la mise en valeur agricole était conditionnée à l’application soutenue d’une importante activité humaine. On se trouverait peut-être aux limites du « front pionnier » agricole qui se développait 16. Ces constatations ne suffisent pas. Les responsables de l’enquête Archeomédès ont aussi comparé entre eux les sous-ensembles régionaux qu’ils étudiaient, faisant apparaître des variations qu’il fallait interpréter en termes de conjoncture historique. Ainsi surgit une question de fond: les recherches qui se développent dans d’autres régions de la province apportent-elles des concordances ou des discordances ? Sur l’ensemble du mouvement, une large concordance apparaît. Mais sur la chronologie du décollage et de la croissance des différences apparaissent qui donnent une plus grande précocité aux régions plus proches de Narbonne et de Béziers. Les origines de cette distinction, opposant, pour simplifier, les parties occidentales de la province et les parties rhodaniennes, se trouvent peut-être dans les conditions de formation de la Transalpine, plus ouverte précocement dans la région de Narbonne, de Toulouse et de Béziers aux entreprises italiennes. Cet essor agricole s’appuie sur le développement de deux cultures spécifiques: celle de l’olivier et celle de la vigne, qui viennent, sans l’abolir, faire évoluer la polyculture traditionnelle et l’intégrer dans des champs plus spéculatifs. La culture de l’olivier a bénéficié de plusieurs études. Une des plus significatives et des plus denses concerne le département du Var, en Provence orientale 17, qui correspond à une part du territoire de la colonie romaine de Fréjus et au territoire oriental de celle d’Arles. L’inventaire des huileries met en exergue quelques cas particulièrement bien connus, et concordants. Ils révèlent que le développement décisif de l’oléiculture se produit dans l’intervalle 70/90, à un moment où les caractéristiques des exploitations se modifient, au début d’un long siècle qui marque un palier productif. Ce développement avait entraîné des réorganisations dans les exploitations: construction de grandes huileries, remaniement des bâtiments d’exploitation, en général transformés par des construcFr. Favory, L’évaluation des compétences agrologiques des sols dans l’agronomie latine au Ier siècle ap. J.C.: Columelle, Pline l’Ancien et le cadastre B d’Orange, in M. Clavel-Lévêque, E. Hermon (éds.), Espaces intégrés et ressources naturelles dans l’Empire romain, Actes du colloque de l’Université Laval-Québec (Université Laval-Québec, 5-8 mars 2003), Besançon 2004, 95-118. 17 J.-P. Brun, L’oléiculture en Provence. Les huileries du département du Var, Paris 1986. 16

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tions en opus caementicium, remodelage des installations agricoles. L’évolution des grands établissements agricoles qui vont se maintenir soit jusqu’à la fin du IIe siècle, soit, pour quelques-uns, jusqu’au milieu du IIIe siècle, est significative. Le mouvement que l’on a constaté ne se limite pas à une efflorescence de complément, repérable dans les établissements agricoles de moyenne ou faible étendue. Il s’appuie surtout sur l’évolution des grands domaines qui désormais prennent en compte ‘on peut dire systématiquement’ tous les facteurs moteurs de la création de richesse par des objectifs de production agricole et par le choix des moyens les plus aptes pour y parvenir. Les aménagements qui modifient la structuration du cœur des domaines sont importants parce qu’ils traduisent une rupture dans l’organisation de la production et qu’ils expriment soit une orientation nouvelle des objectifs de production, soit le dépassement d’un siècle d’expériences et de tâtonnements dans les techniques agricoles et dans l’élaboration d’une production destinée à la vente et à la formation d’un grand profit. A la lumière d’autres secteurs de la province, concernant l’essor viticole, c’est peut-être cette seconde partie de l’alternative qui devrait être retenue. Sans aucun doute c’est à partir des grands domaines et des capacités d’investissement de leurs détenteurs que s’enchaîne le grignotage des terres aux capacités réduites, dans lequel prennent leur part les communautés paysannes, dont on ne doit pas omettre l’existence. Mais le développement de la vigne comme culture majeure, altérant le schéma polycultural traditionnel, est sans aucun doute un peu plus ancien 18. Les notations de Pline présentent un bilan riche et varié. Depuis longtemps elles ont été utilisées pour mettre en valeur le développement de la viticulture gauloise, dans un mouvement de longue durée qui embrasse non seulement les régions méridionales mais aussi les régions du centre et du nord, jusqu’aux abords des camps romains. Pline peut être considéré comme le témoin d’un moment, lorsque le bilan dressé retient des réalités aux temporalités diverses: des acquis déjà anciens devenus fondements durables, et des apports plus récents apparaissant comme innovations intéressantes. Il témoigne de l’intérêt des classes dirigeantes provinciales pour la culture de la vigne 19 par la mention du traité écrit vers 30-40 par le père du sénateur Cn(aeus) Iulius Agricola, L(ucius) Iulius Graecinus, originaire de Fréjus 20. Columelle, qui 18 A. Tchernia, Le vin de l’Italie romaine, Rome 1986 (BEFAR, 261), 184-189, 197-200, qui met en rapport le développement des vignobles provinciaux avec la recherche de forts rendements face aux demandes du marché urbain. 19 Tchernia, Le vin, cit., 218-229. 20 Y. Burnand, Primores Galliarum. II. Prosopographie, Bruxelles 2006 (Collection Latomus, 309), 96-99 (36 S 6).

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rédigeait son ouvrage d’agronomie à la fin du règne de Néron 21, entre 62 et 65 22, le cite dans ses sources, en précisant que l’auteur avait agi en discipulus («élève») d’un autre agronome, Iulius Atticus 23. Dans sa perspective il était flatteur de noter que l’on se plaçait dans une continuité afin de transmettre des compétences, car il estimait que l’agricola, s’il voulait réaliser sa condition d’homme faisant produire la terre, devait se nourrir d’expérience et de savoir 24. A. Tchernia, pour sa part, approfondissant des observations de R. Syme, accorde à Graecinus une grande importance. Mais, du point de vue chronologique, nous sommes en décalage par rapport à l’époque flavienne. Columelle mettait aussi en relief les importations du vin gaulois (c’est-à-dire de Narbonnaise) en Italie 25. C’est un texte important, puisque l’auteur, tout en imitant la préface d’un prédécesseur 26, Varron, la retouche sur ce point, ce qui est donc significatif: itaque in «hoc Latio et Saturnia terra», ubi di fructus agrorum progeniem suam docuerunt, ibi nunc ad hastam locamus, ut nobis ex transmarinis provinciis advehatur frumentum, ne fame laboremus, et vindemias condimus ex insulis Cycladibus ac regionibus Beticis Gallicisque («ainsi dans ‘cette terre du Latium et de Saturne’, où les dieux ont enseigné à leur progéniture comment obtenir les fruits des champs, là même nous mettons maintenant aux enchères le transport du blé tiré des provinces d’au-delà des mers, et nous rentrons des vendanges qui proviennent des îles des Cyclades, des régions de la Bétique et de la Gaule»). Il donnait aussi des informations sur le vin des Allobroges 27, sur le vignoble planté en biturica 28, sur le vin poissé des Allobroges 29 et sur des productions de qualité inférieure provenant de Gaule aussi 30. Il avait largement emprunté au traité de Graecinus 31, ce qui replacerait les informations qu’il nous fournit au cœur de l’époque julio-claudienne plutôt qu’en son temps même, sous Néron. Quant à Pline, il s’attache à énumérer les pratiques culturales qui sont originales, ou bien les méthodes d’élaboration du produit, la vinification. A l’exception de la biturica de Bordeaux, il se concentre sur les régions de la vallée du Rhône en

Duval, La Gaule, I, cit., 349-351. Martin, Recherches, cit., 327 n. 6; 377; 391. 23 RR, 4, 28, 2. Graecinus fait aussi partie des sources de Pline. 24 Martin, Recherches, cit., 295; 311-315; Tchernia, Le vin, cit., 211-212; 218. 25 RR, I, Praef., 20. 26 Tchernia, Le vin, cit., 107 et 246. 27 RR, 3, 2, 16; J. André, Contribution au vocabulaire de la viticulture: les noms de cépages, in REL 30, 1952, 126-156; Tchernia, Le vin, cit., 184-185. 28 RR, 3, 21, 3 et 11. 29 RR, 12, 23, 1-3 30 RR, 3, 2, 25. 31 Tchernia, Le vin, cit., 200, 214-217. 21 22

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citant le vignoble des Helviens 32 et celui des Allobroges 33. Ce sont des citations plus fugitives qui concernent d’autres vignobles, de la région de Marseille 34 et de la région de Béziers 35, à la réputation bien établie: quoique rapides elles ne sont pas à négliger. En définitive la province est largement embrassée, dans la diversité de ses productions et dans l’originalité de ses innovations. Aussi peut-on considérer que Pline saisit la viticulture de la province à un moment décisif de son développement, en évoquant tant les premiers points forts qui étaient apparus à partir de l’époque augustéenne dans la partie occidentale, autour de Narbonne et de Béziers, que les vignobles qui s’étaient développés dans la vallée du Rhône et qui en son temps connaissaient un plein essor. L’apport des amphores est aussi décisif 36. La meilleure connaissance des lieux de production et des formes, notamment les amphores «gauloises», permet, comme pour l’huile de Bétique, de parvenir à une géographie de la distribution, en cartographiant les courants de diffusion. Il semblait acquis que le vin gaulois aurait d’abord été expédié vers les régions septentrionales, comme le montrent les données des fouilles de sites lyonnais, dont la chronologie s’étage durant le Ier siècle ap. J.-C. On estimait que ce serait seulement dans un second temps qu’il serait apparu à Rome à l’époque de Néron 37, mais d’une façon modeste, les apports ne paraissant massifs, dans les contextes d’Ostie et de Rome, qu’à l’époque flavienne, pas avant 38. Les recherches récentes sur la mise en valeur de régions dépendant de la colonie romaine de Béziers montrent le développement plus précoce qu’on ne le supposait de grands domaines tournés vers la production viticole à grande échelle, longtemps insoupçonnée 39. A l’Ouest de la province, à la fin du principat d’Auguste et au début du principat de Tibère déjà, les cadres d’une production largement destinée aux marchés de consommation sont bien en place. La NH, XIV.4.43. NH, XIV.3.18, 4.25-26, 4.27, 6.57. 34 NH, XIV.8.68. 35 NH, XIV.8.68. 36 Leur étude a été renouvelée par F. Laubenheimer, Le temps des amphores en Gaule. Vins, huiles et sauces, Paris 1990 (qui fait la synthèse d’une importante bibliographie). Mais les connaissances s’accroissent constamment: voir par exemple St. Mauné (n. 39 ci-dessous). 37 CIL, XV, 4542-4543 (au Castro pretorio): vin de Béziers; Tchernia, Le vin, cit., 247. C’est dans cette région qu’apparaît une production d’amphores de type Dr. 2-4 (ateliers d’Aspiran et de Corneilhan): Tchernia, Le vin, cit., 146. 38 Tchernia, Le vin, cit., 236-237, 245-248. 39 St. Mauné, Le statut et la place des ateliers de potiers dans les campagnes de Gaule Narbonnaise durant le Haut-Empire. L’exemple de la moyenne vallée de l’Hérault, in Tallers ceràmics i producció agrícola. Estudis sobre el món rural d’época romana 2 / Pottery workshops and agricultural procutions. Studies on the rural World in the Roman period 2, Girona 2007, 150-183. Nous remercions St. Mauné de nous avoir communiqué d’autres travaux en cours de publication. 32 33

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Narbonnaise, qui se trouvait entre deux mondes se tourna rapidement aussi vers la Méditerranée, et cette conversion semblait acquise avant même l’époque flavienne, comme le suggère Columelle. Les mutations de l’agriculture, qui s’étaient accompagnées du développement de productions artisanales diverses, ont contribué à la mise en place de processus d’enrichissement cumulatifs, dont un signe évident se trouve dans les transformations du cadre matériel des exploitations, nécessitant de lourdes dépenses ou d’importants investissements. Chronologiquement, si des repères existent préalablement, l’époque flavienne y a sa part, peut-être en fin de cycle de rationalisation de l’activité productive des domaines agricoles. Mais ces mutations, qui ne se limitent pas au cercle des grands domaines, doivent s’apprécier par leur résultante, l’accumulation des recettes et des profits, et dans un cadre social qui dépasse le milieu des maîtres des grands domaines et qui s’étend vraisemblablement à de larges pans des sociétés urbaines et rurales. L’étude des importations de céramiques dans les agglomérations secondaires de la cité de Nîmes, et la mise en rapport des productions extérieures à la province et des productions issues de celle-ci mettent en évidence, par les pourcentages, les capacités productives régionales et les formes d’une réelle hausse du niveau de vie, dans la consommation alimentaire et dans les usages domestiques 40. Telles sont les conditions matérielles de la vie de la province lorsque s’ouvre avec Vespasien l’époque flavienne. Colonisation, droit latin, romanisation Dans l’éloge de Pline, la formulation flatteuse comporte une seconde partie, qui concerne les hommes et les mœurs, bref l’histoire sociale de la province à partir de la sphère du politique. Il convient aussi d’aborder la question par une mise en rapport du temps long et du temps court, d’autant que dans la principale partie du développement qui va suivre Pline décrit longuement le paysage civique, en recourant à une source constituée à l’époque augustéenne, ce qui donne à l’information transmise une épaisseur chronologique certaine jusqu’à l’aboutissement dans le texte même de l’Histoire naturelle 41. En effet c’est sur deux listes de communautés que se concentre son propos lorsqu’il décrit les composantes de la province, dans une sorte d’inventaire exhaustif. Celle des colonies de droit romain est bâtie en ordre chronologique, selon Raynaud, Les campagnes, cit., 203 (avec fig. 7). M. Christol, Pline l’Ancien et la formula de la province de Narbonnaise, in La mémoire perdue. A la recherche des archives oubliées, publiques et privées, de la Rome antique, Paris 1994, 45-64. 40 41

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le principe de l’ancienneté, source de prestige. Les colonies de vétérans y trouvent une place spécifique, avec référence à l’unité légionnaire d’origine (Narbonne, Arles, Béziers, Orange et Fréjus): cet élément est constitutif de leur histoire et de leur prestige 42. A elles s’ajoutent des colonies honoraires: Valence, dont le nom trahit l’origine militaire, mais pas dans le contexte d’une déduction légionnaire, enfin Vienne, élevée sous Caligula 43. Cette liste était à jour à l’époque de la rédaction de l’Histoire naturelle. S’ajoute, à la suite, en ordre alphabétique selon la méthode de la digestio in litteras, une liste des cités de droit latin, dont certaines disposaient aussi du titre colonial: on doit considérer que ce qui est donné était aussi à jour au moment de la rédaction 44. Le document qu’a utilisé Pline remonte à l’époque augustéenne. La confection, associée de façon évidente à l’expression formula provinciae, serait à placer entre 27 av. J.-C. et 22 av. J.-C., plus exactement en 27, date du voyage d’Auguste en Gaule méridionale puis en péninsule ibérique 45 et de l’amorce du recensement des Gaules: on aurait alors mis en ordre les communautés, à l’exception des cités fédérées de Marseille et des Voconces, selon deux sortes de statuts seulement: celui des colonies de droit romain et celui de cités de droit latin, sans qu’ait existé la catégorie des cités stipendiaires, comme dans les provinces ibériques 46. Très tôt donc, l’organisation des communautés s’était calquée sur les modèles italiens, qui avaient déjà connu leur épanouissement en Gaule Cisalpine 47. Et le transfert des composantes (droit latin dès l’époque césarienne, colonies de vétérans à l’époque césarienne puis à l’époque triumvirale, mise en place d’un schéma de passage d’une catégorie à l’autre) s’était produit dans un temps assez court, sur une génération ou deux. Ce n’étaient pas seulement les formes institutionnelles qui avaient été transférées. L’établissement et le développement des colonies de droit romain a joué M. Christol, Notes d’épigraphie 7-8. Sextani Arelatenses, in CCG 15, 2004, 102-119. H.-G. Pflaum, La mise en place des procuratèles financières dans les provinces du Haut-Empire romain, en RHD, 4e s., 46, 1968, 378. 44 Liv., Per., 134; Dion., 53.22.7. 45 Pline connaissait les dernières décisions d’organisation provinciale: le transfert des Avantici et des Bodiontici à la colonie de Digne par Galba (III.V(4).37: adiecit formulae Galba imperator ex Inalpinis Avanticos et Bodionticos, quorum oppidum est Dinia). C’est le seul passage dans lequel le terme formula (sous-entendu provinciae) apparaît dans ce sens: Christol, Pline l’Ancien, cit., 45, 48. Sur la méthode classificatoire, C. Nicolet, L’inventaire du monde. Géographie et politique aux origines de l’Empire romain, Paris 1988, 184-186, 190-192. 46 NH, III.3.7 (Bétique): 120 cités stipendiaires; IV.18 (Citérieure): 135 cités; IV.22.117 (Lusitanie): 36 cités. 47 Ce point est important pour la compréhension de l’octroi du droit latin aux communautés provinciales: D. Kremer, Ius latinum. Le concept de droit latin sous la République et l’Empire, Paris 2006, 119-158. Ce n’est que plus d’un siècle ensuite que fut touchée la péninsule ibérique de la même façon systématique. 42 43

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un rôle important pour stimuler l’épanouissement urbain associé à la municipalisation. Et les décisions du pouvoir impérial vinrent conforter cette évolution: la date de 22 av. J.-C. n’est pas seulement le moment du retour de la province dans les mains du peuple et du Sénat, elle pourrait être celle de divers aménagements de la texture civique, dont le rattachement de vingt-quatre oppida de droit latin à la colonie latine de Nîmes pour constituer une grande cité, la colonia Augusta Nemausus, avec en son cœur un grand chef-lieu, la ville de Nîmes 48. Une remarque subsidiaire s’impose: le document administratif de l’époque augustéenne concernait des communautés qui avaient vraisemblablement reçu le droit latin à l’époque de César. Lorsque Pline le reprend, il l’utilise comme inventaire tenu à jour, pour donner un aperçu du paysage civique à son époque. On ne doit pas douter que le document administratif dont il disposait, mentionnait les modifications postérieures à la mise en forme initiale. Si avaient été inventoriés les déplacements de la liste alphabétique vers celle des colonies de droit romain, ajoutant ainsi l’une après l’autre les communautés promues (Valence et Vienne), il faut envisager que pour le reste (les cités de droit latin) la liste présentait de même un état du temps présent: les retouches, plus ou moins nombreuses, se cachaient vraisemblablement sous l’indication d’oppida ignobilia, c’est-à-dire de communautés civiques déclassées, ayant perdu leur rang avec leur autonomie, et rattachées, à l’instar des vingt-quatre oppida dévolus à Nîmes, à des voisins plus importantes: Pline en dénombre dix-neuf (III.V(4).37) 49. Si ces communautés perdaient leur autonomie, celles qui les absorbaient s’accroissaient en hommes et en superficie. Outre le cas de Nîmes, on pourrait citer, dans ce contexte, le rattachement d’une petite communauté indigène, Matavo, à la colonie de Fréjus: ce déclassement venait d’être acquis lorsque Caligula visita la Gaule 50. Mais, dans la même région, la communauté de droit latin de Forum Voconi (Les Blaïs), conservait son autonomie, puisque Pline en faisait mention. Tout comme, à l’ouest du territoire de la colonie latine de Nîmes, nous savons à présent que subsistait un oppidum latinum, autour de l’agglomération de Murviel-lès-Montpellier, présent dans la liste de Pline sous le nom des Samnagenses. Dans une perspective plus longue, qui conduit jusqu’à la Notitia Galliarum (début Ve siècle), on constate que si un mouvement de concentration des Deux textes: Strabon, Géogr., IV, 1, 12, et Pline, NH, III.5.37. L’interprétation a été orientée par les réflexions de Chr. Goudineau, Le statut de Nîmes et des Volques Arécomiques, in RAN, 9, 1876, 105-114. Par la suite M. Christol, Chr. Goudineau, Nîmes et les Volques Arécomiques au Ier siècle av. J.-C., in Gallia, 45, 1987-1988, 87-103. La date de 22 av. J.-C., comme moment de l’organisation de la colonie de Nîmes, est proposée par M. Christol, Nîmes dans les sources antiques, in J.-L. Fiches (dir.), Nîmes, 30/1, Paris 1996 (Carte archéologique de la Gaule dirigée par M. Provost), 58-60. 49 Christol, Pline l’Ancien, cit., 59-61. 50 CIL XII, 342 = ILN Fréjus, 164. 48

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cités s’est déjà engagé, il est loin d’être parvenu à son terme: c’est encore l’image de la fragmentation de la vie civique qui l’emporte et peut-être aussi celle d’un réel dynamisme, permettant à des communautés de médiocre importance d’éviter l’absorption. Le droit latin est important pour l’adoption par les élites provinciales des usages de la vie civique. L’une des applications majeures de ce statut résidait dans l’accès au droit de cité romaine par la gestion des magistratures, la civitas Romana per magistratum. Le principe avait été mis en œuvre en Cisalpine après de la guerre sociale 51. En Narbonnaise son application eut de profonds effets sur les sociétés dirigeantes, par la romanisation juridique de ceux de leurs membres qui n’appartenaient pas encore au peuple romain. L’épigraphie en témoigne dans un contexte global de latinisation de l’anthroponymie 52. On peut faire le lien entre le développement de la municipalisation et celui de l’urbanisation, qui suivent à peu près le même rythme, comme vient de l’illustrer le livre de P. Gros qui repose sur la connaissance intime du sujet 53. Mais il faut embrasser, au-delà des réussites urbaines, qui à partir de quelques lieux privilégiés impriment leur marque aux paysages provinciaux, l’ensemble des communautés énumérées par Pline. A l’exception de Valence, l’urbanisme des colonies de droit romain, est bien connu, et il fait de ces villes les reproductions de la ville de Rome. En revanche la connaissance des cités de droit latin est plus contrastée. Celles qui jouissaient du titre colonial disposaient certainement d’une plus grande importance. Lorsqu’elles sont connues par leur cadre urbain, on ne distingue que peu de différences avec les puissantes colonies de droit romain, comme le montrent les exemples de Nîmes, de Vienne avant l’élévation au rang de colonie romaine honoraire, de Glanum, d’Aix-en-Provence ou de Ruscino. Mais il faut relever qu’un certain nombre des peuples mentionnés par Pline ne sont pas encore précisément localisés, ni rattachés à un site précis. On relève aussi qu’un certain nombre de ces communautés n’offrent pas encore des dossiers épigraphiques permettant d’observer le fonctionnement du droit latin dans toute sa richesse. Sur cette question demeurent encore dans bien d’interstices des chapitres à composer, même s’il advient que des recherches méthodiquement conduites mettent au jour des éléments spectaculaires 54. L’enjeu est de taille, car il s’agit d’apprécier les éventuelles limites de l’urbanisation sur le modèle italien. Kremer, Ius latinum, cit., 121-127. M. Christol, Les colonies de Narbonnaise et l’histoire sociale de la province, in W. Eck (hrg.), Prosopographie und Sozialgeschichte. Studien zur Methodik und Erkenntnismöglichkeit der kaiserzeitlichen Prosopographie, Kolloquium (Köln 24-26. November 1991), Köln-Wien-Weimar, 1993, 277-292. 53 P. Gros, La Gaule Narbonnaise. De la conquête romaine au IIIe siècle apr. J.-C., Paris 2008. 54 On se référera aux fouilles de P. Thollard à Murviel-les-Montpellier. 51 52

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Sans aucun doute la voie de passage que constitue l’application du droit latin et le développement institutionnel qu’il engendra, transformant le fonctionnement politique et social de nombreuses communautés, expliquent l’ampleur de la romanisation: la société provinciale est une société de togati. Cette évolution s’exprima en particulier dans les différentes strates du monde dirigeant, comme le montrent les nombreux gentilices de notables qui conservent des traces de l’anthroponymie celtique, mais transformées suivant les règles de la nomenclature civique. Mais si la diffusion du droit de cité romaine par les effets du droit latin est un trait à considérer comme essentiel, il ne doit pas faire oublier un phénomène plus ancien, qui se manifesta dès les origines de la province, lorsque les «  autorités  » publiques constituaient en Transalpine, sur un mode déjà éprouvé dans d’autres provinces, des réseaux de clientèles, en s’attachant en premier les aristocrates et les groupes qu’ils contrôlaient. L’aventure guerrière dans l’ensemble des pays méditerranéens fut en effet d’un puissant attrait. Le cas des notables voconces de la famille de Trogue Pompée a, incontestablement, une valeur exemplaire 55. L’acquisition de la cité romaine ob virtutem, sur les champs de bataille, commence peut-être avec la mise en place de la province, au profit des Domitii et des Fabii, puis des Marii et peut-être même d’autres, tels les Servilii. Après eux arrivent les Valerii, les Pompeii et enfin les Iulii. Ce sont ces noms qui dominent dans l’onomastique des familles de l’ordre équestre et de l’ordre sénatorial, à côté des gens issus des élites militaires romaines, et ce sont eux qui s’imposent comme marqueurs de la romanisation des élites provinciales, lorsque l’on s’intéresse tant au recrutement de l’ordre équestre qu’à celui de l’ordre sénatorial. L’historiographie des classes dirigeantes insiste sur l’intégration des élites de Narbonnaise et de péninsule ibérique, notamment de Bétique, dans l’ordre équestre et dans l’ordre sénatorial: dès les débuts de l’époque augustéenne pour l’ordre équestre, durant l’époque julio-claudienne pour l’ordre sénatorial. R. Syme a depuis longtemps mis en valeur des repères significatifs 56. Les travaux qui ont suivi, tels ceux d’Y. Burnand, ont montré, par d’autres voies d’approche, plus quantitatives, la validité de ses conclusions 57. C’est une autre facette de l’intégration des provinciaux dans la vie politique romaine, car, à partir de l’établissement Justin, Epit., 43.5.11-12; E. Badian, Foreign clientelae (264–70 B.C.), Oxford 1958, 278, 305. Comme le souligne une publication posthume: R. Syme, The Provincial at Rome (éd. par A. Birley), Exeter, 1999; mais voir Id., Tacitus, Oxford, 1958, passim; M. Christol, Provinciaux nîmois à Rome: l’apport de l’épigraphie locale, in J. Desmulliez, Chr. Hoët-Van Cauwenberghe (éds.), Le monde romain à travers l’épigraphie: méthodes et pratiques, Lille 2005, 150-153. 57 Pour l’ordre équestre S. Demougin, L’ordre équestre sous les Julio-Claudiens, Rome 1988 (Collection de l’Ecole Française de Rome, 108), 514-515, 531-533; M. Christol, L’ordre équestre en Narbonnaise: un groupe et ses personnalités entre cités, province et Etat, in Fr. Chausson (éd.), Occidents romains. Sénateurs, chevaliers, militaires, notables dans les provinces d’Occident, Paris 2009, 81-109. 55 56

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du principat s’ouvrait à quelques-uns d’entre eux le service du prince et les possibilités d’ascension qui en découlaient. R. Syme a souligné l’importance que revêtaient l’obtention du consulat par Valerius Asiaticus de Vienne et par Domitius Ahenobarbus de Nîmes, en 35 et en 39 respectivement. Mais tout aussi significative serait l’attention que l’on porterait à l’ascension des Pompeii Paulini d’Arles ou à celle des ancêtres de Cn(aeus) Iulius Agricola de Fréjus qui est mieux connue. Lorsqu’il reformule le discours de Claude au sénat, en 48, Tacite semble apporter à l’intégration des élites provinciales un point de vue original, en relevant la diversité de leur composition (Ann., XI.24.3): Tunc solida domi quies; et adversus externa floruimus, cum Transpadani in civitatem recepti, cum, specie deductarum per orbem terrae legionum, additis provincialium validissimis, fesso imperio subventum est («Alors la paix fut solide à l’intérieur; et nous eûmes face à l’étranger une situation florissante, quand les Transpadans furent accueillis dans la cité, quand, sous le couvert de nos légions établies dans tout l’univers, par l’admission des provinciaux les plus vigoureux, il fut remédié à l’affaiblissement de l’empire»; trad. P. Wuilleumier). L’élément le plus fort du passage, dans la pensée de l’auteur, se trouve peut-être dans la mention des provinciales validissimi, remarque que l’on a mise en relation avec l’allusion à l’instauration d’un novus mos pour le recrutement du sénat par Auguste et par Tibère, selon les propres mots de Claude dans l’inscription de Lyon 58. On peut considérer ce passage de Tacite comme une justification personnelle de l’élargissement du recrutement du sénat. Et si dans la recomposition du discours de Claude les exemples qui viennent à l’appui mêlent les Balbi ex Hispania, et les italiques viri e Gallia Narbonensi, l’original lui-même se poursuit par les exemples de Gaule Narbonnaise. Les élites provinciales: du parti flavien à l’administration de l’empire L’époque des Julio-Claudiens a été celle du transfert de représentants des élites provinciales à Rome, et de leur insertion dans les cercles du pouvoir, à proximité du prince et dans l’exercice de la puissance politique: les repères significatifs s’accumulent peu à peu, et à ceux qui apparurent sous Tibère s’ajouta la faveur du sénateur Valerius Asiaticus de Vienne sous Caligula puis au début du principat de Claude (consul iterum en 46) avant la disgrâce, puis, en 51, toujours dans le contexte d’une politique conduite au palais impérial, la saisie d’importantes responsabilités quand se prépare l’accès au pouvoir de Néron, avec l’installation CIL XIII, 1668 (ILS 212): sane novo m[ore] et divus Aug[ustus av]onc[ulus m]eus et patruus Ti. Caesar omnem ubique florem coloniarum et municipiorum, bonorum scilicet virorum et locupletium, in hac curia esse voluit. 58

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de Burrus à la tête des cohortes prétoriennes. C’est alors que de hautes fonctions, dans les grandes préfectures équestres, dans les gouvernements provinciaux, échoient à des personnages issus de la province: préfecture de l’annone de Pompeius Paulinus, gouvernements de districts germaniques aux puissantes armées pour A(ulus) Pompeius Paulinus le fils et pour L(ucius) Duvius Avitus 59, préfecture du trésor pour T(itus) Domitius Decidianus, participation du même A(ulus) Pompeius Paullinus 60 à la commission de révision des ressources de l’état, désignée en 62 ap. J.-C., etc. Le préfet du prétoire Sex(tus) Afranius Burrus 61, mort en 62 ap. J.-C., a été considéré, avec Sénèque, comme le principal artisan de ces élévations et comme un des ciments de ce groupe qui aurait détenu de bonnes positions pendant une décennie 62. Mais on saisit mal comment ces personnages, lorsqu’ils survécurent, s’adaptèrent à la fin du règne de Néron et aux changements politiques qui se produisirent, puis franchirent la période troublée des années 68-70. Dans la perspective qui nous intéresse on doit plutôt, à la lumière des progrès en matière de prosopographie, considérer la phase suivant l’installation au pouvoir de Vespasien, traitée dans un livre de J. Nicols, paru en 1978 63. C’est plutôt à sa suite que l’on a mis en évidence la place détenue par les élites de Narbonnaise, entre autres 64. Quelques éléments neufs apparaissent. Un des plus importants en la matière résulte des recherches de W. Eck, reprenant le dossier d’inscriptions fragmentaires d’Arles, et reconstruisant la carrière d’un personnage de

W. Eck, Die Statthalter der germanischen Provinzen vom 1.–3. Jahrhundert, Bonn 1985 (Epigraphischen Studien, 14), 120-122, n. 7; 123-124, n. 8. 60 Le prénom A(ulus) lui est attribué par l’inscription de la lex portorii Asiae: W. Eck, Miscellanea consularia, in ZPE 42, 1981, 228-229. 61 PIR2 A 441; Pflaum, Les carrières, cit., 30, n. 13; Id., Fastes, cit., 198, n. 6; Demougin, Prosopopgraphie, cit., 460-461, n. 552; Burnand, Primores. II, cit., 141-149 (58 E 49). On connaît un peu mieux sa carrière grâce à une inscription de Pergè: F. Onur, Two Procuratorian Inscriptions from Perge, in Gephyra, 5, 2008, 53-66. 62 C’est un thème récurrent dans l’œuvre de R. Syme, depuis Tacitus, cit., 590-592. Sur les personnages cités, en dernier Burnand, Primores. II, cit., 211-214 (86 E 72) pour Pompeius Paulinus, 21-216 (87 S 15) pour A. Pompeius Paulinus (avec omission du prénom Aulus), 179-182 (71 S 13) pour L. Duvius Avitus, 176-178 (69 E 57) pour T. Decidius Domitianus. 63 J. Nicols, Vespasian and the Partes Flavianae, Stuttgart 1978 (Historia Einzelschriften, 28), ouvrage rédigé avant les principaux articles de R. Syme. On se référera, entre autres, à R. Syme, The March of Mucianus, in Antichthon 11, 1977, 78-92 (= Roman Papers, III, Oxford, 1984, 998-1013), qui insiste sur le rôle des adjoints de Corbulon, puis Id., Partisans of Galba, in Historia 31, 1982, 460-483 (= Roman Papers, IV, Oxford, 1988, 115-139). Sur l’ordre sénatorial est désormais essentiel W. Eck, Vespasian und die senatorische Führungsschicht des Reiches, in L. Capogrossi Colognesi, E. Tassi Scandone (a cura di), La lex de imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi, Atti del convegno (Roma, 20-22 novembre 2008), Roma 2009, 231-259. 64 Syme, Partisans, cit., 463-464 (= Roman Papers, IV, 119-120). 59

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premier plan, M(arcus) Pompeius Silvanus Staberius Flavenus (ou Flavinus) 65. Nous ne savons pas comment il se reliait aux Pompei Paullini, tout aussi puissants que lui, mais ce quasi contemporain de Vespasien et de Vitellius, qui avait été proconsul d’Afrique entre 53 et 56, se trouvait à la tête de la Dalmatie, à un âge avancé, en 69, lorsque la guerre civile éclata. Lorsqu’il relate les opérations militaires en Italie du nord Tacite donne bien plus d’importance à Antonius Primus, de Toulouse, qu’aux légats consulaires de Pannonie, de Mésie et de Dalmatie 66. Les deux premiers, Tampius Flavianus et Aponius Saturninus, ne sont pas dépeints de façon très favorable, notamment lorsqu’ils sont victimes de la colère de leurs soldats. M(arcus) Pompeius Silvanus a moins attiré l’attention de l’historien. Mais c’est par l’inscription d’Arles que nous connaissons mieux sa carrière, même si le texte est encore incomplet 67. Les sacerdoces brillants (quindecemvirat sacris faciundis, appartenance au collège des prêtres du culte d’Auguste divinisé, puis de Vespasien et de Titus divinisés), montrent la position détenue dans l’ordre sénatorial et la faveur des empereurs jusqu’au début du règne de Domitien. La carrière brillante, faite de fonctions impériales, puis du proconsulat d’Afrique, d’une prestigieuse curatelle urbaine, celle des aqueducs en 71-73, est aussi digne d’être remarquée. Mais un premier consulat en 45 ap. J.-C., puis un second consulat en 74 (peutêtre) 68, et la désignation pour un troisième consulat peu avant sa disparition, en 83, viennent signaler la continuité du prestige et de la faveur: la période de Vespasien et de ses fils est celle de la récolte des plus grands honneurs. On peut se demander si le terme de dignatio, qu’emploie Pline, n’aurait pas visé de tels personnages. Grâce à sa longévité politique il pouvait ordonner autour de sa personne une partie du champ politique romain, et le mettre à la disposition du prince du

Nicols, Vespasian, cit., 146 est très rapide. Voir en général: PIR2 P 654; B.E. Thomasson, Fasti africani. Senatorische und ritterliche Amtsträger in den römischen Provinzen Nordafrikas von Augustus bis Diokletian, Stockholm 1996, 37-38, n. 36; W. Eck, M. Pompeius Silvanus, consul designatus tertium – Ein Vertrauter Vespasians und Domitians, in ZPE 9, 1972, 259-275 (AE, 1979, 399), puis Id., Vespasian, cit., 246 et 254; Y. Burnand, Primores. II, cit., 217-223 (89 S 16). 66 Nicols, Vespasian, cit., 98, 141-145 (pour M. Pompeius Silvanus), 137-138 (sur L. Tampius Flavianus); Burnand, Primores. II, cit., 149-159 (60 S 10). Après avoir reçu les récompenses (Tac., Hist., IV.4.5) Antonius Primus fournit un des rares exemples d’engagement non récompensé dans la durée (Tac., Hist., IV.11.3: fracta Primi Antonii Varique Arrii potentia). 67 Les inscriptions des cryptoportiques sont recensées dans M.-P. Rothé, M. Heijmans (éds.), Arles, Crau, Camargue, 13/5, Paris 2008 (Carte archéologique de la Gaule, dirigée par M. Provost), 360-362. Un fragment, retrouvé par M. Heijmans, non encore publié, lui attribue Flavenus comme ultime cognomen. 68 Eck, M. Pompeius Silvanus, cit., 275. La date traditionnelle est celle de 76. Il obtint ce second consulat avec L. Tampius Flavianus; Eck, Vespasian, cit., 247 et 252 envisagerait à présent 72 peut-être. 65

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moment auprès de qui il s’était acquis grand crédit 69. L’importance de M(arcus) Pompeius Silvanus était fondée sur une carrière accomplie dans diverses parties de l’empire. Et durant la guerre civile, il se trouvait en Dalmatie. Son lien avec l’histoire impériale s’était noué loin de sa patrie. Dans d’autres cas, c’est en Narbonnaise même que s’étaient révélés des destins majeurs. Peut-être alors faut-il rappeler sa position dans la crise des années 68-70. Dans un premier temps elle subit les événements, en étant la proie des armées venues des bords du Rhin; provincia inermis, elle était soumise aux forces militaires les plus proches 70, tombant dans les mains du parti de Vitellius 71: eadem formido provinciam Narbonensem ad Vitellium vertit, facili transitu ad proximos et validiores. Dans le récit elle apparaît lorsque Tacite relate la descente vers l’Italie des armées de Germanie, ses villes étant terrorisées par le corps expéditionnaire de Fabius Valens, telles Vienne puis Luc chez les Voconces. Elle reparaît fugitivement lors de la tentative d’Othon pour s’en emparer 72, épisode illustré par l’assassinat de Iulia Procilla, mère d’Agricola, dans son domaine de Ligurie 73. En revanche elle apparaît au grand jour lorsque, après la bataille de Crémone, elle semble donner le signal du ralliement des provinces d’Occident, si l’on en croit Tacite lorsqu’il met en scène l’ultime épisode militaire entrepris par Valens: une tentative pour récupérer la province et revigorer les positions des Vitelliens. La province avait rallié le camp de Vespasien. On pourrait s’étonner que l’anonymat initial, quand elle était considérée comme provincia inermis, ait disparu dans cette partie du récit. Mais il s’agit de mettre en valeur l’action d’un personnage grâce aux souvenirs spécifiques d’un groupe qui avait lié son sort au parti flavien. Dans les Histoires, lorsqu’il fait de la province un acteur majeur du récit 74, Tacite insiste sur le rôle du chevalier romain Caius Valerius Paullinus dans son ralliement à Vespasien 75: il était alors procurateur provincial 76. Il était originaire de

Burnand, Primores. II, cit., 222-223. Tac., Hist., I.11.3. 71 Tac., Hist., I.76.1. 72 Tac., Hist., I.87.1-2, II.12-16; Agr., 7. 73 Tac., Agr., 7.1-2. 74 Syme, Tacitus, cit., II, 806-807. 75 Tac., Hist., III.43.1: namque circumiectas civitates procurator Valerius Paulinus, strenuus militiae et Vespasiano ante fortunam amicus, in verba eius adegerat; Nicols, Vespasian, cit., 81, 151, est plutôt succinct. 76 Pflaum, Les carrières, 94-95, n. 40; Id., Fastes, 111; B. Dobson, Die Primipilares. Entwicklung und Bedeutung, Laufbahnen und Persönlichkeiten eines römischen Offiziersranges, Köln 1978, 211, n. 87; B.E. Thomasson, Laterculi praesidum, Göteborg 1984, c. 346, 33; S. Demougin, Prosopographie des chevaliers romains julio-claudiens, Rome 1992 (Collection de l’EFR 153), 596-597, n. 702; Burnand, Primores. II, cit., p. 224-226 (91 E 74). 69 70

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Fréjus 77. Il s’agit d’un des rares personnages de l’ordre équestre dont cet historien fait émerger quelque peu la personnalité, et surtout de façon positive. C’est lui qui aurait provoqué par son action l’échec de Fabius Valens pour relancer la guerre civile en Occident au moment même où les troupes de Vespasien venaient de s’engager victorieusement en Italie et s’apprêtaient à marcher sur Rome. Tacite souligne que la capture de Valens donna le signal des ralliements provinciaux, ceux de l’Hispania, des Gaules et de la Bretagne 78. C’est attribuer un rôle déterminant, vrai ou supposé, aux actions de ce personnage dont l’historien pouvait avoir été familier. Il précise aussi qu’il était amicus de Vespasien, de longue date: on pourrait se demander si ce n’était pas par un commun service militaire en Bretagne, où Vespasien fut légat de légion au début du principat de Claude. Valerius Paullinus était strenuus militiae; il jouissait d’une bonne réputation de militaire, gagnée à la guerre. Il avait été aussi tribun de cohorte prétorienne. Lorsque Tacite évoque le personnage et son activité, il anticipe sur la futura potentia, le pouvoir qu’il allait acquérir peu d’années après. Celle-ci résultait autant du coup d’audace qui l’avait mis en valeur que de la fortune de celui dont il soutenait la cause. A présent le développement de sa carrière est mieux connu, grâce à une inscription d’Ostie qui signale la préfecture de l’annone. Il géra ainsi successivement deux des plus grandes préfectures équestres, celle de l’annone 79, puis celle d’Egypte 80, ce qui lui permettait de devenir un personnage d’influence dans le gouvernement de l’Etat: l’amicitia ancienne s’était prolongée et enrichie du rôle joué auprès du nouveau prince, et c’était peut-être cette amicitia encore plus remarquable facteur de notoriété, qui avait suscité le rappel de son ancienneté 81. Tac., Hist., III.43.2: Foroiuliensem coloniam, claustra maris, praesidio tuebatur, eo gravior auctor quod Paulino patria Forum Iuli et honos apud praetorianos, quorum quondam tribunus fuerat, ipsique pagani favore municipali et futurae potentiae spe iuvare partes adnitebantur. 78 Tac., Hist., III.44.1-2: capto Valente cuncta ad victoris opes conversa, initio per Hispaniam… Nec Galliae conctabantur. At Britanniae inclinatus erga Vespasianus favor... 79 Les fragments ont été assemblés par F. Zevi. Texte signalé par M. Cébeillac-Gervasoni, Un nouveau préfet de l’annone d’époque sévérienne, in Epigraphai. Miscellanea epigrafica in on ore di Lidio Gasperini, Tivoli 2000, I, 233, n. 7, puis donné par M. Cébeillac-Gervasoni, Les rapports institutionnels et politiques d’Ostie et de Rome de la République au IIIe siècle ap. J.-C., in MEFRA 114, 2002, 80-81, n. 96 (d’où AE, 2003, 102), enfin édité et commenté par M. Cébeillac-Gervasoni et F. Zevi, Un nouveau préfet de l’annone connu grâce à une inscription inédite d’Ostie, in D. Berranger-Auserve (éd.), Epire, Illyrie, Macédoine… Mélanges offerts au Professeur Pierre Cabanes, Clermont-Ferrand 2006, 363-372 (d’où AE, 2006, 263). 80 Sur la préfecture d’Egypte, P.A. Brunt, The Administrators of Roman Egypt, in JRS 65, 1975, 143 n. 29; G. Bastianini, Lista dei prefetti di Egitto dal 30 a al 299 p, in ZPE 17, 1975, 275. 81 Son petit-fils, homonyme, correspondant de Pline le Jeune, était membre de l’ordre sénatorial (consul en 107 ap. J.-C.). Habituellement considéré comme le fils du préfet de Vespasien: A. Birley, Onomasticon to the Younger Pliny, Munich 2000, 97, suivant Syme, Tacitus, cit., I, 63 n. 5 et II, 806; Id., Pliny the Procurator, cit., 212 (= Roman Papers, II, Oxford, 1979, 752); Id., Correspondents of 77

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La guerre civile qui s’est terminée par l’installation de Vespasien au sommet du pouvoir a été un moment déterminant pour mettre valeur d’autres personnages issus de la province. Une situation politique originale est venue s’ajouter à un mouvement plus profond pour l’amplifier. On peut transposer au destin politique de plusieurs d’entre eux ce qu’écrit Tacite au début des Histoires, lorsqu’il stigmatise les récompenses des délateurs: aux sénateurs les sacerdoces et les consulats, aux autres, c’est-à-dire les membres de l’ordre équestre les procuratelles (procurationes) et la puissance à l’intérieur du palais (interior potentia) 82. Le destin d’autres personnages a été relevé depuis longtemps. Le cas d’Agricola, originaire aussi de la colonie de Fréjus, est significatif 83. En effet, dans la laudatio funebris d’Agricola, son beau-père, Tacite indique clairement que ce sénateur, élu à la préture dans la dernière année du règne de Néron, et qui avait reçu de Galba une mission de caractère administratif, rallia très tôt le camp flavien 84: ac statim in partibus transgressus est. C’était au moment de la tentative des Othoniens pour s’emparer de la Narbonaise. Mais nous savons aussi que dès lors sa carrière se déroule aux côtés de Mucien et de Petilius Cerialis. C’est à Mucien qu’il doit, comme marque de confiance, après des responsabilités de recrutement de soldats, le commandement de la vingtième légion en Bretagne 85. Puis l’admission parmi les patriciens est une marque d’honneur. Le déroulement de la carrière, avec les gouvernements de l’Aquitaine et de la Bretagne, séparés par un précoce consulat à trente-sept ans (en 76 peut-être, comme l’envisage récemment M.-Th. Raepsaet-Charlier 86) révèle ausPliny, in Historia, 34, 1985, 349 (= Roman Papers, V, Oxford, 1988, 467); Id., Consular Friends of the Elder Pliny, Roman Papers, VII, Oxford, 1991, 503; cf. Id., More Narbonensian Senators, in ZPE 65, 1986, p. 16 (= Roman Papers, VI, Oxford, 1991, 224). Voir aussi Burnand, Primores. II, cit., 226 (n. 190), ainsi que Id., Primores. III. Etude sociale. 2. Les horizons de la vie, Bruxelles 2008 (Collection Latomus, 319), 235-236; pourtant ibid., 367, le stemma présenté laisserait entrevoir la possibilité d’un échelonnement de trois générations jusqu’au consul de 107 ap. J.-C., conformément aux points de vue exprimés dans PIR V 105, 107 et 108. Valerius Paullinus était déjà un personnage âgé lorsqu’il participa à la guerre civile. 82 Tac., Hist., I.2.3. Sur quelques exceptions, dont Antonius Primus, voir ci-dessus. 83 Signalé par Nicols, Vespasian, cit., 151. Sur le personnage, en général: PIR2 I, 126; M.-Th. Raepsaet-Charlier, Cn. Iulius Agricola: mise au point prosopographique, in W. Haase et H. Temporini (éds.), en ANRW, II, 33, 3, Berlin-New York 1991, 1807-1847; Burnand, Primores. II, cit., 284293 (122 S 23). 84 Tac., Agr., 7.3. 85 Tac., Agr., 7.4-5: initia principatus ac statum urbis Mucianus regebat … Is missum ad dilectus agendos Agricolam integreque ac strenue versatum vicesimae legini tarde ad sacramentum transgressae praeposuit. Raepsaet-Charlier, Cn. Iulius Agricola, cit., 1822-1823 (avec n. 66), 1838, 1841. Sur le personnage PIR2 L 216; G. de Kleijn, C. Licinius Mucianus, Leader in Time of Crisis, in Historia 58, 2009, 311-324. 86 Cn. Iulius Agricola, cit., 1824, 1842-1844 (consulat suffect après ceux de L. Tampius Flavianus et de M. Pompeius Silvanus peut-être). La date traditionnelle, celle de 77 ap. J.-C. est maintenue par Eck, Vespasian, cit., 253.

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si la confiance et la faveur de la part de l’empereur, et vraisemblablement de solides appuis auprès de lui 87. On pourrait aisément prolonger l’enquête tant dans les autres colonies de vétérans que dans les puissantes cités qui, colonies de droit romain (Vienne) ou de droit latin (Nîmes), représentaient davantage les élites provinciales de la Gaule méridionale. Le cas de Nîmes est aussi fort intéressant. L’épigraphie apprend quels furent les profits de quelques familles de notables. Ainsi le chevalier romain C(aius) Fulvius Lupus Servilianus, qui avait exercé le commandement d’une aile sur la frontière rhénane, fut-il admis dans l’ordre sénatorial (adlectus inter praetorios) 88. L’exemple le plus remarquable concerne T(itus) Aurelius Fulvus, grand-père de l’empereur Antonin le Pieux 89: il avait exercé un commandement de légion en Orient sous l’autorité de Corbulon, puis en 69 il s’était illustré sur le Danube inférieur contre les Roxolans et avait reçu les ornements consulaires d’Othon 90. On sait à présent qu’il gouverna une des grandes provinces impériales, l’Hispania citerior, entre 75 et 78 91. Il avait été consul suffect au début du principat de Vespasien (en 70). Son prestige lui valut d’exercer un second consulat en 85 ap. J.-C. dans lequel il fut associé à Domitien lui-même 92. Il faudrait ajouter, en tenant compte des creux et des inconnues des généalogies sénatoriales, des personnes qui font la transition entre le chevalier romain Sex(tus) Iulius Maximus de la fin de l’époque augustéenne et le sénateur polyonyme T(itus) Iulius Maximus, fils de Sextus, qui intègre dans sa dénomination la mémoire des Servilii Vatiae, et dont la carrière se déroula à la fin du règne de Domitien et sous Trajan. Consul en 112 ap. J.-C., il avait vu le jour vers 70 ap. J.-C.: mais c’étaient ses parents qui, lors de sa naissance, détenaient une bonne position au sein des classes dirigeantes 93. L’inventaire des sénateurs et des chevaliers issus de Narbonnaise n’aboutit pas toujours à un catalogue fermement établi. Certaines études allongent peut-être un peu trop la liste, comme fut parfois tenté de le faire R. Syme 94. Dans d’autres cas, par réaction peut-être trop vive, on ne retient que les exemples incontestables, en W. Eck, Criteri di avanzamento nella carriera senatoria (69-138 D.C.), in Tra epigrafia, prosopografia e archeologia. Scritti scelti, rielaborati ed aggiornati, Roma 1996 (Vetera, 10), 37-38. 88 CIL XII, 3166; Pflaum, Fastes, cit., 207; Burnand, Primores. II, cit., 281-284 (121 S 22). 89 Dont le rôle est évoqué à plusieurs reprises par Nicols, Vespasian, cit., 100, 106. PIR2 A 1510; Burnand, Primores. II, cit., 159-166 (61 S 11); Fr. Chausson, Les Aurelii Fulvi de Nîmes, in Fr. Chausson (éd.), Occidents romains, cit., 176-179. 90 Tac., Hist., I.79. 91 G. Alföldy, Fasti Hispanienses. Senatorische Reichsbeamte und Offiziere in den spanischen Provinzen des römischen Reiches von Augustus bis Diokletian, Wiesbaden 1969, 19-21. 92 Eck, Vespasian, cit., 251 et 255. 93 Sur le personnage et sa famille, M. Christol, De la notabilité locale à l’ordre sénatorial: les Iulii de Nîmes, in Latomus, 60, 2001, 613-630; Burnand, Primores. II, cit., 366-370 (151 S 31). 94 R. Syme, More Narbonensian Senators, in ZPE 65, 1986, 1-24 (= Roman Papers, VII, 209-232). 87

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récusant fermement des cas vraisemblables. Il en va ainsi pour l’un des consuls de l’année 69, qui apparaît dans le camp othonien: A(ulus) Marius Celsus. Sous Vespasien, il obtint coup sur coup deux postes de premier plan, en Germanie inférieure et en Syrie 95. R. Syme plusieurs fois envisagea qu’il fût originaire de Narbonnaise 96. En revanche Y. Burnand, avec non moins de constance, refusait d’envisager une telle situation 97. Mais l’origine provinciale du personnage ne paraît pas impossible, et le rapprochement avec la cité de Nîmes vraisemblable 98. En définitive, à un moment où l’ascension vers le sénat des personnages issus de la partie hellénophone de l’empire ou de l’Afrique proconsulaire reste limitée, la place des familles de Narbonnaise ne doit pas être négligée. Elle résulte d’un engagement bénéfique dans la guerre civile consécutive à l’élimination de Néron. Ces faits, relevés et mis en valeur de longue date, sont renforcés par les acquis récentes de la prosopographie des groupes dirigeants à l’époque de Vespasien. Conclusion Revenons à présent au point de départ. L’éloge de Pline est aussi celui d’un homme de son temps. Il paraît bien correspondre à une description lucide des réalités de cette province: prospérité économique qui pouvait être perçue sans difficulté à Rome avec les importations viticoles qui portaient la griffe des vignobles de Narbonnaise; importance dont disposaient dans les milieux du pouvoir quelques personnages de premier plan issus de cette province, autant dans l’ordre sénatorial que dans le haut personnel équestre. Sans aucun doute la période correspondant au règne de Vespasien est pour la province voisine de l’Italie un moment d’apogée: cette situation favorable s’est créée progressivement tout au long de l’époque augustéenne et de la première moitié du Ier siècle ap. J.-C. Elle s’est épanouie à l’époque flavienne. Aussi le règne de Vespasien est-il le moment où tout se conjugue pour la mettre en évidence. Est-ce la raison d’être de la sententia finale de l’éloge de Pline: breviterque Italia verius quam provincia ? Le concours des sources archéologiques est ici très précieux pour les réflexions de l’historien. Il y a plus peut-être. Il convient de s’interroger, à propos de la sententia de Pline, sur les possibilités de son expression sous la forme revêtue. Elle abolit une disPIR2 M 296; Eck, Die Statthalter, cit., 137-138, n. 14. Déjà Syme, Tacitus, cit., II, 682-683; pour finir Id., More Narbonensian Senators, cit., 227. 97 Y. Burnand, Primores. I. Méthodologie, Bruxelles 2005 (Collection Latomus, 290), 358; déjà Id., Sénateurs et chevaliers romains originaires de la cité de Nîmes, en MEFRA 87, 1975, 700-701. 98 M. Christol, Provinciaux nîmois, cit., 161-164. 95 96

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tinction irrémédiable entre l’Italie et les provinces, et elle n’envisage plus nécessairement la position des provinces comme subordination et infériorité. Elle dépasse une telle vision des choses ou la transforme en établissant comme une échelle de valeurs, qui peut conduire les provinces jusqu’à l’Italie. L’éloge de la Narbonnaise répond à un état d’esprit nouveau 99. Il s’était exprimé, relativement aux élites, dans le discours de Claude, en 48, qui faisait endosser le novus mos à Auguste et à Tibère. Il revient plus amplement au lendemain de la guerre civile, avec le nouveau pouvoir de Vespasien. Michel Christol Université de Paris I (Panthéon-Sorbonne)

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A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma 1997, 3-21.

Tradition et innovation dans la religion publique romaine sous les Flaviens

Introduction «Considérez, en effet, pendant ces dernières années, soit nos succès, soit nos revers, et vous trouverez que tout a bien tourné quand nous suivions les dieux, mal quand nous les dédaignions» 1. Cette phrase que Tite-Live place dans un discours de Camille résume à merveille la manière dans les Romains considéraient leur religion: tant que la cité accordait aux dieux les honneurs qui leur étaient dus, ceux-ci lui garantissaient succès et prospérité. Tout manquement risquait par contre d’attirer la colère divine qui devait alors être calmée par des rites appropriés. Il semble ainsi intéressant d’examiner comment fonctionne, après la guerre civile de 68-69, la religion publique romaine, sous la nouvelle dynastie qu’instaure Vespasien. Dans quelle mesure prime le respect de la tradition ou, au contraire, sont perceptibles des innovations, à travers la célébration des services religieux ordinaires ou extraordinaires, mais aussi dans l’introduction de nouveaux cultes ou festivités? C’est donc à la religion officielle, telle qu’elle est pratiquée à Rome, que je m’intéresserai ici, en abordant d’abord les cérémonies liées à l’arrivée à Rome de Vespasien puis de Titus, et leurs conséquences religieuses. Avènement de la nouvelle dynastie et religion publique romaine Aduentus de Vespasien L’arrivée, en automne 70, de l’empereur à Rome s’accompagne d’une série de manifestations religieuses qui nous sont connues par des sources variées: Flavius

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Liv. 5.51.4-5.

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Josèphe qui en dépeint un tableau particulièrement vivant, mais aussi une série cohérente d’inscriptions sur des bases et autels offerts par la tribu Sucusana ou encore les Actes des Arvales. Ces derniers attestent que ces célébrations relèvent – au moins partiellement – de la religion publique: la confrérie arvale fait alors au Capitole un sacrifice à la triade capitoline et à Fortuna Redux, pour l’entrée de Vespasien dans l’Vrbs 2. On peut d’ailleurs supposer que les magistrats et les autres collèges sacerdotaux offrent à cette occasion des sacrifices similaires, ceux-ci ayant selon toute probabilité été décrétés par le Sénat 3. Parallèlement à ces célébrations accomplies par les hauts représentants de l’Etat romain, l’empereur offre, pour son bon retour, un sacrifice privé d’action de grâces aux Pénates, nous apprend Flavius Josèphe. Quant au peuple, il invoque alors les dieux, lors de banquets, en faisant des libations 4. S’agit-il là uniquement d’actes de dévotion privée spontanée, en famille, entre voisins ou membres d’une même tribu, ou pourrait-on y reconnaître une festivité publique à laquelle tout le peuple est invité à participer? La description faite par Flavius Josèphe mérite toute l’attention. Présence des femmes et des enfants, ville remplie de couronnes et d’encens, tout comme un temple, banquets et libations au cours desquels on prie la divinité pour le salut de l’empereur et de ses enfants: ces divers éléments pourraient, me semble-t-il, être interprétés dans le sens d’une supplicatio 5. L’on sait en effet que ce genre de cérémonies était décrété par le Sénat notamment pour rendre grâces aux dieux à la suite d’une victoire d’un général sous la République, du prince sous l’Empire 6. Tous les temples étaient alors ouverts et le peuple, y J. Scheid, Commentarii fratrum arvalium qui supersunt. Les copies épigraphiques des protocoles annuels de la confrérie arvale (21 av.-304 ap. J.-C.), Rome 1998 (Collection Roma antica, vol. 4) (= CFA), n. 41: co(n) s(ulibus) 3] | [magisterio 3 pr]omag(istro) Q(uinto) Tillio Sassio c[ollegii fratrum] | [Arvalium nomine im]molavit in Capitolio ob diem [quo urbem in]|[gressus est Imperator C]aesar Vespasianus Aug(ustus) Iovi bov[em m(arem)] | [Iunoni vaccam Mi]nervae vacc(am) Fortunae Reduc[i vaccam] | [in collegio adfueru]nt Q(uintus) Tillius Sassius C(aius) Licinius [Mucianus; J. Scheid, Romulus et ses frères: le college des Freres Arvales, modèle du culte public, dans la Rome des empereurs, Rome 1990 (BEFAR, 275), 409. 3 Voir par ex. la supplicatio décrétée par le Sénat pour la santé de Julia Augusta en 22: Tac. Ann. 3.64.4. 4 Flav. Jos. B.J. 7.72-73. 5 L.-H. Halkin (La supplication d’action de grâces chez les Romains, Paris 1953, 124) et G. Freybuger (La supplication d’action de grâces sous le Haut-Empire, in ANRW, 2, 16, 2, 1978, 1427) supposaient sur la base d’un passage de Dio Cass. (61.7.2) que, en septembre 70, le Sénat décréta, entre autres, une supplicatio en l’honneur de Vespasien et de ses fils, à la suite de la prise du temple de Jérusalem. Si ce texte ne contient pas de mention explicite de cette cérémonie, l’hypothèse des deux savants est cependant confortée par le passage de Flavius Josèphe qu’ils ne citent cependant pas. 6 Voir par ex. Cato de re milit. fg. 2; Liv. 25.12.15; 34.55.4; 36.37.4; 40.37.3; 43.13.7; 45.2.8; 45.16.6; Cic. Cat. 3.23; Cic. Phil. 14.36; Tac. ann. 14.12.1; Fest., p. 150 L, s.v. supplicatio. Sur les supplications, Halkin, Supplication, cit., particulièrement, 99-105; G. Freyburger, La supplication d’action 2

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compris les femmes et les enfants, y participait, couronné de laurier et en tenant des branches en mains, afin de remercier les dieux 7. On versait des libations de vin et d’encens ; des victimes majeures étaient sacrifiées par les magistrats ou les prêtres (souvent quarante sous la République) – on peut en outre supposer que ces sacrifices étaient suivis de banquets 8. Pour fêter l’aduentus de Vespasien, participent notamment à ces festins, selon Josèphe, des membres d’une même tribu. Parmi celles-ci se trouve selon toute vraisemblance la tribu Sucusana. Dans la foulée de l’arrivée de Vespasien, celle-ci offre en effet une série de statues et d’autels dédiés à des divinités dont le choix n’est pas anodin 9: Fortuna Redux, également célébrée par les Arvales, mais aussi Victoria et Pax. L’empereur, dont la déesse Fortuna a assuré un retour sans encombres dans la cité, a en effet bénéficié du soutien de la Victoire, en mettant fin aux guerres civiles et en l’emportant lors de la guerre de Judée: il a donc ainsi rétabli la Paix. Les dates choisies pour dédier ces bases ne sont pas anodines. Celle de Fortuna Redux correspond aux III des ides d’octobre – jour qui suit celui du retour d’Auguste à Rome en 19, et qui coïncide avec la date de commémoration de la constitutio de l’ara Fortunae Reducis, puis avec la fin des Augustalia 10. L’autre date retenue, pour la dédicace à Pax Aeterna, est celle de l’anniversaire même de Vespasien (17 novembre) 11, qui apparaît donc comme ‘né pour la paix’ 12.

de grâces dans la religion romaine archaïque, in Latomus, 36, 1977, 283‑315; Id., Supplication, cit., 14181439; J. Scheid, La religion des Romains, Paris 1998, 92-93. Le retour victorieux de Domitien en 89 fait l’objet d’acquittement de vœux, de sacrifices, mais aussi d’une supplicatio (attestée par les CFA, celle-ci n’est pas reprise par Halkin et Freyburger). Voir infra, p. 143. 7 Liv. 32.1.13; 34.55.4; 43.13.7; Cic. Cato 3.23. Sur la difficulté à rendre en grec le terme supplicatio, voir Freyburger, Supplication, cit., 1429-1430: quand Polybe en «parle pour la première fois, il doit expliquer: ‘la cité était alors remplie de joie, tous les édifices religieux étaient décorés et tous les temples regorgeaient de galettes et de sacrifices’». 8 J. Scheid, Le statut de la viande à Rome, in Food and History 5, 2007, 22; J. Scheid, Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, 213-274. 9 CIL VI, 196-197: Fortuna Redux domus Augustae; CIL VI, 198: Victoria Imperatoris; CIL VI, 199: Pax Augusta; CIL VI, 200: Pax Aeterna domus imp. liberorumque eius. Sur ces bases, voir F. Rausa, La base Farnese CIL VI, 196 e il tema della «Fortuna Redux» nella propaganda di Vespasiano, in NAC 1997, 26, 287-310; St. De Angeli, Le basi Farnese CIL, VI 198 e 200 e l’altare del Quirinale CIL, VI 199: temi e luoghi della propaganda di Vespasiano al momento del suo adventus» a Roma, in NAC 28, 1999, 235-273. 10 Voir Aug. RG 11; Dio Cass. 54.10.3; Fasti Amit. Oct. 12; IIt XIII, 2, 519-520. 11 CIL VI, 200: Pax Aeternae domus | Imp(eratoris) Vespasiani | Caesaris Aug(usti) | liberorumq(ue) eius (voir IIt XIII, 2, 531; Suet. Vesp. 2.1). Cette inscription est datée de 70 par Rausa, Base, cit., 292; de 70 ou 71 par De Angeli, Basi, cit., 241, 245. 12 Ces thèmes se retrouvent par ailleurs sur les revers des monnaies frappées au début de son règne. Voir Rausa, Base, cit., et De Angeli, Basi, cit.

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Notons également, que, dès l’arrivée de l’empereur à Rome, ses fils lui sont associés dans les prières adressées aux dieux ou dans les statues et autels élevés en son honneur 13. Triomphe de Vespasien et de Titus Environ neuf mois plus tard, en juin 71, Titus fait à son tour son entrée dans la Ville. Comme son père, il est accueilli par Rome qui se porte à sa rencontre 14. Quelques jours plus tard, père et fils célèbrent un unique triomphe, bien que le Sénat en ait décrété un pour chacun 15. Dans sa description assez précise des diverses étapes de la cérémonie, Flavius Josèphe insiste à plusieurs reprises sur l’aspect traditionnel qu’elle revêt 16. Qu’il s’agisse du traditionnel vêtement de pourpre porté par Vespasien et Titus, quand, au point du jour, ils se rendent au Portique d’Octavie où les attendent sénateurs, magistrats et chevaliers. Qu’il s’agisse des prières d’usage que prononce Vespasien, capite uelato, après y avoir été acclamé par la troupe. Ou du déjeuner qu’il est d’usage que les empereurs offrent alors aux soldats, ou encore de la porte «qui tire son nom du fait que les cortèges triomphaux y passent régulièrement». Qu’il s’agisse de la «coutume ancestrale d’attendre l’annonce de l’exécution du général ennemi», une fois que le cortège atteint le temple de Jupiter capitolin et, enfin, des prières accoutumées qu’ils prononcent, lors des sacrifices 17. Cette insistance sur le respect de la tradition peut, comme le suggère F. Coarelli, être dictée par une volonté de se distancier de Néron, qui, à son retour de Grèce, avait introduit une pratique nouvelle, une pompè de type grec, calquée sur le modèle du retour des vainqueurs dans les concours panhelléniques 18. L’accent mis sur les éléments traditionnels ne doit toutefois pas faire totale illusion, comme l’a relevé récemment M. Beard 19. Ainsi que l’ont depuis longtemps démontré les anthropologues, la prétention d’accomplir un rituel «de la manière dont ont toujours procédé nos ancêtres» n’est jamais tout à fait exacte: il s’agit toujours d’un mélange de respect scrupuleux des rites précédents, d’oublis commodes, et d’ ‘inFlav. Jos. BJ 7.73; CIL VI, 196-197, 200. Flav. Jos. BJ 7.119. 15 Flav. Jos. BJ 7.116-162 (121). Brève mention dans Suet. Vesp. 8.1. 16 M. Beard, The Triumph of Flavius Josephus, in A.J. Boyle, W.J. Dominik (eds.), Flavian Rome: Culture, Image, Text, Leyde 2003, 554; M. Beard, The Roman Triumph, Cambridge (MA) 2007, 100; F. Coarelli, I Flavi e Roma, in F. Coarelli (a cura di), Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi, Milano 2009, 68. 17 Flav. Jos. BJ 7.124, 128-130, 153. 18 Coarelli, Flavi, cit., 68. 19 Beard, Triumphus 2007, cit., 100-101. 13 14

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vention’ de nouveaux éléments présentés comme ancestraux. Le triomphe de Vespasien et de Titus comporte aussi des éléments fort peu habituels. Son point culminant, le temple de Jupiter capitolin, commence à peine à se relever de ses ruines. D’autre part, il s’agit d’un seul triomphe, célébré par l’empereur et Titus, chacun sur un quadrige, tandis que Domitien suit à cheval 20. En outre, relève la savante britannique, Vespasien, depuis son retour à Rome en octobre 70, a déjà, à maintes reprises, franchi la limite du pomerium – rompant ainsi avec la tradition républicaine qui voulait qu’un imperator reste à l’extérieur de cette limite jusqu’au triomphe. Son fils Titus par contre, arrivé depuis quelques jours seulement dans l’Vrbs, a pu respecter l’ancestrale coutume. J’ajouterai à ces observations que la nuit passée par Vespasien et son fils, la veille de la cérémonie, dans ou plutôt à proximité du temple d’Isis (plutôt que dans le palais impérial) constitue également une innovation importante. Il s’agit là du temple d’Isis du Champ de Mars, puisque c’est « dans ses environs, près de la Villa publica, que se rassemblaient traditionnellement les armées avant de triompher » 21. Ce choix, que souligne Flavius Josèphe, s’explique assez naturellement par le rôle joué par Sérapis et Isis durant la guerre civile de 69 – encore convient-il de le préciser. D’après M. Beard, il faut y voir une allusion attentive au sauvetage miraculeux de Domitien en décembre 69: celui-ci avait réussi à échapper aux partisans de Vitellius, grâce à un déguisement de dévot égyptien 22. Plus généralement, on y voit un geste symbolique fort, de la part d’un empereur qui a été reconnu comme tel à Alexandrie par Sérapis, qui l’a ainsi doté, grâce à des miracles et des présages, de l’auctoritas et de la maiestas dont ses humbles origines le privaient 23. Sur cette base indéniable, J. Scheid a récemment proposé que Vespasien a fait d’Isis et Sérapis ses « divinités de guerre », protectrices «du camp flavien, comme Vénus l’avait été du parti de Sylla, de Pompée, de César, et Apollon de celui d’Octavien, conformément à une vieille tradition romaine, qui se traduisait en cas de victoire par la dédicace d’un temple commémorant le succès et la protection» 24. L’empereur et son fils ont donc passé la nuit précédant leur triomphe à proximité de ce temple, afin d’honorer ces divinités et de rappeler le patronage qu’elles avaient donné au Coarelli, Flavi, cit., 68. J. Scheid, Le statut du culte d’Isis à Rome sous le Haut-Empire, in C. Bonnet, V. Pirenne-Delforge, D. Praet (éds.), Les religions orientales dans le monde grec et romain: cent ans après Cumont (1906-2006). Bilan historique et historiographique, Colloque (Rome, 16-18 novembre 2006), Bruxelles-Rome 2009, 177. 22 Beard, Triumphus 2007, cit., 95. 23 Tac. hist. 4.82; Suet. Vesp. 6.3; 7.1; Dio Cass. 65.8.2. K. Lembke, Das Iseum Campense in Rom. Studie über den Isiskult unter Domitian, Heidelberg 1994, 90-91; C. Salles, La Rome des Flaviens, Paris 2002, 81; Gasparini, I culti egizi, in Divus Vespasianus, cit., 348-349. 24 Scheid, Isis, cit., 173-185, part. 181-182. 20 21

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parti flavien. Isis et Sérapis sont ainsi associés, « de manière originale au triomphe du lendemain », dans une sorte de rappel du contexte religieux de la guerre de 69: « partis de chez Isis et Sérapis, c’est-à-dire d’Alexandrie, Vespasien et son fils, retournaient en vainqueurs chez Jupiter » 25. Quoi qu’il en soit, la journée du triomphe, conclut Josèphe, s’achève par des banquets dans chaque foyer de Rome, «car en ce jour la ville de Rome fêtait sa victoire sur l’armée ennemie, la fin des guerres civiles et la naissance de l’espoir concernant son bonheur» 26. Tout le peuple semble donc ici aussi impliqué dans la célébration, et comme dans le cas de l’aduentus, la cérémonie est perçue comme initiant une nouvelle ère de prospérité et de bonheur. Conséquences religieuses de la victoire et du triomphe de Vespasien et de Titus La reconstruction de J. Scheid lui permet aussi de situer sous le premier Flavien l’officialisation du culte d’Isis et Sérapis à Rome: l’introduction de nouvelles divinités dans le panthéon romain et la construction de temples en leur honneur sont souvent le résultat d’un vœu fait par un général en temps de guerre. Le temple public d’Isis au Champ de Mars serait ainsi directement lié à la victoire flavienne et peut-être aussi à un vœu qu’aurait prononcé Vespasien à Alexandrie. Un élément supplémentaire vient appuyer cette hypothèse: ce temple est représenté sur des sesterces frappés entre 71 et 73, à Rome, Tarragone et Lyon ; or les types monétaires de ce genre commémorent – on le sait – la construction ou la reconstruction d’édifices, plutôt qu’un événement ponctuel comme la nuit passée dans un temple 27. Il est ainsi possible que, une fois les Vitelliens défaits à la fin du mois de décembre 69, Domitien ait fait débuter les travaux sur le Champ de Mars, tout comme le temple de Jupiter conservator sur le Capitole, en souvenir de son miraculeux sauvetage. Pour le triomphe de juin 71, le chantier pouvait «être assez avancé pour que Vespasien pût dédier le temple et en tout cas faire savoir par le choix de passer la nuit à proximité du futur temple quel était son lien avec les dieux égyptiens» 28. Si l’on admet cette hypothèse de l’officialisation du culte d’Isis et Sérapis par Vespasien, on peut envisager sous un angle renouvelé les constructions de temples Scheid, Isis, cit., 182. Flav. Jos. Bell. BJ 7.157. 27 Scheid, Isis, cit., 182-183. Voir aussi en ce sens L. Bricault (sous dir.), Sylloge nummorum religionis Isiacae et Sarapiacae (SNRIS), Paris 2008 (Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 38), 189-190, 241-242. Contra V. Gasparini, Culti, cit., 349. 28 Scheid, Isis, cit., 183. La victoire et le triomphe de Vespasien lui permettent également d’élargir le pomerium, comme l’a rappelé récemment Coarelli, Flavi, cit., 69-70. 25 26

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publics dédiés à ces divinités, dans de nombreuses cités d’Italie et de l’Empire, sous les Flaviens 29. Pensons au grand temple d’Isis de Bénévent, qui comprenait notamment un portrait de Domitien en pharaon – Bénévent où Domitien avait retrouvé son père en automne 70. Les temples d’Isis et de Magna Mater récemment découverts à Mayence datent de l’époque flavienne 30. Tel semble le cas également de l’Iseum de Baelo Claudia (Bétique), édifié à proximité immédiate du Capitole 31. Ce serait donc l’Isis romaine que ces diverses cités auraient intégrée dans leur panthéon local et non un culte ‘étranger’. C’est également à l’époque des Flaviens que remontent les premières inscriptions attestant l’existence de sacerdoces publics propres aux divinités égyptiennes dans des cités romaines d’Italie, comme le montre l’exemple de Cantria Longina (Aeclanum) 32: «En l’honneur de Cantria Longina, fille de Publius, flaminique de la divine Julia Pia Augusta, prêtresse de la grande Mère des dieux Idéenne et d’Isis reine. Pour avoir été honorée du sacerdoce, elle a donné 50 000 sesterces à la cité. Officiellement par décret des décurions».

Si la récente enquête de J. Scheid permet de situer l’officialisation du culte d’Isis et Sérapis dans le sillage de l’accession au pouvoir des Flaviens, c’est en rapport explicite avec le triomphe que Flavius Josèphe mentionne la construction du Temple de la Paix par l’empereur. Commencé en 71, inauguré en 75 33, celui-ci est très vraisemblablement financé ex manubiis: c’est en son sein qu’est conservée une partie du butin précieux provenant du Temple de Jérusalem. Le Templum Pacis célèbre donc la nouvelle période de paix qu’ouvre le règne de Vespasien après la guerre civile et la victoire, présentée comme extérieure, sur les Juifs. Ce vaste ensemble consacré à la Paix constitue également pour Vespasien une manière de se placer dans la continuité d’Auguste, qui avait consacré un autel 29 Voir déjà les remarques de Gasparini, Culti, cit., 351, même s’il n’admet pas l’officialisation de ce culte sous les Flaviens. Tel serait le cas de la reconstruction du temple d’Isis à Pompéi, dont la typologie des frontons refléterait une adhésion à l’idéologie propre au principat des Flaviens (St. Adamo Muscettola, La decorazione architettonica e l’arredo, in Alla ricerca di Iside. Analisi, studi e restauri dell’Iseo pompeiano nel Museo di Napoli, Roma 1992, 63-66). 30 M. Witteyer, Das Heiligtum fur Isis und Magna Mater, Texte und Bilder, Mayence 2004. 31 P. Sillières, Baelo Claudia, une cité romaine de Bétique, Madrid 1995, 96-102. 32 RICIS 505/0901. 33 Flav. Jos. 7.158-162. Voir aussi Suet. Vesp. 9; Dio Cass. 66.15.1; Aur. Vict. Caes. 9, 7; Epit. 9, 8. Sur le Templum Pacis, voir les diverses contributions rassemblées dans Divus Vespasiani, cit.: P.L. Tucci, Nuove osservazioni sull’architettura del Templum Pacis; M. Gaggioti, Templum Pacis: una nuova lettura; A. Bravi, Immagini adeguate: opere d’arte greche nel Templum Pacis; S. Fogagnolo, C. Mocchegiani Carpano, Nuove acquisizioni e ritrovamenti nell’aula di culto; R. Meneghini, A. Corsaro, B. Pinna Caboni, Il Templum Pacis alla luce dei recenti scavi et Coarelli, Flavi, cit., 72-73.

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à la même divinité. Un autre indice de cette volonté de continuité consiste dans le choix du matériau et des «modules des ordres architectoniques» du Templum Pacis, qui reflètent ceux du Forum d’Auguste. Pline rapproche d’ailleurs ces deux édifices et les considère, ainsi que la Basilica Pauli, parmi les plus beaux au monde 34. En outre, c’est vraisemblablement dans la foulée du triomphe et de l’édification du Templum Pacis qu’il faut situer la fermeture du temple de Janus par l’empereur, premier, selon Tacite, à accomplir ce geste symbolique fort depuis Auguste 35. La religion publique romaine sous les Flaviens Après avoir examiné sous le prisme religieux l’arrivée de Vespasien à Rome, son triomphe et celui de son fils en juin 71 ainsi que ses conséquences, envisageons maintenant le fonctionnement de la religion publique romaine sous les Flaviens. L’éclairage des Actes des frères arvales Pour ce faire, les Actes des frères arvales offrent une voie d’accès privilégiée. Les procès-verbaux de cette confrérie relèvent en effet les services accomplis annuellement par ces prêtres publics: outre les cérémonies liées au culte de Dea Dia qui lui reviennent spécifiquement, cette sodalité prend part à une série de cultes communs de la religion publique romaine, qu’il s’agisse de vœux ou de sacrifices pour l’empereur et sa famille 36. Commençons par les vœux réguliers: les arvales, comme les autres prêtres publics et les magistrats, acquittent et formulent chaque année, le 3 janvier, des vœux pour le salut de l’empereur (il s’agit donc de sacrifier les victimes promises l’année précédente, si les conditions du vœu sont remplies – si le prince est toujours en bonne santé – et d’en prononcer de nouveaux pour l’année à venir) 37. Les dieux qu’invoquent les arvales lors des vœux pour les Flaviens sont les mêmes que précédemment, même si l’on note deux légères différences. Sous Tibère et Caligula, les vœux englobaient également Dea Dia. Sous les Julio-Claudiens, et les trois éphémères prédécesseurs de Vespasien, les empereurs divinisés étaient aussi inclus dans la cérémonie des vœux. A partir de Vespasien, Plin. nat. 36.102; E. Lyasse, Le principat et son fondateur. L’utilisation de la référence à Auguste de Tibère à Trajan, Bruxelles 2008 (Collection Latomus, 311), 303; Tucci, Osservazioni, cit., 165. 35 Tac. cité par Oros. 7.3.7; 7.19.4 ; Lyasse, Principat, cit., 270, 302. 36 Voir Scheid, Romulus, cit. 37 Scheid, Romulus, cit., 290-294, 298-309. 34

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relève J. Scheid, «  seules les divinités dont l’invocation était canonique participent à l’engagement: la triade capitoline et Salus (Augusta) publica populi Romani Quiritium » 38. Une autre évolution est perceptible sous les Flaviens: les vœux ne concernent plus seulement l’empereur et éventuellement son épouse, comme précédemment, mais aussi ses enfants et, à partir de 86 au plus tard, toute la maison impériale 39. Alors que sous Tibère déjà, en 24, les pontifes et, à leur imitation d’autres prêtres, ont inséré, dans les vœux pour le salut du prince, les noms des héritiers pressentis du pouvoir, Néron et Drusus, les pontifes se voient rappelés à l’ordre par le prince 40. Ce dernier s’adressa en outre au Sénat et «recommanda pour l’avenir de ne point enorgueillir par des honneurs prématurés de jeunes et mobiles esprits» (Tac. Ann. 4.17.3). Vespasien, puis ses fils, se démarquent donc à ce niveau de leurs prédécesseurs. La volonté du premier Flavien d’associer ses fils aux vœux qui sont prononcés pour son salut apparaît bien évidemment comme cohérente avec sa politique générale et son désir de fonder une ‘dynastie’. Le nombre de victimes promises et sacrifiées appelle aussi quelques remarques. Sous Vespasien, chaque divinité reçoit deux victimes, l’une pour Vespasien, l’autre pour Titus ; tel est encore le cas sous le règne de Titus (deux victimes – une pour Titus, l’autre pour Domitien – pour chaque dieu), même si désormais les prêtres invoquent aussi la triade et Salus pour Julia Augusta et leurs enfants. On observe un changement sous Domitien: lors des vœux que formulent les arvales le 1e octobre 81 pour le salut de l’empereur, de Domitia et de Julia Augusta, il est spécifié très clairement que chaque divinité recevra au total 3 victimes ; par contre, à partir de 86 au plus tard 41, il semblerait que chaque divinité ne reçoit plus qu’un seul animal, alors que les prêtres prient pour le salut des mêmes. On observe donc une diminution apparente du nombre des victimes. Ce changement ne semble pas lié aux modifications de formulaires, que révèle à partir de 87 le style des Actes des arvales, mais pourrait s’expliquer par la manière un peu sèche dont le rite est alors résumé. Une autre interprétation est envisageable: Domitien a pu souhaiter réduire les manifestations des vœux pro salute – une telle évolution est en tout cas Scheid, Romulus, cit., 344. Pour les textes, voir CFA. Sous Vespasien, les vœux concernent désormais l’empereur et son fils Titus (en 75 et en 78). Sous Titus, ces vœux s’étendent à Domitien, à Julia Augusta, fille de Titus, et à leurs enfants. Sous le règne de Domitien, l’acquittement ces vœux se rapporte en 86 à Domitien, son épouse et à Julia Augusta; leur formulation inclut en outre toute leur maison. Durant les années suivantes, l’acquittement et la formulation de ces vœux s’étend systématiquement aux mêmes et à toute leur maison. 40 Tac. Ann. 4.17.1-3; Suet. Tib. 54.2; Scheid, Romulus, cit., 308. 41 On ne dispose pas de compte-rendu entre 81 et 86. 38 39

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observable, nous le verrons, dans les sacrifices pour les anniversaires et autres événements dynastiques sous les Flaviens. Si tel est le cas, l’union sous une victime de trois personnes différentes risquait de poser une difficulté 42. Comment faire alors en cas de problèmes ou de décès d’une des personnes sur qui porte le vœu? Il faudrait le cas échéant reformuler le vœu, en précisant les personnes qui ont survécu, comme le fait Domitien le 1e octobre 81, avant que ces vœux ne soient acquittés et que de nouveaux soient prononcés pour le salut du nouvel empereur mais aussi de son épouse et de la fille de Titus 43. A partir de 86 au plus tard, les arvales adresseront, le 22 janvier, d’autres vœux réguliers pour la santé de Domitien, à Jupiter seul cette fois ; il apparaît en outre clairement dans le compte-rendu de 89 que ces vœux résultent d’une décision publique, prise ex s(enatus) c(onsulto) 44. On a parfois mis ces vœux en rapport avec la protection particulière qu’offre Jupiter au prince, notamment sous Domitien – c’est une possibilité bien sûr mais il convient de rappeler que ces vœux ne survivent pas au dernier des Flaviens. La formulation de ces vœux pour lesquels on invoque spécifiquement Jupiter «très bon, très grand, capitolin» mérite une attention qui ne lui a guère été accordée: en effet, l’adjectif capitolinus n’apparaît pas en d’autres occasions dans les actes des arvales (soit sous ce règne soit sous d’autres règnes) 45. Cette précision unique, pourrait être mise en rapport avec la décision d’instaurer, en 86, l’agôn capitolinus, consacré, précisément à Jupiter capitolin 46. Les vœux extraordinaires que prononcent ou acquittent les arvales sous les Flaviens 47 – vraisemblablement aux côtés d’autres prêtres 48 – sont liés à la recons42 Un problème similaire s’était posé en 208 av. n.è., quand Marcellus voulut dédier le temple qu’il avait voué à Honos et Virtus: les pontifes arrêtèrent alors le consul «car, selon eux, il n’était pas conforme aux prescriptions rituelles qu’une seule cella fût dédiée à deux dieux; si, en effet, elle était frappée par la foudre ou si quelque prodige s’y produisait, il serait difficile de le conjurer, faute de savoir auquel des deux dieux serait adressé le sacrifice» Liv. 27.25.7-9 (trad. P. Jal, CUF, 1998). 43 CFA 49; Scheid, Romulus, cit., 344. 44 Scheid, Romulus, cit., 346. 45 G. Henzen (Acta fratrum arvalium quae supersunt, Berlin 1874, 109) et P. Herz (Untersuchungen zum Festkalender der römischen Kaiserzeit nach datierten Weih- und Ehreninschriften, Diss. Mayence, 1975, 24; Kaiserfeste der Prinzipatszeit, in ANRW, 2, 16, 2, 1168) ont voulu mettre ces vœux en rapport avec les ludi Palatini mais on ne voit pas quel rapport pouvait lier ces deux événements. 46 Sur l’agôn capitolinus, voir infra. On pourrait aussi penser à des vœux liés à l’une ou l’autre phase de la reconstruction du temple de Jupiter Optimus Maximus Capitolinus par Domitien (faisant suite à sa destruction par le grand incendie de 80) (pour cette reconstruction, voir S. De Angeli, Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus, Aedes (fasi tardo-rep. e imp.), in LTVR, III, Roma 1996, 151-152. 47 Scheid, Romulus, cit., 294-295. 48 Scheid, Romulus, cit., 311.

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truction et à la dédicace du Capitole (le 7 déc. 80) 49, au salut et au retour de l’empereur (en janvier 87, sans doute à la suite de sa campagne contre les Daces), au salut, à la victoire et au retour de Domitien, à la suite de sa campagne contre Antonius Saturninus (en janvier 89) qui s’était fait proclamer empereur à Mayence 50. Ces derniers sont accompagnés de supplications et de sacrifices: les arvales participent au Capitole à une supplication par l’encens et le vin accomplie par le Sénat (24 janvier), tandis qu’ils sacrifient, très vraisemblablement aux côtés des autres prêtres publics, le jour suivant ob laetitiam publicam, sans doute dans le temple de Jupiter capitolin 51. Les arvales participent à ces célébrations non pas de leur propre initiative mais à la suite de sénatus-consultes ou d’édits des consuls 52. Quant aux autres sacrifices accomplis par les arvales, ils concernent en 81 l’accession de Domitien au pouvoir 53: – sacrifice, le 14 septembre, pour l’imperium qui lui a été conféré; – le 30 septembre pour ses comices tribuniciens; – le 1e octobre, sacrifice rappelant aux dieux les vœux qui ont été prononcés pour son salut et sa bonne santé. D’autres sacrifices accomplis sous son règne sont relatifs à la découverte de crimes de malfaiteurs (22 sept. 87) ou à sa victoire et à son retour en janvier 89 54. Situés par rapports aux règnes précédents, les services des arvales sous les Flaviens se distinguent par un nombre réduit de sacrifices commémoratifs d’événements liés à la vie du prince et de sa famille. De même, «dès Vespasien, les offices directement destinés à Auguste disparaissent définitivement des commentaires des arvales» 55. CFA 48: nucupatio de voeux ad restitutionem et dedicationem Capitoli ab Imp(eratore) T. Caesare Vespasiano Aug(usto). 50 Scheid, Romulus, cit., 313-314. CFA 55; 57. 51 Scheid, Romulus, cit., 403. 52 Scheid, Romulus, cit., 427: «Les arvales n’ont pas célébré automatiquement et de leur propre chef toutes les fêtes officielles relevant de ce qu’on appelle le culte impérial. Ils n’étaient pas libres de décider s’ils participaient à tel ou tel service; tout laisse entendre qu’ils étaient convoqués par décret ou par édit». Notons encore que le fragment CFA 45 évoque des vœux, vraisemblablement de 79, qui pourraient se rapporter à la conspiration de Caecina Alienus et d’Eprius Marcellus. 53 CFA 81. Scheid, Romulus, cit., 345-346, 387-388 54 CFA 55; 57. 55 Scheid, Romulus, cit., 417 (voir aussi pp. 356-357, 427-429: pour des données chiffrées: sous les Julio-Claudiens, «le calendrier liturgique des arvales ne comprenait qu’un tiers et, sous Néron, même un quart de services appartenant au culte qui était du ressort exclusif de ces prêtres»; «Après l’avènement des Flaviens, cette tendance amorce un mouvement contraire puisque, même 49

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La tendance observée à travers les actes des arvales semble correspondre à un mouvement plus général, qui se poursuit durant la première moitié du 2e s., même si les fêtes en l’honneur de l’empereur n’ont évidemment pas été supprimées 56. Le «culte impérial» occupe désormais, au sein de la religion publique romaine, une place plus réduite que sous les Julio-Claudiens, qu’il s’agisse de fêtes dynastiques régulières ou exceptionnelles. Ceci n’empêche évidemment pas que le pouvoir impérial soit célébré librement dans d’autres contextes que celui des rites publics romains. Introduction de nouveaux cultes, services religieux et festivités Si les Actes des arvales ne mentionnent pas l’introduction de nouveaux cultes ou festivités sous les Flaviens, la religion publique romaine a cependant connu quelques innovations à cette époque. Nous avons déjà rappelé l’hypothèse selon laquelle, à la suite de son avènement favorisé par les divinités égyptiennes, Vespasien aurait introduit celles-ci dans le panthéon public romain, en les dotant notamment d’un temple public sur le Champ de Mars. On peut aussi mentionner la création, après la divinisation de Vespasien, des sodales Flauiales, qui sont affectés à son culte et prennent aussi en charge, peu de temps après, les services en l’honneur du diuus Titus. Faute de source, il est difficile de préciser les modalités de cette création ; il est cependant très vraisemblable que ce collège ait été institué à la suite d’une décision du Sénat 57. La création, en 86, du concours – agôn – en l’honneur de Jupiter capitolin par Domitien constitue l’une des principales nouveautés durables introduites sous les Flaviens, en matière de religion publique romaine 58. Ce concours et sa postérité nous sont beaucoup mieux connus depuis l’importante monographie de M.-L.

en 81, 6 services sur 10 appartiennent aux activités propres de la confrérie. En 87, sur 9 sessions, 5 (et même 6) relèvent du culte de Dia ou des activités internes de la confrérie, et même en 89, année de crise, sur les 10 rubriques conservées pour les 5 premiers mois de l’année, 3 sont du ressort propre des arvales – et même 5, si nous considérons qu’ils ont sacrifié également à Dia les 17 et 20 mai; en 90, pour la même période, seulement 2 services sur 7 sont des voeux réguliers et exceptionnels». Cette tendance s’amplifie sous Trajan. 56 Scheid, Romulus, cit., 429-432. 57 Ces prêtres sont uniquement attestés par l’épigraphie. Voir S. Gsell, Essai sur le règne de l’empereur Domitien, Paris 1894, 50-51; A. Momigliano, Sodales Flaviales Titiales e culto de Giove, in BCAR 63, 1935, 165‑171 (= Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, 657-666). 58 M.L. Caldelli, L’Agon Capitolinus. Storia e protagonisti dall’istituzione domizianea al IV secolo, Roma 1993 (Studi pubblicati dall’istituto italiano per la storia antica, 54), 57-62.

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Caldelli 59. Je ne m’y attarderai donc guère, si ce n’est pour revenir sur une question précise: la couronne portée par l’empereur et par les prêtres. Selon Suétone, le prince institua «en l’honneur de Jupiter Capitolin, un concours quinquennal triple, à la fois musical, équestre et gymnique, avec un nombre de lauréats notablement plus grand qu’aujourd’hui. … Il le présida, chaussé de sandales, vêtu d’une toge de pourpre de façon grecque, la tête ceinte d’une couronne d’or portant les effigies de Jupiter, de Junon et de Minerve, ayant à ses côtés le flamine de Jupiter et le collège des prêtres flaviens, vêtus comme lui, si ce n’est que leurs couronnes portaient en outre sa propre image» 60. Ce passage du biographe est en général accepté comme fiable par les modernes: l’existence de ce triple concours, de ses diverses épreuves, de ses concurrents est amplement attestée par des sources variées. Quant au vêtement et à la couronne portés par le prince, ils sont mis en rapport avec le costume des agonothètes grecs 61. Les modernes acceptent aussi la présence, aux côtés de Domitien, du flamine de Jupiter et des prêtres flaviens, habillés comme l’empereur, «si ce n’est que leurs couronnes portaient en outre sa propre image». On a beaucoup glosé sur la participation, à cette cérémonie, du flamen Dialis, dont A. Momigliano a voulu faire un prêtre du culte impérial. Il est à mon avis beaucoup plus simple d’expliquer la participation de ce flamine par le fait que la cérémonie était consacrée au dieu qu’il «personnifie», en tant que «prêtre-statue» 62. La présence des sodales flauiales est plus complexe à interpréter; généralement, les modernes s’en tirent en arguant de leurs liens (supposés) avec Jupiter 63. La description que fait Suétone des couronnes des prêtres qui assistent l’empereur me pose cependant question. Certes, ceux-ci en ont vraisemblablement porté une, à l’instar des agonothètes des concours grecs 64 mais… leur couronne portait-elle, outre l’image de la triade, celle du prince? Je me demande si cette précision n’a pas avant tout pour but d’écorner l’image du prince frappé de damnatio memoriae. Prétendre que les prêtres participant à la cérémonie portaient une couronne à l’effigie non seulement de la triade mais aussi de l’empereur revenait pour Suétone (ou sa source) à subtilement accuser Domitien de se ranger parmi 59 Caldelli, Agon, cit.; voir aussi A. Hardie, Poetry and Politics at the Games of Domitian, in Flavian Rome, cit., 125-148. 60 Suet. Dom. 4, 8 (trad. H. Ailloud, CUF, 1932). 61 Caldelli, Agon, cit., 109-110; J. Rumscheid, Kranz und Krone. Zu Insignien, Siegespreisen und Ehrenzeichen der römischen Kaiserzeit, Tübingen 2000 (Istanbuler Forschungen, 43), 9‑10; Hardie, Poetry, cit., 130. 62 J. Scheid, Le flamine de Jupiter, les Vestales et le général triomphant, in TR 7, 1986, 213-230. 63 Momigliano, Sodales, cit.; Caldelli, Agon, cit., 110-111; Hardie, Poetry, cit., 130. 64 Rumscheid, Kranz und Krone, cit.

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les dieux, de s’auto-diviniser 65. Si ce concours avait réellement été entaché de cette volonté, aurait-il subsisté après la mort de l’empereur? N’aurait-il pas plutôt été rayé des cérémonies publiques, comme les Neronia précédemment 66? Domitien organisa sous son règne un autre concours qui – cette fois – ne lui survivra pas 67. Selon Suétone 68 «il célébrait aussi chaque année, dans sa villa du mont Albain, les Quinquatries de Minerve, en l’honneur de laquelle il avait institué un collège, dont certains membres, tirés au sort, devaient se charger de ces fêtes et donner, outre des chasses et des représentations théâtrales de premier ordre, des concours d’orateurs et de poètes». Ce concours auquel fait aussi allusion Stace a donc lieu dans une propriété privée de l’empereur – on y a par ailleurs identifié le théâtre où il se déroulait 69. Cette précision invite donc à y reconnaître plutôt une manifestation privée, parallèle aux fêtes de Minerve qui avaient lieu, en même temps, à Rome. Le collège institué pour l’occasion – dont on n’a pas de traces épigraphiques – assistait l’empereur aussi bien pour la partie spécifiquement religieuse que pour les diverses épreuves du concours. Dans la mesure où ce concours semble plutôt relever d’une initiative personnelle de l’empereur et ne pas s’insérer dans le cadre de manifestations religieuses officielles, il est aisé de comprendre pourquoi celui-ci ne fut pas maintenu à la mort de Domitien. Peut-être faut-il le ranger parmi les cérémonies coûteuses introduites par cet empereur, qui sont, selon Dion Cassius, supprimées par Nerva 70. Conclusion Il aurait été utile de poursuivre notre parcours en envisageant les fonctions sacerdotales des Flaviens: comment ont-ils rempli leurs rôles de pontifex maximus? en ciuilis princeps pour Vespasien, en tyran pour Domitien 71? Ont-ils participé aux rites 65 J.-L. Girard (Domitien et Minerve, in ANRW, 2, 17, 1, 1981, 239) semble avoir perçu cette difficulté; certes il admet comme reflétant la réalité ces précisions sur les couronnes mais précise – sans réf. – «si les jeux capitolins ont duré jusqu’à la fin du paganisme, l’usage des couronnes, trop liées au souvenir de l’empereur honni, disparaît à partir de 96». 66 Sur les Neronia, Caldelli, Agon, cit., 37-43. 67 Hardie, Poetry, cit., 135-142. 68 Suet. Dom. 4.11; voir aussi Dio Cass. 67.1.2. 69 Catalogo, 331. 70 Dio Cass. 68.2.3. 71 Voir Fr. Van Haeperen, Le collège pontifical (3e s. a.C.-4e s. p.C.), Bruxelles-Rome 2002, 104105, 194, 195-196, 263-264. On notera que les prétentions de Domitien à s’assimiler à un dieu (dont se font l’écho quelques auteurs) ne trouvent aucun écho dans les Actes des arvales ni même dans son attitude par rapport à la religion publique, telle qu’on peut la reconstituer sur la base des sources.

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des collèges dont ils étaient membres? Vespasien et Titus n’ont pas dédaigné les services des arvales par ex. Mais le temps imparti ne nous permet pas d’approfondir ces questions qui ont été partiellement traitées par Stepper 72. Que révèle in fine notre rapide survol de la religion publique romaine sous les Flaviens? Quelques changements, quelques évolutions, dans la continuité: telle est, me semble-t-il, l’impression générale qui se dégage. On le sait, Vespasien associe rapidement ses fils à son action politique et militaire, mettant ainsi en place une famille impériale destinée à assurer la continuité du pouvoir. Il est dès lors peu surprenant de constater qu’au niveau de la religion publique aussi, ses fils lui soient associés dans les prières aux dieux que formulent le peuple ou les arvales par ex. Alors que précédemment, ces derniers n’incluaient pas les héritiers pressentis du pouvoir dans les vœux qu’ils prononçaient, ils englobent désormais systématiquement le fils du prince ainsi que la famille impériale dans leurs prières. Une autre évolution est perceptible: le poids des services religieux publics en l’honneur des empereurs divinisés ou liés à des événements relatifs à la famille impériale diminue de manière significative sous les Flaviens (cette tendance se poursuivant durant une bonne partie du 2e s.). Cette inversion de tendance sous les Flaviens a été interprétée dans le sens d’une volonté de se démarquer des Julio-Claudiens, en mettant une sourdine «sur la célébration des faits politiques ou dynastiques» 73. Je me demande dans quelle mesure cette diminution ne pourrait pas aussi être partiellement liée à la rigueur budgétaire instaurée par Vespasien 74 et par une attitude dictée par la prudence: il était vraisemblablement préférable de ne pas commémorer publiquement le dies imperii choisi par Vespasien, qui rappelait son élévation par les légions d’Egypte plutôt que sa reconnaissance par le Sénat (le 21 décembre 69).

72 R. Stepper, Der Oberpontifikat von Caesar bis Nerva: Zwischen Tradition und Innovation, in C. Batsch, U. Egelhaff-Gaiser, R. Stepper (éds.), Zwischen Krise und Alltag. Antike Religionen im Mittelmeerraum. Conflit et normalité. Religions anciennes dans l’espace méditerranéen, Stuttgart 1999, 171-185; Ead., Augustus et sacerdos. Untersuchungen zum römischen Kaiser als Priester, Stuttgart 2003. 73 Scheid, Romulus, cit., 429 (428-432). 74 Dion Cassius n’écrit-il pas mais ! à propos d’Alexandrie…: «Il ramassa de grosses sommes par différents expédients, négligeant de prêter attention à leurs origines, même si celles-ci étaient hasardeuses ou même blâmables et s’attachant à tirer de l’argent de toutes les sources, sacrées comme profanes»; Dio Cass. 66.8.3 (cité par Salles, p. 170).

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La religion publique romaine conserve donc grosso modo ses caractères principaux. Seules nouveautés – mais qui s’inscrivent dans la lignée de précédents illustres –: l’officialisation vraisemblable du culte d’Isis et Sérapis, ‘divinités de guerre’ de Vespasien, et l’instauration d’un concours de type grec, l’agôn capitolinus, par Domitien. On peut donc conclure, avec Flavius Josèphe, qu’ «après l’accueil chaleureux fait à Vespasien, la ville de Rome progressa rapidement vers une grande prospérité» 75, notamment grâce au respect des rites ancestraux…

Françoise Van Haeperen Université catholique de Louvain B – Louvain-la-Neuve

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Flav. Jos. Bell. Jud. 7.74.

Lex de flamonio Provinciae Narbonensis A Flavian provincial law and the government of the Roman empire

A characteristic policy of the Flavian regime was its custom of issuing lists of regulations for general observance by local communities. The best known example is the Flavian Lex Municipalis, versions of which were sent out to a wide variety of centres in Baetica, both colonies and municipalities 1. We now possess substantial parts of the charters of Irni, Malaca and Salpensa, along with fragments from Villonensis, Ostippo, modern Cortegana (the ancient name is unknown) and some uncertain town attested by a trace found probably at Hispalis. Such regulations evidently applied not only across Spain but also elsewhere in the western empire down to the third century A.D., when the latest known instance occurs at Lauricum in Noricum (A.D. 212-217) 2. A.T. Fear points out that on the figures of Pliny well over 300 individual charters will have been required simply in Baetica and the rest of Spain 3. These standard provisions evidently derived from a central master copy that was slightly modified to fit the circumstances of each individual city by the addition of local details – toponym, composition of the curia, administration of justice, the rights and duties of individuals. The most extensively preserved local copy of the Flavian municipal law is the “customized” version found at Irni, the so-called Lex Irnitana (AE, 1986, 333) 4. A particularly striking example of deliberate central direction, this includes a calendar of festival days or commemorations designed for local observance “on account of the veneration of the imperial

1 D. Fishwick, The Imperial Cult in the Latin West. Provincial Ruler Cult, Part I: Institution and Evolution, Leiden 2002, III, 1, 97 with n. 10 (H.S. Versnel, R. van den Broek [eds.], Religions in the GraecoRoman World [RGRW], 145). 2 D. Fishwick, The Imperial Cult in the Latin West, Provincial Ruler Cult, Part 3: The Provincial Centre; Provincial Cult, Leiden 2004, III, 3, 231 with n. 13 (RGRW, 147). 3 Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 98, n. 11. 4 Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 220, n. 24.

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Duncan Fishwick

house”, alongside holidays determined locally 5. In addition there are several references to imperial days on which various forms of legal business were forbidden 6. I. Against the background of this well documented case of Flavian initiative from the centre, it seems worth while to take a fresh look at the partially preserved Lex de flamonio provinciae Narbonensis (Pl. 1). The following version of the text follows the conservative edition of C. H. Williamson and M. Crawford 7, restricting restorations to the minimum that can be safely supplied from later passages (fig. 1): [De honoribus eius qui flamen erit] [.42. Na]rboni [...52...] [.42.]iique lictores q. [ui ... apparent ... ei apparento] 3. [.37.]u. m iusque eius provinciae [...42...] 4. [.35.]ui in decurionibus senatuve [sententiae dicendae signandique ...12...] 5. [.15. inter decuriones s]e. n. atoresve subsellio primo spectan[di ius esto ...30...] 6. [.23. uxor fla]minis veste alba aut purpurea vestita .f [estis diebus ...27...] 7. [.28.] n. e. ve invita iurato neve corpus hominis mor[tui ...6... attingito neve locum ingreditor] 8. [in quo bustum crem]a. .t.i hominis erit; eique spectaculis publicis eius [... interesse liceto vacat] 9. De honoribus eius qui flamen .f [uerit] 10. [Si is qui flamen fue]rit adversus hanc legem nihil fecerit, tum is qui flamen erit c[urato ut ...27...] 11. [.3. per tabell ]a. s iurati decernant placeatne ei qui flamonio abierit permitti st. a. [uam intra fines templi ... ponere. Si placu-] 12. [erit ius sta]tuae ponendae nomenque suum patrisque et unde sit et quo anno fla[men fuerit inscribendi permitti, ei] 13. [Narbo]ni intra fines eius templi statuae ponendae ius esto, nisi cui imperator [Caesar ...24... Eidem] 14. [i ]n curia sua et concilio provinciae Narbonensis inter sui ordinis secundum le. [...35...] 15. sententiae dicendae signandique ius esto; item spectaculo publico in provincia. [...22..interesse liceto prae-] 16. textato eisque diebus, quibus cum flamen esset sacrificium fecerit, ea veste pe. [ ...42... vacat] 17. Si flamen in civitate esse des[ierit] 1. 2.

5 F. Hurlet, Les Modalités de la Diffusion et de la Réception de l’Image et de l’Idéologie impérial en Occident sous le Haut-Empire, in M. Navarro Caballero and J.-M. Roddaz (eds.), La Transmission de l’Idéologie Impérial dans l’Occident roman, Bordeaux-Paris 2006, 49-68 at 52, n. 11 with refs. 6 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 3, 231-232. 7 C.H. Williamson, A Roman Law from Narbonne, in Athenaeum 65 (1987) 173-89; D. Fishwick, The Imperial Cult in the Latin West Provincial Ruler Cult, Part 2: The Provincial Priesthood, Leiden, III, 2, 2002, 3-5 (RGRW, 146).

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Lex de flamonio Provinciae Narbonensis A Flavian provincial law and the government of the Roman empire

Fig. 1. the provincial charter of Narbonensis (Photograph by courtesy of the louvre, Departément des antiquités Romaines: no. BR 4081).

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Duncan Fishwick Si flamen in civitate esse desierit neque ei subrogatus erit, tum uti quis. [flamen proxime fuerit ...19... is] 19. in triduo quo certior factus erit et poterit Narboni sacra facito [...35... per reliquam] 20. partem eius anni eo ordine hab(e)to quo annuorum flamin[um habentur ...16... Eique, si habuerit per dies non minus] 21. XXX, siremps lex ius causaque esto quae flamini Augus[... ex hac lege erit vacat] 22. Quo loco concili[um ...15...] 23. Qui in concilium provinciae convenerint Narbo[nem ...(?ni)si quid ... Narbone-] 24. sium concilio habito actum erit, id ius ratum[que (?ne) esto vacat] 25. De pecu[nia ...22...] 26. Qui flamonio abierit is ex ea pecunia [...65... statu] 27. as imaginesve imperatoris Caes. [aris ...45... arbitratu(?) eius qui eo anno pro-] 28. vinciae praeerit intra idem .t [empus ...41... seque omnia ut hac lege cautum est de] 29. .ea re fecisse apud eum qui ra[tiones putabit probato ...58...] 30. [.8. e]o. templo .i.t a. [...83...]. (CIL XII, 6038: Pl. 1; Fishwick, Imperial Cult cit, III, 2, 3-5) 18.

This key document was found in 1888 in a swimming pool at the provincial enclave centred on Narbo Martius and until recently has been universally interpreted as a special enactment designed for and limited to the province of Gallia Narbonensis 8. Yet the known interest of Vespasian in reforming and streamlining the imperial structure, plainly reflected in his extension of ius Latii across the Spains with its superseding municipal law, stamps the Lex Narbonensis as a product of central planning, so conceivably one copy that has chanced to survive of similar regulations sent out over a wide range of western provinces. Of the five clauses preserved three regard the office of flamen, one the provincial concilium, and one financial matters, but three paragraphs at the head of the text may well have related to the election of the flamen, the rites he performed, and the privileges he enjoyed 9. The fact that these are patently modelled in large part on the office of 8 Fishwick, Imperial Cult, cit, III, 2, 3-15; J. Ruiz de Arbulo, Bauliche Inszenierung und literarische Stilisierung localer Eliten auf der Iberischen Halbinsel in S. Panzram (ed.), Städte im Wandel, Acten des Internationalen Kolloquiums des Arbeitsbereiches für Alte Geschichte des Historischen Seminars der Universität Hamburg und des Seminars für Klassische Archäologie der Universität Trier im Warburg-Haus (Hamburg, 20-22 Oktober 2005), Hamburg 2006, 149-212 at 156-157; E.A. Hemelrejk, Local Empresses: Priestesses of the Imperial Cult in the Cities of the Latin West in Phoenix 61, 2007, 318-349 at 321, n. 22, states that I assume that similar regulations existed in most other westerm provincices. The specific evidence given below confirms that such was indeed the case. 9 Whether the religious taboos appropriate to the wife of the provincial flamen applied also to her husband in a lost paragraph of the Lex Narbonensis is unclear. What is certain is that the office of provincial priest of Gallia Narbonenis and the position of his wife were modelled, if selectively, on those of the Flamen Dialis and Flaminica Dialis at Rome: Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 2, 3 with nn. 2, 7; A.A. Barrett, Livia. First Lady of Imperial Rome, New Haven 2002, 159160; Hemelrejk, Priestesses, cit., 321-323 with n. 24, argues that there is no reason to assume that

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Lex de flamonio Provinciae Narbonensis. A Flavian provincial law and the government of the Roman empire

flamen Dialis and flaminica Dialis at Rome strongly supports the view that this is a lex data 10, technically a constitutio, that was issued centrally, very possibly by the emperor, with the purpose of instituting and organizing the provincial cult of Gallia Narbonensis. The critical problem with this enactment is that its date cannot be established directly since there is a lacuna where the tablet is broken at a key point of the text (lines 13, 27): [Narbo]ni intra fines eius templi statuae ponendae ius esto, nisi cui imperator [Caesar ... 24 .... Eidem] 26. .................................... 65 ..... statu] 27. as imaginesve imperatoris Caes. [aris ...45... arbitratu(?) eius qui eo anno pro-] 28. vinciae praeerit .... 13.

Attention has consequently centred on the career of Q. Trebellius Rufus as recorded on the bases of three statues that were raised in his honour on the Athenian acropolis by the Boulé of the Areopagus, the Boulé of the Six Hundred, and the People of Athens (IG II2, 4193 a-b: Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 100, fig. 1). A third record, originating from the Agora, can be pieced together by analogy with the texts from the Acropolis and is significant for two letters appended below in smaller characters, both sent to the same Athenian bodies (Fishwick, loc. cit., 102-103, fig. 2) 11. One from the concilium of Gallia Narbonensis thanks the Athenians for the honours decreed to “our first high priest” 12. The other, sent by the magistrates and curia of Tolosa, likewise gives thanks for the honours decreed to “our Rufus”, which have increased the honours of his patria. It now seems clear from these combined texts that Trebellius Rufus served as first priest of the province of Narbonensis under Vespasian or Domitian and that the Lex Narbonensis was consequently issued under one of these rulers. As for which of the two was the founder of the provincial cult of Narbonensis, the later career of Trebellius the religious restrictions of the wife of the provincial flamen also held for her husband. Her view, based on minimal evidence, that local priestesses were assimilated to succeeding empresses looks questionable at best. One would have thought constantly changing attire both impractical and implausible. 10 See further Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 1 with n. 2. I see no inconsistency in stating that “although a flaminica is as a rule the wife of the provincial flamen, in principle a woman could be flaminica in her own right without being married to a provincial priest”: op. cit. 208. Contra Hemelrejk, Priestesses, cit., 322, n. 26. My version seems entirely in line with Hemelrijk’s own view. 11 D. Fishwick, Our first High Priest: A Gallic Knight at Athens in Epigraphica 60, 1998, 83-112 at 83, n. 1. 12 For the lengthy controversy on the meaning of “first priest” see Fishwick, Gallic Knight, cit., 103-106.

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Rufus shows that he was archon at Athens under Domitian, so at an earlier stage first flamen of Narbonensis. As the formula imperator Caesar shows (lines 13, 27), it follows that both the Narbonese charter and the term of Trebellius Rufus as flamen primus must be assigned to the reign of Vespasian 13. As for the nature of the provincial cult, the title flamen is appropriate elsewhere to deified emperors, so the formula flamen Augus[ in line 21: ... lex ius causaque esto quae flamini Augus[... ex hac lege erit vacat]

21.

must indicate a cult that included deified emperors, a point confirmed by reference to a provincial temple, which evokes the cult of one or more deified emperors rather than that of a living emperor, to whom one would rather have paid cult at an altar 14. Yet a provincial cult founded in Narbonensis under Vespasian can hardly have omitted the living emperor, a dimension of the worship seemingly confirmed by a clause earmarking surplus funds for the purchase of statu]|as imaginesve imperatoris Caes. [aris ... (line 26-27). It follows that the provincial cult of Narbonensis will have addressed both present and past rulers 15. II. The foregoing analysis has important implications for other provinces. One of the clauses of the Lex Narbonensis stipulates that the provincial priest for the following year is to introduce a motion as to whether the out-going incumbent should be honoured with a statue at the close of his term (lines 9-13). De honoribus eius qui flamen .f [uerit] [Si is qui flamen fue]rit adversus hanc legem nihil fecerit, tum is qui flamen erit c[urato ut ...27...] 11. [.3. per tabell]a. s iurati decernant placeatne ei qui flamonio abierit permitti st. a. [uam intra fines templi ... ponere. Si placu-] 12. [erit ius sta]tuae ponendae nomenque suum patrisque et unde sit et quo anno fla[men fuerit inscribendi permitti, ei] 13. [Narbo]ni intra fines eius templi statuae ponendae ius esto, nisi cui imperator [Caesar ...24... 9.

10.

Fishwick, Gallic Knight, cit., 106 ff.; Id., Imperial Cult, cit., III, 1, 99-109. As notably at the federal centre by Lugdunum: D. Fishwick, The Imperial Cult in the Latin West I, Leiden 1987, 97-133 (M.J. Vermaseren [ed.], Études préliminaires aux religions orientales dans l’empire romain [EPRO], CVIII); Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 9-19; Id., Imperial Cult, cit. III, 2, 17-71. 15 Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 109-111. 13 14

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If the out-going flamen has not transgressed the law, then, and the vote is favourable, the priest shall be allowed to erect a statue to himself, its pedestal inscribed with his own name, that of his father, his origin, and the year of his tenure. No consequent inscription testifies to this procedure at the provincial centre of Narbonensis itself 16 but exactly these instructions seem to be followed in three dedications to provincial priests of Baetica honoured at the provincial centre of Corduba: C(aio) Antoni[o - ] fil(io) Gal(eria) | Serano I. porcens(i) | flamini Divor(um) Aug(ustorum) provinc(iae) | Baeticae | huic consummato honore flamoni P(ublio) Cluvio. M . ax. | M(arco) Servilio Silano co(n)s(ulibus) consensu concil[i pro]vinc(iae) | Baetic(ae) dec[re]ti sunt honores quantos q. [uis] q. ue | ma. ximos c[ons]e. cutus est cum statua cu. [ius h]o. nore | [a]ccepto inpensam remi[sit]. (CIL II2/7, 291; A.D. 152: south forum; Fishwick, Imperial Cult. cit. III, 1, 119-122: Pl. 13) L(ucio) Cominio L(uci) f(ilio) Gal(eria) Iulian(o) | Ilurconensi flamini | Divorum Augg(ustorum) provinc(iae) | Baetic(ae) huic consumma|to honore flamoni | Aproniano et Maurico | co(n)s(ulibus) consensu concili pr(ovinciae) | Baetic(ae) decret(i) sunt honor(es) | quant(os) quisq(ue) max(imos) consecutus | est cum statua cuius honor(e) | acc(e)pt(o) inpensam remisit. (CIL II2/7, 293; A.D. 191: central forum; Fishwick, Imperial Cult. cit. III, 1, 119-122: Pl. 14) [- Fabio M(arci) f(ilio) Gal(eria) --- ]do | [flam]ini Divor(um) Aug(ustorum) | provinc(iae) Baet[ic(ae)] | huic consummato hono[re flam]oni | Cattio Sabino II Cornel(io) Anull[in]o co(n) s(ulibus) | consensu concili universae prov(inciae) Baet(icae) | decreti sunt honores quantos quisque | maximos plurimosque flamen est | consecutus cum statua | (vac. v. 1) M(arcus) Fab(ius) Basileus Celt(itanus) pater | honore accept(o) impens(am) remisit. (CIL II2/7, 295; A.D. 216: south forum)

Much the same regulations are lkewise reflected in a local honorific dedication at Mellaria (ca. A.D 100) 17: C(aio) Sempronio Sperato | flamini Divorum Augg(ustorum) | provinciae Baeticae | Imp(eratore) Nerva Traiano Caes(are) Aug(usto) Germ(anico) II{I} 18 | Vic[i]rio [Martiali] et L(ucio) Ma[e]cio Postumo co(n)s(ulibu)s | hic provinciae Baeticae consensu flamini[s] | munus est consequutus peracto honore | flamininico e[i] FECIALI omn(is) concilii consensus | statuam decrevit.| huic ordo Mellariensis decreverunt sepult(urae locum) | impens(am) funeris laud(ationem) statuas equestres duas | [- - -] Venusta uxor honore accept(o) | imp(ensa) remissa p(osuit). (CIL II2/7, 799) Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 2, 155-156. D. Fishwick, Extravant Honours at Mellaria, in ZPE 128, 1999, 283-92; Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 123; III, 2, 219-223. 18 On the interpretation of the text see Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 123, n. 84. 16 17

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As the earliest of these records date from the turn of the first century and there is no pre-Flavian trace of provincial cult in Baetica 19, the standard view is that the provincial cult in this province dates from the reign of Vespasian. Should definite evidence of an earlier cult one day emerge, then this will have been modified by Flavian regulations similar to those known in detail at Narbo. In any event the provincial cult of Baetica evidently included living and dead emperors (without Roma) from its inception, as confirmed by the expansion of the priestly title to flamen Divorum Augustorum vel sim. by the second century A.D 20. All analogy suggests that the provincial worship would have centred on a temple as yet unidentified 21. Similarly, if we turn to Africa Proconsularis, three local dedications attesting provincial priests at Simitthus (ca. A.D. 109-111), Bulla Regia (ca. A.D. 110-112) and Furnos Maius (ca. A.D. 183-5) follow similar provisions except that the tenure of the provincial priest is in each case dated by the year of an era evidently patterned on that by which the priests of Ceres dated their year of office 22. C. Otidius P. f. Quir. Iovinus: sacerdos provinc(iae) Afric(ae) anni xxxviiii (CIL VIII, 14611; Simitthus) L. Iulius L. f. Quir. Cerealis: flam(en) Aug. provinciae [A]fric(ae) anni xxxx (ILAfr 458 + AE, 1964, 177: Bulla Regia; Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 2, Pl. LIV) P. Mummius L. f. Papir. Saturninus: sac(erdos/otalis) p(rovinciae) A(fricae) a(nni) cxiii (CIL VIII, 12039 = ILS 6812; Furnos Maius).

The fact that this era began in A.D. 70-72 plainly points to the introduction early under Vespasian of regulations comparable to those of the Lex Narbonensis. Here again the original term flamen or flamen Aug. points to the collective cult of living and dead Augusti without the inclusion of Roma 23. An oddity in Proconsularis is that flamen was superseded by the term sacerdos under Trajan, a change possibly Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 2, 111-119. For an unsucessful attempt on the part of the province in A.D. 25 to secure permission to build a provincial temple to Tiberius and Livia (Tac., Ann. 4. 37, 1; cf. 15.4) see Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 49. 111-112. But see now below, pp. 16-17. 20 Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 127; III, 2, 223-226, 242 ff. 21 For recent discussion see A. Ventura Villanueva, Reflexiones sobre la Arquitectura y Advocación del Templo de la Calle Morería en el forum adiectum de Colonia Patricia Corduba in T. Nogales, J. González (eds.), Culto Imperial: política y poder, Actas del Congreso Internacional, Culto Imperial: Política y Poder (Mérida, 18-20 de mayo, 2006), Rome 2007, 215-237. 22 Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 2, 257-261; III, 1, 128-130; III, 2, 187-188. 23 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 231; III, 2, 2000. 19

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dictated by the greater prestige of the term sacerdos in the local cults of Africa and later copied in the titles of the provincial priests of Sardinia 24. Equally remarkable is the evident application of similar regulations within a province where a provincial cult was already in existence. At Tarraco, the provincial capital of Hither Spain and the source of by far the largest number of inscribed statue bases celebrating provincial priests (over seventy-five with another dozen erected to provincial priestesses), the practice of honouring a retiring flamen by erecting a statue on a special Aufstellungsort begins suddenly ca. A.D. 70, so at approximately the same time 25. Here the inscriptions on the base follow a broadly similar usage but differ in frequently including the cursus while omitting the year of office, a procedure that continues without break down to the Severan period 26. To all appearances, then, parallel regulations regarding the epigraph were in force at Tarraco but were not followed in exact detail, possibly because the provincial cult of Hispania citerior originated in the reign of Tiberius, when an embassy of Hispani 27 was granted permission to build a provincial temple at Tarraco (Tac., Ann. 1. 75: A.D. 15; see further below, p. 18) 28. Presumably the provincial concilium adapted details at its own discretion in response to the Flavian directive. Of note in Hither Spain is that the varying formula for the provincial priesthood reveals the inclusion in the worship of Roma along with the collective Augusti 29

24 D. Fishwick, From Flamen to Sacerdos. The Title of the Provincial Priest of Africa Proconsularis, in BCTH, n.s., fasc. XVII B, 1984, 337-344; Id., Imperial Cult, cit., III, 2, 188-189. 25 G. Alföldy, Flamines Provinciae Hispaniae Citerioris, Madrid 1973 (Anejos de Archivo Español de Arqueologia, 6); Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 73-137; Ruiz de Arbulo, Inszenierung, cit., 164165. The earliest known honorific statue is that of Raecius Gallus ca. A.D. 72/73 (RIT, 145). 26 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 74-85 with Plates 30-34. 27 The embassies of the Hispani (A.D. 15) and of the province of Baetica (A.D. 25: see above) have always been considered the two clear-cut examples in the western empire of initiative from below. For the possibility that this inference may no longer be valid see below. 28 Strictly speaking, provincial imperial cult in the Latin west begins with the institution of the cult of Divus Augustus in Hispania citerior and Lusitania. See now D. Fishwick, The Location, Date and Archaeological Context of the “Temple of Augustus”, in Id., Precinct, Temple and Altar. Monuments of the Imperial Cult at Colonia Augusta Emerita and Colonia Iulia Augusta Urbs Triumphalis, forthcoming, noting the recent discovery – primarily by ground-probing radar and electrical resistivity tomography – of the podium of the “Temple of Augustus” beneath the mediaeval cathedral of Tarragona. Contrary to current opinion the temple must have been provincial ab initio. For earlier discussion see Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 46-50; G. Alföldy, In omnes provincias exemplum. Hispanien und das Imperium Romanum in Hispania Terris Omnibus Felicior, in G. Urso (ed.), Premesse ed esiti di un processo di integrazione , Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 27-29 settembre 2001), Pisa 2002, 183-199 at 183 f. et passim. 29 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 104-123, nos. 5, 11, 23, 24, 43, 46, 49, 53, 56, 61, 70; Alföldy, In omnes provincias exemplum, cit., 184.

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Similar modification of an existing provincial cult by the introduction under Vespasian of regulations on the lines of those applicable in Narbonese Gaul is also attested in Lusitania 30. An inscription at Augusta Emerita, the seat of the provincial cult, records that a provincial priest has dedicated a gold protomé of 5 lbs weight to Titus in A.D. 77-6; both the flamen and the propraetorian legate are included with the concilium in the dedication: T. Caesari Aug. f. | Vespasiano pontif. | imp. XII trib. pote. vii | cos. vi | provincia Lusitania | C. Arruntio Catellio | Celere leg. Aug. pro.pr. | M . . Iunio Latrone | Conimbricese flamine | provinciae Lusitaniae | ex auri p. v. (CIL II, 5264 = ILS 261 = ILER 1082 = ERAE 62; Fishwick, Imperial cult, cit., III, 1, 165: Pl. 19).

This patently follows the clause of the Narbonese law giving the provincial governor some measure of control over the expenditure of surplus funds on statues and images of the emperor (lines 26-28; above, p. 4). The priestly formula it records, flamen provinciae Lusitaniae, is analogous to that of all known later priests in offering no clue whatsoever to the content of the worship, though earlier priestly titles refer to Divus Augustus and Diva Augusta before the generic formula became standard, presumably when the title became unwieldy following the deification of Claudius 31. What the dedication of the bust of Titus reveals in practice, then, is the inclusion of the living emperor with the deified dead in a composite cult that had now become the standard pattern in one province after another. Similarly at the sanctuary of the Three Gauls, a dedication to Mars Segomo records the tenure of the federal priest Q. Adginnius Martinus by consulships, while preserving an honorific formula like that used at Corduba 32. … et Ma]rti Segomonti sacrum | [ex stipe] annua | [Q. Adginnius Ur]bici fil(ius) Martinus | [Sequanus sac]erdos Romae et Aug(usti) | [creatus(?) M. Ner]atio Pansa co(n)s(ule) | [flamen iivir in c]ivitate Sequanorum | [cui Tres Provincia]e Galliae honores | [omnes (?) impensis] suis decreverunt. (CIL XIII, 1675, cf. 1674)

30 D. Fishwick, Two Priesthoods of Lusitania, in Epigraphica 62, 1999, 81-102 at 93-101; Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 166-169. 31 Fishwick, Imperial Cult III, 2, 142. See in general J. Edmondson, Two Dedications to Divus Augustus and Diva Augusta from Augusta Emerita and the Early Development of the Imperial Cult in Lusitania re-examined, in MDAI(M) 38, 1997, 89-105 at 101-102, 104. 32 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 150; III, 2, 19-20.

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The name of a missing consul has to be supplied but the preserved identity of his co-consul, M. Neratius Pansa, shows that the text is to be dated ca. A.D. 74 33. Similar evidence may be provided by a lost inscription known only from the variant wording of the manuscript tradition (CIL XIII, 1713: A.D. 75?) 34. Later dedications do not follow the main prescriptions of the Lex Narbonensis, nor – apart from the manuscript version of CIL XIII, 1713 – are inscribed bases to provincial priests preserved before the Antonine period, when likenesses of the priest’s family begin to be displayed on the same stylobate as suppported the priest’s statue 35. Still, there seems good reason to conclude that in the Flavian period the existing federal cult was temporarily modified by regulations like those applicable to Narbonensis, even if the texts at Lugdunum – as at Tarraco – have not followed these to the letter. As for the content of the provincial cult, the records of priesthoods that are certainly Flavian along with several that possibly belong to the period give no indication of any change in the worship but, slight as the evidence is, all the signs are that the federal worship of Tres Galliae retained its original form of the cult of the living emperor alongside Roma, centred on the federal altar by Lugdunum 36. This continued down to the time of Hadrian’s passage through the Three Gauls in A.D. 121, when the cult was expanded to include deified emperors amd based upon a provincial temple 37. Lastly in Sardinia the “adlection” of two past provincial priests, attested at Cornus and Bosa, to the curia of Carales, the principal town of Sardinia and the centre of the provincial cult (AE, 1997, 753; CIL X, 7940), appears to reflect, if obliquely, the operation of regulations like those of the Lex Narbonensis 38. [...]t. iano [...] Ba[s]so cos. | [...]n. coni. ni. [.] fil. Crescenti | sac[er]d. prov. Sard. adlec[to] | ab splendidissim[o] ordin. | [Ka]r. al. ex consensu prov. Sar[d.] | [pont]if. [...] ci[v]i. [t]a. tis .c[.]t. .iunei | [.]n. o civi .eq. uo [..]s. s. ii[.] iii | [..]ua. [..........]cui. [..] | [......]s . cc. [....]o[.] or. [di]|nis continetu[r ...u. .r ] | munificen[tia] colle[gii] | [...] A . rrio Iscini[....] | [.....]s[.....]. (CIL X, 7917, Cornus; Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 137: Pl. 16)

For the point that the honours decreed impensis suis probably included an honorific statue defrayed by the priest himself see Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 151. 34 D. Fishwick, Flavian Regulations at the Sanctuary of the Three Gauls?, in ZPE 124, 1999, 249-60; Id., Imperial Cult, cit., III, 1, 150-154, noting that this defective text probably orginates from an honorific record set up by the concilium of Tres Galliae, a form of memorial in common use from the second century A.D. 35 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 19-25. 36 Fishwick, Imperial Cult, cit., III. 1, 155-156. 37 Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 2, 308-316; III, 3, 123-124. 38 D. Fishwick, Un sacerdotalis provinciae Sardiniae à Cornus (Sardaigne), in CRAI, 1997, 449459; Id., A Priestly Career at Bosa, in N. Blanc, A. Buisson (eds.), Imago Antiquitatis: Religions et iconographie du monde romain: Mélanges R. Turcan, Paris 1999, 221-228; Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 135-144; Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 212. 33

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Duncan Fishwick ... ]urb. Rom. [ ]i. m. prov. Sard. ad|[le]c[t]u[s ab] splendidiss. [o]rd. Ka|[ralit(anorum)? ... ] s[t]udiis[ ... (CIL X, 7940, Bosa; Fishwick, Imperial Cult, cit. III, 1, 140: Pl. 17)

By admission to the local senate of Carales with the consent of the provincial council, a past provincial priest of Sardinia – sacerdotalis provinciae Sardiniae 39 – will have changed from temporary to permanent the status he had enjoyed during his term of one year, when he was ex officio a temporary member of the ordo Karlitanorum. To all appearances this reflects a similar situation to that at Narbo, where by the terms of the Lex Narbonensis the current provincial priest is ex officio a temporary member of the local ordo of Narbo (line 4) 40. [.35.]ui in decurionibus senatuve [sententiae dicendae signandique ...12...] 41

4.

Presumably “adlection” at Carales took place at the end of the priest’s term rather than during tenure, though the inscriptions shed no light on the point. The epigraphical testimony in question is considerably later than the Flavian period, but it nevertheless gives reason to suppose that in Sardinia too the introduction of comparable regulations dates from the reign of Vespasian. It might be added that a similar situation could also lie behind a rider to a decree of the concilium of Hither Spain (ca. A.D. 79-100/120) in which the ordo of Tarraco has voted honours to a past provincial flamen 42. [. ---]rio | Q(uinti) [fil(io) Gal(eria) (?) (tribu)] F . us[c]o(?) | IIvir(o), flam(ini) Divi | Claudi, praef(ecto) orae | marit(imae), | flamini Divorum et | Augustor(um) p(rovinciae) H(ispaniae) c(iterioris), provinc(ia) | Hispania citerior. [Or]do Tarraconens(ium) | honores decrevit. (RIT 316)

To all appearances these honours involved “adlection” to the town council, in which case the appendix attests the operation at Tarraco of a similar provision to that laid down in the Lex Narbonensis and reflected in the Sardinian texts from 39 For the change in the title of the provincial priest of Sardinia from flamen to sacerdos, presumably following the lead of Africa Proconsularis, see Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 144; III, 2, 213-214. 40 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 133-144 at 139. 41 Line 4 is restored from lines 14-15: 14.  [i]n curia sua et concilio provinciae Narbonensis inter sui ordinis secundum le. [...35...] 15.   sententiae dicendae signandique ius esto; ... 42 D. Fishwick, A Municipal Decree at Tarraco, in ZPE 126, 1999, 291-295; Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 159-163.

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Cornus and Bosa. In short, then. the regulations of the Lex Narbonensis appear to have been followed grosso modo throughout most, if not all, of the provinces of the Latin west 43. III. The cardinal question that arises from the foregoing analysis of Flavian practice is whether responsibility for promoting an official ruler cult in each province of the western empire rested with the central administration in Rome or, as on the contrarian view of F. Millar, was a spontaneous local initiative on the part of the inhabitants of individual provinces 44. An answer can be based only on empirical, inductive argument from the evidence, certainly not by deduction from an priori model of how the empire worked 45. The following discussion aims to confront this whole question of responsibility: push top-down or pull bottom-up? In the initial phase a Roman commander, frequently a relative of Augustus, founded one or more altars as the centre of a regional cult in north-west Spain, in Gallia Comata, on the Rhine and on the Elbe, possibly also among the Lingones 46. In none of these instances, then, is there any possibility that an official cult of the Roman emperor was installed at local initiative 47. Foundation imposed

Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 1; Ruiz de Arbulo, Inszenierung, cit., 156-157. F. Millar, The Emperor in the Roman World (31 B.C - A.D. 337), London 1977. 45 J.B. Rives, The Imperial Cult, in CR 57, 2, 2007, 485-488 at 488, suggests that rejection of the model of a reactive emperor, a thesis influential at Oxford but hardly beyond, has shaped my interpretation of the evidence, whereas in fact the contrary line of reasoning is the case. Rives’ point can be more appropriately applied to his own argument. Specifically, “assumption of a more Millar-like model of a reactive emperor” has influenced the way he sees the evidence. My alleged reluctance to place the issue of Millar’s reactive emperor front and centre will attract scepticism only from those who take this model to be the established standard view rather than an eccentric Oxford notion which all the evidence contradicts (see below). That said, Rives’ complaint that the epigraphic and numismatic evidence (analyzed fifteen years ealier) for the main features of the cult of the Three Gauls, for instance, is treated separatim rather than in conjunction is totally unacceptable. In a work that covers the whole of the Western empire, organization of the material requires that discussion of the priests of Tres Galliae belongs with that of priesthoods from other provinces. See Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 17-71 and throughout. 46 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 5-39. 47 M. Beard, J. North, S. Price, Religions of Rome, Cambridge 1998, I, 352, nevertheless state “Recently conquered and very ‘unRoman’ areas established cults like those in the Greek east, to the living emperor” – which can only mean that the initiative for such cults came from below. A few sentences later, the authors contradict themselves by arguing that cults in barbarian areas, notably Spain, Gallia Comata (the term Tres Galliae becomes current only from the reign of 43 44

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from above at Lugdunum has been questioned by S.R.F. Price 48 but there seems no good reason to doubt the standard interpretation of the account in the sources and accepted by all recent commentaors 49. While it dates from the Claudian period, the institution of a provincial cult in Britannia 50, was again a product of Roman initiative, as confirmed by the fact that the “Temple of Claudius” was seen as an arx aeternae dominationis and an immediate cause of the rebellion of Boudicca (Tac. Ann. 14, 31) 51. Two other episodes in the Julio-Claudian period are of particular interest since both have been traditionally treated as the sole examples of initiative from below in the western empire 52. The first concerns the report of Tacitus that an embassy was sent by the Spaniards in A.D. 15 to request a temple to Augustus: templum ut in colonia Tarraconensi strueretur Augusto petentibus Hispanis permissum datumque in omnes provincias exemplum (Ann. 1. 78).

The second, unsuccessful embassy was sent in A.D. 25 by the province of Baetica with a request to build a temple to Tiberius and Livia on the model of the tem-

Vespasian), Germany and elsewhere were established by Roman commanders, notably Augustus’ step-son, Drusus. 48 S.R.F. Price, Rituals and Power: The Roman Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge 1984, 7475. Contra Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 1, 187. Spontaneous foundation from below looks also ruled out by the range of Greek influences evident from the origins of the cult of Tres Galliae at the federal centre. See Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 24-25.; F. Richard, Une nouvelle inscription lyonnaise d’un Sacerdos Sénon des Trois Gaules: Sextus Iulius Thermianus, in CRAI, 1992, 489-509 at 505-508. 49 Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 1, 97, n. 1, 187. See further J. A. O. Larsen, Representative Government in Greek and Roman History, Berkeley 1955, 130, 143; R. Mellor, The Godess Roma, in ANRW 2, 17, 2, Berlin 1981, 950-1030 at 983, 987 with n. 218; R. Frei-Stolba, Q. Otacilius Pollinus: Inquisitor III Galliarum in P. Kneissl and V. Losemann (eds.), Alte Geschichte und Wissenschaftsgeschichte: Festschrift K. Christ, Darmstadt 1988, 186-201, at 188 with n. 13; L. Maurin, Gaulois et Lyonnais, in Hommage à Robert Etienne: REA 88 1986, 109-24 at 110; P. Zanker, The Power of Images, Ann Arbor 1990, 302; R. Turcan, Un bimillénaire méconnu: l’assemblée des Trois Gaules, in CRAI, 1991, 733-742 at 734. 50 Apparently based first at an altar, the cult centred later on the temple constructed after the emperor’s death: Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 75-91; III, 3, 135-148. 51 Contra Rives, Imperial Cult, cit., 487, suggesting that the inhabitants of Britannia, to take just one example, might have established a cult different from those in other provinces. But Tacitus (Ann. 14.31) explicitly cites the cult of the emperor as one of the principal causes of the great rebellion: delecti sacerdotes specie religionis omnis fortunas effundebant (loc. cit); cf. Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 214-215. How can a practice that the inhabitants introduced themselves have been a principal cause of the revolt? 52 Fishwick, Imperial Cult, cit., III 1, 213-214.

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ple to Tiberius, Livia and the pesonified senate that the emperor had allowed at Smyrna two years earlier: per idem tempus Hispania ulterior missis ad senatum legatis oravit ut exemplo Asiae delubrum Tiberio matrique eius extrueret (Ann. 4. 37. 1; cf. 15. 4).

The standard inference that both of these embassies were initiated by the provincials, acting of their own accord, begins to look questionable in the light of recent exacavations at the provincial centre of Lusitania at Augusta Emerita 53. Now that the purchase of adjacent property has enabled excavation of the provincial forum, the provincial temple of Lusitania proves to have been a hexastyle structure with a cella more broad than long (cella barlonga) 54. The model of this is the Temple of Aedes Concordiae in Rome, the emblematic temple of Tiberius, who had done so much to advance the career of the contemporary provincial governor of Lusitania, L. Fulcinius Trio 55. All commentators are consequently unanimous in taking the design of the temple to be a deliberate copy of the Aedes Concordiae at Rome, an intentional attempt to reflect contemporary ideology at Rome inspired by the Roman provincial governor. Furthermore local coins of Augusta Emerita showing the Ara Providentiae at Rome, erected in celebration of the foresight of Augustus in planning for the succession – provisions that finally materialized when Tiberius ascended the throne with Germanicus as a potential replacement 56 – have recently been shown by T. Nogales Bassarate to illustrate also a projected altar that was not actually built until the time of Claudius 57. Here again commentators have seen the influence of L. Fulcinius Trio behind a monument that honoured his patron Tiberius 58. Comparable instances in the Greek east where the influence of the governor can be detected behind a provincial decision are P. Mateos Cruz, Informe de las excavaciones arqueológicas desarrolladas en la zona, in P. Mateos Cruz (ed.), El “Foro Provincial” de Augusta Emerita: un conjunto monumental de culto imperial, Madrid 2006, 55-206 (Anejos de AEspA, 42). 54 P. Mateos Cruz, El Templo: la traslación de los modelos metropolitanos a la capital de la provincia Lusitana, in P. Mateos Cruz (ed.), El “Foro Provincial” de Augusta Emerita: un conjunto monumental de culto imperial, Madrid 2006, 251-276 (Anejos de AEspA, 42). 55 See in particular J. C. Saquete Chamizo, L. Fulcinius Trio, Tiberio y el gran templo de culto imperial de Augusta Emerita, in Epigraphica 67, 2005, 279-308, throughout. Further D. Fishwick, The Provincial Forum of Augusta Emerita, in Id., Precinct, Temple and Altar, cit., forthcoming. 56 W. Eck, A. Caballos and F. Fernández, Das Senatus consultum de Cn. Pisone patre, Münich 1996, 200 (Vestigia, 48). 57 T. Nogales Basaratte, Un altar en el foro de Augusta Emerita, in P. León Alonso, T. Nogales Basarrate (eds.), Actas de la III Reunión Sobre Escultura Romana en Hispania (Cordoba, 1997), Madrid 2000, 25-46. Further D. Fishwick, An Atar of Providentiae at Augusta Emerita, in Id., Precinct, Temple and Altar, cit., forthcoming. 58 See Saquete, L. Fulcinius Trio, cit., 292. 53

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commonplace 59. It follows that, while direct evidence is no more revealing than before, it becomes conceivable that the provincial governors of Hither Spain and Baetica may likewise have influenced, even prompted, the embassies of A.D. 15 and A.D. 25 60, in which case these two embassies can no longer be claimed as anomalous western instances of initiative from below. Following the Julio-Claudian era provincial cults were extended to new provinces, or cults already in operation elsewhere were reformed, in a fundamental reorganization that underlines the cardinal importance of the Flavian era 61. Once again deliberate oversight from the centre is self-evident. The very fact that comparable procedures were followed not only in new foundations such as those in Narbonensis, Baetica and Proconsularis – possibly too in Sardinia, the Mauretaniae and the Alpine provinces – but also in Tres Galliae, Hispania citerior and Lusitania, where the existing worship was remodelled, points unmistakably to central oversight on the part of the imperial administration. While only one set of regulations has survived, the lex de flamonio provinciae Narbonensis, parallel directions were followed, if with local variations, in most if not all of these provinces. It is stretching credulity to suppose that the provincial concilium of Narbonensis could itself have written a law based largely on the quaint rules applicable to the Roman office of flamen Dialis in terminology appropriate to enactments issued centrally by the chancellery at Rome 62. In that case, one would have to suppose that every other provincial council which followed similar guide-lines invented roughly the same regulations, presumably writen in similar language. Nor can one reasonably suppose that so many provinces at more or less the same time spontaneously despatched competing embassies 63, all of which were granted a similar set of rules. The likelier development is surely that a standard set of directions, all drawn up centrally 64, was broadcast to the provinces from Rome in much the same way as 59 Price, Rituals and Power, cit., 54, 69-71, 75, 77, 99, 161. For examples in the western empire see Hurlet, Modalités, cit., 49-68, 58-59, 62. 60 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 214 with n. 2, citing the view of Beard-North-Price, Religions of Rome, cit., I, 356 n. 126, that the request from Hither Spain may have been prompted by pressure from the local Roman governor. 61 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 95-170. The establishment of the Arae Flaviae at Rottweil on the Neckar, evidently as a cult centre for the newly-won Agri Decumates, has no connection with the application of provisions similar to those of the Lex Narbonesesis but is clearly a further example of initiative from the centre rather than the periphery. See D. Fishwick, Arae Flaviae: The Regional Cult of the Roman Emperor, in P. Defosse (ed.), Hommages à Carl Deroux, IV Archéologie et Histoire de l’Art, Religion, Brussels 2003, 358-365 (Coll. Latomus, 277). 62 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 3-15; Barrett, Livia, cit., 159-160. 63 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 98, n. 12. 64 For continued control from the centre see the proviso attached to the honorific statue that might be raised to an out-going provincial flamen: … nisi cui imperator [Caesar … (CIL XII, 6038:

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“customized” versions of the Flavian municipal law were sent throughout Spain under Domitian (above, pp. 1-2). Similarly in the Antonine period 65, while the change in priestly title from flamen to sacerdos in Proconsularis and Sardinia may well have beeen a local response to local conditions, the introduction of provincial cults into the Danube region must surely be attributable to central Roman policy 66. At all events no embassy from the provincials themselves is conceivable in this region and there is no hint of local spontaneous action in the sources. The major innovation of the period is the construction of a temple at the sanctuary of Tres Galliae by Lugdunum, following the inclusion of deified rulers within the federal cult. Everything suggests that the initiative here came from Hadrian, after whose passage through the region, en route to and from Britain in A.D. 121, construction looks to have got under way 67. According to the Historia Augusta the same emperor renovated the temple at Tarraco on his visit to Spain the following winter and convened a provincial assembly (Hadr. 12. 3) 68. Most significant of all is the change in emphasis of the cult of Tres Galliae following the victory of Septimius Severus over Albinus at Lugdunum and the consequent destruction of the town, which had unwisely backed the wrong horse 69. Only direct pressure from the new regime can have now forced the federal worship to focus uncompromisingly on the cult of the reigning Caesar(s) at the altar, an unmistakably repressive measure imposed by the victor at the headquarters of the vanquished. In Hither Spain, in contrast, the new dynasty looks to have hastened by oppression and confiscation the demise of a provincial cult that was already decaying 70. At all events, nothing comparable to the Lugdunum cult of the Caesar(s) has left its mark at Tarraco or any other provincial centre in the Latin west. Thereafter it is no longer possible to follow the further development of provincial cults, though in Tres Galliae, Baetica and Proconsularis traces of provincial priests or of the continuation of the concilium last into the Severan period and beyond. In the Danube region, in contrast, worship had focussed on the living emperor(s) from the beginning, so was already in line with the policies of the arriviste dynasty of the Severi and their successors 71. line 13). Further discussion in Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 2, 8-9. 65 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 171-195. 66 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 180-181. 67 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 181-186, noting Hadrian’s possible encouragement of the federal council to subsidize the costs of construction. 68 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 186-188. 69 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 197-204. 70 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 204-205. 71 Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 206-212.

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That all these developments were by no means isolated phenomena is shown, among other examples, by the fact that an inscription at Sarmizegetusa, possibly associated with the concilium of Dacia, records vota publica in language patterned on the votorum carmen of the Arval Brethren at Rome 72. Similarly four inscriptions found at Cyrene and Ptolemais show that vows were made pro salute imperatoris in the same cult language as used by the Arvals 73. That these various centres spontaneously sent independent embassies to Rome requesting the official wording to be used in making vows locally is scarcely credible. The far likelier conclusion is that the approved formulas were dispatched from Rome on the initiative of the central administration 74. Comparable examples are the Feriale Duranum, a centrally inspired version of prescribed festivals which seems to have been observed by troops throughout the empire 75; the Tabula Siarensis, a record found near Seville of a decree of the Roman Senate and the people enumerating arches, statues, annual sacrifices and other honours voted to Germanicus post mortem – the provision that copies of the decree were to be set up not just in Rome but also in the municipalities and colonies of Italy and in the colonies of imperial provinces shows that similar honours were intended to be paid locally, as attested at Mainz and elsewhere 76; the s.c. de Cn. Pisone patre, copies of which were to be posted in Rome, at the most frequented place in the principal city of each province, even in the military camps ad signa 77. The outstanding example, as we have seen, is the municipal calendar of festivals “for the veneration of the imperial house” prescribed in the Lex Irnitana for local observance alongside festivals determined locally (above, p. 2) 78, also the requirement in the Flavian charters that magisL. Marghitan, C. C. Petolescu, Vota pro salute principis, in Studii Classice 16, 1974, 245-47; Eid., Vota pro salute imperatoris in an inscription at Ulpia Traiana Sarmizegetusa, in JRS 66, 1976, 8486; Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 2, 302, n. 8; II, 1, 498, n. 150. 73 J. M. Reynolds, Vota pro salute Principis, in PBSR 17, 1962, 33-6. See further ead., Notes on Cyrenaican Inscriptions, in PBSR 20, 1965, 52-54. 74 So J. B. Rives, Religion and Authority in Roman Carthage from Augustus to Constantine, Oxford 1995, 62. 75 D. Fishwick, Dated inscriptions and the Feriale Duranum, in Syria 65,1988, 349-361; Id., Imperial Cult, cit., II, 1, 593-608. 76 Fishwick, Imperial Cult, cit., I, 1, 161, n. 69; II, 1, 500, n. 162; 502, n. 173. For the ramifications of the Tabula Siarensis see Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 216, n. 13; Hurlet, Modalités, cit., 53, n. 18; Ruiz de Arbulo, Inszenierung, cit., 149, n. 2 with refs. 77 M. Corbier, Le “Principatus” de Jean Béranger à la lumière des découvertes épigraphiques récentes, in R. Frei-Stolba and K. Gex, Recherches récentes sur le monde hellénistique, Actes du colloque international organisé à l’occasion du 60e anniversaire de Pierre Ducrey (Lausanne, 20-21 novembre 1998), Bern 2001, 309-20 at 316-317 with n. 46; Hurlet, Modalités, cit., 53-55, 65. 78 AE, 1986, 333; J. Gonzalez, The Lex Irnitana: A New Copy of the Flavian Municipal Law, in JRS 76, 1986, 147-243. paras. 31, 90, 92; Beard-North-Price, Religions of Rome, cit., I, 356, n. 124; J. Rüpke, Kalender und Offentlichkeit, Berlin-New York 1995, 540-546. These data from the Lex 72

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trates shall swear by apparently the same form of oath as was used by Roman citizens 79. A pro-active view of imperial administration has likewise been stressed by a growing number of commemtators whose arguments cannot be followed in detail here, among others Keith Hopkins, Jochen Bleicken, Werner Eck, David Potter, Harmuth Galsterer, Geza Alföldy and Frédéric Hurlet 80. Millar himself agrees that mandata, instructions issued by emperors to provincial governors, and the role of senatus consulta as a form of legislation are aspects of positive government that break the model of reactive government 81. The impression left by the surviving evidence is consequently one of central orchestration of provincial ruler cult throughout the entire period from Augustus down to the middle of the third century 82, with only two – now questionable – cases of initiative from below 83. To argue in line with the theory of a reactive emperor that in the Latin west the provincials themselves instituted their own provincial cults is a deduction from an a priori model of government excluded by the tana can now be added to Fishwick, Imperial Cult, cit., II, 1, 497-501. The calendar implicit in the Lex Narbonensis (CIL XII, 6038: line 20) must similarly have been issued from Rome. 79 Cf. AE, 1986, 333, paras. 25, 26, , Tablet VII A, paras. 69, 73, 79. 80 See K. Hopkins, Rules of Evidence, in JRS 68, 1978, 178-186 at 180; J. Bleiken, Zum Regierungsstil des römischer Kaisers. Eine Antwort auf Fergus Millar, Frankfurt am Main 1982, 183-215 (Sitzber. d. Wiss. Ges. d. Johann-Wolfgang-Goethe-Univ.); W. Eck, Zur Durchsetzung von Anordnung und Entscheidungen in der hohen Kaiserzeit: die administrative Informationsstruktur. Akten des FIEC-Kongresses zu Pisa; SIFC 10, Florence, 915-939 at 915; D. Potter, Emperors, their Borders and their Neigbours: The Scope of Imperial Mandata, in D.L. Kennedy (ed.), The Roman Army and the Near East, Ann Arbor 1996, 49-66 at 50-56 (JRA Suppl., 18); H. Galsterer, Die Trauer der Städte um verstobene Prinzen in der frühen Kaiserzeit, in La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Convegno Internazionale di Studi (Cassino, 1991), Rome 2000, 173-187; G. Alföldy, Romanisation – Grundbegriff oder Fehlbegriff? Überlegungen zum gegenwärtigen Stand der Erforschung von Integrationsprozessen im römischen Weltreich, in Z. Visy (ed.), Limes XIX. Proceedings of the XIXth International Congress of Roman Frontier Studies (Pécs, Hungary, September 2003), Pécs 2005, 25-56 at 30-33 with n. 95, citing his own word play “weder regiert, noch agiert, sondern nur reagiert”; further Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 220, n. 24. For a helpful overview see now Hurlet, Modalités, cit., 49-68. The numerous egregious objections to the notion of a passive emperor and the long list of scholars who have argued directly against it flatly contradict Rives’ characterization of Millar’s model as the current standard view. 81 See Fishwick, ibid. For the point that in an administratively unified empire information could circulate both from the periphery to the centre and from the centre to the periphery see Hurlet, Modalités, cit., 63. 82 For the dissemination from the centre of iconographic or architectural models, including replicas of the Forum Augustum, see Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 217; Hurlet, Modalités, cit., 51 ff. 83 So P. Garnsey, R. Saller, The Roman Empire. Economy, Society and Culture, London 1987, 164167; cf. Beard-North-Price, Religions of Rome, cit., I, 356 with n. 122, observing that in the west the initiative could come sometimes from the provincials themselves, on other occasions from the central Roman authorities.

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fuller picture that new discoveries and revised analysis have brought into focus 84. Quite clearly the Western provinces differed from those of the East, where experience with the ruler cult stretched back through Hellenistic kingdoms to the time of the Greek city states. Initiative from below was consequently normal practice in the Greek world, though here too the emperor could make the first move, as shown by the actions of Gaius at Miletus (CD 59. 28. 1) 85. In the Latin West, in contrast, provincial cult emerges as by and large a device installed and regulated by the central regime to suit its changing purposes.

Duncan Fishwick University of Alberta

84 Official promotion of provincial cult top-down is usually contrasted with the development of municipal cult bottom up. For a more nuanced picture see Fishwick, Imperial Cult, cit., III, 1, 219, n. 22; further Hurlet, Modalités 57 ff., especially 64-65. 85 Price, Rituals and Power, cit., 66-69, noting also the actions of Hadrian while travelling through Asia; cf. S. J. Friesen, Twice Neokoros. Ephesus, Asia and the Cult of the Flavian Imperial Family, Leiden 1993, 21-26 (RGRW, 116).

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APPENDIX A FORMULA OF THE ARVAL BRETHREN AT COLONIA AUGUSTA FIRMA On the argument developed above (p. 165) what seem to be clear examples of imperial control from the centre are preserved in three epigraphic texts at Cyrene, one at Ptolemais, and a fourth from Sarmizgetusa, all recording vows for the emperor’s salus in the same archaic language as used by the Arval Brethren at Rome. With nothing to suggest spontaneous action by settlers bent on showing their adhesion to Rome, by far the likelier hypothesis is that this cultic language was prescribed centrally from Rome, in which case all of these records probably reflect an official act by the provincial governor or, as perhaps at Sarmizgetusa, vows taken by the concilium III Daciarum. At all events the notion that these communities hit independently on the idea of sending an embassy to Rome to request directions on the appropriate formula looks implausible. Confirmation of this view looks to have recently come to light in the form of an inscription from Colonia Augusta Firma (Écija-Sevilla) consisting of five fragments, all but one of which are broken but can nevertheles be easily recomposed 86. Whereas the first line, which will have given the name of the emperor in the ablative along with his numbered consulship, is lost, the ritual formula of the preserved precatio corresponds with examples found in the Acta Fratrum Arvalium, the archaic language of which was largely immutable and had been used by Repubican magistrates until under the empire it became associated with the emperor. The editors take the missing reference to imply a damnatio memoriae and point out that in the first century the reference could be to Caligula, Nero, Otho, Vitellius or Domitian, in the second century to Commodus, perhaps the likeliest candidate in light of the letter forms 87. Whatever his identity, the text clearly records the nuncupatio of a vow for the salus of the princeps. The authors suggest that the promise of a votum preserved here was ob natalem – if of Commodus, then on 31 August in one of the years in which he held the consulship, so probably between 190 and 192. In that case it would fall under the category of vota extraordinaria, whether taken by the provincial governor at the capital of the conventus or J. C. Saquete Chamizo, S. O. Agulla, S. G. Dils de la Vega, Una Votorum Nuncupatio en Colonia Augusta Firma (Écija - Sevilla), in ZPE 176, 2011, 281-290. 87 Saquete et al., cit., 288-289. 86

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by the colonia itself. Interestingly, the text found at Colonia Augusta Firma has the distinction of being the most completely preserved of all similar documents found elsewhere (see below). The basic question at issue is how one is to interpret the occurence of such epigraphs at Cyrene, Ptolemais, Sarmizegetusa and now Colonia Augusta Firma in Spain. The authors agree that nothing shows that special embassies were coincidentally sent from local centres to Rome to enquire spontaneously after the appropriate wording. On the contrary they infer that instructions were rather sent out on the initiative of the central power in much the same way as the Feriale Duranum. In support of this view they note that the texts at Cyrene and Ptolemais, which would normally have been written in Greek, were in fact recorded in the quaint Latin of the Arvals. This form of vota extraordinaria was doubtless associated with the dies festi that communities were obliged to celebrate each year in accordance with various colonial and municipal statutes, the best known of which is the Lex Irnitana (above, pp. 149-150). Despite the lack of specific references, then, the new epigraph from Écija-Sevilla caps the argument in providing further evidence of central regulation of the language appropriate to religious occasions 88.

88 Saquete et al., cit., 290 with n. 52: «A pesar de la falta de referencias a instancias oficiales, la naturaleza de este texto ritual hallado en Écija nos permite, en nuestra opinión, plantear, con las debidas reservas, la posible influencia del poder central en la provincias del imperio en relación con asuntos religiosos o del emperador».

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Vespasiano e il Giudaismo

In un recente contributo, J. Rives ha evidenziato la centralità della cessazione del culto nel tempio di Gerusalemme nell’interpretazione flavia della repressione della rivolta: Vespasiano, cioè, avrebbe considerato il culto sacrificale nel tempio alla stregua del culto civico dei giudei, analogo sotto vari aspetti a quello tradizionale della polis, ma con la particolarità di definire l’identità giudaica dei giudei di tutto l’impero, non solo di un àmbito limitato quale Gerusalemme o la Giudea. Da qui la decisione di eliminare il problema alla radice, non solo per prevenire future rivolte, ma anche per eliminare un’organizzazione cultuale anomala e problematica che impediva l’integrazione dei giudei nell’impero 1. Ciò non è senza conseguenze, come si può ben capire, per il dibattuto problema della natura intenzionale o casuale (come sostiene Flavio Giuseppe) della distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte romana: le ragioni di quanti da lungo tempo hanno sostenuto la prima ipotesi 2 sono a mio avviso convincenti, e le argomentazioni del Rives le corroborano adesso con ulteriori e importanti apporti, ruotanti intorno alla stretta relazione fra abolizione del culto e distruzione del Tempio 3.

1 J. Rives, Flavian Religious Policy and the Jerusalem Temple, in J. Edmonson, S. Mason e J. Rives (eds.), Flavius Josephus and Flavian Rome, Oxford 2005, 145-166. 2 A partire dal Bernays (1861). Per la rivisitazione del dibattito rimando, per brevità, a lavori recenti, quali (oltre allo stesso Rives), T. Leoni, Tito e l’incendio del Tempio di Gerusalemme: repressione o clemenza disubbidita?, in Ostraka 9, 2000, 455-470; Id., “Against Caesar’s Wishes”. Josephus as Source for the Burning of the Temple, in JJS, 58, 2007, 39-51; F. Parente, The Impotence of Titus, or Josephus’ Bellum Judaicum as an Exemple of “Pathetic” Historiography, in J. Sievers, G. Lembi (eds.), Josephus and Jewish History in Flavian Rome and beyond, Leiden 2005, 45-69. In tempi recenti, si è pronunciata con forza a favore del racconto di Giuseppe, e dunque per la non responsabilità di Tito, T. Rajak, Josephus. The Historian and His Society, London (1983) 2002², 206-211; vd. ora anche M. Goodman, Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche, Roma-Bari 2009 (trad. it. dell’originale inglese London 2007), 503. 3 Rives, Flavian Religious Policy, cit., 151: «The Flavians must have been aware that in destroying the Temple they were putting an end to this cult: the two were in effect inseparable».

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V’è semmai da chiedersi se ed eventualmente in quale misura Vespasiano avesse chiare tutte queste implicazioni sin dall’inizio della campagna militare 4: credo che a questa domanda si possa rispondere positivamente, nel senso che, con ogni probabilità, allo scoppio della rivolta del 66 Vespasiano disponeva di un bagaglio di conoscenze della cultura e della religione dei Giudei bastevole per garantirgli una visione ‘politica’ complessiva del problema giudaico. Per capire quando e in quali circostanze egli le avesse recepite sarà utile ripercorrere alcune significative tappe della sua carriera anteriormente al 66. Nei circa trent’anni compresi fra l’ascesa al trono di Caligola e la morte di Nerone (37-68 d.C.), ebbero luogo alcuni episodi in cui gli imperatori romani e il loro entourage si trovarono ad affrontare direttamente e personalmente problemi di maggiore o minore gravità e complessità concernenti il mondo giudaico. Il primo si verificò al tempo di Caligola (e le sue conseguenze si protrassero fino agli inizi del principato di Claudio); il secondo, al tempo di Claudio; il terzo, sotto Nerone. Tutto lascia supporre che Vespasiano, trovandosi a stretto contatto con i principi di turno, abbia avuto esperienza diretta del primo e del terzo 5. Tra la fine del 34 e la metà del 36 Vespasiano aveva rivestito la questura a Cirene e Creta; era stato edile nel 38, stentando molto, in verità, per ottenere la carica; nel 39 o, più verisimilmente, nel 40 fu pretore 6. Si è sostenuto, con buoni argomenti, che Caligola in persona abbia favorito la nomina di Vespasiano a pretore, e che questo favore potrebbe esser dovuto all’intervento di Antonia Caenis, liberta e ‘segretaria’ di Antonia, nonna di Caligola, con la quale Vespasiano ebbe una lunga relazione, prima e dopo il suo matrimonio (Suet. Vesp. 3) 7. Da pretore, Vespasiano si adoperò attivamente per conservare e consolidare la benevolenza del principe: così, propose di aggravare le pene dei cospiratori del 39, Lepido e Getulico, negando loro la sepoltura, e di celebrare con ludi straordinari la vittoria di Caligola sui Germani (Suet. Vesp. 2) 8. L’imperatore lo ricambiò, tanto da stringere con lui rapporti improntati a una certa familiarità, fino a invitarlo a pranzo, ricevendone pubblici ringraziamenti in senato (ibid.). Ora, proprio quel torno di tempo fu segnato, com’è noto, da profonde convulsioni nel rapporto tra il potere centrale e alcuni settori del mondo giudaico: si trattò di una straordinaria concentrazione di avvenimenti in un clima di tensione sempre più accentuata. Già tra l’estate e la fine ottobre del 38 erano infatti esplose violenze antigiudaiche ad Alessandria, Come fa appunto Rives: ibid., 154 e spec. 164. Non invece del secondo, quello sotto Claudio, cioè l’espulsione di giudei impulsore Chresto, nel 49, poiché, pur trovandosi Vespasiano a Roma dal 47, al rientro dalla Britannia, non ricoprì cariche pubbliche fino al consolato rivestito negli ultimi due mesi del 51. 6 B. Levick, Vespasian, New York 1999, 9-11 e ntt. 16-18, e già Nicols, ivi citato. 7 Levick, Vespasian, cit., 11 e nt. 19. 8 Ibidem. 4

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non ostacolate dal prefetto Avillio Flacco, in coincidenza con la visita in città di M. Giulio Agrippa, nipote di Erode il Grande e futuro re di Giudea col nome di Agrippa I (41-44), che andava a prender possesso delle ex-tetrarchie di Filippo e di Antipa a lui assegnate da Caligola: Agrippa era infatti intimo amico di Caligola e di Antonia Minore, e dopo la morte di Tiberio aveva vissuto nella casa imperiale per quasi un anno e mezzo (fine marzo 37 / estate 38) 9. Gli eventi che seguirono nel biennio successivo, di cui ci riferiscono con dovizia Filone nell’in Flaccum e nella Legatio ad Gaium e Flavio Giuseppe in Bell. 2.184-203 e in Ant. 18.261-309, sono ben ricostruibili nella loro dinamica, pur presentando difficoltà cronologiche non di poco conto; essendo noti a tutti, mi limiterò ad accennarne rapidamente. O prima dell’autunno 39, o dopo l’agosto del 40 (periodo nel quale Caligola fu in Gallia e in Germania) si presentarono a Roma due ambascerie alessandrine: una greca, guidata da Apione, e una giudaica, con a capo Filone. I contatti di quest’ultima con Caligola si svolsero prima, ma fuggevolmente, a Roma, poi a Pozzuoli, poi di nuovo e finalmente a Roma, con esito negativo. La situazione, nel frattempo, stava precipitando: in Giudea, a Jamnia, i giudei avevano distrutto un altare eretto dai greci di quella città in onore dell’imperatore, il quale, per ritorsione, ordinò l’installazione di una propria statua nel tempio di Gerusalemme. Non valsero a distoglierlo da questa determinazione né l’intervento in extremis di Agrippa, di nuovo a Roma nell’autunno del 40, né l’atteggiamento e le lettere del legato di Siria, Gaio Petronio; solo l’assassinio di Caligola pose fine alla tensione 10. I fatti di Alessandria e di Giudea, intramezzati dalle due legationes alessandrine a Roma, ebbero indubbiamente grande risonanza, anche per il livello dei personaggi coinvolti 11; per il giovane Vespasiano si trattò di una sorta di battesimo del fuoco. Nella posizione di responsabilità e di prestigio in cui si trovò fra il 38 (da edile) e il 40 (da pretore e in familiarità col principe), egli poté indubbiamente godere di un punto d’osservazione privilegiato, e non si può escludere che sia stato in qualche misura coinvolto nelle discussioni o che abbia addirittura presenziato a uno o più degli incontri di Caligola con le due ambascerie o con Agrippa. A prescinAnzi, Cassio Dione lo annovera tra i ‘maestri di tirannide’ di quest’ultimo: G. Firpo, L’imperatore Gaio (Caligola), i turannodid£skaloi e Tolomeo di Mauretania, in Decima Miscellanea greca e romana, Roma 1986, 185-253. 10 Philon. adv. Flaccum; leg. ad G. 119-137, 199-338; Jos. bell. 2.184-203; ant. 18.261-309. In generale, vd. ora C. De Filippis Cappai, Iudaea. Roma e la Giudea dal II secolo a.C. al II secolo d.C., Alessandria 2008, 168-177; e soprattutto K. Blouin, Le conflit judéo-alexandrin de 38-41. L’identité juive à l’épreuve, Paris 2005, e S. Gambetti, The Alexandrian Riots of 38 C.E. and the Persecution of the Jews: A Historical Reconstruction, Leiden 2009. 11 In una sua celebre pagina, Santo Mazzarino notava come la figura dell’Antikeimenos di 2 Thess. 2,3-12 presentasse gli stessi tratti che la tradizione storiografica giudaica attribuiva a Caligola: S. Mazzarino, L’impero romano, I, Roma-Bari 1973 (rist. edizione 1962), 191. 9

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dere dall’atteggiamento esteriore, che sicuramente fu in linea con le posizioni del principe, ovviamente non è dato sapere quali reali impressioni tali eventi abbiano suscitato in Vespasiano, e quale sia stata l’idea che egli si sia fatto di queste vicende in generale, e in particolare delle richieste dei giudei alessandrini, nonché dei fatti di Jamnia e delle loro conseguenze. Resta che, in un modo o nell’altro, già fra il 38 e il 40 Vespasiano era venuto a contatto ravvicinato con questa realtà, acquisendo importanti elementi di giudizio e un non trascurabile patrimonio di conoscenze. Più complessa, e indubbiamente più rilevante sotto molteplici aspetti, anche per le sue conseguenze, è la vicenda del rapporto fra Vespasiano e l’ambiente neroniano. Vespasiano era entrato nei favori di Claudio grazie alla protezione del liberto Narcisso, ottenendo il comando in Germania e Britannia da cui era rientrato a Roma alla fine del 47 12; nel 48 morì Messalina, e le nozze del principe con Agrippina segnarono un profondo cambiamento, anche se non immediato, nei rapporti di potere alla corte imperiale. Agrippina aveva ragioni di rancore verso Vespasiano 13 e divenne implacabile avversaria di Narcisso e di Lucio Vitellio, che era stato console per la terza volta nel 47 e che come Narcisso era in buoni rapporti con Vespasiano; ciononostante, quest’ultimo ebbe ancora l’opportunità di rivestire il consolato alla fine del 51, prima della definitiva affermazione dell’influenza dell’imperatrice. Dopo il 51, per quasi dieci anni, Vespasiano si eclissò. L’assassinio di Agrippina, nel 59, segnò un nuovo cambiamento dei rapporti di forza; il ritorno ai vertici del potere dei fratelli Flavi, e in particolare di Vespasiano, coincise con il riemergere di una fazione vitelliana 14 e con il consolidamento dell’influenza di Poppea Sabina, iniziata già alla morte di Agrippina e che culminò a partire dal 62, quando sposò Nerone: nel 61/62 il fratello di Vespasiano, Flavio Sabino, riottenne la praefectura urbi che già aveva rivestito dal 56 e poi perduto in tempi e circostanze ignote 15; di lì a poco Vespasiano ebbe il proconsolato d’Africa, sulla cui cronologia le opinioni divergono: si va dal 61/62 al 63/64, che parrebbe attualmente la più accreditata 16. Delle relazioni di Vespasiano con Nerone non sappiamo nulla anteriormente a questo periodo, ma è ovvio che vi sia stato un riLevick, Vespasian, cit., 15. Levick, Vespasian, cit., 20, ricorda che proprio Agrippina nel 39-40 riportò a Roma le ceneri di Lepido, alle quali Vespasiano, pretore nel 40, negò la sepoltura. 14 Levick, Vespasian, cit., 21, e già Syme ivi citato. 15 Kappelmacher, s.v. Flavius Sabinus (n. 166), in RE VI/2, 1909, cc. 2611-2613; Groag, PIR², III, n. 352 p. 167. 16 Per le varie opinioni cfr. Levick, Vespasian, cit., n. 2 a p. 215, che da parte sua (ibid., 23 s.) pensa al 62. Per il 63/64, oltre a Bengtson, Kienast e Flaig (ivi citati), cfr. soprattutto U. Vogel-Weidemann, Die Statthalter von Afrika und Asia in den Jahren 14-68 n. Chr., Bonn 1982, e da ultimo B.E. Thomasson, Fasti Africani: senatorische und ritterliche Amtsträger in den römischen Provinzen Nordafrikas von Augustus bis Diokletian, Stockholm 1996. 12 13

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avvicinamento, in cui un ruolo chiave avrà sicuramente avuto Poppea. Al suo rientro a Roma dall’Africa, Vespasiano era al culmine della carriera, e fu cooptato nella cerchia più ristretta dei frequentatori di corte 17. Non darei particolare importanza alla temporanea disaffezione di Nerone nei confronti di Vespasiano, causata da un atteggiamento irriguardoso di quest’ultimo (s’era addormentato durante una performance artistica del principe); che ciò sia avvenuto a Roma nel 65 (come parrebbe da Tac. ann. 16.5) o durante il viaggio in Grecia nel 66 (come invece parrebbe da Suet. Vesp. 4, cfr. 14; D. Ca. 65(66).11.2 e 62(63).10.1a), sta di fatto che le conseguenze non furono particolarmente gravi, se Vespasiano ottenne poi il comando della guerra giudaica: anzi, nella cronologia tacitiana, l’incidente non avrebbe precluso a Vespasiano il privilegio di accompagnare, l’anno dopo, Nerone in Grecia. Ma qual era, in quegli anni, il rapporto di Nerone, o per meglio dire, dell’ambiente neroniano con il giudaismo? Come tutti gli imperatori romani, anche Nerone è oggetto di pesanti accuse nella tradizione sibillista (OS 3, 4, 5, 8 e 12), ove incarna il ruolo del persecutore escatologico, protagonista dell’età delle doglie messianiche che dovevano precedere l’avvento degli ultimi tempi: abietto e matricida, guerrafondaio e responsabile della distruzione di Gerusalemme e del Tempio, blasfemo in quanto assertore della propria divinità e reo di hybris nei confronti della creazione stabilita da Dio per il progetto del taglio dell’Istmo di Corinto 18. A differenza della produzione sibillista, il resto della tradizione è favorevole. Anzitutto, la tradizione rabbinica. In bab. Gittin 56a, Nerone è discolpato dalle cause della guerra; anzi, non vuole la guerra e si rifiuta di fungere da strumento divino per distruggere Gerusalemme e il Tempio; così fugge, si fa proselita e da lui discende r. Meir 19. Ma anche le notizie e gli indizi che provengono da altre fonti Suet. Vesp. 4 parla di contubernium. Cfr. ad es. OS 3.64.73; 4.121-122, 179 ss.; 5.28-34, 138-142, 150-151, 217, 224, 363 ss., 381 ss.; 8.71, 139 ss., 155, 225 ss.; 12,82 ss. In OS 4, 5 e 8 questa rappresentazione s’incrocia col tema, ben più antico, della rivincita dell’Asia/Oriente sull’Occidente, adesso incarnato in Roma, e col mito del Nero redivivus dall’Oriente (noto anche a Tacito, Svetonio, Dione Cassio/Zonara, ecc.), che si vendicherà di Roma, abbattendola, ma così diventando anche inconsapevole vendicatore di coloro che egli stesso aveva perseguitato (cioè il popolo di Dio). Nella tradizione giudeocristiana (Apocalisse 13-18 e Ascensio Isaiae 4.1-18) Nerone assume i tratti dell’Anticristo. In una sezione del 5 libro (vv. 364 ss.), ove si accenna a un suo ruolo positivo, la solo contraddizione è solo apparente, in quanto, tornando dall’Oriente, Nerone si vendicherà di Roma, abbattendola, ma nel far ciò diventerà anche inconsapevole vendicatore di coloro che egli stesso aveva perseguitato (cioè il popolo di Dio). 19 S.J. Bastomsky, The Emperor Nero in Talmudic Legend, in Jewish Quarterly Review 59, 19681969, 321-325; G. Stemberger, Die Beurteilung Roms in der rabbinischen Literatur, in ANRW II 19.2, 1979, 338-396, qui a 348; G. Firpo, Le tradizioni giudaiche su Nerone e la profezia circa il ‘regnum Hierosolymorum’, in CISA 19, 1993, 245-259, qui a 247 ss.; Id., Nerone e i Giudei, cit., 551 s.; M. Hadas-Lebel, La tradition rabbinique sur la première révolte contre Rome à la lumière du De bello Judaico de Flavius Josèphe, in Sileno 9, 1983, 155-173, qui a 158 ss. In bab. Gittin, le cause della guerra sono 17 18

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sostengono l’impressione di un ambiente ben disposto verso i giudei e il giudaismo. Sul piano dei rapporti personali, Nerone fu generoso con i principi giudei: dette l’Armenia Minor ad Aristobulo figlio di Erode di Calcide e donò ad Agrippa II quattro toparchie in Perea e Galilea; in cambio, Agrippa II rifondò Cesarea di Filippo come Neroniade. Suetonio (Nero 40) ci informa poi di alcune profezie di mathematici a Nerone sugli avvenimenti successivi alla sua deposizione: quidam gli avevano predetto la signoria sull’Oriente, e nonnulli, in particolare, sul regnum Hierosolymorum; altri (plures), il recupero del potere originario 20. Su un piano più generale, come ho già accennato, l’influenza di Poppea Sabina (iniziata già nel 58, anche se Nerone la sposò solo nel 62) segnò un salto di qualità sia per le sorti dei due fratelli Flavi, Sabino e soprattutto Vespasiano, sia per i rapporti con i Giudei, sovrapponendosi all’indolenza e allo scarso interesse neroniano: l’accusa di rhathymía mossa da Tito a Nerone (Jos. bell. 6.337; cfr. D. Ca. 61.4.1), grazie alla quale i ribelli avevano potuto organizzare il consenso e la rivolta, a mio avviso rappresenta il risvolto forse più rilevante del giudizio ‘ufficiale’ dei Flavi appunto su Nerone. È nota la definizione di Poppea quale theosebés da parte di Flavio Giuseppe (ant. 20.195), che, com’è noto, ha dato luogo a varie ipotesi; ma comunque si la voglia interpretare, resta che numerosi altri indizi supportano quanto meno un interesse, connotato da un atteggiamento positivo, di Poppea nei confronti del giudaismo. Nel carteggio Paolo/Seneca, ella è descritta come indignata (si parla di indignatio dominae) con Paolo per aver costui abbandonato la religione dei padri 21: il fatto che l’epistolario sia apocrifo non esclude certo che il riferimento all’interesse di Poppea per il giudaismo possa risalire a una memoria consolidata. Nella lettura proposta dalla Sordi e da Grzybek dell’editto di Nazareth, che comminava la morte per il reato di violazione dei sepolcri, questo risalirebbe al 62 o al 63, e potrebbe essere stato ispirato proprio da Poppea su sollecitazione di avversari dei cristiani 22. Flavio Giuseppe (ant. 20.180-196) afferma poi che, quando al tempo del governatorato di Porcio Festo sorse una controversia fra Agrippa II e i sacerdoti per un muro fatto erigere da costoro tra il Tempio e il palazzo reale, dovute alla falsa voce della ribellione della Giudea a Roma diffusa da un traditore, bar Qamsa, e all’eccesso di zelo di r. Zaccaria ben Eucolos, che rifiutò di sacrificare un vitello donato dall’imperatore romano a seguito della menomazione fisica dell’animale, provocata dal predetto bar Qamsa per renderlo inadatto al sacrificio (la versione rabbinica dell’interruzione del sacrificio giornaliero per l’imperatore e Roma come causa della guerra secondo Giuseppe). 20 Firpo, Le tradizioni giudaiche, cit., passim. 21 In L. Bocciolini Palagi (a cura di), Epistolario apocrifo di Seneca e San Paolo, Firenze 1985, ep. V e p. 96. 22 E. Grzybek - M. Sordi, L’Édith de Nazareth et la politique de Néron à l’égard des chrétiens, in ZPE 120, 1998, 279-291. La questione è comunque controversa: L. Boffo, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Brescia 1994, 319-333.

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Nerone, ai quali questi ultimi s’erano rivolti con un’ambasceria, dette loro ragione per compiacere Poppea; e nel 64, grazie all’intervento di un mimo giudeo di nome Alyturos, fu ancora Poppea ad accogliere Giuseppe a Roma, ov’era giunto a chiedere la liberazione di due ostaggi, forse gli stessi che s’erano recati a Roma a perorare la causa del muro. Giuseppe ottenne soddisfazione alla sue richieste, e, a suo dire, Poppea gli fece anche grandi doni (vita 13-16) 23. Sempre nel 64, Poppea sostenne la candidatura di Gessio Floro a successore di Lucceio Albino nel governo della Giudea (ant. 20.252). Vi sono poi altre indicazioni, provenienti da tradizioni, apocrife o non, di origine cristiana. È evidente che si tratta di materiale da valutare con la massima prudenza, tuttavia, a mio avviso, non in modo pregiudiziale, per più d’una ragione su cui non mi posso qui soffermare. Mi preme solo sottolineare che, al di là dei giudizi dati in sede storiografica sulle più o meno velate accuse mosse ai giudei, in relazione alla genesi della persecuzione neroniana, da autori e apologeti cristiani quali Clemente Romano, Tertulliano, Commodiano, l’estensore della lettera a Diogneto, e in modo più circostanziato, in riferimento alla persecuzione neroniana, Melitone di Sardi, resta che, probabilmente in Clemente Romano e sicuramente in Melitone, il riferimento è a un ambiente imperiale favorevole ai giudei. Pur tenendo conto dell’inevitabile sovrastruttura polemica, credo comunque che una contestualizzazione di questo tipo non possa essere stata inventata, anche a una cospicua distanza di tempo. E questa immagine di Nerone e dell’ambiente neroniano favorevoli ai giudei arriva persino agli apocrifi e tardi (IX secolo) Atti di Pietro e Paolo dello pseudo-Marcello, in cui i giudei romani si rivolgono fiduciosi, e con doni, a Nerone ‘buon sovrano’ perché impedisca a Paolo di giungere a Roma: e Nerone acconsente 24. A fronte di questo ampio e omogeneo gruppo di testimonianze circa il buon livello di rapporti tra Nerone e l’ambiente neroniano e i giudei della madrepatria e di Roma si colloca quello che ritengo essere l’unico atto di Nerone interpretabile come ostile ai Giudei l’abolizione dell’isopoliteia tra giudei e greci a Cesarea, a seguito di un contenzioso scoppiato tra questi due gruppi: ma va anche ricordato che, secondo Flavio Giuseppe, il ruolo decisivo fu svolto dall’ab epistulis Graecis Berillo, corrotto proprio dai greci di Cesarea) (Jos. bell. 2.284; ant. 20.183-184) 25. In considerazione

23 Discussione in Th. Rajak, Josephus in the Diaspora, in Flavius Josephus and Flavian Rome, 79-97, qui a 85. 24 In M. Erbetta (a cura di), Gli Apocrifi del Nuovo Testamento. II. Atti e leggende, Torino 1966, pp. 180 ss., §§ 3-4. Valgono le medesime considerazioni espresse in precedenza sul carteggio Paolo/ Seneca e sulla tradizione cristiana di II/III secolo. 25 Non è dimostrabile che Nerone abbia avuto parte attiva nella vicenda, come sostiene V. Rudich, Political Dissidence under Nero. The Price of Dissimulation, London-New York 1993, p. 194.

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di tutto ciò, sfugge la ragione per la quale si è potuto parlare di odio antigiudaico di Nerone 26. È questo l’ambiente che Vespasiano frequentò dopo il suo rientro dall’Africa: dunque, per circa due anni. Dopo il primo impatto diretto, e di segno diverso, di venticinque anni prima alla corte di Caligola, la frequentazione di quella di Nerone gli dischiuse probabilmente orizzonti nuovi, comunque consolidando la sua esperienza e le sue conoscenze da una prospettiva non pregiudizialmente ostile, favorita anche dal progressivo indebolimento, e poi dalla scomparsa, di personaggi quali Seneca e Cheremone di Alessandria, già suoi precettori, accomunati da una scarsa simpatia verso il giudaismo, sicuramente più accentuata e definita nel secondo rispetto al primo 27. Anche in questo caso, naturalmente, non si può dire quale opinione si fosse fatto, o rifatto, Vespasiano del giudaismo; se da Caligola in poi aveva saputo mantenere costantemente buoni rapporti con i vertici del potere imperiale, ad eccezione della prima parte del principato neroniano, ciò significa che la ruvida scaltrezza di cui era fornito in abbondanza aveva dato risultati egregi, ogni qual volta era stata messa alla prova, sì da permettergli di non venir travolto dagli eventi e da lasciarsi sempre un margine di libertà di manovra. Credo inoltre che la presenza di un personaggio di così alto livello, che aveva percorso tutto il cursus, nella cerchia più esclusiva degli amici del principe non potesse certo passare inosservata agli occhi attenti dei giudei di Roma, sì che è probabile che anche a lui, a ragione o a torto, venisse attribuita una sostanziale condivisione di quello che appariva a tutti come un atteggiamento comprensivo e comunque non ostile. Da quanto si è visto, la risposta al quesito iniziale posto da Rives non può che essere positiva. Tra i personaggi che nel 66 ricoprivano incarichi ufficiali o che comunque si trovavano nella stretta cerchia dei comites del principe, Vespasiano era colui che più di chiunque altro, da un quarto di secolo, s’era trovato a confrontarsi, in misura più o meno diretta e comunque da una posizione privilegiata, con problemi relativi al rapporto tra il potere romano, centrale e periferico, e il giudaismo della madrepatria e della Diaspora: ciò gli aveva consentito di accumulare un bagaglio di Mazzarino, L’impero, I, cit., p. 275. Su Seneca (contro il parere di più convinti assertori dell’antigiudaismo senecano quali Hild, Herrmann, Turcan e Stern) cfr. G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente ebraico e cristiano, II ed., Brescia 1983, 90; e poi L. Bocciolini Palagi, La polemica antigiudaica di Seneca, in Cultura e ideologia da Cicerone a Seneca, Firenze 1981, pp.151-175; Z. Yavetz, Latin Authors on Jews and Dacians, in Historia 47, 1998, 77-107, qui a 87; E.S. Gruen, Roman Perspectives on the Jews in the Age of the Great Revolt, in A. Berlin, J.A. Overman (eds.), The First Jewish Revolt Against Rome: Archaeology, History, and Ideology, London-New York 2002, 27-42, qui a 30; G. Firpo, Nerone e i Giudei, in J.-M. Croisille, Y. Perrin (éds.), Neronia VI. Rome à l’époque néronienne, Bruxelles 2002 (Latomus, 268), 547-560, qui a 551 s. Su Cheremone, A. Barzanò, Cheremone di Alessandria, in ANRW II 32.3, 1985, 1981-2001; Firpo, Nerone, cit., 553 s. 26 27

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conoscenze sufficiente a fornirgli sin dall’inizio una valutazione complessiva della rivolta giudaica 28, dunque non limitata al solo e pur fondamentale aspetto strategicomilitare 29. Alla luce di quanto detto prima sull’interpretazione vespasianea del culto giudaico e del suo rapporto col Tempio, ritengo legittimo ipotizzare – a prescindere da dove, come e quando e da chi sia stata materialmente presa la decisione di incendiare e distruggere il Tempio – che la forte possibilità, se non la certezza, di tale esito rientrasse sin dall’inizio delle operazioni nei disegni di Vespasiano, e che (forse) soltanto un imprevedibile mutamento del corso degli eventi avrebbe potuto stornarlo: ciò che appunto non si verificò. In qualche misura, e alla sua maniera velleitaria e confusa, già Caligola aveva intuito quello che Vespasiano mostra invece di aver chiaramente realizzato, e cioè la centralità ‘politica’, oltre che religiosa, del culto ivi praticato: anche da qui il suo famoso tentativo di insediare una propria statua nel Tempio (vd. sopra). Da queste vicende, e dalle dinamiche che le alimentarono, Vespasiano aveva certamente tratto utili elementi di giudizio, per esserne stato testimone da una posizione privilegiata. A distanza di venticinque anni, il Tempio era tornato ad assumere un ruolo centrale e decisivo: lì era scoccata la scintilla della rivolta, con l’interruzione del sacrificio quotidiano per l’imperatore e per il popolo romano (Jos. bell. 2.409); e a sollecitare questa misura era stato proprio il capitano del Tempio, Eleazaro ben Anania, di famiglia sommosacerdotale, a cui si erano poi aggiunti esponenti importanti del sadduceismo, come gli ex-sommi sacerdoti Anano ben Anano e Gesù di Gamala e del farisaismo come Simone ben Gamaliel. E non c’è dubbio che il Tempio e il culto continuarono a occupare i pensieri di Vespasiano anche dopo la conclusione della guerra: distrutto il Tempio, i simboli del culto, ad esso indissolubilmente connessi, dovevano esser trasferiti a Roma. In questo senso, come ha ben sottolineato il Rives, vanno soprattutto intesi 30 la centralità della menorah e della Questo certamente non consente di ipotizzare che Nerone gli avesse assegnato anche per le ragioni sopra esposte il comando della guerra, riguardo alle quali è meglio attenersi alle indicazioni delle fonti: a favorirlo furono certamente il suo passato militare in Britannia la modestia delle sue origini, che metteva Nerone al riparo da qualunque insidia da parte sua (Suet. Vesp. 4), a cui si aggiunse la coeva disgrazia di Corbulone. Cfr. Levick, Vespasian, cit., 25 e 29. Si potrà tuttavia riconoscere che una tyche benigna e attenta abbia fatto sì che l’uomo giusto si trovasse al posto giusto nel momento giusto. 29 Potrebbe essere significativo, al riguardo, quanto espresso recentemente da W. Eck sulla natura dell’incarico affidato da Nerone a Vespasiano: e cioè che è impensabile che un comandante consolare come appunto Vespasiano abbia operato con tre legioni sul territorio di un altro legato consolare. Ciò significa che Vespasiano operò sin dall’inizio in totale autonomia rispetto al legato di Siria, con un mandato non solo militare, ma che investiva da subito lo status giuridico e il futuro della Giudea, con tutti i problemi che ciò comportava. Cfr. W. Eck, Rom und Judaea, Tübingen 2007, 50-51. 30 Rives, Flavian Religious Policy, cit., 152-154; anche se, naturalmente, poterono concorrere ulteriori motivazioni, come ad esempio di natura finanziaria (Giovannini) o ideologica (Schwier): ibid., 155-156. 28

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tavola delle offerte nel trionfo del 71 (Jos. bell. 7.148-150) e in uno dei rilievi interni dell’arco di Tito, in seguito significativamente collocate nel Templum Pacis (Jos. bell. 7.158-162; D. Ca. 66.15.1); il coevo dirottamento del tributo annuale dal tempio di Gerusalemme a quello di Giove Capitolino (a parte le motivazioni finanziarie, che pure esistevano); la distruzione (più probabile) o comunque la chiusura del tempio di Onia, a Leontopoli in Egitto, nel 73, ufficialmente (almeno secondo Flavio Giuseppe) come misura preventiva, anche se, per quanto ne sappiamo, non aveva partecipato né alla rivolta, né ai successivi disordini scoppiati in Egitto e a Cirene 31. Finché ebbe il comando delle operazioni, il valente generale distintosi per valore e capacità in Germania e in Britannia corrispose perfettamente a ciò che da lui ci si aspettava: una campagna tanto lucida nella strategia quanto decisa e spietata, con stragi, deportazioni, esecuzioni di massa, e capace di tener circoscritta una rivolta ancora contenuta nelle dimensioni, ma che poteva contagiare pericolosamente altre regioni dell’impero (Jos. bell. 1.5). Terminato il conflitto, Vespasiano continuò a usare il pugno di ferro dovunque si profilasse o si fosse già materializzata la possibilità di una pericolosa connessione tra istanze religiose e motivazioni politiche: di qui – oltre al dirottamento nelle casse dello Stato dello Ioudaikòn télesma e all’ordine di demolire il tempio giudaico di Leontopoli e di confiscarne i beni, già ricordati - il duro regime di occupazione militare; la fondazione di una colonia di veterani a Emmaus; le indicazioni, ancorché vaghe, di Flavio Giuseppe sul mutamento della condizione giuridica del territorio (ant. 7.216-217); la ricerca dei discendenti di David «affinché non sopravvivesse presso i Giudei nessuno dei discendenti della tribù del re» (Egesippo in Eus. h. eccl. 3.12), una notizia con ogni probabilità autentica nel suo nucleo fondamentale, che poi presenta risvolti sotto Domiziano (Eus. h. eccl. 3.19-20) e Traiano (ibid. 3.32.3 ss.) 32. Tuttavia, le comunità che si erano tenute al di fuori dalla guerra non ebbero a subire danni o limitazioni particolari, a parte inevitabili tensioni e alcuni strascichi; poterono insomma continuare, nei loro àmbiti, a suis legibus uti, secondo tradizione. Verso l’ethnos giudaico nel suo complesso, Vespasiano non dovette provare particolare animosità, anche se Flavio Giuseppe ne sottolinea con eccessiva enfasi la prudenza e la clemenza 33; la durezza della repressione e delle misure adottate in seguito ebbe una motivazione eminentemente politica, pur se non poté evitare di interferire sul piano culturale e della pratica religiosa. 31 Jos. bell. 7.420-436. Probabilmente Giuseppe trasforma la distruzione in una chiusura: v. ora L. Capponi, Il tempio di Leontopoli in Egitto. Identità politica e religiosa dei Giudei di Onia (c. 150 a.C.-73 d.C.), Pisa 2007, 44, 53, 127. 32 M. Sordi, Impero romano e cristianesimo. Scritti scelti, Roma 2006, 191 e 232. 33 M. Hadas-Lebel, L’évolution de l’image de Rome auprès des Juifs en deux siècles de rélations judéoromaines -164 à +70, in ANRW II 20.2, 1987, 715-856, qui a 815 ss.; Ead., Jérusalem contre Rome, Paris 1990, 78 ss.

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Vespasiano e il giudaismo

Nel suo complesso, il giudaismo fu moderatamente generoso con Vespasiano. Solo la tradizione apocalittica e sibillista reagì, come sempre, in modo violento e univoco. Nella Quarta visione di 4 Esdra 12.10-34, alla fine dei tempi i tre Flavi ricomprenderanno in sé tutta l’empietà dell’aquila: il quarto regno danielino, cioè l’impero romano, qui rappresentato come un’aquila con dodici ali, otto controali e tre teste. I Flavi sono appunto le tre teste dell’aquila, e Vespasiano è la «testa grande» che «tenne tutta la terra, vessò quelli che la abitavano opprimendoli pesantemente» (11.30). Nel quinto libro degli Oracoli Sibillini, Vespasiano è definito «un grande uccisore di uomini pii (= Giudei)» (v. 36). Per ragioni diverse, anche se tra loro talvolta affini, il tono delle altre tradizioni è in larga maggioranza di segno opposto. Fu pur sempre un giudeo come Flavio Giuseppe (ancorché nella particolare posizione nota a tutti e per ragioni altrettanto note, legate alle sue vicende personali) a trasmettere al giudaismo della diaspora orientale e poi di quella grecofona un’immagine positiva dei Flavi, compiendo miracoli di equilibrio per presentare sotto una luce meno cruda anche i risvolti più spietati e tragici della vicenda e per attenuare la responsabilità di Vespasiano e Tito 34. Non era mancato, naturalmente, chi avesse presentato le cose in altro modo: Giusto di Tiberiade, ad esempio, aveva tracciato un ben diverso ritratto dei due imperatori, guadagnandosi gli insulti e i sarcasmi di Giuseppe (vita 40 e 357-360). Ma Giuseppe fece anche di più: da un lato, descrivendo la guerra giudaica come la più grande mai combattuta nella storia dell’umanità (bell. 1.1), intese offrire un robusto sostegno alla propaganda flavia, per la quale appunto il conflitto del 66-70 costituì uno dei fondamenti di legittimazione dinastica 35; dall’altro, non chiudeva la porta alla speranza di una liberazione futura, là dove, denunciando la follia (manía) autodistruttrice dei ribelli antiromani, diffondeva l’invito ad accettare per il momento la dominazione

34 Locc. citt. La versione greca del Bellum, munita dell’auctoritas di Vespasiano e Tito, fu distribuita a vari romani che avevano combattuto in Giudea e a giudei versati nella helleniké sofìa, tra cui Giulio Archelao, re Agrippa II e alcuni suoi parenti e un non meglio conosciuto Erode (bell. 1.3, 6; c. Ap. 1.51; vita 361-362). Rajak, Josephus. The Historian, cit., 175 ss.; H.M. Cotton, W. Eck, Josephus’ Roman Audience: Josephus and the Roman Elites, in Flavius Josephus and Flavian Rome, cit., 37-52, qui a 41 ss.; Parente, The Impotence of Titus, cit., 49 e 66 ss.; S. Mason, Of Audience and Meaning: Reading Josephus’ Bellum Judaicum in the Context of a Flavian Audience, ibid., 71-100; J.J. Price, The Provincial Historian in Rome, ibid., 101-118, qui a 107 ss. 35 Come ribadito anche di recente, con particolare riferimento al trionfo del 71 e alla monetazione: cfr. ad es. M. Goodman, The Ruling Class of Judaea, Cambridge 1987, 235; Id., The Fiscus Judaicus and Attitudes to Judaism in Flavian Rome, in J. Edmonson, S. Mason, J. Rives (eds.), Flavius Josephus and Flavian Rome, Oxford 2005, 167-177, qui a 171 s.; Id., Roma e Gerusalemme, cit., 511 ss.; J.A. Overman, The First Revolt and Flavian Politics, in The First Jewish Revolt Against Rome, cit., 215 ss.

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romana come tappa di un disegno provvidenziale lasciato cronologicamente indefinito 36. Le tradizioni rabbiniche diffusero un messaggio per certi aspetti analogo, offrendo di Vespasiano, almeno in parte, un ritratto caratterizzato da toni moderatamente positivi: si tratta di materiale quantitativamente non molto rilevante, ampiamente citato e studiato, selezionato con metodo e finalità peculiari 37. Dal tono delle narrazioni ruotanti intorno al rapporto tra Vespasiano e Jochanan ben Zakkai si capisce che se si voleva salvare il salvabile e ricostituire un rapporto positivo con l’impero non si poteva presentare sotto una luce sfavorevole il personaggio al quale si attribuiva il permesso della fondazione della scuola rabbinica di Jamnia e, con essa, la sopravvivenza spirituale del giudaismo 38; la scelta non sarà stata del tutto indolore, ma non poteva essere altrimenti, vista l’improponibilità di Tito, oggetto delle più violente maledizioni rabbiniche in quanto distruttore del Tempio nonostante Flavio Giuseppe si fosse adoperato per dimostrarne l’innocenza. Non per nulla, i giudizi negativi su Vespasiano, che pure non mancano, sono al di fuori del ‘dossier’ incentrato su rabbi Jochanan 39. Forse, neanche lo stesso Vespasiano – il cui schietto realismo e la cui disincantata ironia, certo legati alla semplicità delle sue origini, gli avevano consentito di mettersi a ridere quando nel 69, ad Alessandria, fu invitato da Tiberio Alessandro e dai sacerdoti di Serapide a ridare la vista a un cieco, o lo avevano indotto a esclamare con arguzia un po’ dissacrante, sentendosi vicino a morire, ‘Ah, mi sa che sto per diventare un dio!’ 40 – avrebbe creduto a un esito del genere, se qualcuno gliel’avesse mai profetizzato. Giulio Firpo Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara 36 Essa è attualmente inevitabile: in bell. 3.354 e 5.367 ribadisce che Dio, che distribuisce a turno il comando tra le nazioni, ora (nyˆ n) si era fermato in Italia: ma ciò significa che anche la dominazione romana è provvisoria. Cfr. G. Firpo, Il kairós danielino in Flavio Giuseppe e nel Nuovo Testamento, in Quaderni Catanesi, n.s., 2, 2003, [2004] 151-169, qui a 153 e 161. 37 Per le tradizioni: Stemberger, Die Beurteilung, cit., 349-351; Hadas-Lebel, La tradition, cit., 161-166; Ead., Jérusalem, cit., 128-138. Sul metodo di selezione dei rabbi v. ad es. J.J. Price, Jerusalem under Siege. The Collapse of the Jewish State 66-70 C.E., Leiden-New York-Köln 1992, 198 ss.; A.J. Saldarini, Good from Evil, in The First Jewish Revolt Against Rome, cit., 221-236. 38 Cfr. ad es. Hadas-Lebel, Jérusalem, cit., 130; da ultimo H. Cotton, in questo volume. L’utilizzazione di Giuseppe da parte dei rabbi non è provata, anche se, almeno in un caso (la fuga di r. Iochanan presso Vespasiano), non può essere del tutto esclusa: Price, Jerusalem, cit., 200 ss; 264 ss. 39 Midr. Ps. 17,12; Ekha Rabbati 1,48; Targum a Lam. 1,19: Stemberger, Die Beurteilung, cit., 351. 40 Tac. hist. 4,81; Suet. Vesp. 23.

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1. In una mia recente Storia di Roma, come già in altre più specifiche ricerche, ho avuto occasione di rifarmi all’immagine dell’ ‘Impero municipale’ per evocare quella complessa e originale organizzazione politica messa a punto dai successori di Augusto. In questa sede vorrei soprattutto interrogarmi sul modo in cui questa realtà in formazione, che negli anni dei Flavi conobbe un formidabile consolidamento e sviluppo, fu presente nella coscienza dei contemporanei e si trasmise poi alle generazioni immediatamente successive. Per certi versi, sin dall’età repubblicana il linguaggio istituzionale romano era stato fortemente condizionato dalla dimensione cittadina della politica: i soggetti sovrani che occupavano il quadro internazionale erano evocati da una serie abbastanza ampia di termini: populi, gentes, nationes. In essi prevale tuttavia l’evocazione di una realtà collettiva e relativamente indifferenziata. Quando invece il discorso tende a divenire più specifico, ponendosi l’accento sulla fisionomia istituzionale dell’organismo politico, titolare di un potere sovrano su un ambito territoriale ed una comunità d’individui (insomma l’aspetto proprio dello ‘stato’: un termine malamente utilizzato da tanti storici moderni per la vicenda romana), allora ricorrono due vocaboli: civitas e regnum. L’esperienza politica antica sembra essere racchiusa all’interno dell’orizzonte segnato da tali termini 1, l’uno riferito alla comunità di liberi che si autogoverna nell’ambito più o meno ristretto dello spazio cittadino, l’altro riferito al potere assoluto di un monarca, la forma antinomica a Roma ed aborrita dai suoi cittadini. Diversamente da regnum, civitas si presenta tuttavia con una più ampia latitudine semantica, potendo infatti indicare non solo le città sovrane, ma anche quelle comunità esistenti come somma di insediamenti minori e diversi dalla forma urbana ma caratterizzate egualmente da una loro identità e autonomia politica 2. 1 Si v. l’efficace approccio di L. Peppe, L’efficacia di populus e le sue valenze, in W. Eder (Hrsg.), Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik, Stuttgart 1990, 312 ss. 2 È l’impiego del termine che incontriamo ben specificato nel vecchio e sempre ottimo Ae. Forcellini, I. Furlanetto (cur. I. Perin), Lexicon totius Latinitatis, rist. 4° ed. 1864-1926, I,

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Rispetto al configurarsi del potere territoriale romano è un altro valore ancora di civitas quello su cui vorrei richiamare l’attenzione: mi riferisco a quelle realtà urbane, caratterizzate da una loro persistente identità ed autonomia, ricomprese tuttavia all’interno di organismi politici più ampi: anzitutto degli antichi regni ed imperi. Questa situazione infatti ci aiuta a ripercorrere il processo di romanizzazione dell’Italia, giacché, a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C., essa si venne moltiplicando ad opera di Roma, con l’aggregazione di una molteplicità di centri cittadini, in vario modo assoggettati alla sua sovranità, ma fruenti di margini differenziati di autonomia (sino all’impiego dello strumento tipicamente di carattere internazionale che è il foedus a definire il rapporto tra Roma e qualche suo municipio). Il sistema dei municipia e delle colonie superò quindi pienamente la vecchia immagine della città sovrana, in cui il diritto della comunità e lo statuto politico si identificavano. In tal modo, tuttavia, la fisionomia della città egemone veniva a mutare non meno profondamente dell’intera Penisola. Roma infatti divenne rapidamente ben altra cosa dal modello ‘classico’ della polis 3: conservando di questa l’antica pienezza sovrana, ma divenendo anche il luogo del governo e del comando su una moltitudine di altre città, popoli e territori 4. Il modello originario della città-stato appare così dilatato a produrre qualcosa di diverso e di nuovo che consisteva, per l’Italia, in un mosaico di innumerevoli centri urbani o semi-urbani, che, contemporaneamente, vivevano di una loro vita autonoma ed erano anche parte di Patavii 1965, s.v. civitas, p. 642, sub I.B, 1.b), come uso particolare di una più generale accezione del termine a indicare la civium multitudo in eodem loco habitans eodemque jure vivens, efficit, e precisamente come integram natio, vaira per oppida auto pagos dosipersa, iisdem legibus utens, et unum reipublicae corpus efficiens. 3 Anche se io stento a ritrovarmi appieno nei moderni studi sulla polis: così mi lascia lievemente perplesso il fatto che il più autorevole studioso di tali questioni, Mogens Herman, pur avendo sempre ben chiaro i termini anche teorici che definiscono vicinanze e diversità della figura della città-stato alla nozione storicamente determinata di ‘stato’, poi giunga a individuare più di millecinquecento città-stato nel piccolo mondo ellenico. Cfr. M.H. Hansen, Introduction. The Concept of city-State and City-State Culture, in M.H. Hansen (ed.), A Comparative Study of Thirty City-State Culture. An Investigation Conducted by the Copenhagen Polis Centre, Copenhagen 2000, 17, 20, e The Hellenistic Polis, ibid., 141 ss. 4 Da quel momento, tra l’altro, appare impossibile continuare ad applicare ad essa lo stereotipa formula di città-stato. In effetti l’ordinamento romano, fondato tuttora su una struttura politica affatto ‘cittadina’, disponeva di una pluralità di statuti giuridici personali che fondavano su di esso la loro legittimità. Fino al 338 a.C., possiamo dire che, in linea di massima, appartenessero a Roma, sottoposti alla sua sovranità solo i cittadini romani: a partire da allora invece Roma poté disporre anche di un altro statuto giuridico, quello di latino. Poteva trasformare un romano in latino, come nel caso della partecipazione di questi ad una colonia latina, e poteva disporre unilateralmente della condizione giuridica di questi stessi Latini, ormai suoi sudditi, modificandone il contenuto.

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una ‘città’ enormemente dilatata: Roma. Era questo il mutamento rivoluzionario rispetto all’originaria identificazione dell’unità urbana con lo spazio politico, sostituendosi ad esso, in modo frammentario e apparentemente casuale, un nuovo assetto politico: l’organizzazione per municipi di Roma 5. Non si insisterà mai abbastanza sul carattere cittadino della società romana: è questo carattere che essa tende a ritrovare nella sua fase d’espansione e, eventualmente, a sviluppare laddove le forme con cui essa veniva a confrontarsi si presentavano diversamente. Così, nella progressiva penetrazione politico-istituzionale di Roma in tutto il territorio della Penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la vera e propria ‘sovranità’ (o meglio alcuni elementi essenziali di essa: il diritto di pace e di guerra, il batter moneta, il diritto di vita e di morte sui cittadini) fu avocata da quella che potremmo chiamare la ‘città superiore’ rappresentata da Roma, si favorì la persistenza di una circoscritta individualità politica nei vari municipi e colonie. E questo lo si vede molto bene proprio nel caso in cui particolari motivi ispirarono una opposta politica, dove la massima sanzione irrogata ad una comunità appare appunto la sua cancellazione come città, quasi la soppressione di un organismo vivente 6. Anche dove, come nel mondo sannita, le forme di insediamento prevalenti si collegavano più a strutture sparse e a villaggi, i Romani cercarono sempre di identificare un elemento, magari il villaggio potenzialmente più ‘promettente’ da trasformare in una piccola città e quindi in centro municipale a cui agganciare in forma subalterna le altre strutture territoriali (vici, mercati rurali, piccoli santuari circondati da abitati etc.). Dobbiamo sempre tener presente quanto sia ampia la gamma di soluzioni adottate di volta in volta dall’espansionismo politico romano, soprattutto se confrontata con la maggior rigidità ed univocità degli schemi in genere perseguiti dai moderni stati europei (non mi riferisco alla loro vicenda coloniale). Mentre per questi, infatti, l’imposizione del proprio diritto appare in genere logica e necessaria conseguenza della propria sovranità, i Romani sembrano essersi mossi di5 In questa nuova e ben più duratura fase di crescita, l’estensione della cittadinanza non comportava più l’inglobamento fisico dei nuovi cives Romani nella città di Roma: al contrario le varie città conservavano pienamente la loro identità materiale, solo divenute una frazione del ‘popolo Romano’. Su tutto ciò v. L. Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio, Roma 2000, cap. IV. Vorrei ricordare come uno studioso che aveva precocemente messo bene a fuoco la doppia identità di Roma, sulla scia di Mommsen, fosse stato proprio il nostro E. De Ruggiero, La Patria nel diritto pubblico romano, Roma 1921, 17 ss., a insistere sulla doppia valenza dell’identità cittadina di Roma. 6 Così, nel caso di Capua, punita in modo esemplare dopo la sua defezione ad Annibale, il senato romano, avendola espropriata del suo territorio, le tolse «le magistrature, il senato, l’assemblea pubblica», oltre ad ogni altra imaginem rei publicae: l’idea ed il simbolo cioè della comunità politica cittadina. Sul punto rinvio a L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture territoriali dell’Italia romana, Napoli, 2002, 159 ss.

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versamente. Certo si è che, a lungo, gran parte degli Italici, restarono estranei o quasi alla sfera d’applicazione del diritto romano, pur facendo parte ormai di una medesima entità politica. Solo con la conclusione della guerra Sociale, nell’ultimo secolo a.C., si può dire che questi due sistemi di riferimento finissero con l’identificarsi 7. Anche se, va detto, già in precedenza una progressiva diffusione delle forme giuridiche e culturali romane, soprattutto nell’ambito delle élites locali, maggiormente inserite, com’è ovvio, in una rete di contatti interlocali e con i Romani, aveva avviato la svolta intervenuta con le leges de civitate. La conclusione formale del processo era stata preceduta e agevolata dalle molteplici circostanze in cui veniva ad essere utilizzato il diritto romano, anche in questi rapporti ‘esterni’ alla Civitas in senso proprio, facendo così maturare, in forma semispontanea, la progressiva romanizzazione delle loro istituzioni 8. Tutto ciò è echeggiato vividamente in quella singolare testimonianza di Cicerone che, ancora in età flavia, restava pienamente attuale. Mi riferisco alla sua immagine delle ‘due patrie’, cui apparteneva ciascun cittadino romano. Quando il grande oratore scriveva, la fisionomia giuridico-amministrativa dell’Italia era ormai profondamente mutata rispetto alla situazione precedente, di ‘complessità programmata’. Tra la guerra sociale e l’ulteriore estensione della cittadinanza a favore della Gallia Cisalpina da parte di Cesare i precedenti assetti s’erano risolti in una colossale civitas che comprendeva ormai l’intera Penisola 9. Dall’altra le in7 Tra l’altro a più riprese ha avuto modo d’insistere sul fattore limitativo costituito dall’impiego della lingua latina. Ancor più che nell’esperienza contemporanea, il carattere formalistico e orale del diritto romano, l’uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti, dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali, escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora i Romani, non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli ad usare dei vari loro diritti come delle lingue autoctone – dall’osco all’umbro – solo molto lentamente subendo un processo di romanizzazione, peraltro inarrestabile (anche perché queste autorizzazioni ad usare il latino nella vita ufficiale delle varie comunità vennero comunque gradualmente rilasciate). Cfr. Capogrossi, Cittadini, cit., 154 ss., Le genesi dell’Impero municipale (2004), ora in L. Capogrossi Colognesi, Scritti scelti, Napoli 2010, 244 ss. 8 In effetti questi municipes, ormai addomesticati, potevano ben spontaneamente scimmiottare i Romani nei loro usi, parlare la loro lingua, adottare anche, per quanto possibile, le loro istituzioni giuridiche. Ma questa era decisione unilaterale e, per molto tempo, più atta a introdurre dal basso, in forma disordinata e semicasuale, pezzi di ordinamento romano, che l’intero sistema del diritto civile romano e la sua integrazione costituita dal sempre più importante ius honorarium. 9 In questa nuova fase s’accentuò tuttavia il processo unificatore che tendeva ad omogeneizzare il variegato configurarsi delle istituzioni locali, secondo un modello unitario, inevitabilmente favorito dalle stesse pratiche di governo romane. In primo luogo scomparvero, per queste nuove realtà, le magistrature autoctone, mentre si diffuse in modo abbastanza generalizzato un nuovo assetto dei governi locali. Del resto, già prima che si verificasse la sostanziale assimilazione delle istituzioni locali, il modificato regime delle comunità italiche aveva ingenerato un effetto di

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dividualità cittadine, fuse nella figura unitaria del municipium, lungi dall’essere soppresse, erano state esaltate e confermate: ed è questo, appunto, il duplice aspetto sottolineato da Cicerone. 2. Questa ‘preistoria’ dell’unità municipale successiva alla guerra Sociale ed a Cesare, come la potremmo chiamare, era ormai pressoché dimenticata, non dico nell’età di Vespasiano, ma anche quando Claudio riprendeva, in modo così straordinariamente consapevole, un tradizionale motivo della riflessione istituzionale romana sul carattere ‘aperto’ dell’ordinamento e del diritto cittadino. Nella sua famosa lettera al Senato egli aveva richiamato un aspetto fondativo di Roma, sin dalle sue origini, e continuamente ripropostosi nel corso delle diverse fasi dell’espansione e del consolidamento imperiale romano. Ora, proprio in età flavia, se ne potevano apprezzare i frutti forse più vigorosi, destinati a consolidare l’edificio imperiale nei secoli a venire. È ovvio il riferimento all’ascesa stessa di Vespasiano, a segnare la definitiva e totale integrazione dell’Italia con Roma. Ma non meno significativo e ricco di risultati fecondi l’impulso dato dai Flavi all’espansione del modello coloniario in ambito provinciale, con quegli stessi meccanismi d’assimilazione che avevano operato così efficacemente in ambito italico, sino a modellare l’intero orbe romano. Roma, creando nuove colonie o attribuendo lo statuto di colonia latina o di municipio a comunità e insediamenti locali preesistenti, non solo plasmò la struttura giuridica e i valori sociali di riferimento di intere popolazioni, ma favorì un generale orientamento filocittadino che accelerò le trasformazioni indotte nelle varie società da essa governate. Il risultato lo si avrà in modo clamoroso proprio con la fine dei Flavi: quando dopo il breve intervallo del principato di Nerva, ascese al vertice imperiale il primo provinciale: Traiano. In quel lasso di tempo il modello cittadino era divenuto il punto di riferimento per tutto l’impero: trovando del resto profonde consonanze in molte situazioni locali. Ciò vale in particolare per le province orientali, dove le forme urbane erano più antiche che nel mondo italico ed erano state ulteriormente potenziate nell’ambito della civiltà ellenistica, anch’essa fondata essenzialmente sul sistema delle poleis. Quanto alla parte occidentale dell’Impero, la parte originariamente meno ‘sviluppata’, l’impatto della più forte organizzazione sociale e culturale romana avrebbe operato in profondità, plasmando fortemente i nuovi modelli socio-culturali destinati a sopravvivere allo stesso destino di Roma. Va anche detto che, all’interno della grande razionalizzazione imperiale, erano entrate in azione

de rilievo, con l’unificazione delle condizioni giuridiche del suolo e la diffusione della proprietà civile romana.

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logiche unificanti, dove le forme statutarie parrebbero aver seguito schemi-tipo uniformi 10. E tuttavia, ancora una volta, nuove forme di complessità si vennero a riproporre, giacché Roma lasciò sussistere e addirittura favorì, in ambito provinciale, l’esistenza di autonomi centri urbani, costituiti dalle civitates liberae, liberae et immunes, foederatae, già esistenti in età repubblicana. Salvo ora il comune riferimento di questi innumerevoli centri cittadini alla figura dell’Imperatore ed ai culti imperiali connessi alla sua persona. D’altra parte, in ambito provinciale, il duplice statuto di municipium e colonia era utilizzato non solo a qualificare le nuove fondazioni cittadine, ma anche a disciplinare una serie di comunità indigene gratificate con tali statuti. Ma, al di là di tutta questa complessa stratigrafia, almeno nei primi due secoli del principato, il vero discrimine continuò ad essere la distanza che separava la massa crescente di cittadini romani, costituita ormai anche da molte delle élites provinciali più direttamente assimilate, dal resto dei sudditi dell’Impero: i peregrini. Questo reticolo di comunità minori costituiva la struttura portante, flessibile ed articolata, della nuova costituzione imperiale. Ciascuna di esse ripeteva, in piccolo, il modello romano: con il suo senato, i suoi magistrati e le sue assemblee, i suoi sacerdozi, dove spiccavano i collegi dedicati al culto imperiale, nonché con l’area del Foro ed il proprio piccolo ‘Campidoglio’ dov’erano situati i templi dedicati alle maggiori divinità di Roma. Soprattutto il sistema delle curie locali assumeva una grande importanza nel processo organizzativo dell’Italia romana ed in seguito del mondo provinciale, giacché, secondo la logica gerarchica tipica dei 10 Lo strumento privilegiato di tali sviluppi fu la generosa concessione dello ius Latii a molte città provinciali – si tratta di quei numerosi municipi Flavii che s’incontrano soprattutto in Spagna – con il conseguente ed esteso meccanismo di assimilazione anche giuridica così messo in moto, e la contestuale ascesa alla cittadinanza romana degli amministratori locali. D’altra parte non dobbiamo dimenticare un altro aspetto di questi processi rappresentato dal fatto che l’attribuzione della civitas Romana fosse anche, se non soprattutto, uno straordinario elemento di promozione sociale. Allora, come oggi, potersi differenziare dalla comunità che ci circonda con piccoli o grandi privilegi è un fondamentale fattore di affermazione. I gruppi gratificati di questa nuova cittadinanza non si staccavano certo dalla loro comunità, ma se ne sentivano integrati, proprio in virtù di queste grandi e piccole superiorità e gerarchie. Ma, in tal modo, essi dipendevano ancor più, per godere di questa loro condizione, da Roma che se ne era così assicurata, a buon mercato, la lealtà. E in tal modo quella concezione gerarchica della società propria dei Romani e che aveva costituito un carattere abbastanza costante della loro politica espansionista diveniva un nuovo cemento del sempre più vasto edificio così costruito. La rapida romanizzazione delle élites provinciali, più diretta nella pars occidentis, proprio per la minor capacità di resistenza delle tradizioni locali, ma non meno efficace, seppure diversamente calibrata, in ambito ellenistico. Essa aveva già conosciuto un’accelerazione sotto il principato di Claudio, con l’ascesa di alcuni esponenti nei ranghi del senato romano. Ora s’accentuò e si generalizzò, tanto che, con la fine della dinastia Flavia, al governo imperiale sarebbe salito, dopo il breve e nobile interregno di Nerva, il primo imperatore d’origine provinciale: Traiano.

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Romani, tutto il sistema di autogoverno si fondò sulla consistenza di questi gruppi dirigenti locali che trovavano espressione nel collegio dei decurioni (il ‘senato’ locale, appunto) e che ebbe un’importanza fondamentale per l’autonoma gestione finanziaria delle risorse necessarie alla vita della comunità. Il vasto disegno organizzativo, così intimamente legato alla vitalità di innumerevoli comunità di carattere cittadino, permise la massima mobilitazione e l’utilizzazione ottimale delle risorse locali. Anzitutto in termini di autogoverno degli innumerevoli centri urbani e delle comunità locali: come mobilitazione di risorse e capacità di governo, ma non solo. In effetti, la stagione di massimo splendore del mondo municipale, da Augusto agli Antonini, coincise anche con una capillare presenza dell’evergetismo privato: doni e benefici privati largiti alla propria comunità dai suoi membri più ricchi. Le élites municipali, infatti, non erano chiamate solo a governare le loro comunità, ma anche a beneficiarle con opere di pubblica utilità e con quei giochi pubblici, combattimenti di gladiatori e spettacoli così importanti nella vita sociale dell’antichità e così apprezzati. È una tipica tradizione della città antica questo intervento volontario (ma sollecitato da una tradizione e da una forte pressione culturale) che appare esaltato e quasi trasformato in sistema nel mondo municipale romano. Di ciò restano moltissime testimonianze, soprattutto a livello epigrafico, con iscrizioni relative ai più diversi oggetti – acquedotti, fontane, pubblici edifici etc. – in cui si ricorda come il singolo cittadino abbia effettuato a suo spese tali opere a beneficio della sua comunità. Del resto era lo stesso imperatore il primo e più importante centro di munificenze e largizioni: le colossali opere pubbliche nell’interesse della comunità, acquedotti, terme indispensabili alla pubblica igiene, edifici destinati a molteplici finalità erano costruite molto spesso a sue spese, non diversamente da quei costosi giochi nei grandi anfiteatri di cui i Romani erano instancabile ed esigenti fruitori. In tal modo una parte delle risorse drenate dalle province attraverso la fiscalità imperiale a queste tornavano in opere pubbliche. Ancor oggi, girando nei musei d’Europa come dell’Asia minore o delle coste del Nordafrica incontriamo le innumerevoli testimonianze archeologiche ed epigrafiche, non già e non solo di un generico processo di romanizzazione, ma di questa promozione ed assimilazione cittadina. Sono i segni materiali, ormai deperiti, di un impatto in profondità di modelli organizzativi e sociali che hanno avuto un’enorme funzione unificante della moltitudine di popoli e civiltà dell’Impero. In questa prospettiva la concessione ad alcune di queste comunità dello statuto di colonia latina non faceva che completare ed esplicitare più nettamente l’avvenuto processo d’integrazione. Nel complesso le situazioni che siamo venuti descrivendo sono riconducibili ad una generale politica fondata sull’esistenza di vasti spazi di autonomia, sino a sfiorare la tolleranza, da parte di Roma, di una persistente sovranità ‘locale’ del-

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la comunità cittadina o del popolo, all’interno delle strutture provinciali. Ma qui interessa piuttosto mettere a fuoco un altro aspetto ‘propulsivo’ di questa esperienza legato a quegli stessi meccanismi assimilatori già verificatisi in forma semispontanea nel corso dell’età repubblicana. Dove in effetti il diritto romano, non esteso meccanicamente ed autoritativamente alla molteplicità di soggetti dipendenti, tuttavia svolse un crescente ruolo di riferimento, influenzando l’evoluzione delle istituzioni locali e preparandone la progressiva fusione all’interno del grande crogiuolo della civitas Romana. 3. L’ascesa al potere di Vespasiano aveva segnato una rottura importante con la tradizione, derivando completamente dall’acclamazione e dal sostegno delle truppe che comandava in Giudea. Tanto più che proprio da quell’evento egli fece datare l’inizio del suo impero, e non dal giorno del successivo riconoscimento del senato: è quanto sappiamo dal senatoconsulto, il cui testo è in gran parte a noi pervenuto in un’epigrafe oggi nel Campidoglio, con cui gli era stata conferita in blocco la somma dei poteri accumulati da Augusto e dai successori. Grande amministratore, personalità autoritaria e autorevole, Vespasiano appare la figura più importante emersa dopo Augusto. Ancora una volta le virtù private divenivano il riferimento pubblico: in primo piano s’imponevano ora i valori tradizionali di quel mondo municipale da cui Vespasiano proveniva: sapienza contadina, abitudine al risparmio e al duro lavoro, cautela e tenacia. Le origini del nuovo imperatore segnano un distacco dalla precedente stagione, dando una fisionomia nuova al governo imperiale: dove l’attenzione per l’amministrazione ed il funzionamento ottimale della sempre più articolata macchina di governo prevalse integralmente rispetto all’etica aristocratica – un impasto di lusso ed arroganza guerriera – della vecchia nobilitas di cui i Giulio-Claudi erano stati espressione. In effetti, il governo di Vespasiano sarebbe stato tacciato di taccagneria dai contemporanei, abituati ai pubblici fasti dei predecessori: taccagneria salutare, peraltro, per le finanze imperiali e, più in generale, per le condizioni dell’economia italica e provinciale. Il forte processo di razionalizzazione sotteso a questa nuova stagione politica certo riprendeva e sviluppava l’azione che era stata già d’Augusto. È sotto quest’ultimo infatti che s’era realizzata, sia con la generalizzata sistemazione degli ordinamenti municipali, sia in occasione dei suoi censimenti, una colossale rilevazione dello stato materiale dell’Italia. Sotto Vespasiano e soprattutto con Domiziano s’ebbe tuttavia un salto in avanti in quella che chiamerei la ‘tecnologia del potere’, già apprestata ma ancora molto rozzamente in età repubblicana e fortemente riorganizzata e razionalizzata con l’Impero d’Augusto. Un apparato burocratico ed un sistema di uffici preposti ai vari settori del funzionamento della macchina sociale così costruita è un aspetto che si ripropone anche in forme più

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articolate e complesse di quella che caratterizzano la costruzione romana, in altri grandi Imperi e regni del mondo antico. È la formalizzazione e la consapevole affermazione di regole astratte e generalizzabili che invece appare lo specifico portato dell’esperienza romana. Ciò che appunto avviene con la grande fioritura della scienza giuridica del primo secolo, sempre più strettamente collegata alla politica del principe. Di qui il valore determinante, ma non esclusivo, della forza militare: anche chi, come lo stesso Vespasiano, giunge al potere in base ad essa, è soggetto al valore di norme ed istituzioni che da questa forza prescindono e ne è a sua volta il convinto garante. Né meno rilevante, sempre ai fini di quel processo di razionalizzazione di cui s’è detto e del conseguente consolidamento del nuovo ordine imperiale, è l’altra faccia dell’integrazione provinciale intervenuta sotto Vespasiano ed i suoi figli. In effetti la stabilizzazione istituzionale intervenuta con Augusto postulava un sempre più stretto rapporto tra il centro e la periferia: anzitutto attraverso un rafforzato controllo delle strutture militari dislocate nella periferia dell’Impero e impegnate sia nella sua difesa che in nuove conquiste. Di qui la crescente dipendenza dei governatori provinciali dal potere centrale, non solo, com’è ovvio, in termini di lealtà nella gestione del potere. Si trattò anche e soprattutto di una progressiva uniformazione dei criteri di governo, sotto la spinta delle capillari direttive degli uffici centrali alle dirette dipendenze del principe. L’accresciuto volume delle informazioni dalla periferia al centro e delle direttive da questo a quella segnano infatti questa matura stagione del potere imperiale. Ed è proprio in questo circuito, di cui restano tante testimonianze, che possiamo cogliere la fisionomia embrionale di una moderna ‘statualità’. Non a caso in tale processo fu determinante il ruolo dei giuristi postaugustei: non solo il loro linguaggio permeò progressivamente le logiche degli apparati di governo, ma la loro capacità di formalizzazione permise al principe di definire l’architettura coerente e razionale dei vari uffici e delle relative funzioni, stabilendo l’insieme di rapporti indispensabili al funzionamento di questa sempre più complessa macchina organizzativa. L’enorme e sempre più esteso impatto del Principe sulla vita giuridica dell’Impero e l’unità del suo governo, esaltarono il diretto rapporto delle civitates, popolazioni provinciali, e degli stessi singoli individui con la sua superiore volontà. Fu questa la strada originalissima e innovativa che permise di superare l’impasse che, nel corso della repubblica, aveva minacciato la sopravvivenza stessa di Roma 11. 11 In effetti è mia convinzione che il fattore determinante, nella dissoluzione dell’antico ordine, sia da individuarsi nella scissione tra la sopravvissuta forma del governo cittadino e la dilatazione di un enorme potere concentratosi in esso. L’inadeguatezza della forma politica che, per amor di brevità piuttosto che di precisione, indicherò con l’espressione di ‘città-stato’, a far

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La soluzione di Augusto è stata appunto quella di riassorbire – non sopprimere – l’antico edificio repubblicano all’interno di un sistema nuovo, calibrato sul suo potere personale, anzitutto di capo militare. Di qui il suo valore di riferimento rispetto ai popoli dell’impero, come mediatore ultimo delle spinte e delle esigenze da loro espresse. Il superamento dell’antico edificio repubblicano rompeva definitivamente i confini chiusi dell’universo cittadino da cui erano definite ed a cui continuavano a riferirsi le sue istituzioni. Era però una forma nuova perché ambigua: essa superava infatti l’identità tra forma politica e universo cittadino, dell’età precedente, non risolvendosi però nell’unica alternativa sino ad allora conosciuta: quel reggimento assoluto proprio delle monarchie ellenistiche. È questo aspetto, che neppure il consolidamento dell’impero burocratico sotto il governo dei Flavi, e poi di Adriano dissolse, ad aver reso così difficile il compito degli interpreti antichi come dei moderni. Tant’è che le moderne discussioni intorno alla natura del principato hanno finito col riempire interi scaffali delle nostre biblioteche. 4. Neppure i giuristi antichi, che pure hanno tanto contribuito a dare un contenuto concreto alla nuova fisionomia del potere, sembrano essere stati interessati ad elaborarne una rappresentazione teorica. Del resto di ciò non possiamo meravigliarci, se teniamo presente i metodi di lavoro da essi privilegiati. È dunque ad un altro tipo di testimonianze che ci dobbiamo rivolgere per cogliere l’eco di questa complessa realtà, per certi versi così lontana dalla nostra esperienza e così restìa ad essere interpretata con formule chiare ed univoche. Per questo c’inoltreremo in quel tipo di riflessione che già era stata dei grandi interpreti greci in età repubblicana, primo tra tutti Polibio. È ad un momento relativamente tardivo che mi volgerò, quando già la lunga parabola imperiale aveva compiuto il suo ciclo più glorioso: in esso infatti cogliamo insiemi gli echi delle antiche riflessioni, da Polibio a Cicerone o a Plutarco e l’allargamento di visuale derivante dall’esperienza del Principato. Anche per questo l’ orazione encomiastica di Elio Aristide ha suscitato tanto interesse s’è imposta a noi come una delle più famose e citate esaltazioni di Roma e del suo impero. che ne sono rimaste. Mi riferisco all’Encomio di Roma che, tuttavia, mostra radici più antiche. La sua trama infatti, volta a definire l’essenza del potere romano, si ricollega, come dicevo, ad una problematica antica di secoli: tuttavia, è dato di cogliere nell’encomia di Aristide uno sforzo più consapevole ad adeguare il proprio universo mentale alla realtà nuova creata da Roma. te, non solo ai compiti, ma anche alle esigenze di mediazione e di ricomposizione degli interessi presenti nell’immane dimensione dell’impero conquistato è all’origine della crisi che a partire dal II sec.a.C. ha devastato la repubblica.

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Giacché questo era il punto: che, a esprimere quanto di nuovo e d’inedito vi fosse nella costruzione romana, mancavano non solo i concetti, ma le parole. Più che in altri autori, dunque, l’encomio di Elio Aristide, attraverso l’evidente tensione in esso derivante dall’esigenza di rappresentare la specificità e la singolarità delle nuove forme con un linguaggio vecchio, costituisce la preziosa testimonianza dei mutamenti intervenuti nell’impalcatura concettuale degli antichi ad opera della sperimentazione romana. Da tale documento dobbiamo partire, pur sfrondandolo di tutta la retorica e degli abbellimenti connaturati al suo carattere laudativo. Che non sono tali, anzitutto, da farci escludere, come voluto e falsificante abbellimento dell’autore, il motivo di fondo che costituisce la trama del discorso: la novità di questa storia. Nuova infatti è anzitutto la fisionomia di una particolare polis che dell’intrinseca natura della città non ha quasi più nulla, o piuttosto ha ormai molto di più. Una polis infatti che s’identifica con il mondo intero: essendone la dominatrice, ma essendo essa stessa così gigantesca che non «si è più meravigliati che sì grande Urbe imperi su tutta la terra abitata» 12. In Roma si concentra tutta la ricchezza e la varietà dell’Impero, la cui unità appare esclusivo prodotto della pax Romana 13. La parallela grandezza del dominio così realizzato e della città s’esaltano insieme, segnando anche il radicale distacco di questo impero da ogni forma politica precedente 14. A ben vedere, la maggiore novità parrebbe consistere proprio nell’equilibrio tra una città affatto particolare, nelle sue stese dimensioni, e l’immensità del suo potere su uomini e terre, a segnare un’insuperabile diversità con le forme politiche del passato. I precedenti imperi con cui l’oratore confronta questa realtà, infatti, a differenza di questa, o esprimono un crescente potere esercitato da una città che non vi si adegua essa stessa, trovando in ciò le ragioni del suo declino, o la violenza di un potere sovrapposto alla città e dei suoi valori distruttrice. A proposito di questa seconda ipotesi, Aristide, nel raffigurare l’intima essenza degli antichi imperi medio-orientali ed in primis quello persiano, risente dell’antica propaganda politica e della polemica delle poleis greche contro l’incombente minaccia persiana. Tuttavia è interessante il riferimento, non tanto al carattere arbitrario e tirannico del potere Ael. Ar. 9. Ael. Ar. 11: … ¥getai dý ™k p£shj gÁj kaˆ qal£tthj Ósa ïrai fÚousin kaˆ cîrai ›kastai fšrousin kaˆ potamoˆ kaˆ l…mnai kaˆ tšcnai `Ell»nwn kaˆ barb£rwn: éste e‡ tij taàta p£nta ™pide‹n boÚloito, de‹ aÙtÕn À p©san ™pelqÒnta t¾n o„koumšnhn oÛtw qe£sasqai À ™n tÍde tÍ pÒlei genÒmenon … Trad. it.: «e viene a voi da ogni terra e da ogni mare quanto producono e danno le stagioni e le singole terre e i fiumi e gli stagni e le arti dei Greci e dei barbari; cosicché se qualcuno volesse vedere tutti questi prodotti dovrebbe viaggiare tutto il mondo per ammirarli o venire a guardarli nell’Urbe». 14 Ael. Ar. 13. 12 13

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sovrano che caratterizza questi modelli politici, quanto dell’intrinseca difficoltà da questi mai risolta ad assicurare un’adeguata unità territoriale 15. Ma è molto più importante 16, perché investe la natura delle costituzioni politiche del mondo greco-italico da cui era scaturita l’esperienza romana, quanto Elio Aristide scrive a proposito dell’espansione territoriale delle poleis greche. Pur attraverso rapidi cenni, senza approfondirne i motivi strutturali, egli coglie molto bene i limiti così forti alla loro capacità di crescita. Del resto qui egli poteva fruire dei frutti della ricca riflessione storiografica greca, che s’era ampiamente interrogata sulle cause immediate della crisi di tale esperienza. Qui l’oratore va diretto al nodo del problema, costituito dal fatto che, quanto più s’allargava il dominio territoriale delle città greche, più se ne indeboliva la forza. Giacché, era proprio il loro successo espansionista che ne faceva diminuire «le forze, avendo smembrato e disseminato le guarnigioni qua e là» e pertanto rendendosi «più deboli in patria e non capaci di difendere la loro terra» 17. In questa lucida spiegazione della contraddizione che condannava l’espansionismo delle poleis elleniche, sentiamo gli echi della grande riflessione storiografica e politologica greca. Il problema era antico: l’incapacità greca di superare la radicale estraneità tra dominati e dominanti, con la conseguente separatezza dei dominati, incapaci di alimentare le forze dei dominanti e di questi potenziale e permanente minaccia. È un punto chiarissimo in Aristide.

Ael. Ar. 15-23. Dove, forse, non è troppo significativa la rappresentazione un po’ convenzionale dell’intrinseca barbarie dei regni mediorientali che … oÙdý hâxon e„j k£lloj kaˆ mšgeqoj oÜte t¦j pÒleij oÜte t¦j cèraj, ¢ll' ésper oƒ e„j m¾ pros»konta ™mpesÒntej a„scrîj kaˆ kakîj ¢n»liskon … ¢ll' Ãn ‡son basileÝj kaˆ despÒthj … Trad. it: «non promuovevano in bellezza e grandezza le città e le regioni», ma facevano coche «come coloro che mettono le mani su ricchezze che non gli appartengono, le sperperano malamente», indebolendo e asservendo i loro sudditi (19), Più interessante è invece l’inconsistenza territoriale di tali regni, dalla mobilità dello stesso potere con un carattere semi-nomadico, dove «comando e dispotismo non erano ancora distinti»(23). 16 Di contro, resta forse troppo rapida l’evocazione dell’Impero d’Alessandro, anche se ovviamente ne viene sottolineato il carattere effimero, giacché nessuna attenzione sembra dedicata al consolidamento di quella civiltà ellenistica ereditata da Roma. E tuttavia, anche qui, è esatta l’irrilevanza come costruzione politico-istituzionale permanente che l’interpretazione d’Aristide propone (24 ss.). Egli infatti, conclude Aristide, … éste Pšrsaj mýn katšlusen ¥rcontaj, aØtÕj dý ™ggÚtata oÙk Ãrxen … Trad. it.: «tolse ai Persi, ma quasi non regnò affatto» (26). 17 Ael. Ar. 53, prosegue specificando che, queste stesse poleis egemoni, … oÜt' oân ïn ¥rcein ™f…ento Øperbalšsqai tÒte ™dÚnanto pl»qei toÚtwn ïn œpempon, oÜq' ˜auto‹j tÕ mšnein ‡soij katšlipon, ¢ll' Ãsan ™l£ttouj mýn œxw, ™l£ttouj dý o‡koi … Trad. it.: «col numero di soldati che inviavano, non riuscirono però ad assicurarsi una superiorità su coloro che intendevano dominare, né conservarono la loro posizione, bensì la peggiorarono sia all’esterno che all’interno». 15

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Ora – e questo è uno dei passaggi più interessanti dell’intera orazione – se la civiltà greca non aveva potuto superare questa contraddizione, ciò dipendeva dal fatto che non esistesse ancora quella che Aristide chiama ‘la scienza del dominare’. Questa scienza non esisteva infatti nel mondo greco, che pur aveva superato tutti gli altri popoli in sapere: essa irrompe nella storia con Roma 18. Ma cos’è dunque questa ‘scienza’: un sapere teorico, una ricerca pratica consapevolmente perseguita dai Romani? Elio Aristide non risponde, limitandoci a richiamarne l’efficacia sostanziata nella forza e nella durata del loro Impero. Noi forse, però, possiamo tentare di dire qualcosa di più a tal proposito. E qui, permettetemi di richiamare un punto sul quale ho avuto modo d’insistere in questi anni: la rilevanza dell’insieme di tecniche e di saperi, già maturati nell’esperienza pontificale e poi confluiti nella scienza dei giuristi laici tardo repubblicani nella costruzione del potere romano. Non mi riferisco qui al dato ovvio dello sviluppo di un sistema giuridico efficace come strumento di mediazione e controllo sociale: mi riferisco più specificamente all’apporto essenziale di tale strumentario concettuale nella costruzione di un insieme di relazioni e vincoli in grado di dar luogo, appunto, a quello che io chiamerei un ‘sistema imperiale in equilibrio’. Un ordinamento politico, insomma, dove non solo sia possibile un adeguato rapporto di scambio e, al limite, di circolazione tra dominati e dominanti. Ma dove soprattutto i vantaggi da ciò ingenerati non seguano esclusivamente un flusso unidirezionale 19. La conquista romana diventa durevole governo di genti, modificando per sempre la storia antica, proprio perché con essa si attua concretamente questo nuovo modo di concepire il governo di un impero. Naturalmente un discorso del genere ha tutto il carattere univoco e addirittura falsante dell’adulazione: non solo dobbiamo tenerne conto, ma dobbiamo anche valutare se non possa sviarci dalla comprensione del vero quadro di consapevolezze cui il mondo antico era pervenuto. Resta però il nodo messo a fuoco dall’oratore e che indicherei con il termine di ‘equilibrio’. Non che la società imperiale non fosse minata all’interno, all’epoca in cui Aristide pronunciava tale orazione, da squilibri sempre più gravi e che gli stessi assetti politici del principato non richiedessero continui interventi correttivi, tanto incisivi da modificarne in profondità la sua stessa natura. E tuttavia è anche vero che l’architettura complessiva dell’ordine politico imperiale, il difficile ma reale equilibrio tra oligarchia senatoria e ruolo unificante del princeps, e, con esso, l’organico rapporto tra centro e perifeAel. Ar. 51. Su questo punto ho insistito particolarmente in Capogrossi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna, 2009, cap. XVII, ma v. anche, L. Capogrossi Colognesi, A Provocation, in Riv. di Storia econ., 25. 18 19

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ria, non solo in termini di governo, ma come flusso di risorse, anzitutto umane, e come grande spazio unificato per la vita economica, erano le chiavi di volta di un sistema in grado di durare nel tempo, proprio in virtù della dimensione e della ricchezza delle forze in esso coinvolte. 5. Come già accennavo già ben prima di Elio Aristide ci si era interrogati sui motivi della peculiare e durevole potenza di Roma. Sin dall’età delle grandi conquiste mediterranee avversari ed amici s’erano resi conto della superiore capacità di integrazione e di assorbimento di individui e comunità estranee mostrata da Roma, rispetto alla tradizionale rigidità delle poleis, ma anche delle monarchie ellenistiche. Il quadro che l’oratore traccia appare dunque quasi la conclusione di un antico dibattito ed il bilancio complessivo: dove è soprattutto sottolineato l’effetto sulla potenza militare romana del processo d’integrazione così realizzato. Proprio la sostanziale aderenza ad un pensiero consolidato ci permette di cogliere la permanente difficoltà a tradurre la peculiare esperienza romana in una formula istituzionale: aspetto tanto più significativo, se si considera l’enorme bagaglio tecnico-scientifico acquisito dalla riflessione giuridica romana. Una difficoltà che era già affiorata in Cicerone, al di sotto della ricchezza d’immagini e della grande arte letteraria, e malgrado il suo dominio degli schemi legali. In quel vero e proprio trattato sui rapporti istituzionali all’interno dell’universo politico romano che è la pro Balbo, tra i tanti riferimenti che incontriamo, v’è, in primo piano l’idea di quella doppia appartenenza e della doppia fedeltà del cittadino alle due ‘patrie’: la patria, diciamo così, municipale, legata alla storia familiare e individuale di ciascuno, e la patria comune, Roma. Dove, si noti, i due riferimenti, pur volendo evocare sfere affatto distinte, sono costruiti all’interno della stessa esperienza. Che è quella propria dell’antichità greco-italica: la struttura cittadina. Una logica che porta Cicerone ad affermare il principio, al quale costantemente i moderni si sono rifatti, secondo cui duarum civitatium civis noster esse iure civili nemo potest  20. Se questo principio appare in contraddizione con la precedente affermazione ciceroniana sulle due patrie 21, ciò non si deve attribuire al variare delle tesi scelte Cic., p. Balb., 28. Cfr. anche 31: O iura preclara atque divinitus iam inde a principio Romani nominis a maioribus nostris comparata, nequis nostrum plus quam unius civitatis esse possit. Talché, aggiunge Cicerone, un cittadino romano poteva divenire cittadino di Gadi solo sive esilio, sive postliminio sive reiectionis huius civitatis: cioè con la perdita della propria cittadinanza d’origine. 21 Cic., de leg., 2.5: (Atticus) sed illud tamen quale est quod paulo ante dixisti, hunc locum – id enim ego te accipio dicere Arpinum – Germanam patriam esse vestram? Numquid duas habetis patrias, an est una illa patria communis? Nisi forte sapienti illi Catoni fuit patria non Roma sed Tusculum. (Marcus) Ego mehercul et illi et omnibus municipibus duas esse censeo patrias, unam naturam civitatis: ut ille Cato, quom 20

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di volta in volta dall’abile avvocato per le esigenze della lotta giudiziaria o politica. Il conflitto c’è, almeno in apparenza, ma deriva dall’interna tensione tra la struttura originaria di un sistema ed i suoi successivi particolari sviluppi. La città antica, nel suo forte esclusivismo postulava un’appartenenza totale dei propri cittadini, escludendo quindi quella doppia cittadinanza concepita in fondo come un attentato alla sua sovranità. È esattamente l’atteggiamento che possiamo cogliere negli orientamenti legislativi dello stato nazionale di matrice ottocentesca. Tuttavia questa situazione non rifletteva più la realtà dei rapporti squilibrati intercorrenti tra le civitates italiche e anche di altre regioni mediterranee e Roma, già a partire dalla fine del III sec.a.C. 22. In questi ultimi anni ho molto insistito sulla deliberata ambiguità con cui la nuova costruzione politica romana era stata progettata ed affermata da Augusto. La mia idea è che sia stata proprio questa ambiguità, non dunque mera finzione come talora s’è ritenuto, a permettere la sopravvivenza di un forte nucleo delle forme e dei valori repubblicani, all’interno tuttavia di un sistema più forte concentrato sul princeps, evitando di sancire, almeno nel corso dei primi due secoli di esset Tusculi natus, in populi Romani civitatem susceptus est, ita quom ortu Tusculanus esset, civitate Romanus, habuit alteram loci patriam, alteram iuris ... sic nos et eam patriam dicimus ubi nati, et a qua excepti sumus trad. it.: «(Att.) ‘Ma che senso ha, tuttavia, quel che tu poco fa dicevi che questo luogo – intendo che tu parli di Arpino – è la vostra vera patria: avete forse due patrie, o non è unica la patria comune? A meno che di quel savio Catone non fosse patria Roma, ma Tuscolo’. (Marc.) ‘Io penso, per Ercole, che lui e tutti i cittadini di un municipio hanno due patrie, una naturale, l’altra quanto alla cittadinanza; così Catone, essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella cittadinanza del popolo Romano, e dunque, poiché era tuscolano di nascita, romano per cittadinanza, ebbe una patria quanto al luogo (di nascita) ed una giuridica … così noi chiamiamo patria il luogo dove siamo nati e quella in cui siamo accolti». 22 Era allora maturata, seppure in modo tuttora incerto e non chiaramente formulato, un’altra concezione per cui l’incompatibilità era divenuta ‘a senso unico’. L’originario divieto di doppia cittadinanza continuava infatti ad operare per il cittadino romano, ma non anche, nello stesso modo verso lo straniero ricompreso nell’ambito del potere romano. Questi: il cittadino delle città ‘minori’ dell’Impero, poteva essere elevato alla cittadinanza romana, non perdendo la propria cittadinanza originaria, proprio perché sottordinata. Ed è questa la logica sottesa all’indicazione che ci fornisce lo stesso Cicerone, allorché, sempre nella pro Balbo, 29, scrive come ceterae civitates omnes non dubitarent nostros homines recipere in suas civitates, si idem nos iuris haberemus quod ceteri. Sed nos non possumus et huius esse civitatis et cuiusvis praeterea; ceteris concessum est. Trad. it.: «nessuno ha dubitato che i nostri cittadini potessero acquistare la cittadinanza di altre città se noi fruissimo dello stesso regime giuridico degli altri (popoli). Ma noi non possiamo essere insieme di questa (nostra) città e di un’altra qualsiasi; agli altri ciò è concesso». Questa singolarità, a suo tempo già ben spiegata da De Visscher, malgrado le critiche rivoltegli (v. la discussione in Capogrossi, Cittadini, cit., 178 ss.), è in effetti il risultato di un processo di gerarchizzazione del sistema cittadino, dove tuttavia mancava (sino ad età imperiale avanzata), nella costruzione politica romana, una esplicita e chiara teorizzazione di un ordinamento giuridico più comprensivo che quell’ormai inadeguato modello cittadino. Ordinamento che, però, di fatto era stato costruito pezzo a pezzo ed era ormai dominante, definendo statuti individuali e collettivi.

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questa nuova esperienza, la definitiva scomparsa di quella città-stato connaturata alla stessa idea romana di libertas. È proprio questa persistenza a spiegare perché, più di due secoli dopo, c’imbattiamo nella stessa difficoltà che aveva incontrato Cicerone nel definire la natura precisa del rapporto tra Roma e tutte le altre civitates ad essa subalterne. È lo stesso schema di un tempo che incontriamo di nuovo in Elio Aristide, allorché egli richiama la specifica identità di Roma come urbs, per identificare l’intera estensione dell’orbe civilizzato al territorio di Roma 23. Dove quindi il limes dell’Impero poteva identificarsi nel confine del territorio cittadino 24. 6. Si potrebbe dire che anche l’altro aspetto di fondo indicato da Aristide fosse da gran tempo nella coscienza comune: la fisionomia di Roma come un impero di città. Tuttavia qui il discorso è più complesso. Certo: il risultato maturo dei processi politico-amministrativi innescati da Roma era sotto gli occhi di tutti: la fioritura municipale, la promozione delle comunità locali verso la forma cittadina, la generosa concessione degli statuti coloniari e della stessa cittadinanza romana a gruppi o a intere città provinciali 25. Restava tuttavia, abbastanza evidente, la difficoltà di tradurre questo efficace sistema di governo e la rete organizzativa ad esso connessa in precise formule istituzionali. Certo, a ciò ostava il carattere stesso della tradizione giuridica romana e del modus operandi dei giuristi, così alieno dalle formulazioni generali e dalle logiche deduttive. Ma soprattutto dovette giocare quell’ambiguità già richiamata, connaturata allo stesso potere imperiale. Nella misura in cui non s’era voluto o potuto tagliar di netto le radici repubblicane dell’ordinamento politico, con la loro originaria e persistente identificazione di città e res publica, tale identità restava viva e permeava di sé l’immagine di Roma. Che tuttavia, se restava la sede legittima del nuovo potere non poteva pretendere di circoscrivere in sé, cioè nell’organico cittadino, la sua azione. Più chiaramente che nell’età precedente infatti il principe era il riferimento unitario dell’intero orbe sottoposto al dominio romano. E qui Elio Aristide vede benissimo la novità del reggimento politico romano, capace di mobilitare, piuttosto che deprimere, le energie e le risorse dei popoli sottoposti mediante il vasto anche se graduale meccanismo di assimilazione che Ael. Ar. 61: Óper dý pÒlij to‹j aØtÁj Ðr…oij kaˆ cèraij ™st…n, toàq' ¼de ¹ pÒlij tÍ p£sV o„koumšnV ésper aÙtÁj [cèraj] ¥stu koinÕn ¢podedeigmšnh: fa…hj ¨n perio…kouj ¤pantaj À kat¦ dÁmon o„koàntaj ¥llon cîron e„j m…an taÚthn ¢krÒpolin sunšrcesqai. Trad. it.: «ciò che è un’altra città per il suo territorio, questo è la vostra città per tutta la terra abitata – quasi capitale del mondo; e si direbbe che ad essa, come intorno all’acropoli, affluiscano tutti coloro che altrove abitano sobborghi e borgate». 24 Ael. Ar. 81. 25 Le antiche città risorte a nuova vita, sotto l’ordinato governo di Roma: Ael. Ar. 69. 23

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costituisce la vera novità rispetto all’esperienza della polis antica. Tanto da giustificare la sua affermazione che, solo con Roma, con la costruzione di questo suo impero, si fosse affermata quella scienza del governo cui gli stessi Greci, che pur avevano realizzato il radicale e generalizzato progresso delle conoscenza umane giustamente rivendicato da Aristide, non erano pervenuti 26. È questa relazione feconda, del resto, che appare esaltata dallo stesso Aristide, allorché egli conclude che il mondo romano appare governato «come formasse una città» 27. Codesta scienza del governo inaugurata dai Romani trovava poi il momento di massima evidenza nel rafforzamento militare dell’Impero. I Romani infatti hanno capovolto la logica profonda che aveva minato gli imperi antichi: il loro progressivo indebolimento con l’espansione di un potere sovrapposto a popolazioni e realtà ostili e malamente domate. Giacché i Romani traggono la loro forza proprio da questi popoli e città. L’Impero romano risalta infatti, più che per l’estensione, «per la certezza del dominio», reso tale per il fatto che esso tende a non sopprimere la libertà dei governati 28. Dove l’accento mi sembra posto, al di là dell’enfasi e della piaggeria pur ben presente nell’encomio, su tre elementi. Il primo è il governo uniforme secondo regole e norme generali 29, il secondo è costituito dal sistema di autogoverni cittadini e dalla promozione di questa rete urbana. «Quando infatti prosperarono tante città dentro terra o sul mare?», s’interroga Aristide 30, tanto da poter considerare i Romani essenzialmente come «sovrani di città» 31. Ma il terzo e principale fattore, del resto connesso a quanto ho ora richiamato, è costituito dall’integrazione delle aristocrazie locali nella cittadinanza di Roma. «A tutti i più colti e nobili e potenti di ogni paese avete data la cittadinanza romana», concludeva Aristide, mentre il resto della popolazione restava in condizione di sudditanza 32. Era dunque una permanente ascesa degli elementi più meritevoli o fortunati alla base del formidabile processo d’integrazione che permise ai Romani di governare intere province quasi senza truppe, avendo così fatto «che il nome romano sia proprio non di una città ma di tutto un popolo» 33. Ed è questo meccanismo d’integrazione che è alla base della solidità dell’Impero, giacché l’enorme macchina militare indispensabile per la sua difesa, lungi dal gravare sulla popolazione di Roma o fondarsi su eserciti mercenari, ha egualmente un carattere nazionale. Il che è reso possibile dalla tendenza romana «a non conAel. Ar. 51, 58. Ael. Ar. 36. 28 Ael. Ar. 29, 35. 29 Ael. Ar. 36-39 30 Ael. Ar. 92 s. 31 Ael. Ar. 93. 32 Ael. Ar. 59. 33 Ael. Ar. 63. 26 27

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siderare straniero chiunque faccia per [Roma] ciò che può e deve» 34. Sono i provinciali a fornire le leve dell’esercito romano: in cambio essi sono promossi allo statuto di cittadini: Roma, «fattili cittadini, li [fece] soldati» 35. Con questo richiamo al ruolo dei meccanismi d’integrazione come costitutivi del potere romano entriamo nel vivo del problema e cogliamo una linea di continuità con le consapevolezze repubblicane e con la sapiente politica degli imperatori del primo secolo d.C. Come non ricordare l’amara riflessione di Filippo V di Macedonia sulla superiore capacità di Roma d’integrare i loro nemici, ricavandone la propria forza? E vien fatto di ricordare ancora una volta l’impressionante testimonianza offerta dalla Tavola di Lione, con quel vero e proprio programma politico enunciato da Claudio, fondato sull’equazione tra il rafforzamento dell’Impero e la progressiva, ma continua assimilazione ed integrazione da parte romana di un mondo un tempo estraneo ed ostile. L’ho già detto: l’impero di Vespasiano, come poi quello di Traiano, costituisce la concreta evidenza dei processi ora richiamati e ne testimonia l’indiscutibile successo. Su questo punto s’è insistito sin dall’inizio di queste nostre celebrazioni: vorrei tuttavia richiamare l’attenzione su una prospettiva particolare che di tutto ciò è dato di cogliere in un’importante testimonianza più o meno coeva. Mi riferisco alla riflessione di Plutarco, nei suoi Moralia, relativa all’arte del buon governo: uno scritto in cui s’evidenzia l’ottica sostanzialmente conservatrice dell’autore, rispettosa di un ordine – l’integrazione delle poleis greche e dell’Oriente ellenistico all’interno del potere romano – considerato ormai come immutabile. 7. I suoi Precetti politici, in effetti, si collocano tutti all’interno di esso e, direi, diversamente da quanto farà poi Aristide, non si volgono neppure a considerare quest’ordine imperiale nella sua complessità e totalità. Essi infatti sono tutti integralmente riferiti alla vita interna della singola polis: il loro livello di generalizzazione è dato dalla stereotipicità della vita municipale, dalla sostanziale identità, o quanto meno uniformità di composizione e stratificazione sociale, di assetti istituzionali e di struttura delle varie comunità. La visione sostanzialmente conservatrice di Plutarco s’esprime non solo, come dicevo, nella rappresentazione della polis come definitivamente soggetta ad un potere centrale, evocato qui, più che rappresentato e con una coloritura vaga e distante, ma anche in riferimento alla sua morfologia interna, presupponendo una forte e immodificabile gerarchia sociale alla base del sistema di autogoverni locali. Appare infatti del tutto pacifico l’assunto secondo cui «per natura (fysei) l’uomo politico è chiamato a governare la città», in base ad un potere che il popolo è tenu34 35

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Ael. Ar. 74. Ael. Ar. 75.

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to ad assicurargli nell’interesse comune 36. Egli d’altra parte, se è stato scelto con il voto che lui stesso ha sollecitato e dal favore dei concittadini che ha saputo acquisirsi (con quella serie di accorgimenti e quella disciplina alla cui acquisizione è dedicato appunto il trattatello di Plutarco, dev’essere ben consapevole degli spazi entro cui può operare. E che sono da un lato il carattere partecipativo della città ed il necessario rispetto della libertà dei concittadini, dall’altro e soprattutto il fatto che il governo cittadino non è altro che un meccanismo interno ad una piramide gerarchica al cui vertice si colloca Roma ed il Principe 37. Sappiamo già come il colossale sistema imperiale romano si fondasse sulla vitalità e persistenza delle individualità cittadine. Coerentemente a ciò, in nessun modo Plutarco consiglia ai governanti locali una supina passività alle direttive del potere centrale, tale da sopprimere sostanzialmente gli spazi di autogoverno. Una scelta del genere darebbe infatti una coloritura umiliante al pur indiscusso stato di soggezione, costringendo «i dominatori ad essere i … padroni più di quanto non vogliano» 38. Quello che effettivamente rileva, per costoro, è un altro aspetto del governo locale su cui l’autore insiste: quello che deriva da una politica di governo efficace e mediare tensioni e conflitti all’interno della comunità cittadina. L’azione del politico deve infatti mirare ad assicurare la pace interna alla città. Per questo «saper comandare» non è meno importante che «saper ubbidire», essendo aspetti tra loro «interdipendenti» 39. La quiete pubblica e il buon governo cittadino sono condizione per il funzionamento ottimale del tessuto connettivo dell’organismo imperiale, all’interno del quale i governi cittadini, fondati sulle gerarchie interne alla città, legano ogni centro urbano, ogni agglomerato umano al supremo potere di Roma e del suo Princeps 40.

36 Questa visione del tutto coerente ad un certo orientamento del pensiero politico (C.P. Jones, Plutarch and Rome, Oxford 1971, 111, parla del convincimento «that politicas was a natural calling of the privileged»), non escludeva certo unacerta mobilità sociale, alla base anzi della sostanziale stabilità dell’edificio politico: E. Lo Cascio, Le città dell’Impero e le loro élites nella testimonianza di Plutarco, in Plutarco e la cultura della sua età, Atti X Convegno Plutarcheo (Fisciano-Paestum, 27-29 ottobre 2005), Napoli 2007, 184 ss. 37 Plut., pol. pragm., 17. Ovviamente l’atteggiamento di Plutarco rispetto al potere romano ed agli assetti imperiali è largamente discusso in dottrina: il lettore avvertito non faticherà a rendersi conto che il mio orientamento interpretativo segue sostanzialmente l’equilibrata impostazione di Lo Cascio, Le città, cit., 174 ss. 38 Plut., pol. pragm., 19: «l’uomo politico, se pure rende e presenta la patria obbediente ai dominatori, non deve tuttavia umiliarla, né … rimettendo sia le piccole questioni sia quelle più grandi nelle mani dei governanti, rendono più umiliante lo stato di soggezione» annullando «completamente il governo della città … privo di ogni potere decisionale». 39 Plut., pol. pragm., 21. 40 Plut., pol. pragm., 17: «Bisogna che il politico, qualunque carica assuma, non solo tenga presente» il delicato equilibrio che il governo di uomini liberi, secondo l’ideale della cittadinanza

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Ora l’esigenza di un governo pacifico delle città pone un limite anche al pur insistito richiamo alle tradizioni ed alla loro funzione pedagogica. Giacché questo riferimento alla tradizione ed alle glorie antiche della città può certo servire ad esaltare le virtù pubbliche e private legate alla legalità ed all’onestà, ma non deve stimolare il coraggio indomito dispiegato un tempo nelle antiche guerre guerreggiate contro i nemici. I governanti cittadini, infatti, non debbono insuperbire, dimenticando che la loro posizione, pur superiore ai propri concittadini, «vede i calzari dei Romani al di sopra della loro testa». Talché quei «magistrati che invitano a imitare le opere, gli ideali e le imprese degli antenati», nel campo delle virtù politiche e militari – l’essenza a ben considerare della polis antica – sono assimilati significativamente da Plutarco a quei bambini che «cercano di calzare per gioco le scarpe del padre e a mettersi in testa la corone» 41. Pericolosi per la città che debbono amministrare e destinati essi stessi alla rovina individuale 42. Questa netta condizione di subordinazione definisce il rapporto dei governanti locali con il potere centrale, giacché è appunto il loro buon governo e la piena lealtà verso Roma a metterli in condizione di sollecitarne adeguata protezione. Compito essenziale dell’uomo politico è infatti quello di tessere rapporti particolari d’alleanza subalterna con singole personalità appartenenti alla sfera di governo romano. Appare così esplicitamente, nel disegno di Plutarco, la forma delle relazioni tra centro e periferia permeata di quelle logiche clientelari, da sempre così importanti nel tessuto politico romano. È a tali tipi di vincoli che deve ispirarsi l’azione dei politici locali per assicurare la «prosperità della patria». Giacché, è ben noto che i Romani siano «molto disponibili a sostenere gli amici per gli affari politici» 43. È un aspetto, del resto, che, contribuendo ulteriormente a configurare in senso conservatore il sistema di governo evocato da Plutarco, è richiamato anche in ordine alla stessa formazione dei quadri politici cittadini 44. 8. Ma spostiamoci a considerare quello che a me sembra l’aspetto affatto centrale messo in evidenza, in modo quasi inavvertito, da questo trattatello, che concerne la natura complessiva di quegli articolati e talora non espliciti mutamenti intervenuti nella costruzione del Principato. Esso c’illumina sui concreti meccanismi che presiedono al funzionamento di quell’ampia integrazione municipale in seguito così vivacemente descritta da Aristide. tica, comporta, ma deve altresì ricordarsi come lui stesso comandi e sia comandato, «trovandosi la città sottoposta a proconsoli, luogotenenti di Cesare». 41 Plut., pol. pragm., 17. 42 P. Desideri, La vita politica cittadina nell’Impero: la lettura dei praecepta gerendae rei publicae e dell’an seni res publica gerenda sit, in Athenaeum 64, 1986, 373. 43 Plut., pol. pragm., 18. 44 Plut., pol. pragm., 12.

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Torniamo dunque a quelle condizioni di stabilità sociale e di buon governo delle città come fondamento del sistema integrato dell’impero municipale, dove la funzione delle élites locali ci appare essenzialmente come quella di un anello di una ben più lunga catena di comando. È qui però che interviene una sottile cesura che definisce in profondità le forme dell’integrazione presupposta dallo stesso Plutarco e poi descritta da Elio Aristide. L’ho già detto: in quest’operetta, gli orizzonti non vanno più in là della città, mentre il ben più vasto impero in cui esse sono inserite resta un dato esterno, solo richiamato come vincolo e come presupposto. È un aspetto tanto più significativo in quanto esso appare delineato dallo storico greco in un’epoca in cui il sistema aveva mostrato una grande capacità d’assorbimento di queste stesse élites al suo vertice. Specie con Vespasiano e con i suoi figli, la composizione del vertice politico che continuava a identificarsi nel Senato di Roma, era stata rivoluzionata dalla presenza di potenti gruppi provinciali, soprattutto iberici, con la conseguente ascesa di uno dei loro esponenti, Traiano alla suprema carica imperiale. Certo, vi è ben consapevolezza, nel trattatello, della grande rilevanza, anche ai fini delle vicende individuali, dei ruoli del governo centrale, come non manca in esso un riferimento alle opportunità che ancora si offrono, nel governo delle provincie, agli arricchimenti individuali 45. Tuttavia, come dicevo, sembra che un filtro separi queste realtà dalla prospettiva ‘microcittadina’ entro cui si colloca il discorso di Plutarco: un discorso tutto riferito ad una carriera politica bloccata all’interno degli orizzonti municipali. I moderni studiosi hanno visto giustamente, in questo orientamento, l’influenza di una preoccupazione di fondo dell’autore in funzione degli equilibri generali del sistema, giacché, mentre erano sovrabbondanti le ambizioni di coloro che aspiravano ad uscire dai ristretti orizzonti locali per ascendere alle grandi carriere imperiali, v’ era al contrario un sempre più accentuato «shortage, that was soon to become a crisis … of Greeks who were willing to stay and serve their cities», come lo stesso Plutarco aveva fatto 46. Questo presupporrebbe dunque – come di fatto è avvenuto – quella possibilità d’inserimento degli elementi periferici nell’ambito del potere centrale di Roma. Tuttavia questa prospettiva deve tener conto del fatto che, a mio giudizio, il restringersi dell’ottica plutarchea alla sola sfera del governo locale più che il frutto di preoccupazioni d’ordine generale, sembra il frutto di una vera e propria cesura tra la politica locale e le grandi carriere imperiali: sintomo di una certa quale impermeabilità tra queste due sfere. In effetti questo orizzonte chiuso di Plutarco, ci segnala un mutamento profondo intervenuto nella stessa tradizionale concezione della ‘politica’. Giacché da tempo Plut., pol. pragm., 18, dove si parla dei «lucrosissimi incarichi di procuratore» e dell’amministrazione delle province. 46 Jones, Plutarch, cit., 116 s. 45

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l’ascesa alla sfera del governo centrale era aperta ai membri delle élites locali, non già come coerente prosecuzione e sviluppo delle carriere municipali, concepite come primo passo di un nuovo tipo di cursus honorum, ma come una strada a sé stante. Dove centrali appaiono ora, come un tempo, insieme alla base economica, le consuete forme di patronage che solo il collegamento con il vertice romano rendeva possibile. V’è uno spiraglio in tal senso, nel discorso di Plutarco, in cui si richiamano questi gli orizzonti del politico ambizioso. È quando egli accenna all’importanza di due momenti dell’attività pubblica: i processi e le ambascerie all’Imperatore 47. Ovviamente i processi ai quali fa riferimento Plutarco sono quelli intentati contro un qualche personaggio eminente dell’apparato imperiale, addirittura contro i governatori provinciali: tali che, se vinti, mettono in luce l’ardimentoso ricorrente agli occhi del potere centrale, offrendogli una possibilità di avanzamento al di fuori della ristretta cerchia della sua città d’origine 48. Così come il modo in cui l’ambasceria è svolta di fronte all’Imperatore costituisce egualmente una preziosa occasione di mettersi in mostra. Altrimenti interviene la cesura di cui dicevo: che ci fa comprendere un carattere profondo della struttura politica della società imperiale e la sua radicale diversità dalla forma della polis nella sua età dell’oro. In effetti nelle città greche, cui Plutarco si riferisce, prima della conquista romana, e in Roma, prima di Augusto il gioco politico, nel quale erano impegnati i membri della comunità cittadina, permetteva ai vincitori di ascendere al vertice della gerarchia politica, acquisendo il massimo potere legittimo riconosciuto all’interno di un dato ordinamento ‘sovrano’. Ma è proprio questa ascesa che, col Principato, appare interrompersi, giacché la carriera politica del cittadino, nella sua dimensione locale, resta senza sbocchi: non giunge mai, cioè, a toccare la sfera vera della sovranità, tutta nelle mani di Roma e giocata tutta in Roma. Per le innumerevoli poleis dell’impero questo processo è affatto evidente: la sfera della politica in cui valgono ancora i criteri della selezione e dell’investitura dal basso, secondo forme di democrazia controllata, è infatti ridotta agli spazi circoscritti dell’autogoverno locale. È il drastico confine stabilito ormai per la politica: un confine che, appunto, non esisteva quando la singola polis esisteva come entità sovrana. Insomma, per tornare ad Elio Aristide, è vero che le élites locali erano integrate nella civitas Romana, ma questo, di per sé, non le legittimava ad aspirare ad un potere che trascendesse i confini dei loro municipi. Il disegno complessivo dell’unità imperiale prende dunque consistenza attraverso la sostituzione intervenuta tra le antiche forme di circolazione verticale delle élites Plut., pol. pragm., 10. Plut., pol. pragm., 10: «anche un processo importante concluso con una buona sentenza, la lealtà mostrata in difesa di un debole contro un avversario potente e il coraggio della parola in difesa della giustizia contro un governatore malvagio avviarono alcuni a un glorioso inizio di carriera». 47 48

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di governo ed il nuovo sistema. Ora infatti non s’è affatto interrotta questa circolazione e la sempre rinnovata selezione dei vertici politici dell’ordinamento. Al contrario, questi processi si sono venuti progressivamente espandendo ed abbracciando prima l’Italia tutta e poi il mondo provinciale, assicurando quell’integrazione che la struttura della Res publica non era in grado di realizzare. Essi però passano tutti attraverso il principe: sia perché la via primaria di tali carriere restava la sfera militare ormai totalmente da lui dipendente, sia perché la selezione dei vertici politici, anche quelli associati all’antica struttura cittadina, era nelle sue mani, sia soprattutto perché l’altro fondamentale meccanismo di ascesa sociale e politica era costituito da quegli apparati burocratici che s’erano venuti sviluppando proprio al suo diretto servizio e da lui erano stati costruiti. Si tratta di carriere secondo vie parallele, anche se sovente tra loro intrecciate, e tutte sancite infine dell’appartenenza a quegli ordini superiori, equestre e senatorio, a loro volta controllati dal principe. Per i provinciali – e questo è registrato appunto nelle parole di Plutarco – l’unica possibilità di rompere le mura della città e di ascendere agli spazi più ampi dell’ordine imperiale romano era il contatto diretto o indiretto con il principe. Di qui l’importanza di emergere ora come ossequiosi oratori di un’ambasceria al suo cospetto, ora come coraggiosi tutori degli interessi locali – e dell’ordine imperiale che su di essi si fondava in un processo contro un alto funzionario o qualche magistrato romano che avesse mal governato. Fu proprio la concentrazione nel Princeps, intervenuta durante l’età flavia 49 a facilitare, nell’età successiva, quella miriade d’interventi volti a salvaguardare le città dell’impero che vennero progressivamente aggravandosi ben più di quanto non s’adombrasse ancora nella testimonianza di Plutarco 50. Luigi Capogrossi Colognesi Sapienza Università di Roma 49 In effetti non si deve sottovalutare, con l’ampliamento dei processi d’integrazione del ceto dirigente perseguito dai Flavi, la rilevanza di un’indicazione circa il governo di Domiziano, il più odiato dal senato, richiamato dal pur non lusinghiero ritratto di Svetonio. Dal quale possiamo ricavare che «the reign of Domitian had been a time of unusual honesty and justice in the government of provinces» (Jones, Plutarch, cit., 119). Dove, ancora una volta, l’antica libertas oligarchica sembra minata al suo interno dalle pratiche di malgoverno e di corruzione. Talché la spinta autoritaria, ben evidente in Domiziano, sembra corrispondere anche alle esigenze di controllo rispetto alla macchina di governo, destinate a svilupparsi infine nella formazione di quell’assetto burocratico che prese la sua forma abbastanza definitiva nell’età successiva. 50 Si v., le importanti considerazioni introdotte da Desideri, La vita politica cittadina nell’Impero, cit., 378, sulle disfunzioni organiche presenti nel «sistema integrato di amministrazione centrale e amministrazione locale», verosimilmente derivanti, secondo l’autore, dallo iato che si era creato tra le élites locali, cui comunque era stata assicurata la possibilità di una integrazione nella più alta sfera del governo centrale e la massa di popolazione, esclusa appunto, da questa duplice identificazione «con le strutture dell’impero [e] con quelle della polis».

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Premessa: la attualità della istituzione municipale Il Municipio (o Comune) 1 è stato riconosciuto, in particolare dalla scienza storico-giuridica ottocentesca, la istituzione (romana) più democratica (Alexis de Tocqueville) 2, più attuale (Theodor Mommsen) 3 e persino più ‘umana’ (José Martí, giurista di cultura ispanica e latino-americana, forse meno noto tra i giuristi europei, certamente non meno importante degli altri due) 4. Vedi, infra, nt. 52. Alexis de Tocqueville considera la ‘libertà comunale’ elemento costitutivo essenziale della ‘democrazia’: «C’est pourtant dans la commune que réside la force des peuples libres. Les institu­tions communales sont à la liberté ce que les écoles primaires sont à la science; elles la mettent à la portée du peuple; elles lui en font goûter l’usage paisible et l’habituent à s’en servir. Sans institutions communales une nation peut se donner un gouverne­ment libre, mais elle n’a pas l’esprit de la liberté» (De la démocratie en Amérique, I [1835; édition électronique réalisée le 21 février 2002 par J.-M. Tremblay «Collège d’enseignement général et professionnel Cégep de Chicoutimi» à partir de la 13e édition parue du vivant d’Alexis de Tocqueville] Première partie, ch. V, § i. “Du sistème communale en Amérique”) 63 ss. in part 64. Peraltro, il giudice Tocqueville, ‘Licencié en droit’ presso la Università di Parigi, parla delle ‘Comuni’ (non dei ‘Municipi’) e le definisce istituzione a-storica, tra il primitivo e lo spontaneo, ignota in Europa! 3 Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Graz 1952 (r.a. 3a ed. Leipzig 1887), III.13, 773 individua in ‘das Municipalrecht’ ‘das Fundament unserer Civilisation’. 4 J. Martí, Un libro del Norte sobre las Instituciones Españolas en los Estados que fueron de México (recensione del saggio Spanish Institutions of the Southwest di F.W. Blackmar) in El Partido Liberal, México 25.11.1891, ora in Id. Obras completas, La Habana 1975, t. 7, 59: «El municipio es lo más tenaz de la civilización, y lo más humano de la España colonial […] por los municipios, en las más de las colonias, entró en la libertad la América. Esa es la raíz y esa es la sal de la libertad: el municipio. El templa y ejercita los caracteres, él habitúa al estudio de la cosa pública, y a la participación en ella, y a aquel empleo diario de la autoridad por donde se aquilata el temple individual, y se salvan de sí propios los pueblos» «De España le vinieron a México sus instituciones coloniales: y de Roma le vinieron a España las suyas: sólo que, como Blackmar dice sagazmente, Roma respetó la constitución del país donde hallaba […] Y a Roma va a buscar Blackmar el 1 2

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Dalla scienza storico-giuridica novecentesca (in particolare Moses Finley) 5 è stata individuata la grande questione contemporanea nella combinazione della domanda di democrazia e dello smarrimento del suo senso, rimasto nascosto nelle pieghe della esperienza antica. Il mio apporto al presente Seminario di studi vuole essere un contributo alla comprensione della istituzione municipale romana, nella direzione della risposta alla domanda contemporanea. Il tema del municipium ha una tradizione di studi grande anche dal punto di vista quantitativo; lo stato delle nostre conoscenze e l’obiettivo del mio contributo mi impongono di affrontarlo in quanto e come questione ‘der Gegenwart’ (ovverosia con il metodo ‘giuridico’) 6 e con una ipotesi interpretativa cui concorrano sinergicamente l’esame di singoli punti e l’impianto complessivo. origen de las instituciones de California. Ve persistente en América, a pesar de la rebelión sorda y secular y salvadora del indio, la ley romana que persistió en España, a pesar de godos y moros y triunfó al fin de ellos. El municipio es lo más tenaz de la civilización romana, y lo mas humano de la España colonial […] Allá en Buenos Aires, cuando San Martín ¿no se llamaban decuriones los regidores? Allá en Cuyo magnifica, donde San Martín pensó en pasar los Andes, y organizó el paso San Martín, allá en su Cuyo, hizo los que los Romanos: no tocó las instituciones nativas, obtuvo todo lo que pedía, no sólo porque era justo, sino porque lo pedía por las autoridades propias del país, y conforme a las instituciones y nombres del país. Sobre los indios puso España a Roma: por eso anda así la América. Pero del municipio no se ha de decir mal, porque por un municipio, el de Mostéles, volvió España a la fuerza y decoro que depuso siglos atrás, y por los municipios, en los más de las colonias…». 5 M. Finley, Democracy Ancient and Modern, London 1972 (tr. it. di G. Di Benedetto), La democrazia degli antichi e dei moderni, Roma-Bari 1973, denunzia la carenza contemporanea di ‘democrazia’ e ne registra la esigenza, per rispondere alle quali rinvia alla esperienza antica (p. 36): «Apatia e ignoranza politica sono oggi un dato fondamentale, al di là di ogni possibile discussione; le decisioni non sono il frutto del voto popolare, che al massimo ha un occasionale potere di veto a fatto compiuto, ma sono prese dai leader politici. Il punto è stabilire se nella situazione odierna questo stato di cose è necessario e auspicabile, o se le forme nuove di partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza - se così mi posso esprimere - devono invece essere inventate (uso questo verbo nel medesimo senso in cui lo usai in precedenza dicendo che gli ateniesi inventarono la democrazia)». In realtà (almeno nella versione italiana: p. 14) il medesimo Finley aveva scritto, più correttamente, di ‘scoperta della democrazia’, proprio evocando la nozione omologa di ‘scoperta dell’America’ (per un uso distinto delle due categorie, ‘scoprire’ e ‘inventare’, vedi, infra, nt. 16). Finley commette l’errore (ancora corrente: vedi, infra, ntt. 15 s.) di guardare esclusivamente e, quindi, direttamente alla democrazia ateniese, ignorando la esperienza repubblicana romana (che egli, facendo torto alla propria intelligenza, liquida così nella nt. 30 della p. 15: «I romani dibatterono anch’essi il problema della democrazia, senza dire però nulla d’interessante. Le loro argomentazioni erano di seconda mano, anzi derivavano da una visione meramente libresca della questione; Roma infatti non fu mai una democrazia, anche se nel sistema oligarchico repubblicano erano presenti alcune istituzioni popolari». 6 Propugnato da Paul Koschaker; vedi, infra, nt. 11.

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Il Municipio «das Fundament unserer Civilisation»: una ipotesi di ricerca giuridica

La convergenza della (rilevanza della) istituzione municipale con la (domanda di) democrazia si è manifestata, nelle ultime due decadi, in varî modi; particolarmente attraverso una rinnovata importanza politica delle Città: come luogo della partecipazione comunitaria, in alternativa alla ‘rappresentanza centralizzata’ 7. 1. La problematicità della persona giuridica e della sua rappresentanza a. Un insieme oggettivo di questioni attuali È un fatto che la esperienza giuridica odierna (nella scienza [del Diritto positivo e del Diritto romano], nella legislazione e nella prassi) è segnata da una serie di questioni, tutte concernenti la esistenza stessa della istituzione della ‘persona giuridica’ e della sua necessaria ‘rappresentanza’, quale abbiamo ereditato nella ‘messa a punto’ operata (in forme diverse ma integrantisi) tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento 8. In ipotesi, tali questioni sono un ‘insieme’ 9 ‘oggettivo’, costituito: – dalla negazione della consistenza/esistenza di quella istituzione, da parte della scienza del Diritto positivo (in particolare la scienza del Diritto costituzionale); – dai tentativi legislativi recenti di sostituirla – almeno parzialmente – con istituzioni diverse; – dal suo sostanziale e costante disconoscimento nella prassi politica; – dal quesito circa la sua presenza nel Diritto romano.

7 Sintomatica la ‘raccomandazione’ fatta nella ‘Nouvelle Charte d’Athènes’ del 1990 dal Consiglio Europeo degli Urbanisti: «Une véritable participation. Le degré d’implication du citoyen dans les questions urbaines varie beaucoup, entre les villes et les pays d’Europe. Si la participation du public est très développée dans certains pays, elle est freinée dans d’autres par la manière très rigide avec laquelle est appliquée le système de représentation démocratique, souvent hautement centralisé. L’expression du droit, des besoins et des souhaits des citoyens, et leur compréhension des phénomènes […] ne peuvent se réaliser uniquement à travers un système fondé sur des représentants élus aux niveaux local et central». 8  Con riferimento specifico alla organizzazione pubblica (ovverosia ‘dello Stato’) si possono menzionare le teorie novecentesche della ‘élite’ e le connesse teorie del ‘partito’, quale razionalizzazione della teoria ottocentesca dello Stato (vedi, ad es., G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, voll. 1-2, Milano 2006, in part. 432 s., sul ruolo degli intellettuali borghesi secondo il Che fare? [1902] di Lenin; cfr. U. Cerroni, Teoria del partito politico, Roma 1978; Id., Il pensiero politico del Novecento, Roma 1995; P. Ridola, L’evoluzione storico-costituzionale del partito politico [rel. al XXIII convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, Alessandria, 17 e 18 ottobre 2008, testo provvisorio] in www.associazionedeicostituzionalisti.it; cfr. infra, nt. 93). 9 Vedi, infra, §§ 1.b-d.

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Di tale insieme unitario di questioni giuridiche (con corrispondenza nelle altre prassi/scienze ‘umane’, compresa quella economica) 10 è necessario ricercare e proporre una risposta altrettanto unitaria 11. b. La crisi esistenziale odierna della persona giuridica e della sua rappresentanza nel Diritto positivo, in particolare nel Diritto costituzionale a. Nella scienza La crisi della persona giuridica e della sua rappresentanza concerne sia il diritto privato 12 sia il diritto pubblico ma, in questa prima, sintetica e soggettiva ricognizione, circoscrivo la mia attenzione – per quanto concerne il diritto positivo – a questioni di diritto pubblico, anche perché – per una serie di ragioni 13 – è in questo àmbito che la crisi si è manifestata con più forza. La scienza del diritto costituzionale ha registrato, in forma oramai diffusa e consolidata, la crisi della rappresentanza della persona giuridica Stato (e di quelle conformate sul suo modello) negando la consistenza dogmatica e, dunque, la esistenza stessa della ‘rappresentanza politica’ 14.

Vedi, infra, § 1.e. Con un impiego del Diritto romano in linea con la nota quanto inapplicata ‘legge‘ di P. Koschaker, Europa und das römische Recht, München und Berlin 19583, 352 «Die juristischen Disziplinen haben ihre eigenen Geset­ze, und eines dieser Gesetze ist daß sie alle mehr oder weniger auf die Gegenwart orientiert sind». L’ ‘orientamento al presente’ (affermato da Koschaker come dovere – anche – del Diritto romano) non deve essere confuso con la ‘attualizzazione’ del Diritto romano, almeno così come questa azione viene intesa correntemente, cioè come individuazione/affermazione della equivalenza (im-perfetta) di situazioni e/o istituzioni antiche a quelle moderne (vedi, infra, nt. 79). 12 Vedi, ad es., J. L. Corrêa de Oliveira, A Dupla Crise da Pessoa Jurídica, São Paulo 1979 (cfr. Id., Conceito de pessoa jurídica, Curitiba 1962); più recentemente: N. Baruchel, La personnalité morale en droit privé, Paris 2004, Première partie La crise de la notion de personnalité morale; A. Serra, Regressione evolutiva degli istituti giuridici: brevi riflessioni sulla nozione di persona giuridica, in Diritto@ Storia, 4/2005. Serra esprime – credo – il punto di vista corrente, individuando come «tratto essenziale della persona giuridica unitamente alla sua organizzazione corporativa – il tipico regime di responsabilità, riassunto nel celebre passo di Ulpiano: Si quid universitati debetur singulis non debetur nec quod debet universitas singuli debent» [= D. 3.4.7.1]; il punto è che né presso Ulpiano né nel Diritto romano in generale si trova la nozione di persona giuridica o nozione equivalente (vedi, infra, §§ 2 e 4). 13 Vedi, infra, § 2.d, su caratteristiche e ruolo interpretativo del dibattito svolto, su questo tema, nel secolo XVIII. 14 Vedi G. Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e ‘modello’ del diritto pubblico romano, in L. Labruna (diretto da) e M.P. Baccari, C. Cascione (a cura di) Tradizione romanistica e Costituzione, I, Napoli 2006, 321-363; pubblicato anche in Diritto@Storia, 5/2006, § 2.b. 10 11

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Parte della stessa scienza ha, quindi, cercato la alternativa nel precedente della democrazia ateniese 15, riferimento però storicamente parziale e istituzionalmente inadeguato 16. b. Nella legislazione Contemporaneamente, sempre nell’àmbito del diritto costituzionale, si è sviluppata una attività legislativa – quantitativamente importante e sempre ‘oggettivamente’ connessa alla medesima crisi – attraverso due specie di, meri, ‘tentativi’. Si tratta: di progetti legislativi di abrogazione, che non diventano leggi, e di leggi di riforma positiva, che restano inefficaci.

15 Vedi B. Ackerman, J. Fishkin, Deliberation Day, New Haven 2004; G. Bosetti, S. Maffettone (a cura di), Democrazia deliberativa: cosa è, Roma 2003, ivi (in part.) M.H. Hansen, Democrazia diretta, antica e moderna, 115 ss. Bruce Ackerman è autore di una ampia opera di revisione critica del costituzionalismo USA (una trilogia di cui sono usciti i primi due volumi [We the People. I. Foundations, Cambridge, Mass. 1991 e II. Transformations, ibid. 1998] e anticipazioni del terzo [ad es.: La nuova separazione dei poteri. Presidenzialismo e sistemi democratici, Roma 2003; traduzione it. del saggio apparso sulla Harvard Law Rewiew, nel 2000]) nella quale obietta sia alla rappresentanza politica sia alla connessa tripartizione dei poteri. Mogens Herman Hansen è autore di Det athenske demokrati i 4. århimdrede f. Kr., 1-6 (Copenhagen 1977-1981), tr. it. a cura di A. Maffi, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Milano 2003, divenuta il riferimento per le riproposizioni odierne del modello ateniese antico. Vedi anche, infra, nt. 22, il riferimento alla corrente di ‘democrazia partecipativa’. 16 Si noti: il ‘padre [moderno] della democrazia’, Jean-Jacques Rousseau, ne individua la realizzazione istituzionale precisamente nella repubblica romana: vedi G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1994, § C.II. Interpretazione e proposizione scientifiche del modello costituzionale romano: Rousseau repubblicano (e democratico); Id., A teoria da respublica (fundada sobre a ‘sociedade’ e não sobre a ‘pessoa jurídica’) no Corpus Juris Civilis de Justiniano (Digesto 1.2-4), in Seqüência: estudos jurídicos e políticos (Florianópolis) Vol. 29, No 59, 2009, §§ 2.2. «O caráter genial da ‘descoberta’ política grega da democracia» e 2.3. «O caráter complexo da ‘invenção’ jurídica romana da república (através o paradigma do contrato de sociedade)»; Id., Tito Livio, Storia di Roma, Prima deca. Nota di lettura, in Roma e America. Diritto romano comune, n. 27, 2009, §§ II.3.a. «Scoperta politica greca della democrazia: la inutilità e – quindi – la dannosità dei ‘capi’» e b. «Invenzione giuridica romana della repubblica: il paradigma del contratto di società e il ruolo della riflessione ciceroniana (in particolare, il De re publica)». Vedi anche, in Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e ‘modello’ del diritto pubblico romano, cit., § 2.b., riferimenti alla nuova fortuna del ‘repubblicanesimo’, in particolare quello ‘secondo Skinner’ (Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, I-II, Cambridge 1978 [tr. it. Le origini del pensiero politico moderno, Bologna 1989]) cioè teoria dell’autogoverno cittadino, elaborata utilizzando essenzialmente fonti romane: Cicerone, Sallustio e Tacito; vi è, infatti, anche un più diffuso e meno corretto ‘repubblicanesimo’ Aristotele-dipendente, il cui capofila è J.G. Pocock, The Machiavellian Moment: Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton 1975 (tr. it. Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, I-II, Bologna 1980).

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Esempî italiani della prima specie di tentativi sono stati i progetti: – di abrogazione dell’art. 67 della Costituzione (contenente il divieto del ‘mandato imperativo’, ‘chiave di volta’ della rappresentanza politica 17) da parte di 21 deputati, nel 1999 18, e – di riforma sostanziale della stessa materia, da parte della apposita ‘Commissione bicamerale’ per la riforma costituzionale, nel 2004 19. Esempî europei e italiani della seconda specie di tentativi sono le leggi: – di adozione del ‘principio di sussidiarietà’, facente capo a un ‘federalismo’ specifico, che è stato definito ‘societario’ 20, e – di sua traduzione istituzionale, principalmente a mezzo del ‘Comitato delle Regioni’ europeo e dei ‘Consigli delle Autonomie Locali’ italiani 21.

17 In Italia, ad esempio, il divieto di mandato imperativo è stabilito dall’art. 67 della Costituzione. L’art. 4.1.c del disegno di legge n. 1094, d’iniziativa del Governo, approvato dalla Camera il 7 ottobre 2003, contenente le disposizioni di attuazione del novellato art. 122.1 Cost., annovera espressamente il divieto di mandato imperativo tra i principi fondamentali, che le leggi regionali dovranno rispettare (nonostante che – vedi la ‘relazione al testo’ – «nel parere espresso dalla Conferenza Stato-Regioni si chiedeva di non prevedere alcuna disposizione concernente il divieto di mandato imperativo sulla base della considerazione per cui tale questione potrà essere affrontata da ciascuna regione nella adozione dello Statuto»). La medesima impostazione troviamo a livello europeo. l’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla decisione del Consiglio del 20 settembre 1976 (n. 76/787 CECA, CEE, EURATOM), art. 189 T.C.E., sancisce che i rappresentanti «non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere mandato imperativo». Il recente statuto dei deputati al Parlamento europeo, approvato il 3 giugno 2003, conferma che «i deputati sono liberi e indipendenti» (art. 2.1), «non possono essere vincolati da istruzioni né ricevere mandato imperativo» (art. 3.1) e che «qualsiasi accordo sulle modalità di esercizio del mandato è nullo» (art. 3.3). In proposito S. Curreri, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito2, Firenze 2004, passim, in particolare, 19 s. nt. 47; vedi anche R. Scarciglia, Il divieto di mandato imperativo. Contributo a uno studio di diritto comparato, Padova 2005. 18 Primo firmatario, il deputato nonché professore universitario di diritto pubblico comparato Paolo Armaroli (vedi ancora Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e ‘modello’ del diritto pubblico romano, cit., § 2.b). 19 Vedi S. Curreri, Rappresentanza politica e divieto di mandato imperativo nel progetto di riforma costituzionale, 9 febbraio 2006, in www.federalismi.it, n. 3, 2006. 20 Sui tentativi legislativi di sostituzione del ‘centralismo’ con il ‘federalismo societario’ vedi G. Lobrano, «Principe de subsidiarité» et convergence méditerranéenne comunicazione al Colloquio: Convergences des politiques juridiques Pour un développement commun dans l’espace euro-méditerranéen (Casablanca, 7-9 octobre 2010), in Diritto@Storia, 9/2010 (la espressione ‘federalismo societario’ è presa da Th. O. Hüglin, Sozietaler Föderalismus - Die Politische Theorie des Johannes Althusius, Berlin -New York 1991). 21 Vedi ancora Lobrano, «Principe de subsidiarité» et convergence méditerranéenne, cit.

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Costituisce una specie ibrida di ‘tentativi’ la legge italiana n. 81 del 1993, la quale ha introdotto, a carico dei candidati a Sindaco, l’obbligo – però puramente formale – di presentazione di programma per lo svolgimento del proprio mandato: così contraddicendo il principio del mandato imperativo e ponendosi – sempre soltanto formalmente – in linea con le pratiche e le teorie municipaliste della ‘partecipazione’  22. Alla crisi della rappresentanza delle persone giuridiche pubbliche fa capo anche la crisi della istituzione – a quella connessa – dell’ ‘equilibrio dei 3 poteri’ e, pertanto, alla seconda specie di ‘tentativi’ legislativi appartiene – in maniera meno diretta ma non meno essenziale – anche il ricorso – di diffusione mondiale – alla istituzione della ‘difesa civica’ (Ombudsman, Defensor del Pueblo, Médiateur, Difensore civico…) 23. c. Il disconoscimento sostanziale costante della persona giuridica e della sua rappresentanza nella prassi politica Nel 1982, il costituzionalista spagnolo Antonio Torres del Moral ha osservato che «La teoría de la prohibición del mandato imperativo asentada en el principio de soberanía nacional […] es histórica- y actualmente insostenible, desde el punto de vista rigurosamente teórico. De manera que no puede sorprender nos en La legge (senza prassi) italiana corrisponde alla medesima esigenza che ha prodotto la prassi (senza legge) brasiliana (di Porto Alegre: città di circa un milione e mezzo di abitanti) dell’ ‘Orçamento partecipativo’, cioè della partecipazione dei cittadini alla formazione del bilancio comunale, imitata in varie parti del mondo (vedi Lobrano, ‘Modello romano’ e ‘costituzionalismo latino’, cit., nt. 157. Sulle connesse teorie della ‘partecipazione’ vedi da ultimo U. Allegretti (a cura di), Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze 2010 [online] ivi bibliografia). Per un tentativo di messa a punto terminologica tra ‘democrazia partecipativa’ e ‘democrazia deliberativa’, vedi E. Stradella, Partecipazione e deliberazione: una evoluzione bottom up della forma di governo democratica? Appunti a partire dalla legge della regione Toscana n.69/2007, in Osservatorio delle fonti, 3/2008 (online). 23 Circa il nesso tra la riforma della rappresentanza politica e la istituzione della difesa civica, vedi anche, infra, § 4.e. Sul nesso tra tribunato romano e difesa civica odierna, vedi G. Lobrano, Del Defensor del Pueblo al Tribuno de la Plebe: regreso al futuro. Un primer bosquejo de interpretación histórico-sistemática. Con atención particular al enfoque bolivariano, in P.P. Onida, E. Valdés Lobán (a cura di), II Seminario en el Caribe Derecho Romano y Latinidad: Identidad e Integración Latinoamericana y Caribeña – Memorias – “Patria es humanidad”, José Martí (La Habana, 12 al 14 de febrero de 2004), Napoli 2011. In questo scritto (la cui prima stesura e pubblicazione in lingua italiana risale al 2002) si formula la tesi che alla importanza strategica di tale istituto corrisponda la sua inefficacia (prodotta dalla mancanza di riflessione dottrinale e dalla connessa inadeguatezza legislativa) e si indica il rischio conseguente della sua crisi. A tacere di altri fenomeni, la ‘Legge finanziaria 2010’ italiana, che abroga il Difensore civico cittadino, ha dato fin troppo ragione a tali valutazioni negative e previsioni pessimistiche. 22

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absoluto que en la práctica política [el mandato imperativo] se haya mantenido vigente» 24. La constatazione scientifica, di una risalente e perdurante schizofrenia tra dottrina e dettato normativo, da una parte, e prassi, dall’altra, in materia di ‘rappresentanza politica’, corrisponde alla esperienza comune. d. Il dibattito recente sulla presenza della persona giuridica e della sua rappresentanza nel Diritto romano Allo stesso insieme di questioni giuridiche appartiene il dibattito scientifico tra i romanisti, sulla presenza o meno della persona giuridica e della rappresentanza già nel Diritto romano. Tale dibattito, aperto tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 da Riccardo Orestano e da Pierangelo Catalano 25, ha conosciuto negli ultimi tempi sviluppi interessanti ma non soddisfacenti, con attenzione particolare alle applicazioni societarie 26. e. Un accenno alla dimensione economica Ovviamente, questa crisi ha anche una dimensione economica, la quale si è manifestata in varî modi. Non è questa la sede per affrontare l’argomento. Ricordo tuttavia: – la vera e propria inversione di marcia (quanto meno nella esperienza europea) dalla originaria dottrina della programmazione centralizzata e dall’alto (caratteristica della vecchia CECA: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) alla dottrina della programmazione partecipata e dal basso (i Piani Integrati d’Area propri della odierna Unione Europea) 27 e l’affermarsi della dottrina economica (di origine ibrida: statunitense/italiana) del ‘capitale sociale’ 28, entrambe conA. Torres del Moral, Crisis del mandato representativo en el Estado de partidos, in Revista de Derecho político, 14, Verano 1982, 7 ss.; cfr. Curreri, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, cit., passim, in part. 94 nt 105. Sul nesso tra rappresentanza politica e mandato imperativo, vedi, supra nt 17. 25 R. Orestano, ‘Rappresentanza’ (diritto romano), in Noviss. Dig. it., Vol. XIV, Torino, 1967, 795 ss. e Id., Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, I, Torino 1968; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1972 (cfr. Id., Tribunato e resistenza, Torino 1974; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano. Vol. I, Torino 1990); cfr. L. Peppe, a cura di, Persone giuridiche e storia del diritto, Torino 2004. 26 Vedi, infra, § 3.d. 27 Vedi G. Becattini, Dal settore industriale al distretto industriale, in Rivista di Economia e Politica Industriale, 1979; cfr. I. Samson, Territoire et systèmes économiques, in Systèmes Productifs Locaux (SPL) et développement, n. spécial de Critique Économique (Rabat), février 2005. 28 R. Putnam, Making Democracy Work (Princeton 1993) tr. it. La tradizione civica delle regioni italiane; seguito da Id., Bowling Alone (New York 2000) tr. it. Capitale sociale e individualismo. Crisi e crescita della cultura civica in America. 24

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nesse alla valorizzazione delle autonomie locali – in particolare civiche – e al principio di sussidiarietà; – nonché, in ambito aziendale, il passaggio dalla dottrina cd. ‘fordista’ della organizzazione del lavoro a quella cd. ‘toyotista’ 29 e l’apparire (ancora nella esperienza europea) dell’istituto della cd. ‘societas europaea’ 30, entrambe di segno ‘partecipativo’ 31. Tutte queste novità economiche appaiono ancora in fieri e, comunque, ‘azzoppate’ dallo stato della scienza e delle istituzioni giuridiche. f. La ragnatela delle disattenzioni reciproche La dottrina costituzionale, che registra la crisi della istituzione della rappresentanza della persona giuridica Stato, ha preso nota anche della non-incidenza delle proprie posizioni: sia (come abbiamo visto) di quella – risalente – della costruzione di questa istituzione (nei confronti della prassi politica, la quale si è costantemente atteggiata come se tale istituzione non esistesse); sia di quella – odierna – della denunzia della sua inconsistenza (nei confronti del quadro istituzionale, il quale continua ad annoverare tale istituzione) 32. Reciprocamente, le iniziative legislative recenti (i ‘tentativi’) pure oggettivamente volte a riempire varchi apertisi nella (credibilità della) rappresentanza della

29 H. Kern, M. Schumann, La fine della divisione del lavoro, Torino 1991. Ricordo la tesi di Sieyès sul nesso divisione del lavoro - rappresentanza politica: E. Sieyès, Observations sur le rapport du comité de constitution, concernant la nouvelle organisation de la France, Versailles chez Badouin 1789, 35 in Oeuvres de Sieyès (Genéve-Paris, 1989, III); M. Turchetta, Fordismo e postfordismo, in Protagonisti, 67 agosto 1997; L. Basso, La ricezione del Toyotismo in Italia (= www.intermarx.com/temi/Basso.html 19-12-01); P. Barbieri, Tra fordismo e post-fordismo. Modi di regolazione e passaggi tra micro e macro, in Impresa & Stato 27 (= www.impresa-stato.mi/camcom.it//barbieri.html 10-01-02); R. Bellofiore, Lo Stato e le metamorfosi della globalizzazione. Dalla crisi del fordismo alla nuova economia, in Giano. Pace ambiente problemi locali, 37/2001. 30 Regolamento comunitario n. 2157 dell’8 ottobre 2001; in proposito, vedi L. Bordogna, F. Guarriello (a cura di), Aver voce in capitolo. Società europea e partecipazione dei lavoratori nell’impresa, Roma 2003; P.P. Onida, Tensioni non risolte nel nuovo diritto societario: una lettura romanistica, in Diritto@ Storia, 3/2004; Id., La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo, in Diritto@Storia, 5/2006. 31 Vedi Quaderni della partecipazione, 1 marzo 1998; M. D’Antona, La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, in Enciclopedia Giuridica Treccani, 1980-1990, s.v.; AA.VV., Banca e industria nella partecipazione comunitaria, Roma 1993. 32 G. Ferrari, Rappresentanza istituzionale, in Enciclopedia Giuridica, XXV, Roma 1991, s.v., si ‘sorprende’ (cfr. supra, nt. 24, la notazione speculare di Torres del Moral) «che la difficoltà di definizione teoretica [della ‘nozione di rappresentanza politica’ ‘centrale nella concezione stessa dello Stato di democrazia classica’] non abbia indotto significative correnti del pensiero pubblicistico a lamentare una crisi delle stesse istituzioni rappresentative» (vedi ancora Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e ‘modello’ del diritto pubblico romano, cit., § 2.b).

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persona giuridica Stato (e delle altre persone giuridiche – enti locali), non soltanto non appaiono promosse e guidate da quella dottrina ma neppure appaiono destarne la attenzione adeguata. In questo quadro generale, di disattenzioni reciproche, si colloca anche la specifica mancanza di attenzione, presso il dibattito romanistico circa la presenza della persona giuridica e della rappresentanza nel Diritto romano, per la problematicità di tali istituzioni nel Diritto positivo e, quindi, la mancanza di attenzione da parte dei cultori del Diritto positivo (e degli operatori giuridici) per il dibattito romanistico. Ne consegue una situazione non seria ma grave di confusione e di ‘stallo’, prodotta dalla combinazione della crisi esistenziale di una istituzione (la quale è stata giustamente definita la ‘chiave di accesso’ alla esperienza giuridica contemporanea 33) con la insufficienza scientifica, politica e legislativa nella individuazione, perseguimento e realizzazione della alternativa necessaria 34. 2. La alternatività storica-dogmatica tra persona giuridica e societas a. Gli elementi: un problema, due soluzioni e un metodo Gli elementi principali della ipotesi di ricerca sono tre. Il primo elemento (per ovviare alla ‘ragnatela’ delle disattenzioni reciproche) è la presa d’atto che tali questioni sono un ‘insieme’, alla cui radice è un problema unico, ‘di base’ nella esperienza giuridica, concernente pertanto il diritto privato e il diritto pubblico. Il secondo elemento è che, di tale problema, la ‘nostra’ esperienza giuridica, dalle origini mediterranee agli sviluppi odierni, ha prodotto non una ma due soluzioni, tra loro alternative. Una soluzione è, appunto, quella della persona giuridica e della sua rappresentanza: assolutamente dominante nella epoca contemporanea ma di origine medievale ed ora colpita da una crisi che ne revoca in dubbio la stessa esistenza. Vi è, però, un’altra soluzione: ‘a base societaria’, sostanzialmente 33 Il costituzionalista italiano Gianni Ferrara definisce la nozione di ‘persona giuridica’ «la password di accesso alla dimensione del giuridico» (Id., Il diritto come storia, in Diritto pubblico, 2005, fasc. 1). Osservazione omologa è fatta (con abbondanza di citazioni della scienza giuridica contemporanea) a proposito della nozione di ‘rappresentanza’ da Hasso Hofmann, in limine alla sua monografia Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, Berlin 1974 (4° e ultima ed. 2003; tr. it. di C. Tommasi, a cura di G. Duso, Rappresentanza – rappresentazione: parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Milano 2007). 34 Salvatore Curreri, ad esempio, conclude la propria riflessione (su Democrazia e rappresentanza politica, cit., 178 ss.) proponendo – come unico rimedio – il ricorso alla «abbreviazione ipso iure della durata della legislatura in caso di crisi del rapporto fiduciario».

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accantonata nella epoca contemporanea 35. Questa ‘altra’ soluzione è di origine romana e, mai completamente scomparsa nella prassi, è ora oggettivamente risorgente nella legislazione ma resta dimenticata dalla dottrina 36. Il terzo elemento è che tali soluzioni noi dobbiamo considerare contestualmente ma partendo dalla soluzione romana a base societaria: sia in quanto quella vitale sia in quanto quella dimenticata. b. Il problema: la considerazione e il regime giuridici unitari dell’agire volontario di una pluralità di uomini Il problema comune dell’insieme di questioni menzionate è ‘di base e complesso’. Problema di base nel Diritto è la considerazione e il regime dell’agire umano volontario. Secondo la definizione ‘pandettistica’, è il problema gius-privatistico del ‘negozio giuridico’: «manifestazione di volontà diretta alla costituzione, modificazione ed estinzione di un diritto soggettivo» 37. Ma è anche il problema giuspubblicistico della ‘creazione, modificazione e abrogazione’ del diritto oggettivo. Nel lessico giuridico romano, entrambe queste attività sono indicate – non casualmente – con la stessa parola: ‘lex’ 38. Problema di base e complesso nel Diritto è la considerazione e il regime unitari dell’agire volontario di una pluralità di uomini. Anche questo problema ‘complesso’ può essere visto sia dal punto di vista del diritto privato sia dal punto di vista del diritto pubblico, ove può essere definito come il problema del ‘governo’ 39. c. Le due soluzioni storico-dogmatiche a. I due elementi di ciascuna soluzione Di questo problema complesso sono state proposte – come abbiamo detto – due soluzioni, altrettanto complesse che il problema cui vogliono dare risposta. 35 Vedi, supra, ntt. 20, 28 e 30 e, infra, nt. 40; più in generale, Lobrano, Dottrine della ‘inesistenza’ della costituzione e ‘modello’ del diritto pubblico romano, cit., 342 ss. (§ 3. «Risorgenza spontanea della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano»); cfr. Id., ‘Modello romano’ e ‘costituzionalismo latino’, in Teoria del diritto e dello Stato. Rivista europea di cultura e scienza giuridica, 2007 N. 2, Potere negativo e Costituzioni bolivariane, 275 s. 36 Vedi, infra, § 2.d. 37 Vedi, ad es., P. Voci, Istituzioni di Diritto romano, Milano 19543, 138 s. 38 Vedi G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1922 (più recentemente F. Serrao, Legge (storia: a. diritto romano), in ED, XXIII, Milano 1973, s.v.) e V.A. Georgescu, Essai d’une Théorie générale des leges privatae, Paris 1932. Cfr. l’art. 1134 del Code Napoléon, «les conventions légalement formées tiennent lieu de loi à ceux qui les ont faites» (ripreso da vari altri Codici Civili, tra cui quello italiano, art. 1372). 39 Con la questione, connessa, della sua distinzione dalla ‒ e della ‒ sua combinazione con la ‘sovranità’ (forma ed esercizio).

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Ciascuna di esse è composta – a sua volta e ovviamente – da due elementi distinti. Un elemento è la costruzione della unità a partire dalla molteplicità. L’altro elemento è la attribuzione alla unità, così costruita, della capacità di porre in essere una attività volontaria. La soluzione medievale-moderna è quella della persona ficta et (oppure: vel – sive) repraesentata e la soluzione romana è quella della societas consensu contracta 40 e il rapporto infra-potestativo 41. b. La soluzione medievale-moderna: la persona ficta et repraesentata Secondo gli storici del diritto medievale e moderno, la soluzione della persona giuridica (cioè, della riduzione della molteplicità delle persone fisiche alla unità della persona astratta) e della (sua) rappresentanza (cioè, della sua capacità di atti di volizione mediante una [altra] persona fisica): – nasce, con un ruolo subito importante, in epoca medievale (nel secolo XIII) con la costruzione canonistica 42/civilistica della ‘persona ficta et repraesentata’ (correntemente attribuita al grande canonista italiano Sinibaldo de Fieschi (1195-1254) quindi Papa Innocenzo IV (180°/1243¦: cum collegium in causa universitatis fingatur una persona) 43 ma cui concorrono – in modi e misure che 40 Vedi G. Lobrano, Dell’homo artificialis - deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi, in A. Loiodice, M. Vari (a cura di), Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio, Roma 2003. Nel paradigma della societas contrattuale rientra la communio, nel senso che può esserne sia effetto sia elemento costitutivo (societatem coire re: Mod. D. 17.2.4 pr.; cfr. Ulp. D. 17.2.52.4). Vedi (dopo i contributi di Ein, Frezza, Albertario) A. Guarino, Comunione (dir. rom.), in ED, VIII, Milano 1961, s.v. § 5. «La communio iuris romani» ntt. 30 e 35; A. Burdese, Impresa collettiva e schiavo ‘manager’, in Labeo, 32, 1986, 208 e 214 e P. Cerami, Impresa e societas nei primi due secoli dell’Impero, in AUPA, Vol. LII, 2007-2008, § 5 ntt. 57 s.; vedi anche la contraria opinione di M. Talamanca, Società in generale. Diritto Romano, in ED, XLII, 1990, s.v., § 2.f. 41 Vedi, infra, §§ 1.c.b e 4.b. 42 La attenzione particolare (la ‘ipostasi’: vedi, ad es. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Roma 1996, 401; cfr. M. Roberti, Il corpus mysticum nella storia della persona giuridica, in Studi in onore di E. Besta, IV, Milano 1939, 35 ss.) attribuita dalla teologia cristiana alla nozione (giusromanistica) di ‘persona’ può contribuire a spiegare il ruolo del Diritto canonico e comunque degli ecclesiastici nella costruzione della nozione di persona ficta. Vi è, tuttavia, chi nega la paternità canonistica della ‘teoria della finzione’ per attribuirla direttamente a Savigny: K. Hohenlohe, Grundlegende Fragen des Kirchensrechts, Wien 1931, 76 ss. Cfr. Hofmann, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, cit., in part. 133 nt. 63. 43 Sinibaldus Fliscus, Super libros quinque Decretalium commentaria, Francofurti ad Moenum 1570, in c. 57.X.2.20 fo. 270v b; commento redatto forse nel 1251 (così M. Bettetini, «La regola e vita dei frati è (…) vivere senza nulla di proprio» in A. Musco (a cura di), I francescani e la politica, Palermo 2007, 65; cfr. F. Ruffini, «La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo IV) ed in Federico Carlo di Savigny», 1898, quindi in Id., Scritti giuridici minori,

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hanno formato e continuano a formare oggetto di numerosi studi – due civilisti francesi, gli ecclesiastici Jacques de Révigny (?-1296) e Pierre de Belleperche (?-1308) della ‘scuola di Orleans’ (attivata nel 1235 dal Papa Gregorio IX: definizione dell’Imperatore come rappresentante della persona dell’Impero) 44 nonché quindi vari altri giuristi, tra cui ancora il giurista italiano Bartolo di Sassoferrato (1314-1357: personae, quae faciunt universitatem, secundum iuris fictionem, est quaedam persona repraesentata) 45 etc.; – compie un vero e proprio salto in avanti, in àmbito giuspubblicistico, attraverso l’impiego parlamentare inglese (da Edoardo I [‘Model Parliament’, 1295, i cui membri, rappresentanti dei Comuni, sono dotati di «full and sufficient power» 46: introduzione del divieto di mandato imperativo, inconcepibile senza la costruzione ‘sinibaldiana’] ad Hobbes [Leviatano, 1651: teorizzazione del contratto iniziale costitutivo della ‘persona artificialis’ e, dunque, ‘repraesentata’], da Montesquieu [De l’esprit des lois, 1748: esaltazione e proposizione del ‘modello’ parlamentare inglese] a Madison [The Federalist, 1787] e Kant [Zum ewiII, Milano 1956, 3 ss.; G. Lo Castro, Personalità morale e soggettività giuridica nel diritto canonico, Milano 1974, 225 s.; A. Rota, La persona giuridica collettiva nella concezione di Sinibaldo de’ Fieschi (Papa Innocenzo IV) estr. Archivio Storico Sardo di Sassari, anno III n. 3, 1976, 8; F. Todescan, Dalla persona ficta alla persona moralis. Individualismo e matematismo nelle teorie della persona giuridica del sec. XVII, in Quaderni fiorentini 11-12, 1982-1983, Itinerari moderni della persona giuridica, Tomo I, 59 ss. e la stessa M. Bettetini, Riflessioni storico-dogmatiche sulla regola quod omnes tangit e la persona ficta, in Il diritto ecclesiastico, anno CX, fasc. 3, 1999]. 44 Sul contributo di questi giuristi : R. Feenstra, Le concept de fondation du droit romain classique jusqu’à nos jours: théorie et pratique, in RIDA 3, 1956, 245 ss.; Id., L’histoire des fondations (à propos de quelques études recentes), in Tijdschrift vor Rechtsgeschiedenis, 24.1, 1956, 424 ss.; A. Campitelli, Cum collegium in causa universitatis fingatur una persona. Riflessioni e commento di Sinibaldo dei Fieschi (c. praesentium, de testibus et attestatibus, 57, X 2, 20), in Apollinaris 63, 1990, 125 ss.. 45 Nel commento a D. 48.19.16.10, n. 3, In Secundam Digesti Novi Partem, Venetiis 1585, fol. 187 v.a. (su cui vedi ancora Bettetini, La regola e vita dei frati, cit., 66 nt. 70; cfr. commento a D. 45.3.26 persona ficta et hereditas repraesentata non est capax ususfructus […] in aliis personis repraesentatis, ut collegio et populo, su cui vedi J.M. Blanch Nogués, Régimen jurídico de las fundaciones en Derecho romano, Madrid 2007, 54; il quale ricorda anche che Sinibaldo de’ Fieschi pare abbia insegnato in Francia, a Lione, così forse influenzando la cosiddetta ‘Scuola di Orleans’). 46 Su questa formula: W.A. Morris, The Beginnings of the House of Commons, in Pacific Historical Review (University of California) Vol. 2, No. 2, Jun. 1933, 145. Circa le conoscenze inglesi in materia di persona repraesentata, troviamo la formula personam alicuius repraesentare già nel trattato di Henricus de Bracton, De legibus et consuetudinis Angliae, ultimato nel 1254 (vedi la edizione a cura di G.S. Woodbine, New Haven-London-Oxford 1922, II, 337 [fol. 119 a/b]; cfr. H. Hofmann, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, § 4.12.III, 163 s.). È stato anche ipotizzato un ruolo dei Domenicani, stabilitisi ad Oxford a partire dal 1221, nella adozione della dottrina della rappresentanza da parte della nascente istituzione parlamentare inglese: E.B. Barker, The Dominican order and convocation. A study in the growth of representation in the Church during the thirteenth century, Oxford 1913, e W. Clarke Maude, Medieval representation and consent, London-New York-Toronto 1936.

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gen Frieden, 1795]: creazione dell’ircocervo della ‘repubblica rappresentativa e federale’) 47; – diventa assolutamente dominante in epoca contemporanea – con il nome, appunto, di ‘persona giuridica’ 48 – ad opera della elaborazione pandettistica e post-pandettistica tedesca, giusprivatistica e giuspubblicistica (Savigny - Gerber [combinazione della nozione pandettistica di persona giuridica con il principio della personalità dello Stato, punto di partenza del diritto pubblico ed elemento di unità di tutti i rami del diritto], Jellinek [denunzia, come contraddizione logica e linguistica, della circoscrizione a quella giuridica della definizione di ‘persona giuridica’] 49) per entrare, però, in crisi esistenziale negli ultimi tempi. Tra la persona giuridica e la rappresentanza intercorre un nesso sostanziale e determinante, ben espresso nel brocardo medievale (persona ficta vel/sive/ et repraesentata) che indica il loro sorgere simbiotico 50, ma ora non considerato adeguatamente. 47 Vedi G. Lobrano, Città, municipi, cabildos, in Roma e America. Diritto romano comune, n. 18, anno 2004, 169 ss. e in S. Schipani (a cura di), Mundus novus. America. Sistema giuridico latinoamericano, Atti Congresso internazionale (Roma, 26-29 novembre 2003), Roma 2005, 169 ss. 48 Accanto alla quale si trova anche la denominazione ‘persona morale’. In alcuni contesti linguistici, si intende per ‘persona giuridica’ più generalmente il ‘soggetto giuridico’, riservandosi la espressione ‘persona morale’ ad indicare ‘gruppi’ di persone o di cose dotate di personalità giuridica (vedi, ad es. R. Guillien, J. Vincent in S. Guinchard, G. Montagnier (sous la direction de), Lexique de termes juridiques, Paris 19908, s.v.). Nel Diritto canonico la espressione ‘persona moralis’ è riservata alla Chiesa cattolica e alla sua Sede apostolica (così O. Fumagalli Carulli, Gli enti ecclesiastici. Principi e fonti del diritto canonico, in OLIR - Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose [www.olir.it] gennaio 2006, § 3, Personalità e soggettività giuridica). 49 Id., Sistema dei diritti pubblici soggettivi, tr. it. di Vitagliano, Milano 1912, 31. 50 L’aggettivo ‘repraesentata’ (così come l’aggettivo ‘imaginaria’) pare essere stato – al sorgere del suo impiego – un sinonimo dell’aggettivo ‘ficta’ della locuzione ‘persona ficta’; vedi Y. Thomas, Les artifices de la vérité en droit commun médiéval, in L’Homme 3-4, 2005 (n. 175-176) nt. 21 : «à partir d’Innocent IV les juristes se mirent à qualifier les communautés de ‘personnes fictives’ (personae fictae), objet d’une pure représentation mentale (repraesentatae) ou imaginaires (imaginariae)21» (nt. 21: «Le lien entre représentation et fiction apparaît bien dans l’association repraesentata et ficta […] ‘Personne représentative et imaginaire’ fut forgé par Jean XXII, dans sa décrétale sur les frères mineurs: Extrav. Joh. XXII, c.  5, 14 [“non vera, sed repraesentata et imaginaria”]»). Sulla polemica, a questo proposito, di Giovanni XXII con il teologo-filosofo e giurista francescano inglese Guglielmo di Ockham (1288-1349) vedi A. Di Bello, Ordine e Unità nel Medioevo. La rappresentanza dal Corpus Mysticum all’Universitas, in Esercizi Filosofici 4, 2009, 29 ntt. 71-73; cfr., più in generale, C. Dolcini, Crisi dei poteri e politologia in crisi. Da Sinibaldo Fieschi a Guglielmo d’Ockham, Bologna 1988. In ogni caso, la natura immaginaria/fittizia della persona rappresentata è precisamente la ragione della necessità della ‘rappresentanza’ da parte di ‘rappresentanti’ invece reali, perciò non è certamente casuale il percorso dall’uso dell’aggettivo ‘repraesentata’ alla costruzione del neologismo ‘rappresentanza’.

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g. La soluzione romana: la societas consensu contracta e il rapporto infra-potestativo La soluzione propria della esperienza giuridica (scienza e prassi) romana è tutt’altra. La riduzione della pluralità alla unità è ottenuta per mezzo della istituzione della societas (propria della più vasta ‘koiné mediterranea’: si pensi alla importanza della ‘koinonia’ nella esperienza ‘politica’ greca) sviluppata nel paradigma della societas consensu contracta. Si noti (a contrario) che la operazione hobbesiana è precisamente la sostituzione del contratto di società con il contratto produttore della ‘persona artificialis’ (il ‘Leviatano’). La capacità di attività volitiva della societas è, quindi, ottenuta (e questa è, invece, una specificità romana già nel contesto antico [vedi, infra, nt. 108]) con la articolazione (sia strutturale sia funzionale) tra populus/ plebs dei soci (-cives) e i loro magistri (o magistratus), mediante la combinazione con la ‒ o l’innesto nella ‒ societas di quel rapporto infra-potestativo, caratterizzato dallo iussum, la cui valenza tecnica è stata colta dalla romanistica contemporanea soprattutto attraverso il rapporto del pater/dominus con il filius/servus 51. In àmbito giuspubblicistico, la soluzione romana della societas e il rapporto infra-potestativo è ripresa e rilanciata: – sul piano della prassi, dalla istituzione comunale (a partire dal secolo XI) 52; – sul piano teorico, da San Tommaso (1225 - 1274) 53 in epoca medievale, da Althusius (Politica methodice digesta, 1603-14) in epoca moderna e da Rousseau (Du Per una trattazione storico-dogmatica della categoria di rappresentanza, rinvio ancora a Hofmann, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, cit.: «Erster Teil. Zur antiken und mittelalterlichen Wortgeschichte» e «Zweiter Teil. Der Ausdruck ‘Repräsentation’ in der juristischen, ekklesiologischen und politischen Terminologie des späten Mittelalters und in der Neuzeit bis in 19. Jahrhundert»; vedi anche A. Podlech, Repräsentation, in R. Koselleck u.a. Hrgbs., Geschichtliche Grundbegriffe, Band 5, Stuttgart 1984, 511. 51 Vedi, infra, § 4.a. Vedi anche G. Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, I, Milano 1984, parte seconda § I.1 Le omologhe condizioni potestative di magistratus, liberi e servi: in aliena potestate (a proposito di Paul. D. 50.16.215 “potestatis” verbo plura significantur: in persona magistratuum imperium: in persona liberorum patria potestas: in persona servi dominium). 52 D.N. Fustel de Coulanges, Leçons à l’Impératrice sur les origines de la civilisation française, 186970, publiées par Pierre Fabre, Paris 1930, 40: «ce régime municipal que les Romains avaient établi chez nous […] a subsisté à travers tout le moyen âge, avec le même caractère et avec les mêmes procédés, presque les mêmes magistratures, le même mode d’élection qui était en usage chez les Romains»; cfr. C. Nicolet, Rome et les conceptions de l’État, in W. Blockmans et J.-Ph. Genet (éd.), Visions sur le développement des États européens, Rome 1993, 27 (quindi ripubblicato come capitolo XX di C. Nicolet, Histoire, Nation, République, Paris 2000, 271 ss.). 53 Percorsi per giungere a intendere l’apporto di san Tommaso al pensiero societario (democratico-federativo) medievale e moderno sono varî. Ricordo, esemplarmente, gli studi sui suoi contributi: alla nozione di ‘bene comune’ (bonum commune: vedi P. Cappellini, Bene (comune), in L. Ornaghi (a cura di), Politica, Milano 1993, s.v.; B. Accarino, Bene, in R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico. Autori concetti dottrine, Roma-Bari 2005; s.v. § 2, Bene comune), al pensiero politico latino-americano della Indipendenza (attraverso la Seconda scolastica: vedi O.C.

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contrat social, 1762; Projet de constitution pour la Corse, 1763) in epoca pre-contemporanea, per essere ‘dimenticata’ 54 in epoca contemporanea e ri-sorgere, però, negli ultimi tempi 55. Dunque (e come vedremo un poco meglio più innanzi) anche tramite la societas e il rapporto infra-potestativo si ottiene il risultato di consentire l’agire volontario di un uomo per una pluralità di uomini: con efficacia non minore di quella ottenuta con la soluzione della persona giuridica e della rappresentanza ma – occorre sottolinearlo! – senza ricorso né alla ‘persona giuridica’ né alla ‘rappresentanza’  56. d. Il metodo: esame contestuale, a partire dalla soluzione vitale ma ‘dimenticata’ della societas e con particolare attenzione al processo volitivo Le due istituzioni (‘societas e rapporto infra-potestativo’ da un lato e ‘persona ficta et repraesentata’ dall’altro) sono omologhe/corrispondenti, in quanto soluzioni del medesimo problema, ma anche opposte/alternative, in quanto proprie e caratteristiche delle esperienze giuridiche rispettive. La dialettica connessa anima la vicenda del pensiero giuridico europeo e di influenza europea (almeno) dal secolo XIII e ancora oggi. Il metodo della analisi contestuale e della contrapposizione esplicita de iure condito e de iure condendo delle due soluzioni storico-dogmatiche è quello proprio e caratteristico della scienza giuridica riformatrice e rivoluzionaria del secolo XVIII (il Secolo dei Lumi e della Grande Rivoluzione) durante il quale ci si concentra sulle applicazioni di diritto pubblico di tali soluzioni. Le idee stesse di ‘costituzione’ e di ‘diritto costituzionale’ nascono e si formano nel quadro di questa contrapposizione. Ciò dà anche la ragione ideologica del fenomeno scientifico della Stoetzer, Las raíces escolásticas de la emancipación de la América española, Madrid 1982), alla formazione della dottrina della sussidiarietà (vedi A. Moscarini, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti, Padova 2003, 15; P. Duret, Sussidiarietà e autoamministrazione dei privati, Padova 2004, 7). 54 Vedi, infra, § 2.d, in part., nt. 57. 55 Vedi, supra, ntt. 20, 28, 30, 35 e 40. 56 Nelle fonti romane non troviamo (direi ‘ovviamente’) il verbo ‘repraesentare’ nel senso medievale-moderno; troviamo invece espressioni come: gerere personam (Cic. off. 1.124) e, più frequentemente, personam sustinere (D. 28.5.16; D. 34.3.7.5; D. 45.31.4; D. 49.1.21.2) oppure partes sustinere (Gai. 4.160; D. 3.3.45.2; D. 33.1.5.20; D. 39.1.15) e anche vicem [hominum] sustinere (D. 2.14.9.pr.). Vedi L. Schnorr von Carolsfeld, Repraesentatio und institutio. Zwei Untersuchungen über den Gebrauch dieser Ausdrücke in der römischen Literatur, in Festschrift für Paul Koschaker, Weimar 1939, I, 103 ss.; cfr. Id., Geschichte der juristischen Person. I. Bd.: Universitas, corpus, collegium im klassischen römischen Recht, München 1933, 315 ss.; Hofmann, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, cit. passim, in part. 159 ss.. a proposito del passaggio dalla espressione romana personam alicuius gerere alla espressione medievale personam alicuius repraesentare.

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‘dimenticanza’ 57 della soluzione societaria romana propugnata da Rousseau e dai rivoluzionari, così come del fenomeno speculare del trionfo della soluzione medievale-moderna della persona giuridica e della sua rappresentanza propugnata da Montesquieu e dai moderati 58. Tale dimenticanza ideologica si estende a tutto il ‘diritto pubblico romano’ sino a porne in dubbio la stessa esistenza 59. Per ri-comprendere, oggi, questa dialettica dobbiamo, prima di tutto, ri-costruire la struttura e il funzionamento (quest’ultimo: interno ed esterno) della istituzione vitale ma dimenticata della societas e il rapporto infra-potestativo in essa innestato, cogliendo costantemente le manifestazioni della sua specificità rispetto alla istituzione dominante ma in crisi della persona ficta et repraesentata) 60 e integrando il punto di vista del diritto pubblico con il punto di vista del diritto privato (e viceversa). 3. La societas : elementi essenziali e stato della dottrina a. Il vertice e la eccezione della esperienza giuridica romana Per le ragioni e con il metodo fino qui esposti, la ricerca sulla istituzione romana della societas, deve: a) cogliere la complessità della soluzione societaria nei suoi elementi essenziali: ideologici, sistematici e tecnici (di regime); b) concentrandosi sul punto di convergenza (e, quindi, di frattura) con la soluzione della persona giuridica: la capacità di consentire l’agire volontario di un uomo in relazione con una pluralità di uomini, con efficacia per tutti costoro. La societas non è una istituzione qualsiasi. Essa, della esperienza giuridica romana, esprime il vertice e – al contempo – costituisce la eccezione. Avendo a monte Vedi la osservazione omologa di Catalano, il quale la formula a proposito dello specifico istituto del potere tribunizio: P. Catalano, Un concepto olvidado: ‘poder negativo’, in Revista General de legislación y jurisprudencia, Madrid, marzo 1980; Id., Un concetto dimenticato – potere negativo, in Aggiornamenti sociali 9-10, 1994; Id., Crise de la division des pouvoirs et tribunat (le problème du pouvoir négatif), in M.G. Vacchina (a cura di), Attualità dell’Antico 6, Aosta 2005; e, da ultimo, con aggiornamento della bibliografia: Id., Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento in Studi in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 641 ss. Cfr. Nicolet, Rome et les conceptions de l’État, cit., 30: «On sait que les légitimistes d’une part (comme, d’un autre coté, les bonapartistes) restaient très méfiants à l’égard de ce dernier [le droit constitutionnel]: ce qui touchait à l’organisation politique de l’État, soumis aux aléas des révolutions et des répressions, ne devait pas être enseigné dans les Facultés de Droit. Avant 1830, parler de politique ou de droit ‘constitutionnel’ était une prise de position hardie». 58 Vedi, supra, §§ 2.c-d. 59 Vedi ancora Lobrano, Del Defensor del Pueblo al Tribuno de la Plebe: regreso al futuro. Un primer bosquejo de interpretación histórico-sistemática. Con atención particular al enfoque bolivariano, cit., § B. IV. 60 «on ne définit très bien les choses que par comparaison avec autre chose», così Georges Dumézil, in N. Ribowski, Georges Dumézil, Paris 2004. 57

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la istituzione arcaica del consortium ercto non cito 61, essa diviene l’elemento più complesso e sofisticato della parte più complessa e sofisticata del Diritto romano: il diritto delle obligationes (in particolare di quelle che ex contractu nascuntur [Gai D. 44.7.1.pr.]). Ma essa è anche l’unico contratto a ‘comunione di scopo’ (communio utilitatis [Cic. rep. 1.39]; communis utilitas [Cic. off. 1.52]) 62. b. La forte valenza ideologica La societas assume la valenza ideologica di istituzione di riferimento per l’intero sistema giuridico romano. Essa è carica di valori, che esprimono una precisa ‘Weltanschauung’: uguaglianza, cooperazione, solidarietà; si può parlare di una ‘volontarizzazione’ e ‘sovrannazionalizzazione’ della fraternitas 63: virtus […] ut aeque quisque altero delectetur ac se ipso […] Magna etiam illa communitas est, quae conficitur ex beneficiis ultro et citro datis acceptis, quae et mutua et grata dum sunt, inter quos ea sunt firma devinciuntur societate (Cic. off. 1.56) 64.

Cicerone considera la societas la forma propria della organizzazione umana, a tutti i livelli (off. 1.53 s.): dalla coppia coniugale (prima societas in ipso coniugio) alla umanità (societas hominum) in un vero e proprio sistema societario (gradus autem plures sunt societatis hominum) che ha al centro la città (multa sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia [cfr. Carisio Ars grammatica I,

Gell. Noctes Atticae 1.9.12: societas inseparabilis, tamquam illud fuit anticum consortium quod iure atque verbo Romano appellabatur ercto non cito; Gai. 3.154,154a Olim enim, mortuo patre familias, inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas, quae appellabatur ercto non cito, id est dominio non diviso. Vedi L. Gutiérrez Masson, Del “consortium” a la “societas”, I. Consortium ercto non cito, Madrid 1987 (G. Franciosi, rs. in Labeo 37, 1991, 52); G. Aricò Anselmo, Societas inseparabilis o dell’indissolubiltà dell’antico consorzio fraterno, in AUPA 46, 2000, 79; M. Penta, Il diritto societario nel diritto romano e nel diritto intermedio, in Scuola superiore dell’economia e delle finanze. Rivista online, Anno I - Numero 11 - Novembre 2004, § 1; M. Evangelisti, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, in Diritto@Storia, 6/2007, passim; P.P. Onida, Fraternitas e societas: i termini di un connubio, in Diritto@Storia, 6/2007, §§ 4 s. 62 Vedi Onida, La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo, cit. 63 Vedi ancora Onida, Fraternitas e societas: i termini di un connubio, cit. 64 Il precetto ciceroniano non può non fare pensare al fondamentale precetto giudaicocristiano formulato da Gesù, quando – interrogato dal fariseo, dottore della legge – unisce il comandamento del Deuteronomio, 6.4-5 «Audi, Israel: Dominus Deus noster, Deus unus est. Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, ex tota anima tua, et ex tota fortitudine tua» con quello del Levitico, 19.18: «Diliges proximum tuum sicut te ipsum» nei quali sono racchiusi ‘universa lex et prophetae’: Marco, 12.29-31; Matteo 7.12 e 22.34-40; Luca 6.31; cfr. Paolo, lettere ai Galati 5.14 e ai Romani 13.8-10. 61

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152: urbs civitas]) e che traguarda persino la ancora più grande categoria degli esseri animati anche non-umani 65. I giuristi romani ri-costruiscono, con la societas (repubblicana) 66, la situazione di ius naturale (Ulp. D. 1.1.1.3) infranta per la deteriore inclinazione umana alla divisione (sperimentata con il regnum: Herm. D. 1.1.5 Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi…). Sulla stessa linea, il giusnaturalista Jean-Jacques Rousseau definirà il contratto di società il ‘principio’ anzi l’unico principio accettabile della organizzazione politica 67. Gaio, seppure a proposito degli initia urbis, definisce il principio cuiusque rei potissima pars [D.1.2.1]). La societas ha, nella esperienza giuridica romana, un ruolo quanto meno equivalente a quello riconosciuto alla persona giuridica nella esperienza giuridica contemporanea 68.

65 Nam cum sit hoc natura commune animantium ut habeant libidinem procreandi prima societas in ipso coniugio est proxima in liberis deinde una domus communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Cfr. Ulp. D. 1.1.1.3 Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri, su cui vedi P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano,Torino 2002. 66 Lobrano, La grande Repubblica dell’Impero. La ‘dottina della Repubblica’ nel CJC Iustiniani: Digesta, 1.2-3-4, in Roma e America. Diritto romano comune, 2010, 30, 3-41, in part. cap. 2 ‘Cacciata dei re e Repubblica perfetta: elementi strutturali’; cfr. Id., Guerra, pace e «forme di Stato». Con un riferimento alla prospettiva di Giorgio La Pira, professore di Diritto romano, in AA.VV., Estudios en homenaje a Alejandro Guzmán Brito, Pontificia Universidad Católica de Valparaíso, in corso di stampa, § II.5. Il contratto di società: fondamento e struttura della res publica. 67 Lettres de la Montagne,VI: «J’ai posé pour fondement du Corps politique la convention de ses membres; j’ai réfuté les principes différents du mien»; cfr. Id., Contrat social, I.VI, Du pacte social «‘Trouver une forme d’association qui défende et protège de toute la force commune la personne et les biens de chaque associé, et par laquelle chacun s’unissant à tous n’obéisse pourtant qu’à lui-même et reste aussi libre qu’auparavant.’ Tel est le problème fondamental dont le Contrat social donne la solution». Questo testo porta (nella ed. de La Pléiade [Paris, Gallimard] 1964) la seguente nt. ‘1’ : «(1) R. Manuscrit de Neuchâtel : ‘Le peuple ne peut contracter qu’avec lui-même, car s’il contractait avec ses officiers, comme il les rend dépositaires de toute sa puissance, et qu’il ni aurait aucun garant de ce contrat, ce ne serait pas contracter avec eux, ce serait seulement se mettre à leur discrétion’». È assolutamente notevole che il ‘romanista’ Rousseau avverta (contro una tradizione giuridica secolare – e tuttora sopravvivente – di orientamento opposto) che il contratto (necessario per costituire il popolo) non è né può essere tra il popolo e i suoi ‘officiers’ (i magistratus, il governo). 68 Vedi, supra, § 1.f, nt. 33 e §§ 3.a-c.

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c. La utilizzazione coincidente gius-privatistica e gius-pubblicistica La valenza sistematica della societas si manifesta in maniera particolarmente evidente nella utilizzazione (assolutamente coincidente e con espliciti rinvii incrociati) dalla positio studii di ius privatum e dalla positio studii di ius publicum. La sua com-prensione è, pertanto, possibile soltanto tenendo com-presenti entrambi i ‘punti di vista’; la assunzione di un solo punto di vista è parziale e rischia di essere fuorviante. Malauguratamente, negli studi romanistici, ha dominato lo studio della societas dal solo punto di vista privatistico. La definizione ciceroniana della repubblica come ‘cosa del popolo’ e del popolo come società (rep. 1.25.39 res publica id est res populi etc.) è tanto famosa quanto incompresa e, quindi, negletta 69. La identità – strutturale e funzionale – di societas e di res publica è, però, affermata in maniera limpida (e con ottica speculare/integrativa rispetto a quella ciceroniana) anche da Gaio e da Giustininano: Gaio 3 D. 3.4.1.1: Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat. Le res publicae di cui parla Gaio sono, principalmente, i Municipi. d. Il forte contenuto tecnico a. Lo stato della dottrina La societas è istituzione a forte contenuto tecnico. A partire, pare, dall’antichissimo consortium 70, essa ‘incorpora’ ed impiega in una sintesi (che definisco ‘repubblicana’) 71 elementi diversi, connessi sia alla antichissima organizzazione familiare sia al nuovo commercio mediterraneo. Tali elementi – isolatamente considerati – sono già noti alla dottrina. Uno di essi è la parcellizzazione della ‘comproprietà’ consortile nelle ‘quote ideali’ della communio 72. Un’altra serie di elementi è stata individuata dagli studi risalenti sui collegia e da quelli più recenti – di ‘diritto commerciale romano’ – sulle società costituite in vista della plurium negotiatio o plurium exercitio negotiationis, attraverso l’esame di alcuni

69 Con onorevoli eccezioni. Una ricostruzione dello stato della dottrina in Onida, La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo, cit. nt. 27; vedi anche (infra, nt. 75) quanto affermato nel Daremberg-Saglio. 70 Vedi, supra, nt. 61. 71 Vedi, supra, i §§ 3.b (nt. 66) e c (nt. 69). 72 Vedi M. Bretone, Consortium e Communio, in Labeo 6, 1960, 195.

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tipi di societates dette generalmente ‘questuarie’ 73 e ‘di interesse pubblico’: in particolare le societates argentariorum, publicanorum, venaliciorum, exercitorum. Si tratta della strutturazione interna e della rilevanza esterna della societas. La strutturazione interna della societas è colta attraverso le osservazioni: sia del venire meno dell’effetto estintivo della morte o recesso del socio e della actio pro socio, nei confronti della societas 74; sia della organizzazione della societas, in cui troviamo il populus (o plebs) dei soci (i quali si riuniscono in assemblee [conventus] con competenze legislative, elettorali e giudiziarie), i magistri, la cassa comune, il syndicus etc. 75. La rilevanza esterna della societas 76 è colta in particolare attraverso la osservazione della regola magistri societatum pactum et prodesse et obesse constat (Ulp. D. 2.14.14)  77. Tali studi (condotti dal punto di vista dello ius privatum) hanno messo al centro della discussione la questione da noi indicata come il ‘secondo elemento’ delle due soluzioni alternative del problema di base e complesso del Diritto’: concludendo per la possibilità anche nel Diritto romano dell’agire volontario di un uomo in relazione con una pluralità di uomini e con efficacia obbligatoria o reale per tutti costoro. b. I suoi limiti principali Lo ‘stato della dottrina’ appare afflitto da alcuni limiti. Un limite è presentare l’avvento delle cosiddette ‘quote ideali’ soltanto come diritto di ciascuno dei ‘comunisti’ alla gestione/disposizione della propria quota: ciò che ha poco senso in vista della gestione della communio (nonché del funzionamen73 Ulp. D. 17.2.7 Coire societatem et simpliciter licet et si non fuerit distinctum, videtur coita esse universorum quae ex quaestu veniunt, hoc est si quod lucrum ex emptione venditione, locatione condutione descendit. 74 Vedi il lungo frammento di Alfeno (metà del I secolo a.C. ) in D. 5.1.76, sul sopravvivere del tutto al venire meno delle sue parti. Alfeno è allievo di quel Quinto Mucio cui insieme a S. Sulpicio Rufo pare si debba il concetto di pars pro indiviso (Pomp. 35 ad Mucium in D.29.1.78). 75 Vedi la voce ‘Lex Collegii’ in Ch. Daremberg, Edm. Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Paris 1877-1914, Tome 3. vol. 2 (ove è apposto il commento : «Tous les documents sont d’accord pour attester que l’organisation des collèges est modelée sur celle des cités (ad exemplum reipublicae)»); cfr., F.M. De Robertis, Syndicus. Sulla questione della rappresentanza processuale dei collegia e dei munera, in SDHI XXXVI, 1970; E. De Simone, Actor sive syndicus, in L. Labruna, A. Guarino (a cura di), Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964; A. Biscardi, Rappresentanza sostanziale e processuale dei collegia in diritto romano, in Iura XXXI, 1980, 1 ss. V. Mannino, Ricerche sul defensor civitatis, Milano 1984 (cfr. E. Stolfi, Studi sui Libri ad edictum di Pomponio, II. Contesti e pensiero, Napoli 2001, § III.IV.V.3. Procedure contro o in nome di municipes, 125 ss. [consultabile anche in www.ledonline.it/rivistadirittoromano/collana]). Più in generale, la raccolta di scritti E. Lo Cascio, G.D. Merola (a cura di), Forme di aggregazione nel mondo romano, Bari 2007. 76 Su cui vedi già F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in diritto romano, in Studi in onore di E. Volterra, V, Milano 1971, 743 ss. 77 Vedi Cerami, Impresa e societas nei primi due secoli dell’Impero, cit. § 9. Il problema della rilevanza esterna del contratto di società: regola ed eccezioni; Pap. D.17.2.82; Gai. D.3.4.1 pr.-1.

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to della societas) quale unità (per quanto composita) e che fa apparire (abbastanza curiosamente) tale ‘avvento’ una sorta di arretramento rispetto al consortium e alla funzionalità di questo per la gestione unitaria del patrimonio collettivo 78. Altro limite è presentare la soluzione romana come sostanzialmente uguale alla soluzione medievale-moderna del problema della considerazione e del regime unitari dell’agire di una pluralità di uomini, concludendo ‘tout court’ per la presenza nel Diritto romano della ‘rappresentanza diretta’ (od ‘organica’) seppure in una sua fase più o meno ‘embrionale’ 79. 4. Per andare oltre: la specificità del processo volitivo a. Ripensare: sia il nesso tra la persona giuridica voluntate carens e la rappresentanza, sia il nesso tra la societas e la articolazione infra-potestativa della sequenza di volontà distinte-complementari Per un ‘progresso’ nello stato della nostra conoscenza e comprensione dei fenomeni in esame, è necessario tenere presente che ci troviamo di fronte a due soluzioni, ciascuna delle quali è composta di due elementi.

Vedi, ad es., Guarino, Comunione (dir. rom.), cit. § 5. Vedi., ad es., M. Montanari, Impresa e responsabilità. Sviluppo storico e disciplina positiva, Milano 1990, 6, ove si interpreta il ricorso romano alle societates nel commercio mediterraneo come un «embrionale diritto commerciale». Sulla affermazione della presenza (ovviamente ‘imperfetta’) della ‘rappresentanza diretta’ nel Diritto romano (diffusa nei ‘vecchi’ manuali: ad es. P. Voci, Istituzioni di Diritto romano, Milano 19543, 168 «Il diritto pretorio ammette infatti la rappresentanza diretta») vedi, più recentemente, A. Wacke, Die adjektizischen Klagen. Überblick, I, in ZSS CXI, 1994, riassunto in lingua italiana con il titolo Alle origini della rappresentanza diretta: le azioni adiettizie, in AA.VV., Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate a F. Gallo, II, Napoli 1997, sulla cui linea, ancora più recentemente, M. Miceli, Studi sulla rappresentanza nel diritto romano, I. Milano 2008, in part. cap. II Le actiones adiecticiae qualitatis e la rappresentanza. Siamo – si direbbe – nel quadro di quella visione unilineare e progressiva della storia del pensiero, la quale tra ’700 e ’800 ha una chiara funzione anti-democratica e anti-rivoluzionaria e, pertanto, anti-romana (Condorcet, Esquisse d’un Tableau historique des progrès de l’esprit humain, Paris 1795; B. Constant, De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, Paris 1819) e, divenuta dominante durante l’800, recupera quindi il Diritto romano come ‘precedente’ del diritto borghese contemporaneo (il quale viene proiettato su di quello: così Savigny, System des heutigen römischen Rechts, Berlin 1840-1849, per il diritto privato, e Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1876 -1887, per il diritto pubblico). Da questa ‘visione’ appare inoltre viziata la questione (dibattuta dagli storici del diritto ma anche dai romanisti) sul rapporto tra Diritto romano e Diritto germanico (con i rispettivi operatori e cultori) nella emersione della nozione di ‘persona giuridica’ (vedi, ad. es. A. Campitelli, Persona (diritto intermedio), in ED, XXXIII. Perenzione - Pluralismo, Varese 1983, § 6 Le persone giuridiche nella vita medievale). 78 79

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Il primo passo da compiere è il ri-pensamento della dottrina concernente la natura della categoria di ‘rappresentanza’, a partire dalla sua genesi nel secolo XIII: in simbiosi con la categoria di ‘persona giuridica’ (‘persona ficta’), costituendo con questa quasi una categoria unica e rendendo ciascuna delle due categorie non ‘pensabile’ senza l’altra. Nella soluzione ‘astratta’ della persona ficta, il ‘rappresentante’ non si trova in presenza di una manifestazione di volontà negoziale di tale ‘persona’ ma sorge – esattamente all’opposto – per supplire alla impossibilità essenziale di manifestazione della volontà da parte della ‘persona giuridica’: ‘persona’ la quale «caret voluntate» 80. La persona fisica - rappresentante fornisce, presta la propria (manifestazione di) volontà alla persona giuridica - rappresentata e la rappresentanza resta marcata da questa caratteristica genetica anche quando rappresentata è un’altra persona fisica o altre persone fisiche. Questa caratteristica è resa plasticamente nel concetto di ‘sostituzione’, adoperato correntemente nel diritto positivo odierno per indicare il rapporto tra il rappresentante e il rappresentato 81. Nella soluzione romana, il passaggio dalla molteplicità alla unicità di volontà è ottenuto non mediante l’artificio mentale di una duplice finzione/immaginazione (la persona ficta e la sua rappresentanza da parte della persona fisica, come nella esperienza medievale-moderna) ma attraverso la combinazione di due specie di esperienze relazionali ‘concrete’ 82, storicamente definitesi: rapporti tra personaeuomini, titolari di altrettante potestates (ovverosia rapporti inter-potestativi, che si esprimono per mezzo del contrahere 83 e che producono la societas) e rapporti tra personae-uomini, interni ad una medesima potestas (ovverosia rapporti infra-potestativi, che si esprimono per mezzo dello iubere 84 e dei corrispondenti administraVedi O.F. von Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, 3. Die Staats und Korporationslehre des Alterthums und des Mittelalters und ihre Aufnahme in Deutschland, Berlin 1881, § 10 Die romanistischkanonische Korporationslehre in ihrer Vollendung, 428; U. Navarrete S.I., La buena fe de las personas jurídicas en orden a la prescripción adquisitiva. Estudio histórico canónico, Roma 1959, 4, nt. 32; cfr. Hofmann, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, cit. 145 ss. 81 Vedi, ad es., A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano 198119, 209 «La rappresentanza è […] l’istituto per cui ad un soggetto (rappresentante) è attribuito (dalla legge o dall’interessato) un apposito potere di sostituirsi ad un altro soggetto (rappresentato) nel compimento di attività giuridica per conto di quest’ultimo e con effetti diretti nella sua sfera giuridica»; ugualmente L. Nivarra, V. Ricciuto, C. Scognamiglio, Istituzioni di Diritto privato, Torino 20032, 190. 82 Rileva la ‘concretezza’ sottesa alla nozione romana di ‘popolo’ contro la ‘astrazione’ della nozione moderna di ‘Stato’, Catalano, Populus Romanus Quirites, cit. 83 Per una bibliografia, vedi Onida, La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo, cit. nt. 2. 84 Destinatario dello iussum (o iussus) patris/domini è, secondo la dottrina dominante, non il filius/servus o comunque il praepositus ma il ‘terzo’ che negozia con uno di questi (per tutti: M. Talamanca, Elementi di diritto privato romano, Milano 2001, 142 «il pater autorizza il terzo a concludere un determinato contratto con il sottoposto»). Non mancano, però, coloro i quali credono, invece, che destinatario sia precisamente il filius/servus o praepositus. Le fonti (principalmente il titolo IV 80

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re 85/negotiari 86 e che producono la [manifestazione della] volontà della societas). Dove i protagonisti della ‘scena’ giuridica sono gli uomini (Erm. D. 1.5.2 Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit…; cfr. Gai. 1.8 e Inst. Iust. 1.2.12) non può essere spazio né per le persone giuridiche né per i loro rappresentanti/sostituti ma soltanto per le attività diverse/complementari di quegli uomini 87. La operazione giuridica romani è, dunque, la combinazione della compagine societaria di natura contrattuale tra potestates, con la articolazione del processo volitivo come sequenza di (due) manifestazioni di volontà ‘specializzate’, cioè distinte e complementari: lo iubere e l’administrare/negotiari; ‘articolazione/sequenza’ di natura signorile/servile infra-potestativa, presente ‘da sempre’ nei rapporti interindividuali familiari del pater/dominus con il filius/servus retti dallo ius civile e utilizzata quindi nei rapporti del commercium mediterraneo retti dallo ius gentium; ovverosia del libro XV del Digesto, il titolo 26 del libro IV del Codex Iustiniani e Gai. 4.70) non risolvono in maniera insuperabile la querelle (vedi, ad es., le osservazioni di D. Monteverdi, Tab. Pomp. 7 e la funzione dello iussus domini, in Labeo, 42, 1996, 345 ss. sul chirografo menzionato nel titolo). La soluzione viene, per il momento, da considerazioni di sistema e queste mi orientano a favore della destinazione dello iussum al fiius/servus o, comunque, al praepositus, salvo l’obbligo della sua adeguata ‘pubblicità’ a favore del/i terzo/i. Per una ricostruzione dello stato della dottrina, vedi J. Hernanz Pilar, El iussum en las relaciones potestativas, Valladolid 1993, 112 ss. Il § V.VI.1 «El destinatario del iussum en la actio quod iussu», il quale menziona anche una ‘tercera corriente’ composta da coloro i quali hanno – per così dire – saltato la questione, dato che la sua soluzione non avrebbe inciso sul regime della actio; G. Coppola Bisazza, Lo iussum domini e la sostituzione negoziale romana, I. Milano 2003; Id., Aspetti della sostituzione negoziale romana, in Rivista di Diritto Romano III, 2003 (www.ledonline.it/rivistadirittoromano). Coppola Bisazza, partendo correttamente dalla considerazione degli usi giuspubblicistici dello iussum, ne riconosce i due poli nel rapporto infra-potestativo, pure osservando il trascolorare dello iussum da comando ad autorizzazione e la necessità della sua conoscenza da parte del terzo. 85 P. Cerami, G. Purpura, Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, Torino 2007, § IV, Gubernatio ed administratio rei publicae. Cfr. A. Bricchi, Amministratori ed actores. La responsabilità nei confronti dei terzi per l’attività negoziale degli agenti municipali, in L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba (a cura di), Gli Statuti Municipali, Pavia 206, § 1. Attività negoziale dei magistrati municipali, in part. 336-339, circa «gli effetti degli atti negoziali compiuti dai magistrati municipali […] spendendo il nome della civitas, determinando l’imputazione diretta, in capo a questa, degli effetti generali di tale loro attività negoziale»; dalla puntuale ricostruzione, operata da Anna Bricchi, dello stato – parzialmente controverso – della dottrina a tale proposito, appare il condizionamento della dottrina romanistica da parte del ricorso alla soluzione medievale-moderna di rappresentanza della persona giuridica. 86 Sulla espressione, vedi le parti introduttive di A. Cenderelli, La negotiorum gestio, corso esegetico di diritto romao. Struttura, origini, azioni, Torino 1997; G. Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio, I. Azione pretoria ed azione civile, Napoli 1999; K. Verboven, «Ce que negotiari et ses dérivés veulent dire», in J. Andreau, V. Chankowski (éds.), Vocabulaire et expression de l’économie dans le monde antique, Bordeaux 2007. 87 Vedi, da ultimo, U. Agnati, Persona iuris vocabulum. Per un’interpretazione giuridica di persona nelle opere di Gaio, in Rivista di Diritto Romano IX, 2009 (www.ledonline.it/rivistadidirittoromano) in part. § 4. Uomo e ruolo.

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(per dirlo più sinteticamente) l’innesto, nel rapporto contrattuale dei soci tra loro, del rapporto infra-potestativo dei soci con il loro magister. Rammentiamo anche il fenomeno (già osservato in dottrina) del ‘trascolorare’ dello iussum dalla nettezza della nozione di comando al filius/servus cioè in potestate alla più sfumata nozione di ‘autorizzazione’ all’uomo suae potestatis ‘preposto’ al medesimo ufficio senza tuttavia cambiarne la logica ‘gerarchica’ di rapporto non paritario ma di subordinazione tra le due volontà 88. Tale ‘innesto’ ha bisogno di- e comporta anche una ulteriore ‘operazione’: la modificazione della titolarità per quote della communio rispetto al consortium; modificazione la quale consente il passaggio dalla disposizione negoziale del patrimonio consortile direttamente da parte di ciascun consorte, salva – come si ritiene – la prohibitio di ciascun altro consorte, alla disposizione negoziale del patrimonio societario da parte del magister collegii, previo iussum del populus collegii, espresso in forza del ‘principio di prevalenza della maggioranza’, che troviamo formulato presso i giuristi (Scaev. D. 50.1.19 Quod maior pars curiae effecit pro eo habetur, ac si omnes egerint; Ulp. D. 50.17.160.pr.-1 Aliud est vendere aliud est vendenti consentire. Refertur ad universos quod publice fit per maiorem partem) 89. Non appare, dunque, necessario e neppure legittimo (postulando, più o meno esplicitamente, stratificazioni di regole opposte) sia considerare che la regola magistri societatum pactum et prodesse et obesse constat (Ulp. D. 2.14.14) faccia ‘eccezione’ alla regola iure societatis per socium aere alieno socius non obligatur (Pap. D. 17.2.82) 90 sia considerare che i negozi i quali ammettono le azioni quod iussu e simili facciano 88 Sulla collocazione della actio quod iussu tra le actiones adiecticiae qualitatis quale loro capostipite, rinvio a B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 160 ss., il quale fonda la cronologia sull’ ‘ordine di esposizione adottato da Gaio’; contra: E. Valiño, Las actiones adiecticiae qualitatis y sus relaciones básicas en derecho romano, in AHDE 37 Madrid 1967, 344 ss. Secondo G. Micolier, Pécule et capacité patrimoniale. Etude sur le pécule, dit profectice, depuis l’édit de peculio jusqu’à la fin de l’époque classique, Lyon 1932, 310, «originariamente l’actio de peculio et de in rem verso, promessa nello stesso editto (editto triplice) insieme all’actio quod iussu, trovava il suo fondamento nell’idea comune del ‘iussum’» (la sintesi del pensiero di Micolier è di M. Miceli, La struttura formulare delle actiones adiecticiae qualitatis, Torino 2001, 296 nt. 152). Sulla questione del rapporto tra iussum e praepositio, vedi, ad es., A. Burdese, Recensione a: H. Pilar, El iussum en las relaciones potestativas, cit., in Id., Recensioni e commenti, Padova 2010, 158: «la praepositio institoria, che può considerarsi come una sorta di iussum generale». Cfr. anche, supra, nt. 84. 89 Vedi E. Ruffini, Il principio maggioritario: profilo storico (1927), Milano 1976, 22; F. Galgano, Principio di maggioranza, in ED, XXXV, Milano 1986, 549; cfr. P. Grossi, Unanimitas. Alle origini del concetto di persona giuridica nel diritto canonico, in Annali di storia del diritto, 1958, II, 229 ss. 90 Vedi, supra, nt. 77, la citazione di Cerami. Secondo il più volte citato Hofmann (Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, 153) già la Glossa di Accursio avrebbe qualificato come ‘Ausnahmen’ tutti i testi contrari alla regola ‘generale’ ‘ex alterius stipulatione alteri accionem non queri’).

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‘eccezione’ alla regola per extraneam [= liberam] personam nobis adquiri non posse (Gai. inst. 2.95; Iust. inst. 2.9.5 per extraneam [= liberam] personam nihil adquiri posse) 91. Appare, invece, possibile/doveroso distinguere tra le regole del rapporto inter-potestativo (quale è la societas) e le regole del (connesso) rapporto infra-potestativo, le quali vengono opportunamente combinate. Non appare, cioè, necessario/legittimo postulare ‘progressi’ sia infra-romanistici sia tra il diritto romano e il diritto medievale-moderno, lungo un percorso uni-lineare. Le distinte/complementari regole gius-romanistiche appaiono, invece, prova che il Diritto romano ha sempre albergato la logica societaria e della articolazione/sequenza infra-potestativa di volontà e mai ha accolto la logica della persona giuridica e della rappresentanza/ sostituzione. b. Dalla ricostruzione della diversità del processo volitivo alla ricostruzione della diversità degli universi organizzativi e valoriali La ricostruzione della diversità del processo volitivo tra le ‘due soluzioni’ storiche/dogmatiche costituisce il punto di partenza investigativo da cui ricostruire a ritroso il complesso delle diversità e, quindi, della contrapposizione tra di esse. Non è un caso se il primo uso ‘costituzionale’ della neonata costruzione della persona ficta è il ‘bill’ con il quale Edoardo I convoca i rappresentanti dei ‘Comuni’ a partecipare al ‘model Parliament’ del 1295 ‘senza mandato imperativo’: con l’effetto immediato della trasformazione di quei Comuni da comunità sovrane in meri collegi elettorali 92. In questo ‘bill’ è, in nuce, lo Stato moderno. Già secondo Max Weber, la soluzione romana è la soluzione democratica, in quanto (con quella) lo status di dominus (‘Herr’) è riconosciuto ai ‘mandanti’, mentre la soluzione moderna è la soluzione aristocratica/oligarchica, in quanto (con questa) lo status di dominus viene trasferito ai ‘mandatari’/rappresentanti 93. Gli elementi di contrapposizione sono, però, molti di più, costituendo (facendo capo a) due logiche diverse/alternative. Per limitarci alle caratteristiche già evocate a proposito della soluzione romana a base societaria (a. ideologia della solidarietà 94 91 Cui vanno aggiunti i vari testi cumulativamente richiamati con il brocardo alteri stipulari nemo potest, su cui vedi W. Bayer, Der Vertrag zugunsten Dritter, Tübingen 1995, 5 ss. § 1.1, Rückblick: Alteri stipulari nemo potest, con bibliografia. 92 Vedi Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, cit., § B.II.1. Sulla importanza acquisita dal divieto di mandato imperativo nel diritto costituzionale e contemporanea sulla sua crisi odierna,vedi, supra, §§ 1.b.a e b. 93 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie5, J. Winckelmann (Hrsg.), Tübingen 1976, lib. I cap. III § 22, 172. La prima edizione di Wirtschaft und Gesellschaft è del 1922 (postuma: Weber muore nel 1920). Alla novità moderna, perfettamente colta da Weber, fanno capo la teoria liberale della ‘élite’ e le teorie ‘socialista’ e ‘nazional-socialista’ del ‘partito’ (vedi, supra, nt. 8). 94 Vedi, supra, § 3.b.

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e b. non-separazione tra pubblico e privato 95) possiamo osservare come, invece, la soluzione medievale-moderna della persona giuridica e rappresentata: a. ponga il proprio motore nel conflitto inter-individuale e b. assuma a proprio assetto la separazione del pubblico dal privato; già esplicitamente con la messa a punto hobbesiana, per sviluppare entrambe queste caratteristiche con le dottrine economiche settecentesche (degli Illuministi scozzesi) 96 e quelle economiche-politiche otto- e nove-centesche 97. c. Il nesso della soluzione a base societaria con la organizzazione familiare Appare complessivamente evidente il nesso della soluzione a base societaria con la organizzazione familiare, alla quale fanno capo sia il rapporto infra-potestativo (Ulp. D. 50.16.195.2 familiam dicimus plures personae, quae sunt sub unius potestate […] subiectae) sia il rapporto inter-potestativo consortile/societario (che si costituisce al venire meno di quell’ ‘unus’ 98). Questo nesso è esplicitato da Cicerone, laddove egli (off. 1.54) scrive: prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia. La ‘novità repubblicana’ 99 è l’ordine – anche di importanza – tra i due rapporti: il rapporto inter-potestativo (consortile/)societario diventa paradigmatico e il rapporto infra-potestativo diventa accessorio ed essi vengono composti sincronicamente 100. d. La organizzazione societaria dal punto di vista gius-pubblicistico La valenza anche (quando non, addirittura, prioritariamente) pubblica di questa operazione (Gai D. 3.4.1.1 ad exemplum rei publicae […] tamquam in re publica [citato, supra, § 3.c]) si evidenzia solo che si pensi alla vicenda e alla dottrina della ‘cacciata dei re’ (il cui regnum è ‘non-societario’: Cic. rep. 1.32.49 ut ait Ennius, ‘nulla [regni] sancta societas nec fides est’) e dell’avvento della repubblica (che è societaria per definizione) 101. Vedi, supra, § 3.c. Rammento i contributi di Bernard Mandeville (Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits, 1723 [ma edizioni precedenti nel 1705 e 1714 ed edizioni successive nel 1724 e 1728]) e di Adam Smith (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776), a proposito del conflitto inter-individuale, e quello ugualmente conosciuto di Adam Ferguson (An Essay on the History of Civil Society, 1767), a proposito della separazione tra pubblico e privato. 97 Cfr., supra, nt. 8. 98 Vedi, supra, § 3.a. 99 Vedi, supra, ntt. 66 e 69. 100 Circa la continuità del meccanismo societario con quello familiare, vedi ad es. il § 7 sulla ‘exercitio per servos communes ed exercitio per societatem’ di Cerami, Impresa e societas nei primi due secoli dell’Impero, cit. 101 Vedi, ancora, ntt. 66 e 69. 95 96

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La soluzione romana dà ragione sia della distinzione/articolazione tra legislazione (che si esprime nel generale iussum populi aut plebis) 102 e ‘governo’ in senso proprio (il gubernare rem publicam, affidato a magistratus in potestate populi) 103 sia della articolazione della Repubblica nelle Repubbliche municipali, per cui si è parlato, nella dottrina romanistica, di ‘Stato municipale’ e di ‘Impero municipale’ 104. A questo proposito, si consideri, esemplarmente, la possibilità (propria della soluzione romana) di incrementare la sequenza di manifestazioni di volontà, quale è sperimentata (dal punto di vista del diritto privato) nel commercio marittimo, 102 Secondo la nota definizione di lex data dal giurista Ateio Capitone e conservata da Aulo Gellio Noctes atticae, X.20; nonché nelle altrettanto note: definizione gaiana di lex (Gai. 1.3, Lex est quod populus iubet atque constituit) ed espressione velitis iubeatis Quirites, ricorrente nelle fonti per indicare la formula della rogatio legis (su cui vedi, ad esempio, B. Albanese, Brevi studi di diritto romano (III) - V - Publio Sempronio Sofo, giurista, ed il regime della censura, in AUPA, XLVII, 2002, 9-120 [55-67]) cui corrisponde il quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esset; iussum populi et suffragia esse di XII Tab. 12.5 [Liv., 7.17.12-13]. Nel campo dello ius publicum occorre anche menzionare (senza pretese, almeno in questa fase, di completezza) lo iussum iudicandi, con il quale il pretore investiva l’unus iudex privatus del potere-dovere di giudicare e che costituisce il fondamento della sentenza. 103 Nelle fonti romane – per indicare il rapporto tra popolo e magistrati – ricorrono le parole mandare e mandatum. Anche per questa categoria (così come per praeponere e praepositio, vedi, supra, ntt. 84 e 88) si pone il problema di approfondire la relazione con la categoria di iubere/iussum. Sulla natura e sui compiti del magistratus, simili a quelli del magister navis e/o del gubernator, vedi i dati raccolti da C.M. Moschetti, Gubernare navem. Gubernare rem publicam, Milano 1966. Sulla categoria mandare/mandatum, vedi S. Randazzo, Mandare. Radici della doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato romano, Milano 2005; sullo specifico ricorso a tale categoria nel diritto pubblico vedi F. Vallocchia, Collegi sacerdotali e assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 150 s.; cfr. Hernanz Pilar, El iussum en las relaciones potestativas, cit. § V.VII Terminología: Distinción entre iussum y mandatum, 121 ss., il quale (a proposito dell’uso di mandare/mandatum insieme a iubere/iussum nel titolo Quod iussu del Digesto [15.4]) scrive di un ‘sentido atécnico’, cioè non nel senso del ‘contratto di mandato’, che, a differenza dello iussum, non comporta responsabilità del mandante nei confronti dei terzi per i negotia con essi compiuti dal mandatario in ottemperanza di quel contratto. Possiamo comunque affermare che tra il populus mandans e i magistrati mandatari corre un rapporto non contrattuale (cioè inter-potestativo) ma infra-potestativo (vedi Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, cit., § B.I.1.b., I magistrati sono in potestate del popolo; cfr., supra, nt. 67, la affermazione di Rousseau) così come tra il pater/dominus iubens e il filius/ servus. 104 Vedi A. Bernardi, Dallo stato-città allo stato municipale nella Roma antica, in Paideia I, fasc. 4, 1946; E. Gabba, Dallo stato-città allo stato municipale, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, II 1, Torino 1990; L. Capogrossi Colognesi, La genesi dell’Impero municipale, in Roma e America. Diritto Romano Comune 18, 2004, 243 ss.; Id., Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna 2009, cap. XVII, L’impero municipale, 383 ss.; vedi anche L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba (a cura di), Gli Statuti municipali, Pavia 2006, passim; cfr. Lobrano, Città, municipi, cabildos, cit.; Id., Continuidad entre las ‘dos repúblicas’ del Derecho indiano y el ‘sistema republicano municipal’ del derecho romano. Formulación esquemática de una hipótesis de trabajo, in Roma e America. Diritto romano comune 24, 2007, 17 ss.

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dove l’exercitor navis può essere in aliena potestate (Ulp. D. 14.1.1.19, 20, 22-23) 105 e il magister navis può, a sua volta, operare la praepositio nei confronti di un altro magister navis (Ulp. D. 14.1.1.5) 106. Sia la articolazione del processo volitivo repubblicano tra legislazione e governo, sia la articolazione della Repubblica romana in Repubbliche municipali, così come la appartenenza di familia e di res publica all’unico sistema societario (con conseguente continuità/interazione tra l’una e l’altra) 107, sono caratteristiche proprie del Diritto romano, non presenti nella esperienza e nella scienza politiche greche, democrazia ateniese compresa 108. e. L’inserimento necessario di un istituto di garanzia La combinazione di societas e di articolazione/sequenza volitiva dà ragione della necessità di un istituto che si ponga nello snodo di questa, per assicurare il corretto rapporto tra i due interlocutori primi e decisivi: il collettivo che iubet e colui che administrat e/o negotiatur. Il passaggio dal rapporto infra-potestativo tra individui (il pater/dominus e il filius/servus) al rapporto infra-potestativo tra un collettivo parcellizzato e un individuo (il populus/plebs dei soci/cives e il magister o magistratus) àltera il rapporto delle forze a favore del magister/magistratus, tanto più che il collettivo abbisogna di quest’ultimo anche dal punto di vista della propria organizzazione (i soci/cives, per esprimere la propria stessa volontà [lo iussum!] abbisognano del magister/magistratus che li convochi e li interroghi). L’istituto che garantisce la correttezza di questo rapporto essenziale è, nella Repubblica romana, il Tribunatus plebis (senza il quale, infatti, la res publica sarebbe tale soltanto ‘di nome’) 109 ma anche i ‘defensores civitatis’ delle singole Città, pure detti, con espressione comune ai collegia privati, Syndici 110. 105 Su cui vedi G. Longo, Actio exercitoria - actio institoria - actio quasi institoria, in Studi in onore di Gaetano Scherillo, II, Milano 1972, 589 ss.; F. De Martino, Studi sull’actio exercitoria, in Rivista del diritto della navigazione 7, 1941, 29 ss. (ora in Id., Diritto, Economia e Società nel mondo romano, I, Napoli 1995). 106 Su cui vedi A. Petrucci, Ulteriori osservazioni sulla protezione dei contraenti con gli institores ed i magistri navis nel diritto romano dell’età commerciale, in Iura LIII, 2002, 50 ss. 107 Vedi, supra, § 4.c. 108 A proposito della vera e propria contrapposizione dei Romani ai Greci in questa materia, vedi Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, I, cit., 89 ss.; Id., Familia. Note per la interpretazione, in Roma e America. Diritto romano comune 28, 2009, 3 ss. (in materia di nesso tra famiglia e repubblica) e Id., Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, cit., § B.I.1 (in materia di nesso tra città e repubblica). 109 Cic. leg. 3.15 s.; cfr. rep. 2.58. 110 Cfr., supra, nt. 75. Si noti che la dottrina contemporanea ha individuato un punto di contatto tra pubblico e privato (così come in materia di iussum, su cui vedi, supra, nt. 102) anche nella omologia tra la

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Giovanni Lobrano

Per concludere (interlocutoriamente) La soluzione romana appare in grado (sia come tecnica sia come ‘visione del mondo’) di dare risposta alla problematica giuridica attuale. In particolare, il ‘governo multi-livellare’ 111, ‘a partire dal basso’ 112, cui oggi si guarda piuttosto confusamente come meta da conseguire (sulla base anche del ‘principio di sussidiarietà’) 113, appare già messo a punto perfettamente, secondo la nostra ipotesi di ricerca, nel diritto (pubblico e privato) della Repubblica romana: societaria/’municipale’. Occorre considerare, inoltre, che la odierna registrazione delle diffuse aspirazioni a ‘democratizzare la democrazia’ è lungi dal costituire garanzia degli sviluppi prossimi delle forme di Stato e di governo. Anzi, le delusioni prodotte sia da modelli scientifici inadeguati (la democrazia ateniese e i suoi ‘derivati’ contemporanei) 114 sia da costruzioni legislative deboli (i ‘tentativi’) 115 alimentano la tendenza opposta: verso la cd. ‘post-democrazia’ 116. Ciò rende urgente il recupero – prima di tutto scientifico – della soluzione romana. La ri-costruzione sistematica qui proposta abbisogna di verifica (in particolare gius-romanistica) puntuale, che tenga opportunamente conto anche dei problemi posti dalla dia-cronia; senza mai dimenticare/pretermettere, però, la osmosi tra ius publicum e ius privatum, nella quale si inserisce la relazione familia-populus 117; osmosi

prohibitio propria del consortium e la intercessio propria dei collegia magistratuum (su cui vedi C. Fadda, Consortium, collegia magistratuum, communio, in Studi Brugi, Palermo 1910 e, con aggiornamenti bibliografici, M. Salazar Revuelta, Evolución histórico-jurídica del condominio en el Derecho romano, Jaén 2003). 111 O ‘multilivello’; vedi, ad es., C. Malandrino, Sviluppo di un nuovo paradigma federalistacomunicativo nella prospettiva di un’Europa federale, in G. Duso, A. Scalone (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Milano 2010, 136. 112 Vedi, ad. es., con indicazioni bibliografiche, Stradella, Partecipazione e deliberazione: una evoluzione bottom up della forma di governo democratica?, cit. 113 Vedi Lobrano, ‘Principe de subsidiarité’ et convergence méditerranéenne, cit. 114 Vedi, supra, § 1.b.a. 115 Vedi, supra, § 1.b.b. 116 Vedi C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari 2003, il quale individua lo sbocco del fenomeno della crisi della cosiddetta ‘democrazia liberale’ (sostanzialmente elitaria: caratterizzata dalla enfasi formale sulle elezioni e dal controllo reale da parte delle ‘lobby’ economiche) nella alternativa tra il recupero del modello della democrazia greca e il precipitare verso la fine anche degli ultimi residui di democrazia. Gli sviluppi del fenomeno cd. della ‘globalizzazione’ sembrano dare ragione alle previsioni pessimistiche, con il dilagare del criterio bifronte della ‘deregulation’ in materia economica e della ‘governance’ in materia di amministrazione pubblica (ovverosia dell’assoggettamento di quest’ultima ai canoni ‘di mercato’ attraverso un meccanismo – speculare – di regolazione puntigliosissima). 117 Vedi, supra, § 4.c.

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Il Municipio «das Fundament unserer Civilisation»: una ipotesi di ricerca giuridica

per cui determinati elementi dell’unico sistema e della unica logica possono percepirsi prima dall’uno o prima dall’altro dei due ‘punti di vista’. Pensare e/o operare diversamente significherebbe ritornare alle (o perseverare nelle) forzature e sovrapposizioni ‘moderne’ sia di separazione tra diritto pubblico e diritto privato sia di lettura evoluzionistica della storia.

Giovanni Lobrano Università di Sassari

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Dimensión social de la concesión de vespasiano a Hispania – ius Latii – y algunas observaciones sobre la política municipal Flavia  1

La política de municipalización emprendida por César y Augusto supuso un avance indudable en los posibles derechos de los habitantes y munícipes. Un intento y un esbozo de uniformidad enmarcado en núcleos o centros más romanizados. Los privilegios de latinización y ciudadanía, con tintes de individualidad o bien colectivos, aun estaban muy condicionados, y la ocasionalidad y la dispersión territorial afloraba constantemente en el esquema administrativo romano. No obstante, se suele aludir a la Bética romana como uno de los ejemplos provinciales más romanizados y aptos para superar los diferentes condicionamientos romanos proclives a la obtención de privilegios y donaciones otorgadas por la administración romana. Estos privilegios podrían ser puntuales, individuales o colectivos. En este sentido, la tendencia a la catalogación y recatalogación circunscripcional proclive a una municipalización extensiva realizada por Augusto en el contexto Bético no debió suponer demasiados esfuerzos añadidos, si bien, el principal impulso de equiparación, agrupación y unificación lo protagonizó el emperador Vespasiano mediante la concesión del tantas veces referido ius Latii. (ius Latii uniuersae Hispaniae) 2. Probablemente, tanto César como Augusto hubieran llegado a una determinación similar para todo el marco hispano si la pacificación de los últimos reductos conquistados se hubiera producido con anterioridad y no se encontraran en una situación tan compleja que les obligara a intensificar sus empeños bélicos con esta finalidad. Si bien, podemos decir que no existe parangón ni precedente en la política romana que abordara una dimensión uniformadora y unificadora tan extensiva en Hispania 3 como la latinización donada y promulgada por el primero de los Flavios. 1 Estudio realizado en el marco del Proyecto de Excelencia P08-SEJ-3923 de la Junta de Andalucía: «Acción urbanizadora y derecho urbanístico romano. Ordenación del territorio, urbanismo, vivienda y medio ambiente». Dir. B. Malavé Osuna. 2 Plin. N.H. 3.30. 3 El interesante debate sobre el origen, la naturaleza y el verdadero contenido del ius Latii Flavio y la latinización concedida a los municipios de las tres provincias de Hispania, ha sido

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Juan Miguel Alburquerque

El análisis de este derecho ha sido objeto de tratamiento preferente por especialistas de diferentes ámbitos científicos en los últimos tiempos. En realidad, se trata de un tema que ha sido abordado por la doctrina con una insistencia tan acentuada que probablemente queden ya pocos focos científicos de incertidumdo recientemente por: J. Andreu Pintado, Edictum, municipium y lex: Hispania en la época Flavia (69-96 d.C.), Oxford 2004 (BAR Internacional Series, 1293), 6; Id., En torno al ius Latii flavio en Hispania. A propósito de una nueva aplicación de latinidad, en Faventia 29/2, 2007, 37; E. García Fernández, El ius Latii y los municipios latinos, en SHHA 9, 1991, 29-41; Id., Características constitucionales del municipio latino, Gerión 16, 1998; Id., El municipio latino. Origen y desarrollo constitucional, Madrid 2001; Id., Reflexiones sobre la Latinización de Hispania en época republicana, en Andreu Pintado (coord. por), Hispania: Las provincias hispanas en el mundo romano, Tarragona 2009, 377-390; D. Kremer, Ius Latinum. Le concept de Droit Latin sous la Republique et l’Empire. Paris 2006, 3. Cfr. A. Fernández de Buján, Le rôle structurant des villes dans l`experience juridique romaine, en RGDR 13 (www.iustel.com), 2009, 1; Id., Ciudadanía y universalismo en la experiencia jurídica romana, en RGDR 11, 2008; Id., Derecho público romano, Navarra 201013, 323; Id., Derecho Privado Romano, Madrid 20103, 85; L. Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio. Consolidamento e transformazione nella “civitas romana”, Roma 2000, 25; P. Catalano, Diritto e persone: Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990; G. Lobrano, Res publica res populi, Torino 1996, 71; F. Fernández de Buján, La Betica, cornice privilegiata della legislazione municipale e coloniale dell`Hispania romana, en RGDR 13, 2009; L. Rodríguez Ennes, Gallaecia: Romanización y ordenación del territorio, Madrid 2004; M.J. Bravo Bosch, El largo camino de los hispani hacia la ciudadanía, Madrid 2008, 185; J. González, Ius Latii y Lex Irnitana, en Athenaeum 75, 1987, 317-333; Id., Nuevos fragmentos de la Lex Flauia municipales pertenecientes a la Lex Villonensis y a otros municipios de origen desconocido, en J. Gonzáles (ed.), Ciudades privilegiadas en el occidente romano, Sevilla 1999, 239-245; Id., Ius Latii y Lex Flauia municipalis, en Mainake. Estudios de arqueología malagueña 23, 2001, 121-135; Id., Tabula Siarensis, Fortunales Siarenses et municipio civium romanorum, en ZPE 55, 1984, 83; R. Mentxaca, El senado municipal en la Bética Hispana a la luz de la lex irnitana, Vitoria-Gasteiz 1993, 13; T. Jiménez-Candela, Roma y las provincias. Realidad administrativa e ideología imperial, Zu einigen Quellen über Sklavenfreilassungen, Madrid 1994, 243-250; H. Galsterer, Untersuchungen zum Römischen Städtwesen auf der Iberischen Halbinsel, Berlín 1971, 50; Id., Municipium Flauium Irnitanum: a Latin Town in Spain, en JRS 78 1988, 78-90; La transformazione delle antiche colonie latine e il nuevo ius Latii, en Pro poplo Arimenese. Rimini antica, una respublica fra terra e mare, Atti del Convegno Internazionale (Rimini, 30-31 ottobre 1993), Bologna 1995, 127-149; Id., Diritto latino e municipalizazione nella Betica, en O. de Urbina, J. Santos (eds.), Teoría y práctica del ordenamiento municipal en Hispania, Revisiones de Historia Antigua II, Vitoria 1996, 211-221; M. Humbert, Municipium et ciuitas sine suffragio. L`Organisation de la conquéte jusque a la guerre Sociale, Paris 1978; Id., Le droit latin imperial: cites latines ou citoyenneté latine ?, en Ktèma 6, 207; W.D. Lebeck, Textkritisches zur Lex Irnitana, en ZPE 93, 1992, 273-304; A.U. Stylow, Apuntes sobre epigrafía de época Flavia, en Gerión, 4, 1986, 296; G. Alföldy, Spain, en A.K. Bowman, P. Garnsey, D. Rathbone (eds.), The Cambrige Ancient History, XI, Cambridge 20002, 444-461; J.M. Alburquerque, Concentración y ordenación urbanística del territorio romano: Colonias, conventos y municipios en la Bética, en RGDR 13, 2009; Id., La administración provincial, colonial, municipal y la justicia en la Hispania romana (1): Especial referencia a la Bética romana, su capital Corduba y los magistrados municipales y órganos con iurisdictio según la lex Irnitana, en RGDR 7, 2006; Id., La protección a defensa de las cosas de dominio publico, reimp., Madrid 2010, 27; G.I. Luzzatto, Roma e le Province, Bologna 1985; Id., In tema di organizzazione municipale della Sardegna bajo el dominio romano, St. Grosso I, Torino 1968, 291; J.M. Alburquerque, S. Ruiz Pino, Peculiaridades de la iurisdictio en los procesos romanos. Especial referencia a la funcionalidad y libertad permitida a los adversarii en la lex Irnitana, en RGDR 12, 2009.

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Dimensión social de la concesión de Vespasiano a Hispania

bre. Si bien, intentaremos dar una pincelada al repertorio referido. Especialmente con la intención de valorar el avance social que supone una equiparación jurídica de estas características tras un prolongado estío precedente en el que las equiparaciones podrían ser numerosas pero no extensivas. Probablemente puntuales y aparentemente dispersas en todo el contexto territorial de Hispania (más de dos siglos y medio). Incorporamos, quizá, una perspectiva aparentemente menos analizada en su conjunto. En todo el proceso histórico analizado hemos visto que el mosaico territorial hispánico venía caracterizándose por múltiples y variadas concesiones de la administración romana, privilegios (ius Latii, ciudadanía) obtenidos por determinadas personas a título individual, o bien a determinadas circunscripciones coloniales o municipales de forma colectiva. El despliegue de concesiones sin duda fue facilitando la integración del sistema romano tradicional en el modelo local. La suma de imitaciones romanas en la administración colonial y de regulaciones municipales integradoras fueron creando las bases generadoras de un proceso expansivo en el que latía, también a mi juicio, la necesidad de unificación jurídica municipal. En realidad cuando se llega a obtener la equiparación latina en todo el contorno de Hispania con la concesión de Vespasiano, la praxis colonial y municipal se encontraba paulatinamente recubierta de factor y formalidades romanas que se habían ido integrando en la sistemática local. Y añado integrando para significar que probablemente no se trataría de una sustitución simple del organigrama local, como estiman otros autores 4, sino más bien de una integración estatutaria acondicionada al municipio en cuestión, que sin duda ya disponía de unas líneas administrativas romanas análogas con antelación en el desempeño habitual de su gestión. Especialmente en zonas tan romanizadas como es el caso de la Bética. Por este motivo, en mi opinión, cuando se habla por los estudiosos de un tiempo de interinidad – entre la concesión de Vespasiano, 70/73/74 d.C., y la publicación de la ley municipal correspondiente al municipio requerido- me parece lógico pensar que la eficacia de la concesión de Vespasiano es preferente desde el primer momento. Es decir, no parece asumible pensar en una interinidad temporal para acogerse a este derecho otorgado. El acondicionamiento definitivo de la ley municipal a la demarcación concretaría, fijaría, adaptaría, acondicionaría, expondría, daría mayor publicidad y accesibilidad a los habitantes de las bases integradas y ajustadas a la sistemática local oportuna, lo que no impediría pensar, asimismo, que simplemente podría representar también la ratificación de un derecho de latinidad concedido previamente. Se ha cuestionado insistentemente por la doctrina la auténtica expansión efectiva de la promulgación de este derecho latino en todos los enclaves de la geografía

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V. Kremer, Ius Latinum, cit., 3.

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española. Como es sabido, argumentaciones contrarias a la extensión general del derecho latino en España no han faltado. Especialmente al considerar el grado de romanización y aplicación de la latinidad en los espacios y comunidades territoriales menos proclives a asumir la integración estructural romana. En este sentido, un punto de particular relieve hay que atribuirle a Andreu Pintado 5. En una publicación reciente, con una perspectiva científica histórica, jurídica y epigráfica sólida, el A. desmonta, entre otras, las argumentaciones contrarias escritas por Kremer 6, acerca de la auténtica aplicación extensiva del derecho latino en el marco de Hispania. La posible repercusión del ius Latii flavio en España, según Kremer, «en tanto que privilegio jurídico, no sólo no tuvo un alcance geográfico en las provincias hispánicas, sino que, además, sólo convirtió en oppida Latina a algunas comunidades dotándolas de las típicas magistraturas municipales a la espera de que estas se convirtieran en municipios con la recepción de las tablas legales de Domiciano entre el 91 y el 96 d.C., y no antes, ejemplificando además, dicho estatuto a partir del caso de Irni». Estas afirmaciones de Kremer, discípulo de Humbert 7, han alentado de nuevo la polémica doctrinal al respecto. Andreu Pintado 8, – por el contrario – siguiendo los planteamientos defendidos por García Fernández, González, o Alföldy, sostiene acertadamente, en mi opinión, el alcance general de la extensión del Latium uniuersae Hispaniae, por más que las evidencias de las consecuencias del mismo sean diferentes en la Bética de lo que lo son en el noroeste de la Citerior, y lo hemos hecho, además, a partir de la constatación de que, como escribiera con acierto García Fernández, el municipio latino constituye la mejor posibilidad empleada por Roma a través de su historia para que las comunidades indígenas hicieran «uso de sus propios iura e instituta … manteniendo las magistraturas indígenas casi siempre traducidas al latín» 9. A mayor abundamiento, podríamos recordar con Andreu Pintado, entre otros, que no hay que esperar y condicionar la efectividad de la extensión a la recepción material de las diferentes leyes municipales flavias. La existencia de indicios podría avalar «la inmediatez cronológica respecto de la extensión del ius Latii», y – en consonancia con otros autores – nos recuerda que «la generalización pública en época de Domiciano no obedeció más a razones propagandísticas que propiamente constitucionales». Entre los perfiles más sobresalientes de la legislación municipal flavia, cabría hacer referencia a la excepcional y continuada integración de estructuras romaAndreu Pintado, En torno al ius Latii, cit., 37. Kremer, Ius Latinum, cit., 3. 7 Humbert, Municipium et ciuitas sine sufragio, loc. cit.; Le droit latin imperial, cit., 207. 8 Andreu Pintado, En torno al ius Latii, cit., 37. 9 Andreu Pintado, En torno al ius Latii, cit., 41; García Fernández, El ius Latii, cit., 29-41; Características constitucionales, cit.; El municipio latino, cit.; Id., Reflexiones sobre la Latinización, cit., 377-390. 5 6

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nas constitucionales respetando siempre los precedentes locales, la acomodación y compulsa de las magistraturas locales, las equivalencias puntuales, la exquisita sutileza en la distribución de competencias locales y provinciales, la considerable autonomía jurisdiccional y tipicidad delictiva. Las previsiones de adaptación y consideración de instituciones precedentes y su prolongación funcional. La exoneración de las cargas municipales por diferentes motivos, reconocimientos y valoraciones (incapacidad, cargo superior desempeñado, edad, etc.). En suma, un elevado elenco de connotaciones sociales de primer orden se desprende de la administración y regulación municipal flavia, en lógica correspondencia con la legislación municipal de Augusto. Si bien, el salto social de mayor relevancia lo protagonizó indudablemente Vespasiano con su concesión de derecho Latino a toda la comunidad hispana. Posiblemente este reconocimiento imperial produjo sin duda una de las equiparaciones más deseadas por la conciencia social existente en las tres provincias Hispanas, especialmente, la Bética. Habían transcurrido más de doscientos setenta años de las diferentes incursiones romanas en el conglomerado de Hispania, y hasta la concesión de este emperador el avance jurídico que suponía la latinidad estuvo sólo al alcance de algunas circunscripciones concretas, o de algunas personas por diferentes vías meritorias 10. Todavía hoy supone una perspectiva demasiado conjeturable la apreciación doctrinal sobre la extensión de este tipo de reconocimiento antes y después de la proyección constitucional flavia. Es decir, si tiene un carácter primigenio personal exclusivamente, o bien puede atribuirse a los entes colectivos territoriales. En este sentido – derecho personal o derecho colectivo – se han escrito muchas páginas intentando descifrar su verdadero significado 11. Un análisis completo del repertorio doctrinal a este respecto sería desmesurado a los efectos de esta ponencia, si bien, mostraremos una cierta tendencia y proclividad en los siguientes términos: La diversidad de soluciones romanas en las provincias hispanas del imperio parece indiscutible. Con la suma de indicios obtenidos hasta ahora de las fuentes y de la doctrina especializada, no deberíamos alejarnos de esta probabilidad colectiva. A veces podría ser una especie de inversión en futura o inmediata lealtad de la circunscripción privilegiada 12. Sí podemos resaltar, a mi juicio, que de las iniciativas tomadas por la administración romana en este sentido de latinidad privilegiada en el contexto colectivo, es más fácil extraer y observar un reconociV. Suet. Aug. 47. (Latinitate vel civitate donavit). Naturaleza personal (Personalrecht) o bien, (Gemeinrecht). V. Kremer, Ius Latinum, cit., 5; González, Ius Latii, y lex Irnitana, cit., 317-333; Id., Ius Latii y Lex Flauia, cit., 121-135; Alföldy, Spain, cit., 444-461; Galsterer, Untersuchungen, cit., 50; Id., Municipium Flauium, cit., 78-90; Id., La trasformazione, cit., 127-149; Id., Diritto latino, cit., 211-221. 12 V. Luzzatto, In tema di organizzazione, cit., 291. 10 11

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miento social con tendencia extensiva y una opción inmejorable para alcanzar la máxima posición como futuro ciudadano romano, tras el desempeño de determinadas funciones predeterminadas – magistraturas municipales anuales –. Uno de los fines esenciales pretendidos por estas donaciones tan valoradas por la administración romana. En un esfuerzo sintetizador, el procedimiento jurídico y social que impulsa la concesión de Vespasiano podría quedar así recordado: Hispania adquiere una dimensión realmente plausible en ambos planos. Un modo de facilitar la integración de las diferentes comunidades peregrinas (al parecer de algunos estudiosos, más de dos tercios en la Bética). Una relevancia administrativa de mayor calado para el conjunto de ciudades que accedieron a la municipalidad por esta vía. La oportunidad para todos los municipios de alcanzar la ciudadanía por el desempeño de una magistratura anual. La posibilidad de involucrar a las clases y élites locales en la aportación de bienes con carácter de mejoras sociales –al margen del instinto de captación de votos futuros en las elecciones municipales-. Eliminar la necesidad de adquirir los privilegios administrativos a título personal sólo per honorem, o por causas análogas en sentido colectivo. Posibilitó la actividad reformista y reorganizadora de todos los territorios incluidos en las tres provincias. Se sabe que dichas actividades no afectaron en la misma medida a todas las partes del imperio hispano-romano, si bien, no debemos restar importancia al sentido social y jurídico de equiparación que preconizaba la concesión flavia, realzando indiscutiblemente la consideración del entorno hispánico y la apuesta imperial por la fértil actividad y riquezas de las provincias de Hispania. Supuso uno de los ejes de mayor importancia para garantizar la auténtica adhesión y lealtad al régimen imperante. Una intención de ampliación de la ciudadanía romana en sentido numérico, comenzando por una vía un tanto selectiva que pudiera facilitar el acceso a los distintos órganos centrales romanos – una posible inversión en lealtad y apoyos futuros –. Mejoró administrativamente y jurídicamente (legado jurídico) la eficacia de los conventos como instrumentos sociales perfectamente correlacionados con los enclaves conventuales principales de cada provincia y entre los del mismo distrito provincial. La política flavia instaló en los diferentes municipios el culto al emperador, consiguiendo en gran medida aglutinar una creencia masiva y un vínculo y una unión especial entre los diferentes habitantes del contexto conventual de la provincia. Recuérdese, que con este motivo – culto al emperador – el conventus cordubensis programaba una reunión anual con los representantes del Astigitanus, Gaditanus e Hispalensis. Un aspecto determinante que pretendía sensibilizar la unión de los habitantes del entorno provincial, así como resaltar la figura de los emperadores vivos – todavía vivos –. (Novedad que contrasta con la tradición). La creación de la figura del flamen Augustalis, sacerdote del culto imperial. La doctrina más reciente también parece reforzar la tesis que sitúa a la Bética como sede inaugural en

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pania de este nuevo orden sacerdotal. Y el incremento social del orgullo cívico, tan requerido y deseado por los habitantes. De las numerosas actuaciones, reformas y construcciones flavias, cabría traer a colación los grandes templos, especialmente los del conventus cordubensis y el repertorio arqueológico que lo atestigua. La inducción flavia directa e indirecta al evergetismo y las actuaciones de munificiencia contribuyeron en gran medida a la planificación urbanística local y provincial, con resultados admirables. Quizá la política fiscal no estuvo bien vista por los munícipes, si bien, al parecer supuso un incremento recaudatorio que facilitó el progreso económico flavio en los diferentes municipios. La mejora del entramado viario, con una perspectiva especial, con objeto de potenciar la obtención de riquezas y comercio derivado de las numerosas sedes minero-metalúrgicas, tan dispersas por toda la demarcación del conventus cordubensis, parece que fue objeto de gran interés para la trascendental actividad económica de la política flavia y su insistencia en la comunicación especial con el resto de los conventos principales de cada provincia, para garantizar la enriquecedora actividad comercial. Facilitó a los emperadores posteriores las bases sólidas para consolidar el proceso jurídico y social y el progreso económico sustancial de algunas dinastías, hasta llegar al definitivo reconocimiento de ciudadanía universal a todos los súbditos del imperio con Antonino Caracalla (a. 212). Finalmente, destacar la riqueza informativa de la legislación flavia que hemos podido rescatar tras los sucesivos descubrimientos –relativamente recientes – en la Bética. 13 Finalmente recordar que será esta gran aportación legislativa municipal y su extraordinaria readaptación la que preserva en todos los municipios una singular autonomía jurisdiccional, Con especial atención a una de las leyes municipales que más interés despierta en las últimas décadas: Lex Irnitana- Lex Flavia municipal-. Podemos concluir este apartado recordando con Mentxaca 14, la perspectiva de algunos estudiosos cuando utilizan la significativa frase: «Con los Flavios, Hispania quedó integrada en la romanidad». Los diferentes enclaves territoriales promocionados con el ius latti vespasianeo se municipalizan, y la efectividad cronológica es inmediata a la publicación de la concesión imperial 15. Las soluciones aportadas por gran parte de los investigadores no dudan en destacar la efectividad inmediata del edictum de Vespasiano sobre la concesión del ius Latii a las tres provincias hispanas (edictum, en torno 70 d.C.) 16, si bien, sólo unos cuantos investigadores, resaltan la posibilidad de una elaboración legislativa – como marco referencial para la organización básica municipal – elaborada V. Andreu Pintado, En torno al ius Latii, cit., 5. V. Mentxaka, El senado municipal, cit., 37. 15 V. CIL II, 1610; Plin. N.H. 5.20, etc. 16 Ente otros, Andreu Pintado, Edictum, municipium y lex, cit.,155; Id., En torno al ius Latii, cit., 37. 13 14

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simultáneamente por el mismo Vespasiano 17, o una comisión de redactores 18, tomando como referente y precedente la probable estructura de la legislación municipal de Augusto, y también se ha hablado en algunas investigaciones de una posible comisión de censores o de comisiones de inspección 19 que recorriera (entre 71-74) los distintos enclaves hispanos promocionados contribuyendo a su readaptación, municipalización, registro y comprobación de la aplicación del derecho latino concedido. El texto legal marco se entregaba a cada comunidad y, por tanto, los archivos locales dispondrían de toda la información esencial de este marco legislativo, con la amplia posibilidad de readaptar sus estructuras administrativas a imagen romana, pero manteniendo el espíritu de autonomía pretendido por la política social de Vespasiano. Ante unas observaciones de semejante calado, se podría llegar a asumir con determinados investigadores, que Domiciano continuó la tarea emprendida por Vespasiano, y dio una publicidad mayor al origen de la política de autonomía social y de municipalización extensiva emprendida por su padre, lo hizo por escrito y dirigido a determinadas comunidades flavias –especialmente en la Bética-. Con indicaciones legislativas inexcusables en todo lo concerniente a su publicidad, y con el fin de informar adecuadamente a los habitantes, y, quizá, evitar la suma de consultas y cuestiones municipales al gobernador o a las supuestas comisiones de inspección que venían planteando las administraciones municipales y provinciales en el desempeño y adaptación a las nuevas vías administrativas contenidas en el texto-marco o contexto legislativo de Vespasiano 20. La equiparación jurídica de los diferentes municipios flavios se desprende claramente de las leyes municipales que hemos podido analizar. Incluso la autonomía jurisdiccional aparece bien protegida, si bien, a propósito de la excesiva libertad de los posibles adversarii a la hora de convenir el órgano jurisdiccional apropiado – al margen de lo preconizado por la ley – quizá sobrepasa, en mi opinión, los límites formales y esenciales de la iurisdictio romana 21.

Juan Miguel Alburquerque Universidad de Córdoba

V. González, Ius Latii y lex Flavia, cit., 121-135. V. Lebeck, Textkritisches, cit., 273-304. 19 V. Lebeck, Textkritisches, cit., 273-304; Id., Domitians Lex Latii, cit., 253-292; Id., La Lex Latii de Domiziano, cit., 159-187; Galsterer, Untersuchungen, cit., 50; Stylow, Apuntes sobre epigrafía, cit., 290. 20 V. Andreu Pintado, Edictum, municipium y lex, cit., 155 21 V. Alburquerque, Ruíz Pino, Peculiaridades de la iurisdictio, cit., 5. 17 18

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L’integrazione degli Hispani nella comunità romana*

1. Introduzione La figura di Vespasiano – che, a prescindere dalla sua nota capacità nell’ambito militare, era dotato d’un’innegabile abilità nella strategia bellica, volta alla conquista e alla sottomissione di nuovi territori all’impero romano – è di capitale importanza per conoscere la storia giuridica della Hispania romana. Fu proprio l’imperatore 1 – primo dei Flavi – a concedere il ius Latii alle tre Hispaniae, una misura eccezionale 2 per la sua portata, che incise profondamente sulla vita degli hispani, anche se all’inizio questi non ne furono pienamente coscienti. Il punto di partenza è costituito da un testo di Plinio, N.H. 3.30, che ci informa della concessione del Latium alla Hispania ad opera di Vespasiano: Universae Hispaniae Vespasianus Imperator Augustus iactatum procellis rei publicae Latium  3 tribuit. * Per la traduzione in italiano, ringrazio vivamente il prof. Vincenzo Durante, dell’Università di Firenze.

Sulla figura dell’imperatore, Suet. Vesp. 8; 20; sui poteri d’autorizzazione del Senato, Tac. Hist. 4.3; M.P. Charlesworth, Flaviana, in JRS 27, 1, 1937, 54: «However Vespasian won his power, he retained it as a representative of the solid virtues, as the antithesis of the extravagance, cowardice and instability of Nero; his thrift and simplicity were skilfully made prominent against the greed and luxury of the rich. The attitude he took towards his predecessors is instructive not only for his own character but as an example of able propaganda … He was out to restore a simpler and saner mode of living, and to make extravagance and luxury unfashionable»; riguardo alla scarsità delle fonti sul principato di Vespasiano, M. Griffin, The Flavians, in A.K. Bowman, P. Garnsey, D. Rathbone (eds.), The Cambrige Ancient History, XI, Cambridge 20002: «The nature of our literary sources makes it impossible to reconstruct the detailed chronology of the reign of Vespasian. His biographer Suetonius used a non-chronological structure and the chronological account of Dio is only preserved in fragments». 2 Cfr. al riguardo, R.K. McElderry, Vespasian’s Reconstruction of Spain, in JRS 8, 1918, 61: «No act of Vespasian is more memorable or of greater importance than this», con chiaro riferimento alla concessione del ius Latii alla Hispania. 3 Da rilevare che il naturalista impiega il termine Latium invece di ius Latii, termine coniato da Asc. Pis. 3 C, nel momento in cui dà conto della concessione del ius Latii alla Transpadania da 1

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Il testo è oggetto di un serrato dibattito nella storiografia. Per un verso, sul piano filologico, si discute se la lettura del termine iactatum sia corretta, come reputa McElderry 4, o se, al contrario, debba leggersi iactatus; inoltre, da un punto di vista storico, controversa è l’accezione del termine: secondo Richardson 5 deve leggersi iactatae come aggettivo riferito a Hispania, scorgendo nelle parole di Plinio un riferimento a una Hispania devastata, anche sul piano psicologico, a seguito della guerra civile del 68-69 d.C. Per altro verso, parrebbe chiaro che il passo dia conto dell’oggetto della riforma (ius Latii) e del suo destinatario (universae Hispaniae). La concessione del Latium 6 è colta da Alföldy 7 nel fatto che Vespasiano, nel conferire il diritto latino, enfatizzi che la Hispania sia divenuta una regione romana proprio come l’Italia. Allo stesso modo, tale privilegio, come segnala González 8., si tradusse in una nuova realtà per le province fortemente romanizzate, dato che al conferimento del ius Latii seguiva normalmente il miglioramento dello status giuridico delle comunità e l’emersione di municipia Latina. Sì che la ricerca sulla natura e il contenuto essenziale del ius Latii ha implicato opinioni divergenti: taluni profilano il carattere del parte di Pompeo Strabone nell’anno 89 a.C., e utilizzato anche da Gai. 1.95: Alia causa est eorum qui Latii iure cum liberis suis ad civitatem Romanam perveniunt; nam horum in potestate fiunt liberi. Quod ius quibusdam peregrinis civitatibus datum est vel a populo Romano vel a senatu vel a Caesare. 4 McElderry, Vespasian’s Reconstruction of Spain, cit., 62: «Iactatum, the best attested reading, is preferable and historically most illuminating. Pliny is defending a praiseworthy and statesmanlike act of the emperor». 5 J.S. Richardson, The Romans in Spain, Oxford 1996, 191: «Perhaps, however, the text of Pliny is corrupt here, and the word iactatum, which I have translated as ‘shaken’, should be amended, either to iactatus (which would agree with Vespasian) or to iactatae (thus relating to Hispania). Of these the latter is probably the more likely, since, although the physical effect of the war on the peninsula was minimal, the psychological consequences of Galba’s march on Rome, the preparations he made in Spain before he left and the military comings and goings which followed are indeed likely to have made the area unstable from Vespasian’s standpoint». 6 Cfr. al riguardo, P. Le Roux, Rome et le droit latin, in RHDFE 76, 3, 1998, 319, il quale pone in rilievo le tre tappe nelle quali si articola l’evoluzione del Latium: una prima nella quale emerge il concetto, un’altra tappa repubblicana nella quale appaiono le coloniae Latinae e un’ultima tappa estensiva della cittadinanza latina, con la possibilità per i peregrini di essere un civis tramite l’esercizio di una magistratura nella comunità alla quale appartengono; nel primo momento, possiamo far riferimento alla Lex Sempronia iudiciaria, che apre per la prima volta la possibilità alle oligarchie locali delle colonie latine di ottenere la cittadinanza romana, all’interno della seconda tappa ci riferiamo al ius adipiscendae per magistratum, puntualmente esaminato da G. Luraschi, Foedus ius latii civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, 301 s. il quale giunge ad affermare a p. 314, che tale diritto sorge nell’anno 124 a.C. 7 G. Alföldy, Sociedad y Epigrafía en Tarraco, in Epigrafía y sociedad en Hispania durante el Alto Imperio: Estructuras y relaciones sociales, Madrid 2003 (Acta Antiqua Complutensia, IV), 164. 8 J. González, Las leyes municipales Flavias, in Aspectos de la colonización y municipalización de Hispania, Mérida 1989, 143.

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ius Latii come un diritto collettivo, concesso ad intere comunità (Gemeinderecht), altri come un diritto personale, individuale (Personenrecht). Tra i sostenitori del Gemeinderecht, il primo a reputare che il privilegio del Latium potesse esser riferito a una comunità, e a negare che potesse esistere un’ idea astratta di cittadinanza latina sovraterritoriale fu il Mommsen 9. Anche Galsterer 10 segnala che la lettura di diversi frammenti del CIL orienti nel senso della portata generale del Latium, visto che in tali documenti la condizione di civis Latinus appare solo al plurale. Nello stesso modo, Wolff 11, il quale insiste sul fatto che i riferimenti contenuti nelle leges municipales alla forma idonea a trasformare i Latini in comunità, per esempio nei capitoli 21-23 e 29 della Lex Salpensana, attestino che siffatta condizione poteva esistere solo all’interno della medesima. Tra i sostenitori del Personenrecht, inclini ad intendere il ius Latii come un diritto personale, si possono citare Braunert 12, fermo nell’idea del ‘Personenrechtlicher Status’, e Millar 13, per il quale esiste uno stretto legame tra il ius Latii e la concessione individuale della civitas per honorem, reputando il ius Latii come l’unico sistema che permettesse ai peregrini di entrare a far parte dell’ordinamento romano attraverso il ponte verso la civitas romana implicato dal Latium. Partigiano del Personenrecht è anche Forni 14, per il quale l’esistenza di tribus nelle quali si includevano i soggetti che ricevevano la cittadinanza, sia per concessione imperiale, sia per aver esercitato una magistratura municipale, dimostra il carattere personale del ius Latii. Nel quadro della stessa corrente storiografica, SherwinTh. Mommsen, Die Stadtrechte der latinischen Gemeinden Salpensa und Malaca in der Provinz Baetica, in Gesammelte Schriften. Juristische Schriften I, Berlin 1905, 265-382; Id., Das römische Staatsrecht 3.1, Leipzig 1888 (rist. Basilea 1952), 626, afferma: «Latinisches Personalrecht giebt es nur als Konsequenz des einzelnen latinischen Stadtrechts». 10 H. Galsterer, Untersuchungen zum Römischen Städtwesen auf der Iberischen Halbinsel, Berlin 1971, 40. 11 H. Wolff, Kriterien für latinische und römische städte in Gallien und Germanien und die ‘Verfassung’ der gallischen Stammesgemeinden, in BJ 176, 1976, 52, 57 e 77. 12 H. Braunert, “Ius Latii” in den Stadtrechten von “Salpensa” und “Malaca”, in Corolla Memoriae Erich Sowoboda dedicata, Graz-Köln 1966, 75: «Der civis Latinus kann in Parallele zum civis Romanus genannt werden; wie beim römischen Bürger war also sein Personenrechtlicher Status unabhängig von seiner jeweiligen Gemeindezugehörigkeit», insistendo a p. 80 sulla concessione del ius Latii a singoli soggetti e non a tutta la comunità: «Verleihung der Latinität bedeutete dann nicht die Rangerhöhung von Gemeinden durch einen Rechtsakt, sonder sie war – mit der Zuerteilung des ius Latii an die peregrinen Mitglieder von Gemeinschaften unterschiedlicher Ordnung – lediglich ein Versprechen der Zentralregierung, das römische Bürgerrecht denen zuerkennen zu wollen, die sich bereitfanden, in ihren heimatlichen Gemeinden römische Organisationsformen einzuführen und damit von sich aus den Prozeß der Romanisierung voranzutreiben». 13 F. Millar, The Emperor in the Roman World (31 BC.- 337 AD.), London 1977, 398. 14 G. Forni, Dalle difficoltà di assoggettamento agli effetti della romanità: sinossi asturo-calleca, in Actas del Coloquio Internacional sobre el Bimilenario de Lugo, Lugo 1977, 61. 9

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White 15, insiste soprattutto sulla non necessaria corrispondenza tra la concessione del Latium e la promozione statutaria di una comunità, portando a conforto la tesi di Alföldy 16, orientato per una concessione personale graduata nelle sue ripercussioni nelle rispettive comunità, nel senso che non si trasformano automaticamente in municipia. Queste diverse posizioni hanno dato luogo ad un acceso dibattito, ma, in tempi più recenti, sono state prospettate teorie intermedie o miste, combinanti profili dell’una e dell’altra. Esemplare, la posizione di Andreu Pintado 17, per il quale la natura del ius Latii incideva sia sulle condizioni e sugli statuti personali sia su aspetti decisivi delle comunità: «Personalmente consideramos que la naturaleza del ius Latii afectaba a la vez a las condiciones y estatutos personales y – como consecuencia de ello – a aspectos decisivos de las comunidades. En primer lugar, es evidente que con la extensión del ius Latii aparecía un nuevo tipo de individuo, el Latinus, fuera su condición abstracta o real, y sobre él aparecen algunas referencias en las leges municipales contemplando su potestad para manumitir y su derecho de voto en los comicios», aggiungendo che la scarsità di riferimenti si coordina 15 Sherwin-White, The Roman Citizenship cit., 362, in relazione con la Gallia Cisalpina, collegandosi nelle pp. 360 ss. alla riflessione di Braunert, Ius Latii, cit., 68-83, nella quale si rinvengono rilievi molto interessanti: «He suggests that in the Principate the grant of Latin rights affected only the status of persons, not that of communities, and that the promotion of a commune to the rank of municipium by the grant of a detailed charter was a later and distinct process, a frequent but not a necessary sequel to Latin status. The essence of this was the conversion of a group of peregrines into cives latini, a term used in the charter of Malaca, whereby they secured a similar position to that of Romans in civil law and the prerogative of acquiring the Roman franchise per honorem, by holding the magistracies of their local communes, whether these were municipia or not … The alternative and older explanation is that the edict of Vespasian represented only the first stage of Latinization – the grant of the personal status to the local inhabitants and of municipal status to their commune together with a brief instruction like that iussed to the inhabitants of Transpadane Gaul in 49 B.C. – to ‘elect duoviri’, or as happened at Salpensa, duoviri, aediles, and quaestors». 16 G. Alföldy, Spain, in The Cambridge Ancient History, cit., 450-451: «Pliny’s account must be understood in the sense that by achieving the Latin status such communities now acquired the right to stablish a municipium iuris Latini, i.e. a community with regular urban magistracies, an ordo decurionum and a popular assembly; this gave their citizens the opportunity to gain the civitas Romana by holding a magistracy, but it did not mean that the communities were automatically transformed into municipia immediately upon, and by virtue of, the grant of the ius Latii». 17 J. Andreu Pintado, “Edictum”, “Municipium” y “Lex”: “Hispania” en época flavia (69-96 d.C.), Oxford 2004 (Bar International Series, 1293), 9; inoltre, segnala a p. 10: «Por último, la tardía aparición de las leges municipales no debe interpretarse como muestra de que los efectos del ius latii sobre la vida y el estatuto de las comunidades se dejaron sentir con cierto retraso. Las leges que conservamos vendrían simplemente a publicitar una realidad que podría estar operando desde tiempo atrás, seguramente unos pocos años después del edictum, momento en que Vespasiano habría redactado una lex para dar cabida en ella a toda la complicada casuística administrativa que derivaba de que aparecieran los primeros cives Romani».

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alla ragione che tutti conoscevano le condizioni della cittadinanza latina. Si intravede una posizione conciliante tra coloro che difendono il carattere o meno personale di tale diritto, senza giungere a un’opinione complementare di entrambe le posizioni. Certo è che si è in presenza della concessione di un diritto, il ius Latii, con effetti sicuramente vantaggiosi per i componenti di una comunità 18 – alla quale si estende il Latium flavio – giacché, a far tempo dal conferimento di Vespasiano, mediante l’esercizio di una magistratura, i beneficiari conseguono la condizione di cittadini romani 19. Resti inteso, il Latium involge effetti giuridici di tipo personale, ma su membri di una comunità, per via che incide anche sullo status giuridico della comunità alla quale appartengono. Optare per la teoria del diritto personale o delle comunità non parrebbe scientificamente proficuo, in quanto il Latium, con una portata di tipo generale, parrebbe implicare effetti giuridici sia a livello personale sia in relazione alle comunità organizzate alle quali appartengono gli individui beneficati; tuttavia porre in relazione il principio di personalità (presente nell’ordinamento romano, con la concessione del Latium riportata da Plinio) potrebbe far pendere la bilancia a favore del Personenrecht, dunque con l’attenuazione dell’operatività all’interno delle differenti comunità esistenti. 2. Latium minus versus Latium maius Per cogliere puntualmente il contenuto del ius Latii concesso da Vespasiano, occorre prender le mosse da un passo di Gaio, 1.96 20: 18 B. Levick, Vespasian, London 1999, 139, che dà conto delle diverse interpretazioni della concessione di Vespasiano: «It has been assumed that all the citizens of towns with Latium were ‘Latins’ and enjoyed privileges intermediate between those of non-citizens and full Roman citizens, and the detailed provisions of the Tabula Irnitana support that assumption. So the grant both enhanced the position of a community and expected that the mass of its citizens should accept the rules of Roman civil law: in section 22-23, those who acquire citizenship are already subject to Roman rules on manus, mancipium, tutoris optio, and patronatus», aggiungendo che esiste un altro argomento, nel senso che il Latium «affected only personal rights, making no change in the position of cities themselves, and on the other that under the Empire it was confined to communities; the individual ‘Latin’ ceased to exist in this context», concludendo «it seems likely that, as Pliny’s mention of Spain rather than Spaniards suggests, grants were made to communities…». 19 Gai. 1.95, il quale riferisce che acquistano la cittadinanza romana con i loro figli, giacché conseguono la potestà su di loro: Alia causa est eorum qui Latii iure cum liberis suis ad civitatem Romanam perveniunt; nam horum in potestate fiunt liberi. Quod ius quibusdam peregrinis civitatibus datum est vel a populo romano vel a senatu vel a Caesare. 20 McElderry, Vespasian’s reconstruction of Spain, cit., 65, il quale riporta la classificazione di Gaio all’epoca di pertinenza: «Latium maius and minus; in the latter the franchise was attained only by the holding of a magistracy or public office; in maius even the decurionate was a qualification. But of this

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Secondo il giurista, esisterebbe un Latium minus, così denominato perché vale a promuovere solamente coloro che hanno ricoperto una magistratura, e un Latium maius, in senso ampio, giacché concede la cittadinanza romana a coloro che, associati alla curia, assolvono le funzioni di decurioni. La questione è nello stabilire il tipo di Latium concesso dal primo imperatore flavio, problema che non presenta eccessiva complicazione, tenuto conto della posizione comune della dottrina circa la presenza del Latium maius solo a partire dall’epoca di Adriano. Così Chastagnol 21, per il quale la concessione di Vespasiano non poteva assolutamente includere il Latium maius, ancora non esistente, sulla scorta anche della testimonianza di Gaio 1.93: Si peregrinus sibi liberisque suis civitatem Romanam petierit, non aliter filii in potestate eius fiunt, quam si imperator eos in potestatem redegerit; quod ita demum is facit, si causa cognita aestimaverit hoc filiis expedire; diligentius autem exactiusque causam cognoscit de inpuberibus absentibusque; et haec ita edicto divi Hadriani significantur, riguardo a riforme realizzate da Adriano circa concessioni di cittadinanza. Il che potrebbe porsi in relazione con l’incorporazione del Latium maius a fianco del minus già esistente. Tutto ciò ci porta ad affermare che il Latium concesso da Vespasiano fosse il Latium minus. Prova della solidità di tale asserzione è la menzione contenuta nella legislazione municipale flavia, come attestano la Lex Salpensana ed ora la Lex Irnitana, capitolo 21: 21. R (ubrica). Quemadmodum civitatem Romanam in eo municipio consequantur. Qui ex senatoribus decurionibus conscriptisve municipii Flavi Irnitani magistratus uti h(ac) l(ege) comprehensum est creati sunt erunt, ii, cum eo honore | abierint, cum parentibus coniugibusque ac liberis qui legitimis nuptis quae|siti in potestate parentium fuerint, item nepotibus ac neptibus filio | natis, qui quaeve in potestate parentium fuerint cives Romani sunto, dum ne plures cives Romani | sint quam quod ex h(ac) l(ege) magistratus creare oportet.

In questo capitolo si ammette la possibilità di ottenere la cittadinanza romana dopo aver ricoperto una magistratura, allo spirare dell’anno del mandato, e non al privilege there is no trace before the second century. It has been suspected that even minus Latium (as Gaius would call it) was not fully granted to Spain, and that only the highest magistracy, the duumvirate, was a qualification, since all inscriptions which expressly mention the qualifying office refer to it. It is probable, too, that all who are stated to have gained the citizenship per honorem simply, are of inferior status: an aedile or quaestor would prefer the general term. And many duumviri did not pass through the lower offices, for no regular cursus honorum was legally prescribed before the second century». 21 A. Chastagnol, L’empereur Hadrien et la dessinée du droit latin provincial au second siècle après Jésus-Christ, in RH 292, 1994, 219 s.

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momento dell’elezione, il che avrebbe potuto configurare una frode. Risulta necessario l’esercizio effettivo della magistratura per poter ottenere i benefici derivanti da tale funzione, ossia l’acquisto della cittadinanza romana per il magistrato, gli ascendenti e i discendenti, esclusi quelli per via materna. Ad ogni modo, dobbiamo porre a confronto la testimonianza di Gaio, 1.96, con l’espressione qui decuriones leguntur, che sembrerebbe orientare per l’acquisto della civitas solo per il fatto di essere stato eletto, a prescindere dallo svolgimento successivo dell’incarico. In tal senso, Kremer 22 afferma che la legge di Irni contiene un regime più restrittivo del Latium minus descritto da Gaio, il che parrebbe paradossale a fronte della concessione di Vespasiano del diritto latino a tutta la penisola. Afferma D’Ors 23 che gli abitanti di questi municipi non si reputavano senz’altro cittadini romani, sino a quando la loro condizione fosse di Latini colonarii 24, il cui accesso alla cittadinanza si realizzava ricoprendo una magistratura (per honorem). L’idea sottesa é che il beneficio non era strettamente personale, dato che si estendeva agli ascendenti, moglie, figli e discendenti per via maschile. E, poiché ogni anno solo i sei o poco più magistrati ottenevano quel beneficio, lentamente cresceva il numero dei cives Romani fino a formarsi anni dopo una presenza costante di cives nei municipi, sì da potersi dire che Vespasiano abbia reso cittadini tutti gli hispani. 3. Data dell’editto Quanto alla data di promulgazione dell’editto, non vi è unanimità di vedute. Mommsen 25 si riferisce all’epoca della censura di Vespasiano con Tito, posta nel

D. Kremer, Ius latinum. Le concepte de droit latin sous la république et l’Empire, Paris 2006, 147. A. D’Ors, Epigrafía jurídica de la España romana, Madrid 1953, 149-150. 24 McElderry, Vespasian’s reconstruction of Spain, cit., 65: «One privilege of Latinitas outweighed all others in general estimation it opened the door to the full Roman franchise. How wide was the door in Spain? All the Latin communities of the Empire belong to the newer category of Latini coloniarii who took their name from the twelve Latin colonies founded in Italy after the dissolution of the original league; and who were of inferior status to the prisci latini chiefly in this, that mere residence in Rome did not make them citizens», aggiungendo a p. 66: «The distinctive name ‘coloniarii’ belonging to the later Latins had begun to admit the alternative ‘municipia’ even under the Republic. There was no longer any need for it when the ‘prisci Latini’ finally disappeared after the Social War; and in Spain it is never used. The title ‘municipium Flavium’ is given in both our charters, and it is fair to assume that it was given in all others. Its use was not constant even in the towns which certainly possessed it, and the scantiness of our evidence would easily explain its non-appearance elsewhere. Perhaps the fiction of so many ‘coloniae’ would have been too startling; possibly too the title ‘municipia’ was preferred not only as being more logical but also as more honourable in some aspects and as indicating a greater degree of independence, at least in name». 25 Th. Mommsen, The Provinces of the Roman Empire, from Caesar to Diocletian, London 1909, 49. 22 23

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73-74 d.C. e sostiene che la concessione del Latium non può essere posteriore al 75 d.C., giacché in questo momento si situano gli omaggi di ringraziamento all’imperator da parte dei primi cittadini romani che ottenevano questa condizione, aggiungendo che l’esercizio della censura era il momento ideale per concedere un ius con queste caratteristiche. Questa teoria fu subito accolta con favore da parte della dottrina, e per questo autori come McElderry 26, Henderson 27, D’Ors 28, Amelotti 29, Fernández de Buján 30 y Kremer 31, parlano dell’editto del 73-74 d.C., allo stesso modo di Griffin 32, incentrando il dibattito sulla data reale della censura 26 McElderry, Vespasian’s reconstruction of Spain, cit., 79: «His original edict was issued in 73 or 74 in connexion with his censorship, as is proved by several Spanish inscriptions in his honour which make special reference to that office, and by the mention of Titus as his colleague in at least one record of the grant; also by the fact that the earliest traces of full citizenship gained by municipal office are of the year 75». 27 BW. Henderson, Five Roman Emperors. Vespasian-Titus-Domitian-Nerva-Trajan A.D. 69-117, ed. an., Rome 1968, 72: «The rapid Romanisation of Spain in the first century of our era is notable … The famous bestowal by Vespasian in A.D. 73-74 of ‘Latin rights’ upon Baetica…». 28 A. D’Ors, X. D’Ors, Lex Irnitana (texto bilingüe), Santiago de Compostela 1988, 4, che affermano in riguardo alla lex Irnitana: «Esa ley de Domiciano fue una ley reformada unos quince años después de que Vespasiano hubiera concedido el ius Latii a los municipios de Hispania, el 73/74 d.C.». 29 M. Amelotti, Il diritto privato dei “latini” e il cap. 93 della “lex Irnitana”, in Roma y las provincias. Realidad administrativa e ideología imperial, Madrid 1994, 17: «Nel 73/74, Vespasiano, durante la censura sua e del figlio Tito, concede alla Spagna il ius Latii. Le comunità cittadine diventano municipi: precisamente municipia Flavia, dal nome dell’imperatore. I loro abitanti sono ascritti alla tribù Quirina e ricevono la cittadinanza latina, che si tramuta in romana attraverso l’esercizio di una magistratura: per honorem». 30 A. Fernández de Buján, Derecho Público Romano, Pamplona 200912, 311: «En los años 73 o 74 d.C. el emperador de la dinastía Flavia, Vespasiano, promulga un edicto en virtud del cual se atribuye la latinidad a todos los núcleos urbanos de Hispania, lo que supuso la organización como municipios romanos de un gran número de ciudades españolas, tanto bajo el período de gobierno de este emperador, como en el correspondiente a sus sucesores, hijos de Vespasiano, Tito y Domiciano». 31 Kremer, Ius latinum, cit., 137. 32 Griffin, The Flavians, in The Cambridge Ancient History, cit., 20-21, nella quale si riferisce inoltre alla speciale circostanza della censura di Vespasiano con Tito: «The tenure of the censorship in itself looked back to Claudius. After Augustus’ill-omened experiment with real censors in 22 B.C., no one held the office until Claudius assumed it in 47/8 with Lucius Vitellius, whose period of ascendancy had coincided with Vespasian’s rise to the consulship. Claudius had used the opportunity presented by the offices to make speeches, not only about adlection to the Senate, but against disorder, lasciviousness and greed. Vespasian reinforced at least one piece of legislation from his censorship, a law to inhibit the lending of money to any young man still in patria potestate: the moneylender would hope to reover it whenthe father died and the son came into property. This s.c. Macedonianum … The Flavian decree seems to be concerned with curbing the luxurious habits of the young who might be driven to murder of the pater familias in desperation, though clearly Claudius’ concern with the cruelty of the moneylenders will also have been served».

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congiunta, più che sulla Hispania e sul momento storico nel quale Vespasiano decide di estendere il Latium in tutto il territorio. Tuttavia, come afferma Bosworth 33, l’inclusione del termine censor in alcune epigrafi ispaniche nelle quali distinte comunità ringraziano per la concessione del ius Latii, si giustifica con la grande importanza attribuita dai Flavi a questo incarico senza aver alcun tipo di relazione tra la censura e l’estensione del Latium. Ma c’è di più. Non si fa alcun riferimento a Tito nel passo di Plinio dal quale abbiamo preso le mosse, il che sarebbe sorprendente se anche al figlio dell’imperatore flavio andasse il merito della concessione di un diritto tanto importante. In tal caso, sarebbe stato difficile escluderlo dagli autori del Latium che tanti benefici aveva portato alla Hispania, e far capo solo a Vespasiano. Tutto ciò porta ad una data anteriore, che sicuramente è quella dell’anno 70 d.C. 34, all’inizio del regno di Vespasiano, alla fine della guerra civile 35. Alcuni, come Fear 36, propongono come data plausibile l’anno 69 d.C., nel quale la necessità di Vespasiano di reperire più sostenitori alla sua causa provocò la concessione del ius Latii alla Hispania, con il risultato di portare dalla sua parte le città e gli eserciti, nel corso dei tempestosi anni 68-69 chiamati ‘dei quattro imperatori’ 37. Essi, peraltro, non tengono conto del carisma e della personalità dell’imperatore, conosciuto per il suo progetto di restaurazione e riforma dell’amministrazione del vasto impero esistente in quel momento storico, includendo la creazione di nuove imposte che venissero in soccorso dell’economia dell’impero, o il ripristino delle stesse nelle A.B. Bosworth, Vespasian and the Provinces: Some Problems of the Early 70’s A.C., in Athenaeum 51, 1973, 53. 34 Cfr. al riguardo, F. Lamberti, Tabulae Irnitanae. Municipalità e ius Romanorum, Napoli 1993, 18, n. 5. 35 Tac. Hist. 3.86; 4.1; 4.3.3; 4.39; v. in proposito, P.A. Brunt, Lex de Imperio Vespasiani, in JRS 67, 1977, 102: «In December 69 the senate was ‘laetus et spei certus’, because the triumph of Vespasian was likely to end the civil war», e p. 100: «Vespasian was recognised at Rome in late December 69, and we might expect his ‘comitia tribuniciae potestatis’ to have followed in January or (at latest) February 70 … Vitellius was killed probably on 20 or 21 December. The magistrates and senators had scattered in terror, and the senate could not convened that very day, nor perhaps, in view of the licence allowed to the Flavian troops, for some days thereafter; but it was certainly before I January 70 that it met and ‘cuncta principibus solita Vespasiano decernit’. On the same day it voted that Vespasian and Titus should be consuls for 70 and that Domitian should be praetor with consular imperium, and it decided to send ambassadors to congratulate the new emperor». 36 A.T. Fear, Rome and Baetica. Urbanization in Southern Spain. c. 50 BC-AD. 150, Oxford 1996, 145. 37 V. su questo momento storico: G. Corradi, Galba-Otone-Vitellio, Roma 1941, passim; G.E.F. Chilver, The Army in Politics, in JRS 47, 1957, 29 ss.; H. Drexler, Zur Geschichte Kaisers Othos bei Tacitus und Plutarch, in Klio 41, 1959, 153 ss.; L. Bessone, La rivolta batavica e la crisi del 69 d.C., Torino 1972, passim; RA. Bauman, Impietas in principem, München 1974, 125 ss.; K. Wellesley, The Long Year A.D. 69, London 1976, passim. 33

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province. Il che ci mostra un imperatore con una grande fiducia in se stesso e nel suo progetto del futuro, poco preoccupato di ottenere l’appoggio popolare, cosa che non sarebbe riuscita con una eccessiva pressione fiscale. Vespasiano intendeva sicuramente beneficiare la terra che tanto aveva appoggiato Galba in passato, però non come un generale in cerca di alleati, bensì come un imperatore che necessita di creare clientele nell’impero per la sua consolidazione, e che in modo sereno, dopo un periodo di riflessione, promulga un editto di contenuto estensivo, che concede il Latium in forma organizzata, e a largo raggio, il che dimostra che era già un chiaro vincitore della guerra ormai superata. 4. Motivi della concessione del ius Latii Quanto ai motivi che sollecitarono Vespasiano a concedere il Latium all’Hispania, la storiografia ne ha identificato una serie eterogenea. Alcuni, come Forni 38 o Webster 39 hanno scorto motivi militari nella decisione di Vespasiano, che avrebbe utilizzato il ius Latii come uno strumento per aumentare il numero di cittadini, per poter così ingrossare le fila dell’esercito carente di effettivi. Così, in accordo con la teoria per la quale i legionari erano cittadini e i soldati delle truppe ausiliarie normalmente peregrini 40, tali autori hanno immaginato una politica estensiva del ius Latii da parte di Vespasiano intesa a reclutare il maggior numero di soldati che potessero proteggere gli sterminati confini dell’impero. Tuttavia, Le Roux 41 reputa fragile siffatta teoria per quanto riguarda l’epoca di Vespasiano nella quale diminuì il reclutamento rispetto all’epoca giulio-claudia, sostenendo che l’imperatore flavio concesse il ius Latii solo per incentivare la promozione urbana e municipale delle comunità ispaniche. Sì che in questo contesto l’esercito assunse un ruolo importante. Altre tesi fanno riferimento a motivi economici, come l’opinione profilata da McElderry 42, che enfatizza l’importanza economica dell’Hispania in questo momento, affermando che la prosperità di tutta la penisola iberica raggiunse il G. Forni, Il reclutamento delle legioni da Augusto a Diocleziano, Milano 1953, 103. G. Webster, The Roman Imperial Army of the First and Second Centurie AD, London 1969, 106. 40 A. García Y Bellido, Alas y cohortes en el ejército romano de época imperial, in RhM 1, 1957, 34, il quale segnala che ci fossero eccezioni alla norma che i legionari fossero i cittadini e gli ausiliari peregrini, e riporta quali documenti epigrafici avallanti tali eccezioni la menzione civium Romanorum de las cohortes I Flavia Ulpia Hispanorum civium Romanorum, I Lemavorum civium Romanorum, III Asturum Pia Fidelis civium Romanorum e I fide Vardullorum civium Romanorum, tutte di un tempo successivo alla concessione del ius Latii da parte di Vespasiano. 41 P. Le Roux, Armées et promotion urbaine en Hispanie sous l’Émpire, in Los orígenes de la ciudad en el noroeste hispánico, Actas del Congreso Internacional (Lugo, 15-18 de Mayo de 1996), Lugo 1998, 205. 42 McElderry, Vespasian’s reconstruction of Spain, cit., 102. 38 39

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suo ‘zenith’ durante il periodo nel quale esercitò tutto il suo potere Vespasiano. Si è anche parlato di interessi riorganizzativi dietro la decisione dell’imperatore, ma con uno sfondo economico, come sostiene Chic García 43 nel far riferimento alla crescita eccezionale in epoca flavia del sistema annonario, dal quale si dedurrebbe l’interesse diretto di Vespasiano per lo stesso commercio, profilando questo interesse commerciale come un altro motivo per il quale l’imperatore flavio avrebbe concesso il ius Latii alla Hispania. La conseguente migliore organizzazione municipale nel territorio traducendosi in migliori infrastrutture avrebbe consentito di sfruttare meglio le risorse economiche esistenti ottenendo pingui benefici non solo per la regione, ma anche, di riflesso, per Roma. Si adducono anche ragioni di romanizzazione come scopo della concessione del ius Latii. Così Homo 44. Noi crediamo che nessuno dei motivi della concessione del Latium possa prendersi in considerazione in forma isolata, ma propendiamo per la combinazione di fattori diversi, correlati con il fine di riorganizzare il territorio ispanico, come segnala Kremer 45 nell’affermare: «Le droit latin ne se limite pas sous l’Empire à ces seuls privilèges il désigne également une formule d’organisation territoriale»; incluso il versante economico, così come la necessità di una migliore romanizzazione nei territori sottomessi più di recente, come successe con il Nordest della penisola, nell’ambito di una politica di integrazione 46. In questo modo, secondo Fear 47, Vespasiano, conoscendo le grandi differenze esistenti fra le diverse zone della Hispania in riguardo al loro grado di romanizzazione, concesse il ius Latii con il proposito di incentivare la diffusione dei costumi romani nella penisola. Incise solo in forma residuale la guerra civile del 68 -69 d.C., sebbene, come afferma Muñiz Coello 48, i contendenti della guerra civile avessero percepito che la Hispania poteva portar loro pingui benefici, sia per le sue risorse minerarie sia per la scarsa ripercussione della crisi economica che sconvolgeva 43 G. Chic García, La proyección económica de la Bética en el Imperio Romano (época altoimperial), Sevilla 1994, passim. 44 L. Homo, Vespasien. L’Empereur du bon sens (69-79 ap. J.C.), Paris 1949, 311: «Mais, dans le domaine de la justice, la question capitale devait être –et fut pour Vespasien- celle du statut juridique des habitants de l’Empire, lié au problème plus large encore et vital pour l’Etat romain de la romanisation du monde». 45 Kremer, Ius latinum, cit., 118. 46 P. Guichard, Les effects des mesures flaviennes sur la hiérarchie existant entre les cités de la Péninsule Ibérique, in Ciudad y Comunidad Cívica en Hispania, siglos I y III d.C., Madrid 1993, 67, nel quale sostiene che a seguito della concessione del Latium alla Hispania si ricompose totalmente il paesaggio urbano e politico, in un progetto d’integrazione di tutto il territorio immaginato dall’imperatore flavio. 47 Rome and Baetica, cit., 141-142. 48 J. Muñiz Coello, La política municipal de los Flavios en Hispania y el “municipium Irnitanum”, in SHHA 2-3, 1984-1985, 151.

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l’Impero quale lascito del periodo neroniano. Coloro che si riallacciano a tal motivo crediamo lo facciano in accordo al termine ‘iactatus’ prospettato come la versione corretta del passo di Plinio analizzato, che si tradurrebbe come: «L’imperatore Vespasiano, necessitato dalla calamità legata agli sconvolgimenti politici, concesse a tutta la Hispania il Latium» 49. Certo è che la concessione del diritto ebbe conseguenze singolari, giacché esistevano antecedenti in altri paesi, ma mai era stato concesso il Latium a un così vasto territorio, rispondente in modo diseguale al sentire romano, con grandi differenze urbanistiche e di organizzazione, che senza dubbio resero più difficile l’applicazione del ius Latii concesso. Questo processo di urbanizzazione ricondotto ai Flavi è stato oggetto di critiche, come quelle prospettate da Pastor e Carrasco 50, per i quali tutto fu motivato da interessi economici, concedendo momenti di vita urbana solo ai nuclei di coloro dai quali si speravano grandi benefici, trascurando i luoghi che non possedevano tali rendite future. Non possiamo però tralasciare che i diritti concessi dal ius Latii a questi Latini coloniarii – abitanti delle colonie alle quali si conferì il carattere di latine – suppongono una serie di privilegi – alcuni dei quali competono originariamente ai membri delle comunità latine alleate di Roma 51 – che includono 52 il ius suffragii, diritto di voto nelle assemblee, quando si trovavano a Roma, e il diritto di compiere atti giuridici nelle forme stabilite dal Levick, Vespasian, cit., 139: «In his respectful mention of the grant, Pliny the Elder describes Latium as ‘tossed about in storms of State’, a phrase probably drawn from the preamble to the edict». 50 M. Pastor Muñoz, J. Carrasco Rus, Organización municipal y urbana en el territorio astur durante el Alto Imperio Romano, in II Seminario de Arqueología del Noroeste, Madrid 1983, 204. 51 Cfr. Richardson, The Romans in Spain, cit., 194, secondo il quale questi privilegi «had been laid down at least by the time of the settlement between the Romans and the Latins, following the defeat of the latter in 338 B.C.»; su questa data, Sherwin-White, The Roman Citizenship, Oxford 1973, 38 ss. Il quale afferma a 59: «In 338 B.C. the Romans made the first large breach in the older conception of a city-state by the grant of Roman citizenship to several other Latin city-states … The influence of the territorial situation is important. In 381 Tusculum, before incorporation, had been an island in a sea of ager Romanus. Similarly, in 338 the inclusion of Alaricia, Lanuvium, Pedum, Nomentum, and Antium rounded off the Roman territory on the north-east and southwest. Rome still formed a territorial unity; the essential difference between the present extension and those recorded under the kings – apart from the case of Gabii – is that the towns are left standing, not only as so many buildings, but as true communities»; sul processo di accrescimento del numero delle colonie, cfr. p. 76: «The Romans had another weapon in their armoury, the colonia civium Romanorum. The establishment of such colonies began to assume importance after the Latin War of 338, when the Romans founded a colony at Antium. This does not mean that the institution was invented at that time, but that the earliest of the colonies which survived to a later age was founded them». 52 Luraschi, Foedus ius latii civitas cit., 223: «…spettassero ai Latini nei confronti di Roma: il commercium, il conubium, due diritti che furono gli artefici primi dell’intima unione del Latium, e lo ius migrandi, anch’esso, secondo l’opinione comune, assai risalente. Ad un’epoca meno remota, e 49

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ius civile, commercium, un tempo riservato ai cittadini romani. Non avevano il conubium (diritto di contrarre iustae nuptiae), che poteva concedersi loro solo in forma espressa 53. Ad ogni modo, avevano una condizione peggiore dei latini veteres o prisci, categoria formata dai latini dell’antica Lega – creata dal foedus Cassianum nel 493 a.C. e sciolta da Roma nel 338 a.C. dopo la sua vittoria su di essi – e dalle colonie fondate da Roma. Godendo del commercium, del conubium, della testamenti factio, potevano esser reciprocamente tutori e pupilli e far valere i diritti riconosciuti avanti i tribunali in Roma; per contro, peggiore è la condizione dei Latini Iuniani, il cui nome deriva dalla lex Iunia Norbana, del 19 d.C. a stregua della quale i manomessi in forma non solenne, pur acquistando la libertà, non conseguivano la cittadinanza, ma solo una forma di latinitas, denominata appunto Iuniana. Allo stesso modo, avevano questa stessa condizione i manomessi da parte di coloro che erano privi della capacità per farlo, così come i manomessi in violazione delle norme stabilite dalla lex Aelia Sentia. Si riconosceva loro, come capacità, il commercium con i Romani, ma non la testamentifactio activa, né il potere di essere tutori testamentari. Non potevano acquistare direttamente eredità o legati, e alla loro morte i loro beni ritornavano all’antico dominus 54. Ma c’è di più. Altra forma per i latini di acquistare la cittadinanza consisteva nel trasferire il domicilio a Roma, iscrivendosi nelle liste del censo, il c.d. ius migrandi, anche se la lex Licinia Mucia de civibus regundis dell’anno 95 a.C. l’abolì, creando un tribunale, quaestio, contro le usurpazioni della cittadinanza. Ad ogni modo, la comparsa del diritto ad acquistare la cittadinanza  55 mediante l’esercizio di una magistratura locale non faceva abbandonare la condizione di latini 56, pur comportando tamente posteriore al foedus Cassianum, è da riportare, invece, lo ius suffragii, che presuppone l’esistenza dei comizi tributi ed un contesto storico diverso da quello dei primordi della federazione». 53 Tit. ex corp. Ulp. 5. 4: Conubium habent cives Romani cum civibus Romanis: cum Latinis autem et peregrinis ita, si concessum sit. 54 Gai. 1.22-24: 22. homines Latini Iuniani appellantur; Latini ideo, quia adsimulati sunt Latinis coloniariis; Iuniani ideo, quia per legem Iuniam libertatem acceperunt, cum olim servi viderentur esse. 23. Non tamen illis permittit lex Iunia vel ipsis testamentum facere, vel ex testamento alieno capere, vel tutores testamento dari. 24. Quod autem diximus ex testamento eos capere non posse, ita intellegemus ne quid in directo hereditatis legatorumve nomine eos posee capere dicamus; alioquin per fideicommissum capere possunt. 55 V. Gai. 1.28-29: Latini vero multis modis ad civitatem Romanam perveniunt. Statim enim ex lege Aelia Sentia minores triginta annorum manumissi et Latini facti si uxores duxerint vel cives Romanas, vel Latinas coloniarias vel eiusdem condicionis cuius et ipsi essent, idque testati fuerint adhibitis non minus quam septem testibus civibus Romanis puberibus, et filium procreaverint, cum is filius anniculus esse coeperit, datur eis potestas per eam legem adire praetorem vel in provinciis praesidem provinciae, et adprobare se ex lege Aelia Sentia uxorem duxisse et ex ea filium anniculum habere; et si is apud quem causa probata est, id ita esse pronuntiaverit, tunc est ipse Latinus et uxor eius, si et ipsa eiusdem condicionis sit, et filius, si et ipse eiusdem condicionis sit, cives Romani esse iubentur. 56 V., al riguardo, U. Coli, NNDI 3, 1974, s.v. “civitas”, 342, secondo il quale acquistano la cittadinanza, fra gli altri: «I Latini delle colonie dedotte a partire dal 268 e delle comunità non latine

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un cambiamento di status, in quanto i beneficiari ottenevano la condizione di cives tanto anelata, occupando una situazione intermedia tra i cives e i peregrini. 5. Ambito di applicazione In un altro ordine di cose, se vogliamo riferirci all’ambito di operatività del Latium concesso, dobbiamo incentrare il nostro interesse di nuovo sul passo di Plinio, giacché è ancora oggetto di dibattito il primo termine del testo controverso: ‘Universae’. In effetti, la dottrina si è divisa tra coloro che inclinano verso un’accezione comprensiva di un valore universale in riguardo all’estensione del Latium alla Hispania, e coloro che si attestano su una posizione restrittiva nella concessione del ius Latii, negando che ‘Universae’`significhi l’attribuzione di questo diritto a tutta la Hispania. Limitano l’ambito di operatività e i suoi benefici a determinate aree, in funzione della loro maggiore o minore romanizzazione e sviluppo. Tra coloro che optano per una concessione universale, si incontrano McElderry 57, Kulikowski 58 y Andreu Pintado 59, per i quali Plinio, nel parlare della donazione del ius Latii riferita alle universae Hispaniae, dice il vero, dovendo accettare tale affermazione come certa, indipendentemente dal fatto che gli effetti di tale estensione nelle diverse parti del territorio ispanico siano stati diversi come lo furono anche le vicissitudini storiche di ciascuna comunità. Quali sostenitori della tesi restrittiva, possiamo citare Henderson 60, y Mackie 61, per i quali le tracce di organizzazione tribale in comunità del nordest peninsulare dimostrano che non ricevettero il ius Latii tutte le aventi il ius Latii (Latini coloniarii), quando rivestano una magistratura locale (Latium minus) o siano decurioni (Latium maius)». 57 McElderry, Vespasian’s Reconstruction of Spain cit., 70 s. nel quale profila una relazione dei municipi beneficiati dalla politica di Vespasiano, affermando a p. 78: «For the whole peninsula, therefore, the new charters required by Vespasian’s edict probably exceeded 400 … The evidence thus extends uniformly over the whole peninsula». 58 Kulikowski, Late Roman Spain and Its Cities cit., 11: «In 73 or 74, during his tenure of the censorship, the emperor Vespasian issued what we call the Flavian municipal law, extending the Latin right to the whole of Spain. This act of munificence was in part the reward for Spanish loyalty during the civil wars of A.D. 68-69 … The likeliest hypothesis, however, is that Vespasian intended every Spanish stipendiary community – every civitas capital hitherto lacking privileged status under Roman civil law – to become a municipium iuris Latii minus. Whether or not that was intended from the start, it was certainly the result of the Flavian grant and no clear exceptions exist, even in the most rural corners of Gallaecia». 59 Andreu Pintado, “Edictum”, “Municipium” y “Lex”, cit., 73: «Cuando Plinio está afirmando que la donación del ius Latii fue universae Hispanie creemos que su afirmación debe ser tomada como rigurosamente cierta». 60 Henderson, Five Roman Emperors cit., 72. 61 N. Mackie, The Local Administration in Roman Spain, A.D. 14-212, Oxford 1983, 216.

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comunità ispaniche; cioè, si concesse il Latium a tutta la Hispania, però si applicò solo alle comunità avanzate nel loro sviluppo, pertanto preparate a recepirlo; da ultimo, Fear 62, secondo cui il passo di Plinio non si riferiva a tutta la Hispania ma solo al territorio della Baetica, unico sito nel quale sono testimoniate concessioni di statuto municipale. Questa sarebbe stata pertanto, l’unica zona alla quale la concessione del ius Latii fu estensiva. Infine, si sarebbe in presenza di una concessione che invece di profilarsi come stimolo per zone poco romanizzate, si sarebbe concessa quale premio per le aree imbevute dello spirito dell’Impero romano. E tutto ciò, per unire in questa costruzione, al problema generale della natura del ius Latii, la questione se la municipalizzazione vada raccordata con la concessione del Latium, assunto sul quale la dottrina – come abbiamo visto nel parlare del Gemeinderecht e del Personenrecht – si mantiene divisa. Circa questa questione, crediamo che la scoperta di un frammento di bronzo a Duratón 63 (Segovia), con il testo della legge municipale, dimostra che l’ambito d’operatività della legge Flavia non fosse contenuto alla Betica, ed orienta nel senso della sua applicazione in tutta la Hispania, in una o in altra forma. In questo modo, una evidenza epigrafica come quella di Duratón viene a sostegno dell’argomento estensivo, nel senso di intendere la concessione del Latium con carattere generale, esteso a tutto il territorio peninsulare. Secondo quanto esposto, siamo in condizione di affermare che la concessione del ius Latii alla Hispania ad opera di Vespasiano avesse chiaramente un carattere universale. Questione differente è se l’estensione del Latium si fosse realizzata con maggiore o minore celerità, dipendendo in ogni caso dalla romanizzazione 64 dei diversi territori che formano la Hispania 65, entro la quale esistono grandi differen-

Fear, Rome and Baetica cit., 138. A. D’Ors, Una aproximación al capítulo de la ley municipal, in IVRA 44, 1993, 150: «El hecho de que aparezcan fragmentos de la ley municipal fuera de la Bética no debe sorprender. De todos modos, no teníamos un dato tan cierto como éste, pues el de Ampurias parece ser de la ley Julia y no de su adaptación Flavia, y el de Clunia es excesivamente incierto. Este nuevo fragmento de Duratón, no sólo muestra la extensión de la ley Flavia fuera de la Bética», aggiungendo che serva anche per la ricostruzione della tavola II di Irni. 64 V., al riguardo, M. Griffin, The Elder Seneca and Spain, in JRS 62, 1972, 1, secondo il quale la romanizzazione in Hispania fu un processo non omogeneo: «But Romanization did not proceed at a uniform rate: the remoter parts of Lusitania, Callaecia and Asturia show votive tablets to native gods, while not a single one has been found in all of Baetica. Inscriptions in the Iberian alphabet disappear in Baetica before they do at Saguntum. The people living along the Baetis had largely forgotten their native dialect but Strabo marked them as unusual. The parts of Spain that presented the most Roman air were the urbanized areas of the Baetis valley, the southern coast, and the Ebro valley and the Eastern seaboard». 65 Sulla romanizzazione e lo sviluppo di essa, A. García Y Bellido, Latinización de Hispania, in ArchEspArq 40, 1967, 3 ss. 62 63

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ze derivanti dalla loro precoce o tarda incorporazione nell’Impero romano, come si deduce dalla vasta conquista della Hispania. Non era la stessa cosa nel Nordest, incorporato nel mondo romano sul declinare del I sec. a.C. e nella Betica, profondamente romanizzata fin dai primi tempi della conquista, senza che ciò presupponga l’esclusione delle regioni nelle quali la penetrazione dello spirito e del diritto romano era stata meno accentuata. In altre parole, e a mo’ di conclusione, la presenza giuridica di Vespasiano in Hispania deve giudicarsi in senso positivo, posto che gli effetti della concessione del ius Latii produssero l’integrazione giuridica degli Hispani nello Stato romano, dopo un lungo cammino percorso per acquisire l’agognata cittadinanza. María José Bravo Bosch Università di Vigo

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IL COMPLESSO TEMPLARE DELLA GENS FLAVIA A LEPTIS MAGNA (Libia) Tra scenografia, funzionalità e colorismo

La Missione congiunta italo-libica Tempio Flavio Lo scavo e lo studio del complesso templare a due celle di età domizianea, situato sulla banchina occidentale del porto di Leptis Magna, all’estremità della Via Colonnata, condotti dal 1964 al 1968 dall’Università di Perugia, sotto la guida di Filippo Magi, è dal 1979 affidato alla Missione Archeologica Congiunta Italo-Libica ‘Tempio Flavio’ diretta, fino al 2004, da Enrica Fiandra e, a seguire, da Anna Maria Dolciotti 1. Il cosiddetto Tempio Flavio è una complessa costruzione con destinazione funzionale e sacra che si inseriva tra il Foro Vecchio e il porto, comprendendo in una sistemazione unitaria anche la banchina d’attracco. Sulla traiettoria visiva di chi entrava nel porto, il complesso si presentava con l’imponenza della sua basis porticata. Al di sopra, sulla platea, circoscritta da una porticus a colonne ioniche, si ergeva il podio del tempio a due celle prostile, tetrastile, corinzie. L’edificio era dedicato ai divii Vespasiano e Tito e a Domiziano vivente, da parte della domina [---]DIA, come recita l’iscrizione che fissa cronologicamente l’edificazione della struttura agli anni 93-94 d.C., corrispondenti al XIII anno della tribunicia potestas di Domiziano 2. La revisione e l’analisi dei materiali scultorei provenienti dal ‘Tempio’, ha consentito a Irene Bragantini, dell’Università l’Orientale di Napoli, componente della Missione, di stabilire definitivamente il riconosci-

Si veda E. Fiandra, Centro Internazionale Ricerche Archeologiche Antropologiche e Storiche Missione Archeologica “Tempio Flavio”, in Il dialogo interculturale nel Mediterraneo: la collaborazione italo – libica in campo archeologico, Ministero degli Affari Esteri, Roma 2002, 12-17, per una breve esegesi sulle vicende del complesso e sull’attività della Missione. 2 O.D. Cordovana, I Flavi e Leptis Magna, in E. Catani, A. Di Vita (a cura di), Archeologia italiana in Libia: esperienze a confronto, Atti dell’incontro di studio (Macerata-Fermo, 28-30 marzo 2003), Macerata 2007, 69–87. Si rimanda allo stesso testo anche per la bibliografia sulle attività di indagine sul Tempio Flavio. 1

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mento di un frammento della testa della statua di culto di Domiziano, riutilizzato come materiale da costruzione a seguito della damnatio memoriae dell’Imperatore 3. Tale identificazione va ad accrescere la conoscenza della fase flavia del complesso, la cui esegesi è affidata alla stessa Bragantini. È molto probabile che l’edificio, verso il lato a mare, rispettasse e inglobasse nel fronte unico del porticato, altri edifici ancora sepolti dalla sabbia, ma solo il completamento dello scavo dell’area, verso nord, potrà confermare tale supposizione. Tutta la struttura, caratterizzata dalla raffinatezza degli elementi architettonici che giocano sul colorismo dell’alternanza tra gli ordini, oltre che dall’uso di differenti materiali, sopravvisse a lungo, pur se con diversi utilizzi e sistemazioni, grazie alla sua posizione strategica sulla banchina del porto e al notevole elevato. Sottoposta ai danni del terremoto di IV secolo che danneggiò irreparabilmente il complesso, la struttura venne più volte rimaneggiata e riutilizzata ma, pur perdendo la primitiva destinazione d’uso, offrì tuttavia, nei tempi a seguire, occasione per successivi insediamenti in una continuità di vita pressoché ininterrotta che segna, per la storia della Leptis di epoca tarda, un punto nodale. La consistenza dei ruderi del complesso e la sua fortunata posizione sul porto o su quell’area del porto ancora praticabile nonostante le periodiche inondazioni del wadi Lebda e i progressivi insabbiamenti, permisero, tra la fine del IX e gli inizi del X sec. d.C., l’insediamento produttivo di un nucleo di ceramisti arabi. Il complesso templare La conformazione della struttura monumentale del Tempio Flavio è particolarmente interessante per la stretta interconnessione tra l’edificio di culto vero e proprio, un ottastilo gemino sine postico che si ergeva su un alto podio, e il sistema sottostante di ambienti destinati al deposito delle derrate e delle merci che giungevano al porto o in procinto di ripartire da esso (fig. 1); proprio di fronte al tempio, infatti, gli scavi recenti della Missione hanno riportato alla luce le banchine con i moli di attracco all’imboccatura del wadi Lebda che dimostrano la funzione logistica, oltreché templare, del complesso 4. La lettura delle strutture emergenti permette di comprendere l’organizzazione del primo livello, impostato secondo una griglia regolare di setti ortogonali che dovevano definire gli ambienti per l’immagazzinaggio; in corrispondenza delle soprastanti celle templari, i setti erano aperti da arcate che permettevano di accedere 3 I. Bragantini, Ritratto frammentario di Domiziano dal Tempio Flavio di Leptis Magna, in Quaderni di archeologia della Libia, 18, 1999 (2003), 331-339. 4 E. Fiandra, A.M. Dolciotti, Missione Archeologica congiunta italo–libica “Tempio Flavio”. Leptis Magna, Libia. Attività 1998–2007, in Libya Antiqua, 2010.

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Il complesso templare della Gens Flavia a Leptis Magna (Libia). Tra scenografia, funzionalità e colorismo

Fig. 1.

alle favissae e agli altri vani ricavati al di sotto degli ambienti di culto. I prospetti su via e verso la banchina portuale di questo primo livello erano caratterizzati da una successione di ampie arcate arricchite – almeno per le fronti est e sud, cioè per gli affacci sulla via che poneva in comunicazione l’area del porto con il Foro Vecchio e per quelli antistanti il molo 5 – da ghiere modanate e da lesene entro fasce ribassate 6 con capitelli corinzi. Il prospetto posteriore, occidentale, non era del tutto Verso mare, il porticato doveva proseguire secondo un andamento parallelo a quello della banchina portuale e dirigersi verso il cosiddetto ‘portico neroniano’ individuato da A. Di Vita. 6 E. Fiandra, Appunti di architettura, in L. Bacchielli, S. Stucchi, M. Bonanno Aravantinos (a cura di), Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi: la Tripolitania, l’Italia e l’Occidente, Roma 1996 (Studi Miscellanei, XXIX), 75-78. 5

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cieco ma vi si aprivano anche qui quattro semplici arcate, prive di qualsiasi decorazione Il materiale utilizzato per le facciate su via è, generalmente, il calcare di Ras el Hammam anche se non mancano elementi di calcare locale che lasciano presupporre una finitura uniformata con intonaco o velatura dell’intero prospetto; il calcare locale, anche quello conchiglifero, è invece generalmente utilizzato per le parti interne del complesso. Il livello superiore era riservato alla funzione cultuale e doveva essere posto in comunicazione con il piano terreno a mezzo di una scalinata non ancora localizzata dall’indagine archeologica. L’ampia terrazza sembra costituire una sintesi superba tra il tempio di tradizione ellenistica e quello romano-africano, dove l’imponente gemino unificato dalla facciata ottastila unitaria si staglia centralmente, lungo l’asse maggiore della terrazza, al culmine di un alto podio a gradini ed è circondato da un porticato ionico con membrature realizzate in un calcare più compatto, di colore grigio chiaro. Lo stesso materiale formava gli elementi della trabeazione iscritta e della cornice riccamente modanata del tempio. Una simile successione di elementi (cornice riccamente modanata e zoccolo a specchiatura per ospitare eventuali iscrizioni) doveva arricchire, probabilmente, anche il podio che innalzava il tempio, secondo uno schema che, poco distante, si può ancora osservare nella Curia leptitana e che è anche visibile, in una versione meno raffinata, nella facciata del Chalcidicum lungo il cardo maximus della città. Sul podio si ergeva, dunque, la facciata del tempio vero e proprio che, come si può desumere dai resti in crollo o reimpiegati secondo un’ipotesi però ancora da confermare 7, doveva essere costituita da un ordine corinzio con basi e capitelli di marmo bianco e fusti di calcare compatto grigio chiaro. Tra le ante delle celle, poi, centralmente e poggianti sulla parete trasversale interna, erano collocate due colonne per ciascuna cella con base di calcare compatto grigio chiaro, fusto di granito grigio e capitelli corinzi splendidamente lavorati nel calcare compatto bruno e di cui ne rimangono due esemplari eccezionalmente ben conservati (fig. 2) e il minuto frammento di un terzo 8. Altrettanto raffinata è l’architrave superstite della porta di una delle celle, un blocco di calcare conchiglifero, rinvenuta a monte del fronte verso mare. La particolarità di questo elemento architettonico sta nella sucLo spostamento, già in antico, degli elementi in crollo non permette, per ora, di affermare certezze anche perché i dati dimensionali degli stessi elementi possono supportare due alternative per la facciata templare: una prima soluzione con base e capitello di marmo bianco e colonna di calcare; una seconda, forse più coerente, con le tre parti dell’ordine in calcare compatto. In entrambi i casi gli elementi rilevati dimostrano un ordine slanciato con la base impostata su un plinto. 8 Anche in questo caso il catalogo dei pezzi permette di formulare una seconda ipotesi per l’ordine tra le ante con base a plinto e capitello di marmo bianco. 7

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Il complesso templare della Gens Flavia a Leptis Magna (Libia). Tra scenografia, funzionalità e colorismo

Fig. 2.

cessione dei kymatia terminati con dentelli molto stretti e ravvicinati a sostenere un soffitto della cornice decorato con un meandro a formare coppie di riquadri alternati a lacunari. Il fianco delle celle doveva essere formato da una muratura isodoma di calcare compatto di Ras el Hammam (di nuovo, il riferimento dell’edificio della Curia sembra essere coerente con la presente ipotesi) che aveva anche la funzione di contraffortare le volte a botte ribassate delle favissae sottostanti le celle, realizzate in conglomerato cementizio con blocchetti di calcare. Purtroppo, di tali pareti non resta alcunché e non si può, al momento, formulare alcuna ipotesi di una loro eventuale decorazione architettonica, magari a lesene come nel riferimento diretto del livello sottostante del complesso oppure della Curia che avrebbe così costituito, una volta di più, il riferimento principale per il progettista del tempio. A.M. Dolciotti E. Fiandra

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Gli elementi architettonici della fase flavia e la metodologia di ricognizione Dopo i crolli e le spoliazioni del passato il complesso si presenta oggi come un’imponente rovina dominata dalla volta di conglomerato che sosteneva il pavimento di una delle celle; tutto all’intorno sono i resti delle strutture murarie e i brani lacunosi delle architetture antiche che solo un’ulteriore estensione dello scavo archeologico potrà permettere di riconoscere e interpretare ulteriormente. Già oggi tuttavia, pur con grande difficoltà, è possibile leggere i rapporti del tempio con la banchina del porto e con la strada sudoccidentale nelle sue diverse fasi di trasformazione, flavia e severiana, oltre ad operare una prima lettura degli elementi, tentandone una loro interpretazione preliminare che possa offrire un’immagine della terrazza templare, già sopra descritta, e del livello sottostante dei magazzini. Tra il 2009 e il 2010 è stata infatti avviata da chi scrive una campagna di ricognizione degli elementi architettonici del tempio, in parte depositati dopo l’estrazione degli scavi nel cosiddetto ‘campo delle pietre’ – a sud del complesso – e in parte riconosciuti tra i crolli e i reimpieghi più tardi. È stato possibile, così, preparare una mappa di lavoro per consentire l’individuazione sul campo degli elementi architettonici presenti 9. Conoscenza e conservazione sono gli scopi ultimi della ricognizione che potranno essere conseguiti negli anni a venire attraverso una ricostruzione grafica tridimensionale (con gli strumenti del restauro virtuale) e con l’anastilosi della fronte porticata sudoccidentale al livello dei magazzini. Tali operazioni potranno far emergere con maggiore chiarezza quegli elementi luministici, coloristici e scenografici che connotano questa architettura come pienamente inserita nel gusto dell’epoca e in quei caratteri architettonici che, proprio sotto i Flavi, divengono primari anche per l’affermazione della dignitas e della magnificentia urbane. Con la catalogazione degli elementi architettonici è stato anche effettuato un completo rilievo manuale del prospetto su strada del primo livello, per poter poi procedere alle successive fasi di anastilosi e, per ora, effettuare un costante confronto dimensionale dei desiecta membra con gli elementi in situ. Durante le operazioni di rilievo della muratura sudoccidentale è stata anche condotta una ricognizione delle aree circostanti che ha permesso di individuare ulteriori elementi architettoni9 Il catalogo comprende più di cento elementi diversi delle membrature architettoniche appartenenti alla fronte sudoccidentale dei magazzini, al porticato e al tempio; per una più agevole catalogazione, ogni elemento è stato indicizzato alfabeticamente con numerazione progressiva. Ogni blocco è stato rilevato e restituito speditivamente sul campo, fotografato con riferimento metrico, numerato e, infine, trasferito su base informatizzata. Lo stesso metodo è stato seguito anche per il rilievo del prospetto verso strada.

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ci reimpiegati nelle strutture più tarde; tra questi, blocchi con lesena e specchiature, capitelli di imposta, conci di archi, coerenti con la sistemazione architettonica originaria o, in alcuni casi, ancora sub judice. La lettura dei dati permetterà di affrontare scientificamente la stesura di un’ipotesi di anastilosi della fronte meridionale lungo strada e, in particolare, di ipotizzare la collocazione dei blocchi multipli (blocchi murari, capitelli e conci degli archi) nel quadro della partitura architettonica della fronte, preliminare alla ricostruzione a terra e al successivo restauro. Il modello architettonico e i suoi riferimenti Del prospetto meridionale si è conservato un tratto consistente dell’elevato originario che in epoca bizantina è stato poi pesantemente integrato a seguito dei crolli probabilmente conseguenti ai terremoti del IV secolo; tuttavia, la parte di muratura più recente reimpiega in gran parte i blocchi di quella più antica con la conseguente possibilità di avere a disposizione ulteriori elementi per lo studio. Tra le parti originarie ancora in situ il rilievo del prospetto evidenzia i primi blocchi dei due corsi al di sopra del piano stradale del risvolto nord-ovest, che possono così definire con certezza il limite occidentale della parete e il suo risvolto. A questi blocchi segue, verso est, un ampio tratto di muratura evidentemente ricomposta in epoca tarda con il reimpiego dei blocchi originari (tra cui il concio di un arco e quattro elementi di lesena). Proseguendo verso est, dopo il tratto rimontato, sono leggibili i primi due corsi del maschio murario su cui si impostavano due arcate consecutive; vi si conserva la base modanata della lesena con le sue due specchiature laterali. Il vano dell’arco più a est è ancora oggi leggibile, anche per la presenza del successivo maschio murario di cui si sono conservati quattro corsi ancora perfettamente apparecchiati. Parimenti interpretabile è poi l’arcata successiva, anche se il suo vano è stato parzialmente occluso dalle strutture tarde dei muri trasversali bizantini. Il secondo maschio murario che lo delimita conserva cinque dei corsi originari ma il filare di base risulta del tutto interrato e pertanto non leggibile. L’ultimo arco della parete in elevato (questa proseguiva fino all’angolo orientale della piattaforma ma oggi questa parte risulta quasi del tutto interrata e non interpretabile) è stato poi tamponato con blocchi di reimpiego che si accostano all’ultimo maschio murario di cui restano alla vista tre brevi filari con la prima specchiatura. Come di consueto nell’architettura leptitana le dimensioni dei blocchi murari sono modulate sul braccio punico di cm 51,5 che qui corrisponde all’altezza dei filari originari, con l’eccezione di alcuni blocchi reimpiegati all’estremità ovest, alti circa cm 40 e la cui altezza corrisponde a quella dei capitelli di imposta. Con tutti questi elementi e con lo studio dei blocchi nelle immediate circostanze è al-

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lora possibile comprendere meglio il prospetto stradale dei magazzini e tentarne un’ipotesi di ricostruzione; se tale ricostruzione appare più semplice per il tratto corrispondente alle tre arcate superstiti – per le quali il gran numero di conci omogenei consente di ricostruirne la ghiera profilata a cornice modanata e tre fasce aggettanti, e con capitelli d’imposta caratterizzati da cornice modanata, specchiatura piana, toro semicircolare, listello piano –, di più difficile soluzione è lo studio del tratto di parete oggetto della ricostruzione tarda che ha completamente cancellato la disposizione originaria e lo stesso segno delle arcate. Qui, tuttavia, è possibile giungere ad un’ipotesi ricostruttiva che, supportata dai dati offerti dagli elementi di spoglio, offre una soluzione architettonica particolarmente interessante a segnare l’estremità del prospetto urbano e ad enfatizzare la collocazione scenografico-prospettica del grande tempio soprastante. La dimensione del tratto compreso tra il limite occidentale e il primo maschio murario originario, infatti, permette di ipotizzare la disposizione di due ulteriori arcate affiancate, di luce uguale a quella delle altre, inframmezzate dal raddoppio della lesena con relativa specchiatura intermedia. La particolarità compositiva di tale soluzione – a marcare gerarchicamente la presenza della cella sul piano soprastante e dunque una marcata frontalità di tutto il complesso – è ulteriormente provata dal reperimento, tra i blocchi crollati, di una base di lesena di calcare locale con una specchiatura, a sinistra della base modanata, di cm 28 contro i 25-26 delle altre e che dimostra la presenza della rientranza intermedia tra le due lesene della larghezza complessiva di circa cm 47; al di sopra di essa trova poi collocazione un altro blocco proveniente dal tratto di muro rimontato. Il ritrovamento di un capitello corinzio molto consunto permette poi di coronare la lesena angolare – che risvoltava a segnare anche il limite della parete occidentale – consentendo altresì di ipotizzare, per quelle intermedie, altrettanti capitelli corinzi; al di sopra del filare dei capitelli correva una cornice modanata particolarmente raffinata e complessificata da gole e listelli alternativamente piani e tondi. Altri frammenti della medesima cornice permettono di leggere un’ulteriore, marcata, rientranza sommitale oltre la quale erano collocate le basi del porticato ionico circostante il tempio. Già Fiandra (in Appunti di architettura, cit.) ha notato la particolarità della composizione del prospetto inferiore stradale del complesso, dove le lesene risultano evidenziate dal chiaroscuro delle specchiature laterali. Ad ogni lesena, infatti, corrisponde, su entrambi i lati, una rientranza che permette di rilevare l’elemento verticale principale e segnarne le membrature con il gioco di luci e ombre. Occorre notare che l’uso di lesene profilate sulle fronti stradali è una vera e propria costante dell’architettura leptitana e lo si può trovare, per esempio, lungo il cardo maximus, nella bella facciata di Ras el Hammam fronteggiante il Chalcidicum; lungo il decumano in uscita dal Foro Vecchio verso il mare e, sempre nella stessa zona, nella facciata che precede quella sul cardine della chiesa bizantina; nelle facciate

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opposte della Schola, lungo il decumano major e lungo il decumano ad esso parallelo verso nord-est; nella facciata di un edificio posto di fronte all’ingresso del Serapeion. Come già notato da Fiandra, però, in tutti gli esempi citati la lesena emerge dal filo di facciata senza le specchiature laterali che sono invece presenti nel tempio Flavio e che si possono anche ritrovare nella parete esterna del tempio di Iside a Sabratha. Condividendo con Fiandra l’interesse per la particolarità del tema decorativo – pienamente collocato nella ricerca luministica dell’architettura flavia e che la ribattitura della doppia lesena all’estremità occidentale non fa che confermare – e cercando di individuare meglio il rapporto del monumento con il suo contesto e con strutture simili che dovevano arricchire il fronte verso mare, è subito apparso di notevole interesse quanto resta del tempio di Giove Dolicheno, poco a est del tempio Flavio sulla sponda opposta del wadi Lebda. Quel che resta del tempio versa oggi in una desolante, ma affascinante, condizione di rovina spogliata nel corso dei secoli di tutti i suoi elementi lapidei; anche della imponente scalinata che innalzava ed enfatizzava la struttura templare ponendola quale fondale scenografico della fronte sud occidentale del porto, restano solo le fondazioni e le tracce in negativo dei gradini, addirittura è stata asportata quasi per intero la sponda orientale della stessa scalinata che oggi ne presenta alla vista il riempimento di conglomerato di blocchetti di calcare. Anche nella generale situazione di espoliazione, tuttavia, è possibile leggere la struttura delle favissae – almeno per la parte anteriore dell’edificio – che depone a favore di un grandioso tempio in antis enfatizzato dalla scalinata di 23 gradini contornata da due robuste pareti di calcare bruno – a gradoni con le sommità arrotondate- e terminata da una terrazza al fondo della quale, sopra ulteriori quattro gradini, sorgeva la mole templare; un’amplissima piattaforma lunga quasi 35 metri e sollevata dalla banchina del porto di almeno cinque gradini – lievemente ruotata verso nord-est – costituisce la base della scalinata ed è pavimentata con grandi lastre di calcare, ancora oggi perfettamente apparecchiate. Finora poco studiato, il tempio di Giove Dolicheno sembra collocarsi anch’esso – per la lettura delle strutture superstiti e l’organizzazione planimetrica ancora pienamente ellenistica – in un’epoca vicina o coincidente a quella flavia; anche la presenza del corridoio trasversale delle favissae, che si apriva sugli ambienti retrostanti con tre ampie arcate che, nel tempo, sono state murate, sembra avallare tale assunto. Proprio come nel sistema del tempio Flavio, anche qui le arcate danno accesso agli ambienti sottostanti la cella e qui, in particolare, la profondità di ogni vano di passaggio risulta ampliata da una coppia di pilastri accostati sulla faccia interna della parete e lavorati a lesena rustica. Soprattutto, infine, c’è la presenza di alcuni blocchi calcarei che presentano elementi molto simili a quelli del primo livello del tempio Flavio e, finalmente, il motivo decorativo delle lesene con specchiature laterali. Nove blocchi di calcare compatto di Ras el Hammam presentano, infatti, il motivo architettonico e sembrano essere stati abbandonati durante la

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spoliazione dell’edificio di culto. La loro posizione casuale e le condizioni del tempio non permettono di interpretarne la posizione originaria e nemmeno escludere che possano provenire da altri edifici; quel che si può escludere è che essi possano provenire dal tempio Flavio perché le membrature, pur simili nel disegno, non risultano del tutto uguali. Uno dei blocchi, poi, presenta una sorta di raffinato collarino alla sommità di una lesena angolare formato dalla successione, dall’alto verso il basso, di un listello piano e di tre listelli curvi. La vicinanza stilistica tra i blocchi dell’area del tempio di Giove Dolicheno e quelli del tempio Flavio è particolarmente evidente e i primi accusano una lavorazione più raffinata e accurata dei secondi, come se si trattasse della diversa sperimentazione di un modello comune da parte di maestranze diversamente preparate e che troverà poi corrispondenza anche nel tempio di Iside a Sabratha. Forse non a caso, tre esempi templari in cui la ricerca scenografica di un fondale architettonico e l’attenzione per la coloritura del linguaggio appaiono particolarmente evidenti quali caratteri distintivi dell’architettura flavia. Con i due templi e la conseguente sistemazione del porto, la dignitas e la magnificentia di Leptis raggiunsero una forma già eccezionale ben prima che la monumentalità della Via Colonnata severiana venisse a segnare l’incipit dell’Urbs Magna (Dolciotti); un’impressionante scenografia di pietra nella quale i due templi, veri e propri “fari” nell’approssimarsi alla città dal mare, si stagliano per oltre quindici metri al di sopra della banchina portuale, con il succedersi delle terrazze porticate e colonnate, con il gioco coloristico dei differenti materiali, con la luce che ne cesella le raffinate membrature, in quell’ideale fil rouge che a Leptis, con ogni evidenza, sembra legare il mondo ellenistico al regno dei Flavi 10. Paolo Mighetto

10 Ringrazio con entusiasmo Enrica Fiandra e Anna Maria Dolciotti per avermi coinvolto nei lavori della Missione Tempio Flavio e nello straordinario contesto scientifico in cui essa opera. Ad Anna Maria Dolciotti sono anche grato per i numerosi consigli e suggerimenti nella stesura del testo.

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IndicI

Indice dei nomi e delle cose notevoli

N.B. Per comodità del lettore, i nomi propri sono stati inseriti nell’indice nella forma in cui compaiono nel testo, in modo da facilitarne il riconoscimento.

A Achaia Acumincum Adriano, Publio Elio, 46, 56 (nt. 29), 73 (nt. 12), 75 (nt. 25), 76, 86, 90, 159, 165 (e nt. 67), 168 e nt. 67, 168 (nt. 85), 192, 252 adlectio, 159-160 – in senatum, 254 nt.32 – inter patricios, 89 – inter praetorios, 32 (nt. 22), 131 Ad Statuas, 62 Aedes Concordiae, 163 (L.) Aelius Lamia, 88 aerarium, 87 affitto agrario, 10, 55 (nt. 26), 59 (Sex.) Afranius Burrus, 125 Africa, v. province Africa proconsularis, v. province Agrippa I, 60, 173 Agrippa II, 176, 181 nt. 34 Agrippina, 174 (e nt. 13) Aix-en-Provence, 16 nt. 1, 122 Alae, 63 e nt. 54 – Augusta Germaniciana, 41 – I Augusta Gemina colonorum, 41, 131 – Asturum II, 62 – I civium Romanorum, 63 – II Hispanorum Aravacorum, 63

Albinus, 165 Alessandria, 46 (e nt. 2), 47, 49, 50 (e nt 11), 54, 57 nt. 31, 58 nt. 33, 60, 69, 172-173 (e nt. 10), 178 (e nt. 27), 182 – Chora Alessandrina, 48-49, 51 Alföldi, G., 167, 242, 248, 250 Allobrogi, 117-118 Amelotti, M., 254 amici Caesaris, 52, 56-57 (e nt. 30) Anano ben Anano, 179 Andautonia, 61 Andreu Pintado, J., 242, 250, 260 (Q.) Anio Nigro, 104 annona, 50 nt. 12, 57, 85, 96, 257 Antiochia di Pisidia 9, 33, 42 Antistio Rustico, 9 (C.) Antius, 35, 43 (e nt. 69) Antonia Caenis, 172 Antonia minore, 173 (M.) Antonius Pallas, 87 Antonius Primus, 60, 126 (e nt. 66), 129 (nt. 82) Apamea, 33 Apione, 173 Aponius Saturninus, 126 Aquae Flavianae, 95 Aquincum, 62, 66 Aquileia, 63, 66

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Indici Ara Pacis, 80 Ara Providentiae, 163 Argentorate, 72 Arles 115, 120, 124-126 Armenia, v. province Armenia Minor, v. province Asia, v. province Asia Minor, v. province Augusta Emerita, 57 nt. 27, 158, 163 Augusto, 46, 52, 53, 64 e nt. 56, 98-102, 106, 109, 183, 189, 190-192, 197, 204, 239, 243, 246 Augustalia, 135 (T.) Aurelius Fulvus, 130 Auzia, 95 Aventicum, 30 Avillio Flacco, 173 Azio, 46 B Baetica, v. province Bagradas valley, 84-85, 91-92 Balaton (lago di), 62 Bandelli, G., 60 Bartolo di Sassoferrato, 219 Beard, M., 136, 137 (de) Belleperche, P., 219 beneficium Caesaris, 57 e nt. 30, 104-105 Bezeczki, T., 60 Béziers, 115, 118 (e nt. 37), 120 bibliotheke enkteseon, 47 (nt. 3), 58 e nt. 3334, 59 (e nt. 36), 60, 69 Bitinia, v. province Bleicken, J.,167 Bodei Giglioni, G., 21 bona damnatorum, 87 bona caduca, 87 bona vacantia, 87 Bordeaux, 117 Boren, H., 21 borghesia cittadina, 6-7 Bosa, 159-161 Bosworth, A.B., 255 Boudicca, 76-77, 81, 162

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Boulvert, G., 68 Braunert, H., 249 Britannia, v. province Brutobriga, 98 Burnand, Y., 123, 131 C Caligola, Caio Cesare, 172-173 (e ntt. 9, 11), 178-179. Caister, 78 Caldelli, M.L., 145 Calvia Crispinilla, 66 Camodeca, G., 18 Campi Macri, 18 Camulodunon, 72 Canterbury, 78 Cantria Longina, 139 Cappadocia, v. province Caracalla, Marco Aurelio Antonino, 245 Carales, 159, 160 Carlisle (v. Luguvallium) (C.) Caristanius Fronto, 33 Carnuntum, 62, 63 e nt. 54 Carrasco Rus, J., 258 Carteia, 98, 100 Catalano, P., 214, 223 (nt. 57) (L.) Catilius Longus, 33 (Q.) Cecilio Metelo, 98 Cecilio Metelo Baleàrico, 98 ceramica aretina, 10 Cesarea Mauretaniae, 69, nt. 70 Cesarea, 176, 177 Chelmsford, 78 Cheremone d’Alessandria, 178 (e nt. 27) Cherry, D., 94 Chic García, G., 25 Chichester, v. Noviomagus Regnesium Cilicia v. province Cirencester, 78 Cirene, 172, 180 Cirpi, 62 Cisimbrium, 103, 104, 105, 107 civitas, 183, 184 (e nt. 2), 186, 188 (nt. 10), 225, 230 (nt. 85), 249, 253, 260 (nt. 58)

Indice dei nomi e delle cose notevoli civitas Romana, 101-105, 122, 190, 204, 240 (nt. 3), 249-250 (nt. 16) civitates –  foederatae, 188 –  liberae, 188 –  liberae ac immunes, 188 Claudio, Tiberio Germanico, 35,3 7 53, 65, nt. 60, 71, 72, 74, 158, 162-163, 172 (e nt. 5), 174, 187-188 (nt. 10), 200, 254 (nt. 32) (Ti.) Claudius Blastus, 51 (nt. 17) Coarelli, F., 136 Cohortes, 33, 63 (e nt. 54), 125, 128 –  I Alpinorum equitata, 62-63 –  Apula, 41 –  I Augusta Ituraerorum Sagittariorum, 62 –  I Batavorum, 62 –  III Bracaraugustanorum sagittariorum, 33 –  I Britannica civium Romanorum, 63 –  VII Breucorum, 62 –  I Bosporanorum, 39 (nt. 51), 41 –  III Cyrenaica sagittariorum, 33 –  I Hispanorum, 33 256 (nt. 40) –  I Italica, 41 (nt. 57) –  I Montanorum, 62 (nt. 45) –  III Thracum Syriaca sagittariorum, 33 –  I Tungrorum Frontoniana, 62 –  XIIX Voluntariorum civium Romanorum, 62 Clemente Romano, 177 Clodius Macer, 86 Colchester, v. Camulodonum coloniae, 9, 97-101, 105-106, 120-122, 124, 170, 180, 184 (nt. 4), 185, 187-189, 198, 207, 208 (nt. 4), 241, 248 (nt. 6), 253 (nt. 24), 258, 260 (nt. 56) –  Augusta Emerita, 157 (nt. 28), 158, 163 (ntt. 53-56) –  Augusta Nemausus, 89, 121 –  Augusta Firma, 169, 170 –  Carisa cognomine Aurelia, 100 –  Iulia Augusta, 157 (nt. 28) –  Lacimurga Constantia Iulia, 100 –  Latinorum Laeptia Regia, 100 –  Nertobriga Concordia Iulia, 100

– Segida Restitula Iulia, 100 – Urgia cognominata Castrum Iulium, 100 – Valeria, 98 colonato, 90, 91, 93 (nt. 32), 94-96 colonizzazione romana, 98-100 Columella, 116-117, 119 comitia, 101 comitia tribuniciae potestatis, 255 (nt. 35) Commagene, 35 commentari degli Arvali, v. Fratres Arvales Commodiano, 177 Commodus, 86, 93, 169 concilia, 150, 152-153, 155, 157-158, 160 (nt. 41), 164-166, 169 conductores, 85, 86, 93 consules, 15, 39, 88 – ordinarii, 88-89, 104, 124, 126 (nt 68) 128 (nt. 81), 129 (e nt. 81), 130-131, 142 nt. 42, 143, 158-159, 169, 254255 (nt. 35) – suffecti, 88, 129 (nt. 86), 130 constitutio Antoniniana, 245 constitutiones principis, 101, 108, 188 – decreta, 101, 153 – edicta, 9, 47-49 (56 nt.), 58 (e nt. 34), 60, 101, 103-104, 107, 166, 245, 250 (ntt. 15, 17), 252-254, 260 (nt. 57) – mandata, 167 (e nt. 80) conventus, 82, 169, 227, 244, 245 Corduba, 68 (nt. 67), 98, 108-109, 155-156 (nt. 21),158 Cornus, 159 (e nt. 38), 161 Cortegana, 149 Costantino, Flavio Valerio Aurelio, 91 Crawford, M., 150 Creighton, J. D., 81 Cremona (battaglia di), 46 (nt. 2), 56 (nt. 11) culto di Iside e Serapide, 137-139, 148, 182, 271 culto imperiale, 104, 188, 143 (nt. 52), 144145, 147, 188, 244 culto della gens Flavia, 263, 267 culturae Mancianae, 91 curia, 108-109, 124, 149-150, 153, 159, 160 (nt. 41), 231, 252, 266-267

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Indici (T.) Curtilius Mancia, 88-89 Cyrenae, 44 (nt. 75), 166, 169, 170, 172, 180 D Dacia v. province Dalmatia v. province damnatio memoriae, 145, 169, 264 Danubio, 19- 20, 45, 60-63, 66-67, 72, 130, 165 decurioni, 9, 101, 139, 150, 160, 189, 208, 251 (nt. 20), 252-253, 260 (nt. 56) – ordo decurionum, 91, 101-102, 108-109, 250 (nt. 16) dies imperii, 147 Diocleziano, 45 diplomata militaria, 29-31, 34-35,41, 62, 105 (C.) Dillius Aponianus, 38, 39 Diva Augusta, 158 Divus Augustus, 124 (nt. 58), 157 (nt. 28), 158 Domergue, Cl., 24 (e nt. 18), 25 (e nt. 20) Domitii, 89 (e nt. 20), 90 (e nt. 22), 123 Domitia Lucilla, 89-90 –  (Cn.) Domitius Afer, 89-90 (nt. 22) –  (C.) Domitius Ahenobarbus, 65 (nt. 60), 124 –  Domitius Corbulo, 39 –  (T.) Domitius Decidianus, 125 –  (Cn.) Domitius Lucanus, 89 –  (Cn.) Domitius Tullus, 89 Domiziano, v. Flavi, imperatores doppia cittadinanza, 177, 197 (e nt. 22) Dorchester, 78 D’Ors, A., 108, 253-254 Doryphoros (liberto imperiale), 54 Drava, 62 100 Dunabogdány, v. Cirpi Duratón, 261 (e nt. 63) (L.) Duvius Avitus, 125 (e nt. 62) E Écija-Sevilla 169 (e nt. 86), 170 Eck, W., 125, 167 economia imperiale 1-8, 12, 83-84

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economia italica 8-11, 190 – crisi dell’economia italica, 8-10 (e nt. 38), 11, 47 (nt. 5) – edicta v. constitutiones principis edictum de pretiis, 12 Edoardo I di Inghilterra, 219, 232 Egitto: – amministrazione finanziaria, 46, 5455, 57, 69 – amministrazione giudiziaria, 48 – tassazione della terra pubblica, 4950, 54- 55, 58 Elio Aristide 192-196, 198, 203-204 élites locali, 3, 11-12, 25, 30, 48, 78, 81, 92, 112, 122-125, 130, 132, 152, 186-188 (e nt. 10), 189-190, 199-205 (e nt. 50), 244 Emona, 66 Eprius Marcellus, 44 (e nt. 75), 143 (nt. 52) Erode il grande, 173, 181 Exeter, 73, 78 F Fabii, 123 Fabius Valens, 127-128 familia Caesaris, 51 (nt. 15), 68 Fasana, 64-65, 68 (nt. 66) Fear, T., 149, 255, 257, 261 feriale Duranum, 166 (e nt. 75), 170 Fernández de Buján, A., 254 Filone, 173 Finley, M., 208 (e nt. 5) fisco imperiale,48-49 (e nt. 8), 53, 59, 63, 66-67, 69, 84-85, 87 Fishbourne, 72-75, 79-80 flamen, 91, 150, 152 (e nt. 9), 153 (ntt. 9-10), 154-158, 160 (e nt. 39),1 64 (nt. 64), 165 – Augustalis, 154, 156, 244 – Dialis, 145, 152 (e nt. 9), 153, 164 – Divorum Augustorum, 155 – provinciae Lusitaniae, 158 flaminica Dialis, 152 (e nt. 9), 153 Flavi, imperatores: – Domiziano, 9, 16, 22-23, 39, 42, 51 (nt. 15), 56, 62, 65 (nt. 60), 66, 77-

Indice dei nomi e delle cose notevoli 78, 88, 89, 103-104, 125-126, 130, 135 (nt. 6), 137-139, 141 (e nt. 39), 142 (e nt. 46), 143-144, 146 (e nt. 71), 148, 153-154, 165, 169, 180, 190, 205 (nt. 49), 254 (nt. 30), 255 (nt. 35), 263-264 – Tito, 16, 28 (nt. 3), 40-41 (e nt. 57), 42, 44, 47 (nt. 2), 49 (nt. 10), 50 (e nt. 13), 56, 103-104, 111, 126, 133, 136-138, 141 (e nt. 39), 142, 144, 147, 171 (nt. 2), 176, 180-181 (nt. 34), 182, 253-254 (e ntt. 29, 30 e 32), 255 (nt. 35), 263 – Vespasiano, 7-8, 27-28 (e nt. 3), 2939, 41-46 (e nt. 2), 47, 49-50 (e nt. 11 e 13), 53, 56-57 (e ntt. 30, 31), 58 (nt. 33), 59 (e nt. 35), 60-62, 64-65, 6768, 71-78, 80-82, 84, 86, 87, 89, 9598, 102-105, 107-109, 152-154, 156, 158, 160, 171-179 (e nt. 29), 180-181 (e nt. 34), 182, 187, 190-191, 200, 203, 239, 241, 243-248, 250 (nt. 15 e 17), 251 (e nt. 18), 252-254 (nt. 28, 29, 30 e 32), 255 (e nt. 35), 256-257, 260 (nt. 57, 58), 261-263 Flavio Giuseppe, 40, 134-139, 148, 171, 173, 176-177, 180-182 Flavius Arrianus, 41 Flavius Sabinus, 174 (nt. 15) Fonteius Agrippa, 60 fossa regia, 86 fossatum Africae, 94 (von) Freiberg, H. U., 11, 20 Folly Lane, 80-81 Forni, G., 249, 256 Fortuna Redux, 134-135 Forum Voconii (Les Blaïs), 120-121 formula provinciae, 120 (e nt. 45), 157-158 Frank, T., 52 (nt. 18) Fratres Arvales, 29, 134 (e nt. 2), 135, 140143 (e nt. 52), 147, 166, 169-170 –  acta, 29, 134, 141-144, 146 (nt. 71) –  commentarii, 143 Fréjus, 115-116, 120-121, 124, 128-129 (L.) Fulcinius Trio, 163 (C.) Fulvius Lupus Servilianus, 130

fundi – Aufidianus, 91 – Villae Magnae Varianae, 88 G Gaio 173, 225-226, 251 (nt. 20), 252-253 Gaio Petronio, 173 Gaius Caesar, 80 Galatia, v. province Galba, Servio Sulpicio, 29, 36, 59 (nt. 35), 120 (nt. 45), 129, 248 (nt. 5), 256 Galeria tribus, 105, 109 Gallia v. province – Cisalpina, v. province – Narbonensis, v. province – Transalpina, v. province Galsterer, H., 105, 167, 249 garum, 64 Germania, v. province Germania Inferior, v. province Germanico, Giulio Cesare, 163, 166 Gessio Floro, 177 Gesù di Gamala, 179 Giardina, A., 10 Giordano, C., 18 Giusto di Tiberiade, 181 Giudaismo, 173, 175-178, 181-182 Giudea, 62, 171, 173, 176 (nt. 19), 177, 179 (nt. 29), 181 (nt. 34), 190 Giudei 171-172 (nt. 5), 173-174, 176-178, 180-181 (e nt. 34) (M.) Giulio Agrippa, 173 Glanum, 122 Gorhambury, 81 Gracurris, 98 Gromatici, 8, 45 (nt.1) Gros, P. ,122 Grzybek, E., 1, 186, 187 H Hadrumetum, 91 – regio Hadrumetina, 91 Harris, W., 20, 45 (nt. 1)

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Indici Haylin Island, 79 Hayton, 76 Helvetii, 30 Hembury, 74 Henderson, B.W. 254, 260 Herakleia, 55 nt. 24 Hiera Nesos, 56 (M.) Hirrius Fronto Neratius Pansa, 38 Hispania, v. province – Citerior, v. province – Tarraconensis, v. province Hitchner, B., 91 Hobbes, T., 219, 221, 233 Hod Hill, 74 Homo, L., 257 Hopkins, K., 7, 11 Hurlet, F., 167 I Igabrum, 103-105, 107 impero municipale, 81, 93, 183, 186 (nt. 7), 187, 189-190, 196, 198, 202-203, 234, 256-257 Intercisa, 62 Irni, 107, 149, 242, 253 – lex Irnitana, v. leges Istria, 60, 64 (e nt. 56), 65-68 – ruolo economico, 64-66 – proprietà imperiale, 64 (e nt. 56), 6566, 60 Italia, 1-11, 46, 60, 64, 66, 101-102, 106, 112, 131, 184, 186-188, 190, 205, 248 iudex privatus, 234 (nt. 102) iudicia legitima, 101, 22 Iulia Procilla, 127 Iulii, 123 (Gn.) Iulius Agricola, 17, 65 (nt. 60), 72, 7678, 81, 116, 124, 127, 129 (Ti.) Iulius Alexander, 27, 47, 49, 34 (Ti.) Iulius Celsus Polemaeanus, 33, 43 (Q.) Iulius Cordinus, 39 (C.) Iulius Cornutus Tertullus, 31-33 (Sex.) Iulius Frontinus, 77 (L.) Iulius Graecinus, 116

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(Sex.) Iulius Maximus, 130 (T.) Iulius Maximus, 130 (A.) Iulius Quadratus, 34, 43 (nt. 69) iuridici, 43 ius Latii, 98-100, 102-105, 107, 109, 152, 188 (nt. 10), 239 (e nt. 3), 241-242, 245, 247 (e nt. 3), 248-249 (e nt. 12), 250 (e ntt. 15-17), 251, 254 (nt. 28), 255-258, 260 (e ntt. 56, 59), 261-262 J Jamnia, 173-174, 182 Jazygi, 60 Jochanan ben Zakkay, 182 (D.) Junio Bruto, 198 K Kant, I., 219 Kehoe, D.P., 26 Keynes, J. M., 21 King, G., 1 Kleroi, 52 Klosterneuburg, 62 Kremer, D., 242, 253-254, 257 Kulikowski, M., 260 L Laecanii, 64 (e nt. 57), 65-66 (C.) Laecanius Bassus, 64 (C.) Laecanius Bassus Caecina Paetus, 65 (nt. 59) (C.) Laecianus Bassus Paccius Paelignus, 65 Lambaesis, 95 Lamberti, F., 103, 106-108 Latini, 184, 249 (nt. 9), 250 (nt. 15) – coloniari, 251, 253 (nt. 24), 258 (e nt 52), 259 (nt. 55) – prisci, 253 (nt. 24), 259 (e nt. 54) – Iuniani, 259 (e nt. 54) Latinitas, 241-243, 249 (nt. 11), 254 Latinizacíon, 97-98, 102, 122, 239 (e nt. 3), 250 (nt. 15)

Indice dei nomi e delle cose notevoli Lauricum, 149 legati, 43, 106, 108-109, 163, 173 legati legionis, 43 Leges, 99, 101, 106-107, 186, 224 –  Aelia Sentia, 259 –  Aemilia de dictatore creando, 99 –  Antonia de actis Caesaris confirmandis, 99 –  Antonia de colonis deducendis, 99 –  de flamonio provinciae Narbonensis, 149-169 –  Flavia municipalis, 99, 101-103, 105107, 109, 245 –  Hadriana de rudibus agri, 86, 89-90 –  Irnitana, 97, 101-103, 106, 108, 245, 252, 254 (nt. 28) –  Iulia municipalis, 101-102, 105 –  Iulia de civitate, 186 –  Iunia Norbana, 259 –  Licinia Mucia de civibus regundis, 259 –  Malacitana, 106 –  Manciana, 5, 85, 87-90 (e nt. 21) –  Narbonensis, 152 (e nt. 9), 153, 154, 156, 159-161, 164 (nt. 61), 167 nt. 78) –  Papia et Poppaea, 101 –  Plautia Papiria de civitate, 101, 109 –  Pompeia municipalis Bithyniae, 109 –  portorii Asiae, 125 nt. 60 –  Rupiliae de iure Siculorum, 109 –  Salpensana, 106, 249, 252 –  Ursonensis, 108 –  Villonensis, 106, 149 Legiones, 30, 33, 39-40 (e nt. 52, 54), 41, 43, 60, 66 (e nt. 63), 72-73 (e nt. 13), 7475, 76-77, 86, 89, 95, 120, 124, 128-130, 147, 179 (nt. 29), 256 (e nt. 40) –  II Adiutrix, 76 –  III Augusta, 86, 95 –  XII Fulminata, 39-40, 42 –  XV Apollinaris, 62 –  XX Valeria vicari, 75, 77 Latium –  maius, 251 (e nt. 20), 252, 260 (nt. 56) –  minus, 251 (e nt. 20), 252-253, 260 (nt. 56)

Leicester, 78 Leontopoli, 180 Leptis Magna, 263- 264, 272 Le Roux, P., 256 lex – data, 108-109, 153, 234 (nt. 102) – municipalis, v. municipia Licinii Crassi, 64 (C.) Licinius Mucianus, 27, 134 Liguria, 127 Lo Cascio, E., 83 Londinium, 81-82 Loron 64-65 (nt. 61), 66 Lucceio Albino, 177 Lucius Caesar, 80 Lugio, 62 Lycaonia, v. province Lycia, v. province Luguvallium, 76 (L.) Luscius Ocrea, 38 Lucius Caecilius Jucundus, 18 Lusitania, v. province M macellum, 17, 22 – Liviae, 17 – Magnum, 17 Mackie, N., 260 Madison, A., 219 Maiden Castle, 74 Malaca, 107, 149, 250 (nt. 15) Malanima, P., 6 mangonici questus, 15 (Sex.) Marcius Priscus, 28, 30, 36-37 Marco Aurelio, 94 Marcus Vettius Bolanus, 77 Marii, 123 (A.) Marius Celsus, 131 Marseille, 118, 120 Martí, J., 207 Mascula, 95 Matavo, 121 Mateo, A., 23-25 Matjasic, J., 60

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Indici Mattingly, D., 91 Mauretania, v province McElderry, R.K., 248, 256, 260 Mecenate, 52, 64 Mellaria, 155 Melitene, 39-40 Melitone di Sardi, 177 Mentxaca, R., 245 mercati, 11-12, 185 – rurali 185 – urbani, 11 mercato, 52-53, 59, 188, 236 (nt. 116) Messalina, 174 Metellinum, 98 Miletus,168 Millar, F., 8, 161 (e nt. 45), 167 (e nt. 80), 249 Moesia, v. province – Moesia inferior, v. province Momigliano, A., 145 Mommsen, Th., 105, 185 (nt. 5), 207, 249, 253 mulio, 16 municipia, 7, 6163, 80, 81, 97, 100-101, 105-109, 114, 121-122, 166, 183-189, 196-198, 200, 202-204, 207, 209, 211, 213, 215, 219, 221, 223, 225-227, 230, 233-236, 240-246, 248. 249, 253, 260 – leggi municipali, 93, 97, 99, 101, 105109, 149, 152, 165-166, 170, 185, 190, 230, 234-236, 240-246, 250, 252, 260-261 Munigua, 107 Mursa, 63 N Narbo Martius (Narbonne), 115, 118, 120, 150, 152-153, 156, 160 Narcisso (liberto imperiale), 54, 174 Nemausus, 89, 121 (M.) Neratius Pansa, 38, 159 Neronia, 146 Nerone, Tiberio Claudio, 7, 18, 34, 36-37, 39, 43-44, 50, 51, 53, 57, 79, 88, 117-118,

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124-125, 129, 131, 136, 143 (nt. 55), 169, 172, 174-175 (e nt. 18), 176-177, 258 Nerva, Marco Cocceio, 65, 77, 79, 146, 155, 187-188 Neviodunum, 61 Nicapoli, 55 Nicols, J., 125 Nilo, 46 nt. 2, 48, 51 (nt. 16), 54 Nîmes, 119, 121-122, 124, 130-131 Nogales Bassarate, T., 163 nomo Arsinoitico, 50-51 (e nt. 16), 53, 55 (e nt. 27), 56-59 (L.) Nonius Calpurnius Asprenas, 30 (nt. 16) Novae, 66 Noricum, v. province North, D., 1, 58 (nt. 52) notitia Galliarum, 121 Noviomagus Regnensium, 78-79 Numidia v. province nundinae, 17-18 – indices nundinarii, 18 (e nt. 11) O oppida, 74, 97, 99, 121, 184 (nt. 2), 242 – Latio antiquitus donata, 97, 99 – Latinorum veterum, 97 Orange (catasto di), 114-115, 120 ordo et res publica Pergensium, 31 ordo Karlitanorum, 160 Orestano, R., 214 Ørsted, P., 91 Ostippo, 149 Otone, Marco Salvio, 127, 129-130 Ousiai egiziane, 48, 50 (e nt. 12,13), 51 (nt. 16), 52-53, 56-58, 87-88 – ge ousiake, 50 (e nt. 14), 87 – logos ousiakos, 50 (e nt. 14), 56, 60, 69, 87 – ousia Doryphoriane, 50 (nt. 13), 54 – ousia Germanikianè, 55 (nt. 26) – ousia Luriane, 55 (nt. 25) – ousia Maikenatiane, 52 – ousia Petroniane, 53 (nt. 21), 54 – ousia Senekiane, 50 (nt. 13), 52, 54 – procurator usiacus, 51 nt. 17

Indice dei nomi e delle cose notevoli P (L.) Peducaeus Colonus 49 nt. 10 Palma, 98 Pamphylia, v. province Pannonia, v. province Paphlagonia, v. province Parassoglou, G. M., 52 (nt. 18), 53, 55 Parisi, 76 Patara, 28-29, 36-37 (e nt. 43) patrimonium Caesaris, 45-47, 49-50, 52, 54, 56-57, 60, 64-69 Patterson, J., 8 pax Romana, 135, 193 Perge, 29-30 (nt. 16), 31-32 (e ntt. 24-25), 33, 125 (nt. 61) persona giuridica, 209-210 (e nt. 12), 213216 (e nt. 33), 128, 220 (e nt. 48), 222223, 225, 228 (e nt. 79), 229-230 (e nt. 85), 232-233 peste antonina, 4 Petilius Cerialis, 129 Peyras, J., 91 Pisidia, v. province (M.) Plancius Varus, 31-33 Plinio il Giovane, 31, 251, 255, 258, 260 (e nt. 59), 261 Plinio il Vecchio, 97, 99 Plutarco, 192, 200-201 (e nt. 37), 202-205 Pola, 64, 68 (nt. 66) Polibio, 135 (nt. 7), 192 polis, 171, 184 (e nt. 3), 193, 199-200, 202, 204-205 (nt. 50) Pollentia, 98 Pompaelo, 98 Pompeii, 123 –  (Cn.) Pompeius Collega, 40, 42 –  (M.) Pompeius Silvanus Staberius Flavenus, 126 (e ntt. 65-66), 127 –  Pompeius Strabo, 101 Pompeii Paulini, 124 –  (A.) Pompeius Paulinus, 125 (e nt. 62) Pompeii Paullini, 126 –  (A.) Pompeius Paullinus, 125 Ponto, 35, 42 Poppea Sabina, 174-177

Potter, D., 167 Price, S.R.F., 162, 84, 87 prodotto pro capite, 4 produzione, 5, 64, 65 (nt. 61), 66 – agricola, 5, 9 – olearia, 20, 64-66 – vinicola, 9-10, 64 proprietà imperiale 45, 46, 52, 54, 64 (e nt. 56), 65-66 province – Africa, 5-6 (nt. 18), 11, 84-96, 157, 175, 178, 189 Proconsularis, 156-157 (nt. 24), 160 (nt. 39), 174 – Armenia, 42-43 Minor, 40 (nt. 53), 176 – Asia, 23, 32-34, 44 (nt. 75), 68 (nt. 69), 163, 168 (nt. 85), 175, nt. 18 Minor, 27, 94, 96, 189 – Baetica, 68 (nt. 67), 149, 155-156, 157 (nt. 27), 162, 164-165, 249, 254 (nt. 27), 261 (e nt.64) – Bitinia, 109 – Britannia, 43, 71-81, 137, 162 (e nt. 51), 172 (nt. 5), 174, 179 (nt. 28), 180 – Cappadocia, 9, 33, 35-36, 39-43 – Cilicia, 35 (e nt. 54) – Dacia, 166, 169 – Dalmatia, 126-127 – Galatia, 29-30, 33, 35-36, 39-43 – Gallia, 10, 158, 159 (e nt. 34), 161 (e nt. 47), 165, 173 Cisalpina, 186, 250 Narbonensis, 124, 152 (e nt. 9), 153 Transalpina, 115, 123 – Germania, 77, 100, 173-174, 180 – Inferior, 72 – Hispania, 97-109, 124, 128, 130, 162164, 239-249, 251-253, 254 nt. 28 e 30, 257-258, 260-261 Citerior, 157, 160 Tarraconensis, 97, 100, 111, 157, 160 – Lusitania, 97, 100-111, 120 (nt. 46), 157 (nt. 27), 158, 163-164, 261 (nt.64) – Lycaonia, 42

283

Indici – Lycia, 28-30, 35-42 – Mauretania, 20, 69 (nt. 70), 164 – Moesia, 60, 63 Inferior, 63 – Noricum, 60-61, 63, 66 (nt. 63), 67, 149 – Numidia, 17, 86, 95 – Pamphylia, 28-31, 33, 35-36, 38-42 – Pannonia,60-63, 66 – Paphlagonia, 42-43 – Pisidia, 9, 42-43 – Pontus, 35, 42 – Raetia, 64 – Syria, 27, 32-35, 39-40, 42, 131 Psenuris, 55 (nt. 25) Ptolemais Nea, 55-56, 166, 169-170 Pullariae (isole), 64 Q (P.) Quintilius Varus, 88 R Raepsaet-Charlier, M. Th., 129 Raetia v. province rappresentanza (diritto), 209-213 (e nt. 23), 214-215 (e nt. 29 e 32), 216 (e nt. 33), 218-219 (e nt. 46), 220 (e nt. 50), 221 (nt. 50), 222-223, 228 (e nt. 79), 229 (e nt. 81), 230 (nt. 85), 232 Raubkapitalismus, 4 reddito pro capite, 1, 5 – nell’Italia, 1, 3-4 – nelle province, 1, 2 (nt. 5), 3, 4 regnum, 183, 225, 233 (de) Révigny, J., 219 Richardson, J.S., 248 Richborough, 71-73 (e nt. 11), 77 Rives, J., 161 (nt. 45), 167 (nt. 80), 171, 178-179 Roma, 2, 7, 11-12, 46 (nt. 2), 50 (e nt. 11), 68, 97-103, 106 (e nt. 20), 108-109, 156159, 172-175 (e nt. 18), 176 (nt. 19), 177-179, 183-184 (e nt. 4), 185 (e nt. 5),

284

187-188 (e nt. 10), 242, 257-258 (e nt. 52), 259 Rousseau, J.J, 211, 221, 223, 225 (e nt. 67), 234 (nt. 103) Roxolani 60, 130 (C.) Rutilius Gallicus, 39, 44 Rutupiae v. Richborough Rowlandson, J., 92 Ruscino, 122 S (C.) Sallustius Crispus, 65 (nt. 60) Salpensa, 149, 249, 250 (nt. 15) saltus, 88, 114 – Blandianus et Udensis, 88 – Burunitanus, 93 – Lamianus et Domitianus, 88, 89 Samnagenses, 121 San Tommaso, 221 (e nt. 53) Sardinia, 157, 159 (e nt. 38), 160, 164-165 Sarmati, 60 Sava, 60-61, 66-67 (von) Savigny, F.C., 218 (nt. 42), 220, 230 (nt. 79) S.c. de Cn. Pisone patre, 64 (nt. 56), 166 Scheid, J., 138-139 Scheidel, W., 3 scienza giuridica, 191, 216 (nt. 33), 222 Segermes valley, 91-92, 95 Segovia, v. Duratón (L.) Seius Strabo, 65 (nt. 60) (Ti.) Sempronio Graco, 98 senatus, 7, 15, 31-33, 40, 43-44, 57 (e nt. 30), 60, 64-67, 83, 87-89, 97, 101, 116, 121, 123-126, 128-131, 134 (e nt. 5), 136, 141, 143-144, 147, 160, 163, 166-167, 172, 174, 185, 187-188 (e nt.10), 189-190, 195, 203, 205, 247-248, 252, 254 (nt. 32) senatus consulta, 101, 107, 143, 167 Seneca, 52-54, 87, 176, 178 (e nt. 27) sermo procuratoris, 86 Servilii, 123, 130 Severi, imperatores, 165, 268 – Settimio Severo, 46

Indice dei nomi e delle cose notevoli Sexaginta Prista, 63 Sherwin-White, S., 249 Silchester, 73, 75, 78 Simone ben Gamaliel, 179 Singidunum, 66 Syria, v. province Sirmium, 61 Siscia, 61 societas, 211 (nt. 16), 212 (e nt. 20), 214-218 (e nt. 40), 221-222, 226, 233, 235-236 sodales Flaviales, 144 Solva, 61-62 Sordi, M., 176 Statilii Taurii, 64 Stepper, R., 147 Strasbourg, v. Argentorate Strong, D., 78 Stylo, A., 103-104 subseciva, 8, 59 (nt. 35) supplicatio, 134 (e ntt. 3, 5, 6), 135 (ntt. 6, 7), 143 Syme, R., 117, 123-124, 130-131 T Tabula Siarensis, 166 (e nt. 76) Tabularium Caesaris, 45, 67-69, 76-80, 124, 127-129, 131, 140, 162, 175, 211 (nt. 16) Tacito, 7, 17, 49, 65 (nt. 60) Thamugadi, 95 (L.) Tampius Flavianus, 126 (e nt. 68), 129 (nt. 86) Tarraco, 157, 159-160, 165 Tassaux, F., 60, 67 (nt. 64) Taurunum, 61 Tavola di Lione, 200 Tavola di Veleia, 12 Tavola dei Ligures Baebiani, 12 Tavola di Vipasca, 24 Tavolette dei Sulpici, 18 Tavolette di Murecine, 18 Tchernia, A., 9-10, 22 Tempio Flavio a Leptis Magna, 263-272 Tempio di Gerusalemme, 171, 173, 175176, 179, 182 Tempio di Iside a Benevento, 139

Tempio di Iside a Sabratha, 271-272 Tempio di Onia a Leontopoli, 180 Templus Pacis, 180 Tertulliano, 177 Teutoburgium, 7, 63 Tiberio, 18, 112, 118, 124, 132, 140-141, 157, 162-163, 173 Tito v. Flavi, imperatores (de) Tocqueville, A., 207 (e nt. 2) Todd, M., 74 Togidubnus, 74-75, 79 (e nt. 45) (Q.) Trebellius Rufus, 153-154 Trieste, 67 trionfo – di Vespasiano, 136 – di Tito, 136, 180 Tunisia, 91 V Valence, 120-122 Valeria, v. colonie Valerii, 123 Valerio Flaco, 98 (D.) Valerius Asiaticus, 124 Valerius Paullinus, 127-129 Varrone, 18, 117 Vazaivi, 95 Verulamium, 78, 80 -81 (de) Vries, J., 6, 12 Vespasiano v. Flavi, imperatores (M.) Vettius Bolanus, 77 Vetus Salina, 62 vici, 185 Vienne, 120-121, 127, 130 villa perfecta, 244 Villonensis, 106, 149 Viminacium, 66 Vindobona, 62 Vitellio, Lucio, 27, 29-31, 33, 50 (nt. 11), 77, 126-127, 137, 169, 174, 254 (nt. 32), 255 (ntt. 35 e 37) Voconces, 120, 123, 127 Volcae Arecomici, 99 vota extraordinaria, 169-170

285

Indici W Wacher, J., 78 Weber, M., 4, 7, 232 (e nt. 93) Webster, G., 74, 256 Wheeler, R.E.M., 74, 80 Wilkes, J., 63 Williamson, C.H., 150 Winchester, 78 Wolff, H., 249

286

Wroxeter, 78 Wuilleumier, P., 124 Z Zaccaria, C., 60 Zaccaria ben Eucolos, 176 (nt. 19) Zarai, 94

indice delle fonti

I. Tradizione manoscritta Aelius Aristides ‒ `Rèmhj ügkèmion 9 193 (nt. 12) 11 193 (nt. 13) 13 193 (nt. 14) 15-23 194 (nt. 15) 24 194 (nt. 16) 26 194 (nt. 16) 29 199 (nt. 28) 35 199 (nt. 28) 36 199 (nt. 27) 36-39 199 (nt. 29) 51 195 (nt. 18), 199 (nt. 26) 53 194 (nt. 17) 58 199 (nt. 26) 59 199 (nt. 32) 61 198 (nt. 23) 63 199 (nt. 33) 69 198 (nt. 25) 74 200 (nt. 34) 75 200 (nt. 35) 81 198 (nt. 24) 92 199 (nt. 30) 93 199 (nt. 31) Agen(ni)us Vrbicus gromaticus ‒ de controversiis agrorum (Thulin) 41 9 (nt. 32)

Q. Asconius Pedianus ‒ orationum Ciceronis enarrationis quae exstant   in Pisonem   3 C 247 (nt. 3) Sex. Aurelius Victor Afer ‒ historiae abbreviatae (vulgo: liber de Caesaribus) 9.7 139 (nt. 33) Cassius Dio ‒ historiae Romanae (Boissevain) 43.39.5 99, 99 (nt. 4) 53.22.7 120 (nt. 44) 54.10.3 135 (nt. 10) 54.23.7 100, 100 (nt. 6) 54.25.1 100, 100 (nt. 6) 55.19.22 71 (nt. 2) 60.6 65 (nt. 60) 61.4.1 176 61.7.2 134 (nt. 5) 62(63).10.1a 175 65.8.2 137 (nt. 23) 65(66).11.2 175 66.8.1 46 (nt. 2) 66.8.3 147 (nt. 74) 66.8.3-4 57 (nt. 31) 66.9.2a 50 (nt. 11) 66.15.1 139 (nt. 33), 180 67.1.2 146 (nt. 68) 68.2.3 146 (nt. 70)

287

Indici M. Porcius Cato Censorius ‒ de re militari frg. 2 134 (nt. 6) Flavius Sosipater Charisius grammaticus ‒ artis grammaticae quae exstant (Keil) 152 224-225 M. Tullius Cicero ‒ epistulae   ad Atticum  6.1.15 38 (nt. 44) ‒ orationes   pro L. Cornelio Balbo oratio  28 196 (nt. 20)   29 197 (nt. 22)   31 196 (nt. 20)   in M. Antonium orationes Philippicae   14.36 134 (nt. 6) ‒ philosophica   Cato maior de senectute   3.23 134 (nt. 6), 135 (nt. 7)   librorum de legibus quae exstant  2.5 196 (nt. 21)   3.15 235 (nt. 109)   de officis  1.52 224  1.53 224  1.54 233  1.56 224   1.124 222 (nt. 56)   librorum de re publica quae exstant  1.25.39 226  1.32.49 233  1.39 224   2.58 235 (nt. 109) L. Iunius Moderatus Columella ‒ res rustica 1.Praef.20 117 (nt. 25)

288



3.2.16 3.2.25 3.21.3 3.21.11 4.28.2 12.23.1-3

117 (nt. 27) 117 (nt. 30) 117 (nt. 28) 117 (nt. 28) 117 (nt. 23) 117 (nt. 29)

Corpus iuris civilis ‒ Digesta 1.1.1.3 225, 225 (nt. 65) 1.1.5 225 1.2.1 225 1.5.2 230 2.14.14 227, 231 2.14.9.pr. 222 (nt. 56) 3.3.45.2 222 (nt. 56) 3.4.1.1 226, 233 3.4.7.1 210 5.1.76 227 (nt. 74) 14.1.1.5 235 14.1.1.19 235 14.1.1.20 235 14.1.1.22-23 235 17.2.4.pr. 218 (nt. 40) 17.2.7 227 (nt. 73) 17.2.52.4 218 (nt. 40) 17.2.82 231 28.5.16 222 (nt. 56) 29.1.78 227 (nt. 74) 33.1.5.20 222 (nt. 56) 34.3.7.5 222 (nt. 56) 39.1.15 222 (nt. 56) 44.7.1.pr. 224 45.3.26 219 (nt. 45) 45.31.4 222 (nt. 56) 48.19.16.10 219 (nt. 45) 49.1.21.2 222 (nt. 56) 50.1.19 231 50.16.215 221 (nt. 51) 50.16.195.2 233 50.17.160.pr.-1 231 ‒ Institutiones 1.2.12 2.9.5

230 232

Indice delle fonti Epitome de Caesaribus 9.8 139 (nt. 33) Eusebius ‒ historia Ecclesiae 3.12 3.19-20 3.32.3

180 180 180

Sex. Pompeius Festus ‒ De verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome (Lindsay) 150, s.v. supplicatio 134 (nt. 6) Flavius Josephus ‒ Antiquitates 7.216-217 18.261-309 20.180-196 20.183-184 20.195 20.252

180 173, 173 (nt. 10) 176 177 176 177

‒ Bellum Iudaicum 1.1 1.3 1.6 1.5 2.184-203 2.284 2.409 3.354 4.658 4.11.5 5.45-46 5.367 5.510 6.337 7.18 7.72-73 7.73 7.74 7.89 7.116-162

181 181 (nt. 34) 181 (nt. 34) 180 173, 173 (nt. 10) 177 179 182 (nt. 36) 49 (nt. 10) 46 (nt. 2) 49 (nt. 10) 182 (nt. 36) 49 (nt.10) 176 40 (nt. 53), 40 (nt. 55) 134 (nt. 4) 136 (nt. 13) 148 (nt. 75) 60 (nt. 37) 136 (nt. 15)

7.119 7.124 7.128-130 7.148-150 7.153 7.157 7.158-162 7.244 7.420-436

136 (nt. 14) 136 (nt. 17) 136 (nt. 17) 180 136 (nt. 17) 138 (nt. 26) 139 (nt. 33), 180 39 (nt. 52) 180 (nt. 31)

‒ Contra Apionem 1.51

181 (nt. 34)

‒ Josephi vita 13-16 177 40 181 357-360 181 361-362 181 (nt. 34) Gaius iurisconsultus ‒ institutiones 1.3 234 (nt. 102) 1.8 230 1.22-24 259 (nt. 54) 1.28-29 259 (nt. 55) 1.93 252 1.93-95 105 (nt. 15) 1.95 248 (nt. 3), 251 (nt. 19) 1.96 251, 253 2.95 232 3.154 224(nt. 61) 3.154 a 224(nt. 61) 4.70 230 (nt. 84) 4.160 222 (nt. 56) A. Gellius ‒ noctes Atticae 1.9.12 10.20

224 (nt. 61) 234 (nt. 102)

Hyginus Gromaticus ‒ operis gromatici de limitibus (Lachmann) 111 9 (nt. 32) 202 58 (nt. 35)

289

Indici ‒ de generibus controversiarum fragmenta (Thulin) 96 9 (nt. 32) Iustinus ‒ Epitome 43.5.11-12

123 (nt. 55)

T. Livius Patavinus ‒ ab urbe condita 5.51.4-5 133 (nt. 1) 7.17.12-13 234 (nt. 102) 25.12.15 134 (nt. 6) 27.25.7-9 142 (nt. 42) 32.1.13 135 (nt. 7) 34.55.4 134 (nt. 6), 135 (nt. 7) 36.37.4 134 (nt. 6) 40.37.3 134 (nt. 6) 43.3.1 98 (nt. 2) 43.13.7 134 (nt. 6), 135 (nt. 7) 45.2.8 134 (nt. 6) 45.16.6 134 (nt. 6) ‒ periochae 134

120 (nt. 44)

Paulus Orosius ‒ Adversus Paganos 7.3.7 7.19.4

140 (nt. 35) 140 (nt. 35)

(Flavius) Philostratus ‒ Vitae Sophistarum 1.231 9 (nt. 34) 580 22 (nt. 15) ‒ Vita Apollonii 6.42

9 (nt. 34), 22 (nt. 15)

C. Plinius Caecilius Secundus (vulgo Plinius minor) ‒ epistulae 8.18 89

290

‒ panegyricus 37.3

105 (nt. 15)

C. Plinius Secundus (vulgo Plinius maior) ‒ naturalis historia 3.1 97 (nt. 1) 3.1.3 111 3.1.5 111 3.2.7 111 3.3 97 (nt. 1) 3.3.7 120 (nt. 46) 3.4(3).30 112 3.5(4).31 112 3.5(4).37 120 (nt. 45), 121 3.5.37 121 (nt. 48) 3.6(5).39 112 3.30 102 (nt. 10), 239 (nt. 2), 247 3.148 61 (nt. 39) 4.18 120 (nt. 46) 4.22 97 (nt. 1) 4.22.117 120 (nt. 46) 5.20 245 (nt. 15) 6.5(39).42 112 14.3.18 118 (nt. 33) 14.4.25-26 118 (nt. 33) 14.4.27 118 (nt. 33) 14.4.43 118 (nt. 32) 14.6.57 118 (nt. 33) 14.8.68 118 (nt. 34-35) 18.35 88 36.102 140 (nt. 34) 36.197 65 (nt. 60) Plutarchus ‒ Moralia: Politikà paraggelmata 10 204 (ntt. 47-48) 12 202 (nt. 44) 17 201 (ntt. 37, 40), 202 (nt. 41) 18 202 (nt. 43), 203 (nt. 45) 19 201 (nt. 38) 21 201 (nt. 39)

Indice delle fonti Scriptores historiae Augustae ‒ (Iulius) Capitolinus  Antoninus Pius   8.5 65 (nt. 60)  M. Aurelius Antoninus Philosophus   7.1 65 (nt. 60)  Helvius Pertinax   7.3 65 (nt. 60) ‒ Aelius Spartianus  Hadrianus  12.3 165   18.5 65 (nt. 60) P. Papinius Statius ‒ silvae 4.3.11-12 9 (nt. 34), 22 (nt. 15) Strabo ‒ Geographica 3.2.15 3.151 C 4.1.12 4.186-187 C

112 (nt. 10) 100 (nt. 5) 121 (nt. 48) 100 (nt. 5)

C. Suetonius Tranquillus ‒ de vita Caesarum   divus Augustus   47   66.2  Domitianus   4.8   4.11   7.2   9.2   9.3   14.2  Galba   12.1  divus Iulius   42.1

243 (nt. 10) 65 (nt. 60) 145 (nt. 60) 146 (nt. 68) 9 (nt. 34), 22 (nt. 15) 65 (nt. 60) 9 (nt. 32) 9 (nt. 34) 30 (nt. 19) 99 (nt. 3)

 Nero   6.3 65 (nt. 60)  40 176  Tiberius   54.2 141 (nt. 40)  divus Vespasianus  2 172   2.1 135 (nt. 11)  3 172   4 175, 175 (nt. 17), 179 (nt. 28)   4.6 16 (nt. 2)  4.1 74   6.3 137 (nt. 23)   7.1 137 (nt. 23)   8 247 (nt. 1)   8.1 136 (nt. 15)   8.4 36 (nt. 36), 40 (nt. 54)   8.7 39 (nt. 52)   9 139 (nt. 33)  14 175   16 8 (nt. 28), 16 (nt. 4)   16.2 16 (nt. 3)   17 57 (nt. 30)   18.2 21 (nt. 13)   20 247 (nt. 1)   23 182 (nt. 40) (P.) Cornelius Tacitus ‒ de vita Iulii Agricolae 7 127 (nt. 72) 7.1-2 127 (nt. 73) 7.3 129 (nt. 84) 7.4-5 129 (nt. 85) 14.1 79 20-21 76 21 78, 80 21.1 17 (nt. 7) 43.4 65 (nt. 60) ‒ annales 1.75 1.78 3.30

157 162 65 (nt. 60)

291

Indici 3.55 3.64.4 4.17.1-3 4.17.3 4.37.1 11.24.3 13.47.3 14.12.1 14.31 15.4 16.5

8 (nt. 27) 134 (nt. 3) 141 (nt. 40) 141 156, 163 124 65 (nt. 60) 134 (nt. 6) 162, 162 (nt. 51) 156, 163 175

‒ historiae 1.2 77 1.2.3 129 (nt. 82) 1.11.3 127 (nt. 70) 1.69 30 (nt. 19) 1.76.1 127 (nt. 71) 1.79 60 (nt. 37), 130 (nt. 90) 1.87.1-2 127 (nt. 72) 2.12-16 127 (nt. 72) 3.5.1 60 (nt. 37)



3.8 3.43.1 3.43.2 3.44 3.44.1-2 3.48 3.48.3 3.86 4.1 4.3 4.3.3 4.4.5 4.11.3 4.39 4.51 4.53.2 4.81 4.82 5.1.1

50 (nt. 11) 127 (nt. 75) 128 (nt. 77) 72 (nt. 7) 128 (nt. 78) 50 (nt. 11) 46 (nt. 2) 255 (nt. 35) 255 (nt. 35) 247 (nt. 1) 255 (nt. 35) 126 (nt. 66) 126 (nt. 66) 255 (nt. 35) 46 (nt. 2) 46 (nt. 2) 182 (nt. 40) 137 (nt. 23) 49 (nt. 10)

Tituli ex corpore Ulpiani 5.4 259 (nt. 53)

II. Epigrafi Per facilitare il lettore nella ricerca, si riportano le principali raccolte epigrafiche: Corpus Inscriptionum Latinarum e H. Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, cui sono state aggiunte per completezza le Res Gestae divi Augusti, le Inscriptiones Graecae e R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes. Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) II, 290 II, 1610 15) II, 2096 II, 5264 II2/7, 291 II2/7, 293 II2/7, 295 II2/7, 799 III, 306

292

68 (nt. 67) 103 (nt. 13), 245 (nt. 103 (nt. 13) 158 155 155 155 155 42 (nt. 66)

III, 312 III, 318 III, 12218 III, 14184, 48 V, 40 V, 41 V, 42 V, 7987 VI, 196-197 VI, 198 VI, 199

42 (ntt. 63, 67) 42 (ntt. 63, 67) 42 (ntt. 63, 67) 42 (ntt. 63, 67) 68 (nt. 66) 68 (nt. 66) 68 (nt. 66) 67 (nt. 65) 135 (nt. 9) 135 (nt. 9) 135 (nt. 9)

Indice delle fonti VI, 200 135 (ntt. 9, 11) VI, 8484 68 (nt. 67) VI, 8467 68 (nt. 67) VI, 8485 68 (nt. 67) VI, 8580, 3460 68 (nt. 67) VI, 8580, 3890 68 (nt. 67) VI, 21010 65 (nt. 59) VIII, 10570, 14464 93 (nt. 32) VIII, 12595 68 (nt. 67) VIII, 12039 156 156 VIII, 14611 VIII, 21008 69 (nt. 70) VIII, 25902 88 86 (nt. 7), 88 VIII, 25943 86 (nt. 7) VIII, 26416 VIII, 4508, 18643 94 X, 6638 69 (nt. 70) 68 (nt. 67) X, 6667 X, 7917 159 159, 160 X, 7940 121 (nt. 50) XII, 342 XII, 3166 130 (nt. 88) XII, 6038 152, 164-165, 167 (nt. 78) XIII, 1668 124 (nt. 58) XIII, 1674 158 XIII, 1675 158 XIII, 1713 159 32 (nt. 22) XIV, 2925 XIV, 4482 68 (nt. 67) 118 (nt. 37) XV, 4542-4543 XVI, 7-9 29 (nt. 11) XVI, 18 61 (nt. 39) XVI, 26 62 (nt. 44)

Inscriptiones Latinae Selectae (ILS) 212 124 (nt. 58) 241 29 (nt. 12) 242 29 (nt. 13) 261 158 1024 32 (nt. 22) 68 (nt. 67) 1497 1581 68 (nt. 67) 1599 68 (nt. 67) 67 (nt. 65) 5831 5947 59 (nt. 35) 6812 156 8971 43 (nt. 68) 9499 39 (nt. 51), 42 (nt. 61) Res gestae divi Augusti 11 12

135 (nt. 10) 100 (nt. 7)

Inscriptiones Graecae (IG) II2, 4193 a-b XII, 1, 58

153 28 (nt. 3)

Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes (IGR) III, 132

42 (nt. 64)

III, 466 III, 474 III, 507 III, 508 III, 659 III, 723

38 (nt. 45) 39 (nt. 49) 28 (nt. 8) 29 (nt. 9) 28 (nt. 4), 36 (nt. 37) 28 (nt. 3)

293