Il Borghese. Tra Storia e Letteratura

Table of contents :
Copertina......Page 2
Frontespizio......Page 4
Elenco delle illustrazioni......Page 5
Nota sulle fonti......Page 7
Il borghese......Page 8
«Io sono un membro della classe borghese»......Page 9
Dissonanze......Page 11
Borghesia, classe media......Page 14
Tra storia e letteratura......Page 19
Un eroe astratto......Page 20
Prosa e parole chiave: osservazioni preliminari......Page 22
«Il borghese è perduto…»......Page 24
Avventura, impresa, Fortuna......Page 29
«Tutto questo testimonierà che non stavo con le mani in mano»......Page 32
PAROLE CHIAVE I. Utile......Page 37
PAROLE CHIAVE II. Efficienza......Page 41
PAROLE CHIAVE III. Comfort......Page 45
PROSA I. «Il ritmo della continuità»......Page 51
PROSA II. «Abbiamo scoperto la produttività dello spirito»......Page 57
PAROLE CHIAVE IV. Serio [Serious]......Page 67
Riempitivi......Page 73
Razionalizzazione......Page 78
PROSA III. Il principio di realtà......Page 81
Descrizione, conservatorismo, Realpolitik......Page 86
PROSA IV. «Una trasposizione dell’oggettivo nel soggettivo»......Page 90
Nuda, diretta e sfacciata......Page 96
«Dietro il velo»......Page 105
Il gotico, un déjà-là......Page 108
Il gentiluomo......Page 111
PAROLE CHIAVE V. Influenza......Page 115
PROSA V. Aggettivi vittoriani......Page 119
PAROLE CHIAVE VI. Serio [Earnest]......Page 124
«Chi non ama la Conoscenza?»......Page 127
PROSA VI. Nebbia......Page 132
Balzac, Machado e il denaro......Page 136
PAROLE CHIAVE VII. La «roba»......Page 140
PERSISTENZA DELL’ANTICO REGIME I. La bambola......Page 145
PERSISTENZA DELL’ANTICO REGIME II. Torquemada......Page 148
«Dopotutto è aritmetica!»......Page 152
La zona grigia......Page 156
«Segni contro segni»......Page 161
Prosa borghese, poesia capitalista......Page 165
Note......Page 173
Indice dei nomi e delle opere......Page 209
Il libro......Page 220
L’autore......Page 221
Dello stesso autore......Page 222
Copyright......Page 223

Citation preview

Franco Moretti

Il borghese Tra storia e letteratura Traduzione di Giovanna Scocchera

Elenco delle illustrazioni

1. Jan Steen, Il cittadino di Delft e sua figlia, olio su tela, 1655. Amsterdam, Rijksmuseum. (Foto Bridgeman Images / Mondadori Portfolio). 2. Frontespizio originale de Le avventure di Robinson Crusoe, 1719. Proprietà dell’autore. 3. Tullio Pericoli, Robinson e gli attrezzi, acquarello e china su carta, 1984. Riprodotto per concessione di Tullio Pericoli, Studio Pericoli, Milano. 4. Johannes Vermeer, Donna in azzurro che legge una lettera, olio su tela, 1663. Amsterdam, Rijksmuseum. (© 2017. Foto DeAgostini Picture Library / Scala, Firenze). 5. Johannes Vermeer, La lettera d’amore, olio su tela, 1669. Amsterdam, Rijksmuseum. (Foto Akg Images / Mondadori Portfolio). 6. Johannes Vermeer, Soldato con ragazza sorridente, olio su tela, 1657. New York, The Frick Collection. (Foto Akg Images / Mondadori Portfolio). 7. Gustave Caillebotte, Place de l’Europe, olio su tela, 1877. Chicago, Art Institute.(Foto Akg Images / Mondadori Portfolio). 8. Édouard Manet, Olympia, olio su tela, 1863. Parigi, Musée d’Orsay. (Foto Laurent Lecat / Electa / Mondadori Portfolio). 9. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Venere Anadiomene, olio su tela, 1848.

Chantilly, Musée Condé. (Foto Leemage / Mondadori Portfolio). 10. John Everett Millais, Il cavaliere errante, da: A. R. Hope Moncrieff, Romance and Legend of Chivalry, litografia a colori, 1870. Collezione privata. (Foto Ken Welsh / Bridgeman Images / Mondadori Portfolio). 11. John Everett Millais, Martire di Solway, immagine a raggi x. Liverpool, National Museums. (Foto del Museo). 12. John Everett Millais, Martire di Solway, olio su tela, 1871. Liverpool, National Museums, Walker Art Gallery. (Foto Bridgeman Images / Mondadori Portfolio).

Nota sulle fonti.

Solo qualche parola sulle fonti usate piú di frequente all’interno del libro. Il corpus di Google Books è una raccolta di diversi milioni di libri che consente di svolgere ricerche molto semplici. Il database Chadwyck-Healey, sulle opere di narrativa del XIX secolo, raccoglie un’accurata selezione di 250 romanzi britannici e irlandesi scritti tra il 1782 e il 1903. Il corpus del Literary Lab comprende circa 3500 romanzi britannici, irlandesi e americani del XIX secolo. Sono inoltre frequenti i riferimenti a dizionari, indicati tra parentesi senza fornire ulteriori dati: «OED» corrisponde all’Oxford English Dictionary, «Robert» e «Littré» sono i due dizionari francesi, «Grimm» è tedesco e «Battaglia» è il Grande dizionario della lingua italiana della Utet. F.M.

Il borghese

a Perry Anderson e Paolo Flores d’Arcais

Introduzione Concetti e contraddizioni

«Io sono un membro della classe borghese». Il borghese… Non molto tempo fa, questo concetto sembrava indispensabile all’analisi sociale; oggi invece possono passare anni senza che se ne parli. Anche se il capitalismo è piú potente che mai, la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla. «Io sono un membro della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alle sue idee e ai suoi ideali», scriveva Max Weber nel 1895 1. Chi potrebbe ripetere oggi quelle stesse parole? Le «idee» e gli «ideali» borghesi: ma che cosa sono? Questo cambio di atmosfera si riflette anche nel lavoro accademico. Simmel e Weber, Sombart e Schumpeter: tutti vedevano nel capitalismo e nel borghese – in economia e antropologia – due facce della stessa medaglia. «Non conosco alcuna lettura storica seria del nostro mondo moderno», scriveva Immanuel Wallerstein un quarto di secolo fa, «in cui sia del tutto assente il concetto di borghesia. Ed è giusto cosí. Difficile raccontare una storia in cui manchi il protagonista principale» 2. Eppure, oggi, anche quegli storici che sottolineano con enfasi il ruolo svolto da «idee e ideali» nell’ascesa del capitalismo (Meiksins Wood, de Vries, Appleby, Mokyr) mostrano scarso interesse per la figura del borghese. Come ha scritto Ellen Meiksins Wood, «In Inghilterra esisteva il capitalismo, ma non come creazione della borghesia. In Francia esisteva una borghesia (piú o meno) trionfante, ma il suo progetto rivoluzionario aveva poco a che fare con il capitalismo». O ancora: «borghese non è necessariamente da identificarsi con capitalista» 3.

Vero, l’identificazione non è automatica; ma ad ogni modo il punto è un altro. «La genesi della borghesia occidentale e della sua natura peculiare», scriveva Weber ne L’etica protestante, è «strettamente connessa con la genesi dell’organizzazione capitalistica del lavoro, ma naturalmente non si identifica semplicemente con essa» 4. Due processi strettamente connessi ma non identici. Ecco l’idea alla base di questo libro: guardare al borghese – la storiografia si è sempre interrogata circa «il» borghese – e alla sua cultura come elementi di una struttura di potere con la quale, tuttavia, non coincidono del tutto. Peraltro, parlare di «un» borghese, al singolare, è a sua volta una scelta discutibile. «L’alta borghesia non poteva separarsi formalmente dai suoi inferiori», scrive Hobsbawm ne L’Età degli imperi: «la sua struttura doveva rimanere aperta a nuovi adepti – questa era la caratteristica della sua natura» 5. È proprio questa permeabilità, aggiunge Perry Anderson, a distinguere la borghesia dalla nobiltà che la precede e dalla classe operaia che la segue. Nonostante le importanti differenze all’interno di ognuna di queste classi contrapposte, esse presentano una omogeneità strutturalmente superiore: l’aristocrazia si definiva tipicamente attraverso uno statuto legale in cui si combinavano titoli civili e privilegi giuridici, mentre la classe operaia si delinea complessivamente attraverso la condizione del lavoro manuale. La borghesia non possiede una pari e intrinseca unità di gruppo sociale 6.

Confini penetrabili e debole coesione interna: sono caratteristiche tali da invalidare l’idea stessa di borghesia in quanto classe? Non la pensa cosí il suo massimo storico vivente, Jürgen Kocka: a patto che si distingua tra ciò che potremmo chiamare il nucleo di questo concetto e la sua periferia. Di fatto, quest’ultima ha dimostrato un’estrema variabilità in termini storici e sociali: fino al tardo XVIII secolo era costituita perlopiú dai «piccoli imprenditori autonomi (artigiani, commercianti al dettaglio, locandieri e piccoli proprietari)» dei primi centri urbani europei. Cento anni dopo, la sua popolazione era completamente diversa, composta da «funzionari e impiegati

amministrativi di medio e basso livello» 7. Ma nel frattempo, nel corso del XIX secolo, era emersa in tutta l’Europa occidentale la figura sincretica della «borghesia proprietaria e istruita», venendo a rappresentare un centro di gravità per la classe nel suo complesso e rafforzandone le caratteristiche di potenziale, nuovo ceto dirigente: una convergenza che trovò espressione in tedesco nell’accoppiata concettuale di Besitzbürgertum e Bildungsbürgertum – borghesia di proprietà e borghesia di cultura – o, piú prosaicamente, nel sistema fiscale britannico che collocava senza distinzioni i profitti (derivanti da capitale) e i redditi (derivanti da prestazioni professionali) «sotto la stessa rubrica» 8. L’incontro fra proprietà e cultura: sono pronto a condividere l’idealtipo di Kocka, ma con un’importante differenza. Come storico della letteratura, concentrerò il mio interesse non tanto sui rapporti in essere tra specifici gruppi sociali – banchieri e funzionari pubblici, industriali e medici, e cosí via – quanto sulla corrispondenza tra forme culturali e le nuove realtà di classe: su come la parola «comfort», per esempio, definisca i contorni del consumo borghese legittimo; o su come il tempo della narrazione si adegui alla nuova regolarità dell’esistenza. Il borghese e le sue rifrazioni attraverso il prisma della letteratura: ecco ciò di cui si tratterà in questo libro. Dissonanze. La cultura borghese. Un’unica cultura? «Multicolore [bunt] è la parola che può servire a descrivere la classe che ho studiato da vicino», scrive Peter Gay a conclusione dei suoi cinque volumi su The Bourgeois Experience 9. «Egoismi economici, programmi religiosi, convinzioni intellettuali, lotte sociali, ruolo della donna nella società divennero temi politici intorno ai quali i cittadini borghesi si scontrarono con altri cittadini borghesi», aggiunge Gay in una raccolta successiva; divisioni cosí profonde «da indurci a mettere in dubbio la possibilità di definire la borghesia come un’entità unica» 10. Per Gay, tutte queste «marcate variazioni» 11 sono il risultato

dell’ottocentesca accelerazione del cambiamento sociale, e dunque tipiche della fase vittoriana della storia borghese 12. Ma le antinomie della cultura borghese possono essere osservate da una prospettiva molto piú estesa. In un saggio sulla cappella Sassetti della chiesa di Santa Trinita a Firenze, ispirato al ritratto di Lorenzo de’ Medici fornito da Machiavelli nelle sue Istorie fiorentine – «Tantoché, a considerare in quello e la vita leggera e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse quasi con impossibile congiunzione congiunte» –, Aby Warburg osservò: Le qualità del tutto eterogenee dell’idealista medievalmente cristiano, cavallerescamente romantico o classicamente platonizzante, e del mercante pratico alla maniera etrusco-pagana, rivolto al mondo, si compenetrano e si uniscono nel fiorentino mediceo costituendo un organismo enigmatico di un’energia vitale elementare eppur armonica; essa si manifesta nel fatto che egli scopre in sé con gioia qualsiasi vibrazione dell’anima come ampliamento della propria statura intellettuale, la perfeziona e la usa serenamente 13.

Una creatura enigmatica, idealista e mondana. Nello scrivere di un’altra età dorata della borghesia, a metà strada tra i Medici e i vittoriani, Simon Schama riflette sulla «peculiare coesistenza» che permise al governo laico e clericale di convivere con ciò che altrimenti sarebbe stato un sistema di valori intollerabilmente contraddittorio, una perenne lotta tra il desiderio di acquisire da un lato e quello di raggiungere la perfezione religiosa dall’altro. […] Il desiderio di avventure rischiose e l’incorreggibile abitudine all’autocompiacimento materiale, cosí radicati nell’economia commerciale degli olandesi, sollecitarono solenni sentenze e un gran chiocciare di ammonimenti da parte dei custodi della vecchia ortodossia. […] La peculiare coesistenza di sistemi di valore apparentemente opposti […] dava loro lo spazio di manovra tra il sacro e il profano, secondo le esigenze e la coscienza, senza rischiare una brutale scelta tra la povertà e la perdizione 14.

Autocompiacimento materiale e vecchia ortodossia: Il cittadino di Delft e sua figlia di Jan Steen (Figura 1) che ci guardano dalla copertina del libro di Schama. Un uomo pingue, seduto, vestito di nero, con l’eleganza in oro e argento della figlia da un lato, e gli abiti scoloriti di una mendicante dall’altro. Nel passaggio da Firenze ad Amsterdam, l’aperta vitalità dei visi ritratti in Santa Trinita si è smorzata; il borgomastro è inchiodato con aria malinconica alla sedia, come depresso dal «dilemma morale» (di nuovo Schama) in cui si trova: vicino alla figlia nello spazio, eppure con lo sguardo altrove; rivolto verso la donna, senza tuttavia prestarle attenzione; occhi bassi, che non guardano nulla di preciso. Che fare? L’«impossibile congiunzione» di Machiavelli, l’«organismo enigmatico» di Warburg, la «perenne lotta» di Schama: in confronto a queste prime contraddizioni della cultura borghese, l’età vittoriana si presenta per ciò che è veramente, ovvero un’epoca di compromessi, molto piú che di contrasti. Compromesso non significa uniformità, certo, ed è ancora possibile vedere i vittoriani come «multicolore». Ma i colori sono vestigia del passato, e stanno perdendo il loro fulgore. È grigia, e non bunt, la bandiera che sventola sul secolo borghese.

Figura 1

Borghesia, classe media.

«Stento a capire perché al borghese di solito non piaccia essere chiamato con il suo nome», scrive Groethuysen nel suo magnifico studio, Origini dello spirito borghese in Francia: «I re son pure stati chiamati re, i preti preti, i cavalieri cavalieri; egli, invece, vuole mantenere l’incognito» 15. Garder l’incognito; e si pensa, inevitabilmente, a quell’onnipresente e vaga etichetta: «classe media». «Con ogni concetto vengono posti determinati orizzonti, ma anche i limiti di un’esperienza possibile e di una teoria pensabile», scrive Reinhart Koselleck 16, e nel preferire «classe media» a «borghesia» la lingua inglese ha di fatto creato un orizzonte ben preciso per la percezione sociale. Ma perché? Il borghese, certo, ha avuto origine in una terra «di mezzo», non essendo «né un contadino né un servo, ma neanche un nobile», come dice Wallerstein 17, ma quella mediocrità era esattamente ciò da cui voleva affrancarsi: nato nella «classe di mezzo» della giovane Inghilterra moderna, Robinson Crusoe rifiuta l’idea paterna per cui quella posizione sarebbe «la migliore condizione al mondo», e dedica la sua intera vita a superarla. Perché dunque accontentarsi di una denominazione che riporta questa classe ai suoi indifferenti inizi, invece di riconoscerne i successi? Cos’era in gioco, nella scelta di «classe media» (middle class) rispetto a «borghese» (bourgeois)? La parola «borghese» apparve per la prima volta nel francese dell’XI secolo, nella forma burgeis, per indicare gli abitanti delle città medievali (bourgs) che godevano il diritto legittimo di essere «liberi ed esenti dalla giurisdizione feudale» (Robert). Al senso giuridico del termine – da cui nacque l’idea tipicamente borghese di libertà come «affrancamento o esenzione da qualcosa» – si aggiunse verso la fine del XVII secolo un significato economico che si riferiva, con la solita sequenza di negazioni, a «colui che non apparteneva né al clero né alla nobiltà, non lavorava con le mani, e possedeva mezzi indipendenti» (ancora Robert). Da quel momento in poi, sebbene con cronologia e sfumature semantiche diverse da paese a paese 18, la parola emerge in tutte le lingue dell’Europa occidentale, dall’italiano borghese allo spagnolo burgués, il portoghese burguês, il tedesco Bürger e l’olandese burger. In questo gruppo, l’inglese

bourgeois si distingue in quanto unico caso in cui, invece di essere assimilato alla morfologia della lingua nazionale, il termine è rimasto un inconfondibile prestito dal francese. E in effetti, la prima definizione che l’OED offre del lemma bourgeois come sostantivo è quella di «uomo libero o cittadino (francese)»; e come aggettivo di «appartenente o relativo alla classe media francese», definizioni prontamente seguite da una serie di citazioni di rinforzo riferite a Francia, Italia e Germania. Il sostantivo femminile bourgeoise descrive «una donna francese della classe media», mentre il termine bourgeoisie – le cui prime tre accezioni rinviano alla Francia, all’Europa continentale e alla Germania – definisce, in linea con il resto, «l’insieme di uomini liberi di una città francese; la classe media francese; anche estesa a quella di altri paesi». Il termine «borghese» designerebbe un «non inglese». In John Halifax, Gentleman (1856) – biografia romanzata di un industriale tessile, opera di grande successo di Dinah Craik – questa parola appare solo tre volte, sempre in corsivo per sottolinearne la natura straniera, e solo usata per sminuire il concetto («Mi riferisco ai ranghi inferiori, alla bourgeoisie»), o in senso dispregiativo («Ma come! Un bourgeois? Un commerciante?»). Quanto agli altri romanzieri dell’epoca, silenzio assoluto; nel database Chadwyck-Healey – i cui 250 romanzi costituiscono una versione alquanto ampliata del canone ottocentesco – il termine «bourgeois» appare un’unica volta tra il 1850 e il 1860, mentre la parola «rich» (ricco) appare 4600 volte, «wealthy» (agiato) 613 volte, e «prosperous» (prospero) 449. Se poi allarghiamo la ricerca all’intero secolo – trattandola dall’angolazione leggermente diversa dello spettro di applicazione del termine, invece che della sua frequenza –, i 3500 romanzi dello Stanford Literary Lab offrono i risultati seguenti: l’aggettivo «rich» è riferito a 1060 sostantivi diversi, «wealthy» a 215, «prosperous» a 156, e «bourgeois» a otto soltanto: famiglia, medico, le virtú, aria, la virtú, atteggiamento, teatro e, curiosamente, blasone. Qual è il motivo di questa riluttanza? In generale, scrive Kocka, i gruppi borghesi

si distaccano dagli antichi autoritarismi, dalla nobiltà ereditaria con i suoi privilegi e dalla monarchia assoluta. […] Da questa linea di pensiero scaturisce l’opposto: nella misura in cui questi fronti erano assenti o deboli, ogni discorso su una Bürgertum che sia allo stesso tempo onnicomprensiva e delimitata perde sostanza nella realtà. Ciò spiega le differenze internazionali: laddove la tradizione della nobiltà era debole o assente (come in Svizzera o negli Stati Uniti), laddove la giovane defeudalizzazione e commercializzazione dell’agricoltura di un paese stava a poco a poco indebolendo la distinzione nobile-borghese e persino la contrapposizione urbano-rurale (come in Inghilterra e Svezia), troviamo potenti fattori che impediscono la formazione di una Bürgertum distinta e un discorso sulla Bürgertum 19.

L’assenza di un «fronte» chiaro per il discorso sulla Bürgertum: da qui nasce l’indifferenza della lingua inglese per la parola «bourgeois». Per contro, la spinta a favore del termine «classe media» si stava facendo sempre piú forte, semplicemente perché molti osservatori della giovane Gran Bretagna industriale volevano una classe intermedia. Nei distretti manifatturieri, scrive James Mill nel suo An Essay on Government (1824), regna «una particolare insoddisfazione per la grande carenza di fascia media, in quanto la popolazione sembra consistere quasi per intero di ricchi industriali e poveri operai» 20. Ricchi e poveri: «Non esiste città al mondo», osservò il canonico Parkinson nella sua celebre descrizione di Manchester poi ripresa da tanti suoi contemporanei, «dove la distanza tra il ricco e il povero sia cosí grande, o la barriera che li separa cosí difficile da attraversare» 21. Mentre la crescita industriale stava polarizzando la società inglese – «tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà», avrebbe poi annunciato Marx con crudezza 22 –, si fece piú forte la necessità di una mediazione, al punto che solo una classe situata nel mezzo sembrava potesse «solidarizzare» con le «afflizioni dei lavoratori poveri» (ancora Mill), «guidandoli» allo stesso tempo con «i suoi consigli» e fornendo loro «un buon esempio da ammirare» 23. Le classi di mezzo erano «l’anello di congiunzione tra le fasce alte e basse», aggiunse Lord Brougham, il

quale le descrisse anche – in un discorso sul Reform Bill del 1832 intitolato Intelligence of the Middle Classes – come «gli autentici depositari del sentimento sobrio, razionale, intelligente e onesto che caratterizza gli inglesi» 24. Se l’economia creò la necessità storica generale dell’esistenza di una classe intermedia, fu la politica a dare la svolta tattica decisiva. Il corpus di Google Books indica che le espressioni «middle class», «middle classes» e «bourgeois» hanno mantenuto piú o meno la stessa frequenza nel periodo compreso tra il 1800 e il 1825; ma negli anni immediatamente precedenti al Reform Bill – quando la relazione tra struttura sociale e rappresentazione politica si sposta al centro della vita pubblica – «middle class» e «middle classes» diventano d’un tratto due o tre volte piú frequenti del termine «bourgeois»: forse perché la denominazione «middle class» era un modo per rifiutare la borghesia come gruppo indipendente e guardarla invece dall’alto, assegnandole un compito di contenimento politico 25. Successivamente, avvenuto il battesimo e consolidato il nuovo termine, seguí tutta una serie di conseguenze (e inversioni di rotta): benché «middle class» e «bourgeois» indicassero esattamente la stessa realtà sociale, per esempio, ognuna di queste denominazioni creò intorno a sé associazioni molto diverse. Una volta posta «nel mezzo», la borghesia poteva apparire come un gruppo parzialmente subalterno, e dunque non poteva essere certo ritenuta responsabile di come andava il mondo. In seguito, le denominazioni «low», «middle» e «upper» formarono un continuum in cui la mobilità era molto piú facile da immaginare che tra categorie – classi – incommensurabili, come i contadini, il proletariato, la borghesia o la nobiltà. E cosí, a lungo andare, l’orizzonte simbolico creato dalla «classe media» funzionò benissimo per la borghesia inglese (e americana): l’iniziale sconfitta del 1832, che aveva reso impossibile una «rappresentazione borghese indipendente» 26, piú tardi la protesse da critiche dirette, promuovendo una versione eufemistica della gerarchia sociale. Groethuysen aveva ragione: l’incognito funzionò.

Tra storia e letteratura. Il borghese tra storia e letteratura. In questo libro, però, mi limito a presentare solo una manciata di possibili esempi. Comincerò dal borghese prima della sua prise de pouvoir (Un padrone lavoratore): un dialogo tra Defoe e Weber su un uomo che si trova da solo su un’isola, sradicato dal resto dell’umanità: un uomo, però, che comincia a intravedere un disegno nella sua esistenza, e a trovare le parole giuste per esprimerlo. In Secolo serio, l’isola è diventata un mezzo continente: il borghese si è moltiplicato in tutta l’Europa occidentale, ha esteso la sua influenza in numerose direzioni: è il momento piú «estetico» di questa storia: invenzioni narrative, compattezza stilistica, capolavori – una grande letteratura borghese, ammesso che sia mai esistita. Nebbia, sulla Gran Bretagna vittoriana, racconta una storia diversa: dopo decenni di straordinari successi, il borghese non può piú limitarsi a essere «se stesso»; il suo potere sul resto della società – la sua «egemonia» – è ora diventato la sua priorità; e in questo preciso momento il borghese d’un tratto si vergogna di sé: ha acquisito potere, ma ha perso la chiarezza della sua visione, il suo «stile». Questo è il punto di svolta del libro e il suo momento della verità: il borghese si dimostra molto piú bravo nell’esercizio del potere all’interno della sfera economica che nell’istituzione di una presenza politica e nell’elaborazione di una cultura generale. Da quel momento, sul secolo borghese comincia a tramontare il sole: nelle regioni delle Malformazioni nazionali, a sud e ad est, una dopo l’altra le grandi figure vengono schiacciate e messe in ridicolo dalla persistenza dell’Antico regime; nel frattempo, dalla tragica terra di nessuno del ciclo di Ibsen (una terra che di certo non comprende solo la Norvegia) arriva la definitiva e radicale autocritica dell’esistenza borghese (Ibsen e lo spirito del capitalismo). Per ora accontentiamoci di questa sinossi; lasciate solo che aggiunga qualche parola sulla relazione tra lo studio della letteratura e quello della storia tout court. Che genere di storia – che genere di prove ci vengono offerte dalle opere letterarie? Non sono mai prove dirette, questo è certo: l’industriale tessile Thornton di Nord e Sud

(1855), o l’imprenditore Wokulski de La bambola (1890) non dimostrano proprio nulla della borghesia di Manchester o Varsavia. Appartengono a una serie storica parallela, una specie di doppia elica culturale in cui gli spasmi della modernizzazione capitalista si combinano alla formalizzazione letteraria e ne vengono riconfigurati. «Ogni forma d’arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita», scriveva il giovane Lukács di Teoria del romanzo 27; e se cosí è, allora la letteratura è quello strano universo in cui tutte le soluzioni si conservano alla perfezione – sono molto semplicemente i testi che leggiamo ancora oggi –, mentre le dissonanze sono silenziosamente scomparse alla vista: quanto piú profonda è stata la loro soluzione, tanto piú si è rivelata efficace. C’è qualcosa di spettrale, in questa storia in cui le domande spariscono e le risposte sopravvivono. Ma se accettiamo l’idea che la forma letteraria è come il fossile di ciò che un tempo era un presente vivo e problematico, e se procediamo a ritroso in una sorta di «ingegneria inversa» per comprendere il problema di cui era la chiave di soluzione, allora l’analisi formale può fare luce – in teoria, se non sempre in pratica – su una dimensione del passato che resterebbe altrimenti nascosta. È proprio questo il suo possibile contributo alla conoscenza storica: nel comprendere l’opacità delle allusioni di Ibsen al passato, o l’elusiva semantica degli aggettivi vittoriani, o persino il ruolo del gerundio in Robinson Crusoe (a prima vista compito tutt’altro che allettante), entriamo in un regno di ombre, dove il passato riacquista la sua voce e continua a parlarci 28. Un eroe astratto. Ma ci parla soltanto attraverso la forma. Storie e stili: ecco dove ho trovato il borghese. Soprattutto negli stili, il che è stato una sorpresa non indifferente, considerato che spesso le narrazioni sono ritenute le fondamenta dell’identità sociale 29, e che altrettanto di frequente la borghesia è stata associata alla turbolenza e al cambiamento – da certe famose scene della Fenomenologia al «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi» del Manifesto del Partito

Comunista 30 alla distruzione creatrice di Schumpeter. E dunque mi aspettavo di incontrare una letteratura borghese definita da trame nuove e imprevedibili: «salti nel buio», come scrive Elster a proposito delle innovazioni capitalistiche 31. Invece, come sostengo in Secolo serio, tutto sembra indicare il contrario: la grande invenzione narrativa dell’Europa borghese non è stata il disequilibrio, bensí la regolarità 32. Tutto ciò che era solido, lo è diventato ancora di piú. Perché? È probabile che il motivo principale sia nel borghese stesso. Nel corso del XIX secolo, una volta superato lo stigma nei confronti della «nuova ricchezza», attorno a questa figura si raccolsero alcuni tratti ricorrenti: innanzitutto l’energia, poi l’autocontrollo, la lucidità intellettuale, l’onestà commerciale, un forte senso degli obiettivi da raggiungere. Tutti tratti «positivi», ma non abbastanza per il tipo di eroe – guerriero, cavaliere, conquistatore, avventuriero – su cui la narrazione occidentale faceva affidamento da millenni, nel vero senso della parola. «La borsa valori è un misero succedaneo del Sacro Graal», scrisse ironicamente Schumpeter; e la vita imprenditoriale – «negli uffici, fra colonne di cifre» – è destinata a essere sostanzialmente «antieroica» 33. Si tratta di una notevole discontinuità tra la vecchia e la nuova classe dirigente: mentre l’aristocrazia si era spudoratamente idealizzata in un’ampia galleria di intrepidi cavalieri, la borghesia non produsse un tale mito di se stessa. La civiltà borghese stava erodendo il grande meccanismo dell’avventura, e senza avventura i personaggi persero quel marchio di unicità che deriva dall’incontro con l’ignoto 34. Paragonato a un cavaliere, un borghese appare anonimo e indefinibile, simile a qualunque altro borghese. Ecco una scena dall’inizio di Nord e Sud, in cui l’eroina descrive a sua madre un industriale di Manchester: – Oh! Ricordo a malapena com’è fatto, – disse Margaret. […] – Una trentina [d’anni]… con un viso che non è né proprio brutto e neanche bello, niente di speciale… non esattamente un gentiluomo, ma che lo fosse difficilmente potevamo aspettarcelo.

– Non ordinario e volgare però, – aggiunse il padre […] 35.

A malapena, né proprio, neanche, niente di speciale, non esattamente… il giudizio di Margaret, di solito piuttosto preciso, si perde in una spirale di evasività. È l’astrazione del tipo borghese: nella sua forma estrema, mero «capitale personificato», o nient’altro che «una macchina che serve a trasformare questo plusvalore in pluscapitale», per citare un paio di passaggi da Il Capitale 36. In Marx, come piú tardi in Weber, la metodica soppressione di ogni elemento sensoriale rende difficile immaginare come questo personaggio possa mai essere il fulcro di una storia interessante – a meno che quell’autorepressione non sia essa stessa la storia, come nel ritratto che Mann fa del console Thomas Buddenbrook (ritratto che colpí profondamente lo stesso Weber) 37. La situazione è diversa in un periodo antecedente, o ai margini dell’Europa capitalista, dove la debolezza del capitalismo come sistema lascia molta piú libertà per immaginare figure ben distinte e forti quali Robinson Crusoe, Gesualdo Motta o Stanisław Wokulski. Dove invece le strutture capitaliste si consolidano, i meccanismi narrativi e stilistici si sostituiscono agli individui come fulcro del testo. È un altro modo di guardare alla struttura di questo libro: due capitoli sui personaggi borghesi e due sulla lingua borghese. Prosa e parole chiave: osservazioni preliminari. Ho trovato il borghese negli stili piú che nelle storie, ho detto qualche pagina fa, e con «stili» mi riferivo principalmente a due aspetti: la prosa e le parole chiave. La retorica della prosa si andrà delineando a poco a poco, un elemento per volta (continuità, precisione, produttività, neutralità…), nei primi due capitoli del libro, dove traccio il suo arco ascendente attraverso il XVIII e il XIX secolo. Quello della prosa borghese è stato un grande traguardo, e anche molto laborioso. L’assenza dal suo universo di qualsiasi concetto di «ispirazione» – quel dono divino in cui idea e risultato si fondono

magicamente in un unico momento creativo – fa intuire quanto sia impossibile immaginare il mezzo della prosa senza pensare immediatamente al lavoro. Lavoro linguistico, certo, ma tale da incarnare alcuni dei tratti piú caratteristici dell’attività borghese. Se c’è un protagonista in questo libro, è proprio la prosa laboriosa. Questa prosa di cui ho tracciato i contorni è un idealtipo, mai espresso appieno in un testo specifico. Discorso diverso, invece, per le parole chiave: sono parole reali, usate da scrittori veri, e perfettamente rintracciabili in questo o quel libro. Qui la cornice concettuale è stata tracciata decenni fa da Raymond Williams in Culture & Society e in Keywords, e dal lavoro di Reinhard Koselleck sulla storia dei concetti (Begriffsgeschichte). Per Koselleck, che si concentra sul linguaggio politico dell’Europa moderna, «un concetto non è solo un indicatore dei complessi di relazioni che comprende; è anche un loro fattore» 38; piú precisamente è un fattore che innesca una «tensione» tra il linguaggio e la realtà, e che viene spesso consapevolmente impiegato come un’arma 39. Pur rappresentando un ottimo modello per la storia intellettuale, questo non è probabilmente l’approccio piú indicato per un essere sociale che, come lo definisce Groethuysen, agisce ma «parla poco» 40; e, quando parla, privilegia termini casuali e quotidiani rispetto alla chiarezza intellettuale dei concetti. Insomma, «arma» non è di certo il termine adeguato a comprendere parole chiave pragmatiche e costruttive come «utile», «efficienza», «serio» – per non parlare dei grandi mediatori come «comfort» o «influenza», molto piú vicini all’idea che Benveniste ha della lingua come «strumento per dare un assetto al mondo e alla società» 41 che alla «tensione» di Koselleck. Che diverse parole chiave siano aggettivi non è certo casuale, credo: meno centrali dei sostantivi (per non parlare dei concetti) nel sistema semantico di una cultura, gli aggettivi sono asistematici e in effetti «adattabili», o come direbbe sdegnosamente Humpty Dumpty: «con gli aggettivi si può fare quello che si vuole» 42. Prosa e parole chiave: due fili paralleli che riaffioreranno per tutta la trattazione a livelli diversi, si tratti di paragrafi, frasi o singole parole. Attraverso di esse, le peculiarità della cultura borghese emergeranno dalla dimensione implicita, persino nascosta del

linguaggio: una «mentalità» fatta di strutture grammaticali e associazioni semantiche inconsce, piú che di idee chiare e distinte. Non era questo il piano originario del libro, e ci sono momenti in cui mi stupisco ancora del fatto che le pagine sugli aggettivi vittoriani potrebbero costituirne il fulcro concettuale. Ma se le idee del borghese hanno ricevuto già molta attenzione, la sua mentalità – se si escludono pochi e isolati tentativi, come lo studio di Groethuysen di oltre un secolo fa – resta ancora per gran parte terreno inesplorato; e allora le minutiae della lingua rivelano segreti che le grandi idee spesso mascherano: l’attrito tra nuove aspirazioni e vecchie abitudini, le false partenze, le esitazioni, i compromessi. In una parola la lentezza della storia culturale. Per un libro che considera la cultura borghese un progetto incompiuto, è sembrata la scelta metodologica piú giusta. «Il borghese è perduto…» Il 14 aprile 1912, Benjamin Guggenheim, fratello minore di Solomon, si trovava a bordo del Titanic e, quando la nave cominciò ad affondare, fu tra quelli che aiutarono donne e bambini a salire sulle scialuppe di salvataggio, resistendo alla frenesia, e talvolta alla violenza degli altri passeggeri di sesso maschile. Poi, quando al suo maggiordomo fu ordinato di prendere posto su una delle scialuppe, Guggenheim si accomiatò dicendogli di riferire a sua moglie che «nessuna donna doveva restare a bordo per colpa della vigliaccheria di Ben Guggenheim» 43. Fine. Forse le sue parole non erano state cosí altisonanti, ma poco importa; aveva fatto la cosa giusta, e la piú difficile. E cosí, quando durante i preparativi del film Titanic (1997) uno dei collaboratori del regista Cameron riportò alla luce l’aneddoto, lo sottopose subito all’attenzione degli sceneggiatori: si preannunciava già una scena fantastica. Invece fu scartato senza pietà: troppo improbabile. I ricchi non muoiono in nome di principî astratti come la vigliaccheria e compagnia bella. E infatti, il personaggio che nel film ricorda vagamente la figura di Guggenheim

cerca di intrufolarsi a bordo di una scialuppa facendosi largo con una pistola. «Il borghese è perduto», scrisse Thomas Mann nel saggio Goethe, rappresentante dell’età borghese (1932), e questi due momenti «titanici» – situati agli estremi opposti del XX secolo – gli danno ragione. Perduto, ma non perché lo sia anche il capitalismo: il capitalismo è anzi piú forte che mai (anche se soprattutto in termini distruttivi, degni di un golem). Ciò che è svanito è il senso della legittimità borghese: l’idea di una classe dirigente che non solo dirige e governa, ma merita di farlo. Era questa la convinzione che animava le parole di Guggenheim sul Titanic; in gioco c’era il «prestigio (e quindi la fiducia)» della sua classe, per usare le parole di Gramsci sul concetto di egemonia 44. Rinunciarvi significava perdere il diritto a governare. Potere, giustificato da valori. Ma proprio quando il governo politico borghese arrivò a diventare una questione importante 45, ecco manifestarsi in rapida successione tre grosse novità che avrebbero modificato per sempre il paesaggio. Per primo arrivò il crollo politico. Mentre la belle époque giungeva al suo volgare declino, proprio come l’operetta in cui amava rispecchiarsi, la borghesia diede man forte alla vecchia élite per scaraventare l’Europa nella carneficina della guerra; in seguito, protesse i suoi interessi di classe dietro camicie nere e marroni, preparando la strada a massacri ancora peggiori. Mentre il vecchio regime volgeva al termine, gli uomini nuovi si dimostrarono incapaci di comportarsi da vera classe dirigente: quando nel 1942 Schumpeter scrisse con freddo distacco che «la classe borghese […] ha bisogno […] di un padrone» 46, non gli fu necessario spiegare ciò che intendeva. La seconda trasformazione, di natura quasi opposta, emerse dopo la Seconda guerra mondiale, con la diffusa instaurazione di regimi democratici. «La peculiarità del consenso storico dato dalle masse all’interno di formazioni sociali capitaliste moderne», scrive Perry Anderson, è

la convinzione da parte delle masse di esercitare una definitiva autodeterminazione all’interno dell’ordine sociale esistente […] una fede nell’uguaglianza democratica di tutti i cittadini nel governo della nazione – in altre parole, la sfiducia nell’esistenza di qualsiasi classe dirigente 47.

Dopo essersi nascosta dietro file di uniformi, a questo punto la borghesia europea si rifugiò all’ombra di un mito politico che postulava il suo annullamento come classe; un atto di mimetizzazione reso molto piú facile dalla pervasiva retorica della «classe media». E poi, il tocco finale; mentre il capitalismo portava un relativo benessere nelle vite di grandi masse operaie del mondo occidentale, le merci diventarono il nuovo principio legittimante: il consenso si costruiva sulle cose, non sugli uomini – e meno ancora sui principî. Era l’alba dei nostri tempi: il trionfo del capitalismo, e la morte della cultura borghese. In questo libro mancano molte cose. Di alcune ho discusso altrove, e mi è sembrato di non avere nulla di nuovo da dire al riguardo: è il caso del parvenu di Balzac, o della classe media di Dickens, che hanno svolto un ruolo di primo piano ne Il romanzo di formazione e Atlante del romanzo europeo 48. Quanto agli autori americani della fine dell’Ottocento – Norris, Howells, Dreiser – mi è sembrato che anche loro potessero aggiungere poco al quadro generale; inoltre, Il borghese è un saggio di parte, senza alcuna ambizione enciclopedica. Detto questo, c’è un solo argomento che mi sarebbe davvero piaciuto includere, se non fosse che rischiava di diventare un libro in sé: un parallelo tra la Gran Bretagna vittoriana e gli Stati Uniti dopo il 1945, in cui sottolineare il paradosso di queste due culture capitaliste egemoni – le sole mai esistite – che si fondano in gran parte su valori antiborghesi 49. Penso, per esempio, all’onnipresenza del sentimento religioso nel discorso pubblico; una presenza in effetti crescente, in netta controtendenza rispetto a precedenti spinte verso la secolarizzazione. Qualcosa di simile è successo con i grandi progressi tecnologici del XIX e fine XX secolo:

invece di incoraggiare una mentalità razionalistica, la rivoluzione industriale prima, e quella digitale poi hanno prodotto una miscela di analfabetismo scientifico e superstizione religiosa – entrambi peggiori adesso di un tempo – che sfugge a qualunque spiegazione. In questo, gli odierni Stati Uniti radicalizzano la tesi centrale del capitolo vittoriano: la sconfitta della Entzauberung weberiana al cuore del sistema capitalista e la sua sostituzione con un nuovo, sentimentale incantamento delle relazioni sociali. Un ingrediente chiave è stato, in entrambi i casi, la radicale infantilizzazione della cultura nazionale: dall’idea bigotta della «lettura familiare», che diede il via alla espurgazione della letteratura vittoriana, alla sciropposa riproduzione – la famiglia sorridente davanti alla tv –, che ha soppresso l’intrattenimento americano 50. E il parallelo può estendersi piú o meno in ogni direzione, dall’anti-intellettualismo della conoscenza «utile», cosí come di gran parte delle politiche educative – a cominciare dalla dipendenza dagli sport – all’ubiquità di parole come «serio» [earnest] (allora) e «divertente» (oggi), con il loro malcelato disprezzo per la serietà intellettuale ed emotiva. Lo «stile di vita americano» come un moderno vittorianesimo: benché tentato da questa idea ero anche consapevole della mia ignoranza in materia di questioni contemporanee e ho deciso di abbandonarla. È stata la decisione giusta, anche se difficile, perché ha significato ammettere che Il borghese è uno studio esclusivamente storico, senza un vero legame con il presente. I professori di storia, riflette il dottor Cornelius in Disordine e dolore precoce, «non amano gli eventi in quanto essi avvengano, ma in quanto siano avvenuti […], il loro cuore rimane devoto alla pia, coerente storicità del passato […]. Il passato si è eternato, ciò significa: è morto» 51. Come Cornelius, anch’io sono un professore di storia; ma mi piace pensare di saper fare qualcosa di piú che occuparmi di una disciplinata assenza di vita. In questo senso, dedicare Il borghese a Perry Anderson e Paolo Flores d’Arcais non è solo un segno dell’amicizia e dell’ammirazione che nutro nei loro confronti; è l’espressione della speranza che, un giorno, imparerò da loro ad applicare l’intelligenza del passato alla critica del presente.

Questo libro non è all’altezza di quella speranza. Ma forse il prossimo lo sarà.

Capitolo primo Un padrone lavoratore

Avventura, impresa, Fortuna. Conosciamo tutti l’inizio: un padre cerca di dissuadere il figlio dall’abbandonare la sua «condizione media» – non esposta «alle miserie e ai sacrifici, alle fatiche e alle sofferenze di quella parte dell’umanità destinata al lavoro manuale», e libera «dai fastidi dell’orgoglio, del lusso, dell’ambizione e dell’invidia, ai quali sono esposte le classi piú elevate» – per diventare uno di quelli che vanno in giro a «tentare la ventura» e cercano di «portarsi in alto con l’intraprendenza e farsi una fama con imprese fuori del comune» 1. Avventure e imprese: insieme. Perché l’avventura, in Robinson Crusoe (1719), è qualcosa di piú di «straordinari sorprendenti» accadimenti – naufragio, pirati, isola disabitata, il Grande Fiume Orinoco… – cui si fa riferimento nel frontespizio del libro; quando Robinson, nel suo secondo viaggio, porta a bordo con sé «a small adventure», il termine non rinvia a un tipo di evento, ma a una forma di capitale («una piccola partita di merci») 2. Agli inizi del tedesco moderno, scrive Michael Nerlich, la parola «avventura» apparteneva alla «terminologia corrente del commercio», e indicava «il senso del rischio (anche chiamato Angst)» 3. Aggiunge poi, citando uno studio di Bruno Kuske: «Si operò una distinzione tra commercio aventiure e la vendita a clienti conosciuti. Il commercio aventiure abbracciava quei casi in cui il mercante partiva con i suoi beni senza sapere esattamente in quale mercato sarebbe riuscito a piazzarli». Avventura come investimento rischioso, dunque: il romanzo di Defoe è un monumento a questa idea e alla sua associazione con «la tendenza dinamica del capitalismo stesso il cui scopo non è mai il mantenimento dello status quo» 4. Ma è un capitalismo di tipo

particolare, quello che attrae il giovane Robinson Crusoe: come nel caso dell’«avventuriero capitalistico» di Weber, a catturare la sua immaginazione sono le attività «di carattere meramente speculativoirrazionale, oppure […] orientate secondo lo scopo di guadagnare con l’uso della violenza» 5. Quella di un guadagno con la forza è chiaramente la storia dell’isola (e prima ancora della piantagione schiavista); quanto all’irrazionalità, la frequente ammissione da parte di Robinson della sua «stravagante e sconsiderata [idea] di andare a cercar fortuna» e del suo «ostinato […] attaccamento alla sciocca inclinazione a vagare per il mondo» 6 è assolutamente in linea con la tipologia weberiana. Vista da questa prospettiva, la prima parte di Robinson Crusoe illustra alla perfezione la mentalità avventuriera che contraddistinse gli inizi del commercio moderno di lunga distanza, con i suoi «rischi che erano non solo alti ma anche non calcolabili e, come tali, oltre l’orizzonte dell’impresa capitalistica razionale» 7. Oltre l’orizzonte… Nella sua leggendaria conferenza presso la Biblioteca Hertziana di Roma, nel 1929, Aby Warburg dedicò un intero pannello iconografico alla volubile dea del commercio marittimo, Fortuna, sostenendo che la cultura del primo Rinascimento aveva finalmente superato l’antica sfiducia dovuta alla sua mutabilità. Pur richiamando le numerose accezioni del termine «fortuna» e le sovrapposizioni con «caso», «patrimonio» e «vento tempestoso» (di qui, «fortunale»), Warburg presentò una serie di immagini in cui Fortuna perdeva progressivamente i suoi tratti demoniaci; in una delle piú memorabili – lo stemma di Giovanni Rucellai – la dea era «ritta sulla nave come l’albero, che con la sinistra alzata regge l’antenna, con la destra trattiene la punta inferiore della vela gonfiata dal vento» 8. Questa immagine, proseguí Warburg, era stata la risposta di Rucellai «all’ardua domanda, che egli stesso si poneva, “se la ragione umana e la saggezza pratica possano qualcosa contro i casi del destino, della Fortuna”». In quell’epoca di «crescente dominio dei mari», la risposta era stata affermativa: la Fortuna era diventata «calcolabile e soggetta a leggi», e di conseguenza il vecchio «mercante avventuriero» si era trasformato nella figura piú razionale del «mercante esploratore» 9.

La stessa tesi viene autonomamente avanzata da Margaret Cohen in The Novel and the Sea: se pensiamo a Robinson come a un «abile navigatore», scrive Cohen, la sua storia cessa di essere un racconto moraleggiante contro le «attività ad alto rischio», e diventa invece una riflessione su «come intraprenderle con la migliore probabilità di successo» 10. Non piú irrazionalmente «pre»-moderno, il giovane Robinson Crusoe segna l’autentico inizio del mondo di oggi. Fortuna, razionalizzata. Si tratta di un’idea elegante, la cui applicazione a Robinson, tuttavia, lascia scoperta una parte troppo grande della storia, per poter essere convincente. Tempeste e pirati, cannibali e prigionia, naufragi che mettono a repentaglio la vita e fughe miracolose sono tutti episodi in cui è impossibile riconoscere segnali dell’«abilità» di cui parla Cohen, o del «dominio sui mari» di Warburg; e una delle prime scene in cui le navi sono «finite in mare aperto, esposte a ogni rischio, senza piú un albero in piedi» 11 sembra contraddire del tutto lo stemma di Rucellai. Quanto al successo finanziario di Robinson, la sua modernità è quanto meno discutibile: benché nel romanzo siano scomparsi gli armamentari magici della storia di Fortunatus (suo principale predecessore nel pantheon degli uomini moderni che si sono fatti da sé), il modo in cui la ricchezza di Robinson si accumula in sua assenza e gli viene in seguito restituita – «una vecchia borsa» con dentro «centosessanta moidori portoghesi», seguita da «sette belle pelli di leopardo […] cinque casse di eccellente frutta e cento pezzi di oro non monetato […] milleduecento cassette di zucchero, ottocento rotoli di tabacco, e il resto a saldo in oro» 12 – è degno delle migliori favole. Sia chiaro: il romanzo di Defoe è un grande mito moderno, ma lo è nonostante le sue avventure, e non grazie a esse. Quando William Empson, in Some Versions of Pastoral, paragonò sbrigativamente Robinson a Simbad il Marinaio, ci aveva proprio visto giusto 13; se mai, il desiderio di Simbad di «praticare un’attività redditizia nel commercio» 14 è piú esplicitamente – e razionalmente – mercantile della «semplice inclinazione a fare il giramondo» di Robinson. La somiglianza tra le due storie non finisce in mare, bensí sulla terra. In ognuno dei suoi sette viaggi, il mercante di Baghdad resta

intrappolato in altrettante isole incantate – orchi, bestie carnivore, scimmie malefiche, maghi assassini… – da cui può scappare solo con un ulteriore salto verso l’ignoto (come quando per esempio si lega alla zampa di un gigantesco uccello carnivoro). In altre parole, in Simbad le avventure regnano sul mare e sulla terraferma. In Robinson no. Sulla terra, regna il lavoro. «Tutto questo testimonierà che non stavo con le mani in mano». Ma perché lavorare? All’inizio, certo, si tratta di una questione di sopravvivenza: una situazione in cui «i doveri quotidiani […] sembrano rivelarsi, secondo la logica della necessità, davanti agli occhi del lavoratore» 15. Ma anche una volta garantiti i suoi bisogni futuri «finché fossi vissuto sul posto, fosse anche stato per quarant’anni» 16, Robinson continua a lavorare, rigorosamente, pagina dopo pagina. Il suo modello nella vita reale, Alexander Selkirk, aveva trascorso quattro anni (cosí pare) su un’isola dell’arcipelago Juan Fernández in una folle altalena emotiva tra l’essere «avvilito, apatico e malinconico» e l’abbandonarsi a «un continuo Banchetto […] degno dei Piaceri piú sensuali» 17. A Robinson, invece, questo non era mai successo. È stato calcolato che, nel corso del Settecento, il numero di giorni lavorativi in un anno salí da 250 a 300; sull’isola di Robinson, dove il concetto di domenica non è del tutto chiaro, il totale è sicuramente piú alto 18. Quando, al culmine del suo zelo – «Dovete tener presente che ora avevo […] due residenze nell’isola […] tanti appartamenti o caverne […] due campi di grano […] la mia residenza di campagna […] i pascoli cintati per il bestiame […] un magazzino vivente di carne […] le mie provviste invernali d’uva passa» 19 –, si rivolge al lettore dicendo: «Tutto questo testimonierà che non stavo con le mani in mano», non si può che dargli ragione. Per poi domandarsi, di nuovo: ma perché lavora cosí tanto? «Oggi non ci si rende generalmente conto del fatto che uno strato superiore “che lavora” è un fenomeno unico e sorprendente», scrive Norbert Elias ne La civiltà delle buone maniere: «Perché si

assoggetta a questa costrizione quantunque […] non abbia dei superiori che possano costringervela?» 20. La domanda di Elias è quella che si pone anche Alexandre Kojève, che al centro della Fenomenologia di Hegel individua un paradosso – «il problema del borghese» – per cui il borghese deve contemporaneamente «lavorare per altri» (perché il lavoro nasce solo in quanto risultato di una costrizione esterna), pur potendo solo «lavorare per se stesso» (perché non ha piú un padrone) 21. Lavorare per se stesso, come se fosse un altro. Robinson funziona esattamente cosí: una parte di lui si trasforma in falegname, o vasaio, o fornaio e passa settimane e settimane a cercare di ottenere qualcosa; poi emerge Crusoe il padrone, il quale sottolinea l’inadeguatezza del risultato. E poi il ciclo si ripete da capo. E si ripete perché il lavoro è diventato il nuovo principio di legittimazione del potere sociale. Quando, alla fine del romanzo, Robinson si ritrova «padrone di piú di cinquemila sterline in denaro» 22 e di tutto il resto, i suoi ventotto anni di ininterrotto lavoro sono lí a giustificare la sua fortuna. Non c’è un reale legame tra le due cose: Robinson è ricco grazie allo sfruttamento di schiavi senza nome nella sua piantagione brasiliana – mentre il suo lavoro solitario non gli ha reso una sola sterlina. Eppure lo abbiamo visto lavorare come nessun altro personaggio di finzione: come può non meritare ciò che ha? 23. C’è una parola che cattura alla perfezione il comportamento di Robinson: «industria». Secondo l’OED, il significato iniziale di industry, intorno al 1500, era «lavoro astuto o intelligente; abilità, ingegno, destrezza o bravura». Poi, alla metà del XVI secolo, emerge un secondo significato: «diligenza o assiduità […] applicazione attenta e costante […] esercizio, sforzo», che presto si cristallizza in «lavoro o fatica sistematica; impiego abituale in una qualche forma di lavoro utile» 24. Da abilità e ingegno a sforzo sistematico; è questo il contributo del termine «industria» alla cultura borghese: il duro lavoro che si sostituisce all’elemento dell’abile destrezza 25. Ed è anche un lavoro calmo, nel senso inteso da Hirschmann per definire un interesse, ovvero una «passione calma»: costante, metodica, cumulativa, e dunque piú forte delle «passioni turbolente, anche se

deboli» della vecchia aristocrazia 26. Qui, la discontinuità tra le due classi dirigenti si dimostra inconfondibile: se le passioni turbolente avevano idealizzato i bisogni di una casta guerriera – l’impeto incandescente di una fulminea «giornata» di battaglia –, l’interesse borghese sta nella virtú di una serena e ripetibile (e ancora ripetibile, all’infinito) quotidianità: meno energia, ma per un tempo molto piú prolungato. Lavorava solo qualche ora – «quattro ore alla sera e non di piú» 27, scrive Robinson, sempre modesto – ma per ventotto anni. Nel paragrafo precedente abbiamo parlato delle avventure con cui si apre Robinson Crusoe, qui del lavoro durante la sua vita sull’isola. È la stessa progressione che si incontra ne L’etica protestante: una storia che comincia con l’«avventuriero capitalistico», ma in cui l’ethos della laboriosità finisce per suscitare «l’inibizione di questo impulso irrazionale, o almeno […] la sua attenuazione razionale» 28. Nel caso di Defoe, la transizione dalla prima alla seconda figura colpisce particolarmente in quanto del tutto fuori programma, almeno in apparenza: nel frontespizio del romanzo (Figura 2), le «straordinarie sorprendenti avventure» di Robinson – citate in alto e in caratteri piú grandi rispetto al resto – sono chiaramente pubblicizzate come la principale attrattiva, mentre la parte che riguarda l’isola è semplicemente «un episodio» 29. Ma poi, durante la composizione del romanzo, dev’essersi verificata una «espansione imprevista e incontrollata» dell’isola, che si è liberata della sua sudditanza alla storia delle avventure ed è diventata il nuovo fulcro del testo. Fu un calvinista di Ginevra a cogliere per primo la portata di questo nuovo orientamento in corso d’opera: il Robinson di Rousseau, «ripulito di tutta la sua paccottiglia», inizierà dal naufragio e si limiterà al racconto degli anni trascorsi sull’isola, in modo che Émile non sprechi il suo tempo in sogni d’avventura e possa concentrarsi invece sul lavoro di Robinson («Émile farà tutto ciò che sa essere utile e buono. Non farà nulla di piú») 30. Il che è crudele nei confronti di Émile, certo, e di tutti i bambini dopo di lui. Però è giusto, perché il duro lavoro di Robinson sull’isola è davvero la piú grande novità del libro.

Figura 2

Dal capitalista avventuriero al padrone lavoratore. Ma poi, mentre Robinson sta giungendo al termine, ecco verificarsi una seconda inversione di rotta: cannibali, conflitti armati, ammutinamenti, lupi, orsi, fortuna degna di una favola… Perché? Se la poetica dell’avventura era stata «inibita» dal suo opposto razionale, perché promettere «altri avvenimenti sorprendenti che fanno parte di nuove avventure mie personali» proprio nella frase conclusiva del romanzo? 31. Finora ho messo in rilievo l’opposizione tra la cultura dell’avventura e l’etica del lavoro razionale; e non ho alcun dubbio che questi due elementi siano incompatibili, e che il secondo sia un fenomeno piú recente, specifico del capitalismo europeo moderno. Questo non significa, tuttavia, che il capitalismo moderno possa ridursi all’etica del lavoro, come voleva chiaramente Weber; allo stesso modo, il fatto che attività «di carattere meramente speculativo-irrazionale, oppure […] orientate secondo lo scopo di guadagnare con l’uso della violenza» non siano piú tipiche del capitalismo moderno non significa che ne siano assenti. Esiste tutta una serie di pratiche non economiche, violente e spesso imprevedibili nei risultati – l’«accumulazione originaria» di Marx o la recente «accumulazione per espropriazione» di David Harvey – che hanno indubbiamente giocato (e continuano a giocare) un ruolo chiave nell’espansione del capitalismo; e se cosí è, allora una narrazione dell’avventura nel senso piú ampio del termine – come per esempio l’entrelacement conradiano di riflessione metropolitana

e romanzo coloniale, in epoca posteriore – è ancora del tutto adeguata a rappresentare la modernità. Questa è dunque la base storica dei «due Robinson», e la conseguente discontinuità nella struttura narrativa di Defoe: l’isola offre il primo scorcio del padrone industrioso dei tempi moderni; il mare, l’Africa, il Brasile, Venerdí e le altre avventure danno voce alle forme piú antiche – ma mai del tutto abbandonate – del dominio capitalista. Da un punto di vista formale, questa coesistenza non integrata dei registri opposti – cosí diversa dalla calcolata gerarchia di Conrad, per ricorrere di nuovo a un parallelo con questo autore – è un chiaro difetto del romanzo. Ma altrettanto chiaramente, questa contraddizione non è solo una questione di forma: scaturisce dall’irrisolta dialettica dello stesso tipo borghese e delle sue due «anime» 32: suggerisce, in contrasto con Weber, che il borghese razionale non si libererà mai veramente dei suoi impulsi irrazionali, né ripudierà il predatore che è stato un tempo. Per il fatto di essere non solo l’inizio di una nuova era, ma un inizio in cui si rende visibile una contraddizione strutturale che non verrà mai superata, la storia informe di Defoe resta il grande classico della letteratura borghese.

PAROLE CHIAVE I.

Utile.

4 novembre. Questa mattina incominciai a mettere ordine nel mio orario di lavoro, fissando l’ora di uscita col fucile, il tempo dedicato al sonno e quello da dedicare allo svago, cioè: ogni mattina uscivo col fucile per due o tre ore, se non pioveva; poi mi occupavo a lavorare fin alle undici circa; poi mangiavo quello che avevo da mangiare; e dalle dodici alle due mi stendevo a dormire perché il tempo era eccessivamente caldo; alla sera di nuovo al lavoro 33.

Lavoro, caccia, svago e riposo. Ma quando Robinson descrive nel dettaglio la sua giornata, lo svago scompare, e la sua vita richiama alla lettera l’asciutta sintesi che Hegel fa dell’Illuminismo: qui, «ogni cosa è utile» 34. Utile: la prima parola chiave di questo libro. Quando

Robinson torna a bordo della nave, dopo il naufragio, la ripetizione ossessiva del concetto di «utilità per se stesso» – dalla cassetta degli utensili del falegname, «la quale fu davvero per me un bottino utilissimo», alle «moltissime cose che mi sarebbero state utili», a «un gran numero di cose utilissime [per me]» 35 – riorienta il mondo ponendo Robinson al centro. Quella dell’utilità, qui come in Locke, è la categoria che allo stesso tempo stabilisce la proprietà privata (utile a me) e la legittima identificandola con il lavoro (utile a me). Le illustrazioni di Tullio Pericoli al romanzo, che assomigliano a versioni distorte dei tableaux tecnologici dell’Encyclopédie (Figura 3) 36, catturano l’essenza di questo mondo in cui nessun oggetto è fine a se stesso – nel regno dell’utile, nulla è fine a se stesso – ma sempre e solo un mezzo per fare qualcos’altro. Uno strumento. E in un mondo di strumenti, resta soltanto una cosa da fare: lavorare 37. Tutto è per lui. Tutto è uno strumento. E poi, ecco la terza dimensione dell’utilità: Alla fine però, essendo impaziente di osservare il perimetro del mio piccolo regno, decisi di fare questo giro; e, presa la decisione, rifornii la mia navicella di vettovaglie, caricandovi due dozzine delle mie pagnotte (schiacciate dovrei piuttosto chiamarle) di pane d’orzo, un vaso di terra pieno di segala abbrustolita, cibo di cui facevo gran consumo, una bottiglietta di rum, mezza capra, polvere e piombo per ucciderne delle altre, e due grandi pastrani, di quelli che, come ho già detto, avevo recuperato dalle cassette dei marinai; uno mi sarebbe servito per sdraiarmici sopra, l’altro per coprirmi alla notte 38.

Figura 3

Qui, accanto a Robinson come centro attivo della storia (decide, rifornisce, carica, recupera) e agli oggetti di cui ha bisogno per la spedizione (un vaso di terra, polvere e piombo, due grandi pastrani), una cascata di costruzioni finali – per ucciderne delle altre, per sdraiarmici sopra, per coprirmi – completa il triangolo dell’utilità. Soggetto, oggetto e verbo. Un verbo che ha interiorizzato la lezione degli strumenti e la riproduce all’interno delle attività di Robinson: dove un’azione, tipicamente, si fa sempre con il fine di fare qualcos’altro: Perciò il giorno dopo andai alla mia casa di campagna, come la chiamavo; e, tagliati alcuni dei rami piú piccoli, vidi che servivano al mio scopo come meglio non avrei potuto desiderare; al che, la volta dopo, arrivai armato con una accetta per tagliarne una bella quantità, che trovai subito, perché ce n’erano in abbondanza. Li misi a seccare entro il recinto o palizzata, e quando furono pronti per l’uso, me li portai nella grotta; e qui durante la successiva stagione piovosa mi misi a fare, come meglio seppi, un gran numero di ceste e panieri, adatti a trasportare sia terra che altro e a riporvi qualunque cosa di cui avessi avuto bisogno. E sebbene non gli dessi una finitura molto bella, pure li feci abbastanza pratici per il mio scopo. E cosí in seguito non uscii mai senza aver cura di prenderne qualcuno; e quando marcivano, ne facevo degli altri, ma specialmente mi feci delle profonde e forti ceste da usare invece dei sacchi per metterci il grano quando ne avessi avuto una certa quantità. Avendo risolto questa difficoltà, impiegandovi un tempo enorme, mi detti da fare per vedere, se possibile, come provvedere a due altri miei bisogni 39.

Due, tre verbi per riga; in mano a un altro scrittore, tutta questa attività sarebbe diventata frenetica. Qui, invece, un onnipresente lessico teleologico (perciò, scopo, desiderare, armato, pronti, mi misi, pratici, cura, provvedere…) fornisce il tessuto connettivo che dà solidità e coerenza alla pagina, mentre i verbi suddividono pragmaticamente le azioni di Robinson tra i compiti immediati delle proposizioni principali (andai, vidi, arrivai, misi, portai) e il futuro piú

indefinito delle proposizioni finali (per tagliarne, a trasportare, per metterci, come provvedere); ma neanche tanto piú indefinito, a dire il vero, perché, per una cultura dell’utile, il futuro ideale è cosí a portata di mano da essere poco piú che un proseguimento del presente: «il giorno dopo»; «la successiva stagione»; «per tagliarne una bella quantità, che trovai subito». Qui tutto è compresso e concatenato; non si salta mai un passaggio («al che – la volta dopo – arrivai armato – con una accetta – per tagliarne – una bella quantità») in queste frasi che, come la «coscienza prosaica» di Hegel, comprendono il mondo mediante «la connessione intellettuale di causa ed effetto, fine e mezzo» 40. Soprattutto, fine e mezzo: Zweckrationalität, la chiamerà Weber; razionalità governata dal suo scopo e volta ad esso; «ragione strumentale», nella variante di Horkheimer. Due secoli prima di Weber, la pagina di Defoe illustra le concatenazioni lessico-grammaticali che hanno rappresentato la prima incarnazione della Zweckrationalität: la ragione strumentale come pratica linguistica – perfettamente espressa benché del tutto inosservata – molto prima che diventasse un concetto. È un primo scorcio di «mentalità» borghese, e del grande contributo che Defoe le ha dato: la prosa, come stile dell’utile.

PAROLE CHIAVE II.

Efficienza.

Lo stile dell’utile. Un romanziere della grandezza di Defoe dedicò la sua ultima e piú ambiziosa fatica a questa idea. Émile vorrà fare tutto ciò che è utile, aveva scritto Rousseau, nulla di piú; e Goethe – ahimè – osservò la seconda parte della frase alla lettera. «Dall’utile per mezzo del vero al bello», leggiamo all’inizio dei Wanderjahre (Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister, 1829) 41; un romanzo in cui, invece del solito «giardino antico o […] parco moderno», si incontrano «campi di ortaggi, larghi tratti seminati con erbe medicinali e con ogni altra pianta che [possa] considerarsi in qualche modo utile» 42. Qui scompare il conflitto tra l’utile e il bello che era stato la chiave del romanzo precedente su Meister, i Lehrjahre (Gli

anni dell’apprendistato, 1796); nella «Provincia pedagogica» dei Wanderjahre, il conflitto ha lasciato il posto alla subordinazione funzionale; avendo scelto di essere «utile, necessario alla società» 43, spiega uno dei pochi artisti presenti nel romanzo, uno scultore, egli è ora piú che soddisfatto di produrre modelli anatomici e nient’altro. Il fatto che sia stata tolta all’arte quella inutilità solo di recente acquisita viene ripetuto piú volte come segno di encomiabile progresso: «Le arti sono il sale della terra: sono per la tecnica quello che il sale è per le vivande. Noi prendiamo dall’arte solo quel tanto che è necessario affinché il mestiere non appiattisca e non diventi meccanico», scrive l’abate a Wilhelm 44; «le arti severe» – muratori, scalpellini, falegnami, conciatetti, tornitori… –, aggiunge un altro capo della Provincia, «devono servir da modello alle [arti] “libere” e indurle a vergognarsi» 45. E poi, come se non bastasse, fa la sua apparizione il lato punitivo e anti-estetico dell’Utopia: se non ci sono teatri in giro, la guida si affretta a informare Wilhelm, è perché «queste istrionerie ci parvero pericolosissime e non potremmo conciliarle con la serietà del nostro fine» 46. E cosí l’arte drammatica viene bandita dalla Provincia. Fine. La dicitura «I Rinuncianti», sottotitolo dei Wanderjahre, indica il sacrificio della pienezza umana imposto dalla moderna divisione del lavoro. Trent’anni prima, nei Lehrjahre, il tema era stato presentato come una dolorosa mutilazione dell’esistenza borghese 47; nel romanzo successivo, il dolore è scomparso: «questo è il tempo delle attività unilaterali», viene subito detto a Wilhelm da uno dei suoi vecchi colleghi; «Fortunato colui che lo comprende e agisce per sé e per gli altri in questo senso» 48. Il tempo è arrivato, e riuscire a stare al passo è una «fortuna». «Felice chi fa del suo lavoro un giocattolo con cui infine sa anche trastullarsi», esclama un contadino che ha messo insieme una collezione di strumenti agricoli, «trasformando in un divertimento i doveri impostigli dal suo genere di vita» 49. Un museo di strumenti per celebrare la divisione del lavoro. «A ogni attività, a ogni arte deve precedere il mestiere; ed esso può apprendersi solo nella limitazione. Sapere bene ed esercitare bene una cosa sola dà una cultura superiore piú che sapere imperfettamente centinaia di cose», dice uno degli interlocutori di

Wilhelm 50. «Dove si sta bene ivi è la patria!», aggiunge un altro, per poi continuare: «Perciò se ora dico: “Ognuno cerchi da per tutto di essere utile a sé e agli altri”, questa non è una sentenza né un consiglio, ma la voce stessa della vita» 51. C’è una parola che sarebbe stata perfetta per i Wanderjahre, se solo fosse esistita all’epoca in cui Goethe scriveva: efficienza. O meglio, la parola esisteva già, ma continuava a indicare ciò che da secoli significava: «il fatto di essere un agente attivo o causa efficiente» come viene espresso nell’OED. Efficienza dunque come causalità e nient’altro. Poi, intorno alla metà dell’Ottocento, arriva il cambiamento: «capacità o forza di realizzare, o buon esito nel realizzare, lo scopo prefissato: forza adeguata, efficacia, efficienza» 52. Forza adeguata: non piú la mera capacità di fare qualcosa, ma di farlo senza sprechi, e nel modo piú economico possibile. Se l’utile aveva trasformato il mondo in una raccolta di strumenti, ecco che subentra la divisione del lavoro a calibrare quegli stessi strumenti in relazione alle loro finalità («lo scopo prefissato»): e il risultato è proprio «l’efficienza». Tre passi consecutivi nella storia della razionalizzazione capitalista. Della razionalizzazione capitalista… e del colonialismo europeo. «Erano dei conquistatori», dice sbrigativamente Marlow a proposito dei Romani in Gran Bretagna; «e per questo non occorre altro che forza bruta» 53. La forza bruta; per contro, ciò che salva il dominio britannico sulle colonie è «l’efficienza», o meglio, «il nostro culto dell’efficienza». Due ripetizioni, e in crescendo, all’interno di una stessa frase; poi la parola scompare da Cuore di tenebra (1899), lasciando al suo posto un mondo sorprendentemente inefficiente in cui le macchine vengono abbandonate alla ruggine e al degrado, i lavoratori raccolgono l’acqua con secchi che hanno il fondo bucato, ai mattoni manca l’ingrediente fondamentale, e il lavoro stesso di Marlow si interrompe per mancanza di rivetti (anche se «Ce n’erano chissà quante casse giú sulla costa – ammonticchiate, sconquassate, sfasciate!») 54. E il motivo di tutto questo spreco è semplice: la schiavitú. La schiavitú non è mai stata «organizzata intorno all’idea di efficienza», scrive Roberto Schwarz 55 a proposito delle piantagioni brasiliane dell’epoca di Conrad, perché poteva

sempre fare affidamento «sulla violenza e la disciplina militare»; di conseguenza «lo studio razionale e la continua modernizzazione dei processi di produzione» erano letteralmente «senza senso». In quei casi, come nel Congo della «Compagnia», la «forza bruta» dei Romani poteva rivelarsi perversamente piú «efficiente» dell’efficienza stessa. Strano esperimento, quello di Cuore di tenebra: spedire un perspicace ingegnere borghese a constatare che una delle imprese piú redditizie del capitalismo fin-de-siècle era l’opposto dell’efficienza industriale: «il contrario di ciò che era moderno», per citare di nuovo Schwarz. Il «guadagno con la forza» sopravvisse fianco a fianco con la razionalità moderna, ho scritto qualche pagina fa, e il romanzo di Conrad – in cui il borghese etico viene mandato a salvare l’avventuriero irrazionale – è l’esempio perfetto di quella coabitazione discordante. Circondato da una folla con cui non ha nulla in comune, Marlow conosce un unico momento di empatia quando trova un anonimo libriccino in una stazione abbandonata lungo il fiume; «umili pagine», scrive, ma con «una tale serietà d’intenti, una cosí onesta preoccupazione per il modo migliore di eseguire un lavoro», da risultare illuminate «di una luce non soltanto professionale» 56. Serietà d’intenti e impegno sincero: l’etica del lavoro nel bel mezzo del saccheggio coloniale. Pagine «illuminate», in contrasto con la «tenebra» del titolo; associazioni religiose, come quelle della «chiamata» o vocazione ne L’etica protestante, o quell’iniziale «culto dell’efficienza» che ha la sua eco weberiana nella «dedizione al proprio compito» de La scienza come professione. Ma… culto dell’efficienza nello Stato Libero del Congo? Non c’è nulla in comune, ho detto prima, tra Marlow e i razziatori che ha intorno: nulla in comune tranne il fatto che lavora per loro. Quanto maggiore è il suo culto dell’efficienza, tanto piú facile sarà il loro saccheggio. La creazione di una cultura del lavoro è stata, probabilmente, il traguardo simbolico piú importante della borghesia in quanto classe sociale: l’utile, la divisione del lavoro, l’«industria», l’efficienza, la «chiamata», la «serietà» del prossimo capitolo: tutti questi elementi, e altri ancora, sono testimonianze dell’enorme significato assunto da

ciò che un tempo era considerato semplicemente una gravosa necessità o un brutale dovere; il fatto che Weber abbia potuto usare gli stessi concetti per descrivere il lavoro manuale (L’etica protestante) e la grande scienza (La scienza come professione) è un ulteriore segnale indiretto del nuovo valore simbolico che ha acquisito il lavoro borghese. Ma quando l’incondizionata devozione di Marlow al suo compito si trasforma in uno strumento di sanguinosa oppressione – un fatto cosí palese, in Cuore di tenebra, da risultare quasi invisibile –, la fondamentale antinomia del lavoro borghese affiora in superficie: quello stesso impegno autoreferenziale che è alla base della sua grandezza – tribú sconosciute che si nascondono lungo la costa, folli e spaventati assassini a bordo, e Marlow, dimentico di tutto, che continua a mandare avanti la nave a vapore – è anche l’origine della sua schiavitú. La sua etica del lavoro lo obbliga a fare bene il suo lavoro; non importa a che scopo. Conformemente alla memorabile immagine dei «paraocchi» evocata ne La scienza come professione, la legittimità e la produttività del lavoro moderno non sono solo intensificate, ma stabilizzate proprio grazie alla cecità nei confronti di ciò che esiste al di fuori di esso. Come scrive Weber ne L’etica protestante, è davvero un modo di vivere «irrazionale […] dove l’uomo è in funzione e al servizio dei suoi affari, e non viceversa», e dove l’unico risultato di un’incessante attività è «quel sentimento irrazionale di avere compiuto il [proprio] “dovere professionale”» 57. Un modo di vivere irrazionale, quello dominato dalla Zweckrationalität. Ma la ragione strumentale, come abbiamo visto, è anche uno dei principî che soggiacciono alla prosa moderna. Nelle prossime pagine risulteranno chiare le conseguenze di questa associazione.

PAROLE CHIAVE III.

Comfort.

Come si legge ne L’etica protestante,

L’ascesi cristiana, che inizialmente era fuggita dal mondo nella solitudine, aveva già dominato ecclesiasticamente sul mondo, uscendo per cosí dire dal convento, proprio in quanto rinunciava al mondo. Eppure in complesso aveva lasciato alla vita quotidiana laica il suo carattere naturale e ingenuo. Ora veniva sul mercato della vita, si chiudeva alle spalle le porte del convento e intraprendeva a pervadere proprio la vita quotidiana mondana della sua metodicità, a trasformarla in un’esistenza razionale nel mondo eppure non di questo mondo 58.

Una vita «nel mondo eppure non di questo mondo». Proprio come la vita di Robinson: «nell’isola» ma non «dell’isola» e neppure «per l’isola». Eppure non abbiamo mai l’impressione che egli non ricavi nulla dalla sua attività se non «quel sentimento irrazionale di avere compiuto il suo “dovere professionale”», come scrive Weber dell’ethos capitalista 59. C’è un timido, vago senso di godimento che pervade il romanzo – e che probabilmente è anche uno dei motivi del suo successo. Ma godimento di cosa? In precedenza ho citato il momento in cui Robinson si rivolge al lettore con il tono di chi si giustifica davanti a un giudice: «Tutto questo testimonierà che non stavo con le mani in mano». Ma poi la frase prende una piega inattesa: «che non stavo con le mani in mano e che non lesinavo cure e fatiche per mettere in atto qualunque cosa mi apparisse necessaria per il mio sostentamento e conforto» 60. Conforto, comfort: ecco la chiave di tutto. Se l’«utile» aveva trasformato l’isola in una fabbrica, il concetto di benessere, di «comfort» restituisce all’esistenza di Robinson un elemento di piacere; sotto lo stesso segno, persino L’etica protestante trova un momento di leggerezza: l’ascesi protestante intramondana agí violentemente contro il godimento spensierato del possesso, restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso […] Ma […] non si voleva imporre al possidente la mortificazione della carne, ma l’uso della sua proprietà per cose necessarie e praticamente utili. Il concetto di comfort abbraccia in modo caratteristico la sfera degli scopi eticamente leciti, e naturalmente non è un caso che lo sviluppo dello stile di vita che è

legato a tale concetto sia stato osservato dapprima e con la massima chiarezza proprio negli esponenti piú coerenti di tutta questa visione della vita: nei quaccheri. Di contro agli orpelli della pompa cavalleresca, che poggia su una base economica priva di solidità, preferendo una sordida eleganza alla sobria semplicità, propongono l’ideale della linda e solida comodità [Bequemlichkeit] della «home borghese» [bürgerlichen «home»] 61.

La home borghese – la casa borghese inglese – come incarnazione del comfort. Nel corso del XVIII secolo, scrive Charles Morazé in Les bourgeois conquérants, «l’Inghilterra rese alla moda un nuovo tipo di felicità – quella di stare in casa: gli inglesi lo chiamano “comfort”, e cosí farà tutto il mondo» 62. Inutile dire che non esiste nessuna «casa borghese» sull’isola di Robinson; ma quando decide di costruire «quelle cose necessarie di cui trovai che avevo piú urgente bisogno, in particolare una sedia e un tavolo; perché senza di essi non potevo godere delle poche comodità che avevo al mondo» 63, o quando in seguito dichiara che «il mio soggiorno qui divenne oltre ogni dire confortevole» 64, anche lui sta chiaramente identificando il comfort con l’orizzonte domestico: una sedia, un tavolo, una pipa, un taccuino… un ombrello! 65. L’origine della parola è da ricercare in un composto del tardo latino (cum + forte) che fa la sua prima apparizione nella lingua inglese nel XIII secolo, per indicare «rafforzamento; incoraggiamento […] aiuto, soccorso» (OED), e la cui sfera semantica resta piú o meno invariata nei quattro secoli successivi: «ristoro o sostegno fisico», «sollievo», «aiuto in caso di bisogno, dolore, malattia, […] affaticamento mentale o afflizione». Poi, verso la fine del XVII secolo, ecco l’inversione di rotta: il comfort non è piú ciò che ci riporta alla «normalità» dopo circostanze avverse, bensí ciò che prende la normalità come punto di partenza e persegue il benessere fine a se stesso, indipendentemente da qualsiasi disavventura: «cosa che produce o somministra godimento e soddisfazione (di solito al plurale, distinta dalle necessità di base da un lato, e dai lussi dall’altro)» 66.

Necessità di base da un lato e lussi dall’altro. Intrappolata com’era tra concetti tanto forti, era inevitabile che questa idea si trasformasse in un campo di battaglia. «Le comodità della vita sono cosí diverse e numerose», dichiara la meravigliosa Nota L de La favola delle api, «che nessuno può dire che cosa la gente intenda per esse, a meno di non sapere che genere di vita conduca. […] io credo che, nella preghiera per il pane quotidiano, il vescovo includa diverse cose cui il sagrestano non pensa» 67. In bocca a un vescovo, le «comodità» (comforts) sono probabilmente lussi sotto mentite spoglie; è certamente questo il modo in cui le intende l’eroe senza nome delle prime pagine di The Pilgrim’s Progress (1678) – il quale riceve il nome di «Cristiano» proprio nel momento in cui rinuncia ad esse 68. Ma il mesto Benjamin Franklin, per conto suo, vacilla: «Amici e compatrioti», proclama nel suo Almanacco del Povero Riccardo (1756), voi spendete almeno duecentomila sterline l’anno, si dice, in mercanzie europee, delle Indie orientali e delle Indie occidentali: supponendo che una metà di questa spesa sia per cose assolutamente necessarie, l’altra metà si può considerare spesa per delle superfluità, o nel migliore dei casi, per convenienze [conveniences], cose di cui sicuramente riuscireste a fare a meno per la durata di un breve anno 69.

Un breve anno è una durata di tempo ragionevole se si deve chiedere di rinunciare alle convenienze. Convenienze? «Riscontro la stessa oscurità nelle parole decenza e convenienza, e non potrei comprenderle se non conoscessi la condizione della persona che le usa», commenta implacabile Mandeville, e questo le rende del tutto inutili ai suoi occhi. L’OED gli dà ragione: «Convenience: La qualità dell’essere […] appropriato o adatto all’esecuzione di una qualche azione»; «dispositivi o apparati materiali che contribuiscono al comfort personale, alla facilità di azione». Se il termine comfort era vago, questo è anche peggio 70. Le guerre tra parole lasciano sempre disorientati. Rileggiamo dunque il brano tratto da Robinson Crusoe: «cominciai a farmi quelle cose necessarie di cui trovai che avevo piú urgente bisogno, in

particolare una sedia e un tavolo; perché senza di essi non potevo godere delle poche comodità che avevo al mondo. Senza un tavolo non potevo né scrivere né mangiare, né fare altro con un certo piacere» 71. Da «necessarie» a «comodità» e «piacere», da «bisogno» a «godere» in cinquantuno parole (cinquantasei in inglese): una modulazione cosí rapida da sembrare una conferma al sarcasmo di Mandeville o alla definizione evasiva dell’OED che divide «necessità da un lato e lussi dall’altro». Ma se consideriamo le comodità reali di Robinson, il concetto perde la sua teorica equidistanza: scrivere, mangiare e «fare altro» con un tavolo sono tutte azioni che virano chiaramente verso la necessità e senza relazione alcuna con il lusso. Il lusso è sempre qualcosa fuori dal comune, il comfort non lo è mai; di qui il profondo buon senso dei suoi piaceri, cosí diverso dal perverso diletto con cui si presentano certi lussi: «ornati, grotteschi, malagevoli, […] scomodi fino a far star male», come ha espresso ferocemente Veblen ne La teoria della classe agiata 72; meno caustico ma altrettanto tranchant, Braudel liquidò il lusso dell’ancien régime come falso, perché «non è accompagnato, se non raramente, a ciò che chiameremmo vera comodità. Il riscaldamento è ancora cattivo, l’areazione irrisoria» 73. Il comfort come la possibilità di rendere piacevoli le necessità quotidiane. In questo nuovo orizzonte riaffiora un aspetto del significato originale del termine. «Sollievo», «aiuto», «sostegno» per uscire da «bisogno, dolore, malattia»: ecco cosa significava un tempo questa parola. A distanza di secoli, il bisogno di sollievo è tornato, ma questa volta non si tratta di alleviare una malattia, bensí il peso del lavoro. È incredibile vedere quanti dei comfort moderni rispondano al bisogno che deriva piú direttamente dal lavoro: il riposo. (Il primo comfort che Robinson desidera – poveretto – è una sedia) 74. È questa prossimità al lavoro che rende il comfort «ammissibile» per l’etica protestante; benessere, sí; ma non tale da allontanarti dalla tua chiamata al dovere, perché resta comunque sobrio e modesto. Fin troppo modesto, replicano certi recenti storici del capitalismo; fin troppo sobrio per poter giocare un ruolo significativo nei vertiginosi cambiamenti della storia moderna. Il comfort indica quei desideri che potrebbero «essere appagati»,

scrive Jan de Vries, e che dunque hanno limitazioni intrinseche; per spiegare invece l’apertura senza fine della «rivoluzione dei consumi», e del successivo decollo economico, dobbiamo rivolgerci ai «volatili “sogni di desiderio a occhi aperti”» 75 o allo «spirito individualistico della moda» 76 che gli economisti della generazione di Defoe furono i primi a notare. Il XVIII secolo, conclude Neil McKendrick con una formulazione che non lascia spazio concettuale al comfort, è l’era in cui «il dettato della necessità» fu rimpiazzato una volta per tutte dal «dettato della moda» 77. E dunque la moda al posto del comfort? Da un certo punto di vista, si tratta di un’alternativa priva di fondamento, in quanto hanno contribuito entrambi a plasmare la cultura moderna dei consumi. Certo è, tuttavia, che hanno contribuito in maniere diverse e con opposte connotazioni di classe. Già attiva nella società cortigiana, e circondata da un’aura di altezzosità e innegabile lusso che è rimasta fino a oggi, la moda esercita il suo fascino sulla borghesia che desidera superare se stessa e assomigliare alla vecchia classe dirigente; il comfort, prosaico, resta con i piedi per terra; la sua estetica, ammesso che esista, è discreta, funzionale, adattata alla quotidianità e persino al lavoro 78. Questo rende il comfort meno visibile della moda, ma infinitamente piú capace di insinuarsi negli interstizi dell’esistenza; un talento per la diffusione che condivide con quegli altri tipici prodotti del XVIII secolo – anch’essi a metà strada tra necessità e lussi – che sono il caffè e il tabacco, la cioccolata e i liquori. Genussmittel, come si dice in tedesco: «mezzi di piacere» (e in quel «mezzi» non si può non sentire l’inconfondibile eco della ragione strumentale). «Eccitanti», come verranno anche chiamati con un’altra singolare scelta semantica: piccole scosse che contrassegnano la giornata e la settimana con le loro delizie, assolvendo la funzione eminentemente «pratica» di integrare in maniera piú salda «l’individuo nella società perché gli procurano piacere» 79. Il risultato dei Genussmittel, scrive Wolfgang Schivelbusch, «sembra un paradosso»: la sua definizione è Arbeit-im-Genuss, lavoro mischiato al piacere. È lo stesso paradosso che interessa il

comfort, e per la stessa ragione. Durante il XVII e il XVIII secolo, vennero a coesistere due serie di valori molto potenti ma completamente contraddittorie: l’imperativo ascetico della produzione moderna e il desiderio di godimento da parte di un gruppo sociale in ascesa. Comfort e Genussmittel riuscirono a forgiare un compromesso tra queste due forze opposte. Un compromesso, non una soluzione vera e propria: il contrasto iniziale era troppo acuto. E dunque Mandeville aveva ragione riguardo all’ambiguità del «comfort»; gli sfuggí tuttavia che quella stessa ambiguità era anche l’elemento caratterizzante del termine. Certe volte la lingua non può fare di piú.

PROSA I.

«Il ritmo della continuità».

In quanto annunciano le azioni di Robinson prima che accadano, ho scritto qualche pagina fa, le costruzioni sintattiche finali interpretano la relazione tra presente e futuro – io faccio questo al fine di fare quell’altro – attraverso le lenti della «ragione strumentale». Questo non si limita però ai progetti intenzionali di Robinson. Qui lo vediamo subito dopo il naufragio, il momento piú calamitoso e inatteso di tutta la sua vita: Mi allontanai dalla spiaggia per circa duecento iarde per cercare dell’acqua da bere, e con mia grande gioia la trovai; e dopo aver bevuto ed essermi messo in bocca un po’ di tabacco per ingannare la fame, andai all’albero e vi salii, e cercai di mettermi in una posizione da cui non potessi cadere se mi fossi addormentato; e, dopo essermi tagliato una mazza, una specie di corto bastone, per difendermi, presi alloggio tra i rami dell’albero 80.

Robinson va a «cercare» acqua «da bere»; poi si mette in bocca del tabacco «per ingannare la fame», si sistema in modo da «non cadere» e si taglia un bastone per difendersi. Teleologia a breve termine ovunque, come se fosse la cosa piú naturale del mondo. E

poi, insieme a questa grammatica delle proposizioni finali sempre protesa in avanti, fa la sua comparsa una seconda opzione, che si orienta nella direzione temporale opposta: una forma verbale estremamente rara, il gerundio passato a – «and having drank [dopo aver bevuto]… and having put [ed essermi messo]… and having cut [dopo essermi tagliato]» –, che in Robinson Crusoe diventa piú frequente e piú significativo che altrove 81. Ecco alcuni altri esempi tratti dal romanzo: Having fitted my mast and sail, and tried the boat, I found she would sail very well [Attrezzata la barca di albero e vela e messala alla prova, trovai che teneva benissimo il mare]. Having secured my boat, I took my gun and went on shore [Assicurata la barca, presi il fucile e andai a terra]. […] the wind having abated overnight, the sea was calm, and I ventured… [essendo calato il vento durante la notte, il mare era calmo e decisi di azzardare…] Having now brought all my things on shore and secured them, I went back to my boat [E ora, avendo portato a riva e messo al sicuro tutte le mie cose, tornai alla barca] 82.

Ciò che è particolarmente significativo, qui, è l’«aspetto» grammaticale, cosí si definisce, del gerundio inglese, ovvero il fatto che, dal punto di vista di chi parla, le azioni di Robinson appaiono totalmente complete: «perfette», per usare il termine tecnico. La barca è stata messa al sicuro una volta per tutte; la sua roba è stata scaricata sulla spiaggia e lí resterà. Il passato è stato delimitato; il tempo non è piú un «flusso»; è stato modellato e, in una certa misura, dominato. Ma quella stessa azione che è grammaticalmente «perfetta» resta narrativamente aperta: nella maggioranza dei casi, le frasi di Defoe prendono l’esito positivo di un’azione («assicurata la barca…») per trasformarlo nella premessa di un’altra azione: «trovai che teneva benissimo il mare… presi il fucile… decisi di

azzardare…» E poi, con un colpo di genio, questa seconda azione diventa a sua volta premessa per una terza azione ancora: […] and having fed it, I ty’d it as I did before, to lead it away [e dopo averla sfamata, la legai come avevo fatto prima per condurla via]. […] and having stowed my boat very safe, I went on shore to look about me [dopo aver messo al sicuro la barca, scesi a terra per guardarmi attorno]. Having mastered this difficulty, and employed a world of time about it, I bestirred myself to see, if possible, how to supply two wants [Avendo risolto questa difficoltà, impiegandovi un tempo enorme, mi detti da fare per vedere, se possibile, come provvedere a due altri miei bisogni] 83.

Gerundio passato; passato; infinito: una meravigliosa sequenza tripartita. La Zweckrationalität ha imparato a trascendere gli obiettivi a portata di mano per tracciare un arco temporale piú lungo. La proposizione principale, al centro, si distingue per i suoi verbi di azione (legai… scesi… mi detti da fare), che sono gli unici coniugati. Alla loro sinistra, e al passato, c’è il gerundio: metà verbo, metà sostantivo, conferisce alle azioni di Robinson un’oggettività aggiuntiva, che le colloca quasi al di fuori della sua persona; è l’oggettivazione del lavoro, verrebbe da dire. Infine, a destra della proposizione principale, e in un futuro non meglio identificato (benché mai troppo lontano), si trova la proposizione finale, il cui verbo all’infinito – spesso raddoppiato, quasi a volerne accrescere l’apertura – incarna la potenzialità narrativa di ciò che sta per arrivare. Passato – presente – futuro: «il ritmo della continuità», come recita il titolo del capitolo che Northrop Frye dedica alla prosa nel suo Anatomia della critica. È interessante notare che in quelle pagine si parla, di fatto, molto poco di continuità e molto di piú delle sue deviazioni – dal ciceroniano «equilibrio delle clausole, spesso molto simile all’equilibrio metrico», alla «prosa molto ricercata e formale» che tende a «imporre continuamente al proprio materiale

eccessive semplificazioni e schemi simmetrici»; ai «periodi lunghissimi degli ultimi romanzi di James» («non un processo di pensiero lineare ma una comprensione simultanea»); o infine «all’influsso classico» che produce «una neutralizzazione del movimento lineare» 84. È curioso, questo slittamento costante dalla continuità lineare alla simmetria e alla simultaneità. E Frye non è l’unico a segnalarlo. Si veda Lukács, nella sua Teoria del romanzo: solo alla prosa è dato abbracciare, con pari vigore, il lauro e il dolore, la lotta e l’incoronazione, il cammino e la consacrazione; solo la sciolta flessibilità e la compattezza aritmica della prosa riesce a stringere insieme, con pari forza, le catene e la libertà, la pesantezza ereditata e la conquistata levità di un mondo, il cui senso ritrovato s’irraggia adesso nell’immanenza 85.

Il concetto è complesso ma chiaro: poiché per Lukács «Ogni forma d’arte è definita dalla dissonanza metafisica della vita» 86, e poiché la dissonanza specifica del mondo del romanzo è il suo essere «infinitamente grande […] e ricco di doni e di pericoli» 87, il romanzo ha bisogno di un mezzo che sia allo stesso tempo «aritmico» (per adeguarsi all’eterogeneità del mondo), eppure avere una «compattezza» sufficiente a conferire a quella eterogeneità una qualche forma. E quel mezzo, per Lukács, è la prosa. Il concetto è chiaro. Ma c’è da chiedersi se il punto principale, qui, sia davvero il concetto. La Teoria del romanzo ha, come sottotitolo, «Un saggio»: e per il giovane Lukács il saggio era la forma che non aveva ancora perso la sua «indifferenziata unità di scienza, morale e arte» 88. E arte. E dunque voglio citare il brano una seconda volta: Solo alla prosa è dato abbracciare, con pari vigore, il lauro e il dolore, la lotta e l’incoronazione, il cammino e la consacrazione; solo la sciolta flessibilità e la compattezza aritmica della prosa riesce a stringere insieme,

con pari forza, le catene e la libertà, la pesantezza ereditata e la conquistata levità di un mondo, il cui senso ritrovato s’irraggia adesso nell’immanenza.

Le parole sono le stesse. Ma la loro simmetria è ora evidente: un’antitesi equilibrata dopo l’altra (il lauro e il dolore, le catene e la libertà, la pesantezza ereditata e la conquistata levità…), sigillate da due verbi sinonimi («abbracciare», «stringere insieme») completati da espressioni verbali identiche («con pari vigore», «con pari forza»). Semantica e grammatica si trovano qui in completo disaccordo: una pone la disarmonia della prosa come fatto storicamente ineluttabile, l’altra la racchiude in una simmetria neoclassica. La prosa è resa immortale in uno stile antiprosaico 89. Come vedremo piú avanti, questa pagina non è l’ultima parola di Lukács sulla prosa, ma senza dubbio getta luce, per contrasto, sullo stile di Robinson Crusoe. La successione di gerundio passato, passato e infinito incarna un’idea di temporalità – «anisotropa», ovvero diversa a seconda della direzione che si prende – che esclude la simmetria, e dunque anche la stabilità (e la relativa bellezza) che ne deriva. Procedendo dalla sinistra alla destra della pagina – da un passato completamente compiuto a un presente che si stabilizza davanti ai nostri occhi, e poi a un futuro piuttosto vago ancora oltre –, questa prosa è non solo il ritmo della continuità, ma anche della irreversibilità. Il tempo della modernità è una «furia del dileguare», scrisse Hegel nella Fenomenologia; «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi», fece eco il Manifesto Comunista. Il ritmo di Defoe non è cosí febbrile; è misurato, costante, ma altrettanto deciso a procedere senza mai tornare indietro. L’accumulo capitalista richiede un’attività di «guadagno sempre rinnovato», scrive Weber ne L’etica protestante 90, e le frasi di Defoe – dove il buon esito della prima azione fa da trampolino per lanciarsi in un’azione successiva, e in altre ancora piú avanti – incarnano proprio questo «metodo» che «rinnova» all’infinito i traguardi passati in nuovi inizi. È la grammatica della prosa come provorsa, diretta in avanti 91; la grammatica della crescita: «Avendo risolto questa difficoltà, impiegandovi un tempo

enorme, mi detti da fare per vedere, se possibile, come provvedere a due altri miei bisogni» 92. Una difficoltà è stata superata; e ora si può pensare a soddisfare due nuove necessità. Progresso: «l’autogiustificazione permanente del presente attraverso il futuro, che esso si dà, di fronte al passato, con il quale esso si confronta» 93. Lo stile dell’utile. Della prosa. Dello spirito capitalistico. Del progresso moderno. Ma si tratta davvero di uno stile? Formalmente, sí: ha concatenazioni grammaticali proprie e una sua diffusa tematica dell’azione strumentale. Ma dal punto di vista estetico? È il problema centrale della stilistica della prosa: la sua attenta determinazione ad andare costantemente avanti, un passo alla volta è, in effetti, prosaica. Ma per il momento ci fermiamo qui: lo stile della prosa come qualcosa che è meno legato alla bellezza che all’habitus: disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principî generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente «regolate» e «regolari» senza essere affatto prodotte dall’obbedienza a regole […] 94.

Le frasi tripartite di Defoe sono un ottimo esempio della tesi sostenuta da Bourdieu: «strutture strutturate» che hanno preso vita senza alcun piano, attraverso il lento accumulo di elementi distinti ma compatibili; e che, una volta raggiunta la loro forma compiuta, «regolano» – senza porsi «coscientemente» dei fini – la «pratica» e la «rappresentazione» della temporalità. E qui il termine «regolano» ha un significato profondamente produttivo: non puntano a reprimere come irregolari altre forme di rappresentazione temporale, ma a fornire un modello che è grammaticalmente coerente eppure allo stesso tempo abbastanza flessibile da adattarsi a situazioni diverse 95. A differenza del verso, che ha «regolato» le pratiche educative per millenni attraverso un meccanismo di memorizzazione

che pretendeva l’esatta ripetizione delle strutture date, la prosa richiede una ri-produzione soggettiva di strutture che dovrebbero essere simili, sí, ma certamente non le stesse di quelle originali. Nella sua Teoria del romanzo, Lukács trovò la metafora perfetta per questo: la produttività dello spirito.

PROSA II.

«Abbiamo scoperto la produttività dello spirito».

Ansioso di sapere di piú del suo «piccolo regno», Robinson decide di circumnavigare l’isola. Prima viene ostacolato da alcuni scogli, poi interviene il vento. Aspetta tre giorni, poi si avventura di nuovo in mare, ma va tutto storto – «acque molto profonde […] una corrente impetuosa […]» e tutto il suo vogare «non aveva senso» – finché è convinto che morirà. «E ora vedevo», conclude, «come era facile alla provvidenza di Dio aggravare anche lo stato piú triste in cui l’uomo possa trovarsi» 96. La Divina Provvidenza: il registro allegorico del romanzo. Ma un confronto con l’inevitabile precedente offerto dal Pilgrim’s Progress rivela quante cose siano cambiate in poco piú che una generazione. In Bunyan, il potenziale allegorico del testo veniva sistematicamente ed esplicitamente attivato dai marginalia del libro, che trasformavano la storia del viaggio di Cristiano in un secondo testo, in cui risiedeva il vero significato del libro stesso: quando Pieghevole si lamenta della lentezza del viaggio, per esempio, l’addendum di Bunyan – «Non basta essere Pieghevole» – converte l’episodio in una lezione etica che può essere astratta dal flusso narrativo e preservata per sempre nel suo tempo presente. La storia ha un significato perché ne ha due, e il secondo è piú importante del primo: cosí funziona l’allegoria. Ma Robinson Crusoe è diverso. Una delle parole piú umili della lingua inglese, «things» (cose), chiarirà ciò a cui mi riferisco. La parola «things» è terza in ordine di frequenza nel libro di Bunyan (dopo «way» [cammino] e «man» [uomo]), e decima in Defoe (dopo «time» [tempo] e un gruppo di termini legati al mare e all’isola); a prima vista, questo sembra segnalare la vicinanza tra i due libri e la

loro distanza dagli altri 97. Ma se si analizzano le concordanze del termine, ecco che il quadro cambia. Vediamo Bunyan: Non disprezziamo le cose che troviamo nelle parabole […] Egli usa cose banali per condurre al Divino […] conoscere e rivelare i misteri [dark things] ai peccatori […] […] è meglio non desiderare i beni [things] di questo mondo ma aspettare quelli [things] futuri. […] perché le cose che si vedono sono temporali; ma le cose che non si vedono sono eterne. […] che c’è di piú piacevole e utile che parlare delle cose di Dio? […] voglio solo chiarire le cose. Cose recondite, profonde e misteriose. […] perché mai […] riempire la mente di cose vane? 98.

In questi esempi, le «cose» hanno tre significati distinti, benché parzialmente sovrapponibili. Il primo significato è completamente generico: «cose» viene usato per indicare scarsa importanza: «Cristiano e Fedele gli raccontarono di tutte le cose che erano capitate loro lungo il cammino» 99; «[…] voglio solo chiarire le cose». La parola evoca il «mondo» (sostantivo anch’esso molto frequente nel Pilgrim’s Progress) e lo liquida come non essenziale. Poi, un altro gruppo di espressioni – «cose banali», «cose vane» – aggiunge un secondo livello semantico, esprimendo disprezzo etico per queste cose insignificanti del mondo. E infine, dopo insignificanza e immoralità, arriva la terza incarnazione; le cose diventano segni: «le cose che troviamo nelle parabole» o «rivelare i misteri ai peccatori» o quelle «cose meravigliose» che l’Interprete – nome perfetto – spiegherà a Cristiano durante una pausa del viaggio.

Cose che diventano segni; e lo fanno con facilità perché in fondo non sono mai state veramente delle cose. Alla maniera tipica dell’allegoria, Bunyan invoca il mondo (le «cose» del primo significato) solo per denunciarne la superficialità (secondo significato) e trascenderlo completamente (terzo significato). È una progressione del tutto logica – «da questo mondo a quello venturo», recita il titolo completo del Pilgrim’s Progress –, dove il piano letterale sta a quello allegorico come il corpo sta all’anima; esiste solo per consumarsi, come «la nostra Città» che – Cristiano si affretta a spiegare – «ho saputo da fonte attendibile […] sarà distrutta da un fuoco che cadrà dal cielo» 100. Consumarsi, bruciarsi, purificarsi: questo è il destino delle cose nel Pilgrim’s Progress. E ora vediamo Robinson Crusoe: […] i miei occhi erano puntati su altre cose, e particolarmente arnesi […] […] parte delle attrezzature, vele e cose simili, che avrei potuto portare a terra […] […] con altre [cose] che appartenevano al cannoniere, e in particolare due o tre palanchini […] […] perché non avevo [cose come] bacchette abbastanza flessibili […] […] la straordinaria infinità di piccole cose necessarie per provvedere, produrre, essiccare, preparare, confezionare e finire quest’unico alimento che è il pane. […] non riuscii a fare piú di due grossi recipienti [things] di terra (due brutti sgorbi, perché non posso chiamarli giare) in circa due mesi di lavoro 101.

Qui le cose non sono segni, e di certo non sono neanche «vane» o «banali»; sono ciò di cui Robinson «ha bisogno», nel doppio senso

di necessità e desiderio; in fin dei conti, uno dei migliori episodi del libro consiste nel salvare il carico della barca per evitare che queste cose finiscano in fondo al mare e si perdano per sempre. Il significato del termine è ancora generico, inevitabilmente, ma questa volta la sua indeterminatezza spinge verso un processo di specificazione, piuttosto che a un allontanamento dal mondo: le cose non acquisiscono il loro significato salendo «verticalmente» sul piano dell’eternità, bensí riversandosi «orizzontalmente» in una frase diversa in cui diventano concrete («piccole», «brutte», «di terra»), o si trasformano in «arnesi», «palanchini», «giare», «bacchette flessibili». Rimangono ostinatamente materiali, si rifiutano di diventare segni; come il mondo moderno di La legittimità dell’età moderna, che non è piú responsabile della «vera salvezza dell’uomo», quale era in Bunyan, ma è «in concorrenza» con quella salvezza attraverso «l’offerta della competenza e dell’affidabilità» 102. Stabilità e affidabilità: è questo il «significato» delle cose in Defoe. È l’ascesa della letteralità (literal-mindedness) che Peter Burke ha fatto risalire intorno alla metà del XVII secolo 103, o il parallelo slittamento che si registra nella pittura olandese di genere, «a partire dal 1660 circa», dalla centralità degli «espedienti allegorici alle «faccende della vita quotidiana» 104. Si sta rafforzando «un prosaico cambiamento di mentalità», scriverà un vittoriano esente da sentimentalismi: «una “prosaicità”, una tendenza a sostenere: “I fatti stanno in questo modo, qualunque sia la maniera di pensarli e concepirli”» 105. I fatti stanno in questo modo. Hegel riguardo alla prosa: «In generale perciò possiamo porre come legge della rappresentazione prosaica da un lato l’esattezza, dall’altro la distinta determinatezza e chiara intelligibilità, mentre il metaforico e il figurativo sono in generale sempre relativamente privi di chiarezza ed esattezza» 106. Torniamo dunque al brano riportato all’inizio di questo paragrafo e leggiamolo per intero: Al mattino del terzo giorno, essendo calato il vento durante la notte, il mare era calmo e decisi di azzardare. Ma il mio caso è ancora una volta

un ammonimento per tutti i piloti avventati e ignoranti; perché, non appena fui giunto all’altezza della punta, proprio quando distavo da terra non piú della lunghezza della mia barca, mi trovai in acque molto profonde e in una corrente impetuosa come la cascata d’un mulino. Essa afferrò la mia barca con tale violenza che con tutti i miei sforzi non riuscii a tenerla nemmeno sul margine del flusso, ma la sentii trascinare sempre piú lontano, fuori dal risucchio che era alla mia sinistra. Non soffiava vento che potesse aiutarmi, e tutto il mio vogare non aveva senso. E ora cominciai a disperarmi e darmi per perso; perché, siccome la corrente si trovava su tutt’e due i lati dell’isola, sapevo che, dopo poche leghe di distanza, esse dovevano inevitabilmente incontrarsi di nuovo, e allora sarei stato definitivamente perduto. Né vedevo alcuna possibilità di evitarlo; cosicché non avevo davanti a me altra prospettiva che di perire, ma non a opera del mare, perché era abbastanza calmo, ma della fame. Sí, avevo trovato sulla spiaggia una tartaruga grossa che a stento avevo potuto sollevare, e l’avevo gettata dentro la barca; e avevo una grande giara di acqua dolce, cioè a dire, uno dei miei vasi di terra; ma a che cosa sarebbe valso tutto questo se fossi stato trascinato nel vasto oceano […] 107.

Quel giorno, il mattino, il vento che cala e fa sí che il mare si calmi. Un semiallegorico «ammonimento» per tutti i piloti, poi torna subito dopo «l’esattezza»: la punta, la barca, le acque molto profonde, la corrente, fino alla paura finale della morte (con un’immediata precisazione: non per naufragio, ma per fame). Poi, altri dettagli: morirà di fame, sí, ma a dire il vero ha a bordo una tartaruga; e anche grossa, per giunta: tanto grossa da sollevarla «a stento». E ha anche una giara d’acqua: una grande giara di acqua dolce – anche se in realtà non è proprio una giara, ma solo uno dei suoi «vasi di terra»… Una distinta determinatezza. Ma a che pro? L’allegoria ha sempre avuto un significato chiaro; un «proposito». E tutti questi particolari? Sono fin troppi, e fin troppo insistenti, per essere quei semplici «effetti di realtà» – «oggetti insignificanti, parole ridondanti» – che Barthes individuerà nello stile realista; eppure cosa dovremmo farcene di certe informazioni: il fatto che Robinson è partito il mattino, o che la tartaruga era talmente grossa da essere

sollevata a fatica? I fatti stanno cosí. Assodato. Ma… cosa significano? Che cosa significa l’epiteto epico? chiede Emil Staiger in Fondamenti della poetica. O piú precisamente: cosa significa il fatto che si ripete con tanta frequenza? Che il mare è sempre del colore del vino, e che Odisseo subisce intrecci e colpi di scena ogni giorno della sua vita? No, questo «ritorno del familiare» suggerisce qualcosa di piú generale e molto piú importante: che gli oggetti hanno acquisito «un’esistenza solida, stabile», e che di conseguenza «la vita non scorre piú senza fermarsi» 108. Non importa tanto l’individualità di un dato epiteto, quanto la solidità che il suo ritorno conferisce al mondo epico. La stessa logica si applica ai particolari della prosa orientata alla letteralità: il loro significato non sta tanto nel contenuto specifico, quanto nella precisione senza precedenti che portano nel mondo. La descrizione dettagliata non è piú appannaggio esclusivo degli oggetti eccezionali, come nell’onorata tradizione della ecfrasi; ora diventa il modo normale di guardare alle «cose» di questo mondo. Normale e con un suo proprio valore. In realtà non fa differenza se Robinson abbia una giara o un vaso di terra; ciò che importa è il consolidarsi di una disposizione mentale per cui i particolari sono considerati importanti, anche quando non sono rilevanti nell’immediato. La precisione fine a se stessa. Questa risoluta attenzione a ciò che è risulta allo stesso tempo il modo piú «naturale» e piú «in-naturale» di osservare il mondo: naturale, nel senso che non sembra richiedere alcuna immaginazione, ma solo quella «semplicità» che per Defoe è «sia di stile che di metodo» e ha una «qualche opportuna analogia con l’argomento trattato, cioè l’onestà» 109. Ma anche innaturale: perché una pagina come quella che abbiamo letto ha cosí tanti focus di precisione «locale» che il suo significato complessivo diventa rapidamente fumoso. La precisione ha un prezzo. «Ho piú volte espresso le cose, per renderle piú chiare, in una tale moltitudine di parole che ora mi sembra persino di essermi macchiato, in piú occasioni, del crimine della verbosità», scrive il grande teorico della «concretezza», Robert Boyle, riguardo al suo modo di descrivere gli

esperimenti; ma, aggiunge, «ho scelto piuttosto di ignorare i precetti dei retorici e menzionare invece quelle cose che ho reputato pertinenti al mio argomento e utili a te, mio lettore» 110. Un’utile verbosità: potrebbe essere la formula per Robinson Crusoe. La precisione ha un prezzo. Blumenberg e Lukács l’hanno espressa con la stessa parola: totalità. Il sistema dell’età moderna avrebbe avuto il suo punto di forza nel fatto di dipendere dalle conferme continue, quasi quotidiane, e dai successi mondani del suo «metodo». In tal modo essa presentava al tempo stesso una stupefacente capacità di correzione: con la debolezza della sua incertezza intorno alla «totalità» che quest’infaticabilità del successo avrebbe potuto un giorno produrre 111. Il nostro mondo è diventato infinitamente grande e ad ogni angolo è piú ricco di doni e di pericoli che non quello greco, ma è proprio questa nostra ricchezza a revocare il senso portante e positivo della vita dei Greci – la totalità 112.

La ricchezza annulla la totalità… Il punto centrale di quella pagina di Robinson Crusoe dovrebbe essere il suo terrore improvviso: non è mai stato cosí vicino alla morte dal giorno del naufragio. Eppure gli elementi del mondo sono cosí vari, e la loro precisa enunciazione cosí impegnativa, che il senso generale dell’episodio è costantemente deviato e indebolito: appena le nostre aspettative si consolidano su qualcosa, ecco che emerge qualcos’altro, in un eccesso centripeto di materiali – quegli angoli ricchi di doni e pericoli – che frustra ogni possibilità di sintesi. Ancora Lukács: Abbiamo inventato la produttività dello spirito: ecco perché gli archetipi hanno perduto per noi, in modo irreparabile, la loro trasparenza oggettiva, ecco perché il nostro pensiero percorre ora la via infinita di una approssimazione mai pienamente adempiuta. Abbiamo inventato l’arte di creare le figure: cosí, a tutto ciò che le nostre mani abbondano per stanchezza e disperazione, mancherà sempre quel tocco finale che ne decide la compiutezza 113.

Approssimazione mai pienamente adempiuta… disperazione… mancanza di compiutezza. Il mondo della Produktivität des Geistes è anche quello che subisce «l’abbandono» da parte del dio in un’altra pagina di Teoria del romanzo 114. E allora viene da chiedersi: qual è la nota dominante, qui? L’orgoglio per ciò che è stato compiuto – o la nostalgia per ciò che si è perso? La cultura moderna dovrebbe celebrare la sua «produttività», o lamentare la propria «approssimazione» 115? È la stessa domanda sollevata dal «disincantamento» di Weber (e va detto che Lukács e Weber avevano un legame molto stretto ai tempi di Teoria del romanzo); cosa importa di piú, nel processo di Entzauberung: il fatto che «si può […] – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale» 116, o che i risultati di quel calcolo non possano piú «insegnarci qualcosa sul senso del mondo» 117? Cosa importa di piú? Impossibile dirlo, perché «calcolo» e «significato» sono per Weber valori incomparabili, come lo sono «produttività» e «totalità» per Lukács. È la stessa fondamentale «irrazionalità» che abbiamo incontrato nella cultura borghese del lavoro qualche pagina fa: piú la prosa riesce a moltiplicare i particolari concreti che arricchiscono la nostra percezione del mondo, piú riesce a fare bene il suo lavoro, e piú sfugge il motivo per cui va fatto. Produttività, o significato. Nel secolo seguente, il corso della letteratura borghese si biforcherà dividendosi tra coloro che volevano che quel lavoro venisse fatto persino meglio, a qualunque costo – e coloro che, dovendo scegliere tra produttività e significato, scelsero invece il significato.

Figura 4

a. Nella traduzione italiana questa forma verbale viene resa anche con l’infinito passato o il participio [N.d.T.].

Capitolo secondo Secolo serio

PAROLE CHIAVE IV.

Serio [«Serious»].

Alcuni anni fa, in un libro intitolato Arte del descrivere, Svetlana Alpers osservò che – decidendo di presentare la loro pittura «come descrizione del mondo osservato piuttosto che come imitazione di azioni umane significative» – i pittori del Secolo d’oro olandese avevano cambiato per sempre il corso dell’arte europea. Al posto delle grandi scene della storia sacra e profana (come la strage degli innocenti, spesso citata dalla stessa Alpers), troviamo nature morte, paesaggi, interni, vedute di città, ritratti, mappe… Insomma: «un’arte descrittiva, e non narrativa» 1. È una tesi elegante; ma in almeno un caso – l’opera di Johannes Vermeer – la vera novità sembra non tanto l’eliminazione della narrativa, ma la scoperta di una sua nuova dimensione. Prendiamo la donna in blu della Figura 4. Il suo corpo ha una strana forma. È incinta, forse? E di chi è la lettera che legge con tanta concentrazione? Un marito lontano, come sembra suggerire la mappa sulla parete? (Ma se il marito è lontano…) E quel cofanetto aperto in primo piano: la lettera si trovava lí dentro – è una lettera vecchia, dunque, riletta perché non ce ne sono di piú recenti? (In Vermeer ci sono molte lettere, e ogni volta portano con sé una piccola storia: ciò che viene letto nel presente è stato scritto in passato, altrove, e a proposito di eventi anteriori: tre livelli spazio-temporali su pochi centimetri di tela). E anche la lettera nella Figura 5, che la domestica ha appena passato alla padrona: guardiamo i loro occhi. Esprimono preoccupazione, ironia, dubbio, complicità; sembra quasi che la domestica stia diventando padrona

della sua padrona. E poi che strana, questa inquadratura obliqua: la porta, il vestibolo, la scopa abbandonata – forse fuori, in strada, c’è qualcuno che sta aspettando una risposta? E nella Figura 6, che genere di sorriso è, quello sul volto della ragazza? Quanto vino ha bevuto, dalla caraffa che è sul tavolo (una domanda reale, nella cultura olandese del tempo; e, di nuovo, una domanda narrativa)? Che storie le sta raccontando il soldato in primo piano? E lei, gli ha creduto?

Figura 5

Figura 6

Mi fermo. Ma controvoglia, perché tutte queste scene sono davvero, pace Alpers, «azioni umane significative»: scene da un racconto, da una storia. Certo, non sono i grandi momenti della Weltgeschichte; ma la narrativa – compresa la sua fonte nella pittura

olandese, come sapeva bene la giovane George Eliot 2 – non è fatta solo di scene memorabili. Nella sua Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, Roland Barthes trovò la giusta cornice concettuale per inquadrare la questione dividendo gli episodi narrativi in due classi principali: quella delle «funzioni cardinali (o nodi)» e quella delle «catalisi». La terminologia qui varia. In Storia e discorso, Chatman usa «nuclei» e «satelliti»; io userò «svolte» e «riempitivi», piú che altro per semplicità. Ma la terminologia non è importante, contano solo i concetti. Ecco Barthes: Perché una funzione sia cardinale, basta che l’azione a cui si riferisce apra […] un’alternativa conseguente per il seguito della storia […]. Tra due funzioni cardinali è sempre possibile disporre delle notazioni sussidiarie, che si agglomerano intorno a un nucleo o a un altro, senza modificarne la natura alternativa […]. Queste catalisi restano funzionali […] ma la loro funzionalità è attenuata, unilaterale, parassitaria 3.

Una funzione cardinale è una svolta nella trama; i riempitivi sono le cose che succedono tra una svolta e quella successiva. In Orgoglio e pregiudizio (1813), Elizabeth e Darcy si incontrano nel terzo capitolo; lui si mostra sprezzante e lei ne è disgustata; prima azione con «un’alternativa conseguente per il seguito della storia»: lei si pone in conflitto rispetto a lui. Trentuno capitoli dopo, Darcy chiede a Elizabeth di sposarlo; seconda svolta: si è aperta un’alternativa. Altri ventisette capitoli, ed Elizabeth accetta: alternativa chiusa, fine del romanzo. Tre svolte: all’inizio, a metà e alla fine. Molto geometrico; molto Austen. Ma naturalmente, fra queste tre scene Elizabeth e Darcy si incontrano, parlano, sentono parlare, e pensano l’uno all’altro, e non è facile quantificare questo genere di cose ma, piú o meno, si può dire che ci siano circa 110 episodi di questo tipo. Questi sono i riempitivi. Ha ragione Barthes nel dire che non servono a molto: arricchiscono e aggiungono sfumature allo sviluppo della storia, ma senza modificare ciò che è stato stabilito dalle svolte. Sono effettivamente troppo «deboli e parassitari» per farlo; tutto quello che hanno da offrire sono persone

che parlano, giocano a carte, vanno in visita, fanno passeggiate, leggono una lettera, ascoltano musica, prendono una tazza di tè… Narrazione: ma del quotidiano 4. È questo il segreto dei riempitivi. Narrazione, perché questi episodi contengono sempre una certa dose di incertezza (come reagirà Elizabeth alle parole di Darcy? e lui accetterà di andare a passeggio con i Gardiner?); ma l’incertezza rimane locale e circoscritta; senza conseguenze a lungo termine per il seguito della storia, come direbbe Barthes. Sotto questo aspetto, la funzione dei riempitivi è molto simile a quella delle buone maniere tanto care ai romanzieri dell’Ottocento; sono un meccanismo concepito per mantenere sotto controllo la «narratività» della vita; per darle una regolarità, uno «stile». Qui, la rottura di Vermeer con la pittura detta «di genere» è cruciale; nelle sue scene non c’è piú nessuno che ride; c’è al massimo un sorriso; e comunque neanche troppo spesso. Di solito, le sue figure hanno il viso assorto e composto della donna in blu: serio. Serio, come nella formula magica che definisce il realismo in Mimesis (e già per i fratelli Goncourt, nella prefazione a Germinie Lacerteux, il romanzo era «la grande forme sérieuse»). Serio: ciò che è «opposto al divertimento o alla ricerca del piacere» (OED); «im gegensatz [zu] scherz und spasz» (Grimm); «alieno da superficialità e frivolezze» (Battaglia). Ma, esattamente, che cosa significa «serio» in letteratura? «Non mi resta che una domanda da farvi», leggiamo alla fine del secondo dei Dialoghi sul figlio naturale (1757), che introdusse il genre sérieux nelle lettere europee: «È sul genere della vostra opera. Non è una tragedia. Non è una commedia. Che cos’è dunque, e che nome darle?» 5. Nelle pagine iniziali del terzo Dialogo, Diderot risponde definendo il nuovo genere come «un punto intermedio» tra due generi estremi o «situato tra gli altri due». È una grande intuizione, che attualizza l’antico collegamento tra stile e classe sociale; alle vette aristocratiche della passione tragica, e agli abissi plebei della commedia, la classe nel mezzo aggiunge uno stile che è esso stesso intermedio: né l’uno né l’altro. Neutrale; la prosa di Robinson Crusoe 6. Eppure, la forma «intermedia» di Diderot non è proprio equidistante dai due estremi: il genre sérieux «inclina piuttosto verso la tragedia che verso la commedia», aggiunge 7, e in effetti, se si

guarda un capolavoro della serietà borghese come Place de l’Europe di Caillebotte (Figura 7), non si può non avere l’impressione, con Baudelaire, che tutti i suoi personaggi celebrino «un qualche funerale» 8. Il serio può non essere come il tragico, è vero, ma indica comunque qualcosa di cupo, freddo, impassibile, silenzioso, pesante; un irrevocabile distacco dal «carnevalesco» delle classi lavoratrici. Seria è la borghesia che si prepara a diventare la classe dirigente.

Figura 7

Riempitivi.

Goethe, Gli anni dell’apprendistato di Wilhelm Meister (1796), libro II, capitolo XII . La bella e giovane attrice Philine sta amoreggiando con Wilhelm su una panchina davanti alla locanda; si alza, si incammina verso l’albergo, si gira a guardarlo un’ultima volta; dopo un istante, Wilhelm la segue – ma sulla soglia viene fermato dal capocomico Melina, al quale ha da tempo promesso un prestito. Pensando solo a Philine, Wilhelm garantisce che procurerà il denaro per la sera stessa, e fa per procedere; ma viene fermato di nuovo, questa volta da Friedrich, che lo saluta con il suo tipico entusiasmo… e lo precede salendo di sopra da Philine. Frustrato, Wilhelm va nella sua stanza e lí trova Mignon; si mostra abbattuto, brusco. Mignon ne è ferita, ma Wilhelm non se ne accorge. Esce di nuovo; il locandiere sta parlando con uno sconosciuto, che guarda Wilhelm con la coda dell’occhio… La prosa del mondo secondo Hegel: dove l’individuo «deve molte volte farsi mezzo per altri, servire ai loro fini limitati ed egualmente abbassare gli altri a semplice mezzo, per soddisfare i propri ristretti interessi» 9. Ma è una prosa in cui l’amarezza della frustrazione (Wilhelm viene ostacolato due volte nella sua ricerca di piacere) si mescola curiosamente con un forte senso di possibilità. Il prestito estorto da Melina darà l’avvio alla sezione teatrale del romanzo, con le sue memorabili disquisizioni sull’arte drammatica; la paura di perdere Wilhelm acuisce la passione di Mignon (e ispira, qualche pagina dopo, le parole del canto Kennst du das Land); lo sconosciuto alla porta della locanda sta preparando la visita di Wilhelm al castello, dove l’incontro con Jarno condurrà a sua volta alla Società della Torre. Nulla di tutto questo succede veramente, nel riempitivo che ho descritto; si tratta solo di possibilità. Ma bastano a «risvegliare» il quotidiano, a farlo sentire vivo, aperto; e anche se le sue promesse non verranno tutte mantenute (il Bildungsroman è, strutturalmente, anche il genere della delusione), quel senso di apertura non si perde mai del tutto. È un modo nuovo, veramente secolare, di immaginare il senso della vita: disperso tra innumerevoli e minuscoli accadimenti, precario, mischiato all’indifferenza o al meschino egoismo del mondo; ma sempre, tenacemente, lí. È una

prospettiva che Goethe non riconcilierà mai del tutto con l’aspetto teleologico del Bildungsroman (abbondanza di senso, ma tutto in una volta, alla fine). Ma il primo passo è stato fatto. Goethe risveglia il quotidiano con il senso della possibilità; Walter Scott, in Waverley (1814), si rivolge ai rituali quotidiani del passato: cantare, cacciare, mangiare, brindare, ballare… Scene statiche, persino un po’ noiose; ma Waverley è inglese, non sa cosa impongono le abitudini scozzesi, fa le domande sbagliate, fraintende, offende le persone – e la routine del quotidiano è ravvivata da piccoli sussulti narrativi. Non che Waverley sia dominato da riempitivi come il Meister; l’atmosfera è ancora mezzo gotica, la Weltgeschichte è alle porte, le storie di amore e morte creano tutta una serie di echi melodrammatici. Ma all’interno del melodramma Scott riesce a rallentare la narrazione, moltiplicandone i momenti di pausa; e all’interno di questi trova il «tempo» di sviluppare quello stile analitico che a sua volta genera un nuovo tipo di descrizione in cui il mondo si presenta come osservato da un «giudice imparziale» 10. È tipica dell’evoluzione letteraria, questa cascata morfologica dal riempitivo allo stile analitico e poi alla descrizione; interagendo con altre parti della struttura, questa nuova tecnica promuove tutta un’«ondata di piccole invenzioni» (come si diceva della rivoluzione industriale). Nel giro di una generazione, le invenzioni hanno ridisegnato il paesaggio. Balzac, seconda parte delle Illusioni perdute (1839): Lucien de Rubempré sta scrivendo (finalmente!) il suo primo articolo, che rappresenterà un’epocale «rivoluzione del giornalismo». È l’occasione che aspetta fin dal suo arrivo a Parigi. Ma all’interno di questa euforica svolta si nasconde un secondo episodio: il giornale è a corto di argomenti; ha bisogno di qualche articolo, subito, non importa su che cosa, basta che si riempia qualche pagina; e un amico di Lucien, con gesto servizievole, si siede e scrive. È l’idea platonica del riempitivo: parole scritte per colmare uno spazio vuoto, punto. Ma questo secondo articolo offende un gruppo di personaggi che, dopo una lunga serie di intrecci e colpi di scena, decreterà la rovina di Lucien. È l’«effetto farfalla» di Balzac: per quanto piccolo sia l’evento iniziale, l’ecosistema della grande città è cosí pieno di

collegamenti e variabili che riesce ad amplificarne gli effetti in maniera spropositata. Tra l’inizio e la fine di un’azione c’è sempre qualcosa che si intromette: una terza persona che vuole «soddisfare i propri interessi», come nella «prosa del mondo» di Hegel, e svia la trama in una direzione imprevista. E cosí, persino i momenti piú banali della vita quotidiana si trasformano in capitoli di un romanzo (cosa che, in Balzac, non è sempre un bene…) Il Bildungsroman, e la sua miscela agrodolce di frustrazione e possibilità; le storie di corteggiamento e la sommessa narrativa delle buone maniere; il romanzo storico, e gli inattesi rituali del passato; le trame multiple urbane e l’improvvisa accelerazione della vita. È un risveglio generale del quotidiano, quello che si verifica all’inizio dell’Ottocento. Poi, una generazione dopo, c’è un cambio di tendenza. Riflettendo su una pagina in cui Emma e Charles Bovary stanno cenando – si può immaginare un riempitivo migliore? –, Auerbach dice: In quella scena non accade nulla di straordinario, e nemmeno è accaduto nulla di straordinario nei momenti che immediatamente precedono. È un momento qualsiasi di un’ora che ritorna regolarmente, in cui marito e moglie mangiano insieme. I due non litigano, non si mostra il minimo segno d’un conflitto palese. […] Non accade nulla, ma il nulla è diventato qualche cosa di pesante, di oscuro, di minaccioso 11.

Un quotidiano opprimente. È perché Emma ha sposato un uomo mediocre? Sí e no. Sí, perché Charles è sicuramente un peso nella sua vita. E no, perché anche quando gli è piú distante – nei suoi due adulteri, con Rodolphe e poi con Léon – Emma trova esattamente «le stesse piattezze della vita coniugale», le stesse «ore che ritornano regolarmente» e in cui non accade nulla di significativo. Questo collasso dell’«avventura» nella banalità è persino piú evidente se visto sullo sfondo di un altro romanzo di adulterio – Fanny (1858) di Ernest Feydeau –, che all’epoca veniva spesso accomunato a Madame Bovary (1857), pur essendo in realtà agli antipodi: un’oscillazione costante tra estasi e disperazione, infami sospetti e celestiale beatitudine, il tutto reso in maniera

implacabilmente iperbolica. Tutto un altro mondo rispetto alla studiata neutralità di Madame Bovary, con le sue frasi goffe e grevi («sono cose»: Barthes), il suo tono di «armonioso grigio» (Pater), il suo éternel imparfait (Proust). L’imperfetto: il tempo che non promette sorprese; il tempo della ripetizione, della normalità, dello sfondo – ma di uno sfondo che è diventato piú importante del primo piano 12. Qualche anno piú tardi, ne L’educazione sentimentale, neppure l’annus mirabilis 1848 riesce a scuotere l’inerzia universale: ciò che è davvero indimenticabile, nel romanzo, non è l’elemento «inaudito» della rivoluzione, ma la rapidità con cui le acque si chiudono e i vecchi luoghi comuni ritornano, insieme ai meschini egoismi e ai volatili sogni a occhi aperti… Lo sfondo che inghiotte il primo piano. Il capitolo successivo si svolge in Inghilterra, in una piccola città di provincia che sembra governata dalla seconda legge della termodinamica: l’«impercettibile raffreddarsi» di generosi ardori – scrive George Eliot – che porta gli uomini «a essere plasmati come la media e adatti a essere imballati a dozzine» 13. In questa pagina, l’autrice riflette sul giovane dottore che le ha dato la fantastica idea di scrivere la storia di una vita completamente rovinata da… riempitivi: «demoralizzata arrendevolezza alle piccole sollecitazioni delle circostanze, che è una storia di perdizione piú comune di qualsiasi unico affare di una certa importanza» 14. Che tristezza: Lydgate non vende neanche la sua anima; la smarrisce in un labirinto di piccoli eventi che non riconosce neppure come tali – mentre decidono della sua stessa vita 15. Quando arriva in città, Lydgate è un giovane fuori dal comune; qualche anno piú tardi, è anch’egli «plasmato come la media». Non è successo niente di straordinario, direbbe Auerbach; eppure è successo tutto. E infine, nel primo anno del nuovo secolo, ecco il distillato di vita borghese offerto da I Buddenbrook di Thomas Mann: i gesti ironici e noncuranti di Tom, le parole giudiziose dei cittadini di Lubecca, l’ingenuo entusiasmo di Tony, i penosi compiti di Hanno… Ripresentandosi a ogni pagina secondo la tecnica del leitmotiv, i riempitivi di Mann perdono persino le ultime briciole di funzione narrativa per diventare semplicemente… stile. Qui tutto passa e

muore, come in Wagner, ma le parole del leitmotiv restano, rendendo Lubecca e i suoi abitanti pacatamente indimenticabili; proprio come nel libro di famiglia dei Buddenbrook, in cui un’«importanza piena di rispetto» veniva data anche ai «piú modesti avvenimenti della storia della famiglia» 16. Parole che sintetizzano a meraviglia la profonda serietà con cui il secolo borghese guardava alla sua esistenza quotidiana – e che suggeriscono qualche altra riflessione. Razionalizzazione. Che transizione rapida. Intorno al 1800, i riempitivi sono ancora una rarità; cent’anni piú tardi sono ovunque (i Goncourt, Zola, Fontane, Maupassant, Gissing, James, Proust…) Crediamo di leggere Middlemarch e invece no, leggiamo una grande raccolta di riempitivi – che in fin dei conti furono l’unica invenzione narrativa di tutto il secolo. E se un meccanismo cosí modesto si diffuse in maniera tanto ampia e rapida, allora doveva esserci qualcosa, nell’Europa borghese, che attendeva con ansia il suo arrivo. Ma cosa? Strano libro, I Buddenbrook, scrisse una volta una lettrice a Thomas Mann: succede cosí poco che dovrei annoiarmi, e invece no. È davvero strano. Come ha fatto il quotidiano a diventare interessante? Per trovare una risposta, dobbiamo fare un po’ di «ingegneria alla rovescia»; alla rovescia, perché la soluzione è data e noi dobbiamo procedere a ritroso fino al problema: sappiamo come sono stati creati i riempitivi, e ora dobbiamo comprendere perché sono stati creati in quel modo. E in questo processo, l’orizzonte cambia. Se abbiamo cercato il «come» dei riempitivi nei dipinti, nei romanzi e nella teoria narrativa, il loro «perché» si trova al di fuori della letteratura e dell’arte, nel regno della vita privata borghese: iniziando, ancora una volta, con il Secolo d’oro olandese, quando la sfera privata che tuttora abitiamo trovò per la prima volta la sua forma; quando le case diventarono piú confortevoli – di nuovo quella parola, comfort – e le porte si moltiplicarono, cosí come le finestre, e

le stanze si differenziarono a seconda della loro funzione, con una appositamente specializzata per la vita quotidiana: la living room o drawing room (che in realtà è la withdrawing room [sala di ritiro], ci ha spiegato Peter Burke, dove i padroni di casa si ritiravano lontano dalla servitú per godersi la novità del «tempo libero») 17. La stanza di Vermeer e quella del romanzo: Goethe, Austen, Balzac, Eliot, Mann… Uno spazio protetto ma aperto, pronto per generare una nuova storia a ogni nuovo giorno. Ma una storia che si interseca con la crescente regolarità della vita privata. Le figure di Vermeer sono pulite, ben vestite; hanno lavato le pareti, i pavimenti, le finestre; hanno imparato a leggere, a scrivere, a comprendere una mappa, a suonare il liuto e il virginale. Hanno molto tempo libero, sí, ma lo usano con tanta sobrietà che è come se stessero sempre lavorando: «la vita viene dominata da ciò che si ripete sistematicamente, regolarmente», scrive il giovane Lukács di La borghesia e l’art pour l’art, da ciò che doverosamente deve ripetersi, da ciò che deve esser fatto senza riguardo per quello che piace o non piace. In altre parole: il dominio dell’ordine sugli stati d’animo, del duraturo sul momentaneo, del lavoro tranquillo sulla genialità nutrita di sensazioni 18.

Die Herrschaft der Ordnung über die Stimmung. Ombre weberiane. Ciò che porta metodo nel «carattere naturale e ingenuo» della vita quotidiana 19 è «l’inclinazione verso il lavoro regolare e stili di vita razionali» di Kocka, sono i «ritmi nascosti» (Eviatar Zerubavel) delle attività ripetute con regolarità: pasti, orari d’ufficio, lezioni di piano, trasferimenti quotidiani… Sono i profitti «buoni», «salutari» – piccoli ma regolari, e derivanti da una laboriosa attenzione al dettaglio – che descrive Barrington Moore in relazione alla Gran Bretagna vittoriana 20; «l’addomesticamento del caso» (Ian Hacking) che introduce la statistica dell’Ottocento, o l’irresistibile diffusione di parole (e azioni) come «normalizzare», «standardizzare», ecc. 21. Perché i riempitivi proprio nell’Ottocento? Perché offrono quel tipo di piacere narrativo che è compatibile con la nuova regolarità della vita borghese. Stanno al racconto come le comodità stanno al

piacere fisico: il godimento ridotto al minimo, adattato all’attività quotidiana del leggere un romanzo. «In realtà, negli ultimi cinquecento anni vi è stato uno straordinario mutamento delle attività prevalenti nelle classi dominanti», scrive Walter Bagehot; un tempo «queste passavano il loro tempo o in emozionanti combattimenti o nell’ozio. Un barone feudale non aveva nient’altro da fare che la guerra e la caccia, cose entrambe estremamente eccitanti; tra le due non c’era che il “riposo inglorioso”. La vita moderna è avara di emozioni, ma è ricca di sobrie attività» 22. Una ricchezza di sobrie attività: cosí funzionano i riempitivi. Si avverte una profonda somiglianza, qui, con il «ritmo della continuità» che abbiamo trovato nelle sequenze micro-narrative di Defoe. In entrambi i casi – o meglio, su entrambe le scale: la frase in Robinson Crusoe e l’episodio nei romanzi dell’Ottocento – le piccole cose diventano significative, senza per questo smettere di essere «piccole»; diventano narrative, senza smettere di essere quotidiane. La diffusione dei riempitivi trasforma il romanzo in una «passione calma», per usare il grande ossimoro che Hirschmann applica all’interesse economico, o in un aspetto della «razionalizzazione» weberiana: un processo che inizia nell’economia e nell’amministrazione, ma finisce per riversarsi nella sfera del tempo libero, della vita privata, dei sentimenti e dell’estetica (come l’ultimo libro di Economia e società, dedicato al linguaggio musicale). Oppure, infine, i riempitivi razionalizzano l’universo romanzesco, trasformandolo in un mondo di poche sorprese, meno avventure, e zero miracoli. Sono una grande invenzione borghese, non perché portino nel romanzo il commercio, l’industria o altre «realtà» borghesi (cosa che non fanno), ma perché attraverso di essi la logica della razionalizzazione pervade il ritmo stesso del romanzo. All’apice della loro influenza, persino l’industria culturale ne subisce il fascino: la «logica» da poltrona di Holmes, che traduce un sanguinoso omicidio in «una serie di conferenze»; universi incredibili minuziosamente legiferati dalla finzione della «scienza»; un best seller mondiale come Il giro del mondo in ottanta giorni, dedicato alla puntualità planetaria, con il suo eroe che vive secondo gli orari dei treni, come un monaco benedettino secondo il suo horarium… 23.

Ma un romanzo non è solo una storia. Eventi e azioni, importanti o meno che siano, vengono comunicati attraverso le parole; diventano lingua, stile. E qui, che cosa succede?

PROSA III.

Il principio di realtà.

Middlemarch. Dorothea è a Roma, nella sua stanza, e piange; indifesa – scrive Eliot – davanti alla sua «Roma inintelligibile»: Rovine e basiliche, palazzi e colossi, collocati in mezzo a un’attualità sordida, dove tutto ciò che era vivo e percorso dal calore del sangue sembrava precipitato nella profonda degenerazione di una superstizione disgiunta dalla reverenza; la vita titanica piú indistinta e pure ardente che occhieggiava e si dibatteva sui muri e i soffitti; le lunghe prospettive di forme bianche i cui occhi marmorei sembravano conservare la luce monotona di un mondo estraneo: tutto questo grande naufragio di ideali ambiziosi, sensuali e spirituali, mescolati in maniera confusa con i segni di una dimenticanza e di una degradazione attuali, dapprima la irritarono come una scossa elettrica e poi le si imposero con quel dolore che è dato da un eccesso di idee confuse che frenano il flusso dei sentimenti 24.

Una quantità di parole polisillabe che si sommano a formare l’unico, gigantesco soggetto della frase; e quei minuscoli «la/ le» come suo unico oggetto. Lo squilibrio tra Roma e Dorothea non si potrebbe esprimere meglio – forse non si potrebbe esprimere affatto senza la precisione cosí tipica dello stile della prosa di Eliot. Rovine e basiliche sono «collocate» in un presente che è «sordido», dove tutto ciò che è vivo (anzi, «vivo e percorso dal calore del sangue») precipita (no: «sembrava precipitato») in una degenerazione che è «profonda», e la cui «superstizione» è «disgiunta dalla reverenza». Ogni termine è studiato, misurato, qualificato, precisato. «Mai prima d’ora avevo cosí tanto desiderato conoscere il nome delle cose», scrive Eliot nel suo diario di Ilfracombe, nel 1856: «questo desiderio

fa parte della mia crescente tendenza a fuggire dalla vaghezza e dalla inesattezza verso il chiarore delle idee nitide e vivide» 25. Scappare dalla vaghezza e dalla inesattezza: è un secondo livello semantico di «serio»; ciò che «s’applique fortement à son objet», come lo definisce il Littré (e si pensa immediatamente alla donna in blu di Vermeer, con il viso assorto di una giovane Mary Ann Evans). «La serietà ha uno scopo preciso», scrive Schlegel sull’«Athenaeum», «non può trastullarsi e non può illudersi; essa persegue instancabilmente il suo scopo sino a quando non l’ha raggiunto» 26. È il senso di responsabilità proprio dell’etica professionale; la vocazione dello specialista che – come il narratore di Eliot, la specialista della lingua – si mette completamente al servizio del compito da svolgere. E questo, come spiegherà Weber, non è solo un dovere esterno: la vocazione dello scienziato moderno – e dell’artista – è cosí «intimamente» intrecciata al processo di specializzazione da convincersi «che il destino della sua anima dipende dall’esattezza di questa, proprio di questa congettura» 27. Il destino della sua anima! Inevitabilmente si pensa al mot juste, e all’impassibile giudizio di Thibaudet riguardo allo stile di Flaubert: «non è un dono gratuito e fulmineo, ma il prodotto di una disciplina che egli s’impone abbastanza tardi» 28. (Flaubert lo sapeva: «questo libro», scrisse a Louis Bouilhet il 5 ottobre 1856, quando vide la copia stampata di Madame Bovary, «mostra molta piú pazienza che genio: lavoro, piú che talento»). Lavoro, piú che talento. Cosí è il romanzo dell’Ottocento. E non solo il romanzo. «Prendi ad esempio la trovata», dice il demone nel Doctor Faustus di Mann: un affare di tre o quattro battute, non di piú. Tutto il resto è elaborazione e diligenza. O forse no? Bene, noi siamo però esperti conoscitori della letteratura e sappiamo che «l’idea» non è nuova, che anzi ricorda molto da vicino qualche cosa che ricorre già in RimskijKorsakov o in Brahms. Che cosa si fa? La si modifica semplicemente. Ma una trovata modificata è ancora una trovata? Considera i taccuini di Beethoven: là non rimane alcuna concezione tematica com’era data da Dio. Egli la modifica e annota: Meilleur. Poca fiducia nel suggerimento

di Dio e poco rispetto sono espressi in questo meilleur che d’altronde non è affatto entusiastico 29.

Meilleur. Eliot dev’essersi ripetuta piú volte questa parola. E allora, rileggendo quella pagina del suo grande romanzo viene da chiedersi: ne valeva davvero la pena? «[…] e poi le si imposero con quel dolore che è dato da un eccesso di idee confuse che frenano il flusso dei sentimenti»: chi può seguire – chi può comprendere – davvero queste frasi senza perdersi nel labirinto della precisione? Ricordiamo Defoe: lí il problema dell’«accuratezza e finitezza» della prosa stava nel fatto che aumentando la precisione «locale», il significato complessivo della pagina diventava opaco. Molti dettagli evidenti che si sommavano in una totalità confusa. Qui il problema si radicalizza: la vocazione analitica di Eliot è cosí forte che i dettagli stessi cominciano a opporre resistenza alla comprensione. Eppure l’autrice continua ad aggiungere avverbi, participi, subordinate, attributi. Perché? Come mai la precisione è diventata tanto piú importante del significato? «Quali vantaggi procura a un commerciante la partita doppia!» si legge in una famosa pagina dei Lehrjahre: È una delle piú belle invenzioni dello spirito umano, e ogni buon padrone di casa dovrebbe introdurla nella propria amministrazione. […] Ordine e chiarezza aumentano il piacere di risparmiare e di acquistare! Chi governa male il proprio patrimonio si trova a suo agio nell’oscurità; non ama fare il conto delle cifre di cui è debitore. Invece, a un buon amministratore, nulla è piú gradito che tirare le somme tutti i giorni del suo crescente benessere. Persino un infortunio, se può sorprenderlo spiacevolmente, non lo spaventa; perché sa subito quali profitti può porre sull’altro piatto della bilancia 30.

Una delle piú belle invenzioni… Per ragioni economiche, è ovvio, ma anche, e forse persino di piú, per ragioni morali: perché la precisione della partita doppia costringe a guardare in faccia i fatti. Tutti i fatti, compresi – anzi, soprattutto – quelli sgradevoli 31. Il risultato è ciò che molti videro come la lezione morale della scienza:

«qualcosa di piú maturo, di piú coraggioso, piú pronto ad affrontare una realtà senza fronzoli», come dice Charles Taylor 32; la maturità che si traduce in «coraggiosa abnegazione, teorie fatte a pezzi, abbattimento di ingannevoli chimere», aggiunge Lorraine Daston 33. Il principio di realtà. Con la loro crescente dipendenza dal mercato in ogni aspetto della loro vita, scrivono Davidoff e Hall, le classi medie dovettero imparare a tenere le loro entrate sotto controllo, e ricorsero all’aiuto dei «libri contabili» forniti dall’industria editoriale, che finí per lasciare la sua impronta sul resto della loro esistenza: cosí accadde a Mary Young la quale, tra il 1818 e il 1844, insieme ai conti di casa teneva «una sorta di registro profitti e perdite della famiglia e della vita sociale» – «malattie e vaccinazioni dei bambini […] lettere e regali ricevuti e inviati, serate trascorse in casa… visite fatte e ricevute» 34. Terzo volto della serietà: quella ernste Lebensführung che per Mann era la pietra maestra dell’esistenza borghese. Al di là della gravità etica, e della concentrazione professionale dello specialista, la serietà emerge qui come una sorta di onestà commerciale sublimata – il rispetto «quasi religioso dei fatti» del libro della famiglia Buddenbrook – estesa alla vita nella sua totalità: affidabilità, metodo, accuratezza, «ordine e chiarezza», realismo. Proprio nel senso del principio di realtà: dove venire a patti con la realtà diventa, da necessità quale è sempre stato, un «principio», un valore. Contenere i propri desideri immediati non è semplice repressione: è cultura. Una scena di Robinson Crusoe, con la sua tipica alternanza di desideri (in maiuscoletto), difficoltà (sottolineature), e soluzioni (corsivo), ce ne darà un’idea: La prima volta che uscii, scopersi subito che

NELL’ISOLA VI ERANO

DELLE CAPRE, E QUESTA SCOPERTA MI RIEMPÍ DI SODDISFAZIONE ;

però vi fu

questo di sfortunato, che le bestie erano cosí timide, cosí astute e di piede cosí svelto, che era la cosa piú difficile al mondo avvicinarle. Ma non mi scoraggiai per questo, NON DUBITANDO CHE AVREI POTUTO, DI TANTO IN TANTO, UCCIDERNE QUALCUNA ,

come presto accadde; perché,

dopo avere scoperto i posti che esse battevano, mi misi alla posta in

questo modo. Osservai che, se mi vedevano a valle, anche se erano sulle rocce scappavano via come terribilmente impaurite; ma se erano al pascolo a valle e io ero sulle rocce, non facevano caso a me, dal che conclusi che, per la posizione dei loro occhi, la loro vista era cosí diretta in basso che non vedevano facilmente gli oggetti che stavano piú in alto. […] La prima volta che tirai un colpo tra queste bestie, uccisi una capra che aveva con sé un caprettino lattante, la qual cosa mi addolorò molto profondamente; ma, quando la madre cadde, il capretto rimase immobile vicino a lei finché non mi avvicinai e la sollevai, non solo, ma quando trasportai l’adulta caricandomela sulle spalle, il capretto mi seguí fin nei pressi del mio recinto, al che io posai in terra la madre e presi in braccio il capretto e lo portai dentro passando sopra la palizzata NELLA SPERANZA DI ALLEVARLO E FARLO CRESCERE DOMESTICO ; ma non volle mangiare, cosí fui costretto a ucciderlo e mangiarmelo io 35.

Cinque «ma» e un «però» in una manciata di righe. «Volontà: una tenace, inflessibile e indomabile volontà è la suprema qualità britannica», scrive la «Revue des deux mondes» nel 1858, in un articolo significativamente intitolato Du sérieux et du romanesque dans la vie anglaise et américaine; e questa pagina traboccante di proposizioni avversative – che tuttavia non impediscono a Robinson di raggiungere il suo scopo – dimostra abbondantemente la tesi. Tutto si esamina sine ira et studio, come nella massima di Tacito di cui Weber si avvalse per riassumere il processo di razionalizzazione; ogni problema è suddiviso in elementi distinti (la direzione dello sguardo delle capre; la posizione di Robinson nel paesaggio) e risolto attraverso una coordinazione metodica di strumenti e fini. La prosa analitica rivela la sua origine pragmatica, a metà strada tra la natura di Bacone (che si può dominare solo con l’obbedienza) e la burocrazia di Weber, con la sua «esclusione dell’amore e dell’odio, di tutti gli elementi affettivi puramente personali» e «non calcolabili». Flaubert: lo scrittore per il quale «l’impersonalità “oggettiva”» della burocrazia weberiana – «che si sviluppa in modo tanto piú perfetto quanto piú essa si “disumanizza”» 36 – fu lo scopo di un’intera vita.

Tanto piú perfetto quanto piú si disumanizza. C’è una sorta di eroismo ascetico nell’inseguire questo concetto – come faranno il cubismo analitico, la musica seriale o il Bauhaus all’inizio del XX secolo. Ma una cosa è puntare all’impersonalità disumanizzata in un laboratorio avanguardista d’élite, con le sue esclusive ricompense faustiane; e un’altra cosa è presentarla come un destino sociale generale, alla maniera di questa letteratura; in questo secondo caso, è probabile che il principio di realtà delle «teorie fatte a pezzi» evochi una perdita dolorosa, senza compensazioni in vista. È il paradosso del «realismo» borghese: quanto piú radicale e lucido è il suo traguardo estetico, tanto piú invivibile è il mondo che descrive. Potrebbe davvero essere questa la base di un’ampia egemonia sociale? Descrizione, conservatorismo, «Realpolitik». Impersonalità «oggettiva»: ecco una buona sintesi dello stile analitico dei romanzi dell’Ottocento. Oggettiva, non nel senso che il filtro della rappresentazione è per magia diventato trasparente, certo, ma perché la soggettività dello scrittore è stata relegata allo sfondo. L’oggettività aumenta, perché la soggettività diminuisce. «L’oggettività è la soppressione di un certo aspetto dell’io», scrivono Daston e Galison in Objectivity 37; e Hans Robert Jauss: La nascente storiografia del

XIX

secolo […] seguiva il principio che lo

storico dovesse estinguere se stesso affinché la storia in quanto tale potesse raccontarsi. La poetica qui implicita non è altro che quella del romanzo storico. […] Ciò che nei romanzi di Scott impressionò tanto Augustin Thierry, Barante e gli altri storici degli anni Venti [fu che] il narratore del romanzo storico resta del tutto sullo sfondo 38.

Il narratore che resta sullo sfondo. Prendiamo Il Castello Rackrent, il romanzo (quasi) storico di Maria Edgeworth (1800), il cui lavoro fu riconosciuto da Scott, nella sua General Preface del 1829,

come il modello per la propria serie di romanzi. Il Castello Rackrent è narrato da un vecchio factotum irlandese, Thady Quirk, che consente a Edgeworth di gettare un ponte tra passato e presente, e tra il «qui» dei suoi lettori principalmente inglesi e il «là» della sua storia irlandese. In parte vile, in parte ipocrita, sempre entusiasta e vivace, Thady conferisce al romanzo molto del suo sapore; ma di certo non perché gli consente di «raccontare la propria storia». Ecco una descrizione tratta da questo romanzo, seguita da una tratta da Kenilworth di Scott (1821), dove la presenza dello stesso oggetto centrale (un mascalzone ebreo, con tutti gli automatici cliché che questa figura è destinata a evocare) scarta l’origine tematica come spiegazione delle differenze stilistiche: e allora scorsi per la prima volta la sposa; perché quando si aprí la porta della carrozza, proprio mentre lei teneva il piede sui gradini, le avvicinai la fiamma alla faccia per illuminarla, al che lei chiuse gli occhi, ma io potei vedere bene tutto il resto, e rimasi molto colpito, perché sotto quella luce parve poco piú di una negretta, e pareva anche storpia […] 39. L’astrologo era un uomo di bassa statura e pareva assai attempato, perché la barba bianca e lunga gli scendeva sul nero mantello fino alla cintura di seta. La sua veneranda età aveva tinto di bianco anche i capelli. Le sopracciglia, tuttavia, erano scure cosí come gli occhi vivaci e penetranti che esse adombravano, singolarità che conferiva un’aria selvaggia e inconsueta alla fisionomia del vegliardo. Fresca e colorita era però la carnagione, e gli occhi appena descritti ricordavano quelli d’un sorcio, tanto scaltro e sfrontato ne era lo sguardo 40.

Ne Il Castello Rackrent, Thady si intromette fisicamente nella scena («scorsi per la prima volta…», «avvicinai la fiamma…», «potei vedere bene tutto il resto»), e proietta le sue emozioni sull’evento («poco piú di una negretta…», «e rimasi molto colpito»); il brano si concentra piú sul comunicare le sue reazioni soggettive che sul presentare un nuovo personaggio come tale. In Scott, per contro, la scena è ampiamente oggettivata attraverso i particolari fisici: la barba viene caratterizzata da aggettivi emotivamente neutri; la sua

lunghezza viene misurata rispetto a indumenti comuni, di cui ci viene detto il colore e il materiale. Qua e là si accende ancora qualche scintilla emotiva («un’aria selvaggia…», «gli occhi ricordavano quelli d’un sorcio»); ma in Kenilworth – e nonostante l’astrologo di Scott sia immensamente piú sinistro della sposa di Edgeworth – il punto decisivo non è la valutazione emotiva del personaggio, bensí la sua presentazione analitica. Precisione, non intensità. Dunque Jauss ha ragione: in Scott lo storico si annulla e la storia (cosí sembra) fa il proprio racconto. Ma qui, «racconto» non è un termine del tutto corretto, perché lo stile analitico-impersonale è molto piú tipico delle descrizioni di Scott che della narrativa vera e propria. E questo solleva un’altra questione: perché le descrizioni erano cosí interessanti per i lettori dell’Ottocento? I riempitivi stavano già rallentando il ritmo del romanzo, era davvero necessario inserire un altro rallentamento? La risposta, piú che in Scott, si può trovare in Balzac. In Madame Vauquer, scrive Auerbach, non c’è separazione tra corpo e abiti, tra caratteristiche fisiche e significato morale; piú in generale, Balzac non ha solo collocato gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso questo legame come necessità; ogni spazio si tramuta per lui in un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio, la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il comportamento, il sentire, l’agire e le sorti degli uomini […] 41.

Il legame tra persone e cose concepito come «necessità»: la logica delle descrizioni di Balzac è la stessa dell’ideologia politica piú potente del suo tempo, ovvero il conservatorismo. Adam Müller «considera le cose come prolungamenti delle membra del corpo umano», scrive Mannheim, ricordando le parole usate da Auerbach per Papà Goriot: «una fusione di persona e cosa»; «una relazione definita, vitale e reciproca» tra proprietario e proprietà 42. E la «fusione» nasce da quell’altra pietra maestra del conservatorismo che è la subordinazione radicale del presente al passato: «il

conservatore considera [il presente] semplicemente come lo stadio piú recente raggiunto dal passato» 43, continua Mannheim; e Auerbach, usando quasi le stesse parole: «Balzac concepisce il presente come […] il risultato della storia. […] i suoi personaggi e le sue atmosfere, per quanto attuali siano, sono sempre presentati come fenomeni scaturiti da avvenimenti e da forze storiche» 44. Tanto nella filosofia politica quanto nella rappresentazione letteraria, il presente diventa un sedimento della storia; mentre il passato, invece di scomparire semplicemente, si trasforma in qualcosa di visibile, solido, concreto – per citare un’altra parola chiave del pensiero conservatore e della retorica del «realismo». Le descrizioni dell’Ottocento diventarono analitiche, impersonali, forse addirittura «imparziali», come disse Scott in un’occasione. Ma il parallelo con il conservatorismo suggerisce che – a prescindere da quanto possa essere stata relativamente neutrale l’una o l’altra descrizione individuale – la descrizione come forma non era per niente neutrale: il suo effetto consisteva nell’iscrivere il presente nel passato in maniera cosí profonda che le alternative risultavano semplicemente inimmaginabili. Una nuova parola diede voce a questa idea: Realpolitik. Una politica che «non opera dentro un futuro indefinito, ma faccia a faccia con ciò che è», scrisse Ludwig August von Rochau, che coniò il termine qualche anno dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848 (piú o meno negli stessi anni in cui il réalisme artistico fece la sua comparsa in Francia). «Realismus der Stabilität», aggiunge con amarezza un anonimo osservatore liberale: il realismo della stabilità e del fait accompli 45. Non che Balzac si riduca a questo, certo; c’è anche il suo incontenibile flusso narrativo, che richiama i paragrafi del Manifesto del Partito Comunista su «l’incertezza e il movimento eterni» che «contraddistinguono l’epoca dei borghesi» 46. Ma accanto al Balzac di Marx c’è quello di Auerbach, e questa strana mescolanza di turbolenza capitalista e persistenza conservatrice suggerisce qualcosa di importante sui romanzi dell’Ottocento (e sulla letteratura nel suo insieme): la loro vocazione piú profonda sta nel forgiare compromessi tra sistemi ideologici diversi 47. Nel nostro caso, il compromesso consisteva nell’«allegare» le due grandi ideologie dell’Europa dell’Ottocento a

parti diverse del testo letterario: la razionalizzazione capitalista riorganizzò la trama del romanzo con la regolarità ritmica dei riempitivi – mentre il conservatorismo politico dettò le sue pause descrittive, dove i lettori (e i critici) cercavano sempre piú il «significato» dell’intera storia. Esistenza borghese e convinzioni conservatrici: sono queste le fondamenta del romanzo realistico, da Goethe a Austen, Scott, Balzac, Flaubert, Mann (Thackeray, i Goncourt, Fontane, James…) E lo stile indiretto libero diede il tocco finale a questo piccolo miracolo di equilibrio.

PROSA IV.

«Una trasposizione dell’oggettivo nel soggettivo».

«Zeitschrift für romanische Philologie», 1887. Nel corso di un lungo articolo sulla grammatica francese, il filologo Adolf Tobler osserva, en passant, che la presenza dell’imperfetto nelle frasi interrogative è spesso legata a una «peculiare mescolanza di discorso indiretto e diretto, che assume da quello i tempi verbali e i pronomi, e da questo il tono e l’ordine della frase» 48. Questa Mischung non ha ancora un nome, ma l’intuizione decisiva si è già verificata: lo stile indiretto libero è il terreno dove si incontrano due forme di discorso. Ecco un brano da uno dei primi romanzi dove viene usato in maniera sistematica: I capelli furono arricciati e la cameriera mandata a dormire, ed Emma si sedette a pensare alla sua disgrazia. Era proprio una situazione sgradevole! Un completo ribaltamento di tutto ciò che aveva desiderato! Il peggior risultato immaginabile! Che smacco per Harriet! Questa era la cosa piú tremenda 49.

Emma si sedette a pensare alla sua disgrazia [sat down to think and be miserable]. Era proprio una situazione sgradevole! [It was a wretched business, indeed!] Il tono e l’ordine della frase richiamano il discorso diretto di Emma. Emma si sedette a pensare alla sua

disgrazia. Era proprio una situazione sgradevole! Quanto ai tempi verbali, sono quelli del discorso indiretto. E l’effetto è proprio strano: ci si sente allo stesso tempo piú vicini a Emma (perché è scomparso il filtro della voce narrante), e piú lontani, perché i tempi narrativi la oggettivano, estraniandola in un certo senso da se stessa. Ecco un altro esempio, da Orgoglio e pregiudizio, nel momento in cui la possibilità di matrimonio fra Darcy ed Elizabeth sembra irreversibilmente sfumata: Cominciò ora a comprendere che era esattamente l’uomo che faceva per lei, per carattere e qualità. La sua intelligenza e il suo temperamento, sebbene diversi dai suoi, avrebbero corrisposto a tutti i suoi desideri. Era un’unione che avrebbe portato vantaggio a entrambi: il modo d’essere di lui sarebbe stato addolcito e le sue maniere migliorate dalla disinvoltura e dalla vivacità di lei, mentre lei avrebbe tratto vantaggi ben maggiori dalla sua capacità di giudizio, cultura e conoscenza del mondo 50.

Valgono a mo’ di commento le parole con cui Roy Pascal spiega il famoso articolo di Charles Bally sullo stile indiretto libero: «Per Bally, lo stile indiretto semplice tende a obliterare l’idioma personale caratteristico del parlante, mentre lo stile indiretto libero ne conserva alcuni elementi: la forma della frase, le domande e le esclamazioni, il tono, il lessico individuale e la prospettiva soggettiva del personaggio» 51. Preservare la prospettiva soggettiva invece di obliterarla: Pascal qui sta analizzando la lingua, ma le sue parole potrebbero descrivere allo stesso modo il processo della socializzazione moderna, dove l’energia individuale è in effetti «preservata» e ha il permesso di esprimersi, a patto di non minacciare la stabilità delle relazioni sociali. Non è un caso se i due grandi pionieri dello stile indiretto libero – Goethe e Austen – sono grandi scrittori di Bildungsromane: il nuovo dispositivo linguistico è perfetto per garantire ai loro protagonisti una certa dose di libertà emotiva, allo stesso tempo «normalizzandoli» con elementi di un linguaggio sovrapersonale. «La sua intelligenza e il suo temperamento, sebbene diversi dai suoi, avrebbero corrisposto a

tutti i suoi desideri»… Chi sta parlando qui? Elizabeth? Austen 52? Forse nessuna delle due, ma una terza voce, intermedia e quasi neutra, che si trova tra di loro: la voce lievemente astratta, pienamente socializzata, del raggiunto contratto sociale 53. Una voce intermedia, quasi neutra. Quasi. Perché dopotutto, il punto di questo brano è che Elizabeth sta finalmente iniziando a vedere la sua vita – «Cominciò ora a comprendere» – con gli occhi del narratore. Lei si osserva da fuori, come se fosse una terza persona (una terza persona: qui la grammatica è davvero il messaggio), e si trova d’accordo con Austen. È una tecnica tollerante, lo stile indiretto libero; ma è la tecnica della socializzazione, non dell’individualità (e comunque non intorno al 1800) 54. La soggettività di Elizabeth si inchina davanti all’intelligenza «oggettiva» (vale a dire, socialmente accettata) del mondo: «une véritable transposition de l’objectif dans le subjectif», come si espresse Bally in modo memorabile un secolo fa 55. Abbiamo osservato gli inizi dello stile indiretto libero; ora vediamo un esempio della sua piena maturità: Emma Bovary, davanti allo specchio, dopo il suo primo atto di adulterio: Ma, vedendosi nello specchio, si stupí del suo viso. Mai aveva avuto gli occhi cosí grandi, cosí neri e profondi. Qualcosa d’inafferrabile, diffuso sulla sua persona, la trasfigurava. Si ripeteva: «Ho un amante! un amante!», deliziandosi a questo pensiero come a quello di una nuova pubertà sopravvenuta. Avrebbe finalmente posseduto quelle gioie dell’amore, quella febbre di felicità di cui aveva disperato. Entrava in qualche cosa di meraviglioso, dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio; un’immensità azzurra la circondava, le cime del sentimento brillavano nel suo pensiero, l’esistenza comune le appariva ormai lontana, in basso, nell’ombra, tra i vuoti di quelle alture 56.

Nel febbraio del 1857, nella sua requisitoria davanti al tribunale di Rouen, il sostituto procuratore Ernest Pinard riservò a questo passo – «ben piú pericoloso, ben piú immorale della caduta medesima» – le sue parole piú intransigenti 57. Ed è logico, perché quelle frasi contraddicono «una vecchia convenzione del genere [romanzesco] –

il giudizio morale, sempre univoco e garantito, sui personaggi rappresentati» 58. Continua Pinard: Chi può condannare questa donna nel libro? Nessuno. Proprio di questo genere è la conclusione. Non c’è nel libro un personaggio che possa condannarla. Se riuscite a trovarvi un solo personaggio serio, se riuscite a trovarvi un solo principio in virtú del quale l’adulterio sia stigmatizzato, sono io che ho torto 59.

Ha torto? No, un secolo di critica lo ha ampiamente vendicato: Madame Bovary è il logico punto d’arrivo di quel lento processo che ha separato la letteratura europea dalle sue funzioni didattiche, rimpiazzando un narratore onnisciente con grandi dosi di stile indiretto libero 60. Ma se la traiettoria storica è chiara, lo stesso non si può dire del suo significato, e le interpretazioni si sono mosse intorno a due posizioni incompatibili. Per Jauss (e altri), lo stile indiretto libero pone il romanzo in opposizione rispetto alla cultura dominante, perché costringe i lettori a una sospensione di giudizio, facendo «di una scontata questione di morale pubblica un problema aperto» 61. Da questo punto di vista, Pinard aveva ragione riguardo a ciò che era in gioco nel processo: Flaubert era una minaccia per l’ordine costituito. Fortunatamente, Pinard perse la causa, e Flaubert vinse. L’altra posizione inverte il quadro. Lungi dal generare incertezza, lo stile indiretto libero è una sorta di Panopticon stilistico in cui la master-voice del narratore diffonde la sua autorità «qualificando, cancellando, approvando, includendo tutte le altre voci a cui permette di parlare» 62. Da questo secondo punto di vista, Pinard e Flaubert non rappresentano rispettivamente repressione e critica, quanto piuttosto una forma stolida e obsoleta di controllo sociale da un lato, e un’altra forma piú flessibile ed efficace dall’altro. Il processo li mette uno contro l’altro, certo, ma in fondo in fondo si assomigliano piú di quanto non siano disposti ad ammettere; sono, in fin dei conti, due versioni della stessa cosa. A grandi linee, tendo a condividere quest’ultima posizione, ma con una puntualizzazione. Quelle frasi di Madame Bovary che tanto

esasperarono Monsieur Pinard… da dove vengono? Sono le parole del narratore, pronunciate dalle labbra di Emma? No, vengono dai romanzi sentimentali che Emma ha letto da ragazza e mai dimenticato (il brano continua cosí: «Allora ricordò le eroine dei libri letti […]»). Sono luoghi comuni, miti collettivi: segni del sociale che è dentro di lei. La voce che tanto spesso sentiamo in Orgoglio e pregiudizio è forse la «terza voce» del raggiunto contratto sociale, ho detto prima; con Flaubert possiamo mettere da parte il «forse», perché il processo è giunto a compimento: personaggio e narratore hanno perso il loro carattere distintivo, incluso nel discorso composto della doxa borghese. Il timbro emotivo, il lessico, la forma della frase – tutti gli elementi ai quali ci affidiamo per estrapolare il soggettivo dall’oggettivo nello stile indiretto libero – si amalgamano ora nella «impersonalità veramente “oggettiva”» dell’idée reçue. Ma se cosí è, allora diventa superfluo preoccuparsi della mastervoice del testo: il controllo dell’anima di Emma – «qualificare, cancellare, approvare, includere» – è nelle mani della doxa, non del narratore. In una società pienamente omogenea, come secondo Flaubert è diventata la Francia borghese, lo stile indiretto libero non rivela il potere delle tecniche letterarie, bensí la loro impotenza: la sua «serietà “oggettiva”» lo paralizza, rendendo inimmaginabile l’opposizione; una volta iniziata la deriva entropica e una volta che la voce del narratore si fonde con quella dei personaggi (e, attraverso loro, con quella della doxa borghese), non si torna indietro. La socializzazione è riuscita fin troppo: dalle tante voci dell’universo sociale, rimane solo «un livello intellettuale medio […] attorno al quale oscillano le intelligenze individuali dei singoli borghesi» 63. È l’incubo di Bouvard e Pécuchet: il non saper piú distinguere tra un romanzo sulla stupidità e un romanzo stupido. È l’epilogo giustamente amaro per il secolo serio del romanzo europeo: uno stile che, attraverso il lavoro indefesso, ha portato la prosa borghese a un livello di oggettività e coerenza estetica senza precedenti – per poi scoprire che non sa piú cosa pensare del suo oggetto. Opere perfette, senza raison d’être: dove, come ne L’etica protestante, l’unico risultato tangibile (ed enigmatico) è «quel sentimento irrazionale di avere compiuto [il proprio] dovere

professionale» 64. E cosí, dal centro dell’Europa capitalista, uno stile piú semplice, piú caldo, «fin troppo umano», lancia la sua sfida alla serietà borghese.

Capitolo terzo Nebbia

Nuda, diretta e sfacciata. La borghesia moderna – recita il celebre encomio del Manifesto del Partito Comunista – «ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli»; «ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e ha concentrato in poche mani la proprietà» 1. «Piramidi», «acquedotti», «cattedrali», «portato a termine», «agglomerato», «centralizzato»… Chiaramente, per Marx ed Engels, «il ruolo rivoluzionario» della borghesia sta in ciò che questa classe ha fatto. Ma c’è un’altra ragione, piú tangibile, per elogiarla: Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. […] In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. […] La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. […] Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi

fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti 2.

Tre diversi campi semantici si intrecciano in questi febbrili paragrafi. Il primo evoca il periodo che ha preceduto l’avvento della borghesia, quando la natura delle relazioni sociali si nascondeva dietro una serie di inganni: un mondo di «idilli», «aureole», «sacri brividi», «esaltazione», «entusiasmo» e «illusioni». Una volta raggiunto il potere – secondo paragrafo – la nuova classe dirigente ha dissipato senza pietà tutte queste ombre: ha «distrutto», «lacerato», «affogato», «spogliato», «ricondotto», «volatilizzato» e «profanato». Di qui – infine – deriva la nuova episteme cosí tipica dell’età borghese: «nudo interesse», «acqua gelida del calcolo», «occhio disincantato», «sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido». Invece di nascondere il suo dominio dietro una serie di inganni simbolici, la borghesia costringe tutta la società ad affrontare la verità su se stessa. È la prima classe realista della storia umana.

Figura 8

Nudo interesse. Il capolavoro del secolo borghese, Olympia di Manet (Figura 8), «guarda lo spettatore», scrive T. J. Clark, «in un modo che lo costringe a immaginare tutto un insieme […] di offerte, luoghi, pagamenti, poteri particolari e una condizione ancora aperta alla negoziazione» 3. Negoziazione: la parola perfetta. Benché Olympia sia distesa, indolente, come se non stesse facendo nulla, di fatto sta lavorando: ha alzato la testa e si è girata per valutare un potenziale cliente – lo spettatore del dipinto – con quello sguardo deciso che è cosí difficile da sostenere. Nuda, diretta e sfacciata. Guardiamo, per contro, la Venere Anadiomene di Ingres (Figura 9), con il suo «sguardo che non è del tutto uno sguardo» (di nuovo Clark) e l’implicito suggerimento che «il nudo non nasconde niente perché non c’è niente da nascondere» 4. Era esattamente la «malinconia filistea» di questi dipinti che Olympia voleva

smascherare: inconfondibilmente, la figura di Manet si sta nascondendo i genitali con la mano. Realismo, certo.

Figura 9

Figura 10

Manet dipinse Olympia a Parigi, nel 1863; sette anni dopo, a Londra, Millais esibí la propria versione del nudo moderno: Il cavaliere errante (Figura 10). Un cavaliere con tanto di armatura, accanto a una donna nuda, che armeggia con una spada colossale verso il terreno: ci vuole una bella immaginazione per creare una cosa del genere. Il cavaliere ha la visiera alzata, ma distoglie lo sguardo dalla donna, come assorto nei propri pensieri: e ha anche uno strano modo di tagliare quelle corde, quasi nascondendosi dietro il grande albero. L’atteggiamento della donna è altrettanto strano: se la Venere di Ingres non guardava da nessuna parte in particolare, la figura di Millais guarda proprio altrove; o per l’esattezza, è stata costretta a guardare altrove: perché nella versione originale, in maniera piuttosto ovvia, era rivolta verso il cavaliere (Figura 11). La critica, però, accolse l’opera con freddezza; girarono voci di immoralità, il quadro non si vendeva… e Millais eliminò il busto della donna per dipingerne un altro. (Poi pettinò i capelli all’originale, le fece abbassare gli occhi, la coprí con una

camicetta, e la vendette come martire protestante: Martire di Solway, Figura 12).

Figura 11

Figura 12

La spada sguainata… e la gabbia di ferro dell’armatura; i capelli invadenti della donna 5… e il suo viso rivolto altrove. Ambivalenza. Millais vuole dipingere una donna nuda; ma allo stesso tempo si tira indietro. E cosí, narrativizza la sua nudità: se la donna è senza vestiti, è perché è stata colta nel corso di una storia di aggressione, resistenza, prigionia, a cui presto sarebbero seguiti stupro e morte se il cavaliere non fosse arrivato in tempo. Il sangue sulla spada, il morto sulla destra, le figure che corrono sullo sfondo fanno tutti parte della storia (come anche l’edulcorata didascalia di Millais: «L’ordine dei Cavalieri Erranti fu istituito per proteggere vedove e orfani e per soccorrere le donzelle in pericolo»). E non è l’unico a vederla in questo modo; altri famosi nudi vittoriani – dal prototipico Britomart riscatta Faire Amoret di Etty (1833) a La schiava greca di Powers (1844), La preghiera di Lady Godiva di Landseer (1865) e Andromeda di Poynter (1869) – trasmettono lo stesso messaggio: la nudità è il risultato della coercizione; è ciò che i selvaggi, i banditi o i tiranni fanno alle donne. In Olympia il sesso era diurno, imprenditoriale. Nei nudi vittoriani è destino funesto, oscurità, mito, morte. Ciò che Manet aveva prosaicamente spogliato si copre ancora una volta con un velo di leggenda. È l’enigma vittoriano: contrariamente a quei paragrafi del Manifesto Comunista, il capitalismo piú industrializzato, urbanizzato, «avanzato» dell’epoca ripristina «esaltazione» e «malinconia» invece di spazzarli via. Perché? «Dietro il velo». Qual è il perché del vittorianesimo? Il nudo inglese è un’impresa troppo misera per dare risposta a una domanda tanto ampia. Dunque: Ed egli, l’uomo, L’ultima sua b opera, che parve tanto bella,

Con una meta stupenda negli occhi, Che levò salmi a cieli invernali E innalzò templi di inutili preghiere, Che credette che Dio fosse amore E amore la norma finale del Creato – Benché Natura, con le zanne rosse e tra gli artigli La preda, gridasse contro la sua fede – Che amò, sofferse mali innumerevoli, Si batté per il Vero e per il Giusto, Sarà disperso come la polvere del deserto O imprigionato nei colli ferrigni? 6.

La Natura, con le zanne rosse e gli artigli: un’immagine cosí straordinaria da essere presa spesso come segno dell’impatto che Darwin ebbe sulla poesia inglese, anche se naturalmente In Memoriam di Alfred Tennyson (1850) precede di diversi anni L’origine delle specie. Tanto affascinanti quanto l’immagine in sé sono tuttavia le meraviglie grammaticali che Tennyson operò per smorzarne l’impatto: inserendola come inciso concessivo e parentetico (– Benché Natura…), all’interno di una proposizione interrogativa che si protrae per quattro strofe (l’uomo | … | sarà disperso), ed è suddivisa in sei subordinate relative distinte (che parve… che levò… e innalzò…). Il Minotauro nel suo labirinto. L’intelligenza poetica vede l’estinzione dell’umanità – e la seppellisce in un insondabile dedalo linguistico. Molto, molto meglio del cavaliere di Millais: la complessità sintattica al posto di un ferreo pudore. Ma la pulsione sottostante è la stessa: il diniego. Prendere la verità che è in qualche modo emersa e chiuderla tra parentesi: … O imprigionato nei colli ferrigni? E nulla piú? Allora è un mostro, un sogno, Un contrasto di suoni. I rettili preistorici Che si straziavano l’un l’altro nel fango

Erano musica armoniosa a paragone dell’uomo. Allora, come è vana, fragile la vita! Ma serena e beata per la tua voce, amico! Quale speranza abbiamo di risposta O di giustizia? Oltre il velo, oltre il velo 7.

Oltre il velo. La reazione di Charlotte Brontë nel leggere un libro di storia naturale: «Se questa è la Verità, che possa custodirsi di misteri e coprirsi con un velo». Charles Kingsley, in una lettera alla moglie: «Non fare congetture, ma se proprio devi, non farne troppe. Guardati dallo spingere le argomentazioni fino alla loro logica conclusione» 8. Una generazione dopo, non è cambiato molto: «Ibsen analizza i mali di cui, per nostra disgrazia, conosciamo l’esistenza», scrive un anonimo recensore di Casa di bambola, «ma che non serve a nulla trascinare alla luce del giorno» 9. Qual è qui la «disgrazia»? Che certi mali esistano, o che ci venga fatta conoscere la loro esistenza? Quasi certamente la seconda. Diniego. E di nuovo non è solo un giornalista schizzinoso a esprimere questa riluttanza. «La verità profonda rimane nascosta – per fortuna, per fortuna» 10, esclama Marlow in Cuore di tenebra. Nascosta? Le colonie sono la verità delle metropoli, scrisse Sartre a proposito de I dannati della terra di Fanon, e in effetti – man mano che Marlow si inoltra nelle profondità del Congo – la verità a proposito di Kurtz e dell’impresa coloniale viene (quasi) alla luce: «Fu come se un velo si fosse squarciato. Su quel viso d’avorio vidi dipinta l’espressione di un cupo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore abietto» 11. Come se un velo si fosse strappato: Conrad pone cosí spesso in primo piano la difficoltà di vedere, in Cuore di tenebra 12, che questa dovrebbe essere l’epifania tanto attesa. E invece: «Spensi con un soffio la candela e uscii dalla cabina». Meraviglioso, questo ritorno alla tenebra. Quel velo sollevato – conclude Marlow – era qualcosa che non avevo mai visto prima, e «spero di non doverlo vedere mai piú» 13. Il diniego non era certo una prerogativa britannica: in Doña Perfecta (1876), Pérez Galdós parla con elegante sarcasmo della «dolce tolleranza del condiscendente secolo che ha inventato strani

veli di linguaggio e azione per coprire ciò che potrebbe essere sgradevole all’occhio pubblico» 14; mentre in uno dei suoi grandi momenti corali Verdi fa reagire tutti i personaggi alla rivelazione della prostituzione – un momento «alla Olympia», per cosí dire – pretendendo appassionatamente che si nasconda di nuovo 15. A differenza della scena atemporale dell’opera lirica italiana, però, o della provinciale e retrograda «Villahorrenda» di Galdós, il capitalismo britannico di metà secolo aveva preparato le condizioni per il realismo borghese previsto dal Manifesto Comunista; e di fatto, Tennyson aveva visto la Natura con le zanne rosse e gli artigli, e Conrad i teschi avvizziti dell’imperialismo. Videro, e spensero la candela. È su questa cecità autoinflitta che si fonda il vittorianesimo. Il gotico, un «déjà-là». A metà del XX secolo c’è un genere romanzesco che – per ovvie ragioni – appartiene solo alla letteratura inglese: si tratta dei cosiddetti romanzi «industriali» o sulla «condizione dell’Inghilterra», specializzati nel conflitto fra «padroni e lavoratori». Molti di questi romanzi, tuttavia, lasciano anche spazio a un altro genere di conflitto, ovvero tra generazioni diverse di una stessa famiglia borghese. In Tempi difficili (1854), il pratico signor Gradgrind si sente tradito quando scopre che ai suoi figli piace andare al circo («Mi sarei aspettato piuttosto di sorprendere i miei figli a leggere poesie»); in Nord e Sud (1855), la vecchia signora Thornton inveisce contro i classici («I classici si addicono a quegli uomini che passano la vita a perdere tempo in campagna o nelle università»), mentre il figlio, proprietario di una fabbrica tessile, prima li studia e poi sposa addirittura la figlia del suo professore; d’altra parte, in John Halifax, Gentleman (1856) il giovane industriale Halifax si scontra ferocemente con il suo mentore Fletcher, che si rifiuta di trascurare i suoi guadagni in tempi di carestia generalizzata. Cambiano i particolari, ma il modello resta lo stesso: nella contrapposizione tra le due generazioni, la vecchia si rivela molto piú borghese della nuova;

piú severa, piú ottusa, piú avida; ma anche indipendente, intransigente, insofferente ai valori preindustriali; «troppo orgoglioso per essere un gentleman», si diceva di Richard Cobden. Qui, però, l’indipendenza si riscrive come solitudine: la signora Thornton è vedova, proprio come Fletcher, Gradgrind, Dombey (in Dombey e figlio, 1848), Millbank (in Coningsby di Disraeli, 1844); tutti portano i segni di una mutilazione che non è mai guarita, e che in un modo o nell’altro adombra la vita dei loro figli: in Dombey e figlio, il piccolo Paul muore per «mancanza di forza vitale»; il figlio di Fletcher è un invalido che odia la conceria di suo padre e la cui unica fortuna consiste nel trovarsi sotto la tutela del «gentiluomo» Halifax; il figlio di Millbank viene salvato da morte certa dal piccolo Lord Coningsby; la figlia di Gradgrind evita per un soffio l’adulterio, mentre suo figlio diventa un ladro e, per ragioni pratiche, un assassino. Non mi viene in mente nessun altro genere, a parte la tragedia antica, in cui una maledizione cosí implacabile accomuni due generazioni consecutive. E il messaggio della trama è inconfondibile: c’è stata solo una generazione borghese, e ora sta scomparendo, corrotta o tradita dai propri figli. Il suo momento è concluso. Il borghese che sfuma proprio quando trionfa il capitalismo. E non si tratta solo di un fittizio coup de théâtre. «È uno dei paradossi della storia culturale», scrive Igor Webb nel suo studio sulla Borsa della Lana di Bradford, «il fatto che negli anni tra il 1859 e l’inizio degli anni Settanta dello stesso secolo, quando l’architettura britannica si pose con determinazione al servizio del capitalismo industriale, lo stile architettonico prevalente fosse quello gotico» 16. L’architettura industriale che imita il Medioevo: proprio un paradosso. Ma in realtà la spiegazione è semplice: gli industriali di Bradford provavano un «senso di inferiorità sociale e illegittimità politica» che lo stile gotico della Borsa riusciva a camuffare come «nostalgia aristocratica per il passato». «L’accettazione dello stile gotico da parte delle classi medie a partire dal 1850», aggiunge Martin Wiener, «rappresentò contemporaneamente il culmine per la cultura nata con la rivoluzione industriale e l’inizio dell’arrendevolezza di questi nuovi ceti sociali all’egemonia culturale dell’antica aristocrazia» 17. Benché si dedicassero a «un’opera di distruzione creatrice» nella sfera

economica, conclude Arno Mayer, quando gli uomini nuovi entrarono nella sfera della cultura diventarono paladini entusiasti della tradizione architettonica, statuaria, pittorica, «avviluppando in veli o schermi storici le proprie imprese e sé medesimi» 18. Un mondo modernizzante, avvolto nel velo della storia. Due anni dopo il Reform Act, in un’esplosione d’impazienza, lo Zeitgeist rade al suolo con un incendio l’edificio del Parlamento britannico, come a voler chiedere una rottura netta con il passato; e invece, ecco che comincia il revival gotico: «l’edificio pubblico piú importante» dell’unico paese industriale al mondo viene progettato a forma di croce tra una cattedrale e un castello 19. E cosí via, per il resto del secolo: dopo i quasi 250 metri della facciata del Parlamento (per non parlare degli interni), arrivò l’esuberanza fantasiosa e pacchiana che domina sulla stazione ferroviaria di St Pancras («un edificio nel quale sembrano combinarsi la facciata occidentale di una cattedrale tedesca e diversi palazzi pubblici delle Fiandre», stando a Kenneth Clark) 20, cosí come il ciborio dell’Albert Memorial con i suoi 50 metri di altezza, dove gruppi allegorici che rappresentano Manifattura e Ingegneria condividono il baldacchino con le quattro virtú cardinali e le tre teologali. Assurdo. Assurdo. Eppure, quell’epoca di torrette e tabernacoli fu anche il punto piú alto della stabilità vittoriana; l’Età dell’Equilibrio, come venne descritta 21, quando quella «tranquillità interna» che Gramsci considerava tipica dell’egemonia di una grande potenza raggiunse il suo zenit 22. «Anderson, Wiener e altri situano a metà del XIX secolo il momento del crollo culturale e morale della borghesia», scrivono John Seed e Janet Wolff in The Culture of Capital; ma questo, obiettano, è anche il momento «della scomparsa del cartismo e dell’incorporazione della classe operaia […] La coincidenza suggerisce che in questa ristrutturazione di metà secolo delle relazioni di classe c’è qualcosa di piú che una perdita di “vigore” nella classe media» 23. Hanno ragione, cosí come anche Anderson e Wiener: è vero che a metà secolo ci fu un ritrarsi dei valori borghesi, ma è altrettanto vero che ci fu una ristrutturazione egemonica delle relazioni di classe. Si tratta di due cose distinte eppure

perfettamente compatibili. «Quando il capitalismo deve giustificare se stesso», scrivono Luc Boltanski ed Ève Chiapello nello sviluppare una riflessione di Louis Dumont, «ricorre a “qualcosa di già esistente” [un déja-là] la cui legittimità è garantita […] associandolo all’esigenza di accumulazione del capitale» 24. Qui non stanno parlando del vittorianesimo, ma senza volere ne offrono una descrizione: a metà secolo, il capitalismo era diventato troppo potente per restare esclusiva preoccupazione dei diretti interessati; doveva avere senso per tutti, e da questo punto di vista fu effettivamente costretto «a giustificare se stesso». Ma la classe borghese poteva fornirgli un peso culturale troppo ridotto, e cosí al suo posto fu mobilitato un déjà-là feudal-cristiano che creò un simbolismo condiviso delle classi alte, rendendo piú difficile mettere in discussione il loro potere. È questo il segreto dell’egemonia vittoriana: l’indebolimento dell’identità borghese, e il rafforzamento del controllo sociale. Il gentiluomo. Il gotico come il déjà-là che avvolge il capitalismo moderno nel «velo della storia». In architettura è chiaro cosa questo significhi: si costruisce una stazione ferroviaria e la si copre con un transetto. E in letteratura? La cosa che ci si avvicina di piú può essere la pagina sui «Capi dell’Industria» in Past and Present: Cosí come il Mondo della Battaglia, il Mondo del Lavoro non può essere portato avanti senza una nobile Cavalleria del Lavoro […]. I vostri valorosi eserciti di battaglia e di lavoro, cosí come anche altri, vi dovranno essere fedeli; dovranno essere e saranno regolati, dovranno metodicamente ricevere la loro giusta porzione di conquista sotto il vostro comando; uniti a voi in un’autentica fratellanza e affiliazione, attraverso legami piú profondi e diversi da quelli del temporaneo salario quotidiano! 25.

Non basta essere un industriale per garantirsi il consenso dei lavoratori d’Inghilterra, e per renderli «fedeli». È necessario far entrare nel quadro degli «eserciti di battaglia» una «porzione di conquista», una «Cavalleria»… Al fine di stabilire la loro egemonia, i nuovi uomini devono cercare il déjà-là della legittimazione nell’Aristocrazia guerriera. Ma per fare guerra a che cosa? I Capitani d’Industria sono gli autentici Guerrieri, d’ora in poi riconoscibili come gli unici veri: Guerrieri contro il Caos, la Necessità, i Diavoli e gli Jötunn […] Dio sa che è un compito arduo, ma nessun compito nobile è mai stato facile […] Difficile? Sí, sarà difficile. Voi avete frantumato le montagne, avete piegato il duro ferro fino a renderlo docile come morbido stucco: i giganti della Foresta, gli Jötunn delle paludi portano covoni di grano maturo; Aegir, il demone del mare, allunga la schiena per offrirvi una lucida strada su cui voi possiate galoppare su cavalli di Fuoco e di Vento. Voi siete i piú forti. Thor dalla barba rossa, gli occhi azzurri di sole, il cuore allegro e il potente martello di tuono, lui e voi avete avuto la meglio. Voi siete i piú forti, voi Figli del gelido Nord, del lontano Oriente, marciando dalle aspre terre vergini dell’Est, fino alla grigia Alba dei Tempi! 26.

Aegir, il demone del mare? Jötunn delle paludi che portano covoni di grano? È lo stesso scrittore da cui Marx prese in prestito l’algida metafora del cash nexus? Quasi a indicare ciò che può accadere se si fanno troppe domande sul passato, le pagine piú contemporanee di Carlyle – il suo discorso alla nuova classe dirigente – diventano un’aberrazione arcaica in cui Thor dalla barba rossa e dal cuore allegro invece che legittimare i capi dell’industria li rende irriconoscibili. Bene o male che sia, allora, non ci fu nessun revival gotico nella letteratura vittoriana dominante, e il borghese dell’Ottocento attraversò una transustanziazione piú modesta: non un capitano – meno ancora un cavaliere – ma solo un gentiluomo. Pubblicato nel 1856, quando il romanzo industriale era all’apice della popolarità, il best seller di Dinah Craik, John Halifax, Gentleman, si apre con una scena in cui Fletcher, quacchero conciatore di pelli e proprietario di una fabbrica tessile, salva il

quattordicenne Halifax dalla fame offrendogli un lavoro. Sempre profondamente grato al suo benefattore, durante la carestia del 1800 Halifax si scontra in suo nome con i lavoratori della città, i quali hanno appreso che Fletcher detiene grandi scorte di grano e hanno posto la sua casa sotto assedio. Poiché Fletcher è quacchero, e si rifiuta di far intervenire i soldati, interviene Halifax facendo subito notare alla folla che «per chi dà alle fiamme la casa di un gentiluomo c’è l’impiccagione» 27; poi fa sentire loro «lo scatto della sua pistola» 28 (che in una scena successiva sparerà in aria) 29. A questo punto, Halifax è comunque ancora un semplice contabile, ma parla già da autentico capitalista: «era il suo grano, non il vostro. Un uomo non può forse fare quello che vuole con ciò che gli appartiene?» 30. Punto. Torniamo indietro nel tempo di qualche decennio. Quando si guarda all’«azione delle masse nel XVIII secolo», scrive E.P. Thompson, risulta chiaro che l’idea che «i prezzi dovessero, in tempi di carestia, essere regolati» non era solo una «profonda convinzione [degli] uomini e delle donne della massa», ma poteva anche «contare sul consenso piú ampio della comunità» 31. Ma le ultime sommosse del secolo, compresa quella citata in Halifax, ci portano in un territorio storico diverso. Le forme di azione che abbiamo esaminato dipendevano da un particolare tipo di relazioni sociali, un particolare equilibrio tra l’autorità paternalista e la massa. Questo equilibrio è stato scardinato durante le guerre, per due motivi. Primo, l’acuto antigiacobinismo dell’aristocrazia ha portato a una nuova paura di qualsiasi forma di attività popolare autointrapresa […] Secondo, la repressione è stata legittimata, nella mente delle autorità centrali e di molte autorità locali, dal trionfo della nuova ideologia dell’economia politica 32.

Il trionfo dell’economia politica: era il suo grano, non il vostro. Ma Halifax non è solo questo. Una volta sanzionato il diritto assoluto alla proprietà privata attraverso la minaccia della violenza fisica, egli passa a un registro completamente diverso; quando la sommossa si

placa, apre la cucina di Fletcher ai lavoratori affamati (benché rifiutandosi di dare loro la birra); in seguito dà ospitalità ai tessitori sfrattati dal padrone di casa Lord Luxmore, e continua a pagare loro il salario pieno nonostante la negativa congiuntura economica (anche se, di nuovo, «il vecchio e fatidico grido di “Abbasso le macchine!”» riceve come reazione istantanea «un lampo nello sguardo del padrone» 33). Che la sommossa per il pane debba concludersi con i lavoratori sconfitti che intonano «Evviva Abel Fletcher! Evviva i Quaccheri!» 34 è naturalmente ridicolo, ma si tratta di una risposta iperbolica a una domanda assolutamente sensata: considerata la natura conflittuale della società industriale, cosa devono fare gli industriali per ottenere il consenso dei lavoratori? La risposta di Halifax è chiara: «se foste venuti da Fletcher e aveste detto “Padrone, sono tempi difficili, il nostro salario non ci basta per vivere”, forse lui […] vi avrebbe dato il cibo che avete cercato di rubargli» 35, dice durante la rivolta del pane; e in seguito, a un gruppo di lavoratori disoccupati: «Perché non siete venuti a casa mia a chiedere onestamente una cena e una mezza corona?» 36. Venire da Fletcher, venire a casa mia: che espressioni rivelatrici. Il lavoratore è un mendicante: bussa alla porta del palazzo per chiedere, se non un lavoro, cibo ed elemosina. Eppure sono proprio questi i momenti in cui Halifax esercita un maggiore controllo sui lavoratori, i momenti in cui è piú «egemonico», per cosí dire. «Supponiamo che decidessi di darvi qualcosa da mangiare», dice nel momento cruciale, «voi poi mi ascoltereste?» 37; e poi, «guardandosi intorno con un sorriso»: «“Bene, miei uomini, avete mangiato a sufficienza?” “Oh, sí!” esclamarono tutti. E uno aggiunse “Grazie al Padrone!”» 38. Come possono gli industriali ottenere il consenso dei propri lavoratori? La risposta del romanzo, in linea con il déjà-là di Boltanski e Chiapello, spiega il dominio di Halifax sui lavoratori grazie all’adozione di valori pre-capitalisti; in particolare di quella «concezione patriarcale del rapporto servo/padrone» alla quale il capitalismo dell’Ottocento diede «nuova vita come supporto ideologico piú facilmente adattabile e immediato per la diseguaglianza insita nel contratto salariato» 39. Padrone e servo:

cosí comincia la metamorfosi del borghese unilaterale in un gentiluomo egemonico. Il paternalismo del padrone, che promette di prendersi cura dell’intera vita dei lavoratori – «Bene, miei uomini, avete mangiato a sufficienza?» – in cambio della loro docilità bendisposta. Ma c’è una differenza rispetto al paternalismo dell’«economia morale» di Thompson: quest’ultima era condivisa da una porzione significativa della classe dirigente e, in alcune occasioni, sopravvisse persino nei documenti ufficiali; sebbene in declino, era una forma di politica pubblica. Il paternalismo di Craik, invece, è una scelta puramente etica (come dimostra l’onnipresente riferimento alla «bontà» nelle recensioni dell’epoca); Halifax si comporta cosí perché è un gentiluomo, nel senso di uomo gentile; un cristiano, un evangelico. È una scelta importante, da parte dell’autrice, ma allo stesso tempo problematica. È importante perché nel sovrapporre spudoratamente l’etica cristiana alla figura dell’industriale, Halifax introduce un ingrediente chiave – che incontreremo di nuovo nel corso di questo capitolo – al mosaico della cultura vittoriana. Tuttavia, piú Halifax si comporta in modo encomiabile, e piú la sua diventa una figura atipica all’interno della classe dirigente; come di fatto dimostrano ampiamente i suoi innumerevoli scontri con altri personaggi della classe superiore. Se l’etica doveva far parte dell’egemonia sociale, allora bisognava trovare una soluzione piú flessibile rispetto a questo eroe immacolato. E cosí, negli stessi anni di Halifax, un altro romanzo industriale spostò il fulcro del problema dalla purezza morale dei singoli personaggi alla natura particolare delle loro relazioni.

PAROLE CHIAVE V.

Influenza.

Non c’è città al mondo, scrive il canonico Parkinson in On the Present Condition of the Labouring Poor in Manchester, dove la distanza tra il ricco e il povero è cosí grande, o la barriera che li separa cosí difficile da attraversare. La separazione tra le diverse

classi, e la conseguente ignoranza reciproca di abitudini e condizioni, sono ben piú complete in questo luogo che in qualsiasi altro paese delle nazioni europee piú antiche, o delle zone agricole del nostro regno. C’è molta meno comunicazione personale tra il filatore capo e i suoi operai […] che tra il duca di Wellington e l’operaio piú umile della sua tenuta 40.

Comunicazione personale. «Anche l’uomo orgoglioso della sua indipendenza», dice l’eroina di Nord e Sud, Margaret Hale, all’industriale tessile Thornton, «dipende invece da quelli che lo circondano e che inconsciamente hanno influenza sul suo carattere» 41; e nella sua analisi del romanzo, Catherine Gallagher ha scelto proprio questo brano per riflettere sull’«influenza» come fulcro simbolico del libro 42. Parola interessante, «influenza»: ha origine nell’ambito dell’astrologia, dove indicava il potere delle stelle sugli eventi umani, ma verso la fine del XVIII secolo acquisisce il significato piú generale di «capacità di produrre effetti tramite mezzi impercettibili o invisibili, senza l’impiego di forza materiale o autorità formale» (OED). L’assenza di forza e autorità formale la distingue dal potere in senso stretto, dove entrambi gli elementi sono invece essenziali, e la allinea invece alla «egemonia» di Gramsci: una forma di dominio in cui i «mezzi impercettibili o invisibili» – il «processo molecolare» evocato all’interno dei Quaderni in Egemonia e democrazia 43 – giocano un ruolo davvero decisivo. L’influenza come (un aspetto della) egemonia. Ma cosa possono concretamente significare i «mezzi impercettibili» e il «processo molecolare» in un posto come Manchester? «Nel villaggio» o «nelle piccole città», scrive Asa Briggs, «il potere della religione si basava sul contatto e sull’influenza personali»; tuttavia, man mano che le città si facevano piú grandi e «la separazione tra quartieri borghesi e quartieri operai si faceva sempre piú accentuata», la sua efficacia fu definitivamente compromessa 44. In una città come Manchester c’erano i giornali, che potevano «fabbricare» (metafora usata da Briggs) ogni sorta di «opinioni»; ma in confronto alla forza del contatto personale, le opinioni restavano superficiali e instabili 45. E cosí, nel suo tentativo di ricreare uno spazio per l’«influenza», Nord

e Sud inverte la tendenza storica: si apre con una serie di episodi in cui vengono poste in primo piano diverse «opinioni» – industria e agricoltura; cultura classica e conoscenze pratiche; padroni e uomini – che a loro volta si dimostrano incapaci di impedire una crisi sociale; e poi, dopo una scena straordinaria in cui un personaggio fino a quel momento pacifico strappa un giornale con i denti 46, il romanzo torna alla strategia piú antica del «contatto personale» come unica soluzione possibile al «problema» industriale. Un contatto triangolare, per la precisione: fra l’industriale Thornton e Margaret Hale (la «borghesia della cultura» che è la mediatrice del romanzo); fra Margaret e l’(ex) sindacalista Higgins; e infine – ripristinando quella «comunicazione personale tra il filatore capo e i suoi operai» espressa da Parkinson – fra Thornton e Higgins. «Sono giunto alla convinzione che nessuna semplice istituzione, per quanto saggia […] riesca ad amalgamare una classe all’altra come andrebbe fatto», dichiara Thornton verso la fine del romanzo, «a meno che non elabori dei progetti che portino gli individui delle diverse classi a un reale contatto personale. Questa relazione è proprio il fulcro della vita umana» 47. «E pensate che questo sistema potrebbe prevenire l’insorgere di scioperi?» chiede il suo interlocutore andando dritto al punto. «Un uomo piú fiducioso potrebbe immaginare che un rapporto piú stretto e amichevole tra le classi potrebbe eliminare gli scioperi», risponde Thornton: «Ma io non sono un uomo fiducioso […]. La mia massima aspettativa arriva soltanto a questo: potrebbe evitare che gli scioperi siano le amare e velenose fonti di odio che sono state fino ad oggi» 48. Amare e velenose fonti di odio… Ecco come il narratore descrive il nuovo stato di cose: E cosí nacque quella relazione, che sebbene avrebbe potuto non avere l’effetto di prevenire tutti i futuri scontri in opinioni e azioni, quando se ne fosse presentata l’occasione, avrebbe, ad ogni modo, consentito sia al padrone sia all’operaio di giudicarsi con piú benevolenza e comprensione, e di sopportarsi con piú pazienza e cortesia 49.

Avrebbe potuto… avrebbe ad ogni modo consentito… con piú benevolenza… con piú pazienza… Non è facile dire che cosa facciano in realtà l’«influenza» e la «relazione». «Padrone e lavoratore» restano ancora tali, e il loro «futuro scontro» rimane assolutamente possibile; le uniche differenze sono quelle proposizioni avverbiali – «ad ogni modo», «con piú benevolenza», «con piú pazienza e cortesia» – che stendono una patina virtuosa sopra l’aspra realtà delle relazioni sociali. E dunque Raymond Williams aveva ragione nel liquidare l’epilogo di Gaskell come «ciò che noi ora chiamiamo “il miglioramento delle relazioni umane nell’industria”» 50; ma se questo è vero, vale anche la pena segnalare quanto tale risoluzione ideologica funzioni male. Che sequenza verbale contorta: un passato remoto narrativo («e cosí nacque»), un condizionale negativo per descrivere il futuro («avrebbe potuto non avere l’effetto»), un congiuntivo sospeso tra realtà e possibilità («quando se ne fosse presentata l’occasione»), e un altro condizionale doppiamente esitante («avrebbe, ad ogni modo, consentito»). Abbiamo raggiunto il «fulcro» ideologico del romanzo: e la frase non riesce a decidersi tra il modo della realtà e quello della mera possibilità. «Una volta messo faccia a faccia, uomo a uomo, con un individuo di quelle masse che lo circondavano», recita un altro brano sul potere dell’influenza, «e – da notare bene – svestendo entrambi i ruoli di padrone e operaio, in primo luogo ciascuno aveva iniziato a riconoscere che “noi uomini abbiamo tutti un unico cuore”» 51. Qui la lingua è, se possibile, ancora piú tortuosa: un’apertura in terza persona singolare («che lo circondavano»); un cambio alla costruzione impersonale dell’imperativo («da notare bene») evidentemente – benché goffamente – rivolto ai lettori; poi di nuovo una terza persona («ciascuno aveva iniziato»); e un finale che trasforma il solitario mendicante di campagna di Wordsworth nella collettività dell’Inghilterra industriale («noi uomini abbiamo tutti»). Le parole si rifiutano proprio di collaborare con la politica di Gaskell: se l’enunciato precedente non riusciva a scegliere tra il reale e il possibile, questo non sa neanche decidere quale debba essere il suo soggetto, con un tono poi che passa imprevedibilmente dal distaccato all’impositivo e al sentimentale.

«Soluzione immaginaria alle difficoltà reali» è la celebre formula di Althusser per l’ideologia; ma questi goffi enunciati cacofonici sono il contrario di una soluzione. Eppure, Nord e Sud è probabilmente il piú intelligente fra i romanzi industriali, e l’influenza è davvero il suo centro di gravità: il fatto che non riesca a conferirle un significato intelligibile è dunque il segno di una piú ampia difficoltà nell’immaginare come possa concretizzarsi una «egemonia intellettuale e morale» – per usare un’altra espressione gramsciana 52 – nella nuova società industriale. Nella prossima sezione ridurremo la scala di analisi per cercare i «mezzi invisibili» della sua propagazione a un livello davvero «molecolare».

PROSA V

Aggettivi vittoriani.

Per essere un libro morbosamente attento alla vita pratica, il successo editoriale di Samuel Smiles, Self-Help (1859), mostra una curiosa fissazione per… gli aggettivi. Il fallimento, leggiamo nella prefazione, è «la miglior disciplina del buon operaio, perché lo incita a nuovi cimenti, ne ravviva le forze piú elette…» 53. Come se Smiles non potesse pensare a un sostantivo senza subito attribuirgli una qualifica: paziente risoluzione, lavoro determinato, ferma integrità, solida reputazione, mano diligente, lavoratori energici, uomo forte e pratico, infaticabile perseveranza, virile formazione inglese, gentile coercizione… All’inizio credevo fosse un’ossessione solo di Smiles. Poi ho cominciato a vedere moltitudini di aggettivi in ogni testo vittoriano che leggevo. Mi ero forse imbattuto nel segreto stilistico di quell’epoca? Un algoritmo grammaticale analizzò i 3500 romanzi dello Stanford Literary Lab, e pronunciò il suo verdetto: no. I vittoriani usavano gli aggettivi tanto quanto gli altri scrittori dell’Ottocento; la frequenza delle occorrenze si manteneva in una costante, lieve altalena nell’arco di cento anni, sempre all’interno della fascia 5,7 / 6,3 per cento (anche se la frequenza in Smiles era effettivamente piú alta, oltre il 7 per cento). Ma se l’ipotesi quantitativa si era

chiaramente rivelata falsa, c’era un’altra cosa da rilevare a livello semantico. Nella prosa di Smiles si formavano gruppi di parole: costrutti come «strenua applicazione individuale», «lavoratori energici», e «vigoroso sforzo», per esempio, evocavano il campo semantico del duro lavoro fisico: strenuo, energico, vigoroso. Poi, all’estremità opposta dello spettro, si materializzava un campo etico veicolato da espressioni quali «spirito coraggioso», «personalità retta», «virile formazione inglese» e «gentile coercizione». Ma il tipo di aggettivi che ha conferito a Self-Help il suo gusto particolare appartiene a un’area non meglio definita tra questi due poli: «invincibile determinazione», «paziente risoluzione», «lavoro costante», «impegno assiduo», «infaticabile perseveranza», «mano diligente», «uomo forte e pratico»… A che cosa si riferivano questi aggettivi: al lavoro o alla morale? A tutti e due, probabilmente, come se non ci fosse una vera differenza tra l’ambito fisico e quello morale. E in effetti, dopo aver osservato con attenzione questo corposo gruppo intermedio, la classificazione data in precedenza cominciò a offuscarsi: la «strenua applicazione individuale» era un tratto pratico o morale? E la formazione inglese «virile» non aveva forse conseguenze soprattutto pratiche? Che stava succedendo con gli aggettivi di Self-Help? Torniamo indietro di un secolo e analizziamo l’uso di «forte» (strong) in Robinson Crusoe. Nel romanzo c’è una manciata di espressioni come «forti pensieri» o «forte inclinazione», ma la parola è quasi sempre associata a entità del tutto concrete come «zattera», «corrente», «palizzata», «recinto», «risucchio», «vaso» o «bosco». Un secolo e mezzo dopo, Nord e Sud – un romanzo che parla di uomini e macchine, dove la forza fisica è chiaramente importante – inverte la tendenza: ci sono un paio di «corporatura forte e massiccia», o di «braccia forti», ma decine di «volontà forte», e forti desideri, tentazioni, orgoglio, sforzo, obiezioni, sentimenti, affetti, verità, parole o gusti intellettuali. In Self-Help, l’aggettivo «forte» si associa con maggior frequenza alla volontà, seguita da inventiva, patriottismo, istinto, propensione, anima, risoluzione, buon senso, temperamento e tolleranza. Cultura e anarchia (1869) di Matthew Arnold aggiunge: forte ispirazione, individualismo, credenza, qualità

aristocratiche, sagacia e buon gusto. Prendiamo ora l’aggettivo «pesante» (heavy). In Robinson, a parte pochi casi in cui si riferisce al «cuore», a essere pesanti sono rami, barili, pali, legno, pestello, mola, pastrani e altri oggetti vari. In Halifax, troviamo che sono pesanti gli sguardi, le preoccupazioni, i sospiri, le responsabilità, le note, le notizie, le disgrazie – e molte di queste cose compaiono in piú occorrenze; in Nord e Sud, sono pesanti la pressione, il dolore, l’umidità delle lacrime, la vita, le angosce e gli spasmi dell’agonia; ne Il nostro comune amico, si parla di pesantezza riferita all’espressione del volto, agli occhi, a qualcosa di inintelligibile, ai sospiri, alle accuse, alle delusioni, ai rancori e ai riflessi. Prendiamo infine l’aggettivo «oscuro» (dark). In Robinson Crusoe indica assenza di luce, punto e basta. In Nord e Sud abbiamo un aspetto oscuro e lugubre, i luoghi oscuri del cuore, gli oscuri e sacri meandri del cuore, una nube oscura sul volto, rabbia oscura, ore oscure, e «l’oscura rete delle sue attuali fortune». Ne Il nostro comune amico, oscure sono le cospirazioni, l’attenzione, il sonno, una combinazione, un cenno del viso, un signore, l’anticamera di questo mondo, un sorriso, certi affari, uno sguardo, una nube di sospetto, un’anima, un’espressione, una motivazione, una faccia, una transazione e una parte della storia. In Middlemarch sono oscuri i periodi, i tempi, i territori della patologia, il silenzio, uno stormo di malaugurio e il ripostiglio della memoria verbale. Si potrebbero facilmente aggiungere altri esempi – duro (hard), fresco (fresh), acuto (sharp), debole (weak), secco (dry)… – ma il concetto è chiaro: in epoca vittoriana, vi è un numeroso gruppo di aggettivi che prima indicavano tratti fisici e ora cominciano a essere ampiamente applicati a stati emotivi, etici, intellettuali o persino metafisici 54. In questo processo, gli aggettivi diventano metaforici, e dunque acquisiscono quel tono emotivo che è tipico di questo tropo: se applicati a «staccionata» e «caverna», «forte» e «oscura» indicano robustezza e assenza di luce, se applicati a «volontà» e «espressione del viso» esprimono un verdetto positivo o negativo – metà etico e metà sentimentale – al sostantivo a cui si riferiscono. Il loro significato è cambiato e, cosa ancora piú importante, è cambiata anche la loro natura: il punto non è piú dare un contributo verso

«l’esattezza, la distinta determinatezza e chiara intelligibilità» della prosa di Hegel 55, bensí trasmettere un giudizio di valore in miniatura 56. Non una descrizione, ma una valutazione. Giudizi di valore, dunque: ma di un tipo molto particolare. In uno studio recente, Ryan Heuser e Long Le-Khac hanno tracciato con un grafico il calo nella frequenza dei campi semantici riferiti a «valori astratti», «moderazione sociale», «valutazione morale» e «sentimento» nei romanzi inglesi dell’Ottocento 57. Quando hanno presentato per la prima volta i risultati, la mia è stata una reazione di scetticismo: possibile che sentimento e valutazione morale diventino meno frequenti nell’epoca vittoriana? No, impossibile. Ma le loro prove erano ineccepibili. E poi, un altro dei loro risultati ha spiegato l’arcano: tra i campi semantici la cui frequenza era in aumento, c’era un gruppo di aggettivi che quasi si triplicava nel corso del secolo, e ricadeva pressoché senza eccezione – duro (hard), ruvido (rough), piatto (flat), tondo (round), limpido (clear), acuto (sharp) – nel gruppo che ho già descritto (e che rivelava le stesse associazioni metaforiche, come rilevato da un grafico inedito delle collocazioni di «acuto»: occhi, voce, sguardo, dolore…) Lo studio di Heuser e Le-Khac suggerisce che i giudizi di valore assunsero piú di una forma nella narrativa dell’Ottocento. Un primo tipo, in cui il giudice è chiaramente visibile e il cui lessico è apertamente valutativo – vergogna (shame), virtú (virtue), principio (principle), gentile (gentle), morale (moral), indegno (unworthy) – subí un netto calo nel corso del secolo. Ma nel frattempo, con l’aumento degli «aggettivi vittoriani», era diventato possibile un nuovo tipo di giudizio: un giudizio al tempo stesso piú penetrante (gli aggettivi sono praticamente ovunque) e molto piú indiretto: perché gli aggettivi di fatto non «valutano» – nel senso di atto comunicativo esplicito e discorsivo – ma postulano un determinato tratto come pertinente all’oggetto stesso. E sono doppiamente indiretti, certo, quando il giudizio assume una forma metaforica, in cui affermazione fattiva e reazione emotiva tendono a diventare inscindibili. Cercherò di essere il piú chiaro possibile riguardo al tipo di «giudizio» espresso dagli aggettivi vittoriani. Quando Gaskell, in Nord e Sud, scrive che «l’espressione del suo viso, sempre severa,

sprofondò in una rabbia oscura», o quando Smiles, in Self-Help, parla del «forte buon senso» di Wellington, il testo esprime un giudizio il cui vero giudice non c’è. È come se il mondo volesse dichiarare il suo significato per conto proprio, senza l’intervento di nessuno. E poi, le parole che trasmettono il giudizio in questione – nel nostro caso «sprofondò», «oscura» e «forte» – possiedono una portata valutativa limitata: esse indicano, rispettivamente, un’opinione negativa e positiva sull’espressione della signora Thornton, e sul buon senso di Wellington, ma rimangono ben piú deboli di termini come «indegno» e «morale», per non parlare di «vergogna» e «virtú». Gli aggettivi vittoriani funzionano mediante lievi pennellate di poche pretese – possono permettersi questo lusso, considerata la frequenza con cui appaiono nei testi – che si accumulano in modo quasi impercettibile, andando a comporre una «mentalità» per la quale è impossibile trovare un’esplicita dichiarazione che la sostenga. E un tratto tipico di questa mentalità è il fatto che i valori morali non si collocano in primo piano come tali (come era invece per i giudizi all’inizio dell’Ottocento), ma restano inscindibilmente legati alle emozioni. Prendiamo l’aggettivo «oscura» che descrive la signora Thornton in Nord e Sud: in quella parola c’è una sensazione di principî infranti, di rigidità individuale, e anche di una certa bruttezza, oltre che la minaccia di una possibile esplosione improvvisa; c’è un lato «oggettivo» (che descrive lo stato emotivo della signora Thornton), e un lato soggettivo (che riferisce i sentimenti del narratore). Ma la gerarchia di questi vari fattori resta indefinita, cosí come il confine tra l’oggettivo e il soggettivo. È questa miscela etico-emotiva che costituisce il vero «significato» degli aggettivi vittoriani. Aggettivi vittoriani: minore chiarezza etica, maggiore forza emotiva; minore precisione, maggiore significato. «Il contrassegno piú proprio delle anime moderne, dei libri moderni», scrive Nietzsche ne La genealogia della morale, è il «modo di parlare scandalosamente moralizzato che a poco a poco ha reso viscido ogni giudizio moderno sugli uomini e le cose» 58. Viscido… Forse troppo. Ma quel «modo di parlare moralizzato» è senza dubbio la verità del vittorianesimo. Moralizzato, piú che morale: ciò che conta

non è tanto il contenuto del codice etico (una prevedibile miscela di cristianesimo evangelico, immaginario ancien régime ed etica del lavoro) quanto la sua inaudita onnipresenza; il fatto che, nell’universo vittoriano, tutto ciò che esiste ha un qualche significato morale. Non molto, forse; ma sempre presente. È questa incrostazione di giudizi di valore sopra la concretezza che rende gli aggettivi vittoriani cosí rappresentativi della cultura nella sua totalità. E anche tanto rappresentativi di un fondamentale punto di svolta nella storia della prosa moderna. Fino a questo momento, attraverso una serie di scelte piccole e grandi – la grammatica della irreversibilità, il rifiuto di significatività allegorica, la ricerca «verbosa» della precisione, le «teorie fatte a pezzi» dal principio di realtà, il rispetto analitico per i particolari, la severa oggettività dello stile indiretto libero – la prosa borghese si era mossa nella generale direzione del disincanto weberiano: un notevole avanzamento nella precisione, nella verità e nella compattezza, ma un avanzamento che non poteva piú «insegnarci qualcosa sul senso del mondo» 59. Bene: gli aggettivi vittoriani sono tutto significato. Nel loro mondo, tutto ciò che esiste ha un qualche significato morale, ho appena scritto, e cosí facendo intendevo sottolineare soprattutto «qualche» e «morale». Ma si potrebbe facilmente spostare l’accento: con gli aggettivi vittoriani, tutto ciò che esiste ha un qualche significato morale. Forse abbiamo un’idea piú vaga di ciò che «è», ma di certo sappiamo come ci si sente di fronte a esso. È cominciato il nuovo incantamento del mondo, al massimo livello «molecolare». Che cosa ha reso la precisione piú importante del significato? chiedevo in Secolo serio. Qui dovremmo capovolgere la domanda: che cosa ha reso il significato piú importante della precisione? E che cosa succede, una volta che questo succede?

PAROLE CHIAVE VI.

Serio [«Earnest»].

Aggettivi come veicoli quasi invisibili di valori vittoriani. Uno di loro, tuttavia, non era affatto invisibile. «Dobbiamo al dottor Arnold e

ai suoi ammiratori», scrisse la «Edinburgh Review» nel 1858, nella recensione al romanzo Gli anni di scuola di Tom Brown (1857), ambientato a Rugby, «l’introduzione del termine earnest in sostituzione del suo predecessore serious» c. «Sostituzione» è una parola troppo forte per ciò che è successo in realtà, ma non c’è dubbio che la distanza fra i due termini si sia drasticamente ridotta nella parte centrale del secolo 60. Evidentemente i vittoriani trovarono in «earnest» qualcosa che consideravano importante, e che in «serious» mancava. Ma cosa? Il profeta Maometto era «uno di quelli che non possono essere altro che scrupolosi [earnest]», scrive Carlyle in Gli eroi e il culto degli eroi: uno di quelli «che la natura stessa ha scelto per essere sinceri» 61. Sincerità: è questa la chiave. Non che «serious» implichi la mancanza di sincerità, certo; ma la sua attenzione sulle conseguenze reali delle proprie azioni – lo «scopo preciso […] che persegue instancabilmente» di Schlegel – relega la sincerità al margine della questione. Per chi è «earnest», invece, i risultati oggettivi di un’azione sono meno importanti dello spirito con cui è stata portata a termine; e poi la parola «azione» non è neanche del tutto giusta perché – se la serietà è effettivamente orientata all’azione e temporanea (si diventa seri al fine di fare qualcosa) – «earnest» indica una qualità piú permanente: ciò che uno è, non ciò che uno sta facendo in un determinato momento. Il Maometto di Carlyle era sempre «earnest». Due termini quasi sinonimi, uno dei quali possiede una componente morale che all’altro manca. Costretti a condividere lo stesso stretto spazio semantico, «earnest» e «serious» amplificarono le proprie differenze stabilendo un’antitesi che, per quel che mi risulta, esiste solo in inglese 62, e che ha come risultato una perdita di neutralità di «serious», che acquista invece un’accezione negativa 63. Ma se anche la parola «serious» poteva essere esiliata a una sorta di purgatorio linguistico, l’oggettiva «serietà» della vita moderna – affidabilità, rispetto dei fatti, professionalità, chiarezza, puntualità – continuava a essere esigente come sempre, ed è qui che «earnest» realizzò il suo piccolo miracolo semantico: preservare la tonalità fondamentale dell’esistenza borghese, soprattutto nella frase avverbiale in earnest

(«sul serio»), donandole allo stesso tempo un significato eticosentimentale. È la stessa sovradeterminazione semantica degli altri aggettivi vittoriani, ma applicata all’aspetto centrale della società moderna. Non sorprende, dunque, che «earnest» sia diventato la parola d’ordine della Gran Bretagna vittoriana. La Gran Bretagna vittoriana… In linea generale, questo concetto ha attraversato due fasi importanti, durate circa mezzo secolo ognuna. La prima fu principalmente legata – per citare ancora una volta la meravigliosa invettiva di Nietzsche – alla «mendacia moralistica» dei vittoriani; la seconda alle strutture di potere della sua società. Due libri di Steven Marcus possono essere usati come guida alle due cornici interpretative: Gli altri vittoriani (1966) offre la definitiva e pirotecnica condanna dell’ipocrisia vittoriana; Engels, Manchester e la classe lavoratrice (1974) inaugura il nuovo paradigma in cui la categoria del vittorianesimo perse la sua evidenza e lo stesso termine «vittoriano» (cosí rilevante agli inizi del secolo, da Eminenti Vittoriani di Lytton Strachey a The Victorian Frame of Mind di Houghton a L’Inghilterra vittoriana: i personaggi e le città di Briggs fino, appunto, a Gli altri vittoriani) venne sostituito titolo dopo titolo da «classe», «polizia», «corpo politico», «riforma industriale», «storia politica» o «corpo economico». Il vittorianesimo non era scomparso del tutto, ma aveva chiaramente perso il suo valore concettuale, per sopravvivere solo come etichetta cronologica del capitalismo di mezzo secolo, o piú in generale del potere. Nella misura in cui parlare di vittorianesimo poteva essere un modo per non parlare di capitalismo, il lavoro degli ultimi quarant’anni mi sembra abbia un senso. Ma chiaramente questo capitolo vuole sottolineare come tale concetto abbia ancora molto da offrire all’analisi critica del potere. Prima, tuttavia, dovremmo «estrarre» il vittorianesimo dal corso della storia britannica, e collocarlo nel contesto comparativo dell’Europa borghese dell’Ottocento. Questo non implica «esportare» il concetto ad altri paesi, come ha fatto Peter Gay in The Bourgeois Experience, con il dubbio risultato di una (mezza) Europa vittoriana. Per me, il vittorianesimo resta un tratto eminentemente britannico; ma nel senso che è la risposta specificatamente britannica a una

problematica comune a tutta Europa. La peculiarità nazionale è preservata, ma solo come uno dei possibili risultati di una matrice storica: e il vittorianesimo diventa un argomento di discussione per i comparatisti, cosí come per i vittorianisti. La peculiarità era naturalmente la preminenza britannica all’interno del capitalismo dell’Ottocento, che fece del vittorianesimo il primo esempio di egemonia culturale della storia moderna. «Vien cosí per ogni mortale l’istante in cui l’auriga del suo destino gli passa le redini. Il male si è che l’uomo non conosce quell’istante», dice Marianna nella grande tragedia di Hebbel 64. Per il borghese, quel momento critico arrivò nella Gran Bretagna di metà XIX secolo, e le scelte fatte allora ebbero un enorme peso nell’erodere le rappresentazioni «realistiche» (Marx) o «disincantate» (Weber) della modernità. Pensiamo agli stratagemmi stilistici discussi in questo capitolo: la «motivazione» narrativa del desiderio sessuale; le parentesi sintattiche entro cui chiudere le verità scomode; l’ornamento del potere attuale con diritti antichi; la riscrittura etica delle relazioni sociali; il velo metaforico che gli aggettivi proiettano sulla realtà: tanti modi diversi di rendere «significativo» (o non insignificante, a seconda del caso) il mondo moderno. Il significato che diventa piú importante della precisione: molto piú importante. Se il primo borghese era stato, in linea generale, un uomo di conoscenza, la miscela vittoriana di sentimentalismo e diniego lo ha trasformato in un essere che temeva la conoscenza e la odiava. Ed è questa la creatura che ora dobbiamo incontrare. «Chi non ama la Conoscenza?» Torniamo a Gli anni di scuola di Tom Brown, il romanzo scelto dalla «Edinburgh Review» per le sue riflessioni sull’aggettivo «earnest». «Devo dirgli […] che lo mandiamo a scuola perché diventi un bravo studioso?» si domanda il signor Brown, gentiluomo di campagna, quando suo figlio Tom sta per partire per Rugby. «Be’, ma non lo mandiamo a scuola per quello», si corregge: «le particelle

greche o il digamma» non sono ciò che importa; piuttosto «che diventi un inglese coraggioso, utile e onesto, e un gentiluomo, e un cristiano, non voglio altro» 65. Coraggioso, sincero, gentiluomo e cristiano: ecco a cosa serve il collegio di Rugby. E il rettore (quello vero, Thomas Arnold, non quello della finzione) è d’accordo: «Quello che ci preme, qui», dice ai ragazzi piú grandi ai quali delegava con piacere la propria autorità, «prima di tutto sono i principî religiosi e morali; secondo, una condotta da gentiluomo; terzo, la capacità intellettuale». Terzo, la capacità intellettuale. «Se fosse [la fisica] la prima cosa nella testa di mio figlio», aggiunge in un momento di minore cautela, «gli lascerei volentieri credere che il sole gira intorno alla terra» 66. Il sole che gira intorno alla terra. Lo scolaro Tom Brown ha abbastanza buon senso per non crederci; eppure, quando alla fine del romanzo gli viene chiesto che cosa desideri «portare via con sé» da Rugby, si rende conto di non saperlo; e poi: «Voglio essere bravissimo al cricket e al calcio, e a tutti gli altri sport […] e voglio compiacere il Dottore; e voglio portarmi via latino e greco a sufficienza da farmi arrivare rispettabilmente a Oxford» 67. Lo sport; poi l’approvazione del Dottore; per ultimo – anche in ordine di importanza – imparare «a sufficienza» per affrontare meccanicamente un altro ciclo di istruzione. Su almeno una cosa, dunque, gentiluomo di campagna, rettore e ragazzo si trovano perfettamente d’accordo: la conoscenza si colloca nel punto piú basso della gerarchia educativa. È il primo elemento dell’antiintellettualismo vittoriano, radicato nella visione militar-cristiana che la vecchia élite ha del mondo, e riportato a nuova vita a metà secolo dalle sue scuole piú prestigiose (e piú avanti dalle carriere professionali dell’Impero). Ma non è l’unica forza a spingere in quella direzione. «Come ci piace vedere […] questo insensibile, apparentemente opaco, talvolta imbronciato, quasi stupido Uomo della Pratica», scrive Carlyle in Past and Present, «contrapposto a qualche luminoso e abile Uomo della Teoria» 68; e come era prevedibile non ci vuole molto perché il quasi stupido Uomo della Pratica venga svergognato dal suo abile rivale 69. «Il genio non è indispensabile», aggiunge Samuel Smiles in un capitolo intitolato

Applicazione e perseveranza 70; quanto a «le scuole, le accademie, i professori», anch’essi sono sopravvalutati; è molto meglio l’istruzione «che giornalmente si riceve fra le pareti domestiche, per le vie, nelle botteghe, al telaio come all’aratro, in ogni luogo insomma dove si accoglie gente affaccendata» 71. Laboratori e telai al posto di scuole e accademie. «La rivoluzione industriale fu poco debitrice alla teoria scientifica», osserva Houghton, e di conseguenza «il successo stesso della prima tecnologia, invece di incoraggiare la ricerca scientifica, confermò l’anti-intellettualismo innato nella mente imprenditoriale» 72. L’antiintellettualismo è «l’anti-semitismo dell’uomo d’affari», fa eco Richard Hofstadter, che ne ha tracciato la traiettoria dalla Gran Bretagna vittoriana fino agli Stati Uniti del dopoguerra 73. Non si tratta, però, dell’allegra barbarie del gentiluomo di campagna Brown, con le sue particelle greche e il digamma; una società industriale ha bisogno di conoscenza; ma ne ha bisogno solo nella misura in cui è utile. Di nuovo quella parola: un grido di battaglia del vittorianesimo, dalla Società per la Diffusione della Conoscenza Utile, alle parole dell’industriale in Nord e Sud («chiunque sappia leggere e scrivere mi va bene per la quantità di conoscenze che ha e che sono come quelle che avevo io allora») 74, all’Idea di università di Newman («la cultura della mente è utile in senso proprio») 75, al malizioso commento di Bagehot riguardo a Scott – «nessun uomo ebbe un intelletto piú utile» 76 – e innumerevoli altri. Seguendo la conoscenza come un’ombra, la parola «utile» la trasforma in uno strumento: non piú fine a se stessa, la conoscenza viene prontamente guidata dagli aggettivi verso una funzione predeterminata e un orizzonte circoscritto. Conoscenza utile, ovvero: conoscenza senza libertà. Questo è ciò che accade all’estremo «prosaico» e popolare dello spettro vittoriano. Veniamo ora a Tennyson: Chi non ama la Conoscenza? Chi Ne insulterà la bellezza? Possa mescolarsi Agli uomini e prosperare! Chi ne segnerà I confini? Prevalga la sua opera 77.

Chi non ama la Conoscenza. Certo. Ma… Ma c’è una fiamma sulla sua fronte: Fissa lo sguardo ardito e si slancia Sulle occasioni offerte dal futuro E sottomette ogni cosa al suo piacere. Poco cresciuta, troppo giovane, vana, Non può combattere il timore della morte. Che cos’è, senza amore e senza fede, Se non una barbara Minerva, uscita Dal cervello di Dèmoni, che anela ardente A spezzare ogni barriera nella corsa Per il potere? Conosca il suo posto: È la seconda, non la prima 78.

Conoscenza con la «C» maiuscola. Ma se è «senza amore e senza fede» – se è «estranea», come direbbe il rettore Arnold, a tutto ciò che è «grande e buono» – allora diventa «poco cresciuta» e «barbara», mentre il «cervello» (brain) fa rima con «vana» (vain). E in un poema in cui l’enjambement è piuttosto raro, le sue tre occorrenze consecutive nell’originale 79 interferiscono cosí tanto con la nostra comprensione della sintassi che lo sdegnoso commento da aristocratico «Conosca il suo posto» esala un sospiro di sollievo metrico. E poi, naturalmente, «È la seconda, non la prima». Una piccola differenza? «È una differenza enorme, mettere la Verità al primo o al secondo posto», recita il motto posto in epigrafe a On Compromise (1874) di John Morley. Il primo posto significa autonomia; il secondo, subordinazione: … È la seconda, non la prima. Una mano piú alta deve renderla mite, Se tutto non è vano, e guidare I suoi passi, accanto alla saggezza,

Quasi fosse una figlia minore: Essa ha infatti una mente terrena, Ma la Saggezza ha un’anima celeste 80.

Una mano piú alta. Povera conoscenza. Quando non la si obbliga a essere «utile», deve essere buona. La sua unica consolazione: alla bellezza tocca di peggio. Nelle 20.000 parole di In Memoriam, la parola «bellezza» (beauty) appare… due volte. Una volta nel brano che abbiamo appena visto, dove, come attributo della conoscenza («Chi ne insulterà la bellezza?»), è essa stessa legata alla saggezza celeste; e un’altra volta qui: Proprio la mia oscura vita dovrebbe insegnarmi Che la vita durerà per sempre, O il cuore della terra sarebbe di tenebra E polvere e cenere ogni cosa. Questo mondo verde, questa sfera di fuoco Sono bellezze solo immaginarie, nascoste Nell’opera di qualche barbaro poeta Che non ha né fine né coscienza 81.

Fantastic beauty, bellezza immaginaria. Per Tennyson, l’aggettivo non è l’euforico modificatore di oggi; è come la «Fede Fantastica» dell’Ignoranza nel Pilgrim’s Progress: significa illusoria, effimera, pericolosa. Qualcosa che si annida «nell’opera di qualche barbaro poeta» (come la «barbara Minerva» della sezione CXIV ) che non ha «coscienza». Quel poeta è senz’altro il protagonista di un’altra strofa, che secondo suo figlio Tennyson aveva scritto ispirandosi al richiamo dell’«Arte per l’Arte» 82: Arte per l’Arte! Salve, o vero Signore degli Inferi! Salve o Genio, Maestro della Morale! «Persino il piú lurido dei dipinti, se ben dipinto, È piú potente del piú fine dei dipinti, se mal dipinto!»

Gli anni Cinquanta dell’Ottocento; gli anni in cui I fiori del male e Madame Bovary annunciano la nascita di quel campo letterario autonomo, dove un testo «può essere bello non soltanto senza essere buono ma per il fatto che tale non è» 83; e dunque sí, il piú osceno di tutti i dipinti, quando ben eseguito, è piú potente di un dipinto piú puro ma mal eseguito. Siamo di nuovo a Olympia e Il cavaliere errante. E ciò che vale per l’arte, continua Weber, vale anche per la scienza: dove «qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello né sacro né buono» 84. Vero, benché né bello, né santo, né buono: piú che un qualche contenuto specifico, è questa radicale separazione dalle sfere intellettuali a definire la novità della cultura borghese, e a fare della «Scienza come professione» il suo grandioso manifesto. Scienza e arte non devono essere né «utili» né «sagge»; devono solo seguire la loro logica interna. Autonomia. Ma è proprio contro questa autonomia che fu scritto il manifesto vittoriano.

PROSA VI

Nebbia.

«Sinora ho insistito principalmente sulla bellezza», scrive Matthew Arnold in apertura al secondo capitolo di Cultura e anarchia 85. Lo ha fatto veramente? Bisogna riconoscere che la bellezza ricorre 17 volte nell’arco di una decina di pagine; però è anche vero che la parola «perfezione» è già stata menzionata 105 volte, e «cultura» ben 152. Ma quel che è piú importante, è che alla «bellezza» di Arnold non è mai stato concesso di essere semplice bellezza; ogni volta che è stata nominata, c’è sempre stato un complemento etico ad accompagnarla: «divina bellezza», «accrescersi di saggezza e di bellezza», «la bellezza e il valore della natura umana», «la perfezione è un’armoniosa espansione di tutte le capacità che formano la bellezza e il pregio dell’umana natura» (due volte), «l’idea della bellezza, dell’armonia e della completa umana perfezione» (anche in questo caso, due volte), piú altre leggere variazioni intorno a bellezza e grazia.

La bellezza… moralizzata. In Memoriam. Ma c’è dell’altro. «Sinora ho insistito principalmente sulla bellezza, o grazia», prosegue Arnold: bellezza, vale a dire grazia. Grazia? «… principalmente sulla bellezza, o grazia, come un carattere della perfezione…» Bellezza, o grazia; grazia, o perfezione. Scatole cinesi. Dentro scatole – «Nel fare, cosí, della grazia e della luce i caratteri della perfezione, la cultura è animata da uno spirito affine a quello della poesia» 86 – e altre scatole – «al pari di quell’altro sforzo verso la perfezione che è la religione» 87 – finché non arriviamo alla Scatola di tutte le Scatole: perché «La ricerca della perfezione, dunque, è ricerca di grazia e di luce. Chi lavora per la grazia e la luce lavora per l’affermazione della ragione e della volontà di Dio» 88. Nebbia. «La bruma è la madre della saggezza», ironizzò Morley in On Compromise 89; probabilmente non pensava ad Arnold, ma avrebbe potuto: bellezza, dolcezza, luce, perfezione, poesia, religione, ragione, la volontà di Dio… Che cos’è questo? I concetti di Arnold sono forse cosí nuovi da poter emergere solo per approssimazione indiretta? No, non sono affatto nuovi; e non sono neppure il tipo di nozione – come «bambino», «mucchio», o «rosso» – in cui un certo grado di vaghezza è una condizione del significato 90. La loro porosità è, piuttosto, un modo di affermare la fondamentale e immutabile unità della cultura. Ciò che è bello deve essere anche buono e santo e vero. L’inizio del revival gotico, scrive Kenneth Clark, fu la decisione di escludere «i termini tecnici» dalla discussione sul nuovo Parlamento, e permettere ai «semplici valori umani» di prendere il loro posto 91. Semplici valori umani: gli uomini di cultura, scrive Arnold, «si sono industriati per spogliare il sapere di tutto ciò che fosse ruvido, bizzarro, difficile, astratto, professionale, esclusivo; per umanizzarlo, per renderlo efficace fuori della combriccola di persone erudite e dotte» 92. Sono la «facilità», la «grazia» e la «versatilità» di coloro che hanno ricevuto una «educazione liberale» ne L’idea di università di Newman 93. La crociata di Ruskin contro la «precisione meccanica»; o ancora, «la seducente presenza conversazionale» come sua «qualità piú distintiva» 94. E il risultato di tutto questo…

Il risultato è che la cultura non deve essere una professione. Da qui sale la nebbia che pervade ogni pagina di Cultura e anarchia: la naturalezza e la grazia del dilettante, alla deriva tra grandi valori umani, senza abbassarsi a quelle definizioni meccaniche che un professionista sarebbe obbligato a dare. Questo non significa che la vaghezza di Arnold sia invincibile: per sapere che cosa intende per «cultura», per esempio, non dobbiamo fare altro che dimenticare le insulse formule per cui è ricordato – «il meglio che si è pensato e conosciuto»: nebbia – e guardare invece le concordanze del termine: cosí all’interno dell’opposizione fra cultura e anarchia se ne materializza un’altra, in cui la cultura gravita intorno all’idea dello Stato, e l’anarchia gravita intorno alla classe operaia 95. Dunque sí, è possibile dissipare la nebbia e decifrare il messaggio che si nascondeva al di sotto. Ma se il messaggio fosse proprio la nebbia in sé? Dror Wahrman: Tra i poli della inclusività totale (radicale) e l’esclusività tagliente (conservatrice) si collocava «il linguaggio della classe media». L’abilità dei suoi fautori di camminare su questa linea sottile […] si basava sul fatto che in termini di significato sociale la lingua della «classe media» era intrinsecamente vaga. Pochi dei suoi fautori fecero un qualche tentativo di definirla o di specificarne i referenti 96.

Intrinsecamente vaga. La categoria della classe media aveva «una vaghezza intrinseca in relazione alle strutture sociali», aggiunge Wahrman altrove, «e in effetti questa vaghezza ha spesso soddisfatto lo scopo di chi la utilizzava» 97. Perfetta, questa affinità elettiva tra la retorica della vaghezza e il termine che ha espulso bourgeois dalla lingua inglese. Di come questa scelta semantica sia stata un gesto di mimetizzazione simbolica ho scritto nell’Introduzione; eppure il vittorianesimo è un’unica, lunga storia di mimetizzazione, dalle torrette gotiche ai gentiluomini cristiani, dall’ipotassi di Tennyson alle digressioni di Conrad, dai capitani di Carlyle agli aggettivi moralizzanti cosí come alla tanto celebrata earnestness di tutti quanti. La vaghezza è ciò che consente a questi spettri di sopravvivere alla luce del giorno; è la nebbia che mette a

riposo «l’inconfondibile definitezza» della prosa, e con essa la grande scommessa intellettuale della letteratura borghese 98.

b. Della Natura [N.d.R.] c. Entrambi traducibili con «serio», benchè l’aggettivo italiano non consenta di mantenere le diverse sfumature e accezioni di significato veicolate da serious e earnest [N.d.T.].

Capitolo quarto «Malformazioni nazionali»: metamorfosi nella semiperiferia

Balzac, Machado e il denaro. Poco dopo il suo arrivo a Parigi, l’eroe di Illusioni perdute, Lucien de Rubempré, consegna il manoscritto del suo primo romanzo al libraio Doguereau con la speranza che lo apprezzi e lo pubblichi. Colpito dal talento del giovane scrittore, Doguereau decide di offrirgli mille franchi ma poi, quando arriva a casa di Lucien, cambia idea: «Un giovane che abita qui», si dice, «ha gusti modesti […] posso dargli solo ottocento franchi» 1. La padrona di casa gli dice che Lucien abita al quarto piano, nel sottotetto: seicento franchi. Poi bussa alla porta e si trova davanti a una stanza di una «nudità disperante», dove non c’è altro che una ciotola di latte e un pezzo di pane. «È cosí, signore, che viveva Jean-Jacques», esclama Doguereau; «In questi alloggi brilla il fuoco del genio e si compongono le buone opere». E gli offre quattrocento franchi. A distanza di mezzo secolo, accade qualcosa di simile in Memorie dall’aldilà (1881) di Machado de Assis. Durante un viaggio da Coimbra a Lisbona, l’asino che Brás sta cavalcando lo disarciona; il suo piede sinistro rimane impigliato nella staffa, l’asino parte di slancio e le cose potrebbero mettersi molto male – «testa rotta, una congestione, qualche guaio interno» – se non fosse per un mulattiere che riesce a fermare la bestia «non senza sforzo, né pericolo». Senza pensarci troppo, Brás decide di dargli tre delle cinque monete d’oro che ha con sé; ma mentre si riposa e cerca di riacquistare la calma, comincia a pensare «se non fosse esagerata la gratificazione, se non bastassero due monete». Qualche altro momento e «infatti una moneta bastava a colmarlo di gioia». Alla fine, Brás ricompensa il mulattiere con un cruzado d’argento, e

mentre si allontana in groppa all’asino, si sente ancora un po’ incerto: «lo avevo pagato bene, lo avevo forse pagato troppo. Infilai le dita nella tasca del panciotto […] e trovai delle monete di rame […] che avrei dovuto dare al mulattiere, invece della moneta d’argento». Dopotutto, la sua presenza non indicava forse che era uno «strumento della provvidenza», e dunque «il merito del suo gesto era indiscutibilmente nullo»? Dopo questa riflessione, Brás rimane «desolato […] mi diedi del prodigo […] ebbi (perché non debbo dire tutto?) ebbi dei rimorsi» 2. Due episodi su come pagare il meno possibile per il lavoro di una persona. Ma la loro logica non potrebbe essere piú diversa. Nel caso di Doguereau – quanto di piú vicino al «capitale personificato» per un personaggio letterario – i sentimenti personali non entrano mai nell’equazione; egli osserva la via, l’edificio, la stanza e procede a una valutazione oggettiva del valore di mercato di Lucien: se uno vive di pane e latte in un sottotetto, il suo prezzo cala. Per contro, non c’è nulla di oggettivo nella sequenza di impulsi da cui si fa prendere Brás, bensí solo quella «subordinazione della realtà borghese all’arbitrarietà personale» 3 con cui Roberto Schwarz ha identificato il fulcro dell’opera di Machado de Assis: «una vittoria del capriccio» 4 senza «alcuna continuità di proposito» 5. Capriccio, da capra, per via dei suoi movimenti imprevedibili – e anche per le connotazioni infantili che il termine non ha mai perso del tutto. Negli eroi eternamente immaturi di Machado de Assis, le piccole cose diventano enormi, mentre quelle importanti si riducono a nulla: un personaggio in Quincas Borba (1891) va ad assistere a un’impiccagione senza pensarci due volte, tanto per ingannare il tempo; mentre Bento, il protagonista di Don Casmurro (1899), si irrita con un amico che gli ha rovinato il suo pomeriggio di sogni a occhi aperti per il fatto di essere… morto: «se Manduca avesse aspettato qualche ora a morire, nessuna nota sgradevole sarebbe venuta a interrompere le melodie del mio animo. Perché morire proprio mezz’ora prima? Qualunque ora si addice alla morte» 6. Quando non esiste piú la giusta misura, fiorisce il sentimento «sproporzionato» (Sianne Ngai) della irritazione 7. Nel capitolo trentuno di Memorie dall’aldilà, una farfalla nera entra nella stanza di

Brás e si posa su un dipinto, e «il suo modo tranquillo di mettersi a muovere le ali […] aveva una certa aria di scherno, che mi seccò molto» 8. Dopo qualche minuto, Brás sente che «i nervi» sono messi a dura prova, cosí afferra un asciugamano e colpisce la farfalla. Per ucciderla? Non proprio – anche se è esattamente quello che di solito accade, se si colpisce una farfalla con un asciugamano. Ma Brás non pensa alle conseguenze. E poi, come era prevedibile, la farfalla non muore, e Brás ha il tempo di «pentirsi» per quello che ha fatto – i personaggi di Machado si pentono sempre – e di crogiolarsi in un caldo sentimento di autoperdono. Ma poi la farfalla muore, ed ecco che sgorga una seconda ondata di fastidio, seguita da un secondo perdono: «Rimasi un po’ seccato, turbato. “Ma, diavolo, perché mai non era azzurra?” dissi fra me. E questa riflessione – una delle piú profonde che si sono fatte dall’invenzione delle farfalle – mi consolò del maleficio, e mi riconciliò con me stesso» 9. «La farfalla nera» contiene ottocento parole; il capitolo con il mulattiere ne ha novecento; la morte di Manduca, in Don Casmurro, settecento. È l’impatto del capriccio sul tempo narrativo: senza «alcuna continuità di proposito», per ripetere le parole di Schwarz; la trama è disarticolata in uno sciame di minicapitoli – 120 in Memorie; 148 in Don Casmurro; 201 in Quincas Borba – dove nell’arco di un paio di pagine un tema viene evocato, sviluppato, esagerato e abbandonato. Alla fine dell’episodio, il capriccio si guarda indietro per vedere cosa è accaduto, e scrolla le spalle: poteva andare diversamente. Sarebbe dovuta andare diversamente. Perché non era azzurra? Perché morire mezz’ora prima? È un attacco frontale al principio di realtà borghese, che raggiunge l’apice quando Bento descrive la sua meravigliosa versione di contabilità a partita doppia: un perfetto foglio di bilancio in cui il creditore è… Dio: Sin da bambino mi ero abituato a chiedere al cielo i suoi favori per mezzo delle preghiere, che avrei recitato se le grazie mi fossero state concesse. Recitai le prime, le altre furono differite, e a mano a mano che si sommavano venivano dimenticate. Cosí ero arrivato a venti, trenta, cinquanta; poi ero entrato nelle centinaia e ora nelle migliaia […]. La somma era enorme, perché ero gravato da promesse non

mantenute. L’ultima era stata di duecento paternostri e duecento avemarie, se non fosse piovuto un certo pomeriggio in cui dovevamo fare una passeggiata a Santa Teresa. Non piovve, ma io non recitai le preghiere 10.

Gravato da promesse non mantenute. Quando il suo primogenito muore, la madre di Bento promette che se il figlio successivo sopravvivrà, si farà prete. Il bambino nasce, e vive; ora la donna deve «pagare il vecchio debito» 11. Ma non vuole piú farlo. Dopo molte elucubrazioni, un amico di famiglia trova la soluzione perfetta: poiché lei «ha fatto voto a Dio di dargli un sacerdote», gliene darà uno; solo che non sarà Bento. «Lei può benissimo prendersi un orfanello, farlo ordinare a sue spese», spiega; «dal lato economico, la questione era semplice […] un orfano non avrebbe avuto bisogno di grandi comodità» 12. In maniera piú sobria – e piú grottesca – il crudele usuraio Torquemada di Pérez Galdós, di fronte alla morte imminente del figlio, corre al suo scrittoio, prende una manciata di monete ed esce nella notte alla disperata ricerca di qualche mendicante. Piú avanti, quando lui stesso è vicino alla morte, chiede bruscamente al cappellano di famiglia: «Cosa devo fare per salvarmi? Spiegatemelo in fretta e con la chiarezza che si usa negli affari» 13. Segue un lungo braccio di ferro tra usuraio e confessore, che rievoca le scene sul letto di morte tipiche del cristianesimo medievale 14, finché l’ultima parola esalata da Torquemada – «conversione» – lascia tutti nel dubbio: si riferiva alla sua anima o ai guadagni che poteva rendere il debito nazionale? I precetti della religione, confusi con gli stratagemmi del denaro. Ci stiamo muovendo verso i margini del sistema mondiale moderno, e questo strano abbraccio tra l’antica metafisica e il nuovo cash nexus è un segno di quelle «malformazioni nazionali» generate – per citare di nuovo Schwarz – dalla «grottesca e catastrofica marcia del capitale» 15. Ci saranno delle differenze, certo, tra le storie che nascono da Madrid e quelle di un paesino siciliano, tra la Polonia e la Russia; ma la tormentata coesistenza di capitalismo e Antico regime, cosí come il trionfo – almeno temporaneo – di quest’ultimo,

sono comuni a tutti e creano tra loro una marcata somiglianza familiare. Questo capitolo è la cronaca delle sconfitte borghesi.

PAROLE CHIAVE VII.

La «roba».

Il protagonista del mio prossimo romanzo, scrive Verga nella prefazione a I Malavoglia (1881), sarà un «tipo borghese»: una nuova categoria sociale, per la Sicilia dell’epoca. E in effetti, nel prendere parte per la prima volta alla vita della vecchia élite cittadina durante una festa, all’inizio del romanzo, l’eroe di Mastro-don Gesualdo (1889) sembra davvero appartenere a una nuova specie umana: invidiosi e malevoli, i notabili del luogo lo circondano, chiedendogli con ipocrita preoccupazione riguardo al suo primo grande prestito, e lui risponde «tranquillamente»: «Non chiudevo occhio, la notte» 16. Impossibile dormire, l’emozione è troppo forte. Ma lo è anche la lucidità di Gesualdo. Gli altri corrono via, in preda alla loro meschina avidità, ai loro subdoli desideri sessuali, o alla pura e semplice fame fisica; Gesualdo rimane «serio, col mento nella mano, senza dire una parola» 17. E lo stesso succede qualche capitolo piú avanti, all’asta annuale delle terre comunali: «– Tre onze e quindici!… Uno!… due!… – Quattr’onze! – replicò don Gesualdo impassibile» 18. I notabili gridano, si agitano, minacciano, maledicono; Gesualdo resta seduto, in educato silenzio, «seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribatté con voce calma…» 19. Un borghese in Sicilia. Nei «paesi ritardatari», scrive Jürgen Kocka, «c’è meno continuità nello sviluppo dal periodo preindustriale a quello industriale», e i primi imprenditori tendono a essere «homines novi in misura maggiore rispetto a quei paesi con un’industrializzazione precoce» 20. Vero: Gesualdo è un uomo nuovo di una portata inimmaginabile per la letteratura inglese; dove, per esempio, il Bounderby di Dickens sostiene di esserlo, ma non lo è, oppure l’Halifax di Craik, benché povero, è sempre «il figlio di un gentiluomo». Ma il problema è che nessun uomo nuovo può essere

semplicemente «nuovo»: il mondo gli resiste e dirotta i suoi piani in ogni modo possibile, e nel caso di Gesualdo la pressione si inscrive nel titolo stesso del romanzo: Mastro-don Gesualdo. Nella Sicilia dell’Ottocento, «mastro» indicava un piccolo artigiano – o persino un operaio, come del resto è Gesualdo all’inizio, un muratore. Ma qui è «mastro-don», l’appellativo onorifico che veniva di solito usato per la vecchia classe dirigente. «Bisognerebbe lasciare al protagonista (se credete) il titolo di Mastro-don Gesualdo», scrive Verga al suo traduttore francese, «che riassume il nomignolo sarcastico affibbiato dalla maldicenza pubblica all’operaio arricchito» 21. Operaio arricchito: è proprio Verga a presupporre il lavoratore come l’essenza di Gesualdo, e la sua ricchezza come predicato contingente; e in effetti, benché Gesualdo si elevi ben oltre la sua iniziale posizione di «operaio», questo centaurico nomignolo gli resta appiccicato addosso fino alla fine. Ci sono momenti in cui sembra che le cose stiano per cambiare 22, ma il passaggio da «mastro» a «don» non è mai definitivo, ed è prontamente revocato ogni volta che la ricchezza di Gesualdo dà particolarmente fastidio oppure, in modo crudele, quando è in punto di morte. È come se non se ne fosse mai andato veramente da quella prima festa, dove i notabili della città, che stanno bene attenti a usare l’appellativo «don Gesualdo» quando si rivolgono a lui direttamente, tornano sprezzanti al «mastro-don» appena lui è fuori portata d’orecchio 23. Mastro e don: due designazioni da ancien régime. E il borghese? All’inizio del romanzo, Gesualdo va a controllare i lavori in un frantoio; piove, e gli operai sono tutti raccolti sotto un riparo, dove giocano a lanciare monete. Dopo una raffica di insulti – «Bravi!… Mi piace!… Divertitevi! Tanto, la paga vi corre lo stesso!» 24 – Gesualdo si piazza in mezzo agli altri, nella posizione piú pericolosa, sotto la macina che deve essere spostata: Datemi la stanga!… Io non ho paura!… Intanto che stiamo a chiacchierare il tempo passa! La giornata corre lo stesso, eh?… Come se li avessi rubati i miei denari!… Su! da quella parte!… Non badate a me che ho la pelle dura… Via!… su!… Viva Gesú!… Viva Maria!… un altro po’!… Badate! badate!… Ah Mariano! santo diavolone,

m’ammazzi!… Su!… Viva Maria!… La vita! la vita!… Su!… Che fai, bestia, da quella parte?… Su!… ci siamo! È nostra!… ancora!… da quella parte!… Non abbiate paura che non muore il papa… Su!… su!… se vi scappa la leva!… ancora!… se avessi tenuta cara la pelle… ancora!… come la tien cara mio fratello Santo… santo diavolone! santo diavolone, badate!… a quest’ora sarei a portar gesso sulle spalle!… Il bisogno… via! via!… il bisogno fa uscire il lupo… ancora!… su!… il lupo dal bosco! 25.

In questo straordinario intreccio di esclamazioni senza fiato, il Gesualdo che parla come uno degli operai («Su!… ci siamo!») o si appella a un substrato religioso («Viva Gesú!… Viva Maria!») o proverbiale («il bisogno fa uscire il lupo […]dal bosco!»), si alterna al padrone indiscusso e offensivo («Ah Mariano! santo diavolone, m’ammazzi! […] Che fai, bestia, da quella parte?»). Il tertium del «tipo borghese» – serio, silenzioso, impassibile, calmo – si è scomposto in due piú antiche categorie; la sua quieta astrazione è stata infranta da impulsi irrazionali. «Avete tanti denari, e vi date l’anima al diavolo!» 26 esclama un vecchio, e ha ragione; c’è qualcosa di inesplicabile nel modo in cui Gesualdo rischia la vita sotto la macina (e poi di nuovo, piú avanti, nel fiume che ha appena spazzato via il suo ponte). Ma non è l’unico: un altro lavoratoreimprenditore dalla semiperiferia, l’Il´ja Artamonov di Gor´kij, poco dopo aver festeggiato con i suoi operai, si accorge che una grossa caldaia è andata a conficcarsi nella sabbia e, proprio come Gesualdo, procede a sollevarla con le sue stesse mani; ma con meno fortuna di Gesualdo, gli scoppia una vena e muore 27. E viene da chiedersi: perché queste scene di brutalità quasi mitica, con personaggi che lottano come Sisifo contro la forza di gravità? Neanche Robinson, solo sulla sua isola, fa niente del genere. Perché Gesualdo rischia cosí la propria vita? Lo fa perché è terrorizzato all’idea che la sua ricchezza possa sparire: una paura che non lo abbandona mai, neanche nell’unico momento sereno dell’intero romanzo, il cosiddetto «idillio» della Canziria. In questo piccolo podere a una certa distanza dalla città, Gesualdo «si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi

piacevoli» 28. Piacevoli? Non è quello che dice il romanzo. «Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!» prosegue la narrazione; e quanti giorni aveva passato «senza pane»: Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro […]. Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! 29.

Affaticato, sempre in piedi, sotto il vento, la pioggia, pesante, rotto, inquietudine, stanchezza, timore, pane duro, malaria, zanzare, nemici… E tutto questo perché? Per la roba. Nella versione inglese di D. H. Lawrence viene tradotto con «property», e non è che ci siano tante alternative migliori 30. Ma «roba» – parola che tormenta il romanzo di Verga, dove è presente in oltre un centinaio di occorrenze – possiede una connotazione emotiva che «property» non potrà mai avere. «Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte», riflette Gesualdo prossimo alla fine: «ahimè, povera roba!» 31. Alas, poor property? In inglese suona quasi grottesco, cosa che non succede invece con l’italiano povera roba, perché «roba» non è un termine astratto: significa terra, edifici, animali, campi, alberi; tra i poveri, rappresenta gli oggetti della quotidianità. La roba si può vedere, toccare, annusare; è fisica, spesso viva. È una nozione antica, che unisce l’uomo nuovo e l’orgogliosa baronessa Rubiera 32; ma il termine «roba» è persino piú antico dei latifondi siciliani; il suo etimo è la parola tedesca Raub:

bottino, preda, saccheggio (da cui deriva anche l’italiano rubare). Forse è eccessivo pensare che i Raubtiere – gli «animali da preda» ne La genealogia della morale di Nietzsche – siano legati a questa parola, ma di certo è presente una traccia di quel «capitale che gronda sangue e sudiciume» della «accumulazione originaria» di Marx. Per tutto il romanzo, la «roba» porta con sé una vitalità predatoria, dal modo in cui Rubiera è «attaccata alla sua roba come un’ostrica» 33, a quando Gesualdo si passa «la lingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del boccone buono, da uomo ghiotto della roba» 34. Qui non si tratta della semplice «fusione tra persona e cosa» evocata da Auerbach in riferimento alle grandi descrizioni di Balzac; la «roba» non è una seconda pelle, come gli abiti di Madame Vauquer; è il «sangue» che Gesualdo vede «in mezzo a quell’acqua» quando crolla il suo ponte. La «roba» è vita; è quell’eccesso di energia che serviva, in una qualche forma, a far decollare il capitalismo in un paese periferico. La roba è vita; e dunque, fatalmente, è anche morte; ecco da dove viene quella incontenibile, irrazionale paura di perderla. «Assassino!» grida la baronessa Rubiera, costretta nel suo letto, al figlio snaturato: «No! non me la faccio mangiare la mia roba!» 35. Il Gesualdo morente «voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui» 36. E Mazzarò, il protagonista della novella La roba, quando gli dicono che «era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima» esce come un pazzo nel cortile, «barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba mia, vientene con me!”» 37. La «roba» non è una proprietà astratta, né Gesualdo è quel «capitale personificato» che rendeva tanto difficile immaginare un eroe borghese interessante. Entrambi sono concreti, vivi; ecco perché sono cosí impressi nella memoria… e vulnerabili. Quando Gesualdo muore, e la sua roba viene intascata dal suo «gentilissimo» genero, il duca di Leyra, le acque dell’Antico regime sembrano chiudersi per sempre sul «tipo borghese» di Verga.

PERSISTENZA DELL’ANTICO REGIME I

«La bambola».

Il protagonista de La bambola (1890) di Bolesław Prus, Stanisław Wokulski, viene presentato al lettore nel primo capitolo del romanzo da un gruppo di anonimi clienti di una trattoria di Varsavia – che nella funzione di coro inaffidabile ricordano i notabili alla festa di Verga –, i quali si interrogano ad alta voce sull’inaudita novità di quest’uomo che, pur avendo la garanzia di una vita sicura, aveva lasciato la Polonia con tutti i suoi soldi «per arricchirsi con la guerra»: «gli è venuta la voglia dei milioni» 38. E riesce a farlo, «sfidando le pallottole, le coltellate, il tifo» 39, come riferisce a Ignacy Rzecki, il timoroso impiegato nonché narratore occasionale del romanzo. Ma Wokulski è piú di un semplice capitalista avventuriero; da giovane, mentre lavora come cameriere, riesce a frequentare l’università, dove studia letteratura polacca ed europea; in seguito va a Parigi, dove sviluppa una passione per la tecnologia moderna. Borghese di proprietà e borghese di cultura; e di nuovo, non solo questo: nel 1863, Wokulski prende parte all’insurrezione contro l’occupazione russa della Polonia e viene deportato in Siberia. Considerato tutto, è forse la figura borghese piú completa della narrativa dell’Ottocento: finanziariamente perspicace, intellettualmente curioso e politicamente audace. Ma con un fatale difetto: la sua infatuazione per la giovane contessa Isabella Lecki. «Nella sua realistica mentalità stava sorgendo qualche cosa che assomigliava a una superstizione» 40, commenta il narratore, quando Wokulski comincia a interpretare gli episodi piú disparati come presagi dei sentimenti di Isabella nei suoi confronti; «In me ci sono due individui», riflette lo stesso Wokulski: «uno è saggio, l’altro è pazzo» 41. E man mano che La bambola avanza, vince la parte folle. Vince perché, alle soglie del nuovo secolo, la follia è dilagante nella semiperiferia dell’Europa: dal massacro compiuto da Mazzarò sui propri animali ne La roba, alla «follia degli acquisti» di Rosalía Bringas ne La de Bringas (1884) di Galdós, alla «carità militante» di Guillermina Pacheco in Fortunata e Giacinta (1887). Torquemada perde la testa due volte, all’inizio e alla fine della sua saga; il

Quincas Borba di Machado de Assis lascia un testamento in cui pretende che il suo cane venga trattato «come un essere umano»; l’affresco napoletano di Matilde Serao, Il paese di cuccagna (1890), è un caleidoscopio di superstizione che gira intorno al gioco del lotto; mentre i personaggi squilibrati di Dostoevskij sono persino troppi per essere citati. La follia è endemica, nella semiperiferia, perché in queste società intrappolate in una terra di mezzo, dove le onde economiche che si propagano dal centro del capitalismo colpiscono con una violenza insondabile e iperbolica, la condotta irrazionale diventa una sorta di riflesso, che riproduce il corso del mondo in una scala di esistenza individuale. Ma anche cosí, il caso di Wokulski resta unico. «Un borghese innamorato!» scrive Fredric Jameson concentrando la sua incredulità nel punto esclamativo 42; e innamorato di qualcuno che è solo una bambina viziata. «Si rendeva conto che ella era diventata come un fulcro mistico in cui si raccoglievano tutti i suoi ricordi, tutte le sue aspirazioni, tutte le sue speranze, e che senza quella luce, la sua vita non avrebbe avuto senso» 43, riflette Wokulski nell’importante capitolo intitolato Meditazioni; e i lettori guardano increduli queste parole. Isabella, un fulcro mistico? Questa sí che è follia. Ancora una volta, il contesto europeo suggerisce una risposta. Negli anni de La bambola, scrive Kocka, «lo strato piú alto della classe media si avvicinò molto all’aristocrazia [mediante] i matrimoni misti e altre forme di mescolanza» 44. Sposarsi con una figlia della vecchia aristocrazia è esattamente ciò che fanno Gesualdo e Torquemada – facendo peraltro un ottimo affare entrambi, grazie alla mediazione di una terza figura (il canonico Lupi, nel primo caso e Donoso nel secondo), quasi a voler enfatizzare la natura fondamentalmente «sociale» della loro scelta matrimoniale. Ma se Verga e Galdós ricorrono all’ipergamia per mostrare la (apparente) permeabilità della vecchia élite nei confronti della ricchezza borghese, in Prus l’episodio sottolinea, per contro, la rigidità delle barriere tra le classi. «Se finalmente, possedendo un patrimonio, si fosse innamorato di una signorina aristocratica» a Parigi, riflette Wokulski, «non avrebbe incontrato tanti ostacoli per avvicinarla» 45; ma a Varsavia, benché sia abbastanza vicino all’Europa occidentale

per poter immaginare la sua romantica storia d’amore aristocratica, è ancora troppo lontano per realizzarla. Wokulski è come una mutazione rigettata dal proprio ecosistema; una strana creatura che finisce per sciupare «la sua forza e la sua vita […] lottando impassibile contro l’ambiente al quale era estraneo. […] In quel momento, per la prima volta, sorse chiaramente in lui l’idea di non tornare nel suo paese» 46. Non tornare in Polonia. «Portando da terre lontane le nostre forme di vita, le nostre istituzioni e la nostra visione del mondo», scrive Sérgio Buarque riguardo a un’altra modernità periferica, «eravamo esiliati nella nostra stessa terra» 47. «Tutto ciò che posseggo […] non ha avuto qui la sua origine», gli fa eco Wokulski 48. Si era sentito libero di respirare solo quando era arrivato in Siberia, leggiamo all’inizio del libro: in un autentico esilio. Quando torna in Polonia, parte subito per la guerra. Al ritorno, se ne va subito a Parigi; e poi, dopo un altro breve periodo a Varsavia, scompare del tutto (si vocifera sia a Mosca, Odessa, in India, Cina, Giappone, America…) Esiliato nella propria terra. Torna un’ultima volta, di nascosto, per uccidersi sotto la residenza di campagna di Isabella. «È morto schiacciato dai resti del feudalesimo», commenta laconicamente un amico 49. Il borghese come esiliato. E di fatto, quando Wokulski decide di liberarsi della sua impresa, di chiudere «baracca e burattini», la vende all’archetipo degli esiliati: gli ebrei, gli unici a essere «disprezzati e maltrattati quanto te», come si esprime il suo amico Szuman, ebreo anche lui. E Wokulski lo sa: «In tutto il paese non c’era nessuno che avrebbe potuto realizzare le sue idee: nessuno, all’infuori degli ebrei» 50. In parte, considerato il ruolo finanziario degli ebrei nell’Europa dell’Est, l’episodio è indice di precisione storica da parte di Prus 51. Ma c’è dell’altro. Nessuno all’infuori degli ebrei, certo; ma poi la citazione continua: «… degli ebrei, che entravano in lizza con tutta la loro arroganza, la loro astuzia e la loro inflessibilità»: nel vedere questo, Wokulski «sentiva una cosí violenta repulsione per il commercio e per la società, per tutti i guadagni, che si stupí di aver potuto occuparsi per due anni di simili cose» 52. Commercio, società mercantili e guadagni sono stati la vita di

Wokulski; ma ora si trasformano in orrore, perché Szlangbaum e gli altri ebrei – proprio come l’imprenditore tessile quacchero Fletcher in Halifax, o gli altri industriali di prima generazione del romanzo inglese – si rivelano per ciò che sono veramente, allo stato puro; perché, in altre parole, rivelano la verità del borghese. O piú precisamente: la verità, secondo Isabella Lecki. In un atto definitivo di sottomissione all’Antico regime, Wokulski vede Szlangbaum esattamente come Isabella vede lui. Il suo antisemitismo è il borghese che si rivolta contro se stesso. Ho iniziato questo paragrafo con un ritratto di Wokulski come grande figura borghese; lo concludo con un altro esempio di autocontraddizione, tanto distruttiva quanto l’impossibile unione di «mastro» e «don» in Verga. Il vecchio mondo porta discordia nelle vite di questi uomini nuovi, e crudeltà nelle loro morti: Gesualdo, prigioniero in un palazzo ducale sotto la sorveglianza di beffardi subalterni; Wokulski, sepolto «sotto le rovine del feudalesimo». Nel prossimo paragrafo incontreremo un’altra variazione sullo stesso tema.

PERSISTENZA DELL’ANTICO REGIME II

«Torquemada».

Negli affollati affreschi che Pérez Galdós fa della Spagna dell’Ottocento, la tetralogia di Torquemada (1889-96) si distingue per la sua costante attenzione al personaggio centrale, l’usuraio e proprietario di catapecchie Torquemada, che seguiamo dalle «torbide operazioni» della Madrid plebea ai trionfi finanziari e alle alleanze aristocratiche che lo portano a essere «pappa e ciccia con lo stesso Stato». Ma la sua ascesa coincide con un crescente senso di autoestraniamento: dopo aver promesso alla sua morente amica doña Lupe (anche lei usuraia) di sposare una delle sorelle Aguila, di una famiglia aristocratica impoverita, Torquemada finisce per essere influenzato dalla cognata Cruz, la quale poi gli impone di comprare un marchesato con tanto di palazzo e pinacoteca. La persistenza dell’Antico regime: un uomo energico che si è fatto da sé e che si

avvicina alle vecchie classi dirigenti, invece di contestarne il primato 53. E questo «avvicinarsi» non è neppure come le stilizzate simbiosi di James, Schnitzler o Proust; proprio come i segni sulle mani di Gesualdo rivelano il mastro che sta sotto al «don», un’atavica fame plebea spinge Torquemada a divorare – solo qualche ora prima del suo matrimonio – un piatto di cipolle crude che «non andavano affatto d’accordo con le belle parole» dell’evento aristocratico 54. E alla fine del libro, un altro pasto – il suo ultimo tentativo di un ritorno alle origini: «dammi un piatto di fagioli stufati, che diamine, perché è ora di essere uno del popolo, e di tornare al popolo, alla natura, per cosí dire!» 55 – provoca una monumentale diarrea, e un’interminabile agonia. Ma Torquemada non è certo solo una rozza presenza fisica. «Tu sei l’esagerazione fatta persona», dice a Cruz quando lei dà il via alla sua campagna per il marchesato; «e siccome io mi vanto di essere il giusto mezzo fatta persona, metto ogni cosa al suo posto e rifiuto i tuoi argomenti per quel che riguarda il momento storico presente» 56. È il suo linguaggio, piú che il suo corpo, a rendere Torquemada un personaggio indimenticabile. Il che è strano, perché di solito i personaggi che sono coinvolti in affari loschi – Gobseck, Merdle, Bulstrode, Werle… – tendono a essere tanto taciturni da rasentare la reticenza. Torquemada non lo è di certo: Io mi lavo le mani: mi faccio vanto di obbedire all’uomo che comanda e di non infrangere le regole. Rispetto Greci e Troiani allo stesso modo, e non contratto sull’obolo del tributo. A forza di essere un uomo pratico, non pratico l’opposizione sistematica, né machiavellismi di alcun genere. Sono refrattario all’intrigo 57.

Chiari sforzi di erudizione classica («Greci e Troiani», «machiavellismi»); metafore morte («mi lavo le mani», «mi faccio vanto»); tediose ovvietà («il momento storico presente»). Il denaro ha dato a don Francisco l’occasione di farsi sentire in società; ora parla con voce «piú alta» 58, e come il suo progenitore Monsieur Jourdain, vuole «raisonner des choses parmi les honnêtes gens». E dunque, inevitabilmente, diventa bersaglio del ridicolo; un’arma

spesso utilizzata «nel conflitto tra le classi», e che «costituisce uno strumento efficace per tenere le persone ambiziose al loro posto» 59. Nel caso di Torquemada, il ridicolo si concentra su un tic linguistico molto specifico: – Ma la mia intenzione, ben inteso! era di darvi un’indicazione […] Sono un uomo premuroso e so fare distinzioni. Credetemi, ho passato un brutto momento quando mi sono reso conto, dopo essermene andato, della mia svista, della mia… stupefazione. Don Francisco rispose con frasi affrettate e maldestre, senza dire nulla di particolare, semplicemente che nutriva la convinzione che […] e che aveva fatto quelle manifestazioni al Señor Donoso mosso da pietà… no, mosso dal piú nobile dei sentimenti (ormai eravamo tutti troppo nobili per le parole); che il suo desiderio di essere accettato dalle signore Aguila travalicava ogni ponderazione… – Devo manifestare alcune mal espresse […] manifestazioni che, benché misere nello stile e rozze come letterature, saranno la sincera espressione di un cuore riconoscente. […] Prestiamo piú attenzione all’azione che alle parole; lavoriamo, lavoriamo tanto e parliamo poco. Lavoriamo sempre, in accordo ai nostri bisogni e con il prezioso accompagnamento di tutti gli elementi che ci accompagnano. E avendo fatto queste manifestazioni, che credo mi siano state imposte dalla mia presenza in questo luogo angusto […] avendo fatto queste dichiarazioni… 60.

Intenzione, indicazione, distinzione, stupefazione, convinzione, manifestazione, ponderazione, espressione, dichiarazione… Come una falena vicino a una candela, Torquemada è ipnotizzato dalle nominalizzazioni: quella classe di parole che prendono «le azioni e i processi» normalmente espressi dai verbi, e li trasformano in sostantivi che indicano «oggetti astratti [e] processi generalizzati» 61. In ragione di questa peculiarità semantica, le nominalizzazioni sono frequenti nella prosa scientifica – dove gli oggetti astratti e i processi generalizzati sono di solito importanti – e per contro sono infrequenti

negli scambi orali, che tendono a focalizzarsi su ciò che è concreto e unico. Ma allora perché Torquemada le usa ogni volta che apre bocca? «Cos’era esattamente un borghese nella Francia del XVII secolo?» si chiede Auerbach. In termini di posizione sociale poteva essere certamente tutta una serie di cose – un medico, un commerciante, un avvocato, un negoziante, un funzionario e anche altro. Ma qualunque cosa fosse, il piú alto valore simbolico dell’epoca – honnêteté: un «ideale di universalità» […] a cui l’alta borghesia aveva cominciato ad aspirare» – lo obbligava a «mascherare» la propria esistenza economica, perché solo «un uomo purificato da ogni qualità particolare» ne sarebbe stato considerato degno 62. Duecento anni dopo, le nominalizzazioni di Torquemada rispondono a un imperativo sociale comparabile: sono un tentativo di eliminare dalla sua lingua il vecchio «ufficiale pagatore dell’inferno» 63, cercando di elevare tutto a un piano di astrazione incorporea. Un tentativo che naturalmente fallisce. È il «declino della protagonicità» che Fredric Jameson ha recentemente osservato nel ciclo di Torquemada: l’uomo che, malgrado fosse «tecnicamente un personaggio minore», era stato il segreto protagonista di altri romanzi di Galdós, si trasforma d’un tratto in uno «scialbo personaggio minore» nei libri di cui è nominalmente il protagonista 64. È una strana inversione, certo, e come per altri paradossi formali già incontrati, il «deterioramento» di Torquemada non è una semplice questione di forma, ma una conseguenza della dialettica oggettiva dell’usuraio nella società moderna: pieno di energia e perspicacia fintanto che può vivere nell’ombra, come il parassitario e sinistro doppio – «tecnicamente un personaggio minore» – del moderno sistema bancario, l’ufficiale pagatore dell’inferno si trasforma in un ciarlatano disorientato quando è costretto a mostrare la sua faccia in pubblico. Ecco il vostro eroe segreto, sembra voglia dire Galdós alla borghesia spagnola – ed ecco la sua vacuità quando cerca di parlare il linguaggio dell’universalità. Nelle «ponderazioni» e «stupefazioni» di

Torquemada, le ambizioni egemoniche di un’intera classe sociale si coprono di ridicolo. «Dopotutto è aritmetica!» Se dovessimo cercare un natura borghese senza difetti, il giovane direttore Stolz – «orgoglio» in tedesco – che compare in uno dei grandi romanzi russi dell’Ottocento sarebbe un’ottima scelta. Benché «continuamente in movimento», l’efficientissimo Stolz non fa mai «movimenti superflui», e quando il suo amico d’infanzia, stupito dalla sua attività, lo interrompe dicendo «Una buona volta smetterai anche tu di lavorare», lui risponde semplicemente: «Non smetterò mai. Perché dovrei?» (Per poi aggiungere, con parole degne di Faust: «Oh, se si potesse vivere due, trecento anni… quante cose si potrebbero fare!»). Tedesco da parte di padre – tanto che la sua aristocratica madre russa temeva «che suo figlio diventasse un Bürger» –, Stolz è il legame vivente con il dinamismo dell’Europa occidentale, con cui la sua impresa intrattiene costanti relazioni commerciali. Verso la metà del romanzo, fa un viaggio a Parigi e promette al suo amico che presto lo raggiungerà lí, per cominciare una nuova esistenza insieme. È una buona vita, per un borghese dell’Europa orientale: Stolz è attivo, sereno, intelligente; compra una bella proprietà, sposa la donna che ama, è felice… Riceve tutto ciò che potrebbe desiderare, dall’autore del suo romanzo, tranne forse la cosa piú importante: non è il protagonista di Oblomov (1859) 65. Non è il protagonista perché Gončarov è affascinato dal suo colossale, meraviglioso Oblomov. Eppure, il fatto che la natura borghese da manuale di Stolz non debba chiaramente essere il punto centrale del romanzo, è indice di un problema piú importante. Non che la letteratura russa sia indifferente al nuovo potere del denaro; nella San Pietroburgo di Delitto e castigo (1866), avere denaro è (almeno) tanto fondamentale quanto nella Londra di Dickens o nella Parigi di Zola. Ma lo è in un modo molto specifico: dall’avidità della vecchia proprietaria dell’agenzia di pegni, Alëna Ivanovna, alla spietata invettiva dello studente riguardo al suo

omicidio, all’ebbra elemosina di Marmeladov, alla muta prostituzione di Sonja, alla sua eco nel compromesso di Dunja («Per una persona cara, per una persona adorata si venderà»), fino al «professore di storia universale» che falsifica le cartelle della lotteria 66: in tutte queste situazioni, e in altre ancora, l’unica cosa che il denaro può fare è generare distorsioni iperboliche del moderno comportamento economico. In Occidente, il denaro tende a semplificare le cose; qui, invece, le complica. Ne circola troppo poco – ed è troppo caro. Al posto dei bassi e stabili tassi d’interesse dell’Europa occidentale, nelle pagine di Dostoevskij riecheggia il sussurro di Alëna a Raskol ´nikov: «calcolando dieci copechi al mese per ogni rublo, per un rublo e mezzo mi deve quindici copechi d’anticipo per il prossimo mese» 67. Dieci per cento al mese. Sotto una pressione tanto insostenibile, le «malformazioni nazionali» sono inevitabili. Prendiamo per esempio l’utilitarismo. Nel 1825, l’anonimo autore di un articolo sulla «Westminster Review» dichiarava, «con sobria e utilitaristica mestizia», che sarebbe stato «enormemente grato di sapere in che modo lo svago universale della letteratura e della poesia, della poesia e della letteratura, può contribuire alla filatura del cotone» 68. È un ultimatum filisteo che trova un’eco quasi letterale, a distanza di una generazione, in Padri e figli (1862) di Turgenev, quando Bazarov dichiara sbrigativamente, e con la sua caratteristica insolenza, che «un buon chimico è venti volte piú utile di qualunque poeta» 69. Utile. Ma per Bazarov questa non è piú la parola chiave concreta e pragmatica di Robinson Crusoe e dei vittoriani: è una forza di cambiamento – persino di distruzione. «Noi agiamo in forza di ciò che riconosciamo utile», aggiunge in una scena successiva, per spiegare la logica del nichilismo: «Nei nostri tempi, la cosa piú utile è la negazione, e noi neghiamo» 70. L’utilità come fondamento del nichilismo. L’articolista della «Westminster Review» ne sarebbe rimasto scioccato. E Bazarov era solo l’inizio: ma considera: da una parte una vecchietta stupida, balorda, insignificante, cattiva e malata, che non serve a nessuno, anzi è

dannosa a tutti […]. Dall’altra parte, forze giovani, fresche, che vanno perdute inutilmente senza sostegno, e a migliaia, e ovunque! […] Per una sola vita, migliaia di vite salvate dalla putrefazione e dalla corruzione! Una sola morte e cento vite in cambio: dopotutto è aritmetica! 71.

È aritmetica! Il «calcolo felicifico» di Bentham che conduce all’omicidio. «Porti alle sue ultime conseguenze quel che predicava poco fa», commenta Raskol´nikov dopo che l’ottuso fautore dell’occidentalizzazione, Lužin, gli ha fatto il suo peana sul progresso – «piú senso critico, cioè, piú spirito pratico» – «e risulterà che si può sgozzar la gente» 72. Dallo spirito critico e pratico, allo sgozzare la gente. Convinzioni errate: nella Russia di Dostoevskij, la grande metafora con cui Schwarz descrive il fiasco tra i modelli occidentali e la realtà brasiliana funziona forse perfino meglio che nell’originale. In Machado de Assis, la discordia tra questi due elementi era rimasta per gran parte innocua: grande abbondanza di volubile irresponsabilità, ma un numero inferiore di conseguenze pesanti. In Russia, invece, una intellighenzia radicale e proletarizzata prende le idee occidentali troppo sul serio, spingendole davvero alle loro «ultime conseguenze»: Roman Jakobson sostiene che la parola russa per indicare il quotidiano – byt – sia culturalmente intraducibile nelle lingue occidentali; secondo Jakobson, solo i russi, tra tutte le popolazioni europee, sono capaci di combattere «le fortificazioni del byt» e di concettualizzare una radicale alterità al quotidiano 73.

Il quotidiano. Per Auerbach, era l’indiscutibile e solido fondamento del realismo dell’Ottocento. Qui è una fortificazione da prendere d’assalto. «Dostoevskij amava la parola vdrug [d’un tratto]», scrive Viktor Šklovskij; «una parola che indica la lacerazione della vita. Il suo essere fatta a gradini diseguali» 74. La poetica di Dostoevskij richiede la creazione di «situazioni eccezionali per provocare e sperimentare l’idea filosofica», aggiunge Bachtin: «punti di crisi, fratture e catastrofi», quando «tutto è improvviso, fuor di luogo,

inammissibile e inconciliabile con l’andamento consueto, “normale”, della vita» 75. È l’odio per il compromesso cosí tipico dei personaggi di Dostoevskij 76; l’assenza di una zona «neutrale» nella cultura russa, scoperta da Lotman e Uspenskij nel loro studio dei modelli culturali dualistici 77; le estreme oscillazioni descritte nelle pagine di Mimesis dedicate al romanzo russo 78. È la piú radicale di tutte le «malformazioni nazionali» che abbiamo visto in queste pagine: una sinistra radicalizzazione delle idee occidentali che libera il loro potenziale distruttivo. È la scienza tedesca di Bazarov ciò che rende il suo nichilismo cosí incredibilmente implacabile; è l’aritmetica inglese ciò che genera il crimine piú enigmaticamente significativo della letteratura moderna. È come guardare un esperimento estremo che si compie davanti ai nostri occhi: collocare i valori borghesi il piú lontano possibile dal loro contesto originale, per catturarne l’eccezionale miscela di grandezza e catastrofe. Negli anni immediatamente a seguire, il ciclo «realista» di Ibsen eseguí l’esperimento completamente opposto… e arrivò alle stesse conclusioni.

Capitolo quinto Ibsen e lo spirito del capitalismo

La zona grigia. Prima di tutto, l’universo sociale del ciclo ibseniano: costruttori di navi, industriali, finanzieri, commercianti, banchieri, imprenditori edili, amministratori, giudici, dirigenti, avvocati, medici, presidi, professori, ingegneri, pastori, giornalisti, fotografi, progettisti, contabili, impiegati, stampatori… Nessun altro scrittore si è concentrato con altrettanta determinazione sul mondo borghese. Mann; però in Mann c’è una costante dialettica tra il borghese e l’artista (Thomas e Hanno, Lubecca e Kröger, Zeitblom e Leverkühn), non altrettanto presente in Ibsen; il suo unico grande artista – lo scultore Rubek di Quando noi morti ci destiamo (1899), che «lavorerà sino alla fine dei [suoi] giorni», e ama essere signore e padrone dei suoi materiali – è un borghese né piú né meno di tutti gli altri 1. Gli studiosi di storia sociale hanno talvolta dei dubbi sul fatto che un bancario e un fotografo, o un costruttore di navi e un pastore, facciano realmente parte della stessa classe. Cosí è in Ibsen; o almeno, essi condividono gli stessi spazi e parlano la stessa lingua. Qui non c’è nulla del mascheramento della classe «media» inglese; questa non è una classe di mezzo, offuscata da quelle che le sono sopra, e ingenua riguardo al corso del mondo; questa è la classe dirigente, e il mondo è come è perché sono loro ad averlo reso tale. Ecco perché Ibsen si trova all’epilogo di questo libro: le sue opere teatrali sono il grande «regolamento dei conti» del secolo borghese, per usare una delle sue metafore. Ibsen è l’unico scrittore che guarda il borghese in faccia e gli chiede: Allora, dopotutto, che cosa hai portato al mondo?

Ritornerò su questa domanda, naturalmente. Per il momento mi limito a sottolineare la stranezza di avere un affresco borghese cosí ampio… ma senza lavoratori, fatta eccezione per qualche domestico. Le colonne della società (1877), prima opera del ciclo, è da questo punto di vista diversa; si apre con uno scontro tra un sindacalista e un responsabile di cantiere sull’importanza della sicurezza sul lavoro rispetto ai guadagni; e benché il tema non sia mai al centro della trama, è sempre visibile sottotraccia, e addirittura decisivo nel plasmare il finale. Ma dopo Le colonne il conflitto tra capitale e lavoro scompare dall’universo di Ibsen, anche se in generale qui niente scompare: Gli spettri (1881) è un titolo ibseniano perfetto perché tanti dei suoi protagonisti sono effettivamente dei fantasmi. Quella che in un’opera è una figura minore, torna come protagonista in un’altra opera, e resta fino al triste finale della successiva… È come se Ibsen stesse facendo un esperimento lungo vent’anni, cambiando qua e là le variabili per vedere cosa succede al sistema. Ma non ci sono lavoratori, nell’esperimento – anche se questi sono gli anni in cui sindacati, partiti socialisti e anarchismo stanno cambiando il volto della politica europea. Non ci sono lavoratori perché il conflitto su cui Ibsen vuole concentrarsi è interno alla borghesia stessa. Questo risulta particolarmente evidente in quattro drammi: Le colonne della società; L’anitra selvatica (1884); Il costruttore Solness (1892); John Gabriel Borkman (1896). Quattro drammi con lo stesso antefatto, in cui due soci in affari e/o amici hanno ingaggiato una lotta disperata, nel corso della quale uno dei due è finito in bancarotta e fisicamente mutilato. La competizione interborghese, qui, è un combattimento mortale che diventa facilmente spietato; ma per quanto spietato, ingiusto, equivoco e torbido, esso è di rado – e questo è importante – effettivamente illegale. Lo è solo in pochi casi, come accade con le falsificazioni di Casa di bambola (1879), o l’inquinamento dell’acqua in Un nemico del popolo (1882), o alcune manovre finanziarie di Gabriel Borkman. Ma le scorrettezze di Ibsen si verificano sempre in una inafferrabile zona grigia la cui natura non è mai del tutto chiara. Questa zona grigia è la grande intuizione di Ibsen riguardo alla vita borghese, dunque permettetemi di darne qualche esempio. Ne

Le colonne della società, gira voce che ci sia stato un furto nell’azienda di Bernick; lui sa che le voci sono false, ma sa anche che lo salveranno dalla bancarotta e dunque, benché distruggano la reputazione di un amico, lascia che continuino a circolare. In seguito usa la sua influenza politica, in un modo che rasenta l’illegalità, per proteggere investimenti che sono essi stessi a malapena legali. Ne Gli spettri, il pastore Manders convince la signora Alving a non assicurare il suo orfanotrofio, in modo che l’opinione pubblica non sia portata a credere che «né io né lei abbiamo una vera fiducia nella divina provvidenza» 2; e poiché la divina provvidenza è quel che è, l’orfanotrofio viene distrutto da un incendio – probabilmente doloso, anche se non con assoluta certezza – e tutto è perduto. C’è poi la «trappola» che Werle potrebbe aver teso (o forse no) al suo socio nell’antefatto de L’anitra selvatica, cosí come l’affare poco chiaro tra Solness e il suo socio nell’antefatto de Il costruttore Solness, dove c’è anche un camino che dovrebbe essere riparato, e non lo è, e la casa si incendia. Ma succede per tutt’altra ragione, dicono i periti assicurativi… Ecco com’è la zona grigia: reticenza, slealtà, diffamazione, negligenza, mezze verità… Da quel che mi risulta, non esiste un termine generico per questo tipo di azioni; e in un primo momento, considerato il modo in cui mi sono finora affidato alle parole chiave quali indicatori di valori borghesi, ho trovato la cosa piuttosto frustrante. Ma con la zona grigia, abbiamo la cosa senza avere la parola. E quella cosa l’abbiamo davvero: uno dei modi in cui il capitale si sviluppa è tramite l’invasione di sfere della vita sempre nuove – o addirittura creandone delle altre, come nell’universo parallelo della finanza –, in cui le leggi sono inevitabilmente incomplete, e il comportamento può diventare facilmente equivoco. Equivoco: non illegale, ma neanche completamente giusto. Pensiamo a quanto accaduto qualche anno fa (o anche oggi, se è per questo): era illegale che le banche potessero contare su un coefficiente di rischio ridicolo? No. Era «giusto», in una qualsiasi accezione possibile del termine? Di nuovo, no. Oppure pensiamo alla Enron: nei mesi precedenti alla bancarotta, Kenneth Lay vendette capitale azionario a un prezzo enormemente

sopravvalutato, come sapeva benissimo; nella causa penale, il governo non mosse alcuna accusa; nella causa civile invece sí, perché il livello di prova era meno rigido 3. La stessa azione è e non è sanzionata: si tratta di qualcosa che rasenta il barocco, tale è il suo gioco di luci e ombre, eppure esemplare. La legge stessa riconosce l’esistenza della zona grigia. Uno fa qualcosa perché non esiste una norma specifica che lo impedisca; eppure non sembra giusto, e la paura di essere ritenuti responsabili istiga un interminabile insabbiamento. Grigio sopra grigio: un atto ambiguo, avvolto negli equivoci. L’iniziale «condotta sostanziale può essere piuttosto ambigua», dichiarò un pubblico ministero qualche anno fa, «ma la condotta ostruttiva può essere chiara» 4. La prima mossa può restare per sempre incerta, ma ciò che ne consegue – la «menzogna», come la chiama Ibsen – è inconfondibile. L’atto iniziale può essere ambiguo… È cosí che iniziano le cose nella zona grigia: nascono da un’opportunità imprevista, un incendio fortuito, un socio d’un tratto allontanato dal quadro, voci anonime, i documenti perduti di un rivale che riappaiono al momento e nel luogo sbagliato. Incidenti. Ma incidenti che accadono cosí di frequente, e con effetti cosí a lungo termine, da diventare il fondamento nascosto dell’esistenza. Per quanto l’episodio iniziale sia irripetibile, la menzogna resiste negli anni, o addirittura nei decenni; diventa «vita». Forse è per questo che non c’è una parola chiave, qui: proprio come certe banche sono troppo grandi per fallire, cosí la zona grigia è troppo pervasiva per essere riconosciuta; al massimo è una cascata di metafore – «la nebbia della finanziarizzazione», «dati opachi», «consorzi oscuri», «banche ombra» – che non fa che reiterare il grigiore senza spiegare veramente di cosa si tratti. E il motivo di questa semicecità è che l’area grigia proietta un’ombra troppo lugubre sul valore che giustifica la borghesia agli occhi del mondo: l’onestà. L’onestà rappresenta per questa classe ciò che l’onore aveva rappresentato per l’aristocrazia; etimologicamente onestà e onore hanno la stessa derivazione – ed esiste anzi uno storico trait d’union tra le due parole nel concetto di «castità» femminile (onore e onestà insieme), cosí

centrale nel dramma borghese del XVIII secolo. L’onestà è ciò che distingue la borghesia da tutte le altre classi: la parola del commerciante, che vale oro; la trasparenza («potrei mostrare i miei libri contabili a chiunque»); la moralità (la bancarotta di Mann come «vergogna, disonore, peggio della morte»). Persino nella stravaganza di seicento pagine che Deirdre McCloskey ha dedicato alle virtú borghesi – attribuendo alla borghesia coraggio, temperanza, prudenza, giustizia, fede, speranza, amore… – persino lí, il nucleo argomentativo ha a che fare con l’onestà. L’onestà, secondo questa teoria, è la virtú borghese per eccellenza perché si adatta alla perfezione al capitalismo: le operazioni di mercato richiedono fiducia, l’onestà la fornisce e il mercato la ricompensa. L’onestà funziona. «Quando facciamo il male, ci va male» (ovvero perdiamo soldi), conclude McCloskey, «e ci va bene quando facciamo il bene» 5. Quando facciamo il male, ci va male… Questo non è vero né all’interno né al di fuori del teatro di Ibsen. Vediamo come un suo contemporaneo, un banchiere tedesco, descrive le «indecifrabili macchinazioni» del capitale finanziario: I circoli bancari erano e sono tuttora dominati da una moralità notevole e molto flessibile. Certe manipolazioni, che nessun buon Bürger accetterebbe con la coscienza tranquilla […] vengono approvate da queste persone come intelligenti, come dimostrazione di inventiva. La contraddizione tra queste due moralità è di fatto impossibile da conciliare 6.

Macchinazioni, manipolazioni, coscienza non tranquilla, moralità flessibile… La zona grigia. Al suo interno una «contraddizione» tra le due moralità «impossibile da conciliare»: parole che riecheggiano quasi alla lettera l’idea hegeliana della tragedia. E Ibsen è un drammaturgo. È questo ciò che lo attira verso la zona grigia? Il potenziale drammatico di un conflitto tra il Bürger onesto e l’uomo di finanza calcolatore?

«Segni contro segni». Si apre il sipario e il mondo è solido: ambienti pieni di poltrone, librerie, pianoforti, divani, scrittoi, stufe; la gente si muove con calma, con prudenza, parlando a bassa voce… Solidità. Un vecchio valore borghese: l’ancora contro la volubilità di Fortuna, cosí instabile con il suo timone sopra le onde, bendata, gli abiti gonfiati dal vento… Guardiamo le banche costruite all’epoca di Ibsen: pilastri, urne, balconi, sfere, statue. Gravità. Poi l’azione si svolge, e non c’è impresa che sia stabile e sicura; non c’è parola che non suoni vuota. La gente è preoccupata. Malata. Moribonda. È la prima crisi generale del capitalismo europeo: la lunga depressione del 1873-96, che le dodici opere teatrali di Ibsen (1877-99) seguono quasi anno per anno. La crisi rivela le vittime del secolo borghese: I vinti, come Verga intitolò, a un anno di distanza da Le colonne della società, il suo progetto per un ciclo di romanzi di cui Mastro-don Gesualdo doveva essere il secondo volume (poi di fatto l’ultimo). Krogstad, in Casa di bambola; il vecchio Ekdal e suo figlio ne L’anitra selvatica; Brovik e suo figlio ne Il costruttore Solness; Foldal e sua figlia, ma anche Borkman e suo figlio, in John Gabriel Borkman. Ekdal e figlio, Brovik e figlio… In questo quarto di secolo naturalista, il fallimento si tramanda da una generazione all’altra, come la sifilide. E non c’è redenzione, per i vinti di Ibsen: essi sono le vittime del capitalismo, certo, ma le vittime borghesi, fatte della stessa pasta dei loro oppressori. Una volta terminata la lotta, lo sconfitto viene assoldato dall’uomo che l’ha rovinato e si trasforma in un grottesco arlecchino, in parte parassita, in parte lavoratore, confidente, adulatore… «Perché ci ha messo in questa scatoletta dove tutti sbagliano?» chiese una volta una studentessa riguardo a L’anitra selvatica. Aveva ragione. Non si respira. No, la contraddizione inconciliabile tra il borghese onesto e il borghese fraudolento non è il tema centrale di Ibsen. C’è un individuo disonesto, nell’antefatto di tanti drammi, ma il suo antagonista è spesso piú stupido che onesto – e ad ogni modo, non è piú né onesto né un antagonista. L’unico conflitto tra il Bürger

buono e il finanziere corrotto è in Un nemico del popolo: l’unica opera mediocre di Ibsen (amata dai vittoriani). Ma in generale, «ripulire» la borghesia dal suo lato piú torbido non è l’obiettivo di Ibsen: è quello di Shaw. Vivie Warren: lascia la madre, il fidanzato, il denaro, tutto quanto e poi – come dicono le indicazioni di scena – «si tuffa nel lavoro». Quando Nora fa lo stesso alla fine di Casa di bambola, va incontro alla notte, non verso un bel lavoro da impiegata. Cosa attrae Ibsen verso la zona grigia… Non è lo scontro tra una borghesia buona e cattiva. Di certo non è un interesse per le vittime. Per i vincitori, forse? Prendiamo il vecchio Werle, ne L’anitra selvatica. Occupa la stessa posizione strutturale di Claudio nell’Amleto, o di Felipe nel Don Carlos: non è il protagonista dell’opera (il protagonista è suo figlio Gregers – proprio come Amleto o Carlos), ma è certamente quello con piú potere; controlla tutte le donne sulla scena; compra la complicità, o perfino l’affetto, delle persone; e fa tutto questo senza alcuna enfasi, quasi in modo sommesso. Ma nel suo passato c’è qualcosa di non proprio corretto. Molti anni addietro, dopo una perizia «inesatta» 7, il suo socio in affari Ekdal aveva ordinato un «taglio illegale sui terreni dello Stato» 8. Ekdal cadde in rovina; Werle sopravvisse e poi prosperò. Come al solito, l’atto iniziale è ambiguo: il disboscamento era realmente il risultato di incompetenza? Si trattava di frode? Ekdal aveva agito da solo? Werle ne era al corrente – aveva addirittura teso «un tranello» 9 a Ekdal, come suggerisce Gregers? Il testo non lo dice. «Ma fatto sta», dice Werle, che Ekdal «venne condannato e io assolto». «Sí, lo so», risponde suo figlio; «per insufficienza di prove». E Werle: «Un’assoluzione è un’assoluzione» 10. C’è uno dei «miti d’oggi» di Roland Barthes – «Racine è Racine» – sull’arroganza della tautologia: questo tropo «che non lascia spazio al pensiero», scrive Barthes, come «dei padroni che tirino bruscamente il guinzaglio del cane». Tirare il guinzaglio è certamente nello stile di Werle, ma non è questo il punto; un’assoluzione è un’assoluzione, vale a dire: l’esito di un processo è un atto legale – e la legalità non è la giustizia etica che pretende Gregers. È una nozione formale, non sostanziale. Werle accetta la

discrepanza tra queste due sfere, e cosí fa Ibsen: come abbiamo visto, in gran parte delle sue opere la miscela di immoralità e legalità è il prerequisito del successo borghese. Altri scrittori reagiscono diversamente. Prendiamo il capolavoro della Gran Bretagna borghese. In Middlemarch, il bancario Bulstrode comincia la sua carriera appropriandosi indebitamente dell’eredità di una madre e sua figlia. Un bancario – e di fatto un bancario devotamente cristiano – nella zona grigia: un trionfo di ambiguità borghese, intensificata dal ricorso di George Eliot allo stile indiretto libero, che rende quasi impossibile trovare un punto di vista da cui poter criticare Bulstrode: I profitti ricavati da anime perdute – dove si può tracciare la linea di demarcazione in cui essi cominciano nelle transazioni umane? Non era anche un modo scelto da Dio per salvare i Suoi eletti? […] Chi avrebbe usato il denaro e la posizione sociale meglio di quanto intendeva fare lui? Chi poteva superarlo per l’orrore di sé e l’esaltazione della causa di Dio? 11.

Un trionfo di ambiguità – se Eliot si fosse fermata qui. Ma non poteva. Un misero imbroglione, Raffles, conosce questa vecchia storia e per una serie di coincidenze questo «passato personificato» 12, per usare la formulazione meravigliosamente ibseniana di Eliot, trova sia Bulstrode sia la figlia della donna. Mentre è a casa di Bulstrode per ricattarlo, Raffles si ammala; Bulstrode chiama un medico, raccoglie le sue indicazioni e le segue; poi, però, lascia che vengano trascurate da una governante. Non è lui a suggerirlo: si limita a lasciare che accada – e Raffles muore. «Era impossibile dimostrare che [Bulstrode] avesse compiuto alcunché per affrettare la dipartita dell’anima di quell’uomo» 13, dice il narratore. «Impossibile dimostrare»: «insufficienza di prove». Ma non abbiamo bisogno di prove; abbiamo visto Bulstrode acconsentire all’omicidio volontario. Il grigio è diventato nero; la disonestà è stata costretta a versare sangue. «Costretta»: perché la concatenazione narrativa è cosí poco plausibile che è difficile credere che possa averla scritta Eliot, con il suo profondo rispetto intellettuale per la casualità.

Eppure l’ha fatto; e quando un grande romanziere contraddice i propri principî cosí apertamente, di solito c’è in ballo qualcosa di importante. Probabilmente questo: l’idea di ingiustizia protetta dal manto della legalità – incarnata da un Bulstrode colpevole, ricco e uscito indenne dalle sue azioni passate – era per Eliot una visione troppo lugubre della società. Certo, il capitalismo funziona proprio cosí: espropriazione e conquista, riscritte come «miglioramento» e «civilizzazione» («Chi avrebbe usato il denaro e la posizione sociale meglio…»). Il potere passato diventa un diritto presente. Ma la cultura vittoriana – persino nei suoi esempi migliori: «uno dei pochi libri inglesi scritti per un pubblico adulto», disse Virginia Woolf di Middlemarch – non può accettare l’idea di un mondo dominato dalla ingiustizia perfettamente legale. La contraddizione è insopportabile: la legalità deve diventare giusta, oppure l’ingiustizia deve diventare criminale. In un modo o nell’altro, forma e sostanza devono riallinearsi. Se il capitalismo non può sempre essere moralmente buono, deve almeno essere sempre moralmente comprensibile. Non per Ibsen. Ne Le colonne della società c’è un indizio in questa direzione, quando Bernick lascia che il suo «passato personificato» si imbarchi su una nave che sa che affonderà, come Bulstrode con la governante. Ma poi Ibsen cambia il finale, e non farà mai piú niente del genere. Può guardare l’ambiguità borghese senza doverla risolvere: «segni contro segni», come si dice ne La signora del mare (1888): segni morali che dicono una cosa e segni legali che ne dicono un’altra. Segni contro segni. Ma proprio come non esiste un vero conflitto tra le vittime di Ibsen e i loro oppressori, quel «contro» non indica un’opposizione nel senso drammatico comune. Assomiglia di piú a un paradosso: legale/ingiustizia; ingiusto/legalità; l’aggettivo stride contro il nome, come gesso su una lavagna. Enorme fastidio, ma niente azione. Cosa attira Ibsen verso la zona grigia, chiedevo prima… Questo: essa rivela con assoluta chiarezza l’irrisolta dissonanza della vita borghese. Dissonanza, non conflitto. Stridente, destabilizzante – Hedda e le sue pistole – proprio perché non ci sono alternative. L’anitra selvatica, scrive il grande teorico della dissonanza, non risolve la contraddizione della moralità borghese,

ma esprime la sua insolubile natura 14. Ecco da dove deriva la claustrofobia di Ibsen; quella scatola dove tutti sbagliano; la paralisi, per usare una metafora del primo Joyce, che fu uno dei suoi piú grandi ammiratori. È la stessa prigione di altri nemici giurati dell’ordine post 1848: Baudelaire, Flaubert, Manet, Machado de Assis, Mahler. Tutto ciò che fanno è una critica della vita borghese; tutto ciò che vedono è la vita borghese. Hypocrite lecteur – mon semblable – mon frère! Prosa borghese, poesia capitalista. Finora ho parlato di ciò che i personaggi di Ibsen «fanno» nei suoi drammi. Ora affronterò il loro modo di parlare e, soprattutto, di usare le metafore. (Dopotutto, i primi cinque titoli del ciclo – Le colonne della società, Casa di bambola, Gli spettri, Un nemico del popolo, L’anitra selvatica – sono tutte metafore). Prendiamo il primo. Le colonne: Bernick e i suoi associati, sfruttatori che la metafora trasforma in benefattori, nella piroetta semantica che è tipica dell’ideologia. Poi emerge un secondo significato: la colonna, il sostegno, è quella (falsa) «autorità morale» che in passato ha salvato Bernick dalla bancarotta e di cui ora ha di nuovo bisogno per proteggere i suoi investimenti. E poi, nelle ultime battute dell’opera, si verificano altre due trasformazioni: «Ecco un’altra cosa imparata in questi giorni», dice Bernick, ovvero che «siete voi donne i sostegni della società». E Lona: «No; il vero sostegno della compagine sociale è lo spirito di verità e di libertà» 15. Una parola; quattro diversi significati. Qui la metafora è flessibile: è come un sedimento semantico pre-esistente, che i personaggi possono piegare secondo i loro diversi obiettivi. Altrove, è un segno piú minaccioso di un mondo che si rifiuta di morire: credo quasi che noi tutti siamo spettri, pastore Manders. Non soltanto quello che ereditiamo da padre e madre riappare in noi, ma ogni sorta di idee vecchie e morte, e convenzioni altrettanto vecchie e morte. Tutto ciò non vive in noi; ma c’è tuttavia e non possiamo liberarcene. Se

prendo in mano un giornale e lo leggo, mi sembra di veder degli spettri sgusciare tra le righe. Devono esserci spettri in tutto il paese. Devono essere numerosi come i granelli di sabbia lungo il mare, io credo 16.

Sussistono e non riusciamo a sbarazzarcene. Ma uno dei personaggi di Ibsen ci riesce: la nostra casa non è stata altro che una stanza dei giochi. Qui sono stata la tua moglie-bambola, come ero stata la figlia-bambola di mio padre. E i bambini, sono stati le bambole mie. Quando tu giocavi con me io mi divertivo esattamente come si divertivano i bambini quando io giocavo con loro. Questo è stato il nostro matrimonio, Torvald 17.

Nient’altro che una stanza dei giochi. Per Nora è una rivelazione. E ciò che rende la metafora davvero indimenticabile è che scatena uno stile completamente diverso. «Non t’accorgi che noi due», dice Nora, dopo essersi tolta il suo costume da tarantella e aver indossato di nuovo gli abiti di tutti i giorni, «oggi per la prima volta stiamo parlando di cose serie?» 18. «Serio», la grande parola borghese; serio nel senso di triste, come in questa scena amara, ma anche sobrio, concentrato, preciso. La Nora seria prende gli idoli del discorso etico («dovere»; «fiducia»; «felicità»; «matrimonio»), e li misura secondo il parametro del comportamento reale. Ha passato anni ad aspettare che una metafora diventasse realtà: che accadesse «il prodigio» (o «il piú grande miracolo», come viene anche tradotto); ora il mondo, nella persona del marito, l’ha costretta a smettere di giocare. «È una resa dei conti, Torvald». Che cosa vuoi dire? reagisce lui; io non ti capisco; che cosa dici mai; cosa intendi; che parole sono queste… E naturalmente non è che lui non capisca quello che la moglie sta dicendo: è che per lui la lingua non dovrebbe mai essere cosí… seria. Non dovrebbe mai essere prosa. Ormai i lettori di questo libro sanno che il suo unico, vero eroe è la prosa. Non era questo l’obiettivo; è semplicemente successo, nel tentativo di riconoscere giustamente i traguardi raggiunti dalla cultura borghese. La prosa come lo stile borghese per eccellenza, nel suo senso piú ampio; un modo per stare al mondo, non solo un modo

per rappresentarlo. La prosa come analisi, innanzitutto; la «distinta determinatezza e chiara intelligibilità» di Hegel, o la «chiarezza» di Weber. La prosa non come ispirazione – questo dono assurdamente ingiustificato degli dèi – ma come lavoro: duro, incerto («Vedi, Torvald, non è facile risponderti»), mai perfetto. E la prosa come polemica razionale: le emozioni di Nora, fortificate dal pensiero. È l’idea ibseniana di libertà: uno stile che comprende gli inganni delle metafore, e se li lascia alle spalle. Una donna che comprende un uomo, e se lo lascia alle spalle. Il momento in cui Nora dissipa le menzogne nel finale di Casa di bambola è una delle grandi pagine della cultura borghese: al pari delle parole di Kant sull’Illuminismo, o quelle di Mill sulla libertà. Quanto è significativa, questa brevità del momento. Da L’anitra selvatica in poi, le metafore si moltiplicano – è il cosiddetto «simbolismo» dell’ultimo Ibsen – e la prosa della prima fase diventa inimmaginabile. E questa volta, le metafore non sono le «dottrine morte» del passato, né le illusioni di una giovane inesperta, bensí le creazioni della stessa attività borghese. Due passaggi molto simili, di Bernick e di Borkman – due imprenditori finanziari, uno all’inizio e uno alla fine del ciclo – spiegheranno ciò che intendo. Questo è Bernick, che descrive che cosa una ferrovia può portare all’economia: Sarà una leva potente per tutta la nostra società. Basta pensare alle immense distese di foreste che diverranno accessibili; ai ricchi giacimenti minerari che si potranno sfruttare; ai fiumi con le loro numerose cascate! Si potrà sviluppare una formidabile attività industriale 19!

Qui Bernick è entusiasta: le frasi sono brevi, esclamative, con quel «basta pensare» che cerca di risvegliare l’immaginazione dei suoi ascoltatori, mentre i plurali (distese, giacimenti, cascate) moltiplicano i risultati davanti ai nostri occhi. È un brano appassionato – ma fondamentalmente descrittivo. Questo invece è Borkman:

Vedi le catene di montagne… làggiú, lontano? […] Là è il mio regno, profondo, immenso, inesausto. […] Quel soffio mi rianima un alito di vita. Come il saluto degli spiriti tributari. Sono là, i milioni prigionieri; io li sento; i filoni di metallo serpeggiano, si diramano, tendono verso di me le braccia supplichevoli. Mi circondavano come ombre viventi… quella notte in cui discesi nel sotterraneo della banca, con la mia lanterna in mano. Mi chiedevano la liberazione, e io tentai. Ma non ne ebbi la forza. Il tesoro ripiombò nell’abisso. (Tendendo le braccia) Ma ve lo sussurro piano, nel silenzio della notte: io vi amo, voi che giacete nelle tenebre e nella morte apparente! Vi amo, ricchezze che invocate la vita… col vostro rutilante corteo di potenza e splendore. Vi amo, vi amo, vi amo! 20.

Quello di Bernick era un mondo di foreste, miniere e cascate; quello di Borkman è un mondo di spiriti, ombre, amore. Il capitalismo è smaterializzato: «i ricchi giacimenti minerari» sono diventati regno, alito, vita, morte, nascita, splendore… La prosa è invasa di tropi: un saluto da spiriti tributari, filoni supplichevoli, tesori che ripiombano nell’abisso, ricchezze che invocano la vita… Le metafore – questa è la sequenza metaforica piú lunga dell’intero ciclo – non interpretano piú il mondo; esse lo cancellano e lo ricostruiscono, come l’incendio notturno che spiana la strada al costruttore Solness. Distruzione creatrice: la zona grigia diventa seducente. Tipica dell’imprenditore, scrive Sombart, è la «facoltà poetica», ovvero il dono metaforico «di far nascere davanti agli occhi degli altri immagini di seducente incanto e di vivace splendore […] egli stesso sogna con assoluto abbandono il sogno della sua impresa felicemente condotta in porto, riuscita» 21. Sogna il sogno… I sogni non sono bugie. Ma non sono neanche la verità. La speculazione, scrive uno dei suoi storici, «ha conservato qualcosa dell’originale significato filosofico; vale a dire riflettere o teorizzare senza una solida base fattuale» 22. Borkman parla con lo stesso atteggiamento «messianico» che era tipico del direttore della South Sea Company (una delle prime bolle del capitalismo moderno) 23; la grandiosa – e cieca – visione del Faust morente; la fede nel fatto che «l’età dorata non è alle spalle, bensí davanti

all’umanità», che Gerschenkron considerava la «forte medicina» necessaria per il progresso economico: – Vedi, laggiú sul fiordo, il fumo dei grandi vapori? – No. – Io sí… […]E laggiú lungo il fiume… ascolta! Il pulsare delle fabbriche! Le mie fabbriche! Tutte quelle che volevo creare! Senti, come lavorano. È il turno di notte. Lavorano notte e giorno 24.

Visionario, dispotico, distruttivo, autodistruttivo: questo è l’imprenditore di Ibsen. Borkman rinuncia all’amore per l’oro, come Alberich ne L’anello del Nibelungo; va in carcere; si rinchiude in casa per altri otto anni; e nell’estasi della sua visione, marcia verso il ghiaccio e verso morte certa. Ecco perché l’imprenditore è cosí importante per l’ultimo Ibsen: è colui che riporta la hybris nel mondo – e dunque la tragedia. È il tiranno moderno: nel 1620, il titolo di John Gabriel Borkman sarebbe stato «La tragedia del banchiere». La vertigine di Solness è il segno perfetto di questo stato di cose: il disperato tentativo del corpo di preservarsi dall’audacia mortale richiesta a un fondatore di regni. Ma lo spirito è troppo forte: lui salirà in cima alla casa che ha appena costruito, sfiderà Dio – «ascoltami, Signore Onnipotente […] d’ora innanzi io non voglio piú costruire che una cosa… la piú bella di tutte…» 25 –, saluterà con la mano la folla piú sotto… e cadrà. E questo sinistro atto di autoimmolazione è il giusto preludio alla mia ultima domanda: qual è, dunque, il verdetto di Ibsen sulla borghesia europea? Che cosa ha portato al mondo questa classe? La risposta è da rintracciarsi in un arco storico piú ampio di quello che abbraccia gli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento; un arco al centro del quale si trova la grande trasformazione industriale del secolo. Prima di allora, ciò che il borghese vuole è essere lasciato in pace, come nella famosa risposta a Federico il Grande; o al massimo essere riconosciuto e accettato. Se mai è troppo modesto nelle sue ambizioni; troppo ristretto; il padre di Robinson Crusoe o di Wilhelm Meister. La sua aspirazione è il «comfort»: una nozione quasi medica, a metà strada tra il lavoro e il riposo, il piacere inteso come puro e semplice benessere. Intrappolato in un’eterna lotta

contro i capricci di Fortuna, questo primo borghese è composto, attento, dotato di quel rispetto «quasi religioso per i fatti» dei primi Buddenbrook. È un uomo che guarda ai particolari. È la prosa della storia capitalista. Dopo l’industrializzazione, anche se piú lentamente di quanto siamo soliti pensare – cronologicamente, tutta l’opera di Ibsen ricade nella «persistenza dell’Antico regime» di cui parla Arno Mayer –, la borghesia diventa la classe dominante; e una classe con immensi mezzi di industria a sua disposizione. La borghesia realista è spodestata dal distruttore creativo: lo stile analitico dalle metafore che trasformano il mondo. La drammaturgia capta meglio del romanzo questa nuova fase, in cui l’asse temporale si sposta dalla sobria registrazione del passato – la contabilità a partita doppia di Robinson Crusoe e di Wilhelm Meister – all’audace configurazione del futuro che è tipica del dialogo teatrale. Nel Faust, ne L’anello del Nibelungo, nell’ultimo Ibsen, i personaggi «speculano», guardando in lontananza verso il tempo che deve venire. I particolari vengono eclissati dall’immaginazione; il reale da ciò che è possibile. È la poesia dello sviluppo capitalista. La poesia del possibile… La grande virtú borghese è l’onestà, ho detto prima; ma l’onestà è retrospettiva: sei onesto se, in passato, non hai fatto niente di male. Non si può essere onesti al futuro – che è il tempo dell’imprenditore. Qual è la previsione «onesta» del prezzo del petrolio, o di qualsiasi altra cosa, se è per questo, da qui ai prossimi cinque anni? Anche a voler essere onesti, non si può, perché l’onestà ha bisogno di fatti certi, che la «speculazione» – anche nel senso piú neutro del termine – non possiede. Nella vicenda Enron, per esempio, un passo notevole verso la grande truffa fu l’adozione della cosiddetta contabilità mark to market (valutazione a prezzo di mercato): inserire come realmente in essere guadagni che appartengono ancora al futuro (a volte a un futuro lontano diversi anni). Il giorno in cui la Securities and Exchange Commission ha autorizzato questa «speculazione» sul valore delle attività, Jeff Skilling ha portato in ufficio dello champagne: era finita l’epoca della contabilità come «scetticismo professionale», come recitava la definizione classica, ricordando molto da vicino la poetica

del realismo. Ora la contabilità era una visione. «Non era un lavoro: era una missione […] Facevamo il volere di Dio» 26. Questo era Skilling, dopo l’incriminazione. Borkman: che non sa piú distinguere la differenza tra congettura, desiderio, sogno, allucinazione e pura e semplice frode. Cosa ha portato la borghesia al mondo? Questa folle biforcazione tra un dominio molto piú razionale e un dominio molto piú irrazionale sul mondo. Due idealtipi – uno antecedente e uno successivo all’industrializzazione – resi memorabili da Weber e Schumpeter. Originario di un paese in cui il capitalismo era arrivato tardi, e aveva incontrato qualche ostacolo, Ibsen ebbe l’opportunità – e il genio – di comprimere una storia di secoli in appena vent’anni. Il borghese realista abita le sue prime opere: Lona, Nora, forse Regina ne Gli spettri. Il realista come donna: una scelta strana per l’epoca (Cuore di tenebra: «È strano a qual punto le donne non abbiano alcun contatto con la verità»). Una scelta anche radicale, nello spirito di L’asservimento delle donne di Mill. Ma, nello stesso tempo, profondamente pessimista riguardo allo scopo del «realismo» borghese: immaginabile nella sfera intima – come il solvente della famiglia nucleare e delle sue menzogne –, non nella società piú ampia. Nella prosa di Nora alla fine di Casa di bambola risuona l’eco degli scritti di Wollstonecraft, Fuller, Martineau 27: ma ora i loro argomenti pubblici sono rinchiusi in un soggiorno (nella celebre messa in scena di Bergman, una camera da letto). Che paradosso, questa opera che scuote la sfera pubblica europea, e però non crede veramente nella sfera pubblica. E poi, una volta emersa la distruzione creatrice, non ci sono piú personaggi come Nora a contrastare le metafore distruttive di Borkman e Solness; tutto il contrario: Hilda, che incita «il mio costruttore» 28 alla sua allucinazione suicida. Piú il realismo è indispensabile, e piú diventa impensabile. Ricordiamo il bancario tedesco, con la sua «contraddizione inconciliabile» tra il Bürger buono e il finanziere senza scrupoli. Ibsen sapeva naturalmente qual era la differenza tra i due; ed era un drammaturgo, in cerca di una collisione oggettiva come fondamento del dramma. Perché non usare questa contraddizione

interborghese? Sarebbe stato molto piú logico… sarebbe stato molto piú sensato per Ibsen essere Shaw, invece di essere Ibsen. Ma fece quello che fece perché la differenza tra quelle due figure borghesi può anche essere forse «inconciliabile», ma non è una vera contraddizione: il Bürger buono non avrà mai la forza di resistere al distruttore creativo e contrastare la sua volontà. Riconoscere l’impotenza del realismo borghese davanti alla megalomania capitalista: è questa la lezione di Ibsen. Una lezione che vale ancora per il mondo di oggi.

Note

Introduzione. 1. M. Weber, Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca [1895], in Id., Scritti politici, Donzelli, Roma 1998, pp. 23-24. 2. I. Wallerstein, The Bourgeois(ie) as Concept and Reality, in «New Left Review», I (1988), n. 167, pp. 91-106 (p. 98). 3. E. Meiksins Wood, The Pristine Culture of Capitalism: A Historical Essay on Old Regimes and Modern States, Verso, London 1991, p. 3; la seconda citazione è tratta da The Origin of Capitalism: A Longer View [1999], Verso, London 2002, p. 63. 4. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [1905], Rizzoli, Milano 1991, p. 44 (corsivo mio). 5. E. Hobsbawm, L’Età degli imperi (1875-1914), Laterza, Roma-Bari 1987, p. 205. 6. P. Anderson, The Notion of Bourgeois Revolution [1976], in Id., English Questions, Verso, London 1992, p. 122. 7. J. Kocka, Middle Class and Authoritarian State: Toward a History of the German «Bürgertum» in the Nineteenth Century, in Id., Industrial Culture and Bourgeois Society, Business, Labor, and Bureaucracy in Modern Germany, Berghahn Books, New York - Oxford 1999, p. 193. 8. E. Hobsbawm, L’Età degli imperi cit., p. 199. 9. P. Gay, The Bourgeois Experience: Victoria to Freud, vol. V. Pleasure Wars, Norton, New York 1998, pp. 237-38. 10. Id., Il secolo inquieto. La formazione della cultura borghese, 1815-1914, Carocci, Roma 2002, p. 25. 11. Id., The Bourgeois Experience: Victoria to Freud, vol. I. Education of the Senses, Oxford University Press, Oxford 1984, p. 26 (trad. it. L’educazione dei sensi. L’esperienza borghese dalla regina Vittoria a Freud, Feltrinelli, Milano 1986).

12. Ibid., pp. 45 sgg. 13. A. Warburg, Arte del ritratto e borghesia fiorentina [1902], in Id., La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 119. Una combinazione simile di opposti emerge dalle pagine scritte da Warburg sul ritratto del donatore in Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino [1902]: «Mentre le mani del committente mantengono ancora l’abituale gesto dell’uomo che […] implora protezione dall’alto, lo sguardo già si rivolge sognante o osservatore verso lontani orizzonti terreni» (ibid., p. 169). 14. S. Schama, Il disagio dell’abbondanza. La cultura olandese dell’epoca d’oro [1988], Mondadori, Milano 1993, pp. 344, 379. 15. B. Groethuysen, Origini dello spirito borghese in Francia. La Chiesa e la borghesia [1927], Einaudi, Torino 1977, p. 11. 16. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici [1979], Marietti, Genova 1986, p. 102. 17. I. Wallerstein, The Bourgeois(ie) as Concept and Reality cit., pp. 91-92. Dietro questa doppia negazione indicata da Wallerstein si nasconde un passato ben piú remoto, su cui fa luce Émile Benveniste nel capitolo Un mestiere senza nome: il commercio del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee. In breve, secondo la tesi di Benveniste il commercio – una delle primissime forme dell’attività «borghese» – indicava in origine una «occupazione», di qui la difficoltà «di definire con un termine proprio un’attività senza tradizione nel mondo indoeuropeo». Di conseguenza, poteva solo essere definita da termini negativi come il greco askholia e il latino negotium (nec-otium, «assenza di ozio»), o da termini generici quali il greco pragma, il francese affaires (il quale «non è che la sostantivizzazione dell’espressione à faire») o l’aggettivo inglese busy (che «produce l’astratto business»). Si veda É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (vol. I), Einaudi, Torino 2001, pp. 104-10. 18. La traiettoria del termine tedesco Bürger – «dallo Stadt-Bürger, ossia dall’”abitante della città” del 1700, allo Staats-Bürger, al “cittadino dello Stato” del 1800, fino al Bürger, “borghese, non proletario” del 1900» – è particolarmente interessante: si veda R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale cit., p. 99. 19. J. Kocka, Middle Class and Authoritarian State cit., pp. 194-95. 20. J. Mill, An Essay on Government [1824], Cambridge University Press, Cambridge 1937, p. 73.

21. R. Parkinson, On the Present Condition of the Labouring Poor in Manchester; with Hints for Improving It, Simpkin Marshall, London-Manchester 1841, p. 12. 22. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, p. 67. 23. J. Mill, An Essay on Government cit., p. 73. 24. H. Brougham, Opinions of Lord Brougham, on Politics, Theology, Law, Science, Education, Literature. As Exhibited in His Parliamentary and Legal Speeches, and Miscellaneous Writings, London 1837, pp. 314-15. 25. «Di vitale importanza nella situazione del 1830-32, o almeno cosí sembrava ai ministri liberali, era rompere l’alleanza radicale creando un dissidio tra la classe media e quella operaia», scrive F. M. L. Thompson (The Rise of Respectable Society: A Social History of Victorian Britain, 1830-1900, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1988, p. 16). Questo dissidio creato al di sotto della classe media si uní alla promessa di un’alleanza al di sopra: «è della massima importanza», dichiarò Lord Grey, «associare le fasce medie e quelle piú alte della società»; mentre Dror Wahrman – che ha ricostruito con straordinaria lucidità il lungo dibattito sulla classe media – sottolinea come il famoso encomio di Brougham enfatizzasse anche «la responsabilità politica […] piuttosto che l’intransigenza; la fedeltà alla corona, piuttosto che i diritti del popolo; il valore come baluardo contro la rivoluzione, piuttosto che contro le violazioni della libertà» (Imagining the Middle Class: the Political Representation of Class in Britain, c. 1780-1840, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 3089). 26. P. Anderson, The Figures of Descent [1987], in Id., English Questions cit., p. 145. 27. G. Lukács, Teoria del romanzo [1914-15], SE, Milano 1999, p. 63. 28. Le forme estetiche sono risposte strutturate alle contraddizioni sociali: considerata la relazione tra storia letteraria e sociale, ho pensato che il saggio Secolo serio, benché scritto in origine per una raccolta letteraria, si sarebbe inserito bene in questo libro (dopotutto, il suo titolo provvisorio è stato per molto tempo Della serietà borghese). Tuttavia, quando l’ho riletto, ho subito sentito (potrei dire «percepito», in modo irrazionale e incontrollabile) che dovevo tagliare gran parte del testo originale e riformulare il resto. Fatto questo lavoro di editing, mi sono reso conto che aveva interessato principalmente tre sezioni – nella versione originale tutte intitolate Biforcazioni – che delineavano il morfospazio piú ampio in cui si erano configurate le varie forme di serietà borghese. Quello che sentivo di dover eliminare, in altre parole, era lo spettro

delle variazioni formali che erano state disponibili storicamente; ciò che sopravvive è il risultato del processo di selezione del XIX secolo. In un libro sulla cultura borghese, può sembrare una scelta plausibile, tuttavia sottolinea la differenza tra storia letteraria come storia della letteratura – dove la pluralità, e persino la casualità delle opinioni formali è un aspetto chiave del quadro complessivo – e storia letteraria come (parte della) storia della società, dove ciò che conta è invece il legame tra una forma specifica e la sua funzione sociale. 29. Un esempio recente, da un testo sulla borghesia francese: «Il mio assunto è che l’esistenza dei gruppi sociali, benché radicata nel mondo materiale, sia plasmata dalla lingua, e piú precisamente dalla narrazione: perché un gruppo possa rivendicare il ruolo di attore nella scena politica e sociale, esso deve essere il protagonista di una o piú storie» (S. Maza, The Myth of the French Bourgeoisie: An Essay on the Social Imaginary, 1750-1850, Cambridge Mass. 2003, p. 6). 30. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista [1848], Einaudi, Torino 2014, p. 10. 31. Schumpeter «elogiava il capitalismo non per la sua efficienza e razionalità, ma per la sua natura dinamica. […] Invece di chiosare sugli aspetti creativi e imprevedibili dell’innovazione li ha posti al centro della propria teoria. L’innovazione è sostanzialmente un fenomeno di disequilibrio – un salto nel buio» (J. Elster, Explaining Technical Change: A Case Study in the Philosophy of Science, Cambridge University Press, Cambridge 1983, pp. 11, 112). 32. La stessa resistenza borghese alla narrazione emerge dallo studio svolto da Richard Helgerson sul realismo del Secolo d’oro olandese: una cultura visiva in cui «donne, bambini, servi, contadini, artigiani e corteggiatori intraprendenti agiscono», mentre «i capofamiglia delle classi superiori… sono», e tendono a trovare la loro forma d’elezione nel genere non narrativo del ritratto. Si veda Soldiers and Enigmatic Girls: The Politics of Dutch Domestic Realism, 16501672, in «Representations», LVIII (1997), p. 55. 33. J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia [1942], Etas, Milano 2001, pp. 140, 129. In parte sulla stessa linea, Weber ha evocato la definizione che Carlyle diede dell’epoca di Cromwell come «the last of our heroisms» (M. Weber, L’etica protestante cit., p. 61). 34. Sulla relazione fra la mentalità avventuriera e lo spirito capitalista si veda M. Nerlich, The Ideology of Adventure: Studies in Modern Consciousness, 1100-

1750 [1977], University of Minnesota Press, Minneapolis 1987, e le prime due sezioni del capitolo successivo. 35. E. Gaskell, Nord e Sud [1855], traduzione di L. Pecoraro, Jo March, Città di Castello 2011, pp. 98-99. 36. K. Marx, Il Capitale [1867], vol. I, Newton Compton, Milano 2013. 37. Riguardo a Mann e la borghesia, oltre ai numerosi saggi di Lukács, si veda A. Asor Rosa, Thomas Mann o dell’ambiguità borghese, De Donato, Bari 1971. Se devo indicare il momento in cui ho cominciato ad accarezzare l’idea di un libro sul borghese è stato oltre quarant’anni fa, leggendo i saggi di Asor Rosa; il lavoro serio è poi iniziato nel 1999-2000, durante l’anno trascorso al Wissenschaftskolleg di Berlino. 38. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale cit., p. 102. 39. Ibid., pp. 93-97. 40. B. Groethuysen, Origini dello spirito borghese cit., p. 14. 41. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale [1966], il Saggiatore, Milano 2010, p. 100 (corsivo mio). 42. L. Carroll, Attraverso lo Specchio [1872], Einaudi, Torino 1978, p. 185. 43. J. H. Davis, The Guggenheims, 1848-1988: An American Epic, Shapolsky, New York 1988, p. 221. 44. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 1519. 45. Essendo stata «la prima classe nella storia a conquistare la preminenza economica senza aspirare al dominio politico», scrive Hannah Arendt, la borghesia raggiunse la sua emancipazione politica nel corso del periodo imperialista (1884-1914) (Le origini del totalitarismo [1948], Einaudi, Torino 2009, pp. 171-72). 46. J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia cit., p. 141. 47. P. Anderson, The Antinomies of Antonio Gramsci, in «New Left Review», I (1976), n. 100, p. 30. 48. F. Moretti, Il romanzo di formazione [1987], Einaudi, Torino 1999; Id., Atlante del romanzo europeo, 1800-1900, Einaudi, Torino 1997. 49. Nell’uso comune, il termine «egemonia» abbraccia due ambiti storicamente e logicamente distinti: l’egemonia di uno Stato capitalista su altri Stati capitalisti, e quella di una classe sociale sulle altre classi sociali; in breve egemonia internazionale e nazionale. Gran Bretagna e Stati Uniti sono stati finora gli unici casi di egemonia internazionale; ma naturalmente ci sono stati molti casi di classi borghesi nazionali che hanno esercitato in vari modi e misure la propria

egemonia in patria. La mia argomentazione in questo paragrafo e nel capitolo «Nebbia» riguarda i valori specifici che associo all’egemonia nazionale britannica e americana; come questi valori si pongano in relazione con quelli che incoraggiano l’egemonia internazionale è un quesito molto interessante, che tuttavia non viene trattato in questa sede. 50. È significativo che i due narratori piú rappresentativi delle due culture – Dickens e Spielberg – si siano entrambi specializzati in storie che piacciono a grandi e piccoli. 51. Th. Mann, Romanzi brevi, Mondadori, Milano 1989, p. 339.

Capitolo primo. 1. D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe [1719], traduzione di A. Meo, nuova edizione a cura di G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998, p. 6. 2. Ibid., p. 18. 3. M. Nerlich, The Ideology of Adventure cit., p. 57. 4. I. Watt, Le origini del romanzo borghese [1957], Bompiani, Milano 1980, p. 61. 5. M. Weber, L’etica protestante cit., p. 41. 6. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 17, 37. 7. G. Arrighi, Il lungo XX secolo [1994], il Saggiatore, Milano 2014. 8. A. Warburg, Le ultime volontà di Francesco Sassetti [1907], in Id., La rinascita del paganesimo antico cit., p. 233. Nell’assetto presentato alla conferenza, e riprodotto nel 1998 a Siena in occasione della mostra «Mnemosyne», si trattava del pannello 48. 9. Warburg allude qui ai Merchant Adventurers, il gruppo commerciale di maggior successo agli inizi dell’Inghilterra moderna. Malgrado il nome, gli Adventurers non erano affatto avventurosi: protetti da uno statuto regio, essi monopolizzarono l’esportazione di tessuti in lana dall’Inghilterra ai Paesi Bassi e ai territori della Germania (ma allo scoppio della Guerra Civile avevano già perso gran parte del loro predominio). Cambiando completamente rotte e materie prime, Robinson si arricchisce con il commercio dello zucchero delle economie schiavistiche dell’Atlantico. Riguardo ai primi gruppi di commercianti moderni, si veda lo splendido lavoro di Robert Brenner, Merchants and Revolution: Commercial Change, Political Conflict, and London’s Overseas Traders, 1550-1653 [1993], Verso, London 2003.

10. M. Cohen, The Novel and The Sea, Princeton University Press, Princeton 2010, p. 63. 11. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 13. 12. Ibid., pp. 259, 261. 13. W. Empson, Some Versions of Pastoral [1935], New Directions, New York 1974, p. 204. 14. Le mille e una notte, Rizzoli, Milano 2011. 15. S. Sherman, Telling Time: Clocks, Diaries, and English Diurnal Forms, 16601785, University of Chicago Press, Chicago 1996, p. 228. Leggermente modificate, Sherman cita le parole di E. P. Thompson in Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism, in «Past & Present», XXXVIII (1967), p. 59. 16. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 142. 17. Questa è la descrizione che Steele fa di Selkirk in «The Englishman», XXVI (1713); ora si trova in R. Blanchard (a cura di), The Englishman: A Political Journal by Richard Steele, Clarendon Press, Oxford 1955, pp. 107-8. 18. Cfr. J. Appleby, The Relentless Revolution: A History of Capitalism, Norton, New York 2010, p. 106. Secondo altre ricostruzioni (per esempio J. de Vries, The Industrious Revolution: Consumer Behaviour and the Household Economy, 1650 to the Present, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 87-88), ciò che aumentò nel Settecento non fu il numero dei giorni lavorativi, che aveva già raggiunto la soglia dei 300 circa, ma quello delle ore di lavoro giornaliere; come vedremo, tuttavia, Robinson si dimostra avanti con i tempi anche sotto questo aspetto. 19. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 141-42. 20. N. Elias, La civiltà delle buone maniere [1969], il Mulino, Bologna 1982, p. 287. 21. A. Kojève, Capitolo-01 alla lettura di Hegel [1947], Adelphi, Milano 1996. 22. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 261. 23. «Ciò che ha» comprende naturalmente anche l’isola: «Il suo lavoro l’ha tolta alle mani della natura», scrive Locke a proposito della terra incolta nel capitolo Of Property del Secondo trattato, «dove era comune e apparteneva nella stessa misura a tutti i suoi figli, ed egli se l’è con ciò appropriata» (J. Locke, Trattato sul governo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 25). Lavorando sull’isola, in altre parole, Robinson l’ha resa sua proprietà. 24. I miei ringraziamenti a Sue Laizik, che per prima mi ha reso consapevole di queste metamorfosi. «Industry» è naturalmente una delle parole chiave di Williams in Culture !& Society; la trasformazione che piú lo interessa, però –

ovvero il fatto che «industry» diventi «una cosa a sé stante, un’istituzione, un insieme di attività, piuttosto che una semplice qualità umana» –, si verifica dopo quella che viene qui descritta, e probabilmente ne è la conseguenza: la prima «industria» diventa il semplice lavoro astratto che chiunque può svolgere (in contrasto con l’unicità di «abilità e ingegno»); essa subisce poi una seconda astrazione, trasformandosi in una «cosa a sé stante». Si veda R. Williams, Culture & Society: 1780-1950 [1958], Columbia University Press, New York 1983, p. XIII , e anche la voce «Industry» nel suo Keywords: A Vocabulary of Culture and Society [1976], nuova edizione, Oxford University Press, Oxford 1983. 25. Come risulta chiaro dalla definizione dell’aggettivo «industrious», il duro lavoro possiede nella lingua inglese un’aura etica che manca al lavoro definito «clever» (abile, ingegnoso). Questo spiega come mai la leggendaria Arthur Andersen Accounting, società di revisione contabile e consulenza, includeva ancora, negli anni Novanta del secolo scorso, il «duro lavoro» nella propria «lista dei valori» – mentre il ramo piú «ingegnoso» della società (la Anderson Counseling, impegnata ad architettare ogni sorta di investimenti) lo sostituí con «rispetto per il singolo individuo», che nel gergo neoliberale corrisponde ai bonus finanziari. Alla fine, il ramo consulenza ha costretto con la forza il ramo contabilità ad accettare pratiche di aggiotaggio, di qui il rovinoso crollo della società. Si veda S. E. Squires, C. J. Smith, L. McDougall e W. R. Yeack, Inside Arthur Andersen: Shifting Values, Unexpected Consequences, Prentice Hall, New York 2003, pp. 90-91. 26. A. O. Hirschmann, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano 1979. 27. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 107. Le tre ore di caccia «ogni mattina», e poi tutto il tempo in cui «seccavo, preparavo per la conservazione, riponevo, cucinavo», che lo teneva occupato «la maggior parte della giornata», andrebbero chiaramente aggiunti alle quattro ore di lavoro ogni sera, formando cosí un monte ore ben superiore a quello di gran parte dei lavoratori dell’epoca. 28. M. Weber, L’etica protestante cit., p. 37. 29. È un’osservazione di cui sono debitore a Giuseppe Sertoli, I due Robinson, capitolo-01 alla sua edizione di Robinson Crusoe cit., p. XIV . 30. J.-J. Rousseau, Émile o dell’educazione [1762], traduzione di M. Valensise, Rizzoli, Milano 2013.

31. Le ulteriori avventure di Robinson Crusoe, scrive Maximilian Novak, «fu pubblicato il 20 agosto 1719, a distanza di circa quattro mesi dall’uscita del primo volume»; un fatto questo che fa chiaramente intuire come Defoe «stesse già lavorando al seguito prima ancora che venisse stampato il volume originale» (M. E. Novak, Daniel Defoe: Master of Fictions, Oxford 2001, p. 555). L’ultima frase, dunque, non è un’inutile infiorettatura, ma una mossa pubblicitaria a tutti gli effetti. 32. La metafora delle «due anime» – ispirata al famoso monologo del Faust – è il leitmotiv del libro di Sombart sul borghese: «In ogni perfetto borghese abitano, e lo sappiamo, due anime: l’anima dell’imprenditore e l’anima del borghese, le quali, unite, concorrono a formare lo spirito capitalistico» (W. Sombart, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico [1913], Guanda, Milano 1994, p. 159); «Lo spirito d’impresa è una sintesi di avidità di denaro, amore dell’avventura, spirito inventivo e di molte tendenze; lo spirito borghese si compone di calcolo, circospezione, ragionevolezza ed economia» (ibid., p. 11). 33. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 68. 34. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], Einaudi, Torino 2008, p. 373. 35. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 49 sgg. 36. T. Pericoli, Robinson Crusoe di Daniel Defoe, Adelphi, Milano 2007. 37. In un mondo di strumenti, diventano strumenti gli stessi esseri umani, vale a dire semplici ingranaggi nella divisione sociale del lavoro, e cosí Robinson non chiama mai gli altri marinai per nome, ma soltanto in base all’attività che svolgono: capitano, cannoniere, carpentiere. 38. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 128. 39. Ibid., p. 101. 40. G. W. F. Hegel, Estetica, Tomo II, Feltrinelli, Milano 1963, p. 1288. 41. J. W. Goethe, Gli anni di pellegrinaggio di Guglielmo Meister [1829], traduzione di B. Arzeni, Sansoni, Firenze 1963. 42. Ibid., p. 645. 43. Ibid., p. 868. 44. Ibid., p. 830. 45. Ibid., p. 963. 46. Ibid., p. 844. 47. Costretto a «sviluppare certe facoltà per potersi rendere utile», scrive Wilhelm nella sua lettera a Werner, il borghese sa che «nel suo contegno» non può

«esservi armonia, perché per rendersi utile in un certo modo deve trascurare tutto il resto» (J. W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato [1796], traduzione di A. Rho ed E. Castellani, Adelphi, Milano 2006, p. 259). 48. Id., Gli anni di pellegrinaggio cit., p. 633. 49. Ibid., p. 730. 50. Ibid., p. 740. 51. Ibid., p. 939. 52. Il cambio avviene piú o meno in contemporanea in diversi ambiti di applicazione; l’OED fornisce esempi tratti dall’ambito legale (Whately, 1818-60), dalla storia della civiltà (Buckle, 1858), dalla filosofia politica (Mill, 1859) e dall’economia politica (Fawcett, 1863). 53. J. Conrad, Cuore di tenebra [1899], traduzione di A. Rossi, Einaudi, Torino 2014, p. 9. 54. Ibid., p. 42. 55. R. Schwarz, Misplaced Ideas: Literature and Society in Late NineteenthCentury Brazil (1973), in Id., Misplaced Ideas: Essays on Brazilian Culture, Verso, London 1992. 56. J. Conrad, Cuore di tenebra cit., p. 59. 57. M. Weber, L’etica protestante cit., pp. 93-94. La parola «irrazionale» perseguita la descrizione che Weber fa dell’ethos capitalista. Ma per lui esistono due tipi contrapposti di irrazionalità capitalista: quello dell’«avventuriero» – dove i mezzi sono di fatto irrazionali, ma non l’obiettivo (godimento personale di un guadagno) – e quello del capitalista moderno, dove per contro i mezzi sono stati completamente razionalizzati, ma il risultato – un uomo che «è in funzione e al servizio dei suoi affari, e non viceversa» – è del tutto irrazionale. Solo nel secondo tipo si palesa l’assurdità della ragione strumentale. 58. Ibid., p. 214. 59. Ibid., p. 94. 60. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 142. 61. M. Weber, L’etica protestante cit., pp. 229-30. 62. Ch. Morazé, Les bourgeois conquérants, Armand Colin, Paris 1957, p. 13. In epoca vittoriana, l’associazione tra casa e comfort era diventata ormai cosí scontata che Peter Gay riferisce il caso di «un cliente inglese» che chiese al proprio architetto, con assoluta serietà, di non adottare «nessuno stile se non lo stile comodo» (P. Gay, L’educazione dei sensi cit.). Viene da pensare al signor Wilcox, in Casa Howard, che mostra la sua casa a Margaret Schlegel: «non

posso soffrire le persone che parlano con disprezzo delle comodità […] voglio dire le comodità ragionevoli, naturalmente» (E. M. Forster, Casa Howard [1910], Feltrinelli, Milano 1997, p. 150). 63. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 64. 64. Ibid., p. 204. 65. Ibid., p. 126. 66. Come spesso succede quando si verifica un cambiamento semantico, il vecchio senso e il nuovo coesistono per un po’, persino all’interno dello stesso testo: in Defoe, per esempio, nome e verbo veicolano il vecchio significato del termine (come quando Robinson, reduce dal naufragio, racconta di come arrivò «sulla terraferma, dove, con mia grande consolazione [comfort], mi arrampicai sulla scogliera sino a riva», p. 44) mentre aggettivo e avverbio tendono piú verso il nuovo significato, come quando Robinson dichiara «il mio soggiorno qui divenne oltre ogni dire confortevole [comfortable]» (p. 204) o ammette candidamente «Cosí facevo una vita comoda assai [thus I lived mighty comfortably]» dopo essere riuscito a costruirsi un ombrello (p. 126). 67. B. Mandeville, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefici [1714], Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 70-71. 68. «“Ma cosa dici!” sbottò Ostinato, “dovremmo abbandonare amici e comodità!” “Sí”, disse Cristiano (si chiamava infatti cosí), “perché tutto quello che lascerete non può essere neppure paragonato a ciò di cui vado in cerca”» (J. Bunyan, Il pellegrinaggio del Cristiano [1678], UCEB, Latina 2012). 69. B. Franklin, Autobiography, Poor Richard and Later Writings, Library of America, New York 1987, p. 545. 70. Esiste di fatto una differenza piuttosto netta tra l’idea di comfort e quella di convenienza: nel comfort è compresa una certa misura di piacere, che è assente nella convenienza. 71. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 64 (corsivi miei). 72. T. Veblen, La teoria della classe agiata [1899], Einaudi, Torino 2007, p. 142. 73. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII ) [1967], Einaudi, Torino 1982, p. 281. 74. «[…] quelli che si chiamano comodità o agi», scriverà il cardinale Newman, sono «come una poltrona o un buon fuoco, che fanno la loro parte nel cacciare freddo e fatica, per quanto la natura fornisca anche senza di loro tanto mezzi

per riposare quanto calore animale» (J. H. Newman, L’idea di università [1852], in Id., Opere, Utet, Torino 1988, p. 927). 75. J. de Vries, The Industrious Revolution cit., pp. 21, 23. De Vries adotta qui l’antitesi – del tutto antistorica – tra comfort e piacere espressa da Tibor Scitovsky nel suo L’economia senza gioia [1976], Città Nuova, Roma 2007. 76. J. Oldham Appleby, Pensiero economico e ideologia nell’Inghilterra del XVII secolo [1978], il Mulino, Bologna 1983, p. 182. 77. N. McKendrick, Introduction, in Id., J. Brewer e J. H. Plumb, The Birth of a Consumer Society: The Commercialization of Eighteenth-Century England, Indiana University Press, Bloomington 1982, p. 1. 78. Doveva essere questo ciò che Schumpeter aveva in mente quando osservò che «l’evoluzione dello stile di vita del capitalismo può essere descritta – forse nel modo piú eloquente – nei termini della genesi del moderno vestito da passeggio» (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia cit., p. 128). Nato come abbigliamento campestre, l’abito da giorno veniva usato sia come completo da lavoro sia come segno di generica eleganza quotidiana; il suo collegamento con il lavoro, tuttavia, lo rendeva «inadatto» a occasioni di festa o particolarmente alla moda. 79. W. Schivelbusch, Storia dei generi voluttuari. Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe [1980], Bruno Mondadori, Milano 2000. Intorno al 1700, «il caffè, lo zucchero e il tabacco passarono da prodotti esotici a sostanze medicinali», scrivono Maxine Berg e Helen Clifford; e poi – con una seconda metamorfosi identica a quella del comfort – si trasformarono da «sostanze medicinali» a piccoli piaceri quotidiani. Lavoro, tabacco e comfort si incontrano con grande naturalezza in un brano in cui Robinson dichiara: «credo che mai la vanagloria delle mie imprese o la gioia per qualche cosa che avessi scoperto, furono piú grandi di quando riuscii a farmi una pipa» (D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 134). Si veda M. Berg e H. Clifford (a cura di), Consumers and Luxury: Consumer Culture in Europe 1650-1850, Manchester University Press, Manchester 1999, p. 11. 80. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 45-46. 81. Nei 3500 romanzi dello Stanford Literary Lab, il gerundio passato si trova con una frequenza di 5 occorrenze ogni 10?000 parole tra il 1800 e il 1840, con un calo a 3 occorrenze nel periodo fino al 1860, per poi mantenersi a quel livello fino alla fine del secolo. La frequenza in Robinson Crusoe (9,3 occorrenze ogni

10?000 parole) è dunque due o tre volte superiore – e forse anche di piú, considerata l’abitudine di Defoe di usare un unico ausiliare per due verbi distinti («having drank, and put», «having mastered […] and employed», e cosí via). Detto questo, poiché il corpus del Literary Lab si limita a raccogliere romanzi del XIX secolo, il suo valore nei confronti di un romanzo pubblicato nel 1719 è chiaramente inutile. 82. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 128, 129, 179 (corsivi miei). 83. Ibid., pp. 105, 132, 101 (corsivi miei). 84. N. Frye, Anatomia della critica [1957], Einaudi, Torino 1969, pp. 351-56. 85. G. Lukács, Teoria del romanzo cit., p. 51. 86. Ibid., p. 63. 87. Ibid., p. 28. 88. Id., L’anima e le forme [1911], SE, Milano 2002, p. 31. 89. La simmetria gioca un ruolo importante nel pensiero estetico di Georg Simmel, il quale influí profondamente sul giovane Lukács. «Al principio di tutti i motivi estetici sta la simmetria», scrive Simmel: «Per dare alle cose idea, senso e armonia bisogna anzitutto dar loro forma simmetricamente, armonizzare tra loro le parti del tutto, ordinarle intorno a un punto centrale…» (G. Simmel, Arte e civiltà [1896], Isedi, Milano 1976, p. 45). 90. M. Weber, L’etica protestante cit., p. 37. 91. L’idea della prosa come «discorso diretto in avanti [provorsa]» che non conosce alcun ritorno regolare ha trovato la sua classica formulazione in H. Lausberg, Elementi di retorica [1967], il Mulino, Bologna 1969, p. 256. 92. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 101. 93. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna [1966, 1974 2], Marietti, Genova 1992, p. 39 (corsivi miei). 94. P. Bourdieu, Il senso pratico [1972], Armando, Roma 2005, p. 84. 95. Oltre al raddoppio di uno o piú degli elementi che compongono le frasi tripartite, Robinson Crusoe offre diverse varianti della sequenza base, per esempio il posponimento della proposizione principale («dopo aver faticato tanto per trovare l’argilla, scavarla, portarla a casa, stemperarla e lavorarla, non riuscii a fare piú di due grossi recipienti di terra (due brutti sgorbi, perché non posso chiamarli giare) in circa due mesi di lavoro», p. 112), oppure l’inserimento di un’ulteriore proposizione nel mezzo («Dopo aver portato in salvo a riva il mio secondo carico, avevo voglia di aprire i barili di polvere per portarla via un po’

alla volta, perché, essendo i fusti troppo grossi e pesanti, non potevo sollevarli e portarmeli via interi; però preferii mettermi al lavoro per farmi una piccola tenda con la vela», p. 52), o ancora l’aggiunta di altre complicazioni sintattiche («siccome la nave aveva urtato un banco di sabbia e si era arenata troppo solidamente perché si potesse sperare che si disincagliasse, eravamo davvero in una situazione paurosa, e non avevamo altro da fare che pensare a salvare la vita come meglio potevamo», p. 42). 96. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 129-30. 97. Nel Pilgrim’s Progress, la parola «things» è presente 25 volte ogni 10?000 parole, mentre in Robinson 12; alla fine del XVII e all’inizio del XVIII secolo, la frequenza media nel corpus di Google Books è circa dieci volte inferiore (tra 1,5 e 2,5 volte ogni 10?000 parole); nel corpus del Library Lab cresce molto lentamente da una frequenza di 2 occorrenze intorno al 1780 a poco piú che 5 occorrenze verso la fine degli anni Novanta del XIX secolo. 98. J. Bunyan, Il pellegrinaggio del Cristiano cit. 99. Ibid. 100. Ibid. 101. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., pp. 48, 51, 52, 70, 110, 112. 102. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna cit., p. 54 (corsivo mio). 103. P. Burke, Sogni, gesti, beffe. Saggi di storia culturale [1997], il Mulino, Bologna 2000. Si veda anche il suo articolo precedente, The Rise of LiteralMindedness, in «Common Knowledge», II (1993), pp. 108-21. 104. S. Schama, Il disagio dell’abbondanza cit., p. 402. 105. W. Bagehot, La Costituzione inglese [1867], il Mulino, Bologna 1995, p. 232. 106. G. W. F. Hegel, Estetica cit., p. 1329. 107. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 129. 108. E. Staiger, Fondamenti della poetica [1946], Mursia, Milano 1979. 109. D. Defoe, Saggio sull’onestà, cap. II di Serie riflessioni, in Robinson Crusoe, ed. Sertoli cit., p. 574. 110. R. Boyle, A Proemial Essay, in The Works of the Honourable Robert Boyle, a cura di Th. Birch, London 1772, vol. I, pp. 315, 305. In La misura nella scienza fisica moderna (1961), Thomas Kuhn scrive dell’insistenza della nuova filosofia sperimentale affinché «tutti gli esperimenti e le osservazioni venissero riportate nei loro dettagli completi ed effettivi», e del fatto che «gente come Boyle […] iniziarono per la prima volta a registrare i loro dati quantitativi, sia che essi

fossero in accordo con la legge sia che non lo fossero» (Th. S. Kuhn, La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità della scienza, Einaudi, Torino 1985, pp. 241-42). 111. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna cit., p. 509. 112. G. Lukács, Teoria del romanzo cit., p. 28. 113. Ibid., p. 27. 114. Ibid., p. 82. 115. Per evitare fraintendimenti: la parola «produttività» nella Teoria del romanzo non ha il significato quantitativo e redditizio dell’accezione corrente; essa indica la capacità di produrre nuove forme, piuttosto che limitarsi a replicare «immagini primordiali». Oggi, dunque, piú che «produttività» sarebbe meglio tradurre «creatività». 116. M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino 2004, p. 20. 117. Ibid., p. 25.

Capitolo secondo. 1. S. Alpers, Arte del descrivere: scienza e pittura nel Seicento olandese [1983], Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 13, 6. 2. «Mi paiono fonte di piacevole comunanza queste fedeli raffigurazioni di una monotona vita casalinga, che è stata la sorte di tanti miei simili, molto piú dell’esistenza lussuosa o dell’assoluta miseria o della tragica sofferenza o dell’impresa drammatica. Io passo senza alcun timore dalla contemplazione di angeli che cavalcano nubi, di profeti, di sibille e guerrieri eroici a quella di una vecchia chinata su un vaso di fiori o che consuma il suo pasto solitario […] o contemplo quel matrimonio umile che si celebra tra quattro pareti scure, dove lo sposo imbarazzato apre la danza con la sua goffa compagna dalla faccia piatta, mentre gli amici di mezza età […] li osservano […]» (G. Eliot, Adam Bede [1859], traduzione di F. Nizi, Castelvecchi, Roma 2014, p. 203). 3. R. Barthes, Capitolo-01 all’analisi strutturale dei racconti, in Aa.vv., L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969, pp. 19-20. 4. All’inizio del XIX secolo, il campo semantico della quotidianità – alltäglich, everyday, quotidien, quotidiano – si sposta verso il regno incolore dell’«abituale», «comune», «ripetibile» e «frequente», in contrasto con la

precedente e piú netta distinzione fra il quotidiano e il sacro. Catturare questa sfuggente dimensione della vita era uno degli obiettivi di Auerbach in Mimesis, come risulta chiaro dal leitmotiv concettuale del libro, ovvero l’«imitazione seria del quotidiano». Sebbene il titolo poi scelto da Auerbach ponga in primo piano l’aspetto dell’«imitazione», la vera originalità del libro sta negli altri due termini – «seria» e «quotidiano» – che erano stati ancora piú centrali nello studio preparatorio Über die ernste Nachahmung des Alltäglichen (in Travaux du séminaire de philologie romane, Istanbul 1937, pp. 262-93), dove Auerbach considerava anche la «dialettica» e l’«esistenziale» come possibili alternative al «quotidiano» (pp. 272-73). 5. D. Diderot, Dialoghi sul figlio naturale [1757], in Id., Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 121. 6. Non è curioso, riflette Dickens in una lettera a Walter Savage Landor del luglio 1856, «che uno dei libri di maggior successo sulla terra non contenga nulla che faccia ridere o piangere? Eppure sono abbastanza convinto che tu non abbia mai né riso né pianto leggendo Robinson Crusoe». 7. D. Diderot, Dialoghi sul figlio naturale cit., p. 125. 8. Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1992, p. 121. In Fortunata e Giacinta (1887), Pérez Galdós esprime la stessa diagnosi, ma con un diverso stato d’animo: «La società spagnola cominciò a immaginarsi “seria”, vale a dire a vestirsi in modo lugubre: il nostro allegro impero di colori vivaci stava sbiadendo […] Siamo sotto l’influsso dell’Europa del nord, e il maledetto Nord ci impone i grigi che prende dai suoi cieli fumosi» (Fortunata y Jacinta, Imprenta de La Guirnalda, Madrid 1887, pp. 58-59). 9. G. W. F. Hegel, Estetica cit., Tomo I, pp. 198-99. 10. W. Scott, The Heart of Mid-Lothian [1818], Penguin, Harmondsworth 1994, p. 9. 11. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale [1946], 2 voll., Einaudi, Torino 2000, vol. II, p. 263. La pagina su Flaubert apriva il saggio del 1937 Über die ernste Nachahmung des Alltäglichen, che ho citato alla nota 4; se apriamo Mimesis oggi, i primi testi che incontriamo sono l’Odissea e la Bibbia; concettualmente, però, il libro inizia con il riempitivo di Madame Bovary, che per primo ha dato ad Auerbach l’idea del «serio quotidiano». 12. «I romanzi di Flaubert, come in generale la letteratura narrativa del realismo e del naturalismo, si distinguono precisamente per un’evidente prevalenza dell’imparfait nella parte narrata. […] La relazione tra primo piano e sfondo della

narrazione viene a invertirsi»: cosí scriveva Harald Weinrich nel suo fondamentale studio Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo ([1964, 1971 2], il Mulino, Bologna 1978, pp. 134-36). Piú avanti, Weinrich aggiunge che i tempi verbali tipici dello sfondo, e dunque anche dei riempitivi («l’imparfait de rupture in francese e [i] tempi che terminano in -ing della lingua inglese»), cominciano a diffondersi intorno al 1850 (ibid., p. 189). Una rapida occhiata ai 3500 romanzi (inglesi) del Literary Lab conferma la tesi di Weinrich: il passato progressivo, che agli inizi del XIX secolo ricorreva con una frequenza di 6 volte ogni 10?000 parole, sale a circa 11 occorrenze entro il 1860, e a 16 entro il 1880. 13. G. Eliot, Middlemarch [1872], traduzione di M. Manzari, Rizzoli, Milano 2008, p. 159. 14. Ibid., p. 774. 15. «Intermezzi e mediazioni» – ciò che il testo chiama «veicoli» («scortese», «meschino», «invischiato, «cupo e opprimente») – eludono la funzione riempitiva o puramente catalitica che è loro assegnata, e di fatto deviano dalla conclusione che avrebbero dovuto raggiungere» (D. A. Miller, Narrative and Its Discontents, Princeton University Press, Princeton 1981, p. 142). 16. Th. Mann, I Buddenbrook [1901], traduzione di F. Jesi e S. Speciale Scalia, Garzanti, Milano 1983, p. 141. 17. Il tempo libero è un requisito fondamentale e indispensabile «per partecipare appieno dei valori e delle prassi della cultura borghese», scrive Jürgen Kocka in pagine che potrebbero descrivere il mondo di Vermeer: «è necessario un reddito stabile chiaramente sopra il minimo indispensabile […] la moglie e madre, cosí come i figli, devono essere, in certa misura, liberi dalle necessità del lavoro […] abbondanza di spazio (stanze di una casa o di un appartamento funzionalmente specializzate) e di tempo per attività culturali e svago» (The European Pattern and the German Case, in J. Kocka e A. Mitchell (a cura di), Bourgeois Society in Nineteenth-Century Europe [1988], Oxford 1993, p. 7). 18. G. Lukács, La borghesia e l’art pour l’art: Theodor Storm, in Id., L’anima e le forme cit., p. 95. 19. M. Weber, L’etica protestante cit., p. 214. 20. B. Moore Jr, Aspetti morali dello sviluppo economico, Edizioni di Comunità, Torino 1999. 21. Secondo l’OED, l’aggettivo normal nel senso di «regolare, solito, tipico, ordinario, convenzionale», entra nella lingua inglese verso la fine del XVIII

secolo, e diventa di uso comune intorno al 1840; i verbi normalize e standardize fanno la loro apparizione un po’ piú tardi, nella seconda metà del XIX secolo. 22. W. Bagehot, La Costituzione inglese cit., p. 230. 23. «Puntualità» è ovviamente un’altra tipica parola chiave borghese: dopo aver rappresentato per secoli concetti come «precisione», «formalità», o «rigidità», si è spostata a indicare «l’esatta osservanza del tempo prestabilito» nel corso del XIX secolo, quando fabbriche e ferrovie, con i loro orari fissi, hanno imposto questo nuovo significato con la forza dei fatti. 24. G. Eliot, Middlemarch cit., pp. 206-7. 25. Id., Ilfracombe, Recollections, June, 1856, in George Eliot’s Life, as Related in Her Letters, Harper and Brothers, New York 1903, p. 291. 26. F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, Einaudi, Torino 1998, p. 82. 27. M. Weber, La scienza come professione cit., p. 13. 28. A. Thibaudet, Lo stile di Flaubert [1922], Elliot, Roma 2015. 29. Th. Mann, Doctor Faustus [1947], traduzione di E. Pocar, Mondadori, Milano 1980, p. 324. 30. J. W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato cit., p. 30. 31. Esattamente ciò che Emma Bovary, il riflesso del borghese del XIX secolo, non imparerà mai: appena prima della sua rovina definitiva, «A volte […] tentava di far qualche calcolo, ma scopriva cose talmente grosse da non poterci credere. Allora ricominciava, s’ingarbugliava subito, piantava tutto, e non ci pensava piú» (G. Flaubert, Madame Bovary [1857], traduzione di G. Achille, Rizzoli, Milano 1991, p. 262). A sua discolpa bisogna ricordare che poco prima di diventare il mito finanziario del XIX secolo, i fratelli Rothschild si scambiarono lettere angosciate riguardo al caos nei loro conti – «In nome di Dio, transazioni cosí importanti devono essere svolte con precisione!» – chiedendosi se fossero milionari o in bancarotta; «stiamo vivendo come degli ubriaconi», concluse malinconicamente Mayer Amschel. Si veda N. Ferguson, The House of Rothschild: Money’s Prophets 1798-1848, Penguin, Harmondsworth 1999, pp. 102-3. 32. Ch. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. 33. L. Daston, The Moral Economy of Science, in «Osiris», X (1995), p. 21. L’abnegazione di Daston è letteralmente inscritta nello sviluppo storico della contabilità a partita doppia, da un’annotazione iniziale piuttosto simile alla voce di un registro – dove gli individui impegnati nella transazione sono ancora

presenze in carne e ossa – alla progressiva cancellazione di ogni segno di concretezza che finisce per ridurre tutto a una serie di quantità astratte. 34. L. Davidoff e C. Hall, Family Fortunes: Men and Women of the English Middle Class, 1780-1850, London 1987, p. 384. 35. D. Defoe, Robinson Crusoe cit., p. 58. 36. M. Weber, Economia e società [1922], Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. II, p. 289. 37. L. Daston e P. Galison, Objectivity, Mit Press, Cambridge Mass. 2007, p. 36. 38. H. R. Jauss, Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 238-39. 39. M. Edgeworth, Il Castello Rackrent [1800], traduzione di P. Meneghelli, Fazi, Roma 2013, p. 27. 40. W. Scott, Kenilworth [1821], Penguin, Harmondsworth 1999, p. 185. 41. E. Auerbach, Mimesis cit., p. 243. 42. K. Mannheim, Conservatism: A Contribution to the Sociology of Knowledge [1925], New York 1986, pp. 89-90. 43. Ibid., p. 97. 44. E. Auerbach, Mimesis cit., p. 253 (corsivi miei). Come esempio di personaggio che «è il risultato della storia», ecco un ritratto da Illusioni perdute: «JérômeNicolas Séchard portava da trent’anni il famoso tricorno municipale che in alcune province si vede ancora sulla testa del banditore comunale. Il suo panciotto e i pantaloni erano di velluto verdastro. Infine, portava una vecchia redingote scura, calze di cotone chiné e scarpe con fibbie d’argento. Questo costume, in cui l’operaio si distingueva ancora nel borghese, […] esprimeva cosí bene la sua vita, che quel brav’uomo sembrava essere stato creato tutto vestito» (H. de Balzac, Illusioni perdute [1839], traduzione di M. G. Porcelli, Rizzoli, Milano 2008, p. 6; corsivi miei). 45. Su von Rochau e sui Grundsätze der Realpolitik, si veda O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe, Klett-Cotta, Stuttgart 1982, vol. IV, pp. 359 sgg. L’altra citazione (anonima) si può trovare in G. Plumpe (a cura di), Theorie des bürgerlichen Realismus, Reclam, Stuttgart 1985, p. 45. 46. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista cit., p. 10. Ho discusso ampiamente questo aspetto della Comédie Humaine in Il romanzo di formazione cit., pp. 157-62.

47. Un classico sulla letteratura come formazione di compromesso è lo studio di Francesco Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1987. 48. A. Tobler, Vermischte Beiträge zur französischen Grammatik, in «Zeitschrift für romanische Philologie», 1887, p. 437. 49. J. Austen, Emma [1815], traduzione di S. Petrignani, Einaudi, Torino 2012, p. 148. 50. Id., Orgoglio e pregiudizio [1813], traduzione di C. Montonati, Giunti, Firenze 2006. 51. R. Pascal, The Dual Voice: Free Indirect Speech and Its Functioning in the Nineteenth-century European Novel, Manchester University Press, Manchester 1977, pp. 9-10; per l’articolo di Bally si veda la nota 55. 52. «Nello stile indiretto libero i due termini antitetici (personaggio e narrazione) si trovano, per cosí dire, il piú vicino possibile alla sbarra (la virgola, il segno disciplinante) che li separa. La narrazione si avvicina piú che può alla realtà linguistica e fisica del personaggio senza caderci dentro, e il personaggio svolge al meglio il compito della narrazione senza acquisirne l’autorità» (D. A. Miller, Jane Austen, or the Secret of Style, Princeton University Press, Princeton 2003, p. 59). 53. «Con lo sviluppo della narrativa moderna, la relazione tra [il Discorso del Narratore e il Discorso del Personaggio] subí un cambiamento radicale. In termini strutturali, questo cambiamento si può descrivere come un processo di “neutralizzazione”» (L. Doležel, Narrative Modes in Czech Literature, University of Toronto Press, Toronto 1973, pp. 18-19). Nella relazione tra la voce del narratore e quella del personaggio nello stile indiretto libero, aggiunge Anne Waldron Neumann, «“neutra” è forse un termine piú preciso di “solidale”», perché «non vuole sottintendere l’approvazione del narratore, bensí semplicemente che le due voci non sono in conflitto» (Characterization and Comment in «Pride and Prejudice»: Free Indirect Discourse and «DoubleVoiced» Verbs of Speaking, Thinking, and Feeling, in «Style», XX, 1986, p. 390). Sullo stile indiretto libero come «terzo termine tra personaggio e narrazione», e sugli «accenti “neutri”» dello stile di Austen, si veda D. A. Miller, Jane Austen cit., pp. 59-60, 100. 54. Nel XX secolo, le cose cambiano: si veda la mia trattazione in F. Moretti, La letteratura vista da lontano, Einaudi, Torino 2005, pp. 101-14.

55. Ch. Bally, Le style indirecte libre en français moderne, in «GermanischRomanische Monatsschrift», IV (1912), p. 603. 56. G. Flaubert, Madame Bovary cit., p. 151. 57. «Cosí, fin da questo primo fallo, da questa prima caduta, ella fa la glorificazione dell’adulterio, canta il cantico dell’adulterio, della sua poesia, della sua voluttà. Ecco, signori, ciò che per me è ben piú pericoloso, ben piú immorale della caduta stessa!» (E. Pinard, Réquisitoire, in G. Flaubert, La signora Bovary, Rizzoli, Milano 1949, p. 657). 58. H. R. Jauss, Storia della letteratura come provocazione cit., p. 222. 59. E. Pinard, Réquisitoire cit. 60. «Molto spesso, e quasi di continuo, noi udiamo in Stendhal e Balzac quello che lo scrittore pensa dei suoi personaggi e dei fatti», scrive Auerbach. «Tutto questo manca completamente in Flaubert. La sua opinione sui fatti e sulle persone non è mai espressa […]. Sentiamo, è vero, parlare lo scrittore, ma senza che esprima opinioni o commenti» (Mimesis cit., pp. 259-60). 61. H. R. Jauss, Storia della letteratura come provocazione cit., p. 223. La tesi di Jauss viene ripresa da Dominick La Capra, che scrive entusiasticamente del «crimine ideologico» di Flaubert (Madame Bovary on Trial, Cornell University Press, Ithaca 1982, p. 18) e in modo piú misurato da Dorrit Cohn (The Distinction of Fiction, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999, pp. 170 sgg.). 62. D. A. Miller, The Novel and the Police, University of California Press, Berkeley 1988, p. 25. 63. R. Descharmes, Autour de «Bouvard et Pécuchet», Librairie de France, Paris 1921, p. 65. 64. M. Weber, L’etica protestante cit., p. 94.

Capitolo terzo. 1. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista cit., pp. 10 e 12. 2. Ibid., pp. 9-10. 3. T. J. Clark, The Painting of Modern Life: Paris in the Art of Manet and His Followers, Princeton University Press, Princeton 1984, p. 133. 4. Queste parole, di Camille Lemonnier, sono citate da T. J. Clark, ibid., p. 129. Un commento anonimo su La schiava greca – la scultura erotica piú famosa

dell’epoca – esprime la stessa idea: «La differenza tra l’arte francese e l’arte greca credo si possa riassumere in questo modo: l’artista francese dipinge una donna che sembra essersi tolta i vestiti per essere guardata; l’artista greco rappresenta una persona che non ha mai avuto vestiti, che è nuda ma non si vergogna» (A. Smith, The Victorian Nude: Sexuality, Morality and Art, Manchester University Press, Manchester 1996, p. 84). 5. In questo nudo i capelli sono straordinariamente lunghi, come a voler compensare l’assenza di peluria nella zona dei genitali. 6. A. Tennyson, In Memoriam [1850], LVI , vv. 8-20, traduzione con testo a fronte di C. Dapino, Einaudi, Torino 1975 («[…] And he, shall he, || Man, her last work, who seem’d so fair, | Such splendid purpose in his eyes, | Who roll’d the psalm to wintry skies, | Who built him fanes of fruitless prayer, || Who trusted God was love indeed | And love Creation’s final law – | Tho’ Nature, red in tooth and claw | With ravine, shriek’d against his creed – || Who loved, who suffer’d countless ills, | Who battled for the True, the Just, | Be blown about the desert dust, | Or seal’d within the iron hills?»). 7. Ibid., vv. 20-28 («Or seal’d within the iron hills? || No more? A monster then, a dream, | A discord. Dragons of the prime, | That tare each other in their slime, | Were mellow music match’d with him. || O life as futile, then, as frail! | O for thy voice to soothe and bless! | What hope of answer, or redress? | Behind the veil, behind the veil»). 8. Brontë e Kingsley vengono citati nel lavoro di W. E. Houghton, che dice molte cose sulla tattica vittoriana di «ignorare intenzionalmente tutto ciò che era spiacevole, facendo finta che non esistesse» (The Victorian Frame of Mind, 1830-1870, Yale University Press, New Haven 1963, pp. 424, 128-29, 413). 9. Recensione di Casa di bambola, anonima, pubblicata in «Between the Acts», 15 giugno 1889 – ora in M. Egan (a cura di), Henrik Ibsen: The Critical Heritage, Routledge, London 1972, p. 106. 10. J. Conrad, Cuore di tenebra cit., p. 53. 11. Ibid., p. 108. 12. Il modale could davanti al verbo see – che chiaramente implica che si possa anche non vedere, soprattutto in un luogo di tenebra (darkness) – ricorre trenta volte in Cuore di tenebra; con una frequenza maggiore che nell’intero testo di Middlemarch, dieci volte piú lungo. Le laboriose e onnipresenti similitudini di Conrad – appariva un tessuto trasparente e radioso… era come un tetro

pellegrinaggio attraverso un repertorio di soggetti da incubo… simile a uno scarafaggio che strisci pigramente… simile a un cupo e lucente sarcofago – contribuiscono a rafforzare ulteriormente la fondamentale opacità del romanzo. 13. Pur nella sua brevità, Cuore di tenebra è un compendio di ambivalenza retorica. Quando Kurtz parla di «riti innominabili» [unspeakable rites] (p. 76), per esempio (dove l’aggettivo stesso è rivelatore e reticente allo stesso tempo), lo fa all’interno di una digressione – «secondo quanto mio malgrado dovetti concludere» e racchiudendo il tutto tra due avversativi («Ma…», «A ogni modo») – dalla dettagliata descrizione che Marlow fa del diario dell’altro. In maniera molto simile alla collocazione incidentale dell’immagine di zanne e artigli di Tennyson, la digressione di Marlow include davvero (o quasi) la verità, ma la relega a una posizione che ne sminuisce l’importanza: quando qualcosa viene menzionato in un ramo secondario della storia, è come dire implicitamente che non è quello l’elemento chiave. Lo stesso accade in alcune delle piú grandi frasi di Conrad: «Mi misi a osservare attentamente un paletto dopo l’altro», dice Marlow mentre si avvicina alla casa sul fiume di Kurtz, «e mi resi conto dell’errore che avevo fatto. Quelle protuberanze rotonde non erano decorative ma simboliche; erano espressive ed enigmatiche, sorprendenti e inquietanti – alimento per la riflessione non meno che per gli avvoltoi, se ce n’era qualcuno che guardava giú dal cielo; in ogni caso, per formiche abbastanza industriose da arrampicarsi in cima ai paletti. Sarebbero state ancor piú impressionanti, quelle teste impalate, se le facce non fossero state rivolte verso la casa» (p. 90). Decorative… simboliche… espressive… enigmatiche… sorprendenti… inquietanti… alimento per la riflessione… Sette specificazioni meditative, il cui unico scopo è ritardare la scoperta della verità; quando appaiono gli avvoltoi, vengono prontamente de-materializzati da una costruzione ipotetica negativa («se ce n’era qualcuno»); lo stesso vale per le formiche, delimitate da quell’«abbastanza industriose». L’autore si muove linguisticamente con passo felpato intorno a quelle teste sui paletti – fino al tocco finale di «se le facce non fossero state rivolte verso la casa»: come se la cosa importante non fosse tanto l’esistenza delle teste impalate, quanto la direzione verso la quale erano orientate. In conclusione: sí, ci viene detto che ci sono dei teschi, ma veniamo anche costantemente distratti da loro. 14. B. Pérez Galdós, Doña Perfecta, Imprenta de J. Noguera, Madrid 1876, p. 35. 15. Nel secondo atto della Traviata, dopo aver chiesto conto dell’identità di Violetta («Questa donna conoscete?»), Alfredo lancia una borsa di denaro ai suoi piedi

(«A testimon vi chiamo | Che qui pagata io l’ho!»), svelando cosí la prostituta come la verità della «cortigiana». Ma questo gesto suscita una tale indignazione generalizzata – «Dov’è mio figlio? Io piú nol vedo»; «Di sprezzo degno se stesso rende»; «Alfredo, Alfredo di questo core» – che l’esito della scena finisce per nascondere ancora di piú la verità. 16. I. Webb, The Bradford Wool Exchange: Industrial Capitalism and the Popularity of the Gothic, in «Victorian Studies», XX (1976), n. 1, p. 45. 17. M. J. Wiener, Il progresso senza ali. La cultura inglese e il declino dello spirito industriale (1850-1980), il Mulino, Bologna 1985, p. 119. 18. A. J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 175-77. 19. K. Clark, Il revival gotico [1928], Einaudi, Torino 1970, pp. 102-15. 20. Ibid., p. 183. 21. W. L. Burn, The Age of Equipoise: A Study of the Mid-Victorian Generation, New York 1964. 22. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 1577. 23. J. Seed e J. Wolff, Introduction, in Id. (a cura di), The Culture of Capital: Art, Power, and the Nineteenth-Century Middle Class, Manchester University Press, Manchester 1988, p. 5. 24. L. Boltanski ed È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo [1999], Mimesis, Milano 2014, p. 83. 25. Th. Carlyle, Past and Present [1843], Oxford University Press, Oxford 1960, pp. 278-80. 26. Ibid., pp. 278, 282-83. 27. D. M. Mulock Craik, John Halifax, Gentleman [1856], Buffalo 2005, p. 116 (trad. it. Memorie di un gentiluomo, Treves, Milano 1869, non consultata). 28. Ibid., p. 121. 29. Ibid., p. 395. 30. Ibid., p. 118. 31. E. P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past & Present», L (1971), pp. 78, 112. 32. Ibid., p. 129. 33. D. M. Mulock Craik, John Halifax, Gentleman cit., p. 338. 34. Ibid., p. 122. 35. Ibid., pp. 120-21. 36. Ibid., p. 395.

37. Ibid., p. 119. 38. Ibid., p. 120. 39. E. Meiksins Wood, The Pristine Culture of Capitalism cit., pp. 138-39. 40. R. Parkinson, On the Present Condition of the Labouring Poor in Manchester cit., pp. 12-13. 41. E. Gaskell, Nord e Sud cit., p. 171. 42. C. Gallagher, The Industrial Reformation of English Fiction: Social Discourse and Narrative Form 1832-1867, University of Chicago Press, Chicago 1988, p. 168. 43. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 1621. 44. A. Briggs, L’Inghilterra vittoriana: i personaggi e le città [1968], Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 353-55. 45. Nella Storia naturale del giornale, in cui descrive la trasformazione degli Stati Uniti da «nazione di paesani» a nazione di cittadini, Robert Park condivide lo stesso punto di vista: «un giornale non può fare per una comunità di un milione di abitanti ciò che il paesino faceva spontaneamente e da solo attraverso il mezzo del pettegolezzo e del contatto personale» (R. E. Park ed E. W. Burgess, The City, University of Chicago Press, Chicago 1925, pp. 83-84). 46. «Dopodiché, [vostro padre] mi diede da leggere un giornale abominevole, che chiamava il nostro Frederick “un traditore della peggior specie”, “un disonore ignobile e ingrato per la sua professione”. Oh! Non so dire quali altre spregevoli parole non usarono. Afferrai il giornale appena terminai di leggerlo e lo strappai in piccoli pezzi… lo strappai… Oh! Margaret, credo di averlo strappato con i denti» (E. Gaskell, Nord e Sud cit., p. 154). 47. Ibid., p. 549 (traduzione lievemente modificata). Semanticamente legato a influence, il termine intercourse (relazione) è un’altra parola chiave di Nord e Sud, e anzi – considerato che di tutte le volte in cui appare, la metà si trova nell’ultimo 5 per cento del libro, raccolta principalmente intorno alle migliorate relazioni fra Thornton e i lavoratori – si presenta come parola chiave di chiusura. Parkinson, dal canto suo, per tutto il pamphlet usa tanto influence quanto intercourse, spesso prefigurando le formulazioni della Gaskell nel romanzo: «Che diventi una REGOLA […] inderogabile che il padrone, o un suo intimo servo di pari istruzione e influenza presso il padrone stesso, faccia personalmente conoscenza con ogni lavoratore della sua impresa […] È incredibile quanti uomini si riconcilino l’uno con l’altro semplicemente

conoscendosi di persona» (On the Present Condition of the Labouring Poor in Manchester cit., p. 16). 48. E. Gaskell, Nord e Sud cit., p. 549. 49. Ibid., p. 535 (traduzione modificata). 50. R. Williams, Culture & Society cit., p. 92. 51. E. Gaskell, Nord e Sud cit., p. 534. 52. A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., p. 2117. 53. S. Smiles, Chi si aiuta Dio l’aiuta [1859], Treves, Milano 1922, p. XIII . 54. Solo uno studio degli aggettivi inglesi su larga scala (qui impossibile da svolgere) può stabilire con esattezza la portata e la cronologia di questo spostamento semantico; tutto quello che posso dire è che, finora, non ho incontrato niente che possa reggere quantitativamente o qualitativamente il confronto con il caso vittoriano. 55. G. W. F. Hegel, Estetica cit., p. 1329. 56. La predilezione di Smiles per l’uso attributivo degli aggettivi rispetto a quello predicativo fa parte di questa trasformazione. Come ha sottolineato Dwight Bolinger (Adjectives in English: Attribution and Predication, in «Lingua», XVIII, 1967, pp. 3-4, 28-29), quando entrambe le scelte sono parimenti possibili, la funzione attributiva tende a indicare una caratteristica permanente ed essenziale (un «fiume navigabile» lo è ora e sempre), mentre la funzione predicativa descrive una situazione passeggera («il fiume è navigabile» oggi, ma non è detto che lo sia stato e lo sarà per sempre). Sulla base di questa distinzione, Bolinger osserva che, in combinazione con i nomi d’agente (cantante, lavoratore, bugiardo, perdente, ecc.), numerosi aggettivi hanno un significato «letterale» in funzione predicativa («il combattente era pulito»; «la dattilografa era povera») e un significato metaforico-valutativo quando hanno funzione attributiva («un combattente pulito»; «una povera dattilografa»). Seppure non identici ai miei e neppure limitati all’epoca vittoriana, questi dati sono abbastanza simili da suggerire interessanti possibilità di ricerca ulteriore. Nel suo saggio sul «récit de Théramène» nella Fedra di Racine (1948), Leo Spitzer aveva già notato, en passant, che «l’aggettivo posposto non descrive fatti fisici ma trae conseguenze morali dallo spargimento di sangue» (Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 168). 57. A Quantitative Literary History of 2,958 Nineteenth-Century British Novels: The Semantic Cohort Method, Literary Lab Pamphlet 4 (2012), disponibile online

all’indirizzo https://litlab.stanford.edu/LiteraryLabPamphlet4.pdf. 58. F. Nietzsche, La genealogia della morale. Uno scritto polemico [1887], Einaudi, Torino 2012, pp. 143-44. 59. M. Weber, La scienza come professione cit., p. 25. 60. Nel corpus di Google Books, l’aggettivo «serious» ha una frequenza quasi doppia rispetto a «earnest» fino al 1840, quando i due termini accorciano le distanze l’uno dall’altro, presentandosi rispettivamente cinque e quattro volte ogni 100 000 parole; dopo il 1870 le loro strade si allontanano di nuovo (fino a quando, nel XX secolo, «serious» diventa dieci volte piú frequente di «earnest»). Nei 250 romanzi del database Chadwyck-Healey il divario si annulla del tutto tra il 1820 e il 1845, e lo stesso vale (sebbene a distanza di una generazione, tra il 1840 e il 1860) per il piú ampio corpus del Literary Lab. 61. Th. Carlyle, Gli eroi e il culto degli eroi, TEA, Milano 1990, p. 71. 62. John Halifax, Gentleman, dove i due termini appaiono piú o meno con la stessa frequenza, offre un buon esempio della loro polarizzazione semantica: il gruppo di parole «earnest/earnestness/earnestly» combina etica, emozioni, sincerità e passione («La sua sincera gentilezza, la sua attiva bontà, che arrivava dritta alla verità e alla giustizia delle cose, toccava i cuori delle donne…» [p.307]; «Egli era anche zelante e sincero riguardo ad altre e piú alte questioni che non fossero solo quelle degli affari […] i bambini della fabbrica […] l’abolizione della schiavitú» [p. 470]), mentre il gruppo di parole «serious/seriousness/seriously» è associato a dolore, rabbia e pericolo: «Trovai John e sua moglie impegnati in una conversazione seria, persino dolorosa», scrive il narratore, quando i due stanno riflettendo sulla possibilità che una delle donne in visita sia un’adultera (p. 281); piú avanti, quando il figlio di Halifax si innamora della figlia di un ex giacobino, «Il signor Halifax, parlando con quel tono cupo che la sua voce assumeva nei momenti di serio dispiacere, posò la sua mano pesante sulla spalla del giovanotto […]. La madre, terrorizzata, accorse a intromettersi tra i due» (pp. 401-2). Lo stesso accade in Nord e Sud: «earnest» rappresenta un’emozione intensa e schietta («gli occhi limpidi, profondi, sinceri»; «le sue maniere schiette ma gentili»; «lo sguardo amorevole e sincero»), mentre «serious» è tutto ciò che è sgradito e spaventoso: angoscia, errori, fastidio, apprensione, accusa, malattia, insinuazione, danno… 63. Le associazioni negative di «serious» persistono ancora oggi nell’inglese americano: in anni recenti, «serious» è apparso in un discorso di Bush sullo

stato dell’Unione in relazione alle minacce terroristiche e al «serio problema» della dipendenza americana dal petrolio; in un discorso analogo fatto da Obama, il temine compariva associato alle minacce di questi «tempi seri» e alle «banche che hanno seri problemi». 64. F. Hebbel, Erode e Marianna, traduzione di B. Allason, Utet, Torino 1961, p. 86. 65. Th. Hughes, Tom Brown’s Schooldays [1857], Oxford 1997, pp. 73-74. 66. I brani di Thomas Arnold sono citati in Eminenti Vittoriani di Lytton Strachey (Rizzoli, Milano 1988, pp. 160, 165). Asa Briggs cita un’altra memorabile osservazione: «la mera acutezza intellettuale, estranea com’è, in troppi casi, a tutto quel che è generale e grande e buono [è] piú ripugnante della piú irrimediabile stupidità, direi quasi simile, secondo me, allo spirito di Mefistofele» (L’Inghilterra vittoriana cit., pp. 148-49). 67. Th. Hughes, Tom Brown’s Schooldays, p. 313. 68. Th. Carlyle, Past and Present cit., p. 164. 69. «Di tutte le nazioni del mondo», aggiunge Carlyle altrove, «quella inglese è la piú stupida nel parlare, la piú saggia nell’agire […] se la lentezza, cosa che nella nostra impazienza chiamiamo “stupidità”, è il prezzo da pagare per la stabilità, perché prendersela per un po’ di lentezza?» (ibid., pp. 165-68). 70. S. Smiles, Chi si aiuta Dio l’aiuta cit., p. 71. 71. Ibid., p. 5. 72. W. E. Houghton, The Victorian Frame of Mind cit., pp. 113-14. 73. R. Hofstadter, Anti-intellectualism in American Life, Knopf, New York 1963, p. 4. 74. E. Gaskell, Nord e Sud cit., p. 125. 75. J. H. Newman, L’idea di università cit., p. 890. 76. W. Bagehot, The Waverley Novels [1858], in Literary Studies, London 1891, vol. II, p. 172. 77. A. Tennyson, In Memoriam cit., CXIV , vv. 1-4 («Who loves not Knowledge? Who shall rail | Against her beauty? May she mix | With men and prosper! Who shall fix | Her pillars? Let her work prevail»). 78. Ibid., vv. 5-16 («But on her forehead sits a fire: | She sets her forward countenance | And leaps into the future chance, | Submitting all things to desire. || Half-grown as yet, a child, and vain – | She cannot fight the fear of death. | What is she, cut from love and faith, | But some wild Pallas from the brain || Of

Demons? fiery-hot to burst | All barriers in her onward race | For power. Let her know her place; | She is the second, not the first»). 79. «From the brain | Of Demons»; «to burst | All barriers»; «onward race | For power». L’instabilità metrico-sintattica era emersa con altri tre enjambement, fin dal primo verso: «rail | Against», «mix | With them», e «fix | Her pillars». 80. Ibid., vv. 16-22 («She is the second, not the first || A higher hand must make her mild, | If all be not in vain; and guide | Her footsteps, moving side by side | With wisdom, like the younger child: || For she is earthly of the mind, | But Wisdom heavenly of the soul»). 81. Ibid., XXXIV , vv. 1-8 («My own dim life should teach me this, | That life shall live for evermore, | Else earth is darkness at the core, | And dust and ashes all that is; || This round of green, this orb of flame, | Fantastic beauty; such as lurks | In some wild Poet, when he works | Without a conscience or an aim»). 82. H. Tennyson, Alfred, Lord Tennyson: A Memoir [1897], Cambridge University Press, New York 2012, p. 92. 83. M. Weber, La scienza come professione cit., p. 78. 84. Ibid. 85. M. Arnold, Cultura e anarchia [1869], Einaudi, Torino 1975, p. 73. 86. Ibid., p. 52. 87. Ibid., p. 69. 88. Ibid. 89. J. Morley, On Compromise [1874], Hesperides Press, Hong Kong 2006, p. 39. 90. «Certi concetti sono inevitabilmente vaghi», scrive Michael Dummett, non nel senso «che non potremmo affinarli se lo desiderassimo; ma piuttosto nel senso che, affinandoli, distruggeremmo tutto ciò per cui esistono» (Wang’s Paradox, in R. Keefe e P. Smith (a cura di), Vagueness: A Reader, Mit Press, Cambridge Mass. 1996, p. 109). 91. K. Clark, Il revival gotico cit., p. 111. 92. M. Arnold, Cultura e anarchia cit., p. 70. 93. J. H. Newman, L’idea di università cit., pp. 890, 893. 94. S. Collini, Introduction a M. Arnold, Culture and Anarchy and Other Writings, Cambridge University Press, Cambridge 2002, p. XI . 95. «La cultura suggerisce l’idea dello Stato», scrive Arnold verso la fine del secondo capitolo: «Nel nostro io comune non troviamo una base per un solido potere statale; la cultura ce ne indica una nel nostro io migliore» (Cultura e

anarchia cit., p. 98). E nella Conclusione: «Dunque, a parer nostro, l’intelaiatura e l’ordine esterno dello Stato, chiunque sia al governo, sono sacri; e la cultura è la piú decisa nemica dell’anarchia, a cagione delle grandi speranze e dei grandi progetti che essa ci insegna a nutrire e a formulare riguardo allo Stato» (ibid., p. 207). Quanto all’anarchia, in quei casi in cui il termine è legato a un referente sociale riconoscibile, lo è al «teppista di Hyde Park» che viene dalla classe operaia (p. 83); in un particolare momento di spudoratezza, Arnold ammette che fare «ognuno il proprio comodo» era «abbastanza conveniente finché c’erano solo i Barbari e i Filistei a fare il loro comodo, ma lo abbiamo visto «diventare scomodo e ingenerare anarchia, ora che la Plebe vuole anch’essa fare il comodo proprio» (p. 125). 96. D. Wahrman, Imagining the Middle Class cit., pp. 55-56. 97. Ibid., pp. 8, 16. 98. In Capitalism, Culture and Decline in Britain 1750-1990, W. D. Rubinstein – il cui precedente Men of Property resta uno studio fondamentale dell’upper class vittoriana – sostiene esattamente il contrario: «Nel corso del XIX secolo», scrive, «la prosa colta inglese e il discorso ebbero un’evidente evoluzione verso una assai maggiore chiarezza, persuasività e concisione, per conferire quella eleganza e precisione che ora si associa alla prosa inglese migliore [e ai] modi precisi, ben definiti e ben delineati che possiamo associare alla razionalità e alla modernità» (Capitalism, Culture and Decline in Britain 1750-1990, Routledge, London - New York 1993, p. 87). I due estratti illustrativi usati da Rubinstein – da Politics and the English Language di Orwell e, alquanto stranamente, da Historic Railway Disasters di Nock – sono in effetti chiari e persuasivi. Ma sono anche rappresentativi di due secoli della prosa inglese? Orwell, per esempio, avrebbe dissentito. In particolare, il saggio che Rubinstein cita sottolinea esplicitamente «la miscela di vaghezza e pura e semplice incompetenza» come «la caratteristica piú evidente della prosa inglese moderna» (si veda G. Orwell, Politics and the English Language [1946], in Id., Collected Essays, Journalism, and Letters, Penguin, Harmondsworth 1972, vol. IV, pp. 158-59).

Capitolo quarto. 1. H. de Balzac, Illusioni perdute cit., p. 38.

2. J. M. Machado de Assis, Memorie dall’aldilà, traduzione di L. Marchiori, Rizzoli, Milano 1953, pp. 58-60. 3. R. Schwarz, The Poor Old Woman and Her Portraitist, in Id., Misplaced Ideas cit., p. 94. 4. Id., A Master on the Periphery of Capitalism [1990], Duke University Press, Durham 2001, p. 33. 5. Id., Complex, Modern, National, and Negative, in Id., Misplaced Ideas cit., p. 89. 6. J. M. Machado de Assis, Don Casmurro, traduzione di L. Marchiori, Rizzoli, Milano 1958, p. 171. 7. S. Ngai, Ugly Feelings, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2005, p. 175. 8. J. M. Machado de Assis, Memorie dall’aldilà cit., p. 73. 9. Ibid. 10. Id., Don Casmurro cit., p.51. 11. Ibid. 12. Ibid., p. 192. 13. B. Pérez Galdós, Torquemada y San Pedro, Imprenta de La Guirnalda, Madrid 1895, p. 239. 14. Si veda J. LeGoff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, RomaBari 2003. 15. R. Schwarz, Who Can Tell Me That This Character Is Not Brazil?, in Id., Misplaced Ideas cit., p. 103. 16. G. Verga, Mastro-don Gesualdo [1889], Einaudi, Torino 1992, p. 73. 17. Ibid., p. 86. 18. Ibid., p. 189. 19. Ibid., p. 190. Verga continuò a lavorare fino all’ultimo per attribuire il giusto tono al suo eroe borghese. A chi gli domandava dei suoi investimenti futuri, per esempio, il Gesualdo dell’edizione pubblicata in rivista mostrò «tutta la sua petulanza di villano cucito d’oro; e rispose, con una risatina che mostrava i denti bianchi ed affilati […]» (Mastro don-Gesualdo, edizione del 1888, in Appendice all’ed. Einaudi cit., p. 503); l’anno successivo, nell’edizione definitiva, tutto questo è scomparso, e Gesualdo risponde semplicemente: «Ciascuno fa quel che può» (p. 75). 20. J. Kocka, Entrepreneurship in a Latecomer Country, in Id., Industrial Culture and Bourgeois Society cit., p. 71.

21. G. Verga, Lettere al suo traduttore, a cura di F. Chiappelli, Le Monnier, Firenze 1954, p. 139. 22. Durante la festa iniziale, per esempio, dopo che un uomo della servitú lo ha annunciato come «mastro-don Gesualdo», la padrona di casa interviene all’istante: «Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Motta, si dice! bestia!» (p. 51). L’uso del nome di battesimo, insolito nel rivolgersi a operai, contadini o servitú, rende la trasformazione da «mastro-don Gesualdo» a «don Gesualdo Motta» ancora piú significativa. 23. Anche il narratore utilizza «mastro-don» per tutto il romanzo, benché il costante ricorso di Verga allo stile indiretto libero renda l’idea di «narratore» – intesa come voce distinta da quelle dei personaggi della storia – piuttosto opinabile. 24. G. Verga, Mastro-don Gesualdo cit., p. 92. 25. Ibid., pp. 94-95. 26. Ibid., p. 98. 27. M. Gor´kij, L’affare degli Artamonov [1925], traduzione di B. Carnevali, Editori Riuniti, Roma 1958, pp. 440-41. 28. G. Verga, Mastro-don Gesualdo cit., p. 111. 29. Ibid., pp. 113-14. 30. Oltre che nella traduzione di D. H. Lawrence del 1923 (Greenwood Press, Westport 1976), la parola «property» è usata anche nella piú recente traduzione a opera di G. Cecchetti (University of California Press, Berkeley 1979). 1. G. Verga, Mastro-don Gesualdo cit., p. 455. 32. Sull’argomento della «roba», Rubiera e Gesualdo sono praticamente intercambiabili: il «Mi sono ammazzato a lavorare… Mi sono ammazzato a far la roba» di lui (ibid., p. 212) riprende la frase di lei sui propri antenati: «Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello» (ibid., p. 45). E i parallelismi verbali si potrebbero facilmente moltiplicare. 33. Ibid., p. 306. 34. Ibid., p. 309. 35. Ibid., p. 290. 36. Ibid., p. 449. 37. Id., Tutte le novelle, Einaudi, Torino 2015, p. 262. 38. B. Prus, La bambola [1890], traduzione di A. Beniamino, Edizioni Paoline, Milano 1959, p. 32.

39. Ibid., p. 70. 40. Ibid., p. 304. 41. Ibid., p. 364. 42. F. Jameson, Il borghese fuori posto, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. V. Lezioni, Einaudi, Torino 2003, pp. 375-83. 43. B. Prus, La bambola cit., p. 136. 44. J. Kocka, Industrial Culture and Bourgeois Society cit., p. 247. 45. B. Prus, La bambola cit., p. 583. 46. Ibid., pp. 586-87. 47. S. Buarque, Raízes do Brasil, citato da Roberto Schwarz in Misplaced Ideas cit., p. 20. 48. B. Prus, La bambola cit., p. 626. 49. Ibid., p. 1033. 50. Ibid., p. 949. 51. Verso la fine del secolo, scrive Kocka, «in Polonia, nelle aree ceche e slovacche, in Ungheria e Russia, i proprietari di capitali, gli imprenditori e i dirigenti d’azienda erano spesso di nazionalità straniera: di frequente tedeschi ed ebrei non assimilati» (J. Kocka, The European Pattern and the German Case cit., p. 21). 52. B. Prus, La bambola cit., p. 949. 53. A. J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime cit., p. 208. 54. B. Pérez Galdós, Torquemada en la cruz, p. 266. 55. Ibid., p. 515. 56. Ibid., p. 226. Il corsivo di tutta questa sezione è presente nell’originale. 57. Ibid., p. 9. 58. Ibid. 59. F. Fiorentino, Il ridicolo nel teatro di Molière, Einaudi, Torino 1997, pp. 67, 8081. 60. B. Pérez Galdós, Torquemada en la cruz, pp. 65, 66, 129; Torquemada en el purgatorio, pp. 292, 299). 61. D. Biber, S. Conrad e R. Reppen, Corpus Linguistics: Investigating Language Structure and Use, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 61 sgg. 62. E. Auerbach, La cour et la ville [1951], in Id., Scenes from the Drama of European Literature, University of Minnesota Press, Minneapolis 1984, pp. 152, 172, 168, 165. 63. B. Pérez Galdós, Torquemada en la hoguera, p. 2.

64. F. Jameson, The Antinomies of Realism, Verso, London 2013, pp. 95-103. 65. I. Gončarov, Oblomov [1859], traduzione di L. Simoni Malavasi, Rizzoli, Milano 1985, pp. 189, 197, 221, 373, 457. 66. F. Dostoevskij, Delitto e castigo [1866], traduzione di E. Guercetti, Einaudi, Torino 2013, pp. 48, 162. 67. Ibid., p. 11. 68. Present System of Education, in «Westminster Review», luglio-ottobre 1825, p. 166. 69. I. Turgenev, Padri e figli [1862], traduzione di G. Pochettino, Einaudi, Torino 2006, p. 30. 70. Ibid., p. 58. 71. F. Dostoevskij, Delitto e castigo cit., p. 71. 72. Ibid., p. 162. 73. S. Boym, Common Places: Mythologies of Everyday Life in Russia, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1994, p. 3. 74. V. Šklovskij, L’energia dell’errore. Libro sul soggetto [1981], Editori Riuniti, Roma 1984, p. 309. 75. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica [1963], Einaudi, Torino 1968, pp. 149, 195 e 191. 76. «Oh se tu fossi freddo o ardente», recita il mistico Tichon ne I demoni, citando l’Apocalisse di Giovanni: «Ma perché sei tiepido, e né freddo né ardente, comincerò a vomitarti dalla mia bocca» (F. Dostoevskij, I demoni [1871], traduzione di A. Polledro, Einaudi, Torino 2014, p. 403). 77. «Nell’Occidente cristiano cattolico, – scrivono, – la vita dopo la morte si divide in tre zone: paradiso, purgatorio e inferno. Allo stesso modo, si pensa che la vita sulla terra sia la dimostrazione di tre tipologie di comportamento: assolutamente peccaminoso, assolutamente santo, e una via di mezzo […] un’ampia fascia di comportamento neutrale […] e di istituzioni sociali neutrali […] Questa sfera neutrale diventa una riserva strutturale da cui si sviluppa il sistema di domani». Ma la cristianità russa, proseguono Lotman e Uspenskij, ha enfatizzato per contrasto un «marcato dualismo» che non lasciava spazio «a una zona intermedia»; e cosí, inevitabilmente «il comportamento in questa vita può solo essere peccaminoso o santo» (J. M. Lotman e B. A. Uspenskij, The Role of Dual Models in the Dynamics of Russian Culture (Up to the End of the Eighteenth Century), in A. Shukman (a cura di), The Semiotics of Russian Culture, University of Michigan Press, Ann Arbor 1984, p. 4).

78. «Una forte vibrazione morale o spirituale scuote subito i loro istinti piú profondi, e in un istante essi cadono da una condizione relativamente tranquilla, talvolta quasi vegetativa, negli eccessi piú mostruosi sia nel campo pratico, sia in quello spirituale. Sembra che il pendolo del loro carattere, delle loro azioni, dei loro pensieri e delle loro sensazioni, oscilli piú ampiamente che nel resto d’Europa» (E. Auerbach, Mimesis cit., p. 302).

Capitolo quinto. 1. H. Ibsen, I drammi, traduzione di A. Rho, 3 voll., Einaudi, Torino 1959, vol. III, p. 856. 2. Ibid., vol. II, p. 661. 3. Si veda K. Eichenwald, Ex-Chief of Enron Pleads Not Guilty to 11 Felony Counts, in «The New York Times», 9 luglio 2004. 4. J. Glater, On Wall Street Today, a Break from the Past, in «The New York Times», 4 maggio 2004. 5. D. N. McCloskey, The Bourgeois Virtues: Ethics for an Age of Commerce, University of Chicago Press, Chicago 2007, p. 4. 6. Questo brano viene citato da R. Tilly, Moral Standards and Business Behaviour in Nineteenth-Century Germany and Britain, in J. Kocka e A. Mitchell (a cura di), Bourgeois Society in Nineteenth-Century Europe cit., pp. 190-91. 7. Come mi ha spiegato Sarah Allison, che ringrazio per l’aiuto che mi ha dato con l’originale norvegese, quella della perizia «inesatta» è una zona molto grigia: nel Norsk-Engelsk Ordbog di Brynildsen (Kristiania 1917) la parola uefterrettelig viene tradotta in inglese con «false, mistaken» [falso, erroneo] e con «misleading» [fuorviante] nell’edizione dell’opera curata da Michael Meyer nel 1980 per la casa editrice Methuen; viene poi tradotta come «inaccurate» [imprecisa] nell’edizione di Christopher Hampton (London 1980); come «fraudolent» [fraudolenta, disonesta] in quella di Dounia B. Christiani (London 1980); come «disastrously false» [disastrosamente falsa] in quella di Brian Johnston (Lyme, NH, 1996); e infine come «crooked» [corrotta, losca] nell’edizione curata da Stephen Mulrine (London 2006). L’etimologia di uefterrettelig – prefisso negativo u + efter («after», dopo) + rettel («right», giusto, corretto) + suffisso ig dell’aggettivo – suggerisce qualcosa, o qualcuno, di cui non ci si può fidare: fuorviante, inaffidabile, non degno di fiducia

sembrano gli equivalenti migliori (benché parziali) per una parola in cui un’oggettiva mancanza di attendibilità non implica né esclude l’intento soggettivo di fornire false informazioni. 8. H. Ibsen, I drammi cit., vol. III, p. 133. 9. Ibid., p. 187. 10. Ibid., p. 134. 11. G. Eliot, Middlemarch cit., pp. 613, 615-16. 12. Ibid., pp. 524-25. 13. Ibid., p. 711. 14. Th. W. Adorno, Problems of Moral Philosophy [1963], Stanford University Press, Palo Alto 2001, p. 161. 15. H. Ibsen, I drammi cit., vol. II, p. 545. 16. Ibid., p. 684. 17. Ibid., p. 635. 18. Ibid., p. 633. 19. Ibid., p. 453. 20. Ibid., vol. III, p. 813. 21. W. Sombart, Il borghese cit., p. 71. È impossibile non cogliere la carica erotica che percorre le parole di Sombart; non per niente vedeva «il classico imprenditore» in Faust, il seduttore piú distruttivo – e creativo – di Goethe. Anche in Ibsen la visione metaforica dell’imprenditore ha una componente erotica, come nell’adulterio istericamente casto di Solness con Hilda, o nell’amore represso di Borkman per la sorella di sua moglie. 22. E. Chancellor, Un mondo di bolle. La speculazione finanziaria dalle origini alla «new economy» [1999], Carocci, Roma 2000, p. 11. 23. Ibid., p. 76. 24. H. Ibsen, I drammi cit., vol. III, p. 812. 25. Ibid., p. 639. 26. B. McLean e P. Elkind, The Smartest Guys in the Room: The Amazing Rise and Scandalous Fall of Enron, Penguin, London 2003, p. xxv. 27. Le fonti del discorso di Nora sono state individuate da Joan Templeton; si veda A. Solomon, Re-Dressing the Canon: Essays on Theater and Gender, Routledge, London - New York 1997, p. 50. 28. H. Ibsen, I drammi cit., vol. III, p. 643.

Indice dei nomi e delle opere

Adam Bede (Eliot) Adorno, Theodor Wiesengrund Affare degli Artamonov, L’ (Gor’kij) Allison, Sarah Almanacco del Povero Riccardo (Franklin) Alpers, Svetlana Althusser, Louis Altri vittoriani, Gli (Marcus) Amleto (Shakespeare) Anatomia della critica (Frye) Anderson, Perry Andromeda (Poynter) Anello del Nibelungo, L’ (Wagner) Anitra selvatica, L’ (Ibsen) Anni di scuola di Tom Brown, Gli (Hughes) Appleby, Joyce Oldham Arendt, Hannah Arnold, Matthew Arnold, Thomas Arrighi, Giovanni Arte del descrivere (Alpers) Asor Rosa, Alberto Asservimento delle donne, L’ (J. S. Mill) «Athenaeum» Atlante del romanzo europeo (Moretti) Auerbach, Erich Au lecteur (Baudelaire) Austen, Jane Avventure di Robinson Crusoe, Le (Defoe) Bachtin, Michail Bacone, Francesco (Francis Bacon) Bagehot, Walter Bally, Charles Balzac, Honoré de

Bambola, La (Prus) Barthes, Roland Baudelaire, Charles Bentham, Jeremy Benveniste, Émile Berg, Maxine Bergman, Ernst Ingmar Biber, Douglas Blanchard, Rae Blumenberg, Hans Bolinger, Dwight Boltanski, Luc Borghesia e l’art pour l’art, La (Lukács) Bouilhet, Louis Bourdieu, Pierre Bourgeois conquérants, Les (Morazé) Bourgeois Experience, The (Gay) Bourgeois gentilhomme, Le (Molière) Bourgeois Virtues, The (McCloskey) Bouvard e Pécuchet (Flaubert) Boyle, Robert Boym, Svetlana Braudel, Fernand Brenner, Robert Briggs, Asa Britomart riscatta Faire Amoret (Etty) Brontë, Charlotte Brougham, Henry Brunner, Otto Buarque, Sérgio Buddenbrook, I (Mann) Bunyan, John Burgess, Ernest Watson Burke, Peter Burn, William Laurence Bush, George Walker Caillebotte, Gustave Cameron, David Capitale, Il (Marx) Carlyle, Thomas Casa di bambola (Ibsen) Casa Howard (Forster) Castello Rackrent, Il (Edgeworth) Cavaliere errante, Il (Millais)

Chadwyck-Healey, database Chancellor, Edward Chatman, Seymour Chiapello, Ève Cittadino di Delft e sua figlia, Il (Steen) Civiltà delle buone maniere, La (Elias) Clark, Kenneth Clark, T. J. Clifford, Helen Cobden, Richard Cohen, Margaret Cohn, Dorrit Collini, Stefan Colonne della società, Le (Ibsen) Comédie Humaine (Balzac) Coningsby (Disraeli) Conrad, Joseph Conrad, Susan Conze, Werner Costruttore Solness, Il (Ibsen) Craik, Dinah Maria Mulock Cultura e anarchia (Arnold) Culture and Society (Williams) Culture of Capital, The (Seed e Wolff) Cuore di tenebra (Conrad) Dannati della terra, I (Fanon) Darwin, Charles Daston, Lorraine Davidoff, Leonore Davis, John H. Defoe, Daniel Delitto e castigo (Dostoevskij) Demoni, I (Dostoevskij) Descharmes, René de Vries, Jan Dialoghi sul figlio naturale (Diderot) Dickens, Charles Diderot, Denis Disordine e dolore precoce (Mann) Disraeli, Benjamin Doctor Faustus (Mann) Doležel, Lubomír Dombey e figlio (Dickens) Doña Perfecta (Galdós)

Don Carlos (Verdi) Don Casmurro (Machado) Donna in azzurro che legge una lettera (Vermeer) Dostoevskij, Fëdor Michajlovič Drammi, I (Ibsen) Dreiser, Theodore Dual Voice, The (Pascal) Dummett, Michael Dumont, Louis Economia e società (Weber) Edgeworth, Maria «Edinburgh Review» Educazione sentimentale, L’ (Flaubert) Egan, Michael Eichenwald, Kurt Elias, Norbert Eliot, George (Mary Ann Evans) Elkind, Peter Elster, Jon Émile o dell’educazione (Rousseau) Eminenti Vittoriani (Strachey) Emma (Austen) Empson, William Encyclopédie (Diderot e d’Alembert) Engels, Friedrich Engels, Manchester e la classe lavoratrice (Marcus) Erode e Marianna (Hebbel) Eroi e il culto degli eroi, Gli (Carlyle) Essay on Government, An (J. Mill) Età degli Imperi, L’ (Hobsbawm) Etica protestante e lo spirito del capitalismo, L’ (Weber) Etty, William Fanny (Feydeau) Fanon, Frantz Faust (Goethe) Favola delle api, La (Mandeville) Federico II il Grande, re di Prussia Fenomenologia dello spirito (Hegel) Feydeau, Ernest-Aimé Fiorentino, Francesco Fiori del male, I (Baudelaire) Flaubert, Gustave Flores d’Arcais, Paolo

Fondamenti della poetica (Staiger) Fontane, Theodor Forster, Edward Morgan Fortunata e Giacinta (Galdós) Fortunatus Franklin, Benjamin Frye, Northrop Fuller, Margaret Galdós, Benito Pérez Galison, Peter Gallagher, Catherine Gaskell, Elizabeth Gay, Peter Genealogia della morale, La (Nietzsche) Germinie Lacerteux (Goncourt) Gerschenkron, Alexander Giro del mondo in ottanta giorni, Il (Verne) Gissing, George Robert Glater, Jonathan Gobseck (Balzac) Goethe, Johann Wolfgang Goethe, rappresentante dell’età borghese (Mann) Gončarov, Ivan Goncourt, Edmond e Jules Huot de Google Books, corpus Gor’kij, Maksim Gramsci, Antonio Grey, Charles Groethuysen, Bernard Guggenheim, Benjamin Guggenheim, Solomon Hacking, Ian Hall, Catherine Harvey, David Heart of Mid-Lothian, The (Scott) Hebbel, Christian Friedrich Hegel, Georg Wilhelm Friedrich Helgerson, Richard Heuser, Ryan Hirschmann, Albert Otto Hobsbawm, Eric Hofstadter, Richard Horkheimer, Max

Houghton, Walter Edwards Howells, William Dean Hughes, Thomas Ibsen, Henrik Idea di università, L’ (Newman) Illusioni perdute (Balzac) Inghilterra vittoriana: i personaggi e le città, L’ (Briggs) Ingres, Jean-Auguste-Dominique In Memoriam (Tennyson) Intelligence of the Middle Classes (Brougham) Introduzione all’analisi strutturale dei racconti (Barthes) Istorie fiorentine (Machiavelli) Jakobson, Roman James, Henry Jameson, Fredric Jauss, Hans Robert John Gabriel Borkman (Ibsen) John Halifax, Gentleman (Craik) Joyce, James Kant, Immanuel Keefe, Rosanna Kenilworth (Scott) Keywords (Williams) Kingsley, Charles Kocka, Jürgen Kojève, Alexandre Koselleck, Reinhart Kuhn, Thomas Kuske, Bruno La Capra, Dominick La de Bringas (Galdós) Laizik, Sue Landor, Walter Savage Landseer, Edwin Henry Lausberg, Heinrich Lawrence, David Herbert Lay, Kenneth Legittimità dell’età moderna, La (Blumenberg) LeGoff, Jacques Lehrjahre, vedi Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato (Goethe) Le-Khac, Long

Lemonnier, Camille Lettera d’amore, La (Vermeer) Literary Lab, vedi Stanford Literary Lab Locke, John Lorenzo de’ Medic Lotman, Jurij Michajlovič Lukács, György Machado de Assis, Joaquim Maria Machiavelli, Niccolò Madame Bovary (Flaubert) Mahler, Gustav Malavoglia, I (Verga) Mandeville, Bernard Manet, Édouard Manifesto del Partito Comunista (Marx ed Engels) Mann, Thomas Mannheim, Karl Maometto Marcus, Steven Martineau, Harriet Martire di Solway (Millais) Marx, Karl Mastro-don Gesualdo (Verga) Maupassant, Guy de Mayer, Arno Maza, Sarah McCloskey, Deirdre N. McDougall, Lorma McKendrick, Neil McLean, Bethany Meiksins Wood, Ellen Memorie dall’aldilà (Machado) Middlemarch (Eliot) Mill, James Mill, John Stuart Millais, John Everett Mille e una notte, Le Miller, D. A. Mimesis (Auerbach) Mitchell, Allan Miti d’oggi (Barthes) Moore, Barrington Jr Morazé, Charles Moretti, Franco

Morley, John Müller, Adam Nemico del popolo, Un (Ibsen) Nerlich, Michael Newman, John Henry Ngai, Sianne Nietzsche, Friedrich Nock, O. S. Nord e Sud (Gaskell) Norris, Frank (Benjamin Franklin Norris) Nostro comune amico, Il (Dickens) Novak, Maximillian E. Novel and the Sea, The (Cohen) Obama, Barack Hussein Objectivity (Daston e Galison) Oblomov (Gončarov) Odissea Olympia (Manet) On Compromise (Morley) Orgoglio e pregiudizio (Austen) Origine delle specie, L’ (Darwin) Origini dello spirito borghese in Francia (Groethuysen) Orlando, Francesco Orwell, George Padri e figli (Turgenev) Paese di cuccagna, Il (Serao) Papà Goriot (Balzac) Park, Robert Ezra Parkinson, Richard Pascal, Roy Past and Present (Carlyle) Pater, Walter Pérez Galdós, vedi Galdós Pericoli, Tullio Piccola Dorrit, La (Dickens) Pilgrim’s Progress, The (Bunyan) Pinard, Ernest Place de l’Europe (Caillebotte) Plumpe, Gerhard Powers, Hiram Poynter, Edward Preghiera di Lady Godiva, La (Landseer)

Professione della signora Warren, La (Shaw) Proust, Marcel Prus, Bolesław Quaderni del carcere (Gramsci) Quando noi morti ci destiamo Quincas Borba (Machado) Raízes do Brasil (Buarque) Reppen, Randi Revival gotico, Il (Clark) «Revue des deux mondes» Roba, La (Verga) Robinson Crusoe, vedi Le avventure di Robinson Crusoe Rochau, Ludwig August von Romanzo di formazione, Il (Moretti) Rothschild, fratelli Rousseau, Jean-Jacques Rubinstein, W. D. Rucellai, Giovanni Ruskin, John Sartre, Jean-Paul Schama, Simon Schiava greca, La (Powers) Schivelbusch, Wolfgang Schlegel, Karl Wilhelm Friedrich Schnitzler, Arthur Schumpeter, Joseph Schwarz, Roberto Scienza come professione, La (Weber) Scitovsky, Tibor Scott, Walter Seed, John Self-Help (Smiles) Selkirk, Alexander Serao, Matilde Sertoli, Giuseppe Shaw, George Bernard Sherman, Stuart Shukman, Ann Signora del mare, La (Ibsen) Simbad il Marinaio, vedi Le mille e una notte. Simmel, Georg Skilling, Jeff

Šklovskij, Viktor Borisovič Smiles, Samuel Smith, Alison Smith, Cynthia J. Smith, Peter Soldato con ragazza sorridente (Vermeer) Solomon, Alisa Sombart, Werner Some Versions of Pastoral (Empson) Spettri, Gli (Ibsen) Spielberg, Steven Spitzer, Leo Squires, Susan E. Staiger, Emil Stanford Literary Lab Steele, Richard Steen, Jan Storia e discorso (Chatman) Strachey, Giles Lytton Taylor, Charles Tempi difficili (Dickens) Templeton, Joan Tempus (Weinrich) Tennyson, Alfred Tennyson, Hallam Teoria della classe agiata (Veblen) Teoria del romanzo (Lukács) Thackeray, William Makepeace Thibaudet, Albert Thompson, E. P. Thompson, F. M. L. Tilly, Richard Titanic (Cameron) Tobler, Adolf Torquemada (Pérez Galdós) Traviata, La (Verdi) Turgenev, Ivan Ugly Feelings (Ngai) Ulteriori avventure di Robinson Crusoe, Le (Defoe) Uspenskij, Boris Andreevič Veblen, Thorstein Venere Anadiomene (Ingres)

Verdi, Giuseppe Verga, Giovanni Vermeer, Johannes Victorian Frame of Mind, The (Houghton) Vinti, I (Verga) Wagner, Richard Wahrman, Dror Waldron Neumann, Anne Wallerstein, Immanuel Wanderjahre, vedi Wilhelm Meister. Gli anni di pellegrinaggio (Goethe) Warburg, Aby Watt, Ian Waverley (Scott) Webb, Igor Weber, Max Weinrich, Harald «Westminster Review» Wiener, Martin Joel Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato (Goethe) Wilhelm Meister. Gli anni di pellegrinaggio (Goethe) Williams, Raymond Wolff, Janet Wollstonecraft, Mary Woolf, Virginia Wordsworth, William Yeack, William R. Young, Mary «Zeitschrift für romanische Philologie» Zerubavel, Eviatar Zola, Émile

Il libro

«I

L BORGHESE…

NON MOLTO TEMPO FA, QUESTO CONCETTO SEMBRAVA indispensabile all’analisi sociale; oggi invece possono passare anni senza che se ne parli. Anche se il capitalismo è piú potente che mai, la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla. “Io sono un membro della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alle sue idee e ai suoi ideali”, scriveva Max Weber nel 1895. Chi potrebbe ripetere oggi quelle stesse parole? Le “idee” e gli “ideali” borghesi: ma che cosa sono?» Inizia cosí lo studio di Franco Moretti sulla presenza della borghesia nella moderna letteratura europea. Nel saggio, la galleria dei singoli ritratti si intreccia con l’analisi di specifiche parole chiave («utile» e «serio», «efficienza», «influenza», «comfort», la «roba»), con le mutazioni formali riscontrabili nella prosa di celebri opere romanzesche (da Defoe, Austen e Flaubert a Goethe, Verga e Pérez Galdós), e con alcuni riscontri paralleli nella coeva arte europea (da Vermeer a Manet). A partire dal «padrone lavoratore» del primo capitolo, passando attraverso l’etica espressa da alcuni romanzi ottocenteschi, l’egemonia conservatrice della Gran Bretagna vittoriana, le «malformazioni nazionali» delle culture periferiche, e chiudendosi con l’autocritica radicale messa in scena dai drammi di Ibsen, il volume traccia la mappa delle vicissitudini della cultura borghese, esplorando le cause della sua storica debolezza e della sua attuale irrilevanza.

L’autore

FRANCO MORETTI

è docente di Letteratura presso l’Università di

Stanford, dove dirige il Literary Lab. Per Einaudi ha pubblicato Segni e stili del moderno (1987), Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal «Faust» a «Cent’anni di solitudine» (1994 e 2003), Atlante del romanzo europeo. 1800-1900 (1997), Il romanzo di formazione (1999) e La letteratura vista da lontano (2005). Ha curato i cinque volumi de Il romanzo (2001-2003).

Dello stesso autore

Segni e Stili del moderno Opere mondo Atlante del romanzo europeo. 1800-1900 Il romanzo di formazione La letteratura vista da lontano

Titolo originale The Bourgeois. Between History and Literature © 2013 Franco Moretti. All rights reserved. © 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ritratto di Monsieur LouisFrançois Bertin, olio su tela, 1832. Parigi, Musée du Louvre. (Foto © Angèle Dequier / RMN / Archivi Alinari, Firenze). Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858424872