Conversazioni su di me e tutto il resto 8845261379, 9788845261374

Per oltre trent'anni Woody Allen ha conversato regolarmente e sinceramente con Eric Lax, facendolo andare sui suoi

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Conversazioni su di me e tutto il resto
 8845261379, 9788845261374

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WOODY

ALLEN

con Eric Lax

CONVERSAZIONI SU Di ME E TUTTO IL RESTO

“SONO CHE UNA

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Eric Lax, per olire trent anni, è slato intimo amico e confidente di Woody Alien. Eric Lax e Woody Alien hanno conversato, in libertà, su uno spettro di temi amplissimo, dal cinema alla vita privala. Questa conversazione è diventata una confessione: una miniera inesauribile di riflessioni, aneddoti, dichiarazioni di poetica, confidenze che, insieme, compongono un ritratto fedele, inedito e sorprendente del grande regista newyorkese. Woody Alien ci olire qui, per la prima volta, la chiave per entrare nel suo mondo: i retroscena del suo lavoro; il jazz, Freud e le donne, per lui tre vere e proprie ossessioni; gli attori e i film più amati e odiati; le sue depressioni e la sua vita privata.

Conversatimi su di me e tutto il resto è, dunque, una sorta di autobiografìa, disseminata di ironia, autoironia, cinismo, tenerezza e arguzia, oltre che di una aneddotica che ci restituisce il folle mondo dello star system, del cinema, di Hollywood, oltre che di Woody Alien. Come solo Woody Alien potrebbe fare.

Woody Alien regista, attore, sceneggiatore e compositore, è nato a Brooklyn da una famiglia ebraica di origine ungherese. Nel corso della sua carriera ha ricevuto ventuno nomination all’Oscar, vincendone tre. Nel 1995 è stato premiato a Venezia con il Leone d’Oro alla carriera. Bompiani ha pubblicato: I a kun/xKlinagalleggiante (2004), Rivincile (2004), Senza piume (2004), Effetti collaterali (2004), Sesso e bugie (2005) e Pura anarchia (2007). Eric Lax è autore di biografìe di successo:

VVrxxA Mica (Longanesi, 1991), Humphrey Bogart (scritta insieme a A.VL Sperber), Paul \ewman. I suoi articoli sono apparsi su importanti testate quali “The New York l imes’", “Vanity Fair e “The Los Angeles Times’".

WOODY ALLEN CON ERIC LAX CONVERSAZIONI SU DI ME E TUTTO IL RESTO Traduzione di Carlo Prosperi

Lax, Eric, Conversations with Woody Allen. His films, the movies and moviemaking

Copyright © 2007 by Eric Lax

All rights reserved. First published in 2007 by Alfred A. Knopf, a division of Random House, Inc., New York.

This translation published by arrangement with Alfred A. Knopf, a division of Random House, Inc., New York. ISBN 978-88-452-6137-4

©2OO8RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano Prima edizione Bompiani: settembre 2008

Per Punch Sulzberger, con ammirazione e affetto.

Introduzione

In genere, un libro di conversazioni raccoglie interviste realiz­ zate nel corso di settimane o mesi e dunque, al di là dell’arco temporale coperto, il risultato è un’istantanea che riflette gli atteggiamenti e le opinioni dell’intervistato in un determinato momento della sua vita. Questo libro invece è un album via via arricchito in un periodo di anni corrispondente a metà della vita di Woody Alien, a partire dal 1971, e con un effetto time-lapse offre l’immagine chiara della sua trasformazione da novizio del cinema a regista tra i più acclamati del mondo, e di un percor­ so di evoluzione e apprendimento. Anche se non ci avrei scommesso un dollaro dopo il nostro primo incontro, ho avuto il piacere di osservare da vicino que­ sto sviluppo artistico per ben trentasei anni. Nella primavera del 1971 un caporedattore del New York Times Magazine mi sotto­ pose tre idee per un possibile articolo, tra le quali scrivere un profilo di Alien, comico trentacinquenne autore di due comme­ die per Broadway (Don’t Drink the Water e Provaci ancora, Sam), di cui il New Yorker cominciava a ospitare con una certa frequenza i racconti e che aveva appena esordito nel cinema dirigendo se stesso in film di cui era anche sceneggiatore: Prendi i soldi e scappa (1969), il finto documentario di un criminale di mezza tacca talmente inetto da non essere in grado nemmeno di scrivere “Questa è una rapina”, e il recentissimo II dittatore dello stato libero di Bananas, una satira delle rivoluzioni latinoa­ mericane e della politica estera degli Stati Uniti. Con una trama ridotta all’essenziale, i film sono strutturati come lo spettacolo 7

di un monologhista comico: una successione di irresistibili sketch surreali in cui lo sviluppo dei personaggi e la cura dello stile passano in secondo piano. I film annunciavano lo sbocciare di un talento originale e per­ sonalissimo, e i caporedattori del Times volevano saperne di più. Come me del resto. Ritenevo che Alien fosse paragonabile ai miei eroi comici, SJ. Perelman, Bob Hope, i fratelli Marx, forse con una capacità persino maggiore di provocare ilarità. Telefonai ai suoi manager, Jack Rollins e Charles Joffe, per chie­ dere un’intervista, e fissammo un appuntamento. Mi presentai nel loro ufficio, disposto su due livelli sulla Cinquantasettesima Strada Ovest a Manhattan, con un paio di fogli di domande e un registratore nuovo di zecca, e fui condotto al piano superio­ re dove Woody mi aspettava in uno stanzino arredato con un tavolo e una lampada, oltre a un paio di comode poltrone imbottite. Sembrava timido e impacciato; io ero nuovo del gior­ nalismo e incontrare qualcuno che ammiravo mi rendeva agita­ to. Ci stringemmo la mano, ci salutammo, ci accomodammo sulle poltrone e iniziai con le domande come se stessi leggendo la lista della spesa. Mi diede risposte stringate. La più breve fu un “No”; peccato solo che il succo di quelle più lunghe si ridu­ cesse in genere a niente più di un “Sì.” Finii dunque per scrivere un articolo su una delle altre due tracce che mi erano state proposte e immaginai che il mio rap­ porto con Woody Alien fosse finito. Sei mesi più tardi, mentre giravo in bicicletta per Sausalito, in California, fui quasi investito da una Ford station-wagon sul cui finestrino anteriore campeggiava la scritta “Rollins and Joffe Production”. Sul San Francisco Chronicle di quel giorno avevo notato un breve articolo su Woody, in città per girare Provaci ancora, Sam\ essendo giovane e solipsistico, immaginai che l’inci­ dente appena evitato non fosse una pura coincidenza ma il segno che Woody era pronto ad aprirsi. Telefonai a Joffe per chiedere un’altra intervista e fui convocato per incontrare Woody a bordo 8

di una casa galleggiante nella baia di Sausalito, che stavano pren­ dendo in considerazione per girare una scena del film. Dopo aver chiacchierato dei playoff di baseball, Woody si scusò per andare a verificare qualcosa insieme al location manager. Pochi minuti dopo, arrivò Charlie e mi disse: “Perché non viene a farsi un giro sul set? A patto che stia zitto e non intralci, altrimenti dovremo allontanarla.” Obbedii alla lettera. Qualche giorno dopo, Woody venne da me tra una ripresa e l’altra e parlammo per un minuto. Tornò più tardi e stavolta chiacchierammo più a lungo. Ben presto comin­ ciammo interviste più formali. Il 'Times mi commissionò un pro­ filo e così rimasi per gran parte delle riprese. Poiché Provaci anco­ ra, Sam non era stato diretto da Woody (ma da Herbert Ross), il mio caporedattore mi consigliò di tornare a intervistarlo subito dopo, durante le riprese di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, film che Woody dirige­ va e interpretava. Mi recai ai vecchi Goldwyn Studios a Los Angeles, parlai con lui per molte ore sia sul set sia fuori scena e infine, mesi dopo la scadenza originaria, consegnai il mio artico­ lo nel giorno in cui Time usciva con Woody in copertina. Nel giornalismo come nella comicità il tempismo è tutto. Dopo che il Times ebbe cestinato il mio pezzo, pensai che Woody avrebbe almeno dovuto vedere il risultato di tutte quel­ le settimane passate con me: glielo spedii insieme a un biglietti­ no di ringraziamento, senza aspettarmi una risposta, ma un paio di giorni dopo mi chiamò per dirmi che era dispiaciuto per la mancata pubblicazione. “Mi ha citato correttamente contestualizzando le mie parole e ha rispettato le mie storielle,” mi disse, intendendo che avevo sempre riportato sia la frase di preparazione sia la punch line. “Venga a trovarmi nella mia saletta di montaggio quando vuole.” Lo feci diverse volte. Poi un giorno ci incrociammo per caso lungo la Quinta Avenue. Mi disse che era in partenza per Las 9

Vegas dove si sarebbe esibito al Caesars Palace; mi invitò a fare un salto nel caso mi fossi trovato in città, evenienza che mi appa­ riva del tutto improbabile. Alcuni giorni dopo, però, Richard Kluger, l’ex editor-in-chief dell’Atheneum che aveva da poco fon­ dato una propria casa editrice, mi propose di passare dalla padel­ la del mancato articolo per il Times alla brace di un libro sulla comicità che avrei sviluppato attorno alla figura di Woody. Mi recai dunque a Las Vegas e, nel corso di un colloquio di dieci minuti nel bar del Caesars, Woody accettò di collaborare al pro­ getto. Rimasi in città fino alla fine dei suoi spettacoli, per poi accompagnarlo nel resto di quella che sarebbe stata la sua ultima tournée da monologhista. Fu la base di partenza del mio libro On Being Tunny, del 1975, un’attività di ricerca che mi avrebbe por­ tato a trascorrere diverse settimane sui set del Dormiglione e di Amore e guerra. Fin dalle nostre primissime conversazioni risultò evidente che, nonostante fossero due film ad alto contenuto comico, l’ambizione e gli interessi di Woody prendevano una piega più seria. Circostanza non sorprendente per chi annovera tra le proprie influenze principali Bob Hope e Ingmar Bergman, che tuttavia avrebbe rappresentato un impedimento. Woody Alien è una delle persone più divertenti del mondo. Che diami­ ne, si chiesero molti appassionati di cinema di fronte a Interiors ( 1978) e poi a Stardust Memories (1980), non era contento di con­ tinuare a fare film comici? La risposta più immediata è che, da giovane autore, Woody vedeva la commedia come il trampolino di lancio per arrivare al cinema drammatico, agli argomenti più seri, un’ambizione che era ben deciso a coltivare. I critici che da allora esprimono perplessità di fronte a un talento comico che, a loro dire, disprezza la commedia e vuole interpretare Amleto, in realtà non colgono il vero punto della questione. Woody non disprezza la commedia, che è stata la base del successo di tutta la sua carriera; semplicemente preferisce il dramma. Ben conscio dei pochi ruoli in cui può risultare credibile, non ha alcun desi­ derio di recitare Amleto; Woody vuole scrivere l’Amleto. 10

Allan Stewart Konigsberg, nato il 1° dicembre 1935 e cresciu­ to nel quartiere newyorchese di Brooklyn, diventa Woody Alien nella primavera del 1952, quando diversi quotidiani di New York cominciano a pubblicare nelle pagine di gossip barzellette e battute da lui inviate. Il timido sedicenne non vuole che i com­ pagni di classe vedano il suo nome sul giornale - le rubriche scandalistiche avevano milioni di lettori abituali di ogni età - e inoltre ritiene che l’uso di un nome d’arte sia d’obbligo nel mondo dello spettacolo; nel suo caso, gli sembra necessario un nome leggero e adatto a un comico. Ben presto quel nome viene citato tanto di frequente che Woody è assunto da un agente di pubbliche relazioni per scrivere battute argute da attribuire ai propri clienti. Ogni giorno dopo la scuola Allan si sorbisce i quaranta minuti di metropolitana che lo portano a Midtown Manhattan e per tre ore snocciola quante più battute possibile nell’ufficio dell’agente. Ritiene di trovarsi “nel cuore dello show business”. Ogni giorno consegna tre o quattro pagine dattilo­ scritte (circa cinquanta tra barzellette e battute; Woody stima di averne scritte 20.000 negli oltre due anni trascorsi in quella veste) ricevendo in cambio prima venti, poi ben presto quaran­ ta dollari alla settimana, una cifra di tutto rispetto per l’epoca. Ogni passo successivo è accompagnato dal successo. A dician­ nove anni viene messo sotto contratto dalla NBC, che ha lancia­ to un’iniziativa per lo sviluppo di nuovi autori, e inviato a Hollywood per lavorare alla Colgate Comedy Hour; a ventidue scrive per Sid Caesar; nel 1960, quando ha ormai ventiquattro anni, guadagna una cifra pari a ottanta volte il suo primo stipen­ dio. Dopo aver visto uno spettacolo di Mort Sahl - che si pre­ sentava sul palco con una felpa e un giornale sotto il braccio e parlava di politica e costume americano - si accorge che può fare anche lui il comico monologhista; e lo fa. I suoi numeri di stand-up gli valgono l’ingaggio per scrivere la sceneggiatura e interpretare un ruolo in Ciao Pussycat (1965), che diviene la commedia campione di incassi dell’epoca. Il film finito, tuttavia, 11

conserva ben poco del suo copione: Woody dichiara che, se la produzione si fosse attenuta a quello che aveva scritto lui, “lo avrei reso divertente il doppio e avrei dimezzato gli incassi”. L’esperienza gli è di insegnamento: se davvero voleva entrare nel mondo del cinema, aveva bisogno del controllo totale sul proprio materiale. Un controllo che Woody ha avuto in tutti i film scritti e diret­ ti fino a oggi, senza mai rinunciare alla speranza di scrivere un film drammatico capace di conciliare le sue aspirazioni e l’inte­ resse del pubblico. Con Match Point (2005) ci è riuscito e spera di ripetersi. Altri film, come Zelig (1983), sono entrati nel lessi­ co culturale. Ci sono poi le commedie romantiche, le riflessioni su un universo senza Dio, gli pseudo-documentari, un musical, film sulla fedeltà, sulla scelta tra vivere nei sogni o nella realtà, sul deterioramento progressivo dei rapporti personali, sull’imprevedibilità dell’amore. Ci sono storie di famiglie, di ricordi, di fantasie, storie sul senso dell’essere artista; c’è lo slapstick, il giallo, le storie di fantasmi; e c’è la magia. Nella maggior parte dei suoi film lo sfondo è la città di New York, Manhattan in par­ ticolare, che Woody rappresenta come un luogo scintillante non ispirato tanto alla città reale quanto alla Manhattan dei duplex, dei night-club, delle persone raffinate che aveva visto in infiniti film, da piccolo, crescendo appena al di là dall’East River, a Brooklyn, in un mondo completamente diverso nonostante la prossimità geografica. Più per coincidenza che per programmazione, di molti dei suoi film abbiamo parlato mentre venivano realizzati, e di tutti abbiamo discusso più volte nel corso del tempo. Dopo trentasei anni, la nostra potrebbe essere la più vecchia intervista peren­ nemente in progress a New York. Abbiamo chiacchierato sui set dei suoi film e nelle sue sale di proiezione e di montaggio, den­ tro automobili e roulotte-camerini, al Madison Square Garden e sui marciapiedi di Manhattan, a Parigi, New Orleans e Londra, nelle case che continuava a cambiare. Le sue risposte 12

alle mie domande hanno sempre assunto la forma di ben ordi­ nati paragrafi: meditate, sincere, autocritiche, spesso argute e talvolta spiritose, sebbene non lo abbia mai sentito cercare di proposito la battuta comica. Woody Alien è l’antitesi del suo personaggio cinematografico, tipicamente frenetico e in crisi. È in tutto e per tutto padrone della propria opera e del proprio tempo. Particolarmente cen­ trato mi sembra il giudizio che lui stesso dà di sé: “Sono una persona seria, un lavoratore disciplinato, mi interessa la scrittu­ ra, mi interessa la letteratura, mi interessano il teatro e il cine­ ma. Non sono inetto come mi dipingo per raggiungere un effet­ to comico. So che la mia vita non è una serie di problemi cata­ strofici talmente assurdi da risultare buffi. La mia è un’esisten­ za molto più banale.” Decenni di fama e successi lo hanno reso in generale meno timido e più a suo agio, e i nostri incontri oggi sono cordiali e rilassati. Gli piace inoltre partecipare attivamente. Durante le mie attività di documentazione, prima di scrivere la biografia Woody Alien del 1991, immaginai che avrei interrotto l’intervi­ sta quando Woody avesse cominciato a raccontarmi di nuovo gli stessi episodi: ci vollero tre anni prima che si ripetesse; per allora avevo superato già di un anno la data prevista di conse­ gna del libro. Un giorno mi chiamò, mentre il testo era in fase di redazione. “Pensavo a una cosa di cui abbiamo parlato di recente e mi sono venute nuove idee, nel caso ti sembrassero interessanti,” mi disse. “Mi spiace,” replicai. “Hai già avuto la tua chance.” O forse no. La vicenda del presente volume è stata analoga. Tra l’aprile del 2005 e l’inizio del 2007 abbiamo chiacchierato per ore e ore in modo da aggiornare le nostre conversazioni. Ha letto il manoscritto e ha precisato alcuni passaggi in cui gli sembrava di parlare come Casey Stengel, l’allenatore dei New York Yankees 13

degli anni cinquanta, le cui locuzioni rococò erano irresistibil­ mente comiche nella loro incomprensibilità. Man mano che gli venivano in mente, poi, aggiungeva ulteriori commenti e rifles­ sioni. Ciò che ho tentato di produrre con il suo aiuto è un’approfondita auto-retrospettiva su un’intera carriera. Il volume non si limita a ripercorre l’evoluzione di Woody Alien come autore e regista ma fa anche da megafono per le sue opinioni sui propri film e sul cinema in generale. Ho raggruppato queste conversa­ zioni in modo da affrontare ciascuno dei sette aspetti principa­ li nella realizzazione di un film, dall’idea originaria fino alla colonna sonora, e ho posto in conclusione un capitolo di rifles­ sioni generali sulla carriera. Ogni sezione inizia nei primi anni settanta e termina nel 2006 o 2007, e l’ordine di lettura può essere adattato in base alle esigenze e agli interessi del momen­ to, siano questi il casting piuttosto che il montaggio. Oltre a leg­ gere, però, fate anche in modo di ascoltare, poiché la voce che sentirete è proprio quella di Woody Allen.

Eric Lax Aprile 2007

Parte prima

L’idea

Febbraio 1973 Io e Woody veniamo accompagnati a Tarrytown, New York, circa un’ora di macchina a nord di Manhattan, dove Woody dovrà partecipare a un week-end cinematografico organizzato dalla criti­ ca del New York Magazine, Judith Crist. Woody indossa pantalo­ ni di velluto, un maglione di cachemire e un giubbotto militare verde oliva. Dice che è “depresso. Ieri ho visto II settimo sigillo e oggi Sussurri e grida [di Ingmar Bergman]. Vedo i suoi film e mi chiedo cosa sto facendo”. Presto partirà per Los Angeles per cominciare le riprese del Dormiglione e non è contento di lascia­ re casa. “Già i film realizzati con un budget di due milioni sono una gran seccatura, e devo pure starmene lontano da New York. A Los Angeles ci sono solo automobili e bisogna fare le cose in fretta, in dodici settimane. Per i loro film, Keaton e Chaplin si prendevano un anno di tempo.” (Trenta e passa anni più tardi, i suoi film ven­ gono finiti in otto-dieci settimane per rispettare un budget appros­ simativo di quindici milioni di dollari.) L’evento si tiene in un centro convegni ricavato in quella che era la villa di campagna della famiglia Biddle, i discendenti di un ricco uomo d’affari americano dell’ottocento. Ledificio sorge alle porte di un paesino ma è circondato da molti ettari di prati e albe­ ri, tanto che Woody ritiene di essere diretto verso una foresta sel­ vaggia. “I grilli mi innervosiscono, si può riassumere così il mio concetto della campagna, ” dice citando Terry Malloy, il personag­

gi

gio interpretato da Marion Brando in Fronte del porto, mentre imbocchiamo il viale d'accesso. “Ho paura che mi verrà un attac­ co di agorafobia o che mi beccherò qualche malattia sconosciuta, tranne che a qualche specialista di Manhattan.” Uomo attento al proprio benessere, nelle tasche del giubbotto ha ammassato, come precauzione contro praticamente qualsiasi imprevisto immagina­ bile, sia fisico sia spirituale, fiale di Compazine, Novalgina, Lomotil e Valium; uno spazzolino da denti; pastiglie contro la tosse; un libro su quattro scrittori esistenziali. Lintervento di Woody è interessante e divertente; il pubblico, vestito con eleganza casual, alcuni ventenni e trentenni ma in gran parte più anziani, lo apprezza e lo subissa di domande. Al ter­ mine della serata una studentessa di giurisprudenza di Yale, molto carina, gli chiede se vuole andare a New Haven e partecipare a una finta prova di karate in qualità di esperto. Lui sorride e decli­ na cortesemente, e viene subito condotto nella sua camera. Succede che dalla camera accanto, attraverso i muri, si sentano le voci di due coppie che discutono animatamente dei suoi film. Gli viene offerta un’altra camera ma Woody rifiuta; è curioso di sen­ tire cosa hanno da dire. Ben presto una delle donne comincia a leggere la sua commedia breve Death Knocks con l’inflessione ebraica di New York tipica delle commedie cinematografiche. Nel 1980, quando esce Stardust Memories, è impossibile non ricordare questo week-end. È inoltre istruttivo vedere come un’esperienza positiva sia il seme della storia di un regista sull'or­ lo di una crisi di nervi, che nei suoi sogni a occhi aperti immagina variazioni sulla propria complicata vita affettiva, un alieno che gli dice “Ci piacciono i tuoi film, specialmente i primi, quelli comici”, e di finire ucciso da un fan impazzito (nel film ha una particina anche Judith Crist).

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Giugno 1974 Il dormiglione è finito e, con suo grande sollievo, Woody è tor­ nato a New York (nel film interpreta Miles Monroe, clarinettista e comproprietario del Sedano Allegro, un ristorante vegetariano di Manhattan, che viene ricoverato in ospedale per una banale ope­ razione di ulcera duodenale nel 1972 e, a causa di complicazioni in sala operatoria, viene ibernato per essere scongelato duecento anni dopo dagli oppositori di un futuristico governo totalitario). EL: Negli articoli che ti riguardano continuo a leggere che i giornalisti o gli intervistati ti definiscono un “genio comico”. Come commenti? Le idee ti vengono davvero in un lampo di ispirazione?

WA: Non mi chiamerei “genio” ma certe volte, in effetti, ho un lampo improvviso. Chissà come, mi vengono idee divertenti. In Prendi i soldi e scappa, per esempio, stavo pensando a come svi­ luppare la sequenza delle visite nel penitenziario quando mi saltò in testa la trovata del colloquio tra i due pupazzi da ventriloquo. EL: Puoi farmi un esempio, invece, di qualcosa che ti sembra­ va una grande idea e che poi non ha funzionato?

WA: Mentre uscivo dall’ottico all’angolo tra Lexington e la Settantasettesima Strada ebbi l’ispirazione per l’episodio del ragno in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. [Girato con gran­ de dispendio di tempo e denaro, l’episodio finì per essere eliminato dalla versione definitiva del film. Alla base c’era la domanda: "Perché un uomo diventa gay?” Louise Lasser, seconda moglie di Woody, indossa un costume da vedova nera ed è al centro di un’enorme ragnatela. Woody la corteggia indossando un costume da ragno, rossiccio come i suoi capelli.} Non sapevo come chiuderlo ma ero convinto che fosse un’idea fantastica: io, nella parte del 19

Ci sono anche due pupazzi, il giorno delle visire al penitenziario di San Quintino, insieme a Virgil (Woody) e Louise (Janet Margolin) in Prendi i soldi e scappa.

ragno, che concupivo una vedova nera e lei che mi divorava dopo aver fatto l’amore, illustrando simbolicamente un buon motivo per diventare gay.

[“L’abbiamo già fatto?" chiede lei mentre lo avviluppa. “Se non lo sai tu...,’’ risponde lui. Poi, pietrificato mentre lei continua ad avvolgerlo prima di divorarlo: “Mai vista una depres­ sione postcoitale grave come la tua. "] Lo ritenevo un ottimo sketch, molto cinematografico, ed ero sicuro di trovare un finale prima del momento di girarlo. Invece niente. Allora pensai: “Farò interpretare la vedova a Louise, che è tanto brava a improvvisare. Sicuramente tireremo fuori un finale adeguato.” E invece non cavammo... un ragno dal buco. Quando l’avevo concepito c’era qualcosa di storto nei primi cinque secondi, che rimase tale. Tra l’altro non fu d’aiuto che fosse fisicamente doloroso da girare. Fu una delle esperienze più spiacevoli della mia e della sua vita. Il mio era un costume scomodissimo, che non riuscivo 20

Louise Lasser nei panni di una vedova nera c Woody in quelli del suo imminente ex in un episodio eliminato da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. Malgrado le molte ore di riprese, Woody ritenne che all’episodio mancasse un finale all’altezza.

a indossare senza avere prurito, e anche Louise non sopportava il suo. Litigavamo in continuazione. Stare seduti su quella ragnatela di cavi d’acciaio era doloroso. Tuttavia, ero convinto ili riuscire a tirarne fuori un episodio di un paio di minuti. Girammo più di trentamila metri di pellicola in due settimane, con due o tre macchine da presa, il tutto per sei minuti e mezzo di film. Avevo anche pensato alla comicità subliminale di sotto­ lineare tutta la scena con un brano dallo Schiaccianoci, e invece non funzionò. Se avessi trovato un finale l’avrei tenuto, invece scelsi al suo posto l’episodio in cui Lou Jacobi interpreta un tra­ vestito. Avevo già il dubbio che ci fossero troppi episodi con me protagonista [quattro su sette], allora perché aggiungerne un altro se oltretutto non mi convinceva? La scelta tra questo e l’episodio del travestito mi portò via molto tempo. La prima del film era in programma al Coronet 21

{un cinema di Manhattan] all’uria, e ci lavorai fino all’ultimo momento utile. Dovemmo far scorrere la stampa ancora umida nel proiettore ben due volte per poterla consegnare asciutta. Il dormiglione {uscito nel 1973] mi aveva dato la conferma che al pubblico piaceva guardarmi, cosa che io trovo difficilmente credibile. Mi sembra inconcepibile che gli spettatori paghino un biglietto per vedere me. Avrei potuto recitare in tutti gli episo­ di di Sesso, come quello in cui Gene Wilder interpreta il dotto­ re che si innamora di una pecora, anche se certamente non altrettanto bene. Nessuno se ne sarebbe avuto a male nel veder­ mi in quel ruolo. Provo una specie di reticenza, un po’ come quella che avevo nei confronti della mia band quando cominciai a suonare insie­ me a loro. Non potevo essere il leader eppure gli altri compo­ nenti continuavano a ritenermi il loro leader solo perché avevo fondato la band ed ero un personaggio noto. EL: Da dove nasce l’idea del film? WA: Tomai a casa una sera dopo una partita dei Knicks. [7 New York Knickerbockers sono la sua squadra di basket, Woody è un abbonato di parterre.] Davano una replica del Tonight Show che andava in onda mentre facevo le mie abluzioni. Mi risuonò in mente una battuta, che il sesso è sporco solo se fatto bene. Subito pensai che sarebbe stato divertente fare una serie di sketch sul sesso ispirati a quello che era il best-seller del momento, il libro Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere. Ero convinto che mi sarebbe­ ro venute un milione di idee comiche sul sesso, ma in realtà non fu un tema fertile come avevo immaginato. Ne partorii solo cin­ que o sei.

EL: C’è qualche sketch che hai messo nero su bianco ma che non hai girato? 22

WA: Ci doveva essere un episodio su Onan, ma con i soldi a disposizione non riuscii a darmi un aspetto sufficientemente biblico.

EL: Lasci sempre che sia una gag, una battuta a guidarti?

WA: Ho sempre la sensazione di potermi cavare di impaccio con la comicità. Se emergono, i punti di vista politici e sociali emergono accidentalmente. EL: Qual era l’idea di partenza di Prendi i soldi e scappa [!%?]?

WA: Nacque tutto con l’idea di due bande che arrivano per rapinare una banca nello stesso momento. Mentre scrivevo Provaci ancora, Sam, per esempio, all’inizio non pensavo affatto al personaggio di Bogart. Poi scrissi: “Appare Bogart”, e di nuovo più avanti. Giunto alla fine, mi accorsi che ricorreva sei volte. Era diventato un personaggio principale. Ricordo che stavo all’hotel Astor Tower a Chicago quando mi venne l’idea di fame un per­ sonaggio. Prendi i soldi e scappa fu altrettanto accidentale. [In Provaci ancora, Sam Woody interpreta il personaggio di Allan Felix, un critico cinematografico che in Bogart ammira il successo con le donne che lui non ha. Allan è intrigante e diver­ tente con le amiche - specie Linda (Diane Keaton), la moglie del suo miglior amico, Dick (Tony Roberts) - ma negli appuntamen­ ti galanti mette talmente tanto impegno nel mostrarsi affascinan­ te che finisce per sopprimere la sua vera personalità. Con l’aiuto di Linda e soprattutto di Bogart (Jerry Lacy), che si materializza nelle situazioni critiche e lo istruisce su cosa dire e cosa fare, sco­ prirà l’appeal delle proprie doti.} EL: Ritengo che Casablanca faccia di Bogart una figura più romantica rispetto agli altri duri dell’epoca, come Robinson o Cagney. 23

WA: Non è che mi piacesse più di Edward G. Robinson o di James Cagney; è solo che nei film aveva con le donne un atteg­ giamento decisamente pragmatico e inoltre all’epoca circolava­ no un sacco di suoi poster. Il copione prevedeva già alcune scene immaginate, Bogart fu poi un caso fortunato. EL: Molto di quello che scrivi è fortuito? WA: Sì. Per quanto mi riguarda, i miei messaggi sono sempre involontari. Oggi stavo pensando al Dormiglione rispetto all’odio nei confronti delle macchine che provo nella vita reale. Non ho pazienza con le macchine, non riesco a far funzionare nemmeno quelle più semplici. Mi confondono. Le persone a me vicine potranno confermarti il numero di elettrodomestici che ho rotto. Dopo aver finito la sceneggiatura del Dormiglione, ho notato che uno dei temi ricorrenti è l’inaffìdabilità della tecno­ logia. Un tizio fa fuoco con l’arma del futuro e gli scoppia in mano, io entro in una cucina futuristica e non funziona... Durante tutta la fase di scrittura, senza averlo pianificato, mi continuavano a venire in mente battute divertenti sulla tecnolo­ gia. Verrebbe da pensare che lo facessi di proposito, che stessi

Bogart incoraggia Allan Felix mentre questi si veste in Provaci ancora, Sam.

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cercando di creare un personaggio che ha un brutto rapporto con le macchine. Invece me ne sono accorto solo a posteriori, quando me lo hanno fatto notare.

EL: Dunque II dormiglione è per così dire autobiografico solo fortuitamente, o un passo indietro rispetto alla biografia. Quanto c’è di autobiografico in Sam? WA: Quasi tutto il mio lavoro è autobiografico ma talmente esagerato e distorto che si può leggere come fiction. Come il personaggio di Sam, io non sono socievole, non ricevo grandi stimoli dal resto del mondo. Mi piacerebbe essere in grado di uscire di più e fare vita sociale, perché potrei scrivere cose migliori, ma non ci riesco. Scrissi Sam all’epoca della rottura con Louise. Quando ini­ ziammo le prove, lei se ne era appena andata di casa. La vicen­ da in sé non mi è mai davvero capitata nella vita reale, ma suc­ cedeva che gli amici sposati mi dicessero: “Senti, conosciamo una ragazza carina per te.” Oppure mi invitavano a una festa e mi presentavano una ragazza; e la serata diventava imbarazzan­ te, perché certe situazioni mettono sempre a disagio, e dimo-

Bogart istruisce Allan sulle cose da dire a Linda.

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stravo una spiccata tendenza a rimediare figuracce. Poi scoprii che con le mogli dei miei amici, alle quali non avrei mai pensa­ to in termini sentimentali, ero spontaneo, vero, e loro con me stavano molto meglio rispetto alle donne sulle quali volevo fare colpo a tutti i costi. Fu questo a darmi l’idea: con una sconosciu­ ta sei assillante mentre ti senti totalmente a tuo agio con le ami­ che perché non hai quel genere di ansia. L’amica, tra l’altro, ti vede come una persona reale, mentre le altre ti vedono come un poveraccio pieno di tic, una grottesca anima in pena. EL: Quando ti viene un’idea per un film, la metti giù per sommi capi, prendi appunti? WA: La scrivo per sommi capi ma non più di una pagina. È molto diffìcile. Non hai idea dei problemi che incontro scriven­ do per me stesso a causa della specificità della mia situazione. Io non sono un attore; non riuscirò mai a scrivere una storia in cui, tanto per fare un esempio, sono uno sceriffo del Texas. Sono sempre costretto a recitare all’interno del mio limitato raggio d’azione. E risulto credibile solo in determinati ruoli, uno sfiga­ to di città con l’aria da secchione più o meno della mia età. Non sarei credibile, per dire, nei panni di un istruttore di ginnastica o in quelli di un eroe dei marines. Il pubblico oltretutto si aspet­ ta che spari battute comiche a raffica. È per quello che pagano. Questa circostanza esclude a priori molte idee. Se avessi un’idea per una commedia come Nata ieri [film di George Cukor del 1950 tratto dalla omonima pièce di Broadway di Garson Kanin. Broderick Crawford interpreta il ruolo di un rozzo uomo d’affari che arriva a Washington con la sua amante (una ex ballerina interpretata da Judy Holliday) per corrompere alcuni membri del Congresso e ottenerne la protezione politica. Assunto un giornalista (William Holden) per educare l'amante e renderla più presentabile in società, questi aprirà con le sue lezioni gli occhi della ragazza, che riconoscerà il furfante nascosto dietro il volto 26

del milionario e finirà per innamorarsi del proprio pigmalione], non potrei certo realizzarla pensando di esserne il protagonista. Posso permettermi solo idee credibili e allo stesso tempo comi­ che, che ricadano all’interno del mio minuscolo raggio d’azione attortale. Tra l’altro, non sono molte le situazioni eccezionali in cui io possa figurare in maniera credibile. Per esempio, non voglio entrare in un giallo nonostante abbia un debole per il genere, e non è escluso che un giorno possa concedermelo. [Come succederà con Misterioso omicidio a Manhattan (1993), un esilarante giallo comico dalla trama classica se paragonata ai gialli maggiormente incentrati sui personaggi come Crimini e misfatti (1989) e Match Point (2003) che girerà negli anni a veni­ re]. Non voglio entrare in storie di spionaggio perché in genere le trovo stupide e poco realistiche. Ecco che allora le trame pos­ sibili si riducono ai rapporti umani e per questo motivo - e anche perché viviamo nell’epoca della psicanalisi - i conflitti diventano interni, non sono più visivamente interessanti e cine­ matografici come in passato. E un livello di conflitto molto più sottile, molto moderno, in cui la crisi è determinata da dettagli psicologici: fallisci con le donne perché scegli sempre le donne sbagliate. I semi della tua distruzione sono dentro di te, e que­ sto li rende difficili da sviluppare in una commedia, dove è bello vedere uno scontro tra forze fisiche, concrete, immediatamente distinguibili. Se la vicenda si svolgesse nell’esercito, per esem­ pio, ci sarebbe fin dall’inizio un conflitto evidente; se la mafia mi insegue perché devo loro dei soldi, è tutto molto più sempli­ ce. Peccato che gran parte di questi temi non siano credibili per me come attore. Oppure sono io che non li rendo credibili. E oltretutto sono in genere troppo banali per stimolare l’interesse di un pubblico intelligente. Woody sta lavorando a un copione che si trasformerà anni dopo nella sceneggiatura di Io e Annie (1977). Èia storia di due inna­ morati, raccontata principalmente in flashback. Alvy Singer 27

(Woody) e Annie Hall (Diane Keaton) finiscono per diventare grandi amici, anche se per Alvy questa sarà una soluzione di ripie­ go (in qualche modo il film ricorda il loro rapporto nella vita reale: la loro storia d’amore durerà diversi anni ma sarà già chiu­ sa all’epoca della realizzazione del film). Consapevole dei limiti del proprio personaggio cinematografico, Woody sta facendo di tutto per progredire come autore e come attore, nel tentativo di allontanarsi da sceneggiature come quelle di Prendi i soldi e scap­ pa o II dittatore dello stato libero di Bananas, strutturate essen­ zialmente come una serie di gag.

WA: Sto cercando di non chiedermi cosa si aspetta il pubbli­ co da me, voglio evitare di indirizzarmi verso prodotti facili, che strizzino l’occhio agli spettatori. Per capire cosa proporre in futuro mi sto affidando con piacere al mio senso del drammati­ co, e il sesto senso mi dice di puntare su una storia vera. Certo, potrei uscire nelle sale con un film in cui candido alla presiden­ za degli Stati Uniti un computer IBM perché è un candidato onesto e sarebbe un presidente perfetto, potrei giocarmi la carta della satira in mille varianti, dargli una moglie, mostrarlo duran­ te i colloqui con le autorità religiose, e il pubblico riderebbe ma in modo distaccato e cerebrale. Io invece voglio catturare l’inte­ resse degli spettatori con una commedia più personale. Nel Dormiglione o nei miei altri film il pubblico vede solo un piccolo aspetto di me come attore e autore, quella parte di me che ha facilità con le commediole piene di gag, ma questa è solo una delle cose che posso fare. È come mostrare un piccolo, allettante diversivo, ma io non sono solo quello. Per essere più precisi, io vorrei essere più di quello: offrire al pubblico altre dimensioni, darmi un ventaglio più ampio di possibilità. Sto lavorando in questa direzione, provando a sfidare i miei limiti, magari solo una volta ogni tanto. Sapendo che nel mio prossimo film lavorerò con [Diane] Keaton, a un certo momento ho pensato al genere di cose che 28

facevano [Spencer] Tracy e [Katherine] Hepbum. Sarebbe molto divertente, ma quelle trame oggi risultano irrimediabil­ mente datate. I loro film sono ancora piacevoli perché li guardi come film d’altri tempi, ma il tallone di Achille di una loro even­ tuale riproposizione è l’eccessivo affidamento alla trama, a mec­ canismi che il pubblico ha ormai abbandonato. In questo nuovo copione sto cercando di lavorare dall’inter­ no, di partire dalle nevrosi per poi esternarle, in modo che fra cento anni il film non risulti datato. Prendiamo Lui e lei, per esempio: ci sono due protagonisti e gli sceneggiatori costruisco­ no una situazione quasi da sit-com in cui lei è una sportiva che non riesce a dare il massimo alla presenza del fidanzato, ricor­ rendo allo schema collaudato del conflitto tra sessi. I due perso­ naggi non sono individui reali ma semplici stereotipi, fortunata­ mente resi amabili dalla grandezza di Tracy e della Hepbum. Oggi, in una storia comica realistica i problemi sono molto più sottili, non si scatenano in maniera eclatante. Che so: lei vuole vivere con me ma anche mantenere il suo appartamento come simbolo psicologico di indipendenza. Sono conflitti interessan­ ti, che ci possono aiutare a capire le persone... provare ad ana­ lizzare il loro comportamento o quanto meno essere consapevo­ li della possibilità di sfruttare in senso comico un elemento psi­ cologico, ma è molto difficile partire da questo e sviluppare un conflitto visivo, adatto al grande schermo. I conflitti di oggi sono molto diversi rispetto a quelli delle talk comedies di dieci anni fa, che si basavano sempre su elementi esterni ai personaggi. È molto difficile far scatenare un numero sufficiente di scintille filmiche usando soltanto i personaggi. Se io e Diane dovessimo avere un confronto in un film, oggi, per risultare realistico, il conflitto avrebbe connotazioni psicologi­ che. Non le direi mai: “Sai cara, si era detto che avremmo pro­ vato questa casa di campagna per un mese ma abbiamo già la cantina allagata e piena di procioni.” Più probabilmente lei mi direbbe: “Vorrei vivere sulla Costa Occidentale,” e io ribatterei: 29

“Certo, vuoi vivere sulla Costa Occidentale perché lì abitano i tuoi, hai un attaccamento nevrotico alla tua famiglia.” Forse però i procioni fanno ridere di più. Oli schemi di una volta sono evidentissimi in qualsiasi sit-com che passa in televisione. Le sit-com si basano sulla trama, è così per definizione: è la situazione che ti fa ridere. Si presenta un tizio a casa tua, tu credi che sia l’ispettore delle tasse e invece è solo uno stupido fattorino. La situazione deve durare solo mez­ z’ora ma in genere il livello di scrittura delle battute è molto alto, anche nelle sit-com più semplici e dozzinali. Battute magnifiche. La maggiore difficoltà di una scrittura basata sui personaggi è però ricompensata da una maggiore soddisfazione per il pubbli­ co. Ho sempre sostenuto che la migliore commedia americana è Nata ieri (che tra l’altro si ispira al Pigmalione di Shaw), in cui il vero divertimento sono Henry Higgins e Liza Doolittle. Le risate scaturiscono dai due personaggi, non dalle battute. Nata ieri si basa strettamente sulla giustapposizione dei personaggi: lei è l’oca bionda che sta con un rozzo mascalzone, lui è l’intel­ lettuale. Intendiamoci, io adoro le battute. Nessuno apprezza un film con Bob Hope più di me. Ma ridere di un personaggio è impa­ gabile. Pensa a Jackie Gleason in The Honeymooners luna sit­ com degli anni cinquanta]: è il suo personaggio che ti fa morire dal ridere... quando lui e Art Camey credono di bere un supe­ ralcolico che in realtà è sidro, e si convincono così di essere sempre più ubriachi. Molto buffo. Tra parentesi, nonostante le raffiche di battute che sparava, è stato il suo personaggio a mantenere vivo il successo di Bob Hope nel corso degli anni. Magari non ricordi le sue battute ma il suo personaggio senz'al­ tro. Ecco perché Diane Keaton risulta sempre più comica di me nei film che abbiamo interpretato insieme: nonostante scrivessi le battute per me - e io riesco a renderle piuttosto bene, strap­ 30

po le mie risate - lei fa sempre ridere nella scena perché dà un contributo psicologico, attraverso il personaggio. Un film come Io e Annie, io posso interpretarlo da comico, con battute relati­ vamente facili e superficiali, lei invece risalterebbe come perso­ naggio. EL: Vicino al vero ma un po’ esagerato per ottenere l’effetto comico, senza tuttavia virare troppo sul concettuale.

WA: Diffìcilmente il pubblico accetta le idee comiche concet­ tuali. Se ne propongo una come quella della tetta gigante [paro­ diando i film dell’orrore con lo scienziato pazzo, in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chie­ dere una spaventosa tetta alta quattro metri getta la popolazione nel terrore con le sue scorribande finché il personaggio di Woody non riesce ad attirarla in un gigantesco reggiseno] metto il pub­ blico a disagio. È diffìcile che gli spettatori abbiano una reazio­ ne del tipo: “Ah, ah, che ridere, una tetta enorme. Il solo pen­ siero mi fa sbellicare.” Dato il concetto generale, ridono piutto­ sto battuta per battuta. Ecco perché mi sento scoraggiato dal proporre idee comiche concettuali. Lo scoraggiano anche problemi come quelli incontrati durante le riprese dell’episodio della tetta. All’interno del seno, gonfiato e provvisto di aria condizionata, un uomo munito di walkie-talkie riceveva le istruzioni necessarie a manovrarlo, ma Woody poteva filmare soltanto per una mezzoretta al mattino presto prima che il vento si alzasse e cominciasse a spingere il seno a destra e sinistra, strappandone anche il tessuto sottile; per di più, “ho dovuto ripren­ dere da sedici angolazioni diverse per nascondere le cuciture”. Quando però gli chiedo se è disposto a rinunciare definitiva­ mente alle idee comiche concettuali, mi spiega in dettaglio l’idea embrionale per un film, che diventerà invece uno dei suoi raccon­ ti più amati, “Il caso Kugelmass”. 31

WA: A dire la verità, mi è venuta proprio un’idea concettuale: l’idea di una macchina che mi proietti all’interno di un romanzo perché mi sono innamorato di Anna Karenina, o qualche altra eroina; tra noi nasce un rapporto e per questo continuo a entra­ re e uscire dal romanzo finché lei si decide a venire a New York; qui la piazzo in una camera d’albergo dove tradisco mia moglie con lei. È da un po’ che l’idea mi frulla in testa, in varie forme: mia moglie si è innamorata di J. Alfred Prufrock e io vado a cer­ carla; oppure un tale possiede una macchina che mi può proiet­ tare dentro Anna Karenina, o Madame Bovary perché mi sono innamorato della protagonista, solo che l’esperimento fallisce e mi ritrovo per errore dentro un libro di grammatica francese, dove non ci sono esseri umani ma solo verbi e altre parole. [Nella versione definitiva del racconto, Kugelmass, un professore di lettere al City College di New York, infelicemente sposato per la seconda volta, decide che ha “bisogno di avere un’avventura. Ho bisogno di tenerezza, ho bisogno di romanticherie”. Un mago di nome Persky (“O dovrei dire il Grande Persky?”) propone a Kugelmass di entrare nella sua scatola cinese insieme con un romanzo a sua scelta in modo da essere trasportato dentro la trama del libro; la scelta cade su Madame Bovary. Kugelmass viene in effetti proiettato nel romanzo, dove conosce Emma Bovary. Nel corso di diverse visite, nasce tra i due una appassionata storia d’amore, finché lui la porta con sé a New York, dove prenderanno una camera all’hotel Plaza. A New York Emma cade preda del fascino di una carriera nel mondo dello spettacolo. Ben presto, in Kugelmass l’idealizzazione cede il passo alla realtà e dopo qualche difficoltà (un difetto di funzionamento della macchina gli fa teme­ re di doversi sorbire Emma per il resto della vita), l'eroina viene rispedita a Yonville (non prima, però, che diversi lettori abbiano scoperto la presenza di Kugelmass nel romanzo o abbiano notato l’assenza di Emma. “‘Questo non riesco a spiegarmelo, ' dice un professore di Stanford. ‘Prima un personaggio strano dt nome Kugelmass, e adesso lei è sparita dal libro. Be’, credo che il segno 32

di un classico sia che puoi rileggerlo migliaia di volte e trovarci sempre qualcosa di nuovo. Kugelmass è sollevato per lo scam­ pato pericolo ma dopo tre settimane vuole riprovare, stavolta con la Scimmia del Lamento di Portnoy ("Sesso e romanticismo", dice una volta rientrato nella scatola. "Cosa non si fa per un bel facci­ no!"). Ancora una volta, però, la macchina non funziona correttamente e, anziché ritrovarsi nel romanzo di Philip Roth, Kugelmass viene "proiettato in un vecchio manuale, Ripetizioni di spagnolo, e sta scappando in una brulla landa desolata con la parola tener (avere), un grosso e peloso verbo irregolare, che lo insegue sulle sue zampe lunghe e sottili. "] Il problema di tradurre in film un concetto del genere è che lo si può dire in una riga e fa ridere, ma per poterlo mostrare sullo schermo bisogna comunque procedere battuta per battuta. Ti ritrovi ancora a costretto a inanellare battute su battute, perché lo spettatore non dice: “Oh mio Dio che idea buffa, essere al party Prufrock.” Dice: “Ah sì, siamo al party Prufrock, e allora? Qual è la battuta?”

Giugno 1987 Woody sta lavorando a un copione senza titolo che intende fil­ mare in autunno. Nella prima stesura il personaggio principale, Marion Post, è sposata con Ken, un cardiologo "che dieci anni fa mi visitò il cuore, gli piacque e mi chiese di sposarlo”. In superfi­ cie sembra una donna assolutamente padrona di se stessa mentre in realtà è talmente sensibile da avere a disposizione solo due alternative: reprime i sentimenti o lasciarsi sopraffare da loro. EL: Ora sei alle prese con un altro film drammatico, il cui sog­ getto sono le reazioni che si scatenano in una donna dopo che a questa è capitato di ascoltare per caso le confessioni di una sco­ nosciuta. È un’idea recente? 33

WA: L’idea originaria era di realizzare una commedia in cui a un uomo capita di ascoltare la seduta psicanalitica di una donna, ne è affascinato, dà un’occhiata alla donna e vede che è piutto­ sto avvenente. La paziente continua con le sue sedute ignara del­ l’uomo che le origlia. Poi mi dissi: “Gesù, è una cosa spregevo­ le,” e abbandonai l’idea. A cinque anni di distanza ho pensato di poterne ricavare un dramma interessante. C’è più tensione se l’espediente dell’ascolto serve a evocare i sentimenti profondi nella persona che sta origliando, che invece di un uomo potreb­ be essere una donna. Ma il progetto è ancora in evoluzione.

EL: Come al solito, non hai ancora un titolo; so che spesso lo scegli solo molto tempo dopo che il film è stato montato. Hai già in mente qualcosa?

WA: Non sono più tanto attratto dai titoli di una sola parola come in passato. In questo momento come titolo si aggira nella mia mente Un’altra donna. Non che sia particolarmente affascinante ma è l’idea che sto accarezzando. Alla fine potrebbe non avere alcuna importanza, nel senso che potrei non essere particolarmen­ te interessato a un titolo affascinante, ma è comunque piuttosto evocativo. Marion ascolta un’altra donna, vorrebbe sperare di diventare un’altra donna e vede il proprio marito con un’altra donna. [Una donna di mezza età, che ha soffocato le proprie emozio­ ni dopo un aborto avuto quando era poco più che ventenne, è costret­ ta ad affrontare il proprio passato dopo aver casualmente ascoltato le sedute psicanalitiche di una giovane donna incinta attraverso la presa d'aria del suo studio, attiguo a quello dello psicanalista. ] EL: Il primo pensiero, però, quando ti venne l’idea, lu di lame una commedia.

WA: Esatto. L’idea nacque in forma comica molti anni la, in un periodo in cui ero interessato a realizzare una commedia dal 34

gusto chaplinesco. C’è questo tale che abita in un piccolo monolocale e casualmente ascolta i discorsi di una donna che ha dei problemi. Origliando, sarà in grado di risolverli e diventare l’uomo dei suoi sogni. Potrà far accadere tutte le cose che la donna desidera. Poi, però, l’espediente dell’origliare mi parve di cattivo gusto. Persino con tutta l’innocenza di un Chaplin, è una cosa che non si fa. Anni dopo ho ripensato a quell’idea dal punto di vista drammatico: una donna ascolta qualcosa attraver­ so un muro. Mi sono chiesto: “Cosa potrebbe essere interessan­ te, cosa potrebbe sentire di significativo?” Il primo pensiero è stato che la sorella e il marito della donna hanno una relazione. La protagonista toma a casa e riflette sull’orrore di quell’even­ tualità, solo per scoprire che sua sorella e suo marito hanno dav­ vero una relazione. Mi sembrava, però, uno sviluppo troppo hitchcockiano. Quello della sorella non era il tema adatto, infat­ ti l’ho usato in Hannah e le sue sorelle. Ma questa idea mi ossessionava da anni e sentivo che, conti­ nuando a lavorarci sopra, avrei potuto tirarne fuori una storia. Poi mi è venuta l’idea di una persona dalla vita chiusa, una donna che si è costruita un muro intorno ma che adesso, pas­ sati i cinquant’anni, non riesce più a tenere le emozioni fuori dalla propria vita, i sentimenti cominciano a filtrare dentro di lei, la realtà si fa largo a forza, penetra attraverso i muri. [RzJe.] Forse mi pentirò di non averla realizzata come comme­ dia.

EL: Molte persone nascondono le proprie emozioni perché hanno paura di prenderne atto.

WA: La gente si rovina la vita per l’incapacità di gestire i pro­ pri sentimenti, nonostante sia estremamente produttiva nel lavoro intellettuale, impegnata nelle iniziative sociali e caritate­ voli. Forse in questo nessuno ha più sensi di colpa di me.

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In questo momento Woody è affettivamente legato a Mia Farrow, la cui gravidanza è una novità e fonte di complicazioni; Mia dovrebbe partorire appena dopo la conclusione prevista delle riprese e dunque nel film avrà il pancione. Inoltre, Dianne Wiest, presenza fissa negli ultimi film di Woody, ha deciso di prendersi una pausa dalle scene per adottare un bambino. Tutto questo pro­ voca una serie di cambiamenti, sia nel cast sia nella sceneggiatu­ ra. Mia Farrow adesso interpreterà la giovane donna la cui voce e la cui gravidanza scatenano il tumulto interiore di Marion. WA: La ragazza è incinta in modo che possa essere interpreta­ ta da Mia, alla quale in origine avevo assegnato il ruolo di Marion. La donna in analisi doveva essere Dianne Wiest. La gravidanza è dunque un espediente narrativo frutto della neces­ sità. Rendere Marion più matura mi sembrava anche una solu­ zione migliore. Per il ruolo ho bisogno di un’attrice che si avvi­ cini fisicamente a Mia - Liv Ullmann o Bibi Andersson per esempio - ma non voglio usare gli attori di Bergman, sono trop­ po associati a lui. L’ideale sarebbe trovare un’attrice leggermen­ te più anziana di Mia che non le somigli troppo ma che sia di corporatura simile. [Sceglierà Gena Rowlands.] Voglio il sogno vivido di una donna visto attraverso gli occhi di Marion. EL: È interessante notare come la tua idea iniziale venga pro­ fondamente plasmata dalle circostanze. Hai parlato molto con Mia su come adattare al meglio la sceneggiatura?

WA: È raro che io sveli il copione in questa fase, nemmeno a Mia, ma in questo caso volevo essere sicuro che fosse adatto alla sua gravidanza. Le osservazioni di Mia sono importanti. Secondo lei, la protagonista dovrebbe ascoltare più dettagli attraverso il muro, tutto dovrebbe partire da lei stessa. Osservazioni interessanti.

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EL: La paternità è per te una grossa novità. [Due anni fa lui e Mia Farrow hanno adottato una bambina e Woody ha anche assunto la paternità di un figlio più grande da lei adottato in pre­ cedenza.]

WA: Solo di recente, dopo aver frequentato Mia [che aveva già diversi figli, sia del suo ex marito André Pervin sia adottati con lui] e visto altre come Dianne [ Wiest], mi sono accorto dell’im­ portanza dei figli nel modificare la vita dei genitori. Da solo non ci avrei mai pensato. In Manhattan avevo inserito quell’elenco di cose veramente importanti [“Allora, perché vale la pena di vivere?... Okay, uhm, per me... Groucho Marx, per dirne una... e (sospirando) Willie Mays, e... uhm... il secondo movimento della sinfonia Jupiter e, uhm.... ‘Potato Head Blues’ nella versione di Louis Armstrong... i film svedesi, naturalmente... /'Educazione sentimentale di Flaubert... uh, Marion Brando, Frank Sinatra... uhmmmm, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne... ah, i granchi al vapore da Sam Wo...”] e ricevetti una lettera in cui una donna mi faceva notare che non avevo citato i figli. All’e­ poca non ci feci caso, adesso sembra un errore imperdonabile. Avere un figlio è un’esperienza talmente intensa che è impossi­ bile non esserne deliziati. Strappare una piccola risata a quell’esserino ti dà molta più emozione che la risata di una sala gremita. Mi accorgo che fac­ cio sempre di tutto per farla ridere perché è davvero gratifican­ te. Avvicino rapidamente la faccia alla sua, faccio pernacchie e altri stupidi versi, tutte cose che in passato vedevo fare agli altri pensando che si rendessero veramente ridicoli. EL: C’è mai stato un film con il quale hai appagato il tuo desi­ derio di realizzare qualcosa in particolare? WA: Qualche volta succede, ma me ne accorgo in modo asso­ lutamente casuale. Dopo Manhattan, per esempio, mi sono reso 37

conto di non provare più il bisogno spasmodico di ammantare New York di una veste fascinosa. Ancora adesso ho un occhio di riguardo nel modo di rappresentarla, ma è un’immagine strettamente funzionale alla trama. Prima, invece, avevo il pro­ fondo desiderio di mostrare New York come la città delle mera­ viglie, uno stimolo che ho completamente appagato con Manhattan. Dopo Stardust Memories non ho più voluto realizzare un film analogo. Adesso tomo a quel modo di lavorare ma all’epoca aveva appagato il ghiribizzo di fare un film barocco. Almeno per un po’ di tempo. Nove anni dopo, nel 1996, Woody rispolvererà l’idea di un uomo che scopre i segreti e i desideri intimi di una donna, usando quelle informazioni per conquistarla, nella commedia musicale Tutti dicono I love you. Ovviamente lui al momento non lo sa ancora, ma nelle parole che seguono c’è il seme di un’altra idea.

WA: In questo momento sto pensando ai miei prossimi due film. Voglio fare una commedia musicale originale. Impazzisco per il genere, sono cresciuto con i grandi musical di Broadway. Non so cantare ma potrei recitare e dirigere. Magari suonare il clarinetto, anche se il bello di un musical è cantare i testi di Cole Porter. Dovrei rimpolpare un po’ più l’idea e concedere un anno di lavoro a un compositore e paroliere. EL: Sembra quasi che per la tua testa passino soltanto idee, spunti, o possibili soluzioni per un problema di sceneggiatura. Una volta mi hai detto che persino in ascensore, se devi fare più di tre piani, ti metti a pensare.

WA: Quando vado a letto la sera e appoggio la testa sul cusci­ no, quando cammino per strada, mi piace pensare a idee per una storia. Penso sempre a nuove trame. Farei qualsiasi cosa 38

pur di evitare quel terribile momento in cui ti chiedi: e ora cosa faccio? Paddy Chayefsky, che ha scritto sull’argomento, sostie­ ne - a ragione - che nei momenti di vuoto tra un progetto e l’al­ tro un autore ha la tentazione di cambiare mestiere.

Novembre 1987 Woody ha da poco finito di montare Settembre. Per la seconda volta. Ha completamente rigirato il film e cambiato due compo­ nenti principali del cast dopo aver visionato la prima versione. Siamo nel suo appartamento a New York, uno di fronte all’altro, sulle stesse comode poltrone imbottite dove ci sediamo a chiac­ chierare da oltre quindici anni. È appena stato a pranzo con lan Holm, uno dei protagonisti di Un’altra donna, che sta per essere girato, e indossa pantaloni di velluto marroni, un maglione di cachemire avana, una giacca di tweed anch’essa marrone e una cravatta a righe.

EL: Settembre è stato una novità, per te. È girato in un’unica location. Qual era la tua idea? WA: Ho sempre desiderato realizzare dei “pezzi da camera” con un cast ridotto e in una sola location, o in una location ristretta, e una maniera di farlo è lavorare volutamente in forma teatrale. Volevo dividere il film in quattro atti, e l’ho fatto. Se ne pubblicassi il copione in versione dettagliata, potrebbe proba­ bilmente andare in scena quasi senza cambiamenti. Tuttavia il risultato finale non sa di palcoscenico perché è un’opera conce­ pita per il cinema, non è tratta da una pièce che avevo già alle­ stito o di cui ho acquistato i diritti. [Settembre è una pièce drammatica scritta per il cinema (nella sua recensione del film, comparsa sul New York Times qualche mese dopo, Vincent Canby scriverà che "Settembre non ricorda 39

tanto l'austero Interiore dello stesso Alien quanto il diafano e poe­ tico Una commedia sexy in ima notte di mezza estate, ma in gra­ maglie”) in cui a un assassinio si mescolano i temi dell'amore non corrisposto e dei traumi provocati dalle esperienze del passato. L’azione si svolge nel corso di quattro ore in una casa di villeg­ giatura nel Vermont e si incentra sui rapporti reali o desiderati di sei persone: una madre, Diane (Eiaine Stritch) e sua figlia Lane (Mia Farrow), a cui un passato traumatico ha lasciato grande ama­ rezza; Stephanie (Dianne Wiest), la cui vita è in tumulto, venuta a trovare la sua migliore amica Lane; il pubblicitario Peter (Sam Waterston), aspirante romanziere che ha preso in affitto l’apparta­ mento degli ospiti; un vicino più anziano, Howard (Denholm Elliott, morto nel 1992), vedovo innamorato di Lane; e l’attuale marito di Diane, Lloyd, un rozzo medico interpretato da Jack Warden. Il film si svolge tutto all’interno delle mura domestiche. La luce del sole filtra attraverso le persiane che impediscono qual­ siasi vista sull’esterno; di notte c’è solo il buio della campagna squarciato dai lampi.} EL: Mentre scrivevi il copione hai mai avuto la sensazione che fosse una pièce o è sempre stato un film? WA: L’ho sempre pensato e vissuto come un film. Non è faci­ le spiegarlo, è qualcosa di intuitivo. I momenti di pathos sono catturati con una macchina da presa. È stato girato come un film e non ha mai dovuto affrontare i problemi tecnici tipici del palcoscenico. Non l’ho realizzato su un palcoscenico, come se, avendo visto una pièce di Eugene O’Neill a teatro, avessi volu­ to replicarla sul grande schermo con la medesima efficacia. In quei casi, si è molto rispettosi del materiale di partenza, persino incerti nel timore di perdere la magia che si avvertiva sul palco. Settembre, invece, l’ho concepito come un film, anche se si trat­ ta di un film realizzato in maniera ridotta, cameristica.

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EL: Il film si apre già all’interno della casa, senza alcuna vedu­ ta esterna che permetta di capire se ci troviamo in campagna o in città, né in seguito si vede nulla fuori dalle mura domestiche. È un film svolto completamente in interni. WA: A mio avviso, l’aggiunta di panoramiche esterne l’avreb­ be rovinato. Sai come succede, in genere: uno acquista i diritti di una pièce teatrale e comincia a scioglierla, finché il risultato non è più né carne né pesce, non è più esattamente una pièce ma non possiede nemmeno le caratteristiche di un film. Io ho deciso scientemente di mantenere la struttura chiusa, di non operare certe scelte. Se avessi voluto inserire una o due vedute esterne avrei messo in pratica l’idea iniziale, ossia di girare il film nella casa di Mia in Connecticut; era così che lo avevo pensato in origine. Mi tro­ vavo appunto da lei, tranquillamente seduto in poltrona, e pen­ sai, Mio Dio, che atmosfera cechoviana che c’è quassù; è una casa circondata da un piccolo appezzamento di terreno con alberi e ruscelli, un prato di qua, là in fondo un’altalena. [Sz interrompe e ride.] Non c’è da stupirsi se poi la gente si ammaz­ za. Mi sembrava fantastico, la prospettiva di andare a girare lassù, ma poi mi dissi: “Attenzione, c’è il rischio di dover resta­ re quassù diversi mesi e la troupe dovrà alloggiare in paese.” Intanto, perciò, c’erano alcuni problemi logistici da risolvere. Poi cominciai a preoccuparmi per i cambi di stagione, visto che la casa di Mia ha delle bellissime finestre panoramiche e sareb­ be stato impossibile evitare l’intrusione dell’esterno. Una gior­ nata di sole seguita da una nuvolosa ci avrebbe potuto dare ulte­ riori grossi problemi. Ciononostante, ero ancora convinto che sarei riuscito a girare delle scene meravigliose di passeggiate attorno al laghetto, sotto i salici, situazioni del genere. Trovavo che il posto avesse un’atmosfera davvero pastorale ma quando arrivò il momento di programmare la tempistica, venne fuori che avremmo dovuto trasferirci lassù in inverno. Non era l’am­ 41

bientazione che desideravo, con gli alberi spogli, il freddo, cir­ costanze poco favorevoli per una passeggiata sotto i salici o attorno al laghetto. Non era più la stessa cosa. Del resto, bastò la prospettiva di trascorrere diversi mesi in campagna durante le riprese per trasformarlo in un film da studio. EL: Mi hai detto che da principio pensavi di far comparire dei morti, o inserire scene immaginarie con altri personaggi.

WA: Sì. Dopo averlo scritto pensai: “Ci sarà [Eiaine] Stritch che in una seduta spiritica evoca e fa apparire il marito morto.” Siccome sembrava interessante, avevo anche pensato di far apparire il marito di Dianne Wiest in maniera immaginaria, e anche la moglie morta di Denholm Elliott. Dopo un po’ tomai sui miei passi, ricordando a me stesso che avevo concepito il film come un pezzo da camera “realistico”, una piccola storia che non doveva diventare troppo misteriosa. Nonostante fosse per me una sfida, volevo impormi la disciplina di affinare quei sei personaggi (ce ne sono altri tre che hanno però la sola fun­ zione di spezzare l’azione con intermezzi comici, in sostanza i personaggi sono sei) senza introdurne altri, una cosa che ho sempre la tendenza a fare. Ho resistito alla tentazione perché volevo che il film assomigliasse a un racconto breve, volevo che fosse realistico. Volevo un solo set - la casa - e che sei persone nel momento presente, assolutamente presente, si dispiegassero di fronte al pubblico nel corso di un periodo di tempo limitato. Volevo tutto questi elementi di rigore tipici della struttura tea­ trale. EL: Hai mai pensato di dare un’idea di quello che c’era fuori dalla casa?

WA: Una volta allestito il set cercammo di simulare l’esterno della finestra, portando in studio alcuni alberi. Il risultato tutta­ 42

via sapeva di artificioso. Non che fosse artificiosa la fotografìa, era proprio la soluzione in sé ad avere una caratteristica di arti­ ficiosità. Volevo comunque che l’attenzione degli spettatori fosse concentrata sull’interno, senza distrazioni superflue, vole­ vo rendere interessante i rapporti tra i personaggi. Un bel tra­ monto fuori dalla finestra o lo stormire delle foglie per me non hanno mai voluto dire nulla. L’aspetto importante era il modo in cui i personaggi interagivano fra loro. Da questo punto di vista fu un piacere lavorare su un set costruito. Più le cose diventavano chiuse, interne, più ero contento. Alla fine deci­ demmo di non fare riprese elaborate dalla finestra per simulare l’esterno ma restare, come direbbe un atleta, concentrati su noi stessi. Fu così che la macchina si mise in moto e riuscimmo finalmente a partire. L’idea covava da anni, prima quella di combinare qualcosa lassù in Connecticut, poi che tipo di pro­ getto realizzare esattamente. L’obiettivo che mi pongo è quello di non smettere di fare film drammatici. Anche se sarà un flop, avrò almeno imparato qualcosa. Se invece significherà qualcosa per il pubblico e sarà divertente per me, tanto meglio. Ovviamente so fin d’ora che non c’è un grande mercato per film del genere. Uno dei film di Woody più toccanti e surreali è La rosa purpu­ rea del Cairo (1985). Cecilia (Mia Farrow) lavora come camerie­ ra nella tavola calda di una piccola città ai tempi della Grande Depressione. Sposata a un mascalzone violento e donnaiolo, tra­ scorre il tempo libero persa nei sogni dei film, guardando e riguar­ dando quello che ogni settimana il cinema locale ha in cartellone. Mentre Cecilia assiste per l’ennesima volta a un film intitolato La rosa purpurea del Cairo, il personaggio di un affascinante egitto­ logo di nome Tom (Jeff Daniels), condotto a New York da un gruppo di facoltosi e raffinati cittadini di Manhattan, interrompe la scena ed esce dallo schermo per andare a parlarle, dopo averla vista tante volte tra il pubblico. I due si innamorano (“Ho appena 43

incontrato un uomo stupendo, ” dirà lei. “È immaginario, ma non si può mica avere tutto...”), ma l'uscita di scena dell’attore getta lo scompiglio nello studio e procura guai a Gii (lo stesso Daniels), l’attore in carne e ossa che lo interpreta. Con la carriera a repen­ taglio, Gii si precipita in città, seduce a sua volta Cecilia e le pro­ pone di seguirlo a Hollywood. Il consenso della ragazza costringe Tom a tornare sullo schermo. Una volta però che il personaggio riprende il proprio posto nel film, Gii abbandona Cecilia. Il film si chiude con la ragazza ancora una volta al cinema, persa nel sogno di Fred Astaire e Ginger Rogers che ballano “Cheek to Cheek” in Cappello a cilindro (1935). EL: Quale fu l’idea di partenza per La rosa purpurea del Cairo?

Gil (Jeff Daniels), uno dei protagonisti della Rosa purpurea del Cairo, il film in bianco e nero all’interno del film, esce dallo schermo e si innamora di Cecilia (Mia Farrow), che ogni santo giorno si abbandona ai sogni e alle fantasie del cinematografo.

WA: La prima idea che mi venne era semplicemente quella di un personaggio che esce dallo schermo. Pensai che avrei potuto appiccicarci qualche gag ma che sarebbe morta lì. Poi l’illumina­ zione: l’attore che interpreta il personaggio arriva in città. Da quel momento in poi, la storia sbocciò come un grande fiore. Cecilia doveva decidere, e sceglie la persona reale, che le pro­ mette un miglioramento della sua condizione. Purtroppo ci tocca sempre scegliere la realtà, che alla fine ci strazia, ci delude. Ho sempre considerato la realtà un posto piuttosto gramo dove vivere [w interrompe, poi si lascia sfuggire una piccola risata} ma è anche l’unico posto dove ti puoi procurare del cibo cinese.

EL: Chi guarda il film si ritrova a fare il tifo per Cecilia, spe­ rando che alla fine trovi la felicità. Invece non va così.

Henry (Edward Herrmann) non riesce a credere che Gii sia capace di uscire dallo schermo e camminare in mezzo agli spettatori.

WA: L’unica ragion d’essere della Rosa purpurea era il finale. Un lieto fine lo avrebbe reso un film banale. Un funzionario della Orion mi chiamò dopo la proiezione a Boston e mi chiese in tono molto gentile: “Il finale è proprio quello?” “Oh, sì,” risposi. “D’accordo,” fece lui, ma sono sicuro che in faccia doveva avere un’espressione corrucciata.

EL: In che misura l’idea originaria cambia man mano che giri il film?

WA: lo e Annie nasce come una vicenda che si svolge nella mia mente. La storia d’amore con Annie ne era ima porzione consistente ma c’erano mille altre digressioni, altre scene e altre idee. Avrei dovuto avere flash in continuazione, un turbine di pensieri. Poi ci accorgemmo che la storia era talmente forte che a nessuno interessava nient’altro. Tutti volevano tornare alle parti con “me e Annie” e dunque lasciai che il film si sviluppas­ se in quella direzione. Alcuni episodi erano tratti dalla vita reale ma non volevo dare troppo spazio all’elemento autobiografico. È una vicenda per la maggior parte inventata, estremamente di fantasia, nonostante il nostro affetto reciproco fosse autentico. Anche i dettagli sono inventati: non l’avevo incontrata in quel modo, non ci eravamo lasciati in quel modo. La nostra relazione nella vita reale era diversa. Nel film non c’è nulla di più di qualche frammento qua e là tratto da episodi reali. Basterebbero i frammenti ispirati alla vita reale di Marshall Brickman o gli episodi inventati a partire da ricordi suoi per tarpare le ali alla leggenda che fosse la mia vita vera o la mia vera storia con la Keaton. EL: Quando ti viene un’idea, la sottoponi ai tuoi amici per vedere se funziona?

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WA: In genere sfrutto fino all’osso le persone che mi sono vicine. Quando esco a cena o faccio due passi con qualcuno, chiedo se posso esporre un’idea. Quando sono con Mia [la loro relazione è finita nel 1992 ma in questo periodo facevano ancora coppia} la stresso fino allo sfinimento, la tempesto di idee. A volte mi è di aiuto concreto ma spesso mi sostiene semplicemen­ te con l’ascolto. Lo facevo anche con Diane [Keaton] e con mia sorella [Letty Aronson, ora produttrice dei suoi film]. Pronun­ ciare una battuta a voce alta mi aiuta. Quando te ne stai ogni giorno chiuso in una stanza rischi di perdere lucidità: confron­ tarti con qualcuno e ottenere una reazione può servire a confer­ mare una tua sensazione o a fare marcia indietro. Per me, che lavoro semplicemente d’istinto, è importante sapere se quello che mi passa per la mente ha un qualche rapporto con i senti­ menti degli altri o se sono solo elucubrazioni mie. Le reazioni di Mia finiscono nel calderone delle possibilità. Se sono incerto tra due o tre idee, a volte faccio un sondaggio tra amici. Di Un’altra donna, per esempio, ho parlato solo con Mia. Quando invece mi venne l’idea di Zelig sapevo che il personaggio era forte e non ebbi bisogno di molte conferme.

EL: Man mano che ti vengono le idee te le appunti? WA: Annoto spesso le battute, quando mi vengono in mente, l’ho sempre fatto. Altrimenti le dimentico. Ho ancora un casset­ to pieno di battute, storielle, spunti. Molto di quel materiale è sempre rimasto sulla carta.

Woody ha accettato, insieme a Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, di dirigere uno dei tre mediometraggi che comporranno New York Stories. Nel suo episodio, Edipo relitto, una tipica mamma ebrea appare in cielo e ossessiona la vita di suo figlio, ren­ dendolo ridicolo di fronte all’intera città di New York: vuole infatti che il figliolo si trovi una bella ragazza ebrea da sposare al 47

posto della sofisticata protestante con la quale è fidanzato. La sce­ neggiatura è a buon punto e Woody è già proiettato con i pensie­ ri al futuro. WA: Per il prossimo film mi piacerebbe proporre qualcosa di diverso, mi sto stancando delle storie realistiche. Non è che que­ sto mediometraggio sia realistico nel senso tradizionale... certo, in parte lo è - il personaggio va dall’analista, va al lavoro -, ma la madre che appare in cielo è surreale. Voglio fare un film da girare in maniera completamente diversa. Ci sono film come Quarto potere che sono girati in maniera estremamente interessante. Cos’è in fondo Quarto potere? Pauline Kael lo ha definito “un capolavoro senza profondità”. La storia dell’ascesa al potere di un magnate delle comunicazio­ ni - o dell’ascesa al potere di una persona qualsiasi raccontata in maniera realistica - può piacere o meno, tradotta in un film, ma Quarto potere è girato con tale bravura che la storia stessa, da biografia quasi insulsa, si trasforma in un capolavoro. Il film contiene tutti i piccoli dettagli tipici di Welles: i dialoghi che si accavallano, gli angoli di ripresa particolarissimi, i meravigliosi interventi dei personaggi minori. Oppure c’è un film come Sussurri e grida [di Bergman] in cui i dialoghi sono ridotti al minimo, una caratteristica che io trovo molto interessante. Un altro filone che mi intriga è il “cinema verità”, in cui puoi limitarti a piazzare la macchina da presa in una stanza. Mi piacerebbe sperimentare qualcuna di queste tec­ niche, svincolarmi dalle riprese convenzionali.

Woody realizzerà altri tre film - Crimini e misfatti (1989), Alice (1990), Ombre e nebbia (1992) - prima di Mariti e mogli (anco­ ra 1992), un film girato usando in larga parte la camera a mano, con stacchi e passaggi nervosi, scomposti, da un’inquadratura all’altra, tra una scena e l’altra. Ma ha ancora altre idee.

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WA: Ho appena iniziato a ragionare sul genere di film che mi piacerebbe realizzare. Pensavo a un musical, ma non ne sono sicuro. Ci sono due tipi di musical che mi piacerebbe girare: un pic­ colo musical con canzoni già edite ma anche un musical con un compositore che scriva la colonna sonora completa del film, come Gigi. Se ci fosse qualche possibilità di recitarci, non esite­ rei. Magari, se ci fossero una o due canzoni facili potrei pre-regi­ strarle. Mi chiuderei in una saletta e continuerei a provarle fino a ottenere una versione ragionevolmente accettabile e poi le reciterei in playback. La Keaton ha una voce meravigliosa [come risulta evidente in Io e Annie].

EL: Questi di cui mi parli sono in qualche modo sogni nel cas­ setto. Robert Altman, che in genere dirige film naturalistici, ha dichiarato di essersi ispirato a un sogno per la sceneggiatura di Tre donne [1977]. Ti è mai successo di avere un’idea per un film attraverso un sogno?

WA: Anni fa, quando Altman mi raccontò questo episodio, gli consigliai di chiamare il suo agente, Sam Cohen, e fargli nego­ ziare con la casa di produzione un contratto per tre sogni. Nel mio caso, nulla di quello che ho scritto ha mai avuto nemmeno lontanamente origine da un sogno. Mi piace invece ricorrere ogni tanto a scene oniriche nei miei film perché ti danno la pos­ sibilità di essere molto vivido nella descrizione. Quando ero in analisi mi sforzavo di ricordare i sogni che facevo, ma ho smes­ so di ricordarli da quando mi sono accorto della totale inutilità dell’interpretazione dei sogni... a meno che, ovviamente, uno non sia un faraone.

EL: Altri film, o piuttosto tipi di film, che hai voglia di realiz­ zare?

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I co-protagonisti di Gil (John Wood; Zoe Caldwell; Van Johnson, uno degli idoli d’infanzia di Woody; Milo O’Shea), ancora intrappolati dentro lo schermo, sono prima esterrefatti, poi infuriati per la fuga di Gii, che impedisce la prosecuzione del film. Una delle attrici (Deborah Rush) cerca di seguire Gii ma viene respinta dallo schermo.

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WA: Ho sempre desiderato fare un film su una delle sale cine­ matografiche che frequentavo da piccolo a Brooklyn, incentrar­ ci tutto il film. Davvero, gran parte della mia vita ruotava attor­ no ai cinema di quartiere. Ci portavi le ragazze, ci andavi per conoscere le ragazze, ci andavi per passare a prendere le ragaz­ ze, ci andavi per vedere i film. Ai cinema erano associate solo cose belle, era tutto un altro mondo. In un certo senso avevi la sensazione di entrare in un tempio, perché erano sale grandi, buie e fredde... o calde, a seconda di quello che ci tornava più utile. Era un paradiso. Arrivavi a piedi dalle strade che conflui­ scono sulla Avenue J ma se ci pensi, cos’era la Avenue J? Traffico, una donna con un barile di cetrioli, freddo e pioggia mista a neve. Sborsati i tuoi 20 centesimi, entravi e ti ritrovavi all’improvviso davanti uno schermo enorme su cui vedevi, che so, James Cagney, Betty Grable... E poi c’era il grande chiosco delle caramelle, dove potevi fare rifornimento prima di metter­ ti comodo al tuo posto. Era un vero piacere. Oggi non succede quasi più, i ragazzi affittano le videocassette. I loro ricordi saranno [alza la voce esprimendo finto entusiasmo}". “Era bellis­ simo. Il venerdì sera ci trovavamo tutti insieme, ci mettevamo in ghingheri e affittavamo una cassetta.”

Aprile 2005 Iniziamo una serie di conversazioni con lo scopo di fare il punto sulla sua carriera. Match Point, girato a Londra nell’estate del 2004, è finito da diversi mesi; in maggio sarà proiettato fuori con­ corso a Cannes con enorme successo di pubblico e critica e diven­ terà il suo campione di incassi a oggi. Il film è tra i più tenebrosi mai realizzati da Woody. Come in Crimini e misfatti, un omicidio rimane impunito. EL: Da dove hai preso l’idea per Match Point? 51

WA: Inizialmente mi frullava in testa l’idea di girare un giallo nel quale qualcuno commette un omicidio e, per sviare le inda­ gini, ammazza anche il vicino di casa. La storia si è sviluppata a partire da questo. Pensavo: “Chi potrebbe essere questo tizio?” E poi: “Potrebbe avere una relazione con la donna che vuole uccidere. Lei sarà ricca e perciò lui potrebbe essere un tennista professionista a cui presentano persone facoltose...” Via via la storia è cresciuta da sé. EL: Era un’idea recente o ce l’avevi da tempo?

WA: Era da un po’ che avevo l’idea di girare questo giallo. Ogni tanto mi vengono in mente diverse storie del genere, sto­ rie vagamente poliziesche, e me le appunto. Ci sono due tipi di gialli. Il tipo di storia che leggi in aereo e quella - ma non voglio fare paragoni - in cui l’omicidio viene usato in maniera più pro­ fonda, come in Macbeth, in Delitto e castigo o nei Fratelli Karamazov, in cui il delitto ha anche un significato filosofico, non serve solo come punto di partenza di un’indagine. Ho cer­ cato di dare un po’ di sostanza alla storia in modo che non fosse solo un film di genere. [Chris, un tennista professionista (Jonathan Rhys-Meyers), entra nelle grazie della famiglia di un ricchissimo uomo d’affari e si ritrova a essere l’oggetto dell’affetto della figlia del magnate, Chloe (Emily Mortimer). Pur non amandola, Chris la sposa per assicurarsi una vita di privilegi, ma è ossessionato da Nola (Scarlett Johansson), conosciuta in quanto fidanzata delfratello di Chloe. I due allacciano una torrida relazione amorosa, che viene riattizzata dopo la rottura del fidanzamento di Nola; quest’ultima rimane incinta e pretende che Chris lasci Chloe. Non volendo rinunciare agli agi del suo matrimonio di convenienza, Chris ucci­ de Nola e anche un’anziana vedova vicina di casa della ragazza, appropriandosi dei suoi gioielli per confondere le tracce e far appa­ rire l’omicidio come un furto finito tragicamente. Getta poi i gio­

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ielli nel Tamigi ma non si accorge che la fede nuziale della donna rimbalza contro il bordo del parapetto e ricade sul marciapiede. Quando gli inquirenti scoprono il diario di Nola, Chris viene inse­ rito tra i sospettati. Uno dei detective a cui è affidato il caso si con­ vince della sua colpevolezza, ma è allora che la fede dell’anziana signora viene ritrovata nella tasca di un tossicodipendente con una lunga serie di precedenti penali, che doveva aver raccolto l’anello prima di restare ucciso durante uno scambio di droga fini­ to male. Chris la fa franca.} EL: Il titolo è sempre stato Match Point?

WA: Sì. Era un titolo scontato. Ho recentemente rilasciato un’intervista a un giornalista spagnolo il quale mi diceva che, dopo il film, l’espressione “match point” è entrata nel linguag­ gio comune. Mi ricordo che stavo guardando una partita di ten­ nis alla televisione anni fa e, dopo uno di quei frangenti in cui la palla colpisce il nastro e rimbalza di qua o di là dalla rete, il tele­ cronista commentò: “La partita può essere decisa da un rimbal­ zo favorevole in due o tre punti cruciali. Basta un net a cambia­ re le sorti del match.” Mi è sempre rimasto impresso. Sembra nulla, un punto casuale. La palla colpisce il nastro e ricade al di qua della rete. Eppure può essere decisivo. EL: Il fatto di aver girato il film a Londra ha cambiato l’idea di partenza che avevi per la sceneggiatura?

WA: In passato avevo girato a New York un paio di sceneggia­ ture che non dico di aver odiato ma nelle quali mi sono sentito notevolmente limitato dal budget disponibile. A Londra ho avuto il denaro sufficiente per svolgere un po’ il film, renderlo più armonico, senza doverlo girare con il coltello alla gola. I bud­ get europei oscillano tra i dodici e i quindici milioni di dollari.

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EL: Non era una storia americana, in origine?

WA: Sì, l’ho scritta come storia americana e avevo pensato di ambientarla negli Hamptons ma poi abbiamo raccolto i finan­ ziamenti in Inghilterra. Trasferire la storia a Londra è stato molto semplice. Non era trasferibile in una città qualsiasi, ma con Londra non ho avuto difficoltà. EL: Hai incontrato ostacoli nel maneggiare la materia di una società suddivisa in classi come quella inglese?

WA: Ho scritto la storia e i dialoghi meglio che ho potuto, usando il buon senso, ma se commettevo un errore, Lucy Darwin [uno dei produttori] o il direttore di produzione me lo facevano notare: “Oh, lui non direbbe mai così”, oppure: “Jerry non è un nome inglese, qui da noi suona strano.” Ma è stato facile.

EL: Alcune scene di questo film sono intrise di violenza effe­ rata, anche se sempre implicita, mai mostrata. Due persone ven­ gono ammazzate a sangue freddo con una doppietta e l’omicida la fa franca. Il vecchio Codice Hayes non lo avrebbe mai per­ messo. WA: Già, non avrei potuto girarlo con il Codice retrogrado che un tempo regolava il nostro puritano paese, ma il film non ha alcun rapporto diretto con la realtà del mondo. Certo, anche nella vita molte malvagità rimangono impunite. Da piccolo sen­ tivo dire che il delitto non paga. C’era un bel fumetto intitolato appunto Crime Does Not Pay. Ma a tredici anni io sostenevo che il delitto paga di più della General Motors. Quella del crimine mi sembrava una delle industrie più sviluppate e floride del paese. Il crimine organizzato pagava benissimo, addirittura. I gangster avevano le tasche gonfie di dollari e la stragrande mag­ 54

gioranza di loro commetteva omicidi che restavano impuniti. E non dovevi nemmeno timbrare il cartellino. In ogni caso, no, oggi non abbiamo le pastoie del Codice Hayes. EL: Ora ti aspetta il secondo film consecutivo girato in Inghilterra. Hai già un titolo provvisorio?

WA: Può darsi che si intitoli Scoop. È il terzo film che ho scritto nelle ultime dodici settimane. Ho cominciato scrivendo un film da girare a Londra ma poi, dopo essere arrivato in fondo, ho scoperto che in quella città non esiste il fenomeno che intendevo sbeffeggiare e ho quindi dovuto rinunciare al film. Poi ho buttato giù un’altra idea veloce, una dark comedy su un tizio che ha tentato il suicidio buttandosi dalla finestra ed è rimasto zoppo. Quando però ho consegnato il testo a Juliet Taylor {.responsabile del casting] e a mia sorella perché lo leg­ gessero mi hanno fatto notare che, per quanto la trovassero comica, la storia sarebbe stata percepita come estremamente personale, autobiografica, in un modo che, a loro avviso, era meglio evitare. Secondo loro, il film non sarebbe mai stato giu­ dicato in maniera obiettiva: a prescindere da quanto fosse venuto bene, tutte le attenzioni si sarebbero concentrate su questa sensazione di autoreferenzialità che in realtà non esiste­ va ma che tuttavia avrebbe potuto inficiare il godimento del film da parte del pubblico. Mi sono allora ritrovato senza sceneggiatura a quattro settima­ ne dall’inizio fissato delle riprese. Ho dovuto lavorare come facevo quando ero autore televisivo: chiudermi in uno stanzino, sedermi a tavolino e inventare un copione. Niente perdite di tempo, nessuna concessione ai miei piaceri personali. Non pote­ vo permettermi di andarmene a spasso per la città e aspettare l’ispirazione: dovevo mettermi alla macchina da scrivere, e subi­ to. Così ho fatto. Ho terminato la sceneggiatura un paio di gior­ ni fa e Helen Robin [co-produttrice] la sta ribattendo proprio in 55

questo momento. Lei la corregge, domani io correggo le sue correzioni e poi la consegno.

EL: Scrivi ancora a penna?

WA: Scrivo ancora come ho sempre fatto, prima a mano e poi usando la stessa vecchia macchina da scrivere. Ribatto il testo perché nessuno riesce a decifrare la mia scrittura. Poi lo riguar­ do, in genere lo stravolgo, e lo devo ribattere da capo. Mi lamen­ to ma in realtà la ribattitura non mi dà troppo fastidio, anzi è l’occasione per riascoltare i miei album di Jelly Roll Morton. Le mie due bambine adorano usare la macchina da scrivere. Non fanno che chiedere: “Possiamo scrivere noi? Possiamo scrivere noi?” L’altro giorno stavo riflettendo che quando la comprai per quaranta dollari avevo sedici anni; ora ne ho pra­ ticamente settanta e davanti alla macchina, una Olympia por­ tatile, ci stanno le mie figlie. Non ha nemmeno un graffio, sembra nuova fiammante. [Nez suoi primi anni da autore, non essendo capace di cambiare il nastro, Woody invitata a cena qualcuno che lo sapesse fare. Poi, nel corso della serata, diceva con nonchalance: “Oh, a proposito, non è che mi daresti una mano...?"} EL: Anni fa mi facesti vedere un sacchetto di carta pieno di idee e sceneggiature incompiute che conservavi nel cassetto della tua scrivania. Ce l’hai ancora? In Io e Annie Woody impiegò diverse tecniche cinematografiche, tra cui lo split screen, lo sdoppiamento dei personaggi e i sottotitoli dei pensieri, ben diversi da ciò che gli attori dicono ad alta voce. Mentre fa l’amore con Alvy, Annie (Diane Keaton) si distacca dal letto e osserva lui che parla con la propria versione incorporea. Nel film, Diane Keaton seguì il suo gusto personale nel vestiario, imponendo un nuovo stile che sarà ampiamente imitato. [Lui: “Non so cosa dico. Si è accorta che sono un bluff." Lei: “Non sei abbastanza intelligente per lui. Tieni duro."]

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WA: Sì, ma ho tolto i fogli dal sacchetto marrone in cui stava­ no. Adesso è un fascio di carte sciolte che tengo assieme con una graffetta. Lo sfogliavo in continuazione mentre cercavo di farmi venire un’idea per questo prossimo film. In effetti il film mette insieme due idee ripescate dalla mia riserva. EL: Io e Annie è il film in cui hai iniziato a far parlare gli atto­ ri fuori campo, lasciando l’inquadratura vuota, lo schermo nero. Mentre Alvy [Singer, il personaggio di Woody} e Annie [Diane Keaton] chiacchierano, a un certo punto inserisci i sottotitoli di ciò che stanno pensando nel frattempo. In un’altra scena, lei si “estranea” e osserva il proprio corpo che fa l’amore con Alvy...

WA: Esatto. È una storia in cui ho potuto dar fondo agli stru­ menti della regia. Il cinema è l’unico mezzo che ti permette di usare quel genere di comicità avendo tutto già scritto nella sce­ neggiatura. In origine, come ti ho detto, fu scritta come se la vicenda si svolgesse nella mente del protagonista. Sfrutta le pos­ sibilità del mezzo non diversamente da come un western sfrut­ ta la libertà del cinema. EL: Tutte queste soluzioni erano già presenti nella storia ori­ ginaria? C’era già anche il flusso di coscienza di Alvy sulla sua incapacità di provare piacere, prima che il film diventasse la sto­ ria della relazione tra lui e Annie?

WA: Sì. È tutta farina del sacco mio e di Marshall Brickman [co-sceneggiatore]. EL: Il finale è proprio dolceamaro. Il loro è un bellissimo rap­ porto ma rimanere amici anziché stare insieme per Alvy è un ripiego. [Il film termina con la scena in cui un attore e un’attrice che somigliano ad Alvy e Annie provano la scena conclusiva di una pièce teatrale, il classico lieto fine con la coppia che si riunisce. 58

Mentre gli attori si abbracciano, la macchina da presa stacca su Alvy che guarda in camera e dice: “Be’, che volete? Era la prima comme­ dia. Sapete come si cerchi di arrivare alla perfezione almeno nell’ar­ te perché è talmente difficile nella vita. ” In seguito Alvy e Annie si incontrano per caso, e il momento è accompagnato da un collage di scene tenere e comiche tra i due. Si lasciano da amici, e Alvy anco­ ra una volta si rivolge al pubblico: “Mi resi conto che donna fanta­ stica era e di quanto fosse stato divertente solo conoscerla. Pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va da uno psi­ chiatra e dice: ‘Dottore, mio fratello è pazzo. Crede di essere una gallina. ’ E il dottore gli dice: ‘Perché non lo interna?’ E quello risponde: ‘E poi a me le uova chi me le fa?’ Be’, credo che corrispon­ da molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi, ma credo che con­ tinuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.”} WA: Con quel finale balbettammo, feci molta fatica. C’erano molte scene e molte idee diverse. Dai e dai, arrivai a quello, per tentativi. Da un punto di vista freudiano si potrebbe conclude­ re che gli uomini accettano di affrontare le difficoltà delle rela­ zioni amorose solo perché hanno bisogno di uova. O di ovaie. EL: Da un punto di vista drammatico, è un finale migliore rispetto a un convenzionale lieto fine. WA: Non mi viene spontaneo pensare a un lieto fine. A meno che non scaturisca in maniera organica dalla storia.

EL: Questo però sembra un film che normalmente richiede­ rebbe un lieto fine. WA: Non l’ho mai immaginato con un lieto fine. Già inizial­ mente, quando lo avevo concepito come giallo, nel finale i due protagonisti si incontravano, ripercorrevano la loro relazione su 59

un collage di immagini e poi andavano ognuno per la propria strada. Era nato come giallo, quello che [quasi ventanni dopo] diventerà Misterioso omicidio a Manhattan [1993]. EL: Per un po’, in una seconda fase, si incentrava invece sul­ l’incapacità di Alvy di provare piacere. Il titolo provvisorio era Anedonia.

WA: All’inizio l’idea era di usare il flusso di coscienza di Alvy come filo conduttore del film, ma quando Marshall vide il mio primo cut con Ralph Rosenblum [il montatore] gli parve poco comprensibile. E lui era il co-sceneggiatore! Fu una critica acuta. Così lavorammo per renderlo più logico. EL: La scena delle aragoste, quando Alvy e Annie ridono men­ tre sono alle prese con le aragoste ancora vive che vogliono pre­ parare per cena, funziona davvero bene nel collage finale. Non aveva strettamente bisogno di sonoro. Era stata sceneggiata?

WA: Sceneggiata solo nel senso che la scena era contenuta nel copione, ma mancavano i dialoghi. Poi facemmo sette, otto ciak

Prime riprese di Io e Annie, con risa spontanee di Annie e Alvy in difficoltà con la loro cena. “Parlaci tu, che conosci il crostaceo," suggerisce Alvy a Annie dopo che un’aragosta si e infilata dietro il frigorifero.

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- fu la prima scena che girammo, la mia prima scena in assolu­ to con Gordon Willis [il direttore della fotografia} - e in uno dei ciak dovemmo interrompere per un mio attacco di ridarella. La Keaton mi fa sempre ridere. Visionando i giornalieri mi accorsi che non avevo mai lavorato con un direttore della fotografìa tanto bravo. Rimasi colpito dal ciak interrotto e capii che avremmo usato quello. Mai riso tanto in vita mia. Ed è una delle scene migliori del film grazie alla sua sincera spontaneità. Il film nacque sotto ima buona stella. EL: È spontanea e naturale, indice di un rapporto autentico. Molte delle soluzioni che adotti nel film rappresentarono un grosso salto in avanti per te...

WA: Sì, un grosso salto... EL: ... nel senso della libertà creativa di usare i sottotitoli, lasciare lo schermo vuoto o addirittura nero.

WA:... perché era la storia vera di persone vere. Non era come Amore e Guerra [una farsa ambientata nella Russia di epoca napo­ leonica} o Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. Era reale e per di più lavoravo con un direttore della fotografìa che aveva molto da insegnarmi. Fu un’esperienza estremamente positiva anche se non tutto filò liscio. Dovemmo ripetere molti ciak e avemmo un sacco di grane verso la fine... non solo per il finale ma anche in fase di montaggio con Ralph Rosenblum. EL: Puoi fare qualche esempio? WA: Non ricordo il film molto bene ma quando Marshall disse che lo trovava incongruente tornammo sui nostri passi, introducendo un mucchio di cambiamenti ed eliminando alcu­ ne cose. Per esempio, facevo una battuta sul fatto che Annie 61

vivesse con uno della California ma né io né Ralph sentivamo che fosse sufficiente a giustificare ciò che succedeva in quel momento. Passai allora quattro settimane a girare tutta una serie di scene alternative. Solo che poi non ne usammo nemme­ no una. Scegliemmo l’originale. (Gente che va e viene sul marciapiede mentre Alvy esce da un negozio e si porta in primo piano. Alvy: (In camera, rivolto al pubblico) Mi manca Annie. Ho com­ messo un errore mostruoso. Una coppia che cammina per strada siferma e l’uomo si rivolge ad Alvy. Uomo-, Annie vive a Los Angeles con Tony Lacey. Alvy: Ah, sì? Davvero? Che vada al diavolo. Se le piace quello stile di vita, resti dov’è. Lui è un idiota, tanto per cominciare. Uomo: È laureato a Harvard. Alvy: Sì, potrà. Anche Harvard fa i suoi sbagli, sa? Ci insegnava Kissinger... La coppia si allontana mentre una donna anziana si avvicina ad Alvy. Donna: Non mi dica che è geloso. Alvy: Sì, sono geloso un pochette. Come Medea. Aspetti, posso farle vedere una cosa? (Estrae un piccolo oggetto dalla tasca.) Ho qui... ecco, questo l’ho trovato in casa sua. È sapone nero. Lei ci si lavava la faccia. Ottocento volte al giorno col sapone nero. Non mi chieda perché. Donna: Ma scusi, perché non va con altre donne? Alvy: Be’, ho tentato ma... lei capisce... è molto deprimente.] EL: La Keaton che canta “Seems Like Old Times” è davvero incantevole. Era previsto fin dall’inizio che cantasse? WA: Sì, da sempre. Sapevo che era molto brava e che la can­ zone sarebbe stata benissimo nel film.

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EL: Non credo che abbiamo mai parlato del suo celebre aspetto trendy che viene fuori dal film.

WA: È proprio il suo look. Si vestiva così. È sempre stata eccentrica e creativa nell’abbigliamento. La costumista veniva da me e mi diceva [quasi bisbigliando]'. “Non le faccia indossa­ re quella roba.” E io rispondevo: “Mi sembra che le stia benis­ simo. Ha un aspetto incantevole.” Ovviamente gliela lasciavo indossare.

EL: Te lo proponeva lei? Ti diceva: “Lasciami vestire così?” WA: Non erano richieste formali. Nel corso degli anni, sia nel cinema che in teatro, avevo avuto modo di vedere attrici adora­ bili che arrivavano al lavoro ed erano bellissime nei loro vestiti, ma quando indossavano il costume di scena risultavano tremen­ de, tipo le amiche di mia madre. Mentre recitavo in Provaci ancora, Sam a Broadway, nel cast c’erano sette, otto donne, com­ presa la Keaton. Alcune di loro erano bellissime, arrivavano e ti facevano girare la testa, poi si cambiavano, indossavano i vesti­ ti che erano stati scelti per loro... ed erano inguardabili. Dopo lo spettacolo rientravano in camerino per cambiarsi, indossava­ no i loro cappelli di lana, le loro minigonne, e tornavano a esse­ re delle stangone. Ecco perché ho sempre avuto grande fiducia nella scelta dell’abbigliamento da parte delle attrici, specie quel­ le affermate, come la Keaton, che faceva sempre strabuzzare gli occhi a tutti per come si vestiva. Metteva gli abiti di tutti i gior­ ni e faceva tendenza, volevano tutte vestirsi come lei.

EL: Insomma, Io e Annie sembra un bel sequel di Manhattan. WA: Di Manhattan io e Gordon parlammo negli Hamptons diverse volte a cena mentre giravamo Interiors. All’epoca aveva­ mo l’abitudine di mangiare sempre tutti insieme. Avevo voglia 63

di girare un film in wide-screen, ma non un film di guerra o di altri generi tipici da wide-screen, bensì un film intimo e roman­ tico da adattare al formato. E volevamo lavorare in bianco e nero perché faceva molto Manhattan. Avevo acquistato le registrazioni di Michael Tilson Thomas delle ouverture di Gershwin e continuavo ad ascoltarle sotto la doccia pensando: “Mio Dio, ci vorrebbe proprio una bella scena per questo brano o per quest’altro.” Così cominciai a ela­ borare la storia insieme a Marshall Brickman. All’inizio, tuttavia, non pensavo di usare Gershwin. La prima stesura prevedeva che la musica di sottofondo della scena di apertura fosse Bunny Berigan che faceva “I Can’t Get Started”, un brano che passava diverse volte ogni sera nel juke-box da Elaine’s [il celebre ristorante di Manhattan frequentato dalle star]. E si partiva con un’assolvenza sull’insegna del ristorante. Dopo aver realizzato il collage di immagini iniziale, Sandy [Susan E., la montatrice] Morse mi disse: “Qui ci vedo proprio ‘Rhapsody in Blue’.” Così lo riguardai con “Rhapsody in Blue” in sottofondo e dissi: “Ma certo, ci starebbe benissimo.” E aggiunsi: “Allora dovremo fare tutto Gershwin. Chiamiamo la New York Philarmonic e facciamo tutto Gershwin.” E così andò. Era un film romantico, con una fotografia stupenda. Mi diver­ tii molto a lavorare con Mariel [Hemingway]. È una persona meravigliosa e una grandissima attrice. EL: Ricordo che ero con te mentre missavi un film preceden­ te in quella topaia di Broadway. Mi assentai per quindici o venti minuti e, tornato nella saletta, tu mi guardasti come si guarda l’ultimo dei tapini e mi dicesti: “Sai, ti sei appena perso Mariel Hemingway” WA: [Sorride.] Avevamo un appuntamento. Si presentò con la sua fidanzata. La volevo nel film - l’avevo vista in Stupro [1976] 64

- ma dovevo incontrarla di persona una volta solo per verifica­ re che fosse adatta. Fece un salto al volo e avemmo tutti l’occa­ sione di salutarla. Una ragazza meravigliosa e solare oltre che un’attrice fantasti­ ca. Mi faceva sembrare un nano. [Manhattan (1979) è la storia di Isaac Davis (Woody), un auto­ re televisivo la cui moglie (Meryl Streep) lo ha lasciato per un’al­ tra donna. Lui ora frequenta Tracy (Hemingway), una diciasset­ tenne dell’alta società ma molto dolce, che lo ama. Lui la adora ma sente che la storia non ha futuro. Incontra Mary (Diane Keaton), l’amante di un uomo sposato nonché migliore amico di Isaac, Yale (Michael Murphy), docente universitario con ambizio­ ni da scrittore. Ike si innamora di Mary ma, quando Yale decide di lasciare la moglie Emily per lei, quest'ultima decide di rompe­ re con Ike. Intanto Tracy, che la vita conduce per altre strade, si appresta a trasferirsi in Inghilterra per un periodo di studi. Proprio mentre la ragazza sta per partire, Ike si accorge, ormai troppo tardi, a cosa ha rinunciato.] EL: In Ike alla fine c’è la consapevolezza di aver fatto una fol­ lia rinunciando a Tracy per la più intellettuale e vissuta Mary.

WA: Trovavo buffa l’idea che quest’uomo, adorato da una ragazza giovanissima, pura, pulita, mandasse a monte tutto quanto. Una delle critiche mosse al film, non universalmente condivi­ sa ma tirata spesso in ballo, era: “Chi sono queste persone? Non le riconosco. Questi non sono i newyorchesi che conosco io.” Non nego che la critica possa avere un suo fondamento ma, per non so quale motivo, il film ebbe un’enorme risonanza e succes­ so in tutto il mondo. Fui il primo a esserne stupito. Potrebbe essere assolutamente vero che non siano persone reali, così come le rappresentazioni di Manhattan che ho propo­ sto non sono necessariamente reali, ossia naturalistiche. 65

Evidentemente, però, c’era qualcosa nei personaggi di Manhattan che ha fatto presa dappertutto, in Francia, Giappone, Sud America...

EL: Ci furono molti commenti sulla differenza di età tra Ike e Tracy?

WA: Non da parte dei critici, ma a una parte del pubblico diede fastidio. Personalmente, ho dato a questi rilievi lo stesso peso che ho dato alle critiche sulla mia relazione con Soon-Yi. Se due persone sono felici l’uno con l’altra, sono felici e basta. Mi sembrava comunque un buon espediente narrativo... e infat­ ti lo era. A proposito di Soon-Yi, è curioso che il mio matrimonio con lei sia sembrato a molti completamente irrazionale. Dal mio punto di vista, invece, è l’unica relazione della mia vita che abbia funzionato: siamo ancora qui tanti anni dopo e siamo feli­ ci, con due bambine meravigliose. [La moglie di Woody, Soon-Yi Previn, è la figlia adottiva di André Previn e Mia Farrow, che divorziarono nel 1979. L'anno seguente Woody allacciò una rela­ zione con Mia, che fu protagonista di tutti i suoi film per i dodici anni successivi. Mia adottò una bambina, Dylan (oggi nota con il nome di Malone Farrow), che Woody co-adottò due anni dopo. I due ebbero anche un figlio, ma non si sposarono mai né convive­ vano stabilmente. La relazione finì in concomitanza con l’inizio di quella tra Woody e Soon-Yi nel 1992.] EL: Quale fu la genesi del film? Mi hai detto una volta che volevi girare un film che celebrasse Manhattan.

WA: Il film nacque da una chiacchierata con Marshall Brickman. Volevo mostrare la città per come la sentivo io. Mentre parlavamo dissi qualcosa del tipo: “Non sarebbe diver­ tente se a me piacesse una ragazza molto, molto giovane e la 66

Keaton interpretasse la parte di una tronfia pseudo-intellettua­ le?” Marshall si immaginò una scena e cominciò a improvvisa­ re, io gli andai dietro e la sviluppai, lui a sua volta prese spunto da me e la sviluppò ulteriormente... è così che si collabora. Andavamo avanti scambiandoci battute e controbattute, inter­ pretando ciascuno un personaggio, e alla fine venne fuori una storia. EL: Incontrasti gli stessi problemi di Io e Annie o Manhattan filò più liscio?

WA: No, no, ci furono dei problemi. EL: Tipo?

WA: I soliti problemi degli autori minori [ride], ossia il fina­ le... Proprio la fine, quel paio di riprese erano sempre le stesse, ma mancava un climax dopo che entravo nell’aula del tizio e lo affrontavo [Ike e Yale sono entrambi innamorati di Mary], mi sfuggiva sempre. Non avevo un buon finale per il film. Mi ricor­ do che lo vide la moglie di Marshall - non sono sicuro che fos­ sero sposati all’epoca - e disse: “Quello che manca è una scena in cui i nodi vengono al pettine.” [Dopo che Mary dice a Ike che Yale sta per lasciare la moglie per lei, Ike piomba nell’aula di Yale e lo affronta. Lungo una parete ci sono diversi scheletri umani e di scimmie. Dopo qualche scam­ bio di battute su Mary e su chi avrebbe dovuto essere sincero con chi, i due vanno al nocciolo della questione. Yale: Be’, non sono un santo, va bene? Ike: [Gesticolando, urtando quasi uno degli scheletri] Ma sei trop­ po permissivo con te stesso. Non lo vedi che tu non... è il tuo problema, è lì il tuo problema. Tu razionalizzi tutto. Non sei sincero con te stesso. Continui a dire che vuoi scrivere un libro, ma alla fine preferisci comprare la Porsche. Tradisci un 67

In Manhattan, Yale (Michael Murphy) e Ike (Woody) discutono animatamente della loro attrazione per la stessa donna in un’aula universitaria. Gli scheletri erano lì per caso e la battuta di Woody: “Ma sai che un giorno saremo... saremo uguali a lui?” fu frutto di improvvisazione.

tantino Emily, meni il can per l’aia con me... prima di accor­ gertene sarai davanti a una commissione del Senato e farai dei nomi. Denuncerai tutti i tuoi amici. Yale: (Reagendo) Senti, sei così farisaico... noi siamo persone, solo esseri umani, sai? Tu ti credi Dio! Ike: Io... io... a qualche modello dovrò pur ispirarmi! Yzvle: Senti, non si può vivere come vivi tu, sai? Esigendo la per­ fezione! Ike: Gesù, ma che cosa diranno mai le generazioni future di noi? Mio Dio! (Indica lo scheletro, finalmente accorgendosi della sua presenza.) Ma sai che un giorno saremo... saremo uguali a lui? Be’, lui forse era un VIP, lui forse ballava... giocava a tennis... E adesso? (Indicando di nuovo lo scheletro.) Guarda qui come ci riduciamo! Sai, è molto importante avere... avere una spe­ cie di integrità personale. Sai, forse un giorno appenderanno anche me in un’aula e voglio essere sicuro che quando sarò... all’osso, verrò ben giudicato! (La macchina da presa rimane sullo scheletro, mostrandolo nella sua interezza mentre prima Ike e poi Yale escono.)]

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EL: Parliamo un po’ di Radio Days, che mi è sempre sembra­ to uno dei tuoi film più personali.

WA: Un film girato assolutamente per sfizio e piacere perso­ nale. Volevo realizzare un film composto interamente di scene basate sul ricordo delle canzoni della mia infanzia, come “Begin the Beguine” di Artie Shaw o “Pistol Packin’ Mama” e “Mairzy Doats” di Bing Crosby. Quel genere di nostalgia; il piacere per­ sonale che si prova ricreando le atmosfere della propria infan­ zia. Sai, qualcuno deposita venti milioni di dollari in banca quale che fosse il budget, quindici, sedici milioni - e ti dà l’op­ portunità di ricreare la tua infanzia, o almeno un facsimile. Non è esattamente la mia infanzia ma il film contiene molti aspetti della mia infanzia che mi tornarono in mente e che inserii per puro divertimento. EL: Per esempio scene di vita vissuta nella tua famiglia.

WA: Sì, una parte della vita di casa rispecchia la mia. Abbiamo sempre vissuto con i parenti e le serate erano come si vedono nel film. Si ascoltavano le notizie di guerra alla radio mentre mio zio e mio padre oppure le mie zie e mio padre giocavano a ramino, mia madre faceva la maglia... la radio era sempre accesa, e al giornale radio delle sette o delle nove ascoltavamo le ultime dal fronte. Tra un aggiornamento e l’altro c’erano tutte queste trasmissio­ ni che io ricordo come meravigliose, anche se non lo erano. Spesso, quando mi ritrovo con persone della mia età, qualcuno dice: “La radio era un mezzo molto migliore della televisione, la televisione è insipida, con la radio dovevi usare la fantasia.” Allora qualcun altro tira fuori un cofanetto e mi fa riascoltare The Shadow o altre vecchie trasmissioni radiofoniche... e le trovo veramente brutte. Tranne Jack Benny che, a riascoltarlo oggi, è ancora godibilissimo. Che autore comico, e che intratte­ nitore era... 69

EL: Perciò è un po’ il contrario di quello che a volte ti succe­ de con i film, ossia che ti piacciono di più quando li rivedi in televisione rispetto alla prima volta al cinema. Qui invece si trat­ ta di trasmissioni che adoravi alla radio ma che a decenni di distanza ti deludono. WA: Le riascolti e ti rendi conto di quanto fossero brutte. Benny invece! Mi hanno regalato una meravigliosa cassetta di Jack Benny ed Ernst Lubitsch come ospite... trasmissione sem­ plicemente meravigliosa e divertente. Non si poteva essere più divertenti. [Radio Days è una storia sul potere dell’immaginazione e dei ricordi. Woody è la voce narrante ma non compare nel film che, usando come filo conduttore la musica e le voci della radio dei primi anni quaranta, affastella i desideri d’infanzia di un bambi­ no e le strampalate storie che si raccontano nella sua famiglia. Così come ogni suggestione scatena la fantasia del bambino, si scopre che dietro le voci della radio ci sono persone reali, con le loro incongrue vite e aspirazioni.] EL: La supplente sexy di Radio Days si ispirava a una persona reale?

WA: No, totalmente inventata. Anzitutto, nessuna maestra che abbia mai varcato la soglia della Public School 99 aveva un aspetto, che so, da bagnina di un parco acquatico. Con una sup­ plente la disciplina andava a farsi friggere, era un giorno di vacanza inatteso. Da questo punto di vista la scena è fedele, ma di insegnanti avvenenti nemmeno l’ombra. EL: Nonostante fosse soltanto a quaranta minuti di metropo­ litana, Midtown Manhattan doveva sembrarti un mondo com­ pletamente diverso rispetto a Brooklyn.

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WA: Esatto. Era un tragitto molto piacevole. Compravi il gior­ nale, salivi sul treno e in trentacinque, quaranta minuti eri arri­ vato. In realtà a Manhattan arrivavi in venti minuti ma dovevi scarpinare verso nord fino alla Quarantaduesima Strada prima che cominciasse a essere davvero Manhattan. La differenza era semplicemente stupefacente. Brooklyn non era male, te ne rendi conto adesso che la stanno risistemando. Le case in vendita in Park Slope o quelle fronte mare sono assolutamente fantastiche. Ma all’epoca la differenza non con­ tava: abitavi a Brooklyn e ti stava bene così. Quando però arri­ vavi a Manhattan, era un’esplosione di immagini che conosce­ vi soltanto attraverso i film di Hollywood. Perché quando si varcava “il confine” - specie alla mia età - l’unica cosa che si poteva fare era passeggiare in Park Avenue o sulla Quinta Avenue o in Times Square o in qualsiasi altro posto... mica potevi entrare da qualche parte. L’unico strumento che ti por­ tava dentro gli appartamenti, gli attici, i night-club erano i film. Quando perciò arrivavi a Manhattan sapevi, guardando i palazzi della Quinta Avenue o di Park Avenue, che se solo aves­ si avuto a disposizione una macchina da presa avresti scoperto una tresca clamorosa nell’appartamento A o un paroliere che scriveva il prossimo musical di Broadway nell’appartamento B, mentre spostando l’obiettivo sull’appartamento accanto avresti trovato una giovane modella appena arrivata a New York, in procinto di innamorarsi della persona giusta e fare scalpore nel mondo della recitazione. Da bambino credevi a tutto quello che il cinema ti faceva vedere... ecco perché Manhattan era proprio un altro mondo.

EL: L’altro giorno mi hai raccontato che tuo padre ti portava in città e passeggiando ti faceva da cicerone, ti descriveva gli edifici come erano una volta. Quanti anni avevi?

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WA: Era durante la Seconda guerra mondiale, quindi avevo sei o sette anni. Dalla stazione mi portava in Avenue J, a Brooklyn, e da lì entravamo a New York. Andavamo all’Automat, al Circle Magic Shop che aveva un grande luna park a piano terra. Oppure andavamo al luna park della Quarantaduesima... mio padre adorava il tiro a segno. Era stra­ biliante. Di rado andavamo al cinema, molto di rado. EL: Sapevi che in quel periodo tuo padre faceva il tassista? Mi viene in mente la scena toccante di Radio Days in cui il bambi­ no, salendo sul taxi, rimane di stucco nel vedere che al volante c’è suo padre. H quale è chiaramente in imbarazzo.

WA: No, non Io sapevo. Quell’episodio non rispecchia la real­ tà al cento per cento. Quando chiedevo ai miei che lavoro facesse mio padre otte­ nevo ogni volta una risposta diversa, perché lui era uno che cambiava spesso lavoro. Mi dicevano: “Tuo padre ha fatto for­ tuna”, “È in affari.” Non riuscivo mai ad avere una risposta chiara. So che, tra i tanti lavori, era stato titolare di una specie di negozio di alimentari. E aveva fatto l’allibratore. Ehm, per conto di Albert Anastasia, il boss. Aveva lavorato anche in una sala da biliardo, prima di gestirla lui stesso. Un giorno esco dal cinema con i miei amici e vedo passare un taxi. Al volante c’era mio padre, col cappello da tassista [ride]. A me non diede fastidio, lui invece era un po’ in imbarazzo. Gli chiesi: “Cosa fai?” E lui: “No, niente, sto solo facendo un favo­ re a un amico.” Per me non faceva alcuna differenza, tassista o direttore di banca era lo stesso. La cosa non mi disturbava affatto. EL: Un bel cambio di atmosfera si verifica quando il bambino viene inseguito dai genitori che lo vogliono picchiare ma all’im72

prowiso rimangono tutti senza parole per l’edizione straordina­ ria del giornale radio che dà notizia della bambina caduta nel pozzo. WA: Be’, l’episodio in sé è inventato, nonostante avessimo in effetti sentito una notizia simile alla radio, come tante famiglie. Fu una storia che commosse l’America. E tante volte ero stato inseguito per casa. Una volta proprio perché avevo macchiato il cappotto della mamma con il Piccolo Chimico, come nel film. Inventata di sana pianta è invece la parte in cui il bambino va in giro con la zia quando si avvicina la nascita della sua sorelli­ na. Quando la mamma era in ospedale per partorire io andavo in giro con mio padre. Le facemmo visita solo dopo il parto, poi mio padre mi portò a Manhattan. Non ricordo se andammo al cinema o in un museo di guerra simile a quello che si vede nel film... navi da guerra e armi. Mi comprò anche... non un Piccolo Chimico, era in realtà un kit dell’FBI per prendere le impronte digitali. Mi faceva sempre regali, ero viziato. Da piccolo mi piacevano molto le scienze. Una volta i miei dovettero ricoverarmi un paio di giorni in ospedale per farmi fare dei test antiallergici. Esperienza sgradevole, due giorni d’inferno. Avevo sempre desiderato un Piccolo Chimico ma secondo i miei maneggiare sostanze chimiche era pericoloso. Immagino però che mio padre si sentisse talmente in colpa per le mie sofferenze e per quei giorni che avevo dovuto trascorre­ re in ospedale che l’indomani corse a comprarmi un Piccolo Chimico da quaranta dollari, il modello più caro. È un tipico esempio di come si possano prendere episodi del­ l’infanzia mai realmente accaduti come appaiono nel film, o addirittura nemmeno lontanamente simili, e usarli non in senso autobiografico ma per il loro valore intrinseco. Se guardi Radio Days, mia zia mi porta in città con il suo fidanzato e io li guardo ballare. È un episodio mai accaduto, mai stato da nessuna parte con mia zia e chissà quale fidanzato. 73

Sono rapporti completamente inventati, puri espedienti dram­ matici. Sì, i miei mi rincorrevano per casa ma la circostanza non aveva nulla a che fare con la storia della bambina caduta nel pozzo... Kathy Fiscus o come si chiamava. [Nel 1949 la piccola Kathy Fiscus, di tre anni, cadde in un pozzo artesiano nel sobbor­ go di San Marino, presso Los Angeles. La vicenda tenne i radioa­ scoltatori americani incollati agli apparecchi per tre giorni mentre i soccorritori tentavano, invano, di salvarla.] Mi baso su informazioni reali dell’epoca ma il film non è, e lo ripeto, autobiografico. Sono episodi notevolmente gonfiati a beneficio della storia. EL: Non pensavo a una verosimiglianza assoluta.

WA: Ma il pubblico sì. EL: Già. Invece mi stai dicendo che prendi alcune cose vere e poi le rielabori completamente. E come cogliere un fiore, poi un altro, poi un altro, e ritrovarsi alla fine con un bouquet. Oppure, partire da un aneddoto, aggiungere una serie di detta­ gli e ritrovarsi con una sceneggiatura.

WA: Esatto. Nemmeno, tra parentesi, ho mai vissuto con i nonni. Sono rimasto a dormire da loro solo una volta. Praticamente vivevamo sempre con dei parenti ma erano una zia o uno zio. I miei nonni vivevano nella stessa strada ma in un’altra casa con altre zie. Insomma, il film è un insieme di varie cose. EL: Ricapitolando, in Radio Days hai usato la musica che evo­ cava quegli anni e raccontato una parte importante della tua vita, solo che, trattandosi della tua infanzia, hai dovuto basarti sul ricordo di certi episodi e sulle tue fantasie di bambino.

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WA: È una questione di atmosfera, il divertimento del film sta tutto qui. Non ha una trama complessa e impegnativa, è un insieme di aneddoti che ricreano l’atmosfera di quello che face­ vano i bambini quando ero piccolo... andavamo in spiaggia in cerca di sottomarini tedeschi. EL: Ne hai mai avvistato uno? WA: No, mai visto sottomarini tedeschi. La verità è che scru­ tavamo il cielo, tutti i bambini erano invitati a farlo in cerca di eventuali aerei. Si potevano persino acquistare dei giochi che illustravano il profilo degli aerei nemici in modo che potessimo identificarli. Quando vivevo a Long Beach [a Long Island, pochi chilometri a est di Brooklyn] andavamo in spiaggia tutti i giorni dopo la scuola - ma non armati di binocolo come nel film - ed è plausibile che qualcuno un giorno abbia guardato il mare dicendo: “Porca paletta, e se adesso avvistassimo un sottomari­ no tedesco, o un incrociatore? Voi cosa fareste?” In realtà scrutavamo il cielo, era un’abitudine piuttosto comu­ ne.

EL: Lo facevate perché eravate preoccupati o perché era divertente? WA: Lo facevamo perché volevamo partecipare al patriotti­ smo dell’epoca e questa attività di vedetta aveva come una pati­ na di ufficialità, ci sembrava di dare il nostro contributo alla lotta contro il nemico. Chissà, avremmo potuto avvistare un aereo tedesco e [ride] segnalarlo. La gente veniva mobilitata in questo senso; sono sicuro che fosse incoraggiata anche a scen­ dere in spiaggia e osservare, sebbene non ricordi questo parti­ colare aspetto della comunicazione di propaganda. Mi ricordo invece che raccoglievamo la latta. [/ metalli venivano riciclati per sostenere lo sforzo bellico.] Su quello insistevano parecchio. 75

EL: A quella età eri già appassionato di musica? WA: Sì, della musica in voga all’epoca. Possedevo dischi - i primissimi e fragili 78 giri in gommalacca - e un Victrola a cui tenevo molto. Era ancora uno di quei grammofoni a manovella inseriti nel loro mobiletto.

EL: Ne avevi uno in camera, giusto? WA: Sì, ne avevo uno quando ero molto piccolo. Avevo otto anni quando nacque mia sorella e ricordo che il mio grammofo­ no era di molto precedente. Ricordo i dischi antitedeschi duran­ te la guerra... era il 1941 o il 1942.

EL: Cos’altro ricordi della musica?

WA: Era in gran parte ottima musica. Il sabato sera accende­ vi sulla Hit Parade e sentivi Benny Goodman, Frank Sinatra, artisti di quel calibro. Oppure ti potevi sintonizzare su MakeBelieve Ballroom, che trasmetteva buone canzoni di buoni can­ tanti. Non suonavo seriamente nessuno strumento. Cominciai con il violino ma smisi. EL: Tornando per un attimo a tuo padre, il rapporto che avevi con lui sembrerebbe ottimo, perlomeno durante le vostre pun­ tate a Manhattan.

WA: Oh, sì. Spesso capita di sentir dire da un anziano: “Ero felice ma non lo sapevo”, oppure: “Ero povero ma non lo sape­ vo.” Ed è vero. Per quanto potevo saperne io, non abbiamo mai corso il rischio di saltare un pasto o di non riuscire a pagare l’af­ fìtto o che a me mancassero i vestiti. Ho sempre avuto con mio padre un rapporto migliore, nel senso di più amichevole, rispet76

to a quello con mia madre. Mia madre era fissata con la discipli­ na ed era quella che si occupava di portare avanti la baracca. Con mio padre potevo parlare di baseball, di gangster, di tutti gli argomenti che mi interessavano. EL: Ti disse mai che lavorava per Anastasia? WA: No, mai. Non c’era da vantarsene, all’epoca. Lavorava per lui già prima che io nascessi e la circostanza aveva rischiato di far saltare il matrimonio con mia mamma. Lavorava per gli allibratori e doveva passare tutte le estati a Saratoga, all’ippo­ dromo, per raccogliere e pagare le scommesse. A mio padre pia­ ceva un sacco perché, sai, guadagnava una diaria più le mance, per non parlare del fatto che era un lavoro divertente. Finché un giorno suo padre gli spiegò che sarebbe finito male se avesse continuato su quella strada. Questo lo seppi molto dopo.

EL: Interessante. WA: Sì, sì. Mio padre ha avuto ima vita molto interessante. A sedici anni aveva abbandonato la scuola per arruolarsi in mari­ na, e in Europa ebbe l’occasione di conoscere il mondo... andò in Russia, in tutta Europa, assistette all’esecuzione di condanne a morte... la sua nave fu colpita da una bomba - o si verificò una qualche esplosione, non ricordo - al largo delle coste della Florida e l’equipaggio fu costretto a raggiungere la terraferma a nuoto. Ce la fecero solo in tre. Uno di questi era mio padre. All’epoca fu una storia che finì sui giornali. Era un asso del minibowling - birilli piccoli, palla piccola tanto che una volta affrontò il campione dello Stato di New York, Mel Luff. Era anche un bravo giocatore di biliardo. Molti anni dopo giocai una partita con lui, era molto più bravo di me. Aveva fatto persino la mascotte per i Brooklyn Dodgers. Era cresciuto in anni in cui Brooklyn era tutto terreno agricolo. Alla 77

fine della Prima Guerra Mondiale suo padre gli regalò questa automobile favolosa con la quale girò tutta l’Europa. Era un personaggio colorito, da quel punto di vista. Pare che suo padre fosse una persona colta e intelligente, che aveva l’ab­ bonamento per l’opera ed era capace di sorbirsi una traversata adantica per andare in un ippodromo europeo. EL: E tuo nonno perse tutto con la Grande Depressione? WA: La Grande Depressione lo mise sul lastrico. Possedeva molti cinema, compreso il Midwood Theater a Brooklyn, e li perse tutti. Fu allora che la mia famiglia divenne povera in canna.

Settembre 2005

Woody ha finito di montare Scoop - anche se in seguito appor­ terà qualche piccola correzione - e me lo farà vedere tra un paio di giorni. Nell’immediato futuro dovrà scegliere l’idea di fondo del progetto successivo, compito difficile perché non sa ancora dove saranno effettuate le riprese. Dopo l’inattesa soddisfazione che Londra gli ha procurato, Woody immaginava di girare nella capitale inglese un terzo film consecutivo ma il successo di critica e pubblico ottenuto da Match Point ha aperto a nuove interessan­ ti possibilità. EL: Aspetto di vedere il film prima di farti altre domande su Scoop, ma c’è qualche commento immediato che ti senti di offrirmi? Mi interessa in particolare l’eventuale evoluzione che stanno subendo le idee alla base dei tuoi film.

WA: Recito in Scoop perché è una commedia, e poiché è una commedia è automaticamente più leggera. Essendo più leggera, 78

tendo a non appassionarmi come spettatore. Una volta, quando ero più giovane e mi dedicavo quasi esclusivamente alla comme­ dia, pensavo: “Oh, questo sì che fa ridere, questo fa ridere, que­ sto fa ridere.” Oggi non ho più lo stesso atteggiamento. Mi sono divertito a realizzare Match Point e mentre lo giravo ero molto coinvolto come spettatore. Mi piaceva il fatto che non ci recitas­ si, mi piaceva il fatto che fosse un film serio e, quando è uscito nelle sale, mi è sembrato che avesse una buona sostanza, una bella atmosfera. Mi ha fatto sentire orgoglioso. Una commedia invece, specie una commedia in cui recito io - il che la rende automaticamente sciocca essendo io un comico sciocco, un comico di bassa lega [w interrompe] - difficilmente stimola il mio interesse. E certamente possibile realizzare commedie interessanti e di sostanza, ma sono quelle che hanno un maggiore contenuto di serietà. Luci della città ha quel tipo di contenuto. Quando Chaplin aggiunge ai propri film, per quanto goffamente, un maggiore tasso di serietà, essi acquistano sostanza. È ciò che faceva Bernard Shaw nelle sue commedie. C’è serietà in Pigtnalione, non è solo una serie di risate. O in Huckleberry Pinn. Quando però io recito in una commedia, questa tende a indirizzarsi nel solco della tradizione comica in cui mi piace recitare e che mi mette a mio agio, quella della leggerezza e della frivolezza. Oggi però credo che farei meglio a dirigere film seri senza recitarvi. EL: Nei tuoi primi film, come Prendi i soldi e scappa o II dit­ tatore dello stato libero di Bananas, provavi piacere a girare una commedia e recitarvi?

WA: Sì, lo trovavo piacevole, in parte perché era divertente già solo entrare nel mondo del cinema e realizzare dei film. Continuavo a pensare: “Aspetta che il pubblico veda questa...” Ed era divertente inventare battute di cui il pubblico rideva. 79

Già allora, però, coltivavo la speranza che la commedia fosse un trampolino verso cose più serie, che mi piacciono di più. Perché io stesso - e parlo di me come spettatore - preferisco film più seri. So che questo atteggiamento è stato interpretato come un mio dispregio nei confronti della commedia, che invece adoro, ovviamente. Se facendo zapping mi imbatto, che so, nei fratelli Marx o in Bob Hope, mi fermo sempre a guardare, rido e mi diverto, ma i film che in assoluto preferisco guardare sono quel­ li seri, drammatici. Come Un tram che si chiama desiderio o Arriva l’uomo del ghiaccio. Questione di gusti. EL: Quando hai cominciato a notare che l’entusiasmo di esse­ re nel mondo del cinema, l’impazienza di scoprire le reazioni del pubblico cominciavano a scemare?

WA: In particolare con quest’ultimo film [Scoop] perché veni­ vo da Match Point che, oltre al grande piacere nel girarlo, mi ha dato una sensazione molto positiva quando l’ho guardato nella versione definitiva. Ho pensato: “Sì, questo è un bel film.” Se nella mia carriera avessi fatto solo film del genere, sarei più con­ tento di me stesso.

Un grande giornalista da poco scomparso, Joe Strombel (lan McShane), riesce ad allontanarsi dal barcone diretto nell’aldilà giusto il tempo per dare a Sondra pransky (Scarlett Johansson), reporter alle prime armi, una dritta circa l’identità di un assassino. In Scoop, Strombel appare all’interno di una scatola cinese dove il mago da strapazzo Sid Waterman, detto Splendini (Woody), avrebbe dovuto far sparire la giovane Sondra.

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Poi mi è venuta questa idea divertente, o che almeno ritenevo divertente, di Scoop e ho pensato: “Devo girarlo perché è un’idea che fa ridere.” L’idea che un giornalista continui ad appassionarsi a un caso di cronaca anche da morto mi sembra­ va buffa e perciò l’ho realizzata. A posteriori, avrei preferito sce­ gliere un melodramma. Questo, tra parentesi, ci riporta allo scarso appeal dei concetti comici. Scoop procede risata per risa­ ta, battuta per battuta, ma il concetto di fondo - che pure è arguto - passa in secondo piano. [Woody è Sid Waterman, un mago da strapazzo che si fa chiamare Splendini, mentre Scarlett Johansson è Sondra Pransky, una studentessa di giornalismo ame­ ricana in soggiorno a Londra, la quale, durante uno spettacolo del mago, si offre volontaria per entrare nella scatola cinese. Invece di sparire, la ragazza incontra il fantasma di Joe Strombel (lan McShane), un noto giornalista scomparso di recente, che è riusci­ to a scivolare momentaneamente giù dal barcone che traghetta i morti nell’aldilà e fornisce a Sondra una dritta sull’aristocratico Peter Lyman (Hugh Jackman), che lui ritiene essere un serial kil­ ler. Sondra fa in modo di incontrare Peter ma nel tentativo disma­ scherarlo se ne innamora, con esiti pericolosi. Sid aiuta Sondra nelle indagini spacciandosi per suo padre: il film è infarcito di fui-

Sid e Sondra poco prima che quest’ultima entri nella scatola.

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minanti botta e risposta tra i due (Sondra: "Tu vedi sempre il bic­ chiere mezzo vuoto.” Sid: "No, ti sbagli, io il bicchiere lo vedo mezzo pieno. Ma di veleno!”) e battute comiche che Sid rivolge ad altri (durante un elegante party confessa a una coppia di ospiti: "Come nascita sono di confessione ebraica, ma crescendo mi sono convertito al narcisismo. ”)] EL: Mi dicevi che prima di realizzare il film hai dovuto scrive­ re tre sceneggiature in dodici settimane. WA: Sì. Avevo un’idea, che non voglio rivelare, e sapevo che avrei girato il film in Inghilterra. Dopo aver scritto la sceneggia­ tura mi è stato detto che il fenomeno intorno al quale ruotava la vicenda non esiste in Inghilterra. Allora ne ho scritta un’altra ma, come ti ho già detto, a qualcuno è parso che il protagonista avesse degli aspetti che potevano apparire o essere interpretati come troppo autobiografici... anche se non lo erano.

EL: Mi hai detto che la terza sceneggiatura, Scoop, mescolava due di quelle idee incompiute che conservi in un cassetto.

WA: Già, l’idea del giornalista che toma tra i vivi. E quella dell’assassino che commette un omicidio cercando di attribuir­ lo al repertorio di un altro [sghignazza], di aggiungerlo al curri­ culum di un altro. [Un uomo commette un unico omicidio e lo fa sembrare opera di un serial killer a piede libero.] Erano due idee completamente distinte. EL: Quanto avevi scritto su ciascuna delle due idee?

WA: Nemmeno una riga. EL: Solo il tuo appunto.

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WA: Solo un appunto che diceva: “Questa potrebbe essere un’idea divertente... il tale è un giornalista talmente appassiona­ to che non riesce a staccarsi da un caso nemmeno dopo morto. Questo [l'omicidio in fotocopia} sarebbe un modo interessante di commettere un delitto.” Mi era già capitato di combinare idee diverse. Penso per esempio a Zelig. Avevo sempre desiderato realizzare un docu­ mentario d’epoca e mi era venuta l’idea di un tizio che si trasfor­ ma in chiunque gli stia accanto. Zelig, però, non doveva essere un documentario quando iniziai a scriverne la sceneggiatura. Ricordo che le prime pagine parlavano di un tale che lavorava alla televisione pubblica e la vicenda era realistica, ambientata nel tempo presente. Poi pensai: “Sarebbe un ottimo documen­ tario d’epoca.” Il film, perciò, scaturì dalla combinazione di due spunti.

EL: Sai già dove girerai il prossimo film?

WA: No, non ancora. Aspetto di saperlo e in base a quello comincerò a scrivere il copione. EL: Da cosa dipenderà la scelta del luogo? WA: Dalla fonte dei finanziamenti. Quando sono gli inglesi a darci i soldi per un film, in genere la condizione è che venga girato lì da loro [per una questione di sgravi fiscali a favore dei finanziatori}. Se sarà una coproduzione francese lo gireremo in Francia. A volte chi mette a disposizione il denaro ti lascia la libertà di girare dove preferisci, nel qual caso, non so... potrei girarlo qui [a New York}. Tra i miei appunti ho idee compietamente diverse tra loro. Ho un’idea per Barcellona, una per Parigi, una per Londra. [A questo punto sta ridendo.} Un’idea per New York. Tutte diverse. Aspetto solo l’ordine dello starter. Fosse per me, partirei domani ma probabilmente non conosce­ 83

rò il luogo delle riprese prima di quattro settimane [fine ottobre 2005], un periodo nel quale finirò Scoop e mi dedicherò all’ozio creativo. Non so, potrei scrivere una pièce o un pezzo per il New Yorker. Troverò un modo per ingannare l’attesa.

Febbraio 2006 EL: L’altro giorno ho guardato New York Stories, che non vedevo da un po’. In Edipo relitto [Vedipag. 47], l’episodio del film girato da te, c’è la scena della coscia di pollo: hai cenato con Julie Kavner e lei ti ha incartato il pollo lesso avanzato; non ti aspettavi una cena piacevole, e invece tomi a casa e, tutto con­ tento, ti metti a riflettere sulla serata...

WA: [Sz ricorda] Ah, sì.

EL: ... e, scartato il pollo, tieni in mano una coscia. È una scena che inizialmente volevi rigirare, ma un motivo fondamen­ tale per cui non lo facesti è che dalla coscia penzolavano lunghi grumi di gelatina, una circostanza non replicabile. Cito l’episo­ dio solo per sollecitarti qualche altro ricordo del film. WA: Girarlo fu divertente. Lavoravamo con un budget molto limitato e vincoli temporali stringenti, ma del resto era solo un episodio. E i film a episodi, si sa, non fanno grossi incassi al bot­ teghino.

EL: Sì, come hai già avuto modo di dire, un film a episodi pro­ cede per picchi... l’attenzione del pubblico sale, sale, per poi ripartire da zero con un altro episodio, poi con un terzo.

WA: È una struttura che agli spettatori non va a genio. Li capisco, non piace neanche a me. Ogni dieci anni, tuttavia, 84

qualcuno ci riprova. Ed è un flop. Passano altri dieci anni, e c’è sempre un pretesto nuovo: una volta sono sette grandi registi che girano i sette peccati capitali, oppure qualcuno che mette insieme Fellini, Visconti, De Sica e gli fanno dirigere tre celebri racconti italiani di sesso [Boccaccio ’70 (1962). Il quarto episodio è di Monicelli. Tutti erano liberamente tratti dal Decamerone.] Ma non funziona. In New York Stories lavoravo con due grandi registi come Coppola e Scorsese. Io mi sono infilato in mezzo a loro sperando negli elogi per asso­ ciazione. Curiosamente, quello del mediometraggio è un formato che mi si adatta, visto il numero di sketch, o anche di raccontini, che ho scritto. Molte volte mi vengono idee comiche che però non danno origine a una vera e propria storia. Potrei girare un film anche domani se avesse senso girare sei, otto racconti scritti da me. EL: L’idea di Edipo relitto la avevi da tempo o te la inventasti sul momento? WA: Avevo diverse idee per dei corti, tra cui quella. A volte, anzi, quando cercavo di farmi venire un’idea per un film mi pas­ sava per la testa l’ipotesi di raggruppare due o tre episodi su uno stesso tema. A mio avviso, Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso è stato uno dei film a episodi più fortunati nella storia del cinema, per quanto abbia un’impostazione diversa, essendo tratto da un best-seller. Forse il suo successo dipese dal fatto di avere un unico regista. Erano comunque piccoli sketch triviali, non sto­ rie che richiedessero un investimento emotivo. Ti facevi quattro risate e magari pensavi: “Fantastico, mi sono goduto questi sei minuti sulla tal cosa, adesso passiamo alla prossima.” Insomma, per un motivo o per l’altro funzionò.

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In Edipo relitto si materializza l’incubo di ogni figlio. Woody interpreta Sheldon, la cui madre, vista per l’ultima volta quando è entrata nella scatola cinese di un mago per il trucco della sparizione e riapparizione, ricompare invece nel cielo sopra Manhattan, baccagliando con i passanti a proposito dei disastri del proprio figlio.

EL: Torniamo a Edipo relitto, il cui direttore della fotografìa fu Sven Nykvist [morto nel 2006]. Era il periodo appena prece­ dente l’avvento di effetti digitali davvero di grande qualità e infatti aveste un sacco di problemi a far apparire la mamma in cielo in modo convincente.

WA: Oggi gli effetti sono incredibili, all’epoca invece biso­ gnava arrangiarsi e sudare. Prima dell’avvento del digitale, ogni volta che giravo un film con effetti speciali era una soffe­ renza, sia perché non avevo mai il budget sufficiente per pro­ vare qualche soluzione, sia perché non ci sapevo fare granché [ride]. Oggi me la cavo molto meglio ma continuano a man­ carmi i soldi, è roba costosa. So che quando vado a chiedere qualche effetto speciale metto in ginocchio la casa di produ­ zione. EL: Ricordo un paio di episodi risalenti alla lavorazione di Edipo relitto. Per esempio quando stavi sincronizzando l’attac­ co di “Sing Sing Sing”, con la batteria di Gene Krupa, nella scena in cui la madre del tuo personaggio e la zia Ceil piomba86

Sheldon viene ulteriormente traumatizzato quando sua zia (Jessie Keosiam) e sua madre (Mae Questel), reduci da un matinée di Cats e cariche di gadget, interrompono una riunione nello studio legale presso cui Sheldon lavora, facendo il loro ingresso sull’attacco di batteria di “Sing, Sing, Sing” interpretata da Gene Krupa e Benny Goodman. (“Agghiacciante”, commentò Woody, paonazzo per le risa, quando vide per la prima volta la scena montata con la musica.)

no nello studio legale. È una sequenza esilarante, quando la vedesti per la prima volta ti mettesti a ridere. [Sheldon, il personaggio interpretato da Woody, è in riunione con gli altri associati dello studio legale nel quale lavora. Una segretaria lo interrompe imbarazzata per dirgli che sua madre è venuta a trovarlo. I colleghi non nascondono il loro fastidio. Su un sottofondo di tamburi, Sheldon esce e scruta preoccupato il lungo corridoio deserto, quando le due minute vecchiette sbucano da dietro un angolo e, accompagnate dal clarinetto di Benny Goodman, imboccano il corridoio cariche di gadget e souvenir di Cats. Arrivano evidentemente da un matinée. La minaccia comi­ ca è evidente nella loro statura, nella loro andatura e nel terrore sul volto di Sheldon.]

WA: Rido spesso delle mie gag quando le scrivo o quando le rivedo sullo schermo. A volte, non sempre, il pubblico mi dà la conferma della loro bontà. Da questo punto di vista mi conside­ ro uno spettatore tipico. Se una cosa mi sembra divertente, in genere sarà così anche per una buona fetta di pubblico.

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EL: Quei tamburi inquietanti scatenano un effetto comico irresistibile. E nel film Julie Kavner è fantastica.

WA: Grandiosa. Un talento enorme. EL: Avevo dimenticato che nel film recita anche Larry David. [Interpreta il direttore di palcoscenico.}

WA: Sì, sì, fa un paio di particine nei miei film, anche in Radio Days. Era un tipo divertente, in città. Io non lo conoscevo molto bene ma sapevo che era un tipo buffo. E aveva anche una bella faccia. EL: George Schindler, che interpreta il mago Shandu, è molto convincente. Era un vero mago, giusto? WA: In origine avevo assegnato il ruolo a Wallace Shawn, uno dei miei attori preferiti che da allora ho usato molte volte. Non aveva però il fascino di un vero mago. Per questo chiamai un vero mago, che diede all’interpretazione tutta un’altra credibili­ tà.

EL: Tu usi molto la magia nei tuoi film. Agli inizi degli anni ottanta Diane Jacobs scrisse addirittura un libro in proposito.

WA: Molto acuto, fra l’altro. Si è dimostrata profetica: una volta un attore esce dallo schermo [La rosa purpurea del Cairo], un’altra fa un trucco da mago, come Maureen Stapleton [morta nel 2006] in Interiors. Ci sono molti casi. [Tra questi: la madre del personaggio di Woody appare in cielo in Edipo relitto, le erbe magiche permettono a una donna di diventare invisibile in Alice; i morti si reincarnano in Match Point; un personaggio dà consigli dall’oltretomba in Scoop.]

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EL: Qualcosa da aggiungere su Edipo relitto? Mae Questel nei panni della madre è fantastica. WA: Quando la vide, mia sorella rise di gusto. Disse che asso­ migliava davvero a nostra madre. Mae era quella che dava la voce a Betty Boop. Penso di averla usata nei panni di Betty Boop in Zelig. EL: Ti ricordi il germe dell’idea di Alice? [Il film è una rifles­ sione sulla memoria, la magia, il matrimonio, i sogni, la noia e le stranezze dell’attrazione. Alice Tate (Mia Farrow), una donna disillusa e da tempo ignorata dal suo ricco marito (William Hurt), si concede una scappatella con un attraente musicista (Joe Mantegna). Alice si reca in uno scalcinato studiolo di Chinatown per consultare un erborista il quale le prescrive un intruglio in grado di renderla invisibile e permetterle dunque di spiare i tradi­ menti di suo marito. Di fronte alla scelta finale tra la vita superfi­ ciale che ha condotto finora e ciò che reputa più importante di tutto - una vita coscienziosa e responsabile - la donna troverà rin­ novato vigore nell’essere una brava madre.} WA: Volevo girare un film su una ricca signora dell’Upper East Side - ho sempre avuto il desiderio di scrivere dei ricchi newyor­ chesi dell’Upper East Side - una signora come quelle che incon­ travo accompagnando Dylan [la sua figlia adottiva} a scuola. Vedevo queste madri in tuta e scarpe da ginnastica, con sopra il cappotto di visone o di zibellino, e provavo sempre un certo fre­ mito. So che molti non sopportano certe cose ma io non sono fra questi. A me divertono, affettuosamente. C’è una battuta in Alice che non ricordo esattamente ma dice più o meno che se il bam­ bino non entra nell’asilo giusto non potrà mai iscriversi all’univer­ sità giusta. Ecco, mi interessava quel tipo di mondo. Ricordo anche che all’epoca qualcuno dei miei amici era soli­ to rivolgersi a un ciarlatano di Chinatown, pagando profumata­ 89

mente per le erbe che prescriveva. Non so se fossero davvero pericolose ma di certo non avevano poteri curativi. Ti ho mai raccontato la storia della vibrissa nell’occhio? EL: Raccontamela di nuovo.

WA: Mi sembra qualcosa di inconcepibile ogni volta che la rac­ conto. Allora, avevo un problema all’occhio e non riuscivo a libe­ rarmene. Prendevo ogni sorta di medicina ma il problema persiste­ va. A un certo punto un amico mi dice: “lì pago io un consulto con questo dottore, e ti garantisco che risolverà il tuo problema.” Io gli rispondo: “A Chinatown non ci vado.” E lui: “Viene lui a casa tua e vedrai che ti guarirà. Che cosa hai da perdere? Concedigli solo un consulto e se non ti guarisce, pazienza.” Così mi lascio convincere e questo tizio si presenta a casa mia con una vibrissa di gatta. Me la infila nel condotto lacrimale e se ne va. Ovviamente non sortì alcun effetto. Quando lo raccontai al mio oculista mi ammonì: “Non permetta mai più a nessuno di infilare qualsiasi cosa lì dentro! Poteva beccarsi un’infezione. Dio solo sa cosa poteva succederle.”

Il coro greco nella Dea dell'amore, il cui corifeo è interpretato da F. Murray Abraham.

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Mentre scrivevo Alice immaginai che questa signora dell’Upper East Side viene a sapere dalle sue amiche di un tale che fa meraviglie; così si avventura a Chinatown e toma a casa con tutte queste pozioni... ma poi pensai: “E se fossero davvero pozioni magiche?” Mi sembrava una storia gradevole e forse lo fu, per qualcuno. EL: E divertente quando nel finale Alice trova il dottore, interpretato da Keye Luke, che in fretta e furia prepara le vali­ gie per lasciare la città, a suo dire per un periodo di ricerche. [Luke interpreta il Figlio Numero Uno in tutti i film di Charlie Chan. Ha recitato in 185 film nell’arco di una carriera che va dal 1934 fino alla sua morte, nel 1991. Alice fu il suo ultimo film.}

WA: Già, sono convinto che sia l’inevitabile destino di questi ciarlatani, che prima o poi debbano darsela a gambe per sfuggi­ re alla giustizia. EL: Nella Dea dell’amore c’è un coro greco che dà anche a quel film un’atmosfera magica, anche se di tipo diverso rispetto ad Alice. Da dove ti venne quell’idea?

Il coro ammonisce Lenny (Woody) di non mettersi alla ricerca della madre del suo figlio adottivo.

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WA: Avevo sempre desiderato girare un film con un coro greco. All’inizio pensavo di usare come base un mio racconto... non ricordo il titolo, quello in cui il protagonista esce con una ragazza e finisce per innamorarsi della madre... EL: “Punizione”. WA: “Punizione”, esatto. Pensavo di girare quel racconto aggiungendo il coro greco. Mi sembrava che potesse venire fuori una bella storia, ma finii per rinunciai all’idea di usare un mio racconto come soggetto. Un paio di anni dopo, ripensando a quando avevamo adottato Dylan, così carina, mi chiesi, chissà chi erano il padre e la madre? Immaginai che potesse essere lo spunto per una storia: una coppia adotta un bambino e lo trova talmente bello che comincia a pensare, Gesù, doveva avere una madre stupenda. Allora l’uomo si mette alla sua ricerca, la rin­ traccia e se ne innamora. Questa era la prima idea. Poi mi venne in mente una variante: rintraccia la madre ma scopre che non è bella affatto. La vicenda [sorride] sapeva un po’ di tragedia greca: più fai luce sulla provenienza di un bambino, più la situa­ zione si complica. Mi sembrò logico, allora, inserire qui il mio coro greco, ma fu l’idea per il finale a darmi la spinta definitiva: la madre naturale sarebbe rimasta incinta di me, io avevo adot­ tato suo figlio ma entrambi saremmo rimasti all’oscuro di que­ sto incrocio. Visto che la storia nel suo complesso aveva preso una sensibilità greca mi convinsi a usare qui il coro. Tutto que­ sto succedeva diversi anni prima delle effettive riprese. [La dea dell’amore racconta le vicende successive all’adozione del piccolo Max da parte di Lenny (Woody), un giornalista sporti­ vo, e di sua moglie Amanda (Helena Bonham Carter), aspirante titolare di una galleria d’arte. Poiché Max è un bambino bello e molto intelligente, Lenny non può fare a meno di ipotizzare che lo siano anche i genitori naturali, dei quali si mette alla ricerca nonostante i lugubri avvertimenti del corifeo (E Murray 92

Abraham) e i commenti sarcastici dei coreuti (“Prevedo disastri. Prevedo catastrofi. Peggio, prevedo avvocati!” dice una di loro. “Per carità, non ti mettere a fare la Cassandra,” si sente risponde­ re da Lenny, “lo non mi metto a fare la Cassandra,” ribatte lei. “Io sono Cassandra”) La madre di Max, Linda Ash (Mira Sorvino), si dimostra una ragazza molto dolce, nonostante l’occupazione (prostituta e attrice porno). Senza dirle che è la mamma di Max, Lenny cerca di riportarla sulla retta via. Dopo che Amanda ha chiesto ufficialmente il divorzio, Lenny e Linda passano una notte insieme. Ma Amanda ritorna, gli sforzi di Lenny sortiscono effet­ to sulla vita di Linda e i due si perdono di vista... finché un gior­ no si rincontrano per caso in un negozio di giocattoli. Lenny è con Max, Linda con la sua stupenda figlioletta. Luno fa i complimen­ ti alla figlia dell’altra senza rendersi conto che in realtà ne sono i rispettivi genitori.] EL: Messa per iscritto e conservata nel cassetto oppure solo nella tua testa?

WA: No, non l’avevo scritta, ma riuscii a tirarne fuori un film. Mira mi fu di grande aiuto perché è ima ragazza molto intelli­ gente oltre che un’ottima attrice. EL: Hai dichiarato che la voce stridula, chioccia, buffa che usa per il suo personaggio contribuì a rendere meno grevi le paro­ lacce e ad alleggerire la storia.

WA: Sì, perché avere una voce tanto estrema in un film è sem­ pre un azzardo, ma nel suo caso un azzardo ben ripagato. Guardavo i giornalieri e pensavo: “Mi piace. Speriamo di non lasciarci le penne ma mi piace.” Poi scritturai Gracida [Daniele], la coreografa che si era occupata del mio musical, e anche lei fece un lavoro eccellente con il coro.

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EL: Il coro lo girasti in Sicilia, giusto? WA: Sì, lo girammo in un anfiteatro di Taormina, per poi tra­ sferirlo a New York. Andammo in Sicilia in febbraio e la trou­ pe dovette mettersi a petto nudo perché faceva un gran caldo e il sole scottava.

EL: Il film ha un’atmosfera ironica e, come dici tu, una sensi­ bilità greca. WA: Da allora ricevo lettere dalla Grecia, da persone e addi­ rittura da enti convinti che io sia un esperto di teatro greco. Sono stato ad Atene di recente e ho visto il teatro. Devo dire che osservare il teatro dall’alto dell’Acropoli mi ha tolto il fiato come mai mi era successo in vita mia. È lì che debuttarono VEdipo Re e Medea. Il cast originale era laggiù e interpretava quei ruoli.

EL: Parliamo di Harry a pezzi. Come ti venne l’idea?

WA: Non vedo il film da un sacco di tempo ma ricordo benis­ simo l’idea di partenza, quella di seguire un tizio, che poteva essere interpretato da me - uno scrittore ebreo di New York e scoprire cose sul suo conto, ma scoprirle attraverso i suoi scritti. Leggere i suoi racconti, brani dei suoi romanzi, e ren­ dersi conto che quel materiale parla di lui. Mi sembrava un’idea divertente, anche piuttosto intelligente, che mi avreb­ be dato la possibilità di girare un certo numero di brevi pezzi comici che presi singolarmente non sarebbero stati sufficienti a sostenere un intero film ma che avrebbero potuto costituire episodi divertenti. Per esempio, lo sketch sulla morte che arri­ va per la persona sbagliata e quello dell’attore che diventa appannato. Mi serviva soltanto un filo conduttore a cui aggan­ ciare la storia. 94

[Robin Williams interpreta un attore che diventa improvvisa­ mente appannato - non perché sia fuori fuoco la lente della mac­ china da presa ma proprio perché diventa lui stesso fisicamente sfocato - e la cui egoistica soluzione è quella di far indossare ai propri familiari degli occhiali correttivi. L'assunto del film è che, a fronte di un'opera d’arte sublime, l’artista che la crea (Harry Block, lo scrittore interpretato da Woody) può essere una sciagura per le persone che gli stanno accanto. “Lei si aspetta che il mondo si adegui alla distorsione che lei è diventato,” si lamenta uno dei sei psichiatri consultati da Harry. L’azione oscilla continuamente tra realtà e fantasia, tra Harry e il suo nutrito elenco di rancorose ex mogli (tre), ex fidanzate (decine) e parenti, e le rappresentazio­ ni solo vagamente camuffate che lo scrittore ne dà nei suoi raccon­ ti e romanzi. Nel cast figurano Kirstie Alley, Richard Benjamin, Judy Davis, Mariel Hemingway, Amy Irving, Julie Kavner, Julia Louis-Dreyfus, Tobey Maguire, Demi Moore ed Elisabeth Shue.} EL: Riuscisti a usare di nuovo Mariel Hemingway.

WA: Sì, passò a trovarmi e disse che le sarebbe piaciuto molto lavorare di nuovo con me. Così le risposi: “Ho un film in pro­ grammazione, non c’è una parte elaborata per te ma posso sem­ pre tirarne fuori qualcosa.” È un’ottima attrice. Mi piacerebbe avere un ruolo importante per lei perché ho l’impressione che non venga usata abbastanza in ruoli significativi. Non delude mai. EL: E Billy Crystal. WA: Già, fu bellissimo. Ebbi l’opportunità di lavorare con Robin Williams e Billy Crystal, due attori che sono comparsi insieme un mucchio di volte. Furono entrambi fantastici. Arrivarono assieme e Robin entrò perfettamente nel ruolo. Funzionava davvero. Capii che sarebbe stato uno spasso girare quel film. Fu anche molto piacevole lavorare con lui. E con 95

Mariel Hemingway, una delle ex mogli del protagonista in Harry a pezzi, cerca di impedire allo stesso Harry (Woody) di rapire il loro figlio.

Billy, che interpretava il diavolo. Sono due attori di grande talento a cui puoi assegnare un ruolo sapendo già che ti daran­ no il cento per cento e più, che ci metteranno del loro. EL: Mi piace la trovata dei personaggi di Harry che vengono a rendere omaggio al loro creatore, e anche l’idea che uno scrit­ tore possa fare il proprio lavoro a prescindere da tutto quello che gli succede nella vita.

WA: Quell’aspetto mi riflette. Io ci riesco. So che per il pub­ blico il film parla di me, e lo trovo buffo perché non è nemme­ no lontanamente autobiografico. Pensavo che, una volta finito il film, avrei dichiarato: “Oh, sì, questo sono senza dubbio io” per risparmiarmi la solita pantomima in cui mi tocca ripetere: “Non sono io, non è così che lavoro, non ho mai avuto il blocco dello scrittore, la crisi di creatività, non ho mai rapito mio figlio, non avrei mai il coraggio di comportarmi in quel modo, non me ne sto seduto a casa a bere, con le battone che vanno e vengono tutta la notte.” Se una mia ex scuola organizzasse una cerimonia in mio onore - cosa che non succederà mai - probabilmente 96

non mi presenterei. A parte la capacità di scrivere in qualsiasi condizione e circostanza, non c’era assolutamente nulla di me nel film, ma la strada più comoda era di dire di sì. Non provai nemmeno a negarlo. EL: Cosa puoi dirmi della genesi di Celebrity'? WA: Mi venne l’idea di fare un film sul concetto di celebrità, sul fatto che tutti improvvisamente diventassero famosi: qualsia­ si chirurgo plastico, modella, sportivo. Pensai che sarebbe stato divertente giocarci sopra.

EL: H concetto di celebrità occupa un ruolo preponderante anche in Stardust Memories. WA: Certo. lì capitano un sacco di cose bizzarre quando sei famoso. Voglio dire, mai che una ragazza ti chieda: “Autogra­ fami il seno sinistro.” Invece ti chiedono: “In Russia tante perso­ ne vengono rinchiuse nei manicomi, può fare qualcosa per loro?” Oppure: “Mi darebbe una mano a fare questa cosa?” Come ho sottolineato più di una volta, Stardust Memories antici­ pa l’attentato a John Lennon, ero assolutamente consapevole di una certa ambiguità nel rapporto tra il pubblico e la star. Da un lato, la venerazione del pubblico concede alla star molti più benefìci di quanto la star si meriti, nel bene o nel male; dall’altro il pubblico gode nel vedere la star denigrata, adora poter dire: “Ah, avresti proprio dovuto leggere cosa ha scritto il tal de’ tali del film. Lo ha veramente massacrato.” Il pubblico ha un senti­ mento ambivalente, la stessa ambivalenza che quel pazzo aveva nei confronti di John Lennon, o quell’altro sciroccate nei con­ fronti di Jodie Foster. L’idolatria rende i fan pericolosi.

EL: In una sfilza di film, a partire da Mariti e mogli e prose­ guendo con La dea dell’amore, Celebrity e Harry a pezzi, i dia­ 97

loghi sono spesso crudi e infarciti di parolacce. Per qualcuno era il riflesso del tuo tormento all’epoca della fine della storia con Mia Farrow. [Film complesso che fa ricorso a diverse tecni­ che cinematografiche, tra cui l’uso della camera a mano e gli stacchi bruschi tra un personaggio e l’altro che trasmettono un senso di disagio, Mariti e mogli racconta la disgregazione di un matrimonio apparentemente consolidato e la rappacificazione di una coppia la cui unione era stata dichiarata finita nella scena iniziale. Gabe e Judy (Woody e Mia Farrow) ricevono la visita dei loro buoni amici Jack e Sally (Sydney Pollack [morto nel 2008] e Judy Davis) i quali, serenamente, annunciano il proprio imminente divorzio. Sulle prime Gabe e Judy restano sconvolti, poi Judy si infuria. Dazione viene seguita dalla camera a mano, che dà al film un senso di immediatezza quasi documentaristica, sensazione ribadita dall’uso della voce narrante di un osservato­ re invisibile e dalle interviste realizzate da quello che sembra il regista di un film dentro il film. Tutti i personaggi fanno nuovi incontri e allacciano nuove storie: Judy presenta Sally a Michael (Liam Neeson), redattore di una rivista, il quale si innamora di lei spezzando il cuore a Judy che lo desidera. Jack ha una storia con la sua insegnante di aerobica, Sam (Lysette Anthony), la cui avvenenza è pari alla sua vuotaggine. Gabe, romanziere che insegna alla Columbia University, si avvicina, a forza di tiramolla, a Rain (Juliette Lewis), una delle sue studentesse. (In un momento di intimità durante la festa di compleanno per i ventun anni, nell’attico dei genitori, lei gli chiede di baciarlo e lui, imbarazzato, le risponde: "Già vedo cinquantamila dollari di psicoterapia che chiamano il numero del pronto soccorso.”) Alla fine, Jack e Sally si riconcilieranno mentre Gabe e Judy divorzie­ ranno.} WA: Scrissi Mariti e mogli due anni prima dell’inizio della crisi con Mia. Non c’è alcuna correlazione. Stavo sperimentando. Avevo l’impressione che lo stile documentaristico necessitasse 98

un film più libero, dal punto di vista cinematografico e dei rap­ porti tra sessi. EL: La maledizione dello scorpione di giada [2001].

WA: Non fui all’altezza di un cast di straordinario talento. Avevo Helen Hunt, grande attrice dalla stupenda verve comica. Avevo Dan Aykroyd, che mi ha sempre fatto morire dal ridere. Avevo David Ogden Stiers, che ho usato molte volte e non delu­ de mai. Elizabeth Berkley era meravigliosa. Il film ebbe succes­ so all’estero, non tanto qui in America. Tuttavia resto del pare­ re che probabilmente - per quanto i candidati non manchino sia il mio peggior film in assoluto. Fu un vero peccato disporre di un cast di quel livello e non sfruttarne le capacità. Loro si fidavano, di me. [Ambientato nel 1940, Woody interpreta C.W. Briggs, un sardo­ nico investigatore assicurativo molto sicuro di sé ("sarei terroriz­ zato di avere uno come me alle mie calcagna”) che, sotto l’influs­ so di uno spregevole ipnotizzatore, compie una serie di rapine delle quali non ha memoria, non rendendosi dunque conto di essere egli stesso il ladro a cui dà la caccia.} EL: Dov’è che sbagliasti? WA: Penso di aver sbagliato a interpretare il protagonista. Avevo provato ad affidare il ruolo a un attore dotato di verve comica ma nessuno dei canditati che contattai era libero. Io non ero adatto a quel film. Avrei preferito rinunciare a qualche bat­ tuta comica ma avere un protagonista più duro e convenziona­ le. Per questo sono convinto di aver trascinato a fondo tutti gli altri. Lo sentivo anche quando guardavo quotidianamente i giornalieri, ma non sapevo come uscirne. Non sapevo districar­ mi, era una situazione complessa. Si trattava di un film d’epoca e non avevo molti soldi a disposizione. Potevo contare sui set 99

splendidamente costruiti da Santo [Loquasto, il suo scenografo} nelle varie location ma non avevamo la possibilità di tornarci per girare di nuovo una scena perché ricostruirli sarebbe venu­ to a costare troppo. Perciò non era possibile dire semplicemen­ te: “Cambiamo il protagonista e giriamolo di nuovo.” Da parte mia, dunque, ho molti rimpianti e un grande imba­ razzo perché gli attori si erano fidati di me e avevano accettato il lavoro per quattro soldi. Il film ebbe successo all’estero. Forse grazie alla traduzione o a alla benevolenza di cui godo in molti paesi sono riuscito metterci una pezza, a schivare il proiettile, ma non ho un buon ricordo del film. Qui da noi andò maluccio. EL: Per il tuo ruolo sarebbe stato ideale Bob Hope. WA: Be’, certo, ma in quel caso lo avrei scritto in maniera molto diversa, lo avrei adattato alla scioltezza di Hope, le scene sarebbero state anzitutto un fuoco di fila di battute. Mi sarei messo al servizio di Hope e della sua meravigliosa leggerezza. Io lo resi molto più carnale, realistico di quanto avrebbe fatto lui... malgrado realistico non lo fosse affatto. EL: Ti ricordi la genesi dell’idea? WA: Sì, risale a trentacinque anni fa. L’idea era molto buona, a mio avviso, peccato che nel metterla in pratica abbia combi­ nato un pastrocchio. Il protagonista, ipnotizzato, è un crimina­ le ma allo stesso tempo anche colui che dà la caccia al crimina­ le. Avrei dovuto realizzarlo in maniera molto più seria. Non come film serio, drammatico, ma evitando che la mia presenza lo rendesse tanto triviale.

EL: È un giudizio molto duro. Sei sempre così autocritico nei confronti di ciò che fai?

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WA: Sì. Sento che se devo recitare in un film sofisticato fini­ sco per interpretare il solito newyorchese visto tante volte, bril­ lante quanto lo sono io nella vita, ossia [ride di gusto] a livelli non certo eclatanti. Alle prese con un personaggio come Danny Rose [il personal manager di Broadway Danny Rose], sicura­ mente molto meno colto di Alvy Singer, riesco a liberarmi del­ l’inflessione tipica di una certa classe sociale, del tema dei rap­ porti interpersonali e dei vezzi della New York bene che riman­ dano sempre all’“intellettuale”... o meglio allo pseudo-intellet­ tuale o allo psicanalitico. Quando però interpreto un personag­ gio a metà strada, né troppo sofisticato né troppo cialtrone, come nello Scorpione di giada, un personaggio per me inusua­ le, il film diventa triviale, insulso, non riesco a essere nella parte. Prendi i soldi e scappa fa ridere e, tutto sommato, è una sciocchezzuola che va bene per un esordio, ma oggi non posso più permettermela. La maledizione dello scorpione di giada mi sembra triviale perché ho dovuto interpretare un personaggio stupido e lo spettatore non si interessa dei personaggi quando non sono credibili, quando procedono solo per battute. È dif­ ficile scrivere un buon film e rendere al contempo efficace il mio personaggio, è sempre stato un problema. Ecco perché in futuro vorrei recitare sempre meno nei miei film, mi risparmie­ rei un peso e lo risparmierei anche al pubblico, avendo in più la libertà di fare i film che voglio senza dover creare una buona storia che preveda anche un ruolo comico per un attore limita­ to, cioè io. EL: Hollywood Ending [2002]. Hai dichiarato di non riuscire a capire come mai gli spettatori, a differenza tua, non lo abbia­ no trovato divertente.

WA: Non è quello il punto... il punto è che non vennero pro­ prio a vederlo. Penso che se fossero venuti si sarebbero diverti­ ti, solo che non vennero. Mi sembrava che facesse molto ridere. 101

Lo trovo un film divertente con un’idea divertente e girato in maniera divertente. Il mio personaggio faceva ridere. [Woody interpreta Val Waxman, un regista caduto in disgrazia, a cui si presenta l’occasione di risollevare la propria carriera quan­ do la sua ex moglie Ellie (Tèa Leoni) convince uno dei dirigenti della casa di produzione - nonché suo fidanzato - ad affidare a Val la regia di un melodramma ambientato a New York. Alla vigilia dell’inizio delle riprese, però, Val diventa cieco per lo stress ma cerca ugualmente di condurre in porto il progetto, confidando sul­ l’aiuto del proprio agente (Mark Rydell) e di Ellie, di cui riconqui­ sta l’amore. Ilfilm termina con l’opera di Valferocemente distrut­ ta da tutti i critici d’America ma osannata come un capolavoro in Trancia. Dove, ovviamente, Woody è venerato.] EL: Tèa Leoni sembra particolarmente a suo agio nel recitare insieme a te.

WA: Ah, Tèa Leoni... anche lei, sensazionale. Bellissima. Attrice meravigliosa, un meraviglioso senso dell’umorismo. Non credo di averla delusa. Fa un’ottima figura nel film, è otti­ ma nel film. E io, con lei, sono buffo. Avevo tale fiducia che por­ tai il film a Cannes. Non lo avevo mai fatto. La sera della prima mi sentivo un debuttante, pensavo: “Oh sì, piacerà ovunque e in Francia in particolare, visto che il finale prende in giro i fran­ cesi.” E in effetti da loro andò benino... nulla di clamoroso, intendiamoci. EL: L’idea era recente? WA: No, la accarezzavo da anni. Ne avevamo parlato un po’ con Marshall Brickman. In origine l’idea non veniva applicata a un regista ma in un contesto diverso.

EL: Melinda e Melinda [2002]. 102

WA: Melinda e Melinda era un’idea che avevo sempre voluto realizzare. Ne parlai un paio di volte al telefono con Peter Rice [della Fox Searchlight, che finanziò e distribuì il film], con il quale mi piaceva lavorare. Anche lui voleva fare un film con me. Gli dissi che avevo in mente una versione comica e una seria della stessa storia, e l’idea gli piacque molto. Quelli della casa di produzione non erano entusiasti del mio metodo di lavoro, di finanziare un film senza vedere il copione, senza conoscere la trama, senza sapere nulla, ma Rice accettò, e credo che vada a suo onore. Ripeto, era un film del quale a me interessava soprat­ tutto la parte drammatica. Tutto il calore e la passione erano nella storia drammatica. [A cena, due autori teatrali (Wallace Shawn e Larry Pine) discutono della sostanza della vita, se essa sia tragica o comica. Il film poi rimbalza tra dramma e commedia in base all’elaborazio­ ne che i due autori, ciascuno alla propria maniera, danno della storia di una donna che si presenta inaspettatamente a una cena organizzata da amici e la cui influenza sfocerà nell’adulterio. Radha Mitchell è Melinda, che nel dramma è una moglie anno­ iata che si presenta fradicia e agitata dopo aver lasciato il marito medico per un fotografo e aver perso i propri figli nella susse­ guente causa di affidamento (i padroni di casa sono la facoltosa Laurei, interpretata da Chloe Sevigny, e suo marito, un attore alcolizzato interpretato da Jonny Lee Miller). Dopo un attacco di depressione che l’ha costretta in un ospedale psichiatrico stretta nella camicia di forza, Melinda cerca di rimettere insieme la pro­ pria vita. Nella versione comica, è una ragazza estroversa del cui fascino cade vittima il vicino di casa Hobie (Will Ferrell), un attore senza lavoro sposato con Susan (Amanda Peet), una filmmaker indipendente che lo lascia per legarsi a un uomo ricco sfondato.] La storia comica andava benissimo perché Will Ferrell è un tipo spassoso e Amanda Peet è fantastica... è bellissima, sexy, ma anche molto buffa. Un’attrice straordinaria. E tutti e due si 103

In Melinda e Melinda, Radha Mitchell interpreta la versione tragica (a sinistra) e comica (a destra) della storia di una stessa donna, proponendo in ciascuna il look appropriato.

comportarono splendidamente. Ma, da autore, la metà comica non mi interessava quanto l’altra. Il mio cuore era nell’altra metà. Ebbi fra l’altro l’opportunità di scoprire Radha Mitchell. All’inizio avevamo previsto di lavorare con Winona Ryder e Bob Downey ma non riuscii a ottenere la necessaria copertura assi­ curativa. Le compagnie di assicurazione sono molto rigide e puntigliose, ci diedero un sacco di problemi. Ne fui affranto perché, avendo già lavorato con Winona [Celebrity], la ritenevo perfetta per il film, oltre a desiderare di lavorare con lei di nuovo. Con Bob Downey avevo sempre voluto lavorare, lo con­ sidero un talento enorme. Entrambi se la presero con noi, come se fosse stata una decisione nostra, mentre a me sembrava che fossimo stati fregati tanto quanto loro. Non riuscimmo a ottene­ re la garanzia fideiussoria. Le compagnie di completion bonding [che garantiscono agli investitori che il film sarà completato nel budget e nei tempi previsti] si rifiutavano di coprire il film a meno che non riuscissimo ad assicurare i due attori. Non avrei mai pensato a Will Ferrell perché è più un comico da slapstick, ma notai in lui qualcosa che mi parve molto dolce 104

e vulnerabile. Mi dissi: “Ma sì, molto probabilmente è in grado di interpretare il ruolo e metterci la dolcezza necessaria.” Radha la vidi in non ricordo quale ruolo e pensai subito che sarebbe stata perfetta per il film. Ripagò le mie attese con gli interessi. Con Chloe Sevigny avevo sempre voluto lavorare, e anche lei in quel ruolo superò le mie aspettative. Avevo appena visto Chiwe [Chiwetel Ejtofor] in Piccoli affari sporchi ed era piaciuto a tutti, me compreso, il che mi rendeva entusiasta di averlo nel film. Per quanto mi sia divertito a girare Melinda e Melinda, col senno di poi dico che avrei preferito realizzare un film solo con la parte drammatica. La medesima sensazione provata dopo Crimini e misfatti. Il film è una trovata simpatica. Penso che la casa di produzio­ ne abbia recuperato i costi o addirittura guadagnato un paio di dollari. Non fu un blockbuster, potrei dire [sorride] usando un eufemismo. EL: Come nasce l’idea per Anything Else [2003]?

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WA: Ah, era un’idea che avevo da sempre. Penso di averla rea­ lizzata abbastanza bene. Il protagonista maschile era Jason Biggs. Anche nel suo caso, il pubblico ritenne che interpretasse me... e pensare che c’ero anch’io nel film, in un altro ruolo! Lo trovo un film riuscito e mi sorprende che non abbia avuto un successo maggiore. Secondo me aveva tutto... era una bella sto­ ria quella tra Jason Biggs e Christina Ricci...

EL: E Stockard Channing. [Jason Biggs è Jerry Falk, un autore comico perdutamente inna­ morato di Amanda (Christina Ricci), la sua incantevole, brillan­ te, mercuriale, emotivamente esuberante, adulatrice e troppo spesso infedele fidanzata, il cui comportamento non è dettato tanto da cattiveria ma dal fatto di non riuscire proprio a esimer­ si... i suoi ormoni si accendono e si spengono con la stessa facili­ tà di un interruttore, il che la rende ancora più attraente agli occhi di Jerry, o meglio, gli procura disordini della sessualità. Naturalmente l’unione è a rischio, tanto più quando la madre di Amanda (la volubile chanteuse interpretata da Stockard Channing), si trasferisce a casa di Jerry e Amanda insieme al suo pianoforte, rendendo ancor più claustrofobico il già piccolo appartamento. Jerry non è aiutato né dal suo inetto manager né dal suo taciturno psicanalista - non riesce ad abbandonarli così come non ha la forza di lasciare Amanda - ma trova un mentore in David Dobel (Woody), un vecchio insegnante e autore comico con la passione per i paroioni e una paranoia profondamente radicata. Dobel spiega a Jerry come uscire dalla giostra emotiva che ha condotto la sua vita e la sua carriera allo stallo, avviando­ lo sulla strada verso l’autostima e quello che sarà un successo assicurato (l’accordo economico che lega Jerry al proprio agente una scala di royalty a scendere che scende solo nella direzione dell’agente - è straordinariamente simile al contratto tra Woody e il suo primo manager).}

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WA: Sì, il cast è meraviglioso e trovavo la storia interessante, piena di buone battute e di buone idee. Qualcuno scrisse che riassumeva tutto quello che dico sempre nei miei film - in senso positivo - e forse era proprio così... solo che per me era un difet­ to. Non so. Organizzai delle proiezioni e agli spettatori sembra­ va piacere. Anche questo è stato uno di quei film che nessuno è venuto a vedere. Sai, spesso per uno come me è un lancio di dadi. Dipendo molto dalle recensioni. Ti capita uno a cui il film è piaciuto, scri­ ve una buona critica e ti fa fare un buon risultato al botteghino. Se quel giorno il recensore è malato e lo stesso film viene asse­ gnato a un critico diverso, al quale non è piaciuto, gli incassi te li puoi scordare. Sono molti, moltissimi i film che non dipendo­ no dalle recensioni, che, a prescindere dalla critica, hanno un pubblico assicurato. Basta citare Luomo ragno. Nel mio caso, invece, molto dipende da chi scrive la recensio­ ne. Di Anything Else, comunque, pensavo davvero che fosse un film divertente. Lo ritenevo un buon film. Ero pazzo di Christina, Jason fu adorabile e Stockard Channing è sempre un’attrice molto intensa.

EL: Almeno trent’anni fa Dick Cavett mi raccontò della sera in cui dovevate esibirvi entrambi al Trader Vic’s a Los Angeles, negli anni sessanta, e tu a cena gli dicesti: “Sai, per quanto a lungo possa vivere, non avrò mai abbastanza tempo per scrive­ re tutte le idee che mi vengono in mente.” Disponi ancora di una fornitura illimitata? WA: Ho molte idee. Ho ancora lo stesso sacchetto... anzi, le ho tolte da lì perché il sacchetto si è strappato [ride], ma il mate­ riale è ancora quello. Ho però un sacchetto in sala di montag­ gio. Ci butto dentro le idee che mi saltano in testa e, nel momento del bisogno, rovescio sul letto i mille fogli e foglietti che contiene e li passo al vaglio. Essendo un lavoro molto tedio­ 107

so, le idee migliori, più promettenti, le tengo da parte. Certe volte me ne passa una per le mani e penso: “Toh, questa sì che sarebbe un’idea divertente,” e la realizzo. EL: Fai una cernita periodica? Butti via del materiale con il passare degli anni? Oppure, una volta che sono lì dentro vuol dire che hanno passato la selezione?

WA: Butto via le idee solo dopo averle realizzate.

Parte seconda La scrittura

Estate 1972

Woody sta girando II dormiglione a Los Angeles e alle porte di Denver. Da molti punti di vista questo film rappresenta un salto di qualità rispetto all’orizzonte dei suoi primi tre lungometraggi Prendi i soldi e scappa, Il dittatore dello stato libero di Bananas e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. I primi due sono una serie di sketch infilati uno dietro l’altro, mentre il terzo raccoglie diversi brevi episodi sullo stesso tema, uno dei quali, tut­ tavia, rivela chiaramente una embrionale attenzione allo stile oltre che all’aspetto comico. Il dormiglione è invece un film con una vera e propria trama, pur infarcita di battute e di gag visive. Qui il personaggio di Woody appare per la prima volta come l’eroe positivo, e non più semplicemente come un adorabile inetto. In una pausa per i preparativi di una scena, ci sistemiamo in una delle stanze della futuristica casa a forma di hamburger dove Miles Monroe (Woody) trova brevemente rifugio e chiacchieriamo dei problemi insiti nel genere comico e dell’evoluzione del perso­ naggio per il quale scrive le battute. WA: Un problema costante è quello del ritmo. Le grandi com­ medie sono molto poche e anche le migliori sono venate di un certo languore. Non c’è via d’uscita. Sono momenti che bisogna tollerare. Poi capita un’eccezione rarissima come La guerra lampo dei fratelli Marx, che praticamente non ha punti morti. Tra le migliori commedie di sempre che si possono citare - La ili

febbre dell’oro [di Charlie Chaplin], Come vinsi la guerra [di Buster Keaton] e un’altra mezza dozzina - La guerra lampo è l’unica che non ha davvero un momento di stanca. WL: Che problemi stai incontrando con II dormiglione'? [Vedi pag. 19]

WA: Il dormiglione è come una partita a scacchi in tre dimen­ sioni. Su un piano c’è la storia: vuoi che il pubblico la trovi abbastanza credibile, ma non al punto da diventare una prigio­ ne. Ma vuoi anche gag verbali e visive a profusione. È dura. I film con Bob Hope si reggono pressoché interamente sulle bat­ tute verbali, Keaton invece doveva preoccuparsi soltanto delle gag visive. Anche i film di Chaplin sono fatti, in gran parte, di gag visive. Io ho balbettato più volte, tanto sulle gag verbali quanto su quelle visive. EL: La tua ammirazione per Bob Hope è sconfinata, a volte sento addirittura la sua inflessione nel tuo modo di recitare. In che cosa siete simili? WA: Io e Hope siamo entrambi monologhisti. Tutti e due i nostri personaggi credono di essere dei fenomeni con le donne e si atteggiano a vanitosi e pusillanimi insieme. Hope era sem­ pre irresistibile nei panni del babbeo. Dall’aspetto lui sembra un po’ meno babbeo di me, io ho più la faccia da sfigato, da intellettuale. Entrambi però ci portiamo dentro lo stesso tipo di umorismo. Ci sono dei momenti in cui penso che Hope sia stato il migliore che io abbia mai visto. Mi ispiro a lui in continuazio­ ne. Certe volte mi devo addirittura trattenere per non imitarne anche la mimica. E difficile accorgersene perché siamo comple­ tamente diversi sia fisicamente sia nel tono della voce. Le simi­ litudini si notano di più nei suoi primi film, come La mia bru­ netta preferita. Hope mi faceva morire quando snocciolava le 112

sue battute vagamente da gradasso. [Nel Dormiglione Woody recita una battuta alla Bob Hope quando lui e Diane Keaton, tra­ vestiti da dottori, tentano di rapire ciò che rimane del Leader, il naso. Imbattutisi in una minacciosa sentinella, Woody fa un rapi­ do cenno con la mano e dice, con la finta spavalderia tipica di Hope: “Siamo qui per il naso. Sembra che goccioli. "] EL: Gran parte dell’umorismo non dipende però più dalla recitazione che dalla scrittura? WA: Sì. Gli imbrattacarte che scrivevano \'Ed Sullivan Show, per esempio, che stroncavano gli ascolti e sparivano, non dura­ rono proprio per la mancanza di un personaggio credibile die­ tro le scenette e le battute. I loro testi erano comici sulla carta e strappavano qualche risata perché tutto sommato non erano male ma, al suo meglio, la gag è un veicolo per presentare un personaggio. All’epoca dei miei esordi ero convinto del contrario. Pensavo soltanto ad andare in scena e fare le mie battute perché credevo che il pubblico ridesse per quelle. Invece Jack Rollins [il suo manager] continuava a ripetermi: “Tu fai tutto al contrario.” Non conoscevo i fondamenti perché ragionavo da un punto di vista autoriale. Mi dicevo: “Se S.J. Perelman salisse sul palco e

Nel Dormiglione, Miles Monroe (Woody) e Luna Schlosser (Diane Keaton) tentano di rapire ciò che rimane del Leader ma si imbattono in una guardia. Con la fìnta spavalderia tipica di Bob Hope, Miles si fa strada dicendo: “Siamo qui per il naso. Sembra che goccioli.”

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leggesse ‘No Starch in the Dhoti, S’il Vous Plait’ [uno dei suoi molti racconti apparsi sul New Yorker, i cosiddetti “casuals"], il pubblico si metterebbe a ululare dalle risate.” Invece non è affatto così, le battute diventano un modo con il quale il comi­ co trasmette una personalità o un atteggiamento. Come Bob Hope. Non ridi per le singole battute, ridi di un tizio pieno di finta spavalderia, sbruffone e al tempo stesso pusillanime. Si ride sempre del personaggio. EL: Come è cambiata, se è cambiata, in questi anni la tua visione del personaggio per il quale scrivi?

WA: Credo di avere, come tutti, una visione limitata di me stesso, mentre dall’esterno qualcuno mi può rendere consape­ vole di una dimensione che non abbraccerei in maniera automa­ tica. Naturalmente, per il mio primo film sono andato sul sicu­ ro, affidandomi a ciò che conosco: una abbietta umiltà. [Ride. ] Sono molto timido in quel film. Non che avessi molte alternati­ ve, del resto: non avevo mai interpretato un film, non ero mai stato il protagonista di un film. Dopo aver visto Prendi i soldi e scappa, Pauline Kael [defunta critica del New Yorker] mi disse: “Il pubblico tifa per te, non vuole l’ennesimo fallimento, vuole che finisca bene con la ragazza. Tu invece hai un concetto diver­ so di te stesso.” Intendeva dire che io ho una visione masochi­ stica di me stesso, che dovrei pensarmi di più come un eroe e che gli spettatori dovrebbero identificarsi con me e con le mie battute in modo positivo. Credo che avesse ragione. Nel Dormiglione risulto più deciso, e mi piacerebbe continuare su questa strada e vedere quello che succede. Sto appena comin­ ciando a sentirmi vagamente consapevole dei miei mezzi, ad avere più fiducia in me stesso. Devo pensarmi come qualcuno che ha sempre bisogno di imparare, non mi vedo per tutta la vita a fare commedie surreali. Sento che da qui a un paio d’an­ ni dovrei sperimentare altri stili di commedia. 114

EL: Hai un’idea chiara del personaggio per il quale scrivi?

WA: Non è un personaggio che plasmo o rielaboro consape­ volmente. Non mi capita mai di pensare: “Be’, lui non si com­ porterebbe certo in questo modo.” Tanto negli spettacoli quan­ to nei film faccio quello che credo sia divertente, ed è cento per cento istinto. Semplicemente, so che al mio personaggio non capiterebbe mai di ammazzare qualcuno e infilare il cadavere nel congelatore. Faccio quello che mi sento e da questo si svi­ luppa un personaggio. Tutto il resto per me non conta niente. Voglio anzitutto far ridere, e se in più riesco a trasmettere un punto di vista, tanto meglio. Non ho un’immagine interiore del personaggio che ne viene fuori. Posso descriverlo solo in base a quello che ho letto o sen­ tito dire: contemporaneo, nevrotico, vagamente intellettuale, sfigato, piccino, brutto rapporto con le macchine, disadattato... stronzate del genere. Posso capire il perché di queste definizio­ ni ma non sono certo partito con l’idea di fare del mio perso­ naggio un perdente e un omuncolo. Non credo che lo si possa studiare a tavolino, lo fai e basta. Sono certo che non ci fosse calcolo in Chaplin, anche se gli osservatori potevano dire: “Allora, i baffi rappresentano la vani­ tà, le scarpe grosse quest’altro, la camminata quest’altro anco­ ra.” Sono certo che nella sua testa Chaplin pensasse: “Ehi, scommetto che questo farà ridere: mi metto i pantaloni larghi, le scarpe grosse, un paio di baffi e sembrerò buffo.” E tutto molto casuale, contingente. Nella realizzazione di un film molto di quello che si è pianificato prende una piega diver­ sa; in sala di montaggio si scoprono in continuazione cose nuove. Se non ti concedi questa possibilità, diventi uno di quei registi calligrafici che prendono in mano una sceneggiatura e la girano pari pari. Non dico che io improvviso e basta, ma l’espe­ rienza di realizzare un film si verifica quando lo fai, non quan­ do lo scrivi, a differenza di una pièce teatrale che è per il novantacinque per cento scrittura. 115

EL: Parlando del proprio lavoro, spesso gli autori di Jackie Gleason usavano l’espressione “nutrire il mostro”, intendendo che il loro compito era quello di fornire materiale al suo perso­ naggio. Vorresti mai che degli autori facessero questo per te? WA: Non mi dispiacerebbe avere un paio di autori deputati a “nutrire il mostro”, mi darebbe la libertà di dedicarmi ad altro. Non mi dispiacerebbe sapere che un paio di tizi divertenti stan­ no scrivendo una commedia esilarante per il mio personaggio, e che magari la dirigerò io o, che so, uno come Herb Ross [il regi­ sta cinematografico di Provaci ancora, Sam]. Mi darebbe la tran­ quillità di sapere che potrò recitare in buoni film comici, che quell’aspetto della mia carriera è coperto, per dedicarmi invece a scrivere un film vagamente drammatico o qualcosa di meno convenzionale che mi interessa di più. In questo momento però sento il dovere di continuare a fare i miei film senza prendermi eccessive libertà. [Negli anni a venire Woody si conquisterà la libertà (e la sicu­ rezza) di dedicarsi a qualsiasi tipo di film - un dramma, un musi­ cal, una commedia - in base all’interesse del momento. Qui sta la differenza tra le preoccupazioni di un regista alle prime armi e l’atteggiamento di chi, invece, ha ormai consolidato la propria fama a livello mondiale.}

EL: Secondo qualcuno, l’umorismo è spesso ostilità sotto mentite spoglie. E una teoria fondata, nel tuo caso?

WA: Ho constatato che se sono davvero ostile nei confronti di un soggetto non riesco a scrivere nulla di comico a riguardo. Se scrivessi qualcosa sull’amministrazione Nixon [siamo durante la presidenza di Richard Nixon}, risulterebbe ostile senza essere divertente. Il mio è probabilmente un umorismo diverso. So che se scrivessi qualcosa su Kafka o Ingmar Bergman, che adoro entrambi, risulterebbe comico senza essere velenoso. 116

L’umorismo è enormemente complicato, e non è affatto facile proporre verità universali. Una commedia, come una partita a scacchi o di baseball, si compone di mille dati psicologici, noti e ignoti. Se una cosa ti fa ridere, vuol dire che è divertente. È molto più profondo di quanto si possa pensare. EL: Tu ammiri di più i film drammatici rispetto alle comme­ die. Non è però più difficile scrivere una grande commedia? WA: Non c’è dubbio, la commedia è più diffìcile rispetto alle cose serie. Ma non c’è dubbio altresì, almeno dal mio punto di vista, che la commedia abbia meno valore rispetto a un’opera drammatica. Ha un impatto minore, e credo giustamente. Quando la commedia affronta un problema, lo mette alla berlina ma lo lascia irrisolto. Il dramma, viceversa, lo scava in un modo più soddisfacente dal punto di vista emotivo. Non voglio appari­ re brutale ma c’è qualcosa di immaturo, qualcosa di dozzinale in termini di soddisfazione se paragoni la commedia al dramma. E sarà sempre così, la commedia non avrà mai la statura di Morte di un commesso viaggiatore oppure di Un tram che si chiama deside­ rio o 11 lungo viaggio verso la notte. Non sono nemmeno parago­ nabili, neanche le migliori. La scuola della maldicenza, Le rane, Pigmalione, La moglie di campagna, L’eterna illusione, Nata ieri, Prima pagina, Tempi moderni, La guerra lampo dei fratelli Marx, Come vinsi la guerra - e sto citando alcune delle commedie migliori di sempre - non avranno mai l’impatto del Settimo sigil­ lo, o della Corazzata Potèmkin, o di Rapacità. Nella commedia, malgrado sia più difficile da realizzare, c’è sempre qualcosa di meno appagante. Detto questo, è un parere personale. Il problema è questo: stai realizzando una commedia e ti viene voglia, giustamente, di curare la fotografìa quando improvvisa­ mente, alle tue spalle, appare in tutta la sua voracità quel mostro che ti impone di sostenere un buon ritmo ed essere spietata­ mente comico. Non intendo una battuta al secondo, puoi anche 117

fare una commedia con una battuta ogni cinque minuti e maga­ ri non ricorrere alle gag ma a un umorismo più legato ai perso­ naggi. In ogni caso, però, devi tenere un certo ritmo per non violare le regole di fondo che hai dettato nei primi cinque minu­ ti, il tacito patto stabilito con gli spettatori, ossia di essere diver­ tente e non annoiarli. Sono proprio queste premesse a rendere molto difficile e spesso praticamente impossibile fare il genere di cose che mi interessano di più. EL: Cos’è dunque che ti interessa di più? WA: Le cose più strappalacrime. Per esempio il genere di drammi realizzati da Bergman, da Antonioni. Grandi cose di atmosfera. Sono i registi drammatici quelli che si divertono di più. Sussurri e grida è pieno di primi piani, fa un uso particola­ re del colore, soluzioni non adatte alla commedia. In generale, ciò che è più bello da vedere non ha dentro le risate. Ecco per­ ché il massimo della mia soddisfazione è stato girare l’episodio italiano di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, in cui non dovevo pensare ad altro che alla migliore inquadratura pos­ sibile. [Lepisodio, intitolato Perché alcune donne hanno diffi­ coltà a raggiungere l’orgasmo?, ha per protagonista una donna che riesce a provare piacere solo in ambienti pubblici lussuosi e raffinati] Non dovevo controllare se era scura o se era depri­ mente, o se un attore era in ombra oppure mezzo coperto per­ ché faceva tutto parte del gioco... l’episodio è una presa in giro di quello stile di regia.

Giugno 1974

Il dormiglione è accolto da ottime recensioni e grande successo di pubblico. È un film di svolta per Woody nel senso che, nono­ stante contenga molte gag, ha anche una trama, incentrata sul rap­ 118

porto comico fra il suo personaggio e quello di Diane Keaton. Woody sta ora lavorando al suo prossimo film, ma è combattuto fra tre idee alternative, una delle quali sarebbe facile da scrivere ma non rappresenterebbe per lui un passo avanti sul piano artisti­ co. Al di là dei progressi fatti segnare con II dormiglione, Woody vuole progredire ulteriormente, ma allo stesso tempo non è sicuro di quello che il suo pubblico sarà disposto ad accettare. Il primo film di cui parla qui di seguito - il film sulla relazione - divente­ rà Io e Annie (1977). Il secondo - la commedia “stravagante” - è Amore e guerra (1975).

EL: Stai scrivendo da qualche mese ma non hai ancora una sceneggiatura per il tuo prossimo film. Dove ti sei incagliato? WA: Voglio fare un film completamente diverso. Quando ho cominciato a riflettere sul prossimo progetto, avevo in mente di incentrarlo su una persona reale, girare una commedia ma rea­ listica. Basta con i tizi che si risvegliano nel futuro, i rapinatori di banche e i conquistatori di paesi del Sud America. Voglio fare un film in cui io e Diane Keaton interpretiamo noi stessi, abitia­ mo a New York e nella nostra relazione affrontiamo conflitti reali. Lo preferirei a una commedia più stravagante. Ho messo nero su bianco un’idea, l’ho riletta e mi è piaciuta la prima metà ma non la seconda. Così l’ho riscritta ma mi è venuta un’idea completamente diversa che ho adattato in buona parte alla prima metà, quella che mi piaceva. Solo che poi non mi piaceva più. Nel frattempo ho avuto una terza idea, che mi ha ulteriormente portato fuori strada e per la quale ho utilizza­ to molto materiale della prima metà che mi piaceva... e alla fine per me non va bene nemmeno questa. Per farla breve, ho tre idee sulle quali sto riflettendo.

EL: Ce n’è una che ti sembra migliore delle altre?

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WA: Ho completato trentotto pagine di quest’ultima idea che ho chiamato Amore e guerra. [Una farsa di epoca napoleonica scritta da un Dostoevskij ubriaco. Woody interpreta Boris, un con­ tadino russo con l’inclinazione per la filosofia che, insieme al suo grande amore non corrisposto, Sonia (Diane Keaton), progetta di assassinare Napoleone.] Ma il problema è questo: mi viene faci­ le perché è stravagante, perché è tutt’altro che reale. Vorrebbe essere molto divertente... divertente nel modo in cui si può leg­ gere un pezzo di S.J. Perelman. E semplicemente un’orgia di comicità. Da questo punto di vista, metterla per iscritto è stata per me una delle esperienze più godibili; è un fuoco di fila di scene che dovrebbero essere interpretate da Bob Hope, sareb­ be un film migliore se potesse recitare al posto mio. Credo, tut­ tavia, che qualcosa di diverso possa fare maggiore presa sul pubblico, perciò non so se porterò a termine il progetto. Continuo a lavorarci un paio di ore al giorno e poi mi prendo qualche ora per provare un’altra idea. Sono sicuro che finirò per prendere una decisione improvvisa: finire Amore e guerra o ela­ borare questa idea alternativa. Riesco a scrivere molto in fretta. Il copione sarà terminato in quattro-sei settimane. Non so se sto facendo la cosa giusta perché ho il timore che, scrivendo una storia realistica che magari faccia ridere gli spetta­ tori, otterrò in certi ambienti le stesse reazioni suscitate da [Provaci ancora,] Sam, da cui mi aspettavo un risultato finale più insolito, più originale. La cosa su cui sto lavorando rientra per­ fettamente nel genere di film che il pubblico si attende da me. EL: Tu invece vuoi andare al di là di ciò che il pubblico si attende da te, giusto?

WA: Sì, l’obiettivo è di puntare sulla realtà, per me sarebbe la svolta più rilevante. Credo che il pubblico si sia ormai affezio­ nato a me sul piano personale e dunque non voglio fare una commedia in cui il mio personaggio risulti subordinato a una 120

In Amore e guerra, il padre (Zvee Scooler) di Boris (Woody) possiede “un prezioso pezzo di terra. Veramente era un pezzettino ma, dovunque andava, se lo portava dietro”.

serie di sketch, per quanto intelligenti. Mi piacerebbe girare una storia vera ma dai risvolti comici. Sono sicuro, d’altronde, che appena inizierò a scriverla mi verrà da pensare: “Che diavolo ci faccio qui? Dovrei scrivere una storia demenziale. ” Confronterò le prime quaranta pagine della storia realistica con le prime quaranta di quella demenzia­ le e dirò: “Non c’è paragone in quanto a divertimento; la storia demenziale fa sbudellare dalle risate.” La storia realistica sarà buffa, ma solo nella misura in cui può esserlo la vita vera. [Questo è il primo esempio di quello che Woody chiama un dilem­ ma privo di soluzione positiva, nel quale si ritroverà intrappolato negli anni a venire ogni volta che dovrà scegliere tra idee concor­ renti.] Se, per ipotesi, nello studio del mio psicanalista sparlo di una donna senza sapere che anche lei è una paziente del dottore, be’, la situazione può anche far ridere ma non credo che potreb­ be mai raggiungere i livelli di comicità esplosiva che l’altro genere di commedia ti mette a disposizione... che so, due com­ puter ebrei che fanno i sarti [come nel Dormiglione]. Non voglio che gli spettatori escano dal cinema dicendo: “E allora? Dov’è finita l’ispirazione, dov’erano le idee originali? Questo 121

film doveva interpretarlo un George Segai, un Dick Benjamin, un Dustin Hoffman.” EL: Stai cercando di capire quello che il pubblico vuole oppu­ re di stabilire quello che puoi dargli restando nel tuo raggio d’azione attoriale? WA: Non sento il bisogno impellente di scrivere sceneggiatu­ re che avrei potuto proporre due anni fa. Sto cercando di evol­ vermi e non semplicemente di ripetermi, per una questione di crescita personale. Spero sempre che il film incontri il favore del pubblico ma non voglio cadere nella trappola di fare qualcosa che non mi convince appieno solo per compiacere gli spettato­ ri. Preferisco proporre qualcosa di buono anche a rischio di non piacere. Meglio cercare di crescere e magari fallire in maniera indecorosa che giocare sul sicuro o, peggio, arruffianarmi il pubblico.

EL: Nel caso decidessi di non girare Amore e guerra per il momento, pensi che ti piacerebbe realizzare l’idea in futuro? WA: Sì, è un film che mi piacerebbe realizzare prima o poi, nel caso non lo facessi adesso. So che nel prossimo film, quale che sia, lavorerò con la Keaton e dunque a un certo punto pensavo al genere di commedie con Tracy e la Hepbum, sarebbe diver­ tente. Il problema è che non ci si rende conto di quanto siano datate, oggi.

EL: In che senso? WA: Ci sono commedie come Una notte all’opera o La guerra lampo dei fratelli Marx in cui il pubblico ovviamente si fa un mucchio di risate, il genere di commedia in cui l’accordo tacito fin all’inizio è: “Sentite, non prendetemi sul serio. Voglio molla­ 122

re tutti gli ormeggi e farvi ridere. Non ci sono montagne che non scalerei o abissi in cui non sprofonderei pur di strapparvi un’altra risata.” Ma c’è anche un approccio diverso, film che non sono solo godibili a livello cerebrale ma che trasmettono anche un’atmo­ sfera, ti danno sensazioni. Hai presente, il tizio suona il campa­ nello della ragazza e aspetta sotto la pioggia di fronte a casa sua: è buffo, fa morire dal ridere, ma comunica anche una sensazio­ ne, vorresti che i due si incontrassero. Basta un espediente nar­ rativo minimo. Però sai che, anche quando non ride, il pubbli­ co resta coinvolto, il film continua a essere godibile. EL: Quanto è importante la trama per una commedia? WA: I copioni moderni sono molto slegati dalla trama, che in una commedia è dinamite; quando hai la trama in una commedia sei a cavallo. Nelle commedie senza trama, come 11 dittatore dello stato libero di Bananas, sei invece sempre costretto a inventarti i fuochi artificiali. Devi far ridere fin dall’inizio e continuare, con­ tinuare; è passata un’ora e non puoi sfruttare nulla di quello che è successo fino a quel punto. Per non parlare del finale, che dev’essere il tripudio, dieci volte più divertente. Se puoi contare su un contesto, su una storia, alla fine raccogli i frutti di tutto quello che hai seminato in precedenza. In Prendi i soldi e Bananas mi toccò fare i salti mortali per tenere in piedi la baracca. Ci sono riuscito? Solo il pubblico può stabilirlo; e ciascuno spettatore decide per sé... o meglio, non prende nemmeno una decisione consapevole: si guarda la pancia per vedere se sobbalza.

EL: C’è una forma che si presta meglio di altre alla comme­ dia? WA: Tutte le forme accettate vanno benissimo per la comme­ dia, è per questo che i comici vi fanno un ricorso tanto frequen123

In Provaci ancora, Sam, essendo se stesso, Allan conquista la sua grande amica Linda.

te. Ecco che allora un giallo comico può essere un’ottima idea, così come una commedia di fantascienza o una commedia western. Hope ha fatto Monsieur Beaucaire [parodia del film sto­ rico], Viso pallido [parodia del western] e La mia brunetta prefe­ rita [parodia del giallo]. Idem Jerry Lewis. Se cerchi di fare una commedia di personaggi, e ti affidi più al ritratto psicologico che alla trama, le cose si complicano. [Provaci ancora,] Sam era una commedia di personaggi. Le risa­ te non erano provocate dallo sviluppo narrativo... Tony [Roberts, che interpreta il miglior amico di Allan ed è sposato al personaggio di Diane Keaton] toma dal suo viaggio d’affari e io mi devo nascondere dietro la porta. La comicità discende stret­ tamente dal ritratto di una personalità estremamente nevrotica e bizzarra intrappolata in una certa situazione [in seguito a uno 124

sviluppo dei personaggi credibile ma inatteso, Woody e Diane Keaton sono finiti a letto insieme}, ma non è certamente ima plot comedy come A qualcuno piace caldo o La costola di Adamo. Il fatto che il mio personaggio e quello di Diane finiscano a letto è un momento della trama, e anche piuttosto casuale. Ecco per­ ché, nonostante fosse una commedia dalla struttura datata, aveva una certa freschezza. Era basata più sui personaggi. [Riflette.] Ma sembrerà sempre fresca? Probabilmente no, per­ ché difetta di genio. [Ride.] Voglio dire, difetta di molte cose tra le quali il genio.

Fine giugno 1987

Da esordiente, Woody si è trasformato in regista affermato. Amore e guerra è stato seguito da un ruolo da attore nel film II prestanome [1976], di Martin Ritt e Walter Bernstein, poi da Io e Annie (Oscar per Miglior film, Migliore regia, Migliore sceneg­ giatura, Migliore attrice protagonista a Diane Keaton), dal film drammatico Interiors (1978), da Manhattan (1979) e da Stardust Memories (1980). Dal 1982 i suoi film sono Una commedia sexy in una notte di mezza estate, Zelig, Broadway Danny Rose, La rosa purpurea del Cairo, Hannah e le sue sorelle e Radio Days, un filotto di successi, a eccezione del primo. Ha appena finito di girare Settembre, non una ma ben due volte, dopo averlo riscritto e cambiato parte del cast. Il film non incontrerà il favore del pub­ blico. Si sta inoltre preparando a girare Un’altra donna. Mi ha mostrato la prima stesura del copione che ruota intorno a Marion Post, una donna sulla cinquantina dalla interiorità talmente intensa che deve soffocare i propri sentimenti per non esserne sopraffatta. All’inizio e alla fine del copione, Marion parla della sensazione che si prova guardando le stelle. La prima volta, ricorda quello che 125

diceva suo padre guardando attraverso il telescopio del Monte Palomar in California, mentre Marion era ancora nel ventre materno: “Erano lucenti, una moltitudine infinita. Milioni di stel­ le. Ti davano idea dell’inanità della vita, di quanto siamo insigni­ ficanti rispetto al grande progetto delle cose. È buffo... pur sapen­ do che non serve a nulla, per continuare a vivere sei costretto a farti la lista della spesa delle cose in cui credere. ” Alla fine della bozza c’è questa descrizione del presente: “Anche adesso spuntavano stelle qua e là, ma le luci cittadine le rendeva­ no difficili da vedere. ” In anni recenti Woody è diventato padre e tutto il copione è attraversato dagli echidi un figlio, o di un figlio non avuto. In una scena, notando una donna in dolce attesa, Marion ripensa all’aborto avuto quando era molto più giovane. “Mi piaceva l’idea di un bambino, ” grida durante un alterco con l’allora marito, “ma il coinvolgimento emotivo sarebbe stato inso­ stenibile.” Verso la fine del copione, Marion non riesce più a sfuggire al proprio passato e ai propri sentimenti, come ha invece fatto per tutta la vita. “Adesso che avevo superato i cinquanta, ” riflette, “certe cose era ora di metterle da parte.” Woody ha scritto il copione a cinquantadue anni. Leggendolo, non posso fare a meno di notare quelle che mi paiono analogie tra i sentimenti di Marion e i suoi, per come me li ha descritti nel corso degli anni. Nonostante lui neghi quasi sempre che ci sia un lato direttamente personale nei personaggi che crea, quando gli chiedo di Marion mi risponde: “In Marion ho messo tutto ciò che provavo nell’arrivare ai cinquant’anni. Mi d è voluto almeno un anno per superare lo choc.” Avremo molte altre occasioni di discutere di questo film una volta girato e montato, e quando ci incontriamo la volta successi­ va, due mesi dopo, parliamo un po’ di Settembre, che usdrà pre­ sto nelle sale ma al momento è ancora senza titolo. Woody affron­ 126

ta subito il perché ha girato ilfilm, e soprattutto perché lo ha gira­ to non una ma due volte. EL: Sei solito rigirare diverse scene dei tuoi film ma questo lo hai addirittura rifatto completamente. WA: Non sarebbe stato possibile con nessuno degli altri film che ho realizzato. Con questo sono stato fortunato... sei perso­ naggi, un solo set. Sto pensando di chiamarlo Settembre, voglio un titolo che non prometta più di tanto. La mia tipica fiducia in me stesso. Cerco di seguire la linea morbida, senza sembrare pretenzioso, per esempio usando titoli di una sola parola. [Dei ventidue film che realizzerà tra il 1987 e il 2006, solo quattro - Settembre, Alice, Celebrity e Scoop - avranno titoli composti da una sola parola. Sette avranno titoli con due parole e nove con tre. Un pignolo, di conseguenza, potrebbe considerare lunghi solo due titoli, La maledizione dello scorpione di giada e Tutti dicono I love you.] EL: Come Zelig [in cui Woody interpreta un personaggio tal­ mente desideroso di essere accettato da trasformarsi in camaleon­ te, assumendo le caratteristiche di tutti coloro con i quale viene a contatto. Nel film il volto di Leonard Zelig compare in svariate immagini di cinegiornali accanto a personaggi diversissimi come Babe Ruth e Adolf Hitler]. WA: Zelig ha avuto un sacco di titoli, alcuni dei quali erano espressioni tipiche degli anni venti per definire un “dritto”, un ganzo”: Cat’s Pajamas , Bee's Knees. Procedevo per eliminazio­ ne, organizzando tornei di titoli con i miei amici a cena. Non che il metodo fosse particolarmente produttivo, l’unica cosa divertente era sentire cosa non si inventavano i miei ospiti. Alla fine selezionai una manciata di titoli papabili e li montai in testa al film per una proiezione di prova. Nel momento stesso in cui lo vidi con Zelig capii che era quello giusto. 127

EL: Sembrerebbe un film complicato da girare. WA: No, affatto. Fu facile e divertente da girare. Non doveva­ mo preparare nulla di elaborato con le luci, girare e basta. Fu necessario, invece, molto lavoro in fase di post-produzione. Ordinammo attrezzature televisive e realizzammo tutte le immagini da cinegiornale su nastro. Ci ritrovammo con centina­ ia di migliaia di metri di nastro sui nazisti e altro materiale di repertorio.

EL: Dovesti rigirare molto?

WA: Le scene nella camera sterile \in cui la psichiatra Eudora Fletcher (Mia Farrow) intervista Leonard Zelig (Woody)} furono rifatte più volte. La gag era che io avessi una camera sterile por­ tatile nella valigia. Usammo diversi teatri di posa in tutta New York e il Queens. Quella parte la girai nove volte. Alcuni dialo­ ghi sono improvvisati, altri erano scritti. Ebbi anche un’idea molto interessante che però non riuscii a realizzare: iniziavo a comportarmi come Mia la quale, per la prima volta, vedeva se stessa in me e cambiava vita. La girai ma

La capacità di Leonard Zelig di trasformarsi in chiunque gli sia accanto (un indiano, un nero, un obeso) è comica solo in superfìcie. Il messaggio di Zelig è che una persona talmente desiderosa di piacere agli altri da accettarne qualsiasi opinione può essere trascinata nel fascismo.

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non riuscii a inserirla nella versione definitiva. Affinché funzio­ nasse avrei dovuto aggiungere troppe informazioni ulteriori. Non avendo le capacità per dare di lei un’immagine tanto ricca, preferii limitarmi a una versione più semplice del personaggio. EL: Quando lo hai scritto avevi già in mente di fame un docu­ mentario?

WA: Inizialmente lo avevo pensato come un film contempora­ neo, su un tizio che lavora per la WNET [la stazione newyorche­ se della PBS, la tv pubblica americana], ma poi pensai che sareb­ be stato meglio come fenomeno culturale. Il documentario mi ha sempre intrigato. Qualcuno interpretò il film come una paro­ dia di Reds per via delle interviste con i testimoni, che tra l’altro avevo già usato in Prendi isoldi e scappa. [Fa spallucce.] Sono un aspetto irrinunciabile dei documentari.

EL: Settembre è un film in forma di pièce teatrale, che affron­ ta i temi del rapporto con il proprio passato e dell’amore non corrisposto.

Zelig (il terzo da destra) tra la folla radunata per un comizio di Hitler, mentre si rende conto delle conseguenze del proprio desiderio di essere accettato dal prossimo.

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WA: Era un concetto che mi incuriosiva da molto tempo, un’idea che avevo sempre coltivato: di frónte a un episodio traumatico [nel film una ragazza confessa di aver ucciso il mane­ sco compagno di sua madre anche se probabilmente è stata que­ st'ultima a commettere il gesto] alcuni caratteri ne escono distrutti, non riescono a superarlo, mentre personalità di tipo diverso se lo lasciano scivolare addosso.

EL: Nel film ci sono tre personaggi più o meno giovani e un uomo più anziano, ciascuno innamorato ma nessuno corrispo­ sto dall’oggetto del proprio desiderio, e due personaggi genitoriali beatamente soddisfatti l’uno dell’altra. WA: Trovavo interessante che Diane, la madre di Lane [Eiaine Stritch], fosse in grado di godersi la vita senza essere toccata da nulla. Possiede senso dell’umorismo e molta energia, un tempo era carina. Di contro, Lane [Mia Farrow] è smarrita, in difficol­ tà, come del resto l’altra donna [Stephanie, interpretata da Dianne Wiest], mentre sua madre, malgrado sia più anziana, rie­ sce a trovarsi un nuovo marito. Per giunta, nemmeno un imbe­ cille ma un medico, mica si è invischiata con un agente teatrale o un allibratore... Lui è un uomo intelligente, e lei dimostra di saper affrontare la vita. Ha abbastanza umorismo - o forse suf­ ficiente carenza di empatia per gli altri - da estraniarsi dai pro­ blemi; è abbastanza egoista da attraversare la vita senza lasciar­ si ferire. Lane invece è a pezzi e non ne uscirà mai.

EL: Avevi qualche idea riguardo al passato dei personaggi? Lane dice la verità a proposito dell’omicidio? Ha veramente ucciso il fidanzato di sua madre o in realtà è stata Diane che poi ha indotto Lane ad accusarsene? WA: Presumo che quanto Lane afferma essere successo, sia successo. Presumo che la madre avesse una storia con questo 130

tizio, avesse avuto un alterco dovuto all’alcol o qualcosa del genere, che il tizio fosse un mascalzone e che lei abbia finito per sparargli. Poi ha probabilmente chiamato il suo avvocato in preda a una crisi isterica, lui è arrivato e le ha detto: “Senta, la cosa da fare è raccontare la tale versione dei fatti perché alla bambina non succederà niente mentre lei si troverebbe in un mare di guai.” Questo è ciò che io presumo sia successo nel rapporto tra Lane e Diane. Tuttavia, non è la vicenda in sé a interessarmi: ecco perché non mi sono dato la pena di mostrarla in flash back o di scrive­ re il film sulla base di quell’antefatto. Ciò che mi interessava erano soltanto le reazioni, le reazioni nel lungo termine. EL: E quali ritieni che siano, queste reazioni nel lungo termi­ ne? WA: Credo che Lane sia in gravi difficoltà, che non riesca più a ritrovarsi. Nonostante faccia del proprio meglio per tirare avanti, la sua vita rimarrà sempre un supplizio. Il trauma e la ferita sono troppo profondi perché lei possa mai incontrare qualcosa di speciale, non sarà mai davvero felice. Penso che Diane Wiest finisca per tornare dal proprio marito trascorren­ do il resto dei suoi giorni in una sorta di matrimonio funziona­ le, meccanico. Per quanto riguarda i personaggi maschili, penso che Denholm [Elliott, il vedovo] rimanga da solo e che Sam Waterston [l’aspirante scrittore] tomi a casa con la sensazione di aver conosciuto una persona carina ma tra loro non succederà nulla. E non si avvererà nemmeno il suo sogno di prendersi un’estate di vacanza per scrivere il suo libro. Penso che se la passeranno male tutti tranne la madre di Lane, grazie alla sua capacità di prendere la vita alla leggera. Forse anche questo ha un prezzo, del resto, ossia il fatto di trasmette­ re agli altri un’immagine generalmente sgradevole. L’unica cosa 131

che la affligge è il passare degli anni, l’invecchiare, e nonostan­ te abbia la propria parte di sofferenze, è il suo egoismo, la sua superficialità a permetterle di andare avanti. Da giovane era chiaramente una persona frivola, che non aveva mai lavorato. Le piaceva divertirsi, frequentare i nightclub, vedere il proprio nome nelle rubriche sulla mondanità, si occupava di sfilate e di moda ma senza mai prendere nulla davvero sul serio. Al momento opportuno ha lasciato il marito, condannando Lane a una vita infelice e pensando solo a se stessa. È così che riesce ad andare avanti.

Gennaio 1988

Sono finite le riprese di Un’altra donna e, durante il montaggio del film, Wòody dà gli ultimi ritocchi al copione di Edipo relitto, che sarà girato in primavera, e riflette seriamente su cosa scrivere per ilfilm da girare in autunno. Ha anche avuto qualche giorno di riposo per le festività di Capodanno. Arriviamo rapidamente alla questione della prossima sceneggiatura. EL: Ti sei già orientato su una storia? WA: Non ho ancora scelto definitivamente. Ho l’abitudine di concedermi un generoso periodo di ozio creativo, un paio di settimane in cui lascio soltanto che la mia mente vaghi libera­ mente tra le varie idee che mi sono appuntato o qualsiasi altra cosa che mi salti in testa. Nell’ozio più totale, penso a qualsiasi cosa, dai musical ai drammi più cupi. Poi comincio a orientar­ mi su qualcosa in particolare. Molto spesso si tratta di ridurre la scelta a un paio di alternative e gran parte del tempo lo trascor­ ro a dilaniarmi tra l’una e l’altra. A prescindere da quale scelga, mi viene sempre il dubbio che avrei dovuto puntare sull’altra. Specie quando inizio a mettere nero su bianco: nel momento in 132

cui la storia passa dalla fantasia alla realtà, mi sembra puntual­ mente meno bella, mentre l’altra idea è lì che incombe in un angolo del cervello. Penso: “Ah, se avessi puntato su quella sul cowboy, santa polenta, avrei potuto fare questo e quest’altro, sarebbe stata assolutamente perfetta.” Viceversa, se mi fossi messo a scrivere l’altra mi sarei accorto che la prima, l’idea sul­ l’attico era molto meglio della storia del cowboy. EL: Dunque hai trascorso la tua mini vacanza semplicemente a pensare in libertà? WA: Sì. Oggi e in questi ultimi tre giorni non sono stato in sala di montaggio, me la sono presa comoda. Un’idea che sto acca­ rezzando di recente - e non so nemmeno se succederà mai o se addirittura voglio che succeda - è quella di realizzare la mia commedia Death [Morte] interpretando il ruolo del protagoni­ sta. [Morte è una storia dalle atmosfere mitteleuropee che diven­ terà in seguito Ombre e nebbia (1992): Kleinman, un anonimo contabile, viene svegliato nottetempo da un gruppo di vigilantes alla ricerca di un serial killer, che si rivelerà essere la Morte. Kleinman era interpretato da Woody.} Potrebbe essere un gene­ re di commedia particolare ed estremamente interessante. Non è il mio solito ruolo... New York, storia d’amore, roba del gene­ re. Inoltre affronta un argomento che mi affascina. Avrebbe bi­ sogno di sostanziale sviluppo e riscrittura e invece langue nella sua forma presente, letta da pochissime persone. L’idea è intri­ gante, potrebbe venirne fuori una cosa molto buffa. Questa dunque è una delle possibilità. Il prossimo film sarà una com­ media, visto che ho davvero approfittato della benevolenza della Orion [la compagnia che finanzia e distribuisce i suoi film al momento} girando prima Settembre e poi quest’ultimo.

EL: E devi esserci anche tu nel film, giusto?

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WA: Già. Perciò, visto che devo recitarci, ho pensato, un’ipo­ tesi è la commedia leggera, alla Hope-Crosby, ma non ho voglia di dedicarmi a un progetto del genere, in questo momento non mi interessa molto. Un musical non riuscirei a metterlo insieme per mancanza di tempo. E non voglio nemmeno realizzare la mia idea sulle liste di proscrizione perché ci vorrebbero troppi soldi. Bobby [Robert Greenhut, il suo produttore di allora] mi chiede di stare alla larga da un film d’epoca in questo momen­ to, necessiterebbe di un sostanziale aumento del budget. Tra l’altro ho già recitato in un film sullo stesso tema [Il prestano­ me (1976)]. Su un altro versante, c’è il genere di film che potrei e vorrei fare, quelli a me più consoni come Hannah e le sue sorelle... essenzialmente un film ambientato nella New York contempora­ nea e incentrato sui rapporti interpersonali. Magari opterò per qualcosa di simile, è possibile, ma pensavo che quest’altra cosa [l’adattamento di Morte] potrebbe essere curiosa, un’idea inte­ ressante. Quello della caccia a un maniaco omicida è un tema automaticamente cinematografico, possiede un senso naturale di tensione e malvagità, e la mia presenza potrebbe dar vita a situa­ zioni divertenti. Se andrà in porto, il film avrà una certa dose di classicità, vale a dire che non sarà una commedia contempora­ nea, medio borghese, di costume; la vicenda è intrisa di un’atmo­ sfera in qualche modo classica, quasi la metafora di una condi­ zione universale. Certo, oggi ho espresso i pro riguardo l’even­ tualità di trasformarla in un film. Domani avrò già cambiato idea e sarò pronto a snocciolare un elenco di contro e a lanciarmi nella perorazione della causa di qualche altro progetto.

EL: Per quanto tempo andrà avanti il “dibattito”?

WA: Durerà un paio di settimane, anche perché in questo momento ho le mani legate dal montaggio di Un’altra donna. Poi mi verrà un’illuminazione convinta: “Sì, fai questo”, oppure: 134

“No, assolutamente non farlo, fai quell’altra cosa che ti era venu­ ta in mente.” Quando si verificherà tutto questo - diciamo entro le prossime due o tre settimane -, una volta presa la decisione sul progetto da affrontare, allora comincerò a strutturarlo.

EL: Quando, se sei in saletta di montaggio tutto il giorno?

WA: Un po’ la sera, quando tomo a casa, o nei weekend, pas­ seggiando o mentre mi rilasso seduto in poltrona. In questo modo, quando arriva il momento di mettere nero su bianco sono già quasi pronto. A volta basta una settimana e sono pron­ to a buttare giù la sceneggiatura, perché l’ho già pensata e immaginata molto in precedenza. EL: Mi hai detto che non ricavi le idee dai sogni. I sogni, però, incidono su quello che scrivi?

WA: Non i sogni, ma qualcosa a livello inconscio. Anni fa, lavorando su due film contemporaneamente, mi ritrovai in gravi difficoltà. Avevo deciso di realizzare Zelig e Una commedia sexy in una notte di mezza estate simultaneamente. Il progetto era di girare una scena di Zelig e, se la location fosse stata adatta, girar­ ci anche una scena per l’altro film. E riuscimmo a farlo quasi interamente in questo modo. C’erano delle cose che si sovrap­ ponevano, di certo nelle scene rigirate. Per me, tuttavia, era molto pesante dal punto di vista emotivo. Non pesante fisicamente, quello era il minimo. Le difficoltà furono dovute al fatto che non ti rendi conto che tutto il tuo nucleo, la tua essenza si concentra su una sola idea e non molla la presa. E molto diffici­ le staccare e passare all’altra, perché sei assolutamente concen­ trato sulla prima. Come mi diceva all’epoca Marshall Brickman, quando lavori su qualcosa, ci lavori anche quando non lo sai quando mangi, quando cammini per strada, quando dormi - ci lavori anche quando pensi di aver staccato. È un continuo ribol­ 135

lire. Ho avuto modo di constatare che la sua era un’osservazio­ ne fondata. Se mi siedo dieci minuti a far nulla, la mia mente scatta subi­ to su quella cosa. Non posso farci niente. Tomo a casa e ci penso. Funziona in questo modo. Addirittura tento di pensarci persino quando mi infilo nel letto per dormire. Non mi piace mai lasciare del tempo inutilizzato. Se la matti­ na vado a piedi da qualche parte stilo il programma delle cose su cui riflettere, quali problema affrontare. Mi capita di dire: “Stamattina penso ai titoli.” Cerco di sfruttare anche il tempo della doccia mattutina. Trascorro gran parte del mio tempo a pensare, perché è l’unico modo per attaccare questi problemi di scrittura. EL: Parlami un po’ della doccia come utile posto di lavoro. WA: Nel corso degli anni ho scoperto che qualsiasi cambia­ mento momentaneo mi stimola una nuova ventata di energie mentali. Mettiamo che da questa stanza mi trasferisca nell’altra: è un aiuto. Se poi scendo in strada, è un aiuto enorme. Se salgo di sopra e mi faccio una doccia, grosso aiuto. Infatti, a volte con­ tinuo a farmi una doccia dietro l’altra. Succede che me ne stia qui [in soggiorno} impantanato e quello che mi ci vuole è salire di sopra e infilarmi sotto la doccia. Mi scioglie e mi rilassa. La doccia è particolarmente adatta nelle giornate fredde. So che può sembrare stupido, ma succede questo: me ne sto a lavo­ rare vestito come sono e decido di infilarmi sotto la doccia per stimolare uno sprazzo di creatività. Allora mi tolgo parte dei vestiti e mi preparo un muffin, qualcosa, cercando intanto di farmi venire freddo, in modo da desiderare di infilarmi sotto la doccia. E me ne sto lì sotto il getto di acqua calda per una tren­ tina di minuti, anche quarantacinque, solo a sfornare idee ed elaborare la trama. Poi esco, mi asciugo, mi vesto e mi lascio cadere sul letto. E penso anche lì. 136

Un altro aiuto mi viene dall’uscire per una passeggiata. Un tempo, quando ero meno noto, lo facevo più spesso. Ricordo quando [l’autore teatrale] Abe Burrows [Bulli e pupe] mi rac­ contò che Robert Sherwood [La foresta pietrificata] se ne andava a spasso per New York scrivendo le sue pièce mental­ mente e recitandole intanto che camminava per strada. Mi pia­ ceva molto lavorare in questo modo. Oggi posso permetterme­ lo di meno perché vengo riconosciuto e questo mi spezza la concentrazione. È una cosa molesta, capita persino che qual­ cuno ti dica: “Ah, senta, posso fare con lei questo pezzo di strada? Devo assolutamente raccontarle una cosa.” Mi è suc­ cesso diverse volte. Non riesco a concentrarmi, mi sento in soggezione.

EL: Una volta Bobby Greenhut mi ha raccontato che, mentre lavorava con un altro regista, dovettero allestire un set dalle parti del tuo condominio. Alzò lo sguardo e ti vide che cammi­ navi su e giù per il terrazzo. WA: Esco in terrazzo parecchio. Una delle caratteristiche migliori di questo appartamento è che ha un lungo terrazzo [con diverse decine di metri di spazio] che ho percorso mille volte mentre scrivevo i miei film. Cambiare atmosfera mi aiuta enor­ memente, lo trovo liberatorio.

EL: Una volta finito di andare su e giù scrivi quello che hai pensato? WA: Una volta che l’ho pensato non ho bisogno di scriverlo. Di rado le sinossi dei miei film occupano più di una pagina. Mentre scrivo una sinossi finisco per annoiarmi. Mi limito a indicazioni del tipo: “Alvy incontra Annie. Scena romantica. Flash-back al loro primo incontro.” Scrivo otto righe del gene­ re e quando sono arrivato all’ottava o alla nona sono già stufo. 137

Ormai conosco la storia talmente bene che non mi serve più metterla nero su bianco. EL: Ti sei sempre servito di questi aiuti alla creatività o li hai sviluppati nel corso degli anni? WA: Ho imparato con l’osservazione. Se uscivo e mi prende­ vo una pausa di cinque minuti per andare a comprare il giorna­ le, farmi un croissant alla marmellata o chissà che altro, mi ren­ devo conto che una volta sceso in strada sprizzavo una tale ener­ gia che pensavo: “Ehi, quasi quasi non compro i giornali, mi faccio solo un giro e tomo a casa.” Così finivo per fare una bella passeggiata a Central Park o per la città. Stesso discorso per la doccia. Dopo essere rimasto seduto a tavolino due ore senza partorire niente, capitava che dovessi fare una doccia perché più tardi sarei dovuto uscire. Pensavo: “Vabbe’, faccio una pausa e mi rimetto a lavorare dopo.” Ma sotto la doccia scoprivo all’improvviso... come uno sbloccamento di energia... è un’espressione orribile, ma non saprei come descriverlo altrimenti. All’inizio, perciò, succedeva per caso mentre adesso lo faccio di proposito. EL: Come riesci a mantenere la concentrazione quando la scrittura o l’elaborazione mentale procedono a rilento? Nel mio caso, o nella maggior parte degli scrittori che conosco, è allora che ci si comincia a distrarre, a vedere se le matite hanno biso­ gno di essere temperate.

WA: Una cosa che forse mi è stata d’aiuto nel corso degli anni è che, in un certo senso, ho iniziato a scrivere nelle circostanze più disagevoli. Questo me lo insegnò Danny Simon. [A Danny Simon (morto nel 2005 e fratello maggiore di Neil) Woody fu affiancato negli anni cinquanta come autore televisivo per la NBC. “Danny mi fece scendere dalle nuvole e mi condusse nella realtà. 138

AH’improvviso mi trovavo nella condizione di dover sfornare uno o due sketch ogni settimana. Dovevi presentarti al mattino e scri­ verli. Ci pagavano un sacco di soldi ma il materiale andava conse­ gnato”, mi raccontò Woody in una delle nostre prime conversazio­ ni. "Tutto quello che so sul mestiere di autore comico lo imparai da lui.”} Imparai in fretta che la scrittura non viene naturale, è un processo laborioso, molto impegnativo, ci devi sbattere il muso finché non ne vieni a capo. Lessi solo molti anni dopo quella frase di Tolstoj: “Devi intingere la penna nel sangue.” Mi ci mettevo la mattina presto, ci lavoravo, con costanza, scrivendo e riscrivendo, ripensandoci, strappando tutto e rico­ minciando da capo. Adottai un approccio ferreo... non mi fer­ mavo mai ad aspettare l’ispirazione, dovevo sempre timbrare il cartellino e produrre. Devi importelo. Riuscivo a scrivere e riscrivere perché mi costringevo. Nel corso degli anni ho sco­ perto un milione di trucchi per sopportare questi momenti spia­ cevoli.

EL: Una volta mi hai parlato di Paddy Chayefsky il quale sosteneva che, tra un progetto all’altro, l’autore vorrebbe ucci­ dersi. È così anche per te? WA: Quando arrivi alla scelta definitiva, quando dici: “Ok, questa è l’idea sulla quale mi voglio concentrare,” il piacere è immenso. Poi arriva il momento in cui devi strutturare l’idea, una fase che può essere più o meno difficile, ma quando proprio ti siedi a tavolino e cominci a scrivere... be’, allora è come con­ sumare la cena per preparare la quale hai passato tutto il giorno in cucina.

EL: Citami qualcuno dei milioni di trucchi che hai scoperto.

WA: Per esempio quello di pormi, in ogni momento libero, qualcosa a cui pensare riguardo il progetto: quando faccio la 139

Una pausa durante le riprese di Match Point.

doccia al mattino; quando vado a dormire la sera; quando aspet­ to l’ascensore. Anni fa qualcuno mi parlò di un lanciatore della Major League che aveva coltivato il sogno di fare il pitcher fin da bambino. Crescendo nella sua fattoria, il padre gli diceva: “Ogni volta che non hai niente da fare, prendi un sasso e mira a un filo d’erba, cerca di colpire un rametto. Sfrutta ogni momento.” Mi sembra una condotta assolutamente logica, che ho sempre cercato di seguire. Mi pongo sempre un problema irrisolto su cui riflettere. Inoltre, ho sempre cercato di essere molto, molto consapevo­ le delle trappole che ti allontanano dalla scrittura, per evitare di caderci dentro. Un mucchio di cose non sono nient’altro che scuse per sottrarsi al compito spiacevole di alzarsi la mattina, starsene tutto solo, pensare senza ottenere buoni risultati e andare a Ietto senza aver affrontato mentalmente il tuo proble­ ma. Questo aspetto del mestiere è proprio fastidioso. Un’altra cosa che mi aiuta parecchio è ascoltarmi mentre descrivo il problema ad alta voce. Questo serve a estrarlo improvvisamente dal regno della fantasia che è nella mia mente e renderlo concreto. Chiamo Mia e le dico: “Voglio parlarti di 140

Woody riconosce "genio artistico” a Gordon Willis, del quale dice: “Fu lui a farmi scoprire le meraviglie del buio dal punto di vista fotografico.” In questa inquadratura tratta da Manhattan, Ike e Mary sono ripresi al buio nel paesaggio lunare dcll’American Museum of Natural History.

certe questioni.” Intendiamoci, sono problemi che in nessun modo potrebbe risolvermi direttamente. Non posso certo aspet­ tarmi che mi dica: “No, lavora su questo”, o “Lavora su quest’altro” senza avere la minima idea di quello che mi è passato per la mente nei giorni precedenti. Tuttavia, mi basta farmi una passeggiata con lei, esporle il problema e sentirmi parlare ad alta voce per ottenere un grosso aiuto. In questo caso c’è una piccola trappola sartriana dalla quale devi guardarti, nel senso che potresti esporre il problema aven­ do già in testa un’idea della possibile soluzione. Rischi di condi­ zionare l’interlocutore, di presentare il problema in modo tale da indurlo a concordare con la tua soluzione anche se, in appa­ renza, hai messo sul tavolo piuttosto oggettivamente entrambe le alternative. Non è affatto facile. Ma è qui che crolla il novan­ ta per cento di tutto, in fase di scrittura. In genere, la mancata riuscita di un film non dipende né dalla recitazione né dalla regia, ma dalla scrittura. Ne parlavo sempre con Gordie [il direttore della fotografia Gordon Willis]. Se hai un buon copione e lo giri da cane, con una brutta luce e brutte inquadrature, c’è ancora la possibilità di otte­ 141

nere un film riuscito. È stato dimostrato un milione di volte. Ci sono film girati in modo deplorevole, dal film-maker dilettante fino a Bunuel, in cui però la scrittura è di tale livello che il film funziona, nonostante gli aspetti negativi. Se invece maneggi un pessimo materiale, se la scrittura non è buona, puoi anche farti venire il mal di testa per girarlo in chissà quale modo ma il più delle volte, qualsiasi stile provi a dargli, il film non funziona.

EL: Ci sono momenti sul set in cui ti siedi immobile con lo sguardo fìsso al suolo. Anche in quei momenti stai elaborando la soluzione di problemi? WA: In genere sto lasciando circolare un po’ d’aria nel cervel­ lo. Ci sono però alcune cose che mi rigenerano. Una è accende­ re il televisore, se sono a casa, e guardare lo sport... un paio di inning di baseball o una partita di basket. Per me sono cose necessarie, hanno lo straordinario potere di rilassarmi la mente. Anche sul set ho bisogno di momenti di relax, ma se si trascina­ no per più di dieci o quindici minuti faccio in modo di tornare nel camper perché c’è sempre qualcosa da fare: rispondere al telefono, risolvere una grana imprevista... anche questo fa parte del mestiere.

Novembre 1988

Voglio dedicare parte di questa conversazione nell’apparta­ mento di Woody alle letture che lo hanno influenzato. Mi porta nella camera al piano di sotto, dove, sul letto, scrive il più delle volte. Le pareti sono rosse. Sopra il caminetto c’è una foto di Marilyn Monroe autografata a matita. Sui comodini ai lati del letto matrimoniale in ottone, pile di libri. Sul comodino di sini­ stra, quelli che ha letto di recente (tra questi molti volumi di poesia e un tascabile sull’ultimo Concilio Vaticano); su quello di 142

destra, quelli ancora da leggere (la Bibbia e libri di linguistica). Poiché è risaputa la sua ammirazione per l’opera di Ingmar Bergman, inizio chiedendogli un commento ad alcuni brani del­ l’autore svedese. EL: Scrive Bergman: “Ho la netta sensazione che il nostro mondo stia per andare a picco. I nostri sistemi politici sono pro­ fondamente deteriorati e non servono più a nulla. I nostri modelli di comportamento sociale - interiori ed esteriori - si sono dimostrati fallimentari. La cosa tragica è che non possia­ mo, né vogliamo, né abbiamo la forza di cambiare direzione. È troppo tardi per le rivoluzioni e tutto sommato, nel profondo di noi stessi, non crediamo più neppure che possano sortire effet­ ti positivi. Dietro l’angolo è in agguato una civiltà di insetti, che prima o poi prenderà possesso del nostro mondo iper-individualista. Per il resto sono un rispettabile socialdemocratico.” WA: Non ho un grande concetto delle istituzioni. Credo che il tratto saliente dell’esistenza umana sia la disumanità dell’uo­ mo nei confronti del prossimo. Se la osservassi da lontano, se fossimo osservati dagli alieni, penso che l’impressione sarebbe questa. Non credo che sarebbero ammirati della nostra arte o di ciò che abbiamo conquistato. Credo che sarebbero stupefatti dalle carneficine e dalla stupidità.

EL: Bergman: “Quando vedo una nuvola in cielo, penso che il mondo stia per finire.” WA: Io mi accontenterei di cinque giorni su sette come que­ sto [oggi è coperto] e magari due giorni più belli in senso con­ venzionale.

EL: Qui Bergman parla della scrittura delle sue sceneggiature: “Scrivevo i miei film senza capire realmente ciò che avevo scrit143

to. Dopo le riprese acquistavano ai miei occhi un certo signifi­ cato, ma era un senso che comprendevo solo a posteriori. Molto dopo. Se il mio rapporto con le cose che faccio è tanto bizzar­ ro, la ragione è che spesso, quando scrivo e giro un film, mi chiudo dentro una sorta di guscio protettivo. Diffìcilmente ana­ lizzo quello che sto facendo o perché lo sto facendo. Razionalizzo solo a posteriori.”

WA: Mi dà l’idea di un grande artista intuitivo. Io credo di avere un controllo maggiore dal punto di vista celebrale e un controllo minore da quello strettamente tecnico. Infatti, parto sapendo bene cosa sto facendo e cosa voglio fare ma, a causa delle mie scarse competenze, viene fuori un risultato diverso [ride] che mi lascia sorpreso. EL: “Nell’arte non bisogna sottovalutare l’importanza dell’an­ goscioso.” Cosa pensi di questa affermazione? WA: Io trovo l’angoscia molto bella. La vedo in Martha Graham. Molti spettatori, guardando Radio Days, ridono di una mia frase, quando dico: “Ho un bellissimo ricordo della mia infanzia” e la macchina da presa stacca su Rockaway, in una giornata uggiosa, con il mare mosso. Io l’avevo intesa come una scena molto letterale ma il più delle volte strappa una risata.

EL: Hai citato più volte il tuo odio per la scuola e il fatto di essere in larga parte autodidatta. Ti lasci semplicemente guida­ re dai tuoi interessi? WA: La mia è un’istruzione eclettica. Leggo un po’ di filoso­ fia, qualcosa di storia, qualche romanzo, e l’anno successivo passo a qualcosa di diverso. Ma non c’è uno schema. Cominciai con i romanzi, era quello che mi interessava all’inizio, romanzi americani: Hemingway, Faulkner, Steinbeck. Erano miei con­ 144

temporanei anche se il loro periodo d’oro era stato negli anni venti e trenta.

EL: Cosa ha suscitato il tuo interesse per la linguistica? WA; Uno degli svantaggi e dei vantaggi - ma più uno svantag­ gio - di essere autodidatta è che leggi a macchia di leopardo, nel tentativo di farti una cultura a tutto tondo. Mi pare che negli autodidatti ci siano sempre delle lacune sorprendenti su argo­ menti estremamente convenzionali. Anche se posso aver letto un paio di libri sulla semantica e la linguistica, l’ho sempre fatto per un capriccio del momento, in maniera non sistematica. Se discuti con me e azzecchi sette degli argomenti su cui mi sono documentato, ricavi l’impressione che io sia ima persona colta, ma ti può succedere di toccare un tema noto anche all’ultimo degli universitari e smascherare una mia vistosa lacuna, una ignoranza totale dovuta all’eclettismo delle mie letture. Magari su un argomento banale, di dominio pubblico. La mia grammatica, per esempio è pessima. Assolutamente pessima. Ogni volta dal New Yorker mi arriva una valanga di correzioni. Continuano a ripetermi: “Questa cosa non si può dire, questo non è inglese corretto.” Anche Sandy Morse [la montatrice] non fa che correggermi l’inglese quando scrivo una parte di narrazione. Quando gli consegnai le battute che avreb­ be dovuto recitare in Zelig, Saul Bellow mi disse: “Non è un problema se cambio questa frase, vero? Perché è grammatical­ mente scorretta.” Mi mancano assolutamente le basi di gram­ matica, quelle che impari a scuola. Ecco, ho molti buchi del genere.

EL: Leggi poesia regolarmente?

WA: Recentemente ho riletto molta poesia. Molte delle mie cose preferite sono le stesse di sempre. 145

Se mi avessi posto questa domanda anni fa, ti avrei risposto che la poesia è come intende certa gente la pittura: dai un foglio di carta o una tela a un tizio, questo ci rovescia sopra dei colori e dice: “Ehi, sono le stesse cose che fa de Kooning o che fa Kandinsky. Potrei dipingerne dieci al giorno, di questi quadri.” Non coglie la differenza. Al che ti viene voglia di rispondergli: “Guarda che non è la stessa cosa. Tu stai semplicemente pastic­ ciando con i colori, loro no.” Be’, insomma, io avevo questo concetto della poesia. Mi è sempre piaciuta ma, più leggo e più apprezzo Yeats. Mi fa impazzire, quel ragazzo. Ovviamente tutti ammirano T.S. Eliot, che io vedo come il poeta della metropoli, ma Yeats è stupefa­ cente, dato quello che ci si prefìgge di raggiungere con la poe­ sia... pazzesco. Come Shakespeare. Ho sempre amato Emily Dickinson, William Carlos Williams, Robert Frost, E.E. Cummings. Amo anche Philip Larkin. Penso che se avessi avuto un’istruzione migliore oggi potrei scrivere poesie, perché un autore comico dispone già in parte del­ l’equipaggiamento di base. Nella comicità devi fare i conti con le sfumature, con l’orecchio e con la metrica. Basta una sillaba fuori posto in una mia battuta e la risata va a farsi friggere. È tutta que­ stione di sensibilità. Certe volte capita che un redattore mi cor­ regga qualcosa in un racconto, e allora gli dico: “Ma non vedi che se aggiungi soltanto quella sillaba la battuta non fa più ridere?” Nelle storielle, specie nelle battute fulminanti, composte da una singola frase, c’è qualcosa di succinto, di essenziale, che mi fa pensare alla poesia. Devi esprimere un pensiero o una sensa­ zione in maniera estremamente compressa e allora tutto dipen­ de dall’equilibrio delle parole. Naturalmente è qualcosa di istin­ tivo, non lo fai consapevolmente. Per esempio: “Non ho paura di morire. E solo che non voglio esserci quando succederà.” Esprimi qualcosa in una riga, e se usi solo una parola in più o in meno l’effetto non è più lo stesso. Forse, se mi mettessi a speri­ mentare, potrei trovare un modo migliore di esprimere quello 146

che avevo in mente, ma essenzialmente mi sembrava quello il modo giusto di articolarlo. E lo fai istintivamente, non studi la battuta in laboratorio. È così anche per i poeti. Mica si mettono a elaborare i loro versi con la calcolatrice, li sentono e basta.

EL: Se non ricordo male, una volta mi dicesti che ti ci è volu­ to tempo per apprezzare Shakespeare.

WA: Sono arrivato ad apprezzare molto di più la scrittura di Shakespeare. E la sua scrittura che trovo bellissima e sincera­ mente superiore. Non tanto le sue opere teatrali ma proprio le parole... i suoi testi sono scritti in maniera incantevole. Non trovo particolarmente divertente nessuna delle sue commedie ma i dialoghi sono magnifici, talmente favolosi che ti rapiscono. Le commedie, invece, le trovo stupide, grossolane, rivolte al popolino. Le tragedie hanno dei momenti sublimi ma spesso l’impianto lascia a desiderare. Tuttavia ti prendono fino alla fine perché il linguaggio è assolutamente elevato. EL: Spesso usi delle battute ispirate alla filosofia, per esempio in Amore e guerra. Leggi molti libri di filosofia? WA: La filosofia mi interessava a mia totale insaputa. Mi prese immediatamente e il fatto che Harlene [Rosen, la sua prima moglie. Woody aveva venti anni e lei diciassette quando si sposa­ rono nel 1956; divorziarono nel 1962] la stesse studiando per me era molto stimolante. Non abbastanza da iscrivermi all’univer­ sità e dedicarmici a tempo pieno, ma ogni volta che nelle mie letture mi imbattevo casualmente in un testo filosofico questo mi suscitava un interesse speciale. Se dovessi rimettermi a stu­ diare da capo, probabilmente andrei all’università e mi lauree­ rei in filosofìa.

EL: Quali filosofi senti più vicini quando li leggi? 147

WA: I più entusiasmanti sono forse i filosofi tedeschi, anche se la prima volta che leggi Platone ti esalta. Ti dà le stesse emozio­ ni di un’opera d’arte. Idem quando leggi Nietzsche. È un piace­ re. Hegel lo trovo noioso, è una lettura faticosa. Tutto somma­ to, però, quello che ti stende sono le cose più profonde: alla fine sono i filosofi razionalisti, i pragmatici, a dimostrarsi i più rigo­ rosi - saranno anche una noia, ma è difficile confutarli. Gran parte del pensiero di Bertrand Russell mi sembra molto più logico, tocca in me delle corde molto più profonde, malgrado non sia nemmeno lontanamente paragonabile, in quanto a emo­ zione e piacere di lettura, a un Camus, un Sartre, un Nietzsche... a quelli insomma più affascinanti, che affrontano temi riguar­ danti la vita e la morte, e con un linguaggio più appassionante e appassionato.

EL: Che opinione hai dell’espressionismo tedesco?

WA: L’espressionismo tedesco mi piaceva già da ragazzo. Quando andavo al MoMA, la sala che mi catturava di più era quella con i Kirchner, gli Schmidt-Rottluff e i Nolde. È sempre stato qualcosa in cui mi sono identificato. Lo adoravo. EL: E la critica letteraria?

WA: Ho appena finito il saggio di George Steiner su Dostoevskij e Tolstoj [Tolstoj o Dostoevskij. Il confronto tra la concezione epica e la concezione tragica dell’esistenza}, che mi ha spinto a rileggere Lidiota. Sono arrivato alla metà. Il libro di Steiner è stato divertente da leggere. È uno studio comparativo condotto come solo certi insegnanti sanno fare. Steiner è uno di questi, Isaiah Berlin è un altro. Alcuni studiosi sono grandissi­ mi divulgatori. Un altro è William Barrett, l’autore di Irrational Man, perché ha il dono di riuscire a esporre un argomento in modo che possa capirlo anche uno zuccone come me. 148

EL: Scusami se abbasso di colpo il livello della conversazione ma nell’omaggio a Bob Hope, commissionato dalla Film Society del Lincoln Center, dici che dopo aver visto Hope e Crosby a dorso di cammello cantare “Like Webster’s Dictionary, we’re Morocco bound”, “capii immediatamente cosa volevo fare nella vita”. E una frase a effetto, ma quanto c’è di vero?

WA: Ovviamente, all’epoca ero molto giovane. Da ragazzino adoravo i comici e mi piacevano da morire Bob Hope e Groucho Marx. Sono cresciuto con loro. Fino all’adolescenza cercavo di recitare come Hope, mi impegnavo a fare battute e sputare storielle fulminanti una dopo l’altra, con la massima scioltezza possibile. Poi però, crescendo e diventando un po’ più colto - a diciassette, diciotto anni - cominciai a nutrire il desiderio di lavorare nel teatro o nel mondo dello spettacolo, a qualche titolo. Mi interessava la drammaturgia. Volevo scrivere per il teatro e non pensavo assolutamente di fare l’autore comi­ co. L’aspirazione, così mi sembrava, era di scrivere quello che aveva scritto Ibsen o quello che aveva scritto Cechov. Certo, sapevo di avere un talento comico perché mi guadagnavo da vivere con quello ma, pur continuando ad avere successo in quell’ambito, desideravo fare il gran salto verso territori più impegnati. L’ho sempre trovato un ostacolo frustrante. Per non parlare del fatto che ero troppo fifone per abbandonare quello che mi stava dando fama e fortuna per lanciarmi a scrivere qual­ cosa che, magari, non sarebbe stato una dramma ma una soapopera. EL: Intendi dire che vedi la tua grande abilità di autore comi­ co come una piccola maledizione?

WA: No, non ho mai pensato che riuscire nella comicità fosse ima maledizione. La consideravo, anzi, un’ottima base, che mi permetteva di scrivere cose divertenti e di diventare un intratte­ 149

nitore. Ero convinto che mi avrebbe dato la possibilità di dedi­ carmi a quello che volevo fare davvero, cioè cose pesanti e drammatiche... sia come autore sia come regista. Non ho mai pensato che avrei incontrato impedimenti ulteriori.

EL: Hai scritto ormai molti film. Quanto è impegnativo doversi continuamente inventare nuovi nomi per i personaggi? Certi nomi sembrano ritornare periodicamente. Ceil, per esem­ pio, quello della sorella di tua madre. WA: Sono anni che mi chiedono da dove tiro fuori i nomi. Io rispondo sempre che quando ribatto le mie sceneggiature scel­ go nomi brevi per digitare meno. Una volta usavo spesso Louise perché mi veniva facile digitarlo. Ma praticamente c’è sempre un Blint o un Gray, un mister Gray, un mister Blint, sempre. E sempre un Abe o una Ceil. Mai una Priscilla o un Murgatroyd.

EL: Quand’è che hai letto per la prima volta Cechov e altri scrittori “seri”? WA: Fu proprio sul finire del liceo, quando cominciai a fre­ quentare ragazze che mi trovavano ignorante. Ragazze che a me sembravano bellissime: niente trucco, gioielli d’argento, borse di cuoio. Ne portavo fuori una e mi diceva: “Stasera mi piace­ rebbe proprio andare a sentire Andrés Segovia.” E io: “Chi?” E lei: uAndrés Segovia” Io non capivo proprio di cosa stesse par­ lando. Oppure un’altra mi chiedeva: “Hai letto questo roman­ zo di Faulkner?” E io: “Guarda, io leggo i fumetti, mai letto un libro vero in vita mia. Non so nulla di certa roba.” E così, pur di tenere il passo, dovetti cominciare a leggere. Hemingway e Faulkner mi presero subito, Fitzgerald non altret­ tanto. Poi cominciai a leggere cose teatrali. E quando esordii come autore comico ricordo che dissi ad Abe Burrows [suo parente acquisito: il fratello della madre di Woody aveva sposato 150

la sorella del padre di Burrows]: “Vorrei proprio lavorare per la televisione.” E lui mi disse: “Non vorrai mica fare l’autore televisivo per tutta la vita, vero? Non è mica il tuo obiettivo ultimo?” E io: “Ma certo. Perché no?” E lui: “Dovresti fare un pensierino al teatro. Se hai talento e vuoi scrivere dialoghi comici, dovresti tenere presente il teatro.” Al che risposi: “Be’, magari anche il cinema. Tutti quelli che lavorano nel teatro non vogliono mica fare film?” E lui mi disse: “No, è esattamente il contrario. Tutti gli sceneg­ giatori della California sbaverebbero per avere una loro comme­ dia a Broadway. È questo che vogliono fare tutti.” A quell’epoca uno sceneggiatore non era nessuno, era un ano­ nimo scribacchino i cui testi finivano massacrati. Un autore tea­ trale invece era un nome. Ecco perché cominciai a orientarmi più verso il teatro. Avevo all’incirca diciotto anni.

Settembre 1988 Woody è tornato da poco da un lungo viaggio in Europa che ha toccato anche la Scandinavia. Prima di partire mi aveva detto che non si aspettava di dedicarsi a un copione, di cui aveva completa­ to la prima metà: "In genere non interrompo la fase di scrittura come invece sto per fare con questa vacanza. Può capitarmi di met­ tere il copione nel cassetto per una settimana, ma questi sono ben diciotto giorni.” Con sua grande sorpresa, invece, ha terminato il copione durante la vacanza, scrivendo ogni mattina sui blocchi per appunti dei vari hotel nei quali ha soggiornato, ripiegando poi le pagine e infilandole nel taschino della giacca. Man mano che il viaggio andava avanti, la carta formato taccuino del Grand Hotel di Stoccolma veniva ripiegata insieme ai lunghi fogli rettangolari del Villa d’Este sul lago di Como; a quelli larghi, bianco candido e stampigliati in oro del Gritti di Venezia; alla carta di formato 151

più piccolo e leggermente zigrinata dell’Hotel Hassler di Roma; a diversi moduli del telex; e ad alcuni fogli a righe strappati da un quaderno di scuola comprato in una cartoleria di Copenaghen. Una volta arrivato a Londra, la tasca era rigonfia come se ci aves­ se infilato una pagnotta di pane. Alla fine la sua assistente Jane Martin lo ha convinto a riporre l’opera nella cassaforte dell’hotel anziché portarsela sempre dietro, quanto meno per evitare di rove­ sciarci sopra del brodo al ristorante: così, ogni giorno le eleganti pagine azzurre del Claridge, contenenti il parto quotidiano, veni­ vano ripiegate in due, unite al resto dei fogli e messe sotto chiave prima che Woody uscisse per la sua passeggiata. Tornato a New York, si è così ritrovato per le mani la prima ste­ sura di quello che per il momento è intitolato Brothers [Fratelli] ma che in seguito diventerà Crimini e misfatti EL: Prima di partire, mi avevi detto che durante il viaggio avresti scritto solo una recensione dell’autobiografia di Bergman, per la New York Times Book Review. Cosa è succes­ so, invece? WA: Già. Prima di partire avevo finito metà del copione e

Pagine del manoscritto di quello che diventerà Crimini e misfatti, scritto da Woody in una serie di hotel durante le sue vacanze nel 1988.

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immaginavo di completare la seconda metà al mio ritorno e di scrivere invece in Europa il pezzo su Bergman, convinto che non sarei stato in grado di concentrarmi e lavorare, che sarei stato troppo distratto dal viaggio e dai posti per me nuovi. Invece non è andata così. Non sono riuscito a togliermi il copione della testa, ho potuto lavorare qualche ora ogni giorno ed è stato sufficiente. EL: E la recensione di Bergman l’hai scritta? WA: [Ride] No. Non ho dimestichezza con le recensioni di libri. Mi riesce diffìcile recensire un libro, sia perché è un tipo di scrittura completamente diversa sia perché non riuscirei mai a recensire un libro e stroncarlo. A meno che, certo, non fosse stato scritto da qualcuno che proprio non reggo. Che so, se uno di quei fondamentalisti, se Jimmy Swaggart [un noto telepredi­ catore] scrivesse un libro allora potrei esprimermi comicamen­ te. Uno come Bergman, invece, che considero un grandissimo, sarebbe semplicemente una pioggia di elogi. Capisci cosa inten­ do? Non sarei capace di scrivere nulla di divertente.

EL: Parliamo un momento di dialoghi. Qualche critico trovò rigidi i dialoghi di Interiors. Cosa puoi rispondere? [Il film si sviluppa attorno alle turbolente dinamiche familiari di tre sorelle, della loro madre ossessivo-compulsiva (che si suicida), del loro padre e della donna estroversa che questi sposa dopo la morte della moglie.] WA: Dopo Interiors, alcuni mesi più tardi, mi trovavo in casa, tranquillamente seduto in poltrona, e all’improvviso riflettei: “Gesù, come ho potuto commettere questo errore? Forse che il mio orecchio per i dialoghi è stato condizionato dai tanti film stranieri che ho visto? Non è che inconsapevolmente stavo dav­ vero scrivendo i sottotitoli di un film straniero?” Quando guar­ 153

di un film di Bergman, per esempio, è come se lo leggessi per­ ché segui i sottotitoli. E quando lo leggi, i dialoghi hanno ima certa cadenza. Il mio orecchio si stava probabilmente abituan­ do a quei dialoghi e stavo riproducendo lo stile da sottotitolo nei miei personaggi. La cosa mi preoccupò. È una questione che non ho mai risolto chiaramente. Non saprei. EL: Pensi di scrivere dialoghi più formali quando devi realiz­ zare un film drammatico? WA: Alcune persone molto appassionate dei miei film mi hanno fatto proprio questa osservazione. Non sono sicuro se è vero e sono io a non rendermene conto oppure se non è esatta­ mente così. Il punto è che li faccio interpretare ad attori seri, i quali non danno ai film la stessa sensazione di informalità che trasmetto io con la mia recitazione. Io sono un po’ cialtrone, dozzinale, mentre nei miei film drammatici ho sempre usato personaggi più distinti, formali. Forse è quello il motivo.

Alla fine di Crimini e misfatti, Cliff (Woody), un documentari­ sta fallito, e ]udah, l’oculista assassino (interpretato da Martin Landau), sono seduti uno accanto all’altro sullo sgabello di un pianoforte durante la festa di matrimonio della figlia di Ben, il rabbino cieco (interpretato da Sam Waterston). La scena dà a Cliff l’occasione di esprimere in sintesi la propria (e quella di Woody) visione della vita come successione di eventi governata dal caso. Woody aveva sperato di affidare queste riflessioni a Waterston ma, una volta che la scena era stata riscritta, l’attore si trovava ormai in Russia impegnato in un altro progetto. Tornando a casa in macchina dopo una proiezione del film, Woody mi confida che il lungo soliloquio interpretato da lui gli sembra funzionare, sia grazie alla sua esperienza di monologhista, sia perché "sento che i miei film sono talmente personali da togliermi qualsiasi vergogna nell’inserire la morale della favola. È un po’ come nei vecchi spet-

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tacoli di Sid Ceasar, che chiudeva lo sketch dicendo: 'Se c’è una cosa che ho imparato...’ Forse tutti i suoi autori erano bravi ragaz­ zi ebrei che si sentivano in dovere di aggiungere nel finale una lezioncina di idealismo riepilogativa”.

EL: Il film affronta argomenti molto importanti. [Un oculista di successo (Landau), stimato benefattore della società, ha un’amante (Anjelica Huston) la quale gli chiede sempre più pres­ santemente di lasciare la moglie. Lui continua a prometterle che lo farà finché l’amante, esasperata, lo minaccia di svelare le disin­ volte operazioni finanziarie che l’uomo ha effettuato con i fondi di un istituto filantropico. Volendo a tutti i costi mantenere il pro­ prio prestigio nella società e intatta la famiglia, l’oculista si rivol­ ge al fratello - che, molto meno altolocato di lui, mantiene rap­ porti con il mondo della malavita - e gli chiede di liberarlo della minaccia. Lomicidio viene organizzato e perpetrato. Sulle prime il dottore è tormentato dal rimorso. Col tempo si accorge però di averla fatta franca e accetta di buon grado il fatto che, in quello che vede come un universo senza Dio, per lui non ci saranno con­ seguenze, riprendendo tranquillamente la solita vita di agi e rispettabilità.} WA: Sono sempre stato affascinato da questo dilemma tolsto­ iano, che ho affrontato in diversi miei film... Tolstoj arriva a un punto della vita in cui non riesce proprio a capire per quale motivo non dovrebbe suicidarsi. Vale la pena vivere in un mondo senza Dio? Il cervello risponde di no, ma il cuore è trop­ po spaventato per passare all’azione e farla finita.

EL: Nei tuoi film raramente ci sono parolacce o linguaggio sboccato. E una decisione consapevole da parte tua?

WA: Cinquanta e cinquanta. C’è la parte di me cresciuta con una pulizia di linguaggio automatica. Li ho sempre visti così, i 155

miei film, perché sono cresciuto con Chaplin, [George 5.] Kaufman e [Mow] Hart, Cole Porter. Senti, persino Un’altra donna si è beccato il bollino giallo. Ci è andata bene a non pren­ dere quello verde, però. EL: In Crimini e misfatti però usi la parola “asshole” [“stron­ zo", ma lett. “buco di culo”}.

'WK-. La battuta originaria era: “Ogni granello di umana gen­ tilezza infila un palo nel culo di Dio” ma [ride] non potevo lasciarla. A volte il linguaggio è brutale. EL: Len Maxwell [comico che portò in scena molti degli sketch scritti dal giovane Woody] una volta disse di te: “Chiunque usi espressioni come ‘Venni portato da lei su un’alitata di vento’ non ha bisogno di dire parolacce.” WA: La verità è che sono disposto a impiegare qualsiasi lin­ guaggio fosse necessario per raggiungere l’effetto che sto cer­ cando. Finora nulla di quello che ho scritto ha richiesto un lin­ guaggio diverso da quello che ho usato.

EL: Nel film c’è l’episodio in cui Cliff perde l’unica copia del proprio manoscritto. Ho notato che tu non fai mai una copia dei lavori che scrivi.

WA: Sono venti anni che mando le mie copie uniche allo Studio Duplicating [una copisteria che realizzava copie professionali di copioni e sceneggiature]. Mai fatta una copia in vita mia, di nien­ te. E a volte le ho mandate senza nessuna cura. Dovrei comprar­ mi una fotocopiatrice da tenere qui in casa e perdere dieci minu­ ti a farmi una copia. Dovrei davvero, è che sono troppo pigro. Tornando a Cliff che perde il manoscritto, conosco un tale che aveva lavorato per anni a un romanzo, un romanzo importante. 156

Teneva il suo manoscritto in una valigia - successe in un hotel di Boston se non sbaglio - e la valigia venne rubata. Era una copia unica. La cosa lo distrusse al punto che non fu più in grado di scrivere. Continuava a scrivere le battute per la televi­ sione, altre cose, ma non riuscì mai più a scrivere un altro libro. Vicenda strappalacrime. EL: Ti è mai capitato di perdere un manoscritto?

WA: Un tale voleva ricavare una serie televisiva da Acres and Pains o non so quale altro testo di J.S. Perelman e affidò a me la stesura di un copione. Ero alle prime armi come comico, avevo circa venticinque anni e Perelman era il mio idolo. All’epoca stavo con Louise. Era il periodo in cui Mickey Rose [r«o amico d’infanzia e collaboratore in Prendi i soldi e scappa e II dittato­ re dello stato libero di Bananas] abitava a New York. Una sera uscimmo tutti e tre insieme e io avevo con me il manoscritto. Era l’unica copia. Dovevo consegnarlo non ricordo dove pro­ prio quella sera. Solo che scoppiò un incendio in Times Square, nella Time Tower, nel quale morirono alcuni pompieri a causa delle inalazioni di fumo. In strada c’erano seimila persone. Mi fermai a guardare l’in­ cendio prima di proseguire per i fatti miei. Solo due ore dopo mi accorsi che avevo perso il manoscritto. Tomai in Times Square ed era ancora là sul marciapiede, tutto calpestato, den­ tro la cartellina Manila. [Ride. ] Non è pazzesco? EL: Magari il tizio della valigia fosse stato altrettanto fortuna­ to. Cosa ne fu del progetto di quella serie?

WA: Rimase sulla carta. I produttori trovarono il mio copione troppo scritto, volevano più dialoghi. Insipienti. Non sapevano cosa stavano facendo. Era buono davvero.

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EL: I tuoi personaggi cambiano molto dopo che hai scritto il copione?

WA: In realtà io scrivo il film man mano che lo giro. Molte volte mi siedo a tavolino e Juliet Taylor [la responsabile del casting] mi parla di un personaggio che ho scritto... per esempio Peter in Hannah e le sue sorelle. Dopo aver discusso a lungo su chi chiamare a interpretarlo mi disse: “Che te ne pare di Max von Sydow?” E all’improvviso [schiocca le dita] il suggerimen­ to, azzeccatissimo, mi fece scattare un campanello, tanto che ridisegnai il ruolo [un pittore totalmente assorbito dall’arte] su misura per lui. Divenne notevolmente più anziano e molto scon­ troso. Idem quando troviamo una location particolarmente bella: in quattro e quattr’otto la scena viene cambiata per sfrut­ tarne le caratteristiche. Il film non è mai scritto in anticipo. Ne metto nero su bianco solo un’idea generale ma abbastanza chiara da ottenere un cal­ colo approssimativo del budget.

Giugno 1989 Siamo al Manhattan Film Center, la sala di proiezione e mon­ taggio personale di Woody, in un elegante edificio residenziale di Park Avenue. Woody ha acquistato lo spazio, un ex circolo di brid­ ge, nel 1979 dopo l’uscita di Manhattan. Un mese fa Woody ha scoperto che il titolo Brothers non è uti­ lizzabile per il suo film e ne sta quindi cercando un altro. Per un po’ si orienta su Anything Else, che però userà soltanto nel 2003. Un’altra ipotesi è quella di avere nel titolo un riferimento al cri­ mine: High Crimes and Misdemeanors [Il riferimento è all’art. II della Costituzione, in cui “High” non rimanderebbe alla gra­ vità quanto al ruolo pubblico di colui che commette il crimine] cattura la sua attenzione ma poi gli sembra troppo Gilbert e 158

Sullivan. Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti) sembra interessante per un attimo ma viene poi cassato (temporaneamen­ te, come si vedrà). A volte i titoli vengono facilmente - Hannah e le sue sorelle e Broadway Danny Rose sono due esempi calzanti - ma in genere la ricerca va per le lunghe. Per questo film si sta dimostrando partico­ larmente impegnativa. Brothers sintetizzava con tale esattezza i diversi rapporti fra i personaggi che ora Woody è bloccato. Le discussioni sul titolo proseguono per molti giorni ma senza esito. È con lui Sandy Morse, la montatrice, mentre Woody è seduto alla scrivania di legno fuori dalla saletta di montaggio. Viene suggerito A Matter of Conscience (Una questione di coscienza). "Non mi piace Una questione di..." ribatte Woody rapidamen­ te, poi aggiunge: “Non c’è una parola unica, tipo fandango’, per indicare la condizione umana, vero?” Parte con libere associazioni. “Dilemmi e dilemmoni. [Una risata.] Decisioni. Momenti deci­ sivi. Commettere un omicidio. Crimini e vanità. ” Squilla il telefo­ no. È Bobby Greenhut, il produttore del film. Dopo un minuto, Woody gli dice: “Mi sembra di capire che La preghiera del Signore non ti piace. Pensi che metta un peso troppo grande sulle spalle del film?” Dopo avere riagganciato, prende un blocco per appunti e divide una pagina in sezioni. Vuole stabilire un legame tra occhi, Dio e successo. Ieri gli ho citato Eschilo: “Il successo è divino agli occhi degli uomini”. Mi sembrava intrigato ma adesso ride e imita un commento: “Ora l’ho capito.” La sua voce si fa pomposa. “Il tito­ lo è tratto da Eschilo!” Annota titoli ipotetici nei rispettivi qua­ dranti sulla pagina. Bene e Male Buone e cattive azioni Momenti di... Scene di...

Gruppo Sguardo Gli occhi di Dio Specchio dell’anima Visioni dell’anima Visione oscura 159

Speranza Un filo di speranza Speranza e oscurità Flebile speranza

Scelta Questione di scelta Scelte al buio Svolte decisive

Mentre riflette, riempie di ghirigori il margine della pagina. Qualcuno suggerisce Empty Choices (Scelte vuote). “Ah, farebbe scappare gli spettatori con una grossa smorfia di disprezzo sul volto. Come Split Decisions (Verdetti non unani­ mi). Certi titoli fanno sempre pensare a quegli altri film... troppo commerciali. Jeff Katzenberg [all’epoca presidente dei Walt Disney Studios, la cui Touchstone Pictures ha finanziato e distribuito il film] mi diceva a pranzo che è impossibile accostare tre parole peggiori di Dead Poets Society (L’attimo fuggente, lett. “La setta dei poeti estinti”). Il film aveva pure ricevuto brutte recensioni, eppure ha fatto il botto.” Si interrompe. “Gli occhi di Dio, Lo sguardo di Dio." Scuote la testa. “Sarebbe chiedere un po' troppo ai frequentatori dei centri commerciali. ”

Gennaio 2000

Accordi e disaccordi è appena uscito; Criminali da strapazzo uscirà più avanti nel corso dell’anno. Io e Woody ci incontriamo per parlare dei film che ha realizzato in questi ultimi anni, da Misterioso omicidio a Manhattan (1993) in poi. Il finale di un film è spesso un problema per Woody, a volte costretto a riscriverlo o a rigirarlo. In Misterioso omicidio a Manhattan, una gradevolissima commedia, lui e Diane Keaton interpretano Larry e Carol Lipton, una coppia sposata di mezza età che si ritrova coinvolta nelle indagini sulla scomparsa di una donna, che Carol sospetta ben presto trattarsi di un omicidio. Larry, ansioso di natura, non vuole avere nulla a che fare con le 160

smanie da detective della moglie, la cui ostinazione suscita invece l’interesse del loro amico Ted (Alan Alda), uomo avvenente e da poco separatosi. Quando Larry comincia a sospettare che si stia formando un legame affettivo tra Carol e Ted, a malincuore si uni­ sce alle indagini. Con l’omicidio risolto e l’unione tra Larry e Carol non più a repentaglio, marito e moglie passeggiano in strada, ripensando a tutto quanto è successo. Carol confessa che non era scoccata nes­ suna scintilla d’amore con Ted, che Larry liquida dicendo: “Togligli le scarpe coi rialzi, la falsa tintarella, i denti rifatti, e cosa ti resta?” Al che Carol, prontamente, ribatte: “Tu.” Qualche atti­ mo dopo lo schermo va a nero. Chiedo a Woody del finale. WA: La battuta, in origine, era collocata a metà del copione ma non la girai. Poi rientrò dalla finestra. Non credevo che sarebbe riuscita tanto d’impatto, la ritenevo una buona battuta ma niente di clamoroso. Dopo il primo cut del film mi accorsi che avrebbe funzionato nel finale e così la girai.

EL: Ci sono ammiccamenti a un paio di film celebri, specie verso la fine, con il labirinto di specchi che ricorda La signora di Shanghai, di Welles. C’è anche un po’ della Donna che visse due volte di Hitchcock. In una delle scene passa un autobus sul quale campeggia il manifesto pubblicitario per la nuova uscita nelle sale della Donna che visse due volte, che coincise con l’usci­ ta di Misterioso omicidio a Manhattan. Fu fatto di proposito? WA: Seppi solo in seguito che per La donna che visse due volte avevano organizzato quella campagna pubblicitaria sugli auto­ bus. Avevo visto il film, una volta, ma non ero riuscito a concen­ trarmi. All’inizio è molto lento. A me non piace, anche se so che i fan di Hitchcock lo adorano. Tuttavia feci parte del gruppo di finanziatori che ne permise il restauro e l’uscita nelle sale, per161

ché è importante preservare film del genere... non è, in ogni caso, tra i miei preferiti. L’apparizione della pubblicità è pura coincidenza. Ancora oggi non ho capito dov’è che si vede. EL: Misterioso omicidio a Manhattan è la vicenda inizialmen­ te inclusa nella prima stesura di lo e Annie e che mettesti da parte, giusto?

WA: Sì, ha una strana storia alle spalle. Avevo avuto l’idea anni prima e decisi che il film avrebbe dovuto scriverlo e dirigerlo Marshall [Brickman], io mi sarei limitato a recitarci. Durante la scrittura della sceneggiatura, però, Marshall fu preso da altri impegni e la cosa non andò in porto. Gli dissi: “Senti, puoi tenerti il copione, se riesci a piazzarlo a qualcuno è tuo.” Lui però non lo fece e il testo rimase a marcire nel cassetto. Anni dopo gli proposi: “Perché non riprendiamo in mano quel copio­ ne? Perché non me lo ridai e vediamo se riesco a tirarne fuori qualcosa?” In realtà sapevo già come volevo svilupparlo. Lui accettò, io ne feci una versione per me e la girai, tutto qui, collaborando però nella fase di pianificazione che per me - per lui e per qualsiasi autore - è la parte impegnativa. La scrittura vera e propria mi piace realizzarla da solo perché voglio scrivere dia­ loghi che poi sarò in grado di recitare; non mi piace recitare i dialoghi degli altri. EL: E lui venne sul set mentre lo giravi? Non l’ho mai visto, mentre filmi.

WA: Marshall non viene mai sul set. Da autore, dico che è fan­ tastico lavorare insieme a lui. È brillante, ha una grande verve comica. Alcuni dei miei ricordi più belli riguardano episodi accaduti mentre scrivevamo un film insieme. Ci mettevamo a sedere nel mio soggiorno e parlavamo per un’ora, un’ora e mezza, poi uno dei due diceva: “Dai, facciamoci una passeggia­ 162

ta”. Uscivamo a prendere una boccata d’aria fresca e continua­ vamo a rimpallarci un’idea dopo l’altra. Poi andavamo a cena insieme e ne parlavamo ancora a tavola, e qualche volta risaliva­ mo a casa mia. Insomma, si lavorava anche durante le frequen­ ti uscite di piacere. Marshall è molto socievole, arguto e creati­ vo, è fantastico lavorare con lui.

EL: Ma quello che di fatto mette la sceneggiatura nero su bianco sei tu. WA: Solo perché in questo modo si risparmia tempo, e sono io quello che deve recitare le battute. Non prendo appunti, mi limito a memorizzare l’idea. Ci sediamo e ne discutiamo all’infi­ nito, da ogni punto di vista. Il suo metodo è: “Prima si compo­ ne la storia, poi la si mette nero su bianco,” e io sono totalmen­ te d’accordo con lui. Una volta che passo alla stesura, c’è alle spalle il lavoro di entrambi; riesco a buttarla giù in tre o anche due settimane perché si tratta solo di mettere nero su bianco il lavoro che abbiamo sviluppato insieme. Potrebbe tranquilla­ mente farlo anche lui. L’ultima volta che ho elaborato i dialoghi con un collaborato­ re è stato nel Dormiglione [con Brickman} e quando si è in due a proporre le battute si finisce sempre per impiegare il doppio del tempo.

EL: Per Pallottole su Broadway hai usato un nuovo collabora­ tore, Douglas McGrath. WA: Conoscevo Doug al di fuori del lavoro [sposato con la ex assistente di Woody, Jane Martin, ha diretto Emma, Una spia per caso, Nicholas Nickelby e Infamous - Una pessima reputazio­ ne, oltre a essere anche sceneggiatore] ed era una persona con cui mi sarebbe piaciuto collaborare solo per il gusto di farlo, il puro piacere. Non avevo altri motivi. Gli mostrai alcune mie idee, 163

tutte buone, e gli chiesi: “Quale ti sembra la più divertente sulla quale lavorare?” E lui mi rispose: “Quella in cui il gangster si rivela essere l’au­ tore teatrale.” E io: “Davvero? No, perché quella è all’ultimo posto nel mio elenco di preferenze.” Avevo un’idea a sfondo politico che pen­ savo lo avrebbe scaldato e una di quelle idee più personali di cui lui diceva: “Ah, sì, l’ennesimo film in cui parli col pubblico.” E allora gli dissi: “Va bene, se vuoi lavorare su quell’altra cosa, lavoreremo su quella.” [Pallottole su Broadway dimostra che artisti si nasce, non si diventa. John Cusack, un giovane, dignito­ so e appassionato autore teatrale si dedica anima e corpo al pro­ prio lavoro ma scopre che non sarà mai un artista.]

EL: Ci fu qualche differenza tra lavorare con lui e con Marshall?

WA: Lavorammo più o meno allo stesso modo in cui lavoro con Marshall. Veniva a casa mia. Chiacchieravamo, pianificava­ mo, strutturavamo. Poi lui si fece da parte e io buttai giù la sce­ neggiatura e girai il film. Funzionò tutto a meraviglia. Oggi in genere preferisco lavorare da solo, ma ho una simpatia personale per i miei collaboratori e ogni cinque o sei anni mi capita di sentirmi solo, provo il bisogno di avere accanto un altro essere umano, per il piacere in sé. Doug mi sembrava un’ottima scelta perché è creativo e perspicace, oltre che un amico.

EL: Dicevi che Pallottole era una delle tre idee che avevi. L’avevi in linea di massima sviluppata già nella testa prima di parlarne con Doug o dovevi ancora dipanare gran parte della matassa?

WA: Ricordo quando mi venne l’idea di far fuori Olive {.l'at­ trice senza talento (Jennifer Tilly) fidanzata con un boss della 164

mala (Joe Viterelli) il quale finanzia una commedia in modo che lei possa diventare una star}, fu allora che capii che sarei andato avanti con quella storia. [Uno degli scagnozzi del capo (Chazz Palminteri) riceve l'incarico di tenere d’occhio Olive durante le prove. Nonostante tutte le apparenze, sarà lui a dimostrarsi il vero talento autoriale e i suoi suggerimenti faranno sì che la commedia funzioni. E ammazzerà Olive per evitare che la sua recitazione ammazzi la commedia.} Ricordo che dissi a Doug: “Sai come finisce la storia? Lui la ammazza, la commedia debutta e ottiene un grande successo, e il gangster diventa il beniamino della città. Solo che, qualche mese dopo, muore dalla voglia di tornare a fare il mafioso per­ ché il mondo dello spettacolo è un mondo di squali, talmente spregevoli da essere peggiori degli assassini dichiarati con i quali è abituato a trattare. Lo imbrogliano, non si fanno trovare al telefono, lo manipolano... il mondo dello spettacolo è mar­ cio.” Era proprio lì che volevo andare a parare. Quando però cominciai a scrivere feci marcia indietro perché questa appendi­ ce era troppo ingombrante. Il film terminava dove terminava, l’aggiunta sarebbe sembrata posticcia, per quanto molto inte­ ressante. La fine naturale del film era quella che ho tenuto nella versione definitiva. Doug mi chiese dove fosse sparita l’altra parte, ma avrebbe aggiunto altri quindici minuti. Avremmo dovuto ricominciare da capo. Tra parentesi, la storia degli spari [durante la prima della com­ media, il gangster viene giustiziato nel backstage dai suoi compa­ ri, accortisi che è stato lui ad ammazzare Olive, e in sala gli spari vengono scambiati per un effetto di verosimiglianza} è un’idea che presi dal rumore dei pinoli schiacciati nella colonna sonora di Una volta nella vita, la meravigliosa parodia del cinema scrit­ ta da George S. Kaufman e Moss Hart.

EL: Il tuo background da mago ti ha insegnato molto sull’ar­ te dello sviamento, di cui fai grande uso in questo film. 165

WA: Ricorro spesso allo sviamento nelle sceneggiature. Per esempio, finché non succede, il pubblico di Tutti dicono I love you non si aspetta minimamente che io leghi con Julia Roberts. La sua era una storia distinta dalla mia. [In Tutti dicono I love you coesistono diverse storie parallele. Joe Berlin (Woody) ha divorziato da Steffi (Goldie Hawn) ma i due sono rimasti buoni amici al punto che il nuovo marito di lei, Bob (Alan Alda), un ricco liberal di Park Avenue, tratta Joe come un membro della famiglia. I figli di Joe e Steffi hanno legato senza problemi con quelli di Bob. Lane e Laura (Gaby Hoffmann e Natalie Portman) sono adorabili studentesse dell’East Side; DJ (Natasha Lyonne) è più saggia, oltre a essere la voce narrante del film. Skylar (Drew Barrymore) è una perfetta debuttante mentre Scott (Lukas Haas) dimostra l’imprevedibilità della vita (è infatti un fervente conser­ vatore). Skylar è fidanzata con Holden (Edward Norton) ma perde la testa per Charles Ferry (Tim Roth), un ex galeotto allu­ pato che Bob e Steffi, sempre all’avanguardia delle cause progres­ siste, invitano a casa per una festa. Joe rimane folgorato da Von (Julia Roberts), una donna infelicemente sposata i cui pensieri più intimi, confidati allo psicanalista, vengono casualmente origliati e riferiti a Gabe, che in questo modo è in grado di dire e fare tutto quello che lei ha sempre sognato in un uomo (un’idea che frulla­ va da tempo nella testa di Woody e che era stata messa in pratica, anche se in modo embrionale, in Un’altra donna). Tutti i perso­ naggi del film in un momento o nell’altro si mettono a cantare ma, volutamente, con la tecnica vocale di chi canta sotto la doccia e non di un attore di musical. Per questo film, Woody si è conces­ so il lusso di effettuare le riprese a New York, Venezia e Parigi.] Gli autori lo fanno sempre, io per primo, con lo scopo di spiazzare il pubblico. In Misterioso omicidio a Manhattan, quan­ do la Keaton e Alan Alda sono alla degustazione del vino, vole­ vo che gli spettatori pensassero all’inizio di una cotta tra di loro. Poi intravedono la signora [che dovrebbe essere morta] sull’au­ tobus e io e la Keaton ci mettiamo a seguirla. 166

EL: Funziona bene, come del resto l’idea del gangster che possiede il vero talento da autore, quello che manca al perso­ naggio di John Cusack, per quanto appassionato e impegnato nel suo lavoro. È quel genere di sorpresa che riesci a tirar fuori anche dalla Rosa purpurea del Cairo.

WA: Quella del gangster che è un autore è molto ben riuscita. Ho sempre l’impressione che in queste situazioni gli anni che ho dedicato alla magia mi siano di grande aiuto. Quando ce n’è bisogno riesco a essere molto ingannevole, so come sfruttare quei piccoli dettagli che nella magia ti permettono di sembrare innocente mentre prepari il trucco. Ricorro spesso a questi par­ ticolari insignificanti che confondono il pubblico, che non danno allo spettatore il minimo indizio di dove voglio andare a parare. È il medesimo principio che si applica in uno spettaco­ lo di magia, quando il prestigiatore compie un’azione con l’in­ tento preciso di distrarre il pubblico: diciamo che tra un po’ devo arrivare in qualche modo al portafogli; un’ora prima, allo­ ra, mi siedo e continuo a infilare la mano nella giacca, verso il portafogli, in modo che quando lo farò più tardi sembrerà un gesto normalissimo. È per questo che, la prima volta che il gangster dice qualco­ sa, quando si alza e fa: “Quella battuta. Mi torna sempre in mente. E mi fa cascare le palle a terra,” non ti passa nemme­ no per la testa che lui possa essere un autore teatrale. La cosa diventa manifesta quando i due si incontrano al nightclub e il gangster dice all’autore: “Siediti. Metti i piedi a riposo,” e prosegue nei suggerimenti. Da lì, tutto viene alla luce molto velocemente.

EL: Ti dà molto piacere constatare che il film finito somiglia molto a come lo avevi immaginato quando ti sei seduto a tavo­ lino per scriverlo?

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WA: A me piace molto il momento in cui scrivo le storie e le monto sullo schermo. Riesco a guardare i miei film con assolu­ ta obiettività e pensare: “Questo film è meglio di quella insulsa commediola che sta sbancando il botteghino, ma paragoniamo­ lo un momento a Ladri di biciclette” È allora che tomi con i piedi per terra. Credo di avere una buona capacità di autovalu­ tazione e di non eccedere né con le critiche né con gli elogi rispetto ai miei film.

EL: Pallottole su Broadway illustra proprio la differenza tra aspirare a essere un artista ed essere un artista. Tu ti vedi come un artista?

WA: Ho un’immagine molto realistica di me stesso. Se dichia­ ro di non aver fatto un grande film, questo viene interpretato come un eccesso di modestia o addirittura come falsa modestia. Se metto in scena la mia visione della vita dicono che è cinismo. In entrambi i casi si tratta di interpretazioni infondate. Dico solo la verità. Non mi vedo come un artista. Mi vedo come uno che di mestiere fa il film-maker e che ha scelto la strada di lavo­ rare in continuazione anziché quella di trasformare i suoi film in eventi memorabili che capitano ogni tre anni. Non sono cinico e sono ben lontano dall’essere un artista. Sono un travet fortu­ nato.

Maggio 2005

Woody si prepara a tornare a Londra dove girerà Scoop, al momento ancora senza titolo. Non ha recitato in Match Point ma lo farà nel prossimo film, che per la seconda volta consecutiva vedrà come protagonista Scarlett Johansson. Ci troviamo nella sala di proiezione del Manhattan Film Center, seduti sulle stesse vecchie poltrone girevoli rivestite di velours 168

verde avocado. Accanto a noi, gli armadietti pieni dei dischi, in gran parte musica degli anni trenta e quaranta, ai quali attinge per le sue colonne sonore. Negli ultimi venticinque anni è rimasto quasi tutto uguale. La vera differenza è il suo entusiasmo per Match Point. Di rado ne dimostra tanto per un film una volta che è finito, ma in questo lo soddisfa tutto, sceneggiatura compresa.

EL: Perché ha funzionato così bene? WA: Penso per diverse ragioni. Una è che non ho avuto le mani legate dalla commedia, mi sono sentito Ubero di fare tutto quello che volevo. Non ho dovuto pensare: “Sto facendo un film ma dev’essere una commedia,” oppure: “Devo recitarci anch’io.” Non ho avuto vincoli e ho potuto realizzare il film che volevo. Ho scritto, penso, una buona sceneggiatura e sono riu­ scito a tradurla efficacemente sullo schermo. Avevo a disposi­ zione tutte le risorse necessarie. EL: Nel film ci sono due efferati defitti, ma hai scelto di non mostrare né gli spari né il sangue. Perché?

WA: Né gli omicidi né il sangue erano al centro del mio inte­ resse e quindi non ho sentito la necessità di massacrare gente davanti allo spettatore. Non avrebbe aggiunto nulla. Sono stato molto fortunato in questo film. Tutto quello che in genere va storto, in un film, qui è filato a meraviglia. Alcuni aspetti sono in genere fonte di problemi, ma non in questo caso: trovare gli attori giusti, raggiungere un compromesso su certi ruoli, avere tutti i giorni le condizioni atmosferiche giuste. Tutte le decisio­ ni prese per il film, non solo da me, si sono rivelate azzeccate. Non so se potrò mai ripetermi o girare un film altrettanto buono.

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EL: Paul Kaye, l’agente immobiliare che affìtta l’appartamen­ to a Jonathan Rhys-Meyers, ha in pratica le uniche battute comi­ che del film. Avevi scritto la scena in quel modo? WA: È il perfetto esempio di come tutti abbiano dato il pro­ prio contributo al film. Avevo scritto la scena in maniera molto semplice, non era affatto comica. Lui invece continuava a improvvisare, e a improvvisare restando nella parte. È stato molto divertente. Nessuno degli attori si è limitato a presentar­ si, leggere il copione, intascare il cachet e salutare. Tutti hanno aggiunto quel qualcosa in più. EL: Il tempo scorre fluidamente da una stagione all’altra, con poche descrizioni didascaliche. Per esempio, i due matrimoni nella stessa chiesa fanno capire che sono passati dei mesi, senza che ci sia la necessità di spiegarlo.

WA: Nel raccontare la storia ho sentito per istinto che pote­ vo fare così, che non c’era bisogno d’altro. Mi son detto [schiocca le dita}-. “Questa è tutta informazione, dalla alla svel­ ta e procedi.” EL: Pensi che aver girato in una città diversa da New York abbia fatto differenza?

WA: È sempre divertente visitare una città nuova ma non era il tipo di film che mi dava la possibilità di sfruttare la città quanto avrei voluto. Ho potuto sfruttare Londra in una certa misura, ma se avessi girato una commedia romantica sarei stato in grado di calcare la mano, come feci con Manhattan nel film omonimo. Qui, invece, c’era da raccontare una storia complessa e non mi sono potuto concedere tante inquadratu­ re suggestive.

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EL: Questo film è venuto fuori esattamente come lo avevi immaginato. Altri, magari? Come La rosa purpurea del Cairo, per esempio...

WA: Sì, quello è uno dei film che sono venuti fuori come me li ero immaginati. Non che lo abbia mai riguardato, eh? EL: Una volta mi hai raccontato che, dopo aver avuto l’idea del personaggio cinematografico che esce dallo schermo, ti eri bloccato, senza sapere come svilupparla. WA: L’ispirazione che avevo avuto era che il personaggio di un film [interpretato da Jeff Daniels} esce dallo schermo, ma non riuscivo a darle un seguito. Scritte cinquanta pagine, ci rinunciai e misi via il copione, per tornarci solo dopo aver immaginato che questo, all’attore che lo interpreta, dà fastidio. Così si pre­ cipita in città e la ragazza [Mia Farrow] se ne innamora. Ma è innamorata anche del suo personaggio cinematografico, e per­ ciò deve compiere una scelta. Sceglie la persona reale e ne rima­ ne ferita: era questo, per me, il succo della storia. Fino ad allo­ ra, invece, non avevo che cinquanta pagine in cui gigioneggiavo un po’ con il tizio che esce dallo schermo, nient’altro.

EL: Alla fine, devi sempre fare i conti con la realtà. WA: Per come la vedo io, sei obbligato a scegliere la realtà al posto della fantasia. E la realtà alla fine ti ferisce, mentre i sogni sono solo follia.

EL: Gran bella scelta! WA: Già, è come se la vita fosse un gioco in cui puoi solo per­ dere.

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EL: Quando scrivi, riesci a trasportarti nel mondo della fanta­ sia? WA: Mi trasporto molto facilmente. Quando scrivi qualcosa entri nella storia. Ci entri in un modo piacevole. È difficile da spiegare, ma penso che succeda più o meno lo stesso all’artista visuale quando realizza un collage o dipinge un quadro. Vuoi sempre tornarci sopra, e aggiungere qualcosa. È una sensazione piacevole. EL: Quando ti esibivi nei locali mettevi i tuoi numeri nero su bianco?

WA: No, non li scrivevo mai. Quando mi veniva l’idea per una storiella o una battuta buttavo giù un paio di righe... il numero poteva essere: battuta sulla macchina, poi suocera, eccetera, il tutto amalgamato secondo un filo narrativo. Lo provavo un paio di volte a casa, poi salivo sul palco e lo correg­ gevo sul momento. Mi bastava sapere che la storiella dell’oro­ logio l’avevo fatta, non mi serviva altro. [“Scusatemi un attimo, devo controllare l’ora,” diceva estraendo un orologio da taschino. “In questo locale sono piuttosto puntigliosi sui tempi, sento già l’orchestra che scalpita alle mie spalle.” Sollevava l’orologio, con il quadrante rivolto verso i mille e duecento spettatori del pubbli­ co. “Non so se riuscite a vederlo ma è proprio un bell’orologio. ” Lo abbassava e lo esaminava accuratamente. “È marmorizzato, eh?” continuava, sempre esaminando l’orologio. “Mi dà l’aria da italiano. ” Faceva una pausa. “Fu mio nonno a vendermelo, sape­ te? Sul letto di morte. "] Era l’istinto a dirmi che a quel punto il pubblico non voleva sentire la battuta sulla slitta o sull’elefan­ te, che dovevo passare direttamente alla storiella della ragazza che viene nel mio appartamento, per esempio. Questi aggiusta­ menti li facevo direttamente sul palco, in base a quello che mi sentivo. 172

Quando cominciai a scrivere, partivo sempre da un monologo più lungo... ma non volutamente; pensavo soltanto: “Questo sarà un successone.” Poi salivo sul palco e mi accorgevo: “Mio Dio, se adesso attacco con quella cosa sento che non riderà nes­ suno... Anche se hanno riso sulle ultime sei battute, non è il caso di passare a quella.” Quando sei sulla traiettoria delle pallotto­ le è il tuo corpo che ti dice da che parte buttarti, sai automati­ camente di che morte stai per morire. Essere seduti a casa e immaginarsi una platea di spettatori è completamente diverso. Anni fa mi capitò di guardare i miei sketch al Tamiment [un campeggio sui monti Pocono in Pennsylvania, a un paio d’ore da New York, i cui titolari offriva­ no ogni settimana uno spettacolo nuovo ai loro mille ospiti, ingag­ giando alcuni tra i migliori autori e comici dell’epoca] e lì davan­ ti avevo un pubblico in carne e ossa, che provoca dinamiche impossibili da riprodurre in una stanza chiusa. Capisci all’istan­ te cosa proporre e cosa tagliare, in qualche modo senti l’elettri­ cità che c’è nell’aria. In un teatro di Broadway, con il pubblico che mormora o trattiene le risate, riesco a intuire con assoluta precisione cosa funzionerà e cosa no. Avverti la realtà del momento in maniera infallibile... anzi, non infallibile ma rara­ mente fallibile. La possibilità di sbagliarsi esiste sempre. Ovviamente, avere certe intuizioni quando sei di fronte al pub­ blico e non a casa a scrivere, il più delle volte significa che ormai è troppo tardi. EL: Avverti le stesse vibrazioni sul set cinematografico? WA: No, perché non c’è il pubblico. C’è soltanto un gruppo di tecnici indaffarati, ciascuno concentrato sul proprio compi­ to. In quel caso cerchi soltanto di portare a casa il lavoro. EL: E l’attore o l’attrice con cui stai recitando?

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WA: Alcune cose le capisci solo mentre la stai recitando, una volta che ci sei dentro. Magari, in base alla sceneggiatura, la tua partner - Diane Keaton, o Scarlett, chiunque sia - deve dire: “Già, è meglio che ce la squagliamo, stanno per tornare” e inve­ ce dice: “Forza, andiamocene” mentre tu capisci, vivendo la scena in quel momento, che sarebbe meglio: “Ehi, cos’è questa fretta? Abbiamo ancora un paio di minuti per controllare la scrivania e dare un’occhiata ai documenti.” Un conto è scrivere nella mia camera da letto, sul set con un’attrice o un attore la sensazione è diversa; sei immerso in una realtà che non conosce­ vi mentre stavi scrivendo, perché sul set reagisci in un’altra maniera, più precisa. EL: La prima cosa che ho imparato da te, trentacinque anni fa, è l’importanza della battuta di preparazione. Se ti manca quella, tutto il resto non può funzionare, a prescindere da quan­ to sia comica la punch line, la battuta finale. Dimmi un po’ come procedi. Parti dalla situazione comica e vai a ritroso scrivendo tutti i passi per arrivarci? WA: Questa è una delle cose che ho imparato da Danny Simon. Non puoi barare. Non puoi adattare la battuta di prepa­ razione alla punch line. Se ho un’idea fantastica per una battuta non posso permettermi di anteporle una premessa illogica o poco convincente. La battuta ha bisogno di una preparazione credibile, una frase che chiunque potrebbe pronunciare nella vita reale. Bisogna essere spartani e crudeli sulla battuta di pre­ parazione in modo che la punch line risulti assolutamente since­ ra, non dev’essere una frase dalla costruzione improbabile solo perché in quel modo arrivi più facilmente dove vuoi arrivare. Ecco perché, in fase di scrittura, non devi partire dalla punch line ma da una frase che una persona qualunque potrebbe dire in quelle circostanze. Che so: “Quel parcheggio è mio, è un’ora che aspetto,” e da lì trovare la battuta di spirito adatta. Non 174

puoi farle dire: “Ho comprato questa macchina proprio stamat­ tina. È lunga cinque metri e perciò ho bisogno di cinque metri di spazio” solo perché hai una battuta meravigliosa se qualcuno dicesse una frase del genere. Puoi andare solo dove la battuta di preparazione ti permette credibilmente di andare. EL: A te salta in mente prima la punch line o è la battuta nella sua interezza a materializzarsi all’improvviso da una frase di preparazione? WA: Tutto insieme. La battuta si compone della punch line e della premessa. Non puoi pensare a una punch line a sé. Qualche volta ti può venire in mente un’idea divertente e, se sei fortunato, puoi avere la rara fortuna di andare a ritroso e prepa­ rarla con grazia. Specie se stai scrivendo un dialogo, però, devi usare un linguaggio quotidiano... ma comico, se stai scrivendo un dialogo comico. C’è poi un altro tipo di dialogo, che è meraviglioso e molto più diffìcile, ossia il dialogo da personaggio, in cui non ci sono bat­ tute di spirito ma il dialogo è tale da risultare comico se inter­ pretato da un attore comico. Certo, un copione di Bob Hope sarà infarcito di battute mentre - ripeto, semplificando la que­ stione ai minimi termini - se stai scrivendo uno sketch per Jackie Gleason in The Honeymooners [la sit-com} puoi fargli dire: “Te lo spiego io dov’è l’aggeggio.” Non c’è nessuna punch line, è lui che fa ridere. Se recitassi tu le stesse battute sarebbe­ ro completamente insipide, mentre in bocca a Gleason sono divertenti perché sono divertenti rispetto al personaggio. EL: Mi viene in mente Alan Alda, uno che ha questo ruolo nei tuoi film. WA: Alan è il perfetto esempio di una persona in grado di affrontare un materiale comico in potenza ma che risulta diver­ 175

tente soltanto nelle mani di un attore estremamente preparato. Lui lo fa cantare. EL: Ti capita mai di ridere delle tue battute mentre scrivi?

WA: Sì, in continuazione. E spesso [riJe] non corrisponde affatto a quello di cui riderà lo spettatore. Io sento una battuta per la prima volta quando la scrivo o quando la dico. Sono nella stanza a lavorare e scrivo una battuta, o la dico ad alta voce, e arriva dal mio inconscio, perciò la ascolto e rido come se fossi un estraneo. EL: E quanto spesso provi il dialogo ad alta voce prima di scriverlo? WA: Qualche volta. Ricordo che, quando cominciai a scrivere con Danny Simon, decenni fa, lui lo faceva sempre. Era un’otti­ ma abitudine. Io sono più pigro. Danny, invece, aveva una disci­ plina ferrea in questo senso, provava sempre tutto, e quindi non c’erano mai dubbi che avrebbe funzionato. E infatti puntual­ mente funzionava. Ci sono battute che sembrano buone sulla carta e invece, quando prendono corpo con gli attori, ti accorgi che sono fiacche.

EL: C’era qualcuno che prendeva appunti quando lui prova­ va il materiale?

WA: Eravamo io e lui nella stessa stanza, Danny si metteva a camminare e diceva: “Cara, sono tornato... No, ti prego, non rifilarmi quel pesce.” Ed entrambi ci precipitavamo alla macchi­ na da scrivere per mettere la battuta nero su bianco. Io provo un mucchio di roba, ma spesso mi affido al fatto di ascoltarla nella mia testa un certo numero di volte, perché sono troppo pigro per alzarmi dal letto e andare su e giù per la stanza o, 176

magari, perché vado di fretta. In qualche caso l’esperienza mi permette di farla franca, in altri no. Certe volte farei meglio a dirla a voce alta. EL: Tendi più a provare a voce alta il materiale che scrivi per te stesso o lo senti talmente bene che provi solo le battute desti­ nate agli altri attori?

WA: Lo faccio con tutto il materiale, con tutti i ruoli. E pro­ nuncio tanto la battuta preparatoria quanto la punch line. EL: C’è qualcosa di diverso nel momento della scrittura di una parte più drammatica rispetto a quelle comiche? Pensi in modo diverso? Entri nella scena in modo diverso? WA: Non è la stessa cosa. Per quanto mi riguarda, il materia­ le comico mi viene naturale, liberamente, mi sento di padroneg­ giarlo, ho le stesse sensazioni di un musicista che sa suonare. Sento che ho dettato io le mie regole. Trovo indifferente quello che c’è stato prima, quello che pensano o fanno gli altri, quello che viene comunemente accettato. Faccio istintivamente quello che ho in mente e che mi sembra corretto, e il più delle volte mi è andata bene così, nel corso degli anni. Non infallibilmente ma ragionevolmente bene. È tutta la vita che riesco a guadagnarmi la pagnotta agendo in questo modo. Se ho voglia di fare un film in cui un personaggio esce dallo schermo, se voglio fare uno pseudo-documentario, o qualsiasi altra cosa mi senta al momento, lo faccio. Non ho paura di det­ tare uno stile... non a livello conscio, ovviamente. Con i testi seri sono più in alto mare, balbetto di più e tendo a non fidarmi del mio giudizio. Credo di non sentirmi altrettanto a mio agio per­ ché nella comicità senti le risate e sai che gli spettatori si stanno divertendo. Quando porti un dramma a teatro, invece, non sai se sta piacendo o meno. Certo, lo stanno guardando, ma quan­ 177

do cala il sipario non sai se saranno intorpiditi dalla noia o pen­ seranno: “Dio, che esperienza meravigliosa.” Non ne ho idea. In una commedia lo scopri subito, quando li senti ridere a cre­ papelle. Se non li senti, invece, vuol dire che sei nei guai. EL: Ti senti trasportato nei personaggi anche quando scrivi drammi?

WA: Sì, quell’aspetto è il medesimo. Scrivo e ci entro dentro. Ma non mi sento altrettanto sicuro. Scrivo una scena, penso che non farà ridere nessuno e mi chiedo se valga la pena proporla. In Melinda e Melinda la parte comica non mi diede alcun pro­ blema. Per esempio, a lui piace lei, la aspetta sotto casa, la porta fuori ed è geloso, agitato; per me è come bere un bicchiere d’ac­ qua. Quando scrivo una parte drammatica - e mi diverto un mondo a scriverla - posso solo sperare che ottenga l’effetto che mi sono prefissato. In quel film fui fortunato. Potei contare su un’attrice [Radha Mitchell] che recitava il materiale allo stesso modo in cui mi era risuonato in testa, questo mi fece molto pia­ cere. In generale, però, scorri dieci righe di sceneggiatura e non sai che effetto potranno avere, se piaceranno a qualcuno, se uno spettatore si sentirà stimolato, commosso, coinvolto... o se gli verrà da pensare: “Uffa, quand’è che finisce questa barba così ce ne andiamo a cena?” La commedia mi viene molto più facile. Quando si dice che la commedia è più diffìcile, non si intende in realtà diffìcile ma rara. C’è semplicemente l’autore che ha più facilità con la com­ media e quello che ce l’ha con il materiale drammatico. La mia impressione è che io sarò sempre in grado di far ridere un pub­ blico più di quanto possa fare Bergman [morto nel 2007]. Se girassimo una decina di commedie a testa, le mie sarebbero più divertenti, farei ridere gli spettatori. Con un film serio, ovvia­ mente, l’esito sarebbe opposto, il suo sarebbe di gran lunga migliore. 178

Se sei capace di farla, la commedia non è difficile mentre, se non sei capace, è impossibile. Idem per il dramma. Arthur Miller sapeva fare il dramma, aveva una buona predisposizione per il dramma. Tennessee Williams aveva una predisposizione eccezionale per il dramma. Io devo lavorarci di più, non mi viene naturale, per quanto mi piaccia come spettatore - adoro i film di Bergman o Ladri di biciclette, Un tram che si chiama desi­ derio, Cechov. Ecco perché, una volta tornato a casa, mi viene l’impulso di scrivere qualcosa con quelle atmosfere. Invece il dono innato, o [ridendo] come vogliamo chiamare quello che possiedo, va in un’altra direzione e quindi, se deside­ ro cimentarmi con qualcosa di serio, devo lavorarci molto. Infatti, nel corso degli anni, non sono stato altrettanto efficace in ambito drammatico come nella commedia. Non per questo intendo rinunciarvi. Con Match Point credo di aver ottenuto un risultato ragionevolmente buono, forse il migliore fra tutti i miei tentativi di maneggiare una materia dark. EL: Ogni tanto i critici scrivono che preferiresti recitare Amleto piuttosto che i ruoli che hai interpretato.

WA: Non sono un comico che vuole interpretare Amleto. Non ho il minimo interesse a fare l’attore drammatico. Intendiamoci, se si presentasse l’occasione e mi ritenessi all’altezza, lo farei, ma non ho mai scritto nulla di drammatico da interpretare in prima persona e non ne ho il desiderio. Un altro conto è il mio punto di vista da autore. Sono stato fortunato. Ho avuto in dono un talento per la com­ media che mi ha permesso di mantenermi nel corso degli anni. Ho lavorato in tutti i campi - prosa, televisione, radio, monolo­ ghi, Broadway, cinema - e ho recitato in Inghilterra, Europa, Stati Uniti. Ho scatenato risate in Francia con il mio orribile francese. È semplicemente qualcosa che mi riesce bene, e non lo dico perché non apprezzi i miei doni o voglia sminuire le mie 179

capacità comiche. Qualcuno salta alla conclusione che io faccia la commedia ma la detesti, o che secondo me il dramma è il non plus ultra e la commedia non conta nulla. Non ho mai pensato questo. La commedia la trovo sempre meravigliosa e mi piace sia interpretarla sia scriverla, ma ho dei gusti personali che mi portano ad apprezzare maggiormente un buon dramma rispet­ to a una buona commedia. Parere puramente personale, non cerco di convincere nessuno. Come ho detto, quando spendo i miei 50 centesimi per andare al cinema - o 50 dollari, ormai preferisco farlo per un film drammatico piuttosto che per una commedia. Certo, meglio una buona commedia che un dramma mediocre ma, a parità di qualità, preferisco l’uno all’altra. EL: Anni fa dichiarasti che avevi smesso di scrivere i “casuals” per il New Yorker per il timore che, continuando a scrivere quel genere di pezzi, alla fine ti saresti ritrovato con diverse raccolte composte essenzialmente dello stesso materiale. E aggiungesti che, qualora il cinema fosse diventato troppo faticoso per i tuoi gusti, ti sarebbe piaciuto dedicarti al romanzo.

WA: Avevo in effetti smesso di scrivere i “casuals” e ho scrit­ to un romanzo ma non mi è piaciuto [il risultato], e perciò sono tornato ai racconti. Quanto meno ho imparato che scrivere un buon romanzo non è facile come si può pensare, a prescindere dal tempo e dall’energia che vi si dedica. Mi sentivo, comunque, di provarci e non è detto che non ci riprovi in futuro.

EL: Di cosa parlava il romanzo? WA: Una parte è finita in Anything Else [la storia di un amore moderno in cui Jason Biggs perde la testa per la procace ma volu­ bile Christina Ricci, una ragazza dai sentimenti imprevedibili e mercuriali]. Il libro conteneva diverse cose divertenti, ma nel complesso non era abbastanza buono, probabilmente perché da 180

piccolo non leggevo. Nessuno mi spingeva a leggere e per que­ sto sono cresciuto senza sapere cos’è un romanzo, mentre a quindici anni avrei probabilmente potuto già dirigere un film, nel senso che possedevo un buon istinto per il cinema. Un po’ come la capacità innata di salire su un palco e far ridere gli spet­ tatori. Non sarebbe stato un film rifinito ma avrei saputo gio­ strarmi. I libri invece non li ho assimilati da ragazzo, non ho assorbito la letteratura allo stesso modo in cui ho assorbito il cinema o come la comicità ha attecchito dentro di me. Quando finisco un manoscritto devo farlo leggere a qualcuno e chiede­ re: “È un libro? È un romanzo?” Non mi sorprenderei nel rice­ vere risposte del tipo: “Non hai scritto un romanzo. Questa è solo una buona trama per un romanzo,” oppure: “Ha tutti i cri­ smi di un buon racconto.” Con il palcoscenico, il cinema, i nightclub, sono io che detto le regole. Sono io che decido, perché ho una facilità naturale nei confronti di quei mezzi espressivi e mi fido assolutamente del mio istinto. EL: A chi facesti leggere il romanzo?

WA: Lo lesse [nel 2001] Roger Angeli [scrittore e editor del New Yorker] e poi un paio di miei amici. Più o meno tutti mi rivolsero le stesse critiche. Non che avessi bisogno di sentirme­ lo dire da più di una persona. Sarebbe bastato uno qualsiasi di loro a convincermi. Vincent Canby [l’ex critico cinematografico del New Yorker] mi chiese di leggerlo. Furono tutti molto gen­ tili e disponibili, ma capii che avevo toppato. Ho l’abitudine di puntare al piatto ricco ed ero perfettamente consapevole del rischio di fallimento totale, che in effetti si verificò. Non era nelle mie intenzioni scrivere un romanzo mediocre che magari ottenesse un minimo di successo in virtù della mia notorietà. Volevo competere ai massimi livelli con un libro vero e feci fia­ sco. Magari ci riproverò con uno nuovo. 181

EL: Come ti sentivi quando lo facevi leggere? Davvero non avevi idea se potesse funzionare o meno? WA: Non ne avevo idea.

EL: E quanto ci rimanesti male? WA: Non molto. A me piace lavorare. A quel romanzo lavorai sodo, dedicai molto tempo, e ovviamente avrei preferito un risultato eccellente, ma quando uno dei miei film non ingrana o qualcosa che ho scritto fa fiasco, quando mando un testo al New Yorker e viene respinto perché non è ritenuto all’altezza del mio standard abituale, non ci rimango mai davvero male. Per me il divertimento è lavorarci sopra. Del resto non mi entusiasmo più di tanto nemmeno del contrario, quando ho successo, cosa che mi è capitata molte volte senza darmi brividi particolari. Certo, è bello quando un film debutta e ottiene grande successo. È bello per le persone che lo hanno finanziato ed è bello per la casa di produzione, ma io ho scoperto quasi subito che questo non aveva un effetto enorme sulla mia vita. Dopo i miei primi successi, di cui avevo bisogno per affermar­ mi, non ha significato più di tanto per me. Non che sia un ingra­ to. Sono grato per la fortuna che ho avuto ma nessun successo o premio ottenuto può alleviare la mia cupezza congenita. Credimi, mi dispiace ma è così. EL: Riesci mai a dire: “Di questo sono soddisfatto”?

WA: Sì, con un film mi può capitare di dire: “Questo si è rive­ lato un buon film,” pur non sapendo quali reazioni ha suscitato esattamente, visto che ho smesso di leggere le recensioni anni fa. Se è piaciuto, benissimo. E se non è piaciuto, non ne sono tocca­ to più di tanto, non perché sia superiore o arrogante ma perché ho tristemente imparato che l’approvazione del pubblico non 182

cambia la mia condizione di mortalità. Se realizzo un lavoro che, una volta finito, non mi sembra un granché ma il pubblico lo apprezza, magari esageratamente, il successo non serve a toglier­ mi dalla testa quella personale sensazione di fallimento. Ecco perché la chiave è lavorare, lavorare con piacere, non leggere quello che scrivono di te, se qualcuno tira in ballo l’argomento cinema cambiare discorso parlando di sport, politica o sesso, e continuare a testa bassa senza lasciarti distrarre. Al di là dei soldi - e siamo assolutamente superpagati - le cosiddette soddisfazio­ ni sono solo vanità che sottraggono tempo al lavoro creativo. Per non parlare del fatto che possono sfociare in cocenti delusioni o, viceversa, in fondati complessi di inferiorità.

Novembre 2005

Match Point ha ottenuto recensioni e reazioni unanimemente positive. Ha esordito in Francia e in Svizzera e, quando il mese successivo a questa intervista è uscito negli Stati Uniti, il critico del New York Times A.O. Scott ha scritto: "Un cocktail allo champagne corretto con la stricnina. Bisogna tornare agli amorali e inebrianti tempi d’oro di Lubitsch e Wilder per trovare un cini­ smo trasformato con tale maestria in intrattenimento di qualità superiore... La raggelante precisione del film rende la visione godibile e corroborante. Di rado l’angoscia di una riflessione sulla cecità e la mancanza di senso della vita è stata tanto divertente, e il morso di Woody Alien non è mai stato tanto lacerante e profon­ do. In un film così bello non c’è nulla di risibile.” Scoop è virtualmente terminato e Woody sta già lavorando alla sua prossima idea. EL: Dicevi che oggi è stato un gran giorno. Hai scritto quat­ tro pagine di un copione.

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WA: Sì, ho aggiunto quattro pagine a un copione, riuscendo anche a sbrigare tutto il resto. Ho avuto un sacco di tempo per suonare il clarinetto e anche per andare a una riunione con gli insegnanti di mia figlia. E sono persino riuscito a esercitarmi con il mio tapis roulant. Tutto è andato al suo posto.

EL: Puoi anticipare qualcosa del nuovo copione? [Che diven­ terà Sogni e delitti.] WA: No, se non per dire che è un altro copione molto serio e cupo.

EL: E a quanto pare sarà girato a Londra l’estate prossima, giusto?

WA: Penso di sì. È probabile che spenderanno lì i loro finan­ ziamenti. Dovunque sia, sarà girato in estate quando le bambine non vanno a scuola. Avrei preferito non dover prendere in conside­ razione gli impegni scolastici e avere l’agio di girare un film quando voglio. Per esempio, dovrò realizzare un film a Barcellona in estate [del 2007] e in Spagna d’estate fa molto caldo. Avrei preferito poterlo fare in primavera. EL: Parliamo un po’ delle donne di Interiors. [Vedipag. 153] È un gruppo interessante. Una è una vera artista, un’altra vuole fare la scrittrice di brutto ma di brutto ha soprattutto la prosa, e la terza è bella ma vuota.

WA: Non ho ben presente il film. Ricordo che lo giravamo a Long Island in inverno e che mi piacevano gli Hamptons in inverno, li trovavo accoglienti e malinconici. EL: Nelle nostre conversazioni usi spesso un ritornello a pro­ posito dei tuoi film: “Non ce l’ho ben presente.” 184

WA: Non è che la memoria mi stia abbandonando ma li ho girati nell’arco di tanti anni e ormai siamo a quota trentasei, trentasette film, che tra l’altro non vedo da quando li ho realiz­ zati. Prendi i soldi e scappa è del 1967, 1968, quanto fa? Quasi quarant’anni. Perciò non ce l’ho presente. Ovviamente se mi chiedi di Match Point posso risponderti perché l’ho appena visto. Poi ci sono singoli episodi che ricordo vividamente in Io e Annie, Manhattan o II dittatore dello stato libero di Bananas, anche se non ho ben presenti i film. Ricordo soltanto che quan­ do stavo girando Bananas mi trovavo di notte sulle montagne di Portorico e uno scarafaggio mi si arrampicò sulla gamba [ride]; cacciai un ululato spaccatimpani. Nel tempo libero andavo con Diane Keaton nell’unico cinema di San Juan e ci pioveva den­ tro; quando c’era un temporale dovevi trovarti una poltroncina all’asciutto. Forse te l’ho già detto, ma continuo a ripeterlo perché mi sem­ bra una grande verità. Tennessee Williams diceva: “Quando scrivi un copione, lo trascendi. È un peccato non poterlo butta­ re in un cassetto una volta finito. Invece devi ancora metterlo in scena.” Io provo la stessa cosa. Una volta che ho scritto il copio­ ne per me è finita. È un peccato doverlo poi girare. Poi però, una volta girato, è finita davvero, non ho più alcun interesse per il film.

EL: È vero che comprasti una casa negli Hamptons dopo Interiors e che non ci abitasti praticamente mai? WA: Una notte soltanto.

EL: Ci passasti una notte? WA: [Senza scomporsi] Esatto. Ero negli Hamptons in pieno inverno, in gennaio, non c’era nessuno, faceva freddo, le spiag­ ge erano grigie e desolate... il che per me era perfetto. Mi piace­ va parecchio. Così pensai: “Porca miseria, potrei comprarmi 185

una casa al mare da queste parti e starmene a fissare l’oceano e ascoltare le onde, nient’altro. E perfetto per il mio carattere.” EL: Dov’era la casa? WA: Feci un po’ di ricerche e trovai una casa a Southampton, bellissima. Era l’abitazione più vicina all’acqua di tutta Southampton e forse di tutti gli Hamptons. Una casa molto grande, ci feci fare parecchi lavori. Chiamai muratori e architet­ ti, la resi incredibilmente bella... parliamo di progettazione del paesaggio, alberi e tutto quanto. La arredai in maniera magnifi­ ca. Era diventata una casa da lustrarsi gli occhi per quanto era bella. Dopo un anno di lavori andai dunque a passarci la prima notte. E dopo quella prima notte pensai: “Mah, non fa per me.”

EL: Come mai? WA: Non so. Non era per me. Forse perché sono un animale da cemento, da Madison Square Garden, da librerie e ristoran­ ti... le strade, insomma. Il rumore delle onde mi dava sui nervi. Mi sembrava di sentire la voce ammonitrice di mia mamma che, quando ero piccolo, mi diceva: “Lo sai che non ti piace la cam­ pagna, non ti è mai piaciuta. Non ti piace stare via dalla città.” Me lo disse più volte nel corso degli anni e io: “No, no, non ti preoccupare, questa mi piacerà. Questa è diversa. Questa è fan­ tastica. La spiaggia non è la campagna,” a seconda del livello di entusiasmo per la persona con la quale sarei partito. Oppure: “Questa è campagna vicina alla città.” Alla fine però aveva ragione lei, proprio non riesco a farmela piacere. Mi piace alzarmi la mattina e scendere in strada, girare per la città, tornare a casa la sera in città e sentire il traffico fuori, non lo sciabordio delle onde.

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EL: Trovo straordinario che tu abbia aspettato un anno, spen­ dendoci tutto quel tempo, denaro, energia, risorse mentali, per poi capire in una sola notte che non ti piaceva.

WA: Be’, la parte creativa della ristrutturazione fu un gran divertimento... devi scegliere le tinte e i mobili, modificare e ricostruire, tutte attività stupende. È come scrivere o realizzare un film, è il lavoro la parte migliore, non il risultato. Poi però, quando ci entrai, forse, pare, mi sembra - all’epoca stavo con Mia - lei mi disse: “Sei pazzo, rimaniamo qui, devi solo resiste­ re le prime due notti.” Fu molto comprensiva, tra l’altro, per nulla insistente, non mi intimava: “Devi farlo” ma diceva sem­ plicemente: “Il posto è incantevole e va tutto bene.” Magari le cose sarebbero cambiate, non lo so. E che mi rende­ va irritabile starmene lì in mezzo al nulla e non mi piaceva anda­ re a letto la sera e [ride] sentire le onde. A me piace sentire gli autobus e le sirene. EL: Quando arrivasti sul posto il primo giorno, avesti una spe­ cie di presentimento improvviso? WA: [Sembra divertito dal ricordo] Non ebbi nessun presenti­ mento all’inizio. Arrivai pieno di brio, attraversai a piedi la spiaggia, entrai e uscii di casa [ride], rientrai, uscii di nuovo. [Ancora ridendo.] Poi cominciò a venirmi quella sensazione che provavo quando andavo in campagna con Mia. Mia aveva una casa bellissima in Connecticut, ce l’ha ancora. Arrivavo verso l’una e pensavo: “Sì, è proprio un bel posto”, e mi facevo un giretto nella proprietà che è molto vasta... 25,30 ettari. Ci anda­ vo d’inverno, con le giornate grigie, o in primavera e comincia­ vo a entrare e uscire di casa, in continuazione. A un certo punto la luce si affievolisce, si fa buio e non puoi più uscire di casa perché fuori è nero pesto e, se è inverno, già alle sette di sera è nero come la pece, dovunque getti lo sguardo. 187

E pensavo: “Gesù, se adesso fossi a New York potrei andarme­ ne da Elaine’s, potrei andare al cinema, farmi una passeggiata, avrei mille altre cose da fare e un milione di persone da vedere.” Mia aveva degli amici nei dintorni, ma dovevi metterti in mac­ china la sera e farti tutte quelle strade di campagna... quindici, venti minuti di strade di campagna. Tomi a casa alle undici di sera e ti tocca guidare alla cieca. Le dicevo: “Metti che stai dormendo, cosa fai se arriva una macchina alle tre di notte e scende qualcuno... magari più di uno? Tu sei in casa, la casa è completamente accessibile, le fine­ stre sono aperte. Non puoi chiudere tutto a chiave tutte le sere.” E lei mi rispondeva: “Tu sei pazzo. Tutti ci passano le notti qui e a nessuno vengono in mente certe preoccupazioni. Io ho più paura in città.” In effetti, a parità di condizioni la città ti tiene più sulle spine. Ma non per me. Potrebbe essere ima con­ vinzione del tutto immaginaria, ma io sento che la città, per quanto possa essere statisticamente più pericolosa, mi mette a disposizione un ventaglio più ampio di alternative. Più margi­ ni di manovra. Ti fai un programma che magari va a monte, ma almeno un programma ce l’hai. In campagna, invece, sei spac­ ciato. Alle sette e mezza, otto di sera non c’è più niente da fare. Era di una noia mortale. Certo, avevamo chiacchierato nel pomerig­ gio, parlato, passeggiato, cenato alle sette e mezza, otto. Arrivi alle nove, nove e mezza, e cosa fai? Un amante della campagna ti risponderebbe: “Be’, mi siedo davanti al camino, leggo un libro, ascolto un po’ di musica.” [Ricomincia a ridere.] Io piuttosto mi ficco una pallottola in testa. Sì, sì, se le mie alternative sono quelle, preferisco la morte. Quelle stesse cose le voglio fare in città. Se devo leggere un libro, me lo leggo nel mio appartamento, la musica me la ascol­ to nel mio appartamento. Non c’è mica bisogno di essere immersi nel buio in mezzo al nulla.

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EL: [Ridendo] Torniamo un attimo a Southampton. Sei lì sulla spiaggia. Entri ed esci di casa e poi, a un certo punto del pome­ riggio o della sera... WA: Verso sera.

EL:... all’improvviso dici: “Oh mio Dio...” WA: “Non fa per me.” La mattina dopo ci alzammo, facemmo colazione e ce ne tornammo in città. Chiamai il commercialista e gli dissi: “Venda quella casa!”

EL: Proprio non faceva per te. WA: Non per me. [Scuote la testa, poi scandisce lentamente.] Non. Per. Me.

EL: Dovesti apportare molte modifiche strutturali alla casa in cui girasti Interiors?

WA: Sì. Era una casa già molto carina, ma ero convinto che l’avevamo resa molto, molto più bella. I proprietari invece non furono dello stesso avviso. Al loro ritorno erano affranti. Non che avessimo fatto niente di male - era previsto nel contratto che avremmo modificato qualcosa - ma erano affranti per il risultato. A me sembrava molto bella. Dopo l’uscita del film, sapemmo da alcuni titolari di negozi di antiquariato a New York che c’era stato un boom di richieste per pezzi d’antiquariato di campagna... francesi, inglesi, americani. Ovviamente ripristi­ nammo l’abitazione com’era prima. EL: In ogni caso, trovo interessante la scelta di raccontare una storia attraverso il ritratto di tre donne molto diverse e dei loro rapporti reciproci. 189

WA: Sì, cercai proprio di rendere il film interessante da quel punto di vista. Mi premeva mostrare quanto possa essere dram­ matico avere tanti sentimenti e non riuscire a esprimerli, quan­ to possa essere tremendo per una persona [Joey, interpretata da Mary Beth Hurt]. D’altro canto, nemmeno il talento salva la per­ sona più dotata della famiglia [Renata, il personaggio di Diane Keaton], così come la superficialità della terza sorella [Flyn, interpretata da Kristin Griffith] non è una risposta. L’unica spe­ ranza per il personaggio di Mary Beth Hurt era che ci fosse una nuova vita, che potesse morire e rinascere [Pearl (Maureen Stapleton), la sua nuova matrigna, la trascina fuori dall’oceano dove Joey, in preda alla disperazione, si è buttata in una notte tempestosa, salvandola con la respirazione bocca a bocca]. Penso che oggi quel film mi riuscirebbe meglio, molto meglio. Ne sono assolutamente certo, anche se all’epoca feci il massimo delle mie possibilità.

EL: L’altro giorno dicevi che, forte dell’esperienza degli ultimi trenf anni, lo renderesti meno poetico e faresti emergere il con­ flitto fin dall’inizio. WA: È una storia che puoi affrontare da diverse angolazioni. Ci sono diversi aspetti interessantissimi che non fui in grado di sfruttare. Peccato. L’idea era meravigliosa, ma io non fui com­ pletamente all’altezza. Riuscii a spremere un po’ di succo ma solo in minima parte.

EL: Anche il personaggio di E.G. Marshall, il padre, è qualcu­ no che viene salvato, o che cerca di farsi salvare. EL: Sì, le figure erano molto vivide. Lui è un tizio vissuto per anni con questa donna, Ève [interpretata da Geraldine Page, morta nel 1987]. Le è stato accanto coscienziosamente sia per le sue turbe mentali sia per via delle figlie, ha dedicato il suo 190

tempo alla famiglia ed è stato un padre estremamente dignito­ so. Poi arriva il momento in cui le figlie sono andate via di casa e lui non vuole più essere costretto ad appoggiare il bicchiere sempre nello stesso punto del tavolino. E la vita da santo che ha vissuto fino ad allora in qualche modo gliene dà il diritto. Erano tutti buoni personaggi ed erano interessanti anche i loro conflitti, ma non fui capace di valorizzare la situazione con sufficiente abilità. EL: Durante la cena Maureen Stapleton riesce a parlare con grande disinvoltura della morte dei suoi due precedenti mariti.

[Arthur: (Sorseggiando il suo vino) Il marito di Pearl era una spe­ cie di chef. Pearl: (Sfiorandogli il braccio) Uhm. Era uno chef dilettante. Veramente lui lavorava in gioielleria. Il mio primo marito, che riposi in pace. Adam, il secondo, era odontotecnico. Renata: (Facendo una smorfia) E quanti ne ha avuti? Pearl: (Sorseggiando dal suo bicchiere) Due. Adam, infarto alle coronarie. Rudy era un alcolizzato. (Ad Arthur.) Vuoi un altro po’ di salsina?]

Per una come Ève, invece, affrontare l’argomento sarebbe stato angosciante. WA: Esatto. Maureen è piena di vita e di energia. Per quanto riguarda Geraldine Page, non credo sia facile trovare un ruolo in cui abbia recitato meglio di così. Non lo dico per tornaconto personale, non dipese da me. Aveva compreso esattamente il personaggio. EL: Quando porta via la lampada e dice: “Però devo insistere su una cosa: quella è proprio per la camera da letto. Diventa del tutto insignificante qua dentro. Il paralume non può andare con 191

tutte queste superfici levigate,” il suo ossessivo perfezionismo mi dà i brividi. E assolutamente credibile.

WA: Ah, sì. Basai tutti questi personaggi su persone che avevo conosciuto e che si comportano esattamente nello stesso modo. Posso avere esagerato qualcosa a scopo drammatico, ma gli atteggiamenti sono assolutamente fedeli alla realtà. EL: Una volta mi hai detto che in Ève c’è molto di te.

WA: Critici e spettatori vanno sempre alla ricerca di me nei miei film, nei miei personaggi. Pauline Kael, per esempio, mi disse che secondo lei mi riflettevo nel personaggio di Mary Beth Hurt, per­ ché le avevo fatto indossare giacche di tweed come quelle che uso io. Non ci avevo davvero fatto caso. Anzi, nella vita reale io ero estremamente fortunato rispetto al personaggio di Mary Beth. Io avevo un qualche talento - per quanto di poco conto, è sempre un talento che mi permette di esprimermi - mentre Mary Beth Hurt era piena di sentimenti ai quali non riusciva a dare sfogo. Mi ritenevo più vicino a Geraldine: un tipo ossessivo, fissato con la

Durante la realizzazione di Interiors Woody subiva notevolmente l’influenza di Bergman, come si vede in questa inquadratura delle tre sorelle interpretate da Diane Keaton, Kristin Griffith e Mary Beth Hurt.

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disciplina, che vuole che tutto vada per il verso giusto, che con­ trolla le cose, che le vuole perfette; che cerca di avere misura e buon gusto, che arreda la stanza con la quantità giusta di mobi­ li... era quella la sua ossessione. Io potrei decidere di arredare una stanza nello stesso modo, o magari arredarla riempiendola di roba, ma solo per ottenere un determinato effetto. Ecco perché mi riconoscevo più in lei e probabilmente mi immaginavo altrettanto fragile dal punto di vista emotivo. Ma non lo sono.

EL: Tu non sei uno che infilerebbe la testa nel forno come fa lei.

WA: Provavo grande solidarietà nei suoi confronti. Pensavo: “Porca miseria, sono uno che soffre altrettanto profondamente ma, grazie alla benevolenza di Dio o per chissà quale caso for­ tuito, non sono un candidato all’elettroshock. Sono riuscito a evitarlo, ma per un pelo” EL: Se anche tu soffri allo stesso modo, come fai a evitare la disperazione che spinge lei al suicidio?

Geraldine Page in Interiors, in cui interpreta Ève, una madre compulsiva e maniacale. Tra tutti i personaggi del film, Ève è quello in cui Woody si identifica maggiormente.

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WA: Io credo di avere da sempre, dentro di me, la fiammella della depressione al minimo. Non sono mai stato colpito da quella che chiamano depressione “clinica” o quella che ti porta al suicidio. Ho invece una depressione a bassa intensità, come una fiammella pilota sempre accesa. Negli anni ho messo a punto mille piccole strategie per sottrarmi alle sue grinfie: stra­ tegie lavorative, strategie di relazione e strategie di distrazione. EL: Cosa sono le strategie di relazione?

WA: Mi riferisco all’amicizia con alcune persone che mi sono sempre state vicine e d’aiuto, ma anche a un paio di relazioni con donne, per quanto mi riguarda, eccezionali. Inoltre, ho fatto ricorso a un sacco di piccoli trucchi per distrarmi, per costringermi a continuare a lavorare. Il mio essere defilato o il mio atteggiamento sono spesso visti come espressione di distac­ co, di superiorità. E invece è depressione. [Ride.] La mia inca­ pacità di essere partecipativo, la mia mancanza di interesse per quello che scrivono di me o per come vengono recensiti i miei film, l’indifferenza per gli incassi o per le reazioni del pubbli­ co... spesso do l’impressione di essere superiore ma non è affat­ to così. Quando me lo chiedono, rispondo, ovviamente dal punto di vista razionale: “Be’, certo, preferirei che il mio film incassasse un sacco di soldi, che fosse amato da tutti.” Il mio comporta­ mento, però, dimostra che non faccio nulla affinché questo si verifichi. Io faccio i film. Non mi interessa se rispondono ai gusti del momento, se sono commerciali, quanto sono rilevanti, profondi o superficiali. E quando escono nelle sale non organiz­ zo kermesse né vado alla prima, anche se qualche volta mi obbligano a presenziare e a farmi vedere coinvolto. Ora che Match Point sta per uscire qui da noi [nel dicembre 2005], mi sottoporrò al rito di una prima in California e di una prima a New York perché, sai, la DreamWorks ha investito sul 194

film e vuole un minimo di collaborazione... non essendo un idiota né un mostro, ovviamente parteciperò. Ma se non mi pre­ gassero, non lo farei per nulla al mondo. Fosse per me di certo starei volentieri a casa. Prendi Scoop: ora che l’ho finito e sto scrivendo il prossimo, per quel film in pratica non nutro più interesse. Rimangono ancora le correzioni colore e il missaggio ma, appena possibile, non ci poserò più gli occhi. Proprio come per Match Point, e pensa che mi è piaciuto!

EL: Una delle tue strategie è quella di realizzare un film all’an­ no, perché ti permette di inventare un mondo che puoi abitare per quel periodo di tempo, in cui sei contento di restare nove o dieci mesi. WA: Già.

EL: Quindi con Match Point ben avviato e Scoop praticamen­ te finito, hai già traslocato la mente e la fantasia, se non il mobi­ lio, nel nuovo film? WA: Sì, sì. Farò un salto in ufficio domani o dopodomani per controllare un ultimo rullo dell’internegativo di Match Point, con il quale il laboratorio ha combinato un pasticcio... su un rullo i colori non sono venuti giusti. Perciò passerò dall’ufficio, lo guarderò dieci minuti [la durata di un rullò] e dirò [schiocca le dita]: “Buono!” Poi correrò nella stanza accanto, limerò un paio di frame da due scene di Scoop - non voglio fare altri interventi in questo momento - e lo affideremo ai tecnici della sonorizzazione che si prenderanno un paio di settimane per lavorarci. A quel punto mi occuperò delle correzioni colore e del missaggio, ma ormai sarò a casa a lavorare su un altro progetto.

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EL: Sembra che tu riesca a passare da un film all’altro con la stessa facilità con la quale entravi e uscivi dalla casa di Southampton.

WA: Sì, però voglio dirti una cosa interessante. Dal punto di vista emotivo devo aspettare che il progetto sia fondamental­ mente finito. Gli interventi materiali che devo ancora realiz­ zare su Scoop sono banali. Non avrei potuto iniziare il film che sto scrivendo adesso, o qualsiasi altro film, se fossi stato ancora emotivamente coinvolto in Scoop, se ci fossi stato immerso. EL: Una volta mi spiegasti la differenza tra l’impegno fisico e quello emotivo necessari nella realizzazione di un film, cosa che scopristi in prima persona girando contemporaneamente Zelig e Una commedia sexy in una notte di mezza estate.

SfJK: Sì. Chiunque si fosse aspettato un problema avrebbe immaginato un guaio fisico e invece, da quel punto di vista, girare due film insieme non fu affatto impegnativo. Anzi, fu una passeggiata. Ben presto, però, mi pentii della scelta perché tro­ vavo davvero diffìcile staccare sul piano emotivo. Poteva succedere che, girando una scena di Una commedia sexy nel fienile della villa Rockefeller, ci accorgessimo che pote­ va essere un ottimo posto in cui Mel Boume [lo scenografo} avrebbe potuto allestire un piccolo set per filmare un paio di interviste per Zelig. Era un grande risparmio di tempo, visto che si era già sul posto. Stavamo sempre all’erta nel caso si presen­ tassero occasioni del genere. Da un punto di vista fisico, dun­ que, niente di che. Io e Gordon Willis ci alzavamo, mettevamo via le macchine da presa, prendevamo quella con le vecchie lenti e facevamo le nostre riprese. Mentalmente, invece, facevo molta fatica a liberarmi di un film ed entrare nell’altro. 196

EL: Da quello che dici sembra che, nel momento in cui finisci un film sul quale hai lavorato un anno e sai già quale sarà il pros­ simo, il trasferimento sia quasi istantaneo, come la scatola cine­ se del mago in Edipo relitto o in Scoop.

WA: Sì, passo subito al successivo. Il piacere è nel fare. Adesso, per esempio, mi sto divertendo, perché mi alzo al mat­ tino e mi dedico al mio copione. EL: Quando vivi in quel mondo non ti manca niente.

WA: Sì, e oltretutto è divertente: in misura diversa da film a film, ma per un po’ mi diverto. Per realizzare Pallottole su Broadway o Radio Days mi svegliavo ogni mattina e passavo l’in­ tera giornata insieme a questi personaggi in costume, tutti colo­ rati, che cantavano canzoni e mettevano di buon umore con la loro recitazione. Durante la realizzazione di Match Point, mi svegliavo la matti­ na e trovavo Jonathan Rhys-Meyers e la bellissima Scarlett Johansson, passavo tutto il tempo con loro, scherzavamo, cerca­ vamo di rendere le cose molto serie quando c’era ima scena seria e qualche volta ridevamo a crepapelle dopo che era finita o prima di girarla, a causa della tensione o per l’imbarazzo di farla, oppure soltanto perché ci stavamo divertendo... quel divertimento sadico che provi quando ti atteggi ad artista impe­ gnato. Dopo un po’ di giorni di riprese, raccolgo il girato e mi metto al lavoro con il mio montatore in saletta di montaggio, ordino il mio sandwich al tonno e la cosa comincia a prendere forma. Anche questa fase è molto piacevole, un po’ come ristrutturare la casa a Southampton. Trovi il piacere nell’aspetto estetico. Poi arriva il momento in cui il film è praticamente finito, tran­ ne un paio di decisioni qua e là. Finalmente [.schiocca le dita] esce nelle sale e al pubblico piace o non piace mentre io, dal 197

canto mio, spero quanto prima di non sentirne più parlare. Il film l’ho fatto, sono a posto così. Deriva dalla mia personalità depressiva non celebrare un successo o non drammatizzare per un flop. Anni fa, quando Manhattan uscì a New York - a seguito di un grosso battage pubblicitario - non presenziai né alla prima allo Ziegfield Theater né al party organizzato quella sera stessa al Whitney [Museum of American Art]; presi un aereo e me ne andai a Parigi qualche giorno prima. Ecco perché poi la gente viene indotta a ritenere che non mi importi niente, che sia trop­ po distaccato, o arrogante, o abbia la puzza sotto il naso. Come dicevo, tuttavia, non è così. Non è tanto arroganza quanto assenza di gioia. Non mi entusiasma, non significa nulla. [Sorride.] Parigi invece mi entusiasmò. Sto cercando di spiegare quello che provo perché l’equivoco non mi stupisce: nessun riconoscimento assegnatomi da un essere umano potrebbe rivestire reale importanza ai miei occhi. Potrei ricevere qualcosa di davvero significativo soltanto in un altro universo. [Risatina.] So che questa viene vista come eccen­ tricità, o distacco, e che può dare adito a commenti del tipo: “Pensa di essere al di sopra di tutto”. Ma io non sono al di sopra. Magari al di sotto o, eventualmente, a fianco [ride più intensamente]. EL: Come mai? WA: Perché i premi servono solo a raccogliere polvere; non ti cambiano la vita, non ti migliorano la salute, non ti rendono più longevo, non accrescono la tua felicità emotiva. Nessun ricono­ scimento, persino il più prestigioso, incide sui nodi della vita che vorresti sciogliere o sugli ambiti che vorresti davvero migliorare, dandoti l’equilibrio e il conforto di cui hai bisogno. Per quanto il mondo intero possa cantare le lodi di Shakespeare, fame un monumento assoluto, acclamarlo in piedi 198

davanti alla sua tomba, per il Bardo tutto questo non significa nulla. E non significherebbe nulla anche se fosse vivo e, alla prima dell’Amleto [comincia a ridere], gli venisse un attacco di mal di denti [ora ride di gusto]. Un minimo di conforto ti viene dalla scienza e dalla tecnolo­ gia. Che, ovviamente, non hanno tutte le risposte ma un paio di cosette utili te le mettono a disposizione. È già qualcosa avere il vaccino contro la poliomielite e la crema solare. Tutto il resto invece... filosofi, intellettuali... è tutto... [Non termina la frase.]

[Queste sue osservazioni me ne fanno tornare in mente altre risalenti alla fine degli anni ottanta, all’epoca in cui girava Crimini e misfatti: “Perché non dedicarsi al piacere dei sensi e sce­ gliere invece una vita improntata al lavoro e alla fatica? Quando ti ritroverai di fronte alle porte del paradiso, quello che in vita sua ha conosciuto solo i lussi, corso dietro alle gonne, avuto un’avven­ tura dopo l’altra, verrà ammesso esattamente come te. Lunica ragione plausibile che riesco a darmi, per compiere la scelta oppo­ sta, è che il lavoro è una forma di negazione della morte. Ti illu­ di che ci sia una ragione per condurre una vita più profonda, una vita produttiva di lavoro, di sforzi e di affinamento della tua pro­ fessione o della tua arte. Invece, la verità è che potresti trascorre­ re tutto quel tempo a spassartela in allegria - sempre ammesso che tu possa permettertelo - perché sia tu che quell’altro finirete nello stesso posto. Se un’opera non mi piace, non mi importa quanti premi ha vinto. È importante mantenere i propri criteri e non adeguarsi alle tendenze del mercato. Spero che prima o poi si percepisca che non sono un bastian con­ trario, o che la mia ambizione o le mie velleità - che ammetto can­ didamente - non sono mirate all’acquisizione di potere. Voglio solo fare qualcosa che diverta il pubblico, e per farlo non lascio nulla di intentato.” Se poi il pubblico non si diverte, la cosa non gli toglie il sonno: “Anzi, ci sono abituato.”] 199

EL: Ho un’altra curiosità. La fase di scrittura ti diverte perché hai immaginato la storia dall’inizio alla fine e dunque hai in mente un’ossatura prima di cominciare a mettere il copione nero su bianco. La parte difficile è, in realtà, quella dell’elabo­ razione mentale. Solo un paio di settimane fa mi hai detto che avresti potuto scegliere fra tre storie, in base a dove avresti gira­ to. Avevi una storia ambientata a Barcellona, una a Londra e una a Parigi. Nella fase di transizione da Scoop a questo nuovo film, allora, elaboravi mentalmente lo sviluppo di tutte e tre le storie insieme? WA: Sì, penso in qualsiasi ritaglio di tempo, non mi fermo mai. Non ho bisogno di pace e di silenzio per pensare. Magari sono lì che gioco a shanghai con le mie figlie, completamente partecipe, le vezzeggio, ma intanto nella testa cerco la soluzione di un problema. Al momento di scrivere ho bisogno di respirare, ma quando mi siedo a tavola la mente è sempre al lavoro. Mi piace lavora­ re. Mi infilo a letto la sera, guardo le ultime azioni della partita di basket, sono talmente esausto che non riesco nemmeno a spe­ gnere la luce eppure in quel minuto, minuto e mezzo che mi serve per addormentarmi [ride] penso alla mia storia. [Riflette sulle possibili eccezioni.] Mai durante il sesso comunque... non sono dedito al lavoro fino a quel punto.

EL: E riesci a ricordare? Per molte persone quegli ultimi pen­ sieri della giornata vanno persi. WA: [Enfaticamente] Oh, no, io me li ricordo. Mi viene in mente quando, molti anni fa, iniziai a leggere testi sulla drammaturgia. Fu Danny Simon a consigliarmi di legger­ ne qualcuno, altri li lessi per conto mio. In uno di questi libri, credo fosse di John Van Druten, l’autore di Cera una volta una piccola strega e di quell’altra meravigliosa commedia che è La 200

voce della tortora [ma anche di Cabaret], si parlava dell’inutilità di appuntarsi le idee, perché se sono reali ti rimangono in testa (non si riferiva ovviamente agli autori che tengono un diario da cui magari vanno a pescare ad anni e anni di distanza). Ho potu­ to constatare che è assolutamente vero. Io non lavoro a partire da uno scheletro. Se vado a letto la sera e mi viene un’idea, il giorno dopo me la ricordo. La voce della tortora mi piaceva moltissimo. [Idadattamento cinematografico, diretto da Irving Rapper, è la storia di Bill, un soldato in licenza a New York per il weekend. Il venerdì si reca nell’appartamento di Sally dove ha appuntamento con lei e con la propria fidanzata Olive, la quale ritiene di avere un pretendente migliore e si inventa una scusa per scaricare Bill su due piedi. Sally, aspirante attrice, è in pena peramore ma accettalo stesso di accompagnare lo spaesato Bill al ristorante francese sotto casa. Dopo la cena, con un acquazzone che si sta scatenando sulla città, Sally si offre innocentemente di ospitare Bill sul divano per la notte. Il soldato accetta, malgrado le reciproche riserve (sia la commedia sia il film furono considerati spinti e disinibiti per l’epoca). Giunti alla sera di domenica, la loro strada tra i dubbi e le incertezze del secondo dopoguerra è segnata. Il film uscì nel 1947; nel dicembre dello stesso anno Woody compì dodici anni.} Era il genere di cose con le quali sono cresciuto, proprio quel tipo di commedia sofisticata. Non la considero una grande com­ media da nessun punto di vista, ma fa parte di quel genere di lavori che plasmò la mia immagine del teatro e di New York, l’immagine dell’appartamento dell’Upper East Side che ha un ristorante al piano terra, dove puoi scendere a cenare tornando subito in casa, l’immagine della donna sofisticata che vuole fare l’attrice come in questo caso, del soldato in licenza, la voglia di scoprire con chi sarebbe andato a letto. Mi stuzzicavano la fan­ tasia su come doveva essere la vita a New York. Quel film mi era rimasto particolarmente impresso per la presenza di Eve Arden, una delle mie attrici preferite. 201

EL: Ho un’altra curiosità. La fase di scrittura ti diverte perché hai immaginato la storia dall’inizio alla fine e dunque hai in mente un’ossatura prima di cominciare a mettere il copione nero su bianco. La parte difficile è, in realtà, quella dell’elabo­ razione mentale. Solo un paio di settimane fa mi hai detto che avresti potuto scegliere fra tre storie, in base a dove avresti gira­ to. Avevi una storia ambientata a Barcellona, una a Londra e una a Parigi. Nella fase di transizione da Scoop a questo nuovo film, allora, elaboravi mentalmente lo sviluppo di tutte e tre le storie insieme?

WA: Sì, penso in qualsiasi ritaglio di tempo, non mi fermo mai. Non ho bisogno di pace e di silenzio per pensare. Magari sono lì che gioco a shanghai con le mie figlie, completamente partecipe, le vezzeggio, ma intanto nella testa cerco la soluzione di un problema. Al momento di scrivere ho bisogno di respirare, ma quando mi siedo a tavola la mente è sempre al lavoro. Mi piace lavora­ re. Mi infilo a letto la sera, guardo le ultime azioni della partita di basket, sono talmente esausto che non riesco nemmeno a spe­ gnere la luce eppure in quel minuto, minuto e mezzo che mi serve per addormentarmi [ride] penso alla mia storia. [Riflette sulle possibili eccezioni.] Mai durante il sesso comunque... non sono dedito al lavoro fino a quel punto.

EL: E riesci a ricordare? Per molte persone quegli ultimi pen­ sieri della giornata vanno persi. WA: [Enfaticamente] Oh, no, io me li ricordo. Mi viene in mente quando, molti anni fa, iniziai a leggere testi sulla drammaturgia. Fu Danny Simon a consigliarmi di legger­ ne qualcuno, altri li lessi per conto mio. In imo di questi libri, credo fosse di John Van Druten, l’autore di C’era una volta una piccola strega e di quell’altra meravigliosa commedia che è La 200

voce della tortora [ma anche di Cabaret], si parlava dell’inutilità di appuntarsi le idee, perché se sono reali ti rimangono in testa (non si riferiva ovviamente agli autori che tengono un diario da cui magari vanno a pescare ad anni e anni di distanza). Ho potu­ to constatare che è assolutamente vero. Io non lavoro a partire da uno scheletro. Se vado a letto la sera e mi viene un’idea, il giorno dopo me la ricordo. La voce della tortora mi piaceva moltissimo. [Ladattamento cinematografico, diretto da Irving Rapper, è la storia di Bill, un soldato in licenza a New York per il weekend. Il venerdì si reca nell'appartamento di Sally dove ha appuntamento con lei e con la propria fidanzata Olive, la quale ritiene di avere un pretendente migliore e si inventa una scusa per scaricare Bill su due piedi. Sally, aspirante attrice, è in pena per amore ma accetta lo stesso di accompagnare lo spaesato Bill al ristorante francese sotto casa. Dopo la cena, con un acquazzone che si sta scatenando sulla città, Sally si offre innocentemente di ospitare Bill sul divano per la notte. Il soldato accetta, malgrado le reciproche riserve (sia la commedia sia il film furono considerati spinti e disinibiti per l’epoca). Giunti alla sera di domenica, la loro strada tra i dubbi e le incertezze del secondo dopoguerra è segnata. Il film uscì nel 1947; nel dicembre dello stesso anno Woody compì dodici anni.} Era il genere di cose con le quali sono cresciuto, proprio quel tipo di commedia sofisticata. Non la considero una grande com­ media da nessun punto di vista, ma fa parte di quel genere di lavori che plasmò la mia immagine del teatro e di New York, l’immagine dell’appartamento dell’Upper East Side che ha un ristorante al piano terra, dove puoi scendere a cenare tornando subito in casa, l’immagine della donna sofisticata che vuole fare l’attrice come in questo caso, del soldato in licenza, la voglia di scoprire con chi sarebbe andato a letto. Mi stuzzicavano la fan­ tasia su come doveva essere la vita a New York. Quel film mi era rimasto particolarmente impresso per la presenza di Eve Arden, una delle mie attrici preferite. 201

EL: Anch’io ero un suo grande fan da piccolo. Era bellissimo vederla tutte le settimane in Our Miss Brooks.

WA: Eh, sì, la amavamo tutti. Essendo più giovane tu la ricor­ di da quella sit-com. Io andai tanto così [indice e pollice quasi si toccano} vicino a lavorare con lei. Anzi, l’avevo proprio scritturata. Venne a New York per la prova costumi. Avrebbe dovuto interpretare la parte di Zoe Caldwell nella Rosa purpurea [la contessa nell’omonimo film in bianco e nero all’interno del film}. All’epoca pensavo: “Mio Dio, lavorerò con Van Johnson e Ève Ardenl” Chi ci pote­ va credere? Sarebbe stato come giocare a baseball con Joe Di Maggio e Babe Ruth! [Ride, poi riflette.} Poi però perse il marito e dovette rinunciare. Fui molto fortunato a trovare Zoe Caldwell. EL: Non per insistere sulla questione, ma dicevi che, dopo Scoop, hai elaborato tre idee contemporaneamente senza sapere ancora quale avresti realizzato.

WA: Sì, avevo tre idee. Riflettendoci, ero sicuro che si sareb­ bero dimostrate sviluppabili e non vedevo l’ora di mettermi al lavoro su una delle tre. Ne ho parlato con mia sorella [Letty Aronson, che oggi produce i suoi film}, che mi ha detto: “Penso proprio che dovremmo procedere come se il film si girasse a Londra. Al momento non ne abbiamo ancora la certezza, ma sembra la soluzione più probabile.” EL: E quanto ti ci è voluto, da quando hai cominciato a pen­ sarci, per mettere la storia nero su bianco? Sembra nel giro di un paio di settimane. WA: Già, ma pensandoci in maniera ossessiva. Quella è la parte peggiore. Mi affiorano tutti i dolori, mi viene l’acidità di stomaco e mi sento fisicamente provato. Scrivere è una gioia, 202

mentre svegliarsi la mattina quando la struttura non ti viene è una sensazione orribile. Ti alzi, fai colazione e sai che devi tor­ nare in camera e metterti a riflettere sullo sviluppo della vicen­ da. È come scrivere una sinfonia. Qui hai l’accenno di un tema che verrà ripreso più compiutamente tre movimenti più tardi, e se è sbagliato qui, di là sarà un disastro. È buffo: in una partita a scacchi [ride] non riesco a prevedere nemmeno la mossa successiva. Quando invece scrivo un copio­ ne - magari una storia complicata con molti personaggi - riesco a vedere lontano e anticipare i problemi. Certo, non sempre ci prendo nella prima stesura e allora devo tornare all’inizio del copione per le modifiche necessarie, perché non sono riuscito ad arrivare alle situazioni seguenti in maniera armonica. Questo lo metto nel conto, ma prima di arrivare a questa fase l’elabora­ zione mentale è molto, molto impegnativa. Il primo giorno in cui inizio a scrivere, poi, è esilarante. Non riesco a spiegarlo. Sono pieno di energie, quando parlo mi infervoro come un pazzo. Mi sento iperattivo, cammino con passo veloce, faccio le cose come se avessi vent’anni. EL: Sembra quasi che sia una delle poche volte in cui schizzi fuori da quel ristretto spazio emotivo in cui operi normalmente.

WA: Sì, perché la maggior parte del lavoro autoriale è dura. Persino le mie figliolette, che adesso hanno cinque e sei anni, dicono [usa una voce fanciullesca]'. “Papà sta andando in came­ ra a pensare.” E io dico: “E quando voi andate al circo io cosa faccio?” [tira di nuovo la voce fanciullesca.] “Pensi!” Certe volte entrano in camera e mi trovano sul letto così [mima di essere sdraiato su un fianco e difissare nel vuoto], men­ tre sono lì che penso. Poi esco per andare al ristorante e penso anche lì. E dopo il pranzo, tomo a chiudermi lì dentro.

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EL: Niente carta e penna?

WA: Niente carta e penna, no. EL: E come la prende Soon-Yi? Ha imparato presto ad ade­ guarsi?

WA: Secondo lei è uno dei misteri del mio metodo di lavoro, che molti dei miei sforzi siano riversati nel pensiero. Si stupisce sempre di quanto velocemente riesca a scrivere, ma anche lei commette lo stesso errore di gran parte della gente. La gente crede che la scrittura sia lo scrivere. Come sottolineava Marshall Brickman, la scrittura è il pensare; lo scrivere è il mettere nero su bianco. Se dopo un mese non ho cavato un ragno dal buco, mi dico: “Questa idea non portava da nessuna parte.” Certe volte ho dei problemi ossessivi su due idee. Per un paio di settimane sviluppo la prima, la trovo tediosa e passo all’altra, per poi avere le stesse sensazioni anche sulla seconda. La vera difficoltà consiste nel farsi venire idee che funzionano e metter­ le in ordine.

EL: Da scrittore, sono ammirato dalla facilità con cui traslochi nella casa nuova che ospita l’idea successiva. WA: Sì, perché finita la precedente perdo completamente interesse. Quando abbiamo guardato Scoop insieme l’altro gior­ no, dopo quindici minuti pensavo: “Uffa, devo sorbirmelo di nuovo?” Già mi tocca guardarmi tutto il film quando faccio il missaggio, poi durante le correzioni colore, poi quando faccio il DVD, e l’intemegativo. Sbrigate tutte le incombenze non voglio più guardarlo. E infatti non lo faccio.

EL: Vorrei tornare un momento a Interiors, a proposito di quanto dicevi delle amicizie e dei trucchi mentali ai quali ricor­ 204

ri per evitare di cadere nella disperazione, anche se una dispe­ razione non profonda come quella del personaggio di Geraldine Page.

WA: Esatto. Ho le mie varie distrazioni. Per esempio, mi lascio completamente assorbire dallo sport; faccio ginnastica tutti i giorni. Ho un generale senso della disciplina... esercitarmi con il clarinetto, salire sul tapis-roulant, chiudermi in camera a scrivere, sono tutte cose che aiutano. Aiutano a combattere la tendenza ad arrendersi alla spaventosa angoscia della realtà. EL: Parlavamo della Voce della tortora, che risale all’epoca in cui vivevi a Brooklyn, non ti piaceva la scuola e non leggevi molto. È interessante che proprio questa commedia abbia cat­ turato la tua attenzione. WA: L’immagine fantastica del bel mondo mi catturò molto presto. Non so perché. Da bambino non erano i film di pirati o i film di cowboy a piacermi, quelli per i quali i miei amici anda­ vano pazzi. Mi facevano addormentare. Quello che mi emozio­ nava, anche in tenerissima età, era la fine dei titoli di testa, quando c’era la panoramica sullo skyline di New York. Mi immaginavo le persone in queste case di Park Avenue o sulla Quinta Avenue, prese dalla propria vita, con i maggiordomi e i camerieri, la colazione a letto, quando si mettevano in ghinghe­ ri per andare a cena o nei nightclub, per rincasare solo a tarda notte... ristoranti esclusivi, cocktail, piano bar. Per non so quale motivo quel mondo faceva scattare qualcosa dentro di me. Era questo che mi interessava.

EL: Parlando con i tuoi amichetti del quartiere, vedevi che erano stupiti o ammirati del fatto che ti piacessero commedie come La voce della tortora?

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WA: Be’, le insegnanti a scuola erano stupite dei miei riferi­ menti sofisticati. Non ero istruito ma me ne uscivo con frasi argute. In giovane età, quando non sapevo nemmeno di cosa stessi parlando, le battute che facevo erano su Freud e sui mar­ tini, argomenti del genere, perché emulavo il linguaggio colto e arguto di quei film, i personaggi che avrei voluto essere e le situazioni nelle quali mi identificavo. È possibile che abbia una tendenza genetica per la battuta arguta... I film di cui parlo contenevano una certa dose di argu­ zia ma erano anche sofisticati, erano commedie che parlavano di divorzi, commedie in cui volavano tappi di champagne e dialo­ ghi raffinati. E in questo c’era qualcosa che mi attirava fin da piccolissimo. I miei amici mi sembravano delle capre. Intendiamoci, mi pia­ cevano, li frequentavo e non dico che non andavo a vedere King Kong. Mi piacevano i fratelli Marx e Chaplin, ma quello che davvero stimolava il mio interesse erano le commedie come Eimpareggiabile Godfrey [1936], anche se questa in particolare era di qualche anno prima. Tra i film leggermente successivi ai quali da piccolo mi sarei abbeverato come al seno materno posso citare Infedelmente tua [I94S] o Scandalo a Filadelfia [1940], che adoro ancora oggi. Se, facendo zapping, mi capita di vedere qualcuno che entra in un nightclub, non riesco più a staccarmi. Più di una volta ho chiesto a Santo [Loquasto] di ricrearmi quegli ambienti.

Febbraio 2006 EL: Come sta andando il nuovo copione, quello che dovrai girare a Londra quest’estate?

WA: Lasciami spiegare. È una storia un po’ complicata. Non sono bravo a scrivere, ma per fortuna lo faccio in maniera robo­ 206

tica. Una volta finito il missaggio e tutto il resto su Scoop, la situazione era che avrei realizzato un film a Londra quest’anno e uno a Barcellona il prossimo. Così mi sono messo al lavoro e ho scritto il copione per Londra. All’ultimo minuto però siamo passati a Parigi. Il film di Londra non aveva una base solida, il mio management aveva preferito rifiutare alcuni dei finanzia­ menti e dunque il progetto londinese è crollato all’ultimo secon­ do. Intendo proprio all’ultimo secondo. Avevo già scritto la sce­ neggiatura che poi avevo meticolosamente riscritto a causa di una modifica sostanziale; insomma, ci avevo lavorato come un matto. Tre giorni dopo va tutto a monte, ma d’un tratto si presenta un’ottima occasione per Parigi. Il film poteva essere girato tra giugno e agosto,, situazione ottima per le bambine e occasione per tutta la famiglia di conoscere una città nuova. Mancava solo un copione. Erano i primi di febbraio e dunque il tempo strin­ geva. Andava concepito e scritto, bisognava pianificare il bud­ get, scegliere il cast, eccetera. Sono arrivato alle ultime due pagi­ ne, domani lo finisco. Poi mi concederò un piccolo periodo di tregua. Lo ribatterò questa settimana e me lo coccolerò per una decina di giorni prima di consegnarlo, ma per tagliare il traguar­ do ho dovuto fare una bella corsa. EL: Hai usato la storia parigina di cui parlavi prima? WA: Sì, ma è diverso avere una storia e avere un copione. Anche se l’idea di base c’è, elaborarla mentalmente dall’inizio alla fine richiede del tempo. Non so se verrà fuori un film orri­ bile ma, se succederà, non sarà certo perché ho dovuto scriver­ lo di fretta.

EL: È un dramma o una commedia? WA: È una storia d’amore. 207

EL: Ci reciti anche tu? WA: No, mi metterebbe troppa pressione in fase di scrittura. Io so scrivere solo un certo tipo di film se devo anche recitarci. Per questo ho trovato tanto tonificante la sceneggiatura di Match Point, scritta senza l’assillo di immaginare un ruolo per me ma mettendo semplicemente una scena dopo l’altra.

EL: Alcuni dei temi di Match Point sono già presenti in Crimini e misfatti, dove c’è un personaggio Woody Allen. Parlami delle differenze nella scrittura delle due sceneggiature, una in cui ci sei e l’altra in cui non compari come attore. WA: In Crimini e misfatti nessuno nutre interesse per le mie aspirazioni [quelle di Cliff, il documentarista misconosciuto}, sono tutti personaggi interessati esclusivamente al successo. Ma il mio ruolo introduce solo delle parentesi comiche, la vera sto­ ria di Crimini e misfatti è quella di Martin Landau.

EL: Il cui delitto rimane impunito. WA: Molti hanno visto nel suo personaggio un uomo tormen­ tato dal rimorso che deve continuare a raccontare la propria storia come il vecchio marinaio di Coleridge, ma non è affatto così. Non prova alcun rimorso, sta benissimo. Scopre che in un universo senza Dio puoi farla franca, e questo non lo turba.

EL: Come valuti Crimini e misfatti! WA: Buono, ma un po’ troppo meccanico, secondo me. Credo di aver calcato troppo la mano, mentre Match Point è fluito in maniera più naturale. Mi è capitato di avere i personaggi giusti al posto giusto nel momento giusto.

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EL: Nel frattempo avevi anche accumulato quattordici anni di esperienza. Mentre scrivevi Match Point, ti succedeva mai di pensare: “In qualche modo è un tema che ho già affrontato, in Crimini e misfatti, però ho questo e quest’altro da aggiunge­ re”? WA: No, mi dicevo soltanto di essere fedele alla storia, e che se obbedisci alle esigenze del processo di creazione di un’opera di fantasia, il significato si rivela da sé. Per me, naturalmente, si rivelerà in un certo modo. Anni fa Paddy Chayefsky mi disse: “Quando un film non regge o una commedia non regge - senti che bello - elimina i pistolotti.” [Ride.] Marshall Brickman la prendeva da un altro lato, come ti ho già detto, ma in maniera altrettanto attenta e profonda: “Il messaggio del film non può essere nei dialoghi.” E questo è un precetto difficile da rispetta­ re, perché di tanto in tanto fa capolino la tentazione di prender­ si un momento per filosofeggiare, inserire il proprio punto di vista, il proprio significato. In Match Point ho ceduto, in qual­ che modo... quando i quattro sono seduti a tavola e discutono se sia la fede la via per la soluzione più facile. La verità, però, è che se il significato non viene trasmesso attraverso l’azione drammatica, quelle parole rimangono vuote. Non funzionano. Non basta far sedere gli attori e mettergli in bocca riflessioni possibilmente sagge o osservazioni intelligenti, perché il pubbli­ co non le assimila allo stesso modo in cui le intende l’autore... “Ehi, hai sentito quell’epigramma di Shaw?” Per il pubblico, quello è un dialogo fra personaggi in una certa situazione: “Lui dice così perché lei pensa così e lui se la vuole ingraziare...” Il pubblico guarda l’azione, lo sviluppo della vicenda. Quando perdi di vista questo, e capita a tutti - a me di sicuro -, tu pensi di proporre il tuo punto di vista, di riempire il film di messaggi positivi... e invece ti stai suicidando. Stai solo muovendo guerra al divertimento del pubblico.

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EL: Match Point però rientra alla perfezione nell’ambito di un tuo tema ricorrente, ossia che in un universo senza Dio l’unico limite che puoi porre alle tue azioni sta nella tua moralità. Nessun altro ti punirà, se non ti fai pizzicare. WA: Ho trovato interessante leggere un articolo sul film scrit­ to da un prete cattolico... me lo avevano spedito. Il pezzo era molto bello, ma l’autore partiva da un assunto sbagliato. L’assunto era: se, come dico io, la vita è priva di significato, cao­ tica, dominata dal caso, allora tutto è possibile, niente ha un senso, un’azione vale l’altra. Questo spinge immediatamente ima persona religiosa ad attribuirmi la conclusione: “Be’, se oggi mi va di ammazzare qualcuno non ci penso due volte, tanto posso sempre sperare di cavarmela.” Si tratta però di una con­ clusione falsa. Io sto in realtà dicendo un’altra cosa, e non è un messaggio subliminale o esoterico, ma chiaro come il sole: dob­ biamo prendere atto del fatto che l’universo è privo di Dio, che la vita è priva di significato, è spesso un’esperienza terribile, orrenda, senza alcuna speranza, che i rapporti d’amore sono molto, molto ardui eppure, malgrado tutto, dobbiamo trovare un modo non solo per tirare a campare ma per condurre una vita retta e dignitosa. La conclusione percepita comunemente è che allora tutto è ammissibile, mentre io, in realtà, sto ponendo una domanda: dando per assodato il peggio, come facciamo ad andare avanti, o addirittura perché dovremmo scegliere di andare avanti? Ovviamente non siamo noi a scegliere, la scelta è incorporata dentro di noi. Il sangue sceglie di scorrere. [Ride.] Ti faccio notare come sto allegramente pontificando, in questo momen­ to; stai intervistando un soggetto dal meccanismo di negazione deficitario. In ogni caso, i religiosi si rifiutano di riconoscere la realtà che contraddice le loro favolette. Se questo è un universo senza Dio [sghignazza], loro devono chiudere bottega. Il flusso di cassa si interrompe. 210

Certo, un sacco di gente sceglie di vivere la propria vita in modo completamente autocentrato, magari delittuoso. Credo­ no di poter dire: “Visto che tutto è privo di significato, visto che posso commettere un omicidio e farla franca, allora lo faccio.” Invece è possibile anche l’altra scelta: tu sei vivo, gli altri sono vivi, siamo tutti nella stessa barca, e devi allora cercare di ren­ dere la vita il più dignitosa possibile per te e per gli altri. Questo mi sembra molto più morale e addirittura molto più “cristiano”. Se, pur riconoscendo lo squallore dell’esistenza, scegli di essere un essere umano dignitoso anziché mentire a te stesso dicendo­ ti che ci sarà chissà quale premio celeste o punizione divina, questa a me sembra una scelta più nobile. Se ti comporti bene perché ti aspetti un premio o una punizione, o comunque un esito di qualche genere, vuol dire che la tua scelta non è dettata da nobili motivi, dalle cosiddette motivazioni cristiane. È come con i kamikaze, che a parole sostengono di ispirarsi a nobili motivazioni religiose o nazionali quando in realtà le loro fami­ glie ottengono un beneficio economico e possono crogiolarsi nell’eredità dell’eroismo... per non parlare delle vergini che attendono i terroristi suicidi nel loro aldilà, anche se non riesco a capire come qualcuno possa preferire un gruppo di vergini a una donna esperta e preparata. In ogni caso, non ero d’accordo con quanto scritto dal prete cattolico, ma non entrai in polemica con lui, che tra l’altro era stato molto gentile. Non aveva scritto nulla di livoroso, mi imputava semplicemente un punto di vista che cercava di con­ futare. Solo che non era il mio punto di vista, e lo confutava opponendo quella che a me sembra una preconcetta linea di condotta religiosa... in tutta sincerità, non si può interpretare il film come se dicessi che tutto è ammissibile e che per me va bene così. Mi è capitato fra le mani un altro articolo scritto da un sacer­ dote-filosofo della St. John’s University secondo il quale Match Point era probabilmente [ride] il film più ateo mai realizzato. 211

Anche lui però usava toni molto pacati, mi faceva molti com­ plimenti. Il suo giudizio nei miei confronti era più benevolo perché, a suo avviso, il fatto che negli anni io abbia proposto una visione disperata e disperante dell’universo, la visione di un universo senza senso e senza Dio, significa che percepisco l’assenza di Dio nella vita dell’uomo come un dato di rilievo. In questo senso aveva ragione: in effetti io dico che è rilevante, l’ho detto esplicitamente in Crimini e misfatti. Per me è una vera tragedia che l’universo sia privo di Dio e di significato, tut­ tavia è solo quando riesci ad accettarlo che puoi passare a con­ durre quella che la gente chiama una “vita cristiana”, ossia una vita retta e dignitosa. Puoi viverla solo se intanto riconosci qual è lo sfondo sul quale ti muovi e ti scrolli di dosso tutte le favo­ lette che indirizzano le tue scelte di vita, dettate in realtà non da motivazioni morali ma dalla speranza di accumulare punti per l’aldilà. Il film ha ispirato un ampio dibattito in questo ambito e ne sono contento. Sono contento che non sia stato visto soltanto come un giallo, con tutto il rispetto per il genere. Come appas­ sionato di cinema sono forse il più grande ammiratore di film gialli, ma avevo sperato di usare Match Point per trasmettere almeno una o due opinioni che costituiscono la mia filosofia personale, e mi sembra di esserci riuscito. EL: Cosa credi che succeda a Jonathan Rhys-Meyers [che ucci­ de la sua amante, interpretata da Scarlett Johansson, dalla quale aspetta un figlio e l’anziana vicina di lei]? Avrà lo stesso destino di Martin Landau? WA: Sì. Credo che finisca per ritrovarsi in una situazione insoddisfacente: sposato con una donna per la quale non prova passione; una vita di agi che si è conquistato con il matrimonio ma anche un lavoro in ufficio che lo rende claustrofobico; e l’as­ sillo di una moglie che gli chiede già un altro figlio. 212

Non pensa nulla del delitto. Ha ottenuto ciò che voleva e ne ha pagato il prezzo. Peccato che il prezzo sia esattamente ciò che aveva sempre desiderato. Se però devo immaginarmi il suo futuro, credo che quel matrimonio lo scontenterà e che, assicu­ ratasi la necessaria sicurezza finanziaria, si separerà. EL: Nella tua carriera hai ormai inventato una miriade di per­ sonaggi. Rimangono nella tua vita? Vengono a trovarti? Ci pensi? Quando ti metti a scrivere pensi mai: “Ho scritto questo personaggio, adesso devo scriverne uno diverso”? WA: Sì, a volte mi capita. Non è piacevole. Mi viene un’idea e mi accorgo che sto rispolverando qualcosa che ho già fatto e che quindi sarà ripetitiva. Certe volte non me ne rendo conto sul momento; sono accecato e non me ne accorgo finché il film non esce e qualcuno me lo fa notare.

EL: In Harry a pezzi c’è la scena alla fine nella quale tutti i per­ sonaggi dello scrittore si radunano teneramente a omaggiarlo. A te è mai capitato? Non intendo in maniera troppo letterale, ma hai mai ricevuto in visita una delegazione dei tuoi personaggi?

In Match Point, Chris (Jonathan Rhys-Meyers) ha una moglie facoltosa e amorevole, conservata però a prezzo di un omicidio.

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In Harry a pezzi, il protagonista Harty Block ha compromesso i propri rapporti con quasi tutti gli umani incontrati nella vita reale, ma i personaggi creati dalla sua penna si radunano per rendergli omaggio.

WA: No, perché non guardo i miei film, me li dimentico. I miei personaggi sono pieni di sbagli. Invece mi dà piacere pen­ sare alle opere di Cechov, di Bergman, di Tennessee Williams; mi piace ripensare ai film e alle commedie degli altri, non alle mie cose. Questi film di cui stiamo parlando, alcuni non li vedo da trent’anni. Mi ricordo determinati episodi durante la realiz­ zazione ma non i dialoghi, le scene, i personaggi. EL: I personaggi e le interpretazioni in Ombre e nebbia sono fantastici. [La storia è allo stesso tempo farsa e metafora. Un inet­ to gruppo di vigilantes arruola l’impiegato codardo interpretato da Woody affinché partecipi alla caccia a uno spietato assassino, che si rivelerà essere la Morte. Il film si svolge di notte e, come dice lo stesso Woody, “quando esci di notte ti sembra che la civiltà sia sparita... la città è soltanto una convenzione sovrimposta e creata dall’uomo, una funzione del proprio stato d’animo”. \

WA: Ah, furono tutti bravissimi. Credo anche che la mia regia fosse discreta e i set di Santo [Loquasto] erano magnifici, ma un film dipende dalla scrittura e al pubblico quella storia 214

non interessò. Sai, quando realizzi un film in bianco e nero che si svolge di notte in una città europea degli anni venti, ti aspet­ ti già di non fare incassi stratosferici. Ma il film non piacque a nessuno.

EL: Mi hai raccontato che lo mostrasti a Eric Pleskow della Orion il quale, dopo la proiezione, aveva l’aria di uno tramorti­ to da una mazza ferrata.

WA: Era uno che cercava di fare la faccia gioviale in ogni cir­ costanza e si è sempre comportato da signore, ma da quella incrinatura nella voce [ride] si capiva che non gli era piaciuto. EL: Era girato benissimo. Ti aveva dato soddisfazione da que­ sto punto di vista?

WA: A Carlo [Dz Palma, il direttore della fotografia] il film valse un premio in Italia. Stilisticamente era un gran bel vedere. La soddisfazione stava nel modo in cui era fotografato e nella sua realizzazione. Ripeto, faccio questi film per divertirmi, o 215

meglio, per distrarmi. Ero curioso di scoprire come sarebbe stato girare un film tutto sullo stesso set, portando gli esterni in interno. E ambientarlo in una sola notte, avere tutti questi per­ sonaggi e questa atmosfera da Mitteleuropa. La speranza è sem­ pre che piaccia, una volta finito. Come Tutti dicono I love you, con il quale avevo soddisfatto quel desiderio che mi fa continua­ re a lavorare, che mi tiene nel mondo del cinema. Tutti i miei film hanno alla base una motivazione personale, poi spero che piacciano anche agli spettatori e quando mi dicono che un film è piaciuto sono sempre gratificato. Se invece non succede, non posso farci nulla perché non mi pongo a priori l’obiettivo del consenso del pubblico... il consenso mi piace ma non è quella la ragione per cui faccio i miei film. EL: A me sembra che i tuoi film reggano nel tempo. Non sono legati a un periodo preciso.

WA: Sono io a non essere legato a un periodo. E questo mi costa, anche. Non ho mai usato la musica del momento e non ho mai scritto di argomenti di attualità. Match Point era un sog­ getto privo di dimensione temporale. Parla della fortuna. E se è un buon film, dovrebbe esserlo anche da qui a cent’anni. Se non lo è, non reggerà. Film come Munich o Brokeback Mountain [entrambi usciti di recente} sono film che in massima parte riflet­ tono i problemi e gli atteggiamenti di un’epoca. In un certo senso, questo è molto importante e godibile per il pubblico. Capisco come mai riscuotano successo perché piacciono anche a me. Oltre a essere ben fatti, riflettono problemi che stanno a cuore alla gente, mentre quelli che affronto nei miei film posso­ no interessare o meno - a seconda del caso - ma non sono mai temi politici o sociali. Sono sempre questioni psicologiche, affettive o esistenziali. Per quanto gli eventi possono cambiare, allora, i miei film resteranno sempre quelli che erano. Se un film è brutto, rimarrà sempre brutto. Se è buono, non sembrerà 216

datato. Di un mio film non si dirà mai che si è rovinato nel tempo. Si dirà [comincia a ridere] che era una schifezza ai tempi ed è una schifezza ancora oggi. EL: Scrivesti Harry a pezzi con molta facilità? [Vedipag. 94] WA: E sempre più facile scrivere un film basato su episodi come quello rispetto alla costruzione di una trama compatta, per la quale è richiesta una vera maestria. Io ci riesco ma con più fatica e più tempo. Harry a pezzi procede invece per episodi e quindi era facile far camminare il protagonista per strada e coin­ volgerlo in questa o quella situazione.

EL: È proprio un film delizioso.

WA: Penso che sia stato bene accolto. Non so se incassò ma credo che fu recensito con favore. [L’incasso lordo al botteghino americano fu di circa undici milioni di dollari, poco più della metà del budget, ma con la vendita dei diritti esteri, televisivi e per l’edizione in DVD, probabilmente riuscì ad andare in pareggio o a generare qualche profitto.] EL: È tra i tuoi preferiti? WA: No, non tra i miei preferiti, ma non mi dispiaceva.

EL: Accordi e disaccordi è una versione molto rimaneggiata di The Jazz Baby, che scrivesti circa trentanni fa ma non girasti mai. [Sean Penn è Emmet Ray, un chitarrista jazz itinerante con più di una analogia con Django Reinhardt. Musicista prodigioso ma dal carattere irrimediabilmente vanesio ed egocentrico, sempre in bili­ co tra "accordi e disaccordi” interiori. Del resto, come annota una donna con cui stringe amicizia (un’altolocata amante del brivido dei bassifondi interpretata da Uma Thurman): “Tale è la natura 217

del genio. Bisogna abituarcisi.” La ragazza migliore nella vita del musicista è la muta e sventurata Hattie (Samantha Morton), che ovviamente Emmet si lascia scappare, ma un’altra protagonista del film è la musica, vera delizia per gli appassionati dijazz.} WA: Esatto. The Jazz Baby sarebbe stato più leggero perché avrei dovuto essere io il protagonista. Avrei portato una sensibi­ lità più scanzonata. Grazie a Dio ho evitato quel ruolo perché è molto meglio nell’interpretazione di Sean. Sean vale mille volte me come attore, è cento volte più profondo, più complesso e più interessante. Trasformò il film in una storia intrigante. Io l’avrei resa comica a tratti, lui le diede spessore.

EL: Mentre la scrivevi vedevi già lui nella parte? WA: No, assolutamente. Dopo aver scritto il copione cominciai a chiedermi chi scritturare. Avevo alcune riserve su Sean, vista la sua fama di personaggio difficile e dal pessimo carattere. Juliet [Taylor, la responsabile del cast] ed io eravamo d’accordo sul fatto che fosse un attore favoloso e non c’era dubbio che avrebbe fatto meraviglie in quel ruolo. Raccolsi qualche informazione sul suo conto e le ultime due o tre persone che avevano lavorato con lui mi dissero che non era affatto un carattere difficile. Fissammo un appuntamento - ci eravamo già incontrati in passato ma solo di sfuggita - e lo trovavi davvero amabile. Come spesso capita, le voci che circolano sulle persone non hanno fondamento. Fu molto bello lavorare con lui. Sean fu creativo, contribuì a svilup­ pare il ruolo. Quando mi proponeva delle idee e io, per qualche motivo, mi mostravo scettico - non sempre, perché il più delle volte erano buone idee - non insisteva per farmi cambiare opinio­ ne. E quando gli proponevo io un’idea nuova, era sempre dispo­ nibile a provarla. Potevo criticarlo senza che lui si facesse venire dubbi. D’altronde, lo ripeto, quando dirigo grandi attori o gran­ di attrici, raramente ho qualcosa da dire. 218

Samantha Morton nei panni di Hattie, la muta e bistrattata ragazza di Emmet Ray (Sean Penn) in Accordi e disaccordi.

Sean non aveva mai suonato la chitarra ma gli bastò qualche lezione. Non dovevo nemmeno “coprire” quando suonava, potevo inquadrare le mani. EL: Avevi già visto recitare Samantha Morton? [Che nei panni di Hattie, la fidanzata muta di Emmet, ruba la scena diventando protagonista assoluta del film.} WA: Dopo che Juliet mi aveva mostrato alcuni suoi nastri le dissi: “Non perdiamo di vista quella ragazza.” La convocammo nella saletta di montaggio e fu deliziosa. Ricordo il film con piacere. Alcuni musicisti mi hanno detto che andava proprio così: ci si metteva in macchina e si attraver­ sava il paese senza un soldo in tasca pur di trovare un ingaggio da qualche parte. E dopo aver suonato in un locale i musicisti venivano invitati alle feste. Mi sembra di aver catturato quell’at­ mosfera con ragionevole realismo. Stilisticamente è un bel film e il rapporto tra Sean e la ragazza muta è, a mio avviso, interes­ sante.

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EL: Per realizzarlo ti ci sono voluti trentanni. Era un’idea che avevi spesso in mente o magari passavano anni senza che ci pen­ sassi? WA: Non c’era nulla di impellente al riguardo, ma l’ho sem­ pre ritenuta una buona idea. Ho sempre desiderato fare qualco­ sa su un chitarrista geniale, vanesio, egocentrico ed estremamente nevrotico. EL: Hattie l’hai sempre immaginata muta?

WA: All’inizio pensavo di farla sorda, mi sembrava ironico che lui suonasse tanto bene e lei non potesse sentirlo. Però avrebbe creato troppi problemi. Il giorno seguente ci incontriamo di nuovo. Ieri Woody mi ha detto di essere a due pagine dalla fine del suo nuovo copione [Sogni e delitti] e dunque gli pongo l’ovvia domanda.

EL: Hai poi finito il copione?

WA: Sì. Adesso devo batterlo a macchina e coccolarmelo un po’. Mi ci vorranno circa tre giorni di lavoro non continuativo, inframezzato da un po’ di jazz, poi mi concederò un giorno di riposo e comincerò a plasmarlo [muove le mani come se stesse modellando della terracotta]. E molto, molto più facile perfezio­ narlo che cominciare con una pagina bianca. La fase diffìcile è partire da zero e arrivare a questo punto.

Novembre 2006 Sogni e delitti è montato, e Woody, soddisfatto di come è venuto, lo ha proiettato due o tre volte per sentire il parere di alcuni amici. 220

È la storia di due fratelli (Colin Farrell e Ewan McGregor): il primo lavora in un’officina meccanica di Londra ma ha il vizio del gioco e insegue vincite sempre più alte; il secondo vorrebbe evitare di tra­ scorrere il resto della vita a lavorare nello scalcinato ristorante del padre investendo in un progetto alberghiero in California, un affa­ re che promette un guadagno rapido e garantito. Entrambi adorano navigare e hanno impiegato tutti i loro soldi per l’acquisto di una barca, la Cassandra’s Dream [titolo originale del film]. Ma la serie di vincite si interrompe e Farrell si ritrova sommerso dai debiti. I due fratelli sperano di ottenere da un ricco zio (Tom Wilkinson) la somma necessaria per ripagare gli strozzini e investire negli alber­ ghi in California. Quando gliene parlano, lo zio accetta ma, a sor­ presa, chiede anche lui aiuto ai ragazzi. Un suo collega sta infatti per testimoniare contro di lui in un’indagine per malversazione e i due fratelli si accorgono con orrore che lo zio sta chiedendo loro di com­ mettere un omicidio. Finiranno per commetterlo e nessuno sospet­ terà di loro, ma i rimorsi di coscienza destabilizzano completamen­ te la psiche di Farrell. Quando questi annuncia l’intenzione di costi­ tuirsi, McGregor vede svanire tutti i loro sogni. Convince allora il fratello a trascorrere una giornata in mare, come facevano in tempi più spensierati, con l’intenzione di farlo ubriacare e procurargli un’overdose di farmaci. Non ne avrà però il coraggio. Durante una colluttazione in barca, Farrell uccide accidentalmente suo fratello e poi, distrutto dal rimorso, si suicida. EL: Adesso hai un secondo film drammatico che ti soddisfa. È stata una conseguenza della fiducia accumulata con Match Point? WA: Sì. Ora sento di poter fare film drammatici con la stessa fiducia che avevo quando sfornavano i miei film comici, e sento che il pubblico li accetta. Addirittura, Match Point ha incassato più di qualsiasi altro mio film. È quindi molto probabile che continui a realizzarne. 221

EL: Sogni e delitti era un’idea che avevi da tempo? WA: Avevo scritto una commedia per l’Atlantic Theater [di New York] nella quale, fra l’altro, c’era un tale che aspettava l’arrivo dello zio. Aveva lavorato per lui e voleva chiedergli un prestito. Il copione avevo lo stesso tipo di situazione in cui lo zio è in arrivo e c’è in ballo qualcosa di grosso, anche se nella com­ media il ragazzo aveva smesso di lavorare per lo zio ed era redu­ ce da una brutta esperienza (entrambi erano stati innamorati della stessa donna e lo zio aveva finito per sposarla). Poi mi venne in mente che lo zio avrebbe potuto fare la prima mossa chiedendo lui un favore, essendo lui quello nei guai. Pensi di rivolgerti a qualcuno in grado di darti una mano e inve­ ce quello arriva e ti dice: “Sai cosa? Devo parlarti. Sono nei guai fino al collo.” La storia si sviluppò a partire da questo nucleo. La commedia risale a quattro o cinque anni fa. Avevo anche il personaggio della madre che idolatrava suo fratello, il ricco zio dei ragazzi.

EL: Cosa ti ha convinto a farne un film? WA: Come commedia, arrivi al momento del colpo di scena, il momento in cui è lo zio a chiedere il favore, ma sul palco è impossibile mostrare tutta l’azione. Per esempio, il personaggio doveva pedinare la persona che minacciava lo zio prima di ucci­ derla. Fu così che, gradualmente, si tramutò nella vicenda dei due fratelli in difficoltà economiche.

EL: Il titolo Cassandra's Dream lo avevi fin dall’inizio?

WA: No, venne fuori in corso d’opera. Sono esterrefatto dal numero di persone che mi chiedono: “Chi è Cassandra?” E non sto parlando di minorati mentali, ma di gente istruita, intelligen­ te, laureata, di elevato ceto sociale. 222

EL: La sceneggiatura contiene diversi intrecci narrativi. Ci sono sempre stati o alcuni li hai pensati durante la riscrittura o nel corso delle riprese? WA: Era una buona idea e un buon copione. Arrivare a un buon copione è più diffìcile che tradurlo in immagini. In gene­ re so dove voglio andare a parare e butto giù tutta la storia, dal­ l’inizio alla fine. Poi, durante la riscrittura, mi saltano in mente dettagli che vengono inseriti. Per esempio, la prima stesura non conteneva la scena in cui i due fratelli aspettano la loro vittima nel suo appartamento. Poi mi è venuta l’idea che l’uomo potes­ se tornare a casa in compagnia di qualcuno, impedendo l’omi­ cidio. Volevo inoltre un climax spettacolare. Un’idea su cui abbiamo lavorato tutti era che il tizio si recasse a Brighton per andare a trovare la madre. Avrebbe fatto una passeggiata sulla promenade, consentendomi di inserire nel film una veduta not­ turna della città, cosa che mi mancava visto che la vicenda si svolge tutta di giorno. Poi se ne sarebbe andato al luna-park, con l’ottovolante che fa il giro della morte; i due fratelli sareb­ bero saliti sulla carrozza dietro di lui e gli avrebbero sparato alla nuca mentre era a testa in giù. Trovavo la sequenza un po’ troppo hollywoodiana per i miei gusti, volevo che la storia avesse un taglio assolutamente reali­ stico. A chi non ha mai commesso un omicidio questa dinamica potrebbe sembrare acrobatica. Poi sono venuto a sapere che il costo della scena era proibitivo - bisognava occupare tutto il pontile di notte e seguire i movimenti dei personaggi con la macchina da presa - e la notizia mi ha permesso di tirare un grosso sospiro di sollievo, visto che mi stava giusto venendo il sospetto di aver imboccato una strada pericolosa. Non era coe­ rente con il tono che volevo dare al film. Se non fossero venute in mio soccorso quelle considerazioni di ordine economico, avrei ben presto commentato: “Ho rimediato una figuraccia, questa non è stata per niente una grande idea.” Tra l’altro, non 223

avrei potuto girare l’omicidio dal vivo perché il movimento dell’ottovolante era troppo veloce, avremmo dovuto ricorrere a qualche stratagemma. Se una scena simile fosse stata affidata a uno Spielberg o a un Lucas, sarebbe venuto fuori qualcosa di pirotecnico e assolutamente credibile. Io non potevo permetter­ mela. Quelli della casa di produzione mi dissero: “Sappiamo che le si spezzerà il cuore, ma non ce la facciamo.” Invece non mi spezzarono proprio niente. Risposi: “D’accordo, me ne farò una ragione”, ma [ride] uscito dall’ufficio mi appoggiai alla porta e pensai: “Dio sia ringraziato, mi avete risparmiato una figura barbina.” EL: Come in Match Point, anche in Sogni e delitti mi è capita­ to di distogliere gli occhi dallo schermo durante la scena del­ l’omicidio. Sono entrambi momenti molto intensi.

WA: Credo sia dovuto al fatto che in entrambi i film dedico del tempo a sviluppare i personaggi, i genitori, la famiglia, i sen­ timenti, diversamente da un film di genere in cui la vera prota­ gonista è la trama e i personaggi sono solo sagome di cartone. Voglio che una vicenda simile coinvolga persone reali, è questo che la rende interessante ai miei occhi. Anche in Misterioso omi­ cidio a Manhattan, mi premeva far vedere che io e la Keaton tor­ navamo dalla partita di hockey come due newyorchesi qualsiasi che rincasano un sabato sera dopo essere stati da qualche parte. Prendono i giornali, comprano il salmone e i bagel, salgono in ascensore e incontrano un vicino. Cose che succedono alle per­ sone reali. È questo il bello di Gangster Story. Poiché [il regista Arthur Penn e gli sceneggiatori David Newman e Robert Benton] hanno dedicato del tempo a sviluppare i personaggi di Bonnie e Clyde - i loro bisogni, la loro vita affettiva, le loro aspirazioni - quan­ do ai due capita qualcosa il pubblico è emotivamente coinvolto. 224

In Sogni e delitti volevo che l’omicidio non si vedesse. Ho notato che è un aspetto ricorrente, per quanto inconsapevole, fin dai miei esordi: il sesso e la violenza reale avvengono sempre fuori campo. Non che sia incapace di mostrare la violenza. Nel mio primo film, Prendi i soldi e scappa, venivo mitragliato e cadevo a terra, con la gamba che si dimenava in maniera spasti­ ca come quella di Ingemar Johansson quando fu messo al tap­ peto Ida Floyd Patterson nel 1960, nel loro secondo incontro per il titolo dei pesi massimi]. Era assolutamente realistico ma, per qualche motivo inconscio, lo eliminai. In Misterioso omicidio a Manhattan la donna morta non si vede, è coperta. In Match Point non si vedono le fucilate, lo stesso in Crimini e misfatti. E anche in quest’ultimo, si sentono gli spari ma la macchina da presa si ritrae dietro la siepe \sul Cheney Walk, vicino al Chelsea Embankment]. Non so perché. Non me ne vergogno, non sono timido, non ho problemi con la violenza. Se Crimini e misfatti fosse stato girato da un altro, questi avrebbe potuto inserire una memorabile scena di omicidio. Hitchcock, o Scorsese... un tale bussa alla porta con un mazzo di fiori in mano, la donna apre e quello che segue è un minuto e mezzo di grande cinema. L’unica spiegazione che so darmi è che, essendo più scrittore che altro, la violenza diventa uno stru­ mento che mi permette di fornire il mio punto di vista, materia­ le da commentare, su cui filosofeggiare. Non mi interessa l’omi­ cidio in sé. L’uccisione è funzionale al discorso su Dio e sul rimorso. In un film banale come Misterioso omicidio a Manhattan, l’assassinio è un pretesto per le battute che io e la Keaton ci scambiamo, mentre in Psycho, Hitchcock, che avreb­ be potuto non mostrare l’omicidio o farlo in modo più discreto, lo filma invece in un modo talmente bello da diventare iconico. EL: Per quanto tempo la scena in cui vieni mitragliato rimase nelle varie versioni di Prendi i soldi?

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WA: La tenni per un certo numero di proiezioni. Era la pre­ messa di un finale a sorpresa in cui lo spettatore mi avrebbe rite­ nuto morto; Janet Margolin e nostro figlio venivano al cimitero e si scambiavano qualche parola. Poi, con la macchina da presa che inquadrava i suoi piedi, lei si voltava e si allontanava. Si sen­ tiva un “pssst, pssst” e si vedevano i suoi piedi che tornavano indietro. Avevo un buon istinto drammaturgico ma non l’espe­ rienza sufficiente per sapere come sfruttarlo. L’importante, in ogni caso, era che gli istinti fossero corretti. Nel tempo avrei imparato a usarli con più discernimento. Era un tentativo di finale teatrale, ma mi venne il dubbio che il pubblico non fosse pronto a vedermi morire mitragliato. Ero completamente fradicio di sangue. A.D. Flowers, che aveva rea­ lizzato gli effetti speciali del Padrino, mi aveva imbottito di petardi. Così cominciai a scervellarmi per trovare un altro finale e, dopo sei milioni di tentativi, utilizzai quello che mi fu possibile pur di far uscire il film. [All’inizio del film, Virgil cerca di evadere tenendo in ostaggio un secondino con una pistola fatta di sapone e colorata con lucido

Il sempre ottimista Virgil Starkwell, ladruncolo da strapazzo che nel finale di Prendi i soldi e scappa torna per l’ennesima volta in prigione. Da una detenzione precedente era quasi riuscito a evadere brandendo una pistola finta ricavata da una saponetta, che la pioggia aveva però trasformato in schiuma e bollicine pochi istanti prima dell’agognata libertà.

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da scarpe. Costringe il secondino ad accompagnarlo fino ai cancel­ li ed è ormai quasi fuori, ma quella sera sta piovendo e, all’ultimo momento, la guardia si accorge che la pistola si è sciolta. Nel fina­ le, Virgil viene condannato a ottocento anni di reclusione da scon­ tare in un penitenziario federale, ma al processo rassicura il pro­ prio avvocato: con la buona condotta potrà ottenere la riduzione della pena anche della metà. Il film si chiude con Virgil che, rispondendo alle domande dell'intervistatore, dichiara serafico: "Il delitto, alla lunga, paga. È un buon lavoro, non dipendi da nes­ suno, viaggi, conosci gente interessante." “Come passi il tuo tempo in prigione?" gli chiedono. “Hai qual­ che hobby?" “Oh, sì”, risponde. “Mi diletto di scultura e modellismo. Sono diventato molto abile con le mani.” Sfodera un’altra pistola di sapone e domanda: “Per caso fuori sta piovendo?”] WA: All’epoca non avevo ancora dimestichezza con i finali.

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Parte terza

Casting, attori e recitazione

Febbraio 1973 È iniziata la preproduzione del Dormiglione [Vedi pag. 17]. Come la maggior parte di noi, se ci fosse consentita la scelta, Woody preferisce lavorare con persone che conosce e delle quali si fida. A questo scopo, sta mettendo insieme una troupe e un grup­ po di attori protagonisti più o meno stabili. È lui che prende tutte le decisioni importanti e molte di quelle minori, ma degli aspetti relativi alla pianificazione parla pochissimo. Parte della sua reti­ cenza è dovuta alla timidezza, parte alla sua avversione nei con­ fronti dei rapporti con gli altri (un sentimento che non cambierà di molto nel corso degli anni). Non si mostra mai palesemente maleducato, ma il suo silenzio e il suo distacco possono sconcerta­ re. Non ricorda di aver mai condotto un colloquio a quattrocchi con un candidato a un posto nella troupe o nel cast, "perché ho dif­ ficoltà nell’incontrare le persone. Non riesco a capirle davvero se siamo a quattrocchi perché in quel momento la mia testa vaga altrove.” Questo è il motivo per cui, in genere, un collega fa le domande mentre Woody se ne sta tranquillamente seduto ad ascoltare (al riguardo, con gli anni diventerà più rilassato, restan­ do comunque sempre un po’ distante). Sta cercando un attore per il ruolo del Leader, un personaggio la cui immagine ricorre spesso nel film ma che non recita nemmeno una battuta. Woody è all’interno del suo bungalow nei vecchi Culver City Studios di Los Angeles dove, tra le centinaia di altri film, furono girati Via col vento e Duello al sole. Il bungalow, 231

adibito a camerino delle star, assomiglia all’abitazione di una pic­ cola famiglia di reddito medio-basso (talvolta viene anche usato per riprese in esterno). Sul davanti, un basso steccato bianco deli­ mita un tappeto di margherite. L’interno è costituito da una cuci­ na, una piccola stanza con una scrivania e due locali più grandi, uno occupato essenzialmente da un tavolo da biliardo, l’altro arre­ dato con un divano, un giradischi su cui Woody ascolta i suoi album jazz e una Moviola per il montaggio del film. Durante le riprese di Via col vento, Clark Gable aveva usato proprio lo stes­ so bungalow, con un arredo diverso, come suo camerino. Woody è seduto sulla sponda del tavolo da biliardo e osserva Elizabeth Claman, la sua assistente per il film, che accoglie i vari candidati per il ruolo del Leader. Elizabeth ne verifica il nome sulla lista e poi chiede l’altezza. Ognuno degli attori fa la faccia perplessa ma risponde. A posto così, grazie, ” dice lei. “A posto così?” chiedono in diversi, alcuni gettando lo sguardo verso Woody. Appena l’attore è uscito, Woody lo valuta. Ha il problema che l’ultimo gli piace sempre più del precedente (con il passare degli anni le sue scelte diventeranno meno laboriose). “È come con i fratelli Marx,” dice, eliminando un altro nome nello stesso modo in cui, in Una notte all’opera, Groucho e Chico strappano il contratto clausola dopo clausola. “Ce ne serve uno con un po’ più di bellitudine, ma non troppa” (ha iniziato ad aggiungere il suffisso -tudine agli aggettivi venti anni prima, all’epoca in cui scriveva per la televisione, dopo aver visto un libro intitolato L’essenza della negritudine. “Era un libro serio,” spie­ ga, “ma il titolo mi faceva ridere. ”) Dopo aver riflettuto un momento su ogni attore, scuote la testa sconfortato e commenta sommessamente: “Eellini li prende dalla strada.” Poi alza lo sguardo verso l’aspirante successivo. Alcuni giorni dopo aver scelto il cast, Woody riunisce attorno al tavolo da biliardo gli attori che interpreteranno i dottori della resi2Y2.

stenza ai quali, come al solito, ha fornito solo le rispettive battute e non l’intero copione. Dopo che gli attori hanno letto la scena ad alta voce diverse volte, Woody chiede un’ulteriore lettura, “se non vi dispiace. Voglio che tutto sia il più realistico possibile e - per quanto sia un proposito destinato a rimanere inosservato - tenere un passo piuttosto spedito” (dopo II dormiglione, rinuncerà persi­ no a questo minimo di prove). “Le sfumature sono la morte della comicità, ” mi spiega dopo che gli attori se ne sono andati. “Il cinema muto è fatto da personag­ gi da fumetti: se le danno di santa ragione e nell’inquadratura suc­ cessiva si rialzano e stanno benissimo. Gli attori vogliono sempre complicare i personaggi, aggiungere sfumature alle loro relazioni, mentre lo spettatore vuole guardare un personaggio e sapere immediatamente se è un buono o un cattivo. Lo stile di Chaplin era quello di sfruttare la recitazione degli altri personaggi. Lo vedi arrivare lungo la strada roteando il bastone e sai immediatamen­ te cosa sta per succedere.” Lunica certezza del cinema è che non ci sono certezze. Spesso quello che sembra buono durante le riprese non lo è altrettanto, per qualche arcano motivo, sulla pellicola. E quello che sembra buono sulla pellicola può risultare tremendo una volta montato. Perciò Woody sta lavorando su diversi numeri slapstick, concen­ trandosi in particolare sulla camminata da usare nella parte del Dormiglione in cui si spaccia per un robot. Nell’arco di qualche giorno, ogni volta che ha un momento la prova e la modifica. Alla fine decide di filmarne alcune versioni in bianco e nero, per vede­ re come vengono sullo schermo. “Mi riesce proprio bene camminare tutto storto,” osserva dopo essersi esibito in una camminata che fa sganasciare i presenti. Ne prova un’altra versione. “Mi specializzerò in camminate da burlo­ ne.” Altre risate. Woody sorride ma scuote la testa. “Non posso credere che un uomo della mia intelligenza debba camminare da demente per far ridere il pubblico.”

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Settembre 1987

Woody è impegnato nel casting per Un’altra donna. Lui e Juliet Taylor sono nella sala di proiezione del Manhattan Film Center, a Midtown Manhattan, il luogo che Woody usa come ufficio e sala di montaggio. Contro le pareti è addossata una fila di morbide poltrone girevoli verde avocado. La pedana gradina­ ta sotto la finestra di proiezione ospita una regia audio, il diva­ netto beige e nero su cui è seduto Woody e altre due poltrone imbottite. Dietro le poltrone, lungo una delle pareti, c’è la col­ lezione di dischi di Woody, musica degli anni trenta e quaran­ ta, e su un ripiano accanto ai dischi, leggermente fuori luogo in questa stanza, un set giapponese da saké. Il casting è un proces­ so che mette a disagio tanto gli attori quanto Woody. Le audi­ zioni, una decina in tutto, sono previste a distanza di quindici minuti l’una dall’altra. Giunge voce dell’arrivo della prima can­ didata. “Iniziamo, ” dice Woody. “Non sopporto l’idea di far aspettare quella poveretta.” “Sono passati appena trenta secondi,” osserva Juliet ridendo. Entra la ragazza, una delle diverse candidate al ruolo di Marion (il personaggio di Gena Rowlands) da giovane. Per aiutarsi, Woody tiene in mano una foto arrotolata della Rowlands, che le attrici non vedono. Woody prende quello che sarà il suo posto, al centro della stanza e fuori visuale dalla piccola anticamera collo­ cata all’ingresso. Appena la persona è entrata, Woody si fa incon­ tro per salutarla. Alla ragazza (e praticamente a tutte le altre in seguito) dice: “Ciao, il provino è per un film che inizia le riprese il 13 ottobre e va avanti fino a Natale o Capodanno. Secondo Juliet potresti andar bene per uno dei ruoli ma oggi volevo solo dare un’occhiata al tuo aspetto. Ti faccio sapere molto presto, entro un paio di settimane.” La giovane dai capelli rossi è a disagio. Si irrigidisce e risponde: "D’accordo.” Woody la osserva attentamente per un paio di secon­ 234

di e poi le dice: “Ok, grazie." Lei scuote la testa e saluta ]uliet con la mano uscendo. Mentre un attore legge insieme a Juliet, Woody ascolta seduto su una poltrona all’altra estremità della stanza, riparandosi gli occhi con la mano destra, nella sinistra l’elenco dei nomi e le fotografie dei candidati che gli coprono il resto della volto fino alla base degli occhi (“Mi nascondo," spiegherà più tardi. “Solo questo"). In piedi al suo posto in attesa della prossima persona, fischietta il brano “Spicy Advice", jazz di New Orleans, tenendo il tempo con il piede destro. Entra un’altra ragazza per la parte della giova­ ne Marion. Woody ripete lo stesso discorso fatto alla rossa. “Volevo solo guardarti in faccia" aggiunge osservandola attenta­ mente. “Be’, eccola,” fa lei. “Grazie per averla portata.” Il candidato successivo leggerà una scena. “In genere non faccio leggere”, dice Woody. “Di solito conosciamo già gli attori per aver­ li visti in altri ruoli. Essere costretti a leggere è tremendo. Io non otterrei mai una parte se dovessi leggere. Il problema delle audi­ zioni è che, dall’arrivo fino ai convenevoli, gli attori vanno benis­ simo. Poi cominciano a leggere una scena e ingranano la quarta. Non parlano più come persone reali.” Lattare entra e Woody gli dice: “Questo è un tale a una festa... non è né borioso né altro, solo una persona qualunque.” Dopo che l’attore è uscito, Woody si rivolge a Juliet: “Era piut­ tosto bravo. Ha resistito un bel po’ prima di perdersi in duecento anni di lezioni di recitazione. La domanda è, sarà in grado difarlo anche con i riflettori accesi e davanti a tutti? Io, comunque, ho sempre pensato che se riesci durante una lettura puoi riuscire ovunque. Non c’è nulla di più innaturale che entrare in questo lugubre stanzino, con la gente che ti guarda, il set per il saké in bella mostra...” “Ti ricordi,” gli chiede Juliet, riferendosi ai suoi primi film, “quando ti sedevi in fondo alla stanza su una sedia a dondolo 235

mentre Freddy Gallo [l’assistente alla regia] o Jack Grossberg [il produttore associato] interrogavano gli attori? A quei tempi avresti preferito origliare da dietro un paravento.” Woody sorride e chiosa: “Ancora oggi credo che l'ideale sarebbe lo specchio per gli interrogatori. Permetterebbe di non staccare lo sguardo.”

Sei mesi dopo c’è una divertente sessione di casting dedicata alla ricerca dell’attrice giusta per interpretare la madre del per­ sonaggio di Woody in Edipo relitto. Mentre aspetta l’arrivo delle candidate, Woody mi dice: “Un tempo scritturavo gli atto­ ri per la faccia. Ogni volta che io e Gordie [Willis] nutrivamo perplessità sulle capacità interpretative di qualcuno lo riprende­ vamo in singolo per evitarci guai” (se nessuno dei ciak era sod­ disfacente, non c’era bisogno di rigirare la scena con tutti gli altri attori). Arriva la prima candidata di quello che sarà un filotto di vec­ chiette che sembrano uscite dalla Brooklyn dei vecchi tempi. Si siede e Woody le spiega il ruolo. “Sia sprezzante,” le dice dopo che la donna ha letto le prime righe. “È suo figlio, lei gli vuole bene, ma sia sprezzante fin dal­ l’inizio.” A un’altra: “Lei gli vuole bene ma lui è un lazzarone. Sia molto sprezzante nei suoi confronti e sospettosa della donna che le ha portato in casa. Per lui non abbia nient’altro che un lento e costante disprezzo.” Una dice: “È difficile avere disprezzo per lei.” “Imparerà, ” risponde Woody prontamente. Un’altra, dopo aver ascoltato le istruzioni, propone un contesto personale. “Allora devo parlare a mezza bocca come zio Julie? Zio Julie è un mio zio.” Woody: “E quand’è che me lo presenta?” A ognuna dirà: "Molto bene. Adesso la provi un po’ più lenta­ mente.” Oppure: “Con un po’ più di rimprovero.” Poi: “Bene, 236

molto bene.” E: “Molto bene. Adesso, solo per farci quattro risa­ te, la legga provando disprezzo per suo figlio. ” Dopo che l’ultima candidata è uscita, dice: “Sapete dov’è che questo film lascerà il segno? In Israele. Sarà il Via col vento israe­ liano. ”

Ottobre 1987 Sono iniziate le riprese di Un’altra donna. Mentre chiacchieria­ mo nel suo appartamento, Woody fa un paragone tra gli attori maschili europei e americani. WA: È difficile trovare qualcuno che sia un uomo qualunque e non un pistolero. Ce ne sono pochi. Sam Waterston in Settembre. Denholm Elliot [morto nel 1992]. Gli attori america­ ni, che non hanno nulla da invidiare a quelli del resto del mondo - De Niro, Nicholson - non sono anonimi, sono sempre molto carismatici. Noi alleviamo eroi: i John Wayne, gli Humphrey Bogart, i Jimmy Cagney, non abbiamo tante persone normali, come un Fredric March. La nostra storia del cinema è mito, mentre in Europa è in gran parte rapporti umani, storie realistiche in cui hai bisogno di un uomo. I nostri attori sono troppo affascinanti, belli e carismatici: Wayne, Brando. L’ho imparato sulla mia pelle, attraverso i casting. Quando mi serve una persona qualunque di cinquanta, cinquantacinque anni non riesco mai a trovarla. Dustin Hoffman è quello che si avvicina di più. Sam Waterston è una presenza fìssa in Interiors, Hannah e le sue sorelle e Settembre. È un uomo qualunque. In America, come attori, abbiamo questo genere di figure molto, molto spe­ ciali. Robert De Niro è molto speciale, uno dei più grandi atto­ ri al mondo, come lo stesso Jack Nicholson. Sono tutte figure dotate di caratteristiche molto particolari, mentre trovare un 237

ottimo attore in grado di interpretare un copywriter qualunque è sempre un’impresa. Non dico che non ne abbiamo avuti, negli Stati Uniti. Penso che George C. Scott [morto nel 1999] sia un grande attore che risulta credibile nei panni dell’uomo della strada, che non ha bisogno di fare il piacione o sparare con la pistola. Dustin è uno in grado di interpretare molti ruoli diver­ si, oltre a essere un fantastico attore comico. Un grande talento. Per questo ho affidato diverse volte a Sam Waterson il ruolo del vicino di casa, di un essere umano come tanti che non sia un cowboy, non dia l’impressione di girare con la pistola o prende­ re a cazzotti la gente. E uno dei pochi sulla piazza. Le donne non hanno questo problema. Ci sono a disposizio­ ne talmente tante attrici di talento che è un piacere. Voglio Jane Alexander per la parte della cognata e Max von Sydow nei panni di suo marito. Lui ha il giusto livello di charme. Blythe Danner sarà Lydia. John Houseman [morto nel 1955] il padre di Marion. Mi serve un attore più giovane con una voce simile alla sua per l’inizio. [Per il ruolo del padre da giovane, Houseman suggerisce David Ogden Stiers.]

EL: Max von Sydow è stato eccezionale in Hannah e le sue sorelle. La sua intensità bucava lo schermo. [Interpreta Frederick, un pittore dal carattere freddo, tutto dedito alla sua arte, e legato alla bellissima sorella di Hannah, Lee (Barbara Hershey).] WA: La bravura di Max è tale da scatenare gli applausi della troupe, cosa che non succede mai per un attore. Il suo talento è talmente vasto da essere universale, che interpreti un personag­ gio altolocato o popolano. In Hannah e le sue sorelle, la parte di Michael Caine [Elliot, il marito di Hannah, che si innamora di Lee] non era stata scritta per un inglese, ma purtroppo non ci sono attori americani cre­ dibili nel ruolo di un semplice contabile. Gli uomini americani 238

Max von Sydow nei panni di Frederick, il pittore completamente dedito all'arte di Hannah e le sue sorelle.

sono minacciosi e gagliardi. Michael ha l’atteggiamento alla James Mason: adora lavorare e non si ferma mai. Mette lo stes­ so entusiasmo nell’interpretare un ruolo comico o un agente della CIA. EL: A volte hai scritturato attori che poi non hanno funziona­ to; in genere, a tuo dire, per difetti di sceneggiatura e non per la loro interpretazione.

WA: Sì. Christopher Walken, per esempio, uno dei miei atto­ ri preferiti. Lo avevo usato in Io e Annie e non vedevo l’ora di lavorare di nuovo con lui. Lo ritengo un grande attore, ispirato. C’era nella prima versione di Settembre. Dopo un paio di setti­ mane di lavorazione avevamo stretto amicizia, pranzavamo assieme ogni giorno, ma non riuscivamo a trovare un accordo sul da fare. Lui era a disagio con certe cose e a me non sembra­ va che il suo modo di affrontarne certe altre fosse giusto per il personaggio, ma lui si sentiva goffo nell’interpretarle diversamente. Ne parlammo e in pratica decise lui stesso che, anziché piegarci a concessioni reciproche, avremmo lavorato in qualche 239

altro film in futuro. Gli chiesi: “Sei sicuro? Per me va benissimo rigirare tutte le scene e usare un approccio diverso.” Mi era già capitato. EL: Per il ruolo della star del cinema nella Rosa purpurea del Cairo, interpretato poi da Jeff Daniels, era stato inizialmente scelto Michael Keaton. Come andò con lui? WA: Michael Keaton sembrava uscito direttamente dagli anni ottanta, non dai trenta. Circolarono illazioni e ipotesi sul cam­ bio di interprete, ma in realtà il motivo fu questo. Mi era piaciu­ to moltissimo in Turno di notte [1982], lo trovavo assolutamen­ te straordinario, e mi piacerebbe davvero girare qualcosa con lui ma quello non era il film adatto. Guardando i giornalieri, non potevo muovergli alcun appunto; non trasmetteva, però, la sensazione di una star del cinema anni trenta, era troppo con­ temporaneo. Resto comunque del parere che sia uno dei giova­ ni attori più divertenti e ispirati.

EL: Per Settembre riuscisti a scritturare Denholm Elliot. So che eri un suo fan di vecchia data. WA: Erano anni che volevo lavorare con Denholm. A un certo punto volevo fargli interpretare il padre in Interiors [ruolo inter­ pretato da E.G. Marshall], ma non volevo che fosse un inglese. L’ho sempre ritenuto un grande, l’ho visto in un sacco di film. Lo vidi interpretare Krogstad in Casa di bambola [1973] di Ibsen e nel film di Clive Donner prima di Ciao Pussycat [Il cada­ vere in cantina, 1964]. Era sempre stato superlativo ma non si riusciva mai a trovarlo. Viveva a Ibiza e non aveva il telefono, bisognava chiamarlo in un bar a una certa ora del giorno. Alla fine riuscii a rintracciarlo e gli chiesi: “Sa fare l’accento ameri­ cano?” E lui: “Assolutamente sì. Vuole che glielo faccia?” 240

“Sì”, feci io. Allora si mise a recitare [la filastrocca} “Hickory Dickory Dock”, ma l’accento era totalmente britannico. [Woody pronun­ cia “HICKory DICKory DOCK” con cadenza inglese, poi si mette a ridere.} Immagina cosa poteva essere telefonare a un bar di Ibiza e sentirsi “Hickory Dickory Dock” in perfetto accento inglese. Gli dissi: “D’accordo, la ringrazio molto.” E lui: “Be’, mi scrittura o no? Vorrei saperlo.” “Mi ci lasci pensare.” Ne parlai con Juliet Taylor e le dissi: “Non posso. Voglio che il ruolo sia interpretato da un america­ no, e lui non sarà credibile come americano.” Ma fui entusiasta quando si rese disponibile per Settembre. Volevo lavorare con lui da anni.

EL: Restiamo un momento su Settembre [Vedi pag. 37}. Durante le riprese sostituisti Christopher Walken, nel ruolo di Peter, il copywriter, con Sam Shepard. Poi, dopo aver visionato il primo cut, decidesti di girare tutto il film una seconda volta con un cast notevolmente diverso. Nella prima versione, il ruolo di Howard, il vicino di casa vedovo, era interpretato da Charles

Denholm Elliott in Settembre. Woody desiderava da tempo lavorare con lui.

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Durning, nella seconda da Denholm Elliott. Shepard fu sostitui­ to da Sam Waterston. Jack Warden fu chiamato a interpretare Lloyd, il marito medico, ed Elliott prese il ruolo del vicino. La madre, Diane, era interpretata inizialmente da Maureen O’Sullivan ma questa fu sostituita da Eiaine Stritch. A cosa furono dovuti tutti questi cambiamenti?

WA: Quando mi misi a scrivere il film avevo in mente Maureen nel ruolo della madre, Mia e Dianne Wiest nei panni della figlia e della sua amica. Credo che in circostanze normali affiderei a Mia uno qualsiasi dei due ruoli ma, visto che avevo in mente Maureen, pensai automaticamente a Mia nei panni di sua figlia. [Maureen O’Sullivan e Mia Farrow sono madre e figlia nella vita.} Davo per scontato che fossero Maureen e Mia, con Dianne Wiest per l’altro ruolo, ma se avessi saputo fin dall’ini­ zio che le attrici sarebbero state la Stritch, Mia e Dianne Wiest, non so, avrei potuto magari finire la sceneggiatura, invitare a cena Mia e Dianne e chiedere: “Ora che avete letto il copione, avete qualche idea su come dividervi i ruoli?” Perché le trovo entrambe attrici meravigliose. Mia è un’attrice vera. Nello stes­ so anno è capace di interpretare la sigaraia svampita in Radio Days e questa parte in Settembre. E Dianne è una grande attri­ ce, non ci piove. Versatile anche lei. Aveva interpretato Zia Bea nell’altro film [Radio Days], la donna in cerca di marito, ed eccola qui in un ruolo completamente diverso. Insomma, sarei stato felice di ricevere un suggerimento dalle ragazze su chi avrebbe dovuto interpretare chi. Avendo concepito il film anche per Maureen, non avrei mai pensato a Dianne nei panni della figlia. EL: Come vedeva la sua parte, Maureen O’Sullivan? WA: Maureen è tosta, sboccata, conosce un sacco di barzellet­ te, ma in questo caso era un po’ titubante. Era un ruolo impor­ 242

tante e si chiedeva se sarebbe riuscita a interpretarlo. Era redu­ ce da un attacco di polmonite che in seguito le avrebbe provo­ cato altri guai. Nutriva qualche timore, ma non al punto da rinunciare. Andava bene, dava al personaggio un taglio davvero interessante, ma si sarebbe dovuta rendere disponibile per altre dieci settimane di lavorazione. EL: E allora cosa successe? WA: Dopo aver visto il girato decisi di rifarlo. Sottoposi l’idea a Mia che mi disse: “Be’, mia madre non sarà mai in grado di rifarlo. È in ospedale con la polmonite, che forse non le permet­ terà nemmeno di onorare l’impegno che ha preso per un altro progetto.” Sam Shepard era in California per una scrittura già confermata e Charles Duming aveva altro da fare. Valutai l’ipo­ tesi di aspettare tutti quanti ma non era davvero possibile, avevo un set già allestito. Uno dei motivi per cui fare e rifare questo film fu una passeggiata è che era girato in un solo set; non ci costò nulla tornare e usarlo di nuovo. Allora rimaneggiai il cast. Denholm aveva visto la parte di Howard mentre veniva recitata. Volutamente feci di Jack Warden un medico un po’ eccentrico. Dei diversi medici che ho conosciuto, non tutti avevano gli occhiali con la montatura in acciaio e la fronte alta. Alcuni fumavano il sigaro in abiti casual ed erano assolutamente spiritosi. Volevo appunto un medico del genere, non il tipo del cattedratico. EL: Che differenze notasti nella parte della madre?

WA: Essendo più anziana di Eiaine Stritch, Maureen era più vulnerabile e meno energica. Ti faceva più tenerezza, e dava un buon taglio al personaggio. Ecco perché ritengo che questo testo potrebbe essere recitato a teatro da diverse angolazioni. Maureen ne aveva dato un’ottima interpretazione, con grande 243

naturalezza. Pensavi: “Poverina, si porta dietro le delusioni del passato.” Immaginavi: “Mio Dio, ha perso la bellezza di un tempo, adesso beve ed è insicura di sé.” La Stritch dà un’imma­ gine più forte, Maureen una più vulnerabile, il personaggio assume una caratteristica completamente diversa. EL: C’è qualcosa di intrinsecamente più difficile nel dramma rispetto alla commedia? In Radio Days avevi un cast enorme e non ci furono avvicendamenti; questo, invece, è un film con una mezza dozzina di personaggi e quattro su sei cambiarono.

WA: Potrebbe essere una coincidenza ma c’è un fondo di veri­ tà. Una commedia è più cialtrona, più grezza, non è un prodot­ to altrettanto rifinito, levigato. Da un certo punto di vista, non è necessario essere altrettanto perfetti. In un film serio hai biso­ gno che il pubblico ti segua, sia interessato e coinvolto emotiva­ mente, non puoi permetterti che qualcuno all’improvviso allen­ ti la tensione con una recitazione fiacca o poco credibile. Ecco perché la soluzione migliore è scritturare attori meravigliosi. Anche in questo caso, tuttavia, una volta ogni tanto, per mia incapacità di dirigerli o di stabilire una sintonia con loro, oppu­ re per loro incapacità di entrare in questo ruolo particolare pur avendone interpretati di ottimi in passato, insomma per un motivo o per l’altro il risultato è insoddisfacente. Allora devi scegliere se lasciare nel film una prova attoriale meno che per­ fetta oppure operare un cambio. Per rispetto nei confronti di coloro che finanziano il film, per la mia integrità artistica e per tutti i soggetti coinvolti, io mi sono sempre sentito in dovere di optare per il cambio. Resta il fatto che nel corso della mia vita ho realizzato diciassette film o giù di lì [ossia nel corso della sua carriera fino al 1987] e ho cambiato pochissimi attori. In film come Hannah e le sue sorelle, Io e Annie, Il dittatore dello stato libero di Bananas, il livello di profondità o di sensibi­ lità nell’interpretazione non deve necessariamente essere eleva­ 244

tissimo. Si tratta di dialoghi serrati e pieni di battute fulminan­ ti, gente che inciampa, che corre a destra e a sinistra... non si fa tanto caso alle imperfezioni perché è tutta scena, gag e battute. Quando invece giri un film in cui la macchina da presa è vicina, c’è silenzio, gli attori hanno lunghi monologhi o ci sono momenti di pathos prolungati e cerchi di coinvolgere il pubbli­ co in quella atmosfera, tutti devono dare il massimo. EL: In questo film [Un'altra donna] c’è Gene Hackman. Mentre recitava una delle sue scene mi trovavo a un metro e mezzo da lui e ho trovato la sua interpretazione letteralmente elettrizzante... riuscivo proprio percepire qualcosa nell’aria. WA: È come avere a disposizione una marcia in più. Senti che sta viaggiando alla velocità di crociera di 100 km orari ed è bril­ lante, ma anche che, se avesse voglia di pigiare sull’acceleratore, potrebbe andare 200 km all’ora più veloce. Avverti proprio la profondità della sua forza. Quando urla non è solo superficie, senti che è qualcosa che scaturisce dalla profondità del suo esse­ re.

Marzo 1988 Woody sta girando Edipo relitto.

EL: In tutto quello che scrivi attualmente e da qualche anno a questa parte c’è sempre Mia Farrow. A giudicare dalla varietà di ruoli che ha interpretato, risulta evidentemente molto versatile. WA: Per Mia puoi scrivere qualsiasi cosa, è quel tipo di attri­ ce. E più un’attrice classica, ma è lo stesso capace di passare dal ruolo di una piccola chanteuse a quello di una madre strappa­ lacrime. Anche [Diane] Keaton ha questa capacità, in larga 245

misura. La Keaton ha un carattere molto effervescente e parti­ colare, ed è molto godibile sullo schermo. Il vantaggio di una personalità come la sua è che è unica, un talento immenso, mentre lo svantaggio - e non credo che sia un grosso svantag­ gio - è che non sempre è facile liberarsene, se nel personaggio che interpreti vuoi nasconderla. Lei però è sempre stata molto brava in questo, anche la sua è una gamma molto ampia. Certo, non so se sarebbe stata in grado di interpretare ima donna ita­ liana, non so se ci sarebbe riuscita, proprio per via di quella debordante componente tutta sua. Ci sono comunque molti ruoli drammatici che può interpretare. In Baby Boom [1987] è strepitosa. Mia è cresciuta con un padre regista [John Farrow] e una madre attrice [Maureen O’Sullivan], e ha iniziato a recitare da giovanissima. Aveva ottenuto grande popolarità in televisione per quella serie famosissima [riflette qualche secondo]... Peyton Place, a diciassette anni. Poi interpretò diversi film, tra i quali almeno uno, Rosemary’s Baby, di enorme successo. Dopo esser­ si trasferita in Inghilterra per una serie di spettacoli con la Royal Shakespeare, smise di lavorare per alcuni anni, scegliendo di ritirarsi dalle scene e starsene in campagna con i figli. E alla fine è tornata. Insomma, una grande professionista a cui puoi chie­ dere di interpretare una madre, la pupa del capo, darle da can­ tare una canzone... e non ti deluderà. Forse ce sono tante altre, alle quali però manca l’occasione giusta. EL: Vista la sua versatilità, ti capita di ideare dei ruoli apposi­ tamente per lei? WA: Quando ho concepito inizialmente questo film mi imma­ ginavo lei nella parte della protagonista, ma non ho bisogno di concentrarmi troppo su Mia, per lei una parte c’è sempre. Forse è Mia che trova questo più faticoso rispetto, per esempio, a esse­ re una delle attrici di Bergman che, immagino, operi pratica­ 246

mente sempre in ambito drammatico. Bergman lavora con un certo numero di grandi attrici delle quali si fida e che sanno di essere adatte ai suoi ruoli. Io, invece, sto cercando di esplorare territori più ampi. Non dico di riuscirci, parlo solo dell’ampiezza. E questo mette un po’ di pressione su Mia, perché un anno le faccio interpretare Tina [la pupa del boss in Braodway Danny Rose] o la sigaraia di Radio Days, l’anno successivo invece qualcosa di molto dram­ matico. Quando cominciammo Radio Days non avevamo idea di come sviluppare il suo personaggio [la sigaraia di un night, con la voce stridula e un pesante accento del Bronx, che diventa una raffina­ ta commentatrice mondana alla radiò]. Non sapevamo che voce avrebbe dovuto usare, non sapevamo niente. Della sua prima scena che girammo realizzai circa trentacinque ciak e lei provò trentacinque voci diverse. Le guardai tutte, ne scelsi una e usammo quella per il film. Ovviamente [ride], la scena fu taglia­ ta dalla versione definitiva. Poi si trasforma nell’altra ragazza, la commentatrice mondana, e il giorno in cui girammo mi propo­ se una mezza dozzina di varianti. La scelta finale risale solo all’inizio del montaggio. EL: A quanto pare sei autorizzato a chiederle un numero illi­ mitato di ciak.

WA: Mi permetto di farlo in virtù del rapporto che abbiamo. Lo faccio con la Keaton, lo faccio con Dianne Wiest. Sono donne con le quali ho lavorato ormai un certo numero di volte, siamo amici, mi apprezzano, siamo coinvolti allo stesso modo. Un’attrice come Gena [Rowlands], per esempio, non la conosco altrettanto bene. Sono sicuro che se girassimo due o tre film insieme ed entrassimo in confidenza potremmo farci qualsiasi richiesta reciproca, come succede fra amici. Con Gena ho delle remore perché non la conosco abbastanza bene, non voglio 247

intromettermi in un’area che lei forse vuole tenere per sé e dun­ que devo andarci con i piedi di piombo. Con Mia, invece, è automatico. Alzo la cornetta e le dico: “Gesù, quello che abbia­ mo girato ieri è davvero tremendo. Oggi lo rifacciamo,” oppu­ re: “Questa è una schifezza, proviamo quest’altro.” È molto disponibile e positiva. EL: Pensi sia cambiata molto come attrice da quando lavora esclusivamente con te?

WA: C’è stato un cambiamento nella sua vita dal punto di vista professionale in questo senso: era abituata a lavorare nel mondo dei film commerciali, in cui l’obiettivo è spuntare il cachet più alto possibile, ottenere la visibilità maggiore possibi­ le e i migliori ruoli possibili. La tua dimensione è misurata dai risultati dell’ultimo botteghino. È un mondo orribile e stupido, secondo me. Quando ci vedemmo la prima volta, le dissi: “Questo è un mondo completamente diverso, dove non si lavo­ ra per il cachet o per avere il nome più grande sul manifesto, ma solo per il gusto di lavorare. Dimenticati completamente tutte le altre considerazioni. Non pensare ai soldi, alla visibilità, agli obiettivi personali.” E lei non fece storie, mi disse: “Ottimo, il cachet è l’ultimo dei miei pensieri. Sono pronta a mettermi al lavoro.” Alla lunga, ovviamente, questo atteggiamento ti procu­ ra dei vantaggi. Ti dimentichi di un sacco di stupidaggini e pensi esclusivamente al lavoro. Il primo film che facemmo insieme, Una commedia sexy in una notte di mezza estate, non fu un successo ma questo non signifi­ cò nulla. Se fosse stato un film del mondo commerciale, per così dire, gli scarsi incassi sarebbero stati una delusione per lei o per me. Invece lo facemmo uscire e a chi piacque, piacque; e pas­ sammo al film successivo, Zelig. Il quale riscosse invece un gran­ de successo, ma noi lo stesso ci limitammo a passare al succes­ sivo. Come dicevo, non siamo nel mondo dei successi e dei flop, 248

in cui sono soltanto gli incassi, le vendite o la visibilità a deter­ minare il finanziamento del film successivo. Siamo in un mondo in cui ci si concentra strettamente sul lavoro e si cerca di fare del proprio meglio. Mia può interpretare l’impegnativo ruolo di protagonista in un film, lavorarci per quattro mesi girando tutti i giorni e la volta successiva essere contenta di avere un ruolo con dieci battute se è quella la parte per lei. E poi passare al prossimo, sta bene a lei e sta bene a me. EL: Com’è che Una commedia sexy finì per essere realizzato prima di Zelig? Non avevi scritto prima la sceneggiatura di que­ st’ultimo? WA: Avevo appena finito il copione di Zelig e, nelle due setti­ mane necessarie per la definizione del budget, pensai: “Intanto che aspetto, perché non scrivere qualcosa?” E mi venne questa piccola idea. Immaginai che sarebbe stato divertente riunire alcune persone in una casa di campagna per festeggiare l’estate, e rendere l’atmosfera molto amena: retini da farfalle, campi da badminton, cucito. E così ci mettemmo al lavoro su questo. Avevamo preventivato dalle otto alle dieci settimane. Poi, come sai, la decisione di sovrapporre le riprese dei due film mi procu­ rò alcuni problemi. Lo finimmo prima di Zelig per il vincolo delle condizioni meteorologiche. Zelig lo avevo scritto per Mia, sapendo che avrebbe interpreta­ to il ruolo della psichiatra che ha in cura il protagonista. Il ruolo la agitava parecchio, perché era la prima volta che lavorava con me. Diceva che mi avrebbe deluso. Era un po’ nervosa. Tremava, a dirla tutta. Io cercavo di calmarla ma delle volte sono un po’ brusco. Spesso parto dalla convinzione sbagliata che l’attore sia sicuro di sé. Penso: “Se hai ottenuto la parte è perché ti reputo all’altezza, altrimenti non te l’avrei nemmeno proposta.” Per cui capita che dica: “Oddio, quell’ultimo ciak che hai fatto era orri­ bile” e l’attore può dirmi: “Cristo, queste battute che hai scritto 249

non si possono proprio recitare.” Dando per scontata la stima di fondo reciproca e il fatto che si sta lavorando allo stesso film, mi piace il dialogo libero e franco: io sarò molto critico con l’attore e lui potrà esserlo nei miei confronti. Mia non aveva nulla di cui preoccuparsi, sapevo che sarebbe stata fantastica. Non pensai mai, neanche una volta, che mi avrebbe deluso. E per questo che non immaginavo di doverle dire: “Oh, mia cara, sei preoccupa­ ta?” Non mi veniva proprio in mente. EL: Hai mai dovuto subire la scenata di un attore sul set?

WA: Durante Una commedia sexy in una notte di mezza estate, José Ferrer si arrabbiò un tantino, una volta. Avevo un ottimo rapporto con lui, mi sembrava delizioso da tutti i punti di vista. In un’occasione, però, lo irritai facendogli ripetere una battuta quindici volte, tanto che alla fine sbottò [in una buona imitazio­ ne di Ferrer]: “Ora basta, mi ha trasformato in un groviglio di paure.” Io pensai tra me e me: “Mio Dio, tu sei José Ferrerl Come posso trasformarti in un groviglio di paure? Sei un attore fantastico e ti sto solo dicendo: ‘No, non è esattamente così che la voglio, la rifaccia.’” Credo di essere insensibile perché do per scontato che loro diano per scontate le mie richieste. EL: Hai mai pensato di espandere il personaggio che interpreti?

WA: No. Semmai mi sono ristretto. Sento che non potrei reci­ tare in un film drammatico perché il pubblico riderebbe. E lo capisco. Ci sono molti ruoli che non so interpretare. Nel pros­ simo film - non questo piccolo [Edipo relitto] ma il prossimo [Crimini e misfatti] - reciterò perché ho l’obbligo contrattuale di farlo in alcuni dei film che giro.

EL: Restando però all’interno del tuo raggio d’azione, come lo chiami tu. Lo trovi limitante? 250

WA: Non è limitante, essendo sempre stato così. Di certo non si espande. Io so solo interpretare versioni diverse di quello che sono, un personaggio newyorchese. Le varianti possibili non sono molte. Al massimo, posso interpretare momenti dramma­ tici all’interno di una commedia, questo il pubblico riesce ad accettarlo. Ma non in un film serio. Forse è proprio che ho un raggio d’azione limitato dentro di me. Sarei credibile come professore universitario, per esempio. Potrei interpretare uno che lavora nella redazione del New Yorker, o in un ambiente piuttosto colto. E poi potrei essere credibile come allibratore in un racconto di Damon Runyon. Potrei anche essere uno che gioca ai cavalli o un certo tipo di mascalzone di città, uno che vive di espedienti... un informatore della polizia, un cronista sportivo di mezza tacca, un allibratore, cose del genere. In ogni caso, un piccolo raggio d’azione urbano. Non potrei, né lo farei mai, interpretare un personaggio davvero drammatico. Risulterebbe risibile. Se recitassi in Interiors o fossi uno dei mariti di Sussurri e grida farei sbellicare tutti. Non smettereb­ bero di ridere. Se invece siamo in una commedia, se sto facen­ do volutamente ridere il pubblico e c’è un frangente triste o drammatico, allora sì, riesco a interpretarlo in maniera convin­ cente. Essere drammatico fin dall’inizio no, il pubblico non lo vuole. Gli spettatori si aspettano che io dica qualcosa di più comico. E a ragione, perché è così che mi sono rappresentato nel corso degli anni. Il pubblico non mi vuole nei panni drammatici anche in un altro senso: Bob Hope, Charlie Chaplin, gli spettatori voglio­ no vederli interpretare ciò che li ha resi celebri. E lo stesso motivo per cui non vogliono vedere Marion Brando recitare un certo tipo di ruolo, perché darebbe loro minore soddisfa­ zione. Quando Robert De Niro ha interpretato Gli ultimi fuo­ chi [1976], lo ha fatto benissimo perché è un attore nato, ma è più divertente vedergli fare cose come Jack La Motta [Toro scatenato], Taxi Driver, Mean Streets. Sullo schermo è uno psi­ 251

copatico magnifico. Ovviamente, tutto quello che fa lo fa alla grande, ma per il pubblico non è altrettanto appagante veder­ lo in un ruolo che lo limita.

EL: Fai qualcosa per prepararti alla recitazione? WA: No. Per me è come bere un bicchiere d’acqua. Non è recitare. Potresti dare il ciak in questo momento e sarei in grado di interpretare la mia parte. È il bello di non avere talento. Rimango all’interno del mio piccolo raggio d’azione, non c’è assolutamente bisogno di recitare. Adesso non mi sto compor­ tando diversamente da come mi comporto davanti alla macchi­ na da presa. Quello che faccio come attore per me è la cosa più facile del mondo. Non sto dicendo che è superlativa, ma quella minima cosa che ottengo da me la ottengo senza sforzo alcuno. Come dicevo, sono capace di un momento drammatico in un film comico. In Broadway Danny Rose, per esempio, percorro un lungo corridoio d’albergo a tarda sera e il mio cliente mi dice che vuole cambiare manager. Devo esprimere la reazione alla notizia e, a mio parere, è un momento ben recitato ma, per quanto mi riguarda, anche la cosa più facile del mondo. Ho il mio piccolo ambito e so cosa posso fare. Questo si riflette nei ruoli che scrivo per me stesso. Al mattino, mi presento sul set indossando gli stessi abiti di casa. Idem a Broadway [durante le repliche di Provaci ancora, Sam]. Salivo sul palco e interpretavo quel personaggio. E il per­ sonaggio non aveva alcuna nota falsa perché mi ero cautelato fin dall’inizio, non avevo scritto una parola che non potessi recita­ re in maniera naturale. E se per caso avevo commesso un erro­ re, provvedevo ai cambiamenti del caso.

EL: Il che spiega in parte come mai tu venga identificato con il personaggio che interpreti.

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WA: Sì, la gente crede che la persona immaginaria che ho creato coincida con me. Non è così. È solo che parla e si veste come me [nde], niente di più. Quando recitavo nel Prestanome [film del 1976 sulle liste di proscrizione anticomuniste nel cinema e nella televisione degli anni cinquanta, scritto da Walter Bernstein e diretto da Martin Ritt (entrambi, e anche diversi membri del cast, erano stati all'epoca iscritti nelle liste). Woody interpreta Howard Prince, un cassiere di ristorante che viene convinto da un amico d'in­ fanzia, finito nella lista nera, a fargli da prestanome presentan­ do le sceneggiature dell'amico come se fossero le proprie. All’inizio Howard si crogiola nell’improvvisa fama, ma alla fine decide di opporsi coraggiosamente alla crudele ingiustizia delle liste nere] e dovevo interpretare dialoghi non scritti da me, riuscivo sempre a metterci dentro il mio linguaggio. A ogni attore che lavora con me dico sempre di non preoccu­ parsi dei dialoghi, di recitarli come meglio crede. So che que­ sto è garanzia di una certa credibilità sullo schermo. Molti attori mi dicono: “Le tue parole sono molto migliori di quel­ le che userei io.” Ma non è così, davvero. Recitarle in manie­ ra naturale avrà un impatto molto maggiore sul pubblico, anche se l’attore non si fida. EL: Sembri molto rilassato quando reciti. Ci sono attori che ti metterebbero in soggezione se dovessi interpretare una scena con loro?

WA: Se domani mi ritrovassi in un film con grandi attori che non conosco - per esempio Meryl Streep o Jack Nicholson non sarei molto rilassato e a mio agio. Avrei paura di limitarli, di respingerli o di fare qualcosa che possa irritarli. Darei il mas­ simo, ma non sarei completamente a mio agio nel recitare con loro. Sarebbe come suonare il jazz con Coleman Hawkins.

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EL: In questo film [Edipo relitto] c’è la scena in cui torni a casa dopo la cenetta inaspettatamente piacevole con Julie Kavner. [Il personaggio di Woody, Sheldon, è assillato dalla madre che, scomparsa in una scatola cinese durante un numero di magia, riappare come un enorme spettro nel cielo di Manhattan, attaccando bottone con i passanti e rimproverando Sheldon per essersi scelto una bella WASP (Mia Farroiv) anziché una brava ragazza ebrea, com’è, guarda caso, il personaggio interpretato dalla Kavner.] Scorri la lettera d’addio di Mia e poi scarti il pollo avvolto nell’alluminio che la Kavner ti ha dato da portare a casa. Il momento richiede una recitazione introspettiva da parte tua. Prendi la coscia e la annusi mentre in sottofondo parte “All the Things You Are”. Sapevi che avresti usato quella canzone men­ tre recitavi la scena? Sembri in perfetta sincronia con la musica. Recitavi con quel brano in testa?

WA: Sapevo che avrei usato una musica suadente, ma non reci­ tavo tentando consapevolmente di seguirne il tempo. Recitavo come qualsiasi attore. Prendo la coscia e so che devo annusarla e rendere la cosa romantica. Io lì [ride] sto fìngendo. In quel momento non sto pensando di essere il personaggio e non sto pensando: “Oddio, la amo.” Non sto vivendo il personaggio, so che sto fingendo. Penso: “Ok, ho aspettato abbastanza. Ho lasciato cadere la lettera e se rimango impalato senza far niente la cosa diventa noiosa, ormai è passato abbastanza tempo per dare risalto alla gag del pollo.” Sono consapevole: “Continua così; non trasmettere una sensibilità troppo femminile.” In quel momento non penso alle motivazioni, penso ai movimenti.

Gennaio 2000 Negli ultimi anni Woody ha realizzato Mariti e mogli, Misterioso omicidio a Manhattan, Pallottole su Broadway, La 254

dea dell’amore, Tutti dicono I love you, Harry a pezzi, Celebrity e Accordi e disaccordi. Mentre chiacchieriamo al Manhattan Film Center, è iniziata la preproduzione di Criminali da strapaz­ zo. EL: Parliamo di alcuni degli attori con cui hai lavorato di recente. WA: Adoro Jack Warden. [Compare in Settembre, Pallottole su Broadway e La dea dell’amore.] È un attore meraviglioso, dotato di grande versatilità. Riesce a essere assolutamente credi­ bile nei ruoli più seri, ma anche divertente da morire. Poi adoro John Cusack, lo trovo eccezionale. Mi piacerebbe molto lavora­ re di nuovo con lui. Mi divertii un mondo a lavorare con lui fin dalla prima volta in Sussurri e grida. [57 interrompe e ride del lap­ sus.] Ombre e nebbia... magari! E mi piacque proprio in Pallottole su Broadway [nel primo interpreta uno studente, nel secondo un aspirante drammaturgo], Cusack è uno di quegli atto­ ri, come Liam Neeson o Michael Caine, incapaci di un momen­ to stonato di fronte alla macchina da presa. Dai a Cusack una pessima battuta da recitare e dalla sua bocca esce qualcosa di bello, di vero. La stessa cosa con Liam, è stupefacente da quel punto di vista. Michael Caine tendiamo a darlo per scontato per­ ché ormai fa parte dei grandi da molti, molti anni.

EL: Nel ruolo dell’autore teatrale in Pallottole su Broadway, John Cusack coglie meravigliosamente quel connubio tra la megalomania tipica di quel mondo e la scoraggiante consapevo­ lezza di non essere un artista. WA: È uno di quegli attori che esalta qualsiasi ruolo. Chazz Palminteri [il gangster che in realtà è il vero artista] non lo avevo mai sentito nominare, ma Juliet Taylor mi disse: “Devi incon­ trarlo. Si sta affermando con Bronx, un film di cui è anche sce255

neggiatore.” Chazz varca la soglia e mi viene da pensare: “Questo è proprio il personaggio che hai scritto. Tira fuori un contratto alla svelta e faglielo firmare.” Joe Viterelli [il Z>orr] lo avevo visto in un film e mi ero detto [in segno di ammirazione]-. “Ma chi è questo?” EL: Pare che a Dianne Wiest [che interpreta la diva di Broadway] tu abbia dato più istruzioni che a qualsiasi altro atto­ re di qualsiasi altro tuo film.

WA: Dovetti recitare molte delle sue scene per mostrarle come le volevo. Continuava a ripetermi: “Non ce la faccio. Devi trovarti un’altra attrice, non ce la faccio.” E io continuavo a risponderle: “Stai scherzando? Tu sei la più grande attrice del mondo. Dove la trovo una come te?” Volevo che rendesse il personaggio ancora più kitch. Entrai in palcoscenico gesticolando e dicendo: “Oh, mio Dio!,” e le mostrai tutta la scena. La sua reazione fu: “Davvero? La vuoi così esagerata?” “Sì,” le risposi. Ma nelle sue mani risulta un po’ diversa da come la facevo io. Ha vinto un Oscar per quel ruolo. EL: C’è quella meravigliosa battuta ripetuta con cui lei, appe­ na Cusack cerca di dire qualcosa, lo zittisce in maniera molto melodrammatica: “Non parlare. Ti prego, non parlare.”

WA: Mentre scrivevo il copione mi tornò in mente la scena della Rosa tatuata in cui la Magnani capisce che suo marito è stato ucciso e interpreta il momento con grandissima intensità drammatica. Era davvero la più grande attrice del mondo. Pensai che sarebbe stato divertente se lo avesse fatto anche Dianne. Più aggiungeva e più risultava comica. Mary-Louise Parker nei panni della fidanzata è stupenda. Fui fortunato ad accaparrarmi Rob Reiner per un ruolo così 256

piccolo [Sheldon Flender, un bohemien} che lui ha reso memo­ rabile. Sarebbe perfetto nei panni dell’intellettuale comunista russo che gioca a scacchi al bar. Jim Broadbent [ Warner Purcell, il protagonista sempre più grasso della commedia all’interno del film}, poi, fu una scoperta. Juliet mi disse che avrei dovuto prenderlo in considerazione e, quando ci incontrammo, lo tro­ vai molto buffo, assolutamente esilarante. Jennifer Tilly [Olive O’Neal, l’attrice senza talento} era molto buffa quando improv­ visava. E ovviamente c’è quell’altro genio di Tracey Ullman [l’attrice Eden Brent}.

EL: In Mariti e mogli mi stupì vedere nel cast Lysette Anthony, visto che è inglese. Eppure, ascoltandola, sembra americana purosangue. WA: Quando parla normalmente, ha un accento inglese fortis­ simo. Poi legge le sue battute e l’accento si trasforma in perfet­ to americano. Non ebbe bisogno nemmeno di un insegnante. Molto bella. Molto simpatica.

EL: Mi hai detto che il casting per La dea dell’amore fu parti­ colarmente difficile. Perché?

WA: Per quel film organizzai molte audizioni, andai persino in Inghilterra per vedere alcuni attori. Mi serviva qualcuno che interpretasse il corifeo [del coro greco che elargisce moniti e com­ menti} e così, insieme a Juliet, convocammo nel nostro hotel tutti i dignitari della Corona. Si presentò questa sfilza di sir e lord e furono tutti molto bravi, ma nessuno era in possesso della recitazione che volevo. Alla fine, perciò, optai per un america­ no, e la persona che mi parve più adatta fu E Murray Abraham. Sembrava avere sufficiente autorità shakespeariana, ma allo stesso tempo parlava come uno di Brooklyn. Valutai molte attri­ ci inglesi prima di scritturare Mira [Sorvino, la prostituta dolce e 257

Mira Sorvino non ottenne il ruolo della dolce prostituta Linda Ash nella Dea dell'amore al primo colloquio, ma quando si ripresentò con un costume da lei stessa disegnato Woody non ci pensò due volte a scritturarla. La sua interpretazione le valse l’Oscar.

svampita madre del bambino adottato dal personaggio di Woody], e anche un sacco di americane. EL: A quanto ho capito, aveva sostenuto un provino per te a New York ma dovette presentarsi anche lei a Londra, con gli abiti di scena, per aprirti gli occhi.

WA: Questo episodio dimostra quanto poco lungimirante so­ no. Come con Sylvester Stallone. Stavo girando II dittatore dello stato libero di Bananas [nel 1970] e chiesi a quelli del casting di mandarmi un paio di teppisti. Mi mandarono Stallone e un altro ragazzo, ai quali dissi: “Non è quello che sto cercando. Non siete abbastanza duri.” Ma entrambi insistettero: “Per favore, signor Alien, ci dia un’opportunità, ci faccia truccare.” Tornarono dopo sessanta secondi e mi accorsi di che babbeo ero. Mira era di passaggio in Inghilterra e le chiesi se poteva fare un salto. Quando entrò nella suite dell’hotel con gli stivali e la minigonna pensai immediatamente che sarebbe stata perfetta. Aveva l’aspetto di una prostituta senza essere troppo volgare. [Ride. ] Francamente, ancora non mi spiego come quelli dell’ho258

tel abbiano potuto lasciarla passare. Poi lesse, non con la voce del film, ma già così la sua recitazione era azzeccata e convin­ cente. [La voce che usa nel film ha un marcato accento di Brooklyn, ma è stridula come quella di una persona che ha appe­ na inalato dell’elio. Da qui l’effetto comico che ammorbidisce la scurrilità del linguaggio, rendendolo quasi infantile. Il ruolo valse a Mira Sorvino l’Oscar come Miglior attrice non protagonista.} EL: Per me fu una rivelazione. Adoro quella sua voce. WA: Devo in parte a Mira se nella Dea dell’amore i dialoghi non sono troppo sguaiati. Ci mise leggerezza, interpretò il ruolo come un cartone animato. Quella voce è tutta farina del suo sacco. Durante le riprese, ebbi qualche momento di perplessità. Non le dissi niente ma dentro di me pensavo: “Mio Dio, se la voce non piacerà saranno dolori.” A me piaceva, però, e decisi di affidarmi all’istinto. I fatti mi diedero ragione, anzi, diedero ragione a lei. Fece quella voce fin dal primo giorno. Mira è molto meticolo­ sa nella costruzione del personaggio, molto più di me. Spesso voleva starsene da sola a riflettere. Lo aveva elaborato in manie­ ra molto attenta e intelligente, non ebbi bisogno di darle molti aiuti. È intelligente e talentuosa. Ripeterei volentieri l’esperien­ za se avessi un ruolo giusto per lei, perché mi farebbe fare anco­ ra bella figura.

EL: Quali altri ruoli ti diedero problemi?

WA: Ebbi difficoltà a scegliere la moglie [del personaggio di Woody} finché non trovai Helena Bonham Carter. La conoscevo dai mèlo che aveva interpretato ed era già un’attrice straordinaria, ma da quando ha abbandonato quel genere per passare a film come Fight Club [1999} e Women Talking Dirty [1999} credo che sia più grande che mai. Fu Juliet a suggerire il suo nome. Si pre­ 259

sento all’audizione e sfoderò anche lei un ottimo accento ameri­ cano. Era semplicemente perfetta. Bella e di classe. EL: Parliamo un po’ di Tutti dicono I love you [Vedipag. 166]. Erano anni che volevi realizzare un musical e alla fine ne venne fuori una specie di versione casalinga, con gli attori che usano la loro voce, ossia voci non da cantanti professionisti. Anche se non mancano stupendi numeri di ballo e di canto interpretati da veri professionisti.

WA: Julia Roberts fu grandiosa. È un’attrice straordinaria con la quale è fantastico lavorare. Dovevo mettermi in punta di piedi per baciarla il che, sai, è una delle cose più irritanti della vita. Anche Drew Barrymore fu sensazionale [nei panni della ricca debuttante]. All’inizio ero incerto se scritturarla, per via della sua immagine da figlia dei fiori; diciamo che Drew non possie­ de l’aspetto di una ragazza dell’Upper East Side come può aver­ lo Gwyneth Paltrow. Però era libera, e tutti quelli che avevano lavorato con lei continuavano a dirmi che aveva un gran talento e che la sua dedizione era garanzia di successo. Mi piacque molto fin da subito. Fece un’audizione fantastica e immaginai [ride] che in un modo o nell’altro saremmo riusciti a nasconde­ re i suoi tatuaggi. E in effetti fu eccezionale. EL: Edward Norton non lo conoscevo. [Interpreta il bravo ragazzo fidanzato di Drew Barrymore che, spalleggiato da un corpo di ballo, si lancia in una interpretazione di “My Baby Just Cares for Me” mentre le acquista un anello di fidanzamento nella gioielleria Harry Winston.]

WA: Edward Norton fu una scoperta. Si presentò insieme a una sfilza di altri attori che non conoscevo, ma nell’istante stes­ so in cui lesse la sua parte mi conquistò. Nessun altro candida­ to fino ad allora l’aveva letta con realismo o convinzione. Era 260

come se la interpretasse una persona reale. Non gli dissi che era un musical. EL: [Incredulo] Non gli dicesti che avrebbe dovuto cantare? Lo dicesti almeno a qualcuno degli attori? WA: [Completamente indifferente] Non pensai nemmeno di dirlo, perché volevo realizzare un musical senza stare a preoccu­ parmi se gli attori sapevano cantare o meno. Lo chiamai un paio di settimane dopo e gli chiesi: “Sai cantare?” E lui: “Sì, credo di saper cantare un pochino.” Durante le riprese, i responsabili musicali continuavano a ripetermi: “Non sanno cantare!” I distributori: “Non sanno cantare!” E io non facevo che rispondere: “Sì, lo so. È fatto apposta. L’idea è quella di farli cantare come se stessero sotto la doccia, come persone qualunque. Non voglio che tutto a un tratto Edward Norton sembri Pavarotti.” Durante il casting non avevo cercato cantanti ma attori credibili. Soltanto Drew mi disse: “Non so proprio cantare, sono completamente stona­ ta. Non ce la faccio.” “D’accordo, nel tuo caso ti doppiere­ mo,” la tranquillizzai. Chiamammo una delle amiche di SoonYi per doppiarla in quel particolare brano del film. Tim Roth [che è inglese] doveva cantare con l’accento americano e Dick Hyman [l’autore delle musiche originali] continuava a dire: “Non sa cantare!” E io che gli ripetevo: “Non fa niente... fin­ ché non si trasforma nell’ululato di un coyote in amore mi sta bene.” EL: La scena verso la fine, quando tutti sono vestiti come Groucho Marx, è una delle mie preferite. Come anche la scena sulla Senna con Goldie Hawn, elaborata e toccante [che inter­ preta la ex moglie del personaggio di Woody (lei, lui e il nuovo marito sono tuttavia in ottimi rapporti)].

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WA: Groucho me lo porto dentro, è nel mio DNA. Fui molto fortunato nel trovare Goldie libera da impegni. E una di quelle attrici che sanno fare tutto. Se hai bisogno di qualcuno che balli, Goldie sa ballare. Come dicevo, sa cantare. Se hai bisogno di qual­ cuno che improvvisi, lei sa improvvisare. Sa recitare, sa interpreta­ re le battute comiche. Ha molto talento ed è sicura di sé. All’inizio avevo pensato di scegliere una delle mie solite compagne di meren­ da, come Judy Davis, ma Judy era incinta, se non ricordo male.

EL: Quella scena sul fiume sembra davvero complessa, non solo per lo sviluppo narrativo che fa rincontrare il tuo personag­ gio e quello di Goldie Hawn, ma anche per la parte in cui lei volteggia a mezz’aria. Quanto fu complicato realizzarla? WA: Girare lungo la Senna fu impegnativo, ma non un incu­ bo. Mi trovavo da quelle parti l’altra sera, a cena, e guardavo le rive del fiume dalla finestra della Tour d’Argent ripensando a come Carlo [Di Palma] era riuscito a illuminarle. Gli ci vollero giorni. Avevamo affittato tutte le luci della Francia. Notre Dame era illuminata, l’altra riva della Senna era tutta illuminata, que­ sto lato era illuminato. Dovevano esserci circa cinquecento luci

Tutti dicono di essere Groucho Marx durante una festa di capodanno a Parigi nel finale di Tutti dicono l love you.

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accese. La Senna è già illuminata di suo, ma Carlo l’aveva resa particolarmente suggestiva. EL: Harry a pezzi si intitolava inizialmente The Worst Man in the World. Hai dichiarato che Harry Block, il personaggio che interpreti, è uno scrittore “erotomane, sgradevole, vacuo, su­ perficiale” che nelle sue opere si limita a rielaborare le proprie vicende personali, guadagnandosi a piene mani l’astio delle sue ex. Chi ha la tendenza a cercare spunti autobiografici nei tuoi film ebbe in questo caso molto materiale di indagine, anche se chi ti conosce davvero sa quanto tu e Harry siate diversi.

WA: Sì, lui è uno scrittore ebreo di New York - cioè sono io ma è uno scrittore in crisi creativa - il che esclude immediata­ mente che possa essere io - disposto a rapire questo povero bambino, un gesto che io non avrei mai il coraggio di compiere; se ne sta a casa a bere, ha una vita piena di problemi, prostitute che vanno a trovarlo tutte le sere. Inoltre, sua madre era morta di parto. Insomma, non era la mia vita, solo un personaggio di fantasia. Cercai di trovare qualcun altro che interpretasse il ruolo, anzi, le provai proprio tutte, ma sapevo che anche se lo

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avesse interpretato qualcun altro avrebbero detto lo stesso che ero io. Resto comunque convinto che avrebbe potuto essere reso meglio di quanto feci io. Provai anzitutto con Robert De Niro, poi con Dustin Hoffman, poi Elliott Gould. Provai con Albert Brooks, ne parlai con Dennis Hopper. Per un motivo o per l’al­ tro nessuno fu in condizione di accettare. Uno non era disponi­ bile, l’altro voleva troppi soldi, un altro ancora riteneva di esse­ re troppo giovane per il ruolo. Alla fine, a un paio di settimane dall’inizio delle riprese, decisi che lo avrei interpretato io. EL: Fosti contento di Elisabeth Shue nel film? [Interpreta la bellissima paziente della ex moglie psichiatra di Harry (Kirstie Alley), con la quale il protagonista inizia una storia d’amore.}

yflA-. Era un’attrice che mi piaceva molto. Per fortuna era libe­ ra e fu eccezionale. Era la persona giusta e credibile per la parte di una donna che mi idolatra. Ci incontriamo nell’ascensore... nel film. Era bella, sensuale, ottima attrice. EL: In Celebrity compaiono due attori molto celebrati all’epo­ ca, Charlize Theron e Leonardo DiCaprio.

WA: Charlize Theron, come dico io, “fa trasudare lo scher­ mo”, è una caratteristica che viene da dentro. È molto bella e ha un sacco di giustificata autostima. Sa come presentarsi. Se metti assieme il suo aspetto, la sua fiducia e il suo talento, viene fuori un mix vincente. Leonardo DiCaprio non è il belloccio del momento. Al di là del suo aspetto, è un grandissimo attore, degno di essere anno­ verato tra i migliori - insieme a De Niro, Pacino -, un talento naturale. E vero, straordinariamente intenso, un grande improv­ visatore. Ha un istinto meraviglioso. [La sua voce si fa addolora­ ta.} Detto questo, giro il primo film di DiCaprio dopo Titanic e non incassa due lire [ride}. Ero reduce da Tutti dicono I love you 264

Charlize Theron “fa trasudare lo schermo”, per usare un’espressione di Woody, nella Maledizione dello scorpione di giada.

e Harry a pezzi. Il musical aveva avuto successo in Europa, par­ ticolarmente in Francia, sarebbe stato difficile ripetersi.

EL: In cosa il copione di Accordi e disaccordi differisce dalla prima versione che non venne mai realizzata, The Jazz Baby, per quanto riguarda i personaggi principali? WA: Lo stile di racconto di The Jazz Baby procedeva per aned­ doti e dicerie raccolte sul protagonista. La struttura era la stes­ sa, alcuni tratti dei personaggi anche. Il chitarrista jazz era sem­ pre un magnaccia ma aveva un taglio diverso. Era molto meno divertente - non che il protagonista di Accordi e disaccordi fac­ cia sbellicare dalle risate - e molto più masochista. L’originale 265

trasmetteva l’immagine deprimente di un musicista compietamente autolesionista. C’era una bella dose di masochismo, di masochismo teutonico alla Emil Jannings. Aveva bisogno di un’iniezione di brio. E dovevamo trovare qualcuno che assomi­ gliasse a Django Reinhardt, compito non facilissimo. EL: Mi facesti leggere The Jazz Baby molti anni fa e ricordo bene la relazione tra la ragazza muta e il chitarrista egocentrico, tanto ben interpretata da Samantha Morton e Sean Penn. WA: Samantha Morton sostenne l’audizione proprio in questa stanza. Solo lei poteva perdere il ruolo. Nel momento stesso in cui l’avevo vista recitare in Under the Skin - A fior di pelle [1997] avevo capito che volevo lei. “Vorrei che questa la recitassi come Harpo Marx,” le dissi. E lei [comincia a ridere] mi fa: “Chi è questo Harpo Marx?” “Harpo Marx, quello dei fratelli Marx che non parla.” E lei: “Chi sono questi fratelli Marx?” [No» solo. Ventenne e proveniente da un piccolo paese della campagna inglese, dichiarò a Variety che, dopo essere stata informata dal suo agente che Woody Alien voleva incontrarla, la sua reazione fu, “Ah, e chi è questo Woody Alien?”] In quel momento, mi resi conto di quanto ero vecchio. Le consigliai di guardarsi i fratelli Marx perché le sarebbero piaciu­ ti, e la scritturai. Lei se ne tornò in Inghilterra e in effetti guar­ dò i film dei Marx. La rividi solo sul set, quando sfoderò una perfetta imitazione di Harpo, tanto che dovetti spiegarle: “Non voglio che la reciti proprio come Harpo, ma quella è l’idea gene­ rale che voglio per il tuo personaggio. Diversamente da Johnny Belinda, per intenderci.”

EL: Non pronuncia nemmeno una parola eppure ruba la scena.

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WA: Continuavo a sentirmi dire che per una giovane attrice è diffìcilissimo recitare senza parlare. Io rispondevo di sì ma intanto pensavo: “Ma no, è qualcosa in cui un’attrice può esal­ tarsi.” Non c’è attrice che non vorrebbe interpretare una donna muta o cieca, perché sono ruoli che lasciano ampio spazio all’espressione. [La Morton ricevette una nomination agli Oscar come Miglior attrice non protagonista.]

EL: Sean Penn fu la tua prima scelta per il ruolo maschile? WA: La prima scelta di Juliet. Io pensavo ad altri perché Sean non è mai libero. Correva voce che volesse lavorare con me ma poi ogni volta che gli mandavo qualcosa mi rispondeva: “No, voglio starmene con i miei figli, ho appena fatto due film, non posso permettermi di lavorare con te perché mi paghi poco e ho dei debiti da saldare.” Lo avevo cercato per almeno altri due film, ora non ricordo quali. Juliet lo sa sicuramente. Pensai a Johnny Depp ma non lo contattai. E venne fuori anche il nome di Nicholas Cage. EL: Sui giornali uscirono voci di presunte difficoltà tra te e Sean Penn.

WA: Ripeto, i miei rapporti con Sean Penn erano ottimi. Lo scritturerei di nuovo anche subito, e credo che lui sarebbe dispo­ sto a lavorare ancora con me. Avemmo sempre scambi di opinio­ ni molto civili, senza mai trascendere. Lui conosceva sempre le sue battute... magari le aveva studiate cinque minuti prima di sali­ re sul set, ma comunque le sapeva. Ed era molto aperto ai sugge­ rimenti. Come ti dicevo, anche lui faceva delle proposte: se mi piacevano, benissimo; se non mi piacevano, Sean non insisteva. Mi offrì addirittura un ruolo in un film che progettava di dirige­ re, insomma fu un’esperienza molto positiva per entrambi.

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EL: Ebbe qualche problema con il ruolo? WA: In alcune scene, come capita a qualsiasi attore, ma il più delle volte era palese come trasferisse il suo genio nella recita­ zione. E si tratta davvero di genio. Nove volte su dieci la scena filava che era un piacere. Imparò tutti le note e i movimenti delle dita sulla chitarra. Come dicevo, quei brani sapeva suonar­ li veramente. Una volta, mentre aspettava di provare, mi capitò di sentire una sua versione lenta di “Limehouse Blues”, ed era straordinaria. Sean prende molto a cuore il suo lavoro. Fu la sua capacità di attore a portarlo a essere un musicista credibile in tutto e per tutto. Ci furono solo un paio di scene che non mi soddisfacevano e che dovetti girare più volte. Tornammo sul set due settimane dopo e poi di nuovo dopo altre due settimane.

EL: Qual era il problema? WA: Non riusciva a cogliere alcune sfumature comiche allo stesso modo in cui le sentivo io nella mia testa. Ho sempre affer­ mato che, se gratti la superficie di una scena che non funziona, il novantanove percento delle volte il problema dipende dalla scrittura. Una volta ogni tanto dipende dalla recitazione, oppu­ re dalla regia, ma quasi sempre il problema è nella scrittura. Ritengo perciò che fossero le mie battute a tarpargli le ali: se non le coglieva lui, non le avrebbe colte nessuno.

EL: Quali sono le scene che richiesero tutti questi ciak? WA: In particolare quella nella sala da biliardo con le due pro­ stitute. Inizialmente, doveva svolgersi in un hotel dove uno dei clienti bisticcia con una ragazza e Sean deve intervenire a difen­ derla, visto che fa parte della sua scuderia. Poiché la scena non era venuta bene, tornammo a girarla, e poi di nuovo... e ogni 268

volta la riscrivevo. Alla fine la ambientai nella sala da biliardo. Sean, in tutto questo, fu sempre disponibile, mai che dicesse: “Ehi, cosa ti sei messo in testa? Sono tre volte che ripetiamo questa scena.” E mi dava sempre più di quanto avessi sperato. É un vero piacere lavorare con un attore che interpreta quei dia­ loghi come fa lui. EL: In Criminali da strapazzo reciti insieme a due grandi come­ diennes. WA: Era già un grosso vantaggio lavorare con Tracey Ullman, che è un talento enorme, sconfinato. Eiaine May, poi, è una delle icone della comicità americana. Mi ero davvero circonda­ to di un cast di grande talento.

EL: Tu ed Eiaine May vi esibivate entrambi nel circuito dei nightclub negli anni sessanta, e Jack Rollins era il manager sia di Nichols sia della May. Eravate amici allora? E adesso lo siete? WA: Negli anni sessanta, le nostre strade si incrociavano di tanto in tanto perché Louise [Lasser, la seconda moglie di Woody] recitava in uno spettacolo intitolato The Private Bar al Greenwich Village, insieme a Peter Boyle, ed Eiaine ne era la regista. Io mi esibivo al Bitter End, giusto dall’altra parte della strada. Ritenevo lei e Mike [Nichols; Nichols e la May furono un duo comico della prima ora; il loro esordio risale al 7957] due talenti immensi. Non sono amico di Eiaine al di fuori del set ma abbiamo sempre intrattenuto rapporti cordiali; sembra che ci sia una simpatia reciproca, anche se le nostre strade si incontrano raramente. La vedevo di più all’epoca in cui entrambi avevamo un nostro atto unico in Death Defying Acts [7995] e capitava di incontrarsi nel backstage e piangerci un po’ addosso o lamentarci. [Quello con il regista Michael 269

Blakemore non fu un rapporto facile. Il pezzo di Woody si inti­ tolava Central Park West, mentre il terzo atto unico era di David Mamet.] Quando scrissi il copione, diedi al personaggio il nome di May, ed Eiaine fu la prima scelta, come del resto Tracey. Eiaine non crea mai problemi: arriva in orario, ha imparato le sue bat­ tute, è capace di improvvisare in maniera creativa e lo fa volen­ tieri. Se le chiedi di non farlo, si adegua. È un sogno. Si mette nelle tue mani. È un genio, e io non uso questa parola con leg­ gerezza. Lo senti dalla voce. Anche Tracey è un talento comico strabordante, illimitata nella sua abilità. Sono due donne che fanno morire dal ridere.

EL: Come è stato recitare con Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manhattan [Vedi pag. 160] dopo più di una decina d’anni? WA: L’affiatamento che c’è tra me e la Keaton mi dà la sensa­ zione che in coppia funzioneremo in qualsiasi momento. La cosa interessante è che avevo scritto la parte per Mia, poi non se ne fece nulla e subentrò la Keaton. È una comedienne talmente incisiva e vibrante che tutta l’enfasi si spostò su di lei e il suo divenne il personaggio realmente comico. Se lo avesse interpre­ tato Mia, il personaggio comico sarei stato io, perché sono una persona naturalmente più buffa rispetto a Mia. Ma funziona alla grande anche l’equilibrio in cui è la Keaton ad avere la smania folle di seguire il tizio, di ficcare il naso a casa sua, mentre io sono quello che le dice: “Calma, frena.” È proprio incontenibi­ le in quel ruolo.

EL: In questo film lavorasti di nuovo con Anjelica Huston, che interpreta un ruolo completamente diverso rispetto a quel­ lo di Crimini e misfatti.

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WA: Fui fortunato ad avere la possibilità di lavorare con Anjelica, una di quelle attrici che rende tutto reale e trasmette intelligenza. Avevo appunto bisogno di qualcuno che trasmet­ tesse intelligenza. A certe attrici riesce naturale, mi viene in mente per esempio Jodie Foster. Si tratta di grandi talenti. Mi ritengo molto fortunato. C’era una scena che poi non fu montata nella quale io bacia­ vo Anjelica. Solo che lei doveva stare seduta sul divano [riJe], in modo che potessi avvicinarmi e baciarla [risata ancora più grassa}. Se credi che Julia Roberts sia alta, [con Anjelica Huston] era come baciare, non so, Kareem Abdul-Jabbar. EL: La prendo larga rispetto al tema degli attori comici, ma uno psichiatra che ti ha intervistato ha scritto che hai la perso­ nalità di un bambino. Pensi che abbia ragione? Hai un’immagi­ ne infantile di te stesso? WA: Mi rendo conto del perché io possa essere percepito come bambinesco più che infantile. È anche vero che mi trovo più a mio agio con i piccoli perché non ripongo grande fiducia negli adulti. [R4/e.] Non che mi fidi di molti bambini, del resto. E poi non sopporto gli animali da compagnia... di nessun gene­ re. Ma questo non risponde alla tua domanda. Forse è il mio impaccio nei rapporti sociali a farmi sembrare immaturo. Ho le mie fobie e un’ansia generale su molte cose... cene di gala, incontri, viaggi, [ride] la doccia, ho sempre incontrato difficol­ tà nelle cose più insignificanti della vita. Forse lo psichiatra di cui parli non è troppo lontano dalla verità.

EL: Pensi che questo influisca su di te come attore, in partico­ lare come comico?

WA: Non saprei. Quando esordisci sei infantile. Molti comici rimangono bambini tutta la vita e molti di loro rimangono fisi­ 271

camente giovanili fino a tarda età. Prendi Jerry Lewis o Milton Berle [morto nel2002], sono dei ragazzini, per come si compor­ tano. Quindi, i comici sono bambini che inseguono il consenso degli adulti. Vai in un teatro a quattordici anni e provi qualcosa che ti instilla quel bisogno spasmodico di salire sul palcosceni­ co e far ridere il pubblico. Sei colui che ambisce a piacere e strappare risate di gusto. Poi cosa succede ai comici? Succede che raggiungono il successo e diventano mille volte più ricchi dei propri spettatori, più famosi, più idolatrati, più colti, più sofisticati perché hanno l’occasione di viaggiare, accumulare esperienze... e finiscono allora per abbandonare il ruolo del supplicante. Possono fare del pubblico ciò che vogliono perché ne sanno molto di più, hanno girato il mondo in lungo e in largo, hanno cenato a Buckingham Palace e alla Casa Bianca, hanno l’autista, sono ricchi e sono stati con le donne più belle del mondo. All’improvviso diventa più difficile vestire i panni del perdente, sentirsi dentro quel tipo di personaggio. Diventa molto più difficile vendere l’immagine del supplicante. Se non stai all’erta, è facile scivolare ed essere sempre meno divertente, meno comico. Molti diventano pomposi, avrai senz’altro qual­ cuno in mente. Se sei fortunato cresci rispetto ai ruoli che inter­ preti. Robin Williams, per esempio. Per lui il successo è stato un’occasione di crescita. Capita una cosa curiosa: da buffone di corte ti trasformi in re. È un passaggio insidioso, se non ti impegni nel conservare il tuo punto di vista. Uno come Chaplin aveva esattamente questo problema. Era lacerato. Interpretava Chariot mentre in realtà era diventato l’amico dei re e delle regine, un artista che in quel momento riteneva di avere qualcosa da dire sulla pena di morte e sul fascismo, e che dunque non era più altrettanto comico. Se devo dirla tutta, anzi, per me era inguardabile in quei film. Diventa disdicevole vedere persone di sessanta, settant’anni che camminano caracollando [ride]. È una questione interes­ sante. 272

EL: Quanto ha influito su di te questo passaggio?

WA: Penso che abbia avuto un certo effetto. A vent’anni por­ tavo la fidanzata al Thalia o al New Yorker il venerdì sera per vedere un film straniero e mentre cambiavano film pensavo: “Gesù, potrei salire sul palco in questo momento e far sganascia­ re gli spettatori. Mi troverebbero assolutamente comico. Potrei sparare una serie di battute e farli piegare dalle risate.” Erano gli stessi spettatori che sarebbero diventati un mio pubblico affezio­ nato nei nightclub. Poi nel corso degli anni ottieni una certa dose di successo - successo economico, successo di critica, successo personale - e allora cerchi di elevare le tue proposte. È in queste circostanze che, di solito, incasso i miei fallimenti più imbaraz­ zanti. Qualche volta riesco ma spesso faccio flop. Di certo, però, non potrei domani ricominciare con una serie di film come Prendi i soldi e scappa o 11 dittatore dello stato libero di Bananas; il pubblico si aspetta qualcosa di più da me, e anch’io da me stes­ so. Gli spettatori vogliono sentire la mia opinione su questo o quell’argomento. È molto diffìcile mantenersi in equilibrio e non mettersi a pontificare. Ecco perché, quando mi misuro con un film serio, è molto facile che inciampi, come è già successo, che cada nella trappola di trasformarmi in un trombone... è in quei casi che rimedio i miei insuccessi più clamorosi.

Aprile 2005 Woody ha da poco terminato Match Point [Vedi pag. 51], il primo di tre film consecutivi che realizzerà a Londra, seguiti da uno a Barcellona. Il motivo principale di girare lontano da New York è la maggiore facilità di reperire condizioni di finanziamen­ to favorevoli in Europa. Queste, tuttavia, sono anche città nelle quali Woody si trova a suo agio, per non parlare della gradita occa­ sione di lavorare con attori e troupe d’oltreoceano. 273

EL: Match Point è uno dei pochi film che non hai girato a New York. Com’è stato realizzare un film a Londra anziché nel tuo ambiente?

WA: Realizzare Match Point è stata una vera gioia. Non me lo aspettavo e invece è stato favoloso. Innanzitutto, le condi­ zioni climatiche erano ideali, perché a Londra in estate non fa troppo caldo, non ci sono quelle ondate di afa micidiale come qui a New York. Secondo, a Londra spesso il cielo è grigio, circostanza ottima per la fotografia. Terzo, da quelle parti hanno un’enorme riserva di attori e attrici strepitosi che non disdegnano i piccoli ruoli: non a caso, tutti i ruoli minori di Match Point sono recitati a meraviglia. Una vera delizia. Inoltre, la mancanza dei paletti sindacali che abbiamo qui per­ mette di lavorare in maniera molto più libera. Ovviamente non parlo di sfruttamento, ma una controfigura per le luci può agguantare un megafono e dirigere il traffico per un attimo, se serve. E come essere alla scuola di cinema, nel senso migliore del termine. Tutti fanno tutto, senza essere vincolati dalle mansioni come qui da noi. Per esempio, se devi girare in una strada di New York ci sono mille aiuto registi deputati a tene­ re a bada i passanti. Da loro non c’è nessun controllo. Se un curioso entra nel campo della macchina da presa basta dare un altro ciak. L’atmosfera è molto più libera e rilassata. E stato fantastico, mi sono divertito un mondo. Ho fatto tra l’altro uno dei miei film migliori. E se lo dico io... EL: Altre differenze tra Londra e New York? WA: Per un orecchio americano sentire recitare in inglese bri­ tannico è meraviglioso. Gli attori inglesi, poi, hanno una prepa­ razione straordinaria, pronunciano le loro battute con un tocco regale. Non ho realizzato un film americano a Londra ma un vero e proprio film inglese, la storia era inglese. Il film che gire­ 274

rò quest’estate [Scoop], invece, è più una storia di americani a Londra.

EL: Quali sono le differenze tra i finanziamenti europei e quelli americani? WA: Credo che le abitudini europee si addicano di più al mio modo di lavorare. Negli Stati Uniti, per un motivo o per l’altro, i finanziatori vogliono sempre mettere becco. Mi sento dire: “Guardi, noi non siamo semplicemente una banca. Vogliamo avere parola nel casting, leggere la sceneggiatura, sapere cosa stiamo comprando”, e io non posso lavorare in condizioni del genere. Questi uomini d’affari americani credono di avere una mentalità creativa e invece sono totalmente ottusi. Si vantano dei risultati economici di un film, quando il successo al botte­ ghino è quasi sempre una questione di fortuna. Tra i film che producono, alcuni funzionano e la maggior parte no, ma basta questo a convincerli di aver offerto un contributo di creatività. Invece sono soltanto ostacoli che i veri creativi tollerano soltan­ to perché non sono in condizione di fare a meno di loro. Non conoscono nemmeno l’abc della scrittura, della regia, della reci­ tazione, eppure vogliono metterci becco. In Europa seguono tutt’altro approccio rispetto agli studios americani, nessuno si ritiene un esperto. EL: Scarlett Johansson è la tua ultima scoperta.

WA: Scarlett è davvero un’ottima attrice. Mi era piaciuta moltissimo in Ghost World e Lost in Translation, ma non era la mia prima scelta per la parte. Pensando che i contratti di finanziamento prevedessero l’uso di attori europei, avevo scel­ to un cast composto esclusivamente da inglesi, tra cui la fanta­ stica Kate Winslet. La quale, però, mentre ormai si avvicinava l’inizio delle riprese, ha cominciato a rendersi conto che stava 275

lavorando ininterrottamente da troppo tempo, che passando da un film all’altro trascurava la sua bambina... insomma, mi ha fatto sapere che preferiva trascorrere un po’ di tempo con la famiglia - la capisco benissimo, tra l’altro - e ha rinunciato. Le ho scritto due righe dicendo: “Credimi, anche per me la priorità assoluta non è il cinema, non ci sono problemi. Chissà, un giorno o l’altro potremo lavorare assieme su un altro progetto.” Nel frattempo avevamo scritturato un gran numero di attori inglesi. Mia sorella [Letty Aronson, la sua produttrice] mi ha comunicato che avevamo rispettato la clausola contrattuale sugli adempimenti nei confronti del fisco britannico e che dunque avremmo potuto usare un’attrice americana. Ci siamo seduti attorno a un tavolo e ne abbiamo parlato. Scarlett Johansson mi sembrava perfetta e Juliet ha appurato che era libera. È una ragazza che va subito al sodo. Le ho mandato il copione un venerdì pomeriggio e la domenica sera aveva già accettato. È arrivata, ha fatto le prove costume e si è presenta­ ta sul set. Il primo giorno abbiamo girato una scena molto impegnativa e lei l’ha recitata alla grande. È un’attrice meravi­ gliosa. Nella mia carriera ho potuto lavorare assiduamente con la Keaton, la Wiest e altre attrici sensazionali, così come sono state straordinarie molte di quelle con cui ho lavorato solo epi­ sodicamente, come Helen Hunt, Tèa Leoni, Christina Ricci e Radha Mitchell, una dopo l’altra. E adesso questo colpo di fortuna con Scarlett. EL: In quale misura hai dovuto modificare la sceneggiatura per cambiare il personaggio da inglese ad americano? WA: È stato necessario rimaneggiarla un po’, ma la riscrittura non ha fatto altro che migliorare e irrobustire l’impianto della storia.

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EL: Il personaggio di Scarlett, Nola Rice, si presenta allo spet­ tatore come un puro concentrato di sensualità ma, via via che la storia si sviluppa, acquista un lato isterico, assillante. È stato facile ottenere una trasformazione del genere?

WA: Scarlett trasmette una simpatia naturale: ho dovuto lavo­ rare molto sul suo personaggio in modo che il pubblico non si infuriasse quando veniva assassinata. È stato un aspetto piutto­ sto delicato. Altre attrici avrebbero più facilmente spinto gli spettatori a parteggiare per il personaggio maschile, mentre con Scarlett, a causa del suo fascino innato, del suo humour e della sua vulnerabilità, ho dovuto impegnarmi a fondo per far sì che il pubblico potesse accettarne l’assassinio... che non fosse, insomma, come ammazzare Mary Poppins. EL: C’è una grande differenza rispetto a Crimini e misfatti, quando il personaggio di Martin Landau architetta l’omicidio dell’amante, interpretata da Anjelica Huston. WA: Sì. Anjelica è più imponente, più matura, ha caratteristi­ che completamente diverse. Già dall’aspetto si nota una diffe­ renza sostanziale rispetto a quello scricciolo di Scarlett. Quando girammo quel film, Anjelica era una donna adulta, probabil­ mente aveva passato i trent’anni, mentre Scarlett non ne aveva nemmeno venti. Sono due personalità completamente diverse.

EL: Il personaggio di Scarlett comincia davvero a diventare più torbido nella scena all’esterno dell’ufficio, quando, quasi fuori di sé dalla rabbia e dall’isteria, urla: “Mi hai mentito! Mi hai mentito!” WA: È fantastica. Schiaccia l’interruttore e recita. Che attrice meravigliosa. Quando abbiamo girato la prima scena con lei, si era imbarcata su un aereo la sera precedente ed era arrivata a 277

Londra al mattino. Si è presentata direttamente al pub dove giravamo e non le ho fatto fare nemmeno una prova. [È una scena intensa, in un punto della storia in cui Jonathan RhysMeyers (Chris) è ormai ossessionato da Nola.] Recitava un po’ frastornata e i primi ciak sono stati fantastici. Io ero estasiato. Avevo a che fare con una squadra di ali-star. EL: Cosa c’è nell’aspetto di Scarlett che risulta tanto efficace?

WA: È sensuale. Ha un volto meraviglioso, pieno di carattere, oltre che banalmente grazioso, e un fìsico altrettanto ecceziona­ le. La somma non è quantificabile, allo stesso modo in cui non era quantificabile in Marilyn Monroe... puoi solo parlarne, ma non la cogli mai completamente. Tutto contribuisce: la persona­ lità, la voce, l’aspetto, gli occhi, il peso, le labbra, e il risultato finale è maggiore della somma delle parti... e parliamo di parti già piuttosto notevoli. E una combinazione di natura e affina­ mento, ma soprattutto natura: è tutto merito di quei geni. Succede per qualsiasi star, puoi prenderne una a caso, Nicole Kidman, Marilyn Monroe, Julia Roberts... è qualcosa di magico. Vale anche per gli uomini. Se guardi le star del cinema di una volta, come William Powell, Humphrey Bogart o Edward G. Robinson, non erano delle bellezze straordinarie nel senso con­ venzionale, ma per chissà quale motivo in Bogart tutto si legava assieme, così come in George C. Scott. Avevano sex appeal senza essere bellissimi. Scarlett ha sex appeal, ed è anche bellissima.

EL: Conoscevi i ruoli precedenti di Rhys-Meyers?

WA: Lo avevo visto in Sognando Beckham e avevo capito che volevo lui. Immaginai anche che avrebbe fatto bene, ma non mi aspettavo bene fino a questo punto. Di Emily Mortimer [Chloe, la ragazza che si innamora di Chris], Brian Cox e Penelope Wilton [z genitori] sapevo già quanto fossero bravi. 278

Matthew Goode [il fratello di Chloe, che presenta Chris alla famiglia} è stata una scoperta perché non lo avevo mai visto dal vivo. Chiedevo: “Chi è questo qui?” e mi rispondevano: “Boh, non lo so, è uno affascinante ma non so se è in grado di recita­ re questo genere di cose drammatiche. È più tagliato per i ruoli brillanti.” E invece non solo è riuscito a interpretarlo, ma ha dato anche un grande realismo al personaggio, aggiungendo le sue piccole interiezioni e le sue frasi idiomatiche. Ha fatto un ottimo lavoro, davvero. EL: In Match Point c’è più erotismo che in quasi qualsiasi altro tuo film. WA: Ce attrazione sessuale, ma non si vede mai del sesso vero o esplicito, così come non si vede nessun omicidio. L’erotismo emana dai due protagonisti, che ho collocato in situazioni ad alta gradazione erotica: è più sensuale vedere Jonathan RhysMeyers che massaggia con l’olio la schiena di Scarlett Johansson piuttosto che due persone che fanno l’amore. Stesso discorso quando la sbatte a terra sotto la pioggia. C’è tensione erotica senza che sia mostrato il sesso vero e proprio. È un’allusione, ed è più divertente. Con il sesso esplicito vedi tutto, ma è come guardare pistoni o martelli pneumatici in azione, raramente tra­ smette sensualità.

EL: Gli attori sono entrati subito nelle rispettive parti? WA: Non ne avevo discusso con loro. Non avevo avuto nes­ sun colloquio preliminare con Emily, Scarlett, Penelope, Brian, Matthew. Hanno letto la sceneggiatura e abbiamo iniziato. Ogni tanto mi ponevano qualche domanda. Emily me ne ha fatta una all’inizio. Il suo primo impulso era stato di essere molto dolce con lui [RAyr-Meyerr] ma io le ho detto: “No, verrebbe fuori un personaggio melenso. Sei già dolce di tuo. Fallo semplice e 279

Woody con Emily Mortimer in una pausa delle riprese di Match Point. La sua unica indicazione di regia all’attrice fu di non interpretare il personaggio di Chloe con dolcezza perché, dice lo stesso Woody, Emily è già dolce di suo.

senza forzature. È un ruolo che hai dentro di te.” Questa è stata la sola piccola indicazione che ho dovuto dare in tutto il film. E appena gliel’ho accennato... [schiocca le dita]. Ah no, un’altra volta ho dovuto dire a Brian Cox: “Potresti parlare un po’ più forte?” Lui si è messo a ridere e mi ha risposto: “Certo, certo.”

Maggio 2005 EL: Una volta mi hai detto che quando scrivi ti trasporti nel mondo della fantasia, cosa che non ti succede sul set, quando l’obiettivo è filmare quella certa scena e ottenere un risultato. Quando reciti, invece? WA: Mi immedesimo sempre nel personaggio. Sono un atto­ re molto limitato, ma sempre nella parte. Se, mentre sto reci­ tando una scena con qualcuno, scoppia un incendio o passa un aereo sopra le nostre teste, incorporo l’imprevisto in maniera automatica. Sono lì presente, sempre. Allo stesso tempo, tutta­ via, riesco a guardarmi dall’esterno, anche quando vivo il mo­ 280

mento. Stavo recitando una scena [/« Harry a pezzi] con Kirstie Alley - un’attrice meravigliosa e molto buffa [anche se in quella scena stanno litigando} - e lei con uno schiaffo mi fece cadere un bicchiere di mano, che si ruppe, un dettaglio non previsto dalla sceneggiatura. Ma poiché lei era nella scena, con­ tinuò imperterrita e io reagii di conseguenza perché anch’io ero nella scena. Per me è sempre così, ecco perché non ho proble­ mi a inventare i dialoghi sul momento. Lo trovo molto facile. Potrei improvvisare per un film intero se fosse necessario, per­ ché è esattamente quello che faccio come autore. È qualcosa che mi viene facile. E comunque, se ti viene facile, c’è ben poco di cui vantarsi... né hai per questo la garanzia che salterà fuori qualcosa di buono.

EL: In Provaci ancora, Sam c’è la scena nel bar quando, dopo aver assaggiato un goccio di whisky, hai una particolare reazio­ ne scomposta. Durante la ripresa tutta la troupe dovette tratte­ nersi, per poi scoppiare a ridere una volta che Herb Ross ebbe dato lo stop. E ti mettesti a ridere anche tu. Sapevi che era tanto comica?

WA: Ridi perché questo lavoro ti sorprende sempre. Sono a casa, scrivo una battuta e la sorpresa mi provoca un senso di ila­ rità... perché la battuta giunge inaspettata dal mio inconscio. Lo stesso con un ciak. lì fa ridere perché alla fine è una sorpresa tanto per te quanto per il tecnico delle luci. EL: Ti serve molto tempo per memorizzare le tue battute?

WA: Non le imparo a memoria. Quando finisco una sceneg­ giatura passo già al film successivo. Ho finito il copione per quest’estate [Scoop], l’ho consegnato due settimane fa e pro­ babilmente non lo toccherò più. Appena prima di girare, guardo di che scena si tratta e recito il dialogo nel modo che 281

voglio. Viene fuori più o meno nello stesso modo in cui l’ho scritto.

EL: In pratica, è come se conservassi i tuoi dialoghi in un angolo del cervello raggiungibile in ogni momento?

WA: Sono esattamente le parole che userei io in quella deter­ minata circostanza. Facciamo l’ipotesi che scriva qualcosa sulla base dei rapporti tra i personaggi in una certa scena e poi metta via il copione. Se riscrivessi la stessa scena da capo, sei mesi dopo o tre mesi dopo, scriverei più o meno lo stesso dialogo. Magari non nel medesimo ordine, ma non è detto. In entrambi i casi sarei alle prese con le stesse reazioni. E sempre stato così.

EL: Quando hai cominciato a scrivere il nuovo film [Scoop] sapevi già che la protagonista sarebbe stata ancora Scarlett?

WA: Sì, perché alla fine del film precedente avevamo già preso in considerazione l’ipotesi di lavorare ancora insieme. Le avevo detto: “Sei molto buffa, dovresti interpretare qualcosa di bril­ lante.” Così si è tenuta libera. Di Scarlett Johansson, Woody racconta: “Ogni volta che dico qualcosa di divertente o faccio una battuta che mi sembra fantastica, Scarlett ne spara una ancora migliore. Con lei mi sento a mio agio perché è brillante, pronta, divertente?

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EL: È risaputo che tu non parli con gli attori, sul set. Con Scarlett invece parli, e anche molto. Con lei sembri a tuo agio come con Diane Keaton.

WA: Scarlett appartiene a quella categoria di persone che hanno sempre la risposta pronta alle mie battute. Come la Keaton, o Bechet e Manzie, le mie figlie. Ogni volta che dico qualcosa di divertente o faccio una battuta che mi sembra fan­ tastica, Scarlett ne spara una ancora migliore. Le viene natura­ le. E una dote che un vecchio buffone come me apprezza mol­ tissimo. Controbatte con una rapidità e un’efficacia che mi lasciano sempre esterrefatto. Con lei mi sento a mio agio perché è brillante, pronta, divertente. Non che ne abbia bisogno, ma penso che si senta ancora più sicura nel vedere che mi piace così tanto. EL: Eppure socializzi molto di rado con gli attori, lei compre­ sa.

WA: Infatti. Scarlett sostiene che sono asociale. [Ride. ] Ma non sono asociale. E solo che non sono sociale. Comici radunati al Carnegie Delicatessen raccontano la storia di Broadway Danny Rose. Dall’estrema sinistra: Corbett Monica; Sandy Baron; Will Jordan; Jack Rollins, manager di Woody da cinquantanni; Howie Storm; Jackie Gayle; Morty Gunty. Da giovane monologhista, Woody trascorreva molte sere attorno a un tavolo come questo.

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EL: In Broadway Danny Rose, quanto consapevolmente stavi facendo un omaggio a Jack e Charlie? [Jack Rollins e Charlie Joffe sono i manager di Woody fin dai tardi anni cinquanta, testi­ monianza di un attaccamento e di una fedeltà reciproca che si respira nel personaggio di Danny. Certo, i due non invitano Woody a mangiare il tacchino davanti alla TV il giorno del ringra­ ziamento, come fa Danny Rose con i suoi assistiti. Nelfilm Danny (Woody) è un manager di artisti alla periferia più estrema dello show business: uno strozzapalloncini, una suonatrice di bicchieri, un pinguino pattinatore, un ipnotizzatore di dubbia efficacia (non incontra difficoltà nell’addormentare i soggetti, ma non sempre riesce a riportarli indietro dalla trance) e Lou Canova, un cantan­ te che ha al suo attivo un solo grande successo, perso in un passa­ to lontano, un brano che parlava di indigestioni, “Agita” (Acidità), e per il quale Danny riesce a strappare un contratto per la grande rentrée al Waldorf-Astoria Hotel. Lou, che è sposato, vuole che al concerto presenzi anche la sua amante, Tina (Mia Farrow), una donna scontrosa ma assolutamente conturbante un cespuglio di capelli biondi, occhiali scuri perennemente infor­ cati, sgargianti abiti aderenti e modi bruschi - e vedova per nien­ te inconsolabile di un gangster (“Gli è stato come un guanto!” commenta a proposito della morte del marito). Danny va a pren­ derla nel New Jersey. Seguono una serie di peripezie, degne di Damon Runyon, raccontate da un gruppo di comici seduti attorno a un tavolo in una rosticceria di Manhattan. Si intrecciano due storie: l’improbabile storia d’amore tra l’egoista Tina e lo smidol­ lato Danny, che da anni è l’unico a credere nel talento di Lou; e il tradimento di Lou che, pregustando finalmente la grande occasio­ ne, scarica Danny per assumere un manager di grido. (Uno dei comici radunati attorno al tavolo è lo stesso Jack Rollins che, ai tempi dei monologhi comici di Woody nei nightclub, si sedeva ogni sera con lui attorno a un tavolo simile per analizzare in det­ taglio le sue esibizioni e discutere di comicità.)]

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WA: Semplicemente, conoscevo benissimo quell’ambiente. Lo stimolo a realizzare il film fu in realtà duplice. Da una parte, Mia voleva interpretare la signora Rao, Annie Rao, che conosce­ vamo e vedevamo in continuazione nel suo ristorante [Rosso garantire che sul gran­ ile schermo l’effetto sia lo stesso. È questo che ti fa impazzire, siamo tutti alla mercé dei giornalieri. Li guardo e penso: “Nessuna di queste camminate fa ridere, le rigiro ma poi, in fase di montaggio, scopro che quelle più buffe sono le due che dai 393

giornalieri sembravano peggiori. Ecco perché la commedia cinematografica è tanto difficile.

Una o due settimane dopo la scena in camera da letto, Woody è sulle Rocky Mountains che dominano Denver, per preparare la scena in cui lui e Diane Keaton sono nel bosco. È un mattino di sole, ma ci sono anche sei gradi sotto zero. La maggior parte del terreno è coperta di neve. Woody, imbacuccato in una giacca a vento imbottita, è scontento. “Detesto stare qui,” dice, ma non si riferisce a questo posto in particolare. “Se mi trovassi a Los Angeles, detesterei anche Los Angeles, sarei smanioso di tornare a New York dove, tanto, non sta succedendo nulla, molto probabilmente." Prima lui, poi il direttore della fotografia David Walsh guarda­ no attraverso l’obiettivo. Uinquadratura è quasi buona. Provano una lente da 250 mm, poi una da 100. Woody borbotta qualcosa tra sé e sé. Provano un’altra lente. “Il problema è che voglio un film comico, che faccia ridere ma sia anche esteticamente gradevole, e i due obiettivi sono agli anti­ podi," dice spazientito. "È una gran rottura di palle." (Mi vengono in mente le parole del suo produttore Jack Grossberg qualche mese fa, quando Woody stava girando l’elegan­ te episodio italiano di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso: “La farfalla è uscita dal bozzolo... e ha i capelli rossi.”) Woody e Walsh provano un’altra angolazione: “Troppo d’auto­ re." Poi un’altra. Woody guarda di nuovo nell’obiettivo, seguito da Walsh e poi da Roger Sherman, l’operatore di macchina. "Questa inquadratura ti lascia perplesso quanto me?” chiede a Walsh. “No? Allora difendila. Per me ci vogliono più alberi. Non ce ne sono abbastanza in campo." Walsh non tenta nemmeno di convincerlo. Lui, Woody e l’assi­ stente alla regia Fred Gallo montano su una station wagon per andare a cercare altre ambientazioni. Al loro ritorno facciamo due chiacchiere. 394

WA: Uno dei tuoi problemi è fare in modo che questo film abbia una bella veste. Quali altri obiettivi ti sei dato? WA: Per coniugare una buona recitazione e una buona storia è necessaria grande maestria. Un’enorme sensibilità. Da un punto di vista tecnico, invece, non c’è nulla di arcano. Sono milioni i registi che, essendo andati al cinema tutta una vita, sono in grado di girare un film. Tecnicamente sono ineccepibi­ li, mi danno dei punti. Le loro immagini fluiscono in maniera stupenda, la fotografìa è ottima e i film risultano stilisticamente accattivanti. Dove cadono, però, come tanti registi pubblicitari che passano al cinema, è nello scarso senso della drammaturgia, o della comicità. Ecco perché i film di Bunuel sarebbero dei capolavori anche se fossero esteticamente imperfetti, perché è il contenuto l’elemento più importante. Qualsiasi filmacelo distri­ buito nelle sale ha una veste accattivante: basta ingaggiare un operatore di prima qualità, un montatore di prima qualità, e ci pensano loro. Woody si auspica che II dormiglione faccia breccia in un pubbli­ co più ampio rispetto a quello dei suoi primi film. Un giorno, nel­ l'immediata vigilia dell’uscita, nel dicembre del 1973, vado a tro­ varlo nel suo appartamento. Il film è stato proiettato per la stam­ pa di Los Angeles la sera precedente e Woody ha appena saputo che a Charles Champlin del Los Angeles Times è piaciuto molto; la notizia lo rallegra, perché con II dormiglione sta cercando di battere un terreno nuovo, tanto che non l’ho mai sentito ammet­ tere così esplicitamente le proprie ambizioni. (Dopo Io e Annie xmetterà di leggere le recensioni.) WA: Il dormiglione è un film che qualsiasi ragazzino america­ no troverebbe divertente. È esattamente il tipo di film che guar­ davo da piccolo e adoravo. Non voglio essere relegato nell’am­ bito dell’umorismo intellettuale, anzitutto perché le mie creden­ 395

ziali intellettuali sono pari a zero. Anche Chaplin, nei suoi film, inseriva qualche battuta colta. Sono stanco di essere considera­ to il pupillo della New York intellettuale. Non mi ritengo un comico speciale. Penso di aver incontrato nel cinema lo stesso problema che, agli esordi, avevo con i miei spettacoli di cabaret: ho la convinzione che, ima volta entrati in sala, gli spettatori apprezzeranno il monologo o il film. Mi piace pensare di avere un’ampia base di pubblico, come Chaplin per esempio, di non essere confinato in una nicchia. Sarei contento se potessi infilare una serie di film di successo. Anziché debut­ tare in piccoli cinema di New York e sapere che al massimo recupereremo le spese, mi piacerebbe essere in grado di orga­ nizzare un’anteprima come quelle dei film di James Bond e avere le sale gremite di milioni di spettatori. Mi piacerebbe che il film incassasse trenta milioni di dollari [per adesso i suoi film hanno incassato solo pochi milioni]-, non per me... per quanto mi riguarda, i soldi potrebbero essere tutti devoluti alla ricerca sul cancro. Non c’è motivo che questo film sia considerato un oggetto d’arte. I miei film non sono arte. [Per i suoi film non saranno mai organizzate anteprime alla James Bond in duemila e più sale, anche se molti otterranno successo al botteghino, da II dormiglione a Io e Annie, da Hannah e le sue sorelle a Manhattan e, soprattutto, Match Point, che ha incassato più di ottanta milioni di dollari in tutto il mondo.] Con II dormiglione penso di aver svoltato l’angolo. Ho sentito che è piaciuto alla rivista Scholastic. Che è piaciuto anche a Parents’. Ne sono contento. Ho sentito che è piaciuto moltissi­ mo alla rivista Seventeen e anche a Vincent Canby [critico del New York Times]. (I desideri di Woody a proposito del film si sono in larga parte avverati. Il dormiglione incassò oltre diciotto milioni di dollari solo nelle sale americane - corrispondenti a circa sessanta milioni di oggi - oltre a una cifra considerevolmente maggiore nel resto del mondo e con la successiva vendita dei diritti televisivi e DVD.) 396

Woody sta sistemandolo le posizioni di Philip Bosco e Gena Rowlands per una scena di Un’altra donna, a metà tra flash-back e sogno, che si gira in un teatro a Lower Broadway. È una sala scarna. Le pareti di mattoni sono lasciate grezze, il palco è nero, le poltroncine rosse. Dopo aver compiuto i movimenti degli attori, Woody si mette alla macchina da presa per assicurarsi che la scena venga ripresa nel modo corretto. Mentre prova la coreografia, la Rowlands accenna la battuta “No, basta! Non posso più vivere così, ” poi chiede a Woody: “Vuoi che mi sposti da questa parte?” E, dopo aver provato un'altra battuta: “Dove dovrei essere alla fine?" Muovendosi con grazia, Woody illustra rapidamente agli attori i loro passi sul palcoscenico. Ci sono sessantacinque membri della troupe e altre persone sedute sulle poltrone del teatro, fuori campo. Woody le indica e dice: “In questo momento ci sono più spettatori di quelli che vedranno il film.” Nei primi ciak lascia che Bosco e la Rowlands interpretino la scena nel modo in cui ciascuno dei due la immagina, poi comincia a farli muovere come vuole lui, man mano che la scena viene affi­ nata. Osserva i vari ciak in piedi o accovacciato, bisbigliando qual­ cosa all’orecchio dell’operatore Dick Mingalone mentre la macchi­ na riprende. Questa scena sarà girata altre tre volte prima che Woody sia sod­ disfatto delle angolazioni per gli stacchi da un attore all’altra: di nuovo qui in dicembre, poi in gennaio allo Union Theological Seminar di Uptown Manhattan, vicino alla Columbia University, e ancora una volta a metà febbraio. Durante una delle ripetizioni, gli chiedo in quale misura riscrive in corso d’opera.

WA: Essenzialmente, giro il copione. Mi piace avere una prima versione su pellicola su cui fare le mie valutazioni. Solo 397

allora scopro delle questioni essenziali che non potrei mai pre­ vedere prima delle riprese. Il copione è solo un canovaccio per il lavoro a venire. EL: Pensi di avere uno stile personale di scrittura e di regia?

WA: E diffìcile riconoscere il proprio stile. Se realizzassi un film e non lo firmassi col mio nome, capiresti che è mio? Certo, se ci recito è un grosso indizio [n'Je]. Ma se non ci recitassi, capiresti che è mio? Se vedessi La rosa purpurea del Cairo? Io non saprei dirlo. Cerco sempre di adattare lo stile del film al contenuto. Penso, tuttavia, di avere i miei cliché. Intanto, credo che l’ambientazione urbana sia molto evidente. In tutti i miei film vedi gente che cammina e parla per strada, va al ristorante, vive in appartamento. Ci sono, poi, temi e questioni ricorrenti nei miei film, anche se non in tutti. E credo di aver sviluppato, negli ulti­ mi dieci o dodici anni, uno stile cinematografico che, a eccezio­ ne di un film come Zelig, si contraddistingue per la lunghezza notevole delle riprese e lo scarso ricorso alle coperture. So che questo te l’ho già detto. EL: Stai girando questo film con un direttore della fotografia eccelso, Sven Nykvist, emblema di quel cinema europeo il cui stile tanto ammiri. A entrambi piace affidarsi a lunghi master shot che mostrano i dialoghi di tutti i personaggi della scena, due o più che siano, anziché continuare ad alternare campo e controcampo come nella maggior parte dei film americani. WA: Proprio l’altro giorno Sven mi chiedeva come mai i regi­ sti americani hanno l’abitudine di girare sempre sia un master sia le coperture di ciascuno dei personaggi... è questo il motivo per cui non gli piace lavorare qui da noi. Sono stato in grado di fornirgli solo due motivazioni: uno, che i film americani, da 398

sempre, sono in larga parte narrativi, con molta trama, e quello è il modo più semplice per raccontare una storia; due, che gli \tudios hanno sempre adottato questo metodo schematico, che metteva al riparo da brutte sorprese. Ognuno aveva il suo com­ pito, gli attori erano truccati da manuale, c’era il master, c’era­ no le coperture. Storicamente, è sempre stato molto importan­ te per i produttori che il film contenesse un numero adeguato di primi piani delle star. Ancora oggi capita di sentire le lamen­ tele dei produttori quando le star non hanno abbastanza primi piani... vogliono che gli attori siano sfruttati per quello che ven­ gono pagati. I film europei, invece, non sono mai stati così. Ai miei esordi, cominciai impiegando quel tipo di riprese perché erano le uni­ che che conoscevo. Girando Prendi i soldi e scappa, ero sempre attento ad avere le coperture perché in saletta di montaggio una m cita più ampia avrebbe potuto risparmiarmi un sacco di dolo­ ri. Poi, man mano che acquistavo fiducia e padronanza nella realizzazione di un film, ho cominciato ad abbandonare quella Ntrada. Direi che con Manhattan l’avevo ormai lasciata definiti­ vamente. Ricordo che in Manhattan inanellavo semplicemente un master dopo l’altro. Così come in Hannah e le sue sorelle, e anche in questo film. Siamo alla terza, quarta settimana di ripre«»r c non c’è stata ancora una scena con campi e controcampi. Se il lavoro è fatto bene, non se ne sente la mancanza. Certe volte le cose diventano complesse, come in Un’altra donna. I.'episodio del sogno [una scena di due minuti tra Marion e I jtrry, l’uomo che lei ama veramente ma che ormai è sposato con un'altra} parte a un certo punto con Hackman, poi Gena entra nel l’inquadratura, che diventa a due, lei si allontana e la macchi­ mi la segue, toma sui suoi passi e infine esce di campo, mentre In macchina stringe su Hackman. In un certo senso è come avere i primi piani delle star, ma non in modo troppo smaccato. Dai comunque agli interpreti il loro spazio sullo schermo. Molto di Settembre è girato allo stesso modo. 399

EL: Cos’altro ti piace del cinema europeo?

WA: I film europei, compresi quelli di Bergman, sono più slabbrati. Le troupe americane sono composte da pignoli. Una delle cose che mi piacciono nei film europei è la loro mancanza di perfezione. Di tanto in tanto gli attori vanno fuori fuoco. Non avendo mai grossi budget a disposizione, i registi europei non hanno il tempo di ottenere un risultato patinato, quella sensa­ zione di rifinitura. Non sempre i movimenti di macchina sono perfetti, lo zoom può essere mosso. In genere questo mi piace. [In Mariti e mogli, realizzato dodici anni dopo, le riprese della camera a mano saranno volutamente mosse.}

Febbraio 1989

Qualche settimana dopo, nell’appartamento di Woody. EL: Hai appena finito un film drammatico [Un’altra donna], girato con estrema raffinatezza, e ora stai realizzando una com­ media facile [Edipo relitto]. Quando guardavamo i giornalieri, oggi, lamentavi che parte della tua insoddisfazione per il colore del film deriva semplicemente dalla necessità di girare una com­ media con una luce più intensa rispetto a un dramma. WA: In un film serio si possono introdurre soluzioni stilisticamente accattivanti, molto poetiche, come nella sequenza di Un’altra donna con Gene Hackman in teatro o Gena [Rowlands] nell’appartamento vuoto. Puoi muovere la macchi­ na da presa in un certo modo, studiare composizioni poetiche, utilizzare un montaggio poetico, scandire il tempo in modo da sostenere un certo ritmo ipnotico. Tutte soluzioni che in una commedia come questa non si possono adottare. Devi essere così [schiocca le dita due volte in rapida successione]. Quando i 400

passanti in Columbus Avenue alzano lo sguardo verso mia madre [apparsa in cielo], non vuoi che la macchina da presa passi lentamente da un volto all’altro, vuoi [schiocca di nuovo le dita] che qualcuno gridi qualcosa. E quando la scena si sposta in casa mia o nella casa di Mia, non vuoi un ambiente suggesti­ vo con lame di luce che filtrano dalla finestra. Tutto deve esse­ re giocato sullo sfondo di una situazione banalmente quotidia­ na, altrimenti non fa ridere, e quindi ogni aspetto del film è subordinato all’esigenza comica. Nulla deve interferire, distrar­ re dall’effetto comico. Nella commedia bisogna semplificare molto: la poesia è interessante, ma azzoppa la comicità; tutto il contorno deve mettersi al servizio delle battute e delle gag.

EL: Parlami dei dialoghi nei film drammatici. WA: Be’, ovviamente devono essere curati con attenzione, specie oggi. Nei film di una volta c’erano, che so, i cowboy che cavalcavano nella prateria, con dialoghi ridotti all’osso... situa­ zioni molto suggestive dal punto di vista cinematografico, ma i tempi moderni impongono la parola. Le persone oggi si espri­ mono verbalmente. Guarda i film di Ingmar. Quando Bergman vuole essere meno verbale si rifugia nel film d’epoca. Sussurri e linda, per esempio, ha pochissimi dialoghi. È magnifico, con i personaggi raccolti nella villa. A New York invece, o in qualsia­ si città, le persone parlano, parlano... ecco perché nei miei film ci sono tanti dialoghi. Nei miei film nessuno insegue nessuno, nessuno fa a pugni in un vicolo, né ci sono momenti di tensio­ ne angosciosa tra i personaggi come tra le due sorelle nella villa di Sussurri e grida.

EL: Tu scrivi, dirigi e monti tutti i tuoi film, reciti in molti di essi e di regola scegli anche la colonna sonora. Mi sembra che lutto questo corrisponda piuttosto esattamente alla definizione di "autore”. 401

WA: Ho letto un’intervista a Steven Soderbergh, il regista di Sesso, bugie e videotape \da poco uscito nelle sale, con un grande battage pubblicitario], un film che mi piace molto. Soderbergh si dichiara scettico nei confronti dell’autorialità, in particolare dell’eccesso di potere che può mettere nelle mani del regista. Non so cosa intenda. Alcuni registi rientrano chiaramente nella categoria degli autori, perché hanno una cifra personale e rico­ noscibile, i film che realizzano sono loro, al cento per cento. Li esprimono. Non so come mai, da regista, Soderbergh si lamen­ ti del potere. Cambierebbe probabilmente opinione se un diri­ gente dello studio cinematografico cercasse di interferire nel suo lavoro. EL: Tu, invece, sai cosa vuol dire non avere abbastanza pote­ re. Ricordo la tua risposta a David Merrick, che in doppiopetto ti spiegava che cosa avrebbe funzionato in Don’t Drink the Water. “Ho guadagnato più di un milione di dollari in vita mia non dando retta alla gente in abito blu.” Penso anche a Charlie Feldman e agli altri che massacrarono la tua sceneggiatura di Ciao Pussycat. WA: In genere, ho rapporti civili con tutti. E molto raro che abbia dato in escandescenze in una situazione lavorativa. Non ce l’avevo nemmeno con Merrick, quando gli feci quella raman­ zina. Non fu un alterco sgradevole, nessuno perse le staffe. L’unica occasione in cui ho mandato a fanculo qualcuno fu durante le riprese di Ciao Pussycat. Non ricordo se era Feldman o uno dei suoi tirapiedi. Ricavai un’immagine molto meno positiva di Feldman che di Merrick. Feldman aveva la fama di persona affascinante con la quale, certo, era diffìcile trattare ma che, rispetto ad altri pro­ duttori, era comunque un signore. A me fece un’impressione completamente diversa. A posteriori direi forse che era peggio degli altri. 402

Non avevo esperienza nella valutazione dei giornalieri, non avevo coscienza di quanto i giornalieri siano sempre brutti, essendo solo materiale grezzo, privo degli effetti sonori e di mis­ saggio. Per giunta questi tizi stavano mutilando la mia sceneg­ giatura e mi dicevano cosa faceva e cosa non faceva ridere. Alla fine persi la pazienza e sbottai.

EL: Oggi invece nessuno ti dà ordini. Trovi qualche aspetto negativo nella libertà assoluta?

WA: Trovo che l’aspetto più insidioso sia quello della diagno­ si. A volte provo un vago moto di insoddisfazione, ma senza riu­ scire a capire esattamente cosa mi lascia perplesso. Penso, per esempio, che il film che proietterò stasera [una versione rimon­ tata di Un’altra donna; dalla proiezione di qualche giorno fa era emerso un difetto di equilibrio tra i personaggi] dovrebbe piace­ re molto di più a chi l’ha visto l’altra sera e mi ha fatto notare un eccesso di narrazione. EL: Un’altra donna si avvicina a essere il film che avevi imma­ ginato? [Vedipagg. 33-34] WA: No, assolutamente. Quando lavori a un film del genere, che si trascina per sei mesi o un anno, coinvolge un sacco di sog­ getti, richiede grande coordinamento tra recitazione, costumi, scrittura, regia, fotografia e tutto il resto, in qualche modo - a meno che fili tutto alla perfezione, capiti un imprevisto fortuna­ to o tu sia un genio assoluto, eventualità difficilmente immagi­ nabili tutte assieme - il progetto comincia ad assumere una vita propria, emergono aspetti e circostanze che non avevi previsto. Se, come può succedere, il film assume una vita che non ti piace, lo sopprimi e passi ad altro, oppure lo modifichi. A volte, invece, assume una vita interessante, più piena di quella che avevi immaginato al principio, e allora vai avanti con quella. 403

Marion, per esempio, l’avevo pensata come una donna fredda, circondata da persone più simpatiche di lei. Man mano che giravamo, però, il personaggio ha assunto un carattere diverso, cosa che mi instillava dei dubbi. In un primo momento ho immaginato che le impreviste sfaccettature della protagonista avrebbero reso il film molto più interessante, e ho dunque cominciato a introdurre nuove scene, in modo da far emergere le varie dimensioni della sua personalità, soprattutto i lati posi­ tivi. Per esempio, la scena in cui Kathryn Grody dice di lei che è un’insegnante meravigliosa. Forse mi sono sbilanciato troppo in questo senso, ma il film continua a crescere di vita propria. Sto iniziando a sviluppare il rapporto tra lei e Martha Plimpton [che interpreta la figliastra di Marion]. Sulla base della prima stesura non avresti mai immaginato Martha che parla di lei con il proprio fidanzato - “E una che ti giudica,” gli dice [anche se scoprirà in seguito di essersi sbagliata] - ma mi è sembrato un aspetto fertile, da approfondire. Ho intenzione di inserire altre scene con lei, in modo da rendere credibile la telefonata duran­ te la festa, alla fine del film, un’altra novità rispetto al copione originario. Sarà lei ad accompagnare Marion alla vecchia casa di famiglia, per esempio. Ho eliminato la discussione filosofica in macchina durante il viaggio di andata che non mi piaceva e risultava oltretutto posticcia. Ci sarà anche una scena alla fine in cui lei e Marion passeggiano assieme, e ognuna avrà imparato a comprendere meglio l’altra, sarà nato insomma un rapporto. Il che non è esattamente quello che avevo scritto. [Sorride.] Si chiama “procedere alla cieca”. EL: Nel cinema sembri concederti maggiori libertà rispetto al materiale che hai scritto, non hai remore a cambiarlo sul momento. WA: In un libro di Kazan o di Bergman, non ricordo, l’auto­ re dice che il copione di una pièce teatrale è letteratura, lin­ 404

guaggio, mentre un copione cinematografico è architettura, è più simile a un progetto. Concordo. Come sai, scrivo il copio­ ne molto in fretta e poi lo adatto. Prendi, per esempio, la scena nella galleria d’arte. Sapevo solo che mi serviva un momento di intimità tra Gena e Mia... non quando si incontrano la prima volta, ma davanti ai Klimt e agli Schiele. Ho girato allora una scena elaborata, in cui la macchina da presa fa una panoramica della galleria mentre l’argomento della conversazione è il primo marito di Gena, ma era tremenda, non l’ho inserita nem­ meno nel primo cut del film. Sapevo però che dovevo ripren­ derle nella galleria d’arte, perché è lì che si dirigono dopo essersi incontrate. “Dobbiamo tornare alla galleria,” ho annun­ ciato, ma non avevo la più pallida idea di come architettare la scena. Arrivato sul posto con le due attrici ho pensato: “Insomma, dovrebbero cominciare a conoscersi parlando di arte.” Ma era tedioso averle tutte due impalate davanti ai quadri in piena luce. Poi, su due piedi, mi è venuto in mente che a questo punto Gena avrebbe potuto dire: “Mi manca la pittura, mi piacerebbe riprenderla” [Nella versione finale del film, la battuta è di Hope, Marion dice semplicemente: “Be’, facevo qualche quadretto quan­ do ero più giovane”.} e all’improvviso tutto il momento veniva precisandosi. Visto che a entrambe l’idea era piaciuta, sono andato avanti improvvisando i dialoghi. Li ho scritti sul retro di una busta come il Discorso di Gettysburg e loro li hanno impa­ rati e interpretati in quattro e quattr’otto. E così ora ho una pic­ cola scena significativa per il film. [Marion, in cerca di un regalo di anniversario, entra in una bottega antiquaria e vi trova Hope, che piange accanto a una grande stampa di Klimt, un quadro raf­ figurante il nudo di una ragazza dai capelli rossi, incinta, che intri­ stisce Hope (a sua volta in dolce attesa). Marion tenta di rincuo­ rarla, spiegandole che il dipinto è molto ottimistico... infatti si intitola La speranza, The Hope. Le due donne parlano breve­ mente delle rispettive esperienze con la pittura finché Hope, rie­ 405

cheggiando uno dei temi delfilm, conclude: “Forse ricerchiamo un po’ tutti il tempo perduto.”] Sul momento, avevo anche immaginato di tornare alla galleria d’arte e allungare il brodo. Mi capita spesso di girare materiale in più e poi scartarlo quando mi accorgo che andava bene com’era all’inizio, che la brevità di una scena aggiunta la rende più azzeccata; il fatto che un’idea sia buona non sempre ti per­ mette di ricamarci sopra. A volte si può, a volte no. EL: Cosa hai imparato da questo film? WA: Credo che mi sarà senz’altro d’aiuto per il prossimo. Questo è un film molto difficile da realizzare come si deve, a causa delle precise esigenze che pone. Quando giri una comme­ dia, basta organizzare una proiezione privata, verificare cosa fa ridere e cosa no, e risolvere i problemi. La commedia è meno vincolante, anche perché non si rivolge a un pubblico troppo sofisticato. Un’altra donna, inoltre, essendo un’opera originale non concede nemmeno il benefìcio dell’esperienza che si ha, per esempio, nelle trasposizioni cinematografiche di testi teatra­ li, dei quali si conoscono già i punti critici o problematici. Una storia drammatica, a differenza della commedia, deve essere priva di pecche... se noti dei piccoli difetti in questo genere di film, è la fine. Più la commedia è facile, invece, più ampia è la tolleranza dell’errore. Nel Dittatore dello stato libero di Bananas mi sarebbe stato perdonato anche un omicidio cinematografico, meno in Hannah e le sue sorelle, ancora meno in questo che è il mio film più impegnativo: un dramma molto intenso che coin­ volge persone reali e affronta problemi da adulti. Il rischio di errori di scrittura è altissimo, scrivere buoni drammi non è affat­ to facile. Almeno per me. Poi, una volta scritto un buon dramma, devi trovare gli attori in grado di recitarlo fluidamente: non possono permettersi nemmeno un momento poco credibile. Le loro caratteristiche 406

personali sono molto, molto importanti. Devi essere più speci­ fico rispetto alla commedia. Ogni più piccola sfumatura dell’at­ tore acquista enorme rilevanza nel film. Una sottile vena di mal­ vagità piuttosto che di bontà diventa estremamente significativa per delineare il personaggio. EL: E possibile che i personaggi cambino durante le riprese oppure che, nonostante li abbia inventati tu, ti lascino perples­ so? WA: Ho la capacità di riconoscere un passo falso. Se c’è qual­ cosa che non va, me ne accorgo dai giornalieri. Poi, magari, non so esattamente come rimediare, però so che non va. Allora dico all’attore: “Affidati al tuo istinto.” Hannah era un personaggio che né io né Mia riuscivamo a mettere a fuoco. Non capivamo se era davvero una persona carina, amabile, il baluardo della famiglia, la spina dorsale che teneva insieme tutti gli altri, oppu­ re se in fondo covava un lato meno positivo. Nella sequenza ini­ ziale, quando a tavola il padre [Lloyd Nolan] annuncia: “Sapete, questa meravigliosa cena di Thanksgiving è opera... è tutta opera di Hannah,” lei avrebbe dovuto voltarsi e chiedere alla sorella: “Allora, vai a quell’audizione di canto?” Mia mi chiede­ va delucidazioni e io non riuscivo mai a dargliene. Sapevo dirle soltanto: “Dai, recita questa scena e vediamo come viene se la fai d’istinto. Al massimo provo a registrare qualcosa.” Ma in questo modo mi ritrovo spesso al buio.

EL: Quanto è facile, o difficile, dirigere te stesso? WA: Non ci vuole niente. Qualsiasi scena mi trovi a interpre­ tare - una scena a due o con più attori, se sono seduto in una stanza o sto scappando - cerco di interpretarla in maniera autentica. E l’autenticità la senti sul momento, avverti subito se qualcuno è fuori registro. Anche se ci reciti, riesci a vederla, la 407

scena. Un’attrice entra e sbatte un libro sul tavolo; delle due l’una: o risulta fìnta o assolutamente credibile. Lo senti sul momento. È come stare su un palcoscenico davanti a un pubblico. Sai quando stai facendo ridere e quando sei sfasato. Non puoi non accorgertene. Questo non significa che dovresti essere sempre in grado di recitare alla perfezione, perché nell’interpretazione di una scena sei sempre soggetto ai limiti delle tue capacità attoriali. Poniamo che debba trasmette­ re la paura o il panico: non sarà una paura o un panico [ride] pregnante come quello di Marion Brando. Io, però, so se sto dando il meglio o il peggio.

EL: Hai la tendenza a usare spesso gli stessi attori, sia come protagonisti sia in ruoli minori, come Diane Keaton, o Mia [siamo cinque anni prima del loro divorzio] o, per esempio, Wallace Shawn. Credi che la confidenza e l’intimità nella vita aggiungano qualcosa alla resa cinematografica? WA: Sì. Recitare con qualcuno che conosco bene mi rende più rilassato e fiducioso. Penso anche che ci sia un affiatamento, una chimica particolare tra me e Diane, così come c’è con Mia o con Tony Roberts. Se devo interpretare un film con loro, con Dianne Wiest o con Judy Davis, da attore mi sento come un pulcino nella bambagia. La sensazione è che, se hanno già reci­ tato con me e sono disposti a rifarlo, tutto sommato l’esperien­ za non dev’essere stata troppo traumatica.

Primavera 2005 Siamo nella sala proiezioni del Manhattan Film Center, che non è cambiata nel corso degli anni. Le pareti e le poltrone imbottite sono ancora rivestite di velours verde avocado; il divanetto di Woody, sotto la finestra di proiezione, è ancora coperto di stoffa 408

beige con un leggero motivo nero, malgrado sia stato rifoderato. L‘eclettica ed esaustiva raccolta di dischi degli anni trenta e qua­ ranta è sistemata dentro una serie di cassetti aperti disposti lungo la parete. In un angolo, alcune casse piene di rimasugli del suo ultimo film. Ci sediamo, come sempre, uno di fronte all’altro su due poltrone vicino alla raccolta di dischi. Nemmeno Woody è cambiato, almeno in modo percettibile. I vestiti sono gli stessi... pantaloni di velluto, sobri scarponcini, un maglione di cachemire molto vissuto. Prossimamente compirà settantanni. Si sta preparando a partire per l’Inghilterra, dove realizzerà Scoop. Match Point, girato lì nell’estate del 2004, sarà presenta­ to a Cannes tra un paio di settimane. Woody, insolitamente sod­ disfatto del film, si sottoporrà addirittura volentieri a un fuoco di fila di interviste. Una frase che ripete spesso parlando del film è: "Siamo stati fortunati”. EL: È stata davvero soltanto fortuna?

WA: Sì, solo fortuna. Attori perfetti per i ruoli. Di alcuni di questi non avevo mai sentito parlare e si sono dimostrati favolo­ si. Se ci serviva un giorno di sole, c’era un giorno di sole. Se ci serviva una giornata grigia, veniva una giornata grigia. Tutto ciò di cui abbiamo avuto bisogno per le riprese ha funzionato. Se avevamo bisogno di una location, la trovavamo. È stato un film senza ansie. EL: Ti servirai dello stesso gruppo di lavoro per il prossimo film?

WA: Ci saranno molte delle stesse persone. A eccezione di un paio, perché avevano già preso impegni in altri paesi.

EL: Ogni decisione su un film - location, casting, montaggio e così via - alla fine ricade su di te. 409

WA: Sì, dovrebbe. Ma non è troppo impegnativo. Scrivi una sceneggiatura e sai già che storia vuoi raccontare, visto che è tua. Allora vai un po’ in giro e scegli le location che ti sembra­ no migliori per raccontare quella storia, scritturi gli attori più adatti. Basta affidarsi al buon senso. È ovvio che la tale location funzionerà e l’altra no, o che questa attrice è troppo mielosa per un determinato ruolo.

EL: Hitchcock, notoriamente, preparava uno storyboard per i suoi film. Lo fa anche Scorsese. Io non ti ho mai visto con uno storyboard. Lo usi? WA: No. Non sono tanto scrupoloso. Quando lo dico, vengo preso per un burlone, ma è la verità. Sono un regista molto pigro. Quando lavoravo per Paul Mazursky, recitando in Storie di amore e infedeltà [1990], lo vedevo così meticoloso, prepara­ to, conosceva tutte le riprese prima ancora di cominciare la pro­ duzione. Hitchcock usava lo storyboard, Jerry Lewis usa lo sto­ ryboard, forse anche Marty, non lo so. Io arrivo sul set e... prendiamo Mariti e mogli, con Carlo Di Palma che, lassista come me, era la classica cattiva compagnia. Dunque, vedo che bisogna girare la scena in cui Sydney Pollack dice a Judy Davis che vuole divorziare. Ci guardiamo attorno, vediamo che adesso il sole è da questa parte e allora stabiliamo di girare in una certa direzione. Poi io dico: “Capperi, se solo ci fosse una grossa urna da quella parte” [ride] e Santo [Loquasto, il suo scenografo] mi fa: “Ma perché non me lo hai detto?” E io: “Perché non lo sapevo, ci ho pensato soltanto adesso.” E lui: “Lasciami vedere se posso fare qualcosa.” Io non pianifico mai niente. Non obbligo gli attori a provare le scene, non ricorro al post-sync [riregistrare i dialoghi e poi abbinarli al movimento delle labbra sullo schermo]. Non faccio molte coperture, come ti dicevo. Questo metodo viene spesso addebitato al mio stile, ma in realtà è lo stile dei pigri. Un regi­ 410

sta scrupoloso si presenta sul set e, come sai, gira il dialogo, la ripresa a due, le singole, i controcampi. Io no. Io giro la ripresa a due e passo alla successiva. Rarissimamente, poco prima di liberare il set, mi capita di fare una richiesta del tipo: “Dammi un’inquadratura veloce di quel posacenere, nel caso dovessi ricucire due ciak della stessa scena.” Ma non mi succede quasi mai. Mentre giravo Mariti e mogli, Doug McGrath [suo collabora­ tore in Pallottole su Broadway] mi chiese come mai girassi in quel modo. Essendo più giovane, cercava di approfittare della mia esperienza, di carpire qualsiasi presunto segreto scoperto in anni e anni di regia. Credo che lo delusi - certamente lo lasciai interdetto - rispondendo: “Perché sono pigro.” Volevo realizza­ re un film riducendo al minimo i tempi di attesa. Avevamo una camera a mano e usammo quella. Davo lo stop quando volevo dare lo stop e mettevo assieme i pezzi come capitava, senza pre­ occupazioni di ordine estetico. Lo realizzai senza alcuna consi­ derazione per il manuale del buon regista. Lo feci velocemente, senza sforzo e senza accuratezza. La mia priorità era tornare a casa presto per esercitarmi con il mio strumento, guardare i Knicks, mangiare. Ecco perché credo di essere stato assolutamente corretto quando ho ripetuto, nel corso degli anni, che l’unico ostacolo che divide me dalla grandezza sono io. Mi sono state offerte più occasioni di chiunque altro. Sono ormai trentacinque anni che mi vengono concesse le risorse e la libertà di realizzare qualsia­ si film abbia in mente: un musical? Ok. Un giallo? Ottimo. Un film drammatico? Ma certo. Un altro film drammatico nono­ stante il primo sia stato un flop? Prego, si accomodi. Quello che vuole. Non ho scuse o giustificazioni se non ho fatto grandi film. Non avevo nessuno alle costole che mi imponesse di affrontare questo o quest’altro soggetto, o che pretendesse di visionare la mia sceneggiatura, che mi vietasse di scritturare un certo attore 411

o che volesse vedere i miei giornalieri o il mio montato. Nulla. Ho carta bianca da trentacinque anni e non ho mai girato un grande film. Si vede che proprio non è nelle mie corde, mi manca la profondità di sguardo necessaria. Io non sono uno che dice a se stesso: “ Voglio fare un grande film, costi quel che costi; se necessario lavorerò anche di notte e mi spingerò fino ai con­ fini della terra.” Non è da me. Non avrei nulla in contrario a fare un grande film, a patto che non interferisca con la mia pre­ notazione al ristorante. Non voglio viaggiare. Non voglio lavorare fino a tardi. Voglio tornare a casa in tempo per mangiare, suonare il mio clarinetto, guardare la partita, adesso anche stare un po’ con le mie bam­ bine. Cerco di realizzare il miglior film date le circostanze. A volte ho fortuna e il film viene fuori bene. Altre volte non ho fortuna e viene fuori una schifezza. Ma di certo sono stato... non direi irresponsabile, ma pigro.

EL: Una volta mi hai detto che, mentre scrivi, senti le voci dei personaggi, ma poi la prima parola pronunciata sul set stravol­ ge completamente il film ai tuoi occhi perché la voce non è quel­ la che sentivi nella tua testa.

WA: Sì. Nella maggior parte dei casi, man mano che il film procede si discosta sempre più dall’originale. Uno dei vantaggi di lavorare in Inghilterra [ride] è che le voci britanniche hanno un suono molto più bello. Come ho detto molte volte, quando non devo affrontare il banco di prova della realtà, quando sono a casa a scrivere posso immaginarmi un’accesa discussione tra George C. Scott e Paul Newman sul bordo di un pontile. Poi passo alla realizzazione del film, trovo buoni attori ma le voci non assomigliano a quelle di Newman e Scott, e il molo non è lo stesso che mi ero immaginato... lui non può tuffarsi perché [ride] si spezzerebbe l’osso del collo, e allora deve correre fino all’estremità del molo e inventarsi qualcos’altro. 412

Tutto è in continua evoluzione o, più di frequente, involuzio­ ne... è quello il problema. Novanta volte su cento, ciò che hai concepito è più bello di ciò che realizzi. Una volta ogni tanto può capitare di strappare una risata con un elemento a sorpre­ sa, qualcosa di cui non sospettavi il contenuto comico, ma molto più spesso capita il contrario: non fai ridere con una gag che ritenevi esilarante. Sei sempre nella condizione di dover scommettere contro il banco. EL: Succede in ogni film? WA: Quasi tutti. Uno dei pochi in cui non mi è capitato è Match Point. Sembrava, anzi, che lo migliorassi man mano che lo mettevo in piedi. Tennessee Williams scrive Un tram che si chiama desiderio e lo affida a Kazan, il quale lo mette in piedi insieme a Marion Brando e lo migliora, lo rende una meraviglia [ride]. Io non faccio così. Ho un approccio diverso. Io scrivo il testo, immagino [ride] che sarà un buon testo e scopro che, all’atto pratico, non è poi un granché. Quando passo alla realizzazione, pigrizia ed errori sono una combinazione letale, che finisce per affossare un materiale che, in linea teorica, avrebbero potuto funzionare. E pensare che ti pagano perché la cosa funzioni. È come il battitore che si fa eli­ minare con le basi piene. Una grossa delusione.

EL: E vale anche per gli artisti? WA: Sì. L’artista ha sempre il fucile puntato contro. All’inizio non ti capaciti, la tua reazione è: “Ehi, ho semplicemente cerca­ to di fare un film. Forse ho fallito, forse non è bellissimo, ma perché mi detestate tanto?” Ma in fondo la verità è che te la meriti, quell’infamia. Quando guardo i film degli altri, sono cri­ tico anch’io. Bisogna farsene una ragione: proponi un film, una pièce teatrale, un libro, un’opera qualsiasi e, se non riscuote 413

successo o a qualcuno non piace, ti massacreranno e non hai il diritto di aspettarti nient’altro se non essere oggetto di disprez­ zo. Del resto, sei pagato per battere dei fuori campo, non per cercare di batterli. Ogni tanto sento parlare di “fallimento onorevole”. Stronzate. È come una squadra di basket che perde di un punto... sconfìt­ ta onorevole che però non muove la classifica. [Fa una smorfia, poi un ampio sorriso.} Non è che per caso sto annegando nelle metafore sportive? EL: Ti offro un argomento nuovo. Con il senno di poi, credi che alcuni progetti siano destinati al fallimento fin dall’inizio, a prescindere da quanto si può rimaneggiare il copione o rigirare alcune scene? WA: Ci sono progetti la cui sorte è segnata fin dall’inizio, sì. Sono spacciati già sulla carta. Certe volte ti viene un’idea per un film e, anche se non te ne accorgi, sei morto e sepolto fin da subito, o perché hai fatto male i tuoi calcoli o perché sei partito da presupposti sbagliati... mai e poi mai il pubblico si lascerà convincere. Semplicemente, gli spettatori non ti seguono su quel determinato terreno. Tra parentesi, di tutti i film che ho realizzato, la mia più gran­ de sorpresa personale è che Hollywood Ending non sia stata ritenuta una commedia straordinaria, di prima categoria. [La storia di un regista cinematografico, interpretato da Woody, che, di fronte alla prospettiva di tornare agli onori di un tempo, si ritrova improvvisamente cieco per l’ansia.] Le resistenze che ha incontrato mi lasciano di stucco. La ritenevo un’idea molto, molto divertente, penso di averla realizzata ottimamente, che il mio personaggio faccia ridere e che quella Tèa [Leoni, nei panni della sua ex moglie e attuale dirigente della casa di produzione che finanzia ilfilm} sia strepitosa. Un’idea semplice e divertente che avrebbe dovuto funzionare, che sarebbe stata adatta a Charlie 414

Chaplin o Buster Keaton, Jack Lemmon, Walter Matthau. Non credo nemmeno di averla affossata in qualche modo strada facendo... con la recitazione, nel girarla, con i dialoghi o le situa­ zioni. Nella prima proiezione privata lo mostrai a due o tre sceneg­ giatori che mi dissero: “È favoloso. Uno dei film più divertenti che tu abbia mai fatto.” Invece le reazioni successive furono di tutt’altro tenore. Una sorpresa assoluta, per me. Ripeto, non che mi importasse dal punto di vista economico; era stato un film poco costoso e a livello mondiale ha fatto il suo dovere, forse generando anche un piccolo profitto. È stata per me la più gros­ sa sorpresa tra tutti i film che ho girato, proprio perché, in gene­ re, non amo i miei prodotti finiti, mentre questo mi era proprio piaciuto. Credo che il parere sia condiviso da pochi, ma io col­ locherei Hollywood Ending tra le mie commedie più riuscite.

EL: Sei mai stato invece sorpreso del contrario, ossia del suc­ cesso di pubblico ottenuto da un tuo film di cui non avevi gran­ de considerazione? WA: Certo. Gli spettatori si affezionarono moltissimo a Manhattan, con un entusiasmo che personalmente [ride] ritene­ vo irrazionale. Anche Io e Annie è un film venerato. Non frain­ tendermi, è bello, ma ho realizzato film migliori. Forse aveva un calore, un’emozione particolare che ha fatto scattare qualcosa nel pubblico.

EL: Ormai sei nel mondo del cinema da molto tempo. Come è cambiato il panorama? WA: Be’, sono cresciuto andando al cinema, con la passione per i film. Quella di oggi non si può definire una cultura cine­ matografica. Non c’è l’attesa palpabile per il prossimo Truffaut, o per il prossimo Bergman. E un fenomeno che non esiste più. 415

Non ci sono nuovi film di Fellini. I soggetti che governano il set­ tore, per la maggior parte, sono piuttosto tristi. Ogni tanto ven­ gono fuori degli ottimi registi, ma devono lottare, fare molta fatica. Manca l’atmosfera dei cinema d’essai pieni, quando si continuava a parlare del film per tutto il giorno successivo. Quasi tutti i miei idoli di gioventù se ne sono andati. Truffaut se n’è andato. Bergman [morto nel 2007] c’è ancora ma è anziano. Bunuel è morto, Kurosawa è morto, Fellini è morto, De Sica è morto. Ricordo il periodo in cui ambivi a proporre un film in grado di ottenere la loro approvazione, per diventare uno di loro. Era quello il sogno. Stesso discorso nel teatro. Arthur Miller non c’è più, Tennessee Williams non c’è più, tutto quel fenomeno teatrale non c’è più. Ho attraversato anche la fase in cui ambivo a lavo­ rare nel teatro ed essere uno di quei drammaturghi, ma ormai non esiste più un panorama di cui far parte. Se sei un bravo autore teatrale ti muovi in altri ambiti, in altri contesti. I bravi autori li trovi in qualche teatro Off-Broadway; se poi sono for­ tunati e lo spettacolo è un successo, allora lo portano a Broadway. E non è che il giorno dopo ne parli tutta la città, o diventi qualcosa da vedere assolutamente, che interessa, che incide sulle persone. Ed è così anche nel cinema. Le nuove generazioni non hanno una grande conoscenza cine­ matografica, non sono molto acculturati in questo senso, non hanno familiarità con i classici, sono cambiati i canoni stessi che definiscono un buon film. Non sto dando un giudizio di valore, dico solo che sono diversi dai miei. I film che piacciono alle nuove generazioni non mi interessano. Non escludo a priori che escano un paio di buoni film ogni anno, anzi, ci sono... ma, capi­ sci, si producono centinaia di film, è giocoforza che nel caldero­ ne ci scappino un paio di buoni film americani, in genere di film-maker indipendenti, anche se il più delle volte sono i film europei o del resto del mondo - oggi potrebbero essere irania­ ni, cinesi o messicani - a suscitare interesse. E ti rendi conto di 416

essere l’unico che va a vederli. Chiamo la Keaton a Los Angeles e le chiedo: “Hai visto il tal film?” E lei mi risponde che lì non è nemmeno uscito nelle sale oppure che non ha idea di dove lo diano. EL: Tu possiedi una sala proiezioni. Ma vai al cinema ogni tanto, per far parte del pubblico e vivere l’esperienza di un film insieme ad altri spettatori?

WA: Non vado molto al cinema, adesso. Era una delle gioie della vita, mi piaceva tutto il rituale. Guardare le belle donne, i loro accompagnatori, ascoltare i discorsi, sentire l’attesa che montava, e infine il film. Dopo, se ti era piaciuto da morire, non vedevi l’ora di tornare a casa e dirlo agli amici. Quel fenomeno però non esiste più, oggi la dinamica sociale è completamente diversa. La gente noleggia i video, vive il cinema in un altro modo. Non mi interessa più di tanto.

EL: Una volta mi hai detto che molti tuoi appassionati consi­ derano Broadway Danny Rose il loro film preferito tra tutti quel­ li che hai girato. Quali sono invece i tuoi preferiti? WA: Mi piace Match Point, e anche La rosa purpurea. [Si inter­ rompe.] Mariti e mogli. [Più cauto.] Se passassi in rassegna tutti i miei film - se li guardassi, per la verità - può darsi che avrei una reazione del tipo: “Ma cos’è che mi piaceva tanto?” Per quanto non ci creda molto, potrei addirittura ricavare una buona impressione da un film che all’epoca non mi piaceva. È difficile, però, immaginare una cosa del genere. Non lo dico per sminuirmi, è semplicemente diffìcile immaginare di guardare un film che non mi piaceva allora e dire, dopo venticinque anni: “Ehi, non è poi male come pensavo.” È concepibile, ma credo che possa succedere più facilmente il contrario, ecco perché preferisco non riguardarli. 417

Mi piacciono ancora Stardust Memories - anche se è sceso di una tacca - e Zelig [lunga pausa].

EL: Che opinione hai di Prendi i soldi e scappa, considerato che... che è stato il tuo primo film?

WA: Non saprei, non guardo Prendi i soldi e scappa da moltis­ simo tempo, ma non riesco a immaginare che potrebbe essere tra i miei preferiti. Misterioso omicidio a Manhattan è un film che mi piace molto. Non sono un giudice completamente affi­ dabile ma, di getto, direi che Match Point è riuscito, che Mariti e mogli è riuscito, che La rosa purpurea è riuscito. Anche Pallottole su Broadway. Non c’è alcuna correlazione tra il mio gusto e quello del pubblico. Questo vale per i miei film e per quelli degli altri, anche per i classici. Non sto a dirti quanto siano particolari i miei gusti personali perché [ride] conferme­ rei quanto di peggio la gente pensa sul mio conto. EL: Provaci. WA: Non voglio ferire la sensibilità di nessuno ma [pausa] te ne do solo un assaggio, un piccolo assaggio, non chiedermi di più.

EL: D’accordo. WA: Mentre Aljean Harmetz stava scrivendo il suo libro su Casablanca, mi chiamò per via di Provaci ancora, Sam. E io le dissi: “Sono la persona meno adatta da intervistare perché non sono mai riuscito a guardare quel film fino alla fine. Davvero, non l’ho mai visto tutto. Non ha mai catturato il mio interesse abbastanza da farmi arrivare alla fine.” Ora, chi legge questa dichiarazione penserà: “Ma chi si crede di essere questo coglione? Capirai, con tutti i film di merda che 418

fa, non riesce a guardare fino alla fine un film che è assolutamente superiore a tutta la sua produzione.” Non mi metterei nemmeno a contestare una reazione simile, io esprimo semplicemente la mia opinione. Ho molte opinioni che ti sorprenderebbero e mi farebbero sembrare ancora più stupido. EL: Sentiamo i tuoi gusti rispetto alle opere di cui parli spes­ so, sulle quali tomi abitualmente. So che ti piace Un tram che si chiama desiderio, ma puoi farmi qualche altro esempio dei tuoi gusti personalissimi?

WA: Be’, se facessi un elenco dei dieci migliori film di tutti i tempi, a eccezione di Quarto potere non ci sarebbe nessun film americano. EL: E cosa ci sarebbe?

WA: La grande illusione, Ladri di biciclette, Rashomon, Il set­ timo sigillo, Il posto delle fragole, 1 quattrocento colpi e La rego­ la del gioco... ma dovrei scriverli. Per darti un’idea di quanto sia personale il mio gusto, ti dico solo che uno dei film americani che preferisco è La collina del disonore.

EL: Con Sean Connery e Ossie Davis [1965, Sidney Lumet}. WA: Non lo ha visto nessuno. Vengono osannati molti, molti film di livello inferiore. Un giorno ti parlerò di tutti i film e di tutte le star passate alla storia del cinema e che a me personal­ mente non hanno mai detto nulla, pur non avendo mai negato che tutti questi registi, sceneggiatori, attori [ride] abbiano fatto cose migliori delle mie. Non è una questione di sentirsi superio­ re alla tal persona o alla tal altra. Affatto. Dico semplicemente che se una sera fossi a casa e volessi guardarmi un film, alcune pellicole ritenute epocali mi farebbero addormentare. 419

[Breve digressione: Uno o due mesi dopo, Woody mi invia quel­ lo che lui chiama “l’elenco da insonnia” dei suoi film preferiti, con la seguente nota:

Quando mi sveglio durante la notte, per alleviare il mio pani­ co esistenziale compilo elenchi mentali. Mi aiuta in qualche modo a riprendere sonno. Quasi sempre sono elenchi di film... aggiungo e depenno titoli, faccio sostituzioni. I miei gusti mi sembrano scontati, tranne nel genere della talking plot comedy, nel quale non mi va mai bene niente, men che meno i miei film. Quindici tra i miei film americani preferiti, in ordine sparso

Il tesoro della Sierra Madre La fiamma del peccato Il cavaliere della valle solitaria Orizzonti di gloria Il padrino - Parte II Quei bravi ragazzi Quarto potere La furia umana

Il traditore La collina del disonore Il terzo uomo (inglese) Notorius - L’amante perduta Lombra del dubbio Un tram che si chiama desiderio Il mistero del falco

Quindici tra i miei film “non americani” preferiti

Il settimo sigillo Rashomon Ladri di biciclette La grande illusione La regola del gioco Il posto delle fragole 8'/2 Amarcord

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Il trono di sangue Sussurri e grida La strada I quattrocento colpi Fino all’ultimo respiro I sette samurai Sciuscià

(NB: Se prendessimo Quarto potere dall’elenco in alto e lo mettessimo nel secondo, otterremmo l’elenco dei miei film pre­ feriti di tutti i tempi.)

La lista delle commedie del muto è occupata interamente da Buster Keaton e Charlie Chaplin.

Volendo stilare un elenco di musical, me ne piacciono molti: mentre mi corico nella notte buia e spietata i migliori mi sem­ brano essere: Cantando sotto la pioggia Incontriamoci a Saint Louis Gigi

Questi stanno in una categoria a parte come musical cinema­ tografici americani. Staccati di un’incollatura abbiamo: My Fair Lady Spettacolo di varietà Un giorno a New York Oliver! Le commedie le divido in due categorie: film di comici, che pos­ sono essere tremendi, fatta salva la prova del protagonista, e com­ medie cinematografiche a intreccio. Tra i film di comici, o film più facili e stupidi che però mi fanno sempre ridere metterei:

La guerra lampo dei fratelli Marx Monkey Business Horse Feathers Una notte all’opera Un giorno alle corse Monsieur Beaucaire

You Can’t Cheat an Honest Man Never Give a Sucker an Even Break La grande notte di Casanova L’aereo più pazzo del mondo 421

Delle talking plot comedies esito a compilare un elenco per via dei miei gusti eccentrici. Diverse commedie che amo mi farebbero sembrare sciocco, anzi più sciocco, agli occhi del mondo. Inoltre, c’è tutta una serie di commedie passate alla storia che non mi hanno mai fatto né mai mi faranno ridere, ma non voglio ferire i sentimenti di chi si è fatto in quattro per realizzarle o magari dei loro discendenti. Posso solo dire che il mio elenco vede sempre e comunque al primo posto Lo sceicco bianco. Quando penso alle commedie americane, la mia convinzione è che non ne esistano di migliori rispetto a Nata ieri e Mancia competente. Anche Scrivimi fermo posta è un gran bel film (e la gente sgrana gli occhi quando affermo che, secondo me, Nata ieri è la migliore commedia teatrale americana di tutti i tempi, ma questo è il mio pensiero. Seconda, di poco, Prima pagina). Dopo le quattro citate, il mio elenco da insonnia diventa rischioso da divulgare visto che, a fronte di alcune scelte prevedibili, ve ne comparirebbe­ ro molte di estremamente personali. L’elenco, tra l’altro, non comprende mai le mie commedie, non perché mi tenga fuori dalla competizione, ma perché non è ancora un elenco defini­ tivo.

Fine della breve digressione.] EL: Ricordo che trent’anni fa, quando eri a Los Angeles per girare Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso o forse una parte del Dormiglione, affittasti la sala di proiezioni del Beverly Hills Hotel per mostrarci Monsieur Beaucaire e La mia brunetta preferita, e credo La grande notte di Casanova. Li facesti vedere a Diane Keaton, tra gli altri, e ricordo il tuo sommo piacere nel condividere questi film di Bob Hope con noi quattro o cinque, per alcuni dei quali era, tra l’altro, la prima visione.

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WA: Monsieur Beaucaire fa molto ridere. Quando accendi la TV e vedi un vecchio film con Bob Hope, ci sono sempre dei brutti momenti, momenti datati, ma non bisogna fermarsi a quello. Bisogna guardare i momenti buoni nei film migliori. Qualcuno eccepirà: “Ma cosa ci trovi in Bob Hope? Cosa c’è di divertente nel vedere due o tre tizi su un’isola che fanno amici­ zia con un gorilla?” Certo, quello è uno dei momenti stupidi, non un momento comico, ma ci sono frasi, lunghi momenti, lunghe scene nella Grande notte di Casanova, in Monsieur Beaucaire, in diversi tra i film di Hope, che sono meravigliosi e in cui la sua bravura viene esaltata. Magari il film va in vacca, lui quasi mai. Si pensa sempre ai film della serie “Road to...” [The Road to Singapore (La danzatrice di Singapore), The Road to Morocco (Avventura al Marocco), The Road to Rio (Avventura in Brasile) e altri con Bing Crosby risalenti agli anni tra il 1940 e il 1952] ma quelli, pur avendo qualche momento carino, non sono i suoi film migliori. Quando Hope divenne una star grande quanto o forse più di Crosby, diede vita a momenti straordinari nel Pirata e la princi­ pessa, o in questi altri film che ho citato, momenti in Road to Bali [La principessa di Bali] e 11 grande amante... a volte era solo un minuto, altre volte cinque, altre volte ancora una lunga scena.

EL: Una delle mie scene preferite è proprio all’inizio, quando sono sul cammello e cantano: “We’re off on the road to Morocco.” WA: Be’, la musica in quei film era sempre straordinaria. Erano attori dal grandissimo talento musicale. Se vedi ballare Bob Hope o Jerry Lewis resti senza parole. Una volta vidi Jerry Lewis fare un’imitazione di Fred Astaire. Strabiliante. Quando voleva, era un grandissimo ballerino. Loro venivano dal Vaudeville. Anche lo stesso Groucho. 423

EL: Tu affermi che, quando reciti, sei trasportato nella scena. In quel momento il regista che è in te è vigile? Oppure capisce solo a posteriori se la scena ha funzionato o meno? WA: Sei alle prese con una storia di cui stai girando una por­ zione, non in sequenza. L’obiettivo immediato è fare in modo che le pagine di copione che giri quel giorno siano girate bene. Pensi soltanto a fare bene quella piccola cosa e metterla in casci­ na, per poi tornarci sopra solo quando sarà il momento di assemblare il film. Avendo pianificato la ripresa io stesso, non ho bisogno di osservarla dall’esterno: conosco la disposizione di ogni elemen­ to e dunque so che la ripresa funziona, dal punto di vista dei movimenti. So che non sarà quello il problema. Si tratta solo di capire se funziona anche la recitazione. Come ti dicevo, non faccio molti ciak perché [ride] mi annoio presto. Se però avessi dato venti ciak di una determinata scena saprei, prima di entrare in sala montaggio, che il sesto e il diciot­ tesimo erano molto buoni. È molto raro che mi sbagli su questo.

EL: E sei ben consapevole anche della tua interpretazione? WA: Assolutamente.

EL: Quando un attore fa fatica con un dialogo, o con una scena, e al quinto o sesto ciak continua a non imbroccarla, ti capita mai di dire: “Stampiamo questa,” pur sapendo che non la userai, solo per dargli il sollievo di sapere che almeno avete portato a casa un ciak?

WA: No, dico: “Ok, quella era ottima. Quella era una buona” ma, una volta ottenuta la scena, dico alla segretaria di produzio­ ne di non stamparla. Ho l’abitudine fastidiosa - per gli attori di interromperli a metà di una scena. Quando la stanno sba424

gliando non ho la pazienza per arrivare fino alla fine. A che serve? “Siamo già morti e sepolti adesso,” mi dico. In certi casi però, dopo averli interrotti due, tre, quattro volte, mi do ima regolata e li lascio andare dall’inizio alla fine, anche se la scena è tremenda. EL Ricordo la volta in cui un’attrice proprio non riusciva a entrare nella scena e doveste rigirarla un altro giorno. In quel momento sembrava proprio che non ci fosse modo di aiutarla. WA: [Sarcastico! Ah, non da parte mia, sicuramente. Ho spes­ so sentito parlare di registi che riescono a ottenere interpreta­ zioni brillanti da attori che brillanti non lo sono mai stati, o dai bambini. Io non ce la faccio. Non sono uno di quei registi che riesce a ottenere una grande interpretazione da un attore che non l’abbia già nelle sue corde. Proprio non saprei da che parte iniziare. Ancora oggi lo trovo un mistero. Lavoro con l’attore e provo ogni stratagemma, arrivo persino a recitare io stesso le battute ad alta voce, in modo da fargli sentire come le voglio.

EL: Ti capita mai di prendere da parte un attore per cercare di aiutarlo nell’interpretazione di una scena?

WA: Sì, ci sono state delle volte in cui ho chiesto all’assistente alla regia di sgomberare il set e di lasciarmi da solo con l’attore per cercare di risolvere il problema in qualche modo. Io, però, preferisco la medicina preventiva... sai, il modo migliore per curare un cancro è non farselo venire. E il modo migliore per ottenere una buona interpretazione è scritturare un attore in grado di fornirtela.

EL: Gli attori ti dicono mai: “Preferirei fare delle prove, sederci attorno a un tavolo un paio di settimane per leggere le battute e raggiungere un affiatamento con il resto del cast”? 425

WA: No. Tieni presente che gli attori in genere sonò talmente insicuri e talmente felici di aver ottenuto la parte che hanno il timore di esprimere qualsiasi desiderio... mentre io ascolterei volentieri le loro richieste. [Sz interrompe e sorride.} Tranne quella delle prove. E comunque, malgrado non ce ne sia moti­ vo, molti di loro sono pieni di ansie e di paure, anche se il più delle volte accettano di buon grado di non fare prove. Negli anni ho sempre lavorato a modo mio e ho ottenuto interpreta­ zioni meravigliose dagli attori... “ottenuto” nel senso di “avuto”, non certo per mio merito. Gli attori arrivano, non pro­ vano, qualche volta hanno in mano soltanto le loro sides [Ze scene in cui saranno impegnati e non l’intero copione], salgono sul set [schiocca le dita], partono con la scena e sono semplicemente fantastici. A film finito, mi dicono che l’interpretazione li soddisfa pienamente, nessuno si è mai lamentato dei miei meto­ di prima, durante o dopo. Nessuno mi ha mai comunicato rim­ pianti del genere: “Se solo avessimo potuto provare di più...” Né ho mai avuto lagnanze da un attore che non aveva ricevuto il copione completo. Io spiego subito come lavoro e anche le star che hanno il ruolo garantito per contratto si trovano bene. Gran parte del lavoro nel mondo del cinema è spazzatura, a comincia­ re dalle molte, molte riunioni e il tempo infinito che ci vuole per avviare un progetto, i soldi buttati al vento e i capricci. Sai, basta il buon senso, rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Lo dimo­ strano ogni volta quei registi che girano ottime cose sopperendo con l’impegno alle ristrettezze di tempo e di denaro.

EL: Perché sei contrario alle prove?

WA: Per diversi motivi. Uno è che mi annoio. Un altro è che essenzialmente sono un comico e mi piace esibirmi solo quando è il momento. Quando recitavo in Provaci ancora, Sam, a Broadway, detesta­ vo le prove. Joe Hardy [il regista] ci faceva provare all’infinito. 426

Con il pubblico in sala, invece, le dinamiche cambiavano. L’elettricità cambiava. Ti esibisci per gli spettatori, vivi il momento insieme loro. Si sviluppa un’alchimia tutta diversa.

EL: A giudicare dalla veste stilistica, Mariti e mogli sembra un film in cui non è stato preparato alcun movimento di macchina e non sono stati provati, o addirittura nemmeno letti in prece­ denza, gran parte dei dialoghi. Ci recita Sydney Pollack. Come ti trovasti ad avere un regista nei panni di un personaggio principale (anche se è un regista che non ha mai disdegnato il ruolo di attore)?

WA: Fu un azzardo. Non potevo certo scritturarlo per una parte tanto importante senza fargli un’audizione, ma al tempo stesso mi tremavano le ginocchia pensando: “Mio Dio, un’audi­ zione a Sydney Pollack. E se non va bene? Mi tocca dirgli: ‘Sydney, non posso darti la parte?’” Non sapevo come regolar­ mi. Ovviamente, lui fu carinissimo e assolutamente comprensi­ vo: “Dimmelo, se non vado bene. Non c’è problema.” Mi tolse tutte le ansie. E ovviamente, appena cominciò a leggere le sue battute, si rivelò straordinario.

EL: Come in molti dei tuoi film, anche in Mariti e mogli ti servi di una voce narrante. Era prevista fin dall’inizio? WA: Sì, la voce narrante c’è sempre stata. Volevo dare alle vicende delle due coppie un taglio documentaristico, e allo stile documentaristico si accompagnano le interviste. [Jeffrey Kurland non è soltanto l'intervistatore, ma anche il costumista di questo e diversi altri film di Woody Allen.]

EL: Tu però usi la voce narrante anche in film dal taglio non documentaristico. Perché?

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WA: È una scelta che può avere due origini: o il ricordo dei tempi in cui facevo il monologhista o il mio desiderio di essere un romanziere. In ogni caso, mi sento molto vicino alla voce della persona che racconta la storia. So che Billy Wilder diceva la stessa cosa a proposito di se stesso. La usa nella fiamma del peccato e in Viale del tramonto. Io ho il medesimo atteggiamen­ to: rivolgersi al pubblico o parlargli con la voce dell’autore o del protagonista mi sembra un modo per raccogliere gli spettatori, radunarli attorno a sé e invitarli a vivere la vicenda insieme a lui... un lui che in genere, anche se non sempre, sono io.

EL: Vuoi dire qualcosa su Scoop rispetto agli obiettivi che ti eri posto o che avresti voluto raggiungere?

WA: No, l’unica critica che posso muovere a Scoop è proprio la mancanza di ambizione. Non credo di averlo rovinato. Credo che il film sia carino... che le battute facciano ridere, che gli attori recitino bene, che il pubblico si farà qualche risata e all’uscita dal cinema non vorrà cospargermi di pece e piume. Ma non è abbastanza ambizioso. Volevo girare una commedia e divertirmi, rendere Scarlett comica e dire qualche battuta io stesso, ma mi sono rilassato troppo e ne è venuta fuori una commediola, un dolcetto. Non vale più di questo.

Febbraio 2006 EL: Mi hai detto che quando offristi una collaborazione a Doug McGrath e gli sottoponesti alcune idee in alternativa, lui ti stupì scegliendo Pallottole su Broadway. [Vedi pag. 1631 WA: Sì, perché io ne avrei scelta un’altra.

EL: Preferivi la storia a sfondo politico, giusto? 428

WA: Era una storia politica, una satira che non lo colpì più di tanto. Invece gli piacque molto Pallottole su Broadway, così rea­ lizzammo quella e fu un progetto molto riuscito. Il punto di forza della storia è l’idea che il gangster - che è il vero talento creativo - uccida l’attricetta perché la sua recitazione sta rovi­ nando la commedia. Il film riscosse grande successo per diversi motivi. La fotogra­ fìa di Carlo era stupenda. Era anche un film d’epoca [anni venti del Novecento], e Carlo ci andava a nozze. Inoltre, potei conta­ re su un grandissimo cast. Tutti gli attori, come in Match Point, contribuiscono al successo del film. Dianne Wiest è favolosa come suo solito. EL: Da come me l’hai descritto, desti forse a lei più istruzioni che a qualsiasi altro attore in vita tua. WA: Perché non riusciva a capire come iniziare. Iniziò [ri interrompe] titubante. A volte succede, agli attori. Ricordo la scena di quel musical che girai [Tutti dicono I love you], quan­ do le tre ragazze [Natalie Portman, Gaby Hoffmann e Natasha Lyonne] sono nel negozio ed entra il belloccio. Dovetti sgolar­ mi a furia di: “No, dovete farla così” [mima una reazione vicina all'isteria]. A volte la recitazione può essere tentennante perché l'attore è insicuro oppure non riesce a credere che io la voglia tanto esagerata. Ho un istinto molto sviluppato per la plateali tà. Allora mi metto la mano sulla faccia [con un gesto molto pla­ teale] e voglio che vadano senza freni, davvero senza freni. Mi aspettavo dalle ragazze una recitazione simile, ma esitavano. Erano molto più miti, molto più inibite. Alla fine riuscii a far­ glielo fare, e sullo schermo risulta molto buffo. Fu così anche con Dianne Wiest in Pallottole su Broadway. Non dovetti darle alcuna istruzione, se non per quei primi ses­ santa secondi. Continuavo a dirle: “Devi farla davvero come Norma Desmond, davvero esagerata.” Nei primi due o tre ciak 429

penso che non fosse convinta che la volessi stupida come le facevo vedere; e invece era proprio così, perché interpretata da lei risulta fantastica. EL: La prima volta che me ne parlasti mi sembrò di capire che ci fosse dell’altro.

WA: Tutto ciò di importante che successe [ride un po'], suc­ cesse sul set, anche se lei me ne aveva parlato un paio di volte prima di cominciare le riprese. Mi disse: “Non sono tanto sicu­ ra. Come vedi questo personaggio? Credi davvero che possa farlo io?” Ma ripeto, Dianne è una di quelle attrici che mi ricorda certe mie compagne di scuola, quelle che ti dicevano [interpreta un’adolescente]-. “Oh, quel test sarà andato malissimo.” Io, inve­ ce, ero sempre quello che si vantava: “No, no, ho imbroccato tutte le risposte,” ma poi loro prendevano 100 e a me davano 55. Ecco, la Keaton era così, Mia era così e anche Dianne Wiest era così: dicono che non ce la fanno, non ce la fanno, non ce la fanno, e alla fine sono bravissime. [Dianne Wiest vinse l’Oscar come Miglior attrice non protagonista per il ruolo di Helen Sinclair, la diva di Broadway.]

EL: Anche Judy Davis rientra in questa categoria?

WA: Judy Davis è un caso a parte. Io e lei non abbiamo mai comunicato perché non ce n’era bisogno. Credo che in tutta la vita ci siamo scambiati solo un centinaio di parole, pur avendo girato tre o quattro film insieme [Alice, Mariti e mogli, Harry a pezzi, Celebrity]. Ora, sarà capitato di trovarci insieme in una location, in una casa, e avremo parlato a spizzichi e bocconi per sessanta secondi, ma non ho mai dovuto darle indicazioni di regia. Lei porta sul set tutta la sua bravura... è talmente favolo­ sa che mi mette in soggezione. 430

Judy Davis, Joe Mantegna e Kenneth Branagh in Celebrity. Negli anni novanta Judy Davis c comparsa in quattro film di Woody.

EL: Come mai?

WA: Esito a dirle qualcosa perché non voglio interferire nel suo lavoro, non voglio darle un’indicazione sbagliata, non voglio che si arrabbi con me, non voglio rompere le scatole a ridere], non voglio essere importuno. Sul set è ntagnifica, recita sempre in maniera magnifica. Il suo personag­ gio è sempre dieci volte migliore di come lo avevo scritto. Finita l.i scena, se ne torna nel suo camper e non la vedo più e non le parlo più finché non si ripresenta sul set la volta successiva. EL: Succede così per mutuo consenso? WA: Non possiamo dare un consenso perché non parliamo. I Ride | Credo che Judy sia contenta di non essere importunata dal regista e io [ride] sono terrorizzato a morte da lei. E inten­ sa |Si interrompe.] C’è un film che ha fatto con me in cui aveva una bimba piccola. Nei miei film ho avuto diverse attrici che dovevano accudire i figli appena nati. Credo che durante \< cordi e disaccordi Uma Thurman avesse una bimba piccola. 431

Leggendo il libro di Richard Schickel su Kazan, la migliore biografia di un protagonista del mondo dello spettacolo che abbia mai letto, ho scoperto che Kazan dirigeva in maniera molto diversa. Dedicava molto tempo alle attrici, ed era una volontà reciproca. Io adotto l’atteggiamento opposto. Ovviamente non credo che ci sia un metodo giusto e uno sba­ gliato. Io ottengo ottime interpretazioni dai miei attori parlan­ do raramente con loro o addirittura mai. Lui ottiene grandi interpretazioni passando un mucchio di tempo con i suoi attori. Sono abbastanza convinto che, se avessi lavorato con un Marion Brando, sarei stato assolutamente in soggezione e non gli avrei rivolto la parola. Kazan, invece, trascorreva un sacco di tempo con lui. Certo, se Brando avesse interpretato un personaggio con l’accento inglese e io non avessi voluto, glielo avrei detto... o se avesse commesso un errore madornale... come se arrivasse Judy Davis, o Dianne Wiest, e improvvisamente si mettesse a recitare con l’accento ungherese o balbettando. Ma se un atto­ re si limita a usare il buon senso dettato dal ruolo, io non gli dico mai niente.

Woody e Tracey Ullman in un lungo master shot di Criminali da strapazzo, sullo sfondo di un tramonto.

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EL: In Criminali da strapazzo c’è una ripresa complessa con te c Tracey Ullman sul tetto dell’edificio, con il sole al tramonto sullo sfondo. Ovviamente avrete avuto solo un paio di occasio­ ni per girarla. WA: Fu impegnativa perché avevo bisogno anzitutto di un campo lungo, un’inquadratura di ambientazione. Facemmo la ripresa larga e tutti come al solito iniziarono a strillare in preda al panico, come se stesse andando giù il Titanic. “Veloci, il sole va giù!” [Si mette a ridere.] “Sbrigatevi, portate qui la macchi­ na!" Davvero, cominci a vibrare come un diapason, hai tre minuti per farla, la fai, la rifai e ormai il sole è notevolmente più basso, poi guardi i giornalieri con la speranza di avere un ciak con abbastanza sole. Credo che ci sia un taglio di montaggio da qualche parte: quando usi un taglio, devi sbrigarti a spostare la macchina da presa e girare in modo da ottenere una coerenza di luce... in modo che il sole non si sia abbassato in maniera trop­ po evidente.

EL: Vi faceste prendere dall’agitazione dei preparativi? WA: Sì, sì, io specialmente. Vado in fibrillazione perché sono quello che ci rimette di più. Se non riusciamo a tirar fuori un ciak decente, dobbiamo tornare un’altra volta e qualcuno mi urlerà nelle orecchie perché stiamo spendendo troppo e allora mi tocca sacrificare qualche altro aspetto del film.

EL: Eri più nervoso come attore o come regista?

WA: Non come attore; come regista, come colui che è respon­ sabile del progetto. Non mi preoccupo mai della mia recitazio­ ne. Se sono in difficoltà, mi basta inventare qualche battuta. Non mi preoccupo mai dei miei dialoghi, non è mai quello il problema. 433

EL: Dedichiamo un minuto al tuo amore per la città di New York, per Manhattan in particolare. Mi ricordo - sono abba­ stanza sicuro che fosse durante le riprese di Crimini e misfatti che ti mettesti alla ricerca di immagini di repertorio della vec­ chia New York in modo da “dimostrare in maniera assolutamente di parte che la città, allora, era un posto migliore.” Nei tuoi film ce sempre un omaggio a New York, almeno in quelli girati qui... ossia quasi tutti, almeno prima di questi ultimi anni. Per esempio, in Hannah c’è la parte in cui Sam Waterston porta Carrie Fisher e Dianne Wiest a fare un tour delle bellezze archi­ tettoniche cittadine, mentre in Mariti e mogli Liam Neeson lo fa con Judy Davis e Mia Farrow. Nei tuoi film la città di New York è un vero e proprio personaggio. WA: Amo questa città, l’ho sempre amata, e ogni volta che ho l’occasione di rappresentarla in una veste accattivante lo faccio. In quella scena con Carrie Fisher e Dianne Wiest ebbi modo di mostrare le architetture in sé e per sé, nel musical [Tutti dicono I love you] feci vedere la città nelle quattro stagioni. Mi sono spesso sentito dire: “Noi non conosciamo la New York che rap­ presenti tu, conosciamo quella di Scorsese; riusciamo a com­ prendere la New York di Spike Lee...” Io mostro New York attraverso il filtro del mio cuore. Mi definiscono sempre un regista newyorchese che snobba Hollywood, che anzi la denigra. Nessuno si accorge che la New York che mostro è la New York che ho scoperto soltan­ to grazie ai film hollywoodiani con i quali sono cresciuto... attici, telefoni bianchi, strade suggestive, viste sul mare, pas­ seggiate in calesse in Central Park. La gente del posto mi chie­ de: “Ma dov’è questa New York?” Ecco, questa New York esi­ ste nei film hollywoodiani degli anni trenta e quaranta, la New York che Hollywood mostrava al mondo e che non è mai esi­ stita davvero, la stessa New York che io mostro al mondo per­ ché è quella di cui mi sono innamorato. Dopo avermi visto 434

Ike (Woody) e Tracy (Mariel Hemingway) su un calesse a Central Park in Manhattan

uscire da casa mia in Hannah e le sue sorelle - in una scena in cui si vedono dei bellissimi portoni bianchi e neri sulla Settantaduesima Strada Est - un amico mi chiese: “Ma dove sono questi posti? Dopo aver visto la New York dei tuoi film insie­ me ad appassionati belgi, francesi, italiani, sono arrivato in città con il desiderio di scoprire la New York che avevo impa­ rato ad amare nei tuoi film. E invece è più bella sulla pellicola di quanto sia in realtà.” La prima volta che decisi di rappresentare New York come personaggio di un film in maniera significativa, in Manhattan, girai in bianco e nero in omaggio alla maggior parte dei film con i quali ero cresciuto, film nei quali si vedevano i nightclub e il genere di strade di cui stiamo parlando; gli attori camminavano in Riverside Drive o in Park Avenue, oppure uscivano di casa impellicciati e salivano su un taxi. Sai, il posto in cui Jimmy Stewart attraversa il parco in quel film [Nata per danzare, 1936] cantando “Easy to Love” - il brano di Cole Porter - è esatta­ mente il luogo in cui ho collocato la scena con me e Mariel Hemingway sul calesse in Manhattan, perché era da lì che l’ave­ vo tratta. Da questo punto di vista, ritengo di non avere alcun 435

debito nei confronti della realtà, nei miei film. Sto creando un’opera di fantasia, ho una certa immagine della città ed è quella, che voglio trasmettere.

Parte sesta Il montaggio

Giugno 1972

Woody è nella saletta di montaggio ricavata al secondo piano del­ l'appartamento duplex che ospita l'ufficio dei suoi manager, Jack Rollins e Charles Joffe, sulla Cinquantasettesima Strada Ovest a Manhattan, nei pressi della Carnegie Hall. Circondato da scaffali contenenti oltre trecento bobine di film, è seduto insieme al suo montatore, Jim Heckert, occhio spietato e barretta di cioccolato in mano (una “bistecca di cacao”, come la chiama lui). Entrambi sono ingobbiti su una Moviola, una macchina per il montaggio cinema­ tografico dell'era pre-digitale provvista di un piccolo schermo. Stanno cercando di mettere insieme una prima approssimativa ste­ sura (venticinque minuti circa) di un episodio di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, che nella versione definitiva del film non durerà più di quindici minuti. Ci sono centinaia di metri di pellicola a disposizione. Poiché gran parte dei dialoghi sono improvvisati, ciascun ciak contiene battute leggermente diverse. Dopo un’ora, hanno montato appena un minuto di film. Se a uno dei due non piace quello che passa sullo schermo, l’altro in genere concorda. Gli chiedo se questa è la norma. "Negli otto mesi che sono stati necessari per montare Prendi i soldi e scappa e ora con questo, non abbiamo mai avuto un con­ trasto serio, giusto?” chiede Heckert. "Perché nessuno dei due sa quali parti fanno ridere, ” risponde Woody con lo sguardo fisso sulle immagini dello schermo, alla ricerca di punti comici. 439

Poi aggiunge con un sospiro: “Nella peggiore delle ipotesi lo tra­ sformeremo in una serie di sei frizzanti spot radiofonici.”

EL: Sei alle prese con un tipo di film diverso dai tuoi prece­ denti. In Prendi i soldi e scappa e II dittatore dello stato libero di Bananas, come nei film dei fratelli Marx e di Buster Keaton, o i corti di Charlie Chaplin, quello che conta è il contenuto comi­ co, le risate. Fotografia, trama, luci, eleganza, scelta dei set sono aspetti secondari. Ci si limita a piazzare la macchina da presa di fronte al comico lasciandogli carta bianca. WA: Subordinare tutto alla risata è il modo più sicuro per rea­ lizzare il mio genere di film. Se vuoi portare a casa la pelle, devi far ridere. Al pubblico non interessa che l’episodio sia stilisticamente accattivante, ma solo che funzioni. Nei miei primi film ho fatto ricorso a un’illuminazione chiara e uniforme e a riprese semplici, in Bananas la macchina da presa è intenzionalmente sempre fìssa. Questa è la prima volta che ho tentato di dare al film una veste gradevole senza sacrificare la sostanza comica. Non una veste raffinata come My Fair Lady, ma qualcosa che avesse un minimo di stile.

Estate 1973

“Sarebbe più divertente guardare un becchino che scava una fossa in un cimitero piuttosto che due tizi che montano una com­ media, ” dice Ralph Rosenblum, mentre lui e Woody montano II dormiglione a New York. Rosenblum, che ha al suo attivo venti­ cinque film tra cui L’uomo del banco dei pegni, L’incredibile Murray: l’uomo che disse di no, Il lungo viaggio verso la notte e Per favore non toccate le vecchiette, ha realizzato il montaggio definitivo di Prendi i soldi e scappa e poi del Dittatore dello stato libero di Bananas. Montatore sopraffino oltre che persona 440

pragmatica, sostiene che, nonostante tutto l’impegno che lui e Woody possono profondere nel montaggio del film, la fruizione del prodotto finito da parte del pubblico “sarà comunque affidata a un proiezionista italiano o ebreo tutto assorbito dalla lettura del suo Daily News quando il proprietario del cinema lo chiamerà all'interfono per dirgli: ‘Ehi, Eddie, vuoi mettere a fuoco?”’ La collaborazione con Rosenblum è frutto dell’insoddisfazione di Woody per la versione originaria di Prendi i soldi e scappa. Rosenblum gli suggerì di vivacizzare la colonna sonora; di usare alcu­ ni brani di una lunga intervista con i genitori dello scalcagnato ladruncolo Virgil Starkwell (Woody) - gran parte della quale era stata eliminata - come raccordo comico tra episodi posti poco fluida­ mente in sequenza; e di aggiungere altri stralci dell’intervista che il narratore Jackson Beck conduce con Virgil, in modo da dare ulterio­ re uniformità alfilm. (La voce narrante diventerà uno degli strumen­ ti preferiti di Woody. In Zelig, Radio Days e Mariti e mogli tra gli altri, costituisce il filo conduttore delle vicende.) Tuttavia, ci è volu­ ta un po’ di fortuna perché i due continuassero a lavorare insieme. “Incrocio Ralph per strada mentre stavo realizzando II dittatore dello stato libero di Bananas,” mi racconta Woody più tardi. “Mifa: ‘Non ci siamo più sentiti dopo Prendi i soldi e scappa. ’ E io: 'Be', ho pensato che ti fossi reso disponibile per dare un'aggiustata finale alle cose ma che in generale fossi impegnato. ’ E lui: 'No, affatto. ”' Mentre Woody lavora su un episodio, Rosenblum, un omone con occhiali spessi dalla montatura nera e barba curata sale e pepe, si occupa del successivo; poi l’uno mostra all’altro il proprio montato e di comune accordo vengono appartate le eventuali modifiche. [.“Woody è agli antipodi rispetto alla maggior parte dei registisceneggiatori, che oppongono sempre resistenza quando c’è da eli­ minare del materiale,” mi dirà Rosenblum quindici anni dopo. "Non ha il senso della proprietà in quanto autore. Era spietato quando bisognava tagliare qualcosa. Nel Dittatore dello stato libero di Bananas ero io che mi battevo per non asciugare troppo. Non era ancora pronto a gestire la quantità di pellicola che aveva 441

Woody con il montatore Ralph Rosenblum davanti a una macchina Steenbeck, nel 1977 circa, quando la tecnologia per il montaggio digitale era ancora di là da venire. Alle loro spalle pendono frammenti di pellicola delle scene sulle quali i due stanno lavorando.

girato. Non sapeva nulla delle sfumature del montaggio, cosa lasciare, cosa eliminare, cosa accorciare, cosa spostare. Dal punto di vista tecnico fu il film più difficile da montare. Aveva meno padronanza di ciò che voleva fare come film-maker. Essen­ zialmente, riprendeva degli sketch. Ed era meno sicuro di sé. Il mio compito non era quello di seguire una storia, visto che la trama era impalpabile, ma di cercare di conservare tutti i vari ele­ menti di quegli sketch esilaranti. Mi rodeva molto quando non riuscivo a farli funzionare a dovere. Ma ormai lui ha imparato, e oggi non ha più bisogno di uno come me. ”] La quantità di girato è enorme, circa 240 rulli ossia 40 ore. Da ridurre a una novantina di minuti. “Einput più importante che devo avere da Woody è sapere qual è la battuta o l’interpretazione di una certa scena che lui reputa 442

migliore, ” prosegue Rosenblum. “Non mi ricordo un ciak ripetuto che non abbia lui come protagonista.” In molti casi, tuttavia, il più riuscito è il primo ciak, quanto meno se la scena non ha subito modifiche. A volte invece, come nel finale del Dormiglione, gran parte della scena è stata riscritta c girata da capo, e funziona meglio dell'originale. "Quando però si tratta di slapstick, di qualcosa di fisico,” mi confida Woody un giorno dopo aver rigirato una scena, “ho sem­ pre la sensazione che il primo ciak sarà il migliore, come nel sollevamento pesi... il primo strappo è necessariamente il più energi­ to. Nello scontro alla fattoria delfuturo [Woody si accapiglia con il custode dell’orto ed entrambi scivolano e cadono ripetuta­ mente su una buccia di banana di due metri e mezzo] i primi due ciak erano andati molto bene. Dopo averli visionati, pensai: 'Ehi, non credevo di riuscire a interpretarla tanto bene. Ora la rifaccio e la rendo veramente perfetta.’ Invece nessuno dei ciak \uccessivi è altrettanto riuscito, nonostante avessi avuto la possi­ bilità di guardare i precedenti e sapessi dunque che facevano ride­ re. Non sono riuscito ad apportare alcun miglioramento.” Woody mostra diverse versioni del film ad amici o amici di amici e prende nota dei punti in cui gli spettatori continuano a non reagire. A malincuore, poi, la scena o la singola gag vengono eliminate, per quanto potessero essere valide prese singolarmente. I Ina scena tagliata, una sequenza onirica girata su una distesa di ude nel deserto del Mojave, era forse la migliore del film dal punto di vista visivo.

Novembre 1987

Siamo al Manhattan Film Center. Woody e Susan Morse, detta Sandy, la sua montatrice fin dai tempi di Manhattan (1979), stan­ no lavorando sulle scene 42 e 43 di Un’altra donna, collocate a circa un terzo dall’inizio delfilm. Lavorano conversando sommes443

samente, in modo ordinato. Tre assistenti al montaggio hanno il compito di rendere immediatamente disponibile qualsiasi porzio­ ne di girato sia necessaria. Woody è rilassato ma attentissimo. Guarda accuratamente ogni frame, prova con estrema meticolosi­ tà una variante dopo l'altra finché gli sembra che la scena non possa più essere migliorata. Come in anni precedenti della sua car­ riera, non è affatto indulgente nei confronti di battute o riprese, a prescindere da quanto gli piacciano: se non funzionano vengono tagliate. Lungo la parete al di sopra della macchina per il montaggio cè una serie di cartoncini formato 30 x 5 con il numero di ogni scena del film insieme a una breve descrizione. Le assistenti al montaggio svolgono misteriose operazioni, sedute ai loro posti nella saletta di sette metri per sei. Ci sono quattordici ciak e rita­ gli vari agganciati, mediante graffette aperte e infilate nelle per­ forazioni della pellicola; tutti confluiscono in una cesta di tela simile al porta-biancheria di un piccolo hotel. Altri otto rulli sono appoggiati su un pianale; tre su una delle due macchine per montaggio Steenbeck, versione aggiornata della Moviola. (Woody mi dice che l'aggiunta di una seconda Steenbeck è stata una grande idea perché “possiamo lavorare più veloci - e perché un giorno sono arrivato hello pimpante e la macchina era rotta") Tutto si svolge all’insegna dell’ordine. Un’assistente al montaggio è in grado di trovare il ciak desiderato in pochi secon­ di. La difficoltà della scena - nella quale Gena Rowlands segue Mia Farrow - consiste nel mostrare le due attrici alla distanza giu­ sta. Woody guarda le varie combinazioni e quasi mai si dice sod­ disfatto. Il giudizio migliore che riesce a dare è qualcosa come: “Non è così male." WA: La mia intenzione è di abbandonare per sempre la lente da 100 mm. Fa sembrare Gena più vicina di quanto sia in realtà.

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SM: Diamo un’occhiata a questa. [È l’inquadratura dei piedi di Mia che cammina; vengono avvolti momentaneamente nell’om­ bra, il frame diventa nero, poi ricompaiono.}

WA: Proviamo cominciando con lei che esce dal nero. [Now viene bene.} Non c’è la sensazione del movimento. Lasciala entrare e uscire dall’ombra. Non stiamo introducendo la suffi­ ciente distanza tra le due. Così si ha l’impressione che dovreb­ bero entrare nella stessa inquadratura [di una finestra illumina­ ta a piano terra davanti alla quale passano entrambe}.

SM: Vuoi usare il secondo dolly? [La macchina da presa si muove per seguire l’azione.] WA: [Provano; Woody annuisce in senso di approvazione.} Siamo messi bene perché, in un modo o nell’altro, tutte queste inquadrature si legano tra loro. La domanda è: “C’è una combi­ nazione più accattivante di un’altra?” I primi due tagli possono andare. Sul terzo dobbiamo fare qualcosa. Bisogna rendere evi­ dente la distanza fra le due donne. L’unica ripresa che non abbiamo ancora preso in esame è il totale girato la settimana scorsa. Vogliamo guardarlo per vedere se va bene? I Funziona benino, ma il taglio successivo non fornisce migliora­ menti sostanziali alla scena. Woody scuote la testa con lo sguardo ancora fisso sullo schermo.} Non è al bacio. [Riflette un minuto.} Pensiamoci su un attimo. I Non si presenta alcuna soluzione e Woody parla in tono rasse­ gnato.} Pure con tutta l’accortezza della segretaria di produzio­ ne, mia e di Sven [Nykvist, il direttore della fotografia}, questa cosa non viene ancora come dovrebbe essere.

SM: [Non ancora disposta a darsi per vinta} Non è male come pensi.

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WA: [Leggermente rincuorato dal suo ottimismo] Risolviamola una buona volta. Potremmo usare i piedi di Mia, poi la seconda metà della ripresa di Gena.

SM: Possiamo scegliere tra la 50 [mm, lente], la fìssa [senza movimenti di macchina] e la 100 [mm, altra lente]. E c’è anche l’ombra [di Mia Farrow lungo il muro]. WA: Sulla 100, la nave ormai è già partita. [Una delle sue espressioni preferite, per intendere che è troppo tardi per fare qualcosa. Tuttavia, acconsente a visionarla. Dopo, continua.] Potremmo provare da Mia a Mia... con la 100 fino all’angolo. [Due inquadrature da prospettive differenti e con lenti diverse. Woody parla mentre Sandy le prepara.] Se funzionasse, saremmo messi molto meglio. Potremmo passare alla 50 e spostare l’om­ bra dove dicevi tu, o invertirla con i piedi [l'inquadratura di lei che cammina] perché i piedi sono meno delicati. Se riusciamo a rendere fluido questo taglio, ne avremo un grande benefìcio. [Dopo averlo visto, però, è ancora insoddisfatto.] Filosoficamente parlando, non ti dà fastidio che lei stia andando in questa dire­ zione e poi scarti nell’altra? [Langolazione dei passi varia dalla prima inquadratura alla successiva.] SM: Per me sarebbe un problema se l’angolo fosse acuto.

WA: È proprio quello che sta succedendo. [Woody guarda interrompendosi un momento.] Questa funzionerà, lo sento. [Il montaggio adesso mette in sequenza Mia che attraversa la strada, un inserto appena prima che raggiunga l’angolo, poi di nuovo Mia in corrispondenza dell’attraversamento pedonale. La scena è più fluida.] Meglio. L’occhio fluidizza. [$/ interrompe, sorride.] Mi hai convinto. [Nella seconda visione, però, il sorriso scompare.] Non funziona. Dovrò rigirarla. Abbiamo provato ogni combi­ nazione possibile, ed è sempre sgraziata. 446

SM: [Ancora non disposta ad arrendersi] E se usassimo il campo lungo [che ha molta più aria a sinistra e a destra di Mia] r poi la 100 [mm, più stretta] ?

WA: [DZ nuovo speranzoso] Oh. Diamo un’occhiata. Un’altra soluzione che potrebbe funzionare, anche se a me non piace tagliare in quel modo, fare il doppio taglio del campo lungo \usare cioè parti del campo lungo due volte nella stessa scena. Decidono in ogni caso di provarlo. Mentre Sandy e le assistenti montano questa versione, Woody prosegue.] Se il taglio funziona a dovere qui, allora la logica è a posto e si capisce come mai Gena corra verso l’angolo. [Dopo averla guardata, tuttavia, non ne è entusiasta.] Non è una ripresa ben tagliata. Non credo che fun­ zioni. Potresti provare l’ombra qui per vedere se funziona. [Viene inserita l’inquadratura dell’ombra. Woody si illumina all’improwi\o.] Credo che così funzionerà. Siamo stati fortunati con quel muro... come consistenza e geometria. [C’è una pausa mentre si illumina ancora di più.] Ora comincio a sentirmi meglio. [Con le braccia, si spinge via dalla macchina per il montaggio.] Ecco che la tanto osannata lente da 100 mm finisce dritta nel cestino degli scarti, relegata per sempre nel cimitero delle outtake. [Sono trascorse due ore e venti minuti. Woody si alza per anda­ re nell’ufficio esterno mentre Sandy e le assistenti si preparano per la scena successiva. En passant, Woody dice con un tocco di stu­ pore: “Quando Sven e Ingmar realizzavano Scene da un matrimo­ nio, erano obbligati a girare venti minuti di pellicola utile al gior­ no perché non avevano il denaro necessario per prendersi più tempo. Arrivavano al mattino, provavano, giravano dieci minuti, pranzo, prove, altri dieci minuti.”] Più tardi, quella stessa settimana, Woody e Sandy stanno lavo­ rando alla ripresa in cui Marion ascolta suo fratello Paul nel capanno difamiglia. È un giorno di primo autunno, le foglie sono di un rosso e arancio accesi. Prima vediamo Paul da bambino, poi 447

Alcune delle "scorbutiche” inquadrature di Un’altra donna che richiesero a Woody e alla monta trice Susan Morse ore e ore di lavoro prima di ottenere una scena soddisfacente.

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la macchina da presa inquadra l’ingresso del capanno e la Marion adulta entra nell’inquadratura al di là della porta-zanzariera. Woody avrebbe voluto mantenere anche un profilo di Paul, ma il capanno era talmente angusto e ingombro da rendere impossibile la giusta angolazione di ripresa. Vedendo invece ciò che ha girato, Woody batte il pugno sul tavolo e si porta le mani sul volto. "Merda, avrei voglia di uccidermi. È assolutamente prosaica rispetto alla ripresa che avevo in mente. Ci avevo anche riflettuto, al momento, ma ormai è troppo tardi. L’attore è impegnato in uno spettacolo teatrale a Philadelphia e riportarlo sul posto sarebbe un gran casino. Oltretutto adesso non ci sono più le foglie.” Proseguono e montano il materiale che hanno a disposizione. SM: Vuoi ancora la musica in coda?

WA: [Calmatosi] Adesso non ne abbiamo un grande bisogno. La ripresa funziona.

Si prende una pausa. Entrambi ci avviamo verso la sala di pro­ iezione dove possiamo sederci e chiacchierare. Nella zona ufficio, ira la saletta di montaggio e quella di proiezione, Jane Martin, sua assistente e buona amica, sta fotocopiando alcuni copioni del Mary Tyler Moore Show. WA: [Piuttosto stupito] Come mai?

|M: Per vedere come è scritta una sit-com.

WA: Secondo me dovresti cercare di scoprire l’opposto.

Ci accomodiamo su due delle poltrone imbottite. EL: La maggior parte delle persone che collaborano con te |>cr i film ti seguono da molto tempo. 449

WA: Non vedo motivo per cambiare la squadra se lavora bene. Preferisco di gran lunga i rapporti a lungo termine. EL: Questo è senza dubbio il caso di Sandy Morse. Jim Heckert montò un paio di tuoi film agli inizi, Ralph Rosenblum ne ha fatti sette e questo è il dodicesimo di Sandy. [Ne farà in tutto ventidue prima di lasciare, nel 1999.]

WA: Jim Heckert fece Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso perché avevo girato il film in California, dove lui vive, ma con Ralph avevo un rapporto più profondo perché eravamo diventati intimi - intimi dal punto di vista professionale - prima con Prendi i soldi e scappa e poi con 11 dittatore dello stato libe­ ro di Bananas. Inoltre, lui abitava a New York e da molti punti di vista parlavamo la stessa lingua. Le nostre strade si separaro­ no dopo Interiors. Visto che stava coltivando altri interessi, pen­ sai di prendere un altro montatore; la decisione fu condivisa anche da lui. Mentre mi guardavo attorno alla ricerca di grandi montatori, un giorno ricevetti una telefonata da Sandy che dice­ va che le sarebbe piaciuto lavorare con me. A me non sarebbe mai venuto in mente il suo nome. Era molto giovane. EL: Malgrado fosse costantemente in saletta con te e Ralph, essendo una delle sue assistenti, sembra che tu la conoscessi appena. Cosa ti spinse a ingaggiarla? WA: E per natura una persona dai modi gentili e, a quanto ne sapevo io, era un’assistente, o addirittura una seconda assisten­ te. Non mi ricordo nemmeno. So che appendeva i ritagli [frame sforbiciati da una ripresa per accorciarla} e metteva via pezzi di pellicola che non servivano più. Sai, io adoro sedermi e concen­ trarmi sul montaggio. Poi una sera ricevetti questa telefonata di Sandy. Prima di allora a malapena le avevo rivolto due parole. Mi disse: “Se non ha un montatore, mi piacerebbe molto lavo­ 450

rare con lei.” Pensai: “Perché no? Tanto, la mia presenza c’è < omunque, non affido mai il montaggio interamente a qualcu­ no, Potrebbe essere la scelta giusta visto che è una ragazza gio­ vane, non mi toccherà lavorare con qualche eccentrico, per così dtrc.” Ralph aveva le sue piccole manie. Così le dissi: “Per me va bene, ma ti anticipo fin d’ora che voglio essere in grado di lavorare la domenica e a tutte le ore, e non voglio smettere per pranzo... sai, tutte le menate di Ralph: ‘E mezzogiorno, prendia­ moci la nostra pausa pranzo.’” Aveva l’abitudine di guardarmi e dire: “Pazienza, finiremo il film un’ora più tardi. Lo consegne­ rai il 14 marzo alle due anziché all’una.” [R^/e] Quella cosa mi taceva imbestialire. Lei non era in condizione di rifiutare perché voleva passare da assistente a montatore e stava cercando l’occanione giusta. Oggi Sandy ha acquistato grande fiducia. Sa come si gestisce una sala di montaggio ed è enormemente scru­ polosa. Abbiamo instaurato un ottimo rapporto. Fu una gran fortuna per me che mi avesse telefonato, quel giorno, perché era giovanissima e non mi sarebbe mai venuto in mente di rivolger­ mi a lei. l’X: Che sensazioni hai su Un'altra donna finora? WA: Finora, è stato il film filato più liscio negli ultimi anni... non avendo utilizzato tutto il budget, siamo pronti anche per eventuali scene da rigirare. In questo momento, ciò che mi rende ottimista è che le singole scene sono venute bene, anche se met­ terle in sequenza è tutto un altro paio di maniche. Quando guar­ derò il risultato finito, la mia sensazione sarà compresa in un ventaglio che va dall’insoddisfazione avvilente, come può succe­ dere, al sorprendente entusiasmo, che non ho mai provato. Più plausibilmente sarà compresa tra l’insoddisfazione avvilente e una via di mezzo in cui pensi: “Be’, qualcosa funziona piuttosto bene ma il film manca chiaramente di un crescendo, oppure parte troppo lento, oppure ci sono troppe scene simili a distan­ 451

za ravvicinata, o il tal personaggio è troppo misterioso perché risulti efficace.” In base alla mia esperienza, l’insoddisfazione riguarda singoli dettagli e non un problema enorme che ti fareb­ be venire voglia di sprofondare. La prima volta che guardai Settembre capii che andava rifatto completamente. Avevo avuto la stessa sensazione per Zelig quando lo vidi montato la prima volta. Di Manhattan, a due settimane dall’uscita nelle sale, vole­ vo riacquistare i diritti. Ricordo che dissi a Jack Rollins [il suo manager}-. “Non riesco a credere che con la mia esperienza nel settore abbia potuto realizzare un film del genere.” EL: In questo e in molti altri film ricorri spesso ai salti tempo­ rali. WA: Nel cinema è facile giocare con il tempo. A teatro, vice­ versa, sei vincolato dalla presenza fisica, lì, in quel momento. Il cinema è più simile al romanzo: basta uno schiocco delle dita per proiettarti duemila anni prima o nel futuro. Sul palcosceni­ co è molto più diffìcile. È stato fatto, magnificamente tra l’altro, in Morte di un commesso viaggiatore, ma richiede grande peri­ zia.

EL: Come ti senti, in genere, dopo che hai montato la prima versione di un film e la proietti per intero la prima volta?

WA: Ho quasi sempre provato un sentimento di delusione dopo aver visto un mio film per la prima volta. Ecco perché sono sicuro che resterò deluso quando vedrò questo. Certo, le singole scene sono state tagliate molto bene, ma il punto, ovvia­ mente, è l’effetto complessivo. Gran parte del mio lavoro consi­ ste nella rielaborazione, nella riscrittura e nel rimontaggio, come in Hannah, dove tutto il girato della seconda festa del Ringraziamento fu realizzato in un secondo momento.

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Una settimana più tardi guardiamo i giornalieri della scena 74, quella del sogno in cui Marion [Gena Rowlands] entra nello stu­ dio di uno psichiatra e vede Hope [Mia Farrow] e poi suo padre [John Houseman]. Inizialmente era stata girata con Marion che parlava con lo psichiatra, il quale usciva dall’inquadratura per rientrarvi successivamente. Nella versione rigirata, invece, lo psi­ chiatra resta sullo sfondo, leggermente sfuocato. In un piano xequenza, Marion esce in corridoio, apre la porta dello studio, vede Hope e il dottore, li ascolta, guarda Hope che esce; infine entra suo padre. In questo modo è più efficace e onirica, ma si è verificato un raro disguido di comunicazione con l’operatore di macchina sulla direzio­ ne dello sguardo di Marion dopo l’ingresso del padre. Sembra che guardi in un posto diverso da quello in cui si trova l’uomo, ma gli addetti alla macchina da presa avevano capito che Woody la volesse tosi. Inoltre, il suo sguardo è catatonico, e non curioso come Woody ritiene debba essere. In genere non apre bocca fino alla fine dei gior­ nalieri, invece oggi sbotta: “Dio Mio, ma da che parte guarda?” Cerca insieme a Sandy di eliminare lo sguardo sbagliato, ma i vari tentativi si rivelano infruttuosi perché Woody non vuole che il padre entri in un’inquadratura vuota. Poiché la soluzione migliore sembra quella di rigirare la scena, Woody e Sven discutono nella saletta di montaggio su come rendere l’inquadratura più stretta si vede più muro e più soffitto di quanto sia necessario - e anche sulla maniera di mostrare il volto del padre che entra insieme a quello di Marion, per chiarire che non si tratta di un anziano paziente qualsiasi. Due assistenti al montaggio passano al vaglio i diversi ciak alla ricerca dell’eventuale angolazione di ripresa oppor­ tuna. Woody e Sandy li fanno scorrere più volte. Durante i quindi­ ci minuti necessari per l’operazione, Sven resta in piedi nei parag­ gi a osservare, mentre il produttore Bobby Greenhut e il direttore di produzione ]oe Hartwick si tengono a una distanza maggiore, turbati dal costo di un ulteriore giorno di riprese ma con la sensa­ zione che non sarà possibile evitarlo. Assodato che non ci sono 453

alternative se non rigirare la scena, Woody si alza e commenta: “Bene, aggiriamo l’ostacolo.” John Houseman, che fino a un attimo prima era convinto di aver terminato il proprio lavoro e aveva previsto di prendere un aereo il giorno successivo, dovrà dunque ritardare la partenza. Tutti accolgono i cambiamenti di programma con serenità e il sor­ riso sulle labbra. "Dopo anni e anni, situazioni del genere diventano abituali, non sono troppo deprimenti,” mi dice più tardi Greenhut. “Woody e Sandy hanno constatato che, in nove film su dieci, si decide di mettere una pezza [lasciando, in questo caso, che il padre entri in un’inquadratura vuota]. Stavolta, invece, vuole una sequenza più armoniosa. La Orion [che ha finanziato e distribuirà il film] sa che ogni tanto rigiriamo, ma forse non con quale frequenza. Finché non sforiamo il nostro budget, tuttavia, è tutto sotto con­ trollo. La casa di produzione non visiona i giornalieri, perciò nes­ suno sa niente.”

Gennaio 1988

Woody sperava ormai di avere una prima versione del film da farmi vedere, ma mi annuncia che il grosso del lavoro non è fini­ to. “È ancora un po’ disomogeneo. Ho visionato il primo rullo [un rullo dura dieci minuti] e vi ho trovato molte cose che non mi soddisfano. Se proiettassi adesso il film intero mi scoraggerei. Mancano ancora molti inserti [inquadrature individuali all’inter­ no di una scena] e diverse scene. Credo che con dieci giorni di riprese aggiuntive riuscirò a sistemare le cose. Più che altro si trat­ ta di problemi tecnici, specie all’inizio. Grande disparità tra quel­ lo che dice Marion [personaggio principale e voce narrante] e buona parte del girato che abbiamo. Se lo usassimo così com’è il film sarebbe interminabile. Devo rendere l’inizio più succinto, in modo che si adatti alla narrazione.” 454

Gli chiedo se può espormi il problema fondamentale. “Il film parte lentamente perché c'è molta spiegazione. Ho eliminato diverso materiale e fatto ricorso a un espediente che non impiega­ vo da molti, molti anni, una sequenza pre-titoli [ossia collocare una parte del film prima dei titoli di testa] e spero che questo sveltisca il ritmo iniziale.” Nella versione definitiva Woody ridur­ rà della metà la voce fuori campo nel primo rullo. Dopo un notevole lavoro aggiuntivo, visiona di nuovo il primo rullo. Durante la proiezione appare via via più sollevato. “Ora mi piace cento volte di più,” dice dopo un paio di minuti. “Lei ha molta energia e con questi tagli ilfilm procede molto più spedito.” Poi però, a film finito, dopo aver guardato tutti e dieci i rulli, com­ menta: “Una grande idea per una commedia sacrificata sull’altare dell’arte.” Su suggerimento di Sandy Morse, ha usato il terzo movimento delle Gymnopédies di Satie come sottofondo sonoro in apertura. Woody prova al suo posto il quartetto per archi La morte e la fan­ ciulla di Schubert, ma lo scarta subito: “Troppo vivace, assolutamente troppo vivace. Torniamo a Satie.” Appoggia la testa sul braccio destro sopra la Steenbeck mentre ascolta diverse versioni della sofferta voce fuori campo di Hope [Mia Farrow]. Dopo averle ascoltate tutte dice: “Richiamate Mia. È troppo piagnucolosa, bisogna rifarla. Voglio fargliela provare più lenta, con una recitazione più quieta. Deve arrivare alle lacri­ me, alla fine, ma adesso è troppo isterica e poco interessante.” Dopo qualche secondo aggiunge: “È difficile capire cosa vuoi che sia chiaro e consolidato agli occhi del pubblico. Ci tengo a non lasciarmi sfuggire nulla che possa dare agli spettatori un’informa­ zione in più, rendendo la visione maggiormente stimolante. ” Il giorno successivo Woody toma in sala montaggio con il nuovo voice-over di Mia. C’è ancora qualcosa che non va. “Mi fa imbufalire,” dice. Prova un’inquadratura che rimane molto più a lungo su Marion prima di andare sulla voce di Mia. Leffetto, voluto, è quello di rallentarla. Continua: “Idealmente, vorrei una via di 455

mezzo tra l'angoscia piagnucolosa di ieri e la recitazione più piat­ ta di oggi. Il motivo per cui mi sono fissato con questa cosa è che se il pubblico non si convince qui, se il momento non risulta cre­ dibile, tutto il film va a rotoli.” Prova un’altra variante. "È come nella scrittura, quando ti impantani su quelle due o tre parole. Nel cinema è molto più impegnativo, però. ” Dopo oltre due ore dedicate a inserire la voce fuori campo e a rimaneggiare la scena, Woody commenta asetticamente: “Così non funzionerà.” Poi: “C’è qualcosa che non va.” Poi: “Cos’è che non gira in questo punto? Sono quasi sicuro che sia la recitazione di Mia. È di nuovo metà della lentezza che voglio.” Dopo qualche minuto ci riprova. Passa un altro pomeriggio a spostare scene e proporre nuove idee. Un suggerimento prevede il cambiamento di ordine di tredi­ ci scene. Alla fine si spinge con le braccia lontano dalla Steenbeck, ancora incerto sull’esatta natura del problema. Si alza per chiudere definitivamente la giornata di lavoro. “Grazie a Dio," mi dice mentre usciamo dalla porta, “ilpubblico vede soltanto il prodotto finito.” Agli inizi di febbraio ha finalmente in mano una versione che può proiettare per alcuni amici, che si stanno accomodando nella sala di proiezione. Mentre entriamo e raggiungiamo i nostri posti, Woody mi dice: “Se avessi preso la decisione giusta avrei realizza­ to due film: questo e uno comico in cui mi capita di origliare i desi­ deri di Mia o della Keaton, così che sono in grado di farli avvera­ re. Il film comico avrebbe successo e incasserebbe mentre la pelli­ cola di quest’altro verrebbe riciclata per farne plettri per chitarra.”

Luglio 1988

Una saletta di missaggio audio tra la Quarantasettesima e Broadway. È il primo giorno del processo che porterà a equalizza­ re tutti i suoni di Un’altra donna, oltre ad aggiungere gli effetti 456

sonori secondari come i rumori di passi, le porte che si chiudono e così via. Woody vuole verificare l’avanzamento del lavoro, supervisionato da Sandy Morse. Due tecnici sono seduti davanti a una consolle computerizzata provvista di centinaia di pulsanti, hanno partire i primi sette minuti del film. Woody osserva che una battuta è un po’ schiacciata sulla successiva e su altre due chiede di modificare l’equalizzazione, ma per il resto è soddisfat­ to. Esorta Sandy e i tecnici ad andare avanti su questa falsariga, con un avvertimento: “Non cercate di stupirmi. Niente grilli, gente che tira lo sciacquone o versi di uccelli.’’ Nella macchina che ci accompagna a casa sua parliamo delle due settimane di montaggio e riprese aggiuntive dalle quali è reduce. WK: Le modifiche vanno fatte in base al film e non in base alla pagina scritta. Puoi inserire nel copione tutti i cambiamenti che vuoi, ma alla fine devi girare il film, montarlo, aggiungere la musi­ ca... e vedere come è venuto. È allora che improvvisamente tutto ni chiarisce. lì accorgi che hai bisogno soltanto di una piccolissi­ ma scena affinché il pubblico capisca che sei innamorato della ragazza. Non te ne servono quattro. La fase cruciale nella realiz­ zazione dei miei film si gioca davvero dopo l’assemblaggio di quella prima bozza. Poi arriva il momento spaventoso in cui pro­ ietti la prima versione dall’inizio alla fine e pensi: “È noioso.” Ma senti che puoi ancora rimediare. È più tardi che le cose diventa­ no agghiaccianti, quando non puoi più sistemare niente. EL: È già previsto nei tuoi budget o lavorare in questo modo è un po’ un lusso?

WA: Non è un lusso perché posso permettermelo solo se rimango nel budget. Un film respira, è un essere vivente che ti conduce dove vuole lui. Quando stiliamo il budget e Bobby \Cìreenhut\ dice: “È un film da dieci milioni di dollari,” io cal­ colo di avere a disposizione otto milioni più due per le riprese 457

aggiuntive. Da questo punto di vista, sì, sono previste fin dal­ l’inizio.

Febbraio 1989

Woody e Sandy sono seduti di fronte alla Steenbeck a montare Crimini e misfatti. È il terzo film in rapida successione; spesso la lavorazione si è sovrapposta a quella di Un’altra donna e di Edipo relitto. Sandy propone una modifica allo sviluppo di una scena. Woody si alza per consultare il timone costituito dai cartoncini attaccati al muro alle loro spalle. Ogni scena è identificata con un fram­ mento di azione o di dialogo e un codice colore in base all’attore principale che la interpreta. Per esempio: “37. Babs a Cliff: ‘Non riesco a dirlo’”; “39. Jack e Judah: ‘Sbarazzarsi di lei?’”; “63. Judah vede gli occhi di Del”; “73. Rimorso: Judah con Jack”. “Questo non è il nostro film,” commenta Woody perplesso, guardando verso l’estremità sinistra del listello. “Dovè finito il nostro film?" Sandy ride e risponde: “Là sopra sono appesi tre film, e sono tutti nostri.” Le pellicole sono suddivise in quindici colonne. La prima contie­ ne frammenti di Edipo relitto, la quindicesima i materiali di Un’altra donna. Dalla seconda alla quattordicesima c’è Crimini e misfatti. La decisione di girare gran parte delle scene come master shot ora limita le scelte a disposizione di Woody, ma allo stesso tempo semplifica il montaggio. Woody teme che in alcuni punti il film sia troppo verboso. “Puoi camuffarlo con un po’ di ritmo e movi­ menti di macchina, ma è molto diverso da un film ‘silenzioso’ come Sussurri e grida," osserva. “Quello, del resto, è un film d’epoca, in cui la vicenda prescinde da una società contemporanea ipertecnologica. Le persone camminano, si siedono, parlano. Tutto sta nelle parole e non nelle azioni.” 458

Passa a una scena all’inizio del film in cui Cliff, il suo personag­ gio, toma a casa dopo aver visto un film con la nipote Jenny, e sua moglie Wendy (Joanna Gleason) gli chiede dove è stato, fattrice dà il meglio nel primo ciak, Woody nel secondo.

WK-. Forse preferisci il secondo.

SM: In realtà il primo. WA: Nel primo lei è più arrabbiata. Io vado meglio nel secon­ do.

SM: [Sorridendo] Pensavi che preferissi il secondo perché andavi meglio? WA: [Fa spallucce e sorride a sua volta] Non c’è nessuna posta in palio. Non è che sto affossando una delle mie meravigliose battute.

Marzo 1989 "Insamma,” mi dice Woody Dopo aver visionato la prima ver­ vime assemblata di Crimini e misfatti, “la buona notizia è che il film è meglio di quanto pensassi, a parte gli owii tagli e limature necessari. La cattiva è che la storia tra me e Mia non funziona." (Si incontrano; lavorano insieme su un documentario; lui si inna­ mora di lei.) Tuttavia non è angosciato. “Forse non sono mai stato tanto soddisfatto in questa fase della produzione. Perlomeno non mi viene voglia di far saltare in aria la baracca.” Il film finito è la pellicola più riscritta e rigirata tra quelle che ha realizzato fino a questo momento. Nel corso delle settimane succes­ se butta nel cestino un terzo della storia e ne rimaneggia l’ossatu­ ra e la trama; alla fine avrà rigirato almeno una volta ottanta delle 459

139 scene delfilm. Nella versione originaria, Hally (Mia Farrow) è un’assistente sociale per anziani anziché la produttrice televisiva della versione definitiva; è la moglie del direttore di una rivista ma ha anche una tresca con un uomo sposato che il pubblico vede bre­ vemente quando Cliff (Woody), sposato a sua volta, e sua nipote Jenny (Jenny Nichols) la seguono di nascosto in Central Park (nella versione finale non è sposata e non ha storie clandestine); il docu­ mentario che Cliff realizza per poter trascorrere più tempo con Hally, della quale si è innamorato, riguarda ex comici del Vaudeville ricoverati nell’ospizio dove lei lavora, non il buffo e irri­ dente film nel film che realizza sul cognato Lester (Alan Alda); e nella scena di matrimonio conclusiva Cliff si spaccia per produttore televisivo, allo scopo di sedurre un’aspirante attrice, interpretata da Sean Young, con la quale è colto in un atteggiamento sconveniente quando viene accidentalmente aperto un sipario della sala da ballo dove si sta svolgendo la festa [...].// personaggio della ragazza non compare nel film finito. Lultima ripresa nella versione originaria vede Cliff con Jenny, la sua unica vera amica, mentre nella versio­ ne finale è la sequenza con Cliff e Judah (Martin Landau), l’oculi­ sta che ha fatto uccidere Del (Anjelica Huston), la sua amante, ma resta impunito; l’uomo ha metabolizzato il proprio delitto, non è più tormentato dal rimorso, mentre ilfilm si chiude con il ballo tra il rabbino Ben (Sam Waterston) e la figlia novella sposa. Inoltre, il rapporto tra Cliffe Jenny è molto più sviluppato rispetto alla versio­ ne finale, così come la vicenda di Babs (Caroline Aaron), la sorella di Cliff sempre in cerca di avventure sentimentali. Il rimaneggiamento del film inizia, secondo quella che è diven­ tata una pratica abituale, con Woody e Sandy Morse nella sala di montaggio, dove per diverse ore si discute della nuova forma da dare alla pellicola. Della storia di Judah, Woody chiede: “Labbiamo tirata via un po’ troppo?” “Sei tu che non vuoi rallentare il ritmo con eccessive spiegazio­ ni,” osserva Sandy. 460

"Esatto. La domanda è se abbiamo chiarito a sufficienza l’aspet­ to religioso fin dall’inizio. In altre parole, non ci sarà per caso bisogno di dare un’enfasi maggiore alla tesi delfilm, ossia che nes­ sun potere divino ci punirà per i nostri misfatti se riusciamo a farla franca sulla terra? E che, pur consapevoli di ciò, è necessario scegliere una vita giusta per non piombare nel caos, il caos che spe­ rimentiamo quotidianamente proprio per questa mancata scelta da parte di molti? Poi passiamo a dimostrare la veridicità o meno dell'assunto di partenza.” Entrambi camminano su e giù per la stanza. Woody prosegue, riflettendo a voce alta, scontento del fatto che Del sia isterica in entrambe le prime due scene con Judah, quando la donna minac­ cia di rivelare la sottrazione da parte dell’oculista deifondi di una associazione caritatevole se lui persiste nella decisione di mettere fine alla loro relazione. Poi Woody prende in esame una scena tra Judah e suo fratello Jack (Jerry Orbach, che provvede a organizza­ re l'assassinio di Del). Una battuta di Judah, dilaniato dal rimor­ so - "Come mi sono lasciato trascinare?” - non lo convince, e vuole rifarla. "Judah è laico, ma in lui è rimasta una scintilla della religiosità che gli hanno inculcato da piccolo,” osserva. "Mi sembra che stia­ mo fornendo due informazioni fondamentali: Judah e il suo segre­ to [ la storia clandestina con Del] e il tema religioso. Voglio farne un blocco unico, all’inizio. Devo far vedere le immagini del­ l'amante che gli passano per la mente mentre sta tenendo il suo discorso?” (Ilfilm si apre con Judah omaggiato per il suo impegno filantropico.) Dopo un’ora e mezza dedicata a questo argomento, ordinano il pranzo per telefono e passano a Hally (Mia Farrow). Woody parla camminando ancora su e giù. "Nella vicenda di Mia è essenziale la linearità: ci incontriamo, me ne innamoro. Scoprire che è sposata è un freno, ma posso anco­ ra nutrire una speranza.” Si interrompe per riflettere e conclude: "E un ostacolo introdotto in maniera artificiosa... un marito di cui

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io non so nulla. Incontro una donna, una persona che sembrereb­ be troppo seria e posata per Lester, e che invece finisce per metter­ si con lui. Io, poi, che non mi accorgo della sua fede nuziale per almeno una settimana... Non c'è altra polpa nella storia con Mia. È tutto un lento dispiegarsi di informazioni arbitrarie.” “A mio avviso, manca solo la sensazione che lei possa starci, con te, ” gli dice Sandy. “Vorrei che tu avessi più ragioni di speranza. Vorrei maggiore intimità nella scena dello champagne [dopo che, nella saletta di montaggio di Cliff, Hally gli dice che la televisio­ ne pubblica potrebbe essere interessata al documentario su un professore che lui sta girando da anni] e nel localino jazz” [dove una sera si ritrovano Cliff e sua moglie e Hally con suo marito. Nella versione definitiva, la scena vede protagonisti Cliff, sua moglie, Hally e Lester]. Woody scuote la testa. “Non c’è niente di speciale nella mia sto­ ria con Mia. È tutta una faticosa ricerca alla scoperta di chissà cosa.” Prova, senza successo, diverse strade per superare l’impasse. “L’idea originaria era che lei è sposata e ha un amante. Perché? Dove ci porta?” Esaminati i possibili sviluppi di alcuni dialoghi, conclude che deve rinunciare alla scena divertente e meravigliosa­ mente filmata in cui Cliff e Jenny seguono Hally per Central Park. “Mi si spezza il cuore nel sapere che non potrò seguirla.” Ora Woody rifà alcune scene con voci diverse. “La sorpresa deve essere che lei sceglie lui. Rispetto alla vicenda di Judah, qui non succede nulla di eclatante. ” Dopo un lungo silenzio, prova un paio di possibili scene con Lester e il professore, ma rimane con un pugno di mosche in mano; poi passa alle scene con la sorella di Cliff. Per tutta l’ora successiva prova possibili dialoghi alternativi, per poi tornare al problema di Cliff e Hally. “C’è qualcos’altro?” chiede, tentando l’ennesimo assalto. “Sono sposato e mi innamoro di Hally perché il mio non è un matrimo­ nio particolarmente felice. Lei è single e io me ne innamoro, Lester la corteggia con la sua solita superficialità e lei alla fine mi dice: “Ma tu sei sposato, ” e allora io credo che questo sia l’ostaco­ li

lo tra di noi, mentre lei vuole semplicemente dirmi di no con le buone maniere. Poi parte per Londra dove deve realizzare una traemissione sugli stranieri...” Alza le braccia. “Non va. È troppo masochistica, sembra un film tedesco degli anni venti.” Verso metà pomeriggio, dopo aver discusso molte varianti della trama e modifiche ai personaggi, Woody si è formato un'idea piut­ tosto chiara sul da farsi. “Potrebbero essere riflessioni da nevroti­ co, ” dice, “ma mi piace spremere, spremere fino all’ultima goccia di succo, per vedere fin dove posso spingermi. Sarebbe autolesionistico non farlo.” Si stringe nelle spalle. "Male che vada, il pub­ blico mi spemacchierà e io ci rimetterò dei soldi.” Sono dieci le scene da riscrivere e rigirare, verificando la dispo­ nibilità di attori e location e organizzando le necessarie operazio­ ni. "Ci serve qualche ritocco qua e là,” commenta Woody. Un pic­ colo sorriso si affaccia sul suo volto. “Ritocchi per una milionata di dollari. ”

Settembre 2005 EL: Ti occupi personalmente dei dettagli di ogni fase del film r. ho notato, non deleghi alcuna parte della sua creazione, nem­ meno l’assemblaggio di una prima versione a partire dai ciak •celti da te. WA: Per me il film è un prodotto fatto a mano. L’altro giorno •lavo guardando un documentario sul montaggio televisivo nel quale venivano intervistati diversi registi e montatori straordina­ ri. ( )gnuno esponeva brevemente il proprio modo di affrontare il montaggio. Un tempo la regola era di affidare il film a un montatore, e ancora oggi so di registi che, finite le riprese, par­ tono per le vacanze e lasciano che sia il montatore ad assembla­ re una prima bozza; al ritorno, la controllano e apportano le loro modifiche. 463

Io non ci riesco. Per me sarebbe impensabile non occuparmi di ogni centimetro del film... e non per una specie di egocentri­ smo o per la voglia di esercitare la mia autorità, è solo che non riesco a immaginarmelo diversamente. Come potrei non occu­ parmi del montaggio o della colonna sonora, visto che per me l’intero progetto è come una grande opera di scrittura? Certo, una volta superata la fase della sceneggiatura abbandoni la mac­ china da scrivere, ma quando scegli le location e il cast, quando sei sul set, in realtà stai scrivendo. Scrivi con la pellicola, così come scrivi con la pellicola quando assembli il film con il mon­ taggio e aggiungi la musica. Per me, tutto questo rientra nel pro­ cesso di scrittura. EL: Mi sembra assolutamente sensato. Non potrei immagina­ re di non essere io il responsabile di ogni modifica sul foglio.

WA: Eppure, ci sono registi che realizzano film straordinari ripassando i giornalieri con il montatore e indicandogli i ciak preferiti; poi se ne vanno tre settimane a Little Dix Bay, se la spassano e, quando tornano, guardano la sequenza che il mon­ tatore ha messo insieme con un po’ di buon senso. E il regista dirà: “No, no, no. Questa è perfetto, quest’altra ripresa invece dura troppo.” Io non ci riesco. Io cerco sempre di arrivare a una buona prima versione. Non mi è di alcun aiuto realizzare una prima versione troppo raf­ fazzonata. Non scopro nulla. La mia idea è quella di montare il film come deve venire, montarlo nella migliore maniera pos­ sibile la prima volta per poi verificare quello che ho sbagliato. Ovviamente, scopro di aver commesso un milione di errori e me ne accorgo solo a questo punto. E allora comincio a sgrezzare. EL: Cosa si prova, dopo aver scritto la sceneggiatura, averla interpretata, averla girata per diversi mesi, aver visionato un 464

giornaliero dopo l’altro, a entrare poi in sala di montaggio e doverti guardare, doverti giudicare come attore?

WA: Facilissimo. Ti guardi e dici: “Qui sono tremendo”, “In quest’altro punto faccio schifo”, “In questa scena sono assolu­ tamente finto”, “Qui penso di essere andato molto bene, la «cena è credibile, sono divertente, non esagero né ammicco troppo.” Non è difficile individuare le parti soddisfacenti. ( xrto, stando seduto qui con un montatore e magari altre per­ itone, capita ogni tanto di sentirsi dire: “Lo so che ti piace molto il ciak numero due, ma devo proprio dirtelo...” e allora lo riguardo, scopro che l’osservazione è corretta e dico: “Be’, d’ac­ cordo, se preferisci il numero otto, per me sono buoni entram­ bi ma usiamo l’otto.” Non è difficile. I veri guai arrivano quando non sei sorretto dall'ispirazione, quando scopri che hai seguito un’immagine fal­ lace del film nel suo complesso. EL: L’altra sera, guardando Provaci ancora, Sam, ho notato che contiene le pause per le risate. WA: Probabilmente fu la montatrice [Marion Rothman] di I lerb Ross [il regista] a scegliere quel ritmo. Io non lo faccio perché non ho la certezza che in questo o quel punto ci saran­ no delle risate. Data l’importanza che riconosco al ritmo, non inserirei mai delle pause del genere. I fratelli Marx lo facevano, invece.

EL: Già, molti dei loro film erano trasposizioni di spettacoli e dunque, ancor prima di girare, si sapeva già in quali punti sarebbero arrivate le risate. WA: Io non ci riesco.

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EL: Prendi i soldi e scappa è di fatto una raffica di gag. Chiaramente sapevi come interpretare le battute dal punto di vista verbale e immagino che il difficile sia stato trovare il modo migliore di renderle dal punto di vista visivo.

WA: Sì. Per la maggior parte fu semplice da montare. L’aspetto problematico era il mio uso - o non uso - della musi­ ca. Organizzavo proiezioni private del film ancora privo di colonna sonora, mostrandolo a un pubblico nella peggiore delle condizioni. Gente raccattata per strada, fondamentalmente. EL: Una volta hai dichiarato che trascinasti in una sala di pro­ iezione a Broadway dodici soldati delle USO [United Service Organizations, l’ente deputato a tenere alto il morale delle trup­ pe con spettacoli ecc.].

WA: Già. Il film era senza musica, loro non avevano mai sentito parlare di me e dovettero sorbirsi questa prima versione con i segni a pastello del montaggio... mi venne il panico e cominciai a eliminare porzioni di film che, a giudicare dalle reazioni, non dovevano essere comiche. Finii così per ritrovarmi in braghe di tela, tanto che dalla casa di produzione mi suggerirono: “Perché non si rivolge a Ralph Rosenblum? E un montatore straordinario, le darà una mano a sistemarlo.” Ralph aveva un meraviglioso senso dell’umorismo, le battute e la commedia in generale gli piac­ quero molto. Fu come aprire le porte e lasciai* entrare una venta­ ta di aria fresca. Mi disse: “Sei pazzo a eliminare tutta questa roba che fa morire dal ridere.” Dopo averla reinserita mi fece notare: “Hai bisogno di musica in sottofondo. Prendi dei dischi e mettici sotto della musica provvisoria,” e mi mostrò come si faceva. Tutt’a un tratto, il materiale cominciava a prendere vita. Ricordo che mi disse: “Sfido io che ti viene un coccolone se fai vedere una versio­ ne grezza e senza musica a dodici reclute del Montana.”

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EL: Puoi quantificare il suo contributo al film finito? WA: A livello quantitativo, l’ottanta per cento del film è il mate­ riale che gli fornii, ma il venti per cento che fece lui fu determinan­ te |>cr salvare la pellicola e trasformarla da un fallimento annun* lato in successo. Mi spiegò, in particolare, che potevo prendermi delle libertà, snellire e rendere più briose alcune cose, per esempio il blocco di materiale molto divertente che tuttavia rallentava Tinizio de) film. [Con la voce narrante di Jackson Beck, i primi otto minuti e mezzo di pellicola ci presentano il piccolo Virgil, un bambi­ no gracile che finisce puntualmente con gli occhiali calpestati, tanto dai monelli del quartiere quanto dagli adulti; ne seguiamo la cresci­ la inizia a cimentarsi con il violoncello (anche se, come sottolinea d suo maestro, “non aveva cognizione della natura dello strumento. Provava a soffiarci dentro”) fino a ottenere un posto nella banda del quartiere -e i primifurti: ruba una pistola da un banco di pegni allo uopo di rapinare un furgone portavalori solo per scoprire, durante una sparatoria con le guardie, che la sua arma è in realtà un accen­ dino La sequenza iniziale termina con il suo ingresso nel penitentiario di San Quintino, accompagnato dai titoli di testa.} Lasciò l'inizio esattamente com’è, ritardando però i titoli in modo da far entrare subito il pubblico nel vivo dell’azione... finché [schiocca le dita | partono i titoli di testa. Per gli spettatori, perciò, tutta la parte iniziale non è una perdita di tempo: hanno guardato diversi minu­ ti divertenti, di racconto, senza che il ritmo del film ne risenta. Nemmeno in un milione di anni mi sarebbe venuta in mente una minzione del genere. Al di là del mio istinto nel montaggio, che era in realtà il mio Intinto di narratore sulla pagina, ho imparato tutto da lui. Non avrei potuto avere un maestro migliore. Ho spesso dichiarato che i due con i quali sono andato a scuola - Gordon Willis e Ralph Rosenblum - mi hanno insegnato tantissimo del cinema. < )ggi, se contravvengo a un loro precetto, almeno so quello che laccio. Posso permettermi di allontanarmi dalla strada maestra 467

solo perché entrambi mi hanno spiegato in maniera chiara e accurata qual è il modo corretto di procedere. EL: Lavorando nei ventidue film che hai realizzato tra il 1979 e il 1998, Sandy ti ha insegnato qualcosa di nuovo? Hai cambia­ to molto nel modo in cui affronti il montaggio?

WA: Credo che io e Sandy abbiamo imparato molte cose insie­ me, avendo dovuto risolvere valanghe di problemi nei diversi film. Lei era sempre lì con me, mi aiutava a superarli, ora boc­ ciando ora sostenendo le mie idee, o proponendone di sue. Molto di frequente chiedevamo a suo marito Jack [.Richardson, sceneggiatore] di dare un’occhiata al film e lui ci offriva sempre critiche estremamente puntuali. È stata un’ottima montatrice. EL: Aveva lo stesso senso del ritmo e dell’umorismo rispetto a Ralph?

WA: Aveva la sua sensibilità. Mi aiutava anche nei rapporti di coppia fra personaggi. Spesso capiva cosa era romantico e cosa non lo era. EL: Ricordo che vi guardavo mentre montavate Crimini e misfatti, mentre venivano eliminati personaggi e aggiunti nuovi sviluppi narrativi. Man mano che il lavoro procedeva, in un angolo della sala di proiezione si ammassavano casse contenen­ ti le scene di personaggi che non comparivano più nel film. Guardando diversi cut successivi del film, mi resi conto che ero rimasto affezionato ad alcuni di loro, anche se le loro storie non funzionavano più ed erano state eliminate. WA: Certo. L’eliminazione di personaggi è all’ordine del gior­ no. Il motivo non ha quasi mai a che vedere con la recitazione ma è strettamente legato ai meccanismi che fanno funzionare al 468

meglio la storia nel suo complesso. Ovviamente, l’insicurezza innata spinge l’attore a identificare in un difetto di interpreta­ zione il motivo dell’eliminazione del personaggio, a ritenere di non essere stato all’altezza, o magari di non aver ottenuto la parte per un’audizione insoddisfacente. Ma raramente è così. Spesso il motivo è un altro, in genere riconducibile a me: o per­ che ho scritturato l’attore sbagliato all’audizione o perché, una volta visionato il montato ed entrato più pienamente nel film, l'attore non mi sembra più adatto. La maggior parte delle volte, < omunque, si tratta di miei errori in fase di scrittura, dei quali non mi rendo conto finché la scena non viene girata. Nel corso degli anni ho eliminato molti attori. Ho eliminato da Celebrity Vanessa Redgrave, una delle migliori attrici del mondo, e non certo, ovviamente, per la sua recitazione. EL: Il primo film di Sandy fu Manhattan. Fu complicato o tutto sommato agevole?

WA: Non estremamente complicato, complicato nella norma. < erti film sono semplici, altri molto difficili. In quello dovetti i igit arc alcune scene, in particolare il finale, di cui non ero sod­ disfatto. EL: Ti ricordi com’era il primo finale?

WA: Le inquadrature conclusive sono sempre state le stesse. I \racy e in partenza per Londra, dove la attende una produzione teatrale di sei mesi. Isaac si accorge improvvisamente di cosa sta per perdere e le chiede di restare; non vuole che "quel non so che mi piace di te possa cambiare”. La ragazza annuncia che deve prendere l'aereo, e aggiunge: “Non potevi dirmelo la settimana uorw? Senti, sei mesi non sono tanti. Non è che tutti si lascino traviare. Bisogna avere un po' di fiducia nelle persone.” Ike fissa Iraiy con sguardo interrogativo, poi sorride. Sul crescendo di 469

“Rhapsody in Blue”, il film si chiude con una serie di inquadratu­ re dello stupendo skyline di Manhattan.} Mancava però un cli­ max quando affronto Yale nella sua aula. Non avevamo niente di particolare per quella scena. [Yale è interpretato da Michael Murphy. Tutti e due gli uomini sono innamorati del personaggio di Diane Keaton. Si vedono alcuni scheletri umani e di scimmie a cui Woody fa qualche riferimento comico in quella che è in larga parte una scena drammatica. Vedi pag. 68] EL: Gli scheletri erano previsti nella sceneggiatura o sempli­ cemente li trovasti nell’aula?

WA: Penso che fossero lì. Non avrei mai pensato di inserir­ li nel copione. Come dicevo l’altro giorno, chi deve vendere una sceneggiatura è costretto a inserire molti particolari. Allora si scrive, Ripresa di lui che sale le scale. Il suo sguardo è truce. Stacco sullo scheletro dell’aula che fa pendant con il suo volto. Bisogna visualizzare il film in modo che i finanziatori ne abbiano un’immagine completa e accurata. Io non l’ho mai fatto, quindi immagino che l’aula fosse quella. Vedi una cosa e la sfrutti. EL: A intuito direi che Crimini e misfatti rientra nella catego­ ria dei film difficili da montare. WA: Sì. Di Crimini e misfatti pensavo che la parte sui crimini [ride] fosse avvincente. Credo che il pubblico sia rimasto coin­ volto dalla vicenda di Judah. A un certo punto mi chiesi: “Ehi, a che serve la storia parallela [quella più a sfondo comico di CliffD” Avrei dovuto girare un film solo con la parte tragica. Certe volte lo penso ancora. Come ti ho detto, in base all’idea originaria io e Mia avremmo dovuto girare un documentario sugli ospizi; facemmo un sopralluogo almeno in una struttura, da quello che ricordo, e anche delle riprese. Ma la storia nel 470

• «•inplesso non voleva saperne di decollare, tanto che dovetti • Igirarc l’intera parte dei “misfatti”. II.: Nella tua visione, il montaggio è narrazione... una fase •iicerssiva del processo di scrittura, un intervento di revisione i»e< erniario. Per esempio, ne abbiamo già parlato, dopo aver pro­ le! luto il primo cut del film riscrivesti completamente il ruolo di Alan Alda, inventandoti il documentario al vetriolo che il tuo pr«nonaggio gira su di lui.

WA: Già. Lui era il mio antipatico cognato. Nella prima ver­ sione, Channel 13 [la stazione newyorchese della televisione pub­ blica americana] stava girando un documentario su di lui e la tomi mi dava fastidio, mi rodeva che tutti quegli autorevoli Intervistati lo sviolinassero e cadessero vittima del suo fascino. ( «tal mi venne l’idea: “Perché non sono io a girare il documen­ tarlo? Fornendo di lui un’immagine a 360 gradi?” Nacque tutto «la qui.

1'4.: Quale è stato un altro film diffìcile da montare? WA: Oh, Zelig fu molto, molto difficile.

I .l.: A causa degli aspetti tecnici? WA: No, la parte tecnica di Zelig non pose grossi problemi, malgrado sia quella che fece l’impressione maggiore sugli spet­ tatori. Credo che Gordon Willis ottenne finalmente la sua prima nomination all’Oscar per quel film... ironia della sorte, se ni pensa che per lui il lavoro fu relativamente semplice. [Una • earn da nomination arriverà nel 1991 per II padrino. Parte terza. I Aveva rivoluzionato la fotografìa cinematografica in altri venti film e nessuno gliene aveva dato atto, mentre in Zelig il suo «ompito fu svolto alla grande, come al solito, ma non poteva 471

dirsi nemmeno lontanamente complesso come in molti dei miei film. Ci limitavamo a girare usando lo stesso tipo di luci impie­ gate negli spezzoni di repertorio. Gli aspetti tecnici e le opera­ zioni necessarie a “invecchiare” il film non costituirono ostaco­ li insormontabili. I problemi di Zelig, piuttosto, erano legati al tipo di storia, all’impossibilità di avere acceso alla vita privata delle persone reali accanto alle quali Leonard Zelig viene mostrato; potevi mostrarle solo in situazioni pubbliche, mentre salgono i gradini di un edifìcio o montano in macchina, o partecipano a un ban­ chetto di gala. Ecco perché le riprese nella camera sterile [dove la psichiatra Eudora Fletcher registra le sue interviste con Zelig] furono un grande colpo di fortuna. Quando misi tutto insieme, il film [ride] durava quarantacinque minuti e non avevo modo di estendere le parti documentaristiche e di repertorio proprio a causa dell’impossibilità di girare scene tra persone. Dovetti per­ ciò inventarmi digressioni, narrazione e altra roba. Nonostante questo, ancora oggi è uno dei miei film più brevi. EL: Ottanta minuti. WA: E senza trascurare le parti comiche. Ma è uno dei miei film più riusciti. “Riuscito” nel senso che fui in grado di tradur­ re su pellicola l’immagine che avevo in testa, anche se, per la verità, l’idea iniziale era di girare il film senza usare la tecnica del documentario. Volevo girare ima storia realistica, che aves­ se come protagonista una persona capace di trasformarsi in coloro con i quali entrava in contatto. Mi piaceva l’idea che qualcuno volesse piacere talmente tanto da rinunciare alla pro­ pria personalità per assumere quella delle persone che lo circon­ davano. Per esempio, ti trovi a parlare con un tizio a cui l’altra sera è piaciuto lo spettacolo al Mark Hellinger e gli dici: “Oh, sì, sì. Mi sono proprio divertito,” mentre, al cospetto di uno 472

spettatore deluso, diresti: “Naa, non mi è piaciuto per niente.” Man mano che si accentua, questo atteggiamento sfocia nel fascismo, inteso come totale rinuncia alla propria personalità in nome dell’appartenenza e dell’accettazione da parte degli altri. Il contenuto del film, da principio, passò in secondo piano rispetto alla tecnica il cui impiego, all’epoca, era sconvolgente... girare un documentario d’epoca in bianco e nero. Con il passa­ re degli anni, dopo che il film è passato diverse volte in televi­ sione ed è quindi stato visto da un pubblico più vasto, gli spet­ tatori hanno cominciato a prendere coscienza del suo vero significato, del fatto che dietro gli aspetti tecnici ci fosse dell’al­ no. E quanti si sono dimenticati che avevo usato il medesimo espediente già in Prendi i soldi e scappa? Non era affatto una novità. Io ho iniziato la mia carriera cinematografica realizzan­ do un documentario.

EL: Quali altri montaggi impegnativi ti vengono in mente?

WA: Ci sono stati singoli problemi in molti film. Io e Annie fu estremamente difficile perché nasceva come flusso di coscienza di Alvy. Come ti dicevo, però, quando Marshall Brickman vide il primo cut - lui era co-sceneggiatore - mi disse che non riusci­ va a seguirlo. Id.: Si tratta della versione che buttasti nel Reservoir, la riser­ va d'acqua all’aperto di Los Angeles?

WA: No. Quello era II dormiglione. Quando girai II dormiglio­ ne in California, per alcune scene sviluppai una repulsione tale da stabilire che nessuno le avrebbe mai più viste. Ovviamente, Imbecille come sono, nella cisterna non buttai il negativo, che eia conservato in chissà quale cassaforte. Però, sì, buttai una si ampli nel Reservoir. 473

EL: Mi hai detto che per istinto, fin da Prendi i soldi e scappa, non hai mai montato un film durante le riprese. Perché?

WA: Le considero due fasi completamente distinte. Alla fine della giornata sono stanco, sfasato, voglio solo andarmene a casa e vivere la mia vita. Non voglio passare in sala montaggio e cominciare a farmi venire le paranoie sul film. Mi piace prima girare tutto il materiale e poi entrare in saletta riposato e mon­ tare il film. Con me il metodo funziona. Il montaggio in parallelo alle riprese ha i suoi pro e i suoi con­ tro. Se da un lato potrebbe consentirmi risparmi di costi, per­ ché mi accorgerei dei miei errori con il set ancora aperto, e quindi con tutto l’agio di apportare i necessari correttivi, dall’al­ tro rischierei di diventare ossessivo e continuare a girare all’in­ finito. Per lo stesso motivo, a differenza di tanti altri registi, non lavoro con un monitor. Per loro funziona, per me no. Sono sog­ getto a un incubo ricorrente in cui vado a controllare il monitor, tomo sul set per il ciak aggiuntivo, ricontrollo a video e decido di girare nuovamente la scena, così all’infinito. EL: Come però dicevi a proposito di coloro che avevano visto la primissima versione di lo e Annie e si erano appassionati alla storia tra Alvy e Annie, tanto da desiderare di saperne di più, è il rapporto tra quei personaggi il vero motore del film.

WA: Sì, c’è una trazione, la spinta incessante, come un PacMan che ti mangia in continuazione, generata da ciò che sta per succedere. È quello che il pubblico vuole vedere, tanto al cine­ ma quanto in teatro. Un film lo puoi rendere astratto quanto ti pare, agghindarlo o renderlo contemporaneo, ma alla fine è come il jazz. Il jazz è venato da una melodia alla quale vuoi sem­ pre tornare. Persino i musicisti che suonavano jazz moderno, come Charlie Parker, avevano un grande rispetto per la melo­ dia. Si scatenavano, divagavano con gli a solo, ma la melodia era 474

sempre lì. Il grande pubblico ha cominciato a perdere interesse per il jazz proprio quando i musicisti sono diventati talmente astratti da perdere il legame con la melodia. Lo stesso vale per il cinema e per il teatro. Va benissimo esse­ re freschi e originali nella struttura, ma devi sempre porti la domanda: “Cosa succede dopo?” È quello che gli spettatori vogliono sapere. Era così anche in Io e Annie. Il film era infar­ cito di quelli che, all’epoca, ritenevo colpi di scena e rimandi molto intelligenti. Pensavo: “Oh, che idea brillante, questo si ricollega a quest’altro in maniera assolutamente logica dal punto di vista del flusso di coscienza.” Quando però perdi il filo della trama, di cosa deve succedere dopo, il pubblico si irrita. Non puoi confondere le arti narrative, a sviluppo temporale, con la pittura. In pittura, puoi sempre guardare un Pollock e ricavarne un’intensa emozione, emozione che può durare solo due secondi... o due ore, se riesci a restare impalato davanti al quadro tutto quel tempo. Al cinema o in teatro, invece, dove la vicenda si sviluppa nel tempo, il pubblico deve sentirsi coinvol­ to, farsi trasportare da qualcosa.

EL: Molto tempo fa mi dicesti che il montaggio deve sempre andare in crescendo perché, man mano che ci si avvicina alla conclusione, il tempo collassa. WA: Nella commedia sì. Quando proponi una commedia, il pubblico ti concede credito fino ai primi venti minuti circa, il testo te lo devi sudare. Più vai avanti, più diventa diffìcile. Quando lo spettatore è seduto ormai da un’ora, poi da un’ora e un quarto, vuole vedere i fatti, non è più disposto a ulteriori concessioni.

KL: Nei vari rimontaggi di Io e Annie, ti toccò eliminare qual­ che scena che ti piaceva in modo particolare?

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WA: C’era una cena con Colleen Dewhurst [morta nel 1991] che durava davvero troppo, poi la scena in cui io sono seduto a chiacchierare con i genitori di Annie, mentre lei guarda la televisione, e risulta evidente che l’ho condizionata in modo antitetico rispetto all’educazione ricevuta dalla famiglia. Stiamo parlando di non so cosa e all’improvviso Annie se ne esce con un: “La quantità influenza la qualità.” E loro: “Chi lo dice?” E lei: “Karl Marx.” Al che la signora Hall replica, con tutta la sua ingenuità: “Ah, proprio l’altra notte ho fatto un sogno buffissimo. Molto buffo. Nel sogno c’eravamo io e papà, che cercava di riparare il televisore. Io scendo, lo trovo infuriato, prendo l’antenna del televisore e gliela spezzo.” Era una scena molto comica, incentrata sull’ingenuità di chi non ha la più vaga idea di cosa sia l’interpretazione freudiana dei sogni. La lasciai nel film per un po’ di tempo, ma fu eliminata dalla versione definitiva. EL: Prendi i soldi e scappa ti diede delle difficoltà. Trovasti invece 11 dittatore dello stato libero di Bananas più semplice? WA: Bananas filò molto più liscio perché in corso d’opera continuavo a pensare [schiocca le dita]: “Non preoccuparti di niente. Questo film farà sbellicare dalle risate. Qui ci mettiamo un po’ di musica di sottofondo e il pubblico impazzirà.” Sì, fu molto più facile.

EL: E Interiors? WA: Interiors fu afflitto da un sacco di problemi. Non avevo esperienza in quel genere di film. Mi piacerebbe rigirare Interiors oggi, sarei assolutamente in grado di farne un film inconfutabilmente buono, credo. Avevo fatto il passo più lungo della gamba: volevo realizzare un film drammatico, ma non quello che veniva spacciato per drammatico nel cinema com476

tncrciale. Non volevo un melodramma, volevo un dramma nel­ l’accezione più densa, più europea del termine. [Sz interrompe e scuote la testa.] Avevo una grande idea di partenza e riuscii a tirare fuori solo una percentuale del suo potenziale. Oggi, inve» c, riuscirei davvero a renderla in maniera efficace... l'L: Come ti regoleresti oggi?

WA: Anzitutto lo farei molto meno poetico, calcando di più nuH'aspetto realistico. Inoltre, farei comparire Maureen I Stapleton] molto prima e renderei gli attriti più accesi e sgrade­ voli fin dall’inizio, in modo che tutto il film crepitasse di conflit­ ti. All’epoca lavoravo su registri diversi. Infatti, io e Ralph dovemmo sudare parecchio per portare a casa il film. Il primo dialogo, per esempio [E.G. Marshall nei panni di Arthur, il mari­ to della tormentata Ève, interpretata da Geraldine Page, rivolge lo sguardo fuori da una finestra panoramica dalla quale si gode lo skyline di New York, le spalle rivolte alla macchina da presa. Con tono narrativo dice: “Mi ero ritirato dalla facoltà di Legge quando incontrai Ève. Era molto bella. Pallidissima e austera con il suo vestito nero... con mai più di un solo filo di perle. E distaccata. Sempre irreprensibile e distaccata”], era previsto settanta pagine pili avanti nel copione. Un film poetico ti dà certamente più agio in variazioni del genere.

Qualche giorno dopo, Woody ha appena finito la prima versio­ ne di Scoop e non è di buon umore. Il film non corrisponde chia­ ramente a quanto aveva sperato. WA: Dopo la prima proiezione sono quasi sempre deluso. I Risatina.] È il momento della doccia fredda. Il film non è mai meraviglioso come speravi che fosse. E questo certamente non lo è.

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EL: Può essere salvato?

WA: [Lunga pausa] Se devo essere sincero, temo di no. Questo non significa che sarà necessariamente un flop. [Sarà anzi un successo.] Il perché certi film riscuotano successo al bot­ teghino per me rimane tuttora un mistero. EL: Quando ne riguardi singoli frammenti, un tempo alla Moviola e oggi sullo schermo del computer, riesci a intuire in qualche modo come verrà, oppure cominci a capirlo solo dopo che hai realizzato un primo montaggio integrale e lo guardi dal­ l’inizio alla fine?

WA: Quando monto le singole scene [jojpóu] non ho la mini­ ma idea di quale sarà l’effetto complessivo. No. Quando lavori sul particolare c’è sempre un’atmosfera di autocompiacimento, fiducia, e ottimismo... finché poi vedi quello che hai prodotto. [Ride ironicamente.] E ti viene lo scoramento. Il film è sempre troppo lungo, è sempre troppo lento. Immancabilmente, qual­ cosa che pensavi fosse molto divertente non fa ridere, qualcosa che pensavi fosse meraviglioso non lo è, alcuni rapporti che pensavi si sarebbero sviluppati in certo modo in realtà prendo­ no pieghe del tutto diverse. Tutto quello che può andare male, va male, e scopri che niente è all’altezza delle tue aspettative. EL: Nel caso di Scoop avverti una debolezza di regia?

WA: No. Non ho la sensazione di averlo diretto male, anzi, credo di averlo costruito piuttosto bene. Nessun regista al mondo avrebbe fatto di meglio con il materiale che avevo scritto. Certo, qualcuno avrebbe potuto rendere più efficace­ mente certe scene, mentre altre le ho girate come meglio non si poteva. Ma il punto dolente è la scrittura, è quasi sempre la scrittura. È difficile scrivere una storia della durata compresa

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tra un’ora e mezza e le due ore e che sia interessante, fresca, originale, credibile, commovente. È qui che cascano tutti gli asini. Io di sicuro.

EL: Qualche scena in particolare che hai guardato dicendo: ”( )h cavolo, questa proprio non funziona”? WA: Be’, posso dirti questo: il primo cut durava due ore e quattordici minuti, adesso siamo a un’ora e quaranta.

EL: E cosa hai eliminato?

WA: Un sacco di fuffa. Molte scene che tutto sommato trova­ vo divertenti - inseguimenti, pedinamenti, scene romantiche i on Hugh Jackman e Scarlett - e molte mie battute che mi sem­ bravano fiacche. EL: Ora che sei tornato a New York, ti piacerebbe poterlo rigirare? WA: [Assorto per un momento] Sì, è un peccato. [Pausa.] Non •o quanto potrebbero incidere, ma ci sono alcune scene che mi piacerebbe rifare. Mentre stai montando, invece, quando sei ingobbito sulla macchina, hai voglia solo di trovare una soluzione •• passare alla scena successiva, non vuoi perdere tempo... Allora guardo la montatrice, lei guarda me, ed entrambi pensiamo la stes­ sa cosa: “Chi ha voglia di lasciare questa cosa in sospeso?”

Novembre 2005 / lo visto Scoop. Ci incontriamo al Manhattan Film Center per parlarne.

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EL: Scoop si è ridotto a novantuno minuti - durata standard per le tue commedie - dopo una serie di tagli spietati. Qualcosa da segnalare dal punto di vista del montaggio?

WA: Il problema principale era di fare in modo che il film pro­ cedesse. Essendo una commedia, e una commedia leggera, non hai molto su cui lavorare se non una storia briosa che deve pro­ cedere in maniera soddisfacente. Se ti impantani, è la fine.

EL: Sono spariti molti dialoghi espositivi fra Scarlett e la sua compagna di appartamento e hai tagliato molto dei rapporti e delle schermaglie preliminari con Hugh Jackman. WA: Esatto. Sai, l’ho imparato - anzi, non l’ho mai imparato, l’ho osservato ma mai imparato - con la mia prima commedia, Don’t Drink the Water, in cui scrissi una valanga di materiale inutile. La tendenza è sempre quella ad aggiungere parole in modo da spiegare, arrotondare le situazioni. Avevo scritto circa cinque pagine di dialoghi tra Tony Roberts, che interpretava il figlio dell’ambasciatore, e la figlia di Lou Jacobi e Kay Medford, ma nell’istante stesso in cui la famiglia entra con la giovane figlia e i due ragazzi si guardano [schiocca le dita], di tutto quel mate­ riale non c’è più bisogno, capisci che è completamente super­ fluo. L’attrazione reciproca era talmente evidente che le cinque soporifere pagine di copione finirono dritte nel cestino. Queste considerazioni valgono anche per i film. Ho potuto constatarlo [ride] mille volte, eppure ci casco sempre, come in questo film. EL: Tutto quello che bisogna sapere, si vede. WA: Esatto. Tu credi che il pubblico non capirà e allora spie­ ghi, chiarisci, precisi, ma la verità è che gli spettatori sono sem­ pre molto più avanti di te. [Sorride.] 480

EL: Il che, immagino, aiuta a concludere una commedia in crescendo. WA: [Sorride di nuovo] Per riuscire a chiudere un mio film con il botto, certe volte ho davvero l’impressione che dovrei piazzare una cartuccia di dinamite sotto il negativo e farla esplo­ dere.

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Parte settima La colonna sonora

Ottobre 1973 I Ina caratteristica peculiare dei film di Woody Alien è l’uso quasi esclusivo di popolarissimi standard e di jazz americano degli anni • । impresi tra il 1900 e il 1950; per il resto delle colonne sonore si affi­ da alla musica classica. La passione di Woody per il jazz. di New I irleans nasce nei primi anni della sua adolescenza. Quindicenne, tumincia a praticare il clarinetto, suonando inizialmente tra le mura domestiche, in accompagnamento ai dischi di George Lewis. Uno dei grandi interpreti del clarinetto nello stile di New Orleans, Lewis muore nel 1968 ma il suo sound - robusto, espressivo, lontano dalla nettezza di un Benny Goodman ma piuttosto dolente e sommesso, attraversato da venature malinconiche e spinto sul vibrato - riecheg­ gia spesso nell’approccio di Woody allo strumento (a casa Alien, su una mensola ingombra di libri campeggia una foto di Lewis, e la sua t a sa di produzione cinematografica si chiama Perdido in onore della strada di New Orleans che è diventata sinonimo dijazz.) Di tanto in tanto la musica di New Orleans trova il modo di intrufolarsi nei suoi him. Questo stile si contraddistingue per un ritmo pari, che spinge l'ascoltatore a battere il tempo con il piede, e una melodia alla quale tutti i componenti del gruppo si attengono fedelmente, anziché usar­ la come base per improvvisazioni, come avviene invece nello stile di ( Imago o di Kansas City. Poiché l’armonia riveste un’importanza minore rispetto alla melodia e al ritmo, ciascun musicista, pur aven­ do il proprio ruolo e lo spazio per gli a solo, suona con gli altri mem­ bri dell’orchestra privilegiando il risultato d’insieme. Pochijazzisti si 485

dedicano ormai allo stile di New Orleans che può dunque essere con­ siderato una forma d’arte in via di estinzione, il cui periodo d’oro prende le mosse nei primi anni del Novecento: a quell’epoca, parten­ do dalla tradizione delle marce e degli inni che le bande di quartie­ re suonavano durante le processioni funebri e nelle jam-session, nasceva una musica particolarmente briosa, calda e passionale. Woody si esercita nei toni lunghi [suonare una nota e tenerla, più e più volte] ogni giorno, anche durante le riprese, e quando suona sembra perdersi nella musica. Standogli accanto, spesso lo si sente fischiettare questa o quella melodia jazz. La musica lo assorbe completamente. Un giorno, nell’estate del 1973, in una pausa per il pranzo durante il montaggio del Dormiglione faccia­ mo un giretto in un negozio di dischi sulla Ottava Avenue a Manhattan. Tiro fuori un paio di album di Lewis e gli chiedo se vanno bene per un primo approccio. Woody studia l’elenco dei brani sulla copertina, annuisce e dice in tono malinconico: "Darei qualsiasi cosa per essere al tuo posto e ascoltare questa musica per la prima volta.” Anche se II dormiglione si svolge in un futuro lontano duecen­ to anni, Woody pensa di ricorrere al jazz di New Orleans come sottofondo musicale: “Non voglio usare il solito Moog che si sente in tanti film ambientati nel futuro. Voglio una colonna sonora in antitesi con la storia” - un mélange di fantascienza, amore, slap­ stick e inseguimenti. Quell’autunno, dopo che ilfilm è stato mon­ tato, lo accompagno a New Orleans dove registrerà parte della colonna sonora, quattro session durante le quali si unirà alla sto­ rica Preservation Hall Jazz Band. Il trombonista “Big Jim” Robinson, ottantatré anni, ottiene un suono meraviglioso dal suo strumento utilizzando praticamente solo la parte destra della bocca, con la guancia sinistra piatta e la destra gonfia come un pal­ lone. Chester Zardis al basso, settantaquattro anni, è alto meno di un metro e settanta e suona seduto su uno sgabello. Durante l’a solo la sua gamba destra scatta in fuori, a tempo con la musica. Emmanuel Sayles, il suonatore di banjo, e il pianista Sing Miller 486

Woody con la Preservation Hall Jazz Band durante le registrazioni della colonna sonora del Dormiglione nel 1973.

scoprono i denti durante i rispettivi a solo. Sayles ha diversi denti d'oro tra i molari destri, e spalanca la bocca per mostrarli; Miller ha un unico grosso incisivo inferiore. Percy Humphrey, trombet­ tista e leader dell’orchestra, ha un’aria tetra ma si muove con gra­ na Josiah “Cie” Frazier, alla batteria, è tutto un sorriso. Il più gio­ vane di loro ha almeno sessant’anni. Il Preservation Hall è diverso dal normale studio di registrazio­ ne. anzi, è diverso da qualsiasi sala di musica. Lo spazio è lungo quasi quindici metri e largo circa la metà. Il parquet del pavimen­ to è consumato, le pareti sono di legno nudo o intonaco scrostato, ma appaiono ricoperte in alcuni punti di pannelli perforati (il posto era stato, ai tempi, una galleria d’arte). Nonostante l’aspetto mal­ messo, l’acustica è ottima. Ci sono due file di panche, a partire da un metro circa dall’orchestra, che ospitano una ventina di persone; d resto dei circa duecento fan che vi si accalcano sta in piedi. Woody entra in pantaloni militari stirati, camicia di flanella con cravatta, giacca di velluto marrone e berretto color sabbia, appen­ de d cappotto dietro il pianoforte e si siede accanto a Humphrey 487

il quale, senza dire nulla, suona un paio di note morbide: all’uni­ sono, la band parte con “Little Liza Jane". Il leader darà lo stesso attacco per ogni brano. “Ha un orecchio straordinario," dice Humphrey di Woody dopo la session. “Ha fatto quello che va fatto quando sei ospite di una band: ci veniva dietro, non ha cercato di comportarsi da star." Tra una take e l’altra gli spettatori comprano dischi dell’orche­ stra e chiedono autografi ai musicisti, compreso Woody, che ovvia­ mente non suona sugli album. Lui preferirebbe sottrarsi e guarda­ re qualche minuto delle World Series alla TV. Si ritrova invece sulla traiettoria di un giovanotto alto circa un metro e sessantacinque; Woody è uno e sessantotto. “Se sono più basso di te mi suici­ dio, ’’ dichiara il ragazzo, poi si allontana. Woody lo fissa inespressivo per un attimo. "[Dick] Cavett è uno che ha sempre la risposta pronta in casi come questi," mi dice. (A pranzo, in precedenza, una donna anche piuttosto avvenente gli ha passato un bigliettino. "Se sei chi credo io,” c’era scritto, “ho sempre sognato di scoparti fino alla morte." Woody ha alzato lo sguardo verso di lei. “E chi credi che sia?" le ha chiesto.) Tra una sessione di registrazione e l’altra, Woody ascolta i nastri nella regia audio all’interno di un furgone parcheggiato sul mar­ ciapiede di fronte alla sala. Gli piacciono in particolare le versio­ ni di “Savoy Blues" e “Climax Rag". Prima di una seduta Woody dice ad Allan Jaffe, suonatore di tuba, fondatore e gestore del Preservation Hall, che per gli inse­ guimenti ha bisogno di qualcosa di leggermente più ritmato rispetto a quello che stanno suonando, ma sa che non è il caso di chiedere all’orchestra di suonare più veloce. “Chiedere a una band di suonare più veloce è peggio che chiedere di suonare ‘When the Saints Go Marching In, ’” dirà Jaffe più tardi. Allora, durante una pausa, Jaffe chiede a Humphrey con nonchalance: “Cosa suonere­ sti se fosse mezzanotte e ventisette e volessi essere al club per mez­ zanotte e mezza?” Il trombettista riflette un attimo, poi la band suona “Bye and Bye" a ritmo sostenuto. 488

Woody sa che non otterrà tutto quello che gli serve per il film e ha già organizzato una sessione di registrazione a New York con la propria band, la New Orleans Funeral and Ragtime Orchestra. "Per alcune scene ho bisogno di una musica che si adatti ai punti m cui corro, per esempio, e alla mia band posso dire di suonare più veloce o più lentamente, o se ho bisogno di un cambio di ritmo, di un assolo di tuba, o di un paio di miei interventi al clarinetto. Con l'orchestra di un altro non posso permettermelo. Sarà interessan­ te il contrasto tra i due approcci musicali.” A mezzogiorno e mezzo del secondo giorno termina l’ultima ses\ione. Albert Burbank, forse oggi il miglior interprete del clarinet­ to nello stile di New Orleans, viene a congratularsi con Woody. Poi si avvicina Jim Robinson. " Ti ha mai detto nessuno che il tuo suono ricorda il mio vecchio amico George Lewis?” chiede a Woody. Non poteva fargli compli­ mento più gradito. “Mi ripeti il tuo nome?” "Woody,” farfuglia lui. "Willard? Sei molto bravo, Willard.”

Marzo 1989 Woody e Sandy Morse sono seduti nella sala di proiezione del Manhattan Film Center, impegnati nella risoluzione di due pro­ blemi di colonna sonora in Crimini e misfatti, uno piccolo e uno grosso. Quello piccolo consiste nel trovare una collocazione per "Sweet Georgia Brown”. Woody l’ha provata inizialmente su una ripresa di Alan Alda (Lester) che cammina per strada. "Troppa musica per un montato tanto breve,” commenta dopo aver visionato la scena. “Dovrebbe partire all’inizio di un collage più lungo. Abbiamo altro che possiamo inserire?” Viene aggiunto un frammento in cui Lester passeggia insieme a un professore uni­ versitario, ripreso da Cliff (Woody) che sta girando il suo docu­ mentario. 489

Lo scoglio più problematico riguarda il finale, quando Ben, il rabbino cieco interpretato da Sam Waterston, balla con sua figlia durante la festa di matrimonio della ragazza e la musica prosegue fino ai titoli di coda. Woody prevedeva di usare “Always” di Irving Berlin, ma quando è venuto a sapere che Steven Spielberg sta girando un film con lo stesso titolo, “come un cretino ho fatto tele­ fonare all’ufficio di Spielberg per chiedere se la canzone ha un grosso peso nel suo film, nel qual caso non l’avrei usata per ilfina­ le del mio. Poiché la risposta è stata ‘sì’, la elimino.” Alla notizia che gli eredi Berlin hanno negato a Spielberg il permesso di usare la canzone, Woody si morde le mani per aver preso quella inizia­ tiva, soprattutto perché non riesce a trovare nulla di altrettanto appropriato. Un problema aggiuntivo è costituito dalla cecità di Ben: un titolo che contenga un riferimento agli occhi, come "I Only Have Eyes for You” o “Jeepers Creepers (Where’d You Get Those Peepers?)” [“Peepers” è un’espressione slang per “occhi”], sarebbe un’ironia fuori luogo. Woody e Sandy si sugge­ riscono titoli a vicenda, alzandosi di tanto in tanto per controlla­ re il retro di copertina di alcuni degli album riposti in uno scato­ lone sulla libreria addossata alla parete, oppure per consultare l’elenco dei titoli ASCAP (ossia tutte le canzoni registrate con la American Society of Composers, Authors and Publishers). Woody conosce praticamente ogni canzone almeno decente scritta tra il 1900 e il 1950. “‘Make Believe’ l’abbiamo già usata in Settembre," riflette. “‘We’ll Meet Again’ l’ha usata Kubrick in... in... nel Dottor Stranamore. Ha la sdolcinatezza giusta. ‘Speak to Me of Love’... Tf I Loved You’... ‘I Only Have Eyes for You [ride]. Faccio sempre questa pessima battuta involontaria, ma la canzone è proprio carina e mielosa. ‘As Time Goes By’ non è utilizzabile. T Dream Too Much’ la usammo già sul tetto con [Bob] Balaban. Non vorrei usare Gershwin dopo Manhattan. Cole Porter è l’autore sbagliato per la musica di chiusura. Ci sarebbe ‘Falling in Love Is Wonderful’, ma un brano di Berlin non può andare dopo le immagini. [Gli eredi 490

I Ir ri in, infatti, richiedono che la musica accompagni la storia e non vudu sui titoli di coda.] Che dici di Tm Confessiti’?” "Anche quella è in Settembre,” risponde Sandy. "Ok. [Pausa.] Voglio un’atmosfera tipo 'Lara’s Theme’, che è un valzer. [Un’altra pausa.] TU Be Seeing You’ è in Edipo relit­ to 'You’re Too Beautiful’ l’abbiamo usata. ‘Bewitched’, usata. Isn't It Romantic?’...” "Non penserai che proprio questa ti sia sfuggita.” (È in Hannah r Ir sue sorelle.) "Qualcosa di Vemon Duke? Certamente niente di Duke l.lhngton. Troppo jazzy. Porter è troppo sensuale, ha un ritmo più latino. Non va bene. Qualcosa di Leonard Bernstein? On the lówn..., My Sister Eileen. [Si interrompe di nuovo.] A posterio­ ri e molto divertente pensare di confrontarsi con la forza delle de» trioni. La scelta è vastissima.” (Qualche settimana dopo finirà per scegliere TU Be Seeing You", non avendo trovato nulla di meglio.)

Non molto tempo più tardi, si verifica un problema simile con la colonna sonora di Edipo relitto. Prima di affrontarlo, Woody vuole correggere un attacco musicale che ancora non lo convince, quello di “I Want a Girl”, quando il suo personaggio, parlando della propria madre con uno psichiatra, dice: “Io la adoro. Però vorrei tanto che sparisse.” Woody ascolta un paio di volte e poi du e: "Non voglio che si sovrapponga alla battuta.” Risolto l’inghippo, Woody è in piedi accanto al giradischi della sala montaggio, mentre cerca un brano di pianoforte per sostitui­ te (a versione di Prankie Carle di TfYou Were the Only Girl (in the World)”, i cui diritti non sono disponibili. Vicino a lui, una pila di una ventina di dischi che ha tirato giù dalla libreria. < ontinua ad abbassare la puntina del braccio Victrola sui vinili di ogni brano candidato, ora di Erroll Gamer, o di Earl “Patha” I lines, o di George Shearing tra gli altri; inutilmente. Uno è "troppo barocco”, l’altro “troppo zuccheroso”, un altro “adatto a 491

un piano bar”. Si notano i primi segni di nervosismo. "Voglio un brano del periodo giusto, non troppo vecchio, niente Fats Waller. Voglio una melodia diretta,” dice, mentre appoggia sul piatto l’en­ nesimo album.

Novembre 1989 È un sabato, e dunque oggi niente riprese di Un’altra donna. Ci vediamo nel soggiorno del suo appartamento, affacciato su Central Park. Parlando della sua evoluzione come film-maker, la conversazione tocca per un attimo la scoperta del jazz di New Orleans quando era piccolo, poi ci soffermiamo per qualche minu­ to sui suoi primi film e su come ha imparato a usare la musica a proprio beneficio. EL: Dalle tue dichiarazioni nel corso degli anni, mi sembra di capire che il jazz fosse uno dei legami più forti tra te e i tuoi amici. WA: Sì, il jazz tradizionale ci univa moltissimo. C’era un DJ che lo passava alla radio, un certo Ted Huesing, che poi diven­ tò cieco. Il mio amico Jerry Epstein fu uno dei primi a possede­ re un registratore magnetico, un macchinario enorme e compli­ cato con il quale registrò su nastro quello che in seguito scoprii essere un concerto di Sidney Bechet a Parigi. [Lo sfrontato e per­ sonalissimo stile di Bechet si contraddistingue per gli arpeggi indiavolati e il vibrato ampio.] Lo ascoltai e mi sembrò meravi­ glioso. Da allora la nostra piccola tribù di amici coltivò un inte­ resse crescente per il jazz tradizionale al punto che, in un certo senso - e non lo dico per darmi delle arie -, diventammo tutti esperti. Come fanno i ragazzi, conoscevamo ogni musicista che suonava in ogni disco, sapevamo tutto della storia e della leg­ genda del jazz. Io avevo tredici o quattordici anni. Cominciai a suonare il clarinetto subito dopo. 492

Come diversi suoi amici d’infanzia, Woody si innamorò del jazz di New Orleans nei primi anni dell’adolescenza, cominciando subito dopo a suonare il clarinetto.

I.L: In una intervista del 1965 con Ralph Gleason del San Iran etneo Chronicle affermi: “La seconda volta in cui vidi Sidney Bechet - era un concerto newyorchese; lo avevo visto in prece­ denza ma in condizioni sfavorevoli, nel locale sopra il Birdland In l'esperienza artistica più appagante della mia vita.” Cosa piovocò una reazione tanto sconvolgente? WA: Ero arrivato con enormi aspettative e lui le ripagò con gli interessi. Bechet ti lasciava a bocca aperta, la sua energia era incontenibile. Rimasi colpito dall’assoluta maestosità del suo modo di suonare. EL: So che facevi molto sport. Dedicavi altrettanto tempo alla musica?

WA: Passavamo molte, molte ore a non fare altro che ascolta­ te quella musica. Tornavamo da scuola e ci riunivamo nella casa di uno di noi. Il mio amico Elliott Mills fu uno dei primi ad 493

avere un impianto di alta fedeltà. Io possedevo un fonografo da dodici dollari e mezzo, una specie di valigetta con il coperchio. Non smettevamo mai di ascoltare jazz, ossessivamente, una nota dopo l’altra. Spesso dopo la scuola, quando tutti sciamavano al Cookie’s, il ritrovo dalle parti dell’El, e si facevano un panino e una gazzosa, socializzavano, formavano le coppie per il cinema o per la sala da biliardo, io mi chiudevo in camera mia, con l’orecchio attaccato al giradischi.

EL: In Prendi i soldi e scappa c’è molto jazz, ma la colonna sonora originaria era diversa. Cosa successe? WA: Non avevo mai realizzato un film prima di allora e non sapevo dove sbattere la testa. Commettevo gli errori più mador­ nali; mi faceva schifo tutto; molte scene in cui non avevo usato un sottofondo musicale risultavano fredde e asettiche. Quando entrò nel progetto, Ralph Rosenblum mi disse: “Senti, hai scar­ tato una caterva di materiale divertente, invece basta metterci della musica,” oppure: “Non puoi usare come sottofondo un brano sinistro che sembra una marcia funebre.”

Virgil si prepara a un appuntamento galante in Prendi i soldi e scappa. Il suggerimento di usare in questa scena un vivace brano di Eubie Blake e altri consigli del montatore Ralph Rosenblum cambiarono completamente il tono del film.

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< ?cra una scena in cui mi preparavo a uscire a cena con Janet Margolin. [Z suoi vestiti sono appesi in un vecchio frigorifero, le ». arpe sono nelfreezer.] Apro il rubinetto, mi infilo sotto la doc■ ta, ini guardo allo specchio, cose del genere... e sotto avevamo il Inailo più lugubre e triste del mondo. Ralph prese un ragti­ me di Eubie Blake e mi disse: “Guarda. Guarda cosa succede •< < i metti sotto una musica vivace.” E tutta la scena prese vita. All'improvviso mi si vedeva saltare di qua e di là, la resa cam­ ino da così a così. Erano milioni gli aspetti dei quali non ero • imsapevole. Sono convinto che fu Ralph a salvare quel film. I / .1 wquenza termina con il piano medio di Woody che esce dalla foit.i vestito in giacca e cravatta. La musica si interrompe e la "i.u china da presa resta sulla porta chiusa... dopo qualche istanWoody rientra e scopriamo che ha dimenticato di indossare i p,mt,doni e porta soltanto un asciugamano attorno alla vita.]

I I : Mentre scrivi un film hai già un’idea della musica che ti i vira?

WA: In genere so già, almeno in parte, che tipo di musica userò.

Ike corre da Tracy (Mariel Hemingway) nel finale di Manhattan, sull’accompagnamento di “Strike Up the Band". La scena è volutamente lunga, dice Woody, “per concedermi lo spazio sufficiente per una grossa dose di Gershwin"

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Non necessariamente i singoli brani, ma so per esempio che que­ sto film [Un’altra donna] avrà un suono classico mentre in un altro film impiegherò Rodgers e Hart. In Manhattan avevo la musica fin dall’inizio e certe volte erano le scene che dovevano adattarsi al commento musicale... per esempio nel collage di aper­ tura. [Con il sottofondo di “Rhapsody in Blue, ” il film è aperto da una serie di brevi inquadrature dello skyline di New York: l’alba, il profilo dell’Empire State Building, altri grattacieli, parcheggi, strade brulicanti di pedoni, il ponte di Brooklyn, giganteschi insegne al neon a Broadway, il logo della Coca Cola, diversi hotel, Park Avenue e Central Park coperti di neve sotto la luce dei lampioni, il quartiere dell’abbigliamento, una manifestatone di piazza. Sul cre­ scendo musicale entra la voce di Ike (Woody), come se stesse leggen­ do varie versioni dell’incipit di un romanzo scritto da lui stesso.} La corsa verso casa di Tracy [Mariel Hemingway] alla fine [“Strike Up the Band” in sottofondo mentre Woody corre lungo una avenue di Manhattan] la scrissi appositamente per poter inserire il brano. Volevo esagerare con la musica e perciò, diverse volte, allungavo le scene per concedermi lo spazio sufficiente per una grossa dose di Gershwin. Lo faccio di rado, ma poiché sapevo già quale musi­ ca avrei usato, prolungavo consapevolmente le scene per dare spa­ zio alla colonna sonora. In questo, invece, una scena a tavola potrà essere accompa­ gnata da un concerto per clarinetto di Mozart o da un pezzo per pianoforte di Bach, ma in generale la colonna sonora sarà com­ posta di musica dissonante.

Aprile 2006 EL: Qual è il ruolo della musica in un film?

WA: Per me, la musica valorizza il film e talvolta rappresenta il salvagente di una scena: senza musica, la scena non funziona; 496

con la musica funziona. Se hai un buon film e ci metti della buona musica, è come rilanciare quando hai una mano vincen­ te a poker. E una bella sensazione. Se hai un film mediocre o addirittura scadente, la musica ne può risollevare le sorti, ma nolo fino a un certo punto.

EL: Come la scena di Prendi i soldi e scappa che non funzionava perché avevi usato una musica seriosa per un momento comico, finché Ralph Rosenblum non ti suggerì il brano di Eubie Blake.

WA: Già, ottimo esempio. E può essere vero anche di molti film privi di una colonna sonora musicale. In un kolossal di fan­ tascienza o di avventura possono esserci scene altamente spetta­ colari, nelle quali il pubblico reagisce maggiormente agli effetti sonori. Se guardassi le immagini prive di audio, vedresti un frammento con un tizio che salta, un altro con qualcosa che i rolla, poi un treno in movimento... I singoli frammenti sono buoni, ma l’effetto cumulativo non è niente di speciale. Se inve« r senti l’esplosione, le cose che vanno in frantumi e stridono, lutto diventa vivo. Trovo che la musica sia un grande aiuto nella commedia. Un lllni drammatico può essere efficace anche senza musica, ma la « ommedia non lo permette. Una volta feci l’esperimento, in Io r Annie, e mi convinsi che è meglio usare la musica. Altri film, Invece, li ho riempiti di musica. Fa parte del piacere di un certo tipo di film che trasmetti al pubblico. Oltre alle scene comiche r alle scene romantiche, c’è anche la sottolineatura musicale.