La donna nel Rinascimento meridionale. Atti del convengo internazionale (Roma, 11-13 novembre 2009) 9788862272988, 9788862272995

Le tre giornate di studio che si sono tenute a Roma dall'11 al 13 novembre 2009, di cui questo volume presenta gli

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La donna nel Rinascimento meridionale. Atti del convengo internazionale (Roma, 11-13 novembre 2009)
 9788862272988, 9788862272995

Table of contents :
SOMMARIO
PRESENTAZIONE - Marco Santoro
CRONACA DELLE GIORNATE DI STUDIO
LA LETTERATURA
CARLO GESUALDO: UNA TRAGEDIA FAMILIARE - Michele Cataudella
LE «TRAME» AL FEMMINILE - Matteo Palumbo
LA FIGURA FEMMINILE NEL NOVELLINO DI MASUCCIO SALERNITANO - Flavia Luise
VITTORIA COLONNA E IL CENACOLO ISCHITANO - Concetta Ranieri
TEATRO, MUSICA, DANZA
LA SANTITÀ FEMMINILE TRA ICONOGRAFIA E DRAMMATURGIA NEL CINQUECENTO MERIDIONALE - Tonia Fiorino
PASSIONE, NORMA E TRASGRESSIONE. GLI EFFETTI DELL’AMORE NELLE EROINE DI GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA - Nicoletta Mancinelli
LE SCIENZE DELLA NATURA
SIMONE PORZIO E IL ‘DE PUELLA GERMANICA’: ECHI ITALIANI DI UN DIBATTITO EUROPEO - Daniela Castelli
VETULAE, MATRONE, MAMMANE. LE DONNE E LA CURA - Maria Conforti
MEDICINA E CURE DI DONNE TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO: LA MEMORIA DELLE MULIERES SALERNITANAE - Corinna Bottiglieri
DONNA E SOCIETA' LAICA
GLI SPAZI FEMMINILI NEI CERIMONIALI PUBBLICI NAPOLETANI - Giovanni Muto
DA ARIOSTO A MARINO, DA ALCINA A FALSIRENA: LA MAGA SEDUTTRICE FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE - Francesco Guardiani
PENELOPE NELLE TRAGEDIE DI GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA: DA MITO A PERSONAGGIO - Françoise Decroisette
IN CONVENTO
DONNE E RELIGIONE A NAPOLI TRA RIFORME E CONTRORIFORME (1520-1580) - Adriana Valerio
SANTITÀ FEMMINILE IN TRANSIZIONE E MODELLI AGIOGRAFICI: STUDI RECENTI - Gabriella Zarri
LE NORME DI COMPORTAMENTO
DAME DI CORTE, CIRCOLAZIONE DEI SAPERIE DEGLI OGGETTI NEL RINASCIMENTO MERIDIONALE - Elisa Novi Chavarria
TRACCE E SPIE LETTERARIE DI STORIA DELLE DONNE DEL REGNO DI NAPOLI TRA XV E XVI SECOLO - Michèle Benaiteau
GESTUALITÀ ED ESPRESSIONE. CIVIL CONVERSAZIONE E SILENZIO. LA SCRITTURA - Mercedes López Suárez
LE ARTI FIGURATIVE
NÉ SANTE NÉ REGINE. LE LABILI TRACCE DEL FEMMINILE CARTACEO - Paola Zito
LE DONNE e LE ARTI figurative nel rinascimento NAPOLETANo: pratica artistica , committenza e iconografia - Cettina Lenza
«EL SIMULACRO ET RETRACTO DE SUA DIVINA IMMAGINE». SCAMBI DI DONI TRA COSTANZA D’AVALOSE ISABELLA D’ESTE - Gennaro Toscano
LA REGINA MARGHERITA D’ANGIÒ DURAZZO E L’EMBLEMA DEL DRAGO - Luciana Mocciola
LA VITA QUOTIDIANA
AGOSTINO NIFO: L’INSTITUTIO DELLA DONNA NELL’AMBIENTE DI CORTE - Domenico Defilippis
MADONNE, ANCELLE, POPOLANE DEL RINASCIMENTO MERIDIONALE IN VESTE GIURIDICA - Aurelio Cernigliaro
DAL FUSO AL LIBRO: I SAPERI DELLE PRINCIPESSE MERIDIONALI TRA XV E XVI SECOLO - Isabella Nuovo
LA DONNA E IL LIBRO
IMPRENDITRICI O “FACENTI FUNZIONI” ? - Marco Santoro
DONNE NELLE DEDICHE - Antonella Orlandi
ECHI DI NOTORIETÀ: LE DONNE NELLA TRADIZIONE BIBLIOGRAFICA MERIDIONALE - Carmela Reale
LE BIBLIOTECHE DELLE PRINCIPESSE NEL REGNO ARAGONESE - Concetta Bianca
ALL’OMBRA DEGLI EREDI: L’INVISIBILITÀ FEMMINILE NELLE PROFESSIONI DEL LIBRO. LA FATTISPECIE MARCHIGIANA - Rosa Marisa Borraccini
PROFILI BIO-BIBLIOGRAFICI
Indice dei nomi

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I ST I T U T O NA Z I O N A L E D I S T U DI SU L RI NA SC I ME N T O M E R I D O N A L E att i · 6 .

la d o n na n e l r i na s c i m e n to m e r i d i o na l e att i d e l con v e gn o i n t e r na z i ona l e ro ma , 11- 13 n ove m b r e 2 0 0 9 a cu r a d i ma rco s a n toro

PIS A · R O MA F A B RI Z I O SERRA E D I T O R E MMX

I ST I T U T O NA Z I O N A L E D I S T UDI SU L RI NA SC I MEN T O M E R I D O N A L E att i · 6. co l la na d i retta da ma rco s a n toro

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PIS A · R OMA F A B RI Z I O SERRA E D I T O R E MMX

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SOMMARIO Marco Santoro, Presentazione Cronaca delle giornate di studio (Roma, 11-13 novembre 2009), a cura di Paola Pagano

9 17

la letteratura 21 25 37 49

Michele Cataudella, Carlo Gesualdo : una tragedia familiare Matteo Palumbo, Le « trame » al femminile Flavia Luise, La figura femminile nel Novellino di Masuccio Salernitano Concetta Ranieri, Vittoria Colonna e il cenacolo ischitano  





teatro, musica, danza Tonia Fiorino, La santità femminile tra iconografia e drammaturgia nel Cinquecento meridionale Nicoletta Mancinelli, Passione, norma e trasgressione. Gli effetti dell’amore nelle eroine di Giovan Battista Della Porta

69 91

le scienze della natura Daniela Castelli, Simone Porzio e il ‘De puella germanica’ : echi italiani di un dibattito europeo Maria Conforti, Vetulae, matrone, mammane. Le donne e la cura Corinna Bottiglieri, Medicina e cure di donne tra Medioevo e Rinascimento : la memoria delle mulieres Salernitanae  

107 121



131

donna e società laica Giovanni Muto, Gli spazi femminili nei cerimoniali pubblici napoletani Francesco Guardiani, Da Ariosto a Marino, da Alcina a Falsirena : la maga seduttrice fra tradizione e innovazione Françoise Decroisette, Penelope nelle tragedie di Giovan Battista Della Porta : da mito a personaggio

143



155



169

in convento Adriana Valerio, Donne e religione a Napoli tra riforme e controriforme (1520-1580) Gabriella Zarri, Santità femminile in transizione e modelli agiografici : studi recenti  

183 199

le norme di comportamento Elisa Novi Chavarria, Dame di corte, circolazione dei saperi e degli oggetti nel Rinascimento meridionale Michèle Benaiteau, Tracce e spie letterarie di storia delle donne del Regno di Napoli tra xv e xvi secolo Mercedes López Suárez, Gestualità ed espressione. Civil conversazione e silenzio. La scrittura

215 227 241

8

sommario le arti figurative

Paola Zito, Né sante né regine. Le labili tracce del femminile cartaceo Cettina Lenza, Le donne e le arti figurative nel Rinascimento napoletano: pratica artistica, committenza e iconografia Gennaro Toscano, «El simulacro et retracto de sua divina immagine ». Scambi di doni tra Costanza d’Avalos e Isabella d’Este Luciana Mocciola, La regina Margherita d’Angiò Durazzo e l’emblema del drago

259 271



287 311

la vita quotidiana Domenico Defilippis, Agostino Nifo : l’institutio della donna nell’ambiente di corte 327 Aurelio Cernigliaro, Madonne, ancelle, popolane del Rinascimento meridionale in veste giuridica 343 Isabella Nuovo, Dal fuso al libro : i saperi delle principesse meridionali tra xv e xvi secolo 355  



la donna e il libro Marco Santoro, Imprenditrici o “facenti funzioni”? Antonella Orlandi, Donne nelle dediche Carmela Reale, Echi di notorietà: le donne nella tradizione bibliografica meridionale Concetta Bianca, Le biblioteche delle principesse nel regno aragonese Rosa Marisa Borraccini, All’ombra degli eredi : l’invisibilità femminile nelle professioni del libro. La fattispecie marchigiana

371 383 393 403

Profili bio-bibliografici

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Indice dei nomi, a cura di Paola Pagano

441



413

PRESENTAZIONE Marco Santoro 1.

N

ella sua nota e suggestiva Piazza universale di tutte le professioni del mondo Tommaso Garzoni, fra le centinaia di autori e personaggi citati nei suoi “discorsi”, e nelle relative annotazioni, inerenti le fonti utilizzate, menziona soltanto quattro donne : Eudokia moglie di Teodosio e Proba Falconia, in merito ai diversi metodi per esporre la Sacra Scrittura, Isabella Cortese circa il metodo della concia e, infine, l’unica ad essere richiamata più di una volta, per l’esattezza quattro volte, Vittoria Colonna (nel discorso lxii, De’ cortigiani, et delle donne di corte insieme, nel lxv, De’mercanti, banchieri, usurai, fondaghieri, et merciari, nel xcvi, De’ galanti, o innamorati, o pennacchini, et de’ puttanieri, e in fine nel cliv, De’ poeti in generale, et de’ formatori d’epitaffi, e pasquinate in particolare). Sarà appena il caso di ricordare, inoltre, che Tommaso si sofferma in maniera ora più ora meno concisa sulle seguenti “professioni” esercitate da donne : Discorso lxii : De’ cortigiani, et delle donne di corte insieme. Discorso lxvii : De’ sensari d’ogni sorte, et massime de’ maritaggi, et de’ metti massare, et garzoni. Discorso lxxiiii : Delle meretrici, et de’ loro seguaci in parte. Discorso lxxv : De’ ruffiani, et delle ruffiane. Discorso cxxiii : De’ saponari, o lavandiere, e bugandiere. Discorso cxxv : Delle filiere. Discorso cxxx : Delle comari, et delle balie, o balii, o nutrici. Soltanto nel Discorso lxvii, come accennato, ricorda esplicitamente una donna, la Vittoria Colonna, riportando una sua “stanza”, dove si enfatizzano gli aspetti meno lusinghieri della vita di corte e di coloro che in essa illusoriamente « honor van ricercando ». 1 Ma, non è il caso di indugiare sul testo garzoniano. Il telegrafico accenno trova motivazione, spero non del tutto illegittima, nel registrare una non insignificante testimonianza, per altro non isolata, da un canto della considerazione nella quale negli ultimi decenni del Cinquecento poteva essere tenuto il lavoro femminile e, dall’altro, del ricorso, all’epoca molto contenuto, a fonti concernenti la presenza e l’attività socio-culturali delle donne. Eppure, almeno all’interno delle classi più “elevate”, a giudizio di Jacob Burckhardt, l’incisività e il ruolo delle donne non fu certo secondario :  























Finalmente, per bene intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, – ebbe a sottolineare lo storico – è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo 2

Come ha rilevato Maria Ludovica Lenzi, Per Burckhardt […] il risvegliarsi dell’« individualità » tipico della « rinascita » avrebbe toccato anche le donne, tanto da suscitare l’ideale e il vanto della « virago », di quella donna cioè « di mente e di animo veramente virili », capace di comporre poesie immortali, come Vittoria Colonna, amica del grande Michelangelo, o compiere gesta eroiche come Caterina Sforza, moglie del condottiero Girolamo Riario […] ; come le famose « cortigiane » venete e romane : Imperia […] o […] Isabella  























1   « E tutte queste cose si reca dietro la corte, miseria, infelicità, et sciagura evidente di quelli che l’amano, come ben nota la signora Vittoria Colonna in quella stanza, che comincia : Altri ne le gran corti consumando / Il più bel fior de’ lor giovenil anni / Mentre utile e honor van ricercando, / Sol ritrovano invidie, oltraggi, e danni, / Mercé d’ingrati Principi, che in bando / Pos’hanno ogni virtute, e sol d’inganni, / E di brutta avaritia ha pieno il core / Publico danno al mondo, e dishonore ». Cfr. Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Giovanni Battista Bronzini, Firenze, Olschki, 1996, vol. 1, p. 646. 2   Jacob Burckhardt, Civiltà del Rinascimento in Italia, con introduzione di Eugenio Garin, Firenze, Sansoni, 1968, p. 361  





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marco santoro

de Luna che […] compiacevano con la loro cultura e la loro musica le inclinazioni degli uomini influenti che le frequentavano 1

Certo, Vittoria Colonna, Caterina Sforza, Imperia, Isabella de Luna e altre scrittrici, artiste, nobildonne e cortigiane possono essere ricordate alla luce di apposita documentazione ; tuttavia, e lo evidenzia opportunamente la stessa Lenzi, ancora labili sono le tracce che possano confermare l’effettivo grado di potere e di influenza che le donne esercitarono all’epoca, quanto meno in certi ambienti. E tuttavia, grazie agli studi principalmente di varie studiose (ma pregevoli indagini “al maschile” certamente non latitano), e ci basti ricordare almeno, e mio scuso per omissione eventualmente clamorose, Natalie Zemon Davis, 2 Christine Klapisch-Zuber, 3 Margaret King, 4 Costance Jordan, 5 Helena Sanson, 6 Caroline Walker Bynum, 7 Elissa Weaver, 8 Merry Wiesner 9 e, fra le italiane, Luisa Miglio, 10 Claudia Pancino, 11 Tiziana Plebani, 12 Gianna Pomata, 13 Maria Antonietta Visceglia, 14 Giuliana Vitale, 15 la già ricordata Maria Ludovica Lenzi nonché, naturalmente, le autorevoli relatrici di queste giornate, non v’è dubbio che la conoscenza e l’interpretazione della presenza e del ruolo femminili all’interno della realtà umanistico-rinascimentale italiana ed europea si sono evolute negli ultimi decenni in maniera sempre più scaltrita e persuasiva. Stimolanti e documentate indagini sono state opportunamente condotte in specie sull’educazione delle donne, sulle istituzioni attivate all’uopo, sui testi prodotti allo scopo di regolamentare il loro comportamento : e a riguardo, da bibliografo, non posso esimermi dal menzionare almeno il prezioso repertorio edito nel 1996 dalle Edizioni di Storia e Letteratura, curato dalla Zarri e preceduto da saggi puntuali e molto documentati. 16  



1   Maria Ludovica Lenzi, Donne e madonne. L’educazione femminile nel primo Rinascimento italiano, Torino, Loescher, 1982, p. 9. 2   Natalie Zemon Davis, Il dono. Vita familiare e relazioni pubbliche nella Francia del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 2000. 3   Christine Klapisch-Zuber, Women, Family, and Ritual in Renaissance Italy, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1985. 4   Margaret L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991. 5   Costance Jordan, Renaissance Feminism. Literary Texts and Political Models, Ithaca-London, Cornell University Press, 1990. 6   Helena Sanson, Donne, precettistica e lingua nell’Italia del Cinquecento. Un contributo alla storia del pensiero linguistico, Firenze, Presso l’Accademia della Crusca, 2007. 7   Caroline Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, Milano, Feltrinelli, 2001. 8   Elissa B. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy : Spiritual Fun and Learning for Women, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2002 ; Scenes from Italian convent life : an anthology of convent theatrical texts and contexts, a cura di Elissa B. Weaver, Ravenna, Longo, 2009. 9   Merry E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, 1500-1750, con introduzione di Angela Groppi, Torino, Einaudi, 2003. 10   Luisa Miglio, Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008. 11   Claudia Pancino, Il bambino e l’acqua sporca : storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli xvi-xix), Milano, Franco Angeli, 1984. 12   Tiziana Plebani, Il “genere” dei libri. Storia e rappresentazione della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo e età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. 13   Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in antico regime, Bologna xvi-xviii secolo, Roma-Bari, Laterza, 1994. 14   Maria Antonietta Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano, Unicopli, 1988. 15   Giuliana Vitale, Ritualità monarchica cerimonie e pratiche devozionali nella Napoli aragonese, Salerno, Laveglia, 2006. 16   Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii secolo, Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Storia e Letteratura, 1996.  







presentazione

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2. Le tre giornate di studio che si sono tenute a Roma dall’11 al 13 novembre 2009 sono nate dall’istanza, avvertita dal Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, del quale mi onoro di essere Vicepresidente, di apportare ulteriori contributi alla comprensione del Rinascimento meridionale, saggiato in questa circostanza sul precipuo versante dei ruoli e delle funzioni rivestiti a vario titolo dalle donne. Fondato nel 1982, l’Istituto intende per altro celebrare l’ideatore e il primo Presidente, Mario Santoro, a vent’anni dalla sua scomparsa con questa iniziativa di respiro internazionale, che si inserisce organicamente nella sua ricca e articolata attività. Al di là di cicli seminariali, conferenze, presentazioni di libri, visite guidate in relazione al ricco patrimonio artistico-documentario meridionale, realizzazioni di pubblicazioni, ecc., l’Istituto infatti ha costantemente attribuito una spiccata importanza a convegni e giornate di studio, considerati occasioni di confronto e di approfondimento fondamentali posti a disposizione della comunità scientifica nazionale e internazionale. Non a caso l’Istituto si è fatto promotore negli ultimi anni di quattro convegni (sul della Porta, 1 sulle carte aragonesi, 2 su Petrarca e Napoli 3 e sul Valla 4) che, approdati puntualmente alla pubblicazione degli Atti, hanno recato un contributo non secondario alla focalizzazione degli argomenti trattati. 5 Il Convegno, i cui Atti vedono ora la luce, si è articolato in tre giornate : 11 e 12 novembre 2009 (presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università “La Sapienza” di Roma) e 13 novembre (presso la Biblioteca Angelica di Roma). Alle nove sessioni di lavoro previste hanno partecipato trentuno relatori : Michèle Benaiteau (Università di Napoli “L’Orientale”), Concetta Bianca (Università di Firenze), Marisa Borraccini (Università di Macerata), Corinna Bottiglieri (Universität Erlangen), Daniela Castelli (Università di Napoli “L’Orientale”), Michele Cataudella (Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale), Aurelio Cernigliaro (Università di Napoli “Federico II”), Maria Conforti (Biblioteca di Storia della Medicina, Università “La Sapienza” di Roma), Françoise Decroisette (Université de Paris viii), Domenico Defilippis (Università di Foggia), Tonia Fiorino (Università di Napoli “Federico II”), Francesco Guardiani (University of Toronto), Cettina Lenza (Seconda Università degli Studi di Napoli), Mercedes López Suarez (Universidad Complutense, Madrid), Flavia Luise (Università di Napoli “Federico II”), Nicoletta Mancinelli (Università per Stranieri di Siena), Luciana Mocciola (irhis, Université de Lille iii), Maria de las Nieves Muñiz Muñiz (Universidad de Barcelona), Giovanni Muto (Università di Napoli “Federico II”), Elisa Novi Chavarria (Università del Molise), Isabella Nuovo (Università di Foggia), Antonella Orlandi (Università “La Sapienza” di Roma), Matteo Palumbo (Università di Napoli “Federico II”), Amedeo Quondam (Università “La Sapienza” di Roma), Concetta Ranieri (Università di Roma Tre), Carmela Reale (Università della Calabria), Marco Santoro (Università “La Sapienza” di Roma),  



1   L’edizione nazionale del teatro e l’opera di G. B. Della Porta, Atti del Convegno (Salerno, 23 maggio 2002), a cura di Milena Montanile, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004. 2   Le carte aragonesi, Atti del Convegno (Ravello, 3-4 ottobre 2002), a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004. 3   Petrarca e Napoli, Atti del Convegno (Napoli, 8-11 dicembre 2004), a cura di Michele Cataudella, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2006. 4   Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica, Atti del Convegno internazionale (Ravello, Villa Rufolo, 22-23 settembre 2005), a cura di Marco Santoro, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2007. 5   Sarà appena il caso di aggiungere che l’Istituto si è fatto anche copromotore di numerosi altri convegni. Fra i più recenti occorrerà ricordare almeno I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro, Atti del Convegno internazionale (Roma, 15-17 novembre 2004 - Bologna, 18-19 novembre 2004), a cura di Marco Santoro e Maria Gioia Tavoni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005 e Testo e immagine nell’editoria del Settecento, Atti del Convegno internazionale (Roma, 26-28 febbraio 2007), a cura di Marco Santoro e Valentina Sestini, Pisa-Roma, Serra, 2008.

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marco santoro

Gennaro Toscano (Université de Lille iii), Adriana Valerio (Università di Napoli “Federico II”), Gabriella Zarri (Università di Firenze), Paola Zito (Seconda Università degli Studi di Napoli). Molteplici le tematiche affrontate, relative a vicende, personaggi (reali e letterari), strutture socio-culturali, costumi, prassi comportamentali, ecc., saggiate sul versante di diversi piani disciplinari : da quello letterario a quello artistico, da quello scientifico a quello sociologico, da quello medico a quello giuridico, da quello storico a quello bibliografico-bibliologico.  

3. Alle tre giornate del Convegno, dunque, hanno partecipato trentuno relatori : eminenti studiosi italiani e stranieri ma anche giovani quanto valenti ricercatori. I loro interventi, ad eccezione di quelli molto stimolanti di Amedeo Quondam 1 e di Maria de las Nieves Muñiz Muñiz 2 (che purtroppo non è stato possibile inserire), sono raccolti in questi Atti, secondo la successione delle nove sessioni di lavoro. Cinque le relazioni della prima seduta, incentrata sul rapporto donna/letteratura. Delle due mogli di Carlo Gesualdo, Maria d’Avalos ed Eleonora d’Este, si è occupato Michele Cataudella, evidenziando la loro drammatica ed esemplare biografia nelle vesti di consorti. Se Matteo Palumbo, assumendo a caso emblematico quello di Isabella Morra e le sue Rime, ha puntualizzato il significativo legame fra contenuti e forme liriche con aspirazioni e drammatiche speranze personali delle figure femminile che si sono dedicate in modo per altro originale all’evasione della composizione letteraria, Concetta Ranieri, occupandosi di Vittoria Colonna e del cenacolo da lei promosso ad Ischia a partire dal 1509, ha ricostruito la progressiva maturazione culturale e religiosa della poetessa, segnata da incisivi sodalizi personali e letterari. Sulle figure femminili del celebre Novellino di Masuccio Salernitano si è soffermata Flavia Luise, evidenziandone la valenza testimoniale di costumi e orientamenti sociali, che tre decadi dopo il Pontano avrebbe drammaticamente condiviso. Cinque le relazioni afferenti alla seconda (“Teatro, musica e danza”) e alla terza sessione (“Le scienze della natura”). Tonia Fiorino e Nicoletta Mancinelli si sono rispettivamente soffermate su alcuni esempi della santità femminile (analizzate anche alla luce di sacre rappresentazioni, processioni e opere scultoree e pittoriche ad esse collegate) e sulle figure di donne nel teatro dellaportiano (sottolineandone i collegamenti sia alla tradizione letteraria erudita della Commedia regolare sia alla vivacità spettacolare della Commedia dell’Arte). Su vari e complessi aspetti del pensiero medico-filosofico e delle pratiche terapeutiche e pseudoterapeutiche inerenti alla donna si sono soffermate le indagini di Daniela Castelli, Maria Conforti e Corinna Bottiglieri. Se la Castelli, prendendo in esame il De puella germanica di Simone Porzio, nel quale l’autore illustra il caso di anoressia di una fanciulla tedesca, ha posto in rilievo la progressiva desacralizzazione del fenomeno  

1   Nella sua relazione, Generi e fortuna editoriale, Quondam, alla luce anche di studi recenti, ha inquadrato la questione se ci sia stato un Rinascimento delle donne nel Mezzogiorno d’Italia in relazione alla realtà storica dello spagnolismo, al termine Rinascimento e al significato che si intende attribuire alla figura della ‘donna’, colta nella sua storica considerazione giuridica, istituzionale e culturale. In particolare il rapporto donna-letteratura va investigato all’interno di vari fenomeni, quali la comparsa di nuove strutture didattiche, l’alfabetizzazione, le competenze e i ruoli svolti all’interno della famiglia e della corte ecc. Lo studio della produzione superstite femminile per altro va preliminarmente alimentato dal continuo reperimento di testimonianze e dalla oculata catalogazione. 2   Nella sua relazione, La descriptio puellae nella tradizione e in Sannazaro, Muñiz Muñiz ha proposto la storicizzazione del canone petrarchesco della descriptio puellae considerato dalla critica la base di ogni ulteriore variatio in epoca rinascimentale. Analizzare la lunga tradizione alle spalle di quel modello è servito a valutarne la carica innovativa ed a comprendere le soluzioni diverse esperite nel Rinascimento. Il caso dell’Arcadia di Sannazaro, è stato esaminato in tale prospettiva cercando di individuare gli elementi di continuità e di discontinuità rispetto al passato e la sua incisività sulle epoche successive.

presentazione

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anoressico e il crescente approccio scientifico col quale venne affrontato, la Conforti, ribadita la necessità di ricognizioni più sistematiche sulle fonti archivistiche e bibliografiche per disegnare un quadro meno approssimativo delle conoscenze e dei costumi medici dell’epoca, ha puntualizzato alcuni aspetti del ruolo e dell’attività delle ostetriche e delle “curanti empiriche” ; la Bottiglieri, dal canto suo, si è soffermata sulla memoria delle cosiddette “mulieres salernitanae” per focalizzare alcune delle peculiarità dell’impegno medico e paramedico delle donne fra tardo Medioevo e primo Rinascimento. Nella quarta seduta, dedicata al tema “Donna e società laica”, hanno relazionato Giovanni Muto, Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, Francesco Guardiani e Françoise Decroisette. Laddove Muto, alla luce di congrua documentazione archivistica, ha tracciato un quadro complessivo del ruolo delle viceregine e delle cortigiane, significativamente circoscritto e sostanzialmente subalterno e non autonomo, in linea con precise gerarchie sociali, Guardiani e la Decroisette hanno analizzato specifiche testimonianze letterarie, rispettivamente l’Orlando furioso e l’Adone il primo e le tragedie dellaportiane Penelope e Ulisse la seconda, al fine di individuare segnali eloquenti delle modalità con le quali, almeno in ambiente letterario, era colto e raffigurato all’epoca il ruolo sociale della donna. Ancora ai fini di una meno lacunosa conoscenza delle funzioni e dei compiti interpretati dalle donne nel contesto sociale meridionale nel corso del Rinascimento da un canto in ambiente religioso e, dall’altro, sul versante della quotidianità comportamentale si sono articolati gli interventi della quinta e della sesta sessione. Pertanto Adriana Valerio, sulla base dei casi delle due aristocratiche Maria Longo e Fulvia Caracciolo, ha individuato due momenti ben distinti di percezione legata alla realtà monacale, nella prima di fermento innovatore preriformistico e nella seconda di sofferta incredulità dinnanzi ai nuovi orientamenti repressivi postconciliari, e la Gabriella Zarri, in virtù dell’analisi dei più recenti studi nel settore, ha illustrato le sollecitazioni ermeneutiche più stimolanti inerenti alla santità e alla vita religiosa femminile nell’età rinascimentale e nella prima età moderna. Un quadro più confortante del ruolo rivestito dalle donne è stato offerto da Elisa Novi Chavarria, la quale, alla luce delle esperienze di Roberta Carafa, Silvia Piccolomini ed altre aristocratiche, ha evidenziato il non trascurabile apporto femminile nell’organizzazione del mecenatismo culturale e nel collezionismo. Quanto poco sensibili all’effettiva condizione della donna siano state le testimonianze letterarie “maschili” e quanto ostica per le letterate sia stata la strada per vedere almeno in parte riconosciuto il proprio spessore culturale è stato analizzato, rispettivamente, da Michèle Benaiteau e da Mercedes López Suarez. Dedicata al legame donna-arti figurative, la settima seduta ha avuto quali relatori Paola Zito, Cettina Lenza, Gennaro Toscano e Luciana Mocciola. La prima ha indagato le modalità e le simbologie con le quali è stata raffigurata la donna nei corredi illustrativi editoriali ; la seconda ha focalizzato la presenza femminile nel campo delle arti figurative in veste di artiste, di committenti e di soggetti iconografici ; il terzo, in virtù di lettere inedite, ha individuato in Costanza d’Avalos la Contessa di Acerra destinataria del ritratto che la Marchesa di Mantova aveva commissionato al Mantegna e illuminata promotrice di iniziative culturali, in specie ad Ischia ; la Mocciola, infine, ha illustrato la risoluta personalità di Margherita d’Angiò Durazzo, che per altro si distinse per numerose committenze di opere d’arte, su alcune delle quali fece apporre l’emblema del drago (simbolo della santa sua eponima, Margherita d’Antiochia). Domenico Defilippis, Aurelio Cernigliaro e Isabella Nuovo hanno tenuto i loro interventi nella ottava sessione (“La vita quotidiana”). Se Cernigliaro, puntualizzato che in effetti l’indagine sulla donna sia scarsamente presente nell’orizzonte degli storici del diritto, da un canto ha ripercorso alcuni degli studi più significativi in materia e, dall’altro  







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marco santoro

ha sottolineato la progressiva visibilità, accanto alle “madonne”, di nuove figure del ‘ceto civile’, nonché il persistente peso sociale del matrimonio ma anche di altri spazi (si pensi ai nuovi tratti della disponibilità testamentaria della donna od anche a funzioni “gestionali” che, pur senza inopportune anticipazioni di tempi, segnalano che si è innanzi ad un capitolo affatto nuovo della dimensione femminile), Domenico Defilippis, in virtù dell’analisi del secondo libro del De re aulica di Agostino Nifo, posto in rapporto al Cortegiano del Castiglione, ha focalizzato sia le significative differenze fra le forme di institutio proposte per la corte urbinate e per quella meridionale dei principi di Salerno, sia il valore testimoniale del trattato del Nifo per una conoscenza meno approssimativa della vita di corte nel Mezzogiorno, in anni di profonde trasformazioni. Dal canto suo, Isabella Nuovo, ricorrendo a sua volta a molteplici fonti letterarie meridionale e non, ha ripercorso talune incisive peculiarità dell’evoluzione della condizione femminile e della normativa che sovrintendeva alle funzioni della donna nella società aristocratica di antico regime nel Mezzogiorno d’Italia. La nona e ultima sessione ha inteso puntualizzare il rapporto donna-libro, indagato in virtù del ricorso a molteplici fonti bibliografico-archivistiche, al fine di evidenziare ruoli e funzione effettivi rivestiti all’interno dell’attività editoriale-tipografica (relazioni di Marco Santoro e di Marisa Borraccini), fisionomie e peculiarità di dedicatarie e dedicanti (relazione di Antonella Orlandi), l’attenzione loro destinata da parte di eminenti e noti biografi nel corso del tempo (relazione di Carmela Reale) e, infine, le caratteristiche delle raccolte librarie allestite da celebri principesse del regno aragonese (relazione di Concetta Bianca). Al di là degli specifici quanto significativi approdi investigativi maturati in ciascun intervento, alla luce anche di questa sessione è emerso da un canto l’apporto assolutamente non secondario recato dalle donne nel contesto socio-economico-culturale rinascimentale nel Mezzogiorno d’Italia, dall’altro la necessità di indagini e scandagli sempre più sistematici. Non è il caso di indugiare ulteriormente sui contenuti di questi “Atti” : il lettore potrà agevolmente cogliere il contributo di rilievo che tutte le relazioni hanno recato per una comprensione più approfondita e documentata del ruolo indubitabilmente non secondario rivestito dalle donne nel contesto rinascimentale meridionale e della coscienza, non raramente meno obiettiva, che di tale ruolo ebbero i contemporanei.  

4. Non ci si può certo sottrarre, in chiusura, al doveroso quanto gradito rito dei ringraziamenti, tanto calorosi quanto sentiti. Innanzitutto va sottolineato che il convegno ha beneficiato dell’Alto patronato del Presidente della Repubblica e che si è avvalso del patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Campania, del Comune di Napoli, della “Sapienza” Università di Roma, del Centro interdipartimentale di Studi umanistici, dell’Istituto di Studi rinascimentali, dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, dell’Istituto storico italiano per il Medioevo, del Seminario de Estudios Medievales y Renacentistas, della Société Internationale Leon Battista Alberti : a tutti va espressa gratitudine. Come va espressa gratitudine sia alle Autorità e alle istituzioni culturali precedentemente ricordate per i messaggi inviati, sia agli Amici e Colleghi che hanno recato il proprio saluto : Maurizio Fallace, Direttore generale per i beni librari, gli istituti culturali e il diritto d’autore, Attilio De Luca, Preside della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università “La Sapienza” di Roma, Giovanni Solimine, Direttore del Dipartimento di Scienze del libro e del documento del medesimo Ateneo, e Gianni Venturi, Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Ferrara.  



presentazione

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Ai ringraziamenti al Dipartimento di Scienze del libro e del documento per il gradito sostegno e per l’ospitalità, si aggiungono quelli alla Direttrice e al personale della Biblioteca Angelica, dove si è tenuta la terza giornata di lavoro, che ancora una volta hanno dato prova di spiccata e tangibile sensibilità nei confronti delle iniziative culturali segnate dall’impegno e dalla probità scientifica. Sincera gratitudine va espressa agli eminenti relatori italiani e stranieri che entusiasticamente hanno accolto il nostro invito a partecipare all’iniziativa e a Gianni Venturi, Francesco Guardiani, Concetta Bianca, Françoise Decroisette, Maria de las Nieves Muñiz Muñiz e Michele Cataudella che hanno presieduto le varie sedute. Mi sia lecito chiudere con un particolare ringraziamento a tutti coloro che con il proprio entusiastico impegno hanno seguito sin dagli esordi l’organizzazione scientifica e logistica di queste tre giornate : dai Colleghi e Amici del Consiglio direttivo del nostro Istituto alla dottoressa Stefania Morfea e al personale del Dipartimento di Scienze del libro e del documento. Una menzione particolare per Paola Pagano e per Valentina Sestini, il cui contributo anche in questa circostanza è stato davvero prezioso. Va ricordato, infine, che la Pagano si è assunto il non facile compito di curare la Cronaca del convegno e soprattutto il sempre utile Indice dei nomi.  

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CRONACA DELLE GIORNATE DI STUDIO (roma, 11-13 novembre 2009) Mercoledì 11 novembre

N

ell’Aula Magna della Facoltà di “Scienze Archivistiche e Librarie” dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, precedute dai saluti delle Autorità politiche ed accademiche ed in presenza di un vasto pubblico composto da docenti italiani e stranieri e da studenti universitari, si sono aperte le tre intense giornate di studio dedicate al tema della Donna nel Rinascimento meridionale. L’iniziativa, promossa dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale di Napoli in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e la Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti Culturali ed il Diritto d’Autore del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha beneficiato dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e del patrocinio del Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, del Comune di Napoli, dell’Istituto di Studi Rinascimentali, dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, della Regione Campania, della “Sapienza” Università di Roma, del Seminario de Estudios Medievales y Renacentistas e della Société Internationale Leon Battista Alberti. Dopo i saluti delle Autorità i lavori sono iniziati con la sessione intitolata La letteratura sotto la presidenza di Gianni Venturi che ha coordinato le relazioni di Amedeo Quondam (Generi e fortuna editoriale), Michele Cataudella (Carlo Gesualdo : una tragedia familiare), Matteo Palumbo (Le « trame » al femminile), Flavia Luise(La figura femminile nel Novellino di Masuccio Salernitano) e Concetta Ranieri (Vittoria Colonna e il cenacolo ischitano). Nel pomeriggio, presiedute da Francesco Guardiani, si sono svolte le sessioni dedicate a Teatro, musica e danza e a Le scienze della natura. Nella prima hanno tenuto le loro relazioni Tonia Fiorino (La santità femminile tra iconografia e drammaturgia nel Cinquecento meridionale) e Nicoletta Mancinelli (Passione, norma e trasgressione. Gli effetti dell’amore nelle eroine di Giovan Battista Della Porta) ; nella seconda sono intervenute Daniela Castelli (Simone Porzio e il ‘de puella germanica’ : echi italiani di un dibattito europeo), Maria Conforti (Vetulae, matrone, mammane. Le donne e la cura) e Corinna Bottiglieri (Medicina e cure di donne tra Medioevo e Rinascimento : la memoria delle mulieres Salernitanae).  











Giovedì 12 novembre La sessione antimeridiana della seconda giornata, intitolata Donna e società laica, presieduta da Concetta Bianca, si è articolata negli interventi di Giovanni Muto (Gli spazi femminili nei cerimoniali pubblici napoletani), Maria de las Nieves Muñiz Muñiz (La descriptio puellae nella tradizione e in Sannazaro), Francesco Guardiani (Da Ariosto a Marino, da Alcina a Falsirena : la maga seduttrice fra tradizione e innovazione) e Françoise Decroisette (Penelope nelle tragedie di Giovan Battista Della Porta : da mito a personaggio). Nel pomeriggio, sotto la presidenza di Françoise Decroisette, i lavori sono stati aperti dalla sessione intitolata In convento, con gli interventi di Adriana Valerio (Donne e religione a Napoli tra riforme e controriforme) e Gabriella Zarri (Santità femminile in transizione e modelli agiografici : studi recenti) e sono proseguiti intorno al tema de Le norme di comportamento con le relazioni di Elisa Novi Chavarria (Dame di corte, circolazione dei saperi e degli oggetti nel Rinascimento meridionale), Michèle Benaiteau (Tracce e spie letterarie di storia delle donne  





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cronaca delle giornate di studio

del regno di Napoli tra xv e xvi secolo) e Mercedes López Suarez (Gestualità ed espressione. Civil conversazione e silenzio. La scrittura). Venerdì 13 novembre La terza ed ultima giornata del Convegno si è svolta nella suggestiva cornice della Biblioteca Angelica nel cuore antico di Roma. La seduta antimeridiana, presieduta da Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, si è articolata nella sessione dedicata a Le arti figurative con interventi di Paola Zito (Né sante né regine. Le labili tracce del femminile cartaceo), Cettina Lenza (Le donne nelle arti napoletane : lineamenti per una ricerca), Gennaro Toscano (“El simulacro et retracto de sua divina immagine”. Scambi di doni tra Costanza d’Avalos e Isabella d’Este) e Luciana Mocciola (La regina Margherita d’Angiò Durazzo e l’emblema del drago), seguita dalla sessione dedicata a La vita quotidiana con le relazioni di Domenico Defilippis (Agostino Nifo : l’institutio della donna nell’ambiente di corte), Aurelio Cernigliaro (Madonne, ancelle, popolane in veste giuridica) ed Isabella Nuovo (Dal fuso al libro : i saperi delle principesse meridionali tra xv e xvi secolo). Nel pomeriggio, sotto la presidenza di Michele Cataudella, i lavori sono stati dedicati al tema La donna e il libro, con le relazioni di Marco Santoro (Imprenditrici o “facenti funzioni” ?), Antonella Orlandi (Donne nelle dediche), Carmela Reale (Echi di notorietà : le donne nella tradizione bibliografica meridionale), Concetta Bianca (Le biblioteche delle principesse nel regno aragonese) e Marisa Borraccini (All’ombra degli eredi : l’invisibilità femminile nelle professioni del libro. La fattispecie marchigiana). Dopo un ampio dibattito, animato dai relatori e dagli studiosi presenti, Marco Santoro, Vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, ha chiuso i lavori.  











LA LETTERATURA

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CARLO GESUALDO : UNA TRAGEDIA FAMILIARE  

Michele Cataudella

D

ue gentildonne sono emblema della fine del Rinascimento : Maria d’Avalos, moglie di Carlo Gesualdo, il principe dei musici, uccisa in flagranza di adulterio nella notte fra il 16 e il 17 ottobre del 1590, nel palazzo del duca di Torre Maggiore, in piazza S. Domenico, a Napoli, con il suo amante Fabrizio Carafa ; ed Eleonora d’Este, seconda moglie di Gesualdo, ch’egli sposò quattro anni dopo la fine cruenta del primo matrimonio. Subito dopo l’uccisione di Maria d’Avalos e del Carafa, il marito offeso, consigliato dal viceré, conte de Miranda, per sottrarsi alla vendetta delle famiglie Carafa e d’Avalos, si rifugiò nel castello del feudo d’origine, Gesualdo, in Irpinia, dove con pochi, brevi intervalli, sarebbe restato definitivamente. Il 19 ottobre 1590, a soli due giorni dalla tragedia, l’ambasciatore veneto a Napoli così informava il Senato della Serenissima : « Don Carlo Gesualdo […] appostatamente salito martedì alle sei ore di notte con sicura compagnia alla stanza di donna Maria d’Avalos, moglie et cugina sua carnale (la madre era una Gesualdo) stimata la più bella signora di Napoli, ammazzò prima il signor Fabricio Caraffa (sic), duca d’Andria, che era con essa, et lei appresso, di questa maniera vendicando l’ingiuria ricevuta […] et se ne sbigottì di molto all’avviso l’Illustrissimo signor Vicerè che amava et stimava infinitamente il Duca ». Sbigottimento e rimpianto che furono però immediatamente messi da parte per ragioni di opportunità sociale e di governo. È ancora dalla relazione dell’ambasciatore che apprendiamo come il Viceré avesse ordinato che tutti i componenti delle tre famiglie, Carafa, Gesualdo, d’Avalos, fossero fermati e custoditi nelle proprie case, in sostanza in preventivi arresti domiciliari, nel timore dello scatenarsi di ulteriori fatti di sangue. Ed il processo, rapidamente intentato, fu frettolosamente e in verità un po’ maldestramente risolto, con sentenza favorevole, pienamente assolutoria, per il Gesualdo. In effetti, il duplice omicidio non aveva, né nelle intenzioni del marito ingannato, né agli occhi di quella società, il senso di un delitto passionale o di un delitto d’onore come risarcimento per chi era stato tradito, bensì era un atto legittimo, con il quale non solo alla famiglia Gesualdo, ma anche alle famiglie d’Avalos e Carafa venivano restituiti dignità ed onore sociale, che quel tipo particolare (ed insolito, o almeno estremamente inopportuno) di relazione adulterina (per intendersi, una relazione in cui anche la donna era sposata e di nobile famiglia) aveva compromesso in modo ormai riparabile solo con il sangue e la morte dei due amanti. Quanto alla fretta maldestra nella gestione del processo, cui si accennava sopra, essa risulta dagli atti, o meglio dalle due copie, quasi identiche, di essi pervenute, da cui appare evidente la pressione esercitata sui testimoni, in particolare su un servitore di casa Gesualdo, Pietro Bardotto, indotto a fornire particolari volti ad accentuare i motivi della grave provocazione, quale l’esistenza di un doppione di chiave che il Carafa avrebbe avuto per entrare in casa Gesualdo. Inoltre, e forse più indicativo, il tribunale non si preoccupa di accertare, ma si limita a prenderne atto, le modalità e le cause della sparizione di un altro testimone-chiave, una cameriera personale della d’Avalos, tale Laura Scala, per la quale si accoglie la “voce” che subito dopo il delitto sia tornata al proprio paese d’origine, mentre sorge il dubbio che sia stata fatta uccidere, in quanto fin dall’inizio complice degli incontri fra i due amanti.  









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michele cataudella

Dal matrimonio tra Carlo e Maria, nel 1588 era nato Emanuele che premorrà al padre, cadendo da cavallo il 20 agosto 1613. La tragedia dell’uccisione di Maria d’Avalos e del suo amante, ispirò nei secoli una tradizione di letteratura che, partita dai contemporanei, attraversa tutto il Seicento, passa per l’Ottocento ed arriva fino al Novecento, secolo nel quale la vicenda viene ripresa anche in film e sceneggiature. Comune a tutti i testi la connotazione malinconica del principe, e quella orrorosa dei fatti. Per tutti cito i precocissimi versi del Tasso, dell’11 novembre 1590 da Roma :  

Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto Di beltà, di virtù l’oscuro occaso E in lutto l’armonia rivolga il canto.

e una novella di Anatole France, che narra come Gesualdo, fatta trucidare la moglie, ordini poi ai servi di gettare il corpo nudo lungo lo scalone del palazzo. Di notte, spente le luci e chiuso il portone, un monaco chiamato per celebrare l’ufficio funebre, giace col cadavere della principessa. Si è detto, quattro anni più tardi, il 21 febbraio 1594, Carlo Gesualdo sposò in seconde nozze Eleonora d’Este, cugina di Alfonso II, duca di Ferrara. Era figlia del marchese di Montecchio, un figlio naturale di Alfonso I, ma presto legittimato. Sua madre una della Rovere, Giulia. Eleonora aveva cinque anni più del marito, nato nel 1566, e il matrimonio era stato voluto particolarmente dal duca Alfonso, che sperava attraverso l’acquisizione di parentela di ottenere l’appoggio di Alfonso Gesualdo, zio di Carlo, il potente cardinale decano della famiglia, dai più indicato allora come “papabilissimo”, affinché la casa d’Este non si vedesse togliere il ducato di Ferrara, destinato ad essere riassorbito dallo Stato della Chiesa qualora mancassero eredi diretti al ramo primogenito estense. Gesualdo ed il suo seguito furono accolti dal conte Alfonso Fontanelli, diplomatico di casa d’Este, il quale ci ha lasciato una descrizione per brevi tratti, ma molto connotativi sia del carattere fisico, che dell’apparenza psicologica del principe, dei suoi modi e dei suoi gusti. Scrive : « Il Principe se bene a prima vista non ha presenza di quello ch’è, si fa però, di mano in mano più grato, et io per me mi compiaccio sufficientemente dell’aspetto suo. Non ho visto la vita perché porta un palandrano lungo quanto una robba da notte, ma dimane credo sarà vestito gaiamente. Ragiona molto et non dà segno alcuno, se non forse nell’effige, malenconico. Tratta di caccia e di musica, et si dichiara professore dell’uno et dell’altra. Sopra la caccia non s’è esteso meco più che tanto, perché non ha trovato da me troppo rincontro, ma della Musica m’ha detto tanto ch’io non ne ho sentito altretanto in un anno intiero. Ne fa apertissima professione et espone le cose sue partite a tutti per indurli a meraviglia dell’arte sua […] » e ancora « […] di aspetto poco imponente piuttosto accigliato, meridionalmente, e pieno d’affettazioni di grandezza e di galanteria di gusto spagnolesco », dove sono rappresentate una certa goffaggine fisica, vanità, molta loquacità e solo nell’espressione del volto è intravisto il carattere melanconico poi sempre attribuitogli. Anche il secondo matrimonio sarà molto infelice e l’unico figlio nato dalla coppia, Alfonso, morrà a cinque anni, nel 1600. Eleonora, che vive in una solitudine esasperante nel castello e tormentata dalla sordida avarizia del consorte, si ammala di nevrosi melanconica ed apprende dal marito una fede ossessiva, disperata, in maghi e fattucchiere, una fede che l’accompagnerà per il resto dei suoi giorni, anche quando, rimasta vedova, tornerà nella terra natale, a Modena, fuggendo dal freddo spaventoso dell’Irpinia e dai rapporti con la famiglia del marito. Nel 1603 Carlo, a causa di un avvelenamento organizzato da una sua concubina, Aurelia d’Errico, con la complicità di una strega locale, poculi amatori di mestruo, resta per un anno sospeso tra la vita e la morte, ma si salva e vivrà ancora  









carlo gesualdo: una tragedia familiare

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nove anni, nei quali lavorerà e produrrà intensamente. Morirà l’8 settembre 1613, pochi giorni dopo la morte del primo figlio, Emanuele. Le vicende di Maria d’Avalos e di Eleonora d’Este possono ben rappresentare la fine della cultura rinascimentale, una cultura dell’armonia e dell’equilibrio, e il principio di una nuova cultura, della disarmonia e dello squilibrio, e Carlo Gesualdo fu il personaggio particolare che costituì il clima della famiglia e in qualche modo il carattere delle sue mogli. Nello stesso anno delle seconde nozze pubblica il Primo e il Secondo libro dei Madrigali, ma sono il Terzo e il Quarto libro dei Madrigali, pubblicati nel 1595, a rompere con gli schemi petrarcheschi, costruiti sull’armonia di testo musicale e parola, e a segnare l’abbandono del vincolo del testo poetico e dello stile classicheggiante del Tasso. Da qui in avanti la sua musica si fonderà sull’inquietudine eretta a sistema, sulla scomposizione tonale e sulla dissonanza ; siamo già in pieno gusto barocco. Nel 1603 pubblica due raccolte di Sacrae Cantiones con testi in latino, nel 1611 pubblica i Responsoria, composizioni scritte per la Settimana Santa, caratterizzate da una tecnica espressiva dove signoreggiano sentimenti commotivi forti, una musica « terrificante e tragica ». E nello stesso anno pubblica anche il Quinto e Sesto libro dei Madrigali, stavolta attraverso la stamperia volante di Giacomo Carlino, ospitata nel castello di Gesualdo. Tutti e sei i libri dei madrigali saranno stampati due anni dopo, nel 1613 ; per la prima volta nella storia della musica, appariranno in partitura sullo stesso testo per più voci. E ancora il Sesto libro dei Madrigali è nuovamente stampato nel 1626, tredici anni dopo la sua morte, a spese di Eleonora d’Este. Nel 1960 Igor Strawinsky, dopo un silenzio durato secoli, nel suo Monumentum pro Gesualdo sottolineerà l’importanza del principe nella storia della musica, ma anche Claudio Abbado, Roberto De Simone e numerosi altri musicisti contemporanei hanno studiato a fondo e tratto ispirazione dai suoi madrigali espressivi e potenti.  







Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, Napoli L’intervento ricostruisce la vita drammatica delle due mogli di Carlo Gesualdo anche attraverso la narrazione del clima familiare e della natura umana e psicologica di Maria d’Avalos, prima moglie del ‘principe dei musici’, e di Eleonora d’Este, sua seconda moglie, due caratteri femminili al tramonto del xvi secolo. This essay tells about the dramatic life of Carlo Gesualdo’s two wives, partly by narrating the family life and the human and psychological nature of Maria d’Avalos, the first wife of the “prince of musicians”, and Eleanor of Este, his second wife, two female figures at the sunset of the xvi century. Travail de reconstruction de la vie dramatique des deux femmes de Carlo Gesualdo également à travers la narration du climat familial et de la nature humaine et psychologique de Maria d’Avalos, première femme du “prince des musiciens”, et d’Éléonore d’Este, sa deuxième femme, deux caractères féminins de la fin du xvi siècle. La ponencia reconstruye la dramática vida de las dos esposas de Carlo Gesualdo, incluso a través de la narración del clima familiar y de la naturaleza humana y psicológica de Maria de Ávalos, primera esposa del “príncipe de los músicos” y de Leonor de Este, su segunda esposa, dos personalidades femeninas de finales del siglo xvi. Dieser Beitrag rekonstruiert das dramatische Leben der beiden Ehefrauen von Carlo Gesualdo auch durch die Erzählung des familiären Klimas und der menschlichen und psychologischen Natur der Maria d’Avalos, erste Ehefrau des „Prinzen der Musiker“ und Eleonora d’Este, seiner zweiten Ehefrau, zwei weibliche Charaktere zum Ende des xvi. Jahrhunderts.

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LE « TRAME » AL FEMMINILE  



Matteo Palumbo 1.

L

a parola « trama » presente nel titolo del mio intervento deve essere interpretata alla lettera. Richiama precisamente il fare poetico, l’atto di tessitura con cui colei che scrive combina le parole, le intreccia una con l’altra e le organizza in un testo. Attraverso la discussione di un caso emblematico, cercherò di riflettere sui modi con cui si rivela la lingua poetica di una donna. Il caso cui mi riferisco è notissimo. Protagonista è Isabella di Morra, diventata, nell’immaginario storico e letterario, il simbolo di una vittima del potere familiare : un potere che ignora passioni, desideri, sentimenti, e che annienta ogni insubordinazione alla propria legge. Ha osservato Maria Antonietta Grignani che la fortuna di cui ella ha goduto come poeta è stata sicuramente assai maggiore di quella toccatale in vita, e anzi si può facilmente sostenere che « sfortunatissima nella vita, Isabella di Morra lo è stata molto meno post mortem ». 1 Per quanto riguarda la sua biografia, essa è stata raccontata nel 1929 da Benedetto Croce, che per primo, dopo la riesumazione tentata da Angelo De Gubernatis venti anni prima, riproponeva le rime di Isabella ai lettori moderni, anteponendo alla loro edizione la vicenda luttuosa di colei che le aveva composte, condannata, come un’eroina precocemente romantica, a un destino di amori interdetti o di affetti invano desiderati e inesorabilmente perduti. Tale vicenda sembrava appartenere, come un esempio perfetto, a quel ciclo delle « vite romanzesche » che, come lo stesso Croce commenterà trasferendo successivamente le sue pagine dalla « Critica » (dove originariamente esse erano apparse) alla raccolta del 1935 Vite di avventure, di fede e di passione, potevano « appagare l’immaginazione, che si diletta dello straordinario e inaspettato, senza perciò deludere le richieste della seria intelligenza storica ». Come ha scritto il più recente editore della poesia di Isabella di Morra, Tobia Toscano, il « Croce stesso mise in riga, sulla scorta di documenti d’archivio e di riferimenti bibliografici cinquecenteschi, la storia in maniera definitiva, tanto che gli studiosi successivi niente di nuovo hanno potuto aggiungere ». 2 Le notizie che si potevano ricavare intorno alle sue disgrazie e alla famiglia da cui proveniva erano tratte da un libretto intitolato Familiae nobilissimae de Morra historia, composto da Marco Antonio de Morra, nipote di Isabella, e apparso a Napoli nel 1629. 3 Era il primo sguardo gettato su un mistero e nasceva dal tentativo di dare consistenza a una voce che si presentava senza corpo, riportando i versi superstiti all’intrico di passioni e  

























1   Maria Antonietta Grignani, Per Isabella di Morra, « Rivista di Letteratura italiana », ii (1984), 3, p. 519. Sull’edizione vedi le osservazioni di Franco Vitelli, Sul testo delle « Rime » di Isabella di Morra, in *I Gaurico e il Rinascimento meridionale, a cura di Alberto Granese, Sebastiano Martelli e Enrico Spinelli, Salerno, Centro di studi sull’umanesimo meridionale, Università degli studi di Salerno, 1992, pp. 445-63. L’edizione della Grignani è stata successivamente ripubblicata come volume a sé : Isabella di Morra, Rime, a cura di Maria Antonietta Grignani, Roma, Salerno Editrice, 2000. Per un quadro recente sulle prospettive di lettura intorno alla poesia di Isabella di Morra cfr. Isabella Morra fra luci e ombre del Rinascimento. Sondaggi e percorsi didattici, a cura di Isabella Nuovo e Trifone Gargano, Bari, Graphis, 2007. 2   Tobia R. Toscano, Introduzione a Diego Sandoval di Castro, Isabella di Morra, Rime, a cura di Tobia R. Toscano, Roma, Salerno, 2007, p. 50. Da questa edizione saranno tratte le citazioni dalle poesie. 3   Se ne veda la ripubblicazione, con il commento di Brunella Carriero, per le Edizioni del Labirinto, Matera, s.a.  









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matteo palumbo

alla violenza dei casi che quei versi avevano in qualche modo generato. La ferocia di quanto era accaduto finiva inevitabilmente per rimbalzare sui testi e anzi tendeva, quasi fatalmente, a sovrapporsi alla loro dizione, caricandoli di un peso forse anche eccessivo. Le informazioni contenute in quel volumetto di cronaca familiare, e che Croce riprende si possono riassumere in pochi dati. Di Isabella, nata nel 1520 e morta nel 1546, si dice, a convalida della fama che la sua poesia le aveva guadagnato cent’anni dopo la morte, che « in disciplinis et scientiis [...] mire profecerat, sexumque superando poesiae presertim celebre nomen sibi in finitimis remotisque regionibus comparaverat », allegando come prova che « nonnullae compositiones hetrusca lingua adhuc in volumine poetarum diversorum leguntur ». Le indicazioni più ghiotte vanno al di là di questa veloce notazione sul « poesiae presertim celebre nomen », conquistata « superando sexum » : osservazione che è la spia di una valutazione misogina che la storia recente aveva già ampiamente infirmato. Gli elementi più vistosi non sono naturalmente quelli che rinviano genericamente al sapere quanto quelli che si riferiscono all’esistenza privata. È in questa sfera che ritroviamo l’evento che più di ogni altro condiziona la genesi dei suoi versi : nel senso che ne definisce il tema principale, destinato a permanere come il motivo quasi esclusivo. Nel 1528 il padre di Isabella, Giovan Michele de Morra era costretto a fuggire per l’appoggio offerto ai Francesi contro Carlo V. Egli trovò, a somiglianza di altri grandi intellettuali profughi come Luigi Alamanni su tutti, accoglienza presso la corte di Francesco I e lì restò anche quando l’ostilità imperiale nei suoi confronti si era placata. Da questa lontananza dipende lo sviluppo della vita di Isabella. Nella solitudine del castello in cui viveva con la madre e con i fratelli, l’unico legame che ella continuava a mantenere con un mondo esterno e diverso era costituito da un precettore. Questi forniva i rudimenti culturali ai fratelli e rappresentava presumibilmente l’unico interlocutore a cui potesse far ascoltare i suoi versi. Il pedagogo in questione diventò l’intermediario tra la giovane poetessa e il nobile Diego Sandoval di Castro, feudatario di Cosenza fuggiasco per ragioni politiche, che occupava di tanto in tanto un castello in cui dimorava stabilmente la moglie con i figli e che era poco distante da quello di Isabella. Anch’egli era un poeta, accusato dall’intolleranza municipale del Lasca di fare « al Petrarca la bertuccia », e invece petrarchista « garbato e soave » 1 secondo il giudizio di Croce, « e tuttavia – secondo il giudizio di chi lo ha studiato più a fondo – non chiuso al tentativo di rinnovare le forme e anche di arricchire il lessico ». 2 Questa disposizione letteraria probabilmente favorì un principio di sodalizio con Isabella, 3 a cui inviò lettere e rime con l’aiuto del precettore e facendosi scudo del nome della moglie. Le lettere furono tuttavia intercettate dai fratelli di Isabella, i quali uccisero sia il maestro sia la sorella, e, qualche mese dopo, portando a compimento la loro vendetta, in un agguato meticolosamente predisposto, giustiziarono anche Diego Sandoval di Castro. Questi in breve i fatti della cronaca. Non stupisce che la solitudine di Isabella, il conflitto tra il desiderio di evasione e l’ostilità dei luoghi e della Fortuna, i risvolti drammatici della sua morte, l’abbiano trasformata, nel corso del tempo e fino all’immaginario moderno, in una maschera tragica, simbolo dell’opposizione tra ragioni del cuore e legge spietata del mondo. C’è stato chi ha ripercorso i vari modi con cui la figura di Isabella è  































1   Benedetto Croce, Isabella d Morra e Diego Sandoval di Castro, in Vite di avventure, di fede, di passione, Bari, Laterza, 1935, p. 296. Sulle indagini svolte da Croce cfr. Pasquale Montesano, Isabella di Morra. Storia di un paese e di una poetessa, presentazione di Franco Vitelli, Matera-Roma, Altrimedia, 1999. 2   T. Toscano, Introduzione, cit., p. 32. 3   Per possibili « interferenze poetiche » tra l’uno e l’altro dei due canzonieri superstiti cfr. F. Vitelli, Sul testo delle « Rime » …, cit., pp. 454-56 e soprattutto il confronto sistematico compiuto nel commento da T. Toscano.  







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stata trattata, diventando, di volta in volta, un’immagine edificante, un’eroina « misticoromantico-erudito-paganeggiante », l’antesignana di un bovarismo fatto di noia e di fastidio, o perfino « un santino femminista », e addirittura una masochista. 1 Dominique Fernandez, a sua volta, ha innalzato la sua vicenda a esponente dell’intero universo meridionale : « Non manca nulla : né il tormento di vivere in una terra ingrata e sterile ; né la sete di brillare in una società meno rustica ; né lo sfavillio del talento ; né il riscatto di sangue pagato all’originalità ; né il ricorrere allo straniero che passa per caso ; né il miraggio dell’emigrazione [...] ; né la ferocia maschile, sempre in agguato per custodire la virtù delle sorelle ; né il “delitto d’onore”, cioè la gelosia incestuosa travestita da difesa della famiglia, né l’intima voluttà d’una umiliazione senza limiti ». Con il de Mandiargues che a lei si ispira, Isabella si trasforma in « eroina allucinata, arsa da volontà di sfida e di epica autodistruzione », decisa ad « affermare (come leggiamo nella nota di presentazione della traduzione italiana dell’opera) la sua inquietante diversità ; ad imporre una sua dignità morale, non senza solennità e durezza, sulla forza barbara dei fratelli assassini ». 2 Tale è dunque la mitologia che si intreccia tenacemente al vissuto e lo eleva a componente ineliminabile della stessa produzione lirica, convertita a eco dolente di una oltraggiata realtà, con cui inevitabilmente essa andava confrontata. Indipendentemente dalle ragioni biografiche, e anzi, come abbiamo visto, prima che queste fossero universalmente note, la circolazione di Isabella come poeta comincia molto presto, a pochi anni dalla sua morte (Croce suggerisce che la diffusione sia stata avviata da coloro che rovistarono nel castello alla ricerca di indizi processuali tra le carte residue), e registra la prima apparizione nella raccolta delle Rime di diversi illustri signori napoletani e d’altri nobilissimi intelletti, curata da Ludovico Dolce e stampata dal Giolito, pubblicata prima nel 1552 e poi, con aggiunte e integrazioni, nel 1555. 3 Tributario di questa silloge sarà il corpus poetico compreso nell’antologia tutta al femminile uscita a Lucca nel 1559 e curata da Ludovico Domenichi con il titolo di Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne, 4 quasi conclusivo omaggio a una moda cominciata vent’anni prima con le rime di Vittoria Colonna e ormai – come ha ricordato Dionisotti – da un punto di vista commerciale già in fase declinante. 5 Il vertice di questa circolazione è comunque ovviamente segnato dall’interessamento di Croce e dalla valutazione che egli dava di questa che a lui sembrava un’esperienza specifica all’interno della grande omologazione petrarchista. Ragionando sui caratteri propri dei versi di Isabella, Croce ne celebrava « la loro prima attrattiva » nel « carattere personale » che essi manifestavano e « nel non vedervisi segno alcuno di esercitazione o bellurie letteraria ». 6 L’artificio, l’esibizione di una tecnica formale esclusivamente autoreferenziale, l’ossequio a criteri poetici e retorici strettamente codificati, sembravano attenuati dall’emersione di un sentimento individuale, capace di trovare la propria strada espressiva e di manifestare la propria umanità.  



















































1   Il « mito » di Isabella è stato ricostruito nelle sue tappe principali da Gina Labriola, nella nota alla traduzione italiana del dramma di Pieyre de Mandiargues (Venosa, Osanna, 1990). Per queste citazioni p. 71. 2   Ibidem. 3   Sulla tipologia e sul senso culturale delle pubblicazioni di raccolte antologiche cfr. soprattutto Amedeo Quondam, Petrarchismo mediato, Roma, Bulzoni, 1974 e Roberto Fedi, La memoria della poesia, Roma, Salerno, 1990, in particolare p. 45 sgg. 4   Sui criteri ideologici sottintesi all’operazione di Domenichi cfr. Marie Françoise Piejus, La première anthologie de poèmes féminins : l’écriture filtrée et orientée, in *Le pouvoir et la plume : incitation, contrôle et répression dans l’Italie du xvie siècle, Paris, Université de la Sorbonne nouvelle, 1982, pp. 193-213 (su Isabella vedi in particolare pp. 206-9). 5   Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 238-39. 6   B. Croce, Isabella d Morra e Diego Sandoval di Castro, cit., p. 312.  







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Se è vero che a Croce l’intera categoria della poesia femminile appare contrassegnata da « immediatezza passionale » e « abbandono al sentimento », che costituiscono le sue migliori virtù, è anche vero che essa trova il proprio « limite » in questi stessi identici impulsi. L’ « immediatezza passionale » e l’« abbandono al sentimento », che permettono di sfuggire alle secche del formalismo, inquinano infatti la purezza della parola e la trattengono troppo vicina alle affezioni dell’anima. Condizionata da questa ipoteca, per Croce la poesia femminile « finisce con l’aderire pienamente alla vita vissuta senza salire alla superiore contemplazione e all’alto rasserenamento ». Il risultato raggiunto da Isabella sembra comunque sottrarsi a questa minaccia, giacché « la giovane donna, che soffriva e desiava e sognava e si dibatteva in quel selvaggio angolo della Basilicata, e aveva nel cuore l’anelito alla bellezza dell’arte, più volte si solleva sull’empito degli affetti e rappresenta da poeta ». 1 In questo senso la qualità trascendentale della poesia sarebbe salva ; Isabella godrebbe dei vantaggi del proprio « essere donna » senza patirne i più ricorrenti intralci.  

































2. Possiamo accontentarci di queste soluzioni ? Possiamo sostituire « l’interesse per le biografie increspate » (Isabella di Morra appunto, oppure, per altre ragioni, Veronica Franco e Gaspara Stampa) alla « oggettualità degli scritti » ? 2 Possiamo escludere pregiudizialmente dal campo della poesia femminile « le virtù tradizionalmente maschili di razionale impiego della cultura e di controllo stilistico » ? 3 Le risposte evidentemente non possono che essere fornite da una analisi ravvicinata, che illumini le opzioni testuali e ne verifichi la ricchezza semantica, riconoscendo nella singola protagonista le tracce che la collegano o la allontanano dal grande sistema della tradizione lirica cinquecentesca. 4 Intorno alla assai esigua produzione di Isabella di Morra che ci è pervenuta (in tutto 10 sonetti e tre canzoni) il primo problema critico da porre riguarda l’organizzazione di questi componimenti e il modo con cui essi si sarebbero disposti in una struttura globale. In altri termini : allo stato attuale delle nostre conoscenze e sulla base dei testi in nostro possesso, è lecito scorgere nelle loro relazioni reciproche il disegno unitario di un canzoniere, 5 sulla falsariga di quello di Petrarca, oppure bisognerà pensare a una semplice addizione di rime, in cui la persistenza dei temi non implica necessariamente connessioni metriche, figurali o lessicali ? 6 Se pure è possibile rintracciare « le potenzialità di un canzoniere che avrebbe seguito il modello petrarchesco, almeno a grandi linee », 7 va detto che il rapporto coinvolge soprattutto grandi partizioni strutturali (temi mondani e rime spirituali), senza imporre un legame vincolante nella consecuzione progressiva dei componimenti. Se cioè sono visibili alcune derivazioni dal modello dei Rerum vulgarium fragmenta, manca tuttavia quella volontà costruttiva che attraverso connessioni di trasformazioni o di equivalenza (per riprendere le due classi postulate da Marco Santagata) stabilisca una legge di necessità nella successione dei testi. Assai opportunamente Toscano parla della  

























1   M. A. Grignani, Per Isabella di Morra, cit. p. 524, a proposito di un altro passaggio, molto simile per la struttura sintattica a questo citato da noi, osserva : « Colpito dalla freschezza del documento, a un certo punto il Croce diventa quasi imitatore stilistico del presunto animo femminile e si abbandona a un pezzo di scrittura partecipe, segnata da un ductus francamente (e insolitamente) paratattico ». 2 3   Ivi, p. 525.   Ibidem. 4   Sul concetto di tradizione nel petrarchismo cfr. soprattutto Amedeo Quondam, La lirica e la tradizione, in Il naso di Laura, Modena, Panini, 1991, pp. 13-44. 5   Una sintesi sulla tipologia e sulla storia del termine nella lirica italiana è in Guglielmo Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in *Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1984, iii 1, pp. 504-18. 6   Sulla forma-canzoniere e sulle sue caratteristiche cfr. Marco Santagata, Dal sonetto al canzoniere, Padova, 7   M. A. Grignani, Per Isabella di Morra, cit., p. 526. Liviana, 1979 (2 ed. 1989).  





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« struttura ‘aperta’ di un organismo poetico incompiuto per violenti cause esterne e le cui reali proporzioni ancora ci sfuggono ». 1 Il primo elemento macrostrutturale che si impone è la netta divisione in due distinte forme metriche, che corrispondono anche a due diversi contenuti. Mentre infatti tutti i sonetti ad eccezione del x, che funge da cerniera tra i vecchi e i nuovi argomenti, hanno un referente per così dire laico, umano, le canzoni, dopo un’allocuzione alla Fortuna introduttiva alle altre due, hanno un interlocutore divino, prima Cristo, e poi, in chiara analogia con l’epilogo del Canzoniere petrarchesco, la stessa Maria. Le simmetrie con l’archetipo si rivelano ancora più forti se si considera il sonetto iniziale : I fieri assalti di crudel Fortuna. Questo componimento ricopre un ruolo decisamente programmatico, e lo fa esponendo in concentrata sequenza : a) l’oggetto del canto e la condizione del soggetto (prima quartina) ; b) l’obiettivo che egli insegue (seconda quartina) ; c) la speranza della gloria, raggiunta con l’anima post mortem (le due terzine). I collegamenti intertestuali con Petrarca sono visibili a più livelli. 2 Isabella impiega lemmi e sintagmi troppo scoperti per non richiamare la loro matrice e per non essere identificati come vere e proprie tessere esibite alla memoria dei lettori. Se il petrarchismo, come hanno più volte affermato in studi ormai classici Giulio Ferroni e Amedeo Quondam, è « per eccellenza il sistema della ripetizione basato sulla citazione », Isabella condivide pienamente l’appartenenza a una tale pratica combinatoria e la applica in tutta la sua produttività. Si registrano così espressioni canoniche come « verde etate » (che richiama il primo verso del sonetto petrarchesco cccxv Tutta la mia fiorita e verde etade nonché il celeberrimo attacco di una ottava di Poliziano Nel vago tempo di sua verde etade) oppure « alma sciolta » (che rinvia – come hanno indicato Luigi Baldacci prima e Maria Antonietta Grignani dopo – alla parola rima della sestina petrarchesca Anzi tre dì creata era alma in parte). Ancora più indicativa è la consonanza tra il verso 7, « e spero ritrovar qualche pietate », con lo « spero trovar pietà, non che perdono » del i sonetto del Canzoniere. In questo caso l’identità della formula rinvia non solo alle finalità consolatorie dell’atto poetico, ma richiama globalmente la medesima funzione strutturale, preliminare e dichiarativa che in entrambi i casi il sonetto proemiale possiede rispetto a tutti gli altri. La mediazione di Petrarca si estende diffusamente anche al modo formale di costruire l’enunciato. La « tendenza a conformarsi in pluralità », soprattutto nel senso della « dualità », ma anche in quello dell’accumulazione e della moltiplicazione in più membri, è un tratto ricorrente dell’usus scribendi di Isabella. L’articolazione del verso in un bimembre perfetto trova immediati riscontri e non lascia dubbi sull’origine stilistica di questa procedura. Nel sonetto in esame registriamo due nitide occorrenze (v. 4 : « Degno il sepolcro, se fu vil la cuna » ; v. 10 : « se non col corpo, almen con l’alma sciolta ») che istituiscono l’opposizione tra una condizione esistenziale miserevole e l’attesa di un riscatto affidato alla permanenza della memoria poetica. Allo stesso modo la presenza di dittologie (« vili ed orride contrade »), oppure l’impiego massiccio di epiteti, disseminati quasi in ogni verso (« fieri assalti », « crudel Fortuna », « verde etate », « sacrata Dive », « alto Re », « saldi marmi ») sanciscono un legame indiscutibile con i più qualificanti moduli stilistici di Petrarca. Né dà minori conferme un sondaggio delle scelte metriche poste in atto. In questo caso come in tutti gli altri a eccezione del iii, la combinazione privilegiata è quella delle rime intrecciate nelle quartine (ABBA),  

























































1

























  T. Toscano, Introduzione, cit., p. 49.   Una registrazione delle presenze di Petrarca in tutta la poesia di Isabella è dovuta a Ruggiero Stefanelli, Il petrarchismo di Isabella Morra, in *Isabella Morra e la Basilicata. Atti del convegno su I. M. (Valsinni, 11 maggio 1975), Matera, Biblioteca di cultura, 1981, pp. 55-75. 2

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mentre nelle terzine si oscilla tra l’adozione di rime alternate (CDC DCD) oppure di rime replicate (CDE CDE). 1 Sono anche in questa circostanza le soluzioni diventate canoniche dopo Petrarca 2 e che sono ampiamente maggioritarie nel Canzoniere. Tutte queste componenti, che possono essere verificate sull’intero arco delle rime, delineano l’ortodossia di Isabella e ne mostrano, sia pure attraverso scarti che la collegano al filone del petrarchismo meridionale, 3 il rispetto delle norme fondamentali del canone classico. L’inflessione esistenziale e personale permane tuttavia visibilmente dominante e non è oscurata da questa volontà di ossequio al Modello. 4 L’attenzione alla vicenda individuale e alla soggettività poetante resta assolutamente riconoscibile e si propone, fin dall’esordio, come il tema assoluto del canto. Nella prima quartina del sonetto iniziale il nesso tra la scrittura e la situazione del proprio vivere si attua in maniera definitiva. Da una parte « i fieri assalti di crudel Fortuna », « la mia verde etate » e « il mio tempo » speso « senza loda alcuna » « ’n sì vili ed orride contrate » ; dall’altro lato lo scrivere « piangendo », assumendo a materia precisamente quegli elementi. I dati del mondo di Isabella sono tutti concentrati in questa concatenazione. La biografia dolorosa, infelice, malinconica da una parte, e, dall’altra, l’espressione della sua asprezza attraverso le parole. La promessa di liberazione è consegnata piuttosto che alla morte (anche se Isabella scriverà « morendo disacerbo l’aspra fortuna », viii, 5-6, echeggiando e parafrasando in altra direzione il petrarchesco « cantando il duol si disacerba ») appunto al canto, ai versi, che sono la via insostituibile « per isfogar la mente ». 5 Rispetto alla esemplarità petrarchesca le radici del destino personale non sono nell’amore, ma unicamente nella lotta con la Fortuna, protagonista inflessibile e arcigna, nemica di ogni pace. La scenografia stilizzata di un « locus terribilis », volta per volta « infelice lito », « denigrato sito », « valle inferna », « ruinati sassi », « orride ruine », « selve incolte », « inferno solitario e strano », diventa, anche qui secondo una linea che trova molteplici controprove in autori di area meridionale come Sannazaro o Tansillo, 6 il correlativo simbolico del sentimento. I luoghi materializzano la Fortuna, ne vidimano la sovranità, acuendo il rimpianto della giovinezza frustrata. Ogni evento, dalla sconfitta del re di Francia all’attesa del ritorno del padre, è subordinato alla sua dura legge, giacché « Fortuna al timor mostra il sentiero, / erto ed angusto e pien di tanti inganni, / che nel più bel sperar poi mi dispero ». Tra l’adeguamento alla tradizione lirica e l’urgenza di queste ragioni non vi è tuttavia differenza, ma un preciso punto di contatto. Il fattore unificante tra questi due poli così distanti, ciò che permette di tenere insieme l’artificiosità del paradigma estetico e la determinazione del destino individuale, è proprio lo stile, vera parola-emblema di una intera tradizione culturale. La sua forma, l’ordine che esso impone, sono infatti il nuovo valore in cui si identifica il soggetto in quanto poeta. È grazie alla parola poetica che la vita si trasfigura, entrando in una mutata dimensione del tempo.  









































































1

  Analogo discorso per le canzoni ; cfr. M. A. Grignani, Per Isabella di Morra, cit., p. 542.   Per indicare in quale modo l’alterazione degli schemi metrici solleciti una attenzione diversa del lettore, conviene ricordare ciò che osserva Fedi a proposito del sonetto viii di Della Casa : « All’interno della sequenza del canzoniere, lo shock opera sul piano metrico (lo schema delle quartine isola il sonetto dagli altri vicini : ABAB. BABA, dopo una serie continua di rime incrociate nel gruppo i-vii, e prima di un’altra serie identica nel successivo ix-xvii » (p. 222). L’adozione di una successione di rime diventa significativamente un tratto pertinente, che agisce come elemento di informazione aggiuntiva. 3   Su questi collegamenti ha insistito con forza Grignani nel commento alle rime di Isabella. 4   Va comunque segnalata la presenza di un lessico che deriva da Dante o anche dal Petrarca dei Trionfi, secondo una tendenza aspra tipica del petrarchismo napoletano. Cfr. il commento di Grignani e le osservazioni di Franco Salerno, Isabella di Morra : il fuoco della seconda vista, Roma, Lo Faro, 1986, passim. 5   Come ricorda Grignani il verso è una citazione dantesca prelevata dalla Vita nuova (Donne che avete intelletto 6   Cfr. M. A. Grignani, Per Isabella di Morra, cit., p. 537. d’amore, v. 4).  

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Non è irrilevante che il primo sonetto insista sul desiderio di una gloria futura, da conquistare con l’aiuto delle Muse (« e col favor delle sacrate Dive, / se non col corpo, almen con l’alma sciolta / essere in pregio a più felice riva »). L’attesa della gloria è un topos frequente in molti sonetti proemiali e costituisce una delle infrazioni più esplicite rispetto al precedente modulo di Petrarca. Rivolgendosi alle Muse, « per cui s’apre Elicona e serra », Pietro Bembo chiede che sia accordato « a lo stil, che nacque de’ miei danni, / viver, quand’io sarò spento e sotterra ». Analogamente Sannazaro commemora il proprio « soave stil », ormai smarrito e costretto « per dolor » « a parlar di sospir sempre e d’affanni » ; una perdita tanto più dolente perché, come egli considera, « col canto sol potea levarmi a vuolo ; / onde con fama et immortal memoria, / fuggendo di qua giù libero e solo, / avrei spinto il mio nome oltra Indo e Gange ». Né fa eccezione a queste voci quella di Gaspara Stampa, che spera di trarre « gloria, non che perdon » dai propri lamenti. Nella maggioranza di questi poeti i due termini (gloria e stile) sono assolutamente reciproci ; come una vera e propria endiadi sembrano corrispondersi necessariamente, e solo un atto consapevole di sfida può interrompere il loro attrarsi. Anche per Isabella il problema si ripropone con gli stessi caratteri. Come si è già visto, lo « stile » indica per lei il punto di mediazione tra il proprio vissuto e la legittimità di rappresentarlo ; esso costituisce la qualità che dà senso al dolore, la cui consistenza è strettamente connessa alla capacità di nominarlo. Si potrebbe ripetere, parafrasando, si parva licet, ciò che Contini ha detto di Petrarca e intendendolo in un’accezione diversa, che il suo romanticismo è la condizione del suo classicismo. 1 Spesso, con un gesto di modestia anch’essa abituale, Isabella richiama l’inadeguatezza del proprio parlare : certo un topos, ma anche un riflesso dell’impegno e della coscienza delle difficoltà di fronte alla grandezza del compito. Il suo è dapprima « rozo inchiostro », altra volta invece quello stesso poetare è orgogliosamente rivendicato come « stile amaro, aspro e dolente », poi di nuovo è uno « stil ruvido e frale », e infine, nelle elaboratissime canzoni, Isabella ambisce a mostrare, ancora in virtù di « stile », 2 Dio a se stessa, oppure indirizza il proprio « stil » direttamente alla Madre di Dio. Non è senza ragione, nel circolo di tali osservazioni, che Luigi Alamanni, ormai esule in Francia e destinatario di un sonetto encomiastico, sia esaltato come « onor del secol nostro » e sia ricordato come colui a cui « il ciel [...] fu largo e cortese / [...] del raro stil, del ben purgato inchiostro ». La celebrazione dell’uomo fiorentino è mirata, riferita a un lato preciso della sua fisionomia intellettuale. Non è certo il profilo politico che attira interesse. Di Alamanni, che rappresenta per Isabella il legame con la Francia e con il suo Re, atteso e desiderato benefattore, si elogia certo la grandezza e nobiltà del soggetto ispiratore (« Francesco è l’arco de la vostra lira, / per lui sète oggi a null’altro secondo »), ma, contemporaneamente, si ribadisce che è ancora lo stile, l’abilità poetica, ciò che gli consente di pretendere l’immortalità (« e potete col son rompere i marmi »). In realtà Alamanni, con l’edizione francese delle Opere toscane, si situava proprio all’interno di una corte protesa a « fondare o rifondare – ha scritto Giancarlo Mazzacurati – una tradizione e una cultura alta, linguisticamente centralizzata e formalmente autorevole », « concentrando intorno ai luoghi e agli emblemi regali laboratori e scuole di poetica, di tecniche metriche e prosodiche, di stili ornati, di linguaggi classicamente ovvero retoricamente  























































































1   Gianfranco Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, p. 175. 2   Per considerazioni intorno allo « stile » a cui Isabella si richiama cfr. Nunzio Rizzi, « E donna son, contro le donne dico » : il canzoniere di Isabella di Morra, « Carte italiane », 1 (17), 2001, p. 23.  

   









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attrezzati ». Egli si mostrava intenzionalmente « maestro di una nuova cultura delle forme ». 2 Il tempestivo omaggio di Isabella sembra, tra cause più vicine e spinte interessate, apprezzare esattamente questa esibizione di grande maestria e isolarla come un culmine dentro una comune esigenza. Alamanni è il modello di un destino poetico di eccellenza, raggiunto attraverso la perfezione del linguaggio e la dignità della forma. Sono appunto questi i requisiti a cui affidare la dicibilità e la legittimità estetica del proprio privato. Anche nell’« isolamento più totale » Isabella appare perciò « perfettamente al corrente del valore rituale e sociale dell’esercizio letterario » e consuma nella solitudine il « sogno cortigiano » 3 di appartenere a pieno titolo alla comunità culturale a lei contemporanea. 1



















3. Svuotata dunque di un rapporto troppo vincolante e immediato con la propria vita, la poesia di Isabella sembra attuare piuttosto quell’« autobiografismo trascendentale » che Contini riconosceva in Petrarca. In tal senso la stessa svolta religiosa, che conclude la raccolta nella precaria e incompiuta silloge che noi possediamo, si qualifica come l’occasione per una nuova, più ardua impresa poetica. Nel sonetto Scrissi con stile amaro, aspro e dolente Isabella indica l’abbandono della sua rivolta lirica (esattamente nel senso tecnico di « rivolta espressa attraverso la lirica ») contro la Fortuna e denuncia il pentimento del proprio « cieco error », giacché « in tai doti [l’alma] non scorge gloria alcuna ». Ora piuttosto essa « spera arricchirsi in Dio chiara e lucente » : « Scrissi con stile amaro, aspro e dolente / un tempo, come sai, contra Fortuna, / sì che null’altra mai sotto la luna / di lei si dolse con voler più ardente. / Or del suo cieco error l’alma si pente, / che in tai doti non scorge gloria alcuna, / e se de’ beni suoi vive digiuna, / spera arricchirsi in Dio chiara e lucente ». Così, dopo i « toni tasseschi » e « le suggestioni leopardiane » di cui ha parlato Baldacci 4 a proposito della canzone alla Fortuna (Poscia che al bel desir troncate hai l’ale), che riconduce in primo piano i temi legati alla dimensione privata, le canzoni affrontano la rappresentazione indicibile della divinità, il problema cioè « ov’ogni ingegno s’affatica invano ». Se la requisitoria contro la Fortuna serviva a « isfogar la mente », allo stesso modo « ritrarre in versi il tuo [di Cristo] bel volto umano » non ha altro obiettivo che « disfogare i desir miei ». Non sono dunque cambiate le ragioni dell’affabulazione, e tuttavia, nell’impervio cimento che ora affronta, Isabella sembra dover accentuare i suoi sforzi, mettendo in atto ogni risorsa. L’impegno di avventurarsi « nel mar de la beltà di Dio » è « folle » (come è esplicitamente riconosciuto), e tuttavia la sfida più grande è proprio legata alla volontà di pervenire a descrivere l’ineffabile. Dal punto di vista propriamente compositivo i legami con la canzone finale del Rerum vulgarium sono evidenti. 5 Dell’esempio petrarchesco si ripete la costruzione anaforica (il nome « Signor » all’inizio di ogni stanza 6) e in accorto e implicito rinvio si riprendono,  





























































1   Giancarlo Mazzacurati, 1528-1532 : Luigi Alamanni tra la piazza e la corte, in *L’écrivain face à son public en France e en Italie à la Renaissance, Actes du colloque International (Tours, 4-6 Décembre 1986), a cura di Charles 2   Ivi, p. 62. Adelin Fiorato e Jean-Claude Margolin, Paris, Vrin, pp. 59-60. 3   Nicola De Blasi, Alberto Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in *Letteratura italiana, Storia e geografia, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1988, ii 1, p. 312. 4   Lirici del Cinquecento, a cura di Luigi Baldacci, Milano, Longanesi, 1975, p. 487. 5   Sulle canzoni religiose, e più in generale sull’uso del modello petrarchesco da parte di Isabella, cfr. il magistrale intervento di Franco Tateo, Le rime religiose di Isabella Morra, in *Isabella Morra e la Basilicata, cit., pp. 39-53. 6   « Isabella ha sfruttato il medesimo espediente emotivo della ripetizione trasferendolo al Cristo, e nel ridurne la funzione, non dirò nel banalizzarla, in quanto si arrestava allo scarno e consueto vocativo della preghiera (Signore), laddove Petrarca in un crescendo laudativo sviluppava la figura spirituale della Vergine (Vergine bella, vergine saggia, vergine pura, vergine chiara), assorbiva tuttavia l’impianto celebrativo del componimento del Petrarca sostituendo all’immagine evanescente dell’anima della Vergine descritta nelle sue qualità cui simbolicamente vengono attribuite altrettante funzioni nell’ordine soprannaturale, l’immagine tangibile della figura umana di Cristo anch’essa assunta a simbolo di altrettante funzioni dell’esperienza mistica » (ivi, p. 44).  





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quasi cifre allusive, parole-rima cruciali, care sempre a Petrarca ma in posizione di rilievo proprio nella Canzone alla Vergine. È il caso dei lemmi « guerra-terra », che Petrarca impiega in denso richiamo fonetico e semantico come rima interna, e che Isabella riprende e collega esplicitamente. Laddove tuttavia Petrarca caricava di risonanze esistenziali il connubio (« soccorri a la mia guerra / bench’ i’ sia terra, e tu del ciel regina »), Isabella, ripetendo l’alternanza di settenario ed endecasillabo, allenta la tensione in un enunciato per così dire impersonale e referenziale, privo di ogni coinvolgimento emotivo (« scendesti ad abitar la bassa terra / e a tor l’uom di guerra »). La tessitura delle rime contribuisce ad arricchire la preziosità del discorso. Isabella procede attraverso impercettibili variazioni di parole foneticamente assai vicine, che risultano spesso quasi omofone (fronte-fonte, mostra-nostra, fore-core), fa un discreto ricorso a rime equivoche (« sole » sostantivo vs « sole » aggettivo, « rei » sostantivo vs « rei » in funzione attributiva), impiega l’annominatio (luce-riluce) oppure rime a eco (stelle-elle, bocca-trabocca). Risultati sostanzialmente differenti non sono dati dall’analisi della seconda canzone (Quel che gli giorni a dietro), a conferma della profondissima affinità tematica ma anche retorica che le congiunge. Compaiono anche in questo caso rime a eco (salma - alma, ombra - ingombra, tardo - ardo, rimira – ira, felice – lice, fino all’ardita e quasi conclusiva rima Dio – io, che riprende Dio – mio della canzone precedente) ; si registrano squisite annominatio (secure-cure), ricercate allitterazioni (e ’l fral mio vel di roze veste velo), rime ricche (spedita-addita), parole contigue foneticamente (velo-zelo). In entrambi i testi, ma questo è forse un discorso che potremmo estendere al progetto globale di Isabella, la questione fondamentale si concentra sulla dignità dello stile. Anche per lei, come per altri intellettuali della sua generazione, è questo il nodo di tutti i problemi, il punto di approdo del loro lavoro. La materia dell’esperienza, che pure entra così vistosamente nella sua opera, è solo l’abbrivo di un cammino che porta verso la nobiltà dell’espressione. È questo il sigillo che autorizza quel contenuto e che consente veramente di parlare. La conquista della parola da parte di un poeta come Isabella richiede, come lasciapassare, la sicurezza della forma adottata, il prestigio delle sue soluzioni, la fiducia nella sua classicità e permanenza. Lo « stil ruvido e frale » può perciò essere inteso solo in senso rovesciato, come aspirazione necessaria a un alto stile, eletto e duraturo, che assimili totalmente il modello, fino a spingersi a « entrare in gara » con esso e « sviare le tracce del processo imitativo »: 1  









































Per molte poetesse [...] il petrarchismo costituirà un modo di entrare in un universo letterario fino ad allora rigorosamente maschile : e il fatto andrà studiato [...] come un vero e proprio esempio di apertura di credito sociale operata attraverso la semplice assunzione di un codice a quel punto talmente trasparente e di grado zero da perdere ogni connotazione antropologica. 2  

Oltre le differenze tra maschile e femminile, il dato che conta è la tensione verso quello stile che rende dicibile la vita e l’esperienza. Adottando le ricchezze che esso offre, il singolo individuo guadagna il diritto alla parola. Ritrova, nello stesso tempo, una comunità di soggetti conformi, con i quali condivide una uguale capacità di creazione artistica. Una tale prerogativa è la garanzia della loro affinità. Il legame di Isabella con Diego Sandoval di Castro, al di là di qualunque interferenza biografica, si fonda probabilmente sulla scoperta 1   Ivi, p. 48. In tal modo potrebbero essere spiegate le infrazioni vistose delle rime sdrucciole « cenere : tenere : Venere », assolutamente estranee al canone petrarchesco. 2   R. Fedi, La memoria della poesia, cit., p. 41. Sui problemi generali di scrittura propri del petrarchismo femminile vedi soprattutto il saggio di Luciana Borsetto, Narciso ed Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento : esemplificazioni ed appunti, in *Nel cerchio della luna, a cura di Marina Zancan, Padova, Marsilio, 1983.  









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di una comune appartenenza. Entrambi si riconoscono membri di un gruppo : parti di quel mondo intellettuale in cui acquistano una nuova identità. In conclusione, le trame al femminile richiamano l’elaborazione poetica di colei che scrive : il lavoro che compie utilizzando le parole della tradizione lirica per raccontare la propria storia. Il caso di Isabella di Morra illustra nel modo migliore questa condizione. La poetessa di un remoto luogo della Lucania, protagonista di una vicenda tragica diventata memorabile e quasi leggendaria, mette in versi il proprio destino di emarginazione, i propri sogni, le speranze di liberazione e di gloria ricorrendo in modo sistematico al lessico di una poesia codificata e riconosciuta. Queste parole sono il mezzo di cui ha bisogno per dare forma alla sua identità. Costituiscono i fili di cui si serve per tessere la propria tela artistica. Il corpus della tradizione diventa per lei, letteralmente, un macrotesto, a cui attingere per mettere in scena la storia del suo io. 1 In questo modo, le Rime di Isabella mostrano la piena coincidenza e la reciproca interrelazione tra soggettività e artificio, tra idioletto e lingua : come se la voce non potesse esprimersi che attraverso il lessico e il codice di cui era stata appena affermata, per la costituzione di una grammatica della poesia lirica, l’insostituibile necessità e il primato estetico.  





Università degli Studi di Napoli “Federico II” La parola « trama » presente nel titolo deve essere interpretata alla lettera. Richiama precisamente la composizione poetica : l’atto di tessere con cui colei che scrive combina le parole, le intreccia una con l’altra e le organizza in un testo. Attraverso la discussione di un caso emblematico, l’intervento illustra i modi con cui si manifesta la lingua poetica di una donna. Il caso che si analizza è notissimo. Protagonista è Isabella di Morra, diventata, nell’immaginario storico e letterario, il simbolo di una vittima del potere familiare. Le Rime raccontano la storia delle sue passioni. Nello stesso tempo, si servono, con piena consapevolezza, del codice della lirica, come si era imposto alla metà del xvi secolo.  





The word « trama » (plot, literally weave) in the title must be taken literally. It actually recalls poetic compositions : the act of weaving, with which she who writes combines words, entwines them together and organises them into a text. By discussing an emblematic case, the paper illustrates the ways in which a women’s poetic language is expressed. The case at hand is extremely well known. The protagonist is Isabella di Morra, who in historical and literary imagination has become the symbol of a victim of family power. The Rime tell the story of her passions. At the same time, they use in full awareness the code of lyric poetry as it had spread in the xvi century.  





Le mot « trame » présent dans le titre doit être interprété à la lettre. Il évoque précisément la composition poétique : l’acte de tisser de celle qui combine les mots, les entrelace l’un à l’autre et les organise en un texte. À travers une réflexion sur un cas emblématique, la communication illustre les modalités de la langue poétique d’une femme. Le cas que l’on analyse est très célèbre. La protagoniste est Isabella di Morra, qui symbolise, dans l’imaginaire historique et littéraire, la victime du pouvoir familial. Les Rime racontent l’histoire de ses passions. En même temps, elles se servent, tout à fait consciemment, du code de la poésie lyrique, comme il s’était imposé à la moitié du xvi e siècle.  





La palabra « trama », presente en el título, tiene que ser interpretada literalmente. Se refiere exactamente a la composición poética : la acción de tejer, mediante la cual quien escribe combina las palabras, las trenza unas con otras y las organiza en un único texto. A través de la discusión de un caso  





1   Toscano parla di « adattamento al proprio vissuto di temi canonici della poesia antica e moderna » (cit. p. 147). Per un riscontro analitico del vocabolario della tradizione lirica attivo nelle rime di Isabella vedi, nelle rispettive edizioni, il commento dello stesso Toscano e le note della Grignani.  



le «trame» al femminile

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emblemático, el estudio ilustra los modos con los que se manifiesta la lengua poética de una mujer. El caso que se analiza, es muy famoso. Su protagonista es Isabella di Morra che en el imaginario histórico y literario se ha convertido en el símbolo de la víctima del poder familiar. En las Rime se narra la historia de sus pasiones. Éstas utilizan, con conciencia, el código de la lírica tal y como se había impuesto a mitades del siglo xvi. Das Wort « trama » im Titel ist nicht im Sinn der literarischen Handlung zu verstehen, sondern wörtlich als Schussfaden oder Trame. Es verweist damit auf die dichterische Komposition : das Verweben von Wörtern, durch das der Dichter einen Text im Sinne eines Gewebes organisiert. Mittels der Diskussion eines emblematischen Falls zeigt der Beitrag die Arten auf, die die dichterische Sprache einer Frau kennzeichnen. Der analysierte Fall ist allgemein bekannt : Es geht um Isabella di Morra, die in der historischen und literarischen Vorstellungswelt zu einem Symbol für das Opfer der Macht der Familie wurde. Ihre Rime erzählen die Geschichte ihrer Leidenschaften. Gleichzeitig bedienen sie ganz bewusst den lyrischen Code, wie er Mitte des 16. Jahrhunderts galt.  







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LA FIGURA FEMMINILE NEL NOVELLINO DI MASUCCIO SALERNITANO Flavia Luise

I

l risveglio otto-novecentesco di Masuccio Salernitano – al secolo Tommaso Guardati – dall’oblio durato quattro secoli ha stimolato l’interesse degli studiosi per il suo scritto – il Novellino –, pubblicato postumo e dopo pochi decenni bandito dall’universo editoriale per la severa condanna dell’Inquisizione romana, che deplorava la scandalosa dissolutezza del testo e i toni anticlericali. 1 Dopo gli studi di storia letteraria e quelli di storia del Rinascimento che hanno ravvivato indagini e convegni promossi dagli anni ’20 fino agli anni ’80 del xx secolo, 2 il campo di lavoro si è spostato verso nuove tematiche storiche come ad esempio quelle di storia della famiglia, fortemente voluta dagli ultimi discendenti del casato, 3 e quelle di storia delle mentalità, che hanno elaborato, attraverso l’analisi di modelli culturali tipici di una società in via di trasformazione, un’originale interpretazione del pensiero politico e sociale degli umanisti napoletani alla corte aragonese. 4 Sul filone di questi lavori si cercherà di offrire attraverso brevi riflessioni sulla figura femminile proposta dal Guardati dettagli insoliti e più sottili del ruolo sociale della donna del Rinascimento meridionale. Scoprire la cosmologia della seconda metà del Quattrocento attraverso i comportamenti femminili studiandone l’organizzazione mentale della realtà è senza dubbio un processo di familiarità con il passato che offre una decodificazione parziale e incompleta della visione del mondo. Eppure i messaggi che la voce narrante del testo ci invia con toni confidenziali e evocativi hanno sollecitato negli studiosi e nei lettori la curiosità di scoprire l’ambiente sociale e culturale della Napoli del suo tempo per meglio comprendere la sostanziale diversità e identità dell’autore con la cultura umanistica. 1   La suggestione dell’opera di Masuccio Salernitano è stata alimentata fin dai primi secoli della sua pubblicazione sia dal ricordo del suo epitaffio ad opera di Giovanni Pontano, De Tumulis, a cura di Liliana Monti Sabia, Napoli, Liguori, 1997 (come ad esempio il giudizio di Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, in Modena, presso la Società Tipografica, mdcclxxvi, t. vi, parte ii, p. 178), sia dalla licenziosità delle novelle stesse (La libreria del Doni fiorentino nella quale sono scritti tutti gl’autori vulgari con cento discorsi sopra quelli, in Venegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari et Fratelli, mdl, pp. 31v.-32 ; Giovan Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli in cui con ordine alfabetico si dà soccinta notizia delle Persone e delle Opere di quelli scrittori che fiorirono nel Regno dalla venuta di Gesù Cristo fino al secolo xvi, in Napoli, nella stamperia del Mosca, t. i, parte ii, pp. 341-342 ; Breve elogio di Masuccio Salernitano in Il Novellino di Masuccio Salernitano in Toscana favella tomo primo[secondo], in Ginevra, mdcclxv, pp. xxi-xxx ; Tommaso Campanella, Ateismo trionfato, overo Riconoscimento filosofico della religione universale contra l’antichristianesmo macchiavellesco, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2004, cap. 12). Le edizioni, ampiamente studiate, furono quasi ininterrotte dal 1476 al 1541, finché il Pontefice non inserì il testo nell’elenco dei libri proibiti. Cfr. Luigi Settembrini, Il Novellino Di Masuccio Salernitano : Restituito Alla Sua Antica Lezione, Napoli, Morano, 1874, p. iii. 2   Leonardo Terrusi, El rozo idyoma de mia materna lingua. Studio sul « Novellino » di Masuccio Salernitano, RomaBari, Laterza, 2005 ; Francesco D’Episcopo, Salerno sulla scia di Alfonso Gatto. Masuccio e l’Ottocento salernitano, Salerno, Il Sapere, 2004 ; Luigi Reina, Masuccio Salernitano : letteratura e società del Novellino, Salerno, Edisud, 2002 ; Riccardo Avallone, Salerno patria di Masuccio, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano, [1993] ; Francesco D’Episcopo, Masuccio e i suoi doppi : per un’antropologia letteraria del Quattrocento meridionale, Salerno, Edizioni Salernitane, 1984 ; Salvatore Nigro, Le brache di San Griffone : novellistica e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento, prefazione di Edoardo Sanguineti, Roma-Bari, Laterza, 1983 ; Atti del Convegno nazionale di studi su Masuccio Salernitano (Salerno, 9-10 maggio 1976), Galatina, Congedo, 1978-1979, vol. 2. 3   I Guardati : storia di una famiglia 1181-1997, [Napoli], Guardati, 2006. 4   Giuliana Vitale, Modelli culturali nobiliari nella Napoli Aragonese, Salerno, Carlone, 2002.  































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Tommaso Guardati, membro di una piccola nobiltà di provincia, è un funzionario fedele alla casa regnante aragonese, cui riconosce il merito di aver portato stabilità e distensione nel paese. Ossequioso verso le famiglie che vivevano all’ombra della monarchia, i Brancaccio, i d’Avalos, gli Altavilla, gli Acquaviva, è particolarmente riservato : pochi gli amici che frequenta nella ristretta cerchia napoletana e fuori del Regno. In quanto discendente per linea materna dall’avo Tommaso Mariconda, cavaliere della regina Margherita di Durazzo, non nutre sentimenti di ostilità nei confronti della precedente dinastia : rifiutandosi di mettere alla berlina e rendere vittime di beffe popolari i cavalieri dell’età di Carlo I, dimostra di non aver cancellato del tutto il mito angioino che prosperava nel ricordo di un’epoca di bontà e di rispetto. 1 Su di lui incide l’ambiente religioso della metà del Quattrocento, dove prevalgono ancora i temi moralistici-oratori medioevali, e quelli letterari della cultura catalana del xiv-xv secolo, 2 in apparente contrasto con l’umanesimo di Giovanni Pontano e Jacopo Sannazaro. Si aggiunge la contraddizione religiosa della coesistenza sul suolo della penisola di cristiani, ebrei e musulmani e quella letteraria della commistione di cultura colta e di tradizione popolare. 3 Nell’opera che ha reso famoso il Guardati non aleggia un’atmosfera da Carmina Burana, bensì quella di camera degli orrori. Il clima di indignatio denunciato dall’autore in chiave anticlericale e misogina è anche riflesso dell’inevitabile rottura dei poteri forti causati dai repentini cambi dinastici avvenuti tra il 1435 e il 1442. I rapporti tra stato e feudatari, tenuti lontano dai giochi del potere nella capitale, confinati nelle loro estese formazioni territoriali, non giovano al processo di integrazione tra indigeni e catalani, che lo sviluppo dei settori industriali, e in particolare quello tessile, incoraggiano allo stanziamento. 4 Lo scontro politico e sociale si sposta sul piano etico. Lo stato di estrema miseria morale che investe la società napoletana in quei tempi si trasferisce secondo il Guardati nel topos della donna, la cui condotta diventa lo strumento per misurare il dilagante malcostume sociale. Celebrata e idealizzata dalla cultura tardo trovadorica per la sua bellezza spirituale, che nobilita l’animo umano, la donna del Novellino è totalmente priva dei canoni classici di quell’epoca. Introdotta con toni satirici e ironici in atmosfere non liriche, vive relazioni amorose vere o fittizie, descritte dall’autore con toni di accentuato realismo tanto da scadere nell’osceno. In ambientazioni terrifiche e provinciali si muovono figure femminili ridotte a semplici oggetto del piacere, alienate da altri o messe in gioco dalla cieca Fortuna. Non sono fedeli Penelope, ma prive di carattere non oppongono rifiuti, né aspirano alla redenzione, che solo in rarissimi casi è concessa attraverso la morte. In realtà, quando il Masuccio scrive la sua opera, nella seconda metà del xv secolo a  



1   Alessandro Barbero, Il mito angioino nella cultura italiana e provenzale tra Duecento e Trecento, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1983 ; Giovanni Vitolo, Il regno Angioino, in *Storia del Mezzogiorno, a cura di Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, IV, Salerno, 1993, pp. 11-86 e in particolare pp. 76-78. 2   Cfr. il repertorio del’antica cultura catalana, ossia l’inventario critico della poesia catalana dei secoli xiv e xv in rete sul sito http ://www.rialc.unina.it/presentazione.htm. Il progetto è stato promosso dal Ministero italiano dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, in corso di realizzazione presso l’Università di Napoli “Federico II” con la collaborazione dell’Universitat Autònoma de Barcelona e dell’Universitat de Girona, e con la partecipazione di studiosi di altre università europee. Nata sul finire della civiltà trobadorica (secoli xii e xiii), la cultura letteraria catalana del tardo Medioevo giunge fino alle soglie dell’età moderna rappresentando anche un indispensabile viatico per l’adeguata comprensione dei primi secoli di un’altra grande letteratura peninsulare, quella castigliana. Cfr. ad esempio Robert Archer-Isabel de Riquer, Contra las mujeres : poemas medievales de rechazo y vituperio introduccion, edicion, traduccion y notas de, Barcelona, Quaderns Crema, 1998. 3   Antonio Gargano, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli xv-xvii, Napoli, Liguori, 2005. 4   Circa la « bella ed animosa concordia » sociale nel Regno cfr. Giovanni Muto, Istituzioni dell’Universitas e ceti dirigenti locali, in *Storia del Mezzogiorno, cit., ix, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’Età moderna, Salerno, 1993, pp. 17-67.  









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Napoli il medioevo non è cancellato del tutto e gli elementi residuali hanno ancora radici profonde nel ceto nobiliare, mentre le classi medie di formazione universitaria sono ben lontane dalla scalata ai vertici del potere. Ai margini della società resta il ceto popolare composto dagli artigiani, dagli osti, da mercanti, da studenti, soldati, marinai protagonisti principali, invece, sia dello scritto del Guardati sia delle prediche e dei sermoni medioevali illustrati dai frati francescani e domenicani, che attraverso la diffusione orale degli exempla avevano inculcato i valori morali tra il xii-xv secolo. Dell’universo di questi ascoltatori ignoriamo tutto : niente ci è pervenuto dei timbri vocali dei narratori, delle pause drammatiche, delle occhiate severe, dei gesti per delimitare lo scenario. Se è impossibile immaginare i volti al suono delle pause o al punteggiare delle azioni non ci è sconosciuta, invece, la rappresentazione della donna. L’imago della figura muliebre è indicata da secoli come simbolo di impurità. La sua colpa, come alleata o vittima del diavolo, ha una genesi biblica : l’affermazione di una Historia salutis ossia di una storia ininterrotta della Salvezza dalla nascita del mondo, descritta nella Genesi, fino al Giudizio Universale, proclamato nell’Apocalisse di Giovanni, impone la percezione di un continuum temporale, che non consente l’evoluzione del ruolo femminile, legato ancora nel Medioevo e nella prima età moderna a quello di peccatrice o tentatrice. La cultura occidentale laica fin dagli albori delle tragedie greche l’associa anche a caratteristiche demoniache, mentre quella popolare è percorsa da un viscerale timore maschile delle sue facoltà magiche. La crescita demografica trecentesca, le migliorate condizioni economiche, i grandi conflitti bellici per la conquista del regno di Napoli e soprattutto gli archetipi di santità e carità offerti dalle regine e principesse angioine addolciscono in parte la figura femminile, sollevandola dal ruolo di Eva a quella di musa ispiratrice dei cantori del Dolce Stilnovo. Non cancellano, però, la tassonomia dei peccati continuamente ribadita attraverso le parole dei predicatori e gli scritti dei letterati. Dante Alighieri e lo stesso Petrarca nel secondo libro del suo Secretum, diffondendo con le loro opere nel mondo laico una gerarchia delle colpe, supportano i sermoni dei religiosi e testimoniano che dei sette peccati capitali, spesso invertiti nell’ordine delle gravità, la lussuria, la più incisivamente ripetuta, è strettamente associata alla donna. Il disciplinamento della donna è, quindi, necessario : se ne fanno carichi sia la Chiesa che gli Stati. Per fra’ Roberto da Lecce, al secolo Roberto Caracciolo, predicatore del xv secolo, famoso per la sua costante presenza alla corte aragonese particolarmente attivo a Napoli tra il 1455 e il 1458, la perdita dei doni divini a causa dei peccati induce l’uomo a cadere nella bestialità. Come accenna nella predica xxiv Del peccato, Dio creatore ha concesso all’uomo la bellezza, l’ordine e la misura, ma la privazione di questi beni rende il peccatore bestiale, perché mostra di non aver compreso l’eccellenza che gli è stata concessa. Dopo l’adesione alle dottrine di S. Bonaventura e a S. Agostino il frate recupera il pensiero del dottore della Chiesa, Giovanni Damasceno, secondo il quale se il peccato è contro la natura dell’uomo e la virtù è naturale, tutto ciò che è contro natura non è gradito a Dio. Nella categoria dei peccatori lussuriosi include entrambi i generi maschili e femminili. Rivolto infatti al religioso che farà uso del suo Quaresimale suggerisce  





Riprenderai qua gli frati, preti, monachi e mercadanti, signori, maritati, vedove e donzelle che per uno soldo offendono Dio. 1

Ma quella che più facilmente cade in tentazione è la donna. 1   Roberto Caracciolo, Opere in volgare, Introduzione di Roul Mordenti, a cura di Enzo Esposito, Galatina, Congedo, 1993, pp. 21, 188.

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O religiosa ! o monaca ! O giovane o santa vedova ! Se’ tu combattuta dal senso ? Se’ tu in battaglia cum l’inemico tuo vicino, cioè la carne rebellante ? Vane, corre alla Chiesa, chiamate in colpa, ricevete il corpo di Cristo e lo sangue […] e cesserà ogni battaglia e bestialità di fezza, di broda e spurcizia carnale. 1  









Nel testo del cardinale Tommaso de Vio, 2 generale dell’Ordine domenicano, intitolato De peccatis summula, un lemma specifico è riportato sotto la voce Mulieris peculiaria peccata. La colpa primaria è esplicitamente rivolta al sesso non solo perché naturale peccato della carne, ma anche per la tipologia dei rapporti contro natura, ove prevalga una forma di rapporto animalesco. La bestialità è il più immorale dei vizi : offende infatti la natura umana che è dono di Dio.  

Bestialitas in moralibus est genus vitii plusqua humani. Et multis materiis communis est, in quibus efficitur homo sicut bestia vel in conversando, vel in comedendo, vel in coitu, vel in persequendo seu occidendo. Et constat propterea simper esse peccatum, si tamen mentis compos est. Et communiter est mortalis simum, nisi propter inperfectionem actus ut si quis ambulet minibus et pedibus. Bestialitas enim haec vanalisest, turpissima tamen, nisi ioci gratia siat. 3

Altro peccato muliebre, non secondario ma primario è l’ornamento del corpo. Inteso da Tommaso De Vio come colpa dell’esteriorità per la malevola intenzionalità delle donne, il tema è sviluppato ampiamente in sette paragrafi, in cui precisa la distinzione della colpa che può secondo una dettagliata tipologia trasformare il peccato da veniale in capitale. 4 La cura della persona attraverso i vestiti ricercati e le moderne acconciature è definita peccato veniale se è frutto della superbia, se è prodotto della superficialità, se è resa obbligatoria da leggi non severe, se rientra nella consuetudine di un paese. Diversamente può trasformarsi in peccato capitale se è fine della concupiscenza, quando prevale sulla sollecitudine alla salvezza dell’anima, se implica trasgressione, se è stolta presunzione di violare la legge per passare da un ceto inferiore a quello superiore. L’ornatus mulierum se indecente e non casto induce al peccato veniale :  

Qualiter scilicet ornatus, communiter peccatum inducit veniale, si indecens est ac minus castus : ut ornatus mulierum monstrantium media ubera. Verumtamen ubi consuetus iam est, sine peccato videtur :& in rimedium nepeiora siant forte introductus. 5  



Ad esso si accompagnano il trucco che è solo simulazione e vana finzione 6 e l’abbigliamento eccessivamente impreziosito dei vestiti, degli anelli e dei monili, perché simboli di stoltezza e vanità. 7 L’ultima e più grave colpa presa in considerazione è il gesto della don1

  Ivi, p. 245.   Nato a Gaeta nel 1469 e morto a Roma nel 1534, fu professore di teologia presso le università di Pavia e di Roma. Diplomatico pontificio, fu proclamato cardinale da papa Leone X e arcivescovo di Palermo e Gaeta. Come legato apostolico si adoperò per l’elezione di Carlo V d’Asburgo ad imperatore del Sacro Romano Impero. Intervenne nei temi più importanti del secolo : incontrò Martin Lutero, organizzò la resistenza contro i Turchi in Ungheria e in Polonia, rifiutò il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona sentenziando la validità del matrimonio. 3   Tommaso de Vio, De peccatis summula nuper diligentissime recognita, Lugduni, apud Vincentium de Portanaris, 1538, p. 27v. 4 5   Ivi, pp. 188-189.   Ivi, p. 188v. 6   Ibidem : « Caput quintum ex fuco, cõiter constituit peccatum veniale : quia in simulazione finctione & vana constituit ». 7   Ibidem : « Caput sextum ex preciositate ornatus : quia quod preciosum est uni, non est preciosum alteri, quẽ decet sumptus magnos in vestibus & annulis & monilibus &c facere. Ideo si ornatus relatus ad personam est excessiuus in precio, sine peccato non est. Communiter tamen videtur venialis hmoi excessus superbus, stultus, & vanus, non eam propterea aequantur maioribus quia ornantur preciose sicut maiores ». 2



















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na superficiale di cadere volontariamente nel peccato, provocando in qualcuno un amore libidinoso. L’esibizione del trucco e l’abuso della bellezza, dono naturale di Dio, sono da condannare perché strumenti consapevoli della concupiscenza. 1 Mentre le istituzioni ecclesiastiche fanno, quindi, a gara per salvare l’anima della donna, quelle civili tentano, invece, di avere il controllo materiale del suo corpo. Una « disciplina delle apparenze » è imposta alle donne : nell’arco di tempo in cui si manifestano i più profondi cambiamenti dei ceti sociali – tra il medioevo e l’età moderna -, si emanano normative suntuarie che insieme a una letteratura a carattere educativo-comportamentale forniscono indizi per una chiave di lettura sul ruolo femminile nel periodo rinascimentale. In particolare gli studi di Giuliana Vitale sulle trasformazioni cetuali in età moderna e di Silvana Musella Guida sull’industria del lusso rafforzano la tesi di un duplice progetto intellettuale nel secondo Quattrocento : il primo sostenuto da Tristano Caracciolo, Diomede Carafa e dal Galateo che auspicano rigore, parsimonia e austerità dei costumi, presumibilmente in contrasto con la decadenza morale del secolo ; il secondo ispirato da Giovanni Pontano alla « magnificentia » e allo splendore che avrebbe contribuito in seguito alla realizzazione di un modello nobiliare imitato dai ceti subalterni desiderosi di ascesa sociale. 2 Una « politica figurativa », come la definisce Leone de Castris, 3 ha inizio nel 1290 con i reggenti del Regno Carlo Martello e Roberto d’Artois che emanano a Napoli la prima legge destinata esplicitamente al ceto nobiliare e ai funzionari regi, relativa alla moderazione dei cibi e dell’abbigliamento. Brevi e limitati sono gli accenni rivolti alle donne, alle quali è esclusivamente vietata la lunghezza delle vesti e degli ornamenti a queste legate. Confermato questo provvedimento dal re Carlo II, nel 1298 un’altra normativa ribadisce la virtù della temperanza estesa anche ai militi e ai valletti del Seggio di Capuana che volontariamente si impegnano davanti al giudice della città di contenere le spese di vestiario. Difficile interpretare se l’emanazione delle leggi s’inquadra in un clima di crescente esibizione del lusso o di osteggiata accettazione di nuovi modelli e nuove fogge vestimentarie. La condanna verso l’eccessiva aderenza delle vesti ai corpi, che delinea maggiormente le forme esteriori, è manifestata nel diploma emanato da Roberto d’Angiò nel gennaio del 1335, che insieme alla barbe lunghe ed ai capelli incolti vieta i vestiti corti e molto stretti,  

















1   Ivi, pp. 188v.-189 ; « Caput septimum ex scandalo, hoc est ex occasione peccandi : quia ornata superfluẽ mulier movet ad sui concupiscentiam. Sed si ex parte muliebri non est intentio provocandi, nec sibi placet quod provocetur aliquis ad sui libidinosum amorem, licet placeat ei quod laudetur ut pulchra, & vana superfluitate, & fuco se ornet, non propterea peccat mortaliter : quia alii peccant mortaliter ipsam adamando est enim occasio accepta, non data : quum mulierem, que nulli dat occasionem peccandi si exhibet se conspectui publico, ac per hoc multo rum adamantium illam ». 2   Mario Santoro, Tristano Caracciolo e la cultura napoletana della Rinascenza, Napoli, Armanni, 1957 ; Giuliana Vitale, L’umanista Tristano Caracciolo ed i principi di Melfi, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1964 ; Lucia Miele, Tradizione ed esperienza nella precettistica politica di Diomede Carafa, Napoli, Giannini, 1976 ; Diomede Carafa, Memoriali Diomede Carafa, edizione critica a cura di Franca Petrucci Nardelli, note linguistiche e glossario di Antonio Lupis, saggio introduttivo di Giuseppe Galasso, Roma, Bonacci, 1988 ; Lucia Miele, Modelli e ruoli sociali nei Memoriali di Diomede Carafa, Napoli, Federico & Ardia, 1989 ; Mario Santoro, Scienza e humanitas nell’opera del Galateo, Lecce, 1960 ; Donato Moro, Per l’autentico Antonio De Ferrariis Galateo, Napoli, Ferraro, 1991 ; Antonio Iurilli, L’opera di Antonio Galateo nella tradizione manoscritta : catalogo, Napoli, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, 1990 ; Studi su Antonio De Ferraris Galateo, Atti delle Giornate Galateane, Convegno del 15-16 novembre 1969, Galatone, Edizioni della Domus galateana, 1970 ; Claudio Finzi, Re, baroni, Popolo La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il Cerchio, [2004] ; I libri delle virtù sociali, a cura di Francesco Tateo, Roma, Bulzoni, 1999. 3   Pierluigi Leone de Castris, Arte di Corte nella Napoli angioina, Firenze, Cantini, 1986, p. 86. Sulla legislazione suntuaria cfr. Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, a cura di Maria Giuseppina Muzzarelli ed Antonella Campanini, Roma, Carocci, 2003.  

































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imponendo pene severe a coloro che rifiutano i costumi antichi. I divieti sono rivolti particolarmente ai giovani per le loro difficoltà nel cavalcare con abiti succinti. Precedentemente Federico III re di Sicilia nel 1308 aveva promulgato una legge in cui fissava disposizioni precise che limitavano l’uso delle pellicce, delle perle e dell’oro nelle guarnizioni delle vesti femminili. Mosso da interessi protezionistici, come dimostra la regolamentazione circa l’uso e la quantità dei generi di lusso, come perle e pellicce che erano prodotti d’importazione, stabilisce precise gerarchie nell’abbigliamento. Nel capitolo destinato alle donne disponeva circa la lunghezza dello strascico, delle frange e la misura dei bottoni, trasformatisi nel tempo in oggetti sempre più vistosi e preziosi. Allo stesso modo parlava dei mantelli, delle sete e di ogni addobbo lussuoso. L’esternazione fisica doveva essere contenuta e doveva andare di pari passo con quella comportamentale : particolarmente in chiesa per le donne durante i riti quotidiani e nei funerali. Il quadro che si andava delineando era quello di una società del benessere, che sfoggiava la sua opulenza attraverso il governo di un’estetica selettiva. 1 « L’immediata visibilità delle gerarchie sociali » promuoveva una separazione di ceti e una personalizzazione del potere che gruppi sociali inferiori cercavano di imitare senza cogliere i temi della moderazione, anzi portandoli agli aspetti più estremi e esasperati. Per le note distruzioni archivistiche causate dalla guerra siamo privi delle leggi emanate nel xv e nella prima metà del xvi secolo, ma un filo rosso, secondo Giuliana Vitale, sembra legare le leggi angioine a quelle pur carenti o scomparse aragonesi. La letteratura di fine Quattrocento, e in particolare le riflessioni di Diomede Carafa e Tristano Caracciolo possono in parte sopperire a questa carenza. Nota è l’interpretazione sulla trattatistica quattro cinquecentesca vigorosamente svolta dalla Vitale, che mette in evidenza la complessità delle regole comportamentali come strumento discriminante delle gerarchie sociali. La crisi economica e sociale della piccola nobiltà di Seggio, nella cui tipologia sociale rientrava la famiglia Guardati, impone austerità del tenore di vita e parsimonia di costumi, che avrebbero fornito al patriziato dei seggi cittadini - attraverso una giustificazione culturale - onore e dignità. Emerge nella strategia dell’irrigidimento sociale la negazione del lusso esibito, sostituito dallo stile austero, esteso dal pubblico al privato, dalla mensa all’abbigliamento, dalla casa ai servitori, che getta le premesse per le normative dell’età moderna. Naturalmente muta il ruolo della donna : il timore maschile di un prevalere muliebre a causa della solidità economica della dote provoca da una parte la dispersione del patrimonio nella famiglia d’origine, dall’altra alimenta nel nuovo nucleo familiare accuse di oziosità e irrazionalità. Contro di lei si muove la condanna di eccedere nel lusso : educandola quindi secondo i canoni umanistici della virtù della parsimonia, le si impone l’annullamento fisico e intellettivo in particolare nei vincoli coniugali. Nasce la mitizzazione e mistificazione del corpo femminile, sul quale si agisce con la trappola del sentimento familiare e dei buoni costumi : all’abbigliamento non più scelto liberamente si impone un « habitus morale », di cui non può spogliarsi. Nel silenzio in cui vien fatta ricadere la figura femminile sembra rientrare la donna del Guardati, che l’autore ci presenta muta in tutto lo scritto. Al governo della parola che è assente corrisponde, invece, l’irrazionalità amorosa espressa attraverso una meccanica sessuale che rumoreggia, fisicamente e verbalmente, in tutte le pagine del libro. Perché questa degenerazione femminile nel Masuccio ? Secondo Aldo Vallone, che legge  

















1   Diane Owen Hughes, La moda proibita : la legislazione suntuaria nell’Italia rinascimentale, « Memoria : rivista di storia delle donne », 11/12 (1984) pp. 82-105. Cfr. anche La moda, Storia d’Italia, Annali, 19, a cura di Marco Belfanti e Fabio Giusberti, Torino, Einaudi, 2003, pp. 221-258, 261-266.  







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la letteratura volgare napoletana in chiave oppositiva, Masuccio rappresenta un modello esemplare del contrasto tra mondo neoplatonico e cortese, identificabile nei modelli aristocratici dei dedicatarii, 1 e una realtà degenerata. Degenerata perché ha tradito le leggi divine e naturali, compiendo un atto ignobile sia contro il corpo dello stato, sia contro quello della donna. La sua turpitudine è segno di bestialità e la sua immanitas è immanitas sociale. L’universo del salernitano riflette lo stato d’animo di un rappresentante del ceto intellettuale che, come notava Mario Santoro, 2 denunciava nella prima metà degli anni ’70 del xv secolo quella stessa decadenza morale che tre decadi dopo il Pontano drammaticamente avrebbe condiviso. Gli ultimi scritti di Giovanni Pontano, intimo amico di Tommaso Guardati, confermano l’amara visione della società aragonese. Secondo il Pontano, che aveva partecipato alla propaganda cortigiana, la degenerazione del genere umano è causata dalla cupidigia e dagli istinti che sono i motori della matta bestialità. Nella società la volontà di cadere nel vizio è volontà di agire contro Dio e contro la patria. Nelle donne la ricerca esasperata della bellezza è perdita della dignità e deviazione dell’onore : il cieco istinto alla sessualità cancella ogni rispetto per il corpo che diventa solo un oggetto. L’accusa, lievemente accennata nelle opere del suo ultimo periodo, alla luce di questa analisi, trova conferma negli studi sul costume sviluppati negli anni ’60 del xx secolo, che riprendevano temi crociani e si intreccia con le più recenti ricerche di storia della letteratura latina medioevale. 3 Antonietta Iacono, infatti, studiando la figura di Tristano Caracciolo mette in evidenza, attraverso un’originale lettura dei suoi lavori, in gran parte inediti, il decorum della nobiltà di seggio, che opponeva il vanto del mos maiorum alla magnificentia esibita dai membri della famiglia Trastàmara. Splendor, clementia, comitas, dapsilitas, 4 attributi alfonsini legittimati dalla trattatistica cortigiana coeva come virtù connotative del buon sovrano, all’occhio severo del Caracciolo sono « esca della dissolutezza morale » di una Napoli ininterrottamente dedita a festeggiamenti, tornei e suntuosi banchetti. Nell’arco di circa settant’anni, infatti, la pace instaurata da Alfonso e l’accresciuta abbondanza di ogni bene avevano assicurato un lusso prima ignorato, che appariva lontanissimo dal tenore di vita adottato dai membri della nobiltà di seggio. Dal regno di Alfonso il Magnanimo all’avvento di Carlo V, la letteratura, gli usi e i costumi napoletani vengono influenzati dalla cultura catalana aragonese. Come le altre forme artistiche del tempo anche il vestiario è spia delle trasformazioni e innovazioni importate dalla nuova dinastia. Espressione di uno stile moderato, la moda non eccede nella vistosità ed è priva dei tratti eccentrici della moda francese, ancora lontana dagli ornamenti macchinosi del xvi secolo. Decorativa nei colori e dignitosa nei modelli che iniziano a snellire le forme, la moda è espressione di candore e di compostezza. 5 Mutamenti incisivi hanno inizio durante il  





1   Aldo Vallone, Modello e antimodello nella narrativa napoletana in *Cultura meridionale e Letteratura italiana. I modelli narrativi dell’età moderna, Atti dell’XI Congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana (Napoli 14-18 aprile 1982), a cura di Pompeo Giannantonio, Napoli, Loffredo, p. 12. 2   Mario Santoro, Il “De Immanitate” : Testamento spirituale del Pontano, s. l., s. t., 1960. 3   Antonietta Iacono, Il lusso corruttore d’oltremare. Tristano Caracciolo e la dinastia aragonese a Napoli, presentato al Colloquio Internazionale *Le luxe e la cité : penser le luxe. Colloque International (Rouen, Maison de l’Université, 3-4 Juin-Paris, Palais du Sénat, 5 Juin 2009), in corso di pubblicazione. Ringrazio l’a. per avermi concesso la lettura del saggio prima della pubblicazione. 4   Il termine dapsilitas qui utilizzato dal Caracciolo in concorrenza ed alternanza con liberalitas (prediletto invece dalla trattatistica filo aragonese e di chiara matrice classica), anche se già presente nel lessico classico (unicamente nelle Not.Tir 68) è diffusamente utilizzato nel lessico medioevale : Cfr. Charles Du Cange, Glossarium Mediae et infimae latinitatis, ristampa anastatica, Bologna, Forni, 1982, t. iii, s. v. dapsilitas. 5   Lina Montalto, La corte di Alfonso 1. di Aragona : vesti e gale, Napoli, R. Ricciardi, 1922.  







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regno di Ferrante, quello in cui visse intensamente Masuccio Salernitano : la floridezza delle industrie locali e il prestigio della dinastia sono esternate attraverso l’eleganza degli indumenti. Le linee sono fastose, più ricercate le forme, ma soprattutto gli ornamenti sono amplificati per esaltare il ruolo politico o lo status economico dei gruppi sociali. L’esibizionismo e lo sfarzo aumentano : lo splendore non è però raffinatezza, ma solo vanità di una società prestigiosa e decadente. 1 Per Tristano Caracciolo, secondo la Iacono, fa scandalo l’abuso di « indumenta singularia, indumenti speciali tramati di oro e in seta, riservati secondo l’antico codice sociale ai maggiorenti della città ». Da qui la sua condanna « contro le innovazioni dei comportamenti sociali divenute mode cortigiane », la cui paternità è « nei costumi di una corte allogena, estranea al mos maiorum napoletano ». E da qui « l’idea di una superiorità morale della nobiltà napoletana, intesa come nobiltà di seggio, che è stata mantenuta e tramandata anche grazie alla stretta osservanza di un preciso codice etico e comportamentale ». 2 Il disappunto per i nuovi modelli che nel Guardati si concretizzano nella degradata figura muliebre si ritrova anche in Giovanni Pontano, che nel primo libro del De amore coniugali fin dalle prime righe dedicate alla musa Elegia descrive le acconciature femminili, i monili che le abbelliscono il corpo, la scia di profumo che inebria l’aria al suo passaggio. 3  



















Qui vieni, e raccogli con un ramo di mirto i tuoi fiorenti capelli : qui vieni con le tue chiome adorne, o Elegia, splendente di nuova bellezza per l’acconciatura ricchissima, e dolcemente la veste scenda fino ai tuoi candidi piedi. Molle baleni, caduta tra i tuoi piccoli seni, la luminosa perla che vien raccolta nel mare Rosso ; e una collana bellamente t’adorni, scendendo dal sottile collo sugli omeri : ché la veste di seta ama gli aurei ornamenti. Una fibbia d’oro tenga stretto il seno raccolte e frange d’oro splendano sugli orli sporgenti. Ovunque tu ti muova, l’arabo nardo affonda mollissime onde, e soavemente trasudi il profumo assiro. 4  





Un Pontano, che ci appare più intimista, fa riecheggiare nei suoi versi le condanne dei predicatori medioevali e moderni per tornare a segnalare i peccati muliebri denunciati dal De Vio. Nel secondo libro dell’amore coniugale insiste sulla bellezza come dono divino che come gli ornamenti deve sottostare a regole precise : non va deformata con alcun trucco o modificata sobriamente.  

A che giovano gli adornamenti preziosi e le gemme infisse nelle trecce ? A che scopo le pesanti collane intorno al collo ? […] Né la bellezza, se è un bene, ha bisogno di adornamenti esteriori ; e tu perché questo bene, che ti largì la natura, vuoi trasformare in male con l’artifizio ? 5  







L’esempio portato è quello del mito delle sirene note nell’antichità per la bellezza del loro volto, per la dolcezza del canto, per la sapienza e l’ingegno, ma in particolare per la smodata ricerca dell’eleganza. Sorde alle parole della nutrice che le invitava a non abusare dei cosmetici avevano sul volto i segni di un trucco pesante. La descrizione del loro machillage, quando sono al cospetto della divinità nel tempio dell’isola di Enaria, per la dettagliata segnalazione fatta dal dotto umanista lascia supporre che l’autore s’ispirasse al modello estetico femminile prevalente ai suoi tempi. 1   Adelaide Cirillo Mastrocinque, Stoffe e costumi a Napoli nel ’500, [Napoli], Il Fuidoro, 1957 ; Ead., Stoffe e costumi, cit., vol. v-vi (1966-67), pp. 311-322 ; Ead., Personaggi e costumi della Napoli aragonese, Napoli, 1960, « Partenope, rivista di cultura napoletana », 1 (1960), pp- 17-32. 2   Maria Antonietta Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano, Unicopli, 1998 ; Signori, Patrizi e Cavalieri nell’Età moderna, a cura di Maria Antonietta Visceglia, Roma-Bari, Laterza, 1992. 3   Liliana Monti Sabia, Tra realtà e poesia : per una nuova cronologia di alcuni carmi del De amore coniugali di Giovanni Pontano (i 5-8) in *Classicità, Medioevo, Umanesimo Studi in onore di Salvatore Monti, Napoli, Giannini, 1996, pp. 351-370. 4   Dai “Carmina” L’amore coniugale I Giambi Le egloghe La Lira Gli Inni religiosi Gli orti delle Esperidi, a cura di An5   Ivi, pp. 71-73. drea Gustarelli, Milano, Signorelli, 1933, p. 25.  











la figura femminile nel novellino di masuccio salernitano

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Il petto nudo, i volti madidi di profumo, le tempie tinte di porpora, le labbra colorate di rosa artificiale, il collo niveo di cipria, senza benda che copra i seni, la gola luminosa per raffinatezza d’arte, gli occhi dipinti, una gran massa di capelli tinti ; e in tutto il volto i segni della esagerata eleganza. 1  

Secondo la mitologia classica la divinità pagana offesa dalla loro impudicizia trasforma i corpi artificiosi in quelli di esseri semiumani, con attributi marini negli arti inferiori. Facile scorgervi nel mito delle sirene una sottile allusione alla città di Napoli che secondo le più antiche leggende era stata fondata dalla sirena Partenope. La città, quindi, abitata da donne che privilegiavano una bellezza solo esteriore, deformata da ornamenti preziosi, da gemme, da pesanti collane e da belletti colorati, è incapace di sfoggiare buoni costumi. Se metti da parte l’anima, senza l’anima l’eleganza esteriore è una deformità : educa l’anima, o fanciulla, e sarai adorna abbastanza. Tuttavia come i buoni costumi adornano l’anima, così l’eleganza adorna il corpo ; e l’una e l’altro non vogliono macchie ; e come v’è una misura anche per la virtù e per i costumi, così anche all’eleganza si conviene una regola precisa. 2  





Giulio Cesare Capaccio nel secondo libro della sua Historiae Neapolitanae include la città di Sorrento, vero miracolo della natura, tra le località più amene della Campania3. L’autore nelle prime righe ricorda che, segnalato dal Pontano come Sirenum Habitatio, il termine Surrentum poteva derivare filologicamente da quello di sirena, se si dava credito alla scritta di un’antica lapide Est inter notos Sirenum nomine muros Saxaque Tyrrhenae templis onerata Minervae. 4

In seguito il Capaccio sotto la voce Familiae non manca di indicare tra le stirpi che si erano distinte in quella civitas il cognome dei Guardati, nominando Alferius, Zaccarias, Matthaeus Guardatus di Sorrento. 5 Per le radici sorrentine della famiglia Guardati il racconto delle Sirene doveva essere ben noto anche a Masuccio Salernitano. La concordia delle due fonti letterarie non può essere casuale : confermano la sensibilità del Salernitano e del Pontano di fronte a una cruda realtà, di cui le donne snaturate non sono che l’avanguardia della condizione di bestialità, in cui l’uomo sarebbe caduto insieme al crollo della società aragonese. Anche dopo il Rinascimento la figura femminile continua ad essere prigioniera dei canoni di bellezza interiori imposti dalla Chiesa della Controriforma: l’uso prezioso delle sue virtù sarà per secoli monopolio delle istituzioni civili e religiose. Il punto di partenza di una riqualificazione civile del genere femminile è il Settecento illuminista, che riconosce il condizionamento della mentalità maschile sulle capacità intellettive della donna. Uno scrittore, infatti, replica all’accusa mossa dagli Arcadi contro il sesso debole, definito « scoglio dell’umanità », con una lettera apologetica, in cui fa ricadere con solidi argomenti le colpe sul sesso maschile : « si dee incolpare più l’Uomo che la donna, che per sua natural debolezza vien sedotta dalle promesse, e adulazioni dell’Uomo ». 6  











Università degli Studi di Napoli “Federico II” 1

2   Ivi, p. 73.   Ibidem.   Julii Caesaris Capacii, Historiae Neapolitanae in quibus antiquitas, aedificii civium, Respublicae, Ducum, Religionis, Bellorum, lapidum, Locorumque,adjacentium, qui totam fere Campaniam complectuntur continetur, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum, 1607, ii, pp. 128-160. 4 5   Ivi, p. 129.   Ivi, p. 145. 6   Fausto Salvani, La difesa delle donne ovvero risposta apologetica al libro intitolato Lo scoglio dell’Umanità di Diunil3

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flavia luise 1

La figura femminile proposta nell’opera di Tommaso Guardati, noto come Masuccio Salernitano, intitolata il Novellino, suggerisce spunti insoliti sul ruolo della donna nel Rinascimento meridionale e sugli umanisti napoletani alla corte aragonese. Aderendo alle tematiche di storia della famiglia e di storia delle mentalità l’a. riscontra nello scritto modelli culturali tipici di una società che, vittima delle trasformazioni politiche avvenute nel Regno di Napoli nella seconda metà del xv secolo, vive in uno stato di estrema miseria morale. I predicatori dimentichi della bellezza spirituale, che aveva nobilitato l’animo dei cantori trovadorici, condannano la donna per la sua lussuria. Gli umanisti, preoccupati dell’accresciuto potere della donna l’accusano di una esasperata ricerca della bellezza e della perdita dell’onore : attraverso « una cultura dell’apparenza » le impongono rigore, parsimonia e austerità dei costumi. In verità il dilagante malcostume sociale è motivato dall’accresciuta abbondanza di ogni bene che aveva assicurato un lusso prima ignorato. Masuccio Salernitano, rappresentante del ceto intellettuale, denuncia nella prima metà degli anni ’70 del xv secolo attraverso le relazioni amorose vere o fittizie, descritte nel Novellino con toni di accentuato realismo, quella stessa decadenza morale, che tre decadi dopo il Pontano drammaticamente avrebbe condiviso.  





The female figure as proposed in the Novellino, written by Tommaso Guardati, well known as Masuccio Salernitano, suggests unusual standpoints about the woman role in the Southern Reinassance and about the Neapolitan humanists at the Aragonese Court. By treating issues related with history of the family and history of mentality, the author analyzes in the work of Guardati cultural models typical of a society that, on account of the political transformations in the Reign of Naples in the middle of xv century, lives in state of extreme moral poverty. The preachers, forgetful of the spiritual beauty, which ennobled the souls of troubadours, condemn the woman because of her lewdness. The humanists, worried about her augmented power, blame the woman for her exasperated research of beauty and the loss of pride : trough a « culture of the appearance » impose on her severity, parsimony, and austerity of morals. The increasing social immorality is indeed justified by the richness that secured a magnificence not known before. Masuccio Salernitano who represents the intellectual class, evidences, by means of the real or false love affairs described in the Novellino with tones of emphasized realism, the moral decline as it will be described by Pontano three decades later.  





La figure féminine proposée dans l’œuvre de Tommaso Guardati, connu comme Masuccio Salernitano, intitulée le Novellino, suggère une image insolite du rôle de la femme de la Renaissance méridionale et des humanistes napolitains à la cour aragonaise. Adhérant aux thématiques d’histoire de la famille et d’histoire des mentalités, l’auteur trouve dans le texte des modèles culturels typiques d’une société qui, victime des transformations politiques advenues dans le Règne de Naples durant la deuxième moitié du xv e siècle, vit dans un état d’extrême misère morale. Les prédicateurs, oublieux de la beauté spirituelle qui avait ennobli l’âme des chantres et troubadours, condamnent la femme pour sa luxure. Les humanistes, préoccupés du pouvoir accru de la femme, l’accusent d’une recherche exaspérée de la beauté et de la perte de l’honneur : à travers « une culture de l’apparence » ils leur imposent rigueur, parcimonie et austérité des mœurs. En réalité, l’expansion des mauvaises mœurs sociales est surtout due à la majeure abondance de tous les biens qui avaient permis un luxe jusqu’alors ignoré. Masuccio Salernitano, en tant que représentant de la classe intellectuelle, dénonce dans la première moitié des années 70 du xv e siècle, à travers les relations amoureuses vraies ou fictives décrites dans le Novellino avec des tons de réalisme accentué, cette même décadence morale que Pontano aurait dramatiquement dénoncée trente ans après.  





go Valdecio fatto dalla Marchesa di Sanival fra gli Arcadi Africia Malpea, In Siena, nella Stamperia di Luigi, e Benedetto Bindi, 1786, p. 4. A sostegno della sua tesi elenca un gran numero di donne illustri del Bel Sesso, definite « onorate sagge femmine specchiate ». Segnaliamo i versi dedicati alle più note dame del Rinascimento. « [È d’]esempio Maria D’Aragona Che del Vasto fu padrona », ivi, p. 195 ; « Fu già in Roma illustre donna La Vittoria Colonna Che alle genti letterate Di saper gran prove ha dato », ivi, p. 200 ; « Fu già in Napoli famosa La Sirocchia virtuosa/ Per le celebre sue Rime Che le dieder onor sublime », ivi, p. 200 ; « Una d’Avalos fu ancora Letterata », ivi, p. 200 ; « Due che in Napoli regnaro Isabelle si eternaro Con le loro geste insigni Celebrate da più cigni : qui per sue glorie/ fù un’Ippolita Visconti, che d’Alfonso Re fu sposa e si rese assai famosa », ivi, p. 213.  

































la figura femminile nel novellino di masuccio salernitano

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La figura femenina que propone la obra de Tommaso Guardati, más conocido como Masuccio Salernitano, cuyo título es Novellino, sugiere ideas insólitas acerca del papel de la mujer en el renacimiento meridional y de los humanistas napolitanos de la corte aragonesa. Siguiendo los temas de historia de la familia y de historia del pensamiento común de la época, el autor encuentra en los escritos modelos culturales típicos de una sociedad que, víctima de las transformaciones políticas que tuvieron lugar en el reino de Nápoles durante la segunda mitad del siglo xv, vive en un estado de extrema miseria moral. Los predicadores, olvidándose de la belleza espiritual que había ennoblecido el ánimo de los trovadores, condenan a la mujer por su lujuria. Los humanistas, preocupados por el aumento de su poder, la acusan de una exasperada búsqueda de la belleza y de la pérdida del honor : a través de « una cultura de la apariencia » le imponen rigor, parsimonia y austeridad de costumbres. En realidad, la difusión de las malas costumbres sociales está motivada por la abundancia de bienes que asegura un lujo antes ignorado. Masuccio Salernitano, representante de la clase intelectual, denuncia, en la primera mitad de los años ’70 del siglo xv, a través de las relaciones amorosas verdaderas o ficticias descritas en el Novellino con acentuado realismo, la misma decadencia moral que décadas sucesivas habría compartido dramáticamente el Pontano.  





Die weibliche Figur, wie sie im Werk mit dem Titel Novellino von Tommaso Guardati, bekannt als Masuccio Salernitano, erscheint, liefert außergewöhnliche Informationen übe Rolle der Frau in der Renaissance in Süditalien sowie über die neapolitanischen Humanisten am aragonesischen Hof. Der Autor widmet sich insbesondere dem Themenkreis der Familiengeschichte und der Mentalitätsgeschichte, wobei er im Werk kulturelle Modelle findet, wie sie typisch sind für eine Gesellschaft, die als Opfer der politischen Veränderungen im Königreich Neapel in der zweiten Hälfte des 15. Jahrhunderts in einem Zustand großen moralischen Elends lebt. Die Prediger, in Ermangelung der Erinnerung an die spirituelle Schönheit, wie sie von der Troubadour-Dichtung besungen wurde, verdammen die Frauen aufgrund ihrer Wollust. Die Humanisten, besorgt wegen der wachsenden Macht der Frauen, beschuldigen sie eines hartnäckigen Strebens nach Schönheit und des Verlusts der Ehrhaftigkeit : Mittels einer « Schein-Kultur » auferlegen sie ihnen Strenge, Schlichtheit und Rigorosität der Sitten. In Wahrheit basiert die um sich greifende Sittenlosigkeit auf der zunehmenden Verfügbarkeit aller Güter, die einen nie gekannten Luxus ermöglichten. Masuccio Salernitano, ein Vertreter der intellektuellen Gesellschaftsschicht, beschreibt in der ersten Hälfte der 70er-Jahre des 15. Jahrhunderts in seinem Novellino anhand wahrer und fi ktiver Liebesbeziehungen in ausgesprochen realistischem Ton diesen moralischen Zerfall, wie er drei Dekaden später auch von Pontano dramatisch aufgenommen wird.  





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VITTORIA COLONNA E IL CENACOLO ISCHITANO Concetta Ranieri Pandit et abdita orbi : Ischia, tra mito, storia e poesia  

I

l mecenatismo tradizionale della famiglia Avalos 1 aveva fatto del castello di Ischia il riferimento naturale per una schiera, ordinata sui diversi livelli culturali in cui operava, di poeti e letterati giunti a costruire un gruppo saldato in un reticolo di protezioni e favori, quando non propriamente di cortigiani. Per tutti questi gli Avalos-Colonna divennero essenziali non solo per il ventaglio di occasioni celebratorie e cerimoniali che con la loro vita sapevano offrire, ma anche per l’acuta intuizione di un possibile esito promozionale della cultura volgare sentita come elemento intimo ed essenziale della propria azione politica, dalla quale scaturirono iniziative basilari per la letteratura cinquecentesca. 2 Mi è capitato in più occasioni, ma forse mai con sufficiente chiarezza di sottolineare l’importanza e l’influenza di alcuni autori, nel primo trentennio del Cinquecento in ambito napoletano, portatori dello spiritualismo di derivazione platonico-ficiniana, o teologia platonica, alla quale Vittoria Colonna fu condotta dai primi anni del suo soggiorno ad Ischia. Quegli anni sono segnati dalla presenza di Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Girolamo Britonio, il Capanio, Antonio Minturno ma anche da Giano Anisio, Marcantonio Flaminio, Onorato Fascitelli, i fratelli Folengo, Scipione Capece, Bernardo Tasso e tanti altri ancora. La Colonna quindi, prima della venuta di Valdès a Napoli, prima ancora dell’Ochino, aveva maturato una spiritualità influenzata dal platonismo, dalla filosofia umanistica e dall’agostinismo preriformato. Dopo il 1530, la marchesa ascoltava con trasporto Valdès, ancor di più Bernardino Ochino e Reginald Pole proprio perché i loro sermoni non le suonavano in realtà nuovi e, poi, per la medesima ragione, da una parte ascoltava le prediche di Ambrogio Politi e dall’altra disapprovava il decreto sulla giustificazione. Il motto inciso sul cartiglio (Pandit et abdita orbi) nel frontespizio della prima edizione del De’ rimedi naturali di Giulio Iasolino 3 racchiude la memoria della storia appena trascorsa, gloriosa e terribile. Nel frontespizio il gigante Tifeo, incatenato e tormentato dal peso del monte Epomeo, emana un soffio infuocato dalla bocca, i capelli sono sconvolti dalla sua stessa forza e la gamba destra piegata sorregge il castello degli Avalos, ricordato, dopo 1   Sono numerosi i riferimenti storici sul ruolo politico-culturale della famiglia Avalos e sull’estensione dei loro domini in età moderna, a tale scopo rimandiamo agli studi più recenti di Maria Antonietta Visceglia, Identità sociali. La nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano, unicopli, 1988, pp. 108-110 ; Flavia Luise, I D’Avalos. Una grande famiglia aristocratica napoletana nel Settecento, Napoli, Liguori, 2006, pp. 28-29. 2   Il quadro della letteratura volgare a Napoli nella prima metà del Cinquecento è stato ricostruito da carlo dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, « Giornale storico della letteratura italiana », 140, (1963), pp. 161-211. 3   Giulio Jasolini, De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hoggi detta Ischia. Libri due di Giulio Iasolino filosofo, et medico in Napoli. Nelli quali si dimostrano molti rimedi naturali, dal detto Autore nuovamente ritrovate, oltre quelli, che lasciarono scritti gli Antichi. Con licentia et privilegio. In Napoli, appresso Gioseppe Cacchij, mdlxxxviii. L’edizione del 1588 è dedicata a Geronima Colonna d’Aragona, figlia di Ascanio Colonna e Giovanna d’Aragona, nipote della marchesa di Pescara. Il disegno per l’incisione del frontespizio è stato attribuito al viterbese Mario Cartaro ; a questo proposito rimando alla scheda di Barbara Agosti in *Vittoria Colonna e Michelangelo, a cura di Pina Ragionieri, Firenze, Mandragora, 2005, pp. 33-34 (Il testo dello Iasolino è stato ristampato da Imagaenaria Edizioni Ischia nel dicembre 2000 a cura di Ugo Vuosso) ; sullo Iasolino cfr. paul buchner, Giulio Iasolino. Medico del Cinquecento che dette nuova vita ai bagni dell’isola, Milano, Rizzoli, 1958.  









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concetta ranieri

circa due secoli, arx fulgens, dal gesuita Camillo Eucherio Quinzi (o de Quintiis). 1 Fondato da Alfonso il Magnanimo, scrigno di memorie antiche, la roccaforte affidata e difesa da Iñigo d’Avalos (padre di Francesco Ferrante) contro le incursioni di Carlo VIII ; 2 sui suoi bastioni furono poste le insegne regali di Federico, le quali vi trovarono sicura protezione. 3 Costanza d’Avalos, principessa di Francavilla, difese l’isola dalle incursioni francesi, celebrata da Camillo Eucherio de Quintiis come un nuova Camilla :  



destinata a superare la gloria della gente armata di pelta. Come bene accresci tu gli allori degli avi e dei nipoti, progenie degli Avalos, nobil sposa dell’inclito rampollo Del Balzo, […]. Certamente tu stessa, fedelissima custode del tuo re, da sola capace di logorare il nemico, proclami invita Inarime con la sua rocca contro le schiere, la flotta e minacce dei francesi e difendi la cittade a te affidata. […] Solo la rocca, che è tuoi manipoli difesa, conserva, intatta, le insegne regali di Federico. 4

Sin da giovane, Costanza d’Avalos, nella casa del padre, fu circondata da poeti e letterati :  

la casa sua era ricetto di quanti uomini dabbene erano nel Regno […] Dilettossi maravigliosamente di libri, e aveva in casa una sua bellissima libraria ; tutti libri degnissimi, di mano de’più belli scrittori d’Italia, e bellissimi di miniature di carte ; e d’ogni cosa gli voleva in superlativo grado, e non guardava quello che si spendesse, fussino libri degni. 5  



1   Camilli Eucherii de Quintiis, Inarime seu de balneis Pithecusarum libri vi, Napoli, Felice Mosca, 1726 (incisione di Andrea Mailar su disegno di Antonio Baldi), pubblicato a Napoli nel 1726 dedicato a Giovanni V, re di Lusitania. Nel lib. i, vv. 114-121 : « Ille ter in Superos tentatem bella, trisulco / fulmine dejectum, flammasque ex ore vomentem/torquet adhuc vindex, subicitque Typhoea saxis, / aeternum premit. Frustra indignantibus audet / saepe humeris molem, et durum cervice rebelli / excussisse jugum. Multo latus igne perustum / et movet, et motis circum tremit Insula sylvis ». 2   L’isola di Ischia era possesso del marchese del Vasto dal momento in cui, alla morte di Ferrandino, il governo del Regno di Napoli passò allo zio Federico e Luigi XII preparava l’annessione del regno di Napoli. Il re di Francia comprese quindi la necessità di un accordo con Ferdinando il Cattolico e con il trattato di Granada del 1500 i due sovrani stabilivano la spartizione del regno di Napoli. Federico, non sostenendo l’attacco dei francesi si rifugiò ad Ischia ove fu raggiunto da Fabrizio Colonna, sottrattosi alla prigionia franco-spagnola. Prima di partire esule per la Francia, conferì al Marchese del Vasto la castellania dell’isola di Ischia. 3   C. E. de Quintiis, Inarime seu de balneis Pithecusarum, libro i, cit., vv. 1905-1946 : « Et quamquam irrumpens toto victricia regno / arma ferat Ligeris ; bacchantiaque agmina late / pervolitent : arx una tuis defensa maniplis, / regia tum sospes Friderici insignia servat. / Hos tibi, belligeri suppar genitoris imago, / indiscreta aliis, gratusque tuentibus error, / hos animos quondam pater addidit Innicus, ex quo / te trabeas, palmasque inter, proavumque curules / edidit egregiis aequantem nomina factis. [...] / Hic tibi vel primis genitor praelusit ab annis : / et servare fidem docuit ; [...] ». 4   C. E. de Quintiis, Inarime seu de balneis Pithecusarum, libro I, cit, vv. 1905-1946. 5   Vespasiano da Bisticci, Le vite, a cura di Aulo Greco, Firenze, Sansoni, 1970, p. 398. Nella biblioteca Nazionale di Napoli il ms. xiv.G.16 (sec. xviii) contiene una copia dell’inventario dei libri e manoscritti posseduti da Costanza, alcuni dei quali appartenuti a Federico d’Aragona, re di Napoli. Questo manoscritto era già noto a tammaro de marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Milano-Verona, 1947-1969, Supplemento, vol. i, 1952, p. 19. raffaella de vivo, La biblioteca di Costanza d’Avalos, « Annali di Filologia Romanza dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli », xxxviii (1996), n. 2, pp. 287-302.  























vittoria colonna e il cenacolo ischitano

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Insieme al fratello Alfonso furono istruiti « di laudabili costumi e (Iñigo, il padre) volle ch’eglino avessino notizia delle lettere latine e di tutte le cose che si appartengo a’figliuoli de’ principi, come era lui ». Novella amazzone, « oracolo di prudenza […] una nuova Reina Sabba. Molti per consiglio ricorrevano, et ella, d’ogni cosa saviamente discorrendo, mostrava trapassar la capacità dell’intelletto femminile ». 1 Nel 1501 la principessa di Francavilla ospitò nel castello Agnesina da Montefeltro, 2 cresciuta quest’ultima, nello splendore della corte di Urbino il cui palazzo  







il più bello che in tutta Italia si trovi ricco di drappi d’oro, di seta e d’altre cose simili […] ricco di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d’ogni sorte [...]. A cornice di tutto ciò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornati d’oro e d’argento, estimando che questa fusse la suprema eccellentia del magno palazzo. 3

Nel castello d’Ischia, Agnesina visse momenti di grande tranquillità : circondata dai maggiori ingegni del tempo e sotto la tutela delle famiglie nobiliari dei Colonna, degli Avalos e degli Aragona mostrò l’eccellenza delle sue virtù : la nobiltà d’animo, pari alla grandezza del suo casato, la saggezza delle sue letture, degne di una angelica mente, la curiositas dell’ingegno, simile a quella del sapiente Ulisse : è la nova Arthemisia così celebrata da Ludovico de Varthema nel 1510 nell’edizione a stampa del suo Itinerario. 4 Ludovico degli Arrighi consegnava a Vittoria, da poche settimane sposata al dulcissimo consorte, un esemplare manoscritto dell’Itinerario e nella lettera di dedica, (assente nella redazione a stampa) celebra « il sublime et svelto ingegno, lo excelso et elevato spirito », riconoscendo nella « serena fronte » della giovane poetessa l’eredità morale del padre Fa 













1   Scipione Ammirato, Delle famiglie nobili napolitane, parte seconda, in Firenze, per Amadore Massi da Furli, 1651, pp. 95-98. 2   Erminia Tordi, Agnesina di Montefeltro, madre di Vittoria Colonna marchesa di Pescara, Firenze, C. A. Materassi, 1908. Nel 1501, Agnesina, insieme ai suoi figli, fu costretta a rifugiarsi nelle austere stanze del castello ischitano, dopo che i loro beni erano stati confiscati e il castello di Marino saccheggiato e dato alle fiamme dal generale Aubigny per volere di papa Borgia. 3   Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, introduzione di Amedeo Quondam, Milano, Garzanti, 1981, ii, pp. 17-8. 4   Il Varthema dedicò ad Agnesina l’Itinerario de Ludovico de Varthema bolognese nello Egypto, nella Surria, nella Arabia deserta et felice, nella Persia, nella India e nella Ethiopia. La fede, el vivere e costumi de tutte le passate provincie. Stampato in Roma per maestro Stephano Guillereti de Loreto e maestro Hercule de Nani bolognese, ad istantia de maestro Lodovico de Henricis da Corneto Vicentino, nell’anno 1510 a di 6 de decembrio. Questa stessa data è riportata nella lettera di dedica alla duchessa di Tagliacozzo (cc. v-vi) : « Alla illustrissima et eccellentissima signora la signora contessa de Albi et duchessa de Tagliacozzo madama Agnesina Feltria Colonna. Ludovico de Varthema bolognese ». « Repensando poi ad chi meglio potesse indirizzare questa mia sudata operetta, me occorse V. Illustrissima et excellentissima Signoria quasi unica observatrice de cose notabili et amatrice de ogni virtù. Né me par vano mio iudicio per la infusa doctrina dal radiante lume delo illustrissimo et excellentissimo signor duca de Urbino suo genitore, quasi ad noi un sole de arme et de scientia. Non parlo de lo eccellentissimo signor suo fratello, che in studi greci e latini (giovene anche) fe’ tal de esperientia che hogi è quasi un Demostene et Cicerone nominato. Onde vostra illustrissima signoria, havendose da sì ampli et chiari fiumi omne virtù derivata, non po’ altro che delectarse de le opere honeste et haverne gran sete quantunche ad quel che in epsa se cognosce, volentiere dove le ale de la mente vola, con li corporei piedi andaria. Recordandose esser questa/Vv una delle laude data al sapientissimo et facundo Ulixe, molti costumi haver visti de homini et molti paesi. Ma perché vostra illustrissima signoria cerca le cose del suo illustrissimo signore consorte e occupata qual come nova Arthemisia ama et observa, et circa la inclita fameglia, qual con mirabil regalo de costumi, dirrò esser assai se l’animo suo pascerà tra le altre opere optime de questa benchè inculta forse fructuosa lectione. Né sarà como molte altre che porgono le orecchie ad canzonette et vane parole, le hore sprezzando, contrarie alla angelica mente, che vostra illustrissima signoria che punto de tempo senza qualche bon fructo passar non lassa ». La dedica del Varthema ad Agnesina è stata pubblicata da pietro barozzi, Ludovico de Varthema e il suo Itinerario, Roma, Società geografica italiana, 1996, pp. 55-57.  









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brizio, « la antica et vera Romana gravità ». 1 Vittoria, « illustris domicella romana », secondo il diritto franco e il costume nobile, more magnatum, aveva acconsentito alle nozze con Francesco Ferrante, patrocinate anni prima dal giovanissimo re Ferrandino rinsaldando così i legami tra gli Avalos e la dinastia aragonese a Napoli. Tutta la storia, « di sposa, figlia, sorella, e vecchia madre », rivissuta e filtrata dalla memoria, risuona nella scrittura, da lì a poco, nei versi della Pìstola de la illustrissima signora marchesa di Pescara ne la rotta di Ravenna, 2 a « narrar le dubie voglie e gli aspri martir » per la prigionia del marchese di Pescara, catturato durante la battaglia. Ischia, locus amoenus, iconica visualizzazione di uno scenario teatrale di luci e ombre, a mo’ di presagio, quando Francesco Ferrante nel 1512, dietro le insegne spagnole, fu fatto prigioniero durante la Pasqua, si copre di nebbia tenebrosa, di colori funesti, l’aria sembra « uno speco di caligine nera », i venti soffiano minacciosi, piangono « le sirene e i delfini », il mare « pareva inchiostro » : tra visione e storia si consuma il reale : la Colonna « con volto mesto e tenebroso, / piangendo, alla magnanima Costanza » narrò « l’augurio mesto e spaventoso ». In questi versi son presenti anche « li fatti che volan tant’alto /che mai di fama e gloria seran vòti » del padre Fabrizio, interprete di ideali riforma religiosa e politica. Fabrizio Colonna è l’ultimo custode degli ordini savi : militare, (stimare ‘i modi e gli ordini della disciplina militare’), ecclesiastico : (‘onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi’) e civile (‘costringere i cittadini ad amare l’un l’altro, a vivere senza sètte, a stimare meno il privato’). Le guerre d’Italia, horrende e dispietate, avevano conosciuto la gran virtù di Fabrizio, virtù che « s’è dimostrata/ d’un Hettor, d’un Achille », « la gran colonna del nome romano », (così nei versi dell’ Orlando Furioso). Dilectus filius, noster vir lo invocò Giulio II affidandogli il comando militare della Lega Santa, restituendolo alla Roma cristiana, dalla quale anni prima era stato bandito da papa Borgia. Nell’Arte della guerra, 3 Fabrizio è simbolo di una « diversa Roma, l’antica, repubblicana e guerriera », avverso ai Medici, tra i giovani degli Orti Oricellari, condannato a conoscere i problemi della « ruina d’Italia », eroe senza patria, al servizio della Spagna, esperto nel mestiere delle armi, fautore della Riforma della Chiesa.  































































L’umanista veneto Francesco Pescennio Negro, precettore nel 1512-1513 dei figli di Laura 1   Emanuele Casamassima, Ludovico degli Arrighi detto Vicentino copista dell’ “Itinerario” (codice Landau Finaly, 9, Biblioteca Nazionale di Firenze), « La Bibliofilia », lxiv (1962), pp. 116-162 ; Francesco Barberi, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze, Olschki, 1983 ; Mirella Scala, Encomi e dediche nelle prime relazioni di Vittoria Colonna, « Periodico della Società Storica Comense », vol. liv, presso la Società, Como, 1990, p. 98 ; si veda ancora la scheda di Barbara Agosti in *Vittoria Colonna e Michelangelo …, cit., p. 56 ; Stefano Pagliaroli, Ludovico degli Arrighi, « Studi medievali e umanistici », iii (2005), pp. 47-79, 50, 62-63 ; per un aggiornamento bibliografico cfr. Danilo Romei, Ludovico degli Arrighi. Tipografo dello “stile clementino” (1524-1527), in *Officine del nuovo. Sodalizi fra letterati, artisti ed editori nella cultura italiana tra Riforma e Controriforma, Atti del Simposio internazionale Utrech, 8-10 novembre 2007, a cura di Harald Hendrix e Paolo Procaccioli, Roma, Vecchiarelli editore, 2008, pp.131-147. Nel 1517 il Vicentino aveva allestito per la Colonna un manoscritto contenente una traduzione latina dell’Etica di Aristotile : Amsterdam, Universiteitsbilioteek, ms. ii A 19 cfr. Stanley Morison, Early Italian writing-books : Renaissance to Baroque, edited by Nicolas Barker, Verona-Boston 1990. La dedica alla Colonna nel ms. fiorentino si trova alle cc. iir-v (n. a matita) : « Lodovicus de Varthema bolognese a la illustrissima Signora Victoria Colunna de d’Avalos marchese de Pescara P. D ». 2   Pìstola de la illustrissima signora marchesa di Pescara ne la rotta di Ravenna pubblicata in Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi non men oscuri che utili e necessarii del Furioso, Boccaccio, Petrarca e Dante novamente dichiarati e raccolti da Fabricio Luna per alphabeta, stampato in Napoli per Giovanni Sultzbach alemanno apresso la gran Corte della Vicaria, 1536. Per questa lettera cfr. Carlo Vecce, Vittoria Colonna : il codice epistolare della poesia femminile, « Critica letteraria », xxi, (1993), pp. 3-32. 3   Niccolo Machiavelli, Arte della guerra in Opere di N. M. a cura di Mario Bonfantini, Milano-Napoli, 1954, pp. 501-502. Cfr. Carlo Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, p. 260.  





































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Sanseverino e di Iñigo d’Avalos, nella voluminosa Cosmodystichia, inviata a Leone X da Ischia nel 1514, ma iniziata circa dieci anni prima, nel capitolo compreso ai ff. 689-690 dedica a Vittoria Colonna un lungo e cortigiano encomio ove la poetessa trionfa exemplum di unica bellezza e rare virtù, capace di sostenere la costante lontananza dall’amato fortificata dall’altitudo ingenii e dall’elegantia litterarum dei tanti poeti e intellettuali accorsi allora ad Ischia. 2 In una voluta e ricercata separazione dal mondo, Vittoria trasforma le austere stanze del castello d’Ischia in terreno fertile per gran parte degli umanisti meridionali e non. Nel regesto delle fonti, la Commedia di Dante, oltre a rappresentare, nel 1515, una riemergenza d’un testo autorevole e autorizzante, (riproduzione dell’edizione del 1502 curata da Pietro Bembo), è allusione bifronte a una sapienzialità laica e politica della marchesa, alle doti impareggiabili di honestate, vergogna, senno, modestia, cortesia, puritate, gratia, castità, magnificenza, et eloquenza, doti che incorniciano la « bionda testa » rendendola « isplendida e vaghissima a’ riguardanti » (così nella lettera di dedica di Andrea Torresani). 3 Questa 1









1   Il Negro inizia a comporre la Cosmodystichia, intorno al 1503 come si legge nella sottoscrizione, datata al 1513. Il manoscritto autografo si conserva nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano Latino 3971. L’umanista veneto presentò e dedicò a Vittoria Colonna, dopo aver ricevuto un largo compenso, l’Historia Theodosiae martyris, « huic tantae et tam gloriosae principi ego quoque non invitus Theodosiae meae historiam, pulchram, variam et oblectabilem, non sine libelaralissima eius antipelargosi, scripsi ed dicavi ». La praefatio e la dedica dell’Historia si conservano manoscritte nella Biblioteca nazionale di Madrid, ms.1352 (olim F 61) : Franciscus Niger, Libellus de tiumphali martyrio de beatissimae virginis Theodosiae ; Niger protonotario saluta Vittoria Colonna illustrissima marchesa di Pescara (cc. 1-4). Il Negro, secondo una sua consuetudine, accompagnava sempre i testi con dei versi e l’Historia è preceduta da un componimento in terzine dedicato alla Colonna : Niger Protonotarius Victoriam Columniam Illustrissimam Piscariae Marchionissam salutat : Diva quae patris decoras Columnam : pectore excelso : gravibusque dictis Fabriti excellens soboles : potentis Pace : vel armis Sive sectantis populi minacis Terga : subiectae vel amica Dantis Corde placato potiora plebi Dona quietis Quae tuo vultu moderata fulgent Variaquae formosa facie : iucundo Semper aspectus, pietas, et omnis Gratia splendet Inde discursus animi ferocis : regimen iustum populi subacti : te foris talem referunt domi quae Splendida luces Quas tibi grates poterit celaenus Diva : pro tantis meritis referre Quem tibi servum facis et honesto Munere faustum Ille ad eoas Phaetontis oras : sive ad extremas glacies geloni : Interim laeto cape dona vultu Parva : quae Nigri pluteo remissa Te suam divam merito salutant Pronaque adorant Cecinj. Cfr. Giovanni Mercati, Ultimi contributi alla storia degli umanisti. Note sopra A. Bonfini, M. A. Sabellico, A. Sabino, Pescennio Francesco Negro, Pietro Summonte e altri, fasc. ii, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1939, (Studi e testi, 91), pp. 24-109, 88 ; 93 ; Concetta Ranieri, Vittoria Colonna : dediche, libri e manoscritti, « Critica letteraria », xiii (1985), 2, pp. 250-252 ; M. Scala, Encomi e dediche ..., cit., pp. 98-100. 2   « Tali compulsi philosophi complures, vates oratores, musici et reliquarum omnium artium loritae candidissimo signandum lapillo eum diem censuere, quo sibi vel tantam divam conspicere, vel de rebus litteraris communicare, aut tandem de eius virtutibus scribere daretur a fortis » (c. 690r). 3   Dante col sito, et forma dell’Inferno tratta dalla stessa descrizione del poeta. Impresso in Vinegia nelle case d’Aldo et d’Andrea di Asola suo suocero nell’anno mdxv. Nelle prime due carte non numerate trova posto la dedica « Alla valorosa madonna Vittoria marchesana illustrissima di Pescara. Andrea di Asola. Havendo nuovamente,  





















































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immagine della Colonna troverà la sua rappresentazione iconografica nel comparto centrale del polittico eseguito per la chiesa delle clarisse ad Ischia, situata internamente al castello Aragonese (oggi è situato nel convento di Sant’Antonio). Leone De Castris, con molta cautela, ha riconosciuto in Girolamo Ramarino da Salerno l’autore del polittico. Nella sezione centrale è riconoscibile la Madonna delle Grazie, seduta su una coltre di nubi, accompagnata da putti, cherubini e da due angeli musicanti, ai suoi piedi compaiono due figure di donne : quella a sinistra, di età matura e in abiti vedovili, è Costanza d’Avalos, vedova di Federico del Balzo ; a destra Vittoria Colonna, con un libro tra le mani, indossa una sontuosa veste damascata, in un trionfo di rosso e oro. 1 Negli scomparti laterali sono dipinti San Francesco d’Assisi, Santa Caterina d’Alessandria e Maria Maddalena (insieme a Ludovico di Tolosa, San Giovanni Battista, San Tommaso d’Aquino) figure care alla poetessa sulle quali discuterà con Gaspare Contarini, con Costanza d’Avalos, duchessa d’Amalfi, e Bernardino Ochino negli anni della sua maturità. A partire dagli anni venti la formazione religiosa e spirituale di Vittoria Colonna si perfeziona attraverso approfondimenti e contatti intellettuali o culturali, il cui riconoscimento molte volte è problematico e ambiguo, mentre non sempre è possibile individuare influenze e debiti. Circondata da una “scuola di religiosi” di cui Iacopo Sannazaro, Egidio da Viterbo, Scipione Capece “maestro universitario e poeta d’Ischia”, i fratelli Folengo e il bendettino Onorato Fascitelli 2 poi, sono stati gli esponenti più significativi e con i quali la Colonna ha intrattenuto rapporti di amicizia e corrispondenza poetica, con loro ha maturato e condiviso le prime istanze religiose e spirituali sulle quali, in seguito si depositò, almeno in parte, il messaggio valdesiano. Jacopo Sannazaro si trova ad Ischia dal 1505, al ritorno dalla Francia, chiamato a corte da Costanza d’Avalos. Sincero, forte dell’esperienza francese, è il testimone più significativo dell’incontro tra la poesia umanistica e le nuove esigenze spirituali e morali e a questa altezza si può ipotizzare avviata parte della sua produzione religiosa in latino, dalla Lamentatio 3 al De partu virginis che la marchesa conobbe, al più tardi, in assenza di testimo 



illustrissima madonna, il divino poeta Dante a niuno degli altri scrittori o antichi o moderni che essi si sieno inferiore ; (se all’altezza, et grandezza del verso et alle tali e tante scienze, quali et quante in esso si contengono con occhio discernevole si risguarderà) ristampato. Non m’ha parso sotto più chiaro nome, quanto quello di vostra signoria è, portarlo fuori, et a ciò non solo la mia servitù, verso la nobilissima casa di lei spronato m’ha, ma più anchora la viva fama delle immortali et divine sue bellezze, le quali di giorno in giorno, così con la giovanetta età crescendo vanno et se stesse avanzando, che veramente si crede. E ’l mondo ne ragiona che né in questa nostra, né in qual altra si voglia età donna più bella o più compiuta si vide. Et quantunque questo infinitamente sia, la bellezza dell’animo perciò di quelle del corpo niente minori sono, anzi di gran lunga le trapassarono pure, perché quelle niuna cosa hanno che naturale non sia, et queste, l’arte non meno che lla natura seco unita tengono. Le quali cose, sì come le care gemme, la vostra bionda testa ornano, et abbelliscono, così di tutte le belle et pregiate virtuti, quasi celeste arco di mille colori dipinto, isplendida e vaghissima a’ riguardanti vi dimostrano. Honestate, vergogna, senno, modestia, cortesia, puritate, gratia, castità, magnificenza e eloquenza tanta quanta in valorosa donna si pottrebbe, in voi sola tutte e abondevolmente si vedono. Perciò da tali e tante doti sospinto, questo mio dono a vostra signoria dedico e consacro alla cui dolce mercè inchinevolmente bascio le mani ». Questo testo è stato pubblicato in Vittoria Colonna, Carteggio, a cura di Ermanno Ferrero, Giuseppe Müller, seconda edizione con Supplemento di Domenico Tordi, Torino, Loescher, 1892, pp. 399-400. 1   Su questo polittico si veda la scheda di Pier Luigi Leone de Castris in *Vittoria Colonna. Dichterin und Muse Michelangelos a cura di Sylvia Ferino-Pagden, Vienna, Skira, 1997, pp.135-136 e quella di Stefano Corsi nel catalogo della mostra fiorentina *Vittoria Colonna e Michelangelo ..., cit., p. 46. 2   Luigia Altopiedi, Onorato Fascitelli Poeta del Cinquecento, Campobasso, Palladino, 2002. Rimando a un mio contributo ove sono stati analizzati i rapporti intercorsi tra questi letterati e Vittoria Colonna : Premesse umanistiche alla religiosità di Vittoria Colonna, « Rivista di Storia e Letteratura Religiosa », 1997, pp. 531-548. 3   carlo vecce, maiora numina . La prima poesia religiosa e la Lamentatio di Sannazaro, « Studi e problemi di critica testuale », 43 (1991), pp. 49-94.  













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nianze, con la stampa del 1526. Sannazaro aderisce alla linea platonica del Ficino, lungo un itinerario umanistico, nel quale Egidio da Viterbo era fortemente compreso. Egidio affermerà che la rivelazione contenuta nei testi classici rappresentava una prisca theologia 2 sostanzialmente parallela a quella biblica nel predire i misteri del Vangelo. E questa impostazione, che svalutava la dottrina ebraica, trovava un punto d’appoggio importante nella filosofia più stimolante fra gli umanisti del Cinquecento, l’Agostinismo, con la sua idea, che in modo misterioso e non cosciente, anche fra i pagani Dio potesse donare la grazia. È pur vero che Sannazaro nel suo poema andò oltre i limiti generosi che certi teologi della sua epoca gli consentivano, sicché il De partu virginis andò soggetto ai rilievi che capitò di fargli anche allo stesso Egidio. Il percorso della marchesa si avviava in questo clima e in questo gusto poetico : sospinta da un forte orgoglio di autodidatta congiunto alla volontà di voler affidare il suo esercizio lirico ad un ambito esclusivamente privato. Dagli anni Venti in poi la sua vita, e con essa tutta la sua opera, sono caratterizzate da antinomie contrastanti : la speranza e il dolore ; i recessi dell’oblio e il dovere ; l’annichilimento individuale sino al desiderio di morte e al pentimento poi. La cultura religiosa non arriva alla Colonna attraverso una elaborazione sistematica di pensiero, ma la raggiunge chiarendo a se stessa i motivi di un sentire platonico-agostiniano unito a quell’indefinito senso di ansia religiosa la cui origine è in accordo con il De vera religione e il clima platonizzante dei rimatori cinquecenteschi. Il suo ‘cangiato stile’ degli anni maturi risponderà al mutato sentimento religioso, all’esigenza del reale, e, dopo tante esercitazioni poetiche, amorose, epistolari, encomiastiche, trova alimento nella mutata cultura e differente religiosità esprimendo sia una necessità morale per una fede ‘illuminata’ sia una esigenza letteraria per una poesia che doveva per verba riferire sentimenti religiosi. Verità storica e sentimento religioso, quindi, uniti da un pathos autobiografico, alimentati dalle passioni di quanti la affiancarono nella sua esperienza poetico-religiosa. 1









Ischia scrigno di storia Ischia diviene simbolo atemporale, rifugio di pace che lenirà gli affanni di tutti quelli che sono fuggiti da Roma e dai Lanzi : Paolo Giovio, giunto nel luglio del 1527 vi rimase fino alla fine del 1528 :  



Quum in ipso incredibili et longe luctuosissimo totius pene religionis et Romanae Civitatis interitu gravis pestilentia super tot accumulatas clades Hadriani molem invasisset, in qua Clemens iam deditus, et senatus barbarorum custodia servabantur, totque circum me iactis fulminibus totam veteris atque perpetui officii mei cum pontifice consuetudinem abrupisset, arce eiectus in Aenariam veni ad Victoriam Columnam, foeminam cum forma et pudicitia illustrem, tum omni virili laude longe dignissimam. 3 1   Jacopo Sannazaro, De partu Virginis, a cura di Charles Fantazzi e Alessandro Perosa, Firenze, Olschki, 1998 ; nella British Library di Londra (G 10031) si conserva un esemplare a stampa con con uno stemma contenente le armi di un Colonna e molto probabilmente si tratta di Vittoria Colonna, come si deduce dalle lettere capitali V.C. 2   John W. O’Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform, Leiden, Brill, 1968, pp. 19, 49-55. 3   Il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, in Paolo Giovio, Opera, a cura di Ernesto Travi-Maria Grazia Penco, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1984, pp. 147-321 (liber primus, p. 167) concepito nell’atmosfera del cenacolo d’Ischia, richiama apertamente il Sacco di Roma : « Allorché una grave pestilenza, proprio nel momento dell’incredibile e assai luttuosa distruzione quasi dell’intera religione e della città di Roma, oltre alle tante stragi aumentate, aveva invaso la mole di Adriano, alla quale Clemente aveva già rivolto la propria attenzione ; il senato era allora custodito dai barbari, e poiché molti fulmini s’erano scagliati su di me, dopo aver interrotto ogni consuetudine con il pontefice relativa al mio antico e perpetuo incarico, bandito dalla rocca, giunsi  







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Costanza e Alfonso d’Avalos accolsero il vescovo di Nocera con grande benignità :  

Itaque ea caritate eoque liberali animo sum receptus, ut me non amicum modo, vel necessarium clientem, sed exoptatum aliquem propinquum advenisse coeteri familiares esitimarent. Certatum enim est exquisista atque perpetua benignitate, cum ab ispso Alphonso Davalo duce, et bellica virtute simo, tum et ab huius amita Costantia Davala, cuius ingenio nihil nobilius aut sanctius reperitur 1

Nell’isola regnano prosperità, armonia e un’umanità pacifica, ove l’alto grado di civiltà si coniuga con un vero e proprio culto del sapere ; una terra descritta e un po’ immaginata, che anni dopo nelle pagine di Luca Contile, dopo il 1540, si configurerà in una società di pacata concordia derivata dal « seme di quei figliuoli di Re et di quei cavalieri di casa d’Avalos ». 2 Ischia, il castello Aragonese, le selve dell’Epomeo, Cartaromana e l’antico lago disegnano un grandioso apparato scenografico di ovidiana memoria che si dipana tra scogli, giardini e animali producendo nuclei metamorfici dal sapore sapienziale : una natura artificiosa e artistica dove ogni sorte di mirabilia era reperibile in natura. Il mondo  







ad Ischia presso Vittoria Colonna, donna tanto illustre per bellezza e pudicizia, quanto assai meritevole della lode di ogni uomo » ; cfr. Franco Minonzio, Studi gioviani. Scienza, filosofia e letteratura nell’opera di Paolo Giovio, Como, Società Storica Comense, 2002. 1   Ibidem : « E così fui ricevuto con tanto affetto e tanta liberalità che tutti gli altri familiari mi consideravano giunto non solo in qualità di amico o di ospite toccato in sorte, ma come un parente desiderato. Ci fu infatti una lotta di squisita e costante benignità tanto da parte dello stesso duca Alfonso d’Avalos, famosissimo per le sue virtù civili e militari, quanto anche per parte di Costanza d’Avalos, sua zia paterna, del cui ingegno niente di più nobile e pio si può ». 2   La lettera è indirizzata a Bernardo Spina (11 febbraio 1547) : il Contile, a guisa di topografo, descrive il suo arrivo ad Ischia al seguito di Maria d’Aragona : « Siamo [Contile, la marchesa del Vasto e il marchese di Pescara] giunti qui a un’hora di notte passando da Cuma, et quivi montammo in una delle galee del S. Antonio Doria. Hora io vò sottilmente mirando questo scoglio, la sua altezza, questo mare d’attorno, con tutto il suo chiaro orizonte. Hier sera giugnemmo, et questa mattina mi sono dato alla pastura dell’occhio. Come haverò ben visto et misurato con il giudicio la città et l’isola, ve ne darò contezza come topografo », in Delle lettere di Luca Contile. Primo volume diviso in due libri nella inclita città di Pavia appresso Girolamo Bartoli, 1564 ; Amadio Ronchini, Lettere di Luca Contile tratte dagli autografi che si conservano a Parma nell’archivio governativo, Venezia, Tipografia del commercio di Marco Visentini, 1872, « Archivio Veneto » : « Sappiate che ’l sole vagheggia se stesso quando percuote questo scoglio, et ho posto mente fissandogli la vista attorno, che spargendo i suoi raggi per tutto, qui se ne fa più copia, anzi pare che si possa prendere con mano. Hora ch’gli cavalca il montone et scaccia borea, et desta favonio, si lieve tra le due corna del monte Vesuvio, et batte appunto nella finestra della signora Marchesa. Fa (vi prometto), una vista da non crederla. L’isola circonda diciotto miglia, si distende quasi in forma ovale, è montuosa verso mezzo giorno, ma non troppo aspra, produce buonissimo vino, et vi sono molti giardini, che riseggono in spiaggie, et nelle vallette riposte. Si semina frumento et altra forte di biade, anche che poco se ne raccolga. Ci si vede veramente abbondanza d’ogni buon frutto. Calandosi verso il mare che guarda a Gaeta, si perviene nella pianura, dove sono molte ville, et assai più habitate che quelle di monti, se ben dishabitato per suspetto dell’armata turchesca. È cosa stupenda vedere la selva di cedri, di limoni, limoncelli et d’aranci. Imperò i cedri vi nascono in tanta quantità et di tanta grandezza che non se può dire, senza dubbio di non esser tenuto / (128v) bugiardo. La parte verso l’occaso è fertile, ma pericolosa di fuste, né luogo è però dove non nasca il vin greco, o vero il vino sorbegno. [...] A man dritta si va verso la città chiamata Pitacusa, dalla copia di vasi di terra che ci si facevano [...] La città ha belle habitationi, et già molti anni sono ci si entrava con difficultà, fin tanto che ’l marchese di Pescara / (130r) vecchio fece tagliare il sasso duro come acciaio, onde fu fatta una commoda entrata [...] La città ha belle donne, grandi di vita, di colore olivegno, ma di civile et nobile aspetto, che in tutto mi persuado esser seme di quei figliuoli di re et di quei cavalieri di casa d’Avalos » (In una lettera del 12 marzo 1547. Contile sa perfettamente che quel mondo rievocato è perduto : lo è il Regno e i suoi re, con trasperente disegno riconosce l’antico nei luoghi e nelle figure : a Pitecusa, i personaggi contemporanei, il marchese di Pescara, le belle donne di civile e nobile aspetto, consevano le virtù degli antichi, e insomma Ischia è ormai solo un luogo dell’anima. Su Luca Contile cfr. Abd-El-Kader Salza s., Luca Contile. Uomo di lettere e di negozj del secolo xvi. Contributo alla storia della vita di corte e dei poligrafi del ’500, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2007 [rist. anast. di Salza 1903] e i recenti studi raccolti in *Luca Contile. Da Cetona all’Europa, Atti del seminario di studi (Cetona, 20-21 ottobre 2007), a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Vecchiarelli, 2009.  

































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della mutevolezza e della illusorietà diventa palcoscenico di un mondo politico e militare e di una letteratura che dovevano in sé assommare i confini della nuova cultura europea. Il dialogo del Giovio si sviluppa all’ombra degli eventi del 1527, lo storico comense vuole trovare una risposta a quanto è accaduto a Roma, « nella sacrosanta casa di tutte le nazioni ». L’episodio del Sacco, rappresenta il crollo di una « proposta di società dove l’antico era moderno, dove l’impero di Costantino era l’impero di Clemente VII, dove il papa era imperatore », 1 diventa forte il collegamento logico che lo storico lombardo istituisce tra il Cristianesimo e il mito dell’antico, contrapposti al luteranesimo. Ischia, sede degli Eroi e delle Muse, è un porto sicuro e sereno :  









Quis enim tam alieni ferreique animi, tam inhumanae impiaeque mentis fuerit, qui vel in tutissimo portu ac iucundissimo Heroum et Musarum domicilio laetari vel laxare animum, vel molestissimis curis liberatus esse possit ? 2  

e il mito di Tifeo s’inserisce nella narrazione a garanzia dell’esemplarità di questa terra :  

Horrida est supra littus et confragosa loci facies antiquis Aenariae incendiis deformata : multis enim ante saeculis quam Vesuvus arserit, Aenariam summo caumine evomuisse flammas, atque hunc tractum percoctis et eliquatis cotibus penitus evastasse constat, natamque exinde fabulam poetarum carminibus de Tiphei gigantis supplicio, quem superbe coelitibus bellum minantem, ac saevos ore et naribus spirantem ignes, tota simul insula supino reluctantique imposita Iuppiter iratus et ultor sopresserit. Sed quantum atrae et squallidae sterilitatis ea incendia proximis insuale partibus intulerunt, tantum natura humanis usibus semper benigna, apud subiectum littus certa ac fertili piscatione compensavit.3  

Una scuola di religiosi A Napoli negli anni trenta Girolamo Seripando, il valdesiano Mario Galeota 4 e il suo confidente Augusto Cocciano sono sostenitori della filosofia religiosa neoplatonica vivissima nella città partenopea mercé l’insegnamento dell’agostiniano Ambrogio Fiandino. Nell’agosto del 1530 i pontaniani si riunivano intorno a Scipione Capece o ai fratelli Bernardino e Coriolano Martirano protetti dagli Avalos-Colonna, tra Ischia e Napoli. Il cardinale Pompeo Colonna, vicerè di Napoli, favorì nel 1531 e 1532 le prime stampe dei Varia Poemata di Giovanni Francesco Anisio. Questo testo, composto da nove libri, come ha dimostrato Carlo Vecce, 5 registra, analizzando l’elenco dei destinatari, la storia della 1   Massimo Miglio, Scritture, scrittori e storia. ii. Città e Corte a Roma nel Quattrocento, Roma, Vecchiarelli, 1993, p. 238. 2   «Infatti chi sarà d’animo tanto avverso e duro, di mente tanto inumana ed empia, tale che possa tanto rallegrarsi e alleggerire il proprio animo nel sicurissimo porto e nella felicissima sede degli Eroi e delle Muse, quanto liberarsi dai propri molestissimi affanni ?» P. Giovio, Dialogus de viris et foeminis ..., cit., p. 168. 3   «Sulla costa il luogo si presenta incolto e dirupato, deturpato dagli antichi incendi di Ischia : infatti molti secoli prima che il Vesuvio eruttasse, è certo che Ischia avesse riservato dalla sua sommità delle fiamme, e avesse devastato interamente questo tratto con pietre incandescenti riversate fuori ; e che da allora sia nata dai carmi dei poeti la leggenda del supplizio del gigante Tifeo, il quale, poiché con superbia minacciava guerra contro gli dei spirando violenti fiamme dalla bocca e dalle narici, Giove, irato e vendicatore, schiacciò sotto il peso dell’isola che fu posta sopra di lui, supino e riluttante». P. Giovio, Dialogus de viris et foeminis …, cit., p. 170 ; C. Vecce, Paolo Giovio e Vittoria Colonna, cit., pp. 67-93. 4   Pasquale Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli, Fiorentino, 1976 ; Massimo Firpo, Tra alumbrados e « Spirituali ». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze, Olschki, 1990. 5   Carlo Vecce, Giano Anisio e l’umanesimo napoletano. Note sulle prime raccolte poetiche dell’Anisio, « Critica Letteraria », (Miscellanea di studi critici in onore di Pompeo Giannantonio ii, 1 Letteratura meridionale), 88/89, (1985), pp. 64-80 ; Tobia Raffaele Toscano, Giano Anisio tra Nola e Napoli : amicizie, polemiche e dibattiti, in *Nola fuori di Nola. Itinerari italiani ed europei di alcuni nolani illustri, a cura di T. R. Toscano, Castellamare di Stabia, Tipo. Somma, 2001, pp. 91-118 (« Ager Nolanus »).  

























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poesia che va da Pomponio Gaurico, ad Agostino Nifo, al Gravina e, all’interlocutore prediletto, Antonio Seripando. Nelle edizioni del 1536 e 1538 nei libri viii e ix dei Poemata accanto agli esponenti della cultura europea, Erasmo da Rotterdam e Guillaume Budé, si configura il nuovo orizzonte culturale, le nuove frequentazioni, i nuovi amici : Scipione Capece, i fratelli Martirano, il Minturno, il Vopisco, e per concludere Vittoria Colonna 1 (ix, 75, c. 138v ; 160v) e Paolo Giovio. L’affermazione delle istanze dell’umanesimo platonico coniugato nella spiritualità valdesiana troverà una nuova conferma nelle Epistolae de Religone di Giovanni Francesco Anisio 2 insieme ai due libri di Epigrammata indirizzati a Girolamo Seripando, Scipione Capece, Onorato Fascitelli, Agostino Nifo, che unitamente a Marcantonio Epicuro, Benedetto di Falco, Luigi Tansillo, Bernardino Rota e Juan de Valdés, sono i protagonisti dell’inquietudine religiosa di quegli anni e tutt’altro che insensibili alla voce della poesia. Negli anni della repressione politica e religiosa del viceré don Pietro di Toledo, ogni forma di attività culturale venne mortificata : emblematica la sorte che toccò agli incontri degli ultimi pontaniani che si svolgevano nel palagio 3 di Scipione Capece, il quale, nel 1543 costretto a rifugiarsi presso Ferrante Sanseverino, a Salerno, 4 riprese i temi del riformismo di Valdès e dell’Ochino, celebrati in una sorvegliata elaborazione filosofica, nei versi del De principiis rerum. 5 Nel poemetto in latino, Inarime dedicato a Vittoria Colonna, Scipione Capece, in una densità di richiami mitologici, consacra lo scoglio di Enaria a dimora degli dei, domus inclita divum, primo approdo del pio Enea. 6 Il poeta, rivolgendosi all’isola, profetizza la  





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  Giano Anisio compone il poema De Ferrando Davalo et Victoria da collocarsi tra il 1517 e il 1525.   Ianii Anysii, Epistolae de Religione et Epigrammata, i, Neapoli, Solcibachius, 1538 ; l’Anisio rivolge a Valdés un penetrante elogio in versi (c. 23v) ove l’umanista napoletano si preoccupa di segnare una netta distinzione tra l’immagine di una religione credula e superstiziosa e quella degli uomini di lettere cfr. Stefania Caserta, Giano Anisio e i fermenti di riforma religiosa, « Critica Letteraria », ii, 2 (Miscellanea di studi critici in onore di Pompeo Giannantonio) (1996), pp. 57-69. 3   Fabricio Luna, sotto il lemma Palagio, dà una breve descrizione dell’abitazione del Capece : 28 « Palagio e palazzo hoggi se fanno senza l’artificio del gran Vitruvio però dirrò quella conditione d’oratio che laudaturque domus longos quae perspicit agros de la quale ben si ha servito lo signor Scipione Capece in porta Reale » in Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi non men oscuri che utili e necessarii del Furioso, Boccaccio, Petrarca e Dante novamente dichiarati e raccolti da Fabricio Luna per alphabeta, stampato in Napoli per Giovanni Sultzbach alemanno apresso la gran Corte della Vicaria, 1536 questo brano è stato segnalato da T. R. Toscano, Letterati, corti …, cit., p. 292. 4   Michele Miele, La penetrazione protestante a Salerno verso la metà del Cinquecento secondo un documento dell’Inquisizione, in *Miscellanea Gilles Gerard Meersseman, Padova, Antenore, 1970, vol. ii, pp. 829-848 ; id., Presenza protestante a Salerno durante l’episcopato di Seripando, in *Geronimo Seripando e la Chiesa del suo Tempo (Atti del convegno di Salerno 14-16 ottobre 1994), Roma, Storia e Letteratura, 1997, pp. 283-289. Dall’interrogatorio del 15 gennaio 1567, Pietro Carnesecchi dichiara che « Il signor abbate Capece può essere che io habbia conosciuto insino la prima volta che fui a Napoli, cioè 1540 ; ma certo è che quando non son stato ultimamente a Napoli non l’ho riconosciuto come persona ch’habbia visto altra volta. Ma ben l’ho salutato come amico della signora [Giulia Gonzaga] et del signor Mario [Galeota], né son entrato seco in lunghi ragionamenti : et di religione verbum nullum » Massimo Firpo, Dario Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), Edizione critica. I processi sotto Paolo IV e Pio IV (1557-1561), i, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano (Collectanea Archivi Vaticani, 43), 1998, p. 340. 5   Il poema De principiis rerum di Scipione Capece colla traduzione in verso italiano sciolto e le annotazioni di Francesco Maria Ricci. Dello stesso Capece Il poema De vate maximo, l’Elegie, gli epigrammi, e due prose latine, con le notizie storiche e critiche del conte Mazzuchelli e nel fine una elegia ed un poemetto di Onorato Fascitelli, in Venezia, dalle stampe Remondiniane, 1754 ; sulla formazione del Capece cfr. Antonio Altamura, Per la biografia di Scipione Capece, in *Studi in onore di Riccardo Filangeri, ii, Napoli, L’arte tipografica, 1959, pp. 299-315 ; Giovanni Parente, Capece Scipione, in *Dizionario Biografico degli Italiani, 18 (1975), pp. 425-428. Per quanto riguarda l’attività dell’accademia Pontaniana dopo il 1547 interessanti le osservazioni di T. R. Toscano, Letterati a corte …, cit., pp. 236-244 ; 286-292. 6   Scipionis Capycii, ad Illustrissimam Victoriam Columnam, Napoli, apude Joannem Sulsbacchium, mdxxxii : « statioque fuit quod fida carinis,/Aeneae Aenariam servat post saecula nomen » (vv. 163-164). Il poemetto è tradotto da antonio altamura, La Inarime di Scipione Capece, in *Classical Medieval and Reanaissance studies in honors of Berthold Louis Hallman, edited by Charles Henderson jr. vol. i, Roma, Storia e Letteratura, 1964 (Raccolta di studi 2



































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storia che renderà gloriosi i suoi confini : qui troverà dimora la poetessa di Marino, nella mole dell’infocato Tifeo, abbandonando le grandi città, i tetti operosi e le sedi dorate dei re e come una dea, circondata da un’area di mitica sacralità è discendente della gens Iulia. Ad Ischia si festeggeranno le sue nozze con il marchese di Pescara, eroe rifulgente di virtù, qui piangerà la morte di lui, voluta da leggi ingiuste. 1 Fu proprio Scipione Capece ad introdurre nell’ambiente napoletano Giambattista Folengo e suo fratello Teofilo 2 rifugiatisi tra il 1528 e il 1534 nel monastero di San Pietro a Crapolla, sull’antico promontorio di Minerva, presso Massa Lubrense, nella penisola Sorrentina. 3 È un monastero abbandonato dove i due anacoreti, Crisogono e Teofilo, dopo sofferte vicissitudini conversano intorno ad un antico tema : il rapporto tra vita ascetica 4 e vita letteraria, tra l’amore di Dio e l’amore delle lettere. Nel 1533 un volume composito, comprendente il Varium poema (1534), lo Janus di Teofilo e i Pomiliones, 5 appunto di Giambattista, risponde ad un progetto letterario : stabilire, in un rapporto di continuità, un asse veneto-campano, denso di incontri, amicizie e colloqui maturati nell’abbazia benedettina  





e testi, 94), pp. 455-465 ; Scipione Capece, Inarime, in *Antologia poetica di umanisti meridionali, a cura di Antonio Altamura, Francesco Sbordone ed Emilia Servidio, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1975, pp. 344-359 (vv. 149164). Capece dedicò a Vittoria Colonna e alla memoria del marchese di Pescara una egloga ove canta il valore di Ferrante e il dolore della marchesa per la morte di lui : « Vedrete ancor colui, ch’un dì sì caro / fu al nostro imperatore Carlo invitto / e che il suo fin fu a me cotanto amaro, / Ferrante, intendo dir che ’l reo conflitto / d’astri maligni colse di repente / e ch’or fra divi in ciel si trova ascritto, / onore eterno dell’Avala gente / che fu d’Italia tutta il difensore, / e le speranze mie furo in lui spente ! / E Vittoria gentil specchio d’amore / eccelsa dama specchi di virtute / emula del suo onor, del suo valor. / La pena immensa che nel sen racchiude / sfoga soltanto con sue colte rime / et ogni altro pensier fugge et esclude » in Il poema De principiis rerum di Scipione Capece colla traduzione in verso italiano sciolto, cit. 1   S. Capece, Inarime : « Nunc age flammati molem quae diva Typhoei/incolis, ingentes urbes operosaque regum/culmina et auratas linquens, Victoria, sedes, / nomina quae per toto variarint saecula causas, / Inarime, quis culta viris est insula primum / expediam », (vv. 101-106) ; « Salvete heroum cautes, domus inclita divum ! / Insignem capies divam quam longa Latinis / regibus e quibus ipso series deducet Iulo. / Non illi similem rediens per pallida Phoebus / sidera vel forma aspiciet vel moribus ; et si fabula non vanos divum iactavit amores, / dignior ulla fuit tauro cignove puella. / Salvete heroum cautes, domus inclita divum ! / Cui, simul ac sponso matura adveniret aetas, / ducetur paribus fulgens virtutibus heros. / At dolor, immitis lex, ah durissima, fati ! / Coniugis ante tamen crudelia funera cernet / Quam fructs norit Veneris, quam nomina matris » (vv. 218-230). 2   Teofilo nelle sue Opere Maccheroniche (a cura di Alessandro Luzio, vol. ii, p. 245) descrive con toni intensi Ischia ove probabilmente soggiornò insieme al fratello Giambattista durante la sua visita alla Colonna : « Quid sua necquicquam tibi consuit Ischia serta ? / Ischia Nereidum matri decus Amphitritae ? / Non minus ipsa tibi debet quam myrtea vati / Mergellina suo, atque suo vel Clodia, vel quae / Sirmia Benaci ludit pulcherrima ripis. / Ischia cur frustra populat durissime quidquid / ramorum, florumque tibi, laurique, haederaeque / et mirty pariunt et fragrantissima citrus ? ». Sono numerosi gli studi su Teofilo Folengo e la sua produzione rimandiamo alla voce di Angela Piscini, Folengo Teofilo, in *Dizionario Biografico degli Italiani, 48 (1997), pp. 546-552 ; Emilio Menegazzo, Contributo alla biografia di Teofilo Folengo (1512-1520), « Italia medioevale e umanistica », 2 (1959), pp. 306-348. 3   Sui Folengo rimandiamo a Giuseppina Sassi , Vittoria Colonna e i fratelli Folengo, « Atti e memorie della Real Accademia Virgiliana », 14-16 (1921-1923), pp. 251-275 ; Giuseppe Billanovich,Tra don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio, Napoli, casa editrice Raffaele Pironti, 1948 ; Cesare Goffis, L’eterodossia dei fratelli Folengo, Genova, 1950 ; Mario Chiesa, Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1988 ; Cesare Goffis, I fratelli Folengo fra contestazione e crocifissione, « La rassegna della letteratura italiana », xciii (1989), 3, pp. 13-24 ; Massimo Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia nel Cinquecento, i. La Sicilia sotto Ferrante Gonzaga, 1535-1546, ii. La congregazione benedettina cassinese nel Cinquecento, iii. Tra Polirone e la Sicilia. Benedetto Fontanini, Giorgio Siculo, Teofilo Folengo, Firenze, Olschki, 2003, pp. 530-553. 4   Il secondo Pomilio affronta in parte questo argomento : De vita solitudinis et coenobii. 5   Ioannis Baptistae Chrysogoni Folengii Mantuani Anachoritae Dialogi, quos Pomiliones vocat. Teophili Folengii Mantuani Anachoritae Varium Poëma et Janus, In Promontorio Minervae ardente Sirio, mdxxxiii (le indicazioni presenti del colophon sembrerebbero false, Venezia Aurelio Pincio, 1535 cfr. Il Parnaso e la zucca. Testi e studi Folenghiani, a cura di Mario Chiesa e Simona Gatti, Alessandria, edizioni dell’Orso 1995, p. 161). In un carme del Varium poema (De Sala regione Campaniae) di Teofilo gli Acquaviva sono i primi referenti del mondo campano ricordati dal Folengo insieme ai letterati benedettini cassinesi, Onorato Fascitelli e Angelo de Faggis (libro i, stanza 88).  





































   



























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di san Benedetto di Polirone (oggi San Benedetto Po), 1 insieme a Luciano Degli Ottoni e Benedetto da Mantova, leggendo il De Amicitia e la Rethorica ad Herennium, il De partu Virginis e le lettere di san Paolo e proseguiti in Campania con Onorato Fascitelli 2 e Angelo de Faggis, Scipione Capece e Vittoria Colonna. Nell’Orlandino (1526), 3 Teofilo, dopo un lungo elogio di Erasmo e l’affermazione che « più dell’opre val la fede » conduce il suo discorso su questioni prevalentemente teologiche :  





Molta scientia i’ trovo d’ogni sorte, ma pochi bon scrittori e men giudicio ; però col tempo s’aprino le porte di saper sciegliere la virtù dal vicio ; o sante, o benedette, o degne scorte a conoscere di Cristo il Beneficio ! (iii 21)  





L’espressione di Cristo il Beneficio suggerisce il titolo dell’opera di Benedetto Fontanini, mantovano, confratello e amico del Folengo : Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i cristiani. 4 Com’è noto l’opera fu pubblicata anonima a Venezia nel 1543, sembra quindi difficile che nel 1526 si potesse già alludere a quell’operetta, nonostante la possibilità di retrodatarne la stesura. 5 Più verosimile l’ipotesi avanzata da Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi, i quali, nei versi dell’Orlandino sopra citati, riconobbero l’eco di discussioni sull’argomento avvenute nel monastero di San Benedetto Po, precedenti di un quindicennio circa la composizione del Beneficio. 6 In conclusione il Trattatello, almeno nella redazione dovuta a Benedetto da Mantova, era perfettamente nella tradizione. I fratelli Folengo porteranno nell’ambiente napoletano la spiritualità del “Beneficio di Cristo” benedettino. Nell’eremo di San Pietro a Crapolla, Teofilo compose il poema sacro dell’Umanità del Figliuol di Dio (1533) 7 dove i temi della giustificazione per fede si legavano a quelli della libertà dell’arbitrio umano e la polemica contro la corruzione ecclesiastica nasceva da una viva religiosità dell’imitazione di Cristo. Il poema raccoglie pienamente l’invito di  

1   Gigliola Fragnito, Ercole Gonzaga, Reginald Pole e il monastero di San Benedetto Polirone. Nuovi documenti su Luciano degli Ottoni e Benedetto Fontanini (1549-1551), « Benedictina », xxxiv, (1987), pp. 253-271. 2   Apprezzato da Pietro Bembo, da Giovanni Della Casa, da Marcantonio Flaminio e da Paolo Giovio per i suoi versi latini fu legato alla Colonna anche per la restituzione del Colle di San Manno a Cassino. Alla Marchesa dedica un poema latino in lode di Alfonso d’Avalos : Honorati Fascitelli Aeserniensis Carminum liber i. Alphonsus poema ad Heroinam Piscariae ove « Victoria Columna Romana femina celebratissima : quarum virtutum omnium dignitate » in Honorati Fascitelli Aeserniensis, Opera, Raymundii fratres Neapoli, 1776, c. viii ; Luigi Primiani, Un petrarchista latino del secolo xvi, Campobasso, stab. Tip. Giovanni Colitti e figlio, 1900. 3   Mario Chiesa, Sulle edizioni dell’« Orlandino » di Teofilo Folengo, « Giornale storico della letteratura italiana », cl, (1973), pp. 323-333. 4   Benedetto da Mantova, Il beneficio di Cristo. Con le versioni del secolo xvi. Documenti e testimonianze a cura di Salvatore Caponetto, Firenze-Chicago, Sansoni-The Neweberry Library, 1972 (Corpus Reformatorum Italicorum), poi Torino, 1975. 5   Per la puntuale ricostruzione del problema rimando a Mario Chiesa, Folengo e le sue « scorte », in Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, cit., pp. 61-63. 6   Carlo Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, « Rivista storica italiana », lxxviii, (1966), p. 197 individua nel 31 maggio 1526 la data oltre la quale non è possibile prolungare il soggiorno del Fontanini nel monastero di San Benedetto Po ; Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul « Beneficio di Cristo », Torino, Einaudi, 1975, pp. 61-62, p. 150. 7   Teofilo Folengo, La umanità del Figliuolo di Dio, a cura di Simona Gatti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000 ; Antonio Daniele, Teofilo Folengo, in *Storia letteraria d’Italia. Il Cinquecento. La dinamica del rinnovamento (1494-1533) cap. ix Il canto celebrativo, allegorico e satirico, Padova, Vallardi, 2006, pp. 740-763.  





































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Erasmo a leggere i Vangeli con stil volgar, sottraendosi così al dettato di quei saggi, più tenaci interpreti della cultura teologica raffinata, 1 registrando nel primo libro del poema, una fitta rassegna di personaggi del Vecchio Testamento, filosofi e teologi. Questi ultimi sono però affiancati dagli esponenti dell’Umanesimo latino, che, per le loro opere erano da tempo noti ai fratelli Folengo, letti e commentati a San Bebedetto Po : Jacopo Sannazaro, Marco Girolamo Vida, Scipione Capece. Vittoria Colonna per l’altezza della sua fede e per la somma integrità, virtù paragonabili a quelle che ritornano nell’episodio scritturale di santa Susanna, è chiamata a chiudere questa schiera di letterati :  



Allor quei fanciulletti di cent’anni, veduta tal fermezza in una donna (simil a quella ch’or di fé su’ vanni adorna il Ciel, Vittoria Colonna), le dan di piglio al collo e a’ bianchi panni, che é tratta ella s’avea la prima gonna.

In una sorta di digressione autobiografica, limitata da margini allegorici, Giambattista, sotto le spoglie del mitico Crisogono, nel Pomilio III narra a Teophilo dell’incontro con Vittoria Colonna nell’isola d’Ischia. All’interno del dialogo il Folengo traccia un ritratto della poetessa la cui bellezza ha indotto Venere a cambiare dimora, lasciando Cipro per Ischia, dimora delle Muse : insula fabularum plena. L’anacoreta saluta la Colonna in termini evangelici :‘Salve Victoria, Ancilla Christi’ ; è donna saggia e piena di fede, sapientissima e pudicissima, intenta a leggere le lettere di san Paolo, degna scorta nel suo cammino spirituale :  







Ch. Quem o castissima libellum tam bellum istum versas manu ? Vic. Epistolarum est mei familiaris Pauli volumen. 2  

Se si seguono i fili dei rapporti che si intrecciano tra il gruppo dei monaci “letterati” con personaggi fuori del chiostro, si arriva ad individuare “quella scuola magnifica” all’interno della quale, nel primo trentennio del secolo, furono accolti parecchi uomini di punta della riforma cattolica, ammiratori dell’umanesimo biblico di Erasmo insieme ai campioni dell’evangelismo italiano. Vittoria Colonna e Bernardo Tasso. Con ‘intelletto alto e securo’ nel ‘tempestoso mare dell’eretica confusione’ Un nuovo registro poetico, una nuova immagine della Colonna nascono dai versi e dalle lettere di Bernardo Tasso, ospite della poetessa nel 1533. Inarime, nei versi del poeta bergamasco, sulla scorta della letteratura antica, diventa un’isola di utopia, avvolta da un clima di beatitudine e malinconia insieme, ove il rimpianto per l’età dell’oro, si interseca con l’amarezza per la infelice storia presente allegoricamente trasfusa nei segreti delle leggende e dei miti. Quello scoglio, sorretto dal gran Tifeo, ospita esclusive ‘conversazioni’ letterarie, diviene topos interiore estendibile ovunque nella vita e nello spazio, simbolo atemporale, sede del dolce verseggiare :  

1   Adriano Prosperi, L’eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 82-83. 2   ‘Ch. O castissima, che cos’è questo libro tanto amabile che tieni in mano ? Vic. È il noto libro delle lettere del mio Paolo’. Il dialogo prosegue nel ricordo di Francesco Ferrante d’Avalos : Crisogono riferisce di aver assistito alla morte del Pescara e di aver raccolto le sue ultime parole per la sposa lontanta : uxorem sapientissimam atque pudicissimam.  





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concetta ranieri Inarime felice, ove le Muse han fatto il suo Parnaso, il suo Helicona ; per cui tien vile Apollo e Delfo, e Delo ; già per lo mondo il tuo gran nome suona poch’alberghi colei, in cui rinchiuse tutte le doti sue, benigno cielo ; giamai caldo, né gelo non offenda le tue fiorite rive ; ma l’aere ognior temprato, ognior sereno piova nel tuo bel seno humor soave ; e le dolci aure estive scherzino co’ tuoi fior, scherzino con l’erbe ; né sian l’acque a’ tuoi scogli empie e superbe. 1  











È ragionevole ipotizzare che il legame tra il Tasso e la Colonna ancora una volta oltrepassasse i confini di un legame di mecenatismo di corte illuminato dallo stesso carteggio intercorso tra i due, che, pur così lacunoso, suggerisce un interesse che va al di là del legame umanisticamente inteso. Se da una parte Tasso si preoccupa di cantare la poetessa nella sua singolare bellezza rispondendo così ad un ritratto di figura femminile vagamente convenzionale nel Cinquecento, dall’altra si dissocia da tutti quei motivi reperibili nella trattatistica medio-cinquecentesca sulla donna. Il profilo che se ne ricava rimanda e all’umanità della marchesa, celebrata nell’eroico coraggio, e alla libertà religiosa, segnata dai modi ‘interiori’ della esperienza riformata. In un journal di suggestioni nella memoria poetica tassiana, inscritta in una serie di temi tradizionali e riadattati in un reseconto autobiografico, si leggono visioni legate alla vita letteraria, oltre che cortigiana accanto a virtù tendenzialmente laiche : il « mondo è oscuro » perché è senza Poesia la quale condurrà la poetessa « con stil candido e puro, con intelletto alto e securo/a contemplar Iddio ». La corrispondenza di Tasso con Vittoria Colonna registra solo quattro lettere, che probabilmente risalgono agli anni salernitani del poeta bergamasco compresi tra il 1531 e il 1534. Una corrispondenza scarna ma che ci riporta agli anni in cui egli si muoveva nell’ambiente valdesiano ove era molto forte l’attesa della pace. Nel 1532 il poeta è al servizio del principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, come segretario. Nella Napoli filo-spagnola vive le complesse vicende storiche che hanno sullo sfondo la guerra tra Spagna e Francia, la minaccia turca, il tentativo del viceré spagnolo, don Pedro de Toledo, di introdurre l’inquisizione a Napoli, la congiura di don Garcia, il fallito tentativo di assassinare il Sanseverino, l’esilio di lui e la triste partenza di Bernardo, le sue forti inquietudini religiose. Quest’ultimo tema si fondeva con un sentimento composto di cristianesimo interiore e di purezza, che troverà esplicita espressione nella canzone che il poeta dedicò alla poetessa e in quelle dedicate a Giulia Gonzaga e a Margherita di Valois. Fu amico di Marc’Antonio Flaminio e Aonio Paleario, fu in rapporto con l’Ochino e il Vermigli. Proprio alla Marchesa il Tasso nel 1534 invia una lettera ove la prega di indicargli la strada della salvezza :  











1   Bernardo Tasso dedica a Vittoria Colonna le Egloghe ed Elegie del libro secondo degli Amori, in Vinegia, per Joan. Ant. da Stabio, mdxxxiv, la dedica si trova alle cc. 106v-107r e la stanza citata è a c. 91 ; cfr. per la biografia del Tasso Eduard Williamson , Bernardo Tasso, versione it. di Daniele Rota, Bergamo, Centro Studi Tassiani 1993, [1994] ; per le liriche rimando agli studi di Fortunato Pintor, Delle liriche di Bernardo Tasso, Pisa, Tipografia succ. Fratelli Nistri, 1898 [estratto dagli «Annali della R. Scuola Normale di Pisa», xiii], pp. 102-27 ; Giorgio Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso, Urbino, Argalìa, 1966 ; Bernardo Tasso, Rime (I tre libri degli Amori), a cura di Domenico Chiodo-Vercingetorige Martignone, Torino, res, 1995.  







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La lettera di vostra signoria, piena d’amore e di charità, ha destato ne l’animo mio alcuni spiriti di virtù et di religione e se così fusse pronta la carne com’è lo spirito ; io sarei così presto ad ubidirvi, come voi amorevole a persuadermi, ma questo spirito da la massa de la terra, che lo circonda, aggravato, non può senza l’aiuto del suo Redentore sollevarsi da le miserie di questa vita, e da i falsi piaceri di questo mondo. Io cerco quanto posso di spogliarmi di questi mondani desideri, di uccidere queste vane speranze, che a guisa di sirene co’ l dolce canto de le lor fallaci promesse ne tirano ne’ legami de le loro volontà. Ma non vagliono a tanto le forze mie è di mestieri, che quello, con il suo preciosissimo sangue, lavò le nostre colpe, e ne cavò de la servitù del peccato e de la morte, mi porga ancho la mano de suo favore, et de la sua gratia e mi sollevi dal fango de l’humane calamità. E come sua creatura che crede e spera ne l’infinita bontà sua, rompa questi lacci, che la carne ad ogni hora tende contra lo spirito, e co’l lume de la sua gratia sgombri tutte le nebbie del peccato, che adombrano il sereno di quest’anima poverella, che ad hora ad hora, l’ali dimenando, cerca d’uscir di questo fango, et d’indirizzar tutti i suoi pensieri e le sue voglie a quello che l’ha creata. Voi che sete in gratia di Dio, siatemi così liberale hora e per l’avvenire del vostro aiuto e del vostro favore, come sete stata per lo passato de le vostre facultà e, continuando in quest’ufficio, mostratemi la strada per la quale così secura caminate a l’eterna salute e pregate Colui che vi scorge per questo camino, che con la voce de la sua pietà mi chiami. E non vi sdegniate, se per l’orme de la vostra virtù, seguitando i vostri passi, vi verrò dietro.  

In questa lettera alla Colonna, come in quella inviata anni dopo (1542-43) a Marc’Antonio Flaminio si avverte da parte del poeta bergamasco una sensibilità verso i temi valdesiani, una inquietudine nuova, un dissidio profondo che si traduce nell’esigenza di essere lontani « dal tempestoso mare dell’eretica confusione e fuggir dal falso mondo ». Si notano e l’affinamento del linguaggio poetico e il suo faticoso riempirsi di sottili inquietanti interrogativi, affermazione di un libero spirito di critica, che più tardi potrà fruttificare, nella poetessa di Marino, in un cangiato stile, la cui fisionomia, è scelta ispirativa ma anche impegno di diffusione del messaggio valdesiano e della riforma della Chiesa :  





Io mi sforzo quanto posso, da questi calaginosi e terreni pensieri, da queste bruttezze del mondo, sollevandomi, gli occhi della mente di purgarmi ; acciocché purgati in quel lume del divino Sole io gli possa indirizzare ; sperando che quella infinita luce, veduta la purità della mia vista, illumini lo intelletto, e qual sia la differenza da questo ben finito a quello infinito mi faccia conoscere ; non per conoscerlo solo, ma per amarlo sommamente […]. Beato voi, che in questo secolo di tempeste pieno, con la compagnia di pochi vi ritrovate ; dove del frutto della vostra dottrina godendo, quelle cose trattate e considerate l’uso e la dilettazione delle quali a tutti gli umani piaceri anteporre si dee. Pregovi che quella combattuta navicella della fede, nella quale voi con tutti i buoni, quasi come uno dei savi nocchieri, alle poppe sedete, dal fiato dei venti contrari, e dal tempestoso mare dell’eretica confusione, insieme con gli altri, col vostro esempio, la vita a bellissimo esempio drizzando, dalle tenebre alla luce con le vostre fatiche siano sollevati. Beato voi, che in questo secolo di tempeste pieno, con la compagnia di pochi vi ritrovate ; dove del frutto della vostra dottrina godendo, quelle cose trattate e considerate l’uso e la dilettazione delle quali a tutti gli umani piaceri anteporre si dee. Pregovi che quella combattuta navicella della fede, nella quale voi con tutti i buoni, quasi come uno dei savi nocchieri, alle poppe sedete, dal fiato dei venti contrari, e dal tempestoso mare dell’eretica confusione, insieme con gli altri, col vostro esempio, la vita a bellissimo esempio drizzando, dalle tenebre alla luce con le vostre fatiche siano sollevati. 1  









In conclusione e partendo da quanto ho premesso in queste riflessioni, sant’Agostino era stato il referente, nelle infinite forme e vie offerte dal suo pensiero, per la sensibilità dei 1   Delle lettere di messer Bernardo Tasso accresciute, corrette e illustrate con la vita dell’autore scritta dal Sig. Anton Federigo Seghezzi, in Padova, presso G. Comino, 1733, vol. i, pp. 271-273.

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poeti e letterati, i quali richiamati verso il mondo della riscoperta dei classici latini e greci, avevano sentito il bisogno di muoversi in un’area spirituale più elastica ed aperta rispetto alla scolastica. Per letterati e poeti questo percorso risulta tutto sommato continuativo per uno spazio di circa un secolo e mezzo a partire da Marsilio Ficino fino a Torquato Tasso e certi temi, con significative differenze, sono un filo conduttore fra le diverse esperienze. Da un lato c’è la fede cristiana con la notazione della presenza di Dio in tutti gli aspetti della realtà, accompagnata dalla ricerca del godimento della divinità. Quando questa brama viene appagata, produce l’effetto di sedare le ansie e le tensioni angosciose dei poeti. C’è poi la fede, nello stesso tempo biblica e neoplatonica, nella irragiungibilità e nell’inconoscibilità di Dio in se stesso. Si genera così un crescendo di inclinazione al dualismo, assai debole o assente nei pensatori quattrocenteschi o anche una tensione con approdi mistici o addirittura angosciosi. Inizialmente la riscoperta di esperienze nelle quali la fede e la conoscenza si confondevano tra loro aveva finito per indurre molti autori a spingersi su un percorso misticointellettuale dove Dio, la salvezza o la beatitudine finivano per diventare un esito gratuito di incontri salvifici interiori. Nei Sonetti Spirituali di Vittoria Colonna abbiamo l’assoluta prevalenza su ogni altro interesse della ricerca di Dio identificato con la luce spirituale, un’immagine platonica, che scende sul peccatore perché è essa stessa amore pacificatore di Dio e non dipende dalla debolezza delle forze dell’uomo e delle opere con la loro insufficienza. Compare il senso della lontananza di questa ineffabile fonte di felicità e nello stesso tempo del suo integralmente gratuito donarsi e a questo punto i peccati, senza contributo da parte umana, vengono, a differenza di quel che pensavano i luterani, cancellati. Dalla lettura dei sonetti, Emidio Campi 1 ha ricavato l’idea che la poetessa fosse informata e capace di destreggiarsi all’interno del dialogo tra la varie correnti teologiche agostiniane del suo tempo e abbiamo visto come la marchesa visse un’atmosfera religiosa e intellettuale che l’avvicinava, fin dalla sua giovinezza nell’ambiente ‘napoletano’, lungo traiettorie che riusciamo appena a intuire, a figure tra le più significative della sua epoca, come il cardinale Egidio da Viterbo, il quale aveva mostrato già nel 1507 di interpretare il concetto agostiniano di giustificazione per la fede in termini platonici, 2 oltre al totale accoglimento di elementi cari alla teologia valdesiana dove è centrale il tema della fede « frutto di una oeconomia crucis che nel legno salvifico ha consumato anche i nostri peccati ». 3  



Università degli Studi di Roma Tre A partire dal 1509 Vittoria Colonna si stabilisce nell’isola di Ischia, erede della tradizione degli Avalos e degli Aragona. Viene così a trovarsi al centro di una ricca messe di influenze culturali, celebrate da scrittori come Ludovico degli Arrighi e pittori quali Girolamo Romanino. Sedimentano così vari elementi, i quali matureranno nel periodo successivo mentre spiegano certi retroterra 1   Emidio Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, Torino, Claudiana, 1994. 2   Egidio da Viterbo o.s.a., Lettere familiari, i (1494-1506), ii (1507-1517), a cura di Anna Maria Voci-Roth, Romae, Institutum Historicum Augustinianum, 1990, i, pp. 217-218. Ho evidenziato questo argomento in Concetta Ranieri, Imprestiti platonici nella formazione religiosa di Vittoria Colonna, in *Presenze eterodosse nel Viterbese tra Quattro e Cinquecento, a cura di Vincenzo De Caprio e Concetta Ranieri, Roma, Archivio Guido Izzi, 2000 (193-212), pp. 206-207. 3   Juan de Valdés, Lo Evangelio di san Matteo, a cura di Carlo Ossola, testo critico di Anna Maria Cavallarin, Roma, Bulzoni, 1985.

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religiosi e culturali della sua poesia nel sofferto periodo che precede il Concilio di Trento. La poetessa subisce l’influenza del platonismo letterario e filosofico, della sintesi di sensibilità poetica e ascetismo rappresentato dai fratelli Folengo e da Onorato Fascitelli. Vittoira, ‘Ancilla Christi’ è al centro di un ambiente ‘ovidiano’, dove i richiami mitologici e le bellezze naturali si accompagnano all’atmosfera del Cristianesimo della pre-riforma, segnata dall’interesse della Colonna per le Epistole di San Paolo. Starting in 1509, Vittoria Colonna established herself in the isle of Ischia as an heir of the Avalos and the Aragonas. In that way she came under the influence of writers like Ludovico degli Arrighi and of painters like Girolamo Romanino. Hence some factors matured, which were to explain the religious and cultural background of her poems in the period before the Council of Trent. In that ambiance, rich of natural beauties and reference to classical mythology, Vittoria was attracted by S.t Paul’s epistles and sensed the atmosphere of pre-Reform Christianity. She felt the influence as well of the literary and philosophical Platonism of the Folengo brothers and of Onorato Fascitelli, which was marked by a mixture of asceticism and poetic vein. A partir de 1509 Vittoria Colonna, héritière de la tradition des Avalos et des Aragons, s’installe sur l’île d’Ischia. Elle se retrouve ainsi au centre d’une riche moisson d’influences culturelles, célébrées par des écrivains comme Ludovico degli Arrighi et par des peintres tels que Girolamo Romanino. Se sédimentent ainsi différents éléments, qui mûriront durant la période successive tandis que se déploient certains contextes religieux et culturels de sa poésie dans la période difficile qui précède le Concile de Trente. La poétesse subit l’influence du platonisme littéraire et philosophique, de la synthèse de la sensibilité poétique et de l’ascétisme représenté par les frères Folengo et par Onorato Fascitelli. ‘Ancilla Christi’ est au centre d’un environnement ‘ovidien’, où les références mythologiques et les beautés naturelles s’accompagnent de l’atmosphère de Chrétienté de la pré-réforme, marquée par l’intérêt de Vittoria Colonna pour les Épîtres de San Paolo. A partir del año 1509, Vittoria Colonna se establece en la isla de Isquia, como quería la tradición de las familias De Ávalos y Aragón. Se halla en el centro de ricas influencias culturales, elogiadas por escritores como Ludovico degli Arrighi y pintores como Girolamo Romanino. Sedimentan de esta forma varios elementos que madurarán sucesivamente, en el difícil período que precede al Concilio de Trento, y que explican algunos elementos religiosos y culturales de su poesía, típicos de las tierras del interior. La poetisa sufre la influencia del platonismo literario y filosófico, de la síntesis de sensibilidad poética y ascetismo representado por los hermanos Folengo y por Onorato Fascitelli. Vittoria, ‘Ancilla Christi’ está sumergida en un ambiente ‘ovidiano’, en el que las sugerencias mitológicas y las bellezas naturales van acompañadas por la atmósfera del cristianismo prereformista, caracterizada por el interés de Vittoria Colonna por las Epístolas de San Pablo. Ab 1509 lebte Vittoria Colonna auf der Insel Ischia, ein Erbe der Tradition der Avalos und der Aragona. Sie befand sich damit umgeben von zahlreichen kulturellen Einflüssen, die von Schriftstellern wie Ludovico degli Arrighi und Malern wie Girolamo Romanino geprägt waren. Diese Einflüsse waren ein guter Nährboden für verschiedene Elemente, die in den darauf folgenden Jahren reiften, während sie auch gewisse religiöse und kulturelle Hintergründe der Dichtung Colonnas in der schwierigen Zeit unmittelbar vor dem Konzil von Trient erklären. Die Dichterin war beeinflusst vom literarischen und philosophischen Platonismus, von der Synthese von poetischer Sensibilität und Askese, wie sie die Brüder Folengo und Onorato Fascitelli repräsentierten. Vittoria (‘Ancilla Christi’) stand im Zentrum eines ‘ovidischen‘ Milieus, in dem Verweise auf die Mythologie und auf die Schönheit der Natur sich mit einer christlichen Atmosphäre der Prä-Reformation verbanden, die durch das Interesse von Vittoria Colonna für die Paulusbriefe geprägt war.

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TEATRO, MUSICA, DANZA

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LA SANTITÀ FEMMINILE TRA ICONOGRAFIA E DRAMMATURGIA NEL CINQUECENTO MERIDIONALE Tonia Fiorino

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el Cinquecento il perdurare dell’influenza francescana, oltre la lotta alla corruzione intrapresa dalla chiesa per la purificazione dei costumi, aveva determinato una maggiore sensibilità verso i misteri della fede tanto più accresciuta dal martellamento delle predicazioni e dal realismo delle immagini pittoriche sulla Passione di Gesù o sul martirio dei santi. Si cercava, cioè, con l’insistente diffusione della pratica devozionale, d’incentivare i devoti a sentire di più la forza emozionale dell’evento sacro. Questo avviene ovviamente anche nel nostro Meridione e, in particolare, a Napoli, che fin dai tempi di Federico II rappresentava un punto d’incontro di intellettuali, artisti, scienziati ma anche teologi e predicatori. Con il mecenatismo della dinastia angioina prima e di quella aragonese poi, si assiste ad un progressivo arricchimento e rinnovamento artistico mediante letterati, architetti, pittori, scultori, intagliatori provenienti dalla Spagna, dalla Francia, dal Piemonte, dalla Toscana ecc. che, con le loro opere non solo a Napoli ma in tutto il regno, hanno abbellito il nostro patrimonio culturale. Noi, in questa sede, interessandoci della santità al femminile, ci soffermeremo su alcuni esempi del Rinascimento meridionale che possono rientrare nella visione del mondo dell’epoca. In particolare, tralasciando altri momenti della vicenda mariana (come la nascita, l’annunciazione, l’ascesa in cielo ecc.), abbiamo scelto l’iconografia della Madonna Addolorata perché rapportabile ad alcune forme teatrali meridionali nonché quella della Madonna con Bambino in quanto ci permette di introdurre delle riflessioni su alcune rappresentazioni presepiali della Natività. Considereremo poi la figura di Maria Maddalena come peccatrice redenta ben rispecchiante il rigido clima controriformistico e, infine, santa Lucia come modello esemplare, tra i tanti possibili, di sante martorizzate che hanno rafforzato la pietas devozionale del periodo. Possiamo iniziare considerando le due figure-guida del nostro discorso, la Madonna e Maria Maddalena, nel Compianto sul Cristo morto della Chiesa Sant’Anna ai Lombardi di Monteoliveto, eseguito da Guido Mazzoni nel 1492. 1 Si tratta, come era tipico di questo genere popolare di derivazione padana, di un gruppo di statue in terracotta che rappresentano il momento della deposizione del Cristo morto. Tra queste statue spiccano in particolare la Madonna Addolorata, seduta a terra tra gli apostoli e le pie donne, tra le quali la Maddalena. Le statue, originariamente dipinte con colori squillanti, hanno nel tempo perso la loro colorazione pur mantenendo l’espressività dei personaggi che anzi sembrano avere acquisito maggiore rilievo drammatico (Fig. 1), come si può notare paragonando questo gruppo con quello del Compianto dello stesso autore presente a Modena nella Chiesa di San Giovanni Battista (Fig. 2). Trattandosi della stessa struttura narrativa, sia pure nella diversità del medium arti1   L’autore, detto Modenino per l’origine modenese, molto noto e ricercato per la sua attività di allestimenti scenici e per i suoi tanti Compianti, si trovava alla corte aragonese di Napoli fin dal 1489 per dei ritratti e probabilmente proprio per comporre il suo Compianto napoletano.

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stico, questo Compianto richiama facilmente le sacre rappresentazioni recitate il giovedì santo, con la partecipazione diretta dei fedeli che si immedesimavano nel dolore espresso dalle statue.

Fig. 1. G. Mazzoni, Compianto, Chiesa Sant’Anna ai Lombardi, Napoli.

Bisogna premettere che fin dal Medioevo c’era l’abitudine di usare modi o forme teatrali per rappresentare tratti narrativi delle Sacre Scritture nonché soggetti delle vite dei santi. Queste composizioni generalmente di autore ignoto e spesso tramandate oralmente, avendo come finalità soprattutto la diffusione della religiosità, non avevano grande valore letterario o artistico. I riti del venerdì santo, pur se di impostazione drammaturgica, si distinguevano dagli altri per una maggiore partecipazione di fedeli che in essi riattualizzavano la Passione del Cristo. 1 Così, per rimanere nel tema meridionalista, quasi tutte le sacre rappresentazioni aversane del xvi sec., per le quali si possono riscontrare caratteri propri rispetto a quelle umbre e toscane, ripercorrevano, spesso con gli stessi personaggi, 1   Secondo Bernardi, non rappresentavano « una esperienza di tipo cognitivo fondata sulla distanza e sulla visione, come a teatro, ma di un’esperienza rituale di coinvolgimento che interessa l’individuo e la collettività » tanto più che si potevano distinguere « due modelli drammaturgici, uno di derivazione teatrale e l’altro di derivazione festiva » ma « la rappresentazione ideale della Passione al venerdì santo e le altre manifestazioni drammaturgiche […] possiedono caratteristiche non omologabili alle tradizionali concezioni del teatro. Si collocano, infatti, nello spazio incerto tra realtà e finzione, liturgia e teatro, interpretazione e trasformazione. È la riattualizzazione dell’evento a fornire questa peculiarità drammaturgica » (Claudio Bernardi, La drammaturgia della settimana santa in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 110 e 111 ; al quale si rimanda per l’ampia trattazione e per la bibliografia acclusa).  













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Fig. 2. G. Mazzoni, Compianto, Chiesa di san Giovanni Battista, Modena.

il processo, la condanna, la crocifissione, la morte ed eventualmente la risurrezione del Cristo. Buona parte di queste opere, una trentina circa, rappresentate nella chiesa dell’Annunziata di Aversa dal 1534 in poi, data di composizione della prima, furono trascritte probabilmente dal 1561 al 1575 da Jeronimo de Fulgure, recuperate da Francesco Torraca a fine Ottocento e pubblicate, in parte, nel 1959 da Domenico Coppola. 1 A queste possiamo aggiungerne un’altra di autore incerto, scartata dal Coppola per difficoltà di comprensione grafica, ma recentemente pubblicata in un volume nato da un’idea del compianto Franco Carmelo Greco, santi a teatro. 2 Si tratta di opere che hanno una struttura abbastanza semplice, con una drammatizzazione generalmente monocorde spesso corredata da salmi e da antiche laudi, talvolta arricchita da musica e da una recitazione cantata. Il dialogo delle rappresentazioni si svolge sempre tra gli stessi personaggi, generalmente Pilato, Caifa, Anna, un non nominato ebreo o un centurione che spesso si convertono all’ultimo momento e poi i fedelissimi, come Nicodemo o Giuseppe d’Arimatea o Giovanni oltre le pie donne e, quasi sempre nel finale, Maria Virgo che esprime il suo dolore attraverso lamenti e benedizioni. A volte si aggiungono personificazioni di entità astratte come la Giustizia, la Grazia, l’Equità o la Morte, lo spirito di Mosè ecc. 3 Abbiamo scelto il Compianto napoletano di Mazzoni, in quanto ci è sembrato adatto per rilevare le concordanze con le opere aversane. Il Mazzoni riesce veramente con maestria a evidenziare il dolore della perdita, anzi a cogliere proprio il momento del tormento e della disperazione per la morte del Cristo. Ovviamente per esigenze strutturali legate alla tipicità del genere, tutti gli autori delle sacre rappresentazioni non potevano riprodurre questo solo momento drammatico ma dovevano ripercorrere l’iter narrativo per concre1

  Cfr. Sacre rappresentazioni aversane del xvi secolo, edite a cura di Domenico Coppola, Firenze, Olschki, 1959.   Cfr. Giuseppina Scognamiglio, « Opera d’author incerto ». Una inedita sacra rappresentazione aversana in I santi a teatro. da un’idea di franco carmelo greco a cura di Tonia Fiorino e Vincenzo Pacelli, Napoli, Electa, 2006, pp. 213224. 3   « Ma generalmente queste opere », come notava nel lontano 1884 Francesco Torraca in Studi di storia letteraria napoletana, « si riducono ad un tipo solo : siano dello stesso autore, oppure di parecchi, portino l’uno o l’altro titolo, si possono considerare come variazioni su d’un motivo identico, come ricami più o meno differenti su lo stesso disegno » (Livorno, Vigo, 1884, p. 26). 2















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tizzarlo. Così anche le sacre rappresentazioni aversane, avvalendosi dei personaggi-base con l’aggiunta eventuale di figure non determinanti all’azione ma utili ad una maggiore teatralizzazione, svolgono la storia fino a quando Maria, conosciuta la sorte del figlio, attraverso i suoi lamenti o a volte il suo svenimento, ne coagula il significato di dolore. D’altra parte, pur senza essere perno della narrazione, la figura di Maria la conclude e la concretizza sia visivamente che narrativamente. Allo stesso modo nel Compianto di Mazzoni la sua statua è al centro della scena e quasi tutti si chinano verso di lei anche se la Maddalena si trova in posizione leggermente più arretrata ed esprime il suo dolore, oltre nei tratti contratti del viso, attraverso la bocca spalancata in un evidente urlo di disperazione, come era consuetudine proprio nei Compianti del tempo come, ad esempio, quello famoso di Niccolò dell’Arca dove la Maddalena sembra giungere di corsa urlando per la disperazione (Fig. 3).

Fig. 3. N. dell’Arca, Compianto, Santa Maria della Vita, Bologna.

Nella statua in terracotta di Mazzoni, il dolore della Madonna, quasi accasciata a terra ma sorretta da una pia donna, viene rappresentato attraverso l’espressione agitata e sofferente del viso, le mani protese verso il figlio morto quasi a mostrarlo ai suoi apostoli, il capo reclinato all’indietro per la disperazione o per un possibile malore. Il dolore di Maria si rileva, comunque, pensiero predominante per le persone che la circondano anche nelle opere drammaturgiche così come nella Opera prima della settimana santa (Esposizione di Cristo) di Giovanni De Baldariis, considerata dallo stesso Torraca la sacra rappresentazione-tipo; è particolarmente Giovanni che si preoccupa per le sue reazioni tanto da prendersi l’ingrato compito di avvisarla della morte di Gesù. (« Lasso, pensando pur pavento e tremo / dar quest’ avviso a sua madre dolente ; / però pian pian n’andati e noi verremo.  



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/ Schiodati il corpo mentre lei sta absente / acciò più nol ritrovi all’empia croce, / ch’accrescerebbe fiamma al foco ardente » 1). Ma anche Nicodemo appare preoccupato quando vede Giovanni tornare solo (« Ov’è sua madre misera e infelice, / che qui speramo la menassi a noi ? / Deh, dimmi, ch’è di lei, in qual pendice ? » per cui Giovanni contrito, quasi seccato, risponde « Hoimè, ch’è quel che da me tu saper vòi ? / Lasso me, par ch’el fiato m’abandona, / pensando a tanti rei tormenti soi. / Hoimè, sua voce insino al ciel rintona ; / non ho possuto, hoimè, venir con lei, / ch’el pianto suo ognun al pianto sprona » 2). Ed a lei si rivolge sempre Giovanni quando vede issare Gesù sulla croce : « Non aver più le tue pupille asciucte, / nocte né giorno, o madre non più madre, / ché tucte tue speranze hor son distructe / in man di queste foribonde squadre » 3). Ma se l’intreccio può sviluppare dettagli diversi, quello che non muta è certamente il finale che, pur se con qualche piccola modifica ma generalmente con le stesse parole e gli stessi toni, riprende i consueti lamenti e benedizioni di Maria delle laudi medievali. Nella Opera prima del De Baldariis, quando giunge e vede il Figlio morto, esclama :  

























Figlio, mio caro figlio, ecco Maria che sol di te sperava haver conforto et hor resta sol pena aspra e ria ! Figlio, chi mai pensasse che sei morto, Figlio, ch’ognor mi par vederti vivo, E sei pur morto all’empia croce a torto. […] Figlio non senti il mio crudel martire deh rispondi a Maria che piange e more hoimè potessi io pur teco morire. […] Sii benedetto, o figlio mio diletto, da quel momento che dal ciel venesti entro il mio nero e doloroso pecto Sia benedecto il lacte che suggesti sian benedetti tutti mei affanni Dal nascer tuo sinché sepolto resti. 4  

Similmente nel finale della III Opera di cui si riportano solo alcuni passi :  

Contemplate, mei donne, il crudo torto, ch’anno facto a Maria la gente ingorda, sopra del figlio suo dolce conforto. Contempla, homai, Natura iniqua e torda, contempla, madre afflicta, il mio figliolo, contempla pur, si non sei dura e sorda. Figlio, mio ben e dolce mio consuolo, figlio, che per salvar altrui sei morto, pieno di stenti, affanni e grave duolo ; […] Figlio, che tien la testa humile e bassa per porre al mondo il necessario effecto !  



1   Giovanni Angelo De Baldariis, Opera prima della settimana santa (Esposizione di Cristo) in Sacre rappresenta2   Ivi, p. 42. zioni aversane …, cit., p. 28. 3   Id., III opera [Tota passio] in Sacre rappresentazioni aversane …, cit., p. 90. 4   Id., Opera prima …, cit., pp. 45 e 46. Giustamente Torraca dice : « Come si vede, di veramente drammatico c’è poco o niente : tutto l’ordito è una successione di dialoghi o di effusioni liriche, nelle quali, del resto, è vano cercare delicatezza o forza di sentimento ; solo nelle ultime parole di Maria traspare un po’ d’affetto semplice e vero. Tutta la composizione, quantunque frutto delle meditazioni e delle ispirazioni d’un sacerdote e sacrista, se non porta l’impronta proprio della volgarità, certo apparisce come qualcosa di rozzo e di popolare » (cit. p. 30).  









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tonia fiorino Aj, che ’l mio cuor un empio stral trapassa, Videndo il mio figliol tanto dilecto. 1

Più struggenti sembrano le parole di Maria nella Tragedia di Ludovico Serafino del 1568, un’opera poco significativa ma che si riscatta proprio in questi brani :  

Haimé, qual mente vota di consiglio vieta di lacrimar la madre vera sul corpo morto dell’amato figlio ? […] Haimé, ch’io me confunno a poco a poco, e contemplando, figlio, il tuo dolore, vorrei morir, sì de dolor m’infoco. Qual animo crudele, qual empio core non piangesse mirandoti difforme, pien di piaghe, di sangue e di livore ? Ove son, figlio, tue leggiadre forme, ove è tua venustà col tuo decoro, che non trovava simile conforme ? O capo degno di corona d’oro, chi ti piagò di quest’acuta spina che l’anima mi passa onde io mi moro ? […] Mano mia, mano gloriosa e bella, è questo il premio della tua virtude : questa piaga mortal horrida e fella. Lato mio sacro, ch’in l’altrui salute ti vegio aperto, ahi, dispietata lanza pianger mi fai le doglie antevedute. 2  









Questi versi differiscono, per la concreta intensità di amore materno, dai brani in cui c’è, secondo la tipologia propria delle laudi, la ripetizione martellante di alcune parole come figlio che si ritrova spesso ad ogni capoverso delle lamentazioni di Maria : queste, generalmente presenti negli epiloghi, si concludono quasi sempre con il suo venir meno. Espediente che si ritrova nella Tragedia di Serafino e anche in due delle composizioni del De Baldariis ; anzi nella iii Opera [Tota Passio], Maria sviene più volte : una prima volta quando apprende la notizia della condanna (« Aj coltello del cuor, nova aspra e ria ; / aj figlio, dove sei, mio dolce figlio ? / Che più serà di tua madre Maria ? / Hic Maria exanimatur ») poi quando incontrato il figlio (che le dice « O infelice madre, hor alza il fronte, / vedi il tuo caro figlio obscuro / di sputi e sangue, in tanti stratii et onte »), cerca di consolarlo (« Lasciate il figlio a me : figlio mio puro, / dona a Maria che porti l’aspra Croce, / ch’io per te pata il legno acerbo e duro. / Figlio non parli ? Hai perso l’alma voce ? / Sorgi, mio figlio, appoggiati a tua madre, / ch’a morte vo andar per te veloce. / Hic Maria exanimatur ») ; perde i sensi anche quando risponde al Primus Hebreus che la rimprovera per le troppe lacrime (« O gente dispietata, iniqua e prava, / deh, perché almeno me non occideti, / che pria sia posta in tomba obscura e cava, / poi che del mio figliol pietà no(n) haveti ? / Maria exanimatur ». 3 Da rilevare, nella stessa rappresentazione, anche un altro aspetto interessante per la nostra tematica : la presenza cioè di una Maria Magdalena non peccatrice o penitente ma, dichiaratamente sorella di Lazzaro e Marta, che ha una funzione di consolatrice : accorre  







































1

  Id., iii Opera …, cit., p. 98.   Lodovico Serafino, Tragedia in Sacre rappresentazioni …, cit., pp. 22 e 23. 3   G. A. De Baldariis, iii Opera …, cit., pp. 84, 85 e 86. 2



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al primo svenimento della Madonna (« O tramortita madre, o Verginella, / sorgi e raccogli il spirto afflicto e lasso ; / andiam, smorza il duol che ’l cuor flagella ») ma soprattutto le consiglia di non far soffrire di più il Figlio con la sua presenza dolente (« O Madre afflicta del figlio miserando, / cessa dal figlio, o madre smorta e lassa, / ché la tua presenza il fa star ansiando. / Vedi che ’l duol di te più il conquassa, / abscondìti da lui, e il duol comporta ; / vedi che per pietà di vita passa ») e, ancora quando oramai il Cristo è sulla croce la esorta a guardarlo per l’ultima volta prima della fine (« Chi fia che tanta morte pianger basti, / o mio maestro, o mio signor diletto ? / Tu semimorto e noi sperse lasciasti. / Risorgi, madre, e smorza il triste spetto, / remira il figlio pria che morte apprenda, / ch’almen l’alma non renda in tal dispetto »). 1 Si tratta di una discepola che chiama Gesù maestro e dimostra tutta la sua saggezza e la piena integrazione nel gruppo che fa capo a Maria. Questo però pone un problema. Come mai il De Baldariis si riferisce a questa Maria Magdalena e non alla figura della peccatrice pentita che tanto consenso e diffusione aveva nel periodo della Controriforma ? E possiamo fare un paragone tra il personaggio aversano e quello del Compianto ? Per cercare di rispondere a questa domanda, dobbiamo ricordare che nella storia di Gesù si parla di una donna di Betania, rappresentata in modo diverso nel racconto degli evangelisti. Questa viene citata sia da Luca che da Giovanni quale sorella di Lazzaro : dall’uno come colei che sa ascoltare gli insegnamenti del Cristo e dall’altro come colei che cosparge i piedi di Gesù di olio e li asciuga con i suoi capelli. Diversamente Marco e Matteo parlano di una donna anonima che a casa del lebbroso Simone cosparge il capo del Cristo di olio profumato. Unico punto di contatto fra questi episodi è l’ambientazione in Betania per cui al massimo si può parlare di due donne di Betania l’una sorella di Lazzaro e l’altra anonima. 2 Un’altra Maria, come ricorda Luca, viene liberata da Gesù da sette demoni e viene chiamata Maria di Magdala, città famosa per le sue prostitute, la quale fa parte delle donne al suo seguito ed è stata identificata con quella peccatrice anonima che, a casa del fariseo, sempre secondo Luca, aveva asciugato con i capelli i piedi di Gesù, bagnati dalle sue lacrime di pentimento per poterli cospargere di olio profumato. 3 Ed è questa la figura, fin troppo usurata, della Maddalena, che ha goduto nel tempo di grande attenzione e grande diffusione fino ai nostri giorni (come non ricordare la versione romanzesca di Dan Brown). Molte in Europa le tappe della sua, diremmo, fortuna di personaggio dal Dramma della Resurrezione di Tours del xii sec. alla Passione palatina del xv, dalla Passione di Arras di Marcadé alla Passione di Parigi di Arnoul Gréban sempre del xv sec., dove la Maddalena sembra a volte tentennare tra il peccato e la santità anche se è questa la corretta conclusione che deve sciogliere il dramma. Anche in Italia molti artisti la scelgono come protagonista delle loro opere : siano, queste, drammi in ottave come le Lagrime di Maria Maddalena di Erasmo di Valvasone (1528-1593) che immediatamente, nella strofa II, presenta la santa secondo il modello della peccatrice penitente (« Già riverita donna, avvezza agli agi / D’un stato regal ancelle e manti, / E ori e gioie e splendidi palagi, / Ozj, feste, armonie, conviti, amanti, / Cangiato aver in boschi aspri e malvagi, / In digiuni, in sospir, romiti e pianti. / Quanto mutata omai, quanto da quella, / Che già lasciva fu, non men che bella. » 4) o siano romanzi come quello di Anton  





























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  Ivi, pp. 84, 86 e 91.   Cfr. Luca 10, 38-42 ; Giovanni 12, 1-3 ; Matteo 26, 6-7 ; Marco 14, 3. 3   Cfr. Luca 8, 2 e 7, 36-38. Argomento dalla bibliografia smisurata che, recentemente, è stato affrontato in chiave pittorica da Vincenzo Pacelli, L’iconografia della Maddalena dall’età angioina al tempo di Caravaggio (ovvero un ‘corpo-immagine’ a servizio dell’ideologia cattolica) in I santi a teatro …, cit., pp. 69-120. 4   Erasmo Di Valvasone, Le lagrime di Maddalena, Biblioteca scelta delle opere italiane antiche e moderne, Milano, Giovanni Silvestri, 1838, vol. 376, strofa ii. Su tematiche attinenti le lacrime e in particolare la poesia spirituale del Cinquecento vedi Paradigmi e tradizioni a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2005. 2







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Giulio Brignole Sale, nel 1636, dal titolo Maddalena peccatrice e convertita dove la sua storia viene rivisitata dall’autore in modo romanzesco facendo, comunque, risaltare i particolari simbolici che ne identificano la sua vicenda umana, come i capelli biondi, lo specchio, i gioielli, il vasetto con gli oli profumati e, poi dopo il pentimento, i capelli trascurati, la croce, il teschio. Simboli che, come per tutta l’iconografia dei santi, accompagnano e vengono ripetuti anche in campo artistico. D’altra parte sono proprio questi simboli che qualificano e distinguono i vari santi e il valore della loro santità. Ed è questa l’elaborazione che si ritrova anche nel Rinascimento europeo e ovviamente in quello meridionale. Ma a rappresentare lo spirito devozionale e il desiderio di pentimento non si può non ricordare, pur se fuori dal Meridione, la struggente statua di Donatello, La Maddalena orante, del 1443-53, che credo possa essere considerata l’emblema di quella esperienza di espiazione che, poi, sarà tanto propagandata nel periodo controriformato. La santa appare distrutta, invecchiata, emaciata con i capelli lunghi che le coprono il corpo ma incolti e trasandati. A Napoli il culto della Maddalena aveva avuto particolare diffusione al tempo degli angioini mentre negli anni che ci interessano aveva registrato una certa stasi. Forse si potrebbe ipotizzare che il De Baldariis, inserendo la sorella di Lazzaro col nome Maria Magdalena, abbia confuso il personaggio per scarsa conoscenza degli episodi evangelici o, al limite, che abbia voluto contrastare l’interpretazione dominante della Maddalena, differentemente dal Mazzoni e dagli altri autori di Compianti che si riferiscono sicuramente alla Maddalena redenta, proprio per il tipico dettaglio dei lunghi capelli biondi. A questo punto possiamo notare che, nel periodo intercorrente tra la Maddalena di Donatello e quelle di Caravaggio di fine Cinquecento, nella produzione artistica del Meridione è più facile trovare maggiore espressività nelle statue lignee dei Compianti rispetto alle figurazioni pittoriche spesso stereotipate nelle quali, soprattutto se raffiguranti la Crocifissione, la Maddalena appare quasi sempre inginocchiata ai piedi della croce o abbracciata alla croce stessa ma sempre identificabile per la chioma bionda. (E non possiamo non ricordare quella luminosamente dorata della Maddalena di spalle nella splendida Crocifissione quattrocentesca del Masaccio). Si distingue una Pietà (Fig. 4) dipinta, su committenza del marchese Marcantonio Caracciolo, per la Chiesa dell’Annunziata a Brienza vicino Potenza, da Silvestro Buono, un artista napoletano del secondo Cinquecento piuttosto quotato per la precisione del disegno ottimizzato da una colorazione luminosa e cristallina. 1 Nella tela, viene raffigurato il momento in cui il Cristo deposto dalla croce sta per essere avvolto in un sudario bianco come dimostra la mano della Maddalena che alza il lenzuolo e quella nascosta di san Giovanni che vi mantiene la testa di Gesù mentre al centro del dipinto la Madonna prega a mani giunte. Premesso che tutti i personaggi hanno una certa espressività di dolenza, si può notare che le due protagoniste femminili, pur con un’evidente ma anacronistica somiglianza di età e tratti somatici, si distinguono per il velo nero tipico della Madonna Addolorata e per la folta capigliatura della Maddalena, raccolta in una treccia che le incornicia il capo e le copre parte del collo in un’acconciatura tipicamente rinascimentale. A creare maggior effetto drammatico più che l’espressione del volto sembra essere il panno col quale la Maddalena asciuga le sue lacrime. 1   Cfr. Rossella Villani, La seconda metà del Cinquecento in Basilicata. La pittura napoletana in Basilicata in www. consiglio.basilicata.it/conoscerebasilicata/ cultura/Pittura/II raccolta/5-IImetà500- A.pdf ; secondo la studiosa la pittura del Buono aveva come caratteri distintivi « le figure monumentali, plastiche, dinamiche, ancorché espressive e tese in funzione di una resa drammatica della narrazione pittorica ; il disegno nitido e chiaro, i colori smaltati e brillanti, la luminosità diffusa e trasparente » (p. 4).  







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Fig. 4. S. Buono, Pietà, Chiesa dell’Annunziata, Brienza.

Bisogna, comunque, ricordare che il Buono aveva già dipinto una Pietà con le stesse caratteristiche per il Duomo di Avellino nel 1551. D’altra parte non è inconsueto soprattutto in questo periodo trovare la duplicazione dei soggetti che venivano commissionati dai nobili dei luoghi. E non a caso molte figurazioni pittoriche vedono la Maddalena sempre presente a capo scoperto nelle scene della deposizione e molto spesso a lato della Madonna in molti quadri che la ritraggono. In Sicilia, a rappresentare la santa penitente è la suggestiva statua, scolpita nel 1520 da Antonello Gagini, un maestro scultore siciliano di grande fama, per la chiesa di San Francesco d’Assisi ad Alcamo senza dimenticare le altre, sempre dello stesso autore, presenti nella Chiesa di San Leoluca a Vibo Valentia e in molte chiese siciliane. Tornando al Caravaggio sembra utile ricordare almeno due dei suoi noti quadri sulla Maddalena nonché della sua interpretazione laica. Il primo, del 1594-95, ritrae la santa in un momento di riflessione, col capo reclinato, gli occhi chiusi, le mani abbandonate e con, ai piedi, i gioielli spezzati ed evidentemente buttati a terra ad indicare la sua decisione di redenzione. È una Maddalena giovanissima, ancora vestita con un abito damascato e una camicia finemente ricamata, segno di ricchezza e di stato sociale elevato. Gli stessi capelli, strumento di seduzione e appagamento della sua vanità sono in parte strappati e spettinati quasi a volerli punire per la loro bellezza, come descrive il Brignole Sale nel suo romanzo, « Scossa da furore veramente divino, rapide avventò le mani sopra i suoi crini e, togliendoli di carcere ma per condurli al patibolo, tanti ne divelse dal suo capo quanti ne prese ». 1 Completamente diversa la cosiddetta Maddalena Klain, a mezzo busto per la quale rimandiamo per un approfondimento al bel saggio di Vincenzo Pacelli che ha ripercorso l’iconografia della Maddalena come ‘corpo-immagine’ a servizio dell’ideologia cattolica, come  



1   Anton Giulio Brignole Sale, Maria Maddalena peccatrice e convertita, a cura di Delia Eusebio, Parma, Fondazione Pietro Bembo, 1994, p. 114.

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si legge nel titolo. In questo ritratto la raffigurazione della santa è quella di una donna certamente più matura colta in un momento di piena estasi. Lo confermano la testa reclinata all’indietro, gli occhi socchiusi, la bocca carnosa semiaperta, la spalla scoperta su una scollatura profonda che scopre leggermente il seno ammiccante, una figura certamente sensuale che farà da modello per le tante Maddalene barocche, prosperose e spesso seminude del Seicento. Sono, comunque, le raffigurazioni caravaggesche, e le varie copie di esse tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, a incentivare la ripresa a Napoli dell’interesse per questo personaggio tanto che troviamo alcuni drammi sacri che ribadiscono il tema della conversione come Maddalena convertita di N. Lodiani, nel 1612, o La conversione di Santa Maria Maddalena di G. Liviani di Tramonti, nel 1622, o ancora la Maddalena ravveduta di G. V. Piccino di Lecce nel 1624 e così via nello svolgersi del secolo. Ovviamente non sono le sacre rappresentazioni di cui abbiamo parlato prima perché nonostante il tema ripetitivo hanno certamente maggiori velleità teatrali e una certa ricercatezza scenica indicativa del nuovo gusto barocco ma anche di un diverso pubblico. Dopo il concilio di Trento, comunque, per organizzare manifestazioni popolari adatte a commemorare l’evento della Passione del Cristo, si preferirono, o forse si imposero, le processioni al posto delle sacre rappresentazioni, di derivazione medievale, che comunque non avevano mai goduto di preferenze particolari rispetto ad altre forme religiose. 2 Queste drammatizzazioni vennero così sostituite, durante i riti penitenziali, dalle processioni che, con l’aiuto di statue o immagini sacre, potevano incanalare l’attenzione dei fedeli senza particolari intemperanze.3 E ancora oggi nel periodo pasquale si svolgono processioni simili a quelle antiche che, per rimanere sul tema della Passione, mostrano la statua della Madonna Addolorata, con dei pugnali nel petto in segno di sofferenza mentre, condotta a spalla, percorre le vie dei quartieri di corsa cercando il Figlio nelle chiese. Tantissimi gli esempi possibili ma ci limitiamo a ricordare, in Sicilia, nel comune di Lucca Sicula, la ritualizzazione della Settimana Santa che dura ben tre giorni, durante i quali si assiste prima alla rappresentazione del dolore della Madre per la perdita del Figlio e successivamente alla soddisfazione per la sua resurrezione. La statua della Madonna, infatti, fin dalle prime ore del venerdì santo, accompagnata dalla banda e dalle litanie dei fedeli, viene portata di corsa per le vie e per le chiese per trovare il sepolcro del Figlio morto. Successivamente, nel pomeriggio di Pasqua, la corsa si ripete questa volta per cercare il Figlio risorto. Questa parte del rito si arricchisce di altri due personaggi : S. Giovanni che sostiene il Cristo e San Michele, generalmente non presente né nei Compianti né nelle sacre rappresentazioni che, dopo aver annunziato la felice notizia, conduce la Madonna dopo l’ennesima corsa ad incontrare suo Figlio. La perdita del mantello nero e il riapparire degli abiti colorati è simbolicamente indice della gioia del miracolo. 4 Ritornando alla versione pittorica, la tematica della deposizione è, anche nel Meridio1



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  Cfr. V. Pacelli, L’iconografia della Maddalena …, cit.   Considerando la situazione del Meridione concordiamo col Torraca che affermava : « notizie posteriori ci traggono a supporre che le Rappresentazioni, nella capitale del Regno, rimasero nella meschina condizione di appendice delle cerimonie religiose, e forse non acquistarono mai carattere veramente drammatico, non furono parlate ; cosa da non fare maraviglia, se si vorrà considerare che esse ebbero a lottare con altri spettacoli e divertimenti più grati agli abitanti, e con le abitudini delle classi superiori » (cit. p. 57).Vedi anche C. Bernardi, La drammaturgia …, 3   Cfr. www.processionimisteript.it. cit. 4   Cfr. http :// www.comune.luccasicula.ag.it/città/storia.htm. Sulla ritualizzazione pasquale essenziale il contributo del citato Bernardi che descrive, anche, la performance della Madonna che scappa alla ricerca del figlio morto come avviene in varie parti d’Italia. 2











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ne, ampiamente frequentata. A questo proposito, tralasciando volutamente le opere più note e considerando esempi prettamente meridionali, è interessante citare, nella Chiesa della Trinità di Tramutola vicino Potenza, una Deposizione di Antonio Stabile (Fig. 5), un’artista potentino del secondo Cinquecento che, insieme al fratello Costantino, s’inquadra nel difficile periodo della Controriforma e della sua propaganda penitenziale. Un’opera nella quale tutta la drammaticità notata nei Compianti di terracotta di un Mazzoni o di dell’Arca sembra stemperarsi in immagini statiche che non fanno altro che ripetere quei topoi narrativi senza dare particolare vivacità ai personaggi che vengono ritratti con particolari rituali e ripetitivi come il velo nero della Vergine con le mani giunte in preghiera, i capelli biondi e lunghi della Maddalena, la presenza delle pie donne e così via. 2 Spostandoci verso la Puglia invece realistiche e fortemente Fig. 5. A. Stabile, Deposizione, Chiesa della Trinità, Tramutola. drammatizzate sono le creazioni di Stefano da Putignano, uno scultore vissuto tra il xv e il xvi sec. Egli, considerato il maggior artista del Rinascimento pugliese, si forma in Abruzzo e si perfeziona via via tra Napoli e Salerno diventando un artista di notevole temperamento le cui sculture di pietra calcarea sono dipinte con colori forti, decisi che ne esaltano le caratteristiche strutturali. 3 Sua una Pietà vagamente michelangiolesca, presente nella ex Cattedrale di Polignano a Mare ma soprattutto le raffigura1

1   Cfr. Pierluigi Leone De Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, a cura di Giuliano Briganti, Milano, Electa, 1998 ; Antonella Miraglia, Antonio Stabile, Un pittore lucano nell’età della Controriforma, Potenza, Il Salice, 1992. 2   Per Rossella Villani si tratta di « immagini bloccate, congelate, prive di emozioni e sentimenti seppur raffigurate in momenti di grande emotività » e anche di « un forte sentore fiammingo, percepibile nelle ombreggiature scure del corpo di Cristo, nelle membra ossute e livide, nella luce giallognola che incupisce la tavolozza variegata, nella resa materica dei capelli » (Rossella Villani, Antonio Stabile interprete della Controriforma in www.consiglio. basilicata.it/conoscerebasilicata/ cultura/Pittura/II raccolta/AntonioStabile.pdf ). 3   Egli crea « sculture costruite solidamente, di grandezza naturale, caratterizzate da una forte espressività e plasticità dei volti e da una varia articolazione dei panneggi nella resa delle vesti : tutte le opere sono dipinte dall’artista per accentuare il senso naturalistico delle immagini » in Barocco pugliese - Articolo http ://www.itrabarocco.it/ web/guest/home/articolo ?p_p_id=pis 11_f.  



















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zioni plastiche della Natività. Questo argomento, anch’esso dalla bibliografia smisurata, ci porta da una parte ad aprire il discorso sull’iconografia della maternità attraverso le raffigurazioni della Madonna con Bambino e dall’altra ci fa affrontare un altro tipo di sacra rappresentazione, dove la figura mariana ha particolare rilevanza, quella presepiale. Questa, la cui narrazione attraverso immagini, è reperibile fin dal iii sec. come dimostrano le effigie parietali del cimitero di S. Agnese o delle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla a Roma, è continuata nel tempo, prendendo vigore tra l’xi e il xii sec. ma diffondendosi proprio nel Cinquecento fino a svilupparsi tra Seicento e Settecento. Una forma di devozione che, non a caso fin dal Trecento, è diventata soggetto predominante di grandi artisti italiani e stranieri. E non dobbiamo dimenticare, come vera e propria sacra rappresentazione, il presepe vivente voluto da San Francesco a Greccio nel 1223 interpretato dagli stessi fedeli in ricordo di antiche manifestazioni medievali. La rappresentazione di questo avvenimento sacro, reperibile in tutta la civiltà cristiana, è diventata una manifestazione artistica che ha avuto particolare rilievo proprio a Napoli, dove durante la reggenza aragonese, cominciarono a lavorare artigiani, più spesso veri e propri artisti, specializzati nella fattura di statue generalmente di legno che, oltre ad abbellire le cappelle delle Chiese o dei palazzi gentilizi, erano la raffigurazione di quei personaggi sacri che, colti nella ripetitività di alcuni momenti topici, servivano a ricordare ai fedeli l’origine del Cristianesimo. E non è un caso che sempre a Napoli, nel Museo di San Martino c’è una intera ed ampia sezione dedicata ai presepi. Notevoli le statue della Madonna e di San Giuseppe a grandezza naturale di un presepe di Pietro Alemanno, fatto nel 1470 per la chiesa dell’Annunziata così come quelle realizzate, tra il 1478 e il 1484, per la chiesa di San Giovanni a Carbonara. 2 Nel Cinquecento soprattutto a Napoli, come in Sicilia, ma anche in Toscana, comincia a svilupparsi un vero e proprio amore per questa particolare forma artistica con il presepe fatto dal bergamasco Pietro Belverte nel 1507 per san Domenico Maggiore a Napoli e continua, spostato nel tempo, soprattutto ad opera di Gaetano da Thiene che ne compose uno per l’Ospedale degli Incurabili con figure in legno vestite secondo la moda del suo tempo. A dare inizio, però, ad una vera e propria scuola napoletana è stato Giovanni Merliano detto Giovanni da Nola, nato a Marigliano nel 1488 e morto a Napoli nel 1558, autore del famoso presepe fatto per Sannazaro. Ovviamente non potendo soffermarci su questa che sembra, o meglio è, una vera tipologia artistica soprattutto del Meridione anche se non solo di quello, citeremo in particolare i presepi di Stefano di Putignano a Polignano a mare, a Bari, a Cassano Murge e a Grottaglia o quelli del suo continuatore, Altobello Persio che ne compone uno nel Duomo di Matera insieme a Sannazaro di Alessano. Diversi, o meglio rinnovati, quelli barocchi dei sacerdoti scolopi, nel primo Seicento, con personaggi-manichini in legno abbelliti da vestiti veri che venivano modificati anno per anno. A questo proposito, dobbiamo notare che anche nelle processioni la vestizione della Madonna, ma anche dei santi, con abiti veri diventa una pratica consuetudinaria dal barocco in poi. Il presepe come le altre raffigurazioni, dipinti, affreschi, sculture anche artigianali erano mezzi per far comprendere anche solo visivamente gli avvenimenti biblici. La cosid1

1   Cfr. Clara Gelao, Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento, Fasano di Puglia, Schena, 1989 ; Marascelli-Mezzapesa, Putignano, Guida Storica, Putignano, Radio, 2006. 2   Cfr. Roberta Catello, Il successo mondiale della tradizione del Presepe, le grandi collezioni, i media e il nuovo collezionismo in Working Paper Series n. 7/2007, Dipartimento di Economia “S. Cognetti De Martiis”, Università di Torino in www.eblacenter.unto.it/WQ/2007/7_WQ_Ebla.pdf.  

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detta Bibbia dei poveri permetteva così anche alle persone incolte di avvicinarsi alla fede e ai suoi misteri. Nel Cinquecento, poi, in una società fortemente condizionata da regole di comportamento devozionali, il presepe rappresentava uno dei pochi momenti di gioia diffusa per una popolazione oppressa dalla povertà e dalle vessazioni della nobiltà e dello stesso clero ma incarnava anche la festa della maternità ; da qui il successo e la richiesta di statue ed opere pittoriche correlate riguardanti, in particolare, la Madonna col Bambino. Sempre tralasciando quelle di grande rilievo, scegliamo un esempio meridionale, sempre cinquecentesco, dell’arcidiocesi di Brindisi. Si tratta di una Madonna con Bambino, dalla fattura arcaica lontana dal gusto rinascimentale, col viso reclinato Fig. 6. Madonna con Bambino, Arcidiocesi di Brindisi. verso il bimbo e le mani molto grandi (Fig. 6). Pur se di autore ignoto è certamente vicina a Jacopo de Vanis che lavorò artisticamente in molte botteghe della Brindisi del secondo Cinquecento. 1 Di poco pregio artistico ma conosciutissima, almeno a Napoli, dopo il primo miracolo del 1450, è la cosiddetta Madonna dell’Arco, dipinta in quegli anni da un ignoto sul muro di un’edicola posta nella contrada Arco, appunto, di Santa Anastasia nell’entroterra napoletano (Fig. 7). L’immagine non bellissima, che ritrae Maria apparentemente seduta con in braccio il Bambino, si distingue per una certa grazia dell’espressione tra la mestizia degli occhi e il sorriso della bocca pur non avendo, allo stesso modo della Madonna precedente, una fattura classica e raffinata che la possa paragonare alle Madonne con Bambino di autori celebri. Un dipinto miracoloso, pare, venerato tanto che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento venne edificata una piccola chiesetta, diventata nel tempo un santuario, che vede, nel periodo pasquale, raccogliersi un gran numero di pellegrini, vestiti d’azzurro e a piedi scalzi, che vivono momenti di esaltazione religiosa ancora oggi. 2 Questi fedeli (al 

1   Giacomo Carito, che presta la sua opera nell’ufficio dei beni culturali ecclesiastici dell’arcidiocesi di BrindisiOstuni, il Museo Diocesano “Giovanni Tarantino”, considerando quest’opera, dice : « restaurata nel 1999 denota, nelle figure irrigidite, negli effetti chiaroscurali sui visi e sulle vesti, un linguaggio arcaico, tipico della tradizione dei madonnei del secolo xvi. Il gusto attardato ricorda, da un punto di vista compositivo, modi tipici di Jacopo de Vanis che dovette esercitare una certa in influenza sulle botteghe brindisine del secondo Cinquecento. Tali influssi stilistici sono riscontrabili nella figura muliebre che reclina leggermente il capo, in quei tipici morfemi delle mani sproporzionate nel rapporto tra le dita e il metacarpo, nei duri panneggi delle vesti » in www.brindisiweb.com/ arcidiocesi/enti/museo_br.htm. 2   Cfr. Tommaso M. Violante, Madonna dell’Arco. Storia del santuario e del convento, Napoli, edi, 2009.  





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meno fino ad una ventina di anni fa quando li ho ascoltati personalmente) nel periodo prepasquale, in alcuni quartieri di Napoli in particolare l’Arco Mirelli, nelle prime ore del mattino fanno risuonare particolari canti per lo più monodici preparando piccole processioni da riunire il lunedì in albis per raggiungere il santuario. Differentemente dalle statue in legno o in terracotta, dalle espressioni fortemente drammatizzate, queste immagini diremmo più arcaiche e non toccate dall’eleganza delle forme classiche né ovviamente dall’opulenza di quelle barocche del secolo successivo, diventano le icone più adatte per le processioni. Si tratta di raffigurazioni rigide che poco avevano in comune con quelle delle Madonne dei Compianti di cui abbiamo parlato. A Foggia, ad esempio, molto venerata era la cosiddetta Madonna dei sette veli o Sacro Tavolo di Santa Maria dell’Iconavetere. Consiste in una tavola di legno di conifera, dipinta a tempera, ritroFig. 7. Madonna dell’Arco, Santuario Sant’Anastasia (Napoli). vata tra il 1062 e il 1073 ricoperta da una « sopraveste ricamata con buca ovale in alto ». Questa immagine, « a figura intera, che regge il bambino con entrambe le mani » veniva portata in processione con un’altra « veste d’argento finemente cesellata ». 1 Dobbiamo puntualizzare, comunque, che alcuni pittori meridionali più bravi e aggiornati e vicini alle tecniche rinascimentali sono riusciti a raffigurare la stessa tematica con grande bravura. Citiamo, ad esempio, una Madonna con Bambino, su una tavola dal fondo dorato, probabilmente di Andrea Sabatini, detto anche Andrea da Salerno per la sua città di origine, conservata nel Palazzo vescovile di Nola (Fig. 8). Il dipinto ritrae una Madonna e un bambino con i bei volti dai tratti tipici rinascimentali e vestiti drappeggiati e ariosi. 2 Rileviamo che gli stessi restauratori del dipinto, notando vari fori indice di ex voto,  











1   Cfr. Gaetano Cristino, Un percorso artistico monumentale Foggia in mostra, in www.reciproca.it/Turismo/ Foggia/cristino.htm. 2   Stefano Colucci, Antonia Solpietro, … Alla luce. Restauro di due pregevoli opere del Museo Diocesiano di Nola in « Meridies » affermano « L’analisi stilistica del dipinto spinge a rilevarne i tratti di sostenuto livello pittorico come il grazioso volto raffaellesco della Madonna, la capigliatura, briosa e quasi leonardesca del Bambino dalle carni morbide, il prezioso estofado su cui lo stesso siede, la drappeggiata scollatura della Vergine » in meridies_nola. org/attività/restauro.htm.  







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ribadiscono a proposito di questo dipinto « il suo destino di oggetto del forte significato devozionale ». 1 E non si può dimenticare nemmeno uno scultore meridionale già citato precedentemente, il messinese Antonello Gagini, figlio d’arte, che formatosi alla scuola del padre Domenico, e affinatosi attraverso i contatti con i vari artisti italiani e stranieri che circolavano nell’isola, diventa uno dei più prolifici artisti del tempo. Le sue opere si trovano nelle maggiori chiese della Sicilia e della Calabria. E sua è una splendida Madonna con Bambino, sita attualmente nella Cattedrale di Fig. 8. A. Sabatini, Madonna con Bambino, Palazzo Vescovile, Nola. Taormina. La statua, in alabastro, è arricchita da un abito prezioso e dalla corona che porta in capo come lo stesso Gesù Bambino. Inoltre lo scultore è riuscito a infondere una espressione sognante al bellissimo volto di Maria (Fig. 9). Sempre nell’ottica dell’arricchimento del nostro patrimonio artistico nel periodo che va dalla seconda metà del Quattrocento in poi, non solo a Napoli ma in tutto il regno, si assiste all’edificazione di molti santuari, ricchi di opere d’arte, consacrati a quei santi che avevano ottenuto il favore popolare per i loro miracoli e la diffusione delle loro reliquie. Tra questi anche alcune martiri cristiane dei primi secoli del cristianesimo diventano oggetto di culto tanto da essere elette patrone di paesi o di città oltre ad essere molto spesso protagoniste di drammi pittorici o letterari. Bisogna anche dire che la letteratura agiografica molto spesso rappresentava storie di santi arricchite da leggende o da particolari accattivanti per dare maggiore lustro al santo stesso ed egualmente contentare le gerarchie ecclesiastiche e quelle nobiliari. Per questo si assiste a volte a tentativi di nobilitare alcuni santi. Esempio eclatante è la ricostruzione, se non l’invenzione, delle origini di santa Rosalia, nota nell’antichità soprattutto per la sua vita da eremita penitente. L’operazione fu condotta, in particolare dai gesuiti che, tra la fine del Cinquecento e il primo quarto del Seicento, per offrire al popolo palermitano un nuovo culto degno di grande tradizione, cercarono di imparentare la santa nientedimeno « con Carlo Magno e Ruggero II […] due figure regali, cariche di forza simbolica ». 2 Questa « vicenda sintetizza modi ed entità degli investimenti politici e culturali che si operano sul culto cittadino da parte delle istituzioni civili e religiose ». 3 Da qui l’opera in dialetto siciliano, scritta tra il 1651 e il 1656 da Pietro Fullone, La Rosalia poema epico o anche i panegirici a lei dedicati, recitati, all’epoca, nelle varie chiese di Palermo, ma soprattutto il cosiddetto festino, cioè la festa di Santa Rosalia, così come viene testimoniato dalle cronache dell’epoca. Bisogna, comunque, precisare che se « il motivo  













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  Ibidem.   Valerio Petrarca, Di Santa Rosalia Vergine Palermitana, Palermo, Sellerio, 1988, p. 101. Al quale si rimanda 3   Ivi, p. 103. per un approfondimento su questa tematica. 2

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devozionale del festino » permane, si perde « quello espiatorio » per accentuare il « motivo trionfale, più spiccatamente politico-ostentativo ». 1 Molti, direi troppi, sono i casi che potremmo considerare per correlare la santità femminile alla sua rappresentazione iconografica e drammatica nel Rinascimento meridionale per cui ci limiteremo a segnalare solo pochi esempi come quello di Santa Giuliana morta martire in Turchia nei primi anni del iv secolo. Le sue spoglie, conservate prima a Cuma e poi nella sede episcopale di Aversa, suscitarono molta venerazione e devozione nel Medioevo tanto che nel v secolo le fu iscritta un’edicola contenente una icona bizantineggiante, che la ritrae, posta nelle catacombe di San Gennaro. Ma è a Frattamaggiore che le venne dedicata una chiesa dove è rappresentata in un affresco quattrocentesco e in una statua lignea del ’500 ; una versione pittorica fu fatta nel 1570 da Giovan Battista Fig. 9. A. Gagini, Madonna con Bambino, Cattedrale, Lama e a fine Seicento da Luca Giordano. 2 Taormina. Una santa oggi poco ricordata è invece la siriana Febronia, martorizzata nel iii secolo in modo atroce. Nella sua Passio si racconta che dopo essere stata legata ad un palo, flagellata, scorticata e ustionata, le furono strappati sette denti, poi tagliati seno, mani e piedi e, infine, decapitata. Le sue tristi vicende furono tanto divulgate da far rinvenire segni del suo culto in molte regioni dell’Europa e dell’Asia. In Italia meridionale se ne trovano tracce in Campania, a Napoli, a Minori vicino Salerno, dove è venerata patrona col nome di Trofimena, in Calabria a Calanna vicino Reggio dove è stata costruita per lei una chiesa nel xiv sec., in Sicilia, a Palermo, a Catania e in varie province di Messina, in particolare a Palagonia dove rileviamo la presenza di una statua lignea di autore ignoto (Fig. 10) risalente sempre al Cinquecento ma anche di un reliquario con il pollice della santa e di un quadro ottocentesco nella quale è ritratta in vesti da monaca. La statua lignea tipicamente cinquecentesca, dal viso molto dolce e bello, ricoperta da un vestito d’argento con la corona e i simboli del martirio, viene ancora oggi portata in processione in tutte le ricorrenze festive dedicate alla santa. Ma se esempi di santità si possono trovare in tutto il Meridione, è certamente la Sicilia ad essere una vera e propria terra di sante come Santa Rosalia già ricordata, Sant’Oliva, Santa Cristina, Santa Ninfa, Sant’Agata, Santa Lucia : ognuna delle quali meriterebbe una  













1

  Ivi, p. 148.   Cfr. Pasquale Saviano, Santa Giuliana vergine e martire, Frattamaggiore, s.e., 1997.

2

la santità femminile nel cinquecento meridionale menzione a parte. Noi ci interesseremo di quest’ultima, una delle sante più note in Italia e all’estero. A Siracusa sua terra natale, dove subì il martirio nel iii sec., sorge una Basilica a suo nome iniziata in epoca bizantina e rifatta più volte anche nel Cinquecento. Sotto l’altare si trova una statua molto raffinata della santa del 1634 fatta da Gregorio Tedeschi (Fig. 11). Anche della sua storia terrena esiste una memoria in una Passio scritta tra il v o vi secolo probabilmente rimaneggiata con aggiunte di vicende tramandate oralmente. Molte le storie e le leggende legate a questa santa come quella per cui una sua immagine scavata nella roccia sarebbe stata trovata miracolosamente da due pastori nel 1600. Avvenimento che avrebbe portato alla costruzione di un Santuario a Benevento dove la sta-

Fig. 10. Santa Febronia, Palagonia (Me).

Fig. 11. G. Tedeschi, Santa Lucia, Basilica, Siracusa.

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tua, chiaramente di autore ignoto, viene ancora venerata. D’altra parte possiamo reperire nel Meridione, tra il Quattrocento e l’inizio del Seicento, molte chiese e santuari dedicati a lei e al suo culto, che custodiscono dipinti o statue che la raffigurano. Anzi a Napoli, dove la santa godeva particolare favore popolare tanto da diventare qualche secolo dopo, come san Gennaro, patrona della città, furono dedicate ben due chiese Santa Lucia a Monte nei ben noti quartieri spagnoli e Santa Lucia a mare, costruita tra il 1452 e 1459 ai piedi di Pizzo Falcone, dove è conservata una statua lignea della santa fatta intorno agli anni Ottanta del Cinquecento da Nicola Fumo. Ma è in Sicilia, e soprattutto a Siracusa, che il culto di Santa Lucia è particolarmente rilevante. Ed è a Siracusa che, tra il 1608 e il Fig. 12. Caravaggio, Il seppellimento di Santa Lucia. 1609, Caravaggio dipinge Il seppellimento di Santa Lucia (Fig. 12), un quadro nel quale, con i suoi classici giochi di colore e di luce, fa concentrare l’attenzione sulla figura della santa morta attorniata da gente dolente tra cui un vescovo e un soldato mentre ai lati si stagliano in primo piano le figure dei due che scavano la fossa per interrarla. Un’immagine questa del Caravaggio che ricorda quella della Morte della Vergine dove anche lì il soggetto scelto tra personaggi popolari sembra avvicinare la santità alla gente comune. Ma il quadro di Caravaggio si distingue dalle consuete rappresentazioni della santa per la sua particolare efficacia narrativa perché va oltre la storia, segna il tempo dopo il martirio quando tutto è ormai compiuto e non rimane che il dolore stampato sui visi. Il Caravaggio non ha scelto le ben note sequenze narrative del martirio irrealizzabile per volere divino quando, ad esempio, un gran numero di soldati e buoi non riescono a portare la vergine in un postribolo, come era stato ordinato dal console Pascasio, né a bruciarla viva nonostante fosse coperta di resina e pece. La morte, desiderata dalla martire per dare significato alla sua fede, avviene velocemente attraverso una spada senza subire torture o tormenti. Ma questo martirio senza sofferenza è un topos che ha percorso intatto tutto il mondo della cristianità e si ritrova in molte opere letterarie e teatrali anche dell’alto Medioevo. Nel x secolo, ad esempio, una canonichessa tedesca, Rosvita, scrittrice dai forti connotati intellettuali, in alcuni dei suoi dialoghi drammatici, destinati ad essere, più che recitati, letti a due voci nella corte degli Ottoni dove gravitava, descriveva più o meno con le stesse immagini il martirio di alcune vergini che non volevano abiurare la loro fede. Allo stesso modo

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della santa, anche le protagoniste di Rosvita non sentono alcun tipo di dolore e muoiono senza soffrire non senza prima aver deriso i loro persecutori impotenti. 1 Ancora nel Seicento un pittore come Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro proponeva una Santa Lucia condotta al martirio, dove appare evidente il contrasto tra lo sforzo degli uomini e dei buoi che tentano invano di trascinarla e la tranquillità della santa che immobile rivolge gli occhi al cielo. Qualche anno dopo il soggiorno siciliano del Caravaggio a Siracusa Giovanni Angelo d’Ambrosio da Saponara dipinge, nella cappella di San Luigi ad Aliano vicino Matera, un quadro di Santa Lucia (Fig. 13) che vale la pena di commentare non per una mancanza di capacità espressiva ma per la trasformazione della sua immagine di personaggio. In questo dipinto la santa, identificabile solo per la palma e l’ampolla Fig. 13. G. A. d’Ambrosio da Saponara, Santa Lucia, Cappella San Luigi, Aliano (Ma). con gli occhi, appare formosa, elegante in un abito rosa luminoso con uno scialle dorato drappeggiato e una spilla che abbellisce la scollatura. Situata in posizione elevata, quasi fosse sul piano rialzato di un palcoscenico o su un podio, s’innalza rispetto alle teste dei due committenti ritratti di fronte, a mani giunte all’altezza delle sue ginocchia. Si registra una notevole diversità rispetto alla sua immagine ricorrente che la ritrae giovanissima e con espressione ispirata, in quelle raffigurazioni che diventeranno tipizzazione delle immaginette e dei santini che la riguardano, o rigida con la spada infilata nel collo come nella statua o simulacro della Cattedrale di Siracusa ben più adatta al rito delle processioni (Fig. 14). Diversamente, nel quadro di Aliano, appare come una gentildonna del paese tanto più che i tratti somatici assomigliano a quelli della committente ai suoi piedi. Da quanto rilevato finora, pur nella necessaria esiguità della esemplificazione, possiamo dire che nel nostro Meridione la rappresentazione della santità femminile, pur se spesso tributaria di quella centro-settentrionale, presenta spesso dei caratteri di originalità e spontaneità. Alcune immagini scultoree e pittoriche, risentendo l’influsso delle correnti artistiche rinascimentali, sembrano adeguarsi a quelle composte dai grandi dell’epoca. Quelle invece più modeste, a volte di derivazione medievale o di autore ignoto, hanno acquistato forse maggior valore per aver contribuito a diffondere, a tutti i livelli sociali, soprattutto quello popolare, quel culto devozionale tanto propagandato in epoca contro1

  Cfr. Rosvita, Dialoghi drammatici, a cura di Ferruccio Bertini, Milano, Garzanti, 1989.

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riformata attraverso le processioni e le ritualizzazioni penitenziali. Allo stesso modo abbiamo notato un maggiore pathos nelle sculture in terracotta o in legno che non in opere pittoriche di artisti di medio talento, che hanno finito col creare opere stereotipate e poco espressive. Bisognerà aspettare il Seicento per una drammatizzazione pittorica e scultorea tale, come è stato ampiamente dimostrato dalle ricerche di Franco Carmelo Greco rifluite in santi a Fig. 14. Simulacro di Santa Lucia, Cattedrale, Siracusa. teatro, da diventare una vera spettacolarizzazione della religiosità. Così anche le sante attraverso le statue, i quadri, i drammi sacri ma anche i libri agiografici, i romanzi e non ultime le prediche, continueranno a rappresentarsi e a ricordare ai devoti le loro storie di sacrificio e di fede. Università degli Studi di Napoli “Federico II” Puntualizzato il rapporto tra la ritualizzazione religiosa e le prime forme teatrali nonché la situazione socio-culturale del Regno di Napoli nel periodo della controriforma, che influenza l’iconografia e la drammaturgia del tempo, ci siamo soffermati, nella parte centrale del lavoro, su alcuni esempi della santità femminile : la Madonna Addolorata e la Madonna col Bambino, emblemi della maternità ; la Maddalena come simbolo della redenzione ; infine santa Lucia come modello di santa martirizzata. Queste figure sono state rapportate, a secondo i casi, a sacre rappresentazioni, a gruppi scultorei o rappresentazioni pittoriche e a riti o processioni religiose.  





After exploring the relation between religious rites and early theatrical forms as well as the sociocultural life in the Reign of Naples in the age of the Counter-Reform, which influences the iconography and dramaturgy of the time, the central part of the work lingers on some examples of female holiness : Our Lady of Sorrows and the Virgin with Child, symbols of motherhood ; the Magdalene, as the symbol of redemption ; finally, Saint Lucy as a model of a martyred saint. These figures have been occasionally connected with sacred plays, sculptural groups or paintings, and religious rites and processions.  





Après avoir ponctualisé le rapport entre la ritualisation religieuse et les premières formes théâtrales ainsi que la situation socio-culturelle du Règne de Naples durant la période de la contre-réforme, qui influence l’iconographie et la dramaturgie de l’époque, nous nous sommes arrêtés, dans la partie centrale du travail, sur certains exemples de sainteté féminine  : Notre-Dame des Douleurs et la Vierge à l’Enfant, emblèmes de la maternité ; Marie de Magdala comme symbole de la rédemption ; enfin Sainte Lucie comme modèle de sainte martyrisée. Ces figures ont été comparées, en fonction des cas, à des représentations sacrées, à des sculptures ou représentations picturales et à des rites ou processions religieuses.  





A partir de la relación existente entre el rito religioso, las primeras formas teatrales y la situación socio-cultural del reino de Nápoles en el período de la contrarreforma, que a su vez influencia la iconografía y la dramaturgia de su tiempo, la parte central del trabajo analiza algunos ejemplos de santidad femenina : la Madonna Addolorata y la Madonna col Bambino, emblemas de la maternidad ; la Magdalena, como símbolo de la redención ; y por último santa Lucía, como modelo de santa que  





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sufrió el martirio. Estas figuras han sido relacionadas, según los casos, con representaciones sagradas, grupos escultóricos o representaciones pictóricas y ritos o procesiones religiosas. Nach einem Überblick über die Beziehung zwischen religiöser Ritualisierung und frühesten Formen der Theatralisierung sowie über die die zeitgenössische Ikonografie und die Dramaturgie beeinflussende soziokulturelle Situation im Königreich Neapel zur Zeit der Gegenreformation haben wir uns im zentralen Teil des Werks auf einige Beispiele weiblicher Heiliger konzentriert : die Schmerzensmadonna und die Madonna mit Jesuskind als Embleme der Mütterlichkeit ; Maria Magdalena als Symbol der Erlösung ; und schließlich die Heilige Luzia als Modell der heiligen Märtyrerin. Die Figuren wurden je nachdem in Beziehung gesetzt zu religiösen Darstellungen, Skulpturengruppen oder Malereien sowie zu Riten oder religiösen Prozessionen.  





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PASSIONE, NORMA E TRASGRESSIONE. GLI EFFETTI DELL’AMORE NELLE EROINE DI GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA Nicoletta Mancinelli

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 ella di Giovan Battista Della Porta fu sicuramente una complessa e interessante u figura di letterato. Perfettamente calato nella temperie del suo tempo, ebbe modo di conquistarsi una ben meritata fama grazie all’eclettismo dei suoi interessi e all’autorevolezza che attraverso le sue opere riuscì a guadagnarsi presso i contemporanei. Secondo la sua stessa opinione la parte più stimabile del suo lavoro era da ricercarsi nei suoi studi circa la cosiddetta magia naturalis, ma ciò che in quest’ambito ci interessa maggiormente è senz’altro la sua attività di commediografo, ragguardevole e interessante. Come è noto, la sua produzione fu copiosa, ma non è tanto l’abbondanza delle sue opere, in particolar modo delle commedie, a suscitare maggior interesse, quanto piuttosto il suo intendere il teatro come fatto di letteratura tout court e come momento di spettacolo ‘agito’. È un gustoso paradosso quello che si instaura fra la sue dichiarazioni e quella che vediamo essere nei fatti la sua prassi. Se dobbiamo credere a quanto ci tramanda lui per primo l’attività teatrale sarebbe da ascriversi agli « scherzi della sua fanciullezza », 1 ma vista la cura e la compattezza con cui le sue opere si presentano si è certamente portati a dire il contrario. Anzi, dopo una scorsa alla sua produzione, l’impressione è che pur evolvendosi com’è naturale, la sua drammaturgia nasca già adulta e solida, figlia dell’assimilazione da parte del commediografo dell’Arte del Teatro sia come pratica letteraria che fatto spettacolare, quindi concepita e agita tenendo ben presente un pubblico che non si limita a leggere, ma vede e ascolta. 2 Ed è per questo che intendo prendere in esame specialmente le sue due prime commedie, l’Olimpia e La Fantesca, già perfettamente mature e complete. Sarà utile a questo punto lasciare la parola ai suoi prologhi e verificare quanto detto sinora sulla base delle apparenti contraddizioni che vi si trovano.  



I prologhi Una sintesi efficace di quanto detto ce la offre il prologo a Gli duoi fratelli rivali (1601) :  

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  Giovan Battista Della Porta, Commedie, a cura di Raffaele Sirri, Napoli, esi, 2002, iii, p. 14.   D’altra parte non solo è noto e riscontrabile già nel testo che il Della Porta concepiva le sue opere per essere rappresentate, ma anche che aveva contatti con i professionisti stessi della Commedia dell’Arte che apprezzavano le sue commedie, efficaci al punto da trarne canovacci, segno della loro indubbia validità anche dal punto di vista meramente “attoriale”. Cfr. Raffaele Sirri, Teatro e letteratura teatrale nel Cinquecento : G. B. della Porta, Napoli, De Simone, 1982, p. 7 : La presenza continua e vistosa, nelle commedie del Della Porta, di molti elementi ed espedienti scenici coi quali la Commedia dell’arte fondò e per lungo tempo assicurò il suo trionfo, tende a risolversi criticamente nella domanda-tèma ‘quanto la Commedia dell’arte debba al Della Porta’. I risultati di pazienti ricerche in zone nodali dell’attività teatrale contemporanea e posteriore, l’individuazione di ascendenze filiazioni mutuazioni, la stessa presunzione di un traffico più o meno intenso di canovacci e partiture corso fra il Della Porta e attori di professione, parrebbero garantire la legittimità della domanda. Molte di quelle ricerche, anzi, sembrano essere state mosse proprio dal proponimento di verificarne la portata critica, controllando attentamente dall’interno della commedia erudita il processo capillare di formazione e istituzionalizzazione della commedia improvvisa e definendo i prestiti offerti dai letterati agli attori; i quali sarebbero diventati professionisti, appunto, capitalizzando quei prestiti. 2





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Olà che rumore, olà che strepito è questo ? Egli è possibil pure che fra persone di valore e sangue illustre ci abbia a venir mischiata sempre questa vilissima canaglia ? La qual per mostrar a quel popolazzo che gli sta d’intorno, che s’intende di comedie, or rugna di qua, or torce il muso di là. Par che le puzzi ogni cosa : - Questa parola non è boccaccevole, questo si potea dir meglio altrimente, questo è fuor delle regole di Aristotele, quel non ha del verisimile -, pascendosi di quella aura vilissima popolare, né intende che si dica, e alla fine viene a credere agli altri. Ed altri, pieni d’invidia e di veleno, per mostrar che la comedia non dia sodisfazzione agli intendenti e che l’hanno in fastidio, empiono di strepito e di gridi tutto il teatro. E che genti son queste poi ? qualche legista senza legge e qualche poeta senza versi. […] Che se non fossi così cieco degli occhi dell’intelletto come sei, vedresti l’orme di Menandro, di Epicarmo e di Plauto vagar in questa scena e rallegrarsi che la comedia sia giunta a quel colmo ed a quel segno dove tutta l’antichità fece bersaglio. Or questo è altro che le parole del Boccaccio o regole d’Aristotele ! Il qual, se avesse saputo di filosofia e di altro quanto di comedia, forse non arebbe quel grido famoso che possiede per tutto il mondo1.  









Una dichiarazione di poetica in tutto e per tutto, apparentemente senza compromessi. E che da sola esprime bene il modo dellaportiano di concepire il Teatro. La sua scaltrezza sta anche nell’aver saputo individuare i suoi detrattori e le accuse che gli venivano mosse, spia sicura del fatto che ciò che maggiormente gli stava a cuore era il confronto col pubblico vero e proprio. Ma ormai non più il pubblico dei letterati che legge, e che sembra prediligere la commedia erudita noiosissima e affatto astratta a rappresentarsi. Egli sa di doversi rivolgere, proprio per legittimare se stesso e il suo lavoro, a un pubblico certamente colto, ma non rigido, ovvero a quell’insieme di persone, certo non tutto il popolo, che aveva sufficiente cultura e buon gusto da riconoscere nella saldezza dell’impianto, della fabula, ma anche e forse soprattutto nella messinscena il vero parametro per giudicare l’opera teatrale. I suoi pretesi critici vengono a loro volta accusati di sentenziare sulle parole non « boccaccevoli » piuttosto che sulle regole di Aristotele non rispettate alla lettera. Questo fa intendere un pubblico di lettori, non di spettatori, irrigidito e proiettato verso un passato illustre nel ricordo e sterile nella contemporaneità. Questi parlano infatti di dialoghi e parole lette, di pure astrazioni che ormai i tempi avevano superato quasi del tutto, e fanno intuire un pubblico talmente avvezzo ai tipi, rigidi e monocordi, da disorientarsi quando non li ritrovasse riprodotti tali e quali sulla scena. Anzi precisamente quest’astrattismo li rende insensibili proprio a ciò che sembrano coltivare con maggior zelo : il culto della classicità. Non a caso è Boccaccio che il Della Porta cita. Sappiamo come le sue novelle abbiano fornito ampia materia da trarne commedia ai tempi, ormai già lontani, della gloriosa commedia degli Ariosto e dei Machiavelli. Appena innestato su trame drammatiche il Decameron divenne un classico indispensabile per la costruzione degli intrecci e, soprattutto, dei personaggi. Ma a Della Porta che pure, come vedremo, non ignora Boccaccio nel suo teatro, questo non basta per legittimarsi come autore di commedie regolari, e il motivo è quello più profondo. La logora commedia erudita non innovava più, ovvero non rinverdiva le trame dal suo interno, ma si accontentava di riprodurle. Coloro che criticavano, ottusamente, la pretesa poca letterarietà di Della Porta non si accorgevano di tradire esattamente quello che pareva loro di esaltare, ovvero il sentimento, questo sì autenticamente classicista, dell’imitazione. Il Della Porta, assai più consapevole e scaltrito dei suoi detrattori, capisce esattamente, come sa di dover fare qualunque letterato che aspiri alla genuina emulazione, che l’unica strada è quella di assimilare, elaborare e riprodurre le vere fonti, ossia rivolgersi a coloro che hanno saputo fare la commedia, uomini di teatro anch’essi : Menandro, Epicarmo e Plauto. Questi e non altri  







1

  G. B. Della Porta, Commedie, cit., pp. 13-14.

gli effetti dell ’ amore nelle eroine di giovan battista della porta 93 sono i veri creatori dell’Arte del Teatro, che sono e rimangono i modelli da cui attingere e, paradossalmente, da innovare, proprio per non tradirne il vero spirito. L’immagine dei tre grandi dell’antichità che passeggiano sul palco, invisibili agli occhi degli ignoranti che non sanno riconoscerli nella farragine teatrale nata dall’imitazione pedissequa di ciò che nel Quattrocento e Cinquecento è stato prodotto, è fortemente simbolica. Certo non si può, né si potrebbe, vedere mai Aristotele in questa galleria, bollato dal fatto di essere un teorico alla stregua di coloro che lo citano sempre, probabilmente a sproposito e senza consapevolezza. E a quelli che veramente si intendono dell’Arte del Teatro questo autentico e schietto rifarsi all’antichità genuina non doveva essere sfuggito. Nella lettera dedicatoria della sua Commedia più giovane, l’Olimpia (1589), l’editore Pompeo Barbarito, rivolgendosi « all’illustrissimo Sig. Don Gesualdo » tiene molto a sottolineare la differenza, in termini di decoro, fra la commedia dellaportiana e quelle all’improvviso, intese nel senso degenere del temine :  





Ricordandomi che dispiacque a V.S. Illustrissima il non poter sentir l’Olimpia, Comedia del S. Gio. Battista della Porta, per ritrovarsi indisposta, quando si rappresentò, e che le saria stato caro leggerla, non avendo per le zannesche, e disoneste, che si fanno all’improvviso (come han quasi gran parte di quelli ch’io conosco) perso il gusto delle comedie gravi, e artificiose, procurai d’averne una copia, che fusse la più corretta di quante se n’erano viste per l’innanzi, acciò che le soverchie aggionzioni fattevi da diversi, non le avessero scemata l’artificiosa semplicità sua, e dato occasione a lei di farne altro giudizio di quel che ella merita. Ma astretto poi dalle richieste, che me ne facevano gli amici, per non durar fatica ogni giorno in farne far tante copie, e per poter così in un tempo sodisfare il desiderio di lei, gratificarmi quelli, e difendermi co ’l Suo favore dal disgusto, che sentirà il Sig. Giovambattista, ch’io ardisca di mandar fuori questa sua composizione, fatta ne’ suoi primi anni, senza sua saputa mi sono indotto a farla stampare e dedicarla a V.S. Illustrissima, sicuro che s’ella ebbe segnalato favor d’essere udita la prima volta dal Sig. Conte di Miranda, Vicerè, e dalla maggior parte de’ Signori e della Nobiltà di questo Regno, quando, con superbo apparato, da virtuosissimi giovani fu così ben rappresentata ; non minor ne riceverà ora dall’esser letta e favorita da lei, l’uno e l’altro gran testimonio della perfezzion sua. 1  

Certo non è una dedicatoria di penna del Della Porta. Ma Barbarito è interprete perfetto del pensiero del nostro commediografo. Oltre la già citata presa di distanza dalle commedie all’improvviso, possiamo senz’altro rilevare degli elementi interessanti. Innanzitutto la commedia è ritenuta degna del gusto del dedicatario in quanto anch’essa « grave e artificiosa » (ma artificiosa semplicemente, affermazione non priva di significato, come vedremo). E se possiede « perfezzion » questa è tale che la renda adatta alla rappresentazione e alla lettura, e anzi è così ben congegnata, che deve essere giudicata sotto entrambi gli aspetti. Fusione di letteratura e performance, come s’è detto. E se fin qui ci si è limitati ad evidenziarne l’ ‘ingegneria’ teatrale, nel prosieguo del nostro lavoro sarà bene vedere come la letterarietà e l’azione scenica collaborino nel creare i personaggi, segnatamente quelli femminili, degni di lode e dignità sia in quanto eredi, innovati ma nel profondo fedeli, alla tradizione (classica, umanistica o addirittura medievale), sia come corpi da mettere in scena. Ancora nell’Olimpia, la prima prova di Della Porta, o meglio, ancora una volta nel suo prologo, la vivissima immagine della commedia rappresentata come una fanciulla ci aiuta molto. La tradizione è in effetti rispettata alla lettera. Questa donzella, giovanissima, si presenta al pubblico col contegno e l’abito che a lei meglio si addice, quello della pudicizia. « Vergognosetta » ce la presenta il nostro autore, quasi spaurita nel presentarsi al cospetto  











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  G. B. Della Porta, Commedie, cit., ii, pp. 3-4.

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di tanti nobili spettatori ; ma certo non del tutto inconsapevole dei suoi meriti. Suo ruffiano, come in azzardato gioco si presenta il commediografo stesso, è Della Porta. A lui sta il presentarla, lodarla ed eventualmente difenderla dagli strali di critici troppo zelanti. E la offre senza ambagi agli sguardi del pubblico. Nonostante il decoro e il contegno pudico non possano aggiungere che lustro alla bellezza di questa giovane, e per traslato alla commedia, le circostanze, lo spettacolo stesso insomma, richiedono che a questa venga usata un po’ di violenza, tanto che l’autore stesso invita, benché con moderazione, a morderla un po’ e a trascinarla. Ma ciò non toglie che essa pur con equilibrio e buon gusto, abbia di che difendersi, avendo sì la lingua « melata e suave », ma non tanto che il suo parlare non sia comunque pieno di « salsi scherzi e di gravi piacevolezze ». Anche l’aspetto è quello che ci si aspetta da una giovinetta : trecce, membra ben disposte (un’ovvia allusione alla dispositio della commedia stessa), leggiadria nel passo. Iconograficamente è assolutamente perfetta. Nonostante questo il primo a sottolineare delle piccole trasgressioni alla norma del decoro è proprio l’autore. Per ventura, ovverosia per esigenza scenica, i capelli un po’spettinati, la veste leggermente fuori posto o qualche piccola pagliuzza che potrebbe esserle rimasta attaccata, potrebbero costituire delle piccole imperfezioni alla sua bellezza. Ciò nonostante sono proprio questi piccoli nei che la promuovono da bellezza falsa e statica a bellezza autentica e artificiosa, ovvero tanto ben studiata da essere naturale, poiché l’artificio (inteso come fissità di regole e di tipi) si eclissa durante l’azione. Ed è tanto sentita questa esigenza di naturalezza e di novità nei personaggi che, con voluta e geniale ambiguità, alla fine di questo prologo che è un piccolo capolavoro, la Commedia e la protagonista della stessa si fondono, quando l’autore introduce il primo personaggio in scena, la Balia, appunto, di Olimpia :  













Ma io non vo’ tanto vantarla che voglia far parer d’una mosca un elefante e che di una giovane piccina, anzi uno aborto, voglia mostrarvi una gigantessa. Perché veggio fuor la sua Balia, vi sodisfarà meglio ella con la sua presenza che non farei io a dipingerlavi con le parole. A Dio. 1

Amore e pathos Abbiamo concluso la nostra introduzione generale, per quanto sintetica, su alcuni aspetti della drammaturgia di Della Porta, e affrontiamo adesso alcune delle sue protagoniste. L’oggetto dell’indagine è l’amore e i suoi effetti, ma su questo specifico sentimento è bene premettere alcune considerazioni. Come in tutte le commedie, e nelle novelle in genere, l’Amore è il sentimento intorno al quale si sviluppa la vicenda e si avviluppano gli intrighi. Tuttavia non si può, specie in autori di pregio come il nostro, ridurlo a mero espediente narrativo, come fosse semplicemente l’innesco dell’azione. Anzi accanto a questo e ancora più dettagliatamente, vanno considerati i suoi effetti, che non sarebbe giusto circoscrivere solo a coloro che ne sono le prime vittime, ossia gli Innamorati. L’azione e l’insieme degli eventi e degli affanni che ne scaturiscono coinvolgono anche i personaggi di contorno e, per limitarci all’oggetto della nostra analisi, anche i personaggi femminili comprimari, in primis Balie e Madri. Queste ultime, quasi sempre, vengono mosse da sentimenti materni e teneri nei confronti delle loro protette, che le spingono a compiacerne i desideri, a partecipare emotivamente ai loro dolori e a farsi attive protagoniste delle azioni, ordendo, al pari dei soliti Parassiti e Servi, inganni e stratagemmi che porteranno come d’obbligo all’auspicato lieto fine. D’altra parte se Della Porta non variasse gli effetti dell’amore tarandoli sulle figure d’Innamorata che dipinge (donzella o già sposata) ne 1

  Ivi, p. 12.

gli effetti dell ’ amore nelle eroine di giovan battista della porta 95 verrebbe fuori l’insopportabile fissità del tipo, da lui tanto aborrita, che strangolerebbe di fatto il ‘carattere’. Naturalmente non si può neanche presumere che l’amore che agita i petti delle nostre eroine sia men che onesto, tanto che non è prevista neanche da lungi la possibilità che non possa coronarsi con un legittimo matrimonio. Anche in questo il Della Porta è figlio del suo tempo, l’età della Controriforma. Ciò non toglie nulla però al vigore di questo sentimento e soprattutto, a ben guardare, alla sua saggezza, poiché in molti casi questo si contrappone non soltanto all’amore di carattere eminentemente carnale e ‘basso’ di servi e serve, ma anche a quello che disgraziatamente accende anche i vecchi, quando desiderano in maniera abnorme e sconveniente sposare delle fanciulle. In ogni caso l’amore, anche se nasce e si presenta come violento e senza scampo, funge alla fine delle peripezie come agente riequilibratore, in modo tale che coloro che si amano di amore decoroso si sposano con soddisfazione di entrambi, mentre chi fosse stato acceso da passioni insane o rinsavisce o rimane decisamente scornato e umiliato. Ma naturalmente fra l’accendersi della passione e la sua lieta conclusione c’è uno svolgimento. E ora analizzando alcuni di questi intrecci esamineremo di volta in volta quali siano gli effetti perturbanti dei sentimenti amorosi. L’amore e la maturazione. Olimpia (1589) Abbiamo già avuto modo di sottolineare l’importanza dell’Olimpia, figlia primogenita del nostro autore, e come già questa in nuce contenga molte delle tematiche e degli stilemi che Della Porta coltiverà sempre nelle sue commedie. Oltre a questo si propone come un’opera che calibra perfettamente i sentimenti dei suoi protagonisti. Posto che nelle espressioni di dolore e passione degli Innamorati deve esserci una certa esagerazione modulata attraverso un linguaggio petrarchesco, è notevole che gli effetti dell’amore, agiti direttamente sul palco come pure narrati dai comprimari, balie e servi, coinvolgano tutti. A volte, certo, c’è dell’eccesso. Ma se lo si analizza bene lo ritroverà perfettamente giustificato, sia perché un letterato non può, e non vuole, esimersi dall’ossequio alla tradizione, sia perché teatralmente parlando, l’‘a solo’ degli Innamorati, come pure i loro duetti erano irrinunciabili, poiché evidentemente il pubblico li richiedeva. Ma a riportare tutto entro i confini dell’accettabile concorre più di un fattore. Innanzitutto la dimensione teatrale, il gioco consapevole che si instaura fra pubblico, commediografo e attori ; poi la letterarietà dei modelli, gli spunti che, come vedremo fra poco Della Porta usa consapevolmente, partendo dal presupposto che tali allusioni vengano recepite dal pubblico colto al quale si rivolgeva ; il controcanto dei personaggi ‘bassi’, quando, ad esempio cercano di fungere da messaggeri fra gli Innamorati e fraintendono o dimenticano la quasi totalità delle loro altisonanti parole, o contrappongono le esigenze proprie del loro mondo, quelle del ventre e del sesso, al rarefatto universo dove sembrano muoversi i giovani Innamorati ; infine, e qui torno alla nostra Olimpia, la dichiarazione, quasi metateatrale, che rende subito consapevoli della dimensione fittizia in cui ci si muove, nel nostro caso affidata alle parole della Balia :  







Olimpia (i,1) Balia (a parte) : Sempre ch’io ben considero gli andamenti di questa vita mi par proprio di vedere una comedia, che n’ho viste recitar molte ai giorni miei. Le cose riescono al contrario di quel che pensiamo : chi più crede sapere manco sa, tal si crede di avere una cosa in mano ch’altri poi gli la toglie, e si sta sempre in continuo travaglio. 1  



1

  Ivi, p. 15.

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Già in queste considerazioni c’è quanto detto fino adesso e forse di più. Si trova infatti anche il preannuncio del travaglio inteso sia come sofferenza amorosa, sia come impedimento al coronamento del legittimo amore dei due protagonisti, Olimpia e Lampridio. La Balia infatti sa che la giovane sua protetta di cui ha favorito gli amori con Lampridio, è stata promessa dalla madre Sennia in matrimonio a Trasilogo, il solito capitano fanfarone, e se ne duole da un lato immedesimandosi nella sua padroncina, dall’altro interpretando tutta la faccenda dal suo punto di vista, senza dubbio più popolaresco di quello dei protagonisti. Ciononostante la sua doglia è rumorosa e certamente sincera, visto che l’affetto che la lega ad Olimpia è senz’altro genuino. Ma accanto al pathos della ‘madre surrogata’ se così si può definire, emerge prepotente anche un altro topos nella caratterizzazione delle donne che non siano le protagoniste, specie se vecchie e di rango sociale basso : la voglia esagerata di chiacchierare unita alla curiosità. Quest’allusione saporosa alle tante figure di vecchie ciarliere che si incontrano per ogni dove nella letteratura, sia essa misogina o no, è quasi esemplificata dal gustosissimo duetto con la comare Anasira, che si svolge per l’appunto all’inizio della Commedia. Quest’ultima ha sentito le lamentazioni della Balia e fa di tutto per carpirle i segreti che tenta di celare, prorompendo infine in una battuta decisamente felicissima :  



Olimpia (i,1) Anasira : Se non fussi stata la prima a pregarti che lo dicessi, m’aresti pagata che t’ascoltassi, che poco anzi, per aver carestia di chi t’ascoltasse, l’andavi raccontando a questa piazza. 1  

Tanto basta a far cedere la Balia, che pure le raccomanda una discrezione che già intuisce che non verrà praticata. Ma ciò che a noi interessa è il racconto che fa delle pene d’Olimpia, che ci rende estremamente chiaro, seppur da un punto di vista ‘altro’ rispetto alla protagonista, quali possano essere gli effetti della passione su una donna :  

Olimpia (i,1) Balia : Sai bene come i mesi addietro Olimpia dimorò in Salerno in casa di Beatrice, sua zia, un certo tempo. Quivi, vedendola a caso un gentiluomo chiamato Lampridio, ch’era venuto di Roma per studiare, s’accese dell’amor suo ardentissimamente ; e non mancando di servirla e di scoprirle il suo fuoco, Olimpia cominciò a vederlo assai volentieri e rendergli il contraccambio; e confacendosi i costumi dell’una e dell’altro, si innamoraro sì fattamente che non fu mai inteso al mondo il più ardente amor di questo : non amor, no, ma rabbia. S’han dato la fede di nascosto d’esser marito e moglie ; e non altro che la commodità manca a dar fine agli affanni loro. E di questo amore Mastica, il servidor di casa, era il mezzano, che Lampridio l’avea corrotto con dargli benissimo da masticare. Anasira : Questo deve essere il suo primo amore : però è così furioso. 2  











Il linguaggio è certo stringato e popolare, ma traspare tutta la partecipazione della Balia. Inoltre per quanto sinteticamente, emerge il dato che più mi preme sottolineare. La passione fra i due giovani, fra loro perfettamente confacenti, è qualcosa di più di un sentimento : è quasi patologia, per l’appunto ‘rabbia’. Il termine è senz’altro colorito, ma sono certa che abbia un significato più profondo che non quello della semplice ostinazione. Indica la malattia, l’ossessione, e senz’altro l’allusione, letteratissima questa, che vi si può cogliere non può che essere una : quella al De Amore di Andrea Cappellano, come dimostra il testo stesso del trattato :  





L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro 1

  Ibidem.

2

  Ivi, p. 16.

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sesso, per cui si desidera soprattutto godere l’amplesso dell’altro, e nell’amplesso realizzare concordemente tutti i precetti d’amore. 1

Questa fenomenologia, a ben vedere, la troviamo nell’accendersi della passione fra Olimpia e Lampridio narrata dalla Balia. La visione, l’accendersi della passione e la nascita dell’ossessione amorosa. Ma anche altrove il nostro Andrea spunta nel testo. Vero è che la maggior parte dei comportamenti amorosi standardizzati in letteratura deve qualcosa alla descrizione e disamina profonda che dei sentimenti ha fatto questo misteriosissimo autore, anche quando venga citato indirettamente, ovvero quando ci si serva di una fonte letteraria più recente che comunque discenda da lui. Ma specie in questa commedia dellaportiana mi sembra che le allusioni siano troppo fitte e i rimandi troppo puntuali per essere una mera coincidenza. L’ossessione amorosa è certamente il più banale, a dire il vero, degli indizi che si possono trovare, ma naturalmente la serie dei rimandi non finisce qui. La stessa Olimpia, pur fanciulla, dimostra subito di saper militare più che bene nell’esercito di Amore, per usare un’espressione tipica del nostro Andrea, perché sopporta il duro colpo della sorte e s’ingegna immediatamente, con freddezza, per ordire un inganno ai danni della madre Sennia atto a sfuggire un matrimonio odioso e mal combinato per giunta. Olimpia (i,1) Balia : Sennia intanto, la madre d’Olimpia, trattò matrimonio co’l capitano Trasilogo, nostro vicino; e come quello che ne stava innamorato, s’accordò subito ; talchè s’inviò a chiamare Olimpia, che fusse ritornata a Napoli. Come ella giunse, cominciò Sennia con belle parole a dirle che l’avea maritata, e pregandola ci consentisse e le desse quell’ultima consolazione che tanto tempo avea disiato da lei ; percioché, sapendo la ricchezza, il parentado ed il valor di questo capitano, gli l’avea promessa da sua parte, tenendo per fermo che, come obediente figliola che l’era stata sempre, non sarebbe stata contraria al voler suo. Olimpia sentendo questo, pensa tu, sorella, il dolore. Ella tramortì subito, restò la faccia di color di cenere, e stette buon spazio a riaver la favella. Pur facendo forza a se stessa, fingendo buon viso, con certe lusinghette rispose che non volea così tosto allontanarsi da lei, non avendo conosciuto né altro padre né altro fratello che lei ; e che tanto sarebbe lasciarla quanto lasciar la propria vita, massime essendo vecchia, malsana ed in età da esser governata, e che avea bisogno d’una che le fusse stata figlia e serva insieme, sollecita alla sua salute. E accompagnò queste ultime parole con certe lagrimette che si pensò la madre che fussero nate dalla pietà di lei. […] Anasira : Perché ha detto de sì ? Che speranza poteva avere in sì pochi giorni ? Balia : Ha inventato il più bello e colorito inganno che possa immaginarsi, non solo di schivar queste nozze così odiate da lei, ma di venir al fin di questo suo amore. 2  















Nell’ottica certamente più moralistica del tardo Cinquecento rispetto a quella della fin’amour del De Amore ingannare un genitore è una trasgressione, e di quelle gravissime. Pure gli effetti dell’Amore, come sosteneva Andrea sono anche questi, ovvero lo spregio di ogni divieto e pericolo :  

Infatti, che cosa l’uomo vorrebbe avere e possedere sotto il cielo per cui correre tanti pericoli quanti ogni giorno ne corrono gli amanti per libera scelta ? Li vediamo disprezzare la morte, non temere nessuna minaccia, sperperare ricchezze e finire sul lastrico. 3  

Sostanzialmente Amore non solo rende coraggiosa la nostra Olimpia, ma anche adulta e scaltra, dimostrando ancora una volta come questo sentimento sia soprattutto funzio1   Andrea Cappellano, De Amore, traduzione di Jolanda Insana, con uno scritto di Silvio D’Arco Avalle, Milano, se, 1996, p. 14. 2 3   G. B. Della Porta, Commedie, cit. pp. 16-17.   A. Cappellano, De Amore, cit., p. 15.

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nale alla maturazione fisica e intellettuale degli amanti, quasi fosse una sorta di ‘febbre della crescita’. La fa diventare dunque donna, complice del proprio promesso sposo, che introduce comunque in casa con uno stratagemma per « realizzare concordemente tutti i precetti dell’amore ». Certo in questo caso non si tratta di amore adulterino, l’unico veramente degno di questo nome nell’ottica di Cappellano, anzi, interviene ad ‘onestar la cosa’ il matrimonio che sarà certamente celebrato. Ma ciò non toglie che proprio la passione abbia fatto trasgredire la nostra eroina, in questo caso ponendola contro l’autorità materna, facendole sfiorare i peccati di disobbedienza e lussuria per poi rientrare comunque nei ranghi in un equilibrio che la commedia esige perché ci sia un lieto fine. Olimpia si è dimostrata in un certo senso anzi più saggia della madre stessa, perché, nonostante si sia eletta da sola lo sposo, ha fatto la scelta migliore scegliendone uno a sé confacente, e preparandosi così, pur con una parziale infrazione delle leggi, un avvenire che immaginiamo felice. E che questa limitata libertà sotto le insegne d’Amore sarebbe auspicabile anche per tutte le altre donne ce lo conferma un ‘a solo’ di Anasira, l’amica della Balia, tanto più significativo poiché non funzionale allo svolgersi della vicenda e posto quasi a sentenza :  





Olimpia (iii,5) Anasira : Troppo è misera la condizion delle donne, poiché ne bisogna tor marito a voglia di parenti, col quale abbiamo a vivere fin alla morte. Sia benedetta l’anima di mia madre, che per aver tolto un marito per forza a voglia di suo padre, se ne tolse cinquanta a voglia sua, e a me ne fe’ provare prima dieci e poi mi diede l’elezzion di tormi qual più mi piacesse ! 1  



Ed è proprio in questo punto, a ben guardare, che Della Porta dimostra il suo essere « boccaccevole », ma con garbo, e non limitandosi alla pedissequa e stucchevole imitazione di lemmi e stilemi. Nelle parole, assai rudi per la verità, della nostra comare, spunta una delle figure femminili più determinate e coraggiose dell’intero Decameron, madonna Filippa da Prato. L’eroina del Certaldese appartiene certo ad un rango sociale più alto di Anasira, e il suo portamento e la sua dignità impressionano, come sappiamo, il podestà che deve deciderne l’assoluzione o la condanna atroce al rogo. Eppure, come si intuisce, anche qui vi è il medesimo punto di vista che condanna un ordine sociale che costringe a matrimoni spesso malriusciti le fanciulle, senza che queste abbiano la minima voce in capitolo. A un certo punto della sua appassionata quanto cortese arringa Filippa dice :  





Decameron (vi, 7) Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo negherei mai ; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano. Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare ; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata : per le quali cose meritatamente malvagia si può chiamare. 2  





1

  G. B. Della Porta, Commedie, cit., p. 49.   Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1989, pp. 531-532. Altro esempio, certamente più tragico di quello di Filippa, ce lo offre la novella della sventurata Ghismonda. (Decameron, iv, 1). La fosca vicenda di questa fanciulla dimostra come il senno di una donna « savia più che a donna per avventura non si richieda » possa, anzi debba contrapporsi alla poca saggezza di un’autorità paterna, quella di Tancredi, che per quanto affettuosa nei confronti della figlia non sa compiere appropriatamente il proprio dovere. Questi, infatti, non si preoccupa di rimaritare la figlia vedova ancor giovane e bella, e l’unico mezzo che Ghismonda ha per soddisfare il proprio desiderio di amore è cercarsi un valente amante, Guiscardo. Boccaccio, anche qui, segue puntualmente la lezione di Andrea. Infatti nell’accorato ma fermo e coraggioso monologo che fa pronunciare a Ghismonda ormai scoperta dal padre e quindi perduta, questa ribadisce più volte non solo la necessità naturale di 2





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Come si può vedere, questo è un ossequio alla tradizione di grande importanza. È una efficace modulazione di allusioni, fitta e significativa, che vuole essere colta solo da chi può veramente interpretarla, e in un divertissement raffinato come quello della commedia, sorriderne. E che d’altra parte non finisca qui ce lo dimostra un’altra considerazione. Nel gioco dei sentimenti, ancora nella società del tardo Cinquecento, le fila, seppur con cortesia e gentilezza (ma non sempre, purtroppo) erano tenute dagli uomini. Quelle che erano le leggi dell’amore adulterino della società cortese si erano in qualche modo travasate nella società dell’ ‘onore’, che pur celebrando la donna con modi petrarcheschi nei fatti la costringeva ad essere degna dell’elogio mantenendo l’‘onore’ appunto, da giovane quello di vergine e da adulta quello di matrona. Ruota tutto, in questo caso, attorno al matrimonio pubblico, onorevole, decoroso ma nella stragrande maggioranza dei casi combinato, né altro potrebbe essere. Ma nonostante questo, filtrato attraverso l’esempio boccacciano appena citato, serpeggia un atteggiamento che almeno a livello letterario assegna alle donne una sorta di blando potere decisionale. Come Della Porta, anche Boccaccio, a mio parere, non poteva non tener conto dell’autorità, ancora una volta, di Andrea Cappellano. Prescindendo dal fatto che per Cappellano e per il Certaldese si trattava di operare l’elezione di un amante e in Della Porta di un marito, la decisione riguardo l’uomo d’amare è giusta e legittima solo se operata dalla donna. E anche se non esplicitamente detto, a conferma di questa tendenza vediamo che nel De Amore è sempre la donna, dama o plebea che sia, a scegliere se concedere anche solo la promessa d’amore al pretendente. Inoltre, quasi a sottolineare la validità giuridica dell’autonomia delle donne nell’eleggersi l’amato, nonché l’esclusiva pertinenza femminile nei casi d’amore, qualsiasi dilemma in fatto di comportamenti amorosi viene sempre sottoposto al giudizio di donne. Certo, a giudicare le varie questioni sono sempre e solo dame di altissimo lignaggio, come Maria di Champagne o la regina Alinoria, etc... Ma il loro linguaggio, le formule che adottano e il fatto che molto spesso prima di emettere queste che sono vere e proprie sentenze si sottolinei il ricorso fatto a consessi composti esclusivamente da donne accreditano, quasi legalmente vorrei dire, il giudizio femminile come l’unico degno di essere rispettato. Una sorta di legge non scritta e parallela dunque, che si contrappone, anche se solo letterariamente e incidendo quasi per nulla nella realtà, alle leggi del matrimonio reali come esemplifica la vicenda di Filippa da Prato. Questa, infatti, oppone alle norme civili fatte da uomini le sue, facendo intendere che in un mondo ideale almeno nelle questioni d’amore dovrebbero avere la loro parola, forse l’ultima, anche le donne. Umore o amore ? La Fantesca (1592)  

Anche La Fantesca, se dobbiamo prestar fede alla cronologia delle opere di Della Porta quale emerge dalle edizioni a stampa, è uno dei suoi primi lavori, precisamente il secondo. E anche qui non possiamo ignorare il prologo, che è anzi a proposito per il nostro discorso. Sul palco compare la Gelosia, veramente coerente anch’essa con l’iconografia classica che ce la rappresenta, e dobbiamo ancora una volta riconoscere l’esimio talento figurativo amare, ma soprattutto che ha saputo scegliersi l’amante migliore di tutti in quanto ricolmo di virtù e gentilezza, anche se povero. Fra i capisaldi della dottrina di Cappellano c’è appunto l’esaltazione della gentilezza ovunque essa sbocci, anche in uomini di ‘bassa nazione’. E scegliendo appunto con senno un amante degno, Ghismonda esemplifica ancora una volta, anche se con tristi conseguenze, che solo le donne hanno la virtù di saper giudicare il valore di un uomo, e che dunque avrebbero meritato di essere libere nella loro scelta più di quanto non fossero in quell’epoca, cfr. ivi, pp. 342-345.

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di Della Porta, che rispetta da un lato tutti i canoni nel rappresentare questo sentimento, e dall’altro lo umanizza, e lo rende funzionale e indispensabile non solo all’azione scenica, ma alle questioni d’amore stesse anche nella vita reale. Una figura femminile dellaportiana anche lei dunque, caratterizzata dal livore che traspare dal suo aspetto fisico :  

So ben che’ogniun di voi che mi vedrà così vestita di giallo, con faccia così pallida e macilente, con gli occhi sbigottiti e fitti in dentro e coi giri d’intorno lividi, con queste faci, serpi e stimoli in mano, desidererà saper chi sia e a che fin qui comparsa, rappresentandosi agli occhi vostri piutosto una sembianza tragica e mostruosa che convenevole a’ giochi e feste della comedia che aspettavate. Né io avrei avuto ardir comparir in questa scena, se anticamente non vi fussero comparsi i Lari, gli Arturi, i Sileni, la Lussuria e la Povertà, e se l’amor che porto a queste mie carissime gentildonne non mi avessero fatto romper tutti gli ordini e le leggi. Dirò chi sia e a che fin qui comparsa. Io son la Gelosia. 1

Anche in questo Della Porta si dimostra attento all’aspetto scenico dei suoi lavori, consapevole dell’orizzonte d’attesa del suo pubblico. Ma la sorpresa, il vero e proprio divertissement colto sta nell’apologia della funzione della gelosia nel gioco d’amore. Rivolgendosi in questo prologo direttamente alle « carissime gentildonne », la nostra Gelosia innesca certamente il meccanismo di partecipazione fra l’azione scenica e il pubblico, ma allo stesso tempo sceglie il suo uditorio privilegiato : le donne, ancora una volta. Schermendosi per la cattiva fama che si è guadagnata, la Gelosia cerca di discolparsi presso di queste, ma non solo ; ciò che le preme più di tutto è dimostrare la sua funzione essenziale nel rapporto amoroso. « Soave e degna » si definisce essa stessa. E da qui in poi comincia un’attenta disamina della dinamica dei fenomeni amorosi, dal momento dell’innamoramento e della speranza fino a quello della disillusione che le donne provano una volta che l’amante dopo aver ottenuto l’ « effetto » senta scemare l’« affetto » verso di loro, al contrario delle dame che invece si accendono sempre di più del loro amato e cadono in preda della Gelosia. Ed è proprio questa a suggerir loro i rimedi agli affanni, presentando una serie di stratagemmi per eccitare la gelosia nell’amante villano e per ricondurlo agli antichi furori amorosi. In tutto questo appassionato apologo emergono delle componenti essenziali della personalità dellaportiana. Innanzitutto, anche qui, fa capolino l’attitudine dello scienziato, dell’osservatore che scruta qualsiasi fenomeno, anche quello amoroso, con occhio lucido anche se divertito come in questo caso, data la circostanza festiva di una commedia. Assai significative sono a proposito una serie di interrogative retoriche, sempre nel medesimo prologo. Il nostro Autore instaura delle similitudini che hanno il sapore dell’osservazione e della comparazione fra fenomeni naturali, paragonando la dolcezza dell’amore ritrovato dopo molti affanni al maggior godimento che prova, fra gli altri, un essere umano mangiando qualora sia stato precedentemente affamato :  





















Or ecco l’arte mia, ecco l’aiuto che vi porgo. Primo, a questi svogliati gli propongo un rivale e gli lo dipingo di maggior valore di lui ; poi, subito gli avento al petto una di queste serpi, le quali, scorrendogli per lo core, lo riempiono di gielo e di veleno ; appresso sottentro con queste faci accese nel foco tartareo e l’accendo di fiamme cocenti e ardentissime, e di passo in passo lo pungo con questi chiodi, coltelli e stimoli ; talchè in poco spazio di tempo gli riduco non solo ne’ primi amori, ma più tosto in rabie e furori e nella forma che voi mi vedete. Così, più ardenti e più bramosi che mai, vi si buttano dinanzi a’ piedi, a chiedervi perdono delle offese fattevi e desiar i vostri favori ; e rinnovellasi l’amore. Perché pensate voi che ne piaccia la primavera se non per gli freddi, per gli venti e per gli ghiacci passati ? Perché la pace se non per i passati travagli della guerra ? Perché i cibi più saporiti se non per  











1

  G. B. Della Porta, Commedie, cit., p. 107.

gli effetti dell ’ amore nelle eroine di giovan battista della porta 101 il digiuno e per la fame ? Non si conosce la felicità se non si prova primo la miseria. Io, dunque, col fargli provar queste pene così pungenti e acerbe, gli fo saper i gusti più suavi e più dolci. 1  

Vera e propria fenomenologia dell’amore, con analisi degli effetti e delle cause. Ed anche qui Della Porta riadatta col suo spirito di scienziato quello che con la lucidità del trattatista abbiamo visto essere spiegato, quasi geometricamente, dall’indiscutibile autorità di Andrea Cappellano. Questi, ancora una volta, è ben presente ne La Fantesca, e la novità qui sta tutta nell’aver parafrasato e messo in bocca i precetti del De Amore alla Gelosia. La riserva di trucchi suggeriti (principalmente il fingere di interessarsi ad un’altra persona) per rinvigorire la passione oramai fiacca dell’amante, come pure la funzione di questo sentimento erano stati già esposti da Andrea. Anzi, con un tono assolutamente assertivo Cappellano aveva individuato proprio nella vera gelosia il carattere distintivo del vero amore, che è sofferenza e passio anche e soprattutto per questo. Fra i vari stralci a riguardo che si possono citare ne propongo uno :  

La donna che impallidisce alla vista del suo amante, sente indubbiamente vero amore. Inoltre chi desidera veramente conoscere la fede e il desiderio della sua amante, deve con cautela e discrezione fingere con l’amante che desidera gli amplessi di un’altra, e cominci a frequentare più del solito la sua contrada ; e se capisce che la sua amante ha l’animo turbato, sia sicuro che lei è salda nell’amore vero e molto decisa, perché quando si vede che uno degli amanti si nutre degli amplessi di un nuovo amore o si sospetta a ogni modo dell’amante, subito è violentemente colpito nel cuore e nell’animo ed è ferito dentro da intollerabile gelosia, e subito sul volto appare il dolore che ha dentro 2  

Anche qui fra Andrea e Della Porta vi è piena corrispondenza. Ed è fuor di dubbio che la drammatizzazione del sentimento sia una trovata tanto geniale quanto colta, in modo da appassionare gli spettatori, ma soprattutto le spettatrici, a temi e vicende la cui legittimità è garantita appunto da questa fonte raffinata e autorevole. Nello svolgersi della trama poi vi è, verrebbe da dire a mo’ di esperimento, il dispiegarsi delle forze di Gelosia. Anche qui dall’intreccio in sé non ci possono aspettare grandi novità : Essandro, giovane innamorato, si è finto donna sotto il nome di Fioretta, per stare accanto alla sua amata Cleria che non si accorge dell’inganno ; si introduce dunque come fantesca in casa sua e, bellissimo anche in vesti femminili, accende la passione insana di Gerasto, padrone di casa e padre di Cleria, scatenando la gelosia della legittima moglie Santina e della vecchia fantesca di casa, Nepita, che di tanto in tanto era oggetto delle attenzioni di Gerasto. Come per l’Olimpia anche qui l’Amore, e ancor di più il suo sintomo principale spandono la loro azione su tutti i protagonisti della vicenda. Tutti sostanzialmente sono gelosi, in modo più o meno elegante. Come anche nella commedia precedente se l’Amore nel senso più lirico del termine è presente e declamato dagli Innamorati pure non mancano di provare, certo a modo loro, Amore e Gelosia anche coloro che non hanno petti tanto nobili da potersi fregiare di questo sentimento secondo parametri aristocratici. Nepita e Santina, ciascuna difendendo le proprie ragioni, si lamentano soprattutto di essere trascurate sessualmente, tanto che Santina non esita a proclamarsi malmaritata :  





La Fantesca (v, 3) Santina : Che dici Nepita ? Non l’hai tu inteso con le tue orecchie ? Comporterò io d’esser così mal maritata ? Non la passerà certo senza vendetta : io vo’aventarmegli adosso come una cagna. 3  









Nonostante le passioni e i sentimenti di carattere ‘basso’ che si possono riscontrare 1

2   Ivi, p. 108.   A. Cappellano, De Amore, cit., p. 131.   G. B. Della Porta, Commedie, cit., p. 197.

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in questi due personaggi, non possiamo però negare a Nepita la consueta affezione nei confronti della padroncina, tanto da soffrire per i patimenti amorosi di questa i quali, per inciso, ancora una volta fanno sentire l’eco della ‘fenomenologia amorosa’ esposta da Cappellano, anche se, come vuole la fisionomia del personaggio, non può mancare la battuta salace che riporta in qualche modo sulla terra l’amore dalle sfere rarefatte dove si muovono gli Innamorati. Un esempio efficace ce lo fornisce il dialogo fra questa ed Essandro che le rivela l’inganno del suo travestimento ad inizio commedia :  

La Fantesca (i,1) Nepita : Certo che mi è caro, ché m’affliggeva il cuore veder patire quella povera figlia. Le vengono alle volte certi svenimenti di cuore, che mi par che si muoia : ti porta tanto amore che avanza ogni meraviglia. Or credo che sei de’ Fregosi, poiché l’hai posta in tanta frega. 1  



Eccolo, lo svenimento d’amore che fa presagire la morte, uno dei sintomi che si appaiano con il pallore per rivelare la vera passione. Ma in questa commedia, e precisamente nei tempi del suo svolgimento, c’è qualcosa di ancora più significativo che non il manifestarsi della passio secondo determinati canoni. C’è anche il rispetto celato e solo alluso, ma perfettamente riportato, dei ruoli e dei tempi del corteggiamento fra i due innamorati. Essandro, pur divorato dalle fiamme della passione, riesce a contenersi e a celarsi nei panni femminili, stando perennemente a contatto e in intimità con la sua amata che non sospetta nulla. E tutto questo per non essere scacciato da lei facendo cosa che le dispiaccia, a costo di soffrire sempre più ferocemente il pungolo del desiderio, come emerge nel già citato dialogo fra lui e Nepita ad inizio di commedia. Certo la Balia si meraviglia di tanta continenza, ed esclama :  

La Fantesca (i,1) Nepita : Come hai potuto contenerti ? Essandro : Io, vedendo ch’ella era vergine e non sentiva ancora di cose di amore, dubitai che, scoprendomele, l’avesse manifestato a suo padre o madre, e m’avessero scacciato di casa, e la mia temerità m’avesse posto a rischio di farmi perdere tanto bene. Mi parve più sicuro soffrire e godere quanto poteva. Anzi, alcuna volta, veggendola star allegra, volli scoprirle ch’io era uomo e l’inganno che aveva usato per servirla ; ma delle parole, che prima m’avea preparate attissime a manifestarle il mio stato, parte vituperava e parte mutava ; alfin, avvampato di rossore, restava mutolo. Ed ella mi pregava che finisse il ragionamento, non pensando dove avesse a riuscire. 2  









Anche qui Amore ha compiuto il miracolo, rendendo questo giovane un perfetto milite del suo esercito. Istintivamente questo sentimento ha fatto in modo che Essandro rispettasse tutti i suoi precetti, in primis, quello di sapersi contenere. La capacità di reprimere gli istinti, in attesa della ricompensa finale, è uno dei caratteri distintivi del vero e degno amante, che deve dimostrarsi maturo sotto questo punto di vista. Cappellano, presentandoci coloro che sono potenzialmente atti a praticare il vero amore indica le donne sopra i dodici anni e i maschi dai diciotto anni in poi, sottolineando che prima di quell’età è difficile che si sappiano contenere, e che siano « padroni della propria mente ». Dice infatti Andrea :  





Analogamente la femmina prima dei dodici anni, e il maschio prima dei quattordici, non può militare nell’esercito d’amore. Dico tuttavia e affermo con certezza che il maschio prima dei diciotto anni non può essere un vero amante perché fino a quell’età arrossisce d’ogni minima cosa, e il rossore non solo impedisce all’amore di realizzarsi, ma realizzato lo spegne. E c’è un’altra ragione 1

  Ivi, p. 115.

2

  Ivi, p. 114.

gli effetti dell ’ amore nelle eroine di giovan battista della porta 103 ancora più valida, perché prima di questa età l’uomo non è per niente fedele ma è variabile e mutevole. E questo limite, tipico dell’età, non consente di riflettere sulle arcane cose d’amore. 1

Ebbene, alla luce di tutto questo possiamo dire che Essandro è degno dell’amore di Cleria, che si è conquistato sul campo. Non l’ha offesa né forzata in alcuna maniera, è maturato tanto da essere saldo nei suoi propositi, si è dimostrato fedele, e soprattutto ha rispettato il pudore della fanciulla, seguendo alla lettera tutti i comandamenti d’amore. È dunque diventato uomo mentre Cleria da parte sua è diventata donna. E lo dimostra nel dialogo in cui, finalmente, Essandro le chiede di concedergli il suo assoluto possesso. La nostra eroina sa che Essandro si è dimostrato più che meritevole di un tale dono, ma da vera milite dell’esercito d’Amore, non può esimersi dal fare resistenza, consapevole, per usare le parole di Andrea Cappellano che « il facile possesso svilisce l’amore, il difficile lo fa prezioso ». Dice infatti Cleria :  





La Fantesca (ii, 3) Cleria : Ah, Essandro, or conosco che siete come gli altri uomini, che, vedendo una donna che vi mostri qualche segno d’amorevolezza, subito volete abusar la cortesia col voler giungere a quel termine senza il quale l’amor par che sia nulla ; e per sodisfarvi d’un capriccio di niente, volete vituperarla per sempre. Or non è questo piutosto umore che amore ? Pregovi dunque che non mi comandiate ch’io facci così gran torto all’ onor mio : considerate bene la dimanda che mi fate, e siate giudice di voi stesso. Vostra sorella m’ave assicurato che da voi non mi sarà chiesto cosa che ad onestissimo amor non si convenga : mi volete parlare, ecco vi ubidisco. Accettate dunque col mio buon volere tutto quello che io posso. 2  









Una donna ormai completa e autonoma nella sua scelta dunque, lontanissima dalla fanciulla inesperta di un tempo. E queste battute, come tutto il dialogo in cui sono inserite, non sono che l’ultimo atto di una schermaglia amorosa che ha le sue regole da rispettare, e che entrambi gli amanti seguono volenterosi. D’altra parte anche qui l’allusione al De Amore è visibilissima, non solo nei contenuti, ma anche nella modalità del dialogo fra i due Innamorati, la quale ricalca gli esempi di contrasto fra pretendente e donna amata che fungono da exempla nel corso del trattato. Anche in questa parte della commedia vi è infatti un susseguirsi di battute fra Cleria ed Essandro, che, al pari di quella citata, spesso hanno un certo tono capzioso nel definire l’esatta natura e la probità dei sentimenti di entrambi. Naturalmente, nella Fantesca come nel De Amore il fine è quello della realizzazione concorde dei « precetti d’amore », come abbiamo visto sopra, e gli amanti sanno benissimo che questa sorta di duello verbale ne è solo un prodromo. Tuttavia è essenziale, poiché ancora nel tardo Cinquecento la bontà di questo comportamento pare essere ancora indiscussa, e quindi raccomandabile alle donne di rango, le « carissime gentildonne » » del prologo, che volessero essere degne della corte d’amore anche se, ormai, i tempi eroici dell’amore cavalleresco e adulterino sono tramontati e la felice soluzione matrimoniale appare inevitabile. Ma in ogni caso è proprio nella ripresa di questi stilemi che possiamo trovare e ancor più apprezzare la capacità di assorbimento della tradizione da parte di Della Porta, specie nelle figure femminili che dipinse nei suoi drammi. Una dimostrazione vera, pratica ed efficace di come si dovessero emulare i classici, fatta da un uomo di teatro di vaglia che ebbe il merito di dimostrare, e con eleganza, la sua valentìa di commediografo classicista sul campo, sia di fronte ai lettori, sia nel confronto, cosa riteneva di gran lunga più importante, con i suoi selezionati e colti spettatori.  









Università per Stranieri di Siena 1

  A. Cappellano, De Amore, cit., pp. 17-18.

2

  G. B. Della Porta, Commedie, cit., p. 128.

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nicoletta mancinelli

Il presente contributo tratta delle figure femminili nelle commedie di Giovan Battista Della Porta. Alla luce della complessa e singolare figura dell’autore, vero rappresentante del Tardo Rinascimento, si analizza come dalla penna di un letterato che riesce a fondere gli stimoli che vengono dalla Commedia dell’Arte con la tradizione della Commedia regolare, emergano delle figure femminili interessanti e composite. I personaggi tradizionali dell’Innamorata, della Balia, della Madre etc. si presentano certo con un vigore insolito per la Commedia erudita del Cinquecento ; ma, allo stesso tempo, queste eroine si mantengono perfettamente in equilibrio con la tradizione che da tempo immemorabile le caratterizza e che è dunque presa in esame (Il Decameron, il De Amore etc.).  

Th is contribution addresses the female figures in Giovan Battista Della Porta’s plays. In the light of the complex and unique figure of the author, which is truly representative of Late Renaissance, it looks at the way the pen of a men of letters, who successfully combines the stimuli of Commedia dell’Arte with the tradition of ordinary Commedia, produces such interesting and varied female figures. The traditional characters of Innamorata (the lover), Balia (the nurse), Madre (the mother) etc. are certainly drawn with unusual vigour for the learned Commedia of the 16th century ; but at the same time these heroines strike a perfect balance with the tradition that has defined them since time immemorial and that is therefore reviewed here (Decameron, De Amore etc.).  

La présente contribution traite les figures féminines dans les comédies de Giambattista Della Porta. A la lumière de la complexe et singulière figure de l’auteur, véritable représentant de la Basse Renaissance, on analyse comment, de la plume d’un lettré qui réussit à unir les stimulus qui arrivent de la Commedia dell’Arte et la tradition de la Comédie classique, émergent des figures féminines intéressantes et composites. Les personnages traditionnels de l’Amoureuse, de la Nourrice, de la Mère, etc., se présentent certes avec une vigueur insolite pour la Comédie érudite du xvie siècle, mais en même temps ces héroïnes restent parfaitement en équilibre avec la tradition qui les caractérise depuis toujours et qui est donc ici analysée (Le Decameron, le De Amore, etc.). Este estudio trata acerca de los personajes femeninos en las comedias de Giovan Battista Della Porta. A la luz de la singular y complicada figura del este autor, verdadero representante del Alto Renacimiento, se analiza como de la pluma de un literato que logra fundir los estímulos provenientes de la Comedia del Arte con la tradición de la Comedia del siglo xvi, broten interesantes y complejas figuras femeninas. Los personajes tradicionales de la “enamorada”, del “ama”, de la “madre”, etc. se presentan con un vigor insólito para la comedia erudita del siglo xvi ; pero al mismo tiempo, estas heroínas se mantienen perfectamente en equilibrio con la tradición que desde tiempo inmemorable las caracteriza y que aquí se examina (El Decamerón, el De Amore, etc.)  

Der vorliegende Beitrag behandelt die weiblichen Figuren in den Komödien von Giovan Battista Della Porta. Im Licht der komplexen und herausragenden Figur des Autors, einem echten Vertreter der Spätrenaissance, wird analysiert, wie ein Schriftsteller, dem es gelingt, die Impulse aus der Commedia dell’Arte mit der Tradition der eigentlichen Komödie zu vereinen, interessante und komplexe weibliche Figuren zu schaffen imstande ist. Die traditionellen Figuren der Verliebten, der Amme, der Mutter usw. präsentieren sich zwar außergewöhnlich akzentuiert für die gebildete Komödie des Cinquecento ; doch gleichzeitig stehen die Heldinnen in perfektem Gleichgewicht mit der Tradition, der sie ihre althergebrachte Charakterisierung verdanken und die das Objekt dieser Untersuchung darstellt (Decameron, De Amore usw.).  

LE SCIENZE DELLA NATURA

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SIMONE PORZIO E IL ‘DE PUELLA GERMANICA’ : ECHI ITALIANI DI UN DIBATTITO EUROPEO  

Daniela Castelli i. «

A

comprehensive modern history of woman in Renaissance has yet to be written. No doubt, when it appears it will show the evolution of woman’s place in society and relate this to suitable models – demographic, anthropological, economic, sociological. Such a study will draw on data from a wide variety of sources and make use of the information and conclusions of numerous monograph and theses ». 1 Queste affermazioni di Ian Maclean, che si ritrovano in un suo agile contributo sulla nozione di donna nel Rinascimemto, risultano strettamente connesse con uno studio sulla scienza medica del sedicesimo secolo. In esso Maclean pone in evidenza la componente teorica propria del pensiero aristotelico, che non a caso viene spiegata dall’idea stessa delle differenze psico-fisiologiche e dalle ‘complessioni’. È generalmente riconosciuto che con la diffusione dei testi a stampa, e prima dell’affermazione del volgare, si poteva godere di un patrimonio culturale che disponeva di comuni acquisizioni circa le discipline accademiche medico-scientifiche. Entro questi spazi culturali più ampi, emergevano particolari aree d’indagine che venivano di volta in volta affrontate, tra le quali la nozione stessa di donna, l’idea della differenza dei sessi, e le specifiche nozioni di ‘inedia mirabile’ e di alterazione psico-fisiologica. Qual è la relazione tra la nozione di donna e quella della differenza di sesso, e come la differenza di sesso si relaziona ad altre differenze ? Come suggerisce lo stesso Maclean, due presupposti sottintendono queste questioni. Il primo è che si registrano minori trasformazioni nella nozione acquisita rispetto ai fermenti intellettuali e alle nuove ricerche empiriche condotte in vari ambiti del sapere. Il secondo, è che alla fine del Rinascimento si ritrova una grande discrepanza tra le realtà sociali e la nozione comunemente diffusa di donna e di inferiorità secondo le perfette leggi di natura. Tra le principali cause di mancato avanzamento dell’idea di donna del xvi secolo, vi è sicuramente il desiderio di adottare e preservare quella sintesi teologico-scolastica ereditata dal passato. E la stessa trasmissione di informazioni tra discipline diverse spiega la presenza costante di luoghi comuni teoretici difficili da smantellare. Si è visto tuttavia che il neoplatonismo – con la celebrazione della donna nelle poesie del Rinascimento – e il neostoicismo non riescono tuttavia a liberare il pensiero rinascimentale sulla donna dalle sue coordinate aristoteliche ‘privative’ di cui era informato. Talune oscillazioni semantiche rispetto alla nozione di donna vengono viste quindi solo in termini di virtù e di peccato. E questa doppia possibilità semantica – talvolta carica di ambiguità – è considerata nel Rinascimento la paradossale natura femminile messa di volta in volta in questione nei trattati medici e teologici dell’epoca. Anche dopo aver superato il problema dell’imperfezione del sesso femminile, la nozione stessa di donna implica quindi privazioni e mancanze fisiologiche, morali e politiche ancora per lungo tempo invalicabili. È la donna una imperfetta versione dell’uomo, o  





1   Ian Maclean, The Renaissance Notion of Woman. A Study in the Fortunes of Scholasticism and Medical Science in European Intellectual Life, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 1.

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sono le anatomiche e fisiologiche differenze tra i sessi causa di una mancanza di alcuni elementi nella donna ? La questione non è facile da districare. A causa della mancanza del calore generativo la donna è incompleta, più fredda e più umida negli umori dominanti e non in grado di ottenere perfetto seme dal sangue. Un principio è dunque implicito nel discorso aristotelico : ciò che è in natura più caldo è anche il più perfetto. Come è noto la stessa complessità della nozione di donna nel Rinascimento e i diversi livelli di significato ad essa attribuiti derivano dalle strutture di pensiero ereditate da Aristotele1 : nella distinzione comune di maschio e femmina può essere vista la generale tendenza di Aristotele a produrre dualità, nella quale uno degli elementi è inferiore, e l’altro è superiore. La figura maschile è associata in natura con le forze attive, formative e perfette, mentre quella femminile è considerata quale elemento passivo, materiale, desiderante il maschio al fine di diventare completo. La stessa dualità di termini quali maschio/femmina trova dunque facile corrispondenza nelle stesse categorie aristoteliche di attivo/passivo, forma/materia, atto/potenza, perfezione/imperfezione, possessione/ privazione. La dipendenza dalle autorità del passato e le strutture di pensiero consolidate, come le pitagoriche opposizioni legate alla nozione di donna, producono dunque un dualismo uomo-donna tanto radicato quanto evocato dalle sintesi filosofiche del Rinascimento. Se assumiamo allora questi giudizi storiografici come degni di un qualche interesse, possiamo tentare di ritrovare una originale attitudine critica e antidogmatica nel piccolo trattato medico di Simone Porzio, e insieme di cogliere il clima scientifico e culturale da cui nascono queste considerazioni mediche e filosofiche ufficialmente condivise.  





ii. Il De puella germanica fu pubblicato con ogni probabilità a Napoli nel 1542, e il suo volgarizzamento – la Disputa sopra la fanciulla della Magna –, voluto dal suo autore e da Cosimo I de’ Medici, vide per la prima volta la luce nel 1551 a Firenze. 2 Si tratta in questo caso di uno scritto d’occasione che mostra l’attenzione del filosofo napoletano per temi legati ad un singolare caso d’inedia mirabile cui saranno sensibili altri autori del tempo – in primo luogo il fisico tedesco Gerardo Bucoldiano che conobbe e visitò personalmente la fanciulla ‘anoressica’, pubblicando, sempre nel 1542 a Parigi, una breve relazione medica dal titolo De puella quae sine cibo et potu vitam transigit. 3 Uno dei casi di astinenza prodigiosa che fece notizia nella prima metà del secolo fu infatti quello della fanciulla tedesca – Margaretha Weiss – originaria di Roet, villaggio vicino a ‘Spira’ (Speyer), il cui digiuno prolungato fu presto oggetto di discussioni e dibattiti, ma anche di semplici curiosità legate a casi insoliti e miracolosi. Ne risultarono presto pamphlet e trattati medici, poesie e disegni di artisti tedeschi – tra i quali si ricordano le incisioni di Hans Baldung Grien –, e scritti scientifici liberamente ispirati allo strano fenomeno, come è il caso del De puella germanica di Porzio. 4 1

  I. Maclean, The Renaissance Notion of Woman …, cit., p. 3.   Cfr. De puella germanica, quae fere biennium vixerat sine cibo, potuque, ad Paulum III pontificem maximum Simonis Portij disputatio, s.n. s.l. s.d. [ma Napoli, G. Sultzbach, 1542 ca], in-4°, un esemplare assai raro di questa prima edizione si conserva alla Biblioteca Nazionale di Napoli con segn. 309.A.25 ; 2a ed., Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1551, di 16 pagine numerate (qui citato come S. Porzio, De puella). Ma si veda anche : Disputa dello eccellentissimo filosofo M. Simone Portio napoletano, sopra quella fanciulla della Magna, la quale visse due anni ò più senza mangiare & senza bere. Tradotta in lingua fiorentina da Giovam Battista Gelli, in Firenze, s.n. s.d. [ma appresso Lorenzo Torrentino, 1551], 52 pp., in-8° (qui citato come S. Porzio, Disputa). 3   Su Gerardo Bucoldiano e il suo De puella quae sine cibo et potu vitam transigit cfr., qui, p. 96 n. 1. 4   Cfr. i disegni del pittore tedesco Hans Baldung Grien (1484-1545), in Franz Klimm, Das ‘Wundermädchen’ Margaretha Weiss aus Roth bei Speyer von Hans Baldung Grien mit dem Silberstift vierfach aufgenommen, « Pfälzer Heimat », 2









simone porzio e il ‘ de puella germanica ’ 109 Simone Porzio, vissuto tra il 1496 e il 1554, è noto agli storici della filosofia e della scienza del Rinascimento come un aristotelico ortodosso, filosofo naturale e morale, che getta un ponte tra classiche tradizioni dei saperi e nuovo aristotelismo scientifico. 1 Come medico e come teologo, i suoi lavori includono non solo osservazioni sui precetti cristiani, ma anche un pionieristico tentativo di applicare il metodo aristotelico dell’osservazione scientifica ai singoli casi del presente. Il De puella in particolare segna l’inizio di una grande produzione letteraria e filosofica di Porzio, che di lì a poco avrebbe visto la luce tra la corte vicereale del Toledo, a Napoli, – dove egli è professore di fisica dal 1530 al 1545 –, e lo Studio di Pisa – dove è chiamato ad insegnare da Cosimo I de’ Medici, negli anni compresi dal 1545 al 1552. Ancora nello stesso periodo, Porzio era impegnato nella stesura di altri suoi lavori su soggetti diversi ripubblicati e volgarizzati per un pubblico non sempre di formazione accademica. In effetti, oltre al Dell’amore, che conobbe presto un’ampia circolazione manoscritta a partire dal 1525, nel 1542, quando scrive il De puella, Porzio ha già pubblicato presso la stamperia di Giovanni Sultzbach il De coelibatu, apparso a Napoli nel 1537 e il De conflagratione agri puteolani, pubblicato nella stessa città partenopea nella duplice edizione del 1538 e del 1539. Nel De puella germanica, Porzio descrive con precise spiegazioni naturalistiche il prodigioso caso di anoressia della fanciulla tedesca e, riprendendo i più noti argomenti della medicina ippocratico-galenica – legata alla varietà delle complessioni –, egli sostiene che vi sono precise cause naturali alla base dello strano caso di anoressia : 2 nessun legame dunque con le spiegazioni della mistica medievale, quanto piuttosto una prospettiva naturalistica che parla della nutrizione, della generazione, e, in fondo, dell’uomo. 3 Sono  

Kaiserslautern 3, 1952, pp. 101-104, poi in Kurt Martin, Das ‘Wundermädchen’ Margaretha Weiss aus Roth bei Speyer […] von Hans Baldung Grien, Pfälzisches Museum, 58, 1960, pp. 262-266. Si veda inoltre Lothar Diekmeier, Krankheitsbild und künstlerische Darstellung des “Wundermädchens von Speyer” Margaretha Weiß, « Kinderärztliche Praxis », 27 (1959), pp. 107-115. E, infine, Johannes Lange, Epistulae medicinales (1ª ed. 1554), Hanovie, 1605, libro ii, ep. xxvii, p. 604 sgg. 1   Per un primo bilancio sullo stato degli studi porziani, si vedano ora i contributi di Cesare Vasoli, Tra Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Juan De Valdés : Note su Simone Porzio, « Rivista di storia della filosofia », lvi (2001), 4, pp. 561-607 ; Id., Simone Porzio e l’aristotelismo napoletano, in *Napoli, viceregno spagnolo. Una capitale della cultura all’origine dell’Europa moderna (secc. xvi-xvii), a cura di Monika Bosse, André Stoll, « Estudios de literatura », 57-58, KasselNapoli 2001, pp. 125-152 ; Id., Tra Salerno, Napoli e Firenze : il ‘Dell’amore’ di Simone Porzio, in *Filosofia e Storia della cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, a cura di Giuseppe Cacciatore, Maurizio Martirano, Edoardo Massimilla, i, Napoli, 1997, pp. 663-675. E ancora cfr. Stefano Perfetti, Simone Porzio, in Aristotle’s zoology and its Renaissance Commentators (1521-1601), Leuven, 2000, pp. 127-136 ; Danilo Facca, ‘Humana mens corruptibilis’ : l’antiaverroismo di Simone Porzio, in Danilo Facca, Giancarlo Zanier, Filosofia, filologia, biologia : itinerari dell’aristotelismo cinquecentesco, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992 ; Eva Del Soldato, La preghiera di un alessandrista : i commenti al Pater Noster di Simone Porzio, « Rinascimento », xlvii (2006), pp. 53-71 ; Id., Accademici, Aristotelici ed eretici. Simone Porzio e Giovan Battista Gelli, introduzione in S. Porzio, An homo bonus vel malus volens fiat, rist. anast. con il volgarizzamento di Gian Battista Gelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, pp. v-xxxiv. Mi permetto infine di rinviare a Daniela Castelli, Un bilancio storiografico : il caso Porzio, « Bruniana & Campanelliana », xiv (2008), 1, pp. 163-177 ; Ead., Simone Porzio. L’‘Epistola’ sul Monte Nuovo e l’inedito volgarizzamento di Stefano Breventano, « Archivio Storico per le Province Napoletane », cxxvi (2008), pp. 107-135 ; Ead., Il ‘De’ sensi’ e il ‘Del sentire’ di Simone Porzio : due mss. ritrovati, « Giornale critico della filosofia italiana », lxxxvii (lxxxix), ii (2008), pp. 255-280 ; Ead., Simone Porzio e il ‘De puella germanica’ : l’‘inedia’ mirabile di una fanciulla tedesca, « Studi filosofici », xxx (2007), pp. 71-89 e Ead., Tra ricerca empirica e osservazione scientifica : gli studi ittiologici di Simone Porzio, « Archives internationales d’histoire des sciences », lvii (2007), 158, pp. 105-123. 2   Sulla ‘façon anorectique d’être au monde’, si rimanda a Jacques Maître, Anorexies religieuses-Anorexie mentale. Essai de psychanalyse sociohistorique, Paris, Les Editions du Cerf, 2000. Il riferimento va qui all’ipotesi di una progressiva laicizzazione del fenomeno anoressico: dall’anoressia mistica medievale all’‘inedia mirabile’ e all’anoressia mentale di tipo patologico dei secoli successivi. 3   Sulla storia dell’anoressia tra Medioevo e Rinascimento, cfr., tra gli altri Rudolf Bell, La santa anoressia.  





































































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del resto questi gli anni che vedono l’inizio di una prima desacralizzazione del ‘fenomeno anoressico’, sul quale si concentrerà sempre più l’attenzione dei magistrati – attenti a smascherare le imposture – e dei medici, interessati a studiarne i casi entro il ristretto dominio della scienze naturali, della fisiologia e della ‘psicologia’. 1 Il De puella parla tuttavia al lettore contemporaneo con la forza classica di chi utilizza i testi del passato per mostrare i limiti ontologici di ogni donna e gli esiti imprevisti di ogni alterazione fisiologica e umorale. Si può tentare dunque di affrontare l’aporia interpretativa relativa al controverso tema della donna nel Rinascimento attraverso l’analisi di quest’opera che lo ricolloca nel suo più ampio contesto storico e intellettuale della prima metà del xvi secolo. L’effetto finale sarà dunque quello di dimostrare alcuni dei modi in cui la medicina del Rinascimento si radica in un contesto culturale e sociale di rinnovato interesse naturalistico. iii. Tra la fine del 1549 e i primi mesi del 1551, mentre attende alla pubblicazione dell’An homo2 e porta a termine il Trattato de’ colori de’ gl’ occhi, 3 Porzio riprende progetti e riedita le sue primissime opere giovanili, con lievissime, talvolta irrilevanti, modifiche concettuali. È a questa seconda fase della vita intellettuale del filosofo, legata alla corte di Cosimo I de’ Medici, che si fa risalire la riedizione del De puella germanica e del suo primo volgarizzamento gelliano. Nel 1551 vedono infatti la luce a Firenze, presso la stamperia ducale di Lorenzo Torrentino una nuova edizione del De puella e una sua traduzione in lingua volgare ad opera dell’accademico fiorentino Giovan Battista Gelli (1498-1563), col titolo di Disputa sopra quella fanciulla della Magna. Per la stessa composizione del testo, Porzio si era ispirato ad un andamento espositivo semplice ed efficace, diretto ad un uso Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi (1a ed. London-Chicago, The University of Chicago Press, 1985), Roma-Bari, Laterza, 2002 ; Joseph Silverman, Anorexia nervosa in seventheen century England as viewed by physician, phylosopher and pedagogue, « International Journal of Eating Disorders », v (1986), 5, pp. 847-853 ; Caroline Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo (1a ed. Berkeley, The University of California Press, 1987), Milano, Feltrinelli, 2001 ; Joan Jacobs Brumberg, Fasting girls : the history of anorexia nervosa (1a ed. New York, Penguin Book, 1988), New York, Vintage Book, 2000 ; Tilmann Habermas, Historical continuities and discontinuities between religion and medical interpretations of extreme fasting, « History of Psychiatry », III (1992), 12, pp. 431-455, trad. it. « Continuità e discontinuità delle forme e delle interpretazioni del digiuno estremo », in Paolo Santonastaso - Gerardo Favaretto, *Ascetismo, digiuni, anoressia. Esperienze del corpo, esercizi dello spirito, Milano, Masson, 1999, pp. 163-178 ; Walter Vandereycken, Ron van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo nella storia (1a ed. London, Athlone Press, 1993), Milano, Raffaello Cortina, 1995. Sull’origine del termine anoressia, con precisi riferimenti alla mitologia e all’antropologia dell’antica Grecia cfr., invece, Alessandra Artusi, Una fame da bue, Firenze, Firenze Atheneum, 1995 e Id., Anoressia e bulimia fra mito e scienza, « Patavium », (1994), 3, pp. 27-49. Si veda infine Jules R. Bemporad, Self-Starvation throught the ages : reflection on the pre-history of anorexia nervosa, « International Journal of Eating Disorders », 3 (1996), pp. 217-238 ; Jacques Maître, Anorexies religieuses Anorexie mentale, cit.; Caterina Albano, Questioning Starvation, « Women’s Writing », viii, (2001), 2, pp. 313-326 e Anne J. Schutte, Aspiring saints, Baltimore, The J. Hopkins U.P., 2001; su Porzio cfr. pp. 139-142. 1   Solo a partire dal xviii secolo la Chiesa romana negherà ufficialmente ogni causa soprannaturale e ogni forma di anoressia sacralizzata, mistica o miracolosa. Secondo Tilmann Habermas, ad esempio (Id., Historical continuities and discontinuities …, cit.), si può parlare di anoressia mentale di tipo nosografico (con diagnosi, prognosi e cura) soltanto a partire dalla seconda metà del xviii secolo, quando l’attenzione rivolta alle patologie nervose diventa momento centrale delle relazioni scientifiche settecentesche, che descrivono in termini medici e scientifici i singoli casi di digiuno volontario e prolungato. 2   Cfr. An homo bonus vel malus volens fiat Simonis Portii disputatio, Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1551 e S. Porzio, Se l’huomo diventa buono o cattivo volontariamente […] tradotta in volgare per Giovam Battista Gelli, in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1551 (rist. anast. a cura di Eva Del Soldato, Roma, Storia e Letteratura, 2005). 3   De coloribus oculorum Simonis Portii Neapolitani, Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1550 e Trattato de’ colori de gl’occhi dello eccellentissimo M. Simone Portio napoletano […] tradotto in volgare per Giovam Batista Gelli, in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1551.  







































simone porzio e il ‘ de puella germanica ’ 111 scientifico-divulgativo piuttosto che al ristretto ambito delle accademie e delle università ; caratteri questi condivisi dallo stesso traduttore che si fa guidare dall’intento dell’autore di rendere immediata e accessibile a tutti la spiegazione filosofica del Porzio, e al tempo stesso di trasportarne i concetti in uno stile discorsivo piano e lineare. In questo trattato, l’autore del De puella può infatti seguire gli insegnamenti degli antichi, e mettere il suo giudizio al servizio dei dibattiti scientifici, facendo ricorso ad un linguaggio semplice, non retorico o artificioso. Sulla decisione del Porzio di affidare all’accademico fiorentino la traduzione dell’operetta scientifica, risultano di sicura chiarezza espositiva le stesse parole del Gelli :  



Havendo a giorni passati [...] lo eccellentissimo filosofo M. Simone Portio Napoletano [...] humanissimamente pregatomi che io traducessi nella nostra lingua fiorentina una opera da lui nuovamente fatta De’ colori de’ gl’ occhi nostri et delle cagioni et significati loro. Et non havendo io già mai fatto pruova alcuna di me nel tradurre, deliberai innanzi che io pigliassi una impresa di tanta importanza quanto è questa di mettre i segreti di filosofia in questa nostra lingua : di far prima prova da me stesso di quel che potessero in simil cose le forze mie, onde mi messi a tradurre quella Disputa che fu già fatta da lui [Porzio] alla Santità di Papa Paulo III. 1  

Ma cerchiamo di spiegare le ragioni per cui una storia come quella della fanciulla tedesca sia entrata a far parte degli interessi del Porzio e del suo volgarizzatore ufficiale, Giovan Battista Gelli, personaggio anch’egli di spicco della vita intellettuale fiorentina della prima metà del Cinquecento. 2 Del resto, la nuova lingua non soltanto aveva aperto a molti la possibilità di un utile approccio filosofico e letterario, aveva anche superato le barriere regionali, articolando in più direzioni lo sviluppo della cultura umanistica e rinascimentale. E, se da un lato non c’era più rischio di una contaminazione tra lingua antica e quella moderna, c’era dall’altro la consapevolezza che la nuova lingua era necessaria ad ogni compito, e segnatamente a quello ideologico e divulgativo. 3 iv. Nacque circa gli anni del Signore m.d.xxxi, nella Magna in sul Reno, vicino alla città di Spira [...] una fanciulla chiamata [...] al suo battesimo Margarita [...], la quale cominciò di subito che ella fu nata a pigliare poco latte et a poppare molto manco, che non uson fare comunemente tutti gli altri fanciugli di simile età ; et così seguitò anchora di far poi. 4  

Questa storia, inserita dal Gelli come premessa al volgarizzamento porziano, fu tratta dalla relazione scientifica di Gerardo Bucoldiano (1529-) ; medico tedesco e ‘fisico regio’ di Ferdinando I d’Asburgo. Bucoldiano pubblicò nel 1542 a Parigi, per i tipi di Robert Estienne il De puella quae sine cibo et potu vitam transigit, riedito poi ad Anversa, in francese, per  

1

  Cfr. G. B. Gelli, Lettera di dedica, in S. Porzio, Disputa …, cit., pp. 3-4.   Tra le opere del Gelli, si ricordano in particolare i Capricci del bottaio del 1546-1548 – censurati nel 1562 e poi messi all’Indice –, la Circe del 1549, certamente il più importante dei lavori gelliani e il Ragionamento sopra le difficoltà di mettere in regole la nostra lingua (1551). Cfr. Gian Battista Gelli, Le opere, a cura di Amelia Corona Alesina (1a ed. 1969), Napoli, Rossi, 1970 ; Armando L. De Gaetano, Giambattista Gelli and the Florentine Academy. The Rebellion against Latin, Firenze, Olschki, 1976 ; Vittoria Perrone Compagni, Cose di filosofia si possono dire in volgare. Il programma culturale di Giambattista Gelli, in *Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento, a cura di Arturo Calzona, Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti, Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2003, pp. 301-337. 3   Risulta interessante la traduzione ad opera del Gelli di alcune opere di Porzio, tra le quali il De puella germanica, il De coloribus oculorum, l’An homo bonus vel malus volens fiat e il De mente humana, traduzioni pubblicate a Firenze nel 1551 presso lo stampatore ducale Lorenzo Torrentino. Non furono tuttavia tradotti dall’accademico fiorentino altri lavori porziani, quali il De Conflagratione agri puteolani (Napoli 1538 ca), il De celibatu (Napoli 1537 ca), il De dolore liber (Firenze 1551) e il De naturalium rerum principiis (1a ed. Napoli 1553, 2a ed. 1561, 3a ed. Marburgo 1598). 4   G. B. Gelli, Historia della detta fanciulla, in S. Porzio, Disputa …, cit., pp. 8-14 (p. 8). 2





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Antoine Des Goys (Brief Récit d’une jeune fille …) e a ‘Spira’, in tedesco, col titolo di Kurze Historien : von einem medlein welche on Seys und Tranck ir Leben zubringt. 1 La relazione scientifica del Bucoldiano si presentava – attraverso le tre edizioni, latina, francese e tedesca – nell’agile forma di un récit medico, e ripercorreva in un arco di tempo di circa tre anni (dal 1539 al 1542) l’intricata vicenda della fanciulla tedesca. Stando al racconto del medico tedesco, nel 1539 Margherita aveva appena dieci anni quando smise di mangiare e di bere, e dopo aver sofferto di emicranie e di dolori addominali atroci, gli arti le si fecero freddi e rigidi e ritrovò l’uso delle mani e dei piedi solo dopo essersi sottoposta a prolungati infusi di spezie e bagni caldi consigliateli da una vecchia guaritrice del villaggio. Il suo digiuno tuttavia continuò fino al 1541, quando il vescovo di ‘Spira’, per timore di un inganno o di un’impostura, decise di sottoporla a stretta sorveglianza. Tuttavia, la continua osservazione e i probabili esorcismi del vescovo risultarono vani ancora nell’ottobre del 1541. Infine, nel febbraio del 1542, Ferdinando I ‘re dei Romani’, fermatosi a ‘Spira’, di ritorno da una battaglia contro i Turchi, espresse il desiderio di vedere la fanciulla ‘anoressica’, « et veggiendola di assai grato aspetto et molto piacevole nel parlare e gratiata nelle attioni sue, dubitandose tal cosa fussi vera o no [...] » la affidò a Gerardo Bucoldiano, « medico di sua maestà, huomo di grandissime lettere ». 2 I procedimenti medicali, investigativi e giuridici, adottati in questi casi erano del resto la norma nelle indagini condotte su fenomeni insoliti e miracolosi come quello della puella spirensis. Da Ferdinando I, Margherita fu affidata al medico di corte con il preciso proposito di scoprire insieme alle cause naturali le tracce nascoste di un prodigio, di un inganno o di un’impostura. 3 Così, riprendendo i racconto del Bucoldiano, Gelli scriveva :  











Finalmente, essendo chiaro a Ferdinando, per la testimonianza di detto suo medico, che questa non era cosa finta né artificiosa – ma che detta fanciulla viveva senza mangiare et senza bere – donatele una certa quantità di danari perché ella potessi o maritarsi o far quel che più le piaceva, la rimandò per il padre et per la madre alle case sue, dove ella non molto di poi, tornatole l’appetito, cominciò benché poco a mangiare et bere. Et così facciendo è vivuta e vive fino ai tempi nostri. 4

Nella premessa al testo del Porzio, Gelli mostra dunque di aver ben compreso che l’efficacia della comunicazione e della divulgazione scientifica si basa sul delicato equilibrio tra 1   Gerardo Bucoldiano, Kurze Historien : von einem medlein welche on Seys und Tranck ir Leben zubringt, s.n. s.l. 1542 (di cui si veda l’esemplare conservato alla München, Bayerische Staats Bibliothek, con segnatura Res/4 Phys. m. 110, 27) e Id., Brief Récit d’une jeune fille qui vit sans boire et sans manger, imprimé en Anvers par Antoine Des Goys, s.d. [ma 1542 ca], di 8 cc. n.n. e Id., De puella, quae sine cibo et potu vitam transigit ..., s.l. s.n. [ma Parisiis, ex officina Roberti Stephani (Robert Estienne)], 1542, 10 pp. n.n. (di cui si sono viste le copie presenti alla Bibliothèque Nationale di Parigi con segnatura Tolbiac Res P. M. 114 e Tolbiac 8.TB30.2). Numerose sono poi le edizioni latine e tedesche apparse tra il xvi e il xvii secolo ; tra queste si segnalano le edizioni di Magonza (1542), Basilea (1574) e Berna (1604). In particolare su Gerardo Bucoldiano (Gerardus Bucoldianus, Gerard Bucholdz, Colonia 1529-) cfr. ‘G. Bukoldianus’, in Deutsche Biographische Enzyklopädie, vol. 2, München, 2005 e Lynn Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, New York, Columbia University Press, 1941, vol. v, p. 273 e vol. vi, pp. 431-432. 2   G. B. Gelli, Historia della detta fanciulla, in S. Porzio, Disputa, cit., pp. 10-11 : « Fu da il detto medico presala detta fanciulla et messa in casa sua, insieme con la sua moglie et con due sue figliuole, comettendo loro et oltre a di questo a tutti i servi et le serve sue, che osservassino tal cosa et che sopra tutto non lasciassino mai né dì, né notte star sola, in luogo alcuno. Il che fatto, et ossevato diligentemente da tutti per spazio di circa quaranta giorni, fu chiaramente veduto che ella non pigliava mai cosa, et che ella viveva senza mangiare et senza bere. Nel qual tempo invitandola per maggiore sua certezza, il sopradetto maestro Gerardo [Bucoldiano] più et più volte a mangiare, gli rispondeva che non aveva bisogno ». 3   G. Bucoldiano, De puella …, cit., éd. Pariis 1542, p. 6 : « Puella benevalet crescit et calor naturalis toto corpore deprehenditur ; inspirat et respirat oculorum, narium, etiam aurium excrementa apparent et scabie phlegmatica corpus laborat, ambulat, loquitur, flet, ridet, omniaquae facit, quae pro loco et tempore ea aetas solet, sed nihil tam longo tempore comedit aut bibit, nullas item feces, nullam urinam excernit ». E cfr. su ciò G. B. Gelli, Histo4   Ivi, p. 12. ria della detta fanciulla, in S. Porzio, Disputa …, cit., pp. 11-12.  

















simone porzio e il ‘ de puella germanica ’ 113 ciò che è familiare – in questo caso i canoni della favola – e gli elementi di novità introdotti dal messaggio scientifico. Vi si trova infatti nella storia una successione di eventi fuori dalla norma che si legano l’uno all’altro e che diventano presto gli elementi portanti del racconto : l’inedia di una fanciulla tedesca, un giovane imperatore di ritorno da una battaglia, le attenzioni scientifiche di un medico, il lieto fine in cui tutto si risolve in un quadro di riconciliazione con la natura e con gli uomini. 1 Se l’inizio del De puella appare dunque come l’ingresso in un mondo completamente nuovo e diverso (il mondo del racconto popolare), passata la soglia della favola si entra nel mondo logico e rigoroso della disputa filosofica, del discorso naturalistico e scientifico sostenuto dal Porzio.  

v. Scritta nella forma tipica delle quaestiones peripatetiche, il De puella germanica di Porzio si presenta suddivisa in sette capitoli, preceduti da una lettera di dedica di Giovan Battista Gelli ad Alamanno Salviani, alla quale fanno seguito l’“Historia della detta fanciulla”, anch’essa del Gelli, e la dedica di Porzio a papa Paolo III. L’opera è così ripartita : capitolo primo “Se la detta fanciulla si nutrisce d’aria” ; capitolo secondo “Dubitationi contro a le cose dette” ; capitolo terzo “Sentenza dei moderni” ; capitolo quarto “Ragioni de’ latini” ; capitolo quinto “Contradittioni” ; capitolo sesto “Cagioni per le quali la detta fanciulla non mangi” e cap. settimo “Cagioni per le quali la detta fanciulla non mangi”. Alla premessa gelliana segue poi un lavoro di analisi filosofica del Porzio ; lavoro, quest’ultimo, certamente più complesso del racconto dell’accademico fiorentino, vuoi dal punto di vista critico, vuoi anche dal punto di vista logico-argomentativo. Scrive infatti Porzio in apertura al testo :  















[...] Ricercandomi i medesimi amici de la cagione di tal digiuno o sobrietà che ella sia, non ho voluto sino a qui compiacer loro, ma ho sempre disdetto ai loro preghi : parte per parermi tal cosa tanto poco verisimile, che sia da metterla tra le narrationi vere di Luciano. Et parte perché crescendo tal fama [...], subito mi occorreva alla mente quella comune et dal volgo tanto aprovata sentenza, la quale attribuisce tutte quelle cagioni, le quali sono o incerte o non così note a ciascheduno, a Dio ottimo et grandissimo. 2  

Paragonare la storia della fanciulla anoressica ai racconti fantastici dello scrittore greco (in questo caso alla Storia vera di Luciano e ai suoi viaggi immaginari) significava infatti per Porzio non solo porla in una prospettiva culturale diversa, cui egli era solito confrontarsi, ma saperne riconoscere la giusta valenza entro lo spazio fantastico del racconto popolare. A ciò egli aggiungeva : « Mi induceva anchor l’animo mio il non si trovare cosa altra alcuna simile nelle Sacre Lettere, et così in quelle del Testamento Vecchio, come in quelle de Nuovo ». 3 Se i miracoli esistono – spiegava infatti Porzio – possono, sì, riguardare Cristo, i santi e i profeti, ma non tutti quegli altri casi comuni di digiuno prolungato ai quali si è soliti credere. Da questo punto di vista appare evidente come in Porzio la stessa idea di Dio rimane sullo sfondo di una natura concepita come autonoma, retta da leggi proprie e di una figura, quella di Cristo, i cui miracoli risultano possibili solo se concepiti nell’ambito  





1   Su quest temi cfr. Valentina Pisanty, Leggere la fiaba, Milano, Bompiani, 1993 ; Vladimir Jakovlevic Propp, Morfologia della fiaba (1a ed. Leningrad, 1928), Torino, Einaudi, 2000 ; Dario Corno, Fiaba, in *Enciclopedia Einaudi, vol. vi, Torino, Einaudi, 1979, pp. 116-134. Sempre illuminanti le pagine di Italo Calvino sulle caratteristiche stilistiche e strutturali dei racconti popolari. Cfr. Italo Calvino, Sulla fiaba, Milano, Mondadori, 1996 (1a ed. Torino, Einaudi, 1988) e Id., Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993 (1a ed. Milano, Garzanti, 1988), infra. 2   S. Porzio, Disputa …, cit., p. 16 ; De puella …, cit., p. 3. 3   Ibidem : « Perché tacendo di Mosè, di Helia e dello stesso Salvator nostro – i quali digiunarono quaranta giorni – qual è quello che dichino le Sacre Scritture che sia vivuto senza mangiare o senza bere, non vo’ dire anni, ma pure alquanti mesi ? ».  









   

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della fede e della verità rivelate. Il naturalismo, come lo suggerisce il filosofo, ci invita ad affidare alla fede i misteri della divinità, e ci invita a seguire i giudizi della ragione e i movimenti dello spirito che, in termini naturali, ci permettono di raggiungere un accettabile livello di approssimazione al vero. Egli non si avvale delle spiegazioni religiose o superstiziose del suo tempo, e il suo razionalismo si fa garante di una ricerca filosofica rigorosa, realista e antidogmatica. Le spiegazioni dei fenomeni particolari ai quali il filosofo napoletano fa riferimento nelle opere giovanili hanno un aspetto in comune : esse si basano sulla convinzione che le questioni relative alla natura – attente alla dimensione mondana della realtà – vengono a escludere a-priori ogni accesso al sovrasensibile. Ma fermiamoci all’inizio dell’opera, al capitolo primo, “Se la fanciulla si nutrisce d’aria”, che è del resto il tema stesso della questione posta. 1 I medici iuniores, e i peripatetici, precisa Porzio, credono a torto che l’anima umana si componga di sola aria, ‘mista et vaporosa’, atta a nutrire, conservare ed alterare i corpi : « ma quanto siano deboli et di poco momento queste cose – egli aggiunge – et simili ad alcune favole che dicono talvolta certe vecchiuole, dimostreremo noi di sotto, poi che noi havremo parlato in prima di alcune altre cose ». 2 Secondo Porzio, infatti, Aristotele riconosce che il nutrirsi è l’elemento distintivo del vivente, il quale è dotato non solo della peculiare facoltà di procurarsi autonomamente il proprio nutrimento, ma insieme della facoltà di digerirlo e di trasformarlo nella sostanza stessa dell’essere. Si delinea così in queste pagine – attraverso i principi della fisica aristotelica – l’essenza del materialismo porziano : la nutrizione, in quanto operazione naturale e complessa, è essa stessa forma e principio del vivente :  











Niente di manco tutto quello che occorre far circa il nutrirsi, fa mediante però la forza et il calor del caldo naturale, essa anima, la quale distribuisce detto nutrimento per tutte le parti del nutrito così nelle superiori come nelle inferiori [...]. Afferma anchora oltre a di questo il medesimo Aristotele, non solamente non si nutrisce cosa alcuna inanimata, ma né anchora quei primi corpi i quali i filosofi chiamano elementi, conciosia cosa che eglino siano corpi semplici et la ragione, e per essere tutti i nutrimenti misti. 3

Appare chiaro che per Porzio è proprio la ‘vitale operazione’ della nutrizione – realizzata nella più stretta collaborazione di anima e corpo ad indicare la netta distinzione tra ‘cose animate’ e ‘cose non animate’, a cui partecipa l’anima (forma del vivente). La quale mediante il ‘caldo naturale’ distribuisce il nutrimento a tutte le parti del corpo. Allora la tesi di quelli che sostengono che l’aria da sola possa nutrire tutto l’animale, o anche solo una parte di esso, risulta dal punto di vista della dimostrazione naturalistica infondata e insostenibile : « Lasciamo andare questa parte come cosa ridicula » – afferma Porzio – perché tutti gli altri elementi (ad eccezione del fuoco) « non si conservano se non con l’aggiungimento dell’altre [cose] che sian della natura et della ragion medesima loro, sì come l’acqua da l’acqua et la terra da la terra, per il che l’aria non può nutrir né l’acqua né la terra ». 4 Oltre a ciò – egli spiega – se l’aria avesse veramente da sola la capacità di nutrire, non avremmo bisogno di organi né di strumento alcuno che servisse al nutrimento :  











a che fine havremmo noi lo stomaco – si chiede allora Porzio –, se l’aria penetra et entra per se 1

  S. Porzio, Disputa …, cit., 20 ; De puella …, cit., p. 5.   Ibidem. E continua : « Per il che si debbe avvertire che Aristotele, interprete grandissimo dei segreti della natura, conciesse il nutrirsi solamente a quelle cose le quali vivono et che hanno in loro una certa facultà di poter pigliare quello di che elle si nutriscono et di poi digerirlo. Et separando finalmente insieme con queste altre cose da il seccioso et superfluo, quello che è puro tramutarlo nella sostanza propria del vivente ». 3 4   Ivi, p. 22 ; ivi, p. 6.   Ivi, p. 26 ; ivi, p. 7.  

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stessa per tutte le parti de’ corpi nostri ? Et a che servirebbe il fegato, se l’aria non può convertirsi né in sangue, né in spiriti ? (perché lo spirito sebbene egli è molto differente dal sangue, per la rarità et sottilità della natura sua è però della medesima natura che è il sangue). Et a che, finalmente, il ventre di sotto, se da l’aria non si cava né superfluità o escremento nessuno ? 1  





Al capitolo terzo, “Sentenza de’ moderni”, Porzio sostiene che tutte le cose che si nutrono sono vive, e, come già aveva affermato prima di lui Aristotele, vivono soltanto quelle cose che nella loro intima costituzione o hanno parti o sono animate : « lo spirito non è né corpo animato né corpo organico », può nutrire ma non è nutrito. 2 Nel capitolo quarto, “Ragioni de’ latini”, la polemica è rivolta contro quei filosofi i quali, « molto stimati nella medicina », sostengono con Galeno che l’aria possa nutrire l’anima insieme col corpo, 3 ragione per cui, secondo Porzio, la stessa medicina galenica pretende di curare i ‘mancamenti dell’animo’ o i cosiddetti ‘sfinimenti’ con gli odori buoni e le ‘cose dolci e aromatiche’. 4 Nell’esordio al quinto capitolo, “Contradittioni”, Porzio definisce il compito del filosofo, come quello di una libera ricerca razionale delle cause e delle ragioni dei fenomeni :  











Ma perché il proprio et principale uffitio del filosofo è il rendere et assegnare le cagioni delle cose, manifestando insieme con esse le più certe et chiare ragioni di quelle [...] non doverrà essere alcuno che si meravigli se noi non approviamo molte cose che sono in Galeno, et massimamente contradicendosi egli anchora molte volte da se stesso. 5

Questa idea di filosofia come ricerca naturale e come libero esercizio della ragione, al di fuori di schemi e modelli definiti, si ritrova del resto emblematicamente espressa in questo testo centrale dell’itinerario giovanile del Porzio. Così il richiamo alla sola forza della ragione finisce col mettere in dubbio principi e illusioni legate a false convinzioni o a credenze popolari. Ma questo permette anche di ridefinire i termini dell’adesione di Porzio all’aristotelismo : l’ammirazione per Aristotele e per altri naturalisti del passato non significa accettazione dogmatica dei loro principi, quanto piuttosto recupero del metodo scientifico come canone più affidabile per l’indagine naturale. Di qui, il privilegio di cui sono soliti godere i filosofi viene a tradursi nella prospettiva porziana in una libertà di pensiero, che è in se stessa indipendenza, vuoi dall’autorità del passato vuoi anche dai pregiudizi, dalle credenze e dai falsi racconti dei ‘moderni’ :  



Imperoché – scrive allora Porzio – dove regna la ragione non ha luogo alcuno l’autorità (nam ubi viget ratio authoritas cessat ...) –, della qual cosa rende manifestissima testimonianza Aristotele ; il quale non seguitò mai authorità alcuna di quei filosofi antichi [che] furono inanzi a lui – ma solamente la ragione stessa et con quella gli convinse et rifiutò tutti. 6  

vi. La spiegazione di singole questioni naturali, unita ad una visione più critica del principio d’autorità, erano affermati con decisione da Porzio fin dalle primissime opere giovanili, anche se non arriveranno mai ad essere applicati con rigore e sistematicità. Se è vero dunque, come vuole Galeno, che l’aria altera le ‘qualità’ dei nostri corpi rinfrescandoli, e ogni nutrizione nasce dal calore naturale, è anche vero che l’aria non può insieme rinfrescare e nutrire i corpi, per cui – il filosofo conclude – « non dovrà esserci alcuno che si maravigli, se noi non approviamo molte cose, che sono in Galeno, massimamente contradicendosi egli ancora molte volte da se stesso ». 7 Così, al capitolo settimo, “Cagioni per  



1

  Ibidem.   Ivi, pp. 33-34 ; ivi, p. 10. 5   Ivi, p. 36 ; ivi, p. 11. 3





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  S. Porzio, Disputa …, cit., p. 31 ; De puella …, cit., p. 8.   S. Porzio, Disputa …, cit. p. 35 ; De puella …, cit., p. 10. 6 7   Ibidem.   Ibidem.

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le quali la detta fanciulla non mangi”, il suo assunto porziano sulla naturale freddezza delle donne è tale che, « essendo le donne friggidissime di natura, è forza che elle abondino grandemente d’homori grossi ». In particolare questa fanciulla, in quanto ripiena per natura di « grandissima abondanza di flemma », ha perduto il sentire e con essa il bisogno di nutrirsi. 1 È dunque per l’autore del De puella un vero e proprio difetto del senso la causa principale dell’‘inedia mirabile’, una desensibilizzazione naturale di un corpo ‘spasmato’ reso insensibile da uno squilibrio umorale : 2  









Et questa opinione nostra del nutrimento – precisa Porzio – pare che sia anchor confermata da quel che scrive Alberto nel vii Libro degli animali, dicendo che solamente stanno assai digiuni quegli animali, i quali hanno gli huomori flemmatici e grossi et il calore tanto debole che non può cuocere humori sì grossi et sì crudi. Et che, quegli animali, i quali patiscono simil indispositione hanno la pelle tanto spessa et tanto densa et serrata che i fumi, i quali si levano dai detti humori, non possono uscir fuori per i pori, né manco può distillar fuori l’humido loro. 3

All’autorevole voce di Alberto Magno – e il riferimento del Porzio corre al settimo libro del De animalibus libri xxvi – seguono poi nel De puella le testimonianze di autori del passato, quali Pietro D’Abano e Niccolò (detto ‘nostro fiorentino’). Pietro D’Abano, ad esempio, scrive Porzio : « [...] udì dire ai suoi tempi [...] che in Normandia era una fanciulla di trenta anni, la quale era stata diciotto che ella non haveva preso cibo alcuno. Al che fare, dice che giova molto l’havere il calore proportionato a l’humido et la forza delle stelle [...] ». 4 Qui Porzio si mostra maestro di una scrittura scientifica attraverso citazioni che permettono di riferirsi alle autorità del passato e alle opinioni in fondo condivise dagli intellettuali del tempo. Se è vero, allora, che per il Nostro le costituzioni naturali variano col variare delle condizioni ambientali, è anche vero che gli abitanti dell’India – a differenza dei popoli ‘settentrionali’ – si distinguono per una particolare debolezza di temperamento, laddove il clima caldo nel quale essi vivono ne influenza e ne altera insieme la complessione e il temperamento. 5 Lo stesso – aggiunge Porzio – si potrebbe dire per quegli uccelli, che in virtù della loro natura fredda tendono a uscire allo scoperto in inverno, per poi rifugiarsi in luoghi freddi, come le caverne, in estate. Ed è assai evidente non solo che il camaleonte non si nutre di sola aria, ma anche che la salamandra o i pesci non si nutrono di sola acqua o di solo fuoco « essendone alcuni che si nutriscon d’alga o di musco o di qualche altra materia che nasce nell’acqua, et altri i quali predano di quei della loro specie medesima, et cibonsi di quegli [...], et altri ancora che pasconsi piuttosto la notte e poi il dì son soliti di venire a galla ». 6 Il metodo comparativistico, dunque, che nel De puella si adotta mettendo a confronto i nostri comportamenti con quelli delle popolazioni settentrionali e con l’intera varietà del mondo animale, porta Porzio a sostenere che tutti gli esseri viventi, freddi e flemmatici per natura, mangiano meno perché consumano meno. Una conclusione, questa, che nasce da un metodo di ricerca assai diffuso nella tradizione naturalistica medievale e rinascimentale, per le quali tutta la varietà degli esseri si specchia in un gioco di corrispondenze che coinvolge in qualche modo fisiologia, psicologia e astrologia. A segnare invece nel De  









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  S. Porzio, Disputa …, cit., p. 45 ; De puella …, cit., p. 14.   È importante tuttavia ricordare che i riferimenti di Porzio al tema dei sensi – oltre che al De anima e ai commenti di Simplicio e di Filopono (cfr. De puella, pp. 7 e 9) – corrono principalmente ai Parvia naturalia (cfr. De puella, p. 9 e p. 13), e ai libri sugli animali di Aristotele, ovvero il De generatione animalium (cfr. De puella, pp. 6-7), il De Partibus animalium (cfr. De puella, p. 12) e l’Historia animalium (cfr. De puella, p. 13). 3   S. Porzio, Disputa …, cit., p. 47 ; De puella …, cit., p. 14. 4   Ivi, pp. 48-49 ; ivi, cit., p. 15. 5 6   Ivi, pp. 50-51 ; ivi, pp. 15-16.   Ibidem.  

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simone porzio e il ‘ de puella germanica ’ 117 puella una certa continuità con la tradizione scettica petrarchesca e ciceroniana interviene infine una breve annotazione del Porzio sulla possibilità stessa di intendere le ragioni profonde dello strano fenomeno : 1  

Si legge nelle Historie [di Plinio] che Democrito Abderita visse tre giorni solamente dell’odore del miele, overo come vogliono alcuni altri, di quel del pane fresco ; et i pesci, secondo che dicono alcuni, vivono dell’acqua che sia pura et chiarissima. Et oltre a questo riferisce Aristotele che Olympiodoro scrive haver veduto un huomo il quale si nutriva solamente d’aria et di sole, alle quali cose ne sono aggiunte da Platone molte altre simili nel suo Fedone, lasciando per hora stare di quali elementi si creda per qualchuno che si nutrischino il camaleonte e la salamandra. 2  

E conclude :  

[…] La cosa di Democrito et di Olimpiodoro et se null’altro […], come disse il poeta Satiro, ardisce dire la bugiarda Grecia nelle sue historie, lasciamo noi passare come cosa falsa, admonendoci anchor Cicerone nelle sue Orationi, et in secento altri luoghi quanto sia da prestar fede a i testimoni Greci. 3

Ma tale invito a diffidare dei racconti popolari e a mantenere il discorso entro livelli capaci di garantire soluzioni razionali, fa emergere comunque un’attitudine condizionata da istanze naturalistiche fortemente innovative. Gli ultimi passaggi, quindi ci permettono di sottolineare la strategia discorsiva di Porzio, che nel finale sospende ogni giudizio sui racconti del passato e che amplifica il tono ‘scientifico’ e critico del trattato. La spiegazione naturalistica del Porzio, dunque, fa leva sulla interpretazione degli strani eventi come fenomeni legati allo scorrere della vita nel mondo – della generazione e della corruzione. Egli infatti non esita ad assegnare un’origine organica alle diverse facoltà – nutritiva, sensitiva e intellettiva – alle quali in tutte le sue opere dedica uno spazio preciso. Per il filosofo napoletano infatti gli uomini non ‘appetiscono’, non sentono e intendono tutti allo stesso modo, né tutti ottimamente, da cui deriva che non hanno tutti le medesime opinioni : la stessa anima razionale, intimamente connessa al corpo, è soggetta a generazione e corruzione, laddove l’esperienza concreta ci mostra con numerosi esempi le conseguenze possibili di alterazioni legate ai sensi e alla ragione. Ma in questa visione critica, qual è lo status ontologico della donna nel pensiero porziano ? Se non è possibile in questa sede soffermarsi sulla questione posta, è tuttavia possibile avanzare risposte che si appoggiano sul testo analizzato del nostro autore così come sul contesto scientifico e culturale del Rinascimento. In tal senso, le caratteristiche fisiche della donna relative al suo sesso – umori più freddi e umidi, l’utero e le sue malattie, le mestruazioni – hanno implicazioni fisiologiche, gnoseologiche e morali inattaccabili. Su basi scientifiche, tale teoria condivisa relaziona temperamenti e complessioni alle caratteristiche fisiche e mentali dei sessi. La stessa temperatura della donna è dunque funzionale alla sua natura : il suo metabolismo più freddo le permette dunque di bruciare cibo più lentamente per trattenere residui di grasso e sangue necessari al nutrimento del feto. Questo funzionalismo è naturalmente soggiacente o anche talvolta esplicito nei testi antichi, coperto talvolta dalle stesse conclusioni che ha ingenerato.  





1   Cfr. Francesco Petrarca, De sui ipsius et multorum ignorantia, a cura di Enrico Fenzi, Milano, Mursia, 1999, pp. 216, 262, 265. Richiamandosi a Orazio (Epistolae) e a Cicerone (Academica e Orazioni), Petrarca si dichiarava libero di scegliere e giudicare senza dover render ragione a questa o quella autorità del passato, e si dichiarava invece « nullius addictus iurare in verba magistri ». 2 3   Ivi, p. 33 ; ivi, p. 10.   Ivi, p. 52 ; ivi, p. 16.  







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La sua fisiologia e i suoi umori sembrano dunque destinare la donna ad una inferiorità ‘naturale’ rispetto all’uomo, sia essa fisica, psicologica o mentale. 1 Del resto, vale la pena ricordarlo, materiale e razionale l’anima umana è per il filosofo napoletano strettamente condizionata da fattori fisiologici, ambientali e psicologici come le variazioni geografiche e climatiche, la varietà degli umori e dei temperamenti, che condizionano e influenzano fortemente l’intima vita degli uomini. È allora una questione quella della nutrizione che assume in Porzio una fisionomia particolare e che si presenta connessa con il problema dell’anima umana, razionale e sensitiva, e con lo stretto rapporto di anima e corpo, di spirito e materia. In tal senso Porzio non sembra distaccarsi di molto dalla concezione classica aristotelica, che rinvia alla più generale concezione tomistica dell’anima come forma sostanziale del corpo, ma rifiuta – pur con varie sfumature – l’idea stessa di un corpo come semplice luogo e involucro dell’anima.2 L’elemento spirituale è dunque nel contempo sostanza materiale e parte integrante della sostanza del vivente (synolon di anima e corpo, spirito e materia). Da questo punto di vista, la stessa natura dell’uomo si può definire solo dopo aver chiarito lo statuto fisiologico del soggetto, la sua fisicità, i processi della nutrizione, della conoscenza e dell’‘apprensione’. Secondo Porzio, infatti, non si trova un rapporto gerarchico tra anima e corpo, essi si giustificano e si corrispondono ; entrambi materiali e mortali non possono che sussistere se non condizionandosi e integrandosi a vicenda. Questo piccolo trattato medico, sulla natura della donna e sulle cause naturali di una alterazione fisiologica, fornisce in conclusione un eccellente punto d’ingresso per due aspetti ancora poco conosciuti del pensiero porziano. Il primo è l’interpretazione del mondo medico a lui contemporaneo, e il più ampio contesto della filosofia aristotelica. Il secondo è dato dagli elementi di novità delimitati da una complessa relazione tra antiche tradizioni di pensiero e esigenze scientifiche e divulgative del presente.  

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” Pubblicato a Napoli nel 1542, il del De puella germanica di Simone Porzio rappresenta uno degli esiti più radicali del pensiero medico-filosofico di area napoletana del xvi secolo. In esso Porzio descrive con precise spiegazioni naturalistiche il prodigioso caso di anoressia di una fanciulla tedesca (Margaretha Weiss) e, riprendendo gli argomenti della medicina ippocratico-galenica, egli sostiene che vi sono precise cause naturali alla base dello straodinario fenomeno. Sono questi gli anni che vedono l’inizio di una desacralizzazione del fenomeno anoressico (dalla mistica medievale all’‘inedia mirabile’ del Rinascimento), sul quale si concentrerà sempre più l’attenzione dei magistrati intenti a smascherare le imposture, e dei medici – tra cui lo stesso Gerardo Bucoldiano (Gerhard Bucholtz) – interessati a studiarne gli effetti e a conoscerne le cause naturali. Published in Naples in 1542, the De puella germanica by Simone Porzio is one of the most radical outcomes of medical-philosophical thinking in the Naples of the XVI century. In this book, Porzio described with accurate naturalistic explanations the prodigious case of anorexia of a German girl 1   Su questi temi, oltre al già citato testo di I. Maclean, si veda in particolare Giulia Sissa, Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in *Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente. L’antichità, vol. i, a cura di Pauline Schmitt Pantel, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 72-73 ; Susan Moller Okin, Women in Western Political Thought, Princeton, Princeton University Press, 1979 ; Nicholas D. Smith, Plato and Aristotle on the Nature of Women, « Journal of the History of Philosophy », xxi (1983), 4, pp. 467-478; Maryanne Cline Horowitz, Aristotle and Woman, « Journal of the History of Biology », 9 (1976), 2, pp. 183-213 e Helen King, Green Sickness: Hippocrates, Galen and the Origins of the ‘Disease of Virgins’, «International Journal of The Classical tradition», 2 (1996) 3, pp. 2   S. Porzio, Disputa ..., cit., p. 21; De puella ..., cit., p. 6. 372-387.  











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(Margaretha Weiss) and, taking inspiration from the basics of Hippocratic-Galenic medicine, he states that there are two clear natural causes of such extraordinary phenomenon. These are the years that saw the beginning of the secularisation of the anorexic phenomenon (from Medieval mystique to the ‘inedia mirabile’ of Renaissance) which received increasing attention from the magistrates, all engrossed in trying to expose frauds, and from doctors – including the German physician Gerardo Bucoldiano (Gerhard Bucholtz) – who were interested in learning about its effects and natural causes. Le petit traité de Porzio De Puella Germanica, publié à Naples en 1542, représente le résultat plus radical de la pensée médicale du milieu philosophique napolitaine du xvième. Porzio y décrit le cas prodigieux d’anorexie d’une jeune fille allemande (Margaretha Weiss) et suivant les principaux arguments de la médecine hippocratique-galénique, il sutient l’origine naturelle du phénomène. On assiste dans cette période à la désacralisation du phénomène de l’anorexie sur le quel se penchent les magistrats cherchand à démasquer l’imposture, tandis que les médecins – entre autres l’allemand Gérard Bucoldianus (Gerhard Bucholtz) – s’intéressent à l’étude de ses effets et de ses causes naturelles. Publicado en Nápoles en el 1542, el De puella germanica de Simone Porzio representa uno de los productos más radicales del pensamiento médico-filosófico del área napolitana del siglo xvi. En éste, Porzio describe con explicaciones detalladas y naturalísticas el prodigioso caso de anorexia de una doncella alemana (Margaretha Weiss) y, basándose en argumentaciones de la medicina hipocráticogalénica, sostiene que existen causas naturales precisas al origen de este extraordinario fenómeno. Durante estos años se asiste a una desacralización del fenómeno anoréxico (se pasa de la mística medieval a la “inedia admirable” del Renacimiento), sobre el que se concentrará cada vez más la atención de los magistrados, que promoverán el desenmascaramiento de los impostores, y también de los médicos – entre los cuales se halla el físico alemán Gerhard Bucholtz – interesados en estudiar sus efectos y en conocer las causas naturales. Herausgegeben in Neapel im Jahr 1542, stellt das De puella germanica von Simone Porzio eines der radikalsten Resultate der ärztlich-philosophischen Lehre aus der Gegend von Neapel des xvi. Jahrhunderts dar. In ihm beschreibt Porzio mit präzisen naturalistischen Erläuterungen den erstaunlichen Fall von Anorexie eines deutschen, jungen Mädchens (Margaretha Weiss) und behauptet, indem er die Argumente der hypokratisch-galenischen Medizin wieder aufnimmt, dass es klare natürliche Ursachen für dieses außergewöhnliche Phänomen gibt. Es sind diese Jahre, in denen die Entheiligung des Anorexie-Phänomens beginnt (von der mittelalterlichen Mystik bis zur „wundersamen Nahrungsabstinenz“ der Renaissance), auf die sich immer mehr die Aufmerksamkeit der Richter, um Schwindel zu entlarven, und der Ärzte konzentriert – unter ihnen der Physiker Gerardo Bucoldiano (Gerhard Bucholtz) – die daran interessiert sind, die Auswirkungen zu untersuchen und die natürlichen Ursachen kennen zu lernen.

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 esto intervento sarà diviso in due parti : la prima prenderà in esame il contesto u della medicina ‘colta’, e dunque il modo in cui la donna e il corpo femminile venivano percepiti e descritti dalla trattatistica medico-scientifica ; si tenterà di esemplificare questo contesto, che è stato chiamato appropriatamente (dallo storico inglese Ian Maclean) ‘femminismo galenista’, attraverso il riferimento ad alcuni testi della tradizione meridionale del Cinquecento e del primo Seicento. La seconda parte sarà dedicata alle donne in quanto curanti : curanti di livello basso, o curanti annidate in strutture sociali che oggi non sembrano direttamente pertinenti alla malattia e all’assistenza, come le strutture familiari o le ‘reti’ di vicinato. 1 La conclusione sarà dedicata a qualche annotazione sulle donne in quanto pazienti e sulla possibilità di individuare una differenza di genere nell’esperienza e nella pratica del trattamento di situazioni patologiche. Si adotterà una cronologia piuttosto ampia, nella convinzione che per ciò che concerne l’attività e la passività delle donne rispetto alla cura, così come per altri settori ‘bassi’ della pratica medica, i mutamenti, se ci sono, siano molto lenti e riguardino piuttosto il Settecento. Occorre però avvertire subito che il senso di questo intervento è quello di registrare indicazioni e ‘piste’ da seguire per una ricerca ancora in gran parte da fare. Si tratta dunque più di note sparse e dell’indicazione di qualche possibile direzione di ricerca, e quindi, inevitabilmente, della registrazione di dibattiti storiografici in corso, che della proposta di risultati concreti. 2 Le donne, come sanno bene coloro che le studiano dal punto di vista della storia della medicina e della cura (e non soltanto), sono un oggetto sfuggente : nell’organizzazione della cura propria dell’età moderna, e a maggior ragione nel Sud Europa cattolico, le donne curanti occupavano uno spazio specifico, molto controllato, di cui gli altri attori sulla scena della cura ben conoscono caratteristiche e limiti, ma che ha lasciato relativamente poche tracce nella documentazione. 3 Si vedrà più avanti come (e se) sia possibile superare questa barriera di silenzio, che è in primo luogo difficoltà di accesso alla literacy e alla stampa – sono noti gli scarsi livelli di alfabetizzazione femminile nel meridione e in generale nei paesi cattolici 4 –, e di occultamento delle donne e della  







1   L’espressione ‘curanti’ è qui utilizzata come traduzione dell’espressione inglese ‘medical practitioners’, ad indicare tutti coloro che - licenziati o non licenziati dalle autorità, in un contesto di assistenza formale o informale - prendevano parte all’attività di cura. Cfr. Margaret Pelling, Charles Webster, Medical Practitioners, in *Health, Medicine and Mortality in the Sixteenth Century, ed. by C. Webster, Cambridge, Cambridge Universty Press, 1979, pp. 165-235 ; per l’Italia Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in antico regime, Bologna xvi-xviii secolo, Roma-Bari, Laterza, 1994. 2   Questo intervento è parte di una ricerca ancora in corso sulla medicina a Napoli nel ‘lungo Seicento’. 3   Per una storiografia medica incentrata sul confronto tra le realtà di assistenza e cura nell’Europa della Riforma e della Controriforma, cfr. Health care and poor relief in Protestant Europe 1500-1700, ed. by Ole Peter Grell and Andrew Cunningham, London, Routledge, 1997 ; Health care and relief in Counter-Reformation Europe, ed. by Ole Peter Grell, Andrew Cunningham, and Jon Arrizabalaga, London, Routledge, 1999 ; Health Care and Poor Relief in 18th and 19th Century Southern Europe, ed. by O. P. Grell, A. Cunningham and B. Roeck, Aldershot, Ashgate, 2005. 4   Sul sostanziale analfabetismo femminile nel Regno di Napoli in età moderna, anche nelle classi abbienti e colte, Alla ricerca di quelli che sapevano scrivere nel regno di Napoli : alfabetizzati e analfabeti, in *Sulle vie della scrittura. Alfabetizzazione, cultura scritta e istituzioni in età moderna, a cura di Maria Rosaria Pelizzari, Napoli, esi, 1989.  







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loro attività (e passività) di cura, lavorando su cronache, memorialistica, e naturalmente su fondi d’archivio ancora non esplorati, ma anche su oggetti meno ‘tangibili’, come gli stereotipi e i luoghi comuni. 1. Il ‘femminismo galenista’ : fisiologia e anatomia della donna  

In un testo di diversi anni fa, The Renaissance notion of woman, Ian Maclean affrontava la questione del lento affermarsi, nella medicina rinascimentale, della nozione di differenza sessuale, e dunque del superamento della nozione scolastica, di derivazione aristotelica, del corpo femminile come analogo (e inferiore) a quello maschile. 1 Benché ancora totalmente interna all’umoralismo ippocratico-galenico, la cultura elaborata nelle grandi istituzioni di formazione e ricerca, come le facoltà mediche negli Studia (soprattutto italiani) aveva però utilizzato Galeno ‘contro’ Aristotele per offrire un’immagine innovativa della fisiologia e anatomia femminili, descritte come radicalmente diverse da quelle maschili. Se è vero che per la nascita di un’embriologia moderna e di una concezione della generazione incentrata sulla scoperta e l’affermazione del ruolo fisiologico della donna nella riproduzione occorre attendere la metà del Seicento, già nei decenni precedenti l’immagine della donna come ‘maschio imperfetto’ si attenua. Per non fare che un esempio, ma uno dei più classici, Galeno rifiuta – e il Rinascimento riprende questo rifiuto e lo amplifica alla luce delle nuove conoscenze anatomiche – la nozione dell’utero come animal indipendente e mobile nel corpo della donna, a favore di una visione incentrata, come gran parte della sua fisiologia, sulla funzione specifica dell’organo. 2 Maclean mette anche in luce la difficoltà e la sfida rappresentata dalle donne per i medici physici tradizionali, legati alla definizione dello status umorale di un corpo individuale e dell’evoluzione nel tempo delle patologie : gli organismi femminili infatti cambiano periodicamente con le mestruazioni (che altera la loro costituzione o equilibrio umorale), cambiano nel corso della loro vita diverse volte, e cambiano più in fretta degli uomini – il che rende complicata la produzione di regimina appropriati. Come è noto, la medicina è ancora in questa fase largamente incentrata sulla prevenzione, a differenza, come si vedrà, di quanto accade con i chirurghi, che forniscono cure ‘di emergenza’, quindi prive di una determinazione temporale definita. Più di recente si è insistito invece sul rapporto tra le donne e la disciplina normalmente considerata la più avanzata del Rinascimento, l’anatomia – nel doppio senso delle donne come anatomiste e in quello delle donne e del corpo femminile come oggetto di anatomia. 3 Nel 2003 si è aperto un dibattito che ha visto contrapposti Michael Stolberg da un lato, che ha sostenuto che la periodizzazione tradizionale, che vedeva la nascita di quella che oggi chiamiamo ‘ginecologia’ come un fenomeno in sostanza settecentesco, fosse da antedatare al Cinquecento, e dall’altro Londa Schiebinger e Thomas Laqueur, sostenitori invece di un’origine ‘illuminista’ della consapevolezza della differenza di genere e dell’esistenza di una specificità femminile non solo di tipo anatomico e fisiologico, ma anche di accesso al piacere sessuale. 4 Stolberg ha fatto uso, per corroborare la propria tesi, delle numerose illustrazioni cinquecentesche raffiguranti scheletri femminili : dunque di un argomento tratto dalla storia dell’anatomia. Sono invece incentrati su testi strettamente ginecologici – dun 



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  Ian Maclean, The Renaissance notion of woman, Cambridge, Cambridge University Press, 1980.   Ivi, p. 40 sgg.   Katherine Park, Secrets Of Women - Gender, Generation, and the Origins of Human Dissection, New York, Zone, 2006. 4   Michael Stolberg, A Woman down to her Bones. The Anatomy of Sexual Difference in the Sixteenth and Early Seventeenth Century, « isis », 2003, pp. 274-299 ; Londa Schiebinger, Skelettestreit, « isis », pp. 307-313. 2 3











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que su fisiologia e terapeutica, nella linea dell’ippocratico de morbis mulierum – gli interventi recentissimi di Helen King e di Monica Green, studiose entrambe interessate alla questione della nascita della ginecologia ‘scientifica’. 1 Da punti di vista diversi ma convergenti, King e Green ribadiscono in sostanza quella che era già stata la tesi di Maclean, quella di una ‘rivalutazione’ della fisiologia femminile (in quanto distinta da quella maschile) già nel Rinascimento, e del contemporaneo emergere di una ginecologia colta. Non è neppure il caso di ribadire che questa ginecologia, come tutte le discipline e specialità mediche del tempo che ambissero a un livello universitario, era esclusivamente riservata ad autori maschi. Nella medicina colta meridionale, pur molto produttiva sul piano delle opere a stampa, si rilevano – tranne risultati ulteriori – poche, se non nessuna, opere appartenenti al genere de mulieribus. In verità, è tutta la tradizione colta italiana che partecipa con pochi titoli alla costituzione della ricca biblioteca ginecologica europea (colta, ma non solo) del Cinque-Seicento : si tratta di un problema ancora in attesa di una soluzione convincente. Naturalmente non mancano accenni sparsi alla questione della differenza ; si veda ad esempio ciò che Antonio Santorelli, protomedico del Regno, dice delle donne secondo lui « debiliores » e più soggette alle patologie degli uomini ; in particolare, Santorelli rileva – ed è un dato comune a livello europeo – che le donne sposate tendono ad ammalarsi più di quelle che non subiscono i danni derivanti da gravidanze e parti, e che questo svantaggio non è colmato dal fatto che l’esercizio dell’attività sessuale allontana le patologie derivanti da obstructiones. 2 Tutti questi elementi, e in particolare la consapevolezza del ‘dimorfismo sessuale’ e delle differenze di genere, si ritrovano in una vivace discussione sulla venae sectio, cioè sul salasso, nelle gravide, a Napoli a metà Cinquecento, nel 1544. I protagonisti sono due medici molto noti, entrambi lettori allo Studio, Donato Antonio Altomare e Giovanni Antonio Bozzavotra. Se il primo si dichiara contrario all’uso del salasso come preservativo contro l’aborto, il secondo invece lo appoggia. Il dato più interessante di questa polemica, che si dipana in diversi interventi a stampa, è probabilmente nel riferimento di Altomare alla necessità di anatomizzare corpi di donne gravide per arrivare a una buona conoscenza del meccanismo della riproduzione. Egli accusa infatti il suo avversario di non far uso di questo mezzo. Secondo lui l’autore anonimo del libello già pubblicato, che è appunto Bozzavotra, non conosce la distinzione fra medici e ginnasti, cioè tra la curatio e la praeservatio, e neppure, cosa più grave, la constructio dell’utero, « quae non nisi in dissectionibus corporis apparet propriis oculis diligenter inspiciendo... Nos vero cum contra rem tractare instituerimus, nostro commentariolo quaestioni necessaria, ac utiliora descripsimus, uteri videlicet, & foetus constructionem, ut iis, qui propriis oculis horum anatomen non inspexerunt, qui plurimi sunt, eo modo saltem patefiat, ea vero, quae a te inutilia inculcatur, vulgoque nota sunt omissimus ». 3  













1   Helen King, Midwifery, Obstetrics and the Rise of Gynaecology, Aldershot, Ashgate, 2007 ; Monica Green, Making Women’s Medicine Masculine. The Rise of Male Authority in Pre-Modern Gynaecology, Oxford, Oxford University Press, 2008. 2   Antonio Santorelli, Antepraxis medica, Napoli, Scorriggio, 1622, p. 28. 3   donati antonii cognomento de alto mari Medici neapolitani adversus eos qui falso venae sectionem utero gerentibus pro praeservatione abortus tueri conati sunt apologia ad Iuvenes Amicos rei medicae vere studiosos, s.n.t., cc. 3v-4. Cfr. [Giovanni Antonio Bozzavotra], Apologia de sectione vene (sic) in gravida mvliere pro cavtione abortvs. Vt illa subinde maladicendi occasio malevolis nvlla reliqva esse possit [In aedibus Neap. in officina Mactium Cancer, Anno incarnationis Domini millesimo, quinquagesimo, quatragesimo quarto. Die secundo Mensis Septembris], e [Id.], Opvs practicvs pervtile de vene sectione in utero gerenti, adversus negantes huiusmodi auxilium pro curatione ab abortu [Naeapoli, per Ioannem Stultzbachium, Anno Domini mdxxxxiiii] ; Bozzavotra ha fatto pubblicare quest’ultimo lavoro due volte a Roma nel 1545.  



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Indicazioni interessanti su questo punto possono però essere anche ricavate dalla lettura delle opere di filosofi naturali innovativi come Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. Secondo Germana Ernst, anche Campanella utilizza Galeno contro Aristotele, come già fatto da Telesio, per rivendicare un ruolo attivo per la donna nella generazione. Campanella accetta però la nozione dell’analogia tra organi sessuali maschili e femminili. Nelle Quaestiones physiologiae infatti egli ricorda il caso, celeberrimo in tutta Europa, di Catalina de Erauso, la ‘monaca alfiere’, una suora diventata uomo e soldato, e afferma che la sua trasformazione è razionalmente comprensibile (e non miracolosa come invece affermano i gesuiti) perché può accadere che nella donna gli organi della generazione siano estrovertiti. 1 2. Le donne e la cura. La scomparsa delle trotule, il ruolo delle ostetriche Come rilevato da Katherine Park e da molte altre storiche, tra cui Monica Green, la situazione nel Regno di Napoli per le donne curanti è quella di un progressivo ‘restringimento’ dello spazio loro concesso, sino alla scomparsa della tradizionale importanza rivestita dalle curanti e mediche che già a Salerno avevano dato vita alla tradizione testuale delle ‘Trotule’. 2 Se nel Due-Trecento diverse licenze sono ancora concesse alle donne (anche per trattare uomini), il Regno si caratterizza, ancora nel Quattrocento, e in confronto con il Centro e il Nord Italia, per la progressiva mancanza di donne curanti in un ruolo autonomo. 3 La situazione cambia dunque notevolmente tra il Medioevo e l’età moderna, e le donne curanti diventano un fenomeno ‘sommerso’ e tutto considerato marginale, con l’eccezione delle ostetriche. La situazione di questa professione, i cui confini e caratteristiche sono relativamente noti per il Seicento, è meno indagata per il Cinquecento, e sarebbe necessaria una ricerca d’archivio su fonti analoghe a quelle di altre zone d’Europa, specialmente i registri parrocchiali. 4 Come infatti ha notato David Gentilcore, « midwifes were not the concern of the Protomedicato until the late xvii century ». 5 Qualche notizia può comunque essere ricavata appunto da uno dei testi che descrivono il ruolo del Protomedicato, l’autorità preposta al controllo e all’attività di licenza dei curanti, il Protomedico Napolitano di Antonio Santorelli. 6 Nel capitolo xiii del libro, Santorelli elenca i compiti della Commadre,  



1   Ringrazio Germana Ernst per avermi fatto leggere Germana Ernst, Donna, in Enciclopedia Bruniana e Campanelliana, vol. ii, in corso di stampa ; cfr. anche Guido Giglioni, Immaginazione, spiriti e generazione. La teoria del concepimento nella « Philosophia sensibus demonstrata », « Bruniana & Campanelliana », iv (1998), pp. 37-57. 2   Cfr., in questo stesso volume, l’intervento di Corinna Bottiglieri. 3   Katherine Park, Medicine and Magic : the Healing Arts, in Gender and Society in Renaissance Italy, ed. by Judith C. Brown and Robert C. Davis, London and New York, Longman, 1998, pp. 129-149, invoca « a major concern for feminine modesty in the South » come spiegazione della differenza tra Italia centro-settentrionale e Italia meridionale : ivi, p. 137. Raffaele Calvanico, Fonti per la storia della medicina e della chirurgia nel Regno di Napoli per il periodo angioino (1273-1410), registra 34 licenze a 24 donne, meno dell’1% del totale. 4   Claudia Pancino, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli xvi-xix), Milano, Franco Angeli, 1984 ; Nadia Maria Filippini, The Church, the State, and Childbirth : the midwife in Italy during the Eighteenth Century, in The Art of Midwifery : early modern midwifes in Europe, ed. H. Marland, London, Routledge, 1993, pp. 153-175. 5   David Gentilcore, Healers and Healing in early modern Italy, Manchester, Manchester University Press, 1998. p. 82 ; cfr. Id., ‘All that pertains to medicine’ : Protomedici and Protomedicati in Early Modern Italy, « Medical History », 38 (1994), pp. 121-142. 6   Antonio Santorelli, Il Protomedico Napolitano, o vero dell’autorità di esso. Dialogo Raccolto da un Discepolo Del Dottor Antonio Santorello Protomedico del Regno di Napoli. E dato in luce dal Signor Fabio Cava, In Napoli, per Roberto Mollo, 1653, cap. xiii.  































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la cui funzione è strettamente limitata al momento del parto, quando la mammana deve ungere l’utero e la bocca dell’utero con butirro fresco e olio di mandorle, ed esortare le donne a non gridare, ma a trattenere la respirazione e a spingere. Compito della levatrice è anche di raccogliere il bambino, poi di raccogliere “la seconda” (secondine), separarla dalle vene ombelicali, e legare il cordone. Il Protomedico a sua volta esamina la mammana e le spedisce il privilegio ; anche qui si insiste sul fatto che non è necessario che l’ostetrica conosca in dettaglio o si occupi di ciò che precede il parto, che è, ed è bene che sia, di competenza del medico, ma solo che deve conoscere bene i diversi momenti del parto stesso. In realtà, come in tutta Europa, le levatrici esercitavano funzioni assai più ampie e articolate, fino a svolgere attività dirette di cura. E mammane e matrone, queste ultime donne di provata onestà e di esperienza, e di classi agiate, svolgevano normalmente attività peritali. Si vedano a questo proposito i casi ricordati nei giornali del Seicento, come quello di presunto ermafroditismo narrato da Domenico Confuorto. L’11 febbraio 1685 **** Salzano, moglie di Domenico Giannattasio, non riusciva a partorire a causa di una vagina (« natura ») mal conformata (« il vaso ... tonno e col pertugio piccolo, per lo che fu di bisogno tagliarlo alquanto, con suo acerbissimo dolore »). 1 Al parto, che richiese dunque l’intervento di un chirurgo, e durante il quale la donna diede alla luce una bambina, assistevano anche il reggente Vincenzo Raitano e quattro dame, delle quali una era addirittura la moglie del Viceré, il Marchese del Carpio. L’ordine in questo senso era stato dato dallo stesso Viceré, a istanza di un Lonardo Patierno, nel timore che la gravidanza e parto fossero simulati. Patierno infatti avrebbe voluto sposare lui stesso la donna per motivi di interesse ; non essendoci riuscito, aveva fatto propalare la notizia che la ragazza fosse in realtà un maschio.  











Curanti empiriche Oltre a quello delle ostetriche, le sole donne cui ufficialmente fosse concesso di svolgere l’attività di curanti, esisteva anche un livello non ufficiale di curanti ‘empiriche’, che come tutti gli empirici sfugge a una precisa definizione e censimento. In un articolo di qualche anno fa, Katherine Park, discutendo della ricca documentazione sui medici physici, nonché sui chirurghi e altri curanti di livello ‘medio’, presente nelle biblioteche e negli archivi italiani, ha rilevato come invece esistano poche testimonianze riguardo « more casual male practitioners, rural practitioners, and virtually all women healers ». Le donne, dice Park, erano « usually of the lower orders, and for the most part illiterate ... the last group laboured under a triple disability when it came to leaving written evidence of their ideas and their work. Indeed, except for fugitive glimpses like those in the correspondence of Francesco Datini or in the often hostile treatises of learned physicians, the main information about their practice relates to women accused of witchcraft ... Trial documents are also our main source for patient attitudes, expectations and experiences ». 2 Questo ci rimanda alla questione dei processi per stregoneria e alla forte possibilità, documentata anche per Napoli e il Regno, che l’attività di cura femminile venisse tout court considerata attività magica, e come tale sanzionata (ad esempio, a Napoli nel 1506 furono bruciate tre donne accusate di avere diavoli per mariti 3). Qui tuttavia non ci si occuperà di questo  







1   Domenico Confuorto, Giornali di Napoli dal mdclxxix al mdcic, a cura di N. Nicolini, 2 voll., Napoli, presso 2   K. Park, Medicine and Magic …, cit. n. 14, p. 140. L. Lubrano, 1930-31, vol. i, p. 122. 3   Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia, 5 voll., rist. Bologna, Forni, 1974, vol. i, Dopo L’era volgare fino all’anno 1600, ad annum.

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aspetto, né di quello connesso delle guarigioni ‘miracolose’ e dell’attività di cura connessa alla vita religiosa, su cui si può rimandare alle molte ricerche in corso. 1 Per l’intreccio tra pratiche di cura e pratiche magiche tra le donne, peraltro, si può ricordare brevemente un caso assai più tardo, documentato nei Giornali di Napoli di Innocenzo Fuidoro per l’anno 1660 : nell’ottobre di quell’anno « Lucia amalfetana, mammana di Scafato », insieme a Isabella Durazzo di Castellammare (di cui non si riporta la professione) furono infatti accusate di complicità in un furto sacrilego. In casa di Lucia fu trovata una scatola contenente una polvere misteriosa, in seguito esaminata da quattro speziali e da due medici del luogo (si noti la quantità di ‘esperti’ mobilitati per quello che avrebbe potuto essere anche un farmaco di preparazione domestica), senza che si riuscisse a stabilire cosa fosse ; l’ipotesi era che si trattasse di ostie triturate. Il dato interessante è che « uno di essi … mandò a pigliare un certo occhiale che faceva parere una cosa più grande di quella ch’era, e fatto osservare con quello osservare a tutti l’altri cinque … ». 2 Alla fine si appurò che il furto delle ostie era stato commesso perché la « rea strega mammana » aveva promesso a una ragazza senza dote di riuscire, con la polvere di ostia, a farla sposare. Un gesuita cercò di salvare la donna di Castellammare facendola passare per pazza, ma il tentativo non riuscì. Colpiscono in questa storia diversi elementi : la rete di verifica e controllo sulle attività di cura che si estende anche in provincia ; l’uso di strumenti sofisticati come il microscopio ; la contiguità e quasi l’indistinzione tra pratiche magiche e pratiche di cura. E soprattutto colpisce la persistenza dello stereotipo della ‘strega’ fino al tardo Seicento. Un dato interessante che emerge dalle ricerche di David Gentilcore, che ha dedicato al tema della cura nel Regno in età moderna diversi studi, è la presenza di molti ‘ciarlatani’ provenienti dal Sud e che esercitano anche in altre regioni (o stati) italiani. Tra questi – venditori itineranti di farmaci, ma anche saltimbanchi, e occasionalmente curanti di vario livello, cavadenti etc., e licenziati con appositi permessi dalle autorità (di solito il Protomedicato) preposte al controllo della pratica medica – almeno alcuni sono donne. 3 Si tratta anche qui di figure assolutamente ‘fuggitive’ ; vorrei ricordarne una che ho incontrato nelle mie ricerche. È una donna di cui non sappiamo nulla, solo che fu ricoverata all’ospedale di Civitavecchia nel 1656 durante l’epidemia di peste, e vi morì. La sua breve agonia è descritta dal medico dell’ospedale, Giovan Battista Bindi ; gli elementi interessanti qui sono il suo nome e la sua provenienza : si chiamava infatti Giovanna, e il suo cognome, molto probabilmente, era ‘l’Antimonio’. Giovanna era napoletana, e con ogni probabilità l’uso del soprannome allude a una pratica e a un commercio di tipo ‘chimico’, ma anche appunto a un ambito ciarlatanesco e itinerante. 4 Occorrerebbe, a questo proposito, lavorare sui testi di ricette e di prescrizioni medico-cosmetiche, molti dei quali manoscritti. 5 Colpisce a questo proposito un dato : la presenza relativamente scarsa di libri ‘di segreti’ pubblicati a Napoli in questo periodo, se si confronta la situazione napoletana della produzione dei testi a stampa con quella di Venezia ; mancano ad esempio stampe delle diffusissime pubblicazioni di Girolamo Ruscelli – il che non vuol dire assolutamente  































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  Si vedano su questo punto i molti lavori di Jean-Michel Sallmann.   Innocenzo Fuidoro (Vincenzo D’Onofrio), Giornali di Napoli dal mdclx a mdclxxx, Vol. i, a cura di Franco Schlitzer, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1934, p. 56. 3   David Gentilcore, Medical Charlatanism in Early Modern Italy, Oxford, Oxord University Press, 2006, pp. 171-174. 4   Io. Baptista Bindi, Loemographiae Centumcellensis, Romae, typis Varesij, mdclviii, p. 36. 5   Maria Consiglia Napoli, Lettura e circolazione del libro tra le classi popolari a Napoli tra ’500 e ’600, in Sulle vie della scrittura …, cit., n. 4, segnalava già diversi anni fa che si tratta dei testi più diffusi e a maggiore circolazione, anche tra le classi meno abbienti. 2

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che non circolassero ; esistono invece, specie nel Cinquecento ma anche nel Seicento (si pensi al bestseller di Giuseppe Donzelli, il Teatro Farmaceutico) molti libri ‘colti’, di buon livello, anche se spesso in italiano, di farmacopea e materia medica. 1 Un’ipotesi di lavoro potrebbe essere che la professionalizzazione e la forza anche intellettuale dello ‘strato intermedio’ dei curanti (speziali, chirurghi, anche barbieri-chirurghi : si vedano i libri pubblicati da Cintio d’Amato, o Tiberio Malfi ) fosse abbastanza forte da ‘espellere’ lo strato più basso verso le aree rurali e verso gli altri stati italiani. Il ruolo delle donne come curanti o come ‘intermediarie’ della cura è più volte sottolineato da Gentilcore, ed emerge da tutte le testimonianze. Le donne - della casa in senso allargato, del vicinato, dei conventi - erano quasi sempre le prime cui ci si rivolgeva in caso di bisogno, specie per patologie non gravi. Si può citare ancora il caso di Tommaso Campanella, che ricorda : « e io quando ero fanciullo fui sanato da una donna, con parole, dal mal di milza, mirando alla mancante luna ». 2 Questo dato riporta alla questione degli stereotipi (negativi) delle curanti, e in particolare a quello più resistente e che ne rappresenta per così dire il ‘nocciolo duro’ : la figura della vetula, la vecchia (spesso, dati i cambiamenti nella valutazione delle età, semplicemente una donna matura o, come oggi diremmo, di mezza età) .  











Vetulae Diversi interventi su questo tema, come sempre illuminanti, si devono a Jole Agrimi e Chiara Crisciani ; 3 per andare oltre il tardo Medioevo, si può piuttosto attirare l’attenzione su un lavoro di Margaret Pelling, che pur affrontando la questione per l’Inghilterra e per un periodo leggermente più tardo del Rinascimento (ma si tenga presente la differenziazione fra le cronologie di aree geografiche diverse come l’Inghilterra e l’Italia meridionale), è importante per la definizione dello stereotipo delle vetulae di età moderna. Pelling sottolinea ancora il paradosso delle curanti donne, « the least visible, but also the most ubiquitous ». Lo stereotipo, generalmente negativo, può però assumere anche una valenza positiva, nel senso che alle donne si attribuiva una maggiore esperienza pratica, e quindi una minore possibilità di danneggiare irreversibilmente la salute del paziente, di quanta non se ne concedesse ai medici physici, spesso oggetto di ironia per il loro sapere ‘inutile’ e libresco. Ma le donne, specie se vecchie, venivano vissute, se non come streghe, almeno come la loro versione ‘moderna’, l’avvelenatrice. In definitiva, il ruolo della donna anziana nella cura è per lo meno « complex and ambivalent ». 4 Lo stereotipo della vetula o muliercula, che si arroga il diritto di curare senza averne la capacità è diffusissimo nella cultura medica napoletana e del Regno, non sorprendentemente e non diversamente da ciò che accade nel resto d’Italia e d’Europa : a dimostrazione di un’aspra concorrenza nel mercato della cura almeno quanto della diffusione sul territorio e della accessibilità di queste figure di curanti. Si possono menzionare molto brevemente due testi di primo e di fine Seicento, per sottolineare come la situazione di  











1   Cfr. Marco Santoro, Le Secentine napoletane della Biblioteca Nazionale di Napoli, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1986. 2   Tommaso Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di Germana Ernst, Bari-Roma, Laterza, 2008, l. iv, cap. 17, p. 125. 3   Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Medici e vetulae dal Ducecento al Quattrocento, i problemi di una ricerca, Cultura popolare e cultura dotta nel Seicento. Atti del Convegno di studio (Genova, 23-25 novembre 1982), Milano, Franco Angeli, 1983. 4   Margaret Pelling, Thoroughly resented : Older women and their medical role in early Modern London, in Women, Science and Medicine 1500-1700 : Mothers and Sisters of the Royal. Society, ed. Lynette Hunter & Sarah Hutton, Strud, Gloucestershire, Sutton, 1997, pp. 63-88 : 70.  





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fatto resti immutata (e quindi di come le donne curanti siano vissute come un pericolo dall’establishment medico maschile). Nel primo, i Dialoghi di Vincenzo Bruno, 1 sono rappresentati molto vivacemente alcuni aspetti della vita medica e naturalistica, e si mette tra l’altro in scena la figura di una Zingara, astrologa e forse curante, che parla in ‘lingua franca’. Ma anche Bruno inveisce contro le donne che non rispettano i limiti e il ruolo loro assegnati, e richiama la classica immagine di Circe che trasforma gli uomini con incantesimi e bevande. 2 Nel secondo testo, un classico della medicina universitaria napoletana, Luca Tozzi, medico innovatore e vicino alle posizioni della medicina chimica, ribadisce l’appartenza delle mulierculae al gruppo composito dei curanti che sfruttano la superstizione degli ignoranti :  

Quoniam vero, quae de Incantationibus, imaginibus, signaturis, sigillis, characteribus ad hos morbos pellendos aliqui jactant, omnino vana, futilia & superstitiosa sunt ; ab his cordatiores Paracelsistae abstinent ... Hinc est quod Rustici, Mulierculae, Monachi, Juristae, & vulgares Philosophi ac Medici quandoque a morbis, medicamentis alioqui inefficacibus, liberantur sola fiducia, quam maximam illis adhibere solent ; quod veris Philosophis non accidit, qui parum Medicis, & Medicamentis fidunt. 3  



Un caso invece più tardo, e che ha a protagonista un paziente illustre, Pietro Giannone, dimostra ancora una volta la persistenza dello stereotipo - e del ricorso alle curanti - in un’epoca ormai vicina all’Illuminismo. Agnello Di Napoli, considerato uno dei migliori medici napoletani del periodo, gassendista, aiutò Giannone a liberarsi di un fastidioso ittero attraverso la prescrizione di una terapeutica neoippocratica. Ma Di Napoli aiutò Giannone anche a liberarsi di una curante inappropriata, una monaca del convento di Regina Coeli, dotata di una sua specializzazione, di tipo anche farmaceutico : « guariva gl’itterici ». Nonostante la frequentazione e l’amicizia di esponenti della medicina razionale e moderna, Giannone aveva scelto con estrema naturalezza di rivolgersi alla monaca per farsi curare ; nel racconto autobiografico, tuttavia, egli finisce per ridicolizzare le cure della monaca : « Raccontai al di Napoli di aver trovata per me una medica sì pietosa e, ridendo sopra il mescuglio degli antidoti di sciroppi ed acquette con le divozioni e detti de’ salmi, la lasciai con le sue percantazioni, né più vi feci ritorno ». 4  













3. Donne pazienti Le testimonianze dei curanti uomini, medici o chirurghi, sulle donne loro pazienti sono numerose e articolate, e smentiscono tra l’altro uno dei luoghi comuni più radicati nella storiografia, quello che vuole le donne curate da altre donne, per ragioni di pudore e morale almeno quanto di censo. Come è stato invece ampiamente dimostrato di recente, il mercato della cura era estremamente aperto e variegato, e l’accesso ai suoi diversi livelli (economici e ‘morali’) non coincideva affatto con divisioni di classe, di genere, di alfabetizzazione o di possibilità economiche. Resta però che delle pazienti (come dei pazienti maschi) sappiamo tutto solo attraverso la voce e la scrittura dei medici, e che l’esperienza del paziente resta in gran parte aleatoria e sfuggente. Un arco ampio di testi scritti dai physici fra la fine del Cinquecento e la metà del Settecento illustra l’esistenza di pazienti donne nel Regno – dalla dedicataria dell’opera di Giulio Jasolino sui bagni di Ischia, Geronima Colonna, duchessa di Monteleone, che ne aveva fatto restaurare alcuni, fino alle 1   Vincenzo Bruno, I tre dialoghi ... Nel primo de’ quali si tratta delle Tarantole. Nel secondo, del Vivere, e del Morire. Nel terzo, delle Pietre Pretiose e de’ Semplici. Con molte questioni Filosofiche, e Medicinali, e molte Historie, e Favole appar2   Ivi, p. 270 sgg. ; p. 392 per Circe. tenenti all’Opera, In Napoli, Appresso Tarquinio Longo, 1602. 3   Luca Tozzi, Medicinae pars prior theoretiké, Lyon, Anisson, 1681, p. 206. 4   Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, a cura di Sergio Bertelli, Milano, Feltrinelli, 1960, cap. ii.  

vetulae , matrone , mammane . le donne e la cura

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anonime o nobili signore menzionate da Nicola Cirillo nella sua raccolta di consulti medici. 1 Quello che appare evidente, almeno ad un primo sguardo, è che le donne non sono trattate molto diversamente dagli uomini, anche se forse la loro presenza tra i casi riportati è numericamente minoritaria. Lo stesso si può dire dei chirurghi : nell’opera di Vincenzo Bruno già ricordata si descrive dettagliatamente un’operazione molto impressionante e difficile, l’estrazione del feto morto per salvare la vita della madre. 2 Ma forse la storia clinica più commovente tra quelle narrate dai curanti napoletani è quella della malattia e operazione della figlietta decenne, Giovanna, di Fernando Afán de Ribera, duca di Alcalà, vicere di Napoli, curata con successo da Marco Aurelio Severino. 3 La ragazzina soffriva di un ‘ascesso’ all’addome, e Severino nomina un numero impressionante di medici che si erano avvicendati al suo capezzale, a smentire un secondo luogo comune : non solo che le donne fossero curate meno degli uomini, ma anche che i bambini fossero curati meno di tutti. La storia è narrata con partecipazione, ma va sottolineato che a una paziente per molti versi eccezionale fa riscontro in questo caso un medico che lo è altrettanto. Severino rivaluta infatti anche i curanti di livello ‘inferiore’, e perfino il sapere delle vetulae, insistendo sull’esistenza di una chirurgia ‘inermis’, da praticare cioè con le mani nude (senza ferro e senza fuoco), praticata da uomini e donne come una sorta di primitiva ‘medicina efficace’ di tipo naturalistico, vicina alla magia naturale del suo maestro Campanella. In conclusione, si possono sottolineare alcuni elementi : anzitutto l’intreccio e quasi l’indistinzione tra le donne pazienti e donne curanti in area mediterranea ed europea, un elemento che deve essere tenuto presente nel ricostruire l’immagine della medicina ‘delle donne’ ; 4 in secondo luogo, quello dell’ambiguità degli stereotipi, da non prendere alla lettera neanche nel caso che siano fortemente negativi, e da indagare con cautela in quanto indicatori di una realtà della cura femminile molto più diffusa e pervasiva di quanto si possa credere. Ma si tratta, come già detto, di una ricerca ancora tutta da fare, di cui qui si sono delineate solo alcune possibili direzioni.  







Biblioteca di Storia della Medicina Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Le donne e la cura nel Regno di Napoli sono state analizzate dalla storiografia recente in modo ancora episodico, con la notevole eccezione dei lavori di David Gentilcore e delle informazioni che si possono ricavare dalla storia religiosa e della chiesa. Si presenta qui la proposta di una ricerca ancora da fare, in cui occorrerà prendere in considerazione fonti diversificate, tra cui stereotipi, collezioni d’archivio, materiale autobiografico, epistolari, Giornali. Lo scopo è quello di ricostruire il ruolo delle ostetriche e delle curanti empiriche, sullo sfondo delle novità sul corpo e la fisiologia femminile provenienti dalla medicina colta. Women healers in the Kingdom of Naples have hitherto received scant attention, with the noteworthy exceptions of works by David Gentilcore and historians of religious life and the Church. Sources as diverse as stereotypes, archival collections, autobiographical narratives, epistolary exchanges and Giornali ought to be taken into account in order to reconstruct the role of obstetri1   Giulio Jasolino, De Rimedi Naturali che sono nell’Isola di Pithecusa, hoggi detta Ischia. Libri due, In Napoli Appresso Gioseppe Cacchij, mdlxxxviii ; [a2] dedica all’Illustriss. et Eccellentiss. Signora La Sig. D. Geronima Colonna, duchessa di Monteleone ; Nicola Cirillo, Consulti medici, In Napoli, appresso Novello de Bonis, 1738. 2   V. Bruno, I tre dialoghi …, cit. n. 30, p. 392 sgg. 3   Marco Aurelio Severino, De recondita abscessuum natura, Napoli, Beltrano, 1632. 4   Cfr. gli interventi riuniti in « Bulletin of the History of medicine », spring 2008, special issue Women, Health, and Healing in Early Modern Europe dedicati a un’area che va dalla Catalogna e Aragona del xiii secolo alla Germania del xvii secolo.  







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cians and empirical women healers, on the background of the novelties on women bodies coming from Renaissance learned medicine. Les femmes qui s’occupaient des soins dans le Règne de Naples ont été analysées par l’historiographie récente de manière encore épisodique, à part la remarquable exception des travaux de David Gentilcore et des informations que l’on peut tirer de l’histoire religieuse de l’église. Se présente ici la proposition d’une recherche encore à faire, dans laquelle il faudra prendre en considération différentes sources, parmi lesquels les stéréotypes, les collections d’archives, le matériel autobiographique, épistolaire et les journaux. Le but est de reconstruire le rôle des sages-femmes et des soignantes empiriques, sur la base des nouvelles informations concernant le corps et la physiologie féminine provenant de la médecine savante. Las mujeres y la medicina en el reino de Nápoles han sido analizadas por la historiografía reciente de manera episódica, con la notable excepción de los trabajos de David Gentilcore y de las informaciones que se pueden obtener a través de la historia religiosa y de la iglesia. Se presenta aquí la propuesta de una investigación que todavía no ha sido realizada y para la que habrá que tomar en consideración varias fuentes diversificadas, entre las que se encuentran estereotipos, colecciones de archivo, material autobiográfico, epistolar, periodístico. La finalidad es reconstruir el papel de las comadronas y de las curanderas que practicaban la medicina empíricamente, tomando como punto de partida las novedades acerca del cuerpo y de la fisiología femenina provenientes de la medicina oficial. Frauen und Pflege im Königreich Neapel sind von der neuesten Geschichtsschreibung nur vereinzelt analysiert worden. Bemerkenswerte Ausnahme sind die Arbeiten von David Gentilcore und die Informationen, die man aus der religiösen und Kirchengeschicht erhalten kann. Hier wird der Vorschlag für eine noch vorzunehmende Forschung gemacht, bei der unterschiedliche Quellen berücksichtigt werden sollten, wie Klischees, Archivsammlungen, autobiografisches Material, Briefwechsel, Tageszeitungen. Zweck ist die Rekonstruktion der Rolle der Hebammen und der empirischen Heilerinnen auf dem Hintergrund der, aus der gebildeten Medizin kommenden, Neuheiten bezüglich des Körpers und der weiblichen Physiologie.

MEDICINA E CURE DI DONNE TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO : LA MEMORIA DELLE MULIERES SALERNITANAE  

Corinna Bottiglieri

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n’indagine di grande interesse e utilità sarebbe uno studio ad ampio raggio sul Fortleben nella letteratura europea medievale e rinascimentale della scuola medica di Salerno, che viene menzionata in così tante fonti delle più disparate provenienze e generi, da diventare quasi un topos letterario. 1 Il presente convegno mi offre l’occasione – e di questo ringrazio gli organizzatori – per declinarne, in una rapida panoramica, un aspetto particolare, quello delle mulieres salernitanae, memoria sospesa in un tempo non ben precisabile, dai risvolti quasi mitografici. Innanzitutto un po’ di fonti. 1. Salernitane avvelenatrici e guaritrici nella letteratura Salerno, seconda metà dell’xi secolo. Sichelgaita, moglie di Roberto il Guiscardo, era figlia di Guaimario, principe di Salerno e sorella di Gisulfo, che era stato privato del potere dall’avido cognato. Sichelgaita odiava molto il figliastro Boemondo e temeva che avesse la meglio sul proprio figlio Ruggero nella successione al ducato di Puglia e Calabria. Così prepara una pozione avvelenata e la invia ai medici salernitani, dai quali era stata istruita e da cui aveva imparato l’arte di confezionare veleni. Costoro, sentendo le intenzioni della loro duchessa e allieva, somministrano al giovane il veleno mortifero. Boemondo si ammala subito gravemente e fa avvertire il padre, il duca Roberto. L’astuto duca subodora l’inganno e minaccia la moglie : « Se mio figlio Boemondo morirà per la malattia da cui è afflitto, ti ucciderò con questa spada ». Sichelgaita allora si affretta a preparare un antidoto e lo fa consegnare ai suoi medici, quelli che l’avevano aiutata a preparare il veleno. Apprendendo che l’inganno della duchessa è stato smascherato, i medici (archiatri nel testo latino), per scongiurare le minacce del duca, danno fondo ad ogni risorsa dell’arte medica per curare il giovane che avevano fatto ammalare. Così il malato guarisce, ma per tutta la sua vita rimane pallido per il veleno che aveva assunto. 2 Dopo la guarigione di Boemondo,  





1   Sottolineo la letterarietà dell’ambito delle fonti a cui mi riferisco : è questo il terreno su cui manca attualmente una panoramica completa, che richiede sicuramente un lavoro di anni, poiché le fonti non riguardano solo la latinità medievale ma anche tutte le letterature in volgare in cui Salerno e la sua scuola medica appaiono, di sfuggita o proprio come elementi fondamentali, cfr. ad esempio il caso del romanzo tedesco medievale Il povero Enrico. Sulla scuola medica salernitana e i rapporti con le fonti mediche coeve e successive esiste già una grande mole di studi, mentre molte ricerche attuali in quest’ambito sono dirette all’edizione di importanti fonti mediche e farmaceutiche finora inedite, cfr. i contributi del volume La Scuola medica Salernitana : gli autori e i testi, edd. Danielle Jacquart-Agostino Paravicini Bagliani, Edizione Nazionale ‘La scuola medica Salernitana’, 1, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. 2   Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, vii, 7, ed. Marjorie Chibnall, The ecclesiastical History of Orderic Vitalis, 6 voll., Oxford, Clarendon Press, 1969-1980, pp. 28-30 : « [...] ipsa letiferam potionem confecit et Psalernitanis archiatris misit, inter quos enutrita fuerat et a quibus veneficiorum eruditionem perceperat. Protinus ipsi voluntatem dominae et alumnae suae cognoverunt et Buamundo quem curare debuerant virus mortis contulerunt. [...] nimis territa antidotum preparavit et medicis suis per quos mortem paraverat Psalerniam confestim transmisit, nunciumque ut sibi periclitanti adminicularetur fraudem et angustiam herilem audientes, et in futurum ne terribiles minae ducis complerentur praecaventes, toto nisu iuveni quem leserant, in omni exercitio phisicae artis mederi certabant [...] omni vita sua pro veneno quo infectus fuerat pallidus permansit ».  









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Sichelgaita ricorrerà ancora alla sua arte quasi stregonesca, stavolta con l’intenzione di uccidere il marito. Questo racconto, poco credibile nella verità storica, che dipinge la principessa salernitana, dell’antica famiglia longobarda, come la malvagia nemica dei buoni Normanni, si deve a Orderico Vitale, monaco e storico inglese del xii secolo, nel vii libro della Historia ecclesiastica. Ma al di là della storicità dei fatti, la testimonianza è importante per gli elementi che associa : Salerno, la sua scuola e i suoi medici, e una donna, la principessa longobarda Sichelgaita, probabilmente la salernitana più famosa della sua epoca, che da quelli era stata educata e sapeva utilizzare le sostanze tossiche per preparare veleni e antidoti. 1 Ancora nella seconda metà del xii secolo, nel Lai, breve racconto in versi in antico francese, detto de deus amanz di Maria di Francia, la protagonista suggerisce all’amante di andare a Salerno per riacquistare forza e vigore. 2 « Ho una parente a Salerno, vive lì da più di trent’anni e ha praticato così tanto l’arte medica (l’art de phisike) che sa molto di medicina, conosce bene anche erbe e radici, vi darà un tale elettuario e una tale pozione che vi rafforzeranno tutto e vi daranno grande vigore ». 3 La conclusione è tutt’altro che felice. È ancora il monaco Orderico a darci un altro riferimento celebre : Rodolfo Malacorona, indagatore dei misteri segreti delle cose, ed esperto di medicina, in gioventù, intorno al 1059, era stato a Salerno, ubi maxime medicorum scholae ab antiquo tempore habentur, ma non aveva trovato nessuno esperto al pari di lui ad eccezione di una donna : quandam sapientem matronam.4 Mentre la Chibnall, curatrice dell’Historia ecclesiastica, e molti altri studiosi ritengono questo soltanto un elemento leggendario, negli anni ’30 Kate Campbell Hurd-Mead ha voluto identificare la matrona con la celebre Trotula, unico nome di donna della scuola medica salernitana a cui sono associate opere mediche conservate ancora oggi. 5 Una madame Trotte de Salerne, « la plus sage dame qui soit enz quatre parties du monde », dalle fattezze grottesche, è elogiata da un farmacista ciarlatano nel Dict de l’herberie – del 1271 circa – del trovatore francese Rutebeuf. 6 Qui come nei versi di Maria di Francia e nella testimonianza di Orderico (matrona) siamo molto vicini a figure di vetulae. 7 È l’inglese Chaucer, alla fine del xiv secolo, che fornisce un dettaglio nuovo : la Donna  















1   Su Sichelgaita cfr. Patricia Skinner, “Halt ! Be Men !” : Sikelgaita of Salerno, Gender and the Norman Conquest of Southern Italy, « Gender & History », 12 (November, 2000), 3, pp. 622-641. 2   Charmaine Lee, Filtri e fattucchiere nella Francia medioevale, in : *Farmacopea antica e medievale. Incontro internazionale di studio (Salerno, 30 novembre-3 dicembre 2006), Salerno, 2009 (pp. 120-135), p. 131. 3   « [...] en Salerne ai une parente,/ riche femme, mut ad grant rente ;/ plus de trente anz i ad esté./ L’art de phisike ad tant usé/ que mut est saives de mescines :/ tant cunust herbes e racines,/ si vus a li volez aler/ e mes lettres od vus porter/ e mustrer li vostre aventure,/ ele en prendra cunseil e cure ;/ teus lettuaires vus durat/ e teus beivres vus baillerat/ que tut vus recunforterunt/ e bone vertu vus dufrunt », citato da C. Lee, Filtri e fattucchiere …, cit., pp. 131-132. 4   Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, ed. M. Chibnall, cit., iii, p. 76 : « Physicae quoque scientiam tam copiose habuit, ut in urbe Psalernitana ubi maxime medicorum scolae ab antiquo tempore habentur neminem in medicinali arte praeter quandam sapientem matronam sibi parem inveniret ». 5   Cfr. Kate Campbell Hurd-Mead, A History of Women in Medicine. From the earliest times to the beginning of the nineteenth century, Haddam, Connecticut, 1938, rist. anast. New York, 1977, su Trotula cfr. pp. 114-154. 6   « Ma dame Trote de Salerne, qui faut cuevrechiéz de ses oreilles, et li sorciz li pendent a chaaines d’argent par desus les espaules ». Il passo si trova in Rutebeuf, Oeuvres complètes, edd. Edmond Faral- Julia Bastin, Paris 1977, II, pp. 266-280 ; cfr. C. Lee, Filtri e fattucchiere, cit., p. 135 : « per Rutebeuf, autore legato agli ambienti dell’Università di Parigi, Trotula è entrata a far parte della schiera delle vecchie imbonitrici ». Cfr. anche Ferruccio Bertini, Trotula. Il medico, in *Medioevo al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 97-117, in particolare p. 105. 7   A proposito delle vetulae cfr. il contributo di Maria Conforti in questo stesso volume. Cfr. anche Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Medici e ‘vetulae’ dal Duecento al Quattrocento : problemi di una ricerca, in *Cultura popolare e cultura dotta nel Seicento, Atti del Convegno di Studi (Genova, 23-25 novembre 1982), Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 144-159.  









































medicina e cure di donne tra medioevo e rinascimento

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di Bath, nei racconti di Canterbury, racconta che il marito ama leggere un’antologia che contiene una bizzarra accozzaglia di testi medievali, tra cui anche Trotula. 1 L’enigmaticità di questo personaggio continua tutt’ora a solleticare l’immaginazione, se in Germania, due anni fa, è uscito un bestseller dall’accattivante titolo : La guaritrice di Salerno, che incrocia amore e malattia nella Salerno medievale tra mercanti di spezie e magia nera. 2  

2. Testimonianze di autori medici Fin qui la tradizione letteraria : solo in un caso, quello di Chaucer, l’allusione è ad un testo scritto, « Trotula ». La maggior parte di queste testimonianze mettono l’accento sulla loro abilità nel curare, non nella loro preparazione libraria. 3 La mitologia di queste donne nasce però dal terreno dei testi medici, che ne esportano la fama nella tradizione orale e scritta : ad esempio Bernardo di Provenza, che studia a Salerno e poi insegnerà medicina a Montpellier, nel Commentarium super tabulas Salerni (1150-1160) racconta che le mulieres salernitane preparano cosmetici per le nobildonne locali. 4 Nella stessa epoca, è il diffusissimo compendio farmaceutico Circa instans a inglobare numerose ricette di donne salernitane, per lo più di cosmetica e malattie femminili : un unguento per eritema solare quo utuntur mulieres Salernitanae ; il seme di papavero per calmare i neonati ; la parietaria per i dolori addominali e così via. 5 Chi sono le mulieres salernitanae, qual è il loro tempo ? Si occupano solo di cosmesi e di problemi di donne o la loro è una preparazione ad ampio raggio ? Hanno accesso alla formazione scientifica o sono solo praticanti ? Quanto dura la loro memoria nei secoli successivi e come viene messa a frutto ? Che cosa arriva al Rinascimento, che cosa si perde, con il consolidamento dei curricula universitari ufficiali e istituzionalizzati ? Sul piano nazionale, il xiii e il xiv secolo ci consegnano nomi di vedove e figlie di dottori che praticano medicina e chirurgia : Adele figlia di Giovanni di Assisi ; una Jacobina figlia di Bartolomeo di cui c’informa Guy de Chauliac nel 1304 e Alessandra Giliani, assistente dell’anatomista Mondino dei Liuzzi a Bologna. 6  



























3. Donne e medicina a Salerno dal tardo Medioevo al Rinascimento Qual è la situazione a Salerno e nel Meridione d’Italia ? Un’indagine specifica sulle donnemedico nell’Italia meridionale manca, e le notizie si desumono da diverse testimonianze, non sempre comprovabili su basi documentarie. 7 Sembra accertato che la scuola saler 

1   Geoffrey Chaucer, The Canterbury Tales, Wife of Bath, Prologue 676-680. Il libro descritto era « un’antologia medievale di testi misogini, nei quali agli uomini si sconsigliava il matrimonio e si forniva ampia documentazione sulla malvagità delle mogli ; accanto a testi classici del settore, come la Dissuasio Valerii di Walter Map e l’Adversus Iovinianum di San Gerolamo, tra gli autori compariva, in compagnia di Tertulliano, Crisippo, ed Eloisa, appunto Trotula » (F. Bertini, Trotula, cit., p. 105). 2   Ina-Marie Cassens, Die Heilerin von Salerno, Droemer/Knaur, 2007. 3   Nancy G. Siraisi, Medieval & Early Renaissance Medicine. An Introduction to Knowledge and Practice, Chicago, The University of Chicago Press, 1990, rist. 2003, p. 13 : « Contemporary anecdotes about the early Salernitan practitioners, male and female, stress their skill in healing, not their book learning ». 4   Citato, tra gli altri, da F. Bertini, Trotula …, cit., p. 99. 5   Questi esempi sono desunti da Salvatore De Renzi, Collectio salernitana, 5 voll., Napoli, 1852-1859, qui I, pp. 159-160. 6   Cfr. K. C. Hurd-Mead, A History of Women in Medicine …, cit., e Walther Schönfeld, Frauen in der abendländischen Heilkunde vom klassischen Altertum bis zum Ausgang des 19. Jahrhunderts, Stuttgart, 1947, pp. 63-70. Questi nomi sono citati in tutta la letteratura scientifica sul tema, cfr. anche il recente repertorio di Anne Echols, An Annotated Index of Medieval Women, New York, Wiener, 1992. 7   Monica H. Green, Women’s Medical Practice and Care in Medieval Europe, « Signs : Journal of Women in Cul 















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nitana di medicina, dopo l’apogeo del xii secolo, non riesca a compiere quel passo verso l’istituzionalizzazione che porterà alla fioritura delle università in tutta Europa. Un’organizzazione degli studi arriva a Salerno solo nella seconda metà del xiii secolo, come ribadisce Nancy Siraisi, « dopo la fine del suo predominio come centro di istruzione medica ». 1 “Università mancata” la chiama Alan Cobban e liquida come falso storico « l’idea che questa proto-università di Salerno dovesse la sua antica prominenza a una colonia di esperte mediche ». 2 Ciò non esclude che la pratica, anche da parte di donne, abbia continuato a prosperare : non si conoscono veti espliciti riguardo alla partecipazione di donne all’istruzione medica, e particolari proibizioni confermano e contrario la loro presenza, ancora nel xiv e xv secolo : ad esempio il decreto di Carlo duca di Calabria, del 1321, impone che le donne curino soltanto le donne e in conseguenza di ciò è necessario che coprano tutte le discipline della medicina. Relativamente agli anni 1321-1322, è documentato che la salernitana Francisca uxor Mathei de Romana de Salerno viene autorizzata dallo stesso duca a praticare la chirurgia. Un secolo circa più tardi, un decreto di Ferdinando d’Aragona (1415) proibisce ad ebrei, uomini e donne, di praticare l’arte medica tra i cristiani. Tra il 1273 e il 1410 almeno ventiquattro donne ottengono a Napoli la licenza di praticare la chirurgia. Nel 1422 la salernitana Costanza, figlia del medico Salvatore Calenda, ottiene la licenza in medicina nello studio napoletano. 3 La linea di demarcazione, che diverrà un solco sempre più profondo nell’evoluzione del sapere medico, è quella tra medicina teorica, scritta, e medicina pratica. Nel laboratorio empirico e sperimentale che è la Salerno medievale, le donne praticano sì l’attività medica, ma appare chiaro che le loro ricette, di tradizione orale e pratica, sono messe per iscritto da uomini. Di donne salernitane autrici di testi ora perduti restano solo i nomi : Abella scrisse, in versi, della bile nera e del seme maschile ; Rebecca Guarna di febbri, di urine e di embrioni ; la chirurga Mercuriade di peste, di ferite e di unguenti : la testimonianza, di Antonio Mazza, risale al 1681 4 ed è stata poi ripetuta in tutti i repertori e monografie sulla Scuola Salernitana e le donne, ma non è mai venuta alla luce altra documentazione. Perciò il caso isolato di Trotula, unico nel suo collegarsi ad una tradizione testuale conservata, ha alimentato così tante discussioni, interpretazioni, strumentalizzazioni e travisamenti.  



















4. Il caso ‘Trotula’ Cerchiamo di riassumerne le tappe fondamentali. La pubblicazione da parte di Salvatore De Renzi, nella Collectio Salernitana, dei testi che circolavano nel Medioevo sotto il nome ture and Society », 14 (1989), pp. 434-473, rist. in M. H. Green, Women’s Healtcare in the Medieval West : Texts and Contexts, Aldershot, Ashgate, 2000, Variorum collected studies series, 680 (pp. 39-78), pp. 46-47. 1   N. G. Siraisi, Medieval & Early Renaissance Medicine …, cit., p. 57 : « In one sense, Salerno does not belong in a discussion to the principal medieval university faculties of medicine ;  formal university organization was not introduced at Salerno until the second half of the thirteenth century, after the end of the period of its predominance as a center of medical education ». 2   Alan B. Cobban, The Medieval Universities : Their Development and Organization, London, Methuen, 1975, p. 40 : « The alleged existence of one magistra of medicine has led to speculation about a series of women doctors and teachers at Salerno, the so-called ladies of Salerne ». 3   K. C. Hurd-Mead, A History of Women …, cit., p. 277. Una raccolta delle testimonianze è presentata da Raffaele Calvanico, Fonti per la storia della medicina e della chirurgia per il regno di Napoli nel periodo angioino (a. 1273-1410), Napoli, L’arte tipografica, 1962, su cui cfr. il commento di M. H. Green, Women’s Medical Practice, cit., p. 48 ; cfr. anche Jane Stevenson, Women Latin Poets : Language, Gender, and Authority from Antiquity to the Eighteenth Century, Oxford, Oxford University Press, 2008, pp. 149-150. 4   Sulla testimonianza di Antonio Mazza cfr. Monica H. Green, In Search of an ‚Authentic‘ Women’s Medicine : The Strange Fates of Trota of Salerno and Hildegard of Bingen, « Dynamis : Acta Hispanica ad Medicinae Scientiarumque Historiam Illustrandam », 19 (1999), pp. 25-54.  































medicina e cure di donne tra medioevo e rinascimento

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di Trotula, e al tempo stesso le pagine che tratteggiano la biografia della salernitana, nella Storia documentata della Scuola medica di Salerno, 1 rilancia, dalla metà dell’800, una vera e propria questione omerica dei medievisti che si occupano di medicina o di donne e degli storici della medicina : chi è Trotula ? È realmente esistita ? I testi che circolano sotto il suo nome sono autentici ? Indipendentemente dall’autore, questi testi sono scritti da uomini o donne ? Sono indirizzati ad uomini o donne ? 2 Agli inizi del ’900, forti del presupposto che le donne fossero relegate a mansioni marginali, cioè alla sola pratica e non alla teoria medica, alcuni studiosi arrivarono a supporre che gli scritti trasmessi sotto il nome di Trotula non fossero opera di una donna, ma di un uomo, Trottus : questa ipotesi, basata su una lettura del codice, oggi perduto, di Wroclaw, contenente una raccolta di scritti medici salernitani, fu proposta da Conrad Hiersemann, 3 e fu ancora ripresa in un saggio di Charles e Dorothy Singer. 4 Ancora lo studio di Muriel Hughes, all’interno di un quadro generale della medicina femminile salernitana, ribadiva che le donne salernitane potevano essere state al massimo esperte di cosmetici e problemi ginecologici : l’eventuale supporto di medicina teorica si spiegava con la provenienza da famiglie di medici. 5 Sul versante opposto, l’americana Kate Campbell Hurd-Mead difendeva la storicità del medico Trotula, vera autrice di quei trattati, in cui, in ogni pagina, si poteva ravvisare, a sua detta, « the gentle hand of a woman » : 6 la salernitana, come già ipotizzava De Renzi, doveva appartenere alla famiglia di medici de Ruggero e doveva aver sposato il medico Giovanni Plateario il vecchio, della grande famiglia salernitana dei Platearii. Per quanto riguarda i suoi presunti scritti, Trotula è stato tra il xii e il xvi secolo il nome con cui circolavano tre trattati medici : le malattie delle donne (incipit Cum auctor, detto anche Trotula maior) ; le cure delle malattie femminili (inc. Ut de curis) e la cosmesi, dal titolo De ornatu mulierum (questi ultimi noti anche come Trotula minor). Già nella tradizione manoscritta, ricca di oltre duecento testimoni, il nome di Trotula non era sempre indicato. Nel 1544, a Strasburgo, il medico tedesco Georg Kraut pubblica la prima edizione a stampa di tutti e tre gli scritti, intervenendo pesantemente sui testi e intitolandoli De passionibus mulierum (ante, in et post partum) : 7 l’edizione, in cui « Kraut era evidentemente  





























1   Salvatore De Renzi, Storia documentata della Scuola medica di Salerno, Napoli 1857, rist. anast. Napoli 2002, pp. 194-208. 2   Cfr. ad es. W. Schönfeld, Frauen in der abendländischen Heilkunde …, cit., che dedica a Trotula un capitolo, alle pp. 64-67. 3   Conrad Hiersemann, Die Abschnitte aus der Practica des Trottus in der Salernitanischen Sammelschrift De Aegritudinum Curatione, Inaug. Diss., Leipzig, Institut für Geschichte der Medizin, 1921. Cfr. la discussione in John F. Benton, Trotula, Women’s Problem and the Professionalization of Medicine in the Middle Ages, « Bulletin of the History of Medicine », 59 (1935) (pp. 31-53), pp. 9-10. 4   Charles Singer, Dorothy Singer, The Origin of the Medical School of Salerno, the First University. An Attempted Reconstruction, in *Essays on History of Medicine Presented to Karl Sudhoff on the Occasion of His Seventieth Birthday November 26th 1923, London, Oxford University Press, 1924, rist. Freeport, Books for Libraries Press, 1968, pp. 121-128. 5   Muriel Hughes, Women Healers in Medieval Life and Literature, 1943, rist. New York ,1968, pp. 101-106. 6   Kate Campbell Hurd-Mead, Trotula, « Isis », 14 (1930), pp. 349-367, citato da Monica H. Green, Making Women’s Medicine Masculine. The Rise of Male Authority in Pre-Modern Gynaecology, Oxford, Oxford University Press, 2008, p. 28. 7   « La più importante innovazione editoriale di Kraut fu la riorganizzazione dell’intero materiale del corpus in una summa armonicamente ordinata, che riarrangiava le parti disaggregate dei testi in sessantuno paragrafi. Furono così eliminate le ridondanze e l’ordinamento caotico dei tre testi originari, così come, ovviamente, ogni accenno superstite alla Trotula quale concrezione di una molteplicità di fonti provenienti da una varietà di autori diversi », cfr. Monica H. Green, Trotula. Un compendio medievale di medicina per le donne, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2009 (Edizione Nazionale « La Scuola Medica Salernitana », 4), p. 102 (trad. it. di The Trotula : a medieval compendium of women’s medicine, edited and translated by Monica H. Green, University of Pennsylvania Press, 2001).  

















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mosso dal desiderio di rendere l’identità femminile e l’originalità di ‘Trotula’ più manifesta » 1 divenne autorevole per i successivi editori, che continuarono a stampare questo rimaneggiamento umanistico : undici ristampe si contano nel corso del xvi secolo. Nel 1566, Kaspar Wolff ne cura una ristampa in cui precisa che il vero autore dell’opera è un medico dell’epoca di Augusto, un liberto di nome Eros. 2 Quest’attribuzione avrà una certa fortuna anche nelle edizioni successive, a corroborare la tesi contraria alla redazione femminile dei trattati. Gli studi filologici e le scoperte di frammenti inediti, da parte di John Benton, 3 negli anni ’80, e poi di Monica Green, hanno definitivamente stabilito alcuni punti che allo stato attuale si considerano ormai accertati e che sono stati recepiti negli studi di storia della medicina più recenti. 4 Una donna salernitana chiamata più probabilmente Trota o Trocta è realmente esistita intorno al xii secolo ed è autrice di un ampio trattato oggi perduto (Practica) di cui sopravvivono soltanto frammenti, scoperti da John Benton : la Practica secundum Troctam, nel manoscritto di Madrid, Universidad Complutense 119, del 1200 circa, e il De aegritudinum curatione. Trotula non è il nome dell’autore o autrice, ma lo divenne nelle intricate fasi della circolazione dei testi e poi nel riflesso della tradizione letteraria ; si tratta in realtà di un diminutivo (‘piccola Trota’) che fu usato inizialmente come titolo, anche in locuzioni del tipo Summa que dicitur Trotula : come Green puntualizza, è corretto dire ‘la Trotula’ e non Trotula. 5 I tre trattati detti “la Trotula”, che dal tardo xii secolo hanno circolato insieme, raccolgono materiali eterogenei, che fondono tradizione occidentale greco-latina e araba. Tra questi materiali, la Green ha accertato l’utilizzazione dell’autentica opera di Trota in uno dei tre trattati : De curis mulierum, « i trattamenti delle donne ». Ad esempio una ricetta per provocare il mestruo, che si ritrova anche nel frammento della Practica di Trota. Nel corso delle progressive stratificazioni testuali ‘la Trotula’ ingloba via via nuovi materiali, approdando, nel xiii secolo a quello che si considera il « corpus standardizzato » ; a quest’epoca risale anche l’attribuzione degli altri due trattati del corpus a Trota, non solo come omaggio alla sua fama, ma anche a sostegno della loro autorevolezza, e al tempo stesso « sigillo dell’associazione salernitana ». 6 Il corpus così composto continua a veicolare per tutto il Rinascimento la fama della salernitana, anche attraverso le numerose traduzioni accessibili a un pubblico anche ignaro di latino, e qui la Green sottolinea : anche a molte donne. 7 In tempi recenti, un altro storico della medicina, Plinio Prioreschi, si chiede : « perché in un tempo in cui le donne erano considerate meno capaci degli uomini le opere attribuite  





























1



2   M. H. Green, Trotula …, cit., p. 103.   Cfr. John F. Benton, Trotula …, cit. , p. 9.   Si tratta del già citato lavoro di J. F. Benton, Trotula, cfr. nota 3, p. 135. 4   Gli studi più recenti hanno recepito la ridefinizione dell’identità di ‘Trotula’ e della paternità dei ‘suoi’ testi, cfr. ad es. John M. Riddle, Contraception and abortion from the ancient world to the Renaissance, Cambridge, Harvard University Press, 1992, pp. 124-126 e Britta-Juliane Kruse, Verborgene Heilkünste. Geschichte der Frauenmedizin im Spätmittelalter, Berlin, de Gruyter, 1996 (Quellen und Forschungen zur Literatur- und Kulturgeschichte, 5 [239]), dove il capitolo sulla questione è intitolato Pseudo-Trotula : De passionibus mulierum, pp. 13-18. 5 6   M. H. Green, Trotula …, cit. p. 1.   Ivi, p. 92. 7   Cfr. M.H. Green, Women’s Medical Practice …, cit., p. 67 : « The English translator of the ‘Trotula’ makes explicit the value of the vernacular : ‘Because whomen of oure tonge donne bettyr rede and undyrstande thys language than eny other and every lettyrde rede hit to other unlettryd and help hem and conceyle hem in her maledyes, withowtyn shewyng here dysese to man, i have thys drauyn and wryttyn in englysh ». La questione del gender del pubblico degli scritti di ‘Trotula’ e in generale della literacy delle donne in rapporto alle conoscenze mediche è centrale nell’indagine più recente della studiosa americana, cfr. M. H. Green, Making Women’s Medicine Masculine …, cit., cfr. in particolare l’impostazione del problema nel capitolo Women and literate medicine, alle pp. 12-18. 3











medicina e cure di donne tra medioevo e rinascimento

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a Trotula, una donna medico, erano tenute in così grande considerazione non solo a Salerno ma in tutta Europa ? » 1 Prioreschi adduce un concorso di motivazioni : innanzitutto, nel contesto sociale dell’Italia meridionale dell’epoca, la figura della vetula che cura i mali con erbe e decotti e talvolta incantesimi, personaggio fisso nel folklore di tutti i paesi d’Europa, sarebbe particolarmente presente e ‘abituale’. 2 La medicina salernitana – come è documentato – appare più aperta nei confronti delle donne-medico nella fase in cui le qualità necessarie per la professione medica non sono ben delineate : qui torniamo alla Salerno ‘protouniversità’, dove « la medicina non è mai diventata effettivamente una professione ». 3 Proprio per questo, continua Prioreschi, « l’idea che una donna potesse praticare la medicina era forse più accettabile che in altre parti d’Europa », al contrario di Parigi, dove per le donne vigeva il divieto, il regno di Napoli diplomava donnemedico. 4 Se queste motivazioni sono indubbiamente vicine allo stato accertabile dalla documentazione, più ‘eccentrica’ appare l’ulteriore spiegazione che adduce lo studioso : « as for the success of the works of Trotula outside southern Italy, it may have been helped by the fact that for the rest of Europe, at the time, Italy was a far away country with strange customs and with women who were so different from those at home that they could even be good physicians ». 5 Questa supposta evidenza sarebbe tutta da dimostrare ! Tra gli altri fattori che si aggiungono a corroborare l’autorevolezza dei testi di ‘Trotula’ è indicato anche quello della distanza cronologica : « Trotula, as a woman physician and medical author, became famous almost a century after her death and man is more ready to accept the extraordinary from the past than the unusual from the present ». 6 Inoltre, almeno nel campo ginecologico, uno scritto femminile doveva apparire come più specificamente competente. 7 Tali fattori avrebbero favorito, secondo Prioreschi, l’accettazione di Trotula nella tradizione tardomedievale e rinascimentale : l’esotismo dell’ambiente in cui visse : 8 l’Italia meridionale vista dal resto d’Europa ; il fatto che appartenga al passato ; la tradizionale autorevolezza di una voce femminile nel campo della ginecologia e ostetricia. Queste considerazioni non sono del tutto condivisibili, o almeno non si possono in blocco considerare valide, tanto nella generalizzazione del presupposto iniziale, cioè che in quell’epoca (Medioevo) le donne tout court fossero considerate una sorta di minus habentes, quanto nella considerazione che l’“esotismo” di Salerno e del Meridione d’Italia renda accettabile nel resto d’Europa che in quei territori lontani ci fossero medici donne. Una tale semplificazione rischia di potenziare gli aspetti più deteriori dei luoghi comuni su donne e medicina, Medioevo e secoli bui ...  





































1   Plinio Prioreschi, A History of medicine. V. Medieval medicine, Omaha, 2003, p. 242 : « Why, at a time when women were considered less capable than men, the works attributed to Trotula, a woman physician, were held in 2   Ibidem. such high esteen not only in Salerno but all over Europe as well ». 3   Vern L. Bullough, The Development of Medicine as a Profession. The Contribution of the Medieval University to Modern Medicine, Basel-New York, Karger, 1966, p. 44 : « Salerno, unlike the cathedral centers, had been a center of empirical medical practitioners so that Salernitan medicine seems to reflect both theory and practice, more so than earlier medieval treatises. Medicine, however, had not really become a profession at Salerno. There are no extant privileges or statutes going back to this period and there is no evidence that there was a corporation of teachers or of physicians. [...]  This lack of institutional development does not mean that there was not some kind of cooperation between the various masters, but this had to be based on individual negotiation between the masters or between the students and could not be institutionalized ». 4   P. Prioreschi, A History of medicine …, cit., p. 242 : « The idea of a woman who could practice medicine was possibly more acceptable than in other parts of Europe ». 5 6 7   Ivi, p. 243.   Ibidem.   Ibidem. 8   Così nel testo, ibidem : « the exotic locale in which she lived, that is, southern Italy as seen by the rest of Europe ».  























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L’unicità della medicina e della cultura salernitana medievale, in cui rientra anche la vicenda di Trota e di ‘Trotula’, dovrebbe al contrario contribuire a smentire le visioni troppo a lungo propugnate della civiltà medievale come blocco monolitico di un centro che marcia lentamente e faticosamente verso il progresso ‘moderno’ con dei satelliti-periferie in cui tutto è possibile ! « L’unico dato realmente misterioso riguardo a Trota – sostiene Green - resta il perché una città prosperosa dell’Italia meridionale come Salerno potesse produrre una così prolifica autrice di cose mediche e, a quanto sembra, non altre ». 1 Ma a questa, come ad altre questioni che riguardano l’imperscrutabile alea della sopravvivenza di testi dall’antichità ai nostri giorni non si può dare risposta. E chi conosce e pratica abitualmente i meccanismi della tradizione testuale, di qualunque campo, forse non se lo chiede nemmeno. Certamente il xii secolo è « l’ultimo momento utile nella storia occidentale in cui non ci sono restrizioni di nessun tipo nella pratica medica ». 2 Col passare degli anni, alla pratica empirica sarà anteposta la preparazione teorica della medicina, che da « literate medicine », la medicina scritta, diventa la medicina dei curricula universitari ; 3 parallelamente a questo processo, tra il tardo medioevo e l’inizio del Rinascimento, si assiste alla definitiva « masculinization of women’s medicine » : « Essere donna non era più la qualifica automatica per comprendere le donne o per saper curare i disturbi che le affliggevano più comunemente ». 4 È proprio questo il punto centrale : l’autorevolezza della voce femminile sulle ‘cose femminili’ va gradualmente sfaldandosi. E già nel tardo Medioevo. Il celebre scienziato catalano Arnaldo di Villanova, ad esempio, nel xiii secolo, descrive con disprezzo le vecchie salernitane che assistono al parto ricorrendo anche ad arti magiche5. Il caso ‘Trotula’ non è tanto un dilemma autoriale, quanto lo specchio più significativo del problema della partecipazione delle donne all’intera cultura della medicina scritta, che è l’approdo della nostra tradizione occidentale. Se il Rinascimento europeo coincide con l’eclissarsi della fama di una donna del Meridione d’Italia, Trocta o Trota salernitana, il vero rinascimento di questo personaggio è quello che lo ha riportato, negli ultimi vent’anni, dal terreno delle controverse mitologie da cui è stato a lungo avviluppato e trasfigurato, a quello della storia reale della cultura, della medicina e delle donne.  



























Universität Erlangen Questa breve panoramica mette a fuoco la memoria delle cosiddette mulieres Salernitanae, nel tardo Medioevo e nel primo Rinascimento. Attraverso l’evidenza di riferimenti letterari e di documenti, siamo ben informati su donne che praticano attività medica e paramedica legate alla Scuola medica di Salerno, durante e dopo il periodo del massimo splendore (secc. xi-xii). Le donne, per certi versi 1

  M. H. Green, Trotula …, cit. p. 91.   M. H. Green, Making Women’s Medicine Masculine …, cit., p. 3 : « The early twelfth century was the last moment in western history when there were no legal restrictions whatsoever on medical practice ». La Green contrappone al caso di Trota quello di Perretta Petone, processata a Parigi nel 1410 per aver esercitato la professione di chirurgo senza la licenza richiesta. 3   Su questa evoluzione è fondamentale lo studio Jole Agrimi, Chiara Crisciani, Edocere medicos. Medicina scolastica nei secoli xiii-xv, Napoli, 1988. 4   M. H. Green, Making Women’s Medicine Masculine …, cit., p. xiv : « To be a woman was no longer an automatic qualification for either understanding women or treating the conditions that most commonly afflicted the female sex ». Alla fine del Medioevo, nel campo della ostetricia, il terreno tradizionalmente di competenza delle donne, i casi di parto con complicazioni vengono affidati agli uomini (ivi p. x). 5   Citato da F. Bertini, Trotula …, cit. 2













medicina e cure di donne tra medioevo e rinascimento

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temibili, di Salerno, sopravvivono nella tradizione letteraria di remoti angoli d’Europa, andando a confluire in nuovi miti agli albori dell’età moderna. L’approccio filologico ai testi medici medievali, in studi recenti come quelli di Monica Green su ‘Trotula’, hanno riconfigurato la situazione dei testi e dell’esercizio della professione medica dal Medioevo fino alla nascita delle prime università in Europa, sgomberando il campo da ricostruzioni basate su testimonianze non verificabili. This short survey focuses the memory of the ‘so called’ mulieres Salernitanae in late Middle Ages and early Renaissance. Through evidences coming from both literary and documents references, we are well informed upon the women practicing medical and paramedical activities, which are linked to the School of Salerno during and after its most flourishing age, that is 11th and 12th centuries. The somehow frightening mulieres from Salerno survive in the written memory of remoted corners of Europe, forming new myths and traditions at the very beginning of modern age. The philological approach to the medieval medical texts, mostly in recent surveys like the studies of Monica Green about the so-called ‘Trotula’, reconfigured the state of the texts and the practice of the medical profession since Middle Ages until the birth of the first European Universities, clearing the field of all reconstructions which were long time based upon not verifiable testimonia. Cette brève panoramique met l’objectif sur la mémoire desdites mulieres Salernitanae, à la fin du Moyen-Âge et au début de la Renaissance. À travers l’évidence des références littéraires et des documents, nous sommes bien informés sur les femmes qui pratiquaient des activités médicales et paramédicales liées à l’École médicale de Salerne, pendant et après sa période de splendeur (xi-xiii siècles). Les femmes, d’une certaine façon redoutables, de Salerne, survivent dans la tradition littéraire de lointaines contrées d’Europe, allant se fondre dans de nouveaux mythes à l’aube de l’époque moderne. L’approche philologique des textes médicaux médiévaux, dans des études récentes comme celles de Monica Green sur ‘Trotula’, ont reconfiguré la situation es textes et de l’exercice de la profession médicale du Moyen-Âge à la naissance des premières universités d’Europe, déblayant le champ de toute reconstruction basée sur des témoignages non vérifiables. Esta estudio ofrece una breve panorámica que tiene como punto central la memoria de las denominadas mulieres Salernitanae, en la Baja Edad Media y a principios del Renacimiento. A través de referencias literarias y de documentos, sabemos que había mujeres que practicaban la actividad médica y paramédica y que estaban en contacto con la Scuola Medica di Salerno, durante y después de su período de máximo esplendor (siglos xi-xii). Las mujeres, en cierto sentido temibles, de Salerno sobreviven en la tradición literaria de remotos lugares de Europa, confluyendo con los nuevos mitos al principio de la edad moderna. La aplicación de un enfoque filológico a los textos de medicina medieval, efectuado en estudios recientes como los de Monica Green en “Trotula”, han vuelto a configurar la situación de tales textos y del ejercicio de la profesión médica, desde la Edad Media hasta el nacimiento de las primeras universidades en Europa, librando el campo de reconstrucciones basadas en testimonios no verificables. Dieser kurze Überblick zielt auf die Memoiren der sogenannten mulieres Salernitanae im späten Mittelalter und in der frühen Renaissance. Durch die Anschaulichkeit der literarischen Bezugswerke und Dokumente sind wir gut über die Frauen informiert, die medizinische und paramedizinische Tätigkeiten ausübten, die während und nach der Glanzzeit (xi. – xii. Jahrhundert) mit der Ärzteschule in Salerno verbunden waren. Die Frauen, die in gewissem Sinn gefürchtet waren, überleben in der literarischen Tradition entlegener Ecken Europas und fließen später dann, zu Beginn des modernen Zeitalters, in die neuen Mythen ein. Der philologische Ansatz zu den mittelalterlichen, medizinischen Texten hat in neuen Untersuchungen, wie die von Monica Green zu ‘Trotula’, die Situation der Texte und der Ausübung des ärztlichen Berufes vom Mittelalter bis zur Entstehung der ersten Universitäten in Europa neu konfiguriert. Dabei wurde das Feld von Rekonstruktionen, die auf nicht überprüf baren Zeugnissen basierten, gereinigt.

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donna e società laica

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GLI SPAZI FEMMINILI NEI CERIMONIALI PUBBLICI NAPOLETANI Giovanni Muto

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el 1536, tra febbraio e settembre, apparvero sul mercato napoletano tre testi di grande interesse per il tema di cui discutiamo. Il primo, edito da ‘Matteo Cance’, reca il titolo Le cose volgare, opera di Agostino Landulfo vescovo di Montepeloso. Il secondo, Lo specchio de le bellissime donne napoletane, di Jacomo Beldando, stampato per i tipi di Giovanni Sultzbach. Il terzo, Il Triompho di Carlo V a cavalieri et alle donne napoletane, sempre per i tipi del Sultzbach, era opera di Gio Battista Pino (o di Pino ). Nella congiuntura festosa, ma politicamente assai tesa, che accompagnò la visita a Napoli dell’imperatore reduce dalle vittorie africane, Napoli sembrava aver ritrovato la dimensione sua propria di città capitale. Nei lunghi mesi del suo soggiorno, dal novembre 1535 alla primavera del 1536, Carlo e i suoi consiglieri affrontarono problemi di grande rilevanza : la successione nel ducato di Milano a seguito della morte, il 2 novembre, di Francesco II Sforza senza eredi ; il matrimonio, celebrato a Napoli il 29 febbraio, tra Alessandro de’ Medici e Margherita d’Austria, figlia naturale dello stesso imperatore, che stabilizzava i rapporti tra il ducato mediceo e l’impero ; i problemi dell’istruzione religiosa nelle terre americane regolati con l’ordinanza dell’11 marzo ; i difficili rapporti tra il viceré napoletano Pedro de Toledo e la nobiltà del regno. Il primo testo, Le cose volgare, descrive un convito avvenuto nel dicembre 1535 alla presenza dell’imperatore nella villa di Poggioreale per festeggiare la promessa sposa Margherita d’Austria. Non interessa in questa sede discutere della qualità letteraria dell’opera e dei suoi debiti stilistici, quanto piuttosto sottolineare come essa miri a ricostruire  







lo spazio della corte al più alto livello : i nobili napoletani, l’aristocrazia feudale e quella dei seggi, al cospetto del loro sovrano, per una occasione solenne e nel contesto ambientale più ricco di memorie aragonesi, ripropongono modalità tipicamente cortigiane di creazione e fruizione della letteratura … Elemento non privo di interesse, a riprova di una pratica della letteratura in volgare abbastanza estesa, la presenza femminile appare nel contesto della festa complessivamente paritaria con quella maschile. 1  

Il secondo testo, Lo specchio de le bellissime donne napoletane, celebrava in versi la bellezza e le virtù di quarantasette donne dell’alta aristocrazia napoletana, una sorta di equilibrato esercizio che disegnava a modo di catalogo l’universo familiare del patriziato dei seggi e della nobiltà titolata del regno. L’ultimo testo, Il Triompho di Carlo V a cavalieri et alle donne napoletane, illustrava in ‘canti’ e ‘quadri’ la particolare affezione che si era consolidata tra l’imperatore e l’universo nobiliare napoletano. Napoli non acclamava solo il ‘nuovo Marte’, ma evocava il mito del proprio re di cui era stata per tanti anni privata, « vien Carlo speme della patria nostra » che « tien Napol cara più d’ogni altro regno ». Napoli aveva celebrato l’entrata del sovrano nella città ritornata capitale, il 25 novembre 1535, con festeggiamenti straordinari evocati e tramandati dalle cronache, dai versi dei poeti e da un allestimento scenografico che all’esaltazione del ‘Cesare africano’ univa  







1   Tobia R. Toscano, Letterati, corti, accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 250-251.

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l’autopromozione della stessa città, come testimonia il testo coevo di Giovan Domenico Lega, dove la narrazione veniva rivolta ad offrire una rappresentazione dell’evento che facesse emergere come protagonista assoluta la città di Napoli, che nelle sue articolazioni sociali, nobiltà di seggio e nobiltà feudale, governo popolare e clero, poteva finalmente incontrare il proprio sovrano lungamente atteso e ribadire il suo adamantino lealismo. 1

Si potrebbero richiamare anche altre testimonianze, specie di natura diplomatica ed in particolare quella dell’ambasciatore mantovano, conte Nicola Maffei, 2 e tutte confermerebbero come in quella breve congiuntura di pochi mesi Napoli si trovi a rivivere il senso pieno della sua identità di capitale, perduta formalmente nel 1503 ma di fatto dimessa già un decennio prima con la morte di Ferrante d’Aragona. In questo riscoprirsi capitale, le testimonianze documentarie e letterarie disegnano una matura sociabilità aristocratica e cittadina che, mentre proclamava la propria fedeltà al suo sovrano, includeva nella dedizione amorosa a Carlo lo stesso universo femminile con i suoi peculiari codici di comportamento. 3 Le speranze napoletane di mantenere relazioni privilegiate con la casa d’Asburgo, che consentissero margini di autonomia ed un riconosciuto ruolo di ceto dirigente per l’aristocrazia napoletana, andarono largamente deluse e, alla partenza di Carlo, il viceré D. Pedro de Toledo, rafforzato nelle sue funzioni da nuove e più incisive istruzioni del sovrano, prese a dispiegare tutta la forza del suo progetto centralizzatore, piegando le resistenze nobiliari, riorganizzando l’apparato di governo e stabilendo reti di alleanze tanto con alcune grandi famiglie aristocratiche (Avalos, Spinelli, Alarcon) che gli assicuravano una relazione diretta con la corte imperiale, che con ufficiali e notabili dell’apparato ministeriale. 4 In questo contesto, lo spazio femminile, come forma di protagonismo significativo all’interno della città, si mantiene ancora forte almeno fino alla metà del Cinquecento, testimoniato dalle esperienze culturali, politiche e religiose di Giovanna e Maria d’Aragona, di Roberta Carafa, di Isabella di Morra, di Vittoria Colonna, di Giulia Gonzaga, di Laura Terracina ; figure troppo note per essere qui riproposte e sulle quali si dispone oggi di contributi recenti di grande interesse. 5 Si ha l’impressione, tuttavia, che queste esperienze restino testimonianze isolate, incapaci di comunicare al loro universo di riferimento – la famiglia aristocratica o il proprio gruppo sociale – il valore costitutivo di quelle scelte rispetto alla propria identità femminile.  

1   Tobia R. Toscano, « L’occasione fa il libro ». Vicende dell’editoria a Napoli nella prima metà del Cinquecento, in *L’Actualité et sa mise en écriture au xve-xvie et xviie siècles. Espagne, Italie, France et Portugal, eds. Pierre Civil e Danielle Boillet, Paris, 2005, p. 52. Sui preparativi dell’entrata e sulle opzioni alternative che si presentavano Carlos Jose Hernando Sanchez, El Glorioso Triumfo de Carlos V en Napoles y el umanismo de corte entre Italia y Espana, « Archivio Storico per le Province Napoletane », cxix, (2001), pp. 505-516. 2   Giuseppe Coniglio, Note sulla società napoletana ai tempi di don Pietro di Toledo, in *Studi in onore di Riccardo Filangieri, vol. II, Napoli, L’Arte Tipografica, 1959, ora in Id., Scritti minori da ricerche archivistiche, Napoli, Giannini, 1988, pp. 67-95. 3   L’evocazione del mondo femminile e dei suoi spazi è stato oggetto di attenzione, sotto diversi profili, da parte della storiografia. Rimando a due contributi, assai distanti nel tempo l’uno dall’altro : Mario Di Leo, Lodi di dame napoletane del secolo decimosesto dall’« Amor prigioniero » di Mario di Leo, con notizie ed estratti di altri poemetti sincroni di simile argomento, a cura di Giuseppe Ceci e Benedetto Croce, Napoli, 1894 ; Martin Carrillo, Cerimoniale di corte e descrizioni suntuarie nella Question de amor, « Mélanges de l’Ecole francaise de Rome », 104, 2 (1992), pp. 765-779. A questi si aggiunga Giuliana Vitale, La « sagax matrona » napoletana del ’400 tra modello culturale e pratica quotidiana, ora in Ead., Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Salerno, car, 2002, pp. 139-207. 4   Sul lungo viceregno del Toledo (1532-1553 ) Carlos Jose Hernando Sanchez, Castilla y Napoles en el siglo xmvi. El virrey Pedro de Toledo. Linaje, estado, cultura, Salamanca, 1994. 5   Rimando ai contributi di Antonio Spagnoletti, Elisa Novi Chavarria, Elena Papagna, Michele Cassese, Susanna Peyronel nel volume a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, *Donne di potere nel Rinascimento, Roma, Viella, 2008.  























gli spazi femminili nei cerimoniali pubblici napoletani

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Quelle esperienze, dunque, seguiranno il destino del mondo aristocratico che lentamente esaurisce il suo antagonismo politico, accettando di farsi coinvolgere, sia pure in posizione subordinata, nei progetti della corona. A fronte di questo ridimensionamento delle aspirazioni della nobiltà, emerge la capacità del viceré Toledo di proporsi come modello di riferimento, non solo politico, ma anche di sociabilità principesca. Egli apriva la sua casa – non ancora un vero palazzo viceregio che seguirà solo nei primi anni cinquanta – alla nobiltà, concedendo udienza « con una gravità e maestà grande » circondato dalla corte, assiso « sotto il baldacchino, tenendo da un lato la moglie, da l’altro le due figliuole » ; 1 non è superfluo sottolineare quale intensità teorica si addensasse nelle categorie di gravità e maestà richiamate da una lunga tradizione storiografica da Pontano fino al Castiglione. Con determinazione, dunque, il viceré progetta la costituzione di una vera corte ed adegua i comportamenti pubblici al ruolo di un vero principe, sia pure alter ego del monarca :  











La corte virreinal aparece como el centro de una serie de innovaciones tecnicas y formales que, en buena medida, se generalizaràn en el consunto de la monarquia bajo Felipe II. Como succederà en Castilla desde los anos en torno a 1560, en Napoles el espacio fisico y simbolico de la corte invade a partir de la decada de 1530 el espacio de la ciudad y del territorio, El poder, a su vez, trasforma el espacio de la corte, la instrumentaliza. 2

Questo sviluppo obbliga i ceti privilegiati della capitale ad assumere il viceré e la sua corte come punto di riferimento obbligato. Molte famiglie della grande e media nobiltà titolata lasciano le loro residenze provinciali e impegnano cospicui capitali per la costruzione o l’acquisto di nuove residenze nella città capitale. Tra gli anni quaranta e cinquanta Napoli, che già a metà Cinquecento raggiungeva i 200.000 abitanti, subisce profonde trasformazioni urbanistiche, registrate da molte fonti e descritte con emozione dal Tarcagnota nel 1566 : « Vedeste mai per vita vostra la più bella prospettiva di questa ? Se si vedesse ritratta in uno di questi quadri di Fiandra, chi non direbbe, che questa fosse la più delicata cosa del mondo ? ». 3 L’accostamento del paesaggio napoletano al genere pittorico di larga fortuna è una testimonianza significativa di come anche autori minori fossero inseriti in un circuito di informazioni e di fruizioni dei prodotti artistici e culturali, ma allo stesso tempo fissa anche i termini del ritratto letterario della città : « la città situata a guisa di teatro », gli « ameni colli », i « bei palagi », i « vaghi giardini », le « fresche fontane » ; un modulo che, con opportune varianti, darà origine al genere delle descrizioni e guide cittadine. 4 Anche lo spazio fisico del potere si adegua a questa dimensione di magnificenza e si dota di una sede riconoscibile e distintiva. Nel 1550 Ferdinando Manlio, già dal 1545 sovrintendente di tutte le fabbriche civili e militari della capitale, avvia la costruzione del palazzo viceregio, che sopravviverà fino a tutto il Settecento, col nome di palazzo reale vecchio, collocato alla sinistra del nuovo palazzo reale costruito agli inizi del Seicento da  

































1   Le parole sono sempre dell’ambasciatore mantovano Nicola Maffei, riprese da Giuseppe Coniglio, Note …, cit., in Scritti minori …, cit., p. 72. 2   Carlos Jose Hernando Sanchez, Corte y ciudad en Napoles durante el siglo xvi : la construccion de una capital virreinal, in *Las corte virreinales de la monarquia espanola : America y Italia, a cura di Francesca Cantù, Roma, Viella, 2008, p. 394. 3   Giovanni Tarcagnota, Del sito et lodi della città di Napoli, in Napoli, appresso Gio. Maria Scotto, 1566, p. 3. Sullo sviluppo demografico e urbanistico della città capitale Giovanni Muto, Le tante dittà di una capitale : Napoli nella prima età moderna, « Storia Urbana », xxxi, 123 (2009), pp. 19-54. 4   Libri per vedere. Le guide storiche artistiche della città di Napoli : fonti, testimonianze del gusto, immagini di una città, a cura di Francesca Amirante et al., Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1995. Sulla fortuna di questo genere Giovanni Muto, Capital y Corte en la Napoles espanola, « Reales Sitios », xl, 158 (2003), pp. 2-15.  















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Domenico Fontana. La sfera simbolica del potere viceregio non è assicurata solo dallo spazio visibile e materiale della sua residenza ; per essere efficace questa sfera deve dotarsi di regole disciplinanti, di un protocollo che ordini le precedenze e i ranghi, di un cerimoniale che assicuri un corretto svolgimento delle azioni e dei gesti di quanti si muovono attorno e con il viceré. Di qui, dunque, la necessità di distinguere lo spazio pubblico della persona del viceré da quello privato e perciò la corte dalla sua casa particular ; non sorprende pertanto che lentamente prenda corpo la distinzione tra uffici cortigiani in senso proprio e quelli della casa del viceré. Quest’ultima non appare molto diversa da quella di una corte signorile allocata in Spagna ; a capo di essa vi è un mayordomo o maestro de casa e poi, con funzioni diverse uno o più segretari, agenti, scrivani, medico, ma anche frayle, confesor, comprador, tesorero, cabalerizo, camareros, guardaroba, despensero, pajes, cocinero, copero, criados, familiares. Il vero problema è che, sotto il profilo quantitativo, tale struttura è limitata dai costi ; il viceré spesso è in grado di utilizzare qualche voce del bilancio napoletano per pagare alcune persone della sua casa attribuendo loro qualche incarico, ma la maggior parte di questo personale è a suo carico e questo spiega perché i viceré col tempo accettino donativi straordinari votati dal parlamento napoletano o traffichino in maniera non sempre chiara sugli uffici « a collazione viceregia », o ancora siano tanto attivi sul mercato delle opere d’arte che incettano e inviano in Spagna. La corte viceregia ripeteva nella sua struttura molte delle funzioni e dei ruoli della casa particolare del viceré. 2 Per definizione però essa aveva natura pubblica ed una sua visibilità ; in questo senso perciò incorporava funzioni e uffici che erano esclusi dalla dimensione privata della casa particolare del viceré. Le tre funzioni addizionali erano quella ministeriale, ovvero rappresentare pubblicamente l’apparato del governo centrale (reggenti della Cancelleria, consiglieri del Collaterale, presidente e consiglieri del Sacro Regio Consiglio, luogotenente e presidenti della Camera della Sommaria, reggente e giudici della Corte della Vicaria) e gli stessi sette Grandi Uffici (Gran Contestabile, Gran Giustiziere, Gran Ammirante, Gran Camerlengo, Gran Protonotaro, Gran Cancelliere, Gran Siniscalco), cariche del tutto prive di potere reale ma di rilevante valore d’immagine. La seconda funzione era certamente quella militare, nella quale la corte includeva tanto coloro che erano addetti alla tutela fisica della persona vicereale (i cento continui, metà spagnoli e metà napoletani, l’alfiere, la guardia alemana con il proprio capitano, il tenente, i caporali) che i ranghi superiori dell’esercito stanziale (il Maestro di campo del tercio napoletano, il generale della cavalleria, l’Auditore generale). La terza funzione si compendiava nell’inclusione nella corte di uffici di rango minore ma essenziali al buon funzionamento della corte stessa : il maestro di cerimonie, l’usciere maggiore, i titolari delle quattro segreterie vicereali, il cappellano maggiore, il maestro di cappella con musici e cantori della stessa, il maestro di ballo, il maestro di danza, i quattro portieri di mazza. Questa sommaria descrizione dei ruoli di corte (che non comprende evidentemente tutto il personale subalterno che serviva nel palazzo come stallieri, mozzi, camerieri, guardarobieri, giardinieri, valletti, addetti alla cucina) disegna un quadro sostanzialmente statico e non ci dice ancora niente su come la corte si muovesse dentro e fuori del palazzo, nella città e fuori di essa. Una prima significativa spia dei profili dinamici della corte napoletana si riscontra nelle procedure, tutte di grande rilevanza politica, relative alle 1

















1   Sul percorso che porterà alla costruzione del nuovo palazzo reale Sabina De Cavi, Architecture and Royal Presence. Domenico and Giulio Cesare Fontana in spanish Naples ( 1592-1627 ), Cambridge, 2009. 2   Per questa distinzione rimando a Giovanni Muto, Testimonianze sulla società di corte napoletana del secondo Cinquecento, in *Spagna e Italia attraverso la letteratura del secondo Cinquecento, a cura di Encarnacion Sanchez Garcia, Anna Cerbo, Clara Borrelli, Napoli, 2001, pp. 67-85.

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udienze del viceré ; l’udienza pubblica che si svolgeva nei giorni feriali del lunedì, mercoledì e venerdì e l’udienza segreta che poteva essere concessa dal viceré anche fuori dei giorni stabiliti. Norme precise e di alto tasso formale regolavano l’accesso alla persona del viceré, definendo un ordine di precedenza che distingueva tra i ceti cittadini e all’interno di ciascuno di essi, separando anche fisicamente in spazi diversi le singole persone secondo il proprio status. Tutto ciò, in fondo, non era molto diverso da quanto accadeva anche nelle altre corti europee, ma l’interesse del caso napoletano è rappresentato dal fatto che Napoli e l’intero territorio meridionale, pur avendo perso il proprio re, e perciò l’esercizio di sovranità autonoma, continuava a mantenere una propria identità costituzionale di nazione e di regno ; uno dei segni più visibili di tale identità è appunto lo sviluppo di una corte, al cui consolidamento concorrono per motivi e strategie diverse tanto i singoli viceré che i ceti dirigenti della capitale. A questo punto resta da comprendere come e in che misura la corte viceregia riuscisse ad essere un centro motore della sociabilità cittadina, attraverso quali reti e meccanismi alimentasse quel circuito di scambi che si materializzava in avvenimenti ordinari e straordinari : celebrazioni degli eventi dinastici (matrimoni e morti dei sovrani e di membri della famiglia reale, successi militari, paci), entrate dei nuovi viceré, ricevimenti di principi e di cardinali, riti religiosi e processioni, feste cittadine, tornei, cacce, balli. A regolare questi eventi provvedeva un cerimoniale che si formò lentamente ma che doveva essere operativo già negli ultimi decenni del Cinquecento. Purtroppo il percorso della ritualità pubblica non è confortato, nell’esperienza napoletana della prima età moderna, da un’abbondanza di materiale documentario adeguato a comprendere tutti i passaggi ed i significati di tale ritualità. Disponiamo di alcune cronache cittadine, più abbondanti per la prima che per la seconda metà del Cinquecento. I Giornali di Antonio Bulifon, pur documentando lo svolgimento di eventi fin dal 1547, sono una ricostruzione a posteriori compilata a fine Seicento. Un’indagine più estesa su alcuni fondi archivistici potrebbe restituirci informazioni più numerose e dettagliate sulle strutture di corte e su come si formassero reti di solidarietà e di conflittualità all’interno di quelle strutture. 1 È possibile comunque disporre di tre materiali documentari di diversa consistenza e valore. Il primo è un breve testo che reca la data del 1595, 2 o meglio ciò che ci è pervenuto di un testo che doveva essere assai più completo e, nella versione superstite, tratta di soli cinque temi : le udienze del viceré, le riunioni del medesimo con il Consiglio Collaterale, il protocollo delle precedenze per gli atti religiosi che si svolgono nella Cappella di Palazzo alla presenza del viceré, lo stato di degrado in cui versa il patio del palazzo, la processione del venerdì santo. L’autore del testo è Juan de Garnica, un personaggio a tutt’oggi non identificabile ma che di certo aveva frequentato la corte napoletana, probabilmente con qualche incarico ufficiale. Il secondo testo è un lungo manoscritto datato 1622, 3 il cui autore Miguel Diez de Aux assicura di aver servito quaranta anni nel palazzo reale di Napoli nell’ufficio del maestro di cerimonie. Descrive l’entrata dei viceré, lo svolgimento delle udienze, la celebrazione dei parlamenti generali, le feste civili e religiose, l’ordine delle uscite da palazzo da parte del viceré, celebrazione degli atti in onore del sovrano e della famiglia reale. Il terzo testo è del 1634, l’autore Josè Raneo si dichiara « portero de camara de S.E. que ha exercitado y al presente esercita el officio de Maestro de Cerimonias de los  









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  Segnalo, a solo titolo d’esempio, il fondo Segreterie del viceré depositato nell’Archivio di Stato di Napoli.   Il documento è presso la Regenstein Library di Chicago, ms. 1130, ed è stato segnalato e trascritto da Paolo Cherchi, Juan de Garnica : un memoriale sul cerimoniale della corte napoletana, « Archivio Storico per le Province Napoletane », 92 (1975), pp. 213-224. 3   Il testo è nella Biblioteca Colombina di Siviglia, B.C.A., Capitular, ms. 59. 2. 9. 2







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senores virreyes Duque de Alba y Conde de Monterey ». 1 Come il precedente, si presenta come un vero e proprio cerimoniale, descrivendo tutte le occasioni ordinarie e straordinarie nelle quali il viceré esercita il suo officio o è presente in atti ufficiali dentro e fuori del palazzo reale. Queste tre scritture non sono veri e propri libri di cerimoniali, come quelli spagnoli o quelli compilati per la corte francese da Theodore Godefroy nel 1619, 2 ma una sorta di documentazione privata che segnalava la prassi in uso nella corte napoletana. È legittimo pertanto ritenere che essi ebbero una limitata circolazione manoscritta ma non venissero utilizzati come testi normativi, riconosciuti idonei a dirimere questioni di precedenze e di etichetta ; queste scritture, redatte dai maestri di cerimonie o da altro personale addetto alla corte napoletana, furono dagli stessi conservate gelosamente, come testimonia il fatto che esse si presentano – almeno sino ad oggi – in esemplari manoscritti unici di cui non si conservano altre copie, se non per segmenti isolati. Questa documentazione enfatizza per un verso il ruolo centrale del viceré e per un altro verso il contesto palaciego, ovvero la capacità dello spazio che gira attorno al viceré di produrre uno stile di corte, norme disciplinanti i comportamenti individuali e di gruppo. In tal senso, dunque, le norme del cerimoniale si sforzano di offrire un’immagine di coesione del mondo cortigiano nell’intento di ammortizzare gli inevitabili contrasti che le cronache coeve ci segnalano con frequenza ; è del tutto pertinente perciò l’osservazione che « il rituale politico, o la politica ritualizzata, mira a mascherare le tensioni mediante la rappresentazione di una armonia politica maggiore di quella che magari esiste in realtà ». 3 In nessuno di queste scritture di cerimoniali, tuttavia, la presenza femminile appare emergere con un proprio grado di autonomia, né si manifesta una sfera distintiva della viceregina nella quale essa si muova con un grado maggiore di libertà nelle forme della comunicazione e della sociabilità. Va da sé che la differenza dei ruoli tra il viceré e la viceregina è assai marcata. Mentre il primo è realmente l’alter ego del sovrano ed è investito perciò di poteri molto ampi, la viceregina sembra mantenere la sua identità familiare e privata che, tuttavia, non le garantisce affatto maggiore agilità di movimenti. È naturale, ovviamente, che l’immagine della viceregina venga accostata e confrontata con quella speculare delle regine della dinastia asburgica. La viceregina napoletana aveva un suo quarto nel palazzo reale e disponeva di un piccolo apparato di addetti alla sua persona, ma non era dotata di una sua casa, ovvero di un insieme di spazi, strutture, uffici e ruoli cortigiani disciplinati in un corpus di regole cerimoniali, come invece godevano le regine spagnole ; principalmente, la casa della regina era distinta da quella del re ed era regolata da una etichetta non meno rigida, riformata prima nel 1575 e poi nel 1603. Insomma, il cerimoniale di corte assegnava ruoli subordinati tanto alla regina rispetto al re, quanto alla viceregina rispetto al viceré. Ma occorre ricordare anche le differenze strutturali tra le due figure. Mentre il viceré rappresentava davvero l’immagine reale nel territorio nel quale era inviato a governare con tutti gli attributi della sovranità a lui delegata, un eguale rispecchiamento non si rifletteva sulla viceregina, che restava sempre la consorte e solo la consorte del viceré. Le ragioni che fondano una così marcata differenza sono abbastanza intuibili. La regina era colei che assicurava la discendenza al sovrano e assicurava, pertan 











1   Il testo fu trascritto e pubblicato da Antonio Paz y Melia, Etiquetas de la Corte de Napoles, 1634, « Revue Hispanique », xxvii (1912), pp. 1-284. 2   Jeroen Duindam, Vienna e Versailles ( 1550-1780 ). Le corti di due grandi dinastie rivali, Cambridge, 2003, nella tr. it. Roma, Donzelli, 2004, pp. 254-255. 3   Edward Muir, Riti e rituali nell’Europa moderna, ed. orig. Cambridge, 1997, tr. it. Firenze, La nuova Italia, 2000, p. 36.  



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to, la continuità dinastica ; nei viceregni italiani l’ufficio di viceré era triennale e non era trasmissibile ai figli. La regina poteva esercitare la reggenza, quando l’erede al trono era nella minore età ; a Napoli – come negli altri viceregni – le soluzioni previste escludevano in ogni caso che la viceregina potesse, sia pure per un breve tempo, esercitare l’ufficio viceregio. La viceregina, per quanta influenza potesse avere sul consorte, non aveva nessun ruolo d’intermediazione circa l’esercizio della grazia reale ; ed infine, anche nella rappresentazione iconografica dei ruoli, lo spazio a lei dedicato risulta assai modesto, niente che possa essere accostato, ad esempio, al binomio sole/luna che era un tema classico dell’iconografia regia alla corte spagnola. 1 Sotto tale ultimo profilo, appaiono assai interessanti le descrizioni della festa di S. Giovanni, organizzate ogni anno a Napoli dall’eletto del popolo in onore del viceré. Nei testi redatti nei primi anni trenta del Seicento da Gio. Bernardino Giuliani, segretario della piazza popolare, in onore del viceré Conte di Monterey, vengono celebrate non solo le sue virtù personali ma anche quelle del suo lignaggio Zuniga y Fonseca ; niente viene detto però della sua consorte o del suo casato. 2 La presenza della viceregina si configura, dunque, come una partecipazione ordinaria al fianco del viceré consorte e ne connota quasi tutti gli atti pubblici, senza che a lei venga riservato un ruolo specifico. Può però accadere che non accompagnando il consorte in uno di tali atti, venga allestita per lei una cerimonia ad hoc. È questo il caso che si verificò con Maria Osorio Pimentel, moglie del viceré Pedro di Toledo, che nel 1534 fece il suo ingresso nella città capitale come viceregina ; in questa occasione sbarcando dalla nave fece la sua entrata in città attraverso il ponte baldacchino che di norma si allestiva per il solo viceré. 3 Le feste celebrate a palazzo si presentano come lo spazio più adeguato ad enfatizzare il ruolo della viceregina e, in generale, dell’universo femminile. Nei tornei e nei giochi a cavallo che si svolgevano nel largo antistante il palazzo, sul palco la viceregina sedeva a lato del viceré, accompagnata dalle dame di corte, le quali erano condotte sul palco da  









quatro o cinco cavalleros de edad. … Estos cavalleros tampoco tienen de dexar entrar a ningun cavallero ni persona alguna donde estan las damas y los mismos cavalleros, acavada que serà la fiesta, yran sirviendo y acompanando las damas hasta la sala adonde se hara el Sarao, sin que vaya ningun otro cavallero ni criado de ningun genero ni manera. 4

Sulle dame della viceregina si riverbera pertanto una sorta di intangibilità che è propria della consorte del vicerè. Contrariamente alle antiche usanze della tradizione cavalleresca, era però proibito ai cavalieri vincitori del torneo di porgere i premi alla viceregina. I vincitori ricevevano i premi dai giudici del torneo e solo allora essi potevano offrirli alla dama che sceglievano ma in nessun caso alla viceregina. Anche nei banchetti che si svolgono a palazzo la viceregina viene in qualche modo distanziata dal contesto :  

1   Sull’immagine della regina nella monarchia asburgica Maria Victoria Lopez-Cordon, L’immagine della regina nella Monarquia ispanica : modelli e simboli, in *I linguaggi del potere nell’età barocca, a cura di Francesca Cantù, vol. ii, Donne e sfera pubblica, Roma, Viella, 2009, pp. 13-44. Sulla regalità femminile e sulle figure delle reggenti Maria Antonietta Visceglia, Riti di corte e simboli della regalità. I regni d’Europa e del Mediterraneo dal medioevo all’età moderna, Roma, Salerno, 2009, pp. 158-207. 2   Gianbernardino Giuliani, Descrittione dell’apparato fatto nella festa di S.Giovanni dal Fedelissimo popolo napoletano all’Illustrissimo et Eccellentissimo D.Emanuele de Zunica et Fonseca, conte di Monterey viceré di Napoli l’anno mdcxxxi, Napoli, per Domenico Maccarano, mdcxxxi. Sull’importanza della festa e sul suo significato politico Giovanni Muto, Spazio urbano e identità sociale : le feste del popolo napoletano nella prima età moderna, in *Le regole dei mestieri e delle professioni, a cura di Marco Meriggi, Alessandro Pastore, Milano, 2000, pp. 305-325. 3   Carlos Jose Hernando Sanchez, Idea y realidad de una corte periferica en el Renacimiento. Aproximaciòn a la dialectica publico-privado del poder virreinal en Napoles durante la primiera mitad del siglo xvi, in *ii Reuniòn Cientifica de la Associacion espanola de Historia moderna, Murcia, 1993, p. 266. 4   Antonio Paz y Melia, Etiquetas …, cit., p. 52.  



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La Virreyna no tiene de ver a ninguna persona no estando presentes las Duenas”. 1 Tuttavia, “en ocasion que la Virreyna en visita antes que salga adonde estan las Senoras, queriendo alguna cablarla sin que las circunstantes la oyan, la tal entra a donde la Virreyna, y acavado de negociar se sale fuera adonde estan las Damas, y luego S.E. sale a estar con las Damas que la han venido a visitar. 2

Nei balli di palazzo il viceré nomina un « cavallero de mucha calidad para Maestro de Baile, el qual tiene de preguntar a S.E. si manda que se comience el baile, y despues de havelo mandado, queriendo bailar S.E., le tiene de sacar el primero. Advirtiendo que no se accostumbra dancar las Senoras Virreynas » ; regola questa che conferma la intangibilità pubblica della moglie del viceré. La quale era sottoposta ad un obbligo ulteriore, introdotto secondo il Raneo dal viceré Pedro Fernandez de Castro conte di Lemos, e cioè che quando il viceré « salia a dancar la Senora Virreyna su muger, se levantava de la silla y se estava en pie hasta que S.E. acabava el baile » ; 3 col tempo, come si preoccupa di rassicurarci il nostro autore, si trovò il modo di rimediare ad una situazione che sfiorava il ridicolo. Il viceré, al contrario, non solo balla, ma può intervenire e girare in maschera per la città al tempo del carnevale. Tra tutte le feste di ballo quella del sarao era certamente la più importante e maestosa per struttura e significato ; in questa circostanza si dovevano usare particolari accortezze per il caso che il viceré – sposato o non sposato – partecipasse senza la viceregina. In questa evenienza « convidarà dos Senoras de las mas principales para que reciban las damas … las senoras convidadas para recibir las damas no tienen de mudarse de sus assientos adonde estan las Senoras ny yr por S.E., que solo tienen de yr Maestro de danca y cavalleros que estan para recivir las damas ». 4 Nel cerimoniale illustrato dal Raneo la viceregina sembra gestire un suo spazio autonomo quando riceve la moglie di un ‘grande’ di Spagna di passaggio per Napoli. In questi casi non appare una regola fissa del ricevimento ; la viceregina può inviare tre dame all’imbarcadero della Torre di San Vincenzo per ricevere l’illustre signora, oppure riceverla direttamente nella ‘sala grande dei tedeschi’, o ancora attenderla in una sala più prossima al grande scalone del palazzo. Nella celebrazione delle feste religiose e dei riti della semana santa la viceregina accompagna il viceré e solo in alcune circostanze è dato rilevare differenze modeste nei ruoli assegnati all’una e all’altro. Ciò che è importante sottolineare è l’alto grado di partecipazione dei viceré, sempre accompagnati dalle consorti, a tutte le feste religiose cittadine. Il calendario liturgico cittadino prevedeva l’uscita dal palazzo dei viceré in occasione di 54 feste fisse e 10 feste mobili che, di fatto, impegnavano quasi l’intera giornata : visite a conventi per celebrare il santo o la santa che aveva fondato il monastero ; visite alle chiese principali dei vari ordini regolari in occasione della festa del santo ; visita al duomo per il miracolo di San Gennaro ; visita alle chiese degli grandi ospedali dell’Annunziata e degli Incurabili. In occasione di queste uscite dal palazzo, il cerimoniale prevedeva un largo accompagnamento di ministri e ufficiali dell’apparato, ai quali si accompagnava il popolo festante ; insomma, prima ancora del festeggiamento religioso si rinnovava settimanalmente un’autocelebrazione del potere vicereale che dall’espletamento dell’ufficio religioso riceveva un’ ulteriore aura di sacralità. In queste occasioni, alle quali la viceregina partecipa ora a lato del viceré, ora da un posto fisso, non è raro che essa si apparta in qualche luogo riservato con alcune dame di compagnia e prenda parte a qualche rinfresco offerto dalle monache del convento visitato.  





























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  Ivi, p. 127.   Ivi, p. 55.

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  Ivi, p. 129.   Ivi, p. 59.

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Di un qualche interesse è quanto avviene nel corso della complessa procedura cerimoniale per l’ingresso del nuovo arcivescovo nella capitale napoletana. Il cerimoniale prevede la partecipazione delle autorità politiche e della truppa ma non del viceré che si reca a visitare l’arcivescovo solo il giorno seguente al suo arrivo in città. A sua volta, il giorno successivo, è l’arcivescovo che si reca al palazzo reale a restituire la visita di cortesia, nel corso della quale Entranse en el quarto de S.E., y luego se imbia a avisar a la Virreyna como el senor Cardenal quieta visitarla. Van luego los dos, hallarse ha la Virreyna con algunas senoras tituladas, y otras senoras en su camara. Saldrà a recivirle asta la puerta de su camara : sientandose todos. Da la Virreyna el parabien a su Eminencia de la bienvenida y possession de su Iglesia. Acabada la visita, se despide el Cardenal, accompagnandole la Virreyna asta donde le recivio, y el Virrey baxa a baxo al patio 1  

Particolare attenzione portava il cerimoniale ai rapporti tra il viceré e le donne quando il viceré non era sposato. Se « algunas senoras tienen necessidad de hablar, ellas imbian a suplicar a S.E. sera servido nombrar en la Iglesia que mas fuere servido yr. Y alli se hallan ellas, acompanadas de algun deudo, y negocian con S.E. en dicha Iglesia ». 2 Quando è invece il viceré che si reca a visitare donne aristocratiche si premura di avvertire i loro mariti « El Duque de Alba fue a visitar la muger de Don Diego de Aragon … y a la muger de Don Diego Pimentel … Imbio a llamar a sus maridos que viniessen a Palacio. Vinieron, pusolos en el coche y con ellos hizo estas visitas ». 3 La viceregina, a sua volta, è obbligata a fare un uso discreto della sua mobilità ; se le è consentito di ricevere donne dell’alta nobiltà, le è impedito però di fare visite private a chicchessia : « La virreyna no va ya en casa de nadie en virtud de orden de Su Magestad del ano 1621 y 22 diretta en aquel tempo al Cardenal Zapata que governava entonces este reyno ». 4 Il richiamo ad ordini reali emanati nel 1621 e 1622 non è dovuto probabilmente solo ad un accentuarsi del distanziamento dell’immagine vicereale rispetto al mondo urbano. È possibile che si volesse tutelare in particolare la figura della viceregina da possibili coinvolgimenti in relazioni ambigue, come quelle che avevano fatto capo nel 1614 a suor Giulia de Marco, a cui carico fu istruito un processo inquisitoriale con accuse che mettevano insieme posizioni eterodosse e sfera della sessualità ; una storia che sfiorò la stessa viceregina Caterina Gomez de Sandoval moglie del viceré conte di Lemos e che alimentò a lungo rumores e sospetti. 5 Altrettanto significativo è il gioco dei ruoli tra viceré e viceregina in tema di matrimoni o di padrinaggio ai battesimi :  



















Quando los Virreyes se hallaren en algun casamento o haviendo sido compadres, la Virreyna el dia siguiente tiene de imbiar a saber como esta la esposa con Paje o Gentil ombre, conforme la calidad de la persona, como se ha dicho. Pero esta cerimonia no la tiene de hacer el Virrey por la dihnidad que ripresenta : solo a la Virreyna le es permitido por el decoro que se deve tener sempre a las damas. 6  

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2   Ivi, p. 114.   Ivi, p. 121. 4   Ivi, p. 131.   Ivi, p. 123. 5   Questo caso ha attirato l’attenzione, e troppo spesso anche la curiosità letteraria, di molti studiosi fra i quali Luigi Amabile, Benedetto Croce, Michele Miele, Jean Michel Sallmann, Adriano Prosperi, Giovanni Romeo, Anne Jacobson Schutte, Piero Scaramella, Vittoria Fiorelli, Adelisa Malena. Per i termini generali del caso, e per un’interessante appendice che documenta l’estesa rete che la monaca aveva intessuto Elisa Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani secoli xvi-xvii, Milano, Franco 6   Antonio Paz y Melia, Etiquetas …, cit., p. 123. Angeli, 2001, pp. 161-201. 3

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Un apposito capitolo del cerimoniale regola la presenza della viceregina e del suo consorte ai matrimoni dove essi sono chiamati a fare da testimoni. 1 A conferma di quanto risultasse estranea al cerimoniale la presenza femminile è il ruolo del tutto marginale che essa svolge in occasione della morte del viceré suo consorte. È noto che, in occasione del giubileo, il vicerè D. Fernando Ruiz de Castro organizzò ‘un’ambasciata di obbedienza’ nella capitale romana, movendosi da Napoli accompagnato dai maggiori titolati del regno e da un seguito enorme di cortigiani e servitori. La trasferta romana, enfatizzata dai cronisti coevi e celebrata dai letterati, non giovò certo al viceré che nel giro di pochi mesi si ammalò venendo a morte il 19 ottobre 1601. 2 Non era il primo viceré che moriva a Napoli nel corso del suo mandato, ma il personaggio era parente stretto del Lerma, il potente privado di Filippo III e, pertanto, furono allestiti funerali con grande pompa. La luogotenenza del regno, di norma affidata al decano del Consiglio Collaterale, fu affidata invece al figlio del defunto viceré, D. Francisco de Castro, che esibì una carta del sovrano che disponeva in tal senso. Le esequie seguirono un lungo e articolato cerimoniale che il Raneo descrive in sette pagine nelle quali la presenza della viceregina vedova è pressocchè assente ; solo in un passaggio del testo è annotato che « venia la Condesa embocada, metiendose en una capilla secreta toda cubierta de luto que està al lado izquierdo del altar mayor, frontero del deposito de su marido ». 3 A sottolineare come il dolore femminile resti confinato nella sfera del privato è lo spazio ‘segreto’ in cui la vedova viene relegata, nascosto alla vista dei più, mentre per la prima volta nel lessico utilizzato compare – a proposito della figura vicereale – il lemma ‘marito’. Nelle numerose pagine del cerimoniale descritto dal Raneo vengono richiamati eventi ed episodi (ingresso e visita dell’imperatore Carlo V nel 1535, celebrazione di vittorie militari, conclusione di trattati di pace, elezioni o successioni di sovrani di altre dinastie, passaggi e permanenze in Napoli di principi, ambasciatori o altre importanti personalità, uscite del viceré per visitare luoghi sacri o città fuori della capitale, mostre militari dell’esercito o della cavalleria, l’ambasciata di obbedienza svolta nel 1600 a Roma dal viceré D. Fernando Ruiz de Castro, elezione del nuovo pontefice romano) con le procedure seguite, quasi che esse dovessero costituire un punto di riferimento, meglio ancora il consolidamento di una prassi consuetudinaria che si imponeva anche senza norme scritte. In sostanza, tutte le manifestazioni del cerimoniale, aldilà del carattere formale, rigido e ritualistico, erano rivolte ad assicurare la disciplina dei comportamenti collettivi, l’emulazione dei gesti, il controllo degli spazi ; definendo la gerarchia cetuale si distinguevano anche ruoli e funzioni di ciascuno e si garantiva un ordine morale che regolava le relazioni tra uomini e donne. In ogni caso, per queste e altre ragioni, è lecito dubitare che il cerimoniale di corte sia la spia più significativa e adeguata a rivelare lo spazio reale di cui godevano le donne, nella fattispecie quelle aristocratiche, nella società napoletana della prima età moderna. Occorrerà, credo, rivolgersi ad altre fonti meno formali che, pur nella stringatezza dell’informazione, restituiscono pratiche di vita cortigiana esterne al ‘palazzo’. Le corrispondenze del residente veneto a Napoli segnalano tanto una maggiore libertà delle forme che una vivace mobilità dei viceré nel corso del Seicento. 4 Ecco una cernita di  







1

  Ivi, p. 140.   Sulle fortune familiari e i percorsi politici della casa di Lemos, nonché sulla morte del vi conte, Isabel Enciso Alonso-Munumer, Filiaciòn cortesana y muerte en Napoles. La trayectoria politica del vi conde de Lemos, in *Felipe II y el Mediterraneo, coordinador : Ernest Belenguer Cebria, vol. iii, t. 1, Madrid, 1999, pp. 514-561. 3   Antonio Paz y Melia, Etiquetas …, cit., p. 262. 4   Le notizie di cui sopra sono tratte dalle Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, Dispacci, vol. vii, a cura di Michele Gottardi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1991. 2



gli spazi femminili nei cerimoniali pubblici napoletani

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notizie raccolte in modo assolutamente irregolare dalle carte inviate al Senato. Il 28 dicembre 1632 il nuovo residente scrive di essere in attesa di essere ricevuto dalla viceregina. Il giorno 11 gennaio 1633 lo stesso segnala al Senato veneziano « Questa mattina ho avuto udienza dal viceré e l’ho trovato a letto cattarrato ». L’8 febbraio il medesimo scrive « Nuovi dispacci di Spagna al viceré non lasciano godergli con tutta la quiete il carnevale che soleneggia con festini e dame in allegria ». Il 15 febbraio il viceré è a caccia e, tornato, alla fine della settimana « ha fatto isforzo di far questa volta qualche cosa di più per non mostrar ch’il diletto sia la principal condotta ». Puntualmente, l’anno seguente, stesso mese e stesso giorno, il viceré è alle cacce attorno a Capua e vi ritorna ancora il 7 marzo. Arriva l’estate e il giorno 11 luglio il viceré si sposta a Posillipo dove vive con uno sfarzo « che meno il re » potrebbe vantare. Contrariamente all’immagine dimessa consegnataci dal cerimoniale, anche la viceregina si dà da fare e il 25 luglio 1634 viene vista accompagnarsi in barca con la principessa di Stigliano, probabilmente – insinua il residente – per discutere del matrimonio di Anna Carafa con il futuro viceré Medina de las Torres, matrimonio confermato il 9 settembre dello stesso anno. Il 4 dicembre 1635 il viceré, la viceregina e la corte sono fuori della capitale, ospiti del conte di Celano, Giovanni Piccolomini d’Aragona, per « goder delle cacce ». Nel gioco antagonistico tra il vecchio viceré conte di Monterey e l’aspirante nuovo viceré, duca di Medina, induce al sorriso la notizia trasmessa il 24 giugno 1636 che « sotto pretesto di purga va tuttavia differendo la partenza Monterey, né può Medina prender il possesso di questo governo onde resta senza alcun impiego tutto applicato a servire la principessa moglie ». In realtà la terapia, ancorché benefica, fu assai lunga, ma una volta restaurato, il Monterey continuò a cacciare assiduamente, non disdegnando il clima carnevalesco che a metà gennaio 1637 impazzava per la città riempiendola di « balli, mascherate, tornei e altre feste » che proseguirono fin oltre il 20 gennaio per festeggiare l’elezione del re dei Romani. Vi è tuttavia tempo sufficiente per tornare il 3 febbraio a cacciare rendendo « la corte sterile di negozi ». Un mese dopo, esattamente il 3 marzo, lo scoraggiato residente veneto scriveva al senato veneziano « Ancorché passato il carnevale non si sono però abbandonati i trattenimenti del signor viceré, il quale, prese le ceneri, è andato a Pozzuolo alle caccie dove ha condotto i comici, impeditogli qui con suo dispiacere dal cardinal Buoncompagno arcivescovo, far rappresentare cose sacre ». È probabile che proprio in questo scarto di prospettive, tra la rigidità del cerimoniale e spazi di privilegiata libertà, che l’immagine della corte riacquista un sapore di mediterranea tolleranza verso l’esercizio di un potere che, misurato sui parametri coevi del « servicio del rey » avrebbe meritato di cadere ben prima del 1707.  







































Università degli Studi di Napoli “Federico II” Il testo segue la presenza femminile nella società napoletana a partire dal Cinquecento, quando non appariva ancora del tutto evidente il ruolo della corte dei viceré spagnoli. Solo con gli anni trenta, con il viceregno di D. Pedro de Toledo (1532-1553), comincia a prendere forma la struttura di una corte distinta dalla casa particolar del virrey. Attraverso la documentazione superstite ( Juan de Garnica, Miguel Diez de Aux, Josè Raneo ), che si stende tra il 1595 e il 1634, è possibile comprendere ruolo e funzioni assegnate al mondo femminile negli atti che rappresentavano la corte vicereale nella sua dimensione pubblica. Viene esaminata, in particolare, la posizione della viceregina ed i suoi rapporti con l’universo aristocratico e cittadino della capitale. L’esito di questa ricostruzione testimonia di un ruolo complessivamente marginale e funzionale solo all’immagine di ricreare nella pareja vicereale una pallida emulazione della sovranità regia.

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This text traces the presence of women in Neapolitan society since the 16th century, when the role of the court of the Spanish viceroys was not so prominent yet. It was only in the Thirties, with the vice-reign of D. Pedro de Toledo (1532-1553), that the structure of a court separated from the casa particolar del virrey began to take shape. Through the surviving documents ( Juan de Garnica, Miguel Diez de Aux, Josè Raneo) dating to between 1595 and 1634, the role and functions of women in the deeds that represented the viceroy’s court in its public dimension began to be understood. In particular, this text looks at the position of the vice-reine and her relations with the aristocratic and urban milieu of the capital. The outcome of this essay is evidence of an overall marginal role, which was merely instrumental to the image of recreating a feeble imitation of royal sovereignty in the viceroy’s pareja. Ce texte suit la présence féminine dans la société napolitaine à partir du XVIe siècle, quand le rôle de la cour des vice-rois espagnols n’était pas encore tout à fait évidente. Ce n’est que dans les années 30, avec le vice-règne de D. Pedro de Toledo (1532-1553), que commence à prendre forme la structure d’une cour distincte de la casa particolar del virrey. À travers la documentation qui a survécu ( Juan de Garnica, Miguel Diez de Aux, Josè Raneo), et qui s’étend de 1595 à 1634, il est possible de comprendre le rôle et les fonctions attribuées au monde féminin dans les actes qui représentent la cour du vice-roi dans sa dimension publique. Est examinée en particulier la position de la vice-reine et ses rapports avec l’univers aristocratique et citoyen de la capitale. Le résultat de cette reconstruction témoigne d’un rôle dans l’ensemble marginal et fonctionnel uniquement à l’image de recréer dans la pareja du vice-roi une pâle émulation de la souveraineté royale. El texto estudia la presencia femenina en la sociedad napolitana a partir del siglo XVI, cuando no era completamente evidente el papel de la corte de los virreyes españoles. Habrá que esperar a los años treinta y a la llegada del virreinato de Don Pedro de Toledo (1532-1553), para que empiece a formarse la estructura de una corte que se diferencia de la casa particolar del virrey. A través de la documentación que ha llegado hasta nuestros días ( Juan de Garnica, Miguel Díez de Aux, José Raneo), que va del 1595 hasta el 1634, es posible comprender el papel y la función que se asignó al mundo femenino, en los actos que representaban a la corte del virrey, en su dimensión pública. De manera especial, se examina la posición de la virreina y sus relaciones con el universo aristocrático y con los ciudadanos de la capital. El resultado de esta reconstrucción nos muestra que tuvo un papel marginal en su conjunto y funcional sólo a la imagen, con la finalidad de recrear, a través de la pareja de los virreyes, una pálida emulación de la soberanía regia. Der Text folgt den Spuren der weiblichen Präsenz in der neapolitanischen Gesellschaft seit dem Cinquecento, als die Rolle des Hofs der spanischen Vizekönige noch nicht ganz klar hervortrat. Erst mit den Dreißigerjahren, mit dem Vizekönigreich von D. Pedro de Toledo (1532-1553), nimmt die Struktur eines Hofs Form an, der sich klar unterscheidet von der casa particolar del virrey. Mittels der bis heute verfügbaren Dokumentation ( Juan de Garnica, Miguel Diez de Aux, Josè Raneo), die den Zeitraum von 1595 bis 1634 umfasst, ist es möglich, die Rolle und die Funktionen zu verstehen, die in den Akten, die den Hof der Vizekönige in seiner öffentlichen Dimension darstellen, der weiblichen Welt zugeordnet waren. Es wird insbesondere die Stellung der Vizekönigin untersucht sowie ihre Beziehungen zur Aristokratie und den Bürgern Neapels. Das Ergebnis dieser Aufarbeitung beweist ihre insgesamt marginale Rolle, deren Funktion darin bestand, in der vizeköniglichen pareja das Bild eines schwachen Abklatsches des Königshauses zu schaffen.

DA ARIOSTO A MARINO, DA ALCINA A FALSIRENA : LA MAGA SEDUTTRICE FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE  

Francesco Guardiani

C

’è un’espressione particolare in inglese che descrive molto bene il mio stato d’animo in questo momento, soprattutto di fronte ai colleghi amici di vecchia data, mentre mi appresto ad avviare il discorso con una premessa condivisibile e, spero, utile. Mi sento proprio come a one trick pony, cioè come un cavallino da circo che sa fare soltanto un giochetto e ripete sempre lo stesso ad ogni occasione. Il giochetto riesce, è garantito, anche se c’è il rischio che annoi. Nel caso, abbiate pazienza. La premessa-giochetto consiste in un assioma di base di facile accettabilità, ma di inusitate e profondissime, per quanto non sempre visibili, implicazioni culturologiche. Parlo degli effetti della stampa a caratteri mobili considerati nel loro sviluppo storico, ovvero sull’asse cronologico. I primi libri stampati, da Gutenberg a Manuzio, ovvero dall’Alberti al primo Bembo, si chiamano incunaboli, cioè « nella culla ». Ora, se questo organismo vivente che è il libro tipografico ci mette cinquant’anni ad uscire dalla culla, come si fa a considerarlo maturo nei primi anni del Cinquecento ? Inoltre, se accettiamo che il libro a stampa non sia un mero supporto inerte di parole e idee, ma un contenitore che condiziona e determina il suo contenuto (ed è questo il punto di arrivo di Quondam nel suo saggio sul La letteratura in tipografia del 1983, e lo stesso di partenza di McLuhan in The Gutenberg Galaxy : The Making of Typographic Man del 1962), 1 allora mi sembra che potremmo ben tracciare un segmento del progresso storico dell’uomo tipografico sulla falsariga dell’uso e del riuso di un medesimo tópos. Dichiariamolo, quindi, e vediamo come possiamo impiegare il tópos dell’innamoramento di una maga che blocca l’azione dell’eroe trasformando lui e i suoi compagni in piante o animali. Il pensiero corre subito alla maga Circe, ma anche ad Alcina e a Falsirena passando per armida, con un salto di millenni da Omero ad Ariosto e poi, con molti meno anni di distanza, da questi a Tasso ed a Marino. Qui scelgo di mettere a fuoco lo spazio fra Ariosto e Marino, per osservarvi la ‘smoderata’ crescita, se mi si consente il termine, della applied technology della stampa dalla prima maturità all’inizio del Cinquecento, alla fase più adulta dell’inizio del Seicento. 2 Un periodo fondamentale nella vita di ogni medium è quello in cui esso comincia ad es 







1   Cfr. Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, a cura di Alberto Asor Rosa, vol. 2, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686. Cfr. Et. Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy : The Making of Typographic Man, Toronto, University of Toronto Press, 1962. 2   La nozione di applied technology è fondamentale nella teoria delle trasformazioni culturali di Marshall McLuhan e ricorre, con diverse descrizioni e applicazioni, in tutte le sue opere. Praticamente si tratta di un doppio assioma : innanzitutto va chiarito che quanto più un medium è potente e di ampio raggio di azione tanto meno saranno riconoscibili all’inizio i suoi effetti ; e quindi che quando il medium diventa più familiare e comune e i suoi affetti sono riconosciuti, allora la sua applicazione diventa più conscia e sistematica. È questo secondo momento, nella vita del medium, che corrisponde alla fase di applied technology. I rimandi possibili sarebbero numerosissimi, ma basti quello ai capitoli iniziali, teorici, di Understanding Media : The Extensions of Man (New York, McGraw-Hill, 1964), e alle pagine illustrate di Counterblast (scritto con Harley Parker), NewYork, Harcourt, Brace & World, Inc., 1969.  







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francesco guardiani

sere impiegato con piena coscienza dei suoi effetti e in un panorama culturale più ampio di quello in cui è nato ; ed è questo il periodo che viene detto (è un sintagma di McLuhan) di ‘tecnologia applicata’. È facile riconoscere l’importanza di questa nozione nella differenza fra l’incunabolo e il libro a stampa del Cinquecento. Meno ovvia, forse, ma ugualmente significativa sarà anche la valutazione delle differenze, nell’impiego di un tópos comune, dal primo Cinquecento al primo Seicento. Sarebbe stata opportuna anche una stazione intermedia : l’Armida della Gerusalemme qualcosa dovrà pur significare, ma a me oggi sta a cuore soprattutto mostrare il grande spazio evolutivo nella percezione simbolica della donna seduttrice nell’arco di un secolo tipografico tutt’intero, o quasi, dall’Orlando Furioso all’Adone. Ho detto spazio evolutivo anche se, chiaramente, ogni personaggio (Alcina, Armida o Falsirena) è perfettamente compiuto, perché quel che conta è il cambiamento di percezione del personaggio lungo una linea cronologica che è quella, propriamente, della modernità tipografica o modernità tout-court. Gli effetti della stampa sono numerosi e di diversa specie. Osserviamo di seguito i più ovvî, e mettiamo a fuoco quello (uno solo) di cui ci occuperemo nella nostra analisi comparativa fra la figura di Alcina e quello di Falsirena nel corso di vari episodi e situazioni parallele. Dalla produzione di libri a basso costo viene l’alfabetizzazione delle ‘masse’ (termine, si capisce, relativo). Dalla democratizzazione del sapere proviene lo shift o spostamento di priorità, nella percezione sensoriali, dall’udito alla vista (in una società di analfabeti il libro si ascolta dalla voce di chi ha il potere, cioè il potere di leggerlo). La priorità visiva privilegia l’analisi sulla sintesi, la razionalizzazione analitica sulla impressione gestaltica. La definizione del perimetro dell’oggetto osservato ne permette la divisibilità, e le parti risultanti sono a loro volta divisibili fino alle dimensioni minime. Nell’ambito accademico e scientifico la stampa favorisce la specializzazione. Nascono le parcellizzazioni del sapere che portano alla Libraria di Anton Francesco Doni, alle enciclopedie di Tommaso Garzoni, ovvero alla Piazza universale di tutte le professioni del mondo e, in ambito criticoletterario, alle categorie e sottocategorie della Poetica finalmente vulgarizzata et sposta dal Castelvetro dopo tanto latinorum. Nell’ambito socio-culturale più ampio la specializzazione, favorita dal libro a stampa, si traduce nella nascita del punto di vista individuale, come quello di ogni buon luterano con la sua Bibbia personale sottobraccio. Ed è la creazione dell’individuo, alla fin fine, che corrisponde alla base della democrazia moderna. Nella nostra analisi la creazione dell’individuo moderno corrisponde alla singolarità del personaggio, ovvero alla sua autonomia pur nel rispetto della tradizione, a livello formale, con un equilibrio instabilissimo e con forti tensioni epistemologiche che proveremo fra poco a scorgere nel personaggio di Falsirena. Ma per cominciare rivolgiamoci ad Alcina. Alcina, il nostro punto di partenza che per l’Ariosto è il punto di arrivo del personaggio dopo la navigazione attenta nel mare magnum dell’Innamorato, viene dalla Circe omerica con poche varianti. Falsirena, il nostro punto di arrivo, è un personaggio della stessa famiglia, ma con Marino l’identità del personaggio si fa più complessa : la maga si innamora dell’eroe, come da copione, ma gli sviluppi diversi dell’innamoramento e le implicazioni psicologiche che si traggono dal ritratto del personaggio ci conducono all’interno del un ‘romanzo’ moderno. La stampa ha prodotto una mutazione antropologica, ha prodotto, cioè, l’uomo tipografico che rappresenta l’individualità reggente della modernità. Qui intendo mettere in evidenza come il nuovo personaggio della maga innamorata in Marino, con tanto di pedigree mitologico e pur esibendo i suoi connotati ariosteschi, in effetti è una creazione nuova che somiglia soltanto a sé stessa. La seguiremo allora per riconoscerne e valutarne l’individualità nuova che la trasforma da maga cattiva in perso 





la maga seduttrice fra tradizione e innovazione

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naggio positivo, che la redime da ogni colpa associata al suo vecchio ruolo di seduttrice e ne giustifica le azioni meno nobili in virtù di un autentico e sacrosanto sentimento amoroso. La maga seduttrice nelle mani di Marino diventa una giovane donna innamorata e vergine, cioè l’esatto contrario della « puttana vecchia » Alcina (OF, VII.79). Falsirerna è una giovane donna scossa da una passione amorosa incontrollabile, nobile e pura, nella sua espressione poetica, come quella, finta o vera non conta, di ogni petrarchista innamorato che si rispetti. Vediamo ora di verificare questi assunti ripercorrendo le descrizioni dei due personaggi. Il ruolo di Alcina, maga e seduttrice, è certificato da un doppio episodio nell’Orlando furioso. Alcina seduce Alstolfo e poi seduce Ruggiero. Il primo racconta la sua disavventura al secondo il quale la rivive. La curiosa cattura di Astolfo per mezzo di una balena ammaestrata dà un’idea dello strapotere della maga quando va in calore. La seduzione di Ruggiero, invece, è più tradizionale, per così dire. I meccanismi della seduzione, una volta chiarita la straordinaria potenza della maga diventa un gioco voyeristico che Ruggiero abbraccia senza esitazioni, pudore o ripensamenti ; si bloccherà soltanto alla vista della « puttana vecchia » :  











Pallido, crespo e macilente avea Alcina il viso, il crin raro, e canuto : sua statura a sei palmi non giungea : ogni dente di bocca era caduto. (OF vii, 73) 1  



Possiamo ora spostarci dall’altra parte, ad osservare Falsirena. Non prima, però, d’aver ricordato che la descrizione di Alcina rientra nel « canone lungo » della bellezza femminile nel Rinascimento che ci ha insegnato a riconoscere Padre Pozzi. 2 La descrizione di Alcina (OF, vii, 11-15) va dalla « bionda chioma lunga, et annodata al petto colmo e largo » passando per « oro » (capelli), « avorio » (fronte), « due neri occhi, anzi due neri soli », il naso che « per mezo il viso scende » ; fra due vallette « la bocca sparsa di natio cinabro » in cui brillano « due filze di perle elette », quindi il collo, « il collo tondo » che è « bianca neve » così come il petto, « colmo e largo » è « latte ». La descrizione continua saltando le parti coperte, ma « ben si può giudicar che corrisponde / a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde » (versi di cui si ricorderà il Tasso nella gloriosa scena di Armida implorante di fronte ai Crociati sedotti dalla sua bellezza). 3 E si va quindi alle « braccia di misura giusta, alla candida man lunghetta alquanto e di larghezza angusta », e infine all’« asciutto e ritondetto piede ». Finita la descrizione abbiamo l’inevitabile effetto seduttivo su Ruggiero per nulla frenato dall’avvertimento chiarissimo di Astolfo :  































































Avea in ogni sua parte un laccio teso, o parli, o rida, o canti, o passo muova : né meraviglia è se Ruggier n’è preso, poi che tanto benigna se la truova. Quel che di lei già avea dal mirto inteso,  

1   Questa, e le citazioni che seguono, provengono da Ludovico Ariosto, L’Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 1966. 2   Giovanni Pozzi, Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione, « Lettere italiane », 31(1979), pp. 3-30. 3   « Mostra il bel petto le sue nevi ignude, / onde il foco d’Amor si nutre e desta. / Parte appar de le mamme acerbe e crude, / parte altrui ne ricopre invida vesta : / invida, ma s’a gli occhi il varco chiude, / l’amoroso pensier già non arresta, / ché non ben pago di bellezza esterna / ne gli occulti secreti anco s’interna » (c. iv. 31-32). Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1992.  









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francesco guardiani com’è perfida e ria, poco gli giova ; ch’inganno o tradimento non gli è aviso che possa star con sì soave riso. (OF, vii, 16)  

La strapotenza seduttiva della maga si rivela anche nel togliere dalla memoria di Ruggiero il ricordo di Bradamante ; l’eroe è quindi giustificato e assolto dal nuovo tradimento :  



La bella donna che cotanto amava, novellamente gli è dal cor partita ; che per incanto Alcina gli lo lava d’ogni antica amorosa sua ferita ; e di sé sola e del suo amor lo grava, e in quello essa riman sola sculpita : sì che scusar il buon Ruggier si deve, se si mostrò quivi inconstante e lieve. (OF, vii, 18)  





Falsirena e Adone sono tutt’altra cosa, e non solo per il ruolo passivo del giovane, ma soprattutto per la natura del sentimento della vergine Falsirena. Vediamo un po’ di fare conoscenza con questa novella Circe, novella Alcina. Ce la presenta (o meglio la presenta ad Adone, la driade Silvania : Falsirena è « la dea dele delizie... / di Proserpina figlia e di Plutone » (Ad xii, 123). Falsirena è ricchissima, è la dea dell’oro, e i tesorieri suoi sono i suoi stessi genitori (Ad xii, 124-26). È anche dotta, ma ciò che più conta qui osservare è che, pur bella quanto Venere (ma non abbiamo le sue bellezze elencate come quelle di Alcina), non è mai stata innamorata :  







Oltre l’avere ond’ella abonda tanto ch’ogni voglia può far contenta e paga ; oltre il saver, per cui riporta il vanto dela più dotta e più famosa maga, vedrai beltà di cui non mira in quanto circonda il sol la più leggiadra e vaga ; beltà che con colei contende e giostra ch’adoraper sua dea l’isola nostra. Falsirena s’appella ed è ben tale che non le manca ogni perfetta cosa, se non che ‘l fasto in lei tanto prevale che non la scaldò mai fiamma amorosa. Non cura amante, ch’al suo merto eguale degno non sia di sì pregiata sposa ; né trovando di sé suggetto degno non vuole a basso amor piegar l’ingegno. (Ad xii, 127-128) 1  





Torno a insistere, dopo queste parole, sulla unicità dell’innamoramento di questa maga, ricordando che l’inversione dei ruoli dei personaggi protagonisti (Venere che assume caratteristiche maschili e Adone, per contro, femminili) certamente non spiega il personaggio di Falsirena e la sua curiosa inesperienza sentimentale. Eppure è proprio su questa inesperienza che Marino calca la mano. Mi si perdoni la lunghezza delle citazioni, ma 1   Il testo, qui e di seguito è quello dell’edizione di Pozzi : Giovan Battista Marino, L’Adone, a cura di Giovanni Pozzi, Milano, Mondadori, 1976.  

la maga seduttrice fra tradizione e innovazione

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quelle che seguono sono ottave bellissime e rivelatrici, e così anche in musica per virtù del genio di Sigismondo d’India che vi pescò preziosi e rari Pensieri di novella amante (un titolo probabilmente del Marino) per Le Musiche sue del 1615. 1 Prima di leggere dell’innamoramento di Falsirena, ricordiamoci di quello di Alcina, nelle parole di Astolfo : « Guardommi Alcina ; e subito le piacque / L’aspetto mio, come mostrò ai sembianti ; / E pensò con astuzia e con ingegno / Tormi ai compagni, e riuscì il disegno » (OF, vi, 38), ovvero l’inganno della balena-isoletta. Ed ecco, invece, la maga innamorata di Adone, tutta patemi, vergogne e timori.  









Tosto ch’ella in Adon fermò le ciglia, pria ferita che vista esser s’accorse. Stupor, timor, vergogna e meraviglia la tenner dubbia e dela vita in forse. Pallida pria divenne, indi vermiglia e per le vene un gran tremor le corse. Sente quasi per mezzo il core aprirsi né sa con l’arti sue punto schermirsi. Falsirena, che miri ? a che più stai sospesa sì ? Quest’è il sembiante istesso lungo tempo temuto. Eccoti omai del’ombra il ver. Che miri ? egli è ben desso. Questi son pur que’ luminosi rai che già tanto fuggivi, or gli hai dapresso. Perché non schivi il tuo dolor fatale ? dov’è il tuo senno ? o tua virtù che vale ? Mira e non sa che mira e mira molto ma poco pensa e sospirando anela. Varia il colore, il favellar l’è tolto, sta confusa e smarrita, avampa e gela. Tien fiso il guardo in quel leggiadro volto, non palesa i desiri e non gli cela. Abbassa gli occhi per fuggir l’assalto, poi le mani incrocicchia e gli erge in alto. (Ad xii, 174-76)  











Che dire di fronte a questa vergine innamorata, di fronte a questo personaggio che dovrebbe, per tradizione antica, essere negativo e, anzi, cinico e spietato, mentre qui si rivela così delicato ? Magari viene anche da pensare che Marino abbia voluto scherzare, richiamandosi alla tradizione per il gusto bizzarro di sovvertirla. Ma qui non si tratta di un’immagine sporadica : Falsirena, l’anti-Venere che a questa non cede per bellezza, è un personaggio principale del poema e la sua identità comporta delle implicazioni che riguardano l’intero assetto del poema, come si vedrà più sotto. Non si tratta quindi di un gioco retorico senza conseguenze, ma di una sistematica rettifica di un tópos che rientra in un disegno generale. Questo diventa ancora più evidente se stabiliamo un parallelo fra la situazione in casa di Alcina, dopo la cena con il nuovo ospite, Ruggiero e quella in casa di Falsirena, dopo l’incontro e la cena con Adone. È tutta giocata sull’erotismo la prima, tutta dedicata alle palpitazioni amorose di Falsirena innamorata la seconda situazione, ovvero le dieci ottave  



1   Cfr. Elisabeth Wright, Marino and music, in *The sense of Marino, a cura di Francesco Guardiani, Ottawa, Legas, 1994, p. 546.

160 francesco guardiani (Ad. xii, 198-207), zeppe di interrogazioni retoriche e di antitesi che mostrano il tormento amoroso della maga. Ecco Alcina e Ruggiero Tolte che fur le mense e le vivande, facean, sedendo in cerchio, un giuoco lieto : che ne l’orecchio l’un l’altro domande, come più piace lor, qualche secreto ; il che agli amanti fu commodo grande di scoprir l’amor lor senza divieto : e furon lor conclusioni estreme di ritrovarsi quella notte insieme. Finîr quel giuoco tosto, e molto inanzi che non solea là dentro esser costume : con torchi allora i paggi entrati inanzi, le tenebre cacciâr con molto lume. Tra bella compagnia dietro e dinanzi andò Ruggiero a ritrovar le piume in una adorna e fresca cameretta, per la miglior di tutte l’altre eletta. E poi che di confetti e di buon vini di nuovo fatti fur debiti inviti, e partîr gli altri riverenti e chini, et alle stanze lor tutti sono iti ; Ruggiero entrò ne’ profumati lini che pareano di man d’Aracne usciti, tenendo tuttavia l’orecchie attente, s’ancor venir la bella donna sente. Ad ogni piccol moto ch’egli udiva, sperando che fosse ella, il capo alzava : sentir credeasi, e spesso non sentiva ; poi del suo errore accorto sospirava. Talvolta uscia del letto e l’uscio apriva, guatava fuori, e nulla vi trovava : e maledì ben mille volte l’ora che facea al trapassar tanta dimora. Tra sé dicea sovente : - Or si parte ella ; e cominciava a noverare i passi ch’esser potean da la sua stanza a quella donde aspettando sta che Alcina passi ; e questi et altri, prima che la bella donna vi sia, vani disegni fassi. Teme di qualche impedimento spesso, che tra il frutto e la man non gli sia messo. Alcina, poi ch’a’ preziosi odori dopo gran spazio pose alcuna meta, venuto il tempo che più non dimori, ormai ch’in casa era ogni cosa cheta, de la camera sua sola uscì fuori ; e tacita n’andò per via secreta dove a Ruggiero avean timore e speme gran pezzo intorno al cor pugnato insieme.  























la maga seduttrice fra tradizione e innovazione Come si vide il successor d’Astolfo sopra apparir quelle ridenti stelle, come abbia ne le vene acceso zolfo, non par che capir possa ne la pelle. Or sino agli occhi ben nuota nel golfo de le delizie e de le cose belle : salta del letto, e in braccio la raccoglie, né può tanto aspettar ch’ella si spoglie ; ben che né gonna né faldiglia avesse ; che venne avolta in un leggier zendado che sopra una camicia ella si messe, bianca e suttil nel più escellente grado. Come Ruggiero abbracciò lei, gli cesse il manto ; e restò il vel suttile e rado, che non copria dinanzi né di dietro, più che le rose o i gigli un chiaro vetro. Non così strettamente edera preme pianta ove intorno abbarbicata s’abbia, come si stringon li dui amanti insieme, cogliendo de lo spirto in su le labbia suave fior, qual non produce seme indo o sabeo ne l’odorata sabbia. Del gran piacer ch’avean, lor dicer tocca ; che spesso avean più d’una lingua in bocca. (OF, vii, 21-29)  









Ed ecco Falsirena innamorata. [...] Ma non riposa intanto e non s’acqueta l’addolorata e misera donzella, ch’un mordace pensier, tarlo d’amore, l’è sprone al fianco e l’è saetta al core. Arde ma non ardisce e teme e spera tutta in ciò ferma e d’altro a lei cal poco e, come dritto ala sua patria sfera s’alza da terra il peregrino foco, così l’ali amorose apre leggiera verso i begli occhi ov’è suo proprio loco l’anima innamorata e dolcemente rimembrando e pensando erra sovente. Tacea la notte e la sua vesta bruna tutta di fiamme d’oro avea trapunta e senza velo e senza benda alcuna questa treccia a quell’altra inun congiunta, sì chiara e bella in ciel sorgea la luna che detto avresti « è certo il sol che spunta ; forse indietro rivolto a noi col giorno fa per novo miracolo ritorno ». Lascia le piume impaziente e sorge, poi del chiuso balcon gli usci spalanca,  





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francesco guardiani e ‘l pianeta minor per tutto scorge che le nubi innargenta e l’ombre imbianca. In un verron che nel giardin si sporge con la guancia s’appoggia insu la manca, con l’altra asciuga de’ begli occhi l’onde e soletta fra sé parla e risponde : – Ardo, lassa, o non ardo ? Ahi qual io sento stranio nel cor non conosciuto affetto ? È forse ardore ? ardor non è, ché spento l’avrei col pianto ; è ben d’ardor sospetto. Sospetto no, più tosto egli è tormento. Come tormento fia, se dà diletto ? Diletto esser non può, poich’io mi doglio, pur congiunto al piacer sento il cordoglio. Or, se non è piacer, se non è affanno, dunque è vano furor, dunque è follia. Folle non è chi teme il proprio danno ; ma che pro se nol fugge, anzi il desia ? Forse amor ? non amor. S’io non m’inganno, odio però non è ; che dunque fia ? Che fia, misera, quel che ‘l cor m’ingombra ? Certo è pensiero o di pensiero un’ombra. Ma se questo è pensier, deh perché penso ? Crudo pensier, perché pensar mi fai ? Perché, s’al proprio mal penso e ripenso torno sempre a pensar ciò ch’io pensai ? Perché, mentre in pensar l’ore dispenso non penso almen di non pensar più mai ? Penso, ma che poss’io ? se penso, invero la colpa non è mia, ma del pensiero. Colpa mia fora ben s’amar pensassi, amar però non penso, amar non bramo. Ma non è pur come s’amar bramassi s’amar non penso e penso a quelch’io amo ? Non amo io no. Ma che saria s’amassi ? Io dir nol so ; so ben ch’io non disamo. Non disamo e non amo. Ahi vaneggiante, fuggo d’amar, non amo e sono amante. Amo o non amo ? Oimé ch’amor è foco che ‘nfiamma e strugge ed io tremando agghiaccio. Non amo io dunque. Oimé ch’a poco a poco serpe la fiamma ond’io mi stempro e sfaccio. Ahi ch’è foco, ahi ch’è ghiaccio, ahi che ‘n un loco stan, perch’io geli ed arda, il foco e ‘l ghiaccio. Gran prodigi d’amor, che può sovente gelida far l’arsura, il gelo ardente. Io gelo dunque, io ardo e non sol ardo, son trafitta e legata e ‘nsieme accesa. Sento la piaga e pur non veggio il dardo, le catene non trovo e pur son presa. Presa son d’un soave e dolce sguardo  









































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che fa dolce il dolor, dolce l’offesa. Se quelch’io sento è pur cura amorosa, amor per quelch’io sento è gentil cosa. È gentil cosa amor. Ma qual degg’io in amando sperar frutto d’amore ? io frutto alcun non spero e non desio ; dunque ama invan, quando pur ami, il core. Cor mio, deh, non amar. Quest’amor mio se speme nol sostien, come non more ? Lassa, a qual cor parl’io, se ne son priva ? e se priva ne son, come son viva ? Io vivo e moro pur ; misera sorte, non aver core e senza cor languire, lasciar la vita e non sentir la morte ; ahi ! che questo è un morir senza morire. O dal’anima il core è fatto forte o anima è del cor fatto il martire o quel che ’l cor dal’anima divide è stral che fere a morte e non uccide. Ucciso no, ma di mortal ferita impiagato il mio cor vive in altrui. Quei ch’è solo il mio core e la mia vita l’aviva sì ch’egli ha sol vita in lui. Meraviglia ineffabile inudita, io non ho core e lo mio cor n’ha dui e, per quella beltà ch’amo ed adoro sempre vivendo, immortalmente io moro. Or amiamo e speriamo. Amor vien raro senza speranza ; io chiederò mercede. Credi che deggia Amor d’amor avaro a tant’amor mostrarsi, a tanta fede ? Io credo no, io credo sì : l’amaro nel cor pugna col dolce. Il cor che crede ? Spera ben, teme mal. Misero core, fra quanti rei pensier t’aggira amore. – (Ad. xii, 194-207)  























Come non riconoscere che il Marino abbia voluto, ricordando l’episodio di Alcina, metterne di luce la differenza rispetto alla sua Falsirena ? Il ritratto della nuova maga è tale da scombussolare tutta l’economia tradizionale del poema come genere : non si capisce più chi è il buono e chi è il cattivo, chi è l’ingannatrice e chi è l’ingannato. Falsirena, ‘la falsa sirena’, si rivela un personaggio honestissimo che contraddice nella sostanza (della sua intima, personale natura umana) il suo stesso nome (legato alle false apparenze di un vero mostro, un coccodrillo, che è l’altra sua identità, senza l’ausilio della magia). L’innamoramento la libera da ogni colpa, la rende grata al lettore e le dà una personalità singolare, una peculiare identità umana. Non siamo qui, semplicemente, di fronte a un personaggio straordinario creato dal genio del poeta napoletano, ma piuttosto di fronte a un segno vistoso, fra i tanti, della sua assoluta ‘modernità tipografica’. Marino ha ereditato immagini ready-made, tradizionali, di personaggi calati nel loro ruolo da secoli, cui egli ha dato un cervello e un cuore, una personalità individuale che mal rientrano nel disegno originale di cui pure portano le tracce.  



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Dopo Marino il poema epico non avrà più senso, non almeno nell’impiego di personaggi che hanno da aderire al ruolo prefissato dalla tradizione e dal genere. Forse è proprio con Marino che si può far cominciare la grande avventura del romanzo moderno. Mi rendo conto di come affermazioni del genere possano destare un certo senso di incredulità e magari anche di fastidio, ma L’Adone è un’opera così profondamente innovativa che può senz’altro essa stessa, giustificare queste affermazioni. Si pensi, per esempio, ad un altro singolarissimo episodio del poema in cui di nuovo, per mezzo dell’amore, si rovescia il giudizio su un personaggio tradizionalmente ritenuto negativo. Parlo dell’episodio della morte di Adone. Il personaggio negativo, il cinghiale assassino, viene antropomorfizzato dopo l’uccisione : trascinato dinanzi a Venere per essere giudicato per il suo misfatto, la bestia parla con eloquenza e passione :  



– Io giuro (o dea) per quelle luci sante che di pianto veder carche mi pesa, per questi amori e queste funi tante che mi traggono a te legata e presa, ch’io far non volsi al tuo leggiadro amante con alcun atto ingiurioso offesa ; ma la beltà, che vince un cor divino, può ben anco domar spirto ferino. Vidi senz’alcun velo il fianco ignudo, il cui puro candor l’avorio vinse, che per farsi al calor riparo e scudo dela spoglia importuna il peso scinse ; onde il mio labbro scelerato e crudo per un bacio involarne oltre si spinse. Lasso, ma senza morso e senza danno l’ispide labbra mie baciar non sanno. Questo dente crudel, dente rabbioso, d’ogni dolcezza tua fu l’omicida. Questo ale gioie mie tanto dannoso punisci e di tua man or si recida ; e come del’altrui fu sanguinoso, tinto del sangue suo si dolga e strida. Ma sappi, o dea, che se t’offese il dente, scusimi Amor, fu l’animo innocente. – (Ad xvii, 237-39)  





E così, come Falsirena, il cinghiale assassino acquista un’identità nuova, un’identità personale perché personale è il suo sentimento amoroso. La scoperta dell’individuo attraverso l’amore dev’essere avvenuta in Marino proprio con il personaggio del cinghiale perdonato da Venere. La dea gli riconosce, infatti, il diritto di essere sé stesso anche se questo vuol dire amare con violenza. È importante ricordare, a questo proposito che in una prima trattazione della morte di Adone il poeta presenta una Venere che non perdona affatto il cinghiale, ma che, anzi, si vendica su di lui. 1 Il cinghiale dunque è personaggio omologo 1   Ciò si desume da un’ottava, la 104, dei primi Sospiri d’Ergasto. Nell’idillio il poeta descrive una faretra istoriata con le immagini del mito di Adone : « Oltre evvi ancor, quando trafitto e d’ostro / tinto le vive nevi e ’l viso smorto / da l’orgoglioso e formidabil mostro / lo sventurato giovine vien morto ; / indi come romita in verde chiostro / la dea piange il suo ben, il suo conforto, / come vendichi il danno e quanto poi / canta il nostro Carin ne’ versi suoi ». Riporto il passo dall’edizione dell’Adone di Pozzi, cit., t. 2, p. 104. « Carino » è il primo pseudonimo del Marino che, comunque, già dal canzoniere del 1602 si chiamerà Fileno.  











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di Falsirena. Entrambi sono potenziati, per così dire, e redenti, dal loro individuale diritto di amare come ogni essere vivente. Che non si tratti solo di una curiosa somiglianza fra questi due personaggi tanto diversi e tanto distanti nelle rispettive zone del poema è provato da una terza figura emblematica della scoperta dell’individualità moderna in Marino. Mi riferisco a quella di Polifemo, espressione del furore primitivo e selvaggio con evidenti connotazioni sessuali. Si tratta, indubbiamente, di un riflesso della figura del cinghiale. Polifemo è « il terror di Sicilia, il mostro infame / di cui più fiera e spaventosa belva / non vive in tana e non alberga in selva » (Ad. xix, 135). Come il cinghiale, anche il fiero gigante ammazza un giovinetto, ovvero il tenero Aci (figura Adonidis) « un pastorel sicano, / che fu di Galatea l’unico foco » (Ad. xix, 127). Ebbene, proprio dopo aver ammazzato il giovinetto, il mostruoso gigante si rivela amante sensibile e delicato. Qui il genio di Marino fa una cosa che non era stata neanche lontanamente immaginata, nel ’500, dal libero volgarizzatore di Ovidio in ottava rima, Giovanni Andrea dell’Anguillara (che introduce il suo lavoro dichiarando di tradurre Ovidio con la stessa libertà usata da Ariosto nel « tradurre » Boiardo), né dagli interpreti suoi contemporanei delle Metamorfosi, ovvero Luis Góngora e Tommaso Stigliani. L’individualità del gigante mariniano viene esaltata dalla fusione di due distinti episodi in Ovidio. Nell’Adone il Polifemo, uccisore di Aci, viene accecato da Ulisse. I due episodi sono direttamente collegati da Marino che così dà all’accorato, lunghissimo canto d’amore del gigante cieco la palma della poesia che innalza alla più alta umanità la natura bruta. L’umanizzazione di Polifemo, paradossalmente, è certificata dalla sua deificazione, ovvero dal premio dell’immortalità ottenuta per mezzo della metamorfosi, che lo accomuna ad Adone e a tutti gli altri giovani amanti (Aci compreso, la sua vittima) del canto xix (« La sepoltura »), ott. 232. Siamo partiti dalla tradizione, ovvero dall’immagine della maga ricca d’anni, e anzi di secoli, crudele e cinica, che cattura e imprigiona gli amanti con la sua avvenenza e i suoi inganni, e siamo approdati all’innovazione, ovvero a una maga vergine, compagna di destino, nell’innamoramento e nella redenzione, di due assassini, ovvero di una bestia feroce e di un mostro disumano. Il campionario mariniano delle nuove individualità del nuovo mondo dell’Adone, ovvero del « gran teatro del mondo » dell’ultimo ‘spettacolare’ canto del poema (canto xx, « Gli spettacoli »), è amplissimo. Il grimaldello che al Marino ha aperto la porta della modernità è stato l’amore, l’amore che in tutte, o quasi, le sue espressioni è presente nell’Adone (« Ardisco ben di dire che pochissimi concetti potranno forse sovvenire a chi che sia, pertinemti alla materia d’amore, ch’io in questo libro non gli abbia almeno tochi »). 1 L’amore dunque da enciclopedia, come somma di ‘concetti’, ma anche e soprattutto come sentimento individuale, cioè che caratterizza la persona e non il simbolo o la figura : Falsirena, insomma, il personaggio nuovo, e non la maga seduttrice della tradizione. E per questo forse si può dire, per concludere, che proprio nell’Adone, nel personaggio di Falsirena e dei suoi omologhi, possiamo riconoscere lo spartiacque fra les anciens et les moderns : non certo per riprendere l’annosa querelle, ma piuttosto per riconoscere in quest’opera meravigliosa e per secoli male intesa un punto di riferimento solido e affidabile per spiegarci la modernità della cultura del Seicento.  































University of Toronto 1   Giovan Battista Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, lettera n. 157, p. 293.

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In questo articolo si afferma, innanzi tutto, che non sono da mettere in dubbio le vistosissime trasformazioni culturali occorse in ambito letterario come conseguenza della diffusione dei libri a stampa. Il periodo considerato va dal 1532 al 1623, ovvero dalla pubblicazione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto a quella dell’Adone di Giovan Battista Marino. Oggetto specifico dell’analisi è il tópos comune della maga che blocca l’azione dell’eroe trasformandolo in pianta o animale. L’origine del tópos è antica, omerica, ma qui se ne osserva soltanto la ‘evoluzione’ da Alcina a Falsirena. Dall’analisi risulta che mentre l’Ariosto fa un uso del tópos nel pieno rispetto della tradizione, il Marino ne fa invece un uso spregiudicatamente moderno. In perfetta sintonia con l’esigenza di esaltare il punto di vista individuale, il che per Marshall McLuhan corrisponde a una caratteristica fondamentale della cultura tipografica, il poeta napoletano assegna alla maga dell’Adone una personalità particolarissima. Mentre per l’Ariosto, infatti, la discendente di Circe è una turpe “puttana vecchia”, per il Marino sarà una delicata vergine innamorata. The first point of this article is that there should be no doubt on the recognition of the enormous cultural transformations occurred in literature as a consequence of print technology. The period considered here spans from 1532 to 1623, that is to say from the publication of Ludovico Ariosto’s Orlando furioso to that of Giovan Battista Marino’s L’Adone. The specific object of analysis is the common tópos of the sorceress that blocks the action of the hero by transforming him into a plant or animal. The origin of the tópos is ancient, since it began with Homer, but here we only observe its ‘evolution’ from Alcina to Falsirena. The results of the analysis show that while Ariosto makes a traditional use of the tópos, Marino makes an openly ‘modern’ use of it. In total adherence with the principle of the single’s point of view, which for Marshall McLuhan is the main feature of typographic culture, the Neapolitan poet assigns a very peculiar personality to the sorceress of L’Adone. While for Ariosto, in fact, this descendant of the Circe sorceress is a vile “old whore” for Marino she is a delicate virgin in love. Cet article affirme avant tout que les évidentes transformations culturelles du domaine littéraire dues à la diffusion des livres imprimés ne sont absolument pas à remettre en cause. La période considérée va de 1532 à 1623, c’est-à-dire de la publication du Roland furieux de Ludovico Ariosto à celle de Adone de Giambattista Marino. L’objet spécifique de l’analyse est le cliché commun de la magicienne qui bloque l’action du héros en le transformant en plante ou en animal. L’origine du cliché est antique, homérique, mais on n’en observe ici que l’‘évolution’ de Alcina à Falsirena. L’analyse montre que tandis qu’Ariosto fait un usage du cliché dans le respect total de la tradition, Marino en fait au contraire un usage moderne et sans préjugés. En parfaite harmonie avec l’exigence d’exalter le point de vue individuel, qui pour McLuhan correspond à une caractéristique fondamentale de la culture typographique, le poète napolitain attribue à la magicienne de Adone une personnalité très particulière. Alors que pour Ariosto la descendante de Circé est en fait une abjecte « putain vieille », pour Marino elle sera une délicate vierge amoureuse.  



En este artículo se afirma, en primer lugar, que las evidentes transformaciones culturales producidas en el ámbito literario por la difusión de los libros impresos son innegables. Se considera un período que va del año 1532 al 1623, es decir, desde la publicación de Orlando furioso de Ludovico Ariosto a la de Adone de Giovan Battista Marino. Objeto específico del análisis es el elemento temático común de la maga que bloquea la acción del héroe, transformándolo en planta o animal. El origen del topos es antiguo, homérico, pero aquí se analiza sólo la ‘evolución’ de Alcina a Falsirena. Del análisis resulta que Ariosto usa el elemento temático respetando totalmente la tradición, Marino lo hace de una manera moderna y sin prejuicios. En perfecta sintonía con la necesidad de exaltar el punto de vista individual, lo cual para Marshall McLuhan corresponde a una característica fundamental de la cultura tipográfica, el poeta napolitano da a la maga de Adone una personalidad muy especial. Efectivamente, mientras que para Ariosto, la descendiente de Circe es una infame “puta vieja”, para Marino es una delicada y virginal enamorada. Dieser Artikel erläutert insbesondere, dass die auffälligen kulturellen Veränderungen im Bereich der Literatur als eine Folgeerscheinung der Verbreitung des Buchdrucks angesehen werden müs-

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sen. Der untersuchte Zeitraum umfasst die Jahre 1532 bis 1623, das heißt von der Publikation des Orlando furioso von Ludovico Ariosto bis zu derjenigen des Adone von Giovan Battista Marino. Die Analyse konzentriert sich insbesondere auf den allgemeinen Topos der Zauberin, die den Helden in seinen Taten behindert, indem sie ihn in eine Pflanze oder ein Tier verwandelt. Der Topos ist homerischen Ursprungs und damit sehr alt, doch hier geht es allein um die ‘Evolution’ von Alcina zu Falsirena. Aus der Analyse geht hervor, dass Ariosto sich des Topos’ unter Berücksichtigung der Tradition bedient, während Marino ihn unbefangen modern verarbeitet. In perfekter Übereinstimmung mit dem Bedürfnis, den individuellen Standpunkt hervorzuheben, was für Marshall McLuhan einer grundlegenden Charakteristik der Kultur des Buchdrucks entspricht, weist der neapolitanische Dichter der Zauberin in Adone eine ganz spezielle Persönlichkeit zu. Insofern ist die Nachfolgerin der Circe in Ariosto eine schamlose „alte Hure”, in Marino dagegen eine zarte und verliebte Jungfrau.

PENELOPE NELLE TRAGEDIE DI GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA : DA MITO A PERSONAGGIO  

Françoise Decroisette Penelope : Se gli dei ti danno una vecchiezza meno amara, ci resta la speranza di essere un giorno scaricati dai nostri mali, Odissea, xxiii, 286-287.  

I

n un suo saggio del 1989 1 sul teatro di Giovan Battista della Porta, Raffaelle Sirri rimpiangeva la scarsità degli studi sulle tre ‘tragedie’ scritte tra il 1580 e la fine della vita, Penelope pubblicata nel 1591, 2 Georgio, stampata nel 1611 3 e Ulisse, pubblicata nel 1614, 4 e spingeva gli studiosi a rileggerle « con occhio attento e con simpatia », tralasciando « le sintesi generalizzanti e le interpretazioni globali », per « indagini analitiche » più precise. 5 Il quadro di questo convegno diretto non agli studi teatrali ma più largamente a ‘studi femminili’, mi è sembrato uno spazio ottimo per rispondere a quest’invito, anche se con della Porta non si tratta proprio di Rinascimento, tutt’al più di tardo Rinascimento, tentando una rilettura di tipo drammaturgico delle due tragedie ‘estreme’ della produzione dellaportiana, che possiamo chiamare ‘omeriche’, attraverso la figura di Penelope, ricorrente in ambedue gli intrecci. Anche se, come ha notato lo stesso Sirri, la composizione discontinua delle due opere, la diversità delle fonti alle quali attinge l’autore, 6 e le motivazioni espresse dall’autore, portano piuttosto a considerarle indipendentemente l’una dall’altra e, per quanto riguarda più precisamente i personaggi, a vedere nella loro ricorrenza una ‘semplice concomitanza di riferimenti e di fatti’. 7 Ovviamente la pratica dei dittici o trittici teatrali che concede di allargare il tempo della narrazione e approfondire la psicologia dei personaggi scenici, è una pratica più tarda, addirittura settecentesca. Inoltre, da quanto possiamo dedurre dagli elementi testuali o paratestuali pervenutici può anche risultare difficile, e persino abusivo, abbinare le due opere all’interno di una intenzione di scrittura unitaria, coerente ed evolutiva. È stato dimostrato come, dal prologo argomentativo, te 











1

  Raffaelle Sirri, Sul teatro del Cinquecento, Napoli, Morano, 1989, pp. 369-396, in particolare pp. 371 e 395.   Giovan Battista della Porta, Teatro, primo tomo-Tragedie, a cura di Raffaelle Sirri, Edizione nazionale delle opere, Edizioni scientifiche italiane, 2000, pp. 3-5. La data della pubblicazione della Penelope che appare sulla prima edizione appresso gli eredi di Mattio Cancer, è 1591, ma la scrittura è considerata anteriore nel 1580, prima degli scontri di della Porta con la Curia e l’Inquisizione. 3   R. Sirri, introduzione a Il Georgio, in G. B. della Porta, Teatro …, cit., pp. 167-170. 4   La data della composizione di Ulisse è più certa, probabilmente negli anni 1612-1614. Dell’Ulisse si è ritrovato un frammento autografo, recentemente rivelato da Eugenio Refini, « Giornale storico della letteratura italiana », 184 (2007), 605, pp. 43-70. 5   R. Sirri, Sul teatro del Cinquecento, cit., pp. 384 e 395. 6   La prima è « un rifacimento amplificato del racconto omerico del ritorno d’Ulisse, questa (Ulisse) vuol essere sviluppo del racconto e interpretazione psicologica ottenuto lavorando di fantasia sulla materia del Ciclo Epico e in particolare sulla Telegonia », in G. B. della Porta, Teatro, introduzione all’Ulisse, cit., p. 331. 7   Ivi : « L’Ulisse è [...] una tragedia classicistica, ambiziosa e problematica, che soltanto per concomitanza di riferimenti a fatti e personaggi si collega alla sua prima tragedia, la Penelope ». 2















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françoise decroisette

orico più che drammatico, premesso alla Penelope, si potesse dedurre che, nello scegliere l’episodio omerico del ritorno di Ulisse, della Porta intendeva sopratutto disporre di una storia che gli permettesse una ‘sperimentazione scenica’ – secondo lui ancora inauditaper poter offrire allo spettatore una « istoria reale, sublime ed alta di maestà, di tragico apparecchio » (v. 5-6), che nel contempo doveva essere « tutta d’allegrezza colma » (v, 12). Come è già stato sottolineato, 1 con questa scelta, della Porta pretendeva inserirsi nei dibattiti del tempo sulla tragedia e sul tragicomico (accanto a Guarino, Giraldi Cinthio ecc), e imporsi come ‘inventore’ della tragicommedia o, perlomeno, come promotore di una messa in pratica dei dibattiti contemporanei sulla forma mista. Nel racconto omerico del ritorno di Ulisse, tragico per lo statuto regale dei personaggi principali e per l’intervento delle deità che incombono sul loro destino, se si escludono gli episodi sanguinosi, solo raccontati, della prova dell’arco imposta da Penelope ai Proci e della conseguente morte cruente di questi, l’orrore tragico non colpisce gli eroi protagonisti, dato che il racconto omerico del ritorno d’Ulisse si conclude su un ‘lieto fine’ umano e non meraviglioso. Almeno per quanto riguarda la Penelope, è dunque ovvio che, più che proporre una sua interpretazione della figura classica della sposa casta e costante, a della Porta interessava fare della sua ‘pièce’ un manifesto di poetica teatrale, col quale mettere in pratica la sua volontà di trovare una via di mezzo tra il rispetto delle regole aristoteliche, sottolineato dal prologo, 2 e di proporre nuove soluzioni rappresentative, sfuggendo, come scrive Sirri, sia « i grovigli catartici delle varie Orbecche e Torrismondo », sia la « tradizione senechiana, rappresentata dalla Sofonisba del Trissino » : così che le opere tragediografiche devono essere considerate « sperimentazioni di piani programmatici [...] elaborati a ridosso della Poetica di Aristotele ». 3 L’annuncio della pubblicazione di un trattato dellaportiano diretto a determinare le nuove regole di scrittura, inserita nell’avviso ai lettori premesso dall’editore Pompeo Barbarito all’edizione princeps della Penelope, conferma questa posizione. 4 La selezione dei vari episodi omerici riscritti nei cinque atti di questa versione teatrale dellaportiana del ritorno di Ulisse va dunque letta in questa ottica, in particolare l’importanza scenica conferita, accanto alla coppia reale, ai personaggi del registro non sublime e comico : il pastore Melanzio che pascola la gregge e dà calci ad Ulisse (iii, 2, da Odissea, xvii, 210-289), il mendicante Iro che provoca Ulisse in duello (iii, 5 ; Odissea, xviii, 1-157), o ancora Melanto la sfacciata damigella di Penelope (Odissea, xviii, 321-325), rappresentata in un piacevole duetto amoroso con Eurimacco, 5 personaggi e situazioni che saranno poi elementi obbligati nelle varie riscritture melodrammatiche del ritorno, nel Seicento, e sopratutto del Settecento. 6  

























1   Vedi R. Sirri, nella introduzione all’Ars reminiscendi, nell’Edizione nazionale …, cit., vol. 3, 1996 e Achille Mango, Tradizione e novità nel teatro di Giovan Battista Della Porta, in Giovan Battista della Porta nell’Europa del suo tempo, prefazione di Eugenio Garin, Napoli, Guida, 1990, pp. 469-479. E anche il più anziano Raffaele Sirri, L’attività teatrale di Giambattista della Porta, Napoli, De Simone, 1968. 2   « E se pur morti vi saranno alcuni, sol raccontar l’udrete », Prologo della Penelope, 13-14. 3   R. Sirri, Sul teatro del Cinquecento, cit., p. 372. 4   « Sperando forse di far stampar anche un trattato dove si vede l’arte vera di comporle, intesa sin ora da pochi, con le regole cavate non pur d’Aristotele e dalle antiche comedie, ma inventate ed osservate da lui in altra maniera … ». Con questo, della Porta sembra aver anticipato il trattato di Lope de Vega, L’arte nuevo de hacer comedias in este tiempo (1609). 5   Eurimacco sale, come Romeo, su una scala per raggiungerla (iii, 7). 6   La più celebre è Il Ritorno d’Ulisse in patria di Jacopo Badoaro per Monteverdi (1641), dove Iro diventa un servo balbettante, codardo e ghiottone, e la parte di Melanto è molto sviluppata. Esiste anche un “componimento dramatico” di Giovan Andrea Moniglia, stesso titolo, musica di Jacopo Melani, scritto nel 1670 per i granduchi di Toscana, diviso in tre “azioni” diverse situate nell’isola di Circé, nell’isola delle Sirene, poi a Itaca, dove Penelope ha una parte realmente marginale. Penelope è eroina cara al Settecento lirico, forse per la nuova attenzione allo statuto della donna. Vedi le Penelope di Draghi 1670, Scarlatti 1696, Galuppi 1741, Cimarosa 1749, Jommelli 1754, Piccinni, 1785, Marmontel, 1785.  







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Per l’Ulisse, la volontà sperimentale non è testimoniata da nessun prologo e da nessun testo programmatico. Dalla lettera del 2 giugno 1612 dove della Porta dichiara di stare « ordendo una tragedia difficilissima » sulla morte d’Ulisse, « con gran fatica » data la mancanza di fonti precise, 1 possiamo nondimeno dedurre che l’Ulisse, rivendicata espressamente come ‘tragedia’, fosse per della Porta una ultima sfida di scrittore, la puntata finale di un percorso riflessivo sulla scrittura tragica : un ritorno a una tragedia ‘pura’, classica, né comica, né a ‘lieto fine’ come lo era Il Georgio, detto tragedia anche se in quella, il lieto fine, a differenza di quello della Penelope, avviene per via di un miracolo che rende la vita a una morta. Se coerenza c’è dunque, tra le due opere ‘omeriche’ di della Porta, sarebbe quindi una coerenza formale non contenutistica. Detto questo, se si passa dall’analisi del contesto letterario a quella della ‘natura interna’ dell’opera, del funzionamento drammaturgico del testo, si possono evidenziare, nella riscrittura scenica dellaportiana delle situazioni e dei personaggi desunti dalle diverse fonti, vari elementi drammaturgici che permettono di ipotizzare, se non una genesi unitaria, esclusa per la distanza cronologica che separa le due opere, almeno una coerenza nell’agire scenico dei personaggi e nel loro passare dalla narrazione alla recitazione. E proprio il percorso della figura della « sposa casta e fedele », nella Penelope e nell’Ulisse, da mito a personaggio, fa risaltare questa coerenza.  













Nella Penelope : la figura di Penelope tra sacro e tragico  

Secondo Alain Peyrefitte, nel racconto omerico, Penelope dovrebbe essere considerata protagonista centrale giacché, nell’intreccio, la reggia d’Itaca dove lei sta aspettando da vent’anni il marito è il luogo primario della diegesi, e il tempo zero dell’azione narrata è quel tempo preciso di ‘vent’anni dopo’ la partenza d’Ulisse, in cui Penelope deve finalmente decidersi a sposare uno dei principi pretendenti alle sue nozze. E invece, come scrive ancora Peyrefitte, Penelope appare come figura del silenzio e della solitudine, quindi antiteatrale. Lei intrattiene collo sposo assente un dialogo muto cominciato vent’anni prima, sicché « La vediamo meno di quanto la indoviniamo, e poco la sentiamo ». La solitudine di Penelope è una solitudine accettata, scelta, una forma di resistenza volontaria e non imposta da potenze superiori, ma resta una resistenza passiva più che attiva che non le apre la via all’eroismo tragico. Può essere considerata tragica solo per il suo statuto regale, lo è certo in ogni sua apparizione maestosa fuori dalla camera, con intorno le sue donne, a dichiarare instancabilmente la sua fiducia nel ritorno del marito, e con ciò il suo essere vivo e la propria esistenza. Più che tragica, la possiamo dire patetica se consideriamo le lacrime che l’accompagnano ad ogni sua apparizione. Silenziosa, solitaria e piangente, Penelope non è, sempre secondo Peyrefitte, un personaggio, è un mito, quello della sposa casta passata poi nella letteratura e nelle arti con gli epiteti topici, e per lo più virginei, di « Pudica, pia, sancta, candida, casta, castissima, purissima ». Se dunque sfida ci fu per della Porta, sarà stata quella di trasformare la ‘figura’ di Penelope in un ‘personaggio’ teatrale complesso, concedendole la parola e, attraverso quella, la presenza, la possibilità di ‘agire’ in scena, e di agire anche la scena, come personaggio reale, visibile e udibile. E per quanto l’autore sia ‘fedele’ letterariamente alla fonte, quest’agire scenico, diretto com’è a una ricezione precisa, trasforma necessariamente la figura. Rispettando ancora le cosiddette regole aristoteliche della Porta prende come avvio dell’intreccio il narrato omerico a partire dal canto xiii, quando Ulisse sbarca incognito a 2









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  Citata in R. Sirri, Teatro. Tragedie, cit., p. 332.   Alain Peyrefitte, Le Mythe de Pénélope, saggio del 1949, rist. Paris, Gallimard, 1977.

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Itaca, coll’aiuto di Minerva. I personaggi sono afferrati nel tempo e nello spazio preciso della diegesi dell’Odissea, allorché Penelope sta per affrontare l’ultima fase della sua lunga attesa, quando non le è più lecito rifiutare la scelta di un nuovo marito, e deve rinunciare a resistere. 1 La centralità della figura femminile, annunciata dal titolo, è marcata dal suo apparire ritardato. Come poi la Mirandolina goldoniana, e molti altri protagonisti celebri, e diversamente da quello che per esempio avviene nei vari « ritorni di Ulisse in patria », lei viene presentata prima attraverso il discorso di altri personaggi. Al fido Eumeo, interrogato dall’eroe travestito da mendicante sullo stato della moglie, viene affidata la carica di presentare, in stile manieristico, una sintesi della figura di Penelope, nella quale vengono ricordati tutti i dati mitici della protagonista : il suo silenzio, la sua solitudine volontaria, il suo pianto e la sua inamovibile costanza virtuosa, con una suggestiva insistenza sul « letto marital » del consorte conservato « immaculo e intatto », che nella fonte, lei dichiarava « caricato di pianto » (Odissea, xvii, 100), e « solido » (ivi, xxxiii, 177) :  























Eumeo : La misera Penelope infelice / vedova, afflitta, sconsolata e mesta / chiusa nel sommo degli odiati tetti / se stessa avendo e la sua vita a noia. Come falda di neve incontro al sole / a poco a poco si dilegua nel pianto / Serba lo letto marital con pura fede / del suo consorte, immaculo e intatto ... (i, 3, 593 -598).  

A partire da questa base, che è ancora ‘racconto’, dove Penelope è ancora agita da altri, della Porta costruisce la sua Penelope teatrale all’interno di una scansione di scene nelle quali lei affronta gli assalti verbali di quelli che la vogliono costringere alle nozze. La struttura drammatica è quella di una serie di ‘messe alla prova’ della costanza e della resistenza della protagonista da parte di vari personaggi desunti dalla fonte o inventati, e adattati alla ricezione contemporanea : il padre Icario, solo evocato nella fonte, col quale Penelope disputa a due riprese (i, 5, poi ii, 5) sulla necessità politica di mettere fine alla sua ‘vedovanza’ e alla sua attesa ; i Pretendenti, ridotti metonimicamente a Antinoo e Eurimaco, che esaltano la sua beltà e minacciano la vita di Telemaco (ii, 6) ; una Vecchia inventata (iii, 1), che appare una unica volta per esortare Penelope ad affermare il suo libero arbitrio di donna ed a godersi senza rimorso la sua fuggevole giovinezza : 2 un personaggio dal discorso epicureo e pragmatico, distinto dalla nutrice Ericlea, 3 passato poi anch’esso nel dramma per musica a Venezia sotto le veci delle varie vecchie, nutrici e meretrici. L’ultima prova è quella imposta da Ulisse stesso nel finale, dopo la strage dei Proci, allorché, riconosciuto da tutti, obbliga Telemaco ad annunciare alla madre la morte del marito per verificare un’altra volta la costanza della sposa (v, 3). Si tratta in realtà di una variazione sulla situazione narrata al canto xviii della fonte, quando Ulisse, sotto le vesti di mendicante, ascoltava, pure nascosto, i rimproveri lanciati da Penelope ai Proci e si rallegrava tra sé che lei abbia saputo strappare loro elogi e doni, pur resistendo alle loro lusinghe. Nella versione dellaportiana, l’ascoltare incognito dell’eroe è trattato come una scena buffa e l’eroe è ridotto a personaggio comico, nel quale, più che la soddisfazione per la resistenza della moglie e la sua prudente sagacità, spicca un piacere perverso e crudele provato dal marito a contemplare non visto le sofferenze della moglie, sottolineato dal  







1   Odissea, canto xviii, vv. 259-270, quando ricorda ai Proci gli ordini di Ulisse : « quando verrai la barba al mento di tuo figlio, lascia la nostra casa, poi sposa chi tu vuoi ». Citiamo a partire dalla traduzione francese di Philippe Jacottet, Club français du livre, 1955. 2   « E sappiate che donna senza amore / è come primavera senza fiori, / senza fonte acqua ed occhio senza luce » (iii, 1, 76-78), e più avanti : « consiste / nel vostro libero arbitrio sol eleggere uno / (marito dico) fra cotanti regi / e giovani pregiati, illustri e ricchi ... » (ivi, 103-105). 3   Nella Penelope dellaportiana, Penelope racconta il sogno premonitorio nel quale ha visto delle oche uccise da un’aquila a Ericlea, non a Ulisse travestito (i, 4 ; Odissea, xix, 535-545).  

















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suo rifiuto di cedere alla compassione suggeritagli dal figlio, che rovescia completamente i rapporti che intercorrono tra i due coniugi nella fonte : 1  

Ulisse : Or mio fora desio, pregiato figlio, / che tu non mi scoprissi alla consorte : / lasciami soddisfare ancor di questa / ultima esperienza del suo amore. / Dille ch’io sia già morto, e ‘n questo giorno / bisogna sia che si mariti a forza. (v, 3, 242-247) Telemaco : Bastivi o padre, quante ha per voi sparte / lagrime, e quanti affanni ella ha sofferti / che so ... o che l’ucciderà subito il duolo / o stillerà per gli occhi a poco a poco / quel poco omai di vita che gli avanza. (253-259) Ulisse : Però sii sempre pertinace in dirle / che si mariti, né per cosa ch’ella / o dica o facci abbi pietà di lei, / finché a me piacerà discovrirmi. [...] Io stando qui in disparte, vedrò il tutto : senza parlar e senza esser veduto / ascolterò fin tanto che mi piaccia. (264-273)  









Com’è suggerito anche dalle parole di Telemaco, dalla Penelope omerica quella dellaportiana conserva certo il pianto continuo, le abbondanti lacrime che hanno scandito il suo tessere diurno e lo stessere notturno 2 e sono per lei l’unico modo di affermare la sua resistenza, cioè di esistere e di far esistere ancora il marito. A teatro però, le lacrime passano da motivo poetico e topico a elemento drammaturgico, e fanno parte dell’agire scenico : così le lacrime dirotte che lei versa davanti al padre sono strettamente legate al suo prosternarsi in ginocchio davanti a lui, diventano uno strumento per agire sull’autorità paterna ; 3 lo stesso possiamo dire per le lacrime di sangue che, nel finale, lei dichiara al figlio di dover versare contro la sua crudeltà :  





Telemaco : Madre frenate il pianto ; e poiché privi / siam di tant’uom, convien or maritarvi, / che siete ancora d’età giovane e fresca. Penelope : Ohimè che ascolto ? Oh quanto giustamente / m’avresti il petto con la spada prima / che con queste punture il cuor trafitto, / onde versassi da le vene il sangue ! / Però convien che da l’occulta piaga / escan per gli occhi lagrime, che sono / sangue dell’alma’. (v, 4, 376-382)  









In questa ultima variazione dellaportiana sul motivo, risulta chiaro che la « casta e prudente Penelope » viene progressivamente confusa colle figure piangenti delle sante o vergini barocche che affollano la poesia, l’oratoria sacra, il teatro e l’arte, la Maddalena, e persino la Vergine dolorosa, dal cuore trafitto e sanguigno. 4 Da questa risposta dell’afflitta regina al figlio, spunta un altro tratto particolare della Penelope dellaportiana, che sviluppa e interpreta una qualità presente nella fonte, ma in modo minore, la Penelope madre contrapposta alla Penelope sposa. Nella fonte, Penelope è detta « madre tenera » quando difende il figlio dagli attacchi dei Proci, ma Telemaco « il saggio ragionatore » appare, sin dal canto primo, come perfettamente autonomo nei riguardi di lei : basta leggere come le ordina con autorità regale, e quasi coniugale, di tornare ai suoi lavori donneschi nella sua camera. 5 Nella Penelope, invece, il sentimento  













1   In Omero, l’eroe ordina invece al figlio che rimprovera aspramente alla madre la sua freddezza, di lasciare che sia lei a “mettere alla prova” il marito, Odissea, xxiii, 113-114. 2   « Il pianto che dagli occhi ora m’abbonda » (iv, 4, 413 - 414, ad Ulisse travestito), poi nel lungo racconto del suo stratagemma : « ma come poi / cominciavan le stelle a fiammeggiare, / stesseva i fili raddopiati e torti, / e quanto il dì tessea, tanto la notte / stessea, piangendo il caro marito ... » (ivi, 453-457). 3   Con un gesto preciso iscritto nel dialogo : « Ma perché m’abbracci, / o figlia, le ginocchia ? E perché piangi ? » (ii, 5, 529-530). 4   Vedi anche nel finale l’attitudine autosacrificale e il lessico di ispirazione religiosa e dottrinale usato col figlio per redimersi colla morte dalla responsabilità della strage dei Proci : « ed io colpevole son stata del mio fallo, / e [che] in questo peccato mai non ebbi / animo o voglia, andrò per queste mani / a inevitabil morte » (v, 4, 427430). 5   Odissea, i, vv. 356-360. Lo stesso al canto xxiii, nell’ultimo confronto col padre, dichiarando la madre “cattiva”, e “anima crudele”.  

















   





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che lega la protagonista al figlio è presentato come viscerale, legato al rapporto carnale che unisce una madre e la sua creatura cresciuta in lei e partorita, viene difeso e esaltato dalla protagonista come amore fondamentale, insuperabile, potenzialmente più forte dell’amore coniugale :  

Voi dovete stimar ch’entre duo corpi / una sol alma alberga, ed uccidendo / lui, non per questo ucciderete lui, / ma fuor col sangue verserà in un tempo / la mia vita, che alberga e vive in lui. (ii, 5, 745-749).

afferma Penelope ad Antinoo che lei accusa di voler uccidere il figlio. Quest’amore viscerale, carnale, nel quale il sangue della madre, e la sua vita, si confondono col sangue e la vita del figlio – di un figlio peraltro più volte dichiarato ‘unico’ –, rende Penelope più madre che moglie, e una madre quasi sacralizzata, confusa colla Vergine dolorosa, come già notato : così nell’ultimo atto, quando il figlio, a malincuore, ma obbedendo al padre, le consiglia fermamente di maritarsi di nuovo, ciò che evoca a sua difesa, più che lo ‘stupro’ del letto marital conservato immacolato e intatto di cui parlava Eumeo all’inizio, è lo ‘stupro’ impensabile del ventre della ‘madre’-vergine :  



Figlio potrai mirar con occhio lieto / ch’altri si goda di tua madre afflitta / e tocchi il grembo onde venisti al mondo ? (v, 3, 411-413)  

Il personaggio teatrale proposto da della Porta nella tragicommedia sembra quindi costruirsi intorno a questo sentimento materno più che intorno all’amore per il marito. O per lo meno l’amore materno si esprime con accenti più intimi e sinceri, che non l’amore, o il desiderio, per il marito. L’unica allusione a un sentimento amoroso, intimo, sta nell’ultima scena, dopo che Ulisse si è finalmente svelato, con la ripresa dell’episodio omerico del ‘letto’. Come nella fonte, Penelope, dubbiosa anche lei della veracità della presenza d’Ulisse, chiede alla nutrice di andare a cercare il letto dove passarono le prime notti d’amore, suscitando in Ulisse una breve evocazione, più borghese che omerica, dei loro abbracciamenti di vent’anni prima :  

Ulisse : Ohimè Lopa diletta, hai dunque mosso / il letto, che di legno era d’oliva [...] O pur tu così dici per tentarmi / se mi sovvien del letto ove giacemmo, / e del nome con cui solea chiamarti / fra le delizie nostre e tra piaceri ? (v, 5, 683-685) 1  



Questo amore ‘coniugale’, sociale, viene espresso, nella bocca di Penelope, mentre affronta gli assalti del padre, dei pretendenti e anche del figlio, con ripetute e pesanti ‘massime’ generali, sui doveri ed le virtù muliebri : tracce ovvie del proprio mito, 2 adattate alla ricezione contemporanea. Presenti per lo più nei passi in stichomitia, suonano come parole esteriori, imposte, imparate, con le quali lei indossa, per volontà dell’autore, la sua parte pedagogica – quella, forse più boccaccesca 3 che omerica,- esemplare, di modello convenzionale di comportamento per tutte le donne maritate, e lasciano in sospeso la questione della ‘sincerità’ della devozione muliebre del personaggio Penelope dellaportiano. 4  

1   A questo nomignolo, Penelope risponde usando anche diminutivo affettivo : « Lisso mio » (v, 5, 686). Vedi Odissea, xxiii, vv. 300-301. 2   Della Porta si mostra lettore acuto delle fonti supposte, se consideriamo che il matrimonio con Ulisse fu imposto a Penelope da suo zio, Tindare, re di Sparta, e che Icario era restio al matrimonio della figlia finché Ulisse le chieda di scegliere tra il padre e sé. In un certo senso, Penelope è “rapita” dal marito al proprio padre. 3   « ... onde imparar potran tutte le donne / quali esser denno verso i lor mariti » (prologo, 56). Forse della Porta pensava a Giovanni Boccaccio, De claris mulieribus (1361-1362) : cap. xl. De Penelope Ulixis coniuge : « Penelopes Ycari regis filia fuit et Ulixis strenuissimi viri coniunx : illibati decoris atque intemerate pudicitie matronis exemplum sanctissimum et eternum ». 4   Vedi le parole proferite ad Antinoo, per difendersi dagli attachi dei pretendenti : « Non ha possanza tal la lunga  























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A differenza delle eroine sacre, la Penelope-madre di della Porta può sprigionare verso i nemici, per salvare il figlio, sentimenti più cupi e violenti, che la Penelope omerica teneva nascosti, 1 conferendole una reale autonomia nei confronti del proprio mito :  

Penelope : Voi le robbe struggete di colei / che cercate per donna e vostra moglie, / ricercate la grazia di colei /a cui volete uccider il suo figlio, / e con fiere minaccie impaurite / chi ridur desiate a’ desir vostri : /.... Fate prima che v’odii che cominci / ad amarvi. Or non sapete amor con ira / ch’odio chiamar si dee piutosto o rabbia ? (ii, 6, 775-785)  





Questa interrogazione minacciosa mette in evidenza il modo con il quale la Penelope dellaportiana usa la sua nuova capacità oratoria : come un’arma offensiva. Nel dialogo inventato col padre Icario, per esempio, lei adopera tutti gli artefizi del retore (protesta di sottomissione, supplica, argomentazione a vari livelli, proposta di azione), facendo con questo risaltare un suo carattere originale, sparso dalla figura della ‘sposa casta’ : la ‘scaltrezza’, sottolineata e vituperata nella fonte dalle ombre dei Proci morti nell’ultimo canto quando rievocano l’episodio della tela tessuta e stessuta, qualificato come ‘furbizia’2. Nella Penelope, questo carattere viene sottolineato – ma non condannato- dal padre, Icario, quando la figlia gli espone la sua idea del ‘bando dell’arco’ al quale lei intende sottoporre i suoi pretendenti, per sfuggire l’obbligo di scegliere un nuovo marito :  





Icario : Penelope io ben vedo ove la tua /dimanda va a ferire : il tuo bersaglio / è solo, scaltra, a le bramate nozze / tempo trapor e distornar il fatto : [...]. (ii, 5, 588-591)  





Una ‘scaltrezza’ che Penelope, in quanto regina, rende politica, confondendola già con l’’onesta dissimulazione’ esaltata dopo come metodo di governo : 3  

ma forza è che ricopra l’odio ardente / c’ho dentro il petto, e ben finger bisogna / se vo’ che mi riesca il mio pensiero. (ivi, 608-610).

Della Porta usa quindi la pluralità delle voci messe in scena per trasformare il mito in un personaggio psicologicamente più complesso. Nella tragicommedia, esiste una Penelope ‘mitica’, modello di virtù e di costanza, che vive attraverso una parola imposta, e attraverso i discorsi maschili, come nel lungo ed enfatico elogio finale di Ulisse 4 che esalta la ‘chiara pudicizia’, la ‘gran costanza’, lo ‘sviscerato amor’, di quella ‘figura sottomessa, modello di virtù, saggia onesta e bella’, e ‘solo essempio / de le rare, fedeli e caste mogli’, creando persino metafore che avranno grande fortuna nella letteratura teatrale e melodrammatica : « Sei come stabil scoglio in mezzo l’onde ». Esiste una Penelope mistica, conforme al pensiero e agli stereotipi controriformistici sullo statuto di quello che Ulisse chiama nel finale : il « sesso fragile e infermo » (v, 6, 736-38). Ma esiste anche in nuce, un’altra Penelope, alla quale il teatro concede di agire e di parlare al di fuori degli stereotipi imposti dalla tradizione, una Penelope che tende al tragico almeno nella parola, come quando all’apparire dei suoi pretendenti nemici, proferisce : « Apriti, o terra / ed inghiottami viva, accio’ non  















assenza, / ch’un’amorevol moglie il caro sposo / possa porre in oblio » (ii, 6, 717-719), e ad Eurimaco : « fo quel che debbo far, né fia giamai / mi domentichi di farlo, come deve / far ogni moglie », (ivi, 728-730). O ancora, il suo affermare la sudditanza delle donne ai mariti : « Noi siamo più obbligate di ubidire / a’ mariti che a noi essi non sono » (ivi, vv. 734-735). 1   Come quando dichiara alla nutrice parlando dei Proci : « li odio tutti, nutrice », Odissea, xvii, 499. 2   « Meditando di lanciare su di noi il genio della morte tra altre furberie aveva immaginata quella », xxiv, 127128. 3   Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di Salvatore Nigro, Napoli, 16411, Torino, Einaudi, 1997. 4   Penelope, v, 5, 707-762. Rielaborato a partire dall’elogio pronunciato dall’ombra di Agamennone, Odissea, xxiv, 191-198.  























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veggia / così iniqui, crudeli, empi, tiranni » (ii, 5, 605-607), pronta a versare nell’orrore tragico : quella appunto che della Porta sviluppa poi nell’Ulisse.  



L’ Ulisse o la tragedia di Penelope Nelle supposte fonti dell’Ulisse – i racconti della Telegonia pervenuti a della Porta tramite riscritture latine oppure francesi 1 – Penelope appare solo nel finale in cui, dopo l’uccisione dell’eroe per opera del figlio Teligono, datogli da Circe, lei è condotta da questi, col corpo del padre morto e con Telemaco, nel regno di Circe, e finisce collo sposare Teligono mentre Telemaco sposa Circe. Mi sembra rilevante il fatto che, volendo scrivere una tragedia sulla morte d’Ulisse a partire da questi racconti, della Porta abbia affidato a Penelope una parte distesa, 2 attribuendole una precisa funzione nell’andamento della tragedia che conduce il marito alla ‘morte’. Come detto prima, nella Penelope, come nella fonte, la vendetta fatale di Nettuno è messa tra parentesi, non grava sulla coppia, o solo indirettamente e con esito felice. La tragedia d’Ulisse, al contrario, anche per ovvi motivi formali, si apre sul ripristino della vendetta di Nettuno contro Ulisse di cui il destino era lasciato in sospeso nel canto xxiii dell’Odissea. 3 A questo fine, della Porta elabora un ponte narrativo tra il finale dell’Odissea e la Telegonia colla ripresa, nella prima scena della tragedia – che funge in realtà da prologo – di una parte del canto xxiv dell’Odissea, situato nei regni inferi, dove i Proci morti raccontano di nuovo all’ombra d’Agamennone il sotterfugio del velo di Penelope : vengono così annullati per lo spettatore e il lettore dellaportiano, tanto il tempo impreciso che passa dal canto xxiv dell’Odissea al racconto della Telegonia, quanto il tempo corso tra la composizione della Penelope e quella dell’Ulisse. Nettuno, incapace di accettare la sua disfatta e la vittoria d’Ulisse, lancia contro la reggia d’Itaca – luogo fisso di entrambe le rappresentazioni – le furie di Megera e delle larve dei Proci morti per suscitarvi « vendetta, ira, furore », empirla tutta di « venenati fieli amari succhi », di « doglia e di lutto » (i, 1, 100-158). Ora, questi amari succhi non sono solo il succo del sospetto che il dio marino vuol infondere nell’animo di Ulisse contro il figlio, creduto parricida. 4 Sono i sospetti che l’ombra d’Anfimedonte, ex-pretendente massacrato, dovrà aizzare contro la moglie, 5 e sopratutto sono, chiaramente espressi, i succhi dell’odio che lo stesso Anfimedonte deve spargere « con face accese di tartareo foco » nell’animo di Penelope (v. 131), suscitando la sua ira vendicatrice contro il vecchio e fedele Eumeo, messaggero infelice dell’oracolo annunciatore di morte, e anche contro il marito. L’Ulisse si presenta quindi come una risposta, e una risposta negativa, alla speranza espressa da Penelope nel finale dell’Odissea, 6 quella di vivere una vecchiaia felice e otte 

















1   I racconti della Telegonia di Eugammone di Cirene, ultima parte del ciclo che dava un seguito all’Odissea, sono stati tradotti in latino a partire nel sesto libro degli Efemeridi della guerra di Troia di Dyctis cretese, e della Storia della distruzione di Troia di Dares frigio, ripresi poi da Benoit de Saint Maure (Roman de Thèbes) nel secolo XII, e da Guido delle Colonne nel 1287, che drammatizzano il racconto della morte d’Ulisse, e l’arricchiscono di notazioni psicologiche, omettendo il finale incestuoso. 2   i, 2, primo dialogo con Ulisse, ii, 4, secondo dialogo in presenza del Capitano, iii, 2 terzo dialogo con Ulisse, iii, 4 dialogo con Telemaco, per tutto l’atto iv, scene 1 a 6, e atto v, con Ulisse e Telemaco, nelle due scene finali della morte. 3   Odissea, xxiii, 369-372 : Ulisse parte a visitare il padre Laerte, mettendo la sposa in guardia contro una possibile vendetta dei parenti dei Proci morti. 4   « Sia tua cura / ch’ogni semplice motto, ogni suo atto / il padre di sospetto empia e di tema », ad Antinomo, Ulisse, i, 1, 125-127. 5   « Questo spiaccia ad Ulisse e della fede / diffidi della moglie acciò ch’al fine / dalla serenità nasca il sospetto », 6   Odissea, xxiii, vv. 286-287. ivi, 138-140.  









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nere la pace desiderata dopo tanti tormenti. Così, per della Porta, la tragedia di Ulisse è anche la tragedia di Penelope, e proprio per questa ragione il suo doppio statuto di sposa tenera e fedele e di madre sacrificale diventa conflittuale. Alla prima sua apparizione, quando il marito le racconta le sue allucinazioni notturne (i, 2, 270 sgg.) e gli strani incubi che l’agitano (ivi, 330-350), lei appare ancora come moglie paziente e amorosa : afferma di essere « fida moglie, umil serva e vil schiava » (ivi, 228), priva d’identità propria (« ond’io son tutta voi stesso, nè di me rimaso è nulla » [v. 233]) e assume, in eco diretta colle ultime battute della Penelope, 1 un ruolo di confidente passiva e sottomessa. Ma all’annuncio del pericolo di morte che alleggia sul figlio, questa passività si converte in agire offensivo. A questo fine, della Porta drammatizza e incupisce notevolmente i racconti della Telegonia e l’attitudine di Ulisse contro il figlio Telemaco : nel racconto di Ditti, Telemaco, sospettato, a causa dell’interpretazione erronea di un sogno del padre, di voler ucciderlo, non viene condannato a morte, ma solo all’esilio, Ulisse si ‘ritira’ in una profonda solitudine per fuggire i suoi incubi. 2 Mentre nella sua reinvenzione della fonte, della Porta fa rivivere a Penelope la situazione vissuta anteriormente quando i Proci minacciavano Telemaco, osservando il suo reagire alla nuova situazione e sviluppando i caratteri del personaggio abbozzati nella tragicommedia : la forza dell’amore materno, la capacità a prendere in mano il proprio destino, a decidere in quanto regina, la dissimulazione, il non temere la morte, la capacità a odiare. L’insensata condanna a morte del figlio amato, da parte del proprio padre, enfatizza la forza esclusiva e assoluta dell’amore materno, la totale dedizione della madre al figlio unico, il suo esistere e morire solo per lui. Anche se si definisce madre « sempre afflitta », 3 Penelope non passa da una sottomissione ad un’altra, dallo statuto di sposa piangente e desolata a quello di madre « desolata ed orba ». Nella nuova situazione, diventa antagonista del marito, può realizzarsi come personaggio complesso e tragico, quasi ispirato alle spose vendicatrici della tradizione classica, come Medea. Come per tutti i personaggi teatrali, il suo agire scenico va letto a due livelli, quello della sincerità della sua parola scenica, attraverso la quale il personaggio si costruisce con una certa autonomia, e quello della convenzione imposta dalla scelta della forma tragica. Nel discorso diretto, lo spettatore la percepisce in un atteggiamento che possiamo considerare liberatorio, perché guidato da una ribellione contro l’autorità del marito dichiarata abusiva. Le sue invettive contro Ulisse sono all’opposto delle massime che usava prima  





















1   Nel loro primo scambio (i, 2), i due coniugi appaiono come se gli anni passati dal ritorno dello sposo non fossero esistiti, come se non avessero mai smesso di riflettere sulle loro sfortune. I primi versi pronunciati da Penelope (« Ulisse amato sposo, amata e cara mia vita, dite : qual cagion vi muove / che pur dianzi festoso e pien di gioia. / Or di penose angoscie afflitto e mesto, / piovvonvi amare lagrime dal viso » (Ulisse, i, 2, 200-204) suonano quasi in eco all’ultima battuta della Penelope quando Ulisse invitava la moglie a approfittare della notte per parlare dei loro passati crucci : « Or poi che / sorge la notte, andiamo a riposarci, / ove insieme l’un l’altro narreremo / io gli affanni sufferti ne’ viaggi / e tu quanto hai patito in questa assenza » (Penelope, v, 7, 810-814). 2   Dictys, Ephemerides belli Troiani, 6, 14. « Nello stesso tempo, Ulisse spaventato da sinistri presagi e da sogni spaventevoli, chiamò a se i più abili indovini per consultarli. Disse loro che nel sonno vedeva un’ombra di perfetta beltà che lui voleva abbracciare, ma che rifiutava l’abbraccio dicendo che era impossibile dato che erano tutti e due usciti dalla stessa origine, e che uno doveva dar morte all’altro. Si avvicinava a l’ombra, e una lancia, uscita dal mare su ordine di quella, veniva a mettersi tra loro. Il sogno fu interpretato dai suoi amici che lo misero in guardia contro il figlio Telemaco, che sull’ordine del padre fu condotto all’isola di Cefalenia, sotto buona guardia. Ulisse da parte sua si ritirò in una profonda solitudine per fuggire la visione che lo tormentava ». A certi commentatori, il sogno premonitorio di Ulisse appare pervaso di un erotismo ambiguo. Della Porta restituisce la fonte quando Ulisse cede alle suppliche della moglie e alle ragioni del Consigliere, manda Telemaco in Cefalonia (iii, 2, 319-320),e decide di ritirarsi dal governo della città (iv, 1, 36-37 : ch’io vo’ serrarmi detro della reggia, / e ’involarmi dagli uomini e da tutti). 3   « Qual destino t’inaspra contro il figlio ? / [...] io rimango desolata ed orba / e sempre afflitta e desolata madre » (ii, 4, 355-360). Si noti il “sempre” che rimanda il lettore al mito e alla prima tragicommedia.  























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per affermare la sua costanza e il suo dovere : in quanto sposa, lei denuncia con parole aspre, la crudeltà del marito, 1 gli rinfaccia apertamente, come ricordandosi delle parole della Vecchia, la perdita dei suoi anni più belli, 2 quasi volesse fargli pagare l’ultima sua crudeltà della Penelope ; e in quanto regina, lo sfida sul campo del potere, denuncia il suo cattivo regnar, la sua ipocrisia nell’usare la ragion di stato, e lo accusa di ‘scellerataggine’, deridendo ironicamente la sua ‘prudenza’, la sua qualità regale e il suo eroismo :  





e tu che di prudenza avanzi gli altri / e la fama ne va fin alle stelle, / a un perfido villan credenza doni ? (ii, 4, 379-381) […] E tu che le città distruggi e vinci / tanti popoli strani ed or non puoi / vincer te stesso’ (ivi, 424-426)  

All’atto quarto, quando il marito, deciso a rifugiarsi nella solitudine, e, sempre fiducioso nella sua prudenza, le confida le redini del governo della città, la situazione obiettiva di questa Penelope-reggente, che diventa maestra della propria vendetta, e potenzialmente anche il giudice del proprio marito, appare come un rovesciamento totale della situazione dell’Odissea (è Ulisse che si chiude nella reggia), e la negazione della funzione pedagogica attribuitale nel finale della Penelope. Tanto più che Ulisse appare quasi un anti-eroe, completamente accecato dall’angoscia suscitata dai suoi incubi, incapace di ragione o di riflessione personale3, spinto com’è da un delirio paranoico che rende, come ha notato Sirri, la sua tragedia, più che una tragedia sul regnare, e sulla vecchiezza, la tragedia del « cruccio, sospetto, timore, ferocia, azione frenata, impedita ». 4 Scenicamente quest’accecamento di Ulisse scivola perfino dal tragico al comico, come nella la scena in cui Ulisse, mettendo chiaramente a profitto i principi della fisiognomonia dellaportiana, scruta, nascosto, i passi, le espressioni e le parole del figlio per accertarsi dei suoi cattivi intenti, interpretando tutto falsamente :  





Ulisse : Io vo’ qui dietro / ascosto stare ed osservar suoi sguardi, / il naso, gli occhi e ’l variar del ciglio, / ed ascoltar e contemplar le voci / e i colori del volto : soglion questi / esser del cor non mai fallaci specchi. (ii, 1, 12-17)  



Tuttavia, a livello della storia raccontata, suscitata com’è dalle fatali decisioni divine e infernali, e dall’autorità dello scrittore – di cui Nettuno potrebbe anche essere una rappresentazione all’interno della storia –, la ribellione di Penelope contro il marito non è ovviamente libera, viene anzi denunciata come impotente, senza sbocco, e la sua vittoria è sola oratoria, non realizzata. Non è lei che riesce a convincere il marito a non condannare il figlio a morte e a far prova di clemenza, ma il Consigliere (iii, 1), personaggio tutto dellaportiano e tutto secentesco, trasfuso dalla Penelope. Inoltre, l’uso che Penelope-reggente fa del potere è presentato come negativo, diretto com’è alla vendetta personale, di cui lei fa un lungo elogio (iv, 3, 114-125), e con esito contrario alla sua attesa, giacché, forzando Eumeo a rivelare le giuste parole dell’oracolo, lei riesce solo a condannare se stessa ed a apparire come colpevole agli occhi del marito (iv, 5). Così viene riaffermata e verificata la teoria del sesso ‘debole, incapace’, e l’esclusione delle donne dalla sfera del potere, già espressa all’atto ii da Ulisse : « lascia regnar chi di regnar ha l’arte » (ii, 4, 469), che riporta Penelope al suo mito e al suo stato di moglie ‘infelice, orba / vedova, sconsolata, trista e sola’ (v, 4, 451-452).  





1   « Qual t’ingombra timore, qual vano e falso /sospetto, o qual ardente odio ti scorre / d’intorno al cor » (ii, 4, 339-341). 2   Vedi la lunga battuta dell’atto iv, 5, 283-287 : « Io sono stata per te dieci anni e dieci / maritata né vedova, in sul fiore /degli anni miei, sperando quel tuo tardo / ritorno. Oh che bel premio me ne rendi / per le tante per te 3   Ulisse : « temo ma non so dir di quel che temo ... », i, 2, 264. lagrime sparse ... ». 4   R. Sirri, Sul teatro del 500, cit., p. 381.  















penelope nelle tragedie di giovan battista della porta

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Qual è dunque la finalità di questo percorso drammaturgico di Penelope dalla Penelope all’Ulisse ? È una messa in discussione del ‘sintema fisso’ costituito dalla figura letteraria di ‘Penelope casta’, che della Porta intende adattare alla scena e alla ricezione dei suoi tempi. Ma più che il messaggio morale e politico legato a questo sintema fisso, che in realtà, nel contesto in cui scrive, l’autore può adattare ma non cambiare, ciò che interessa a della Porta è il sintema in quanto segno, o insieme di segni, da interpretare diversamente secondo le forme narrative o rappresentative nelle quali viene iscritto. Così possiamo considerare il percorso che della Porta offre alla figura di Penelope, dalla tragicommedia alla tragedia, come una verifica della propria teoria della variabilità del segno espressa in particolare nella Fisiognomonia. 1  

Université Paris 8 Penelope non è una figura tragica. Antitesi di Medea, è passata alla posterità come emblema della fedeltà matrimoniale. A teatro, nella grande maggioranza dei casi di riscrittura del mito, vengono sfruttati gli episodi legati al ritorno d’Ulisse a Itaca e alla strage dei Pretendenti. Penelope, chiusa nella sua paziente e fedele attesa, diventa la figura stereotipata della sposa regale, sottomessa, rispettosa della fede data. Il merito del napoletano Giovan Battista della Porta è di aver elevato Penelope a personaggio, dandole, nella sua scrittura teatrale, una storia personale, un destino anche tragico, aldilà dell’episodio famoso del ritorno. Ancora più che la tragicommedia Penelope pubblicata nel 1591, c’interessa la tragedia intitolata Ulisse (1614), centrata sull’uccisione dell’eroe da parte del figlio Teligono, in cui la figura di Penelope, assolutamente non marginale, passa dallo statuto di sposa sommessa a quello di madre e di regina vendicatrice. Penelope is not a tragic figure. The antithesis of Medea, she is seen by posterity as the epitome of marital faithfulness. At theatre, the vast majority of rewritings of the myth rely on episodes about Ulysses’ return to Ithaca and the massacre of the Suitors. Penelope, withdrawn in her patient and faithful wait, becomes the cliché of the regal, submissive bride, respectful of her promise. The merit of Naples-born Giovan Battista della Porta lies in having raised Penelope to a real character, giving her, in the theatrical rewriting, a personal story, a fate, even a tragic fate, which goes beyond the famous episode of the return. Even more than the tragicomedy Penelope published in 1591, we are interested in the tragedy Ulisse (Ulysses) (1614), centred on the killing of the hero by his son Telegonus, in which Penelope’s figure, all but marginal, shakes off her submissive bride persona and takes on that of mother and vindictive queen. Pénélope n’est pas une figure tragique. Antithèse de Médée, elle est passée à la postérité comme emblème de la fidélité matrimoniale. Au théâtre, dans la grande majorité des cas de réécriture du mythe, sont exploités les épisodes liés au retour d’Ulysse à Ithaque et au massacre des Prétendants. Pénélope, enfermée dans sa patiente et fidèle attente, devient la figure stéréotypée de l’épouse royale, soumise, respectueuse de la foi jurée. Le mérite de Giovan Battista della Porta, Napolitain, est d’avoir transformé Pénélope en personnage, en lui donnant, dans son écriture théâtrale, une histoire personnelle, et même un destin tragique, au-delà du célèbre épisode du retour. Plus encore que la tragicomédie Penelope, publiée en 1591, nous intéresse ici la tragédie intitulée Ulisse (1614), centrée sur le meurtre du héros par son fils Télégone, où la figure de Pénélope, absolument non marginale, passe du statut d’épouse soumise à celui de mère et de reine vengeresse. Penélope no es una figura trágica. Antítesis de Medea, ha pasado a la posteridad como emblema de la fidelidad matrimonial. En el teatro, en la mayor parte de los casos de nueva escritura del mito, se utilizan los episodios relacionados con la vuelta de Ulises a Itaca y con la matanza de los pretendientes. Penélope, encerrada en su paciente y fiel espera, representa el estereotipo de la esposa real, 1   Vedi Paolo Piccari, Giovan Battista della Porta, Il filosofo, il retore, lo scienziato, Milano Franco Angeli, 2007, pp. 104-106.

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subyugada, respetuosa de la confianza en ella depuesta. El mérito del napolitano Giovan Battista della Porta es haber elevado a Penélope a personaje, dándole en su escritura teatral una historia personal, un destino incluso trágico que va más allá del episodio del famoso regreso. Más aún que la tragicomedia Penélope publicada en el año 1591, nos interesa la tragedia titulada Ulisse (Ulises) (1614), que se centra en el asesinato del héroe por mano de su hijo Telégono, en la que la figura de Penélope abandona su papel marginal para pasar de la posición de esposa subyugada a la de madre y reina vengadora. Penelope ist keine tragische Figur. Als Antithese von Medea ist sie der Nachwelt als Sinnbild der ehelichen Treue überliefert worden. Im Theater werden beim überwiegenden Teil der Neuschreibungen des Mythos die Episoden benutzt, die mit der Rückkehr Odysseus nach Ithaka und mit dem Massaker der Freier verbunden sind. Penelope, zurückgezogen in ihrer geduldigen und treuen Erwartung, wird zur stereotypen Figur der königlichen, gefügigen und die Treue beachtenden Ehefrau. Es ist das Verdienst des neapolitanischen Giovan Battista della Porta, dass er Penelope zu einer Persönlichkeit gemacht hat und ihr, in seinen theatralischen Schriften, unabhängig von der Rückkehr-Episode, eine persönliche Geschichte und ein, wenn auch tragisches, Schicksal gegeben hat. Mehr noch als die 1591 veröffentlichte Tragikomödie Penelope, interessiert uns die Tragödie mit dem Titel Ulisse (Odysseus) (1614), die sich auf die Ermordung des Helden durch seinen Sohn Telegonos konzentriert, und in der sich die Gestalt von Penelope, die absolut keine Randfigur ist, von der unterwürfigen Ehefrau zur Mutter und rächenden Königin wandelt.

IN CONVENTO

DONNE E RELIGIONE A NAPOLI TRA RIFORME E CONTRORIFORME (1520-1580) Adriana Valerio 1. Maria Longo (1460c.-1539) : la renovatio cristiana nell’esercizio della carità  

L

a riforma religiosa a Napoli trova uno dei suoi massimi centri propulsori nella cittadella che si costituisce, tra il 1522 e il 1540, intorno all’Ospedale di S. Maria del Popolo, fondato dalla catalana Maria Richenza, 1 giunta a Napoli l’1 novembre 1506 per seguire il marito Giovanni Longo, nominato membro del Consiglio Collaterale del Viceregno napoletano. Due eventi segnarono la sua vita negli anni immediatamente successivi : la perdita del marito e la recrudescenza di una malattia che l’affliggeva da tempo e per la quale a nulla erano valse le diverse cure cui si era sottoposta, tanto da ridurla ad uno stato di paralisi delle gambe. 2 Ormai in gravi condizioni, la Longo decise nel 1510 di visitare la Santa Casa di Loreto. Portata al santuario su di una lettiga, in compagnia della figlia Speranza e del genero Gerardo de Omes, venne accompagnata in una delle cappelle della chiesa, proprio mentre il sacerdote leggeva il brano della guarigione del paralitico (Gv 5, 2-18) : alla lettura delle parole « Tibi dico surge », ecco le sue membra sciogliersi e riacquistare vigore : « ella si levò e liberamente camminò con i suoi piedi perfettamente sana ». 3 Aveva circa 47 anni. 4 Tra i testimoni dell’evento prodigioso5 si annovera la presenza dell’amico di famiglia Andrea di Capua, duca di Termoli, e di sua moglie Maria Ayerba che sarebbe rimasta sua fedele amica. In segno di gratitudine, la Longo aggiunse il nome di Lorenza al proprio, prese l’abito di Terziaria francescana e fece voto di dedicarsi ai malati. “Madama Longa” inizia così un percorso esistenziale che la conduce, insieme ad altre  













1   Maria dei Richenza (Riquença), nata in Catalogna tra il 1460 e il 1465, aveva sposato Joan Lonc, Reggente del Consiglio degli Aragonesi. Non abbiamo documenti che ci informino sulla sua infanzia e sulla sua educazione. La Historia Cappuccina (1588) del cronista Mattia Bellintani da Salò (1535-1611) ci presenta la Longo come una donna dedita alla vita mondana e al ballo, ma niente dice, nella sua breve biografia, dei suoi interessi, delle sue frequentazioni, dei suoi studi : Matthias a Salò, Historia Capuccina I, in Monumenta Historica Ordinis Minorum Capuccinorum, v, Roma, Istituto Storico dei Frati Cappuccini, 1946, pp. 255-272. Sul Bellintani : Roberto Cuvato, Mattia Bellintani da Salò (1534-1611). Un cappuccino tra il pulpito e la strada, Roma, Collegio Laurentianum, 1999 ; Id., La “vita di Maria Lorenza Longo nella “Historia Capuccina” di Mattia Bellintani da Salò, « Laurentianum », 1-2 (2007), pp. 163-200. 2   Con una costruzione letteraria più agiografica che storica, il Bellintani ci parla della malattia che colpì la giovane dama e che la rese paralitica, facendo risalire la causa del male ad una serva che, in occasione di una festa, forse risentita dei rimproveri della padrona per la condotta non proprio esemplare, cercò di avvelenarla provocandone la paralisi : Matthias a Salò, Histora Capuccina cit, p. 256. 3   Cfr. Cesare d’Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli, per Ottavio Beltrano, 1623, pp. 183-184. 4   Sulla “misteriosa malattia” della Longo, in verità, sono state avanzate molte ipotesi : qualcuno ha pensato alla sifilide, considerando soprattutto l’impegno da lei profuso nell’assistere coloro che contraevano tale malattia ; altri, forse considerando disdicevole il menzionare quel male, hanno fatto ricorso a un avvelenamento ; oggi si ritiene, più verosimilmente, che la Longo sia stata affetta da artrite reumatoide ; cfr. Felice D’Onofrio, L’infermità di Maria Lorenza Longo indagine a distanza, « L’Italia Francescana », 63 (1988), pp. 237-249. 5   Il miracolo è narrato da Bernardino Cirillo, Trattato sopra l’historia della santa Chiesa e Casa della gloriosa Madonna Maria Vergine di Loreto, Venezia 1572, ff. 17v sgg. ; cf. Orazio Torsellini, Istoria dell’origine e traslazione della S. Casa della B. Vergine Maria di Loreto, tr. in lingua toscana da Bartolomeo Zucchi (6 voll.), Venezia, presso Domenico Imberti, 1614, p. 121.  

























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donne che a lei si uniranno nella sua opera caritativa, a prendersi cura dei malati ricoverati nell’ospedale di S. Nicolò al Molo, 1 un edificio situato a poca distanza da Castel Nuovo, posto sotto il patronato di san Nicola di Bari, nel quale Carlo III d’Angiò aveva istituito l’Ordine dei Cavalieri della Nave. In questo istituto, che Giovanna I aveva destinato all’accoglienza dei marinai poveri, Maria e le sue compagne fanno esperienza di una vita dedita ai malati, in linea con quella forte spiritualità francescana che proprio nei diseredati coglieva la presenza del Cristo sofferente. Ma le influenze spirituali della Longo non si limitavano alla corrente francescana. Ella era inserita in quel vasto movimento di renovatio che attraversava tanto la Spagna quanto Napoli, città che, proprio in quegli anni, diveniva centro propulsore di iniziative e di fervore religioso. Due spinte fondamentali rinveniamo nelle dinamiche complesse di riforma che prendevano corpo nella cristianità : da una parte, la ricerca di una spiritualità più intima e austera, dall’altra, la necessità di porre al centro della propria esperienza di fede l’esercizio della carità e delle opere di misericordia: il “divino amore”. Determinante fu, infatti, l’incontro con il genovese Ettore Vernazza (1470-1524), figlio spirituale di Caterina Fieschi, un notaio che aveva abbandonato la sua professione per percorrere l’intera penisola mosso dall’intento di fondare ospedali per coloro che non avevano alcun mezzo economico che consentisse loro di essere curati (da questo, il nome di “Incurabili”). Giunto a Napoli nel 1518, il Vernazza si rivolse al domenicano Girolamo da Monopoli 2 – direttore spirituale della Longo – per diffondere l’opera della Compagnia del Divino Amore attraverso la fondazione di un ospedale che raccogliesse i malati “incurabili” e, soprattutto, coloro che fossero affetti da sifilide. Nata intorno al 1494, La Compagnia aveva trovato a Genova in Caterina Fieschi e a Roma in Gian Pietro Carafa due importanti sostenitori che ne avevano consentito la diffusione e si era prevalentemente dedicata ai malati della lue venerea, il cosiddetto “mal francese”, diffusasi nel 1496 in seguito alla discesa in Italia delle truppe di Carlo VIII. Si trattava di una malattia epidemica che destava particolare orrore, giacché si manifestava, per lo più, con pustole purulenti e maleodoranti che facevano sì che i malati, giudicati inguaribili, fossero esclusi da tutti gli ospedali. Proprio per venire incontro a tale umana sventura era sorto il primo ospedale Incurabili grazie all’impegno di Caterina Fieschi, sostenuta dal suo figlio spirituale. Furono queste motivazioni a spingere il Vernazza a recarsi Napoli, città che contava una consistente presenza di genovesi, al fine di istituirvi un analogo ospedale. Non poche furono le resistenze da lui incontrate tra i notabili napoletani, che forse mal sopportavano l’ingerenza dei genovesi negli uffici del Regno. Non dandosi, tuttavia, per vinto, il Vernazza decise allora, con l’aiuto di fra’ Callisto da Piacenza, canonico di S. Agostino, di dare vita, nell’aprile 1519, alla Compagnia di S. Maria Succurre Miseris – che si innestava sulla preesistente Compagnia dei Bianchi – per assistere e confortare i condannati a morte, i quali, senza aiuto spirituale, morivano spesso nella disperazione. 3 Allo stesso tempo il genovese si era rivolto a Maria Longo per accogliere i malati nei locali attigui all’ospedale di S. Nicola al Molo : si trattava non solo di sifilitici, ma anche di pazienti affetti da malattie difficilmente guaribili, come convulsioni, asma, ulcere, artriti.  



1   Per la storia dell’istituzione e le sue trasformazioni, vedi Giuliana Boccadamo, La malattia della vita. L’antico ospedale napoletano di San Nicola al Molo per i marinai, « Campania sacra », 19 (1988), pp. 310-340. 2   Il Monopoli era maestro di teologia e Provinciale dell’Ordine dei Domenicani nel Regno di Napoli ; la sua predicazione si incentrava sull’esercizio della carità : Gerardo Cioffari, Michele Miele, Storia dei Domenicani nell’Italia Meridionale, ii, Napoli-Bari, Editrice Domenicana Italiana, 1993, passim. 3   La Compagnia, però, fin dall’inizio era anche interessata ad assistere i poveri incurabili, come principale opera di misericordia. Cfr. Antonio Illibato, La compagnia napoletana dei bianchi della giustizia, Napoli, D’Auria, 2004.  







donne e religione a napoli tra riforme e controriforme

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Doveva essere quello il primo passo per poter poi costruire un nuovo ospedale che il Vernazza chiedeva alla Longo di gestire e governare : « Signora, voi siete quella che Dio ha ordinato che debba governare il nostro hospitale ». 1 Una decisione non facile per la catalana, chiamata ad assumersi delle responsabilità di non poco peso, soprattutto per una donna del suo tempo. Se è chiaro, dunque, che ispiratore di un tale progetto è stato il Vernazza, è tuttavia a Maria Longo che va riconosciuto il merito della realizzazione di un’Opera “immensa” : accettando la sfida, ella impostò e portò a compimento una complessa istituzione di assistenza medica e spirituale che si sarebbe dimostrata, a detta di tanti contemporanei, unica nel suo genere. I locali di S. Nicola risultarono ben presto insufficienti ad accogliere i malati, cosicché la donna, su consiglio del padre spirituale Girolamo da Monopoli, nonché dei medici più rinomati della città, prese « una Casa più ampia ed in luogo più ameno » : 2 si trattava di una località denominata S. Agnello a Caponapoli. è in questo luogo che la Longo acquistò una serie di abitazioni, iniziando nel 1521 la fase di costruzione del nuovo istituto con l’approvazione di Leone X, dal quale aveva già ottenuto, fra il 1519 ed il 1521, due Bolle Pontificie a sostegno del suo progetto. 3 Nel 1522 Clemente VII concesse all’Opera appena iniziata gli stessi privilegi accordati all’Arciospedale di S. Giacomo di Augusta in Roma. La domenica 23 marzo 1522, i malati di S. Nicola, in barella o sotto braccio, attraversarono le strade in processione per andare ad abitare nel nuovo ospedale, intitolato S. Maria del Popolo. 4 L’istituzione assunse poi il nome di Santa Casa degli Incurabili « […] indicando con tal nome, che tutti coloro che per miseria in propria casa non poteano essere curati, ivi sarebbero accolti senza alcuna preferenza né di sesso, né di età, né di patria, né di religione ». 5 Nella gestione dell’Ospedale, la Longo “rettora” (o gubernatrix) era affiancata da autorità civili e religiose, che la sostenevano politicamente ed economicamente. La Confraternita di S. Maria del Popolo, ad esempio, della quale era membro lo stesso viceré Raimondo de Cardona, venne istituita proprio con tale finalità. L’Ospedale dipendeva dall’autorità civile. Con il Breve Ex supernae dispositionis, dell’11 dicembre 1523, Clemente VII lo aveva infatti sottratto alla giurisdizione dell’Ordinario ecclesiastico ; sotto il profilo amministrativo, dunque, l’Ospedale era affidato ad un Governatore coadiuvato da un Consiglio del quale facevano parte i rappresentanti dell’élite cittadina, sia nobili che mercanti. Pur conservando il suo carattere laico, l’istituzione mantenne comunque al proprio interno una connotazione profondamente religiosa, essendo per la stessa fondatrice indispensabile che i malati fossero assistiti, non solo sotto il profilo sanitario, ma anche sotto quello spirituale : il degente doveva assistere quotidianamente alla messa, confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua e a Natale. Per seguire più da vicino i malati, la Longo si trasferì nei locali dell’Ospedale : attraverso una scala appositamente costruita, passava dalle sue stanze a quelle dei malati o ai locali della Compagnia di S. Maria Succurre Miseris detta dei Bianchi che, nel 1524, si era trasferita agli Incurabili dalla primitiva sede situata presso il convento di S. Pietro ad Aram. Dalle sue stanze Maria Lorenza scendeva a servire i malati, prendeva i panni “lordi” e li restituiva  























1   Francesco Saverio Toppi, Maria Lorenza Longo donna della Napoli del ’500, Pompei, Pontificio Santuario di Pompei, 1997, p.168. 2   Carlo Celano, Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli … con Aggiunzioni per cura del cav. Giovanni Battista Chiarini, ii, Napoli, Stamperia Floriana, 1856, p. 188. 3   Su richiesta del Vernazza, Leone X emanò il Breve Nuper pro parte vestra l’11 marzo 1519, per l’istituzione canonica di un ospedale degli Incurabili a Napoli. 4   Questo appellativo compare per la prima volta nel Motu Proprio di Adriano VI del 13 marzo 1522. 5   C. Celano, Notizie del bello …, cit., vol. ii, p. 693.

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puliti, avendo cura di cucinare, lavare e aggiustare “tutte le molte maccature et scarpe de li confratri”. 1 Si metteva al servizio dei malati, soprattutto di quelli più gravi “esortando e confortando”. La sua vita e il suo esempio finirono col diventare centro catalizzatore di opere di carità : intorno a lei si riunirono nobildonne che si dedicavano all’assistenza delle inferme, costituendo una prima comunità di donne, inizialmente informata alla Regola francescana, che intorno al 1592 saranno conosciute come le “Madri del ben morire”. La sua buona gestione di governatrice fu anche segnata da eventi straordinari che resero leggendaria la sua figura. La carestia e la peste degli anni 1527/1529 non toccarono l’Ospedale : non mancò mai il pane, che la Longo riusciva sempre a distribuire a sufficienza tra i malati, né si riscontra la presenza di appestati tra i ricoverati. Due miracoli che testimoniano l’ottima gestione della Longo, saggia amministratrice attenta a tutte quelle norme igieniche che facevano dell’Ospedale un luogo di ricovero sicuro. L’assistenza non era circoscritta alla sifilide, in quanto sotto la definizione di male incurabile si intendevano malattie infettive, ma anche mali all’epoca giudicati cronici, quali “cancro, convulsioni, etisia, paralisia, idropisia, morbo gallico, sciatica, arteride, asma, ulcerose cangrenose, emicrania, delirio, malinconia”, che affliggevano molti poveri, privi di mezzi economici che consentissero loro di farsi curare in casa. Ecco allora che quella del “povero” diventa categoria emblematica di una condizione umana di miseria, intorno alla quale si mobilitarono le forze più sensibili della città di Napoli e che nell’ospedale Incurabili trovava il suo punto di forza per la realizzazione di strategie di cura e di prevenzione. Altra caratteristica dell’Opera fu il non essere riservata ai soli cittadini partenopei, ma a tutti gli ammalati, fossero essi locali o stranieri, cristiani e non, cosa che conferì una caratteristica universalistica all’istituzione, espressa nell’insegna rivolta alle donne e ancora oggi visibile : «Qualsiasi donna ricca o povera, patrizia o plebea, indigena o straniera, purché incinta, bussi e le sarà aperto». I primi Governatori furono Raimondo di Cardona, Andrea Matteo d’Acquaviva, Giovan Francesco Carafa, Francesco Ferdinando d’Avalos. In tale lista il nome della Longo non compare. Evidentemente ella rivestiva un ruolo di governatrice carismatica, per il prestigio morale della sua figura. D’altra parte, la Bolla di Paolo III Debitum pastoralis officii, del 1535, attribuisce a lei sola la fondazione dell’Ospedale :  







ipsa … hospitale pauperum infirmorum incurabilium Sanctae Mariae de Populo Neapolitano erigi et a fundamentis construi et aedificari procuravit. 2

2. La riforma religiosa nella Cittadella degli Incurabili Indubbiamente molti fattori contribuirono alla realizzazione dell’Opera, che divenne, grazie ai rapporti che la Longo seppe tessere con le realtà più attive e propositive presenti sul territorio, un luogo di incontro, un centro di rinnovamento civile e religioso. La catalana, infatti, aveva accolto dal 1530 al 1534, nei locali dell’Ospedale, i primi frati Cappuccini venuti a Napoli e, dal 1534 al 1538, i primi padri Teatini accompagnati dallo stesso Gaetano da Thiene, che tanta influenza avrebbe esercitato sulla donna, in qualità di confessore. Prima di abitare a Napoli presso S. Eframo Vecchio, i Cappuccini, che solo dal 3 luglio 1

  Cit. in F. S.Toppi, Maria Lorenza Longo …, cit., p. 194.   I frati Cappuccini, a cura di Costanzo Cargnoni, iv, Perugia, efi, 1992, p. 1775. Sulle questioni relative alla fondazione dell’Ospedale vedi : Giuliana Boccadamo, Maria Longo, l’Ospedale degli Incurabili e la sua insula, « Campania Sacra », 1-2 (1999), pp. 37-170. Sulla sua storia: Adriana Valerio, L’Ospedale del Reame. Gli Incurabili di Napoli, Napoli, Regina ed., 2010. 2







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1528 avevano ottenuto dalla Santa Sede il consenso di poter attuare una riforma nel segno della povertà e della vita contemplativa, furono accolti dalla Longo e alcuni di essi ricevettero l’abito (Ludovico Marra, Francesco da Reggio e Bernardino da Bisignano). La loro prima Casa a Napoli era situata nei pressi degli Incurabili, e consisteva in un appartamento acquistato nel 1526 da Maria Ayerba per conto dell’Ospedale. È in questo periodo che probabilmente la Longo stringe i rapporti con Vittoria Colonna, sostenitrice e protettrice, insieme con Caterina Cybo dei Cappuccini, anche nei momenti più difficili degli inizi. 1 Questi da una parte, esprimevano un desiderio di rigore, povertà ed interiorità, dall’altra, rispondevano alle esigenze della società con una positiva volontà di azione, facendo buon uso della propria libertà, del proprio “libero arbitrio”. In tale duplice intento, si ravvisava quella tensione tra l’affidarsi alla misericordia gratuita di Dio e l’uso concreto di una fede che si traduceva in opere concrete, che ritroveremo nel lacerante dibattito scatenatosi in quegli anni all’interno dei circoli riformatori operanti anche a Napoli e che toccavano nel profondo le stesse scelte di vita della Longo. 2 Una volta trasferitisi i Cappuccini a S. Eframo, quella stessa casa ospiterà, nel marzo 1534, i Teatini. Tanto i rapporti con i Cappuccini, quanto quelli con i Teatini creeranno alcune tensioni e genereranno divergenti interpretazioni relativamente alle diverse influenze spirituali esercitate sulla Longo e, conseguentemente, sulla vita degli Incurabili. I due Ordini, intenzionati a condurre una vita più conforme al Vangelo, informata al rigore e alla povertà, all’inizio delle loro attività avevano prestato servizio presso l’ospedale di S. Giacomo in Augusta di Roma, dove avevano condiviso esperienze caritative e ideali riformatori. A Napoli, proprio l’ospedale degli Incurabili, grazie alla presenza della Longo, risulterà un centro di attrazione per quei religiosi che volevano dare impulso a forme di vita rinnovate, che meglio rispondessero tanto alle esigenze della società sofferente, quanto alle ansie di riforma religiosa. Pur continuando i Cappuccini nella loro opera di assistenza religiosa alle comunità femminili presenti all’interno dell’Ospedale (donne “convertite” e “pentite”), è d’altra parte innegabile il ruolo esercitato da Gian Pietro Carafa sulla Longo, attraverso l’amico Gaetano da Thiene, e la sorella Maria Carafa, la quale aveva fondato nel 1530 il monastero domenicano della Sapienza, vero e proprio modello di riforma religiosa. Come spesso accade nel rapporto che si instaura tra due forti spiritualità, non è facile dire quanto il Thiene abbia influito su Maria Lorenza e quanto quest’ultima abbia costituito per il predicatore un punto di riferimento nelle sue scelte di vita. Il Bellintani ci fa intravedere come la Longo sia inserita nella corrente umanistica di ispirazione biblica e tiene a ricordare che :  

don Gaetano […] spesso la visitava perché ella altamente ragionava delle cose divine e ammirabili e 1   Concetta Ranieri,“Si san francesco fu eretico li suoi imitatori son Luterani”. Vittoria Colonna e la Riforma dei Cappuccini, in Ludovico da Fassombrone e l’ordine dei Cappuccini, a cura di Vincenzo Criscuolo, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1994, pp. 337-351. La stessa Vittoria Colonna sembra desiderasse entrare nel monastero che fonderà la Longo : cfr. F. S.Toppi, Maria Lorenza Longo …, cit., p. 152. 2   Non è escluso che la donna frequentasse il circolo valdesiano a Napoli. Ricordiamo la presenza a Napoli nel 1535, presso il monastero di S. Francesco delle Monache, di Giulia Gonzaga, che aveva dato vita, intorno alla figura del carismatico Juan de Valdès, ad un cenacolo di riflessione religiosa intensa e impegnata, un cenacolo che vide la partecipazione di numerose persone sensibili tanto alle tematiche di una fede biblica, quanto all’esperienza di una spiritualità interiorizzata, mostrando la vivacità delle posizioni, seppure circoscritte ad un ambito aristocratico e intellettuale. Ricordiamo, tra gli altri, Costanza d’Avalos, Maria d’Aragona, Vittoria Colonna, Isabella Bresegna, Ferrante Sanseverino, Bernardo Tasso, Galeazzo Caracciolo, Marcantonio Flaminio, Mario Galeota, Pietro Carnesecchi.  

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profondi sentimenti dava alle divine Scritture, di che egli rimaneva stupito e pieno di consolazione e diceva che da lei aveva ricevuto gran lume, più che dalla lettura dei libri. 1

Forse sotto la spinta dell’esperienza riformatrice di Maria Carafa, forse per l’intervento di don Gaetano, che la spingeva a « scegliere cose migliori e più perfette » lasciando l’Ospedale, divenuto un luogo non più idoneo a esprimere la propria esigenza di interiorità e di vita appartata, comunque Maria decise di ritirarsi in monastero. Che fosse vero o meno che l’Ospedale fosse divenuto « asilo di vagabondi, scellerati, apostati e canaglie », come affermava il Thiene per spingerla a lasciarlo, va anche detto che la Longo era animata dal desiderio di ritirarsi dal mondo, essendo ormai ammalata e avanti con gli anni.  







a. La riforma della vita francescana : le Clarisse Cappuccine di S. Maria di Gerusalemme  

Nel luglio 1534 Maria Lorenza Longo aveva concesso al suo confessore Gaetano da Thiene l’uso di una grande casa, posta di fronte al monastero di S. Patrizia, comprata affinché potesse accogliervi i suoi confratelli Teatini. Il complesso prese il nome di S. Maria della Stalletta, da una preesistente stalla dalla quale fu ricavata una piccola chiesa. Ottenuta successivamente in uso la chiesa di S. Paolo Maggiore, il Thiene restituì nel 1538 l’edificio alla Longo, la quale vi trasferì le donne che, già nel 1535, aveva raccolto attorno a sé e alla Ayerba e che aveva alloggiato in alcune stanze situate nel cortile degli Incurabili. Nel destinare all’interno dell’Ospedale un alloggio per la piccola comunità di Terziarie francescane formatasi intorno a lei, Maria Lorenza aveva fornito una chiara indicazione di come lei stessa intendesse la vita religiosa : una vita non staccata dal servizio agli infermi, bensì di supporto, attraverso la preghiera e la penitenza, al lavoro di cura e di assistenza ai poveri e agli ammalati ; gli eventi storici avrebbero cambiato, tuttavia, la direzione delle cose. 2 Il crescere del numero delle donne, che da 12 passarono a 33 (di qui il nome che assumerà di Monastero delle Trentatre), forzò la Longo a trovare un luogo più idoneo a condurre una vita ritirata fatta di preghiera e di penitenza, sostenuta dal Thiene, il quale, attraverso la sua direzione spirituale rivolta ai ricoverati dell’Ospedale, seppe imprimere, all’interno dell’istituzione, uno stile di vita improntato al rigore e all’austerità che sarebbe stato osservato anche dopo la sua partenza. Il passaggio dei Teatini a S. Paolo Maggiore, la necessità di declinare la guida delle donne, perché in contrasto con il regolamento interno dell’Ordine, spinse Maria Lorenza a cercare nei Cappuccini una guida solida. D’altra parte, la spiritualità della Longo si caratterizzava per la linea cristocentrica di ispirazione francescana che, nel povero e nell’infermo, riconosceva il volto di Cristo. A lei si deve, dunque, la riforma della vita religiosa femminile, con la fondazione del primo monastero delle donne Cappuccine aperto a ragazze appartenenti a qualunque classe sociale ed anche a quelle che fossero prive di dote. Se nella mente della fondatrice, così come appare dalla Bolla di Fondazione, c’era spazio sia per l’uso di beni mobili e immobili, incluso il diritto di godere di alcune rendite che consentissero il soddisfacimento delle necessità alimentari delle donne, sia per una certa libertà di movimento, dovuta alla natura della comunità Terziaria, va osservato come in seguito, soprattutto sotto l’influenza cappuccina, tale stile di vita si sia connotato per la particolare severità : allorché entravano nel monastero, le monache non avevano dote alcuna e vivevano d’elemosina ; esse non mangiavano mai carne, se non in caso di infermità, vestivano panni grossi e vili, dor 







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  Matthias a Salò, Historia Cappuccina …, cit. p. 260.   Cfr. Lázaro Iriarte, Le cappuccine passato e presente, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1997, pp. 24-25.

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mivano vestite su stuoie stese su tavole e si coprivano con coperte bianche. A nessuno era consentito l’accesso al monastero ; il medico poteva visitare le ammalate solo tastandone il polso attraverso le grate ; i sacramenti della confessione, della comunione e dell’estrema unzione dovevano essere amministrati attraverso lo sportello del confessionale ; alla sepoltura potevano provvedere soltanto le monache stesse. Come regola si osservavano la Regola scritta da Chiara d’Assisi e le Costituzioni di Coletta da Corbie. Quando si rese conto che stava per morire, la Longo designò a succederle suor Giovanna (al secolo Eustochia Ayerba, sorella della duchessa Maria) e, rivolta alle sorelle, come ci riferisce il Bellintani, avrebbe detto :  







«Sorelle, a voi pare che io abbia fatte gran cose di buone opere ; ma io in niente di me stessa confido, ma tutte nel Signore». E mostrando la punta del dito piccolo disse : «Tantillo di fe’ mi ha salvata». 1  



Morì probabilmente alla fine dell’estate del 1539, alla Stalletta. Giuridicamente e spiritualmente il monastero dipese dalla Santa Sede dal 1535 al 1538, per poi essere affidato, nel 1538, con il Motu Proprio Cum monasterium all’ordine dei Cappuccini. Sotto l’aspetto economico Roma consegnò il monastero agli Incurabili, visto che la madre Lorenza aveva dotato l’Ospedale dei suoi beni, anche in vista del mantenimento delle monache. Con il Breve di Paolo IV Alias postquam, del 4 settembre 1555, la comunità passava ufficialmente dal Terz’Ordine di San Francesco al Primo Ordine di S. Chiara. Non potendo il monastero godere di alcuna proprietà, l’11 gennaio 1570 Pio V decideva che tutti i legati destinati ad esso dovessero andare agli Incurabili. In seguito all’incendio del 1583, che avrebbe distrutto il monastero, si decise di ricostruirlo più a sud. Nel 1585, dunque, le monache si trasferirono, lasciando i vecchi locali alle monache Riformate degli Incurabili. b. Il governo della duchessa Maria Ayerba : le Convertite e le Riformate degli Incurabili  

Il dilagare della piaga delle malattie veneree era certamente legato al fenomeno della prostituzione, cui la Longo aveva cercato di porre rimedio attraverso un’intensa attività di recupero. Sia in Ospedale che per le strade la catalana cercò, con ogni mezzo, di convincere le prostitute ad abbandonare la loro attività. Quando non riusciva a convertirle, si inginocchiava davanti a loro chiedendo che almeno il venerdì e il sabato non peccassero e dava loro i soldi che avrebbero guadagnato in quei giorni. 2 Alcune riuscì a maritarle, altre furono impegnate al servizio delle altre ammalate formando una piccola comunità di convertite, prime infermiere dell’Ospedale. Affinché fosse loro permesso l’esercizio di questa mansione, Maria Longo chiese ed ottenne da Paolo III una Lettera Apostolica, datata 17 dicembre 1537, con la quale il pontefice consentiva alle ex prostitute di accudire i malati. Ritiratasi in monastero, la Longo affidò le prostitute convertite alla cura della fedele amica Maria Ayerba che, dal 1535 al 1539, le succedeva alla guida dell’Ospedale come governatrice generale. Dopo la morte del marito Andrea di Capua e dell’unico figlio Ferdinando, Maria Ayerba aveva condiviso pienamente la vita della Longo, aiutandola in tutte le mansioni legate alla vita dell’Ospedale e partecipando con lei delle stesse ansie di vita religiosa. Nel 1538, insieme a un gruppo di aristocratici napoletani, per disciplinare meglio le prostitute al 1   Matthias a Salò, Historia Cappuccina …, cit. p. 270. Cfr. Maria De Luzenberger, « Un tantillo di fede ! ». L’opera di Maria Longo fra impegno laico e vita consacrata, « Campania Sacra », 1-2 (1999), pp. 171-210. 2   Matthias a Salò, Historia Cappuccina …, cit. p. 262.  





   

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servizio dell’Ospedale, decise di relegarle in monastero, imprimendo però all’istituzione un carattere di estrema severità, forse dovuta all’influenza di Gaetano da Thiene. Il testo delle Regole fu stilato da Ottaviano Preconio, allora vescovo di Monopoli. 1 Sottoposto al vaglio di papa Pio V, subì degli aggiustamenti, che ne inasprirono i contenuti : dopo scrupoloso esame, venivano accolte soltanto quelle donne che mostrassero una chiara volontà di abbandonare la vita sino a quel momento condotta ; la vita delle recluse era informata alla penitenza, all’ascesi e alle punizioni (anche carcerarie) in caso di trasgressione della Regola. 2 Le punizioni non erano somministrate soltanto nei casi di fuga. Lo svolgimento della vita quotidiana e delle relazioni interpersonali era interamente regolato da una serie di misure restrittive, che prevedevano pene di reclusione o di chiusura nei ceppi per quelle monache che avessero trasgredito anche in questioni di minore rilevanza, come il rispondere in malo modo ad una consorella, alla badessa o al padre spirituale ; per quelle che venivano alle mani era poi prevista la scomunica. Malgrado un simile regolamento, dal sapore quasi carcerario, nel 1548 la popolazione del monastero era cresciuta in maniera tale da renderne difficile il mantenimento : ormai non erano soltanto le ex prostitute a chiedere di esservi ammesse. 3 I locali mal si prestavano alla clausura ; nel 1568, quando le monache erano appena 68, già ci si lamentava dell’angustia degli spazi. Non era possibile nemmeno fare il noviziato in convento ; vi era deputato un altro luogo detto “purgatorio” situato all’interno dell’Ospedale, forse le antiche stanze della Longo, da cui le professe erano poi condotte in carrozze chiuse al loro monastero. Nel 1540, un anno dopo la morte della Longo, moriva anche Maria Ayerba. Tutti i suoi beni andarono all’Ospedale. La duchessa espresse il desiderio di essere sepolta accanto a Maria Lorenza e le sue spoglie furono depositate accanto a quelle dell’amica. 4 Dal monastero delle Convertite uscirono alcune religiose che per desiderio di vita più autentica, dettero vita, nel 1545, ad un terzo monastero, posto sotto la giurisdizione dei Governatori degli Incurabili, quello delle Riformate. 5 Esse occuparono i locali dell’antica S. Maria della Stalletta, già adattati per le Clarisse Cappuccine e da queste lasciati dopo un incendio che, nel 1583, aveva devastato buona parte dell’edificio. Le Costituzioni delle Riformate erano meno severe rispetto a quelle delle Convertite, soprattutto in merito ai sistemi di correzione disciplinare. 6 La vita religiosa era improntata ad una maggiore attività contemplativa ; a mezzanotte si recitava il Mattutino, ci si confessava due volte a settimana, si viveva in assoluta povertà vestendo una semplice tonaca di panno grosso di foggia cappuccina. Attraverso una propria modalità di “imitazione di Cristo”, la Longo, insieme con la Ayerba e le donne che con lei avevano condiviso lo stesso percorso di fede, ha risposto  













1   Giuliana Boccadamo, Dinamiche di potere e vita comunitaria nella gestione dei monasteri di clausura, in Oltre le grate. Comunità regolari femminili nel mezzogiorno moderno tra vissuto religioso, gestione economica e potere urbano, a cura di Mario Spedicato e Angelo D’Ambrosio, Bari, Cacucci, 2001, 77-106. 2   Costituzioni delle Convertite di Napoli, pubblicate da Giuliana Vitale, Ricerche sulla vita religiosa e caritativa a Napoli tra medioevo ed età moderna, « Archivio Storico per le Province Napoletane », 85/86 (1968-1969), pp. 273-291. 3   Alla Ayerba subentravano, intanto, in veste di amministratori, i Governatori dell’Ospedale degli Incurabili. Il monastero delle Convertite, noto anche come la Monaca di Legno, era ubicato dove attualmente si trova il Centro Tubercolare : Oreste Gregorio, S. Alfonso e la “Monaca di Legno”, « Campania Sacra », 3 (1972), pp. 197-207. 4   Quando i corpi dalla Stalletta furono portati nella nuova sede (in via Pisanelli), la testa della Longo, che era oggetto di particolare venerazione, si mischiò con le altre teste e non fu più possibile identificarla. 5   Vincenzo Magnati, Teatro della carità, istorico, legale, mistico, politico in cui si dimostrano le opere tutte della Real Santa Casa degl’Incurabili che si esercitano sotto il titolo di S. Maria del Popolo nella città di Napoli in beneficio del prossimo …, Venezia 1727, cc. 232-237. Il testo del Magnati è un prezioso testo del ’700, ricco di notizie e di fonti relative all’intera Opera della Longo. 6   bnn, Fondo S. Martino, Ms. 176 (Costituzioni).  









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ai bisogni della società, ponendo al centro della propria vita il “divino amore” : la carità, che, pur manifestandosi nel soccorrere l’indigenza del prossimo sul quale si manifesta il volto di Cristo, nasceva da un profondo rinnovamento interiore. Le due dimensioni, operativa e contemplativa, convivono in queste donne in sintonia con le istanze della riforma etica di stampo erasmiano e valdesiano, che cercava di tenere insieme, in un non sempre facile equilibrio, misticismo e umanesimo, fede e opere, interiorità e apostolato.  

3. La partecipazione attiva delle donne alle istanze di riforma Un altro elemento che caratterizza in maniera significativa la personalità e l’esperienza della Longo è l’autorità indiscussa da lei esercitata in veste di governatrice dell’Opera. Tale esercizio di autorità – che passerà alla Ayerba, sua più diretta collaboratrice – se da una parte deve essere letto come concessione data in virtù dell’essere Fondatrice, da un’altra è anche indice di una felice congiuntura politica nella Napoli rinascimentale, che riconosceva in alcune donne la capacità di assumere importanti compiti di responsabilità. Non va dimenticato come Vittoria Colonna esercitasse dei poteri in qualità di feudataria – contrariamente alla tradizionale linea giuridica che ribadiva la subalternità femminile 1 – e come suo cugino, il cardinale Pompeo Colonna (1479-1532), futuro viceré di Napoli (1530), per esortazione di lei, avesse scritto tra il 1524 e il 1525 un libello a difesa della donna : l’Apologia Mulierum. 2 Questo breve trattato, inserito tra il filone delle Apologie tracciato dal Boccaccio e il filone della querelle des femmes avviato da Cristine de Pizan, si distingue per l’affermazione della capacità delle donne di partecipare alla vita sociale e politica. Secondo un’impostazione di stampo umanistico, il Colonna affrontava il problema utilizzando i metodi della ragione e seguendo le dinamiche della natura. L’uomo e la donna, fatti ambedue a immagine di Dio, sono in sé esseri perfetti cui è stato concesso uguale potere :  



Ex quibus satis constat utrumque perfectum esse, cum ad immagine Dei perfectissimi uterque factus sit, et quod appellatione hominis comprehendatur etiam mulier, quod a grammaticis comprobatur. (c.12r)

Ma il Colonna, che confuta le erronee opinioni tradizionali, si muove soprattutto su di un piano storico-sociale e di convenienza pubblica :  

Ut igitur civitas bene constituta firmior ac stabilior sit brevique coalescat, mulieres assiduis laboribus vigilanti studio ac cura ad publica laboriosa atque virilia officia se exerceant. (c. 31r)

Lo stato si dice felice se vige la concordia, di qui la necessità di non tenere le donne lontane dai pubblici uffici, giacché la fortezza, la magnanimità e la costanza si addicono loro. La pubblica utilità, ma anche la necessità di non chiudere le donne in ambiti domestici angusti, che le porterebbe alla corruzione e a non sapere adeguatamente educare le nuove generazioni, richiedono una loro funzione sociale e attiva. Tale trattato di grande interesse per le aperture che concede alla presenza pubblica della donne è indice di un fermento culturale che attraversa il rinascimento meridionale e specchio di una forte presenza a Napoli di donne attive, che si facevano interpreti di istanze di riforma. Maria Lorenza Longo, Maria Ayerba, le sorelle Palesandolo, Costanza 1   Sulla delicata questione del potere femminile cfr. Adriana Valerio, Donna e potere regale tra veti teorici ed esercizio pratico, in Mario Gaglione, Donne e potere a Napoli. Le sovrane angioine : consorti, vicarie e regnanti (1266-1442), Rubettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 9-17. 2   Guglielmo Zappacosta, Apologia mulierum libri, in Id., Studi e ricerche sull’umanesimo italiano (testi inediti del xv e xvi secolo), Minerva, Bergamo, 1972, pp. 159-246. Tra le fonti dell’Apologia, il De nobilitate di Cornelio Agrippa.  

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del Carretto Doria, Paola Acquaviva, Lucia Caracciolo, Giovanna Scorziata, Luisa Paparo, Orsola Benincasa, le sorelle Olivieri, Eleonora Scarpato, Cremona Spinelli, Paola Cappella, Luisa Capece, Antonia Monforte partecipavano attivamente e con ampi margini di autonomia ai processi di trasformazione della vita religiosa napoletana. Le autorità ecclesiastiche per lo più intervengono solo al momento della regolamentazione di norme e di spazi, nonché nella gestione della direzione spirituale. A Napoli si affermava nel ’500 un protagonismo laicale che guardava alle istituzioni religiose femminili come a spazi tanto di espressione di vita spirituale, quanto di salvaguardia e di tutela delle donne in difficoltà. La nascita degli Ospedali e dei Conservatori conferma questo interesse dei laici di creare Opere preposte alla cura e alla custodia delle ragazze più svantaggiate : assisterle in vista del matrimonio, ospitando chi non riusciva a contrarre matrimonio, redimerle o, semplicemente, istruirle. Le tante Opere di assistenza e di carità che sorgevano a Napoli alla fine del ’500 avevano le donne come destinatarie privilegiate, considerate anello debole della società in quanto vedove, separate, orfane, derelitte, “pericolanti”, prostitute ; esse, però, erano anche al contempo manifestazione dell’iniziativa femminile che promuoveva e sosteneva l’assistenza. Ospedali (Incurabili, Annunziata, Sant’Eligio), Educandati (Suor Orsola, La Scorziata e le Paparelle) e Conservatori per esposte e trovatelle (Annunziata), per orfane (S. Eligio, S. Maria di Loreto), per ragazze vittime di violenze (S. Maria del Rifugio), per vergini onorate (S. Maria della Carità), per donne in pericolo (S. Onofrio alla Vicaria), per figlie vergini di pubbliche meretrici (Spirito Santo), per ragazze povere e oneste (SS. Concezione a Montecalvario), per le figlie dei calzolai (Ss. Crispino e Crispiniano), per le figlie degli artigiani dell’arte della seta e della lana (Ss. Filippo e Giacomo) e per le figlie degli spagnoli (Soledad) erano Istituti che, pur assimilati ai monasteri nell’organizzazione della vita interna e della disciplina, esprimevano nuove modalità di rispondere alle questioni sociali della condizione femminile. È una storia della carità che si intreccia con la storia finanziaria della città, con la nascita dei Banchi Pubblici legati ad Opere Pie (Banco della Pietà, dei Poveri, dell’Annunziata, di S. Maria del Popolo, dello Spirito Santo, di S. Eligio, dei Ss. Giacomo e Vittoria), ma anche con il mutamento della sensibilità religiosa, da un lato, e con l’emergente protagonismo della donna nella sfera sociale dall’altro : una realtà dalla complessa rete assistenziale che vede a Napoli la presenza dialettica dei vari strati sociali all’interno di un più vasto quadro di intervento politico e religioso. 1  





4. La riforma monastica e la crisi del Rinascimento Napoli si presenta nel Rinascimento come un’effervescente fucina di aspirazioni riformatrici e di sperimentazioni : una città dinamica, un mondo religioso multiforme e variegato, nel quale le donne non rimanevano assorbite nemmeno dalla quotidianità del monastero, ma assumevano ruoli e iniziative in un difficile contesto di compenetrazione tra dimensione religiosa e apparato politico istituzionale, tra istanze laiche e aneliti religiosi, tra conflittualità e convergenze di interessi. Prima del concilio di Trento la vita delle monache, in gran parte appartenenti alle famiglie aristocratiche, si svolgeva entro gli spazi di veri e propri appartamenti privati ed autonomi : non mancava alle “monache-signore” la servitù, ruolo demandato alle “converse”, così come frequentemente si tendeva a far sfoggio della propria ricchezza – e della  



1   Su questo cfr. Adriana Valerio, Donne e monasteri femminili a Napoli tra spiritualità e mondanità in I Luoghi della Memoria. Istituti Religiosi Femminili a Napoli dal iv al xvi secolo, Napoli, Voyage Pittoresque, 2006, pp. 21-32 ; Donne e religione a Napoli (secoli xvi-xviii), a cura di Adriana Valerio e Giuseppe Galasso, Milano, Franco Angeli, 2001.  

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potenza della propria famiglia di origine – indossando oggetti ed abiti lussuosi. La continuità dei rapporti con i membri della propria famiglia, i costanti contatti con l’esterno, ad esempio con le maestranze addette a lavori di ristrutturazione o di abbellimento dei monasteri, con gli amministratori, con il clero, l’organizzazione delle feste, che prevedevano grandi pranzi, musica, canto, la recitazione di commedie o di sacre rappresentazioni, nonché la distribuzione di regali, preparazione di dolci da offrire e vendere, le committenze artistiche e le opere di ampliamento architettonico, manifestavano una volontà di vivere pienamente nella vita sociale senza per questo negare la dimensione della fede, che si esplicitava nei tanti momenti della ritualità, della devozione, della preghiera. L’autorevolezza dei monasteri si palesava soprattutto nella figura della badessa, per lo più legata alla famiglia del fondatore o alla più potente delle famiglie rappresentate nel monastero. Tale intreccio di dinamiche sociali, interessi economici e vita religiosa spiega la vitalità degli istituti religiosi e la complessità delle relazioni che intorno ad essi si attivavano. Queste religiose manifestavano una sorta di laicizzazione della fede che si esprimeva nella libertà creativa dei momenti più festosi, nel porsi in relazione con il mondo, in una vita activa che nel quotidiano trovava il suo centro di identità spirituale. Il luogo e lo spazio monastico della vita femminile erano segnati da relazioni umane, gestioni di ruoli, abbellimenti degli spazi interni, organizzazione di gioiosa mondanità, così da manifestare, anche nelle contraddizioni delle soluzioni architettoniche, un paradossale connubio, spesso irrisolto, tra praticità della vita e opere di devozione, tra festosità dell’umana convivenza e severità delle norme, tra orazione contemplante e senso quotidiano del sacro. Le divisioni interne, le proporzioni, le quantità, le disposizioni e le funzioni degli spazi interni rispondevano, infatti, a molteplici esigenze. Il chiostro, ad esempio, simbolo della vita monastica, spazio centrale, di convergenza e di movimento, sul quale si affacciavano gli altri ambienti (il refettorio, la chiesa, il Capitolo, la cucina, la lavanderia), diventava nei monasteri femminili napoletani da spazio chiuso (claustrum) a giardino funzionale all’incontro, alla preghiera, al lavoro, in una pluralità di soluzioni compositive che rispondevano tanto alle regole monastiche quanto, soprattutto, alla capacità creativa delle monache, al loro potere economico e alla loro dimensione di vita sociale. Giardini, frutteti, vesti decorative trasformavano i chiostri in spazi di incontro della vita comunitaria e di integrazione con il contesto urbano. 1 Che la situazione muti nei giro di cinquant’anni appare evidente dall’avvio della riforma dei monasteri, che troverà la sua legittimazione istituzionale nella Costituzione Circa pastoralis di Pio V del 1566, interpretazione restrittiva delle disposizioni tridentine del canone V : essa avvierà una serie di iniziative che vedrà impegnato l’episcopato napoletano nel difficile e non del tutto riuscito compito di riordinare gli istituti religiosi locali. 2 Napoli non è, da questo punto di vista, estranea al contesto italiano ed europeo ; tuttavia, peculiari saranno le risposte articolate che saprà dare, soprattutto a partire dal ’600, ai tentativi di riforma, messi in atto dalla Chiesa post-tridentina, tendenti a soffocare modalità di vita e di fede che si esplicitavano nella mondanità delle relazioni umane e dove non era avvertito il contrasto tra sentimento religioso e dimensioni del vivere quotidiano.  



1   A dispetto delle norme tridentine che vogliono isolare dal contesto urbano gli spazi claustrali innalzando alte mura, le religiose napoletane realizzeranno logge ai livelli superiori e belvedere (S. Marcellino, Regina Coeli), costruiranno “chiostri aperti” (San Marcellino, San Potito, Suor Orsola), una peculiarità napoletana che consentirà, con l’apertura di uno dei lati, la vista sul golfo o faranno realizzare chiostri maiolicati (Santa Chiara) per rendere più piacevole e godibile la loro vita aperta alla mondanità della città. 2   Michele Miele, Monache e monasteri tra Cinque-Seicento tra riforme imposte e nuove esperienze, in *Donne e religione …, a cura di A. Valerio e G. Galasso, cit., pp. 91-158.

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adriana valerio 5. Lo sgomento di Fulvia Caracciolo e la crisi del Rinascimento

Le reazioni dei monasteri napoletani all’applicazione delle riforme citate trovano voce nello sgomento di Fulvia Caracciolo, monaca di S. Gregorio Armeno, autrice di una Cronaca scritta tra il 1579 e il 1580. 1 Dispiacere, amarezza, incredulità, pianto e dolore, rammarico, timore, smarrimento, sbigottimento e confusione sono i sentimenti che la nobildonna manifesta nel narrare lo sconvolgimento che dovettero subire i monasteri napoletani :  

[…] A 6 d’Aprile del medesimo anno [1566] che fu il giorno delle Palme a 23 hore in circa, essendo noi tutte in Coro al matutino, furono chiamate l’Abbadessa, et le moniche dal Vicario, et senza darne tempo di risposta salirno insieme alla chiesa co ’l Notaro Apostolico, onde fu fatto pausa al matutino per saper quelche egli voleva ; et così si lesse un moto proprio di Pio Quinto che continiva, che non entrasse più dentro i monasteri persona di qualsivoglia età, grado, ordine, dignità, conditione et sesso, et non solamente dentro i monisteri, ma anco dentro le mura, chiostri, o chiese, et che le porte non pur un poco fossero aperte per parlare sotto pena, et censura latae sententiae, che dalle clausure non uscissero né moniche, né converse, né novitie, né anco chi si ritrovasse dentro o per educatione, o per qualsivoglia altro coloro per farvi dimora ; che fra tre giorni si desse il nome, et cognome di tutte le moniche, novitie, et serve. Ne fu ordinato di più : che qualunque non volesse osservar quel che conteniva il moto proprio uscisse fuori, e perdesse le robbe. Tutte queste cose ne recavano grandissimo travaglio, ma sopra ogni altro perché pensavamo che ’l mondo vedendo e sentendo queste novità si fusse scandalizato di noi, le quali la Dio mercè facevamo contraria professione come ciascuno può sapere. (cc. 37-38)  





Professione irrevocabile dei voti religiosi, stretta clausura con relativa ristrutturazione dell’architettura – come, ad esempio, l’innalzamento delle mura dei monasteri, la muratura delle finestre, la costruzione di cancellate, l’inserimento di catenacci e chiavi che aprissero solo dall’esterno, nonché di grate strette e impenetrabili, la costruzione di ruote che servissero a far passare gli oggetti dall’esterno all’interno e viceversa –, il drastico ridimensionamento delle spese e opera di risanamento economico, abolizione della servitù personale, ripristino della vita comune e abolizione del sistema delle celle-appartamento, turnazione triennale delle cariche direttive, divieto di fasto e mondanità – compresa la proibizione di rappresentare commedie e di eseguire canto figurato –, presenza costante di confessori e visitatori apostolici, carcere e allontanamento per chi si opponesse a tali disposizioni furono tra i provvedimenti che generarono angoscia nelle religiose :  

Et per questo nacque fra di noi gran tumulto, et ad uno istesso tempo si udirono di tutte le voci, che piangevano tanto amaramente che harrebbono per la pietà addolcito ogni dur core, et tutte ne raggunammo in chiesa, dove si passò la maggior parte della notte in continue lagrime, pregando il nostro Sig.re che cessasse tanta ira, et ne indrizzasse a quel ch’era suo serviggio […] (c. 38)

Fulvia Caracciolo, entrata in monastero nel 1542, all’età di cinque anni, e monacata all’età di otto in un luogo dove abitavano circa cinquanta monache che vivevano in camere singole, che avevano una propria servitù e potevano uscire e ricevere visite, è testimone attonita di una svolta epocale :  

[…] rimasimo tutte confuse, et l’una si doleva con l’altra, senza sapere che cosa ne fusse avvenuta, perché alle volte le cose del mondo sono più difficili a pensarle, che non son poi a risolverle in fatto. E quando tra di noi stesse consideravamo il tanto peso, et gravezza di coscienza che n’haveva da apportare questa professione, et che le molte robbe da noi acquistate si havevano da lasciare senza che potessimo esser padrone d’un carlino, le case da nostre antecessore edificate con tanto nostro 1

  Napoli, Archivio di S. Gregorio Armeno, Brieve Compendio della fundatione del Monistero di San Gregorio armeno.

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commodo si havevano da diroccare, n’accresceva tanto la pena, che non si poteva far altro che piangere amaramente, poiché niuna si racordava, né haveva inteso dire, che questo nostro monistero fosse stato di altro modo, et a nostri tempi solo venivano tante mutationi. (c. 33)

Lo stesso Concilio di Napoli del 1576, in applicazione alle norme tridentine, richiede per le religiose un drastico taglio con il mondo attraverso la chiusura del portone esterno, l’inserimento della doppia inferriata al parlatorio, l’uso rigoroso della ruota per il passaggio delle cose necessarie alle monache, oltre ad una riorganizzazione degli ambienti interni atta a favorire la messa in comune dei beni, in contrapposizione all’atavico e consolidato diritto delle monache a detenere proprietà private. 1 Tali decreti comportarono un intervento massiccio di riconversione delle antiche strutture monastiche. A S. Gregorio Armeno vennero distrutte l’impostazione pre-gotica e le tracce di quegli appartamenti autonomi che rispondevano alla spiritualità delle regole basiliana e benedettina, trasformando, in tal modo, l’edificio in una struttura inaccessibile, priva di finestre e di appartamenti privati, sostituiti da celle che si affacciavano sul loggiato interno. Con decreto del 20 febbraio 1563, Alfonso Carafa dispose la soppressione di otto monasteri benedettini; 2 S. Agnello e S. Agata furono accorpati a S. Maria Donnalbina :  

Come hebbero fornito di visitare gli altri monasteri volle dar ordine alla riforma, la quale cominciò con la parte più debole, et impotente che siam noi altre Donne et Moniche e mosso dal consiglio di molti docti, e savi disfece molti monisteri, de quali fù uno il Monistero di santo Anello, et l’altro di santa Agata, et ambidui forno uniti co’l monistero di santa Maria d’Albino. Io lascio qui nell’arbitrio de devoti spiriti a’ considerare il ramarico di coloro che lasciavano le proprie case, et givano ad habitare altrove. (c. 22)

Si avviarono unificazioni tra diversi monasteri, come quella avvenuta nel 1564 per il monastero dei Ss. Marcellino e Festo, nato dall’unione tra quello basiliano dei Ss. Marcellino e Pietro con il benedettino dei Ss. Festo e Desiderio :  

Vollero poi disfare il monistero di Santo Festo, per unirlo con quel di San Marcellino, et in quel tempo era Vicario Giulio Santoro 3 oggi Cardinale di Santa Severina, onde le povere moniche di San Festo non trovavano in niun modo forma di quieto per partirnosi da loro Monistero, et continuamente tutte vivevano in continue lagrime. Ogni giorno mandavano nuove suppliche, e nuove intercessioni all’Illustrissimo Cardinale, che si contentasse fabricare, alzare le mura, e fare quanto a lui era serviggio, in quanto appertineva alla clausura, purché non l’ammovesse dal loro Monistero. E veggendo che questo modo d’intercedere appresso di lui nulla valeva, stando nondimeno pur saldo, et fermo nella sua determinatione, pigliorno le moniche risolutione di volersi prevalere con la maggior forza che potevano, e cominciorno a litigare con detto Ill.mo Cardinale. Laonde mandorno più volte in Roma dal Sommo Pontefice, et per molto c’havessero allegato le loro pietose ragioni venne pur ordine deffinitivo di Roma, che si dovessero unire. Non saprei certo dir né raccontar a punto l’atrocissimo dolore che tal nuova l’apportò ; tutta volta non si diffidorno della bontà, et misericordia di Dio, avenga che l’orationi ch’in questo tempo si facevano erano senza intermissione […]. Erano quivi al giuditio mio Donne di molto valore, tanto ch’ alcuna di esse haverebbe bastato  

1   Michele Miele, Religiosi e monache nei concili post-tridentini del regno di Napoli (1565-1729), « Annuarium Historiae Conciliorum », 23 (1991), pp. 360-372. 2   S. Agnello, Sant’Agata, S. Festo (confluito in quello di S. Marcellino), S. Maria d’Agnone, S. Maria della Misericordia, S. Caterina a Portanova, S. Benedetto e S. Arcangelo a Baiano. Le religiose di S. Agata, in numero di 19, furono trasferite in S. Maria Donnalbina. Il 28 febbraio 1567 i beni delle monache, assieme a quelli del monastero di S. Agnello, furono venduti e il ricavato fu assegnato al monastero di S. Maria Donnalbina. 3   Giulio Santoro, casertano, chierico della chiesa di Capua ed esperto di diritto canonico. A lui sono dovuti i provvedimenti del sinodo diocesano indetto da Mario Carafa. Nel 1566 fu nominato vescovo di Santa Severina e, nel 1570, creato cardinale.  



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a governare non dico un monistero, ma anco un Regno ; e perciò non potevano prender conforto a partirsi da quel luogo dove da fanciullezza erano state richiuse, e per questo furono molte volte molestate dalla Corte spirituale con alcune violenze, ch’al senso molto dispiacevano. Alla fine con la spirituale andò anco la corte temporale, acciò si risolvessero, che se non volevano di buona voglia uscire l’havrebbono per forza cavate fuora. (cc. 24-25)  

Il già citato Concilio di Napoli del 1576, oltre ad imporre la separazione dal mondo esterno, aveva richiesto alle monache la diminuzione delle spese superflue per l’organizzazione delle feste, l’abolizione degli oggetti legati alle cure e agli affetti personali (specchi, trucco, creme, cagnolini), la limitazione della confezione e della vendita di dolci. Tali disposizioni non riuscirono, tuttavia, a sortire nella città gli effetti desiderati. Non solo. Difficile era per le monache mutare uno stile di vita consolidatosi negli anni e diventato, ormai, prassi quotidiana, cosicché, tanto i Sinodi locali, quanto gli interventi degli Arcivescovi napoletani tornano a più riprese e insistentemente, per tutto l’arco dei secoli xvii e xviii, sui monasteri per limitarne abusi e irrequietezze. 1 La Riforma avviata dal Concilio di Trento sortì considerevoli riflessi sull’universo femminile e rappresentò certamente uno dei fattori di crisi del rinascimento napoletano. Lo sforzo della Chiesa si espresse attraverso una serie di iniziative ed azioni rivolte in più direzioni : per arginare il meretricio, le unioni irregolari e quelle clandestine si tentò di normare la vita sociale delle donne attraverso l’istituto matrimoniale ; si volle tutelare la vita di fede delle comunità religiose femminili con l’imposizione della clausura, la costante e capillare direzione spirituale, oltre che con l’ovvia e riaffermata presenza del confessore ; si intese sostenere le donne indigenti con forme di solidarietà, inserite nell’ampio circuito degli istituti di assistenza, appoggiate nel loro agire pratico da una teologia morale sempre più articolata e minuziosa ; di indirizzare, infine, lo stile delle devozioni (praxis pietatis) delle classi popolari verso forme conformi allo spirito controriformato. 2 Il controllo della presenza femminile nel tessuto urbano attraverso l’internamento (la clausura monastica) e l’assistenza (le Opere Pie) va dunque collocato nella più ampia politica messa in atto dalla Chiesa Cattolica per fronteggiare, da una parte, le lacerazioni avvenute in seguito alla Riforma protestante e per arginare, dall’altra, quell’inquietudine spirituale che l’Umanesimo, con le sue istanze di rinnovamento, aveva espresso in tanti ambiti della vita culturale e sociale.  







Università degli Studi di Napoli “Federico II” Il mio intervento verte sulla donna e la crisi del Rinascimento a Napoli tra il 1510 e il 1580, alla luce dell’opera di due aristocratiche : Maria Longo e Fulvia Caracciolo. La prima, fondatrice dell’Ospedale di S. Maria del Popolo (Incurabili) e dell’Ordine delle cappuccine, la seconda, autrice di una Cronaca del 1580, testimone dello sconvolgimento che dovettero subire i monasteri napoletani all’indomani del Concilio di Trento. La Longo si presenta come una delle più significative chiavi interpretative del mondo laicale, punto di riferimento di aspirazioni riformatrici e di sperimentazioni sociali; la Caracciolo, monaca di S. Gregorio Armeno, manifesta la confusione e la sofferta incredulità di tanta parte del monachesimo femminile napoletano per i mutamenti nella vita religiosa, che limitavano fortemente la libertà delle donne.  

1   Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo xvii, Napoli, Istituto di Storia Medioevale e Moderna, 1970. Sul rapporto architettura post-tridentina, dinamiche di potere e vita religiosa femminile, vedi : Helen Hills, Invisibile City. The Architecture of Devotion in Seventeeth-Century Neapolitan Convents, New York, Oxford University Press, 2004. 2   Cfr. Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di Paolo Prodi e Wolfang Reinhard, Bologna, Il Mulino, 1996 : in particolare il contributo di Anne Conrad, Il Concilio di Trento e la (mancata) modernizzazione dei ruoli femminili ecclesiastici, ivi, pp. 415-436.  



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My article points out women’s situation and the crisis of the Neapolitan Renaissance between the years 1510 and 1580, taking as examples the works of two aristocratic women : Maria Longo and Fulvia Caracciolo. Maria Longo founded the Ospedale di S. Maria del Popolo, also called Ospedale degli Incurabili. She founded the female Capuchin Order as well. Fulvia Caracciolo wrote an account of the facts happened in 1580, since she was witness of the upheavals suffered by the Neapolitan female Monasteries after the Council of Trento. Maria Longo is one of the most important interpretative keys as concerns the laic world. She represented a point of reference for the longings of reformation and the social experimentation of her time. Fulvia Caracciolo was a nun of S. Gregorio Armeno Monastery. She make herself mouthpiece of a large part of the Neapolitan nuns, who were confused and were suffering, because of the changes – established by the Council – concerning their religious life, changes which were limiting very much women’s freedom.  

Mon intervention portera sur la femme et la crise de la Renaissance à Naples entre 1510 et 1580, à la lumière de l’œuvre de deux aristocrates : Maria Longo et Fulvia Caracciolo. La première, fondatrice de l’ Ospedale di S. Maria del Popolo (Incurabili) et de l’Ordre des Capucines, la seconde, auteur d’une chronique de 1580, témoin du bouleversement que subirent les monastères napolitains au lendemain du Concile de Trente. Longo représente l’une des plus importantes clés d’interprétation du monde laïque, point de référence d’aspirations réformatrices et d’expérimentations sociales  ; Caracciolo, sœur de S. Gregorio Armeno, manifeste la confusion et la douloureuse incrédulité d’une grande partie du monachisme féminin pour les métamorphoses de la vie religieuse, qui limitaient fortement la liberté des femmes.  



Mi ponencia tendrá como tema la mujer y la crisis del Renacimiento en Nápoles, entre los años 1510 y 1580, a la luz de las obras de dos aristócratas : María Lorenza Longo y Fulvia Caracciolo. La primera fundadora del Ospedale di S. Maria del Popolo (Incurabili) y de la Orden de las Hermanas Clarisas Capuchinas, la segunda autora de una crónica del 1580 que atestigua el trastorno que sufrieron los monasterios napolitanos tras el Concilio de Trento. La Longo se presenta como una de las más significativas claves interpretativas del mundo laico y punto de referencia de aspiraciones reformadoras y de experimentación social. La Caracciolo, monja de San Gregorio Armeno, manifiesta la confusión y la incredulidad de una gran parte del mundo monástico femenino de Nápoles, a causa de los cambios en la vida religiosa que limitaban la libertad de las mujeres.  

Mein Beitrag widmet sich der Frau und der Krise in der Renaissance in Neapel zwischen 1510 und 1580, mit besonderem Augenmerk auf die Werke zweier adliger Frauen : Maria Longo und Fulvia Caracciolo. Erstere ist die Gründerin des Ospedale Santa Maria del Popolo (Incurabili) und des Kapuzinerordens, die zweite ist Autorin einer Chronik des Jahres 1580, die von der Erschütterung zeugt, die die neapolitanischen Klöster durch das Konzil von Trient erfuhren. Maria Longo erscheint als eine Schlüsselfigur der weltlich geprägten Gesellschaft, Bezugspunkt reformativer Bestrebungen und sozialer Experimente. Fulvia Caracciolo, Nonne in San Gregorio Armeno, zeugt von der Verwirrung und der Enttäuschung großer Teile des weiblichen Mönchtums Neapels durch die Veränderungen des religiösen Lebens, das die Freiheit der Frauen stark beschnitt.  

SANTITÀ FEMMINILE IN TRANSIZIONE E MODELLI AGIOGRAFICI : STUDI RECENTI  

Gabriella Zarri

T

ra i filoni di ricerca più innovativi degli ultimi decenni, la storia della santità si è imposta per ragioni di metodo e di merito. Confinata per anni nel ghetto dell’agiografia o al massimo considerata espressione della cultura popolare e del folklore, è stata traghettata con maestria dalla letteratura alla storia, allargandone anche lo spettro di indagine sia in senso cronologico che tematico. Da oggetto di studio privilegiato di storici del cristianesimo e di medievisti, la storia della santità ha acquisito un proprio statuto grazie anche ad importanti lavori di studiosi dell’età moderna e si è efficacemente coniugata con discipline diverse quali la storia dell’arte e quella del libro. Notevole incremento agli studi in questo settore è stato offerto a livello internazionale dalla « Hagiography Society » dell’Università di Wisconsin-Madison, istituita nel 1990, e a livello italiano dall’« Associazione per lo studio della santità dei culti e dell’agiografia » promossa nel 1995 da Sofia Boesch Gajano, cui si sono successivamente affiancati altri centri ed istituti con interessi in parte paralleli. Non occorrerà inoltre ricordare che la nascita e il fiorire degli women’s studies a livello internazionale ha costituito un altro potente incentivo all’approfondimento di tematiche come quelle della santità femminile e di ‘genere’, variamente esplorata in diversi periodi cronologici e in particolari aree geografiche. 1 Dunque la santità femminile ha ben ragione di figurare in una indagine sulla donna nel Rinascimento meridionale, con l’attenzione volta a farne emergere le peculiarità in rapporto ad altre realtà statali italiane. In relazione al tema che mi era stato inizialmente proposto, i modelli agiografici tra sante vive e finte sante, non ho bisogno di ricordare che diverse studiose e studiosi hanno già scavato a fondo nel contesto documentario napoletano e meridionale portando alla luce figure significative, casi esemplari, testi agiografici e devozionali, 2 e hanno arricchito in modo approfondito e originale le prime importanti ricerche di Gabriele de Rosa, 3 Giuseppe Galasso 4 e Michel Sallmann 5 sulla santità meridionale e le mie più generali proposte sulla santità femminile tra fine Quattrocento e Seicento. In particolare vorrei menzionare  







1   Un panorama storico della storia della santità, dei suoi problemi e dei suoi metodi è il volume : Storia della santità nel cristianesimo occidentale, di Anna Benvenuti et alii, Roma, Viella, 2005. Una sintesi sulla santità femminile : Gabriella Zarri, Female sanctity, 1500-1660, in *The Cambridge History of Christianity. Reform and Expansion 15001660, a cura di Ronnie Po-Chia Hsia, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, pp. 180-200. 2   Vittoria Fiorelli, Una santa della città. Suor Orsola Benincasa e la devozione napoletana tra Cinquecento e Seicento, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001 ; Marcella Campanelli, Agiografia e devozione nell’editoria napoletana del Settecento, in *Editoria e cultura a Napoli nel xviii secolo. Atti del Convegno (Napoli 5-7 dicembre 1996), a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Liguori, 1998 ; Giulio Sodano, Santi , guaritrici e fattucchiere nella Napoli dell’età moderna, in * Integrazione ed emarginazione. Circuiti e modelli : Italia e Spagna nei secoli xv-xviii. Atti del Convegno di studi (Napoli maggio 1999), a cura di Laura Barletta, Napoli, cuen, 2002. 3   Gabriele De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud : ricerche di storia socio-religiosa dal 17. al 19. secolo, Napoli, Guida, 1971. 4   Giuseppe Galasso, Santi e santità, in L’ altra Europa : per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Guida, 2009. 5   Jean-Michel Sallmann, Santi barocchi : modelli di santità, pratiche devozionali e comportamenti religiosi nel Regno di Napoli dal 1540 al 1750, Lecce, Argo, 1996.  















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un lucido contributo di Elisa Novi Chavarria che fornisce una esauriente rassegna degli studi sull’argomento. Il saggio Ordini religiosi e santità femminile nel Mezzogiorno spagnolo, è uscito pochi mesi fa negli atti del Convegno di Lecce Ordini religiosi, santi e culti tra Mediterraneo, Europa e Nuovo Mondo, a cura di Bruno Pellegrino. 1 A me non resta dunque che rinviare a questo saggio, soffermandomi invece su alcuni libri e studi recenti che possono significativamente arricchire il panorama di una santità in transizione, intendendo con questa espressione l’elaborazione di modelli agiografici che si trasmettono e si trasformano in ragione di contesti politico-culturali ed ecclesiali fra loro diversi nel tempo e nello spazio. 1. Studi su Caterina da Siena e sulle domenicane : il modello agiografico e l’identità domenicana  

Negli anni appena trascorsi i libri migliori su Caterina da Siena ci sono venuti da studiosi statunitensi, storici o letterati. Si tratta dei libri della studiosa di letteratura italiana Jane Tylus dell’Università di New York, che ha per titolo : Reclaiming Catherine of Siena. Literacy, Literature, and the Signs of Others, edito nel 2009 e di quello dello storico Thomas Luongo, del 2006. Thomas Luongo è autore di una ricerca dal titolo The Saintly Politics of Catherine of Siena che si basa essenzialmente sul carteggio di Caterina, come quella di Jane Tylus, e che ha di mira una reinterpretazione degli studi sulla santità femminile. Con questa indagine Luongo propone una lettura innovativa della figura di Caterina da Siena, che approfondisce documentariamente la conoscenza dell’ambiente della sua formazione, tenendo conto soprattutto delle condizioni politiche, oltre che religiose ed ecclesiastiche, del periodo specifico in cui si afferma come figura pubblica, imponendosi anche come santa. Senza la Guerra degli Otto Santi fra Firenze e il papato, originata a seguito dell’interdetto comminato contro Firenze per motivi fiscali, e l’ingresso di Siena e altre città toscane nella Lega della città del Giglio, la ‘carriera’ di Caterina come santa non avrebbe raggiunto né la notorietà, né l’ampiezza di orizzonti che le è propria. Quell’evento specifico infatti diede occasione alla santa senese e al gruppo dei suoi seguaci di presentarsi come fautori politici del papato e della Parte Guelfa e come mediatori e operatori di pace. Dopo aver inutilmente tentato di impedire l’alleanza di Siena con Firenze, Caterina si adoperò per dissuadere altre città, come Pisa e Lucca, dall’entrare nella lega e infine scrisse a re e regine, come Luigi d’Anjou, Elisabetta di Ungheria, Giovanna di Napoli, per indurli a prestare aiuto alla chiesa. I più conosciuti campi di intervento di natura ecclesiastica di Caterina da Siena, l’invito a riprendere la Crociata contro il Turco e il ritorno del papato a Roma, si rafforzano e in parte si realizzano per la discesa in campo della mantellata e della sua familia in occasione del conflitto politico. Jane Tylus parte da queste acquisizioni, per sviluppare aspetti e problemi del tutto nuovi. Il saggio si fonda su un attento esame delle opere letterarie di Caterina, le lettere e il libro, poi conosciuto come Dialogo della divina provvidenza, allo scopo di indagare su una serie di problemi più ampi e assai discussi dalla attuale letteratura : le questioni della scrittura e cultura femminile, della peculiarità della lingua e scrittura volgare, quelle infine connesse del rapporto tra oralità e scrittura e tra testo e immagine.  



1   Elisa Novi Chavarria, Ordini religiosi e santità femminile nel Mezzogiorno spagnolo, in *Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo (secoli xv-xvii). Atti del v Convegno Internazionale aissaa (Lecce, 3-6 maggio 2003), a cura di Bruno Pellegrino, presentazione di Gabriella Zarri, postfazione di Raimondo Michetti, Galatina, Congedo, 2009, tomo i, pp. 255-275.

santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 201 L’idea di ancorare differenti temi storiografici ad un personaggio concreto, presentato nel suo contesto biografico e situato nell’ambiente geografico in cui vive ed opera, consente di fare un salto di qualità ai vari tentativi post-moderni di riscrivere la storia di questo o quel personaggio o di questa o quell’opera letteraria partendo da presupposti teorici (che non mancano certo in questo volume, ma che non si sovrappongono all’indagine, velandone l’originalità). Qui si rileggono con grande intelligenza le fonti, appuntando la lente su quelle parole o espressioni o locuzioni che solo il lettore di oggi sa mettere a fuoco in base alle più recenti acquisizioni e domande della attuale ricerca scientifica. Se i due libri menzionati hanno per oggetto la figura fondativa della santità femminile moderna, un recente volume collettivo si propone di indagare invece sull’ordine domenicano al femminile, appuntando lo sguardo alle prime fondazioni domenicane italiane, per poi seguire le evoluzioni del movimento a livello istituzionale, fino alla costituzione del terzo ordine, di cui sono state recentemente ritrovate le regole originali di Munio da Zamora. 1 Il volume Il velo, la penna e la scrittura. Le domenicane : storia, istituzioni e scritture, pubblicato dall’editore fiorentino Nardini, contiene gli atti del convegno di Bologna del 2007. 2 Oltre alla fondazione delle prime comunità di monache e alle problematiche ad esse correlate all’interno e al di fuori dell’Ordine, le relazioni offerte nel corso del convegno hanno per oggetto ambiti diversi : da quello istituzionale, in cui si studia la nascita e la diffusione del Terz’Ordine femminile e si analizzano aspetti della riforma dell’Osservanza in seno alle comunità, a quello culturale, in cui si esaminano casi di costruzioni agiografiche e si offrono approfondimenti sulle arti praticate e incoraggiate nei monasteri, come la poesia, il teatro e la musica, per giungere poi a trattare argomenti inerenti l’ambito della spiritualità : le autobiografie spirituali e le scritture mistiche. Tra i saggi contenuti in questo volume, alcuni in particolare appaiono rilevanti per la definizione dell’identità domenicana. Silvia Nocentini, filologa ed agiografa esperta, che ci ha già offerto l’edizione critica della leggenda della beata Agnese da Montepulciano composta da Raimondo da Capua, 3 presenta in questo volume lo stato della sua ricerca in ordine alla edizione della Legenda Maior di Caterina da Siena composta dallo stesso Raimondo ed appunta l’attenzione sul problema della diffusione europea del testo che divenne il prototipo della santità femminile, non solo domenicana, dei secoli successivi. 4 Nel fare questo Nocentini richiama l’importante lavoro avviato a Venezia da fra Tommaso Caffarini, compagno del Generale dell’Ordine, che intraprese una intensa opera di individuazione delle donne legate all’ordine domenicano che avevano goduto fama di santità prima di Caterina da Siena e stabilisce di scriverne la vita. Al tempo stesso abbrevia la Legenda maior, fornendoci una più agile Legenda minor ; a parte raccoglie poi gli elementi esclusi dalla vasta trattazione di Raimondo da Capua e compone il Libellus de supplemento ; scrive infine una storia del terz’ordine della penitenza da affiancare agli scritti agiografici citati. Lo “scriptorium” veneziano di Caffarini diviene il centro di una attività di grande impatto culturale, volto a promuovere il culto della mantellata senese di cui si avvia a Venezia il primo processo  









1   Maiju Lehmijoki-Gardner, Writing Religious Rules as an Interactive Process : Dominican Penitent Women and the Making of their “Regula”, « Speculum », lxxix (2004), pp. 660-687. 2   Il velo, la penna e la parola. Le domenicane : storia, istituzioni e scritture, a cura di Gabriella Zarri e Gianni Festa, Firenze, Nardini, 2009 (Biblioteca di Memorie Domenicane, 1). 3   Raimondo da Capua, Legenda beate Agnetis de Monte Policiano, edizione critica a cura di Silvia Nocentini, Tavarnuzze, sismel-Edizioni del Galluzzo, 2001. 4   Silvia Nocentini, La diffusione della Legenda Maior di santa Caterina in ambiente domenicano, in *Il velo, la penna e la parola ..., cit., pp. 125-131.  







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di canonizzazione (1411), ma anche a forgiare il modello di santità femminile domenicana declinato nelle due varianti della mistica profetessa e della penitente dedita a una vita di carità. Dalla stessa città di Venezia ove opera il Caffarini partirà poi la riforma osservante del secondo ordine domenicano che troverà a Pisa la sua prima fondamentale espressione. Sullo “scriptorium” Caffariniano e sulla sua azione per la diffusione del culto di Caterina da Siena le ricerche di Silvia Nocentini si intrecciano con quelle più estese di studiosi tedeschi e statunitensi che hanno posto al centro delle loro ricerche la diffusione europea delle Legendae cateriniane e degli scritti di Caffarini 1 prendendo in considerazione anche lo “scriptorium” del certosino Stefano Maconi, segretario di Caterina stessa, che diffonde una grande quantità di codici nell’area germanica attraverso il circuito delle Certose. Per quanto riguarda la diffusione della Osservanza domenicana femminile, fondamentali risultano i primi studi della giovane studiosa francese Sylvie Duval, 2 anticipazioni della thése de Doctorat in corso di preparazione. L’approccio complessivo della sua ricerca sul movimento dell’Osservanza femminile, che coniuga l’aspetto religioso con quello cittadino e sociale, risulta particolarmente interessante dal punto di vista metodologico e storiografico. Ella prende in considerazione l’Osservanza del secondo ordine, di cui esamina l’origine e le peculiarità in rapporto all’ambiente pisano e fiorentino : da queste città promana infatti il rinnovamento dell’intera congregazione religiosa. L’attenzione agli aspetti cittadini e sociali dell’Osservanza si rileva nella scelta della studiosa di analizzare in primo luogo i soggetti che concorrono a fondare, ad ampliare e a governare l’istituzione religiosa (dalle professe, ai procuratori laici, agli oblati), i reticoli familiari, politici e religiosi a questa connessi, l’individuazione dei monasteri come centri economici e istituti di cultura. L’arco cronologico – 1385-1461 – che Duval stabilisce come punto di partenza e di arrivo della sua ricerca, pur richiamandosi a date significative per lo sviluppo dell’Osservanza (fondazione del monastero di San Domenico di Pisa e canonizzazione di Caterina da Siena) consente anche di appuntare lo sguardo sulla crisi demografica e sociale conseguente la peste nera e rappresenta al tempo stesso un osservatorio privilegiato per studiare l’evoluzione della condizione femminile in un periodo di destrutturazione della famiglia e progressivo ritorno ad una fase di stabilità. Gli aspetti sociali della realtà monastica domenicana nell’età rinascimentale non esauriscono i campi d’indagine ad essa relativi. L’identità del secondo ordine domenicano emerge anche nella costruzione agiografica di Chiara Gambacorta, fondatrice del monastero Pisano, e nell’iconografia del monastero stesso studiata da Ann Roberts, 3 così come i diversi aspetti della religiosità osservante analizzata alcuni anni fa da Jeffrey Hamburger 4 nei monasteri tedeschi viene ora ripresa negli studi più recenti di Silvia Mostaccio, che identifica nel binomio di intellectus et affectus la specificità della spiritualità delle domenicane. 5  

1   The Making of a saint. Catharina of Siena, Tomaso Caffarini and Venice, Convegno tenuto all’Università di Konstanz, 12-13 gennaio 2009, in corso di stampa. 2   Sylvie Duval, Chiara Gambacorta e le prime monache del monastero di San Domenico di Pisa : l’Osservanza domenicana al femminile, in *Il velo, la penna e la parola ..., cit., pp. 93-112. 3   Ann Roberts, Dominican Women and Renaissance Art : the Convent of San Domenico of Pisa, Aldershot, Burlington, Ashgate, 2008. 4   Jeffrey Hamburger, Nuns as artists : the visual culture of a medieval convent, Berkeley, University of California Press, 1997 ; Id., The visual and the visionary : art and female spirituality in Late Medieval Germany, New York, Zone books, 1998. 5   Silvia Mostaccio, L’Osservanza femminile domenicana tra intelletto e contemplazione : itinerario di pensieri e di manoscritti, in *Il velo, la penna e la parola, cit., pp. 151-161.  











santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 203 2. Studi sull’Osservanza francescana al femminile : la scrittura, i codici e gli inediti, le figure  

Gli studi sulla identità femminile francescana contano una più lunga tradizione rispetto a quella domenicana, incrementata non soltanto da un numero maggiore di istituti monastici e di diverse branche dell’Ordine, ma anche da un numero più elevato di Riviste storiche e di centri studi specializzati che inevitabilmente stimolano una produzione di diverso interesse e qualità. Da ultimo anche il proposito di ottenere il riconoscimento ufficiale della santità di alcune nobili fondatrici di monasteri del periodo rinascimentale, come Camilla Pio di Carpi e Camilla Battista Varano di Camerino, hanno condotto alla promozione di nuovi scavi documentari 1 e ad una intensa ripresa della riflessione sull’intero movimento dell’Osservanza. Dopo gli studi pioneristici di Mario Sensi e di Jacques Dalarun sull’origine dell’Osservanza femminile e sulla figura di Chiara, 2 arricchiti pochi anni fa dalla magistrale ricostruzione interpretativa di Chiara Frugoni sulla fondatrice del secondo ordine francescano, 3 l’Osservanza femminile è stata posta al centro di ben tre Convegni tenutisi a Foligno e promossi dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università “Antonianum” di Roma. Al centro di questa riflessione è stato posto il ragguardevole problema della cultura delle monache nei monasteri dell’Osservanza a partire da un polo, quale era il monastero di Santa Lucia di Foligno, indubbiamente rilevante per la diffusione del movimento e per la costruzione identitaria dello stesso. Apre la serie dei Convegni, prontamente pubblicati, il volume dedicato allo studio delle donne letterate e sante, curato da Pietro Messi e da Angela Emmanuela Scandella, 4 che dopo aver ripercorso nello scritto di Mario Sensi le tappe principali della formazione del secondo ordine francescano e del suo passaggio alla Osservanza, 5 mette a fuoco il ruolo di Santa Lucia di Foligno come foyer intellettuale del movimento. Con la competenza e acume interpretativo che gli sono propri Jacques Dalarun esamina in particolare la biblioteca delle clarisse umbre, il cui inventario era già stato pubblicato da Carmela Compare, 6 e appunta la propria attenzione su alcune monache letterate come Battista Malatesta e Caterina Guarnieri. 7 Dimostra poi con ricchezza di particolari il ruolo decisivo svolto dallo “scriptorium” di Santa Lucia nel trasmettere ai monasteri osservanti dell’Italia centrale gli scritti spirituali e agiografici che gli giungevano dai monasteri di tutta la penisola. 1   Per il monastero delle clarisse di Carpi si veda : Le clarisse in Carpi : cinque secoli di storia, 16-20, i. Saggi, a cura di Gabriella Zarri ; ii. Documenti, a cura di Anna Maria Ori, Reggio Emilia, Diabasis, 2003. Un episodio specifico di possessione diabolica nel Seicento ha costituito l’oggetto di un volume : Jeffrey R. Watt, The Scourge of Demons. Possession, Lust, and Witchcraft in a Seventeenth-Century Italian Convent, University of Rochester Press, 2009. 2   Tra i molti studi si ricordano : Mario Sensi, Monachesimo femminile nell’Italia centrale (sec. xv), in *Il monachesimo femminile in Italia dall’alto medioevo al secolo xvii a confronto con l’oggi, Atti del vi Convegno del “Centro di Studi Farfensi” (Santa Vittoria in Matenano 21-24 settembre 1995), a cura di Gabriella Zarri, Negarine di S. Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrielli, 1997, pp. 135-168 ; Jacques Dalarun, Francesco : un passaggio : donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi ; postfazione di Giovanni Miccoli, Roma, Viella, 2001². 3   Chiara Frugoni, Una solitudine abitata : Chiara d’Assisi, Milano, Mondolibri, 2007. 4   Uno sguardo oltre : donne, letterate e sante nel movimento dell’Osservanza francescana. Atti della 1. Giornata di studio sull’Osservanza francescana al femminile, 11 novembre 2006, Monastero Clarisse S. Lucia, Foligno, a cura di Pietro Messi e Angela Emmanuela Scandella, Assisi, Porziuncola, 2007. 5   Mario Sensi, Dalle bizzocche alle “clarisse dell’Osservanza”, ivi, pp. 25-77. 6   Carmela Compare, I libri delle Clarisse osservanti nella “Provincia seraphica S. Francisci” di fine ’500, « Franciscana », iv (2002), pp. 169-372. 7   Jacques Dalarun, Il monastero di Santa Lucia di Foligno foyer intellettuale, in *Uno sguardo oltre ..., cit., pp. 79111.  

























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Da questo centro culturale parte una tradizione umbra dell’opera di Caterina de’ Vigri designata con il titolo di Le sette armi spirituali ed anche il libro della Vita della clarissa messinese Eustochia Calafato scritto dalla consorella Iacopa Pollicino. Il secondo volume della serie affronta il problema dell’Umanesimo e della sua penetrazione tra le clarisse Osservanti 1 a partire da un penetrante saggio storiografico di Cécile Caby che scartando il concetto di “umanesimo religioso” e mostrando il superamento di una concezione che descrive il rapporto tra umanisti e religiosi in termini prevalentemente conflittuali, individua alcuni elementi concreti che accomunano le due categorie di intellettuali. 2 Il rapporto tra Umanesimo e Osservanza è poi indagato da una serie di saggi notevoli che approfondiscono il tema della scrittura femminile sotto il profilo della capacità linguistica 3 e della pratica scrittoria. 4 Completano il quadro l’approfondimento della cultura monastica con riferimento ad alcuni codici della comunità di Monteripido di Perugia. Il terzo volume infine, riallacciandosi alla definizione stessa del movimento dell’Osservanza come movimento che si propone il ritorno alla spiritualità delle origini, tratta in particolare il recupero della memoria di Chiara attraverso la produzione e il volgarizzamento degli scritti agiografici sulla santa e sulla riproposizione della forma vitae primitiva, lasciataci in alcuni monasteri dell’alta Italia, tra cui quello bolognese del Corpus Domini. Accompagnano la riflessione sulla cultura nei monasteri francescani dell’Osservanza alcuni studi recenti su Camilla Battista da Varano, 5 la più colta clarissa del primo Cinquecento, i cui scritti sono stati oggetto di edizioni critiche 6 e sono tuttora materia di analisi filologiche e codicologiche. L’insieme degli studi sull’osservanza francescana che, oltre a beneficiare dell’importante lavoro erudito di membri dell’ordine si avvalgono anche del contributo di studiosi eminenti, quali i già citati Jacques Dalarun, Cécile Caby e lo stesso André Vauchez, 7 hanno il pregio di far emergere e di valorizzare una documentazione ancora in gran parte dispersa o poco nota, soffrono tuttavia dell’angustia che è tipica di un approccio prevalentemente autoreferenziale. La cultura e la scrittura femminile, oltre che il monachesimo e l’Osservanza, sono da anni al centro di un intenso lavoro di carattere internazionale che ha prodotto studi meritevoli di attenzione sia sul piano della interpretazione che dell’analisi documentaria. Le clarisse italiane sono spesso state oggetto di saggi innovativi che possono indubbiamente arricchire la prospettiva da cui guardare il microcosmo monastico. 8 Un altro aspetto della cultura francescana femminile su cui mi permetto di richiamare l’attenzione è, infine, il precoce ingresso delle clarisse osservanti nel mondo della stampa. 1   Cultura e desiderio di Dio : l’umanesimo e le Clarisse dell’Osservanza. Atti della 2. Giornata di studio sull’Osservanza francescana al femminile (10 novembre 2007, Monastero Clarisse S. Lucia, Foligno), a cura di Pietro Messi, Angela Emmanuela Scandella, Mario Sensi, Assisi, Porziuncola, 2009. 2   Cécile Caby, Oltre l’“umanesimo religioso” : umanisti e chiesa nel Quattrocento, ivi, pp. 15-33 3   Ugo Vignuzzi e Patrizia Bertini Malgarini, Le capacità linguistiche delle clarisse dell’Osservanza : qualche anticipazione, ivi, pp. 35-44. 4   Attilio Bartoli Langeli, Scrittura di donna. Le capacità scrittorie delle clarisse dell’Osservanza, ivi, pp. 81-96. 5   Marco Bartoli et alii, Dal timore all’amore. L’itinerario spirituale della beata Camilla Battista da Varano, Assisi, Porziuncola, 2009 ; Gabriella Zarri, L’autobiografia religiosa negli scritti di Camilla Battista da Varano : “La vita spirituale” (1491) e le “Istruzioni al discepolo” (1501), in *“In quella parte del libro de la mia memoria”. Verità e finzioni dell’”io” autobiografico, a cura di Francesco Bruni, Venezia, Marsilio-Fondazione Giorgio Cini, 2003, pp. 133-158. 6   C. Battista da Varano, Il felice transito del beato Pietro da Mogliano, a cura di Adriano Gattucci, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2007. 7   André Vauchez, Conclusioni, in *Cultura e desiderio di Dio ..., cit., pp. 97-101. 8   Jeryldene M. Wood, Women, art and spirituality : the Poor Clares of early modern Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.  











santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 205 Come da me segnalato diversi anni fa, e recentemente riproposto, sono proprio le colte clarisse del Corpus Domini di Bologna a far stampare i testi composti dalla loro madre fondatrice, altre volte amorosamente copiati a mano e trasmessi alle consorelle, e sono le stesse monache bolognesi a far stampare la prima raccolta femminile di poesie e laudi, apparsa in Italia diversi anni prima delle note raccolte di poesie petrarchesche di Vittoria Colonna e delle altre poetesse erudite. Ancorché stampata anonima, la provenienza monastica della raccolta dal titolo Devotissime compositioni ritmyce e parlamenti d’amore, è accertata ; e inoltre il numero notevole di ristampe dell’opera per tutto il Cinquecento è prova di una estesa fruizione. 1 La stessa Camilla Battista Varano, figlia naturale del signore di Camerino ed educata a corte, darà ben presto alle stampe alcuni dei suoi molti scritti spirituali. Senza nulla togliere all’importanza dell’inedito, si potrà dunque aggiungere alla cultura delle clarisse l’intelligenza precoce di servirsi di un mezzo moderno per far conoscere insegnamenti e pensieri delle loro madri più erudite. 2 E infine un’ultima osservazione e un auspicio. Si vorrebbe che l’Osservanza femminile francescana uscisse a poco a poco dalla sua culla umbro-marchigiana per giungere nel regno napoletano e dirigersi anche verso il Po. Per quanto riguarda il Regno, i riferimenti più frequenti sono al monastero messinese di Montevergine, reso famoso dalla santità della fondatrice Eustochia Calafato, anch’essa scrittrice spirituale di cui si conoscono trattati sulla passione del Signore. Pochi sono invece, almeno a mia conoscenza, gli studi su Santa Chiara di Napoli, il primo monastero osservante della capitale del Regno.  

3. I monasteri femminili come centri di cultura Tra le tematiche più indagate dagli women’s studies, dopo l’iniziale provocatorio appello al ritorno delle streghe, i monasteri femminili sono da anni al centro della ricerca storica sia in Italia che all’estero. Esplorati con metodi ispirati alla storia sociale e alla storia delle donne, interrogati con domande proprie della storia del gender, analizzati in chiave di centri di vita spirituale e religiosa, questi stupefacenti contenitori dell’aristocrazia e del patriziato cittadino in cui si concentravano interessi familiari, economici e di ceto hanno ancora molto da dire in ordine alla conoscenza della società di Antico Regime. Sotto questo profilo il caso napoletano è certamente tra i più interessanti e i meglio indagati. Per quanto riguarda la realtà dei monasteri nell’Italia meridionale sono imprescindibili gli studi di Elisa Novi Chavarria 3 e il volume sui monasteri femminili nell’Italia Meridionale da lei diretto, 4 a cui si deve aggiungere almeno la ricerca collettiva sulle donne e la religione a Napoli dal 16° al 18° secolo. 5 Con prospettive storiografiche e disciplinari diverse, i monasteri napoletani hanno costituito oggetto di studio anche da parte della storiografia anglosassone. Tra le nuove pro1   Elisabetta Graziosi, Poesia nei conventi femminili : qualche reperto e un testo esemplare, in *La Santa e la città. Atti del Convegno (Bologna 13-15 novembre 2002), a cura di Claudio Leonardi, Firenze, sismel, 2004, pp. 57-70. 2   Sulle monache scrittrici di libri religiosi si veda Gabriella Zarri, Libri di spirito : editoria religiosa in volgare nei secoli 15.-17, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009. 3   Elisa Novi Chavarria, Monache e gentildonne : un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani, secoli 16.-17, Milano, Franco Angeli, 2001. 4   La città e il monastero : comunità femminili cittadine nel Mezzogiorno moderno, Atti del Convegno di studi (Campobasso, 11-12 novembre 2003), a cura di Elisa Novi Chavarria, Napoli, esi, 2005. 5   Donne e religione a Napoli : secoli 16.-18, a cura di Giuseppe Galasso e Adriana Valerio, Milano, Franco Angeli, 2001. A questo studio si possono ora aggiungere due volumi che censiscono le principali istituzioni femminili napoletane : Istituti religiosi femminili a Napoli dal 4. al 16. secolo [testi di Adriana Valerio ; contributo di Helen Hills], Napoli, Voyage pittoresque, 2006 ; 2 : Istituti religiosi femminili a Napoli dal 1600 al 1861, a cura di Adriana Valerio, Napoli, Voyage pittoresque, 2007.  

















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poste interpretative relative ai monasteri femminili dell’età tridentina, si potrà segnalare quella di “terzo spazio” per le donne, alternativo alla famiglia e alla professione monastica, formulata da Camilla Russel sulla base dei suoi studi su Giulia Gonzaga, la giovane vedova devota che a metà del secolo XVI sceglie un monastero di terziarie come ambito di vita e di incontri spirituali. 1 Ma soprattutto appaiono degni di attenzione gli studi sull’architettura monastica, interpretata da Helen Hills in chiave di storiografia del gender. Dall’esame attento dei monasteri napoletani del Seicento, caratterizzati da ingressi chiusi da alti cancelli, la studiosa inglese formula l’ipotesi interpretativa del monastero come corpo femminile della città architettonicamente rappresentato come corpo verginale. 2 Sottolinea invece l’apertura dei monasteri verso la città un recentissimo saggio della stessa Hills, su cui si tornerà più avanti, che mostra come le monache possano avere un ruolo specifico nella sfera pubblica ed essere presenti nella comunità cittadina, indipendentemente dai simbolici cancelli che ne denotano la separazione. Prendo occasione da un recentissimo volume dal titolo Female Monasticism in Early Modern Europe. An Interdisciplinary View, edito da Cordula van Wyhe (2008), 3 che richiama nella sua struttura lo studio precedentemente citato sulle monache domenicane, Il velo, la penna e la scrittura, per illustrare un aspetto specifico della ricerca sui monasteri femminili che ha rappresentato un filone di studi altamente innovativo, rimasto ancora estraneo alla storiografia erudita e al circuito delle riviste degli Ordini religiosi. Il volume edito da Cordula van Wyhe, dedicato al monachesimo femminile, inaugura una nuova serie dal titolo Catholic Christendom, 1300-1700, diretta da Thomas F. Mayer per le edizioni Ashgate. Il fatto stesso che l’argomento prescelto sia quello del monachesimo femminile nella prima età moderna conferisce rilievo ad un settore di studi che negli ultimi due decenni ha visto moltiplicarsi le ricerche in maniera esponenziale sia sul piano geografico che sul piano disciplinare. Questo volume può considerarsi altamente rappresentativo di un lavoro di indagine scientifica che ha visto una proficua collaborazione tra studiosi statunitensi ed europei, che hanno a lungo dialogato e collaborato tra loro, giungendo a innovare profondamente la visione corrente del monachesimo femminile nell’Antico Regime. Si deve infatti in primo luogo all’indirizzo socio-antropologico degli studi storici americani il merito di aver focalizzato il ruolo significativo dei monasteri femminili nell’ambito della musica e del teatro, attività che hanno consentito di evidenziarne il carattere di centri di cultura tra Rinascimento e Barocco, e di metterne in rilievo gli aspetti che, unitamente alle funzioni spirituali proprie dell’istituzione, conferivano alle comunità monastiche una attiva presenza nella sfera pubblica cittadina. Sulla scia di precedenti lavori che avevano avviato su questo argomento ricerche interdisciplinari e internazionali, il volume Female Monasticism in Early Modern Europe riunisce il meglio della produzione scientifica anglofona, aprendosi anche a più recenti argomenti di indagine che arricchiscono il panorama degli studi attuali. L’occasione a ripercorrere analiticamente il cammino che conduce alla realizzazione del volume sopra citato ci viene offerta dall’imminente pubblicazione in lingua italiana del libro che dato il via a questo filone di studi : Disembodied voices : music and culture in  



1   Camilla Russel, Convent Culture in Early Modern Italy : Laywomen and Religious Subversiveness in a Neapolitan Convent, in *Practices of Gender in Late Medieval and Early Modern Europe, a cura di Megan Cassidy-Welch e Peter Sherlock, Turnhout, Brepols, 2008. 2   Helen Hills, The Veiled Body : Within the Folds of Early Modern Neapolitan Convent Architecture, « Oxford Art Journal », xxvii (2004), 3, pp. 269-290 ; Ead., Invisible City. The Architecture of Devotion in Seventeenth-Century Neapolitan Convents, Oxford-New York, Oxford University Press, 2004. 3   Female monasticism in early modern Europe : an interdisciplinary view, a cura di Cordula van Wyhe, Aldershot, Ashgate, 2008.  











santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 207 an early modern Italian convent, di Craig A. Monson (1995). 1 Musicologo, inizialmente attratto dall’opera della compositrice bolognese Lucrezia Orsina Vizzani, una delle poche donne che nel secolo xvii poterono dare alle stampe le loro composizioni, Monson ha successivamente allargato l’oggetto della sua indagine, spostando il fuoco dalla singola individualità artistica all’ambiente che l’ha prodotta e ha condotto una approfondita ricerca documentaria sulla storia del monastero bolognese di Santa Cristina. Certo, la musica resta al centro degli interessi dello studioso, che scopre con soddisfazione il ruolo determinante che essa ricopriva anche nella realtà storica del microcosmo monastico, ma la sua ricostruzione mira a offrirci uno spaccato dell’istituzione, mostrandone la funzione nella società italiana della prima età moderna. Il libro di Craig A. Monson può considerarsi per più ragioni un libro fondativo. È il primo che focalizza la centralità dei monasteri femminili nell’evoluzione della musica polifonica in Italia tra Rinascimento e Barocco, individuando in queste comunità di donne nobili o del patriziato cittadino dei veri e propri laboratori di sperimentazione musicale e vocale. È anche il primo che evidenzia il fattore musicale come elemento determinante del prestigio di un monastero nella sfera pubblica cittadina. Sotto questo profilo può considerarsi un archetipo, l’antecedente di una serie di finissime analisi che diversi studiosi statunitensi hanno in seguito dedicato agli istituti religiosi femminili di altre città. Valgano per tutti i nomi di Robert Kendrick, intelligente indagatore della musica nei monasteri milanesi, 2 e di Colleen Reardon, specialista dei monasteri senesi. 3 Mentre gli studiosi di storia della musica mettevano a fuoco il ruolo culturale dei monasteri italiani sul versante della musica e del canto e scoprivano a poco a poco numerose monache compositrici, dando vita a complessi vocali che ne riproducevano le opere, una studiosa statunitense di italianistica, Elissa B. Weaver, conduceva le sue prime ricerche sul teatro in convento e sulle monache scrittrici di commedie e di rappresentazioni sacre e profane. 4 Altri studiosi poi, maggiormente interessati alla scrittura mistica o allo studio della santità e della vita religiosa, si aggiungevano a questi per arricchire ulteriormente il panorama delle attività culturali ed artistiche che facevano capo alle istituzioni ecclesiastiche femminili. Fin dai primi anni Novanta del secolo scorso gli antichi monasteri italiani divennero dunque un punto di convergenza per ricercatori di diversi paesi e di diverse discipline e questo fornì l’occasione per numerosi incontri ed approfondimenti i cui risultati possono vedersi in numerosi volumi : The Crannied wall (1992) ; 5 Creative women in medieval and early modern Italy (1994) ; 6 Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia (1994) ; 7 I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e barocco (2005). 8  







1   Craig A. Monson, Disembodied voices : music and culture in an early modern Italian convent, Berkeley [etc.], University of California Press, 1995 (trad. it. Bologna, Bonomia University Press, 2009). 2   Robert L. Kendrick, Celestial Sirens. Nuns and their Music in Early Modern Milan, Oxford, Clarendon Press, 1996 e idem, The Sounds of Milan, 1585-1650, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002. 3   Colleen Reardon, Holy Concord within Sacred Walls. Nuns and Music in Siena, 1575-1700, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002. 4   Gli studi di Elissa B. Weaver sul teatro monastico sono giunti a compimento con la pubblicazione di un libro e di una antologia di testi di monache italiane : Elissa B. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy : Spiritual Fun and Learning for Women, Cambridge (uk), Cambridge University Press, 2002 ; Scenes from Italian convent life : an anthology of convent theatrical texts and contexts, a cura di Elissa B. Weaver, Ravenna, Longo, 2009. 5   The crannied wall : women, religion and the arts in early modern Europe, a cura di Craig A. Monson, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1992. 6   Creative women in medieval and early modern Italy : a religious and artistic Renaissance, a cura di E. Ann Matter and John Coakley, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1994. 7   Donne e fede : santità e vita religiosa in Italia, a cura di Lucetta Scaraffia e Gabriella Zarri, Roma-Bari, Laterza, 1994 (trad. inglese : Women and faith : catholic religious life in Italy from late antiquity to the present, edd. Lucetta Scaraffia and Gabriella Zarri, Cambridge, ma-London, Harvard University Press, 1999). 8   I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco. Atti del Convegno Storico Internazionale  



















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Pur collegandosi direttamente a questo filone d’indagine, il volume coordinato da Cordula van Wyhe, volutamente allarga il campo di osservazione dall’Italia all’Europa, privilegiando il teatro spagnolo. Composto di dodici saggi interdisciplinari, i cui autori sono affermati studiosi nel loro campo, il libro si articola in quattro sezioni che concernono l’identità spirituale e sociale del monastero. Con efficace architettura, ogni sezione comprende tre saggi, ciascuno dei quali affronta un problema specifico a partire da un ampio contesto o da un singolo caso che serve ad esemplificare l’assunto della sezione. Ogni saggio è basato su una vasta e originale ricerca che alterna fonti documentarie con fonti letterarie, iconografiche e musicologiche. Il carattere interdisciplinare del volume si concretizza nella presenza già menzionata di studi dedicati alla musica, al teatro e all’iconografia ; il carattere comparativo è presente programmaticamente in un solo saggio. Intento dichiarato del volume è quello di approfondire il monachesimo femminile nell’età moderna partendo dalla visuale innovativa della storia religiosa europea dell’età delle Riforme e della Controriforma, indicata come punto di partenza culturale della collana nella breve presentazione di Mayer. In particolare si vuole sottolineare la rivitalizzazione degli istituti religiosi femminili della controriforma, la varietà istituzionale e culturale, le differenze regionali che impediscono di descrivere in formule comuni ed abbreviate realtà fra loro diverse per forme giuridiche e finalità religiose e sociali. A questo scopo si pone l’attenzione soprattutto sulle istituzioni dei paesi europei che hanno avuto maggior contatto con le Riforme protestanti e si dà limitato rilievo all’area italiana, da maggior tempo studiata e conosciuta. Tra i diversi saggi che compongono il volume si segnala qui solamente una interessante ricerca riguardante i monasteri napoletani, inserita nella sezione che esamina il tema “Femininity and sanctity” assumendo la santità come forma di potere e analizzando le varie strategie messe in atto da monache e chierici per acquisire autorità spirituale nella sfera cittadina. In un saggio brillante e innovativo Helen Hills 1 appunta la propria attenzione sul potere delle reliquie e dei corpi santi, esaminando i depositi sacri presenti nei monasteri femminili napoletani e le strategie di alcuni monasteri per valorizzare al meglio le loro reliquie esponendole al pubblico con cerimonie solenni in giorni particolari. Strategia vincente è quella delle canonichesse di Santa Patrizia che riescono a far assurgere la loro protettrice a patrona della città. Interessanti sono infine le considerazioni di Hills sul significato del martirio connesso con il potere delle reliquie e la estensione del concetto alla condizione stessa delle monache claustrali, considerate come reliquie viventi esposte alla città nei loro monasteri architettonicamente strutturati come reliquiari. Come si deduce dall’insieme dei saggi che compongono il volume e come la stessa coordinatrice dichiara esplicitamente nell’introduzione, gli autori dei diversi capitoli condividono l’idea che nella prima età moderna le monache costituiscono agenti attivi della società e della chiesa e non debbono essere considerate ricettori passivi di imposizioni sociali e disposizioni ecclesiastiche. Polemizzando con una concezione storiografica che ha individuato nel concilio tridentino uno degli elementi di disciplinamento sociale e di controllo ecclesiastico sui monasteri tramite il ripristino della clausura, il volume sottolinea l’estrema varietà delle situazioni istituzionali e locali che sfuggono ad una considerazione complessiva e adotta la formula della “permeabilità” della clausura monastica e della per 

(Bologna, 8-10 dicembre 2000), a cura di Gianna Pomata, Gabriella Zarri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005. L’ampia introduzione al volume fa il punto degli studi sull’argomento, includendovi anche i temi della scrittura monastica e della sfera pubblica. 1   Helen Hills, Nuns and Relics : Spiritual Authority in Post-Tridentine Naples, in *Female monasticism, cit., pp. 11-38.  

santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 209 sistenza di un potere di “negoziazione” da parte delle monache capace di conferire loro autorità e potere. Come è possibile constatare dai casi studiati in questo volume e da molti altri conosciuti, l’adozione del concetto di negoziazione consente di far emergere spazi di libertà e di potere nei monasteri femminili, ma come ogni concetto interpretativo non può essere adottato universalmente. Nei monasteri post-tridentini italiani, ad esempio, lo spazio di negoziazione della abbadessa e del capitolo delle monache appare limitato all’accettazione delle nuove postulanti essendo ogni altra decisione, di carattere temporale o spirituale, soggetta all’approvazione di una autorità maschile : siano essi i provveditori secolari dei beni monastici, oppure le autorità ecclesiastiche : il confessore, il Vescovo, la Sacra Congregazione del Concilio e quella dei Vescovi e Regolari. 1  



4. Nobildonne, religione e società Non vorrei chiudere questa carrellata di studi senza accennare all’importante filone di ricerca, aperto recentemente, sulle donne di potere. Non è un caso che il tema sia stato riproposto in ambito accademico da validissime studiose di storia della società e della cultura, che hanno posto l’accento in particolare sulle forme rituali e sulla gestione del potere femminile 2 escludendo di proposito l’ambito degli studi riguardanti i monasteri femminili, luoghi centrali della formazione delle donne e sovente della loro vita come consacrate o come vedove. Lo sa bene chi studia il Rinascimento napoletano e chi si interroga sulla religione di nobildonne e principesse che, come Giulia Gonzaga e Vittoria Colonna, fanno del monastero il centro di incontri spirituali e di salotti letterari. Questa dicotomia è stata opportunamente superata in un convegno pisano ove l’indagine sulle nobildonne toscane è stata affiancata da un parallelo riscontro sulle istituzioni monastiche e sul peculiare istituto delle Cavalieresse di Santo Stefano, istituito da Cosimo I per il Granducato mediceo. Nel volume che raccoglie gli atti del Convegno, 3 ho espresso nella Postfazione, a cui rinvio, la convinzione che i giovani studiosi che hanno promosso quelle giornate di studio abbiano compiuto una svolta importante nella ricerca storica, che deve ora superare le barriere disciplinari e ideologiche nello studio della condizione femminile dell’antico regime. Nobildonne, monache e cavaliere, rinviano inevitabilmente alla condizione della famiglia aristocratica, alla legislazione ereditaria, alle forme di patronage religioso e artistico come linguaggio del potere familiare ; e i monasteri femminili, se potevano rappresentare l’“inferno” per alcune donne, potevano anche costituire luoghi di riflessione religiosa, di approfondimenti culturali e di gestione di un duplice potere : materiale e immateriale.  



Università degli Studi di Firenze Attraverso la presentazione e l’analisi di studi recenti, individuali e collettivi, l’autrice del saggio esamina le più interessanti direzioni di ricerca emerse nel campo della santità e della vita religiosa femminile nell’età rinascimentale e nella prima età moderna. In particolare considera gli studi su 1   Gabriella Zarri, La clôture des religieuses et les rapports de genre dans les couvents italiens (fin xvie-xviie siècle), « Clio. Histoire Femmes et sociétés », xxvi (2007), pp. 37-59. 2   I linguaggi del potere nell’età barocca, a cura di Francesca Cantù, i. Politica e religione 2. Donne e sfera pubblica, Roma, Viella, 2009 ; Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008. 3   Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, a cura di Marcella Aglietti, postfazione di Gabriella Zarri, Pisa, ets, 2009.  





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Caterina da Siena e l’Osservanza domenicana, mettendo in rilievo la novità dell’approccio politico – sociale e cittadino, che si rivela elemento fondante per comprendere la figura pubblica di Caterina e la sua ‘carriera’ di santa, come anche per esaminare l’origine e la diffusione dell’Osservanza del secondo Ordine, strettamente correlata al diffondersi del carisma cateriniano. Sul versante dell’Osservanza francescana prevalgono invece gli studi volti ad approfondire la cultura delle clarisse, il loro legame con l’Umanesimo, l’approfondimento di figure particolari come Camilla Battista da Varano, autrice di testi spirituali e di laudi devote di cui si pubblicano le edizioni critiche. Resta particolarmente vivace a livello internazionale la ricerca sui monasteri femminili come centri di cultura, ove si coltivano poesia, musica, miniatura e si svolgono cerimonie religiose che assegnano ai monasteri una funzione importante nella sfera pubblica cittadina. Questo approccio allo studio dei monasteri italiani, nato nei primi anni Novanta dall’incontro di studiosi statunitensi ed italiani, è ora applicato anche ad altri paesi europei. L’autrice considera da ultimo il nuovo filone di studi sulle ‘donne di potere’ auspicando che le ricerche su nobildonne, vedove e monache non procedano su binari paralleli ma si ricongiungano nell’intento di far emergere la cultura e il ruolo della famiglia aristocratica e delle sue strategie familiari. Through a presentation and a review of recent studies, both individual and collective, the author of this essay looks at the most interesting lines of research on female holiness and religious life in the Renaissance and in the early modern age. In particular, she is prompted by the studies on Caterina da Siena and Dominican Observance, giving prominence to the freshness of the political-social and urban approach that turns out to be key to understanding Caterina’s public persona and her ‘career’ as a saint, as well as to get an insight of the origin and success of the Observance of the Second Order, closely related to the success of Caterina’s charisma. On the contrary, Franciscan Observance is covered by studies that try to explore the culture of the Poor Clares, their relations with Humanism, details about some outstanding figures such as Camilla Battista da Varano, the author of spiritual texts and devoted lauds, the critical editions of which are published. Still very lively on an international level is research on female monasteries as cultural centres, where poetry, music, illumination are cultivated and where religious ceremonies are held, so that monasteries seem to play a key role in the public dimension of the city. This approach to the study of Italian monasteries that was born in the early Nineties from the meeting of American and Italian scholars is now also extended to other European countries. Finally, the author addresses the new line of research on ‘powerful women’, wishing that research on noblewomen, widows and nuns will not be carried out on parallel tracks but will be joined together in the attempt to shed light on the culture and role of aristocratic families and their family strategies. À travers la présentation et l’analyse d’études récentes, individuelles et collectives, l’auteur de cet essai examine les directions de recherche les plus intéressantes dans le domaine de la santé et de la vie religieuse féminine à l’époque de la Renaissance et au début de l’époque moderne. En particulier, elle considère les études sur Catherine de Sienne et l’Observance dominicaine, mettant en évidence la nouveauté de l’approche politico-sociale et des citoyens, qui se révèle un élément fondamental pour comprendre la figure publique de Catherine et sa ‘carrière’ de sainte, comme également pour examiner l’origine et la diffusion de l’Observance du second ordre, étroitement liée à la diffusion du charisme de Catherine. Sur le versant de l’Observance franciscaine prévalent les études visant à approfondir la culture des clarisses, leur lien avec l’Humanisme, l’approfondissement de figures particulières comme Camilla Battista da Varano, auteur de textes spirituels et de laudes dévotes dont les éditions critiques sont publiées. Reste particulièrement vivante au niveau international la recherche sur les monastères féminins comme centres de culture, où l’on cultive la poésie, la musique, la miniature et où se déroulent des cérémonies religieuses attribuant aux monastères une fonction importante dans la sphère publique citadine. Cette approche à l’étude des monastères italiens, née au début des années 90 de la rencontre entre des chercheurs américains et italiens, est maintenant appliquée également à d’autres pays européens. L’auteur considère enfin le nouveau filon d’études sur les ‘femmes de pouvoir’ espérant que les recherches sur les nobles dames, veuves et religieuses ne procéderont pas sur des rails parallèles mais s’entrelaceront afin de faire connaître la culture et le rôle de la famille aristocratique et de ses stratégies familières.

santità femminile in transizione e modelli agiografici: studi recenti 211 A través de esta presentación y del análisis de estudios recientes, individuales y colectivos, la autora del ensayo examina las direcciones más interesantes que se pueden tomar para llevar a cabo una investigación en el ámbito de la santidad y de la vida religiosa femenina en el Renacimiento y en la primera edad moderna. En especial, toma en consideración los estudios sobre santa Catalina de Siena y la Observancia dominicana, poniendo en evidencia la novedad de la perspectiva política, social y ciudadana que se revela un elemento esencial para comprender la figura pública de Catalina y su “carrera” de santa, así como para examinar el origen y la difusión de la Segunda orden, estrechamente unida a la difusión del carisma cataliniano. Fieles a la Observancia franciscana son, por el contrario, los estudios dirigidos a profundizar la cultura de las clarisas, su relación con el humanismo, el examen de figuras especiales, como Camilla Battista da Varano, autora de textos espirituales y de loas devotas de las que se publican las ediciones críticas. A nivel internacional permanece especialmente viva la investigación acerca de los monasterios femeninos como centros de cultura, donde se cultiva la poesía, la música, el arte de la miniatura y se desarrollan ceremonias religiosas que conceden a los monasterios una función importante en la esfera pública ciudadana. Esta manera de enfocar el estudio de los monasterios italianos, que nace a principios de los años noventa de la colaboración entre estudiosos estadounidenses e italianos, se aplica ahora también a otros países europeos. La autora considera por último la nueva tendencia de realizar estudios sobre “mujeres con poder”, y con la esperanza de que los que tienen por objeto damas nobles, viudas y monjas, non se realicen paralelamente, sino que se unan con los primeros, para dar a conocer la cultura y el papel de la familia aristocrática y de sus estrategias familiares en su totalidad. Mittels einer Präsentation und Analyse neuerer Einzel- und Kollektivstudien untersucht die Autorin die interessantesten Forschungsrichtungen im Bereich der Heiligenleben und des religiösen Lebens von Frauen in der Renaissance und in der frühen Neuzeit. Dabei konzentriert sie sich insbesondere auf die Studien zu Caterina da Siena und die dominikanische Observanz und hebt dabei die Neuigkeit des politisch-gesellschaftlichen und stadtbürgerlichen Zugangs hervor, der sich als ein Grundelement erweist, durch das Caterina als öffentliche Person und ihre ‘Karriere’ als Heilige sowie der Ursprung und die Verbreitung der Observanz des zweiten Ordens verständlich werden, die eng mit der Verbreitung des caterinianischen Charismas in Verbindung stehen. In Bezug auf die franziskanische Observanz überwiegen dagegen die Studien, die sich um eine Vertiefung der Kultur der Klarissen und ihre Beziehung mit dem Humanismus bemühen und sich mit speziellen Figuren wie Camilla Battista da Varano, Autorin von spirituellen Texten und in kritischen Editionen publizierten frommen Lauden, auseinandersetzen. Besonders lebhaft erfolgt auf internationaler Ebene die Erforschung der Frauenklöster als Kulturzentren, wo Dichtung, Musik und Miniaturen gepflegt wurden und religiöse Zeremonien stattfanden, die den Klöstern eine bedeutende Funktion im öffentlichen Raum der Stadt zuwiesen. Dieser Zugang zum Studium italienischer Klöster, wie er sich zu Beginn der 90er-Jahre durch die Begegnung US-amerikanischer und italienischer Forscher entwickelte, wird heute auch in anderen europäischen Ländern gepflegt. Die Autorin wünscht sich abschließend, dass innerhalb der neuen Bewegung der Studien über „mächtige Frauen“ die Forschungsarbeiten über Edelfrauen, Witwen und Nonnen nicht auf einem Parallelgleis verlaufen, sondern zusammenlaufen mögen mit dem Ziel, die Kultur und die Rolle der aristokratischen Familie und ihre Familienstrategien hervortreten zu lassen.

LE NORME DI COMPORTAMENTO

DAME DI CORTE, CIRCOLAZIONE DEI SAPERI E DEGLI OGGETTI NEL RINASCIMENTO MERIDIONALE Elisa Novi Chavarria

C

ominciamo con un assunto, cominciamo cioè col dire che cosa si vuole intendere per Rinascimento e, in particolare, per Rinascimento meridionale. Il Rinascimento, cui si farà riferimento nelle note che seguono, deve considerarsi una civiltà, non solamente un movimento della cultura e delle arti, benché arte e cultura ne abbiano costituito come è ovvio la chiave più profonda, ma, appunto, una civiltà globale fondata su una nuova concezione dell’uomo, della sua identità morale e fisica, delle sue potenzialità e delle sue relazioni con la natura e la società. Una civiltà, il cui spirito e pensiero ispirarono una forte azione di laicizzazione nelle pratiche della vita culturale, così come nella collocazione sociale dei suoi protagonisti, dimostrandosi per questa via più vitale della sua stessa dimensione letteraria e filologica. 1 È in tal senso che si configurarono anche i tratti specifici del Rinascimento napoletano : un Rinascimento al plurale, laboratorio capillare di varie tipologie, di nessi e intrecci variamente intersecati, testa di ponte per la circolazione del linguaggio ‘italiano’ verso altre corti europee. In tale contesto, nella peculiare dimensione culturale, materiale, politica e storico-politica e nelle potenzialità espressive innovatrici del Rinascimento meridionale, molte furono le donne che occuparono uno spazio significativo nella vita letteraria, artistica e culturale della corte dei sovrani aragonesi e nelle corti feudali provinciali, come quella dei del Balzo, degli Acquaviva d’Atri, dei Caetani di Fondi, dei Sanseverino di Salerno e Bisignano. 2 Pare, anzi, che la partecipazione delle gentildonne alle dimensioni proprie della vita cortigiana fosse, nel Regno di Napoli, particolarmente accentuata rispetto ad altri contesti. Benedetto Croce, che tra i primi richiamò l’attenzione sul Canzoniere petrarchesco di Isabella di Morra, sostenne che nel Cinquecento Napoli e il Regno costituivano una sorta di “Mecca delle poetesse”. 3 Non è a questo aspetto, però, più propriamente storico-letterario che dedicheremo la nostra attenzione, lasciandone ad altri, più competenti di noi in materia, il compito. Il Rinascimento di cui vorremmo parlare somiglia piuttosto a quella « tela di ragno » con cui Giancarlo Mazzacurati ci ha indotto a pensare al sistema di scambi culturali del Rinascimento meridionale, nella cui trama viaggiarono grandi carriere artistiche e intellettuali, modelli iconografici e simbolici, stili e temi classici, libri e codici antichi, marmi e linguaggi figurativi, scritti storici e carmi latini, gioielli e arredi sacri, saperi cortigiani e  





1   Per una puntualizzazione del concetto storico di Rinascimento cui si fa riferimento nel testo si rinvia a Giuseppe Galasso, Genève, in *L’étude de la Renaissance “nunc et cras”, Actes du Colloque de la Fédération internationale des Sociétés et Instituts d’Etude de la Renaissance (Genève settembre 2001), a cura di Max Engammare, Marie-Madeleine Fragonard, Augustin Redondo, Saverio Ricci, Genève, Droz, 2003, pp. 327-341. 2   Abbiamo argomentato tali aspetti nel nostro I Rinascimenti napoletani, in *Il Rinascimento italiano e l’Europa, i, Storia e storiografia, a cura di Marcello Fantoni, Vicenza, Colla, 2005, pp. 249-264. 3   Cfr. Benedetto Croce, Curiosità storiche, Napoli, 1921², pp. 30-41 e Id., Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro, in Vite di avventure, di fede e di passione, Bari, Laterza, 1947², pp. 293-330.

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cerimoniali ispirati al classicismo e al ritorno all’antichità. 1 Quella immagine ci sembra il modo più appropriato per provare a descrivere il Rinascimento meridionale e lo spazio in esso occupato da molte dame di corte, che in continuità e contiguità con gli atteggiamenti delle proprie famiglie ebbero una presenza attiva nella organizzazione del mecenatismo culturale : commissionarono o scambiarono oggetti e manufatti artistici ; collezionarono prestigiose raccolte di libri e manoscritti per coltivare i proprii specifici interessi di studio e di ricerca ; si procurarono strumenti e spartiti con cui poterono accrescere le proprie competenze musicali. Alcune di loro sovvenzionarono la costruzione di palazzi e nuove residenze nobiliari, promossero la fondazione di chiese e istituzioni ecclesiastiche, patrocinarono letterati, artisti e maestranze artigiane. I loro consumi culturali e l’economia del lusso che questi alimentarono sollecitarono talenti individuali e committenze, esercitando anche su mercati più lontani una funzione di stimolo alla esportazione di tessuti pregiati, materiali preziosi e di tutta una serie di ricercatissimi manufatti “alla napulitana” e “all’italiana”. Si vuole cioè far luce sulle donne come protagoniste ‘attive’ della società di corte, nella dimensione in cui per molte di loro si aprirono spazi di gestione del potere sociale, non solo in virtù dello status della famiglia di origine e del ruolo acquisito all’interno di essa, ma anche per come si mossero nella sfera pubblica intrecciando relazioni in forme anche autonome e indipendenti, non sempre riconducibili all’ambito delle strategie familiari, e di come questo abbia costituito per il suo verso un aspetto importante del processo di configurazione del gusto e delle pratiche culturali del Rinascimento in generale, e del Rinascimento meridionale in particolare. 2 Molte di queste donne hanno conseguito una evidente esemplarità nella memoria del passato e nella storiografia più recente, furono cioè “donne illustri” per virtù e per nascita, appartenenti ai più prestigiosi casati nobiliari, figlie o spose di principi, oppure monache o vedove facoltose. 3 Si pensi, per esempio, alle varie principesse della Casa d’Aragona andate in sposa a principi delle signorie italiane o a sovrani delle corti europee, portandovi i modelli educativi e gli stili letterari e iconografici elaborati alla corte di Alfonso il Magnanimo, che fu una corte in qualche modo all’avanguardia nella utilizzazione dei nuovi mezzi iconici ispirati all’arte classica per legittimare il potere e ostentare le virtù del sovrano. 4 Fu grazie anche ad alcune di queste dame di corte se Napoli si avviò da allora a diventare un importante centro di ricezione e di diffusione dei nuovi modelli, trait d’union di più poli della cultura rinascimentale entro orizzonti sempre più vasti e soprattutto sempre più interscambiabili. E fu anche grazie a molte di loro se da allora, nella tradizione letteraria e iconografica, cominciò a configurasi l’idea di Napoli come « città gentile », per l’armonia e gli equilibrii rinascimentali assunti nell’edilizia e nell’assetto urbanistico, per la dolcezza e la raffinatezza dei costumi della sua gente, per le forme del vivere civile  









1  Tra i suoi studi sull’argomento si veda in tal senso soprattutto Giancarlo Mazzacurati, La disseminazione dei “rinascimenti”, « Schifanoia », 8 (1989), pp. 23-31. 2   La questione ha avuto una messa a punto che costituisce ormai un classico per gli studi al riguardo da Margaret L. King, Le donne nel Rinascimento, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1991. Per una prospettiva storiografica recente si vedano Olwen Hufton, Le donne e il Rinascimento, in *Il Rinascimento italiano e l’Europa …, cit., i, a cura di M. Fantoni, pp. 225-246 e, soprattutto, i contributi raccolti nel volume *Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli, Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008. 3   Il tema è stato puntualizzato da Beatrice Collina, L’esemplarità della donna illustre, in *Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii secolo. Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Storia e Letteratura, 1996, pp. 103-119, ma si veda anche Romeo De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, A. Mondadori, 1987. 4   In tale chiave si veda soprattutto Giuliana Vitale, Ritualità monarchica cerimonie e pratiche devozionali nella Napoli aragonese, Salerno, Laveglia, 2006. Il quadro di riferimento complessivo è in Giuseppe Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in *Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, xv/1,Torino, utet, 1992, pp. 587-775.  



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e politico della sua corte, per la connotazione ‘gentilizia’ della sua aristocrazia e dei rami femminili di essa, per l’armonia e la natura classica ed equilibrata con cui tutte queste qualità si annodavano tra loro. Nell’immagine di Napoli che più ebbe corso nel Rinascimento, e che del Rinascimento portava in sé non poco quanto ai valori e alle qualità riassunti nella nota fondamentale della gentilezza, concorrevano infatti il sito bellissimo e il clima saluberrimo, ma anche la floridezza materiale, la qualità delle giostre e delle feste, la « moltitudine delle belle et ornate donne », la dolcezza nella conversazione « delle pudiche et liete donne ». 1 In questa prospettiva, al di fuori cioè delle biografie storiche tradizionali o delle raccolte di biografie di donne celebri o nell’ambito della ultrasecolare querelle des femmes, le dame di corte del Rinascimento meridionale hanno ricevuto una certa attenzione, ma molto resta ancora da indagare. Uno dei casi più celebri è sicuramente quello di Eleonora d’Aragona, figlia del re Ferrante e di Isabella Chiaromonte, andata in sposa nel 1473 al duca di Ferrara, Ercole I d’Este. Sin dalla prima apparizione pubblica solenne nella capitale del suo nuovo Stato, i cronisti locali notarono nel prezioso abbigliamento di Eleonora il particolare delle vesti « de drapo de horo ala napulitana » e della « corona preciosissima in capo », 2 sottolineandone, accanto ai simboli della regalità anche i segni della sua appartenenza a una identità avvertita appunto con i tratti della napoletanità. In seguito ella si vedrà riconosciute anche grandi capacità politiche e di governo, che non andarono mai disgiunte, comunque, anche nella percezione dei contemporanei, dalla formazione e dalle esperienze acquisite in gioventù, presso la corte paterna aragonese. A Ferrara ella portò, per esempio, il gusto per il collezionismo dei libri, che era già stato del Magnanimo e di suo figlio Ferrante. 3 Nel 1493, Eleonora fece inventariare la propria biblioteca privata, ricca di 74 libri, tra manoscritti e testi a stampa, soprattutto di natura devozionale, ma anche di lettura. 4 A corte ebbe tra i suoi sodali fino a 100-120 “bocche”, ovverosia un numero decisamente alto di cortigiani salariati, oltre a diverse dame, ufficiali e funzionari della cui collaborazione si servì per sviluppare politiche mecenatische e coltivare gusti e prassi collezionistiche personali. Richiamò tra il suo seguito numerosi orefici, cesellatori, miniatori, musici, ricamatori di origine napoletana, che negli anni a venire lavoreranno per figli e fratelli del Duca d’Este e i cui talenti contribuirono a trasformare la piccola città padana in una corte cosmopolita, ove si accumularono un numero decisamente alto di oggetti di lusso di incredibile varietà e fattura, con enormi e benefiche ricadute, tra l’altro, sull’intero sistema produttivo locale e napoletano. 5 Fortissima fu, in particolare, l’impronta lasciata da Eleonora nella costruzione della nuova residenza ducale di Ferrara. Nell’arco di qualche decennio, Castelvecchio, antica roccaforte militare costruita minacciosamente a cavallo delle mura, fu trasformata in una dimora regale fra le più splendide delle città italiane dell’epoca. Tutte le fonti concordano nell’assegnare alla intraprendente duchessa la direzione dei lavori, piuttosto che a suo ma 















1   Giuseppe Galasso, Da « Napoli gentile » a « Napoli fedelissima », in Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli, Electa, 2003², pp. 61-110. 2   Hondedio di Vitale, Cronaca, (Biblioteca Ariostea, Ferrara, Coll. Antonelli, ms. 257), c. 18v, citato da Marco Folin, La corte della duchessa : Eleonora d’Aragona a Ferrara, in *Donne di potere …, cit., a cura di L. Arcangeli, S. Peyronel (pp. 481-512), p. 484. 3   Concetta Bianca, Alla corte di Napoli : Alfonso, libri e umanisti, in *Il libro a corte, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 177-201. 4   Cfr. Amedeo Quondam, Le biblioteche della corte estense, ivi (pp. 7-38), p. 31. 5   Si veda al riguardo l’analisi assai ampia e dettagliata di Guido Guerzoni, L’analisi della domanda. Il caso delle corti estensi tra XV e XVII secolo, in Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), Venezia, Marsilio, 2006, pp. 133-169.  











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rito il duca Ercole, spesso lontano da Ferrara per motivi militari o perché troppo impegnato in altri progetti. Nell’orientare le sue scelte, Eleonora si ispirò a molti degli elementi dell’antica componente greco-romana di Napoli e alle forme e ai modelli dell’arte classica che a Napoli avevano avuto già diverse applicazioni nell’architettura monumentale e, in specie, nella scultura funeraria. 1 Ma soprattutto il suo gusto rinascimentale di matrice napoletana si mostrò nella cura con cui riuscì a “ingentilire” l’antico castello grazie alla apertura di logge e balconi e soprattutto alla costruzione di diversi giardini, elementi di grande godibilità che nella edilizia aristocratica napoletana avevano trovato singolari applicazioni a cominciare dalla villa di Giovanni Pontano, fonte di ispirazione per la realizzazione di molti giardini principeschi. 2 Nella nuova residenza ducale, in particolare, un grande giardino pensile fu costruito sopra tutta la cortina orientale del castello, con un intervento assolutamente originale e di forte pregnanza simbolica. In un secondo giardino, situato oltre il fossato, furono collocati un ammiratissimo padiglione, nonché fontane, aiuole di fiori e cespugli di erbe odorose. Le stanze di Eleonora furono sistemate nell’ala orientale del castello. Ella volle che la parete posteriore della sua camera da letto fosse affrescata con una grande veduta del golfo di Napoli, chiaramente ispirata al modello della Tavola Strozzi del 1472, con in primo piano il mare e la marina, e in secondo piano tutti i monumenti più importanti della città. Fece collocare altre vedute della città negli appartamenti dei figli, con una esplicita messa in mostra di una contiguità non solo affettiva, ma culturale con la sua città d’origine, in forme di autorappresentazione identitaria che dovevano risultare intelligibili a tutti. Tutta l’operazione patrocinata dalla intraprendente duchessa ebbe un impatto tutt’altro che effimero nella configurazione degli spazi di corte. Da allora, infatti, il baricentro della vita cortigiana prese a spostarsi nella nuova grande residenza voluta da Eleonora. 3 Una sorella di Eleonora, Beatrice d’Aragona, sposò tre anni dopo di lei, nel 1476, il re d’Ungheria Mattia Corvino. L’arrivo della aragonese in Ungheria coincise con la diffusione di una vera e propria mania per lo stile di vita, gli oggetti, gli arredi e l’arte del Rinascimento che la Regina, anch’ella educata agli studi umanistici e alle raffinatezze della corte napoletana, alimentò richiamando presso le corti di Vienna e di Buda artisti, letterati, musicisti e miniatori italiani. Lo stesso avvenne in Polonia dal 1518, da quando cioè Bona Sforza, figlia di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, andò in sposa a re Sigismondo I. Bona, che aveva trascorso gran parte della sua infanzia e l’adolescenza tra le corti di Milano e Napoli e a Bari, e la cui educazione fu affidata alle cure dell’umanista Crisostomo Colonna, portò in Polonia il gusto e l’arte del Rinascimento italiano, e meridionale in particolare. Fece ristrutturare la residenza reale di Cracovia, il castello Czersk presso Varsavia, quello di Krzemieniec sulla montagna Bona, di Lobzów, di Checiny, di Kielce e di Winnica. Promosse lo sviluppo e il rafforzamento difensivo della capitale. Raccolse una vasta collezione di quadri che fece venire dall’Italia e, soprattutto, incoraggiò l’arte e il gusto per la musica. 1   Francesco Negri Arnoldi, La scultura del Quattrocento, in *Storia dell’arte in Italia, diretta da Ferdinando Bologna, Torino, utet, 1992, pp. 23, 131. 2   Cfr. Gérard Labrot, Palazzi napoletani. Storie di nobili e cortigiani. 1520-1750, Napoli, Electa, 1993 e, soprattutto, per il periodo qui preso in esame, Carlos José Hernando Sánchez, El Reino de Nápoles en el Imperio de Carlos V : la consolidación de la conquista, Madrid, Sociedad estatal para la conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 2001. In particolare sul giardino napoletano si veda Anna Giannetti, Giardini napoletani del Cinquecento, in *Pomeriggi rinascimentali. Secondo ciclo, a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Serra, 2008, pp. 33-49. 3   Cfr. Bruce L. Edelstein, Nobildonne napoletane e committenza : Eleonora d’Aragona ed Eleonora di Toledo, « Quaderni storici », 104 (2000), pp. 295-330 ; M. Folin, La corte della duchessa : Eleonora d’Aragona a Ferrara, in *Donne di potere …, cit., a cura di L. Arcangeli, S. Peyronel, pp. 492-501.  











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Sulla sua scia, attraverso canali di patronage sia napoletani sia milanesi, giunsero allora presso quella corte musicisti, umanisti e artisti, alcuni dei quali passarono poi nell’entourage di sua figlia Isabella, futura regina madre d’Ungheria, anch’ella grande mecenate di artisti. 1 Altre donne del Rinascimento meridionale meno note, o per nulla note, cominciano ora, grazie a una stagione di studi particolarmente feconda negli ultimi anni, a emergere dall’ombra e dall’oblìo. Per esempio, la figlia di Giovanni Pontano, Eugenia, cui il padre destinò la sua intera raccolta di libri e manoscritti2. Per esempio, ancora, Antonella d’Aquino, figlia di Bernardo Gaspare e di Beatrice Caetani dei conti di Fondi, andata in sposa nel 1452 a Innico d’Avalos, I conte di Monteodorisio, appassionato bibliofilo e munifico mecenate, la quale, accanto al marito e poi negli anni della vedovanza, fu protagonista attiva della vita di corte dei sovrani aragonesi e partecipe della sua atmosfera culturale, assurgendo così ad esempio di quella “esemplarità femminile” i cui tratti essenziali trasmise anche alla figlia Costanza. 3 La duchessa di Francavilla Costanza d’Avalos (1460 ca1541), figlia di Innico e della d’Aquino, per l’appunto, cognata dello sventurato re Federico d’Aragona, ebbe ottimi precettori reclutati dal padre tra gli umanisti dell’Accademia pontaniana. Rimasta vedova in giovane età, la d’Avalos fece rientro nella famiglia d’origine, trovando rifugio durante le ultime, tormentate vicende della Casa d’Aragona e la prima fase delle guerre franco-spagnole per il dominio su Napoli, nel castello d’Ischia insieme a Beatrice e a Isabella d’Aragona, vedove rispettivamente di Mattia Corvino d’Ungheria e di Gian Galeazzo Sforza. Qui, nel cenacolo umanistico che si raccolse intorno a loro e a Vittoria Colonna, 4 Costanza d’Avalos provvide alle sorti della famiglia e alla educazione dei nipoti per i quali reclutò prestigiosi maestri. Per loro, tra il 1510 e il 1518, assunse anche un insegnante di musica, ovverosia Costanzo Festa, uno dei musicisti più importanti del tempo. 5 A Costanza rivolsero i loro componimenti poetici il Cariteo, Giovanni Antonio de Petrucci, Pietro Jacopo de Gennaro, Jacopo Sannazzaro, Enea Irpino. Altri letterati, tra cui il Pontano e il Galateo, la ricordarono nelle loro opere. 6 Costanza raccolse, tra l’altro, una prestigiosa biblioteca ricca di testi letterari, storici, filosofici e scientifici in latino, oltre che delle opere degli scrittori a lei coevi, molti dei quali erano stati suoi ospiti nel castello di Ischia. 7 Altra figura di spicco di quello stesso cenacolo ischitano fu la marchesa del Vasto Maria 1   Cfr. Peter Burke, Il Rinascimento europeo. Centri e periferie, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 82 sgg. e, in particolare, sul ruolo di Bona Sforza nella diffusione del Rinascimento in Polonia si veda Bona Sforza : Regina di Polonia e Duchessa di Bari, a cura di Maria Stella Calò Mariani e Giuseppe Ribenedetto, Roma, Nuova Comunicazione, 2000. 2   Sulla formazione delle biblioteche private femminili si rinvia a Concetta Bianca, Dal privato al pubblico : donazioni di raccolte librarie tra xv e xvi secolo, in *Le raccolte private come paradigma bibliografico, Atti del Convegno Internazionale (Roma, Tempio di Adriano 10-12 ottobre 2007), a cura di Fiammetta Sabba, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 453-462 e al contributo della medesima autrice in questo volume. 3   Elena Papagna, Tra vita reale e modello teorico : le due Costanze d’Avalos nella Napoli aragonese e spagnola, in *Donne di potere …, cit., (pp. 535-574), pp. 545-547. 4   Per il cenacolo ischitano si rimanda agli studi di Concetta Ranieri, tra cui Ancora sul carteggio tra Pietro Bembo e Vittoria Colonna, Roma, Cadmo, 1983 e, in questo volume, il contributo dal titolo Vittoria Colonna e il cenacolo ischitano. 5   Cfr. Keith A. Larson, Condizione sociale dei musicisti e dei loro committenti nella Napoli del Cinque e Seicento, in *Musica e cultura a Napoli dal xv al xix secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, Olschki, 1983, pp. 61-77. 6   E. Papagna, Tra vita reale e modello teorico …, cit., pp. 551-559. 7   Si veda al riguardo Raffaella de Vivo, La biblioteca di Costanza d’Avalos, « Annali dell’Istituto Universitario Orientale – Sezione Romanza », xxxviii (1996), pp. 288-302 e, in questo volume, il saggio di Gennaro Toscano, “El simulacro et retracto de sua divina immagine”. Scambi di doni tra Costanza d’Avalos e Isabella d’Este.  









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d’Aragona (1503-1568). Nata dopo il 1503 da un figlio naturale di Re Ferrante, sorella di Giovanna con cui gareggiò in bellezza e virtù nei circoli di corte, educata nel castello di Ischia dalla zia Costanza d’Avalos, nel 1523 Maria andò in sposa al cugino Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e collaboratore della prima ora di Carlo V. Nei primi anni di matrimonio ella tenne corte a Ischia, nella villa di Pozzuoli e nel palazzo d’Avalos a Chiaia, dove si circondò di letterati e artisti in compagnia dei quali poté dedicarsi alla pratica erudita del dialogo alimentato dalla lettura, raccogliendo la viva ammirazione degli umanisti Luigi Tansillo, Bernardino Martirano e Agostino Nifo. È opinione di molti che il circolo di corte dei d’Avalos abbia assicurato la continuità della letteratura in volgare a Napoli, raccogliendo intorno ai loro animatori quelle frange di opposizione che intanto andavano montando contro il viceré Pedro de Toledo. 1 Quando, tra il 1538 e il 1546, Alfonso d’Avalos fu Governatore dello Stato di Milano, Maria seguì il marito e – narrano le fonti –, una volta insediatasi in città, vi « tenne corte come una regina », attorniandosi della compagnia di molte altre gentildonne, di poeti e di umanisti come Paolo Giovio, Bernardo Cappello, Girolamo Muzio, Niccolò Franco e Pietro Aretino, nella completa identificazione dello spazio e della vita cortigiana con il governo del territorio e la produzione di modelli culturali. La vita di Maria si incrociò più volte con quella di Roberta Carafa. Figlia del principe di Stigliano Antonio Carafa e di Ippolita di Capua, Roberta era nata nel 1509, secondogenita di due sorelle e cinque fratelli. Nel palazzo avito, accanto ai precettori dei fratelli, Roberta poté avvalersi di un’educazione che per molti aspetti ebbe dell’eccezionalità. Non solo apprese, infatti, l’arte del governo della casa e tutto ciò che comunemente atteneva l’istruzione delle donne, come il ricamo, il ballo, il canto e la musica, ma in virtù del suo privilegio di nascita si impratichì nell’arte equestre e nell’esercizio del tiro con l’arco, prese lezioni di latino, storia, geografia, letteratura e retorica. Andata in sposa, nel 1534, al conte di Maddaloni Diomede Carafa, Roberta, mentre il marito era impegnato nelle campagne militari e, poi, nei lunghi anni della vedovanza, si occupò della gestione e del risanamento economico dei feudi della famiglia. Diresse i lavori di ristrutturazione dell’antico e fatiscente castello di Maddaloni, che sotto la sua abile conduzione assunse l’aspetto di una rinascimentale villa di corte a tre piani e una torretta, ricca di dipinti, arazzi, fontane e giardini con giochi d’acqua, cornice ideale di quella dolcezza e raffinatezza del vivere che si stava ormai affermando come canone del comportamento cortigiano. Da allora il palazzo dei Carafa divenne, infatti, polo d’attrazione della vita aristocratica napoletana. Roberta vi raccolse una vera e propria corte, ospiti tra gli altri due viceré, il primo duca d’Alba e l’Alcalà, la marchesa del Vasto, i principi di Salerno e Bisignano di casa Sanseverino, letterati e umanisti. All’ombra di quella corte si intrecciarono destini privati e affari pubblici, etica e politica, arte e otia speculativi, le delizie del « vivere in villa » con gli affanni mondani, annodando nelle regole del comportamento aristocratico i fili del nuovo ordine sociale e politico che si andava consolidando nella Napoli tardo-rinascimentale. 2 Ricordiamo ancora Silvia Piccolomini, quarta duchessa d’Amalfi, pronipote di due pon 







1   Cfr. Benedetto Croce, Un sonetto dell’Aretino e un ritratto di Maria d’Aragona, marchesana del Vasto, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari, Laterza,1953, pp. 286-291. Sul mecenatismo letterario di Alfonso d’Avalos si vedano Alfonso Della Rocca, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovanni Filocalo, Napoli, Liguori, 1988 e, soprattutto, Tobia R. Toscano, Due ‘allievi’ di Vittoria Colonna : Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos, in Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 85-121. Sul mecenatismo delle arti cfr. I tesori dei d’Avalos. Committenza e collezionismo di una grande famiglia napoletana, Catalogo della mostra di Castel Sant’Elmo di Napoli, a cura di Pierluigi Leone De Castris, Napoli, Electa, 1994. 2   Per i profili di Maria d’Aragona e Roberta Carafa rinvio al mio Reti di potere e spazi di corte femminili nella Napoli del Cinquecento, in *Donne di potere …, cit., a cura di L. Arcangeli, S. Peyronel, pp. 361-374.  

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tefici, Pio II e Pio III, e nipote di svariati cardinali, donna dai molteplici interessi culturali, promotrice tra le altre di una straordinaria raccolta di libri e manoscritti i cui titoli spaziavano dalla scolastica alla retorica, dalla filosofia naturale alla medicina, dai classici latini e greci (Plutarco, Senofonte, Tucidide, Catone, Cicerone, Tito Livio, Quintiliano, Terenzio, Sallustio, Valerio Massimo, Plinio il Vecchio e il Giovane, Cesare, Stazio, Marziale, Giovenale, Tacito, Seneca) ad autori della cultura umanistica (Enea Silvio Piccolomini, Lorenzo Valla, Michele Marullo, Marsilio Ficino, Niccolò Perotti, Cristoforo Landino, Flavio Biondo, Agostino Dati), dalla storia alla astronomia. Una biblioteca, quella che la Piccolomini costituì nel castello abruzzese di Celano, di una tipologia assai diversa da quella comunemente denominata « da donna ». Tra manoscritti e titoli a stampa la raccolta comprendeva oltre duecento pezzi ed era aperta a una molteplicità di interessi, secondo quel canone della complementarietà tra scienze e humanae litterae che fu proprio degli umanisti. Molti erano i libri che potremmo definire ‘moderni’, di autori cioè nati tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, alcuni dei quali erano ancora in vita nel 1568, quando cioè fu redatto l’inventario della biblioteca. Vi erano tra gli altri, infatti, testi di Lucio Giovanni Scoppa, Francesco Negri, Juan Luis Vives, Adriano Castellesi, Luca Gaurico, Paolo Giovio, Pietro Bembo, presenti ognuno con almeno due o più volumi ; i libri del filologo francese Guillaume Budé, del cardinal Giovanni Morone, di Claudio Tolomei, Riccardo Bartolini, Antonio Musa, Bartolomeo Marliano, Bartolomeo Ricci, del giurista francese François Baudouin, la fortunata opera enciclopedica di Gregorio Reisch dal titolo Margarita filosofica e una serie di libri di argomento scientifico, come il volume di Tommaso Radini Tedeschi, intitolato Sideralis Abyssus ; una nuova traduzione, con commento di Symphorien Champier, dello Speculum Galeni, data alle stampe nel 1533 ; i tre volumi delle Navigationi et Viaggi di Giovanni Battista Ramusio ; il Discorso sopra le medaglie degli antichi di Enea Vico da Parma, pubblicato nel 1555. Silvia fu, appunto, uno di quegli esempi meno noti di « donna illustre », capace di cogliere alcuni processi culturali di « avanguardia » e di saper coniugare l’operosità e lo studio con le forme del vivere aristocratico, dedicandosi contemporaneamente anche alla caccia, alla musica, al canto e al riordino dei conti e del bilancio familiare. Nello studiolo del suo palazzo avito di Siena, che le fonti descrivono come un ambiente dotato di tutti gli strumenti atti allo studio e alla lettura – scrittoio, leggio, calamaio, « cartiera di corame da tener carta » – i libri furono sistemati in un armadio intarsiato e in alcune casse di noce. 1 Lì quei libri non rimasero una raccolta inerte, ma furono letti, consultati, manipolati, insieme ad altri interessanti manufatti culturali e artistici, tra cui diversi strumenti e spartiti musicali, una bussola, delle carte nautiche e una piccola collezione di pietre dure. Tra gli altri oggetti figuravano un gran numero di mobili e oggetti di pregio (porcellane, argenteria, un presepe), di varia provenienza, ma soprattutto pervenuti in eredità, o per successiva acquisizione, da Siena, Roma, Napoli e dalla Germania dove uno zio di Silvia, Francesco Todeschini Piccolomini futuro papa col nome di Pio III, era stato Legato Pontificio nel 1471. 2 Molti di quegli oggetti erano gioielli, la cui fattura risulta strettamente legata ai canoni  























1   Lo ‘studiolo’, che a lungo è stato considerato uno spazio maschile, come i celebri studioli di Federico da Montefeltro o di Lionello d’Este, sembra in questo caso, invece, una prerogativa femminile. In tal senso si vedano le considerazioni di Renata Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli, 2006, p. 66 e la Introduzione di Sandra Cavallo, Isabelle Chabot al volume Oggetti, numero monografico di « Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche »,v/1 (2006) (pp. 5-20), p. 13. 2   Per la storia di Silvia Piccolomini e della sua straordinaria collezione di libri si rinvia a Elisa Novi Chavarria, La biblioteca di una umanista, in Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli xv-xviii, Napoli, Guida, 2009, pp. 167-185.  



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della moda rinascimentale e nella cui produzione, proprio nel Rinascimento, Napoli ebbe un ruolo di primo piano. Presenti nel corredo e nelle doti matrimoniali delle principesse di sangue aragonese, che abbiamo or ora ricordato, e di molte altre donne dell’aristocrazia meridionale, essi viaggiarono con loro presso le altre corti del Rinascimento italiano ed europeo, veicolando modelli iconografici e simbolici di ispirazione per lo più classica o classicheggiante. 1 Da Napoli ci si riforniva di molti altri prodotti di lusso : drappi di damasco, abiti, argenterie, dipinti, 2 oggetti devoti e reliquie, 3 la cui domanda sui mercati di mezza Europa era alimentata soprattutto, anche se non solo, da donne. Molti di questi oggetti circolavano come doni. Confezionati molto spesso da donne nei proprii spazi domestici, ricami, capi di biancheria, piccoli lavori di intarsio alimentavano circuiti di relazioni sociali attraverso le pratiche di scambio proprie della cultura materiale. Essi entravano così a far parte di quella complicata trama di obblighi e aspettative tra individui e gruppi familiari che accompagnavano i riti di passaggio della vita (nascite, compleanni, matrimoni), consolidavano rapporti e relazioni sociali, risultavano impreziositi dal valore aggiunto del ricordo. 4 Un altro circuito di trasmissione di saperi e di oggetti attivato dalle dame del Rinascimento meridionale è rappresentato dalla committenza degli ephemera, ovverosia di quei molti apparati e manifestazioni artistiche che accompagnavano la celebrazione di feste, trionfi, matrimoni, banchetti, spettacoli teatrali, balli, giostre e tornei animando la vita delle corti. Spesso si trattava di sofisticate produzioni corali create da specialisti che per la loro realizzazione sperimentavano tecniche e produzioni destinate a esercitare un impatto notevole sulle analoghe produzioni permanenti, e utilizzavano materiali di costo inferiore a quelli di maggior pregio destinati, poi, a diventare di largo consumo, come i finti marmi, le stampe su tessuto, le sculture di gesso o di cartapesta, gli arazzi dipinti, i trompe-l’œil. Si trattava cioè di oggetti e manufatti che, seppur realizzati in maniera transitoria, erano designati ad avere una circolazione ad ampio raggio. Per il loro allestimento venivano mobilitati talenti, maestranze artigiane e risorse economiche e alla loro manifestazione partecipavano folle entusiaste dei diversi ceti sociali. Certo, la « cultura dell’effimero » non fu una esclusiva prerogativa di genere, bensì un campo in cui si attivò la più varia committenza di principi, signori e magistrature cittadine ma, trattandosi di una delle non molte occasioni di esposizione pubblica delle donne, specie in occasione di matrimoni e banchetti, in essa è spesso chiaramente distinguibile una loro più marcata presenza, se non un vero e proprio processo di costruzione identitaria. 5 Le feste per le nozze del figlio del re Ferrante d’Aragona, il duca di Calabria Alfonso, con Ippolita Sforza nel 1465, sublimate dal resoconto di Giovanni Pontano nel De magnificentia, valsero, per esempio, a definire una nuova grammatica della vita cortigiana, che negli anni successivi trovò larga eco nelle feste e nei cortei nuziali celebrati presso altre corti dei signori italia 





1

  Elio e Corrado Catello, L’oreficeria a Napoli nel xv secolo, Cava dei Tirreni, Di Mauro, 1975.   Si vedano al riguardo i dati riportati da Neil de Marchi, Louisa C. Matthew, I dipinti, in *Il Rinascimento italiano e l’Europa, iv, Commercio e cultura mercantile, a cura di Franco Franceschi, Richard A. Goldhwaite, Reinhold C. Mueller, Verona, Colla, 2007 (pp. 247-282), pp. 253-255. 3   Sugli oggetti della devozione femminile e la loro forma di circolazione nell’ambito di circuiti specificamente di genere si può vedere il lavoro di Genoveffa Palumbo, Fede napoletana. Gli oggetti della devozione a Napoli : uno sguardo di genere, in *Donne e religione a Napoli. Secoli xvi-xviii, a cura di Giuseppe Galasso e Adriana Valerio, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 284-310. 4   Cfr., seppure se per un altro contesto, Natalie Zemon Davis, Il dono. Vita familiare e relazioni pubbliche nella Francia del Cinquecento, trad. it., Milano, Feltrinelli, 2000. 5   In tal senso G. Guerzoni, I servizi. L’economia della festa e la festa dell’economia. Qualche considerazione sugli ‘ephemera’, in Apollo e Vulcano …, cit., pp. 211-229. 2



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ni. Essa trovava intorno al tema di Napoli, della raffinatezza e dolcezza dei suoi costumi, come qualità sociale e nativa, uno dei tratti costitutivi più forti. Per il matrimonio di Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso, con Gian Galeazzo Sforza duca di Milano, celebrato nel 1489, fu coinvolto Leonardo da Vinci, che predispose gli addobbi della sala allestendovi una suggestiva decorazione di alberi intrecciati. La festa si aprì con più giri di danze « alla napoletana », con un evidente omaggio alle origini della sposa e alla mondanità, al fasto e all’eleganza della vita di corte da cui ella proveniva. Per il talamo nuziale fu approntata una preziosa coperta intessuta di perle. Anche questo era un motivo legato alle origini aragonesi della sposa, dal momento che – come era assai noto – il Magnanimo era stato uno dei maggiori collezionisti di pietre e gemme preziose. 2 Valga, infine, per tutti l’esempio del viaggio trionfale di Isabella del Balzo, moglie di Federico II, l’ultimo dei sovrani aragonesi di Napoli, che nel 1497, a pochi mesi dalla incoronazione del marito, avvenuta a Capua, il 5 agosto di quell’anno, per mano dell’ancora cardinale Cesare Borgia, partì da Lecce alla volta di Napoli per raggiungerlo. 3 Di quel viaggio esiste un ampio resoconto nel poemetto celebrativo intitolato Il Balzino di Ruggiero di Pazienza di Nardò, opera e autore che già attrassero l’attenzione di Benedetto Croce. 4 Commissionato al Pazienza da alcune dame della corte leccese della Regina e dedicato a sua sorella Antonia del Balzo, il poema ha come protagoniste delle donne e si rivolge a un pubblico costituito pressoché esclusivamente da lettrici. Come l’Autore stesso sosteneva, egli scriveva, infatti, « piuttosto per le donne che per gli uomini », e perciò preferiva lo stile « claro » e « il dire mediocre et bascio », sfuggendo i « vocaboli obscuri et molto exquisiti », per timore di non essere inteso e che le sue carte, troppo culte, fossero dalle sue sostenitrici « per coperimenti de canocchie adoperate ». 5 Stando al racconto del poeta, durante il viaggio la regina Isabella fu accolta e acclamata con segni e manifestazioni di giubilo nei confronti della Corona aragonese in tutti i luoghi attraversati : strade coperte di panni e arazzi, archi trionfali, macchine festive. Durante il tragitto si ripeté più volte il rito dell’omaggio delle autorità locali venute ad ossequiarla : i signori leccesi le vennero incontro fino a Otranto ; il viceré Paladini l’attese a S. Pietro in Galatina ; i vescovi di Nardò e di Gallipoli si misero al suo seguito. Un tono di povertà e rusticità era comunque sullo sfondo di molti di quei luoghi : a Massafra, che aveva sofferto il saccheggio dei francesi, la Regina ebbe pessimo alloggio e i baroni del suo seguito si adattarono ad alloggiare in ripari di fortuna ; a Molfetta il poeta annota che al suo arrivo erano state allestite due fontane, sgorganti l’una vino e l’altra latte, le due risorse principali del territorio. 6 Anche i doni rivelavano l’impronta rurale delle zone e delle popolazioni : polli, capponi, capretti e agnelli. 7 Ovunque ella trovò, comunque, un’atmosfera festosa ad accoglierla, anche in forme segnate da una cerimonialità meno istituzionalizzata, in cui la rappresentanza femminile assumeva un ruolo paritario, a volte perfino preponderante rispetto a quello maschile, come nella circostanza dell’omaggio del bacio del piede of1







































1   La descrizione è inserita dal Pontano nel capitolo sulle nozze, per cui cfr. Giovanni Pontano, I libri delle virtù sociali, a cura di Francesco Tateo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1965, pp. 205-207. 2   Cfr. Isabella Nuovo, La festa tra spettacolo e invenzione : il corteo nuziale di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, in Esperienze di viaggio e memoria geografica tra Quattro e Cinquecento, Università degli Studi di Bari, Laterza, University Press on-line, 2003, pp. 28-50. 3   Il quadro storico di riferimento è in Giuseppe Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), in *Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, xv/2,Torino, utet, 2005, pp. 123-138. 4   Benedetto Croce, Isabella del Balzo regina di Napoli in un inedito poema sincrono, « Archivio storico per le province napoletane », 22/4 (1897), pp. 632-701, poi riedito col titolo Isabella del Balzo, regina di Napoli, in Storie e leggende napoletane, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1995, pp. 179-208. 5 6 7   Ivi, p. 184.   Ivi, p. 199.   Ivi, p. 195.  





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ferto alla Regina dalle donne del castello dei Maremonte, a Campi ; 1 o con i canti e i balli improvvisati da altre donne all’arrivo del corteo regale ; 2 l’ostentazione sulle facciate di case e fabbricati di « gonnelle », mantelle e gioielli femminili ; 3 la visita che le gentildonne delle città e degli altri luoghi attraversati resero alla Regina. Paragonabile a un viaggio di possesso, il viaggio di Isabella e le manifestazioni di consenso e di giubilo intorno a lei e alla sua corte assumevano un significato politico in quella delicata fase della storia della Corona aragonese, che di lì a poco avrebbe dovuto cedere, e per sempre, il trono di Napoli alla linea cugina spagnola. Al di là delle dinamiche di legittimazione del potere, comunque, l’intera vicenda è in grado di svelare delle pratiche culturali e cortigiane, dei percorsi degli oggetti e dei manufatti artistici, dei circuiti del matronage e degli spazi di rappresentatività in cui molte donne del Rinascimento meridionale si mossero in maniera personale, con modi non necessariamente riconducibili alle logiche dei gruppi sociali di appartenenza. Esse ebbero un ruolo determinante nel tener vivi circuiti di relazioni attraverso lo scambio materiale. La loro domanda di manufatti domestici e prodotti culturali rappresentò in ogni caso un elemento di stimolo del mercato dell’arte e dell’economia locali presso i quali indusse, tra l’altro, un indotto di vario tipo nel settore del terziario, delle maestranze artigiane, di profili tecnico-professionali e del lavoro in generale.4 Che, nel Rinascimento meridionale, questo abbia costituito un fattore importante di ridistribuzione delle risorse e di integrazione sociale e politica di ceti e gruppi sociali e che questo processo abbia assunto anche una sua specifica connotazione identitaria aristocratica e di genere è quanto qui, in particolar modo, ci premeva sottolineare. Lo scambio di oggetti e il trasferimento di conoscenze, di cui le gentildonne delle corti meridionali furono attrici, fu uno dei tanti aspetti che hanno configurato il carattere policentrico del Rinascimento meridionale, riannodandone i fili nei tratti di una comune civiltà europea.  









Università degli Studi del Molise Il contributo prova a riannodare alcuni dei molteplici fili di quella « tela di ragno » con cui Giancarlo Mazzacurati ci ha indotto a pensare al sistema di scambi culturali del Rinascimento meridionale, nella cui trama viaggiarono grandi carriere artistiche e intellettuali, stili e temi classici, libri e codici antichi, marmi e linguaggi figurativi, scritti storici e carmi latini, gioielli e arredi sacri, saperi cortigiani e cerimoniali ricalcati sul ritorno all’antichità, modelli iconografici e simbolici. Quella immagine ci sembra il modo più appropriato per provare a descrivere il Rinascimento napoletano e lo spazio in esso occupato da molte dame di corte, che in continuità e contiguità con gli atteggiamenti delle proprie famiglie ebbero una presenza attiva nella organizzazione del mecenatismo culturale e collezionarono prestigiose raccolte artistiche, di libri e manoscritti per coltivare i loro specifici interessi di studio e di ricerca. Attraverso una serie di esempi e di casi di studio (le principesse aragonesi, Roberta Carafa, Silvia Piccolomini, etc.) si cercherà di dar conto di un Rinascimento ‘al femminile’, in cui è possibile rintracciare comportamenti individuali e pratiche sociali che configurarono anche degli inediti circuiti di scambi culturali e di manufatti artistici.  



This paper focalizes the role that some southern Italy Renaissance ladies had in the court system and in the patronage organization. Throughout a few examples and case studies (Princesses of Aragon, Costanza d’Avalos, Roberta Carafa, Silvia Piccolomini, etc.), we can identify forms of objects circulation and the cultural practices in which women had an active presence. 1   Sul “bacio del piede” tributato come omaggio vassallatico e il suo uso alla corte aragonese di Napoli si rinvia a Giuliana Vitale, Monarchia e ordini cavallereschi del Regno di Napoli in età angioina, in *Linguaggi e pratiche del potere, a cura di Giovanna Petti Balbi e Giovanni Vitolo, Salerno, Laveglia, 2007 (pp. 269-346), p. 318 ; in tal senso cfr. anche Francesco Senatore, Cerimonie regie e cerimonie civiche a Capua (secoli xv-xvi), ivi, pp. 151-205. 2 3   B. Croce, Isabella del Balzo, regina di Napoli …, cit., p. 196.   Ivi, p. 198. 4   Cfr. S. Cavallo, I. Chabot, Introduzione … , cit., p. 19.  

dame di corte nel rinascimento meridionale

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Cette contribution tente de renouer certains des multiples fils de la «  toile d’araignée  » avec laquelle Giancarlo Mazzacurati nous a induits à penser au système d’échanges culturels de la Renaissance méridionale, dans la trame duquel voyagèrent de grandes carrières artistiques et intellectuelles, styles et thèmes classiques, livres et codes anciens, marbres et langages figuratifs, écrits historiques et carmes latins, bijoux et meubles sacrés, savoirs courtisans et cérémoniaux calqués sur le retour à l’antiquité, modèles iconographiques et symboliques. Cette image nous semble la manière la plus appropriée pour tenter de décrire la Renaissance napolitaine et l’espace qu’y occupaient de nombreuses dames de cour, qui en continuité et contiguïté avec les comportements de leurs propres familles eurent une présence active dans l’organisation du mécénat culturel et réunirent de prestigieuses collections artistiques, de livres et manuscrits pour cultiver leurs intérêts spécifiques d’étude et de recherche. À travers une série d’exemples et de cas d’étude (les princesses aragonaises, Roberta Carafa, Silvia Piccolomini, etc.) on essaiera de rendre compte d’une Renaissance ‘au féminin’, dans laquelle il est possible de retrouver les comportements individuels et les pratiques sociales qui configurèrent également les inédits circuits d’échanges culturels et d’objets d’art.  



Este estudio intenta volver a anudar algunos de los múltiples hilos de la « telaraña » que Giancarlo Mazzacurati ha utilizado como metáfora para acostumbrarnos a pensar en el sistema de intercambios del Renacimiento meridional, en cuya trama viajaron grandes carreras artísticas e intelectuales, estilos y temas clásicos, libros y códigos antiguos, mármoles y lenguajes figurativos, escritos históricos y cantos latinos, joyas y decoraciones sagradas, conocimientos cortesanos y ceremoniales inspirados en la vuelta a la antigüedad, modelos iconográficos y simbólicos. Esta imagen nos parece el modo más apropiado para describir el renacimiento napolitano y el lugar que en él ocupaban muchas damas de la corte que de continuidad y como consecuencia de la actitud de sus familias, tuvieron una presencia activa en la organización del mecenazgo cultural y recopilaron prestigiosas colecciones artísticas de libros y de manuscritos para cultivar sus intereses específicos en el arte y en el estudio. A través de una serie de ejemplos y de casos que se examinan (las princesas aragonesas Roberta Carafa, Silvia Piccolomini, etc.) se intentará identificar un Renacimiento “femenino” en el que es posible individualizar tanto comportamientos individuales como prácticas sociales que crearon circuitos inéditos de intercambio cultural y de manufacturas artísticas.  



Der Beitrag versucht, einige der vielen Fäden jenes « Spinnennetzes » miteinander zu verknüpfen, durch das Giancarlo Mazzacurati uns das System des kulturellen Austausches in der Renaissance in Süditalien nahegebracht hat. Seine Darstellung dieses Austausches umfasst künstlerische und intellektuelle Größen, die klassischen Stile und Themen, die antiken Bücher und Kodexe, die Marmorwerke und die figurative Sprache, historische Schriften und lateinische Gedichte, Schmuck und liturgisches Gerät, höfisches Wissen und aus der Antike übernommene Zeremonien, die ikonografischen und symbolischen Modelle. Diese Darstellung erscheint uns sehr gut geeignet, um die neapolitanische Renaissance zu beschreiben sowie den Raum, den viele Hofdamen darin einnahmen. Sie waren in Übereinstimmung oder auch im Widerspruch mit der Haltung ihrer Familien aktiv beteiligt an der Organisation eines Kulturmäzenats und der Entstehung vieler wertvoller Kunstwerke, sammelten Bücher und Manuskripte, um ihre spezifischen Interessen zu verfolgen und ihren Wissensdrang zu befriedigen. Mittels einer Reihe von Beispielen und Fallstudien (die aragonesischen Prinzessinnen, Roberta Carafa, Silvia Piccolomini, usw.) wird versucht, eine ‘weibliche’ Renaissance zu ermitteln, in der individuelle Verhaltensweisen und gesellschaftliche Praktiken auch außergewöhnliche Kreise kulturellen Austausches und künstlerische Arbeiten ermöglichten.  



TRACCE E SPIE LETTERARIE DI STORIA DELLE DONNE DEL REGNO DI NAPOLI TRA XV E XVI SECOLO Michèle Benaiteau Introduzione

S

e il « Rinascimento » è una categoria ancora molto significativa per la storia della cultura in senso professionale (la cultura degli studiosi dell’epoca), lo è molto di meno nel senso della cultura diffusa nella società dell’epoca, l’antropologia storica, e ancora meno nel senso della storia sociale. Basta un’occhiata ai volumi della Storia del Mezzogiorno 1 per constatare che la periodizzazione non privilegia la categoria di « rinascimento » riservata alla storia culturale, mentre vari sono i quadri cronologici selezionati a seconda dei temi trattati. Il Regno di Napoli nel periodo 1435-1503 ha conosciuto due cambiamenti dinastici. Prima è passato dalla dinastia Angioina agli Aragonesi, per perdere poi l’autonomia politica e entrare nell’orbita dell’impero spagnolo. Le guerre che accompagnarono questo passaggio produssero dei cambiamenti di fortuna tra le grandi famiglie del Regno meridionale, secondo l’uso dei vincitori di punire gli sconfitti, ma non cambiò la sostanza dell’ordinamento delle campagne sottoposte a signori feudali. Nel ’500 l’economia della capitale subì il contraccolpo dell’assenza di una Corte reale, ma l’afflusso dei baroni in città bilanciò le perdite. Gli abitanti del Regno conobbero tutte le novità dei tempi, armamenti e modo di combattere, stampa, posta « pubblica » delle lettere a partire dal 1559, i primi prodotti coloniali. Conobbero gli inconvenienti (gravosi tributi in denaro e uomini) della politica bellicosa spagnola suscitando alcuni attriti e rivolte, come del resto era avvenuto sotto le dinastie precedenti. Conobbero nella seconda metà del ’500 la novità del debito pubblico consolidato nel quale i feudatari investirono molti capitali. In generale, la struttura sociale d’insieme non registrò molte modificazioni anche se si osserva una maggiore urbanizzazione della popolazione a favore del vistoso crescere di Napoli. Non intendo sostenere il concetto di una storia immobile, ma rendere chiaro che novità e conflitti avvennero senza punto sconvolgere il quadro sociale di fondo : una società di ordini o ceti, una gerarchia di ufficiali sotto il Re, la verità della religione nella Chiesa, l’indegnità del lavoro manuale, le donne in casa. Considerando che la storiografia specializzata sulle donne e il genere da molto tempo è giunta alla conclusione dell’assenza di un rinascimento per le donne, o piuttosto della non pertinenza di questa categoria in questo campo, sembra normale aspettarsi lo stesso per il mezzogiorno d’Italia. 2 Le donne del periodo rinascimentale dell’Italia meridionale non si sono espresse per mezzo della scrittura, a parte alcune eccezioni che si contano sulle dita di una mano. Escluse alcune principesse, nobili poetesse e monache carismatiche, non abbiamo altre testimonianze scritte in cui le donne ci parlino direttamente di  













1

  Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso e R. De Maio, Roma, Edizioni del Sole, 1985-1998, 13 volumi.   Per una sintesi del dibattito su « donne e rinascimento » e una bibliografia, cfr. Merry E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, 1500-1750, con introduzione di Angela Groppi, Torino, Einaudi, 2003 (ed. orig., Women and gender in Early Modern Europe, 2000, Cambridge University Press). 2





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loro stesse. L’eccezionalità e il contenuto dei documenti esistenti fanno capire che non possono rappresentare una situazione d’insieme, nemmeno per quanto riguarda il ceto delle nobili donne dal quale per lo più provengono. Restano due strade da percorrere. La prima è quella della documentazione non intenzionale, non scritta per esprimere un punto di vista sulla donna, come possono essere gli atti notarili, gli atti processuali civili o penali, le cronache o vari tipi di opere d’arte visive in cui compaiono delle donne. La seconda è quella degli scritti maschili che parlano delle donne, opere filosofiche o letterarie, ed anche epistolari. Entrambi i tipi di documenti inseriscono un filtro molto spesso tra l’esistenza che si vuole cogliere e il testo che si legge. Situazione normale per lo storico ma che in questo caso è resa più opaca dalla mancanza totale dei filtri opposti, come sarebbero scritti simili ad opera di donne. Abbiamo dei punti fermi come le marcate differenze di ruolo e di attività tra uomini e donne, la subordinazione di queste ultime al mondo maschile, la loro collocazione ideale nella sfera domestica. In verità, le contadine svolgevano lavori nei campi e spesso a salario, non sulle terre della propria famiglia ; in città, le donne povere (la maggioranza) esercitavano mille piccoli mestieri che le conducevano fuori casa. Ciononostante, i discorsi scritti hanno sempre definito il ruolo della donna come domestico, rivelando un discorso interno ai ceti benestanti. Le esclusioni da mestieri ed incarichi segnavano una condizione d’incapacità e d’inferiorità che non è certo da documentare. Eppure, l’incapacità della donna meridionale, come altrove in Europa, non è mai stata assoluta : le leggi di successione le erano sfavorevoli ma poteva essere proprietaria, non era giudice né avvocata ma poteva intentare un processo, non poteva accedere all’istruzione delle università ma poteva essere maestra di scuola, 1 la famiglia le sceglieva il marito ma non poteva essere sposata senza il suo consenso esplicito, non poteva essere ordinata sacerdotessa ma poteva diventare santa … il suo ruolo era in casa ma poteva uscire, a volte, da sola. Last but not least, la donna era ordinariamente esclusa dalla sfera della politica ma esistevano delle regine a pieno titolo, e delle principesse con incarichi di governo. Non è sorprendente quindi che i testi maschili sulle donne non siano tutti identici relativamente al grado della loro inferiorità e subordinazione, in qualsiasi momento di questo periodo. Certo, nessuno si azzardava a immaginare una sfera di attività femminile fuori dalle mure domestiche, anche perché nessun scrittore considerava la realtà sociale delle donne del popolo. La diversità degli atteggiamenti consisteva piuttosto nel valore che gli autori riconoscevano alle donne. Il valore non è un concetto logico ma soggettivo e di relazione che può essere colto soprattutto grazie all’analisi psicologica dei testi, con tanti rischi di errore ... Si propongono quindi alcuni testi per saggiare l’indice di stima, d’ascolto e d’influenza, riservato al sesso debole.  



i. L’antipatia dei filosofi a. Le donne da trattato filosofico Sembra comodo partire dal punto zero del « valore » che troviamo nei testi più astratti, i cosidetti trattati sui quali M. A. Visceglia ha incentrato la sua analisi della donna aristocratica. 2 L’umanista meridionale Giovanni Pontano segue il procedimento di Aristotele nella Politica, collocando un capitolo relativo alle donne e ai servi nel preambolo di un’opera  

1



  Si ricordi il quadro di Aniello Falcone, « La maestra », Pinacoteca di Capodimonte.   Cfr. Maria Antonietta Visceglia, Il Bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 141-174. 2





tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 229 sull’ordinamento della società, significativamente intitolato « Dell’ubbidienza ». Ci fa ricordare il contesto sociale nel quale viveva, una società di ceti gerarchicamente disposti in cui il rango e l’onore sono vissuti nell’ostentazione, in cui il dominio dei ceti alti significava rapporti personali ai nostri occhi violenti. Per il Pontano la moglie deve al marito un’ubbidienza drastica che le toglie ogni decisione nel governo della casa e della famiglia, lasciandole solo « l’allevamento » dei figli piccoli e non l’educazione. Preferibilmente deve stare zitta. L’aristocratico Diomede Carafa, che scrive in lingua volgare, traccia un modello simile. 1 Per Belisario Acquaviva, aristocratico umanista, « obbedienza e silenzio della moglie costituiscono quindi gli elementi indispensabili per il buon esito del matrimonio », anche se insiste sullo scopo di « dar vita ad un armonioso rapporto di coppia che si fondi sul reciproco affetto » 2 piuttosto che sul timore reverenziale. Ma gli atti notarili, le polizze di banca e varie fonti del ’500 provenienti dagli archivi delle case aristocratiche meridionali, se non permettono considerazioni generalizzanti, contraddicono quest’interpretazione del ruolo della donna aristocratica. Indicano chiaramente che l’amministrazione dei beni e patrimoni poteva ricadere sulle madri, mogli, sorelle dei feudatari. Non meraviglia quindi che Scipione Ammirato a metà del ’500 ne tenesse un qualche conto, perché scrivendo Delle famiglie nobili napoletane dovette constatare come storico l’attività effettivamente svolta dalle signore nella conduzione familiare e patrimoniale, o nella cultura. Come osserva M. A. Visceglia, ricercare in tali trattati l’alternarsi tra miglioramento e peggioramento della condizione delle donne è inadeguato, anzi l’« intreccio fondamentale è però piuttosto quello tra modelli culturali, strategie familiari e riforma tridentina (o riforma protestante) ». 3 Questi trattati procedono logicamente da concetti astratti, a priori, adoperati dalla filosofia del mondo antico, e conditi dai pregiudizi delle Sacre Scritture, senza curarsi dell’esperienza storica, e neppure delle proprie contraddizioni. Dicono poco sulle donne reali, e sono probabilmente inesatti anche sui comportamenti reali degli uomini. Proviamo allora ad interrogare scritti più passionali che potrebbero essere più rivelatori.  



















b. I misogini viscerali Cominciamo da Giovanni Camillo Maffei, medico di vario ingegno, celebre oggi per un trattato considerato come fonte essenziale sull’arte vocale del Rinascimento. Proprio nello stesso volume in cui appare questo trattato sono inserite quattro lettere che possono definirsi misogine per il tono e la scelta degli argomenti. 4 Particolarmente gustosa è quella dedicata al fratello che intende sposarsi :  

Non vogliate moglie M. Fabritio di gratia, perché come filosofo dovete sapere che la donna è cosa mostruosa ; e come medico potete esser certo che non sia altro la femina di un fiume di sangue corrotto, e un albergo di pestilenza. 5  

Simili amenità continuano per più pagine finché Maffei svela l’atteggiamento tipico di chi ha « lasciato il mondo, e tolto da lui ogni pensiero, e per mia cara famigliola hò preso  

1   Ivi, p. 146. Il trattato del Carafa, Memoriale et recordo de quello have da fare la mulglyere per stare ad bene con suo marito e in che modo se have abonestare, si trova in Diomede Carafa, Memoriali, a cura di Franca Petrucci Nardelli, Roma, Bonacci, 1988. 2   Domenico Defilippis, Tradizione umanistica e cultura nobiliare nell’opera di Belisario Acquaviva, Galatina, Congedo, 1993, pp. 132-133. 3   M. A. Visceglia, Il bisogno …, cit., p. 167, nota 81. 4   Delle lettere del Sig. Gio : Camillo Maffei di Solofra, libri due, raccolte per Don Valerio de Paoli de Limosano, Na5   Ivi, p. 175. poli, Appò Raymondo Amato, 1562, pp. 175-180, 185-190, 106-111.  

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i miei libri ». Fugge dal matrimonio, dalle liti con la famiglia della moglie, dalle continue preoccupazioni per il denaro « perché la spesa che si fa con le Balie per lo latte, […], con i figli pe’l vestire e calzare, e con mille sorte di frascherie della insatiabile moglie, risolve e consuma tutta la dote ». 2 Abbiamo quindi l’« antigamico » caro alla tradizione medievale ecclesiastica, un appassionato di studio che teme con orrore il chiasso dello stile di vita familiare. Altre due lettere sembrano offrire un modello utile per « riavvedersi » di un cedimento imprudente, offendendo la destinataria, Isabella … Ma qualcosa ci appare ancora più sorprendente nella stessa raccolta : accanto agli accenti pesantemente misogini di queste lettere, altre lettere alla duchessa di Gravina e ad altre signore sembrano incluse per servire di modello ad un segretario. Ivi, com’è ovvio, sono presenti tutte le formule di rispetto e le lodi stucchevoli dovute a persone di alto rango. Non temeva l’autore di urtare la suscettibilità della duchessa della quale era servitore o era sicuro che l’opera non sarebbe mai arrivata tra le sue mani ? Si può desumere qualcosa di valido per l’insieme della società da tali lettere ? Sospendiamo il giudizio e leggiamo le confessioni di Michelangelo Biondo. Questo medico non era napoletano d’origine (nacque a Venezia nel 1500 e morì a Venezia nel 1565) 3 ma trasferitosi in gioventù a Napoli, dove studiò con Agostino Nifo, s’innamorò di una gentildonna e cittadina napoletana, Giulia Martina Marzia e la sposò nel 1521. Rimase ancora molti anni a Napoli prima di recarsi con la famiglia a Roma, attorno al 1535 e poi a Venezia. Nel 1546, poco dopo la morte della moglie, pubblicò uno sfogo di mal marié, dai toni così passionali da risultare divertente. L’interesse e la novità del trattato consistono nell’essere una confessione in prima persona dei tormenti matrimoniali dell’autore.  

1



















Anzi son sforzato di fuggire tutte le donne, per l’asprezza della mia donna, e li orribili costumi, per strani comportamenti, per il parlar superbo, per diversi suoi vani desideri, per li continui moti, per la sua instabilità, e finalmente per non contentarse mai di quello che io me contento. Perciò credo che mi sarebbe più utile di sorbire una tazza di veneno (come fece Socrate condannato a morte da ateniesi) che pascermi di cibo per vivere sempre con doglia di cuore, e per cagion della donna mia. 4

Il pover’uomo in pena immagina un dialogo tra Agostino Nifo5 (che era stato suo maestro) e Socrate su « cosa è donna » ? Le risposte sono feroci lungo le 141 pagine del testo come in questo esempio sulla « sembianza ha la donna con il fumo, di sorte trovo il fumo esser un vapore nero e puzzolento, […] ed ammorba ciascun che circonda più d’ogni altro fetore […] perciò è da credere che la donna sia fumo » e più avanti, « la donna non cerca altro che morte al suo uomo ». 6 Come nella lettera All’ insatiabil’ S. Isabella del Maffei, sotto la misoginia si legge la paura. Ma nel Maffei l’evocazione della mostruosità femminile era stata sufficiente a respingere la tentazione erotica. Il Biondo invece confessa candidamente di essersi innamorato e si sente ingannato dalla bellezza e dai modi gentili di Giulia Martina. In una lettera il Biondo esprimerà anche rimpianto per la sua morte. 7 A. Romagnoli analizza finemente la  













1

2   Ivi, p. 179.   Ivi, p. 180.   Sulla vita e le opere vedere il *Dizionario biografico degli italiani, voce scritta da G. Stabile. 4   Michelangelo Biondo, Angoscia, doglia e pena. Le tre furie del mondo, in *Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di Giuseppe Zonca, Bari, Laterza, 1913, (pp. 71-220), p. 71. Le prime due parti (Angoscia e Doglia) erano state scritte prima della morte della moglie e già sottoposte al parere di amici. 5   Agostino Nifo, del quale Domenico Defilippis espone le idee sulla donna di Corte in questo stesso volume. 6   Cfr. M. Biondo, Angoscia …, cit., p. 76. 7   Vedere la lettera al signor Paolo Palmeri secretario delli Magnifici Signori Eletti della Città di Napoli in appendice a M. Biondo, Angoscia …, cit., pp. 219-220. 3

tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 231 contraddizione insanabile fino al parossismo doloroso vissuta dal Biondo, tra l’attrazione erotica che non riesce a controllare, e il pregiudizio misogino che priva l’oggetto del suo amore di qualsiasi valore, e gli fa paura. 1 Il testo, che oscilla tra frasi generalizzatrici e allusioni alla propria vita coniugale, a volte ci fa entrare nell’intimità della coppia. Quali dunque le cause degli screzi feroci tra il Biondo e la peggiore delle bisbetiche ? Niente altro che liti sul denaro da spendere per la « pompa » (« nondimeno molte donne oggi trovo che si vanno avvantando di vanagloria, mentre che vanno giorgulando per le contrade, balestrando con gli occhi quanto acutamente son mirate dal volgo » 2), per l’abbigliamento, l’apparenza mondana. La moglie non sapeva che i trattati del Pontano o del Carafa la estromettevano dalla gestione dei soldi, non sapeva nemmeno di dovere essere obbidiente e muta. « Donna che governa la casa, sapendo che fa male, non vuole essere ripresa, gli è piena di furore per le cose che fa senza alcun ordine […] dice essere libera, perciò vol fare quel che gli piace senza alcun rispetto ». 3 In sintesi, il nostro soffre terribilmente vicino a una moglie che urla per ottenere ciò che vuole, e lo ottiene. Non riesce ad affermare la superiore potenza del marito che Aristotele garantisce come naturale, eppure non smette di cercare spiegazioni e conforto nei pregiudizi antichi, visto che la donna « non ha ragione, incrudelisce senza ragione, non vive sotto alcuna legge ». 4 Benché il Biondo collochi la spaventosa trasformazione della sua gentile donna nel loro passaggio da Napoli a Roma, dove l’autore si fece una clientela più altolocata, non pensa minimamente a collegare tra loro i due eventi. Stavolta non agisce tanto il pregiudizio antigamico quanto l’impossibilità di comprendere la soggettività di sua moglie. Oggi si tenderebbe a pensare che l’a priori dell’irragionevolezza preclude al marito ogni dialogo, lasciando ad una consorte di spirito un unico sbocco : la furibonda affermazione della sua libertà. Ma l’aspirazione alla libertà di una donna del ’500 era simile a quella di una donna odierna ?  





















ii. Il « genere » nel contesto della società meridionale  



In effetti, appare oggi come una privazione inconcepibile di libertà, l’ingiunzione al silenzio o al non dibattere. Tuttavia, la subordinazione della donna rientrava nel piano di un ordine gerarchico generale, come aveva visto Pontano. A molti uomini, per ragione di minore età o di minore rango poteva capitare di dovere stare muti o ossequiosi davanti ai loro superiori. Addirittura, uomini di ceto inferiore avevano un contegno ossequioso davanti a donne di ceto superiore. Il Biondo aveva denunciato « Superbia è ancora l’ammaestrare arrogante : e ciò è donna ; la quale per natura disprezza i simpliciotti di vil manto coperti ». 5 La libertà della furiosa moglie del Biondo non consisteva forse nel mettersi all’altezza delle nuove frequentazioni ? Un testo sulla nobiltà di Piazza di Monopoli può essere utile ad immaginare le sue reazioni : « tanto che si attribuirebbe a disonore, se in una veglia a tempo di sponsalizio in casa di un Patrizio si ammettesse una donna delle famiglie civili ». Non solo ma in chiesa « è delitto se una donna della seconda piazza ardisse genuflettersi in egual distanza, e non dietro alla Patrizia ». 6 Visto il generale dovere di umiliazione – e i più grandi si umiliavano davanti ai re o al  



















1   Anna Romagnoli, La donna del Cortegiano nel contesto della tradizione (xvi secolo), Tesi di dottorato, Departament de Filologia románica, Universitat de Barcelona, 2009, 1° volume, pubblicata su www.tesisenxarxa.net. Vedere particolarmente le pp. 344-346 e 467-474. 2   M. Biondo, Angoscia …, cit., p. 79. 3 4 5   Ivi, p. 82.   Ivi, p. 89.   Ivi, p. 85. 6   Annastella Carrino, La Città aristocratica. Linguaggi e pratiche della politica a Monopoli fra Cinque e Seicento, Bari, Edipuglia, 2000, p. 70.

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Papa – molte donne nobili, assoggettate ai capifamiglia, trovavano comunque alimento alla stima di sé e compensazioni nei segni d’onore che gli inferiori rendevano loro. Se la mancanza di libertà personale della donna confrontata con i nostri criteri era grande, tuttavia i sentimenti e i pensieri delle donne non corrispondevano sempre ai nostri. Il concetto stesso di libertà individuale era posto in ombra dal concetto ideale di libertà religiosa, cioè di un’anima liberata dal dominio delle passioni e dal peccato. D’altronde la riforma cattolica produsse un clima favorevole all’impulso di affermare il proprio valore sul piano religioso che forse sedusse molte donne. Ugualmente non si deve interpretare il confinamento nella sfera domestica nel senso odierno. Il raggio delle sue relazioni familiari non era ristretto alla dimensione della famiglia nucleare ma si estendeva ad una vasta rete di parentela agnatizia e cognatizia, alla quale, per le nobili, s’aggiungeva un nucleo di servitori. L’importanza della famiglia come casato era grande nel Meridione in tutti gli strati della società, 1 e permetteva spesso alle donne di non essere sole davanti all’autorità di un padre, un marito o un fratello, offrendo loro l’occasione di tessere una rete di relazioni alla quale appoggiarsi, e con la quale esercitare un certo potere sociale. Sono i testamenti delle donne nobili che testimoniano meglio quest’aspetto. 2 I loro legati, complementari nelle strategie di successione familiare rispetto ai testamenti dei padri e dell’istituto della primogenitura, fanno indovinare nel mondo nobile frequenti intrecci di influenze femminili. E ciò malgrado le regole successorie cominciarono nel secondo ’500 ad escludere le donne dall’eredità paterna. Maffei, « l’antigamico », tra i fastidi del matrimonio metteva in conto le liti giudiziarie perché la moglie non aveva rinunciato all’eredità ! Se le donne nobili mediamente erano meno ricche dei fratelli maschi, non veniva meno la loro capacità di fare fruttare il denaro che pure talvolta ricevevano : le donne prestavano denaro ad interesse o l’investivano negli « arrendamenti fiscali ». Gli stessi testamenti, oltre a suggerire relazioni coordinate dall’iniziativa delle donne, testimoniano anche dei rapporti a volte confidenziali che si tessevano tra i servitori, le serve e le loro padrone. Il ruolo di padrona di casa dava alla gentildonna l’opportunità di farsi degli alleati tra i servitori, pronti a collaborare a suoi progetti come si vede nelle commedie ? Questa domanda è condannata a restare senza risposta perché ci dobbiamo accontentare delle poche spie emerse dalle fonti, come le cronache, che non si curano della vita quotidiana ma dello spazio pubblico. Le notizie sulla comparsa delle donne in pubblico possono essere d’aiuto a comprendere il grado della loro participazione alla sfera non domestica. Le cronache rinascimentali registrano solo eventi di natura politica, e offrono poche immagini di donne che non siano regine o principesse, oppure di gentildonne in generale. 3 I cittadini nobili di Napoli avevano luoghi riservati, detti Sedili o Seggi, per le loro assemblee ufficiali ma dove i signori e le dame di Napoli andavano anche a giocare e divertirsi in ogni momento. 4 L’arrivo del cardinale Borgia in città nel 1475 fu festeggiato con balli nei seggi, i genti 













1   Si rimanda a Gérard Delille, Famiglia et proprietà nel regno di Napoli, xv-xix secolo, Torino, Einaudi, 1988 (ed. orig. Famille et propriété dans le Royaume de Naples (xve-xixe siècle), Rome-Paris, Ecole française de Rome, 1985). 2   M. A. Visceglia, Il Bisogno …, cit., pp. 11-105. 3   Solo G. Gallo evoca anche « donne e figlioli » popolani, quando accolgono il re aragonese con grida festose nel 1496 ; oppure quando Pietramolara, ribelle all’Aragona, fu messa a sacco « et poserogne fuoco et la spianarono, et multi di quelli così mascoli, come femmine portarono a Napoli et li venderono a tre docati a bascio insino a 5 carlini l’uno, mai si vidde tanta crudeltà », cfr. Diurnali di Giacomo Gallo e tre scritture pubbliche dell’anno 1495, con prefazione e note di Scipione Volpicella, Napoli, Tip. Largo Regina Cœli, 1846, p. 26. 4   Andre de la Vigne, Le voyage de Naples, édition critique avec introduction, notes et glossaire par A. Slerca, Genève, Slatkine, 1982, p. 266 : « es cinq lieux et places ou se vont jouer et solacier les seigneurs et dames du dit Napples, a toutes heures que bon leur semble ».  















tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 233 luomini con le gentildonne. 1 Dame e signori si trovavano insieme nei Seggi addobati il 1 novembre 1506 per l’ingresso del Re Ferdinando d’Aragona. 2 Nella cerimonia dell’ingresso solenne di Carlo VIII il 12 maggio 1495, si ritrovarono nei Sedili i nobili con mogli e figli. 3 Si noti che la cerimonia avvenne quando il re francese da tempo era entrato in città. Il primo ingresso militare aveva causato paura per cui « tutte le chiacze della città foro barriate […] Et ordinaose questo per la cità de Napole per gavitare lì scannare, che tutte le donne con loro robe andassiro ad abitare alle giesie ». 4 A maggio la presenza delle famiglie nei Seggi dimostrava che Carlo VIII era ben accetto. La presenza femminile era quindi richiesta nelle cerimonie pubbliche. Di più, ammesse al quotidiano nei Seggi, le donne dovevano pure cogliere notizie degli affari pubblici anche se erano escluse dalle riunioni ufficiali a questi destinate. Le cronache menzionano le donne anche nelle processioni, non sappiamo se mescolate o separate dalle file degli uomini. Il 5/10/1496 si svolse una processione speciale di San Gennaro per il Re malato con la presenza di uomini e donne. 5 Nel 1510, quando i napoletani si opposero all’Inquisizione di tipo spagnolo, lo stesso cronista registra più processioni che si presentano come vere e proprie manifestazioni politiche messe sotto la protezione dei santi. Il 20 ottobre 1510 osserva « più di 15 milia persune infra mascoli, & femine ». La participazione femminile, certamente voluta e organizzata dal mondo maschile, serve a incrementare la forza della rivendicazione. In un altro caso, va osservato che lo statuto protetto delle donne permette di inscenare dimostrazioni collettive al riparo da rappresaglie. Così nell’autunno 1513 quando il duca di Ferrandina (Giovanni Granai Castriota), molto ben visto dagli spagnoli, rifiutò la diffida di Pietro Antonio Crispano del sedile di Capuana con l’assassinio del « trombetta » che la recava, il Passero narra che « multe gentil’donne di capuana andaro a visitar lo detto trombetta morto » in Santa Restituta, manifestando la disapprovazione all’accaduto. Era una iniziativa particolare delle donne o erano donne che ubbidavano agli uomini ? Certo Passero non lo diceva per esaltare il carattere femminile, criticava il Duca con le parole seguenti : « fugire, & desmentire ei atto più presto da donna, che da huomo ». 6 Le varie testimonianze sulla sfera pubblica fanno ancora oscillare lo storico tra interpretazioni diverse. Volendo ricorrere ad altra documentazione non intenzionale si trovano dati di natura demografica. Da essi esce un quadro assai tragico della vita. Si aveva allora una speranza di vita di circa 40 anni. E se il parto rappresentava un momento angoscioso dell’esistenza per il pericolo frequente in cui metteva la donna, la vita degli uomini non appariva comunque meno a rischio. La morte incombeva sulla vita di tutti, bambini, giovani e persone di mezz’età, con degli effetti emozionali che difficilmente la nostra generazione riesce ad immaginare. La morte veniva quindi a ribaltare facilemente le situazioni e gli equilibri di potere interni alle famiglie tanto che la vedova doveva assurgere a categoria sociale distinta. Per noi è difficile valutare gli effetti di una altissima mortalità infantile, con un altissimo numero di gravidanze. 7 Come si ripercuotevano tali  























1

  Cronica di Napoli, di Notar Giacomo, a cura di Paolo Garzilli, Napoli, 1845, p. 136.   Giornali di Passero Giuliano, Napoli, presso Vincenzo Orfino, 1780.   A. De La Vigne, Le voyage …, cit., p. 266 : « En ces ditz lieux [i seggi ] estoient les nobles de Napples, leurs femmes et leurs enfants ; et la plupart des ditz seigneurs en grant nombre presentoyent au roi leurs enfants de viii, x, xv, et xvi ans, requerant qu’il leur donnast chevalerie et les fist chevalier a son entrée de sa propre main, qui fut belle chose a voir et moult noble, et leur venoit de grant vouloir et amour ». 4   Cfr. Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, edita con commento da Riccardo Filangieri, Napoli, L’Arte tipografica, 1956, p. 125. 5 6   Giornali di Passero …, cit., p. 209.   Ivi, tra settembre e novembre 1513. 7   Per la demografia storica meridionale vedere i vari lavori di Gérard Delille. 2 3









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eventi sull’emotività e la facoltà di ragionare delle donne e degli uomini ? Non possiamo dare risposte generali. Abbiamo incontrato un marito come il Biondo che non è neppure sfiorato dall’idea che sua moglie possa essere sfinita e stressata dalle sue sette gravidanze. Incontreremo uno sposo che si sente responsabile del malessere di sua moglie e della sopravvivenza dei bambini, per avere ceduto all’uso di mandare il neonato a balia. Gli scritti meridionali non sono sempre misogini se ci si rivolge ai poeti.  

iii. La simpatia dei poeti a. Loise de Rosa e il valore delle donne I lavori di D. Defilippis, I. Nuovo, M. A. Visceglia e G. Vitale, 1 hanno riscontrato nei discorsi degli umanisti meridionali una vena uniformemente tradizionalista, in contrasto con Romeo De Maio il quale indagando tra umanisti di altri paesi aveva portato alla luce discorsi che rivalutavano la donna. 2 Per il Mezzogiorno, le voci meno devalorizzanti della figura femminile si devono cercare in testi letterari. Deliberatamente si sono scelti qui tre autori, di cui due considerati minori perché come spesso accade, il minore valore artistico offre al lettore spunti più connotati nel tempo e nella società. Rimaniamo sempre nell’ambito della nobiltà. La prima testimonianza ci viene dalla voce prosaica del vecchio napoletano, Loise de Rosa che riuscì malgrado la sua goffaggine a commuovere Benedetto Croce. 3 Croce e Altamura furono convinti di leggere una lingua parlata, che rimandava ad un uomo poco colto, dalle idee ingenue e terra a terra … Anche se non sono sicura dell’equazione « scrivere goffamente = pensare ingenuamente » mi pare che Loise de Rosa ha espresso un’alternativa spiritosa alla tradizione misogina filosofico-religiosa delle Sacre Scritture con le sue Lodi della donna. Siamo attorno al 1470-1475, il nostro autore probabilmente desidera compiacere la sua signora, la duchessa di Calabria, e non ha dubbi : « ‘Dimme, tu che lege, non sapite che Dio volce e anco vole più bene a la femmina che no’ a lo mascolo ?’ ». 4 Al preconcetto oppone un’altro preconcetto. A dire il vero, maltratta un po’ il testo della Genesi, cosa che doveva accadere spesso tra i laici ai quali era proibito avvicinarsi ai testi sacri, mentre recepivano echi di questi miti nelle prediche più o meno colte e nell’iconografia delle chiese. Ma riassumiamo le sue ragioni : 1) Eva non fu fatta de lo fracetumme de la terra come Adamo ma da una bella costola pulita di sua carne (« No’ insìo de li piede, che stesse sotto li piede dell’omo, ma essere compagna dell’omo ») e nel mezzo del Paradiso terrestre; 2) Dio non vietò ad Eva di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, anzi voleva che lo facesse, il divieto fu rivolto solo ad Adamo e solo lui fu « cazziato » quando lo infranse (nessun accenno all’intervento del serpente); 3) Eva poteva quindi restare nel Paradiso terrestre ma per amore preferì seguire Adamo nel suo esilio; 4) tant’è che quando « si giunge » all’uomo sta allegra come nell’Eden e desidera comunicargli quest’allegrezza. 5) Cristo essendo come suo Padre ha amato e preferito le donne :  



























Ora notate. Cristo, per reverentia de la matre, sempre fu propicio delle donne. Non sapite vui che Cristo sempre andava a mangiare in casa de Marta, e pò pigliao amicecia con Maria Matalena, che lle gente stava stupefatte vedendo che Cristo se lassava toccare da la Matalena ?  

1   Giuliana Vitale, La Sagax matrona tra modello culturale e pratica quotidiana, in Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Salerno, Carlone, 2002, pp. 139-208. 2   Romeo de Maio, Donne e Rinascimento. L’inizio della rivoluzione, Napoli, esi, 1995. 3   Cfr. Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, Milano, Adelphi, 20022, pp. 121-140. 4   Antonio Altamura, Napoli aragonese nei ricordi di Loise de Rosa, Napoli, esi, 1971, (pp. 219-222), p. 219. Il volume contiene anche due cronache, sulla base del manoscritto 913 della Bibliothèque de France, fonds italien.

tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 235 E se questa sua favola non fosse di sua invenzione ma l’elaborazione di qualche detto corrente tra le donne ? Comunque sia, potevano nascere queste libere e fantasiose associazioni di idee tra gli incolti per controbattere i concetti repressivi della Chiesa. I ragionamenti di umanisti insigni che respingevano l’interpretazione della Genesi come storia del peccato originale – perché era assurdo che Dio avesse vietato l’accesso al discernimento tra bene e male – avevano più forza persuasiva ? Che Loise de Rosa fosse sincero sembra comprovato dalle sue cronache. In particolare colpisce il suo ritratto della regina Giovanna II d’Angiò, tanto bistrattata dalla storiografia tra ’800 e ’900, ma presentata dal suo contemporaneo (al servizio di una principessa aragonese) come una regina accorta e saggia, di fronte a tanti uomini traditori :  





Auderrite la bella novella che tutti chiste deventaro inimice a la regina : prima lo papa, e po’ tutti li signuri che la sua magestate aveva libberate, e tutti li napoletane e omn’omo, e essa sola fo sì savia che potte e sappe di più che tutti li nimici suoi. 1  

Ma le donne, se non vivevano nell’ambiente ostile che si potrebbe immaginare, cosa potevano fare in pratica ? Finora i testi hanno reso testimonianze confuse.  

b. I versi di Luigi Tansillo (1510-1568) Non è facile trovare tracce della vita sociale in una tradizione poetica convenzionale come quella dell’epoca rinascimentale. Qualche cosa forse si può ricavare da Luigi Tansillo, uomo d’armi e di lettere, il cui rango stava « di mezzo » tra l’aristocrazia titolata e il Popolo civile del Regno. Familiare del famoso Viceré di Napoli Don Pietro di Toledo, egli ne frequentò la Corte. Intanto sono passati quasi 50 anni dalla prosa di Loise de Rosa e Tansillo non gode della stessa libertà di espressione. La vicenda del poema Il vendemmiatore, che ebbe un primo successo strepitoso nel 1532, viene a ricordarci che a metà del secolo xvi la cultura fu messa sotto sorveglianza in modo drastico e bigotto, non solo sul piano della dottrina religiosa ma anche dell’erotismo. Con Paolo IV il poema fu messo all’indice dei libri proibiti per licenziosità. Tansillo era stato ispirato dai vendemmiatori del Nolano2 ai quali la consuetudine concedeva di lanciare ingiurie grossolane e salaci a tutti quanti, perfino a uomini e donne anche altolocati … Ma chi volesse trovare spunti licenziosi in Tansillo incorrerebbe tuttavia in una forte delusione. Ecco un esempio massimo delle sue allusioni :  





Prima che ’l tempo, vie più d’Ercole forte, / Uccida i pensieri vostri, e la beltade / Ne porti via per farne dono a Morte, / Cogliete i frutti de la verde etade ; / Aprite al bel desir le chiuse porte, / Cacciandone di fuor la crudeltade, / Che le vostre bellezze in guardia tiene, / E non vi fa gioir di tanto bene ! 3  



In effetti, l’influenza del rinnovato rigore ecclesiastico riguardo al peccato della carne e al disciplinamento sociale per evitarlo, iniziato a metà ’500, non può che alla lunga avere modificato i rapporti di genere, ma come e in che misura ? Conosciamo scritti teorici e misure di repressione senza saper molto del comportamento e dei pensieri sulla questione di uomini e donne comuni. 4 La Chiesa non aveva ancora vinta la battaglia in questo  

1

  Ivi, p. 61.   Cfr. Ciro Rubino, Tansilliana, la vita, le poesia e le opere di Luigi Tansillo, Napoli, Istituto Grafico editoriale 3   Ivi, p. 135. italiano, 1996, pp. 125-139. 4   Sull’argomento in generale sono molto interessanti i recenti volumi di Daniela Lombardi, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi, Bologna, Il Mulino, 2008 ; Giovanni Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Roma-Bari, Laterza, 2008 con l’ultimo capitolo dedicato a Napoli ma nel periodo 1600-1656 ; Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Roma-Bari, Laterza, 2008. 2





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campo nel foro interiore come dimostrano i versi del Tansillo. D’altronde la sua poesia non celebra solo l’amore ma esprime anche una grande simpatia umana, perfino quando parla dei nemici in guerra o dei popolani. Nel poema Clorinda (1547) indirizzato al Viceré don Pietro di Toledo il nostro descrive le delizie della vita aristocratica nella villa a Chiaia di don Garzia di Toledo. I divertimenti gustati da uomini e donne sono elencati insieme con i nomi delle nobili titolate alle quali tributa gli attesi elogi cortigiani. Ma le stanze da cv a cxiv hanno per noi il merito di evocare scene meno noiose : i signori si godono la sera, e aprendo la porta che dà sul mare, guardano i popolani. Invertito il cerimoniale cittadino in cui la plebe guarda la magnificenza dei nobili, sono quest’ultimi che traggono piacere dallo spettacolo  

di gente infinita che pesca, che nuota per gioco, che amoreggia : Vede alcun la sua donna alla finestra, /come ’l suo amor la giovane di Sesto ; /e, per mostrar persona agile e destra, / s’alza sulle acque, e par che nuoti desto […] Altri, ne’ loro amor più fortunati, /i cui diletti invidia altrui non morde, /siedon nel lido allato ai visi amati, /tra’ quai non è ’l voler forse discorde. /Altri, intorno a sampogna ragunati, /o cetra ch’a di rame le sue corde, /danzano al lume de la luna scalzi, /e fan mille bei giri e mille sbalzi. 1  



L’intera stanza sembra il commento di qualche stampa del ’700 dove si ritraggono alcuni giovani popolani la sera che ballano vicino al mare : quasi a dire che i costumi del popolo non cambiarono tra i due periodi. Si tratta di uno spettacolo idealizzato dal poeta ? Quel che si può notare è la naturale mescolanza tra uomini e donne popolani e, forse, i loro costumi meno rigorosi nell’amoreggiare che il poeta sembra invidiare. Il Tansillo ha scritto anche poesie che s’ispirano di più alla propria esperienza di vita familiare ; qui l’atteggiamento è paternalistico – tradizionale ma con un chiaro rispetto per la soggettività delle donne (i suoi toni si apparentano al Padre di famiglia del Tasso). Nella Balia, scritto per raccommandare l’allattamento materno tra le donne nobili, si rammarica di avere obbligato sua moglie a non farlo « Ma del suo mal fu mia la colpa e ’l danno ; ché contra il suo voler, deliberai/che facesse ella quel che l’altre fanno ». 2 Comandare e riconoscere i propri errori è fatto degno di nota … Tansillo, marito che « governa » a casa, apprezza molto la felicità domestica in compagnia di moglie e figlie, sebbene con un lieve accenno al rimpianto per un erede maschio. Nel poema Il Podere auspica di sedersi a tavola « con le care figlie, e, se ’l Ciel vole, / spero coi figli » e « di mia man fra lor parta e divida/ l’uve e le poma ; e, s’io mi desti o corche, / con loro io mi trastulli, e scherzi e rida » 3 oppure evoca « e quando i dì sono freddi o versan pioggia, / con la penna io, le femine con l’ago, / passiam quelle ore in cameretta o in loggia ». 4 Ma questa immagine di vita familiare era comune a quei tempi ? Esisteva un altro modello più sinistro che il poeta disapprovava :  

































E se volete a villa ricovrarvi, / vi bisognan degli agi e de’ diporti ; / ch’a le donne non sia duro lo starvi./Voi non sete de’ padri e de’ consorti/ alle femine loro aspri e selvaggi, / ma de’ gentili e nati ne le corti/ […] Non imitate alcun cui non incresce, /pur ch’ei goda, ch’altri pianga e crepi :/ lascia in prigion le donne, e di casa esce. / Non son le donne bestie da presepi ! /Bisogna che piacer lor si procuri, /ch’altro vedan talor, ch’arbori e siepi. 5  





Di nuovo siamo indotti a considerare la possibilità di diversi stili simultanei, piuttosto che avanzare un’immagine stereotipata della famiglia. 1

  C. Rubino, Tansilliana …, cit., p.170. 3   Ivi, p. 184.   Ivi, p. 195. 4 5   Ivi, p. 196.   Ivi, p. 192. 2

tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 237 Ma gli accenni alla vita quotidiana sono molto più numerosi nel Ritratto o modello delle grandezze, delizie e maraviglie della Nobilissima Città di Napoli, di Gioan Battista Del Tufo. 1 Ecco un poeta o piuttosto un versificatore il cui lunghissimo poema (12701 versi) si presenta composto sull’invito di nobildonne milanesi. Predomina qui uno spinto sentimento campanilistico che è convenzione giocosa, e che in fondo ci aiuta a capire quali sono i pregi che s’aspettano le nobili signore dalla vita di città. L’autore finge spesso che le sue amiche milanesi venute a Napoli si godono le sue tante delizie, come le passeggiate in ville famose come Poggioreale : 2  

Ivi a spasso ad ognor van sempre tutti/quei cavalier, le donne e le donzelle /a gustar l’acque e quei suavi frutti. / Qui vedreste una schiera/d’uomini e donne intiera/intorno a cento mense alte e spaziose, /carche di varie cose. 3

Nella sua guida « turistica » le donne escono soprattutto con i mariti o in brigate. Per esempio le spose insieme ai mariti si godono il piacere delle famose stufe e dopo, « senza starvi a pensare/così polito l’un, l’altra ben scarca/manda il marito al mol per una barca,/e con chi sa cantare/se ne vanno a Posilipo a cenare ». 4 Oppure uomini e donne si uniscono nei balli – « spiccano un salto, quasi due bracce in alto » – ottima occasione per tentativi di seduzione. « Vedreste allor le donne,/che sotto le lor gonne/muovono, ballando, quei lor pié gentili/ da infiorir nuovi aprili,/che con gli sguardi e ’l rimirarvi in giro,/a bell’industria ed a grand’arte, allora/non sol più d’un sospiro/ma ’l cor dal petto vi trarebbon fuora ». 5 A volte le donne rientrano nel loro ruolo di spettatrici quando gli uomini esibiscono la loro qualità sociale di nobili. Peculiare uso napoletano pare al Del Tufo quello dei cavalieri di uscire ogni giorno per via Toledo o le vie dei loro seggi:  















Ritornando, la sera, a veder quelli/cavalier nostri, sempre a una stess’ora,/ sovra i cavalli grazïosi e belli, chi in valdrappa e chi senza, ed uscir fuora/al solito passeggio altieri e snelli/a la presenza de la lor signora./…. che, all’udir di quel ballo, /che sotto il cavalier fa’l suo cavallo, corre alla gelosia la donna allora/con a pena di fuora/mostrar, mirando, l’inarcate ciglia. 6

A Carnevale le donne nobili guardano sfilare le « imprese » dai balconi. Nel caso dei giochi in piazza – giostre o di palloni – vi assistono, forse da palchi. Alla festa di San Giovanni dei teli danno ombra alle strade, ricoperte di fronde e fiori per il passare delle donne e dei signori che ammirano tanti addobbi ed apparati, tutti ispirati a soggetti della mitologia greco-romana, fonte magari di acculturazione per le donne prive di istruzione classica. Gli artigiani spruzzano acque profumate al loro passaggio … Alla festa di Sant’Antonio invece si nota la mescolanza di uomini e donne di tutti ceti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma escono mai le donne da sole ? Sì. A più riprese Del Tufo considera che le gentildonne possono fare personalmente la spesa di casa, in cocchio, in portantina ma anche semplicemente a piedi. Ribadisce spesso che « a Napoli, da tutti, signori o artigiani, che sian le donne accompagnate et sole, ciascun di loro par che l’adori e cole ». 7 Va ricordata l’insistenza messa sulla gentilezza degli artigiani e dei pescatori e delle loro  









1   Scritto nel 1588 e rimasto manoscritto per tre secoli il Ritratto o modello delle grandezze e maraviglie della nobilissima città di Napoli è consultato qui nell’edizione a cura di Olga Silvana Casale e Mariateresa Colotti, Roma, Salerno, 2007. 2   Sui giardini cfr. Anna Giannetti, Giardini napoletani del Cinquecento, in *Pomeriggi rinascimentali, a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Serra, 2008, pp. 33-50. 3   G. Del Tufo, Ritratto …, cit., p. 19. 4 5   Ivi, p. 207.   Ivi, p. 201. 6 7   Ivi, p. 103.   Ivi, p. 269.

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mogli, nonché sulla cortesia usata da tutti i venditori. L’aria di Napoli ingentilisce il più rozzo villano. Del Tufo ha forse dimenticato la terribile rivolta del 1585, avvenuta tre anni prima del suo scritto ? Una volta però tradisce la violenza insita nei rapporti sociali, diretta contro alcune donne:  

Così, quando si sa qualche mal viva, / già de l’onor suo priva, /subito corre il capo-piazza, allora, / al tempio santo e dice / a quei che n’han pensier de l’infelice /misera peccatrice / che, pria che vadi fuora / al publico voler di chi ne brama, qui con amor li chiama /ad acquistar d’onor novella fama 1

Attraverso l’organizzazione del seggio del Popolo, la ragazza che aveva perso l’onore veniva rinchiusa nel Conservatorio di S. Maria del Rifugio. Ma Del Tufo sembra determinato a passare in rassegna solo le dolcezze della vita napoletana suscettibili di sedurre le sue amiche. Dalle specialità culinarie spesso approntate da donne (le pasticciere nostre e ciancioselle), approda alle cantilene delle balie, passando, con un realismo inaudito nella scrittura, alle descrizioni del parto affettuosamente assistito dalla « mammana » napoletana :  





Spriemme, commare mia, spriemme forte ; /spriemme, signora mia così assetata, /ca mo mo sì figliata ! / Su, n’autra spremmutella, /ca tutta in mano aggio la capuzzella ! 2  





Questo quadro idealizzato, a volte sdolcinato, ha la stessa qualità dei versi del De Rosa. Molte frasi di Gioan Battista Del Tufo risuonano come echi di frammenti di conversazione che potrebbero tutt’oggi essere sentiti nei vicoli della città. Egli non esprime assolutamente tutta la realtà napoletana che aveva tanti aspetti violenti. La sua nostalgia evoca solo le forme più affettuose delle relazioni, e scaturiscono dal tessuto delle relazioni femminili. Conclusione Questo breve itinerario tra le spie e le tracce del comportamento di « genere » nel Mezzogiorno non poteva che confermare il nostro punto di partenza, ovvero i silenzi degli scrittori dell’epoca sugli aspetti realistici del comportamento. Ma niente può colmare il silenzio delle donne stesse. L’analfabetismo è stato grande nella società meridionale fino ad epoca recente. Nel ’700, si notava ancora analfabeta una sorprendente proporzione di donne in città nel ceto degli artigiani e mercanti. Solo il ceto nobile alfabetizzava le sue donne con sollicitudine, atteggiamento largamente dimostrato già nel periodo rinascimentale in cui le giovani ragazze di queste famiglie ricevevano tutte una prima istruzione elementare, spesso nei conventi. 3 L’istruzione « professionale » era loro preclusa, come di fatto lo era ai maschi dello stesso ceto che non sceglievano una professione in cui fosse richiesta. Ma le donne sapevano leggere e scrivere, e il controllo che si esercitava sul loro destino non era tale nelle attività quotidiane da precludere loro la scrittura. Le donne nobili del rinascimento semplicemente non hanno desiderato scrivere. Gli uomini, più numerosi a scrivere, hanno prodotto ben poco che non fosse modellato a priori da convenzioni di scrittura e di pensiero.  







Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” La ricerca sulla storia del genere nel periodo rinascimentale in Italia meridionale si ritrova priva di documentazione diretta. Dal confronto tra trattati filosofici, cronache ed opere letterarie si possono ricavare informazioni contradditorie, o comunque ambigue che segnalano il divario tra rifles1

2   Ivi, p. 399.   Ivi, 147-151.   Si rimanda al volume Sulle vie della scrittura. Alfabetizzazione, cultura scritta e istituzioni in età moderna, a cura di Maria Rosaria Pelizzari, Napoli, esi, 1989. 3

tracce e spie letterarie di storia delle donne del regno di napoli 239 sione teorica e realtà sociale. Malgrado la tendenza all’idealizzazione, sono forse i poeti quelli che permettono di cogliere meglio il vissuto e i comportamenti quotidiani. Mentre l’analisi di queste testimonianze maschili lascia un’immagine poco chiara dei rapporti tra uomini e donne, dimostra che la cultura scritta del tempo non era in grado di riflettere la propria realtà sociale. Research on gender history in Renaissance South Italy lacks very much direct documentation. A confrontation between philosophical treaties, cronicles and literary works gives contradictory or ambiguous information that show the gap between theoretical thought and social reality. Though poets are bond to idealize they best succeed in drawing us near ordinary behaviour of these times. In the end, from the analysis of men writings we get only a blurred picture of gender relationship, and a strong conviction that the learned culture of that time was not able to reflect its social context. Les recherches d’histoire du « genre » en Italie du sud à la Renaissance se trouvent très dépourvues de documentation directe. Une comparaison entre les traités philosophiques, les chroniques et les œuvres littéraires nous donne des informations contradictoires ou ambiguës qui denotent le clivage entre la réflexion théorique et la réalité sociale. Malgré leur tendance à l’idéalisation ce sont les poètes qui sans doute nous approchent le mieux au vécu des comportements quotidiens. Tandis que l’analyse de ces témoignages masculins ne transmet qu’une image très floue des rapports entre hommes et femmes, elle montre que la culture du temps n’était pas apte à refléter son contexte social réel.  



No existe documentación directa que facilite la investigación de la historia del género en la Italia meridional del período renacentista. Del cotejo de tratados filosóficos, crónicas y obras literarias, se obtienen informaciones a veces contradictorias y otras ambiguas que revelan la separación existente entre la reflexión teórica y la realidad social. Tal vez sean los poetas, a pesar de su tendencia a la idealización, quiénes mejor permiten comprender lo “vivido” y el comportamiento cotidiano. Pero el análisis de estos testimonios masculinos nos ha dejado una imagen poco clara de las relaciones entre hombres y mujeres, demostrando que la cultura escrita de la época no era capaz de reflejar la propia realidad social. Die Forschung zur Genre-Geschichte der Renaissancezeit in Süditalien ist ohne direkte Dokumentation. Aus dem Vergleich zwischen philosophischen Abhandlungen, Chroniken und literarischen Werken erhält man widersprüchliche, oder zumindest zweifelhafte Informationen, die auf den Unterschied zwischen theoretischen Überlegungen und der gesellschaftlichen Realität hinweisen. Trotz der Tendenz zur Idealisierung sind es vielleicht die Dichter, die es am besten ermöglichen das tägliche Erleben und Verhalten zu erfassen. Während die Analyse dieser männlichen Zeugnisse ein wenig deutliches Bild der Verhältnisse zwischen Männern und Frauen hinterlässt, zeigt sie jedoch, dass die geschriebene Kultur dieser Zeit nicht in der Lage war, die eigene gesellschaftliche Realität widerzuspiegeln.

GESTUALITÀ ED ESPRESSIONE. CIVIL CONVERSAZIONE E SILENZIO. LA SCRITTURA Mercedes López Suárez

L

’in teresse per la donna rappresenta uno dei filoni più fecondi della cultura rinascimentale dal quale deriva una ricca documentazione di linee ideologiche e forme testuali diverse che mettono in rilievo il suo protagonismo. Si tratta di un fenomeno che delinea una complessa mappa della scrittura femminile o ‘donnesca’ che oramai richiede una strutturazione e catalogazione in cui vengano conciliate tutte quelle sfaccettature di cui si compone questa prolifica produzione cinquecentesca di ‘genere’ e nella quale vengano anche considerati, entro i limiti del secolo, l’evoluzione ideologica e i nuovi sbocchi derivanti. In termini molto generici, possono essere enucleate due linee essenziali, entrambe destinate alla conformazione di una figura muliebre fondata su di un concetto di virtù specificamente femminile. E cioè, da una parte, a) una produzione egemonica di scrittura maschile sulla donna (o valutazione di questa dipendente dall’uomo) con una diversità di tipologie interne e la cui forma sarà il trattato o il dialogo. Tra queste, e per quanto riguarda il nostro lavoro, vogliamo rilevare due orientamenti e cioè, testi specificamente laudativi che in netta opposizione alla tradizione misogina, difendono la dignità della donna proponendo la sua superiorità antropologica, psicologica od intellettiva rispetto all’uomo, e, testi che contrariamente, tendono a perpetuare l’inferiorità della condizione femminile. Spiccano tra quesi ultimi, e tra quelli appartenenti al genere delle ‘institutiones’, quelli fondati su schemi religiosi, quale il trattato del Vives e più tardi quello del Dolce, formalmente più articolati come precettistica educativa destinata a regolare, sotto quest’impostazione religiosa, l’esistenza pubblica e privata della donna. La seconda delinea, b) una produzione di scrittura elaborata da donne 1 che aspira, attraverso la sua progressiva affermazione artistica, alla conquista del territorio della cultura, patrimonio di secolare esclusività dell’uomo. L’obiettivo sarà quello di un riconoscimento delle capacità e autonomia intellettuali femminili il che comporterà anche una considerazione sociale della donna in termini di uguaglianza rispetto all’altro genere. In questo caso, la forma prevalentemente adottata è la poesia con una graduale apertura che, dai canzonieri, porta verso altri generi letterari poetici fino allo sbocco, ormai sul finire del Cinquecento, nella prosa, e cioè, in una produzione di trattati sulla propria ‘eccellenza’ con la definitiva appropriazione di quel territorio maschile e dei suoi valori. Siamo così di fronte al ribaltamento rivoluzionario di una scrittura, non soltanto della donna che parla di se stessa, ma anche di una produzione letteraria della donna ‘sull’uomo’, inaugurando in questo modo una linea, di estrema modernità (nonchè di ‘vendetta’), di vituperio maschile. Nella linea di scrittura maschile, il punto di riferimento paradigmatico è costituito da Il Libro del Cortegiano (1528), uno dei primi trattati scritti in volgare sensibili alla condizione femminile e la cui fama, sotto questo profilo, annullerà quella precedente del Della 1   Si vedano a questo proposito le pagine di Luciana Borsetto, Narciso ed Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento : esemplificazioni ed appunti, in *Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del xvi secolo, a cura di Marina Zancan, Venezia, Marsilo, 1983, pp. 171-264.  

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eccellenza e dignità delle donne (1525) di Galeazzo Flavio Capra. 1 Nel Cortegiano l’esaltazione del ruolo della donna nella società civile si realizza attraverso la costruzione di un nuovo modello di femminilità : la perfetta donna di palazzo e non più una regina o una donna di famiglia. Con questa precisione tipologica, enunciata da uno degl’interlocutori del dialogo, il Castiglione prende le distanze rispetto ad altri trattati o modalità sulla condizione femminile preesistenti puntando probabilmente su due testi ancora precedenti e di gran fama come quello umanistico pedagogico del Vives2 e nella propria tradizione nazionale in volgare, quello anch’esso dialogato e ‘cortegiano’ cioè, gli Asolani del Bembo. Ma nel Cortegiano, la forma dialogica comporta anche la funzione (originale) di riunire ed articolare opinioni contrastanti sulla materia femminile, per cui la concitazione delle diverse angolature della tradizione culturale misogina con quella linea laudativa di difesa della donna, costituisce un materiale di partenza su cui elaborare un nuovo modello di femminilità : la donna di corte affiancata al modello del perfetto cortegiano. Sarà una figura muliebre specifica per una realtà concreta come quella della corte e si formerà attraverso la parola orale (trascritta) degl’interlocutori partecipi al dialogo che si svolge in un ambiente di civitas e cioè nelle stanze private del palazzo della duchessa. Lo spazio fisico acquisisce anche un valore simbolico per dare rilievo al protagonismo femminile in quell’ambiente. Da ciò, la disposizione a cerchio dei partecipanti, come ha sotolineato la Zancan, 3 dove appunto il centro viene occupato dalla duchessa. Il cerchio è dunque un primo riferimento non solo al protagonismo della donna, ma alla sua perfezione ed alla sua dignità come giustificherà l’Agrippa (De nobilitate et praecellentia foeminei sexus, 1529) 4 ricollegandosi al topos, espunto dalle Sacre Scritture, della creazione divina per cui Dio ha creato il mondo come un cerchio di perfezione assoluta e dimora perfetta destinata alla donna, perchè lei è regina di tutte le creature. Presenza centrale, sì, ma limitata nell’uso della parola, cioè impedita nel senso di proporre o creare un discorso, come giustamente ha anche rilevato la Zancan, o per lo più, atta soltanto a guidarlo od a concluderlo. Perchè la parola dal punto di vista naturale è un dono divino comune alla specie umana (così spiega anche l’Agrippa), ma l’eloquenza, e quindi l’artificiosità giacchè regolata da principi retorici, spetta soltanto all’uomo, come sosterrà poi il Tasso (Discorso della virtù femminile e donnesca) 5 in questa  



1   Citerò dall’edizione moderna, Galeazzo Flavio Capra, Della eccellenza e dignità delle donne, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 1988. È un breve trattato che condensa, nella sua esaltazione della donna una tradizione di riferimenti culturali diversi (letterari, filosofici, giuridici e medici) sulla quale elabora la sua difesa del sesso femminile. Nel proemio confessa come « ho voluto questo mio picciolo libretto in prosa volgare scrivere, acciò meglio che da ognuno fusse inteso e se non per altro, almen per la novità della materia non fusse disgradevole ». La novità della materia e specialmente il fattore linguistico, spiegano il successo iniziale di questo trattatello. 2   De Institutione foemina christianae, 1523, rivoluzionaria in quanto propone che la donna possa essere dotta ed istruita, in opposizione quindi a quell’opinione misogina che proclama soltanto una virtù femminile basata nella condanna all’ignoranza. Citerò dall’edizione spagnola, Juan Luis Vives, Instrucción de la mujer cristiana, traducción de Juan Justiniano, introducción, revisión y anotación de Elisabeth Teresa Howe, Madrid, Fundación Universitaria Española, Universidad Pontificia de Salamanca, 1995. Il trattato si struttura come compendio esistenziale della donna, quindi come itinerario vitale nel quale si considerano i tre stati della donna : nubile, maritata e vedova. Riconosciuto come la prima opera scientifico-teorica sull’educazione femminile. 3   Marina Zancan, La donna nel “Cortegiano” di B. Castiglione. Le funzioni del femminile nell’immagine di corte, in *Nel cerchio della luna ..., cit., pp. 13-93. 4   Uso l’edizione Henri Corneille Agrippa, De nobilitate et praecellentia foeminei sexus. Edition critique d’après le texte d’Anvers 1529. Préface de R. Antonioli, étblissement du texte para Ch. Béné, notes de R. Antonioli, Ch. Béné, M. Reulos, O. Sauvage, Genève, Librairie Droz, 1990. Si veda p. 53 : « Nam cum mundus ipse, velut intgerrimus aliquis perfectissimusque circulus a Deo creatus sit, oportuit illum in ea particula absolvi quae omnium primim cum omnium ultimo unitissimo quodam nexu in ses copularet ... Mulier autem fuit postremum Dei opus introducta a Deo in hunc mundum, velut ejus regina in regiam sibi jam paratam ... ». 5   Si veda l’edizione moderna Torquato Tasso, Discorso della virtù femminile e donnesca, a cura di Maria Luisa Doglio, Palermo, Sellerio, 1997.  











gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 243 linea di condizione di inferiorità femminile e di persistenza della dissimiglianza tra i due generi. La parola della donna nel contesto di una ‘civil conversazione’, è legata alla funzione che le è stata assegnata socialmente : nel Cortegiano quindi, alla funzione di ‘intertenere’ e perciò di svolgere un discorso limitato. In effetti, il discorso della donna di palazzo è destinato soltanto al cortegiano (« bisogna che la donna di palazzo, oltre al giudicio di conoscere la qualità di colui con cui parla » iii, vi), ascoltatore e ‘controllore’ del contenuto e di come questo viene enunciato. La sua espressione è regolata oltre che dalle norme estetiche proprie dell’espressività galante di corte (fuggire l’affettazione, dominare l’uso della gravità e piacevolezza : « Non vada mescolando nei ragionamenti piacevoli e da ridere cose di gravità ») e dalla condizione propria del sesso femminile, cioè, dalla ‘molle delicatura’, dalle virtù morali senza ‘domestichezza intemperata’, non deve dir parole disoneste, ma anche dalla modestia, pudicizia, ed onestà. Trasgredire questi principi (si veda dopo l’atteggiamento poetico della Terracina), significa la perdita della reputazione e dell’onore. 1 Il discorso della donna di palazzo è perciò occasionale ed effimero, non destinato alla conservazione attraverso la scrittura, « ché la scrittura non è altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l’uomo ha parlato. E perciò è ragionevole che in questa si metta maggior diligenzia per farla più colta e castigata » (Cortegiano i, xxix). Verso la fine del secolo, nel 1574, la Civil Conversatione di Stefano Guazzo, a proposito della conversazione tra uomini e donne, dichiara come « conviene dall’incontro alle donne considerare, che non sarebbono gli huomini così pronti a honorarle, s’esse parimente non usassero nel conversare di quei modi, che convengono allo stato loro, et non ponessero studi nell’aggradire a gli huomini, al che fare è principalmnte necessario l’astenersi di una di quelle cose, dalle quali comunemente non si astengono mai, voglio dire dell’abondanza delle parole ». 2 Da questi esempi riferiti, e certamente non esaustivi, si desume che la parola nella donna è esclusa dal dominio della scrittura quindi dall’ambito intellettivo, e perciò riservata all’oralità effimera. E, dall’altra, si osserva un forte contenimento nell’uso della parola, per la sua naturale disposizione al parlar abbondantemente specialmente nell’ambito pubblico. Il Vives, per esempio, raccomanda nella sua pedagogia come « del bien hablar no tengo cuidado, porque como lo mejor del agua es no tener color ni sabor, así lo mejor del habla de la doncella es que sea pura y sin ningún artificio. Porque no es cosa fea a la mujer que callara ... alabo el silencio como más útil al vivir honesto y máxime la doncella, sino cuando o el callar perjudica a su bondad o el hablarle aprovecha » (p. 56). La donna è perciò condannata al silenzio 3 e su questo insistono diversi trattati dell’epoca. Ricordiamo come addirittura, Sperone Speroni elabora il Dialogo della dignità delle donne tra Michele Barozzi e Daniele Barbaro (1542), in cui « si disputa non la causa della galanteria ma quella della società morale », ‘in absentia’ della donna. Questa risulta soltanto una presenza evocata e le si attribuisce, come rievocazione da parte degl’interlocutori maschi, la professione di un discorso di inferiorità. È praticamente un trattato sull’ubbidienza femminile. La ‘protagonista’ Beatrice degli Obizzi, evocata secondo gli schemi della più fedele tradizione misogina, non ‘favella’, riducendo il suo ruolo all’ascolto. 4  



























1

  Si veda Il Cortegiano, Libro iii, cap. v.   Stefano Guazzo, La Civil Conversatione del Sig. Stefano Guazzo Gentilhuomo di Casale di Monferrato. Divisa in Quattro Libri. In Brescia, appresso Tomaso Bozzola, mdlxxiiii. Vid. Libro ii, p. 111b. nella conversazione delle donne sostiene ancora il Guazzo, « si truova principalmente quell’otio honesto » (p. 115a). 3   Cfr. Giorgio Panizzi, Pedagogie del silenzio. Tacere e ascoltare come fondamenti dell’apprendere, in *Educare il corpo educare la parola nella trattatistica del Rinascimento a cura di Giorgio Patrizi e Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 415-424. 4   Per il Guazzo, testo di attualità, e sgombro « de le pedate de gli antichi filosofi », perché non sono però medesi2









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In questa linea di tradizionale misoginia, più o meno accentuata, Lodovico Dolce, nel suo Dialogo della Institution delle donne (1547), in chiara dipendenza da quello addottrinante del Vives (che riavrà grande successo nel periodo controriformistico), scrive : « Quanto al favellar, non lodo, che ella usi molta copia di parole ; tra le Donne non che fra gli huomini, non mi piace però, che stia mutola ma che poco parli, et consideratamente ne i tempi, et secondo, che verrà l’occasione. Perciochè oltre, che alle Donne generalmente si disconviene usar molta copia di parole, è molto necessario et utile, che nella fanciullezza s’avezzino a favellarer poco : conciosia cosa, che dalla lingua procedano molti mali ». Segue a questa affermazione una lunga disquisizione di reminiscenza ciceroniana sull’organo della lingua, sulla sua naturale collocazione tra il cuore ed il cervello, sul suo essere interprete di entrambi, e sulla necessità che sia governata da quest’ultimo. Di conseguenza, le parole nelle donne, escluse dall’ambito intellettuale, dovranno essere poche, « piene di modestia et di prudenza ... nel chè m’è di caro, che ella sia tenuta da cattivi anzi poco eloquente che da buoni poco honesta ». 1 Da un’ottica laudativa invece, l’Agrippa, ribadendo la superiore facilità espressiva nella donna nei confronti dell’uomo, inveisce contro quei trattati medievali che lodano il silenzio, specialmente quello femminile. Nel Cortegiano, dall’uso della parola, destinata sempre al diletto sia nella donna di palazzo che nel cortegiano, si passa poi alla dissertazione sulle ‘esercitazioni’ del corpo, a quegli « esercizi convenienti a donna /che/ farà con suprema grazia » (iii,vi). Rispetto a questa, Il Magnifico, rifiutando quelli considerati virili (maneggiar l’arme, cavalcare), propone che « quegli convenienti alla donna, si facciano con riguardo » e ‘molle delicatura’. Si tratta perciò di esercizi che rientrano nella sfera artistico-culturale come la danza, il canto o l’esecuzione musicale. Saranno esercitazioni o gestualità realizzate sempre con una tale e modulata armonia che « dimostrino più dolcezza che arte ». Si mette ancora in evidenza come il sapere nella donna di palazzo, si riduce a questa presenza dilettevole e complementare del cortegiano. La saggezza, l’intellettualità, non le è riconosciuta e perciò il suo addottrinamento si limita all’aver « notizie di lettere, di musica, e di pittura, o al saper danzare e festeggiare » (con modestia) (iii,viii). Per quanto riguarda il canto e la musica, nei trattati in lode o di civil conversazione sono stimati come virtù o doti virtuose femminili. L’Agrippa, ad esempio, associa il canto femminile all’eloquenza (una forma di espressività melodica) e si chiede : « Quisse Musicus hanc cantu et uocis amoenitate aequat ? » (p. 80). Il Luigini nel suo trattato, Il libro della bella donna (1554), 2 costruito sulla finzione del sogno in cui si descrive il dialogo mantenuto da una brigata di cinque gentiluomini ritirati in campagna (non più la città), per modellare ancora con la parola la donna ideale, sostiene : « tornando alla Donna, raffermo, che le ha da essere di non poco honore, se di imparare à toccare a Viuola, ó Liuto (che questi due strumenti più mi piacciono) legiadramente non si disdegnerà ». E nell’evocazione della galanteria cortegiana ed esemplare del Bembo negli Asolani, si ribadisce : « O con quanta soavità ci suole gli spiriti ricreare in vago canto delle nostre donne, et quelle massimamente, che è col suono d’alcun concordevole stormento accompagnato tocco dalle loro delicate e musice mani ».  

















































mi « i tempi, gli huomini et i costumi », segna come « essendo adunque il tacere, et l’udire delle cose piì difficili, che siano al mondo ... » (Libro I, p.55v). Ma ricorda anche come il silenzio sia un ornamento delle donne. 1   Lodovico Dolce, Dialogo di M. Lodovico Dolce Della Institution delle Donne. Da lui stesso in questa quarta impressione riveduto, et di più utili cose ampliato, et con la tavola delle cose più degne di memoria, Con privilegio, In Vinegia. Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, mdlx (edizione da cui si cita). 2   Federico Luigini, Il libro della bella donna composto da Messer Federico Luigini da Udine, In Venetia, per Plinio Pietrasanta, mdliiii. È diviso in tre libri e dedicato a Lucrezia Gonzaga e porta prefazione del Ruscelli. È un trattato dialogato in cui viene eletto un giudice al quale spetta di scegliere il modello ideale di donna proposto da ogni interlocutore. (Lib. iii, p. 116v).  







gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 245 Le mani femminili compiono la gestualità dell’esecuzioe musicale e producono una’armoniosa melodia, ma sono anche destinate a esercitare un’altra gestualità appartenente alla sfera del privato : il cucire. Si tratta di un topos di tradizione classicista e ricorrente in questo tipo di trattatistica. Considerato come ufficio manuale e propriamente donnesco, è solitamente vincolato all’ozio domestico. Per questo motivo e per quanto non si tratta di un atto intellettivo, ma meccanico, è simbolo dell’inferiorità femminile. La gestualità manuale veramente intellettuale, è invece quella della mano che realizza la scrittura. La rivendicazione di questa tipologia gestuale diventa allora il simbolo della capacità intellettiva della donna e da ciò si spiega, come vedremo subito, la sua ricorrenza nella produzione letteraria di una poetessa come Laura Terracina che ne farà il fulcro della sua poesia come espressa rivendicazione intellettuale. Le rime della Terracina, spesso svalutate dalla critica moderna per la loro modestia tecnico-artistica, acquistano, alla luce di questi trattati pedagogici o laudativi della donna, il valore di un manifesto a favore della sua capacità intelettuale e della sua legittimazione nella società letteraria. Da questa prospettiva, la sua esecitazione poetica costituisce un discorso denunciativo in cui la scrittura, come abbiamo anticipato, rappresenta la tematica principale ed il simbolo di tale scopo. E di fatto, pur mantenendosi nell’ortodossia di un’espressività petrarchista, la sua lirica non aderisce alla forma canzoniere come tentano altre poetesse coeve (Isabella Morra o Gaspara Stampa, per esempio). Si tratta invece, considerando 1 globalmente la sua creazione poetica, di un insieme di composizioni occasionali ed encomiastiche di funzionalità galante-comunicativa praticata all’interno di quell’ambiente letterario della Napoli di metà secolo di cui fa parte la Terracina. Un tipo di prassi poetico-sociale che dal 1545, con grande successo, i Giolito avevano incominciato a sfruttare attraverso la formula editoriale delle antologie liriche nelle cui variegate morfologie testuali troveranno pure il loro spazio alcune poesie selezionate della Terracina. Proprio in quello stesso anno, i torchi dei Giolito stampano il trattato del Dolce, mentre nel 1548 mandano alla luce la prima edizione delle rime della poetessa alle quali seguiranno l’anno seguente, le sue Terze Rime o Discorso sulle stanze dell’Ariosto, insieme al trattato del Domenichi La nobiltà delle donne. Si delinea così un quadro editoriale di profilo “donnesco” costituito sia da poesia scritta da donne, sia da una trattatistica di mano maschile. In altre parole, di un materiale alla moda e di consumo incentivato dall’attività editoriale di Gabriel Giolito non privo, tra l’altro, di connessioni interne fra le diverse pubblicazioni che la configurano. La dedica allegata al trattato del Domenichi, scritta di sua mano e destinata a Vincenzo Belprato, conte di Aversa, presenta in effetti, lo stesso ‘mittente’ e lo stesso dedicatario della dedica di cui era munita la prima edizione delle rime di Terracina (1548). Su questa dedica torneremo più avanti, ma intanto segnaliamo che in quella della Nobiltà delle donne, sfilano una serie di personaggi quali il libraio napoletano Marcantonio Passero, che oltre al d’Aversa, sono pure gli assidui interlocutori riscontrabili nelle rime della poetessa. E ancora, in questa relazione del Domenichi spicca con speciale rilievo ed evidente intenzionalità pubblicitaria, nonchè riconoscenza, la figura del suo editore, Gabriel Giolito, il quale ristamperà negli anni successivi il trattato del suo collaboratore :  



hoggimai conosciuto affettionatissimo, et devoto delle Donne, per tutte le sue costumate ationi specialmente per procurare (ogni) che alle sue bellissime stampe escano in luce et nelle mani del mondo le lodi del sesso donnesco : di che a lui ne vien honore tuttavia, et guiderdone anchora da quello.  

1   Non a caso, L. Maroi considera la Terracina come una delle « precorritrici dell’odierno femminismo, proclamatrici dei diritti della donna e della eccellenza e dei meriti suoi nei domini dell’intelligenza ». Cfr. Lina Maroi, Laura Terracina. Poetessa napoletana del secolo xvi, Napoli, Francesco Perrella e C. Società editrice, 1913, p. 79.  



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Al Giolito è quindi riconosciuto il monopolio di un filone laudativo delle donne in cui l’inserimento della produzione poetica della Terracina può significare una diversa angolatura del suo poliedrico programma editoriale donnesco. Perchè appunto, non si tratta di un canzoniere, ma di una scrittura femminile ‘dall’interno’, e cioè di una raccolta di testi lirici che sin dalla prima pubblicazione, mostrano l’intelaiatura di un io femminile che de-scrive ‘l’industriosa fatica’ volta alla conquista di un territorio tradizionalmente monopolizzato dall’uomo. Ed è proprio questo io femminile ‘scrivente’ (il locutore reale, secondo L. Borsetto 1) proiettato anche nello sperimentalismo di un ‘io’ maschile esercitato in certe composizioni della prima edizione e, principalmente nel Discorso sopra le Stanze ai commenti dell’Ariosto, a conferire l’unità testuale di un copioso corpus poetico riedito poi diverse volte con modifiche ed altre aggiunte. 2 In più, si tratta di un io scrivente che assume la responsabilità di tracciare un itinerario di autoaffermazione letteraria nutrendosi ideologicamente nel serbatoio di quella trattatisca femminile laudativa, la quale, affermatasi già nei primi anni del Cinquecento, è atta a combattere l’esclusività di una cultura maschile. A questa tendenza laudativa femminile appartiene anche uno dei più rilevabili prodotti editoriali dello stampatore Giolito : l’edizione di enorme successo, dell’Orlando Furioso stampato qualche anno prima (1542). Per la Terracina si tratterà di un materiale modellico nel quale troverà il perfetto congiungimento tra una scrittura maschile altamente sancita, quindi un modello stilistico o di stile ‘virile’, ed un contenuto laudativo o in difesa delle donne, oltre ad una galleria di modelli femminili, reali e fittizi che sintetizza in modo programmatico, quell’endecasillabo ariostesco « Le donne son venute in eccellenza » (Canto xx, v. 1 ottava 2). Reciprocamente, la rielaborazione stilistica e di contenuto del materiale ariostesco da parte della poetessa, raggiungendo a sua volta un enorme successo, 3 attiverà e consoliderà la fama del Giolito nelle sue edizioni del Furioso. 4 Partendo da questa linea di tradizione laudativa, ma attenta anche alla nuova svolta e ridimensionamento del ruolo sociale e culturale della donna emanato dallo spirito controriformista, la poetessa tesse il processo di legittimazione intellettuale della femmina. Quindi, il suo discorso sarà da una parte avallato da testi celebrativi, e dall’altra, da quei trattati o ‘institutiones’ che regolano il suo comportamento. Nel trattato del Capra, Della eccellenza e dignità della donna, cronologicamente tra i primi scritti celebrativi in volgare ed intriso, tra l’altro, di materiale ariostesco, la Terracina riscontra una chiara difesa della superiorità della donna ancorata al riconoscimento della sua saggezza come uno dei beni dell’intelletto che, oltre ad altre virtù, le appartengono. Perchè come specifica il Capra :  







1   Luciana.Borsetto, Narciso ed Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento. Esemplificazioni ed appunti, in *Nel cerciho della luna, cit., pp. 171-263. 2   Rimando alla completa relazione elaborata da Luigi Montella, in La poesia di Laura Terracina e la scrittura “al femminile”, in *I Gaurico e il Rinascimento. Atti del Convegno di Studi (Montecorvino Rovella 10-12 aprile 1988), a cura di Alberto Granese, Sebastiano Martelli, Enrico Spinelli, Centro di Studi sull’Umanesimo Meridionale, Università degli Studi di Salerno, 1992, pp.429-430. Per la prima edizione delle liriche della Terracina, si veda Rime de la Signora Laura Terracina. Con Privilegio. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, mdxlviii. Riporta un ritratto della poetessa. 3   Rimando per un’analisi approfondita del Discorso al saggio di Paola Cosentino, Sulla fortuna dei poemi ariosteschi : Il Discorso sopra al principio di tutti i canti d’Orlando Furioso di Laura Terracina, « Collection de l’écrit », 10, (2005), pp. 133-152. 4   Nella Spagna la fama della Terracina si diffonde attraverso la via epica e dal fervore per l’Ariosto. A modo di esempio, possiamo citare il Lope de Vega che nella Viuda Valenciana, ricorderà espressamente la Terracina come modello di bella scrittura femminile. Diversi sono anche i riferimenti nel Laurel de Apolo.  





gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 247 o vero de la dottrina (virtù speculativa), la quale alcuni uomini invidiosi hanno cercato con scherni e risa volerla dissimulare, infingendosi nove cose de la sapienza feminile quasi come vogliano si creda tanto ogni femina essere più bestiale e pazza, quanto è più savia e ben parlante estimata. 1

Una sapienza espunta e ratificata dal Capra oltre che dai ripetitivi repertori femminili dell’antichità, dai moderni exempla della tradizione volgare quali il Petrarca, il Boccaccio e naturalmente l’Ariosto. Questo trattato sarà di speciale interesse per la Terracina per quanto, come giustamente osserva L. Doglio, il trattatista « si preoccupa di rendere giustizia alla tradizione letteraria e lo fa ricostruendo un ampio panorama di scrittrici, un quadro di quello che oggi si usa chiamare écriture féminine ». 2 Da ciò il richiamo, nel ‘capitolo’ sulla dottrina, alla scarsa formazione culturale della donna perciochè, « non mi si tole (posto che spendessero il loro tempo nei studi, come fanno gli uomini) non facessero quello profitto e più che essi facciano » 3 (p. 89). Un’osservazione che la pedagogia muliebre e limitativa del Vives, d’impianto fortemente religioso, sembra negare come si dimostra nel capitolo quarto, De la doctrina de las doncellas :  









El tiempo que ha de estudiar la mujer yo no lo determino más en ella que en el hombre sino que en el varón quiero que haya conocimiento de más cosas y más diversas así para su provecho de él como para bien y utilidad de la república y para enseñar a los otros. Pero la mujer debe de estar puesta en aquella parte de doctrina que la enseña virtuosamente a vivir 4

Segue nel capitolo successivo, Cuáles libros se deben leer y cuáles no, un ragionato elenco di libri consigliati : i Vangeli, il Vecchio Testamento, testi di santi dotti (San Girolamo, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio), di gentili antichi (Platone, Seneca, Cicerone) o di dotti virtuosi quali Erasmo, il Petrarca (De remediis utriusque fortuna), mentre condanna, nella più pura ortodossia cattolica, quei ‘libros vanos’ nei quali s’includono gli appartenenti al genere cavalleresco (l’Amadigi, il Tirant lo Blanch, il Lancillotto), La Celestina, il Piramo e Tisbe, i libri di facezie, quelli di Poggio Bracciolini, libri scritti tutti da « hombres ociosos y desocupados, sin letras, llenos de vicios » (p. 62). Quindi, per dottrina il Vives non intende un concetto atto ad auspiciare la capacità e autonomia intellettuale della donna, ma un addottrinamento destinato a regolare moralmente, nonché a controllare, la sua esistenza. Più tardi, in stretta dipendenza dal pensiero del Vives, il Dolce nel suo trattato della Nobiltà delle donne (1546) elaborato in questo periodo di rinnovamento spirituale, riprende il suo modello della figura muliebre. Di fatto, nei libri consigliati per la donna il Dolce, al quale la Terracina dedicherà un sonetto preliminare nel suo Discorso, redige lo stesso repertorio raccomandato dall’umanista spagnolo, mettendo così in rilievo un identico valore morale-comportamentale dell’addottrinamento femminile. Ma ancora in questa linea laudativa, un analogo rammarico per la scarsa istruzione riservata alla donna, riappare nel trattato latino dell’Agrippa, il quale nel difendere la superiorità delle sue capacità intellettive, ribadisce : « et nisi vetitum esset hodie mulieribus literas discere, iamiam adhuc haberentur clarissimae doctrinae excellentiores ingenio mulieres quam viri » (p. 79). Fortemente debitore del trattato agrippiano, il Domenichi nella Nobiltà delle donne, considerato praticamente un volgarizzamento attualizzato, e nonostante il nuovo orientamento spirituale e religioso, tornerà ancora a rinnovare la lode  











1

  G. F. Capra, Della eccellenza e dignità della donna, cit., p. 89.   T. Tasso, Discorso della virtù femminile e donnesca, cit. p. 34. 3   Questo principio del Capra era già presente nell’Ariosto (Orlando Furioso, canto xxxvii), e poi ripreso dalla Terracina nel suo Discorso, nella stanza 37, ottava 3 « Che se da lor avesser scritte le donne … ». 4   Juan Luis Vives, Instrucción de la mujer cristiana, Valencia, 1528, p. 57. 2





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della donna « contro la viltà et ignoranza di coloro che la biasimano et la offendono a torto », sottolineando la sua rilevanza civile e culturale attraverso un’inferocita condanna di una tradizione che ha perpetuato la sua condizione d’inferiorità. Strategicamente, questa volontà di attualizzazione delle tesi agrippiane, lo porterà a compendiare nel suo trattato un’apposita Tavola delle donne illustri più vicine a nostri tempi et di quelle della nostra età, ovvero una galleria femminile organizzata secondo criteri regionali, nella quale compaiono molte delle gentildonne destinatarie delle rime della Terracina. Tra di esse, Isabella Colonna alla quale sono dedicate le ottave inaugurali e laudative del corpus testuale della prima edizione delle Rime. Il cognome della gentildonna acquista in questa occasione una doppia valenza simbolica. Da una parte, per significare appunto le solide fondamenta (la colonna) che controbilanciano l’apparente fragilità della scrittura femminile con la quale verrà edificato il poemario. Ma d’altro canto, queste ottave possono essere anche interpretate nella loro funzionalità di dedica la cui destinataria viene proposta in qualità di figura modellizante ed agglutinatrice delle più pregiate virtù femminili (onestà, cortesia, senno e beltade), virtù riscontrate secondo confessione della poetessa nella lettura ‘di autori antichi e moderni’ alle quali sommerà, come completezza, la virtus intellettuale. Da ciò, oltre ad un ri-uso delle dediche a personaggi femminili, più evidente ancora nelle stanze ariostesche, si desume che la Terracina abbia voluto riprendere la consuetudine già riscontrata nella trattatistica femminile, solitamente dedicata ad una donna nobile o regale. Per quanto riguarda allora l’educazione culturale (letteraria) della donna, le due linee quindi, quella laudativa e quella dottrinaria o pedagogica, sono maneggiate dalla Terracina come impianto ideologico su cui elaborare il suo discorso-manifesto. Nella prima troverà il sostegno autoriale per la difesa e dimostrazione della capacità intellettuale della donna, mentre nella seconda, l’oggetto di ribaltamento di tutta una pedagogia femminile che nega per l’appunto il suo protagonismo culturale e la relega regressivamente ancora una volta nel suo tradizionale ruolo o posizione di infeririotà o subalternità rispetto all’uomo. Da questa angolatura la sua produzione lirica si conferma come proclamazione della autonomia e valore letterario della donna attraverso il ripristino di quella linea di ‘écriture féminine’ ricordata dal Capra e ricongiungibile nella tradizione, al primo esempio di ‘scrittura di sé’, ovvero a quello ovidiano delle Heroides. Perciò con la scrittura, o piuttosto con ‘la penna’, come sosterrà metaforicamente il Domenichi nella prefazione al suo dialogo, la Terracina aspira a « farne testimonianza a quegli /quelle/ che dopo verranno », e cioè ad una scrittura ‘donnesca’ destinata a prevalere sul tempo. In altre parole, a fondare e consolidare una virtus femminile basata sul saper leggere e scrivere. Quindi, la sua esercitazione letteraria, si potrebbe quasi affermare, significherebbe un primo abbozzo di trattato scritto da mano femminile ma dissimulato sotto le vesti di un rimario lirico in modo che l’adesione all’espressività petrarchesca ed il rispetto del convenzionalismo lirico di quei tempi (il carattere encomiastico ed occasionale delle sue poesie) possano deviare l’attenzione dei lettori o delle autorità inquisitoriali dal vero messaggio sottostante, senz’altro azzardato, della poetessa. Questa soggiacente strategia s’accorda, nella dedica alle prime Rime, con l’intentio editionis in essa esplicitata dal Domenichi, tra l’altro, già esperto in rapporti non troppo felici con le autorità inquisitoriali. Elaborata nella più stretta fedeltà ai principi retorico persuasivi, in effetti in questa dedica, il Domenichi, dopo essersi riferito alla peripezia seguita dalle rime della Terracina e secondo la doverosa e retorica consultazione dei dotti che garantisce la qualità del prodotto e la sua pubblicazione, confessa :  









gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 249 ne perciò dubiterò d’haver offeso la Signora Laura, publicando le fatiche sue, sotto il nome vostro, perchè io mi rendo certo, che avendole io avute in mano per sua cortesia, io habbia anche potuto con tacita licenza di farne il voler mio. Oltra, che io non ho dubbio alcuno, che quando la sua nobil modestia le havesse consentito il poter darle in luce ella non l’havrebbe giamai divulgato ... perchè le rare lodi, che le sue rime vi danno, e ’l grande honore, che le vostre a lei fanno, assai chiaramente mi mostrano quanto l’un l’altro habbia caro et honor

Oltre al fatto di essere stata scritta da una mano maschile, il ché rafforzerebbe la precettiva finalità della dedica, vale a dire, fungere da ‘scudo’ protettivo del testo presentato, l’esplicita menzione alla modestia (od umiltà), e l’implicito accenno alla fama, rimandano alla tradizione rinnovata ed imperante di una condotta virtuosa codificata per la donna. In effetti, come abbiamo visto, i trattati o institutiones si riferiscono alla modestia nella femmina come ad un’osservanza morale imposta, quindi ad una virtus che limita la sua saggezza, come addottrina il Vives :  

y quiero que aprenda por saber..así la mujer que es sabia y virtuosa aunque no ande publicando quién ella es, siempre hace cosas por donde quien la quiere bien mirar conocerá que asomó y guió de aquel callar hay virtud y bondad. 1

Oppure il Dolce, il quale inserisce questo ‘pregio’ nel suo repertorio virtuoso legato alla virtù della continenza, dell’umiltà e della diligenza (Libro I), mentre il Luigini (p. 102) s’appoggerà nell’auctoritas dell’Ariosto (Satira prima), in cui questi sostiene come la donna debba essere, tra altre doti virtuose, modesta. Nondimeno, il Tasso l’approva purchè si tratti della fama della pudicizia e circoscritta sempre all’ambito domestico :  

ma se la virtù dentro la casa è contenuta, dentro la casa ancora la fama feminile par che deba esser contenuta, la quale se si divulga, non si può divulgare se se non o per diffetto della donna o per alcuna virtù che non sia sua propria ... e la fama della pudicizia, ch’è più convenevole alla donna che alcun’altra 2

E prima ancora, nel Cortegiano (Libro iii, cap. vi), nel formar la condotta della donna di corte raccomanda che :  

Si guardi, laudando se stessa,indiscretamente, o vero con l’esser troppo prolissa, non gli generar fastidio ... Non mostri nettamente di saper quello che non sa , ma con modestia, cerchi d’onorarsi di quello che fa, fuggendo, come s’è detto, l’affettazione in ogni cosa. 3

Si evince allora come la fama sia una virtus o condizione molto limitata per la donna, praticamente riprovevole in lei se oltrepassa i limiti del privato, mentre meritoriamente ascrivibile all’uomo, sia nel privato che nel pubblico. Guadagnarsi la fama nella sfera pubblica attraverso la scrittura, sarà dunque l’obbiettivo della Terracina. Tra questi due poli della modestia e della fama la poetessa definisce l’itinerario poetico di queste sue prime rime. Parte dunque dalla modestia come atteggiamento fittizio (o di finzione poetica), fino al raggiungimento della fama che renderà lei ed il suo genere, letterariamente parlando, uguale all’uomo dotto. Ma si tratta di un concetto sprovvisto di ogni senso morale o religioso, svincolato da quello di virtù, acquisito per « ardente forza d’animo e d’ingegno » che spetta a quelle donne che « per qualunque impresa al mondo,  





1

  Ibidem.   T. Tasso, Discorso della virtù femminile e donnesca, cit. 3   B. Castiglione, Il libro del cortegiano, cit., p. 346. 2

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siano ben conosciute », come sosteneva il Boccacio nel De mulieribus claris 1 (proemio) e più tardi anche, sulle sue orme antimisogine, il Capra nel suo trattato. Per questo, forse volutamente o forse soltanto come strategia editoriale, il Domenichi in questa prima edizione di rime, parlerà di ‘fatiche’. 2 E di fatto, la poesia della Terracina si presenta come un percorso arduo e travagliato che mette in evidenza un processo interno ascendente che, dal basso (accettazione della condizione d’inferiorità femminile) risale con un non sempre velato o controllato atteggiamento di condanna che esplode definitivamente nel suo Discorso, verso la conformazione di una virtù ‘speculativa’ o intellettiva femminile fondata, come abbiamo detto prima, sul saper leggere e scrivere. Perciò, attingendo ai principi ortodossi imperanti in materia di pedagogia femminile, ed attraverso una soggiacente ironia ed un maneggio retorico-stilistico del tutto personale, li sovverte tacitamente fino a fare delle sue poesie, un vero manifesto onde ribadire la dignità e valorizzazione culturale della donna. Si spiega così come questa prima edizione della Terracina, assuma secondo abbiamo già accennato, un valore pioneristico aprendo la strada all’ulteriore trattatistica di mano femminile e cioè quella finisecolare rappresentata da Modesta Pozzo e Lucrezia Marinella, indirizzandola verso un sovvertimento del tradizionale vituperio femminile in vituperio maschile, 3 come chiaramente si annuncia nell’epigrafe del canto v (Discorso) Chi nemico è di donna, in altro non ha cura e nei primi versi dell’ottava proemiale :  



Vorrei parlar ma l’io m’intoppa Poi che io sola difendo il mio sesso ... Ma spero che dal cielo verrà saetta Et credo che di voi farà vendetta

E ancora nella prima dello stesso canto, forse nel ricordo del passaggio citato del Capra :  

... O sciocchi, e come d’ignoranza il velo V’ingombra con furor la cieca mente, Ben vi percuote il cor d’invidia il telo, Che tenete le donne si vilmente A la femina il il maschio non fa guerra Tutti gli altri animali che sono in terra.

La scrittura, o meglio ancora, l’atto stesso dello scrivere, diviene allora per la Terracina lo strumento con il quale ripercorrere, ribaltando, tutte quelle regole o ‘pregi’ comportamentali assegnate alla donna che limitano le sue capacità intellettuali (l’ignoranza, l’umiltà, la vergogna, la modestia, il silenzio, la pudicizia, la gestualità controllata, l’ozio e le attività domestiche o dell’ambito privato) e destinate perciò a consolidare la sua condizione d’inferiorità. Il carattere epistolario-celebrativo dei suoi componimenti si trasforma in una specie di ‘civil conversatione’ poetica gestita non più dagli uomini, ma da una femmina che proclama e rivendica fermamente le sue doti intellettuali. A tale fine, la poetessa elabora anche un campo semantico dove vengono raccolti tutti gli elementi atti alla conformazione materiale della scrittura (la mano, la carta, la penna l’inchiostro), e alla sua definizione come atto artistico-intellettuale dotato di valore morale. In quest’im1   Cfr. Giovanni Boccaccio, Tutte le opere, x, De mulieribus claris, a cura di Vittorio Zaccaria, Milano, Mondadori, 1970², p. 25 (6). 2   L’Ariosto nella prima ottava del canto xxx, scrive : « Se come in acquistar qualch’altro dono/che senza industria non può dar Natura,/affaticate notte e dì si sono/con somma diligenza e cura/le valorose donne ... ». 3   Cfr., tra altri esempi nelle Rime, la prima ottava del lamento di Rodomonte, dedicata a Leonardo da Pistoia oppure nelle ottave a M. Fortunio Spira.  





gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 251 presa, dove conta particolarmente l’apprendistato sul modello ariostesco, s’intravvede lo stimolo paradigmatico dell’ autore ferrarese nel cui canto xxx, ottava 7 dell’Orlando, proclamava :  

Non restate però donne, a cui giova il bene oprar, di seguir vostra via : né da vostra alta impresa vi rinnova tema che degno onor non vi si dica ... Se le carte sin qui state e gl’inchiostri Per voi non sono, or sono a’ tempi nostri.  

L’atto della scrittura diventa allora il simbolo di un’autonoma dignità intellettuale pari a quella dell’uomo. È la voce materializzata in segni grafici per opporsi alla condanna femminile del silenzio e soprattutto, per una volontà di lasciare traccia di memoria. In questo senso, le ottave in lode al poeta Ercole Bentivoglio risultano significative per la loro collocazione quasi proemiale (probabilmente l’ordo seguito in queste rime si deve alla mano dell’editore Domenichi). In esse sono percepibili quei punti essenziali dell’itinerario tracciato dalla Terracina nel suo rimario-manifesto. Innazittutto, la tacita denuncia della disuguaglianza della fama, merito destinato solo ai dotti (« Chiari per se medesimi »), mentre il suo ‘donnesco stil’ « che per poco al mondo hoggi si stima », richiede una posizione di umiltà e un atteggiamento implorante nei confronti dell’autorità maschile (« humile inchino »), al fine di una ambita riconoscenza. 1 Contrariamente, il parlare per mezzo della scrittura porta all’arroganza e di conseguenza, all’annullamento di un’altra « bella dote dell’animo » elencata dal Luigini nel libro III del suo trattato. Si tratta dell’« honorata vergogna, nella giovinezza lodevolissima, et tanto dicevole, che viene addimandata il colore della virtù, et la tintura della loda da’ savi huomini » (p. 101), la quale si manifesta esternamente in quel rossore o « colore vermiglo nel viso », collaudato in fonti letterarie tra le quali il Sannazaro di cui ricorda come « induce Amaranta nell’Arcadia, dove la rossezza venutale nel volto chiamò Donnesca ». La Terracina tenta allora di mantenere l’equilibrio tra « l’osar parlare » ed il rispetto verso questa virtù dell’animo femminile lodevole nella donna, biasimevole nell’uomo. Perciò cosí scrive nella prima ottava in lode al signor Tiberio Buccis : (Rime)  

































Quando scrivo io per dar al pensier loco, E ridur tosto a fin la mortal vita, S’accresce nel mio volto, e man tal fuoco, Ch’insieme co’miei versi sto smarrita, 1   La Sanseverino, Laura Navarra od Isabella Colonna, destinatarie dei poemi della Terracina, appartengono alla cerchia, elargita ancora nelle stanze ariostesche, di nobildonne potesse verso le quali la Terracina dimostra una posizione non di rivalità, ma di riverenza o ammirazione-venerazione. Sono le sue interlocutrici ma soprattutto sono modelli con i quali pretende di formare una comunità femminile dove le virtù donnesche (onestà, cortesia, senno e bellezza), come riferisce ad Isabella Colonna, si congiungono armonicamente con la loro capacità (qualità) di scrittrici. Perciò il tono laudativo con cui la Terracina si rivolge loro, si allontana da quello usato nei confronti di quelle composizioni destinate all’elogio dei maschi dotti. Ma soprattutto è segno di un incipiente spostamento dei modelli esibiti nei repertori di exempla antichi dei primi trattati cinquecenteschi, verso quelli femminili più attuali, più tangibili e quindi più dinamici. In questo caso, la confessione d’inferiorità nelle lodi rivolte alle sue interlocutrici non è che una formula per avallare, attraverso questi personaggi nobili della sua attualità, l’auctoritas ‘donnesca’, Invece l’adozione di un livello di subalternità nelle lodi maschili, assume il tono di una umile sollecitazione per un eventuale riconoscimento del suo lavoro intellettuale e nel contempo, di una valorizzazione del suo genere (nota : Nella rima seconda e celebrativa del matrimonio di Laura Colonna, si rivolge a lei in termini di Signora e Donna, e le attribuisce le virtú di essere « honesta, bella e invisibilmente altiera » (vir, mollitie) presentandola come modello di superamento degli esempi femminili antichi : « E ’l mondo rimaner stordito e folle/ Veggendo, che l’antiche a torto estolle ».  











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mercedes lópez suárez Quanto pur ragionando, e molto poco D’un cavalier di gloria infinita, Si real, si magnanimo, e gentile Si dovrebbe arrossir femineo stile.

Se in opposizione all’ignoranza femminile, propone dunque la scrittura od atto intellettuale, lo scrivere sarà il modo per acquisire saggezza, quel sapere tradizionalmente negato alla donna. E così si rivolge a Luigi Tansillo (Rime) :  

... Ma sol da l’ignoranza in tutto torme Vo finalmente oprando carta ed inchiostri, Son femina : e non ho colpa di questo” (Rime)  

E ancora prima, nelle ottave destinate a Messer Antonio Calamita :  

Sendo donna mi scuso... ... Certo m’importa assai d’aprir la bocca E la penna adoprar, carta ed inchiostro Ch’io mi tengo ignorante : e a me non tocca Riscrivere egualmente al valor vostro  

In altre occasioni, la Terracina sovverte l’antitesi tacere/parlare in senso ironico in aplicazione all’uomo vanitoso. Dall’ignoranza a cui è sottomessa la donna, inevitabilmente deriva la consapevolezza di una scrittura femminile stimata d’inferior rango rispetto a quella maschile. Da ciò, oltre alla già confessata necessità di un superamento attraverso una faticosa esercitazione poetica, il bisogno di un’espressività che denunci questa disuguaglianza. Per tale scopo, la poetessa elabora un codice stilistico (una retorica donnesca) conformato da un lessico ridotto ma incisivo, da stilemi reiterativi, e specialmente da un sistema di antitesi con il quale mettere a confronto questo squilibrio. Affiora così l’autovalutazione di un esercizio poetico in termini di « versi incolti e poco ornati », « incolte rime », « stil fosco », « torbide rime », o il « rimar donnesco e frale » (al Tansillo), ecc. Sono accezioni, specialmente quest’ultima riferita alla fragilità femminile, derivanti dalla ricorrente antitesi di filiazione aristotelica, tra la natura maschile e quella femminile giustificata etimologicamente dalla tradizione misogina in questo modo : vir >virtus (forza fisica) e da mulier < mollities (debolezza). 1 Un’opposizione che la Terracina, dall’ambito antropologico trasferisce in chiave poetica creando appositamente l’antitesi « stile virile »/ « stile donnesco », come così si desume dalle ottave destinate al reverendo di Pundi :  































Quel primo lauro, ch’a perpetua aurora Con gli aurei crini splendidi e’nfiammati, Non suol tra dotti e spiriti lodati … Il rozzo ingegno mio si ponga ancora : Che’sei ben s ‘affatica e suda ogn’hora : A formar versi incolti, e poco ornati Nol so per lode, ne per farli amati : Ma per dar tempo al tempo, che m’accora 2  





1   Su questo aspetto cfr. Romeo De Maio, Mujer y Renacimiento, Madrid, 1988. Traducción de Margarita Vivanco, p. 73 (versione originale, Milano, Mondadori, 1987) « O sesso femminil, come sei frale » scrive a Leonardo da Pistoia. 2   In questo verso si fa riferimento all’ozio imposto alla donna secondo quanto ribadito ne i trattati pedagogici d’impianto misogino cfr.. Il Tasso, Sperone Speroni …). Nel Discorso troviamo altri esempi come nelle ottave a Diomede Carafa : « rime colme d’ignoranza, l’ozio noioso ».  









gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 253 Oppure in quei versi ad Antonio Calamita dove il contrasto si fa più evidente attraverso l’uso del parallelismo e della strutturazione bimembre dell’endecasillabo :  

Voi dotto nello stile, io sempre sciocca Voi nel dir fermo, et io lieve mi mostro

Mentre a Messer Clemente Venetiano :  

il vostro altiero ingegno, il mio dir basso

Ma per una donna, scrivere, avverte ancora la Terracina nel sonetto in lode alla gentildonna Dionora Sanseverino, non significa trasgredire la pudicizia o castità, una delle virtù morali esclusive di questo genere ribadita nei trattati pedagogici come la più pregiata nella donna. 1 Di fatto, il Dolce nel suo trattato scrive : « Ma nella Donna non si ricerca profonda eloquentia, o sottile ingegno, o squisita prudentia, o arte di vivere, o amministrativa ..., fuori che la Castità ... in femmina questa vale per ogni eccelentia » (p.22). Ma la poetessa rafforza la sua tesi, ancora una volta, nell’Ariosto, ma anche nel Capra:  





... E di fedeli e caste e sagge e forti Stato ne son , non pur in Grecia e in Roma ... Sì ch’a pena di mille una si noma ; E questo, perchè avuto hanno ai lor tempi Gli scrittori bugiardi, invidi ed empi. (Canto xxxvii, ottava 6)  

Perciò scrive :  

... e senza pare alcune possedite Mercurio in lingua, et Palle in rime e carte Ne pensi alcun, che regna in voi scintilla Di lascivo pensier, di voglia strana, ... E ’n mezzo de’ pensier lieta, e tranquilla Venere al volto, et dentro il cor Diana (p. 10v).

Il ricorso a Mercurio è appunto l’appello all’eloquenza, « all’articolazione di ogni sapere e di ogni virtù per mezzo della parola » 2 oppure l’asse portante di un nuovo ideale di vita civile sul quale il Guazzo sosterrà « il valore della conversazione civile come legame intersoggettivo ed ontologico della società ». Considerando che le poesie della Terracina, come abbiamo sostenuto prima, siano la scrittura di una civil conversazione lirica, la mano, e non più la lingua come organo che gestisce la parola orale, si trasforma per la poetessa nel principale strumento-simbolo della sua rivendicazione intellettuale. Per la Terracina la mano non articola atti meccanici, ma esegue, attraverso l’artificio della scrittura, la volontà dell’intelletto. Con questa valenza intellettiva attribuita alla mano, la poetessa si ribella contro quella secolare assegnazione femminile dei ‘lavori di mano’ o ‘meccanici’, e cioè principalmente il cucire. Quindi, all’ago, al filo, al fuso o alla canocchia, oppone la penna, l’inchiostro e la carta, sovvertendo quella equazione professata dal personaggio di Dorotea nel dialogo del Dolce in riposta all’intelocutore Flaminio (il quale sostiene che  







1   Cfr. il Vives, il Dolce e più tardi il Luigini per il quale sarebbe la virtù principale della donna « altissimo pregio » la cui perdita presuppone quella di ogni virtù e causa principale del vituperio del sesso femminile (Libro ii, pp. 96-97). 2   Nicola Panichi, La virtù eloquente. La “civil conversazione” nel Rinascimento, Urbino, Montefletro, 1994, pp. 18-19.  



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« il filo e la lana » sono due cose « di grande utile alla conservation della famiglia ») : « ma dirò bene, che il saper cucire a noi Donne tanto appartiene, quanto a voi huomini il saper scrivere ». 1 La mano che scrive, sarà ancora un’arma di ribaltamento contro la ‘virtù’ donnesca del silenzio (« tacere in me sarà virtute » Rime), perchè appunto, come dice il Tasso (Discorso della virtù feminile e donnesca) « il silenzio è virtù della donna, come l’eloquenza all’uomo ». 2 La scrittura femminile, ovvero lo stil donnesco, nel suo misurarsi con il virile, si proietta anche in un ‘io’ maschile, come prova la poetessa in quelle ottave di ‘lamento’che sulle orme dell’Orlando, conformano un nucleo tematico ed un primo materiale che poi sarà travasato o riciclato e sviluppato nel Discorso. Sotto questa veste di « penna virile » e la forma del lamento, la Terracina allestisce quella trattatistica femminile alla quale ci siamo riferiti prima, e che non è che la ‘vendetta’ contro il genere maschile, ovvero il vituperio contro gli uomini. La produzione poetica della Terracina costituisce infine una testimonianza inestimabile ed ancora da approffondire perché, sostenuta da un corredo di letture, sintetizza una ricca tradizione letteraria (profusa di riferimenti filosofici, giuridici, antroplogici, religiosi, ecc.), sulla donna e della donna. Ciò non elimina il sospetto che la motivazione fosse un progetto commerciale attivato da un circuito di protagonisti (il Passero, il Domenichi, il Dolce, 3 il Giolito, il Tansillo, il Bernardino Bonifacio o il Luna) ognuno di loro impegnato nel rispettivo ufficio di editore, stampatore e poeta che contribuirono alla diffusione e fama della Terracina, e di una scrittura femminile la cui modernità è indiscutibile. Il suo rimario, in modo speciale la prima edizione delle Rime, è intarsiato di confessioni riguardanti il processo interno di elaborazione, stampa e diffusione del prodotto. Al Passero per esempio, sono destinati diversi componimenti delle Rime dai quali si desume che fu lui l’induttore di questo primo lavoro poetico 4 fatto conoscere in seguito e oralmente al Tansillo, 5 il quale come rinomato poeta, contribuì con le sue lodi liriche a valorizzare la  

























1   Questa linea di ribaltamento contro la funzione femminile del cucire, è già presente nel trattato dell’Agrippa ed è considerata una delle conseguenze della tirannide esercitata dagli uomini verso la donna tra cui la scarsa educazione dalla quale deriva il suo ozio domestico, « ac velut altioris provincae incapas, nihil praetor acus et filum permittitur » (p. 82). E sempre in qusto orientamento laudativo della donna, la notazione sul cucire è un motivo ricorrente. Si veda Ariosto (Orlando Furioso canto xxxvii, ottava 14, vv. 4-5 : « poi che molte, lasciando l’ago e ’l panno/ son con le muse a spegnersi la sete ». Il Luigini, invece stabilisce una differenza sociale per la quale sostiene che « l’ago, il fuso, e ’l rimanente … sconvengono alla Donna, et alle sue pari, et convengono alle minute, vili, mechaniche, et plebee feminelle … delle magnanime et gentili, questo dovrebbe essere caso che non sia ufficio, non però negando ch’egli non appartenga a tutte le altre ancora » (p. 103). Ma finalmente, prevale nel dialogo l’opinione che « sconvenevolezza niuna nó, ma sí ben honore, et pregio l’ago, il fuso, la canocchia, et l’arcolaio potrà anco avere a questa Donna in ogni tempo, in ogni etate » p. 105). 2   In un’altra occasione sovverte, come esempio del vituperio maschile, l’antitesi tacere/parlare : « Dunque meglio è tacere di voi, che darvi lode » (Rime, a M. Fortunio Spira,). 3   Il sonetto preliminare dedicato al Dolce nel suo Discorso lascia intravvedere l’intervento del poeta editore in questo progetto ariostesco insieme ad una confessione che riguarda forse, per implicto riferimento al trattato di costui il quale, come abbiamo visto, si rifà a quello pedagogico e reazionario del Vives : « Ecco il discorso pur, Dolce gentile / In fretta da me visto, e non d’altrui,/E se la lengua mia fu sí virile/Perdon vi chieggio ; e s’arrogante fui,/Ch’io non sapea se’l verso feminile/era sí degno apparir nanzi a vui,/Pur hò compito al fin, col mio sudore/A le vostre promesse, et al mio honore ». Si percepisce inoltre, la fretta editoriale che avrebbe portato la Terracina a correggere alla svelta la sua creazione elaborata sotto le vesti dell’io maschile, ma a dimostrare la sua capacità. Quinde una sfida, (di nuovo l’arroganza) per cui chiede scusa, ironicamente al Dolce. 4   Rivelatrice è l’ottava dedicata a Marcantonio Passero (Rime) : « Ecco le Rime, ó Marco Antonio mio,/le quai mi comandaste, ch’io facessi :/l’ho fatte come Donna, che son’io ... ». 5   Nelle poesie del Tansillo, sono diverse quelle dedicate alla Terracina, ma di speciale interesse perciò che riguarda l’intrastoria della sua poesia, risulta la lettera del Tansillo datata il 23 di dicembre del 1549 “dalla librería del Passero” e indirizzata alla poetessa : « E quanto ho visto a caso, sendomi abbattuto nella librería del Passero,  











































gestualità ed espressione. civil conversazione e silenzio. la scrittura 255 scrittura poetica della Terracina. Non minore è il grado di riverenza e di ringraziamento per il Domenichi che si riconosce attraverso i frequenti componimenti a lui dedicati in questo primo rimario, di cui per l’appunto, come abbiamo notato nella dedica, ne è l’editore. Di fatto, il volume della prima edizione si chiude con due ottave laudative a lui indirizzate per averle dato la fama. Ma nelle precedenti ottave, destinate a Giovanni Tornaquinci spunta negli ultimi versi questa menzione al Domenichi : « Che’l libro mio di nessun pregio, o poco,/arrivi in man di chi molti altri avanza/d’ingegno, a cui lodar ogn’uno è roco ;/Il Domenichi dico, in cui dimora/Senno, e valor, che Febo ama et honora » (p. 47).  







Universidad Complutense Madrid Nella sterminata produzione di trattati sulla donna che percorre il Cinquecento, e nella scelta dei più rappresentativi destinati a costruire il modello di femminilità e a definire/regolare il comportamento della donna, si osserva la sua permanente esclusione dall’ambito intellettuale, e cioè dalla scrittura. La poesia di Laura Terracina risulta emblematica poiché descrive il processo compiuto dalla donna attraverso l’esercitazione della scrittura per dimostrare e rivendicare la propria capacità intellettuale ed il proprio riconoscimento culturale e sociale pari a quello dell’uomo dotto. Si tratta di un vero manifesto che apre la via, verso la fine del secolo, alla trattatistica di mano femminile. In the huge production of treatises on women that defines the 16th century and in the selection of the most representative ones bound to build the female model and outline/rule women’s behaviour, women seem to be always excluded from the intellectual milieu, that is, from writing. Laura Terracina’s poetry sounds emblematic, as it describes the process accomplished by women by writing in order to prove and claim their intellectual abilities and a cultural and social status on a par with that of learned men. This is a veritable manifesto, which around the end of the century opens the way to treatises written by women. Dans la foisonnante production de traités sur la femme qui parcourt le xvie siècle, et dans le choix de ceux qui seront destinés à construire le modèle de féminité et à définir/réguler le comportement de la femme, on observe son exclusion permanente du milieu intellectuel, c’est-à-dire de l’écriture. La poésie de Laura Terracina est emblématique car elle décrit le chemin parcouru par la femme à travers l’exercice de l’écriture afin de démontrer et revendiquer sa capacité intellectuelle et sa reconnaissance culturelle et sociale égale à celle de l’homme instruit. Il s’agit d’un véritable manifeste qui ouvre la voie, vers la fin du siècle, à l’ensemble des traités de main féminine. En la prolija producción de tratados sobre la mujer que recorre el Siglo xvi, y desde la selección de los más representativos destinados a construir el modelo de feminidad, así como a definir/regular el comportamiento de la mujer, se observa su permanente exclusión del ámbito intelectual, es decir de la escritura. La poesía de Laura Terracina resulta en este sentido emblemática por cuanto describe el proceso realizado por la mujer a través del ejercicio de la escritura para demostrar y reivindicar su propia capacidad intelectual y al mismo tiempo su reconocimiento cultural y social igual al del hombre docto. Se trata de un verdadero manifiesto que abre el camino, en los finales del siglo , a los tratados escritos por mujeres. In der umfassenden Produktion von Traktaten über die Frau, die im Verlauf des Cinquecento entstanden sind, und in einer Auswahl der repräsentativsten Traktate hinsichtlich der Darstellung eines Weiblichkeitsmodells und der Aufstellung von Verhaltensregeln für die Frau kann beobachtet il quale trasformati in più candido augillo cantava non so che stanze composte da la divinità del vostro ingegno » (in Francesco Fiorentino, Poesie Liriche : edite ed inedite di Luigi Tansillo, con prefazione di F. Fiorentino, Napoli, Domenico Morano Libraio-Editore, 1882, p. 232). Al sonetto del Tansillo, Non faccia me sì grande, e voi, sì vile, in cui riferisce liricamente questo passaggio, risponde la Terracina con il suo, incluso nelle Rime (p. 11v) : Non bisogna Signor, pormi tanto alto.  





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werden, dass die Frauen konsequent aus dem intellektuellen Bereich, und damit aus dem Bereich der Schriftstellerei, ausgeschlossen werden. Die Dichtung von Laura Terracina erscheint diesbezüglich emblematisch, denn sie beschreibt den Entwicklungsprozess der Frau als Schriftstellerin, um unter Beweis zu stellen, dass ihre intellektuelle Befähigung und die kulturelle und gesellschaftliche Anerkennung dem gebildeten Mann gleichgestellt werden kann. Es handelt sich hierbei um ein eigentliches Manifest, das gegen Ende des Jahrhunderts den von weiblicher Hand verfassten Traktaten den Weg weist.

LE ARTI FIGURATIVE

NÉ SANTE NÉ REGINE. LE LABILI TRACCE DEL FEMMINILE CARTACEO Paola Zito Il saggio dice : « Ti devi voltare ! Sguardo di donna ti può far peccare ! [ …] ». S. Brant, La Nave dei folli, 92  









1. Segmenti perimetrali

N

el 1534, i messinesi Spira e Morabito davano alle stampe Il spasmo della Vergine, componimento in versi di Cola Giacomo d’Alibrando, prete ed erudito locale. Ne era stata fonte d’ispirazione l’Andata al Calvario che Polidoro da Caravaggio aveva appena portato a termine, in città, per l’Annunziata dei Catalani 1 dove, come titolo ed ottave del poemetto debitamente enfatizzano, l’apice della tensione emotiva non è concentrato sul Redentore ma su sua madre, sopraffatta dal dolore al punto da perdere i sensi. Il frontespizio dell’opuscolo, noto in un unico esemplare, 2 ripropone l’immagine in versione xilografica, sacrificandone, certo, cromatismo e dimensioni, ma non pathos e intensità del chiaroscuro, che accomunano personaggi maschili e femminili. Nel periodo precedente all’approdo oltre lo stretto, nel corso degli anni ’20 del secolo, quando soggiornava prevalentemente fra Roma e Napoli, Polidoro aveva delineato vari disegni dedicati a figure di donne, né sante né regine, ma lavandaie, madri con bambini, lettrici, maestre di scuola. Uno di essi riproduce, di spalle, una matura massaia al tavolo di lavoro, costituito in realtà da un piano di modeste dimensioni, su cui campeggia unicamente una pentola. A conferma della vocazione naturalistica e della accentuata sensibilità nei confronti del sesso debole, che dunque, all’epoca della via crucis, venivano da lontano, e da prove ben collaudate. Da simili materiali, ora conservati in collezioni pubbliche e private di mezza Europa, 3 non fu tratto però alcun dipinto che potesse confluire nel ricco catalogo dell’artista, a dominante mitologica e religiosa, né tanto meno ne furono ricavate incisioni librarie. Probabilmente non è un caso. Sarebbero stati temi decisamente eccentrici rispetto alla netta prevalenza del sacro nella pittura meridionale coeva 4 – almeno a giudicare da quanto ci è effettivamente pervenuto –, nonché scelte inconsuete per un’epoca che, per quanto aperta alle suggestioni veristiche, ne prevedeva comunque la redenzione formale, secondo i dettami del classico o della maniera. Alle testimonianze pittoriche è fatto in qualche modo obbligo di rimandare un’immagine della realtà depurata e idealizzata, spesso uniformata, se non appiattita, su parametri etico-sociali, economici ed estetici orientati verso l’alto. È questo il motivo per cui, ormai da tempo, gli storici della prima età moderna vanno mettendo in 1   Del testo, l’edizione commentata, a cura di Barbara Agosti, Giancarlo Alfano e Ippolita di Majo, con postfazione di Silvia Ginzburg, è apparsa a Napoli nel 1999, per le edizioni Paparo. 2   Conservato presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina. 3   Tra Parigi, Londra, Oxford, Vienna e Norimberga. In proposito Polidoro da Caravaggio fra Napoli e Messina, a cura di Pierluigi Leone de Castris, Milano-Roma, Mondadori-De Luca, 1988, pp. 31-36, 47-48. 4   Oltre all’ormai classica monografia di Giovanni Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino, Einaudi, 1978, cfr. Andrea Zezza, Marco Pino. L’opera completa, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 2003, e il catalogo della mostra su Marco Pino. Un protagonista della ‘maniera moderna’ a Napoli, Napoli, Electa, 2003.

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guardia sulla effettiva attendibilità della loro testimonianza su tenore di vita, usi e costumi di antico regime. Spesso specchi infedeli, conformi al dover essere piuttosto che all’essere, preoccupati di proteggere la vista dall’offesa del rozzo, del brutto, del banale. Interni ampi e lussuosamente arredati, tavole scintillanti, abiti sfarzosi, drappi, trine, gemme, libri e strumenti musicali, riferiti anche ad ambienti medio o piccolo-borghesi, contrastano energicamente con i dati che emergono dai documenti dell’epoca. Dagli inventari che corredano i contratti notarili, redatti in occasione di matrimoni, eredità, compravendite d’immobili, si desume uno standard più basso, limitato al possesso di suppellettili di terracotta piuttosto che di vetro o di cristallo, di pochi, e ben più dimessi, capi di vestiario, di rari, se non rarissimi, oggetti di qualche valore. Per uomini e donne, ma soprattutto per queste ultime, sempre vincolate all’imperativo di tramandare i beni di famiglia di generazione in generazione, piuttosto che indulgere alle lusinghe del consumo. Al di sotto, almeno di un semitono, in eleganza e in raffinatezza, di quanto non appaiano nelle tele, le donne comuni, dalla piccola nobiltà agli strati più umili della popolazione, monache, mogli, serve, cortigiane, 1 avevano dunque, in linea di massima e con le dovute proporzioni, risorse inferiori per appagare la loro vanità di quanto siamo solitamente indotti a ritenere. Lontano dai fasti del trono e da quelli dell’altare, il loro look, il loro guardaroba, il loro portagioie, sembrerebbero destinati a perdere un po’ del loro smalto. Una conferma autorevole, se non decisiva – e ulteriori indizi, dettagli, sfumature – forniscono le incisioni e gli apparati iconografici dei volumi a stampa, non esattamente specchi ma frammenti di specchio, frequentemente di piccole dimensioni, prodotti seriali e monocromi, meno élitari e molto meno costosi, destinati ad una ben più ampia circolazione, quindi naturalmente inclini a volare un po’ più basso, e a fare meglio i conti con la verosimiglianza. Laddove lo sguardo non insegue la fisionomia di teste coronate dal diadema o dall’aureola, né il ritratto dalla identità univocamente accertata, ma piuttosto il profilo di volti senza nome – e di corpi, di attributi e di atteggiamenti – che, proprio in virtù del loro anonimato, si prestino a rappresentare sulla carta una sorta di identikit duttile ed essenziale, dove tante lettrici – nel corso del Cinquecento ovunque in costante aumento 2 - potessero riconoscersi senza difficoltà. Testimonianze da interpretare a loro volta con le dovute cautele, spesso soggette alle insidie del riuso, 3 per di più quasi sempre realizzate da mano maschile, e ispirate a finalità didattiche e normative, ma solitamente in grado di superare con successo la verifica delle fonti archivistiche. L’editoria centro-settentrionale, e quella d’Oltralpe più ancora, offrono una vasta gamma di nitidi e suggestivi esempi in proposito, dai Banchetti ferraresi del Messisburgo del 1549, 4 al De conservanda bona valetudine dei tedeschi Egenolph del ’57 5, alla celebre serie di 1   Mi riferisco al testo recentemente curato da Sara F. Matthews-Grieco, con la collaborazione di Sabina Brevaglieri, edito da Morgana, a Firenze nel 2001. 2   In proposito Tiziana Plebani, Nascita e caratteristiche del pubblico di lettrici tra Medio Evo e prima età moderna, in *Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii secolo. Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Storia e Letteratura, 1996, pp. 23-44. 3   Sul tema Sara Centi, L’iconografia femminile nel libro italiano del Rinascimento, « La Bibliofilia », cviii (2006), 1, pp. 1-17. 4   Pietra miliare della culinaria, l’opera del celebre ‘scalco’ presso la corte degli Este (cfr. Luciano Chiappini, La corte estense alla metà del Cinquecento. I compendi di Cristoforo di Messisburgo, Ferrara, s.a.t.e., 1984), è stampata, postuma, da Buglhat e Hucher. Alla princeps seguirono numerose riedizioni anche nel secolo successivo. Sul corredo iconografico richiamava già l’attenzione Maria Gioia Tavoni nel suo Il libro illustrato in Emilia Romagna nel Cinquecento, in *La stampa in Italia nel Cinquecento. Atti del Convegno (Roma, 17-21 ottobre 1989), a cura di Marco Santoro, Roma, Bulzoni, 1992, vol. i, pp. 471-472 (tav. a p. 479). 5   Il volumetto in 8° contiene, fra le altre, una vignetta xilografica che mostra una scena d’interno, con due donne piuttosto giovani e di media condizione sociale, sedute a un tavolo.  



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immagini su L’età della donna stampata nell’82 dal Bertelli, alla scena di cucina contenuta nell’anonima Historia di Campriano contadino, un breve racconto spesso ristampato in area toscana a partire dalla metà del secolo, agli Habiti d’huomini e donne venetiane di Giacomo Franco, apparso a Venezia nel 1610. Quest’ultima opera, in realtà, rivela a chiare lettere il debito nei confronti di un altro precedente volume di grande pregio, dalla impostazione analoga ma di ben più ampio respiro, licenziato in due edizioni in 8°, rispettivamente nel ’90 e nel ’98, dallo Zenaro e dal Sessa, sempre sulla scena tipografica della Serenissima. Si tratta De li habiti antichi e moderni di diversi parti del mondo di Cesare Vecellio, cugino del grande Tiziano, corredato da centinaia di immagini xilografiche dove uomini, e soprattutto donne, sebbene in pose statiche e decontestualizzate, sfoggiano vestiti e accessori del loro paese e della loro condizione sociale. Una lunga sequenza di archetiFig. 1. pi, realizzati con rara perizia tecnica ed estrema cura del dettaglio, che costituisce tuttora una imprescindibile fonte per gli storici della moda e della civiltà rinascimentale. Nell’ambito della vasta casistica, una ventina circa delle 507 carte complessive è dedicata ai costumi del regno di Napoli, 1 dalla fine del Trecento all’epoca in cui l’autore scrive ed incide. Donne di più elevata condizione sociale le partenopee – per altro le più numerose – ammesse alla sfilata cartacea, baronesse, matrone, donzelle, di cui viene minuziosamente descritta l’acconciatura : di norma capelli ricci – fedeli al colore naturale, mentre a Venezia pare fosse già in voga farsi bionde 2 – raccolti in una sorta di chignon, dal quale pende di solito un prezioso velo (Fig. 1). Sete ricamate e merletti i tessuti adoperati per gli abiti che di norma prevedono un breve strascico ; fra gli accessori, il più diffuso, probabilmente per motivi climatici, sembra essere il ventaglio. Alle citelle, invece, si addice una mise più modesta e discreta, un’aria compunta e devota, cui fa riscontro la corona del rosario, che reggono, ben visibile, tra le mani. Puntualmente velate, e vestite di nero – per quanto la bicromia xilografica consenta di indovinare –, le nobili siciliane, proposte qui sempre in procinto di recarsi in chiesa, o alle divotioni. L’unica plebea proviene da Ischia, isola rinomata, fra le numerose altre ragioni, per la particolare bellezza delle sue figlie, do 



1   Con ogni probabilità avvalendosi della ‘consulenza’ del pittore partenopeo Francesco Curia, sul quale Ippolita Di Majo, Francesco Curia. L’opera completa, Napoli, Electa, 2002, pp. 53-54. Non illustrato Le rare imagini delle nobili, et honorate Signore Napolitane di Ludovico Contarini (Campagna, Nibbio e Scaglione, 1570). 2   C. 112v sgg. dell’ed. ’98.

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vuta unicamente alla benevolenza della natura. È una contadina, con un ampio fazzoletto che le copre il capo, e una tunica da lavoro di ruvido tessuto, non del tutto priva però di qualche tocco di frivolezza, rappresentato dalla graziosa bordura e dalla collana. 2. La cortina allegorica Dunque, una simile ricostruzione, tanto meticolosa ed efficace, dei costumi meridionali si deve ai fasti della tipografia veneta. Niente di analogo, né di vagamente paragonabile, nella produzione libraria del Mezzogiorno, dall’incunabolistica agli albori del Seicento. Una produzione non certo competitiva nei confronti dei torchi lagunari e di altre sedi del Centro-Nord, ma ciò nonostante cospicua sul piano quantitativo e senz’altro degna di nota sul versante della qualità, mediamente alta per contenuti e confezione, anche a prescindere dal ristretto novero degli esiti di eccellenza. Accanto alle iniziali parlanti, a fregi e a cornici ornamentali, tutt’altro che aliena dal ricorso all’immagine vera e propria, 1 fino agli anni ’70 del ’500 prevalentemente xilografica, poi via via più incline all’uso della calcografia, per corredare e impreziosire i volumi, raddoppiarne l’attrattiva, chiarirne o complicarne il messaggio, illustrandolo. Nell’orizzonte che include tutte le officine del Sud allora attive – di Napoli e di Palermo in primo luogo, ma pure di Catania, di Messina, di Capua, di Bari, di Trani, di Lecce, di Cosenza, di Cagliari e di Sassari – l’indagine, per il momento soltanto a campione, prova, se non a delineare, almeno ad accennare un percorso attraverso il dedalo di autori e di titoli più probabilmente significativi, e generosi di indizi, ai nostri fini. Testi, per contenuto e destinazione, calati del tutto o in parte nell’universo femminile, prevalentemente in volgare, fuori dall’orbita della trattatistica aulica ed erudita di argomento teologico, giuridico scientifico o filosofico. Privilegiando, al contrario, storie d’amore e d’avventura – resoconti di viaggi, raccolte di rime, favole sceniche o boscherecce –, libretti ispirati alla devozione quotidiana, o dedicati ai primi rudimenti della grammatica, lunari e pronostici, opere di farmacopea, medicina e discipline affini, soprattutto laddove è ancora l’approccio empirico a dominare. E proprio a questo riguardo emerge subito, quasi per immediata associazione mentale, il nome di Giambattista Della Porta, drammaturgo, astrologo, demonologo e mago, esponente di quel pensiero di confine, così denso di lungimiranti intuizioni ma ancora al di qua dalla scienza galileiana, 2 che le officine napoletane contribuiscono notevolmente a diffondere. 3 Celeberrimi, fra gli altri, i suoi studi di fisiognomica, dove la trama di corrispondenze tra uomini e animali tende a dilatarsi fino ad includere un’ampia tipologia di caractères, in bilico, cronologicamente e concettualmente, tra Esopo e La Bruyère. Molti uomini e molte bestie, a fronte di poche, pochissime donne. Valga per tutte una immagine particolarmente eloquente, destinata a trasmigrare identica da una stampa all’altra, 4 di un duplice nudo femminile, in posizione frontale e di spalle, che mostra un profilo enigmatico, lineamenti regolari e capelli ricci raccolti sul capo – proprio come in Vecellio – e forme generose, perfettamente coerenti con il canone estetico dell’epoca (Fig. 2). Nel te1   Noto il giudizio negativo, almeno quanto all’incunabolistica e ai primi decenni del ’500, espresso a suo tempo da Max Sander, in Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu’à 1530. Essai de sa bibliographie et de son histoire, Milano, Hoepli, 1942, iv, p. lxxxi sgg. 2   Rinvio, al riguardo, agli Atti del Convegno su L’Edizione Nazionale del teatro e l’opera di G. B. Della Porta (Salerno, 23 maggio 2002), a cura di Milena Montanile, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2003, con l’ampia bibliografia ivi segnalata. 3   Tra le officine partenopee che ne stampano i testi fino agli inizi del ’600, quelle del Cancer, dello Scoto, del Cacchi, del Salviani, del Longo, del Carlino, del Vitale, dello Scoriggio, di Gargano & Nucci, di Felice Stigliola e 4   Vico Equense, Cacchi, 1586, p. 21. del Sottile.

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sto esplicativo le si accostano la pernice e la vipera, basando l’analogia su cattiveria, sfacciataggine, avarizia, timidezza, imbecillità e ingiustizia ; e tutto questo senza il consueto ricorso a fonti classiche, quasi che l’argomento non lo meriti, forte com’è dell’evidenza quotidiana e dell’unanime consenso. Scarsa la sintonia fra dignità e avvenenza della figura e meschinità e inconsistenza cui il tessuto della scrittura allude scopertamente. Una spiegazione a questa contraddizione, neanche tanto latente, viene ancora una volta dal confronto fra le varie edizioni dell’opera : quelle padovane di primo ’600, nel complesso decisamente più accurate delle precedenti, al medesimo proposito, sostituiscono la didascalia che suona Feminica figura o La imagine della donna con un’altra, più articolata, 1 che corrisponde a Venere ritratta dalla statua di Prassitele di marmo, nel museo di Hadriano Spatafora dottissimo, mio zio. Allora, tutto chiaro. I due linguaggi, quello iconografico e quello verbale, si riferiscono a sfere diverse, distanti Fig. 2. fra loro quanto la cima dell’Olimpo dalla superficie della terra. Registriamo così una operazione paradigmatica, nelle pieghe della cui sottile ambiguità si cela la cifra interpretativa di un fenomeno di ben più vaste proporzioni. In maniera quasi casuale, con ogni probabilità nel segno di una consapevolezza soltanto parziale, l’iconografia della donna percorre una parabola di allontanamento dall’hic et nunc, che trasferisce le mulieres non clarae, le oscure mulierculae, in un altrove dai confini poco definiti, nebulosi e insieme rassicuranti. È all’allegoria che viene delegato il compito dell’ardua mediazione tra divino e umano, al fine di redimere, di trasfigurare il concreto, per così dire depurandolo dalle connotazioni individuali e contingenti, per conferirgli, se non carattere trascendente, almeno valore astratto ed universale. Se non sull’Olimpo, a mezz’aria tra empireo e mondo sublunare. E proprio in questa chiave, in limine fra percezione sensoriale e idealizzazione, l’editoria meridionale del Rinascimento sembra declinare di preferenza l’intero paradigma di volti e corpi femminili, 2 incastonandolo, in pose statiche e convenzionali, dentro strutture architettoniche o calandolo nel pieno dell’inesauribile arsenale dei sim 



1   Così la stampa del padovano Tozzi, edita nel 1627 (p. 25), sesta uscita dai suoi torchi dopo il ’13 (ancora vivente l’autore, scomparso ottantenne nel ’15), quarta, dal ’22 in poi, a cura di Giovanni Ingegneri. 2   Sulla diffusione dovunque ad ampio raggio di tale registro iconografico, dalla metà del ’400 alla fine del ’600, cfr. Sara F. Matthews-Grieco, La “natura” delle donne : rappresentazioni biologiche e (im)morali dall’allegoria umanistica alla satira sociale, in Monaca moglie serva cortigiana, cit., pp. 245-285.  

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boli. Le stime quantitative dimostrano l’elevata frequenza del ricorso a questa sorta di esorcismo visivo, la cui carica rituale mira a conferire decoro ad un oggetto che, di per sé, non ne possiede a sufficienza. Come per difendere il lettore-spettatore da quelle creature poco intelligenti ma molto furbe, dotate di istinto animalesco, se streghe conclamate in percentuale nettamente inferiore al resto d’Italia e d’Europa, certo ugualmente esperte in malizia e seduzione. Per neutralizzarne l’oscuro potere, per bilanciare la carica destabilizzante di quelle forze della natura con il peso catartico di cultura ed erudizione. Eludendo la drasticità dell’abusata antitesi Ange/Diablesse, 1 con atteggiamento disincantato e guardingo. Anteponendo all’ironia, al compiacimento trasgressivo, 2 al gusto dell’orribile, tante volte palesato dalle stampe tedesche e fiamminghe, o alle rappresentazioni paradossali del Mondo alla rovescia dove è la donna a reggere lo scettro del comando, una gravitas ripetitiva e leggera solo in apparenza, che non indugia sugli aspetti biologici ed esistenziali, che glissa sull’intera fenomenologia della lussuria e del conflitto tra i due sessi, ma tutto questo semplicemente persiste nell’ignorare. Dai frontespizi del Triompho descritto dal Britonio (Evangelista da Pavia, 1515) – che esibisce sulla sommità del carro allegorico anche due eleganti fanciulle – a quello de Lo specchio de le bellissime donne napoletane di Jacopo Beldando, edito dal Sultzbach nel ’36, con figure dalle peculiarità appena percepibili, al ricco corredo illustrativo, a firma di Felice Padovano, delle celebri Nove muse di Macedonio (Longo e Ruardo, 1614), 3 a quello de Il Zodiaco concepito dall’Orilia in funzione encomiastica per l’allora viceré duca d’Alba, apparso presso il Beltrano proprio nel 1630, a tantissimi altri esempi che al proposito si potrebbero menzionare nell’arco diacronico di centocinquant’anni, lo sguardo percorre una lunga carrellata di evanescenti parvenze femminili, con l’unico ruolo di rivestire, sia pure spesso con la propria nudità, idee e concetti. Meri involucri dalla identità di genere quasi pretestuosa, la cui opsis rimanda inequivocabilmente alla dimensione del lontano, al passato remoto del mytos o alla sfera altrettanto rarefatta dei phantásmata. Con attributi – corone d’alloro, spade, fiaccole, bilance – sempre riferiti all’iperuraneo dei simboli. Solo la tarda presenza di qualche specchio 4 schiude, in calce alla vasta gamma di implicazioni teologiche e sapienziali, un sottile spiraglio sulla tentazione profana della vanitas. 5 E, non di rado, evidente emerge l’autonomia, se non l’autentica indifferenza, l’assoluta autoreferenzialità, di queste frammentarie fabulae visive nei confronti dell’articolazione contenutistica. Volti senza corpo o corpi senza volto, inseriti nel tessuto di decorazioni geometriche o fitomorfe, 6 sullo sfondo di improbabili fughe prospettiche, in funzione ornamentale, dunque, piuttosto che illustrativa in senso stretto. Non sorprende certo che su quest’aspetto si siano maggiormente soffermati gli studi, non proprio numerosi, che finora di questo tema si siano occupati, estendendo l’area di ricerca a sud del Garigliano. Ancora più marcata, e del tutto prevedibilmente, la dominante simbolica si rivela nel 1   Cfr. la sintesi storiografica in Françoise Borin, Immagini di donne, in Storia delle donne dal Rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davis e Arlette Farge, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 223-247. 2   Al riguardo Bette Talvacchia, Il mercato dell’eros : rappresentazioni della sessualità femminile nei soggetti mitologici, in Monaca moglie serva cortigiana, cit., pp. 193-243. 3   L’immagine delle muse era già apparsa, nel margine inferiore del frontespizio, in varie edizioni delle Repetitiones di Giovanni Bolognetti (si veda, ad esempio, quella di Raimondo Amato del 1554). 4   Si tratta della vignetta esibita dal frontespizio del Sommario dell’antichissima origine della religione carmelitana di Camillo d’Ausilio, edita nel 1595 da Carlino e Pace. 5   Rispettivamente nel 1593 (Aulisio) e nel ’94 (Stigliola) escono le due edizioni napoletane del Trattato del vano ornamento delle donne di Giovanni Leonardi, recanti entrambe un medaglione con l’immagine della Vergine. 6   Come nella cornice frontespiziale dell’Apologeticum opusculum del celestino Marco Beneventano (Frezza 1521, in 8°).  

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complesso universo delle marche tipografiche, che tanto insistentemente mutua lessico e sintassi dal serbatoio dell’emblematica. 1 Nell’ambito dell’estesissimo repertorio disponibile, le preferenze dei circa 200 operatori attivi nei centri dell’Italia meridionale e insulare vanno alle figure geometriche e zoomorfe. Ricorrono all’immagine femminile soltanto i partenopei Cappelli e Salviani ; Stigliola e De Cristoforo con la loro sirena, adottata pure, accanto alla Giustizia, dal palermitano Giovan Francesco Carrara in tre varianti. 2 Tirando le somme, l’allegoria di una città, la prima delle tre virtù cardinali e un mostro marino, da sempre al centro delle fantasie maschili con le valenze più eterogenee. E analogo uso ne fa Bernardino Telesio, 3 pur filosofo e fenomenologo della natura, programmaticamente indagata iuxta propria principia, nel celebre emblema della sua verità, destinato a ricomparire, con lievi differenze, su pressoché tutti i frontespizi delle sue opere dal 1570 in poi, transitando dall’officina del Cacchi a quella del Salviani. In posizione eretta su un una base marmorea, completamente nuda, con il solo manto dei lunghi capelli, investita in pieno dai raggi del sole che la sovrasta. Il motto recita Mona moi fila. La stessa Amica Veritas sarà poi, sempre a Napoli negli anni ’20 del ’600, la marca prescelta da Secondino Roncagliolo, che la concepirà – evidentemente influenzato dalla Iconologia di Ripa, ormai debitamente divulgata – seduta e semivestita, con il globo solare nel palmo della mano destra. Veniamo ora ai libri di storie, narrate o rappresentate, in prosa o in versi, racconti, novelle, poemi o trame teatrali che siano. Quanto agli apparati iconografici del filone, conosciamo la tendenza al risparmio solitamente palesata dalle tipografie partenopee, e non solo, rispetto agli standard del centro-nord. Assisteremo a lungo, in questo contesto, ad una drastica contrazione delle tavole, altrove collocate in apertura di ciascun canto o di ciascun atto, in un’unica immagine 4 che della vicenda è delegata a costituire l’intero compendio figurato. 5 Lontano dai fasti del Furioso e della Liberata, cui i Valgrisi, i Giolito e il genovese Bartoli vanno conferendo quella forma-libro rapidamente assurta al ruolo di archetipo, sugli illustratori meridionali incombe di norma un impegno diverso, quantitativamente più ridotto, ma concettualmente più arduo, soggetto all’imperativo della estrema sintesi. Perché l’editoria del Viceregno si adegui pienamente al canone in uso per l’epica poesia, bisogna aspettare il 1596, quando i soci Carlino e Pace licenziano le Glorie di guerrieri e d’amanti, componimento heroico in ottava rima del tarantino Cataldo Antonio Mannarino, 6 medico, poeta bucolico e autore teatrale, fervente ammiratore di Tasso, ispirato al tentativo turco di assediare la sua città natale, risalente ad appena due anni prima, dunque ad un tema di drammatica attualità. L’in 4° è impreziosito da dieci calcografie a piena pagina, probabilmente da attribuire all’olandese van Buyten, che del volume firma però il solo frontespizio. Se qui e nell’immagine che precede il canto iii le figure femminili sono effigiate all’antica, a stento riconoscibili dietro pesanti armature, all’inizio dei  

1   Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento. Repertorio di figure, simboli e soggetti, e dei relativi motti, Milano, Bibliografica, 1986, 2 voll. 2   Imprescindibile la consultazione di edit 16 e di Mar.te. 3   Giuseppina Zappella, Illustrazione e ornamentazione, in Le cinquecentine napoletane della Biblioteca Universitaria di Napoli, a cura di G. Zappella e Elvira Alone Improta, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, pp. 59-115, e, della stessa, Iconografie partenopee, ivi, pp. 29-33. 4   Si verifica qui il ricorso ad “abbreviazione” e ad “essenzialità iconica” di cui parla Claudia Cieri Via in apertura del suo L’immagine paratestuale tra ritratto e biografia, in *I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. Atti del Convegno Internazionale (Roma-Bologna, 15-19 novembre 2004), a cura di Marco Santoro e Maria Gioia Tavoni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005, pp. 99-120. 5   In proposito, di chi scrive, Il teatro del libro, in Biblioteca Nazionale di Napoli, *Leggere per immagini. Edizioni napoletane illustrate della Biblioteca Nazionale di Napoli. Secoli xvi e xvii, Napoli, Ministero per i Beni e le Attività Culturali/Arte Tipografica, 2005, pp. 38-39. 6   Cfr. Dennis E. Rhodes, Studies in early Italian Printing, London, The Pindar Press, 1982, pp. 195-202.

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canti vi e ix appare una graziosa fanciulla dai lunghi capelli sciolti, questa volta non ricci ma leggermente ondulati, vestita semplicemente e senza monili, in piedi, al fianco di un turco nel primo caso, seduta, sola, sullo sfondo di un paesaggio campestre, nel secondo. Altri racconti e altri poemi, spirituali o amorosi, precedenti o di poco successivi – dalla Clio divina 1 al Giorgio 2 a L’Urania, overo la costante donna 3 alle Rime di Arcangelo Spina 4 a quelle del Sarriano 5 e dello stesso Mannarino 6 – finiscono col rivelarsi, dal nostro punto di vista, assai avari di sorprese. Sul versante dei testi teatrali, poi, ci confrontiamo con una produzione per niente esigua, sebbene al di sotto della media nazionale. 7 Uno sguardo ai titoli, a partire dalla seconda metà del ’500, sempre più di frequente al femminile, come basterebbe a dimostrare ancora una volta il catalogo del solo Della Porta, conferma « la montante presenza della donna sulla scena », direttamente proporzionale, nell’ottica di moralisti e censori, all’aumento del « guadagno diabolico ». 8 Non le viene concesso altrettanto spazio nell’iconografia libraria. Un esempio precoce costituisce la Propalladia, raccolta di commedie dello spagnolo Bartolomé de Torres Naharro, uscita nel 1517 dall’officina del Pasquet de Sallo, il cui frontespizio in rosso e nero reca al centro uno stemma inquadrato in una cornice architettonica. Ai lati, un uomo sulla destra e, sulla sinistra, una donna, con il capo velato e una lunga tunica di foggia classicheggiante, evidentemente delegata, all’insegna della par condicio, a rappresentare la totalità dei personaggi femminili. È più di quanto consentano allo sguardo, per almeno un secolo, tante altre edizioni teatrali, da L’incendio di Troia 9 alle prove del Lunardi 10 a quelle ben più numerose dei due Torelli, 11 alla Susanna 12 al Crispus, 13 al Pompeo Magno, 14 e di favole boscherecce, come Le combattute promesse, 15 la Laurinia, 16 La felice mestitia ; 17 e la lista potrebbe continuare.  









3. Dietro le quinte I dati fin qui esaminati, indicano una sostanziale convergenza, un pareggio di conti, nel circolo delle testimonianze visive, smentendo ancora una volta radicali disparità di segno tra cosiddette ‘arti maggiori’ e ‘arti minori’. Su entrambi i fronti, sembra emergere una decisa latitanza di figure femminili che rispondano ai requisiti di concretezza e verosimiglianza. Appare dunque confermata, chiaramente leggibile in filigrana, una sorta di rimozione collettiva che, se risparmia l’identità di genere in senso stretto, ne investe a pie1

  Di Antonio Sanfelice, Napoli, Amato, 1567, in 4°.   Poema sacro ed eroico di Matteo Donia, Palermo, Maringo, 1599 e 1600, in 4°. 3   Di Felice Passero, edito dal napoletano Roncagliolo nel 1616, in 8°. 4   Napoli, Roncagliolo, 1616, in 4°. 5   La raccolta poetica di Anello Sarriano appare presso lo Scoriggio nel 1622, in 8°. 6   Napoli, Longo, 1617, in 4°. 7   Al riguardo Marco Santoro, Le edizioni sceniche napoletane fra Cinque e Seicento, in Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento con un percorso bibliografico, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 93-124. 8   Ivi, p. 103. 9   Di Anello Paolillo, Napoli, Scoto, 1566, in 8°. 10   Tiberio Lunardi, Il servo fedele comedia nuova, Napoli, Carlino, 1607, in 12°. 11   Di Giulio Cesare va ancora segnalata L’ancora (1622), e di Augusto Li figli ritrovati (Napoli, Longo & Montanaro, 1629, in 12°). 12   Antonio Pepe, La Susanna, Napoli, Roncagliolo, 1618, in 12°. 13   Di Bernardino Stefonio, Napoli, Longo, 1604, in 12°. 14   Di Orazio Persio, Napoli, Sottile, 1604, in 12°. 15   Di Ludovico Bartolaia della Mirandola, Napoli, Sottile, 1607, in 12°. 16   Giuseppe Vecchi, Laurinia favola boschereccia, Napoli, Carlino & Vitale, 1611, in 12°. 17   Di Marcello Ramignani, Napoli, Carlino, 1613, in 12°. 2

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no il ruolo esistenziale, psicologico e sociale. Se non sante né dee, e nemmeno regine o principesse di sangue, la loro trasparenza nelle immagini incise è subordinata all’obbligo dell’anamorfosi : allegorie o mostri marini, alati o caudati, sirene e cariatidi, purché il più difformi possibile da com’erano veramente. Ma, sia pure sporadicamente, e per pochi centimetri quadrati, il velo spesso e compatto, così accuratamente steso sulla donna reale, viene sollevato per un lembo, scoprendo inaspettatamente lucidi fotogrammi in deroga alla tendenza generale. A partire dai testi di grammatica, dove sarebbe lecito aspettarsi qualche riconoscimento in termini di visibilità al ruolo di mediazione didattica di primo livello, svolto dalle madri nei confronti della loro prole. 1 Invece, sui pochi frontespizi illustrati campeggia di solito la scena dell’Annunciazione, 2 ribadendo nuovamente quella volontà di trasporre la quotidianità degli impegni familiari e domestici nell’alveo di una trascendenza sacra o profana. Proprio qui, però, ci imbattiamo in un segnale dissonante, di interesse ancora maggiore in virtù della data precoce, il 1517. Si tratta della vignetta, poi ripetuta in più edizioni, che introduce la Grammaticen del doctissimus vir Aurelio Bienato (De Caneto, in 4°). Alle spalle dell’anziano e autorevole Maestro che scrive, in piedi, al suo tavolo di lavoro, coperto – ora sì – da libri e leggìi, compare la figura di una donna magra e discreta, forse una domestica o la congiunta di un allievo, certo intimidita da tanto sapere, che reca un omaggio floreale, da deporre nel luogo che le viene nel frattempo indicato da un tacito gesto. Cronologicamente vicina un’altra tessera, tratta dal quel fecondo filone promiscuo, in cui convivono, in chiave umanistica, trattatistica e scrittura epistolare. Autore del testo è di nuovo il Britonio, come è noto, membro del circolo ischitano di Vittoria Colonna, e – pare – a lungo suo spasimante, che ora consegna ai torchi del solito Presenzani un breve messaggio rivolto alla giovane moglie, al solo scopo di liberarla dall’assurdo timore di un secondo diluvio universale, 3 tragica conseguenza dell’infausta congiunzione astrologica prevista proprio in quel 1524. Ebbene, nella consueta cornice lignea a motivi floreali che circonda il titolo, è chiaramente riconoscibile – specularmente duplicata, e in entrambi i casi sormontata dai pinnacoli di una cattedrale gotica – una silhouette femminile, con una mano protesa in avanti, quasi oltre i confini del libro, come a schivare un pericolo incombente. Nonostante la decontestualizzazione, appaiono nella debita evidenza i lunghi capelli, il ricamo del corpetto e il collier, da cui pende un prezioso ciondolo ; ma, di lei, soprattutto colpisce l’espressione affranta, mista di tristezza e paura, e quasi se ne intuisce il pallore. Fragile e sottile, si fa largo tra i racemi ben più di una sagoma, una donna vera, una delle tante afflitte dal pensiero dell’imminente catastrofe – per altro da anni al centro di un dibattito fra intellettuali e scienziati a livello europeo –, oltre che da scrupoli e terrori irrazionali, spesso rinfocolati da profezie inquietanti e da prediche apocalittiche, certo raramente gratificate dalla comprensione coniugale, e ancor più raramente accolte dal legno delle matrici. Inoltre, attrae l’attenzione, nelle pieghe della straripante produzione religiosa di fine ’500, e più precisamente in quella fortunata manualistica, divulgativa e di regola illustra 



1   Della vasta bibliografia sull’argomento, rinvio qui soltanto a Maria Consiglia Napoli, Lettura e circolazione del libro tra le classi popolari a Napoli tra ’500 e ’600, in *Sulle vie della scrittura : alfabetizzazione, cultura scritta e istituzioni in età moderna. Atti del Convegno (Salerno, 10-12 marzo 1987), a cura di Maria Rosaria Pelizzari, Napoli, esi, 1989, pp. 375-390, e a Tiziana Plebani, Il “genere” dei libri. Storia e rappresentazione della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo e età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. 2   Ad esempio, il Trattato copiosissimo et utilissimo del catanzarese Pietro Salerno (Vico Equense, Carlino & Pace, 1599, 3 voll. in 8°), il Compendietto che ne venne tratto, stampato dal solo Carlino nel 1600 nel medesimo formato, e la Partium Orationis Instructio di Giovanni Maria Saccente (Vico Equense, Cacchi, 1586, ancora in 8°). 3   Il titolo completo suona Epistola Hieronymi Britonii neapolitani, de inani diluvii metu, ad coniugem.  

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ta (almeno fino alla svolta che di lì a poco le imprimerà il Bellarmino), che insegna al fedele l’arte di ben morire, la stampa realizzata nel ’91 dal Salviani, curatore Tommaso Costo. Tra le xilografie, in realtà abbastanza stereotipate, che corredano l’opuscolo, più di una scena include presenze femminili, non nel ruolo di protagoniste (l’agonizzante è sempre un uomo), ma in qualità di spettatrici della drammatica psicomachia che si consuma nella loro casa. A proposito della seconda, e per molti versi la più insidiosa, delle sette tentazioni diaboliche contemplate dal testo, quella della disperazione, al capezzale del moribondo la presenza femminile appare particolarmente densa di significati, come dimostra l’inquietante prossimità di Satana in persona al suo fianco, con il monito minaccioso ‘Periturus es’. Alla figura composta e dignitosa della futura vedova viene qui in qualche modo affiancata l’ombra di un’altra donna, l’estranea, l’intrusa. Una creatura ormai irreale, il frutto di una angosciosa allucinazione, il triste ricordo di un peccato frequentemente compiuto, l’oggetto di Fig. 3. un desiderio indebitamente appagato, a costo della trasgressione al VI comandamento, che irrompe inopportuno nel teatro della coscienza, con l’inquietante aggressività del revenant, a ipotecare la speranza della salvezza eterna, senza nulla perdere, tuttavia, della originaria fascinazione fisica. Una cifra stilistica piuttosto simile, ma ancora più sobria ed essenziale, fino alla parsimonia di dettagli, solitamente destinata ai prodotti medio-bassi di largo consumo, caratterizza la vignetta che introduce un opuscolo in 8°, di sole 7 carte. È un poemetto in terza rima siciliana del medico e naturalista Leonardo Omodeo, apparso a Palermo nel 1624 presso il Rosselli, conservato, in un unico esemplare, in una corposa miscellanea della Biblioteca Augusta di Perugia, per concludere questo lacunoso excursus proprio nella terra da cui è cominciato. Se a Napoli, alcuni anni prima, era stato pubblicato in traduzione italiana il ponderoso Trattato della perfetta maritata dell’agostiniano spagnolo Luis de León, 1 il titolo del breve componimento suona Risposta in faguri di li donni mali maritati, una autentica apologia del sesso debole, fedele, attivo, appassionato, troppo spesso ridotto in cattività da consorti avari, irascibili, fedifraghi e, ciò nonostante, aprioristicamente gelosi, giocata sulla mescolanza di reminiscenze mitologiche e toni di schietto realismo, la cui indubbia 1

  Da Carlino & Pace, nel 1598, in 8°.

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efficacia meriterebbe qualche attenzione anche in sede filologico-letteraria. Che si tratti o meni di riuso, la corrispondenza del testo con l’immagine frontespiziale, ancora una volta, è tutt’altro che univoca e perspicua. Il riquadro appare tripartito, come a suggerire una sequenza cronologica in tre tempi, le tre tappe di un itinerario esistenziale e ideale insieme, destinato a culminare nell’atto della scrittura femminile (Fig. 3). Per giunta non epistolare, a giudicare dalle dimensioni del tomo, non copiato né suggerito da ispirazione divina, ma vergato in prima persona, inequivocabilmente in veste di auctor. Riconoscimento che sappiamo bene quanto l’iconografia dell’epoca fosse restìa a conferire alle donne, a meno che non abbiano l’aureola di Caterina de Vigri, 1 o redigano il precipitato di celesti Rivelationi come Caterina da Siena e Brigida di Svezia. Dalla venerazione dell’idolo maschile, in cima a un piedistallo, che richiama alla mente miniature di manoscritti assai più antichi, 2 alla fase dell’emancipazione, alla catarsi di una probabile autobiografia, che coglie forse l’allusione alle carte – con vicende di donne narrate da uomini – contenuta negli ultimi versi. E, secondo questa ipotesi, la figura supererebbe il messaggio verbale in audacia, e di gran lunga. Pochi ma significativi segnali che, dalla distanza, preludevano alla definizione di nuovi orizzonti. La svolta senza ritorno, probabilmente, a partire dal 1641 – quando a Napoli è già da tempo attivo Nicolas Perrey – con il Tractatus de personis, quae in statu reprobo versantur del giurista Antonio Ricciulli, un in folio il cui frontespizio figurato sfrutta a pieno la duttilità della calcografia. Dove l’indubbia sopravvivenza di un gusto rétro viene chiaramente riassorbita, in qualche modo sopraffatta, dal prevalere del barocco montante. E dai palchi, ancora paratattici ma ugualmente scenografici, di quel libro-teatro, nel novero degli ambigui personaggi che si protendono verso il pubblico, spiccano due donne in carne ed ossa (o meglio, in carta ed ossa), riconoscibili come mezzane o prostitute in virtù dell’abbigliamento e del trucco, che si intuisce volutamente eccessivo. Ma questa, dal nostro osservatorio, è storia ancora a venire. Seconda Università degli Studi di Napoli Se per le cosiddette arti maggiori viene da tempo sottolineata la dominante mitologica e religiosa, gli apparati iconografici dell’editoria meridionale, dall’incunabolistica al primo Seicento, tendono a declinare l’immagine della donna prevalentemente in chiave allegorica. A differenza di quanto accade al Nord e Oltralpe, frontespizi figurati, antiporte, tavole e marche tipografiche avvolgono regolarmente volti e corpi femminili in una densa cortina di attributi simbolici, evitando ogni cedimento alla verosimiglianza. Al canone si sottraggono però gli squarci realistici di alcune poco note ma quanto mai significative vignette, quasi sempre xilografiche, per lo più appartenenti a stampe di scarsa consistenza e di piccolo formato, palesemente destinate al largo consumo. While for the so-called major arts the mythological and religious dominant has been highlighted for a long time now, the iconographic apparatuses of the southern publishing industry, from incunabolist studies to the early 17th century, tend to a look at the image of woman only from an allegorical perspective. As opposed to what happens in the North or beyond the Alps, illustrated pediments, outer doors, plates and printed marks regularly wrap female faces and bodies in a thick curtain of symbolic features, without slipping into any likelihood. But the realistic glimpses of some scarcely known but significant vignettes, mostly xylographic ones from insubstantial and small prints, clearly designed for mass consumption, escape however such cliché. 1   Al riguardo Gabriella Zarri, La vita religiosa tra Rinascimento e Controriforma. Sponsa Christi : Nozze mistiche e professione monastica, in Monaca moglie serva cortigiana, cit., pp. 144-145. 2   Devo la segnalazione ad Alessandra Perriccioli Saggese, della quale cfr. I codici cavallereschi miniati a Napoli, Napoli, sen, 1979.  

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Si dans lesdits arts majeurs est depuis longtemps soulignée la dominante mythologique et religieuse, les décors iconographiques de l’édition méridionale, de l’étude des incunables au début du xviie siècle, tendent à décliner l’image de la femme principalement sous une clé allégorique. À la différence de ce qui arrive au Nord et au-delà des Alpes, frontispices figurés, planches et marques typographiques enveloppent régulièrement les visages et les corps féminins dans un dense rideau d’attributs symboliques, évitant de se plier à toute vraisemblance. Au canon se soustraient les morceaux réalistes de certaines illustrations peu connues mais significatives, presque toujours xylographiques, la plupart appartenant à des journaux de petite consistance et de petit format, manifestement destinés au grand public. Si para las denominadas artes mayores se subraya desde hace tiempo el carácter dominante mitológico y religioso, los aparatos iconográficos del mundo editorial meridional, desde los incunables hasta principios del siglo xvii, tienden a declinar la imagen de la mujer en clave alegórica principalmente. A diferencia de lo que sucede en el norte y más allá de los Alpes, portadas figuradas, contraportadas, ilustraciones y marcas tipográficas, envuelven casi siempre caras y cuerpos femeninos en una densa cortina de atributos simbólicos, evitando ceder a la verosimilitud. Al canon se sustraen los pasajes realísticos de algunas poco conocidas pero significativas viñetas, casi siempre xilográficas, que pertenecen a grabados de poca consistencia y de pequeño formato, evidentemente destinadas a un amplio consumo. Während in den sogenannten arti maggiori schon seit einiger Zeit die mythologische und religiöse Dominante unterstrichen wird, tendieren die ikonografischen Apparate des süditalienischen Buchdrucks, die Inkunabeln des frühen Seicento dazu, das Bild der Frau hauptsächlich in allegorischer Form wiederzugeben. Im Unterschied zu dem, was in Norditalien und auf der Alpennordseite geschieht, hüllen bildlich dargestellte Frontispize das weibliche Antlitz und ihren Körper regelmäßig in symbolische Attribute und vereiteln damit jede naturgetreue Darstellung. Dem Kanon entziehen sich jedoch die realistischen Szenen einiger wenig bekannter, aber bedeutender Karikaturen, fast immer Holzschnitte und vorwiegend aus wenig konsistenten und kleinformatigen Drucken stammend, die ganz offensichtlich für die weite Verbreitung als Gebrauchskunst konzipiert waren.

LE DONNE e LE ARTI figurative nel rinascimento NAPOLETANo : pratica artistica, committenza e iconografia  

Cettina Lenza

R

ispetto alla crescente attenzione dedicata al ruolo rivestito dalle donne nelle vicende storiche e culturali della Penisola tra Quattro e Cinquecento, e ai numerosi studi che hanno recentemente arricchito la bibliografia, ancora scarsi risultano i contributi riferiti alla produzione figurativa napoletana, e ciò sia per la donna in veste di artista o di committente, sia per i soggetti femminili presenti nell’iconografia. Su tali temi, partendo dai dati disponibili e dagli esempi più significativi, tenteremo di delineare alcuni percorsi di ricerca i quali, benché distinti per la natura delle fonti e per il metodo d’indagine, potranno, congiuntamente, contribuire a definire la condizione della donna nella società e nel sistema di valori del Rinascimento meridionale. Le donne e la pratica artistica Rare le tracce relative a un’attività artistica femminile nel xv e xvi secolo, in contrasto con quanto affermato nel 1550 dal Vasari, introducendo la vita della scultrice bolognese Properzia de’ Rossi, secondo cui « in nessun’altra età […] che nella nostra » si sarebbe altrettanto manifestata l’eccellenza delle donne, al punto da acquistare « grandissima fama » non solo nello studio delle lettere, « ma eziandio in tutte l’altre facultà », 1 comprese le arti del disegno. Se, comunque, lo stesso biografo si limita a illustrare pochi casi eccellenti di artiste moderne, per quelle napoletane occorrerà attendere le Vite del De Dominici che, nel Settecento, ne apre il ristretto manipolo con Mariangiola Criscuolo, figura dagli incerti confini storici, attiva nella seconda metà del Cinquecento, per la quale la ricerca documentaria non ha sinora fornito alcun riscontro e la critica recente sta, con non pochi dubbi, cercando di verificarne il catalogo. 2 In effetti, la sua biografia restituisce un profilo del tutto in linea con i più scontati topoi della letteratura agiografica, soffermandosi a segnalare le virtù morali della pittrice più che a descriverne le opere ; atteggiamento che, oltre a mascherare, probabilmente, gli insufficienti elementi a conoscenza dell’autore, 3 riflette nella reticenza delle fonti il significato ancora socialmente ambiguo rivestito a quell’epoca dall’esercizio delle arti figurative da parte delle donne. Non era probabilmente bastato, in tal senso, l’avallo di una tradizione letteraria che,  













1   Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Firenze, per i tipi di Lorenzo Torrentino, 1550, p. 774. 2   Cfr. Bernardo De Dominici, Vite de’pittori, scultori ed architetti napoletani, edizione commentata a cura di Fiorella Sricchia Santoro e Andrea Zezza, vol. i, Napoli, Paparo, 2003, pp. 835-839, Vita di Mariangiola Criscuolo pittrice, con nota critica introduttiva di A. Zezza. 3   Secondo Andrea Zezza, lo spazio riservato « ad una serie di temi di repertorio, dal sapore esemplare e pedagogico » scompare allorché l’autore tratterà di artiste a lui più vicine, potendosi avvalere di più certi dati biografici e di una conoscenza diretta delle opere, come per Maria De Dominici o Teresa del Po. Ivi, nota critica introduttiva alla Vita di Suor Luisa Capomazza pittrice, vol. ii, t. i, Napoli, Paparo, 2008, p. 169.  



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Fig. 1. Colantonio, particolare della predella del Polittico di San Vincenzo Ferrer con Isabella di Chiaromonte in preghiera, già nella chiesa di San Pietro Martire in Napoli, oggi al Museo Nazionale di Capodimonte (da Pane, 1975).

inaugurata dalla Naturalis Historia di Plinio, tornata in auge nella nuova temperie di studi classici, era stata rinverdita dal De Mulieribus Claris di Giovanni Boccaccio – nei cui numerosi codici miniati non mancano figurazioni con donne pittrici e addirittura scultrici 1 – e dal De Pictura di Leon Battista Alberti, dove l’elenco pliniano si condensa nell’elogio di Marzia, figlia di Varrone : 2 testo, quest’ultimo, particolarmente indicativo, considerato l’intento del trattato di elevare la pittura, ancora confinata nel novero delle artes mechanicae, al rango delle attività liberali. In realtà, a fronte della penuria di esempi di pittrici celebri, altre forme di attività artistica dovettero essere abbastanza diffuse presso le donne. Giovan Battista del Tufo elogia, nel suo cinquecentesco Ritratto o modello delle grandezze delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli, la raffinatezza della produzione domestica di ricami e merletti ; 3 così come un rilevante contributo può essere ipotizzato per un più ampio spettro di ‘arti applicate’, in una linea di continuità con la consuetudine medievale, che sotto l’appellativo di ‘arti preziose’ includeva quel variegato insieme di pratiche decorative in uso segnatamente nelle numerose e fiorenti  



1   Cfr. Angela Ghirardi, Lavinia Fontana allo specchio. Pittrici e autoritratto nel secondo Cinquecento, in *Lavinia Fontana (1552-1614), catalogo della mostra (Bologna 1994) a cura di Vera Fortunati, Milano, Electa, 1994, pp. 37-51 ; Irene Graziani, Ritratto di Madonna Properzia de’ Rossi scultrice, in Vera Fortunati, Irene Graziani, Properzia de’ Rossi. Una scultrice a Bologna nell’età di Carlo V, Bologna, Compositori, 2008, pp. 29-43. 2   « Questa facultà di dipingere fu d’honore ancho a le femine. Martia figliuola di Varrone è celebrata da gli scrittori, perch’ella dipinse ». Leon Battista Alberti, La pittura […] tradotta per M. Lodovico Domenichi, Venezia, Appresso Gabriel Giolito de Ferrari, mdxlvii, p. 20v ; rist. anast., Sala Bolognese, Forni, 1988. 3   Cfr. Mario Rotili, L’arte del Cinquecento nel Regno di Napoli (1972), Napoli, Società editrice napoletana, 19762.  







le donne e le arti figurative nel rinascimento napoletano

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comunità monastiche, tramandate dai ricettari ed estese, già con la Schedula diversarum artium di Teofilo, a comprendere la pittura su diversi supporti, inclusa la miniatura. Qualche indizio di un esercizio delle arti rientrante nella formazione femminile – Baldassar Castiglione nel Cortegiano indica necessario per la ‘donna di palazzo’ avere nozioni di lettere, di musica e di pittura – lo fornisce lo stesso De Dominici, laddove accenna ad « alcune discepole » che venivano alla scuola della Criscuolo per applicarsi alla pittura, tra cui, oltre – a suo dire – la pittrice suor Luisa Capomazza, anche un’incognita allieva « che lavorò di minio, come ancora lavorò figurette di cera » ; ma anche tali informazioni vengono riportate nell’alveo moralistico già rimarcato, precisando che « alcune signore sue conoscenti, tratte dalla bontà della vita, mandavano a lei le loro figliuole, per farle ammaestrare, non tanto nella virtuosa applicazione della pittura, quanto che da lei apprendessero il buono esempio della vita cristiana e divota ; conciosiacosaché era Mariangiola tenuta per timorata di Dio, anzi per uno specchio di christiana bontà ». 1 Né manca qualche traccia anche per la scultura, a sua volta insieme diversificato di pratiche a seconda dei materiali e dunque delle tecniche adoperate, distintamente registrate dal lessico. Se l’accentuato carattere meccanico della lavorazione della pietra rende ancor più anomala la presenza femminile – come non si manca di sottolineare persino nella cinquecentesca disputa sul primato tra le arti – più diffusa dovette essere la modellazione in cera o in creta (fingere, foggiare in una massa molle) già ricordata dal De Dominici. Lo conferma il De Sculptura di Pomponio Gaurico, dove, nel capitolo De claris sculptoribus, et primum de iis qui in Plastica floruerint, si elogia, tra i moderni, il modenese Guido Mazzoni, autore della Pietà di Monteoliveto, precisando : « Uxor etiam eius finxit et filia », 2 il che fa trasparire un’attività femminile nell’ambito delle botteghe a carattere familiare in gran parte ancora ignorata dalla storiografia artistica.  





















Committenza artistica femminile e circolazione di modelli Altrettanto limitate le conoscenze sul versante della committenza femminile a Napoli, a differenza del ruolo accertato che le donne d’Aragona svolsero nella produzione artistica presso le altre corti della Penisola, sia giovandosi delle disponibilità dei propri appannaggi, sia avvalendosi di una relativa autonomia nella gestione delle spese di corte. Emblematico, in tal senso, il caso di Eleonora, figlia di Ferrante e moglie di Ercole I d’Este, 3 che, tra l’altro, rese esplicito omaggio alla sua città natale commissionando nel 1485, per il proprio appartamento, un affresco di Napoli « retrat[a] dal naturale ». La veduta doveva presentare strette analogie con la celeberrima Tavola Strozzi, esibendo in primo piano il « mare azuro », con « nave et galee », il molo e la Torre di San Vincenzo, e in secondo piano i principali monumenti della città : Castel dell’Ovo, Castel Nuovo, « la montagna sopra Napoli como Castelo Santo Olmo » e « li zardini di Napoli per suxo retrati e […] fati de naturale de più sorte » ; 4 il tutto animato da figurine umane e da animali – dalla giraffa al montone – atti a conferire un carattere esotico, da giardino incantato, al ricordo del paese d’origine.  























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  B. De Dominici, Vite …, cit., vol. i, p. 839.   Pomponius Gauricus, De sculptura liber […] Omnia accuratius edita (1504), [Anversa], s.t., 1609, p. 110. 3   Tra i contributi recenti specificamente indirizzati al tema, cfr. Bruce L. Edelstein, Nobildonne napoletane e committenza : Eleonora d’Aragona ed Eleonora di Toledo a confronto, « Quaderni storici », xxxv (2000), 104/2, pp. 295330 ; Marco Folin, La corte della duchessa : Eleonora d’Aragona a Ferrara, in *Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008, pp. 481-512. Nello stesso volume si segnalano, per il contesto napoletano, gli studi di Elisa Novi Chavarria (pp. 361-374), Vittoria Fiorelli (pp. 445-462), Elena Papagna (pp. 535-574) e Michele Cassese (pp. 669-707). 4   Sulla veduta di Napoli, tema probabilmente presente nella decorazione anche di altri ambienti destinati ai figli di Eleonora, cfr. Thomas Tuohy, Herculean Ferrara: Ercole d’Este, 1471-1505, and the invention of a ducal capital, Cambridge, Cambridge University Press, 1996 (20022). 2











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Fig. 2. Sepolcro della regina Sancia di Maiorca nella demolita chiesa della Croce al largo di Palazzo in Napoli (da Séroux d’Agincourt, 1823).

Ma il legame con la città di riferimento della propria casata va oltre un tributo, nostalgico o celebrativo, per tradursi nell’importazione di modelli partenopei. A Eleonora si deve lo spostamento della propria residenza, dal palazzo del Signore, domus a carattere prettamente civile consona alla tradizione cittadina e comunale degli Este, a Castelvecchio, radicalmente trasformando la rocca militare in appartamento regale, a partire dal 1477, in analogia alla ricostruzione quale reggia aragonese di Castelnuovo, aprendovi balconi e logge e introducendovi giardini. 1 In particolare, il giardino pensile costruito sulla cortina orientale del castello, e quello a nord, oltre il fossato, riservato agli svaghi delle dame, ricordato da Sabadino degli Arienti come « felicissimo zardino », con fontane, bagni, pergolati, alberi da frutta e cespugli odorosi e fioriti, che « ne fa pensare la delicia de quello del regno del Paradiso », sembra riproporre i giardini di Castelnuovo, come il « giardino del Paradiso », il recinto coltivato davanti alla Torre della Guardia. Un contributo significativo, dunque, che giunge a interessare la stessa attività edilizia e a influenzare, modificandone gli equilibri spaziali e simbolici, gli sviluppi urbani, il quale, ormai accertato in altri centri della penisola, resta da indagare, invece, proprio a Napoli. Tutto lascia infatti presumere, anche qui, un influsso femminile nella realizzazione di loci amoeni, caratterizzati da fontane e verzura, come la villa di Poggioreale, dove il soggiorno è allietato da vasche e giochi d’acqua, e soprattutto la Duchesca, villa preferita da Ippolita Maria Sforza, moglie (dal 1465) di Alfonso, duca di Calabria, ipotesi di lavoro che solo una più approfondita indagine sulle fonti potrà confermare.  











1

  Cfr. M. Folin, La corte della duchessa …, cit.

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Fig. 3. Giovanni Merliano da Nola, sepolcro di don Pedro de Toledo e di Maria Ossorio Pimentel, Napoli, chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, particolare (per gentile concessione Agenzia Napoli Centrale, copyright Enzo Barbieri).

Non v’è dubbio, inoltre, che tale circolazione di modelli investa a sua volta la capitale partenopea in un movimento di ‘ritorno’ dagli altri centri verso i quali si è irradiata la dinastia aragonese. Evidente caso di ‘importazione’ di modelli artistici è proprio la ricordata Pietà di Guido Mazzoni, giunto a Napoli nel 1488, commissionata da Alfonso d’Aragona sulla scorta di quanto eseguito dall’artista al servizio della sorella Eleonora a Ferrara. Mazzoni replica, infatti, nel celebre gruppo di Monteoliveto, una soluzione figurativa già introdotta a Modena nell’oratorio di San Giovanni, nel 1476-79, e a Ferrara nella chiesa di Santa Maria della Rosa (c. 1485). Soprattutto, sulla scorta di quanto operato alla corte estense, anche a Napoli Mazzoni adotta, a scopo devozionale, fattezze dei membri della famiglia reale nelle statue dei personaggi che partecipano al compianto intorno al corpo del Cristo morto, includendovi le donne della casata : Roberto Pane ha proposto appunto di riconoscere nella Maria di Cleofa che sostiene la Vergine la stessa Eleonora, in analogia con quanto realizzato, sebbene con diveresa posa, a Ferrara, mentre l’altra pia donna presenterebbe le sembianze di Beatrice, già moglie di Mattia Corvino e regina d’Ungheria, e la Maddalena quelle di Isabella. 1 Un esempio che evidenzia come quel complesso interscambio d’influenze nella vita artistica delle corti rinascimentali ebbe, nelle donne di casa d’Aragona, uno dei suoi tramiti fondamentali, sia grazie alla loro presenza nei principali fulcri della Penisola, sia mediante le molteplici relazioni intrattenute, anche a distanza, con il regno di Napoli, dove, peraltro, tornano, dopo la vedovanza, Beatrice d’Ungheria e Isabella d’Aragona con la figlia Bona Sforza.  

Le virtù delle donne nel filtro dell’iconografia Tra i più noti episodi di committenza femminile a Napoli è il polittico di San Vincenzo 1   Cfr. Roberto Pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Milano, Edizioni di Comunità, 1977, ii, pp. 75-100. Più controversa l’identificazione dei personaggi maschili delle statue, secondo l’autore originariamente quattro.

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Ferrer fatto eseguire dopo il 1455, anno di canonizzazione del santo, da Isabella di Chiaromonte, moglie di Ferrante, per la chiesa domenicana di San Pietro Martire (Fig. 1). Il dipinto, menzionato nella celebre lettera del Summonte a Marcantonio Michiel del 20 marzo 1524 tra le opere di Colantonio, definito con orgoglio « nostro napolitano [...] che, se non moriva iovene, era per fare cose grandi », oltre a offrire una rilevante testimonianza di matronage proprio in relazione alla scelta del pittore dall’ambiente artistico locale, si traduce in veicolo di un messaggio ideologico riferito al sistema di valori associato alle donne di corte. Nel rendere omaggio al santo, del quale Isabella si professava particolarmente devota, il polittico assolve infatti anche il compito di tramandare l’immagine pubblica della duchessa di Calabria. L’intento celebrativo ricorre, in questo caso, a una soluzione iconografica peculiare, esulando sia dallo schema canonico del ritratto, sia dall’inserimento dell’offerente/committente nella sacra rappresentazione : Isabella figura infatti, insieme ai figli Alfonso ed Eleonora, nel riquadro centrale della predella che interrompe l’illustrazione degli episodi della vita del santo, rappresentata – si sarebbe tentati di dire ‘sorpresa’ dalla figura dell’anziano cameriere che scosta il tendaggio – in una scena di vita privata, ambientata – secondo una somiglianza rilevata da Pane 2 – nella cappella palatina di Castelnuovo. Vestita con abito severo e con il capo ricoperto dalla tipica magnosa, la fine pezzuola di tela ricamata o di seta della donne meridionali, 3 Isabella esibisce al contempo morigeratezza e costumi partenopei, confermando la descrizione propostane da Sabadino degli Arienti, laddove ricorda che « li suoi habiti et vestiti furono neapolitani et modestissimi senza ostenzione de le pumpe ». 4 Anche l’ambientazione e l’atteggiamento (inginocchiata, e intenta alla lettura di un libro di preghiera), apparentemente convenzionali, non sono privi significato politico. Una chiave interpretativa la fornisce il Memoriale di Diomede Carafa a Beatrice d’Aragona, sintesi di consigli indirizzati alla nuova regina d’Ungheria, che in più luoghi sottolinea i benefici della pubblica manifestazione del sentimento religioso, dal momento che l’esibizione della devota condotta contribuisce a educare il popolo e ad accrescerne il favore. 5 In qualche caso – e proprio il De Regis et boni principis officio scritto dallo stesso Carafa per Eleonora d’Aragona ne è una dimostrazione 6 – l’universo delle virtù consigliate alle 1











1   Ferdinando Bologna data il dipinto al 1460, ponendolo in relazione con il periodo di reggenza di Isabella durante la guerra dei baroni. Cfr. Mostra del ritratto storico napoletano, Napoli, Palazzo Reale, ottobre-novembre 1954, catalogo a cura di Gino Doria e Ferdinando Bologna, prefazione di Amedeo Maiuri, Napoli, Ente Provinciale per il Turismo, 1954, pp. 4-5. Sulla base dell’analisi delle armi presenti nella raffigurazione, la datazione è invece anticipata al 1455-56 da Gennaro Toscano, A propos du retable de saint Vincent Ferrier peint par Colantonio, in *Il più dolce lavorare che sia. Mélanges en l’honneur de Mauro Natale, a cura di Frédéric Elsig, Noémie Etienne, Grégoire Extermann, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2009, pp. 409-416. 2   R. Pane, Il Rinascimento …, cit., vol. i, p. 75. 3   Per la descrizione dell’abito, cfr. Lina Montalto, La corte di Alfonso I di Aragona.Vesti e gale, Napoli, Ricciardi, 1922. 4   Giovanni Sabadino degli Arienti, Gynevera de le clare Donne, ed. a cura di Corrado Ricci e Alberto Bacchi della Lega, Bologna, Romagnoli-Dell’Acqua Editore, 1888 (rist. anast. Bologna 1969), p. 245. 5   « Tutte le cose del mondo se havino da postponere in havere la debita reverentia ad lo omnipotente dio, como in secreto como in publico […], et tanto so più queste cose necessarie ali grandi Ri et Regine et principi quanto non solo fando fructo per ipsi farlo, ma ce donano exemplo ad sui subditi et circurmstanti, che se vede sono exempli grandissimi, che subditi sequino et fanno quello vedono fare a lloro signorie » : Diomede Carafa, Memoriale a Beatrice d’Aragona Regina d’Ungheria di Diomede Carafa conte di Maddaloni pubblicato con introduzione da Benedetto Croce, Napoli, s.e., 1895, p. 30. Lo stesso Carafa consigliava a Beatrice, nelle tappe del suo viaggio in Ungheria, di sostare in preghiera nella chiesa principale di ogni paese, non solo a edificazione dei locali, ma degli stessi accompagnatori ungheresi, presso i quali simili atteggiamenti « farranno tale impressione de vui, che, quando sarrite lla, haverrite poco da fare ». Ivi, p. 31. 6   L’unico riferimento a una debolezza propria della condizione femminile, su cui il Carafa mette in guardia Eleonora, riguarda il fatto che « Innatum foeminis esse, ut nihil retinere possint » : Diomede Carafa, De Regis et  















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Fig. 4. Arco di Alfonso in Castelnuovo, Napoli: il trionfo di Alfonso.

‘donne di potere’ nella letteratura dell’epoca si approssima a quello maschile, coinvolgendo anche il registro iconografico : le quattro virtù cardinali – Giustizia, Temperanza, Fortezza e Prudenza – che figurano nell’ultimo ordine dell’Arco di Alfonso in Castelnuovo, esibendo la perfezione morale del princeps, 1 ritornano, sia pure allusivamente, nei medaglioni miniati che decorano il codice parmense del citato Memoriale a Beatrice d’Ungheria, già segnalati da Croce. 2 Ma una simile attribuzione di doti distintive degli uomini resta comunque un’eccezione, ed è funzionale a legittimare il trasferimento di ruoli nelle occasioni in cui occorra alla moglie subentrare al marito – per la sua assenza dovuta a malattia o alla guerra – nel governo dello Stato, assommando i compiti propri di un regnante a quelli solitamente attribuiti alle consorti nella gestione della vita della famiglia e della corte, o nelle opere di beneficenza e nella protezione dei monasteri cittadini. Nella più ampia generalità dei casi, tanto nella produzione encomiastica che figurativa, alle prerogative regali si coniuga piuttosto un esplicito richiamo alla pietas religiosa, secondo un duplice livello simbolico di cui aveva offerto un paradigma il perduto monumento trecentesco della regina Sancia di Maiorca, seconda moglie di Roberto d’Angiò, un tempo presente nella chiesa annessa al convento di Santa Croce al largo di Palazzo, da lei fondato, prima delle radicali trasformazioni dell’area agli inizi del xix secolo. Nei bassorilievi dell’urna, tramandatici da una tavola dell’Histoire de l’art par les Monumens di Séroux d’Agincourt, 3 Sancia è rappresentata, sui due distinti fronti, nel doppio ruolo : vale a dire come regina, in dimensioni maggiori (consone alla sua maiestas) e fregiata degli attributi regali, nell’atto  



boni Principis officio opusculum a Diomede Carafa, Primo Magdalunensium Comite compositum, Neapoli, apud Castaldum, 1668, p. 16. 1   Per una specifica lettura si rinvia al recente contributo di Patrizia Graziano, L’Arco di Alfonso. Ideologie giuridiche e iconografia nella Napoli aragonese, Napoli, Editoriale Scientifica, 2009. 2   D. Carafa, Memoriale a Beatrice d’Aragona …, cit. La circostanza è richiamata anche da B. L. Edelstein, Nobildonne napoletane …, cit., che sottolinea la presenza del tema delle virtù cardinali anche nelle opere commissionate da Eleonora di Toledo. 3   Cfr. Jean-Baptiste-Louis-Georges Séroux d’Agincourt, Histoire de l’art par les monumens, depuis sa décadence au ive jusqu’à son renouvellement au xvie  par J. B. L. G. Seroux d’Agincourt. Ouvrage enrichi de 325 Planches, Treuttel et Würtz, Paris, 1823.

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Fig. 5. Arco di Alfonso in Castelnuovo, Napoli: particolare del trionfo con il busto femminile nel timpano dell’architettura di fondo (per gentile concessione della Fototeca della Soprintendenza per il P.S.A.E. e del Polo Museale della Città di Napoli).

di ricevere in trono l’omaggio dei frati e delle clarisse ; e, deposta la corona ai suoi piedi, con l’abito religioso, condividendo il cibo con le altre consorelle presso le quali si era ritirata nel 1344, dopo la morte del marito, incarnando così quel rapporto humilis-sublimis penetrato nella lezione degli ordini mendicanti1 (Fig. 2). La scultura dei sepolcri rappresenta un ulteriore e fecondo ambito d’investigazione sull’iconografia delle virtù delle nobildonne, specie allorché, dalla rigida rappresentazione della morte, si passerà alle pose ‘vive’ o dormienti delle opere di Giovanni Merliano da Nola : come nel distrutto sepolcro di Antonia Gaudino, colta dal sonno con in mano il libro, e soprattutto nel monumento di don Pedro de Toledo e della prima moglie, Maria Ossorio Pimentel, nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. Quel rapporto tra i coniugi che, nella composizione tradizionale, viene risolto con la compresenza delle due figure – ma occupando la donna, solitamente, il fronte del sarcofago, mentre l’uomo la posizione sommitale – diviene qui paritetico affiancamento del viceré e della marchesa di Villafranca, genuflessi su due inginocchiatoi : inquadrate dalle quattro effigi delle virtù  





1   Un’analisi della scomparsa tomba marmorea di Sancia d’Aragona, ordinata nel 1352 da Giovanna I, è stata proposta da Adrian S. Hoch, Sovereignty and closure in Trecento Naples: images of Queen Sancia, alias ‘Sister Clare’, «Arte medievale. Periodico internazionale di critica dell’arte medievale», s. ii, x (1996), 1, pp. 121-139. La tomba avrebbe funto da modello per quella quattrocentesca di Margherita di Durazzo a Salerno, dove, analogamente, la regina è rappresentata sui due fronti del sarcofago in compagnia delle ancelle o delle monache.

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Fig. 6. Arco di Alfonso in Castelnuovo, Napoli: particolare del trionfo con la figura femminile che conduce i cavalli del carro di Alfonso (da Hersey, 1973).

cardinali erette sul basamento, le statue, nelle loro distinte pose, riassumono efficacemente il diverso ambito delle doti proprie dei due sessi : a differenza dell’uomo, coperto dall’armatura, che pone una mano sul libro e l’altra sulla spada, guardando innanzi, la donna, vestita di una semplice tunica, volge gli occhi alla lettura in atteggiamento composto e devoto, esibendo le doti femminili d’elezione, quali religiosità, modestia e istruzione (Fig. 3).  

Un esempio controverso : presenze femminili nell’Arco di Alfonso  

Più complesso tentare di individuare, nella produzione figurativa, la presenza di soggetti femminili al di fuori dei generi già esaminati. Nel più celebre dei monumenti civili, l’Arco di Alfonso in Castelnuovo, il tema stesso dell’arco di trionfo, nella sua origine militare, e la dedicazione ad Alfonso – cui si unirà, nel portale interno, la celebrazione di Ferrante – sembrano escludere ogni possibile risultato in tal senso, eccezion fatta per le figurazioni allegoriche declinate al femminile, secondo consolidate convenzioni iconografiche, dalle già citate virtù cardinali alle vittorie alate. L’esaltazione della dinastia aragonese è soprattutto condensata nel rilievo che, in guisa di attico, sovrasta l’arco del primo ordine. Com’è noto, si tratta della raffigurazione del trionfo avvenuto il 26 febbraio del 1443, allorché Alfonso aveva attraversato la città con un lungo corteo, qui riassunto dai trombettieri e tibicini che lo inauguravano, sino al seguito di dignitari, nobili e ambasciatori (Fig. 4). Secondo l’Hersey, 1 le edicole che inquadrano la composizione rappresenterebbe1   Cfr. George L. Hersey, The Aragonese Arch at Naples 1443-1475, New Haven and London, Yale University Press, 1975, p. 47.

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ro i Seggi presso i quali il corteo si fermava affinché Alfonso potesse riceverne l’omaggio. In particolare, se le fattezze classiche dei busti femminili che compaiono nei timpani delle edicole terminali ne autorizzano l’assimilazione a Parthenope proposta dall’autore, più caratterizzata fisiognomicamente, sia pure agghindata con attributi simbolici, risulta la figura che compare nel timpano dell’edicola di fondo, pressoché innanzi al carro del sovrano, per la quale si sarebbe tentati di ipotizzare un riferimento alle sembianze della fanciulla del Seggio di Nido tanto amata da Alfonso (Fig. 5). In proposito, nel 1906 Ettore Bernich segnalava, nel corteo, un’unica presenza femminile, alla guida dei cavalli trainanti il carro del trionfatore, interpretandola come personificazione di PartheFig. 7. Arco di Alfonso in Castelnuovo, Napoli: particolare nope ; al tempo stesso, in quedella scena erculea nel risvolto sinistro della trabeazione sta figura muliebre dalle labbra del primo ordine (per gentile concessione della Fototeca carnose e dal profilo fidiaco, che della Soprintendenza per il P.S.A.E. e del Polo Museale del- precede Alfonso, supponeva pola Città di Napoli). tesse essere stato immortalato un ritratto della bella Lucrezia. 1 L’ipotesi del Bernich piacque a Croce, che la menzionò nelle pagine dedicate alla d’Alagno, 2 ma non è stata ripresa dagli altri autori che si sono successivamente applicati alla lettura dell’Arco : nel 1934, il Filangieri individua nella donna, inserita al posto dei nobili napoletani che avevano condotto con briglie d’oro i quattro cavalli bianchi del carro del sovrano, un’effigie della Fortuna la quale, a piedi, guida la quadriga del vincitore, paragonandola all’analoga figura che compare nel trionfo dell’Arco di Tito ; 3 finché, in anni più recenti, Hersey l’ha definita « a female genius », ponendola in raffronto con il rilievo del trionfo di Marco Aurelio nel palazzo dei Conservatori. 4 Vi è tuttavia un terzo registro della figurazione, oltre a quello che possiamo chiamare allegorico e a quello a carattere storico-celebrativo, restituito dal ricchissimo repertorio ‘minore’ di rilievi che si distribuiscono nelle varie parti dell’arco, per il quale, escludendo che i diversi artisti impegnati nell’esecuzione si siano avvalsi di motivi genericamente de 









1   Cfr. Ettore Bernich, Madonna Lucrezia, « Napoli Nobilissima. Rivista di topografia ed arte napoletana », xv (1906), i, pp. 69-70. 2   Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane (1919), a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1990, pp. 89-120. 3   Riccardo Filangieri, Castel Nuovo. Reggia Angioina ed Aragonese di Napoli (1934), prefazione di Bruno Molajo4   G. L. Hersey, The Aragonese Arch …, cit., p. 47. li, Napoli, L’Arte Tipografica, 19642, p. 110.  



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sunti dall’antico, senza alcun rapporto con il monumento, 1 si deve presumere l’esistenza di un coerente e controllato programma iconografico, in grado di coordinare in un’unitaria isotopia simbolica anche i partiti decorativi secondari. In effetti, questi ultimi sono ampiamente attinti a un repertorio classico, in cui prevale la figura di Ercole. La presenza del mitico semidio greco non è, in questo caso, immotivata, considerato il ruolo di eroe nazionale che questi rivestiva in Spagna, dove grande fortuna aveva goduto il trattatello in prosa Los doze trabajos de Hércules, scritto in catalano da Enrique de Villena nel 1417, in cui ognuna delle celebri fatiche veniva interpretata in senso letterale, allegorico, morale e storico. E non va dimenticato che, ancora nel Settecento, il Bayardi prenderà a pretesto la necessità Fig. 8. Arco di Alfonso in Castelnuovo, Napoli: particolare di narrare l’origine di Ercolano, della scena erculea nel risvolto destro della trabeazione del ricostruendo, nel suo Prodromo, primo ordine (per gentile concessione della Fototeca delil viaggio di Ercole dalle Spagne, la Soprintendenza per il P.S.A.E. e del Polo Museale della città di Napoli). per rendere omaggio a Carlo di Borbone insediatosi sul trono napoletano. 2 Simboli erculei sono evidenziati dall’Hersey anche nei due rilievi dei fianchi interni dell’arco, con le scene di Alfonso e di Ferrante in armi, riconducendo al suo mito la presenza del leone e del cane ; 3 ma, pur non condividendo talune forzature, non si saprebbe come spiegare altrimenti la testa leonina che funge da elmo di un compagno di Ferrante o la clava nelle mani di uno dei guerrieri di Alfonso. Soprattutto, a Ercole sono ispirati numerosi particolari decorativi : dalla figura fogliata del fanciullo che strangola i serpenti inviati da Era, alla testa di Acheloo, già riprodotti in un’opera rimasta inedita, dedicata a illustrare i più bei monumenti dell’epoca del ri 



1   Secondo Bertaux, « I rilievi che si vedono immediatamente sotto i Mori e i trombettieri sono pure interessanti, perché fanno vedere come Pietro da Milano soleva prendere nei monumenti dell’antichità classica motivi plastici, ancorché non avessero alcun raccordo col monumento cui venivano trasferiti ». Emile Bertaux, L’Arco e la porta trionfale d’Alfonso e Ferdinando d’Aragona a Castel Nuovo, « Archivio Storico per le Province Napoletane », xxv (1900), i (pp. 27-63), p. 53. Anche secondo Filangieri, « In tutta la parte decorativa dell’Arco sono riprodotti motivi iconografici classici, ma senza un determinato ordine, senza un preciso significato allegorico ». R. Filangieri, Castel Nuovo ..., cit., p. 116. 2   Prodromo delle Antichità d’Ercolano alla Maestà del Re delle Due Sicilie Carlo infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza, &cc &cc. Di Monsignor Ottavio Antonio Bayardi, Referendario dell’una, e dell’altra Segnatura, Accademico Etrusco, e Cittadino Romano, Napoli, nella Regale Stamperia Palatina, mdcclii, t. i. 3   Cfr. G. L. Hersey, The Aragonese Arch …, cit., pp. 38-39. Per l’autore, il leone fa riferimento a quello ucciso da Ercole sul Citerone, mentre il cane allude, oltre che a Cerbero, a Ortro. Per P. Graziano, L’Arco di Alfonso …, cit., si tratterebbe di due figure dell’allegoria della prudenza .  











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sorgimento delle arti in Napoli, intrapresa alla fine del Settecento dall’ingegnere militare Emanuele Ascione. 1 In una delle tavole della naufragata pubblicazione dedicate all’arco alfonsino, decostruito fino ai singoli elementi architettonici e ornamentali, accanto ai soggetti erculei già citati, presenti nel basamento dell’intradosso dell’arco, compaiono i motivi introdotti nel fregio della trabeazione del primo ordine, dagli eroti che guidano le bighe ai putti reggi-ghirlande desunti da analoghi motivi dell’Arco romano di Pola, fino agli enigmatici rilievi dei risvolti interni che, difficilmente visibili nelle normali condizioni di percezione, per la loro infelice posizione non figureranno mai nelle successive svariate rappresentazioni dell’Arco, soliFig. 9. Properzia de’ Rossi, Giuseppe e la moglie di Putifarre, tamente in veduta frontale (Fig. Bologna, Basilica di San Petronio, Museo (da Fortunati, 10). Prescindendo dal precedente Graziani, 2008). settecentesco di Ascione, il merito della loro segnalazione spetta, nel 1900, al Bertaux, che ebbe probabilmente l’opportunità di osservarli salendo sulle impalcature per il restauro dell’Arco, fornendone un’interpretazione ripresa sia dal Filangieri, sia, recentemente dall’Hersey, ma senza trovare pieno accordo. In ogni caso, entrambe le scene si caratterizzano per una presenza femminile in rapporto con un eroe barbuto coperto da un mantello ricavato da una pelle di leone che, incontestabilmente – nonostante il diverso avviso di alcuni degli autori citati – va identificato nuovamente con Ercole. La scena di sinistra non fu decifrata correttamente neppure da Ascione, che pose in mano alla figura di spalle una fiaccola, in luogo di una clava, e altrettanto dubbie appaiono le ipotesi di Filangieri (per il quale essa rappresenta Ermafrodito che fugge il Satiro), e di Hersey (secondo cui si tratta di Ercole che concupisce Fedra). In realtà, la figurazione si riferisce al rapporto tra Ercole e Omfale, già decodificato da Bertaux, sia pure con dettagli erronei : 2 l’episodio è infatti correntemente interpretato nell’iconografia con lo scambio degli attributi per illustrare il dominio sull’uomo da parte della donna, che, nel caso di Omfale, impugna infatti la clava erculea. Qui, la scena mostra un Ercole itifallico che  

1   Per la ricostruzione dell’opera di Ascione, cfr. Cettina Lenza, L’architettura napoletana del classicismo nell’editoria artistica tra Sette e Ottocento, in *Architettura del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento. Campania saggi, a cura di Alfonso Gambardella e Danila Jacazzi, Roma, Gangemi, 2008, pp. 237-265 ; Ead.,Una testimonianza perduta della cultura neoclassica : l’opera inedita di Emanuele Ascione sui monumenti napoletani, in *Architettura nella storia. Scritti in onore di Alfonso Gambardella, a cura di Gaetana Cantone, Laura Marcucci, Elena Manzo, Milano, Skirà, 2008, pp. 405-417. 2   Bertaux descrive Ercole « appoggiato sopra un letto, e che piglia per un lembo del manto Omfale seminuda che vuole fuggire colla mazza dell’eroe ». E. Bertaux, L’Arco e la porta trionfale …, cit., p. 53.  







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afferra Omfale nuda in fuga (Fig. 7), in una contrapposizione che, rovesciata, ritroveremo nella celebre formella scolpita alla fine del primo quarto del Cinquecento da Properzia de’ Rossi per la facciata del San Petronio di Bologna, dove, secondo il racconto biblico, è la bella moglie di Putifarre che tenta di ghermire il restio Giuseppe (Fig. 9). È probabile individuare nella scena non solo un’allusione più generale al rapporto conflittuale tra i due sessi, ma specificamente alla negata relazione con Lucrezia d’Alagno. D’altro canto, non è insolito il ricorso a Ercole nella stessa poesia amorosa : come per il passaggio dell’elegia diciottesima di Pomponio Gaurico, dedicato al paradosso dell’eroe, vittorioso in tante battaglie, ma vinto dalla mano inerme di una donna (qui toties omni redit e certamine victor / feminea victus nunc erit ille manu ?), 1 che ricorda un tema ricorrente nelle poesie dedicate a Fig. 10. Dettagli decorativi con motivi erculei dell’Arco di Lucrezia, come attestano i versi Alfonso in una tavola dell’opera di Emanuele Ascione, De’ di Juan de Tapia citati da Croce : migliori Monumenti di Napoli, prova di stampa, Archivio di Stato di Napoli. vos fuistes la combatida,/ que vencìó al vencedor;/ vos fuistes quien por amor/ jamás nunca fué vencida. 2 Non è peraltro irrilevante che, in questo caso, Ercole non appare mortificato in una condizione femminea – come avverrà nella pittura manierista e secentesca, in cui l’eroe è spesso effigiato nell’atto di filare la lana, mentre la donna veste la pelle di leone – ma cerca di prevalere su Omfale : basti ricordare, in proposito, come Giulio Cesare Capaccio, nel Principe, proporrà, ancora una volta, un modello ricalcato sull’immagine favolosa di Ercole, reinterpretandone le celebri fatiche e traendone, in particolare, ammonimento per riuscire a vincere qualunque astuzia di donna. 3 Più enigmatica la scena di destra, fortemente mutila, dove una donna accasciata viene  







1   Cfr. Luciano Nicastri, Properzio coturnato : l’itinerario poetico di Pomponio Gaurico elegiaco, in *I Gaurico e il Rinascimento meridionale, Atti del Convegno di studi (Montecorvino Rovella, 10-12 aprile 1988), a cura di Alberto Granese, Sebastiano Martelli, Enrico Spinelli, Salerno, Centro Studi sull’Umanesimo meridionale-Università degli Studi di Salerno, 1992, pp. 173-246. Secondo l’autore, il tema è a sua volta ricalcato sull’Eracle delle Trachinie di Sofocle, straziato dalla tunica avvelenata inviatagli da Deianira. 2   B. Croce, Storie e leggende …, cit., p. 99. 3   Cfr. Amedeo Quondam, Dal Manierismo al Barocco. Per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra Cinque e Seicento, in *Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, 1972, vol. v, t. i, pp. 337-640 ; Id., La parola nel labirinto : società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975, specie le pp. 200-201.  





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confortata da una seconda figura femminile (forse un’ancella o una dea) che pone la mano sul capo del bimbo portato in braccio da Ercole (Fig. 8). Qui le ipotesi degli autori citati si dividono ulteriormente : per Bertaux, si tratta di Fedra, nell’attitudine del dolore, assistita dalla nutrice, e di Ippolito, vestito della sola clamide (nessun accenno al bambino) ; Filangieri pone in relazione la scena con un motivo del sarcofago di Ippolito a Costantinopoli, dove il bambino è un Eros, che scocca il suo dardo verso la donna seduta ; mentre Hersey riconduce correttamente a Ercole il rilievo, individuandovi la scena in cui l’eroe, con il figlio Illo in braccio, si reca da Deianira, dopo l’involontaria uccisione di uno dei familiari di Oneo, per prepararsi alla fuga. Più credibile sembra, invece, il riferimento a un diverso episodio della vita del semidio, vale a dire Ercole che, tornato dalla sua ultima fatica, rientra in casa dalla moglie Megara, riconducendo seco i figli, caduti in potere di Lico (salvo a ucciderli lui stesso, poco dopo, accecato dalla follia inflittagli da Era) : episodio ben noto negli ambienti umanistici, non tanto attraverso la tragedia Ercole furente di Euripide, ma grazie alla ripresa che ne fece Seneca. Il rilievo potrebbe, in questo caso, alludere al rapporto, infecondo, con la regina Maria di Castiglia : la presenza del bambino, consegnato alla donna seduta, con l’avallo della seconda figura femminile, allude con molta probabilità al riconoscimento del figlio naturale Ferrante, che consente di assegnare al trono un erede e alla città un legittimo sovrano. Resta ancora da chiedersi il perché della posizione particolare delle due formelle. La loro collocazione poco visibile avrebbe autorizzato certamente qualche più semplice motivo ornamentale, in luogo di figurazioni non prive di complessità (come può rilevarsi dai diversi piani in cui si sviluppa l’intreccio delle gambe di Ercole e Omfale). Proprio il notevole impegno richiesto allo scultore ci testimonia la loro rilevanza : scene ‘segrete’, nelle quali si era voluto sintetizzare il rapporto tra l’elemento femminile e quello maschile, nascoste strategicamente nel fregio della trabeazione che – ci piace rimarcarlo – costituisce la base dell’attico, e dunque del trionfo di Alfonso.  











Seconda Università degli Studi di Napoli Il contributo affronta la questione del ruolo delle donne nella produzione figurativa napoletana tra Quattro e Cinquecento sotto diversi aspetti : come artiste, partendo dagli scarsi dati forniti dalla letteratura artistica (Bernardo De Dominici) ; come committenti, sia a Napoli, sia nelle differenti corti in cui si è diramata la dinastia aragonese ; come soggetti iconografici, nella produzione pittorica e scultorea. Tra gli esempi celebri esaminati – il gruppo della Pietà nella chiesa di Monteoliveto, il polittico di San Vincenzo Ferrer nella chiesa di San Pietro Martire, il sepolcro di Pedro de Toledo e Maria Ossorio nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli – particolare attenzione è stata riservata all’Arco di Alfonso in Castelnuovo, cercando di decodificare alcune scene ‘segrete’ presenti nei risvolti del fregio del primo ordine.  





This essay deals with the issue on female role in Neapolitan figurative production of the 15th and the 16th century, in its different features : as artists, starting from the few data existing in artistic literature (Bernardo De Dominici) ; as clients, in Naples and in other courts in which the Aragon dynasty spread ; as iconographic subjects, in painting and sculpture production. Among the examined famous examples – the sculpture group of the Mercy in Monteoliveto church, the polyptych of San Vincenzo Ferrer in San Pietro Martire church, the sepulchre of Pedro de Toledo and Maria Ossorio in San Giacomo degli Spagnoli church – particular attention was given to the Arch of Alfonso in Castelnuovo, in the attempt to decode the ‘secret’ scenes in the flaps of the frieze of the first order.  





Ici est affrontée la question du rôle des femmes dans la production figurative napolitaine entre le xve et le xvie siècles sous différents aspects : comme artistes, en partant des rares données fournies  

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par la littérature artistique (Bernardo De Dominici) ; comme commanditaires, aussi bien à Naples que dans les différentes cours dans lesquelles se ramifiait la dynastie aragonaise  ; ou comme sujets iconographiques dans la production picturale et sculpturale. Parmi les exemples célèbres examinés – la Pietà dans l’église de Monteoliveto, le polyptyque de San Vincenzo Ferrer dans l’église de San Pietro Martire, le sépulcre de Pedro de Toledo et Maria Ossorio dans l’église de San Giacomo degli Spagnoli, et une attention particulière a été accordée à l’Arc d’Alfonso à Castelnuovo, en essayant de décoder certaines scènes ‘secrètes’ présentes dans les replis de la frise du premier ordre.  



Se estudia aquí la cuestión del papel de las mujeres en la producción figurativa napolitana entre los siglos xv y xvi, bajo diferentes aspectos : como artistas, a partir de los pocos datos que nos ofrece la literatura artística (Bernardo De Dominici) ; como contratantes, en Nápoles o en otras cortes en las que se ramificó la dinastía aragonesa ; como sujetos iconográficos, en la producción pictórica o escultórica. Entre los ejemplos célebres que se examinan – el grupo escultórico de la Piedad en la iglesia de Monteoliveto, il políptico de San Vincenzo Ferrer en la iglesia de San Pietro Martire, el sepulcro de Pedro de Toledo y María Osorio en la iglesia de San Giacomo degli Spagnoli – se dedica especial atención al Arco de Alfonso en Castelnuovo, intentando de descodificar algunas escenas ‘secretas’ presentes en los lados del friso principal del primer orden.  





Der Beitrag behandelt die Rolle der Frau in der figurativen Kunstproduktion Neapels zwischen dem Quattrocento und dem Cinquecento unter verschiedenen Aspekten : als Künstlerinnen, unter Berücksichtigung der spärlichen zur Verfügung stehenden Informationen, die uns die spezifische Literatur liefert (Bernardo De Dominici) ; als Auftraggeberinnen von Kunstwerken in Neapel, aber auch an den verschiedenen Höfen der weit verbreiteten Aragoneser Dynastie ; als ikonografische Sujets in der Malerei und Bildhauerei. Unter den berühmteren Beispielen – die Pietà in der Kirche von Monteoliveto, der Flügelaltar von San Vincenzo Ferrer in der Kirche von San Pietro Martire, das Grab von Pedro de Toledo und Maria Ossorio in der Kirche San Giacomo degli Spagnoli – kommt insbesondere dem Triumphbogen von Alfonso in Castelnuovo besondere Aufmerksamkeit zu, insofern als versucht wurde, einige ‘geheimnisvolle’ Szenen im Fries der ersten Ordnung zu dekodifizieren.  





« EL SIMULACRO ET RETRACTO DE SUA DIVINA IMMAGINE ». SCAMBI DI DONI TRA COSTANZA D’AVALOS E ISABELLA D’ESTE  



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N

on aveva certo d’uopo Isabella della sua gita a Napoli nel 1514 per istringere relazioni con gli uomini di lettere meridionali » : con queste parole si apre il densissimo capitolo consacrato da Alessandro Luzio e Rodolfo Renier ai rapporti tra la marchesa di Mantova e i letterati napoletani. 1 Isabella d’Este aveva infatti sangue aragonese. Anche quando, ormai vedova, si trasferì nella Corte Vecchia della reggia dei Gonzaga, la marchesa volle ricordare le sue origini aragonesi nell’allestire il suo giardino segreto. Non a caso, sul cornicione sorretto da colonne corre una lunga iscrizione con il nome e i titoli di Isabella nonché la data 1522 : isabella estensis, regum aragonum neptis, ducum ferrariensium filia et soror, marchionum gonzagarum coniux et mater, fecit a partu virginis mdxxii. 2 La « prima donna del Rinascimento » era infati nata nel 1474 dall’unione del duca di Ferrara Ercole I d’Este e di Eleonora d’Aragona, figlia di Ferrante, re di Napoli dal 1458 al 1494. Durante il lungo regno di Ferrante d’Aragona, la vita politica e culturale della capitale meridionale fu caratterizzata da una notevole apertura verso gli altri centri artistici della Penisola grazie ad un’attenta politica matrimoniale. 3 Se a partire dal 1465, anno del matrimonio tra Alfonso duca di Calabria, figlio di Ferrante, e Ippolita Maria Sforza, si rinsaldarono i rapporti con la corte di Milano, i legami con gli Este di Ferrara, già proficui al tempo del Magnanimo, furono rinvigoriti grazie al matrimonio tra la figlia di Ferrante, Eleonora, ed Ercole d’Este. Firmati i patti matrimoniali a Napoli il 1° novembre 1472, Eleonora d’Aragona, dopo un lussuosissimo e sfarzoso corteo attraverso la Penisola, fece il suo ingresso a Ferrara il 3 luglio 1473. L’unione fu coronata il 17 maggio dell’anno successivo dalla nascita di Isabella, cui fu posto il nome della nonna materna, la regina Isabella di Chiaromonte, prima moglie di Ferrante d’Aragona. 4 I rapporti tra gli Este e la famiglia reale di Napoli datavano dai tempi del Magnanimo : nel 1444, la figlia naturale del  













1   Alessandro Luzio, Rodolfo Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabelle Este Gonzaga, “Giornale storico della letteratura italiana”, 1899-1903, ed. cons. a cura di Simone Albonico, introduzione di Giovanni Agosti, Milano, Sylvestre Bonnard, 2005, p. 243. 2   Leandro Ventura, Gli appartamenti isabelliani in Palazzo ducale, in *Isabella d’Este. La prima donna del Rinascimento, a cura di Daniele Bini, Modena, Il Bulino, 2001, p. 81. 3   In assenza di una monografia recente su Ferrante, vd. Ernesto Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli, Napoli, esi, 1969², e la voce di Alan Ryder nel *Dizionario biografico degli italiani, 46, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1996, pp ; 174-189. 4   Su Isabella di Chiaromonte vd. Benedetto Croce, Due letterine familiari di principesse italiane del Quattrocento, in Aneddoti di varia letteratura, Bari, Laterza, 1953², i, pp. 255-262 ; Gennaro Toscano, Livres et lectures de deux princesses de la cour aragonaise de Naples : Isabella de Chiaromonte et Ippolita Sforza, in *Livres et lectures des femmes en Europe entre Moyen Age et Renaissance, Atti del Convegno a cura di Anne-Marie Legaré, Università di Lille 3, 2004, Turnhout, Brepols, 2007, pp. 295-299 ; Id., A propos du retable de Saint Vincent Ferrier peint par Colantonio, in *Il più dolce lavorare che sia. Mélanges en l’honneur de Mauro Natale, a cura di Frédéric Elsig, Noémie Etienne, Grégoire Extermann, Cinisello Balsamo, Silvana, 2009, pp. 409-415.  







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re, Maria d’Aragona, andò in sposa al marchese di Ferrara Leonello d’Este. Questi, non a caso, volle immortalare questo legame con l’unica famiglia reale della Penisola facendo fondere su una medaglia realizzata da Pisanello la seguente iscrizione : g[ener] r[egis] ar[agonum]. 1 Con il matrimonio di Eleonora, figlia legittima di Ferrante, gli Este suggellarono per la seconda volta la loro alleanza con una delle grandi potenze mediterranee. E la regalità di Isabella venne immediatamente sottolineata nell’iconografia familiare. Nella Genealogia Estense, Eleonora è infatti cinta dalla corona reale per indicare la sua origine. 2 Le nozze, il viaggio da Napoli e l’ingresso a Ferrara della principessa aragonese furono cantati o celebrati sia in ambito estense che in ambito meridionale. In occasione di tale matrimonio, ad esempio, Diomede Carafa, celebre uomo di stato al servizio di Ferrante nonché precettore della principessa, 3 scrisse il Memoriale sui doveri del principe, operetta il cui successo dovette essere immediato se lo stesso umanista ne richiese una traduzione latina a Colantonio Lentulo. L’esemplare offerto da Carafa alla duchessa di Ferrara, De Regimine principum, composto da una cinquantina di fogli, quasi tutti purpurei, fu scritto in argento e in oro da Gian Marco Cinico nel 1477 e miniato da Cola Rapicano nello scriptorium regio di Castel Nuovo. 4 A Ferrara, il letterato di corte Ludovico Carbone scrisse un Epithalamium Neapoli Actum in divam lianora Aragonensem et divum Herculem Estensem (British Library, ms. Add. 20794), codice decorato a bianchi girari, con il ritratto del Carbone e gli stemmi di Ercole, Eleonora e dell’autore. 5 La presenza di Eleonora a Ferrara ebbe riflessi immediati sulla vita artistica e letteraria : presso la corte visse un’eletta cerchia di letterati e poeti tra cui Matteo Maria Boiardo, Tito Vespasiano Strozzi, Tribraco e il già menzionato Ludovico Carbone, che dedicarono alla duchessa vari componimenti. Come recentemente illustrato da Federica Toniolo, vari esemplari di dedica a Eleonora sono ancor oggi conservati nel fondo antico della Biblioteca Estense di Modena. 6 Se la maggioranza di questi codici presenta scarso interesse artistico, un codice di grande pregio è il trattato scritto da Antonio Cornazzano, Del modo di regere e di regnare (New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 731). Al di sotto della dedica scritta in eleganti capitali in oro e blu, entro una cornice prospettica è dipinto il ritratto di profilo di Eleonora d’Aragona in atto di ricevere lo scettro dalla mano divina (f. 2v). La datazione dell’opera del Corrazzano e del manoscritto è collocabile con precisione al 1478-1479, periodo in cui Eleonora ebbe la reggenza del ducato durante l’assenza di Ercole da Ferrara. Rispetto allo stile ancora tardogotico che caratterizza l’effige di Eleonora nella Genealogia estense, questo ritratto idealizza la principessa e la trasforma in icona umanistica secondo l’iconografia del ritratto di corte. 7  



1   Sulla medaglia vd. la scheda di Ruggero Rugolo, in *Pisanello. Una poetica dell’inatteso, a cura di Lionello Puppi, Cinisello Balsamo, Silvana, 1996, pp. 157-159, con biliografia. 2   Modena, Biblioteca Estense, ms. a. L. 5. 16 = Ital. 720, f. 3v. Sul soggetto vd. Federica Toniolo, Livres et images de femmes à la cour des Este à Ferrare, in *Livres et lectures de femmes …, cit., p. 317 sgg., con bibliografia. 3   Franca Petrucci, Carafa, Diomede, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 19 (1976), pp. 524-530. 4   San Pietroburgo, Ermitage, ms. O.R.N. 26 : Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Milano-Verona, Hoepli-Stamperia Valdonega, 1947-1969, 6 vols, Supplemento, I, p. 31 ; Bianca De Divitiis, Architettura e committenza nella Napoli del Quattrocento, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 13-17 ; Gennaro Toscano, Libri umanistici e codici all’antica tra il Veneto, Roma e Napoli. Note su Andrea Contrario e Bartolomeo Sanvito, in *Società, cultura e vta religiosa in età moderna. Studi in onore di Romeo De Maio, a cura di Luigi Gulia, Ingo Herklotz e Stefano Zen, Sora, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, 2009, pp. 520-525. 5   Hermann Julius Hermann, La miniatura estense, a cura di Federica Toniolo, Modena, Panini, 1994, pp. 147, 6   Ivi, pp. 317-318. 91 nota n. 4 ; F. Toniolo, Livres et images de femmes ..., cit., p. 317. 7   Già attribuito al pittore di corte Cosmè Tura, il ritratto potrebbe essere opera del miniatore Jacopo Filippo Argenta. È probabile tuttavia che il miniatore avesse utilizzato come modello un ritratto di Eleonora dipinto da  







scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este 289 La presenza del ritratto di una principessa in un codice umanistico non è una novità. Per rimanere in famiglia, la cognata di Eleonora d’Aragona, Ippolita Maria Sforza, moglie di Alfonso, duca di Calabria, aveva portato a Napoli, in occasione del suo matrimonio celebrato il 16 maggio 1465, una serie di lussuosissimi codici lombardi tra cui il celeberrimo Virgilio con il commento di Servio (Valencia, Biblioteca historica de la Universitad, ms. 780), miniato dall’artista preferito della duchessa, il Maestro di Ippolita Sforza. Il volume, datato 1465, si apre con un frontespizio riccamente decorato e un’iniziale P formata da un drago che morde un capitello. All’interno di quest’iniziale, su un fondo d’oro, si staglia il profilo della duchessa che tiene al laccio una fenice, simbolo di immortalità e di matrimonio felice. Ippolita riappare nell’iniziale B (f. 4r) all’inizio delle Bucoliche, iniziale formata da tre anelli intrecciati, il « morso », la « cresta », la cotogna e il motto hic verghes nit. 1 Ippolita Sforza d’Aragona fu attenta lettrice di testi classici e umanistici. Durante il primo decennio della sua presenza presso la corte napoletana, la duchessa ebbe come precettore Baldo Martorelli che l’aveva seguita da Milano. Questi rimase in stretto contatto con Bianca Maria Visconti aggiornandola frequentemente su quanto accadeva presso la corte di Napoli. Le sue lettere forniscono preziose informazioni sulla vita intellettuale della duchessa di Calabria, sull’acquisto dei suoi libri e sulla sistemazione di uno studiolo all’interno di Castel Capuano. Il 29 dicembre 1466 Baldo Martorelli informa la madre della duchessa dell’acquisto per 40 ducati di un libro da parte di sua figlia e afferma : « Sua S. fa al presente finire uno bello studio et dice volere studiare. Et prega V. Ill.ma S. glie voglia adiutare adornarlo et mandarli in tavoletti retratti al naturale la Ex.tia del S. suo padre et vostra, et de tutti li soi Ill. fratelli et sorella ». 2 In una lettera del 6 gennaio 1466 (n. s. 1467), Ippolita scrive a sua madre di amare la lettura e di aver appena fatto sistemare uno studiolo che avrebbe utilizzato per leggere e scrivere : « Havendo facto finire un mio studio per leggere et scrivere alcuna volta, sicome altre volte glie ho scritto, glie piaccia farne retrare al naturale la Ex.tia del segnor mio patre, et vostra et tutti li miei illustri fratelli et sorelle, però che oltra a l’ornamento de lo studio, a vederli me darà continua consolatione et piacere ». 3 Lo studiolo di Ippolita a Castel Capuano – come ha sottolineato Marcello Simonetta – è il primo esempio di stanza di lavoro e di meditazione organizzato da una donna nell’Italia del Rinascimento. 4 Gli splendidi codici miniati presso la corte aragonese di Napoli, il fasto della corte, le ricche collezioni reali, lo studiolo di Ippolita Sforza in Castel Capuano furono dei veri e propri modelli prima per Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara, poi per sua figlia Isabella, marchesa di Mantova. La raffinata cultura di Eleonora dovette certamente influire  



















Tura e oggi perduto : La miniatura a Ferrara dal tempo di Cosmè Tura all’eredità di Ercole de’ Roberti, catalogo della mostra a cura di F. Toniolo, Ferrara, 1 marzo-31 maggio 1998, Modena, Panini, 1999, pp. 232-234 (scheda n. 44 a cura di Maria Francesca Saffiotti e Daniele Benati) ; F. Toniolo, Livres et images de femmes ..., cit., pp. 317-318. 1   La biblioteca reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese, a cura di Gennaro Toscano, catalogo della mostra, Napoli, Castel Nuovo 30 settembre-15 dicembre 1998, Valencia, Generalitat Valenciana, 1998, pp. 632-635, n. 50 (scheda a cura di Maria Cruz Cabeza Sanchez Albornoz e Pier Luigi Mulas) ; Anna Melograni, Tra Milano e Napoli a metà Quattrocento : la Disputatio Egregia di Angelo Decembrio e la bottega del ‘Magister Vitae Imperatorum’, « Italia Medioevale e Umanistica », xlv (2004), p. 206 ; G. Toscano, Livres et lectures de deux princesses ..., cit., pp. 303-304. 2   Milano, Archivio di Stato, Autografi, carta 141. Questa lettera è stata riprodotta in fac-simile da Tammaro De Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Milano, Hoepli, 1947-1953, i, pp. 98-99 ; ivi, p. 107, n. 20 ; Judith Bryce, ‘Fa finire uno bello studio et dice volere studiare’. Ippolita Sforza and her books, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », lxiv/1 (2002), p. 57. 3   T. De Marinis, La Biblioteca ..., cit., i, p. 108, n. 29 ; J. Bryce, ‘Fa finire uno bello studio’ ..., cit., p. 57, n. 7. 4   Marcello Simonetta, Rinascimento segreto. Il mondo del segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 215.  





















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sull’educazione delle figlie Isabella e Beatrice andate rispettivamente spose di Francesco Gonzaga e di Ludovico il Moro, entrambe protagoniste delle scelte culturali e artistiche delle corti di Mantova e di Milano. Isabella d’Este sposò Francesco Gonzaga a Ferrara il 12 febbraio 1490 e il 15 dello stesso mese fece il suo ingresso trionfale a Mantova. Quando la giovane marchesa giunse nella sua nuova città, Mantegna, pittore al servizio dei Gonzaga dal 1460, era a Roma dove stava ultimando la decorazione della cappella per Innoncenzo VIII. Isabella aveva tuttavia una certa familiarità con l’opera del pittore dato che alcuni suoi dipinti quali il perduto doppio ritratto di Lionello e del suo favorito Folco da Villafora 1 erano conservati nelle raccolte estensi e che sua madre possedeva un quadro del maestro inviatole dal futuro genero. Nel novembre 1485, infatti, il marchese Francesco Gonzaga sta alle calcagna del pittore affinché termini al più presto e « cum ogni cura » una Madonna « cum alcune altre figure » richiesta da Eleonora ; la duchessa avrebbe visto l’opera in fase di realizzazione. 2 Il dipinto è stato di volta in volta identificato con la Madonna e santi oggi a Dresda, con la sciupatissma tela del museo Jacquemart-André, con la Sacra Famiglia di Forth Worth 3 o con la Madonna dei cherubini oggi a Brera. 4 Nell’inventario post mortem di Eleonora stilato nel 1493 è citato un « quadro de legno depincto cum le Marie de mano de Andrea Mantegna », identificabile – secondo Giovanni Agosti – nella tanto discussa Madonna con il Bambino, San Giovanni Battista e sei Sante oggi all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. 5 Al ritorno da Roma nel settembre 1490, Mantegna conoscendo il carattere difficile e capriccioso della giovane marchesa si fa raccomandare da Battista Guarino, vecchio precettore ferrarese di Isabella :  















Mis. Andrea Mantegna me pregò assai che lo raccomandase a la V. Ex.tia persuadendose che le mie parole siano appresso quella de alcun momento : al quale io risposi che li homini quale è lui non bisognano appresso la Vostra S. de raccomandazione perché la S. è inclinatissima ad amare [e] a favorire chi lo merita che pur lo farei : et cossì prego quella lo vogli acarecciare et farni bona stima, perché in vero lui oltre exellentia del arte sua in la quale non ha pare, egli è tutto gentile : et la Vostra S. ne pigliarà mille bono costructi in disegno et altre cose che accaderà : lui è apto [a] fare honore a quello Ill.mo S. e a quella cità. 6  







Oltre ai dipinti di devozione, la giovane marchesa conosceva sicuramente l’abilità di Mantegna ritrattista. Come accennato, in una stanza delle residenze estensi aveva sicuramente potuto ammirare lo strano ritratto dello zio Lionello e del suo favorito Folco da Villafora, dipinto intorno al 1449. 7 Nel 1492, nel recarsi a Milano, Isabella si fermò a Canneto presso Antonia del Balzo, moglie di Gianfrancesco, conte di Rodigo. Da qui scrisse al marito l’11 1   Alberta De Nicolò Salmazo, Il soggiorno padovano di Andrea Mantegna, Padova, 1993, pp. 41-42. Nelle collezioni estensi era conservata, e verosimilmente sin dalla sua realizzazione, la celebre Adorazione dei Magi oggi al Metropolitan di New York. Sul soggetto vd. la scheda di Andrea De Marchi in *Mantegna 1431-1506, catalogo della mostra a cura di Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut, Parigi, Louvre, 26 settembre 2008-5 gennaio 2009, Milano, Officina Libraria 2008, pp. 160-161, n. 50 con bibliografia aggiornata. 2   Lettera di Francesco Gonzaga a Eleonora d’Aragona (Goito, 6 novembre 1485), vedi Paul Kristeller, Andrea Mantegna, Londra-New York-Bombay, 1901, p. 482, n. 41 ; lettere del marchese a Mantegna (Goito, 6 novembre, 12 e 15 dicembre 1485) : Ivi, pp. 482-483, nn. 42-44. 3   Vd. le schede con bibliografia aggiornata in *Mantegna 1431-1506, cit., pp. 234-236 (Dresda, scheda di Stefano L’Occaso), pp. 236-237 (Parigi, Jacquemart-André, scheda di Neville Rowley), pp. 420-421 (Fort Worth, scheda di Stefano Momesso e Vittoria Romani). 4   Vd. la scheda di Mauro Lucco in *Mantegna a Mantova 1460-1506, catalogo della mostra a cura di Mauro Lucco, Milano, Skira, 2006, pp. 76-78. 5   Giovanni Agosti, Su Mantegna, I. La storia dell’arte libera la testa, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 486-487 ; Caroline Elam in *Mantegna 1431-1506 ..., cit, pp. 335-336 con bibliografia. 6   Alessandro Luzio, I precettori di Isabella d’Este. Appunti e documenti per le nozze Renier-Campostrini, Ancona, 7   Vd. la n. 1 in questa pagina. 1887, pp. 21-28.  



scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este 291 agosto e gli raccontò di aver visto « due filiole tanto belle che meglio non le saperia dipingere Andrea Mantegna ». 1 Poco tempo dopo, Isabella accettò di farsi ritrarre dal pittore e promise di inviare il ritratto alla Contessa di Acerra come si rileva da una lettera inviata il 12 gennaio 1493 a Jacopo da Atri che era in viaggio nelle province meridionali :  





per satisfare a la Ill. M.na Contessa de la Cerra quale amamo cordialmente et farti gratia de quello che tanto desideri havemo ordinato de esser retracta in tavola per mane de Andrea Mantinea, et lo faciamo solicitare per mandartila dreto, aciò che tu sii quello che ge la presenti, nanti la partita tua, la quale volemo che non sia senza la effigie de la p.ta M.na Contessa, doppo che essa vuole la nostra per potersi godere l’una et l’altra (Appendice, 3).

Chi era la Contessa di Acerra, questa nobildonna meridionale cara a Isabella « tamquam soror charissima » ? I primi studiosi moderni di Mantegna non si preoccuparono di sciogliere l’enigma, limitandosi semplicemente a commentare le lettere di Isabella e di Jacopo da Atri, sicché Alessandro Luzio nel 1913, nel suo celebre capitolo consacrato ai ritratti della marchesa, non formulò nessuna proposta di identificazione. 2 In anni più recenti, Giovanni Romano, 3 seguito da Giovanni Agosti, 4 Françoise Viatte, 5 da Alberta De Nicolò Salmazo 6 e da Paola Santucci 7 avevano identificato la Contessa di Acerra con Isabella del Balzo, sposa di Federico, ultimo sovrano aragonese di Napoli. 8 In realtà, una semplice rilettura delle fonti edite mi ha permesso di identificare correttamente la Contessa di Acerra in Costanza d’Avalos ; 9 mentre una più attenta ricognizione presso l’Archivio Gonzaga a Mantova mi ha permesso di documentare inequivocabilmente tale identità. Un’inedita lettera inviata da Costanza d’Avalos a Isabella d’Este il 2 maggio 1492, testimonia infatti la grande familiarità tra le due nobildonne, sin dai primi anni del matrimonio della giovane marchesa :  









Gran piacere et sum(ma) consolatione ho de le benigne et humanissime lettere de v. s. gustato, sì per cognoscer(e) in q(ue)lle la benivolentia qual me porta et la humanità qual p(er) la sua benigna 1   Alessando Luzio, Rodolfo Renier, Delle relazioni di Isabella d’Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice Sforza, « Archivio Storico Lombardo », s. ii, xvii (1890), p. 349 ; G. Agosti, Su Mantegna ..., (2005), p. 405, n. 37. 2   Alessandro Luzio, I ritratti di Isabella d’Este, in La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-1628, Milano, L. F. Cogliati, 1913. Altri studiosi si sono astenuti da qualsiasi proposta di identificazione della Contessa di Acerra : Niny Caravaglia, L’opera completa del Mantegna, presentazione di Maria Bellonci, Milano, Rizzoli, i ed. 1967, nuova serie 1979, pp. 85, 115, n° 82) ; Rodolfo Signorini, Isabella d’Este im portrait, in *“La prima donna del mondo”. Isabella d’Este Fürstin und Mäzenatin der Renaissance, catalogo della mostra a cura di Sylvia Ferino Pagden, Vienna, 1994, p. 88 (dove però viene stranamente citata come “Marchesa von Acerra”). 3   Giovanni Romano, Verso la maniera moderna : da Mantegna a Raffaello, in *Storia dell’arte italiana dal Cinquecento all’Ottocento, vi, i, Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1981, pp. 42-43. 4   Giovanni Agosti, Su Mantegna, 4. (A Mantova nel Cinquecento), « Prospettiva », 77, 1995, pp. 64, 77, n. 48. 5   Françoise Viatte, Léonard de Vinci. Isabelle d’Este, Paris, Louvre-rmn, 1999, p. 18. 6   Alberta De Nicolò Salmazo, Andrea Mantegna, Ginevra, Rizzoli, 2004, pp. 173, 220-221. 7   Paola Santucci, Su Andrea Mantegna, Napoli, Liguori, 2004, pp. 179, 540. 8   Grazie a questo matrimonio, Isabella del Balzo era diventata zia di Isabella d’Este dato che il re Federico era fratello di Eleonora d’Aragona, madre della marchesa di Mantova. Su Isabella del Balzo cfr. Benedetto Croce, Isabella del Balzo regina di Napoli, in Storie e leggende napoletane, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1990, pp. 181-208 ; Santiago López-Ríos, A New Inventory of the Royal Aragonese Library of Naples, « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes », lxv (2002), pp. 201-243 ; Salvatore Fodale, Isabella del Balzo, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 62 (2004), pp. 623-625. 9   Gennaro Toscano, Andrea Mantegna, Isabella d’Este e la Contessa di Acerra, « Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti », clxiii, (2005-2006), pp. 145-151 ; Id., “Da lui cominciò ad rinovarsi la antiquità” : per la fortuna di Andrea Mantegna a Napoli », in *’Napoli è tutto il mondo’ : Neapolitan Art and European Culture from Humanism to the Enlightenment, Atti del Convegno Internazionale, Roma, American Academy, 19-21 giungo 2003, a cura di Livio Pestilli, Ingrid Rowland, Sebastian Schuzte, Pisa-Roma, Istituti editoriali poligrafici e internazionali, 2008, pp. 79-82.  



































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natura verso me usa, sì anche maxime p(er) havere la optima de quella valitudine intesa (Appendice, 1).

Costanza d’Avalos, figlia di Iñigo e di Antonella d’Aquino, entrambi appartenenti a famiglie tra le più nobili del regno aragonese, nacque verso il 1460. 1 Come molte fanciulle dell’alta aristocrazia meridionale, Costanza ricevette un’educazione umanistica come riferisce anche Vespasiano da Bisticci nella Vita del conte camerlengo di casa reale ispaguolo. Il libraio fiorentino scrive infatti che Iñigo istituì « i figli di laudabili costumi » e volle « ch’eglino avessino notizia delle lettere latine et di tutte le cose che s’apartengono a’ figliuoli de’ principi, come era lui ». 2 Donna di spicco nella Napoli aragonese e vicereale, Costanza fu immortalata dai più importanti poeti del tempo quali il Cariteo, Giovanni Antonio Petrucci, Pietro Jacopo de Gennaro, Enea Irpino e Jacopo Sannazaro. Quest’ultimo ne celebrò la bellezza nel sonetto 32 (edizione Mauro) scritto alla fine del anni Ottanta :  









Due peregrine qui dal paradiso novamente discese altere e sole, con voce, qual nel cielo udir si sòle, mi furo intorno e con un casto riso ; tal ch’io, ch’era con l’alma attento e fiso agli atti onesti, al suon de le parole, stava com’uom che ferma gli occhi al sole e riguardar nol pò, né move il viso. Senno, beltà, valor, la terra mai simil non vide, né sì dolci accenti sonaro in detti sì leggiadri e gai. Onde s’e’ miei gravosi aspri tormenti ebber breve conforto, or che farai tu, signor mio, che ognor le vedi e senti ?  



Le due peregrine che campeggiano a inizio di sonetto e il cui corredo di virtù e bellezza è tale da produrre beatitudine in chi ha la ventura di guardarle anche pochi istanti sono state identifcate da Cesare Bozzetti con Costanza e Ippolita d’Avalos. 3 La bellezza di Costanza d’Avalos fu rinomata e celebrata ai suoi tempi, tanto che una tradizione di studi la volle identificare con il sorriso più celebre del Rinascimento italiano, e cioè con la Gioconda di Leonardo. 4 Costanza andò in sposa nel 1477 a Federico del Balzo, unico figlio maschio legittimo di Pirro, principe di Altamura, e di Maria Donata Orsini, con una dote di 12.000 ducati. Il matrimonio fu celebrato in grande pompa e fu lo stesso Ferrante d’Aragona ad accompagnare la sposa a casa del coniuge. In quell’occasione, il padre dello sposo, il principe di 1   Per un primo profilo di Costanza d’Avalos, vd. Claudio Mutini, Costanza d’Avalos, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 4 (1962), pp. 619-620  e soprattutto Raffaele Colapietra, Costanza d’Avalos e il mito d’Ischia, in *Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli, La città del sole, 1999, pp. 103-125. 2   Vespasiano da Bisticci, Le vite, a cura di Aulo Greco, Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1970-1977, i, p. 127. 3   Cesare Bozzetti, Note per un’edizione critica del ‘Canzoniere’ di Iacopo Sannazaro, « Studi di filologia italiana », vol. lv (1997), pp. 111-26 (= p. 119). Devo questa segnalazione a mio fratello Tobia. 4   Vd. Benedetto Croce, Un Canzoniere d’Amore per Costanza d’Avalos duchessa di Francavilla, « Atti dell’Accademia Pontaniana », xxxiii (1903), pp. 1-30 ; Suzanne Thérault, Un Cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna, châtelaine d’Ischia, Firenze-Parigi, 1968, pp. 49 sgg. ; Carlo Vecce, Leonardo, presentazione di Carlo Pedretti, Roma, Salerno, 1998, pp. 334 sgg. ; Cécile Scailliérez, Léonard de Vinci. La Joconde, Parigi, rmn, 2003, pp. 37-38 con bibliografia.  













scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este 293 Altamura, commissionò una farsa nuziale al giovane Sannazaro, nota soltanto attraverso la biografia di Costanza scritta da Tommaso Moncada. 1 Grazie a questo matrimonio, Costanza divenne cognata di Isabella del Balzo, moglie di Federico d’Aragona, 2 ma anche di Antonia che aveva sposato nel 1479 Gianfrancesco Gonzaga, 3 terzogenito di Ludovico e di Barbara Hohenzollern, zio di Francesco Gonzaga, marito d’Isabella d’Este. Rimasta vedova e senza prole nell’estate del 1483, Costanza tornò per breve tempo in casa d’Avalos e vi rimase fino alla morte del padre (12 settembre del 1484). 4 Con la morte del marito, Costanza aveva ereditato a tutti gli effetti il titolo di Contessa di Acerra, titolo con il quale viene anche menzionata negli atti della burocrazia regia. 5 Gli Avalos erano stati molto attenti alla politica matrimoniale e si erano imparentati alle più importanti casate europee, strettamente legate alla corte aragonese di Napoli. Il fratello di Costanza, Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara, aveva sposato nel 1488 Diana di Cardona, figlia di Artale, conte di Colisano, prestigioso esponente della nobiltà siciliana ; 6 nel 1487 la sorella Beatrice era stata data in sposa con una dote di 10.000 ducati al celebre condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio, allora impegnato al fianco del re Ferrante nella lotta contro i baroni ribelli. 7 Le festività di casa d’Avalos furono turbate da avverse vicende : nel settembre 1488, venne a mancare il capostipite Martino, già privato nel maggio dello stesso anno della contea di Monteodorisio a causa della sua ambigua condotta. 8 In questa congiuntura, come ha ribadito Raffaele Colapietra, Costanza diventa « una sorta di ago della bilancia, di parafulmine, in mezzo ai divergenti atteggiamenti politici dei suoi più stretti congiunti ». 9 Con la scomparsa della madre nel 1493, Costanza divenne infatti la matriarca di casa d’Avalos, erede di una lunga tradizione familiare ed emblema di una civiltà che stava per essere travolta dagli eventi, e cioè la definitiva caduta della Napoli aragonese. L’affetto che legava Costanza d’Avalos con la più giovane marchesa di Mantova si in 







1   De Vita illustris Costantiae Davalos comitissae Acerrarum (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. X.B.67, ff. 395-414v), in parte tradotta da Luigi Volpicella, Le nozze di Costanza d’Avalos e Federico del Balzo nel secolo xv, Idem, La moglie esemplare, « La Sirena », 1845-1846, pp. 81-86, 134-140. Per le varie biografie di Costanza d’Avalos conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli vd. Elena Papagna, Tra vita reale e modello teorico : le due Costanze d’Avalos, in *Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008, pp. 539-541. 2   Vd. n. 8 a p. 291. 3   Isabella Lazzarini, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 57 (2001), pp. 771-773. Sulla presenza di Antonia del Balzo a Bozzolo, vera e propria corte aperta alle novità culturali, vd. Alfredo Balzanelli, I Gonzaga di Gazzuolo. Appunti genealogici, in *Gazzuolo Belforte. Storia, arte, cultura, a cura di Carlo Togliani, Mantova, 2007, pp. 55-58. Antonia del Balzo fu immortalata in una medaglia da Pier Jacopo Alari-Bonacolsi che mosse i primi passi proprio presso la corte di Bozzolo : Guido Rebecchini, I committenti dell’Antico tra modelli romani e classicismo lombardo, in *Bonacolsi. L’Antico. Uno scultore nella Mantova di Andrea Mantegna e di Isabella d’Este, catalogo della mostra a cura di Filippo Trevisani e Davide Gasparotto, Mantova, 13 settembre 2008-6 gennaio 2009, Milano, Electa, 2008, pp. 33-39 ; per la medaglia, ivi, p. 127. 4   Raffaele Colapietra, “Il più gentile signore che avessi questo regno” : il conte camerlengo Innigo d’Avalos protagonista dell’umanesimo cortigiano aragonese, in Baronaggio, umanesimo e territorio, cit., p. 57. 5   Vd. n. 4 a p. 295 di questo lavoro. 6   Il matrimonio fu celebrato pochi mesi dopo l’arresto del ribelle Pirro del Balzo, suocero di Costanza, proprio per sottolineare la fedeltà della famiglia d’Avalos alla corte aragonese : vd. Elena Papagna, Tra vita reale e modello teorico ..., cit., p. 549. 7   Letizia Arcangeli, Gian Giacomo Trivulzio marchese di Vigevano e il governo francese nello stato di Milano (14991518), in Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano, unicopli, 2003, p. 29. 8   Altri membri della famiglia d’Avalos avevano dimostrato invece la loro fedeltà nei confronti della famiglia reale : Alfonso, che aveva preso parte all’impresa d’Otranto, si impegnò insieme ai fratelli Rodrigo e Iñigo II nella guerra contro Carlo VIII. Vd. R. Colapietra, 7 settembre 1495 : morte eroica e trasfigurazione letteraria del marchese di Pescara, in Baronaggio ..., cit., pp. 59-101. 9   R. Colapietra, Costanza d’Avalos e il mito d’Ischia ..., cit., p. 110.  

















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scriveva proprio in questa fitta trama di rapporti che la legavano alla famiglia reale. Probabilmente, la contessa di Acerra aveva giocato con Isabella bambina allorquando con la madre Eleonora aveva trascorso a Napoli l’estate del 1477 per assistere alle nozze di Ferrante con la seconda moglie Giovanna d’Aragona : la duchessa di Ferrara fu presente a Napoli con le due figliolette, Isabella e Beatrice, dal 1° giugno al 17 ottobre 1477. 1 Sono anni di strettissimi rapporti tra gli Avalos e il re Ferrante. Come si evince dalla lettera già citata del 12 gennaio 1493, la giovane marchesa di Mantova accetta di farsi ritrarre da Andrea Mantegna ; in tal modo essa poteva scambiare la sua effigie con quella dell’amica napoletana. Nella stessa lettera, Isabella chiede di far acquistare a Napoli due mantelli neri « di quelli che pareno raso », seguendo i consigli della contessa di Acerra (Appendice, 3). Costanza d’Avalos accetta lo scambio come appare dalla lettera di risposta inviata a Isabella il 13 febbraio 1493 :  









Per ipso [Iacopo da Atri] anchora le mando quel che con tanta instantia me ha facto demandare : forsi non responderà a la opinion grande che de me ha conceputo, et sorterà che la presentia minuirà la fama. De che, purché al desiderio de v. s. et al mio debito sia satisfacto, non curo. Confido tanto in la gratia et perfection de quella da chi serrà vista ch’el suo afflato solo porrà lo imperfecto far deventare perfecto (Appendice 4).  

Iacopo da Atri rientrò da Napoli con il ritratto « in carta e in cera » della Contessa di Acerra, dato che Isabella ringraziò l’amica napoletana il 3 aprile 1493. In tale lettera la marchesa di Mantova, conscia delle difficoltà di trovare « pictori che perfectamente contrafaciano el vulto naturale », le chiese di mandargliene un altro in tavola « per satisfare a la richiesta sua [di Costanza] non già perché la vedi una effigie bella, ma perché l’habia in casa la figura de quella che gli è cordialissima sorella » (Appendice, 5). Nella stessa lettera, la marchesa di Mantova ringrazia Costanza d’Avalos per averle inviato una camicia “alla spagnola”, non solo elegantissima e ben fatta, ma di grande novità nella provinciale Mantova. In altra lettera del 20 aprile dello stesso anno, inviata da Isabella alla Contessa di Acerra, si legge che Mantegna aveva finito il ritratto. La Marchesa di Mantova si mostrò però insoddisfatta – « perché el Pittore me ha tanto mal facta che non ha alcuna de le nostre simiglie » – e annuncia alla Contessa di Acerra di non poter inviare il ritratto a Napoli e di doversi rivolgere ad altro pittore (Appendice, 6). Costanza si era però assentata da Napoli per raggiungere il fratello Iñigo, che stava ricostruendo il castello di Vairano nelle desolate regioni nordiche del regno meridionale, e perciò aveva difficoltà a trovare un pittore per farsi ritrarre su tavola, come confessa nella lettera inviata ad Isabella il 10 maggio 1493 : « l’absentia mia da Napoli lo ha tanto retardato perché semo in lochi dove non facilmente se pò haver sufficiente pictore » (Appendice, 7). Nel frattempo, l’11 ottobre 1493 si era spenta in Ferrara Eleonora d’Aragona, e Costanza non tardò – il 12 novembre 1493 – a inviare, sempre da Vairano, un’affettuosissima lettera a Isabella (Appendice, 8). Il dolore per la perdita della madre fu alleviato dalla nascita, il 31 dicembre 1493, della primogenita Eleonora, così chiamata in omaggio e memoria della principessa aragonese. La marchesa di Mantova informò rapidamente l’amica napoletana dell’evento – « Havendome n. s. Dio concesso ch’io sia scharicata in bene di una figliola femina » – e le annunciò di poterle spedire il tanto desiderato ritratto in tavola :  



























Ill.et Ex. soror tanq(uam) soror charissima. Per satisfare al desiderio de v. s., non perché la effigie mia sia de tal beleza che la meriti andare in volta depincta, gli mando per Simone da Canossa, cameriere de l’Ill.mo s. Duca de Calabria, el retracto in tavola facto per mano de Zohan de Sancte 1

  Pietro Messina, Eleonora d’Aragona, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 42 (1993), pp. 406-407.

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pictore de la Ill.ma Duchessa de Urbino, qual dicono far bene dal naturale et che questo, secundo m’è referto, se me puoteria più asimigliare (lettera del 13 gennaio 1494 ; Appendice, 9).  

Raccomandato a Isabella dalla cognata Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino, 1 Giovanni Santi era stato chiamato a Mantova nel 1493 per realizzare non solo il ritratto di Isabella ma anche altri lavori commissionatigli dagli altri membri della famiglia Gonzaga (Appendice, 10). Tuttavia, Giovanni Santi si spense il primo agosto 1494 2 e non riuscì a portare a termine le imprese per i Gonzaga, tranne il ritratto di Isabella d’Este inviato alla Contessa di Acerra, 3 che manifestò la sua gioia nell’inedita missiva di ringraziamento, datata 15 maggio 1494 :  

El singulare amore che per sua virtù verso me porta, ad confirmation del quale ha voluto dignarse mandarme anche el simulacro et retracto de sua divina imagine, lo quale per la perfectione, et certa divinità che in epso reluce, tanto me piace che contemplandolo per tal modo resto satia che altro civo non desidero, benché la rudecze del mio ingegno tale et tanta perfectione del tucto non comprehenda (Appendice, 11).

Proprio in quegli anni, lo spettro dell’invasione francese del regno di Napoli cominciava a turbare la vita politica e culturale della capitale meridionale. I fratelli di Costanza, fedelissimi alla famiglia reale, furono impegnati in prima linea nella difesa del regno. Alfonso, marchese di Pescara, valente condottiero, fu inviato nel settembre del 1494 in Romagna a contrastare l’avanzata delle truppe di Carlo VIII. Quando il re di Francia fece il suo ingresso trionfale in Napoli, Alfonso fu lasciato a difesa di Castel Nuovo con ottocento svizzeri, mentre i fratelli Rodrigo e Iñigo furono impegnati nella difesa dell’isola d’Ischia. Fallito ogni tentativo di conservare Castel Nuovo, Alfonso fuggì in Sicilia per offrire i suoi servigi al nuovo re d’Aragona, Ferrandino, che sull’isola aveva trovato temporaneo rifugio. Anche Costanza con la sorella Ippolita si erano ritirate in Sicilia al seguito della regina vedova Giovanna d’Aragona. Recuperata la città, Alfonso d’Avalos rientrò a Napoli nel luglio del 1495, partecipando attivamente alla riconquista delle fortezze rimaste nelle mani dei francesi. Tuttavia, il 7 settembre 1495 fu ucciso da un colpo di balestra tiratogli a tradimento. 4 La tragica morte di Alfonso fu un colpo duro per la famiglia che dovette sopportare soltanto due anni dopo la morte di un altro illustre membro della casata, quella di Iñigo II, conte di Monteodorisio e marchese del Vasto, passato a miglior vita nel gennaio 1497 nella valle del Liri combattendo contro i Della Rovere. 5 La morte dei due valorosi condottieri gettò nella desolazione non solo l’intera casata ma tutto il campo aragonese. Costanza informò con toni struggenti la marchesa di Mantova delle sciagure che si erano abbattute su casa d’Avalos « la quale in uno anno et men de mezo ha perso dui colonne, per le quale se sostinea : el Marchese de Peschara et lo Conte de Monte Odorisi, alhora Marchese del Vasto, mei fratelli, ambedoi in la guerra morti » (Appendice, 13).  





1   Sui rapporti tra la Marchesa di Mantova e la duchessa di Urbino vedi : Alessandro Luzio, Rodolfo Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este e Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche, Torino-Roma, L. Roux e C. Editori, 1893. 2   Ranieri Varese, Giovanni Santi, Fiesole, Nardini, 1994, pp. 24-25. 3   Isabella cercò di recuperare i suoi ritratti rimasti incompiuti nella bottega di Giovanni Santi (appendice 12). 4   R. Colapietra, 7 settembre 1495 ..., cit., pp. 59-101. Costanza divenne tutrice degli orfani di Alfonso ed in tal veste rese visita nel novembre 1497 alla cognata-regina Isabella del Balzo per ottenere un aiuto per il sostentamento dei nipoti, come si evince da una cedola della Tesoreria regia del 29 dicembre 1497 : Nicola Barone, Le cedole di tesoreria dell’archivio di stato di Napoli dall’anno 1460 al 1504, « Archivio storico per le province napoletane », x (1885), p. 40. 5   Paolo Giovio, Le Vite del Gran Capitano e del marchese di Pescara, volgarizzate da Ludovico Domenichi, a cura di Costantino Panigada, Bari, Laterza, 1931, p. 46.  







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La lettera, ultima testimonianza diretta delle relazioni tra le due gentildonne, era stata inviata dal Castello di Ischia il 9 aprile 1497. Dopo la morte dei fratelli, Costanza aveva in effetti assunto il comando dell’isola difendendola con forza e coraggio dall’assedio delle galere francesi. Un’altra allusione alla presenza di Costanza d’Avalos ad Ischia è nella celebre lettera relativa ad un progetto di statua di Virgilio inviata da Iacopo da Atri a Isabella il 17 gennaio 1499. Il mittente si rammarica di non essersi ancora recato a Ischia a causa dei tempi invernali poco propizi : « Né ad Ischia ho possuto andare a veder la Contessa de la Cerra per li sinistri tempi, bisognando andare per mare, dove non se va senza pericolo, quando è fortuna » (Appendice, 14). Investita il 27 aprile 1501 da Federico d’Aragona del feudo di Francavilla, « nomine et re insigni », il 10 maggio 1504 Ferdinando il Cattolico eleva a ducato la dignità feudale di Costanza su Francavilla per premiare la sua posizione ostentatamente filospagnola e antifrancese. 1 Dopo la morte prematura dell’ultimo fratello, Iñigo II, stroncato da una febbre malarica nel settembre del 1503, Costanza aveva assunto personalmente il comando dell’isola d’Ischia riuscendo a resistere agli attacchi dei francesi. La duchessa di Francavilla non fu solo donna d’azione, anzi sull’isola d’Ischia aveva creato una vera e propria corte interessandosi personalmente all’educazione dei propri nipoti : Ferdinando Francesco (1489-1525), figlio di Alfonso, marchese di Pescara e marito di Vittoria Colonna, 2 Alfonso d’Avalos (1502-1546), figlio di Iñigo II e futuro governatore di Milano, ed infine la nipote Costanza, figlia anch’essa di Iñigo II, andata in sposa ad Alfonso Piccolomini, duca d’Amalfi. Con la caduta definitiva della dinastia aragonese, 3 il regno di Napoli diventò una provincia spagnola governata da un viceré. Tuttavia, il ricordo di casa d’Aragona rimase vivo in città e nei territori del regno : umanisti e letterati continuarono a cantare le lodi di casa d’Aragona e a rimpiangere qulle stagione come l’età dell’oro. Nonostante la perdita dell’indipendenza politica, la città continuava ad avere una corte propria formata da regine vedove o principesse spodestate, tutte di casa d’Aragona. Questa corte si era stabilita in Castel Capuano e si sforzava di mantenere in auge i fasti del glorioso passato. 4 In questa corte di donne spiccano tre regine – Giovanna madre e Giovanna figlia, Beatrice d’Aragona – nonché Isabella d’Aragona Sforza e sua figlia Bona. Giovanna d’Aragona, figlia di Giovanni II, re d’Aragona e Navarra, e sorella di Ferdinando il Cattolico, era giunta a Napoli l’11 settembre 1477 per sposare il cugino Ferrante. 5  













1

  R. Colapietra, Costanza d’Avalos e il mito d’Ischia ..., cit., p. 118.   Lo stesso matrimonio tra Vittoria Colonna e Ferrante Francesco d’Avalos fu organizzato proprio ad Ischia dalla zia Costanza, il 27 dicembre 1509 (Amalia Giordano, La dimora di Vittoria Colonna a Napoli, Napoli, 1906, pp. 14-15). A partire da quella data e fino agli inizi degli anni trenta, Vittoria Colonna visse nel castello di Ischia presso Costanza d’Avalos, « qualora lo sposo nelle guerre e turbolenze d’Italia si trovasse lontano » ; vd. la biografia di Filonico Alicarnasseo Ivi, p. 27. Sulla prima attività poetica di Vittoria Colonna, vd. Tobia R. Toscano, Schede sul noviziato poetico di Vittoria Colonna, in Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 13-24. 3   L’11 novembe 1500, Ferdinando il Cattolico e il re di Francia, Luigi XII avevano siglato il trattato di Granada che stabiliva la divisione del Regno di Napoli tra Francesi e Spagnoli. Costretto a lasciare il suo regno per l’esilio in terra francese, il 6 settembre 1501, l’ultimo sovrano aragonese di Napoli, Federico, morì nei pressi di Tours il 9 novembe 1504. Nonostante l’allontanamento di Federico, spagnoli e francesi continuarono a disputarsi le sorti regno fino al trattato di Lione, stipulato nel 1504 : ai Francesi toccò il Milanese e agli Spagnoli il dominio sul Napoletano. In assenza di una biografia consacrata a Federico d’Aragona vd. la voce a cura di Guido Benzoni nel *Dizionario biografico degli Italiani. 4   A. Giordano, La dimora di Vittoria Colonna ..., cit., pp. 20-21. 5   Giovanna fu ricevuta e accolta dal cardinale legato Rodrigo Borgia (il futuro papa Alessandro VI), inviato a Napoli da Innocenzo VIII per l’incoronazione della nuova regina. Le nozze furono celebrate il 14 sett. 1477 nel duomo e la funzione fu officiata dal Borgia mentre l’incoronazione della regina avveniva il 18 settembre nella 2









scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este 297 Da questo matrimonio nacque il 20 aprile 1479 l’altra Giovanna. Dopo la morte di Ferrante (25 gennaio 1494), Giovanna firmò ogni suo atto con l’espressione « la triste reyna ». Con la minaccia di Carlo VIII, il giovanissimo re Ferrandino, la triste reyna e la figlia Giovanna abbandonarono la capitale per la Sicilia accompagnate da Costanza d’Avalos. Scongiurato momentaneamente il pericolo francese, la regina e sua figlia poterono rientrare nella capitale il 13 ottobre 1495 e, cavalcando a dorso di mulo, furono accolte per le vie di Napoli dal popolo in festa. Nel frattempo, Giovanna aveva organizzato le nozze tra la figlia sedicenne e Ferrandino, matrimonio che fu celebrato il 28 febbraio 1496. La giovanissima regina rimase vedova qualche mese dopo, dato che il re morì il 7 ottobre dello stesso anno all’età di ventinove anni. Federico, figlio di Ferrante il vecchio, fu incoronato re il 10 agosto 1497 ; da questo momento iniziarono i contrasti tra la nuova coppia reale – Federico e la moglie Isabella del Balzo – e le due regine vedove, Giovanna madre e Giovanna figlia. Dopo varie vicissitudini, tra cui un lungo viaggio in Spagna, dopo circa sette anni di assenza dalla capitale meridionale, nell’ottobre del 1506, Giovanna e la figlia Giovanna poterono finalmente rientrare a Napoli con il re Ferdinando il Cattolico. Nominata dal fratello, nel 1507, luogotenente generale del Regno fino all’arrivo del nuovo viceré, Ramón de Cardona, Giovanna visse in Castel Capuano fino alla morte avvenuta il 7 gennaio 1517. La figlia Giovanna, vissuta all’ombra della potentissima regina madre, si stabilì anch’essa in Castel Capuano e si spense il 25 agosto 1518. 1 Lo stesso Castel Capuano aveva accolto un’altra regina vedova e cioè Beatrice d’Aragona, quartogenita di Ferrante, nata il 14 novembre 1457, e andata in sposa a Mattia Corvino, re d’Ungheria, nel 1476. Dopo la morte improvvisa di Mattia Corvino (6 aprile 1490), persa ogni speranza di conservare il trono ungherese, Beatrice tornò a Napoli dove si spense il 13 settembre 1508. 2 Di questo clan di regine vedove e spodestate facevano parte anche Isabella d’Aragona – figlia secondogenita di Alfonso, duca di Calabria, e della colta e raffinata Ippolita Maria Sforza, nata proprio in Castel Capuano il 2 ottobre 1470 – nonché sua figlia Bona, nata dall’unione con Gian Galeazzo Sforza. 3 Sopravvissuta alla crudeltà di Ludovico il Moro, che le aveva avvelenato il marito e allontanato il figlio, Isabella rientrò a Napoli nel febbraio 1500. Qui fu accolta con tutti gli onori dallo zio Federico, che le assegnò per residenza quello stesso castello che l’aveva vista nascere. Ufficialmente investita del feudo di Bari dopo la caduta definitiva del Moro (24 aprile 1500), Isabella trascorse i primi decenni del nuovo secolo tra i suoi feudi pugliesi e Castel Capuano, dove si spense l’11 febbraio 1524. In questo ambiente dominato da donne dalle forti personalità, Costanza d’Avalos era diventata un vero e proprio simbolo della fedeltà alla Spagna, scrigno delle memorie aragonesi nonché trait-d’union con la nuova corte vicereale. Per capire l’atmosfera che si respirava nelle sale di Castel Capuano abitate da queste nobildonne e dal loro seguito è opportuno rileggere una lettera inviata da Iacopo d’Atri a Isabella d’Este l’8 maggio 1507 (Appendice, 15). Iacopo incontra infatti le due regine, Giovanna vedova di Ferrante e Giovanna vedova di Ferrandino, la regina d’Ungheria e Costanza d’Avalos, ma non ha potuto « intendere de la Ill.ma Madonna Duchessa di Milano  







chiesa dell’Incoronata : Piero Doria, Giovanna d’Aragona, in *Dizionario biografico degli Italiani, cit., 55 (2000), pp. 486-489. In quell’occasione, come accennato, era giunta da Ferrara Eleonora d’Aragona accompagnata dalle due figliolette Isabella e Beatrice. 1   P. Doria, Giovanna d’Aragona ..., cit. 2   Edith Pásztor, Beatrice d’Aragona, in *Dizionario biografico degli italiani, cit., 7 (1970), pp. 347-349. 3   Il matrimonio tra Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona fu celebrato in Castel Nuovo il 21 dicembre 1488 ; da questo matrimonio nacque il 2 febbraio 1494, nel castello di Vigevano, Bona. Achille Dina, Isabella d’Aragona duchessa di Milano, « Archivio storico lombardo », 5, xlviii, 1 (1921), pp. 269-457.  







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per non essere qua ». Racconta inoltre che Costanza d’Avalos, pur essendo stata nominata duchessa di Francavilla, non si era offesa se la Marchesa di Mantova continuava a menzionarla come contessa nella corrispondenza ; anzi come promesso, Costanza le avrebbe inviato corone da rosario e guanti. La corte gli sembra sontuosa e magnifica :  





le damiselle de la Regina mi pare che siano più ornate che belle, pur non voglio fare ancora iudicio finché non l’habia ben considerate. Madonna Duchessa de Francavilla se mantiene sì bene che pò stare ancora al parangone cum le altre.

Ha incontrato poi l’illustre Sannazaro e il poeta di facile vena Bernardo Accolti (Arezzo 1458 - Roma 1535), detto l’Unico Aretino, protagonista di una vera e propria guerra tra queste nobildonne che si presero per i capelli accecate dalla gelosia :  

È stato levato sù da queste grande Madamme di sorte ch’el fa volare de là dal celo ; et che sii il vero luy se avanta che quatro principale Madamme de qui hano facto alli capelli insieme et battutose terribilmente per amore de luy, per la grande Gelosia che ognuna de loro ne ha : et così il poveretto è lacerato et splalanchato dal figliolo de Venere, che non sa ad qual de loro se debia atachare, sì che pensate como il sciaurato se debbe retrovare.  



Le lettere scritte da Iacopo d’Atri, allora ambasciatore mantovano a Napoli, sono di grande interesse e permettono di seguire non solo le gelosie delle dame di Castel Capuano ma anche di capire i loro interessi culturali. Il 24 ottobre dello stesso anno, Iacopo scrive alla marchesa di Mantova per comunicarle che Gian Cristoforo Romano è presente a Napoli :  

Joan Christoforo Romano vostro servitore è qui, et me ha facto degno de una medaglia de V. S. che è mille volte bella como voi medesima. Me dice haverla mostrata como cosa divina a tutte queste Regine, quale tutte cum maraveglia la reguardava, et che la Regina mugliera avante andasse in Spagna la vidde che pareva non se potesse saciare de guardare, dicendo che ultra la singolare belleza, che la effigie indicava un gran ingegno [...]. Così tutte le altre che la vide summamente la laudò in sino alle galante et gratiate figlie del gran Capitano prima che de qui partessero, le quale dopoi reguardatola per longo spatio mille volte dice che basò la bella medaglia, havendo anche loro per fama udito rasonare de la conditione et valore vostro. 1

Iacopo fa allusione alla presentazione della medaglia di Isabella d’Este alle tre regine aragonesi ma anche alla « Regina mugliera », cioé Germaine de Foix, moglie di Ferdinando il Cattolico, nonché alle figlie del Gran Capitano, Gonzalo de Cordoba, Beatrice e Elvira, prima che quest’ultime lasciassero Napoli l’11 giugno 1507. 2 Nella stessa lettera, Iacopo informa la marchesa di Mantova che Gian Critoforo Romano ha realizzato una medaglia de la Duchessa de Milano, « che è bella cosa et molto artificiosa, per respecto de queli veli : ancora non finita ma solo il volto e la testa è facta ». 3 Quest’ultimo passaggio si riferisce alla celebre medaglia con il ritatto di Isabella d’Aragona raffigurata in busto, rivolta a destra con uno scialle che le scende sulle spalle. 4 A partire dal 1507, non si hanno altre notizie di relazioni tra Costanza d’Avalos e la mar 









1   Adolfo Venturi, Gian Cristoforo Romano, « Archivio Storico dell’arte », i (1888), p. 152 ; A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie ..., cit., p. 244. 2   Vd. Riccardo Naldi, Andrea Ferrucci. Marmi gentili tra Toscana e Napoli, Napoli, Electa Napoli, 2002, pp. 59, 62-63, n. 40. 3   A. Venturi, Gian Cristoforo Romano ..., cit, pp. 151-152 ; A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie ..., cit., pp. 244-245. 4   Milano, Civiche raccolte archeologiche e numismatiche, inv. M. 0.9/1007, cat. 452 : Chiara Pidatella, in *Bonacolsi. L’Antico ..., cit., p. 226, n. vi.4, con bibliografia.  









scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este 299 chesa di Mantova. Anche in occasione della sua visita a Napoli, tra il 12 e il 17 dicembre 1514, appare strano che Isabella non si sia incontrata con la sua tanto amata amica. Durante il suo soggiorno napoletano, Isabella è ospite di Fabrizio Colonna, padre di Vittoria, nel palazzo nei pressi di San Giovanni Maggiore. In una lettera inviata al marito Francesco Gonzaga il giorno del suo arrivo nella capitale meridionale (12 dicembre), la marchesa riferisce gli onori riservatili dal suo illustre ospite :  

Sabbato matina, invitata dal sig. Fabritio Colona ad andare a uno loco suo fori de la cità circa dua miglia a disinare con lui, montai a cavallo et vi andai. Gionta là, parendomi troppo a bonhora, non volsi smontare, ma pigliai expediente de salire il monte et andare a S.to Martino, loco de li frati de la Certosa, essendomi ditto essere loco molto ameno et bello, come in effetto lo trovao, perché quella è la più bella vedetta et più bello sito ch’io vedessi mai, con uno aere tanto gentile dil mondo. r

Dopo aver ammirato una delle più belle vedute della città dalla celeberrima terrazza della certosa di San Martino, Isabella partecipa ad un « bellissimo convito » organizzato in suo onore. Se a tavola tra le donne c’erano la Marchesa di Massa e M.a Diana d’Este, c’è da sottolineare l’assenza di Costanza d’Avalos. Conoscerà invece il suo nipote prediletto, Ferrante, marito di Vittoria Colonna, in occasione della sua visita presso il viceré Ramón de Cardona. 1 La marchesa di Mantova incontrò quindi gli esponenti della nuova società vicereale, ma stranamente né l’amatissima Costanza né Vittoria Colonna. In assenza di riscontri documentali, questo mancato incontro è dovuto forse soltanto a particolari condizioni metereologiche. 2 Siamo nel dicembre del 1514 e « li sinistri tempi » avevano forse impedito a Costanza di lasciare il suo castello di Ischia per poter finalmente conoscere l’amica tanto amata. E con questa semplice ipotesi si chiude per ora la storia tra la nobildonna napoletana e la marchesa di Mantova.  







Institut national du patrimoine, Paris Durante il lungo regno di Ferrante d’Aragona la vita politica e culturale della capitale meridionale è caratterizzata da una notevole apertura verso gli altri centri artistici della Penisola. I contatti con gli Este di Ferrara vengono rinvigoriti grazie al matrimonio tra la figlia di Ferrante, Eleonora, ed Ercole d’Este. Da questo matrimonio nacque nel 1474 « la prima donna del Rinascimento », Isabella d’Este, che sposò Francesco Gonzaga nel 1490. Nel 1493 la Marchesa di Mantova si fece ritrarre una prima volta da Andrea Mantegna e poi, insoddisfatta del risultato, da Giovanni Santi, desiderando inviare un proprio ritratto a Napoli alla cara amica Contessa di Acerra. Chi era la Contessa di Acerra, questa nobildonna meridionale cara ad Isabella “tamquam soror charissima” ? I primi studiosi moderni di Mantegna non si preoccuparono di sciogliere l’enigma, mentre in anni più recenti è stata identificata con Isabella del Balzo, sposa di Federico d’Aragona. Una rilettura delle fonti induce qualche correzione di tiro. La Contessa di Acerra è in realtà Costanza d’Avalos, figlia di Iñigo e di Antonella d’Aquino, esponenti di famiglie tra le più nobili del regno aragonese, fedelissime alla corte ed alleate con illustri casate europee. Costanza d’Avalos aveva sposato verso il 1477 Federico del Balzo. Rimasta vedova e senza prole nel 1483, Costanza d’Avalos ereditò il titolo di Contessa di Acerra e nel 1501 fu investita del feudo di Francavilla. Nel settembre del 1503, dopo la morte del fratello governatore d’Ischia, Costanza assunse il comando dell’isola. Donna di spicco nella Napoli filoaragonese, legata a Pontano e a Sannazzaro, immortalata dal Cariteo, dal Moncada e da altri poeti dell’umanesimo meridionale, Costanza aveva creato ad Ischia una vera e propria corte e raccolto tra l’altro un’importante biblioteca nota attraverso l’inventario stilato alla sua morte nel 1541. La  





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  A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie ..., cit., pp. 234-235   D’altra parte, come accennato, qualche anno prima, il 17 gennaio 1499, Iacopo da Atri aveva scritto alla marchesa di Mantova di non esser riuscito a recarsi ad Ischia a causa dei tempi invernali poco propizi (Appendice 14). 2

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scoperta di una serie di lettere conservate presso l’Achivio Gonzaga (Mantova, Archivio di Stato), trascritte e presentate per la prima volta in occasione di questo convengo - conferma inequivocabilmente che la “Contessa della Cerra”, amica della Marchesa di Mantova e primitiva destinataria dello sventurato ritratto di Mantegna, fu proprio Costanza d’Avalos. Tali lettere offrono un’inedito spaccato della società meridionale tra Quattro e Cinquecento. During the long reign of Ferrante of Aragona, the political and cultural life of the Southern capital stood out for its remarkable openness to the other artistic centres of the Peninsula. Their contacts with the House of Este in Ferrara are strengthened by the marriage between Ferrante’s daughter, Eleanor, and Hercules d’Este. In 1474, this marriage produced « the first woman of Renaissance », Isabella d’Este, who married Francesco Gonzaga in 1490. In 1493, the Marchesa of Mantova commissioned Andrea Mantegna to make her portrait, but, unsatisfied with the result, she wanted to be portrayed by Giovanni Santi, as she wanted to send her portrait to Naples, to her dear friend, the Countess of Acerra. Who was the Countess of Acerra, this southern noblewoman so beloved by Isabella, “tamquam soror charissima” ? The first modern experts on Mantegna did not care of solving the enigma while in recent years she has been identified as Isabella del Balzo, Frederick of Aragon’s wife. A new reading of the sources suggests some corrections. The Countess of Acerra is in fact Constance d’Avalos, the daughter of Iñigo and Antonella d’Aquino, the descendants of the noblest families of the Aragonese reign, extremely loyal to the court and allies to illustrious European families. Constance d’Avalos had married Frederick del Balzo around 1477. Widowed and childless in 1483, Constance d’Avalos inherited the title of Countess of Acerra and in 1501 she was invested with the feud of Francavilla. In September 1503, after the death of her brother the governor of Ischia, Constance became the ruler of the island. An outstanding woman in pro-Aragonese Neaples, a friend of Pontano and Sannazzaro, sung by Cariteo, Moncada and other poets of southern humanism, Constance had set up a veritable court in Ischia and had put together an important library which is known to us through the inventory that was drawn up on her death in 1541. The finding of a group of letters in the Archivio Gonzaga (Mantova, State Archives) – transcribed and presented for the very first time at this meeting – confirms with absolute certainty that the “Countess of Cerra”, Marchesa of Mantova’s friend and the original receiver of the unfortunate portrait by Mantegna, was actually Constance d’Avalos. Such letters provide an unprecedented view of life in Southern Italy between the 15th and the 16th century.  





Au cours du long règne de Ferdinand d’Aragon, la vie politique et culturelle de la capitale méridionale s’ouvre aux autres foyers artistiques de la péninsule. Les liens avec la famille Este de Ferrare sont renforcés par l’union d’Eléonore, fille de Ferdinand, à Hercule d’Este. De ce mariage, naît en 1474 « la première femme de la Renaissance », Isabelle d’Este, qui épousera Francesco Gonzague en 1490. Trois ans plus tard, la marquise de Mantoue commande son portrait à Andrea Mantegna, mais déçue du résultat, elle se tourne vers Giovanni Santi pour l’exécution d’un nouveau portrait. Ce dernier étant destiné à sa chère amie, la comtesse d’Acerra. Qui était cette noble méridionale chère au cœur d’Isabelle d’Este « tanquam soror charissima » ? Les premiers spécialistes de Mantegna négligent cette question. Et plus tard, la comtesse d’Acerra est identifiée à tort à Isabella del Balzo, épouse de Frédéric d’Aragon. Après une relecture attentive des sources, j’ai pu en déduire qu’il s’agissait en fait de Costanza d’Avalos, fille d’Iñigo et d’Antonella d’Aquino. La famille, parmi les plus nobles du royaume aragonais, s’illustre par sa fidélité à la cour et par son alliance aux plus illustres maisons d’Europe. Costanza d’Avalos épouse vers 1477 Federico del Balzo. Restée veuve et sans enfants en 1483, elle hérite du titre de comtesse d’Acerra et obtient en 1501 le fief de Francavilla. En septembre 1503, elle assure le gouvernement de l’île d’Ischia, à la mort de son frère. Femme de premier plan dans la Naples des dernières années de la dynastie aragonaise, liée à Pontano et Sannazaro, elle sera immortalisée par Cariteo, Moncada et d’autres humanistes méridionaux. Costanza crée à Ischia une véritable cour et rassemble une importante bibliothèque connue à travers l’inventaire établi après sa mort en 1541. La découverte d’une série de lettres conservées aux archives Gonzague (Mantoue, Archivio di Stato), transcrites et présentées pour la première fois à l’occasion de ce colloque, confirme de manière irréfutable que la comtesse d’Acerra est bien Costanza d’Avalos. Ces lettres offrent un aperçu inédit de la société méridionale entre le xve et le xvie siècle.  









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Durante el largo reinado de Ferrando de Aragón, la vida política y cultural de la capital meridional está caracterizada por una notable apertura hacia otros centros artísticos de la península. El contacto con la familia d’Este de Ferrara se consolida gracias al matrimonio entre la hija de Ferrando, Leonor, y Hércules d’Este. De esta unión nace, en el año 1474 « la prima donna del Renacimiento », Isabel d’Este, que se casó con Francisco Gonzaga en el año 1490. En el 1493 la marquesa de Mántova se hace retratar por vez primera por Andrea Mantegna e, insatesfecha del resultado, una segunda vez por Giovanni Santi, deseosa de enviar un retrato suyo a su querida amiga la condesa de Acerra, a Nápoles. ¿Quién era la condesa de Acerra, esta noble dama meridional que Isabel quería “tamquam soror charissima” ? Los primeros estudiosos modernos de Mantegna no se preocuparon de aclarar este enigma, mientras que recientemente ha sido identificada con Isabella del Balzo, esposa de Federico de Aragón. Una atenta lectura de las fuentes induce a realizar algunas correcciones. La condesa de Acerra es en realidad Constanza de Ávalos, hija de Iñigo y de Antonella d’Aquino, exponentes de familias muy nobles del reino de Aragón, fieles a la corte y aliadas con ilustres linajes europeos. Constanza de Ávalos se había casado, hacia el año 1477, con Federico del Balzo. Ya viuda y sin hijos, en el 1483, heredó el título de condesa de Acerra y en el 1501 fue investida del feudo de Francavilla. En septiembre del 1503, tras la muerte de su hermano, gobernador de Isquia, Constanza asumió el gobierno de la isla. Fue una mujer poderosa en la Nápoles filoaragonesa, muy cercana a Pontano y a Sannazzaro, inmortalizada por Cariteo, por Moncada y por otros poetas del humanismo meridional. Constanza había creado en Isquia una verdadera y propia corte y había reunido una importante biblioteca, conocida tras el inventario realizado a su muerte, en el 1541. El descubrimiento de una serie de cartas conservadas en el Archivio Gonzaga (Mántua, Archivo de la Nación) – transcritas y presentadas por primera vez con ocasión de este simposio – confirma sin duda alguna que la “condesa de Cerra”, amiga de la marquesa de Mántua e inicial destinataria del retrato de Mantegna, fue precisamente Constanza de Ávalos. Estas cartas ofrecen un inédito cuadro de la sociedad meridional entre los siglos xv y xvi.  





Während der langen Zeit des Reichs von Ferrante d’Aragona ist das politische und kulturelle Leben der Hauptstadt Süditaliens gekennzeichnet durch eine bemerkenswerte Öffnung anderen künstlerischen Zentren Italiens gegenüber. Die Kontakte mit der Familie Este von Ferrara wurden gefestigt durch die Eheschließung zwischen Ferrantes Tochter Eleonora und Ercole d’Este. Aus dieser Ehe ging 1474 « die erste Frau der Renaissance », Isabella d’Este, hervor, die 1490 Francesco Gonzaga heiratete. Im Jahr 1493 ließ sich die Marchesa von Mantua zum ersten Mal von Andrea Mantegna porträtieren und – weil sie mit dem Ergebnis unzufrieden war – auch noch von Giovanni Santi. Sie wollte das Porträt ihrer lieben Freundin, der Gräfin von Acerra, nach Neapel schicken. Wer war diese Gräfin von Acerra, die adlige süditalienische Freundin – „tamquam soror charissima“ – von Isabella ? Die frühesten Studien zu Mantegna kümmerten sich nicht darum, dieses Rätsel zu lösen, doch in den letzten Jahren wurde sie in der Person von Isabella del Balzo, der Ehefrau von Federico d’Aragona, identifiziert. Bei einem erneuten Quellenstudium drängt sich jedoch eine Korrektur auf. Die Gräfin von Acerra ist in Wahrheit Costanza d’Avalos, Tochter von Iñigo und Antonella d’Aquino, zweier Vertreter der nobelsten Familien des aragonesischen Reichs, dem Hof treu ergeben und mit illustren europäischen Königshäusern verbündet. Costanza d’Avalos hatte um das Jahr 1477 Federico del Balzo geheiratet. Sie blieb kinderlos und wurde 1483 Witwe, erbte den Titel einer Gräfin von Acerra und erhielt 1501 das Lehen Francavilla. Im September 1503, nach dem Tod des Bruders und Gouverneurs von Ischia, übernahm Costanza das Kommando über die Insel. Costanza war eine herausragende Persönlichkeit unter den mit dem aragonesischen Hof verbündeten Adligen Neapels, sie war mit Pontano und Sannazzaro befreundet und wurde von Cariteo, Moncada und anderen Dichtern des süditalienischen Humanismus’ besungen. Costanza hatte auf Ischia einen eigentlichen Hof gegründet und im Übrigen eine bedeutende Bibliothek zusammengestellt, die uns bekannt ist dank dem bei ihrem Tod 1541 erstellten Inventar. Die im Archivio Gonzaga (Mantua, Staatsarchiv) entdeckte Reihe von Briefen, die transkribiert und anlässlich der eigens organisierten Tagung zum ersten Mal vorgestellt wurde, bestätigt unzweifelhaft, dass die “Gräfin von Cerra”, die Freundin der Marchese von Mantua und ursprüngliche Empfängerin des unglückseligen Porträts von Mantegna, ebendiese Costanza d’Avalos war. Die Briefe liefern einen ganz neuen Einblick in die süditalienische Gesellschaft zwischen dem Quattrocento und dem Cinquecento.  





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gennaro toscano Appendice 1

1) Archivio di Stato di Mantova (ASMn), Archivio Gonzaga (AG), Busta 807, lettera 49, 2 maggio 1492 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este). 2 Ill.ma S. mia hon(oranda) po de com(m)endarme. Gran piacere et sum(ma) consolatione ho de le benigne et humanissime lettere de v. s. gustato, sì per cognoscer(e) in q(ue)lle la benivolentia qual me porta et la humanità qual p(er) la sua benigna natura verso me usa, sì anche maxime p(er) havere la optima de quella valitudine intesa, onde parme debito che tanto de dicte lettere, como anchora de la visitatione al sp. Iacomo de Hadria suo secretario co(m)me(s)sa infinite gratie et tale quale posso li habia et finalme(n)te la suppliche che de me et de mee tenue facultate voglia q(ua)ndo le occorre liberam(en)te servirse : p(er) che me serrà carissimo far chosa le sia grata. Non restarò in la fine de queste com(m)endarli Margarita, anchora che sup(er)fluo el repute. In Napoli, a li ii de Maio MccccLxxxij.  

Prontissima in s(er)vire v(ost)ra S. Constantia de Davalos 2) ASMn, AG, Busta 807, lettera 39, 16 maggio 1492 (Iacopo da Atri a Isabella d’Este). 3 Ill.ma et ex.ma Madona mia : Io p(rese)ntai le lettere de v. ex. alla s.ra Contessa de la Cerra et ad D. Simone de Neroni et ho sollicitato q(ue)llo ch(e) essa rechiedeva. Hora per Bap(tis)ta Cavallaro gli manda in una scatola q(ue) llo oro ch(e) v. ex. gli scrisse che monta circa 41 ducato como p(er) la sua l(ette)ra qui allegata più diffusame(n)te intenderà. Li stuzetti sono finiti et solo gli resta farli le arme sue ch(e) serano finiti domane et portaralli luy medesimo q(ua)lo p(er) altre sue importantie viene in q(ue)lle parte. Le visitatio(n)e sue ho facto como più diffusame(n)te gli referirò a bocha : et mandoli al p(rese)nte le l(ette)re de la s.ra Contessa de la Cerra quale è in anima et in corpo de la v. ex. Recom(m)andome alla sua bona gratia. Napoli, die xvj Maij 1492. Ill.me d. V. divot.us S(er)vus Jacobj de Hadria etc.  



3) ASMn, AG, Copialettere 2991, libro 3, lettera 4 (c. 1v), 12 gennaio 1493 (Isabella d’Este a Iacopo da Atri) 4 Iacobo de Hadria Jacomo, per satisfare a la Ill. M.na Contessa de la Cerra quale amamo cordialm(en)te et farti gra(tia) de quello ch(e) tanto desideri havemo ordinato de esser retracta in tavola p(er) mane de Andrea Mantinea, et lo faciamo solicitare p(er) mandartila dreto, aciò che tu sii q(u)ello ch(e) ge la p(rese) nti, nanti la partita tua, la quale volemo ch(e) no(n) sia senza la effigie de la p.ta M.na Contessa, doppo ch(e) essa vuole la n(ost)ra p(er) potersi godere l’una et l’altra. A questo mo(do) volemo ch(e) tu te compari dui mantelli de gambetti negri finissimi nommati de quelli ch(e) pareno raso p(er) una fodra et p(er) esser megli s(er)vite ne dirai una parola a la p.ta Contessa laquale p(er) ritorlo de Gambacurta haverà mo(do) de farteli haver belli et a la s. sua ne raccomandarai p(er) mille volte. Mantue, xij Jan. 1493. 1   I testi sono riprodotti con criteri conservativi. Gli interventi riguardano lo scioglimento delle abbreviazioni in parentesi tonde e la divisione delle parole ; le parentesi uncinate indicano le parti illegibili dei testi. Ringrazio Daniela Ferrari, direttrice dell’Archivio di Stato di Mantova, per la gentile accoglienza, e Paolo Bertelli per la rilettura 2 3   Inedita.   Inedita. delle trascrizioni. 4   La lettera è stata parzialmente pubblicata da Alessandro Luzio, I ritratti di Isabella d’Este, in La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-1628, Milano, L. F. Cogliati, 1913, p. 188.  

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4) ASMn, AG, busta 807, lettera 75, 13 febbraio 1493 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este) 1 Ill.ma S. mia hon(oranda) po de com(m)endarme. Ho preso sum(m)o piacer(e) de le gratiose l(ette) re de v. s. et no(n) menore de la visitatione me ha facta da sua parte misser Jacobo de Adria, degno secretario del Ill.mo s. suo consorte et visto et inteso qua(n)to quella p(er) la sua humanità et virtù sia verso me affectionata li ho infinite gratie, et per no(n) derogare a l’auctorità de tanto nuncio no(n) dico q(ua)nto io le sia meritamente obligata, né q(ua)nto servirla desidere. Ma de tucto me remecto a la sua sufficientia, con la quale habia da supplire a la brevità de queste et anche da satisfare al mio debito. P(er) ipso anchora le ma(n)do quel che con tanta instantia me ha facto demandare : forsi no(n) responderà a la opinion grande che de me ha conceputa, et sorterà che la p(rese)ntia minuirà la fama. De ch(e), purch(è) al desiderio de v. s. et al mio debito sia satisfacto, no(n) curo. Confido tanto in la gra(tia) et perfection de quella da chi serrà vista ch’el suo afflato solo porrà lo imperfecto far deve(n)tare perfecto. Roco(m)mandoli Margarita : anchora che sup(er)fluo parà comendarli q(ue)lla ch(e) p(er) sua sponte tene cara. In Napoli, a li xiii de febraro 1493.  



Quella ch(e) al servitio de v. s. è dedita Constantia de Davalos 5) ASMN, AG, copialettere 2991, libro 3, lettera 99, cc. 30r-31r, 3 aprile 1493 (Isabella d’Este a Costanza d’Avalos) 2 Comitisse Acerre Ill. et ex. d(omi)na tanq(uam) soror n(ost)ra char(issi)ma no(n) poteressimo scrivere q(ua)nto piacere et consolatione habiamo preso per la l(ite)ra de v. s. et per la relatione de Jac(ob)o de Hadria, qual diffusam(en)te ne ha exposto et la bona convaliscentia in che se ritrovava v. s. et lo amore et affectione che la ce porta : il che già molti zorni havemo per experientia cognoscuto ma non credemo già esser punto superate da v. s. in questo : per che da lo amore et charità che portamo a la ill(ustrissi)ma s(ignor)a Duchessa de Bari n(ost)ra unica sorella : a quello de la s. v. no(n) è alcuna differentia et veramente no(n) havemo veruna cosa più a cuore : che de poterli effectualm(en)te dimonstrare l’animo et dispositione n(ost)ra. Se N. S. Dio ne concedesse de poterla una volta vedere et abrazare me pareria essere felice a q(ue)sto mondo : de qui nasceva el continuo desyderio che tenevimo de havere el retracto de v. s. a ciò che in qualche parte satisfassimo a lo affecto n(ost) ro. Mo che l’habiamo in carta e in cera et che per relacione de Iacomo, et per q(ue)llo che nui stesse iudicamo : se gli asimiliamo poco, sapendo cu(m) q(ua)nta difficultà se ritrovano pictori che perfectamente contrafaciano el vulto naturale, tenelomo charissimo, et spesso lo consyderiamo, supplendo cu(m) la informacione de Margarita. Iacomo et altri che han(n)o veduto la s. v. al defecto del pictore per n(os)tro che nie(n)te restamo inganate del concepto n(ost)ro, ringraciamola sum(m)am(en)te che la ce ne habia compiaciute et la pregamo no(n) manchi de la fede dattace per mezo de Iac(om)o de mandarcene un altro in tavola, che cussì faremo nui del n(ost)ro a la s. v. p(er) satisfare a la richiesta sua non già perché la vedi una effigie bella, ma perché l’habia in casa la figura de quella che gli è cordialissima sorella. La camisa facta a la spagnola che ce ha ma(n)data la s. v. et per essere gallantissima et ben lavorata è fogia nova in q(ue)ste parte et per venire de le mane sue no(n) ne poteria essere stata più grata. Portaremola per amore suo et spesso la vederemo facendo conto de vedere la s. v. la quale et acumula tal(ment)e obligacione che no(n) sapemo como mai poterline rendere vicissitudine. Però parendoce impossibile ringraciarla secu(n)do el debito, o(m)metterno q(ue)sta parte ; solum gli recordaremo che ta(n)to può disponere del stato et persona n(ost)ra q(ua)nta nui medesimo. No(n) respondemo responderemo altram(en)te a la s. v. circa el commendarne che la fa de Gambacurta  













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  Inedita.   Parzialmente pubblicata da A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este ..., cit., p. 188.

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perché qu(anto) mai in lei no(n) fussino le virtù et zentileze che veramente sono, el respecto de la s. v. ce la rendaria grata. No(n) l’havemo manco in gra(tia) che quelle che cu(m) nui sono allevate perché essendo allevata da la s. v. et facendoli honore como la fa, no(n) la vogliamo amare et tractare altramente como la se la fusse nata in casa n(ostr)ra et q(ue)sto tenga per certo la s. v. 1 a la quale ne offeremo et raccommandamo. Mantue, ij, Aprilis 1493. 6) ASMn, AG, copialettere 2991, libro 3, lettera 130, cc. 39v-40r, 20 aprile 1493 (Isabella d’Este a Costanza d’Avalos). 2 Comitisse Acerre Illu. etc. Benché per altre n(ost)re la s. v. haverà inteso q(ua)nto piacere havessimo de li retracti suoi portati p(er) Jacomo de Hadria et ch(e) poco se gli asimiliassino p(er) q(ua)nto ne referitte lui et li altri ch(e) h(an)no veduto. Et q(ua)nte gratie gli habiamo de la camisa a la spagnola che la ne ha mandato : nondimeno havendo opportunità del messo n(ost)ro cavalcator havemo voluto iteru(m) ringratiare v. s. de l’una et l’altra cosa, certificandola ch(e) ogni dì vediamo li retracti et spesso portiamo la camisa p(er) suo amore et spesso c(um) Gambacurta rasonamo de lei. Agura(n)done de poterla vedere in persona et stare c(um) essa in consolatione ma doppo ch(e) q(ue)sto per ta(n) ta distantia n’è prohibito desyderamo al ma(n)co spesso havere sue l(ette)re significative de la bona valitudine sua la quale no(n) ma(n)co che la n(ost)ra propria affectamo. Nui per gra(tia) de N. S. Dio l’havemo adesso inseme c(um) lo Ill.mo s. n(ost)ro consorte : chi lo sapemo pigliarà [direi con l’accento] piacere v. s. Dolm(en)e summam(en)te ch(e) no(n) gli potiamo ma(n)dare al p(rese)nte el n(ostr)o retracto, perché el Pittore me ha ta(n)to mal facta ch(e) no(n) ha alcuna de le n(ostr)e simiglie : havemo ma(n)dato p(er) uno forestiere, qual ha fama de contrafare bene el naturale. Facto ch’el serrà lo ma(n)deramo subito a la s. v. quale non se scordarà in q(ue)sto mezo che siamo tutta sua et sempr(e) disposta farli cosa grata. Et recommandandome ad essa. Mantue, 20 Aprilis 1493.  





7) ASMn, AG, busta 807, lettera 77, 10 maggio 1493 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este). 3 Ill.ma s. mia observandissima po de com(m)endarme. Per altre mee più volte ho già confessato et al p(rese)nte de novo confesso no(n) haver facultà, né anche parole tanto accomodate, né proprie, con le quale io possa referire o di[re] almeno merite et degne gr(ati)e a v. s. ill.ma s. de tanta benivolentia et humanità qua(n)ta spontaneame(n)te no(n) da mi(ei) meriti provocata monstrar continuamente se degna. Io p(er) m(o)lte soe et p(er) diverse relatione de li soi liquidamente ho inteso q(ua)nta sia la sua verso me benivolentia et mo perspicacissimam(en)te p(er) le soe graciosissime lettere comprehendo quella non solo no(n) co(n) vulgar amore prosequirme, ma con veheme(n) tissima et sincera charità anche amarme. Per ho che in le soe benignissime lettere trovo et vedo tanti affecti d’amor(e) ch(e) né pensare né excogitar posso con quale parole più suave, amorevel(e) o vero più officiose ad sore alchuna cordialissima scrivere o maior(e) affectione et amore se potesse monstrare ; onde se ad tanta obligatione q(ua)nta meritamente li devo con le opere o con le parole non paresse satisfare, se degnarà, come è solita, concedere a la impossibiltà venia, p(er)suadendose haver la voluntà et lo animo promptissimo in quel ch(e) la inopia lo effecto impedisse. De la sua verso me benivolentia sto ta(n)to lieta ch’el reputo ad gran felicità haver tal sorte consequito che da tanta s.ra io sia cossì sincerame(n)te amata. Dogliome che tanta distantia a li occhii fruir vete quel che lo animo, anche absente, vede et co(n)templa semp(re). Lo retracto li ho mandato no(n) dubito le sia stato caro, no(n) p(er) gracia che tenga, qual né in me è alchuna, ma p(er) lo amor solo che p(er) sua benigna natura porta a chi quello effinge, et p(er) esserli tanto caro dò sempre op(er)a de far fare l’altro in tavola, a ciò che al suo desiderio sia satisfacto. L’absentia mia da Napoli lo ha tanto retardato p(er)ch(è) semo in lochi dove no(n) facilme(n)te se  

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  Segue parola cancellata non leggibile.   Parzialmente pubblicata da A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este ..., cit., 188-189.

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  Inedita.

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pò haver sufficiente pictore, p(er)ho spero haverne in ogne modo alchuno el quale habia da satisfare al comune voto de v. s. et mio. In che la prego me voglia render(e) vicissitudine de mandarme el suo, el qual possano li occhii una con lo a(n)imo assiduame(n)te contemplando fruire. Le gr(ati)e che quella me dà necessarie certo no(n) erano p(er)ché de chosa tanto piccola existimo dove(r)nose gr(ati)e a chi se ha degnato receverla più presto che ad quella da chi fo ma(n)data, la quale altro che su(m)ma fede ad mandar tal dono no(n) have(r)ia inducto. Et cossì la prego voglia existamare. Del bon tractamento anchora ch(e) v. s. fa ad Margarita tengo gran piacere et tanto maiore q(ua) nto li portame(n)ti soi siano tali che ultra la comendatio(n)e la rendano ad v. s. cara. De che ne ho ad quella m(o)lte gr(ati)e et de novo, anchora ch(e) non bisogne, ce la reco(m)mando. Altro p(er) queste non occore se no(n) remorarli ch’el mio desiderio sempre versa in far chosa le sia grata. P(er)hò in suo arbitrio sta el comandare. In Vayrano, a di x de maio, MccccLxxxxiij. Al servitio de v. Ill.ma s. dediti.ma Constantia de Davalos 8) ASMn, AG, Busta 807, lettera 79, 12 novembre 1493 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este). 1 Ill.ma s. mia observandissima po de com(m)endarme. Voleria posser sempre scrivere a v. s. de chose iocu(n)de, amene et prospere de le quale havesse da pigliar sempre piacere, ma perché le humane et caduch(e) chose ad tal lege stan suggecte ch(e) in un stato el grado firmar no(n) posseno et con el mobile piede transcorrendo in ogne tempo et momento quasi variano, et ali meseri homini mo iocunditate, mo amaritudine grande portano, necessario è che le humane actiune a la conditione del tempo cor(r)espondono, et cossì lo officio de ciascun ch(e) obligatione ad alchun tiene, a quello satisfacza et serva. Da tal ragione, io aducta have(n)do intesa la inmatura morte dela Ill.ma s. genetrice de v. s. chi Dio habia, per voler al mio debito in parte almeno satisfare, et de tanto acerbo et infausto caso condolerme, come q(ue)lla che sì p(er) la obligation grande che li tengo, sì p(er) lo sincero amore che p(er) soi meriti li porto, del suo dolore son participe. Ho voluto scriverli le p(rese)nte, no(n) per agravare con la com(m)meration del mio el suo dolore, ma p(er) exhortarla et supplicarla che a quello como inutile et vano ch(e) niente iova, como prudentissima voglia cedere et con la sua modestidia tollerar voglia quel che natural lege ha facto inremediabile et co(m)mune el che anchor che duro et no(n) m(o)lto facile ali humani pecti sia, como io più volte et al p(rese) nte p(er) haver simil causa de dolor provo, pur p(er)ché vano et absurdo assai pare voler dala natura disse(n)tire et cercar(e) medicina dove altra che de pacie(n)tia medicina no(n) se trova, parme che con pacie(n)tia tollerar se debia quel che humana industria no(n) po reparare. In che me persuado v. s. no(n) haver(e) de aliene exhortatiune bisogno, ma p(er) se far quel che ala condicione et dignità de tanta s.ra convene. P(er)ho dando a la p(rese)nte fine, a quella iter(um) me c(om)mendo et al suo servitio sempre me offerisco. In Vairano, ali xii de novembre MccccLxxxxiij. Al servicio de v. Ill.ma s. deditissima Constantia de Davalos 9) ASMn, AG, Copialettere, 2991, libro 4, lettera 50, cc. 15rv, 13 gennaio 1494 (Isabella d’Este a Costanza d’Avalos). 2 Comittisse Acerre Ill. et Ex. soror tanq(uam) soror cha(rissi)ma. Per satisfar(e) al desiderio de v. s., no(n) perché la effigie mia sia de tal beleza ch(e) la meriti andar(e) in volta depincta, gli mando per Simone da Canossa, camerier(e) de l’Ill.mo s. Duca de Calabria, el retracto in tavola facto per mano de Zohan de S(anc)te pictor(e) de la Ill.ma Duchessa de Urbino, qual dicono far b(e)n(e) dal n(atu)rale, et che questo, secundo m’è referto, se me puoteria più asimigliare. 1

  Inedita.

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  Parzialmente pubblicata da A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este ..., cit., p. 189.

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Voria ch(e) me accadesse cosa da puoter cu(m) più mia satisfactione gratificar(e) v. s. che lo faria molto voluntieri per dimostrarli lo Amore affecto de lo amor(e) che gli porto. Havendome n. s. Dio concesso ch’io sia scharicata in bene di una figliola femina, 1 m’è parso per contento de v. s. darline aviso, benché existimi ch(e) molto più charo gli seria intender(e) ch’el fusse stato maschio, come io et omne persona desiderava pur tale quale lei, serà bona figliola de v. s. come la n(ost)ra gli è cordial sorella. Raccomandome a q(ue)lla de continuo. Mantue, xiij jan(uari) 1494. 10) ASMn, AG, Busta 2109, carpetta 2109a, c. 16, 25 aprile 1494 (Giovanni Gonzaga a Francesco Gonzaga). 2 Ill.mo s. mio fratello et Patrone honor.mo. Dimane piacendo [a Dio] si ponerano in via p(er) tornarsene a casa no(n) mi par vederne l’hora p(er) poter far rivere(n)tia [a] la ex.ta v. et il primo alogiame(n)to n(ost)ro serà in Arimino, l’altro a Cesena, poi a Furlì, a Imola, a Faenza et a Bologna et de li a Ferrara poi a Mantua. Ho parlato cu(m) Iohan(ne) de Sancto de li Ritracti de v. s. secondo q(ue)lla mi comise, et lui me ha risposto no(n) haverli anchor forniti p(er) no(n) essersi mai rehabuto de la infirmità ch(e) gli sopragionse a Mantua, ma como el sii un poco restaurato ch’el possi lavorare, et no(n) atenderà ad altro fin che no(n) habi servito la ex.tia v. In la cui bona gratia sempre mi ricomando. Urbini, xxv Aprilis 1494. Et Ill.me D. V. Fr(ater) et servitor Iohannes de Gonzaga cu(m) R(acomandatio)ne etc. 11) ASMn, AG, Busta 807, lettera 134, 15 maggio 1494 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este)3. Ill.ma s. mia hono.ma po de com(m)endarme. Non oso né posso p(er) lettere explicar q(ua)nto piacere et iocunditate me han dato le humanissime et piene de benivole(n)tia lettere de v. s., per le quale tanto apertame(n)te testifica et conferma q(ue)l che p(er) tante altre soe me ha demonstrato. El singulare amore che p(er) sua virtù verso me porta, ad confirmation del quale ha voluto dignarse ma(n)darme anche el simulacro et retracto de sua divina imagine, lo quale p(er) la perfectione, et certa divinità che in epso reluce, tanto me piace che contemplandolo p(er) tal modo resto satia che altro civo no(n) desidero, benché la rudecze del mio ingegno tale et tanta perfectione del tucto no(n) comprehe(n)da. Infinite donche gratie do a v. s. che de tanto grato et singular dono me ha facta degna, per el quale me ha tanto obligata, che no(n) so che potesse p(er) suo servitio fare, el che paresse almeno in parte ad tanti soi verso me meriti satisfare. Sepero che la munificentia sup(er)na supplerà in quel che le mee tenue forze, no(n) la voluntà, mancano. Io pur no(n) desister(r)ò mai de satisfare in la parte che posso sempre che v. s. se degnarrà con la securità che po et deve usare me et le poche facultà mee, le quale q(ua)nto se voglia ch(e) siano, quella po reputar soe. De la Ill.ma s. figliola nata me allegro q(ua)nto de chosa potese havere intesa a me grata : et prego la bontà divina donde p(ro)vene ogne p(er)fecto b(e)n(e) che de quest et de tucti li altri li co(n)cederà se degne farla m(ad)re felice. Io da mo’ li dedico la servitù che a v. s. ho già mancipata [mancipium] et desidero no(n) meno ad sua s. che a la v. servire, p(er) ho quella supp(li)co che in quanto cognosce poterse de me servir(e), no(n) me sparagne niente, p(er)ché haver(r)ò caro far sempre p(er) epsa como p(er) me proprio. In Gyphoni, ali xv de maio MccccLxxxxiiij.  

Al servitio de v. Ill.ma s. p(ro)mpta Constantia de Davalos

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  Si tratta della primogenita, Eleonora, nata il 31 dicembre 1492.   Parzialmente pubblicatada A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este ..., cit., p. 189.

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  Inedita.

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12) ASMn, AG, Copialettere 2906, libro 150, 3 ottobre 1494, cc. 23rv, (Isabella d’Este ad Elisabetta Gonzaga). 1 Ill.me d(omi)ne ducisse Urbini Illu Ma sorella mia, q(ua)n(do) Zoanne de sancto fu qua et ch(e) li era anchora la s. v. lui tolse imp(re) sa de farmi alcuni retracti in certi tondi come forsi la p.ta s. v. può sapere 2 et p(er)ché se no(n) sono finiti no(n) li è anch(o) più speranza ch(e) p(er) sua mane siano p(er) t(er)minarsi, essen(d)o sequita la sua morte, dricio el p(rese)nte cavalaro a la s. v. per lo quale la p(re)go me vogli mandar(e) q(ue) lli ch(e) esso Zoanne haveva lavorati, finiti o no ch(e) siano, p(er)ché farò supplire io qua al manchamento, ch(e) da la s. v. l’haverò grato a la quale sempre me offero et rac(coman)do. Mantue, iij octobris 1494. 13) ASMn, AG, Busta 807, lettera 564, 9 aprile 1497 (Costanza d’Avalos a Isabella d’Este). 3 Ill.ma s. mia observanda po de com(m)endarme. Questi dì ho receputo una humanissima lettera de v. s. Ill.ma, la quale ad me è stata car(issi)ma. Ho ad quella infinite gr(ati)e de tal l(ette)re et de la continua memoria d(e) me et de tanta benivolentia che assiduamente per sua sola bontà et virtù me porta et monstra ; de che q(ua)nto le sia obligata per altre mee lo ha quella inteso. Doleme certo multo no(n) haver visto el Magnifico Conte de Pianella, né inteso li soi relati per la sua festina et propera to(r)nata in Roma, come per lettere de un mio ho inteso, aciòché, se pur v. s. Ill.ma me com(m)andava chosa alchuna havesse possuto como semp(re) desidero servirla ; no(n) de meno piacendoli, porrà p(er) sua significarmelo, p(er) ché in nisuna chosa che le sia servitio me trovarà pigra, né tarda. Quella supplico no(n) se maraveglie se tardo forsi li scrivo, perché retrovandome in afflictione per li gravissimi adversi in brevissimo tempo accaduti, non me parea co(n)veniente farne quella participe, però che portandome per sua singular virtù amore, no(n) haveria possuto no(n) haver pena, have(n)do intesa la gran iactura de la mia infortunata casa, la quale in uno anno et men de mezo ha perso dui colonne, per le quale se sostinea : el Marchese de Peschara 4 et lo Conte de Monte Odorisi, 5 alhora Marchese del Vasto, mei fratelli, ambedoi in la guerra morti. V. S. Ill.ma pense de che civo el pecto mio se nutrisca ! De tucto ho ad n(ost)ro S. gr(ati)e, a la volu(n)tà del quale no(n) se pò, né se deve resistere, né contradire. Quella doncha me haverà excusata se dal debito officio niente ho cessato, bench(é) li dì passati li scrivesse, no(n) so però se le mee pervenessero en soe mane. Pur con lo a(n)imo no(n) ho cessato esser con epsa p(rese)nte como so et devo. Ad quella, fando fine, iterum me com(m)endo. Il lo castello de Iscla, a li viiii de aprile MccccLxxxxvij  







De V. Ill. S. Dedita s(er)vire la Contessa de la Cerra 14) ASMn, AG, Busta 808, cc. 5-6, 17 marzo 1499 ( Jacopo da Atri a Isabella d’Este). 6 Ill.ma et Ex.ma Madonna mia. Credo deba essere cognito, saltem p(er) fama, alla ex. v. la condicione et summa virtù del Pontano, quale meritame(n)te se po dire, no(n) solamente alla età n(ost)ra, ma 1

  Parzialmente pubblicata da A. Luzio, I ritratti di Isabella d’Este ..., cit., p. 189. 3   Sapere sovrascritto a sempre cancellato.   Inedita. 4   Alfonso d’Avalos, fu ucciso ucciso da un colpo di balestra tiratogli a tradimento il 7 settembre 1495 (vd. pp. 295-296 di questo articolo). 5   Iñigo d’Avalos, conte di Monteodorisio e marchese del Vasto, perse la vita nel gennaio 1497 nella valle del Liri combattendo contro i Della Rovere (vd. pp. 295-296 di questo articolo). 6   Parzialmente pubblicata da Armand Baschet, Recherches de documents d’art et d’histoire dans les archives de Mantoue, « Gazette des Beaux-Arts », xx, 1866, pp. 486-490 ; A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni ..., ed. 2005, pp. 248-249. 2







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dopoi mancho Virgilio, la natura humana no(n) havere producto homo de magiore doctrina né valuta de luy. Dove essendome accaduto parlare longamente cu(m) seco, havendolo visitato p(er) nome de lo Ill.mo S. v(ost)ro consorto, avendo io in memoria il laudabile p(ro)posito de v. s. de fare formare una statua de Virgilio, secondo il rasonam(en)to havuto cu(m) quella, me parse consultarlo cu(m) sua M. dicendoli havere così ordine et commissione da lei, narrandoli el fine che moveva il Generoso animo suo ad fare tale opera etc. El che inteso, chiamò dui zintilhomini lecteratissimi che se retrovavano alhora in casa sua et disse le formale parole “Credo che se fosse qua Paulo Vergerio che scrisse De educandis liberis, se alegraria m(o)lto più de lo generoso animo de q(ue)lla Ill.ma M.na, che no(n) se attristò quando el Conte Karolo Malatesta p(er)suase a buttare la statua de Virgilio nel fiume”, exclamando cu(m) vehementia, dicendo “Guardate S.ri la Magnanimità de una donna tenera de età, senza l(ette)re, che determina restaurare la fama de un tale homo, et de la cità sua cu(m) gloria sua, dove esso Conte Karolo, che era litterato et homo de experientia, cercò di levarla et fare vergog(na) al Poeta, et ad q(ue)lla Nobile Patria. Questa è veramente donna Regia, degna de laude et com(m)endatio(n)e, et certo s’io l’havesse prima inteso in la op(er)a che ho composta de Magnanimitate, gli l’haveria messa, ma determino già che no(n) l’ho data fuglila”. Così tutti quelli altri zintilhomini che in tale raso sop(ra)gionsero, confirmorno il dicto suo, cu(m) no(n) picola laude . Ancora che tacesse, perché ad mi no(n) tochava dire al, Dio sa quanto piacere pigliava sentire cantare . Venessimo poi alla discussione como dovesse essere facta la statua, de bronzo sive de marmo, dicendo che ancora che fosse più nobile il bronzo, pur p(er) il p(er)icolo che ad qualche tempo no(n) se ne facesse campane, o bombarde, seria bene ad farla de un bello marmo, cu(m) una bella basa de sotto et posta in luogo degno, vedendo farla lavorare ad un qualche degno sculptore, advertendo havere il suo naturale perocché io gli haveva dicto che m.ro Bap(tis)ta da la Fiera haveva retrovata la sua similitudine. Et p(er) sequire el stile de li antiqui, gli pareva che la statua dovesse essere sola cu(m) la laura in testa, et con manto a l’anticha, cu(m) l’habito togato col groppo in su la spalla, ov(er)o col habito senatorio che è la vesta et il ma(n)to sop(ra), come se dice vulgarm(en)te ad arme a collo, como b(e)n(e) saprà retrovare m. Andrea Ma(n)tinia, senza cosa alcuna in mano, ma la statua semplice senza libro né altro sotto, in q(ue)llo acto parerà ad esso m(esse)r Andrea, cu(m) le scarpe a l’antiqua et de sotto la basa poche parole, cioè P. Virgilius Mantuanus, et anche Isabella Marchionissa Mantuae restituit, o simile, como parerà alla ex. v. dove dicti zintilhomini dissero che esso Pontano dovesse pensare q(ue)llo più o meno se gli havesse ad sculpire in la basa et la M. sua respuse ch’el faria voluntiera. Questo che ho facto credo deba essere grato alla ex. v. el che è p(ro)ceduto p(er) grande affectione, como q(ue)llo che no(n) meno desidero la gloria sua che me facia la p(ro)pria salute. Alegrandome che un tanto homo determina de fare m li gesti suoi, che serà causa farla eterna et i(m)mortale. Lauda una bona l(ette)ra, overo ad mi, che ne ringratiasse la rlo più ancora ch’io lo veda molto b(en) disposto lo Ill.mo s. v(ost)ro consorto similmente. magiore, la quale molto amorevolmente me ha domandato de v. ex., la seconda non ho ancora possuto visitare et l’altra mugliera del Re p(rese)nte meno p(er) essere gravida in l’octavo mese, 1 però no(n) gli dico altro. Né ad Ischia ho possuto andare a veder la Contessa de la Cerra per li sinistri tempi, bisognando andare per mare, dove non se va senza pericolo, quando è fortuna. Recommandomi alli pedi de la v. Ill.a s. semp. Neap. xvij Martj 1499 De v. ill.ma s. s(er)vo et schiavo Iacopo. d’Hatrj 15) ASMn, AG, Busta 808, , cc. 230-231, 8 maggio 1507 ( Jacopo da Atri a Isabella d’Este). 2 1507, 8 mag(gi)o, Napoli Ill.ma et ex.ma Madon(n)a mia :  

1   Si tratta di Isabella del Balzo che proprio nel 1499 diede alla luce il quarto figlio, Alfonso. Vd. S. Fodale, Isabella del Balzo ..., cit., pp. 623-625. 2   Parzialmente pubblicata da A. Luzio, R. Renier, La coltura e le relazioni ..., cit., ed. 2005, p. 255.

scambi di doni tra costanza d ’ avalos e isabella d ’ este

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Feci reverentia incontine(n)te che foi arivato qua alle ser(enissime)me Regine, in nome de V. Ex., le quale me vedero volu(n)tiera et m(o)lto particularme(n)te me domandò de lei et de li suoi figlioli, demonstrando tenere bon conto et amare grandeme(nte) quella. Et il simile la Regina de Ungaria, la quale hebbe piacer(e) intendere che l’ultimo figliolo v(ost)ro fosse stato maschio, poiché gli era stato dicto che l’era femina. De che la Contessa de la Cerra ne ha facto scusa cum mj, dicendo che lei haveva dicto alla p(redet)ta Regina tal nova, alegrandose che fosse stato busia, persuadendose che V. Ex. fosse stata più contenta del maschio che se fosse stata femina, como q(ue)lla che participa de ogni v(ost)ra contenteza et felicità. Ho inteso da li servitori de la p(redet)ta Regina che la M(aes)tà sua hebbe el formagio che V. Ex. gli mandò per Franzone et che gli fo molto caro, el che no(n) ho possuto intendere de la Ill.ma Madon(n)a Duchessa de M(i)l(an)o per no(n) essere q(u)a. La Contessa p(redet)ta è stata intitulata Duchessa de Franchavilla et havuto il stato. De che io me sono alegrato cu(m) la s(ignoria) sua et facto la scusa se in la l(ette)ra V. Ex. la nomina ancora contessa, (per)ch(é) lei n(o)n ne haveva havuto notitia. Potrà q(ue)lla per l’avenire scriverli como a duchessa se conviene, se b(en) essa p(er) tal magiore grado et dignità n(o)n resta de la consueta sua cortesia et humanità, dicendo esseve fidelissima etc. Havendome poi V. Ex. scriptome per una sua de xxij del passato de li paternostri 1 che desidera de havere de qua, ho monstrato la l(ette)ra et dato la monstra che q(ue)lla me manda alla duchessa p(re)dicta, la quale de bona voglia ha preso cura de retrovarne de’ ogni sorta, reputandolo favore da V. S. et trovarà similmente guanti conveniente ad quella et io pigliarò cura porta mandarli, quando la tornata mia no(n) sii p(re)sta. Col m(agnifi )co Sanazario ho facto el debito, che non potria dire quanto gli è stato grato intendere che V. S. tenghi memoria de lui et me ha promesso darme qualche cosa che non sii stata ancora data fuora et è disposto sempre per l’honor et gloria v(ost)ra fare più che per persona dil mondo. Qui è l’Unico Aretino, 2 innimico mortale de la Ill.ma M.na Duchessa de Urbino, el quale tiene gran(de) conto de voi per despecto de la p(redet)ta M.na Duchessa. È stato levato su da queste gran(de) Madamme di sorte ch’el fa volare de là dal celo ; et che sii il vero luy se avanta che quatro principale Madamme de qui hano facto alli capelli insieme et battutose terribilm(en)te per amore de luy, per la gran(de) Gelosia che ognuna de loro ne ha : et così il poveretto è lacerato et splalanchato dal figliolo de Venere, che non sa ad qual de loro se debia atachare, sì che pensate como il sciaurato se debbe retrovare. Et talmente se è stabilito in questa sua fantasia che tutto il mondo non seria bastante ad persuaderli altramente : quando nomina la p(redet)ta Madon(n)a Duchessa, dice solo la traditrice de Urbino la chiama, sebbene la principale causa dice essere stata M.na Emilia cu(m) la quale mai farà pace, che pur cu(m) la Duchessa se potria acconciare. Non ve posso dare piena notitia de la Corte, però ché ancora son m(o)lto novo : pur mi pare m(o) lto sumptuosa et mag(nifica)ca. Le damiselle de la Regina mi pare che siano più ornate che belle, pur non voglio fare ancora iudicio finché non l’habia ben considerate. Madonna Duchessa de Francavilla se mantiene sì bene che pò stare ancora al parangono cu(m) le altre. El Re se rasona che partirà alla fine de q(ue)sto mese. Restarà per signo principale al governo del Regno la Regina magiore insieme col conte de Ripa Corso et alcuni dicono del Gran(de) Capit(an) o, ma non se sa certo. Ogni giorno vengono galee et nave per fare compagnia alla M(aes)tà Sua. La nocte passata, alle doe hore, tornando el Duca de Trayetto 3 da castello cu(m) alcuni altri s(igno)  







1   Il termine indica le corone da rosario. La parola paternostro indicava i chicchi più grossi della corona del rosario, in corrispondenza dei quali si recita questa preghiera e talvolta la corona stessa : “sempre co’ paternostri in mano andava ad ogni perdonanza” (Boccaccio). 2   Bernardo, detto l’Unico Aretino. - Letterato (Arezzo 1458 - Roma 1535) ; poeta di facile vena nella maniera di Serafino Aquilano, ebbe, anche come improvvisatore e per il suo carattere stravagante, grande successo nelle corti di Urbino, Mantova, Napoli, Roma fino ai tempi di Leone X, onde il soprannome. Fu in corrispondenza con la marchesa Isabella di Mantova ed amò, fra le altre, Elisabetta duchessa di Urbino. Scrisse 66 rime a Julia (Elisabetta di Urbino), strambotti e sonetti dedicati ad altre donne, versi cortigiani a personaggi del suo tempo. È anche autore di una commedia, Virginia (1494) : Vd. la voce nel *Dizionario biografico degli italiani. 3   Si tratta di Prospero Colonna, duca di Traetto : vd. Franca Petrucci, Prospero Colonna, in *Dizionario biografico degli Italiani.  







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ri, fo assaltato da spagnoli et fecero una gran questione, dove fo facto m(o)lto da l’una parte et da l’altra, et s’el dicto Duca no(n) se retrovava haver la corazina, seria stato morto. Gli fo ferito m(esse)r Io. Bap(tis)ta Spinello, 1 et lo s(ignor) Duca de Termine, 2 uscendo fuora p(er) spartire, le vò una sassata in la testa, ma no(n) haverà male ; el rumore fo sì terribile che tutta la cità ne fo sotto sop(ra). Dove, s’el Gran(de) Capitano no(n) sop(ra)giongeva, gran(dissi)mo inconvenie(n)te sequiva et p(er) luy fo p(ro)visto et sedato il rumore p(er) forma che se spera che no(n) serà altro. El Priore de Missina, 3 che fo causa dil assalto è stato messo presone in castello, et s’è fatto crida che homo alcuno no(n) porti arme : el caso dic(ono) essere proceduto p(er) gelosia de amore. Spero le cose mie haverano felice exito, havendome p(ro)miso la Catholica M(aes)tà de farme fare rasone breve et expedita, et già la causa è com(m)issa al m(agnifi )co m(esse)r Hieronymo Speraindio, persona iusta et da b(e)ne, secondo è pubblica fama. Io, p(er) quanto ho da doctori ex.mi, le rasone mie sono lucente como il sole, et q(ue)llo che m(o)lto me favorisce ancora è che la p(redec) ta M(aes)tà p(er) decreto publico ha declarato che le concessio(n)e del ser.mo quo(ndam) Re Ferrante ij siano ferme et valide. La Marchesana de Cotrono 4 è qui, la quale ho vista in castello una sol volta, poi son stato a casa sua più volte et mai l’ho possuto trovare. Intendo ha havuto da Re seicento duc(ati) l’an(n)o de pinsione da doverseli pagare da li thesaurerj de qui, o de Spagna, como lei vorà. Altro n(o)n gli è di novo degno de aviso. Lo ill. s. Ioanne v(ost)ro cognato, partito de qui, mo’ quarto giorno, p(er) Roma. Recom(ando) alla bona gr(ati)a de V. Ill.ma S., Neap. viij Maij 1507 Il v(ost(ro) devot.mo S(er)vo Ia. d’Hatrj.  



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  Duca di Castrovillari.   II primo duca di Termoli, Andrea di Capua, ottenne il titolo da Ferrante I d’Aragona, che in tal modo intese compensare il generoso eroismo di Giovanni di Capua morto, per salvare il re, nella battaglia di Sarno, il 7 luglio 1460, e di Maria d’Aierbo), il secondo, Ferrante, conte di Altavilla e dal 1522 principe di Molfetta, morì a Milano il 29 settembre 1523. 3   Ugo de Moncada. 4   Eleonora Del Balzo, marchesa di Crotone, fu una delle più care amiche di Isabella d’Este. 2

LA REGINA MARGHERITA D’ANGIÒ DURAZZO E L’EMBLEMA DEL DRAGO Luciana Mocciola

A

ll ’alba del Rinascimento meridionale una figura femminile s’impone con forza sulla scena politica e culturale del Regno di Sicilia : si tratta di Margherita d’Angiò Durazzo, figlia di Maria d’Angiò e di Carlo I duca di Durazzo. 1 Fino ad oggi soltanto uno studio monografico, pubblicato all’inizio del secolo scorso da Angela Valente, è stato consacrato alla regina che si distinse per un coraggio ed un’abilità diplomatica lodati dai cronisti coevi. 2 Unica nipote della regina Giovanna I d’Angiò, e come tale discendente più prossima a succederle al trono, Margherita fu data in sposa nel 1370 al cugino Carlo di Durazzo, ultimo erede maschio della dinastia angioina di Napoli. 3 Carlo fu allevato alla corte dello zio Luigi il Grande re d’Ungheria, e nel 1381 fu chiamato dal papa Urbano VI che intendeva opporlo alla regina Giovanna, divenuta scismatica per la sua adesione alla causa del papa di Avignone, Clemente VII. 4 Al successo di Carlo III non fu estranea l’azione diplomatica sostenuta dalla sua sposa, che seppe riunire intorno alla causa durazzesca molti baroni ostili alla sovrana angioina. 5 Com’è noto, Giovanna I fu imprigionata, e poi verosimilmente assassinata nel Castello di Muro in Lucania il 27 luglio 1382, 6 mentre i Durazzo, ramo cadetto degli Angioini di Napoli, occuparono a lungo il trono di Sicilia, dapprima con Carlo e Margherita, e poi con i loro figli Ladislao e Giovanna. Gli anni di regno di Carlo furono turbati dalle continue lotte contro il francese Luigi duca d’Angiò, il quale, scelto da Giovanna a succederle al trono, giunse nel Regno nell’estate del 1382 per rivendicare i suoi diritti, 7 e contro il papa Urbano VI, che da alleato divenne ben presto nemico giurato. 8 Margherita si trovò più volte a dover rivestire il ruolo di reggente per conto del marito, impegnato in azioni militari che lo costringevano per  

1   Questo contributo s’inserisce nel quadro delle ricerche svolte per la mia tesi di dottorato su La committenza artistica di Carlo e Margherita d’Angiò Durazzo (1381-1412), a.a. 2007/2008, preparata in co-tutela tra l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e l’Université de Lille iii “Charles de Gaulle”, sotto la direzione del Prof. Francesco Caglioti e del Prof. Gennaro Toscano. 2   Angela Valente, Margherita di Durazzo, vicaria di Carlo III e tutrice di re Ladislao, « Archivio Storico per le Province Napoletane », xl (1915), pp. 265-312, 457-502 ; xli (1916), pp. 267-310 ; xliii (1918), pp. 5-43, 169-214. Naturalmente non sono mancate da allora delle panoramiche sull’attività politica di Margherita ; il più recente di questi contributi è Mario Gaglione, Donne e potere a Napoli. Le sovrane angioine, consorti, vicarie e regnanti (1266-1442), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 293-327. 3   Per la data del matrimonio cfr. A. Valente, Margherita ..., cit., xl (1915), p. 269, e Alessandro Cutolo, Re Ladislao d’Angiò Durazzo, i ed. Milano, 1936, ed. cons. Napoli, A. Berisio, 1969, p. 27 nota 10. Per la biografia di Carlo III cfr. Dante Marrocco, Re Carlo III di Angiò Durazzo, Capua, Tip. Salvi, 1967. 4   Sul Grande Scisma cfr. Noël Valois, La France et le Grand Schisme d’Occident, 4 voll., Paris, Alphonse Picard et fils libraires-éditeurs, 1896-1902. 5   Nell’attesa del marito, Margherita si era rifugiata nelle sue terre di Morcone del Sannio, da dove organizzò le fila del partito durazzesco (A. Valente, Margherita ..., cit., xl (1915), pp. 273-275). 6   Cronicon Siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396, ed. a cura di Giuseppe de Blasiis, Napoli, presso la società, 1887, pp. 39, 45. 7   Giovanna adottò Luigi il 29 giugno 1380 (A. Cutolo, Re Ladislao ..., cit., pp. 19-21). Sulla discesa tardiva del francese in Italia cfr. Emile Léonard, Les Angevins de Naples, Paris, Presses Universitaires de France, 1954, pp. 4668   A. Valente, Margherita ..., cit., xl (1915), pp. 290-294. 467.  









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lunghi periodi lontano dalla capitale. 1 Nel 1385 un nuovo fronte di guerra si aprì per Carlo, che alla morte di Luigi il Grande, accogliendo l’invito dei baroni magiari a reclamarne la successione, 2 partiva per l’Ungheria, dove il 31 dicembre veniva incoronato nella Cattedrale di Alba Regale. 3 Ma il 7 febbraio 1386 il Durazzesco cadeva vittima di un agguato, preparato dalla vedova di re Luigi, Elisabetta ; poche settimane dopo moriva a causa delle ferite riportate. 4 A Napoli Margherita si trovò sola a difendere la successione del figlio Ladislao, all’epoca ancora fanciullo. 5 Circondata da nemici e aspettandosi l’ormai imminente arrivo da Oltralpe dell’esercito di Luigi II d’Angiò, figlio del defunto Luigi, la regina fu costretta a rifugiarsi nella fedele cittadina di Gaeta con la sua famiglia. 6 Durante gli anni di esilio, Margherita fu vicaria per conto del figlio, spianandogli la difficile strada per la riconquista del Regno. 7 Nell’estate del 1399 Ladislao poteva finalmente rientrare a Napoli, abbandonata da Luigi che riparava frettolosamente in Provenza. 8 Ottenuta la sua vittoria, Margherita scelse di allontanarsi dal burrascoso scenario della vita politica della capitale, ritirandosi nella vicina e tranquilla Salerno. 9 Da allora diventa più difficile ritrovare le tracce attraverso cui seguire le vicende della regina, sulla quale sembra letteralmente calare il sipario. Anche il succitato studio della Valente si arresta alla narrazione dei fatti del 1393, anno in cui Ladislao prese in mano le sorti della famiglia, e la figura della regina si eclissò dietro quella del figlio. 10 Se a partire da questo momento gli studi storici tacciono, quelli storico-artistici continuano a dedicare alla regina, o sarebbe meglio dire iniziano, una certa attenzione, in relazione allo studio delle opere da lei commissionate. Lasciati gli affari del Regno nelle mani del figlio Ladislao, Margherita poté, infatti, dedicarsi attivamente alla vita di corte. Un elemento mai messo in luce finora è il legame tra alcune opere connesse alla committenza di Margherita e l’emblema del drago. Tale emblema rivela a nostro avviso un chiaro riferimento all’iconografia di Margherita di Antiochia, santa eponima della regina, generalmente rappresentata accanto ad un drago, simbolo del male sconfitto. 11 Dietro la scelta del drago quale veicolo di autorappresentazione crediamo si celi una forte valenza simbolica. In uno dei momenti più delicati della storia del Regno di Sicilia, Margherita seppe, infatti, dimostrare una forza straordinaria, la cui immagine volle restituire attraverso quella dell’animale fantastico. Una lunga ed accreditata tradizione storiografica riconduce all’iniziativa di Margherita la fondazione della confraternita napoletana di Santa Marta e l’avvio dell’impresa decorativa del Codice che raccoglie gli stemmi dei confratelli più illustri. 12 Il Codice di Santa  

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  Sulla prima reggenza di Margherita cfr. A. Valente, Margherita ..., cit., xl (1915), pp. 457-497.   Per la problematica vicenda della successione al trono ungherese cfr. Bálint Hóman, Gli Angioini di Napoli in 3   Ivi, pp. 466-468. Ungheria : 1290-1403, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1938, pp. 450-466. 4   Cfr. tra gli altri D. Marrocco, Re Carlo ..., cit., p. 245. 5   A. Cutolo, Re Ladislao ..., cit., pp. 64-71. 6   Margherita partì per Gaeta il 13 luglio 1387 : Cronicon Siculum ..., cit., p. 70. 7   Per il vicariato di Margherita durante la minorità di Ladislao cfr. A. Valente, Margherita ..., cit., xliii (1918), 8   A. Cutolo, Re Ladislao ..., cit., pp. 228-229. pp. 5-43, 169-214. 9   Sulla base del documento del 15 ottobre 1401 firmato da Margherita a Salerno (Pergamene di monasteri soppressi, conservate nell’archivio del capitolo metropolitano di Salerno, a cura di Bianca Mazzoleni, Napoli, i.t.e.a., 1934, pp. 6566 n. lxi), si può ritenere che il suo trasferimento avvenne entro quella data. 10   A. Valente, Margherita ..., cit. 11   Per l’iconografia della santa cfr. George Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Florence, Sansoni, 1952, coll. 729-736 n. 240. 12   Le prime attestazioni di tale tradizione risalgono ai decenni tra la fine del xvi e l’inizio del xvii secolo ; cfr. soprattutto : Repertorio di Giovan Francesco Araldo, fine xvi secolo, pubbl. in Francesco Divenuto, Napoli Sacra del xvi secolo. Repertorio delle fabbriche religiose napoletane nella Cronaca del gesuita Giovan Francesco Araldo, Napoli, esi, 1990, p. 68 ; Giovanni Antonio Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, ii, in Napoli, appresso Giovanni 2











la regina margherita d ’ angiò durazzo e l ’ emblema del drago 313 Marta (Napoli, Archivio di Stato, Biblioteca, Ms. 99 C.I.) ha goduto, specie dopo la pubblicazione della monografia ad esso dedicata da Riccardo Filangieri nel 1950, di una costante fortuna critica. 1 Ancora molti sono, tuttavia, gli interrogativi irrisolti, inerenti soprattutto ai fogli che contengono le insegne della famiglia durazzesca, i quali aprono il Codice dopo la miniatura raffigurante la santa cui è intitolata la confraternita (f. 2) : si tratta degli stemmi di Carlo III e di Margherita, di Ladislao e di Maria di Lusignano, sua consorte, e di Giovanna II (ff. 3-7, Fig. 1). Senza voler entrare nel merito di tali problemi, che saranno oggetto di uno specifico contributo e per i quali ci limitiamo ora ad osservare che per questo gruppo di fogli una datazione intorno al 1426 ed il rimando alla committenza di Giovanna II sono le ipotesi più convincenti, 2 vorremmo concentrarci su un particolare aspetto iconografico contenuto Fig. 1. nell’opera. Tra le miniature relative alla famiglia durazzesca, il foglio contenente lo stemma di Margherita presenta l’impaginazione più elaborata, entro cui oltre a tre coppie di angeli trova spazio un piccolo ritratto della regina, nell’intenzione, probabilmente già chiara fin dall’inizio, di ricondurre a lei l’iniziativa della fondazione. Un dettaglio di questa miniatura non è mai stato considerato adeguatamente. Soltanto Filangieri sembrò infatti notarlo ma travisandolo : nel fregio floreale che incornicia l’insegna di Margherita compare un piccolo animale, scambiato dallo studioso per “un cigno verde con ali rosse e testa muliebre, cavalcato da  



Giacomo Carlino, 1601, p. 550 ; Cesare d’Engenio Caracciolo, Napoli sacra, in Napoli, per Ottavio Beltrano, 1623, p. 227. Inoltre, quando nel xvii secolo fu rilegato il Codice di Santa Marta nella forma con la quale è giunto al restauro del 2001, furono aggiunte delle scritte esplicative sul frontespizio e sotto lo stemma di Carlo III d’Angiò Durazzo (ff. 1, 3) a conferma di questa leggendaria fondazione. Recentemente tale tradizione è stata messa in discussione da Rosalba di Meglio, La disciplina di Santa Marta : mito e realtà di una confraternita « popolare », in Giovanni Vitolo, Rosalba Di Meglio, Napoli angioino-aragonese : Confraternite, ospedali, dinamiche politico-sociali, Salerno, Carlone editore, 2003, pp. 147-234. 1   Riccardo Filangieri, Il codice miniato della Confraternita di Santa Marta in Napoli, Firenze, Electa, 1950. Per la storiografia critica del Codice cfr. Pierlugi Leone de Castris, Il Codice di Santa Marta : miniatura e pittura nella Napoli angioina, aragonese e viceregnale, « Napoli Nobilissima », v s., iii (2002), pp. 88-99, 109-111, con bibliografia precedente. 2   Luciana Mocciola, Giovanna II d’Angiò Durazzo e il “Codice di Santa Marta”, «Rivista di Storia della miniatura», in corso di stampa.  















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un amorino dalle ali bianche”. 1 A ben vedere si tratta invece di un drago domato (Fig. 13). Non riteniamo che la presenza del drago in questo luogo sia da ricondursi al generico inserimento di drôleries e animali fantastici invalso nella miniatura tardo-gotica, non foss’altro per la singolarità della rappresentazione, unica nel gruppo di stemmi durazzeschi del Codice. 2 Questa considerazione induce a leggere sotto una nuova luce altre opere legate al nome di Margherita in cui compare una rappresentazione del drago. In primo luogo il braccio reliquiario di Sant’Anastasia, conservato nella Cappella delle Reliquie del Duomo di Salerno, la cui committenza da parte della regina durazzesca è resa certa dall’iscrizione appostavi (Fig. 2). 3 Non è mai stato rilevato che la prima parte di questa iscrizione è interrotta Fig. 2. nei suoi lati brevi – meno visibili data l’esposizione frontale del pezzo nell’armadio delle reliquie – dall’inserimento di due animaletti in argento che mi sembra si possano identificare con dei draghetti, i quali, oltre ad occupare un posto insolito in oggetti di tal genere, non hanno alcuna attinenza con la leggenda agiografica di sant’Anastasia (Fig. 3). Una conferma indiretta della volontarietà di questa aggiunta quale riferimento alla committente crediamo possa ricavarsi da un caso analogo, strettamente legato a quest’opera per più motivi, ed ugualmente conservato nella Cappella delle Reliquie della Cattedrale salernitana. Si tratta del braccio reliquiario di Sant’Agata, commissionato verosimilmente dal napoletano Bartolomeo d’Aprano, arcivescovo di Salerno dal 1400 al 1414 (Fig. 4). 4 All’elezione dell’Aprano alla cattedra salernitana quasi certamente non fu estranea la 1

  R. Filangieri, Il Codice ..., cit., p. 28.   Nelle decorazioni intorno agli altri stemmi della famiglia non è mai inserito alcun motivo del genere (ff. 3, 5-7), mentre gli animali che compaiono nella pagina di apertura con la figura di Santa Marta (f. 2) sono perfettamente in linea con le convenzionali rappresentazioni naturalistiche di derivazione lombarda. 3   Lungo il braccialetto sotto la manica è inciso “manus · S[anc]te · Anastasy[e] vyr·gyvr [sic per virginis] e[t] mar·toris”, ed intorno alla zoccolatura della base, su nove placchetta applicate, corre l’iscrizione “an[n]o. Ch[risti]. d[omi]ni[ ?] m.cccc.viii – xxii yulii · I · ynd[ictione]. serenissi[m]a d[omi]na Margarita · Jer[usalem], S[i]cil[iæ] et Ungar[iæ] · regina hoc op[us] fi[eri] fecet · b[ar]t[h]o****** pro suor[um] vinia peccator[um] am[en]”. L’opera è pubblicata in La Cappella del Tesoro del Duomo di Salerno, a cura di Antonio Braca, Salerno, Pietro Laveglia editore s.a.s., 1990, pp. 32-33. 4   Gaspare Mosca, De Salernitanæ Ecclesiæ episcopis et archiepiscopis catalogus, Neapoli, ex Typographia Stelliolæ ad Portam Regalem, 1594, p. 51 ; Ferdinando Ughelli, Italia Sacra sive De Episcopis Italiae, Romae, apud Bernardinum Tanum, vii, 1659, col. 620. 2





la regina margherita d ’ angiò durazzo e l ’ emblema del drago

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Fig. 3.

stessa Margherita, giacché poco dopo il ritorno della regina dall’esilio gaetano, avvenuto nell’agosto del 1399, Bonifacio IX decise di trasferire l’allora arcivescovo di Salerno Ligorio Maiorini a Colossi nell’isola di Rodi, designando al suo posto il napoletano. 1 Orbene, tra la manica e la base del braccio reliquiario di Sant’Agata corre una fascia con otto placchette entro cui sono raffigurati, secondo la lettura di Antonio Braca, altrettanti pellicani (Fig. 5). 2 Non è facile pronunciarsi con certezza sulla natura di questi animali, che sembrerebbero effettivamente dei pellicani, ma che potrebbero anche identificarsi con delle aquile. Sia come sia, non sarà senza importanza sottolineare, cosa mai rilevata finora, che lo stesso animale è inserito nei tre stemmi della tomba dell’arcivescovo nella Cattedrale di Salerno (Fig. 6) ; il che appare tanto più interessante qualora si consideri che generalmente l’insegna della famiglia d’Aprano è identificata con la sola banda dentata d’oro e d’azzurro in campo rosso. 3 Sembra, dunque, che in due opere commissionate per il Tesoro del Duomo di Salerno nello stesso giro di anni, e da personaggi certamente in stretto contatto tra loro, l’inserimento di un emblema che potrebbe considerarsi corrente e senza rilevante interesse sia in realtà più di una semplice rappresentazione fantastica, rimandando con tutta evidenza alla figura del committente. Il drago compare ancora in due opere legate alla figura di Margherita di Durazzo. Due draghi costituiscono, infatti, le anse del calice di Santa Caterina, conservato anch’esso nella Cappella delle Reliquie del Duomo di Salerno, e destinato a contenere un dito della santa donato dalla regina al medico salernitano Guglielmo Solimene (Fig. 7). 4 L’associazione  

1

  Per le notizie circa i due arcivescovi cfr. F. Ughelli, Italia Sacra ..., cit., coll. 619-620.   La Cappella ..., cit., p. 34.   Troviamo tale insegna in Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli, ad istanza di Gioseppe Bonfandino, 1601, p. 615, e in F. Ughelli, Italia sacra ..., cit., col. 620. 4   Nella copia cinquecentesca del testamento di Guglielmo Solimene, redatto nel 1414, è infatti citato : “digitum ipsius beatæ Catherinæ cum pede uno de argento, quam asseruit sibi donasse quondam claræ memoriæ domina 2 3



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tra il calice conservato nel Tesoro del Duomo e la reliquia donata da Margherita, suggerita da Andrea Sinno senza entrare nel merito del reliquiario, 1 è stata istituita da Antonio Braca, che in un primo momento ha ritenuto la sola reliquia della santa pertinente a tale donazione mentre il contenitore sarebbe stato realizzato solo più tardi, 2 e poi, tornando sull’argomento, ha riconsiderato l’ipotesi che anche la coppa potesse risalire all’età durazzesca. 3 Una nuova indagine stilistica può forse contribuire ad una migliore comprensione del reliquiario. Già sembra molto convincente il raffronto iconografico istituito dai fratelli Catello tra il nostro calice, caratterizzato dalle anse formate da due dragoni, e l’anfora posta ai piedi della Madonna dell’Umiltà nella tavola dipinta da Roberto d’Oderisio in San Domenico Maggiore a Napoli. 4 A conferma dell’ipotesi di un legame tra il calice salernitano e l’ambiente di corte durazzesco – Fig. 4. per cui lavorò a lungo lo stesso Roberto d’Oderisio 5 – può addursi proprio la scelta dell’elemento iconografico del drago. Se da una parte, come dimostra lo stesso vaso oderisiano nella tavola in San Domenico, il drago era un motivo ricorrente in prodotti di tal genere, dall’altra il suo impiego non sembra qui potersi rilegare ad una semplice funzione decorativa, vista la frequenza con cui esso compare in tante opere legate alla figura di Margherita. Un altro drago è visibile, infine, nei lacerti di affresco databili all’inizio del xv secolo e regina Margarita” (ADS, Mensa Arcivescovile, B. k3, f. 200). La prima menzione del testamento è in Andrea Sinno, Determinazione della sede della Scuola Medica di Salerno, « Archivio Storico della Provincia di Salerno », i (1921) (pp. 29-57), pp. 42-44. 1   A. Sinno, Determinazione ..., cit., p. 43. 2   Lo studioso ha datato inizialmente il calice tra la fine del xv secolo e l’inizio del xvi, immaginando per esso un primitivo uso di carattere profano ed una fattura veneta (La Cappella ..., cit., p. 40). Cfr. anche Antonio Braca, Guida alla Cattedrale di Salerno e alle sue opere d’arte, Lancusi, Gutenberg, 2001, p. 53. 3   Id., Il Duomo di Salerno. Architettura e culture artistiche del Medioevo e dell’Età Moderna, Salerno, Laveglia, 2003, pp. 293-294. 4   Elio Catello, Corrado Catello, L’oreficeria a Napoli nel xv secolo, Cava dei Tirreni, Di Mauro, 1975, p. 101. 5   Per l’attività dell’artista cfr. Paola Vitolo, La chiesa della Regina. L’Incoronata di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Roberto d’Oderisio, Roma, Viella, 2008, pp. 81-95.  



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Fig. 5.

rinvenuti sotto la tela con l’Ascensione di Cristo dipinta da Francesco de Maria per il Cappellone di Sant’Antonio in San Lorenzo Maggiore a Napoli, laddove un tempo sorgeva la Cappella dei Durazzo. 1 Dell’originaria decorazione pittorica della cappella non restano oggi che pochi frammenti : una figura acefala, vestita con un saio francescano e le cui mani recano traccia delle stimmate, pertinente ad un San Francesco ; un’altra figura, di cui s’intravede solo la parte finale dell’abito e accanto ad essa un drago al guinzaglio, che rimanda all’iconografia di Santa Margherita (Fig. 8) ; alcuni gigli d’oro su campo scuro, che costituiscono un chiaro riferimento allo stemma angioino. 2 La somiglianza tra quest’ultimo drago pertinente alla santa eponima della regina e quello del calice di Santa Caterina appare quanto mai evidente e non ha bisogno di essere commentata (Fig. 9). L’associazione qui istituita tra l’emblema del drago e la figura di Margherita riporta l’attenzione su un’altra opera che si vorrebbe qui ricondurre all’iniziativa della regina durazzesca. Si tratta di un pannello di cassone conservato al Metropolitan Museum di New York, raffigurante tre scene diverse : da destra a sinistra si osservano due momenti della battaglia tra due eserciti nemici sullo sfondo dei loro accampamenti, e finalmente l’ingresso dell’armata vincente nella città conquistata (Fig. 10). 3  







1   Gli affreschi sono pubblicati in Rosa Romano, Un dipinto ritrovato, in Interventi sulla “questione meridionale”, a cura di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, 2005, pp. 55-62. 2   Per la lettura iconografica degli affreschi si rimanda al succitato studio di R. Romano, Un dipinto ..., cit., pp. 59-60. 3   L’opera è attualmente esposta con il nome di The Conquest of Naples by Charles of Durazzo, con un’attribuzione al “Master of Charles of Durazzo, italian, florentine” e una datazione al tardo xiv secolo. Il pannello doveva ve-

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L’opera fu comprata dal museo americano nel 1907 con il titolo di La Presa di Salerno da parte di Roberto il Guiscardo e una datazione intorno al 1420. 1 Sulla base delle insegne araldiche disseminate nel pannello, Harry B. Wehle poté correttamente riconoscere nella raffigurazione la Guerra di Carlo di Durazzo del 1381 contro Ottone di Brunswick, terzo marito di Giovanna I, attribuendola al contempo ad un ignoto fiorentino attivo all’inizio del xv secolo. 2 Si deve a Miklós Boskovits il primo importante approfondimento nella conoscenza dell’autore del pannello di New York, al quale lo studioso ha attribuito una lunga serie di cassoni dipinti e deschi da parto. 3 Per quanto riguarda la datazione dell’opera nuovi elementi di riflessione sono stati sollevati da un contributo di Everett Fahy del 1994. 4 Lo studioso, svolgendo Fig. 6. una dettagliata analisi araldica dell’opera in cui ha letto lo scontro di Anagni tra Carlo III e Ottone di Brunswick, ne ha ipotizzato una realizzazione in due fasi : l’esecuzione dell’incorniciatura in pastiglia, e con essa gli stemmi inseriti nei tondi, sarebbe stata iniziata subito dopo il I giugno 1381, data dell’incoronazione del Durazzesco da parte di Urbano VI ; mentre solo dopo il settembre del 1382 si sarebbe proceduto alla realizzazione delle parti figurate, quando, morto Luigi I d’Ungheria, Carlo poteva aggiungere la bandiera di quel Regno a quella dei Durazzo e al vessillo del Gonfaloniere della Chiesa. 5 Riteniamo che questa ricostruzione, e la cronologia che ne scaturisce, vada corretta. I tre vessilli portati dall’esercito di Carlo III sono quelli giustamente individuati da Fahy, ma la presenza della bandiera d’Ungheria è  



rosimilmente far parte di un cassone le cui altre parti sembra siano andate perdute. Per l’approfondimento delle questioni relative al cassone di New York, si rimanda a L. Mocciola, Il pannello con “La presa di Napoli da parte di Carlo III d’Angiò Durazzo” a New York : nuove ipotesi di datazione, committenza ed iconografia, in preparazione. 1   Lucie Mason Perkins, Principal accessions, « The Bulletin of the Metropolitan Museum of Art », ii (1907), 6, pp. 108-109. 2   Harry B. Wehle, A Catalogue of Italian, Spanish, and Byzantine Paintings, New York, Bradford, 1940, p. 19. 3   Miklós Boskovits, Il maestro di Incisa Scapaccino e alcuni problemi di pittura tardogotica in Italia, « Paragone », n.s., xlii (1991), 501, pp. 35-53. 4   Everett Fahy, Florence and Naples : a cassone panel in the Metropolitan Museum of Art, in Hommage à Michel Laclotte : études sur la peinture du Moyen Âge et de la Renaissance, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1994, pp. 231-243. 5   Lo studioso ricordava giustamente che Carlo aveva ottenuto la nomina di Gonfaloniere della Chiesa al momento della sua investitura nel 1381 (ivi, p. 241).  













la regina margherita d ’ angiò durazzo e l ’ emblema del drago 319 da leggersi in altra chiave rispetto a quella proposta dallo studioso americano. Prima di arrivare sul trono di Napoli, Carlo III fu a lungo alla corte di Buda, dove venne educato dallo zio Luigi come un cavaliere ungherese. Fu proprio lo zio, le cui rivendicazioni sul Regno di Sicilia non si erano mai sopite, a spingere il suo pupillo a tentare l’impresa italiana per la quale dovette fornire egli stesso soldi e soldati. Fu appunto con le truppe ungheresi di Luigi che Carlo discese in Italia e si scontrò con Ottone. 1 È naturale, dunque, che il Durazzesco portasse in battaglia, oltre alla sua bandiera, quelle della Chiesa e d’Ungheria, perché era in virtù dell’investitura formale da parte di papa Urbano e del sostegno materiale di re Luigi che Carlo poteva rivendicare il trono. Non troviamo quindi nessuna dicotomia tra lo stemma, ben rappresentato nei tondi inquadrati nell’incorniciatura in pastiglia, e i vessilli dipinti nelle scene del cassone, dei quali soltanto il primo identifica il Fig. 7. sovrano durazzesco, mentre gli altri due vanno a nostro avviso interpretati nella loro valenza simbolica. D’altra parte, alla morte di Luigi, difficilmente Carlo avrebbe potuto automaticamente fregiarsi del titolo di re d’Ungheria, ricoperto legittimamente dalla figlia del defunto sovrano, Maria. Soltanto dopo la sua incoronazione a Buda nel 1385, Carlo poteva ritenersi a tutti gli effetti sovrano di quel Regno ; ma, come è noto, tale impresa finì tragicamente e il Durazzesco non riuscì mai effettivamente a godere del nuovo stemma. 2  

1   Le fisionomie esotiche dei soldati di entrambi gli schieramenti, i tedeschi di Ottone e gli ungheresi di Carlo, sebbene di un tipo diffuso nel catalogo del Maestro di Carlo di Durazzo, sembrano qui così caratterizzate da andare al di là di una generica marca stilistica. 2   Confrontando gli stemmi di Carlo III e di Ladislao inseriti nel succitato Codice di Santa Marta (ff. 3, 5) si noterà facilmente che soltanto in quello di Ladislao sono aggiunte le fasce ungheresi, e che dunque anche post mortem non si riconosceva a Carlo l’acquisizione di quel Regno. Sebbene, appena succeduto al padre, Ladislao iniziasse a firmare i suoi diplomi come re d’Ungheria, di Sicilia e di Gerusalemme, fu soltanto nel 1403 che il giovane durazzesco riuscì, anche se soltanto simbolicamente, a farsi incoronare a Zara re d’Ungheria ; proprio il 1403 è la data riportata sotto il suo stemma nel Codice quale anno della sua iscrizione alla confraternita. Verosimilmente, dunque, fu soltanto a partire da allora che Ladislao, e dopo di lui sua sorella Giovanna (f. 7), poté a giusta ragione adottare la nuova insegna.  

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Fig. 8.

Fig. 9.

Fig. 10.

Caduta in tal modo la ragione più forte per una datazione così precoce dell’opera, non crediamo neanche, come è stato detto, che essa fosse commissionata da un fiorentino e mai giunta a Napoli ; 1 la rappresentazione, schematica ma corretta, della città sul golfo suggerisce piuttosto l’idea di un’esecuzione in loco. Inoltre, qualora si ammettesse la committenza di un privato che avesse voluto, perché interessato alle vicende di Napoli – come di certo lo erano i fiorentini –, onorare l’impresa di Carlo, risulterebbe alquanto anomalo che il committente non lasciasse alcun segno a ricordo del suo intervento.  

1   Jerzy Miziolek, “Florentina libertas”. La “Storia di Lucrezia romana e la cacciata del tiranno” sui cassoni del primo Rinascimento, « Prospettiva », lxxxiii-lxxxiv (1996-1997) (pp. 159-176), pp. 165-166, pp. 174-175 note 56-58. Già Fahy aveva immaginato, partendo dal presupposto che il pittore fosse fiorentino, che lo fosse anche il committente, e che l’opera “was made as a gift for the new king of Naples” (E. Fahy, Florence ... cit., p. 238).  



la regina margherita d ’ angiò durazzo e l ’ emblema del drago 321 A questo punto vale la pena notare che lungo la cornice del pannello, e – a detta di Fahy che ha potuto visionarne la parte posteriore – anche nel retro, compare ripetutamente un animale, che lo studioso americano identifica in una “salamander-like animal” (Fig. 11). 1 Il confronto con la salamandra disegnata da Leonardo da Besozzo nella rappresentazione dei Quattro Elementi ad apertura della sua Cronaca di Uomini Illustri (Milano, Collezioni Crespi, f. 1v) non permette, a nostro avviso, di confermare tale lettura (Fig. 12). Visto in parallelo con il drago inFig. 11. serito nel foglio con lo stemma di Margherita nel Codice di Santa Marta, la natura di questo curioso animaletto apparirà forse più facilmente leggibile (Fig. 13). 2 Lo stesso Fahy immagina che gli animali ricorrenti e le rosette in pastiglia “may hold some heraldic significance”. 3 Crediamo che il rimando simbolico a Margherita costituito dalla serie di draghi fin qui vista sia ormai chiaro. Il momento migliore per collocare la committenza del cassone da parte della regina, probabile dono nuziale, potrebbe essere il 1402, quando Ladislao sposò Maria di Lusignano, mentre fervevano i preparativi per Fig. 12. una nuova campagna d’Ungheria, dopo quella di Carlo fallita a suo tempo. 4 È noto che anche Ladislao dovette ben presto rinunciare al sogno accarezzato dal padre : giunto sulle coste dalmate nell’estate del 1403 e resosi conto di quanto spinosa fosse la situazione alla corte di Buda, il Durazzesco si accontentò di farsi incoronare a Zara,  

1

  E. Fahy, Florence ..., cit., p. 241.   J. Miziolek (“Florentina libertas” ..., cit., pp. 165, 174 nota 54) vi vede « un animale di aspetto quasi preistorico » e collega l’impiego di queste figure nell’arte religiosa e nelle abitazioni private alla tradizione dei Bestiari medieva3   E. Fahy, Florence ..., cit., p. 241. li. 4   John Wyndham Pope-Hennessy, Keith Christiansen (Secular Painting in 15th-Century Tuscany : Birth Trays, Cassone Panels, and Portraits, New York, The Metropolitan Museum of Art, 1980, p. 20) avevano già ipotizzato, seppur corsivamente, che « the person for whom the cassone was made was Charles’s son Ladislas ». 2











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Fig. 13.

per poi rientrare definitivamente in Italia. 1 Prima che si spegnessero le speranze ungheresi, l’iconografia del cassone, perpetrando il ricordo dell’ingresso trionfale dei Durazzo in Napoli e ostentando il legame tra questa famiglia e Luigi il Grande, che scelse Carlo quale suo paladino nell’impresa di Sicilia, dovette rivestire una chiara valenza propagandistica. Dietro un siffatto manifesto s’intravede nuovamente la figura di Margherita, la quale, nell’esaltare le gesta del marito e le ambizioni del figlio, non tralasciò d’imprimere il suo sigillo, affidandolo al simbolo da lei scelto a suo emblema.

irhis, Université de Lille iii Margherita d’Angiò Durazzo fu educata a Napoli alla corte della zia Giovanna I. Le complesse vicende dei decenni a cavallo tra xiv e xv secolo la posero al centro dei fatti politici del Regno : Margherita divenne prima reggente per conto del marito Carlo III, impegnato in frequenti guerre lontano dalla capitale, e poi vicaria del figlio Ladislao, succeduto al padre in giovane età. Donna audace ed energica, fu anche protagonista della vita culturale della corte, animando importanti committenze artistiche. Su alcune delle opere ad essa legate, la regina volle lasciare memoria del suo intervento, facendo apporre l’emblema del drago quale simbolo della santa sua eponima, Margherita di Antiochia.  

Margaret of Anjou-Durazzo was raised in Naples, at the court of her aunt Jane I. The complex events of the decades between the xiv and xv century put her at the centre of the political events of the Reign : Margaret became the first Regent for her husband Charles III, who was frequently busy fighting wars far from the capital, and then the substitute for her son Ladislaus, who succeeded his father at an early age. A brave and energetic woman, she was also a protagonist of the cultural life of the court that she livened up by commissioning important artistic works. The queen wanted to leave her mark on some of these works, so she had them marked with the emblem of the dragon as the symbol of the saint of her name, Saint Margaret of Antioch.  

Marguerite d’Anjou Duras fut élevée à Naples à la cour de sa tante Jeanne Ière. Les événements complexes des décennies à cheval entre xivème et xv ème siècle l’ont mise au centre des faits politiques du Royaume. Marguerite devint d’abord régente pour le compte de son mari Charles III, qui était engagé dans de guerres fréquentes loin de la capitale, et en suite vicaire pour son fils Ladislas, succédé au père très jeun. Femme audace et énergique, elle fut aussi protagoniste de la vie culturelle de la cour, en encourageant d’importantes commandes artistiques. Sur certaines œuvres liées à son nom, la reine voulut laisser un souvenir de son intervention, en faisant apposer l’emblème du dragon, tel que symbole de la sainte son éponyme, Marguerite d’Antioche. Margarita de Anjou Durazzo fue educada en Nápoles, en la corte de su tía Juana I. La complejidad de las vicisitudes, a caballo de los siglos xv y xvi, la pusieron en el centro de sucesos políticos del 1

  Per la campagna d’Ungheria cfr. A. Cutolo, Re Ladislao ..., cit., pp. 258-269.

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reino. Margarita fue primero regente, por cuenta de su marido Carlos III, siempre ocupado en las guerras lejos de la capital, y luego vicaria de su hijo Ladislao que sucedió a su padre cuando era aún demasiado joven. Mujer audaz y enérgica, fue la protagonista de la vida cultural de la corte y contrató importantes encargos artísticos. En algunas de estas obras, la reina quiso dejar memoria de su presencia haciendo poner el escudo con el dragón, símbolo de la santa epónima, Margarita de Antioquía. Margherita d’Angiò Durazzo erhielt ihre Erziehung in Neapel am Hof ihrer Tante Giovanna I. Die komplexen historischen Vorgänge in den Jahrzehnten zwischen dem ausgehenden 14. und dem beginnenden 15. Jahrhundert stellten sie ins Zentrum der politischen Ereignisse des Königreichs : Margherita wurde im Auftrag ihres Ehemanns Carlo III, der durch die zahlreichen Kriege häufig weit entfernt von Neapel weilte, die erste Regentin und später Vikarin des Sohnes Ladislao, der bereits in jungen Jahren dem Vater auf den Thron gefolgt war. Als mutige und energische Frau prägte sie auch das kulturelle Leben am Hof, indem sie bedeutende künstlerische Arbeiten in Auftrag gab. Durch einige Kunstwerke wollte die Königin die Nachwelt wissen lassen, dass sie auf ihr Betreiben hin entstanden war, und ließ das Emblem des Drachens als Symbol ihrer Namensgeberin, der Heiligen Margareta von Antiochia, darauf anbringen.  

LA VITA QUOTIDIANA

AGOSTINO NIFO : L’INSTITUTIO DELLA DONNA NELL’AMBIENTE DI CORTE  

Domenico Defilippis

I

n apertura de Il Nifo overo del Piacere Torquato Tasso non sfuggiva alla tentazione di raffigurare, celiando, il famoso e celebratissimo filosofo affetto da un senile e impetuoso ardore amoroso per una giovane fanciulla nolana, evento che Paolo Giovio così registrava nella biografia del Sessano :  

Ma quando sua moglie era ormai vecchia e anche lui era un vecchio di settant’anni, fu travolto fino alla pazzia da una passione per una ragazza, tanto che l’immagine del filosofo vecchio e gottoso che ballava al ritmo del flauto apparve vergognosa e contemporaneamente penosa alla maggior parte della gente. Non c’è dubbio che in questo modo egli affrettò la propria morte. 1

Nell’immaginaria fictio letteraria di un dialogo impossibile, ambientato nel 1548, 2 dieci anni dopo la morte del filosofo, 3 Cesare Gonzaga, a un Nifo che tentava di schivare le provocanti allusioni del giovanissimo interlocutore appellandosi alla perenne giovinezza di Amore qual è dipinto da Platone, rispondeva impertinentemente :  

E forse come quella donna la quale è descritta dal Petrarca in que’ versi : ‘Una donna più bella assai del sole / E più lucente e d’altrettanta etate’. Ma non vi stimo io, signore Agostino, così freddo ne le cose d’amore come pare che vogliate darmi a dividere : anzi, se io sono bene informato, una damigella de la principessa di Salerno può talvolta in voi non meno de la filosofia. 4  



1   Paolo Giovio, Agostino Nifo, in Id., Elogi degli uomini illustri, a cura di Franco Minonzio, trad. di Andrea Gasparri e Franco Minonzio, pref. di Michele Mari, nota alle illustrazioni di Luca Bianco, Torino, Einaudi, 2006 (pp. 271-274), p. 272 e p. 274, nota 10. 2   Cfr. Raffaele Colapietra, Dal primo al secondo Gonzaga, in Id., Baronaggio, umanesimo e territorio nel Rinascimento meridionale, Napoli, La Città del Sole, 1999, pp. 613-620. 3   Sul Nifo cfr. Machiavel, Il principe, nouvelle édition critique du texte par Mario Martelli, introduction et traduction de Paul Larivaille, notes de commentaire de Jean-Jacques Marchand ; Agostino Nifo, De regnandi, texte latin établi par Simona Mercuri, introduction, traduction et notes de Paul Larivaille, Parigi, Les Belles Lettres, 2008 ; Paul Larivaille, Introduction a Simone Pernet Beau, Paul Larivaille, Une reécriture du ‘Prince’ de Machiavelli : le ‘De regnandi peritia’ de Nifo, Parigi, Centre de recherche de langue et letterature italienne, 1987 ; Camillo Minieri Riccio, Biografie degli Accademici alfonsini detti poi pontaniani dal 1442 al 1543, rist. anastatica Bologna, Forni, 1969, pp. 437-53 ; Pasquale Tuozzi, Agostino Nifo e le sue opere, « Atti e memorie della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova », ccclxiii (1903-1904), n.s., xx, 1, pp. 63-86 ; Benedetto Croce, Il De pulchro di Agostino Nifo, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, iii, Bari, Laterza, 1952, pp. 101-110 ; Carlo Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, pp. 128-135 ; Giorgio Petrocchi, La letteratura del pieno e del tardo Rinascimento, in Storia di Napoli, vii, Napoli, Società editrice Storia di Napoli, 1980, pp. 363-403 ; Francesco Tateo, Le armi e le lettere : per la storia di un tópos umanistico, in *Acta Conventus Neo-Latini Torontonensis. Proceedings of the Seventh International Congress of Neo-Latin Studies (Toronto 8-13 agosto 1988), a cura di Alexander Dalzell, Charles Fantazzi, Richard J. Schoeck, New York, mrts, 1991, pp. 63-81 ; Eric Haywood, A curious Renaissance dispute on arms and letters : Agostino Nifo and Luca Prassicio, « Italian Studies », xli (1986), pp. 62-81 ; Davide Canfora, Il ‘De rege et tiranno’ di Agostino Nifo e il ‘De infelicitate principum’ di Poggio Bracciolini, « Critica Letteraria », 1999, pp. 455-468 ; Id., La controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, Firenze, Olschki, 2001, pp. 78-79 ; Edward P. Mahoney, Two Aristotelians of the Italian Renaissance : Nicoletto Vernia and Agostino Nifo, Aldershot, Ashgate, 2000 ; Ennio De Bellis, Il pensiero logico di Agostino Nifo, Galatina, Congedo, 1997 ; Id., Bibliografia di Agostino Nifo, Firenze, Olschki, 2005 ; Gaetano Mastrostefano, Una rarissima emissione del De figuris Stellarum Helionoricis di Agostino Nifo (Napoli 1526), « Bibliofilia », 108 (2006), 1, pp. 19-37. 4   Torquato Tasso, Il Nifo overo del piacere, in Torquato Tasso, Dialoghi, ediz. critica a cura di Ezio Raimondi, Firenze, Sansoni, 1958, ii, 1 (pp. 159-245), pp. 160-161.  





















































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domenico defilippis

In realtà il gioco di battute dell’incipit sarebbe risultato funzionale alla costruzione dell’ultima parte del dialogo, in cui, con andamento circolare, si sarebbe tornato su quell’amore senile per discettare su cosa sia il piacere muovendo dall’interrogativo se procuri maggior godimento il ragionare tra amici in giardino, così come avevan fatto Agostino e Cesare, ovvero l’intrattenersi in ragionamenti con la propria donna. Il Gonzaga mostrava di non aver dubbi in merito : nel primo caso, quello sperimentato dai due interlocutori, la conversazione aveva condotto alla risoluzione di una controversia rasserenando piacevolmente l’animo, nell’altro caso, invece, a detta del Gonzaga, non si sarebbe provato simile diletto poiché il piacere che nasce dal parlar con l’amata non può che essere causa di turbamento, essendo di per sé l’amore perturbante. 1 Il cenno, sia pur di sfuggita, alle vicende personali di Agostino Nifo rinviava però ad un testo e a un personaggio tutt’altro che fittizio, che ben opportunamente evocavano, con concettoso e arguto intreccio metaforico, gli incipitari versi della canzone ‘della Gloria’, la cxix dei Rerum Vulgarium Fragmenta. Se infatti il testo petrarchesco, contrapponendo la virtù alla gloria, celebrava la personificazione di quest’ultima per la sua accecante e luminosa bellezza, 2 la ragazza cui faceva maliziosamente riferimento il Gonzaga pareva non esser da meno, se eleggendola a simbolo stesso della perfezione fisica e comportamentale, al punto da giudicarla ‘divina’, Nifo ricorreva all’espediente di mutarle in Fausina l’originario nome di Feba - anch’esso, peraltro, d’origine greca (phoibe : ‘splendida, luminosa’), ma inadatto alla fanciulla e invece appropriato a lui, letterato e cultore delle arti, novello ‘Febo’ (Apollo) - per poter compiutamente enunciare e immediatamente comunicare le sue straordinarie doti etiche ed estetiche col conio di un neologismo latino esemplato su un supposto derivato aggettivale del greco ‘phausis’ ‘fulgore, luce’, e quindi ‘che sprigiona splendore, che dà luce’, ma da intendere piuttosto semanticamente affine, come glossa lo stesso autore e per le ragioni di cui si dirà, a ‘aurora’. Anche il nome della famiglia, Rhea – e qui è proprio il caso di dire nomen omen –, ricalcava un termine greco, l’avverbio ‘rhea’, che vale ‘facilmente, agevolmente’, sicché Fausina – chiosa ancora Nifo – non potrà che essere ‘facilis, blanda, iucunda’, ‘affabile, seducente, allegra’, l’essenza stessa, quindi, della perfetta donna di corte, secondo l’accezione nifiana. 3 Originaria di Nola, nata da una famiglia della media borghesia domiciliata nel quartiere Cortefellano e dedita all’attività mercantile, ma non del tutto aliena dalla pratica delle arti liberali, che vantava, tra gli altri, un Nicola, musicista e canonico, un Carlo letterato dedito agli studi storici, un Girolamo senatore e un Annibale, figlio di Carlo, distintosi  



1   Ivi, p. 225 : cfr. Francesco Tateo, Forme della dialettica in dialoghi del Tasso (‘Il Nifo’, ‘Il Porzio’, ‘Il Minturno’), « La parola del testo », 2001, 1, pp. 137-149. 2   Cfr. Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 543-557. 3   « […] Deinde propter tui corporis formam, quae tanta est ut nec Zeusis pictor ille egregius, cum Helenae spem pingere decrevisset, apud Crotoniatas tot puellarum partes, ut unam Helenae effigiem exprimeret perquisivisset, sola tua venustate inspecta ac pervestiga­ta excellentia. Tum etiam ob tui animi splendorem morumque elegantiam, quae tanta est, ut non humano, sed divino semine nata censearis, postremo gratiam ob ipsam, qua in cunctis gratiosa videris, non aliter quam aurora, quae mari, fluminibus caeterisque elementis, stirpibus, mutis animalibus universisque hominibus grata, periucunda atque lucidissima apparet. Hanc ipsam ob causam non Phoebam, quod nomen tibi lustrico die fuit indutum, sed Phausinam, hoc est auroram, me tuo exsistente Phoebo, nuncupare te dignam putavi. Es enim inter puellas aurora, quae formae excellentia et morum compositione foves ac omnes illustras. Es etiam cognomine Rhea, quod facilis, blanda ac iucunda sis. Genere quoque ac patria clarissima, nam Nola et si Maroni poetae praeclarissimo fuerit olim difficilis, mihi autem philosopho iocundissima atque gratissima est, sed cum minima laus ex parentibus patriaque sit, bona fronte laudes tuas inumeras, quae ex ipsis colligi possent omittimus », Agostino Nifo, De re aulica, Napoli, Giovanni Antonio de Caneto, 1534, cc. aiiv-iiir.  









agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 329 come uomo d’arme, 1 Feba non sembra essere l’unica fanciulla di quella nobile città, feudo degli Orsini, provvista di una non comune avvenenza e di inusitate virtù, se, come ricorda Ambrogio Leone nel suo De Nola, appena alcuni anni prima era assai rinomata anche Beatrice Notaro, la quale, all’età di diciott’anni – a quel che si narra - fu in un bosco rapita e accolta in cielo tra gli dei superni : certo è che da quel momento in avanti non fu più vista da alcuno. La ‘divina’ giovinetta, come la definisce Leone, suo vicino di casa e suo spasimante – non sappiamo fino a qual punto ricambiato -, fu così rinomata per la sua bellezza da essere effigiata in una statua dallo scultore Tommaso Malvico e da essere celebrata nei suoi versi dal Tebaldeo, oltre che, ovviamente, immortalata nel De Nola dal suo maturo innamorato, che ne trasfigurò poeticamente l’acerba morte. 2 Una sorte diversa toccò a Feba Rhea, che, più prosaicamente, riuscì a conquistarsi invece un posto tra le damigelle della principessa Isabella Villamarina nella corte salernitana, dove ebbe occasione di trovare nel vecchio filosofo il suo Pigmalione. Il fortuito incontro non fu, forse, del tutto estraneo al progetto di composizione de De re aulica e alla dedica a Fausina dell’opera, che apparve a stampa a Napoli, per i tipi di Giovanni de Caneto, nel 1534, quando già da tempo, dopo la morte di Leone X e la partenza da Roma, Nifo aveva eletto a propria dimora la nativa Sessa ed era diventato abituale frequentatore della corte di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno. Il trattato si dispone cronologicamente da ultimo in un trittico di testi allestiti da Nifo con l’intento di fornire una aggiornata manualistica per la formazione del principe e dei cortigiani, pubblicizzando le proprie idee, quelle di un ben noto e famoso letterato-filosofo meridionale, nell’affollatissimo panorama contemporaneo della produzione de principe. Nel 1521 aveva infatti pubblicato, per gli Eredi di Filippo Giunta di Firenze, il De his quae ab optimis principibus agenda sunt, un agile opuscolo nel quale le canoniche virtù dell’ottimo governante, redatte sulla scorta del consolidato catalogo aristotelico oculatamente ripreso da Pontano nel De principe, venivano accuratamente postillate con una nutritissima e pratica serie di exempla tratti dagli auctores e segnatamente dagli Apophthegmata di Plutarco, che avevano goduto alcuni anni prima, nel 1508, di una traduzione latina curata da Raffaele Regio (Venezia, Bartolomeo de Zanis) e che Nifo ampiamente saccheggia per il suo lavoro. 3 Un paio d’anni più tardi, nel 1523 a Napoli nella tipografia di Caterina Mayr, era apparso il suo controverso De regnandi peritia, abile riscrittura, in latino, dell’ancora inedito Principe di Machiavelli, che sarebbe giunto alle stampe solo nel 1532. 4 Suggestionato dal repentino successo che aveva accompagnato la gestazione, ben nota negli ambienti napoletani e romani frequentati dal Sessano, e la precoce pubblicazione del  

1   « Cortefellana autem regio hisce nationibus illustratur, […]. Rehae, inter quos praestitit Ioannes studio mercaturae pollens ; item Nicolus musicus atque canonicus, quinetiam Carolus historicus et huius filius Annibal, qui arma exercuit, atque Hyeronimus vir senatorius », Ambrogio Leone, De Nola opusculum. Distinctum Plenum Clarum Doctum Pulcrum Verum Grave Varium & Utile, Venezia, Giovanni Rosso Vercellese, 1514, cc. xxxxvv-xxxxvir : sull’opera rinvio a Domenico Defilippis, Tra Napoli e Venezia : il De Nola di Ambrogio Leone, « Quaderni » dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, vii (1990), pp. 3-42, e alla bibliografia ivi cit. ; Ambrogio Leone, Nola, testo latino con introd., trad. italiana, note e indici a cura di Andrea Ruggiero, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano, 1997 : il testo citato vi si legge a p. 434 ; Carlo Vecce, “Salutate Messer Ambrogio”. Ambrogio Leone entre Venise et l’Europe, « Les Cahiers de l’Humanisme », i (2000), pp. 173-181 2   Cfr. A. Leone, De Nola …, cit., c. xxxix, e, nell’ed. curata da A. Ruggiero, cit., pp. 65-66, 457-458. 3   Cfr. Domenico Defilippis, « Moneo tamen vos ut libellum lectitetis ». La dedica del « De his quae ab optimis principibus agenda sunt » di Agostino Nifo, in *Forme e contesti. Studi in onore di Vitilio Masiello, a cura di Francesco Tateo e Raffaele Cavalluzzi, Bari, Laterza, 2005, pp. 103-120, poi in Id., Riscritture del Rinascimento, Bari, Adriatica, 2005, cap. ii. Traduzioni e riuso dei classici nella trattatistica sul principe e sulla corte di Agostino Nifo (pp. 73-113), pp. 73-94. 4   Cfr. Machiavel, Il principe, cit. ; P. Larivaille, Introduction …, cit., e, più in generale, la bibliografia cit. alla precedente nota 3.  

































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Cortegiano di Baldassar Castiglione, il Nifo tentava di inserirsi in un dibattito assai vivace, senza mancare, però, di far valere il punto di vista della corte meridionale e riannodando quel dialogo a distanza col Castiglione, che già potrebbe scorgersi nelle complici contiguità tra il capitolo xxix del De his quae ab optimis principibus agenda sunt, riguardante Quae virtutes, quaeve actiones principibus mulieribus lucidissime ac desideratissime sint, e alcuni passaggi dei capitoli iniziali del terzo libro del Cortegiano, là dove, non senza alcune zone d’ombra, si opera una preventiva distinzione tra la formazione che conviene a una regina, ovverosia a una principessa, donne comunque abilitate al potere per nascita e condizione sociale, e una cortigiana, cui fa seguito quel catalogo esemplare di illustri nobildonne che è strutturalmente equiparabile a quello offerto dal Nifo nel suddetto capitolo, peraltro elaborato sulla scorta di un altro famosissimo opuscolo plutarcheo, il Mulierum virtutes. 1 A riguardo coglieva nel segno Cristofaro Belloni, il quale nella lettera prefatoria al volgarizzamento di Francesco Baldelli del De re aulica, indirizzata da Genova il 15 novembre 1559 al nobile napoletano Pasquale Caracciolo, fratello di Petraccone IV, terzo duca di Martina, nonché autore della monumentale opera in dieci libri su La gloria del cavallo, edito dal veneziano Gabriele Giolito nel 1566, 2 scriveva di aver patrocinato la pubblicazione della traduzione dell’‘operetta’ avenga che a molti in prima vista sia per parere che non possa di tal materia trattar meglio, che ha trattato il Castiglione, che già corre per le mani di tutto il vulgo ; non dimeno apertamente potrà vedersi, da questi cupi fonti di filosofia, essersi tratte l’acque, che altri han volte alle lor molina,  

una coperta allusione a certe promiscuità, cui ho accennato, e una denuncia di come assai utile per la disputa sulla cortigiania, che annoverava ormai molti cultori, risultasse una trattazione in cui si troveranno […] distinte con più bell’ordine (scil. di quanto non avvenisse nel Cortegiano ?) quelle parti che si richieggono alle corti, sì che formandosi in questo Discorso un gentilhuomo adornato di tali e tante virtù, che divenga amabile e grato ad ogni principe. 3  

Il palese rinvio all’obiettivo dichiarato con ugual verbo dal Castiglione, 4 ma con l’attualizzazione del termine, più in voga negli ambienti di corte di pieno Rinascimento, 5 denuncia la finalità cui tende l’institutio nifiana, la quale si rivelerebbe maggiormente in sintonia con l’evolversi del sistema corte in quegli anni : ormai naufragata l’ambizione che il cortigiano potesse proporsi davvero come guida e consigliere del principe, nel solco dell’antica formula platonica, al gentiluomo non resta che mettere in atto tutte quelle arti che gli consentano di continuare a vivere a corte, rendendosi, appunto, « amabile e grato ad ogni principe ».  





1   Per un’analisi più dettagliata dei luoghi del Cortegiano e del De his quae ab optimis principibus agenda sunt rinvio al mio Traduzioni e riuso dei classici …, cit., p. 94 sgg. ; per i rapporti con Castiglione cfr. anche Domenico Defilippis, Tematiche cortigiane nel De re aulica di Agostino Nifo : fonti e modelli, in *Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 167-181 ; Rinaldo Rinaldi, Scrivere contro : Machiavelli in Castiglione, in *De la politesse à la politique. Recherches sur les langages du Livre du Courtisan, Actes du Colloque International de l’Université de Caen Basse-Normandie (18 febbraio 2000), Caen, Presses universitaires de Caen, 2001 (pp. 31-50), p. 38. 2   Su cui cfr. Amedeo Quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Roma, Donzelli, 2003, pp. 191-206. 3   Cristofaro Belloni, All’illustre Signor Pasquale Caracciolo, mio signore osservandissimo, in Il Cortigiano del Sessa, Genova, Antonio Belloni, 1560, cc. 2r-5r : cc. 3v-4r. 4   « […] si desse carico di formare con parole un perfetto cortigiano », Baldassarre Castiglione, Il Cortigiano, a cura di Amedeo Quondam, Milano, Mondadori, 2002, I, 3.44 [= i, xii], p. 28 : corsivo mio. 5   Cfr. Carlo Ossola, Dal Cortegiano all’uomo di mondo : storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987.  

















agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 331 Le ragioni dell’intervento del Nifo, a ridosso dell’apparizione del Cortegiano e al di là del pur legittimo sfruttamento di una tematica di sicuro successo, possono tuttavia meglio cogliersi esaminando la dedica del De re aulica. Dopo aver tessuto le lodi dell’amata, cui la bellezza ha procurato « un luogo non mezzano certo tra le più belle », e l’animo « ornato […] di doti e di virtù singolari » le meriterà « ragionevolmente » – novella Beatrice Notaro – « d’esser ricevuta tra le celesti Dee »1, l’anziano filosofo circoscrive immediatamente quale sia il fine ultimo della cortigiania, cui la stessa Fausina imparerà a tendere, grazie alle sollecite cure del suo istitutore e sfruttando convenientemente le sue naturali ottime qualità di partenza : divenire « non solamente grata e affabile a quel prencipe, al servigio del quale voi hora vi trovate, ma etiandio […] accetta a gl’immortali Dei, a’ quali noi debbiamo sopra tutto sforzarci di compiacere ». 2 L’institutio feminae, che Nifo le riserverà, si rivelerà utile non solo per lei, ma anche per tutto il variegato ambiente femminile presente a corte, che comprende le « fanciulle cortigiane », le « donne già provette » e le « matrone », 3 secondo la ripartizione già impiegata da Juan Luis Vives nell’Institutio foeminae christianae, altro best-seller del tempo, pubblicato ad Anversa nel 1524 (« apud Michaelum Hillenium »), ma ben presto ‘plagiato’ da Ludovico Dolce nella sua Institutione delle donne secondo li tre stati che cadono nella vita humana, stampata da Gabriel Giolito a Venezia nel 1545 : 4 un percorso cronologico e di stato civile, che va dalle cortigiane in giovane età, come Fausina, a quelle più anziane, dalle fanciulle alle maritate, lungo una linea che tende a parcellizzare, nelle sue varie e complesse sfumature, il caleidoscopico mondo cortigiano e allo stesso tempo a prevedere una norma comportamentale, un galateo per ciascuna delle possibili condizioni, sotto la spinta irrefrenabile di quella tensione alla irreggimentata regolamentazione tipica del secondo Cinquecento. L’aristotelico Nifo ricerca e propone una filosofica ‘misura’ idonea ai tempi, che funga da freno ai costumi dei « troppo liberi e licentiosi cortigiani », 5 quelli evidentemente, se non apertamente approvati, quantomeno enunciati e giudicati talvolta con troppa indulgenza, secondo l’autore, dal Castiglione. Questa probabile velata critica a un testo sicuramente ‘moderno’, quale era il Cortegiano, rischia di restituire l’immagine di un personaggio anziano, al limite del rancoroso, non al passo coi tempi, tutto compreso nella sua sana morale ormai datata, ruolo che Nifo, al contrario, non intende assolutamente interpretare. E infatti, per apparire à la page e non certo fossilizzato in una ostinata misoginia originata e supportata dalle note argomentazioni di Aristotele, concernenti la naturale inferiorità psico-fisica della donna, 6 si dice convinto fautore dell’opera di riscatto  











































1   Il Cortigiano del Sessa, cit., cc. 9r-v : « […] ut facile non mediocrem locum inter formosas tibi vendicaveris ; animum quoque singularibus dotis ac virtutibus insignerit, ut inter coelicolas recipi iure merearis », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiir. 2   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 9v : « […] ut non modo iucunda affabilisque principi, cui obtemperas, euadas, sed vel numinibus immortalibus placita, quibus solis placendum est, efficiaris », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiv. 3   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 9v : « Lucraberis etiam ex hoc nostro libello mores, qui aulicis puellis provectisque mulieribus atque matronis idonei sunt », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiv. 4   Cfr. Adriana Chemello, L’“Institution delle donne” di Ludovico Dolce ossia l’“insegnar virtù et honesti costumi alla Donna”, in *Trattati scientifici nel Veneto fra xv e xvi secolo, introd. di Ezio Riondato, Venezia, Università internazionale dell’arte, 1985, pp. 103-134 ; Francesco Sberlati, Dalla donna di palazzo alla donna di famiglia. Cultura e pedagogia femminile tra Rinascimento e Controriforma, « I Tatti Studies », vii (1997), pp. 119-174, cui si rinvia anche per la bibliografia, per la quale si veda anche, in questo volume, il contributo di Isabella Nuovo, Dal fuso al libro : i saperi delle principesse meridionali tra xv e xvi secolo. 5   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 9v : « Nec ea quae dissere proposuimus more licentiosorum aulicorum, sed pro peripateticorum consuetudine dicere decrevimus, ex quibus nihil nisi probum ac sanctum tu caetarique omnes, qui eos legent, colligere poteritis », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiv. 6   Cfr., per un quadro complessivo ed esaustivo della questione, Romeo De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Mondadori, 1987.  

































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e di rivalutazione dell’elemento femminile nella società contemporanea, fondata sull’idea di una naturale uguaglianza tra i due sessi, cui aveva recentemente fornito un decisivo contributo l’Apologia mulierum di Pompeo Colonna, dedicata alla cugina Vittoria e quasi certamente divulgata sul finire del 1529 o agli inizi del 1530. 1 Nifo cita entusiasticamente il libretto 2 – alle cui tesi tuttavia non avrebbe mancato di contrapporre, nella pars destruens del suo discorso, nel secondo capitolo del secondo libro del De re aulica, quelle avverse di Senocrate, Galeno e dello stesso Aristotele 3 – poiché vede in esso esaltato quel modello muliebre, che Fausina gli sembra di impersonare alla perfezione, e che perciò egli non può che condividere a pieno, e che è a tal punto accattivante da fargli addirittura dire, sia pur con malcelata ironia : « io più tosto vorrei esser donna, che huomo ». 4 L’affermazione non dev’esser ritenuta necessariamente temeraria o addirittura blasfema, laddove essa palesemente contraddice finanche il motto di Platone, che era solito render grazie agli dei per esser nato maschio e non femmina ; 5 Antonio Galateo, infatti, qualche anno addietro, precocemente inserendosi in quel circuito apologetico, se non addirittura anticipandolo, e muovendo da solide e incontrovertibili considerazioni di ordine etico e religioso, aveva rimarcato, in alcune sue epistole destinate a delle nobildonne, l’obiettiva superiorità della donna sull’uomo per quel che riguarda il suo agire e la sua indole, naturalmente incline al bene, alla verità e alla pratica delle virtù. 6 È anzi nella communis opinio, dilagante in un vulgus ancora ottenebrato da una visione retrograda delle donna in generale e della cortigiana in particolare, che Fausina, opportunamente istruita dal suo Nifo, dovrà portare quella luce che il suo nome evoca, fautrice di un’‘aurora’ « giocondissima, lucentissima e gratissima ». 7 Il Sessano è ben consapevole che già altri hanno tentato di affrontare la materia che  











1   Le convincenti motivazioni addotte da Guglielmo Zappacosta a supporto della proposta di datazione, da lui formulata, di composizione dell’Apologia, trasmessaci da un’esile tradizione manoscritta, dimostrano come la fase di allestimento dell’operetta fosse cronologicamente molto prossima, se non addirittura pressoché contemporanea, al momento dell’elaborazione almeno del secondo libro del De re aulica, che affronta la medesima tematica sulla donna. Ciò sarebbe avvenuto prima della nomina del Cardinale a Viceré di Napoli (3 agosto 1530) ; e la frequentazione della corte romana e partenopea da parte del Nifo avrà sicuramente favorito la conoscenza dello scritto del Colonna, prima ch’egli, di lì a poco, morisse (28 giugno 1532) : della sua scomparsa non si fa esplicito riferimento nel De re aulica, sicché si potrebbe ipotizzare che la stesura del testo nifiano fosse già in uno stato di avanzata, se non definitiva, sistemazione un paio d’anni prima della sua pubblicazione. L’Apologia mulierum è modernamente edita, corredata di Introduzione e note, da Guglielmo Zappacosta, Apologiae Mulierum libri ii del Card. Pompeo Colonna, in Id., Studi e ricerche sull’umanesimo italiano. (Testi inediti del xv e xvi secolo), Bergamo, Minerva italica, 1972, pp. 199-246. 2   Concludendo il cap. I. Prima opinio de muliere aulica, del secondo libro del De re aulica Nifo asseriva : « Sed de virtutibus mulierum et quales sint, et quae, et utrum viri virtutes omnes comune habeant cum mulieribus, disputat Pompeius Columna, principum splendor in eo libro, quem Apologiam mulierum inscripsit, nec puto aliquid dici posse pro mulieribus, quod non sit ab eo satis dilucide explicatum. Nos quoque eo libro, quem de optimo principe exaravimus, de virtutibus mulierum et quas communes habeant cum viris, et quas sibi proprias, diligenter expressimus ; quare solum de aulicis nobis sermo erit, ne nostra oratio ad immensum proficiscatur », A. Nifo, De re aulica, cit., cc. Gvv-vir : il rinvio è al già ricordato cap. xxix del De his quae ab optimis principibus agenda sunt ; con il cenno a quella sua operetta del 1521 Nifo intendeva forse vantare una certa priorità temporale circa la trattazione dei temi affrontati più tardi dal Colonna, sia pur adottando egli un’ottica decisamente meno marcatamente filogena. 3   Cfr. il Cap. ii. Refutatio positionis, ivi, cc. Gvir. 4   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 10r : « […] ut mulier, quam vir, esse malim », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiv. 5   La testimonianza di Lattanzio (Inst., 3, 19, 13 : « Plato […] naturae gratias egit, quod homo natus esset ») ricorre, tra l’altro, anche in Antonio De Ferrariis Galateo, La Iapigia (Liber de situ Iapygiae), prefaz. di Francesco Tateo, introd., testo, trad. e note a cura di Domenico Defilippis, Galatina, Congedo, 2005, §17, 7, p. 82. 6   Rinvio, per un approfondimento su questa posizione dell’umanista salentino e per la relativa bibliografia, al contributo già citato di I. Nuovo, Dal fuso al libro …, cit. 7   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 10r : « Es enim inter puellas aurora, quae formae excellentia et morum compositione foves ac omnes illustras », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiir.  

































agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 333 egli intende trattare, e tuttavia deve riconoscere che, nonostante i buoni propositi, costoro non abbiano poi portato egregiamente a termine l’indagine promessa : tra questi annovera Diomede Carafa, conte di Maddaloni, il quale sebbene « toccasse molte cose di buono, non dichiarò non dimeno a pieno la materia della corte », 1 giacché, di fatto, si limitò a fornire ‘istruzioni’ comportamentali legate a una concezione della cortigiania intesa essenzialmente come ‘servizio’, che correrebbe il rischio di trasformarsi in mero servilismo all’interno di una funzione decisamente degradata del ruolo del cortigiano – è questa soprattutto l’accusa che in altro luogo gli muove Nifo 2 – e in un’ottica comunque connessa ad una visione statica della querelle de femmes, di stampo decisamente maschilista, non aperta a recepire le novità che, in ambito cortigiano, già sul finire del xv secolo si andavano invece affermando anche in area meridionale e relegando le funzioni della donna nel tradizionale ambito del governo familiare, sia pur assolte con intelligente razionalità. 3 Testimone di un certo sovvertimento negli ambienti nobiliari, che andava agli inizi del nuovo secolo producendo un graduale affrancamento della figura femminile dalla ristretta sfera domestica, è invece un altro nobile letterato, Belisario Acquaviva, duca di Nardò, che Nifo non cita, il quale nella sua Paraphrasis in Oeconomica Aristotelis, stampata a Napoli da Giovanni Pasquet de Sallo nel 1519, non aveva mancato di registrare l’inarrestabile protagonismo muliebre anche nel Mezzogiorno, sia nella corte napoletana, che nelle numerose e vivacissime corti periferiche del Viceregno. 4 Il Sessano coinvolge però nella sua critica non solo un protagonista quattrocentesco della trattatistica sulla corte e sulla donna, qual era il Carafa, ma anche i suoi contemporanei, ai quali rimprovera di non aver efficacemente illustrato prerogative e atteggiamenti comportamentali richiesti a cortigiani e cortigiane. Ciò gli consente di sottolineare la supposta novità del proprio lavoro, peraltro espressamente commissionatogli dal suo principe, Ferrante Sanseverino, e dalla sua consorte, Isabella Villamarina, e di dedicarlo non indegnamente a una giovane fanciulla, scelta che potrebbe apparire quantomeno stravagante a causa della diversa età e del diverso stato sociale, 5 ma che viene giustificata dai pregi di colei che sarebbe stata, nella parte conclusiva del De re aulica, attiva interlocutrice dell’autore e prima destinataria della sua precettistica sulla donna di corte. 6 Ora, al di là di quanto premesso nella dedicatoria, pare evidente che nella costruzione del De re aulica ineludibile elemento di confronto e di scontro non possa che essere, prima d’ogni altra, la proposta castiglionesca, riletta e resa funzionale a una realtà, quale quella meridionale, che il Nifo ben conosce. Un Cortegiano rivisitato, dunque, e per così dire imbrigliato dalle logiche dominanti di una realtà cortigiana più variegata nella sue manifestazioni, qual era quella meridionale con cui il Nifo veniva a misurarsi, soprattutto se si  





1   Il Cortigiano del Sessa, cit., c. 11r : « Qui licet non nihil boni elaboraverit, rem tamen aulicam non explicavit », A. Nifo, De re aulica, cit., c. aiiir. 2   Cfr. ivi, i, Cap. viii. Diomedis opinio de aulico reque ipsa aulica, e la successiva veemente e argomentata Refutatio del Cap. ix, cc. Avir-viir. 3   Rinvio a I. Nuovo, Dal fuso al libro …, cit., e in particolare per il Carafa, la cui opera ora si legge in Diomede Carafa, Memoriali, edizione critica a cura di Franca Petrucci Nardelli, note linguistiche e glossario di Antonio Lupis, saggio introduttivo di Giuseppe Galasso, Roma, Bonacci, 1988, a Giuliana Vitale, Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Salerno, Carlone, p. 169. 4   Cfr. Domenico Defilippis, Tradizione umanistica e cultura nobiliare nell’opera di Belisario Acquaviva. Gli opuscoli pedagogici del conte di Conversano e duca di Nardò, Galatina, Congedo, 1993, il § La donna di palazzo, pp. 137-138. 5   « Nec mirentur qui hunc legerint librum philosophum senem sexagenarium et pene capularem eum puellam dicasse subque eius nomine publicasse : nam qui de ranis muribusque scripserunt, ranas muresque laudaverunt […]. Compulerunt me praeterea ad rem hanc scribendam Ferdinandus Primus Sanseverinus atque Isabella Villamarina Salernitanorum principes illustrissimi, quibus vitam omnem debeo », A. Nifo, De re aulica cit., c. aiiir-v. 6   Cfr. ivi, cc. aiiir-v e Hiiir sgg.  











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trattava di focalizzare l’attenzione su una tipologia di figura, quella della cortigiana, che differiva significativamente dalla ‘donna di palazzo’, sulla quale diffusamente si era soffermata l’analisi sulla corte urbinate. Al di là quindi di alcuni assunti di carattere generale che riguardano il naturale rapporto di parità ovvero di maggiore o minore subalternità tra i due sessi, e che incrociano inevitabilmente, oltre che il Cortegiano, una ben più vasta letteratura di genere, Nifo indugia su quella che, a suo giudizio, evidentemente nel contesto meridionale, è la funzione specifica del cortigiano, cioè di intrattenere piacevolmente il proprio signore, ricorrendo quotidianamente nel discorso a buffonerie, facezie e motti di spirito il più delle volte scurrili e salaci. 1 È questa dimensione, che, trasferita sulla cortigiana, risulta per costei irricevibile per la sua naturale minorità psichica, che le impedirebbe di essere sufficientemente arguta e attivamente partecipe nella conversazione, e soprattutto per il suo stato muliebre, che la pone all’interno di una diversa sfera morale e eticocomportamentale dalla quale è ovviamente bandita quella tipologia di interventi verbali e di azioni scurrili, dal momento che vi sono specifiche virtù maschili che non sono tali per le donne e viceversa. 2 E qui torna d’obbligo il raffronto con le posizioni castiglionesche. Sebbene infatti entrambi gli autori assegnino all’universo femminile in genere talune virtù comuni agli uomini e altre invece tipicamente donnesche, tra cui irrinunciabili per una donna onesta e costumata sono la pudicizia e la moderazione secondo un consolidato cliché definito fin dall’antichità, 3 e sebbene ambedue indichino quale massima espressione della virtù a corte il valore della armi per l’uomo e l’« affabilità piacevole » per la donna, 4  



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  Cfr. D. Defilippis, Tematiche cortigiane …, cit. e i capitoli conclusivi del I libro del De re aulica : lxxxii sgg.   Cfr. A. Nifo, De re aulica, cit., ii, iii. Quod neque scurrilia neque urbana mulieribus conveniant, cc. Gviv-viiv.   Tale separazione era stata operata dal Nifo (De his quae ab optimis … cit., c. 24r) sulla base dell’autorevole pensiero di Aristotele, Cicerone, Vegezio ( !) e Catone : « […] Quo fit ut non facile nobis sit discernere, quae principum ingenuarumque mulierum virtutes, actiones atque affectus esse debeant. Aristoteles in magnis rhetoricorum voluminibus [i, 9, 1366 b] viris ac mulieribus quasdqam communes esse virtutes asserit, ut fortitudinem, iusticiam et caeteras, de quibus dictum est. Temperantia vero propria ac precipua mulieribus tribuit, quam moderatio, modestia, pudicizia, castitas, continentia, abstinentia, sobrietas, taciturnitas comitantur. Mundicicia quoque, ut ait Cicero libro i [36, 130] officiorum, non odiosa neque exquisita mulieribus ingenuis graziosa res est. Vegetius [ma la fonte è Sallustio, De bello Iugurtinum, 85, 40-41] viris pulveres, sudores et labores, mulieribus mundicia ; ornatus etiam modo moderatus atque modestus sit, ut Cato pro lege statuit ». Per il Cortegiano (cit., iii, 2.20 ; 22-23 ; 27 [=45]), dove il livello problematico del discorso nifiano è ripartito nelle contrapposte opinioni degli interlocutori, si veda quanto ribatte il Magnfico al Pallavicino : « E perché il signor Gaspare ha detto che le medesime regole che sono date per il cortigiano servono ancora alla donna, io sono di diversa opinione. Che benché alcune qualità siano comuni e così necessarie all’uomo come alla donna, sono poi alcune altre che più si convengono alla donna che all’uomo, e alcune convenienti all’uomo dalle quali essa deve in tutto esser aliena. […] perché molte virtù dell’animo estimo io che siano alla donna necessarie così come all’uomo. Medesimamente la nobiltà, il fuggire l’affettazione, l’esser aggraziata da natura in tutte le operazioni sue, l’essere di buoni costumi, ingegnosa, prudente, non superba, non invidiosa, non maledica, non vana, non contenziosa, non inetta, sapersi guadagnare e conservare la grazia della sua signora e di tutti gli altri, fare bene ed aggraziatamente gli esercizi che si convengono alle donne. […] Lasciando adunque quelle virtù dell’animo che le hanno da essere comuni col cortigiano, come la prudenza, la magnanimità, la continenza, e molte altre, e medesimamente quelle condizioni che si convengono a tutte le donne, come l’essere buona e discreta, il saper governare le facoltà del marito e la casa sua e i figlioli, quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono a una buona madre di famiglia … ». Sul particolare significato del concetto di “virtù donnesca”, cfr. Maria Luisa Doglio, Introduzione a Torquato Tasso, Discorso della virtù femminile e donnesca, Palermo, Sellerio, 1997, pp. 11-39. 4   « […] dico che a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra ogni altra cosa una certa affabilità piacevole. Per la quale sappia gentilmente intertenere ogni sorte di uomo con ragionamenti grati e onesti, e accomodati al tempo e loco e alla qualità di quella persona con cui parlerà, accompagnando coi costumi placidi e modesti e con quella onestà che sempre ha da componere tutte le sue azioni, una pronta vivacità d’ingegno, donde si mostri aliena da ogni grosseria ; ma con tal maniera di bontà, che si faccia estimar non meno pudica, prudente ed umana, che piacevole, arguta e discreta. E però le bisogna tenere una certa mediocrità difficile e quasi composta di cose contrarie, e giungere a certi termini a punto, ma non passarli », B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 2.27-29 [= 5] ; « Quoniam Cyprias mulieres non nullas legimus fuisse aulicas, non nullas autem assentatriculas, quas cum  

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agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 335 dissentono poi vistosamente sugli officia della cortigiana e sulle forme e i modi della sua educazione, demandata in ogni caso al maschio, al quale solo spetta, per la superiore capacità raziocinante di cui è naturalmente dotato, la formulazione dell’ideale modello di cortigiania al femminile 1 funzionale a quel perfetto modello di corte delineato nel dialogo. La naturale imbecillitas fisica e intellettuale delle donne, 2 « quae sunt sicuti viri etiam rationis partecipes », ma non allo stesso modo, « non tamen tantae ut possit virtutes, eadem prudentiae vi, communes habere sibi cum viris », 3 nega loro qualsiasi possibilità di affrancamento in una società che perpetua il negativo giudizio su di lei confezionato da Aristotele, 4 che neppure il diverso orientamento platonico sulla parità dei sessi consegnato alla Repubblica riesce a controbilanciare. 5 Protagoniste del terzo libro, alle donne del Cortegiano, neppure a quelle di rango più elevato, è consentito di intervenire nella discussione che le riguarda così da vicino : esse tacciono, mentre i cortigiani discutono animatamente sui criteri che sovrintendono alla loro formazione. 6 L’eccentricità del catalogo allestito  









in Syriam transfretassent, ‘gradulos’ appelabant quod regum uxoribus currum ascensuris pronae quodammodo gradus preberent. Thymelen quoque mulierem reperimus, quae prima saltationem docuit. Iccirco aliqua pars earum virtutum, quae viris aulicis dantur, mulieribus tribuenda est. Nam altera pars aulae uxoris principis est, cui et aulicae et atrienses et comites sunt tribuendae, nec iniuria quidam, quondam, ut mulier est medius vir, sic esse potest medius aulicus, et cum illa esse non possit urbanitas, fit ut aulica mulierum virtutis sit affabilitas, cuius estrema, ut diximus, sunt adulatio et rusticitas », A. Nifo, De re aulica, cit., ii, iv. Quae pars aulica mulieribus, c. Gviiv : il corsivo, mio, evidenzia la variegata partizione dell’universo femminile di corte, disposto piramidalmente, che ha al vertice le regine/principesse e poi, scendendo in basso, le cortigiane, le donne di camera e le damigelle addette all’accompagnamento. Sul concetto di ‘affabilità’ si veda Giovanni Pontano, De sermone, i, 28, ed. a cura di Francesco Tateo in Lorenzo, Poliziano, Sannazaro nonché Poggio e Pontano, introd. e cura di Francesco Tateo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2005, pp. 432-434. 1   « Nos enim qui esse debeat mulier, non quid sit exposuimus », cap. iii. Quod neque scurrilia, neque urbana mulieribus conveniant, c. Gviir. 2   « “Anzi”, – disse il signor Gaspare, –- “e questo e molte altre cose son più al proposito che il formare questa donna di palazzo, atteso che le medesime regole che sono date per il cortigiano servono ancora alla donna. Perché così deve ella aver rispetto ai tempi e luoghi e osservare, per quanto comporta la sua imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto si è ragionato, come il cortegiano” », B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 2.11 [= 3]. 3   A. Nifo, De re aulica, cit., ii, iii, c. Gviv. 4   In più luoghi della sua opera Aristotele sottolinea la naturale inferiorità della donna rispetto all’uomo. Per lui, la donna « è come un maschio menomato » (De gener. anim. ii, 3, 737 a. ) ; è donna « in virtù di una certa mancanza di facoltà […] per la mancata coazione e per la freddezza dell’alimento sanguigno » (De gener. anim. iv, 1, 706 a-b) ; « è più fredda e debole » (De gener. anim., i, 19, 726 b e, ancora, sulla natura fredda 20, 728 a) ; è inferiore all’uomo per natura ed è « comandata » (Pol., i, 2, 1252 a. ; e anche i, 2, 1254 b) ; « è più facile alle lacrime, oltre che più invidiosa, più querula, più propensa ai litigi e alle risse ; […] meno coraggiosa e più disposta alla disperazione e più menzognera » (Hist. anim., ix, 608 b 8). Come i servi, può eccezionalmente, « avere nobiltà di carattere » (Poet. 15, 1454 a.) ; la sua virtù è « differente » da quella dell’uomo e « meno bella » (Ret. i, 9, 1367 ; Pol. i, 1260 a.). Ma la connotazione di genus deterior è legata soprattutto a un passo del De generatione animalium, dove si dice esplicitamente che « le femmine sono per natura più deboli e più fredde e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione » (iv, 6, 775 a). 5   Esso è peraltro palesemente smentito sia dal Nifo nel capitolo II. Refutatio positionis, e nel cap. iii cit., dove l’esempio di Maria di Pozzuoli, giovane guerriera di eccezionale forza e di straordinaria castità, è considerata un monstrum (« Verum ut mostra eveniunt in natura, sic mulieres huiusmodi monstruosae atque admirabiles ultra sexum suum nascuntur, qua et si admiremur, tamen nec amare, nec laudari debemus : nam in mulieribus amantur forma, pudicitia, puritas, cum quibus nec urbanitas, nec scurrilitas salvo pudore stare poterit », cc. Gviir-v : corsivo mio), sia dal Castiglione per bocca del Magnifico quando asserisce che il « conte Ludovico ha esplicato molto minutamente la principale professione del cortigiano e ha voluto che ella sia quella delle armi, parmi ancora conveniente dire, secondo il mio giudizio, quale sia quella della donna di palazzo ; […] dico che a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra ogni altra cosa una certa affabi1ità piacevole … » (B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 2.26-27 [= 4-5]). 6   Sul tema del silenzio e della parola, come categorie opposte, afferenti in modo tutto particolare alla figura della cortigiana, e, in generale, della donna illustre, cfr. Piero Floriani, Il dialogo e la corte nel primo Cinquecento, e Giuseppa Saccaro Battisti, La donna, le donne nel Cortegiano, in La corte e il “Cortegiano”, I. La scena del testo, a  













































































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dal Castiglione è tuttavia solo apparente. Egli tendeva infatti a sviluppare il suo progetto pedagogico basandolo su un ideale modello di donna dotata di ogni virtù, secondo una tipologia in parte evocata anche dal Nifo del De his quae ab optimis principibus agenda sunt, ma da costui decisamente censurata nel De re aulica, opera nella quale altro era il ruolo che si voleva ritagliare per la cortigiana. Alcuni importanti indizi rivelano però quali siano i tratti caratterizzanti che Castiglione attribuiva alla donna di palazzo e permettono in tal modo di misurare lo scarto che separa la sua concezione da quella nifiana. Il ritratto al femminile del cortigiano va infatti man mano acquisendo nel discorso del Magnifico una posizione di sempre maggior rilievo nell’ambito della corte, al punto da sembrar quasi anticipare la successiva teorizzazione del cortigiano filosofo e consigliere del principe consegnata al quarto libro, che ne esalta e ne enfatizza inaspettatamente il protagonismo. Necessaria per fornire al sistema cortigiano l’opportuno equilibrio e completezza, oltre che ornamento, splendore e allegria, come si è detto, la donna di palazzo 1 non è solo l’affabile conversatrice in grado di intrattenere con appropriati atteggiamenti la componente maschile, ella ha anche diretto accesso all’animo della sua Signora, della quale deve « sapersi guadagnare e conservare la grazia ». 2 Appare evidente quindi che proprio quest’ulteriore privilegio, né meramente ornamentale né accessorio all’ambiente di corte, le conferisce dignità e autorevolezza ben maggiori di quanto non siano le prerogative della cortigiana indicate dal Nifo. Di qui scaturisce sia la definizione di un’institutio non dissimile da quella riservata al ceto più elevato, e perciò particolarmente completa e complessa, 3 a tratti paragonabile a quella del cortigiano, sia la sollecita preoccupazione, denunciata insistentemente dal Magnifico, per un comportamento irreprensibile, che non macchi in alcun caso la reputazione della donna di palazzo, la quale rischierebbe altrimenti di trascinare nella sua ignominia anche l’onore della sua Signora. 4 Tale prospettiva di lettura è assolutamente assente nel De re aulica. La cortigiana è qui rappresentata esclusivamente nei suoi rapporti con le figure maschili dell’entourage di corte, le quali fungono addirittura da mediatrici finanche con la restante componente femminile. Isolate nel ventinovesimo capitolo del De his quae ab optimis principibus agenda sunt, le « principes mulieres » non trovano spazio nel De re aulica, dove parrebbero piuttosto le « ingenuae » dignitarie di corte, le nobildonne, a fungere da confidenti e fedeli dame  











cura di Carlo Ossola, Adriano Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 83-96 e 219-249 ; Adriana Chemello, Donna di palazzo, moglie, cortigiana, in *La Corte e il “Cortegiano”, II. Un modello europeo, a cura di Adriano Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 113-132 ; Valeria Finucci, La donna di corte : discorso istituzionale e realtà ne Il libro del cortegiano di B. Castiglione, « Annali d’Italianistica », vii (1989) (pp. 88-103), pp. 95-97 ; Corrado Petrocelli, La stola e il silenzio, Palermo, Sellerio, 1989 ; Giancarlo Biguzzi, Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1 Cor 11,2-16 e 14,33b-36, Bologna, e.d.b., 2001 ; Charles Segal, La voce femminile e le sue contraddizioni : da Omero alla tragedia, « Intersezioni », xiv (Aprile 1994), 1 ; Altrimenti il silenzio. Appunti sulla scena al femminile, a cura di Alessandra Ghiglione e Pier Cesare Rivoltella, Milano, Euresis, 1998, pp. 71-92 ; Roberto Mancini, I guardiani della voce. Lo statuto della parola e del silenzio nell’Occidente medievale e moderno, Roma, Carocci, 2000 ; Linda Bisello, Sotto il “manto” del silenzio. Storia e forme del tacere (sec. xvi-xvii), Firenze, Olschki, 2003. 1   Cfr. su tale aspetto D. Defilippis, Tradizione umanistica …, cit., pp. 137-138. 2   B. Castiglione, Il Cortigiano cit., iii, 2.23 [= 5]. 3   Cfr. a riguardo quanto, all’incirca negli stessi anni, raccomandava Galateo nell’epistola a Bona Sforza, per il cui esame si rinvia a I. Nuovo, Dal fuso al libro …, cit., e il cui testo è criticamente edito da Francesco Tateo in Antonio De Ferrariis Galateo, Epistolae, in La prosa dell’Umanesimo, a cura e con introd. di Francesco Tateo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 366-368, cui si rinvia anche per la nota introduttiva, ivi, pp. 347-349. 4   La questione è affrontata, ad esempio, nella Paraphrasis in Oeconomica Aristotelis di Belisario Acquaviva a proposito dei servi (cfr. D. Defilippis, Tradizione umanistica …, cit., p. 142 sgg.), Castiglione invece vi accenna in forma indiretta, soprattutto quando stigmatizza l’irrefrenabile propensione femminile al pettegolezzo (cfr. B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 2.32 sgg. [= 5]).  



























agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 337 di compagnia delle regnanti. Ma neppure di loro il Sessano si occupa. La presenza delle cortigiane a corte, non diversamente dai loro corrispettivi maschili, 1 è quindi strettamente correlata alla conversazione piacevole e rilassante, e a null’altro. Ma per conseguire tal fine è loro impedito l’uso della facezia e dei motti arguti, inadatti ad una donna che, intellettualmente inferiore all’uomo, sarebbe incapace di gestire, senza scadere nella volgarità, il motteggiare, oppure di cogliere o convenientemente porgere la sottile ironia di un doppio senso. 2 Abituata alla pudicizia, 3 che è posta a fondamento delle virtù della temperanza, della moderazione, dell’astinenza e della sobrietà, e alla simplicitas, da cui derivano discrezione, purezza e schiettezza, la cortigiana deve evitare ogni tipo di colloquio che possa attentare alle sue virtù donnesche venendo coinvolta in un parlar faceto, allusivo di atteggiamenti pericolosamente lussuriosi e menzogneri, tipici del racconto di beffa, che indurrebbero a comportamenti disonesti. Immerso in un diverso ambiente cortigiano, il Castiglione si era mostrato meno severo a riguardo, limitandosi a raccomandare che « motteggiando, scherzando » 4 si temperassero i toni e si evitasse di mescolare « nei ragionamenti piacevoli e da ridere cose di gravità, né meno nei gravi facezie e burle ». 5 Una preoccupazione tutta retorica, quindi, piuttosto che etica, che si traduceva nella richiesta di quel necessario bon ton che nella donna di palazzo salvaguardasse la riverenza che ella ispira in chi la guardi e non ne compromettesse la ricercata misura che conduce alla grazia. Esclusa pertanto dalla partecipazione attiva allo scherzoso conversare, palesemente inadatto ad una cortigiana, qual tipo di ragionamento è quindi concesso alla cortigiana nel De re aulica ? « Sapete esser consuetudine che generalmente in tutte le corte i cortegiani fanno amore e s’intertengono con le donne che ci sono », dichiarava senza fingimenti Bandello nella novella quarantaquattresima echeggiando Castiglione. E difatti a partire da cinquantaduesimo capitolo 6 sono quei ragionamenti a monopolizzare l’interesse del Magnifico, il quale dopo l’illustrazione delle virtù della donna di palazzo, che costituisce la parte introduttiva e direi più teorica e meno innovativa dell’intera trattazione, passava ad indagare la vita di corte nella sua quotidianità e a fornire una ben strutturata serie di norme che dovrebbero regolare l’impegno preminente, anche se non esclusivo, come si è detto, della gentildonna. L’institutio, che da qui si avvia, si dipana in consigli adatti per le più disparate occasioni che possono nascere, tra galanterie e corteggiamenti, dall’incessante gioco d’amore praticato a corte. L’andamento diegetico del discorso, sostenuto da frequenti pause aneddotiche, tocca i temi più scottanti di una consuetudine cortigiana, che, se non opportunamente regolamentata, rischiava di superare quell’equilibrio che le conferisce grazia e rispettabilità. La seconda sezione del secondo libro del De re aulica è invece inaspettatamente elaborata sul filo di un itinerario di tipo mimetico nel quale i due protagonisti, maschile e femminile – quasi sempre lo stesso autore e la dedicataria dell’opera, la cortigiana Fausina –, danno vita a una gustosa serie di brevi scene di corteggiamento che efficacemente garantiscono col ricorso agli exempla la corretta institutio della cortigiana. Al di là del diverso  













1   Cfr. per tale funzione preminente del cortigiano, sostenuta nel primo libro del De re aulica, D. Defilippis, Tematiche cortigiane …, cit. 2   Cfr. A. Nifo, De re aulica, cit., ii, iii. Si veda, per tali aspetti, l’opinione espressa dal Pontano nel terzo libro del De sermone (cit., pp. 461-462 ; 465) e in particolare nei capp. 6, 7, 12. 3 4   Cfr. B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 5.20 sgg. [= 40-47].   Ivi, iii, 6.42 [= 59]. 5   Ivi, iii, 2.39 [= 6]. Per tale raccomandazione si veda quanto aveva scritto Pontano nel De sermone, i, 5 (cit., p. 408). 6   B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 5.124 sgg. [= 52].  

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schema retorico adottato nella trattazione dei ragionamenti d’amore, che nel Cortegiano non può ovviamente destabilizzare l’impianto dialogico dell’opera, mentre nel De re aulica è svincolato da ogni obbligo per il carattere rigidamente argomentativo e dialettico della parte introduttiva, non mancano evidenti differenze di atteggiamento tra i due autori in relazione a modi di agire non ugualmente accolti e approvati nelle due corti che fungono da scena alle due opere, quella urbinate e quella salernitana. Pur concordando infatti su alcune questioni di fondo, come la legittimità di un corteggiamento più serrato da parte dell’uomo e di un contegno più accondiscendente da parte della donna solo in vista del matrimonio, 1 Nifo disapprova senza esitazioni la consuetudine del bacio tra cortigiani, che invece Castiglione nel quarto libro registra come prassi abituale e non scandalosa. La moda dello scambio del bacio alla francese, diffusa negli ambienti cortesi provenzali fin dall’età medievale, non mancò d’affermarsi anche nelle corti settentrionali italiane, sebbene se ne facesse uso piuttosto all’interno del palazzo che in pubblico, all’esterno. Pietro Bembo, rendendosi interprete di un’opinione ricorrente, come dimostra il Pontano nella Lepidina, 2 giustifica quel gesto, che non avrebbe nulla di sensuale e quindi di peccaminoso, perché esso suggellerebbe, secondo la dottrina platonica, l’unione tra le parti spirituali dei cortigiani impegnati nel gioco d’amore : « onde il bascio si po più presto dir congiungimento d’anima che di corpo, perché in quella ha tanta forza che la tira a sé e quasi la separa dal corpo ». 3 L’affermazione è tuttavia inserita, in forma di abile escamotage, in un contesto in cui Bembo aveva preventivamente operato una puntuale distinzione tra amore sensuale e amore razionale, propendendo ovviamente per la superiorità di quest’ultimo e riferendo la nota sul bacio a questa seconda tipologia. Il capitolo sessantaquattresimo, che la contiene, è frutto a sua volta dell’ultima revisione del Cortegiano 4 e racchiude parte della risposta data dal Bembo alla domanda sulla liceità dell’amore senile. Siamo quindi in tutt’altra zona rispetto a quella riservata alla donna di palazzo, ma la qualità della materia trattata consentiva al Castiglione di tornare su una questione non approfondita nel terzo libro, dov’era privilegiato il rapporto amoroso tra giovani cortigiani. È invece proprio la chiave di lettura proposta dal Bembo che Nifo assume a fondamento della sua institutio, nella quale scarso spazio è concesso ai giovani amanti, i quali per la loro giovane età sono incapaci di raffrenare la passione e quindi di poter gustare le gioie di quel grado più elevato di amore. Bembo in realtà aveva dapprima suggerito all’anziano cortigiano di contenere e di cercar di reprimere il sentimento amoroso quand’esso fosse rivolto verso una giovane cortigiana e solo se si fosse rivelato indomabile aveva consigliato di orientare diversamente quell’affetto sensuale sublimandolo. 5 Nifo non tien conto della prima raccomandazione e infatti non ne fa parola, e invaghitosi in età ormai molto avanzata della sedicenne Fausina, proiezione ideale dell’immagine della perfetta cortigiana, innalza il senso e il significato di quel rapporto – reale o immaginario che sia – rilanciandolo nella sfera dell’amore razionale appunto e giudicandolo non solo lecito, ma finanche necessario alla stesso ambiente di corte. Nifo condannava però le pericolose abitudini importate d’oltralpe, che autorizzavano  





1   Cfr. B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iii, 6.14-27 [= 55-56] ; A. Nifo, De re aulica, cit., ii, vii. De amatoriis colloquiis in aulicis muliebris, cc. Hir-iir. 2   Giovanni Gioviano Pontano, Lepidina, vv. 18-20, in Id., Poesie latine, a cura di Liliana Monti Sabia, introd. di Francesco Arnaldi, i, Torino, Einaudi, 1977, p. 2. 3   B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iv, 6.91-98 [= 64]. 4   Cfr. Amedeo Quondam, « Questo povero cortegiano ». Castiglione, il libro, la storia, Roma, Bulzoni, 2000, p. 224 e 5   Cfr. B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iv, 6.75-86 [= 61-62]. sgg. ; 232.  







agostino nifo: l ’ institutio della donna nell ’ ambiente di corte 339 le donne a intervenire in conversazioni licenziose e a scambiarsi « anche i baci sia con gli anziani che con i giovani », ma attribuiva all’educazione loro impartita fin dalla nascita la diffusione di quei deprecabili costumi e finiva poi per depotenziarne la carica negativa affermando che « come per noi è lecito guardare e alle donne essere guardate, così per loro (scil. per le francesi) parlare e guardare e baciare ». 1 Lo sguardo quindi al centro del rapporto amoroso, secondo l’antica tradizione cortese e stilnovistica, ma anche il leggero contatto fisico della mano, il « toccare la mano » del Bembo, 2 è accordato dal Nifo. 3 Ma drastico è il giudizio del Sessano sul dialogo d’amore, che poi costituisce, come s’è detto, l’impegno primario della cortigiana. Esso non è praticabile al di fuori dell’amore razionale, ed è perciò precluso ad una giovane coppia di amanti che non finalizzi quelle « affabilità » al matrimonio. 4 I ragionamenti d’amore possono pertanto aver luogo solo tra un anziano cortigiano e una giovanissima cortigiana, poiché in tal caso la differenza d’età frena la istintuale sensualità dell’uomo e inibisce quella della giovane, 5 favorendo l’instaurarsi di un rapporto intellettuale che pur si nutre di tutti quegli elementi quali la gelosia, la sofferenza per la lontananza di uno dei due amanti, il desiderio, il timore dell’abbandono, che alimentano la topica casistica delle pene d’amore, secondo una lucida esemplificazione condotta dal Nifo nei capitoli x e xi. Nella rappresentazione scenica degli incontri tra l’autore e Fausina, che si traduce in una pragmatica e paradigmatica precettistica ad uso della cortigiana, emerge tuttavia con ancor maggior vigore l’evidente proposito del Nifo di demandare, così come già il Castiglione, alla figura maschile del cortigiano, e solo a lui, la funzione di formare la sua omologa. Nell’insistenza con cui nel dialogo amoroso Nifo esalta le doti di onestà, pudici 















1   « Sed quoniam amatoria colloquia sunt, in quibus tum affabiles atque placidae possunt esse mulieres, tum etiam pervicaces atque difficiles, dubitatio est utrum mulieribus aulicis conueniant. Res haec satis disputata est priore libro, tamen bis dictum, si bene dicatur (ut Plato inquit) non displicebit. Apud Gallos non modo permittuntur, sed usui atque ambitioni existunt ne colloquia modo, sed etiam oscula, tam cum senibus, quam cum iuuenibus. Causa autem quoniam cum puellae mulieresque ipsae et viri apud eos a cunabulis talibus colloquiis assueverint, non magis huiusmodi colloquia apud eam gentem va1ent, quam apud nos aspectus. Quare sicuti nobis permissum est inspicere, mulieribus autem inspici, sic eis colloqui ac inspicere et osculari », A. Nifo, De re 2   B. Castiglione, Il Cortigiano, cit., iv, 6.93-98 [= 64]. aulica, cit., ii, vii, cc.Hir-v. 3   « […] quaestio amatoria occurrit, quae nam maior voluptas sit earum, quas capere soleo ex conuersatione cum Phausina. Una earum dicebat eam esse, quae ex iocundissimo ipsius aspectu oritur ; alia ex a1terno internoque sermone dolcissimo ; alia, quae verius se dicere asserebat, eam, quae ex manuum mutua lenissima contrectatione. Phausina vero ipsa subridens : ‘Neminem 1atet’ – inquit – ‘mi Niphae, tibi omnia haec esse iocunda, sed omnium horum iocundissimum esse rbitror quod his omnibus et aliis ad huc p1urimis mecum crebro ac sine ulla cupidinei amoris nota tuam ob aetatem libere frui possis’. […] Nuper inter colloquendum cum Phausina, id ab ea sollicite quaesiui : ‘Quodammodo fieri potest, Phausina, ut in tuo conspectu stigiis flammis deurar simulatque perpetua beatitudine adeo frui videar, ut pariter tartareos in me ignes sentiam ac dulcissimam coelicolarum foelicitatem experiar ?’ At illa his verbis ancipitem mentem solvit : ‘Causa tantae contrarietatis (ut opinior) haec est : bearis enim manibus, oculis atque auribus, quae amatoriae fruitionis sunt conceptacula, corde vero ac spiritu, quae sunt amoris sedes, in extinguibili cruciaris incendio. At ego, quae in te nulla re alia quam tui animi vivaci splendore pulchritudineque aeterna afficior, oculis et auribus et manibus et corde caeterisque omnibus corporis partibus incredibili felicitate, tum potita sum semper ac potiar donec vixero », A. Nifo, De re aulica, cit., ii, x. Affabilitates Phausinae, cc. Hiiiiv-vr. 4   « [...] unde nunc Phausinae incredibilis me tenet amor, cuius puritas ac pudicitia tanta est, ut non modo amem colamque, sed veluti novum numen uenerer. Quare cum senibus huiusce naturae et colloqui et tuto versari possunt aulicae puellae ; sed utrum eodem modo cum iuvenibus, hoc delucidum est priore libro : nam si colloquia ab eo amore pendeant, quo puella aulicum adamet ut illi nubat, modo talia nec metam verecundiae excesserint neque fuerint praeter pudoris leges neque praeter circunstantiarum obseruantiam colloquia huiusmodi non improbo », A. Nifo, De re aulica, cit., ii, vii, c. Hiir. 5   « Sed quis speraverit tam circumspectam observantia in illo sexu ? At si amore cupidineo secus se habente aulicae puellae urantur, nec laudo colloquia, neque conversationes probo, quin immo a principum aulis haec omnia removenda arbitror, tamquam lenonica atque meretricia commercia », ibidem.  



































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zia, affabilità, semplicità, moderazione della sua Fausina traspare prepotentemente invece l’intento autocelebrativo delle singolari doti pedagogiche dell’autore, vecchio cortigiano, sicché Fausina all’ambigua e provocante battuta del suo precettore-amante « O Fausina, dopo che ho cominciato ad innamorami di te, sei diventata un’aurora bellissima e splendente, e io ne gioisco », non può che argutamente rispondere « Non potevo non divenire un’aurora bellissima dal momento che tu sei il mio sole ». 1  







Università degli Studi di Foggia Il secondo libro del De re aulica del filosofo sessano Agostino Nifo è interamente indirizzato alla donna di corte. Muovendo dall’esame della dedica dell’opera alla cortigiana Fausina, l’intervento intende mettere a fuoco i rapporti intercorrenti tra il testo nifiano e l’archetipico modello del Cortegiano del Castiglione, al fine di determinare momenti di contiguità, ma soprattutto di differenza tra le forme di institutio proposte per la corte urbinate e per quella meridionale dei principi di Salerno. L’analisi testuale consente inoltre di definire il senso di un’operazione letteraria che si colloca all’interno di una ben nota trattatistica de principe e cortigiana d’area meridionale, di cui si tenta di aggiornare i programmi operativi alla luce dei significativi mutamenti che l’avvento dell’età degli assolutismi e la trasformazione del regno aragonese in viceregno spagnolo recano nel complesso e variegato sistema delle corti meridionali. Il trattato di Agostino Nifo offre pertanto uno spaccato assai efficace della vita di corte nel Mezzogiorno, indagata nella sua quotidianità, in un momento di profonde trasformazioni e di rivolgimenti, che fa del De re aulica una scrittura di confine tra la precedente precettistica umanistica e la nascente regolamentazione rinascimentale e controriformistica del vivere nobiliare. The second book of De re aulica by the Sessa Aurunca-born philosopher Agostino Nifo is entirely targeted to female courtiers. Taking its cue from a review of the dedication of the work to Fausina, a courtier, this essay aims at shedding light on the relations between Nifo’s text and the archetypal model of Castiglione’s Cortegiano in the attempt to find bonds but above all differences between the forms of institutio proposed for the court of Urbino and the southern one of the Princes of Salerno. In addition, the textual analysis tries to find the meaning of a literary operation that fits in with a well-known production of treatises de principe and courtiers of the southern regions, of which it tries to update the operating plans in the light of the major changes that the coming of the age of absolutisms and the conversion of the Aragonese reign into a Spanish vice-reign caused in the complex and varied system of the southern courts. Therefore, Agostino Nifo’s treatise offers a very effective glimpse into court life in the south of Italy, which is explored in its day-to-day life, at a time of deep changes and revolutions, that places the De re aulica at the border between the earlier humanistic dogmatic teachings and the emerging Renaissance and counter-reformist precepts for noble life. Le second livre du De re aulica du philosophe de Sessa Aurunca Augustinus Niphus est entièrement dédié à la femme de cour. En partant de l’étude de la dédicace de l’œuvre à la courtisane Fausina, ce texte entend mettre l’objectif sur les rapports entre le texte de Niphus et le modèle archétypique du Cortegiano de Castiglione, afin de déterminer les moments de contiguïté, mais surtout de différence entre les formes d’institutio proposées pour la cour d’Urbino et pour la cour méridionale des princes de Salerne. L’analyse textuelle permet également de définir le sens d’une opération littéraire qui se situe à l’intérieur d’un ensemble bien connu de traités de principe et courtisan de la zone méridionale, dont on essaie de mettre à jour les programmes opérationnels sur la base 1   « Et illa Phausinae salem sapit, cum enim dixissem : ‘Postquam Phausina te deperire coepi, pulcherrima ac lucidissima aurora facta es et laetor profecto’. ‘Non poteram’ - inquit – ‘te existente sole, aurora non euadere ac pulcherrima’. Iocunda profecto affabilitas et arguta et utraque harum aulicis mulieribus decentissima videtur : nam amplificant tum pudicitiam, tum puritatem », A. Nifo, De re aulica, cit., ii, v. Quod affabilitas conveniat mulieribus et quotuplex sit affabilitas, c. Giiiv.  







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des changements significatifs que l’avènement de l’âge des absolutismes et la transformation du règne aragonais en vice-règne d’Espagne apportent dans le complexe et éclectique système des cours méridionales. Le traité d’ Augustinus Niphus offre donc un tableau assez efficace de la vie de cour du sud, étudiée dans sa quotidienneté, dans un moment de profondes transformations et de bouleversements, qui fait du De re aulica une écriture de frontière entre le précédent ensemble des préceptes humanistiques et la naissante réglementation de la Renaissance et contre-réformiste du vivre nobiliaire. El segundo libro del De re aulica del filósofo Agostino Nifo, de Sessa Aurunca, está completamente dedicado a la figura de la dama de corte. A partir del examen de la dedicatoria a la cortesana Fausina, el estudio tiene como objeto el estudio de las relaciones que existen entre el texto de Nifo y el arquetípico modelo de el Cortigiano de Castiglione, con el objetivo de establecer los puntos comunes entre ambos, pero sobre todo las diferencias entre las formas de institutio propuestas para la corte de Urbino y para la meridional de los príncipes de Salerno. El análisis del texto permite además dar significado a una operación literaria que se posiciona en el contexto de un conocido conjunto de tratados de principe y cortesana del área meridional, cuyos programas operativos se intentan poner al día a la luz de los cambios significativos que la llegada del absolutismo y la transformación del reino de Aragón en virreinato español introdujeron en el complejo y variado sistema de las cortes meridionales. El tratado de Agostino Nifo ofrece por lo tanto un ejemplo muy eficaz de la vida de la corte en la parte meridional de Italia, analizada en su cotidianidad, en un momento de profundas transformaciones y trastornos, que hacen del De re aulica una obra de frontera entre la precedente preceptística humanística y la naciente reglamentación renacentista y contrareformista de la vida de la nobleza. Das zweite Buch des De re aulica des Philosophen Agostino Nifo aus Sessa Aurunca richtet sich vollständig an die Hofdame. Ausgehend von der Untersuchung der Widmung des Werkes an die Hofdame Fausina, konzentriert sich dieser Beitrag auf die Verhältnisse, die zwischen dem Text von Nifo und dem archetypischen Modell des Cortegiano von Castiglione bestehen, um Momente der Nähe, aber besonders die Unterschiede zwischen den Formen des institutio festzustellen, das für den Hof in Urbino und in Süditalien für den Hof der Prinzen von Salerno vorgeschlagen wurde. Die Textanalyse ermöglicht außerdem den Sinn einer literarischen Aktion zu definieren, die sich in einer gut bekannten Abhandlung de principe und Hofdame aus dem südlichen Raum einordnet, und mit der versucht wird, die operativen Programme anhand bedeutender Veränderungen zu aktualisieren, die der Beginn des Zeitalters des Absolutismus und die Umwandlung des Königsreichs von Aragon in spanisches Vizekönigreich in dem komplexen und vielgestaltigen System der Höfe Süditaliens verursachte. Die Abhandlung von Agostino Nifo bietet daher einen sehr effizienten Querschnitt des Hoflebens in Süditalien, das in einem Moment tiefer Umwandlungen und Umstürze in seiner Alltäglichkeit untersucht wird, und damit aus dem De re aulica eine Urkunde des Übergangs zwischen der vorherigen humanistischen Vorschriftenreihe und dem entstehenden Regelsystem der Renaissance und der Gegenreformation des Adelslebens macht.

MADONNE, ANCELLE, POPOLANE DEL RINASCIMENTO MERIDIONALE IN VESTE GIURIDICA 1 Aurelio Cernigliaro 1.

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he la donna sia scarsamente presente nell’orizzonte degli storici del diritto, fatta eccezione per l’evo antico ovvero per l’ineludibile presenza nel quadro dei rapporti patrimoniali tra coniugi, è un eufemismo. Se, poi, ci si riferisce al Rinascimento ed a quello meridionale in particolare il silenzio è assordante. Questa situazione di fatto m’induce ad essere particolarmente grato all’amico Marco Santoro per aver pensato d’inserire questo tassello quasi “anomalo” per non dire “stonato” in un concerto di voci sulla storia di genere che, da qualche decennio, pur privilegiando specifici settori tematici, si viene sviluppando anche con riferimento al contesto meridionale della Penisola. Senza voler neppur porsi il quesito di più vasta portata circa la configurabilità stessa di un Rinascimento al femminile, per lo storico del diritto si presenta indubbiamente come vera e propria scriminante previa d’approccio all’oggetto d’osservazione l’opzione tra una chiave idealistico-letteraria di matrice crociana che intendesse tuttora mettere al vaglio la ‘donna del Rinascimento meridionale’ con l’evidente difficoltà di collocarsi, nel quadro del perdurante sistema di ius commune, sul piano di un terreno ben più lato per non dire ‘estraneo’ alla realtà meridionale, e una chiave tutta ‘realistica’ intesa a considerare le donne così come contemplate ed attive sub specie iuris durante la stagione – il ‘Rinascimento meridionale’ – assunta a mero parametro di periodizzazione, quant’è a dire la ‘donna nel Rinascimento meridionale’. A ben vedere, è proprio sotto il profilo giuridico a me più consono che la gratitudine per Marco Santoro risulta accresciuta dall’invito a riflettere di “rinascimento” ove Francesco Calasso ebbe a svolgere il Suo alto insegnamento protrattosi nell’essenza, pur con le naturali varianti proprie delle singole personalità scientifiche, nei Suoi autorevoli allievi. Come si rammenterà, infatti, lo storico leccese, nella lucida trasposizione del pensiero idealistico crociano sul piano giuridico, ebbe ad asserire negli anni ’50 che, rapportata alla straordinaria esperienza del “rinascimento giuridico medievale”, l’età moderna, ossia l’età che per la sua prima fase almeno assumiamo come “rinascimento” tout court, sarebbe stata connotata da « ruminazioni ingloriose ». Superando, perché estranee al tema qui proposto, le implicazioni rilevantissime della cennata lettura calassiana negli studi giuridici, anche in riferimento al contesto meridionale, fu proprio un allievo, parimenti pugliese e docente a Roma, a manifestare, com’è noto, un nuovo interesse, pur con ‘metodo calassiano’, per l’Umanesimo meridionale. È, non di meno, a rilevare che la figura femminile sul versante giuridico non trovava ancora una polarizzazione significativa , essendo i pur importanti studi di Manlio Bellomo sviluppati tutti a livello della pura scientia iuris.  



1   Il contemperamento fra l’esigenza di argomentare adeguatamente la lettura storico-giuridica dell’autore e l’istanza, non di minor momento, di favorire la leggibilità dell’assunto ha suggerito di proporre a stampa in questa silloge la relazione così come tenuta al Convegno del novembre 2009. Una redazione più ampia, relativa anche al segmento di storia giuridica non sviluppato in quella sede e con il pur necessario supporto dell’annotazione, figurerà nella rivista «Rinascimento meridionale» diretta dallo stesso Marco Santoro.

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Un impulso decisivo, invero, sarebbe stato offerto nuovamente da un pugliese, Francesco Paolo de Stefano, carissimo collega degli anni giovanili, che per il territorio di Puglia avrebbe concentrato la sua attenzione su un tema classico, quale appunto quello degli assegni dotali, mettendo, tuttavia, in campo un approccio decisamente innovativo. Nato negli Archivi, il de Stefano procedeva ad una esplorazione a tappeto della ricca documentazione notarile di costituzioni dotali rilevando la sopravvivenza nella terra di Puglia appunto di diverse consuetudini derivanti dalla tradizione longobarda, romana o normanno-sveva in grado di definire una vera e propria “geografia umana”. Purtroppo, però, allievo ‘per li rami’ della scuola calassiana, il de Stefano, legato ancora ad una lettura giuridica formale, non coglieva nella stessa documentazione quegli elementi tra le riga in grado di recar luce sulla figura femminile. Il ricorso ad una fonte come quella archivistica notarile infrangeva, non di meno, la regola “aurea” per lo storico del diritto di volgersi sempre alla fonte autorevole della “dottrina”, dava adito, anzi, ad un nuovo approccio dello storico del diritto alle molteplici fonti c o m p r e n d e n d o l e senza stabilire tra le stesse una pregiudizievole gerarchia, riconoscendo anzi peculiare importanza al documento e a quella decisionistica, espressione tipicissima della cultura giuridica – cosiddetta ‘pratica’ – meridionale della prima età moderna. In tal senso, chi parla, non senza qualche resistenza all’ascolto, da anni si è orientato, ponendo al vaglio critico anche per la prima età moderna del Mezzogiorno l’esperienza giuridica nella sua effettiva concretezza per quel che offre e non per quanto vorremmo che offrisse : un punto significativo d’approdo è costituito dall’edizione di un significativo complesso di annotazioni manoscritte, evocato da Ennio Cortese, ma nell’originale rimasto oscuro persino alla sua straordinaria acribia. Si tratta del Commento alla Consuetudines neapolitanae redatto intorno al 1545 dal più illustre avvocato meridionale dell’epoca, Giovan Angelo Pisanelli. Chi abbia avuto appena appena un contatto con le Consuetudines, notoriamente redatte in età angioina, ma soggette ad un processo di stratificazione interpretativa sino al ‘600, comprenderà subito il rilievo che assume la voce di un avvocato, letterato, accademico in rapporto al tema qui preso ad oggetto del Convegno. Ed è proprio entro questa prospettiva che, sin dal titoletto di questa relazione, si è inteso segnalare la personale percezione storico-giuridica innanzi alla problematica di genere riferita al Rinascimento meridionale. Or non v’è dubbio che la società del tempo fosse anche marcatamente stratificata con riguardo al peculiare status muliebre, mentre inconfutabilmente non certo omogenee erano, né potevano esserlo, le manifestazioni di quella varietà sul versante giuridico : in una realtà ancora fortemente connotata dalla praeminentia della sanior pars le posizioni, ed in primo luogo quelle non eminenti secondo i perduranti canoni tardo medievali, erano e dovevano restare fisse, entro e fra gli status. Gli schemi, non investiti per l’intanto dall’ondata travolgente dell’incombente giusnaturalismo, ancora non si palesavano significativamente permeati né permeabili da un ribaltamento pur tuttavia in atto, che avrebbe trovato, al volgere del secolo, espressione altissima e sintesi singolare ne El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra. E tuttavia, quegli schemi nella lettura storica non sono né possono essere in tutto sovrapposti – per vero, in sé non sono sovrapponibili – alla realtà, che risulta quanto mai articolata e complessa : da un lato status mulierum entro il fisso mosaico medievale, dall’altro ‘donne’ nel mosso affresco rinascimentale. Accanto alle “madonne” espressione tipica di un modello aristocratico, vecchio e nuovo, solo in parte coincidente con la sagoma di stampo feudale, si affollano nuovi profili – a Dulcinea e Micomicona del ‘folle cavalier errante’ si affiancano Lucinda, Dorotea, Zoraide –, nuove figure del ‘ceto civile’, che, come nella letteratura e straordinariamente nella pittura, aspirano ad avere  





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uno spazio proprio anche sul piano giuridico. Ora non v’è dubbio che alcuni passaggi costituiscano nel contesto esaminato momenti privilegiati per vagliare i mutamenti che attengono lo stato della donna in una società a sua volta in movimento : il matrimonio, nella duplice fisionomia istituzionale e rituale, conserva sotto questo profilo una centralità unica per la valenza che assume nel riconoscimento comunitario, ma anche altri spazi non meno significativi si schiudono all’analisi storica e si pensi ai nuovi tratti della disponibilità testamentaria della donna od anche a funzioni “gestionali” – talora poste in essere anche per mera supplenza – che, pur senza inopportune anticipazioni di tempi, segnalano che si è innanzi ad un capitolo affatto nuovo della dimensione femminile. Intanto, però, è dato riscontrare un’ulteriore, e vastissima presenza femminile : donne che Capaccio, nella ben nota tripartizione sociale del popolo partenopeo, avrebbe collocato tra la “feccia della Repubblica” e che, non di meno, nell’orizzonte giuridico occupano una peculiare posizione ed assumono un peso specifico per l’interesse stesso che suscitano nel giurista del primo Cinquecento, od almeno fino al Concilio tridentino. A ben vedere, in tutte ed in ognuna delle figure femminili delineate entro lo schema delle gerarchie sociali è dato riscontrare un elemento assolutamente nuovo rispetto al passato che cade ora all’attenzione del giurista in segno di palese frattura : finemente è stato indicato nella importante relazione su La descriptio puellae nella tradizione e in Sannazzaro dalla Collega Maria de las Nieves Muñiz Muñiz come “l’ingresso della natura della donna”. Per il più avveduto giurista dell’epoca sensibile al mutamento la natura vien sempre più connotandosi sotto il profilo volontaristico, come cifra dell’individuo in sé, e la donna, anch’essa titolare ‘per natura’ di volontà, in questa nuova veste vien presa in considerazione. Lo straordinario ‘spazio’ dato dai giuristi alle varie e complesse problematiche connesse al ‘meretricio’, emancipato in questa fase da implicazioni teologiche e moralistiche, inteso piuttosto a trovare una disciplina congrua per un fenomeno di vastissima portata sociale – bisognerebbe, in effetti, per ‘comprenderla’, sempre aver riguardo alla realtà ‘come scorre’ sotto gli occhi del giurista – si inserisce a buon titolo come un nuovo capitolo del “libro della natura” e il diritto in questa fase si palesa più “umano” nel contemplare le problematiche di chi, non essendo dotata, non poteva stipular convenzioni matrimoniali né farsi monaca, eppur era ugualmente portatrice di volontà. Ne era, in qualche misura, testimonianza indiretta la stessa aspettativa o chance di ‘riscatto’ di cui ha parlato in questa sede Adriana Valerio. Un giudizio aderente alla donna ‘nel’ Rinascimento meridionale, pur entro l’orizzonte del diritto, di mia specifica competenza, non può non tener conto di questa complessità nel suo insieme, per evitare di assegnare al diritto una funzione che non è sua, ovvero di identificare il diritto con la mera voce alla ribalta. E tuttavia, pur nell’esigenza della linea di sintesi indicata e che si è voluta segnalare nel titolo della relazione, per por mano ad una prima specifica fase analitica, in questa circostanza l’esposizione sarà concentrata a quel segmento della dimensione femminile utile ad un ‘colloquio’ con le voci degli altri saperi qui presenti, fortemente sollecitati ad una prospettiva ben colta dall’immagine proposta nella locandina del Convegno.  





2. Da Saragozza, il 16 gennaio 1534, Carlo V spedì alla marchesa di Pescara un privilegio di concessione relativo a beni e redditi in feudo e in burgensatico, tra i quali valore cospicuo avevano le terre di Rocca d’Evandro e di Camino. L’investitura di Vittoria Colonna, redatta con clausola di sostituzione fidecommissaria in favore di Alfonso d’Avalos de Aquino, principe di Monte Ercole e marchese del Vasto, già in sé presenta alcuni elementi di rilievo affatto particolare che meritano un’attenzione maggiore di quanto sia stata loro sin qui

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riservata. Si tratta, a ben vedere, di un aspetto tuttora non adeguatamente focalizzato nella lettura di una figura di assoluto rilievo come Vittoria Colonna. In particolare, se si accoglie – come a me sembra doversi fare – la prospettiva della Marchesa come « coscienza critica della cultura » coeva, diviene ineludibile affrontare anche il nodo del rapporto, e quindi dell’interazione, fra un quadro sociale fortemente legato alla dimensione giuridico-istituzionale, che ebbe una delle sue più significative espressioni nella ‘politica di svolta’ condotta da Pompeo, cugino della Nostra, e chi in quel contesto, con ironia o forse con una sottile vena rivendicativa, sino a tutti gli anni trenta volle firmare le sue lettere solo con il titolo feudale di ‘Marchesa di Pescara’. In questa prospettiva ci appare opportuno, pur brevemente, sviluppare qualche considerazione preliminare utile a cogliere appieno la valenza dell’investitura in oggetto e cosa essa abbia effettivamente significato per la ‘madonna’ di casa Colonna. Ed appare quanto mai confacente mettere in luce entro il telaio del diritto feudale napoletano del Cinquecento ciò che è stato definito lo « statuto della donna ». In limine, giova forse rammentare appena – senza, si auspica, eccessivo aggravio per chi già sa – che nel Regnum ancora a tutto il secolo xvi permaneva una stratificazione normativa, quant’è a dire la compresenza di regole che, pur fra loro contrastanti essendo connesse ad ordinamenti molto vari, erano tuttavia vigenti, sicché la poziorità fra loro era determinata dalla mera consuetudine applicativa. Se, quindi, può e deve cogliersi una linea di sviluppo giuridico d’insieme in coerenza all’articolarsi complessivo e progressivo della società meridionale, la cosiddetta via napoletana alla modernità, perdurano, come è appunto dato riscontrare nel privilegio d’investitura di Vittoria Colonna, non pochi principi giuridici anche molto risalenti. Nel tentativo di sfuggire all’incombente accusa di dommatismo, mi limiterò a pochi cenni essenziali. Dal concetto preminente, almeno in origine, che la donna fosse incapace a rendere il servizio d’armi connesso al feudo scaturì, com’è noto, la conseguenza della sua esclusione sia dall’investitura che dalla successione feudale. Reciso era stato in merito il criterio assunto dal mos Francorum, collocandone la genesi nella Lex Salica, che, per vero, aveva inteso escludere le donne solo dalla successione nelle terre saliche, mentre negli allodi, com’è dato riscontrare in una bellissima formula marculfina, aveva fissato solo la ‘prerogativa del sesso’. Il diritto longobardo, invece, se in assenza di figli maschi aveva in generale ammesso le figlie alla successione ereditaria « tamquam filii legitimi », per quanto riguardava la successione feudale aveva indotto ex consuetudine una presunzione negativa : « Filia vero non succedit in feudo, nisi investitura fuerit facta in patre ut filii et filiae succedant in feudum ». Questo principio fu ribadito nelle Consuetudines Feudorum, s’impose, pertanto, come norma di ius commune, formalmente valida, ed è superfluo forse insistervi, anche nel meridione del xvi secolo, tuttavia senza scalzare la diversa consuetudine nei feudi viventi more Francorum. Nel Regnum Siciliae, intanto, due costituzioni fridericiane – la In aliquibus e la Ut de successionibus – consentirono alla discendenza femminile di accedere al feudo, « cuiuscumque conditionis pater fuerit, Francus videlicet, aut etiam longobardus, Miles vel Burgensis ». In sostanza, Federico volendo rimuovere una « consuetudinem pravam » aveva disposto che nella successione feudale i discendenti maschi fossero preferiti alle sorelle, che queste assieme alle sorelle del genitore dovessero essere maritate secundum paragium, che, però, in difetto di discendenti maschi, la discendenza femminile doveva succedere « exclusis aliis consanguineis ». La prerogativa del sesso e dell’età, ossia della primogenitura, risultava, così, non superata, ma ristretta « inter eos qui vivunt in Regno s p e c  































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i a l i t e r jure Francorum ». Non di meno, se è pur vero che il jus Langobardorum aveva formalmente costante vigore per i feudatari viventi secondo quella legge, com’è dato rilevare in sede di lunghe e tormentate vicende giudiziarie in tema di successione, il mos Francorum era riuscito a prevalere nel tempo. Tanto che a quel modello si conformarono tra le Consuetudines Neapolitanae la Si moriatur, la disciplina contemplata dai Capitoli di papa Onorio nel 1285, il Cap. Considerantes di Carlo II d’Anjou, la Costituzione cosiddetta Filingeria del 1419. Agli inizi del Cinquecento nel Regnum citra pharum può ritenersi consolidato il criterio di ammettere al feudo la discendente, pur nel rispetto della prerogativa del sesso e dell’età. Che, tuttavia, la ratio dovesse ricondursi ad un mero criterio di conservazione dei beni, più che ad una vera e propria emancipazione giuridica femminile, è dato riscontrare quasi per antitesi da due elementi di grandissimo rilievo per il diritto feudale intervenuti nel primo ’500. La richiesta di progressiva estensione dei successibili nei feudi portò nel 1536, ossia due anni dopo l’investitura di Vittoria Colonna, all’accoglimento parziale dell’istanza respinta, invece, quattro anni addietro da Ratisbona e volta ad ammettere fino al quarto grado in linea collaterale anche le zie e le sorelle consobrine, pur se maritate e dotate, « etiam che la forma de la investitura sia et diche pro se et heredibus ex suo corpore legitime descendentibus ». La norma, pur limitandosi a chiarire che « in omni casu, quo patruus comprehenderetur, etiam amita intelligatur comprehensa », realizzava d’un colpo il superamento del rigido criterio agnatizio che sempre aveva informato i feudi. Essa, tuttavia, ad una più attenta analisi era solo tesa ad evitare la devoluzione dei feudi come, del resto, indicava il placet finalizzato ad estendere la vocazione fino al 4° grado, ma solo « ad fratres patrueles m a s c u l o s provenientes et descendentes per lineam masculinam a primo domino ac stipite feudi ». La poziorità del sesso aveva, dunque, ancora pieno riconoscimento e, tra l’altro, era utile a contenere l’altro fenomeno di grande rilievo nel diritto feudale napoletano del ’500 : l’affermarsi della priorità della “linea”, in stretto rapporto con il criterio della primogenitura. Il prevalere della “linea” – tanta incidenza avrebbe avuto nei destini della marchesa di Pescara, come pure della principessa di Sulmona, della principessa di Francavilla, della duchessa di Termoli, delle contesse di Monteleone, d’Oppido, di Oliveto, di Morcone, solo per ricordar qualche nome di assoluto rilievo ‘toccate’ dalla problematica – accentuava il carattere ‘patrimonial-familiare’ del feudo e solo in quella prospettiva dava spazio alla presenza femminile. Estremamente chiara sul punto si presentava la visione di Marino Freccia, allorché sosteneva « Foemina in Regno subrogatur in locum masculi, quando succedit in feudo » ed ancora « Foemina mutat sexum beneficio legis, quae facit eam masculum ». Siamo su un piano radicalmente diverso da quello delle ‘essenze’ che portava notoriamente Michelangelo a sostenere « Mulieres homines sunt » : per il giurista napoletano del ’500, e la sensibilità ‘storica’ di Marino Freccia fa piena fede, la cennata parificazione resta tuttavia ancorata alle forme, ossia esprime una mera simulazione normativa, per l’immutato permanere nella donna di uno status d’inferiorità giuridica. Ma, per andare più a fondo, quali ragioni militavano nella scienza giuridica napoletana a sostegno dell’assunta inferiorità giuridica della donna ? Ed ancora, quale correlazione è dato scorgere tra la specifica dimensione valutativa e l’operare in concreto della Colonna come donna e come feudataria ? Problematica, ma a ben vedere scarsamente coerente, era stata a suo tempo la ratio addotta da Andrea d’Isernia, la cui autorevolezza si faceva ancora decisamente sentire nel primo ’500. L’odiosità del principio d’esclusione femminile dai feudi era avallata secondo  

































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il Feudorum Evangelista dal mero criterio secondo cui la donna-feudataria « potest servire per substitutum », giacché l’inferiorità giuridica femminile discendeva da uno status ‘naturalistico’ di svantaggio. Indipendentemente dalla condivisione o meno delle argomentazioni addotte e dal dibattito critico che ha proficuamente suscitato, il saggio su Le donne nell’ordine feudale di Paulette L’Hermite-Leclercq, in seno alla ‘pionieristica Storia delle donne diretta da Georges Duloy e Michelle Perrot, ha indubbiamente il merito di aver metodologicamente innovato la lettura problematica di una vicenda che per quanto atteneva la Penisola e il Mezzogiorno in specie era interpretata ancora alla luce di una pur meritoria, ma ormai obsoleta, storiografia tardo ottocentesca ancora influenzata da scorie borghesi e dall’impatto devoluzionistico. Gli effetti già si avvertono e, pur dovendosi evitare in maniera assoluta di attribuire al passato ciò che riguarda altre ‘stagioni’, proprio seguendo un corretto studio filologico delle fonti si riesce ad intravedere un’appropriata dimensione della problematica che, giova ancora una volta precisarlo, evidentemente non attiene genericamente alla donna rinascimentale, ma alla donna nello specifico contesto cetuale e sociale preso in considerazione. Nel senso appena indicato, l’obbligo di “maritare”, ossia di fornire di un’adeguata dote di “paratura”, pur la donna esclusa dal feudo era giustificato, secondo l’Iserniense, dall’intento « ut de his filii procreentur, hoc enim munus foeminarum maximum et praecipuum est », ma per quanto atteneva la ‘partecipazione’ femminile alla vita di relazione perdurava un ostacolo ‘naturalistico’ : « foemina non debet interesse conventui virorum ob naturalem, alias matronalem pudorem ». Precorritore del pensiero umanistico, con un finissimo senso dell’esperienza, Luca da Penne calato nel pieno fervore dell’età angioina intese dare, invece, una giustificazione per così dire “effettuale” dell’inettitudine delle donne al potere, avendo come evidente parametro di giudizio la vicenda di Giovanna I. Icastica, ma quanto mai eloquente, la sua asserzione : « si Regna regunt vulvae, gens tota proclamat », ove già s’intravedono quelle ragioni che, trovando precisi riferimenti nel pensiero classico, mirarono a cogliere a livello comportamentale, e per ciò stesso ‘storico’, la discrasia nello status civile e giuridico fra i due sessi. E fu in questa congiuntura appunto che, nell’ambito della redazione delle Consuetudines Neapolitanae, commesse da Carlo II a Bartolomeo di Capua e percepite nella prassi con specifica autorevolezza (istae consuetudines sunt leges Neapoli), la disciplina della Cons. Si moriatur si propose non solo come l’epicentro di un intenso dibattito in tema di successibili, ma anche come il polo obbligato di rinvio per ogni discussione di genere. Sebastiano Napodano, glossatore ‘ordinario’ delle Consuetudini, nominato nel 1345 dalla regina Giovanna I giudice della Gran Corte della Vicaria, nella gl. In stirpem, in particolare, prospettava un’agile sintesi della vicenda storica che dal più risalente diritto romano era sfociata nella prærogativa sexus come contemplata dal ius consuetudinarium appunto, e nel delineare la pari vocazione di figli e figlie alla successione del genitore così ne segnalava la ratio : « quia natura idest Deus utrumque corpus edidit, ut maneat suis iuribus immortale, et quia non debemus offendere naturam, et quia non debet puniri ob hoc, quod foeminae natae sunt et sic bellum esset quodammodo intestinum, et quia si nasci foeminam esset vitium, esset vitium paternum potius quam suum, et sic de alieno vitio innocens puniretur… ». Al Napodano appare che con l’andar del tempo, ed in particolare con l’intervento del diritto germanico, si fosse realizzata una sorta di radicalizzazione rispetto al criterio naturalistico indicato (« est ius Longobardorum quod non vocat filias existentibus masculis nisi ad maritationem de paragio, et sufficit maritare etiam si gratis maritetur secundum iudices Capuanos »), pur se di contrario avviso era stato Carlo di Tocco nel suo Apparatus alla Lombarda laddove si era palesato lo sforzo del beneventano, maestro a Bologna,  





























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« d’incasellare entro schemi romanistici la ribelle materia del diritto longobardo » (« leges legibus concordare promptum est »). Di fatto, la citata costituzione fridericiana Ut de successionibus, nel contemplare che « filiam dotari de paragio », aveva pur riconosciuto « quod servatur prerogativa sexus, gradus et aetatis in feudalibus », ma la prassi aveva intrapreso quell’opera d’intreccio tra i due diritti sovrapponendo la consuetudo Regni, vale a dire il diritto vivo, inteso a purgare la concreta esperienza giuridica dall’inquinamento germanico. Napodano se ne rendeva interprete laddove nella citata glossa In stirpem volgeva l’attenzione allo « ius consuetudinarium secundum quod servatur prerogativa sexus, sed c o n d i t i o n a l i t e r scilicet si filia infra certum tempus dotetur de paragio », sicché ben a lui sembrava chiara la valenza innovativa del norma consuetudinaria : « Ex ijs si diligenter advertis manifeste videre potes in quo hoc ius cons. corrigit iura vetera, in quibus confirmat ea ». Nel solco di una lunga stagione ‘umanistica’, il ‘principe dei legisti’ Antonio d’Alessandro, regius consiliarius con Alfonso e Ferrante d’Aragona, identificando l’aequitas con la ragione naturale (aequitas est naturalis), nelle Additiones ribadiva « Nota quia tenet Napod. quod consuet. non totaliter excludat fœminas, sed conditionaliter in successione patris, si dotetur intra 16. annum ». A ben vedere, pur di fronte a una norma dispositiva della prærogativa sexus si era consuetudinariamente fatto largo il convincimento della non configurabilità giuridica dell’esclusione della donna dalla successione sotto il nuovo profilo della ratio naturalis e se ne faceva interprete nel secondo decennio un altro illustre regius consiliarius, questa volta di Carlo V, Antonio Capece. Nel quadro di quello sviluppo da me definito ‘patrimonializzazione del feudo’ con il coerente corollario del rilievo assunto dalle disposizioni testamentarie, alla gl. Et tenetur con cui Napodano aveva asserito, da un lato, che l’obbligo di dotare la sorella si fondava « condictione ex hac lege nova » e, quindi, « filia praeterita non rumpit testamentum patris, quia fratres eius succedunt et non ipsa », dall’altro, che innanzi alla ‘nuova’ regola di obbligo di costituire il “paragio” (« fratres tenentur ipsam maritare secundum paragium, et suo paragio debet esse contenta »), si doveva convenire « Satis videtur de communi voluntate civium approbante principe habitum et a iure succedendi seu debita eius iure naturae et ipsum ius succedendi transfusum paragium », Antonio Capece, richiamando proprio il d’Alessandro, annotava : « Cogita nam semper videtur testatorem velle se regulare secundum ius consuetudinarium … Si testator scit filium teneri ad dotandum infra annum 16, alias quod filia erit successura ; et sic videtur quod tenebatur facere de ea mentionem, quia non perpetuo, sed temporaliter et conditionaliter excludebatur ». Seguendo così un graduale processo logico di ‘conversione’, pur temporanea, del ‘diritto alla successione’ nel ‘diritto al paragio’, il giurista offriva un riscontro prammatico al quesito che si era posto il d’Alessandro se innanzi alla consuetudine praticata dell’obbligo di paragio si potesse asserire ancora che la donna era esclusa dalla ‘sua’ successione (« an exclusa à successione desinat esse sua ») : anche nello spazio proprio del diritto feudale s’imponeva ormai una logica di ratio naturale. Singolare, perciò, quasi per antitesi, pur se coerente con una prospettiva carismatica del potere – vi rientra a ben vedere la concezione della masculatio –, che però cede ormai il passo ad una logica volontaristica, si pone la voce autorevolissima di Matteo d’Afflitto : « mulier ad imaginem Dei non est facta : licet textus Genesis dicat faciamus hominem ad imaginem Dei : intellexit de viro et non de muliere : quia mulier non est imago Dei, nec Deus gloriatur per ipsam, sicut de viro ». Soprattutto se collocato nel tempo, quel giudizio rapportato con quanto lo stesso d’Afflitto dice della donna portatrice di volontà e come tale suscettibile di esser presa in considerazione dal diritto persino in veste di prostituta rappresenta agli esordi del ’500 il punto di massima tensione del pensiero giuridico napoletano sullo status muliebre. Certo con esso si confrontava, anzi si scontrava, sul piano  







































































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effettuale la dimensione d’illustri figure femminili, “madonne”, tra cui di lì a poco figura di spicco era indubbiamente la marchesa di Pescara. La crisi che da quella discrasia si determinava anche entro il pensiero giuridico napoletano era profonda, come avrebbero notato poi, in un contesto decisamente influenzato dal clima controriformistico, ma con straordinaria efficacia, Giulio Cesare Capaccio negli Illustrium mulierum elogia, Andrea Capano nel suo Tractatus de vita et militia, e soprattutto Francesco de’ Pietri ne I problemi accademici, overo le più famose quistioni proposte nell’illustrissima Accademia degli Oziosi di Napoli. Circa l’inettitudine femminile, che, con dovizia di fonti letterarie richiamate a suffragare uno status naturale d’inferiorità del sesso muliebre, veniva comunque configurata di fronte alle pur rilevanti testimonianze in contrario, il de’ Pietri, ‘primario professore del foro’, soffermandosi in particolare sui temi “In che la donna sia miglior dell’huomo”, “Qual sia maggior virtù che possa illustrar la donna” e “Della dignità del sesso virile e donnesco”, proposta ‘accademicamente’ la ‘potenziale’ confutazione dell’assunto da parte delle donne (« Al che rispondendo la donna dice che tutte queste cose le scrissero gli huomini e che se mai venisse conceduto alle Donne di scrivere, le carte canterebbero d’altro modo »), alla replica « Ma dice l’huomo alla Donna : Tu non scrivi, perché non sai scrivere, ne devi scrivere » supportata da Agostino e Plauto, soggiungeva sagacemente « Ma Plauto e Agostino, anch’eglino furono huomini dicon le Donne, al che non saprei in buona fe’che replicare ». Pur se in sede accademica, il ricorso ad argomentazioni “autorevoli”, dell’antichità classica come pure dei tempi più recenti, non poteva più far aggio di fronte ai riscontri di fatto che, soprattutto in età rinascimentale, alle ‘tradizionali’ virtù femminili avevano indicato nelle donne il sovvenire di qualità ritenute tipicamente maschili, come finemente aveva indicato il Capaccio segretario della Città (« ad ea quae virorum sunt, imperando, docendo, administrando audacter esse ausas cum se occasio obtulisset »). Certo, la linea non era univoca ed unidirezionale. Chi non s’avvede del conflitto ‘teoretico’ di Prospero Caravita, figura centrale del pensiero giuridico napoletano di metà Cinquecento, il quale, dopo aver ripetuto che « foeminae nedum ab officiis publicis & privatis removentur, sed etiam a iudicandi potestate, adeo quod ad eas iurisdictio transire non potest, cum nec etiam magistratum gerere valeant », deve, tuttavia giustificare la validità di quei Riti della Vicaria « conditi et promulgati a foemina quae huius regni tunc temporis erat Regina » ? E il giurista ebolitano, allegate le motivazioni ostative che ritiene « regulariter vera », suffragandole con le immancabili auctoritates, e singolarmente con i versi di Tibullo, di Ovidio e con quel « Né so trovar altra cagione a’ casi miei / Se non quest’una, che femina sei » del Canto xxvii dell’Orlando furioso, conclude poi per la validità della soluzione positiva in forza della consuetudine secondo cui rendono vicarie le proprie consorti « nedum Reges, sed Principes, Duces, Comites, Marchiones et omnes Barones, quando eos a statu abesse contingit, ut quotidie videmus ». La vita sembra prevalere sulla rigidità della forma, e tuttavia si tratta solo di un esito contingente. Dopo appena un triennio Giovanni Antonio Lanario, illustre reggente del Supremo Consiglio d’Italia, nel suo magnifico consulto in favore di Filippo contro la Duchessa di Braganza per la successione del regno di Portogallo, riprende il pensiero di Matteo d’Afflitto circa l’ammissibilità della donna alla successione feudale nel Regno di Napoli « per dispensationem », ossia in deroga al criterio di ius commune e, soprattutto, ripete, sull’autorità dei più famosi commentatori, « qualitas “Masculus” quae erat in patre non est in filia ». E qualche anno più oltre, Andrea Capano ritiene le ragioni del fedecommesso prevalenti « erga masculos quam erga foeminas, … quia sunt digniores, maioraque onera sustinent familiarumque dignitatem conservant et Rempublicam administrant ». Ed anzi, il giurista ebolitano, patrizio napoletano e barone di Galdo, avalla la ratio della sua pronunzia, ossia « foeminae non conservant familiam,  





















































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imo illam destruunt », con le conformi decisioni assunte dal Senato Pedemontano, dalle Rote Fiorentina e Romana e con l’auctoritas di ben 15 dottori. La linea del pensiero giuridico meridionale del Cinquecento relativamente alla donna feudataria, soprattutto se raffrontata con gli squarci umanistici, si profila complessivamente in parabola discendente, specie all’indomani della riforma tridentina. Basterà rammentare che, nel Parlamento generale del Regno del 1617, Vincenzo Luigi di Capua sostenne, con esito positivo, che « Per schivare lo danno et disordine che nascono quando se maritano le figlie femine senza volontà del loro padre, […] si privino dell’heredità ». In questo contesto, era forse possibile percepire un sia pur vago, ma apprezzabile segnale di effettiva revisione dello status muliebre per la sola considerazione che le donne « ad ea quae virorum sunt, imperando, docendo, administrando audacter esse ausas, cum occasio se obtulerit » ? L’episodica occasio, proprio nella sua configurazione di straordinarietà, aveva forza per incidere su una dimensione consolidata e tenuta per razionale ? Allorché il Rinascimento consegnava il testimone alla Civiltà del Seicento, sotto il peculiare profilo giuridico, quale lascito in eredità si realizzava della figura femminile? A ben vedere, ci accorgiamo di trovarci in un contesto giuridico ben diverso da quello respirato dalla marchesa di Pescara, soprattutto quando, già adusa alla prudente gestione dei beni feudali dell’Avalos, come indicano gli stessi protocolli redatti in Ischia da Notar Giovan Battista Funerio, conseguì la cennata investitura di Rocca d’Evandro come feudum novum.  













3. Il privilegio del 1534 d’investitura feudale di Rocca d’Evandro a Vittoria Colonna – già pubblicato nella sua interezza da chi parla sulla scorta dell’esemplare serbato nei Registros di Cancillería dell’Archivo de la Corona de Aragón –, formulato secondo i canoni propri della Cancelleria carolina, presenta talune peculiarità che ne accentuano l’interesse storicogiuridico. Circa l’oggetto è a dire che l’attribuzione riguardava un complesso di beni, ed anzitutto le terre di Rocca d’Evandro e Camino, con i casali annessi, site in Terra di Lavoro e devolute per ribellione da Federico di Monforte. Si trattava, a ben vedere, di un’assegnazione di non lieve valore, com’è dato rilevare dalle note in merito iscritte nella famosa relazione fiscale del cardinal Mendoza redatta da Juan Vaguer il 1531. Circa Rocca d’Evando vi si dice, infatti : « Esta tierra possee el Conde di mingano [Mignano] guido Ferramosca por concession del Principe que le fue dada en recompensa de quinientosquarenta y cinco ducados que tenia sobre pagamentos fiscales sobre la provincia de Tierra de Lavor fasta tanto que le diessen otro tanto en vassallos y agora los dichos pagamentos fiscales son reintegrados a la Corte ». Geneticamente, quindi, in capo al Conte di Mignano il feudo si era costituito come una concessione commutativa patrimoniale. Il mastro d’atti Vaguer, nel delineare la nuova pianta feudale del Regno all’indomani dell’invasione del Lautrec, così proseguiva : « Está en lo alto de un monte con sus buenos muros y Castillo roquero fuerte en lo alto casi inexpugnable, tiene fasta dos millas de termino y 80 fuegos de baxo desta tierza, en lo llano passa el rio del garellano y esta a xiiii millas de Sancto German » ; si tratta, pertanto, di un feudo ‘strategico’ nell’assetto politico del Regno, da esser attribuito con particolare prudenza. Circa la valenza economica infine, annotava il contrarelator : « es fertil tierra de granos y vino y un poco dolio, tene caça real de puercos … vale al Baron cadano ciento y sessenta y quatro ducados…Valería a vender cinco Mil ducados de oro ». Di minor valore “La tierra o Casal de Camino” che « Tiene toda jurisdiction y fasta xxx fuegos y termino un millo ; es tierra infertil que sta en lo alto de una montanya … Valeria a vender fasta quinientos ducados de oro … No ay deudas fastagora ». L’attribuzione a Vittoria Colonna riguardava anche una rendita di 220 ducati sugli in 

























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troiti della città di Matera devoluti alla corte per la ribellione di Paolo Restiliano, tutti i beni burgensatici e feudali in Ischia confiscati per crimen lesae a Michel Angelo e Federico Grisone, ed ancora 197 ducati annui di reddito sui beni del ribelle Giovan Battista Salice. Sommando le varie voci, l’investitura assumeva di per sé un valore complessivo di oltre seicento ducati annui, una cifra di tutto rispetto – era quanto veniva corrisposto in età carolina ad un Reggente togato del Consiglio Collaterale –, cui s’andavano ad aggiungere le funzioni fiscali e i diritti di focatico e di sale spettanti alla corte nelle stesse terre di Rocca d’Evandro e Camino. Il privilegio conferiva alla marchesa di Pescara il possedimento nei feudi che già erano stati di Federico di Monforte « cum banco justicie et cognitione primarum causarum civilium, criminalium et mixtarum quarumcunque » nei confronti di tutti gli “abitanti” presenti e futuri « exceptis tamen criminibus lesae maiestatis, haeresis et falsae monetae ac homicidijs clandestinis et aliis prioritatibus, juribus et jurisdictionibus nobis et curie nostre ratione supremi dominij spectantibus et pertinentibus ». La cognizione di primo grado era, quindi, attribuita alla marchesa in maniera ‘ampia’ con la sola eccezione di taluni gravi reati riservati alle magistrature centrali, risultando peraltro esplicitamente rimossa ogni limitazione di competenza quantitativa. Ci troviamo, pertanto, in presenza di poteri giurisdizionali molto estesi, soprattutto se si tien conto che alla Colonna erano conferite ancora le rituali “quattro lettere arbitrarie” ed una serie di potestates che contemplavano la discrezionale remissione dei delitti, l’acquisizione delle pene comminate e dei beni confiscati senza obbligo di rendiconto, l’esercizio di specifiche funzioni “di polizia”, il diritto di forgiudica e di confisca, la nomina dei giudici e degli officiali. Una ulteriore clausola “abdicativa assoluta” configurava come “privativa” la giurisdizione della Marchesa nei confronti di qualunque altro giudice ordinario o delegato ed anche rispetto alla Magna Curia Vicaria che, com’è noto, godeva di un’ordinaria e generale iurisdictio in tutto il Regno. La remissio da qualunque altro giudice per exceptio fori, volta a tutelare anzitutto le ragioni della Marchesa, era prevista come obbligatoria e da attuarsi mediante la semplice esibizione del privilegio d’investitura. Si può, dunque concludere che la giurisdizione attribuita a Vittoria Colonna con riferimento al feudo di Rocca d’Evando, pur se contenuta solo entro il primo grado, era contemplata in misura molto estesa ricevendo un’efficace tutela proprio in sede d’investitura, cui si attribuiva « vim et efficatiam vere realis traditionis et realis possessionis ipso iure ». Ebbene, quali erano le ragioni che avevano indotto la Cancillería de la Corona ad un conferimento cosí esteso di poteri giurisdizionali ad una donna ? La risposta, a mio avviso, si può rinvenire nello stesso privilegio laddove, dopo aver enumerato i meriti ‘eccezionali’ del defunto marito Ferdinando Francesco d’Avalos de Aquino, regius consiliarius e Gran Camerario, così prosegue il documento : « nec minori laude dignas censemus animi magnitudinem et Prudentiam aliasque singulares virtutes et eruditionem non vulgarem (rem in femineo sexu raram) quas in Illustri Victoria Columna predicti Marchionis vidua relicta sitas esse intelleximus ». Dalla notazione, certamente inconsueta, per non dire unica nella “terminologia” adottata in un documento formale dalla Cancelleria della Corona si delinea una figura di Vittoria Colonna fornita di tutti i requisiti, non solo per l’attribuzione della titolarità e, quindi, anche del lucro dei poteri feudali, ma per il ‘governo feudale’. E tuttavia, la stessa formula dell’investitura, anche nell’inciso « rem in femineo sexu raram », sembra star lì proprio a cautelare la curia per un atto che non si voleva generalizzato alla donna in quanto tale, ma che doveva restare s p e c i f i c o per una figura del tutto singolare, una “madonna” fuori dalla norma. Una puntuale conferma, d’altra parte, è nell’inciso successivo del privilegio d’investitura, dove si mettono in risalto anche i meriti  























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politici (« non parvam laudem sit promerita ») di Vittoria acquisiti durante la spedizione del Lautrec : « verum etiam officia quae nobis, exhibuit, dum galli alijque eorum confederati regnum nostrum prefatum citerioris Siciliae invaderent ». Ché, anzi il cancelliere estensore dell’investitura, quasi a giustificare la straordinarietà dell’atto nei confronti di una donna, trova modo, con una prassi del tutto inusuale, di precisare nel privilegio finanche le modalità dell’impegno politico posto in essere dalla marchesa di Pescara : « ex Jschia, ubi ipsa tunc temporis morabatur, navilijs, diversis rebus ad victum necessarijs instructis, ita subvenit ut propter hec et vigilantiam quam gessit in mittendis exploratoribus ad inimicum exercitum ut ministros nostros Neapoli existentes admoneret ». Vettovagliamento e spionaggio, dunque : funzioni che dal governo ispanico venivano giustamente ritenute di notevolissimo peso, se non decisive, nella ‘moderna’ vicenda militare con un’ineludibile esigenza di affidabilità. Ben oltre i meriti delle virtù propriamente femminili e della non comune erudizione ‘gentile’, era indubbio, il riconoscimento in Vittoria Colonna di grande ‘capacità’nell’operare f a t t i v a m e n t e sino a ridurre al minimo lo scarto del sesso sul piano giuridico-istituzionale. E tuttavia, anche rispetto a tanta figura, pur entro una riflessione, non solo accademica, ma anche pratica, e quindi giuridica, che in una lettura naturalistica del mondo poneva quanto meno in discussione la consolidata discrasia di genere, perdurava lo scarto fra titolarità del feudo, prevalentemente legata alla dimensione patrimoniale dell’istituto con le interminabili questioni di carattere successorio, e ‘rappresentazione pubblica’ dello status : basti solo pensare che la stessa Vittoria Colonna che nel 1536 Carlo aveva voluto incontrare subito nel corso della sua visita a Napoli, non solo non partecipò direttamente – così, del resto, per quanto a me risulta, nessuna feudataria mai –, al Parlamento Generale del Regno che si riunì solennemente alla presenza dell’imperatore l’8 gennaio 1536, ma non firmò neppure, se non per segretario, la Testificacione dele littere ch’ho dato ali baroni che songo trovati qua in Napoli de la Cesarea Maesta per lo Parlamento generale del 4 dicembre 1535, ossia la notifica della convocazione che pur reca la sottoscrizione autografa degli altri baroni presenti a Napoli. Queste erano le ‘regole’ del viver aristocratico nella Napoli rinascimentale. Anche per la nobile feudataria Vittoria Colonna, figura simbolica più d’ogni altra del Rinascimento femminile in seno all’aristocrazia meridionale, il travaglio dell’“identità” era ben lungi dall’essere sotto il profilo giuridico pienamente chiarito : forse, maggiori stimoli, proprio sotto il profilo giuridico, si realizzavano in altri luoghi della società. Ma questa è altra storia.  





















Università degli Studi di Napoli “Federico II” In un campo tuttora pressoché inesplorato sotto la prospettiva giuridica, si propongono come specifica chiave di lettura le percezioni ‘varie’ della figura femminile che diritto e giuristi meridionali ebbero a palesare nel corso del Rinascimento. Anche in riferimento alle tematiche femminili, si resero in effetti appieno evidenti alcuni tratti peculiari della cultura giuridica meridionale coeva : esperienza e positivizzazione del vissuto, sensibile prospettiva di “secolarizzazione”, aderenza alle dimensioni economico-sociali delle problematiche di volta in volta prese in considerazione. Il quadro palesa una notevole complessità fra il perdurare di profili tralatici – le costituzioni di dote, ad esempio, che lasciano tuttavia trasparire significativi indizi di mobilità “ascendente” ed intercetuale – ed una ancor vaga, ma non per ciò meno rilevante presa di coscienza del “ruolo femminile” in un contesto giuridico connotato dalla nuova valenza “naturalistica” della ratio.  

In a field that is still fairly unexplored from a legal perspective, the specific approach of this paper is based on the ‘different’ perceptions of the female figure, as expressed by the Southern law and jurists of the Renaissance. Not least in connection with female issues, some distinctive traits of the

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contemporary legal culture became fully apparent : experience and positivisation of life experiences, a sensitive “secularisation” perspective, adherence to the social and economic dimensions of issues that are considered on a case-by-case basis. The picture shows remarkable complexity between the continuation of tralatitious profiles – the creation of dowries, for example, that suggest however some remarkable traces of “uprising” and inter-class mobility – and a still undefined but no less significant awareness of the “female role” in a legal context that stood out for the new “naturalistic” value of ratio.  

Dans un domaine pratiquement inexploré d’un point de vue juridique, on propose ici comme clé de lecture spécifique les perceptions ‘diverses’ de la figure féminine que droit et juristes méridionaux durent manifester au cours de la Renaissance. Également en ce qui concerne les thématiques féminines, furent en effet pleinement dévoilés certains traits caractéristiques de la culture juridique méridionale contemporaine : expérience et positivisation du vécu, perspective sensible de “sécularisation”, adhérence aux dimensions économico-sociales des problématiques prises en compte une à une. Le cadre manifeste une importante complexité entre la persistance de profils traditionnels – la constitution de dots, par exemple, qui laissent toutefois transparaître des indices significatifs de mobilité “ascendante” et interceptuelle – et une vague mais non moins importante prise de conscience du “rôle féminin” dans un contexte juridique caractérisé par la nouvelle valeur “naturaliste” du ratio.  

En un campo prácticamente inexplorado aún bajo la perspectiva jurídica es que se proponen como sustancia de lectura específica las “variadas” percepciones de la mujer que el Derecho y los juristas meridionales pusieran de manifiesto durante el Renacimiento. Absolutamente incuestionables, han surgido algunas características peculiares de la cultura jurídica meridional de entonces, incluso en lo que respecta las temáticas propias de la mujer : experiencia y positivización de las experiencias vividas, una sensible perspectiva de “secularización”, la adhesión a las dimensiones económicas y sociales de las problemáticas que en cada ocasión se tomaran en consideración. El cuadro manifiesta claramente una notable complejidad en el perdurar de perfiles traslaticios –la constitución de dotes por ejemplo, que no obstante deja entrever significativos indicios de movilidad “ascendente” e interceptual– y una aún vaga mas no por ello menos relevante toma de conciencia del “rol de la mujer” en un contexto jurídico caracterizado por una nueva valía “naturalística” de la ratio.  

In einem Forschungsfeld, das praktisch noch nie unter dem juristischen Blickwinkel untersucht wurde, sollen die „unterschiedlichen“ Wahrnehmungen der Frau in der Rechtssprechung und von Seiten süditalienischer Juristen in der Renaissance aufgearbeitet werden. Auch in Bezug auf spezifisch weibliche Thematiken treten einige typische Wesensmerkmale der süditalienischen Rechtskultur der damaligen Epoche ganz deutlich hervor : die Erfahrung und Positivierung des Erlebten, eine sensible Perspektive der „Säkularisierung“ und je nachdem ein Bezug zur sozialwirtschaftlichen Dimension der Problematiken. Die Darstellung offenbart eine beträchtliche Vielschichtigkeit im Fortdauern überlieferter Profile – die Struktur der Mitgift zum Beispiel ; es lassen sich jedoch deutliche Hinweise auf eine „aufsteigende“ und schichtübergreifende Mobilität erkennen – sowie eine noch vage, aber nichts desto trotz bemerkenswerte Bewusstwerdung der „weiblichen Rolle“ in einem von der neuen „naturalistischen“ juristischen Valenz der ratio geprägten Kontext.  



DAL FUSO AL LIBRO : I SAPERI DELLE PRINCIPESSE MERIDIONALI TRA XV E XVI SECOLO  

Isabella Nuovo

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ella rapida e tumultuosa elaborazione della civiltà del Rinascimento, che tra Quattro e Cinquecento determinò, nell’Italia delle signorie e dei principati, una netta ridefinizione degli strumenti ermeneutici e dei modelli e parametri comportamentali, si verifica, tra l’altro, l’improvviso tracimare di una situazione antropologica e culturale di straordinaria importanza innovativa, quasi rivoluzionaria, che avrà complesso e contraddittorio sviluppo nell’età moderna. Si riscontra cioè un’inedita attenzione all’universo femminile, declinato nelle sue varie forme, attraverso un imprevedibile mutamento e talora rovesciamento del tradizionale e radicato punto di vista di impronta marcatamente maschilista, che dal mondo antico in poi aveva più o meno costantemente caratterizzato l’approccio ideologico, psicologico, filosofico, letterario, anatomico, sociale con l’inquietante alterità della figura della donna e della sua condizione esistenziale. 1 In questi decenni si registra infatti, nonostante la persistente e ottusa resistenza di un pur vitale filone misogino, ambiguamente operante in ambito letterario, la progressiva emancipazione del genere femminile dall’atavica condizione subalterna, cui una secolare propaganda maschilista l’aveva condannato, e a un suo irrefrenabile protagonismo sulla scena mondana e persino culturale. 2 La componente muliebre del Rinascimento italiano acquista sempre più visibilità e autonomia, almeno negli ambienti aristocratici e nobiliari, e, mentre si assiste a una sua inaspettata affermazione anche di carattere politico, diplomatico, sociale, consequenziale alle nuove dinamiche del potere, 3 si va costruendo la sua mutata identità in tante testimonianze di contemporanei e in tante pagine di una trattatistica pedagogica ed etico-comportamentale, miratamente finalizzata a plasmare un adeguato modello di stereotipo femminile, imbrigliato negli schemi di un legittimo ruolo pubblico. 4 1   Cfr. Serena Castaldi, L’altra faccia della storia (quella femminile), Messina-Firenze, D’Anna, 1975 ; Maria Ludovica Lenzi, Donne e madonne. L’educazione femminile nel primo Rinascimento italiano, Torino, Loescher, 1982 ; Marina Zancan, La donna, in *Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, v. Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 765-827 ; Romeo De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987 ; Storia delle donne in Occidente, a cura di Georges Duby, Michelle Perrot, III. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davis e Arlette Farge, Roma-Bari, Laterza, 1991 ; Margaret L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991. 2   Cfr. Misoginia e maschilismo in Grecia e in Roma, Genova, Istituto di Filologia classica e medievale, 1981 ; Eva Cantarella, L’ambiguo malanno : condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma, Editori Riuniti, 1985 ; Corrado Petrocelli, La stola e il silenzio : sulla condizione femminile nel mondo romano, Palermo, Sellerio, 1989 ; La donna nella civiltà occidentale dall’epoca greco-romana ai nostri giorni, Seminario di studi (Ragusa, 2001-2002), a cura di Cristina Vasta, Ragusa, Provincia regionale, 2003, pp. 77-134 ; Pierangiolo Berrettoni, La cultura di genere tra grecità e modernità : continuità o frattura ?, in *Il passato degli antichi, Atti del Convegno (Napoli, 1-2 ottobre 2001) a cura di Flaviana Ficca, Napoli, Istituto Italiano di Studi Filosofici, 2004, pp. 147-183. 3   Cfr. Donne e potere : i percorsi delle donne, Atti del Convegno (Mantova, 22-24 maggio 1992), a cura dell’udi, Mantova, udi, 1992 ; Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008 ; Mario Gaglione, Donne e potere a Napoli. Le sovrane angioine : consorti, vicarie e regnanti (1266-1442), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 4   Cfr. Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Sansoni, 1958 ; Eugenio Garin,  



































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« Maravigliomi pur – disse allora ridendo il signor Gaspar – che poiché date alle donne e le lettere e la continentia e la magnanimità e la temperantia, che non vogliate ancor ch’esse governino le città e faccian le leggi e conducano gli eserciti ; e gli omini si stiano in cucina o a filare ». 1 L’ironica battuta con cui Gaspare Pallavicino, rappresentante delle posizioni misogine nel vivace dibattito che si apre sul ruolo della donna di palazzo nel terzo libro del Cortegiano, 2 commentava la rivoluzionaria proposta del Magnifico Giuliano de’ Medici, scandisce eloquentemente la svolta impressa dal Castiglione all’annosa querelle des femmes. 3 Il registro arguto del Pallavicino, se da un lato tendeva a sdrammatizzare la tensione di una dialettica argomentativa, che si andava facendo sempre più aspra tra gli interlocutori del dialogo, dall’altro non mancava di alludere a quel disagio psicologico, serpeggiante nella cerchia maschile della corte urbinate, ma non solo di quella, visibilmente preoccupata del profondo cambiamento emergente nella società di antico regime e delle radicali trasformazioni rintracciabili nel codice comportamentale delle moderne nobildonne. È noto che una ricca tradizione di testi etico-pedagogici, fiorente anche nell’Italia me 





L’educazione umanistica in Italia, testi scelti e illustrati, Bari, Laterza, 1949 ; Id., L’educazione in Europa 1400-1600. Problemi e programmi, Bari, Laterza, 1966 ; L’educazione femminile dall’Umanesimo alla Controriforma : antologia, a cura di Giulia Bochi, Bologna, G. Malipiero, 1961 ; Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del xvi sec., a cura di Marina Zancan, Venezia, Marsilio, 1983 ; Galeazzo Flavio Capra, Della eccellenza e dignità delle donne, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 1988 ; Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii sec. Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Storia e Letteratura, 1996 ; Francesco Sberlati, Dalla donna di Palazzo alla donna di famiglia : pedagogia e cultura femminile tra Rinascimento e Controriforma, Firenze, Olschki, 1998 ; Inge Botteri, I trattati di comportamento e la ‘forma del vivere’, in *Il Rinascimento italiano e l’Europa, i. Storie e storiografie, a cura di Marcello Fantoni, Treviso, Fondazione Cassamarca, 2005, pp. 441-458. 1   Baldassar Castiglione, Il libro del Cortegiano, iii, 10. Sul tormentato iter editoriale e per una fondamentale analisi e interpretazione del Cortegiano cfr. Amedeo Quondam, « Questo povero Cortegiano ». Castiglione, il Libro, la Storia, Roma, Bulzoni, 2000. 2   Nel dialogo, infatti, Castiglione sottolinea la centralità della donna nell’orizzonte della corte, di cui rappresenta l’indispensabile « ornamento o splendore ». Infatti la presenza femminile non solo conferisce « grazia […] perfetta » al « ragionar del cortegiano », ma quest’ultimo trova nella donna la motivazione profonda di tutti i suoi comportamenti : « perché come corte alcuna, per grande che ella sia, non po aver ornamento o splendore in sé, né allegria senza donne, né cortegiano alcun essere aggraziato, piacevole o ardito, né far mai opera leggiadra di cavalleria, se non mosso dalla pratica e dall’amore e piacer di donne », Cortegiano, iii, 3. L’intero terzo libro verrà dedicato alla delineazione della donna di palazzo ; in esso, Castiglione tenta di definire « le regule » di comportamento e le « qualità » della donna di corte, che si rivelano perfettamente omologhe a quelle enunciate per il cortigiano. Il registro discorsivo assumerà poi un andamento più filosofico, che cerca di far convergere i due filoni più rappresentativi del dibattito sulla donna : quello filogino e quello misogino, fino a dispiegarsi in un lungo catalogo di exempla. Infine, il procedimento diegetico si coagula intorno a una fitta serie di « questioni d’amore », assai care alla cultura cortigiana del tempo, che rappresentavano forse il nucleo originario dell’intera opera. Sulla grande rilevanza che il rilancio di questa tematica, operato dal Castiglione, produrrà nella trattatistica successiva, cfr. Giuseppa Saccaro Battisti, La donna, le donne nel Cortegiano, in *La corte e il Cortegiano, i. La scena del testo, a cura di Carlo Ossola, Adriano Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 219-249 ; Marina Zancan, La donna nel « Cortegiano » di B. Castiglione. Le funzioni del femminile nell’immagine di corte, in *Nel cerchio della luna …, cit. ; Uberto Motta, Per Elisabetta. Il ritratto della duchessa d’Urbino nel Cortegiano di Castiglione, « Lettere italiane », lvi (2004), 3, pp. 442-461. 3   La lunga polemica, che dal Quattrocento si protrasse per molti secoli, si incentrava sulla dichiarata infirmitas mulieris, per giustificare la dipendenza e la subordinazione della donna in ambito sociale : Conor Fahy, Three Early Renaissance Treatises on Women, « Italian Studies », xi (1956), pp. 30-55 ; Joan Kelly, Early Feminist Theory and the Querelle des Femmes, 1400-1789, in Ead., Women, History and Theory. The Essays of Joan Kelly, Chicago, The University of Chicago Press, 1986, pp. 65-109 ; Maria Milagros Rivera Garretas, Textos y espacios de mujeres. Europa, siglos iv-xv, Barcelona, Icaria, 1990 ; Sara F. Matthews-Grieco, La Querelle des femmes nell’Europa del Rinascimento, « Quaderni storici », xxv (1990), pp. 683-688 ; Monaca, moglie, serva, cortigiana : vita e immagine delle donne tra Rinascimento e Controriforma, introd. di Cristina Acidini Luchinat, a cura di Sara E. Matthews-Grieco, con la collaborazione di Sabina Brevaglieri, Firenze, Morgana, 2001 ; Protestations et revendications féminines. Textes oubliés et inédits sur l’éducation féminine (xvi-xvii siècle), édition établie, présentée et annotée par Colette H. Winn, Parigi, Honoré Champion, 2002.  

























































































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ridionale, di cui il Cortegiano può leggersi come l’esito più innovativo, aveva perimetrato l’azione femminile in uno spazio esclusivamente domestico, costruendo il profilo della donna esemplare sulla scorta di rigidi valori morali. Il fatto che la preparazione del cibo e l’arte della tessitura fossero competenze di stretta pertinenza femminile, mentre la politica e l’arte militare rientravano nei saperi maschili, riflette una consolidata partizione dei ruoli tra uomo e donna legata a una altrettanto rigida separazione degli spazi, presente nella tradizione antica : dentro/fuori, interno/esterno, casa/città, privato/pubblico. Se già nell’antica Grecia il gineceo esprimeva la totale esclusione della donna da ogni forma di vita sociale e relazionale, confinandola nella sfera del privato – si ricordi l’apostrofe con cui Telemaco intimava alla madre Penelope : « Su, torna alle tue stanze, e pensa all’opere tue, / telaio e fuso ; e alle ancelle comanda / di badare al lavoro ; al canto pensino gli uomini / tutti, e io sopra tutti : mio qui in casa è il comando » (Od. i, 356-359) –, ma si vedano anche le assai simili parole rivolte da Ettore ad Andromaca : « Su, torna a casa, e pensa alle opere tue, / telaio e fuso ; e alle ancelle comanda / di badare al lavoro ; alla guerra penseranno gli uomini / tutti, quanti nacquero in Ilio » (Il. vi, 490-493) 1 –, ancora in età umanistica quel topos risultava ampiamente accreditato nella trattatistica pedagogica rivolta all’educazione femminile, che da Leon Battista Alberti a Diomede Carafa, a Giovanni Pontano, a Tristano Caracciolo, a Belisario Acquaviva, ad Antonio De Ferrariis Galateo rimarcava con forza la netta divisione dei ruoli tra uomo e donna, e sanciva il divieto di varcare il limen dell’uscio domestico. Il telaio, il fuso, la tessitura, arte antichissima e a lungo esclusiva prerogativa, nel mondo occidentale, delle donne, diventano esplicita metafora delle conoscenze delle pratiche quotidiane, che connotano emblematicamente e programmaticamente l’esistenza e l’esperienza muliebre, e fin dai poemi omerici formalizzano una netta distinzione tra i rispettivi ambiti di pertinenza, maschile e femminile, stigmatizzando bruscamente ogni azzardata interferenza che possa incrinare il consolidato ordine patriarcale. La temeraria pretesa di Andromaca di voler addirittura estendere la sua consapevole abilità nel disporre i fili della trama, raggiunta attraverso l’esercizio quotidiano della tessitura, alla inaccessibile arte della guerra, suggerendo, lei donna, una più strategica disposizione delle fila dell’esercito, rivela, nell’inevitabile richiamo che ne consegue da parte di Ettore a ritirarsi nella sfera privata e a riprendere la tessitura interrotta, l’assoluta impraticabilità dello spazio pubblico e l’evidente impenetrabilità di un sapere, che non ammette trasgressive incursioni del mondo femminile. 2 La preoccupazione così presente nella cultura greca che le donne potessero minacciare, con i loro pur fragili saperi, l’indiscusso primato virile delle competenze belliche riaffiora, come abbiamo visto, nel testo del Cortegiano, dove, sia pure celiando, si paventa il rischio di un totale ribaltamento dei ruoli, e che gli uomini possano essere relegati in cucina a filare e le donne invece, sull’onda di un’inseguita emancipazione, possano impossessarsi della scienza politica e dell’arte militare. Il distacco dal fuso e dalla tela configura, nelle due emblematiche tessitrici omeriche, un pericoloso atto di ribellione e la rivendicazione  























1   È evidente come i valori dell’oikos, femminili, vengano opposti a quelli della polis e del polemos, maschili. Anche Musonio Rufo, filosofo stoico del i d.C. e grande sostenitore della parità dei sessi in rapporto alla virtù, non mancava di ribadire la distinzione fra maschi e femmine, già espressa chiaramente dalla diversa funzione biologica della generazione, nella sfera sociale, con la dedizione maschile alla vita pubblica e il ripiegamento femminile nel privato : cfr. Musonio Rufo, Diatribe, frammenti e testimonianze, a cura di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2001. 2   Cfr. Jean Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino, Einaudi, 1992 : si veda in particolare il cap. Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci, pp. 147-200 ; Gabriella Seveso, Per una storia dei saperi femminili, Milano, Unicopli, 2000 ; Valeria Andò, L’ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Roma, Carocci, 2005.  







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di quello spazio che la società maschile non è per nulla disposta a concedere loro, e allo stesso tempo l’arte del tessere diventa, per la regina di Itaca, una vera e propria strategia politica, grazie alla quale riesce a far fronte alla crisi di potere, prolungando all’infinito la successione a Ulisse. Pertanto quella che nel codice di un linguaggio simbolico dovrebbe rappresentare l’espressione paradigmatica della sudditanza femminile all’autorità maschile, e la connessa relegazione nel circoscritto circuito privato, finisce col rivelare, in filigrana, l’allenamento a una capacità di creare gli orditi, di dipanare i fili, che allude a una vera e propria palestra del pensare e del riflettere, 1 a un’attività cioè non più meramente manuale, ma che molto si avvicina all’acquisizione di abilità latamente intellettuali, e dunque dalla perfetta padronanza dell’uso della conocchia e dal saper lavorare la lana si può far prendere le mosse al lungo e faticoso cammino verso il miraggio del riconoscimento della dignità femminile, indispensabile premessa per un auspicato confronto paritario con il versante maschile. Mentre la fitta trama del discorso letterario degli uomini si snoda dall’antichità all’età moderna nel quasi continuo tentativo di connotare riduttivamente, se non negativamente, i saperi femminili, presentandoli come disvalori, proprio l’accanimento nella loro negazione finisce paradossalmente per farli riaffiorare con maggiore efficacia, fino ad aprire quel varco che consentirà alla civiltà umanistico-rinascimentale di operare, come dicevamo all’inizio, un’inversione di rotta. Negli ambienti borghesi e mercantili fiorentini di metà Quattrocento l’Alberti fondava, com’è noto, il primato della famiglia, attraverso la valorizzazione del vincolo matrimoniale e la progressiva privatizzazione degli affetti. 2 La donna assume nella sua opera principale un ruolo cardine, in quanto le viene riconosciuta non solo la scontata funzione riproduttiva in vista della legittima trasmissione del patrimonio, ma anche il fondamentale compito, attraverso il lavoro domestico, dell’organizzazione economica della casa, aspetto non certo secondario nella salvaguardia della masserizia. La centralità di tale funzione non implicava tuttavia nessun avanzamento sul piano culturale, e tantomeno un affrancamento dal rapporto di subalternità coniugale, anzi la pratica della mercatura non ammetteva nessuna interferenza da parte della donna nell’ambito dell’attività imprenditoriale, di rigorosa pertinenza maschile. 3 Compito esclusivo della moglie rimaneva la cura del marito e della famiglia : nessun riconoscimento delle capacità intellettuali femminili e nessuna concessione alla praticabilità dell’orizzonte esterno al guscio domestico : le mani delle donne continuano a maneggiare ago e fuso, piuttosto che penne e libri ; castità, pudore, obbedienza e silenzio sono ancora le parole d’ordine, che regolamentano la corretta educazione e formazione della donna ideale : « Dissemi la madre gli aveva insegnato filare, cucire solo, ed essere onesta ancora e obe 









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  Cfr. Francesca Rigotti, Il filo del pensiero : tessere, scrivere, pensare, Bologna, Il Mulino, 2002.   Cfr. Alberto Tenenti, La res uxoria tra F. Barbaro e L.B. Alberti, in *Una famiglia veneziana nella storia : i Barbaro, Atti del Convegno di studi in occasione del quinto centenario della morte dell’umanista Ermolao (Venezia, 4-6 novembre 1993), a cura di Michela Marangoni e Manlio Pastore Stocchi, Venezia, Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1996, pp. 43-66, e, per la tradizione del topos in età classica, Daniela Mazzoni Dami, L’amore coniugale e la figura della sposa ideale nella trattatistica antica, « Atene e Roma », n.s. xliv (1999), 1-2, pp. 14-25. 3   Cfr. Ida Mastrorosa, L’inferiorità ‘politica’ e fisiologica della donna in Leon Battista Alberti : le radici aristoteliche, in *La tradizione politica aristotelica nel Rinascimento europeo : tra familia e civitas, a cura di Giovanni Rossi, Torino, G. Giappichelli Editore, 2004, pp. 25-78 ; Francesco Furlan, La donna, la famiglia, l’amore tra Medioevo e Rinascimento, Firenze, Olschki, 2004 ; Id., Verba non manent. La donna nella cultura toscana fra Trecento e Quattrocento, « Intersezioni », xvi (1996), pp. 259-274 ; Silvia Magnavacca, La moglie nel discorso individualistico di Leon Battista Alberti, in *Ilaria del Carretto e il suo monumento : la donna nell’arte, la cultura e la società del ’400, Atti del Convegno internazionale di studi (Lucca, Palazzo ducale, 15-17 settembre 1994), a cura di Stephane Toussaint, Lucca, Edizioni San Marco, 1995, pp. 271-281.  

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diente, che testé da me imparerebbe volentieri in reggere la famiglia e in quello che io gli comandassi quanto a me paresse d’insegnarli ». 1 Nonostante le significative novità introdotte, l’Alberti, pur richiamandosi al classico modello aristotelico e senofonteo, 2 non si scostava però da una precettistica di stampo medievale, propagandata, ad esempio, in ambito toscano, dal Reggimento e costume di donna, di Francesco da Barberino, il quale raccomandava di non estendere alle ragazze alcuna forma di istruzione, poiché la cultura avrebbe potuto rappresentare una minaccia alla loro virtù. 3 Nel mondo feudale meridionale la specificità dell’assetto socio-politico del Regno, connotato da un rilevante protagonismo dell’ambito cortigiano, sia a livello centrale che periferico, e da figure femminili di rilievo 4 – si pensi quantomeno all’azione svolta dalla regina Giovanna II d’Angiò-Durazzo nella delicata fase del conflittuale processo di successione tra angioini e aragonesi 5 –, imponeva una tempestiva riflessione e una didascalica produzione sull’institutio principis e su quella dell’optimo cortesano. Il nobile Diomede Carafa, che in netto anticipo sul Castiglione si preoccupava di fornire un vademecum comportamentale per la corretta vita di corte, nei suoi Memoriali indirizzati ad alcune giovani principesse napoletane, da Eleonora d’Aragona, moglie del duca Ercole d’Este, a Beatrice d’Aragona, sposa del re Mattia Corvino d’Ungheria, ribadiva che « lo essire de casa la donna non lo deve fare senza iusta e ragionevole accagione, cioè come de andare ad messa li dì de festa e principale, ad visitare parenti et infirmi e dompne figliate et cum qualche virtuose compagnie ». 6 Fortemente coercitiva risultava pertanto la trattatistica napoletana anche nei confronti di una classe aristocratica femminile di cui in filigrana è possibile cogliere una legittima aspirazione al ribaltamento dei modelli comportamentali a lei imposti, e che evidentemente andava acquisendo sempre maggiore consapevolezza del prestigio del proprio status economico-giuridico all’interno della coppia. Non così invece si comportava l’umanista piacentino Antonio Cornazzano, che, de 





1   Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, a cura di Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, nuova ed. a cura di Francesco Furlan, Torino, Einaudi, 1994, l. iii, p. 273 sgg. 2   Cfr. Arist., Pol., iii, 4, 1277b, 20-25 in Aristotele, Opere, Milano, Mondadori, 2008, vol. ii, p. 551. Sul rapporto tra Alberti e Senofonte, cfr. Isabella Nuovo, Il tema della “villa” in Leon Battista Alberti e nella riflessione umanistica : dall’otium letterario allo svago cortigiano, « La parola del testo », iv (2000), fasc. 1, pp. 131-149 (I p.te) e fasc. 2, pp. 341380 (II p.te). 3   Cfr. Del Reggimento e costume di donna di Messer Francesco da Barberino, a cura di Carlo Baudi di Vesme, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1875, p. 26 ; Giovanni Battista Festa, Un galateo femminile italiano del ’300. Il Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, Bari, Laterza, 1910. 4   Cfr. Giovanni Muto, ‘I segni d’Honore’. Rappresentazioni delle dinamiche nobiliari a Napoli in Età Moderna, in *Signori, patrizi, cavalieri in Italia centromeridionale nell’età moderna, a cura di Maria Antonietta Visceglia, RomaBari, Laterza, 1992, pp. 171-192 ; Angelantonio Spagnoletti, Donne di governo tra sventura, fermezza, e rassegnazione nell’Italia della prima metà del Cinquecento, e Elisa Novi Chavarria, Reti di potere e spazi di corte femminili nella Napoli del Cinquecento, in *Donne di potere nel Rinascimento, cit., pp. 313-332 e 361-374. 5   Cfr. Alessandro Cutolo, Giovanna II, la tempestosa vita di una regina di Napoli, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968 ; M. Gaglione, Donne e potere a Napoli ..., cit. 6   Diomede Carafa, Memoriali, edizione critica a cura di Franca Petrucci Nardelli, note linguistiche e glossario di Antonio Lupis, saggio introduttivo di Giuseppe Galasso, Roma, Bonacci, 1988, p. 250. Sul Carafa, vd. Enrica Guerra, Eleonora d’Aragona e i Doveri del principe di Diomede Carafa, in *Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere dall’età moderna, a cura di Angela Giallongo, Milano, Unicopli, 2005, pp. 113-119 ; Lucia Miele, Tradizione ed esperienza nella precettistica politica di Diomede Carafa, Napoli, Giannini, 1976 ; Giuliana Vitale, Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Salerno, Carlone editore, 2002, p. 164 sgg. ; Bruce L. Edelstein, Nobildonne napoletane e committenza : Eleonora d’Aragona ed Eleonora di Toledo a confronto, « Quaderni Storici », civ (2000), 2, pp. 295-330 ; Marco Folin, La corte della duchessa : Eleonora d’Aragona a Ferrara, in Donne di potere nel Rinascimento, cit., pp. 481-512. Sulla diversità tra i consigli suggeriti dal Carafa alle principesse d’Aragona e quelli offerti alle donne comuni nei Memoriali, si veda Maria Antonietta Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 147-149.  



























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dicando alla stessa Eleonora d’Aragona un trattato sul governo, il Del modo di regere e di regnare, celebrava la Duchessa di Ferrara come ideale exemplum di sovrana. 1 A Beatrice d’Aragona veniva dedicata, nel 1497, una raccolta di biografie di donne illustri, il De plurimis claris selectisque mulieribus, da Iacopo Filippo Foresti, il quale saccheggiava ampiamente, nei ben 184 medaglioni, il De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio e, per i profili delle donne contemporanee, ricorreva alla Gynevera o delle clare donne, altra silloge di biografie femminili dedicata esclusivamente alle donne moderne, di Sabadino degli Arienti. Il Foresti, con una sensibilità decisamente più incline, rispetto a quella del Carafa, a riconoscere e accettare la pari dignità di una donna in relazione al consorte, specie se regina, non mancava di esaltare proprio quelle doti intellettuali, che ancora nel Regno di Napoli erano guardate con sospetto e diffidenza. 2 Nella lunga dedica rivolta a Beatrice, vedova di Mattia Corvino, raffigurata mentre accoglie il volume dal frate agostiniano nella xilografia d’apertura, Foresti costruisce un articolato profilo della regina aragonese, impiegando soprattutto le sue doti di storico e di cronista, e mettendo perfettamente a fuoco, attraverso l’encomiastica rassegna di tutte le virtù etiche, mondane e culturali, l’immagine di questa virago dignissima, emblema della moderna ‘donna illustre’, che si colloca in una galleria in cui le protagoniste sono assai spesso significativamente effigiate, nelle incisioni che corredano l’edizione (Ferrara, Laurentius de Rubeis de Valentia, 29 Aprile 1497), intente alla lettura di un libro. 3 Se la produzione etico-pedagogica meridionale indirizzata alle donne aristocratiche tradiva una persistente resistenza alla pratica della lettura, che non fosse solamente quella devota, e ancor di più all’esercizio della scrittura, una significativa infrazione a questa consolidata norma era stata compiuta, sia pur nella fictio letteraria, da Giovanni Boccaccio, che aveva inaugurato proprio nella Napoli angioina l’innovativo modello della donna scrittrice. L’Elegia di madonna Fiammetta 4 offre infatti, attraverso il medium delle Heroides ovidiane, la precoce testimonianza del passaggio dal fuso alla penna, già propiziato dalle precedenti esperienze di nobildonne e di mistiche 5 e, in particolare, dall’archetipica scrittura di Eloisa, che nonostante tutto riconosceva l’incompatibilità dell’otium letterario con la vita matrimoniale e il conseguente conflitto tra « la cattedra e una culla, tra un libro  

1   Cfr. Annalisa Musso, « Del modo di regere e di regnare » di Antonio Cornazzano. Per il testo e la datazione, « Bollettino Storico Piacentino », xcii (1997), pp. 73-87 ; Ead., « Del modo di regere e di regnare » di Antonio Cornazzano. Una institutio principis al femminile, « Schifanoia », xix (1999), pp. 67-79. 2   Cfr. Beatrice Collina, Illustri in vita. Biografie di donne contemporanee nelle collettanee del XV secolo, « Mélanges de l’école française de Rome. Italie et Méditerranée », cxiii (2001), 1, pp. 69-90 : 73-75 ; Ead., L’esemplarità delle donne illustri fra Umanesimo e Controriforma, in Donna, disciplina …, cit., pp. 103-119. 3   Cfr. Claudia Corfiati, Donne famose nella scrittura di Iacopo Filippo Foresti, d’imminente pubblicazione in *Varietas gentium – Communis Latinitas, Acta del xiii Congresso dell’International Association for Neo-Latin Studies (Budapest, 6-13 August 2006), Tempe-Arizona, mrts. 4   Cfr. Vittore Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, in Giovanni Boccaccio, Tutte le opere, a cura di Vittore Branca, vol. i, Milano, Mondadori, 1967, pp. 66-67 ; Id., Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 1990, pp. 200-202 ; Cesare Segre, Strutture e registri nella « Fiammetta », « Strumenti Critici », vi (1972), pp. 133-162 ; Maria Luisa Doglio, Il libro, « lo ’ntelletto e la mano » : Fiammetta o la donna che scrive, « Studi sul Boccaccio », xxxiii (2005), pp. 97-115. 5   Si vedano, ad esempio, le figure di Eleonora d’Aquitania e Marie de Champagne o della badessa Ildegarda di Bingen : cfr. Peter Dronke, Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal ii al xiv secolo, pref. di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, trad. italiana, Milano, Il Saggiatore, 1986. Interessante è la riflessione espressa dal Doni, che finisce con l’identificare la competenza nell’uso dell’ago con quella della scrittura, a proposito di una monaca sua contemporanea : « Brigida monaca italiana […] ha con l’ago insegnato a scrivere cifre, versi e prose, onde nel mandare a donar un fazzoletto, o qualsivoglia altra cosa lavorata, ella saprà dir tutto il bisogno suo, e di questa industria n’ha scritto tre libretti, e si chiamano La Rondine della Brigida, Il Rosignolo e La Penelope », Anton Francesco Doni, La libraria, a cura di Vanni Bramanti, Milano, Longanesi, 1972, trattato secondo : Degli autori veduti a penna, i quali non sono ancora stampati, p. 280.  











































   













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o un quaderno e una conocchia, tra uno stilo e una penna e un fuso » (cap. 7, p. 83) ; ma nella Fiammetta scrittrice è forse intenzionalmente adombrato il pericolo cui conduce un’eccessiva frequentazione con la penna e con le letture dei classici, che la protagonista dimostra di conoscere bene, comparando continuamente la propria sofferenza a quella delle antiche eroine : non è un caso infatti che, sebbene ella indulga verso l’instaurazione di una complice intesa con le sue lettrici, cui il proprio personale e doloroso ‘caso’ dovrebbe fungere da monito, sia tuttavia fatalmente preda della trasgressione amorosa, forse alimentata proprio da quell’immaginario letterario di infelici amanti. 2 Bisognerà aspettare Antonio De Ferrariis Galateo per assistere, in area meridionale e ormai in piena età umanistica, a un’importante evoluzione di quella posizione maschilista che aveva a lungo negato alle donne ogni forma di autonomia e ancor più di abilitazione al governo. Eppure lo stesso rigore con cui Giovanni Pontano nel De obedientia dichiarava la completa sottomissione della moglie al marito, tradiva forse una realtà in forte movimento, 3 che sempre più trasgrediva le regole cui aveva fatto cenno il Carafa. 4 L’umanista salentino, legittimando l’accesso agli studi liberali e a una formazione letteraria anche da parte delle principesse, procurava loro gli strumenti per affrontare non solo la gestione del consueto ambito domestico e privato, ma anche, eccezionalmente, quello più impegnativo della sfera politica e pubblica. Ciò imponeva che si riscrivessero i parametri formativi delle giovani principesse e ne si revisionasse l’ottica misogina cui si è ac 



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1   Abelardo ed Eloisa, Lettere, a cura di Nada Cappelletti Truci, introd. di Cesare Vasoli, Torino, Einaudi, 1979, VII, p. 83. Sul tema si veda, da ultimo, Giovanni Cipriani, Grazia Maria Masselli, « Questo matrimonio non s’ha da fare ». Attacchi di misoginia come protrettico alla vita beata, in *Letteratura polemica e paradigmi controversiali. Dalla tradizione antica alle forme dell’età moderna, II Seminario prin 2007 : Forme della polemica in età cristiana (iii-v sec.) (Foggia, 18-20 novembre 2009), di prossima pubblicazione. 2   Si veda anche quanto Boccaccio afferma nel Proemio del Decameron : « Adunque, a ciò che in parte per me s’ammendi il peccato della Fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno ; in soccorso e rifugio di quelle che amano (per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio), intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo … ». 3   Per Pontano l’obbedienza alla componente maschile, che, come quella dei figli, poteva, in limitatissimi casi, non essere assoluta, diventava la virtù centrale di un sistema di potere e di una organizzazione familiare, che non ammetteva eclatanti deroghe. Del testo del De obedientia, che si legge in Ioannis Ioviani Pontani De obedientia libri v, in Opera omnia soluta oratione composita, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1518, cc. 1r-48v, si dispone ora di una moderna trascrizione in Mariantonia Adesso, Il De obedientia di G. Pontano, tesi di dottorato in italianistica, xvii ciclo, Università degli Studi di Bari : per l’obbedienza della donna nei confronti del marito si veda in particolare il libro III ; cfr. Isabella Nuovo, Potere aragonese e ideologia nobiliare nel “De obedientia” di G. Pontano, in *Le carte aragonesi, Atti del Convegno (Ravello, 3-4 ottobre 2004), a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004, pp. 119-140. 4   In effetti, i cospicui beni feudali e patrimoniali portati in dote dalle nobili spose consentivano loro di assumere talora, all’interno del rapporto di coppia, una posizione di superiorità, che si traduceva spesso anche in atteggiamenti arroganti nei confronti dei coniugi (Diomede Carafa, Memoriale et recordo de quello have da fare la mulglyere per stare ad bene con suo marito et in che modo se have a honestare, in Id., Memoriali, cit., pp. 252-253 : « le più de le bone et de le non bone provano li mariti si potissero essere superiure et si li arrivano, como multe li so’ arrivate, li animi poi li inducono ad altro. Sì che le donne se diveno multo amare et ben tractare, ma non farle essere superiure de chi divino essere subiecte et subtaposte [...] ; sì che quando fosse lo contrario, che la donna hagia da governare lo homo, come nde so’ multe, è cosa contra natura, ché tale cose tardo ponno essere altro che male » ; Trattato dell’obedienza di M. Giovanni Pontano ... tradotto da M. Iacopo Baroncelli, Venezia, Gabriel Giolito, 1569, p. 109, l. iii, cap. vii : « Nuoce anchora grandemente a l’obedientia e a la bontà che si truovano molte donne, per altro molto honorate e discrete, che non possono comportar le riprensioni de’ lor mariti, e quel ch’è peggio vogliono esser tenute savie e da consiglio, né vogliono comportar un minimo rumoruzzo che i mariti lor faccino ») e che comunque prevedeva che esse disponessero di competenze atte alla gestione dei propri beni, da quelle giuridiche e amministrative a quelle tecniche necessarie per la conduzione delle proprietà terriere (« Benché alle volte n’hanno tutta la colpa gl’ huomini, che si mettano a tor moglie, o per ambitione, o per avaritia, non sappiendo che la nobiltà et la dote grande hanno due cattive compagne : la superbia della moglie e la servitù del marito », Trattato dell’obedienza di M. Giovanni Pontano ..., cit., p. 96, l. iii, cap. ii) : cfr. Maria Antonietta Visceglia, La donna aristocratica tra modello cortigiano e ideale cavalleresco, in Ead., Il bisogno di eternità …, cit., pp. 141-174.  









































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cennato. Il Galateo, che ben conosceva la realtà del Mezzogiorno, ebbe modo di offrire un suo valido contributo sulla questione. Egli infatti nella lettera a Maria del Portogallo, 1 che ha la funzione di incipit dell’intero corpus epistolare galateano, con un carattere non solo prefatorio, ma anche teorico e progettuale, fornì significativi elementi di riflessione, i quali, affrontando una delle questioni nodali del vivere cortigiano, il tema cioè dell’ipocrisia e della simulazione, consentivano di operare una netta rivalutazione dell’azione femminile, assai meno compromessa, rispetto a quella maschile, con le dominanti logiche di potere. D’altra parte l’umanista sembra accogliere il discorso sulla donna, collocandosi assai precocemente, rispetto alle future produzioni cinquecentesche, 2 su una posizione filogina. 3 Quel discorso che, come s’è detto, ha origini molto lontane, affonda le sue radici in una tradizione più che millenaria d’impronta biblica e cristiana, 4 classica, greca e latina, e si era venuto coagulando essenzialmente in due filoni, quello di matrice aristotelica, che, com’è noto, sosteneva la naturale inferiorità della donna, e l’altro di matrice essenzialmente platonica, che dal Mulierum virtutes di Plutarco fino al De claris mulieribus di Boccaccio, si era orientato verso il riconoscimento della pari dignità del sesso femminile. Le aperture filo1   Le epistole di cui ci accingiamo a parlare (Ad Mariam Lusitanam, de hypocrisi, e Ad illustrem dominam Bonam Sforciam) sono criticamente edite da Francesco Tateo in Antonio De Ferrariis Galateo, Epistolae, in La prosa dell’Umanesimo, a cura e con introduzione di Francesco Tateo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 351-359 ; 366-368 (le rispettive traduzioni italiane alle pp. 373-380 ; 386-388), cui si rinvia anche per la nota introduttiva, ivi, pp. 347-349. Per la biografia di Antonio De Ferrariis Galateo si veda s.v. De Ferrariis Antonio Galateo, in *Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1987, vol. xxxiii, pp. 738-741 ; Claudio Griggio, De Ferrariis Antonio, detto il Galateo, in *Dizionario Critico della Letteratura Italiana, Torino, utet, 1986, vol. ii, pp. 116-122 ; la scheda biografica, con bibliografia aggiornata, premessa ad Antonio De Ferrariis Galateo, Esposizione del Pater Noster, a cura di Francesco Tateo, in La prosa dell’Umanesimo, cit., pp. 207-210 ; Donato Moro, Per l’autentico Antonio De Ferrariis Galateo, Napoli, Ferraro, 1991 ; Antonio Iurilli, De Ferrariis (Antonio dit Galateo) (1446/8-1517), in *Centuriae Latinae ii . Cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières. À la mémoire de Marie-Madeleine de La Garanderie, a cura di Colette Nativel, Ginevra, Droz, 2006, pp. 265-272. Per la collocazione del Galateo nel panorama dell’Umanesimo meridionale cfr. Mario Santoro, La cultura umanistica, in *Storia di Napoli, vol. iv, tomo i, Napoli, Società editrice della Storia di Napoli, 1974, pp. 364-368 ; Francesco Tateo, L’Umanesimo meridionale, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 54-62 ; Id., Diagnosi del potere nell’oratoria di un medico, in Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 3-20 ; Id., La raccolta delle ‘Epistole’ di A. Galateo, in *Acta Conventus Neo-Latini Guelpherbytani, Proceedings of the Sixth International Congress of Neo-Latin Studies (Wolfenbüttel, August 1985), a cura di Stella Purce Revard, Fidel Radle, Mario A. Di Cesare, Binghamton, mrts, 1988, pp. 551-562 ; Id., Alle origini dell’umanesimo galateano, in *Nuovi studi in onore di Mario Santoro, a cura di Maria Cristina Cafisse et al., Napoli, Federico & Ardia, 1989, pp. 145-157 ; Id., La storia del corpus di Antonio Galateo in una recente ricostruzione della tradizione manoscritta, in Studi di storia e cultura meridionale. Per le nozze d’argento di Vittorio Zacchino e Anna Orlandino, Galatina, Grafiche Panico, 1992, pp. 59-63 ; Pasquale Alberto De Lisio, L’umanesimo problematico di Antonio De Ferrariis Galateo, in Id., Studi sull’Umanesimo meridionale, Napoli, Fratelli Conte, 1974, pp. 19-59 ; Isabella Nuovo, « Philosophia magistra vitae ». La missione del sophós nelle Epistole di Antonio Galateo, in Ead., Otium e negotium. Da Petrarca a Scipione Ammirato, Bari, Palomar, 2007, pp. 179-219 ; per la tradizione manoscritta e a stampa delle opere del Galateo, cfr. Antonio Iurilli, L’opera di Antonio Galateo nella tradizione manoscritta. Catalogo, Napoli, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, 1990 ; Paola Andrioli Nemola, Catalogo delle opere di A. de’ Ferrariis, Galateo, Lecce, Milella, 1982. 2   Per un loro catalogo cfr. Marie-Françoise Piéjus, Index cronologique des ouvrages sur la femme publiés en Italie entre 1471 et 1560, in *Images de la femme dans la littérature italienne de la Renaissance. Préjugés misogynes et aspirations nouvelles : Castiglione, Piccolomini, Bandello, Etudes réunies par José Guidi et André Rochon, Parigi, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1980, pp. 157-169. 3   Sulla complessa questione del ‘femminismo’ cinquecentesco rinvio, oltre che alla bibliografia in precedenza citata, a Francine Daenens, Superiore perché inferiore : il paradosso della superiorità della donna in alcuni trattati italiani del Cinquecento, in *Trasgressione tragica e norma domestica. Esemplari di tipologie femminili dalla letteratura europea, a cura di Vanna Gentili, Roma, Storia e Letteratura, 1983, pp. 11-41 ; Ead., Doxa e paradoxa : uso e strategia della retorica nel discorso sulla superiorità della donna, « Nuova D. W. F. », xxv/xxvi (1985), Atti del Seminario Figure di donna : Testi letterari del xvi secolo : fonti, scritture, percorsi critici, a cura di Marina Zancan, pp. 27-38. 4   Cfr. Clementina Mazzucco, “E fui fatta maschio”. La donna nel cristianesimo primitivo (secc. i-iii), con un’appendice sulla Passio Perpetuae, presentaz. di Eugenio Corsini, Firenze, Le Lettere, 1989 ; Umberto Mattioli, Astheneia e andreia. Aspetti della femminilità nella letteratura classica, biblica e cristiana antica, Roma, Bulzoni, 1983.  



















































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gine del Galateo andranno però adattandosi variamente nel corso degli anni e nei diversi contesti storico-ambientali, fino a generare una certa ambigua contraddittorietà, che si può giustificare solo alla luce della specificità che la sua riflessione assume, anche in relazione alla diversità del rango dei personaggi cui l’umanista indirizza le sue osservazioni. L’epistola De hypocrisi si può scandire in due diverse sequenze. Nella prima il Galateo si dilunga a elencare le diverse argomentazioni che illustrano l’eccellenza delle donne, decisamente superiori, per virtù, devozione, fede, umanità, onestà, pietà, modestia, pudore agli uomini, i quali sono invece negativamente connotati perché causa delle peccaminose azioni femminili e inclini ai più esecrabili vizi : dalla crudeltà all’avidità, dall’incostanza all’inganno, dalle stragi al disprezzo delle leggi morali e divine. Per allontanare da sé ogni sospetto di adulazione, l’umanista, a sostegno della propria tesi, reca la testimonianza di Girolamo, che ricorre continuamente nell’epistola e il cui massiccio uso viene giustificato con la grande dimestichezza da parte della destinataria col padre della Chiesa, anche questa una spia indiretta del livello di acculturazione del modello di nobildonna cui guardava il Galateo. Dopo aver fissato questo primato della virtù femminile, l’epistola vira, nella seconda sequenza, su un terreno più ideologico, affrontando la spinosa questione dell’ipocrisia, ormai dilagante nel mondo cortigiano, e che sarà uno dei bersagli più polemici dell’anticonformista De Ferrariis. A introdurre l’ambiguità del rapporto di adulazione, che spesso contrabbanda l’amaro veleno del vizio con l’ingannevole apparenza della virtù, l’umanista si serviva ancora una volta della fonte girolomina, facendo ricorso all’epistola Ad Laetam, 1 ma scoprendo forse così il suo importante modello di institutio puellae : si tratta infatti di un testo estremamente importante per la delineazione di un progetto formativo rivolto a una fanciulla, che esaltava il ruolo dell’apprendimento culturale, dalla lettura alla scrittura, esteso fino alla conoscenza del latino e del greco, delineando un assai interessante metodo di insegnamento, recepito poi dalla più avvertita pedagogia umanistica, che non escludeva, accanto all’acquisizione di un sapere intellettuale, 2 anche quella del più tradizionale sapere manuale : « impari anche a filare la lana » – diceva Girolamo – « a tenere la conocchia, a mettersi in grembo il canestro, a far girare il fuso, a guidare lo stame col pollice ». 3 Nell’epistola alla giovane principessa Bona Sforza, 4 di cui fu istitutore, il letterato salentino rivendicava la necessità e l’utilità di una formazione intellettuale per chi, come la giovinetta, fosse destinata al governo, 5 tracciando un preciso canone di letture (Virgilio,  













1   Ad Laetam de institutione Filiae, in San Gerolamo, Lettere, introduzione e note di Claudio Moreschini, traduz. di Roberto Palla, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 434-468. L’epistola ebbe numerosi volgarizzamenti e fu anche importante testo di riferimento per il domenicano Giovanni Dominici, che, tra il 1401 e il 1403, compose la Regola di governo di cura familiare, uno dei primi trattati in volgare sul tema della famiglia, diretto inoltre a una donna, Bartolomea degli Obizzi, moglie di Antonio Alberti, parente di Leon Battista Alberti : cfr. M. L. Lenzi, Donne e madonne …, cit., pp. 35 e sgg. 2 3   Cfr. Ad Laetam, cit., § 4 sgg., p. 443 sgg.   Ivi, §10, p. 459. 4   In merito a Bona Sforza, regina di Polonia e duchessa di Bari, cfr. La Regina Bona Sforza tra Puglia e Polonia, Atti del Convegno di Bari del 1980, Wroclaw, Zaklad narodowy imienia Ossolinskich wydawnictwo Polskiej akademii nauk, 1987 ; Francesco Tateo, Dal latino ecclesiastico al volgare cortigiano. 5. La poesia mondana nella Bari del Cinquecento, in Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, a cura di Francesco Tateo, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 531-538 : 535 sgg. ; Bona Sforza, regina di Polonia e duchessa di Bari, Catalogo della mostra a cura di Maria Stella Calò Mariani e Giuseppe Dibenedetto, Roma, Nuova Comunicazione, 2000 ; Isabella Nuovo, Viaggi di umanisti e viaggi di principesse, in *Scrittura di viaggio. Le terre dell’Adriatico, a cura di Giovanna Scianatico, Bari, Palomar, 2007, pp. 71-98. 5   Dell’ampia letteratura critica sulla trattatistica tesa a orientare l’educazione delle donne tra Quattro e Cinquecento, cfr. M.L. Lenzi, Donne e madonne …, cit. ; Ruth Kelso, Doctrine for the Lady of the Renaissance, Urbana, University of Illinois Press, 19782 ; Marina Zancan, Appendici, in Ead., Nel cerchio della luna, cit., pp. 237-253 ; Paola Tantulli, Repertorio, in Donna, disciplina …, cit., pp. 406-705. Si veda, per la distinzione tra letture femminili e ma 















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Cicerone, il Vecchio e il Nuovo Testamento, san Girolamo, sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo) 1 e indicando le funzioni che più le si confacevano, decisamente contrastanti con quelle tradizionalmente assegnate a chi si fosse dovuta esclusivamente occupare del governo della casa :  

Se i principi sono superiori agli altri non solo in base alla legge e al costume, come i più pensano, grandissima deve essere la distanza fra te e le altre fanciulle. Tu sei nata per comandare, loro per ubbidire ; esse adoperano la conocchia e il fuso, tu ti dedichi al diritto e all’educazione morale ; esse si dedicano alla cura del corpo, tu devi coltivare lo spirito ; esse obbediscono alla padrona, fanno la lana, cuciono con la seta e con sottilissimi fili di oro ; voi altre, che avete il compito, poiché così ha voluto la fortuna, di comandare anche gli uomini, sfogliate libri di santi e di filosofi, imparate a seguire l’esempio delle donne illustri, per sembrar degne di aver il potere di comandare anche gli uomini, in quanto la fortuna ha raccolto in voi tutti i suoi doni e tutti i suoi beni. […] Tu presta l’orecchio e tutta la tua attenzione a Crisostomo, in modo che possiamo chiamarti non una fanciulla plebea, ma una eroina. 2  







L’ambiguità del vocabolo latino heroina, di uso raro e presente in Properzio 3 piuttosto con l’accezione di semidea, che ovviamente mal si adatta al contesto galateano, viene facilmente risolta se solo ci si richiama all’altro valore semantico assunto dal termine nell’ambito greco, dal quale certamente l’italogreco De Ferrariis l’aveva attinto : eroìne, -es, infatti, significa ‘donna nobile’ e ben si addice a Bona, fanciulla di stirpe regale, soprattutto in opposizione a ‘fanciulla plebea’. Ma il pregnante lemma fungeva emblematicamente da programmatico avvio a una profonda rivisitazione dell’identità e della funzione della nobildonna, destinata, per il suo rango, a governare sugli uomini, ribaltando, in tal modo, un radicato stereotipo, che neppure la trattatistica sull’institutio principesca al femminile allestita da un Carafa aveva minimamente incrinato. La svolta impressa alla vexata quaestio dal De Ferrariis, il quale davvero precocemente riconosceva l’importante ruolo pubblico delle discendenti aragonesi, sia pur all’interno di un sistema che legittimava la trasmissione anche per parte femminile del potere, sembra addirittura anticipare non solo la moderna posizione castiglionesca, ma anche andare oltre, per giungere a esprimere toni molto simili a quelli cui solo a fine secolo, nel 1580, sarebbe pervenuta la riflessione tassiana, con il Discorso della virtù feminile e donnesca. 4 Quest’ultimo sembra chiudere quel circolo virtuoso che, significativamente avviato da Leon Battista Alberti nell’ambito privato in relazione alla madre di famiglia, approdava ora a una dimensione decisamente politica, nella quale quella figura veniva abilitata al reggimento dello Stato, e quindi della cosa pubblica, grazie all’acquisizione di una femminile e donnesca virtù, che si identificava con la virtù eroica, e cioè regia. Essa  

schili, Tiziana Plebani, Il ‘genere’ dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001 ; già Leonardo Bruni nel De studiis et litteris (1422-1429 : in Leonardo Bruni, Opere letterarie e politiche, a cura di Paolo Viti, Torino, utet, 1996, pp. 245-279), pur ritenendo gli studi umanistici utili per la donna – si rivolgeva infatti a Battista di Montefeltro, moglie del signore di Pesaro Galeazzo Malatesta –, e indispensabili per eccellere, operava una selezione dei testi, che, scartando quelli di carattere scientifico e di arte retorica, privilegiava le opere di contenuto religioso ed etico. 1   È interessante rilevare come, già al tempo di Ippolita Sforza, nella corte aragonese non mancassero esempi di piccole raccolte librarie possedute dalle stesse principesse : cfr. Gennaro Toscano, Libri e letture di due principesse della corte aragonese di Napoli : Isabella di Chiaromonte e Ippolita Maria Sforza, « Rassegna storica salernitana », xlvi (dicembre 2006), pp. 109-134, e, in questi Atti, il saggio di Concetta Bianca, Le biblioteche delle principesse nel Regno aragonese. 2   Antonio Galateo, Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, in Id., Epistolae, cit., pp. 386-387. 3   Prop., Eleg., i 13, 31 ; i 19, 13. 4   Torquato Tasso, Discorso della virtù feminile e donnesca, a cura di Maria Luisa Doglio, Palermo, Sellerio, 1997.  













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consisteva, per Tasso, essenzialmente nella prudenza e nella fortezza, da impiegare non già nella ricerca dell’utile, ma nel decoro, non nella parsimonia, ma nella « delicatura e leggiadria ». 1 Nella produzione galateana le due epistole a Maria del Portogallo e a Bona Sforza, proprio in considerazione della eccezionalità di ceto delle loro destinatarie, costituiscono un dittico eccentrico rispetto alle teorie sostenute dall’umanista e ampiamente divulgate nei suoi scritti. Nel De educatione, infatti, egli non mancherà di affermare :  





Che può l’uomo imparare da una donna e da una fanciulla ? […] Ella è nata a far la lana, a trattar conocchie e fusi, a distribuire il compito alle ancelle, ad alimentare la famiglia […]. Come dice Aristotile, la donna dabbene deve governare tutto ciò che appartiene alla casa ; ma neppur conosca quanto è fuori il limitare della porta […]. Col favore del buon Dio prenderemo la conocchia e il fuso ; e lasceremo loro che trattino le armi, come le Amazzoni ? 2  







Sono qui presenti sia le tracce dell’antico monito di Ettore ad Andromaca, sia, con forte anticipazione, i prodromi delle sarcastiche battute del Pallavicino. 3 Una linea mediana sarebbe stata tracciata dal Castiglione, con l’indubbio limite di interdire alle donne di palazzo non solo l’autonomo comando, cui peraltro non erano destinate, ma persino l’assoluta libertà di espressione in un consesso maschile ; egli, pur riconoscendo nella donna virtù tali che potessero abilitarla al governo delle città – infatti diceva « non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico delle donne, dà loro la custodia della città e tutti gli altri officii marziali dà agli omini ? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbon così ben governar le città e gli eserciti, come si faccian gli omini ? » 4 – tuttavia poi, sottoli 









1   Vedi, invece, l’opposizione di Lucrezia Marinelli (La nobiltà, et l’eccellenza delle donne co’ difetti, et mancamenti de gli huomini, Venezia, G. Battista Ciotti, 1601) e la sua confutazione del giudizio del Tasso (ivi, p. 128) sull’attribuzione alle sole principesse della virtù eroica, non estesa anche a tutte le donne comuni, cfr. B. Collina, L’esemplarità …, cit., pp. 103-119 : 107. 2 Antonio De Ferrariis Galateo, Dell’educazione, in Id., La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, traduzione dal latino, vol. i, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1867, pp. 146-147 ; per l’operetta, scritta in latino, si rinvia all’edizione critica Antonio De Ferrariis Galateo, De educatione (1505), texte établi et introduit par Carlo Vecce, traduction française de Pol Tordeur, notes de Carlo Vecce et Pol Tordeur, préface de Pierre Jodogne, Lovanio, Peeters Press, 1993, §§ 65-66, pp. 126, 128 ; Amedeo Quondam, « Formare con parole » : l’institutio del moderno gentiluomo, « History of Education & Children’s Literature », i (2006), 1, pp. 23-54. Quanto al riferimento alle mitiche Amazzoni, non è forse casuale che proprio una principessa contemporanea, Caterina Sforza, figlia illegittima del Duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e signora di Imola, vedova di Girolamo Riario e madre del famoso condottiero Giovanni dalle Bande Nere, venisse paragonata per la sua abilità nelle armi proprio ad un’amazzone : cfr. il suggestivo profilo biografico offerto da Iacopo Filippo Foresti nel suo già citato De plurimis claris selectisque mulieribus. 3   Senza dubbio a cavallo tra Quattro e Cinquecento si assiste alla dilagante affermazione di principesse dal forte carisma e dalle grandi abilità diplomatiche e strategiche, capaci di sostituire degnamente i loro consorti impegnati sui campi di battaglia o prematuramente scomparsi. Oltre a imporre precise direzioni alle strategie dinastiche, seppero anche animare raffinate corti femminili, del tutto equiparabili a quelle maschili, divenendo promotrici non solo delle tradizionali opere di devozione e di pietà fino allora di stretta competenza femminile, ma intraprendendo anche una vera e propria politica culturale, fatta di committenze artistiche e letterarie, capaci di competere con quelle maschili. Per il versante meridionale rinvio al mio Isabella de Capua e Ferrante Gonzaga nell’immaginario letterario del Rinascimento, in Otium e negotium ..., cit., pp. 289-360. Mentre nel Regno di Napoli, probabilmente per l’impianto ancora feudale di quella realtà politica, gli intellettuali si attardavano, come si è visto, nel ritenere poco onorevoli, o addirittura pericolosi e destabilizzanti, matrimoni nei quali la componente femminile si imponesse per una superiorità di ceto o economica, nelle corti centro-settentrionali si tendeva invece a privilegiare la scelta di mogli che fossero di rango più elevato del marito, per rafforzare la casata e consolidarne l’immagine : cfr. Marco Folin, Bastardi e principesse nelle corti del Rinascimento : spunti di ricerca, « Schifanoia », xxviii-xxix (2005), pp. 167-174. 4   Il libro del Cortegiano, iii 10. Il vivace dibattito sulla condizione femminile di età umanistico-rinascimentale si era nutrito delle antinomiche riflessioni sviluppate su questo tema da Aristotele e da Platone, che avevano attraversato tutta la trattatistica classica e umanistica : sulla querelle des sexes cfr. la successiva nota 57.  









   















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neando la novità della sua indagine, precisava : « Ma io non ho lor dati questi officii, perché formo una donna di palazzo, non una regina ». 1 Sorprendentemente poi, quando allestiva, sulla scorta del modellizzante precedente boccacciano, un corposo catalogo che testimoniasse come « in ogni tempo […] il valor delle donne » fosse stato pari a quello degli uomini, osservava che « elle non son mai state né ancor sono adesso de virtù punto inferiori agli omini ». 2 Si trattava però di quella virtù eroica, propria delle regine, che ambiguamente pareva distinguere quest’ultime dalle donne di palazzo e che sola accomunava uomini e donne su un piano di totale parità. Ma quello che per Castiglione, all’interno della complessa architettura del terzo libro del Cortegiano, era forse solo un astuto escamotage per promuovere una ricca rassegna di ‘eroine’, soprattutto contemporanee, sulle quali primeggiava non a caso la laudatio di Isabella di Castiglia, massimo esempio di virtù donnesca in senso tassiano, 3 per Galateo si incarnava in una pragmatica proposta di institutio, fondata non sulla codificante forza attrattiva dell’exemplum, quanto piuttosto sulla puntuale elaborazione di un progetto pedagogico in forma di epistola, tutto giocato sulla centralità del motivo etico, che fungeva da elemento separatore e tendeva a sublimare l’azione della donna anche nell’arte del governo rispetto a quella dell’uomo, il più delle volte vero ricettacolo dei più turpi vizi e dei peggiori atteggiamenti, gli stessi, però, che sarebbero stati teorizzati quali virtù politiche nell’ottica machiavelliana in quello stesso torno di anni :  















Se noi […] fossimo dediti alla verità […] e non all’opinione, alle passioni, alle menzogne, alla superstizione e alla simulazione, dovremmo riconoscere necessariamente che il sesso femminile, meno soggetto ai peccati e alle scelleratezze, in molte virtù è superiore a quello maschile. 4

Questa linea galateana, che tendeva ad affrancare le principesse dal chiuso della sfera privata, avrebbe trovato un’ulteriore significativa accelerazione nel corso del Cinquecento, quando, nell’Italia centro-settentrionale, si andò stabilizzando quel sistema cortigiano, da cui il Mezzogiorno non restò certo escluso, se si tien conto che proprio il fenomeno della rifeudalizzazione contribuì al rilancio delle numerose corti periferiche e che non infrequenti furono i casi in cui le donne assunsero importanti funzioni di governo. 5 Università degli Studi di Bari 1

  Il libro del Cortegiano, iii 10.   Ivi, iii 34. Cfr. Carmela Cristofaro, Cataloghi di donne illustri : dalla poesia narrativa alla trattatistica comportamentale, in *Le forme della poesia, Atti dell’viii Congresso dell’adi (Siena, 22-25 settembre 2004), a cura di Riccardo Castellana e Anna Baldini, Siena, Università degli Studi di Siena, 2006, vol. ii, pp. 161-167. 3   Cfr. M. Zancan, La donna nel « Cortegiano » di B. Castiglione ..., cit. ; G. Saccaro Battisti, La donna, le donne nel Cortegiano, cit. 4   Antonio De Ferrariis Galateo, Ad Mariam Lusitanam, de hypocrisi, in Id., Epistolae, ed. Tateo, cit., p. 373. 5   Cfr. la nota 43 e Nino Cortese, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecento, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1931 ; Aurelio Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli, 1505-1557, Napoli, Jovene, 1983 ; Giuseppe Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1965 ; Cesare Mozzarelli, Principe e corte nella storiografia italiana del Novecento, in La corte nella cultura e nella storiografia. Immagini e posizioni tra Otto e Novecento, a cura di Cesare Mozzarelli e Giuseppe Olmi, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 237-274 ; Aurelio Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, vol. I : La lunga durata e la crisi (1500-1656), Napoli, Liguori, 1986 ; L’Europa delle corti alla fine dell’antico regime, a cura di Cesare Mozzarelli e Gianni Venturi, Roma, Bulzoni, 1991 ; Elena Papagna, Strategie familiari e ruoli femminili : le donne della famiglia Caracciolo di Brienza-Martina (secoli xiv-xviii), « Mélanges de l’école française de Rome. Italie et Méditerranée », cxii (2000), pp. 687-735 ; Angelantonio Spagnoletti, Matrimoni e politiche dinastiche in Italia tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Cinquecento, in *L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo Cinquecento, Atti del Convegno internazionale di studi (Roma, 5-7 aprile 2001), a cura di Francesca Cantù e Maria Antonietta Visceglia, Roma, Viella, 2003, pp. 97-113 ; Benedetta Craveri, Amanti e regine. Il potere delle donne, Milano, Adelphi, 2005 ; Carmela Cristofaro, Principesse e matrimonio nell’Italia spagnola del ’500 : fra regola e trasgressione, in *I Gonzaga di Guastalla e di Giovinazzo tra xvi e xvii secolo. Principi nell’Italia padana, baroni nel Regno di Napoli, Atti del Convegno di Studi storici (Giovinazzo, 27 aprile 2007), a cura di Angelantonio Spagnoletti ed Eugenio Bartoli, Guastalla, Associazione guastallese di Storia Patria, 2008, pp. 187-198. 2





































dal fuso al libro: i saperi delle principesse meridionali

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Attraverso l’esplorazione di una pluralità di opere di autori meridionali in continuo dialogo con quelle prodotte in altri centri della Penisola, l’indagine si propone di ripercorrere l’evoluzione della condizione femminile e della normativa che sovrintende alle funzioni della donna nella società aristocratica di antico regime nel Mezzogiorno d’Italia. Soffermandosi soprattutto sul alcune figure rappresentative dell’establishment nobiliare della corte aragonese e sulla trattatistica di genere approntata da umanisti quali Diomede Carafa e Antonio De Ferrarriis Galateo, si tenta di approntare una mappa che riveli il graduale passaggio della figura muliebre da uno stato di totale subalternità alla figura maschile e di segregazione nella sfera privata e nelle attività manuali e prettamente domestiche, ad una sua promozione nell’ambito della corte e alla sua emancipazione attuata mediante sempre più efficaci progetti formativi di acculturazione, elaborati appositamente per il ceto dirigente. Facendo ricorso al valore simbolico rappresentato dal fuso e dalla tela, e dal libro e dalla penna, si è cercato di ricostruire la nuova identità assunta dalle principesse meridionali, che nei primi decenni del Cinquecento non solo imparano con l’aiuto degli auctores l’arte del governo, ma si cimentano in prima persona nella scrittura letteraria. By exploring a multitude of works by southern authors in a relentless dialogue with those produced in other centres of the Peninsula, this essay attempts to trace the evolution of women’s condition and the regulations imposed on women’s roles in Southern Italy in the aristocratic society of the ancient regime. Lingering on some figures that are most representative of the aristocratic establishment of the Aragonese court and the gender treatises written by such humanists as Diomede Carafa and Antonio De Ferrariis Galateo, it tries to draw a map that reveals the gradual transition of women from a state of total subservience to men and segregation in the private sphere and manual and strictly domestic activities to the raising of women to the domain of the court and their emancipation by means of increasingly effective educational and learning projects specifically developed for the ruling classes. Using the symbolic value of the spindle and cloth, and the book and the pen, this essay tries to get a better understanding of the new identity of the southern princesses that in the early 16th century not only learnt the art of governance with the help of the la auctores but also personally embarked on literary writing. À travers l’exploration d’une pluralité d’œuvres d’auteurs méridionaux en dialogue constant avec celles produites dans d’autres centres de la Péninsule, l’enquête se propose de retracer l’évolution de la condition féminine et de la réglementation qui dirige les fonctions de la femme dans la société aristocratique de l’ancien régime du sud de l’Italie. En s’arrêtant en particulier sur certaines figures représentatives de l’establishment nobiliaire de la cour aragonaise et sur l’ensemble des traités du genre rédigé par des humanistes tels que Diomede Carafa et Antonio De Ferrariis Galateo, on tente de dresser une carte révélant le passage graduel de la figure féminine à un état de subalternité totale par rapport à la figure masculine et de ségrégation dans la sphère privée et dans les activités manuelles et strictement domestiques, puis à sa promotion dans le cadre de la cour et à son émancipation lancée à travers des projets d’acculturation toujours plus efficaces, élaborés spécifiquement pour la classe dirigeante. Faisant recours à la valeur symbolique représentée par le fuseau et la toile, et par le livre et la plume, on tente de reconstruire la nouvelle identité assumée par les princesses méridionales, qui au début du xvie siècle non seulement apprirent avec l’aide des auctores l’art du gouvernement, mais s’hasardèrent également à l’écriture littéraire. A través del estudio de una pluralidad de obras de autores meridionales en continuo diálogo con las producidas en otros lugares de la península, este trabajo se propone recorrer la evolución de la condición femenina y de la normativa que regula las funciones de la mujer en la sociedad aristocrática del Antiguo Régimen, en el sur de Italia. Analizando sobre todo algunas figuras representativas del establishment nobiliario de la corte aragonesa y los tratados de género realizados por humanistas como Diomede Carafa y Antonio De Ferrariis Galateo, se intenta crear un mapa que ponga en evidencia el paso gradual de la figura de la mujer de un estado de total inferioridad con respecto al hombre y de segregación a la esfera privada, a las actividades manuales y exclusivamente domésticas, a su promoción en el ámbito cortesano y a su emancipación a través de proyectos formativos

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de aculturación, elaborados a tal fin por la clase dirigente. Recurriendo al valor simbólico representado por el huso y la tela, por el libro y la pluma, se ha intentado reconstruir la nueva identidad de las princesas meridionales que en las primeras décadas del siglo xvi, aprendieron, con la ayuda de los auctores, el arte del gobierno y también se cimentaron en primera persona en la escritura literaria. Mittels einer Erforschung zahlreicher Werke von süditalienischen Autoren, die kontinuierlich im Dialog mit anderen Kulturzentren Italiens standen, will die Untersuchung die Entwicklung der weiblichen Lebensbedingungen und Regeln erarbeiten, denen die Funktionen der Frau in der aristokratischen Gesellschaft des Alten Regimes im Süden Italiens unterstanden. Der Blick ist dabei insbesondere auf einige repräsentative Figuren des adligen Establishments des aragonesischen Hofs sowie auf Traktate zur Gender-Frage von Humanisten wie Diomede Carafa und Antonio De Ferrariis Galateo gerichtet, und will versuchen, eine Landkarte zu erstellen, die aufzeigt, wie die Figur der Ehefrau von einem Zustand der totalen Unterordnung unter den Mann und einer Ausgrenzung in die Privatsphäre und in handwerkliche und spezifisch häusliche Tätigkeiten langsam übergeht in eine geförderte Präsenz am Hof und eine Emanzipation, die durch immer wirksamere Akkulturationsprozesse erfolgt, die speziell für die führende Schicht erarbeitet waren. Bezug nehmend auf den symbolischen Wert der Spindel und des Webleinens, des Buchs und der Feder, wurde versucht, die neue Identität der süditalienischen Prinzessinnen zu rekonstruieren, die in den ersten Jahrzehnten des Cinquecento nicht nur mit Hilfe der auctores die Kunst des Regierens lernten, sondern sich auch im literarischen Schreiben übten.

LA DONNA E IL LIBRO

IMPRENDITRICI O “FACENTI FUNZIONI” ?  

Marco Santoro 1. Non è facile rinvenire nella storia della tipografia italiana de’ nomi femminili. Non già che fino dall’inizio della stampa il sesso gentile abbia ricusato di prestare l’opera sua alla nuova portentosa invenzione, esercitando ogni sorta di uffici, dal più umile al più raffinato, dal mestiere faticoso di bagnare la carta da collocare sotto il torchio a quello paziente di colorire con smagliantissime tinte le immagini sacre o le iniziali degli incunaboli. 1

C

osì Francesco Novati “apriva” il suo articolo Donne tipografe nel Cinquecento apparso nel periodico « Il libro e la stampa » nell’ormai lontano 1907, più di un secolo fa. Dunque, già in esordio di saggio prendiamo atto di alcune precisazioni di fondo, certamente non trascurabili. La prima è che, in effetti, sin dai primi anni della invenzione gutenberghiana al lavoro di tipografia, articolato in diversificate quanto delicate fasi, la professionalità femminile non era certo estranea. La seconda, concerne le difficoltà di estrapolare dalla documentazione sopravvissuta notizie e informazioni non solo sui diversi compiti assunti dalle donne all’interno delle officine ma finanche sulla loro presenza. Ma, catturiamo altre notizie riportate dal Novati. Egli ricorda che dal testamento di Bernardino Benali, 2 tipografo di nascita bergamasca, si ricava che due donne lavoravano nella sua bottega : un’Angiola ed una Laura Bianzago, nipoti della moglie di Bernardino. Nel documento si motiva la ragione in virtù della quale le due donne devono beneficiare di un lascito e cioè per avere lavorato “cum summa diligentia […] per annos quatuor continuos in pingendo figuras, ligando libros, balneando carta et eas aptando ex causa stampandi”. Dunque, una collaborazione alquanto intensa e prolungata nel tempo, della quale però non si potrebbe enucleare nulla sulla base di quanto riportato all’interno delle pubblicazioni. E a riguardo lo studioso avverte :  







Non v’era che un caso nel quale poteva avvenire che il nome d’una donna figurasse nel colophon d’un libro o nella marca di una tipografia, vale a dire quando, sparito, magari d’improvviso, il capo della casa, lasciando de’ figli in età più o meno tenera, o molti affari in pendenza, la moglie, stimolata da così imperiosi motivi, si fosse decisa a continuare anche sola l’azienda maritale. 3

È il caso, ad esempio, come attesta il Fumagalli, di Elisabetta Rusconi, 4 il cui nome compare in calce a vari volumi editi a Venezia fra il 1525 e il 1527. Eppure il Novati nutriva comprensibili dubbi circa la parentela di Elisabetta con Giorgio Rusconi, defunto nel 1521 o, più probabilmente, nel 1522. 5 Infatti, antecedentemente alla prima sottoscrizione re1   Francesco Novati, Donne tipografe del ’500, « Il libro e la stampa. Bullettino ufficiale della Società Bibliografica Italiana », n. s., i (1907), n. 2, p. 41. 2   Ecco la relativa scheda in Edit16 : Bernardino Benali. Venezia [150.]-[Dopo il 1543]. Editore e tipografo attivo a Venezia, n. a Bergamo verso l’anno 1458 (secondo il Dizionario biografico degli italiani) o 1448 (secondo AscarelliMenato) ; sembra potersi escludere che si tratti dello stesso Bernardino Benali che si trovava a Cagli nel 1475. Sposò Elisabetta Bianzago, da cui non ebbe figli. Giunse a Venezia prima del 1480. Fu in società con altri tipografi come Giovanni Tacuino, Giorgio Arrivabene, Lazzaro Soardi. A Padova aprì una succursale gestita da un parente, Bernardino Bianzago, e chiusa nel 1517. M. probabilmente poco dopo il 1543, data dell’ultima edizione da lui sotto3   Francesco Novati, Donne tipografe del ’500, cit., p. 42. scritta. 4   Edit16 : Elisabetta Rusconi. Venezia 1524-1527. Tipografa ed editrice attiva a Venezia, vedova di Giorgio Rusconi e figlia di Paolo Baffo. Fu in società editoriale con Niccolò Zoppino. 5   Edit16 : Giorgio Rusconi. Venezia [150.] – 1522. Editore e tipografo milanese attivo a Venezia. Lavorò da solo e  











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cante il nome di Elisabetta nel 1524, 1 più di una edizione vede la luce con l’indicazione di paternità dei due figli di Giorgio : Giovanni Francesco e Giovanni Antonio. 2 Se ne deduce che in effetti, alla morte del padre, i due eredi erano ormai maggiorenni e nella posizione di potere proseguire autonomamente e ufficialmente l’attività paterna. Come mai allora alcune stampe riportano il nome della Elisabetta ? L’ipotesi, proposta dal Novati ma considerata da tempo errata, 3 è che Elisabetta potesse essere non la moglie ma la figlia di Giorgio la quale, venuta a contrasto con i fratelli, avrebbe deciso di promuovere un’attività autonoma. Ben diversa la situazione dell’altra donna imprenditrice menzionata dal Novati. Sulla parentela di Girolama Cartolari, infatti, non v’è dubbio. 4 Moglie di Baldassarre, attivo a Roma fra il 1540 e il 1543, Girolama subentrò al marito alla sua morte e diresse l’azienda, secondo Novati, almeno fino al 1551, ma in effetti fino al 1559. 5 Sarà appena il caso di aggiungere che inizialmente sulla scia di alcuni equivoci alimentati dal Vanderlinden e poi dal Vermiglioli, Girolama fu confusa con un Girolamo : ma Pietro Brandolese nel lontano 1807 6 restituì, come dire ?, il mal tolto alla moglie di Baldassarre e ristabilì la verità. In sintesi, secondo il Novati :  









Con madonna Girolama de’ Cartolari l’elenco delle donne italiane che nel corso del sedicesimo attesero alla nobile arte di Fausto, è bell e chiuso. Chiuso, s’intende bene, per conto nostro ; ma alla mia ignoranza forse più d’un socio della Bibliografica potrà recare efficace soccorso e più recondite notizie 7  

E il Novati fu buon profeta, anche se davvero poche furono le integrazioni suggerite nell’immediato. La prima, sempre nel 1907, fu a firma di Iro da Venecone, che in effetti non era altro che uno pseudonimo del Novati stesso, come si può per altro controllare sul sempre prezioso repertorio di Renzo Frattarolo. 8 Si tratta della descrizione di un’opera del fisico toscano Andrea Turini realizzata in virtù dell’esame diretto della pubblicazione, edita dalla Cartolari, pubblicazione della quale nel precedente articolo si era data notizia con la riserva di non averne rinvenuto esemplari. Il successivo stringatissimo intervento, che vede la luce sempre su « Il libro e la stampa » nel 1907, è di Vittorio Rossi e dà notizia dell’edizione 1557 della Predica devotissima del beato  



con Manfredo Bonelli ; fu in società editoriale con Niccolò Zoppino e Vincenzo di Paolo. Stampò anche in caratteri cirillici. Sposò Elisabetta Baffo ed ebbe due figli, Giovanni Francesco e Giovanni Antonio, che gli successero, e tre figlie, Daria, Giulia e Lucrezia. M. nel 1521 (secondo Ascarelli-Menato) o nel 1522 (anno in cui compaiono edizioni sottoscritte da lui e altre dagli eredi). 1   Cfr. Edit16 : Ludovico Ariosto, Orlando furioso di Ludouico Ariosto nobile ferrarese ristampato et con molta diligentia da lui corretto et quasi tutto formato di nuouo et ampliato, 1524. Si veda a riguardo : Giuseppe Agnelli-Giuseppe Ravegnani, Annali delle edizioni ariostee, Bologna, Zanichelli, 1933, vol. 1, pp. 23-24. 2   Edit16 : Giovanni Francesco e Giovanni Antonio Rusconi. Venezia 1522-1524. Editori e tipografi milanesi attivi a Venezia, figli di Giorgio ; furono in società editoriale con Niccolò Zoppino e Vincenzo di Paolo. 3   Cfr. a riguardo anche il recente Lucia Gasperoni, Gli annali di Giorgio Rusconi, Roma, Vecchiarelli, 2009. 4   Edit16 : Girolama Cartolari. Roma 1543-1559. Tipografa attiva a Roma, moglie di Baldassarre ; originaria di Perugia, successe al marito nella conduzione dell’officina, che nel 1545 trasferì in piazza di Parione e nel 1548 in borgo S. Pietro. 5   Si veda in proposito Francesco Barberi, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze, Olschki, 1983, p. 151. 6   Pietro Brandolese, La tipografia perugina del secolo xv illustrata dal Vermiglioli e presa in esame da Pietro Brandolese, Padova, Brandolese, 1807, p. 77. Va appena aggiunto che lo stesso Vermiglioli in Biografia degli scrittori perugini e notizie delle opere loro, Perugia, Tipografia di Francesco Baduel, presso Vincenzio Bartelli e Giovanni Costantini, 1828, dove viene peraltro riproposta l’opera Della tipografia De Cartolarj ... del 1820 alla p. 306 correttamente recupera la correzione del Brandolese. 7   Francesco Novati, Donne tipografe del ’500, cit., pp. 45-46. 8   Cfr. Renzo Frattarolo, Dizionario degli scrittori italiani contemporanei. Pseudonimi (1900-1975). Con un repertorio delle bibliografie nazionali di opere anonime e pseudonime, Ravenna, Longo, 1975, pp. 161-162.  













imprenditrici o “ facenti funzioni ” ? 373 Bernardino da Feltre stampata a Venezia, come si legge nel frontespizio, “per le mani de le Conuertite”. Varrà la pena riportare alcune delle osservazioni del Rossi in proposito :  

Gaetano Volpi, registrando questo opuscolo nel suo catalogo La libreria de’ Volpi e la stamparia Cominiana, Padova, 1756, pagina 272 (donde l’indicazione passò nel Brunet, Suppl. I, 113) nota : “Queste religiose [le Convertite] avranno avuto una piccola stamperia per imprimere in essa colle proprie mani alcuni libri sacri e adattati alla professione religiosa […]”. La dicitura “avranno avuto” mostra che il Volpi non conosceva altre stampe fatte “per le mani de le Conuertite”, laddove il Tassini […] afferma che “esistono tuttora alcune edizioni uscite dai loro torchi” ; dunque non soltanto quella della Predica del beato Bernardino che qui ho descritto 1  



E veniamo all’ultimo contributo che appare sempre sul medesimo periodico, ma nel 1909. Ne è autore il noto Tammaro de Marinis, il quale integra di ben 14 stampe l’elenco del Novati inerente le pubblicazioni edite dalla Cartolari. Il sensibile incremento si basa su un lavoro di Adamo Rossi, rimasto inedito, volto a ricostruire l’intera produzione della famiglia Cartolari. Su Girolama torna uno dei più benemeriti studiosi dell’editoria romana, Francesco Barberi, che, alla luce di molteplici notizie bibliografiche nonché di ricognizioni personali con controllo diretto di esemplari, arricchisce notevolmente il catalogo “romano” dei Cartolari, giungendo a circa un centinaio di stampe prodotte dalla vedova, sino all’ultima datata 1559. 2 Dunque, un’attività, quella di Girolama, certamente non trascurabile, anche se in sostanza la sua produzione, a giudizio dello studioso, può essere considerata modesta. Nessuno dei volumi – annota Barberi –, tranne forse l’edizione delle opere del Turini del 1545, si distingue per mole e particolare bellezza. I caratteri tondi e corsivi sono mediocri ; soltanto la serie delle grandi iniziali silografiche (nere con bianchi girari) può dirsi veramente bella. Scarse e rozze le silografie nei frontespizi ; ben pochi i libri che possono dirsi propriamente illustrati. In nessuna stampa ritroviamo la marca che Baldassarre aveva apposto all’edizione degli Statuti di Pesaro del 1531. 3  



2. Sul finire degli anni Settanta vede la luce uno dei contributi più interessanti e per noi ancora oggi preziosi, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento di Gian Ludovico Masetti Zannini. 4 Dall’Indice dei nomi posto come di consueto a chiusura del volume, possiamo estrapolare molteplici nomi di donne legate a vario titolo all’attività produttiva e distributiva libraria. Dalla ricca documentazione raccolta da Masetti Zannini è possibile enucleare non solo l’impegno lavorativo di donne tipografe già note, quali, per fare solo qualche esempio, la già ricordata Girolama, la Paola Blado o la Lucrezia Dorico, ma anche il coinvolgimento professionale di tante altre donne : da Cecilia Tramezzino a Francesca Ruffinelli, da Porzia e Isabella Guelfi ad Agnese Colucci, dalla libraia Bianca (detta Bianchina) alla libraia Francesca di Ippolita a Dorotea Accolti. Interessante e opportuna, inoltre, questa precisazione dello studioso :  



Nel mondo librario romano la moglie e la vedova dello stampatore e del “bibliopola” assume spesso nonché il governo della casa, quello della impresa, se necessario a nome e per conto dei figli, anche quando essi per l’età raggiunta avrebbero potuto emanciparsi. 5

Una precisazione che, insieme a quella recuperabile in Barberi a proposito della Lucrezia 1   Vittorio Rossi, Altre donne tipografe nel Cinquecento, « Il libro e la stampa. Bullettino ufficiale della Società Bibliografica Italiana », n. s., i (1907), pp. 135-136. 2   F. Barberi, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, cit., pp. 147-163. 3   Ivi, pp. 153-154. 4   Gian Ludovico Masetti Zannini, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento. Documenti 5   Ivi, p. 62. inediti. Prefazione di Francesco Barberi, Roma, Palombi, 1980.  



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Dorico, la quale, pur non comparendo mai col proprio nome nei colofoni, in altre fonti viene definita “stampatrice alli Coronati”, 1 ci allerta sulla ineludibile necessità di considerare le numerose sottoscrizioni contrassegnate da formule nelle quali compare il termine “eredi”, come possibili attribuzioni all’attività “pro tempore” o meno, esclusiva o meno di parenti donne ; possibili, ripeto, e quindi bisognose di più approfondite ricerche, confortate per altro da mirate incursioni nella documentazione archivistica. Per attenerci alle fonti bibliografiche e repertoriali, poche ma significative annotazioni possono essere qui riportate. Se si consulta il sempre utile volume di Fernanda Ascarelli e Marco Menato, La tipografia del ’500 in Italia, 2 ci si imbatte in 24 occorrenze di donne coinvolte nell’attività editoriale. Sintetizziamone la mole di lavoro anche alla luce di una schematica comparazione con le informazioni presenti in SBN “libro antico” e in Edit16. Ventura Aquilini è attiva a Orvieto : due le edizioni attribuitele da “Libro antico” (fra il 1598 e il 1600) e nessuna da Edit16. Ad Isabella Basa Edit16 (sotto la voce Isabetta) collega 2 pubblicazioni. 3 Teodosia Bevilacqua, che pure è segnalata da Ascarelli-Menato e nel Dizionario dei tipografi e degli editori italiani, 4 nonché Angela e Laura Bianzago (ricordate anche dal Novati) latitano nelle due fonti. Paola Blado, si sa, lavorò insieme ai tre figli dopo la morte di Antonio Blado, dal 1567 al 1588, anno della sua scomparsa. 1542 in Edit16 e 890 in “Libro antico” le occorrenze sotto la voce “Blado Antonio, eredi”. Va appena aggiunto che il figlio della vedova di Antonio, Paolo, nel 1572 aveva preso in moglie Porzia Manni (figlia di Lattanzio Manni e di Maddalena Milani) che, secondo Saverio Franchi, fu destinata ad essere la vera direttrice dell’attività tipografico-editoriale dopo la morte della suocera ed ancor di più dopo quella del marito. 5 Girolama Cartolari è presente in “Libro antico” con 60 e in Edit16 con 116 occorrenze. Caterina de Silvestro, vedova di Sigismondo Mayr, è segnalata 11 volte in “Libro antico”, sia pure con qualche approssimazione in merito alla sua società con Evangelista Presenzani, e 13 volte in Edit16. 6 Lucrezia Dorico può essere rinvenuta, all’interno della voce “eredi Dorico” 9 volte in “Libro antico” e 19 in Edit16 (dove nella scheda biografica dell’azienda si precisa : “Tipografi attivi a Roma. Non si sa chi fossero gli eredi di Valerio ; quelli di Luigi erano probabilmente la vedova, Lucrezia, che aveva bottega ai Coronari, e i tre figli Ottavio, Vincenzo e Livia, moglie di Stefano Blado, figlio di Antonio”. Da sottolineare qui l’informazione legata a Livia, sulla quale si tornerà più avanti). Di Clara Giolito de’ Ferrari sono schedate due edizioni in “Libro antico” e 9 in Edit16 (qui sotto la voce Chiara). 7 Anna Giovannini, vedova di Perin e attiva a Vicenza fra il 1588, alla morte del marito, e il 1596, anno della sua scomparsa, figura 76 volte in “Libro antico” alla voce “eredi Perin” e 52 volte in Edit16. 8 Di Antonina, vedova di Enrico di Colonia, Ascarelli 







1

  F. Barberi, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, cit., p. 106.   Fernanda Ascarelli, Marco Menato, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989. 3   Edit16 : Isabetta Basa. Venezia, 1600. Editrice, figlia o moglie di Bernardo ; si servì della tipografia di Daniele Zanetti. 4   Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento, diretto da Marco Menato, Ennio Sandal, Giuseppina Zappella. Volume i. a-f, Milano, Bibliografica, 1997. 5   Saverio Franchi, Le Impressioni Sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800. Ricerca storica, bibliografica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta Sartori, Roma, Storia e Letteratura, 1994, pp. 68-72. 6   Edit16 : Caterina De Silvestro. Napoli, 1517-1523. Tipografa attiva a Napoli. Caterina De Silvestro, moglie di Sigismondo Mayr, ereditò la tipografia alla morte del marito, nel 1517, e la diresse fino al 1525, quando si risposò con Evangelista Presenzani, già lavorante nell’officina, che assunse la gestione dell’azienda. 7   Edit16 : Chiara Giolito De Ferrari. [Circa 1585]-1596. Tipografa attiva a Trino, moglie o figlia di Giovanni Francesco, cui successe e di cui usò il materiale tipografico. 8   Edit16 : Perin eredi. Vicenza [Non prima del 1588]-1600. Tipografi e librai attivi a Vicenza ; erano la vedova 2













imprenditrici o “ facenti funzioni ” ? 375 Menato ricordano un’unica opera sottoscritta da lei e dal suo nuovo compagno, Andrea Piacentino (Giovanni Pollio Lappoli, Opera della diva Catharina da Siena in rima, Siena, 1505), della quale si ha notizia sia in “Libro antico” che in Edit16. 1 Margherita Marescotti, moglie di Cristoforo, figlio del celebre Giorgio, è schedata in “Libro antico” in relazione ad un’edizione del 1613. Della piccola tipografia veneziana del Monastero delle Convertite alla Giudecca sono schedate 17 edizioni in “Libro antico” e 18 in Edit16. Questa iniziativa, della quale recentemente si sta occupando anche Edoardo Barbieri (e colgo l’occasione per ringraziarlo, per avermi fornito in anteprima il materiale del suo studio, 2 in virtù del quale sono state rinvenute e segnalate 24 edizioni date alla luce fra il 1557 e il 1561), insieme a quella di San Jacopo a Ripoli di Firenze, il monastero di domenicane dove, grazie all’impegno dei frati Domenico da Pistoia (procuratore del monastero) e Piero da Pisa (confessore) furono stampate alcune opere tra 1476 e 1484, 3 suscita doveroso interesse, giacché costituisce tangibile testimonianza da un canto del valore redentivo attribuito al lavoro (in questo caso tipografico) e, dall’altro, della partecipazione attiva da parte delle monache di alcuni ordini religiosi alla produzione e alla divulgazione di opere precipuamente inserite nel solco della prospettiva dottrinale. Per rimanere nell’ambito dell’attività delle religiose, sarà opportuno ricordare i casi sia dell’iniziativa editoriale delle suore Agnese Padoana e Chiara Belli per la stampa nel 1587 della Regola di S. Agostino vescovo de Hipponia, opuscoletto di 12 carte realizzato da Perin libraio 4 e Giorgio Greco 5 a Vicenza, sia della “Stamperia delle putte” di Piazzola sul Brenta, attiva fra il 1680 e il 1687. 6 Di Elisabetta Rusconi, come già ricordato, vedova di Giorgio e una delle prime donne tipografe del secolo xvi (che, va appena aggiunto, fu anche in società con Niccolò ZoppiAnna, la figlia Vittoria, moglie di Francesco Grossi, e il figlio Giovanni Pietro. Alla morte di Anna, nel 1596, la direzione della tipografia e della libreria passò a Francesco Grossi, poi affiancato da Giovanni Pietro. Lavorarono anche in società con Tommaso Brunelli, Giorgio Greco e Barezzo Barezzi. 1   Edit16 : Antonina di Enrico da Colonia & Andrea Piacentino. Siena 1505. Società tipografica attiva a Siena. Secondo Ascarelli-Menato e Borsa Antonina sarebbe la vedova di Enrico da Colonia. 2   Edoardo Barbieri ha anticipato gli esiti della sua ricerca, che troverà sistemazione definitiva in un imminente saggio destinato alla «Bibliofilia» per la fine del 2010, in Monasteri e stampa tra Quattro e Cinquecento : con un’analisi della produzione editoriale delle Convertite di S. Maria Maddalena di Venezia, in *Comites latentes per gli ottanta anni di Francesco Malaguzzi, Torino, Gallo, 2010, pp. 15-34. 3   In proposito cfr. Pietro Bologna, La stamperia fiorentina del Monastero di S. Jacopo di Ripoli e le sue edizioni : studio storico e bibliografico, Torino, Loescher, 1893 ; Emilia Nesi, Il diario della Stamperia di Ripoli, Firenze, Bernardo Seeber, 1903 ; Giuseppe Galli, Gli ultimi anni della Stamperia di Ripoli e la stampa del Platone, in *Studi e ricerche sulla storia della stampa del Quattrocento, Milano, Hoepli, 1942, pp. 159-184 ; Dennis E. Rhodes, Gli annali tipografici fiorentini del xv secolo, Firenze, Olschki, 1988 ; Mary A. Rouse, Richard H. Rouse, Cartolai, Illuminators and Printers in Fifteenth-Century Italy : The Evidence of the Ripoli Press, Los Angeles, ucla, 1988 ; Piero Scapecchi, New Light on the Ripoli Edition of the “Expositio” of Dante Acciaioli, in *The Italian Book 1465-1800. Studies presented to Dennis E. Rhodes on his 70th birthday, ed. by Denis V. Reidy, London, The British Library, 1993, pp. 31-33 ; Id., A New Ripoli Incunable and Its Consequences for the History of the Ripoli Press, in *Incunabula. Studies in Fifteenth-Century Printed Books presented to Lotte Hellinga, edited by Martin Davies, London, The British Library, 1999, pp. 169-173 ; Melissa Conway, The Diario of the Printing Press of San Jacopo da Ripoli, 1476-1484. Commentary and Transcription, Firenze, Olschki, 1999. Edoardo Barbieri, Per il Vangelo di san Giovanni e qualche altra edizione di San Iacopo a Ripoli, « Italia Medioevale e Umanistica », 2002, 43, pp. 383-400 ; Id., Un apocrifo nell’Italia moderna : la “Epistola della domenica”, in *Monastica et humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco o.s.b., a cura di Francesco Trolese, Cesena, Badia di Santa Maria, 2003, pp. 717-732. 4   Edit16 : Perin. 1581-1588. Pietro fu Giampietro Zanini (o Giovannini), libraio e tipografo di San Martino Buonalbergo presso Verona, attivo a Vicenza. La sua bottega era in Piazza dei Signori. Lavorò da solo e in società con Giorgio Greco, Giorgio Angelieri e Tommaso Brunelli. Sposò Anna Camisan ed ebbe una figlia, Vittoria, e un figlio, Giovanni Pietro. M. nel 1588. 5   Edit16 : Giorgio Greco. 1580-1605. Tipografo attivo a Vicenza ; lavorò da solo e in società con il libraio Perin. M. presumibilmente nel 1606, anno in cui fece testamento, lasciando erede universale la moglie Lucrezia. La tipografia era stata probabilmente già ceduta nel 1605. 6   A riguardo si veda il riferimento di Marisa Borraccini in questi Atti.  



































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no), sono schedate 7 e 9 edizioni rispettivamente in “Libro antico” e in Edit16. Esse videro la luce fra il 1524 e il 1527. Infine, alla Margherita Sesalli, vedova di Francesco, tutrice del figlio Girolamo, ci possono ricondurre le più di trenta stampe inserite in “Libro antico” e le oltre venti in Edit16. 1 Occorrerebbe ricordare poi altre figure femminile presumibilmente implicate a vario titolo in attività legate al comparto produttivo e distributivo del libro rinascimentale, sulle quali mancano riferimenti precisi nel pur accurato repertorio dell’Ascarelli e del Menato. Si tratterebbe di un elenco non corto ma soprattutto bisognoso di mirate verifiche, al momento da rinviare, atte ad accertare il ruolo effettivo rivestito dalle donne, al di là del loro statuto di mogli, vedove, madri, sorelle, ecc. Si potranno segnalare ad esempio : Estellina Conat, moglie di Abraham, attivo a Mantova, implicata nella composizione di un incunabulo ; 2 Lucrezia, vedova di Mattia Cancer, probabilmente impegnata nella tipografia anche prima della morte del marito (1577) ; 3 Fiorenza e Maria, rispettivamente moglie e figlia di Francesco Zanetti : il nome della prima compare esplicitamente nella sottocrizione della stampa di Pomponio Brunelli Alphabetum Graecum, et rudimenta del 1592, mentre per la seconda la partecipazione diretta alle iniziative editoriali al momento non è provata ; 4 per non parlare delle donne dell’area marchigiana, come Livia Desideri, Chiara Grandi, Isabella Sabini ed altre, per le quali rinvio alla relazione di Rosa Marisa Borraccini. Non sarà sfuggita, ne sono certo, una certa difficoltà nello schematizzare questo sintetico quadro in relazione all’effettiva individuazione del lavoro svolto o meglio delle responsabilità imprenditoriali assunte dalle figure femminili. Non si tratta solo dell’inserimento dei dati ancora lacunoso ancorché prezioso in sbn né della disparità di informazioni catturabili in “Libro antico” e in Edit16 (per quanto in linea generale buona parte delle pubblicazioni segnalate nelle due fonti coincidano ; ma, sarà appena il caso di aggiungere, qualche doppione comprensibilmente non manca). La vera questione è un’altra e concerne appunto l’attendibile registrazione sia del lavoro femminile che delle responsabilità imprenditoriali delle donne all’interno delle officine tipografiche e, aggiungerei, all’interno del commercio editoriale. 5 In realtà, in riferimento  











1   Edi16 : Francesco Sesalli, eredi. [Non prima del 1588] – 1597. Tipografi attivi a Novara. Erano i figli Giovanni Battista e Girolamo e la moglie Margherita. Giovanni Battista lavorò fino al 1593, Girolamo fino al 1630. 2   Si veda in proposito Vittore Colorni, Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Milano, Giuffré, 1983, pp. 443-460. 3   Giuseppina Monaco, Cancer, Mattia eredi di, in *Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento, cit., pp. 245-246. 4   Cfr. Massimo Ceresa, Una stamperia nella Roma del primo Seicento. Annali tipografici di Guglielmo Facciotti ed eredi (1592-1640), Roma, Bulzoni, 2000. Può essere interessante il caso Facciotti per prendere atto degli articolati rapporti di parentela e di alcune clausole inerenti alle eredità : « Il 6 marzo 1626 Guglielmo [Facciotti] depositò un primo testamento presso il notaio Tommaso Salvatori. L’1 febbario 1629 ne stese un altro, che depositò presso il medesimo notaio […]. Per quanto riguarda i familiari, lasciava duecento scudi al nipote Giacomo, da riscuotere però soltanto se avesse sposato Agnese Zannetti, figlia del defunto Alessandro Zanetti e nipote di sua moglie Maria. Nominava poi usufruttuaria di tutti i suoi beni Maria Zanetti, ed eredi di tali beni, in parti uguali, i due nipoti Giacomo, figlio del defunto Francesco Facciotti, e Pietro Antonio, figlio di Antonio Facciotti anch’esso defunto. Lo stesso giorno faceva testamento Maria Zanetti [lasciando] duecento scudi alla nipote Agnese, a condizione che avesse sposato Giacomo Facciotti, e cinquanta scudi ai nipoti Francesco e Giannetto, figli orfani, come Agnese, di Alessandro Zannetti, fratello di Maria. A questo testamento Maria ne fece seguire uno successivo, perché nella seconda perizia dell’officina dopo la morte di Guglielmo […] erede universale di Maria viene detta la sorella Giulia. [Giacomo e Agnese] si sposarono. [Alla morte di Maria] l’officina venne divisa al cinquanta per cento tra i due nipoti, ma nei documenti è detto ripetutamente che Pietro Antonio, finché Maria era stata in vita, ne aveva le chiavi e la gestiva, oltre a pagarle un affitto di venticinque scudi al mese ». Cfr ivi, pp. 15-17. 5   Va tenuto presente che in questa sede ci si limita a considerare l’attività delle donne all’interno della realtà tipografica, sorvolando sul loro impegno in qualità di copiste, in merito al quale occorrerà tenere presenti almeno i documentati studi di Luisa Miglio (fra i quali converrà ricordare “A mulieribus conscriptos arbitror” : donne e scrit 









imprenditrici o “ facenti funzioni ” ? 377 alle fonti bibliografiche va fatta una distinzione fra tre casi : da un canto quello in cui il nome di una donna figura sotto forme diverse all’interno di una pubblicazione, dall’altro quello in cui il suo coinvolgimento può essere dedotto solo da fonti esterne alle edizioni, dall’altro ancora quello in cui si può ipotizzare la sua totale o parziale responsabilità in virtù della formula “per gli eredi” e simili. In molti casi, infatti, si sa che una donna, in genere la vedova, ha ereditato l’attività dell’officina assumendone in prima persona le redini ma non si ha certezza dell’effettiva durata del suo ruolo, in specie allorché sono presenti eredi maschi. Vi sono poi da considerare tutti quei casi non sporadici di lavoro femminile a vario titolo per la produzione libraria. Novati, lo si è ricordato, faceva riferimento all’attività di Angiola e di Laura Bianzago, ma si pensi al contributo artistico recato dalle donne nell’illustrazione libraria, in merito al quale indubitabilmente congrue e puntuali sono le considerazioni di Silvia Urbini. 1 È il caso di aggiungere un’altra considerazione. Non è infrequente che nella documentazione relativa ad imprese tipografiche si incrocino nomi di donne per le quali nulla ci può indurre a credere che abbiano svolto una funzione operativa all’interno delle stesse. Ad esempio Agnese Blado, figlia di Antonio, oppure Caterina Brianza, figlia del monzese Giacomo, o Margherita Bufalini, moglie di Pietro Brea e già vedova di Fausto Bufalini, oppure Laura Commandini, figlia di Federico ; e si potrebbero ricordare numerosi altri nomi. Ebbene, queste figure possono rivestire notevole interesse, giacché sono state protagoniste nei fatti dei consolidamenti o delle “tenute” di varie aziende tipografiche. La Agnese si unì in matrimonio con Giovanni Gigliotti che collaborò con Antonio Blado ; Caterina sposò il perugino Marcantonio Moretti, socio del suocero ; Margherita, vedova di Fausto Bufalini, portò in dote l’azienda al nuovo marito, Pietro Brea, che dirigeva già la stamperia per conto degli eredi ; Laura Commandini, proprietaria della tipografia del padre, firma il contratto triennale con il quale cede in affitto la bottega a Paolo Tartarino. 2 Varrà la pena aggiungere che nell’ambiente tipografico-librario, come d’altronde in genere in tutte le attività imprenditoriali, non sono pochi i casi di mogli che partecipano alla vita familiare col proprio capitale costituto dalla dote. Interessante, e per certi versi anomalo, il caso dell’atto di matrimonio del 14 gennaio 1547 fra Vittoria Cuini, figlia del napoletano Gian Francesco, e il libraio milanese Francesco Quarantana, detto Ceccarello, in virtù del quale, oltre a vari accordi, era previsto che i parenti della sposa avrebbero dovuto consegnare al futuro marito il giorno delle nozze 50 scudi « acciò possa – è precisato – agiustarse in lo suo negocio ». Questo particolare è interessante « giacché tra i cristiani – precisa Masetti Zannini – contrariamente agli ebrei per cui ciò era di regola, la dote solo di rado veniva investita, in tutto o in parte, nell’attività commerciale del marito, ma, normalmente, in beni immobili, luoghi di monte, censi, etc., che non dessero rischi ». 3 Ciò premesso, tuttavia, occorre evitare il rischio di considerare sempre e comunque le parenti di stampatori, editori, librai, ecc. coinvolte in prima persona nell’attività dei congiunti viventi o defunti, giacché, come è noto, norme giuridiche e comportamentali dell’epoca prevedevano procedure di dote e testamentarie indipendenti dall’impegno professionale e dall’assunzione di precise responsabilità gestionali.  

















tura, in *Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni di copisti dalle origini all’avvento della stampa, a cura di Emma Condello, Giuseppe De Gregorio, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1995, pp. 63-108 ; Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008, nonché Luisa Miglio, Marco Palma, Presenze dimenticate, « Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari », xix (2005), pp. 219-232). 1   Silvia Urbini, Sul ruolo della donna ‘incisore’ nella storia del libro illustrato, in *Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii secolo. Studi e testi a stampa, a cura di Gabriella Zarri, Roma, Storia e Letteratura, 1996, pp. 367-391. 2   Cfr. F. Ascarelli, M. Menato, La tipografia del ’500 in Italia, cit., p. 212. 3   G. L. Masetti Zannini, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento. Documenti inediti, cit., p. 97.  





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3. Sarà ora opportuno accennare rapidamente ai pochissimi casi finora acclarati di donne partecipi del processo produttivo del libro nell’Italia meridionale fra Cinquecento e Seicento, con l’avvertenza che non poche altre vicende potrebbero essere enucleate dalla specifica realtà napoletana seicentesca, all’interno della quale numerose sono le testimonianze di attività sottoscritta con la consueta formula relativa agli eredi, in merito alle quali talvolta è certo e talvolta è plausibile il coinvolgimento di professionalità femminili (e si pensi agli eredi di Camillo e Ludovico Cavallo, di Lucantonio Di Fusco, di Roberto Mollo, di Tarquinio Longo, di Secondino Roncagliolo, e altri). Sorvolo sul versante precipuo del commercio librario, in relazione al quale varrà solo la pena ricordare che, alla luce delle indagini archivistiche di Luigi Amabile, possiamo disporre di un elenco di librerie estrapolato da un processo iniziato nella Curia arcivescovile di Napoli nel 1596. Nell’elenco, che ci fornisce per altro informazioni di interesse generale sulla circolazione dei libri all’epoca, sono presenti alcuni nomi di donne apparentate con operatori del settore. Dunque, la nostra succinta rassegna può cominciare dalla nota Caterina De Silvestro, rimasta vedova di Sigismondo Mayr nel 1517. Caterina, di origine napoletana, assunse subito la direzione dell’officina di Sigismondo e nello stesso 1517 sottoscrisse il Tractato per utile et delegabile di Giacomo Mazza con la formula “Impresso in Napoli per Madona Caterina qual fo mogliere de magistro Sigismondo Mayr”. Fino al 1523 Caterina licenzia, compresa quella del Mazza, almeno 14 edizioni con formule di paternità tipografica diverse, quali ad esempio “per Dominam Catherinam Uxorem quindam Sigismondi Mayr”, “Impressum aedibus dominae Catherinae coniugis olim Sigismondi Mayr”, “per Dominam Katerinam uxorem & heredem M. Sigismondi Mayr” oppure semplicemente “in aedibus Catherinae de Silvestro”. Nel gennaio 1524 vede la luce l’epistola De inani diluuii metu, ad coniugem di Girolamo Britonio, edizione assente nei pur meritori annali del Manzi ma schedata in Edit16, dove figura come tipografo Evangelista da Pavia, cioè Evangelista Presenzani. L’anno successivo Evangelista, vecchio operaio e fedele collaboratore di Sigismondo, sposa Caterina e nel Monoctium di Girolamo Perez sul recto della carta 18 si legge “Fuit hec Quaestio Impresse Neapoli per M. Evangelistam papiensem : Et eius uxorem heredem M. quondam Sigismondi Mayr Calcographi”. Stando alla produzione editoriale, Caterina nonostante il suo impegno che la porta a condurre in porto il trattato di Mazza, incontra presto notevoli difficoltà nella conduzione dell’azienda. Infatti, fra il 1518 e il 1519 dà alla luce quattro edizioni che, stando al precedente ritmo produttivo del marito, denunciano la crisi. Crisi ulteriormente evidente nei tre anni successivi, allorché non esce dai torchi dell’officina nessuna pubblicazione nel ’20 e vengono editate solo due stampe nel biennio successivo : una nel ’21 e una nel ’22. Nel 1523 la tipografia sembra riprendere i ritmi di un tempo con quattro edizioni, ma nell’anno seguente ricade in uno stato di inattività.  



La naufragante navicella – annota Pietro Manzi – reclamava il polso fermo d’un nocchiero più capace e deciso di quello debole della vedova inesperta, per tornare ai fasti di un tempo. Caterina comprese tale necessità : non sappiamo se militassero alla favorevole soluzione dell’urgente problema anche motivi d’ordine sentimentale o coincidenti eventi d’altra natura : certo si è che l’anno dopo, cioè nel 1525, ella sposò Evangelista da Pavia 1  



1   Pietro Manzi, La tipografia napoletana nel ’500. Annali di Sigismondo Mayr – Giovanni A. De Caneto – Antonio De Frizis – Giovanni Pasquet De Sallo (1503-1535), Firenze, Olschki, 1971, pp. 18-19. Sulla De Silvestro si veda anche Tobia R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), Napoli, Ente regionale per il diritto allo studio universitario, 1992 ; Gianni Macchiavelli, Caterina De Silvestro : una donna tipografa nella Napoli del Cinquecento (1517-1525), in *Per la storia della tipografia napoletana nei secoli xv-xviii, a cura di Antonio Garzya, Napoli, Accademia Pontaniana, 2006, pp. 91-111.  



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Mi sembra un’annotazione interessante non tanto o non solo in riferimento alla ricostruzione del puro svolgimento della vicenda quanto in relazione al giudizio espresso dall’annalista sulle doti imprenditoriali di Caterina. Certo, in quel tempo non doveva essere agevole per una donna gestire un’azienda, tanto più nel settore editoriale, e credo pertanto che le difficoltà della vedova possano essere motivate solo in parte dalle sue maggiori o minori capacità direttive ; in effetti dette difficoltà andrebbero interpretate non solo in ragione dei fisiologici problemi che sopraggiungono allorché muore il titolare di un’azienda (e anche nei casi degli “eredi” maschi si registra frequentemente questo tipo di contraccolpo), ma soprattutto alla luce della crisi che subisce in quegli anni tutto il comparto editoriale partenopeo, il quale comincia a risollevarsi alla fine degli anni Venti, anche in virtù dell’esordio di nuovi artieri, fra i quali converrà ricordare almeno Mattia Cancer. Inoltrandoci nel Seicento, prima di menzionare telegraficamente due casi specificatamente meridionali, può giovare accennare alla vedova di Bartolomeo Zannetti, della quale ci fornisce notizie Saverio Franchi. Dianora Villani, nata a Pontremoli nel 1581, aveva avuto un figlio illegittimo da Girolamo Mellini, dandogli il nome di Benedetto. Nel febbraio 1606 Bartolomeo sposa Dianora, accettando il piccolo Benedetto come figliastro. Pochi mesi dopo muore Luigi e Bartolomeo diviene di fatto il titolare della nota e affermata stamperia. Nel testamento del 1621, Bartolomeo, che morirà poco dopo senza per altro avere avuto figli propri, fra le varie disposizioni designa la Compagnia di Gesù quale erede, tra altre cose, della stamperia, con la condizione dell’usufrutto e dell’amministrazione a favore di Dianora. Pertanto, come sottolinea Franchi, “una donna di dubbia reputazione come Dianora e il figlio illegittimo di un nobiluccio avrebbero di fatto pubblicato le edizioni d’interesse della Compagnia. L’attività della stamperia proseguì dunque sotto la direzione di Dianora (e di Benedetto) usando la sottoscrizione apud Haeredem Bartholomaei Zannetti”. 1 Oltre all’opportuna sottolineatura del Franchi circa il rapporto professionale fra i rigidi gesuiti e una donna per quei tempi di reputazione “dubbia”, mette qui conto rimarcare che, nonostante il provato coinvolgimento diretto di una donna, la Dianora appunto, le edizioni prodotte nel corso della sua attività vedono la luce con una formula di sottoscrizione riferita agli eredi. E veniamo alla vedova di Lazzaro Scoriggio e alla vedova di Giovan Francesco Bianco. Lazzaro Scoriggio 2 si impone nella prima metà del secolo xvii come uno dei tipografi più fecondi, con un’attività che si sviluppa dal primo decennio del secolo fino al 1638, anno della sua scomparsa. La sua è una politica editoriale alquanto intraprendente, in taluni casi quasi audace, di discreto spessore culturale, pronta ad interpretare e talvolta a stimolare anche gli interessi montanti del pubblico. Una politica che gli consente di emergere nel panorama librario partenopeo del tempo non soltanto per la quantità ma anche per la qualità sia tipografica che di contenuti della sua produzione : all’interno del suo “catalogo”, infatti, figurano autori quali Roberto Bellarmino, Giambattista della Porta, Antonio de Ferrariis, Paolo Antonio Foscarini, Sertorio Quattromani, Scipione Rovito, Luigi Tansillo, solo per fare pochi nomi. Alla sua scomparsa, assume le redini della gloriosa officina la vedova, la quale dà alla luce nell’arco di un biennio, fra il 1638 e il 1639, almeno 6 edizioni, tutte recanti nei frontespizi formule che ne attestano il ruolo (“typis viduae Lazari Scorigii”, “per la vedova di Lazaro”, “per la vedova di Lazaro Scoriggio”).  



1

  S. Franchi, Le Impressioni Sceniche …, cit., p. 791   Cfr. Le secentine napoletane della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di Marco Santoro, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986, in particolare pp. 53-54. 2

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Nel 1638 vedono la luce le opere Theoremata moralia di Benedetto Fedele, Rappresentazione della vita del Padre Giovanni peccatore di Luigi Joele, Epitalamio eroico di Alessandro Porcari e la Limosina di Anello Sarriano ; nell’anno successivo il Ragguaglio di Cosenza di Girolamo Sambiasi e il Caeli davidici variae versiones di Vincenzo Ciliberto. Quest’ultima opera viene stampata in tre volumi, ma solo il primo, come si è detto pubblicato nel 1639, è impresso dalla vedova ; il secondo e il terzo, invece, da Camillo Cavallo, nel 1641 e nel 1644, che probabilmente dovette rilevare la tipografia. Infine, ecco la vedova di Giovan Francesco Bianco, attiva a Messina fra il 1637 e il 1642. Nel corso di questi anni pubblica almeno 31 edizioni, considerate da Giuseppe Lipari, 1 “di ottima fattura”. Fra esse spiccano dieci opere del naturalista romano, docente nello Studio messinese, Pietro Castelli. Da sottolineare che la vedova prosegue la collaborazione con la camera arcivescovile, ribadendo un rapporto impostato e alimentato dal marito, a conferma del pieno riconoscimento, anche da parte di istituzioni di rilievo, del suo ruolo e delle sue capacità gestionali e tecniche.  



4. Ma, è ora di avviarsi alla conclusione. La Tiziana Plebani, nel suo volume Il “genere” dei libri edito nel 2001, 2 dedica opportunamente tre pagine alle “stampatrici”, ricordandone molto sinteticamente alcune delle più celebri. Tra l’altro annota :  

Certamente l’autonomia maggiore [delle stampatrici] si riscontra tra le vedove, unico status che permetteva loro di gestire a pieno un’azienda. Tuttavia, se questo è il lato più evidente, derivato appunto dalla libertà e dalla possibilità di assumere responsabilità di tipo giuridico e finanziario, conseguenti alla vedovanza o alla morte del parente, sembra giustificabile ipotizzare che tutte queste donne abbiano contribuito all’azienda familiare anche durante la vita del marito o del padre, lavorando al loro fianco e apprendendo così l’arte, tanto da poter poi essere in grado di proseguire l’attività. Inoltre in molti casi l’opera di queste donne non fu sporadica ma duratura negli anni. 3

Che le donne, in virtù del proprio apporto lavorativo e/o del loro sostegno economico, garantito da differenti forme di dotazioni familiari, e/o di oculate politiche matrimoniali (e si pensi, per fare un solo significativo esempio, al matrimonio fra Aldo e la figlia di Andrea Torresani), siano state largamente partecipi a vario titolo in quasi tutti i settori produttivi e commerciali rinascimentali, compresi quelli del comparto produttivo e distributivo del libro, è fenomeno ampiamente noto. Altrettanto noto, come opportunamente sottolinea la Plebani, è che lo stato di vedovanza consentiva una riconosciuta autonomia finanziaria (ben inteso, all’interno di specifiche categorie socio-economiche) e la possibilità di operare scelte alquanto libere circa l’eventuale prosecuzione di un’attività, nella prospettiva generalmente consueta di affidare poi agli eredi maschi l’onere della gestione oppure di salvaguardare o potenziare l’azienda con matrimoni oculati, spesso contratti all’interno del medesimo ambiente professionale. In effetti, per essere necessariamente schematici a causa della tirannia del tempo che scorre, ciò che ancora necessita di più sistematiche ricerche è 1) verificare l’effettiva consistenza del lavoro femminile all’interno delle stamperie ; 2) accertare i diversi ruoli ricoperti ; 3) appurare (al di là dei vincoli del diritto e dei condizionamenti sociali) perché in non poche occasioni esse conservano l’anonimato, ricorrendo alla più volte evocata formula “per gli eredi” e simili;  



1

  Giuseppe Lipari, Gli annali dei tipografi messinesi del ’600, Messina, Sicania, 1990, p. 35.   Tiziana Plebani, Il “genere” dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo 3   Ivi, p. 176. ed età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. 2

imprenditrici o “ facenti funzioni ” ? 381 4) controllare se il loro apporto si sia uniformato sempre o meno alle politiche editoriali perseguite dagli artieri dai quali hanno ereditato (e questa mi sembra questione assai interessante per verificare eventuali segnali, sia pure tenui, di autonomie gestionali, segnate da istanze innovative). Nel 1569 Henri Estienne nel suo testo Epistola qua ad multas multorum amicorum respondet de suae typographiae scriveva :  

Oltre a tutti i mali che porta l’ignoranza dei tipografi e delle tipografe anche questo si aggiunge alla vergogna di quest’arte, che anche le donne (mulierculae) la praticano 1

Certo, siamo in altro contesto editoriale, ma non c’è dubbio che questa sorta di misoginismo professionale doveva essere alquanto diffuso anche negli stati peninsulari ; va appena aggiunto che tale orientamento potrebbe per altro essere segnale eloquente di quanto in effetti anche all’interno delle stamperie il lavoro e le responsabilità gestionali delle donne non rivestissero importanza vistosamente trascurabile e che in sostanza il loro fu a tutti gli effetti impegno imprenditoriale autonomo e, sarà il caso di aggiungere, coraggioso.  

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” La presenza di figure femminili all’interno del comparto produttivo e distributivo del libro rinascimentale non è stata finora oggetto di sistematiche ricognizioni, volte ad accertare il ruolo effettivo rivestito dalle donne nella gestione e nella conduzione di officine, imprese, società, ecc. Eppure, testimonianze dell’attività di donne sullo scenario librario non latitano. Partendo appunto da queste testimonianze, recuperate in virtù di congrue fonti bibliografiche, si cerca di focalizzare alcune vicende, in specie inerenti l’area meridionale, che hanno visto protagoniste le donne nella conduzione dell’impresa tipografico-editoriale familiare. Emerge un quadro, sia pure circoscritto e bisognoso di ben più analitiche indagini, che, anche sulla base dell’implicito riferimento ai costumi e alle “regole” del tempo, attesta non solo l’impegno diretto di alcune figure femminile ma anche la loro non marginale capacità imprenditoriale. The presence of women in the production and distribution of books in the Renaissance has not yet been systematically studied to find out more about the actual role played by women in the running and management of shops, businesses, companies etc. Yet, there is no shortage of examples of female businesses in the area of books. Prompted by such examples, retrieved from consistent bibliographic sources, this paper tries to focus on some events, mainly in the southern regions, which saw women take a leading role in the running of their family printing or publishing businesses. The result is a picture, which, although limited and in need of far more extensive investigations, not least because of the implicit reference to the customs and “rules” of the time, is proof not only of the direct involvement of some women but also of their non-negligible entrepreneurial skills. La présence de figures féminines dans la production et la distribution du livre durant la Renaissance n’a jamais été jusqu’à maintenant l’objet de reconnaissances systématiques, afin de vérifier le rôle effectif tenu par les femmes dans la gestion d’ateliers, entreprises, sociétés, etc. Et pourtant, les témoignages de l’activité des femmes dans le domaine libraire ne manquent pas. En partant de ces témoignages, récupérés sur la base de sources bibliographiques fiables, on tentera d’analyser certains évènements, en particulier inhérents à la région méridionale, qui ont eu des femmes pour protagonistes dans la gestion de l’entreprise typographique et éditoriale familiale. Il en émerge un cadre, certes circonscrit et nécessitant des recherches analytiques bien plus amples, qui, également sur la base de la référence implicite aux coutumes et aux “règles” de l’époque, 1   Citazione riportata per altro anche da Rita Giordano, Introduzione, in Biblioteca Universitaria di Bologna, “Donne tipografe” tra xv e xix secolo, Catalogo della Mostra dai fondi della Biblioteca Universitaria, Bologna, Biblioteca Universitaria di Bologna, 2003, p. 11.

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atteste non seulement l’engagement direct de certaines figures féminines mais également leurs capacités non négligeables dans la gestion des affaires. La presencia de la mujer en las divisiones productivas y de distribución de libros durante el Renacimiento no ha sido aún objeto de un reconocimiento sistemático abocado a determinar el rol efectivo de la misma en el ámbito de la gestión y dirección de talleres, empresas y sociedades, entre otros. No obstante, no faltan testimonios de las actividades que la mujer emprendiera en este campo. Es justamente a partir de estos testimonios, recuperados gracias a coherentes fuentes bibliográficas, que se intenta concentrarse sobre algunos hechos –en particular, en el área meridional– que han visto a la mujer como protagonista de la dirección de empresas tipográficas y editoriales familiares. Emerge una realidad que, a pesar de ser circunscrita y de requerir diversas investigaciones de carácter analítico, demuestra no sólo el compromiso directo que algunas mujeres asumieran sino su capacidad empresarial en absoluto marginal, incluso teniendo en cuenta el marco implícito de las costumbres y “reglas” de aquellos tiempos. Die Präsenz weiblicher Figuren in Buchproduktion und Vertrieb in der Renaissance wurde bisher noch nie systematisch untersucht, und damit fehlt eine zuverlässige Dokumentation über die effektive Rolle der Frauen in der Leitung und Verwaltung von Werkstätten, Unternehmungen, Gesellschaften usw. Doch gleichzeitig fehlt es keineswegs an Zeugnissen von Frauen, die im Buchbereich tätig waren. Von diesen, anhand entsprechender bibliografischer Quellen aufgearbeiteten Zeugnissen ausgehend soll versucht werden, einige insbesondere auf Süditalien bezogene Lebensgeschichten zu fokussieren, in deren Mittelpunkt Frauen stehen, die einen Familienbetrieb im Buchdruckgewerbe leiteten. Aus diesem Quellenstudium – das nur in einem beschränkten Rahmen durchgeführt wurde und weiter führende Untersuchungen benötigen würde – geht auch aufgrund impliziter Verweise auf die zeitgemäßen Gebräuche und „Verhaltensregeln“ klar hervor, dass es einige Frauen gab, die sowohl eigenständig als auch mit bemerkenswerten unternehmerischen Fähigkeiten im Buchdruckgewerbe tätig waren.

DONNE NELLE DEDICHE Antonella Orlandi

I

n quest’ultimo decennio, com’è noto, sulla dedica del libro antico e moderno si è registrato un fervore di studi che, muovendo dalle suggestioni di Gerard Genette e Donald McKenzie sul carattere comunicazionale e simbolico dei diversi elementi della veste editoriale del testo e utilizzando l’ottica multifocale della storia dell’editoria, hanno prodotto una documentazione di grande interesse sui ruoli e il codice implicati nella pratica dedicatoria, vero e proprio agente della sorte del libro, almeno nell’epoca dell’antico regime tipografico. 1 Il primo quesito che mi sono posta riguarda la peculiarità delle dediche al femminile all’interno di un sistema di relazioni dominato dalla retorica, che seppure in varia misura codificato, provvisto di un linguaggio e di un rituale specifico, mi pare sfugga a classificazioni precise. Difficile cogliere nella robusta armatura artificiosa di un’epistola dedicatoria elementi espressivi autentici, rivelatori di situazioni particolari, delle volontà e delle identità dei soggetti che partecipano ad una rappresentazione prevedibile e formale. Solo le indagini extratestuali – si pensi agli epistolari, per esempio - possono fornire i dovuti riscontri a congetture relative alle motivazioni reali dell’offerta, di cui è scontata non l’esclusiva valenza mercantile, ma certo l’attesa del contraccambio, qualunque esso sia, e soprattutto la forza simbolica della conferma, insita sia nell’atto del donare che in quello del ricevere, ossia del riconoscimento del ruolo culturale, sociale e politico e del dedicatore e del dedicatario. Di non secondaria importanza è l’accertamento delle tipologie editoriali a cui la minoritaria dedica al femminile si lega : quasi scontato che si tratti perlopiù di libri di rime, di libelli devoti e di qualche trattato. Altro problema, inerente alla geografia del fenomeno che si tenta di ricostruire, è quello di individuare un’eventuale differenza di trattamento tra figure settentrionali e figure meridionali : al di là di occasionali richiami comparativi, solo sondaggi sistematici nei vari generi librari autorizzerebbero tuttavia un qualche bilancio non provvisorio. In generale si può dire che in questa sparuta categoria di epistole non sia rilevante il valore prefativo, a parte una significativa ricorrenza del sintagma “giovanil fatica” : il recupero di testi giovanili da parte di alcuni scrittori si lega quasi naturalmente alla dedizione assoluta professata in queste pagine. Chi dedica alle donne ? Autori di vario calibro, da Aretino, Doni, Tasso al poligrafo sconosciuto della provincia, al religioso ansioso di ortodossia e dunque di un’autenticazione piuttosto che di un patronato. Ho notato che chi dedica alle donne, il più delle volte, non lo fa in modo occasionale, ma coltiva questa propensione. Chi sono le dedicatarie ? Certo il ruolo di dedicataria è rispetto a quello di dedicante, nell’immaginario cinquecentesco, più congeniale alla figura femminile apparentemente astratta, incline a ricevere, a divenire oggetto di rappresentazione, ma in realtà attiva, in alcuni casi, nel costruirsi un’immagine di valore  









1   Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 1989, pp. 115-140 ; Donald F. Mckenzie, Bibliografia e sociologia dei testi, Milano, Bonnard, 1999. Si vedano i contributi di Marco Santoro tra cui si segnalano : Appunti su caratteristiche e funzioni del paratesto nel libro antico, in Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento, Manziana, Vecchiarelli, 2002, pp. 51-92 ; Uso e abuso delle dediche. A proposito del Della dedicatione de’ libri di Giovanni Fratta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2006 ; fondamentale per la documentazione e la codificazione prodotte l’opera di Marco Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale (Italia, secoli xvi-xix), Lucca, Pacini Fazzi, 2009.  







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come modello, interessata al potere sociale. 1 In questo scenario incontriamo qualche letterata, semireligiosa e religiosa, e soprattutto nobildonne coniugate a personaggi particolarmente influenti, a volte interpellate perché intercedano, e perfino la viceregina. Sono abbastanza presenti le donne del cenacolo ischitano del castello aragonese come Costanza d’Avalos, Vittoria Colonna, Girolama Colonna, Maria del Vasto, Giovanna d’Aragona. Indagini più estese andrebbero applicate alla letteratura devozionale, dove l’indirizzo a figure femminili, nel ruolo di intermediarie con il divino, appare prevalente. Le scrittrici più note sembrano non gradire troppo il ruolo di dedicante e non impongono scelte di dedicatarie : nessuna nicchia femminile dunque, e non poteva essere diversamente, in un sistema che è un sottosistema maschile, mecenatistico, e potentemente omologante. Nel trattato-dialogo Della dedicatione (1590) di Giovanni Fratta l’editore Francesco Porta suggerisce come potenziali destinatari di dediche, « alternativi alla classe dirigente », i seguenti gruppi minoritari : « Accademie, Collegi, donne nobili e mercatanti ricchi » ; queste proposte sono puntualmente argomentate dal medico e dal filosofo Nicolò Marogna/ Eugenio che promuove solo le donne dato che « arricchite di bellezze interne … meritano ogni preminenza d’onore » e soprattutto perché assimilate alla classe alta sono in piena sintonia con un certo ambiente sociale e culturale. 2 Il potere del destinatario-primo lettore, che dispensa un beneficio associando il libro al suo nome illustre, è solo artificiosamente asimmetrico rispetto a quello di colui che dona, ossia del promotore e del tessitore di una relazione, da cui sia l’offerta sia il dedicatario traggono e potenziano il valore supremo dell’immortalità. A tutti gli attori in gioco nel sistema ciò che interessa veramente è la partecipazione ad una memoria sociale e culturale. Nell’ambito del patrocinio di donne, in virtù del codice cortese e petrarchesco, il dono beneficia del valore interno della donna patrona, perfetta e già dotata di tutte le virtù, non interessata a trarre altro lustro. Il libro è consacrato a lei, appunto, da un offerente che è l’artefice della sua immagine pubblica : in questi piccoli testi intrisi di devozione si osserva la ricorrenza significativa del lemma “consacrare”. Ma certamente la venalità non è assente. A proposito di ricompense, per esempio, Pietro Aretino per la dedica a Maria d’Aragona (Venezia, Marcolini, Francesco, [non prima del 1539]), marchesa del Vasto della Vita di Maria Vergine, riceve un congruo compenso, consistente in una collana d’oro e una veste di seta, come testimoniato da una sua lettera. 3 Nel testo offerto alla nipote del defunto re di Napoli, Ferdinando I d’Aragona, lo scrittore si attarda a celebrare la mecenate, « nutrice della carità cristiana », fa riferimento alla carica di governatore di Milano rivestita dal consorte, Alfonso D’Avalos, che può solo giovarsi della sapienza relazionale (« intercede per altri a lui ») di Maria. Si rivolge al Marchese, quasi chiede licenza per riverirla, è in sostanza la coppia reale l’ideale destinatario dell’epistola, come accade in altre dediche consimili, con il sospetto che la donna sia viatico per raggiungere chi è vicino a lei.  



























1   In merito alla fiorente produzione editoriale sulla « nobiltà et eccellenza delle donne » si rinvia al volume corredato di una ricca bibliografia : Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del xvi secolo, a cura di Marina Zancan, Venezia, Marsilio Editori, 1983. Sulla dedica al femminile si veda anche : Laura Nocito, Ai margini della letteratura femminile : per un primo approccio alle dediche di poetesse nel Cinquecento, in « Margini. Giornale della dedica e altro », 2009, 3 . 2   Cfr. Marco Santoro, Uso e abuso delle dediche, cit., p. 83. 3   Pietro Aretino, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1959, p. 600 ; sui compensi ricevuti dallo scrittore si veda anche Marco Paoli, La dedica, cit., p. 30n. Maria d’Aragona è anche dedicataria di un libretto di Giovanni Francesco Lombardi, Synopsis authorum omnium, Napoli, imprimebat Cancer, 1559, oltre che di Girolamo Ruscelli, Lettura sopra un sonetto dell’illustrissimo signor marchese della Terza alla divina signora marchesa del Vasto, Venezia, per Giovan. Griffio, 1552.  















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Rispetto alla topica della dedica si accentua il sentimento retorico di obbligazione in senso cortese che il dedicante ha nei confronti della donna, magnificata per bellezza e virtù più che per magnanimità. La richiesta al patrono di una concessione di credito assume a volte i toni di un’implorazione vera e propria ; forte è anche la preoccupazione, formale, di non decadere nell’adulazione, mentre s’intensificano, quasi drammaticamente a volte, al cospetto della dedicataria il sentimento di diminutio e l’aura di religiosità della rappresentazione in cui è soprattutto il linguaggio a detenere il potere. Nei libretti devozionali questi testi assumono a volte il tono di orazioni, in cui si mendica protezione in cambio di preghiere per la salvezza dell’anima della dedicataria. Per analizzare e tematizzare le dediche al femminile, rinvenute negli annali della tipografia napoletana di Pietro Manzi, in Edit/16, nella banca dati Margini di A. M. Terzoli, nel libro dello stampatore bergamasco Comino Ventura, Lettere dedicatorie di diversi, nel dvd Paratesto 2003, possiamo utilizzare tentativi di codificazione già esistenti, antichi e moderni. 1 Molti di questi libri, soprattutto degli autori affermati, sono pubblicati a Venezia e dunque vedono la luce in un mercato internazionale : le dediche al femminile appaiono più svincolate da clientele locali, ma certo non meno opportuniste e utili. Giovanni Brevio nella dedica al cardinale Alessandro Farnese delle sue Rime e prose volgari 2 distingue, con un proposito più concreto che speculativo, differenti tipi di dediche, ispirate all’amicizia, alla cortigianeria, al desiderio di « scudo et difensione », a scopi venali. Nonostante la breve e rigorosa tassonomia che mi pare trovi scarso riscontro nella realtà, ci dà poi inconsapevole dimostrazione dell’effettiva ambiguità di questa scrittura che rende complicata l’attribuzione a una precisa casistica : chiede l’accettazione del dono per provvedersi di un « acerrimo difensore, e protettore », in ragione di quel bisogno di protezione psicologica e culturale che è il sostrato comune di tutti i tipi di dedica, a cui non è estraneo un interesse mercantile di promozione diretta (finanziamento) o indiretta (visibilità nel mercato editoriale). È interessante accertare come un’autrice dedicante si ponga rispetto al codice delle dediche, ideologicamente maschile con il repertorio dell’omaggio feudale, del panegirico, del servizio. Laura Terracina in Discorso sopra i primi canti dell’Orlando Furioso (una giolitina targata 1549) fa un’operazione simile a quella di Brevio sul piano retorico : compone una dedica molto strutturata che sembra seguire un paradigma. La poetessa, detta nell’Accademia de gl’Incogniti Febea, offre il suo libro al marchese, letterato e filosofo, Giovanni Bernardino Bonifacio. È un caso raro, e non solo nel territorio meridionale, di un’autrice di rilievo che assume il ruolo di dedicante di una sua opera. Sua simulata preoccupazione nella piccola sceneggiatura che ordisce, è tutta 















1   Pietro Manzi, Annali di Giovanni Sultzbach : Napoli, 1529-1544 - Capua, 1547, Firenze, Olschki, 1970 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Sigismondo Mayr, Giovanni A. De Caneto, Antonio de Frizis, Giovanni Pasquet de Sallo : 1503-1535, Firenze, Olschki, 1971 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Mattia Cancer ed eredi (1529-1595), Firenze, Olschki, 1972 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Giovanni Paolo Suganappo, Raimondo Amato, Giovanni de Boy, Giovanni Maria Scotto e tipografi minori (1533-1570), Firenze, Olschki, 1973 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Orazio Salviani (1566-1594), Firenze, Olschki, 1974 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Giuseppe Cacchi, Giovanni Battista Cappelli e tipografi minori (1566-1600), Firenze, Olschki, 1974 ; La tipografia napoletana nel ’500 : annali di Giovanni Giacomo Carlino e di Tarquinio Longo (1593-1620), Firenze, Olschki, 1975 ; l’archivio informatico dei testi di dedica diretto da Maria Antonietta Terzoli è consultabile all’indirizzo , dove è anche recuperabile la riproduzione digitale della raccolta di Comino Ventura, prima silloge di dediche del sec. xvi in tre libri, presentata dalla rivista “Margini” : Il primo libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergano, 1601), a cura di Monica Bianco 2007, 1 ; Il secondo libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo, 1602), a cura di Laura Puliafito, 2008, 2 ; Il terzo libro di lettere dedicatorie di diversi (Bergamo, 1602), a cura di Monica Bianco, 2009, 3. La banca dati Progetto Cofin 2003 : oltre il testo : dinamiche storiche paratestuali nel processo tipografico-editoriale in Italia, a cura di Marco Santoro (coordinatore nazionale), Francesco Iusi (coordinamento tecnico dvd), Antonella Orlandi (controllo e verifica banca dati), Roma, ssab, 2006, completa il quadro delle fonti principali consultate. 2   Giovanni Brevio, Rime e prose volgari, Roma, per Antonio Blado, 1545.  







































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via di non essere considerata un’adulatrice, vuole prendere le distanze da un certo stile in cui poi retoricamente capitola. Nell’epistola dopo aver descritto con biasimo la deriva di una pratica cortigiana livellatrice, che nutre la « tumida superbia » dei Signori (tutte le dediche hanno dunque secondo lei una chiara vocazione mecenatistica) e confessato di essersi risolta in un primo momento a rivolgersi a « privato nome », dichiara la convinta decisione alla fine di questo travaglio, di eleggere a dedicatario il Marchese, « generosissimo, e valorosissimo » in cui si vedono « fiorire tutte le belle, et sante vertudi ». La scrittrice dunque si adegua e aderisce alle convenzioni del sistema, scivolando in chiusura nella formulazione del più classico dei luoghi tipici del genere, quando chiede di « accettare questo picciol dono ». Restando nell’ambito delle autrici affermate-dedicanti, ma traslocando al nord, recuperiamo un’epistola di Gaspara Stampa rivolta al conte Collaltino di Collalto, pubblicata nel volume del canzoniere, dal timbro diverso : tanto estrema nell’agitato tono emotivo da apparire retorica e tuttavia meno conformista e ingessata, espressione di uno spirito autonomo. Ancora di sicuro rilievo è la dedica della poetessa napoletana a Isabella della Rovere in occasione della pubblicazione di Le seste rime. 1 Un cerimoniale davvero raro, partecipato da donne, in cui Terracina mostra ancora una volta grande competenza nell’organizzare la sua offerta, non scostandosi però sostanzialmente dal dispositivo retorico del testo precedente rivolto a Bonifacio. In questa nuova epistola non si coglie il senso del femminile, l’autrice resta blindata nel pensiero ideologico del sistema. S’inizia anche qui con l’accenno alla difficoltà della scelta del dedicatario, risolta grazie al prezioso consiglio ricevuto da un altro erudito, Vincenzo Arnolfini ; si passa quindi al capitolo genealogico con descrizione dei meriti dei componenti l’illustre dinastia Della Rovere, si prosegue con l’encomio trasfigurante, e si conclude con la ripresa del tema dell’elezione intrisa del sentimento di diminutio relativo alle « vili e oscure carte ». Il cerchio dell’elogio è suggellato dalla consueta immagine dello scudo, invocato in difesa degli invidiosi e maligni. Non osserviamo dunque alcuna variante di genere in questo atto di puro vassallaggio, compiuto da una poetessa dotata di virile ingegno, come d’altronde nelle dediche omologhe di Tullia d’Aragona. 2 E come talvolta accade nelle epistole dedicatorie più ispirate e narcisistiche, nell’artificio retorico rarefatto s’insinuano le parole stridenti del lessico mercantile, « l’animo mio il quale come humano è pure di qualche prezzo », che forse chiariscono meglio le attese legittime della dedicante. Da Venezia arriva il tributo alla Terracina dedicataria. Nella Libraria l’estroso Anton Francesco Doni, abile giocoliere di vari generi letterari, compone come è noto diverse dediche, una in apertura di ogni serie alfabetica : in tal caso la dedica abbandona il campo transeunte del peritesto e occupa quello più stabile del testo. 3 Per la poetessa Laura, dedicataria e capofila della lettera “l”, stila un’epistola che è anche profilo bio-bibliografico, secondo la più fedele tradizione encomiastica : (« Lode grandissima meritano oggi gli uomini che fanno opere, ma molto più mi pare che si debba lodare una donna maggiormente, avanzando infinite composizioni scritte dagli uomini »). Non molto diversamente si era espresso nel repertorio su Vittoria Colonna, « valorosissima donna », altra protagonista delle lettere, su cui torneremo. Ma ricordiamo che Doni è personaggio estroso, gioca con la maschera e passa con disinvoltura e ironia da una recita all’altra. In un’edizione delle  











































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  Laura Terracina, Le seste rime, Lucca, appresso Vincenzo Busdraghi, 1558.   Cfr. la dedica della letterata a Cosimo de’ Medici : Tullia d’Aragona, Dialogo della infinità di amore, Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, 1552 ; a Eleonora de Toledo duchessa di Firenze : Ead., Rime, Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1549. 3   Anton Francesco Doni, La libraria, Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1550. 2







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sue lettere si rivolge ad una nobildonna fiorentina, Costanza Vitella de’ Baglioni, a cui « si raccomanda umilmente » con un atteggiamento burlesco di autosvalutazione che investe l’offerta e il ruolo di dedicante : « io non battezzerò questa Epistola altrimenti dedicatoria, percioche le mie ciancie non meritano tanta riputazione » e si scusa con una battuta « se io non ho potuto pareggiare il Dono della gratia vostra (anchora che io sia il Doni) ». Viene da pensare che forse per una Signora meridionale, più compresa nel ruolo, lo scrittore si sarebbe astenuto dalla burla. Per quel che riguarda i soggetti abilitati ad esercitare il diritto di dedica, si possono annoverare, come è noto, gli stampatori/editori presenti anche in questa categoria marginale. Particolarmente intraprendente in tale ambito è Orazio Salviani, figura cardine della tipografia napoletana rinascimentale, molto attivo sul fronte della produzione religiosa ; tra le numerose dediche ne firma anche una per i Cantici spirituali rivolta a una clarissa, Isabella Revertera. 2 La dedica è semplice, meditata e ben costruita. Salviani prende retoricamente le distanze da pratiche venali (« usanza de stampatori dedicar l’opere, che mandano in luce à qualche persona, dalla quale ne possano ricevere alcuna utilità, o favore, per poter in qualche modo risarcire le spese, et travagli del stampare »), chiede come « copioso » contraccambio dell’offerta non certo favori temporali ma « sante orazioni » e dunque un premio spirituale per un libello devozionale che si gioverà senz’altro della promozione di una Religiosa, che forse è addirittura l’autrice. 3 Soggetto legittimato a dedicare alla donna amata dovrebbe essere l’autore, ma ciò accade di rado. Oltre i confini si ricorda il caso esemplare di Pietro Bembo e Lucrezia Borgia degli Asolani : un’epistola in cui motivi convenzionali e privati si intrecciano in un periodare piuttosto prolisso, di ardua lettura. 4 Per il Rinascimento meridionale pensiamo a Jacopo Sannazaro. Dopo il ritorno dall’esilio francese la vita dello scrittore, che aveva già dedicato le sue farse a Isabella del Balzo, moglie di Federico d’Aragona, è illuminata dall’amore per la nobildonna Cassandra Marchese alle prese con il fallimento delle sue nozze, riconosciute dalla Curia nel 1518, per quello che è stato definito il primo divorzio dell’epoca. A Cassandra dedica le Rime. 5 In questo testo denso e sintetico, dove è adombrato un rapporto di tipo affettivo e intellettuale, la componente espressiva, quasi intimista, è una corda nascosta che fa vibrare quella pubblica dell’ammirazione retorica di una Donna « Rara et sopra le altre Valorosa », a cui l’autore dà eccezionalmente del tu, lodando « il suo castissimo grembo », simbolo di perfezione femminile. L’antologia, ossia il « picciolo fascio », è 1











































1   Id., Tre libri di lettere, Venezia, per Francesco Marcolino, 1552. Da sottolineare la forma grafica originale della sottoscrizione della lettera. Dopo il congedo « con si poco libro pieno di parole », al posto della firma è situato il sintagma « Servitor di cuore » e all’angolo della carta, sopra la segnatura in stile epigrafico, il nome d’arte « Il Doni ». 2   Cantici spirituali composti da vna religiosa del Ordine di s. Chiara dell’Osseruantia, Napoli, appresso Orazio Salviani, 1574. 3   Nella banca dati Edit/16 ho recuperato una dedica dai toni molto simili di un libro di meditazioni (Isabella Capece, Consolatione dell’anima, Napoli, appresso Giovanni Giacomo Carlino et Antonio Pace, 1595), indirizzata da Pietro Colapagano alla contessa di Altavilla, Dorotea Spinella : l’editore/committente loda « i buoni e candidi costumi » della Donna facendosi interprete della volontà dell’autrice, e chiude con una preghiera di accettazione dall’esibito accento spirituale : « Non mi stenderò in altro, se non à pregarla che si degni accettare questo dono con lieta fronte ; essendo di persona à lei tanto cara, e gradisca anco la mia diligenza, et il desiderio che io hò havuto di farmele con questa occasione conoscere per uno che l’ami spiritualmente … ». 4   Pietro Bembo, Gli Asolani, Bologna, per Francesco Griffo, 1516. 5   Iacopo Sannazaro, Sonetti et canzoni, Napoli, Giovanni Sultzbach, 1530. Si rinvia alle pagine critiche di Carlo Dionisotti, Appunti sulle « Rime » del Sannazaro, « Giornale storico della letteratura italiana », cxl (1963), 430, pp. 162-211, che sulla base della allusione della epistola dedicatoria (“vane e giovanili fatiche”) ricostruisce la vicenda cronologica del canzoniere.  

































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una scelta che l’autore propone ad un’ulteriore selezione da parte della dedicataria, e si osserva un’indicazione di pubblico femminile, « studiose donne », come ideale interlocutore dell’opera, pubblicata postuma. L’aspetto originale di queste pagine è che lo scrittore si rivolge all’intellettuale, all’erudita (« de le belle eruditissima, de le erudite bellissima »), dotata di « senile prudentia, maturo giudicio », affermazione concessa solo da un rapporto confidenziale, e chiude con l’epiteto « ingegnosa » la preghiera di accettazione. A proposito di un uso disinvolto della pratica rivolta a più nobildonne, desiderose di essere catechizzate, si può citare la produzione devozionale di Luca Pinelli. È questo un fenomeno editoriale tutto napoletano che interessa la tipografia locale. Nel 1598 il gesuita dona il suo Libretto di brevi meditazioni 1 alla principessa di Bisignano, Isabella della Rovere, già dedicataria di Laura Terracina. Assicura l’autore sull’ortodossia della procedura : il suo libello ha ottenuto l’approvazione della Compagnia ; descrive puntualmente i tre principali effetti dell’eucarestia, e poi gli effetti prodotti in lei dal potentissimo Sacramento, e lo fa, pur nel tono predicatorio, con rigore teologico e finezza introspettiva. Della principessa loda l’umiltà, l’autenticità della fede che la fa ammirata da tutta la città di Napoli ; da quando ha cominciato a frequentare la virtù dell’Eucarestia, riesce a sopportare la perdita dei beni temporali, sostiene il sacerdote. Pinelli accenna ad eventi molto dolorosi come l’infermità e la perdita del primo figlio, invadendo una sfera privata, presumibilmente con il consenso della stessa Della Rovere, interessata a dare l’immagine pubblica di una biografia dolorosa. In chiusura « il servo del Signore » come il gesuita, insegnante di teologia e di filosofia si definisce, chiede ritualmente accettazione del dono (« la priego che in accettare questa operetta, voglia riguardare al cibo, che contiene, e non all’apparecchio mio, che così le sarà gratissima »), promettendo un premio religioso più importante, secondo uno stile devozionale che caratterizza questa tipologia di dediche in cui la dinamica dello scambio aggiunge al dono del libro, come incentivo dell’accettazione, un surplus di preghiere. Più operativo e pragmatico appare Pinelli nel motivare la decisione di cambiare la dedicataria/prima lettrice per un altro tomo di meditazioni pubblicato nel 1599, offerto ora alla nobildonna napoletana di origine spagnola Anna de Mendoza. 2 L’autore si sofferma sulla vicenda editoriale del suo libello stampato una prima volta, senza nome e dedica, con un testo illeggibile, disturbato dalle « molte breviature » e dall’invadenza delle immagini, e però giudicato utilissimo e degno di una revisione e dunque di una nuova offerta. È certamente un dono inferiore agli obblighi e alle virtù della Signora, ma soprattutto alle sue opere segrete, sconosciute al pubblico, « bastandole che le sappia solo Iddio, per il cui amore l’ha fatte : Prego sua Divina Maestà, che da parte nostra ancora la remuneri copiosamente ». È abilissimo il gesuita nel proiettare la richiesta di patrocinio nello scenario celeste del premio spirituale del Patrono supremo, invocato per le opere segrete della nobildonna con le parole di una pratica mondana (« remuneri copiosamente »). Restando nell’ambito della produzione gesuitica cito i Discorsi de significati delle vesti, atti, gesti, et altre cerimonie della Messa del 1572 3 del religioso siciliano, Valente Quaresima, dedicante pure nello stesso anno di Isabella Gonzaga nel Convivium quadragesimale. Appare evidente l’accordo con la dedicataria, Antonia d’Avalos d’Aquino, principessa di Sulmona, a cui l’autore esperto di liturgia si rivolge con tono didascalico da precettore. Nelle pagine preliminari c’imbattiamo in un proemio con la divisa della dedica, almeno  











































1   Luca Pinelli, Libretto di brevi meditationi, Napoli, appresso Giovanni Giacomo Carlino et Antonio Pace, 1598. 2   Id., Libretto d’imagini, e di brevi meditationi, Napoli, appresso Tarquinio Longo, 1599. 3   Valente Quaresima, Discorsi de significati delle vesti, atti, gesti, et altre cerimonie della Messa, Napoli, appresso Giuseppe Cacchi, 1572.

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nell’intestazione (Ad Antonia d’Avolos [sic] et d’Aquino principessa di Sulmona), ma privo di sottoscrizione e con la singolarità delle note bibliografiche al margine. Le dedicatarie sono elette per la virtù dello spirito, e celebrate con motivi petrarcheschi. Per il dialogo Le immagini del tempio della signora donna Giouanna Aragona 1 Giuseppe Betussi, che oltretutto aveva già dedicato un’opera alla piacentina Camilla Pallavicini, 2 sceglie opportunamente come destinataria la cognata Vittoria Colonna, figura centrale del cenacolo del castello aragonese di Ischia. Eppure rivolgendosi alla « Rarissima e bellissima Signora » simula l’imbarazzo della scelta : « non sapeva a quale rivolgermi senza pregiudicio delle altre », esprime la necessità di difendere « il caro figliuolo » dalla « fortuna della censura degli invidi ». Non avrebbe osato tanto il nostro timido dedicante, se non fosse intervenuto il suggerimento del letterato Luca Contile, pupillo di Vittoria Colonna e Costanza d’Avalos, di scegliere la celebre poetessa per merito (« humanità unica il sublime grado, che possedete ») e autorevole lignaggio. L’elezione, che è una vera e propria consacrazione come accade spesso in questi testi, è esibita come valore aggiunto del « puro e humil dono », a cui sarebbe difficile non acconsentire. Altro illustre dedicante della Colonna è il suo devoto amico, Paolo Giovio, che per alcuni mesi nel 1527, dopo il sacco di Roma, soggiorna nel castello di Ischia, ospite della Marchesa di Pescara, già vedova. A lei rivolge, dopo molti anni, una dedica postuma. Giovio, dedicante tra l’altro di Carlo V e di Cosimo de’ Medici, era certo fine e scaltrito conoscitore di questa materia. « Infinito obligo tengo con la signora marchesa de Pescara », dichiara in una lettera indirizzata a Clemente VII, datata 1528, per spiegare il suo interessamento presso i Doria per i prigionieri della battaglia di Capo d’Orso, Ascanio Colonna e il marchese del Vasto, rispettivamente fratello e marito di Vittoria. 3 Nel ’55, è pubblicata da Giovio un’edizione di La vita di Ferrando Davalo marchese di Pescara con l’epistola indirizzata alla marchesa. In realtà la biografia, che fu commissionata da Vittoria fin dal 1528, un anno dopo la morte del marito, ebbe una gestazione piuttosto lunga e complicata e vide la luce nel volume Illustrium virorum vitae (Firenze, in officina Laurentii Torrentini, 1549), con i testi ausiliari rivolti a lei e a Giovan Battista Castaldo. Che la dedica alla vedovacommittente dovesse essere un’obbligazione è evidente ; e, infatti, si configura nel tono come consegna ideale, a tal punto da costituire un testo congiunto piuttosto che semplice peritesto, volto a legittimare a distanza di tempo l’operetta « con amorevole giudicio ». 4 In ogni caso i modi dell’infingimento letterario restano, si viene a simulare una presenza venuta meno, la Colonna appunto, morta a Roma nel ’47 (Giovio lascia Roma nel ’49), con un congedo inappropriato (« State sana ») ; ma la forma è salva dato che al testo si conferisce il titolo non di epistola dedicatoria ma di Prefatione alla S. Vittoria Colonna. Oltre ad un cenno alla familiarità con la stirpe dei d’Avalos, troviamo i luoghi tipici del genere : ricerca di protezione per evitare che l’opera sia impugnata « da huomini ignoranti », specialmente dopo la sua morte, la lode pervasa da ispirazione devota verso una donna « tanto eccellente et di virile ingegno » – molto simile a Laura Terracina – capace di gareggiare « con gli eccellentissimi poeti nel verso ».  























































1   Giuseppe Betussi, Le immagini del tempio della signora donna Giovanna Aragona, Firenze, appresso m. Lorenzo Torrentino, 1556. 2   Id., Libro di m. Gio. Boccaccio delle donne illustri, Venezia, per Pietro Nicolini da Sabbio, 1547. 3   Paolo Giovio, Lettere, a cura di Giuseppe Guido Ferrero, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1956-1958, ii. 4   Sulla vicenda redazionale della vita del Marchese di Pescara si veda : Michele Cataudella, Proposta per un’edizione critica delle Vitae vitarum pars altera di Paolo Giovio, « Esperienze letterarie », xxxiv (2009), 3 (pp. 39-59), pp. 51-52.  





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Girolamo Britonio dedica la raccolta in versi, Gelosia del sole, 1 alla sua mecenate Vittoria Colonna presso cui è a servizio nel castello aragonese dal 1512 : a quanto pare ospite molto gradito e gratificato tanto da riassestare la situazione finanziaria della famiglia, decaduta a causa delle guerre. Il suo scritto è in verità una prolissa genuflessione retorica al termine della quale invoca accettazione per « la sua giovenil fatica » – anch’essa un recupero dunque come per il Bembo e il Sannazaro – data in stampa in una versione corretta, e soprattutto un giudizio benevolo. Alla illustre poetessa, elevata al ruolo di prima lettrice, garante della qualità poetica dei versi, si rivolge Bernardo Tasso in una delle numerose dediche de I tre libri degli amori, una giolitina del 1555 : « che queste mie Egloghe et elegie vivino nel seno della vostra gloria, et col lume de vostri onori sgombrando le tenebre della loro imperfettione, tanto più volentieri dal mondo lette sieno, quanto più gli ornamenti delle vostre virtù le renderanno belle ». Uno sguardo ad altre dediche rivolte a donne di ogni territorio (Ippolita Pallavicini, Ginevra Malatesta, Antonia Cardona, Margherita di Valois, Isabella Vigliamarina), raccolte nella silloge di Comino Ventura, è d’obbligo a conferma della persistenza dei temi di questa piccola accademia femminile italiana, meridionale e non : allusioni a difficoltà esistenziali, forte sentimento di riconoscenza (con significativa occorrenza del termine “debito”) espresso anche verso il consorte, lode delle virtù della dedicataria, splendente come un sole, dispensatrice di fama e di eternità per “cosette” altrimenti destinate all’oblio. 2 A proposito dei Tasso dedicanti, si distingue la misura contenuta ma incisiva e chiara, della dedica rivolta da Torquato a Ginevra Malatesta degli Obizzi, destinataria « ricevuta … haereditaria da mio padre ». Restiamo sempre all’interno del circolo di Ischia, per alcuni anni luogo di aggregazione culturale con un ruolo attivo svolto dalle donne. Della stessa famiglia, destinataria di alcune epistole, è Girolama Colonna, letterata e nobildonna, figlia di Ascanio Colonna (Gran Connestabile del Regno di Napoli) e di Giovanna d’Aragona, nipote di Vittoria, moglie di Camillo I, duca di Monteleone. A volte gli autori, pur mantenendosi fedeli al sistema, tradiscono la loro personale visione del mondo. In Rime spirituali di sette poeti illustri 3 lo storico Scipione Ammirato declina registri intimistici e compone una sorta di apostrofe ai cattivi tempi per i quali l’unico antidoto è la virtù della nobildonna Girolama. Rende omaggio anche a Vittoria, altra dedicataria sottesa del testo. Invita Girolama a dimostrare che non è per niente spenta « la gloria delle donne Romane ; anzi è tanto per trasparir ogni giorno maggiormente ». Decisamente più interessante è il dono a Girolama del trattatello di Giulio Jasolino, De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa. 4 Iasolino, uno dei più famosi medici napoletani del xvi secolo, tenuto in gran conto alla corte reale, nel 1588 dà alle stampe questo libello sulle miracolose acque naturali che aveva scoperto nell’isola d’Ischia, di cui decanta le proprietà curative. Il suo è un proemio, travestito da dedica, soggettato con note al margine (Potenza de l’acqua ; L’acqua principio di tutte le cose, ecc. ecc.). Si rivolge solo a tratti nella sua articolata presentazione alla eccellentissima interlocutrice, a cui reca omaggio fin dal frontespizio; si dice guidato dal « lume chiarissimo della sua colonna » e solo al momento del commiato ripropone sobriamente il luogo tipico del servizio, con i  



























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  Girolamo Britonio, Gelosia del sole, Napoli, della stampa di Sigismondo Mayr, 1519.   Comino Ventura, Lettere dedicatorie di diversi, cit.   Scipione Ammirato, Rime spirituali di sette poeti illustri, Napoli, appresso Giovanni De Boy, 1569. 4   Giulio Jasolini, De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa, Napoli, appresso Gioseppe Cacchi, 1588. Per coerenza armonica dei topoi del genere è quasi un gioiello la dedica del letterato Gabriele Zinani a donna Girolama in Delle rime, et prose, Reggio, appresso Ercoliano Bartoli, [1591]. 2

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temi corollari consueti. A proposito di acque e di terme, particolarmente apprezzate dalle nobildonne, citiamo il libretto di poche carte di Andrea Bacci sui bagni di Tivoli, Discorso delle acque albule, pubblicato nel 1564. 1 Si rivolge il medico e professore della Sapienza, studioso di termalismo, a Giovanna d’Aragona, cerca una mecenate e le promette in caso di gradimento di dedicarle altre fatiche « di maggiore importanza per giovare al mondo ». Si osa dedicare anche al più alto e prestigioso patrono della gerarchia sociale, e dunque alla Vice Regina di Napoli. Si tratta, ovviamente, di opere minori rispetto al patronato di opere maggiori richiedibile al vice re, la cui presenza è comunque sempre immanente in questi testi cortigianeschi e quella femminile, anche se protagonista, sembra diventare uno schermo. Giovanni Leonardi, come segno di gratitudine dei favori concessi dalla coppia reale, dona a Maria de Zúñiga con consueta preghiera di accettazione, nel 1594, il suo libello pedagogico (Trattato della buona educatione de’ figliuoli), 2 che vuole essere utile contributo alla civile convivenza. In generale l’epistola dedicatoria, anche se di per sé luogo scarsamente comunicativo, dovrebbe consentire di ricostruire un sistema di relazioni gravitante intorno al convento, alle corti e ai palazzi. Il genere coniugato al femminile, pur non mancando di riferimenti a contesti, appare complessivamente più blindato e depauperato a livello informativo rispetto al corrispettivo maschile. In questo quadro, nella fattispecie napoletano, difficilmente emerge una figura femminile a tutto tondo, individualizzata e proiettata alla conquista di nuovi spazi sociali, una figura che voglia esporsi, anche quando sia al centro di intensi scambi culturali, o sia mecenate : unica eccezione le virili letterate, come Vittoria Colonna, le senescenti signore per le quali i levigati cammei delle dediche appaiono increspati da elementi personali, concessi però solo a scrittori accreditati. L’incrocio tra ideale cavalleresco, atteggiamento encomiastico e sentimento religioso può tuttavia risultare molto vischioso e celare ancora di più le ragioni della dedica. Contro detrattori e contraffattori la protezione che s’invoca acquista fatalmente un accento materno. Mi pare che l’incidenza del femminile sulla pratica delle dediche possa rappresentare tutt’al più una variante, che però, come era d’altronde da aspettarsi, non sposta in modo significativo il sistema che è specchio di radicate istituzioni politico-sociali. Eppure un contributo non appariscente, all’interno di convenzioni date, del genere femminile al mercato editoriale e alla storia letteraria è presente nelle segrete e autentiche motivazioni di scrittori grandi e piccoli, che osarono rendere visibili le loro opere, rassicurati dal tutorato di donne eccellenti.  





Università degli Studi di Roma “La Sapienza” La dedica coniugata al femminile conferma i luoghi tipici del sistema con alcune varianti legate ad aspetti antropologici e culturali, a contingenze storiche e sociali, ai generi editoriali. Con riferimenti a tentativi di codificazione antichi e moderni si analizza una casistica di epistole dedicatorie con dedicanti e dedicatarie donne, tra cui Laura Terracina, Vittoria Colonna, Isabella della Rovere, Girolama Colonna, altre figure femminili legate al circolo ischitano, nobildonne, religiose, ecc. Istanze venali, retoricamente celate, si intrecciano con altrettanto forti richieste di protezione in peritesti perlopiù intrisi di devozione e degli elementi tipici del codice cortese ed encomiastico. The dedication in the feminine confirms the typical places of the system, with some differences dictated by anthropological and cultural aspects, historical and social events, published genres. 1

  Andrea Bacci, Discorso delle acque albule, Roma, per Antonio Blado, 1564.   Giovanni Leonardi, Trattato della buona educatione de’ figliuoli, Napoli, ex officina Horaty Salviani, appresso Giovanni Gacomo Carlino, Antonio Pace, 1594. 2

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Prompted by ancient and modern encoding attempts, this text reviews a number of dedicatory epistles dedicated by and to women, such as Laura Terracina, Vittoria Colonna, Isabella della Rovere, Girolama Colonna, other women of the Ischia circles, noblewomen, nuns, etc. Rhetorically hidden venal demands are entwined with equally strong demands for protection in peritexts, most of which are imbued with devotion and the traditional features of courtly and eulogistic codes. La dédicace conjuguée au féminin confirme les lieux typiques du système avec quelques variantes liées à des aspects anthropologiques et culturels, à des contingences historiques et sociales, à des genres éditoriaux. En référence aux tentatives de codification anciennes et modernes, on analyse un ensemble de cas d’épîtres dédicatoires avec des dédiantes et dédicataires femmes, parmi lesquelles Laura Terracina, Vittoria Colonna, Isabella della Rovere, Girolama Colonna, d’autres figures féminines liées au milieu d’Ischia, nobles dames, religieuses, etc. Des instances vénales, rhétoriquement cachées, s’entrecroisent avec autant de fortes requêtes de protection dans des péritextes le plus souvent imprégnés de dévotion et des éléments typiques du code courtois et élogieux. La dedicatoria conjugada al femenino confirma los elementos típicos del sistema, con la presencia de algunas variantes relacionadas con aspectos antropológicos y culturales, contingencias históricas y sociales y géneros editoriales. Haciendo referencia a intentos de codificación antiguos y modernos, se analiza una casuística de epístolas dedicadas por mujeres a mujeres, entre las que se hallan Laura Terracina, Vittoria Colonna, Isabella della Rovere, Girolama Colonna y otras figuras femeninas nobles, religiosas, etc., ligadas al círculo de Isquia. Solicitudes venales, retóricamente celadas, se alternan con peticiones de protección en peritextos impregnados de devoción y de los elementos típicos del código cortés y encomiástico. Die Widmungen an eine Frau sind bekanntlich systemtypisch, wenngleich mit einigen an anthropologische und kulturelle Aspekte, an historische und gesellschaftliche Bedingungen sowie an verlegerische Produkte gebundenen Varianten. Bezugnehmend auf antike und moderne Versuche der Kodifizierung, werden eine Reihe von Widmungen analysiert – und zwar von widmenden Frauen als auch Frauen gewidmeten –, darunter Laura Terracina, Vittoria Colonna, Isabella della Rovere, Girolama Colonna sowie andere an die Kreise Ischias gebundene Persönlichkeiten, Adlige, Nonnen usw. Dabei finden sich sowohl unter rhetorischen Formeln verborgene Bestechungsversuche als auch fordernde Schutzbegehren in Peritexten, die mehrheitlich reich an Ergebenheit und für den höfischen und enkomiastischen Verhaltenskodex typisch sind.

ECHI DI NOTORIETÀ : LE DONNE NELLA TRADIZIONE BIBLIOGRAFICA MERIDIONALE  

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avvero scarse, anche se, naturalmente, non ce ne meravigliamo, le tracce che le donne fra Quattro e prima metà del Seicento hanno lasciato nelle biobibliografie meridionali, che invece, altrettanto naturalmente, elencano uomini definiti “illustri” e scrittori oggi per lo più quasi altrettanto ignoti se non in ambiti specialistici di storia delle professioni. 1 Quando le donne sono incluse nei repertori, in percentuale la loro presenza è davvero minima e non soltanto quasi scompaiono dal punto di vista numerico, ma spesso lo spazio assegnato a ciascuna è limitatissimo e addirittura, come vedremo, in qualche caso quasi assente se paragonato alla permanenza del nome nelle storie letterarie fino ai giorni nostri. È sintomatico, del resto, che i frontespizi, tranne quello dell’opera di Capaccio, rechino nel titolo il riferimento ai termini ‘huomini’, ‘scrittori’, ‘letterati’, eliminando tout court l’elemento femminile dalla rilevanza della citazione frontespiziale. Pertanto, se ci si dovesse fermare ai titoli, quasi nella totalità bisognerebbe rinunciare a priori alla consultazione. Invece, come è noto, all’interno qualche voce è registrata e va pazientemente ricercata, laddove gli indici non aiutino, nelle sequenze alfabetiche per nome o, nel progredire del tempo, per cognome. Ancora una considerazione preliminare : una parte delle donne salvate dall’oblio è nel novero delle regine, principesse, nobildonne, note per il loro stesso ruolo nelle vicende dei rispettivi territori o casati, certo più note come tali che come autrici, anche quando abbiano scritto, ma salvate piuttosto che altre per il rilievo del nome portato. Naturalmente sappiamo che proprio negli ambienti di corte o nei monasteri delle nobili religiose potevano più facilmente svilupparsi cenacoli culturali e in particolare letterari, ma non si giustifica l’assenza di altre letterate, a volte partecipanti ai medesimi circoli intellettuali. Al di fuori di questo ambito qualche poetessa, qualche donna medico, qualche pittrice o artefice di figure in cera, qualche fondatrice di istituzioni religiose o benefiche. Più volte, come si può facilmente rilevare, delle donne citate si pone in rilievo la virtù morale prima e più che la capacità per cui ciascuna andrebbe specificamente ricordata. Al contrario non la virtù, ma la presunta dissolutezza, è ciò su cui ci si ferma in qualche caso e, con insolita concessione di spazio anche grafico, nella voce dedicata da Minieri Riccio (di cui poi si dirà) a Giulia De Marco, ben altrimenti rivisitata nelle pagine di Paola Zito. 2  

1   In esordio di queste riflessioni desidero ricordare come il confronto con le esperienze di studio degli amici Renata d’Agostino e Maggiorino Iusi sia stato per me una sollecitante e fruttuosa possibilità di approfondimento. 2   Fra gli studi che hanno riguardato questa interessante figura di donna si vuole qui segnalare la monografia di Paola Zito, Giulia e l’inquisitore. Simulazione di santità e misticismo nella Napoli di primo Seicento, Napoli, Arte tipografica, 2000.

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Prima di qualche esemplificazione, in questa sede necessariamente breve, occorre precisare che alcuni nomi di donna tornano da un repertorio all’altro, quasi sempre con ripresa sostanziale delle notizie – talvolta con aggravio di sintesi, talaltra con aggiunta di qualche particolare – ; per altri nomi invece una o al massimo due citazioni esauriscono la tradizione bibliografica meridionale. Inoltre per alcuni nomi è necessario ricorrere a repertori non meridionali per ritrovare e magari approfondire la singola voce. Infine occorre rilevare che andrebbero confrontati con i più noti e solitamente consultati repertori di area geografica meridionale generale i contributi biobibliografici regionali o cittadini. Iniziamo ora subito con il ricordare che in due importanti contributi quali il Chioccarello 1 e il napoletano Lorenzo Crasso 2 non è menzionata alcuna donna. Prendiamo quindi in considerazione, relativamente alla realtà meridionale fra Quattrocento e prima metà del Seicento, la Biblioteca napoletana di Niccolò Toppi, 3 saltando per ora Giulio Cesare Capaccio. Vi troviamo nominate fra le nobildonne Isabella Capece, autrice di una Consolatione dell’anima, 4 la principessa di Avellino Roberta Carafa, Giovanna Castriota Carafa, nota, fra l’altro, per la raccolta di rime dedicatele da molti e curata da Scipione de’ Monti ; 5 fra le donne di grande cultura Cassandra Marchese, che noi ricordiamo anche perché a lei, a lungo amata dal poeta, è dedicata la raccolta delle Rime di Jacopo Sannazaro, e Camilla Porzielli ; 6 fra le religiose la terziaria carmelitana Lorenza Todesca, di Alvito (in provincia di Frosinone), ma di cui si conservavano molti libri « che contengono altissime materie teologiche e mistiche » nella basilica napoletana del Carmine, e la domenicana Maria Villano, di cui lo stesso Toppi aveva visto undici volumi manoscritti latini e italiani nel monastero di Santa Maria della Sanità e ne scrive che a tempo opportuno sarebbero stati pubblicati ; fra le donne medico Trotula 7 e Costanza Calenda (ma in  











1   Bartolomeo Chioccarello, De illustribus scriptoribus, qui in Civitate et Regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque 1646 floruerunt, Napoli, 1780. 2   Lorenzo Crasso, Elogii d’huomini letterati, Venezia, Combi e La Noù, 1666. 3   Niccolò Toppi, Biblioteca Napoletana, ed apparato agli uomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, Napoli, 1678. Sugli apparati paratestuali e non solo nella Biblioteca di Toppi si legga il bel saggio di Antonella Orlandi Sondaggi su paratesto e testo della Biblioteca Napoletana di Niccolò Toppi, « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari », xvii (2003), pp. 49-81. La studiosa è intervenuta sul medesimo repertorio in Niccolò Toppi bibliografo : la Biblioteca Napoletana in rapporto alla produzione repertoriale seicentesca, relazione tenuta al Convegno “Niccolò Toppi patrizio teatino. Erudizione e diritto a Napoli nel Seicento”, Chieti, 12-13 dicembre 2007. 4   Riporto la notizia bibliografica come è presente in Toppi (Biblioteca Napoletana …, cit., p. 185) e segnalo qualche differenza rispetto alla corrispondente voce in SBN, notando sin d’ora che vi è discordanza rispetto alla data di pubblicazione e al formato : « Consolatione dell’Anima : ove si contengono pie, e divote Meditationi, raccolte, e registrati [sic] col testo della Scrittura, e poste in luce dal Rev. Don Pietro Cola Pagano, Sacristano di Santa Maria Maggiore di Napoli suo Confessore. In Napoli appresso Gio Jacomo Carlino, & Antonio Pace 1594. in 4. » ; in sbn, oltre la data – 1595 – e il formato – ottavo – è riportato : « devote meditationi composte dalla sig. Isabella Capece raccolte, e registrati [sic] … d. Pietro Colapagano […] Divise in quattro libri … Con due tavole una dei capitoli, e l’altra delle cose più notabili ». 5   Anche Toppi ricorda che la « Duchessa di Nocera, e Marchesa di Civita S. Angelo, fu Signora di gran sapere, giuditio, e talento : a segno tale, ch’ha dato campo a D. Scipione de’ Monti, di far una raccolta di tutte le Rime, e Versi scritti in lingua Italiana, Latina, e Spagnuola, da diversi Huomini Illustri, in varij tempi, in lode di quella, che veggonsi stampati in un Volume, in Vico Equense, presso Giuseppe Cacchij 1585. in 4. » : Biblioteca Napoletana …, cit., p. 113 (nell’indice, in modo errato, 173). Della “raccolta Castriota” si veda ora l’edizione curatane da Vincenzo Dolla. 6   Così nell’indice, nel testo invece Portielli. Di lei, viva nel 1429, è scritto che discorreva in greco, latino ed ebraico. 7   Sulla possibile iscrizione di Trotula (in Toppi Trutula de Rogiero) all’età rinascimentale si discute molto e con esiti diversi. Con questo nome viene indicata l’autrice di De morbis mulierum, testo assemblato nel sedicesimo secolo con l’intento di raccogliere gli scritti di medicina dovuti a donne. Al di là dell’identificazione con una donna medico della scuola salernitana vissuta nei secoli precedenti, mi sembra interessante rilevare la posizione di Toppi a favore dell’assegnazione di testi medici ad una donna, rispetto a chi riteneva e ancora fino a metà Novecento ha  





























le donne nella tradizione bibliografica meridionale

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Toppi Calenna) ; fra le poetesse Adriana Basile (ma, come si dirà, è un errore), Vittoria Colonna, Marta Marchina, Margherita Sarrocchi, Laura Terracina (l’unica per la quale sia stata sentita la necessità di un’aggiunta in appendice). 2 Tralasciando Vittoria Colonna, la Sarrocchi e la Terracina, si segnala che di Marta Marchina – di cui il bibliografo ricorda le singolari erudizione e dottrina, riportando anche un’iscrizione, già presente in Giano Nicio Eritreo, che si legge nella chiesa della Vallicella a Roma – non solo si trova menzionata in SBN un’edizione postuma delle poesie stampata a Roma nel 1662 e ristampata a Napoli nel 1701, 3 ma a inizio Ottocento le dedica alcune pagine biografiche, con un ritratto inciso da Guglielmo Morghen, Andrea Mazzarella da Cerreto. 4 Certamente i nomi citati da Toppi per ciascun ambito disciplinare non riscuotono oggi uguale notorietà, ma soprattutto colpisce l’assenza di esponenti femminili che sono successivamente entrate nel canone delle conoscenze delle persone considerate colte fino ad oltre la metà del Novecento. Consideriamo, per esempio, l’area tematica della poesia italiana : non si può non interrogarsi sull’assenza di nomi come per esempio Isabella Morra, ben presente, come si può facilmente verificare, nei manuali di storia letteraria per i licei. Non sarà inutile allora chiedersi quali di questi nomi compaiano in repertori meridionali successivi al Toppi e quali si aggiungano, ma anche se e quali siano stati eliminati rispetto a citazioni precedenti. Né basterà fermarsi alla presenza o meno delle voci biobibliografiche, se non si terrà anche conto del che cosa, come e quanto se ne scrive. Arretrando di settanta anni, torniamo rapidamente al testo del Capaccio, Illustrium mulierum, et illustrium litteris virorum elogia, 5 edito a Napoli nel 1608. Oltre a Roberta Carafa, Giovanna Castriota, Cassandra Marchese e Margherita Sarrocchi, come abbiamo appena visto presenti anche in Toppi, troviamo in più – anche per la specifica attenzione alle “donne illustri”, cui è dedicato l’intero libro primo (dei due complessivi) – la regina Giovanna II d’Angiò Durazzo, Lucrezia d’Alagno, la cui storia d’amore con Alfonso il Magnanimo fu insieme esaltante e sogno mai compiutamente realizzato, Isabella d’Aragona, Maria d’Aragona, Costanza d’Avalos, 6 Isabella Caracciolo, Costanza di Chiaromonte, Camilla Piscicelli, Giovanna Scortiata, Caterina Zunica Sandoval (spagnola). Fra i repertori presi in considerazione, tranne Isabella d’Aragona e Costanza d’Avalos, le altre sono pre 

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continuato a ritenere che alle donne non fosse permesso praticare la medicina e scriverne. Della figura di Trotula e degli esiti attuali del relativo dibattito si è occupata nel Convegno (e se ne può leggere la relazione in questi Atti) Corinna Bottiglieri, al cui testo, sebbene da me non letto, senz’altro si rimanda. 1   Figlia di Salvatore, Priore del Collegio di medicina di Salerno e di Napoli, di lei il bibliografo scrive « leggesi dottorata in Medicina, cosa di maraviglia » : Biblioteca Napoletana …, cit., p. 67 ; il corsivo è mio. 2   Ringrazio la dottoressa Paola Pagano per aver potuto consultare l’indice alfabetico per cognome delle lettere A-D (la Biblioteca Napoletana, come è noto, è ordinata alfabeticamente per nome) presente nella tesi di diploma discussa presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università di Roma La Sapienza nell’anno accademico 2008-09, relatore il professor Marco Santoro. La dottoressa Pagano ha peraltro tenuto un intervento su Per un aggiornamento della Biblioteca Napoletana nel Convegno “Niccolò Toppi patrizio teatino …” prima menzionato. 3   Marthae Marchinae virginis Neapolitanae Musa posthuma, Romae, typis Philippi Mariae Mancini, 1662 ; quindi con identica intestazione : Romae, 1662 et denuo Neapoli, apud Antonium Bulifon, 1701. 4   È uno dei medaglioni biografici contenuti nell’opera Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli citata più avanti. 5   Giulio Cesare Capaccio, Illustrium mulierum et illustrium litteris virorum elogia, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum, & Constantinum Vitalem, 1608. Questa la data del libro I, come si è detto dedicato alle donne, ad iniziare da Eva ; il II, edito nel 1609, ha un altro frontespizio, e agli uomini sono riservati Elogia, & iudicia. 6   Nel Convegno di cui qui si leggono gli Atti Costanza d’Avalos, moglie di Federico del Balzo e cognata, quindi, di Isabella, è stata coprotagonista della relazione di Gennaro Toscano, che dimostra che deve essere identificata in lei la contessa di Acerra in corrispondenza con Isabella d’Este.  













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senti unicamente in quello di Capaccio. Peraltro non si può non notare che la massima parte delle donne biografate appartiene ad alcune delle famiglie più in vista della nobiltà meridionale o alle stesse Case reali ; anche Caterina Zunica y Sandoval sembra ricordata soprattutto in quanto moglie di Ferdinando de Castro e, ancor più, madre di Francesco De Castro, viceré di Napoli. Nel 1713 Giacinto Gimma nell’Idea della storia dell’Italia letterata, 1 oltre Vittoria Colonna, Camilla Porzielli e Laura Terracina, già in Toppi, oltre Costanza d’Avalos, menzionata da Capaccio, cita – finalmente – Isabella Morra ; cita la figlia del principe di Bisignano Dianora Sanseverino e Ippolita Gonzaga, moglie del duca di Mondragone Antonio Carafa, lui stesso poeta ; cita Giulia Cavalcanti, ma aggiunge anche un tassello ancor meno noto alla schiera delle poetesse con la palermitana Elisabetta AjutamiCristo, non presente nemmeno nei successivi Gio Bernardino Tafuri, 2 Eustachio D’Afflitto 3 e Camillo Minieri Riccio. 4 Tafuri peraltro scrive soltanto della beata Alessandra da Letto, di cui segnala due opere manoscritte conservate nel monastero delle Clarisse da lei fondato (in una precedente struttura di suore agostiniane) a Foligno, 5 e della già ricordata Isabella d’Aragona (autrice di rime per le quali è citata da Mazzuchelli) di cui segnalo che le due pagine dedicatele compaiono stranamente due volte in libri diversi 6 – con l’avvertimento, in entrambi i casi, di aggiungere la voce « dopo il Capitolo di Bonifacio Simoneta » –, con qualche variante, peraltro poco significativa, rispetto al contenuto. A distanza di poco più di venti anni, nel 1782, abbiamo le Memorie degli scrittori del Regno di Napoli di Eustachio D’Afflitto, 7 interrotte purtroppo al secondo tomo, peraltro postumo, e comprendenti perciò, come è noto, unicamente gli autori il cui cognome o casato inizia per a o per b, fino a Brittonio, ultimo scrittore di cui si dà notizia. Sebbene quella di D’Afflitto sia dichiaratamente una bibliografia secondaria, l’indubbia attenzione alle fonti ci fa anche in questo caso ulteriormente rimpiangere la limitazione dell’opera alle prime due lettere dell’alfabeto. Come già abbiamo rilevato per le opere citate finora, ugualmente in queste Memorie nel termine ‘scrittori’ sono comprese anche le scrittrici e ancora una volta registriamo omissioni rispetto ai repertori precedenti, ma anche qualche aggiunta interessante e talvolta la  









1   Giacinto Gimma, Idea della storia dell’Italia letterata esposta coll’ordine cronologico del suo principio fino all’ultimo secolo, colla notizia delle storie particolari di ciascheduna scienza, e delle ari nobili, di molte invenzioni degli scrittori più celebri … divisa in due tomi, colle tavole de’ capitoli, e delle controversie nel primo ; degli autori o lodati, o impugnati, e delle cose notabili nel secondo. Discorsi, in Napoli, nella stamperia di Felice Mosca, 1723. 2   Gio. Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Napoli, nella stamperia di Felice Carlo Mosca per Giuseppe Severini Boezio, 1744-1760 (rist. anastatica [Bologna], Forni, 1974). 3   Eustachio D’Afflitto, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, in Napoli, nella stamperia simoniana, t. i 1782, t. II 1784. 4   Camillo Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli, tip. dell’Aquila di V. Puzziello, 1844, ora in edizione anastatica, [Bologna], Forni, 1990. 5   Si tratta di Istoria della Fondazione del Monistero di S. Lucia di Foligno e di Vite delle più illustri Religiose morte in opinione di bontà di vita nel Monistero di S. Lucia in Foligno : cfr. G. B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, cit., t. ii parte ii, p. 326. Il monastero di Santa Lucia e quello di Santa Maria di Monteluce di Perugia furono molto importanti per la presenza e lo sviluppo della cultura femminile, favorendola anche attraverso le biblioteche e gli scriptoria. È opportuno precisare che la beata Alessandra sembra ignota agli studiosi che, anche recentemente, si sono occupati del monastero e che attribuiscono meriti e notizie ad altre figure femminili appartenenti al medesimo Ordine, come Cecilia Coppoli, contemporanea della da Letto, e Caterina Guarnieri, cui viene attribuita una Cronaca dell’istituzione scritta a inizio Cinquecento ; Tafuri, peraltro, non aveva visto personalmente i manoscritti. 6   Precisamente nel t. iii parte quarta, pp. 356-357, e parte quinta, pp. 298-299. 7   Eustachio D’Afflitto, Memorie …, cit. Gli indici, stampati alla fine del secondo tomo, sono curati da Filippo Campana, che alle pagine iii-vi dà conto dell’edizione a lui affidata in Filippo Campana al cortese lettore, in cui, al di là della valenza paratestuale che il testo ovviamente ha, spiega che nell’opera sono state stese le voci che D’Afflitto aveva appena iniziato.  





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precisazione che di un nome si è scelto di non inserirlo nella sequenza numerica assegnata all’interno di ciascuna lettera alfabetica perché il personaggio in questione non può essere in realtà ascritto al Regno di Napoli (è il caso, a suo giudizio, di Tullia d’Aragona 1) oppure non se ne conoscono testi, malgrado le errate notizie riportate in alcuni repertori anteriori (come si legge nella voce dedicata ad Adriana Basile). 2 Nel tomo i, al di fuori di Tullia sono registrate alla voce aragona anche Giulia – della quale, attiva a metà Cinquecento, non è noto il luogo d’origine, ma che D’Afflitto inserisce congetturalmente fra gli autori del Regno napoletano – e ancora una volta la figlia di Alfonso II e sposa di Giovan Galeazzo Maria Sforza Isabella, di cui si citano rime inserite fra quelle di Bernardo Bellincioni, edite a Milano nel 1493, rimandando al Mazzuchelli. 3 Se si esclude la salernitana Abella, vissuta, come si è detto, in età angioina, l’unica altra donna di questo primo tomo è Dorotea Acquaviva d’Aragona, alla cui biografia si presta attenzione in una voce a paragone di altre abbastanza estesa, anche se forse è attratta in un’area di attenta considerazione per essere sorella del duca Giovan Girolamo e, soprattutto, del generale della Compagnia di Gesù Claudio, al quale D’Afflitto dedica numerose pagine. Viva ancora nel 1579, dopo che nel 1573 aveva fatto inventariare i suoi beni e aveva redatto un testamento, il bibliografo la ritiene morta dopo il 1590, ma prima del 1617 e si compiace di aver rinnovato « la memoria di lei ormai spenta affatto, essendo stata ignota al Chioccarelli, al Toppi, al Nicodemi, al Tafuri, al Mazzucchelli, al Crescimbeni, e fino alla celebre Luisa Bergalli, delle illustri Rimatrici d’ogni secolo raccoglitrice industriosa ». 4 Nel secondo tomo, al di fuori della riserva avanzata per Adriana Basile, vengono menzionate Caterina e Lionora Barone, Vincenza Basali e Orsola Benincasa. Le prime due, figlie della Basile, sono ricordate come poetesse, anche se della seconda si dice « in verità più che per la poesia, fu famosa pel canto, in cui ebbe tanta eccellenza, che meritò straordinarie lodi da’ più belli spiriti di quel tempo […] ». 5 Per Caterina fra le sue rime si ricorda un sonetto « in lode del Teagene, Poema del Cav. G. B. Basile suo zio […] ». 6 Di Vincenza Basali il nostro biobibliografo dice che è napoletana, anche se può riportare solo il titolo Giardino di Madrigali, e Villanelle raccolte, opera edita a Trevigi da Cesare Righettini nel 1630, precisando in nota che l’unica sua fonte è stata il « Catal. Casanattense, da cui ho preso quest’articolo, non avendone trovata notizia presso di alcuno ». 7 Come fondatrice delle Orsoline – per cui anche oggi è nota – oltre che per aver scritto le regole di questa Congregazione e « alcune sue Aspirazioni e Sentenze spirituali » è invece ricordata Orsola Benincasa. 8 Nessuna donna è presente negli Elogi storici degli uomini illustri del Regno di Napoli, pubblicati nella città partenopea nel 1797 da Lorenzo Giustiniani. 9  



















1   Cfr. E. D’Afflitto, Memorie …, t. i, p. 413 : « è da me esclusa da queste memorie, perché nacque in Roma, comeché da padre Napolitano ; né visse tra noi ». 2   Si veda quanto ne scrive nel t. ii a p. 67, dove, fra l’altro, precisa che Toppi e, dopo di lui, molti hanno inserito la Basile fra le scrittrici (ovviamente D’Afflitto usa il termine ‘scrittori’) sbagliando ; in particolare ricorda che Toppi aveva scritto : « diede alle stampe un libro di varie sue composizioni in verso, finora non capitato nelle mie mani ». 3   L’opera di Giammaria Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia cioè Notizie storiche, e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, in Brescia, presso a Giambatista Bossini, 1753-1763, è peraltro una delle fonti canoniche cui 4   E. D’Afflitto, Memorie …, cit.,t. i, pp. 85-86. attinge D’Afflitto. 5   Ivi, t. ii, p. 44. Tali lodi – avverte D’Afflitto – furono pubblicate « col titolo di Applausi Poetici alle glorie ec. Bracciano 1639. in 4 », opera in cui sono stampate anche rime della stessa Lionora ; D’Afflitto inoltre rimanda anche ad altra bibliografia francese e italiana. 6   Ivi, t. ii, p. 43. D’Afflitto riprende la notizia dal Mazzuchelli. L’edizione del Teagene preceduta dal sonetto in 7   Ivi, pp. 66-67. questione è quella edita a Roma da Pietro Antonio Facciotti nel 1637. 8   Ivi, p. 105. D’Afflitto registra anche rispetto alla sua figura una già presente tradizione agiografica. 9   Lorenzo Giustiniani, Elogi storici degli uomini illustri del Regno di Napoli, con i rispettivi ritratti, Napoli, nella stamp. di Nicola & Giov. Gervasi, 1797.  





















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Dal 1813 inizia ad essere pubblicata la Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, 1 con bei ritratti calcografici che impreziosiscono i volumi, le cui voci sono redatte da autori diversi. L’opera si presenta come somma di singole biografie prive di ordinamento e l’editore, il calcografo Nicola Gervasi, ne promette un « indice cronologico ragionato » gratuito per i suoi associati alla fine dell’ultimo volume, dichiarando esplicitamente che sarebbe stato un necessario strumento perché il lettore potesse orientarsi : infatti sono certamente insufficienti gli indici dei nomi dei personaggi biografati, in una pseudofrequenza alfabetica, accompagnati dai nomi dei corrispondenti estensori delle voci. La somma e non l’organizzazione di queste ultime è peraltro attestata dalla mancanza di cartulazione o paginazione per ciascun volume, che conferma il carattere singolo di ogni biografia, probabilmente venduta presso l’officina calcografica, anche se è interessante l’utilizzo del termine ‘associati’ per i potenziali acquirenti, termine che lascia supporre una sottoscrizione, in carattere con altre iniziative del medesimo periodo. 2 Le poche donne comprese nella Biografia rispetto al periodo qui considerato (ma, naturalmente, la medesima scelta riguarda anche le altre epoche) sono Tullia d’Aragona, Marta Marchina, Margherita Sarrocchi e Laura Terracina 3 e le voci, tutte stese da Andrea Mazzarella da Cerreto, hanno, come quasi tutte le altre, un’estensione di quattro pagine, fanno riferimento alle opere, ma, soprattutto, pongono sempre in rilievo – positivamente per la Marchina, negativamente per le tre poetesse – le loro scelte di vita con giudizi moralistici, pur evidenziando comunque il valore delle opere : il biografo sembra già segnare il tracciato che sarà poi percorso da Minieri Riccio ; tuttavia le parole di Mazzarella conservano una sfumatura di ammirazione nei confronti della bellezza che nel successivo bibliografo sarà completamente assente. Occorre registrare anche la biografia di Trotula – qui Trottola – dovuta a Nicola Columella Onorati, che, pur citando le edizioni cinquecentesche degli scritti a lei attribuiti, assegna la donna al secolo xi. 4 In verità nel volume xiv compare un ritratto di Guglielmo Morghen e il profilo (ben otto pagine) di Anna Maria Edvige Pittarelli dovuto a Vito Capialbi. L’illustre studioso calabrese ricostruiva la presunta biografia di questa poetessa – che affermava nata a Francica, in Calabria, alla fine del Quattrocento e morta dopo il 1554 – sulla base di un manoscritto conservato nella propria biblioteca. Dopo l’intervento di Benedetto Croce sulle pagine di « La Critica », 5 e malgrado la ripresa anche successiva da parte di alcuni delle notizie ricavate da Capialbi, sembra accertato che il ms. sia in realtà un falso e che l’autrice cinquecentesca non esista. Un discorso a parte va fatto per il decimo volume delle suddette Biografie, che, con il titolo Biografia de’ Re di Napoli, di cui sono autori nelle due parti, edite nel 1825, Nicola Morelli di Gregorio e (per la seconda parte) Pasquale Panvini, comprende, oltre i profili  













1   Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli Ornata de’ loro rispettivi ritratti Compilata da diversi letterati nazionali, Napoli, presso Nicola Gervasi calcografo – Strada Gigante n. 23, [1813]-1830 ; sul frontespizio del vol. I compare « Compilata dal Sig.r Domenico Martuscelli » e manca l’anno di edizione. I dedicatari cambiano nei diversi volumi. Cinque volumi con complessive 240 biografie sono stati ristampati in edizione anastatica a Bologna, da Forni, s.d. (ma nel 1977). 2   Per un primo approccio alla pratica della sottoscrizione come strumento preventivo di garanzia delle vendite si veda Marco Santoro, Storia del libro italiano. Libri e società in Italia dal Quattrocento al nuovo millennio, Milano, Bibliografica, 2008. 3   Le quattro biografie si leggono nei voll. ii (Laura Terracina e Tullia d’Aragona), iii (Marta Marchina) e v (Margherita Sarrocchi) ; il ritratto di quest’ultima è inciso da Carlo Biondi, gli altri tre da Guglielmo Morghen. 4   La biografia di Trotula è nel vol. iv ; anche il suo ritratto è inciso da Biondi. 5   xxix (1931), 2. In margine al suo scritto nello stesso anno Croce pubblicava sulla rivista una lettera di Vito G. Galati che confermava con ulteriori indicazioni le pagine crociane.  









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e i ritratti delle regine Giovanna II e Giovanna III (e, naturalmente, Giovanna I), alcuni capitoli riguardanti nomi divenuti illustri nei campi più vari (medicina, giurisprudenza, poesia, arti, ma anche, per esempio, gerarchia militare). È nell’ambito di questi capitoli e relativamente al periodo che stiamo prendendo in considerazione che per la medicina viene ricordata Costanza Calenda (ma anche, con i consueti errori di cronologia, Abella e Trudila Ruggiero, cioè la già ricordata Trotula) ; per la pittura Mariangela Criscuoli ; per la cultura greca e non solo Camilla Porzielli. Per la poesia – nella sequenza che si sceglie perciò di riportare qui – sono menzionate brevemente Laura Terracina (già con voce autonoma nel vol. II), Isabella Morra, Costanza d’Avalos, Dianora Sanseverino, Dorotea Acquaviva, Caterina Pellegrina, Violante Cardona, Violante Sanseverino, Giulia Cavalcanti e, soltanto nominate, le palermitane Elisabetta Ajutamicristo, Laura Bonanno, Marta Bonanno e Onofria Bonanno (Nofriella) ; più avanti Margherita Sarrocchi e Marta Marchina (che, come già si è detto, avevano anche fruito di voci rispettivamente nei volumi V e III). Si menzionano inoltre, ma solo in quanto amate l’una da Alfonso il Magnanimo e l’altra da Jacopo Sannazaro, Lucrezia d’Alagno e Cassandra Marchese. Nel 1844 Minieri Riccio pubblica le sue Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, dove ritroviamo rispetto a Toppi – oltre Trotula (col nome di Trotta) – Costanza Calenda, Isabella Capece, Vittoria Colonna, Marta Marchina, Margherita Sarrocchi, Laura Terracina, ma non meno ci interessa rilevare anche qui, come nella Biografia ora esaminata, la presenza di due altre poetesse fra le voci oggi note a chi abbia qualche frequentazione con la letteratura italiana : si tratta di Tullia d’Aragona, la cui biografia è, però, indicata da eliminare nelle Aggiunte e correzioni, in quanto la donna era nata a Roma, e di Isabella Morra. In Minieri Riccio vengono ancora prese in considerazione Luisa Capomazzo, Maria Cardona o da Cardona e Mariangela Criscuoli, 1 la fondatrice dell’ospedale degli Incurabili Maria Laurenzia Longo 2 e poi Giulia Cavalcanti, Alessandra da Letto, Caterina De Iulianis, Caterina Pellegrina e ancora Isabella d’Aragona, Costanza d’Avalos e Dianora Sanseverino. Non ultima – ma ultima nella considerazione ancora una volta moralistica del Minieri – Giulia De Marco, già prima ricordata. Il medesimo studioso successivamente compila le Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel secolo xvii, 3 giudicando, come scrive nella premessa, che gli autori del Sei e Settecento siano stati prima di lui non trattati dai bibliografi. La sua intenzione era quella di stampare le voci relative a ciascuna lettera alfabetica in pubblicazioni singole, in modo che ogni lettera costituisse di per sé un’opera compiuta. Purtroppo arrivò a pubblicare soltanto le lettere A e B relative al Seicento, dove ritroviamo Adriana Basile, le figlie Caterina ed Eleonora Barone e Orsola Benincasa, tutte assenti nelle Memorie storiche. Il più antico dei biobibliografi citati, Capaccio, aveva dedicato una voce a Lucrezia d’Alagno ; con questo nome si potrebbe riprendere il discorso da Benedetto Croce, ma questo è e resta per ora altro discorso. 4  









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  Sulla Capomazzo e sulla Criscuoli cfr. in questi Atti la relazione di Cettina Lenza.   Sulla Longo si veda, ancora in questi Atti, la relazione di Adriana Valerio. 3   Camillo Minieri Riccio, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel secolo xvii, MilanoNapoli-Pisa, Ulrico Hoepli librajo-editore, 1875-1877. Il fasc. relativo alla lettera B reca sul frontespizio solo l’indicazione degli stampatori (Napoli, tipografia di Raffaele Rinaldi e Giuseppe Sellitto) e soltanto sulla copertina un bollino incollato con il riferimento a Ulrico Hoepli come editore. Per il periodo qui considerato si segnala che nella lettera A vengono inserite fra gli autori anonimi come Anonime del Vasto le monache del convento di Santa Chiara di Vasto, autrici di un ms. che reca come data iniziale il 22 settembre 1609 contenente la storia del monastero. Nella lettera D, diversamente che in D’Afflitto, è menzionato un Vincenzo (e non Vincenza) Basali. 4   Tuttavia – e senza nemmeno sfiorare la numerosa bibliografia – sia concesso invitare a leggere almeno le 2

Avalos Barone Barone Basali Basile Benincasa Bonanno Bonanno Bonanno Calenda Capece Capomazzo Caracciolo Carafa Cardona

Acquaviva D’aragona Ajutamicristo Angiò Durazzo Aragona Aragona Aragona Aragona Aragona e Castiglia

Dorotea Elisabetta Giovanna II d’ Giulia d’ Isabella d’ Maria d’ Tullia d’ Giovanna III d’ (Giovanna la pazza) Costanza d’ Caterina Lionora Vincenza Adriana Orsola Laura Marta Onofria (Nofriella) Costanza Isabella Luisa Isabella Roberta Maria de x x

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Capaccio Toppi Illustrium … Biblioteca …

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Tafuri Istoria …

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Biografia Minieri D’afflitto Degli Uomini Riccio Memorie … Illustri … Memorie … x x x x x x x

tavola delle donne vissute e operanti fra quattrocento e prima metà del seicento menzionate nei repertori biobibliografici di area meridionale

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Minieri Riccio Notizie …

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Violante de Giovanna Giulia Costanza di Vittoria Mariangela Lucrezia Alessandra Caterina Giulia Maria Lorenza Marta Cassandra Isabella Caterina Camilla Camilla Dianora Violante Margherita Ioanna Laura Lorenza Maria Caterina x

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Biografia Minieri D’afflitto Degli Uomini Riccio Memorie … Illustri … Memorie … x Minieri Riccio Notizie …

* Si riassumono nella tabella i dati raccolti, indicando in alto in forma sintetica autore e titolo dei repertori di riferimento e facendo seguire all’elenco alfabetico per cognome o casato delle donne citate una x in corrispondenza del repertorio in cui la relativa voce è presente.

Cardona Castriota Cavalcanti Chiaromonte Colonna Criscuoli D’alagno Da Letto De Iulianis Di Marco Longo Marchina Marchese Morra Pellegrina Piscicelli Porzielli Sanseverino Sanseverino Sarrocchi Scorziata Terracina Todesca Villano Zunica Sandoval

Capaccio Toppi Illustrium … Biblioteca …

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Mi sia concesso infine citare anche Maria Zito, secondo Minieri autrice di La bilancia critica, in cui bilanciati alcuni luoghi notati come difettosi, nella Gerusalemme del Tasso, trovansi di giusto peso secondo le pandette della lingua italiana, che ci conduce fuori dalle coordinate cronologiche che ci interessano, essendo il testo pubblicato nel 1685, 1 ma ho voluto riportarne la notizia perché si tratta in realtà dell’opera di Mario Zito, come si può controllare fra l’altro in sbn, senza che ciò sia segnalato nell’errata corrige dell’edizione di Minieri Riccio consultata. Siamo indotti così a ricordare che bisogna ricercare molto e a lungo nel tentativo di evitare errori e mi sento spinta, sulla scorta dei bibliografi e tipografi antichi, a chiedere venia di quelli eventualmente fatti in questa sede da me. Università della Calabria Sulla base di un’analisi dei principali repertori bibliografici meridionali si evince una presenza femminile visibilmente esigua rispetto a ipotetiche prefigurazioni di realtà e, comunque, affidata a voci scarne e ripetitive, quando non soggetta, salvo che in rari casi canonici, ad una tendenza oscillatoria. In definitiva, anche la tradizione bibliografica, indagata sotto questa particolare angolazione, restituisce i termini di una vicenda socioculturale e storica della donna difficile e fortemente penalizzata dal sistema memoriale maschile. A survey of the main Southern bibliographic repertoires suggests a markedly small presence of women, compared with the hypothetical anticipations of reality, and moreover such presence relied on meagre, repetitive voices if not actually, unless in some infrequent canonical cases, prone to fluctuate. In other words, even the bibliographical tradition, when investigated from this specific perspective, outlines a socio-cultural and historical dimension of women which looks difficult and strongly impaired by male memories. Sur la base d’une analyse des principaux répertoires bibliographiques méridionaux, on devine une présence féminine visiblement exiguë par rapport à d’hypothétiques préfigurations de la réalité et en tous les cas toujours liée à des voix dépouillées et répétitives, quand elle n’est pas sujette, sauf dans de rares cas canoniques, à une tendance oscillatoire. En définitive, même la tradition bibliographique, étudiée sous cet angle particulier, restitue les termes d’un événement socioculturel et historique de la femme difficile et fortement pénalisé par le système mémorial masculin. De un análisis de los principales repertorios bibliográficos meridionales se deduce una presencia de la mujer visiblemente exigua respecto a hipotéticas prefiguraciones de la realidad, relegada a voces parcas y repetitivas, si no sujeta – a excepción de raros casos canónicos – a una tendencia oscilatoria. En otras palabras, también la tradición bibliográfica abordada bajo este perfil particular restituye una realidad sociocultural e histórica de la mujer difícil y fuertemente penalizada por el sistema memorial masculino. Auf der Basis einer Analyse der hauptsächlichen bibliografischen Verzeichnisse Süditaliens verdeutlicht sich eine nur geringfügig wahrnehmbare weibliche Präsenz im Vergleich zu hypothetischen Realitäts-Präfigurationen, die sich mit Ausnahme weniger kanonischer Fälle in einer kargen und repetitiven, wenn nicht sogar unterdrückten Stimme ausdrückt und durch eine oszillatorische Tendenz gekennzeichnet ist. Alles in allem liefert auch die bibliografische Tradition, wenn sie unter diesem speziellen Blickwinkel untersucht wird, die Bezugspunkte und Begrifflichkeiten einer schwierigen und stark benachteiligten soziokulturellen Geschichte der Frau, weil sie durch das männliche historiografische System geprägt ist. pagine dedicatele da Croce in Storie e leggende napoletane, edite quasi un secolo fa, ma ristampate numerose volte e ora pubblicate a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 2009, pp. 89-120. 1   L’edizione citata da Minieri Riccio senza indicazione del tipografo/editore è appunto quella napoletana del 1685, la cui pubblicazione è dovuta agli eredi di Cavallo.

LE BIBLIOTECHE DELLE PRINCIPESSE NEL REGNO ARAGONESE Concetta Bianca

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el 1472 Giovanni Filippo De Lignamine, nobile messinese, formatosi a Napoli, e poi approdato a Roma, dove aveva iniziato il lavoro di tipografo-editore, 1 scriveva la prefazione all’edizione a stampa del Pungilingua di Domenico Cavalca 2 e a quella del trattato Dell’immortalità dell’anima del domenicano Iacopo Campora ; 3 in queste dediche, come ha sottolineato Paola Farenga nel 1980, De Lignamine « individuava il pubblico al quale rivolgere le sue prime due edizioni in volgare », 4 e cioè « indoctis viris … mulierculis quoque ipsis » : il binomio “uomini non dotti e donne” trovava il suo snodo centrale proprio nella scelta della lingua volgare, l’unica che potesse essere compresa da chi non aveva compiuto il corso degli studi latini o addirittura greci. 5 E la lingua volgare, a sua volta, costituiva la comune base per le donne, sia se avessero una formazione minima di base e fossero in grado di leggere, sia se fossero state educate in una corte, accanto ai fratelli, a cui venivano destinati gli specula principum, molto spesso con l’aiuto di un precettore (è questo, ad esempio, il caso di Baldo Martorelli, 6 precettore di Galeazzo Maria Sforza e di Ippolita Maria Sforza), 7 sia infine se avessero responsabilità di governo. 8 Di fatto le dedi 











1   Cfr. Paola Farenga, “Indoctis viris … mulierculis quoque ipsis”. Cultura in volgare nella stampa romana ?, in *Scrittura, Biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi. Atti del Seminario (1-2 giugno 1979), a cura di Concetta Bianca et al., Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, 1980, pp. 403415 ; Ead., Le prefazioni alle edizioni romane di Giovanni Filippo de Lignamine, in *Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del 2° Seminario (6-8 maggio 1982), a cura di Massimo Miglio, Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, 1983, pp. 135-174 ; Massimo Miglio, Paola Farenga, Giovanni Filippo de Lignamine : “Vita et laudes Ferdinandi regis” ; il monaco Ilarione e il “Dialogus ad Petrum S. Xysti cardinalem, in *Cultura umanistica nel Meridione e la stampa in Abruzzo. Atti del Convegno (L’Aquila, 12-14 novembre 1982), L’Aquila, Deputazione di storia patria negli Abruzzi, 1984, pp. 119-138 ; Cristina Alaimo, De Lignamine, Giovanni Filippo, in *Dizionario biografico degli Italiani, 36, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 643-647. 2   L’edizione è assegnata al 1472 : istc ic00336500, iers 128 ; P. Farenga, Le prefazioni …, cit., p. 168. 3   L’edizione è assegnata al 1472 : istc ic000787000, igi 2392, iers 127 ; P. Farenga, Le prefazioni …, cit., p. 168. 4   P. Farenga, “Indoctis viris …. mulierculis quoque ipsis”…, cit., p. 403. 5   Cfr. Antonio Maria Adorisio, Cultura in volgare a Roma tra Quattro e Cinquecento, in *Studi di biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma, Associazione italiana biblioteche, 1976, pp. 19-36. 6   Baldo Martorelli (per il quale si veda infra, nota 29) ribadiva il suo essere precettore di entrambi, come si deduce dal colophon autografo del ms. T 16 sup. della Biblioteca Ambrosiana, terminato di trascrivere il 17 febbraio 1456 e contenente il Liber de excellentibus ducibus di Cornelio Nepote : « Ego Baldus Martorellus hunc perstrinxi semel libellum cum essem illustrissimi Comitis Galeaz Mariae et Hyppolitae sororis praeceptor ». Cfr. Elisabeth Pellegrin, Bibliothèques d’humanistes lombards de la cour des Visconti Sforza, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », xvii (1955) (pp. 218-245), pp. 236-237 ; Judith Bryce, “Fa finire uno bello studio et dice volere studiare”. Ippolita Sforza and her Books, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », lxiv (2002) (pp. 55-69), p. 59. Inoltre lo stesso Martorelli nel 1460 trascriveva il ms. 786 della Biblioteca Trivulziana, contenente la sua Grammatica, precisando la destinazione per entrambi i suoi discepoli : « Baldus Martorellus Picenus has regulas composuit pro illustri comite Galeaz et inclyta domina Hippolita sorore eius ». Cfr. E. Pellegrin, Bibliothèques d’humanistes lombards …, cit., p. 237 ; J. Bryce, “Fa finire uno bello studio …, cit., p. 59. 7   Cfr. Monica Ferrari, “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione dei bambini Sforza nel Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 240. 8   È il caso, ad esempio, di Maria d’Enghien (1369-1446), contessa di Lecce e regina di Napoli, le cui lettere, statuti e bandi furono raccolti successivamente, nel 1473 : Il codice di Maria d’Enghien, a cura di Michela Pastore, Galatina, Congedo, 1979 ; cfr. Rosario Coluccia, Lingua e politica. Le corti del Salento nel Quattrocento, in *Letteratura, verità e vita. Studi in ricordo di Gorizio Viti, i, a cura di Paolo Viti, Roma, Storia e Letteratura, 2005 (pp. 129-162), pp. 132-140.  















































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che a regine, principesse e duchesse, che precedono trattatelli o traduzioni, sono quasi tutte in volgare, con una sorta di aggancio con la tradizione cavalleresca cortese, che era un aggancio più ideologico che di contenuto culturale. Le operette dedicate a Beatrice d’Aragona, regina di Ungheria, sono ad esempio tutte in volgare, come lo Specchietto di Pier Andrea da Verrazano 1 o il Memoriale di Diomede Carafa. 2 Ma leggere è ben diverso che possedere una biblioteca. Infatti, per quanto riguarda il possesso di una raccolta libraria, non importa se dalle dimensioni piccole o grandi, se ciò accade, è solo perché le circostanze, di varia natura, lo avevano in qualche modo determinato. E le “circostanze” sono quasi tutte connesse al patrimonio, in quanto il libro viene inventariato come un bene, molto spesso accanto ad oggetti di altra natura ; ed anzi la scelta di redigere un inventario dipende quasi sempre da contenziosi tra gli eredi, siano questi reali o ipotizzati dallo stesso testatore, o dalla necessità di fissare, soprattutto in presenza di minori, lo status patrimoniale laddove la figura del padre o del marito venisse a mancare. 3 Alcuni casi possono risultare esemplificativi : così ad esempio l’inventario stilato a Corleone il 17 agosto 1417 dei beni della defunta Rikina, sposa del magister Andreas Spallicta, anch’egli defunto, registra solo libri legati all’attività del capofamiglia, e cioè un « liber artis barbitonsoris » ; 4 oppure l’inventario stilato a Trapani il 3 febbraio 1433 dei beni del magister Petrus de Fica, « arcium et medicinae doctor », registra i libri, quasi esclusivamente di medicina e astrologia, che erano destinati alla figlia Costanza, sua erede universale ; 5 oppure classici latini e greci erano i 49 libri di Giovanni Pontano che pervennero alla figlia Eugenia, la quale il 4 giugno 1505 li donava a San Domenico di Napoli. 6 I libri ovviamente erano anche oggetti legati al commercio e al lavoro, e dunque non sorprende se Ieronima, moglie di Clemente Donati, il 27 agosto 1473 affittava a Roma tre torchi a Iohannes Fersoris, stabilendo di ricevere 5 libri, come ha dimostrato Anna Modigliani, per ogni edizione portata a termine ; 7 il marito si trovava lontano dall’Urbe, 8 probabilmente a Ferrara, dove tentava di convincere Borso d’Este ad impiantare una tipo 

















1   Carlo Dionisotti, Un opuscolo di Pier Andrea da Verrazano per Beatrice d’Aragona, « Italia medioevale e umanistica », x (1967), pp. 321-343 (in collaborazione con Tammaro de Marinis), rist. in Id., Scritti di storia della letteratura italiana, ii, 1963-1971, a cura di Tania Basile, Vincenzo Fera, Susanna Villari, Roma, Storia e Letteratura, 2009, pp. 305-324. 2   Il Memoriale a la serenissima regina de Ungharia è edito in Diomede Carafa, Memoriali, ed. critica a cura di Franca Petrucci Nardelli, Roma, Bonacci, 1988, pp. 211-241. Cfr. Benedetto Croce, Il Memoriale a Beatrice d’Aragona e gli altri opuscoli in volgare di Diomede Carafa conte di Maddaloni, « Rassegna pugliese », xi (1894), rist. in Id., Aneddoti di varia letteratura, i, Bari, Laterza, 1953, pp. 84-94 ; Elisabetta Mayer, Un opuscolo dedicato a Beatrice d’Aragona, regina d’Ungheria, « Studi e documenti italo-ungheresi della R. Accademia d’Ungheria di Roma. Annuario », i (1936) (pp. 200-238), pp. 203-204 ; Lucia Miele, Modelli e ruoli sociali nei “Memoriali” di Diomede Carafa, Napoli, Federico & Ardia, 1989, pp. 17-141. Cfr. anche Franca Petrucci, Carafa, Diomede, in *Dizionario biografico degli Italiani, 19, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1976 (pp. 524-530), p. 527 ; John D. Moores, New Light on Diomede Carafa and his “Perfect Loyalty” to Ferrante of Aragon, « Italian Studies », xxvi (1971), pp. 1-23. 3   Cfr. Concetta Bianca, Dal privato al pubblico : donazioni di raccolte librarie tra xv e xvi secolo, in *Le biblioteche private come paradigma bibliografico, a cura di Fiammetta Sabba, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 453-462. 4   Henri Bresc, Livre et société en Sicile (1299-1499), Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, 1971, pp. 137-138. 5   Ivi, pp. 154-159 ; cfr. C. Bianca, Dal privato al pubblico …, cit., p. 453. 6   Il documento della donazione, tratto dal protocollo del notaio C. Amalfitano, 1504-5, c. 292, è edito in Erasmo Percopo, Vita di Giovanni Pontano, a cura di Michele Manfredi, Napoli, i.t.e.a., 1938, pp. 313-314. 7   Anna Modigliani, Ieronima : libri e torcelari, in Paolo Cherubini, Anna Esposito, Anna Modigliani, Paola Scarcia Piacentini, Il costo del libro, in *Scrittura, biblioteche e stampa ... 2° Seminario …, cit. (pp. 324-553), pp. 421-425. 8   Su Clemente Donati, uno dei tre contraenti, accanto a Domenico da Lucca e al magister Herricus Unrici, a costituire a Roma, prima dell’ottobre 1466, una « societas super impressione librorum conficiendorum cum formis », si veda Anna Modigliani, Tipografi a Roma prima della stampa. Due società per fare libri con le forme (1466-1470), Roma, Roma nel Rinascimento, 1989, pp. 21-23.  































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grafia nella città estense. L’assenza occasionale, o a volte forzata del capofamiglia, come avviene nel caso dei fuoriusciti, determina senza dubbio una maggiore autonomia nelle scelte patrimoniali delle donne, e dunque anche relativamente ai libri. Una analoga dinamica, ma sicuramente in forma macroscopica, si realizza presso i ceti nobiliari, laddove si era formata una corte : il palazzo diveniva il luogo deputato per accogliere una raccolta libraria, che, secondo gli schemi bene illustrati da Angelo Decembrio nella Politia litteraria, doveva essere custodita in un ambiente affrescato nelle pareti che, oltre i libri, ospitasse anche strumenti musicali e strumenti di misurazione. 2 Le donne della famiglia contavano molto perché rimanevano a casa, mentre gli uomini, proprio per svolgere il mestiere delle armi o della presenza a corte, erano fisicamente assenti. Emblematico è il caso di Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino e moglie di Guidoubaldo di Montefeltro, 3 la quale gestisce, apparentemente da sola, l’istruzione dei minori, tanto da richiamare a Urbino, per suo espresso volere, il magister Lorenzo Astemio « ad docendum ibi et permanendum per preceptorem ». 4 Del resto, a Napoli, dove si stava consolidando la raccolta libraria di Alfonso il Magnanimo e di Ferrante, 5 anche Isabella Chiaromonte, regina di Napoli in quanto consorte di Ferrante d’Aragona, 6 partecipava in qualche misura all’allestimento di codici in quanto era la destinataria, insieme con il suo confessore, dell’acquisto di 80 quinterni di pergamena di grande formato, in modo che, come risulta da un documento del 16 dicembre 1463, 7 potesse essere confezionato un messale per suo uso personale ed anche una Bibbia destinata alla duchessa di Milano, forse in prossimità delle nozze tra il figlio Alfonso d’Aragona ed Ippolita Maria Sforza, che sarebbero avvenute nel 1465. 8 L’interesse per testi di devozione da parte della regina Isabella, come ha bene illustrato Gennaro Toscano, è 1







1   Cfr. Alessandra Chiappini, Fermenti umanistici e stampa in una biblioteca ferrarese del secolo xv, « La Bibliofilia », lxxxv (1983), pp. 299-301, rist. in *Libri manoscritti e a stampa da Pomposa all’Umanesimo. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Ferrara, 24-26 giugno 1982), a cura di Luigi Balsamo, Olschki, 1985 (pp. 199-220), pp. 200-201 ; cfr. anche Luigi Balsamo, Commercio librario attraverso Ferrara fra 1476 e 1481, in *Libri manoscritti e a stampa …, cit., pp. 177-198. 2   Angelo Camillo Decembrio, De politia litteraria. Kritisch herasugegeben sowie mit einer Einfürung, mit Quellenmachweisen und einer Registerteil versehen von Norbert Witten, Leipzig, Saur, 2002, p. 150 : « Intra bibliothecam insuper horoscopium aut sphaeram cosmicam citharamque habere non dedecet, si ea quandoque delecteris, quae, nisi cum volumus, nihil instrepit, honestas quosque picturas caesurasve, quae vel deorum vel heroum memoriam repraesentent ». 3   Cfr. Concetta Bianca, La presenza degli umanisti ad Urbino nella seconda metà del Quattrocento, in *Francesco di Giorgio alla corte di Federico da Montefeltro. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Urbino, 11-13 ottobre 2001), a 4   Ivi, pp. 127-128. cura di Francesco Paolo Fiore, Firenze, Olschki, 2004, pp. 127-145. 5   Oltre al monumentale lavoro di Tammaro De Marinis, cfr. Armando Petrucci, Biblioteca, libri, scritture nella Napoli aragonese, in *Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di Guglielmo Cavallo, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 187-202 ; Concetta Bianca, Alla corte di Napoli : Alfonso, libri e umanisti, in Il libro a corte, cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 177-201 ; Emilia Ambra, La “libraria” dei re d’Aragona. Note sul percorso costitutivo, in Libri a corte. Testi e immagini nella Napoli aragonese, Napoli, Paparo, 1997, pp. 41-53 ; Gennaro Toscano, La formazione della biblioteca di Alfonso il Magnanimo : documenti, fonti, inventari, in La biblioteca reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese, 1442-1495. Catalogo della mostra (Napoli-Valencia), a cura di Gennaro Toscano, Valencia, Generalitat Valenciana, 1998, pp. 183-219 ; Id., La bilioteca reale dalla morte del Magnanimo all’arrivo di Carlo VIII, ivi, pp. 221-232 ; Id., La biblioteca napoletana dei re d’Aragona da Tammaro De Marinis ad oggi. Studi e prospettive, in *Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento. Atti del Convegno di Studi (Bari, 6-7 febbraio 2008), a cura di Claudia Corfiati e Mauro De Nichilo, Lecce, Pensa MultiMedia, 2009, pp. 29-63. 6   Marcello Moscone, Isabella Chiaramonte, in *Dizionario biografico degli italiani, 62, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 619-623. Cfr., con precedente bibliografia, Gennaro Toscano, Libri e letture di due principesse della corte aragonese di Napoli : Isabella di Chiaromonte e Ippolita Maria Sforza, « Rassegna storica salernitana », 46 (2006) (pp. 109-134), pp. 112-117. 7   Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, ii, Milano, Hoepli, 1947, p. 245, doc. 190. 8   Cfr. Ernesto Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli : Studi e ricerche, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 19692, pp. 238-247.  

































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confermato dai due codici che recano il suo stemma, un famoso Libro d’Ore (il ms. Typ. 463 della Hougthon Library di Harvard) 1 e un altrettanto famoso Psalterium secundum ordinem fratrum Praedicatorum (una volta appartenuto allo stesso Tammaro De Marinis ed ora alla collezione di Paul Getty), 2 nonché dal racconto di Sabbadino degli Arienti, in base al quale il cardinale Angelo Capranica avrebbe inviato ad Isabella un libretto composto da Caterina Vigri da Bologna. 3 Il libro, prima di essere un compagno di letture (contro la noia, la solitudine, secondo un intimo colloquio con il passato), è innanzi tutto un bene patrimoniale che va gestito con cura. Del resto i libri con i quali giunse a Napoli Ippolita Maria Sforza per sposare nel 1465 Alfonso d’Aragona, figlio di Ferrante, – un arrivo festeggiato dallo stesso Antonio Panormita 4 – facevano espressamente parte della dote (Libri quali vanno sopra la dota)5, anche se si può immaginare che questi volumi fossero previsti per la lettura della principessa che si trasferiva in una terra per lei straniera ; Ippolita Maria era accompagnata dal suo maestro Baldo Martorelli, 6 sotto la cui direzione già nel 1458 aveva trascritto un codice con il De senectute di Cicerone (l’attuale ms. Additional 21984 della British Library) 7 e che avrebbe continuato a svolgere un ruolo importante, nonostante il tentativo di Alfonso di allontanarlo dalla corte. 8 Dei libri della dote faceva parte “uno evangeliario greco”, valutato 25 ducati, 9 che doveva essere considerato un oggetto prezioso (forse per la ricchezza delle miniature e per gli alti costi pagati a copisti specializzati) e non certo costituire un testo di lettura per Ippolita Maria Sforza, la quale aveva avuto come precettore Costantino  

1   Si è a lungo discusso sulla identificazione del miniatore : cfr., con precedente bibliografia, Gennaro Toscano, Il Maestro di Isabella di Chiaromonte : note sulla miniatura a Napoli a metà del Quattrocento, « Artes », 3 (1995), pp. 34-45 ; Id., I manoscritti miniati per Isabella di Chiaromonte, in La biblioteca reale …, cit., pp. 233-240 ; Id., Libri e letture …, cit., pp. 112-115. 2   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., pp. 137-139 ; G. Toscano, I manoscritti miniati …, cit., p. 237 ; Id., Libri e letture …, cit., pp. 116-117. 3   Giovanni Sabadino degli Arienti, Gynevera de le clare donne, a cura di Corrado Ricci e Alberto Bacchi Della Lega, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1888 (rist. anast., Bologna, Forni, 1969), p. 248. Cfr. Irma Schiappoli, Isabella di Chiaromonte regina di Napoli, « Archivio storico italiano », xcviii, 2 (1940) (pp. 109-124), p. 113. Giovanni Sabadino degli Arienti, autore di una Vita di santa Caterina, era evidentemente interessato a raccontare l’episodio del dono del libro da parte del cardinale Capranica. 4   Cfr. Donatella Coppini, Un’ecclisse, una duchessa, due poeti, in *Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, a cura di Roberto Cardini, Eugenio Garin, Lucia Cesarini Martinelli, Giovanni Pascucci, i, Roma, Bulzoni, 1985, pp. 333-373. Cfr. anche Marcello Simonetta, L’ecclissi di una duchessa, Ippolita Maria Sforza, in Id., Rinascimento segreto : il mondo del segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 211-224. 5   L’inventario è edito in Tammaro De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza, in Id., La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, i, Milano, Hoepli, 1952 (pp. 97-115), p. 98 ; Gennaro Toscano, La collezione di Ippolita Sforza e la biblioteca di Alfonso, duca di Calabria, in La biblioteca reale …, cit. (pp. 251-267), p. 251 ; Id., Libri e letture …, cit., pp. 120-121. Cfr. anche Evelyn Welch, Between Milan and Naples : Ippolita Maria Sforza, duchess of Calabria, in The French Descent into Renaissance Italy, 1494-95. Antecedents and effects, ed. by David Abufalia, Aldershot, Variorum, 1995, pp. 123-136 ; trad. it., Ippolita Maria Sforza, in La discesa di Carlo VIII in Italia (1494-1495). Premesse e conseguenze, a cura di David Abufalia, Napoli, Athena, 2005, pp. 129-137. 6   Cfr. Sandra Bernato, Martorelli, Baldo, in *Dizionario biografico degli italiani, 71, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008, pp. 358-359 ; M. Ferrari, “Per non manchare in tuto del debito mio” ..., cit., pp. 132-133. 7   Così il colophon : « Ego Hippolita Maria Vicecomes illustrissimi principis Francisci Sfortiae ducis Mediolani exscripsi mea manu hunc libellum sub tempus pueritiae meae et sub Baldo preceptore … ». Cfr. T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 107 ; E. Pellegrin, Bibliothèques d’humanistes lombards …, cit., p. 240 ; J. Bryce, “Fa finire uno bello studio …, cit., pp. 59-60 ; G. Toscano, Libri e letture …, cit., p. 119. Cfr. anche Alessandro Cutolo, La giovinezza di Ippolita Sforza duchessa di Calabria, « Archivio storico per le province napoletane », n.s. xxxiv (1953-1954), pp. 119-133. 8   E. Welch, Between Milan and Naples …, cit., p. 130 ; Vincent Ilardi, Towards the Tragedia d’Italia : Ferrante and Galeazzo Maria Sforza, Friendly Enemies and Hostile Allies, in The French Descent …, cit., pp. 91-122. 9   T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 98.  



















































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Lascaris, e che in anni successivi, al momento della edizione a stampa degli Erotemata del Lascaris nel 1476, 2 aveva ricevuto la traduzione in endecasillabi latini da parte di Bonino Mombrizio. 3 Ma Ippolita Maria Sforza era perfettamente in grado di leggere testi in latino : infatti Giovanni Antonio de Bonini, nel dedicare ad Ippolita Maria la sua traduzione della Chronica di Martino Polono, 4 avrebbe espressamente dichiarato che la duchessa non aveva bisogno della traduzione, ma che la aveva commissionata per compiacere i suoi cortigiani che « non intendono latino ». 5 A parte questo evangeliario greco, gli altri 13 volumi comprendono testi di carattere religioso e devozionale, come « Uno breviario de l’officio de la septimana sancta », « La vita di nostra Donna », cioè la Vita della Vergine Maria composta da Antonio Cornazzano per la stessa Ippolita Sforza intorno al 1457-58 (l’attuale ms. Y.74 sup. della Biblioteca Ambrosiana), 6 « Le vite de sancti patri » (l’attuale ms. Paris. it. 1712), 7 « Uno Repertorio di sancto Augustino » (l’attuale ms. 805 della Biblioteca Universitaria di Valencia), datato 1464 ed espressamente commissionato da Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, 8 a cui si affiancava « Uno Virgilio cum Servio gramatico » (l’attuale ms. 780 della stessa biblioteca), 9 un « Catholicon », « Una deca de Tito Livio ». A conferma di come il complesso dei 14 volumi fosse un bonum 1



































1   Cfr. Massimo Ceresa, Lascaris, Costantino, in *Dizionario biografico degli Italiani, 63, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2004, pp. 781-785. 2   Si tratta del primo testo greco interamente a stampa : istc il00065000 (Milano, Dionysius Paravisinus, 30 gennaio 1476). 3   Il testo è conservato nel ms. N 264 sup. della Biblioteca Ambrosiana : « Boninus Mombritius, Canonum in grammatica Graecorum liber sermone metrico ad Hippolyten Vicecomitem Calabriae Ducissimam, cum dialogo inter auctorem et eius Musam » (Paul Oskar Kristeller, Iter italicum. A finding List of Uncatalogued or incompletely catalogued humanistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and other Libraries, i, London-Leiden, The Warburg Institute-Brill, 1963, p. 303). L’intitulatio del codice, assegnato al xvi secolo, assegna ad Ippolita il cognome Visconti al posto di Sforza. Sul Mombrizio cfr. Serena Spanò Martinelli, Bonino Mombrizio e gli albori della scienza agiografica, in *Erudizione e devozione. Le Raccolte di Vite dei santi in età moderna e contemporanea, a cura di Gennaro Luongo, Roma, Viella, 2000, pp. 3-18. 4   Cfr. Francesco Brandileone, Traduzione della cronica di Martino Polono, « Archivio storico per le province napoletane », vii (1882), pp. 799- 801. Brandileone faceva riferimento ad un manoscritto, forse oggi perduto o non rintracciato, quando scriveva : « Frugando in una vecchia libreria del mio paese (Buonabitacolo, prov. Salerno) m’imbattei in un manoscritto della fine del secolo xv, o dei principi del xvi, contenente una versione di buona parte della Cronica di Martino Polono. È in sedicesimo, di fol. 158, scritto in carattere stampatello e molto chiaro, con le rubbriche di caratteri rossi » (pp. 799-800). 5   Ivi, p. 801, dove è trascritta la dedica, dalla quale si apprende il nome del traduttore, ed anche il suo soprannome : « per Ioanne Antonio de Parma de la casata de li Bonini altrimenti cognominato Zentileza Yppoliclaudo ». Non è stato possibile rintracciare ulteriori notizie sul Bonini, il quale dichiarava di essere al servizio della duchessa di Calabria ; ma forse l’aver adottato un sopranome lascerebbe supporre una frequentazione con l’accademia pontaniana. Così precisava il Bonini : « La quale Chronica Martiniana esso Yppoliclaudo [cioè il suo soprannome] traduce di latino in vulgare ydioma non perché Ella se delcti troppo de cose vulgare come quella la quale a teneris annis è stata erudita in littere latine e parte nelle lettere greche da doctissimo preceptore, eloquentissima etiam con la penna in comporre Epistole et Oratione, pertanto a contempatione de essa non per lo suo bisogno ma per compiacere a certi Gentilhomini suoi Cortesani i quali non intendono latino » (ivi). 6   Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona. Supplemento, i, Verona, Valdonega, 1969, p. 233. Cfr. Paola Farenga, Cornazzano, Antonio, in *Dizionario biografico degli Italiani, 29, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983, pp. 123-132. Lo stesso Cornazzano aveva dedicato ad Ippolita Maria il Libro dell’arte del danzare ; cfr. Diego Zancani, Writing for Women Rulers in Quattrocento Italy : Antonio Cornazzano, in *Women in Italian Renaissance Culture and Society, ed. by Letizia Panizza, Oxford, University of Oxford, 2000, pp. 57-74 ; J. Bryce, “Fa finire uno bello studio …, cit., p. 56. 7   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 177 e tav. 291 ; G. Toscano, La collezione …, cit., p. 253 ; Id., Libri e letture …, cit., pp. 124-125. 8   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 20 e tav. 22 ; G. Toscano, La collezione …, cit., pp. 252-253 : Id., Libri e letture …, cit., pp. 122-123. 9   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 173 e tav. 266 ; e, con precedente bibliografia, G. Toscano, Libri e letture …, cit., pp. 123-124.  















































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al pari di altri oggetti preziosi facenti parte della dote, soccorre la precisa indicazione del prezzo dei singoli manoscritti, che, a parte la Vita di nostra Donna (4 ducati) o la Vita de sancto Nicolò da Bari (3 ducati) arrivava a 36, 80, addirittura 100 ducati. 1 È vero che Ippolita Sforza nelle lettere alla madre, come ha di recente messo in luce Gennaro Toscano, 2 esprimeva il suo desiderio di leggere, ma è anche vero che il momento della lettura per le donne di corte doveva fondarsi su manufatti di grande ricchezza ed importanza come « quei doi Officioli de nostra Donna », di cui uno, come si legge nel piccolo inventario, « è scripto ad lettere d’oro et d’argento ». 3 Oltre i libri della dote, altri codici furono allestiti per la duchessa di Calabria, come le Historiae di Giustino, 4 un Officium, 5 un Vegezio in volgare, 6 e sicuramente altri ancora di cui si sono perse le tracce. Tra i libri posseduti da Ippolita vanno aggiunti quelli a lei dedicati, per alcuni dei quali rimane il codice di presentazione, come I Ricordi di Luigi de Rosa, 7 mentre per altri si suppone che fossero stati anche materialmente offerti, come ad esempio Il Novellino di Masuccio Salernitano 8 o la traduzione della Chronica di Martino Polono da parte di Giovanni Antonio de’ Bonini. 9 Del resto Ippolita Maria Sforza, come indica una lettera di Baldo Martorelli alla duchessa di Milano Bianca Maria Visconti, madre della stessa Ippolita Maria, aveva comprato a Città di Castello un libro per 40 ducati (un codice di Tolomeo), e lo aveva fatto « di sua propria volontà » : 10 evidentemente quell’acquisto era stato davvero un gesto al di fuori della prassi se Martorelli precisava « di sua propria volontà ». Lo stesso Martorelli in una lettera di poco successiva confermava il desiderio di Ippolita Maria di voler continuare a studiare (« ... et dice volere studiare ») ; 11 del resto questo interesse per lo studio avrebbe accompagnato Ippolita Maria per tutta la vita, se ad esempio poteva avere accesso alla biblioteca del marito Alfonso, che a Napoli aveva sede presso Castel Capuano, 12 e se continuava ad incrementare la sua raccolta libraria recuperando – e forse non era un caso isolato – un manoscritto di Virgilio (l’attuale ms. 766 della Biblioteca Universitaria di Valencia), che era stato copiato a Milano nel 1450 13 e che era appartenuto a Baldo Martorelli, morto a Napoli nel febbraio 1475.  























1   Rispettivamente « Una deca de Tito Livio, ducati xxxvi », « Uno Catholicon, ducati lxxx » e « Una Bibia, ducati C » : T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 98. 2   G. Toscano, Libri e letture …, cit. 3   T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 98. 4   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 89 (manoscritto di proprietà del conte Paolo Gerli, a quanto riferisce De Marinis). 5   Paolo D’Ancona, La miniatura fiorentina (secoli xi-xvi), ii, Firenze, Olschki, 1914, pp. 762-763, nr. 1552. 6   T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 171 e p. 328 (dove il codice viene assegnato alla mano di Giacomo Curlo). 7   Si tratta del ms. Paris. lat. 7018, che reca a f. 1r tre versi indirizzati « Ad illustrem ducem Calabriae » : T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., p. 64. 8   Cfr. Fabio De Propis, Guardati, Tommaso, in *Dizionario biografico degli italiani, 60, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2003, pp. 279-286. Cfr. anche Giorgio Petrocchi, La prima redazione del Novellino di Masuccio, « Giornale storico della letteratura italiana », cxxix (1952), pp. 266-317 ; Mario Santoro ; Masuccio fra Salerno e Napoli, « Atti dell’Accademia Pontaniana », n.s., xi (1961-62), pp. 309-340 ; Leonardo Terrusi, Le revisioni editoriali del Novellino di Masuccio Salernitano, « Rivista della letteratura italiana », xv (1997), pp. 35-81 ; Id., “El rozo idyoma de mia materna lingua”. Studio sul “Novellino” di Masuccio Salernitano, Roma-Bari, Laterza, 2005. 9   Vd. supra, p. 407, nota 4. 10   La lettera, spedita da Napoli il 29 dicembre 1466, è edita in T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 98. Su Bianca Maria Visconti cfr. Nadia Covini, Tra ‘patronage’ e ruolo politico : Bianca Maria Visconti (1450-1468), in *Donne di potere nel Rinascimento, a cura di Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel, Roma, Viella, 2008, pp. 247-280. 11   T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., p. 98 ; J. Bryce, “Fa finire uno bello studio …, cit., p. 57. 12   T. De Marinis, Alfonso duca di Calabria ed Ippolita Sforza …, cit., pp. 99-102. 13   E. Pellegrin, Bibliothèques d’humanistes lombards …, cit., p. 238 ; T. De Marinis, La biblioteca …, ii, cit., pp. 172-173 ; G. Toscano, Libri e letture …, cit., pp. 125-131.  















































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Se è vero che officioli e bibbie erano probabilmente i soli libri che fossero letti, va anche rilevato che in alcuni documenti, destinati a donne nobili o legate alla corte, l’attenzione del re verso i libri sembra più dovuta al recupero del patrimonio piuttosto che all’eventuale prestito di un codice da cui poterne trarre copia. Ad esempio il 9 febbraio 1431 Alfonso d’Aragona chiedeva all’Abbadessa di Bon Repos che fosse a lui fatto pervenire l’Ufficio (« l’Officier ») della Cappella reale che la regina Margherita aveva portato con sé e che aveva lasciato presso il convento. 1 Analogamente lo stesso Alfonso il 27 giugno 1413, quando era ancora « infant, primogenit d’Arago e de Sicilia », aveva chiesto alla regina Bianca di Sicilia una Bibbia in lingua francese, che evidentemente egli rivendicava per se stesso. 2 In effetti è davvero difficile distinguere se le donne nobili avessero, per lo meno lungo tutto il ‘400, una biblioteca personale, sia pure di modeste dimensioni, oppure se ne fossero del tutto sprovviste e dunque attingessero alla biblioteca di casa, che in prima istanza apparteneva al capofamiglia. Soprattutto alla fine del Quattrocento si assiste alla confezione di codici, che, presentando lo stemma di entrambi gli sposi, dovrebbero essere di appartenenza comune. I casi sono numerosi : gli stemmi intrecciati di Mattia Corvino e di Beatrice d’Aragona si ritrovano nel ms. lat. 449 e nel ms. lat. 458 della Biblioteca Estense di Modena, il primo contenente i Dialogi di Gregorio Magno, 3 miniato da Gherardo di Giovanni, 4 e il secondo le Homeliae di Origene, 5 miniato da Francesco Rosselli, 6 come pure nel ms. lat. 82 della Österreichisches Nationalbibliothek di Vienna contenente il De bello Gothorum di Agatia nella versione di Cristoforo Persona 7 e nel ms. lat. 44 della stessa biblioteca con l’Epitome Almagesti di Giovanni Regiomontano. 8 Ugualmente la presenza di entrambi gli stemmi, e precisamente di Andrea Matteo Acquaviva e della consorte Isabella Piccolomini, si ritrovano nella raccolta libraria dell’Acquaviva, come il ms. lat. 7 della Österreichisches Nationalbibliothek di Vienna con le Epistulae ad Lucilium di Seneca, 9 il ms. phil. gr. 3 con le Orationes di Isocrate 10 e il Paris. Lat. 10764 con Tolomeo, 11 come pure una doppia dedica l’Acquaviva e la consorte Isabella ricevono dal poeta Cesare Torti che nel 1490 pubblicava a stampa a Firenze una raccolta di poesie presso Francesco Bonaccorsi (« Sonetti  











1   La lettera, spedita da Lleida e stilata dal segretario di Alfonso, Giovanni Olzina (« Dominus rex mandavit mihi Iohanni Olzina »), è edita in Ramon d’Alós, Documenti per la storia della biblioteca d’Alfonso il Magnanimo, in *Miscellanea Francesco Ehrle, V, Biblioteca ed Archivio vaticano. Biblioteche diverse, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1924 (pp. 390-422), p. 415. 2   Ivi, p. 392. La lettera, spedita da Barcellona, era stata stilata dal segretario Pietro Compagnoni (« Dominus primogenitus mandavit mihi Petro Companyoni »). 3   Cfr. André de Hevesy, La bibliothèque du roi Matthias Corvin, Paris, Société française de reproduction de manuscrits à peintures, 1923, p. 68, nr. 58 ; Nel segno del corvo : libri e miniature della biblioteca di Mattia Corvino re d’Ungheria (1443-1490). Catalogo della mostra, Modena, Il Bulino, 2002, pp. 155-159, nr. 9. Il codice fu copiato a Firenze il 13 febbraio 1483 (stile fiorentino). 4   Cfr. Diego Galizzi, Gerardo di Giovanni, in *Dizionario biografico dei miniatori italiani, secoli ix-xvi, a cura di Milvia Bollati, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004, pp. 258-262. 5   A. de Hevesy, La bibliothèque …, cit., pp. 69-70, nr. 65 ; Nel segno del corvo …, cit., pp. 172-175, nr. 13. 6   Diego Galizzi, Rosselli, Francesco, in *Dizionario biografico dei miniatori italiani …, cit., pp. 914-916. 7   A. de Hevesy, La bibliothèque …, cit., p. 78, nr. 104. 8   Ivi, pp. 82-83, nr. 134 ; Nel segno del corvo …, cit., p. 291, nr. 57. 9   Cfr., con precedente bibliografia, Concetta Bianca, La biblioteca di Andrea Matteo Acquaviva, in *Gli Acquaviva d’Aragona duchi di Atri e conti di S. Flaiano. Atti del vi Convegno Nazionale di Studi (Teramo-Morrodoro-AtriGiulianova, 13-15 ottobre 1983), i, Teramo, Centro Abruzzese di Ricerche storiche, 1985, pp. 159-173 : 167. Cfr. anche Franco Tateo, Aspetti della cultura feudale attraverso i libri di Andrea Matteo Acquaviva, in *Società, cultura, economia nella Puglia feudale. Atti del Convegno di Studi (Conversano, 13-15 maggio 1983), a cura di Vito L’Abbate, Bari, De10   C. Bianca, La biblioteca di Andrea Matteo …, cit., p. 166. dalo, 1985, pp. 371-384. 11   Cfr. Tammaro De Marinis, Un manoscritto di Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva e Isabella Piccolomini, [Verona, Valdonega, 1956], pp. 4-5 ; C. Bianca, La biblioteca di Andrea Matteo …, cit., p. 167.  



















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et canzone le quali ho scielti da li ampli volumi de homini in tal materno parlare non di piccola fama, ma a Dante et Petrarcha propinqui »). 1 Ma probabilmente i doppi stemmi e le doppie dediche non indicano il progetto comune, la condivisione patrimoniale, ma segnalano l’alto lignaggio della sposa che in quanto tale viene a confermare le politiche di alleanza matrimoniale che consentivano ora l’allacciarsi ora il separarsi degli scambi e dei rapporti politici. In particolare per Beatrice d’Aragona, ma anche per la stessa Eleonora d’Aragona, 2 nei casi in cui ricevono libri, per lo più miniati, si verifica la circostanza che il committente dei preziosi manoscritti sia proprio la famiglia di origine, in questo caso la stessa famiglia d’Aragona : infatti i codici che portano solo lo stemma di Beatrice e di Eleonora sono quasi tutti allestiti da copisti e miniatori che lavoravano a Napoli alle strette dipendenze della corte. 3 Ed ugualmente i trattati o i componimenti poetici dedicati alle 2 principesse aragonesi, figlie di Ferrante, Eleonora a Ferrara e Beatrice a Buda, provengono da uomini al servizio della corte aragonese, come ad esempio Diomede Carafa che scriveva per Beatrice d’Aragona il Memoriale alla serenissima regina d’Ungheria, 4 mentre per Eleonora d’Aragona elaborava il Memoriale sui doveri del principe. 5 Tra dediche ed allestimento di manoscritti è la corte aragonese che sembra voler esplicitare la fitta trama di equilibri, collaborando a distanza con le principesse che ormai si erano allontanate dal Regno : tale collaborazione si manifestava proprio nel ribadire l’origine aragonese delle due principesse, che divenivano il simbolo di una corretta e vincente politica di alleanze, con il conseguente mantenimento di una relativa pace. La scelta delle consorti principesche era, come è noto, attentamente calibrata e proprio attraverso le donne, per il fatto stesso di appartenere ad una determinata nobile famiglia, si concretizzavano le più disparate circostanze, come ad esempio la presenza di cortigiani, di insegnanti, di artigiani 6 nella corte regia o ducale dove le nobili fanciulle erano approdate, anzi per lo più catapultate con usi e costumi diversi da quelli con cui erano state educate. Questo legame di origine che accomunava le principesse con gli uomini e le donne del proprio seguito costituiva forse l’unico contrappeso che la donna aveva nella terra straniera, fosse la colta Ferrara o  





1   istc it00403300 ; IGI 9690 ; Carlo Dionisotti, Jacopo Tolomei fra umanisti e rimatori, « Italia medioevale e umanistica », vi (1963), pp. 136-176 : 175-176. Cfr. C. Bianca, La biblioteca di Andrea Matteo …, cit., p. 160 ; Ead., Andrea Matteo Acquaviva e i libri a stampa, in *Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale : il ruolo degli Acquaviva tra xv e xvi secolo. Atti del Primo Convegno Internazionale di Studi su “La Casa Acquaviva d’Atri e di Conversano (Conversano-Atri, 13-16 settembre 1991), I, a cura di Caterina Lavarra, Galatina, Congedo, 1995 (pp. 39-53), pp. 4748 ; e, da ultimo, Francesco Tateo, Andrea Matteo Acquaviva e Giovanni Pontano, in *Biblioteche nel Regno …, cit., pp. 15-27. 2   Cfr. Luciano Chiappini, Eleonora d’Aragona, prima duchessa di Ferrara, Rovigo, s.t.e.r., 1956, pp. 38-39 (= « Atti e memorie della Deputazione ferrarese di storia patria », xvi [1956]) ; Marco Folin, La corte della duchessa : Eleonora d’Aragona a Ferrara, in *Donne di potere …, cit., pp. 483-512 : 484-492. 3   Cfr. Concetta Bianca, Tra Napoli e Buda : la biblioteca dei re d’Aragona e la Corviniana, in corso di stampa ; Ead., La biblioteca di Mattia Corvino, in *Principi e signori. Le biblioteche nella seconda metà del Quattrocento. Atti del Convegno (Urbino, 5-6 giugno 2008), in corso di stampa. Alcuni manoscritti furono anche copiati da Giovan Marco Cinico, per il quale cfr. Mauro de Nichilo, Cinico, Giovan Marco, in *Dizionario biografico degli italiani, 25, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 634-636 ; e da ultimo Concetta Bianca, Il canone di Giovan Marco Cinico, in *Le parole “giudiziose”. Indagini sul lessico della critica umanistico-rinascimentale, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Stefano Benedetti, Pietro Petteruti Pellegrino, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 141-154. 4   Vedi supra, p. 4, nota 2. 5   D. Carafa, Memoriali …, cit., pp. 97-206. Cfr. Enrica Guerra, Eleonora d’Aragona e i ‘doveri del principe’ di Diomede Carafa : esercizio del potere tra realtà e precettistica, in *Donne di palazzo nelle corti europee. Tracce e forme di potere dall’età moderna, a cura di Angela Giallongo, Milano, Unicopli, 2005, pp. 113-119. 6   Per Eleonora d’Aragona si veda il caso di alcuni artigiani : Sandra Bernato, Gli artigiani catalani a Napoli nella seconda metà del Quattrocento, in *La Catalogna in Europa, l’Europa in Catalogna. Transiti, passaggi, traduzioni. Atti del ix Congresso internazionale dell’Associazione italiana di studi catalani (Venezia, 14-16 febbraio 2008). Edizione in rete a cura di Costanzo Di Girolamo, Paolo Di Luca e Oriana Scarpati (http ://www.filmod.unina.it/aisc/attive/ Bernato.pdf ), p. 4.  





































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la desolata Buda, per mantenere anche attraverso missive il legame con la propria famiglia di origine, e dunque rinsaldare il legame politico con essa. 1 Da questo punto di vista codici e libri che arrivavano nei nuovi stati di appartenenza erano davvero destinati a queste principesse, che erano di fatto donne in esilio. E proprio ad una regina in esilio, che si trovava a Ferrara, Isabella del Balzo, consorte dell’ultimo re aragonese Federico II e madre del duca di Calabria Fernando d’Aragona, spettò il compito di organizzare la fine di quella parte che, dopo la discesa di Carlo VIII, era rimasta della biblioteca aragonese : prima la vendita a Celio Calcagnini nel 1523, come ha illustrato Santiago López Ríos, 2 e poi la spedizione in Spagna nel 1527, come hanno reso noto Teresa De Robertis e Paolo Cherchi, 3 segnavano la dispersione finale della biblioteca aragonese, che, al pari di altre biblioteche di principi e signori, era intesa come uno dei momenti fondanti, accanto alla costruzione o al rafforzamento del palazzo, delle stesse istituzioni. La regina Isabella, donna sola ed in esilio, poteva in questo caso operare in piena autonomia, anche se in condizioni tristi e disperate, forse rimpiangendo gli anni in cui, non ancora regina, ma semplice principessa, aveva vissuto la quotidianità all’ombra della famiglia d’Aragona.  

Università degli Studi di Firenze Il libro, prima di essere un compagno di letture, è un bene patrimoniale, che accompagna sia le principesse che arrivano alla corte di Napoli, come Isabella Chiaromonte e Ippolita Maria Sforza, sia le principesse che da Napoli partono in ossequio alle alleanze matrimoniali, come Eleonora d’Aragona a Ferrara e Beatrice d’Aragona a Buda. Il libro, per lo più di carattere religioso e devozionale e per lo più contenente testi in volgare, anche se in qualche caso effettivamente letto, continua ad essere il simbolo che denota l’alto lignaggio tanto che, nel caso di codici con gli stemmi intrecciati dei due consorti, è difficile stabilire se una principessa possedesse una propria ed autonoma raccolta libraria. The book, before being a fellow of lectures, is a patrimonial good, which goes with the princesses who arrive at the court of Neaples, as Isabella Chiaromonte and Ippolita Maria Sforza, and those who leave Neaples because of the wedding alliance, as Eleonora of Aragona to Ferrara and Beatrice of Aragona to Buda. The book, mainly exhibiting religious features, and containing texts in the vulgar tongue, also if sometimes really read, keeps on being the symbol of high descent ; in fact, when the coats of arms of husband and wife are braided, it is difficult to decide if a princess had her own library.  

Le livre, avant d’être un compagnon de lectures, est un bien patrimonial, qui accompagne aussi bien les princesses qui arrivent à la Cour de Naples, comme Isabella Chiaromonte et Ippolita Maria Sforza, que les princesses qui partent de Naples selon les alliances matrimoniales conclues, comme Éléonore d’Aragon à Ferrare et Béatrice d’Aragon à Buda. Le livre, dans la majeure partie des cas à caractère religieux et dévotionnel et contenant souvent des textes en langue vulgaire, même s’il est effectivement lu dans certains cas, continue d’être le symbole du haut lignage au point que, dans le cas des codes avec les blasons entrelacés des deux consorts, il est difficile d’établir si une princesse possédait sa propre collection libraire. 1   Cfr.anche Tina Matarrese, Ferrarese e napoletano nelle lettere di Eleonora d’Aragona, in *Lingue e culture dell’Italia meridionale (1220-1600), a cura di Paolo Trovato. Con una Bibliografia delle edizioni di testi meridionali antichi a cura di Lidia Maria Gonelli, Roma, Bonacci Editore, 1993, pp. 203-208 ; si veda anche Liliana Monti Sabia, Una lettera inedita del Pontano ad Eleonora d’Este, « Italia medioevale e umanistica », xxix (1986), pp. 165-182. 2   Santiago López-Ríos, A New Inventory of the Royal Aragonese Library of Naple, « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes », lxv (2002), pp. 201-243. 3   Paolo Cherchi, Teresa de Robertis, Un inventario della biblioteca aragonese, « Italia medioevale e umanistica », xxxiii (1990), pp. 109-347.  













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El libro, no es sólo un compañero de lecturas, sino también un bien patrimonial que acompaña a las princesas de la corte de Nápoles, Isabel Chiaromonte e Hipólita María Sforza, y a las princesas que de ésta se van, como obsequio a sus alianzas matrimoniales. Así es para Leonor de Aragón que sale para Ferrara y para Beatriz de Aragón que va a Buda. Se trata casi siempre de libros de carácter religioso o devocionarios, cuyos textos están escritos en vulgar, y aunque se leyeran en algunas ocasiones, tienen el valor de símbolo que denota el alto linaje. En el caso de códigos con los escudos heráldicos de ambos consortes entrelazados, es difícil establecer si una princesa poseyese una colección literaria propia y autónoma. Das Buch ist eher ein Kulturgut als ein Lektüre-Gefährte, das sowohl Prinzessinnen, wie Isabella Chiaromonte und Ippolita Maria Sforza, die am Hof von Neapel ankommen, als auch die Prinzessinnen begleitet, die, wie Eleonora d‘Aragona in Richtung Ferrara und Beatrice d‘Aragona in Richtung Buda, den Heirats-Bündnissen gehorchend Neapel verlassen. Das Buch, meistens mit religiösen und ergebendem Charakter und oftmals mit volkstümlichen Texten, war, auch wenn es in Einzelfällen gelesen wurde, ein Symbol, das auf die hohe Abstammung hindeutete, so dass es bei den Kodex mit den verschlungenen Wappen der beiden Lebensgefährten schwierig ist festzustellen, ob eine Prinzessin im Besitz einer eigenen und autonomen Buchsammlung war.

ALL’OMBRA DEGLI EREDI : L’INVISIBILITÀ FEMMINILE NELLE PROFESSIONI DEL LIBRO. LA FATTISPECIE MARCHIGIANA  

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ernardino Benali da Bergamo, editore e tipografo attivo a Venezia, « in Marzaria all’insegna di S. Girolamo » fino al 1543, nomina tra i suoi eredi testamentari le nipoti della moglie Elisabetta, Angela e Laura Bianzago e a Laura in particolare lascia 30 denari per ricompensarla  



[...] de laboribus et vegiliis suis, quas passa est et substinuit in domo mea […] annis quatuor similiter in pingendo figuras, ligando libros, balneando cartas et eas aptando et in regendo et gubernando quasi totum trafigum stampae figurate. 1

Lavori minuti, dunque, come legatrice di libri, decoratrice di immagini, operaia addetta ad inumidire i fogli di carta per il torchio, ma non solo perché Bernardino ne sottolinea il ruolo di responsabile del commercio delle stampe che costituirono un capitolo importante dell’attività dell’azienda, a cui egli chiamò a collaborare la moglie Elisabetta Bianzago – figlia di Bartolomeo, suo uomo di fiducia nella stamperia 2 – e, in assenza di figli nati dal loro matrimonio, i nipoti Angela, Laura e Bernardino Bianzago, cui affidò la direzione della filiale di Padova. I nomi di Angela e Laura e della stessa Elisabetta sarebbero a noi sconosciuti e ancora sepolti nelle carte d’archivio – insieme a quelli di una folta schiera di altre donne – se Bartolomeo Cecchetti nel 1887 non li avesse restituiti pubblicando il testamento del Benali e Francesco Novati non avesse aperto all’inizio del secolo scorso – rara avis – uno spiraglio sul misconosciuto universo femminile dei mestieri del libro in Italia. Uno spiraglio però poco recepito e frequentato dai bibliografi e dagli storici, nonostante il risveglio di interesse per la storia del libro suscitato negli anni Ottanta del secolo scorso dalla traduzione dell’Apparition du livre di Fèbvre e Martin che ha alimentato nuove metodologie d’indagine e suscitato paradigmi interpretativi variegati e complessi. 3 La difficoltà delle indagini sul ruolo svolto dalle donne nel mondo editoriale è ricondu1   Francesco Novati, Donne tipografe del ’500, « Il libro e la stampa. Bullettino ufficiale della Società bibliografica italiana », n.s., i (1907), n. 2 (pp. 41-49), pp. 41-42 (corsivo nel testo), che cita Bartolomeo Cecchetti, La pittura delle stampe di B. Benalio, « Archivio veneto », xxxiii (1887), pp. 538-539. 2   A lui si deve la Regola nuouamente vulgarizata, Venetia, per Bartholomeo Bianzago in casa de Bernardino Benali, [circa 1520]. 3   Lucien Fèbvre, Henri-Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 1977. Per un bilancio delle prospettive aperte e degli esiti degli studi negli ultimi trent’anni si vedano Histoires du livre. Nouvelles orientations, sur la direction de Hans Erich Bödeker, Paris, imec éditions, 1995, e ora La storia della storia del libro in Italia, a cura di Maria Cristina Misiti, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte, 2009. Eccezioni al generale disinteresse i contributi di Deborah Parker, Women in the book trade in Italy, 1475-1620, « Renaissance Quarterly », xlix (1996), pp. 509-541 ; Tiziana Plebani, Il « genere » dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo e età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001, cap. 3 : Le donne nei mestieri del libro ; e le riflessioni di Rita Giordano, Rosaria Campioni e Maria Gioia Tavoni in apertura del catalogo Donne tipografe tra xv e xix secolo. Mostra dai fondi della Biblioteca universitaria, Aula magna, 8 marzo-10 maggio 2003, Bologna, Biblioteca Universitaria di Bologna, 2003.  





















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cibile alla più generale difficoltà di individuazione dei contorni del lavoro femminile1 e alla molteplicità degli ordinamenti giuridici che, pur nel sostrato uniforme del diritto comune, hanno determinato in Europa – e particolarmente negli Stati italiani – realtà diverse fortemente influenzate, nella frastagliata situazione geopolitica e nel lungo periodo dal medioevo all’età moderna, dalle legislazioni statali, dalle norme consuetudinarie, dagli statuti cittadini e dai regolamenti delle arti corporative. Nel prevalente regime patrilineare le forme della riproduzione sociale si incardinarono sui figli maschi che succedevano ai padri come capifamiglia e proprietari del patrimonio, la cui integrità doveva essere difesa « a sostanziale tutela dell’interesse politico-economico e della dignità sociale della famiglia ». 2 Nell’età comunale la ripresa economica cittadina si annodò intorno ai circuiti produttivi e commerciali familiari e, sebbene la documentazione sulla consistenza e sulle modalità della partecipazione delle donne alle attività non sia abbondante ed esplicita, le fonti giuridiche e letterarie e l’iconografia ne testimoniano una presenza diffusa. Erano dedite al commercio di prodotti nei mercati cittadini e all’esercizio di arti e mestieri svolto, per lo più insieme ad altri membri del nucleo familiare, nelle botteghe e nei laboratori situati in appositi ambienti dell’abitazione o nelle sue vicinanze. Ma non furono poche neppure quelle che – nobili, borghesi e popolane, in collaborazione con i parenti o da sole – si spinsero in iniziative commerciali più impegnative. 3 Agli esempi delle città più studiate aggiungo casi meno noti, ma non meno frequenti, di area marchigiana dove donne della borghesia artigianale – Angelella, Bergola, Gentilesca, Giustina, Margherita – dal xii al xv secolo sottoscrissero a Camerino atti di compravendita di beni insieme ai mariti, mentre a Recanati Caterina, moglie del sarto Tommaso di Pietro, con un’azione più modesta ma pur significativa, nel 1426 firmò in prima persona un contratto di manodopera con il lanaiolo Bernardo di Giacomo da Norcia. Una consistente serie di donne, vedove o sole, di Fabriano – Beatrice, Letizia, Dionisia, Giovanna – risulta attiva nella stipula di soccide, cioè di contratti mezzadrili, e nel prestito ad interesse in cui impiegarono somme di non lieve entità. A forme autonome di microimprenditoria non furono estranee neppure le esponenti dell’aristocrazia cittadina, tra le quali nel secolo xv vanno ricordate almeno Tora ed Emilia Varano di Camerino : l’una affittuaria di una « domus a valcheriis a carta », l’altra attiva nell’estrazione della foglia di gelso per produrre seta, attività alla quale si dedicarono anche altre nobildonne della Marca, quali Violante Ottoni di Matelica, Paola Mauruzi di Tolentino, Nicolosa di Fermo. 4  









1   Sull’endiadi « absence dans les sources, silence des historiens » e sull’« invisibilité des femmes » si sofferma Odile Redon, Aspectes économiques de la discrimination et de la ‘marginalisation’ des femmes, xiiie-xviiie siècles, in *La donna nell’economia, secc. xiii-xviii. Atti della ventunesima settimana di studi, Prato, Istituto internazionale di storia economica Francesco Datini, 10-15 aprile 1989, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 1990 (pp. 441-460), pp. 441-443. Si vedano anche le considerazioni di Maria Giuseppina Muzzarelli, Un’introduzione dalla storiografia, in *Donne e lavoro nell’Italia medievale, a cura di Maria Giuseppina Muzzarelli, Paola Galetti, Bruno Andreolli, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, pp. 13-27. 2   Andrea Romano, Famiglia, successioni e patrimonio familiare nell’Italia medievale e moderna, Torino, Giappichelli, 1994, pp. 3, 13, e, più specificamente sui sistemi e le strategie dotali, Isabelle Chabot, Risorse e diritti patrimoniali, in *Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 47-70. L’esclusione delle donne dalla divisione dei beni familiari in forza dell’assegnazione del beneficio della dote trovò riconoscimento nella legislazione, oltre che nella giurisprudenza e nella dottrina, e nel 1680 fu fissata da Innocenzo XI con la costituzione De statutariis successionibus cum articulis statutorum et legum excludentium foeminas propter masculos, atto conclusivo di un processo secolare : Maria Teresa Guerra Medici, L’esclusione delle donne dalla successione legittima e la Constitutio super statutariis successionibus di Innocenzo XI, « Rivista di storia del diritto italiano », lvi (1983), pp. 261-294. 3   Maria Teresa Guerra Medici, L’aria di città. Donne e diritti nella città medievale, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1996, cap. iv : ‘Domna, domina, massaria et usufructuaria’. Madri, tutrici, vedove nella famiglia del comune medievale. 4   Emanuela Di Stefano, Uomini, risorse, imprese nell’economia camerte fra xiii e xvi secolo, Camerino, Università  















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Nel tardo medioevo, con il progredire dell’attività manifatturiera, le corporazioni si moltiplicarono e rafforzarono acquisendo sempre maggiore potere, non solo economico ma anche politico. E soprattutto si strutturarono secondo il modello sociale predominante per cui, mentre definivano le modalità del lavoro delle donne, non le annoveravano tra i membri, poiché il diritto all’immatricolazione – fatte salve poche eccezioni – si trasmetteva da padre in figlio. Pertanto i margini di operatività e di visibilità delle donne, spinte nei gradini inferiori dell’attività produttiva cittadina – sempre più accentrata sulla manodopera maschile specializzata – si ridussero drasticamente mentre, per altre e più articolate ragioni sociopolitiche, esse furono indotte progressivamente a circoscrivere il loro ruolo entro le mura domestiche. 1 L’identità sociale femminile in buona sostanza si definì in relazione alla posizione occupata all’interno della cerchia familiare (figlia, sorella, moglie, madre) e allo stato civile (nubile, sposata, vedova). Nello spazio domestico, tuttavia, – specialmente nei ceti artigiani – le donne ricoprirono un ruolo non irrilevante : attive più o meno nascostamente accanto ai padri, ai fratelli, ai mariti o ai figli, esse contribuirono ai destini economici dei nuclei familiari sia partecipando direttamente alla produzione dei beni, sia consentendo, attraverso mirate politiche matrimoniali, la prosecuzione e lo sviluppo delle attività. Alle moglie e madri, inoltre, fu assegnata la funzione di sostituzione per cui, in assenza del marito – defunto o lontano da casa per altre ragioni – esse assumevano la tutela dei figli e la responsabilità delle attività della famiglia in una posizione riconosciuta sia dal diritto sia dal costume. In questo quadro di valori si colloca il riconoscimento della personalità giuridica delle vedove, che consentiva loro di esercitare le funzioni legali e sociali in forza delle quali potevano subentrare ai mariti, come eredi legatarie o usufruttuarie, nell’amministrazione delle imprese artigianali e commerciali – considerate un prolungamento della famiglia – per provvedere alla tutela dei figli minorenni, alla salvaguardia e alla trasmissione del patrimonio. 2 Il processo di ‘mascolinizzazione’ dei mestieri non risparmiò l’ars artificialiter scribendi, tradizionalmente considerata prerogativa esclusiva degli uomini, i soli a poter adire l’apprendistato ; nondimeno nell’organizzazione delle officine tipografiche e delle botteghe librarie, allestite per lo più in locali interni o vicini alla casa, la componente femminile era direttamente coinvolta nelle dinamiche dell’azienda e nell’apprendimento informale delle tecniche del mestiere, insieme ai figli e agli apprendisti maschi. Una presenza che si indovina consistente benché rimasta generalmente in ombra, offuscata dal protagonismo maschile. Nel panorama europeo pressoché uniforme 3 fa eccezione la fattispecie francese, carat 



di Camerino, 2007, pp. 31, 33, 48-49, 56, 72 ; Raoul Paciaroni, All’origine dell’arte della seta : coltura del gelso e commercio della foglia a Sanseverino, secoli xiv-xvii, « Proposte e Ricerche », 1987, n. 18, pp. 9-18 ; Elisabetta Archetti Giampaolini, Prassi economico-giuridiche e religiosità tra ’200 e ’300. La verifica in un centro della Marca [Fabriano], « Atti e memorie. Deputazione di storia patria per le Marche », 92 (1987), pp. 125-171 ; Giuseppina Gatella, Arti e artigiani a Recanati tra xiv e xv secolo, in *Arti e manifatture nella Marca nei secoli xiii-xvi. Atti del xxi Convegno di studi maceratesi (Matelica, 16-17 novembre 1985), Macerata, Centro di studi storici maceratesi, 1988, pp. 231-285 (Studi maceratesi, 21). 1   Sul primo aspetto Roberto Greci, Donne e corporazioni : la fluidità di un rapporto, in *Il lavoro delle donne ..., cit., pp. 71-91 ; sul secondo Roberto Rusconi, San Bernardino da Siena, la donna e la ‘roba’, in Atti del Convegno storico bernardiniano in occasione del sesto centenario dalla nascita di s. Bernardino da Siena, L’Aquila, 7-9 maggio 1980, L’Aquila, Comitato aquilano del sesto centenario della nascita di s. Bernardino da Siena, 1982, pp. 97-110. 2   M. T. Guerra Medici, L’aria di città ..., cit. ; Thomas Kuehn, Figlie, madri, mogli e vedove. Donne come persone giuridiche, in *Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di Silvana Seidel Menchi, Anne Jacobson Schutte, Thomas Kuehn, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 431-460. 3   Axel Erdmann, My gracious silence. Women in the mirror of 16th century printing in Western Europe, Luzern, Gilhofer & Ranschburg, 1999.  





















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terizzata dalla presenza macroscopica di tipografe/editrici/libraie che si resero in vario modo protagoniste e in quanto tali ben presenti – sebbene non sempre apprezzate – nella visione dei contemporanei. Henri Estienne, rigoroso ed esigente editore umanista, nella Epistola de suae typographiae statu del 1569 fa un ritratto impietoso dello stato deplorevole della produzione editoriale del suo tempo e ne addebita la sciatteria all’ignoranza dei tipografi, aggravata dalla diffusa presenza delle donne (mulierculae) che costituiva ai suoi occhi un ulteriore elemento di vergogna per l’arte. 1 I dati del recente Dictionnaire des femmes libraires en France, 1470-1870 di Roméo Arbour gli danno ragione : nel xv secolo le donne tipografe, editrici e libraie erano 2, che salirono a 117 nel xvi secolo e addirittura a 647 nel xvii. 2 L’intensità del fenomeno francese ha determinato una sensibilità e un’attenzione critica maggiore rispetto a quanto è avvenuto nel nostro paese dove la fattispecie – seppur ancora poco studiata – sembra tutt’affatto differente. L’assunzione diretta della responsabilità di un’azienda editoriale in Italia è stata un’evenienza a tal punto inconsueta che, a fronte dei pochi casi concreti di sottoscrizioni femminili presenti sui libri, si è assistito alla sua pervicace negazione da parte degli studiosi. Esemplare in tal senso il caso occorso a Girolama Cartolari il cui nome, malgrado le ripetute evidenze delle sue edizioni romane, è stato ritenuto un errore e interpretato al maschile : Hieronymus per Hieronyma, Girolamo per Girolama. Il fraintendimento, favorito peraltro – è opportuno ricordarlo – dalla concomitante produzione perugina del cognato Girolamo Cartolari, ha avuto una durata plurisecolare e si è trasmesso da Prospero Mandosio nel Theatron degli archiatri pontifici del 1692, al Mazzucchelli ne Gli scrittori d’Italia del 1760, fino al Vermiglioli, Della tipografia perugina del secolo xv del 1806. 3 Rischio simile ha sfiorato anche la napoletana Caterina De Silvestro, moglie ed erede di Sigismondo Mayr, sul cui riconoscimento lo stesso Lorenzo Giustiniani ha avuto qualche tentennamento. 4  



1

  D. Parker, Women in the book trade in Italy ..., cit., p. 509.   Roméo Arbour, Dictionnaire des femmes libraires en France, 1470-1870, Genève, Droz, 2003, p. 13. Si vedano anche gli studi di Annie Charon, Les métiers du livre à Paris au xvie siècle (1535-1560), Genève, Droz, 1974 ; Sylvie PostelLecocq, Femmes et presses à Paris au xvie siècle : quelques exemples, in *Le livre dans l’Europe de la Renaissance. Actes du xxviiie colloque international d’études humanistes de Tours, sous la direction de Pierre Aquilon et Henri-Jean Martin, Paris, Promodis, 1988, pp. 253-263 ; Beatrice Hibbard Beech, Women printers in Paris in the Sixteenth century, « Medieval prosopography », x (1989), pp. 75-93 ; Sabine Juratic, Marchandes ou savantes ? Le veuves des libraires parisiens sous le règne de Louis XIV, in *Femmes savantes, savoirs des femmes du crepuscule de la Renaissance à l’aube des Lumières. Actes du Colloque de Chantilly, 22-24 septembre 1995, études reunies par Colette Nativel, Genève, Droz, 1999, pp. 59-68. Per l’area inglese Maureen Bell, A dictionary of women in the London book trade, 1540-1730, Loughborough, University of Technology, Department of Library and Information Studies, 1983 ; Lynne M. Fors, Chez La Veuve. Women printers in Great Britain, 1475-1700. An exhibition at the University of Illinois Library Rare Book and Special Collections Library, August-November 1998, copyright Lynne Fors, 1998 . Utile anche Suzanne W. Hull, Chaste, silent and obedient : English books for women, 1475-1640, San Marino (California), Huntington Library, 1982. 3   Theatron in quo maximorum Christiani orbis pontificum archiatros Prosper Mandosius nobilis Romanus Ordinis Sancti Stephani eques spectandos exhibet, Romae, typis Francisci de Lazaris, 1696, p. 27 ; Giovanni Maria Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia cioè Notizie storiche, e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, In Brescia, presso a Giambatista Bossini, 1760, ii/2, pp. 1251-1252 ; Giovanni Battista Vermiglioli, Della tipografia perugina del secolo xv, In Perugia, presso Carlo Baduel, 1806 ; F. Novati, Donne tipografe del ’500 ..., cit. ; Tammaro De Marinis, Donne tipografe nel Cinquecento. Ancora di Gerolama dei Cartolari, « Il libro e la stampa », n. s., iii (1909), n. 4-6, pp. 101-103 ; Paolo Veneziani, Cartolari, Baldassarre e Girolama, in *Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, xx, pp. 804-806 ; Fernanda Ascarelli-Marco Menato, La tipografia del ’500 in Italia, Firenze, Olschki, 1989, pp. 109-110, 208 ; Fabio Massimo Bertolo, Cartolari, Baldassarre junior e Girolama, in *Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento, diretto da Marco Menato, Ennio Sandal, Giuseppina Zappella. Milano, Editrice Bibliografica, 1997, pp. 268-269. 4   Lorenzo Giustiniani, Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli, Napoli, Nella stamperia di Vincenzo Orsini, a spese del libraio Vincenzo Altobelli, 1793, pp. 158-160, cfr. Gianni Macchiavelli, Caterina De 2







































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Il ridimensionamento della partecipazione delle donne italiane alle attività produttive e commerciali cittadine in ragione del mutato codice del ruolo femminile, circoscritto all’ambito domestico o monastico, ha spinto Sherril Cohen, studioso di storia sociale italiana, ad affermare – forse in modo troppo categorico – che le uniche opzioni di vita per le donne in età moderna si riducevano al matrimonio, alla monacazione o alla prostituzione. 1 Quand’anche così fosse tuttavia, a una sommaria ricognizione – se non di singole biografie quanto meno di centri di produzione editoriale – sembrerebbe di poter dire che per ciascuno di questi status le donne hanno lasciato traccia di sé – nascosta e sotterranea – nelle professioni del libro, alle quali si sono applicate mogli, monache e prostitute, ancorché ‘redente’. Sono note le donne copiste, religiose e laiche, studiate da Luisa Miglio, 2 e per altri aspetti ben nota è anche la figura di Christine de Pizan, intellettuale di professione, abile manager di se stessa e dei frutti della sua scrittura, osservatrice attenta del ruolo complementare del lavoro femminile nell’economia cittadina tardo-medievale. 3 Sul versante del libro a stampa molto frequentata è stata la tipografia fiorentina della badia di San Jacopo di Ripoli, che ha visto il coinvolgimento diretto delle monache domenicane nel proseguire mediante la nuova tecnologia il lavoro tradizionale di trasmissione dei testi, per cui dal 1476 al 1484 suor Marietta e suor Rosarietta collaborarono alla composizione dei caratteri delle pubblicazioni sotto la guida dei confratelli. 4 Episodica ma non meno esplicita è anche l’iniziativa editoriale delle suore vicentine Agnese e Chiara che fecero dichiarare il loro nome nella pubblicazione della Regola di S. Agostino commissionata nel 1587 alla società di Perin libraio e Giorgio Greco : « Suor Agnese Padoana, priora, & suor Chiara Belli, monache in S. Maria Maddalena ». 5 Poco sappiamo, al contrario, della Tipografia delle Convertite, allestita presso il convento agostiniano di Santa Maria Maddalena alla Giudecca di Venezia, di cui ha dato notizia per primo Vittorio Rossi nel 1907, segnalando allora un’unica edizione. Edit16 oggi registra 18 pubblicazioni prodotte negli anni 1557-1561 e il database della Ricerca sull’Inchiesta della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti le accresce – pur con le dovute cautele – a più  





Silvestro : una donna tipografa nella Napoli del Cinquecento (1517-1525), in *Per la storia della tipografia napoletana nei secoli xv-xviii. Atti del Convegno internazionale (Napoli, 16-17 dicembre 2005), a cura di Antonio Garzya, Napoli, Accademia Pontaniana, 2006 (pp. 91-111), p. 92. 1   Sherrill Cohen, Asylums for women in Counter-Reformation Italy, in *Women in Reformation and Counter-Reformation Europe. Public and private worlds, edited by Sherrin Marshall, Bloomington, Indiana University Press, 1989 (pp. 166-188), p. 170 ; Id., The evolution of women’s asylums since 1500. From refuges for ex-prostitutes to shelters for battered women, New York-Oxford, Oxford University Press, 1992. 2   Luisa Miglio, “A mulieribus conscriptos arbitror” : donne e scrittura, in *Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni di copisti dalle origini all’avvento della stampa. Atti del seminario di Erice. x Colloquio del Comité intérnational de paléographie latine, 23-28 ottobre 1993, a cura di Emma Condello, Giuseppe De Gregorio, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1995, pp. 63-108 ; Ead., Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008. Si vedano anche Luisa Miglio, Marco Palma, Presenze dimenticate, « Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari », xix (2005), pp. 219-232 ; Id., Donne e cultura scritta nel Medioevo. Un archivio in rete , Univ. di Cassino-Univ. di Roma La Sapienza, 2000, agg. 2009. 3   Maria Giuseppina Muzzarelli, L’utopia di Christine de Pizan, in *Il destino della famiglia nell’utopia, a cura di Arrigo Colombo e Cosimo Quarta, Bari, Dedalo, 1991, pp. 111-124 ; Tiziana Plebani, All’origine della rappresentazione della lettrice e della scrittrice : Christine de Pizan, in *Christine de Pizan, una città per sé, a cura di Patrizia Caraffi, Roma, Carocci, 2003, pp. 48-58 ; Christine de Pizan, une femme de science, une femme de lettres, études reunies par Juliette Dor et Marie-Elisabeth Henneau, Paris, Champion, 2008. 4   Melissa Conway, The Diario of the printing press of San Jacopo da Ripoli, 1476-1484. Commentary and transcription, Firenze, Olschki, 1999. 5   Maria Cristofari, La tipografia vicentina nel secolo XVI, in *Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze, Olschki, 1952, pp. 191-214.  





















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di 20. Libri per lo più di devozione e di meditazione, pubblicati nell’ambito di un progetto editoriale ancora sfuggente ma che dalle evidenze bibliografiche sottolinea la volontà di promuovere le abilità acquisite nel percorso di redenzione dalle penitenti, che orgogliosamente le rivendicano con l’espressione « Stampata per le mani de le Conuertite » e con l’apposizione come marchio editoriale dell’immagine di Maria Maddalena, sollevata in cielo dagli angeli e dalle suore, circondata da motti significativi : « Ecco la gran bontà di Dio verso il peccatore che si riduce a penitentia », « Optimam partem elegit sibi Maria, quae non auferetur ab ea in æternum » e « Ognun che ’l mondo desidera sprezzare, questo vivo esempio debba considerare ». 2 Su un fronte diverso ma in ogni modo associato alle donne marginali, poco studiato è anche il caso – legato alla filantropia e all’imprenditoria del ceto patrizio – della Stamperia delle putte di Piazzola sul Brenta, allestita all’interno del conservatorio per povere e orfane impiantato a metà del secolo xvii dal procuratore di San Marco, Marco Contarini, in prossimità della villa di famiglia. L’asilo era fornito di laboratori, tra cui quelli per la stampa delle opere musicali e teatrali eseguite e rappresentate nei due teatri della villa. La tipografia, condotta con la manodopera delle allieve del conservatorio, fu attiva dal 1680 al 1687 e produsse libri, per lo più illustrati da un ricco apparato decorativo, inneggianti al benefattore e sottoscritti « In Piazzola, nel luoco delle Vergini ». Nel 1685 fu celebrata da Francesco Maria Piccioli, letterato gravitante nell’orbita della famiglia Contarini, ne L’orologio del piacere, relazione del soggiorno a Piazzola di Ernesto VI, duca di Brunswick : 1

























Salita una scala a lumaca, si hebbe l’ingresso in una stamparia con tre torchi da improntar rami poi in altra dove s’intaglia a bolino e acqua forte per il servizio di S. E., d’indi alla terza superiore per le stampe de caratteri, proveduta parimenti da triplicati torchi. 3

Soprattutto, però, conosciamo troppo poco l’universo, sotterraneo e ancora inesplorato, delle donne che hanno agito nella produzione e nel commercio del libro cooperando in vario modo con i maestri tipografi, editori e librai. Solo alcune di loro si resero protagoniste e gestirono in proprio le imprese editoriali, rivendicandone i prodotti : Isabetta di Bernardo Basa, libraia veneziana all’insegna del Sole ; la già ricordata Girolama Cartolari,  



1   Vittorio Rossi, Altre donne tipografe nel Cinquecento, « Il libro e la stampa », n.s., i (1907), pp. 135-136 ; F. Ascarelli-M. Menato, La tipografia del ’500 in Italia ..., cit., pp. 400-401 ; Edit16. Censimento nazionale delle edizioni italiane del xvi secolo ; Le biblioteche degli ordini regolari in Italia alla fine del secolo XVI (ultima consultazione novembre 2009). 2   « Alla metà del secolo xvi venne eretto nell’isola della Giudecca un piccolo oratorio dedicato a S. Maria Maddalena con annesso convento destinato alle peccatrici che, pentite dei loro trascorsi, volevano dedicarsi a Dio sotto la regola di S. Agostino. Il primo Rettore, Pietro Leon da Val Camonica, finì decapitato per aver avuto relazioni carnali con venti recluse ! L’oratorio, in seguito restaurato, venne riconsacrato nel 1579. La comunità fu soppressa con proc. verb. 7 giugno 1806, in esecuzione del decreto del Regno Italico 8 giugno 1805, e la chiesa secolarizzata. Più tardi venne nuovamente riaperta al culto, mentre il monastero venne adibito a carcere femminile » : così Andrea da Mosto, Archivio di Stato di Venezia, II, Archivi dell’Amministrazione provinciale della Repubblica Veneta, archivi delle rappresentanze diplomatiche e consolari, archivi dei governi succeduti alla Repubblica Veneta, archivi degli istituti religiosi e archivi minori, Roma, Biblioteca d’arte, 1940, p. 146. Ora si attende l’imminente pubblicazione su « La bibliofilia » dello studio di Edoardo Barbieri, “Per monialium poenitentium manus”. La tipografia del monastero di Santa Maria Maddalena alla Giudecca, detto delle Convertite (1557-1561). Alcune riflessioni sono state anticipate in Id., Monasteri e stampa tra Quattro e Cinquecento: con un’analisi della produzione editoriale delle Convertite di S. Maria Maddalena a Venezia, in *Comites latentes. Per gli ottanta anni di Francesco Malaguzzi, Torino, [s. n.], 2010, pp. 15-34. 3   Francesco Maria Piccioli, L’orologio del piacere che mostra l’ore del diletteuole soggiorno hauto dall’altezza serenissima D. Ernesto Augusto Vescouo d’Osnabruc, duca di Bransuich, Luneburgo, &c. nel luoco di Piazzola di S.E. il signor Marco Contarini, In Piazzola, nel luoco delle Vergini, 1685. Su di essa Giovanni Saggiori, Il “loco delle Vergini di Piazzola”, in *Libri e stampatori in Padova. Miscellanea di studi storici in onore di Mons. G. Bellini, [a cura di] Antonio Barzon, Padova, Tipografia Antoniana, 1959, pp. 3-10, e solo un breve cenno in Paolo Camerini, Piazzola, Padova, Società Cooperativa tipografica, 1902, p. 36.  

























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vedova di Baldassarre ; Chiara Giolito De Ferrari, erede di Giovanni Francesco che operò a Trino ; Caterina De Silvestro, vedova di Sigismondo Mayr, a Napoli ; Elisabetta, figlia di Paolo Baffo e vedova di Giorgio Rusconi, a Venezia ; Fiorenza Zanetti, vedova di Francesco, che ad oggi conosciamo per una sola edizione sottoscritta nel 1592, ma sappiamo che, alla morte del marito nel 1591, si costituì in società con i figli a Roma. Per la precocità dell’azione vanno ricordate anche Estellina Conat, moglie del libraio ebreo Abraham, che a Mantova nel 1474 rivendicò il proprio apporto alla composizione di un libro, 1 e Antonina, vedova di Enrico da Colonia, la cui sottoscrizione congiunta di una pubblicazione senese del 1505 con il secondo marito, Andrea Piacentino, rivela il raggiunto status di autonomia o, quanto meno, di parità di condizioni nella titolarità dell’impresa editoriale ereditata da Enrico. 2 In grandissima maggioranza le donne italiane – proponendo una fattispecie diversa da quella europea e, in specie, francese – sono state comprimarie o collaboratrici silenziose nelle aziende familiari, grandi e piccole, e anche nel caso di vedovanza sono rimaste per lo più in ombra, cedendo la gestione e il nome dell’impresa al nuovo marito o eclissandosi dietro la formula « Eredi di ». Le ragioni del fenomeno che, già ad una prima ricognizione, appare macroscopico devono essere ulteriormente – e partitamente – indagate sotto l’aspetto del diritto e del costume, ma la presenza femminile emerge con una intensità tale da proporre le donne come fili di una fitta trama disposti a sorreggere l’ordito maschile della produzione e del commercio librario, visibili sì solo alla controluce della documentazione ma indispensabili per ridisegnarne il tessuto complessivo. In un rapido e provvisorio censimento a Roma troviamo le donne della famiglia Blado : Paola, vedova di Antonio, e la figlia Agnese, moglie di Giovanni Osmarino Gigliotti, con le figlie Elisabetta e Tarquinia, ma anche Porzia, moglie di Paolo, e la figlia Isabella, a sua volta moglie di Geremia Guelfi ; le due Dorico, Lucrezia, moglie di Luigi, e la figlia Livia, moglie di Stefano Blado ; Menica Bolani Accolti, usufruttuaria dei beni di Giulio e tutrice del figlio Vincenzo con cui costituì la società degli « Eredi Accolti », ed inoltre Dorotea, vedova di Vincenzo che dal 1596 proseguì l’attività del marito ; Cecilia Tramezzino, erede della libreria del padre Francesco in via del Pellegrino ; Maria Zanetti, figlia di Francesco e Fiorenza, e vedova di Guglielmo Facciotti ; Francesca Orlandi, vedova di Luigi Zanetti ; Francesca, vedova di Alessandro Auricola, libraio in Parione, che portò in dote al secondo marito, Giovanni Angelo Ruffinelli, « tutti li libri, massaritie et robbe » della casa e della bottega. 3  

































1   Vittore Colorni, Abraham Conat primo stampatore di opere ebraiche in Mantova e la cronologia delle sue edizioni, « La bibliofilia », lxxxiii (1981), pp. 113-128, ristampato in Id., Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Milano, Giuffré 1983, pp. 443-460 ; Adri K. Offenberg, The chronology of Hebrew printing at Mantua in the Fifteenth century : a re-examination, « The Library », s. 6., xvi (1994), pp. 298-315. 2   Florindo Cerreta, Luca Bonetti e l’arte della stampa a Siena nel Cinquecento, « La bibliofilia », lxxi (1969) (pp. 269-279), pp. 278-279. 3   Gian Ludovico Masetti Zannini, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento. Documenti inediti, Roma, Palombi, 1980 ; Saverio Franchi, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800. Ricerca storica, bibliografica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta Sartori, Roma, Storia e Letteratura, 1994-2002. Per la veloce e incompleta ricognizione delle voci femminili che seguono nel testo ho fatto riferimento, oltre ai testi citati, ai repertori generali e speciali più noti : Dizionario biografico degli italiani ; Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento ; Lexicon typographicum Italiae di Giuseppe Fumagalli, Clavis typographorum librariorumque Italiae, 1465-1600 di Gedeon Borsa ; Clavis typographorum librariorumque saeculi sedecimi dell’Index Aureliensis ; Short-title catalogue of books printed in Italy and of Italian books printed in other countries from 1465 to 1600 now in the British Museum ; Catalogue of Seventeenth century Italian books in the British Library ; Catalogue of books printed on the continent of Europe, 1501-1600 in Cambridge libraries di H. M. Adams ; La tipografia del ’500 in Italia di Ascarelli-Menato ; ma soprattutto utili sono state le notizie, e la relativa bibliografia, di cui sono corredate le voci di Edit16. Censimento nazionale delle edizioni italiane del xvi secolo , consultato nel mese di novembre 2009.  





































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A Venezia su tutte emerge la figura di Paola, figlia del pittore Antonello da Messina, che con i suoi consistenti capitali e le intense relazioni culturali e sociali condizionò la politica editoriale degli anni Settanta-Ottanta del Quattrocento attraverso tre successivi matrimoni con i prototipografi veneziani Giovanni da Spira, Giovanni da Colonia, Rinaldo da Nimega, il legame con Giovanni Manthen e l’alleanza commerciale strategica con Nicolas Jenson. Sotto il profilo imprenditoriale e monopolistico, inoltre, Paola non trascurò alcuna opportunità e nel 1477 favorì il matrimonio combinato tra il libraio Gasparo di Dinslaken e la figlia Girolama, che sopravvisse al marito e ne ereditò l’azienda guidandola almeno fino al 1511. 1 Ad un livello diverso, ma non meno determinante per la prosecuzione e l’incremento del giro d’affari dell’azienda, si pone nel Cinquecento la personalità di Veronica Sessa, « dileta consorte » di Melchiorre e sua esecutrice testamentaria, da lui investita nel 1566 del ruolo di « padrona e madona della roba in vita sua ». Un ruolo di usufruttuaria e tutrice che Veronica svolse con determinazione almeno fino al 1582, curando la regia della folta schiera di familiari, collaboratori e operai nella casa madre e di agenti e procuratori nelle filiali e nelle fiere, restando sempre tuttavia al riparo dello schermo della società formata con i figli maschi, nominati da Melchiorre « eredi residuari di tutti miei beni mobili, stabili, mercantie d’ogni sorta presenti e futuri ». 2 E poi ancora a Venezia agirono Luchina, vedova di Pietro Ravani ; Livia Tesori, vedova di Luciano Pasini ; Lucietta e Diamante Gardane ; Giovanna, vedova di Giovanni Padovani. 3 A Milano operarono Barbara Bordone, vedova di Pacifico Da Ponte, e la figlia Aurelia ; a Firenze le donne Marescotti, Agnoletta Bati, vedova di Giorgio, e la nuora Margherita Pugliani, a sua volta vedova ed erede di Cristoforo Marescotti. 4 A Torino Teodosia Bevilacqua, moglie di Niccolò e madre di Giovanni Battista ; a Parma Cassandra Viotti, figlia di Seth ; a Novara Margherita Sesalli, vedova di Francesco ; a Ferrara Giovanna Rossi, vedova di Francesco ; a Verona Paola e Virginia Ravagnano, rispettivamente figlia e vedova di Paolo. Dopo la morte del marito Virginia continuò a gestire in proprio la libreria all’insegna del « Giglio rosso » per più di trent’anni, dal 1561 al 1595. A Vicenza Anna, vedova di Perin libraio, e la figlia Vittoria, moglie di Francesco Grossi. A Perugia, Lucilla, vedova di Girolamo Cartolari (dunque cognata di Girolama) e Isabella, figlia di Andrea Bresciano e moglie di Vincenzo Colombara. A Napoli Lucrezia, vedova di Mattia Cancer. A Messina Margherita, vedova di Fausto Bufalini, che condivise l’eredità dell’azienda con il secondo marito, Pietro Brea, senza apparire in prima persona. L’impressione è comunque che queste siano solo la punta di un iceberg. L’indagine svolta nel territorio della Marca anconitana tra Cinquecento e inizio Seicento ha portato alla luce  































1   Mariarosa Cortesi, Incunaboli veneziani in Germania, in *Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a cura di Rino Avesani ... [et al.], Roma, Storia e Letteratura, 1984, i (pp. 197-220), pp. 200-201 ; Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio : affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma, Il veltro, 1984, pp. 29-30. 2   Corrado Marciani, Editori, tipografi, librai veneti nel Regno di Napoli nel Cinquecento, « Studi veneziani », x (1968) (pp. 457-554), pp. 521-523 ; Angela Nuovo, Il commercio librario nell’Italia del Rinascimento. Nuova edizione rivista e ampliata, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 100, 174-177 ; Rosa Marisa Borraccini, Un sequestro librario alla fiera di Recanati del 1600, in *Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice. Atti del Convegno internazionale (Macerata, 30 maggio-1 giugno 2006), a cura di Rosa Marisa Borraccini e Roberto Rusconi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2006, pp. 397-438. 3   Marcello Brusegan, La tipografia di Giovanni Padovano attiva a Venezia negli anni 1531-1558, in *Humanistica Marciana. Saggi offerti a Marino Zorzi, a cura di Simonetta Pelusi e Alessandro Scarsella, Milano, Biblion, 2008, pp. 133-138. Dopo la morte del marito nel 1553, Giovanna affidò la direzione della tipografia al lavorante Francesco Leni che nel 1558 ne divenne proprietario in forza di un accordo sul risarcimento dei debiti contratti da Giovanni che lei non era riuscita a saldare. 4   D. Parker, Women in the book trade in Italy ..., cit., pp. 529-538, con edizione dei documenti. Nessuna attenzione al tema in Giampiero Guarducci, Annali dei Marescotti, tipografi editori di Firenze, 1563-1613, Firenze, Olschki, 2001, pp. xvi-xvii.  











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figure di donne che operarono nel mondo editoriale con discrezione e autodeterminandosi in modi diversi, ma cogliendo in ogni caso le opportunità offerte loro dalle circostanze e dall’intreccio di relazioni parentali e clientelari in cui erano inserite. Una breve descrizione della loro attività può essere utile a meglio disegnare i contorni delle loro ‘ombre’. Francesca Amorosa Aspri Moglie di Antonio Gioioso di Camerino che, dopo un periodo di apprendistato a Napoli, nel 1552 introdusse in città l’esercizio stabile dell’arte tipografica proseguito fino al 1577. 1 Alla morte di Antonio, Francesca Amorosa ne proseguì in forma autonoma l’attività, come sembrano provare il raro esemplare di una stampa devozionale datata 1578 e priva del nome del tipografo, Specchio di verità et via di vita, stampato in Roma per Giovanni Osmarino e ristampato in Camerino con licenza de’ superiori 1578, e altre due piccole pubblicazioni con la sola data topica, ad essa assimilabili per ragioni bibliologiche, Nuovo fior di virtù raccolto da diversi autori e La rappresentatione del figliuol prodigo di Antonia Pulci, conservate presso la Biblioteca Valentiniana di Camerino. Dal 1578 al 1581, per salvaguardare il buono stato dell’impresa familiare e consentire al primogenito Francesco – allora tredicenne (1565-1633) – l’apprendistato necessario all’emancipazione, Francesca Amorosa si associò con il tipografo veronese Girolamo Stringario e per quattro anni la produzione editoriale fu contrassegnata dalla ragione sociale « Eredi di Antonio Gioioso & Girolamo Stringario ». 2 Dal 1581 al 1585, però, riassunse la conduzione dell’azienda insieme al figlio mantenendo il nome degli « Eredi di A. Gioioso ». La tipologia editoriale degli eredi si pose sulla falsariga di quella di Antonio ma prevalsero le pubblicazioni di minore impegno esecutivo sebbene di forte impatto relazionale, quali le stampe d’occasione o d’omaggio alle autorità civili e religiose locali, le pubblicazioni ufficiali degli enti committenti e il filone delle operette agiografiche, devozionali e spirituali, dilaganti nel clima della Riforma cattolica in via di consolidamento. Alcune di esse, come la Rappresentazione della passione di nostro Signore Gesù Cristo, attribuita a Giuliano Dati, stampata nel 1580 e nel 1583, la Conversione di Maria Maddalena di Marco Rosiglia da Foligno del 1581, la Dottrina christiana del cardinale Paleotti del 1585, non sono testimoniate da esemplari superstiti ma sono segnalate negli inventari delle biblioteche claustrali, redatti per volere della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti sul volgere  







1   Gioioso aveva richiesto nel 1551 al Consiglio comunale la concessione del monopolio della stampa e della vendita di testi scolastici e di altro materiale di intrattenimento in tutto lo Stato camerte : « Antonius Milane typographus conductus in hac civitate petit sibi gratiam fieri quod nullus, ipso excepto, de civitate et Statu Camerini, possit imprimere aut impressos vendere libros abecedarios, Donatos, regulas, cymbala, tympana et cartas lusorias ; […] offerens Antonius typographus predictus vendere dictos libros et cartas omnibus emere volentibus pro eodem et minori pretio quo emunt in aliis locis ». Non sappiamo se e quando negli anni successivi la privativa gli fu concessa dal momento che in quella circostanza la sua richiesta, pur inserita formalmente nell’ordine del giorno del Consiglio, non fu discussa per il divieto posto dal Vicelegato apostolico, a conferma dell’attenta vigilanza e del controllo che le autorità ecclesiastiche esercitavano sull’attività editoriale in tutto lo Stato della Chiesa. Su di lui Vittorio Emanuele Aleandri, La stampa degli statuti di Camerino e il tipografo Antonio Gioioso, Camerino, Tipografia Savini, 1902 ; Carla Casetti Brach, Gioiosi (Gioioso), Antonio, in *Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2000, lv, pp. 142-143 ; Rosa Marisa Borraccini, Libri e società nelle Marche centro-meridionali nei secoli xv-xviii, in *« Collectio thesauri ». Dalle Marche tesori nascosti di un collezionismo illustre. L’arte tipografica dal xv al xix secolo. Catalogo della mostra bibliografica organizzata dal Servizio tecnico alla cultura della Regione Marche, Iesi, dicembre 2004-aprile 2005, a cura di Mauro Mei, Firenze-Ancona, EdifirRegione Marche, 2005, pp. 97-131. 2   Michele Santoni, Bibliografia storica marchigiana. Camerino, con appendice L’arte della stampa in Camerino, « Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le Marche », vi (1903), pp. 59-102 ; Giacomo Boccanera, L’arte della stampa a Camerino, in *Studi sulla Biblioteca comunale e sui tipografi di Macerata, Miscellanea a cura di Aldo Adversi, Macerata, Cassa di risparmio della Provincia, 1966, pp. 235-246.  





















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del Cinquecento (Cod. Vat. Lat. 11279, c. 338v ; 11281, c. 176v ; 11280, c. 145r ; 11286, c. 198v ; 11312, c. 35v). Nel 1585 Francesca Amorosa cedette la proprietà e la direzione dell’azienda all’ormai maggiorenne Francesco, che la fece prosperare grazie anche agli stretti rapporti professionali intrattenuti con Maurizio Bona, libraio romano originario di Camerino e proprietario della fiorente libreria « Al Morion d’oro » di Piazza Navona. Alla morte di Francesco nel 1633, il figlio Antonio Maria, da tempo agente dell’impresa paterna a Roma, determinò un deciso cambio di rotta negli affari con la cessione della tipografia allo iesino Francesco Ghislieri, marito della sorella Beatrice, e con il suo definitivo trasferimento nella capitale dove, a seguito del matrimonio con la vedova di Maurizio Bona, era subentrato a quest’ultimo nella gestione della libreria, raggiungendo una posizione ragguardevole nell’attività editoriale e nel commercio librario romano, senza tuttavia recidere del tutto i contatti con l’azienda del cognato. 1  











Livia Desideri Moglie di Giuseppe De Angelis, originario di Spilimbergo, che aveva operato a Roma negli anni 1568-1579, dapprima nella Tipografia del Popolo Romano diretta da Paolo Manuzio, successivamente in società con Domenico Giglio nella gestione dell’officina alla Minerva e poi in proprio, raggiungendo solidi livelli produttivi come mostrano il buon numero di edizioni a suo nome e i documenti pubblicati da Masetti Zannini. 2 La decisione di trasferirsi in Ascoli Piceno, dove De Angelis reintrodusse la tipografia a distanza di un secolo dai due episodi estemporanei del ’400, non ha ragioni plausibili se non forse la scelta di abbandonare il litigioso mondo editoriale della capitale e la sicurezza delle ottime provvigioni (50 scudi l’anno) e delle garanzie di monopolio offerte dalla municipalità ascolana. Istallatosi con la famiglia e con il ricco armamentario professionale nella casa con officina e bottega libraria situata nei pressi della centrale Piazza del Popolo, nel luglio 1580 – ad appena un anno dal trasferimento – Giuseppe venne a morte. 3 Livia Desideri, rimasta sola con il piccolo Tiberio e senza una rete di protezione che la sostenesse, scelse di tornare a Roma e di cedere la scorta di libri giacenti in bottega al libraio Giovanni Salvioni, che li acquistò il 22 settembre per l’importo di 80 fiorini. 4 Il corredo tipografico e iconografico, invece, fu acquistato il 25 settembre dello stesso anno dalla Municipalità ascolana che lo diede in uso ai tipografi cittadini successivi. Per effettuare la perizia e la stima del materiale la magistratura comunale incaricò Girolamo Stringario, appositamente fatto venire da Camerino dove allora – come s’è visto – era in società con Francesca Amorosa Gioioso. 5 1

  S. Franchi, Le impressioni sceniche ..., cit.   G. L. Masetti Zannini, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento ..., cit., pp. 143-144, 148149. 3   Per la produzione editoriale ascolana cfr. R. M. Borraccini, Libri e società nelle Marche centro-meridionali nei secoli xv-xviii ..., cit. 4   Giuseppe Fabiani, Ascoli nel Cinquecento, Ascoli Piceno, Società tipolitografica, 19722, pp. 293-295, 362-263 ; Franco Pignatti, De Angelis Giuseppe, in *Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento ..., cit., pp. 364-366. 5   Contrariamente a quanto sostiene Pignatti, Girolamo Stringario non sostituì De Angelis in Ascoli, ereditandone il corredo tipografico, ma fu solo chiamato a stimarlo sulla base dell’inventario redatto nella circostanza, allegato al rogito di compravendita e pubblicato da Fabiani. Vi si trasferì con il fratello Giorgio dopo la fine del sodalizio con i Gioioso e vi soggiornò per un anno, nel 1582, quando insieme a lui sottoscrisse la Legenda del glorioso martire san Venanzo, raccolta da diuersi, et composta in ottaua rima da m. Giulio Zuccarini, documentata da un raro esemplare conservato nella Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana. Nel 1583 gli Stringario tornarono a Verona, dove stamparono in proprio e in società con Sebastiano Dalle Donne, cfr. Lorenzo Carpanè, Marco Menato, Annali della tipografia veronese del Cinquecento, Baden-Baden, Koerner, 1992, i, pp. 32, 257-266. 2



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Chiara Grandi Figlia di Astolfo, tipografo veronese itinerante dal 1560 al 1564 lungo la direttrice che congiunge le città del Veneto, della Romagna e del Piceno, Verona, Rimini, Ancona e Fermo dove si trasferì nel 1576, proveniente da Ancona in cui aveva fatto sosta dal 1564. 1 Nel 1578 Chiara sposò il collaboratore del padre, il veneziano Giovanni Giubari, che già nel gennaio dell’anno successivo, nell’intento di ampliare il raggio di azione dell’azienda del suocero o di rendersi autonomo da lui, chiese alla municipalità di Fabriano il permesso di impiantare un laboratorio tipografico, proiettando così la cittadina marchigiana – fiorente per la produzione e il commercio della carta – nel circuito tipografico del secolo xvi, da cui fino ad allora era stata esclusa. Vi soggiornò però solo pochi mesi, da aprile ad ottobre 1579, quando la morte improvvisa del Grandi lo richiamò a Fermo per gestire l’azienda ereditata da Chiara. 2 L’intraprendenza di Giovanni tuttavia non si esaurì ed egli nel 1586 rivolse l’attenzione a Montalto Marche, luogo di nascita del card. Felice Peretti, che nel 1585 – eletto papa con il nome di Sisto V – aveva innalzato la ‘terra’ natale a sede vescovile e capoluogo di una nuova entità statuale, il Presidato farfense, sottratta al Governo generale della Marca e posta sotto la giurisdizione di un Preside. A seguito di tali mutamenti istituzionali la cittadina si andava trasformando in autonomo centro di vita politica, amministrativa ed ecclesiastica, allettante per un tipografo come Giubari che condivideva ormai da due anni la piazza di Fermo con Sertorio Monti – trasferitosi nel 1584 da Macerata – ed era alla ricerca di nuove opportunità professionali. Grazie agli appoggi dell’entourage del Peretti a Fermo, di cui il neo-pontefice era stato a lungo vescovo, Giubari pattuì le condizioni del trasferimento a Montalto e con il breve pontificio del 10 dicembre 1586 gli furono accordati per dodici anni il monopolio della raccolta degli stracci in tutto il territorio del Presidato e la privativa di stampa e di vendita dei libri. 3 Vi rimase però soltanto fino alla morte di Sisto V nel 1590, producendo quasi esclusivamente – per quanto finora è noto – pubblicazioni ufficiali e materiali burocratici richiesti dagli organismi politici ed ecclesiastici. Prevedendo la decadenza della città, nel 1591 Giubari si trasferì in Ascoli Piceno, attratto dai sussidi e dalle garanzie di monopolio offerte dal Comune. Come tipografo al servizio della comunità, infatti, gli furono concessi gli stessi privilegi offerti in precedenza al De Angelis: la casa per uso di abitazione e di bottega, la privativa decennale di stampa e di vendita di testi per la scuola, « regulas, Donatos et vesperas », esenzioni fiscali e due scudi mensili di salario.  



1   Filippo Maria Giochi, Alessandro Mordenti, Annali della tipografia in Ancona, 1512-1799, Roma, Storia e Letteratura, 1980, pp. xlii-xlvii, 50-80 ; L. Carpanè, M. Menato, Annali della tipografia veronese del Cinquecento ..., pp. 27, 194, 199 ; Rosa Marisa Borraccini Verducci, Astolfo Grandi e le origini dell’arte tipografica a Fermo nel secolo xvi, in *I beni culturali di Fermo e territorio. Atti del Convegno (Fermo 15-18 giugno 1994), a cura di Enzo Catani, Fermo, Cassa di Risparmio di Fermo, 1996, pp. 343-358 ; Ead., Astolfo Grandi e Giovanni Giubari prototipografi fermani e ‘Stanze sopra la morte di Rodomonte’, Fermo, Livi, 2003, con documentazione archivistica, ulteriore bibliografia e riproduzione degli elementi paratestuali più significativi delle edizioni. 2   La documentazione inedita del soggiorno fabrianese è reperibile presso l’Archivio storico del Comune di Fabriano, Riformanze, vol. 64, 1579-1580, cc. 9r-v, 25v-26r, 31v-35r, 50r, 119v-120r, 133v ; Suppliche, vol. 698, c. 279r. Nei pochi mesi di permanenza Giubari produsse – per quanto finora è noto – un opuscolo encomiastico, Epigrammaton ad claros viros libellus del perugino Aurelio Pellini, precettore della scuola pubblica locale, e un documento burocratico del Comune, Ordini sopra le provisioni et mercede d’officiali, balivi & depositarii, pervenuti entrambi in esemplari unici : il primo conservato nella Biblioteca comunale Giosuè Carducci di Città di Castello, il secondo nella Sezione dell’Archivio di Stato di Fabriano. 3   Il breve pontificio era indirizzato al « Dilecto filio Joanni Guibar [sic] bibliopolæ civitatis nostræ Montis Alti » : Giovanni Papa, Sisto V e la diocesi di Montalto, Ripatransone, Maroni ed., 1985, pp. 36, 95, 115-116, 294-297.  















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Nel 1604 tuttavia, a tredici anni di distanza, l’inquieto tipografo ripartì pure da Ascoli, diretto alla volta di Roma dove si iscrisse alla confraternita degli stampatori. 1 In questa circostanza però Chiara non lo seguì e continuò a gestire la piccola azienda ascolana fino al 1615 – verosimilmente con l’aiuto delle figlie Valeria e Cornelia – senza peraltro mutarne la ragione sociale e mantenendo stretti contatti con il marito che dalla Dominante la riforniva di libri e di materiali per la tipografia. Ancora nel 1625 Giubari chiese alla magistratura ascolana l’autorizzazione per tornare a condurre la tipografia municipale ma la domanda non fu accolta e gli fu preferito Maffio Salvioni, esponente di un ramo della famiglia Salvioni che presidiava le piazze di Ancona, Macerata e Roma. 2 Chiara restrinse il ventaglio della produzione editoriale limitandola ai testi per la scuola (abachi, santecroci, regole grammaticali) – di cui aveva conservato la privativa –, ai materiali burocratici (bollette, bandi, editti, notificazioni, calendari, lunari), richiesti dalla comunità in cambio delle provvigioni, e alla pubblicistica d’occasione di più ampio smercio. Date le caratteristiche di consumo e di conservazione precaria di tali tipologie letterarie e librarie, si sono conservate solo rarissime testimonianze dei suoi prodotti. Isabella Sabini Gestì con il marito Agostino, a cui subentrò dopo la morte nel 1606, l’antica e avviata libreria di Loreto appartenuta al suocero Claudio e situata lungo la strada che conduceva alla chiesa, in posizione strategica per l’esercizio del commercio di oggetti religiosi – non solo di libri – rivolto ai pellegrini del santuario, fortemente aumentati dopo i giubilei del 1575 e del 1600 fino a raggiungere il numero di 100.000 l’anno. 3 La sua decisa autonomia di editrice è testimoniata già dalla sottoscrizione « Ad istanza di Isabella Sabina librara in Loreto » che compare nel 1600 – Agostino ancora vivo – nella nuova edizione dell’Historia dell’origine, e translatione della Santa Casa della B. Vergine Maria di Loreto del gesuita Orazio Torsellini, accresciuta da Bartolomeo Zucchi e da lui dedicata al card. Antonio Maria Gallo, vescovo di Osimo, fatta stampare a Venezia da Domenico Imberti, mentre il marito nello stesso anno si rivolgeva a Sebastiano Martellini di Macerata per la stampa di un altro tradizionale long seller lauretano, la Historia della traslatione della S. Casa di Girolamo Angelita. Dopo la vedovanza Isabella proseguì l’attività almeno fino al 1629 promuovendo ripetute ristampe delle opere dell’Angelita e del Torsellini, sempre commissionate ai tipografi veneziani – agli Imberti su tutti –, quasi a rivendicare le origini veneziane dei Sabini e a  



1   Maria Cristina Misiti, Le confraternite dei librai e stampatori a Roma, « Rivista storica del Lazio », vii (1999), n. 10, pp. 29-55. 2   Il 1615 è l’anno a cui risale l’ultimo pagamento da parte del Comune dell’affitto della casa con bottega, in cui i Giubari abitavano. Notizie sparse in Giulio Gabrielli, La stampa in Ascoli Piceno, « Il bibliofilo », i (1880), n. 8-9, pp. 126-127 ; Id., Bibliografia storica marchigiana : Ascoli Piceno, « Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le Marche », ii (1896), pp. 131-191 ; Id., Tipografia ascolana, in *L’istruzione nella provincia di Ascoli Piceno dai tempi più antichi ai giorni nostri. Notizie, tavole statistiche e documenti, raccolti ed ordinati [...] dal Prof. Giuseppe Castelli, Ascoli Piceno, Cardi, 1899, pp. 351-361 ; G. Fabiani, Ascoli nel Cinquecento ..., cit., pp. 298-299. 3   Alberto D’Antonio, Il movimento peregrinatorio verso Loreto nei secoli xvi e xvii, in *La via lauretana, a cura di Giuseppe Avarucci, Loreto, Congregazione universale della Santa Casa, 1998, pp. 9-139. I librai lauretani erano chiamati anche ‘paternostrai’ o ‘coronari’ dalle corone del rosario che dal xvi secolo costituirono una caratteristica saliente dell’artigianato lauretano. Lungo la via principale di accesso al santuario numerosi erano i fabbricanti e venditori di questi oggetti sacri, tanto che la strada era denominata ‘Via dei Coronari’. Sulle problematiche devozionali, economiche e sociali connesse al pellegrinaggio si vedano anche Floriano Grimaldi, Pellegrini e pellegrinaggi a Loreto nei secoli xiv-xviii [S. l., s. n.], stampa 2001 (Suppl. a « Bollettino storico della città di Foligno », 2) ; Pellegrini verso Loreto. Atti del Convegno ‘Pellegrini e pellegrinaggi a Loreto nei secoli xv-xviii’ (Loreto, 8-10 novembre 2001), Ancona, Deputazione di storia patria per le Marche, 2003.  

























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differenziarsi dal marito che si era affidato prevalentemente agli stampatori dei centri marchigiani limitrofi. 1 Instaurò anche un rapporto diretto e continuativo con i responsabili del santuario, i cui registri contabili documentano frequenti forniture di carta e di libri, nonché lavori di legatura e di ‘restauro’ di libri in uso nella chiesa per le cerimonie liturgiche e le pratiche devozionali. 2 Diana Salvioni Figlia di Francesco e sorella di Pietro e di Marco jr, sposò il libraio veneto Francesco Manolessi che aveva bottega in Ancona nei pressi di Santa Maria di Piazza – cuore cittadino degli affari –, mediante la quale nei primi decenni del secolo xvii svolse un significativo ruolo di intermediazione tra gli ambienti culturali ed editoriali veneziani e marchigiani. La collaborazione e il sostegno della cerchia parentale coesa dei Salvioni che, pur distribuita in varie piazze, operò in stretta sinergia, permisero a Diana di proseguire dal 1620, insieme ai figli Giovanni Antonio e Carlo, l’attività del marito almeno fino al 1630 quando la si trova ancora, insieme ai fratelli, attrice di una procedura per l’emissione di lettere di cambio a Venezia. 3 Mediante l’accorta costruzione di una rete strategica di patronage con gli ambienti del potere laico ed ecclesiastico cittadino, la sagace politica matrimoniale, la diversificazione delle attività commerciali e gli investimenti nei beni immobiliari, la famiglia Salvioni acquisì nella realtà anconitana una salda e duratura posizione patrimoniale e di prestigio sociale nelle cui dinamiche le donne svolsero un ruolo determinante, soprattutto in veste di tutrici dei figli : da Diana, all’origine della dinastia, ad Anna Baldi, vedova di Giovanni Battista figlio di Marco, che nel 1707-1708 curò gli interessi degli « Eredi Salvioni », fino a Giovanna, figlia di Domenico e ultima esponente della famiglia, che negli anni Sessanta del Settecento era proprietaria del palazzo Salvioni e ancora attiva in operazioni commerciali e immobiliari. 4  





Lorrena (o Laura) e Olimpia Commandino Figlie di Federico, illustre matematico e medico urbinate, editore e traduttore di testi scientifici classici. Dopo aver allestito una tipografia a Pesaro nel 1572, gestita da Camillo Franceschini, mediante la quale realizzò la stampa di Euclide e Aristarco, Commandino chiese ed ottenne dal duca Francesco Maria II della Rovere il permesso di trasferire « la stamperia nella sua propria casa in Urbino », in cui trasportò il corredo tipografico e iconografico di gran pregio del laboratorio pesarese e che affidò alla gestione di Domenico Frisolino. Le edizioni da lui promosse nel 1575 recano la sottoscrizione « stampato in Urbino in casa del Commandino ». 5 Alla sua morte, avvenuta nello stesso anno, le eredi Lorrena e Olimpia intesero investire sull’impresa paterna e affittarono ripetutamente la « domum, detta la stamparia cum omnibus instrumentis aptis ad imprimendum », dapprima al veneziano Battista Bartoli (1577) che per alcune pubblicazioni fu finanziato dal mercante urbinate Pierpaolo Lolli, poi a Olivo Cesano (1578-1584) e infine a Paolo Tartarini (1585-1587), tipografi abili ma privi del capitale necessario per sostenere gli oneri finanziari dell’attivi 











1   Floriano Grimaldi, Il libro lauretano, secoli, xv-xviii [Macerata], Diocesi di Macerata, Tolentino, Recanati, 2   Ivi, p. 125. Cingoli, Treia, 1994, pp. 123-125, 141-173. 3   F. M. Giochi, A. Mordenti, Annali della tipografia in Ancona, 1512-1799 ..., cit., pp. liii-liv. La diversificazione degli investimenti patrimoniali era strategia diffusa nell’aristocrazia mercantile, come mostra Augusta Palombarini, I mercanti e la terra nel Cinquecento : la peculiarità anconetana, « Proposte e ricerche », 27 (1991), pp. 25-30, che argomenta con gli esempi di Stefano Benincasa e Antonio Trionfi. 4   F. M. Giochi, A. Mordenti, Annali della tipografia in Ancona, 1512-1799 ..., cit., pp. lv-lviii. 5   Luigi Moranti, L’arte tipografica in Urbino (1493-1800). Con appendice di documenti e annali, Firenze, Olschki, 1967, pp. 11-13, 103-106, 190-191.  





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tà imprenditoriale. Le gestioni si rivelarono instabili e fallimentari fino all’arrivo nel 1587 dei fratelli Bartolomeo e Simone Ragusi che seppero far prosperare l’azienda e rilevarne la proprietà dalle sorelle Commandino. È interessante osservare, tuttavia, come anche le sorti successive dell’impresa ragusiana siano legate alle scelte delle esponenti femminili della famiglia. I Ragusi, infatti, proseguirono l’attività fino al 1617, allorché Simone, pur restandone proprietario, cedette la conduzione dell’azienda ad Alessandro Corvini, marito della figlia Margherita. All’improvvisa morte di questi, avvenuta a soli 24 anni nel 1624, la giovane vedova, impossibilitata a gestirla, ne decise la vendita a Marcantonio Mazzantini che la condusse con alterne vicende fin verso la fine del secolo. 1 Nonostante le preclusioni sociali e normative, i silenzi o la difficile reperibilità della documentazione, alla luce delle indagini condotte negli ultimi anni, la presenza femminile nelle professioni del libro sta emergendo cospicua e apre scenari interpretativi nuovi sulla intraprendenza delle donne, sulla loro capacità di inserirsi nelle dinamiche che le regolavano e sullo spazio da esse occupato nel sistema di relazioni parentali, professionali e clientelari, che le governavano. Tra queste dinamiche, naturalmente, fondamentale è anche il capitolo relativo alle strategie e alle alleanze matrimoniali, di cui si sono intraviste alcune emergenze ma che non è possibile affrontare in questa sede. Nascoste e invisibili – se visibili, negate –, allo stato attuale delle conoscenze, è difficile definire la misura e la qualità della loro incidenza ed è tuttora valido quanto scriveva Tiziana Plebani nel 2001 : « Una delle trame invisibili della storia del libro riguarda il lavoro femminile svolto nei vari campi della produzione e della circolazione dei testi. Corpi assenti, fatiche, speranze, imprese, denari, non accolti sinora nella narrazione ». 2 Pare di poter dire che si è di fronte a un vuoto storiografico affollato di esistenze in cui un solo dato è sicuro : pur senza rivendicazioni preconcette di specificità femminile, il mondo del libro, nelle grandi come nelle piccole realtà, non è stato solo un affare di uomini, ma anche di donne e, più propriamente, di famiglie. 3  







Università degli Studi di Macerata Il lavoro delle donne, che nel medioevo avevano acquisito visibilità – e non di rado anche margini di autonomia – nelle imprese artigianali familiari, nella prima età moderna subì un radicale ridimensionamento ad opera dell’irrigidimento degli statuti delle arti corporative che vietarono loro l’accesso e del mutato codice del ruolo femminile circoscritto quasi esclusivamente all’ambito domestico o monastico. Nonostante i silenzi della documentazione e la disattenzione degli studi, la presenza femminile nelle professioni del libro si rivela cospicua e apre scenari interpretativi di ampio respiro sui contesti lavorativi, sulle reti e le strategie di relazioni personali e professionali che videro le donne in vario modo protagoniste, comprimarie o collaboratrici discrete e attive dietro ‘le quinte’. Allo stato attuale delle conoscenze, è difficile definire la misura della loro incidenza ma, di certo, il mondo del libro è ben lungi dall’essere esclusivamente maschile. In tale prospettiva vengono esaminate le fattispecie, eguali e diverse, dell’operato di alcune donne che, nella Marca Anconitana di fine Cinquecento e inizio Seicento, collaborarono con i mariti o subentrarono ad essi nella gestione dell’azienda familiare. 1   Maria Moranti, Commandino, Federico, in *Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento ..., cit., pp. 315-316 ; Ead., La produzione tipografica urbinate, in *« Collectio thesauri ». Dalle Marche tesori nascosti di un collezionismo illustre. L’arte tipografica dal xv al xix secolo ..., cit., pp. 143-149. 2   T. Plebani, Il « genere » dei libri ..., cit., p. 164. 3   « On ne peut pas mesurer le poids des femmes dans l’ensemble du commerce, mais le monde du livre est très loin d’être exclusivement masculin » : Robert Darnton, Nouvelles pistes en histoire du livre, « Revue française d’histoire du livre », lxv (1996), n. 90-91 (pp. 173-180), p. 180.  



















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The work of women, who in the Middle Ages had acquired visibility – and fairly often some independence too – in family-run small businesses, was dramatically reduced in the early modern age by a clampdown in the charters of the guilds, that banned them from such trades, and by the new code of female roles, almost solely limited to the home or monastic domains. Despite the silence of documentation and the lack of attention of literature, there was a widespread presence of women in literary professions which opens far-ranging perspectives on the professional scenarios and the personal and professional relational networks and strategies that saw women somehow or other as the protagonists or second leads or discreet and active behind-the-scenes players. As far as we know, the extent of their influence cannot be defined for sure, but certainly the literary world is far from being a male-dominated world. This is the perspective used to look at similar and different types of works of some women who in the Marca Anconitana of the late 16th and early 17th century helped their husbands or replaced them in the running of their businesses. Le travail des femmes qui, au Moyen-Âge avaient acquis une certaine visibilité – et parfois même des marges d’autonomie – dans les entreprises familiales, subit au début de l’époque moderne un radical redimensionnement du fait du durcissement des statuts des arts corporatifs qui leur interdissent l’accès et du nouveau code du rôle féminin circonscrit presque exclusivement au cadre domestique ou monastique. Malgré les silences de la documentation et la distraction des études menées, la présence féminine dans les professions du livre se révèle importante et ouvre des scénarios interprétatifs de longue haleine sur les contextes de travail, sur les réseaux et les stratégies de relations personnelles et professionnelles qui virent les femmes de différentes façon protagonistes, second rôle ou collaboratrices discrètes et actives derrière ‘les coulisses’. À l’état actuel des connaissances, il est difficile de définir la mesure de leur incidence mais, pour sûr, le monde du livre est bien loin de n’être que masculin. Dans cette optique sont examinées les caractéristiques, égales ou diverses, du travail de certaines femmes qui, dans la Marca Anconitana de la fin du xvi et du début du xvii siècle, collaborèrent avec leurs maris ou prirent leur place dans la gestion de l’entreprise familiale. Durante la primera parte de la edad moderna, el trabajo de las mujeres en los talleres artesanales familiares –que en la edad media habían conquistado un poco de notoriedad y frecuentemente también de autonomía –sufrió un reajuste radical a causa del nuevo rigor de los estatutos de las artes corporativas que le prohibieron el acceso. El nuevo código que regulaba el papel femenino, lo circunscribía casi exclusivamente al ámbito doméstico o monástico. A pesar de la falta de documentación y de estudios específicos sobre el tema, la presencia de la mujer en las profesiones relacionadas con el libro se revela conspicua y abre nuevas posibilidades de interpretación de las relaciones personales y profesionales que vieron a las mujeres protagonistas, cotitulares o válidas y activas colaboradoras “desde la sombra”. Con los conocimientos que tenemos actualmente, es difícil definir en qué medida tuvieron importancia, pero lo que sí se puede afirmar es que el mundo del libro no fue exclusivamente masculino. Desde esta perspectiva se examinan algunos casos, comunes o no, de la labor desarrollada por algunas mujeres que, a finales del siglo xvi y principios del siglo xvii, colaboraron con sus maridos o entraron a formar parte de las actividades familiares en la Marca Anconitana. Die Arbeit der Frauen, die im Mittelalter in den familiengeführten Handwerksbetrieben Sichtbarkeit – und nicht selten auch etwas Autonomie – erreicht hatten, erlitt, auf Grund der Erstarrung der Satzungen der in Ständen organisierten Handwerker, zu Anfang des modernen Zeitalters ein radikale Einschränkung, da diese ihnen den Zugang verwehrten. Gleichzeitig umschrieb der geänderte Kodex der weiblichen Rolle diese fast ausschließlich auf den häuslichen oder klösterlichen Bereich. Trotz des Schweigens der Dokumentation und der Missachtung der Forschung zeigt sich eine beträchtliche weibliche Präsenz in den Berufen des Buches und öffnet weit auslegbare Szenarien in Bezug auf die Arbeitszusammenhänge, die Vernetzung und Strategien persönlicher und beruflicher Verhältnisse, in denen die Frauen auf verschieden Weise als Hauptfiguren, wichtige Nebendarstellerinnen oder diskrete und hinter der Bühne tätige Mitarbeiterinnen tätig waren. Mit

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rosa marisa borraccini

dem aktuellen Kenntnisstand ist es schwer das Ausmaß ihrer Auswirkungen festzulegen, sicher ist, dass das Buch weit davon entfernt ist ausschließlich männlich zu sein. Aus diesem Blickwinkel werden die Sachverhalte, gleiche oder unterschiedliche, der Werke einiger Frauen untersucht, die in der Marca Anconitana am Ende des sechzehnten und Anfang des siebzehnten Jahrhunderts mit den Ehemännern zusammenarbeiteten oder nach diesen die Verwaltung des Familienbetriebs übernahmen.

PROFILI BIO-BIBLIOGRAFICI Michèle Benaiteau dal 1975 al 1984 è contrattista poi ricercatrice presso l’Università di Salerno ; dal 2004 è professore associato di Storia Moderna presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Ha svolto ricerche in particolare sulla storia del Mezzogiorno. Tra le sue pubblicazioni più recenti : Vassalli e cittadini. La signoria rurale nel regno di Napoli dal xi al xviii secolo, Bari, Edipuglia, 1997 ; Potere politico e informazione nel Seicento. Lineamenti di una ricerca in *Filosofia Storiografia e Letteratura. Studi in onore di Mario Agrimi, a cura di Bernardo Razzotti, Lanciano, Itinerari, 2001 ; Communication postale et cosmopolitisme au xviiie siècle, in *L’idea di cosmopolitismo. Circolazione e metamorfosi, a cura di Lorenzo Bianchi, Napoli, Liguori, 2002 ; Quelques notes à propos d’un classique, “La Terre et l’Evolution humaine” (1920) de Lucien Febvre. Dialogues entre les sciences de la nature et l’historiographie, in *Natura e Storia, a cura di Lorenzo Bianchi, Napoli, Liguori, 2005 ; Sulle orme dei Guardati, nobili cavalieri del sedile di Porta della città di Sorrento tra ’500 e ’700 in *I Guardati, storia di una famiglia, 1181-1997, Napoli, Guardati, 2006 ; Note su Esprit Raimond de Mormoiron comte de Modène, autore dell’Histoire des Révolutions de la Ville et Royaume de Naples, in *Tra Res e Imago. In memoria di Augusto Placanica, a cura di Mirella Mafrici e Maria Rosaria Pelizzari, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.  













Concetta Bianca è professore ordinario di Letteratura umanistica presso l’Università degli Studi di Firenze e fa parte del Collegio docenti del “Dottorato in Storia e tradizione dei testi nel Medioevo e nel Rinascimento” presso il Dipartimento di Studi sul Medioevo e il Rinascimento, di cui è stata direttore dal 2001 al 2007. Dalla partecipazione a numerosi convegni nazionali e internazionali emergono gli studi dedicati ad umanisti del Quattrocento (Filelfo, Fonzio, Poliziano), le ricerche sull’umanesimo romano e curiale, l’attenzione per la storia delle biblioteche intese come fonte di ricostruzione (Bessarione, Cusano, Andrea Matteo Acquaviva) e per la storia della stampa come segno della nascita della filologia. Rosa Marisa Borraccini è docente di Storia del libro e dell’editoria e di Storia delle biblioteche nella Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Macerata. Gli ambiti di ricerca riguardano le problematiche inerenti le forme di produzione e di circolazione del libro e i modi e le sedi della sua fruizione e conservazione. Oggetto prevalente di indagine sono state l’origine e la diffusione della stampa, la circolazione libraria e la formazione di biblioteche pubbliche e private dal medioevo all’età contemporanea. Negli ultimi anni ha riservato particolare attenzione allo studio delle complesse problematiche relative all’indagine della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti (15971603) sulle biblioteche degli Ordini religiosi italiani restituita dai Codici Vaticani Latini 11266-11326. Corinna Bottiglieri è dottore di ricerca in filologia latina medievale, si è formata alle Università di Salerno, Firenze e Heidelberg. È stata borsista post-dottorato presso la Fondazione « Franceschini » a Firenze e la Freie Universität di Berlino, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Latinità e Medioevo dell’Università di Salerno, docente a contratto di « Lingua e letteratura latina medievale » presso l’Università di Roma “La Sapienza” - Scuola Speciale Archivisti e Bibliotecari ; è attualmente docente a contratto di Letteratura latina medievale presso la Friedrich-Alexander Universität di Erlangen-Nürnberg. Collabora ai progetti internazionali « Medioevo latino », « Corpus rhythmorum », « La trasmissione dei testi latini del medioevo », « Expertise des textes mérovingiens ». Ha pubblicato studi su testi poetici e agiografici medievali, sulla scuola carolingia di Saint-Amand, sulla poesia ritmica latina, sulla letteratura di età normanna in Italia meridionale, su Elisabetta Gonzaga, sul medico salernitano del xiv secolo Matteo Silvatico. Tra le sue pubblicazioni : Milone di Saint-Amand, Vita sancti Amandi metrica. Edizione critica e commento, Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo, 2006 ; Die Normannen in der süditalienischen Literatur des xi. Jahrhunderts. Einige Beispiele aus Montecassino und Salerno, in Integration und Desintegration der Kulturen im europäischen Mittelalter, hg. von M. Borgolte-B. Schneidmüller, Berlin, Akademie, 2009 ; Le Pandette di Matteo Silvatico dalla corte di Roberto d’Angiò alla prima edizione a stampa [Napoli 1473], in Farmacopea antica e  































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medievale. Incontro internazionale di studio, Salerno, 2009, pp. 251-268 ; Elisabetta Gonzaga, in Frauen der italienischen Renaissance, hg. von I. Osols-Wehden, Darmstadt, Wissenschaftliche BuchgesellschaftPrimus, 1999, pp. 197-210.  

Daniela Castelli si è laureata in Filosofia nel 2001 presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. In seguito, presso la stessa Università, ha conseguito il Dottorato in “Filosofia e Politica”, discutendo una tesi su Il naturalismo di Simone Porzio. Tra aristotelismo, ricerca empirica e comunicazione scientifica, sotto la direzione del prof. Lorenzo Bianchi. Nel suo lavoro di ricerca ha operato un attento bilancio degli studi su Simone Porzio approntando l’edizione critica di alcuni manoscritti, tra cui il De’ sensi e il Del sentire (Biblioteca Nazionale di Napoli, mss. Branc. V. D. 1317), pubblicati nelle pagine del « Giornale critico della filosofia italiana » (ii, 2008). È stata borsista nel 2008 presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, formalizzando gli esiti delle sue indagini sul naturalismo in alcuni articoli apparsi su riviste nazionali e internazionali. Partecipa dal 2005 ad oggi alle ricerche prin, dirette e coordinate dal prof. Lorenzo Bianchi su Filosofia e scienza della natura tra Rinascimento e età moderna ; al momento prosegue le ricerche su Porzio mettendone in rapporto l’aristotelismo con le diverse e singolari indagini empiriche del xvi secolo. Tra aristotelismo naturalismo e critica : Note in margine a Simone Porzio, in Critica e ragione/Critique et raison, Atti del Convegno internazionale (Napoli 14-15 novembre 2008), in corso di stampa 2009 ; Simone Porzio. L’‘Epistola’ sul Monte Nuovo e l’inedito volgarizzamento di Stefano Breventano, « Archivio Storico per le Province Napoletane », cxxvi, 2008, pp. 107-135 ; Il ‘De’ sensi’ e il ‘Del sentire’ di Simone Porzio : due mss. ritrovati, « Giornale critico della filosofia italiana », lxxxvii (lxxxix), ii, 2008, pp. 255-280 ; Un bilancio storiografico : il caso Porzio, « Bruniana & Campanelliana », xiv, 1, 2008, pp. 163-177 ; Tra ricerca empirica e osservazione scientifica : gli studi ittiologici di Simone Porzio, « Archives internationales d’histoire des sciences », lvii, n. 158, 2007, pp.105-123 ; Simone Porzio e il ‘De puella germanica’ : l’‘inedia’ mirabile di una fanciulla tedesca,« Studi filosofici », xxx, 2007, pp. 71-89 ; Sul ‘De rerum natura’ di Bernardino Telesio. Edizioni e studi, « Studi filosofici », xxvii, 2004, pp. 301-306.  



















































Michele Cataudella è libero docente di letteratura italiana, poi incaricato di storia della lingua italiana quindi professore di letteratura italiana nei ruoli dell’Università degli Studi di Salerno. Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, membro del consiglio scientifico dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, membro dell’Istituto per gli Studi sul xviii sec. Direttore della collana di letteratura dell’esi di Napoli, autore di seminari di italianistica presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Ha lavorato nell’ambito del Rinascimento meridionale e italiano, studiando personalità di autori, caratteri di temi (Masuccio Salernitano, Francesco del Tuppo, Alessandro d’Alessandro, Paolo Giovio, Pietro Aretino, Torquato Tasso) e caratteri propri e diversi del Rinascimento meridionale. Ha lavorato inoltre nell’ambito della cultura e della letteratura dell’illuminismo e dell’antilluminismo (Parini, Gasparo Gozzi, le scritture autobiografiche di Pagano, Genovesi, Filangieri, e ancora Jerocades e Scrofani) e poi sull’Ottocento (Foscolo, Leopardi, Settembrini, Manzoni, De Sanctis) con alcune incursioni nel Novecento (Malaparte, Rebora, Bonaviri, ed altri). Ha pubblicato, oltre a numerosi saggi di critica letteraria, l’edizione critica delle Memorie politiche di Niccolò Tommaseo (Roma, Storia e letteratura, 1974), Le prose narrative dello stesso Tommaseo (Milano, Longanesi 1979), l’edizione critica del Sognatore italiano di Gasparo Gozzi nella scelta di curiosità letterarie inedite e rare (Bologna Commissione per i testi di lingua 1982), Vitarum pars prior di Paolo Giovio nell’edizione Nazionale (Roma, Libreria dello stato, 1985). Il suo lavoro si è sempre caratterizzato, anche nei suoi momenti di indagine filologica, come interpretazione scaturita anche dall’elemento culturale e di gusto rintracciabile all’interno della stessa scrittura letteraria. Aurelio Cernigliaro è ordinario di Storia della giustizia nell’Università fridericiana di Napoli, ove insegna altresì Storia del diritto medievale e moderno e Diritto comune. I suoi interessi scientifici, incentrati fin dagli inizi sulla ‘sovranità’ (Sovranità e feudo nel Regno di Napoli. 1505-1557, 1983 ; Patriae leges privatae rationes, 1988), si sono di recente focalizzati sul ‘confronto’ Stato-Chiesa (La Costituzione Praedecessorum nostrorum, 2004-’05 ; La ‘polizia del Regno’ per moderare la manomorta ecclesiastica, 2006 ; Le radici. Rileggendo La politica e il diritto cristiano di M. D’Azeglio,  





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2009 ; La rivolta napoletana del 1547 contro l’Inquisizione, 2010), sulla giustizia (Libertà di stampa e “teoria psicologica della diffamazione”, 2002 ; “Difendere il cittadino dall’insulto, più che vendicarlo dall’offesa”, 2007 ; Sviluppi semantici del concetto di ordine pubblico, 2007 ; Themis. Tra le pieghe della giustizia, 2009 ; Dall’età dei diritti, all’età dei doveri, 2009), sulle fonti antiche e moderne (Assise di Capua e Edictum De resignandis privilegiis, 2005 ; Civitas et Insula de Yscla, 2006 ; Razionalismo e coordinamento sistematico, 2007), sulla storiografia (F. Ciccaglione. Tra scuola storica e storicismo, 2009). Componente di tre Collegi di dottorato, Coordinatore di numerosi progetti nazionali di ricerca (2000, 2002, 2006), dirige da solo o con altri studiosi alcune Collane e riviste storiche.  













Maria Conforti è responsabile della biblioteca di Storia della Medicina della “Sapienza”, Università di Roma. È book review editor della rivista Nuncius. Ha lavorato sulla storia della cultura italiana del Seicento, con particolare riguardo alla storia della medicina e della scienza. Tra le pubblicazioni recenti, Medicine, History and Religion in Naples in the 17th and 18th centuries, in *Medicine and rEligion in Enlightenment Europe, ed. by O. P. Grell and A. Cunningham, Aldershot, Ashgate, 2007. Françoise Decroisette è professore ordinario all’Università di Paris 8, dove insegna storia del teatro e dell’opera italiani, dal Seicento all’Ottocento, e dirige un centro di ricerca sulla storia e le pratiche dello spettacolo vivo nei paesi di lingue romanze. Tra le sue pubblicazioni, si possono notare Venise aux temps de Goldoni (1998) ; e diverse raccolte dei lavori del suo centro di ricerca : Le Théâtre réfléchi. Poétiques théâtrales italiennes des Intronati a Pasolini (2004) ; Les traces du spectateur dans le théâtre et l’opéra italiens (2006), Aux frontières de la littérature : études sur le statut littéraire du livret d’opéra italien (xviie -xixe siècles) (2010). Come traduttrice, ha tradotto in francese l’integrale de Il Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile (Le Conte des contes, 20042), e diverse commedie di Goldoni (La Villégiature, L’Ecole de danse, Le Véritable ami, Le Serviteur de deux maîtres), e di Carlo Gozzi (L’augelin belverde). Ha diretto la nuova traduzione francese integrale delle Memorie inutili di Carlo Gozzi, traduzione collettiva di prossima pubblicazione (2010).  







Domenico Defilippis è professore ordinario di Letteratura italiana presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Foggia. Insegna Letteratura italiana nel Corso di laurea triennale di Scienze della Formazione e Metologia della letteratura italiana nel Corso di laurea magistrale in Filologia moderna del Corso di laurea in Lettere. Ha prevalentemente orientato la sua attività di ricerca, all’interno dell’ambito della Letteratura Italiana, sulla produzione dell’età umanistica e rinascimentale prestando particolare attenzione all’area meridionale, senza tuttavia tralasciare di compiere frequenti incursioni su autori e opere di altri ambienti, nazionali ed europei. Tra i suoi lavori si segnalano, in particolare, la moderna edizione del De situ Iapygiae dell’umanista salentino Antonio Galateo, pubblicata a Galatina dall’editore Congedo nel 2005 ; La rinascita della corografia tra scienza ed erudizione (Bari, Adriatica editrice, 2001), monografia nella quale all’esame delle codificate teorie cosmografiche e della loro moderna riscrittura si affianca la riflessione sull’evoluzione del genere corografico tra xv e xvi secolo ; Riscritture del Rinascimento (Bari, Adriatica, 2005), studio che analizza la fortuna di alcuni classici della letteratura greco-latina e di quella umanistica nel Cinquecento e la fortuna, tra Otto e Novecento, di autori, generi, tematiche e figure tipiche della civiltà cortigiana, segnatamente nell’opera di Leopardi e nelle riviste pugliesi della prima metà del xx secolo ; Tradizione umanistica e cultura nobiliare nell’opera di Belisario Acquaviva. Gli opuscoli pedagogici del Conte di Conversano e Duca di Nardò (Galatina, Congedo, 1994), lavoro dedicato all’indagine critica e interpretativa delle opere pedagogiche di un barone-letterato del Regno di Napoli, Belisario Acquaviva, Conte di Conversano e Duca di Nardò. I suoi più recenti interessi sono rivolti all’evoluzione della scrittura di viaggio tra Medioevo e Rinascimento all’interno di una più ampia rivisitazione dei parametri che sovrintendono alla scrittura storiografica e corografica. In tale ambito coordina un gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze umane impegnato nella pubblicazione di testi odeporici all’interno del progetto viaggiadr, promosso dal Centro Internazionale Interuniversitario di Studi sul Viaggio Adriatico, di cui è il referente per l’Ateneo foggiano.  





Tonia Fiorino, formatasi alla scuola di Salvatore Battaglia e di Mario Santoro, è diventata professore associato alla cattedra di Sociologia della letteratura nel 1983 presso il Dipartimento di Filo-

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logia Moderna dell’Università “Federico II” di Napoli. Per quanto riguarda l’attività scientifica si è interessata prima della scuola siciliana (Metri e temi della scuola siciliana, Napoli, Liguori, 1969) e della narrativa tra ’800 e ’900 con particolare riguardo a Mario Pratesi e Marino Moretti (ai quali sono stati dedicati vari articoli e il volume Moretti in diacronia del 1974), in seguito del rapporto tra intellettuali e potere e del dibattito sul romanzo nel ’700. Con l’associazione in Sociologia della letteratura ha spostato le sue ricerche verso oggetti più pertinenti questa disciplina come la sua definizione teorica, la pubblicistica femminile e l’evoluzione delle regole familiari nella narrativa ottocentesca (tematiche rifluite in Rifrazioni dal reale del 1992). Lo studio delle donne intellettuali ha portato ad interventi sulla scrittura femminile dal Medioevo ai nostri giorni (come Dhuoda, Rosvita, Isabella Pignatelli, Anna Maria Ortese ed altre). Ha anche approfondito aspetti metodologici della teoria della ricezione e conseguentemente problematiche legate alla lettura (Il testo fra autore e lettore del 2003) ; ha curato con Franco Carmelo Greco Eduardo 2000 del 2000 ; con Nicola De Blasi Eduardo De Filippo scrittore del 2004 ; con Vincenzo Pacelli santi a teatro del 2006. Attualmente è in preparazione il secondo volume de Il testo fra autore e lettore.  





Francesco Guardiani si è laureato in lingue e letterature straniere presso l’Università di Pescara con una tesi dal titolo “La critica archetipica di Northrop Frye”. Ha conseguito presso l’Università di Toronto un M. A. in letteratura comparata ed un Ph.D. in italiano discutendo una tesi dal titolo La meravigliosa retorica dell’Adone di G. B. Marino. È Full Professor presso il Dept. of Italian Studies, University of Toronto, Cross-Appointed Professor / McLuhan Program, University of Toronto, Cross-Appointed Professor / St. Michael’s College, University of Toronto. Sue principali pubblicazioni sono : La meravigliosa retorica dell’“Adone” di G. B. Marino, Firenze, Olschki, 1989 ; In prospettiva : Letteratura italiana dalle origini all’ultimo Novecento. New York-Ottawa-Toronto, Legas, 1999, pp. 289 ; Ed. Lectura Marini, venti saggi di diversi sui venti canti dell’Adone, Ottawa, Dovehouse, 1989 ; Ed. New Italian Fiction, numero speciale di « The Review of Contemporary Fiction », autunno 1992. Presentazione di 14 scrittori italiani : profili biobibliografici, interviste, traduzioni ; Ed. The Sense of Marino : Literature Fine Arts and Music of the Italian Baroque. Ottawa-New York-Toronto, Legas, 1994 ; Ed. Going for Baroque : Cultural Transformations 1550-1650. Ottawa-New York-Toronto, Legas, 1999 ; Ed. Medievalism : The Future of the Past, Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, New York-OttawaToronto, Legas, 2000, pp. 204 ; Ed. Paolo Cherchi, L’alambicco in biblioteca : distillati rari, a cura di Francesco Guardiani, Emilio Speciale, Ravenna, Longo, 2000, pp. 374 ; Ed. Saints and the Sacred, Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, Giulio Silano, Select Proceedings of the 3rd St. Michael’s College Annual Symposium (February, 25-26, 2000), Ottawa, Legas, 2001, pp. 225 ; Ed. Mystics, Visions and Miracles, Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, Giulio Silano ; Select Proceedings of the 4th St. Michael’s College Annual Symposium (March 2-3, 2001), Ottawa, Legas, 2002, pp. 195 ; Ed. Limina :Thresholds and Borders, Conference Proceedings, Sixth St. Michael’s College Annual Symposium (February, 28-March 1, 2003), Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, Giluio Silano, Ottawa, Legas, 2005, pp. 206 ; Ed. Rule Makers and Rule Breakers, Conference Proceedings, Seventh St. Michael’s College Annual Symposium (October 1-2, 2004), Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, Giulio Silano, Ottawa, Legas, 2006, pp. 138 ; Ed. Weapons of Mass Instruction : Secular and Religious Institutions Teaching the World, Conference Proceedings, Eight St. Michael’s College Annual Symposium (November, 25-26, 2005), Eds. Joseph Goering, Francesco Guardiani, Giulio Silano, Ottawa, Legas, 2008, pp. 137 ; Ed. What’s Next ? Il lavoro dell’insegnante e le sue scelte nell’età dell’elettronica, Proceedings of a St. Michael’s College – Department of Italian Studies International Conference in the University of Toronto (October 21-24, 2008), Ed. Francesco Guardiani, Ottawa, Legas, 2009. « McLuhan Studies. Explorations in Culture and Communication », Associate Editor. Contributi vari (letteratura barocca, teoria della letteratura, Novecento) in « Esperienze letterarie », « Quaderni d’italianistica », « Critica letteraria », « Italica », « Il lettore di provincia », « Nuovi argomenti », « Rivista di estetica », « Italienisch », « Colloquium Helveticum », « McLuhan Studies », « The Review of Contemporary Fiction », « Symbolon », « Cenobio », « Allegoria », « Forum italicum ».  



















































































































Cettina Lenza è professore ordinario di Storia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura della Seconda Università di Napoli, dove insegna Storia delle teorie architettoniche. Per il quadriennio 2005/2009 è stata Preside e membro della giunta della Conferenza Nazionale dei Presidi.

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Tra i contributi riferiti al classicismo e neoclassicismo, si ricordano : Monumento e tipo nell’architettura neoclassica. L’opera di Pietro Valente nella cultura napoletana dell’Ottocento, Napoli 1997 ; Architettura medievale : etica, estetica e tecnica, in Dal Pantheon a Brunelleschi. Architettura costruzione tecnica, Napoli 2002 ; “Dell’Architettura” di Mario Gioffredo. Trattatistica ed editoria di pregio a Napoli nella seconda metà del Settecento, « Rara volumina », 1-2, 2002 ; Studio dell’antico e internazionalismo neoclassico. L’attività di Francesco La Vega nei cantieri vesuviani e la “fortuna” dei disegni, in Napoli-Spagna. Architettura e città nel xviii secolo, Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 2003 ; Il concorso per la Chiesa di S. Francesco di Paola : dibattito neoclassico e confronto di modelli tra Napoli e Roma, « Palladio », 33 (2004) ; Dal modello al rilievo. La villa di Poggioreale in una pianta della collezione di Pierre-Adrien Pâris, in « Napoli Nobilissima », 2004 ; Il ruolo dell’antiquaria al passaggio tra classicismo e neoclassicismo : il fenomeno dell’etruscheria, in Luigi Vanvitelli 1700-2000, Atti del Convegno Internazionale, Caserta, 2005 ; Canova e l’architettura neoclassica a Napoli tra Decennio francese e Restaurazione, in Antonio Canova. La cultura figurativa e letteraria dei grandi centri italiani, 2, Bassano del Grappa, 2006 ; L’architettura napoletana del classicismo nell’editoria artistica tra Sette e Ottocento, in Architettura del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento, Roma, 2008 ; Una testimonianza perduta della cultura neoclassica : l’opera inedita di Emanuele Ascione sui monumenti napoletani, in Architettura nella storia. Scritti in onore di Alfonso Gambardella, Milano, 2008 ; La riscoperta dell’architettura antica nel libro napoletano illustrato del Settecento ; tra testo e paratesto, « Paratesto », 6 (2009).  















































Mercedes López Suárez è docente di letteratura comparata nel dipartimento di Filologia iii della Facoltà di Scienze della Comunicazione (Università Complutense di Madrid). Vicepreside di ricerca presso questa facoltà. I suoi contributi in materia di letteratura comparata si rivolgono principalmente all’ambito della lirica del Cinquecento italo-spagnolo (Francisco de Figueroa. Poesia, Madrid, Cátedra, 1988 ; Tradición petrarquista y manierismo hispánico. De las antologías a Luis Martín de la Plaza, Univ. Málaga, 2009, oltre a diversi articoli sul madrigale). Si è occupata anche di letteratura moderna europea con diversi saggi su Baudelaire (co-autrice di Análisis de textos literarios. El autor y su contexto, Madrid, Síntesis, 1996), Calvino e Marguerite Yourcenar, e dell’interazione tra letteratura e media (Literatura y medios de comunicación, Madrid, Ediciones del Laberinto, 2008 oltre a diversi articoli sulla letteratura e la fotografia e sull’e-book). Ha partecipato ed è stata responsabile di progetti di ricerca, finanziati da diversi organismi nazionali (Ministero della Pubblica Istruzione, Governo regionale-La sociedad lectora madrileña en el siglo xix, 1999 ; Azioni Integrate Complutense-Univ. Di Pisa ; Acciones complementarias Ministerio de Educación-Universidad de Méjico San Luis de Potosí). Fa parte, in qualità di vocale del Consiglio della Sociedad de Literatura general y Comparada. Appartiene al gruppo di ricerca di studi rinascimentali (Grupo de Estudios de Siglo de Oror. Gelso) ed ha collaborato con riviste italiane (Paratesto ed Esperienze letterarie) ed enciclopedie nazionali come la Enciclopedia Cervantina.  





Flavia Luise è ricercatore confermato presso la cattedra di Storia moderna del Dipartimento di Discipline storiche, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Federico II” di Napoli, afferisce dal 2002 alla cattedra di Storia Moderna del corso triennale di Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali e dal 2006 a quella di Storia dell’editoria della laurea Magistrale in Storia della stessa università. Ha collaborato come docente sicsi per la disciplina di Didattica della storia e quella di Laboratorio di Storia Moderna, ed è stata docente di Storia dell’editoria nel master di secondo livello in Bibliografia e Biblioteconomia della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Federico II”. È responsabile dell’unità di Ricerca dell’Università Federico II nell’ambito del progetto cofinanziato del prin 2005 dal titolo “Cultura storico-antiquaria, politica e società nel Regno di Napoli (xvii-xviii secolo)”, il cui coordinatore nazionale è il prof. Antonio Coco. Ha collaborato al Dizionario Biografico degli Italiani per le voci di alcuni stampatori e letterati settecenteschi. I suoi principali temi di ricerca sono la storia della famiglia, la cultura e la sociabilità nel xviii secolo, la circolazione libraria nel Regno di Napoli in età moderna. Più recentemente ha approfondito lo studio sulla feudalità regnicola, sulle strategie patrimoniali delle grandi famiglie aristocratiche e sulla figura femminile nel Decennio francese. Ha pubblicato Librai-editori a Napoli nel xviii secolo. Michele e Gabriele Stasi e il circolo filangieriano, Napoli, Liguori, 2001 e I d’Avalos una grande famiglia aristocratica a Napoli nel Settecento, Napoli, Liguori, 2006.

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Nicoletta Mancinelli si è laureata presso l’Università “La Sapienza” di Roma in Dialettologia Greca con una tesi dal titolo “Tradizione epica e dialetto epicorico in Corinna. Analisi del P..Berol. 284” (2000). In seguito si è specializza in Conservazione di Manoscritti presso la ssab con una tesi in Paleografia Greca dal titolo Scritture greche a Parigi nel xvi sec. Casanat. 1416 (2003). Ha catalogato materiale bibliografico antico (xvii sec.) presso la bncr di Roma, (2001-2003), e presso l’iccu in Roma per la base dati edit16 (2003-2006). Ha contribuito all’apertura della Biblioteca-Archivio del convento S. Giacomo alla Lungara in Roma dove ha catalogato e inventariato parte del materiale bibliografico antico (xvi-xix sec.) ivi custodito (2006 e 2008). Ha catalogato materiale bibliografico moderno presso l’unicef (2006), il Centro Regionale di Documentazione (2006-2007), la Casa dei Teatri in Roma (2008) etc. Ha recensito l’antologia Il senso narrante. Pagine di narrativa italiana 19002008, annotate per lettori stranieri per la rivista « Esperienze letterarie » (anno 2009, 2). Ha partecipato ai convegni “Idee di Spazio” presso l’unistrasi con un intervento dal titolo Lo Spleen di Roma. Imago Urbis e percezione dello spazio in Vincenzo Cardarelli (2008) e “Gli sguardi degli altri. Oggetti da viaggio e immagini d’identità della Tuscia” presso l’unitus, con un intervento dal titolo Il bagaglio dell’attore nella Commedia dell’Arte. Strumenti del mestiere ed emblemi d’identità (2009). Attualmente svolge il Dottorato di Ricerca (xxii ciclo) presso l’unistrasi occupandosi della caratterizzazione dei personaggi femminili di Boccaccio, della commedia del ’500 e di Giovan Battista Andreini.  



Luciana Mocciola è dottore di ricerca in Storia dell’Arte. Nel marzo 2009 ha discusso una tesi su La committenza artistica di Carlo e Margherita d’Angiò Durazzo (1381-1412), in co-tutela tra l’Università di Napoli “Federico II” e l’Université di Lille iii “Charles de Gaulle”. La sua attività di ricerca si è concentrata sui problemi di committenza legati agli ultimi sovrani angioini nel Regno di Sicilia, da Carlo III a Renato d’Angiò, e sulle trasformazioni novecentesche dei monumenti funerari napoletani del Tardo Medioevo. Dal 2009 è membro dell’irhis (Institut de Recherches Historiques du Septentrion dell’Università di Lille iii). Borsista del Francis Haskell Fund, è attualmente impegnata nello studio dei disegni realizzati da Charles Garnier (1848-1854) sulle tombe durazzesche, conservati all’Ecole Nationale des Beaux-Arts di Parigi. Giovanni Muto è professore ordinario di Storia Moderna nella Facoltà di Lettere della “Federico II” di Napoli. Nel corso degli anni i suoi interessi di ricerca si sono rivolti dapprima alla storia economica, in particolare alla storia delle finanze e della fiscalità dell’Italia spagnola. In seguito ha svolto ricerche su temi di storia sociale e culturale, legati alle relazioni tra Italia e Spagna nella prima età moderna e si è rivolto, specialmente, allo studio della stratificazione sociale negli stati regionali italiani, della cultura aristocratica e della trattatistica politica. Dal 2008 è presidente della Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna. Tra le sue pubblicazioni : Le finanze pubbliche napoletane tra riforme e restaurazione, Napoli, 1980 ; Saggi sul governo dell’economia nel Mezzogiorno spagnolo, Napoli, 1992. Ha curato edizioni di volumi di R. Carande, L. Cassese, F. Braudel, nonché atti di diversi convegni. Tra i saggi più recenti : The structure of aristocratic patrimonies in the kingdom of Naples : management strategies and regional economic development, 2005 ; Fedeltà e patria nel lessico politico napoletano della prima età moderna, 2007 ; Noble presence and stratification in the territories of spanish Italy, 2007 ; « Mutation di corte, novità di ordini, nova pratica di servitori » : la privanza nella trattatistica politica spagnola e napoletana della prima età moderna, 2008 ; La nobleza napoletana en el contexto de la Monarquia Hispanica : algunos planteamientos, 2009 ; Apparati e cerimoniali di corte nella Napoli spagnola, 2009.  

























Elisa Novi Chavarria è professore associato di Storia Moderna presso la Facoltà di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi del Molise. Si occupa di storia sociale e socio-religiosa e di storia delle istituzioni nell’area degli antichi Stati italiani, sui cui temi ha pubblicato alcune monografie e numerosi contributi su riviste, volumi collettanei e atti di convegni. È socio corrispondente dell’Accademia Pontaniana. Fa parte del Consiglio Direttivo del Centro Interuniversitario per la Storia del Clero e delle Istituzioni Ecclesiastiche (ciscie). Dal febbraio 2008 è nel Consiglio Direttivo della Società Italiana degli Storici dell’Età Moderna (sisem). Attualmente è membro del

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Comitato Scientifico del Consorzio Interuniversitario “Civiltà del Mediterraneo” con sede presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli “Federico II”. Tra le sue pubblicazioni Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli xvi-xvii (Milano, 2001) ; La città e il monastero. Comunità femminili cittadine nel Mezzogiorno moderno (Napoli, 2005) ; I Rinascimenti napoletani, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, Storia e storiografia, a cura di M. Fantoni (Vicenza, 2005) ; Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli xv-xviii (Napoli, 2007) e Sacro, pubblico e privato. Donne nei secoli xv-xviii (Napoli, 2009).  





Isabella Nuovo è professore associato di Letteratura italiana presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Bari. In questo Ateneo insegna Civiltà letteraria europea nel Corso di laurea di interfacoltà (Lettere e Filosofia e Scienze della Formazione) Informazione e sistemi editoriali, e Civiltà letteraria del Rinascimento nel Corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo e produzione multimediale della Facoltà di Lettere e Filosofia ; nell’Università di Foggia, invece, insegna Letteratura italiana del Rinascimento nel Corso di laurea in Lettere e Filosofia. Ha orientato la sua ricerca nell’ambito della civiltà letteraria umanistica e rinascimentale italiana, partecipando a convegni nazionali e internazionali e collaborando alle riviste « La parola del testo », « Critica letteraria », « Roma nel Rinascimento ». Sul versante degli interessi storiografici ha curato l’edizione del De bello Hydruntino di Giovanni Albino Lucano e ha pubblicato Il mito del Gran Capitano. Consalvo di Cordova tra storia e parodia. Dalla diffusa indagine condotta sulla produzione storiografica rinascimentale deriva l’attenzione prestata agli studi geografici e corografici e più specificatamente ad un particolare genere letterario, quello della descriptio urbis, cui ha dedicato il volume Esperienze di viaggio e memoria geografica tra Quattro e Cinquecento. Ha inoltre rivolto la sua ricerca ad alcune delle figure più rappresentative dell’Umanesimo italiano, da Petrarca a Leon Battista Alberti, ad Antonio De Ferrariis Galateo, a Giovanni Pontano, a Scipione Ammirato, senza però trascurare altri ambiti cronologici, occupandosi di Galileo Galiei e di Francesco Milizia. Tra i nuclei tematici più frequentemente praticati si segnalano quello della festa e dello spettacolo rinascimentale, dell’intreccio tra mito, architettura e giardino, e della condizione femminile nel Cinquecento. Ha pubblicato la monografia Otium e negotium da Petrarca a Scipione Ammirato, ha curato l’edizione dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, corredata di introduzione e note, e attualmente attende all’edizione critica del Theogenius di Leon Battista Alberti per i tipi delle Belles Lettres (Parigi) e dell’utet (Torino). È membro dell’Associazione degli Italianisti Italiani (adi), dell’International Association for Neo-Latin Studies (ianls), dell’Istituto Studi umanistici ‘Francesco Petrarca’, dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, dell’Associazione ‘Roma nel Rinascimento’, del ‘Centro Studi sul Classicismo’. Coordina un gruppo di ricerca del Dipartimento di Italianistica impegnato nella pubblicazione di testi odeporici all’interno del progetto viaggiadr, promosso dal Centro Internazionale Interuniversitario di Studi sul Viaggio Adriatico, di cui è altresì socia. Ha organizzato la giornata di studio su “Isabella Morra fra luci e ombre del Rinascimento” (Bari, Palazzo Ateneo, 19 ottobre 2006), di cui ha anche curato la pubblicazione degli Atti.  













Antonella Orlandi è ricercatore confermato presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, è affidataria dell’insegnamento di “Storia della stampa periodica”. Collabora al sito Italinemo (www.italinemo.it), diretto da Marco Santoro con una funzione di coordinamento del gruppo di ricerca. Gli ambiti di studio più recenti vertono sulla indicizzazione delle riviste, sulla biobibliografia secentesca italiana nonché sul paratesto del libro antico e moderno. Matteo Palumbo insegna attualmente Letteratura italiana presso l’Università di Napoli “Federico II”. Ha sviluppato i suoi studi principalmente in tre direzioni : il romanzo del Novecento, la poesia e la prosa dell’Ottocento, la cultura del Cinquecento. Sue pubblicazioni principali sono : La coscienza di Svevo, Napoli, Liguori, 1976 ; Il secondo Svevo (insieme con F. P. Botti e G. Mazzacurati), Napoli, Liguori, 1981 ; Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini, Napoli, Liguori, 1984 ; Francesco Guicciardini, Napoli, Liguori, 1988 ; Carpe diem. Variazioni sul tema, Venosa, Osanna, 1995 ; Saggi sulla  













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prosa di U. Foscolo, Napoli, Liguori, 20002 ; Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Roma, Carocci, 2007 (Premio Carducci per la critica letteraria). Ha scritto inoltre, tra gli altri, saggi su Dante, Boccaccio, Savonarola, Machiavelli, Tasso, Leopardi, De Sanctis, Tozzi, Verga, Pirandello, Saba, sulla letteratura del comportamento tra Cinque-Seicento, sul petrarchismo e sul romanzo del dopoguerra.  

Concetta Ranieri è docente dell’Università degli Studi di Roma Tre con incarico di insegnamento di Letteratura Italiana e Letteratura Italiana del Rinascimento. Ha curato il Censimento dei codici e delle stampe dell’Epistolario di Vittoria Colonna, pubblicando il carteggio della poetessa con Reginald Pole (Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Città del Vaticano, Archivio Segreto, 1989 – Collectanea Archivi Vaticani, 24). Ha condotto studi sull’accademia dell’Arcadia curando una sezione della mostra allestista per le celebrazioni del iii centenario della fondazione dell’Accademia (Tre secoli di storia dell’Arcadia, Roma, Abete grafica, 1991) con particolare riferimento alla fortuna di Jacopo Sannazaro in Arcadia. (Interpretazioni critiche e fortuna editoriale nel secolo xviii), alla biblioteca di Giovan Mario Crescimbeni e ad alcuni suoi carteggi. Collabora, in qualità di socio ordinario, con l’Associazione e la sua rassegna Roma nel Rinascimento ed è co-autrice di un volume Qui c’era Roma. Da Petrarca a Bembo, (Bologna, Pàtron, 2000). Altri studi e contributi scientifici sono compresi in riviste e in atti di convegni. Carmela Reale, dopo essere stata ricercatore confermato di Letteratura Italiana presso l’Università di Napoli “Federico II” e avere insegnato Bibliografia e Biblioteconomia presso l’Università della Calabria dall’a.a. 1994-95, dal 2002 è professore associato della medesima disciplina presso la suddetta Università. Presidente del Comitato tecnico-scientifico della Biblioteca di Area Umanistica dell’Università della Calabria, è stata Direttore del Master di i livello “Culture e scienze letterarie” organizzato dal Dipartimento di Filologia della medesima Università per il 2005 ; è Direttore scientifico di “ArchiLet – Laboratorio Archivi Letterari Novecenteschi”, sezione del Dipartimento di Filologia citato, responsabile scientifico dell’unità di ricerca dell’Università della Calabria per il Progetto cofinanziato del 2003 “Oltre il testo : dinamiche storiche paratestuali nel processo tipografico editoriale a Cosenza e in Calabria”, per il prin 2005 “Testo e immagine nell’editoria napoletana del Settecento” e per il prin 2008 “Mobilità dei mestieri del libro in Italia fra Quattro e Seicento”. Collabora con funzioni di responsabilità scientifica dal punto di vista biblioteconomico al progetto b.e.s.a. (Biblioteca Elettronica dei Siti Arbërëshe). Membro del Comitato direttivo di « Esperienze Letterarie » e del Consiglio direttivo di « Paratesto » e di « Rinascimento meridionale », collabora fra l’altro ai « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari ». Membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Nazionale sul Rinascimento Meridionale, di cui è Segretario, è altresì socio del Centro Pio Rajna. Fa parte del Comitato scientifico del Progetto Calogero. Ha partecipato con relazioni e comunicazioni a convegni in Italia e negli Stati Uniti. Ha pubblicato studi sulla cultura italiana del xvii secolo, sull’editoria calabrese e napoletana, su Francesco Flora e su Albino Pierro. Si occupa attualmente del Progetto Archivio Flora presso l’Università della Calabria – dove, insieme con Gabriella Donnici e Francesco Iusi, ha curato l’organizzazione scientifica del Convegno “Le carte Flora fra memoria e ricerca” e i relativi Atti – e di una ricognizione e catalogazione di fondi antichi di biblioteche calabresi, nonché di aspetti e problemi specifici dell’editoria calabrese e napoletana in antico regime tipografico. Collabora al sito Italinemo (www.italinemo.it), per il quale ha curato lo spoglio di « Italianistica » e continua a curare lo spoglio delle riviste « Filologia Antica e Moderna » e « Studi Secenteschi », coordinando anche un gruppo di collaboratori.  































Marco Santoro, dopo avere insegnato presso l’Università di Napoli “Federico II”, è professore ordinario di Bibliografia presso l’Università di Roma “La Sapienza” dal 1986. Presso la Scuola Speciale per Archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma “La Sapienza” gli è stato affidato ininterrottamente dal 1996 l’insegnamento di ‘Storia dell’editoria e del commercio librario’. Dal 2005 al 2007 ha diretto il Dipartimento di Scienze del libro e del documento del medesimo Ateneo. Dal 2007 è il coordinatore del dottorato di ricerca di “Scienze librarie e documentarie” della Sapienza. Membro dei Consigli scientifici e collaboratore di varie riviste italiane e straniere, dirige il trimestrale « Esperienze Letterarie » (Pisa-Roma, Serra), i « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari » (Firenze, Olschki), insieme a Maria Gioia Tavoni, l’annuale « Paratesto » (Pisa-Roma, Serra)  











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e l’annuale «Rinascimento meridionale» (Napoli, Liguori). Ha diretto dal 1995 al 2000 il trimestrale « Accademie e biblioteche d’Italia » (Roma, Palombi). Dirige la collana «Biblioteca di “Paratesto”» e «Atti dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale», entrambe per la Fabrizio Serra editore. Già componente il Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali, il Comitato di Settore per i Beni Librari e il Comitato scientifico per i Beni archivistici, Accademico Pontaniano, giornalista pubblicista, è Vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale. È stato Coordinatore nazionale del progetto cofin 2003 “Oltre il testo : dinamiche storiche paratestuali nel processo tipografico-editoriale in Italia” (2003-2005) e del Progetto prin 2005 “Testo e immagine nell’editoria italiana del Settecento” (2005-2007). Attualmente coordina il Progetto prin 2008 “Mobilità dei mestieri del libro in Italia fra Quattrocento e Seicento”. Relatore di numerosi cicli seminariali in Italia e all’estero (Argentina, Ecuador, Francia, Inghilterra, Spagna, usa), “Visiting professor distinguido” presso la Complutense di Madrid nel 2008 (dal febbraio ad aprile), docente presso il Middlebury College nel 1990, 1999, 2001, 2003 e 2005, è autore di molteplici contributi critici di storia del libro, di bibliografia, di storia della lettura e di critica letteraria apparsi in riviste specializzate, in atti di convegni e in miscellanee. Ha tra l’altro pubblicato : Materiali per uno studio della letteratura italiana (Napoli, sen, 1979), La Biblioteca Oratoriana di Napoli (Napoli, sen, 1979), Foscolo e la cultura meridionale (Napoli, sen, 1980), “La più stupenda e gloriosa macchina”. Il romanzo italiano del sec. xvii (Napoli, sen, 1981), Vocabolario biblio-tipografico (Ravenna, Longo, 1982), La stampa a Napoli nel Quattrocento (Napoli, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, 1984), Le secentine napoletane della Biblioteca Nazionale di Napoli ( Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986), Biblioteche anno zero ? (Napoli, De Dominicis, 1987), Il libro a stampa. I primordi (Napoli, Liguori, 1990), La stampa in Italia nel Cinquecento (Roma, Bulzoni, 1992), Lettura scuola biblioteca (Roma, Bulzoni, 1992), Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento (Milano, Bibliografica, 1994), Libri/quotidiani.I termini dell’intesa (Napoli, Liguori, 1998), Libri edizioni biblioteche tra Cinque e Seicento (Manziana, Vecchiarelli, 2002), Geschichte des buchhandels in Italien (Wiesbaden, Harrassowitz, 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e il paratesto, con la collaborazione con Michele Carlo Marino e Marco Pacioni (Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2006), Uso e abuso delle dediche. A proposito del Della dedicatione de’ libri di Giovanni Fratta (Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2006), Avviamento alla bibliografia (insieme ad Antonella Orlandi), Milano, Bibliografica, 2006 ; Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento (Milano, Bibliografica, 2008), Materiali per una bibliografia degli studi sulla storia del libro italiano (Pisa-Roma, Serra, 2008) ed ha curato, insieme a Bruna Bianchi, l’edizione anastatica (Napoli, esi, 1999) del Trattato del vino e aceto di Giovanni Flavio Bruno edito a Napoli nel 1591. Recentemente ha curato le miscellanee Le riviste di italianistica nel mondo. Atti del Convegno internazionale (Napoli, 23-25 novembre 2000), Roma-Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2002 ; Le carte aragonesi. Atti del Convegno internazionale (Ravello, 3-4 ottobre 2002), Roma-Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2004 ; I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. Atti del Convegno  internazionale (Roma-Bologna, 15-19 novembre 2004), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005 ; Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica. Atti del Convegno internazionale (Ravello, 22-23 settembre, 2005), Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2007 ; Pomeriggi rinascimentali, Pisa-Roma, Serra, 2008 e Testo e immagine nell’editoria del Settecento. Atti del Convegno (Roma, 26-28 febbraio 2007), Serra, 2008.  



















Gennaro Toscano è professore universitario di prima fascia, direttore della ricerca, Institut national du patrimoine, ministero della cultura, Parigi ; chevalier des Arts et Lettres. Laureato in lettere e specializzato in storia dell’arte presso l’Università di Napoli “Federico II”, ha lavorato per l’Ufficio catalogo delle Soprintendenze di Avellino e di Napoli dal 1981 al 1988. Borsista del cnr, ha conseguito il dottorato di ricerca in storia dell’arte medioevale e nel 2001 ha conseguito l’abilitazione per direttore di ricerca in storia dell’arte moderna presso l’Université de Lille 3. Ricercatore presso l’università di Besançon dal 1990 al 1993, professore associato presso l’università di Lille 3 dal 1993 al 2002, professore ordinario presso l’Università di Lille 3 dal 2002 al 2010, è attualmente direttore della ricerca dell’Institut national du patrimoine e professore all’Ecole du Louvre. Ha organizzato numerosi convegni e seminari di storia dell’arte in Francia e all’estero (Italia,  

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Spagna, Austria). Ha collaborato all’organizzazione di numerose mostre in Francia (Albi, Besançon, Chantilly, Paris), in Italia (Mantova, Napoli, Padova) e in Spagna (Madrid, Valencia). Commissario della mostra La Biblioteca reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese (Napoli, Castel Nuovo e Valencia, Monastero di San Miguel de los Reyes) nel 1998-1999, L’Europe des Anjou : aventure des princes angevins du xiiième au xv ème siècle, Abbaye Royale di Fontevraud nel 2001, e Le goût de la Renaissance italienne. Les manuscrits enluminés de Jean Jouffroy, cardinal d’Albi (1412-1473), biblioteca comunale di Albi nel 2010. Caporedattore della rivista Patrimoines. Revue de l’Institut national du patrimoine, è membro del comitato scientifico di Letteratura e Arte (Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali), della Rivista di storia della Miniatura (Firenze, Centro Di) e di Imago temporis. Medium Aevum (Università di Lerida). Tra le sue pubblicazioni : Francesco da Tolentino e Andrea da Salerno a Nola. Sulla pittura del primo Cinquecento a Napoli e nel Viceregno, Sorrento, Eurograf, 1992 ; Le Quattrocento : le début de la Renaissance à Florence, Paris, cndp, 1997 ; La Biblioteca Reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese, a cura di G. Toscano, Valencia, Generalitat Valenciana, 1998. Ha inoltre curato : Les Granvelle et l’Italie au xvie siècle : le mécénat d’une famille, atti del convegno a cura di G. Toscano e J. Brunet, Besançon, Cêtre, 1996 ; Venise en France. La fortune de la peinture vénitienne des collections royales jusqu’au xixe siècle, a cura di G. Toscano, Paris, Ecole du Louvre, 2004 ; Da Bellini a Veronese : temi di arte veneta, a cura di G. Toscano e F. Valcanover, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2004 ; Venise en France. Du romantisme au symbolisme, a cura di C. Barbillon e G. Toscano, Paris, Ecole du Louvre, 2006 ; Jean-Baptiste (1762-1834) et son temps. Histoire des idées et histoire de l’art de la révolution française à la Restauration, a cura di M. T. Caracciolo e G. Toscano, Villeneuve d’Ascq, Presses du Septentrion, 2007 ; Les grands chantiers de restauration en Europe, a cura di G. Toscano e N. Volle, Paris, Institut national du patrimoine et Somogy, 2008 ; Les cardinaux de la Renaissance et la modernité artistique, a cura di F. Lemerle, Y. Pauwels e G. Toscano, Villeneuve d’Ascq, irhis-ceges, Université de Lille 3, 2009 ; Le goût de la Renaissance italienne. Les manuscrits enluminés du cardinal Jean Jouffroy, cardinal d’Albi (1412-1473), a cura di M. Desachy e G. Toscano, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2010.  





























Adriana Valerio, laureata in Filosofia e in Teologia, è docente di “Storia del Cristianesimo e delle Chiese” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È stata dal 2003 al 2008 presidente dell’afert (Associazione Femminile Europea per la Ricerca Teologica) e, attualmente, è presidente della Fondazione Pasquale Valerio per la storia delle donne. Tra le pubblicazioni : Domenica da Paradiso. Profezia e politica in una mistica del Rinascimento, Spoleto, 1993 ; I sermoni di Domenica da Paradiso, Firenze, 1999 (con Rita Librandi) ; Donne e Religione a Napoli, Milano, 2001 (curato con Giuseppe Galasso) ; La Bibbia nell’interpretazione delle donne, Firenze, 2002 (curato con Claudio Leonardi) ; Donne e Bibbia. Storia ed esegesi, Bologna, 2006 ; I luoghi della memoria. Istituti religiosi femminili a Napoli, 2 voll., Napoli, 2006-2007 ; Archivio per la Storia delle Donne, 6 voll., 2004-2009. Dirige il progetto Internazionale La Bibbia e le Donne. Collana di Esegesi, Cultura e Storia.  













Gabriella Zarri è professore ordinario di Storia moderna ed è docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. È membro del corpo docente di Dottorati di ricerca, del consiglio scientifico dell’Istituto di Studi Umanistici con sede a Firenze, del comitato scientifico della Scuola Internazionale di Alti studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Fa parte di associazioni scientifiche italiane e straniere ed è membro d’onore dell’ Accademia Clementina di Lettere e Arti di Bologna. Membro eletto della Associazione Il Mulino, collabora ad alcune attività della casa editrice. Tra i suoi studi si ricordano, oltre a numerosi saggi, le seguenti Monografie : Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990. Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000. La religione di Lucrezia Borgia. Le lettere inedite del confessore, Roma, Roma nel Rinascimento, 2006. Libri di Spirito. L’editoria religiosa in volgare nei secoli xv-xvii, Torino, Rosenberg & Sellier, settembre 2009.  

Paola Zito ha lavorato per circa vent’anni ai fondi antichi presso la sezione Manoscritti e Rari della Biblioteca Nazionale di Napoli. Insegna ora Archivistica, Bibliografia e Biblioteconomia presso la

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Seconda Università di Napoli, come docente di ii fascia. Dal 2003 è membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale. Si è occupata prevalentemente di storia dell’editoria e della lettura dall’incunabolistica al xviii secolo, fornendo contributi apparsi in periodici, in volumi miscellanei e in cataloghi di mostre. Su diffusione delle idee ereticali e circolazione libraria tra Cinque e del Seicento vertono le tre monografie di cui è autrice (Il veleno della quiete. Mistica ereticale e potere dell’Ordine nella vicenda di Miguel Molinos, Napoli, esi, 1997 ; Giulia e l’Inquisitore. Santità finta e misticismo nella Napoli di primo Seicento, Napoli, Arte Tipografica, 2000 ; Granelli di senapa all’Indice. Tessere di storia editoriale 1585-1700, Pisa-Roma, Serra, 2008). Conduce inoltre ricerche sul paratesto di antico regime, focalizzate soprattutto su natura e fisionomia degli apparati iconografici. Altro filone d’indagine è costituito dall’autografia leopardiana, con particolare attenzione alle tracce della lettura (appunti, spogli, abbozzi e progetti), inedite nella maggior parte dei casi. Collabora regolarmente a varie riviste, nazionale ed internazionali, tra le quali « Esperienze letterarie », « Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari », « Albertiana », « Rinascimento meridionale ».  



















Indice dei nomi* (a cura di Paola Pagano)

A

bbado, Claudio, 23 Abbate, Francesco, 317n Abelardo, Pietro, 361n Abella Salernitana, 134, 397, 399 Abufalia, David, 406n Accetto, Torquato, 175n Accolti, Bernardo, detto l’Unico Aretino, 298, 309, 309n Accolti, Dorotea, 373, 419 Accolti, eredi, 419 Accolti, Giulio, 419 Accolti, Menica, 419 Accolti, Vincenzo, 419 Acidini Luchinat, Cristina, 356n Acquaviva d’Aragona, Belisario, duca di Nardò, 229, 333, 336n, 357 Acquaviva d’Aragona, Dorotea, 397, 399, 400 Acquaviva d’Aragona, Giovan Girolamo, 397 Acquaviva d’Atri, famiglia, 215 Acquaviva, Andrea Matteo, 186, 409 Acquaviva, Claudio, 397 Acquaviva, famiglia, 38, 59n Acquaviva, Paola, 192 Adams, Herbert Mayow, 419n Adele, figlia di Giovanni di Assisi, 133 Adesso, Mariantonia, 361n Adorisio, Antonio Maria, 403n Adriano VI, papa, 185n Adversi, Aldo, 421n Agata, santa, 84 Agatia Scolastico, 409 Agincourt, Jean-Baptiste-Louis-Georges Séroux d’, 274, 277, 277n Aglietti, Marcella, 209n Agnelli, Giuseppe, 372n Agnese Segni da Montepulciano, santa, 201 Ago, Renata, 221n Agosti, Barbara, 49n, 52n, 259n Agosti, Giovanni, 287n, 290, 290n, 291, 291n Agostino, Aurelio, santo, 39, 63, 247, 350, 364, 407, 418n

Agrimi, Jole, 127, 127n, 132n, 138n Agrippa von Nettesheim, Heinrich Cornelius, 191n, 242, 242n, 244, 247, 254n Aiutamicristo, Elisabetta, 396, 399, 400 Alagno, Lucrezia, 280, 283, 395, 399, 401 Alaimo, Cristina, 403n Alamanni, Luigi, 26, 31, 32 Alarcon, famiglia, 144 Alari Bonacolsi, Pier Iacopo, detto l’Antico, 293n Albano, Caterina, 110n Alberti, Antonio, 363n Alberti, Leon Battista, 155, 272, 272n, 357, 358, 359, 359n, 363n, 364 Alberto Magno, santo, 116 Albonico, Simone, 287n Aleandri, Vittorio Emanuele, 421n Alemanno, Pietro, 80 Alessandro VI, papa, 51n, 52, 232, 296n Alfano, Giancarlo, 259n Alfonso II d’Aragona, re di Napoli, 46n, 222, 223, 274, 275, 287, 289, 294, 297, 305, 397, 405, 406, 408, 408n Alfonso V d’Aragona, I di Napoli, detto il Magnanimo, 43, 50, 216, 217, 223, 279, 280, 287, 349, 395, 399, 405, 409, 409n Alfonso, duca di Calabria vedi Alfonso II d’Aragona, re di Napoli Alhaique Pettinelli, Rosanna, 410n Alibrando, Nicola Giacomo, 259 Alicarnasseo, Filonico, 296n Alighieri, Dante, 30n, 39, 53, 53n, 54n, 410 Alone Improta, Elvira, 265n Altamura, Antonio, 58n, 59n, 234, 234n Altavilla, famiglia, 38 Altomare, Donato Antonio, 123, 123n Altopiedi, Luigia, 54n Alvarez de Toledo, Ana, 145 Alvarez de Toledo, Eleonora, duchessa di Firenze, 145, 277n, 386n Alvarez de Toledo, Garzia, 62, 236

*  L’indice include anche i riferimenti a titoli e cariche nobiliari (es. La principessa di Francavilla indicizzato Avalos, Costanza d’) ed i riferimenti indiretti (es. La sposa di Federico Del Balzo indicizzato Avalos, Costanza d’). In questi casi l’indicazione della pagina è data in corsivo. L’indice non include i riferimenti ai personaggi delle opere letterarie ed artistiche. I re e le regine, i viceré e le viceregine sono indicizzati sotto il nome proprio seguito dal casato, mentre gli altri membri di famiglie nobili sono segnalati sotto il nome del casato.

442

indice dei nomi

Amabile, Luigi, 151n, 378 Amalfitano, C., notaio, 404n Amato, Cinzio d’, 127 Ambra, Emilia, 405n Ambrogini, Angelo, detto il Poliziano, 29 Ambrogio, santo, 247 Amirante, Francesca, 145n Ammirato, Scipione, 51n, 229, 390, 390n Anastasia, santa, 314, 314n Andò, Valeria, 357n Andrea Cappellano, 96, 97, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 101, 101n, 102, 103, 103n Andrea d’Isernia, 347, 348 Andrea da Salerno vedi Sabatini, Andrea, detto Andrea da Salerno Andreolli, Bruno, 414n Andrioli Nemola, Paola, 362n Angelella da Camerino, 414 Angelieri, Giorgio, 375n Angelita Girolamo, 424 Angiò, Carlo d’, detto l’Illustre, duca di Calabria, 134 Angiò, Carlo d’, duca di Durazzo, 311 Angiò, famiglia, 227, 311 Angiò, Maria d’, 311 Anguillara, Giovanni Andrea dell’, 165 Anisio, Giovanni Francesco (Giano), 49, 57, 58, 58n Anna Carafa, principessa di Stigliano, viceregina, 153 Anna, vedova di Perin libraio vedi Giovannini, Anna Antonina, vedova di Enrico da Colonia, 374, 375, 375n, 419 Antonio Alvarez de Toledo y Beaumont de Navarra, V duca d’Alba, viceré, 148, 151, 264 Antonioli, Roland, 242n Aquilini, Ventura, 374 Aquilon, Pierre, 416n Aquino, Antonella d’, 219, 292, 293, 299, 300, 301 Aquino, Bernardo Gaspare d’, 219 Aragona, Alfonso d’, 308n Aragona, Eleonora d’, duchessa di Ferrara, 217, 218, 273, 273n, 274, 275, 276, 276n, 287, 288, 288n, 289, 290, 290n, 291n, 294, 297n, 299, 300, 301, 305, 359, 359n, 360, 410, 410n, 411, 412 Aragona, famiglia d’, 51, 64, 65, 216, 219, 223, 224, 227, 273, 275, 279, 294, 296, 410, 411 Aragona, Ferdinando d’, duca di Calabria, 411 Aragona, Giovanna d’, 49n, 144, 220, 384, 390, 391 Aragona, Giulia d’, 397, 400

Aragona, Isabella d’, duchessa di Milano, 218, 219, 223, 275, 296, 297, 297n, 298, 309, 395, 396, 397, 399, 400 Aragona, Maria d’, 288 Aragona, Maria d’, marchesa del Vasto, 46n, 56n, 144, 187n, 219, 220, 220n, 384, 384n, 395, 400 Aragona, Tullia d’, 386, 386n, 395, 397, 398, 398n, 399, 400 Araldo, Giovan Francesco, 312n Arbor, Ann, 207n Arbour, Romeo, 416, 416n Arcangeli, Letizia, 144n, 209n, 216n, 217n, 218n, 220n, 273n, 293n, 355n, 408n Archer, Robert, 38n Archetti Giampaolini, Elisabetta, 415n Aretino, Pietro, 220, 383, 384, 384n Argenta, Jacopo Filippo vedi Medici, Iacopo Filippo Arienti, Giovanni Sabadino degli, 274, 276, 276n, 360, 406, 406n Ariosto, Ludovico, 92, 155, 156, 157n, 165, 166, 167, 245, 246n, 247, 247n, 249, 250n, 253, 254n, 372n Aristarco di Samo, 425 Aristotele, 52n, 92, 93, 108, 114, 114n, 115, 116n, 117, 122, 124, 170, 170n, 228, 231, 331, 332, 334n, 335, 335n, 359n, 365, 365n Arnaldi, Francesco, 338n Arnaldo di Villanova, 138 Arnolfini, Vincenzo, 386 Arrighi, Ludovico degli, 51, 52n, 64, 65 Arrivabene, Giorgio, 371n Arrizabalaga, Jon, 121n Artusi, Alessandra, 110n Asburgo, dinastia, 144 Ascarelli, Fernanda, 371n, 372n, 374, 374n, 375n, 376, 377n, 416n, 418n, 419n Ascione, Emanuele, 282, 282n, 283 Asola, Andrea di vedi Torresani, Andrea Asor Rosa, Alberto, 28n, 32n, 155n, 355n Aspri, Francesca Amorosa, 421, 421n Astemio, Lorenzo, 405 Atri, Iacopo da, 291, 294, 296, 297, 298, 299n, 302, 303, 304, 307, 308, 310 Aubigny, Robert Stuart, conte di Beaumont, signore d’, 51n Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore, 136 Auricola, Alessandro, 419 Auricola, Francesca, 419 Ausilio, Camillo, 264n Avalle, D’Arco Silvio, 97n Avallone, Riccardo, 37n

indice dei nomi Avalos d’Aquino, Antonia d’, principessa di Sulmona, 388 Avalos, Alfonso d’, marchese del Vasto, 56, 56n, 60n, 219, 220, 220n, 295n, 296, 345, 384 Avalos, Alfonso d’, marchese di Pescara, 51, 292, 293, 293n, 295, 295n, 296, 307, 307n Avalos, Beatrice d’, 292, 293 Avalos, Costanza d’, duchessa d’Amalfi, 54, 187n, 219, 295n, 296 Avalos, Costanza d’, principessa di Francavilla, 13, 50, 50n, 51, 52, 54, 56, 56n, 219, 220, 291, 291n, 292, 292n, 293, 293n, 294, 295, 295n, 296, 296n, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 347, 384, 389, 395, 395n, 396, 399, 400 Avalos, famiglia d’, 21, 38, 49, 49n, 50, 51, 52, 56n, 57, 59n, 64, 65, 144, 220, 293, 293n, 293n, 294, 295, 389 Avalos, Ferdinando (Ferrante) Francesco d’, marchese di Pescara, 50, 51, 52, 59, 59n, 61n, 186, 219, 295n, 296, 296n, 299, 351, 352, 389, 389n Avalos, Francesco Ferdinando, marchese di Pescara, 56n Avalos, Iñigo d’, conte di Monteodorisio, 50n, 51, 219, 292, 293, 299, 300, 301 Avalos, Iñigo d’, marchese del Vasto, 50, 50n, 53, 292, 293n, 294, 295, 296, 299, 300, 301, 307, 307n Avalos, Ippolita d’, 292, 295 Avalos, Maria, d’, 12, 21, 22, 23 Avalos, Martino d’, 292, 293 Avalos, Rodrigo d’, 292, 293n, 295 Avarucci, Giuseppe, 424n Avesani, Rino, 420n Ayerba, Eustochia vedi Giovanna, suor, al secolo Eustochia Ayerba Ayerba, Maria, 183, 187, 188, 189, 190, 190n, 191, 310n

Bacchi della Lega, Alberto, 276n, 406n

Bacci, Andrea, 391, 391n Badoaro, Giacomo, 170n Baffo, Elisabetta vedi Rusconi, Elisabetta Baffo, Paolo, 371n, 419 Baglioni, Costanza Vitella de, 387 Baldacci, Luigi, 29, 32, 32n Baldelli, Francesco, 330 Baldi, Anna, 425 Baldi, Antonio, 50n Baldini, Anna, 366n Baldung, Hans, detto Grien, 108, 108n Balsamo, Luigi, 405n Balzanelli, Alfredo, 293n Bandello, Matteo, 337 Barbarito, Pompeo, 93, 170

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Barberi, Francesco, 52n, 372n, 373, 373n, 374n Barbero, Alessandro, 38n Barbieri, Edoardo, 375, 375n, 418n Barbieri, Enzo, 275 Bardi, Donato, detto Donatello, 76 Bardotto, Pietro, 21 Barezzi, Barezzo, 375n Barker, Nicolas, 52n Barletta, Laura, 199n Barone, Caterina, 397, 399, 400 Barone, Eleonora (o Lionora), 397, 397n, 399, 400 Barone, Nicola, 295n Barozzi, Pietro, 51n Bartolaia della Mirandola, Ludovico, 266n Bartoli Langeli, Attilio, 204n Bartoli, Battista, 425 Bartoli, Eugenio, 366n Bartoli, Girolamo, 265 Bartoli, Marco, 204n Bartolini, Riccardo, 221 Bartolomeo da Capua, 348 Barzon, Antonio, 418n Basa, Bernardo, 374n, 418 Basa, Isabella (Isabetta), 374, 374n, 418 Basali, Vincenza, 397, 399n, 400 Baschet, Armand, 307n Basile, Andreana, detta la bella Adriana, 395 397, 397n, 399, 400 Basile, Giambattista, 397 Basile, Tania, 404n Bastin, Julia, 132n Bati, Agnoletta, 420 Baudi di Vesme, Carlo, 359n Baudouin, François, 221 Bayardi, Ottavio Antonio, 281 Beatrice d’Aragona, regina di Ungheria, 218, 219, 275, 276, 276n, 277, 296, 297, 298, 309, 359, 359n, 360, 404, 409, 410, 411, 412 Beatrice da Fabriano, 414 Beccadelli, Antonio, detto il Panormita, 406 Beldando, Iacopo, 143, 264 Belenguer, Ernest, 152n Belfanti, Marco 42n Bell, Maureen, 416n Bell, Rudolf, 109n Bellarmino, Roberto vedi Roberto Bellarmino, santo Belli, Chiara, 375, 417 Bellincioni, Bernardo, 397 Bellintani, Paolo vedi Mattia da Salò, al secolo Paolo Bellintani Bellomo, Manlio, 343 Bellonci, Maria, 291n Belloni, Cristofaro, 330, 330n

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indice dei nomi

Belprato, Vincenzo, conte di Aversa, 245 Beltrano, Ottavio, 264 Belverte, Pietro, 80 Bembo, Pietro, 31, 53, 60n, 155, 221, 242, 244, 338, 339, 387, 387n, 390 Bemporad, Jules R., 110n Benaiteau, Michèle, 11, 13, 17 Benali, Bernardino, 371, 371n, 413 Benati, Daniele, 289n Bene, Charles, 242n Benedetti, Stefano, 410n Benedetto da Mantova, al secolo Benedetto Fontanini, 60, 60n Beneventano, Marco, 264n Benincasa, Orsola, 192, 397, 399, 400 Benincasa, Stefano, 425n Benoît de Sainte-Maure, 176n Bentivoglio, Ercole, 251 Benton, John F., 135n, 136, 136n Benvenuti, Anna, 199n Benzoni, Guido, 296n Bergalli, Luisa, 397 Bergola da Camerino, 414 Bernardi, Claudio, 70n, 78n Bernardino da Bisignano, 187 Bernardino da Feltre, beato, al secolo Martino Tomitano, 373 Bernardino da Siena, santo, 415n Bernardo di Giacomo da Norcia, 414 Bernardo di Provenza, 133 Bernato, Sandra, 406n, 410n Bernich, Ettore, 280, 280n Berrettoni, Pierangiolo, 355n Bertaux, Emile, 281n, 282, 282n, 284 Bertelli Sergio, 128n Bertelli, Cristoforo, 261 Bertelli, Paolo, 302n Bertini Malgarini, Patrizia, 204n Bertini, Ferruccio, 87n, 132n, 133n, 138n Bertolo, Fabio Massimo, 416n Betussi, Giuseppe, 389, 389n Bevilacqua, Giovanni Battista, 420 Bevilacqua, Niccolò, 420 Bevilacqua, Teodosia, 374, 420 Bianca di Navarra, regina di Sicilia, 409 Bianca, Concetta, 11, 14, 15, 17, 18, 217n, 219n, 364n, 403n, 404n, 405n, 409n, 410n Bianca, detta Bianchina, libraia, 373 Bianco, Giovan Francesco, 379, 380 Bianco, Luca, 327n Bianco, Monica, 385n Bianconi, Lorenzo, 219n Bianzago, Angela, 371, 374, 377, 413 Bianzago, Bartolomeo, 413, 413n

Bianzago, Bernardino, 371n, 413 Bianzago, Elisabetta, 371, 371n, 413 Bianzago, Laura, 371, 374, 377, 413 Biblioteca Nazionale di Napoli, 265n Biblioteca Universitaria di Bologna, 381n Bienato, Aurelio, 267 Biguzzi, Giancarlo, 336n Billanovich, Giuseppe, 59n Bindi, Giovan Battista, 126, 126n Bini, Daniele, 287n Biondi, Carlo, 398n Biondo, Flavio, 221 Biondo, Michelangelo, 230, 230n, 231, 231n, 234 Bisello, Linda, 336n Bisignano, famiglia, 215 Blado Antonio, eredi, 374 Blado, Agnese, 377, 419 Blado, Antonio, 374, 377, 419 Blado, Isabella, 419 Blado, Orazio, 374 Blado, Paola, 373, 374, 419 Blado, Paolo, 374, 419 Blado, Porzia, 419 Blado, Stefano, 374, 419 Boccaccio, Giovanni, 92, 98, 98n, 99, 174n, 191, 247, 250, 250n, 272, 309, 360, 360n, 361n, 362 Boccadamo, Giuliana, 184n, 186n, 190n Boccanera, Giacomo, 421n Bochi, Giulia, 356n Bödeker, Hans Erich, 413n Boemondo I d’Altavilla, principe di Antiochia, 131, 131n Boesch Gajano, Sofia, 199 Boiardo, Matteo Maria, 165, 288 Boillet, Danielle, 144n Bolani Accolti, Menica vedi Accolti, Menica Bollati, Milvia, 409n Bologna, Ferdinando, 218n, 276n Bologna, Pietro, 375n Bolognetti, Giovanni, 264n Bona Sforza, regina di Polonia, 218, 219n, 275, 296, 297, 297n, 336n, 363, 363n, 364, 365 Bona, Maurizio, 422 Bonaccorsi, Francesco, 409 Bonanno, Laura, 399, 400 Bonanno, Marta, 399, 400 Bonanno, Onofria (Nofriella), 399, 400 Bonaventura da Bagnoregio, santo, 39 Bonelli, Manfredo, 372n Bonfantini, Mario, 52n Bonifacio IX, papa, 315 Bonifacio, Giovanni Bernardino, 254, 385, 386 Bonini, Giovanni Antonio de’, 407n, 408

indice dei nomi Bordone, Barbara, 420 Borgia, Cesare, 223 Borgia, Lucrezia, 387 Borgia, Rodrigo vedi Alessandro VI, papa Borin, Françoise, 264n Borraccini, Rosa Marisa, 11, 14, 18, 375n, 376, 420n, 421n, 422n, 423n Borrelli, Clara, 146n Borsa, Gedeon, 375n, 419n Borsetto, Luciana, 33n, 241n, 246, 246n Boskovits, Miklós, 318, 318n Bossa, Renato, 219n Bosse, Monika, 109n Botteri, Inge, 356n Bottiglieri, Corinna, 11, 12, 13, 17, 124n, 395n Bozzavotra, Giovanni Antonio, 123, 123n Bozzetti, Cesare, 292, 292n Braca, Antonio, 314n, 315, 316, 316n Bracciolini, Poggio, 247 Bramanti, Vanni, 360n Branca, Vittore, 98n, 360n Brancaccio, famiglia, 38 Brandileone, Francesco, 407n Brandolese, Pietro, 372, 372n Brant, Sebastian, 259 Brea, Pietro, 377, 420 Bresc, Henri, 404n Bresciano, Andrea, 420 Bresciano, Isabella, 420 Bresegna, Isabella, 187n Brevaglieri, Sabina, 260n, 356n Brevio, Giovanni, 385, 385n Brianza, Caterina, 377 Brianza, Giacomo, 377 Briganti, Giuliano, 79n Brigida di Svezia, santa, 269 Brignole Sale, Anton Giulio, 76, 77, 77n Britonio, Girolamo, 49, 264, 267, 378, 390, 390n, 396 Bronzini, Giovanni Battista, 9n Brown, Dan, 75 Brown, Judith C., 124n Brumberg, Joan Jacobs, 110n Brunelli, Pomponio, 376 Brunelli, Tommaso, 375n Brunet, Jacques-Charles, 373 Bruni, Francesco, 204n Bruni, Leonardo, 364n Bruno, Giordano, 124 Bruno, Vincenzo, 128, 128n, 129, 129n Brunswick, Ottone di, 318, 319, 319n Brusegan, Marcello, 420n Bryce, Judith, 289n, 403n, 407n, 408n

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Buccis, Tiberio, 251 Buchner, Paul, 49n Bucoldiano, Gerardo (Gerardus Bucoldianus, Gerard Bucholdz), 108, 108n, 111, 112, 112n, 118, 119 Budé, Guillaume, 58, 221 Bufalini, Fausto, 377, 420 Bufalini, Margherita, 377, 420 Bulifon, Antonio, 147 Bullough, Vern L., 137n Buonarroti, Michelangelo, 9, 347 Buoncompagni, Francesco, 153 Buono, Silvestro, 76, 76n, 77 Burckhardt, Jacob, 9, 9n Burke, Peter, 219n Buyten, Martin van, 265

C

abeza Sánchez-Albornoz, María Cruz, 289n Caby, Cécile, 204, 204n Cacchi, Giuseppe, 262n, 265 Cacciatore, Giuseppe, 109n Caetani, Beatrice, 219 Caetani, famiglia, 215 Caffarini, Tommaso, 201, 202 Cafisse, Maria Cristina, 362n Caglioti, Francesco, 311n Calafato, Eustochia, 204, 205 Calamita, Antonio, 252, 253 Calasso, Francesco, 343 Calcagnini, Celio, 411 Caldara, Polidoro, detto Polidoro da Caravaggio, 259 Calenda, Costanza, 134, 394, 399, 400 Calenda, Salvatore, 134, 395n Callisto da Piacenza, 184 Calò Mariani, Maria Stella, 219n, 363n Calvanico, Raffaele, 124n, 134n Calvino, Italo, 113n Calzona, Arturo, 111n Camerini, Paolo, 418n Camilla Battista da Varano, santa, 203, 204, 205, 210, 211 Camillo I, duca di Monteleone vedi Pignatelli, Camillo, duca di Monteleone Camisan, Anna vedi Giovannini, Anna Campana, Filippo, 396n Campanella, Tommaso, 37n, 124, 127, 127n, 129 Campanelli, Marcella, 199n Campanile, Iacopo, detto il Capanio, 49 Campanini, Antonella, 41n Campi, Emidio, 64, 64n Campioni, Rosaria, 413n Campora, Iacopo, 403

446

indice dei nomi

Cancer, Lucrezia, 376, 420 Cancer, Mattia, 143, 262n, 376, 379, 420 Canfora, Davide, 327n Canossa, Simone da, 294, 305 Cantarella, Eva, 355n Cantone, Gaetana, 282n Cantù, Francesca, 145n, 149n, 209n, 366n Capaccio, Giulio Cesare, 45, 45n, 283, 345, 350, 393, 394, 395, 395n, 396, 399, 400, 401 Capanio vedi Campanile, Iacopo, detto il Capanio Capano, Andrea, 350 Capece, Antonio, 349 Capece, Isabella, 387n, 394, 399, 400 Capece, Luisa, 192 Capece, Scipione, 49, 54, 57, 58, 58n, 59, 59n, 60, 61 Capialbi, Vito, 398 Capomazza, Luisa, 273, 398n, 399, 399n, 400 Caponetto, Salvatore, 60n Cappella, Paola, 192 Cappelletti Truci, Nada, 361n Cappelli, Giovanni Battista, 265 Cappello, Bernardo, 220 Capra, Galeazzo Flavio, 242, 242n, 246, 247, 247n, 248, 250, 253, 356n Capranica, Angelo, 406, 406n Capua, Andrea di, duca di Termoli, 183, 189, 310, 310n Capua, Ferdinando di, conte di Altavilla e principe di Molfetta, 189, 310n Capua, Giovanni di, 310n Capua, Ippolita di, 220 Capua, Vincenzo Luigi di, 351 Caracciolo, Fulvia, 13, 194, 196, 197 Caracciolo, Galeazzo, 187n Caracciolo, Isabella, 395, 400 Caracciolo, Lucia, 192 Caracciolo, Marcantonio, 76 Caracciolo, Pasquale, 330 Caracciolo, Petraccone IV, terzo duca di Martina, 330 Caracciolo, Roberto, in religione fra Roberto da Lecce, 39, 39n Caracciolo, Tristano, 41, 42, 43, 43n, 44, 357 Carafa, Alfonso, 195 Carafa, Antonio, I principe di Stigliano, 220 Carafa, Diomede III, quarto conte di Maddaloni, 220, 252n Carafa, Diomede, primo conte di Maddaloni, 41, 41n, 42, 229, 229n, 231, 276, 276n, 277n, 288, 333, 333n, 357, 359, 359n, 360, 361, 361n, 364, 367, 368, 404, 404n, 410, 410n Carafa, Fabrizio, duca d’Andria, 21

Carafa, famiglia, 21, 220 Carafa, Gian Pietro vedi Paolo IV, papa Carafa, Giovan Francesco, 186 Carafa, Maria, 187, 188 Carafa, Mario, 195n Carafa, Roberta, 13, 144, 220, 220n, 224, 225, 394, 395, 400 Caraffi, Patrizia, 417n Caravaggio vedi Merisi, Michelangelo, detto il Caravaggio Caravaglia, Niny, 291n Caravita, Prospero, 350 Carbone, Ludovico, 288 Cardini, Roberto, 406n Cardona y de Requesens, Isabella de, contessa di Oliveto, 347 Cardona, Antonia, 390 Cardona, Artale de, conte di Colisano, 293 Cardona, Diana de, 293 Cardona, Maria, 399, 400 Cardona, Violante, 399, 401 Caretti, Lanfranco, 157n Cargnoni, Costanzo, 186n Cariteo vedi Gareth, Benet, detto il Cariteo Carito, Giacomo, 81n Carlino, Giacomo vedi Carlino, Giovanni Giacomo Carlino, Giovanni Giacomo & Pace, Antonio, 265 Carlino, Giovanni Giacomo, 23, 262n Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, 281 Carlo di Tocco, 348 Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, 38 Carlo I, duca di Durazzo vedi Angiò, Carlo d’, duca di Durazzo Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, 41, 347, 348 Carlo III d’Angiò Durazzo, re di Napoli, 184, 311, 311n, 312, 313, 313n, 318, 318n, 319, 319n, 320, 320n, 321, 321n, 322, 323 Carlo Martello d’Angiò, re d’Ungheria, 41 Carlo V d’Asburgo, imperatore, 26, 40n, 43, 59n, 143, 144, 152, 220, 345, 349, 353, 389 Carlo VIII, re di Francia, 50, 184, 233, 293n, 295, 297, 411 Carlo, duca di Calabria vedi Angiò, Carlo d’, detto l’Illustre, duca di Calabria Carlomagno re dei Franchi, imperatore romano, 83 Carnesecchi, Pietro, 58n, 187n Carpanè, Lorenzo, 422n, 423n Carrara, Giovanni Francesco, 265 Carriero, Brunella, 25n Carrillo, Martin, 144n Carrino, Annastella, 231n

indice dei nomi Cartaro, Mario, 49n Cartolari, Baldassarre, 372, 372n, 373, 419 Cartolari, famiglia, 373 Cartolari, Girolama, 372, 372n, 373, 374, 416, 418 Cartolari, Girolamo (ma Girolama), 372, 416 Cartolari, Girolamo, fratello di Baldassarre, 416, 420 Cartolari, Lucilla, 420 Casale, Olga Silvana, 237n Casamassima, Emanuele, 52n Caserta, Stefania, 58n Casetti Brach, Carla, 421n Cassens, Ina-Marie, 133n Cassese, Michele, 144n, 273n Cassidy-Welch, Megan, 206n Castaldi, Serena, 355n Castaldo, Giovan Battista, 389 Castellana, Ferdinando di, duca di Montalto, 220 Castellana, Riccardo, 366n Castellesi, Adriano, 221 Castelli, Daniela, 11, 12, 17, 109n Castelli, Giuseppe, 424n Castelli, Pietro, 380 Castelvetro, Ludovico, 156 Castiglione, Baldassarre, 14, 51n, 145, 242, 249n, 273, 330, 330n, 331, 334n, 335n, 336, 336n, 337, 337n, 338, 338n, 339, 339n, 340, 341, 356, 356n, 359, 365, 366 Castriota Scanderbegh, Giovanna, 394, 394n, 395, 401 Catani, Enzo, 423n Cataudella, Michele, 11, 11n, 12, 15, 17, 18, 389n Catello, Corrado, 222n, 316, 316n Catello, Elio, 222n, 316, 316n Catello, Roberta, 80n Caterina d’Aragona, regina d’Inghilterra, 40n Caterina da Recanati, 414 Caterina da Siena, santa, 200, 201, 202, 210, 211, 269, 315, 315n, 316 Caterina di Guimarães, duchessa di Braganza, 350 Caterina Fieschi Adorno, santa, 184 Caterina Gomez de Sandoval, viceregina, 151 Caterina Vigri da Bologna, santa, 204, 269, 406 Caterina Zúñiga y Sandoval, viceregina, 152, 395, 396, 401 Catone, Marco Porcio, 221, 334n Cava, Fabio, 124n Cavaciocchi, Simonetta, 414n Cavalca, Domenico, 403 Cavalcanti, Giulia, 396, 399, 401 Cavallarin, Anna Maria, 64n

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Cavallaro, Battista, 302 Cavallo, Camillo, 378, 380 Cavallo, Guglielmo, 405n Cavallo, Ludovico, 378 Cavallo, Sandra, 221n, 224n Cavalluzzi, Raffaele, 329n Cecchetti, Bartolomeo, 413, 413n Ceci, Giuseppe, 144n Cederna, Camilla Maria, 383n Celano, Carlo, 185n Centi, Sara, 260n Cerbo, Anna, 146n Cerboni Baiardi, Giorgio, 62n Ceresa, Massimo, 376n, 407n Cernigliaro, Aurelio, 11, 13, 18, 366n Cerreta, Florindo, 419n Cervantes Saavedra, Miguel de, 344 Cesano, Olivo, 425 Cesare, Gaio Giulio, 221 Cesarini Martinelli, Lucia, 406n Chabot, Isabelle, 221n, 224n, 414n Champier, Symphorien, 221 Charon, Annie, 416n Chaucer, Geoffrey, 132, 133, 133n Chauliac, Guy de, 133 Chemello, Adriana, 331n, 336n Cherchi, Paolo, 147n, 411, 411n Cherubini, Paolo, 404n Chiappini, Alessandra, 405n Chiappini, Luciano, 260n, 410n Chiara d’Assisi, santa, 189, 203, 204 Chiaramonte, Costanza, 395, 401 Chibnall, Marjorie, 131n, 132, 132n Chiesa, Mario, 59n, 60n Chioccarelli, Bartolomeo, 394, 394n, 397 Chiodo, Domenico, 62n Christiansen, Keith, 321n Christine de Pizan vedi Cristina da Pizzano Cicerone, Marco Tullio, 117, 117n, 221, 247, 334n, 364, 406 Cieri Via, Claudia, 265n Ciliberto, Vincenzo, 380 Cimarosa, Domenico, 170n Cinico, Giovan Marco, 288, 410n Cioffari, Gerardo, 184n Cipriani, Giovanni, 361n Cirillo Mastrocinque, Adelaide, 44n Cirillo, Bernardino, 183n Cirillo, Nicola, 129, 129n Civil, Pierre, 144n Clemente VII, antipapa, 311 Clemente VII, papa, 55, 55n, 57, 185, 389 Coakley, John, 207n Cobban, Alan B., 134, 134n

448

indice dei nomi

Cocciano, Augusto, 57 Cohen, Sherril, 417, 417n Colantonio, 272, 276 Colapagano, Pietro, 387n Colapietra, Raffaele, 292n, 293, 293n, 295n, 296n, 327n Coletta da Corbie, santa, 189 Collaltino di Collalto, 386 Collina, Beatrice, 216n, 360n, 365n Colombara, Vincenzo, 420 Colombo, Arrigo, 417n Colonna d’Aragona, Geronima, 49n, 128, 129n, 384, 390, 390n, 391, 392 Colonna, Ascanio, 49n, 389, 390 Colonna, Crisostomo, 218 Colonna, Fabrizio, 50n, 51, 51n, 52, 53n, 299 Colonna, famiglia, 49, 51, 54n, 57 Colonna, Isabella, 248, 251n Colonna, Laura, 251n Colonna, Pompeo, cardinale e viceré, 57, 191, 332, 332n, 346 Colonna, Prospero, duca di Traetto, 309, 309n, 310 Colonna, Vittoria, 9, 9n, 10, 12, 27, 46n, 49, 49n, 51, 52, 52n, 53, 53n, 54, 54n, 55, 55n, 56n, 58, 59n, 60, 60n, 61, 62, 62n, 63, 64, 65, 144, 187, 187n, 191, 205, 209, 219, 267, 296, 296n, 299, 332, 345, 346, 347, 350, 351, 352, 353, 384, 386, 389, 390, 391, 392, 395, 396, 399, 401 Colorni, Vittore, 376n, 419n Colotti, Mariateresa, 237n Colucci, Agnese, 373 Colucci, Stefano, 82n Coluccia, Rosario, 403n Columella Onorati, Nicola vedi Onorati, Nicola Commandino (o Commandini), Federico, 377, 425 Commandino (o Commandini), Lorrena (o Laura), 377, 425, 426 Commandino, Olimpia, 425, 426 Compagnoni, Pietro, 409n Compare, Carmela, 203, 203n Conat, Abraham, 376, 419 Conat, Estellina, 376, 419 Condello, Emma, 377n, 417n Conforti, Maria, 11, 12, 13, 17, 132n Confuorto, Domenico, 125, 125n Coniglio, Giuseppe, 144n, 145n Conrad, Anne, 196n Contarini, famiglia, 418 Contarini, Gaspare, 54 Contarini, Ludovico, 261n Contarini, Marco, 418

Conte di Lemos vedi Pedro Fernandez de Castro Andrade y Portugal, VII conte di Lemos, viceré Conte di Miranda vedi Juan de Zúñiga y Avellaneda, conte di Miranda, viceré Conte di Monterey vedi Manuel de Zúñiga y Fonseca, VI conte di Monterey, viceré Conte di Pianella, 307 Conte di Ripa Corso, 309 Contessa di Acerra vedi Avalos, Costanza d’, principessa di Francavilla Contessa di Morcone vedi Pignatelli, Costanza, contessa di Morcone Contessa di Oliveto vedi Cardona Y de Requesens, Isabella de, contessa di Oliveto Contessa di Oppido vedi Spinelli, contessa di Oppido Contile, Luca, 56, 56n, 389 Contini, Gianfranco, 31, 31n, 32 Conway, Melissa, 375n, 417n Coppini, Donatella, 406n Coppola, Domenico, 71, 71n Coppoli, Cecilia, 396n Cordova, Beatrice de, 298 Cordova, Consalvo de vedi Gonzalo Fernandez de Cordova, duca di Sessa e di Terranova, viceré Cordova, Elvira de, 298 Corfiati, Claudia, 360n, 405n Cornazzano, Antonio, 288, 359, 407, 407n Cornelio Nepote, 403n Corno, Dario, 113n Corona Alesina, Amelia, 111n Corradi, Alfonso, 125n Corsi, Stefano, 54n Corsini, Eugenio, 362n Cortese, Ennio, 344 Cortese, Isabella, 9 Cortese, Nino, 366n Cortesi, Mariarosa, 420n Corvini, Alessandro, 426 Corvino, Mattia, re d’Ungheria, 275 Cosentino, Paola, 246n Costantino I imperatore, detto il Grande, 57 Costanza, filia di Petrus de Fica, 404 Costo, Tommaso, 268 Covini, Nadia, 408n Crasso, Lorenzo, 394, 394n Craveri, Benedetta, 366n Crescimbeni, Giovan Mario, 397 Crisciani, Chiara, 127, 127n, 132n, 138n Criscuolo, Mariangiola, 271, 273, 398, 398n, 399, 399n, 401

indice dei nomi Criscuolo, Vincenzo, 187n Crisippo, 133n Crispano, Pietro Antonio, 233 Cristina da Pizzano, 191, 417 Cristina, santa, 84 Cristino, Gaetano, 82n Cristofari, Maria, 417n Cristofaro, Carmela, 366n Croce, Benedetto, 25, 26, 26n, 27, 27n, 28, 28n, 144n, 151n, 215, 215n, 220n, 223, 223n, 224n, 234, 234n, 277, 280, 280n, 283, 283n, 287n, 291n, 292n, 327n, 398, 398n, 399, 399n, 402n, 404n Cuini, Gian Francesco, 377 Cuini, Vittoria, 377 Cunningham, Andrew, 121n Curia, Francesco, 261 Curlo, Giacomo, 408n Cutolo, Alessandro, 311n, 312n, 322n, 359n, 406n Cuvato, Roberto, 183n Cybo, Caterina, 187

D

’Abano, Pietro, 116 D’Afflitto, Eustachio, 396, 396n, 397, 397n, 399n, 400, 401 D’Afflitto, Matteo, 349, 350 D’Agostino, Renata, 393n D’Alessandro, Antonio, 349 D’Alos, Ramon, 409n D’Ambrosio, Angelo, 190n D’Ambrosio, Giovanni Angelo da Saponara, 87 D’Ancona, Paolo, 408n D’Antonio, Alberto, 424n D’Aprano, Bartolomeo, 314, 315 D’Aprano, famiglia, 315 D’Argenta, Iacopo Filippo vedi Medici, Iacopo Filippo D’Ausilio, Camillo vedi Ausilio, Camillo D’Engenio Caracciolo, Cesare, 183n, 313n D’Episcopo, Francesco, 37n D’Errico, Aurelia, 22 D’India, Sigismondo, 159 D’Onofrio, Felice, 183n D’Onofrio, Vincenzo, alias Fuidoro Innocenzo, 126, 126n Da Mosto, Andrea, 418n Da Ponte, Aurelia, 420 Da Ponte, Pacifico, 420 Daenens, Francine, 362n Dal Pozzo, Modesta, alias Moderata Fonte, 250 Dalarun, Jacques, 203, 203n, 204 Dalle Donne, Sebastiano, 422n Dalzell, Alexander, 327n

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Daniele, Antonio, 60n Dares Frigio, 176n Darnton, Robert, 426n Dati, Agostino, 221 Dati, Giuliano, 421 Datini, Francesco, 125 Davies, Martin, 375n Davis, Natalie Zemon, 10, 10n, 222n, 264n, 355n Davis, Robert C., 124n De Angelis, Giuseppe, 422, 422n, 423 De Angelis, Tiberio, 422 De Baldariis, Giovanni Angelo, 72, 73, 73n, 74, 74n, 75, 76 De Bellis, Ennio, 327n De Blasi, Nicola, 32n De Blasiis, Giuseppe, 311n De Bonini, Giovanni Antonio, 407 De Caneto, Giovanni Antonio, 267, 329 De Caprio, Vincenzo, 64n De Cavi, Sabina, 146n De Cristoforo, Battista, 265 De Divitiis, Bianca, 288n De Dominici, Bernardo, 271, 271n, 273, 273n, 284, 285 De Dominici, Maria, 271n De Faggis, Angelo vedi Faggi, Angelo De Ferrariis Antonio, detto il Galateo, 41, 219, 332, 332n, 336n, 357, 361, 362, 362n, 363, 364, 364n, 365, 366, 366n, 367, 368, 379 De Gaetano, Armando L., 111n De Gennaro, Pietro Iacopo, 219 De Gregorio, Giuseppe, 377n, 417n De Gubernatis, Angelo, 25 De Hevesy, André, 409n De Iulianis, Caterina, 399, 401 De Lignamine, Giovanni Filippo, 403 De Lisio, Pasquale Alberto, 362n De Luca, Attilio, 14 De Luna, Isabella, 9, 10 De Luzenberger, Maria, 189n De Maio, Romeo, 216n, 227n, 234, 234n, 252n, 331n, 355n De Marchi, Andrea, 290n De Marchi, Neil, 222n De Marco, Giulia, suor, 151, 393, 399, 401 De Maria, Francesco, 317 De Marinis, Tammaro, 50n, 288n, 289n, 373, 404n, 405n, 406, 406n, 407n, 408n, 409n, 416n De Neroni, Simone, 302 De Nichilo, Mauro, 405n, 410n De Nicolò Salmazo, Alberta, 290n, 291, 291n

450

indice dei nomi

De Paoli, Valerio, 229 De Pietri, Francesco, 350 De Propis, Fabio, 408n De Renzi, Salvatore, 133n, 134, 135, 135n De Robertis, Teresa, 411, 411n De Rosa, Gabriele, 199, 199n De Rosa, Loise, 234, 235, 238, 408 De Rossi, Properzia vedi Rossi, Properzia De Rubeis de Valentia, Laurentius vedi Rossi, Lorenzo De Ruggero, famiglia, 135 De Silvestro, Caterina vedi Mayr, Caterina De Simone, Roberto, 23 De Stefano, Francesco Paolo, 344 De Vanis, Iacopo, 81 De Vio, Tommaso, 40, 40n, 44 De Vivo, Raffaella, 50n, 219n De Zanis, Bartolomeo, 329 Decembrio, Angelo Camillo, 405, 405n Decroisette, Françoise, 11, 13, 15, 17 Defilippis, Domenico, 11, 13, 14, 18, 229n, 230n, 234, 329n, 330n, 332n, 333n, 334n, 336n, 337n Degli Obizzi, Bartolomea, 363n Degli Ottoni, Luciano, 60 Del Balzo, Antonia, 223, 290, 293, 293n Del Balzo, Eleonora, marchesa di Crotone, 310, 310n Del Balzo, famiglia, 215 Del Balzo, Federico, 50, 54, 292, 293, 299, 300, 301, 395n Del Balzo, Pirro, 292, 293n Del Carretto Doria, Costanza, 191 Del Po, Teresa, 271n Del Soldato, Eva, 109n, 110n Del Tufo, Giovanni Battista, 237, 237n, 238, 272 Delille, Gérard, 232n, 233n Della Casa, Giovanni, 30n, 60n Della Porta, Giovan Battista, 11, 91, 91n, 92, 92n, 93, 93n, 94, 95, 97n, 98, 98n, 99, 100, 100n, 101, 101n, 103, 103n, 104, 169, 169n, 170, 170n, 171, 172, 174, 174n, 175, 176, 177, 177n, 179, 180, 262, 266, 379 Della Rocca, Alfonso, 220n Della Rovere, famiglia, 295, 307n, 386 Della Rovere, Francesco Maria II, duca d’Urbino, 425 Della Rovere, Giulia, 22 Della Rovere, Giuliano vedi Giulio II, papa Della Rovere, Isabella, principessa di Bisignano, 386, 388, 391, 392 Delle Colonne, Guido, 176n Democrito di Abdera, 117 Des Goys, Antoine, 112

Desideri, Livia, 376, 422 Deth, Ron van, 110n Di Cesare, Mario A., 362n Di Falco, Benedetto, 58 Di Fusco, Lucantonio, 378 Di Gennaro, Pietro Iacopo, 219, 292 Di Girolamo, Costanzo, 410n Di Leo, Mario, 144n Di Luca, Paolo, 410n Di Majo, Ippolita, 259n, 261n Di Meglio, Rosalba, 313n Di Napoli, Agnello, 128 Di Stefano, Emanuela, 414n Dibenedetto, Giuseppe, 363n Diekmeier, Lothar, 109n Diez de Aux, Miguel, 147, 153, 154 Dina, Achille, 297n Dionisia da Fabriano, 414 Dionisotti, Carlo, 27, 27n, 49n, 52n, 327n, 387n, 404n, 410n Ditti Cretese, 176n, 177, 177n Divenuto, Francesco, 312n Doglio, Maria Luisa, 242n, 247, 334n, 356n, 360n, 364n Dolce, Ludovico, 27, 241, 244, 244n, 245, 247, 249, 253, 253n, 254, 254n, 331 Dolla, Vincenzo, 394n Domenichi, Ludovico, 27, 27n, 245, 247, 248, 250, 251, 254, 255 Domenico da Lucca, 404n Domenico da Pistoia, 375 Dominici, Giovanni, 363n Donatello vedi Bardi, Donato, detto Donatello Donati, Clemente, 404n Doni, Anton Francesco, 156, 360n, 383, 386, 386n, 387, 387n Donia, Matteo, 266n Donzelli, Giuseppe, 127 Dor, Juliette, 417n Doria, famiglia, 389 Doria, Gino, 276n Doria, Piero, 297n Dorico, eredi, 374 Dorico, Livia, 374, 419 Dorico, Lucrezia, 373, 374, 419 Dorico, Luigi, 374, 419 Dorico, Ottavio, 374 Dorico, Valerio, 374 Dorico, Vincenzo, 374 Draghi, Antonio, 170n Dronke, Peter, 360n Du Cange, Charles, 43n Duby, Georges, 118n, 355n

indice dei nomi Duca d’Alba vedi Antonio Alvarez de Toledo y Beaumont de Navarra, V duca d’Alba, viceré Duca d’Alba vedi Fernando Alvarez de Toledo y Pimentel, III duca d’Alba, viceré Duca d’Alcalà vedi Fernando Afàn de Rybera y Enriquez, III duca d’Alcalà, viceré Duca d’Alcalà vedi Pedro Afàn Enriquez de Ribera y Portocarrero, I duca d’Alcalà, viceré Duchessa di Bari vedi Este, Beatrice d’, duchessa di Bari, poi duchessa di Milano Duchessa di Braganza vedi Caterina di Guimarães, duchessa di Braganza Duchessa di Calabria vedi Sforza, Ippolita Maria, duchessa di Calabria Duchessa di Gravina, si presume Felice Sanseverino vedova di Antonio Orsini oppure Beatrice Ferrillo, moglie di Ferrante Orsini, 230 Duchessa di Urbino vedi Gonzaga, Elisabetta, duchessa di Urbino Duindam, Jeroen, 148n Durazzo, Carlo di vedi Angiò, Carlo d’ Durazzo, famiglia, 311, 313, 317, 318, 322 Durazzo, Isabella, 126 Duval, Sylvie, 202, 202n

Echols, Anne, 133n

Edelstein, Bruce L., 218n, 273n, 277n, 359n Egenolph, famiglia, 260 Egidio da Viterbo, cardinale, 54, 55, 64, 64n Elam, Caroline, 290n Eleonora d’Aquitania, regina di Francia poi d’Inghilterra, 360n Eleonora di Guzman, viceregina, 149 Eleonora di Toledo vedi Alvarez de Toledo, Eleonora, duchessa di Firenze Elisabetta Kotromanic, regina d’Ungheria, 200, 312 Eloisa, 133n, 360, 361n Elsig, Frédéric, 276n, 287n Emilia, 309 Enciso Munumer, Isabel, 152n Engammare, Max, 215n Enrico da Colonia, 374, 375n, 419 Enrico VIII, re d’Inghilterra, 40n Epicarmo, 92 Epicuro, Marcantonio, 58 Erasmo da Rotterdam, 58, 60, 61, 247 Erauso, Catalina de, 124 Erdmann, Axel, 415n Ernesto VI, duca di Brunswick, 418 Ernst, Germana, 124, 124n, 127n Eros, medico liberto, 136

451

Esopo, 262 Esposito, Anna, 404n Esposito, Enzo, 39n Este, Alfonso d’, marchese di Montecchio, 22 Este, Alfonso I, duca di Ferrara, 22 Este, Alfonso II, duca di Ferrara, 22 Este, Beatrice d’, duchessa di Bari, poi duchessa di Milano, 290, 294, 297n, 303 Este, Borso d’, 404 Este, Diana d’, 299 Este, Eleonora d’, 12, 21, 22, 23 Este, Ercole d’, duca di Ferrara Modena e Reggio, 217, 218, 273, 287, 288, 299, 300, 301, 359 Este, famiglia, 260n, 274, 287, 288, 299, 300, 301 Este, Isabella d’, marchesa di Mantova, 287, 288, 289, 290, 291, 291n, 293, 294, 295, 295n, 296, 297, 297n, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309n, 310n, 395n Este, Leonello d’, 221n, 288, 290 Estienne, Henri, 381, 416 Estienne, Robert, 111 Etienne, Noémie, 276n, 287n Euclide di Megara, 425 Eudocia Augusta, moglie di Teodosio II, imperatore d’Oriente, 9 Eugammone di Cirene, 176n Euripide, 284 Eusebio, Delia, 77n Evangelista da Pavia vedi Presenzani, Evangelista, detto Evangelista da Pavia Extermann, Grégoire, 276n, 287n

F

abiani, Giuseppe, 422n, 424n Facca, Danilo, 109n Facciotti, Antonio, 376n Facciotti, Francesco, 376n Facciotti, Giacomo, 376n Facciotti, Guglielmo, 376n, 419 Facciotti, Pietro Antonio, 376n Faggi, Angelo, 59n, 60 Fahy, Conor, 356n Fahy, Everett, 318, 318n, 320n, 321, 321n Falcone, Aniello, 228n Fallace, Maurizio, 14 Fantazzi, Charles, 55n, 327n Fantoni, Marcello, 215n, 216n, 356n Faral, Edmond, 132n Farenga, Paola, 403, 403n, 407n Farge, Arlette, 264n, 355n Farnese, Alessandro vedi Paolo III, papa Farnese, Alessandro, cardinale, 385 Fascitelli, Onorato, 49, 54, 58, 58n, 59n, 60, 60n, 65 Fausina vedi Rhea, Feba

452

indice dei nomi

Favaretto, Gerardo, 110n Febronia, santa, 84 Fèbvre, Lucien, 413, 413n Fedele, Benedetto, 380 Federico d’Aragona, re di Napoli, 50, 50n, 219, 223, 291, 291n, 293, 296, 296n, 297, 299, 300, 301, 308, 387, 411 Federico II di Svevia, imperatore, re di Sicilia e di Gerusalemme, re dei Romani, 69, 346 Federico III (II) d’Aragona, re di Sicilia, 42 Fedi, Roberto, 27n, 30n, 33n Fenzi, Enrico, 117n Fera, Vincenzo, 404n Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, detto Ferrante, 44, 144, 217, 220, 222, 273, 276, 279, 284, 287, 287n, 288, 292, 293, 294, 296, 297, 299, 300, 301, 310, 310n, 349, 384, 405, 406, 410 Ferdinando I d’Asburgo, imperatore, 111, 112 Ferdinando I, re d’Aragona e di Sicilia, detto Ferdinando d’Antequera, 134 Ferdinando II d’Aragona re di Napoli, detto Ferrandino, 50n, 52, 233, 295, 297, 411 Ferdinando il Cattolico, II d’Aragona, III di Napoli, 50n, 233, 296, 296n, 297, 298, 309, 310 Ferino-Pagden, Sylvia, 54n, 291n Fernandez, Dominique, 27 Fernando Afàn de Rybera y Enriquez, III duca d’Alcalà, viceré, 129 Fernando Alvarez de Toledo y Pimentel, III duca d’Alba, viceré, 220 Fernando Ruiz de Castro, VI conte di Lemos, viceré, 152, 152n, 396 Ferrandino vedi Ferdinando II d’Aragona re di Napoli, detto Ferrandino Ferrante, vedi Ferdinando I d’Aragona re di Napoli, detto Ferrante Ferrari, Daniela, 302n Ferrari, Monica, 403n, 406n Ferrero, Ermanno, 54n Ferrero, Giuseppe Guido, 389n Ferroni, Giulio, 29 Festa, Costanzo, 219 Festa, Gianni, 201n Festa, Giovanni Battista, 359n Fiandino, Ambrogio, 57 Ficca, Flaviana, 355n Ficino, Marsilio, 55, 64, 221 Fiera, Battista, 308 Fieramosca, Guido, conte di Mignano, 351 Figlie di don Pedro de Toledo vedi Alvarez de Toledo, Ana e Alvarez de Toledo, Eleonora Figlio naturale di Ferrante d’Aragona vedi Castellana, Ferdinando di, duca di Montalto

Filangieri, Riccardo, 233n, 280, 280n, 281n, 282, 284, 313, 313n, 314n Filiberto di Chalons, principe d’Orange, viceré, 351 Filippini, Nadia Maria, 124n Filippo II, re di Spagna, 145, 350 Filippo III, re di Spagna, 152 Filòpono vedi Giovanni Filòpono Finucci, Valeria, 336n Finzi, Claudio, 41n Fiorato, Charles Adelin, 32n Fiore, Francesco Paolo, 111n, 405n Fiorelli, Vittoria, 151n, 199n, 273n Fiorentino, Francesco, 255n Fiorino, Tonia, 11, 12, 17, 71n Firpo, Massimo, 57n, 58n Flaminio, Marcantonio, 49, 60n, 62, 63, 187n Floriani, Piero, 335n Fodale, Salvatore, 291n, 308n Folengo, fratelli, 49, 54, 60, 61, 65 Folengo, Giambattista, 59, 59n, 61 Folengo, Teofilo, 59, 59n, 60, 60n, 61 Folin, Marco, 217n, 218n, 273n, 274n, 359n, 365n, 410n Fontana, Domenico, 146 Fontanelli, Alfonso, 22 Fontanini, Benedetto vedi Benedetto da Mantova, al secolo Benedetto Fontanini Foresti, Iacopo Filippo, 360, 365n Fors, Lynne M., 416n Fortini, Anna, 398 Fortunati, Vera, 272n, 282 Foscarini, Paolo Antonio, 379 Fragnito, Gigliola, 60n Fragonard, Marie-Madeleine, 215n France, Anatole, 22 Francesca di Ippolita, 373 Franceschi, Franco, 222n Franceschini, Camillo, 425 Francesco da Barberino, 359 Francesco da Reggio, 187 Francesco d’Assisi, santo, 80 Francesco I di Valois, re di Francia, 26, 31 Franchi, Saverio, 374, 374n, 379, 379n, 419n, 422n Francisca uxor Mathei de Romana de Salerno, 134 Francisco Gómez de Sandoval y Rojas, duca di Lerma, 152 Francisco Ruiz de Castro y Portugal, VIII conte di Lemos, viceré, 152, 396 Franco, Giacomo, 261 Franco, Niccolò, 220 Franco, Veronica, 28 Franzone, 309

indice dei nomi Fratta, Giovanni, 384 Frattarolo, Renzo, 372, 372n Freccia, Marino, 347 Frisolino, Domenico, 425 Frugoni, Chiara, 203, 203n Fuidoro, Innocenzo vedi D’Onofrio, Vincenzo, alias Fuidoro Innocenzo, 126, 126n Fullone, Pietro, 83 Fumagalli Beonio Brocchieri, Mariateresa, 360n Fumagalli, Giuseppe, 371, 419n Fumo, Nicola, 86 Funerio, Giovan Battista, 351 Furlan, Francesco, 358n, 359n

Gabrielli, Giulio, 424n

Gaetano da Thiene, santo, 80, 186, 187, 188, 190 Gagini, Antonello, 77, 83 Gagini, Domenico, 83 Gaglione, Mario, 191n, 311n, 355n, 359n Galasso, Giuseppe, 38n, 41n, 192n, 193n, 199, 199n, 205n, 215n, 216n, 217n, 222n, 223n, 227n, 280n, 291n, 333n, 359n, 366n, 399n, 402n Galateo vedi De Ferrariis, Antonio, detto il Galateo Galati, Vito Giuseppe, 398n Galeno, 115, 122, 124, 332 Galeota, Mario, 57, 58n, 187n Galetti, Paola, 414n Galizzi, Diego, 409n Galli, Giuseppe, 375n Gallo, Antonio Maria, cardinale, 424 Gallo, Giacomo, 232n Galuppi, Baldassarre, detto il Buranello, 170n Gambacurta, 302, 303, 304 Gambacorta, Chiara, 202 Gambardella, Alfonso, 282n Gardane, Diamante, 420 Gardane, Lucietta, 420 Gareth, Benet, detto il Cariteo, 49, 219, 292, 299, 300, 301 Gargano, Antonio, 38n Gargano, Giovanni Battista & Nucci, Lucrezio, 262n Gargano, Trifone, 25n Gargiulo, Domenico, detto Micco Spadaro, 87 Garin, Eugenio, 9n, 170n, 355n, 406n Garnica, Juan de, 147, 153, 154 Garzia de Toledo vedi Alvarez de Toledo, Garzia Garzilli, Paolo, 233n Garzoni, Tommaso, 9, 9n, 156 Garzya, Antonio, 378n, 417n

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Gaspar de Haro y Guzmàn, VII marchese del Carpio, viceré, 125 Gasparo di Dinslaken, 420 Gasparotto, Davide, 293n Gasparri, Andrea, 327n Gasperoni, Lucia, 372n Gatella, Giuseppina, 415n Gatti, Simona, 59n, 60n Gattucci, Adriano, 204n Gaudino, Antonia, 278 Gaurico, Luca, 221 Gaurico, Pomponio, 58, 273, 273n, 283 Gelao, Clara, 80n Gelli, Giovan Battista, 109n, 110, 111, 111n, 112, 112n, 113 Genette, Gérard, 383, 383n Gennaro, santo, 86 Gentilcore, David, 124, 124n, 126, 126n, 127, 129, 130 Gentilesca da Camerino, 414 Gentili, Vanna, 362n Gerli, Paolo, 408n Germaine de Foix, regina d’Aragona, 298 Gervasi, Nicola, 398 Gesù Cristo, 71, 75, 78 Gesualdo, Alfonso, cardinale, 22 Gesualdo, Alfonso, figlio di Carlo, 22 Gesualdo, Carlo, 12, 21, 22, 23 Gesualdo, don, 93 Gesualdo, Emanuele, 22, 23 Gesualdo, famiglia, 21 Getty, Paul, 406 Gherardo di Giovanni, 409 Ghiglione, Alessandra, 336n Ghirardi, Angela, 272n Ghislieri, Francesco, 422 Giallongo, Angela, 359n, 410n Giannantonio, Pompeo, 43n, 58n Giannetti, Anna, 218n, 237n Giannone, Pietro, 128, 128n Giano Nicio Eritreo vedi Rossi, Giovanni Vittorio, alias Giano Nicio Eritreo Giglio, Domenico, 422 Giglioni, Guido, 124n Gigliotti, Giovanni, 377 Gigliucci, Roberto, 56n Giliani, Alessandra, 133 Gimma, Giacinto, 396, 396n, 400, 401 Ginzburg, Carlo, 60, 60n Ginzburg, Silvia, 259n Giochi, Filippo Maria, 423n, 425n Gioioso Antonio, eredi, 421 Gioioso, Antonio Maria, 422

454

indice dei nomi

Gioioso, Antonio, 421, 421n Gioioso, Beatrice, 422 Gioioso, Francesco, 421, 422 Giolito De Ferrari, Chiara (Clara), 374, 374n, 419 Giolito De Ferrari, famiglia, 245, 265 Giolito De Ferrari, Gabriele, 27, 245, 246, 254, 330, 331 Giolito De Ferrari, Giovanni Francesco, 374n, 419 Giordano, Amalia, 296n Giordano, Luca, 84 Giordano, Rita, 381n, 413n Giovanna ‘l’Antimonio’, 126 Giovanna d’Aragona figlia, regina di Napoli, 296, 297, 298, 308, 309 Giovanna d’Aragona madre, regina di Napoli, 294, 295, 296, 296n, 297, 298, 308, 309, 399, 400 Giovanna da Fabriano, 414 Giovanna I d’Angiò, regina di Sicilia, 184, 200, 278n, 311, 311n, 318, 322, 323, 348, 399 Giovanna II d’Angiò, regina di Sicilia, 235, 311, 313, 319n, 359, 395, 399, 400 Giovanna III vedi Giovanna d’Aragona madre, regina di Napoli Giovanna, figlia di Fernando Afàn de Ribera y Enriquez, III duca d’Alcalà, viceré, 129 Giovanna, suor, al secolo Eustochia Ayerba, 189 Giovanni Crisostomo, santo, 364 Giovanni da Colonia, 420 Giovanni da Nola vedi Merliano, Giovanni, detto Giovanni da Nola Giovanni da Spira, 420 Giovanni dalle Bande Nere, 365n Giovanni Damasceno, santo, 39 Giovanni di Assisi, 133 Giovanni Evangelista, santo, 39, 75, 75n Giovanni Filòpono, 116n Giovanni II re d’Aragona, I di Navarra, 296 Giovanni V di Braganza, re di Portogallo, 50n Giovannini, Anna, 374, 375n, 420 Giovannini, Giampietro, 375n Giovannini, Giovanni Pietro, 375n Giovannini, Vittoria, 375n, 420 Giovenale, Decimo Giunio, 221 Giovio, Paolo, 55, 55n, 56, 57, 57n, 58, 60n, 220, 221, 295n, 327, 327n, 389, 389n Giraldi, Giovan Battista (Cinzio Giovan Battista), 170 Girolama, moglie di Gasparo di Dinslaken, 420 Girolamo da Monopoli, 184, 184n, 185 Girolamo, santo, 133n, 247, 363, 363n, 364 Gisulfo II, principe di Salerno, 131 Giubari, Cornelia, 424

Giubari, famiglia, 424n Giubari, Giovanni, 423, 423n, 424 Giubari, Valeria, 424 Giuliana, santa, 84 Giuliani, Gianbernardino, 149, 149n Giulio Cesare da Varano, principe di Camerino, 205 Giulio II, papa, 52 Giunta, Filippo, eredi, 329 Giusberti, Fabio, 42n Giustina da Camerino, 414 Giustiniani, Lorenzo, 397, 397n, 416, 416n Giustino, Marco Giuniano, 408 Godefroy, Theodore, 148 Goffis, Cesare, 59n Goldhwaite, Richard A., 222n Gonelli, Lidia Maria, 411n Gongora y Argote, Luis de, 165 Gonzaga, Eleonora, 294, 306, 306n Gonzaga, Elisabetta, duchessa di Urbino, 295, 295n, 305, 307, 309, 309n, 403, 405 Gonzaga, famiglia, 287, 290, 295 Gonzaga, Francesco, marchese di Mantova, 290, 290n, 293, 299, 300, 301, 303, 304, 306, 308 Gonzaga, Gianfrancesco, conte di Rodigo, 290, 293 Gonzaga, Giovanni, 306, 310 Gonzaga, Giulia, 58n, 62, 144, 187n, 206, 209 Gonzaga, Ippolita, 396 Gonzaga, Isabella, 388 Gonzaga, Lucrezia, 244n Gonzaga, Ludovico III, marchese di Mantova, 293 Gonzalo Fernandez de Cordova, duca di Sessa e di Terranova, viceré, 298, 309, 310 Gorni, Guglielmo 28n Gottardi, Michele, 152n Granai Castriota, Giovanni, duca di Ferrandina, 233 Grande Capitano vedi Gonzalo Fernandez de Cordova, duca di Sessa e di Terranova, viceré Grandi, Astolfo, 423 Grandi, Chiara, 376, 423, 424 Granese, Alberto, 25n, 246n, 283n Gravina, Pietro, 58 Graziani, Irene, 272n, 282 Graziano, Patrizia, 277n, 281n Graziosi, Elisabetta, 205n Grazzini, Antonfrancesco, detto il Lasca, 26 Gréban, Arnoul, 75 Greci, Roberto, 415n Greco, Aulo, 50n, 292n

indice dei nomi Greco, Franco Carmelo, 71, 88 Greco, Giorgio, 375, 375n, 417 Greco, Lucrezia, 375n Green, Monica H., 123, 123n, 124, 133n, 134n, 135n, 136, 136n, 138, 138n, 139 Gregorio I, detto Magno, papa e santo, 409 Gregorio, Oreste, 190n Grell, Ole Peter, 121n Griggio, Claudio, 362n Grignani, Maria Antonietta, 25, 25n, 28n, 29, 30n, 34n Grimaldi, Floriano, 424n, 425n Grisone, Federico, 352 Grisone, Michelangelo, 352 Groppi, Angela, 10n, 227n, 414n Grossi, Francesco, 375n, 420 Grossi, Giovanni Pietro, 375n Guaimaro IV, principe di Salerno, 131 Guardati famiglia, 42, 45 Guardati, Alferius, 45 Guardati, Tommaso, detto Masuccio Salernitano, 12, 37, 37n, 38, 39, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 408 Guardati, Zaccarias, 45 Guardatus Matthaeus, 45 Guardiani, Francesco, 11, 13, 15, 17, 159n Guarducci, Giampiero, 420n Guarini, Battista, 170, 290 Guarna, Rebecca, 134 Guarnieri, Caterina, 203, 396n Guazzo, Stefano, 243, 243n, 253 Guelfi, Geremia, 419 Guelfi, Isabella, 373 Guelfi, Porzia, 373 Guerra Medici, Maria Teresa, 414n, 415n Guerra, Enrica, 359n, 410n Guerzoni, Guido, 217n, 222n Guglielminetti, Marziano, 165n Guidi, José, 362n Gulia, Luigi, 288n Gustarelli, Andrea, 44n Gutenberg, Johan, 155 Guzman, famiglia, 149

Habermas, Tilmann, 110n

Hallman, Berthold Louis, 58n Hamburger, Jeffrey, 202, 202n Haywood, Eric, 327n Henderson, Charles jr., 58n Hendrix, Harald, 52n Henneau, Marie Elisabeth, 417n Herklotz, Ingo, 288n Hermann, Hermann Julius, 288n Hernando Sanchez, Carlos Jose, 144n, 145n, 149n, 218n

455

Herricus Unrici, magister, 404n Hersey, George L., 279, 279n, 280, 280n, 281, 281n, 282, 284 Hibbard Beech, Beatrice, 416n Hiersemann, Conrad, 135, 135n Hillen, Michiel, 331 Hillenium, Michaelum vedi Hillen, Michiel Hills, Helen, 196n, 205n, 206, 206n, 208, 208n Hoch, Adrian S., 278n Hohenzollern, Barbara di, marchesa di Mantova, 293 Hóman, Bálint, 312n Hondedio di Vitale, 217n Horowitz, Maryanne Cline, 118n Howe, Elisabeth Teresa, 242n Hsia, Ronnie Po-chia, 199n Hufton, Olwen, 216n Hughes, Muriel, 135, 135n Hugo de Moncada, viceré, 310, 310n Hull, Suzanne W., 416n Hunter, Lynette, 127n Hurd-Mead, Kate Campbell, 132, 132n, 133n, 134n, 135, 135n Hutton, Sarah, 127n

I

acono, Antonietta, 43, 43n, 44 Ieronima, uxor di Donati Clemente, 404 Ilardi, Vincent, 406n Ildegarda di Bingen, santa, 360n Illibato, Antonio, 184n Imberti, Domenico, 424 Imberti, famiglia, 424 Imperia, al secolo Cognati, Lucrezia, 9, 10 Ingegneri, Giovanni, 263n Innocenzo VIII, papa, 290, 296n Innocenzo XI, papa, 414n Insana, Jolanda, 97n Iohannes Fersoris, 404 Iriarte Lázaro, 188n Iro da Venecone vedi Novati, Francesco, alias Iro da Venecone Irpino, Enea, 219, 292 Isabella del Balzo, regina di Napoli, 46n, 223, 224, 291, 291n, 293, 295n, 297, 299, 300, 301, 308, 308n, 387, 395n, 411 Isabella di Castiglia, 366 Isabella di Chiaramonte, regina di Napoli, 46n, 217, 276, 276n, 287, 287n, 405, 406, 411, 412 Isabella, regina d’Ungheria, 219 Isocrate, 409 Iurilli, Antonio, 41n, 362n Iusi, Francesco, 385n Iusi, Maggiorino, 393n

456

indice dei nomi

Jacazzi, Danila, 282n

Jacobina, figlia di Bartolomeo, 133 Jacottet, Philippe, 172n Jacquart, Danielle, 131n Jasolino, Giulio, 49, 49n, 128, 129n, 390, 390n Jenson, Nicolas, 420 Jeronimo de Fulgure, 71 Jodogne, Pierre, 365n Joele, Luigi, 380 Jommelli, Niccolò, 170n Jordan, Costance, 10, 10n Juan de Zúñiga y Avellaneda, conte di Miranda, viceré, 21, 93 Juratic, Sabine, 416n Justiniano, Juan, 242n

K

aftal, George, 312n Kelly, Joan, 356n Kelso, Ruth, 363n Kendrick, Robert L., 207, 207n King, Helen, 118n, 123, 123n King, Margaret L., 10, 10n, 216n, 355n Klapisch-Zuber, Christine, 10, 10n Klimm, Franz, 108n Kraut, Georg, 135, 135n Kristeller, Paul Oskar, 290n, 407n Kruse, Britta-Juliane, 136n Kuehn, Thomas, 415n

L’Abbate, Vito, 409n

L’Hermite-Leclercq, Paulette, 348 L’Occaso, Stefano, 290n La Bruyère, Jean de, 262 La Vigne, André de, 232n, 233n Labriola, Gina, 27n Labrot, Gérard, 218n Ladislao d’Angiò Durazzo, re di Sicilia, 311, 312, 312n, 313, 319n, 321, 321n, 322, 323 Lama, Giovan Battista, 84 Lanario, Giovanni Antonio, 350 Landi, Angela, moglie di Agostino Nifo, 327 Landino, Cristoforo, 221 Landulfo, Agostino, vescovo di Montepeloso, 143 Lange, Iohannes, 109n Laqueur, Thomas, 122 Larivaille, Paul, 327n, 329n Larson, Keith Austin, 219n Lasca vedi Grazzini Antonfrancesco, detto il Lasca Lascaris, Costantino, 407 Lattanzio, Cecilio Firmiano, 332n

Laurentius de Rubeis de Valentia vedi Rossi, Lorenzo Lautrec, Odet de Foix, visconte di, 351, 353 Lavarra, Caterina, 410n Lazzarini, Isabella, 293n Lazzaro, 74, 75, 76 Lee, Charmaine, 132n Lega, Giovan Domenico, 144 Legaré, Anne-Marie, 287n Lehmijoki-Gardner, Maiju, 201n Lemos, famiglia, 152n Leni, Francesco, 420n Lentulo, Colantonio, 288 Lenza, Cettina, 11, 13, 18, 282n, 399n Lenzi, Maria Ludovica, 9, 10, 10n, 355n, 363n León, Luis de, 268 Léonard, Émile G., 311n Leonardi, Claudio, 205n Leonardi, Giovanni, 264n, 391, 391n Leonardo da Besozzo vedi Molinari, Leonardo, detto Leonardo da Besozzo Leonardo da Pistoia, 250n, 252n Leonardo da Vinci, 223, 292 Leone de Castris, Pierluigi, 41, 41n, 54, 54n, 79n, 220n, 259n, 313n Leone X, papa, 40n, 53, 185, 185n, 309n, 329 Leone, Ambrogio, 329, 329n Lepre, Aurelio, 366n Lerma, duca di vedi Francisco Gómez de Sandoval y Rojas, duca di Lerma Letizia da Fabriano, 414 Letto, Alessandrina da, 396, 396n, 399, 401 Linden, Johann Antonides van der, 372 Lipari, Giuseppe, 380, 380n Liviani, Gasparo, 78 Livio, Tito, 221, 407, 408n Lodiani, N., 78 Lolli, Pierpaolo, 425 Lombardi, Daniela, 235n Lombardi, Giovanni Francesco, 384n Longo, Giovanni (Lonc, Joan), 183, 183n Longo, Maria, in religione Maria Lorenza, da nubile Maria Richenza, 13, 183, 183n, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 190n, 191, 196, 197, 398n, 399, 399n, 401 Longo, Speranza, 183 Longo, Tarquinio, 262n, 264, 378 López de Mendoza y Zúñiga, Íñigo, cardinale, 351 López Ríos, Santiago, 291n, 411, 411n López Suarez, Mercedes 11, 13, 18 Lopez, Pasquale, 57n Lopez-Cordon, Maria Victoria, 149n

indice dei nomi Lowry, Martin, 420n Luca da Penne, 348 Luca, santo, 75, 75n Lucco, Mauro, 290n Lucia amalfitana, 126 Lucia, santa, 69, 84, 85, 86, 87 Luciano, 113 Luigi I il Grande, re d’Ungheria e di Polonia, 311, 312, 318, 319, 322 Luigi I, d’Angiò, re di Sicilia, 200, 311, 311n, 312 Luigi II, d’Angiò, re di Sicilia, 312 Luigi XII, re di Francia, 50n, 296n Luigini, Federico, 244, 244n, 249, 251, 253n, 254n Luise, Flavia, 11, 12, 17, 49n Luna, Fabrizio, 52n, 58n, 254 Lunardi, Tiberio, 266, 266n Luongo, Gennaro, 407n Luongo, Thomas, 200 Luparia, Paolo, 58n Lupis, Antonio, 41n, 333n, 359n Lutero, Martin, 40n Luzio, Alessandro, 59n, 287, 287n, 290n, 291, 291n, 295n, 298n, 299n, 302n, 303n, 304n, 305n, 306n, 307n, 308n

M

acchiavelli, Gianni, 378n, 416n Macedonio, Marcello, 264 Machiavelli, Niccolò, 52n, 92, 327n, 329, 329n Maclean, Ian, 107, 107n, 108n, 118n, 121, 122, 122n, 123 Maconi, Stefano, 202 Maestro di Carlo di Durazzo, 317n, 319n Maestro di Ippolita Sforza, 289 Maffei, Fabrizio, 229 Maffei, Giovanni Camillo, 229, 230, 232 Maffei, Nicola, 144, 145n Magnati, Vincenzo, 190n Magnavacca, Silvia, 358n Mahoney, Edward P., 327n Mailar, Andrea, 50n Maiorini, Ligorio, 315 Maître, Jacques, 109n, 110n Maiuri, Amedeo, 276n Malacorona, Rodolfo, 132 Malatesta degli Obizzi, Ginevra, 390 Malatesta, Battista, 203 Malatesta, Carlo, 308 Malatesta, Galeazzo, 364n Malena, Adelisa, 151n Malfi, Tiberio, 127 Malvico, Tommaso, vedi Malvito, Tommaso Malvito, Tommaso, 329 Mancinelli, Nicoletta, 11, 12, 17

457

Mancini, Roberto, 336n Mandosio, Prospero, 416 Manfredi, Michele, 404n Mango, Achille, 170n Manlio, Ferdinando, 145 Mannarino, Cataldo Antonio, 265, 266 Manni, Lattanzio, 374 Manni, Porzia, 374 Manolessi, Carlo, 425 Manolessi, Francesco, 425 Manolessi, Giovanni Antonio, 425 Mantegna, Andrea, 13, 290, 290n, 291, 294, 299, 300, 301, 302, 304, 308 Manthen, Giovanni, 420 Manuel de Zúñiga y Fonseca, conte di Monterey, viceré, 148, 149, 153 Manuzio, Aldo, 155 Manuzio, Paolo, 422 Manzi, Pietro, 378, 378n, 385, 385n Manzo, Elena, 282n Map, Walter, 133n Marangoni, Michela, 358n Marascelli, Riccardo, 80n Marcadé, Jean Claude, 75 Marcatto, Dario, 58n Marchand, Jean-Jacques, 327n Marchesa di Massa, 299 Marchese del Carpio vedi Gaspar de Haro y Guzmàn, VII marchese del Carpio, viceré Marchese di Montecchio vedi Este, Alfonso d’, marchese di Montecchio Marchese, Cassandra, 387, 394, 395, 399, 401 Marchina, Marta, 395, 395n, 398, 398n, 399, 401 Marciani, Corrado, 420n Marco Aurelio, imperatore, 280 Marco Evangelista, santo, 75, 75n Marcolini, Francesco, 384 Marcucci, Laura, 282n Maremonte, famiglia, 224 Marescotti, Cristoforo, 375, 420 Marescotti, Giorgio, 375, 420 Marescotti, Margherita, 375, 420 Margherita d’Angiò Durazzo, regina di Sicilia, 13, 38, 278n, 311, 311n, 312, 312n, 313, 314, 314n, 315, 316, 316n, 317, 321, 322, 323, 409 Margherita d’Austria, 143 Margherita da Camerino, 414 Margherita di Antiochia, santa, 13, 312, 312n, 317, 322, 323 Margherita di Valois, duchessa di Savoia, 62, 390 Margherita, domestica di Isabella d’Este, 302, 303, 305 Margolin, Jean-Claude, 32n

458

indice dei nomi

Mari Michele, 327n Maria d’Angiò, regina d’Ungheria, 319 Maria d’Enghien, regina di Sicilia, 403n Maria de Zúñiga, viceregina, 391 Maria del Portogallo vedi Maria di Castiglia, regina del Portogallo Maria del Vasto vedi Aragona Maria d’, marchesa del Vasto Maria di Betania, 74, 75, 76 Maria di Castiglia, regina del Portogallo, 362, 365 Maria di Castiglia, regina di Napoli, 284 Maria di Champagne, contessa di Fiandra e di Hainaut, 360n Maria di Francia, 132 Maria di Lusignano, regina di Napoli, 313, 321 Maria Maddalena, santa, 74, 75, 76 Maria Ossorio Pimentel, marchesa di Villafranca, viceregina, 145, 149, 275, 278, 284, 285 Mariconda, Tommaso, 38 Marietta, suor, 417 Marinelli, Lucrezia, 250, 365n Marino, Giovan Battista, 155, 156, 157, 158, 158n, 159, 163, 164, 164n, 165, 165n, 166, 167 Marland, Hilary, 124n Marliano, Bartolomeo, 221 Marmontel, Jean-François, 170n Maroi, Lina, 245n Marra, Ludovico, 187 Marrocco, Dante, 311n, 312n Marshall, Sherrin, 417n Marta, santa, 74, 313 Martelli, Mario, 327n Martelli, Sebastiano, 25n, 246n, 283n Martellini, Sebastiano, 424 Martignone, Vercingetorige, 62n Martin, Henri-Jean, 413, 413n, 416n Martin, Kurt, 109n Martino Polono, 407, 407n, 408 Martirano, Bernardino, 57, 220 Martirano, Coriolano, 57 Martirano, fratelli, 58 Martirano, Maurizio, 109n Martorelli, Baldo, 289, 403, 403n, 406, 406n, 408 Martuscelli, Domenico, 398n Marullo, Michele, 221 Marzia, figlia di Varrone, Marco Terenzio, 272, 272n Marzia, Giulia Martina, 230 Marziale, Marco Valerio, 221 Masaccio vedi Tommaso di Ser Giovanni di Mone di Andreuccio detto il Masaccio Masetti Zannini, Gian Ludovico, 373, 373n, 377, 377n, 419n, 422, 422n

Mason Perkins, Lucie, 318n Masselli, Grazia Maria, 361n Massimilla, Edoardo, 109n Mastrorosa, Ida, 358n Mastrostefano, Gaetano, 327n Masuccio Salernitano vedi Guardati, Tommaso, detto Masuccio Salernitano Matarrese, Tina, 411n Matteo de Romana, 134 Matteo, santo, 75, 75n Matter, E. Ann, 207n Matthew, Louisa C., 222n Matthews-Grieco, Sara F., 260n, 263n, 356n Mattia da Salò, al secolo Paolo Bellintani, 183n, 187, 188n, 189, 189n Mattia I Corvino, re d’Ungheria, 218, 219, 297, 359, 360, 409 Mattioli, Umberto, 362n Mauruzi, Paola, 414 Mayer, Elisabetta, 404n Mayer, Thomas Frederick, 206, 208 Mayr, Caterina, 329, 374, 374n, 378, 378n, 379, 416, 419 Mayr, Sigismondo, 374, 374n, 378, 416, 419 Mazza, Antonio, 134, 134n Mazza, Giacomo, 378 Mazzacurati, Giancarlo, 31, 32n, 215, 216n, 224, 225 Mazzantini, Marcantonio, 426 Mazzarella, Andrea, 395, 398 Mazzella, Scipione, 315n Mazzoleni, Bianca, 312n Mazzoni Dami, Daniela, 358n Mazzoni, Guido, detto il Modenino, 69, 69n, 70, 71, 72, 76, 79, 273, 275 Mazzucchelli, Giovanni Maria, 58n, 396, 397, 397n, 416, 416n Mazzucco, Clementina, 362n McKenzie, Donald F., 383, 383n McLuhan, Marshall, 155, 155n, 156, 166, 167 Medici, Alessandro de’, 143 Medici, Cosimo I de’, duca di Firenze, granduca di Toscana, 108, 109, 110, 209, 386n, 389 Medici, famiglia de’, 52 Medici, Iacopo Filippo, 288n Medina de las Torres, viceré vedi Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres, viceré Mei, Mauro, 421n Melani, Iacopo, 170n Mellini, Girolamo, 379 Melograni, Anna, 289n Menandro, 92

indice dei nomi Menato, Marco, 371n, 372n, 374, 374n, 375, 375n, 376, 377n, 416n, 418n, 419n, 422n, 423n Mendoza cardinal vedi López de Mendoza y Zúñiga, Íñigo, cardinale Mendoza, Anna de, 388 Mendoza, Estefania de, moglie di don Diego d’Aragona, 151 Menegazzo, Emilio, 59n Mercati, Giovanni, 53n Mercuri, Simona, 327n Mercuriade, chirurga, 134 Meriggi, Marco, 149n Merisi, Michelangelo, detto il Caravaggio, 76, 77, 86, 87 Merliano, Giovanni, detto Giovanni da Nola, 80, 275, 278 Messi, Pietro, 203, 203n, 204n Messina, Pietro, 294n Messisburgo, Cristoforo, 260 Mezzapesa, Pietro, 80n Micco Spadaro vedi Gargiulo, Domenico, detto Micco Spadaro Miccoli, Giovanni, 203n Michetti, Raimondo, 200n Michiel, Marcantonio, 276 Miele, Lucia, 41n, 359n, 404n Miele, Michele, 58n, 151n, 184n, 193n, 195n Miglio, Luisa, 10, 10n, 376n, 377n, 417, 417n Miglio, Massimo, 57n, 403n Milani, Maddalena, 374 Minieri Riccio, Camillo, 327n, 393, 396, 396n, 397n, 398, 399, 399n, 400, 401, 402, 402n Minonzio, Franco, 56n, 327n Minturno, Antonio, 49, 58 Miraglia, Antonella, 79n Misiti, Maria Cristina, 413n, 424n Miziolek, Jerzy, 320n, 321n Mocciola, Luciana, 11, 13, 18, 313n, 318n Modigliani, Anna, 404, 404n Moglie del conte di Monterey vedi Eleonora de Guzman, viceregina Moglie del marchese del Carpio vedi Teresa Enriquez de Cabrera, viceregina Moglie di Agostino Nifo vedi Landi, Angela Moglie di don Diego d’Aragona vedi Mendoza, Estefania de Moglie di don Diego Pimentel, 151 Moglie di don Pedro de Toledo vedi Maria Ossorio Pimentel, marchesa di Villafranca, viceregina Molinari, Leonardo, detto Leonardo da Besozzo, 321 Moller Okin, Susan, 118n

459

Mollo, Roberto, 378 Mombrizio, Bonino, 407, 407n Momesso, Stefano, 290n Monaco, Giuseppina, 376n Moncada, Tommaso, 293, 299, 300, 301 Mondino dei Liucci (o Liuzzi), 133 Monforte, Antonia, 192 Monforte, Federico di, 351, 352 Moniglia, Giovanni Andrea, 170n Monson, Craig A., 207, 207n Montalto, Lina, 43n, 276n Montanile, Milena, 11n, 262n Montbell, Francesca de, principessa di Sulmona, 347 Montefeltro, Agnesina di, 51, 51n Montefeltro, Battista di, 364n Montefeltro, Buonconte di, 51n Montefeltro, Federico di, duca di Urbino, 51n, 221n Montefeltro, Guidoubaldo I di, duca d’Urbino, 405 Montella, Luigi, 246n Montesano, Pasquale, 26n Monteverdi, Claudio, 170n Monti Sabia, Liliana, 37n, 44n, 338n, 411n Monti, Scipione de, 394, 394n Monti, Sertorio, 423 Moores, John D., 404n Morabito, Giovanni Domenico, 259 Moranti, Luigi, 425n Moranti, Maria, 426n Mordenti, Alessandro, 423n, 425n Mordenti, Raul, 39n Morelli di Gregorio, Nicola, 398 Moreschini, Claudio, 363n Moretti, Marcantonio, 377 Morfea, Stefania, 15 Morghen, Guglielmo, 395, 398, 398n Morison, Stanley, 52n Moro, Donato, 41n, 362n Morone, Giovanni, cardinale, 221 Morra, Giovan Michele di, 26 Morra, Isabella di, 12, 25, 25n, 26, 27, 27n, 28, 29, 29n, 30, 30n, 31, 31n, 32, 32n, 33, 34, 34n, 35, 144, 215, 245, 395, 396, 399, 401 Morra, Marco Antonio di, 25 Mosca, Gaspare, 314n Moscone, Marcello, 405n Mostaccio, Silvia, 202, 202n Motta, Uberto, 356n Mozzarelli, Cesare, 366n Mueller, Reinhold C., 222n Muir, Edward, 148n

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indice dei nomi

Mulas, Pier Luigi, 289n Müller, Giuseppe, 54n Müller, Johann, detto il Regiomontano, 409 Munio da Zamora, 201 Muñiz Muñiz, Maria de las Nieves, 11, 12, 12n, 13, 15, 17, 18, 345 Musa, Antonio, 221 Musella Guida, Silvana, 41 Musonio Rufo, Gaio, 357n Musso, Annalisa, 360n Mutini, Claudio, 292n Muto, Giovanni, 11, 13, 17, 38n, 145n, 146n, 149n, 359n Muzio, Girolamo, 220 Muzzarelli, Maria Giuseppina, 41n, 414n, 417n

N

aldi, Riccardo, 298n Napodano, Sebastiano, 348, 349 Napoli, Maria Consiglia, 126n, 267n Nardini, editore, 201 Nativel, Colette, 362n, 416n Navarra, Laura, 251n Negri Arnoldi, Francesco, 218n Negri, Francesco, 221 Negro, Pescennio Francesco, 52, 53n Nesi, Emilia, 375n Nicastri, Luciano, 283n Niccolò dell’Arca, 72, 79 Niccolò, detto “nostro fiorentino”, 116 Nicodemo, Leonardo, 397 Nicolini, Nicola, 125n Nicolosa di Fermo, 414 Nifo, Agostino, 14, 58, 220, 230, 230n, 327, 327n, 328, 328n, 329, 330, 331, 331n, 332, 332n, 333, 333n, 334, 334n, 335n, 336, 337, 337n, 338, 338n, 339, 339n, 340, 340n, 341 Nigro, Salvatore, 37n, 175n Ninfa, santa, 84 Nocentini, Silvia, 201, 201n, 202 Nocito, Laura, 384n Notaro, Beatrice, 329, 331 Novati, Francesco, alias Iro da Venecone, 371, 371n, 372, 372n, 373, 374, 377, 413, 413n, 416n Novi Chavarria, Elisa, 11, 13, 17, 144n, 151n, 200, 200n, 205, 205n, 215n, 220n, 221n, 273n, 359n Nuovo, Angela, 420n Nuovo, Isabella, 11, 13, 14, 18, 25n, 223n, 234, 331n, 332n, 333n, 336n, 359n, 361n, 362n, 363n, 365n

O

’Malley, John W., 55n Ochino, Bernardino, 49, 54, 58, 62 Offenberg, Adri K., 419n Olimpiodoro, 117

Oliva, santa, 84 Olivieri, sorelle, 192 Olmi, Giuseppe, 366n Olzina, Giovanni, 409n Omero, 155, 173n Omes, Gerardo de, 183 Omodeo, Leonardo, 268 Onorati, Nicola, 398 Onorio IV, papa, 347 Orazio Flacco, Quinto, 117, 117n Orderico Vitale, 131n, 132, 132n Ori, Anna Maria, 203n Origene, 409 Orilia, Francesco, 264 Orlandi, Antonella, 11, 14, 18, 385n, 394n Orlandi, Francesca, 419 Orsina Vizzani, Lucrezia, 207 Orsini, famiglia, 329 Orsini, Maria Donata, 292 Osmarino Gigliotti, Elisabetta, 419 Osmarino Gigliotti, Giovanni, 419 Osmarino Gigliotti, Tarquinia, 419 Ossola, Carlo, 64n, 330n, 336n, 356n Ottoni, dinastia, 86 Ottoni, Violante, 414 Ovidio Nasone, Publio, 165, 350 Owen Hughes, Diane, 42n

Pacelli, Vincenzo, 71n, 75n, 77, 78n

Paciaroni, Raoul, 415n Padoana, Agnese, suora, 375, 417 Padovani, Giovanna, 420, 420n Padovani, Giovanni, 420, 420n Padovano, Felice, 264 Pagano, Paola, 15, 395n Pagliaroli, Stefano, 52n Paladini, Luigi, 223 Paleario, Aonio (latinizzato per Antonio Della Paglia), 62 Paleotti, Gabriele, cardinale, 421 Palesandolo, sorelle, 191 Palla, Roberto, 363n Pallavicini, Camilla, 389 Pallavicini, Ippolita, 390 Palma, Marco, 377n, 417n Palmeri, Paolo, 230n Palombarini, Augusta, 425n Palumbo, Genoveffa, 222n Palumbo, Matteo, 11, 12, 17 Pancino, Claudia, 10, 10n, 124n Pane, Roberto, 275, 275n, 276, 276n Panichi, Nicola, 253n Panigada, Costantino, 295n

indice dei nomi Panizza, Letizia, 407n Panizzi, Giorgio, 243n Panormita vedi Beccadelli, Antonio, detto il Panormita Panvini, Pasquale, 398 Paola, figlia di Antonello da Messina, 420 Paoli, Marco, 383n, 384n Paolillo, Anello, 266n Paolo III, papa, 37n, 111, 113, 186, 189 Paolo IV, papa, 184, 187, 189, 235 Paolo, santo, 60, 61, 61n, 65 Papa, Giovanni, 423n Papagna, Elena, 144n, 219n, 273n, 293n, 366n Paparo, Luisa, 192 Paravicini Bagliani, Agostino, 131n Parente, Giovanni, 58n Park, Katherine, 122n, 124, 124n, 125, 125n Parker Deborah, 413n, 416n, 420n Parker, Harley, 155n Pascasio, console, 86 Pascucci, Giovanni, 406n Pasini, Luciano, 420 Pasquet De Sallo, Giovanni, 266, 333 Passaro, Marcantonio, 245, 254, 254n Passero, Felice, 266n Passero, Giuliano, 233 Pastore Stocchi, Manlio, 358n Pastore, Alessandro, 149n Pastore, Michela, 403n Pásztor, Edith, 297n Patierno, Lonardo, 125 Patrizi, Giorgio, 243n Paz y Melia, Antonio, 148n, 149n, 151n, 152n Pazienza, Ruggero, 223 Pedretti, Carlo, 292n Pedro Afàn Enriquez de Ribera y Portocarrero, I duca d’Alcalà, viceré, 220 Pedro de Toledo y Zuniga, marchese di Villafranca, viceré, 58, 62, 109, 143, 144, 144n, 145, 149, 153, 154, 220, 235, 236, 275, 278, 284, 285 Pedro Fernandez de Castro Andrade y Portugal, VII conte di Lemos, viceré, 150, 151 Pelaja, Margherita, 235n Pelizzari, Maria Rosaria, 121n, 238n, 267n Pellegrin, Elisabeth, 403n, 406n, 408n Pellegrina, Caterina, 399, 401 Pellegrino, Bruno, 200, 200n Pelling, Margaret, 121n, 127, 127n Pellini, Aurelio, 423n Pelusi, Simonetta, 420n Penco, Maria Grazia, 55n Pepe, Antonio, 266n Percopo, Erasmo, 404n

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Peretti, Felice vedi Sisto V, papa Perez, Girolamo, 378 Perfetti, Stefano, 109n Perin libraio, 374, 375, 375n, 417 Perin, eredi, 374, 374n Pernet Beau, Simone, 327n Perosa, Alessandro, 55n Perotto, Niccolò, 221 Perrey, Nicolas, 269 Perriccioli Saggese, Alessandra, 269n Perrone Compagni, Vittoria, 111n Perrot, Michelle, 118n, 355n Persio, Altobello, 80 Persio, Orazio, 266n Persona, Cristoforo, 409 Pestilli, Livio, 291n Petone, Perretta, 138n Petrarca, Francesco, 11, 26, 28, 29, 29n, 30, 30n, 31, 32, 32n, 33, 39, 117n, 247, 327, 328n, 410 Petrarca, Valerio, 83n Petrocchi, Giorgio, 327n, 408n Petrocelli, Corrado, 336n, 355n Petrucci Nardelli, Franca, 41n, 229n, 288n, 309n, 333n, 359n, 404n Petrucci, Armando, 405n, 413n Petrucci, Giovanni Antonio, conte di Policastro, 219, 292 Petrus de Fica, magister, 404 Petteruti Pellegrino, Pietro, 410n Petti Balbi, Giovanna, 224n Peyrefitte, Alain, 171, 171n Peyronel, Susanna, 144n, 209n, 216n, 217n, 218n, 220n, 273n, 293n, 355n, 408n Piacentino, Andrea, 375, 375n, 419 Piccari, Paolo, 179n Piccinni, Niccolò, 170n Piccino, Giovanni Vincenzo, 78 Piccioli, Francesco Maria, 418, 418n Piccolomini d’Aragona, Giovanni, conte di Celano, 153 Piccolomini Silvia, IV duchessa d’Amalfi, 13, 220, 221, 221n, 224, 225 Piccolomini, Alfonso, duca d’Amalfi, 296 Piccolomini, Enea Silvio vedi Pio II, papa Piccolomini, Isabella, 409 Pidatella, Chiara, 298n Piéjus, Marie Françoise, 27n, 362n Piero da Pisa, 375 Pietro da Milano, 281n Pietro Leon da Val Camonica, 418n Pieyre de Mandiargues, André, 27, 27n Pignatelli, Camillo, duca di Monteleone, 390 Pignatelli, Costanza, contessa di Morcone, 347

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indice dei nomi

Pignatti, Franco, 422n Pimentel, Diego, 151 Pinelli, Luca, 388, 388n Pino, Giovanni Battista, 143 Pintor, Fortunato, 62n Pio II, papa, 221 Pio III, papa, 221 Pio V, papa, 189, 190, 193, 194 Pio, Camilla, 203 Pisanelli, Giovan Angelo, 344 Pisanello, Antonio di Puccio Pisano, detto il, 288 Pisanty, Valentina, 113n Piscicelli, Camilla, 395, 401 Piscini, Angela, 59n Pittarelli, Anna Maria Edvige, 398 Platearii, famiglia, 135 Plateario, Giovanni, il vecchio, 135 Platone, 117, 247, 327, 332, 332n, 339n, 365, 365n Plauto, Tito Maccio, 92, 350 Plebani, Tiziana, 10, 10n, 260n, 267n, 364n, 380, 380n, 413n, 417n, 426, 426n Plinio il giovane, 221 Plinio il vecchio, 117, 221, 272 Plutarco, 221, 329, 362 Pole, Reginald, 49 Polidoro da Caravaggio vedi Caldara, Polidoro, detto Polidoro da Caravaggio Politi, Ambrogio vedi Politi, Lancellotto, in religione Ambrogio Catarino Politi, Lancellotto, in religione Ambrogio Catarino, 49 Poliziano vedi Ambrogini, Angelo, detto il Poliziano Pollicino, Iacopo, 204 Pollio Lappoli, Giovanni, 375 Pomata, Gianna, 10, 10n, 121n, 208n Pontano, Eugenia, 219, 404 Pontano, Giovanni, 12, 37n, 38, 41, 43, 44, 45, 46, 47, 145, 218, 219, 222, 223n, 228, 229, 231, 299, 300, 301, 307, 308, 329, 335n, 337n, 338, 338n, 357, 361, 361n, 404 Pontieri, Ernesto, 287n, 405n Pope-Hennessy, John Wyndham, 321n Porcari, Alessandro, 380 Porta, Francesco, 384 Porzielli, Camilla, 394, 396, 399, 401 Porzio, Simone, 12, 108, 108n, 109, 109n, 110, 110n, 111, 111n, 112, 112n, 113, 113n, 114, 114n, 115, 115n, 116, 116n, 117, 118, 118n, 119 Postel-Lecocq, Sylvie, 416n Pozzi, Giovanni, 157, 157n, 158n, 164n Pozzo, Modesta vedi Dal Pozzo, Modesta, alias Moderata Fonte

Pozzuoli, Maria di, 335n Preconio, Ottaviano, vescovo, 190 Presenzani, Evangelista, detto Evangelista da Pavia, 264, 267, 374, 374n, 378 Previtali, Giovanni, 259n Primiani, Luigi, 60n Principe di Orange vedi, Filiberto di Chalons, principe d’Orange, viceré Principessa di Stigliano vedi Anna, Carafa, principessa di Stigliano, viceregina Principessa di Sulmona vedi Montbell, Francesca de, principessa di Sulmona Prioreschi, Plinio, 136, 137, 137n Proba, Falconia Petita, 9 Procaccioli, Paolo, 52n Prodi, Paolo, 196n Properzio, Sesto, 364, 364n Propp, Vladimir Jakovlevič, 113n Prosperi, Adriano, 60, 60n, 61, 151n, 336n, 356n Pugliani, Margherita vedi Marescotti, Margherita Pulci, Antonia, 421 Puliafito, Laura, 385n Puppi, Lionello, 288n Purce Revard, Stella, 362n

Q

uarantana, Francesco, detto Ceccarello, 377 Quaresima, Valente, 388, 388n Quarta, Cosimo, 417n Quattromani, Sertorio, 379 Quintiliano, Marco Fabio, 221 Quinzi, Camillo Eucherio, 50, 50n Quondam, Amedeo, 11, 12, 12n, 17, 27n, 28n, 29, 51n, 56n, 75n, 155, 155n, 217n, 243n, 283n, 330n, 338n, 356n, 365n, 405n

R

adini Tedeschi, Tommaso, 221 Radle, Fidel, 362n Ragionieri, Pina, 49n Ragusi, Bartolomeo, 426 Ragusi, Margherita, 426 Ragusi, Simone, 426 Raimondi, Ezio, 327n Raimondo da Capua, 201, 201n Raitano, Vincenzo, 125 Ramarino, Girolamo, detto Girolamo da Salerno, 54 Ramelli, Ilaria, 357n Ramignani, Marcello, 266n Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres, viceré, 153 Ramón de Cardona, conte di Alvito, viceré, 185, 186, 297, 299

indice dei nomi Ramusio, Giovanni Battista, 221 Raneo, Josè, 147, 150, 152, 153, 154 Ranieri, Concetta, 11, 12, 17, 53n, 54n, 64n, 187n, 219n Rao, Anna Maria, 199n Rapicano, Cola, 288 Ravagnano, Paola, 420 Ravagnano, Paolo, 420 Ravagnano, Virginia, 420 Ravani, Luchina, 420 Ravani, Pietro, 420 Ravegnani, Giuseppe, 372n Reale, Carmela, 11, 14, 18 Reardon, Colleen, 207, 207n Rebecchini, Guido, 293n Redon, Odile, 414n Redondo, Augustin, 215n Refini, Eugenio, 169n Regio, Raffaele, 329 Regiomontano vedi Müller, Johann, detto il Regiomontano Reidy, Denis V., 375n Reina, Luigi, 37n Reinhard, Wolfang, 196n Reisch, Gregorio, 221 Renier, Rodolfo, 287, 287n, 291n, 295n, 298n, 299n, 307n, 308n Restiliano, Paolo, 352 Reulos, Michel, 242n Revertera, Isabella, 387 Rhea, Annibale, 328, 329n Rhea, Carlo, 328, 329n Rhea, famiglia, 328, 329n Rhea, Feba, 327, 328, 329, 331, 332, 333, 333n, 337, 338, 339, 339n, 340, 341 Rhea, Girolamo, 328, 329n Rhea, Nicola, 328, 329n Rhodes, Dennis E., 265n, 375n Riario, Girolamo, signore di Imola e Forlì, 9, 365n Ribenedetto, Giuseppe, 219n Ricci, Bartolomeo, 221 Ricci, Corrado, 276n, 406n Ricci, Francesco Maria, 58n Ricci, Saverio, 215n Ricciulli, Antonio, 269 Richenza, Maria vedi Longo, Maria, in religione Maria Lorenza, da nubile Maria Richenza Riddle, John M., 136n Righettini, Cesare, 397 Rigotti, Francesca, 358n Rikina, uxor Andreae Spallictae, 404 Rinaldi, Rinaldo, 330n

463

Rinaldo da Nimega, 420 Riondato, Ezio, 331n Ripa, Cesare, 265 Riquer, Isabel de, 38n Rivera Garretas, Maria Milagros, 356n Rivoltella, Pier Cesare, 336n Rizzi, Nunzio, 31n Roberto Bellarmino, santo, 268, 379 Roberto d’Angiò, re di Sicilia, 41, 277 Roberto da Lecce vedi Caracciolo, Roberto, in religione fra Roberto da Lecce Roberto di Oderisio, 316 Roberto I il Guiscardo, duca di Puglia, 131 Roberto II d’Artois, 41 Roberts, Ann, 202, 202n Rochon, André, 362n Roeck, Bernd, 121n Romagnoli, Anna, 230, 231n Romani, Vittoria, 290n Romanino, Girolamo da Romano, detto il, 64, 65 Romano, Andrea, 414n Romano, Gian Cristoforo, 298 Romano, Giovanni, 291, 291n Romano, Rosa, 317n Romano, Ruggiero, 359n Romei, Danilo, 52n Romeo, Giovanni, 151n, 235n Romeo, Rosario, 38n Roncagliolo, Secondino, 265, 378 Ronchini, Amadio 56n Rosalia, santa, 83, 84 Rosarietta, suor, 417 Rosiglia, Marco, 421 Rosselli, Francesco, 409 Rosselli, Girolamo, 268 Rossi, Adamo, 373 Rossi, Francesco, 420 Rossi, Giovanna, 420 Rossi, Giovanni Vittorio, alias Giano Nicio Eritreo, 395 Rossi, Giovanni, 358n Rossi, Lorenzo, 360 Rossi, Properzia, 271, 282, 283 Rossi, Vittorio, 372, 373, 373n, 417, 418n Rosvita di Gandershein, 86, 87, 87n Rota, Berardino, 58 Rota, Daniele, 62n Rotili, Mario, 272n Rouse, Mary A., 375n Rouse, Richard H., 375n Rovito, Scipione, 379 Rowland, Ingrid, 291n Rowley, Neville, 290n

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indice dei nomi

Ruardo, Giovanni, 264 Rubino, Ciro, 235n, 236n Ruffinelli, Francesca, 373 Ruffinelli, Giovanni Angelo, 419 Ruggero II, re di Sicilia, 83 Ruggero, duca di Puglia, 131 Ruggiero, Andrea, 329n Ruggiero, Trudila vedi Trotula Rugolo, Ruggero, 288n Ruscelli, Girolamo, 126, 244n, 384n Rusconi, Daria, 372n Rusconi, Elisabetta, 371, 371n, 372, 372n, 375, 419 Rusconi, Giorgio, 371, 371n, 372, 372n, 375, 419 Rusconi, Giovanni Antonio, 372, 372n Rusconi, Giovanni Francesco, 372, 372n Rusconi, Giulia, 372n Rusconi, Lucrezia, 372n Rusconi, Roberto, 415n, 420n Russel, Camilla, 206, 206n Russo, Carla, 196n Rutebeuf, 132, 132n Ryder, Alan, 287n

S

abatini, Andrea, detto Andrea da Salerno, 82 Sabba, Fiammetta, 219n, 404n Sabini, Agostino, 424, 425 Sabini, Claudio, 424 Sabini, famiglia, 424 Sabini, Isabella, 376, 424 Saccaro Battisti, Giuseppa, 335n, 356n, 366n Saccente, Giovanni Maria, 267n Saffiotti, Maria Francesca, 289n Saggiori, Giovanni, 418n Salerno, Franco, 30n Salerno, Pietro, 267n Salice, Giovan Battista, 352 Sallmann, Jean-Michel, 126n, 151n, 199, 199n Sallustio Crispo, Gaio, 221, 334n Salvani, Fausto, 45n Salvatori, Tommaso, 376n Salviani, Alamanno, 113 Salviani, Orazio, 262n, 265, 268, 387 Salvioni, Diana, 425 Salvioni, Domenico, 425 Salvioni, eredi, 425 Salvioni, famiglia, 424, 425 Salvioni, Francesco, 425 Salvioni, Giovanna, 425 Salvioni, Giovanni Battista, 425 Salvioni, Giovanni, 422 Salvioni, Maffio, 424 Salvioni, Marco, il giovane, 425 Salvioni, Pietro, 425

Salza, Abd el Kader, 56n Salzano***, moglie di Domenico Giannattasio, 125 Sambiasi, Girolamo, 380 Sanchez Garcia, Encarnacion, 146n Sancia d’Aragona vedi Sancia di Maiorca, regina di Napoli Sancia di Maiorca, regina di Napoli, 274, 277, 278n Sandal, Ennio, 374n, 416n Sander, Max, 262n Sandoval de Castro, Diego, 25n, 26, 33 Sanfelice, Antonio, 266n Sanguineti, Edoardo, 37n Sannazaro di Alessano, 80 Sannazaro, Iacopo, 13, 30, 31, 38, 49, 54, 55, 55n, 61, 80, 219, 251, 292, 293, 298, 299, 300, 301, 309, 387, 387n, 388, 390, 394, 399 Sanseverino, Dianora, 251n, 253, 396, 399, 401 Sanseverino, famiglia, 215, 220 Sanseverino, Ferrante, principe di Salerno, 58, 62, 187n, 329, 333, 333n Sanseverino, Laura, 52 Sanseverino, Violante, 399, 401 Sanson, Helena, 10, 10n Santagata, Marco, 28, 28n, 328n Santi, Giovanni, 294, 295, 295n, 299, 300, 301, 305, 306, 307 Santonastaso, Paolo, 110n Santoni, Michele, 421n Santorelli, Antonio, 123, 123n, 124, 124n Santoro, Giulio, 195, 195n Santoro, Marco, 11, 11n, 14, 18, 127n, 218n, 237n, 260n, 265n, 266n, 343, 343n, 361n, 379n, 383n, 384n, 385n, 395n, 398n Santoro, Mario, 11, 41n, 43, 43n, 362n, 408n Santucci, Paola, 291, 291n Sarriano, Anello, 266, 266n, 380 Sarrocchi, Margherita, 395, 398, 398n, 399, 401 Sartori, Orietta, 374n, 419n Sassi, Giuseppina, 59n Sauvage, Odette, 242n Saviano, Pasquale, 84n Sberlati, Francesco, 331n, 356n Sbordone, Francesco, 59n Scailliérez, Cécile, 292n Scala, Laura, 21 Scala, Mirella, 52n, 53n Scandella, Angela Emmanuela, 203, 203n, 204n Scapecchi, Piero, 375n Scaraffia, Lucetta, 207n, 235n Scaramella, Piero, 151n Scarcia Piacentini, Paola, 404n

indice dei nomi Scarlatti, Alessandro, 170n Scarpati, Oriana, 410n Scarpato, Eleonora, 192 Scarsella, Alessandro, 420n Scherlock, Peter, 206n Schiappoli, Irma, 406n Schiebinger, Londa, 122, 122n Schlitzer, Franco, 126n Schmitt Pantel, Pauline, 118n Schoeck, Richard J., 327n Schönfeld, Walther, 133n, 135n Schutte, Anne Jacobson, 110n, 151n, 415n Schuzte, Sebastian, 291n Scianatico, Giovanna, 363n Scognamiglio, Giuseppina, 71n Scoppa, Lucio Giovanni, 221 Scoriggio, Lazzaro, 262n, 379 Scorziata, Giovanna, 192, 395, 401 Scoto, Giovanni Maria, 262n Segal, Charles, 336n Segre, Cesare, 360n Seidel Menchi, Silvana, 415n Senatore, Francesco, 224n Seneca, Lucio Anneo, 221, 247, 284, 409 Senocrate, 332 Senofonte, 221, 359n Sensi, Mario, 203, 203n, 204n Serafino Aquilano, 309n Serafino, Ludovico, 74, 74n Seripando, Girolamo, 57, 58 Servidio, Emilia, 59n Servio, 289, 407 Sesalli Francesco, eredi, 376n Sesalli, Francesco, 376, 420 Sesalli, Giovanni Battista, 376n Sesalli, Girolamo, 376, 376n Sesalli, Margherita, 376, 376n, 420 Sessa, Giovanni Bernardo, 261 Sessa, Melchiorre, 420 Sessa, Veronica, 420 Sestini, Valentina, 11n, 15 Settembrini, Luigi, 37n Severino, Marco Aurelio, 129, 129n Seveso, Gabriella, 357n Sforza Riario, Caterina, 9, 10, 365n Sforza, Ascanio Maria, 289 Sforza, Bona vedi Bona Sforza, regina di Polonia Sforza, Elisabetta Maria, 289 Sforza, Filippo Maria, 289 Sforza, Francesco, 297 Sforza, Francesco I, duca di Milano, 289, 406n, 407

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Sforza, Francesco II, duca di Milano, 143 Sforza, Galeazzo Maria, duca di Milano, 289, 365n, 403, 403n Sforza, Gian Galeazzo Maria, duca di Milano, 218, 219, 223, 297, 297n, 397 Sforza, Ippolita Maria, duchessa di Calabria, 46n, 222, 234, 235, 274, 287, 289, 297, 364n, 403, 403n, 405, 406, 406n, 407, 407n, 408, 411, 412 Sforza, Ludovico, detto il Moro, duca di Milano, 297, 289, 290, 297 Sforza, Ottaviano Maria, 289 Sforza, Sforza Maria, 289 Sichelgaita, moglie di Roberto il Guiscardo, 131, 132 Sigismondo I Iagellone, re di Polonia e granduca di Lituania, 218 Signore di Camerino vedi Giulio Cesare da Varano, principe di Camerino Signorini, Rodolfo, 291n Silverman, Joseph, 110n Simone, il lebbroso, 75 Simonetta, Bonifacio, 396 Simonetta, Marcello, 289, 289n, 406n Simplicio, 116n Singer, Charles, 135, 135n Singer, Dorothy, 135, 135n Sinno, Andrea, 316, 316n Siraisi, Nancy G., 133n, 134, 134n Sirri, Raffaele, 91n, 169, 169n, 170, 170n, 171, 178, 178n Sissa, Giulia, 118n Sisto V, papa, 423 Skinner, Patricia, 132n Slerca, Anna, 232n Smith, Nicholas D., 118n Soardi, Lazzaro, 371n Socrate, 230 Sodano, Giulio, 199n Sofocle, 283n Solimene, Guglielmo, 315, 315n Solimine, Giovanni, 14 Solpietro, Antonia, 82n Sottile, Giovan Battista, 262n Spagnoletti, Angelantonio, 144n, 359n, 366n Spanò Martinelli, Serena, 407n Spedicato, Mario, 190n Speraindio, Hieronymo, 310 Speroni, Sperone, 243, 252n Spina, Arcangelo, 266 Spina, Bernardo, 56n Spinella, Dorotea, contessa di Altavilla, 387n Spinelli, Battista, duca di Castrovillari, 310, 310n Spinelli, contessa d’Oppido, 347

466

indice dei nomi

Spinelli, Cremona, 192 Spinelli, Enrico, 25n, 246n, 283n Spinelli, famiglia, 144 Spira, Fortunio, 250n, 254n Spira, Petruccio, 259 Sricchia Santoro, Fiorella, 271n Stabile G., 230n Stabile, Antonio, 79 Stabile, Costantino, 79 Stampa, Gaspara, 28, 31, 245, 386 Stazio, Publio Papinio, 221 Stefanelli, Ruggiero, 29n Stefano da Putignano, 79, 80 Stefonio, Bernardino, 266n Stevenson, Jane, 134n Stigliani, Tommaso, 165 Stigliola, Felice, 262n Stigliola, Nicola Antonio, 265 Stolberg, Michael, 122, 122n Stoll, André, 109n Strawinsky, Igor, 23 Stringario, Giorgio, 422n Stringario, Girolamo, 421, 422, 422n Strozzi, Tito Vespasiano, 288 Sultzbach, Giovanni, 109, 143, 264 Summonte, Giovanni Antonio, 276, 312n Susanna, santa, 61

T

acito, Publio Cornelio, 221 Tacuino, Giovanni, 371n Tafuri, Gio. Bernardino, 37n, 396, 396n, 397 Talvacchia, Bette Lou, 264n Tansillo, Luigi, 30, 58, 220, 235, 236, 252, 254, 254n, 255n, 379 Tantulli, Paola, 363n Tapia, Juan de, 283 Tarcagnota, Giovanni, 145, 145n Tarsia, Galeazzo di, 49 Tartarino, Paolo, 377, 425 Tassini, Giuseppe, 373 Tasso, Bernardo, 49, 61, 62, 62n, 63, 187n, 390 Tasso, Torquato, 22, 23, 64, 155, 157, 157n, 236, 242, 242n, 247n, 249, 249n, 252n, 254, 265, 327, 327n, 334n, 364n, 365, 365n, 383, 390 Tateo, Francesco, 32n, 41n, 223n, 327n, 328n, 329n, 332n, 335n, 336n, 362n, 363n, 366n, 409n, 410n Tavoni, Maria Gioia, 11n, 260n, 265n, 413n Tebaldeo, Antonio, 329 Tedeschi, Gregorio, 85 Telesio, Bernardino, 124, 265 Tenenti, Alberto, 111n, 358n, 359n Teofilo, Monaco, 273

Terenzio Afro, Publio, 221 Teresa Enriquez de Cabrera, viceregina, moglie del marchese del Carpio, 125 Terracina, Laura, 144, 243, 245, 245n, 246, 246n, 247, 247n, 248, 249, 250, 251, 251n, 252, 253, 254, 254n, 255, 255n, 256, 385, 386, 386n, 388, 389, 391, 392, 395, 396, 398, 398n, 399, 401 Terrusi, Leonardo, 37n, 408n Tertulliano, Quinto Settimio Florente, 133n Terzoli, Anna Maria, 385, 385n Tesori, Livia, 420 Thérault, Suzanne, 292n Thiébaut, Dominique, 290n Thorndike, Lynn, 112n Tibullo, Albio, 350 Tiraboschi, Girolamo, 37n Tito, imperatore, 280 Todesca, Lorenza, 394, 401 Todeschini Piccolomini, Francesco vedi Pio III, papa Togliani, Carlo, 293n Tolomeo, Claudio, 221, 408, 409 Tommaso di Pietro, 414 Tommaso di Ser Giovanni di Mone di Andreuccio, detto il Masaccio, 76 Toniolo, Federica, 288, 288n, 289n Toppi, Francesco Saverio, 185n, 186n, 187n Toppi, Niccolò, 394, 394n, 395, 396, 397, 397n, 399, 400, 401 Tordeur, Pol, 365n Tordi, Domenico, 54n Tordi, Erminia, 51n Torelli, Augusto, 266, 266n Torelli, Giulio Cesare, 266, 266n Tornaquinci, Giovanni, 255 Torraca, Francesco, 71, 71n, 72, 73n, 78n Torrentino, Lorenzo, 110, 389 Torres Naharro, Bartolomé de, 266 Torresani, Andrea, 53, 53n, 380 Torsellini, Orazio, 183n, 424 Torti, Cesare, 409 Toscano, Gennaro, 12, 13, 18, 219n, 276n, 287n, 288n, 289n, 291n, 311n, 364n, 395n, 405, 405n, 406n, 407n, 408, 408n Toscano, Tobia R., 25, 25n, 26n, 28, 29n, 34n, 57n, 58n, 143n, 144n, 220n, 292n, 296n, 378n Toussaint, Stephane, 358n Tozzi, Luca, 128, 128n Tozzi, Pietro Paolo, 263n Tramezzino, Cecilia, 373, 419 Tramezzino, Francesco, 419 Trastàmara, famiglia, 43 Travi, Ernesto, 55n

indice dei nomi Trevisani, Filippo, 293n Tribraco, Gaspare, 288 Trionfi, Antonio, 425n Trissino, Gian Giorgio, 170 Trivùlzio, Gian Giacomo, detto il Magno, 293 Trofimena, santa vedi Febronia, santa Trolese, Francesco, 375n Trottus, 135 Trotula (anche Trota o Trocta), 124, 132, 132n, 133, 133n, 134, 135, 135n, 136, 136n, 137, 137n, 138, 138n, 139, 394, 394n, 395n, 398, 398n, 399 Trovato, Paolo, 411n Tucidide, 221 Tuohy, Thomas, 273n Tuozzi, Pasquale, 327n Tura, Cosmè, 288n, 289n Turini, Andrea, 372, 373 Tylus, Jane, 200

Ughelli, Ferdinando, 314n, 315n

Ugo di Moncada vedi Hugo de Moncada, viceré Unico Aretino, l’ vedi Accolti, Bernardo, detto l’Unico Aretino Urbano VI, papa, 311, 318, 319 Urbini, Silvia, 377, 377n

Vaguer, Juan, 351

Valdés, Juan de, 49, 58, 58n, 64n, 187n Valente, Angela, 311, 311n, 312, 312n Valerio Massimo, 221 Valerio, Adriana, 12, 13, 17, 186n, 191n, 192n, 193n, 205n, 222n, 345, 399n Valgrisi, famiglia, 265 Valla, Lorenzo, 11, 221 Vallone, Aldo 42, 43n Valois, Noël, 311n Valvason, Erasmo da, 75, 75n Vandereycken, Walter, 110n Vanderlinden vedi Linden, Johann Antonides van der Varano, Emilia, 414 Varano, Tora, 414 Varese, Ranieri, 295n Varthema, Lodovico de, 51, 51n Varvaro, Alberto, 32n Vasari, Giorgio, 271, 271n Vasoli, Cesare, 109n, 111n, 361n Vasta, Cristina, 355n Vauchez, André, 204, 204n Vecce, Carlo, 52n, 54n, 57, 57n, 292n, 329n, 365n Vecchi, Giuseppe, 266n Vecellio, Cesare, 261 Vecellio, Tiziano, 261, 262

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Vedova di Giovan Francesco Bianco, 380 Vedova di Lazzaro Scoriggio, 379 Vega, Lope de, 170n, 246n Vegezio Renato, Flavio, 334n, 408 Venetiano, Clemente, 253 Veneziani, Paolo, 416n Ventura, Comino, 385, 385n, 390, 390n Ventura, Leandro, 287n Venturi, Adolfo, 298n Venturi, Gianni, 14, 15, 17, 366n Vergerio, Pietro Paolo, il Vecchio, 308 Vermigli, Pier Martire, 62 Vermiglioli, Giovanni Battista, 372, 372n, 416, 416n Vernant, Jean Pierre, 357n Vernazza, Ettore, 184, 185, 185n Verrazzano, Piero Andrea da, 404 Vespasiano da Bisticci, 50n, 292, 292n Viatte, Françoise, 291, 291n Viceregina, moglie del marchese del Carpio vedi Teresa Enriquez de Cabrera, viceregina Viceregina, moglie di Pedro de Toledo vedi Maria Ossorio Pimentel, marchesa di Villafranca, viceregina Vico, Enea, 221 Vida, Marco Girolamo, 61 Vignuzzi, Ugo, 204n Vigri, Caterina, vedi Caterina Vigri da Bologna, santa Villafora, Folco da, 290 Villamarina, Isabella, principessa di Salerno, 327, 329, 333, 333n, 390 Villani, Dianora, 379 Villani, Rossella, 76n, 79n Villano, Maria, 394, 401 Villari, Susanna, 404n Villena Enrique de, 281 Vincenzo di Paolo, 372n Violante, Tommaso M., 81n Viotti, Cassandra, 420 Viotti, Seth, 420 Virgilio Marone, Publio, 289, 296, 308, 328n, 363, 407, 408 Visceglia, Maria Antonietta, 10, 10n, 44n, 49n, 149n, 228, 228n, 229, 229n, 232n, 234, 359n, 361n, 366n Visconti, Bianca Maria, duchessa di Milano, 289, 407, 408, 408n Vitale, Costantino, 262n Vitale, Giuliana, 10, 10n, 37n, 41, 41n, 42, 144n, 190n, 216n, 224n, 234, 234n, 333n, 359n Vitelli, Franco, 25n, 26n Viti, Paolo, 364n, 403n

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indice dei nomi

Vitolo, Giovanni, 38n, 224n, 313n Vitolo, Paola, 316n Vitruvio, 58n Vivanco, Margarita, 252n Vives, Juan Luis, 221, 241, 242, 242n, 243, 244, 247, 247n, 249, 253n, 254n, 331 Voci-Roth, Anna Maria, 64n Volpi, Gaetano, 373 Volpicella, Luigi, 293n Volpicella, Scipione, 232n Vopisco, Flavio, 58 Vuosso, Ugo, 49n

Walker Bynum, Caroline, 10, 10n, 110n Watt, Jeffrey R., 203n Weaver, Elissa B., 10, 10n, 207, 207n Webster, Charles, 121n Wehle, Harry B., 318, 318n Weiss, Margaretha, 108, 111, 112, 118, 119 Welch, Evelyn, 406n Wiesner, Merry E., 10, 10n, 227n Williamson, Eduard, 62n Winn, Colette H., 356n Wolff, Kaspar, 136 Wood, Jeryldene M., 204n Wright, Elisabeth, 159n Wyhe, Cordula van, 206, 206n, 208

Z

accaria, Vittorio, 250n Zaggia, Massimo, 59n Zancan, Marina, 33n, 241n, 242, 242n, 355n, 356n, 362n, 363n, 366n, 384n Zancani, Diego, 407n

Zanetti Bartolomeo, erede, 379 Zanetti, Agnese, 376n Zanetti, Alessandro, 376n, 419 Zanetti, Antonio, 419 Zanetti, Bartolomeo, il giovane, 419 Zanetti, Bartolomeo, 379 Zanetti, Benedetto, 379 Zanetti, Daniele, 374n Zanetti, Fiorenza, 376, 419 Zanetti, Francesco, 376, 376n, 419 Zanetti, Giannetto, 376n Zanetti, Giulia, 376n Zanetti, Luigi, 379, 419 Zanetti, Maria, 376, 376n, 419 Zanier, Giancarlo, 109n Zanini, Giampietro vedi Giovannini, Giampietro Zapata y Cisneros, Antonio, cardinale, 151 Zappacosta, Guglielmo, 191n, 332n Zappella, Giuseppina, 265n, 374n, 416n Zarri, Gabriella, 10, 10n, 12, 13, 17, 199n, 200n, 201n, 203n, 204n, 205n, 207n, 208n, 209n, 216n, 260n, 269n, 356n, 377n Zen, Stefano, 288n Zenaro, Damiano, 261 Zezza, Andrea, 259n, 271n Zinani, Gabriele, 390n Zito, Maria, 402 Zito, Mario, 402 Zito, Paola, 12, 13, 18, 265n, 393, 393n Zonca, Giuseppe, 230n Zoppino, Niccolò, 371n, 372n, 375 Zucchi, Bartolomeo, 183n, 424



co mposto, in car atter e dan t e m on oty pe, da l la fabr izio serr a editore, p i s a · rom a . imp ress o e r ilegato in i ta l i a n e l la t ipo g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) . * Ottobre 2010 (cz2/fg13)

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I ST I T U T O NA Z I O N A L E D I S T UDI SU L RI NA SC I MEN T O M E R I D O N A L E att i co l la na d i retta da ma rco s a n toro * 1. L’edizione nazionale del teatro e l’opera di G. B. Della Porta, Atti del Convegno, Salerno, 23 maggio 2002, a cura di Milena Montanile, 2004, pp. xii-120. 2. Le carte aragonesi, a cura di Marco Santoro, 2004, pp. xiv-330. 3. Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica, Atti del Convegno internazionale, Ravello, Villa Rufolo, 22-23 settembre 2005, a cura di Marco Santoro, 2007, pp. xiv-254. 4. Petrarca e Napoli, Atti del Convegno, Napoli, 8-11 dicembre 2004, a cura di Michele Cataudella, 2006, pp. 120. 5. Pomeriggi rinascimentali, secondo ciclo, a cura di Marco Santoro, 2008, pp. 148. 6. La donna nel Rinascimento meridionale, Atti del Convegno internazionale, Roma, 1113 novembre 2009, a cura di Marco Santoro, 2010, pp. 474.