Sotto il segno di Saturno. Interventi su letteratura e spettacolo 8806545361, 9788806545369

Collana 'Nuovo Politecnico' 129. Traduzione di Stefania Bertola. Peso 125 grammi.

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Italian Pages 172 Year 1997

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Sotto il segno di Saturno. Interventi su letteratura e spettacolo
 8806545361, 9788806545369

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Nuovo Politecnico 129

Einaudi 1982

SUSAN SONTAG

SOTTO IL SEGNO DI SATURNO Interventi su letteratura e spettacolo

Indice

p. 3 Su Paul Goodman ii Un approccio ad Artaud 61 Fascino fascista 89 Sotto il segno di Saturno ni Hitler secondo Syberberg 137 Ricordando Barthes 145 La mente come passione

Per Joseph Brodsky

SOTTO IL SEGNO DI SATURNO

HAMM

Mi piacciono le vecchie domande. (Con slancio) Ah, le vecchie domande, le vecchie ri­ sposte, che c’è di più bello!

Finale di partita

In forma leggermente differente o ridotta questi saggi sono stati pubblicati per la prima volta su «The New York Review of Books»: Su Paul Goodman nel vol. XIX, 4, 21 settembre 1972; Fascinofascista, XXII, 1, 6 febbraio 1975; Sotto il segno di Saturno, XXV, 15,12 ottobre 1978; Hitler secondo Syberberg, XXVII, 2, 21 feb­ braio 1980; Ricordando Barthes, XXVII, 8, 15 maggio 1980; La mente come passione, XXVII, 14,25 settembre 1980. Un approccio ad Artaud è dapprima apparso su «The New Yorker» il 19 maggio 1973, poi come introduzione al volume da me curato Selected Writings of Antonin Artaud, Farrar, Straus and Giroux, 1976. Sono grata, come sempre, a Robert Silvers per 1’incoraggiamento e il consiglio, e a Sharon DeLano per il generoso aiuto nel dare a molti di questi saggi la loro forma finale.

s. s.

Su Paul Goodman

Sto scrivendo in una stanza minuscola, a Parigi, seduta su una sedia di vimini alla macchina da scrivere di fronte a una finestra die dà su un giardino; alle mie spalle ci so­ no una branda e un comodino; sul pavimento e sotto il tavolo ci sono manoscritti, taccuini e due o tre tascabili. Il fatto che io abbia vissuto e lavorato per più di un an­ no in uno spazio cosi piccolo e spoglio, pur senza averlo inizialmente progettato o deciso, risponde senza dubbio a un bisogno di spogliarmi, di staccare per un po’, di ri­ cominciare da capo col minimo di risorse. In questa Pa­ rigi dove vivo adesso, che ha tanto poco a che fare con la Parigi di oggi quanto la Parigi di oggi ha a che fare con la grande Parigi, capitale del xix secolo e vivaio dell’ar­ te e delle idee fino dia fine degli anni sessanta, l’America è il più vicino fra tanti luoghi remoti. Anche nei periodi in cui non esco affatto - e negli ultimi mesi ci sono sta­ ti molti giorni e notti felici in cui non desidero lasciare la macchina da scrivere se non per dormire — tutte le mattine qualcuno mi porta l’edizione francese dell’« He­ rald Tribune» col suo mostruoso collage di «notizie» dal­ l’America, incapsulate, distorte, rese dalla distanza più che mai estranee: i B-52 che fanno piovere la morte eco­ logica sul Vietnam, il ripugnante martirio di Thomas Eagleton, la paranoia di Bobby Fisher, l’irresistibile asce­ sa di Woody Alien, estratti dal diario di Arthur Bremer e, la settimana scorsa, la morte di Paul Goodman.

Scopro di non poter scrivere solo il suo nome. Natu­ ralmente quando ci incontravamo ci chiamavamo Paul e Susan, ma se pensavo a lui o ne parlavo con altra gente non era mai Paul e neanche Goodman ma sempre Paul

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Goodman - il nome completo, con tutta l’ambiguità di sentimento e confidenza implicita in quella forma. Il dolore che provo per la morte di Paul Goodman c piu acuto perché non eravamo amici, anche se spesso fre­ quentavamo gli stessi ambienti. Ci siamo incontrati per la prima volta diciotto anni fa. Avevo ventun anni, seguivo un corso di specializzazione ad Harvard, sognavo di vive­ re a New York, e durante un week-end in città un suo amico che conoscevo anch’io mi portò nell’attico della Ventitreesima Strada dove Paul Goodman stava festeg­ giando il suo compleanno insieme alla moglie. Era ubria­ co, si vantava con tutti a voce rauca dei suoi exploits ses­ suali, parlò con me solo il tempo sufficiente per essere blandamente scortese. Ci siamo visti per la seconda volta quattro anni dopo a una festa a Riverside Drive, dove mi parve piu mite ma altrettanto freddo e preso di sé. Nel 1959 nù trasferii a New York e da allora in poi fino alla fine degli anni sessanta ci siamo visti spesso, an­ che se sempre in pubblico — a feste date da amici comu­ ni, per dibattiti e incontri sul Vietnam, alle marce e alle manifestazioni. Ogni volta che ci incontravamo facevo un timido sforzo per parlargli, sperando di riuscire a dirgli, direttamente o indirettamente, com’erano impor­ tanti per me i suoi libri e quante cose avevo imparato da lui. Ogni volta lui mi respingeva e io battevo in ritirata. Degli amici comuni mi dissero che proprio non gli piace­ vano le donne come persone - anche se naturalmente fa­ ceva un’eccezione per qualche donna in particolare. Rifiu­ tai quest’ipotesi piu a lungo che potei (mi sembrava su­ perficiale), e alla fine cedetti. Dopo tutto, leggendolo ave­ vo intuito proprio questo: ad esempio, il principale di­ fetto di La gioventù assurda, che si propone di trattare i problemi della gioventù americana, è che parla di questa gioventù come se consistesse solo di ragazzi e giovani uo­ mini. Smisi di essere cosi disponibile quando d incontra­ vamo. L’anno scorso un altro amico comune, Ivan Illich, mi invitò a Cuernavaca nello stesso periodo in cui Paul Goodman era li per tenere un seminario, e dissi a Ivan che avrei preferito andard dopo la partenza di Paul Good-

5 man. Ivan sapeva, perché ne avevamo parlato spesso, quanto io ammirassi le opere di Paul Goodman. Ma Pin* tenso piacere die provavo sempre pensandolo vivo e in buona salute e al lavoro da qualche parte negli Stati Uniti trasformava in un duro cimento ogni occasione in cui mi trovavo effettivamente nella stessa stanza con lui e mi rendevo conto di non riuscire a stabilire il minimo con­ tatto con lui. In questo senso molto letterale, allora, non solo Paul Goodman ed io non eravamo amid, ma lui non mi piaceva — e il motivo era, come dovevo spesso spiegare desolata quando era vivo, che sentivo di non piacergli. Ho sempre saputo come fosse patetica e pura­ mente formale questa ^àtipatia. Non è stata la morte di Paul Goodman a farmelo improvvisamente capire. Era stato un mio eroe per tanto di quel tempo che non mi stupii affatto quando divenne famoso, mentre mi stu­ piva sempre un po’ che la gente lo desse cosi per sconta­ to. Il primo libro di Paul Goodman che ho letto - avevo diciassette anni - era una raccolta di racconti intitolata The Break-up of Our Camp, pubblicata da New Direc­ tions. Entro un anno avevo letto tutto quello che aveva pubblicato, e da allora in poi comindai a tenermi in pari. Non c’è un altro scrittore americano vivente che abbia susdtato in me la stessa elementare curiosità di leggere il più in fretta possibile qualunque cosa scrivesse, su qua­ lunque argomento. Il fatto die io fossi quasi sempre d’ac­ cordo con lui non era il motivo principale; d sono altri scrittori con cui mi trovo d’accordo e verso cui non sono altrettanto leale. È stata quella sua voce a sedurmi - quel­ la voce americana cosi diretta, stramba, egotistica, gene­ rosa. Se Norman Mailer è lo scrittore più brillante della sua generazione, è certamente per l’autorità e l’eccentri­ cità della sua voce; eppure io ad esempio ho sempre tro­ vato quella voce troppo barocca, in un certo senso co­ struita. Ammiro Mailer come scrittore, ma non credo ve­ ramente nella sua voce. La voce di Paul Goodman è quel­ la giusta. Era da D. H. Lawrence die la nostra lingua non aveva una voce cosi convincente, genuina, singolare. La voce di Paul Goodman trasmette a tutto quello di cui parla intensità, interesse, e la sua tremenda, commovente, SU PAUL GOODMAN

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sicurezza e goffaggine. Quello che scriveva era un energi­ co miscuglio di compattezza sintattica e felicità di espres­ sione verbale; sapeva scrivere frasi di straordinaria pu­ rezza stilistica e vivacità linguistica, e sapeva scrivere an­ che in modo talmente melenso e maldestro che sembrava fatto apposta. Ma non importava. Era la sua voce, e cioè la sua intelligenza e la poesia della sua intelligenza incar­ nata, che mi teneva fedelmente e appassionatamente le­ gata. Anche se come scrittore spesso non era aggraziato, la sua scrittura e la sua mente erano intinte di grazia.

Esiste un tremendo e meschino risentimento tutto ame­ ricano verso uno scrittore che cerca di fare molte cose. Il fatto che Paul Goodman scrivesse poesie, commedie, romanzi, oltre a saggi di critica sociale, e che scrivesse li­ bri su argomenti specialistici sorvegliati da dragoni ac­ cademici e professionali, ad esempio l’urbanistica, l’istru­ zione, la critica letteraria, la psichiatria, gli fu sempre puntato contro. Come approfittatore accademico e psi­ chiatra fuorilegge, oltre a saperla tanto lunga sulle uni­ versità e sulla natura umana, offendeva molta gente. Per me questa ingratitudine è, ed è sempre stata, incredibile. So che Paul Goodman se ne è lamentato spesso. Forse le espressioni piu pungenti sono nel diario che ha tenuto dal 1955 al i960, pubblicato col titolo di Five Years, in cui rimpiange di non essere famoso, riconosciuto e ri­ compensato per quello che è. Quel diario fu scritto al termine del suo lungo periodo di oscurità; infatti nel i960, con la pubblicazione di La gioventù assurda divenne davvero famoso, e da allora in poi i suoi libri circolarono molto e, si direbbe, furono molto letti - se l’insistenza con cui le idee di Paul Good­ man venivano riprese (senza citarne la fonte) è una di­ mostrazione di ampia diffusione e lettura. Dal i960 in poi, cominciò a essere preso sul serio e a diventare ricco, e i giovani cominciarono ad ascoltarlo. Pare che tutto que­ sto gli facesse piacere, anche se continuava a lamentarsi di non essere abbastanza famoso, abbastanza letto, abba­ stanza apprezzato. Ben lontano dall’essere un egomaniaco mai soddisfai-

7 to, Paul Goodman aveva tutte le ragioni a pensare di non aver ottenuto l’attenzione che meritava. La cosa risulta con una certa chiarezza dai necrologi che ho letto dopo la sua morte su quella mezza dozzina di quotidiani e rivi­ ste americane reperibili a Parigi. In questi necrologi non è altro die uno scrittore interessante, un cane sciolto che si è un po’ sprecato, che ha pubblicato La gioventù as­ surda, che ha influenzato i giovani americani ribelli degli anni sessanta, che è stato indiscreto riguardo alla sua vita sessuale. Il commovente necrologio di Ned Rorem, l’uni­ co tra quelli che ho letto a dare un’idea dell’importanza di Paul Goodman, compare su «The Village Voice», un giornale letto da una buona parte dei sostenitori di Paul Goodman, solo a pagina 17. Adesso che è morto e comin­ ciano le valutazioni globali, è trattato come una figura marginale. Non avrei certo desiderato per Paul Goodman quel di­ vismo da «media» conquistato da McLuhan o addirittura da Marcuse — un fenomeno che ha poco a che fare con l’influenza effettiva e non permette assolutamente di ca­ pire quanto uno scrittore sia letto. Quello di cui mi la­ mento è il modo in cui Paul Goodman era spesso dato per scontato anche dai suoi ammiratori. Moltissimi non hanno mai capito bene, secondo me, che figura straordi­ naria fosse. Poteva fare quasi qualunque cosa, e cercò di fare quasi tutto quello che rientra nelle possibilità di uno scrittore. Sebbene i suoi scritti di narrativa siano diven­ tati sempre piu didattici e non-poetici, ha continuato a crescere come poeta dotato di una sensibilità notevole e assolutamente fuori moda; un giorno la gente scoprirà co­ me sono belle le sue poesie. Quasi tutto quello che dice nei suoi saggi sulla gente, le città e le sensazioni della vi­ ta è vero. Il suo cosiddetto dilettantismo coincide col suo genio: grazie a questo dilettantismo ha potuto investire nei problemi dell’insegnamento, della psichiatria, del ci­ vismo un intuito straordinario, bisbetico e accurato, e la libertà di progettare dei cambiamenti concreti. SU PAUL GOODMAN

È difficile elencare tutti i debiti che sento di avere nei suoi confronti. Per vent’anni l’ho considerato molto sem­

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plicemente il più importante scrittore americano. Era il nostro Sartre, il nostro Cocteau. Non aveva l’intelligen­ za teorica di prima classe di Sartre; non sfiorò mai la fon­ te opaca e folle dell’autentica fantasia che aveva a sua di­ sposizione Cocteau quando si esercitava in tante arti diverse. Ma aveva delle doti che non hanno mai avuto né Sartre né Cocteau: un’impavida partecipazione a tutto ciò di cui è fatta la vita, una passione morale meticolosa e tollerante. Per me la sua voce stampata su una pagina è reale come solo poche voci di scrittori lo sono state: è familiare, accattivante, esasperante. Ho il sospetto che nei suoi libri ci fosse una persona più nobile che nella sua vita, come succede spesso nella «letteratura». (A vol­ te è il contrario, e la persona nella vita è più nobile della persona nei libri. A volte non c’è praticamente nessun rap­ porto fra la persona nei libri e quella nella vita). Leggere Paul Goodman mi ha dato energia. Faceva parte di quel piccolo gruppo di scrittori, vivi e morti, a cui ho fatto riferimento per stabilire cosa vale essere uno scrittore, e i cui lavori sono i modelli su cui misuro i miei. Ci sono alcuni scrittori europei viventi in quel piccolo e personalissimo Pantheon, ma nessuno scrittore america­ no vivente tranne lui. Tutto ciò die metteva sulla carta mi piaceva. Mi piaceva quando era cocciuto, maldestro, ansioso, perfino quando aveva torto. H suo egotismo mi commuoveva, piuttosto che irritarmi (come fa spesso Mailer, quando lo leggo). Ammiravo la sua diligenza, la sua disponibilità a rendersi utile. Ammiravo il suo corag­ gio, che ha dimostrato in tanti modi - e uno dei più am­ mirevoli è stata la sincerità a proposito della propria omo­ sessualità in Five Years, cosa per cui è stato molto criti­ cato dai suoi amid tutti d’un pezzo dell’ambiente intel­ lettuale di New York; era sei anni fa, prima che il movi­ mento per la liberazione dei gay rendesse chic uscire allo scoperto. Mi piaceva quando parlava di se stesso e me­ scolava i suoi tristi desideri sessuali col suo desiderio per una «polis». Come André Breton, a cui può essere para­ gonato sotto molti aspetti, Paul Goodman era un inten­ ditore della libertà, della gioia, del piacere. Leggendolo, ho imparato moltissimo su queste tre cose.

SU PAUL GOODMAN

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Stamattina, quando ho cominciato a scrivere questo pezzo, ho frugato sotto il tavolo accanto alla finestra cer­ cando dei fogli per scrivere a macchina e ho visto che imo dei tre tascabili sepolti sotto i manoscritti è New Refor­ mation. Anche se sto cercando di vivere per un anno sen­ za libri, qualcuno riesce sempre a intrufolarsi. Mi sembra indicativo che anche in questa stanza minuscola dove i libri sono proibiti, dove sto cercando di sentire la mia voce e scoprire quello che penso davvero e quello che sen­ to davvero, ci sia in giro almeno un libro di Paul Good­ man, perché negli ultimi ventidue anni non ho mai vissu­ to in un appartamento die non abbia contenuto la mag­ gior parte dei suoi libri. Con o senza i suoi libri, continuerò a essere segnata da lui. Continuerà a dispiacermi che non sia piu vivo e non possa parlare ancora in altri libri, e che adesso tutti noi dovremo andare avanti incespicando in tentativi di aiutar­ ci l’un l’altro e di dire quello che è vero e di esprimere la poesia che possediamo e di rispettare la reciproca follia e il diritto di avere torto e di coltivare il nostro senso ci­ vico senza le spacconate di Paul, senza le pazienti e sinuo­ se spiegazioni di Paul, senza la grazia dell’esempio di Paul. 1972.

Un approccio ad Artaud

Da più di cento anni è all’opera un movimento per de* sacralizzare l’«autore». Fin dall’inizio l’impulso è stato - ed è tuttora - apocalittico: splendente di lamentazioni ed esultanza per la decadenza convulsa dei vecchi ordini sociali, sorretto da quella diffusa sensazione di vivere in un momento rivoluzionario che continua ad animare tan­ ta parte dell’élite morale e intellettuale. L’attacco contro l’«autore» non ha perso nulla del suo vigore, anche se la rivoluzione non c’è stata o, dove è avvenuta, ha rapi­ damente soffocato il modernismo in letteratura. Nei pae­ si che non hanno subito una trasformazione rivoluziona­ ria, il modernismo un po’ per volta è diventato la tradi­ zione dominante nella cultura letteraria, invece di esser­ ne lo strumento di sovversione e continua a produrre co­ dici destinati a conservare le nuove energie morali, pur temporeggiando con loro. H fatto che l’imperativo storico destinato a screditare la pratica stessa della letteratura sia durato tanto a lungo — un ponte attraverso molte ge­ nerazioni di letterati - non significa che sia stato capito male. E non significa neanche che il malessere dell’«auto­ re» sia ormai fuorimoda o improprio, come qualcuno sug­ gerisce. (La gente ha la tendenza a considerare con cini­ smo anche la crisi più spaventosa se si trascina troppo, se non riesce a darsi una conclusione). Ma la longevità del modernismo dimostra cosa succede quando la soluzione di un grave malessere sociale e psicologico, annunciata in toni profetici, viene rinviata: quali insospettabili possi­ bilità di ingegno e di angoscia, e di domare 1’angosda, pos­ sono sbocciare nell’attesa. Secondo il tradizionale concetto sottoposto a questa sfida permanente, la letteratura è modellata su un lin-

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guaggio razionale — cioè socialmente accettabile — e assu­ me uno fra i molti possibili schemi di discorso interior­ mente coerenti (poesia, commedia, epica, trattato, saggio, romanzo), diventando un’«opera» individuale che verrà giudicata secondo norme quali la credibilità, la forza emotiva, l’acutezza, la pertinenza. Ma oltre un secolo di modernismo letterario ha chiarito il carattere contingen­ te di generi ritenuti immutabili e ha minato il concetto stesso di opera autonoma. I criteri per valutare le opere letterarie sembrano non piò tanto evidenti, e tutt’altro che universali. Sono semplicemente la conferma del con­ cetto di razionalità proprio di una cultura particolare: e cioè del concetto di spirito e di comunità. La condizione di «autore» è stata smascherata come un ruolo che, conformista o no, è ineluttabilmente re­ sponsabile di fronte a un determinato ordine sociale. Cer­ tamente non tutti gli autori premoderni hanno adulato le società in cui vivevano. Una delle piu antiche funzioni dell’autore è di chiamare la comunità a rispondere della sua ipocrisia e malafede, come Giovenale che nelle Satire elenca le follie dell’aristocrazia romana, e Richardson die in Clarissa denuncia l’istituzione borghese del matrimo­ nio come atto di proprietà. Ma il coefficiente di disaffe­ zione disponibile per gli autori premoderni era ancora li­ mitato - che se ne rendessero conto o meno - alla possi­ bilità di fustigare i valori di una certa classe o di un certo ambiente sociale in nome dei valori di un’altra classe o di un altro ambiente sociale. Gli autori moderni sono quelli che, cercando di sfuggire a questa limitazione, han­ no affrontato il grandioso compito che un secolo fa è sta­ to indicato da Nietzsche come trasvalutazione di tutti i va­ lori, e che Antonin Artaud ha ridefinito negli anni venti la «svalorizzazione generale dei valori». Compito che, donchisciottesco finché si vuole, indica la efficace strate­ gia tramite cui gli autori moderni affermano di non esse­ re piu responsabili - responsabili in quanto gli autori che celebrano la loro epoca e gli autori die la criticano sono ugualmente cittadini a pieno titolo della società in cui agiscono. Gli autori moderni si riconoscono dallo sforzo di desacralizzare se stessi, dalla volontà di non essere mo-

UN APPROCCIO AD ARTAUD

13 talmente utili alla comunità, dalla tendenza a presentarsi non come critici della società, ma come profeti, avventu­ rieri spirituali e paria della società. Inevitabilmente la desacralizzazione dell’autore com­ porta una ridefinizione della «scrittura». Nel momento in cui la scrittura non si definisce più come responsabile, la distinzione apparentemente ovvia fra l’opera e la per­ sona che la produce, fra l’espressione pubblica e quella privata, perde ogni senso. Tutta la letteratura premoder­ na si sviluppa dal concetto classico della scrittura come risultato impersonale, autosufficiente e indipendente. La letteratura moderna progetta un’idea completamente di­ versa: la concezione romantica della scrittura come mez­ zo in cui una personalità eccezionale si espone eroicamen­ te. Questa referenza privata del discorso letterario pub­ blico non esige die il lettore sia effettivamente al corrente di molte cose riguardo all’autore. Sebbene siano disponi­ bili molte informazioni biografiche su Baudelaire e non si sappia praticamente niente della vita di Lautréamont, I fiori del male e Maldoror in quanto opere letterarie di­ pendono entrambe da un’idea dell’autore come ego tor­ mentato che violenta la propria unica soggettività. Secondo la concezione che trae origine dalla sensibilità romantica, ciò che l’artista (o il filosofo) produce, contie­ ne come struttura regolatrice interna un’impronta dei tra­ vagli della soggettività. Le credenziali di un’opera deri­ vano dalla sua collocazione all’interno di un’esperienza straordinaria realmente vissuta; essa presume un’inesau­ ribile totalità personale di cui «l’opera» è un sottopro­ dotto, che esprime questa totalità in modo inadeguato. L’arte diventa un’affermazione di consapevolezza di sé - una consapevolezza che presuppone una discordanza fra l’ego dell’artista e la comunità. Anzi, lo sforzo dell’ar­ tista viene misurato secondo l’entità della sua rottura con la voce collettiva (della «ragione»). L’artista è una co­ scienza che cerca di essere. «Io sono colui che per essere deve frustare la sua innatezza», scrive Artaud - il più didattico e il meno disposto a compromessi fra gli eroi deU’autoesacerbazione nella letteratura moderna. In teoria, il progetto non può avere successo. La co­

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scienza in quanto tale non può mai costituirsi totalmente in arte ma deve lottare per trasformare i propri limiti e per alterare i limiti dell’arte. Cosi, ogni singola «opera» ha imo status duale. È nello stesso tempo un gesto lette­ rario unico e specifico e già messo in atto, e una dichiara­ zione metaletteraria (spesso stridente, a volte ironica) sull’insufficienza della letteratura rispetto a una condi­ zione ideale della coscienza e dell’arte. La coscienza con­ cepita come progetto crea un modello che condanna ine­ vitabilmente «l’opera» a essere incompleta. Seguendo l’esempio della coscienza eroica che non mira a null’altro se non alla totale appropriazione di sé, la letteratura mi­ rerà al «libro totale». Rapportata all’idea di libro tota­ le, tutta la scrittura in pratica consiste di frammenti. Lo schema del libro diviso in inizio, parte centrale e fine non è piu applicabile. L’incompletezza diventa la modalità dominante dell’arte e del pensiero, dando origine agli antigeneri - l’opera che è deliberatamente frammentaria o autocancellante, il pensiero che disfa se stesso. Ma l’aver ribaltato con successo i vecchi modelli non esclude il fallimento di questa arte. Come dice Cocteau: «l’uni­ ca opera che ha successo è quella che fallisce».

La carriera di Antonin Artaud, uno degli ultimi grandi esponenti del periodo eroico del modernismo letterario, riassume alla perfezione queste nuove valutazioni. Sia nel­ la vita che nell’opera, Artaud ha fallito. La sua opera com­ prende poesie; poemi in prosa; sceneggiature cinemato­ grafiche; scritti sul cinema, sulla pittura e sulla letteratu­ ra; saggi, diatribe e polemiche sul teatro; parecchi lavori teatrali e appunti per molti progetti teatrali mai realiz­ zati, tra cui un’opera; un romanzo storico; un monologo drammatico in quattro parti scritto per la radio; saggi sul culto del peyote fra gli indiani Tarahumara; smaglianti apparizioni in due grandi film (Napoleon di Gance e La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer) e in molti altri minori; e centinaia di lettere, la piu compiuta forma «drammatica» in cui si è espresso; il tutto ammonta a un cotpus spezzato e automutilato, a una grande raccolta di frammenti. Ciò che ha lasciato in eredità non sono va­

UN APPROCCIO AD ARTAUD

15 rie opere d’arte portate a compimento, ma una presenza eccezionale, una poetica, un’estetica del pensiero, una teo­ logia della cultura, e una fenomenologia della sofferenza. In Artaud per la prima volta l’artista come profeta si cristallizza nella figura dell’artista come pura vittima del­ la propria coscienza. Ciò die Baudelaire prefigura nella sua prosa poetica sullo spleen e Rimbaud annuncia nel suo resoconto di una stagione all’inferno, in Artaud di­ venta l’affermazione di una incessante e agonizzante con­ sapevolezza dell’inadeguatezza della sua coscienza rispet­ to a se stessa - i tormenti di una sensibilità che si giudica irreparabilmente estraniata dal pensiero. Pensare e usare il linguaggio diventa un calvario perenne. Le metafore che Artaud usa per descrivere il suo tor­ mento intellettuale trattano lo spiritoìrome una proprietà su cui non si ha mai un pieno diritto (o su cui si ha per­ so il diritto) o come una sostanza fisica intransigente, fug­ gitiva, instabile, oscenamente mutevole. Già nel 1921, a venticinque anni, afferma che il suo problema è quello di non riuscire mai a possedere il suo.spirito «integral­ mente». Per "tutti gli anni venti, si lamenta che le sue idee lo «abbandonano», die non è in grado di «afferra­ re» le sue idee, che non riesce a «raggiungere» il suo spi­ rito, che ha «perso» la capadtà di capire le parole e «di­ menticato» le forme del pensiero. Con metafore piu diret­ te, si infuria per la cronica erosione delle sue idee, per il modo in cui il suo pensiero si sbridola sotto di lui o sgocciola via; descrive il proprio spirito come crepato, de­ teriorato, pietrificato, liquefatto, coagulato, vuoto, impe­ netrabilmente denso: le parole marciscono. Artaud non soffre perché dubita che il suo «Io» pensi, ma perché è convinto di non possedere il proprio pensiero. Non di­ ce di essere incapace di pensare; dice che non «possiede» il pensiero, che per lui è qualcosa di più dell’avere sem­ plicemente idee giuste o dare giudizi corretti. «Possede­ re il pensiero» significa quel processo grazie a cui il pen­ siero conferma se stesso, si manifesta a se stesso ed è ga­ rante «rispetto a tutti i fatti del sentimento e della vita». È in questa accezione del pensiero, die considera il pen­ siero come soggetto e oggetto di se stesso, che Artaud

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afferma di non «possederlo». Artaud dimostra come la coscienza hegeliana, drammatizzante e attenta a sé, pos­ sa pervenire a uno stato di alienazione totale (invece che a ima saggezza distaccata ed esauriente) perché lo spirito resta un oggetto. Il linguaggio che usa Artaud è profondamente con­ traddittorio. Il suo immaginario è materialistico (trasfor­ ma lo spirito in una cosa o in un oggetto), ma ciò che lui esige dallo spirito equivale al piu puro idealismo filoso­ fico. Rifiuta di considerare la coscienza se non come pro­ cesso. Ma è proprio questa caratteristica di processo, l’i­ nafferrabile fluire della coscienza, die per lui costituisce un inferno. «U vero dolore - dice Artaud - è sentire dentro di sé il proprio pensiero die si sposta». Il cogito, la cui esistenza è cosi evidente da non aver bisogno di prove, è alla ricerca, disperata e inconsolabile, di un’tfrr cogitanti. Artaud osserva con orrore die l’intelligenza è una mera eventualità. Agli antipodi di quello che rac­ contano Cartesio e Valéry nelle loro grandi epopee ot­ timiste sulla ricerca di idee chiare e precise, una Divina Commedia del pensiero, Artaud riferisce l’interminabile infelidtà e frustrazione della cosdenza alla ricerca di sé, la Divina Tragedia del pensiero. Descrive se stesso co­ me «al costante inseguimento del mio essere intellet­ tuale». La conseguenza di questo verdetto di Artaud su se stesso — la convinzione di essere perennemente alienato dalla propria cosdenza — è che questo defidt mentale diventa, in modo diretto o indiretto, il soggetto domi­ nante e inesauribile dd suoi scritti. Alcune sue pagine su questa Passione del pensiero sono quasi troppo do­ lorose da leggere. Artaud non approfondisce le sue emo­ zioni — panico, confusione, rabbia, terrore. Non era do­ tato per l’analisi psicologica (e non essendolo, la consi­ derò sempre futile) ma per un tipo di descrizione più originale, una spede di fenomenologia fisiologica della sua interminabile desolazione. Quando nel Pesanervi Artaud afferma che nessuno ha mai tracciato una mappa cosi accurata del suo essere «intimo», non esagera. In tutta la storia della scrittura in prima persona, non esiste

UN APPROCCIO AD ARTAUD

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un resoconto cosi instancabile e minuzioso della micro­ struttura della sofferenza mentale. Comunque Artaud non si limita a registrare la sua an­ goscia psichica. Questa costituisce la sua opera, perché mentre l’atto di scrivere - di date una forma all’intelli­ genza - è un’agonia, è questa agonia a fornire l’energia per l’atto di scrivere. Sebbene Artaud sia stato amara­ mente deluso quando le poesie relativamente ben mo­ dulate che aveva sottoposto alla «Nouvelle Revue Fran?aise» nel 1923 furono rifiutate dal direttore, Jacques Rivière, che le giudicò prive di coerenza e di armonia, le critiche di Rivière si rivelarono liberatorie. Da allora in poi Artaud affermò che lui non faceva dell’altra arte, da accatastare nel magazzino della «letteratura». Il disprez­ zo per la letteratura - un tema del modernismo lettera­ rio a cui aveva per primo dato voce Rimbaud - ha un’in­ flessione diversa espresso da Artaud, in un’epoca in cui futuristi, dadaisti e surrealisti ne avevano fatto un luo­ go comune. Il disprezzo di Artaud per la letteratura, piu che dal diffuso nichilismo culturale, deriva da una speci­ fica esperienza di sofferenza. Per Artaud, l’estremo do­ lore spirituale — e fisico — che nutre (ed autentica) l’atto di scrivere, diventa per forza di cose falso quando l’e­ nergia si trasforma in abilità artistica: quando raggiunge la condizione positiva di prodotto letterario compiuto. L’umiliazione verbale della letteratura («Tutta la scrit­ tura è porcheria», dichiara Artaud nel Pesanervi) proteg­ ge la pericolosa e quasi magica condizione della scrittura come vascello degno di trasportare la sofferenza dell’au­ tore. Insultare l’arte (come insultare il pubblico) è un tentativo di prevenire la corruzione dell’arte, la volga­ rizzazione della sofferenza. La connessione fra sofferenza e scrittura è uno dei te­ mi principali di Artaud: d si guadagna il diritto a par­ lare attraverso la sofferenza vissuta, ma la necessità di usare il linguaggio è di per sé l’occasione fondamentale di soffrire. Egli descrive la propria sensazione di essere de­ vastato da uno «stupefacente smarrimento» del suo «lin­ guaggio in rapporto al pensiero». L’alienazione di Ar­ taud dal linguaggio rappresenta il lato oscuro delle alie­

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nazioni verbali usate con successo nella poesia moderna, cioè del modo creativo in cui vengono sfruttate le possi­ bilità puramente formali del linguaggio, l’ambiguità del­ le parole e l’artificiosità dei significati fissi. Il problema di Artaud non è che cosa sia il linguaggio in sé, ma il rap­ porto fra il linguaggio e quelle aie lui chiama: «le in­ quietudini intellettuali della carne». Egli può a malape­ na permettersi il lamento di tutti i grandi mistici, secon­ do i quali le parole tendono a pietrificare il pensiero vi­ vente e a trasformare la sostanza immediata, organica e sensoria dell’esperienza in qualcosa di inerte, di puramen­ te verbale. Artaud combatte solo in seconda istanza con­ tro l’opacità del linguaggio, la sua lotta è soprattutto contro l’irriducibilità della sua vita interiore. Impiegate da una coscienza che si definisce parossistica, le parole di­ ventano lame. Artaud è stato evidentemente afflitto da una straordinaria vita interiore, in cui la complessità e la clamorosa acutezza delle sensazioni fisiche e le convulse intuizioni del sistema nervoso erano a quanto pare per­ manentemente in lotta con la sua capacità di dar loro una forma verbale. Questo scontro tra facilità e impoten­ za, tra smodate doti verbali e un senso di paralisi intel­ lettuale, è la trama psicodrammatica di tutto quello die ha scritto Artaud; e per mantenere quel contesto sem­ pre efficace drammaticamente è necessario continuare a esorcizzare la rispettabilità connessa alla scrittura. Cosi Artaud, piu che liberare la scrittura, la pone in stato di continuo sospetto trattandola come specchio del­ la coscienza - in modo che la gamma di ciò che può es­ sere scritto coincida con la coscienza stessa, e la verità di ogni affermazione debba dipendere dalla vitalità e dal­ la completezza della coscienza in cui ha origine. Contro ogni teoria dello spirito di ispirazione gerarchica, o pla­ tonica, che consideri una certa parte della coscienza su­ periore ad un’altra, Artaud sostiene la democrazia delle rivendicazioni spirituali, il diritto di ogni livello, tenden­ za e qualità spirituale ad essere ascoltato: «Nello spirito si può fare tutto, si può parlare in tutti i toni, anche in quelli sconvenienti». Artaud rifiuta di escludere ima qua­ lunque percezione perché troppo rozza o volgare. L’arte

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deve poter parlare sempre, quale che sia la sua provenien­ za, pensa - sebbene non per gli stessi motivi che giustifi­ cano la franchezza di Whitman o la licenza di Joyce. Per Artaud, bloccare una qualunque delle possibili transazio­ ni fra i diversi livelli dello spirito e della carne equivale a una espropriazione del pensiero, a una perdita della vi­ talità nel suo significato più puro. La ristretta gamma tonale che costituisce «il sedicente tono letterario» - cioè la letteratura nelle sue forme tradizionalmente accettate - diventa peggio di una frode e di uno strumento di re­ pressione intellettuale. È una sentenza di morte spiritua­ le. Il concetto di verità fecondo Artaud prevede un ac­ cordo esatto e delicato tra gli impulsi «animali» dello spirito e le attività superiori dell’intelletto. È questa co­ scienza agile e totalmente unificata che Artaud invoca ne­ gli ossessivi resoconti della propria insufficienza spiritua­ le e nel suo rigetto della «letteratura». Il valore della propria coscienza è il criterio supremo di Artaud. Egli unisce infallibilmente la sua visione uto­ pica della coscienza a un materialismo psicologico: lo spirito assoluto è anche assolutamente carnale. Cosi il suo tormento intellettuale è nello stesso tempo un acutissi­ mo tormento fisico, e ogni volta che fa un’affermazione riguardo alla propria coscienza è anche un’affenflazione riguardo al proprio corpo. Anzi, la causa dell’incurabi­ le dolore che gli infligge la coscienza è proprio il rifiuto di considerare lo spirito separato dalle condizioni della car­ ne. Tutt’altro che incorporea, la coscienza di Artaud è martirizzata dal vincolo col corpo. Nella sua lotta contro ogni nozione gerarchica o puramente dualistica di coscien­ za, Artaud tratta costantemente il proprio spirito come se fosse una specie di corpo - un corpo che non poteva «possedere» perché era troppo virgineo oppure troppo corrotto, e anche un corpo mistico dal cui disordine lui era «posseduto». Naturalmente sarebbe un errore prendere troppo alla lettera le affermazioni di impotenza spirituale di Artaud. L’incapacità intellettuale che descrive non indica certo i limiti delle sue opere (Artaud non dimostra alcuna infe­ riorità nelle sue capacità di ragionamento), ma spiega il

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sup. progetto: ripercorrere minuziosamente a ritrosodfe. 5bre pesanti e intricate del suo corpo-spirito. La premes­ sa agli scritti di Artaud sta nella sua profonda difficoltà a conciliare «l’essere» con l’iperluddità, la carne con le parole. Lottando per rendere corporeo il pensiero viven­ te, Artaud componeva a blocchi febbricitanti e irregola­ ri; la scrittura si interrompe bruscamente e poi riparte. Ogni sua «opera» è in forma mista: ad esempio, fra un testo introduttivo e una descrizione onirica spesso inseri­ sce una lettera una lettera a un corrispondente imma­ ginario oppure ima vera lettera priva del nome del desti­ natario. Mutando le forme, muta il suo respiro. La scrit­ tura è concepita come un flusso incontrollabile e impre­ vedibile di energia pronta a inaridirsi; la conoscenza deve esplodere nei nervi del lettore. In Artaud i dettagli stili­ stici derivano direttamente dal suo concetto della coscien­ za come una palude di difficoltà e di sofferenza. La sua de­ terminazione a spezzare il guscio della «letteratura», o almeno a violare la distanza protettiva fra lettore e testo, non è certo un'ambizione nuova nella storia del moderni­ smo letterario. Ma forse Artaud è giunto piu vicino di ogni altro autore a realizzarla, con la violenta disconti­ nuità del suo discorso, con l’estrema intensità della sua emozione, con la purezza del suo progetto morale, con la straziante carnalità dei resoconti della sua vita spiri­ tuale, con la sincerità e la grandiosità del cimento a cui si è sottoposto per poter semplicemente far uso del lin­ guaggio. Le difficoltà dì cui Artaud si lamenta continuano perché pensa a ciò che non è pensabile - a come il corpo è spirito e a come lo spirito è anche un corpo. Questo paradosso inesauribile è rispecchiato nel desiderio di Artaud di pro­ durre un’arte che nello stesso tempo sia anti-arte. Comun­ que questo secondo paradosso è piu ipotetico die reale. Ignorando il ripudio di Artaud, i lettori inevitabilmente assimileranno le sue strategie di discorso all’arte ogni volta die quelle strategie raggiungono (come spesso av­ viene) un certo apice trionfante di incandescenza. Tre libricdni pubblicati fra il 1925 e il 1929 - L'Ombtlic des

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Limbes, Il pesanervi, L’Art et la Mort - che possono es­ sere considerati poemi in prosa, superiori a qualunque altro suo scritto in forma di poesia, dimostrano che Ar­ taud è il piu grande poeta in prosa che la lingua fran­ cese abbia avuto dopo il Rimbaud di Illuminazioni e Una stagione all'inferno. Eppure non sarebbe corretto sepa­ rare le cose piu riuscite dal punto di vista letterario dagli altri suoi scritti. Con le sue opere Artaud nega ogni differenza fra arte e pensiero, fra poesia e verità. Nonostante le interruzioni nell’esposizione e il mutare delle «forme» all’interno di ciascuno scritto, è evidente una continuità di argomento in tutte le sue opere. Artaud è sempre didattico. Non ha mai smesso di insultare, lamentarsi, esortare, denuncia­ re — nemmeno nelle poesie scritte dopo essere uscito dal manicomio di Rodez nd 1946, il cui linguaggio è in par­ te incomprensibile; la sua è una presenza fisica non me­ diata. Tutto ciò che scrive è in prima persona, e si rivolge al lettore mescolando le voci dell’incantesimo a un discor­ so esplicativo. Le sue opere sono contemporaneamente arte e riflessioni sull’arte. In uno dei suoi primi saggi sulla pittura, Artaud dichiara che le opere d’arte «.vai: gono solo quanto valgono i principi su cui sono fondate, e il cui valore è proprio quello che rimettiamo in discus­ sione». Cosi come l’opera di Artaud equivale a una ars poetica (di cui la sua opera è solo un’esposizione fram­ mentaria), nello stesso modo egli considera la creazione artistica come un tropo del funzionamento della coscien­ za nd suo insieme — della vita stessa. Questo tropo sta alla base della sua adesione al sur­ realismo, tra il 1924 e il 1926. Artaud intese il surreali­ smo come una «rivoluzione» applicabile a «tutte le con­ dizioni dello spirito, a ogni genere di attività umana...», mentre riteneva secondaria e puramente strategica la sui posizione di movimento artistico. Accolse il surrealismc «più che dtro, una condizione dello spirito» come me­ todo critico dello spirito e nello stesso tempo come tec­ nica volta a migliorate la portata e la qualità dello spi­ rito. Personalmente aveva sempre sentito come un’op pressione l’idea borghese della realtà quotidiana («na­

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sciamo, viviamo, moriamo in un’atmosfera di menzogna», scrisse nel 1923), e perciò fu naturalmente attratto dal surrealismo che propugnava una coscienza piu sottile, im­ maginosa e ribelle. Ma ben presto scopri che le formule surrealiste erano a loro volta una prigione. Si fece espel­ lere quando la maggioranza dei surrealisti decise di iscri­ versi al Partito comunista francese, un passo che Artaud denunciò come tradimento. Una rivoluzione sociale non cambia nulla, insiste sprezzante scrivendo contro «il bluff surrealista» nel 1927. L’adesione surrealista alla Terza Internazionale, sebbene di breve durata, era una provoca­ zione plausibile per indurlo a lasciare il movimento, ma in realtà la sua insoddisfazione aveva radici piò profon­ de di un disaccordo a proposito di quale rivoluzione fosse più desiderabile e più importante. (I surrealisti in realtà non erano più comunisti di Artaud. André Breton più che convinzioni politiche aveva intense adesioni morali, che in un altro periodo l’avrebbero avvicinato all’anarchia, men­ tre negli anni trenta l’avrebbero logicamente indotto a diventare un seguace e un amico di Trockij). Il vero osta­ colo per Artaud era una fondamentale differenza di tem­ peramento. Sulla base di un equivoco, Artaud aveva abbracciato con fervore la sfida dei surrealisti ai limiti die la «ragio­ ne» pone alla coscienza, e la fede dei surrealisti nella pos­ sibilità di accèdere a una coscienza più ampia, grazie ai sogni, alle droghe, a un’arte insolente e a un comporta­ mento asociale. Egli pensava al surrealista come a qual­ cuno che «non ha speranze di raggiungere il proprio spi­ rito». Naturalmente si riferiva a se stesso. La dispera­ zione è del tutto assente dal filone principale degli at­ teggiamenti surrealisti. I surrealisti annunciavano trion­ falmente i benefici che sarebbero derivati dall’aver aper­ to i cancelli della ragione, e ignoravano gli effetti più or­ rendi. All’opposto dell’ottimismo surrealista c’era il cuo­ re intollerabilmente oppresso di Artaud, che poteva al massimo ammettere con apprensione la legittimità dell’ir­ razionale. Mentre i surrealisti proponevano giochi squi­ siti da fare con la coscienza, senza paura di perdere, Ar­ taud era impegnato in una lotta mortale per « reintegra­

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re» se stesso. Breton approvava l’irrazionale in quanto strada utile per arrivare in un nuovo continente spiri­ tuale. Per Artaud, privo della speranza di viaggiare ver­ so un luogo qualsiasi, era il terreno del martirio. Estendendo le frontiere della coscienza, i surrealisti si aspettavano non solo di perfezionare il ruolo della ra­ gione, ma di aumentare il raccolto del piacere fisico. Ar­ taud non poteva aspettarsi alcun piacere dalla conquista di nuovi domini della coscienza. Mentre i surrealisti so­ stenevano con euforiche affermazioni sia la passione fisi­ ca che l’amore romantico, Artaud considerava 1’erotismo come una cosa minacciosa e demoniaca. In L'Art et la Mort descrive «questa preoccupazione del sesso che mi pietrifica e mi squarcia il sangue». In molti dei suoi scritti gli organi sessuali si moltiplicano in proporzioni gigante­ sche, da Brobdingnag, e in sinistre forme ermafrodite; la verginità è trattata come uno stato di grazia, e l’im­ potenza o la castrazione sono presentate - ad esempio, nell’immaginario basato sulla figura di Abelardo in L’Art et la Mort - piu come liberazione che come punizione. A j^uanto pare i surrealisti amano la vita, annota altez­ zoso Artaud. Lui non può che «disprezzarla». Nel 1925, spiegando il programma dell’«Ufficio di ricerche surrea­ liste», aveva descritto con approvazione il surrealismo come «un certo ordine di repulsioni», ma già l’anno se­ guente aveva concluso che si trattava di repulsioni molto superficiali. Come disse Marcel Duchamp in un commo­ vente elogio funebre di André Breton nel 1966, «La grande fonte dell’ispirazione surrealista è l’amore: l’esal­ tazione dell’amore elettivo». Il surrealismo rappresenta­ va una politica spirituale della gioia. Nonostante il suo appassionato rifiuto del surrealismo, il gusto di Artaud era surrealista e lo sarebbe sempre ri­ masto. Il suo disprezzo per il «realismo» in quanto rac­ colta di banalità borghesi è surrealista, e lo stesso sono il suo entusiasmo per l’arte dei pazzi e dei non professio­ nisti, per tutto quello che viene dall’Oriente, per qual­ siasi cosa estrema, fantastica e gotica. Il disprezzo di Ar­ taud per il repertorio drammatico dei suoi tempi, per le opere teatrali incentrate sulla psicologia dei personag-

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gi - un disprezzo che sta alla base dei manifesti in II tea­ tro e il suo doppio, scritto fra il 1931 e il 1936 - parte da una posizione identica a quella di Breton, quando nel primo «Manifesto surrealista» (1924) rifiuta il romanzo. Ma Artaud fa un uso completamente diverso degli en­ tusiasmi e dei pregiudizi estetici che ha in comune con Breton. I surrealisti sono intenditori della gioia, della li­ bertà, del piacere. Artaud è un intenditore della dispera­ zione e della lotta morale. Se i surrealisti rifiutano espli­ citamente di concedere all’arte un valore autonomo, es­ si non vedono però alcun conflitto fra aspirazioni mo­ rali e aspirazioni estetiche, e in questo senso Artaud ha perfettamente ragione quando dice che il loro program­ ma è «estetico», cioè soltanto estetico. Artaud avverte questo conflitto, e esige che l’arte trovi una giustificazio­ ne sul piano della serietà morale. Dal surrealismo, Artaud mutua il punto di vista che collega la sua perenne crisi psicologica personale con quella che Breton definisce (nel «Secondo Manifesto sur­ realista» del 1930) «una crisi generale della coscienza», un punto di vista che sarà presente in tutta l’opera di Artaud. Ma nel «corpus» surrealista non c’è un senso del­ la crisi desolato quanto quello di Artaud. Di fronte alle percezioni lacerate di Artaud, sia cosmiche che intima­ mente fisiologiche, le geremiadi surrealiste sembrano più tonificanti che preoccupanti. (In realtà non si riferisco­ no alla stessa crisi. Senza dubbio Artaud ne sapeva piu di Breton sulla sofferenza, e Breton ne sapeva piu di Artaud sulla libertà). Questo retaggio comune con i sur­ realisti ha permesso a Artaud di scrivere considerando sempre come un fatto acquisito che l’arte avesse una mis­ sione «rivoluzionaria». Ma l’idea di rivoluzione di Artaud è tanto diversa da quella dei surrealisti quanto la sua deva­ stata sensibilità è diversa da quella essenzialmente inte­ gra di Breton. Dai surrealisti Artaud ha ereditato anche l’imperativo romantico a colmare il divario fra arte (e pensiero) e vita. Comincia L’Ombilic des Limbes, scritto nel 1925, di­ chiarando di non poter concepire «un’opera distaccata dalla vita», una «creazione distaccata». Ma Artaud insi­

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ste, più aggressivamente di quanto abbiano mai fatto i surrealisti, a svalutare la singola opera d’arte die risul­ ta dalla connessione fra arte e vita. Come i surrealisti, Artaud considera l’arte una funzione della cosdenza, e ogni opera solo una frazione della coscienza dell’artista nel suo insieme. Ma identificando la cosdenza soprattut­ to con i suoi aspetti oscuri, nascosti e tormentosi, Artaud concepisce lo smembramento della cosdenza totale in sin­ gole «opere» non solo come una procedura arbitraria (il che era quello che affascinava i surrealisti) ma come un’autosconfitta. Artaud restringe la prospettiva surrealista e trasforma l’opera d’arte in una cosa di per se stessa let­ teralmente inutile; in quanto cosa, è morta. Nel Pesanervi, del 1925, Artaud paragona i suoi scritti a «casca­ mi» senza vita, a mere «raschiature dell’anima». Questi pezzettini di cosdenza smembrati acquistano un valore e una vitalità solo come metafore dell’opera d’arte, cioè come metafore della cosdenza. Disdegnando ogni idea di arte come distacco, ogni concezione delle opere d’arte come oggetti (che devono essere contemplati, e devono incantare, edificare, distrar­ re), Artaud assimila ogni forma d’arte alla rappresenta­ zione drammatica. Secondo la poetica di Artaud, l’arte (e il pensiero) è un’azione — che per essere autentica-de­ ve essere brutale - e anche un’esperienza sofferta, carica di emozioni estreme. Se l’arte è hello stesso tempo azio­ ne e passione,’ se è cosi iconoclastica eppure evangelica nel suo fervore, ha bisogno di una scena più audace, fuori dai musei e dalle sale tradizionali, e di un nuovo tipo di confronto, più rude, col suo pubblico. La retorica del flusso interióre che sorregge questo concetto di arte è no­ tevolissima, ma non cambia il modo in cui Artaud riesce in pratica a sbarazzarsi del ruolo tradizionale dell’opera d’arte come oggetto, con un’analisi e una pratica defl’opera d’arte che sono una gigantesca tautologia. Vede l’ar­ te come, un’azione, e perciò una passione, dello spirito. Lo spirito produce airfe. E Io spazio in cui l’arte viene consumata è sempre lo spirito, visto come una totalità or­ ganica di sentimento, sensazione fisica e capacità di attri­ buire significati. La poetica di Artaud è una specie di he-



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finale, maniacale, in cui l’àftè^è il compendio delfjelismo a coscienza, la riflessione della coscienza su se stessa, e lo

^spazio vuoto in cui la coscienza compie il pericoloso sal­ to dell’autotrascendenza. Colmare il divario fra arte e vita distrugge l’arte e, nel­ lo stesso tempo, la rende universale. Nel manifesto che Artaud scrisse per il Teatro Alfred Jarry, da lui fondato nel 1926, gioisce del «discredito in cui stanno una per volta cadendo tutte le forme d’arte». Questa esultanza può essere una posa, ma certamente Artaud sarebbe in­ coerente se si lamentasse per questo stato di cose. Quan­ do si accetta il presupposto che ogni arte debba fondersi con la vita (cioè con tutto, incluse le altre forme d’arte) non è piu possibile difendere l’esistenza di singole for­ me d’arte. Inoltre Artaud presume die una delle arti dovrà al piu presto riprendersi dalla crisi e diventare la forma d’arte totale, che assorbirà tutte le altre. La vita e l’opera di Artaud possono essere descritte come una sequela di sforzi per formulare e possedere questa arte maestra, seguendo eroicamente fino in fondo la convin­ zione che questa arte non potesse essere proprio quella in cui il suo genio era maggiormente imprigionato, quel­ la che implicava esclusivamente il linguaggio. I parametri a cui fa ricorso Artaud per le sue opere nel­ le varie discipline artistiche coincidono con le diverse di­ stanze critiche mantenute nei confronti dell’idea di un’ar­ te che sia solo linguaggio, e con le diverse forme assunte dalla sua ininterrotta «rivolta contro la poesia» (è il ti­ tolo di un testo in prosa che ha scritto a Rodez nel 1944). In ordine cronologico la poesia è stata la prima forma d’arte in cui si è espresso. Sono state conservate delle poesie del 1913, quando Artaud aveva diciassette anni e studiava ancora a Marsiglia, sua città natale; il suo pri­ mo libro, pubblicato nel 1923, tre anni dopo che si era trasferito a Parigi, era una collezione di poesie; e quando in quello stesso anno propose senza successo alcune nuo­ ve poesie alla «Nouvelle Revue Francai se», ebbe inizio la sua celebre corrispondenza con Rivière. Ma ben pre­ sto Artaud cominciò a trascurare la poesia a favore di al-

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tre forme d’arte. Le dimensioni poetiche che Artaud po­ teva raggiungere negli anni venti non erano all’altezza dell’arte totale come lui la intuiva. Nelle prime poesie ha il fiato corto; la concisa forma lirica di cui fa uso non co­ stituisce uno sfogo per la sua immaginazione digressiva ed esplicativa. Solo nella grande esplosione creativa del periodo fra il 1945 e il 1948, i suoi ultimi tre anni di vita, Artaud, ormai indifferente all’idea di poesia come chiusa affermazione lirica, trovò l’ampio respiro adegua­ to alle molteplici esigenze del suo immaginario, una vo­ ce libera dalle forme tradizionali, e aperta, come la poe­ sia di Pound. Così come Artaud la concepiva negli anni venti, la poesia non aveva queste possibilità. Era piccola, e un’arte totale doveva essere, e sentirsi, grande; doveva essere una rappresentazione a piu voci, non un singolo oggetto lirico. Tutte, le avventurose imprese corse in nome di una forma d’arte totale - che sia in musica, pittura, scultura, architettura o letteratura - finiscono in qualche modo con l’assumere una visione teatrale. Anche se Artaud non aveva bisogno di prendere alla lettera questo model­ lo, è logico che in giovane età si sia esplicitamente de­ dicato all’arte drammatica. Tra il 1922 e il 1924 recitò in teatro, diretto da Charles Dullin e dai Pitoeff, e nel 1924 cominciò la carriera di attore cinematografico. Que­ sto significa che verso la metà degli anni venti Artaud aveva due candidati plausibili per il ruolo di arte totale: il cinema e il teatro. Ma siccome era come regista, e non come attore, che voleva portare avanti la candidatura di queste arti, dovette presto rinunciare a una delle due: al cinema. Artaud non riuscì mai ad avere i mezzi per girare un film, e quando nel 1928 un altro regista diresse un film basato su una sua sceneggiatura, La coquUle et le clergyman, giudicò che le sue intenzioni fossero state tra­ dite. Questo senso di fallimento fu rafforzato nel 1929, quando la storia dell’estetica cinematografica giunse a una svolta cruciale con l’avvento del sonoro. Anche Artaud, come la maggior parte dei pochi die si occupavano seria­ mente di cinema negli anni venti, profetizzò erroneamen­ te che il sonoro avrebbe posto fine alla grandezza del ci-

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nema come arte. Continuò a recitare nei film fino al 1935, ma con poche speranze di avere l’occasione di dirigerne uno, e senza piu riflettere sulle possibilità del cinema (die, incurante dd suo pessimismo, rimane il candidato piu plausibile dd nostro secolo al titolo di arte maestra). Dalla fine dd 1926 in poi Artaud concentra la ricerca della forma d’arte totde sul teatro. A differenza della poe­ sia, un’arte fatta di un unico materiale (le parole), il tea* tro usa una pluralità di materiali: parole, musica, luce, corpi, mobili, abiti. A differenza dd cinema, un’arte che usa solo una pluralità di linguaggi (immagini, parole, mu­ sica), il teatro è carnale, corporeo. Il teatro riunisce i mezzi più diversi - il linguaggio verbale e quello gestua­ le, oggetti statid e movimenti nello spazio tridimensio­ nale. Però il teatro non diventa un’arte maestra solo per questa abbondanza di mezzi. Bisognava sovvertire creati­ vamente l’abituale tirannia di alcuni mezzi sugli altri. Wagner aveva sfidato la convenzione che vuole un’al­ ternanza di arie e recitativi, e la sua implicazione di un rapporto gerarchico fra parola, canto e musica orchestrale; nello stesso modo, Artaud denunciò l’abitudine di met­ tere ogni demento della messa in scena a servizio delle frasi che gli attori si rivolgono. Attaccando la priorità dd teatro del dialogo, che ha subordinato il teatro alla «let­ teratura», Artaud implicitamente rivaluta i mezzi che ca­ ratterizzano altre forme di rappresentazione drammatica, come la danza, l’oratorio, il òrco, il cabaret, le funzioni rdigiose, la palestra, le sale operatorie, i tribunali. Ma l’annessione di risorse proprie di altre arti o di altre for­ me quasi teatrali non basterà a fare dd teatro l’arte to­ tale. Un’arte maestra non si costruisce con una serie di addizioni; la principale istanza di Artaud non è che il tea­ tro amplii 1 suoi mezzi. Anzi, è ansioso piuttosto di puri: ficarlo da tutto ciò die è estraneo o facile. Chiedendo un teatro in cui l’attore europeo, da sempre legato soprat­ tutto all’espressione nerbale, venga rieducato a diven­ tare un «atleta» dd cuore, Artaud svela il suo gusto in­ veterato per lo sforzo, fisico e spirituale, per l’arte come amento. Il teatro di Artaud è una macchina estenuante tesa a

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trasformare concetti spirituali, comprese le passioni, in eventi assolutamente «materiali». Contro la priorità se­ colare attribuita dal teatro europeo alle parole, in quan­ to vettori di emozioni e di idee, Artaud vuole mostrare il fondamento organico delle emozioni e la fisicità delle idee, nei corpi degli attori. Il teatro di Artaud è una rea­ zione allo stato di sottosviluppo in cui sono rimasti per generazioni i corpi (e le voci, se non per parlare) degli at­ tori occidentali, e l’arte drammatica. Per raddrizzare uno squilibrio cosi favorevole al linguaggio verbale, Artaud propone di modellare -gli esercizi per attori su quelli di ballerini, atleti, mimi e cantanti, e di «basare il teatro so­ prattutto sullo spettacolo», come dichiara nel Secondo Manifesto del Teatro della Crudeltà, pubblicato nel 1933. Non offre di sostituire gli incanti della parola con sceno­ grafie, costumi, musica, luci ed effetti spettacolari. Il cri­ terio rappresentativo di Artaud è la violenza sui sensi, non l’incanto dei sensi; la bellezza è un concetto che non prende mai in considerazione. Artaud non considera af­ fatto la spettacolarità come un fatto di per sé auspica­ bile, e desidera anzi che sul palcoscenico domini la piu stretta austerità, fino al punto di escludere qualunque significato simbolico per gli oggetti scenici. «Gli ogget­ ti, gli accessori, l’arredamento devono essere compresi in senso letterale... non per quello che rappresentano, ma per quello die sono», scrive in un manifesto del 1926. Piu tardi, in II teatro e il suo doppio, suggerisce di eli­ minare del tutto la scenografia. Chiede un teatro «pu­ ro», dominato dalla «fisicità del gestoj^solutQchéèlul stesso idea...» Se il linguaggio di Artaud suona vagamente platonico, ciò avviene perché Artaud, come Platone, si accosta al­ l’arte da un punto di vista moralistico. Il teatro in real­ tà non gli piace, o almeno non gli piace la concezione oc­ cidentale di teatro, che accusa di insufficiente serietà. Il suo teatro non avrà nulla a che fare con l’obiettivo di offrire «un gioco artificiale, inutile», un puro intratteni­ mento. H contrasto centrale della polemica di Artaud non è quello fra un teatro soltanto letterario e un teatro di sensazioni forti, ma fra un teatro edonistico e un tea-

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tro moralmente rigoroso. Il teatro die propone Artaud sarebbe stato calorosamente approvato anche da Savo­ narola o da Cromwell. Il teatro e il suo doppio può es­ sere addirittura letto come un attacco al teatro, animoso come la Lettera a d‘Alembert in cui Rousseau, irritato dal personaggio di Alceste nel Misantropo, e convinto che Molière avesse voluto mettere in ridicolo come goffo fa­ natismo la vera sincerità e purezza morale, condudeva sostenendo che la superficialità morale era insita nella natura stessa del teatro. Come Rousseau, Artaud si rivolta contro la pochezza morale di gran parte dell’arte. Come Platone, Artaud sentiva che l’arte in generale mente. Ar­ taud non vuole bandire gli artisti dalla sua Repubblica, ma approva l’arte solo finché è una «vera azione». L’ar­ te dev’essere conoscitiva. «Nessuna immagine mi soddi­ sfa se nello stesso tempo non è conoscenza», scrive; L’ar­ te deve avere un benefico effetto spirituale sul pubblico, un effetto la cui forza, secondo Artaud, dipende dal ne­ garsi ogni forma di mediazione. Il lato moralistico di Artaud lo spinge a desiderare che il teatro venga sfrondato, che sia mantenuto il piu libero possibile da elementi medianti, inclusa la media­ zione del testo scritto. Le opere teatrali mentono. Anche se un dramma non mente, raggiungendo la condizione di «capolavoro» diventa una menzogna. Nel 1926 Ar­ taud annuncia che non vuole creare un teatro per rap­ presentare dei drammi e preservare o ampliare cosi l’e­ lenco culturale dei capolavori consacrati. Secondo lui il retaggio dei drammi scritti è un inutile ostacolo e l’au­ tore teatrale un intermediario non necessario fra il pub­ blico e la verità che può essere presentata, nuda, sulla scena. Qui però il moralismo di Àrtaud assume un tono chiaramente antiplatonico: la verità nuda è una verità totalmente materiale. Artaud definisce il teatro come un luogo dove le oscure sfaccettature dello spirito sono sve­ late in una «proiezione reale, materiale». Ma, per incarnarsi, un teatro rigorosamente concepito deve fare a meno della mediazione del testo scritto, po­ nendo cosi fine alla separazione fra autore e attore. (In questo modo viene rimossa la piu antica obiezione alla

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professione di attore, e cioè che si tratti di una specie di perversione psicologica, per cui si dicono parole che non sono proprie e si pretende di provare emozioni funzional­ mente insincere). La separazione fra attore e pubblico dev'essere ridotta (ma non eliminata) violando i confini fra palcoscenico e platea. Una grande sensibilità ieratica non consente ad Artaud di contemplare una forma tea­ trale in cui il pubblico prenda attivamente parte alla rap­ presentazione, ma egli vuole sbarazzarsi delle buone ma­ niere teatrali, che permettono agli spettatori di dissodar­ si dall’esperienza die stanno vivendo. Rispondendo im­ plicitamente ai moralisti che accusano il teatro di distrar­ re le persone dal loro autentico io e di indurle a preoc­ cuparsi di problemi immaginari, Artaud chiede al teatro di non rivolgersi né allo spirito degli spettatori né ai loro sensi, ma alla loro «esistenza totale». Solo il piu ardente dei moralisti poteva desiderare che la gente andasse a tea­ tro come va da un chirurgo o dal dentista. Si garantisce che l’operazione (a differenza di una chirurgica) non sarà fatale, ma sarà «seria», e il pubblico non lascerà il teatro «intatto», moralmente o emotivamente. Con un’altra im­ magine medica, Artaud paragona il teatro alla peste. Mo­ strare la verità significa mostrare degli archetipi, non del­ la psicologia individuale; per questo andare a teatro è rischioso, perché la «realtà archetipa» è «pericolosa». Non si pretende che gli spettatori si identifichino con quanto avviene sulla scena. Per Artaud il «vero» teatro è un’esperienza pericolosa e intimidatoria, che esclude le placide emozioni, la giocosa e rassicurante intimità. Da molto tempo il valore della violenza emotiva nel­ l’arte è un punto fermo della sensibilità modernista. Ma prima di Artaud la crudeltà era esercitata per lo piu con spirito disinteressato, per la sua efficacia estetica. Quan­ do Baudelaire pone «l’esperienza dello choc» (per usare una frase di Walter Benjamin) al centro delle sue poesie e dei suoi poemi in prosa, non lo fa certo per migliorare o edificare i suoi lettori. Mentre la devozione di Artaud all’estetica dello choc aveva esattamente questo scopo. Attraverso la sua esclusiva dedizione all’arte parossistica, Artaud si rivela moralista quanto Platone, ma un morali­

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sta le cui speranze artistiche negano proprio le distinzioni su cui si basa il pensiero platonico. Quando Artaud si op­ pone a una separazione fra arte e vita, si oppone a tutte le forme teatrali che implicano una differenza fra realtà e rappresentazione. Non nega l’esistenza di questa diffe­ renza. Ma afferma implicitamente che può essere supera­ ta di slancio se Io spettacolo è sufficientemente — cioè ec­ cessivamente — violento. La «crudeltà» dell’opera d’arte non solo ha una funzione morale diretta, ne ha anche una conoscitiva. Secondo il criterio morale di conoscenza di Artaud, un’immagine è vera in quanto è violenta. Il pensiero platonico si fonda sulla presunzione di un’invalicabile differenza fra vita e arte, realtà e rappre­ sentazione. Nella famosa visione nel libro VII della Re­ pubblica, Platone paragona l’ignoranza àU’ésistenza in una caverna abilmente illuminata, i cui abitanti vedono la vita come uno spettacolo, uno spettacolo costituito solo dalle ombre degli eventi reali. La caverna è un teatro. E la verità (la realtà) è fuori, al sole. In II teatro e il suo doppio l’immaginario di ispirazione platonica rivela un punto di vista piu indulgente sulle ombre e sugli spetta­ coli. Artaud ipotizza l’esistenza di ombre (e di spettacoli) vere e altre false, e afferma che si può imparare a distin­ guere. Lungi dall’identificare la saggezza con l’abbando­ no della caverna per uscire a guardare il sole splendente della realtà, Artaud ritiene che la coscienza moderna sof­ fra per una carenza di ombre. Il rimedio è rimanere nel­ la caverna, escogitando però spettacoli migliori. Il teatro che Artaud propone servirà la coscienza «nominando e dirigendo le ombre» e distruggendo le «false» ombre per «preparare la strada a una nuova generazione di ombre» attorno a cui montare «il vero spettacolo della vita». Avverso a ogni concezione gerarchica dello spirito, Ar­ taud passa sopra alla distinzione superficiale, tanto cara ai surrealisti, tra razionale e irrazionale. Artaud non parla in nome di quell’opinione comune che apprezza la pas­ sione piu della ragione, la carne piu dello spirito, lo spi­ rito esaltato dalle droghe più dello spirito prosaico, la vi­ ta istintiva più dell’opaca cerebralità. Quello che auspica è un rapporto alternativo con lo spirito. Questo spiega la

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33 tanto pubblicizzata attrazione di Artaud per le culture non occidentali, ma non il suo ricorso alle droghe. (Era per calmare le emicranie e altri dolori cerebrali di cui ha sofferto per tutta la vita, e non per estendere la sua co­ scienza, che Artaud ha cominciato a prendere l’oppio, ed è diventato tossicomane). Per un breve periodo Artaud scambiò la condizione spi­ rituale surrealista per un modello di quella coscienza uni­ ficata, non dualista a cui aspirava. Dopo essersi staccato dal surrealismo nel 1926, tornò a proporre l’arte - e spe­ cificatamente il teatro - come un modello più rigoroso. Artaud attribuisce al teatro la funzione di ricompone.la scissione fra linguaggio e carne. Questo sta alla base della sua idea di un tirocinio per attori: un tirocinio antitetico a quello usuale, che non insegna agli attori né a muoversi né a usare la voce, se non per parlare. (Mentre possono strillare, grugnire, cantare, salmodiare). È anche il tema centrale della sua drammaturgia ideale. Tutt’altro die propenso a sposare un facile irrazionalismo che polariz­ za ragione e sensazione, Artaud immagina il teatro come un luogo dove il corpo sarebbe rinato nel pensiero e il pensiero sarebbe rinato nel corpo. Fa anche una diagnosi del suo male, definendolo una scissione all’interno del suo spirito («L’aggregazione' della mia coscienza si è in­ franta! »), che interiorizza la scissione fra spirito e corpo. Gli scritti sul teatro di Artaud si possono leggere come manuale psicologico sulla riunificazione di spirito e cor­ po. Il teatro diventa la metafora suprema di una vita spi­ rituale capace di correggersi, spontanea, carnale e intelli­ gente. In realtà le immagini che Artaud usa in II teatro e il suo doppio, scritto negli anni trenta, riecheggiano quelle utilizzate per descrivere la sua sofferenza spirituale nelle opere degli anni venti, come II pesanervi, le lettere a Re­ né e Yvonne AUendy, e Fragments d’un Journal d’Enfer. Artaud si lamenta die la sua cosdenza è priva di confini e di posizioni fisse; priva di linguaggio o impegnata in una lotta interminabile col linguaggio; frazionata - anzi, appestata - dalla discontinuità; priva di una collocazione fisica oppure sempre in movimento da una collocazione al­

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l’altra (e mutando continuamente l’estensione nello spa­ zio e nel tempo); ossessionata dal sesso; violentemente infetta. Il teatro di Artaud è caratterizzato dall’assenza di una-organizzazione fissa dello spazio (gli attori UC5n hanno posizioni fisse né gli uni rispettò agli altri né ri­ spetto al pubblico); dalla fluidità del movimento e dell’a­ nima; dalla mutilazione del linguaggio e dal trascendi­ mento del linguaggio nell’urlo dell’attore; dalla carnalità dello spettacolo; dal suo tono ossessivamente violento. Naturalmente Artaud non si limitava a riprodurre la sua agonia interiore. Anzi, ne dava una versione sistematica e positiva. H teatro è un’immagine proiettata (una dram­ matizzazione per forza di cose ideale) della vita interiore pericolosa e «inumana» che lo possedeva, e che lui cerca­ va di trascendere e di rendere affermativa con una lotta eroica. È anche una cura omeopatica per questa vita in­ teriore straziata e appassionata. Trattandosi di una spe­ cie di operazione chirurgica emotiva e morale eseguita sulla coscienza, ne consegue che deve essere necessaria­ mente « crudele ». Quando Hume paragona la coscienza proprio a un tea­ tro, l’immagine è moralmente neutra e assolutamente astorica; egli non pensa a un particolare tipo di teatro, occidentale o meno, e avrebbe giudicato irrilevante l’os­ servazione che il teatro si evolve. Per Artaud, l’aspetto piu rilevante di questa analogia sta nel fatto che il teatro — e la coscienza — possono mutare. Perché non solpja teoscienza assomiglia a un teatro, ma, cosi come lo costrui­ sce Artaud, il teatro assomiglia alla coscienza, e si presta perciò a essere trasformato in un teatro-laboratorio in cui svolgere ricerche sui mutamenti della coscienza. Gli scritti sul teatro di Artaud sono trasformazioni di quello a cui aspira per il suo stesso spirito. Vuole che il teatro, come lo spirito, sia libero dai legami «del linguag­ gio e delle forme». Egli suppone che un teatro libero li­ beri. Dando sfogo alle passioni estreme e agli incubi cul­ turali, il teatro li esorcizza. Ma il teatro di Artaud non è semplicemente catartico. Almeno nelle intenzioni (la loro messa in pratica negli anni venti e trenta è un’altra fac­ cenda) il suo teatro ha ben poco in comune con l’antitea-

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35 tro che assaliva con sarcasmo e sadismo il pubblico, con­ cepito da Marinetti e dai dadaisti subito prima e subito dopo la prima guerra mondiale. L’aggressività proposta da Artaud è controllata e orchestrata in modo complesso, perché egli ritiene che la violenza sensoria possa essere una forma di intelligenza incarnata. Insistendo sulla fun­ zione conoscitiva del teatro (in un saggio su Maeterlinck del 1923 scrive: «il dramma è la più alta forma di attività mentale») esclude la pratica della casualità. (Anche nel suo periodo surrealista, non si uni agli esperimenti di scrittura automatica). Artaud fa notare occasionalmente che il teatro dev’essere «scientifico», volendo dire che non deve essere casuale, non semplicemente espressivo o spontaneo o personale o divertente, ma deve aderire a un progetto profondamente serio e con una finalità religiosa. Andre l’insistenza di Artaud sulla serietà della situa­ zione teatrale sottolinea la sua differenza dai surrealisti, che pensavano all’arte e alla sua missione terapeutica e «rivoluzionaria» in modo tutt’altro die predso. I surrea­ listi, i cui impulsi moralizzatori erano decisamente meno intransigenti di quelli di Artaud, e che non caricavano di alcuna urgenza morale la creazione artistica, non erano spronati alla ricerca dei limiti di ogni singola forma d’ar­ te. I surrealisti tendevano a esplorare come turisti, spesso geniali, il maggior numero di arti possibile, convinti che l’impulso artistico sia sempre lo stesso, ovunque si mani­ festi. (Per questo Cocteau, die ha avuto una carriera idea­ le dal punto di vista surrealista, definiva tutto quello che faceva «poesia»). La maggiore audada di Artaud, e la sua autorità come teorico di estetica, derivano in parte dal fat­ to che, sebbene anche lui praticasse arti diverse, rifiutan­ dosi al pari dei surrealisti di lasciarsi imbrigliare dalla suddivisione dell’arte fra media diversi, egli non conside­ rava le varie arti come forme equivalenti di uno stesso impulso proteico. Le sue attività, per disperse che fosse­ ro, riflettono sempre la ricerca di una forma d’arte totale, in cui le altre si sarebbero fuse, come l’arte stessa si sareb­ be fusa con la vita. Paradossalmente, è proprio il rifiuto a considerare co­ me indipendenti i vari territori dell’arte che conduce Ar-

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taud a fare qualcosa die nessun surrealista aveva mai osa­ to: riconsiderate completamente una forma d’arte. Su quest’arte, il teatro,^ ha avuto un’influenza cosi profonda die la storia dèi teatro nell’Europa ocddentale e nelle Americhe può essere divisa in due periodi: prima di Ar­ taud e dopo Artaud. Oggi nessuno può lavorare nd tea­ tro senza tenere conto delle idee di Artaud sul corpo e sulla voce degli attori, sull’uso della musica, sul ruolo del testo scritto, sull’interdipendenza fra lo spazio occupato dallo spettacolo e quello occupato dal pubblico. Artaud ha cambiato il concetto di ciò die è serio, di ciò die è im­ portante. L’unico altro autore teatrale del nostro secolo che abbia un’importanza paragonabile a quella di Artaud è Brecht. Ma Artaud non è riuscito a influire sulla moder­ na concezione di teatro essendo lui stesso, come è stato Brecht, un grande regista. Le sue messe in scena non sono affatto una conferma di questa influenza. La sua attività teatrale fra il 1926 e il 1935 era a quanto pare cosi poco seducente che praticamente non ha lasciato tracce, men­ tre l’idea di teatro per amore della quale imponeva le sue rappresentazioni a un pubblico poco ricettivo è diventata sempre più efficace.

Dalla metà degli anni venti in poi, l’opera di Artaud è animata dall’idea di un mutamento radicale nella cultu­ ra. Il suo immaginario implica un’idea di cultura piu cli­ nica che storica: la sodetà come inferma. Al pari di Nietzsche, Artaud si considerava un medico della cultura, oltre che il più dolorosamente colpito dei malati. Proget­ tava un teatro che fosse come un’azione di truppe d’as­ salto contro la cultura tradizionale, un attacco al pubbli­ co borghese; avrebbe dimostrato agli spettatori che sono morti, e nello stesso tempo li avrebbe risvegliati dal loro stordimento. Un uomo die negli ultimi tre anni di una lunga permanenza in manicomio avrebbe subito la deva­ stante esperienza di ripetuti elettrochoc, proponeva die il teatro sottoponesse la cultura a una spede di terapia dello choc. Artaud, die spesso si lamentava di sentirsi pafalizzato, voleva che il teatro rinnovasse il «senso della vita».

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37 Fino a un certo punto, le prescrizioni di Artaud posso­ no rammentare molti programmi di rinnovamento cultu­ rale che sono comparsi periodicamente nella cultura occi­ dentale degli ultimi due secoli, in nome della semplicità, dell’éZa» vital, della naturalezza, della libertà dall’artifi­ cio. Quando Artaud affermò che noi viviamo in ima «cul­ tura pietrificata», inorganica, e ne associò la mancanza di vitalità alla predominanza della parola scritta,là sua dia­ gnosi era tutt’altro che nuova; eppure, molti decenni do­ po, non ha ancora perso nulla della sua autorevolezza. La tematica di II teatro e il suo doppio è affine a quella di Nietzsche in La nascita della tragedia, dove afferma che la filosofia socratica, introducendo personaggi che ragio­ nano, ha~ inaridito il sanguigno teatro arcaico di Atene. (Un’altra affinità con Artaud: il giovane Nietzsche diven­ ne un grande ammiratore di Wagner per via dell’«opera d’arte totale» wagneriana, una concezione dell’opera che è stata la piu completa affermazione, prima di Artaud, dell’idea di un’arte totale). Se Nietzsche si riallacciò alle tracce delle cerimonie dio­ nisiache che avevano preceduto la drammaturgia ateniese secolarizzata, verbale e razionale, Artaud trovò il suo mo­ dello nel teatro magico e religioso non occidentale. Ar­ taud non propone il Teatro della Crudeltà come una nuo­ va idea all’intemo del teatro occidentale. Esso «presup­ pone... un diverso tipo di civiltà». Artaud però non si ri­ feriva a una qualche civiltà in particolare, ma a un’idea di civiltà che ha numerosi esempi nella storia, una sinte­ si di elementi derivati da società del passato e da società contemporanee primitive, non occidentali. La predilezio­ ne per «un altro tipo di civiltà» è essenzialmente eclet­ tica. (Cioè, è un mito originato da determinate esigenze morali). Trovò l’ispirazione per le sue idee sul teatro nel 1922, quando vide a Marsiglia il teatro cambogiano, e nel 1931, quando vide a Parigi il teatro di Bali. Ma avreb­ be potuto trarre lo stesso stimolo da una rappresentazio­ ne tribale del Dahomey, o da una cerimonia di sciamani della Patagonia. L’importante era che l’altra cultura fosse sinceramente altra, cioè non occidentale e non contem­ poranea.

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In periodi diversi Artaud ha seguito tutte e tre le stra­ de immaginarie piu battute per allontanarsi dalla cultura occidentale e andare verso «un'altra forma di civiltà». Per primo ci fu quello che subito dopo la prima guerra mondiale era noto come l’Appello dell’Est, citato negli scritti di Hesse, di René Daumal, dei surrealisti. Poi ven­ ne l’interesse per certi elementi dimenticati nel passato dell’occidente, le tradizioni di spiritualismo eterodosso, o decisamente magiche. Infine venne la scoperta dei co­ siddetti popoli primitivi. Ciò che unisce l’Oriente, le an­ tiche tradizioni occidentali antinomiche e occultiste, e l’e­ sotica vita comunitaria delle tribù ancora nella fase pre­ scritturale è che si trovano altrove, non solo nello spazio ma nel tempo. Tutte e tre incarnano valori del passato. Gli indiani Tarahumara esistono ancora, ma già nel 1936, quando Artaud si recò in Messico, la loro sopravvivenza era un anacronismo; i valori rappresentati dai Tarahu­ mara appartengono al passato quanto quelli connessi alle religioni dei misteri nel Vicino Oriente, studiate da Ar­ taud mentre scriveva il suo romanzo storico Eliogabalo nel 1933. Queste tre versioni di «un’altra forma di civil­ tà» indicano la stessa ricerca di una società concentrata su valori apertamente religiosi e che rifugga dal secolare. Quello che interessa ad Artaud è l’Oriente del buddhi­ smo (vedi le sue Lettres aux écoles du Bouddha scritte nel 1925) e dello yoga; non sarà mai l’Oriente di Mao Zedong, per quanto Artaud parli dì rivoluzione. (Pro­ prio mentre Artaud lottava per mettere in scena a Parigi il suo Teatro della Crudeltà, in Cina cominciava la Lun­ ga Marcia). La nostalgia di un passato tanto eclettico che spesso è impossibile dargli una collocazione storica è un aspetto della sensibilità modernista guardato con sempre mag­ giore sospetto negli ultimi decenni. È ima conseguenza ultima e sottile del colonialismo: è uno sfruttamento fan­ tasioso delle culture non bianche, una drastica semplifi­ cazione della loro vita morale, un saccheggio e una parodizzazione della loro saggezza. Non esiste una risposta convincente a queste critiche. Ma si può invece risponde­ re a chi afferma che la ricerca di «un’altra forma di civil-

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39 tà» non accetta le delusioni derivate da accurate informa­ zioni storiche. Questa ricerca non mira mai ad accurate informazioni storiche. Le altre civiltà sono usate come modelli e funzionano come stimolanti dell’immaginazio­ ne esattamente perché non sono accessibili. Sono nello stesso tempo modelli e misteri. Non si può neanche bol­ lare la ricerca come fraudolenta perché insensibile alle forze politiche che determinano le sofferenze umane. In­ fatti questa forma di insensibilità è voluta. Questa no­ stalgia nasce da una concezione deliberatamente non poli­ tica, sebbene sventoli frequentemente la parola «rivolu­ zione». Una conseguenza dell’aspirazione a un’arte tota­ le originata dal rifiuto di accettare il divario fra arte e vi­ ta, è stato l’appoggio al concetto di arte come strumento rivoluzionario. Un’altra conseguenza è stata l’identifica­ zione sia dell’arte che della vita con una giocosità pura e disinteressata. Per ogni Vertov o Breton, c’è un Cage, un Duchamp, un Rauschenberg. Sebbene Artaud sia piu vi­ cino a Vertov e Breton in quanto considera le proprie attività parte di una piu vasta rivoluzione, come rivolu­ zionario nelle arti egli si colloca di fatto a metà fra i due campi, non essendo interessato a soddisfare né l’impulso politico né quello ludico. Quando Breton provò a colle­ gare il programma surrealista col marxismo, Artaud ne fu sgomento e ruppe col Movimento, ritenendo che aves­ se tradito una rivoluzione essenzialmente «spirituale» mettendola nelle mani dei politici. Era antiborghese qua­ si istintivamente (come quasi tutti gli artisti della tradi­ zione modernista), ma non fu mai tentato dalla prospet­ tiva di trasferire il potere dalla borghesia al proletariato. Dal suo punto di vista «assoluto», un mutamento delle strutture sociali non avrebbe cambiato niente. La rivolu­ zione a cui aderisce Artaud non ha niente a die fare con la politica, è esplicitamente concepita come sforzo per da­ re un nuovo indirizzo alla cultura. Non solo Artaud con­ divide la diffusa (ed errata) convinzione che sia possibile una rivoluzione culturale non connessa a un cambiamen­ to politico, ma insinua che Punica vera rivoluzione cul­ turale sia quella che non ha niente a che fare con la po­ litica.

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L’appello di Artaud per una rivoluzione culturale sug­ gerisce un programma di regressione eroica simile a quel­ lo formulato da tutti i grandi moralisti «wripolitid del nostro tempo. Il vessillo della rivoluzione culturale non è certo un monopolio della sinistra marxista o maoista. Anzi, esercita il suo fascino soprattutto su pensatori ed artisti apolitici (come Nietzsche, Spengler, Pirandello, Marinetti, D. H. Lawrence, Pound) che divennero più facilmente ardenti sostenitori della destra. Fra gli uomini di sinistra, ci sono pochi fautori della rivoluzione cultu­ rale. (Fra quelli che vengono in mente, Tatlin, Gramsci e Godard). Un radicalismo meramente «culturale» è illu­ sorio, o finisce coll’avere implicazioni conservatrici. I pro­ getti di Artaud per sovvertire e rivitalizzare la cultura, la sua aspirazione a un nuovo tipo di personalità umana il­ lustrano bene i limiti di tutto il pensiero rivoluzionario antipolitico. La rivoluzione culturale che rifiuta la politica non ha altra strada da imboccare che la teologia della cultura e la soteriologia. «Aspiro a un’altra vita», dichiara Artaud nel 1927. Tutta l’opera di Artaud riguarda la salvezza, e il teatro è il mezzo di salvare le anime su cui ha meditato piu profondamente. Nel nostro secolo spesso si è cercato di utilizzare il teatro in vista di una trasformazione spi­ rituale, almeno da Isadora Duncan in poi. Nell’esempio più recente e solenne, il Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowsky, la costruzione di una compagnia, la prova e la messa in scena di un lavoro sono tutte attività che servo­ no per la rieducazione spirituale degli attori; gli spetta­ tori sono hecessari solo come testimoni delle brillanti im­ prese di autotrascendenza compiute dagli attori. Nel Tea­ tro della Crudeltà di Artaud, è il pubblico che rinascerà — una pretesa mai collaudata, dato die Artaud non riuscf a far funzionare il suo teatro (come invece ha fatto Grotowsky in Polonia, negli anni sessanta). Come meta, ap­ pare molto meno realizzabile della disciplina a cui mira Grotowsky. Pur essendo molto sensibile alla corazza fisi­ ca ed emotiva che avvolge un attore preparato secondo i sistemi tradizionali, Artaud non si sofferma mai ad esa­ minare in che modo la nuovissima preparazione die lui

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propone potrà incidere sull’attore come essere umano. Il suo unico pensiero è il pubblico. Com’era facile da prevedere, il pubblico si rivelò una delusione. Le messe in scena di Artaud nei due teatri che ha fondato, il Teatro Alfred Jarry e il Teatro della Cru­ deltà, non crearono un grande coinvolgimento. Eppure, per quanto profondamente insoddisfatto per la qualità del suo pubblico, Artaud si lamentò molto di più per l’aiuto meramente simbolico che ottenne dai notabili del teatro parigino (esiste ima lunga, disperata corrispon­ denza fra lui e Louis Jouvet), per le difficoltà incontrate prima di riuscire anche solo a mettere in scena i suoi pro­ getti, per il loro meschino successo quando finalmente erano realizzati. L’amarezza di Artaud è comprensibile: nonostante un gran numero di protettori influenti, nono­ stante i suoi amici fossero eminenti scrittori, pittori, edi­ tori, registi, che lui molestava costantemente per ottenenere appoggio morale e finanziario, di fatto quando un suo lavoro veniva effettivamente messo in scena godeva solo in minima parte delle acclamazioni tradizionalmen­ te riservate agli spettacoli difficili patrocinati come si de­ ve e frequentati dalla crema del consumismo culturale. La piu ambiziosa e compiuta messa in scena di Artaud per il Teatro della Crudeltà, il suo dramma I Cenci, re­ stò in scena per diciassette giorni nella primavera del 1935. Ma anche se le repliche fossero continuate per un anno, probabilmente Artaud sarebbe stato lo stesso con­ vinto del suo fallimento. La cultura moderna ha creato un potente meccanismo grazie a cui un’opera dissidente, dopo aver conquistato uno status semiufficiale come lavoro «d’avanguardia», viene poco per volta assorbita e resa accettabile. Ma l’at­ tività teatrale di Artaud era scarsamente qualificata per beneficiare di questa cooptazione. I Cenci non è un bel dramma, neanche secondo il criterio di drammaturgia convulsa privilegiato da Artaud, e a detta di tutti l’inte­ resse maggiore nel suo allestimento dei Cenci sta nelle idee suggerite ma non messe effettivamente in pratica. Il lavoro di Artaud come regista e come attore protagonista nelle sue messe in scena è troppo idiosincratico, angu­

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sto e isterico per convincere. Egli ha esercitato la sua in­ fluenza per mezzo delle sole idee, e queste idee traggono in gran parte la loro autorità proprio dalla sua incapacità di metterle in pratica. Fortificato da un appetito insaziabile di novità, il pub­ blico colto delle grandi città è abituato all’angoscia mo­ dernista e abilissimo a metterla nel sacco: ogni negativo alla fine può essere trasformato in un positivo. Cosi Ar­ taud, che incitava a gettare nella pattumiera tutto il re­ pertorio dei capolavori, ha avuto un’enorme influenza per la creazione di un repertorio alternativo, di una tradizio­ ne rivale. Il severo grido di Artaud: «Basta coi capola­ vori!» è divenuto per le orecchie di questi ascoltatori, un più conciliante: «Basta con quei capolavori!» Ma a questa trasformazione in senso positivo del suo attacco al repertorio tradizionale ha contribuito in ima certa misura l’attività pratica (ben distinta dalla teoria) di Artaud. Nonostante la sua continua insistenza perché il teatro fa­ cesse a meno di testi, lui personalmente non ne faceva certo a meno. La sua prima compagnia ha preso il nome del creatore di Ubu Roi. A parte le sue opere — La conquéte du Mexique e La prise de Jérusalem, mai rappre­ sentate, e I Cenci — Artaud ha riproposto un gran nume­ ro di capolavori ignorati o fuori moda. Ha portato sulla scena i due grandi drammi sul «sogno» di Calderón e di Strindberg (La vita è sogno e Sogno) e contava di allestire anche Le Baccanti di Euripide, Tieste di Seneca, Arden of Feversham ; Macbeth, Riccardo II e Tito Andronico di Shakespeare, The Revenger’s Tragedy di Tourneur, Il diavolo bianco e La duchessa di Amalfi di Webster, un adattamento da Eugénie de Franval di Sade, Woyzeck di Biichner e La morte di Empedocle di Holderlin. Que­ ste scelte denotano un tipo di sensibilità che oggi ci è fa­ miliare. Insieme ai dadaisti, Artaud ha formato un gusto che era destinato a diventare il tipico gusto Off-Broadway, Off-Off Broadway, e dei teatri universitari. Per quanto riguarda il passato, si trattava di detronizzare So­ focle, Corneille e Racine in favore di Euripide e dei fo­ schi autori elisabettiani: l’unico autore francese non vi­ vente nell’elenco di Artaud è Sade. Negli ultimi quindici

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43 anni questo gusto ha ispirato gli happenings e il teatro del ridicolo, le opere teatrali di Genet, Jean Vauthier, Ar­ rabai, Carmelo Bene e Sam Shepard, e celebri messe in scena come Frankenstein del Living Theatre, The Nuns di Eduardo Manet (con la regia di Roger Blin), The Beard di Michael McClure, Deafman Glance di Robert Wilson e acide di Heathcote Williams. Tutto quello che Artaud faceva per sovvertire il teatro e per isolare il pro­ prio lavoro da ogni altra corrente puramente estetizzan­ te, in modo da affermarne l’egemonia spirituale, veniva pur sempre assimilato come nuova tradizione teatrale, e nella maggior parte dei casi Io era. Se il progetto di Artaud non riesce a trascendere l’arte, si pone però una meta a cui l’arte può mirare solo tem­ poraneamente. Ogni volta che in una società secolarizza­ ta si tenta di usare l’arte con lo scopo di una trasforma­ zione spirituale il fatto stesso di renderla pubblica la pri­ va inevitabilmente della sua autentica forza d’urto. Pre­ sentato in un linguaggio direttamente o indirettamente religioso, il progetto è già solo per questo vulnerabile. Ma anche i progetti atei per una trasformazione spirituale, come il teatro politico di Brecht, si sono dimostrati al­ trettanto cooptabili. Nella società secolare moderna ci sono pochissime situazioni tanto estreme e incomunica­ bili da riuscire ad evitare la cooptazione. Una è la follia. Un’altra è una sofferenza inimmaginabile (come l’Olocausto). Una terza è, naturalmente, il silenzio. Un modo per bloccare questo inesorabile processo divorante è in­ terrompere la comunicazione (anche l’anticomunicazione). L’impulso a usare l’arte come mezzo di trasformazione spirituale tende quasi inevitabilmente ad esaurirsi, cosi come quasi inevitabilmente ogni autore moderno, po­ sto di fronte all’indifferenza o alla mediocrità del pub­ blico da una parte, e alla facilità del successo dall’altra, prova la tentazione di smettere di scrivere. Così, non fu solo per difficoltà finanziarie o per lo scarso appoggio dei colleghi die Artaud, dopo aver messo in scena I Cenci nel 1935, abbandonò il teatro. Il progetto di creare al­ l’interno di una cultura secolarizzata un’istituzione che renda manifesta una realtà nascosta ed oscura è una con­

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traddizione di termini. Artaud non riuscì mai a trovare la sua Bayreuth, anche se gli sarebbe piaciuto, perché le sue idee sono impossibili da istituzionalizzare. L’anno dopo il fallimento dei Cenci, Artaud parti per un viaggio in Messico, dove voleva vedere con i suoi oc­ chi la realtà demoniaca in una cultura «primitiva» so­ pravvissuta. Non riuscendo a trasformare questa realtà in uno spettacolo da imporre agli altri, voleva esserne lui stesso spettatore. Dal 1935 in poi, Artaud dimenticò la promessa di una forma d’arte totale. I suoi scritti, che erano sempre stati didattici, assunsero toni profetici e fecero frequenti riferimenti a sistemi di magia esoterica, come la Cabala e i tarocchi. A quanto pare Artaud giun­ se alla conclusione che poteva esercitare direttamente su se stesso il potere emòtivòfe raggiungere l’efficacia spi­ rituale) ÓTe'SVèva desiderato per tì teatro. Verso la metà del 1937 parti per le isole Aran, con un misterioso pro­ getto di esplorare o confermare i suoi poteri magici. Il muro fra arte e vita era ancora infranto. Ma invece di as­ similare tutto all’arte, il pendolo cominciava a oscillare nell’altro verso; e Artaud entrò senza piu mediazione nella sua vita - un oggetto pericoloso e turbinante, il luogo di una fame furibonda di trasformazione totale che non avrebbe mai trovato il suo appagamento. Nietzsche presumeva con grande freddezza una teolo­ gia atea dello spirito, una teologia negativa, un misticismo senza Dio. Artaud vagava nel labirinto di una particolare sensibilità religiosa, lo gnosticismo. (La tematica gnosti­ ca, essenziale nel culto di Mitra e di Zoroastro, nel ma­ nicheismo e nel buddhismo tantra, marginale e addirit­ tura eretica nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’isla­ mismo, cambia terminologia nelle varie religioni, ma con­ serva una linea di sviluppo comune). La forza portante dello gnosticismo nasce da un’ansietà metafisica e da un acuto disagio psicologico, la sensazione di essere abban­ donati, alieni, posseduti da forze demoniache die brac­ cano lo spirito umano in un cosmo lasciato vacante dalla divinità. Il cosmo stesso è un campo di battaglia, e ogni

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45 vita umana è teatro del conflitto fra le forze esterne re­ pressive e ossessive e lo spirito individuale, febbricitan­ te e tormentato, in cerca di redenzione. Le forze demo­ niache del cosmo esistono materialmente. Esistono an­ che sotto forma di «leggi», tabù, proibizioni. Cosi, nelle metafore gnostiche, lo spirito è abbandonato, caduto, in­ trappolato dal corpo, e l’individuo è represso, intrappo­ lato dal «mondo», cioè da quello che noi definiremmo «società». (È una caratteristica del pensiero gnostico por­ re come poli opposti lo spazio interiore, la psiche, e uno spazio esterno impreciso, «il mondo» o «società», iden­ tificato con la repressione, tenendo poco o nessun conto dei livelli di mediazione rappresentati dalle diverse sfere ó istituzioni sociali). L’ego, o spirito, trova se stesso nel­ la rottura con il «mondo». L’unica libertà possibile è una libertà inumana, disperata. Per essere salvato, lo spirito deve essere allontanato dal corpo, dalla personalità, dal «mondo». La libertà richiede una preparazione molto difficile. Chiunque la persegua deve accettare la massima umiliazione e nello stesso tempo esibire il massimo orgo­ glio spirituale. In una versione, la libertà implica l’asce­ tismo totale. In un’altra versione, comporta il libertini­ smo, la pratica della trasgressione. Per essere liberi dal «mondo» bisogna infrangere le leggi morali, o sociali. Per trascendere il corpo, bisogna attraversare un periodo di dissolutezza fisica ed" empietà verbale, in base al prin­ cipio che solo dopo aver deliberatamente disprezzato la morale l’individuo sarà capace di una trasformazione ra­ dicale: entrerà in uno stato di grazia che si lascia alle spalle ogni categoria morale. In entrambe le versioni di un esemplare dramma gnostico, colui che è_salvo è al di là del bene e del male. Basandosi su un’esasperazione del dualismo (corpo-mente, materia-spirito, male-bene, buioluce), lo gnosticismo promette l’abolizione di tutti i dua­ lismi. Nel pensiero di Artaud sono presenti molti temi dello gnosticismo. Ad esempio, il suo attacco contro i surrea­ listi del 1927 è redatto nel linguaggio del dramma cosmi­ co, in cui allude alla necessità di uno «spiazzamento del centro spirituale del mondo» e all’origine della materia

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da «una deviazione spirituale». In tutto Parco dei suoi scritti Artaud parla di essere perseguitato, invaso, conta­ minato da forze aliene; la sua opera mette a fuoco le vi­ cissitudini dello spirito scoprendo invariabilmente la man­ canza di libertà insita nella sua condizione di «materia». Artaud è ossessionato dalla materia fisica. Da II pesanervi e L’Art et la Mori, scritti negli anni venti, a Ci-git e al testo radiofonico Pour en finir avec le jugement de Dieu scritti nel 1947-48, la prosa e la poesia di Artaud dipin­ gono un mondo intasato di materia (merda, sangue, sper­ ma), un mondo contaminato. Le forze demoniache che dominano il mondo sono incarnate nella materia eia ma­ teria è «nera». Il teatro come lo concepisce Artaud, un teatro consacrato al mito e alla magia, ha come punto fo­ cale la convinzione che tutti i grandi miti sono «oscuri» e che tutta la magia è magia nera. Anche quando la vita è incrostata da un linguaggio pietrificato, degenerato, me­ ramente verbale, la realtà c’è, subito sotto o da qualche altra parte. L’arte può rintracciare queste forze, perché esse ribollono in ogni psiche. Quando andò in Messico nel 1936 per assistere ài riti del peyote dei Tarahumara, Artaud era appunto alla ricerca di queste forze oscure. Per ottenere la salvezza individuale bisogna entrare in contatto con le fòrze ostili, sottomettersi e soffrire in loro balia per poter poi trionfare su di loro. ' Scrivendo sul teatro di Bali nel 1931, Artaud afferma di ammirarlo soprattutto perché è estraneo al «diverti­ mento», mentre ha «qualcosa del cerimoniale di un rito religioso». Artaud è uno dei molti registi del nostro se­ colo che hanno aspirato a ricreare il teatro come rituale, a restituire alle messe in scena la solennità delle funzioni religiose, ma che di solito hanno dimostrato di avere so­ lo idee molto vaghe e confuse sulla religione e sul rito, attribuendo lo stesso valore artistico a una messa cattolica e a una danza della pioggia Hopi. L’idea di Artaud, pur non essendo forse piu realizzabile di tutte le altre in una moderna società secolare, è se non altro piu precisa ri­ guardo al tipo di rito preso a modello. Il teatro che ha in mente Artaud vuole mettere in scena un rito gnostico secolarizzato. Non è un’espiazione. Non è un sacrificio,

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n, sft 1oj^ i sacrifici sono tutti metafore. È un rito di tra­ sformazione; - la rappresentazione collettiva di un violento atto di alchimia spirituale. Artaud esorta il teatro a rinunciare «all’uomo psicologico, col carattere e i sen­ timenti minutamente analizzati, e all’uomo sociale, sotto­ messo alla legge e deformato dalle religioni e dai precet­ ti» e a rivolgersi solo «all’uomo totale», un concetto as­ solutamente gnostico. Quali che siano le aspirazioni «culturali» di Artaud, alla fine il suo pensiero esclude tutto tranne l’ego. Come gli gnostici, è un individualista radicale. Fin dai primi scritti, si interessa alla metamorfosi della condizione «in­ teriore» dell’anima. (L’ego è, per definizione, un «ego interiore»). Artaud ritiene che i rapporti mondani non tocchino il nocciolo dell’individuo; la ricerca della re­ denzione è incompatibile con le soluzioni sociali. L’arte è per Artaud l’unico strumento di redenzione che possa avere anche un aspetto sociale. Il motivo per cui non gli interessa un teatro umanistico, un teatro sull’indi­ viduo, è che secondo lui questo tipo di teatro non potrà mai portare a nessuna trasformazione radicale. Per avere un effetto liberatorio.sullo.spirito, ritiene Artaud, il tea­ tro deve esprimereJmpulsi più-ampi della vita. Ma que­ sto dimostra solo che il concetto di libertà dì Artaud è di per sé un concetto gnostico. II teatro serve per una in­ dividualità «inumana», per una libertà «inumana», co­ inè dice Artaud in II teatro e il suo doppio, esattamente l’opposto di un’idea umanistica e fraterna di libertà. (Che Artaud considerasse superficiale - cioè ottimistico ed este­ tico - il pensiero di Breton, dipende dal fatto che Breton non aveva uno stile né ima sensibilità gnostici. Breton era attratto dalla speranza di conciliare le esigenze della li­ bertà individuale con la necessità di espandere e bilancia­ re la personalità per mezzo di generose emozioni collet­ tive; l’idea anarchica, che in questo secolo è stata espres­ sa con la massima sottigliezza da Breton e da Paul Good­ man, è una forma di pensiero conservatore, umanistico, caparbiamente avverso a tutto ciò che è repressivo e me­ schino, ma rispettoso dei limiti che proteggono lo svilup­ po e il piacere dell’umanità. La caratteristica del pensie­

48 SOTTO IL SEGNO DI SATURNO ro gnostico è die ogni limite lo irrita, compresi quelli die rappresentano la salvezza). «La vera libertà è sempre oscura - dice Artaud in II teatro e il suo doppio — e si identifica infallibilmente con la libertà sessuale,, cbe.è pur sempre oscura, anche se non sappiamo esattamente per­ ché». Secondo Artaud nel corpo è racchiuso sia l’ostafplo_alla libertà che il luogo della libertà. Questo atteggiamen­ to coincide con la classica tematica gnostica: l’affermazio­ ne del corpo, il ritrarsi dal corpo, il desiderio di trascen­ dere il corpo, la ricerca del corpo redento. «Niente mi tocca, niente mi interessa - scrive - se non quanto si ri­ volge direttamente alla mia carne». Ma il corpo è sempre un problema. Artaud non definisce mai il corpo secondo la sua capacità di piacere sensuale, ma sempre secondo la sua capacità elettrica di intelligenza e dolore. Se in L’Art et là Mort Artaud si lamenta perché il suo spirito ignora il suo corpo, perché gli mancano le idee adeguate al suo «stato di animale fisico», si lamenta anche perché il suo corpo ignora lo spirito. Nell’immaginario della-soffe­ renza, corpo e spirito si impediscono reciprocamente di èssere intelligenti. Artaud parla delle «grida intellettua­ li» che prorompono dalla sua carne, fonte dell’unico sa­ pere in cui crede. Il corpo ha uno spirito. «C’è uno spirito nella carne — scrive — uno spirito veloce come il lampo». È proprio quanto Artaud si aspetta dal corpo sotto il profilo intellettuale che lo porta a rifuggire dal corpo, il corpo ignorante. Anzi, un atteggiamento implica l’altro. Molte sue poesie esprimono una profonda ripugnanza per il corpo, e accumulano disgustose evocazioni sessuali. «Un vero uomo non ha sesso, — scrive Artaud in un testo pubblicato nel dicembre del 1947, - ignora questa laida cosa, questo peccato paralizzante». L'Art et la Mort è forse l’opera in cui è più evidente l’ossessione sessuale, ma Artaud demonizza la sessualità in tutto quello che scrive. Un corpo mostruoso ed osceno è una presenza comunissima nelle sue opere: «questo corpo inutilizza­ bile fatto di carne e di folle sperma» lo definisce in Czgit. A questo corpo caduco, contaminato dalla materia,

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contrappone l'ipotesi fantastica di un corpo puro, spoglio di organi e di vertiginose libidini. Anche mentre affer­ ma di non essere altro che il suo corpo, Artaud esprime un fervente desiderio di trascenderlo, di allontanarsi dal­ la propria sessualità. In un’altra serie di immagini, il cor­ po dev’essere reso intelligente, riportato alla spiritualità. Rifuggendo dal corpo contaminato, si rivolge al corpo re­ dento in cui il pensiero e la carne saranno riunificati: «È attraverso la pelle che faremo rientrare la metafisica nel­ lo spirito»; solo la carne può consentire «una definitiva comprensione dell’esistenza». Il compito gnostico che Artàùtfaffida al suo teatro è proprio la creazione di que­ sto corpo redento, un progetto mitico che spiega facen­ do riferimento all’ultima grande manifestazione dello gnosticismo, l’alchimia rinascimentale. Mentre gli alchi­ misti, ossessionati dal problema della materia nei classici termini gnostici, cercavano il sistema per trasformare una materia in un’altra (superiore, spiritualizzata), Artaud cercava di creare un campo alchemico che avesse effetto sulla carne come sullo spirito. Il teatro è la realizzazione di un «atto terribile e pericoloso, — dice in II teatro e la scienza, - la vera trasformazione organica e fisica DEL CORPO UMANO».

Le principali metafore di Artaud sono classiche meta­ fore gnostiche. U corpo è spirito trasformato in «ma­ teria». Come il corpo piega e deforma l’anima, lo stesso fa il linguaggio, che è pensiero trasformato in «materia», ^problèma del linguaggio, così come se lo pone Artaud, coincide col problema della materia. Il disgusto per il corpo e la repulsione per le parole sono due forme di una stessa sensazione. Nell’equivalenza stabilita dall’im­ maginario di Artaud, la sessualità è l’attività corrotta e decaduta del corpo, e la «letteratura» è l’attività corrot­ ta e decaduta delle parole. Sebbene Artaud abbia sem­ pre sperato di poter usare le attività artistiche come mez­ zo di liberazione spirituale, l’arte era sempre sospetta, co­ me il corpo. E anche la speranza di Artàud per l’arte è gnostica, come la sua speranza per il corpo. L’idea di ar­ te totale ha la stessa forma dell’idea di redenzione del corpo. («Il corpo è il corpo | è solo | non ha bisogno di

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organi», scrive Artaud in una delle sue ultime poesie). L’arte -sarà redenzione quando, come il corpo redento, trascenderà se stessa, quando non avrà organi (generi), parti diverse. Nell’arte redenta immaginata da Artaud, non esistono singole opere d’arte, ma solo un ambiente artistico totale, magico, parossistico, purificante e, alla fine, opaco. Lo gnosticismo, una sensibilità organizzata attorno alEidea-deLsapcre (gnosis) piò che attorno alla fede, distin­ gue acutamente fra conoscenza esoterica ed essoterica. L’adepto deve attraversare, vari livelli di istruzione prima di essere degno deU’iniziazione alla vera dottrina. Il sa­ pere, che si identifica con la capacità di autotrasformarsi, e riservato a pochi. È naturale che Artaud, con questa sensibilità gnostica, fosse attratto da numerose sette se­ grete, in quanto contemporaneamente alternativa e mo­ dello per l’arte. Durante gli anni trenta, Artaud, un ener­ gico enciclopedico dilettante, lesse moltissimo sui siste­ mi esoterici, come l’alchimia, i tarocchi, la Cabala, l’astrologia, i Rosacroce. Tutte queste dottrine non sono al­ tro che tarde e decadenti trasformazioni delle tematiche gnostiche. Dall’alchimia rinascimentale Artaud mutuò un modello di teatro: come i simboli alchemici, il teatro de­ scrive «le condizioni filosofiche della materia» e tenta di trasformarle. I tarocchi, per fare un altro esempio, stan­ no alla base di Les nouvelles révélations de l’Etre, scrit­ to nel 1937, subito prima del suo viaggio di sette setti­ mane in Irlanda; è stata l’ultima cosa che ha scritto pri­ ma della crisi che provocò il suo internamento dopo il ri­ torno in Francia. Ma nessuna di queste dottrine segrete, già racchiuse in formule e schemi, storiche e fossilizzate, poteva contenere la convulsa immaginazione gnostica rac­ chiusa nella testa di Artaud. Solo ciò che sfinisce è davvero interessante. Le idee base di Artaud sono rozze; la loro forza deriva dàlia complessità e dall’eloquenza di un’autoànalisi rbé-noiiha egua­ le nella sfórirddi’immaginazione gnostica. E, per la pri­ ma volta, assistiamo a' unWotuSlÒhè'dei'temi gnostici. L’opera di Artaud è particolarmente preziosa come pri­ ma documentazione completa su qualcuno che attraversa

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completamente la traiettoria del pensiero gnostico. Il ri­ sultato, naturalmente, è un crollo terribile. L’ultimo rifugio (storico, psicologico) Bel pensiero gno­ stico sono le costruzioni della schizofrenia. Quando Ar­ taud torna dall’Irlanda, hanno mlzio nove anni di reclu­ sione in diversi manicomi. Dalla sua corrispondenza con i due psichiatri principali di Rodez, il dottor Gaston Ferdière e il dottor Jacques Latrémolière risulta con grande evidenza che il suo pensiero seguiva alla lettera le for­ mule dello gnosticismo. Nelle fantasie estatiche di quel periodo, il mondo è un vortice di sostanze e di forze magiche, la sua coscienza diventa il teatro di una lotta ur­ lante fra angeli e demoni, vergini e puttane. Ormai il suo orrore per il corpo non conosce più modulazioni, e iden­ tifica esplicitamente la salvezza con la verginità, il pec­ cato col sesso. Se le complesse elaborazioni religiose di Artaud durante la reclusione a Rodez possono essere let­ te come metafore della paranoia, la paranoia a sua vol­ ta può essere letta come metafora di una esacerbata sen­ sibilità religiosa di tipo gnostico. La letteratura della follia nel nostro secolo A soprattutto letteratura-religiosa. Tòrse l’ultima area di una vera speculazione gnostica. Quando Artaud usd dal manicomio nel 1946, conti­ nuava a considerarsi la vittima di ima cospirazione di for­ ze demoniache, l’oggetto di una folle persecuzione da parte della «società». Anche se le ondate di schizofrenia ormai non lo travolgevano più, le metafore basilari erano ancora intatte. Nei due anni di vita che gli rimanevano, Artaud le costrinse a una conclusione logica. Nel 1944, quando era ancora a Rodez, Artaud aveva ricapitolato le sue accuse gnostiche al linguaggio in un breve testo: Révolte contre la poesie. Tornato a Parigi nel 1946, desiderava ardentemente lavorare ancora nel teatro, ritrovare il linguaggio del gesto e dello spettacolo; ma nel breve tempo che gli rimase dovette rassegnarsi a parlare solo col linguaggio. Gli scritti dell’ultimo perio­ do, impossibili da dassificare secondo un genere - ci so­ no «lettere» che sono «poesie» che sono «saggi» che sono «monologhi drammatici» -, dànno l’impressione di un uomo che tenta di uscire dalla sua pelle. Passaggi in

SOTTO IL SEGNO DI SATURNO 52 cui il discorso è chiaro, per quanto febbricitante, si al­ ternano a passaggi in cui le parole sono trattate essen­ zialmente come materia (suono): hanno un valore ma­ gico. (Inattenzione per il suono e la forma delle parole separati_dal.significato è un elemento dell’insegnamento cabalistico dello Zohar, che Artaud aveva studialo"negli anni trenta). La dedizione di Artaud al valore magìr-p dglle parole spiega il suo rifiuto della metafora come princi­ pale vettore del significato nelle ultime poesie. Egli esige che il linguaggio esprima direttamente l’essere umano fisico. La persona del poeta ha oltrepassato lo stadio del­ la nudità: è scuoiato. Man mano che Artaud si avvicina all’ineffabile, la sua immaginazione diventa piti rozza. Eppure le sue ultime opere, con la loro crescente ossessione del corpo, con il loro sempre piti esplicito orrore del sesso, derivano anco­ ra in linea diretta dai primi scritti, in cui, parallela alla spiritualizzazione del corpo, è presente una sessualizza­ zione della coscienza. Quello che Artaud ha scritto fra il 1946 e il 1948 si limita a estendere le metafore di cui faceva uso negli anni venti - lo spirito come corpo che non permette mai a se stesso di essere posseduto, il corpo come una specie di spirito demoniaco, fremente, scintillante. Artaud combatte un’aspra battaglia per tra­ scendere il corpo, in cui alla fine ogni cosa è trasforma­ ta in corpo. E combatte un’ardua battaglia per trascen­ dere il linguaggio, in cui alla fine ogni cosa è trasfor­ mata in linguaggio. Descrivendo la vita dei Tarahuma­ ra, Artaud traduce la natura stessa in linguaggio. Negli ultimi scritti, l’oscena identità fra carne e parola raggiun­ ge il massimo del disgusto, soprattutto nel testo com­ missionato dalla radio francese, Pour en finir avec le jugement de Dieu, bloccato dalla censura il giorno prima di essere mandato in onda, nel febbraio del 1948. (Quan­ do mori un mese piti tardi, Artaud stava ancora riveden­ dolo). Parlando, parlando, parlando, Artaud esprime la piti ardente ripugnanza per la parola, e per il corpo. Il passaggio gnostico attraverso diversi livelli di tra­ scendenza implica uno spostamento da ciò che è per con-

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venzione comprensibile a ciò che è per convenzione in­ comprensibile. Il pensiero gnostico tende a un discorso estatico che faccia a meno di parole intelligibili. (Fu l’a­ dozione, da parte della Chiesa cristiana a Corinto, di un tipo di predicazione gnostica detta «parlare nelle lin­ gue» che provocò le proteste di Paolo nella Prima Let­ tera ai Corinzi). Il linguaggio usato da Artaud nell’ulti­ mo periodo, in passaggi di Artaud le Mómo, Ci-git, Pour en finir avec le jugement de Dieu è sull’orlo dì un’incan­ descente declamazione priva di senso. «H vero linguaggio è sempre incomprensibile», dice Artaud in Ci-git. Non sta cercando un linguaggio universale, come Joyce. Joyce ha del linguaggio un’idea storica, ironica, mentre Artaud ne ha una clinica, tragica. Ciò che è incomprensibile in Finnegans Wake non solo è decifrabile con uno sforzo, ma vuole essere decifrabile. Ciò che è incomprensibile negli ultimi scritti di Artaud vuole restare oscuro, vuole essere assimilato come suono. Il progetto gnostico è la ricerca della saggezza, ma di una saggezza die si annulla nell’incomprensibilità, nella loquacità e nel silenzio. Come suggerisce, la vita di Ar­ taud, tutti gli schemi per por fine al dualismo, per una coscienza unificata a un livello gnostico dì intensitTsono destinati a fallire: coloro che li metteranno in pratica ar­ riveranno a quella che la società chiama follia, o al silen­ zio o aj suicidio. (Un altro esempio: la visione di una co­ scienza totalmente unificata espressa nei messaggi gnomi­ ci che Nietzsche scrisse ai suoi amici subito prima del suo collasso mentale a Torino, nel 1889). Il progetto trascen­ de i limiti dello spirito. Cosi, mentre Artaud continua di­ speratamente a insistere nello sforzo di unire carne e spi­ rito, i termini del suo pensiero implicano l’annichilimento della cosdenza. Negli scritti dell’ultimo periodo, la crisi della sua cosdenza infranta e del suo corpo marti­ rizzato raggiungono un apice di intensità e di furia inu­ mane. In tutta la storia della letteratura non esiste una quan­ tità di sofferenza pari a quella offerta da Artaud. Le nu­

54 SOTTO IL SEGNO DI SATURNO merose descrizioni del suo dolore sono cosi drastiche e penose che il lettore, sopraffatto, può provare la tenta­ zione di distaccarsene ricordando die Artaud era pazzo. La stessa follia die Io ha dominato alla fine era stata presente in tutta la sua vita. La storia dei suoi ricoveri ne­ gli ospedali psichiatrid comincia con l’adolescenza, mol­ to prima del suo trasferimento a Parigi nel 1920, a ven­ tiquattro anni, per dedicarsi all’attività artistica; proba­ bilmente anche la tossicodipendenza, die ha forse ag­ gravato la sua confusione mentale, aveva avuto inizio prima di questa data. La mancanza di quella consapevo­ lezza protettrice che permette alla maggior parte della gente di essere rnR ruolo die la Riefenstahl si era costruito è quello di una creatura primitiva che ha un rapporto tutto particolare con una forza di distruzione: solo Junta, la stracdona messa al bando da tutto il paese, è in grado di raggiungere la misteriosa luce azzurra che si irradia dalla vetta del Monte Cristallo, mentre gli altri giovani del paese, at­ tratti dalla luce, cercano di scalare la montagna e precipi­ tano verso la morte. Alla fine la morte della ragazza sa­ rà causata non dall’impossibile meta simboleggiata dalla montagna, ma dall’animo prosaico e materialista dei pae­ sani invidiosi, e dal deco razionalismo del suo amante, un dttadino pieno di buone intenzioni. Il secondo film diretto dalla Riefenstahl non è sta­ to «un documentario sul Congresso di Norimberga del 1934» (Leni Riefenstahl ha girato quattro film documen­ taristici, non due, come lei stessa ha sempre affermato dopo il 1950, e come riportano quasi tutte le correnti riverniciature della sua carriera) ma La vittoria della fede (Sieg des Glaubens, 1933), che celebra il I Congresso del Partito nazional-sodalista dopo la presa di potere di

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Hitler. Poi venne la prima delle due opere che le diedero davvero una fama internazionale, il film sul successivo Congresso del Partito nazional-socialista, Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935), die non viene mai menzionato sulla copertina di L'ultimo dei Nuba. Subito dopo girò un breve film (didotto minuti) per 1’eserdto: Il giorno della libertà: il nostro esercito (Tag der Frei­ heit: Unsere Wehrmacht, 1935), che illustra la bellezza dei soldati del Fiihrer e della vita militare. (Il silenzio ri­ guardo a questo film non è sorprendente: ne è stata ritro­ vata una copia solo nel 1971, e durante gli anni cinquan­ ta e sessanta, quando la Riefenstahl e tutti gli altri pen­ savano che fosse andato perduto, lei lo cancellò dalla sua filmografia e rifiutò di discuterne con gli intervistatori). La nota biografica continua: Goebbels tentò di assoggettare la visione cinematografi­ ca della Riefenstahl alle sue esigenze strettamente propa­ gandistiche e il rifiuto che lei oppose diede origine a uno scontro di volontà die culminò con la realizzazione dd film di Leni Riefenstahl sulle Olimpiadi del 1936, Olympia. Goebbels tentò di distruggerlo, e il film fu salvato solo grazie all’intervento personale di Hitler. Avendo ormai a suo credito due fra i piu notevoli do­ cumentari degli anni trenta, la Riefenstahl continuò a gi­ rare film ideati da lei, privi di connessione con l’ascesa del­ la Germania nazista, fino al 1941, quando la guerra le im­ pedi di continuare. Dopo la seconda guerra mondiale fu arrestata a causa delle conoscenze che aveva avuto fra i capi dd nazismo: fu due volte processata e due volte assolta. La sua fama subi un’eclisse, e la regista fu in parte dimenticata, anche se per una generazione di tedeschi il suo nome era stato una paro­ la quotidiana e familiare. A parte il punto in cui si dice che il suo nome era sta­ to, familiare per la Germania nazista, in questo pezzo non c’è nulla di vero. L’attribuzione alla Riefenstahl del ruolo di artista-individualista che sfida i burocrati filistei e la censura dello stato mecenate («Goebbels tentò di assog­ gettare la visione cinematografica della Riefenstahl alle sue esigenze strettamente propagandistiche») dovrebbe

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sembrare assolutamente ridicola a chiunque abbia visto Il trionfo della volontà, un film la cui concezione stessa esclude la possibilità che il regista avesse un’estetica in­ dipendente dalla propaganda. La realtà, costantemente smentita dalla Riefenstahl nel dopoguerra, è che girò II trionfo della volontà con ogni possibile assistenza e faci­ litazione e con la cooperazione senza riserve delle auto­ rità (non d fu mai alcun contrasto tra la regista e il mi­ nistro della propaganda). Anzi, la Riefenstahl è stata coin­ volta, come riferisce in un breve libro sulla lavorazione del Trionfo della volontà, nella preparazione del congres­ so, che fin dall’inizio era stato concepito come set di un film Olympia, un film di tre ore e mezzo diviso in due parti, Olympia (Fest der Schonheit) e Apoteosi di Olym­ pia (Fest der Volker), fu una produzione altrettanto uffi­ ciale. A partire dagli anni cinquanta la Riefenstahl ha sempre affermato nelle interviste che Olympia era sta­ to commissionato dal Comitato olimpico internazionale, prodotto dalla sua Compagnia e realizzato nonostante le proteste di Goebbels. La verità è che Olympia è stato commissionato e integralmente finanziato dal governo nazista (fu creata una Compagnia fantoccio con a capo la Riefenstahl perché sembrava imprudente che il governo comparisse come produttore) e agevolato dal ministero di Goebbels durante ogni fase della lavorazione anche 1 Hinter den Kulissen des Reicbsparteitag-Films (Dietro le quinte del film sul congresso del partito del Reich] di Leni Riefenstahl, Munchen 1935. In una fotografia a pagina 31 si vedono Hitler e la Riefenstahl chi­ ni su dei progetti, con la didascalia: «I preparativi per il congresso sono stati fatti di pari passo con quelli per la realizzazione cinematografica». Il congresso ebbe luogo dal 4 al io settembre; la Riefenstahl racconta di aver cominciato a lavorare in maggio, progettando il film sequenza per sequenza, e sorvegliando la costruzione di complessi ponti, torri e rotaie per la macchina da presa. Alla fine di agosto Hitler andò a No­ rimberga con Viktor Lutze, capo delle SA, «per un’ispezione e per da­ re le istruzioni finali». I trentadue cameramen erano vestiti con unifor­ mi da SA durante tutte le riprese, «un suggerimento del capo dello staff Lutze, in modo che nessuno disturbasse la solennità deirimmagine con degli abiti cibili». Le SS fornirono un gruppo di guardie. 1 Vedi Footnote to the History of Riefenstahl's «Olimpia» di Hans Barkhausen, in «Film Quarterly», autunno 1974, un raro esempio di dis­ senso ben informato in mezzo alla gran quantità di tributi alla Riefenstahl comparsi nelle riviste di cinema europee e americane in questi ultimi anni.

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la plausibile leggenda secondo cui Goebbels protestò per le riprese dedicate al trionfo del campione americano di atletica, il nero Jesse Owens, è falsa. La Riefenstahl la­ vorò al montaggio per diciotto mesi, terminando il film in tempo per la prima mondiale a Berlino il 29 aprile, in occasione dei festeggiamenti per il quarantanovesimo compleanno di Hitler; in quello stesso anno Olympia rappresentò la Germania al Festival di Venezia, dove ot­ tenne la medaglia d’oro. Altre bugie: dire che la Riefenstahl «continuò a girare film ideati da lei, privi di connessione con l’ascesa della Germania nazista, fino al 1941 ». Nel 1939 (dopo un viag­ gio a Hollywood, ospite di Walt Disney), accompagnò la Wehrmacht nell’invasione della Polonia, come corri­ spondente di guerra alla testa di una troupe di tecnici e operatori; ma non risulta che qualcosa di questo materia­ le sia sopravvissuto alla guerra. Dopo Olympia la Riefen­ stahl girò solo un altro film, Tiefland (Bassopiano) che ini­ ziò nel 1941, e, dopo un’interruzione, riprese nel 1944 (negli studi della Barrandov Film, a Praga, durante l’oc­ cupazione nazista), e terminò nel 1954. Come La bella maledetta, Tiefland oppone la corruzione della pianura o della valle alla purezza della montagna, e ancora una vol­ ta la protagonista (interpretata dalla Riefenstahl) è una bellissima emarginata. La Riefenstahl preferirebbe far credere di aver girato solo due documentari durante una lunga carriera come regista di film a soggetto, ma la verità è che su sei film da lei realizzati quattro erano documen­ tari fatti per e finanziati dal governo nazista. Definire i rapporti professionali e personali della Rie­ fenstahl con Hitler e Goebbels come «le sue conoscenze fra i capi del nazismo» è quantomeno impreciso. La Rie­ fenstahl era un’intima amica di Hitler molto prima del 1932; era amica anche di Goebbels: non esistono prove che Goebbels la odiasse né che avesse il potere di inter­ ferire nel suo lavoro, come invece lei ha sempre afferma­ to con insistenza dal 1950 in poi. Potendosi rivolgere di­ rettamente a Hitler come e quando voleva, la Riefenstahl era proprio l’unico regista tedesco a non essere control­ lato dall’ufficio cinematografico (Reichsfilmkammer) del

SOTTO IL SEGNO DI SATURNO 68 ministero della propaganda. Infine, è fuorviarne dire die la Riefenstahl fu «due volte processata e due volte as­ solta» dopo la guerra. Fu arrestata per un breve periodo dagli Alleati nel 1945, e due case che le appartenevano (a Berlino e a Monaco) furono sequestrate. Gli interroga­ tori e le comparse in tribunale cominciarono nel ’48 e continuarono a intermittenza fino al 1952, quando fu denazificata con questo verdetto: «Nessuna attività poli­ tica in sostegno del regime nazista che autorizzi una pu­ nizione». Una precisazione importante: che la Riefen­ stahl meritasse o meno una sentenza di condanna, non erano in discussione le sue «conoscenze» fra i capi del nazismo, ma le sue attività propagandistiche in favore del Terzo Reich. La nota biografica sulla copertina di L'ultimo dei Nuba è un fedele riassunto della linea di autodifesa fabbricata dalla Riefenstahl negli anni cinquanta, e che è esposta in modo piu esauriente nell’intervista da lei rilasciata a «Cahiers du Cinéma» nel settembre del 1965. Qui definiva il suo lavoro cinema verità, negando che si fosse mai trat­ tato di propaganda. «Nemmeno una scena è montata o preparata, - dice a proposito del Trionfo della volontà. — È tutto vero. E non esiste un commento tendenzioso per il semplice fatto die non c’è commento affatto. È storia, storia pura». C’è un abisso rispetto al veemente disprezzo per i «film cronaca», i semplici «reportage», o «fatti filmati», indegni dello «stile eroico» degli even­ ti, espresso nel suo libro sulla realizzazione del film '. 1 Volendo una fonte diversa, dato che oggi la Riefenstahl afferma (in un’intervista con la rivista tedesca «Filmkritik», agosto 1972) di non aver scritto neanche una parola di Hinter den Kulissen des Reichsparteitag-Films, e di non averlo neppure letto allora, c’è un’intervista sul «Vólkischer Beobacbter», del 26 agosto 1934, sul film del congresso di Norimberga, in cui fa dichiarazioni analoghe. La Riefenstahl e i suoi apologisti parlano sempre del Trionfo della volontà come se fosse un documentario «indipendente», citando spesso i problemi tecnici che si sono presentati durante la lavorazione per di­ mostrare che l’autrice aveva dei nemici fra i capi del partito (l’odio di Goebbels), come se queste difficoltà non facessero abitualmente parte della realizzazione di qualsiasi film. Una delle piò ligie riproposte del mito di Leni Riefenstahl come pura e semplice autrice di documentari, politicamente innocente, è Filmguide to «Triumph of the Will», uscito nella serie di guide ai film della Indiana University Press, il cui autore,

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Anche se II trionfo della volontà non ha una voce nar­ rante, comincia con un testo scritto che annuncia il con­ gresso come culmine e redenzione della storia tedesca. Ma questa dichiarazione di apertura è il modo meno originale in cui il film è tendenzioso. Non ha un commento perché non ne ha bisogno, dato che II trionfo della volontà rap­ presenta una trasformazione della realtà radicale e già compiuta: la storia diventa teatro. Il tipo di organizza­ zione scelta per il congresso del ’34 fu in parte determi­ nata dalla decisione di produrre II trionfo della volontà'. l’evento storico doveva essere il set di un film che in se­ guito avrebbe assunto il carattere di documentario auten­ tico. Anzi, quando parte del metraggio sui discorsi dei capi del partito risultò rovinato, Hitler ordinò che le sce­ ne fossero rifatte, e Streicher, Rosenberg, Hess e Frank riconfermarono con grande istrionismo il loro vassallag­ gio al Fiihrer alcune settimane dopo, senza Hitler e sen­ za pubblico, da una tribuna ricostruita in studio da Speer. (È tutto sommato corretto designare Speer, che costruì l’immensa sede del congresso alla periferia di Norimber­ ga, come architetto del Trionfo della volontà nei titoli di testa del film). Chiunque difenda i film della Riefen­ stahl in quanto documentari, ammesso che sia corretto distinguere fra documentari e propaganda, è un ingenuo. In II trionfo della volontà il documento (l’immagine) non solo è una testimonianza della realtà ma è una delle ra­ gioni per cui quella realtà è stata costruita, ed è destina­ ta a sostituirla in ùltima istanza. Richard Metani Barsam, conclude la prefazione dichiarandosi «grato a Leni Riefenstahl che ha collaborato con ore e ore di Interviste, ha aper­ to il suo archivio per la mia ricerca, e ha dimostrato un genuino inte­ resse per il libro». E poteva ben interessarsi di un libro die aveva come primo capitolo Leni Riefenstahl e il fardello dell*indipendenza e il cui tema è «la convinzione della Riefenstahl che l’artista debba, ad ogni costo, restare indipendente dalle contingenze materiali. Lei ha conqui­ stato la libertà artistica per la propria vita, ma pagandola molto cara». Eoe. ecc. Girne antidoto, varrei citare una fonte indiscutibile (almeno non può venire a dirci die non l’ha mai scritto): Adolf Hitler. Nella sua breve prefazione a Hinter den Kulissen Hitler descrive II trionfo della volontà come «una glorificazione del potere e della bellezza del nostro Movimento, assolutamente unica e incomparabile». E lo è.



SOTTO IL SEGNO DI SATURNO

Nelle società liberali la riabilitazione delle figure pro­ scritte non avviene con la definitiva bruschezza burocra­ tica àeWEnciclopedia sovietica che a ogni successiva edi­ zione propone alcuni personaggi fino a quel momento innominabili, e ne annulla altrettanti o più spingendoli oltre la soglia della non-esistenza. Le nostre riabilitazio­ ni sono piu morbide, piu insinuanti. Non è che improvvi­ samente il passato nazista della Riefenstahl sia diventato accettabile. È solo che la ruota della cultura ha comple­ tato il suo giro, e adesso non ha piu importanza. Invece di elargire dall’alto una Storia congelata, la società libe­ rale sistema simili questioni aspettando die i cicli del gu­ sto distillino le controversie. La purificazione della fama di Leni Riefenstahl dalle scorie naziste è in atto da qualche tempo, con slancio cre­ scente, ma ha forse raggiunto il culmine quest’anno, con la Riefenstahl ospite d’onore al nuovo festival cinema­ tografico organizzato dai cinefili nel Colorado durante l’e­ state, con la valanga di articoli e interviste pieni di rispet­ to che le sono stati dedicati dai giornali e dalla televi­ sione, e infine con la pubblicazione di L’ultimo dei Nuba. Questa promozione della Riefenstahl a monumento del­ la cultura sicuramente dipende in parte dal fatto che è una donna. Il manifesto per il New York Film Festival del 1973, disegnato da un’artista famosa che è anche fem­ minista, raffigurava una bambola bionda col seno destro racchiuso nel cerchio di tre nomi: Agnès Leni Shirley. (Cioè Varda, Riefenstahl, Clarke). Per le femministe sa­ rebbe un po’ duro rinunciare all’unica regista donna uni­ versalmente considerata di prima classe. Ma l’impulso piu forte all’origine di questa mutata attitudine nei con­ fronti della Riefenstahl nasce da una nuova diffusione e affermazione del «bello» come concetto. La linea adottata dai difensori della Riefenstahl, tra cui ci sono ormai alcune fra le più influenti voci della ci­ nematografia d’avanguardia, consiste nell’affermare che lei si è sempre preoccupata soprattutto del bello. Questa naturalmente è da qualche anno anche la tesi della Rie­ fenstahl stessa. Cosi l’intervistatore di «Cahiers du Ciné-

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ma» dà il via alla Riefenstahl osservando con una certa fatuità che Olympia e II trionfo della volontà «dànno en< trambi forma a una certa realtà, che di per sé è basata su una certa idea di forma. Lei considera questa preoc­ cupazione per la forma una caratteristica tipicamente te­ desca? » E la Riefenstahl risponde: Posso dire solo dì sentirmi spontaneamente attratta da tutto ciò che è bello. SI: bellezza, armonia. E forse que­ sto gusto della composizione, questa aspirazione alla for­ ma è davvero una caratteristica tedesca. Ma io stessa non so esprimermi con esattezza in proposito. Sono cose che vengono dall’inconscio... Cosa vuole che le dica? Tutto quello che è realismo puro, tranche de vie, mediocrità, quo­ tidianità, non mi interessa... Io sono affascinata da ciò che è bello, forte, sano, vivo. Cerco l’armonia. Quando si pro­ duce armonia, sono felice. Credo, con questo, di averle ri­ sposto.

Ecco perché L’ultimo dei Nuba è l’ultimo indispensa­ bile passo per la riabilitazione della Riefenstahl. È la de­ finitiva riscrittura del passato; o, per i suoi difensori, la definitiva conferma che lei è sempre stata una fan del bel­ lo e non una propagandista dell’orrido *. All’interno dello splendido libro, fotografie della nobile, perfetta tribù. E sulla copertina, fotografie della «mia perfetta donna te­ desca» (come la definiva Hitler) che sconfigge le ingiurie della storia, tutta sorrisi. Bisogna ammettere che se il libro non fosse firmato dal­ la Riefenstahl il sospetto che queste fotografie siano sta­ te scattate dalla piu interessante, dotata ed efficace arti­ sta del nazismo non sarebbe automatico. Molti, sfoglian­ do L’ultimo dei Nuba, probabilmente lo prenderanno semplicemente come un altro lamento per i popoli pri1 Ecco come Jonas Mekas («The Village Voice», ottobre 1974) accoglie li pubblicazione di L’ultimo dei Nuba: