Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana 9788842096580

Esistono storie, nella lunga vicenda italiana, che si fa fatica a raccontare. Che restano nascoste, sepolte quasi dall&#

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Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana
 9788842096580

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i Robinson / Letture

Amedeo Feniello

Sotto il segno del leone Storia dell’Italia musulmana

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Referenze iconografiche: Tav. 4. Soprintendenza Speciale per il Polo museale fiorentino. Divieto di ulteriori riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo. Tav. 5. Berlin, Dahlem, Staatliche Museen. Tav. 7. Wien, Kunsthistorisches Museum. Tavv. 10, 11, 12, 13, 22, 23: Ministero dell’Interno. Fondo Edifici di Culto. 16. Su gentile concessione della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo. 18. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo. Photo: © Opera del Duomo. 19. Bern, Bürgerbibliothek.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9658-0

a Silvia Maddalo e Massimo Miglio a Fedra, con amore (Turano, agosto 2010)

Sotto il segno del leone Storia dell’Italia musulmana

I

Siracusa, 21 maggio 878

Non supplicate oggi. Noi non vi soccorreremo (Corano, sura XXIII, v. 65)

1. Premessa

Sotto questa storia giacciono sepolte le ossa e gli spiriti di santi guerrieri, di cavalieri, di strateghi, di mistici, di monaci che spingono all’odio e al coraggio, di sovrani solo all’apparenza tolleranti, di uomini di mercato e di mercanti di uomini, di imam e vescovi, di giudici, di eunuchi, di inaspettati viaggiatori. Di gente che scruta il mare, per vendetta o per paura, che scappa e lascia la propria terra, coltivata per decenni, da un giorno all’altro, da un momento all’altro. Di uomini sacrificati per punire e purificare, per sete di eliminazione, per bramosia di rapina, per pretese spirituali. Di profughi che piangono la madrepatria e, per ricordarla, non hanno altro mezzo che la poesia. Di chi si adatta alle circostanze, di chi abiura, di chi accetta con entusiasmo e incrudelisce nella propria nuova scelta. Di chi ama il fasto e costruisce luoghi di culto, e di chi costruisce il fasto accusando e vendendo. Ossa di donne, di vedove, di mogli che non accettano il destino segnato e che lo seguono fino in fondo, senza reticenze. Di ragazzi, bambini e fanciulli, la preda più ghiotta e più debole nei lunghi carnai delle colonne di schiavi trascinati nei porti. Masse intere, lunghe schiere, inerti, preda del dubbio, della paura, del momento e delle circostanze. Teoria di genti sommerse, piagate dal tempo. In un’epoca in cui gran parte dell’Italia, tutto il suo Mezzogiorno, è più Oriente che Occidente, più Africa ed Asia che Europa, assorbita in un universo musulmano: estrema propaggine, civilizzata ed evoluta, di un mondo che, tutto intero, andava da Cordova alle rive del Gange. Epoca splendida e tormentata, piena di chiaroscuri, di intolleranze e di saggezze, vissuta a lungo all’ombra del jihad. ­­­­­4

Pochi hanno ricordato questa storia, la storia di questi uomini, in un tempo che dura più di quattrocento anni. Meglio di tutti Michele Amari, nell’Ottocento. In seguito, pochi altri, per lo più stranieri. Agli italiani questa storia è piaciuta meno, come se un vieto presupposto, un paradigma storico e culturale, un patto di oblio, avesse quasi imposto di disinteressarsi a questa vicenda reputandola materia per arabisti e non per medievisti. Una questione, per dirla con altre parole, riguardante mondi lontani, al di là dei confini tracciati dell’Occidente: una storia a margine, in negativo, da scrivere tra parentesi, da recuperare solo quando l’Europa cala sul Sud, coi normanni. Basti solo ricordare le parole di Benedetto Croce nella Storia del Regno di Napoli: condizionanti, che segnano uno spirito ed un’epoca con un giudizio tagliente, che preclude qualsiasi altra forma di dialettica. Quell’immagine della nascita del regno degli Altavilla vissuta come un esperimento tipico dell’alchimia, di un’anarchia che si converte in gerarchia, della nascita dello Stato per opera della virtù politica. Dove ciò che è esistito prima è solo caos, confusione. Energie prive di consistenza, da piegare o da adoperare, domate da un processo assimilatore e sintetico, che dal niente fa nascere il Regno. Da allora sono trascorse e si sono accumulate tante altre tracce, tante interpretazioni, tanti giri di parole che, comunque, portano spesso tutte lì: ad una narrazione collettiva secondo la quale la storia del Meridione assume forza ed identità solo a partire da quell’anno zero della formazione del Regno, con la creazione di un sistema politico omogeneo dove, secondo l’opinione più diffusa, vincitori e vinti vivono gli uni accanto agli altri in un sostanziale clima di concordia e di unità. Con questa premessa, molte delle particolarità del Sud Italia, le sue città, le sue sfumature, i suoi toni e tradizioni, i suoi conflitti religiosi, le sue convivenze, le sue frontiere, le sue debolezze, le sue convergenze e divergenze, quasi scompaiono. Soprattutto quasi scompare l’Italia più scomoda, che parla arabo, ed è musulmana di religione. Diventa un accidente della storia, cui dedicare poche righe su un manuale. E si dimentica come, dietro queste poche righe, esista invece un tempo lungo, una cronologia, delle ricchezze, una civiltà – una grande civiltà – fatta di generazioni di uomini e donne che hanno combattuto, vinto, prodotto, costruito, pregato lo stesso Dio da orizzonti diversi, con circuiti spesso originali di pratica politica, amministrativa, sociale, economica. Un mondo ­­­­­5

che si è preferito in gran parte far sparire. Dimenticare. Perché è un mondo di vinti: e, si sa, per i vinti esiste poco spazio. Allora, quella che cercherò di raccontare è, per molti versi, proprio la storia di questi vinti. Una narrazione meritevole di essere recuperata anche solo – ed unicamente – per questo motivo: che abbraccia uno spazio geografico, un orizzonte, posto all’intersezione di culture, costumi, mentalità, credenze contrapposte, che confliggono ma talvolta necessariamente convivono, alla ricerca di un comune equilibrio e di un rispettivo spazio di sopravvivenza. Un racconto fatto di troppi silenzi, ma che nasconde, nei documenti e nelle cronache che qua e là si rintracciano, il profilo di un mondo che non è Europa, ma qualcosa di diverso. Ed è con questo senso di distinzione che va vissuta e interpretata questa vicenda: come materia di diversità. Per questo motivo, ho cercato di non lasciarmi fuorviare dal senso comune, e di osservare questa Italia con altri occhi, come un mondo sottosopra, dove il Sud è a nord e il Nord a sud. Nella quale energia e sviluppo, intraprendenza e spirito di progresso arrivano dal mare, dalle coste contrapposte alla Penisola e non da nord, dall’interno di un’Europa che, almeno per la parte iniziale di questa storia, resta sostanzialmente assente.

2. Parla un monaco

Questo ribaltamento, questo sovvertimento nasce limpido e scorre evidente se si dà semplicemente vita al racconto. Di conseguenza, esso non può che cominciare dalle parole di chi ha visto, di chi ha vissuto. Dalle parole di un uomo. Si chiama Teodosio. Non sappiamo molto di lui. Niente del suo viso, dei suoi atteggiamenti o della sua persona. Sappiamo che è un monaco e un grammatico. Uno che sa tenere bene in mano la penna, per mestiere. Un poeta. Che è un salvato, non un sommerso: per una fatalità. Un uomo che scrive da una prigione, dalla prigione di Palermo, da dove racconta, a chi può ascoltarlo, a chi può trarlo fuori da questa orribile condizione, una storia. La sua storia dell’assedio e della caduta della capitale bizantina di Sicilia, Siracusa, in mano musulmana. Teodosio è un narratore eccezionale, direi unico nel suo genere. E da quello che descrive, da ciò che gli rimane impresso sulla retina, ­­­­­6

capiamo anche che uomo era: per quello che sceglie di raccontare, per quello che gli interessa, per ciò che trascura, per quello che riporta, per le parole che usa, di disperazione, di ammirazione, di stupore. Per i suoi sussurri. Per il continuo trasferire l’attenzione di chi legge dalla condizione della città assediata alla sua condizione di prigioniero. Perché Teodosio non è solo uno che scrive, ma una persona che subisce l’assedio: insieme scrittore, testimone, protagonista e vittima della più drammatica esperienza che si possa provare in una vita. Quella di vedere crollare una per una tutte le cose per cui si è vissuto. La propria casa. I propri libri. I propri oggetti. Le proprie speranze. I propri impulsi. Il proprio quotidiano. Le proprie certezze. E vederle cadere nelle mani del peggiore nemico che un cristiano del IX secolo possa immaginare. Nelle mani dei musulmani. La lettera è indirizzata a Leone, arcidiacono. Un suo amico, da cui cerca aiuto. Una lettera personale, che vuol far toccare con mano ad una persona vicina, di fiducia, tutto l’orrore vissuto, che sta vivendo. Con un racconto che comincia nell’estate 877, con la descrizione dell’assedio, che a Siracusa arriva da mare e da terra. I musulmani si danno da fare: macchine da assedio, catapulte, arieti. Cunicoli per trovare, sotto terra, una strada per sfondare le mura ed entrare in città. Gli assalti si susseguono, improvvisi, da ogni lato, specialmente di notte, ma non si riesce a far breccia. Gli assalitori riescono però a rompere le catene che proteggono il porto. È il blocco navale. Dal mare non possono più entrare in città uomini, soccorsi e viveri. L’angolatura ora si sposta e dalle mura assediate l’occhio di chi racconta penetra in città: che si presenta spettrale, governata dalla fame. Lasciamo la parola a Teodosio. Mentre fuori impazzava la spada, dentro la città il terrore spargeva largamente la morte, e sembrava quasi che quell’antico vaticinio di Mosé dovesse applicarsi. Finite le erbe selvatiche e le più sordide cose, che per la fame pure dovemmo ingoiare, fummo spinti sino a divorare la carne dei bambini, nefanda cosa e da tacersi. Mentre prima non si era trascurato di mangiare la carne dei morti e degli uccisi.

La fame non dà tregua. I sopravvissuti mangiano carne umana. Quella di chi è rimasto morto in battaglia, dei malati, dei bambini. Esiste una zona d’ombra nella vita di ogni uomo, cui ­­­­­7

adattarsi, anche nelle peggiori circostanze: Teodosio lo sa. Non cerca di accampare scuse, di trovare assoluzioni. Ci deplorate per quello che abbiamo fatto? Non avevamo, per sopravvivere, altra scelta. Ma chi sarà mai che potrà deplorare adeguatamente le nostre sventure? Fummo prima costretti a cibarci di cuoia, di pelli, di qualunque altra cosa che ad affamati si credeva potesse essere di giovamento. Fino le aride ossa non furono risparmiate. Molti dei cittadini ridotti in questo stato prendevano le ossa, le macinavano, ci aggiungevano un po’ d’acqua, che ne forniva in abbondanza l’Aretusa, e con questo nuovo cibo, con questa poltiglia, cercavano di sedare la fame.

I più ricchi cercano di comprare del cibo, ma i prezzi sono alle stelle. Siracusa è in una di quelle condizioni in cui il denaro non conta ormai più niente. Già un moggio di frumento si vendeva a centocinquanta solidi d’oro; e dai fornai arrivava fino a duecento: perciò un pane del peso di sole due once, oh meraviglia, costava un solido d’oro; più di trecento solidi una giumenta, anche la più vile; quindici, venti solidi la testa di un cavallo. Rinomati come delizie la carne degli asini perché non c’era più altro tipo di carne, l’olio, ogni genere di condimento, il companatico, addirittura tutto ciò che a dire del teologo Gregorio forma il cibo del povero. Tutto era stato consumato, non si trovavano resti di formaggio, di legumi né di pesce.

La causa della carestia è il lungo assedio. Il blocco navale che impedisce alla città qualunque forma di contatto con l’esterno «perché sia l’uno sia l’altro porto tra cui giace Siracusa erano stati già occupati dal nemico, essendo già state prima rovinate e adeguate al suolo le fortificazioni che ne difendevano l’ingresso». Alla carestia non possono che seguire le epidemie, con malattie diverse, ma tutte micidiali. Alla fame, tenne dietro la pestilenza; il tetano, così detto dalle convulsioni, uccideva molta gente; molti altri venivano colpiti dalla paralisi, che gli inaridiva metà del corpo; altri repentinamente morivano; ed altri, col corpo miseramente gonfio, offrivano uno spettacolo terribile, ­­­­­8

finché la morte liberava quegli infelicissimi da un così grave penare, anche se per molti la morte tardava miseramente a venire.

Il monaco, a questo punto, si interrompe. Fa fatica ad andare avanti. Glielo impedisce il ricordo di cose grandi, che è difficile riassumere in qualche riga. Come anche la sua stessa dimensione di carcerato, il cui flusso di pensieri è ostacolato dalla confusione che regna intorno a lui, fino a istupidirlo. A tutte queste miserie altre ed assai e lunghe potrei aggiungere, se fosse lecito ad un prigioniero. Che altro posso fare io se non restringere cose grandi in poche parole, io che chiuso nel carcere nemmeno un istante ho di quiete, e il fitto buio mi ottenebra gli occhi e l’animo istupidisce, e lo strepito degli altri che sono con me in questo stesso carcere mi agita e stordisce la mente.

C’è tanta retorica in queste parole. Però permettono di toccare con mano la cella, il buio fitto, i corpi che si stringono l’uno all’altro, i suoni che si accavallano, il respiro che manca. Impongono a chi legge di spostare lo sguardo dalla città, che è una prigione che germina morte e malattie per tutti, al ristretto dolore personale del monaco. Alla sua cella di Palermo. La pausa dura poco. E l’assedio riprende. Siamo sulle mura. Su una delle torri d’angolo, presso il porto grande, che diventa l’epicentro dei combattimenti. A difendere la città non ci sono solo siracusani. Vi sono mardaiti, greci del Peloponneso, uomini di Tarso. Anche le donne non mancano. I preti confortano e pregano. E Teodosio racconta del coraggio di chi resiste e combatte. La torre che era all’angolo destro della città presso il porto grande, per la gran forza delle baliste che la percuotevano con dei sassi sconquassandola, in parte rovinava; cinque giorni dopo, a causa delle stesse macchine d’assedio, cadde anche il muro di difesa che alla detta torre era congiunto, sicché grande spavento agli assediati ne venne; ma quegli uomini valorosi e invitti, sotto la condotta del beatissimo Patrizio e capitano, controbattevano con impeto ai nemici si sforzavano di resistere sino allo stremo.

La resistenza si fa accanita. È il corpo a corpo. ­­­­­9

Per venti notti e venti giorni, senza posa, strenuamente combattevano contro i nemici che da quella breccia tentavano di penetrare; e i difensori mostravano la loro grande nobiltà d’animo, reputando essere gloria insigne esporre il proprio corpo a tante ferite per la difesa della città.

Il monaco non partecipa ai combattimenti. È solo uno spettatore. Arriva, lui dice, solo in prossimità della breccia e, da lì, assiste alla zuffa. Ad uno scontro impari, cento contro uno. I nemici erano tanti da sembrare una cosa incredibile, così che uno dei nostri doveva combattere con cento dei loro: una lotta che io chiamavo lotta di giganti ogni qualvolta andavo in quel luogo di battaglia, perché i nostri li spronava la gloria.

Dietro queste frasi di rito, c’è però tutto il terrore della battaglia, che Teodosio mostra con macabro dettaglio. Una scena grandguignolesca, un groviglio d’uomini, di armi, di arti spezzati, di sangue, di moribondi. Una breccia che non poteva avere altro nome che «del malaugurio». Se qualcuno si fosse avvicinato a quella breccia fatale che volgarmente veniva chiamata del malaugurio, poteva vedere degli uomini mutilati in diversa e orribile maniera, altri con gli occhi cavati, altri col naso mozzato, chi senza le orecchie, chi senza palpebre, chi con le guance trafitte dai dardi e le frecce erano macchiate di sangue. Altri erano stati colpiti alla testa, altri ancora al cuore. A molti, infine, scoppiava il ventre e il petto per le ferite ricevute.

Ma Siracusa non cade a causa dello scarso coraggio dei difensori. Il motivo è che la giustizia divina ha voluto finalmente abbandonare questa città di peccatori: «finché tanto crebbe il numero dei nostri peccati, da provocare infine la spada già sguainata della divina giustizia. Era il mercoledì 21 maggio 878, quando la città cadde in potere del nemico». 3. Morte di una capitale

L’atto finale per Siracusa si racchiude in una sola parola: la spossatezza. Gli ultimi rimasti a difendere quel tratto di mura, fon­­­­­10

damentale per la difesa ma già compromesso, sono stremati e costretti a lasciarlo per poter tornare nelle loro case per riposarsi. La severa giustizia di Dio avendo permesso che i più valorosi fra i combattenti fossero caduti o dispersi, e l’inclito Patrizio coi suoi commilitoni avendo lasciato le mura e andati nelle loro case per prendere ristoro, fece sì che i barbari avvicinassero a quella torre fatale i mangani e con facile battaglia entrarono in città, perché i difensori erano rimasti in pochi in quanto i cittadini in quell’ora non si aspettavano alcun attacco e sicuri pensavano a tutt’altro che alla difesa.

Non credo che qui Teodosio voglia riferirsi alla negligenza dei difensori, che lasciano le mura per tornare alle loro case. Egli non è mai critico nei loro confronti, anzi ne esalta sempre il coraggio, fino alla fine. Ciò che vuole mettere in luce è la sorpresa. Segue infatti un gran rumore di pietre che rotolano giù dalla torre, che cade in frantumi, trascinando con sé anche una scala di legno che congiungeva la torre alla murazione. Questa situazione avviene mentre il Patrizio, che comanda la difesa della città – un eroe per come la dirige e per come si comporterà nel momento finale dell’assedio e di cui nessuno ne ha ricordato il nome –, sta per cominciare a mangiare. Lo vediamo: tra le sue poche cose, davanti ad un pasto men che frugale, distrutto dalla fatica. D’un tratto un frastuono: «al grande fracasso il Patrizio si alzò dalla mensa, senza aver ancora preso cibo, pieno d’angoscia per quella scala». La situazione si fa concitata. Il Patrizio ordina, comanda. Si muovono quelli attorno a lui. Si corre verso la breccia. Ma ormai i musulmani sono in città. È il panico. Tutta la gente che può si accalca nella chiesa del Salvatore: vecchi, donne, bambini. Sembra di poter sentire le loro urla, il loro sgomento. I pochi armati sopravvissuti si attestano fuori della chiesa. E sono spazzati via con una sola ondata. Gli assalitori entrano nella chiesa: è il massacro. Comincia un giorno «di tenebre e di caligine». Spalancate con grande impeto le porte i nemici vi entrarono con le spade sguainate spirando fuoco dalle narici e dagli occhi: in un solo istante ogni età fu passata a fil di spada, e, per usare le parole del salmo, i principi e tutti i giudici della terra, i vecchi e i giovani, i monaci e gli sposati, i sacerdoti ed il popolo, il libero e il servo, anche gli infermi nessuno, oh buon Dio, risparmiarono quei carnefici. Sembrava venuto ­­­­­11

quel giorno di cui parla Sofonia, giorno di calamità e di miserie, giorno di pianto e di rovine, di tenebre e di caligine.

È il destino di ogni assedio. La strage conclusiva. In questo libro ne scorreremo parecchie, tuttavia nessuna è raccontata in modo così vivido. Ma Teodosio non è lì. Egli è altrove. Ma prima di raccontare la sua di vicenda, crea una suspence, e descrive innanzitutto cosa accadde ai protagonisti della difesa, a cominciare dal Patrizio, di cui tesse le lodi e sottolinea la coerenza rispetto a tanti altri ufficiali bizantini che avevano preferito accordarsi coi musulmani piuttosto che perdere la vita. Il Patrizio invece, da vero miles Christi, preferisce la morte. Il magnifico Patrizio che si era rifugiato in una torre, l’indomani fu catturato vivo con altri settanta, e otto giorni dopo la presa della città fu messo a morte; il qual supplizio con tal forte e dignitoso animo sostenne, che nulla di vile né il più lieve segno di timore dimostrò; e non fa meraviglia, quando si considera che non scese a patti con nessuno per consegnare la città provvedendo così alla propria salvezza e col tradimento della città, egli che dove l’avesse voluto, avrebbe trovato molti, che non solo l’avrebbero lodato, ma anche aiutato nell’intercedere presso i musulmani. Ma egli preferì affrontare la morte, offrire il suo capo alla morte ad imitazione di Cristo.

Morte cristianissima, cui il Patrizio si era preparato in questo modo: «egli si era già preparato ad una pia e beata fine, poiché tutto il tempo della guerra lo passava a meditare sulla morte, e a esortare con i suoi ammonimenti sull’immortalità tutti quelli che, insieme, a lui, erano coinvolti nella difesa». Un esempio di santità, contrapposta all’efferatezza musulmana, che si accanisce crudelmente contro i compagni del Patrizio, il fior fiore della nobiltà greca di Siracusa. I barbari poi presi tutti quelli che erano col Patrizio, ed erano tutti delle nobili famiglie di Siracusa, furono condotti con altri prigionieri fuori città. Raggruppati in un mucchio, come mastini rabbiosi, si avventarono contro di loro con pietre, bastoni, aste o altro che gli capitava loro nelle mani. Li ammazzarono crudelissimamente; e dopo morti, non sazi ancora, ne bruciarono i cadaveri. ­­­­­12

Le atrocità non si interrompono. Proseguono. La più terribile punizione viene inferta a Niceta di Tarso. Questi, per tutto il tempo dell’assedio, negli attimi di tregua della battaglia, dall’alto delle mura aveva passato il tempo a maledire, in tutti i modi possibili, con tutte le parole possibili, l’empio Maometto. La pena, una volta catturato, fu di essere scorticato vivo. Teodosio questa carneficina non la vede di persona. Non ne è testimone diretto. I particolari li apprende forse dai suoi stessi compagni di prigionia o dai suoi carcerieri. Perché è fra i primi ad essere catturato, non appena i musulmani sono entrati in città, con un esito diverso da quello di tutti gli altri suoi concittadini e che lui stesso non si sarebbe mai aspettato. E la cronaca, ancora una volta, si inverte. Il monaco, da osservatore e narratore, diventa interprete di un racconto che si dipana con la descrizione dello sbigottimento, della sorpresa, della ricerca di un nascondiglio sicuro. Di mimetizzarsi, gettando via le vesti talari che lo avrebbero reso facilmente riconoscibile. Rimanendo seminudo. Io, mentre ero nella cattedrale col vescovo e recitavamo le preghiere consuete, giunti alla fine del cantico, udii il crollo della torre. Grande fu lo sbigottimento. Ma fattici un po’ d’animo, mentre i nemici erano ancora intenti al saccheggio, deposto ogni altro vestimento, tranne quelli che portavamo di cuoio, ci riparammo nudi e atterriti con due chierichetti sotto l’altare maggiore, laddove il beatissimo Padre era solito placare l’ira di Dio, implorarne la misericordia per i suoi figli, ed essere esaudito, come spesso si vide nei fatti. Ma allora, per arcani giudizi di Dio, le sue preghiere non furono ascoltate. In quel luogo, pensando alla morte, scambievolmente io e il vescovo chiedevamo e ci davamo perdono.

La morte si avvicina. I musulmani irrompono nella chiesa. Trovano il monaco, il vescovo e i due chierichetti. Ma non li uccidono. Estremo atto di pietà? Possibilità di vendere i quattro come schiavi? Speranza di un buon riscatto, considerata l’importanza dei catturati? Per Teodosio, si tratta solo di un atto di pietà. Un miracolo. Mentre il vescovo raccomandava la Chiesa al suo Angelo tutelare, ecco i nemici sparsi di sangue con le spade sguainate scorrere di qua e di là dentro la chiesa. Uno di questi, scostatosi dagli altri, si avvicinò ­­­­­13

all’altare, e come ci vide così rannicchiati sotto l’altare, Dio gli rammollì il cuore e, benché armato di una spada che grondava sangue, guardando il vescovo, gli si rivolse non con aspre parole o minacce ma chiedendo in greco chi fossimo e dove fossero i calici sacri.

L’uomo che salva Teodosio non doveva essere un personaggio di secondo piano. È un berbero di Sicilia, di nobile famiglia, forse di una di quelle immigrate nella prima ora dell’inizio del jihad. Si chiama Semnoen (forse Semmumem, che è nome berbero). Da buon siciliano di un certo livello, conosce e pratica anche la lingua greca. Ed è servendosi di essa che si avvicina al monaco. Fatto non inusuale a quel tempo, tra l’Isola e il Continente, dove per vivere (e, talvolta, per sopravvivere) bisognava conoscere le due grandi lingue franche del Mediterraneo, l’arabo e il greco. Semnoen non si mostra spietato. Lascia sopravvivere i quattro, anche perché il suo principale interesse è certamente rivolto altrove, alla possibilità di bottino, ai calici della chiesa, che rappresentano uno dei bocconi principali della razzia che si sta compiendo. E il vescovo e il monaco possono fornire le necessarie informazioni per scoprire dove si trovino: informazioni che rilasciano apparentemente senza alcuna esitazione. Pervenuti con la nostra guida al sacrario dove erano i sacri calici, egli ci chiuse dentro e chiamativi gli anziani della sua nazione egli narrò loro cosa aveva fatto di noi, i quali mossi dalle sue parole, o meglio Dio disponendo tutto a buon fine, cominciarono ad essere meglio disposti verso di noi e dopo aver depredato i sacri vasi – erano tutti di squisita fattura e del peso di cinquemila libbre – ci fecero come prigionieri uscire fuori della città.

4. Prigionieri

Immaginiamo ora, per un attimo, questi uomini: storditi, incatenati, seminudi, che camminano in una città, nella loro città, in mezzo al fumo, al massacro, al saccheggio, alle violenze. Accanto a loro, visi sconosciuti tra quelli conosciuti, di gente che è appartenuta al proprio mondo, un mondo che ora non esiste più. Tutto questo, Teodosio lo tralascia. Tutto lo spazio che c’è tra la chiesa ­­­­­14

dove è stato catturato e il luogo della sua detenzione, è come se scomparisse. Deve scomparire, per lui e per il lettore, perché credo che sia quello impregnato del maggiore dolore. Ma torniamo al racconto. La prima prigione dove viene rinchiuso viene descritta da Teodosio con dolore, irritazione, disgusto. È passato dalla sera alla mattina da una condizione umana e accettabile, benché piena di privazioni, ad una disumana, ripugnante. Qui ci richiusero in una di quelle camere dove i nostri corpi furono da ogni genere di molestie tormentati; poiché il luogo si riempì del fetore degli escrementi e dei vermi che da essi scaturivano che sogliono riprodursi e pullulare, e dei topi che vi dimorano, e di sciami di pidocchi e d’altri insetti che come un esercito facevano di noi orribile strazio. Come scese la notte, fummo immersi in tenebre quasi palpabili, e la prigione si riempì di un fumo che veniva da fuori che ci toglieva il respiro.

Il soggiorno di Teodosio in questa prigione dura trenta giorni. Il tempo, spiega, che ci volle ai musulmani per radere al suolo le principali fortificazioni cittadine. Tutto ciò che c’era in città fu bruciato. Il bottino, insuperabile. Ammontò, dicono le fonti ma non c’è certezza su questo dato, a circa un milione di solidi d’oro, equivalenti a qualcosa come quattromila chilogrammi d’oro. Il bilancio in perdite umane fu gravissimo. Diciamo che furono parecchie migliaia, se vogliamo dar conto a Ibn al-Atir. L’odissea di Teodosio prosegue. Intraprende una lunga marcia verso la capitale musulmana, Palermo. Non molto tempo dopo partimmo per Palermo, cammino che durò sei giorni e nel settimo, dopo che avevamo camminato notte e giorno senza posa, bruciati dal sole di giorno, gelati la notte, arrivammo alla celebratissima e popolatissima città.

È passato poco più di un mese da quando Siracusa è caduta e Teodosio è stato catturato. Egli è fra i prigionieri, parte di un enorme corteo trionfale, che entra e scorre per le vie di Palermo. Il suo odio per i musulmani e la loro capitale, che sarà il luogo della sua detenzione, dovrebbe essere forte: il disprezzo e l’avversione che deve provare un uomo ridotto in bestia, costretto, privato di tutto, che cammina verso un destino di sofferenze. ­­­­­15

Invece le sue parole sono di stupore. Nonostante tutto, Palermo è il centro del mondo. Una delle più straordinarie città dell’ecumene musulmano. Si facevano incontro tutti i popolani che per grande allegrezza intonavano canti e con acclamazioni ricevevano i vincitori carichi di preda. Però entrando in città e vedendo la grandissima moltitudine dei cittadini e dei forestieri, ci rendemmo conto che non era dissimile all’opinione che c’eravamo fatta di essa: poiché sembrava che tutta la razza dei saraceni dall’Oriente all’Occidente, da est ad ovest, fosse lì convenuta.

Descrizione che continua con una preziosa digressione sulla fisionomia stessa della città, che al monaco appare come composta da una serie di aggregati suburbani, tante città insieme, accalcate l’una accanto all’altra. A causa di un così gran numero di abitanti, i cittadini, costretti, hanno cominciato a costruire nuove case e ad abitare fuori le mura, in modo da sembrare Palermo non una ma tante città insieme, contigue alla prima, ma non inferiori a nessuna per tenuta militare.

L’avventura di Teodosio non termina ancora. C’è ancora tempo per un incontro eccezionale, direttamente col conquistatore di Siracusa: l’emiro Jafar ibn Muhammad. Un incontro decisivo, non tanto per gli esiti personali – non c’è alcuna soluzione, per ora, alla prigionia – ma perché, in esso, si iscrive tutta la distanza che c’è fra le due civiltà, le due religioni cristiana e musulmana. Teodosio, in questo caso, è solo un semplice testimone. L’emiro desidera parlare col vescovo. Con lui, viene condotto davanti a Jafar anche Teodosio. Si trovano di fronte il passato e il presente: l’ultimo rappresentante della chiesa cristiana in Sicilia, l’arcivescovo di Siracusa, in catene, e l’emiro, la spada di Allah, colui che incarna l’islamismo in quest’ultimo angolo del mondo musulmano. Questi sopravanza i due prigionieri. Seduto su un seggio elevato. Separato da tutti gli altri da un velo «steso fra noi ed i suoi sguardi». L’emiro ha delle curiosità. Non conosce il greco, ma vuole parlare col vescovo. Ha desiderio di porgli delle domande. Vuole capire come e quali differenze ci siano tra la sua religione e quella del ­­­­­16

cristiano. La disputa religiosa che segue tra i due racchiude tutta la storia di una incomprensione millenaria. Che durerà nel Sud Italia quasi cinquecento anni. Un breve botta e risposta, di grande intensità. Di cui Teodosio riporta, chiaramente, solo dei passi. Passati cinque giorni, fummo introdotti davanti all’emiro, che sedendo sopra un soglio elevato, si gloriava superbamente del suo potere. Ci separava un velo steso tra noi ed i suoi sguardi. I ministri presentarono il vescovo. Attraverso un interprete, l’emiro chiese “osservi tu il nostro modo di pregare?”, “no” – rispose il vescovo –, “e perché”, “perché io sono il sommo sacerdote di Cristo e maestro dei servi di quel Gesù che i Giusti e i Profeti hanno vaticinato”; “presso di voi – ripigliò l’emiro – non esistono veri profeti, ma tali sono di nome, da cui non ti sei mai scostato con le tue dottrine, perché in giro camminano sempre gli empi”. Ma il vescovo: “noi non bestemmiamo i profeti, che anzi abbiamo appreso a non ingiuriarli ma piuttosto onorarli e con grande riverenza ascoltarli. Il profeta che poi voi adorate noi non lo conosciamo”.

La disputa finisce qui. I punti toccati sono centrali: voi non riconoscete Gesù, noi non riconosciamo il vostro falso profeta. L’inconciliabilità è totale. L’ultima parola è naturale che Teodosio la attribuisca al vescovo, che per il monaco è il trionfatore in questo scambio tra opposte visioni religiose. Sarebbe stato inconcepibile il contrario. Terminata la controversia, riprende il calvario. I due uomini vengono ricondotti per strada e trascinati fino alla prigione. Lungo il percorso sono attorniati da una folla di curiosi, che vogliono sapere chi sia il celebre vescovo di Sicilia. Vederlo. Toccarlo. Tra essi dei cristiani, che compiangono la sorte dei loro correligionari. Dopo queste risposte, l’emiro ordinò che subito fossimo restituiti al carcere. Avanzavamo fra le strade della città davanti a tutto il popolo. Molti cristiani ci seguivano compiangendo palesemente la nostra miseria, mentre molti altri della setta contraria, per curiosità, si affollavano intorno a noi, e ci chiedevano chi fosse il celeberrimo arcivescovo della Sicilia: in questo modo passavamo in mezzo alla folla.

L’ultima parte della lettera è dedicata alla prigionia. La cella di Teodosio è un mondo di dimenticati. Si è pensato che, per la ­­­­­17

stessa possibilità che egli avesse di scrivere, di esporre liberamente le proprie sciagure, egli si trovasse in una condizione di semilibertà, con un minimo di possibilità di movimento in più rispetto ad altri. Non lo credo. Non sarebbe il primo caso, di gente che in condizione drammatica, riesce a conservare lucidità e possesso delle proprie facoltà mentali. Teodosio è uno di quelli che ci riesce e che, attraverso la lettera, cerca una salvezza, un appiglio: verso l’esterno e per se stesso. Il suo carcere è un carcere duro, fumoso, scuro. Denso di caligine. Una fossa. Affollato di gente di ogni risma, di ogni provenienza, alcuni dei quali incatenati al muro con ceppi. Finalmente fummo gettati in questo carcere, che è una fossa, in cui si scende per quattordici scalini, sola finestra è la porta. Per questo motivo, è un luogo di tenebra fitta e continua. Di giorno, l’unica luce viene da una lucerna, e questa assai fioca. Mai un raggio di sole né di luna ci colpisce, siamo sempre tormentati dai calori estivi, accresciuti dal fiato dei nostri compagni, ed inoltre ogni sorta dei più schifosi insetti, di cui il suolo è pieno, rendono ognuno di noi una misera piaga. Sono nel medesimo carcere chiusi con noi, e partecipi della stessa miseria, etiopi, tarsensi, arabi, ebrei, longobardi ed altri cristiani, da varie parti qui capitati, fra i quali il santissimo vescovo di Malta, che ha i piedi stretti con due ceppi.

Una prigionia che trascorre tra mille sciagure. «Sempre desiderando quella morte che noi infelici prigionieri ad ogni ora sovrasta.» Teodosio trascorrerà otto anni nelle prigioni palermitane. Nell’886, in uno dei consueti scambi di prigionieri, nel corso di una delle tante tregue del jihad, pare che egli fosse rilasciato. Da allora, se ne perdono le tracce. Ma nella storia di costui c’è la chiave per comprendere tutti i secoli della presenza musulmana in Italia. Gli orrori, le violenze. Le ambiguità, i fanatismi. La pietà, la rabbia. Il senso del sacro, la sete di guadagno. Gli splendori, la tolleranza. Dall’una e dall’altra parte. Di uno scontro epocale, che comincia cinquant’anni prima di Siracusa a Mazara del Vallo, il 15 giugno dell’827, data di inizio della presenza musulmana in Italia. Presenza che si spegnerà, con altrettanta inaudita violenza, agli inizi del Trecento. In un’altra epoca. In un altro contesto.

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II

Al nord del mondo

E si formi da voi una nazione di uomini che invitino al bene, che promuovano la giustizia e impediscano l’ingiustizia. Questi saranno i fortunati. E non siate come quelli che si divisero e dissentirono fra loro dopo aver ricevuto le prove evidenti. Essi avranno castigo immane (Corano, sura III, vv. 104-106)

1. Conquista

Al nord del mondo, alla fine del dar al-Islam, la terra dei credenti, in mezzo a un paesaggio barbaro, zeppo di insidie e di nemici, c’è l’ultima conquista dell’espansione musulmana. L’ultima perla del jihad: la Sicilia. Un’isola così grande e magnifica che, per raccontarla e spiegarla in posti lontani, come Bagdad o il cuore del Nord Africa, risulta difficile. Complicato. Allora bisogna ricorrere al fantastico, all’immaginario e marciare tra le sineddoche. È l’isola del monte del Vulcano, «che erutta dei corpi ignei rassomiglianti ad uomini senza testa, i quali corpi si innalzano nell’aria la notte e ricascano in mare e vi rimangono a galla. Questo vulcano si chiama l’atimah di Sicilia, ossia fonte di fuoco che spiccia dalla terra. In esso perì il filosofo Porfirio, autore dell’Isagoge, cioè l’“introduzione alla logica”». Così al-Masudi, nel Murug ad-dahab, il Prati d’oro e miniere di gemme. Dalla Gigrafiah di un anonimo, l’isola di Sicilia è lunga sette giornate di cammino e larga quattro: montuosa, irta di rocche e di castelli, abitata e coltivata per ogni luogo. Essa non ha altra famosa città che quella che chiamano Palermo ed è capitale dell’Isola. Qui è la moschea gami, che fu un tempo chiesa dei Rum [dei bizantini], nella quale si vede un grande santuario. Dicono i Logici, che il filosofo dei greci antichi, ossia Aristotele, giaccia entro una cassa di legno sospesa in questo santuario che i musulmani hanno mutato in moschea. Si dice che questo filosofo fu sospeso lì, a mezz’aria, perché la gente vi ricorresse per ottenere la pioggia, o per la liberazione da tut­­­­­20

te quelle calamità che spingono l’uomo a volgersi a Dio e propiziarlo, come accade nei tempi di carestia, epidemia o guerra civile.

Più concreto al-Ishtari, proveniente dalla lontana Persepoli, che individua la grandezza della Sicilia nella sua opulenza, nella sua fertilità e nell’essere una terra di frontiera, ambiente di jihad, dove passa una guerra continua, combattuta al di qua e al di là dello stretto di Messina: delle isole abitate del mare dei Romani, la maggiore è la Sicilia. Essa giace presso la terra dei Franchi, che l’una si vede dall’altra. Essa è lunga a un dipresso sette marhal, cioè sette giornate di viaggio a cavallo, ed è tanto fertile e ricca di cereali, di bestiame e di schiavi, da vincere di gran lunga ogni altro reame musulmano bagnato dal mare. I suoi abitanti, con quelli di Creta, sono musulmani, e guerreggiano contro gli infedeli. Dimora insieme con loro un poco di popolazione cristiana, come si vede in altri paesi musulmani. Nessun altro mare ha più belle costiere che questo. Poiché le popolazioni si stendono senza interruzione sopra entrambe le sue rive. Frequentano questo mare le navi dei Musulmani e dei Rum, e gli uni sogliono passare sulla costa abitata dagli altri e farvi preda. Talvolta su questo mare si incontrano gli eserciti delle due genti, con cento e più legni da guerra per parte, e combattono sull’acqua.

Fantastico e concreto: questo è il sogno musulmano della Sicilia. Isola che, a toccarla, a percorrerla, in quella tarda primavera dell’827, quando comincia la conquista, è la terra che i musulmani desiderano e si aspettano. Tutt’altro che in abbandono, ricca, ancora vigoroso granaio dell’impero bizantino. Profondamente grecizzata, ricca di monasteri e di cultura. Una società vitale, ancora urbanizzata, con una importante capitale, Siracusa, dove siedono i principali quadri amministrativi dell’impero e il rappresentante del patriarca greco, il vescovo. Terra di immigrazione dai diversi punti caldi del Mediterraneo, dove il commercio marcia e si possono incontrare persone di nazionalità ed etnie diverse, dalle orientali a quelle dell’Italia meridionale. Con una sua struttura mercantile che si spinge al di fuori dell’Isola, lungo i confini della Calabria, su su fino all’interno della Campania. Dove funziona una zecca, che conia il solidus, la moneta d’oro da quattro grammi, la principale del Mediterraneo. Uno snodo importante nell’ambi­­­­­21

to della politica bizantina, animato da una logica imperiale e non localistica, autonomistica, nella quale i tentativi di putsch interni e le rivolte locali non sono diretti ad un distacco dall’impero: al contrario, a rimanere incardinato ad esso, divenendo sua nuova cinghia di trasmissione, centro animatore e propulsore dell’intera politica bizantina, a dimensione centro-mediterranea. Questo il volto dell’Isola quando vi sbarcano i musulmani. La sua conquista non fu facile. Fu lenta. Estremamente lenta. Fino alla presa di Siracusa, passano cinquantun’anni. E ce ne vogliono altri cinquanta per debellare le ultime sacche di resistenza, come Taormina. Fino a quel mattino dell’827, l’Isola era già stata preda di assalti musulmani. Molti. Rapidi e violenti. Il primo addirittura nel 652. Ma niente che potesse avere l’alone di una conquista. Per capire cosa accade, come si arriva all’idea di una vasta aggressione, occorre spostare le lancette a qualche mese prima di quella primavera. Quando a Qayrawan, capitale di Ifriqiya, alla corte dell’emiro aglabita Ziyadat Allah arriva un bizantino, un siciliano, il turmarca Eufemio. Costui è un personaggio per molti versi affascinante e ambiguo. Dipinto, di volta in volta, come un avventuriero o come uno dei primi eroi dell’indipendenza siciliana. Certamente è ambizioso. Lo muove lo scopo di prendere il controllo della Sicilia. E, di qui, tentare il grande balzo verso Oriente, e impossessarsi della corona imperiale. Non ha con sé molti uomini ed ha fretta. Ha bisogno di aiuto. Questo è il motivo che lo ha spinto fino in Africa. Per raggiungere il suo obiettivo è pronto ad accordarsi con chiunque, pure coi nemici. Eufemio è lì con una proposta per l’emiro: conquistare insieme con lui la Sicilia, che sarebbe diventata da quel momento tributaria del regno aglabide. La decisione, l’emiro non la prende direttamente. Si consulta infatti con l’assemblea dei notabili e dei dottori in giurisprudenza, la jam’a. Essi ascoltano dalla viva voce di Eufemio le richieste e le prospettive di conquista. Nell’occasione, si scontrano le posizioni dei due più influenti cadì locali, Abu Muhiz e Asad ibn al-Furat. Il primo indugia. Temporeggia. Lo trattiene un precedente accordo stabilito con i bizantini. Il secondo è per l’azione immediata. Le esitazioni dell’assemblea sono parecchie. Si pesano i pareri. La bilancia però oscilla dalla parte di Asad ibn al-Furat: con parole decise, spiega ai presenti che i bizantini hanno violato spesso i pat­­­­­22

ti stabiliti, che hanno aggredito navi commerciali impedendo la regolarità dei collegamenti e che in Sicilia sono trattenuti ancora molti prigionieri africani, catturati in maniera illegittima, piratesca. Questo intervento tronca la discussione. L’emiro ordina che si dia inizio alle operazioni militari. Ma con un capovolgimento rispetto alle richieste iniziali. Non per soddisfare la richiesta di aiuto di Eufemio, con una partecipazione musulmana collaterale. Bensì con un’impresa da ascrivere all’interno del jihad, che avrebbe garantito all’emiro meriti terreni e celesti. Un’opera da portare a termine con tutti i mezzi necessari. Il comando della spedizione viene affidato allo stesso Asad ibn al-Furat: un personaggio su cui soffermarsi, anche se per poche righe. Più che un uomo d’armi, Asad, fin ad allora, era stato un uomo di legge. Venuto dalla Persia, si era formato a Medina e a Bagdad. Aveva trascorso la vita tra gli studi teologici e giuridici, secondo il modello islamico. Al momento dell’inizio della spedizione non è più giovane. È un cadì vecchio e saggio, di quasi settant’anni, di grande spirito, spinto da una grande convinzione religiosa, come gli altri capi che avevano guidato la grande espansione dell’Islam secoli addietro. Che sente di avere un incarico preciso: condurre la guerra santa senza tentennamenti, con l’adeguato rigore spirituale, vigilando con osservanza la casistica giuridica nella distribuzione del bottino come nella ripartizione delle terre conquistate. Egli ha un’ascendente morale sui suoi uomini che non nasce dall’impeto militare – non ha la forza del condottiero –, ma da una riflessività che lo rende in ogni momento autorevole, inflessibile, perché per bocca sua passa la parola della Legge. L’entusiasmo è alle stelle. Nel porto di Susa si imbarcano, su un centinaio di navi, diecimila uomini con settecento cavalieri. Berberi, arabi, andalusi. Con loro, alcuni contingenti capitanati da Eufemio, che si trova, come è evidente, in un sortilegio molto più grande di quello che aveva evocato. E che scompare ben presto dalle pagine di questa storia, sommerso dall’impeto del jihad. Per i musulmani la Sicilia è a un passo. A tre giorni di mare dalle coste africane. In breve, lo sbarco a Mazara. Da qui si intraprende la strada verso la capitale, Siracusa. A ovest di Corleone, in luglio, il primo scontro con le truppe bizantine. Asad manda alla battaglia i suoi uomini, scegliendo e leggendo i versetti giusti del Corano. È la vittoria. La prima musulmana in terra siciliana. ­­­­­23

Il jihad può proseguire. La truppa muove via mare, lungo la costa sud, verso Siracusa. Comincia l’assedio, che dura a lungo. La città non cede. È il primo assaggio della resistenza che i musulmani avrebbero trovato. La situazione poi si fa più difficile, perché tra i soldati scoppia una pestilenza. Tra i morti, anche il cadì Asad ibn al-Furat. Tra le truppe comincia a serpeggiare il dubbio. Lo scoramento. Forse è meglio rientrare. Riprendere le navi. Tornare in Ifriqiya. A forza, capi e gregari riescono a tenere le fila di questo esercito, che pare sfaldarsi da un momento all’altro. Prevale l’idea di continuare il jihad. Di proseguire, col miraggio di un grande bottino. I musulmani si addentrano nell’interno. Prendono e saccheggiano Mineo, rifluiscono sulla costa sud, catturano Girgenti, si fermano davanti a Castrogiovanni. La situazione è in stallo. A togliere la truppa musulmana dalle secche, giunge un grosso contingente di andalusi, guidati da un certo Asbagh ibn Wakil, detto Fargalus: un avventuriero, ma dotato di grande energia e di spirito di iniziativa. Dopo gli andalusi, dalla Tunisia arrivano altri contingenti. L’esercito invasore viene rimpolpato con nuovi effettivi. Ci sono le forze sufficienti per dare l’attacco a Palermo, che resiste quasi un anno. Per cadere nell’831. Il governo militare trasforma subito questa città nel suo cuore logistico, politico e militare. Arrivano governatori da Qayrawan, mandati dall’emiro aglabita. E riprende, lentamente, la penetrazione nell’isola. Le operazioni vengono ora condotte direttamente da due principi aglabiti: prima, per quattro anni, da Abu Fihr; poi, per addirittura quindici, da suo fratello Abu al-Aghlab Ibrahim. Tutto adesso è più razionale, coordinato, non improvvisato. Le truppe musulmane si impossessano del Val di Mazara, di Messina (841), Modica (845), Ragusa (849), obbligando altri centri cristiani a scendere a patti e a pagare un tributo ai nuovi padroni. Il luogotenente di Abu al-Aghlab Ibrahim, Abbas ibn al-Fadl, è capace, nel decennio 851-861, di far capitolare la principale fortezza bizantina nel cuore della Sicilia, Castrogiovanni, l’odierna Enna. La conquista ha fatto un notevole passo avanti. Abbas ibn al-Fadl diventa un personaggio da leggenda, da un lato come dall’altro dello schieramento. Un eroe per gli uni, il peggior nemico per gli altri: al punto che quando muore i bizantini, trovata la sua tomba, ne disseppelliscono il corpo e bruciano le spoglie. ­­­­­24

Ora al comando dei musulmani si susseguono capi più efficienti. Cade Noto. Cade Malta, nell’870, di importanza strategica basilare. E, nell’878, cade Siracusa, da cui è cominciato questo mio racconto. Dopo nove mesi di resistenza. Tre quarti dell’Isola sono ora in mano musulmana. Gli ultimi trent’anni sono stati decisivi. Fino al colpo finale. Ma restano ancora molte sacche di resistenza. Verso Catania, verso Taormina. Ci vorrà ancora parecchio per conquistarle, perché intanto all’interno della compagine militare musulmana scoppiano dissensi. Faide interne. Scontri che si traducono in vere e proprie battaglie tra gruppi tribali. Ci sono gli arabi, da un lato, che hanno una posizione di supremazia; e i berberi, che sono sottoposti al loro dominio: vogliono contare di più, arricchirsi come gli altri e pretendono una migliore ripartizione delle terre e dei bottini. Ad essi si aggiungono i nuovi arrivati: avventurieri a caccia di fortuna, ma anche famiglie che cercano nuovi spazi dove stanziarsi, dove avviare una nuova vita, che guardano alle ricche terre siciliane come ad un’opportunità. Questa intrusione crea malintesi e dissidi con chi si è insediato per primo sul territorio, che si traducono in scontri aperti, che si moltiplicano e si intensificano. Dalle comunità lo scontro si sposta alle città, come avviene tra Palermo e Girgenti. In questa situazione, la macchina militare islamica si arresta. Le energie vengono canalizzate altrove. L’anarchia interna al mondo musulmano siciliano si diffonde. Condizione cui si aggiunge l’azione corsara della flotta bizantina, che colpisce laddove sa che c’è minore resistenza. Le coste siciliane divengono teatro di una guerra santa al contrario, bizantina versus musulmana. C’è bisogno, da parte islamica, di una nuova aggressività, di un rinnovato entusiasmo, di qualcuno che regga con diversa autorità le leve del comando, che intanto tende a sfilacciarsi. La risposta giunge direttamente da Qayrawan. Ci pensa l’ultima grande personalità della dinastia aglabide, Ibrahim ibn Ahmad. Nel 900 invia suo figlio, Abdallah, a riportare ordine. Nel 902 è Ibrahim stesso che si incarica di prendere le redini della guerra che si era interrotta in Sicilia. Proclama il jihad. Passa in Val Demone, investe Taormina. La guerra è, in gran parte, finita, sebbene nella parte orientale dell’Isola alcune piazzeforti bizantine resistano: Rametta, Messina e la stessa Taormina, che si ribella al governo ­­­­­25

di Palermo e torna in mano greca fino al 962. Con altri assedi, massacri e distruzioni. Però non è più guerra santa. È guerra di normalizzazione: terribile, ma di consolidamento dell’ordine islamico. Il periodo della grande onda è passato, durato più di una generazione: dall’827 al 902. Settantacinque anni, da Asad ibn al-Furat ad Ibrahim ibn Ahmad. Un’invasione che si è mossa ad un ritmo lentissimo. Come spiegare questa lentezza? Con le insufficienti tecniche di guerra. Con la limitatezza del contingente impiegato, non così numeroso da imporre una capillare tenuta militare. Con lo stesso carattere fisico della Sicilia: impervia, montuosa, che dava la possibilità a chi voleva resistere di asserragliarsi su rocche impervie e imprendibili e, da lì, continuare la guerra trasformata ora in guerriglia. Non bisogna infatti tralasciare la resistenza delle popolazioni greche: solo di quella eroica di Siracusa abbiamo conservato una traccia ampia, drammatica e commovente, ma quante altre Siracusa ci furono, fino alla caduta di Taormina? Una popolazione ampiamente cristianizzata non poteva lasciare nelle mani dei musulmani le proprie case, i propri beni, la propria identità senza opporsi. Né va dimenticata la capacità militare e marittima bizantina, che se nel IX secolo subisce delle sconfitte su parecchi scenari, sicuramente conserva la sua grande potenzialità, la sua organizzazione, il suo personale militare addestrato e capace che continua a colpire ai fianchi le strutture militari musulmane in Sicilia. Infine, le divisioni interne alla truppa di invasione: le differenze tribali, giocarono un ruolo? Credo di sì, come affiora dall’inerzia dell’azione militare, nel momento di maggiore tensione interetnica.

2. L’enigma

Comunque, dall’inizio del 900 fino al 1060, per centosessanta anni, la Sicilia è in mano musulmana. Nel bene e nel male. Un’età in gran parte governata dalla dinastia kalbita, legata ai Fatimidi, i nuovi padroni del Nord Africa. Novant’anni di governo cominciati sotto la spinta religiosa di matrice sciita di questi nuovi sovrani, a metà del X secolo. Il loro capostipite è Hasan al-Kalbi, inviato nel 947 dal califfo fatimide al-Mansur a porre un freno alle ­­­­­26

contese siciliane. La politica sua e dei suoi due figli segue sostanzialmente tre direttrici: la continuazione della relazione di sudditanza con l’Africa fatimide, senza però che avvenga mai una vera e propria integrazione; la stabilizzazione interna; la prosecuzione dello scontro coi bizantini, nell’ambito della grande guerra marittima intrapresa dai Fatimidi per il controllo del Mediterraneo. Nel 983 inizia la seconda fase del regno kalbita, con una figura di spicco: Yusuf, che governa la Sicilia alla fine del X secolo, tra il 990 e il 998. Un personaggio particolare, colto, umano, costretto da una paralisi a passare il potere nelle mani dei figli. Con essi comincia la decadenza della casata, con gente in buona sostanza priva di grandi competenze amministrative come di carisma, travolta dalle spinte centrifughe che colpiscono la Sicilia. Figure come Jafar, espulso da Palermo grazie ad una grande sollevazione popolare, che scappa con un enorme tesoro. E come gli ultimi due emiri, Akhal e Samsam, il cui potere si era ormai ridotto alla sola città di Palermo e al suo circondario, i quali restano addirittura coinvolti in rivolte interne alla città. La dinastia tramonta intorno alla metà dell’XI secolo. La Sicilia appare trasformata ora in una serie di minuscole signorie, guidate da singoli cadì: una tra Trapani, Marsala, Mazara e Sciacca; un’altra tra Castrogiovanni e Girgenti; un’altra ancora a Catania; un’altra a Siracusa. Poteri locali e polverizzati, in conflitto tra loro, spesso con estrema violenza, che verranno presto spazzati via dai normanni. Il governo kalbita è fatto di luci e di ombre, dovute non solo alla crisi dinastica ma anche alla perenne azione destabilizzatrice causata da dissidi interni, etnici e sociali, che finirono per logorare l’unitaria struttura del governo. Perché la Sicilia non fu qualcosa di omogeneo, come si potrebbe immaginare. La sua compattezza è relativa, e diventa man mano meno solida. Dove gli assi portanti dell’Isola, così come i suoi diversi tasselli, vengono minati al loro interno da conflitti e dal degrado etico-politico. Di conseguenza, i siciliani non sono in grado di reggere all’impatto con gli Altavilla, aggressori più organizzati e motivati da un’altra idea di guerra santa. Tuttavia va considerato un fatto. Il regno kalbita non dura poco: novant’anni, non tutti di sfacelo. Anzi, nel corso della sua vicenda, vive una vita propria, intensa, poliedrica, felice in molti suoi momenti. Un tempo lungo. Per molti aspetti ricco, la cui esistenza non si può immaginare solo in funzione di ciò che avverrà ­­­­­27

dopo, come un lento e inesorabile declino, che finisce nell’episodio epocale della conquista normanna. Mi sembra una forzatura ideologica. L’epoca kalbita è, per l’Isola, anche un’epoca di sviluppo, di crescita, di grandezza; di ristrutturazione dell’habitat, delle città, dell’ambiente rurale, che subisce una grossa modifica rispetto all’età bizantina. Come spesso accade, i chiaroscuri si alternano. Esiste però un enigma. A sondare, infatti, nei suoi vari aspetti la Sicilia musulmana, nel voler ricercare testimonianze anche fisiche di questo passato, ci si trova davanti ad un muro di oblio, di furto della memoria. Di fisico, di tangibile resta veramente poco, come se tante, troppe patine di colore si fossero addensate e raggrumate sul tessuto musulmano, di fatto facendolo sparire. Cancellandolo. È chiaro che la damnatio memoriae della cristianizzazione cominciata con i normanni abbia inciso in modo totale nel cancellare la trama costruita dai musulmani. Damnatio che è proseguita nel tempo, con una sistematica distruzione. Perciò la difficoltà di ricostruire quel mondo è palpabile. Per molto tempo, per raccontarla, è bastata l’«ideologia forte», come la chiama Annliese Nef, di Michele Amari. Oppure si è operato à rebours, indagando nella Sicilia normanna per ricavare momenti e trame che lasciassero affiorare la vicenda musulmana. Oggi un grande sforzo lo sta compiendo l’archeologia, per trarre alla luce quante più tracce possibile di questo passato straordinario. Ma c’è ancora molta strada da fare. Come fu questa Sicilia? Per scoprirlo occorre muoversi in una foresta molto intricata, folta di dubbi e di domande. A cominciare dalla colonizzazione musulmana. La conquista siciliana, come abbiamo visto, è contraddistinta da modalità estremamente lente. Come tipologia, si può dire che si seguisse uno schema preciso: occupazione dei centri costieri, e, da qui, inserimento nel territorio, lungo le vallate fluviali, come quelle del Platani e del Belice. Naturalmente la colonizzazione segue il flusso della guerra. E ad essa si accompagna un complesso spostamento di popolazioni: c’erano cristiani che fuggivano dai centri e dalle zone minacciate verso i territori che erano ancora in mani bizantine o fuori dall’Isola; ma non mancarono musulmani che scapparono verso le zone ancora occupate dai greci, a Taormina o perfino a Bisanzio, come accadde in occasione dell’attacco aglabita contro Palermo ribelle nel 900. C’erano inoltre masse di ­­­­­28

schiavi deportate e trasferite da un capo all’altro dell’Isola o altrove. Infine nuovi afflussi di immigrati, soprattutto berberi, che arrivavano dall’Africa o da altre aree dell’Islam, tra cui la Spagna. In una situazione spesso di vera e propria emergenza umanitaria, dove nuovi vuoti si aprivano a causa di scoppi epidemici, di scontri armati o di carestie. Fatto sta che, nel X secolo, la colonizzazione musulmana tocca la sua acme, con questa tripartizione: il Val di Mazara, che comprendeva Palermo e Girgenti, era completamente islamizzato. Il Val di Noto, ossia la fascia sud-est, lo era in gran parte. Il Val Demone, a nord-est, resta in prevalenza cristiano. Si tratta di suddivisioni da prendere cum grano salis, con sacche di persistenza o di intrusione. Ma questa ripartizione, alla prova dei fatti, regge. Nelle città, le popolazioni erano quasi del tutto musulmane: a Girgenti, a Mazara, a Trapani, ad Alcamo, a Catania, ad Aci. La stessa Siracusa, dopo la distruzione, viene completamente ripopolata da gente proveniente dal Nord Africa. Solo a Palermo è attestata la presenza di un vescovo cristiano che si spiegherebbe con il carattere cosmopolita della capitale e con la tolleranza islamica nei confronti dei non musulmani protetti, i dhimmi, grazie a quella sorta di patto di rispetto e protezione musulmana che garantiva a cristiani ed ebrei di continuare a professare la propria fede in cambio del pagamento di una tassa speciale, la jizya. Folti gruppi cristiani resistevano invece sulle Madonie e sui Nebrodi, dove però non manca la presenza di attestazioni, toponimi, narrazioni o altro (come la notizia della moschea di Petralia superiore) che riconducono a comunità di occupanti musulmani. Insomma, essi si insediano in gran parte del territorio, con un’ondata assimilatoria delle popolazioni assoggettate, molte delle quali verosimilmente si convertirono. E la sovrapposizione tra vincitori e vinti diventa, in molti casi, osmosi. In una situazione nella quale non va taciuto il posto che ebbe la poligamia, che avrebbe accelerato il processo di islamizzazione e di acculturazione nei confronti della società indigena. Tuttavia la situazione è molto più complessa. La linea di confine religiosa appare molto sfumata, per nulla rigida. Molti sono i cristiani che assumono costumi e lingua araba, ma rimangono della propria religione, mimetizzandosi nell’ambiente musulmano, tanto che si parla di un “mozarabismo siciliano”, con chiese greche di rito arabo. I matrimoni misti non erano infrequenti. Il ­­­­­29

viaggiatore Ibn Hawqal, di personalità rigorosa, tratta da bastardi (musha midun) i musulmani che, sposati con donne cristiane, lasciano che i loro figli crescano secondo la religione materna: la coesistenza, dunque, passa anche attraverso i medesimi nuclei familiari. E l’identità religiosa appare in molte zone volatile. Di qui, lo sforzo governativo verso una politica di rigore spirituale, mutuata anche dallo sciismo professato dall’élite statale; con grosse mobilitazioni di carattere propagandistico nel caso delle festività principali e con una perdurante azione di circoncisione. Nel pieno del regno kalbita quanti potevano essere i musulmani nell’Isola? È impossibile fornire un dato, anche approssimativo. Forse intorno alle quattro-cinquecentomila persone. Tuttavia il discorso della colonizzazione, così come impostato finora, non tiene conto delle grosse differenze presenti all’interno della società siciliana. Le differenze etniche e tribali tra berberi, arabi, sudanesi, andalusi, con il loro dissonante mosaico, ebbe verosimilmente degli effetti anche sulle forme di stanziamento. Diffuso ad esempio in varie zone è l’etnonimo al-Barbari, ossia berbero. All’interno delle varie etnie esisteva probabilmente una organizzazione per clan, considerata l’esistenza di grandi gruppi come quelli dei Qurashi, dei Tamini, dei Qaysi, dei Kindi, degli Azdi, dei Lakhmi, degli Ansari, di origine araba; e degli Hawwari, dei Lawati, degli Zanati, dei Kutami, di origine berbera. O dei Banu al-Tabari, protagonisti della ribellione palermitana alla metà del secolo. Quanto questi clan incidessero sul controllo degli spazi politici e sociali o di occupazione del territorio, è difficile dirlo. Per capirlo ci si muove spesso per analogia con altre zone del mondo islamico, come l’Andalusia, dove esisteva una forma di organizzazione sociale basata sul vigore e sulla forza dei singoli gruppi familiari, che esprimevano sia all’interno del proprio clan sia verso l’esterno un potere egemonico fatto di solidarietà e di appartenenze. Una traccia circa la loro autorevolezza è possibile seguirla attraverso la prosecuzione genealogica del nome acquisito, la nisba, che si riscontra anche in seguito, in epoca normanna: segno di una presenza capillare di lungo periodo di forti gruppi familiari e tribali in diversi contesti del territorio. Al di là di queste indicazioni, su questo tema non è possibile poter dire molto altro, se non la notizia dell’endemica rivalità tra i berberi, che popolavano prevalentemente l’agrigentino, e gli arabi ­­­­­30

insediati a Palermo. Alla radice di queste discordie croniche c’era il problema della ripartizione delle terre conquistate, secondo il diritto musulmano e coranico. Dal Kitab al-Amwal di al-Dawdi sappiamo che quando Girgenti fu presa, la città e i suoi dintorni erano completamente in rovina. I primi occupanti berberi riuscirono a far rifiorire la regione; ma presto arrivarono nuove correnti migratorie, spinte da una forte fame di terre. I nuovi arrivati si rivolsero all’autorità di Palermo. La richiesta ufficiale era di far valere i propri diritti proprietari. Di fatto, volevano soppiantare i primi occupanti ritenuti abusivi, i quali, si disse, possedevano e occupavano quelle terre «senza alcun iqta – l’atto ufficiale di possesso – da parte del sultano». Il sultano avrebbe appoggiato queste richieste, inviando un esercito in appoggio ai nuovi pretendenti. E dalle iniziali tensioni tra proprietari il passaggio alla guerra aperta, alle violenze, ai massacri è breve: con conflitti e tensioni che si propagano per decenni. L’agricoltura e la vita rurale vengono fortemente condizionate dall’arrivo dei musulmani. La suddivisione militare delle terre conquistate e l’inserimento di nuove popolazioni avide di nuovi spazi da coltivare implica un’inversione rispetto al passato, con un evidente riflesso sul paesaggio, con piccoli appezzamenti al posto di grandi latifondi. Parte una grande iniziativa di bonifica, sotto la spinta soprattutto dei coloni berberi, che utilizzano come manodopera schiavi cristiani. La proprietà rurale si frantuma, in un ambiente dove finisce per prevalere un’economia agricola ad alto tasso di specializzazione, con terreni protetti e chiusi da mura, disseminati, a pelle di leopardo, tra un mare diffuso di campi a cereali. Terre che si diffondono, ad esempio, nelle vallate e nelle fiumare, come quella del Val Demone, sul versante nord della catena montagnosa che corre da Cefalù a Taormina. Zone che si giovano delle conoscenze innovative che importano i nuovi coltivatori. Irrigue, con la razionalizzazione e la canalizzazione delle acque fiumane (i qanat), che permettono di introdurre sull’Isola nuove colture e il costante miglioramento delle rese agricole. Tecniche che consentono di razionalizzare il consumo dell’acqua, che anche allora non doveva essere molta. Esiste infatti un mito della terra assetata, di una terra calda, «dove il calore dell’estate è tale che basta ad accendere il fuoco»; con problemi climatici che, annota Goffredo Malaterra, causavano, per molti periodi dell’anno, in alcune zone ­­­­­31

dell’Isola totali carenze idriche. Perciò si interviene. Per Illuminato Peri, «i corsi d’acqua divengono essenziali alla conservazione del paesaggio, alla sussistenza, agli agi e a lenire i disagi», fondamentali per la produzione agricola quanto per le attività industriali, tanto da «condizionare le presenze e stimolare gli insediamenti, necessari com’erano al funzionamento dei mulini, alla follatura della lana, al lavaggio del lino, all’igiene delle persone e delle cose, all’irrigazione degli ortaggi, della frutta, dei vigneti nelle stagioni aride, all’alimentazione degli uomini e degli animali». Il governo delle acque sembra sia rimasto appannaggio dell’iniziativa privata di coloni e contadini, i quali, col loro lavoro, provvedevano a scavare canali e a predisporre le attrezzature. Mentre la mano pubblica sembra assente, sia nella costruzione e salvaguardia di acquedotti sia nei lavori di apertura di nuovi canali di irrigazione. Uno degli aspetti più interessanti del processo di organizzazione dell’universo rurale riguarderebbe la costituzione, decisa dal fatimida al-Muizz, di distretti territoriali affidati ai governatori siciliani. Un modello davvero efficace. Ogni aqalim, distretto relativamente vasto e corrispondente spesso a demarcazioni fisiche del territorio, doveva essere suddiviso in piccole e medie unità insediative produttive e fiscali, con una popolazione composta da contadini liberi, proprietari di terra, tenuti a contribuire solidarmente allo Stato. Per ognuna di queste unità era previsto il compito di coordinare la vita religiosa, militare e amministrativa e di garantire il necessario raccordo con la capitale. Va detto però che questo modello, probabilmente a causa della inadeguatezza e della fragilità del potere kalbita, non giunse a compimento e rimase in gran parte inattuato. Ad ogni modo questo schema, secondo alcuni, troverebbe riscontri ed influenze nel sistema dell’Andalusia musulmana. Sebbene forme organizzative non dissimili siano presenti anche in ambito bizantino: forme che avrebbero potuto condizionare la scelta siciliana. In ogni caso, il modello adottato rimanda ad un paesaggio di comunità, di villaggi organizzati, con consigli di anziani, jamaat rurali, di qaids e di capi comunità. L’organizzazione di una rete difensiva è uno degli effetti più evidenti della conquista musulmana, composta da una trama di castelli che va ad integrare e completare quella già definita dai bizantini. Rete che, dalla costa, penetrava abbondantemente nell’interno. Per la Sicilia occidentale, l’area di maggiore islamizzazione, ­­­­­32

possediamo l’indicazione relativa ad almeno una trentina di castelli e fortezze, tra cui Caltanissetta, Castronovo, Cefalù, Entella, Iato, Licata. Inoltre la toponomastica isolana rinvia spesso al termine qal’a (monte Catalfano, pizzo Balatamuri, Caltafarsa, cozzo Catalnatto, Calatimi, Calata, Calatameth, Calatafimi ecc.), che, in ambito iberico e magrebino, designa generalmente fortezze di grandi dimensioni e difficilmente accessibili. L’altro toponimo indicativo è qasr, che in genere definisce un castello o una dimora fortificata, ma finisce per indicare interi quartieri fortificati (ad esempio, la contrata Cassari). Questi aspetti ci portano a parlare dell’efficacia dello Stato kalbita, che fu tutt’altro che povero. Nel 1009 Jafar lascia l’Isola con un carico, si racconta, di seicentosettantamila dinari d’oro: cifra sicuramente gonfiata, quasi gargantuesca, la quale però riflette la portata che la potenza economica della dinastia aveva sull’immaginario popolare. Che si reggeva su cosa? Come altrove nel sistema musulmano, sulla tassazione imposta sulle risorse agricole e sui frutti ricavati dalla guerra di razzia, portata dai siciliani sulle coste della Penisola italiana. Un sistema che regge almeno per gran parte del X secolo, e consente alla dinastia di intraprendere la fortificazione dei nuovi quartieri di Palermo e la costruzione del quartiere delle «diecimila case» della Jafariyya. D’altra parte, la crisi politica dell’ultimo periodo kalbita non sembra aver alterato la struttura fiscale siciliana, dove pare che la tassa fondiaria in fase calante sia stata parzialmente sostituita dai diritti di dogana e dalle imposte sui consumi. Dunque, un’economia di Stato piuttosto solida, che consente ai kalbiti anche di impostare una politica di pace, di accordi e di negoziati. Rivolta non solo verso i paesi musulmani, ma anche nei confronti del principale nemico, Bisanzio. Con rapporti talvolta ambigui, come ad esempio nel 939, quando si chiede esplicita assistenza militare a Romano Lecapeno. Un atteggiamento verosimilmente determinato dalla volontà di conservare forme di autonomia e di indipendenza rispetto a pressioni troppo forti che potevano pervenire dal fronte fatimida africano. Il mondo siciliano, come altrove nell’Islam, ha una forte dimensione cittadina. Dimensione che però riesce difficile descrivere. Oltre Palermo, per gli altri centri tanti aspetti restano in ombra. Dove sono gli edifici? Dove i palazzi e le moschee? Su questo aspetto, più che su altri, ci si muove a tentoni e l’ausilio della archeologia di­­­­­33

venta prezioso. Ad ogni modo, molte città sopravvivono sulla scia della vicenda bizantina, e, dopo la conquista, vengono ripopolate con l’afflusso di nuovi immigrati. Avviene però uno spostamento circa le zone di interesse: l’area di urbanizzazione che aveva fatto la fortuna dell’Isola in età bizantina, quella orientale, viene adesso soppiantata dalla zona occidentale. Per intenderci, crolla l’importanza di città come Siracusa e Catania, mentre emergono, con un peso sconosciuto, i centri della costa occidentale: Mazara e Girgenti. E, chiaramente, Palermo. Nelle città musulmane di Sicilia, fatto comune nel mondo musulmano, l’elemento amministrativo e quello religioso coincidono. L’unità si compone nella moschea. Ognuna di esse è, nello stesso tempo, luogo di preghiera, di riunione, ma anche la sede dove si fa professione di lealismo o di dissidenza politica nei confronti dell’autorità, dove si rende giustizia, dove si insegna e si tiene scuola. Dove si conserva il denaro pubblico. Ne conosciamo qualcuna, dai resoconti dei viaggiatori musulmani di epoca normanna: moschee che sono, in questo periodo, ancora operanti. Una delle compilazioni più famose, il Nuzhat al-mushtaq fi ikhtiraq al-afaq (Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo), del geografo marocchino Muhammad al-Idrisi, menziona ancora in epoca normanna le numerose moschee di Palermo, quelle «grandi e piccole» di Catania, le «moschee per la preghiera della comunità» di Butera. Il pellegrino andaluso Ibn Jubayr racconta che a Termini «i musulmani vi hanno un sobborgo grande dove si trovano le loro moschee». Poi che a Trapani, nelle diverse moschee di quella città, si festeggia la fine del mese di ramadan con una processione «al suono di timballi e di trombe» che lo lascia stupito per la tolleranza cristiana. Anche ad Alcamo vede delle moschee attive, circondate da popolazioni e da insediamenti musulmani. Infine, della moschea di Siracusa, che sorgeva presso il porto, dà notizia ancora il Kitab ar-rawd al-mi‘tar al-aqtar (Il libro del giardino profumato sulle notizie dei paesi), scritto dal dotto giurista magrebino al-Himyari, vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo. Attraverso la moschea si diffondeva sulla città lo spirito delle parole del Profeta, insieme a quelle dell’autorità politica. Per questo motivo ogni centro, forse anche il più piccolo aqalim, ne fu provvisto. Alle città, un forte impulso arriva dal commercio, dalle reti di relazione intessute col resto del mondo islamico. Va inoltre posto ­­­­­34

in evidenza il ruolo di intermediazione che le città costiere siciliane svolgevano come collettori tra il proprio territorio e il mercato mediterraneo, in una condizione di dipendenza del mercato siciliano, nel quale mancavano molti prodotti, soprattutto manufatti. Per questo motivo, va ipotizzata una maglia commerciale che andava dal mare verso l’interno e che collegava tra loro tanti piccoli mercati diffusi, consentendo di collocare la merce anche nelle zone più impervie. La lista che fornisce Idrisi, che è tarda di più di un secolo rispetto al momento che sto raccontando, segnala Cefalù, Milazzo, Messina, Aci, Catania, Siracusa, Licata, Sciacca, Mazara, Marsala, Trapani come città che hanno un ruolo marittimo di import/export. Centri che presentano al loro interno strutture per albergare i mercanti (khans), magazzini, bagni, taverne e negozi. Girgenti è il «porto del sale e del grano», dove i cereali vengono imbarcati verso l’Oriente e l’Africa, porto che svolge un ruolo di intermediazione tra il mare e l’interno, che diventa un volano di sviluppo che ne alimenta la crescita demografica, con una popolazione che pare raggiungesse i circa ventimila abitanti: quasi tutti musulmani, ma con innesti, come era naturale in un luogo di commercio, di cristiani ed ebrei. Né si può dimenticare il ruolo svolto nell’economia locale da un centro strategico come Castrogiovanni, alla confluenza di importanti strade che conducevano ai porti e al mare, con una serie di agganci e di diramazioni che portavano a Randazzo e Adornò, sui versanti dell’Etna; a Petralia, nelle Madonie; a Naro, nella maggiore zona di produzione granaria, a Piazza, a Noto, ad Alcamo. Città che a mano a mano crescono, diventano più forti e richiedono maggiore spazio di potere e di controllo sul proprio hinterland. Con un bisogno di autonomia che si trasforma in pretesa di governo autonomo, col distacco, nella fase di crisi del potere kalbita, da Palermo; e la creazione di potentati locali, di effimera durata.

3. Con gli occhi di Ibn Hawqal

Questo, a volo d’uccello, il panorama delle città siciliane. Ognuna con una sua storia, ognuna con un proprio ruolo, importante o mediocre che fosse, ma tutte che soccombono al fascino della ­­­­­35

capitale: Palermo. Una città che stupisce perfino chi, come il monaco Teodosio, ci arriva da prigioniero. Per addentrarci in essa, per vederla com’era più di mille anni fa, lo faremo per gradi. Affidandoci in partenza agli occhi di qualcuno che questa città l’ha vista. L’ha toccata con mano. E, aggiungo, non ne ha riportato un buon giudizio. Quest’uomo è Ibn Hawqal. Un viaggiatore particolare, un mercante di Bagdad, un devoto. Molto critico, forse fin troppo critico verso Palermo e la Sicilia. Che, però, nel percorrere la capitale, resta segnato da alcuni incontri. Da alcuni aspetti della città. E seleziona, per sé e per i suoi lettori, delle notizie indispensabili, riportate nel suo libro Delle vie e dei reami, scritto agli inizi degli anni Settanta del X secolo. La sua memoria non si limita alla città di pietra. Il suo racconto rimanda alla gente di Palermo, agli uomini e alle donne che la abitano, ai suoi commerci, alle sue ricchezze, agli status symbol, alle sue leggende. Entrando nella capitale, il suo giudizio è tranchant. I palermitani li trova rilassati e superficiali, fiacchi, irrispettosi delle pratiche religiose, poco attenti ai precetti coranici come ai dettami della guerra santa contro gli infedeli. Troppo, per il suo carattere di uomo devoto, austero e moraleggiante. Questo leit motiv della narrazione, che in alcuni momenti diventa quasi stucchevole, si basa su uno stereotipo. Probabilmente egli è condizionato da un pregiudizio che riguarda l’intera Isola, che per un uomo del suo tempo doveva però avere un impatto condizionante: un pregiudizio astrologico. Si riteneva che la Sicilia fosse nata sotto l’ascendente del Leone, un ascendente negativo. Scrive Il libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie, del 1050, che «l’ascendente della Sicilia è il Leone e il maestro dell’Ora è la Luna». E prosegue: «gli astrologi affermano che quando la casa del Leone sorge obliquamente esercita, nonostante la sua reputazione benefica, un’influenza malefica, cosicché ogni paese sotto il suo influsso è difficile da governare per il sovrano. Il Leone domina Samarcanda, Ardabila, la Mecca, Damasco e la Sicilia: questi paesi non sono in sintonia col loro sovrano e il loro sovrano con loro». La città, il suo contesto, tutto il panorama siciliano sarebbero dunque influenzati da questa pessima confluenza astrologica: alla base delle continue tensioni politiche, dei dissidi esistenti tra città e città e del pessimo rapporto tra governanti e governati e tra gli uomini tra di loro. Anche Ibn Hawqal sembra essere vittima di ­­­­­36

questo pregiudizio. La sua lamentazione per il modo in cui i siciliani nel loro complesso conducono la propria vita e affrontano il nemico che è alle porte è violenta. Un’invettiva: i Rum oggi offendono con ogni sorta di scorrerie i musulmani abitatori delle nostre coste; ed essi non hanno chi li aiuti, chi presti loro soccorso. I principi musulmani si prosternano abbietti davanti al nemico, avari e superbi in patria; i dotti fanno loro libito e non sono mai sazi, ti danno responsi come piace a loro, senza pensare al rifugio presso Dio, né alla vita futura. Pessimi i mercanti che, disonesti, non voltano la faccia davanti ad azioni illecite; né a guadagni che giungano da malaffare. I devoti, lesti lupi, si cacciano in ogni calamità e spiegano la vela ad ogni vento. Così i confini e l’isola sono consegnati in mano ai nemici e la Terra si lamenta con Dio delle iniquità dei suoi signori.

L’accusa è feroce e non risparmia nessun grado della scala sociale, che accomuna in un’unica combinazione negativa tutti, dal mercante al dotto. Senza risparmiare i finti devoti. E, in maniera particolare, i signori musulmani dell’Isola, che hanno preferito abbandonare la guerra e la difesa delle loro popolazioni per una vita di agi e di mollezze. Ma è quando cammina per le strade di Palermo che le sue parole diventano sferzanti. Il maggior pregio della città risiede, è opinione comune, nel numero di moschee. Ce ne sono trecento. Quasi quante a Cordova. Come mai? Per Ibn Hawqal, esse non nascono da una giusta esigenza devozionale. Anzi, sono frutto di una pessima scelta. Di un’abitudine riprovevole. Perché molte di esse vengono utilizzate per alimentare il prestigio di singoli nuclei familiari e nulla hanno a vedere con lo schietto spirito religioso che dovrebbe animare un credente. Spiega di aver capito questo fenomeno incontrando un suo conoscente palermitano, un giureconsulto «specialmente versato nella materia dei contratti» e visitando la sua casa: stando un giorno presso la casa di Abu Muhammad al-Qafsi e messomi a guardare dalla costui moschea per quanto si stendeva la vista nel tratto che percorre una saetta, notai una decina di moschee, che talvolta l’una stava di fronte all’altra e vi correva in mezzo solo la strada. Avendo chiesto il motivo di questo numero strabocchevole, mi fu detto che ­­­­­37

qui la gente è così gonfia di superbia, che ognuno vuole una moschea sua propria, nella quale non entri che la sua famiglia e i suoi clientes.

Simbolo del prestigio familiare, come altrove nelle città medievali occidentali le chiese private, questo delle moschee private mi sembra un tema interessante, su cui purtroppo non credo esista altra indicazione tranne questa. Ad Ibn Hawqal questo fenomeno non interessa però dal punto di vista dell’analisi sociologica. Per lui è solo una stranezza, che non ha riscontrato altrove: indice di una scarsa tenuta religiosa. Pertanto prosegue, rilevando un altro paradosso: «accade qui che perfino due fratelli, che abitano case contigue, ognuno si costruisca la propria moschea, per adagiarvisi da solo». Una moda che coinvolge tanti palermitani. Ci casca, c’è cascato, pure il suo conoscente, il giureconsulto: «una delle dieci moschee presenti nella strada apparteneva allo stesso Abu Muhammad». Insomma, conclude Ibn Hawqal, «ognuno vuole che si dica questa è la mia moschea e di nessun altro». Esse però non sono solo il simbolo di un carisma familiare. Sono anche fonte di lucro: nella moschea si può creare una scuola. E allora cosa fa un padre, un buon padre di famiglia meridionale? Ne costruisce una per i figli, in modo da potergli garantire un’entrata sicura. Ed è quello che fa pure il giureconsulto Abu Muhammad: ne stabilisce una per suo figlio. Ragazzo, peraltro, che dalle parole di Ibn Hawqal, viene descritto come un poco di buono, anche un po’ tonto, tutto il contrario di ciò che lui pensa debba essere un rigoroso uomo di dottrina: «accanto alla sua, a una ventina di passi, il giureconsulto aveva fatto fabbricare un’altra moschea, perché il proprio figlio vi desse lezioni di giurisprudenza. E questo ragazzo si sentiva gran cosa e andava così tronfio e contento di sé medesimo, come se egli fosse stato il padre di suo padre e non un semplice figlio di famiglia». Questo giudizio fa il paio con un altro, che colpisce uno dei gangli della vita sociale cittadina: l’educazione dei giovani, fondamentale in chiave religiosa. Per Ibn Hawqal, a Palermo ci sono più di trecento maestri, tanti come le moschee. Chiamati ad un’importante opera pedagogica. Gente che dovrebbe rappresentare il meglio di una società. E che invece non è altro che un’accozzaglia di mestieranti, “sepolcri imbiancati”, inetti e per questo presuntuosi, impreparati a svolgere questo mestiere, i quali godono di ­­­­­38

una reputazione immotivata, che si danno a questo lavoro per evitare il servizio militare e i compiti eroici legati al jihad: va messo anche nel novero il fatto che qui v’ha più di trecento maestri di scuola che educano i giovanetti. A sentirli, essi sono nel paese gli uomini di Dio, la gente più virtuosa e degna. Nonostante che ognuno conosca la loro poca capacità e la loro leggerezza nel cervello, vengono chiamati a fare da testimoni nei contratti e come depositari. La verità è che costoro si buttano a fare quel mestiere, per fuggire il jihad e scansare ogni fazione militare.

La valutazione negativa verso i palermitani non si attenua e diventa ancora più circostanziata se si prende la cronaca di un altro grande personaggio, Yaqut, un convertito musulmano di grande ingegno, autore di uno dei principali monumenti dell’erudizione islamica medievale, il Dizionario alfabetico dei paesi. Egli, che scrive alla metà del XII secolo, riprende alcuni passi di un’opera di Ibn Hawqal riguardante nello specifico Palermo e la Sicilia, andata perduta, che presentava espressioni di questo tenore: i siciliani sono gli uomini al mondo più scarsi di intelletto, anzi i più sciocchi. Sono persone che non aspirano ad azioni nobili e più cupidamente si gettano su quelle vili. Più di uno mi ha riferito che Utman ibn al-Hazzaz, uomo timorato di Dio, essendo stato nominato cadì di Palermo, come egli ebbe sperimentata l’indole di quei cittadini, non volle più accettare la testimonianza di nessuno di loro sia in vertenze di scarso valore sia in quelle importanti. L’unica soluzione che trovò per risolvere le vertenze, fu quella di arrivare a delle transazioni. Così egli praticò, finché, approssimandosi la morte, gli fu chiesto chi potesse sostituirlo dopo il trapasso. Ed egli rispose: «in tutto il paese uomo non c’è cui affidare una transazione». Morto, l’ufficio di cadì fu affidato ad un siciliano, di nome Abu Ibrahim Ishaq ibn al-Masili, il quale commise parecchie scempiaggini.

Più avanti enumera, uno per uno, i difetti dei palermitani, in modo particolare quelli legati agli aspetti religiosi: «l’uso di mangiare cibi puzzolenti, il sudiciume, l’acerbo litigare senza fine. Essi non fanno le abluzioni, né recitano le preghiere, né pagano la decima, né compiono il pellegrinaggio. A volte non digiunano in ramadan, e si lavano tutti insieme nei casi di impurità». Oltre all’a­­­­­39

desione di facciata ai precetti fondamentali dell’Islam, l’occhio di Ibn Hawqal resta sconcertato dalla scarsa igiene dei palermitani e delle loro abitazioni, anche ai livelli più elevati. Case dove gli uomini vivono in una situazione di promiscuità con le bestie e che proietta un’immagine peculiare dei ritmi di convivenza in ambito urbano, fatta di insopportabili contiguità e di insufficiente pulizia. Sporcizia tale – e qui c’è un altro dato culturale, della superiorità del buon musulmano di Bagdad rispetto al resto dell’universo mondo – che supera anche quella degli ebrei: «per la sporcizia e per il sudiciume i palermitani non possono paragonarsi nemmeno ai giudei, e il negrore delle loro case è peggiore di quello di un forno da mattoni. Prendi tra coloro chi abbia più alto status e vedrai che le galline razzolano a piacere nelle loro dimore e si liberano persino sui loro letti e sui guanciali e nessuno si cura di quanto succede». Influssi astrologici, si diceva. Ma per Ibn Hawqal esiste un altro aspetto che rende i palermitani così deboli, debosciati. Un pregiudizio che nasce dalle loro cattive abitudini alimentari. Dallo smodato uso di cipolle, che rende tutti malati. Alterati nell’agire. Scrive: i palermitani hanno preso gusto a bere l’acqua di pozzo per mancanza di acqua sorgiva, per scarso uso a riflettere e per il gran mangiare che essi fanno di cipolle. Questo cibo, di cui sono ghiotti, che loro mangiano crudo, gli guasta i sensi. Non vi è tra loro nessuno, di qualsivoglia condizione, che non mangi cipolle e non ne faccia mangiare in casa sua mattina e sera. Ecco il motivo che ha offuscato la loro immaginazione, offeso i loro cervelli, perturbato i sensi, alterata l’intelligenza, assopito gli spiriti, annebbiato i volti, stemperata la costituzione in modo tale che essi non riescono più a vedere con chiarezza le cose.

Le cipolle, insomma, alla base del degrado morale e civile. Una stranezza si dirà. Una curiosità cui non dare troppo peso. Ma questo secondo il nostro metro di giudizio, moderno, contemporaneo. Mentre, invece, per un musulmano dell’epoca questo è un tema da non sottovalutare. Non è un caso che un sapiente erudito come Yaqut riprenda questo tema di degrado alimentare e lo ribadisca, con altri esempi e con altri pareri medici e scientifici. Annota: «Yusuf ibn Ibrahim, nel libro dell’Ahbar al-Atibba, ­­­­­40

le Notizie dei medici, rileva che essendo stato detto da un tale ad un medico, che egli quando mangiava cipolle non sentiva più la salsedine dell’acqua, il medico rispose essere proprietà speciale della cipolla alterare il cervello; la quale alterazione porta con sé quella dei sensi. Indi la cipolla, non per altra cagione, ti fa sentire più debolmente la salsedine dell’acqua se non che per l’alterazione». E Yaqut gira ancora una volta il coltello nella piaga: mangiare cipolle è tanto dannoso che «tu non trovi in Sicilia un uomo d’ingegno né alcuno che meriti il nome di dotto e sia versato in un ramo della scienza; né trovi alcun uomo giudizioso e religioso; ma predomina tra loro la sciocchezza, la viltà e la scarsezza di cervello e di religione». Pregiudizi alimentari non eccezionali nel mondo islamico, se è vero che anche gli abitanti della sponda opposta alla Sicilia, cioè gli uomini dell’attuale Tunisia, secondo l’autorevole parere di Ibn Rushd, avrebbero avuto un pessimo carattere a causa del consumo di carne di cane. Insigni autorità, si direbbe oggi, avvalorano l’opinione negativa di Ibn Hawqal sulla Sicilia e i siciliani, collegata strettamente ad un pregiudizio alimentare che si riverbera nel tempo. Come leggere queste parole? Come analizzarle? Senza preclusioni o paraocchi di sorta. Non si tratta di frasi gettate lì a caso, ma siamo davanti a pareri circostanziati, che hanno una eco tra la gente musulmana. Non per niente provengono da persone qualificate e competenti. Perciò non vanno bollate con conclusioni affrettate, come affermazioni estemporanee e bizzarre. O, peggio, seppellendole e cancellandole. Invece vanno riprese cercando di capire quale fosse l’orizzonte di senso di quegli uomini. È una questione di metodo, sottoponendo al vaglio della critica non tanto le loro opinioni ma quello che è il nostro sistema di misura nel considerarle. Barattare l’etnocentrismo e cercare di sostituirlo con un’analisi non rigida, ma duttile, flessibile. Operare, in definitiva, un ribaltamento, dove i loro occhi devono diventare i nostri occhi: l’unico mezzo possibile per colmare le distanze tra il nostro presente e un passato che, per molti versi, può risultare indecifrabile o addirittura incomprensibile. E affermare con serenità che, per quegli uomini del X e del XII secolo, il problema di adottare certi tipi di alimentazione rappresentasse una chiave per interpretare la realtà; per spiegare dei fenomeni, anche di natura sociale, dalle ricadute le più varie. ­­­­­41

Per Ibn Hawqal, il disagio di percorrere le strade di Palermo diventa massimo quando si raggiunge la periferia della città, i ribatat costieri, abitati da gente che viene da ogni porto del Mediterraneo, spesso stupidamente fanatica «che tanto si è prosternata che in fronte ha fatto il callo». Ambiente di miserabili, vera e propria corte dei miracoli, di nullafacenti, che passa il tempo a chiedere l’elemosina e a spettegolare. Di mezzani, di senza tetto, «di canaglie». Questo ambiente di inazione è, per un homo oeconomicus come il nostro viaggiatore, il peggiore dei mali. Allora, meglio parlare dei mercati e dei traffici. Qui lo sguardo del viaggiatore sembra una volta tanto allargarsi, con gli unici sprazzi di stupore e di positività nei confronti della capitale. Dalla descrizione appaiono delle zone di specializzazione, dedicate alla vendita di alcuni prodotti rispetto ad altri (basta pensare alla contrada dei fabbri, al di fuori della porta dei Negri), con una suddivisione per settori, tra cui spicca la posizione dei macellai: il mercato dei venditori di olio, che racchiude tutte le botteghe dei venditori di questa derrata è tra la moschea di Ibn Siqlab e il quartiere nuovo. I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuori dalle mura della città; e similmente i sarti, gli armaioli, i calderai, i venditori di grano e tutte quante le altre arti. Ma i macellai tengono dentro la città più di centocinquanta botteghe per vendere la carne.

Già, i macellai: appaiono essere, per consistenza e ampiezza, il gruppo di punta dell’economia cittadina: «questo grande numero di botteghe mostra l’importanza del commercio della carne e il gran numero di coloro che lo esercitano. Il che si può argomentare parimenti dalla vastità della loro moschea, nella quale, un giorno che era piena di gente, io contai, così di getto, più di settemila persone: poiché vi erano schierate per la preghiera più di trentasei file, ciascuna delle quali quasi superava il numero di duecento persone». Dai calcoli a spanne compiuti dal cronista, tra proprietari di botteghe, addetti alla macellazione, manovalanza, trasportatori ecc., si può congetturare che il mercato della carne muovesse a Palermo un esercito che poteva andare oltre le cinquemila unità. Notizia che, tra l’altro, getta un altro fascio di luce sui modi di vita e sui consumi alimentari della popolazione della ­­­­­42

capitale, per la quale le carni verosimilmente avevano un ruolo principale nel sostentamento quotidiano. Va sottolineato in prima istanza come, nella sua descrizione, la piazza di Palermo appaia fornita solo di mercati di approvvigionamento alimentare e artigianale. Niente botteghe di drappi – che compaiono invece nella descrizione di Ugo Falcando –; niente merciai; e, soprattutto, restano in ombra i grandi mercanti, i tujjar. In secondo luogo, come per Ibn Hawqal non esista sull’Isola una vera e propria cultura mercantile. La Sicilia necessita di un continuo apporto di merci, specialmente di lavorati e semilavorati, importati da mercanti stranieri. Però verso di loro, che rappresentavano una risorsa per l’Isola, rivela come esistesse un’ostilità preconcetta, da parte sia dei contadini sia di chi vivesse in città: «e tutto ciò nonostante che i loro interessi dipendano dagli importatori e che i siciliani abbiano vivo bisogno dei viaggiatori, trattandosi di un’isola priva delle risorse di altri paesi, eccettuato il grano, la lana, i panni a pelo, il vino e lo zucchero e una certa produzione di vesti di lino, che, per dire il vero, sono senza pari in bontà e buon prezzo». Alla fine, che immagine emerge dalla descrizione di Ibn Hawqal? Quella di una città degradata, nei costumi come nell’ambiente fisico. Ma è una rappresentazione reale? Quanto incide nel giudizio di Ibn Hawqal il fatto di provenire dal cuore del mondo musulmano, da Bagdad, la maggiore metropoli del mondo musulmano, e che quindi valuta Palermo come l’estrema e depressa periferia del dar al-Islam? Non lo sappiamo. Di sicuro la società palermitana, così ricca di innesti provenienti da varie componenti dell’universo musulmano, cosmopolita, dove l’islamizzazione forse aveva creato solo una patina sul precedente sostrato cristiano, doveva creare, in un uomo di rigore e fortemente ortodosso come il nostro viaggiatore, non pochi disagi. Ma questa immagine negativa resta ancora condizionante per un approccio alla città kalbita, anche perché essa è l’unica così precisa, dettagliata. Terreno da cui non si può assolutamente derogare, fondamentale per il giudizio storico. Prendiamo ad esempio quanto scrive Salvatore Tramontana, uno dei più acuti lettori odierni delle vicende siciliane medievali. Per lui l’attenuamento del senso religioso, della tenuta spirituale della popolazione – in un contesto dove la convergenza tra fattori spirituali e temporali ­­­­­43

erano fortissimi –, fu l’elemento di maggior danno per la generale tempra civile della Sicilia musulmana. Una società che sembra barattare la tensione spirituale con costumi sempre più sincretici, in un mondo dove la preghiera non è più un fattore di vita, i matrimoni misti si moltiplicano, i pellegrinaggi verso la Mecca si riducono, l’osservazione del digiuno durante il ramadan si affievolisce. Atteggiamenti che si incarnano nella scialba prosecuzione della guerra santa, sintomatica di una perdita di credo religioso. Una tendenza che ha ricadute negative sulla vita quotidiana, sulle pratiche istituzionali, sulle forme dell’educazione dei giovani, con situazioni di malcostume, degrado, corruzione. Un ambiente che tende al disfacimento, dove il messaggio di salvezza islamico progressivamente si attenua, nonostante i tentativi di rigenerazione che pure vi furono. Degrado che, naturalmente, è l’esca per dissidi interni, per contese interetniche, per l’aumento dell’aggressività dei nuovi immigrati berberi e africani, che conducono a violente sommosse, come la rivolta palermitana del 1019 contro l’opprimente fiscalismo. È l’amalgama di questi aspetti sfavorevoli a rendere la Sicilia un terreno fragile, facile terra di conquista. Questo il giudizio dello storico, che segue da vicino, molto da vicino, il leit motiv di Ibn Hawqal. Però dobbiamo porci una domanda: siamo sicuri che Palermo e la Sicilia fossero solo un mondo in disfacimento?

4. Palermo

Esistono, infatti, altre angolature per comprendere cosa fosse la capitale. Innanzitutto, è una delle più grandi città del Mediterraneo. C’è chi dice che vi vivessero addirittura trecentomila abitanti: una cifra sicuramente esagerata. Si pensa oggi che contenesse molta meno gente, suppergiù intorno alle centomila persone. Ma si tratta, pur sempre, di una cifra enorme per i canoni dell’epoca, che rimanda l’idea di una città caotica, affollata, con un profilo, secondo una suggestiva immagine, a nido d’api, una qasaba che racchiude i palazzi del potere, i quartieri occupati dall’esercito, gli uffici amministrativi, circondati da suq specializzati, come da centri religiosi musulmani e di altre fedi religiose. Si rirova qui ­­­­­44

il modello di Bagdad, di Cordova, tuttavia con delle differenze, originali. La Palermo del X e XI secolo è una capitale scita, la città del sultano, dei puri. Il centro di comando dove risiedono a lungo gli emiri è la Halisah, la Kalsa, privo di mercato e separato dalla città antica, da cui si sorvegliano il porto e le attività commerciali; il cuore da cui, attraverso una serie di governatori, giudici, funzionari subalterni, si diffonde il potere emirale su tutta la Sicilia. Luogo che resta tale almeno sino a qualche decennio prima della conquista normanna, quando la crisi dinastica non impone uno spostamento degli spazi del potere, col ristabilire la centralità della zona del Cassaro come sede di governo. Nella Kalsa si riunisce anche l’assemblea dei notabili, istituzione che ha funzioni sia consultive sia deliberative, di sostegno al principe nelle decisioni di maggior peso. Un potere importante che surroga talvolta i signori kalbiti, a tutti gli effetti parallelo. Autorità, che nei momenti di maggiore crisi dinastica, sfida a viso aperto gli emiri, contestandone le decisioni. La città ha altre anime. Alla Kalsa sciita corrisponde la città vecchia del Cassaro, sunnita: bordata da una grande strada larga, pavimentata e ornata di colonne, la balat poi platea marmorea, dove sono ubicati numerosi fondaci, attestati a partire dal XII secolo. Perpendicolarmente ad essa, secondo un impianto antico, calano una serie di vicoletti stretti, con piccoli mercati, negozi, botteghe di macellai e di pescivendoli, bagni pubblici, suq, tra cui quello dei droghieri, gli Attarin. L’altro luogo nel quale convergono affari ed interessi sorge intorno alla sinagoga, embrione di un quartiere ebraico che non sarà mai limitato né esclusivo, sorto senza dubbio alla fine del X secolo. Non si sa come fosse organizzato: probabilmente possedeva un grande spazio centrale per la vendita, ma non conosciamo nulla circa la localizzazione delle case o dove risiedesse l’autorità d’arbitraggio che coordinava l’attività delle diverse case d’affari ebraiche e i rapporti con gli altri gruppi mercantili presenti in città. Alla porta a mare, ai piedi del Cassaro, si insediano invece gli amalfitani; e nel vicus amalfitanorum si installa il quartiere del mercato dei tessuti preziosi, delle sete, delle lane. La città è ricca di tanti altri particolari, che la rendono unica. Ha le sue trecento moschee, private o pubbliche che siano, alcune delle quali enormi, ricavate spesso in chiese cristiane. Ha la sua ­­­­­45

zecca, che conia il tarì d’oro, che, a poco a poco, soppianta il solidus di Bisanzio come principale moneta di scambio del Sud della Penisola italiana. Numerosi mulini. Bellissimi giardini. Fonti d’acqua sorgiva e pozzi d’acqua. Arsenali, fondaci. Un porto tra i principali del Mediterraneo, da cui partono ogni anno carichi immensi, con grandi navi, capaci di portare ognuna più di cinquecento persone. Una popolazione che viene da ogni parte dell’Islam e anche dalle terre dei barbari, in cerca di commercio, di traffici, di alleanze, di ambascerie: mercanti amalfitani, notabili napoletani, delegati del basileus di Costantinopoli, greci catturati che hanno preferito l’apostasia, soldati in cerca di fortuna che arrivano dal Sudan come dal Maghreb. Gente che scappa dalle terre del Nord Africa, in questo momento colpite da guerre interne. Uomini di cultura, che hanno lasciato l’Andalusia o l’Africa a causa dell’avanzata hilaliana. Ebrei, che tessono collegamenti che vanno, attraverso Palermo, dalla Spagna all’Oceano Indiano. Tutto questo crea un melting pot che, per quanto possa essere fonte di scandalo per un vero credente, è una delle reali, grandi ricchezze della capitale. Fra la gente di Palermo camminano personalità non da poco. Al di là del giudizio avvelenato di Ibn Hawqal, ve ne sono tante di pregio che alimentano una vita culturale e sociale di gran rilievo. Siciliani che si sono formati fuori dal contesto isolano, soprattutto in Africa, in Egitto, ma anche in Spagna e nell’Estremo Oriente. Oppure immigrati di livello, che hanno lasciato l’Africa a causa dello scisma fatimide. Molti insegnano, con capacità ben diverse da quelle immaginate per il figlio del giureconsulto Abu Muhammad. La trasmissione della scienza sacra viene svolta in maniera coerente e diffusa. L’insegnamento e la recitazione del Corano (il tajwid) ha in città una importante scuola, e la maestria dei lettori palermitani è apprezzata fino nell’Egitto fatimide. E sappiamo quanto importante sia la lettura del Libro per un buon musulmano: capace, se perfettamente modulata, di convertire anche lo spirito più agnostico. E nella capitale siciliana si approfondiscono tutte le scienze che sono alla base della cultura dell’Islam. Che ne esaltano il suo tesoro dottrinario: l’esegesi, il tafsir; la tradizione profetica degli ahadith; la giurisprudenza, la fiqh. E da Palermo si diffonde in tutta la Sicilia il diritto malekita, sebbene in contraddizione col potere sciita. Probabilmente ci fu anche chi praticò il ­­­­­46

tasawwuf, la via iniziatico-esoterica della rivelazione islamica, una disciplina spirituale attestata in Sicilia già in questo periodo, collegata a figure di awliya’ Allah (gli intimi di Dio, i santi musulmani), tra cui Muhammad ibn Ibrahim at-Tamimi as-Sufi, che si recò in Iraq presso il grande shaykh Abu al-Qasim al-Junayd. Oppure Abu Uthman Said ibn Sallam di Girgenti, che muore a Nishapur, in Persia, nel 984. O, ancora, Abu al-Qasim as-Siqilli, autore del trattato in sei volumi Le luci sulla scienza dei segreti, personaggio definito come lo shaykh al-arif al-muhaqqiq (il Conoscitore che ha realizzato la Verità essenziale, lo Gnostico della realizzazione spirituale), ancora attivo negli ultimi decenni del X secolo. Tutte personalità carismatiche, intrise di un forte spirito religioso, profondi conoscitori della sharia, intensamente ortodossi. In città si pratica anche la medicina, la filosofia, l’astrologia. A corte non mancano i poeti. Si pubblicano dotte dissertazioni sulla lingua araba. Si scrivono commentari di carattere giurisprudenziale. Epistolografici. Opere di saggistica gnomico-didattica. Per la filologia non mancano altre autorità, come Ibn al-Birr, che ebbe numerosi discepoli, tra cui Ibn al-Qattà, Ibn Makki e Ibn al-Fanham. Bastano questi esempi per capire come Palermo appaia inserita in un circuito culturale ampio, che va oltre il Mediterraneo. Ricco di influenze e di apporti. Con un’islamizzazione del sapere e un’attività intellettuale feconda, attraverso continui scambi, con la presenza di uomini di cultura siciliani in altre zone dello spazio musulmano. Tutti elementi che fanno di Palermo, pur trovandosi alla periferia del mondo, una città straordinaria. Con quest’altra prospettiva, è ora possibile recuperare l’altra parte del racconto di Ibn Hawqal. In cui descrive la capitale, con le sue ripartizioni e i suoi quartieri, in modo da poterla osservare in maniera ancor più nitida. Per prima cosa c’è «la città grande, propriamente detta Palermo, cinta di un muro di pietre alto e difendevole, abitata da mercanti». Qui c’è la moschea gami, la moschea principale della città, dove si raccoglie il pubblico per la preghiera del venerdì. Al suo interno c’è il Qasr, il castello, che è parte della città antica. Tutta questa città grande è cinta da nove porte. La principale è la bab al bahr, la porta di mare. Non lontana un’altra porta, che ibn Hawqal menziona per l’eleganza e perché è stata da poco costruita, poco lontana da una fonte detta della salute. Ancora, c’è la porta antica di Sant’Agata e, dopo questa, ­­­­­47

l’altra di Bab ar Rutah, «dal nome di un grosso rivo, al quale si scende di qui». Seguono la porta dei Giardini, la porta di Bab ibn Qurhub, la porta dei Giovanotti, la più antica della città, la porta dei Negri, la porta del Ferro, da cui si arriva al quartiere ebraico, e un’ultima porta, di cui non viene menzionato il nome, che conduce al quartiere di Abu Himaz. L’altra città, separata dalla prima, è la Al Halisah, la Kalsa, l’Eletta, la Bianca, la Pura, anch’essa racchiusa da un muro di cinta. Abbiamo visto, la sede dell’emiro: «soggiorna nell’Halisah il sultano coi suoi amministratori, non ci sono né mercati né fondaci; v’ha due bagni; una moschea gami, piccola ma frequentata; la prigione del sultano; l’arsenale di marina; e il diwan, cioè gli uffici pubblici. Questa città ha quattro porte». Esterno a questi due nuclei c’è un altro quartiere presentato come il più grande e popoloso, che si estende sul porto: «il quartiere detto Harat ‘as-Saqalibah, il quartiere degli Schiavoni, è più ragguardevole e popoloso che le due città anzidette. In esso è il porto e parecchie fonti d’acqua, le quali scorrono tra questo quartiere e la città vecchia: tra l’uno e l’altro il limite non è segnato che dalle acque». Segue il quartiere chiamato Harat al-Masgid, dov’è la moschea d’Ibn Siqlab. Accanto al quale c’è un altro grosso agglomerato, l’al-Harat al-Gadidah, il quartiere nuovo. Zone che non sembrano recintate da mura. La città non termina con questi quartieri. Continua con degli slums, degli abituri, in parte desolati. Uno dopo l’altro, per circa sei chilometri, si susseguono, nell’interno, fino alla Baida. Verso il mare, invece, si aprono dei ribatat, che abbiamo visto descritti come luoghi infidi, levantini, pieni di gente losca e di malaffare. Per Ibn Hawqal non esiste alcun interesse per i palazzi e gli edifici. La città, è per lui, come spesso per gli uomini del Medioevo, solo torri, mura e porte. Così, non fornisce alcuna descrizione sulla sede dell’emiro. Né ha lasciato traccia visibile della fisionomia delle moschee. Appare più impressionato dal numero dei fedeli che partecipano alla preghiera che dallo splendore delle strutture architettoniche. C’è però un aspetto che colpisce lo scrittore, non da poco: in che modo la città riesca a rifornirsi d’acqua, sia per l’approvvigionamento umano sia come forza motrice per i tanti mulini che sono in città. Su questo particolare le citazioni sono parecchie, e sottendono tutte il grande interesse che ha, per questo aspetto, ­­­­­48

Ibn Hawqal. Come mai? Perché una città ha fame e sete, come si diceva. Perché l’acqua è un problema che ossessiona l’uomo del tempo. E il cronista forse conosce la condizione di altre città musulmane che hanno difficoltà ad approvvigionarsi facilmente, come il Cairo, che ha case assai alte e quindi ricorre all’ausilio di portatori d’acqua, particolarmente cari. Oppure Bassora, che va rifornita a dorso di cammello e dove la marea fa rifluire, nelle sorgenti di acqua dolce, il sale e addirittura l’immondizia. Di conseguenza il cronista si sofferma su questo problema, diremmo, ecologico e sostanziale. Di vita pratica. Di basilare sopravvivenza. E rimanda un’immagine di una Palermo ricca d’acqua, attraversata da torrenti, i quali, alla confluenza col mare, formano una costa palustre, usata per la coltivazione del papiro: scaturiscono intorno a Palermo acque abbondanti che scorrono da levante a ponente, con forza da volgere ciascuna due macine; onde son piantati parecchi mulini su quei torrenti. Dalla sorgente allo sbocco in mare essi sono fiancheggiati di vasti terreni paludosi, i quali dove producono canna persiana, dove fanno degli stagni, dove dan luogo a buone aie per le zucche. Qui si stende anche una bordura tutta coperta di papiro, che è proprio la pianta da cui si fabbricano i tumar, i rotoli di foglio da scrivere. Io non so che il papiro d’Egitto abbia sulla faccia della terra altro compagno che questo di Sicilia. Parte dei cittadini, quelli cioè che abitano presso le mura e nei dintorni, bevono questa acqua che scende dai torrenti.

Esistevano anche altre fonti: «la gente del Mu’askar beve alla fonte del Crivello, e lì c’è anche un’altra sorgente che chiamano fonte delle nove donne, che però dà meno acqua dell’altra detta di Abu Said, che prese nome da uno dei wali del paese. Nel lato occidentale della città si beve alla fonte del ferro: qui c’è veramente una miniera di questo metallo, posseduta oggi dal sultano, il quale adopera il ferro estratto agli usi dell’armata. Oltre a queste scaturiscono intorno a Palermo altre fontane rinomate, le quali recano utilità all’agro palermitano e servono ad innaffiare giardini». Ma non tutti possono bere acque dolci e trarle da sorgive: «il quartiere che si chiama il quartiere della moschea d’ibn Siqlab è spazioso ma difetta d’acque vive: per questo motivo gli uomini bevono acqua dai pozzi». Anzi, i palermitani sembrano preferire questa acqua a quella che arriva fresca di fonte: «gli abitatori della ­­­­­49

città vecchia, al pari che quelli dell’Halisah e del rimanente dei quartieri, si dissetano con l’acqua dei pozzi delle proprie case: la quale, leggera o pesante che sia, piace loro più che molte acque dolci che scorrono in quei luoghi». Questa insomma è Palermo. Sporca e splendente, dove circola tanto oro, frutto di scorrerie e di commerci, percorsa da un esercito di schiavi, che trasporta, dal porto al mercato, il meglio del meglio che si possa trovare nel Mediterraneo: stoffe, vasellame e grano; papiro, spezie e cotone. Città dove accorrono uomini che provengono da tutti i paesi. Dal deserto, dal mare, da altrettanti favolosi centri, come Bagdad, Qayrawan, il Cairo, al-Mahdia, la stessa penisola arabica. E dall’Europa dei barbari, dall’universo tirrenico e adriatico, attratti dalle prospettive che offre la capitale. Una città che crea ebbrezza in chi la attraversa dal palazzo del sultano sino alla città vecchia, attraverso vicoli luridi, solcati da rigagnoli che trasportano le immondizie degli uomini e della lavorazione degli artigiani, pieni di animali che scorazzano da un lato all’altro. Strade che d’un tratto diventano luminose, che si aprono su corsi d’acqua, sorgenti, giardini. Un panorama folto di mulini. Di bancarelle dove trovare agrumi, carne, formaggio, cipolle, da mangiare a volontà. Città affollata, nella quale i muezzin cantano a tutta l’Europa che questa è una terra di jihad. Parte integrante dell’orbe islamico.

5. Appartenenze

L’errore che si può compiere nel considerare Palermo e la Sicilia musulmana è di vederle isolate dal loro vero contesto di appartenenza, che non è il continente italiano o l’Europa, che è la terra dei miscredenti, il dar al-Kufr. Il reale contesto di integrazione e di complementarietà dell’Isola non può che essere col proprio mondo di origine: musulmano. Koiné vastissima di cui la Sicilia condivide apporti culturali, sistemi morali, economia, strutture, cosmogonie, quadri mentali e pratiche di vita e che copre uno spazio che va al di là del Mediterraneo e che ruota intorno ad un sistema di città. Un’immagine troppo spesso proposta associa l’Islam al deser­­­­­50

to. È un’impostazione sbagliata. La religione musulmana stessa nasce in città (alla Mecca, a Medina) e fa della città l’elemento propulsivo per la sua campagna d’espansione. Di tutte le civiltà che si susseguono sul Mediterraneo nel corso del Medioevo, la musulmana è quella che mette in campo il maggior numero di energie per lo sviluppo cittadino, sia rianimando quelle che erano cadute in disgrazia sia creandone ex novo tante altre. Ad un passato urbano ellenistico, romano, persiano, l’Islam è capace di sostituirne uno rinnovato e innovatore che si stratifica e si appoggia su quello antico, assimilandone spesso le forme e rielaborandone i contenuti. Le principali città? Cordova, Toledo e Siviglia in Spagna. Alessandria, il Cairo, Tunisi, Qayrawan e al-Mahdia nel Nord Africa. In Iraq, Bagdad, Kufa, il grande porto di Bassora, testa di ponte della grande navigazione marittima verso l’Africa orientale e l’Estremo Oriente. Nell’alta Mesopotamia, Mosul, alla confluenza tra i paesi arabi, persiani, curdi e bizantini. In Iran, Hamadhan, l’antica Ecbatana, che controlla i flussi verso l’Iraq; e ar-Ravy, sul sito dell’attuale Teheran. E poi Ispahan, Shiraz, capitale del sud dell’Iran, Nishapur, un nodo carovaniero di primaria importanza, e, infine, le due ville-oasi della Sogdiana, Samarcanda e Bukhara. Queste per contare solo le principali. E, infine, all’estremo nord dell’Islam, Palermo. Città enormi, con popolazioni enormi. Tanto per contare, cinquecentomila sembra che fossero gli abitanti di Cordova. Più di un milione quelli di Bagdad. Tutte città che basano la propria forza su quattro assi: il potere, la cultura, la posizione di snodo, il commercio. E che non possono nemmeno essere messe a paragone con le città europee dell’epoca, che a confronto praticamente non esistono. Gran parte delle energie e della ricchezza dei governatori musulmani sono volti, nel corso della storia dello sviluppo dell’Islam, alla creazione di città. Non c’è niente di improvvisato. Molto è frutto della pianificazione. Di interventi politici determinati, che guidano con razionalità i processi di composizione dell’habitat. Le città di nuova fondazione, concepite con un preciso disegno politico, sono tante. Tutte le dinastie sono coinvolte e fanno di quest’opera un segno distintivo della loro attività. La principale città è Bagdad, il regalo di Dio. Essa nasce per volontà di alMansur, che la chiamerà Madinat as-Salam, la città della pace. Per costruire la città vengono condotti schiavi da tutte le zone ­­­­­51

conquistate. Si dice che nei cantieri vi lavorino fino a centomila operai. In quattro anni si costruisce una città tonda, razionale, che circonda il palazzo del califfo e la principale moschea. Intorno ad essa, con un’altra serie di cinte concentriche nascono altri quartieri, dove sorgono i centri amministrativi, le caserme, i palazzi dei familiari del califfo. Tutto è serrato da un’ultima cerchia, dotata di ben trecentosessanta torri. Ma la città continua ancora a crescere, con quartieri che si giustappongono. All’inizio del IX secolo, si dilata ormai su uno spazio di dieci chilometri per nove. È diventata enorme, la più grande città del mondo. Ancora più articolato e mosso è il processo che segue il Cairo. Ogni nuova dominazione aggiunge città a città. Nel 641 viene fondata Fustat, da Amr, uno dei capi dell’invasione: allora un semplice campo militare. Abd al-Malik lo trasforma: vengono costruiti degli edifici pubblici, dei magazzini, un arsenale, un porto. La città segue a prolungarsi, lungo il Nilo, con una nuova aggiunta tra il 749 e il 750. Nell’872, Ibn Tulun fa edificare un nuovo palazzo, una grande moschea e un ippodromo. Infine nel 969, con i Fatimidi, abbiamo il Cairo, che nasce, a differenza di Palermo, sotto un segno astrologico propizio, da cui prende il nome: la città che nasce al sorgere di Marte. In questo periodo, conta circa mezzo milione di abitanti. Tra le altre città africane c’è Fez, esempio di una civiltà urbana che si insedia su un tessuto rurale berbero: città d’acqua, che passa dappertutto e alimenta venti bagni pubblici e trecento mulini. O al-Mahdia, la capitale voluta sulla costa dai Fatimidi. In Spagna, l’antica capitale della Betica romana, Corduba, vive una seconda e più completa vita, anche in questo caso grazie ad una serie di ingrandimenti che si susseguono. Nel 977, quando al-Mansur compie il maestoso ingrandimento della moschea, vivono in città circa mezzo milione di abitanti. E non diversamente avviene per Palermo, città di mediocre importanza in epoca bizantina, che sotto la spinta dei governatori musulmani, dall’831 in poi, vive uno sviluppo straordinario e regolamentato. Essi la portano a raggiungere le dimensioni descritte: con l’aggiunta, al centro più antico, di un polo di coordinamento amministrativo e politico e di un diverso e nuovo numero di quartieri. Lo sviluppo di molte città musulmane ha dell’incredibile. Con ritmi inimmaginabili anche oggi. Pensiamo di nuovo a Bagdad. In pressappoco centoquarant’anni, dal 662 a circa l’800, essa passa ­­­­­52

da poche centinaia di abitanti, perché tanti ne poteva contare il castello sassanide su cui viene fondata, a un numero che supera di parecchio il milione di abitanti. Città che sono al centro di una rete di collegamenti unica. Il caso del Cairo è eccezionale. La sua posizione è eccellente. Se guardiamo la carta del mondo, essa è all’incrocio tra un numero enorme di rotte, marittime e terrestri, su scala continentale, quasi planetaria. È legata al Maghreb, alla Spagna, alle città italiane della costa tirrenica, alla Sicilia. All’Africa nigeriana, attraverso i porti dove giungono le grandi carovaniere del Sahara settentrionale. Alla Siria e ai suoi porti. A Bisanzio. Al mar Rosso. E, attraverso la valle del Nilo, al cuore più profondo dell’Africa. Le città musulmane si pongono al centro di quello che fino ad allora era stato il mondo. Anzi, riuniscono ciò che era stato separato dal lungo conflitto tra i parti e i bizantini: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Una grande civiltà urbana che condiziona, con la sua presenza e la sua spinta colonizzatrice, tutte le aree periferiche, dal Sudan all’India, dalla Cina al Sud Italia. Capace di vivificare un tessuto urbano che andava spegnendosi, riportandolo in auge, come avviene per le città greco-bizantine di Damasco e di Aleppo. Civiltà che si serve, ed è un altro elemento di forza e di omogeneità, di un’unica lingua: l’arabo, la lingua religiosa del Corano, la lingua di governo e delle amministrazioni, che diventa anche in Sicilia la principale. Idioma internazionale, lingua franca, adoperata in ogni porto mediterraneo che si rispetti. Strumento di trasmissione culturale, che ha consentito la diffusione di conoscenze ed opere provenienti dal pensiero greco, persiano, indiano, cinese; e di riversare sull’Europa un numero enorme di influenze e di imprimere grande dinamismo alle correnti e ai flussi, che avvenivano in entrambi i sensi, di uomini di scienza, matematici, medici, letterati, poeti, astrologi, linguisti. Per i tanti musulmani che percorrono le corti di Cordova e Palermo, per i viaggiatori arabi che attraversano l’Europa, ci sono personaggi cristiani come Costantino l’Africano, che dall’Ifriqiya, attraverso la Sicilia, approda in Campania; Gerberto d’Aurillac, che influenzato dalla scienza araba, insegna matematica in Francia; Jean de Gorze, che, dopo aver fatto un viaggio dalla Lorena in Italia per cercare manoscritti greci, si reca anche a Cordova per studiare l’arabo. E non posso non menzionare, come importantissimo fenomeno di ­­­­­53

osmosi culturale, i centri di studio della medicina, come Salerno, Montpellier, Mazara del Vallo, Cordova, dove la lingua araba ha una posizione centrale. La quale ha condizionato (e condiziona), con le sue influenze, la terminologia scientifica, mercantile, merceologica e marinara anche del nostro italiano. Tutta la trama dei collegamenti dell’Islam, insomma, fa perno sulle città. Un sistema perfettamente oliato, basato sul connubio tra vie di transito interno, tracciati carovanieri e grandi porti commerciali sulla costa, forniti di arsenali, cantieri, magazzini, fondaci. Esistono tre vasti insiemi. Il primo riguarda la navigazione nel Golfo Persico e nel mar Rosso verso l’Oceano Indiano, completato dal sistema di navigazione che avviene lungo il Tigri e l’Eufrate. Il secondo, composto dai porti del complesso siro-egiziano, che si serve e si approvvigiona grazie al continuo flusso che scorre sul Nilo. Il terzo, che riguarda la Sicilia coi suoi porti (che trae consistenti risorse dal continente italiano e dai porti tirrenici) e la Spagna, dove i commercianti musulmani ed ebrei si giovano della penetrazione in territorio iberico grazie al Quadalquivir. È un meccanismo che muove stocks enormi di beni, derrate, merci, manufatti, oro dalle città carovaniere che si trovano alla confluenza delle diverse correnti (in Mesopotamia, in Arabia, nell’Africa subsahariana). E, con essi, idee, cultura, spiritualità e conoscenze. Dalle città islamiche partono lunghe colonne di armatori, carovanieri, cammellieri, mercanti, addetti, cui si aggiungono soldati e pellegrini. Convogli che attraversano per miglia e miglia zone desertiche ed aride, che trovano sosta in città-oasi, dove esistono moschee dove pregare e bagni per le abluzioni. E da qui, giungono ai porti, da dove le merci possono partire per le mete più disparate. Per capire questa enorme complementarietà tra città, strade carovaniere, porti, scali commerciali nell’universo musulmano, la cultura araba ha tramandato tanti trattati geografici ed enciclopedie, tra cui, per il Mediterraneo, le grandi opere di alMasudi, il Murug ad dahab, Le preghiere d’oro, e il Kitab at Tanbih wal Israf, il Libro dei consigli e della revisione; o il Kitab al Masalik wa’l mamalik di Abu Ubayd al-Bakri, il Libro delle vie e dei reami. Opere spesso basate sull’esperienza diretta di nocchieri e di comandanti di navi. Cosa emerge da esse? Il Mediterraneo: vivo e vitale e tutt’altro che morto, attraversato, è vero, da molte flotte in armi, contrapposte le une alle altre; ma anche reattivo, con rotte ­­­­­54

costiere, di cabotaggio e di alto mare, con navi, merci e marinai. Un mare, per tanti aspetti, solo musulmano. L’enorme intrecciarsi di percorsi marittimi e terrestri, un’espansione urbana così diffusa, la trama continua ed estesa di contatti e possibilità: questo è, per molti versi, l’Islam. Popoli diversi, genti di cultura e costumi differenti, come dice Lombard, «catturati in una rete di relazioni urbane che costituisce l’elemento essenziale di questa civiltà a carattere sincretico». Capace di fondere, in un tutto unico, il pensiero latino, ebraico, greco, persiano, bizantino, mesopotamico. Un orizzonte, che rispetto a quello ellenistico o romano, si estende dal Mediterraneo all’Oceano Indiano. E prolunga i suoi tentacoli fin dentro l’Europa, il mar Nero, l’Africa centrale, l’Asia, la Cina. Un panorama straordinario, raramente narrato, a causa di una serie di pregiudizi, con quella immagine stereotipata dell’Islam fatta di razziatori, di nomadi, di tende e di deserto. Così come viene trascurata la storia della Sicilia musulmana: forse questo mondo fu poco sereno, ma quale, nel lungo Medioevo, non lo fu? Forse fu poco compatto, solo superficialmente islamizzato. Paese ricco di risorse come di contraddizioni, di mangiacipolle e di divoratori di carne. Rissoso e frammentario al suo interno, con le sue etnie che richiedono maggiore libertà e con le sue città che pretendono autonomia. Una società nata sotto il segno del Leone, poco scrupolosa verso l’autorità, politica o religiosa che fosse. Ma la Sicilia è sicuramente, con la sua capitale Palermo, una terra di transito e di passaggio, di commerci, di pensiero, di cultura. Un’area di complementarietà, integrata in una civiltà senza confini. Estremo ridotto della koiné musulmana, a un passo dalla terra dei miscredenti, cui la separa uno stretto braccio di mare. Attraverso cui corre il jihad.

III

Quando in Italia c’era il «jihad»

Quelli che credettero e che emigrarono e lottarono sulla via di Dio, possono sperare la misericordia di Dio, in quanto Dio perdona misericorde (Corano, sura II, v. 218)

1. Il «jihad»

Ci sono storie, nel nostro Medioevo, che si fa fatica a raccontare, ridotte all’interesse di un pugno di specialisti. Come la storia del jihad che, per più di un secolo, i musulmani scatenano contro la Penisola. L’Italia marittima e il Mezzogiorno sono un obiettivo facile. Nel IX secolo, la frantumazione al Sud tra i tanti potentati locali rende la resistenza insufficiente, impalpabile. Per Ibn Kaldun, «in quel tempo i popoli cristiani si limitavano a navigare nelle coste settentrionali e orientali del Mediterraneo, oltre le quali i musulmani si avventavano su di loro e li sbranavano, come il leone fa con la preda». Ci si muove parzialmente liberi, dunque, solo nell’Egeo e nell’Adriatico. Ma i mari di fronte all’Africa sono tutti nelle mani musulmane. Almeno per ora. La nuova, grave crisi siciliana cominciata nell’827, non crea, nel Meridione cristiano, quasi alcuna reazione. Gli interessi sono volti altrove: agli scontri interni, a riaprire antiche e mai sopite rivalità, soprattutto tra la popolazione dell’interno, i longobardi, e le città tirreniche, che restano nell’orbita greco-bizantina. Nella politica meridionale non c’è concordia né unità di intenti. I principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno vivono in una situazione di perenne contrasto, in continua tensione tra loro, che sfocia in estenuanti guerre civili. Nell’estrema punta della Penisola, il potere bizantino vacilla e lascia molti vuoti di potere. I ducati tirrenici, con a capo Napoli, vivono una situazione difficile, di oscillante equilibrio per la sopravvivenza, che spesso si traduce in aperta alleanza coi musulmani. Un mondo in frantumi, che diviene teatro di una guerra tra civiltà. ­­­­­58

In questo tormentato secolo, i musulmani attaccano il Sud in massa. È uno scontro epocale di cui spesso si sono persi i contorni, quasi facendolo sembrare un fatto accidentale ed episodico. Ma non è così e lo testimoniano decenni e decenni continui di raids e di attacchi. Ce ne furono di vario tipo. I primi, espressione di una guerra quasi privata, di corsa, compiuta individualmente da gruppi più o meno organizzati, con obiettivi rapidi e spostamenti veloci. Altre volte, invece, si tratta di incursioni pianificate, con scopi determinati, anche all’interno di conflitti che utilizzano il Meridione d’Italia come teatro di una guerra più grande, di scala mediterranea. Però, talvolta, le due modalità si intersecano: il raid serve a saggiare la capacità del nemico, a sondarne le forze, per lanciare un attacco più grande, più efficace e organizzato. Gli aggressori vengono chiamati dalle popolazioni locali in modo differente. Sono gli agareni, i figli di Agar, la moglie ripudiata di Abramo, madre di Ismaele, colui che prende il posto di Isacco nel sacrificio di Abramo (sura 37, vv. 101-106), ritenuto da Isidoro di Siviglia uno dei due inventori dell’idolatria. Da cui l’altro termine per identificare i musulmani, gli ismaeliti. Oppure sono i barbari o menzires, figli di Manzer, sempre in rapporto con Agar. La parola più conosciuta, più comune, è però saraceni, forse da saraka, parola spiccia che denota saccheggio, ruberia, attività da banditi. Vocaboli generici, che nascondono invece la grande varietà di etnie musulmane che danno l’assalto: berberi, sudanesi, spagnoli, magrebini, egiziani, mauri, musulmani di Creta e di Sicilia come anche latini e bizantini apostati e neo-convertiti. La conquista della Sicilia rende tutto più facile. Diventa, per i corsari saraceni, la principale base da cui trarre capacità logistica, sostegni, uomini e mezzi. Ma gli agareni trovano terreno fertile e proficue alleanze in alcune città del Sud, come Amalfi, Gaeta e specialmente Napoli, le quali traggono vantaggio dalle buone relazioni che intraprendono col mondo musulmano. I saraceni non si limitano alle scorrerie. Alla rapina. Al mordi e fuggi, per ritornare in fretta nelle proprie tane siciliane, cretesi o spagnole. Cercano qualcosa in più. Di creare proprie autonome teste di ponte sulla Gran Terra, come chiamano il continente. Dei ribatat. Delle colonie. Degli accampamenti fortificati. Credo che essi abbiano poco a che vedere con quelli collocati al porto di Palermo, covi di gente infida, di ladri e avventurieri. Questa è l’immagine ­­­­­59

più risaputa, secondo un cliché che ha fatto fortuna. Eppure un ribat è qualcosa di estremamente più complesso, che fa parte di un sistema tipico del mondo musulmano all’epoca. Innanzitutto, c’è il movente religioso. Cos’è un ribat per un credente? È l’estrema propaggine del proprio mondo in territorio infedele, terreno di proselitismo e di guerra santa. Di islamizzazione, come i tanti altri che sorsero in Siria, in Marocco, nel Sahel tunisino, in Sicilia, secondo un modello di successo: posti di guardia, a carattere militare, dotati di torri di avvistamento e di altre strutture difensive, che albergavano comunità di devoti. Molti degli uomini che li frequentavano erano spinti sia dalla sete di bottino sia dalla certezza coranica che chi muore combattendo per la fede evita la prova del Giudizio e può entrare direttamente in Paradiso, qualsiasi siano stati i suoi peccati. In loro, si condensa il miraggio della preda e della santità, quanto il sogno di tracciare un nuovo confine per il dar al-Islam. Dei monaci-guerrieri, li definisce Lombard: secondo lui, un modello per gli ordini militari cristiani. Combattenti per l’Islam che, in molti casi, cercavano nel ribat una via religiosa di distacco e di rinnovata adesione al Corano: come accade ad autonomi gruppi sunniti in Nord Africa in opposizione al regime fatimide sciita. Comunità che si stringevano intorno a personaggi di grande autorità religiosa, ad imam, a capi militari di polso. La cui memoria, una volta morti, resta legata al ribat, che diviene meta di devozione e di pellegrinaggio; di perpetuazione dell’identità di un gruppo, della sua volontà condivisa di prosecuzione della guerra santa. Come il ribat descritto da Ibn Jubayr, molto tempo dopo, nel 1183, in Sicilia: «il Qasr Sad giace sulla costiera: grandioso ed antico, di costruzione che risale all’epoca della dominazione musulmana nell’isola, è stato e sarà sempre con la grazia divina soggiorno di servi di Dio. Questo luogo, intorno al quale giacciono molte tombe di musulmani pii e timorati, è celebre come luogo di grazia e di benedizione; onde vi concorre gente d’ogni parte». Queste enclaves inoltre hanno un’importanza economica considerevole. Sono, all’epoca, uno dei principali punti di contatto economico tra musulmani e popolazioni cristiane indigene. Una terra franca, luogo di vendita e di smercio, soprattutto di schiavi. Ed è nei ribatat della costa che i potentati longobardi e gli esponenti delle città tirreniche vengono a cercare i mercenari per ­­­­­60

condurre le proprie guerre. Ma la loro portata economica non si limita a ciò. Essi rappresentano un collettore di entrate per le economie statali musulmane, anche per la Sicilia. Il versamento di parte dei proventi delle razzie rappresentava, insieme ai tributi che i saraceni raccoglievano taglieggiando le popolazioni circostanti, una voce di entrata di primo piano per il bilancio statale. Risorse che era un dovere per il mujaidin versare, misurate al dieci per cento, pena il castigo divino. A questo proposito, Ibn al-Atir racconta quanto successe nel corso di una scorreria in Sardegna, tra 710 e 711: quando ibn Usayr conquistò la Spagna, egli mandò per mare una banda del suo esercito contro la Sardegna. Sbarcati che furono i musulmani, i cristiani raccolsero tutto il vasellame d’oro e d’argento che avevano e lo buttarono in mare, entro il loro porto. Nascosero poi altro danaro in un palco che costruirono nella loro chiesa maggiore. Ora accadde che un musulmano, bagnandosi nel porto, sentì al piede un inciampo, e cavato fuori l’oggetto vide che era un vassoio d’argento. Allora i musulmani presero tutti i tesori che vi trovarono. Entrato un altro musulmano nella chiesa di cui si è detto, vide una colomba e le tirò con un arco: ma fallito il colpo la saetta andò a rompere un asse del palco da cui cascarono alcuni denari. Cosa fecero i musulmani? Compirono grande frode contro lo Stato: perché essi rubarono tutto il danaro. Chi ammazzava un gatto, lo sventrava, lo riempiva di oro, ricuciva la pancia e buttava la carogna sulla via, per andarla a riprendere con comodità. Altri adattarono l’impugnatura della spada sopra al fodero, riempitolo prima d’oro. E così via. Ma quando rimontarono sulla nave e furono in alto mare, sentirono una voce che gridava «sommergili, o Sommo Dio» e tutti annegarono dal primo all’ultimo.

La maledizione insomma ricade sui trasgressori del jihad, sugli egoisti e gli approfittatori, su coloro che non rispettano le regole della legge civile e religiosa e dell’equa spartizione del bottino. Che rubano, come riporta con straordinaria sagacia il testo, facendo frode contro lo Stato. Pena che viene equiparata alla bestemmia contro Dio, punita con un castigo sovrannaturale, perché è dovere di ogni muslim «eseguire la preghiera, pagare la decima e tenersi stretto a Dio» (Corano, sura XXII, v. 78). Di ribatat nel Mezzogiorno ve ne furono diversi. Il più celebre fu quello arroccato sul monte Argento, tra il Garigliano e Mintur­­­­­61

no, che durò dall’883 al 915. Una colonia temibile, che trasformò l’anfiteatro romano di Minturno in una vera e propria roccaforte, poco distante dal mare. Poi ve ne furono nel corso del IX secolo ad Ischia, pare per circa quarant’anni; ad Agropoli; forse a Ponza, occupata nell’846. Mentre, secondo Ibn al-Atir, fu lo stesso emiro di Sicilia, al-Abbas ibn al Fadl, a promuovere la formazione di ribatat a Tropea, a Santa Severina e ad Amantea, dove per breve tempo risiede anche un emiro. Un altro sembra sorgesse perfino alle porte di Roma, a Centocelle. I musulmani crearono anche insediamenti più importanti e duraturi, conquistando in Puglia, sullo Ionio e sull’Adriatico, Taranto e Bari, su cui ritorneremo. Il periodo peggiore in cui aspettarsi una razzia è chiaramente la bella stagione. Per i musulmani è la saifa: il tempo della campagna d’estate. I corsari musulmani si preparano da febbraio. Per mare, hanno imbarcazioni veloci, a remi, come anche grosse navi da trasporto. Conoscono verosimilmente l’uso del fuoco greco. Anche a terra si difendono bene. La loro tattica è astuta. Quando affrontano in campo aperto i cavalieri cristiani, si apprestano a alkarr wa-l-farr, letteralmente attaccare e scappare. Per poi contrattaccare. E spesso i cristiani cadono nel tranello: «come una roccia che viene erosa dall’acqua che cade dalla montagna». Inoltre, sono bravi nelle imboscate, nelle tecniche di guerriglia. Aspettano, nei valichi, nei passaggi, e attaccano truppe che hanno difficoltà a muoversi in spazi brevi. Arrivano di notte. Di sorpresa, su città e villaggi. Massacrano e uccidono chi non serve. Gli altri, insieme con beni e ricchezze, vengono portati via come schiavi. O per richiedere un riscatto: come avviene per molti, grandi e piccoli. Tra questi l’abate di Cluny, san Maiolo, che nel 972, proveniente da Roma, viene catturato da una banda saracena. E, per riaverlo, sarà necessario far fronte con le ricchezze del potente monastero. La gente del Sud sa quando comincia l’assalto: allora, ci si prepara e si scappa, verso le montagne, i luoghi fortificati, lontano dalla costa. E lì si aspetta che la bufera passi per poter ritornare a casa. Procedono così i monaci che circondano san Nilo che, spaventati dall’ennesima aggressione saracena, abbandonano il monastero e si rifugiano sulle montagne, mentre i cavalieri musulmani entrano negli edifici deserti. Al loro ritorno li trovano spogliati di tutto, anche dei beni più miserabili, tra cui il cilicio appartenente al santo. Ci si difende nell’unico modo possibile: non ­­­­­62

in bello, attaccando a viso aperto il nemico – non c’erano le forze sufficienti –, ma costruendo, in zone interne e più difficilmente aggredibili, dei castra, dei castelli (sed munitiones construentes) da usare come rifugio e come centro di salvaguardia e custodia. Spesso sono solo torri di avvistamento, da cui le scaraguaite, le sentinelle, davano, con particolari fumate, l’allarme. Ne parla una cronaca calabrese, la Cronica Trium Tabernarum et de civitate Catanzarii quomodo fuit edificata, che racconta come le popolazioni, una volta avvertite, «lasciassero le città e le fortificazioni costiere, alcuni scappassero verso i boschi e le montagne dell’interno, altri si rifugiassero in caverne pietrose e in forre, altri ancora verso rupi rocciose». Avviene un formidabile cambiamento nell’habitat, che ha grandi riflessi nel quotidiano. Trasformazione che è sotto gli occhi degli stessi contemporanei, i quali, coinvolti nel terribile gioco stagionale della guerra e dei raids, piangono i bei tempi di una volta, quando «in queste regioni i castelli erano rari, le città e le chiese erano piene, non c’era rumore di guerra e tutti godevano della pace». Ad un’età dell’oro, se ne sostituisce un’altra, del ferro e dei castelli. Quando si ritorna a casa, cosa si trova? Un mondo in abbandono. Case bruciate. I coltivi distrutti e saccheggiati. Prende corpo un’altra storia, che spesso nei libri si dimentica. Ai danni di guerra, che strappano le maglie di un tessuto economico e sociale già precario, è difficile porre riparo. Occorre ritrovare un proprio assetto, in una situazione gravemente perturbata. Rinsaldare i propri sostegni civili, morali, religiosi. Ripianare le conseguenze dei gravi danni arrecati, non solo di natura pratica, ma etica, psicologica, di convivenza. Ci prova la chiesa greca, con una casistica singolare, che riguarda soprattutto le situazioni di stupro di mogli di religiosi, come si legge in un documento eccezionale: la lettera del patriarca Fozio inviata a Leone arcivescovo di Calabria alla fine del IX secolo. Una testimonianza preziosa e, soprattutto, unica nel suo genere, che rimanda ad un clima di cieca brutalità, dove episodi di questo tipo dovevano essere all’ordine del giorno e dove il ruolo della donna appare totalmente degradato: a proposito delle spose dei preti e dei diaconi violentate dai barbari, se esse sono state consenzienti, i loro mariti dovranno separarsi da loro sia rinunciare al loro ministero, anche se il consenso è stato ottenuto ­­­­­63

col terrore, nel qual caso esse possono essere perdonate. Se esse invece hanno subito lo stupro attraverso un atto di forza pura, per esempio perché avevano le mani e i piedi legati, i loro mariti possono ricondurle a casa: sarebbe bene tuttavia che i mariti si separino in ogni caso da queste donne e che esse scelgano la via religiosa, per suscitare l’ammirazione, fare tacere i maldicenti e perché risulta difficile stabilire il loro grado di innocenza.

L’inverno per chi è scampato si preannuncia sospeso tra carestie, fame, terribili disagi. Chi resta fa fronte come può, anche ricorrendo all’antropofagia, al cannibalismo. Ne fanno cenno, ad esempio, le vite di diversi santi (e, come abbiamo visto in tutta la sua crudezza, anche la lettera del monaco Teodosio). Per altri, la vita si spezza. È meglio partire, che continuare così. Muovere verso zone ancora più sicure, verso montagne e castelli. Gruppi piccoli o grandi di fuggiaschi si uniscono a colonne di monaci, di pellegrini, di soldati. Ci si sposta in un incubo costante, perché l’attacco, la violenza, lo stupro può piombare addosso da qualunque parte, anche da chi si crede amico o alleato. Quello dell’emigrazione è un fenomeno sottovalutato, che ha invece risvolti importanti. Ad esempio, nelle regioni frontaliere dell’impero bizantino (e l’Italia meridionale è fra queste) inizialmente chi fugge, chi lascia la propria casa e non contribuisce più al pagamento delle imposte e alla leva militare, è considerato un disertore, un traditore. Si tratta di colpe gravi. Ma come fare ad imputarle a gente che è costretta a scappare sotto la spinta della violenza? Per ovviare a questo problema, lo statuto dei fuggitivi viene mitigato: se rientrano, gli si conserva la cittadinanza, basta che versino le tasse. Il problema inoltre è complicato dal fatto religioso. La fuga può significare anche passare dall’altro capo della barricata, cambiare divisa, convertirsi. Sappiamo da parte bizantina che talvolta grosse schiere di musulmani preferiscono passare sotto controllo dell’impero, insediandosi sul territorio come coloni, prendendo in moglie donne del luogo, cristianizzandosi. Nel X secolo addirittura tra i dieci e i dodicimila musulmani della tribù dei Banu Habib fanno questo passo e si convertono, sottoponendosi al controllo del governo di Bisanzio. E da parte islamica? Quanti sono i cristiani che preferiscono abiurare? Pochi? Molti? Mistero. Ci è rimasto solo il nome di alcuni di essi, di quelli che ­­­­­64

hanno raggiunto posizioni di vertice nel mondo islamico, tacciati dalla propaganda cristiana come rinnegati: ad esempio Leone di Tripoli, il Rasik al-Wardami delle fonti arabe, forse in origine uno schiavo; o Damiano di Tarso. In ogni caso, il numero maggiore sembra rappresentato da quelli che preferiscono scappare all’interno del proprio ambito, culturale e religioso, per ritrovare uno spazio nel quale ricreare con più facilità quel contesto di relazioni consueto. Nel Sud Italia, all’inizio, i nuclei più consistenti sono quelli che si muovono dalla Sicilia assalita. Più si riduce lo spazio bizantino sull’Isola, più aumenta il numero dei greci che guardano alla Calabria, alla Campania ma pure alle coste elleniche, a città come Corinto o Patrasso. Poi, lo spostamento avviene anche dalla Calabria. Ad ogni assalto saraceno corrisponde una spinta centrifuga. Si tratta spesso di uomini e donne dotati di un buon patrimonio di conoscenze che arricchiscono non di poco, in competenze e capacità, le attività dei luoghi dove termina questa loro diaspora: monaci basiliani, letterati, artigiani, aurifices, commercianti, contadini... Le correnti migratorie, gli spostamenti non hanno però solo un carattere spontaneo. In Calabria e in Puglia, ad esempio, si assiste, ad opera delle autorità bizantine, al ripopolamento e al recupero delle zone che hanno maggiormente sofferto a causa delle incursioni musulmane. Alcune aree si giovano dell’innesto di nuovi abitanti provenienti dai territori greci come dall’Armenia. Si crea, laddove la frontiera era risultata più fluida e permeabile agli attacchi, un vero e proprio «fronte di colonizzazione», come lo chiama Ghislaine Noyé. Si rinsalda il tessuto bizantino, un sostrato sociale, culturale e spirituale, col forte contributo della chiesa greca, che alimenta la creazione di nuovi distretti religiosi, in Sila, nel nord della Calabria, nella Lucania orientale. Popolazioni inquadrate in centri già esistenti e ora ricostruiti come pure in nuovi abitati e nuove fortificazioni, che danno vita ad un vero e proprio incastellamento di stato. 2. Nel vivo della guerra santa

Questo è l’antefatto di una guerra che fu il jihad, con una sua lunga e terribile contabilità fatta di centinaia di attacchi, raids e scorrerie, ­­­­­65

sul mare come all’interno che interessano non solo il Sud Italia, ma tutta la costa e le isole tirreniche, dalla Calabria al Lazio fino alla Lunigiana, a Genova, alla Sardegna, alla Corsica. E l’Adriatico: la Puglia, con tutte le sue città, Ancona, le foci del Po, Grado, la Dalmazia. E i saraceni penetrano anche nell’interno, dal nord della Puglia fino agli Abruzzi e al ducato di Spoleto. Con incursioni che raggiungono il Piemonte, la Val di Susa, Asti. Ingaggiando numerose battaglie di terra e di mare, importanti o meno, tra cui Ostia e Milazzo. Citerò solo dei momenti di maggiore scalpore. Esemplari, per tutta la serie di addentellati che li caratterizzano, i quali scandiscono crescita, apogeo e tramonto del jihad. E hanno lasciato una traccia profonda, di lungo periodo, nella storia come nell’immaginario, a cominciare dall’assalto di Roma. «Nel mese di agosto 846 – scrive Prudenzio di Troyes – i saraceni e i mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro principe degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore Lotario furono empiamente tagliati a pezzi». Da Harun ibn Yahya sappiamo quale fosse la provenienza di questi saraceni: sono spagnoli. Mentre il Liber pontificalis riporta in che modo fosse composta la flotta e quanti gli armati: sbarca ad Ostia un gruppo di sessantatré navi, da cui scendono cinquecento cavalieri. Vediamo ora come si svolsero i fatti: i saraceni, dapprincipio, risalgono il Tevere senza trovare alcuna resistenza. Assaltano le sedi dei forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi. Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le basiliche di San Pietro e San Paolo. Le locuste, si disse, sono arrivate a distruggere le messi. L’unica reazione arriva dai contadini romani che attaccano il contingente saraceno, che scappa con diverse perdite. Il gruppo di predoni, scompaginato, una volta lasciata la città si riunisce di nuovo. Per altre razzie. Si avvia verso il Beneventano, lungo l’Appia. Arriva a Fondi. A settembre comincia ad assediare Gaeta. Da Napoli e da Amalfi partono dei rinforzi, guidati dal console Cesario. Un contingente dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma e cade in un agguato. È uno sfacelo. I saraceni si dirigono verso Montecassino. Per strada bruciano tutto quello che trovano, chiese, cappelle, abitati. Li blocca solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno. Per ­­­­­66

i razziatori è il momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di Gaeta si spegne. Scatta, giocoforza, la tregua. L’evento che colpisce Roma lascia una profonda ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII secolo, nella Destruction de Rome, sorta di proemio alla Chanson de Fierbras. Appare quasi inconcepibile che non sia esistito alcun meccanismo di difesa da parte romana. Il gruppo saraceno non è enorme. Basta un nubifragio a fermarlo: un po’ poco. A ogni buon conto, è la capacità di sorpresa, l’effetto psicologico che li rende imbattibili. D’altro canto, i latini non possono che opporre la resistenza della popolazione locale, di contadini che si ingegnano guerrieri nell’assenza totale di ogni altra forza militare. I cavalieri franchi, poi, appaiono, in questa occasione, impreparati a confrontarsi con forze così rapide come quelle saracene. Si devono aspettare i napoletani e gli amalfitani, gli unici, in quel momento, ad avere una potenza navale e armata sufficiente da contrapporre. Ma c’è incertezza sulla loro fedeltà. Fatto sta che i musulmani possono stazionare, praticamente indisturbati, per quattro mesi, tra Roma e il basso Lazio, mettendo a sacco la periferia della città, alle strette Gaeta, riducendo in macerie tutta la zona tra Fondi e Montecassino. Dopo il massacro, in ogni modo, c’è da ricostruire, ricomporre una resistenza, per far fronte a un domani che si presenta oscuro. Nell’assenza del potere imperiale, il ruolo di promotore viene preso da papa Leone, il quale intuisce che i saraceni possono ritornare presto. Allora bisogna coordinare le forze, riassestare le difese della città papale, operare con una forte e persuasiva opera di propaganda che rianimi le popolazioni avvilite, riattizzare lo zelo religioso e, in ultimo, ricorrere all’aiuto bizantino e delle città marittime del Tirreno. Intanto un’onda di commozione fa il giro d’Europa. Roma è caduta. Roma sta cadendo. Ma aiuti non arrivano. Non possono arrivare. Il destino è nelle mani dei signori locali. Specialmente dei napoletani. A Roma, la vita riprende a fatica: bisogna ricostruire un tessuto connettivo e impedire che i luoghi santi divengano nuovo oggetto di razzia. Nasce così la città Leonina. Mentre, nell’849, le città tirreniche riportano la vittoria navale di Ostia: un simbolo più che un momento di svolta nelle vicende meridionali del jihad. Da essa deriva almeno una certezza: che il nemico si può battere sul suo stesso terreno. Vorrei però qui aprire una breve parentesi. La prosa di Amari ­­­­­67

nel raccontare questi episodi nella Storia dei Musulmani di Sicilia, dove la costruzione delle mura leonine, l’azione di propaganda papale e la battaglia navale scorrono parallele e simultanee, è insuperabile: rifulse di nuovo a capo di tre anni la virtù di Cesario napoletano, insieme con quella di Leone Quarto papa. Assai più forte stuolo di Affricani s’era adunato in Sardegna per ritentare l’assalto di Roma; mentre Leone dava opera a chiuder di mura le basiliche degli Apostoli e i sobborghi di quella parte; e con liberalità, con indefessa vigilanza, con processioni, benedizioni, esorcismi riscaldava la fantasia dei cittadini. Né eran finiti per anco i lavori, quando saputa la mossa dei nemici, la confederazione napoletana, non volendoli a niun patto padroni di quel mare, mandava l’armata ad Ostia.

Sembra una cavalcata vittoriosa. Ma la lingua di Amari ha un soprassalto. C’è un’interruzione nel climax narrativo. Un breve blocco, condensato in una frase che spezza il ductus e spiega, da sola, cent’anni di cattivi rapporti pontifici coi napoletani: il papa accetta il loro aiuto, «non prima d’aver interrogato Cesario se venisse da amico o nemico». La scena ha un sapore singolare. Anche nel momento in cui i musulmani sono quasi già alla fonda, che Roma può cadere definitivamente nelle loro mani, l’ultimo ed estremo retropensiero del papa nell’incontrare il console napoletano per Amari è: “lui e i suoi uomini saranno fedeli o no?”, «tanto erano sospetti nelle altri parti d’Italia que’ legami della repubblica di Napoli coi Musulmani». La risposta di Cesario è positiva. E la scena ritorna al papa, con una liturgia dei gesti intrisa di forza taumaturgica, da Crociata ante litteram. Non è più Amari che parla, ma il Liber pontificalis: Leone celebra la messa, comunica i soldati con le proprie mani, ricorda la fratellanza che esprime il Cristianesimo, i miracoli degli Apostoli, la comune speranza in Dio. Però il papa non è sicuro che la battaglia possa essere vinta e preparandosi ad ogni evento se ne torna a Roma. Riprendiamo Amari: la battaglia inizia, con la furia del Dio cristiano che partecipa insieme ai marinai tirrenici, fino alla vittoria: i nostri corsero alle navi con doppio ardire; appiccarono la zuffa; e poterono credere in vero ad aiuto soprannaturale quando, non decisa ancora la sorte della battaglia, levossi una tempesta che sbaragliò gli ­­­­­68

Infedeli, non usi la più parte al mare; mentre gli induriti navigatori delle nostre costiere su lor provati legni non se ne movevano. Indi orribile la strage dei musulmani, annegati, trafitti, sbalzati a terra, ove i baroni romani li pigliavano e li impiccavano; anche i preti osavano metter loro le mani addosso per incatenarli. Leone ornò di loro spoglie le chiese di Roma; fé lavorare i prigioni alla fabbrica delle mura; e riportò una gloria che pochi altri hanno saputo meritare.

Con la battaglia di Ostia e con la costruzione delle mura leonine nessuna incursione toccò più direttamente la città pontificia. Ciò nonostante, il suo contado continua ad essere sottoposto alle aggressioni. Le invocazioni di aiuto di papa Giovanni VIII alle autorità imperiali in Italia e all’imperatore stesso, Carlo il Calvo, denunciano la grave situazione: i saraceni vi sono rappresentati mentre continuano ad invadere e a saccheggiare liberamente la campagna romana e la Sabina, e le capacità di Roma non sono sufficienti ad accogliere i profughi che cercano rifugio tra le mura cittadine: una massa avvilita e affamata, che mette a dura prova le già scarse riserve romane. Perché ora l’attacco non arriva più dal mare, ma dall’interno stesso della Penisola. È accaduto qualcosa di imprevedibile: «per colpa di cristiani che cooperarono con loro – scrive Gregorio da Catino nell’XI secolo, ripensando a quanto era accaduto due secoli prima – una moltitudine di pagani, cioè la gente agarena, entrò in Italia: mancando un esercito italico, crebbe il loro potere da Trispedo fino al Po, tanto che con la forza acquisivano province e città». Se il raggio d’azione evocato dal cronista, dall’enigmatico toponimo Trispedo sino al Po, mi sembra esagerato, è un dato di fatto che gran parte dell’Italia centrale e, soprattutto centro-meridionale, sia sottoposta ad una dura aggressione. Con una vicenda dai tratti complicati e del tutto nuovi.

3. Un Meridione sotto scacco

Infatti il dramma, il vero dramma, per le popolazioni della Penisola comincia qualche anno prima della battaglia di Ostia. Con una trama irta di conseguenze che ha come iniziale scenario Napoli. Siamo nell’831. Il piccolo ducato indipendente è, ancora una vol­­­­­69

ta, alle prese col suo nemico di sempre, i longobardi di Benevento. È una guerra estenuante, che va avanti da quando sono entrati nel Sud Italia, tra VI e VII secolo. Napoli fa gola ai principi di Benevento. È fra le più grandi città della Penisola, ricca, parte attiva dell’impero di Bisanzio. Lo sbocco a mare ideale per una politica che abbia un respiro più ampio, non continentale ma marittimo. I duchi napoletani tentano di frenare l’avanzata longobarda con tutti i mezzi. Con le armi. Con tatticismi e strategie politiche. Arrivano perfino a cedere la principale reliquia cittadina, il corpo di san Gennaro, nascondendo, però, ingegnosamente, il pezzo più pregiato, la sua testa. Ma la situazione precipita. I longobardi sono ormai accampati fuori città. Il nuovo duca Andrea è alle corde. Cosa fare? A chi rivolgersi? Andrea ha preoccupazioni che vanno oltre la sua città. Deve tutelare anche Gaeta, Amalfi, Sorrento, allora parte del Ducato napoletano, che da un momento all’altro possono cadere preda dei longobardi. Allora, immaginiamo la scena. Il duca riunisce parentes et consortes, com’era consuetudine, e dal colloquio scaturisce la decisione. L’unica alternativa per salvarsi è chiedere aiuto all’esterno. Non ai bizantini, che ora sono troppo lontani. Allora a chi? Ai musulmani di Sicilia, coi quali si intrattenevano da tempo cordiali rapporti commerciali, di scambio e di alleanze. Essi arrivano, sbaragliano i longobardi, liberano la città e firmano un trattato di amicizia e di commercio con la città liberata. È il primo atto. D’ora in poi l’intervento musulmano nelle faccende meridionali diventa costante. Il potere longobardo non riesce a controllare tutte le zone di sua pertinenza. Specialmente le coste pugliesi, che si presentano in più punti vulnerabili. Così, su consiglio dei napoletani, che cercano di stornare altrove le energie militari longobarde, si ha un primo attacco musulmano a Brindisi nell’838. All’inizio dell’840, capitanati da un certo Saba, che doveva essere qualcosa in più di un semplice capobanda avventuriero, i saraceni occupano Taranto, allora importante centro commerciale per la rivendita di derrate, vini e manufatti in terracotta: idea­ le testa di ponte per l’espansione verso l’entroterra pugliese. La reazione arriva da Bisanzio e da Venezia. Entrambe inviano una flotta congiunta, di sessanta navi. Ma nello Ionio, la flotta viene intercettata dai saraceni di Taranto e distrutta. Approfittando della situazione, essi proseguono verso settentrione, lungo l’Adriatico. ­­­­­70

Saccheggiano Ancona. Sbarcano presso le foci del Po. E arrivano sino in Istria, dove danno alle fiamme Ossero, nell’isola di Cherso. La via dell’Adriatico è aperta. I saraceni di Taranto, l’anno dopo, possono di nuovo arrivare, pressoché indisturbati, fino al Quarnaro. La base di Taranto diviene, e lo resta per un pezzo, un perno militare e commerciale di peso nel settore adriatico. Oltre alle rendite provenienti dal territorio, si accumulano qui le ricchezze provenienti dai saccheggi e vi affluiscono navi siciliane, corsari cretesi, barche berbere. Tutti intuiscono, insomma, che in Puglia le prede sono facili e il bottino fruttuoso. In questo contesto, negli stessi anni, parte la prima aggressione alla città di Bari. Lasciamo la parola ad al-Baladuri, contemporaneo ai fatti narrati: «in oriente c’è una provincia chiamata la Gran Terra, distante dalla Cirenaica quindici giorni di viaggio. Sulle coste di questa terra c’è una città chiamata Baruh, abitata da cristiani non bizantini: essa fu assalita da Hablah, liberto di alAglab, emiro di Qayrawan, ma senza successo». Hablah non è un semplice liberto. È un mawla, un rinnegato, uno straniero convertito divenuto cliente di una famiglia della casta araba dominante. Verosimilmente, un berbero. Un’impresa isolata, fallita perché le truppe longobarde hanno ancora la forza necessaria per reagire. Ma è un segnale, forte e chiaro, degli avvenimenti che seguiranno. Perché all’interno del mondo longobardo scoppia una guerra civile, tra due contendenti, Radelchi e Siconolfo. Essi si giovano dell’aiuto di mercenari musulmani, di origine ed etnia diversa. Il primo, in prevalenza di africani. L’altro di spagnoli. Arrivati come ausiliarii, si trasformano ben presto in gente che preferisce muoversi in proprio. Mercenari che, invece di combattersi l’un altro, si accordano tra di loro per far preda e compiere razzie di schiavi. La guerra civile intanto incalza, con tutto il suo corteo di violenze e saccheggi, come dice l’Anonimo Cassinese, «tutti divenuti nomadi e pronti al male, come bestie senza guida che stanno per cadere in un abisso». A Benevento, i mercenari saraceni diventano i nuovi padroni. Alla loro testa c’è Abu Mashar, il Massar delle fonti latine. È gente senza scrupoli che tratta i cittadini di Benevento con tronfia superiorità, pronta perfino a far frustare, come fossero servi, alcuni dei principali esponenti cittadini. La guerra civile intanto continua e, con essa, l’afflusso di mercenari saraceni. Tra essi Abu Jafar, che controlla Taranto e i saraceni che si sono ­­­­­71

stabiliti in Calabria. Per pagarli, per legarli meglio a sé, i contendenti longobardi ricorrono ad ogni mezzo. Anche a spogliare i tesori delle chiese, come quelli della Madonna di Salerno o del monastero di Montecassino, che servono ad assicurarsi i servigi di Abu Jafar. Ancora una volta, più che badare ai loro padroni, i saraceni di Taranto preferiscono fare bottino per se stessi: così invadono le terre salernitane sino al fiume Tusciano e poi tornano alla loro sede. La situazione del Meridione si fa di giorno in giorno più cupa. Da alleati, i saraceni si sono trasformati nella vera minaccia. I due principi rivali longobardi sono costretti ad accordarsi. Insieme al duca di Napoli, Sergio, cercano ora nuovi aiuti contro il comune nemico. Si rivolgono direttamente all’imperatore franco Lotario. Si organizza una spedizione, composta da franchi, burgundi, provenzali. Si chiede l’appoggio marittimo di Venezia. Si tratta, però, per ora, solo di buoni propositi. Intanto i saraceni continuano la loro opera di devastazione. Il loro raggio d’azione si allarga. Attaccano Montecassino, Aquino ed Arce, nel novembre 846. Intanto arriva un nuovo gruppo di mercenari musulmani. Lo guida un berbero. Si chiama Kalfun, della tribù di Rabiah, verosimilmente appartenente a uno di quei gruppi che avevano partecipato all’impresa siciliana. Sono passati più di dieci anni da quando i saraceni sono stati chiamati per la prima volta in aiuto dei napoletani. Ora sono i padroni del Mezzogiorno. Da mercenari al servizio dei principi locali, si sono tramutati in conquistatori. Sanno di essere forti. Sanno che, di fronte a loro, gli avversari sono deboli e la possibilità di preda altissima: fatta non più solo di beni, uomini e ricchezze, ma d’altro. Di città. Bari, agosto 847. La città è, insieme a Siponto, una delle poche rimaste fedeli, nel corso della guerra civile, ad uno dei due contendenti, il principe Radelchi. La governa un gastaldo del principe, di nome Pandone. Non sappiamo nulla di lui. Solo che appare come un fedele esecutore di ordini. Il comando che gli arriva dal principe è preciso. La situazione della guerra si fa difficile, le schiere di Radelchi si sono assottigliate. È necessario chiedere nuovi aiuti. Arruolare altri mercenari musulmani. Pandone obbedisce, ma con delle riserve. Teme la minaccia dei saraceni, conosce la loro astuzia e la loro violenza. Sa quanto sono infidi e traditori. Vanno perciò tenuti fuori dalle mura. Ad ogni ­­­­­72

costo. Dalla sua, ha una grande sicurezza. Sa che la città si presenta invalicabile. È su una striscia di terra circondata dal mare. Ha subito vari assedi, degli assalti, ma non è mai caduta. Perciò dispone che i saraceni possano costruire un accampamento fuori città, più o meno dov’è oggi il castello svevo. Si tratta della truppa berbera guidata da Kalfun. Cominciano i primi approcci, i primi colloqui. Si concordano prezzi e strategie, come già è accaduto in passato. Per Bari, sembra che pericoli non ce ne siano. Pandone per il momento è tranquillo, e lo conferma ai suoi. Ma i saraceni hanno altri progetti. Immaginiamo per un attimo il ragionamento di Kalfun. Questi ha davanti a sé una città ricca, potente, ben munita. Il patto che lo lega ai longobardi è di infimo valore, stabilito con un gruppo di infedeli. Allora perché non procedere diversamente? Perché invece che essere gregari di uno scontro – per i saraceni, privo di interesse – non passare a realizzare un sogno più grande e ambizioso? Perché non impossessarsi della città? Parla ai suoi. Si calcolano le possibilità di riuscita. Si misurano, palmo a palmo, le fortificazioni. Si scoprono vie segrete: ci sono acquedotti, canali di scolo da cui si può passare facilmente e penetrare in città. L’idea si trasforma in atto. Durante la notte, mentre i baresi dormono, mentre Pandone è ignaro, sicuro per le sorti della sua città, un gruppo di saraceni, armati solo di lance di canne, sguscia in città. La scena è consueta. Vengono aperte le porte. Comincia la strage di cittadini e di soldati. Pandone viene catturato, torturato, gettato in mare dall’alto delle mura. Bari è in mano musulmana.

4. L’emirato di Bari

Nella storia del jihad, quella dell’emirato di Bari è la più affascinante. Come pure la più sconosciuta. Molto di più di un episodio, perché dura oltre vent’anni. Raccontata da pochi storici. Principalmente da Giosuè Musca, che ha dedicato a questo tema un piccolo e appassionante libro. E, prima di lui, da Michele Amari e Jules Gay. Le difficoltà di questo racconto non sono, come si immaginerebbe, puramente ideologiche, per quella sorta di oblio della memoria che riguarda, in Italia, questa particolare ­­­­­73

fase della storia del Mezzogiorno. L’oscurità nasce dall’assenza di un cospicuo numero di fonti, dall’approssimazione cronologica, dalla estrema frammentazione dei punti di vista. Le principali testimonianze latine che si interessano di Bari saracena sono tre: l’Anonimo Cassinese, Erchemperto e l’Anonimo Salernitano. L’unico a vivere i fatti in contemporanea è il primo. Il secondo è di poco posteriore. Il terzo scrive nel secolo seguente, ma le verità che racconta sono spesso sepolte in un mare di aneddoti. Se si guarda al mondo musulmano, l’attenzione per gli avvenimenti baresi è ancora più scarsa. Era difficile, per gli uomini di Bagdad o di Qayrawan, seguire quanto accadeva ai confini del mondo. Di azioni che spesso non avevano alcun crisma ufficiale, il più delle volte di carattere individuale. Episodi scaturiti più da una lotta di bande spinte da impulsi vari, religiosi certo ma anche da sete di avventura e di bottino. Più lotte personali che dettate da un organico piano di conquista. Comunque, un’importante testimonianza musulmana c’è. È quella di al-Baladuri, che scrive da Bagdad. E da lui dipendono gli altri cronisti musulmani Ibn al-Atir e Ibn Kaldun, che ne ripetono sostanzialmente il racconto. Poi ci sono le fonti bizantine. In particolare, le indicazioni fornite da Costantino Porfirogenito, che però, se ci informano sulla politica bizantina nel Mezzogiorno, sono poco illuminanti sui fatti che ci interessano, soprattutto per le imprecisioni e le confusioni temporali. Un pugno di testimonianze, dunque: disparate, poco chiare, che forniscono più dubbi che risposte. Tuttavia, un profilo è tracciabile. E nell’847 si alza il sipario sull’emirato di Bari. Della prima enclave musulmana in terra europea, di cui Kalfun è il primo emiro, per cinque anni, fino all’852. È un fatto totalmente nuovo e inaspettato nella storia d’Occidente. Con Taranto è, come scrive Giosuè Musca, «la prima città conquistata allo scopo di creare una base stabile di scorrerie nel territorio della Penisola, ma, a differenza di Taranto, che fu persa e riconquistata dai saraceni un paio di volte, è la prima ad organizzarsi sin dal primo momento della conquista come un piccolo Stato, legato alla terra d’origine dalla fede musulmana, ma politicamente del tutto indipendente». Insomma, l’emirato di Bari va paragonato a quelle colonie musulmane del Maghreb e di Spagna che, sorte nello stesso modo, avevano formato delle entità indipendenti ed efficaci. ­­­­­74

Per i cristiani è uno shock. La minaccia è palese. La nuova colonia musulmana ha una posizione eccezionale. È in uno dei punti chiave dell’Adriatico. La città è praticamente inespugnabile. Il porto consente rapidi contatti col resto del mondo musulmano, di ricevere aiuti, uomini, mezzi. Grazie alla vicinanza di Taranto, i saraceni controllano l’intera Puglia e da qui condizionano la vita dell’intero Meridione. Nell’850 i longobardi di Salerno e di Benevento si coalizzano per riprendere Bari. Saraceni e longobardi si scontrano fuori città. I cavalieri longobardi, forti ma ingenui, cadono in una trappola. Vengono uccisi in molti. Scappano. La reazione saracena è immediata. Da Bari assaltano le terre longobarde, verso Benevento e verso Salerno. Si muovono rapidi. Micidiali: distruggono tutto quello che incontrano. Uccidono gli uomini. Fanno schiavi donne e bambini. Ancora una volta, carichi dei frutti della rapina, tornano a Bari. Ma è solo l’inizio. Le scorrerie proseguono. Sono occupate e devastate molte città. Il terrore si propaga. I potentati meridionali si rivolgono allora al nuovo imperatore, Ludovico II. L’abate del monastero di Montecassino, Bassacio, e quello di San Vincenzo al Volturno, Giacomo, implorano il suo aiuto. Prudenzio di Troyes racconta gli avvenimenti. Ludovico muove col suo esercito. Assedia Bari. I suoi soldati riescono ad aprire una breccia nelle mura ma non a chiudere l’assedio. Trascorre la notte e i saraceni richiudono la breccia. L’occasione è fallita. Andò proprio così? Oppure questo racconto è stato creato ad arte per giustificare il fallimento generale dell’impresa? In ogni caso, è un primo passo, che lascia capire l’interesse comune che c’è verso la distruzione del piccolo emirato musulmano. Come si viveva in questo piccolo emirato? Le incognite sono tante. La sua economia doveva poggiarsi principalmente sulle razzie, sulle taglie e sul mercato degli schiavi, particolarmente ricco a Taranto. Il denaro affluito nelle due città pugliesi fu certamente parecchio. A cosa servì? A Bari, a ricostruire ed abbellire il tessuto urbano. Tutti e tre gli emiri che si susseguono provvedono a riattare le mura difensive, a costruire la moschea, a fabbricare nuovi edifici. Mosse utili a trasformare una semplice città in un centro musulmano che avesse una sua continuità nel tempo. Anche le condizioni della «gente del patto», i dhimmi, non possiamo considerarle troppo cattive, rispetto ai tempi. Non sono attestate sollevazioni o rivolte e, come vedremo, non mancano gli accenni ­­­­­75

a forme di integrazione e a conversioni dal cristianesimo all’islamismo. Né si può escludere che il porto cittadino divenisse un capace emporio di smercio dei prodotti del territorio, da adoperare per una popolazione in crescita o da vendere nei porti della Sicilia o dell’Africa. Ma si tratta di affermazioni che restano ipotetiche, in quanto le tracce rimaste sono davvero sparute. Dopo Kalfun, il nuovo emiro diventa Mufarrag ibn Sallam. Il suo governo dura poco, circa tre o quattro anni. Se Kalfun è il fondatore, il secondo emiro dà consistenza e fondamento al piccolo Stato, secondo il diritto musulmano. Per prima cosa, amplia i confini dell’emirato e costituisce una cintura difensiva intorno alla città, con la conquista, dicono le testimonianze, di ventiquattro castelli. A seguire, si pone il problema della legittimità politica. Suo desiderio è di inscrivere il piccolo potentato nel più ampio alveo musulmano, con una regolare investitura da parte del califfo abbaside d’Egitto al-Mutawwakil. Così scrive informandolo dell’esistenza di una nuova entità islamica nella Gran Terra e chiede di essere nominato walî, prefetto a capo di una provincia dell’impero abbaside. La richiesta nasconde una preoccupazione che non riguarda solo le prerogative del potere. L’emiro, senza questa investitura, secondo i giuristi musulmani di scuola hanafita, non poteva celebrare la preghiera del venerdì, che necessitava di un’autorità pubblica o di un rappresentante delegato dal califfo. In attesa dell’incarico, Mufarrag fa comunque edificare una moschea. Nella richiesta ufficiale si cela anche un altro desiderio: rivolgendosi direttamente all’autorità principale dell’Islam, è chiara la pretesa di non soggiacere in alcun modo ai musulmani di Sicilia, e di ritenersi, a conti fatti, indipendenti e non vincolati da alcun rapporto di sudditanza verso le autorità dell’Isola. Mufarrag dunque è alla ricerca di una legittimazione, per tanti motivi: diremmo per una visibilità esterna volta anche a riaffermare il suo potere all’interno della città. Un emiro, per tradizione, non è un capobanda: esercita l’autorità sovrana; guida le forze militari; amministra la giustizia attraverso i cadì; riscuote le entrate pubbliche; guida e presiede le preghiere pubbliche; aiuta i pellegrini che vogliono andare alla Mecca. Esercita un potere che non è più di fatto ma di diritto, ufficializzato attraverso un diploma ed una bandiera, simbolo del comando. Mufarrag vuole tutto ciò. Richiede uno statuto. Una istituzionalizzazione: aspetto che mo­­­­­76

stra il volto di un personaggio ben diverso da quello del violento predone berbero. E rimanda l’immagine di un uomo che conosce le forme del diritto, un devoto, legato ai concetti di autorità e di obbedienza musulmani. Che, tuttavia, al governo dura poco, forse anche a causa del suo carattere. A Bari infatti scoppia un tumulto. L’emiro viene ucciso. Prende il potere Sawdan al-Mazari, proveniente, immagino, dalla cittadina siciliana di Mazara del Vallo.

5. L’ultimo emiro

Il nuovo emiro Sawdan è, insieme con l’aglabita Ibrahim, l’unico altro personaggio musulmano del jihad italiano di cui possediamo un profilo a tutto tondo. Carnale, violento, spregiudicato, diviene il modello del saraceno per la pubblicistica occidentale. L’incarnazione stessa del male. Sacrilego, «spada dell’indignazione divina», impissimus latro, pestifer, crudelissimus, nequissimus ac sceleratissimus rex Hismahelitum. Certo Sawdan fu crudele, ma anche colto e saggio. Governa Bari per un tempo non breve: probabilmente per più di 15 anni. I primi tempi della sua ascesa al potere vengono dipinti coi colori che ci aspetteremmo, della collera e del saccheggio. Invade le terre beneventane, devasta Capua, Conza, guarda a Napoli, scende nel territorio ducale, si accampa fuori città. Per l’Anonimo Cassinese «non passava giorno che non uccidesse cinquecento o più uomini, e sedendo sui mucchi di cadaveri mangiava come un cane puzzolente». Approfitta ancora una volta delle divisioni tra i signori locali, che si fanno, se possibile, ancor più scivolose e complesse. E moltiplica gli episodi di razzia all’interno di una vasta area interna, che va dalla Puglia al basso Lazio. Con un ordine preciso, saccheggia tutta la zona al di là dell’Ofanto, Canosa, Ascoli in Puglia, l’alta valle del Volturno, il monastero di S. Vincenzo. Occupa Venafro e Teano. Assedia nuovamente Conza. Ordina raids sino alla valle del Rapido. Prende Montecassino e, in maniera blasfema, beve nei suoi calici sacri. I salernitani si spaventano. Temono un attacco. Decidono di blandire l’emiro. Inviano doni, denaro. Accolgono perfino un emissario saraceno, e lo fanno abitare nel palazzo del vescovo, che, per l’ingiuria ricevuta, scappa a Roma. ­­­­­77

Crudele, crudelissimo. Però per Sawdan esiste un’altra faccia della medaglia. Per i suoi, egli si ricopre di un alone eroico. La guerra e il saccheggio in terra di infedeli sono opere di merito verso Allah. Ciò che l’emiro compie non è contrario alla fede, fa parte del suo compito di credente. Sawdan è un devoto, come il suo predecessore. E come Mufarrag ritiene indispensabile che arrivi la legittimazione dal califfo. Nell’861 invia in Egitto un suo ambasciatore, richiedendo, ancora, l’agognata investitura. Che arriva un anno dopo, quando il nuovo califfo al-Mustain dà l’ordine di concedere il legittimo titolo di emiro. L’emirato barese è al suo apogeo. Una provincia di frontiera, ma compresa nel novero del mondo musulmano. I saraceni hanno una forza militare schiacciante. Percorrono tutto il Sud praticamente incontrastati. Bari cresce. La Puglia diventa terreno di immigrazione musulmana. La città è attorniata da una corona di castelli. Dall’alto della sua moschea, la voce dei devoti del profeta può correre lungo il Meridione. La città ospita musulmani che arrivano un po’ dappertutto: spagnoli, cretesi, siciliani, berberi e africani. Ed ebrei: una fonte importante per conoscere da vicino Sawdan. Le impressioni sono legate al racconto di uno dei più grandi ebrei della storia del Sud, Ahimazz Ben Paltiel di Oria, l’autore del Libro della Genealogia, il Sefer Yuhasin. Ahimazz vive due secoli dopo gli avvenimenti di Bari. Ma ha molto sentito. Conosce, per tradizione, la storia della sua gente, la gente della comunità ebraica di Oria. Dove il nome dell’ultimo emiro a volte ritorna, in chiaroscuro. Le scorrerie saracene vengono evocate ancora con paura. La loro ampiezza. I loro obiettivi. E con gran terrore Ahimazz ricorda il loro capo: all’incirca in quel tempo gli arabi cominciarono ad invadere la terra coi loro eserciti per superare i confini del regno dei non circoncisi, la terra degli idolatri; portarono la distruzione nella Calabria, gettarono le loro città nel disordine, devastarono le loro province, abbatterono i loro muri di difesa. Avanzarono nella Puglia; colà crebbero di potenza, ne assalirono in massa gli abitanti, abbatterono la loro potenza e conquistarono molte città, distrussero e saccheggiarono. In quei giorni c’era a Bari Sawdan, principe degli arabi di quel tempo, che dominava sull’intera regione. ­­­­­78

Per Ahimazz, l’emiro è arrogante, insolente, perfido e astuto. Un uomo che cerca, con ogni mezzo, di accrescere il proprio potere. Di espandere la forza dell’emirato. Sotto il cui potere «il sole e la luna divennero oscuri». L’uomo che cerca di impadronirsi di Oria con l’inganno, senza riuscirci, grazie al provvidenziale intervento magico-cabalistico di uno dei rabbini della città. Però, accanto a questo racconto, Ahimazz ci presenta l’altra faccia di Sawdan. Meno fosca, di un uomo intelligente, duttile, colto. Ospitale e magnifico. La narrazione dell’incontro tra Sawdan e il celebre mistico ebreo Aaron ben Samuel ha-Nassì di Bagdad merita di essere riportata per esteso: «Abu Aaron venne nella città di Bari sita sulla costa, costruita di faccia al mare; Sawdan si fece avanti per incontrarlo e gli prestò grandi onori. Aaron rimase presso di lui per circa sei mesi; l’affetto di Sawdan per lui era più meraviglioso che l’amore per le donne. Sinché rimase con lui, Sawdan non si allontanò mai dai suoi buoni consigli». Poi succede qualcosa. Aaron sente il bisogno di partire, «lo spirito di Dio – dice Ahimazz – cominciò a spingerlo a tornare nella sua patria». Sawdan tenta di convincerlo a restare, ma Aaron vuole andar via. Così, si interrompe l’ospitalità. Con un ultimo dialogo tra i due, con una chiosa finale, peraltro, profetica: allora il principe esclamò: «O mio maestro, mio maestro. Padre mio, padre mio. Per i miei cavalieri e i miei carri, perché mi hai abbandonato e dimenticato? Accogli la mia preghiera: ritorna, mio signore, prendi la mia ricchezza e i miei tesori, non lasciarmi solo». Aaron rispose degnamente: «Il mio cammino è chiaramente predisposto da Colui che eccelle in potenza; io non posso cambiarlo. Fammi delle domande ed io ti dirò ciò che desideri sapere, prima di lasciarti». Così il principe gli pose molte domande su molti argomenti, ed Aaron gli dette risposta in accordo con le sue domande. Infine chiese: «Entrerò in Benevento?»; ed Aaron rispose: «Tu vi entrerai, non in gioia ma per triste condizione». Come predisse, così accadde.

Questa narrazione contiene tanti topoi. Il dialogo per contrasto, dove la grandezza dell’uno esalta la magnificenza dell’altro. La sudditanza psicologica, dell’emiro nei confronti della potenza magico-religiosa dell’ebreo. La finta profezia, che, particolare interessante, deve essersi tramandata, come racconto, all’interno delle comunità ebraiche pugliesi. Artifici narrativi si dirà, che co­­­­­79

munque tracciano un altro profilo dell’identità di Sawdan: accogliente e pio, pronto ad ascoltare i consigli del suo invitato, senza i quali sembra perduto; che fa del dovere dell’ospitalità un imperativo. Curioso, di una curiosità intellettuale che risalta dalle molte domande che pone ad Aaron. In definitiva, un altro personaggio. Di altra umanità, che, per certi versi, rispecchia un altro episodio, accaduto tra l’864 e l’866, di cui siamo a conoscenza in presa diretta dal racconto di una delle persone coinvolte, il monaco Bernardo, un franco, che giunge a Bari insieme a due suoi compagni (uno spagnolo e un beneventano), per recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa. I tre vengono da Roma, dove hanno ricevuto la benedizione direttamente dal papa, Nicola I, e per poter proseguire il viaggio verso Oriente hanno bisogno di due cose: di salvacondotti e del permesso di poter viaggiare su navi saracene. Entrambi li può fornire solo Sawdan. Sembra paradossale, ma i tre si rivolgono all’emiro senza paure o grandi timori: arrivano con la loro richiesta e l’emiro non li tratta da infedeli. Non li fa cacciare dalla città. Non li perseguita. Anzi, fa provvedere che tutto vada a buon fine. Si preparano per i monaci i documenti, nei quali l’emiro di Bari, da pari a pari, si rivolge alle autorità di Alessandria e «Babilonia», il termine usato per indicare il Cairo, perché nulla accada ai tre pellegrini durante il viaggio. E, nello stesso tempo, ordina ai suoi che i tre possano liberamente imbarcarsi su una nave musulmana a Taranto. Anche in questa occasione Sawdan si comporta in maniera tutt’altro che spregevole verso degli infedeli: li accoglie, li aiuta, gli consente di viaggiare verso le terre dell’Islam. E opera, direi, da uomo di Stato, da amministratore sovrano di una piccola entità musulmana che, però, ha una sua autorevolezza, una sua dignità, con relazioni diplomatiche solide e consolidate col resto del dar al-Islam. Tra i potentati longobardi come a Roma alla corte papale è chiaro a tutti che solo facendo convergere sulla Puglia quante più forze è possibile, da mare e da terra, è possibile eliminare la presenza musulmana sul continente. Ne è consapevole anche l’imperatore franco Ludovico II. E, come lui, anche il rappresentante della maggior forza presente nel Mediterraneo orientale, il basileus di Costantinopoli, Basilio I, consapevole che la difesa degli interessi imperiali passa attraverso la stabilizzazione della situazione nel Sud Italia. È necessario trovare un’intesa, un patto che ­­­­­80

non può che rafforzare entrambi. Parte uno scambio di negoziati, di promesse comuni, col medesimo obiettivo: debellare il nido di vespe barese. Ma non è una cosa semplice. Tra i due schieramenti imperiali le incomprensioni sono tante: li tengono lontani secoli di polemiche politiche e religiose, nonché differenze di lingua, cultura, tradizioni, costumi, come le contese sul titolo imperiale. I sospetti crescono, e con essi i malintesi. Il più marchiano avviene nella primavera 869. Una delle tante follie della storia militare. L’imperatore franco assedia Bari da terra, la città sembra poter cadere da un momento all’altro. È allo stremo. Basta solo aspettare: attendere la flotta bizantina per attuare il blocco dal mare, decisivo. Il colpo finale. È questione di mesi, forse giorni. Ma Ludovico decide di lasciare l’assedio. Ha ricevuto notizie da suo fratello, Lotario, che ha bisogno di lui. È in ballo un divorzio che il papa non vuole accordare. Perciò deve tornare a nord. I consiglieri restano senza parole. Si cerca di fermare l’imperatore. I presenti lo invitano a desistere. Sappiamo che c’è una flotta di duecento navi greche in arrivo, guidate dall’ammiraglio Niceta Orifa, gli dicono. Rimaniamo qui. Aspettiamo, aggiungono. L’imperatore non cede. Lascia l’accampamento, e a Bari resta solo un piccolo contingente. Ludovico parte per Benevento, dove arriva a giugno e incontra il fratello. Passa qualche mese. A settembre, davanti alla città pugliese si assiste a uno spettacolo sorprendente. I bizantini sono arrivati. Non con duecento bensì con quattrocento navi, che a ventaglio si dispiegano davanti al litorale. Convinte che Ludovico sia lì, con tutto il suo esercito. Invece, la sorpresa. Dal mare non si scorge che qualche tenda, poco movimento, un centinaio d’uomini. L’ammiraglio bizantino, dopo aver saggiato per un po’ le difese saracene, alza i tacchi. Furioso. Tanti sforzi per niente. E torna con la flotta a Corinto. Il giudizio bizantino sull’intera vicenda non poté che essere che i franchi «erano buoni solo a perder tempo, in pranzi e feste». E al giudizio segue, in buona sostanza, la brusca rottura dei contatti diplomatici. Un episodio di follia militare che, d’altra parte, dà la possibilità a Sawdan di trasformare la disfatta in una nuova occasione di reazione. Con un rapido colpo di mano, ruba centinaia di cavalli ai cristiani e dà inizio ad una rapida sortita che colpisce il principale santuario della gens longobarda e uno dei più importanti della Cristianità, San Michele al Gargano. Un ­­­­­81

colpo di maglio, dal forte contenuto psicologico, per fiaccare il morale dell’avversario. La guerra terrestre procede in maniera confusa, con combattimenti, scontri, scaramucce, senza continuità e senza ordine. Intanto, gli imperiali cercano di ricucire i rapporti con Bisanzio, senza la quale la guerra non può essere vinta. Tutto avviene però senza convinzione, senza volontà da entrambe le parti. Le diffidenze reciproche non riescono ad essere superate. Tuttavia la situazione barese diviene, di momento in momento, più difficile. Tra lo Ionio e l’Adriatico la presenza della flotta bizantina non consente più alla città di essere rifornita in uomini e mezzi dalla Sicilia, da Creta, dall’Africa. L’assedio si stringe. La città è sola. Qualche aiuto cerca di portarlo l’emiro della piccola enclave musulmana di Amantea, conosciuto come Cincimo, forse la storpiatura di Simsim, che sfrutta i legami che ha con la Sicilia e con Napoli. Ma l’attacco alle truppe franche, il giorno di Natale, fallisce. Così si giunge all’assalto finale, che scatta il 3 febbraio 871. Le truppe franche finalmente riescono ad entrare in città. L’emiro Sawdan cade prigioniero. Non viene ucciso: gli si salva la vita, per avere a suo tempo custodito e rispettato una figlia del principe longobardo Adelchi, presa in ostaggio. La storia saracena di Bari finisce qui. Per la città comincia presto una nuova fase, con altri protagonisti. Con l’arrivo in forze delle truppe di Bisanzio, che alla fine risulta essere la vera vincitrice di questo conflitto, tornando, dopo secoli, ad avere il controllo su tutta la Puglia, che diventa il nuovo Tema di Longobardia. E i suoi protagonisti? Sawdan e l’imperatore Ludovico? Come si sa, l’imperatore non gode per troppo tempo dei privilegi della vittoria. Poco dopo viene addirittura imprigionato dal principe longobardo Adelchi. I motivi? Paura che l’imperatore detronizzasse il principe e si impossessasse del principato. Timore per l’indipendenza longobarda, perché un’affermazione imperiale avrebbe potuto danneggiare i dominii dei signori locali. Però c’è chi racconta che, dietro la congiura di palazzo contro Ludovico, ci sia anche la mano di Sawdan, il quale pare abbia incitato alla ribellione i nobili longobardi, convincendoli con consigli, parole e ammonimenti. E con la notizia, davvero singolare, appresa chissà dove, che i fabbri di Benevento, su ordine dell’imperatore, stessero preparando le catene per deportare i notabili longobardi ­­­­­82

lontano, in terra franca. Come che sia, l’imperatore viene catturato. La prigionia dura quaranta giorni. La notizia corre in tutto l’impero. È un avvenimento senza precedenti. Uno scandalo. Uno scacco. Una scelleratezza, rimarcata da tutti, che entra in racconti, poesie, canzoni. Che rende ancor più magro, per l’imperatore, il risultato politico dell’avventura meridionale. Sawdan, poi, da parte sua, non muore a Benevento. Adelchi lo lascia libero, grazie al patteggiamento effettuato con Uthman, il nuovo governatore di Taranto. Qui, qualche tempo dopo, ritroviamo Sawdan: in una città che si è rafforzata, grazie agli aiuti dell’emiro di Qayrawan, Muhammad Ibn Ahmed, invischiata nella solita spirale di attacchi, violenze e distruzioni. Ancora per qualche anno vengono devastate le terre intorno a Bari e Canosa, il Beneventano, di nuovo l’alta valle del Volturno, Telese, Alife. L’ultimo emiro di Bari riacquista gran parte dei suoi titoli e, sicuramente, il suo prestigio. Non muore da sconfitto. Non completamente. E torna a fare quello che sapeva fare meglio, il condottiero e il razziatore, daccapo «procurando ai cristiani – come dicono i cronisti – molti mali» (multaque postea cristianis mala induxit). Il suo destino si chiude verosimilmente nell’assedio dell’880, quando il generale Leone Apostippo recupera in modo definitivo Taranto all’impero bizantino. La parabola, finalmente, si chiude. Di questo personaggio astuto, violento e saggio, che sembra non ridesse mai. Conscio, come lui stesso pare abbia detto guardando un carro e considerando come le parti delle ruote scendano e salgano, che «in questa immagine si riassume l’incerta e incostante felicità degli uomini, di come ci gonfiamo di instabile superbia e come possa accadere che, una volta caduti in basso, si possa tornare da una umile condizione ad antiche dignità».

6. La guerra santa di Ibrahim ibn Ahmad

Vent’anni dopo. Sicilia. Primavera 902. La guerra santa contro la Penisola, tante volte sperata e invocata, di massa, con la partecipazione esaltata dei credenti, ha trovato un animatore, un leader. Uno dei personaggi più controversi della storia del jihad del Mezzogiorno e del mondo musulmano dell’epoca. Ibrahim ibn ­­­­­83

Ahmad, nono principe aglabita, ha lasciato la sua sede di Qayrawan. La sua vita costellata di terribili atrocità, di follie, di scatti di ira, animato «da non so che bile nera o malinconica», come dice Ibn al-Raqiq, torvo, violentemente misogino, parricida, tirannico, ha subito una violenta trasformazione. Ha abdicato in favore del figlio. Ha deciso che è il momento di cambiare vita. Di dedicarsi ad una vita di santità. Di seguire la fede. Di recarsi alla Mecca in pellegrinaggio. Ma prima di procedere, vuole legare il suo nome, la sua fama, ai Mahdi che lo hanno preceduto. Diventare un santo guerriero. Un apostolo del jihad. Obiettivo, Roma: e poi Costantinopoli. L’entusiasmo intorno a lui cresce giorno dopo giorno. Volontari si riuniscono per partire per la Sicilia. L’energia di Ibrahim è messianica. Da trascinatore di folle. Veste come un anacoreta. La sua anima è il Corano. La sua forza è in Allah. Come non era accaduto prima, appena sbarcato in Sicilia sbaraglia l’ultima grande roccaforte siciliana, Taormina. È un segno. Si può andare avanti. Arriva a Messina. Lo divide dalla Gran Terra solo uno stretto braccio di mare. Sono giorni fausti. È il 26 di ramadan, l’inizio di settembre. Ibrahim passa il tempo tra preghiere e digiuni. Ma ci resta poco. Solo due giorni. Stringe i tempi, attraversa lo stretto e dà l’assalto a Reggio Calabria. Tra la gente del posto la paura dilaga, con una rapidità senza precedenti. Non sono le solite razzie. C’è un esercito alle spalle di Ibrahim. Fanatico, pronto al martirio. Si capisce subito che si tratta di un uomo che non fa compromessi. Non è un razziatore, un po’ mercante un po’ pirata, pronto ad accordarsi sui prezzi, sulle taglie, sul numero degli schiavi. È un altro tipo d’uomo. Ha una missione. Le ambascerie delle città meridionali, dei principi longobardi vanno da lui. Non le accoglie. «Vadant ad hinc, vadant ad suos», pare che abbia gridato: frase che non ha bisogno di traduzione. E poi dice ai suoi consiglieri di riportare queste parole, che precisano i suoi scopi: «Dite agli ambasciatori che annuncino il mio disegno di conquistare tutta l’Italia e non sperino che possano arrestarmi né il greculus né il franculus; e dopo aver distrutto la città di quel ridicolo vecchio Pietro, assalirò la stessa Costantinopoli». La notizia si propaga in tutto il Sud. Mi sono spesso domandato come facciano le informazioni, in quel tempo, a diffondersi. Su quali onde, con quale tam-tam. Con quale precisione e ridondan­­­­­84

za. Ci pensano mercanti? Ambascerie? Spie? Fuggiaschi? Non lo so. Ma la notizia che l’esercito di Ibrahim si muove rapidamente corre veloce. E arriva presto a Napoli, l’unica città che può opporre una vera resistenza. I primi resoconti sono già del mese di settembre. Sono confusi. Lo sgomento amplifica le notizie e spinge a gonfiare le cifre. A Reggio, si dice, c’è stata immanissimas strages. Una carneficina con migliaia di morti. Ora le truppe del jihad sono quasi a Cosenza. Ma come reagisce una città davanti ad un pericolo così intenso? Il caso di Napoli è rivelatore: sintomatico degli sforzi, reazioni, rapidità di decisione, stati d’animo, psicologie, forme dell’immaginario, forza spirituale di una intera popolazione; e che, credo, furono certamente comuni ad altre città e ad altri contesti dell’universo altomedievale. A Napoli si capisce che Ibrahim non è come gli altri. Non fa sconti. Non ci si può accordare con lui pagando una taglia, proponendo un’alleanza. Poi il clima politico è cambiato. La città ha fatto una scelta di campo: è dalla parte cristiana, anche se molte ambiguità restano. Si calcolano i tempi. Sia se arrivi per mare sia per terra, Ibrahim si muoverà in fretta, prima dell’inverno, in questo autunno. Il clima che si respira in città è da plenitudo temporum. Allo sgomento, si aggiungono segni inequivocabili, premonitori, che giungono dal cielo. Per più notti, di seguito, si racconta come si susseguano prodigi di varia forma e natura, con «stelle densissime» che come «aste longissime» corrono nell’aria, che si scontrano nel cielo come soldati. Cui si accompagnano «signa in sole et luna». Prodigi che «a memoria d’uomo e in nessuna età erano stati mai visti e di mirabile portentum». Anche il Cielo indica che l’Apocalisse si avvicina; e che per la città si prepara la guerra: l’ultima battaglia. Si prende rapidamente una decisione. Il duca di Napoli, Gregorio IV, riunisce il suo seguito. Parla col vescovo Stefano et cum ceteris potentibus. La città si può difendere, ma non le sue propaggini. Bisogna demolire il Castro Lucullano, la sede dove era morto l’ultimo imperatore romano, che era fuori dall’abitato. Non si può lasciare questo castello nelle mani dei musulmani, che avrebbero potuto usarlo come base per un attacco in massa alla città. Arriva così il giorno delle distruzione, il dies ruinosi decreti. È chiamata a dare una mano per abbattere il castello tutta la popolazione, una popolosa phalange. I pochi abitanti del castrum sono condotti verso le più ­­­­­85

sicure mura urbane e si cominciano a distruggere mura, fortificazioni, porte. Dal Lucullano, dove erano sepolte, vengono trasportate in città le spoglie di uno dei più venerati santi della Cristianità, Severino, che non possono essere lasciate nelle mani empie dei musulmani: avrebbe rappresentato un grave peccato di hybris, senza contare la loro forza apotropaica. È il 13 ottobre. Un corteo parte dal castrum verso Napoli. Davanti a tutti c’è il vescovo, seguito dai massimi esponenti del clero e poi dal duca e dagli ottimati e, via via, dal resto della cittadinanza, senza differenze di sesso e di età. Si implora l’aiuto del santo, perché sono «tutti colpiti da immensa paura». Il corteo innalza cruces vexillisque e sparge odoriferis incensis e, alternando cori latini e greci, sacerdoti, monaci, cavalieri, nobili e gente comune attraversa la città, fino alla nuova chiesa dove le reliquie di san Severino vengono sistemate, salve da ogni pericolo di incursione. Un corteo che non ha alcuna prospettiva per il domani. Il quale lascia alle sue spalle le macerie di uno dei luoghi simbolo della città, il castro Lucullano, sorto sui resti dell’antica e primitiva città greca, Palepoli: abbandonate al nemico, senza speranza. E Napoli aspetta che Ibrahim arrivi. Spesso le vicende della storia nascondono un involontario paradosso, un nonsenso. Perché, in concomitanza, mentre la cittadinanza napoletana distrugge uno dei suoi luoghi più cari e dà vita a questo spettacolo di devozione e di terrore, Ibrahim, intanto, sta morendo. Accade tutto in pochi giorni, davanti a Cosenza assediata. L’uomo è colto da un violento attacco di dissenteria. È il primo ottobre. Cerca di nascondere cosa gli stia succedendo. Chiede di restare solo e di procedere con l’attacco. Tutte le porte di Cosenza vengono assalite. Contro le mura si issano corde e scale. Vengono disposte le macchine da guerra. Ibrahim non vuole lasciare il comando nelle mani di nessun altro. È lui il leader del jihad, sebbene il male avanzi. Ma la sua presenza si fa di momento in momento più debole. Tra i suoi si diffonde l’incertezza e la paura. I comandanti cominciano a perdere il controllo sulle truppe. Per venti giorni si combatte davanti a Cosenza, ma senza energia. Manca la forza messianica del capo. Cosa fa Ibrahim? Dov’è? Le cronache cristiane raccontano che si sia rintanato in una chiesetta. Che non riesca a dormire. Consumato dal morbo. Muore tra spasimi tremendi. La storia delle ultime ore di Ibrahim ­­­­­86

sembra la racconti un prigioniero saraceno fuggito da Cosenza al duca di Napoli Gregorio. Questi narra un’agonia costellata di incubi, tra cui quello di un vecchio armato di bastone che percuote violentemente il fianco di Ibrahim. Un vecchio: chi era? Per la propaganda cristiana san Pietro, il quale alimenta il male, facendolo rapidamente peggiorare. Fino alla morte. Un capitolo di una leggenda che però non termina qui, perché anche ad altri santi, come Elia di Catania, l’immaginazione popolare attribuisce il ruolo di aver fatto morire, con l’ausilio di una corrente sovrannaturale, l’Aglabita. Ibrahim muore nell’anno 289 dell’Egira, il 17 zu al-Qada, il nostro 23 ottobre 902. Ha 53 anni, 27 dei quali passati al comando aglabita. Dalla sua abdicazione sono passati appena sette mesi. Il jihad da lui proclamato è stato una meteora. L’esercito, senza guida, si sfalda. È la ritirata. Mentre il corpo dell’Aglabita viene portato a Palermo, e forse da qui alla sua vecchia capitale, Qayrawan, mettendo la parola fine sul più compiuto ed effimero tentativo di conquista musulmana dell’Italia meridionale.

7. Verso nord

Anche il Nord della Penisola non viene risparmiato dai colpi saraceni. Soprattutto all’indomani della creazione del celebre ribat di Frassineto, nel golfo di Provenza, tra l’888 e l’889, laddove è il castrum di La Garde Freinet. Ne parla per primo Liutprando, vescovo di Cremona, nell’Antapodosis. All’inizio solo un piccolo insediamento, in una posizione strategica eccellente, con una baia protetta dai monti circostanti. Un rifugio estremamente sicuro. Un piccolo nucleo saraceno. Ma coeso. Violento. Che, piano piano, si espande e aumenta la presa sul territorio circostante. Così ne parla Laura Balletto: i saraceni di Frassineto diedero inizio ad un’opera pressocché sistematica di saccheggi, devastazioni, e distruzioni di villaggi, casali, località isolate e piccoli centri demici, mantenendosi lontani dalle città e dai centri fortificati. I loro primi colpi caddero, com’era logico, sul comitato di Frejus: rasa al suolo la città, massacrati gli abitanti, distrutti ­­­­­87

i titoli ecclesiastici e saccheggiati i beni della Chiesa, il luogo fu reso deserto, ed il porto, già sede fiorente della flotta romana, venne invaso dalle sabbie dell’Argens, per mancanza di manutenzione, e gradatamente scomparve.

Uno scenario apocalittico, di distruzione totale e profonda da impedire la possibilità di ripristino di una vita regolare. Però non è finita. I saraceni si muovono ora verso est. Verso le Alpi Marittime, verso Albenga. E, come era accaduto per Bari, ora, nel primo ventennio del X secolo, gli obiettivi si precisano, si dilatano e prendono forma. Non è solo il desiderio di rapina a muovere le truppe agarene. Dietro la loro azione sembra precisarsi un vero e proprio progetto politico: costituire un organismo territoriale islamico tra Provenza, Liguria e Piemonte, che guardi come interlocutore non all’Africa ma alla Spagna. Nella loro opera di conquista, i saraceni mietono successi. E con i successi cresce il numero delle persone che si aggrega alle bande: berberi d’Africa, greci ed ebrei islamizzati, spagnoli, magrebini. Un esercito dalla provenienza etnica eterogenea ma accomunato dalla stessa fede; e ulteriormente ingrossato da pravi homines, cristiani rinnegati, predoni, fuorilegge, vagabondi, ma forse anche da gente in cerca di riscatto da una vita dalle condizioni terribili, priva di libertà e di vie di fuga dalla condizione di servaggio. Vengono assalite Antibes, i dintorni di Nizza, l’abbazia di San Ponzio. Totalmente distrutto l’antico centro romano di Cimella, tanto da scomparire. Come viene distrutta Olivula, oggi conosciuta come Villafranca. I saraceni occupano delle rocche, come quella di Esa, dove creano tante piccole Frassineto. Trucidano i monaci dell’isola di Lerino. Si spingono oltre lungo due direttrici. A nord: lungo l’alto corso del Durance, ponendo sotto il loro controllo tutta la contea di Forcalquier. E, siamo intorno al 920, irrompono ad est attraverso le Alpi Marittime e saccheggiano tutta l’area tra Sanremo e Albenga. Dal 921 al 972, ossia per poco più di cinquant’anni, come nota uno dei migliori studiosi delle vicende saracene nel Nord Italia, Aldo Settia, i saraceni di Frassineto occupano in maniera permanente la via delle Alpi. E puntano all’interno: all’abbazia della Novalesa, alla pieve di Oulx, ad Acqui, dove vengono battuti nel 936. ­­­­­88

E si assalta Genova. Siamo tra il 934 e il 935. Liutprando comincia a raccontare l’accaduto utilizzando un altro termine, del tutto originale nelle testimonianze dell’epoca, per indicare i musulmani aggressori. Un termine che non rimanda a memorie strappate dall’immaginario religioso. Ma all’antichità classica, alla contrapposizione tra Roma e Cartagine: i punici. E scrive: «i punici, arrivando con un gran numero di navi, colsero di sorpresa i genovesi e penetrarono nella città. Dopo aver ucciso tutti quanti, salvo i bambini e le donne, caricarono a bordo tutti i tesori della città e delle chiese e tornarono in Africa». Un saccheggio terribile, già preannunciato agli stessi genovesi dall’eruzione in città di una fontana di sangue. C’è però un aspetto da sottolineare: questi saraceni non vengono da Frassineto. Sono africani, come ricordano le fonti arabe, come la cosiddetta Cronaca di Cambridge. E come sottolinea lo stesso Liutprando, con l’uso del termine punici e con la determinazione della base nella quale le navi fanno ritorno. Altri saraceni. Altri corsari. Africani. Non è un fatto casuale, sul quale sorvolare. Perché la flotta che assale Genova non è composta da predoni. È composta di trenta navi, per un’impresa voluta direttamente dal sovrano fatimide al-Mansur. È partita da al-Mahdia guidata da Yaqub ibn Ishaq. Ad uno scopo: ripristinare il controllo africano sul tratto di mare che dalla Sardegna porta alla Liguria. Insomma, Genova non è l’obiettivo ma uno degli obiettivi, insieme ai porti sardi e a quelli corsi. Ritorneremo sul perché di questo interesse fatimide per questo tratto di mare. Ma riprendiamo ora il filo del racconto di quanto accade a Genova. Perché i racconti musulmani risultano più chiari e circostanziati di quello di Liutprando. Per Idris Imad alDin l’attacco si svolse così: «Yaqub attaccò dalla direzione di alAndalus – cioè provenendo da Occidente –. Per via incontrò delle navi dei Rum – navi cristiane – cariche della loro mercanzia; le catturò e prese prigionieri quelli che erano a bordo. Poi continuò il suo viaggio, piombando sulla ben fortificata città di quel paese, chiamata Genova. Yaqub combattè strenuamente contro gli abitanti, che lo tenevano a bada con l’aiuto delle mura della città. Egli continuò a combattere finché non riuscì a superare le mura». Ma una volta superata la cinta fortificata, però, i combattimenti non si interrompono. Continuano strada per strada. Tuttavia, i saraceni vincono e Yaqub può finalmente «catturare la città e prendere ­­­­­89

tutto ciò che c’era in essa. Uccise i combattenti cristiani e politeisti e prese i loro figli. Egli saccheggiò tutto quello che c’era in città, come tela di lino, filato di seta grezza, filato di lino e altre cose. Quindi incendiò la città e tutte le sue chiese, palazzi e altri beni che erano troppo pesanti per essere portati via». Il ritorno in patria dall’impresa genovese è per Yaqub un trionfo. Colpisce, nella descrizione, l’immagine delle navi parate a festa, dei marinaiguerrieri sopravvissuti e felici per l’impresa portata a termine e soprattutto dell’ammiraglio che, radioso, parato a lucido, si presenta nel porto e davanti al califfo vestito con la sua divisa più bella e sgargiante: «Yaqub tornò vittorioso con molto bottino e pieno di giubilo. Arrivò ad al-Mahdia con tutti i suoi compagni. I prigionieri vennero messi in mostra e la flotta adornata. Yaqub entrò in città con i suoi abiti migliori e splendidamente abbigliato». All’imam al-Mansur viene mostrato il bottino, composto da merci, stoffe e ben ottomila schiavi. E per questa impresa sia l’ammiraglio sia i suoi uomini vengono ampiamente ricompensati. Questi i fatti genovesi. Sui quali, a questo punto, bisogna recuperare la domanda che è rimasta sospesa. Perché l’interesse fatimide per questo braccio di mare? Non si tratta infatti di una semplice scorreria, come abbiamo visto, ma di un’azione preordinata. Per quale motivo? Perché il ribat di Frassineto, come è stato suggestivamente ipotizzato, è più di un semplice luogo di scorrerie o di un covo di predoni. È la tappa di un progetto predisposto dal sultanato omayyade di Spagna per la creazione di un asse di controllo marittimo che da al-Andalus, attraverso le Baleari, sarebbe dovuto arrivare fino alle coste della Provenza e della Liguria. Un progetto circostanziato anche da trattati, come quello stipulato nel 940 tra Abd al-Rahman III ed alcuni sovrani cristiani, tra cui il conte di Barcellona, che permette una condizione di tregua nel Mediterraneo nord-occidentale fino all’espulsione dei musulmani da Frassineto. Dove il ribat viene a svolgere un’importante funzione di controllo delle relazioni commerciali tra gli stati costieri di questa fascia marittima, sotto l’orbita della potenza omayyade. Contro la quale non poteva non muovere l’altra grande potenza musulmana mediterranea, quella fatimide: nel contesto di uno scontro tra talassocrazie che ha come teatro gran parte del Mediterraneo.

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8. Talassocrazie a confronto

Per capire cosa accade partiamo da due distinti episodi. Il primo, del 915. Papa Giovanni X dà vita ad una lega per porre fine al ribat del Garigliano. Alla lega vi partecipano tutti: truppe imperiali franche, contingenti del ducato di Spoleto, uomini dei principati longobardi di Capua e Benevento. Soprattutto napoletani e gaetani, a lungo collegati, per motivi commerciali e di alleanza, al ribat musulmano. Il secondo, del 942. Ugo di Provenza, divenuto re d’Italia nel 926, assale l’enclave di Frassineto e quasi riesce a riportare la vittoria definitiva. Il primo caso rappresenta la definitiva fuoriuscita dai territori del Sud Italia di insediamenti saraceni. Il secondo, un segnale della riscossa sui saraceni degli anni 972-975, anticipata dalla creazione delle tre marche difensive – la Obertenga ad est, con caposaldo marittimo a Genova; la Aleramica al centro, con caposaldo a Savona e Albenga; l’Arduinica ad ovest, con i centri essenziali di Ventimiglia e di Ivrea –: veri e propri fulcri della resistenza in funzione antisaracena. Descritti così, però, gli episodi mancano di un ingrediente di fondamentale importanza. Sia la lega pontificia sia il re d’Italia si appoggiano per organizzare la guerra ai musulmani alla principale potenza marittima cristiana: l’impero di Costantinopoli. Senza il suo aiuto, qualunque sforzo sul mare sarebbe stato inutile. La presenza bizantina comporta altre due considerazioni. Innanzitutto, per comprendere appieno entrambi gli episodi, e molti altri del lungo jihad, bisogna spesso dimenticare la prospettiva locale e ragionare su una scala molto più ampia. In secondo luogo, molti degli episodi del jihad non vanno seguiti come tanti frammenti disaggregati di un puzzle difficile da comporre, ma spesso come fili di un’unica trama, assorbiti da una vicenda molto più ampia: da una vasta guerra di respiro continentale, nella quale gran parte dell’Italia marittima, il Mezzogiorno e la Sicilia sono tra gli scacchieri sui quali si muovono le flotte dei contendenti, che si giocano in questo conflitto il dominio del Mediterraneo: l’Impero bizantino, l’Africa fatimide e la Spagna omayyade. Conflitto che ha un solo obiettivo: il controllo del Mediterraneo e l’instaurazione di una sola talassocrazia che vada da Oriente ad Occidente. Una guerra combattuta a più livelli: militare, chiaramente. Co­­­­­91

me pure di propaganda, di divieti commerciali, di sottili strategie politiche, di alleanze strette e poi, subitaneamente, disattese, di scontri interreligiosi. Con dikat improvvisi e cambiamenti di fronte. Con un teatro di guerra che riguarda, nel complesso, tutto il Mediterraneo. Uno scontro che, a fasi alterne, occupa tutto il X secolo. Anno 909. In Tunisia arrivano al potere i Fatimidi, i discendenti di Fatima, figlia di Maometto e di Alì, il quarto califfo dell’Islam. Per virtù di nascita e per scelta divina, essi si percepiscono come imam, guide infallibili con influenza divina. Il primo imam fatimide è Ubayd Allah Said che assume il titolo di Mahdi e di guida dei credenti. Dal momento della loro ascesa essi vengono coinvolti negli scontri per il predominio mediterraneo. Il perno su cui ruota la loro potenza navale è al-Mahdia, città-porto come altre viste in precedenza immaginata e fatta costruire direttamente dal primo imam. I lavori cominciano nel 919, lungo una stretta penisola, all’apice est del golfo dell’attuale golfo di Hammamet. La vicinanza con la Sicilia rende questo porto un pendant perfetto con quelli dell’Isola. Subito vi si costruiscono delle installazioni navali, degli arsenali, un porto fortificato. Si esagera, nelle fonti, quando si dice che sotto il primo imam vengano costruite qui circa novecento navi; mentre, durante il governo del figlio, al-Muizz, si racconta che gli arsenali producano seicento imbarcazioni. Siamo fuori dalla realtà produttiva del tempo. Tuttavia si tratta di cifre indicative dell’immagine che i contemporanei e gli scrittori successivi hanno della potenza fatimide, di una forza navale senza pari nella fase iniziale del suo potere. Sulle loro navi abbiamo varie informazioni, con una nomenclatura particolarmente ricca, sebbene le caratteristiche restino spesso oscure. Ritorna spesso il termine ust∂l, usato per indicare una grande nave, o shini, parola adoperata per la rapida galea da battaglia. I marinai provenivano dal mondo musulmano: dalla Sicilia; dalle città costiere di Barqa o da Tripoli; dalla tribù berbera dei Kutama; dalle zone rurali dell’Ifriqiya o da Qayrawan; o dal Sudan, come i neri Zuwayla. Spesso si tratta di marinai costretti alla leva navale, su cui pende, nel caso di ammutinamento o diserzione, la pena di morte, costretti talvolta ad aspettare la partenza non in caserme ma nella prigione della capitale. Su un dato si può essere sicuri: la flotta fatimide è, da subito, potente ed operativa. E la guerra per il dominio nel Mediterraneo, ­­­­­92

contro l’altro grande competitore dell’epoca, l’impero di Costantinopoli, può cominciare. Il primo terreno di scontro non può che essere il Sud Italia, dove più forti sono gli interessi dei due contendenti. I Fatimidi usano, come testa di ponte naturale per aggredire gli interessi bizantini, la Sicilia. Si comincia nell’agosto 918 con l’assalto notturno di Reggio. Nel 922-923, Masud al-Fati con venti navi prende la fortezza di S. Agata. Nell’anno seguente, i raids si accrescono. Jafar Ibn Ubayd muove con una grossa armata verso la Sicilia, dove staziona d’inverno. Nell’aprile 924, la flotta fatimide trasporta questo esercito sulle coste pugliesi, dove viene assalita la zona intorno a Taranto. Il 3 settembre la flotta fa ritorno nel porto della capitale fatimide con più di mille prigionieri. Azioni che continuano, a dispetto dei contatti diplomatici e degli agreements col potere bizantino, tra cui quello, nel 917, che prevede di pagare ai Fatimidi un tributo annuale per impedire ogni aggressione sulle coste. Nel 927-928, l’ammiraglio Sabir salpa dalla Sicilia e da alMahdia verso le coste calabresi e pugliesi. Il principale successo è, ancora una volta, il sacco di Taranto. Però è poi costretto a lasciare le coste italiane a causa di un’epidemia che decima le sue truppe. In ogni caso, torna a casa con un enorme bottino. I bizantini cercano un nuovo accordo. Ma Sabir continua nella sua opera e nel 929 percorre le coste tirreniche e le città di Salerno e Napoli pagano un riscatto per non essere assalite. I bizantini non riescono ad opporre resistenza. Non viene combattuta nessuna battaglia navale né sono riportate schermaglie, se non uno scontro piccolo e breve con lo stratega di Calabria. I bizantini chiedono un nuovo armistizio, che viene siglato e dura diversi anni. Anche quando i bizantini intervengono in Sicilia tra il 936 e il 937 in appoggio ai ribelli siciliani che si oppongono ai Fatimidi, le fonti non registrano battaglie navali o terrestri. L’ultima grande incursione fatimida è quella di Yaqub contro Genova. Tra il 935 e il 947 l’attività navale subisce un arresto. La causa è la ribellione tunisina capeggiata da Abu Yazids. Si combatte sulla terra. Al-Mahdia viene assediata e i Fatimidi richiedono aiuto alle città siciliane e a Tripoli. Questa difficoltà spinge i bizantini a rifarsi avanti e riprendere gli sforzi per recuperare la Sicilia. La reazione fatimide non tarda ad arrivare e nel 951 riattaccano Reggio. Alla fine, l’imam al-Mansur trova un accordo coi bizantini e, per ora, le ostilità tra i due poteri si interrompono. ­­­­­93

Sul fronte italiano la situazione sbanda. La condizione bizantina in Italia, e soprattutto nel Tema di Calabria, è drammatica. Ai continui attacchi musulmani corrispondono continue sollevazioni della popolazione greca contro i rappresentanti del governo. Le malversazioni compiute dai funzionari sono troppe, numerose, inaccettabili. Tradimento, corruzione, gestione tirannica divengono vere e proprie piaghe. L’impero appare lontano, disinteressato. Le impunità diventano croniche. Ai governatori nominati dal governo centrale si oppongono usurpatori, che coesistono con i primi al comando, anzi godono del favore della popolazione e possiedono, di fatto, il potere. Molti notabili locali appaiono collusi o complici. Per porre un freno alle continue rivolte alimentate anche da principi longobardi, i bizantini stessi sono costretti a ricorrere all’aiuto di mercenari musulmani provenienti dalla Sicilia. L’ordine viene ristabilito, ma a fatica, a prezzi molto alti. Il fondatore della dinastia kalbita, al-Asan Ibn Alì, tenta un nuovo assalto alla Calabria tra il 950 e il 952. Intorno a Gerace si scatena una battaglia. Il Patrizio Malacheno e lo stratega di Calabria Pascalio muoiono in combattimento. Al-Asan entra da trionfatore a Reggio e fa costruire, in onore della vittoria, una moschea: «cospicua al minareto, spiccantesi in alto da un angolo, perché tutti il vedessero e ne sentissero la cantilena del Muezzin», dice Amari. Con una minaccia per tutti i cristiani: toccate una sola pietra della moschea di Reggio e tutte le chiese cristiane di Sicilia e d’Africa verranno distrutte. Questo fronte della guerra mediterranea sembra sfaldarsi, vacillare in favore fatimida. Ma intanto qualcosa accade. I Fatimidi volgono ora lo sguardo altrove. Alla Spagna omayyade. Per loro, il potente Stato musulmano spagnolo è una continua fonte di irritazione e di affronto. Di inimicizia, fatta di propaganda, tentativi di sovversione, piccole scaramucce. Interventi occasionali nel campo avverso, come nel caso genovese. Ma niente che lasci pensare ad una guerra. Nel 955, però, un episodio scatena una violenta reazione. Una nave commerciale fatimida, che porta corrispondenza diplomatica, viene intercettata e catturata da una nave spagnola. È il pretesto per cominciare un conflitto che già si annunziava da tempo. Il successore di al-Mansur, al-Muizz, ordina al governatore di Sicilia di attaccare in rappresaglia Almeria, la principale base navale omayyade. La sorpresa riesce. Vie­­­­­94

ne distrutta parte della flotta, bruciato l’arsenale, catturate navi commerciali. Ma la flotta omayyade non è del tutto neutralizzata. Settanta loro navi attaccano il porto di al-Kharaz (l’attuale la Calle), nei pressi di Susa. Gli Omayyadi cercano di allearsi con i bizantini contro il comune nemico fatimide. E i bizantini tentano di attuare una complessa strategia politica, che cerca di trarre vantaggio da entrambi i contendenti musulmani. Si alleano con gli Omayyadi, ma, nello stesso tempo, esaminano la possibilità di un accordo con i Fatimidi. Questa politica non riesce. Ancora una volta, la flotta bizantina e quella fatimida si scontrano, al largo dello stretto di Messina. I musulmani, secondo le loro fonti, vincono. Ma c’è chi racconta un’altra storia. Due volte, tra il 956 e il 957, la flotta fatimide viene dispersa da fortunali al di fuori della Sicilia. E i bizantini ne approfittano per attaccare le navi disperse e affondare dodici navi musulmane. Questa fase alterna e poco chiara termina l’anno dopo, con un accordo di non belligeranza, concluso dagli ambasciatori bizantini direttamente con al-Muizz. L’accordo è simile a quello già stipulato in precedenza: il versamento di un tributo annuo. Comunque i Fatimidi continuano a flagellare le coste della Penisola con diversi raids di minore entità, contro le coste pugliesi e calabre. Ma la guerra sta mutando destino, obiettivi e traguardi. Con un ribaltamento epocale: perché l’impero bizantino dalla difensiva passa all’offensiva. A partire da Creta, una delle chiavi del Mediterraneo.

9. Il ritorno di Bisanzio

La presa dell’Isola da parte musulmana nell’824 aveva rappresentato il più spettacolare e tormentato evento accaduto nel IX secolo nel Mediterraneo orientale. L’Isola rappresentava una porta spalancata verso la Grecia e il ventre molle dell’impero bizantino. Ad impossessarsene non furono gruppi musulmani provenienti dall’Africa, ma dalla Spagna, già precedentemente espulsi da Alessandria dalle autorità egizie. I musulmani di Creta costituiscono una testa di ponte micidiale. Stabiliscono una flotta po­­­­­95

tente che pungola di continuo, con rapide e letali incursioni, le coste dell’Asia Minore e le isole del mar Egeo. Lo scopo di queste aggressioni non è tanto quello di conquistare il mondo bizantino e Costantinopoli, quanto saccheggiare quante più risorse era possibile, soprattutto uomini. Spesso si tratta di razzie, ma altre volte di assalti ben congegnati e pianificati, con l’occupazione di alcune isole egee, come Sokastro, vicino Carpatos, o Naxos, che paga un tributo annuo ai musulmani cretesi. Le regioni che subiscono l’attacco musulmano soffrono un violento impoverimento, il declino delle loro città commerciali e un forte spopolamento. Per i bizantini Creta è una continua spina nel fianco. Un’aberrazione all’interno del Commonwealth di Costantinopoli, fonte continua di violenze, di interferenze, di perturbazione. Che va domata, ricondotta sotto il controllo greco, non appena l’occasione si presenti. Recuperare l’Isola diventa un imperativo. E adesso che l’impero si sta rafforzando, l’impresa diventa possibile. Nel luglio 960, nonostante il patto stipulato con i Fatimidi, comincia l’attacco. Sull’Isola sbarca un contingente di ben quindicimila uomini. Li appoggia una flotta enorme, fatta di navi da guerra e di navi appoggio e da trasporto. Il blitz riesce. La resistenza dura relativamente poco per gli standard dell’epoca: appena dieci mesi. La popolazione cretese, in massima parte musulmana, chiede aiuto all’imam al-Muizz e agli Ikhsidi, che governano l’Egitto. Si pensa allora ad un attacco navale congiunto, per riprendere Creta. Tra maggio e giugno 961 le due flotte potrebbero muovere da Barqa, in Libia. Al-Muizz chiama i musulmani d’Africa al jihad. Ma tutto sfuma in breve tempo. L’accordo tra Fatimidi e Ikhsidi non regge. L’emiro ikhsida, Kafur, teme che si tratti di un doppio gioco, mirato a farlo cadere preda del più potente signore fatimida. L’operazione si arresta. Timidi segnali arrivano a Creta dalle coste africane. Ma l’aiuto sperato si concretizza in un nulla di fatto. Per i musulmani cretesi l’avventura finisce qui. L’Isola torna sotto il controllo bizantino. Vista la buona riuscita del blitz, da Creta gli obiettivi bizantini si allargano. Ritorna il sogno, recuperare il pezzo più pregiato del proprio impero: la Sicilia. I segnali sono favorevoli. Come spesso accade, i bizantini utilizzano forme di intelligence, cittadini bilingue che parlano greco e arabo provenienti da zone di frontiera, i quali forniscono molte e importanti indicazioni. La ­­­­­96

situazione sull’Isola sembra favorevole. Nel 964, una flotta bizantina tenta un rapido assalto. Riescono ad attraccare in acque siciliane. Un contingente sbarca, ma la flotta viene distrutta in un’azione spettacolare: a nuoto, un gruppo di assaltatori musulmani dà fuoco alle navi. Senza supporto navale l’esercito greco sbanda, fino a scontrarsi con le truppe musulmane nel 965. E viene battuto. Subito gli ambasciatori imperiali richiedono ai Fatimidi un armistizio. Che al-Muizz accorda prontamente. Si sta preparando, infatti, ad una nuova impresa: annettere l’Egitto. Operazione che si svolge anche con l’aiuto degli emiri di Sicilia, provvisti di uomini, armi, ricchezze e navi. L’emiro di Sicilia, Ahmad ibn al-Hasan viene chiamato ad al-Mahdia e nominato comandante della flotta fatimide, sebbene poco dopo, a Tripoli, si ammali e muoia. La situazione, rispetto all’inizio del secolo, è totalmente mutata. Bisanzio ora è potente ed aggressiva. Se la Sicilia non cade, Creta è caduta. E successivamente è la volta di Cipro, dal 688 sottoposta ad una sorta di condominio musulmano-bizantino, base navale sia per la flotta bizantina che per le navi provenienti dalla Siria e dall’Egitto, che nel 965 viene invasa e conquistata. Poi la presenza nell’Italia meridionale si consolida. È una nuova epoca per Bisanzio: l’epoca degli imperatori intervenzionisti. La Puglia e la Calabria si irrobustiscono. Sotto la guida imperiale, si mette in opera una radicale opera di ristrutturazione urbana e di incastellamento. Non si tratta di un fenomeno spontaneo, come avviene in altre parti d’Europa e d’Italia. Qui vengono create nuove città fortificate – va aggiunto, di piccola o piccolissima taglia –, secondo una rigida dottrina che ha una lunga tradizione pubblica. È lo Stato bizantino che presiede ad ogni intervento, secondo uno schema preciso e razionale, sperimentato nei secoli, con al centro il kastron, la città, che ospita i funzionari pubblici e l’esercito e, intorno, uno o più abitati rurali (choria), che forniscono il necessario approvvigionamento alla popolazione cittadina. Su ordine dell’imperatore e dei suoi rappresentanti nascono sulle coste pugliesi Monopoli, Polignano, Giovinazzo, Molfetta e si ricostruiscono le mura più volte danneggiate di Taranto. In Calabria, Catanzaro, Cerenzia, Umbriatico, Isola Capo Rizzuto, Oppido, Stilo e Nicastro. Nell’interno, tra Basilicata e Puglia, Troia, Civitate, Dragonara, Fiorentino, Biccari, Cisterna, Melfi. ­­­­­97

Un incastellamento di Stato che trasforma quello che era stato un luogo di raids e scorrerie in un polo difensivo, sia sulle coste ionico-adriatiche sia per linee interne. Su questi tre assi – Creta, Cipro, Italia meridionale –, che fanno da cuscinetto contro l’invasione diretta dei territori imperiali, si fonda la nuova talassocrazia bizantina, che diventa il baluardo contro cui si infrangono i colpi musulmani. Questa nuova espansione bizantina crea grossi sussulti in Nord Africa. La domanda di un nuovo jihad si moltiplica. Jafar, il conquistatore fatimide dell’Egitto, non ha dubbi: il pericolo bizantino è immanente, la guerra santa deve essere proclamata subito. Le comunità cristiane nei porti africani, soprattutto ad Alessandria, cominciano a sentire l’avvicinarsi dei pogrom. La paura sulle coste africane si diffonde. Avviene un rovesciamento. Le nuove terre di saccheggio non sono più prevalentemente quelle tirreniche, adriatiche, egee, ma la frontiera della guerra si è spostata in Nord Africa e in Medio Oriente. Basta ascoltare le parole di Ibn Hawqal: «nella nostra epoca, i bizantini si sono accaniti a correre il litorale della Siria e le spiagge d’Egitto. Essi attaccano le navi rivierasche e le catturano lungo tutte le coste». E conclude: «nessun soccorso, nessun aiuto giunge ai musulmani, e nessuno se ne cura». Sembra di ascoltare, a parti inverse, i duri resoconti dei cronisti cristiani. E, anche in questo caso, l’intento bizantino è il medesimo di quello musulmano: procurarsi con la violenza bottino e, soprattutto, manodopera servile da condurre a Costantinopoli o in altri porti franchi, come Gaza, Giaffa, Mahuz Ashod, Ascalona o Arsuf (l’antica Apollonia), per venderla o per usarla come arma di scambio e di ricatto. L’attività della flotta fatimide ha dunque subito un violento arresto. Le informazioni diventano frammentarie. La portata delle azioni limitata, con lunghi intervalli di inazione. I motivi? Forse la nuova geopolitica fatimide, che sposta i suoi interessi da al-Mahdia alle coste egiziane, mentre il terreno di scontro con l’impero dal centro del Mediterraneo si è spostato verso la Siria, dove gli interessi fatimidi verso i porti di Ascalona, Giaffa, Acri, Tiro, Sidone, Beirut e Tripoli di Siria si accrescono. Più persuasivamente, il motivo è che la flotta africana sembra racchiusa ora in un orizzonte assai più stretto, limitata com’è da quella bizantina, che si avvicina sempre più pericolosamente alle coste africane. Tra maggio-giugno 993 si combatte al largo di Alessandria: i mu­­­­­98

sulmani sembrano avere la meglio e riescono anche a catturare dei prigionieri; ma la flotta greca resta minacciosamente al largo, senza allontanarsi troppo dal porto. L’anno dopo, è al largo di Fustat che si combatte. L’imam al-Aziz allora cerca di preparare una nuova flotta per reagire. Legname per nuove navi arriva dalla Sicilia e dal Sud Italia e, con esso, ferro e armi. Mentre l’arsenale del Cairo diventa il fulcro produttivo da cui rilanciare la potenza navale fatimida. Marzo 996. Un episodio inaspettato: l’arsenale va a fuoco. Finiscono nel rogo navi, suppellettili, armamenti, provviste. Un duro colpo. Per molti non è stato un incidente: i bizantini hanno armato la mano degli incendiari. Si cerca un capro espiatorio. Di chi è la colpa? Dei Rum residenti in città, in maggior parte provenienti da Amalfi. Dopo averlo tanto sostenuto e propagandato, il jihad contro gli infedeli scoppia nei cortili del Cairo. Ai primi di maggio, parte il linciaggio. La caccia all’uomo. Agli amalfitani. Casa per casa, vengono uccisi sul posto e derubati dei loro beni. Anche le altre comunità cristiane vengono attaccate. Le loro chiese, bruciate. Gli scontri interreligiosi vengono repressi ben presto, con grande fermezza dalle autorità locali. E si riparte da zero. L’incarico di costruire nuove navi viene affidato al visir cristiano Isa ibn Nestorius. Ricomincia la ricerca di legno. Ma i numeri sulla produzione di navi sono assai differenti rispetto a quelli del primo imam. Vengono varate sei nuove navi, di cui due molto grandi. Poi alcune altre, non più di una cinquantina. Almeno ventiquattro vengono inviate sulle coste siriane, dove incappano in una tempesta e vengono trascinate e distrutte sulle scogliere. Altre venti si scontrano con vascelli bizantini dirette ad aiutare i ribelli di Tiro che si oppongono ai Fatimidi e riportano una vittoria: l’ultima di cui ci informano le fonti. In definitiva, la guerra per il controllo del Mediterraneo vive due fasi. La prima, che ha come epicentro la Sicilia e la Penisola italiana, va dal primo decennio del X secolo circa al 968, con la forte espansione militare fatimida. Nella seconda parte si hanno diverse inversioni, nei luoghi di scontro che si spostano verso l’Africa e il Medio Oriente; e nei ruoli, con la rinnovata aggressività bizantina. Inversioni che si possono spiegare in due modi. Col generale riassetto della potenza imperiale, sotto i Basilidi, che comporta una radicale risistemazione in chiave militare dell’impero e ­­­­­99

delle zone fino ad allora più difficilmente difendibili, come il Sud Italia, che vive una profonda opera di ristrutturazione difensiva pilotata dall’amministrazione greca. Dall’altra col ridimensionamento del potere fatimide, che è misurabile anche con la sempre più scarsa attenzione nei confronti del potenziale navale, che subisce una drastica riduzione produttiva nella seconda metà del secolo rispetto all’epoca precedente, quando notevoli investimenti statali vengono impiegati per il suo decollo. Una riduzione dovuta al cambiamento generale di politica estera, sempre più proiettata verso l’Egitto e i territori della Siria, per la cui conquista il ruolo delle forze navali risulta limitato. Non va dimenticato un altro fattore, da non sottovalutare: la quasi assenza di materie prime per la costruzione di navi, fornite in gran parte anche dai territori della Sicilia e del Sud Italia. Pertanto, una volta consolidato il blocco bizantino nel centro del Mediterraneo, le risorse per approvvigionare gli arsenali africani stentano ad arrivare, impedendo di fatto il mantenimento di quegli standard produttivi ottenuti all’inizio del conflitto. Da qui la decadenza navale fatimide e la fine della guerra mediterranea. Al termine del X secolo, l’impero bizantino risulta il vincitore per il controllo del mare e consolida le sue posizioni, soprattutto in Italia meridionale, regione dove la sua influenza torna ad essere centrale.

10. Santi guerrieri

Il cristiano che subisce il jihad non è mai abbandonato a se stesso. Più che agli imperatori, più che ai papi, più che ai condottieri locali, egli si affida per la vittoria o, più semplicemente, per la sopravvivenza, alle sue icone. Ai suoi santi guerrieri. A figure taumaturgiche. A reliquie apotropaiche, usate come vessillo, da cui trascende l’energia vivifica del santo. Se guardiamo in maniera particolare la gente del Sud, vediamo come essa i santi li tocchi, li sogni, gli parli. Li veda agire. Combattere. I santi sono lo specchio di un universo dove solo il sovrannaturale procura salvezza non solo spirituale ma fisica, in un’epoca di paure e incertezze. Che dà modo al cristiano di non sentirsi solo in questa guerra, ma ­­­­­100

parte della res publica christiana, di una realtà unitaria, viva ed operante, in antitesi con ciò che non è cristiano, di cui i santi sono i vessilliferi. Ambito di resistenza che malgrado ogni assalto deve resistere fino alla fine dei tempi, anche se i saraceni, i filii Ismaelis, avranno la vittoria e sottometteranno le terre cristiane, come recita la Revelatio di Metodio di Patara, opera nata in ambito siriaco in funzione anti-islamica che si diffonde in tutto l’Occidente, fino al mondo franco. In un mondo dove il terreno è considerato isomorfo all’ultraterreno, senza che esistano barriere e soluzioni di continuità, ci si consegna – direi corpo ed anima – al sacro. Si prega il santo, per assorbirne la forza taumaturgica, per richiedere miracoli, per affermare che esiste la comunità dei cristiani, per reagire, per sperare in un futuro ultraterreno migliore del terribile presente. Per questo motivo, al santo si dona a valanga: terre, ricchezze, risorse, vesti, oro. Non solo per ingraziarselo, perché la donazione nel Medioevo ha un surplus di significati: particolare forma di transazione, che vive in una sorta di limbo, in equilibrio tra il linguaggio religioso e il linguaggio del vissuto, in un orizzonte dove la distinzione tra realtà ed irrealtà non esiste. La quale appartiene ad una santa Trinità economico-sociale, in un circuito dove il dono da Dio passa al singolo e dal singolo passa al santo, in una logica di «scambio ineguale tra grazie e offerte», secondo la felice espressione di Clavero. Fatto da cui scaturiscono nodi inestricabili, polisemici, in un gioco di scatole cinesi che riguarda innumerevoli sfere: private, sociali e simboliche; economiche, politiche e spirituali. Dove colui che offre diventa non solo membro di un ente religioso, chiesa o monastero che sia, ma componente di un più ampio sinodo, con nodi di relazioni strettissime, quasi di sangue e di appartenenza carnale tra l’uomo e il sacro, in un circolo formato dagli apostoli, dai martiri. Dai santi. Dai santi guerrieri. Per parlare di loro, del loro influsso, della loro energia, va recuperato un gruppo di testimonianze particolari: Passiones, Vitae, Translationes, Miracula. Fonti sulle quali muoversi con grande cautela, e che però forniscono, come nota una delle più originali storiche italiane del fenomeno, Amalia Galdi, degli «utili elementi di approccio a fenomeni storici complessi, capaci di integrare, o addirittura mettere in discussione, le certezze desunte dalle altre testimonianze». In questi racconti si mescola ­­­­­101

tutto: devozione, propaganda, miracoli e potenza divina, ascesi e capacità profetica, ammaestramenti ed exempla, ricompense e punizioni. Sospesi spesso tra topos e propaganda, e di conseguenza da valutare con attenzione, se da essi si vogliono trarre argomenti concreti. Quello che però a me interessa raccontare, al di là della verità che si può nascondere dietro la singola biografia, il singolo racconto, è cosa potesse pensare la gente che, al tempo, leggeva o ascoltava queste storie, mentre intorno infieriva la guerra santa. Che effetti traessero da esse, con una ribalta che non era solo dotta e letteraria, racchiusa negli studia dei monasteri, ma diffusa, con una ridda di racconti orali, storie, leggende che, stratificandosi, diventavano l’humus culturale di una resistenza: la quale permetteva alla gente di riconoscersi nel sacro e, soprattutto, di trovare nella vita esemplare del santo un modello di temperamento e di lotta da seguire. Una delle biografie di santi più affascinanti riguarda Elia il Giovane. Che vive tra l’823 e il 903. Nel pieno degli avvenimenti, nel momento clou del jihad. Nella sua Vita vengono descritti due strumenti di battaglia adoperati dal santo: il primo, la profezia, che si avvera sempre, ma che viene creduta o non creduta, a seconda che chi l’ascolta abbia fiducia nel santo oppure no; e che comporta di conseguenza la punizione (la morte, la schiavitù) o la salvezza (fisica, con lo scampato pericolo, e spirituale). Con un significato chiaro: solo chi crede e ha fede raggiunge la salvezza. Il secondo, l’ammaestramento e l’insegnamento, che si concretizza in una vita di disciplina, di ascesi e di preghiera: che diviene anch’essa, col digiuno, mezzo attraverso cui compiere un miracolo per la vittoria. La profezia: il santo ha delle visioni in cui intravede con chiarezza cosa accade. Elia la usa per la prima volta alle Saline, a circa venti chilometri da Reggio Calabria, dove fonda un monastero. Lo fa predicendo la morte di alcuni suoi compagni e «leggendo nelle loro anime, rivela i loro peccati». Da questa chiave personale si passa a quella bellica, e il santo anticipa le aggressioni che avverranno nelle città siciliane ancora in mano bizantina nel IX secolo, come Taormina, indicando quelle che ce la faranno a resistere e quelle che no. Dopo un po’ il racconto passa sull’altra sponda del canale, a Reggio, dove Elia parla pubblicamente di un futuro raid: ma i presenti, invece di credere e di pentirsi per prevenire la ­­­­­102

catastrofe, non lo ascoltano. Il racconto, ci mancherebbe, sottolinea che di essi nessuno si salva: la metà muore, gli altri vengono fatti schiavi. Siamo ora agli esordi del X secolo. Il santo è nel palazzo di un certo Chrysion, a Taormina. Qui profetizza ancora una volta. Predice che sul letto dov’è seduto l’uomo ben presto si sarebbe seduto l’aglabita Ibrahim e che i muri del palazzo «avrebbero visto tanti nobili della città passati a fil di spada». Chrysion è un altro che non gli crede. E sappiamo che muore nell’assedio. Elia, prima che la situazione precipiti, scappa ad Amalfi. Mentre fugge, ha una nuova visione: il santo gesticola e davanti al suo discepolo Daniele, solleva la sua tonaca «sino alle ginocchia», come se dell’acqua stesse passando tra le sue gambe, per non bagnarsi. Cosa ha visto? Torrenti di sangue, che scorrono davanti a lui. Il sangue di Taormina. Questa agiografia racconta non solo degli episodi della guerra contro i saraceni, ma anche di cosa il cristiano possa fare per vincerla. Questa è la domanda precisa che pone al santo un ammiraglio bizantino, chiamato Michele, forse identificabile con quel Michele Charaktos che fu tra i protagonisti della difesa di Taormina. Come si battono i saraceni, dunque? Il santo fornisce una risposta che è tutta un programma d’azione: basta avere uno stile di vita puro, perché i musulmani sono la mano di Dio contro l’empietà e la miscredenza che è caduta sulle terre cristiane. La spada con cui Dio castiga i cristiani malvagi. Per vincere è necessario il dominio dell’anima sul corpo. Dice: «Per trionfare devi purificare i tuoi soldati, impedendogli di bere, di mangiare in eccesso e darsi al vizio». Chiaramente, Michele segue il consiglio e vince la battaglia. Colpisce che queste modalità (la purificazione, la contrizione, il controllo dei sensi ecc.) Elia le usi rivolgendosi ai suoi stessi monaci per la riuscita di una perfetta vita spirituale. Prendendo come modelli di riferimento non dei santi ma due condottieri dell’antichità. E si rivolge ai suoi come se si trattasse di soldati, veri e propri milites Christi: «se Epaminonda e Scipione, disse il santo, sono riusciti a imporre la temperanza a loro stessi, che erano soggetti inclini al vizio, con più forti ragioni voi, cristiani, formati sui precetti dei santi padri, per vincere, dovete essere temperanti». Da questi due esempi risulta chiaro che condotta morale e condotta militare possono, e anzi devono, andare ­­­­­103

a braccetto: solo attraverso questa unione si raggiunge la vittoria, fisica e spirituale. Ed è ancora grazie al temperamento del santo e con l’adozione di queste armi, che, secondo l’agiografo, la Cristianità si è potuta liberare della minaccia di Ibrahim. In quanto Elia ingaggia una vera e propria guerra a distanza col musulmano, quando viene a sapere che a Taormina le cose sono andate come aveva profetizzato. La città è stata distrutta. Gli incendi si susseguono. Gli abitanti uccisi a colpi di spada. Sa che l’Agareno muove verso Reggio, poi verso Cosenza. A questo punto, soppesata la gravità della minaccia, Leone dà inizio alla scontro. Si chiude in se stesso in condizioni ascetiche e, usando preghiera e digiuni, i suoi strumenti di lotta, piega, quasi in maniera telepatica, Ibrahim che, come sappiamo, in pochi giorni muore. Questi gli elementi di una santità militante e combattente, come quella di sant’Elia lo Speleota. Anche qui, ad esempio, le relazioni tra vita ascetica e temperante e possibilità di vittoria, non fanno difetto. Il santo dà continui consigli di purezza, d’ascetismo e di pietà, di non darsi «all’ubriachezza e all’orgia». Nel corso di una razzia, rifugiatosi in un castello, esorta i presenti a pentirsi dei loro peccati, «per attirare su di sé la pietà di Dio». In questo modo si salvano. Ma quando il posto del santo viene preso da un falso pastore, ed essi seguono una strada che va al di fuori del profilo tracciato dal santo, tutti quelli che si erano salvati prima vengono ora uccisi dai saraceni. Finora ho parlato di santi che operano in vita, nelle cui biografie il naturale e il sovrannaturale si confondono. Guardiamo invece ad altri esempi, altrettanto interessanti. Di santi cittadini. Di martiri che incarnano, nei diversi immaginari urbani, l’identità stessa della città. Nelle agiografie che li riguardano, e nelle azioni che gli competono, lo spirito patriottico municipalistico risulta assai forte, e sembra ridursi quel carico moraleggiante e didattico di cui ho appena parlato. Il loro ruolo nella guerra è, come è immaginabile, non secondario. Basta mostrare le reliquie del santo, che esse da sole, scatenano fanatismi e speranze. Il santo è dappertutto. Sulle tolde delle navi come sulla cinta delle mura. A guardia di chiese, di torri, di donne che stanno per essere violate. Basta evocarlo. I santi appaiono rapidi, violenti, decisi e decisivi. Nell’846, vero e proprio annus horribilis, la flotta saracena sbar­­­­­104

ca ad Ischia. Passa poi sulla costa napoletana. Si tratta di una Sarracenorum infinita multitudo che sbarca e scorazza fuori città. Penetrano nelle campagne, fanno razzia di schiavi. Salpano. Ma arriva in soccorso una piccola flotta dalla vicina città di Sorrento. Le due flottiglie si scontrano. La vittoria arride ai cristiani perché il patrono sorrentino, sant’Antonino, appare, scompare e riappare continuamente sulla nave che guida la spedizione saracena, gettando nel panico l’equipaggio. In un’altra occasione, sempre a Napoli, arriva in soccorso direttamente san Gennaro. Siamo nella prima metà del X secolo, durante l’episcopato di Atanasio III (906-956). Gli agareni provengono, si dice, dall’Asia e assediano la città. Sono ben attrezzati, dotati di macchine da guerra (diversisque machinis). Il loro scopo sembra essere stato quello della conquista più di un semplice raid. I saraceni provano a salire sulle mura, con scale e corde, ma i suoi santi protettori, Gennaro e Agrippino, accorrono, mentre la popolazione si rivolge disperata a Cristo, in nome dei santi. In quel momento una nave saracena, la più grande di tutte, colma di uomini e di ordigni da assedio, affonda improvvisamente. I napoletani, rassicurati da quello che interpretano come un chiaro segno della protezione dei due santi, continuano a difendere strenuamente le mura per ore, costringendo i nemici a rinunciare alla presa della città, e a limitarsi a chiedere un bottino in oro e argento. A Salerno invece, san Fortunato, durante un attacco, fa precipitare una trave del soffitto della sua chiesa extraurbana, dove si erano acquartierati i saraceni: trave che cade sulla testa del loro capo Abd Allah, che stava tentando di violentare una fanciulla cristiana. Anche la Madonna talvolta interviene nei combattimenti. In una delle poche città calabresi che resistono agli attacchi saraceni, Rossano, la Théotokos, vestita di porpora, appare sulla murazione tenendo in mano delle torce, proprio nel momento in cui gli agareni di notte assaltano le mura, e li mette in fuga. I santi, per poter vincere, si servono pure di altri poteri sovrannaturali. Ad esempio, del controllo degli elementi fisici, delle acque del mare, delle tempeste. È la tempesta divina che permette la vittoria della battaglia di Ostia. E accade in egual modo nel 991 quando una delle ultime incursioni nel golfo di Napoli viene interrotta da una violenta tempesta, scatenata dai santi Costanzo e Severino, che respinge le navi nemiche verso le coste lucane. ­­­­­105

Oppure, con il topos di nuvole magiche, che trascinano via e fanno scomparire il santo o il suo devoto. Che è quanto succede a san Vitale: restato solo nel suo monastero, abbandonato dagli altri monaci, è costretto a fronteggiare da solo i saraceni. Essi lo trovano e lo fanno prigioniero. Si guardano intorno, ma non c’è possibilità di bottino. Per la rabbia, decidono di tagliare la testa a Vitale. D’un tratto una nuvola investe il santo, lo avvolge e lo porta via. Ed è sempre una nuvola che consente alle navi che trasportano le reliquie di san Bartolomeo da Lipari verso Salerno di non essere intercettate da navi musulmane. Altro topos, infine, è l’invisibilità: sempre a Napoli, mentre un presbitero stava celebrando messa nella chiesa extramuraria di san Efebo, viene improvvisamente circondato dai saraceni che lo vogliono catturare. L’uomo, reso invisibile grazie alla volontà di Dio, può prenderli a bastonate e costringerli a una fuga precipitosa sulle loro navi. Non deve meravigliare che alcuni santi partecipino, fisicamente in vita, alla battaglia. Non era inconsueto che monaci armati vi prendessero parte. Come scrive acutamente Nicola Cilento, «certamente la potenza taumaturgica di alcuni santi era sorretta dallo spirito bellicoso di chi li accompagnava». Nel corso di uno degli ultimi raids avvenuto contro la Calabria, nel 986, viene attaccata dai saraceni una chiesa dedicata alla Vergine. A questa notizia san Luca di Demena comincia a piangere e a pregare. Ma, nello stesso tempo, agisce. Sceglie un gruppo di monaci e a cavallo si avvia verso il gruppo di saraceni: «scelse, tra i suoi compagni, i più coraggiosi e forti e, munito della santissima Croce, come un capo di eserciti, marciò verso i nemici. Egli incoraggiava i suoi con calde parole, li benediceva, pregava e li lanciava contro i saraceni. Costoro, che si preparavano alla difesa, videro all’improvviso che il cavallo bianco montato da Luca era circonfuso da una fiamma. Terrificati, scapparono o si precipitarono in disordine nel combattimento. Essi furono vinti». In un’altra testimonianza, del IX secolo, che si riferisce al monastero di S. Martino del monte Massico, una pertinenza di S. Vincenzo al Volturno, è lo stesso santo tutelare del monastero che appare ai suoi monaci e li lancia alla battaglia – monaci che appaiono bardati e si comportano come cavalieri a tutti gli effetti –: «andate, armati delle vostre armature, spade, clipei e lance; saltate a cavallo e combattete senza incertezze (sine dubio), perché io vi precedo». E così, dice il testo, trecento ­­­­­106

monaci-cavalieri uccidono circa duemila saraceni, lasciando in vita pochi superstiti, costretti «cum magna confusione» a riprendere la via del mare. E i coloni del monastero di S. Martino, continua il racconto, possono toccare con mano la potenza e la forza bellica delle reliquie del santo conservate nell’abbazia, grazie ad una vittoria raggiunta attraverso «le meraviglie che fece Dio per intercessione della santa reliquia e dei suoi monaci». Santi guerrieri. Protezione taumaturgica e sovrannaturale. Propaganda guerriera e propaganda spirituale. Ausilio della preghiera e intervento diretto del sacro, che promuove salvezza, fisica e spirituale. Pedagogia e morale. Capacità sciamanica. Senso di appartenenza ad una comune res publica cristiana. A questi schemi poteva attenersi il cristiano che affrontava il jihad. Attraverso dei modelli che con la loro opera e il loro intervento esercitavano una forza attiva, che incideva nelle vicende del quotidiano, talvolta come ultima, estrema risorsa cui appigliarsi. Degli esempi di resistenza, insomma. E non poteva essere altrimenti in un mondo determinato da un flusso nel quale gli eventi della vita, drammatici e violenti ma temporanei, acquistavano un senso solo se considerati sul piano sovrannaturale, dell’eternità e della realizzazione del disegno divino. Dove la relazione con l’altro, se l’altro era saraceno, non poteva che avere una connotazione negativa. Ma fu sempre così?

11. Come «Palermo o Africa»

Ogni guerra, ogni conflitto è, giocoforza, uno strumento di contatto. E lo fu anche il jihad: non potrebbe essere altrimenti vista la durata cronologica e la sua intensità, con frequenti spostamenti di popolazione, intrusioni, stanziamenti, commistioni. Sarebbe presuntuoso credere, lo avvertiva Gabrieli, che laddove si combatte o si fa pirateria, non si abbiano più commerci, alcuna relazione o influenze reciproche. Senza dubbio si contrappongono in questa guerra due fanatismi, due posizioni che santificano i comuni guerrieri chiamati alla guerra santa, che esaltano le gesta guerriere tanto dei santi cristiani quanto degli eroi musulmani. Una guerra senza esclusione di colpi, con un confine netto tra i due schiera­­­­­107

menti, tra torti e ragioni. Dove, per entrambi, il massacro del nemico diventa fonte di apologia della vera fede. Conflitto che però non è l’unica regola del gioco: difatti, al suo interno, germinano cuscinetti di convivenza. Zone grigie, terre di nessuno. Dove le alleanze sono all’ordine del giorno. Spesso frutto della realpolitik, di esigenze pragmatiche di sopravvivenza politica. O di guadagno, perché come si sa, business as usual, senza differenze di religione o di bandiera, in ogni tempo e latitudine. Le città tirreniche sono quelle che vivono con maggiore duttilità i vantaggi offerti dal vivere alla frontiera. Di essere parte attiva nel teatro di guerra. Di non sentirsi vincolate dalla presenza asfissiante e opprimente di alcun potere imperiale, in modo particolare nel corso del IX secolo, quando Bisanzio e l’impero franco ap­paio­no lontani. Ciò fornisce loro un’indubbia forza. Una capacità di manovra che, senza troppi pregiudizi, li spinge spesso a vendersi al miglior offerente, senza porsi problemi etici o religiosi. Empie alleanze, si disse all’epoca, maturate in un ambiente cristiano che, verosimilmente, aveva scarsa confidenza con la religione islamica, considerata come una sorta di cristianesimo degenerato, scaturito dall’arianesimo. Che comunque creano scandalo, specialmente da parte papale e imperiale. L’atteggiamento di Napoli viene stigmatizzato con maggiore frequenza. È lo stesso imperatore Ludovico II, in una celebre lettera all’imperatore greco Basilio, a denunciare la politica napoletana. Che gente è questa, che fornisce armi, viveri e soccorsi agli infedeli? A questi cittadini – fa scrivere l’imperatore – non chiedemmo null’altro se non i soliti impegni per la loro stessa salvezza, vale a dire desistere dai contatti con i nemici e dal perseguitare i cristiani. Infatti, col fornire agli infedeli armi, vettovaglie ed altri aiuti, li portano sulle spiagge di tutto il nostro impero e si mettono a saccheggiare di nascosto con loro i confini del territorio del beato Pietro, principe degli Apostoli, come se Napoli fosse diventata come Palermo o Africa. E quando i nostri inseguono i saraceni, costoro, per sfuggire si riparano a Napoli, per cui non hanno necessità di raggiungere Palermo; ma da Napoli, dove trovano rifugio finché occorre, escono poi all’improvviso per saccheggiare.

Inoltre, nonostante i richiami, i napoletani non solo non hanno cambiato atteggiamento, ma addirittura hanno aggravato la loro ­­­­­108

posizione, diremmo oggi, con una iterazione della colpa, con la cacciata del vescovo e la carcerazione di quegli esponenti della nobiltà che non intendevano schierarsi coi musulmani: «Li abbiamo spesso richiamati a causa degli infedeli, ma dopo i richiami i napoletani sono diventati anche peggiori, tanto che hanno esiliato dalla città il loro vescovo che li invitava a cessare dall’amicizia con i malvagi ed hanno messo in catene cittadini illustri e nobili». Di qui la minaccia imperiale cui si aggiunge anche l’anatema religioso, «della spada visibile come di quella invisibile»: Pertanto, se i napoletani non scioglieranno questa alleanza (societas) con gli infedeli, secondo quanto prescritto dall’apostolo che comandò di non portare il giogo con essi, e finché non consentiranno il ritorno del loro vescovo e pastore, Noi li considereremo alla stessa stregua di coloro ai quali si sono così volentieri associati, li appenderemo alla medesima lancia. D’altronde, il memorato grande apostolo ritiene degni di morte non solo coloro che commettono tali cose ma anche coloro che consentano che vengano commesse; soprattutto quando vanno a combattere insieme contro i cristiani e se catturano dei fedeli li consegnano nelle mani dei saraceni (saracenibus manibus tradant), battendosi con loro nella stessa guerra.

Napoli sembra diventata «come Palermo o Africa»: «ut facta videatur esse Panormus vel Africa». L’analisi è lucidissima. È necessario che il circolo vizioso islamo-napoletano venga interrotto. Altrimenti le conseguenze saranno la guerra e l’esclusione del ducato napoletano dalla Cristianità. La lettera è estremamente dura. Ma, va aggiunto, il suo tenore è rudemente propagandistico. Era necessario limitare i danni scaturiti dall’accusa bizantina, rivolta all’imperatore, che questi volesse impadronirsi di Napoli. Nonostante ciò, essa attesta la verità. L’attività di fiancheggiamento della città partenopea è costante nel corso del jihad, almeno a cominciare dalla presa di Messina, quando i napoletani forniscono supporto logistico ai saraceni; e forse partecipano anche attivamente alla conquista, con una propria squadra. E per gran parte del periodo successivo sciolgono e riannodano le relazioni con i corsari agareni, a seconda delle necessità. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio dei rapporti che esistettero tra napoletani e musulmani: è una vicenda complessa, con continue alleanze e cambiamenti di fronte a seconda delle circostanze. Ma i voltafac­­­­­109

cia sono clamorosi. Come quello del vescovo Atanasio II, prima antimusulmano poi di nuovo loro alleato, al punto da assoldare diverse compagnie di saraceni, che si accamparono sulla spiaggia del porto cittadino e alle falde del Vesuvio: utili alleati da adoperare nel conflitto con i principi longobardi. Motivo per il quale viene scomunicato. Tuttavia questo atteggiamento ambiguo, con continui rovesciamenti e riposizionamenti, non va attribuito ai soli napoletani: per esempio, il primo duca di Gaeta, Docibile, è colui che offre la possibilità ai saraceni di Agropoli di stanziarsi sul Garigliano e trae dalle relazioni intraprese col nuovo ribat nutrimento per la sua personale ricchezza, attestata dal suo ampio e lungo testamento, che elenca una lunga serie di proprietà e di schiavi. E con Gaeta e Napoli, anche Amalfi fa del commercio di schiavi in terra musulmana il fattore da cui parte la sua fortuna commerciale. Nondimeno, se spostiamo lo sguardo ad altre zone della Penisola, troviamo altre zone grigie. Come, ad esempio, accadde ad Ugo di Provenza che, nel momento clou del suo assalto contro il ribat di Frassineto, si fermò a causa della notizia che Berengario d’Ivrea era in procinto di venire a reclamare la corona d’Italia. Motivo per il quale Ugo stipulò un trattato con i saraceni, in base al quale essi venivano posti ufficialmente a presidio dei passi alpini per impedire a Berengario l’accesso nella Penisola. Nei rapporti con il potere pontificio, che risulta essere il soggetto più inquieto per le relazioni intraprese con i musulmani, le città della costa campana adottano una strategia precisa, che possiamo definire del ricatto. Taglieggiano Roma con sottigliezza e assenza di scrupoli, sventolando lo spauracchio del passaggio di barricata. Sospinte solo dalla bramosia di guadagno. I papi lo sanno. Elaborano addirittura una dottrina per spezzare il legame coi saraceni: la dottrina dell’impium foedus, del patto religiosamente inaccettabile perché stipulato coi nemici della fede. Altre volte i pontefici si rivelano più pragmatici. È sufficiente considerare l’atteggiamento di papa Giovanni VIII nei confronti del vescovo di Napoli, Atanasio, prima che nei suoi confronti partisse la scomunica: «entrò il papa Giovanni VIII in Napoli – scrive Michelangelo Schipa – con buona provvista d’oro. E lo fece luccicare sotto gli occhi del vescovo-duca Atanasio, nell’atto che pregava e insisteva per separarlo una buona volta da’ nemici di Cristo. Atanasio sembra che promettesse. Certo è che prese l’oro». Più o meno nello ­­­­­110

stesso periodo, siamo nell’878, gli amalfitani percepiscono dal papa una somma enorme, diecimila solidi d’oro, per difendere tutto il litorale laziale compreso tra Minturno e Centocelle. Una volta incassato il danaro, gli amalfitani continuano però a trafficare con i saraceni e a lasciare che questi si muovano indisturbati in questo settore del Tirreno. Alle rimostranze pontificie, gli amalfitani alzano il prezzo: rispondono che, secondo i patti stabiliti, la somma promessa non era di diecimila ma di dodicimila solidi, e che quindi il papa non aveva tenuto fede agli accordi. Inutili le proteste. Alla richiesta di restituzione del danaro percepito indebitamente, il prefetto di Amalfi, Pulcari, ribatte con un compromesso: per garantire la difesa marittima, il papa avrebbe dovuto versare alle casse amalfitane, oltre ai diecimila solidi, una tangente una tantum di mille solidi. Un accordo concluso con l’invio ad Amalfi del vescovo di Centocelle, Domenico. Anche per debellare nel 915 l’ultima sacca di resistenza musulmana nel Tirreno, il ribat del Garigliano, e per convincere Docibile di Gaeta a cambiare posizione, fu necessario garantirgli un grosso numero di terre, appartenenti al patrimonio pontificio: dominio che trasforma i duchi di Gaeta, per più decenni, tra i principali signori territoriali di quest’area a sud di Roma. Questi episodi paiono avere un unico denominatore: una spregiudicata possibilità di trarre guadagno dalla guerra antimusulmana in corso. Con una condotta sfacciata e priva di scrupoli. Le città campane adoperano cinicamente le buone relazioni col mondo islamico per ottenere rapidi guadagni o per ricavare risultati politici contro i propri nemici, seppur gli esiti risultino alla fin fine minimi. Molto si gioca a scapito dell’autorità pontificia, di cui si riconosceva l’estrema debolezza. Un potere cui appariva facile sottrarre, attraverso strategie funzionali, danaro, quote patrimoniali, prebende e privilegi. Questo comportamento fece scandalo. Ma non sta a noi giudicare. È difficile costruire una rappresentazione di come gli uomini di queste città vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi, accettassero questa condizione di alleati deboli, sempre sottoposti alla continua minaccia di raids, assalti, imposizioni. Non si può essere semplicistici e schematici. Le relazioni quotidiane tra questo spicchio di Cristianità e il mondo islamico sono di una complessità senza pari, dove lo spazio tra “noi” e “loro” non poteva essere sempre di netta con­­­­­111

trapposizione. Di barriera. Esistevano delle brecce. Con risvolti imprevedibili. Con integrazioni inaspettate. Nessuno penserebbe, ad esempio, che tra i longobardi, tra Benevento e Salerno, in un terreno al di là della frontiera napoletana, che immagineremmo fortemente latinizzato, esistessero gruppi stanziali di musulmani neoconvertiti. Si fa riferimento ad essi nel Praeceptum concessionis sive capitulare stipulato tra il principe Radelchi di Benevento e Siconolfo di Benevento tra l’848 e l’849. Precisamente al capitolo ventiquattro. Dove si afferma che tutti i saraceni presenti nelle zone di pertinenza dei due signori debbano essere espulsi, tranne quelli che intanto siano diventati cristiani e non intendano tornare alla religione musulmana («si magarizati non sunt»). Il che dà l’idea di una certa permeabilità tra una fede religiosa e l’altra, dove il passaggio interconfessionale non rappresentasse niente di estremamente eccezionale. D’altra parte, i costumi musulmani sembrano penetrare in maniera piuttosto diffusa, anche nella stessa vita dei preti cristiani. Ad esempio il concilio di Benevento, della seconda metà del IX secolo, consacra un canone all’influenza perniciosa dei saraceni e accusa Maometto di aver ammesso che si usino liberamente le donne schiave e, più in generale, interdice al clero qualunque rapporto coi musulmani. Al di là della falsità dell’affermazione nei confronti della religione islamica, il canone conferma indirettamente l’esistenza nel clero di costumi niente affatto rigorosi, per nulla inclini alle regole stabilite, sintomatici di un clima sociale di sovrapposizione di costumi, culture, abitudini. Evidente anche nel malcostume dei religiosi pugliesi di assimilare tradizioni ebraiche, di judaizare alcune pratiche «con cristiani servi di ebrei, altri cristiani che banchettano con essi sia come ospiti che come invitati, altri che prendono il riposo settimanale il sabato invece che la domenica». Un’altra testimonianza rivelatrice della commistione tra cristiani e musulmani è rappresentata dalla lettera inviata dal patriarca Fozio all’arcivescovo di Calabria Leone, che occupa la cattedra di Reggio, cui ho già fatto riferimento. Scritta tra l’880 e l’886, questo documento è la risposta autorevole data ad una serie di questioni fondamentali per la tenuta pratica della vita religiosa quotidiana nella regione in un momento centrale del jihad e che poteva avere importanti influenze sul resto del Sud della Penisola, vista l’autorevolezza di chi scrive. Essa presenta diversi importanti ­­­­­112

aspetti. Soprattutto, fa porre l’attenzione sul fatto che nelle regioni sotto dominazione bizantina esistevano delle comunità musulmane, le quali non comprendevano solamente dei combattenti prigionieri ma gruppi di famiglie, donne e bambini. Nuclei che probabilmente tendevano a cristianizzarsi, come lascia intendere il parere circa il battesimo da garantire ai neonati figli di musulmani, ai quali «non bisogna rifiutare il battesimo se lo richiede la madre, perché il battesimo dei bambini non pregiudica la loro vita futura». Per Fozio, però, la chiave del problema della ri-cristianizzazione di una società colpita dalla guerra risiede nella diffusione capillare della dottrina. In una pedagogia dello spirito. Secondo lui, è necessaria una catechesi che radichi il cristiano in quanto il terreno meridionale appare religiosamente troppo mobile, permeabile, soggetto a continui mutamenti di campo, ad erosioni, a sincretismi, a commistioni. Allora, scrive Fozio, «occorre esortare le madri a offrire ai bambini un’educazione cristiana». Mentre «i fanciulli depravati dai cattivi costumi saraceni vanno perdonati e li si ammetterà alla comunione; ma se essi volontariamente hanno commesso qualche colpa, essi saranno sottomessi alla penitenza normale». Il programma principale qual è? Aumentare il numero degli adepti attraverso il battesimo, garantendo che esso venga conferito anche nelle zone controllate dai saraceni. A tale scopo fa appello non solo al clero, ma ai laici ritenuti, in queste difficili circostanze, dotati di carisma: sebbene si specifichi che chi è stato battezzato da un laico dovrà ricevere l’unzione da un sacerdote entro sette giorni. In questo modo la comunità non si sfalda, possono essere creati nuovi adepti anche in zone nemiche e un sottofondo cristiano può continuare a sopravvivere anche in zone occupate. Queste definizioni patriarcali a carattere disciplinare fanno il paio con quelle espresse da altri esponenti della gerarchia religiosa, come Metodio I, che pur interessando altri contesti dell’impero bizantino, sono però utili per capire le generali modalità di intervento ecclesiastico, di un processo di normalizzazione di una società danneggiata dalla guerra. In queste definizioni i cristiani apostati, che dovevano essere in buon numero, vengono distinti in: fanciulli che hanno abbracciato la fede islamica per paura o ignoranza; adulti costretti ad abiurare sotto tortura; e adulti con­­­­­113

senzienti. Solo per le prime due categorie è previsto il reintegro nella Chiesa: i fanciulli attraverso la preghiera, un bagno purificatore e la ripetizione dell’unzione battesimale. I secondi subendo una semplice penitenza. Da parte islamica si può credere che vi siano state prescrizioni dello stesso tipo, per rinsaldare la propria comunità di fedeli. Le possiamo congetturare da quelle poche parole messe sulla bocca di al-Hasan da Ibn al-Atir all’atto della costruzione della moschea di Reggio, quando l’emiro stabilisce che nessun cristiano possa mettere piede nella moschea e che si dia legittimo asilo ad ogni musulmano, anche prigioniero di guerra o cristiano convertito. Bisogna dar ragione a Jean-Marie Martin che, nell’analizzare la lettera di Fozio, rileva come essa sia l’ingrediente di una lotta che sta subendo una profonda e drammatica sterzata, che si riflette anche nella propaganda, divenuta, per così dire, più militante. Non a caso, dal IX secolo fiorisce un’abbondante letteratura polemica contro l’Islam, considerato sia come eretico sia come propagatore d’immoralità sessuale. Comunque, le prescrizioni di Fozio sono, in buona misura, sintomatiche della forte contaminazione religiosa che sta avvenendo all’interno del panorama meridionale e forniscono un’immagine inattesa, dove in talune situazioni comunità musulmane e cristiane sembrano, sebbene in un clima di forte contrapposizione, addirittura convivere. Ciò non deve meravigliare. Se nel caso di Napoli piccoli gruppi musulmani paiono essere integrati all’interno della città e l’archeologia ha rintracciato addirittura testimonianze della presenza di un imam, nel salernitano ancora alla metà dell’XI secolo sono registrati piccoli gruppi di musulmani, sedentari, non militarizzati, che vivono del lavoro della terra. Infine, va affrontato un ultimo aspetto. Che tenore ebbe l’occupazione saracena nei pochi ambiti meridionali dove fiorì? Nelle terre dell’emirato barese le popolazioni cristiane pare si siano adattate discretamente alla nuova situazione. Lo statuto di dhimmi poteva garantire loro la sopravvivenza. Nella Puglia di Sawdan, le popolazioni cristiane soggette all’emirato condussero un’esistenza piuttosto tranquilla e chiesero all’imperatore Ludovico II di essere perdonate per aver accettato il governo dell’emiro. Si sa inoltre di militari cristiani che militarono nelle file musulmane. E l’islamizzazione pugliese non dovette essere cosa da poco, se è ­­­­­114

vero che, come disse un cronista tedesco, solo con l’aiuto di Dio l’imperatore Ludovico II «riuscì nei territori che si erano allontanati dai franchi e si erano dati ai saraceni a ricostruire e restaurare i luoghi sacri che gli empi saraceni ed i perfidi cristiani insieme avevano contaminato». Certo, il commercio locale subì un incremento e l’agricoltura ebbe un progresso, grazie verosimilmente all’apporto di conoscenze e all’ambito di relazioni che i musulmani di Bari intrattenevano con la Sicilia e il resto del mondo islamico. Situazione che è possibile riscontrare anche nella zona del ribat del Garigliano, dove le pochissime fonti ci rimandano ad un ambiente dove cristiani e musulmani cooperano insieme nel commercio e nelle coltivazioni. E tutti quelli che cooperarono o vennero a far parte delle schiere saracene di Frassineto, si può credere che fossero tutti, senza esclusione, solo predoni e fuorilegge? Dunque, laddove i musulmani si stabilirono, si può dire che le condizioni non fossero così cattive. Considerazione che coincide con le parole di Ibn Kaldun sulla contrapposizione tra musulmani stanziali e nomadi: «dove essi riescono a fissarsi al suolo, lì fiorisce la civiltà; dove rimangono nomadi, si sfrenano allo stato puro le qualità beduine di violenza e rapina». Che i contatti tra musulmani e cristiani fossero talvolta pacifici lo si apprende da qualche testimonianza. Nel corso della narrazione ho avuto modo di metterlo in risalto nel caso dei tre monaci alla corte di Sawdan. Ma le tracce più appariscenti di questi contatti si ricavano da una fonte inaspettata, dalla lettura delle stesse biografie dei santi militanti, che, è evidente, non erano clementi nei confronti del nemico musulmano. La vita di san Nilo si presta assai bene al riguardo. Egli non ha mezzi termini nei confronti dei saraceni e dell’islamismo in genere, che considera «una razza di vipere», da fuggire ad ogni costo. Eppure due episodi della sua vita sfuggono a questa impostazione. Il primo è lungo e ampiamente descritto. Riguarda la cattura da parte di uomini dell’emiro di Palermo di tre monaci del suo monastero. Nilo scrive all’emiro. Insieme alla lettera invia cento solidi d’oro e una bella cavalla per riscattare i prigionieri. L’emiro legge la lettera, rifiuta il denaro e il regalo e rinvia i monaci a casa carichi di doni e con una lettera di risposta piena di attenzione e di cortesia nei confronti di san Nilo. Il secondo episodio è più breve ma ai miei occhi più significativo: indice di una pietas quotidiana che doveva essere talvolta ­­­­­115

consueta ai devoti di entrambe le sponde religiose, qui nel teatro di guerra. In uno dei suoi tanti spostamenti lungo la costa, il santo incontra un gruppo di saraceni. Nilo è stanco per la marcia, affaticato. Immaginiamo impaurito, per questo incontro inatteso. Ha davanti a sé i suoi nemici. Il gruppo si avvicina. Da esso si distacca un uomo, che si accosta al monaco e gli offre del pane sufficiente per proseguire il viaggio: senza questa carità, dice la biografia, il santo avrebbe sofferto sicuramente la fame. Pensare: un combattente musulmano caritatevole nei confronti di un santo guerriero. Anche questo fu il jihad nelle terre d’Italia.

12. Al termine del «jihad»

Perché i musulmani non sono stati capaci, una volta messo piede sulla Gran Terra, di creare un dominio stabile, ampio, continentale e invece sono rimasti confinati alla sola Sicilia? Questa domanda resta inesplicabile se pensiamo a tutti gli sforzi, le energie e il tempo impiegato dai musulmani a dare l’assalto alla Penisola, e li confrontiamo col breve e impetuoso periodo che ci volle agli Altavilla per creare un organico regno nel Mezzogiorno. Le risposte, come sempre quando si parla di storia, possono essere molte, che si intersecano tra loro senza che una prevalga sull’altra. Una è quella di Francesco Gabrieli, che amplia i confini del discorso, esondando dalla situazione puramente italiana, con un efficace confronto: «s’impone qui il parallelo con quanto avvenne in più grande scala tra la Spagna quasi interamente arabizzata e la Francia, oggetto di scorrerie e di piccoli insediamenti costieri senza che mai vi sia stata la volontà o possibilità d’una fissazione al suolo, d’una organizzazione politica e sociale sedentaria e permanente, del passaggio insomma dall’effimera razzia alla ordinata vita civile». Ciò che mancò in maniera sostanziale fu l’apporto siciliano, «incapace di sviluppare una vigorosa azione politica propria, di là dalle azioni di corto respiro della razzia». Mentre la spinta religiosa proveniente dall’Africa, a differenza di quanto accadde per la Spagna degli Almoravidi e degli Almohadi, fu fiacca, priva di ondate emotive capaci di galvanizzare verso la guerra santa. Respiro corto, incapacità organizzativa, scarso impulso religioso e, ­­­­­116

soprattutto, mancanza di stabilizzazione: sta qui l’interpretazione di Gabrieli. Che, però, è tutta volta ad analizzare il fenomeno da parte islamica. Dall’altro capo del filo, cosa c’è? C’è una Penisola – e il suo Mezzogiorno – onnicomprensivamente cristianizzata. E, per quanto condizionata in alcuni momenti e in particolari forme della vita sociale dalla presenza musulmana, fortemente legata alla propria spiritualità, ai propri santi guerrieri, alle proprie forme di propaganda, al proprio orizzonte di senso, intuendo nell’altro, nel saraceno, sostanzialmente e sempre il nemico. D’altro canto, siamo ancora in un ambito di interpretazione che sa più di teorico che di pratico, perché va recuperato, come è stato fatto spesso negli ultimi anni, il ruolo basilare di Bisanzio e della sua potenza militare e marittima, che Gabrieli riduce a semplice, seppur importante, elemento di resistenza. Invece il ruolo dell’impero orientale è fondamentale. Finché si ritira, i musulmani aggrediscono. Quando l’impero reagisce – in Italia già alla fine del IX secolo, nel Mediterraneo, come abbiamo visto, in maniera costante più o meno dopo il 950 – non c’è più spazio concreto per i musulmani. Niente più insediamenti stabili, niente città musulmane sul continente, nessuna opera coordinata di aggressione. Proseguono i raids, con la loro azione continua e soffocante per le popolazioni. Ma pensare a episodi come quello romano o a imprese di conquista pianificate alla Ibrahim per i musulmani non è più possibile né praticabile, a causa dello strapotere bizantino, specialmente sul mare. La guerra per l’Italia, insomma, si è vinta altrove, non solo sulle sue coste o sul suo territorio, ma nel Mediterraneo, dall’Egeo alle rive dell’Africa. La nuova centralità bizantina condiziona lo stesso assetto della politica meridionale, che risulta ampiamente stravolto se lo paragoniamo al IX secolo. Non solo sono scomparsi i ribatat, tolte di mezzo le enclaves saracene, ma si annulla completamente lo spazio di intervento degli imperatori germanici nel cuore del Mezzogiorno, fatta eccezione per qualche episodio effimero, come quello di Ottone II; come anche risulta ridotto il ruolo dei principati longobardi. Calabria e Puglia formano ora due Temi, inseriti organicamente nel sistema amministrativo bizantino. Quello di Calabria ha una connotazione a tutti gli effetti greca, per lingua, per cultura, per forme del diritto. L’altro, pugliese, detto di Longobardia, trova la capitale in Bari liberata. Tema di ­­­­­117

Calabria e Tema di Longobardia: non è una distinzione da poco. Le due definizioni mettono in luce due mondi uniti sotto uno stesso governo ma differenti: separati anche geograficamente dalle zone spopolate e montagnose della Basilicata e del nord della Calabria. Le capitali dei due Temi, Bari e Reggio, sono ubicate al centro delle due regioni principali dell’Italia bizantina, in via di colonizzazione e di ripopolamento: la costa pugliese col suo entroterra; e la Calabria a sud dell’istmo di Catanzaro. I contemporanei sanno bene che i due Temi rappresentano due diverse realtà. Con una difformità che non è determinata solo da fattori politici, di cronologia o di aggregazione. Esiste tra i due poli una barriera etnica. I due Temi appartengono a due popoli diversi, per quello che ciò significa nel Medioevo, dove la nozione di popolo non ha alcun rapporto con l’appartenenza di sangue o l’apparenza fisica e si fonda su un criterio di natura giuridica: appartenere a un popolo significa essere sottomesso al suo diritto nazionale. Che nel caso delle popolazioni del Tema di Longobardia resta quello originario, derivato da Rotari e da Liutprando. Diritto conservato anche ora, perché le autorità imperiali hanno l’intelligenza di lasciare ai longobardi l’uso di queste forme giuridiche che sono parte attiva della loro identità. D’altra parte, gli uomini del Tema di Calabria, che fanno parte della koiné bizantina da sempre, seguono il diritto bizantino. Esiste inoltre un altro criterio di diversità, linguistico e religioso. Nell’orizzonte identitario longobardo si parla latino (o dialetti romanzi) e si segue il culto latino. Invece per il calabrese dell’epoca esiste solo il mondo greco, fatto di lingue, religiosità, culti che trovano matrice in un universo orientale. La popolazione del Tema di Calabria, re-ellenizzata a partire dal IX secolo grazie agli innesti provenienti soprattutto dall’immigrazione greca, pratica il cristianesimo secondo i riti orientali (principalmente bizantini, ma con influenze siro-palestinesi), con un clero separato da Roma e legato al patriarca di Costantinopoli. E tra chiesa latina e greca esistono dei confini netti. O meglio, dei conflitti mai sopiti. Insomma, i greci d’Italia si sentono in tutto e per tutto appartenenti a Bisanzio, con una corrente che tocca le corde non solo della vita religiosa, ma anche di quella sociale ed economica, con differenze di inquadramento pratico e psicologico. Se Calabria e Puglia rappresentano un habitat complesso ma sottoposto al governo unitario e accentratore dell’Impero bizan­­­­­118

tino, tutta la dorsale del Meridione d’Italia, dal sud dell’attuale Lazio sino al cuore degli Appennini, resta nella mani longobarde. Suddivisa adesso in tre principati. Due interni, quelli di Benevento e Capua. L’altro che guarda al mare: Salerno. Tutti insieme formano la Longobardia minor, eredità del ducato longobardo di Benevento. Anche questo universo resta un tutto a parte. Esistono dei punti di convergenza ma pure di distanza, se confrontiamo la Longobardia meridionale col mondo franco, carolingio e post-carolingio. Non esiste ad esempio il vassallaggio. E sebbene appaiano spesso condizionati, dalla seconda metà del X secolo, da quanto accade nel restaurato impero germanico, l’influenza di Bisanzio su di loro resta robusta, quasi come se si trattasse di una sorta di Stati dipendenti. Resta ancora fortissimo il potere tenuto dalle due grandi entità monastiche di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno, che giocano un ruolo di prima grandezza nello scenario del Meridione. I beni e i possessi di queste due abbazie formano delle vere e proprie marche di frontiera tra il mondo franco e quello longobardo. Le loro terre hanno estensioni enormi, dalla foce della Pescara nell’Adriatico al Garigliano sul Tirreno. Sono protette direttamente dal potere imperiale, a partire da Carlo Magno, in funzione sia antilongobarda sia antisaracena. Nella vita di questi grandi monasteri si interseca prestigio spirituale, capacità politica e potenza economica e terriera. E rappresentano un sicuro elemento di stabilizzazione in una regione travagliata da continue guerre, incursioni, depredazioni e saccheggi. In questo senso vanno spiegate le tante donazioni pie che accrescono ogni momento di più le loro rendite: il prezzo che si paga contro la paura della morte. I condizionamenti bizantini risultano ancora piuttosto intensi lungo la fascia tirrenica. Gaeta e Amalfi si sentono formalmente ancora sotto controllo imperiale, sebbene in realtà subiscano forti influenze esterne, in modo particolare da parte dei principi di Capua e di Salerno. Tuttavia, nonostante le forti contaminazioni, da Oriente si traggono ancora, e con forza, modelli comportamentali, etichette, forme organizzative, gerarchie, categorie sociali ed economiche, quanto l’idea di un ordine a vocazione universale, cui comunque, nonostante tutto, si appartiene, dal quale ci si aspetta sempre la legittimazione, al di là dell’instabilità e delle fluttuazioni che si vivono tra centro e periferia. Senza che avvenga mai il totale ­­­­­119

distacco dal potere centrale, da Costantinopoli. Napoli, in questo contesto, fa storia a sé. La presenza imperiale si avverte ancora, nitidamente, in superficie: nei risvolti economici, amministrativi, politici, al di là di ogni contingenza. Aspetti dove il vincolo appare ancora radicato. Città che conserva la stessa struttura triangolare dell’impero, fatta di profonde interconnessioni tra le componenti militare, amministrativa ed ecclesiastico-religiosa. Non a caso il suo luogo simbolo è il pretorium, a dominare l’ansa del porto: un nome che spiega quanto profondamente i duchi napoletani si sentano ancora i delegati militari di Bisanzio, i continuatori di una secolare tradizione istituzionale. I depositari di una dignità indivisibile, i quali foggiano la loro potestà su quella del basileus, autorità che ossequiano e ammirano, al quale chiedono ancora il benestare per alcune loro azioni politiche. Non è che alla fine del jihad la condizione politica del Meridione sottoposta al nuovo mantello protettivo di Bisanzio muti in profondità. Caos politico, contrapposizione violenta tra potentati, sconfinamenti e guerre restano all’ordine del giorno, in un contesto dove sembra impossibile trovare il bandolo della matassa di una ricomposizione generale. Un mondo particolaristico, si è detto, che però al suo interno si presenta mosso e reattivo. Composto di città e contesti, alcuni dei quali hanno vissuto in autonomia il conflitto, e vivono la sua fine con un forte rigoglio demografico. Un universo cui la guerra aveva dato modo, con un gioco terribile di azione e reazione, di creare nuovi contatti con genti di cultura, religione e lingua differenti. Uno stimolo violento e terribile, ma che apre nuove chances di relazioni economiche e di crescita. Perché con il jihad comincia anche un’altra storia. Quella del commercio.

IV

Nel Mediterraneo musulmano

Il vostro Signore è colui che fa correre leggere per voi le navi sul mare perché cerchiate della Sua grazia. Egli è con voi generoso (Corano, sura XVII, v. 66)

1. Monete

In questo capitolo esaminerò i rapporti commerciali tra il Meridione d’Italia, Sicilia compresa, e la rete di relazioni mediterranee che si reggeva sulle grandi città islamiche della costa africana e mediorientale, grosso modo tra fine del X e fine dell’XI secolo. Tempo in cui il Sud Italia si configura come uno snodo periferico, sorta di protettorato economico musulmano, d’area sub-coloniale, che però si avvantaggia di una congiuntura straordinaria: della possibilità di essere inserito in un enorme mercato comune a scala trans-mediterranea. Infatti, se fino all’invasione della Sicilia il Mezzogiorno è complementare all’area bizantina, è il jihad che spinge e allarga oltre modo i confini del suo spazio economico. Nel quale i suoi centri costieri – e, con effetto di rimbalzo, per effetto dell’interdipendenza economica, anche le zone interne longobarde – si trovano assorbiti in un circuito economico smisurato, che va oltre l’Africa e il Medio Oriente. Situazione di cui i mercanti meridionali si giovano, sfruttando, con alti margini di ricavo, il vantaggio offerto dall’essere, a tutti gli effetti, nel cuore del commercio Mediterraneo. E ciò gli consente di gestire un movimento di traffici, danaro, conoscenze, beni, uomini che ha lasciato una lunga scia di tradizioni e di memorie, che spesso sono sfociate nel mito. Il mito della grande potenza delle città tirreniche nell’Alto Medioevo. Con, a capo, Amalfi. Tutto ciò ha un tempo. Dura finché regge il mercato comune a motrice musulmana: quando tramonta cioè il ruolo dei vari centri commerciali delle coste campane, pugliesi e siciliane e gli spazi di manovra internazionali e mediterranei via via si rarefan­­­­­122

no con la comparsa di altri competitors, i nuovi padroni dei mari del Mediterraneo occidentale: i pisani, i genovesi, i veneziani, i catalani. Comincia una nuova era: quella dei Bragadin e dei Zaccaria, contemporaneamente mercanti, marinai e soldati. Gente agguerrita, meglio attrezzata nella gestione del mercato, dotata di intraprendenza, vivacità, flotte, capitali e di più evolute forme di organizzazione dei commerci. Una capacità aggressiva che mette alle corde gli interlocutori meridionali, che vedono rapidamente ridursi il loro spazio di manovra, che finisce per concentrarsi in ambito locale, tutt’al più regionale. Con un ruolo che diviene, a mano a mano, sempre più marginale e periferico. La cartina di tornasole per capire il grado di inserimento dell’Italia meridionale nell’area economica musulmana è la moneta. Oggi come allora il denaro è il miglior parametro di rilevazione sul grado di inclusione di un’area geografica in uno spazio economico ben definito. Il processo è evidente. Nonostante la vittoria militare bizantina del X secolo, la rendita di posizione economica imperiale, durata per secoli, viene scalzata dall’avanzata commerciale musulmana. Definiamola una specie di rivincita, ottenuta non con strumenti militari ma attraverso l’espansione economica. Il Sud viene invaso da una massa enorme di moneta, riversata in cambio di schiavi, prodotti rurali, legname, fibre tessili e manufatti. Massa che sostituisce la moneta che era stata per secoli il pilastro su cui si era fondata l’economia locale, il solidus di Bisanzio: una moneta pesante, garantita dal principale organismo politico dell’epoca, composta da quattro grammi d’oro e mezzo, definita da Sabatino Lopez il dollaro del Medioevo, accettata su ogni mercato a garanzia di qualsiasi tipo di transazione. Moneta che stabiliva la frontiera tra due Italie: tra il Sud, la terra delle monete d’oro, dove il rapporto col mare prosegue costante e i commerci continuano pressoché ininterrotti tra le varie sponde mediterranee per tutto l’Alto Medioevo, anche in periodi difficili e oscuri. E il Nord, caratterizzato dalla presenza quasi esclusiva di monete d’argento: un mondo che si discosta dal mare, che si continentalizza, fortemente ruralizzato, privo sostanzialmente di città e di commerci. Cosa sostituisce il solidus? Due monete, entrambe di ottima fattura. Una che corrisponde più o meno al solidus, ossia il dinar, del peso di un po’ più di quattro grammi d’oro. E un’altra, sempre d’oro, flessibile, duttile, che è il quarto di dinar, detta dai ­­­­­123

musulmani ruba’i, del peso di un grammo, che nel Sud prende un nome che occupa un posto di primo piano nella storia del suo commercio e della sua vita economica: il tarì, parola che, nel suo stesso significato, esprime il senso di novità, di moneta «appena coniata». Essa appare prima in Africa. Poi alla zecca di Palermo, che, dalla metà del X secolo, produce solo tarì. Il dinar compare poco nelle terre del Sud. Mentre la vera moneta di successo è il tarì. È come un’onda. Compare all’inizio del X secolo ad Amalfi, a Salerno, a Gaeta. Poco dopo a Napoli. Alla metà dell’XI secolo è l’unica moneta che circola in Calabria, ossia in territorio completamente bizantino, preferita a quella di Stato. Negli anni immediatamente successivi raggiunge il principato di Capua, Avellino, Benevento e la Capitanata. Nel giro di un secolo, un secolo e mezzo, la divisa musulmana diviene la protagonista degli scambi meridionali, il principale strumento di pagamento adoperato dalle popolazioni che vanno dal Tirreno agli Appennini interni, alle coste calabra e ionica, e in parte pugliese. È una rivoluzione, sia nelle abitudini economiche sia nella vita quotidiana: non si fa caso che queste monete siano espressione di un altro mondo, di un differente modo di sentire la religione e la spiritualità. Nessuno sembra accorgersi che da esse sono scomparsi i simboli che glorificavano gli imperatori bizantini e Cristo, sostituite ora da frasi che celebrano Allah. Versetti in cufico che esaltano l’unico Dio circolano adesso dappertutto, senza scandali da parte di nessuno, né laici né religiosi. Non c’è nessun vescovo che si opponga. Nessun concilio locale. Nessun signore, principe o duca. Non importa: per i cristiani del Mezzogiorno il fine giustifica i mezzi. La moneta è buona, è un eccellente mezzo per gli scambi, viene accettata da tutti: allora questo basta, senza discriminazioni e pregiudizi. Come avvenga questo processo di rapida, vincente intrusione nei gangli vitali di un’economia appare con chiarezza se si osserva cosa succede a Napoli all’epoca. Per gran parte del X secolo, fino più o meno al 970, si usano i solidi di Bisanzio, cioè il denaro consueto nell’orbita economica e monetaria cui è stata inserita fino ad allora la città. Dal 935, però, ad essi si affiancano i tarì provenienti dalla Sicilia, scambiati a quattro tarì per ogni solidus («tarì ana quatuor per solidus»), i quali penetrano in maniera massiccia. Dalla metà del X secolo, dunque, il mercato locale ­­­­­124

adopera un doppio livello di monetazione: uno più rigido, istituzionale e conservativo, appartenente all’area di Costantinopoli; l’altro, di derivazione musulmana, che si propone inizialmente come moneta divisionale, che trae la sua forza dall’essere uno strumento che meglio si adatta alla pratica quotidiana di compravendite e di commercio. Per un po’, le due monete vengono usate in contemporanea, con pagamenti effettuati nelle due forme: in cantum con solidi; e in fractum, ossia con la nuova moneta, come si legge in diversi contratti di acquisto della metà del secolo. A partire dagli ultimi decenni, però, il tarì soppianta totalmente dal mercato il solidus, che sparisce come moneta reale e si trasforma in moneta di conto. La data precisa di questo passaggio è il 987, quando per la prima volta il solidus non compare più nella realtà e i notai locali indicano, fissandolo, il cambio uno a quattro. Le ragioni di questa scomparsa sono state spesso discusse. La maneggevolezza del tarì è un indiscutibile elemento di successo. Ma si pensa che la sostituzione sia stata facilitata dalla svalutazione del solidus durante il regno dell’imperatore Niceforo Foca, che rese questa moneta meno appetibile. Tuttavia il motivo di fondo è quello che ho già anticipato: che il tarì è lo strumento privilegiato di scambio dell’area commerciale musulmana in espansione. Come è stata possibile questa rivoluzione monetaria? Perché i musulmani possono sparigliare il mercato immettendo in esso grandi quantità d’oro, proveniente dal Sahara e dall’Africa nera, dalle miniere del Sudan. Lo sfruttamento minerario svolge un ruolo fondamentale. L’estrazione viene effettuata da manodopera schiava nera. Il suo trasporto diventa l’affare principale del commercio transahariano. Colonne di cammellieri berberi trasferiscono l’oro grezzo dai centri di deposito della regione Senegal-Niger fino ai grandi centri carovanieri del nord, sul bordo settentrionale del deserto, fino ai porti della costa. Fra questi Sigilmasa, fondata nel 757, detta anche Bilad at-Tibr, dove tibr designa l’oro grezzo, che qui viene fuso in barre. Tuttavia questo afflusso d’oro trova un’altra fonte di alimento, proveniente dai saccheggi e dalle razzie. Basti pensare alle enormi quantità d’oro sottratto a chiese e monasteri cristiani, che giocano un fondamentale ruolo di riserva. Questa corrente d’oro monetato è favorita, peraltro, da un altro fattore: il progresso delle tecniche di trattamento del minerale, ­­­­­125

grazie all’utilizzo del metodo dell’amalgama, procedimento che impone l’alto uso di mercurio: per il quale entra in lizza il mercurio spagnolo che arriva da Almaden (al-ma’din, la miniera per eccellenza), nella quale lavorano un migliaio di operai. Mercurio che viene esportato per ogni dove, dalla Sicilia al Marocco, dal Sudan all’Egitto e alla Nubia, alla Mesopotamia, all’Asia centrale e all’Oceano Indiano. Grazie a questi innesti, alle grandi quantità d’oro scavate, al rinnovamento delle tecniche, all’utilizzo di materiali chimici che dalla Spagna giungono in tutto il mondo musulmano, battere moneta diventa relativamente semplice. Come attesta intorno all’850 il geografo Ibn Hurdadbeh, per il quale l’abbondanza di moneta circolante è tale che ogni borgata, anche la più piccola, è ricca d’oro. Una corrente che innerva tutto il mondo musulmano e i paesi commercialmente ad esso collegati. Come avviene in Sicilia, dove dall’Africa e dall’Egitto arriva molto oro, che qui viene trasformato in moneta. La quale si diffonde poi nella Penisola, riuscendo a superare l’esame capitale che qualunque nuova moneta deve subire nel corso della sua apparizione: il confronto con le altre monete presenti. Un confronto che, nel nostro caso meridionale, risulta assolutamente vincente. Questo flusso d’oro dall’Africa però non è sempre costante. Dalla metà dell’XI secolo la corrente subisce violenti arresti. Ad esempio, a causa dell’invasione hilaliana nell’Africa del Nord, che saccheggia il paese e crea una barriera fra gli emirati della costa e le lontane fonti di approvvigionamento d’oro. Ma è anche la situazione di anarchia politica siciliana a creare penuria e a far calare la lega del tarì isolano. Allora i meridionali fanno da sé. E ad Amalfi e a Salerno si coniano dei tarì d’imitazione, con iscrizioni che cercano di contraffare quelle musulmane, perlopiù di fantasia. Si tratta di monete svalutate. Impure. Le salernitane contengono meno di un terzo d’oro e più della metà d’argento. Quelle di Amalfi, meno del trenta per cento. Monete di adattamento, che comunque circolano e anche molto. Seppure con delle riserve da parte di chi le adopera. Anzi spesso si richiede un adeguamento al cambio tra tarì coniati nelle zecche meridionali e quelli siciliani. Per capirci, venticinque solidi di tarì di Amalfi, vengono scambiati a Napoli, nel 1063, con venti solidi di tarì in meliore moneta. Oppure, nei pagamenti di terra o di merce, si richiede espressamente che venga effettuata non con tarì di Amalfi ma in moneta antica, quella musulmana, ­­­­­126

ossia con monete buone de illis monetis veteris. La fiducia dell’acquirente, ora come allora, risiede nella buona qualità della moneta. E quella coniata dai musulmani resta superiore. In definitiva, abbiamo una circolazione ad ampio spettro. Che condiziona e caratterizza il volume commerciale ed economico del Mezzogiorno. Una valuta di carattere internazionale che rende tutta l’area omogenea sotto un unico denominatore monetario. Fatto che facilita scambi e commerci, crea fiducia in chi compra e in chi vende; e consente un arricchimento palese. Il Meridione si rafforza grazie alla sua appartenenza a questo circuito che cresce all’ombra del tarì: nel quale Africa e Europa mediterranea si integrano efficacemente. Una complementarietà che risulta possibile perché non esistono barriere. Dove il mar Mediterraneo non è un elemento di chiusura, ma uno spazio vitale di nessi e connessioni. È infatti l’esistenza di un complesso mercato mediterraneo che riesce a mettere in relazione oro africano, mercurio spagnolo, zecche di Palermo con le risorse e i prodotti che fornisce l’Italia meridionale. Un mercato comune musulmano mediterraneo. Che è il momento di osservare da vicino.

2. L’economia della «Geniza»

Per comprendere a fondo l’inserimento del Sud Italia nell’universo commerciale musulmano e il suo generale funzionamento, possediamo una fonte straordinaria, di difficilissima lettura e decifrazione: i documenti della Geniza del Cairo. Che hanno una curiosa storia. Nel mondo ebraico, una geniza è un deposito dove vengono conservati oggetti, in modo particolare scritti, sui quali è stato riportato (o potrebbe essere stato riportato) il nome di Dio. I quali, per tradizione, assolutamente non vanno distrutti, ma custoditi e preservati religiosamente. Di geniza ce sono tante. Ma quella del Cairo è speciale. Perché contiene, oltre a testimonianze religiose, una massa enorme di migliaia e migliaia di pezzi di materiale non sacro ma secolare che si è sedimentato a partire dall’Alto Medioevo, composto da lettere a carattere familiare, corrispondenza commerciale e ufficiale, contratti, memorie, foglietti di conto, liste di ogni tipo e forma, ordini di pagamen­­­­­127

to ecc. Testimonianze che non riguardano esclusivamente la vita cairota, ma provengono da tutta l’area mediterranea, specialmente dal lato musulmano, e includono pure la rotta marittima per l’India. Molte di loro sono state scritte proprio nel periodo che ci interessa. In ebraico o in arabo. E rispecchiano, in gran parte, le condizioni di vita della regione mediterranea e consentono di rivelare i dettagli più specifici, diremmo intimi, della quotidianità – economica, sociale, comunitaria, spirituale – di un universo sul quale le cronache del tempo sono perlopiù mute. Il primo a studiare in maniera completa questo archivio e a farne largo uso è stato Shlomo D. Goitein, che ne ha ricavato un’opera monumentale, A Mediterranean Society. The Jewish Communities of the Arab World as portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, con la quale ha rivelato l’esistenza di un paesaggio umano, fatto di interrelazioni e rapporti, fino ad allora inaspettato. Lavoro arricchito nel 1973 dalla pubblicazione di diverse lettere, la maggior parte di carattere commerciale, racchiuse nel volume Letters of Medieval Jewish Traders. Durante gli ultimi decenni del secolo scorso gli studi di Goitein sono stati ripresi e hanno portato alla luce altri documenti della Geniza, grazie soprattutto a Norman Stilman, Moshe Gil, Menahem Ben-Sasson, David Jacoby, Shlomo Simonsohn e Abraham L. Udovitch. I documenti della Geniza sono particolarmente ricchi a partire dall’XI secolo, epoca in cui il Sud Italia rappresenta uno dei principali centri di transito e di relazioni economiche mediterranee. La Sicilia e Palermo vi ritornano spessissimo. Soprattutto quest’ultima, indicata ancora una volta con una sineddoche: Siqilliyya, la Sicilia. Oppure Madinat Siqilliyya, la capitale di Sicilia. O, più frequentemente, semplicemente la capitale, alMadina. E con essa si parla di molte altre città: in special modo di Mazara del Vallo (dove appare composta la più lunga lettera della documentazione della Geniza, che comprende circa 4000 parole in arabo ed ebraico) e poi di Messina, di Trapani, di Siracusa, di Demona. Ma l’economia della Geniza chiaramente non si arresta alla Sicilia. Il suo spazio penetra in profondità nell’Italia meridionale, toccando sia le coste tirreniche sia quelle adriatiche. Sul primo versante ci sono le città tirreniche di Salerno, Napoli, Gaeta. E, poi, la principale, Amalfi, Malf. Sull’altra costa, Bari, Otranto, Taranto, nell’interno Oria: alcune delle quali ­­­­­128

inserite già da tempo nel mercato musulmano, altre menzionate con frequenza nelle carte del Cairo per la presenza di importanti comunità ebraiche. Da queste testimonianze, il Mezzogiorno italiano appare al centro di un ampio sistema di rapporti. Quanto ampio? Il Mediterraneo per le misure di un uomo del tempo doveva essere immenso. Il suo principale nemico erano infatti le distanze, che apparivano incommensurabili. Eppure, nonostante le difficoltà, su questo mare si navigava con buona frequenza. Con itinerari di cabotaggio e di alto mare. Scegliere la rotta giusta non era cosa da poco. In un’epoca senza strumentazione essa è legata alla pratica e all’intuito. Esiste un personale specializzato di nocchieri e marinai, che conosce le insidie del Mediterraneo, le sue coste, i suoi fondali bassi, le scogliere che affiorano improvvise. Affidarsi ad essi è fondamentale per la buona riuscita di un viaggio commerciale. Se la barca è veloce, si evitano i corsari. Se il comandante è bravo, la sua capacità di reazione, in caso di tempesta, può salvare carico e viaggiatori. Quale percorso scegliere allora per attraversare questo mare? Molto dipende dal tempo che si ha. Dal tipo di merce che si trasporta e si vuole vendere. Dalla capacità di assorbimento di una piazza commerciale o di un porto, che può richiedere un prodotto piuttosto di un altro. Si viaggia costa costa, col cabotaggio. Le rotte sono fondamentalmente tre. La prima passa per il Sud Italia e per i porti siciliani, grazie alla particolare posizione centrale dell’Isola nel Mediterraneo, alla confluenza di itinerari commerciali di piccola, media e grande portata. La Sicilia era il naturale terminale del cabotaggio che dalla Spagna, lungo il meridione francese, la Liguria, il Tirreno, attraverso lo stretto di Messina, permetteva i collegamenti con l’Adriatico e la Puglia. Il primo tratto congiungeva Tortosa a Narbona. Poi se ne conosce un secondo, che dal «paese del re di Borgogna» giungeva sino al porto di Ostia, passando verosimilmente per Arles, Marsiglia e Porto Venere. Dalle coste laziali si proseguiva lungo la costa tirrenica per Gaeta, Napoli, Amalfi e Salerno. E, di qui, attraverso la costa calabrese, l’approdo naturale era Messina: cui seguivano Cefalù e Palermo. Dallo stretto di Messina si poteva proseguire anche verso settentrione, lungo la Puglia, e percorrere la costa peninsulare adriatica e arrivare fino a Venezia. Oppure si attraversava il canale di Otranto e si proce­­­­­129

deva lungo la costa greca per continuare col tour del Peloponneso o, passando Corinto, fino ad Atene e Costantinopoli. Altra rotta di cabotaggio che interessava anche la Sicilia era quella che andava lungo il Nord Africa, con circa una novantina tra porti principali, porticcioli, semplici approdi e insenature praticabili per la sosta e dove fare rifornimento d’acqua. Su questa linea c’erano alcuni porti di gran rilievo. Il principale era al-Mahdia, la capitale fatimide. Altri erano Marsa Farrug, Tripoli di Libia, Agdabiya, che legavano le miniere del Sudan alle coste del Mediterraneo. Dal Nord Africa alla Spagna si contano invece circa venti approdi, dalla zona di Algeri, al Marocco fino al porto spagnolo di Tarifa e le foci dell’Ebro. Esisteva poi una terza linea di cabotaggio mediterranea, praticata anche dagli amalfitani: quella che collegava le coste dell’Egitto alla Siria e all’Asia Minore, e da qui, da est verso ovest, fino alla capitale bizantina. C’erano poi percorsi marittimi d’alto mare. Ad esempio, la rotta delle isole, che toccava le coste orientali della Tunisia, le acque della Sicilia, la Sardegna, la Corsica e il mar Ligure. La principale linea era però quella che collegava le città della Sicilia orientale, come Mazara del Vallo, all’Africa, con capo a Susa, a Tunisi e a al-Mahdia. Cui si affiancava, come riportano le testimonianze, il percorso Palermo-Alessandria, che veniva preferito dagli stessi nordafricani al cabotaggio lungo la costa. Infatti chi voleva andare ad Alessandria da Tunisi spesso si imbarcava per Palermo, dove era sicuro che avrebbe trovato una nave che avrebbe viaggiato per la città egiziana. In seguito, si darà vita ad altri due percorsi: il primo, da Marsa al-Haraz, l’attuale la Calle, lungo la Sardegna, fino a Genova e Pisa. L’altro da Bona, per raggiungere i medesimi scali italiani. Altre tre rotte di alto mare univano invece la Spagna all’Italia e alla Sicilia. La prima era la traiettoria che univa la costa orientale spagnola al Gabal al Qilal, il famigerato ribat di Frassineto, in Provenza; e da qui direttamente a Palermo. L’altra procedeva dal porto di Cartagena alla Sicilia. La terza univa la costa meridionale iberica con Ostia: la strada utilizzata nell’846 dai saraceni provenienti dalla Spagna per colpire Roma. Un ultimo itinerario, estremamente tortuoso, congiungeva Amalfi ad Alessandria e al Cairo: veramente lungo, in quanto procedeva per lo stretto di Messina, l’Egeo, la costa di Levante, Costantinopoli, attraversava Creta e da qui arrivava in Egitto. ­­­­­130

Rotta che a prima vista appare senza senso, considerata la prossimità geografica delle coste tirreniche a Tunisi e la possibilità, una volta raggiunta questa città africana, di andare bordeggiando fino ad Alessandria. Invece le ragioni ci sono. Problemi di sicurezza, da un lato. La scarsezza di fonti d’acqua sul tratto TunisiAlessandria, dall’altro, che rendeva preferibile un lungo giro ai rischi di morire assetati. Ma il motivo è principalmente economico: perché il percorso Amalfi-Levante-Alessandria permetteva di toccare i porti dell’Asia Minore – Aleppo, Tripoli del Libano, Giaffa –, con un continuo carico e scarico merci da un porto all’altro. E per una triangolazione commerciale, di cui spiegherò gli effetti più avanti. Quanto durava un viaggio? Molto dipendeva dalla volontà di Dio: fatalismo condiviso, senza differenze, da cristiani, ebrei e musulmani. Più pragmaticamente, dalla velocità di navigazione. Non sembra che in questo periodo siano avvenute trasformazioni nella costruzione delle navi né che alcun cambiamento abbia apportato modifiche tecniche significative alla velocità dei navigli. La velocità media di una nave a vela, con venti favorevoli, era di circa due nodi, due nodi e mezzo. Poco? Molto? Si può dire che non fosse molto dissimile rispetto a quelle che avevano le navi in età classica. Se occorrevano venticinque giorni per andare da Marsiglia ad Alessandria nel XIII secolo, altrettanto ci voleva per percorrere la stessa tratta mille anni prima. Ma non è che in età moderna le cose andassero meglio: nel Cinquecento, come racconta Braudel, per andare da Venezia ad Alessandria, si riusciva, nelle migliori condizioni, a toccare una velocità di 3 nodi. Ma, in molti altri casi, in situazioni critiche, si navigava ad una velocità media di un nodo, impiegando per il viaggio anche cinquantacinque giorni. Se prendiamo questi dati, grandi variazioni nella durata del viaggio tra le diverse epoche non ce ne sono. Altri fattori contribuivano a modificare e allungare oltremodo le percorrenze, come i naufragi, che costringevano i sopravvissuti a spostarsi da una barca all’altra, da un porto all’altro. Le testimonianze della Geniza riportano diversi casi. Ad esempio, in una lettera del 1052, un mercante ebreo si imbarca su una nave amalfitana per Palermo. Raggiunta la capitale sale su una nave enorme, che porta circa quattrocento passeggeri, per raggiungere Alessandria. Ma la barca affonda. Salvato dal naufragio, il mer­­­­­131

cante è costretto verosimilmente ad imbarcarsi in un altro porto siciliano per poter raggiungere l’Africa, perdendo così molti giorni di viaggio. Oppure ci pensa il maltempo, una costante di grande pericolo che provoca naufragi e morti e spingeva a rendere gli imbarchi stagionali. Leggiamo cosa succede ad un grosso convoglio di trenta navi partito da Alessandria lungo le coste egiziane nell’estate 1060: il mercoledì la flotta fu colpita da una tremenda tempesta. Delle navi, due furono danneggiate dall’acqua del mare. Una era la nave di al-Muizz che trasportava il figlio del mercante Abu Yusuf che morì, possa Dio avere mercé di lui. L’altro vascello danneggiato è quello di al-Fariqi, sul quale era sistemato lo stesso Abu Yusuf. Entrambe le barche si avvicinarono ad al-Shaqra, ad un approdo chiamato alKarsh. Un mercante ebreo pure è morto, proveniente da Gabes e che lavorava con Abu Yusuf. Questi invece e Ibn Rina sono sopravvissuti.

Non mancano le aggressioni corsare che, se non giungevano a realizzazione, imponevano bruschi spostamenti rispetto agli itinerari prefissati. In una lettera spedita da Amalfi ad al-Mahdia, l’autore lamenta tutti i disagi incontrati nel lungo viaggio da Alessandria lungo la rotta di Levante. Dopo aver attraversato il mar Egeo racconta di come a ovest di Creta la nave fosse stata bloccata da una o più navi corsare bizantine e costretta a procedere verso nord, in direzione Costantinopoli. Effettuate alcune riparazioni, il vascello torna a Creta e poi ad Amalfi. Non vanno infine trascurate le condizioni politiche e belliche, che impediscono la partenza dai porti e costringono le navi commerciali a sostarvi più del dovuto. Non è certamente un metro di paragone cui rapportare l’intero commercio via mare nell’XI secolo, ma quanto accade al convoglio di trenta navi partito da Alessandria nel 1060 è sintomatico delle gravi difficoltà che potevano esserci a viaggiare per mare, gli inconvenienti, i pericoli, gli azzardi: di esse, solo cinque riescono a proseguire fino a destinazione; di tre, due naufragano e una viene catturata da pirati costieri; tutte le altre ventidue, per motivi che non conosciamo, tornano di corsa al punto di partenza. Tra danneggiamenti, corsari e fughe, l’intero viaggio si rivela insomma un fiasco commerciale, con la perdita di uomini, di carichi e di battelli. ­­­­­132

Esaminiamo alcuni tempi di percorrenza, per fornire almeno un’idea di riferimento. Questo perché mancano in genere notizie dettagliate sul tipo e la stazza dei navigli, la rotta seguita in ogni fase, le soste lungo il viaggio, ed altre precisazioni, come quelle relative alla velocità del vento e alle condizioni climatiche: aspetti che complicano i calcoli. Le variazioni, insomma, anche per uno stesso percorso, possono essere parecchie. Prendiamo come punto di riferimento Alessandria e consideriamo gli spostamenti che avvenivano da qui verso altri porti del Mediterraneo. Per Palermo potevano occorrere solo tredici giorni. Ma si tratta di casi eccezionali. Normalmente passano dai venti ai ventinove giorni usando un qarib, una barca piccola. Nondimeno, può capitare che trascorrano anche cinquanta giorni, se si accavallano congiunture sfavorevoli, venti contrari o bonaccia. Per raggiungere con una barca di scarso cabotaggio Almeria, in Spagna – una distanza di circa milleseicento miglia marine da Alessandria – si impiegavano sessantacinque giorni. Per andare ad Amalfi, fermandosi a Costantinopoli e a Creta, settantadue giorni. Più breve, naturalmente, la durata di viaggio per al-Mahdia: con differenti tipi di barche e in periodi dell’anno variabili, in media trascorreva circa un mese, da un minimo di tredici giorni a un massimo di quarantuno, come accade ad una flottiglia di tre navi che naviga nel 1050 nel mese di agosto. Per Tripoli del Libano, in media una quarantina di giorni, con due eccezioni di circa una ventina di giorni: ma si tratta in un caso di un’ imbarcazione che «non conduce alcuna merce, solo lettere di congratulazioni per il sultano»; nell’altro, di una barca che non effettua alcuna sosta durante il tragitto. Per Costantinopoli si impiegano diciotto giorni, per coprire una distanza di settecentoquarantadue miglia. Si tratta, a ben vedere, di ritmi lenti, dove tre o quattro settimane rappresentano un tempo minimo di percorrenza per attraversare da un capo all’altro il Mediterraneo. Per queste ragioni di tempo, un mercante con le sue mercanzie non poteva che affrontare un viaggio a stagione, da fine aprile ai primi di maggio fino a settembre. Per poter compiere, ad esempio, un viaggio di andata e ritorno dall’Egitto per la Tunisia, la Sicilia, le coste italiane e la Spagna, che doveva comprendere, facendo la tara, oltre i venti più o meno contrari, l’incognita corsara, gli embarghi a causa di guerre e di incertezze politiche, le soste per smerciare la merce e caricare altri prodotti in cambio, l’approvvigionamento in acqua ­­­­­133

e viveri, i venti più o meno contrari, ecc., ci voleva quasi tutto il periodo primavera-estate. In questo periodo l’attività è frenetica, con continui arrivi e partenze nei porti principali, come Alessandria, da cui partono e arrivano mediamente circa un centinaio di navi a stagione, anche di convogli formati da decine di navi. La fase autunno-inverno trascorreva per il mercante in attesa della bella stagione, anche perché esistevano rigidi regolamenti che impedivano di effettuare viaggi durante questo periodo, totalmente assenti nella documentazione della Geniza. Così in inverno le attività dei porti e dei mercati rallentavano. Il ritmo diventava stagnante. Ci si preparava per ripartire, accumulando merci, stoccando materiali, imballando beni da trasporto. Le navi su cui viaggiano questi uomini andavano a vela o a forza di braccia. Oppure utilizzavano entrambe le forze motrici, eolica e umana. L’uso di una forza o di un’altra poteva incidere sulla velocità di una imbarcazione. Ma i costi erano differenti. Le barche che usavano, per così dire, propellente umano erano veloci, facilmente manovrabili, capaci, nel breve spazio, di eccellenti performances. Ideali per attacchi militari. Però, di converso, difficilmente utilizzabili su percorsi lunghi, dove i costi per il mantenimento dei galeotti diventavano cospicui. Le navi a vela sono quelle maggiormente utilizzate dai mercanti. Sul naviglio le notizie sono davvero scarse. Le tracce archeologiche ed artistiche rimandano pochissime rappresentazioni. Problema analogo se scorriamo le fonti scritte, che sono più attente nel descrivere il naviglio da guerra che non quello commerciale. Si andava da barche di piccolo cabotaggio o di dimensione media, come quelle amalfitane, costruite nell’arsenale disposto lungo l’arco del porto. Nel 1105 ne viene menzionata una, che batte la rotta Amalfi-Sicilia-Ravenna, che portava un carico di quaranta tonnellate metriche, con un equipaggio che doveva aggirarsi sugli undici marinai. Dovevano esistere navi più grandi, adatte per percorrere tragitti lunghi e ospitare grossi carichi di legname per l’Africa o pellegrini per la Terra Santa. Ancor meno sappiamo delle navi napoletane, in massima parte, in quest’epoca, possedute da alcuni enti religiosi cittadini. Sappiamo dell’esistenza di un piccolo arsenale, nella zona occidentale dell’ansa del porto. E di artifices legati alla famiglia ducale, che si dedicavano alla riparazione di barche. E nient’altro, se non supposizioni. Né va meglio ­­­­­134

se consideriamo la situazione salernitana, dove c’era un porto piccolo, con una limitata flotta di barche di cabotaggio impiegate sul breve tratto marittimo cittadino con punte sino al Cilento e alla Calabria, nonché utilizzate per risalire i fiumi interni. Analogo il discorso per Gaeta, che possedeva una flottiglia a carattere prevalentemente militare: anche se, all’epoca, navi utilizzate per la guerra da corsa e per il commercio spesso coincidevano. Nel panorama delle coste italiane, non vanno escluse le navi commerciali bizantine, di stazza medio-grande, i kombaria, che godevano dell’appoggio della flotta imperiale, presenti specialmente sulle rotte egee e del mar Nero. Navi che, nei momenti di tregua, toccavano le coste siciliane ed africane. Diverso il discorso per le navi nordafricane e siciliane, che spesso si confondono. Di navi cargo musulmane, di stazza enorme, da quattro-cinquecento persone, si parla con una certa frequenza. Alcune di esse coprivano la rotta estiva Alessandria-Palermo. Per le navi più piccole, esistevano ben quattordici varietà diverse. In cosa si distinguessero, però, non lo sappiamo. La terminologia è infatti confusa, flessibile ed intercambiabile, sintomatica pure del fatto che, ai fini del commercio, veniva impiegato qualunque tipo di barca, pure se non era stata specificamente costruita per lo scambio. Varietà visibile quando, agli inizi di maggio 1060, lasciarono il porto di Alessandria due diversi convogli di circa sessanta navi, a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro, per raggiungere l’Africa e la Sicilia. Convogli formati da markab, termine generico che designa diversi tipi di vascelli; da qarib, barche flessuose e piccole, a vela; da qunbar, dei cargo certamente robusti; da khitti, imbarcazioni leggere, adatte anche per risalire il Nilo. Nell’economia della Geniza, i costi per il mantenimento dei cargo di grandi dimensioni erano proibitivi. Per questo motivo, gran parte dello sforzo economico di allestimento di piccole flotte commerciali era intrapreso dai principi musulmani e dal loro entourage. Come osserva Ashtor, le fonti arabe e persiane e i documenti della stessa Geniza contengono molte notizie sulle navi armate dai sovrani, al punto da affermare che «tutti coloro che avevano le redini del governo nei paesi musulmani possedevano navi che servivano al commercio internazionale», come, ad esempio, Muizz ibn Badis, fondatore della dinastia zirita di Tunisia (1016-1062); oppure Djabbara ibn Muktar, emiro di Barqa. Inve­­­­­135

stimenti sul mare venivano effettuati anche da gente appartenente ad un milieu alto o medio-alto, collegati a vari livelli alla burocrazia di governo o allo stesso entourage del sultano. Fra questi, uno dei più famosi è l’eunuco (ustadh) Djaudar, uno dei principali esponenti della corte del fatimida al-Muizz. Egli si interessò molto al mercato siciliano, dove ebbe particolari interessi, che gestiva attraverso una sua personale flottiglia, adoperata per importare in Africa legname per rafforzare la flotta armata statale. Un altro era Ibn Disur, i cui vascelli coprivano la rotta tra Alessandria e Palermo. A differenza di quanto accadrà nei porti dell’Italia centrosettentrionale, non esistevano gruppi di commercianti che si associavano per allestire una flotta; ma, accanto ai grandi esponenti di corte, un mondo polverizzato di piccoli proprietari di barche di media e piccola grandezza, alcuni dei quali anch’essi mercanti, anche se non traspare un’integrazione tra commercio e navigazione, che restano due attività economiche separate. Con un’equazione conclusiva: nel Mediterraneo musulmano, a tante barche corrispondevano tanti proprietari. Un tema interessante riguarda la capacità di ricezione di un porto, che risulta assolutamente impossibile da definire. Quanto era grande il porto di Amalfi? Le discussioni si sono succedute nel tempo. Viste le dimensioni attuali, piccolissimo. Si sostiene che anticamente fosse stato più grande, capace di ospitare numerose navi. La sua limitata portata attuale sarebbe stata causata dal maremoto del novembre 1343, che ne avrebbe seppellito una porzione. Ritengo si tratti di supposizioni, legate in gran parte al mito cittadino di grande potenza mercantile altomedievale. Ad ogni buon conto, si attende una risposta dalle ricerche archeologiche. Ma, comunque, credo si tratti di un falso problema: se il porto era piccolo, le navi dell’epoca lo erano a loro volta, molto più simili a barche che ad una moderna petroliera. E sui porti africani, invece, cosa si sa? Il movimento del Cairo-Fustat doveva essere senza alcun dubbio febbrile, con centinaia e centinaia di barche di grande e piccola dimensione. Stessa situazione per Alessandria. Come poi dimenticare la situazione di al-Mahdia, dove il primo governo fatimide sembra fosse in grado di approntare in poco tempo nei suoi arsenali più di cinquecento imbarcazioni? È chiaro che la durata di un viaggio aveva dirette conseguenze sul commercio. È un concetto valido allora come ora, per l’imme­­­­­136

diata ricaduta che aveva sui costi delle merci, per la legge della domanda e dell’offerta. Arrivare presto o tardi poteva rappresentare per un mercante la possibilità di raggiunto successo o di disfatta commerciale. Mentre non arrivare con un carico nel periodo prefissato poteva significare perturbare un intero mercato. Anche in quell’epoca, dunque, la variabile tempo aveva la sua importanza. A testimoniarlo, un episodio avvenuto nell’agosto 1056, descritto in una lettera disperata arrivata al Cairo da Tripoli in Libia: «per tutto l’inverno, i prezzi sono stati stagnanti; ora, a causa del fatto che le navi che devono venire dall’Egitto stanno ritardando, il prezzo del lino è aumentato da 45 dinari a 55 dinari per balla; il pepe, la cui domanda da parte dei mercanti italiani sta aumentando, e che era venduto a 180 dinari al carico viene ora acquistata dagli stessi mercanti a 240 dinari al carico. E infine la gommalacca, anch’essa molto richiesta dagli italiani, il cui prezzo durante l’inverno era di 84 dinari, adesso viene venduta tra i 110 e i 130 dinari». Il ritardo nell’arrivo a Tripoli di questi tre prodotti – pepe, lino e gommalacca –, associato ad un generale aumento delle richieste specialmente da parte di operatori italiani, determina un innalzamento considerevole dei prezzi sul mercato cittadino, che toccano cifre inimmaginabili solo pochi mesi prima. E ne compromette la situazione generale, che colpisce i compratori sprovvisti di mezzi economici (tra cui sembra esserci lo stesso scrivente), col ricadere sulla domanda in export dei mercanti italiani e col generare una situazione di crisi per un’intera città. E se in Tripoli di Libia accade quanto accade, nella Tripoli libanese, invece, avviene, quasi in simultanea, giusto il contrario. Un mercante spiega al suo socio al Cairo le conseguenze derivate non dal fatto che non siano arrivate navi, ma che ne siano arrivate troppe; e che quella del suo socio sia stata sfortunatamente l’ultima a scaricare. Per questo motivo «non riesco a vendere le tue balle di lino, perché la tua nave è arrivata per ultima e in quanto le tue merci sono dietro quelle di tutti gli altri mercanti». Causa un arrivo troppo ritardato, la saturazione del mercato non consente al mercante di vendere il proprio lino. E così il viaggio è andato a vuoto, in perdita. E bisogna aspettare un altro anno. Questa è la vita di mare e di commercio al tempo dell’economia della Geniza, quando l’Italia meridionale è al centro di un’economia di scala mediterranea e su tutte le rotte si muovono molti ­­­­­137

uomini, che fanno dello scambio la pietra angolare della loro esistenza. Gente nuova, ma non del tutto déraciné, sradicata, come avrebbe detto Pirenne. Al contrario, appartenente al proprio tempo, sebbene con molte contraddizioni ed ambiguità. Questi sono i mercanti.

3. Nel cuore del Mediterraneo

Il commercio mediterraneo ha tanti protagonisti. Primi fra tutti, gli ebrei. Essi non monopolizzano il commercio, ma l’arcipelago delle loro comunità offre una base notevole, capace di assicurare rapporti anche a lunga distanza, che si distendono anche molto lontano, fino all’India, al Caucaso, al mar Rosso. Con un immenso centro di coordinamento, il quartiere ebraico d’al-Khart, a Bagdad, cuore pulsante della metropoli. La struttura di queste comunità si basa su veri e propri clan familiari, fondati su legami di sangue, con relazioni familiari strettamente endogamiche, che consentono di consolidare alleanze e di cementare aiuti e forme di cooperazione. Con case di commercio basate sulla responsabilità, comune e condivisa, di tutti i membri. Sulla solidarietà, essenziale per la fiducia, quando si parla di transazioni commerciali e di operazioni di credito. Con traffici che si dispiegano all’interno di un quadro di rapporti, sociali e religiosi, ben circoscritti. Garantiti dal rispetto di un’etica commerciale, che non è dissimile dalla morale familiare definita dal Talmud. Tutto era modellato sulla ripartizione dei ruoli secondo lo schema familiare, con precisi rapporti di subalternità, dove la stretta collaborazione tra padre e figli, zio e nipoti, e tra fratelli, coinvolge l’intero campo delle attività commerciali. L’anziano è il mercante residente, ricco e rispettato, che tesse le fila, organizza i commerci, propone le strategie commerciali da perseguire. Ci sono poi i viaggiatori, gli itineranti, quelli che svolgono il lavoro duro: per Bresc «questi ultimi, dipendenti o parenti del grande mercante, si spartiscono i compiti difficili e pericolosi, quali il sondaggio dei mercati, sempre a grande distanza, i viaggi scanditi dal ritmo della navigazione e la vita nella bottega». Questo modello organizzativo presuppone una contiguità assoluta: fatta di vita ­­­­­138

in famiglia, matrimoni comuni, preghiere, festività e celebrazioni condivise, contiguità abitativa quando si è nella stessa città, con case che si addossano una all’altra, col creare quasi dei settori separati dal resto della cittadinanza, speculazioni, investimenti e viaggi pericolosi affrontati insieme ecc. Con ineluttabili relazioni di assistenza e mutuo aiuto in caso di difficoltà tra i vari clan, tra padrini e sottoposti, tra casa-madre e succursali, tra fratelli o cugini lontani. In definitiva, essi formano solide organizzazioni, che vengono favorite dalle autorità musulmane, che trovano in esse un utile mezzo per mantenere l’ordine e dalle quali traggono enormi ricavi attraverso le imposte. Gli ebrei non sono mercanti specializzati nella vendita di un prodotto piuttosto di un altro. Nel Medioevo, orientale come occidentale, questa regola non c’è. Essi smerciano qualsiasi merce che gli possa procurare un vantaggio. Vendono e comprano stoffe e sete. Prodotti musulmani come bizantini, venduti fino in Spagna. Grano all’ingrosso. Spezie e droghe. Rarità cinesi. Non disdegnano la speculazione sulla moneta e partecipano a rudimentali operazioni bancarie. Trattano schiavi. Costituiscono scuderie di eunuchi, che selezionano ed educano per i migliori offerenti. Insomma, hanno ampia possibilità di movimento sul mercato islamico, dal quale ottengono il massimo rendimento. La risorsa/informazione viene adoperata da questi uomini con grande acume e capacità. Essi sanno che avere delle notizie prima degli altri e meglio degli altri è una chance in più negli affari, che vale tanto oro quanto pesa. Alimentate in tutti i modi possibili – direttamente o indirettamente, con voci che si rincorrono o con lettere che coprono grandi distanze – le news sono centrali nel loro sistema commerciale. Come lo sarà, in misura maggiore, per le potenze marittime italiane. Si tratta di una mezzo da cui non si può transigere. Cruciale per la gestione degli affari, soprattutto quando si tratta di decisioni da prendere con rapidità: se differire o anticipare un investimento; se sia conveniente spostare una merce da un posto all’altro; se puntare su un mercato piuttosto che su un altro. Gli ebrei comprendono bene come esista una interdipendenza tra i mercati: cioè che se una cosa accade lontano, in Sicilia come a Cordova, a Costantinopoli come a Qayrawan, può avere un riflesso diretto sui propri affari, a casa loro, al Cairo come ad Alessandria. Ad esempio, quando nel 1094 un ebreo di ­­­­­139

Alessandria scrive a suo cugino a Fustat, tra le principali indicazioni che gli fornisce c’è questa: per l’indaco «il prezzo è andato giù di un terzo, perché gli italiani hanno ricevuto notizia che l’indaco non si vende bene sul mercato di Costantinopoli. Per questo motivo sono in difficoltà e temo grosse perdite. Possa Dio, nella sua grandezza, fare qualcosa». Altre volte l’informazione riguarda il traffico di navi che avviene in un determinato porto, quali merci vengono sbarcate, che gente nuova è arrivata, come si legge in questa lettera di trent’anni prima intercorsa tra due ebrei, uno di stanza a Gerusalemme, l’altro ad Alessandria. Il tenore è questo: «sono assai contento delle notizie che mi dai del buon arrivo delle navi in Sicilia e sulla buona tenuta delle merci. Ma sarei ancor più grato a te se mi informassi sui nomi delle persone che sono sbarcate dalla nave che viene dalla Spagna e se mi mandi informazioni su ogni nave che giunge dai porti dell’ovest». Questo, però, è niente. Esiste una lettera ancora più straordinaria, scritta nell’agosto del 1050, dove lo scrivente fornisce al suo interlocutore, su richiesta specifica, informazioni su tutte le navi che arrivano ad Alessandria da Palermo, con questo grado di dettaglio: la lista delle navi; la lista delle persone che sono sbarcate; la lista delle navi che si aspettano e che non sono ancora arrivate; un catalogo di tutte i carichi, col numero di botti, balle e recipienti; le merci che si attendono e che non sono ancora arrivate; i mercanti che si attendono e che non sono ancora arrivati; e, dulcis in fundo, le navi di cui è giunta notizia che hanno cambiato rotta e destinazione. Una meticolosità che ha dell’incredibile, espressione di una conoscenza del mercato, di una razionalità d’approccio ad esso, nutrita dalla consapevolezza che se l’informazione è buona, se circola nei tempi e nei modi giusti, garantisce il raggiungimento di alti livelli di profitto. Nonché la possibilità di legittimare il proprio prestigio e la propria ricchezza, fatta non solo di risorse economiche, ma di una vasta rete di utili relazioni. Molte reti ebraiche fanno capo alla Sicilia e a Palermo, con network che si espandono in tutto il Mediterraneo. Un tipico esempio è quello della casa di commercio palermitana di Ismail ben Yaqub al-Andalusi. Ismail e suo cognato, Natan, emigrano dalla Spagna all’inizio dell’XI secolo. Ismail si stanzia a Palermo. Suo cognato attraversa il Mediterraneo e colloca la sua impresa a ­­­­­140

Fustat. Entrambi mantengono numerosi contatti con la madrepatria andalusa e restano fortemente collegati tra loro con un vincolo dove solidarietà familiare e fiuto degli affari si mescolano. Ismail e i suoi due figli, Yaqub e Yeuda, stabiliscono relazioni con le coste africane e con altri porti orientali grazie alla partnership con suo cognato e suo nipote Yusha. Queste interconnessioni vengono cementate da frequenti viaggi ed estesi soggiorni di Ismail in Egitto, a Fustat e ad Alessandria, con frequenti contatti anche con Gerusalemme. Concatenazioni che continuano almeno per altre due generazioni tra entrambe le famiglie, fino all’ultimo quarto dell’XI secolo. Alcuni di loro però viaggiano, per così dire, sotto copertura, mimetizzati dai loro colleghi correligionari già stabiliti da tempo in Sicilia, per evitare il pagamento di decime e tasse, come quella imposta ai mercanti stranieri nel 1060. D’altra parte, nel corso dell’XI e del XII secolo molti ebrei lasciano le coste africane in seguito al Banu Hillal e ad altre limitazioni agli scambi, per prendere la residenza definitiva in Sicilia. Gli ebrei importavano dall’Egitto nell’Isola prodotti di lusso in gran numero e con eccellente varietà. Aromi e spezie orientali. Il pernambuco, usato come colorante per le fibre tessili. L’indaco si vendeva bene, anche se in Sicilia se ne produceva in proprio. Anche i lapislazzuli erano importati da questi mercanti. La ceramica proveniva da Rosetta sul Nilo, con scambi che funzionavano in entrambi i sensi, vista la presenza di oggetti siracusani rinvenuti al Cairo. Delle esportazioni ho già dato conto in parte, nel paragrafo dedicato alle città siciliane. Ma vorrei aggiungere quanto riportato da un foglio di contabilità che risale all’XI secolo, discusso sia da Shlomo Goitein sia da David Abulafia. Ecco come un mercante ebreo investe in Sicilia parte dei quattromilatrecentotrentacinque tarì d’oro a sua disposizione. Con essi compra: sessantatré pelli siracusane, venti pezzi di piombo, due balle di mandorle sgusciate, delle pelli di coniglio del peso di dieci qintar, tre farkhas stretti e uno largo di seta, tre turbanti, quattro coltri di broccato, duecentotrentotto foglie d’oro, quattro vesti di Dustari, undici scialli tinti nell’indaco, un mantello di seta, una veste di Dustari, diciannove libbre di seta grezza. Sappiamo poco dei mercanti musulmani che si muovono lungo la costa italiana. Risulta arduo definirli, perché difficile risulta spesso la distinzione tra nativi dell’Isola, forestieri e stranieri naturalizzati. Comunque, a casa loro, nei centri lontani dell’Egitto o ­­­­­141

dell’Africa, è gente di bazar: non un banale luogo di scambio ma, come asserisce Clifford Geertz, un «sistema peculiare di relazioni sociali centrato intorno al consumo di beni e servizi». Il mercante musulmano vive nel bazar per il bazar, che prende il posto dell’antica agorà ellenistica. Qui intesse i propri affari, in un humus non dissimile da quello dei mercanti ebrei, con cui spesso si confondono, trovandosi ad essere spesso protagonisti dello stesso viaggio, della stessa impresa, degli stessi rischi. Nel bazar, oltre ad altre attività, si poteva cambiare danaro, scrivere cambiali ed eseguire altre transazioni. A Fustat, due posti erano dedicati in particolare a queste attività: la casa della Benedizione, il dar al Baraka; e la casa del cambio moneta, il dar al sarf. I mercanti musulmani possiedono una tecnica commerciale evoluta. E alcuni di loro raccolgono consigli pratici per gli affari in guide del perfetto commerciante ad uso dei loro associati. Una di queste è giunta sino a noi, scritta da al-Dimisqui. Opera che reca un titolo già di per sé rivelatore delle intenzioni: il libro relativo alle bellezze del commercio e alla conoscenza delle buone e delle cattive merci e delle falsificazioni che gli imbroglioni compiono su di esse. Un mondo senza banche, si è detto. Ma che si basa fortemente sul credito, reso necessario dal vivace traffico regionale e internazionale. Comprare e vendere a credito era una pratica diffusissima, sia, come nota Udovitch, «che un mercante trafficasse con il suo capitale, sia che impiegasse quello affidatogli da un socio o da un investitore». Il pagamento differito o l’anticipo di contanti per future consegne erano considerate forme di comportamento commerciale non solo legittime, ma indispensabili per la buona riuscita dei traffici. Sarakhsi, studioso di legge dell’XI secolo, esprime questo punto di vista in modo esplicito ed efficace: «ritengo per certo che la vendita a credito è parte della pratica mercantile e che sia il mezzo più efficace per il raggiungimento dello scopo degli investitori, che è il profitto». Il profitto: un termine chiave ad ogni latitudine, che sempre secondo Sarakhsi può essere raggiunto solo vendendo a credito e non a contanti. A tale scopo, i musulmani erano in grado di trasferire fondi da una piazza all’altra, senza correre i rischi del trasporto di danaro, anche attraverso cedole non dissimili dalle lettere di credito su terzi, da essi chiamate hawala, da cui la nostra parola avallo. O il suftaja, obbligazione scritta che costituisce la prima e ­­­­­142

più importante forma di titolo di credito commerciale del vicino Oriente medievale. Ma i musulmani conoscevano formule contrattuali in base alle quali i soci mettevano in comune beni o attività, oppure le due cose insieme. Facevano uso di un tipo di contratto simile alla commenda, secondo il quale si potevano affidare soldi a un mercante viaggiatore a condizione di partecipare agli utili. Conoscevano l’uso del mandatario e del rappresentante. E si aggregavano in società di credito in cui il capitale conferito dalle parti non consisteva né in danaro né in merce ma solo in credito. Società che, per garantire la fiducia, poteva essere costituita solo da persone che godevano ottima reputazione e rinomate, come rileva ancora Sarakhsi: «la società di credito interviene tra persone che si mettono in società senza disporre di alcun capitale al fine di comprare a credito e quindi rivendere. Viene denominata società di buone reputazioni poiché il capitale dei soci consiste nella loro posizione e nella loro onorabilità; il credito infatti viene concesso solo a chi gode di una buona reputazione». In definitiva, il mercato musulmano gode di risorse che vengono messe al servizio del commerciante, garantendo così non solo l’accumulazione di capitali ma la loro creazione. Per i mercanti musulmani in viaggio esiste un organismo funzionale ai loro traffici, di cui abbiamo idea solo dalle carte della Geniza: il dar al wakala, residenza del wakil al-tujjar, il «rappresentante dei mercanti», che sostituiva, sulle più diverse piazze, il mercante musulmano quando era assente. Struttura che serviva come istituto di recupero debiti e come struttura per tranquillizzare i debitori: funzioni non dissimili da quelle svolte in seguito dai consolati europei nel Levante. Inoltre, fungeva da deposito per le merci in transito. Era infatti impossibile per il mercante poter seguire sempre la propria merce: mentre, nel dar al wakala trovava un luogo sicuro, custodito, nel quale addirittura poteva essere sballata e rimballata in caso di necessità. Altra funzione che svolgeva la rappresentanza era quella di luogo di giudizio in caso di controversie fra mercanti con persone del luogo di mercato. Tuttavia, il wakil non aveva uno status ufficiale. La sua autorità era del tutto informale e consensuale. I mercanti musulmani trovano una sponda eccezionale in Sicilia, del tutto complementare con la rete mercantile che muove ­­­­­143

dal Cairo: il pendant agricolo delle città costiere dell’Africa del Nord. La produzione rurale è in gran parte volta a soddisfare i bisogni interni. Ma il surplus è molto elevato, specialmente di grano, che viene esportato con un vasto traffico che tocca le sponde opposte del Mediterraneo. Si produce anche formaggio. Lino. Cotone, prodotto al centro dell’Isola. Mandorle, che decorticate – le lawz maksur – vengono smerciate al Cairo. Piuttosto diffusa è la gelsicoltura, con la produzione di bachi e di seta grezza in filati, che prima dell’ingresso normanno si estende in molte zone, al siracusano, al palermitano, con una florida attività industriale che vedremo. Sempre in quest’epoca è da riportare l’inizio della coltivazione degli agrumi e della palma da dattero. Si produce il papiro, la cui qualità era seconda, per alcuni, solo a quella egiziana, e che svolgeva una funzione non di secondaria importanza, esportato fino a Napoli e adoperato dalla stessa cancelleria papale, che per i propri atti ufficiali e amministrativi non disdegnava di adoperare papiro con disegni filigranati che esaltavano Allah. Ancora, lo zucchero, prodotto nelle piantagioni dei principi kalbiti. Si importa invece corallo, con un grande network tunisinosiciliano: ed è probabilmente proveniente dalla Tunisia il corallo lavorato in Sicilia e venduto in Egitto. I musulmani gestiscono con gli ebrei le grandi attività portuali isolane di import/export. Specialmente da Mazara, che riveste un’importanza centrale per i contatti con l’Africa, non solo per la sua funzione di scalo merci, ma per il trasporto passeggeri: per capire i numeri, all’inizio dell’XI secolo da una decina di imbarcazioni sbarcano al Cairo quattro-cinquemila persone, precedentemente transitate dal porto siciliano. La città è una piazza essenziale non solo per la distribuzione in tutta l’Isola e a Palermo del lino che arriva da Alessandria e dal Cairo, ma anche perché vi giungono (è ancora ben attestato nel XII secolo) prodotti orientali in vetro, manifatture, spezie, ceramiche. Con un ruolo così importante nel commercio internazionale che i prezzi del mercato di Mazara venivano subito comunicati ad Alessandria e da qui al Cairo, in quanto essi avevano un’importanza decisiva per regolamentare le esportazioni dal Delta del Nilo. E Siracusa, dove gli ebrei acquistavano seta e pelli. Adesso però vorrei aprire una parentesi. Non per uscire di tema, ma per mettere in evidenza le varie sfaccettature di un mon­­­­­144

do commerciale che ebbe tante variabili, tanti nomi, tanti volti, tante peculiarità. E parlare di un gruppo particolare di mercanti musulmani: i mercanti-cronisti. Gente che lascia la propria sede e vive in maniera itinerante il proprio commercio, da un posto all’altro, annotando curiosità, verità, storie, facezie, descrizioni fisiche di città, oasi, strade, rotte, percorsi. E riporta a casa un baedeker buono per altre esperienze. Alcuni di questi mercanti girano per il Mezzogiorno e l’Italia, in lungo e in largo: terre barbare da cui riportano immagini suggestive e seducenti. Specialmente di Roma, la capitale dei miscredenti, la sede del papa, «il califfo dei cristiani». Per arrivarvi si utilizzava in genere il percorso marittimo. Ma c’era chi preferiva un itinerario che attraversava tutta l’Europa orientale, ad esempio da Tessalonica alla Slavonia, per passare poi da Venezia e Pavia, la capitale dei Lombardi – i quali, per inciso, per i nostri viaggiatori, vivevano alla maniera dei Curdi, tra tende e capanne: uno spettacolo indecente per chi era aduso ad una civiltà di città. Si scendeva poi lungo gli Appennini per giungere finalmente a Roma: itinerario che configura un tracciato che scorreva per vie interne, distanti dal mare, e che trasmette l’idea di un diverso spazio commerciale e di traffici. Alcune delle descrizioni di Roma che ci sono pervenute sono mozzafiato, con esposizioni che parlano di ricchezze incredibili, per le quali si usano numeri e dimensioni trascendentali, improbabili, da cui si percepisce con chiarezza da dove provenisse l’attrazione e il desiderio degli uomini del jihad, il loro luccichio d’occhi all’idea di impossessarsi della città santa. Raccolte ad esempio dal solito Yaqut, riprese da cronache di mercanti-viaggiatori vissuti a cavallo del Mille: «nella città si trova la Chiesa del Re e fra i tesori che contiene vi sono vasi d’oro e d’argento per l’altare, diecimila giare d’oro chiamate almizan, diecimila vassoi d’oro, diecimila calici e diecimila ventagli d’oro. I candelabri da portare intorno all’altare sono settecento tutti d’oro e le croci auree che si portano fuori il giorno delle Palme sono trentamila; quelle poi di ferro e rame cesellato e rivestito d’oro non si potrebbero neppure contare». E l’elenco prosegue: «sono ventimila gli aspersori e mille i turiboli d’oro con i quali incedono davanti all’eucarestia; vi sono ancora diecimila testi liturgici d’oro e d’argento. La sola chiesa possiede settemila bagni. La residenza del re, nota come al-Balat, ­­­­­145

occupa una superficie di circa cento garib per cinquanta. Essa ha tremila porte di rame ricoperte d’oro». Non tutte le descrizioni riportate da Yaqut sono così mirabolanti. C’è n’è una in particolare che, oltre a descrivere l’accoglienza tutt’altro che ostile dei romani nei confronti di alcuni naufraghi musulmani desiderosi di vistare Roma, è davvero poetica: «ha detto al-Walid ibn Muslim ad-Dimashqi di avere udito da un mercante: “navigavamo e avendoci la nave gettato sul litorale di Rumiya, mandammo a dire agli abitanti che era nostro proposito di andarvi; così ci inviarono un messo, col quale ci incamminammo alla sua volta. Strada facendo, salimmo su un monte, ed ecco apparirci qualcosa di verde, come fosse alto mare. Allah Akbar, esclamammo noi. E quegli disse: ‘perché esclamate così?’. ‘Questo è il mare – rispondemmo – e tutte le volte che lo vediamo siamo soliti dire Allah Akbar’. Il messo rise e spiegò: ‘questo non è il mare. Sono i tetti di Rumya e sono tutti rivestiti di piombo’”». Spesso questi mercanti-viaggiatori sono animati da una curiosità quasi etnografica. Vogliono capire. Però marcano le differenze che ci sono tra loro e i cristiani. Prevale un forte senso etnocentrico, di superiorità nei confronti di costumi che per loro sono incomprensibili. Ma, nondimeno, li descrivono. Per loro, i romani non ritengono necessario il lavacro totale per i casi di grave impurità, né praticano l’abluzione prima della preghiera: nella loro pratica è sufficiente l’intenzione. E non prendono l’Eucaristia senza aver detto «questa è la tua carne e il tuo sangue», riferendosi al Messia, e, per loro, non si tratta né di vino né di pane. L’ebbrezza è loro vietata. Nessuno parla quando prende l’Eucarestia, finché non abbia purificato la propria bocca. Quando si comunicano, si abbracciano e si baciano l’un l’altro. Nessuno di loro prende in moglie più di una donna. E non aggiunge ad essa alcuna concubina. Se la moglie commette adulterio, il marito la vende. Se è lui a commettere adulterio è lei a venderlo. Presso di loro non esiste il ripudio. Fanno ereditare alle donne due parti del patrimonio e all’uomo una parte. È loro usanza che nessuno, al di fuori del re, indossi calzari rossi. Essi rendono lieve il giudizio per il nobile, mentre lo aggravano per il plebeo fino ad arrivare alla sua vendita.

Questo elenco, scritto da al-Bakri nell’XI secolo, prosegue e si dilunga su tanti altri aspetti. L’ho voluto di proposito interrompere qui, con quest’incongruenza su una giustizia unidirezionale, ­­­­­146

che punisce il povero con la schiavitù, e salva il nobile, che rivela lo iato esistente tra uomini appartenenti a due culture così distanti, ma per molti versi così simili.

4. I «Rum»

I musulmani dispongono di un termine per identificare tutti quelli che vengono dalle terre barbare di Occidente e dall’impero bizantino, adoperato anche in seguito per i normanni. Essi sono i Rum. Però, in questa particolare fase della storia del Mediterraneo, quando si scriveva che una nave veniva da bilad ar-Rum, dalla terra dei Rum, si intendeva dire che proveniva dai porti meridionali. Da dove? In maggioranza, da Amalfi. Il mito del commercio amalfitano resta uno degli argomenti chiave della vicenda del Mezzogiorno italiano medievale: della sua epoca d’oro, quando la flotta cittadina e l’intraprendenza di alcuni suoi grandi mercanti, come i Comite Maurone, riuscì a soppiantare qualunque forza commerciale presente nel Mediterraneo. Detta così, se si volesse rispettare la mitografia, ci troviamo di fronte ad una palese esagerazione. Non che voglia dire, lo vedremo, che per molti aspetti la marineria amalfitana (e specialmente i suoi mercanti) assumesse un ruolo di rilievo nell’ambito del commercio mediterraneo. Solo che negli ultimi decenni del secolo scorso questo mito è andato a sfumare, col lasciare il posto ad una lettura più concreta circa le reali potenzialità economiche cittadine. E molte risposte sul supposto miracolo commerciale amalfitano sono state ascritte al sorprendente sviluppo rurale: un contesto agricolo nel quale, attraverso l’uso di innovativi strumenti contrattuali, fu possibile innescare una vera e propria trasformazione degli assetti patrimoniali e produttivi, con un lancio che garantì notevoli surplus che furono in gran parte venduti sui mercati mediterranei. Ma ho corso troppo, ed è opportuno fare un passo indietro. Il successo commerciale di Amalfi comincia nel IX secolo ed è tutto intrinseco all’economia della Geniza. Parafrasando Pirenne, senza Maometto non ci sarebbe stata Amalfi. Da sempre, lo abbiamo visto pure per le vicende politiche, gli amalfitani sono stati impegnati, con gaetani e napoletani, nella collaborazione economica ­­­­­147

coi vicini musulmani. La loro forza si fondava inizialmente sul commercio di schiavi. Poi si diversifica. A differenza di quanto avvenga nelle altre due città campane, gli operatori amalfitani hanno un pregio. Hanno maggiori capacità, e riescono a proporsi come il trait d’union tra il mercato campano e i grandi porti del Mediterraneo. L’Ifriqiyya fatimide, poi zirita, poi hafside diventerà il principale cliente dei prodotti dell’agricoltura della Campania, fatta di frutta, castagne, noci e nocciole. Di legname e di ferro. Di vino, il cui consumo è favorito dalla trasgressione dei principi e dei grandi, diciamo disattenti ai precetti religiosi. Questa è la scia nella quale coinvolgono, in un circolo virtuoso, le altre città della regione, tra cui, oltre a quelle che conservano ancora uno status greco-bizantino come Napoli, pure Salerno e Benevento. Allargando sempre più il proprio raggio d’azione verso la costa pugliese, dove più tardi, nel XII secolo, creano delle proprie colonie. Nella fase iniziale, però, il grande elemento di forza amalfitano sta tutto nella stretta relazione con Napoli e Salerno, nelle quali si insediano le loro più antiche colonie. Tanto che alcuni loro membri diventano parte della componente dirigente delle due città. Se questa è la direzione di partenza, con la formazione di una solida rete ad impianto locale e regionale, la seconda fase è di maggiore impatto. Lo sguardo si sposta all’intero bacino mediterraneo. In un mondo fatto di prodotti rari e lontani, le grandi fortune commerciali sono legate all’audacia. A partire dal 959 Amalfi scopre, in maniera costante, l’Egitto. Fonda una sua colonia a Fustat. Ora, la sua comunità di mercanti si insedia al cuore della bisettrice che divide il mondo commerciale musulmano. Anche se non vi si può accedere direttamente, da qui si possono importare merci dal mar Rosso, dall’Etiopia, dall’India, dall’alto Egitto ed esportare ciò di cui il Cairo ha bisogno: materie prime, prodotti alimentari e semilavorati. La colonia vive un momento drammatico con gli avvenimenti del maggio 996, a seguito dell’incendio della flotta e dell’arsenale di Fustat. I morti tra gli amalfitani nel pogrom sono centosessanta. Ma la comunità si riprende rapidamente. L’equilibrio si ristabilisce. Intanto, gli amalfitani hanno inventato qualcosa di nuovo, la rotta Amalfi-Costantinopoli-Alessandria: questa triangolazione, cui ho già fatto cenno, offriva ampie opportunità d’affari ai mercanti meridionali e ai propri vettori. Nell’ambito della quale, ­­­­­148

i porti dell’Asia Minore e del Levante servivano da stazioni di transito. Per rafforzarla viene creata una colonia anche a Bisanzio, da mettere in relazione con la fondazione del monastero amalfitano sul monte Athos, avvenuta intorno al 990. Nell’XI secolo, la colonia raggiunge ottimi risultati. Fornisce appoggio a tutti gli amalfitani residenti in città. Al centro dell’insediamento sorge la chiesa di S. Maria Latina. Il suo approdo privilegiato è sul Corno d’Oro, ad ovest di quello veneziano. Alcuni amalfitani scalano importanti posizioni all’interno della società della capitale. Trovano perfino accesso a corte. Parte la saga di Mauro Comite Maurone e di suo figlio Pandone. Tuttavia l’ascesa degli amalfitani a Costantinopoli va, per molti aspetti, ridimensionata: mancano ad esempio documenti che attestino la stipula di trattati internazionali, o di forme di attenzione e di privilegio nei confronti della città campana. Insomma si esaltano gli uomini, anche con titoli altisonanti: ma non la città. E per creare una comunità garante, solida e attiva non bastano i singoli, ci vuole un riferimento forte, con una sua autorevolezza politica e una sua capacità di relazioni internazionali: che Amalfi, per sua intrinseca debolezza, purtroppo non aveva. E più si va avanti, sempre meno avrà. Sicché gli amalfitani che si incontrano a Costantinopoli appaiono come personaggi che, secondo il giudizio che ne dà Gherardo Ortalli, a prescindere dal ruolo e dal peso specifico, «sempre meno corrispondono a realtà politicheistituzionali, dotate di una sicura autoreferenzialità. Non basta, in altri termini, la sommatoria dei singoli privati per costituire una comunità nel senso più compiuto, magari con propri connotati istituzionali». Comunque, le attività amalfitane convergono su tre snodi: Amalfi e le coste campane; la colonia di Fustat e il porto di Alessandria, che conducono al centro dell’ecumene musulmano; e la capitale bizantina, che consente aperture verso l’Oriente e il mar Nero. Triangolazione che crea un sistema dove tutto si regge, in quanto gli amalfitani pagavano le loro esportazioni da Bisanzio con il denaro ricavato in Egitto dalla vendita dei prodotti agricoli della Campania. Sistema che porta danaro, che arriva abbondante in città, trasformato spesso in grandi opere d’arte, come le porte bronzee realizzate a Bisanzio che adornano ancora oggi il duomo cittadino. ­­­­­149

Però non è tutto oro ciò che luccica. Il sistema amalfitano ha molte debolezze, insite nel suo stesso Dna. Principalmente, le strutture del commercio sono ancora troppo arcaiche. Povere di capitali, difficili da reperire. Usi societari come la commenda sono appena sufficienti a raggranellare quel po’ di danaro necessario per le operazioni commerciali. La pratica assicurativa eccezionale. La sua flotta è piccola, limitata. La città altrettanto, pure da un punto di vista difensivo. Quando i pisani l’attaccano nel 1135 e nel 1137, la spazzano via in un sol colpo. D’altronde non ha un grosso retroterra, demografico e produttivo. Per quanti sforzi di bonifica si vogliano fare, la natura della costiera resta in molti tratti difficile e impervia. Un completo lancio delle proprie attività deve appoggiarsi su altre città, come Napoli e Salerno, fornite di ben diversi hinterland produttivi. Poi, amministrativamente, il territorio amalfitano appare disunito, non solo a causa dell’ingresso normanno: spezzettato in tante realtà – Ravello, Scala, Atrani, Minori, ecc. –, ognuna con una sua specifica identità e ognuna con un suo autonomo distretto vescovile. Disorganicità che, in parte, possono spiegare la scarsa capacità di autorevolezza nei confronti delle potenze d’Oltremare, musulmane o bizantine che fossero, le quali non attribuiscono alla città alcun ruolo speciale e di spicco. Infine esistono altri due dati strutturali. Il primo è l’estrema diversificazione, o per meglio dire la frammentazione, degli investimenti. Dove la gran parte dei ricavi non rifluisce verso il commercio ma si spezzetta in mille rivoli: verso la terra, verso l’attività molitoria (suddivisa nella forma originalissima in quote-tempo anziché in quote-parte), verso l’acquisto di botteghe e di immobili dentro e fuori città. Di qui l’immagine suggestiva, ma per niente fantasiosa, di Mario Del Treppo, dell’amalfitano con un piede nella vigna e un altro sulla barca. Questa mancanza di specializzazione mercantile si collega al secondo dato, che sintetizzo con un paradosso: Amalfi è una città di mercanti, ma senza mercanti. Un amalfitano del tempo è molto più interessato al prestigio e allo status che gli viene riconosciuto all’interno della città, piuttosto che a quello che può ottenere all’esterno di essa. Di conseguenza, se altrove egli viene definito mercator o negotiator, ad Amalfi non vuole che ciò assolutamente accada. Nella società amalfitana del tempo partecipare ai commerci è ­­­­­150

un’attività come un’altra, che non garantisce alcuna prerogativa particolare. Ciò che conta è certamente essere ricco, ma molto di più essere percepito come appartenente al gruppo dei maiores natu. Il sistema adottato è quello della memoria genealogica, di una nobiltà dalla memoria lunga. Lo status si misura infatti nella capacità di risalire indietro nel tempo alla ricerca dei propri capostipiti. Se i contadini riescono a malapena ad arrivare alla terza-quarta generazione, nelle famiglie aristocratiche si giunge fino a sei, sette, nove e addirittura tredici generazioni. Questo cosa significa? Che per un amalfitano definirsi mercante non conta, mentre è fondamentale l’esistenza di una genealogia che garantisca percezione di sé e del proprio valore, la quale ha evidenti riscontri sociali e pubblici. Questo aspetto ha grosse conseguenze. Ed è determinante per capire la situazione amalfitana, ma in generale anche quella di molte altre sacche del Mezzogiorno marittimo, specialmente di Napoli. Ci si riconosce, ci si batte, si lotta per accrescere il proprio prestigio in un ambito che si fonda su una struttura sociale che lascia pochi margini al mercante, cui viene riconosciuta una parziale, parzialissima, visibilità. Se ad Amalfi di mercanti accertati ce ne sono pochi, a Napoli, dove esiste per il periodo una vastissima documentazione, il termine negotiator ricorre appena sei-sette volte. Cosa vuol dire? Che non ci sono mercanti? L’economia cittadina, in grande sviluppo, non lo avrebbe permesso. Ma si mimetizzano dietro una serie di denominazioni più o meno vaghe: mediatores, custodes, naucleri, ossia comandanti di navi. Artigiani del ferro che vendono semilavorati da cui ricavano buoni guadagni che investono nella terra. Donne che prestano danaro ad interesse. Padroni di telai per la produzione di panni di lino. Bottegai. Contadini-incettatori. Manca assolutamente l’idea di mercante come figura sociale. Di elemento dinamico e propulsivo di sviluppo. In una condizione in cui le attività del commercio non sono rappresentative per se stesse e assumono qualche rilievo solo quando diventano funzionali alla crescita sociale delle singole famiglie, nelle quali ciò che è stato ricavato dai traffici diventa un ingrediente che si confonde con la partecipazione alle cariche pubbliche, alla gestione dei beni fondiari, alla scalata nella gerarchia ecclesiastica. Con una confusione tra i ruoli, nella quale l’esercizio mercantile vale poco, diventa mar­­­­­151

ginale, fin quasi a dissolversi, soffocato com’è da ogni parte dalle tensioni che lo circondano. Proporrò, a tal proposito, un esempio. Esiste tra le testimonianze napoletane d’epoca un testamento unico nel suo genere. Espressione non di Amalfi o di Napoli. Ma di tutte e due insieme. O, se si vuole, specchio della società cittadina tirrenica dell’XI secolo. Delle sue grandezze come dei suoi limiti. Il 10 aprile 1025 Sergio, figlio di Pardo Amalfitano, rilascia le sue ultime volontà. Egli proviene da Amalfi, ma la sua prospettiva esistenziale è tutta legata a Napoli, dove vive. Egli è dotato di un patrimonio enorme. Possiede capitali in moneta, case, forni, castelli, chiese, terreni, dipendenti, servi, schiavi. La varietà del patrimonio immobiliare fotografa alla perfezione l’ampiezza dei suoi interessi. Possiede case tanto a Napoli quanto ad Amalfi. Boschi e frutteti a Capri. Attività produttive in Costiera. Proprietà rustiche, comprensive di schiavi e dipendenti, nell’entroterra campano. Capitali investiti in operazioni di deposito e prestito ad Amalfi e nel suo circondario. Ma il suo ambito di manovra va ben oltre. Lo si apprende da quanto lascia alla figlia: un tesoro favoloso per i canoni del tempo, equivalente, in danaro, a ottantuno solidi in tarì. Esso comprende stoffe di lana; drappi serici di manifattura bizantina; tessuti adrisca, con elaborati ricami, provenienti dalla costa provenzale; oggetti per l’acconciatura dei capelli (le flectas), di produzione spagnola. E dei gioielli: le noscicte, pesanti bracciali d’oro corrispondenti ad un peso di centotrentacinque grammi, del valore di ben trenta solidi. I pinnuli, orecchini con dei pendentifs. Fibule d’oro. Niente che sia frutto della produzione locale. Né i prodotti per l’acconciatura. Né le stoffe di lusso. Né le sete ricamate. Né i gioielli. Sono tutte merci di importazione. Forse comprate a Napoli. O, più probabilmente, in altri mercati mediterranei: nella stessa Amalfi, oppure direttamente in Sicilia, nei centri egiziani o a Costantinopoli. Il campo di movimenti di Sergio, insomma, è vasto. Egli è, per molti versi, un mercante. Eppure non si definisce mai negotiator o mercator ma, come nella migliore tradizione napoletana di cui si sente parte, dominus e miles, che erano i termini che indicavano la sua adesione alla nobiltà locale, cui partecipa in maniera davvero intensa, profonda e sincera, dato anche il suo stretto legame di parentela con gli stessi duchi che governano la città. Tutto il suo patrimonio immobiliare lo suddivide tra i ­­­­­152

quattro figli, senza spendere mai neanche una parola, neppure sottintesa, verso la prosecuzione delle sue attività commerciali. Il suo scrupolo maggiore è che, come membro del ceto dirigente napoletano, in quanto appartenente alla militia cittadina, alla cavalleria, i suoi figli continuino a partecipare ad essa all’indomani della sua morte. Proseguano cioè a combattere e difendere Napoli «secondo gli usi e le consuetudini della città». Per tale motivo divide in quattro, per quanti sono i figli, i cavalli, le armi, le corazze, i paramenti. E prescrive che questo equipaggiamento de militia pertinentes non vada disperso, in quanto la prerogativa militare, il principale emblema dello status familiare, si conservi come tratto vincolante ed esclusivo per i rami principali della famiglia, da conservare gelosamente, in quanto elemento distintivo in seno alla società cittadina. In sintesi, la storia di Sergio è emblematica di una condizione, di un universo, che somma tanti motivi, più o meno mossi, più o meno importanti: una forza patrimoniale ineguagliabile, la diversificazione degli investimenti, i forti legami col potere politico locale, una trama di relazioni economiche che va al di là dell’orizzonte regionale. Ma il suo ruolo di mercante, che esistette e fu reale, non appare mai. Viene quanto meno accantonato, preferendo ad esso i risultati raggiunti nelle forme del prestigio, grazie all’inserimento della sua famiglia nel migliore ambiente cittadino, dove può vantare di aver raggiunto una posizione ragguardevole. Ed è questa condizione di privilegio, e non certamente quella di mercante, che gli interessa trasmettere: perché sa che questa è, per lui e per chi lo circonda, l’unica che veramente conta. Ad ogni buon conto, benché i limiti strutturali siano forti e tali da non reggere appieno i confronti futuri, gli amalfitani rappresentano un gruppo di rilievo nel mercato internazionale mediterraneo dell’XI secolo. Componente che ha la capacità di trascinare dietro di sé operatori di altri centri e di altre città, che si muovono su circuiti di piccole dimensioni, con strutture parassitarie ma complementari all’azione generata dalla gente di Amalfi. Esistono piccoli gruppi di longobardi, che fanno da tramite nel trasporto di derrate tra le zone interne e la costa. Di abitanti di Cava dei Tirreni, che si servono del cabotaggio amalfitano. Di esponenti del patriziato barese, di Otranto, di Barletta, che comunque guardano per i propri scambi più alle coste greche e a Bisanzio ­­­­­153

che non all’Africa. Modesti decolli di piccoli centri, di cui il principale e meglio supportato dalle testimonianze è quello di Gaeta, città specializzata nell’olio e nel grano, che ritorna talvolta nelle lettere della Geniza e usufruisce di collegamenti con la Spagna e l’Egitto. Mentre il Minhadj di al-Makhzumi, un trattato fiscale scritto circa nel XII secolo ma che riporta notizie anche di parecchio precedenti, fa riferimento alla presenza di commercianti sardi nei porti africani: si tratta di una notizia particolare che non trova riscontro in altri testi musulmani o cristiani. In definitiva, tutte queste notizie, sparse e frammentarie, danno il senso di una partecipazione del Mezzogiorno al grande processo assimilativo del mercato musulmano.

5. Mercanti d’uomini

La fortuna iniziale delle città tirreniche, la sua fonte di accumulazione primaria, si basa sulla carne umana. Sul commercio d’uomini. La notizia non deve suscitare scandalo: non è la prima volta nella storia. E non sarà neanche l’ultima. La necessità di forza motrice e di manodopera a costo zero è essenziale per le società preindustriali quasi assolutamente prive di forme di energia alternative. Tutto il grande progresso di civilizzazione urbana islamica; tutto lo sforzo per costruire moschee, palazzi, edifici, porti, arsenali; tutta la capacità di sfruttamento dell’oro che giunge dal centro dell’Africa; tutto il lavoro di produzione rurale ed artigianale che è alla base delle fortune dell’economia della Geniza e della crescita e dello sviluppo di vaste zone; tutta l’energia per muovere barche e galee sono in gran parte frutto del lavoro servile. E non accade diversamente a Bisanzio. L’economia mediterranea, dal Cairo a Cordova, da Qayrawan a Costantinopoli, per muoversi, per marciare e produrre ha una costante fame d’uomini e di braccia. Non è questa però l’unica funzione di uno schiavo. Essi servono anche per arricchire la vita sociale. Sono spesso oggetti di lusso. Pensiamo solo alle forme di schiavitù domestiche, nelle grandi corti di Cordova, del Cairo, di al-Mahdia, di Bagdad, di Palermo (usanza poi ripresa dai sovrani normanni). C’è bisogno di donne, ­­­­­154

di servitori, di cantori, di musici di palazzo. A Cordova, l’harem di Abd al-Rahman, vissuto nella prima metà dell’XI secolo, contava, dicono le cronache, seimilatrecento donne. Il palazzo fatimide del Cairo, dodicimila. La sitara, specie di orchestra da camera, è un altro elemento del lusso. Esistevano delle scuole speciali, a Bagdad, a Medina, a Cordova: vi si istruivano gli schiavi alla musica, alla danza, alla letteratura, alla poesia, alla grammatica. Gli schiavi così educati raggiungevano prezzi astronomici e alcuni di essi diventavano famosi. Lombard racconta il caso di Israq as-Suwaida, schiava di colore che divenne celebre nel X secolo per le sue conoscenze di grammatica e prosodia. Non vanno poi dimenticati gli eserciti di schiavi utilizzati come guardia scelta dai signori musulmani. Come gli Omayyadi di Spagna che possedevano a corte una schiera di diecimila schiavi slavi. Gli eunuchi meritano un discorso a parte. Ce n’erano tanti, sparsi in tutte le corti del Mediterraneo. A Bisanzio, lo stesso imperatore Costantino VII Porfirogenito, che governò tra il 913 e il 959, sosteneva, con un’espressione efficace, che nei palazzi imperiali ve ne fossero così tanti «quante d’estate le mosche in un ovile». Erano perfetti, per l’educazione che gli veniva impartita, in qualità di consiglieri, maggiordomi, valletti, paggi, segretari ecc. A corte viene creato uno specifico ordine degli eunuchi, numeroso e gerarchicamente organizzato, il quale aveva un ruolo importante nel cerimoniale di corte. Ma il loro uso era esteso al di fuori della corte. Ogni famiglia di rango cercava di averne qualcuno al proprio servizio, per le esigenze del gineceo e per una buona conduzione della vita familiare. Nel mondo musulmano la presenza di eunuchi era altrettanto assidua. Specialmente per la custodia degli harem. Ci si richiamava a tal proposito al versetto 31 della sura XXIV del Corano, che imponeva alle donne di «custodire le proprie vergogne e di non mostrare troppo le parti belle, eccetto quel che di fuori appare, altro che ai propri mariti, ai propri padri, ai propri suoceri o ai propri figli [...] o ai loro servi maschi privi di genitali». Quello degli eunuchi era un mondo di disperazione. Meglio: di bambini disperati. Ridotti a schiavi, venivano sottoposti all’operazione in tenera età. Il rischio di mortalità era molto elevato. Su uno stock di una novantina di bambini, ne sopravvivevano meno di cinque. Gli adulti non venivano sottoposti all’evirazione: ­­­­­155

la morte avrebbe significato perdere un pezzo pregiato da piazzare sul mercato. Scrive Pasquale Corsi: «l’abbondanza di bambini e, quindi, il loro minor valore di mercato, senza l’aggravio delle spese di allevamento e di addestramento, erano tutti elementi che incoraggiavano ad affrontare i rischi dell’operazione. A ciò si aggiunga che un’operazione precoce eliminava o riduceva notevolmente le conseguenze negative dei contraccolpi psicologici, inevitabili in un soggetto adulto». Non credo tuttavia che uomini che si accingessero ad evirare uno schiavo, bambino o uomo che fosse, avessero remore circa la sua tenuta psicologica. Una merce è una merce. Ed il prezzo di un bambino era minimo; mentre un adulto valeva e, se moriva, la perdita era elevata: sta tutta qui l’esigenza di scegliere un bambino piuttosto che un uomo fatto. Ciò che è peggio è che sottoporsi a questa orribile mutilazione in molti casi rappresentava l’unica possibilità di vita, di poter sopravvivere in una condizione di continue razzie, orrori, fame e brutalità. Per sfuggire ad un mondo dove spesso non vi era nullam spem vivendi, nessuna speranza di vita. Il destino drammatico degli eunuchi non si arresta in questa prima fase. Sia nel mondo greco sia in quello musulmano, tra la gente prevaleva un senso di autentico disprezzo verso la diversità che essi rappresentavano. Rapporto che si intorbidiva ancor di più quando un eunuco, e succedeva, ascendeva al potere. A quel punto gli equilibri psicologici potevano saltare «per le connessioni con l’esercizio di un potere, a volte assoluto, e con l’esperienza quotidiana di una marginalità tanto più umiliante quanto più insanabile». Solo pochi arrivano in alto; ad esempio quelli che attornieranno i re normanni: tra gli altri, Filippo di al-Mahdia; il gaito Pietro, comandante della flotta; l’eunuco Andrea, paggio di corte; il crudele ma anche fedelissimo eunuco Martino, ricordato da Ugo Falcando. Ma essi rappresentano solo la punta di un iceberg. E tutti gli altri? Cosa ne è della loro vita e della loro condizione, di questa massa di diversi, che resta senza storia e senza memoria? Gli eunuchi potevano arrivare nelle città musulmane o bizantine solo per importazione, perché le rispettive leggi proibivano l’evirazione. Tra le regioni che rifornivano Bisanzio c’erano la Persia, l’Armenia, il Caucaso. Nel regno abbaside, invece, molti eunuchi arrivavano dalla Nubia e dall’Europa occidentale: cer­­­­­156

tamente da Verdun, dove era una delle principali zone di fabbricazione di eunuchi, che riforniva «con immenso lucro» la corte omayyade di Cordova. In Sicilia invece l’area di provenienza degli eunuchi corrispondeva all’ampiezza del jihad, con una corrente di giovanissimi prigionieri, razziati lungo le coste meridionali come nelle fasce interne longobarde. E ad alimentare la richiesta pensavano spesso i veneziani, che acquistavano schiavi nei paesi slavi. Visti gli ingenti guadagni che si potevano ricavare dalla loro vendita, in molti casi sia a Costantinopoli sia nel mondo musulmano le leggi locali venivano aggirate e si provvedeva a creare eunuchi in casa propria. Scappatoie spesso permesse dall’intrico e dall’ambiguità di alcune norme, come le novelle promulgate dall’imperatore Leone VI (886-912) con le quali si consentiva l’amputazione dei genitali, quando ciò servisse non tanto a mutilare la natura ma «a venire in suo soccorso». Terribile pasticcio, quasi come se si volesse creare una razza di creature nuove, che spianava la strada a situazioni indiscriminate e incontrollabili. Quanto poteva costare uno schiavo è difficile dirlo. Il prezzo medio si aggirava tra i trenta e i sessanta dinari. Ma con prezzi che potevano essere molto più ridotti, anche sui dieci-venti, per la manovalanza. Per gli schiavi specializzati e per gli eunuchi si raggiungevano prezzi più alti. A Bisanzio si sa che venivano venduti anche a sessanta-settanta solidi, tradotto sarebbero circa settantaottanta dinari. Claude Cahen riferisce pure di situazioni estreme. Di schiavi venduti nei paesi musulmani per cifre esorbitanti, fino a mille o addirittura duemila dinari. Prezzi che si riferiscono verosimilmente a personale altamente specializzato, di pregio assoluto. Questo commercio, dunque, ha un posto di primaria importanza nell’economia mediterranea; schiavi di cui bisogna approvvigionarsi al di fuori del dar al-Islam o oltre i confini dell’impero bizantino, approfittando delle flessibilità della frontiera, delle no man’s land, delle zone di guerra, dove far preda risultava più facile. Il Sud Italia al tempo del jihad diventa uno dei terreni ideali. I saraceni lo sfruttano a dovere in una fase calda del mercato, quando la crisi demografica dell’VIII secolo ha ridotto di molto la manodopera e nel mondo musulmano cresce la domanda. Non sappiamo che volume abbia avuto questo commercio. In alcuni periodi credo abbastanza nutrito, soprattutto negli anni di vita dell’emirato di Bari, quando testimoni oculari raccontano di navi ­­­­­157

in partenza dal porto di Taranto per l’Egitto, cariche di centinaia e centinaia di schiavi. È proprio la guerra santa a spingere Amalfi, Napoli e Gaeta verso questo proficuo settore economico. I saraceni trovano subito redditizia l’alleanza: i loro abitanti conoscono meglio il territorio e sono interessati a guadagnare presto e molto. Le cittadine sono dotate di approdi sicuri, con buone infrastrutture per l’imbarco, il trasporto e la vendita. Gli esordi li conosciamo. Ne parla la celebre lettera scritta da papa Adriano I nel 776 a Carlo Magno, dove i protagonisti in negativo sono i «maledetti greci», nei quali è possibile riconoscere i razziatori delle città tirreniche: «abbiamo trovato nelle vostre cortesi disposizioni a proposito del commercio degli schiavi come se fossero stati i nostri romani a venderli ai nefandi saraceni. Mai e poi mai abbiamo commesso un simile crimine né abbiamo consentito che fosse commesso; piuttosto i maledetti greci da sempre andavano navigando lungo le coste longobarde, compravano famiglie, stringevano amicizie con gli stessi longobardi e proprio da costoro ricevevano degli schiavi». Già da queste parole si capisce come in questo commercio siano coinvolti tutti insieme: saraceni, greci e la stessa gente longobarda, irretita dal guadagno. Ma c’è un particolare che rende la lettera, se è possibile, ancor più agghiacciante: che molti longobardi chiedono di essere imbarcati come schiavi, privandosi, a loro stesso arbitrio, della libertà: «i longobardi hanno venduto parecchie loro famiglie, costrette dalla fame. Altre persone, tra gli stessi longobardi, si imbarcavano spontaneamente sulle navi greche, in quanto prive di ogni mezzo di sostentamento». Per tanti uomini del tempo, dunque, meglio la schiavitù di una morte certa. Il cronista Erchemperto, tempo dopo, descrive lo stesso clima di razzia di uomini, che non sembra assolutamente mutato dall’epoca di papa Adriano. Il ritmo è sempre scandito dai «maledetti greci», che controllano insieme ai saraceni questo mercato. Dando prova di singolare bestialità: «dirò brevemente come mai la divina bontà abbia permesso tanto a quella gente nefanda. I greci per loro abitudine e per la loro indole sono uguali alle bestie: di nome sono cristiani ma per il loro comportamento sono peggiori degli agareni. Rapiscono infatti moltissimi fedeli e ne vendono parte ai saraceni; con altri riempiono, come mercanzia, le spiagge del mare e altri ancora li riservano per sé, come schiavi e schia­­­­­158

ve». Cristiani che vendono a cristiani. Saraceni che ne approfittano. Spiagge fitte di donne, uomini e bambini costretti e pronti all’imbarco. Sfruttamento diretto di tanti altri che non vengono destinati alla partenza, ma restano nelle stesse case dei mercanti di uomini, che preferiscono tenere per sé famuli e famule, che ingrossano l’esercito dei propri servitori. Su questi mercanti cristiani non esiste quasi alcuna notizia. Qualcosa traspare dalle fonti agiografiche. Ad esempio, la vita di sant’Elia il Giovane (ricordiamo, del IX secolo) racconta non solo come il santo, in gioventù, venga rapito più volte nel corso della sua esistenza e ridotto in schiavitù; ma che abbia fatto parte addirittura, una volta, di un nutrito carico, composto da duecento persone. Venduto da un gruppo di corsari saraceni ad un cristiano non specificato, Elia viene trasportato in Africa dove viene ceduto ad un altro cristiano: un mercante, che affida al futuro santo tutti i suoi affari. La vita di san Leone racconta invece un episodio che stigmatizza la condotta morale di uno di questi trafficanti e fornisce un’importante indicazione sull’atteggiamento religioso nei confronti dei commercianti di uomini. Il racconto si svolge così: il mercante viveva vicino Reggio, nello stesso luogo dove risiedeva un santo monaco chiamato Arsenio. Più volte questi l’aveva rimproverato per l’infamità della sua professione e per la sua indescrivibile avidità d’oro. L’uomo però, come c’era da aspettarsi, non aveva provato alcun rimorso. Per questo motivo, cade su di lui la maledizione divina e muore. La moglie del mercante, allora, cerca di salvare l’anima del marito e dona ad Arsenio un solido d’oro, perché celebri una messa in suo ricordo. Il monaco tentenna. Gli scrupoli sono parecchi. Prima rifiuta, poi accetta. Comincia la messa. Sicché, nel momento in cui il monaco sta per pronunciare il nome del mercante defunto, un angelo arriva dal Cielo, e, con una mano, gli tira la veste sacerdotale, mentre, con l’altra, gli tappa la bocca impedendo al monaco di pronunciare quel nome empio e immorale. Interrotta la messa, al monaco non rimane altro che prendere il denaro e riconsegnarlo alla donna. Per capire bene come funzionassero le dinamiche delle razzie di schiavi compiute dai mercanti tirrenici, val la pena di osservare la situazione napoletana. I razziatori di questa città procedevano in diversi modi, avendo come obiettivo la popolazione longobarda, particolarmente indifesa: attraverso rapidi attacchi, incursio­­­­­159

ni, singoli rapimenti di donne e bambini, specialmente nel ventre molle del territorio, la Liburia, a nord della città, zona di confine sempre in bilico tra i due contendenti napoletani e longobardi. I principi longobardi cercano di tamponare il flusso. Lo fa Sicardo, nell’836, col patto di tregua stabilito coi napoletani, rappresentati dal duca Andrea II. I commi quattro e cinque sono assai precisi. Il primo intima «di non comprare longobardi né di venderli super mare», e in caso di trasgressione commina pene pecuniarie che vanno dai cento ai duecento solidi. Il secondo invece chiarisce sulle forme dello scambio di contadini della Liburia, i cosiddetti tertiatores, uomini senza una precisa identità giuridica, né napoletani né longobardi, i quali seguono una ben triste sorte: razziati dai longobardi, venduti ai napoletani, portati da questi al porto cittadino, caricati su navi di intermediari (musulmani di Sicilia o d’Egitto, ebrei, amalfitani), rivenduti ancora una volta nei porti africani e spagnoli. In ognuno di questi passaggi c’è qualcuno che si arricchisce. Al flusso di contadini della Liburia va posto un freno, stabilendo che questo tipo di tratta possa essere effettuata soltanto nel caso che uno dei tertiatores sia accusato di omicidio. Ma è evidente che si tratta di una misura sintomatica di una situazione di emergenza, con una corrente che tende ad accrescersi via via, per naturale sollecitazione della continua domanda e per le altissime probabilità di profitto. Se infatti facciamo due calcoli, se anche si doveva pagare una multa di cento o duecento solidi ai signori longobardi, un buon carico, mettiamo di cento schiavi, comportava un guadagno netto di dieci, venti volte tanto. Questa storia di schiavismo termina quasi del tutto dopo la distruzione dell’énclave musulmana del Garigliano, quando il commercio di uomini da parte di operatori meridionali rallenta. Ripeto: rallenta, ma non scompare. Gli schiavi restano parte integrante del paesaggio umano delle città tirreniche, dove abbondano le notizie su servi, su famuli, su gente che viene venduta e riscattata, e su pietose richieste di aiuto per poter rivedere il proprio figlio o la propria moglie venduti sulle coste africane. Alla fine di questo paragrafo, spero che appaia come la tratta degli schiavi, una delle principali voci nel commercio mediterraneo, rappresenti per le città tirreniche un volano di sviluppo. Esse seppero generare un efficace sistema di importazione/esportazione, che funzionò così: con la razzia; la vendita presso i porti ­­­­­160

cittadini o negli scali di arrivo, in Sicilia o in Africa, della merce; e la realizzazione di altissimi ricavi, in moneta pregiata. Cosa si faceva del denaro guadagnato? Immagino che molto fluisse nelle forme del prestigio e del lusso. Altro veniva forse convogliato, paradossalmente, in donazioni e in legati pii: lo lascia intendere bene l’episodio del mercante di schiavi reggino. Ma il surplus veniva reinvestito in altre fonti di sviluppo: traffici, compravendita di terre, investimenti per la bonifica di nuovi spazi coltivabili. I mercanti di schiavi, col loro terribile lavoro, riprovevole, disapprovato e bollato dalla morale corrente, innescarono un circuito crudele ma, da un punto di vista economico, efficace: uno dei trampolini di lancio delle fortune economiche delle città tirreniche, tra cui Amalfi.

6. La vera storia di Musa ben Eleazar

Prima di andare avanti e spiegare qualche altro aspetto del commercio meridionale della Penisola all’interno del mercato comune musulmano, vorrei introdurre, dopo tutto il dolore sparso, una nota parzialmente positiva. Un intermezzo. Perché non tutti i razziati, i depredati, i deportati, gli schiavi finirono sommersi, sepolti da una vita breve di fame, di stenti, di fatica, di dolori. C’è infatti qualcuno che ce la fece, si salvò. Sopravvisse. Riuscendo a risalire la china. Passando dalla condizione di merce, di cosa, a quella di Uomo. Tornando ad una vita di normalità, o, come nel caso che sto per raccontare, di eccezionalità. Un episodio vero. E particolarmente bello. Non sappiamo come fu possibile che finisse così bene. Cosa giocò in favore del nostro personaggio? La fortuna? Le circostanze? Gli incontri? Le sue capacità personali di intelligenza e adattamento? Le incognite e le possibilità nella vita di un uomo, nel bene come nel male, possono essere tante ed imprevedibili. Ma la storia di Musa ben Eleazar è, per molti versi, la storia di un riscatto per tante altre storie, che nessuno ha mai conosciuto e mai conoscerà. Una storia che appartiene a pieno titolo al Medioevo che sto raccontando. Oria, quattro luglio 925. La città viene espugnata da una spedizione musulmana, capeggiata da Abu Ahmad Jafar, inviato a ­­­­­161

saccheggiare la Calabria e la Puglia dall’iniziatore della dinastia fatimida, Ubayd Allah. Il rituale è il solito: massacro della popolazione, razzia di tutto ciò che poteva essere utile, deportazione di donne e uomini. Il bilancio è grave. Circa seimila morti. Diecimila prigionieri. Anche il bottino è ingente: per Ibn Idari, furono trafugate «gran copia di gioie, drappi preziosi e monete», che, per gran parte finirono nelle casse di Jafar: al punto che Ubayd Allah ebbe di che lamentarsi, sostenendo che «del cammello non ho ricevuto che le orecchie». Tra i prigionieri c’è un po’ di tutto. Cristiani, innanzitutto. Ed ebrei, che arricchivano con la loro presenza la cittadinanza di Oria. Di essi, alcuni si salvano. Pagano un riscatto, anche molto elevato. Ma, in maggioranza, sono costretti a prendere la strada del mare. Tra questi il nostro protagonista, che allora ha un altro nome. Si chiama Paltiel. Ha dodici anni. Appartiene ad una famiglia ragguardevole, discendente da Amittai il Vecchio. Ora, però, è un disperato. Incatenato ad altri incatenati. Non ha più niente. Non è più niente. È una merce come tante altre, che va trasportata da un luogo all’altro. Chi è con lui, in questo viaggio? Quali le persone che conosce, che ama, che non lo fanno sentire totalmente smarrito, disperso? Altri membri della sua famiglia. Sua madre. Suo zio materno, Hananel ben Paltiel. Ed altre persone, donne, vecchi, giovani, moribondi. Sembra che uno dei vecchi, una specie di profeta, un saggio, un altro disperato, si sia avvicinato al ragazzino durante il viaggio, e gli abbia profetizzato un destino, che è anche lo stesso destino del vecchio: «guai a te, perché è per colpa tua, perché tu divenga grande, che tutti noi siamo portati in esilio. Ecco, io ho sognato un grande albero che cresceva dalla terra al cielo e tu salivi sulla sua cima», narra il Sefer Hassidim. Si sbarca ad al-Mahdia. È il momento del mercato. Della vendita. Il passaggio peggiore. Chi lo comprerà? Dalla sua, il giovane ha delle qualità: è sveglio, capace. Si dice «di ingegno acuto». Precoce per la sua età. Lo compra un medico esperto. Meglio: il medico di corte. Si chiama Yaqob Ishaq al-Israeli. Anch’egli è un ebreo, integrato perfettamente nel mondo della capitale fatimide. Si stabilisce tra maestro e discepolo uno di quei solidi rapporti, dove si mescolano insegnamento, autorità, affetto. Il ragazzo comincia a fare esperienza. Il maestro lo indirizza. Gli fa conoscere le erbe, i farmaci. A «mescolare le droghe, a imparare ­­­­­162

i medicamenti». Lo interessa all’astrologia. Il ragazzo cresce. Da apprendista si trasforma in un medico, con una certa competenza. Finché il maestro muore. E accade la svolta. Sembra che il califfo al-Mansur, all’improvviso, si ammali. Ha un terribile dolore al capo. Fa chiamare il suo medico. Chiede di Yaqob. Ma gli dicono che è morto. Allora domanda se il medico abbia lasciato un erede. Un figlio, un discepolo. Così viene chiamato Paltiel. Yehudah ben Semuel riporta così il dialogo tra il califfo e il giovane: «disse il califfo “non prenderò i tuoi farmaci, perché sei giovane”. Paltiel rispose: “ungerò i tuoi piedi e suderai”. Quelli che erano intorno al califfo, tra cui un eunuco, gli dissero: “questo ragazzo è un bugiardo”». Ritenevano infatti impossibile che, partendo da una lozione medicamentosa ai piedi, si potessero avere effetti benefici per il mal di testa. Più di tutti, per la cronaca, è l’eunuco ad essere scettico. Il ragazzo, davanti all’opposizione degli astanti, comincia a ridere. E tira fuori una battuta micidiale, arguta, degna della sua essenza ebraica: «Paltiel rise. Il califfo gli domandò: “perché mi ridi in faccia? Non è forse proibito ridere alla mia presenza?”. Il giovane rispose: “questo eunuco si meraviglia dell’unzione del piede. Ma non è stato egli tagliato in basso nei suoi testicoli e, guardate, gli cadde la sua barba dall’alto?». Con questa battuta, comincia la sfolgorante carriera di Paltiel. Che, per prima cosa, cambia nome. Ne assume uno arabizzante, Musa ibn Eleazar. Un nome, un destino. Anch’egli è un Mosè, salvato dalle acque. Perché sopravvissuto ad un lungo viaggio che lo ha portato dalla schiavitù alla redenzione. All’affrancamento e all’affermazione sociale. Ma il cambiamento di nome è segno anche della volontà di Paltiel/Musa di mimetizzarsi. Confondersi, lui ebreo, tra la massa dei musulmani. Occultamento della ebraicità che raggiunge il massimo con la futura conversione all’Islam di suo figlio maggiore: episodio che rappresenta la completa integrazione di tutta la famiglia di Paltiel/Musa nella società musulmana della capitale. La carriera di Paltiel/Musa alla corte fatimide ha del sorprendente. Molto del successo si fonda sulla sua capacità professionale. È un grande medico. Uno sperimentatore di nuovi farmaci, di cui alcuni a molteplici e salutari effetti. Un chimico. Un esperto di antidoti. Uno scienziato. Un astrologo. Ibn al-Qifti riporta di lui questo ritratto: ­­­­­163

era un medico provetto nell’arte del curare e del comporre medicamenti ed esperto delle qualità naturali degli elementi semplici. Fu lui a sperimentare la formulazione di una pozione di radici di cui si dice che fosse in grado di aprire i canali del corpo e di dissolvere i soffi delle costole dello sterno e di risolvere i dolori che si presentano alle donne al sopraggiungere del mestruo e di regolarlo, nonché di purificare l’utero dai residui e dalle scorie viscose che potrebbero essere causa d’aborto. Questa pozione risulta utile per i reni e la vescica che purifica dalle scorie solide che sono all’origine della formazione dei calcoli e facilita inoltre il passaggio dei grandi medicamenti facendoli giungere fino alle profondità degli organi dolenti e fluidifica la bile gialla dal ventre e ne determina l’uscita con l’orina. Fu al servizio di al-Muizz e compose per lui numerosi medicamenti e ne ottenne da Dio riuscita. Fra le pozioni che compose per il califfo ci fu quella a base di tamarindo, per la quale ipotizzò numerosi vantaggi curativi ed essa si rivelò valida. Al-Tamimi al-Muqaddasi menziona in una delle sue opere il modo di preparare il composto.

Oltre a svolgere attività scientifica, Paltiel/Musa scrive diverse opere, nelle quali discute e descrive le sue scoperte, e di cui si tramandano diversi titoli: Sulla farmacopea, dedicato ad al-Muizz; Trattato sulla tosse; Risposta alla domanda di uno che indagava sulla vera natura della scienza, Antidotario. Fonda una dinastia medica. Dopo di lui, furono medici di corte suo figlio Ishaq, un altro suo figlio Ismail, suo nipote Yaqub ben Ishaq e suo pronipote, Musa ibn Yaqub ibn Isaq, ricordato, nel 1038, come capo della comunità giudaica del Cairo. La fortuna di Paltiel/Musa non si fonda solo sulla sua indiscutibile capacità professionale. Egli mostra di essere un uomo di esperienza, consapevole che la vita di corte si presenta tortuosa, perché «la via della benevolenza non è sempre liscia, ma spesso franosa». Contano le amicizie giuste. Relazioni altolocate. Per far maturare la sua posizione, intraprende rapporti con influenti esponenti ebraici presenti a corte. Come l’ebreo convertito Yaqub ibn Killis, il visir proveniente da Bagdad. Per suo tramite, il potere di Musa aumenta. È presente nel più ristretto entourage del califfo al-Muizz quando questi intraprende il viaggio di trasferimento dalla vecchia capitale fatimide alla nuova del Cairo. Diventa pratico nell’affrontare beghe di corte. Nel discutere di potere. Nel gestire compromessi. Nell’affermarsi come uno dei consiglieri più ­­­­­164

affidabili e ascoltati del califfo. Servì alla sua ascesa l’essere un astrologo? Dal racconto che riporta il Sefer Yuhasin sembrerebbe di sì. Avvenne, racconta Ahimazz ben Paltiel, che Musa fosse chiamato dal califfo al-Muizz che voleva conoscere il suo destino. Paltiel/Musa cominciò a consultare le stelle. Trascorsa qualche ora, arrivò il verdetto: il futuro sarebbe stato prospero. Al-Muizz sarebbe diventato «re d’Africa, di Sicilia e d’Egitto». Una predizione perfetta che, come si sa, si concretizzò. E, secondo Ahimazz, significò per il già celebre medico un prestigio ancor più ampio a corte e la totale fiducia del califfo che gli giurò eterna ricompensa. Ma siamo già nel mito di Paltiel/Musa, che si arricchisce, nella tradizione, di tanti e tanti altri meriti: dall’organizzare la conquista d’Egitto all’approntare al Cairo mercati e alloggiamenti, fino alla nomina di difensore della «comunità del popolo di Dio che abitava l’Egitto» e all’essere persona talmente influente a corte da contribuire alle manovre di successione al trono califfale. Una prospettiva celebrativa, che finisce per confondere Paltiel/Musa col Giuseppe della Bibbia e con tanti altri personaggi, come lo stesso visir Yaqub ibn Killis, che davvero svolse un’effettiva e costante gestione del potere a al-Mahdia. Ogni mito ha alle spalle una storia. Quello di Paltiel/Musa nasce da un’idea: di riscatto e di rinascita. Quando muore, nel 976, a sessantatré anni, la sua vita ha già un sapore epico. Questa vicenda, del ragazzo di Oria razziato dai saraceni, dell’ex-deportato venduto come una merce che trovò una casa in Africa, imparò la medicina e divenne medico del califfo, si tramanda, attraverso varie fonti in ambito ebraico pugliese e non solo, proprio per questo suo significato salvifico, come voce di speranza per chi molte speranze non aveva. Confondendosi, in un alone leggendario, con quella di grandi personalità dell’antico Testamento e della contemporaneità.

7. La seta e il lino

Che cosa unisce un monaco della Longobardia meridionale, un contadino greco di Reggio, un mercante amalfitano, ebreo o musulmano? Una merce costosa: la seta. Spiega con la solita chiarez­­­­­165

za Goitein: la Sicilia e il Sud Italia, insieme con la Tunisia, erano la Manchester e la Lancaster dell’Alto Medioevo. Ciò non solo per i commerci. Ma per l’industria. Al primo posto, quella della seta. David Abulafia tende a sfumare questa affermazione, ma io resto convinto che le parole di Goitein colgano nel segno. Per diversi motivi. Innanzitutto perché è difficile, nelle corrispondenze della Geniza mandate dalla Sicilia, non trovare riferimenti alla seta lavorata. Sia esplicitamente – con la formula generica seta di Sicilia, oppure seta di Siracusa o ancora seta di Demona –, sia implicitamente, considerato il numero elevato di partite. Per la seta era stabilito un prezzo standard di due dinari e mezzo per trecentoventotto grammi di seta grezza, e la seta veniva adoperata, in mancanza di valuta, come moneta. Naturalmente, c’era seta e seta. Con lavorazioni diverse. Con disegni differenti. In Sicilia se ne producevano di vari tipi, di qualità migliore e peggiore. Manufatti di pregio, come le stoffe lasin: termine non siciliano, ma di origine lontana, con radici in India e in Cina. Ma anche prodotti di altissima qualità. Gli imamas, i turbanti, sono quelli di maggiore successo. Alla moda. Di largo consumo. Richiesti dappertutto per la loro fattura. Con una domanda che arrivava fino ai confini del mondo islamico. Può sembrare curioso, ma la passione per i turbanti è, allora, uno dei must per un musulmano elegante. L’indumento principale del corredo di chi volesse ben apparire nel proprio ambiente. Per comprarli, si spendevano cifre ingenti. Se per il vestiario una persona distinta ed elegante spendeva due dinari, che è già una bella cifra, solo per il turbante ne spendeva quattro. Con essi, le manifatture siciliane producevano un’altra enorme tipologia di prodotti, che raggiungevano anche il mercato dell’Europa occidentale, sotto forma di firashs, paramenti sacri, cuscini, broccati, farkhas, thawbs, tappeti copriletto, veli, abiti, mantelli, pellicce ricamate in seta, fazzoletti e così via. A produrli ci pensano le manifatture sparse in Sicilia, le botteghe dotate di telai, i tiraz, i tiratoria, presenti a Palermo come in altre città isolane. Intendiamoci: non si deve pensare ad imprese industriali di grande spessore, ma ad una sommatoria di imprese di piccole dimensioni per nulla omogenee tra di loro. Un artigianato fatto in gran parte di prodotti raffinati. Tuttavia, la geografia del lavoro della seta siciliano eccede largamente la produzione locale di seta grezza. Esistono, infatti, lo abbiamo visto, diverse ­­­­­166

aree della Sicilia con piantagioni di gelso, dove si pratica l’allevamento del baco, per nulla sufficienti però per approvvigionare un’industria sollecitata dalle continue richieste del mercato. Allora la seta da lavorare da dove arrivava? Per approvvigionarsi esisteva un grande serbatoio: la Calabria. Per capire dove, come e in quale quantità, occorre partire da un documento di Reggio Calabria: il brebion, l’inventario, della metropolia cittadina. È un documento già particolare in sé: una pergamena lunga sette metri, ora suddivisa in undici parti, con alcune lacune, all’inizio e alla fine, che comprende cinquecentotrentacinque righe fitte, scritte in greco. La data della sua composizione è circa la metà dell’XI secolo. Questo atto ha uno scopo, tipico della natura amministrativa bizantina: quantificare le proprietà presenti e stabilire l’ammontare delle tasse da versare allo Stato. Cosa appare? La presenza di qualcosa come circa ventiquattromila gelsi (di cui quattromila non avevano ancora completato la crescita, cioè al di sotto dei dieci anni), adoperati esclusivamente per l’allevamento dei bachi. La coltivazione del baco è assai complessa. Lunga e per molto tempo improduttiva. Alla partenza ci sono i gelsi: da piantare in maniera irregolare, sul limitare degli orti o dei campi, lungo le strade, a lato dei letti dei torrenti. Lontani da altre coltivazioni, perché le lunghe radici dei gelsi possono nuocergli. Le piante andavano curate con attenzione. Concimate. Protette. Tenute ben umide. Poi potate. Sarchiate. Pulite. Sostenute e legate a giunchi. L’albero adulto, a dieci anni, richiedeva ancora lavoro, umidità, luce e calore per produrre le foglie che avrebbero nutrito il baco. A questo punto si preparavano le uova, cominciando dai bozzoli più adeguati. Dopo l’accoppiamento delle farfalle, le femmine venivano collocate su pezzi di stoffa sospesi perché vi deponessero le uova. Queste stoffe venivano conservate in vasi, in un luogo fresco, durante tutto l’inverno. All’inizio della primavera, tirate fuori e immerse nel vino e, piano piano, a punta di lama, si procedeva a staccare le uova dalla tela. Le uova erano fatte seccare all’ombra e, tra marzo e aprile, si procedeva con la covata. Questa avveniva su pagliericci, verosimilmente gli stessi dove il contadino aveva dormito, cercando di proteggere quanto più possibile le uova con dei piatti. Se ritardava, erano le donne che le tenevano calde in grembo, dentro sacchetti. I bachi, una volta nati, venivano sparsi su foglie di gelso accuratamente tagliate, di cui cominciavano a ­­­­­167

nutrirsi, con un procedimento anche in questo caso articolato, perché – va detto – i bachi si addormentano e riprendono a mangiare per tre volte lungo una decina di giorni. L’attenzione, in questa fase, doveva essere massima, perché si doveva aumentare di volta in volta la quantità di foglie, in modo da saziare l’appetito dei bachi e consentire che cominciasse la fabbricazione del bozzolo. Come scrive al-Qazwini, «li si vede allora avvolgersi d’un tessuto simile alla ragnatela e codesto tessuto si accresce di giorno in giorno. Se capita che piova in questo tempo, il bozzolo risulta molle per l’umidità, il baco lo perfora e ne esce dotato delle ali che gli servono a volare: in questo caso la seta resta inutilizzabile. Se si vuole raccoglierla con profitto, si provvede, appena i bachi hanno finito il loro lavoro, a esporre i bozzoli ad un sole ardente, per far morire i bachi. Se ne appare soltanto un certo numero, lasciando che i bachi li perforino in modo che possano uscire e deporre le uova». Ho voluto intenzionalmente riportare tutta la fase di coltivazione del gelso e di allevamento dei bachi da seta per mettere in luce come ci si trovi davanti ad uno dei più articolati ed evoluti processi lavorativi dell’agricoltura medievale. Estenuante. Infinito. Con lunghi tempi per la messa in opera e altrettanti di inattività, fino alla maturazione delle piante di gelso. Fase cui, una volta terminata, corrisponde l’operazione di cova delle uova e di preparazione dei bachi: la quale richiedeva una cinquantina di giornate lavorative l’anno. E di disporre di una manodopera numerosa e scrupolosa; di concimi; di buoni livelli di irrigazione; di locali adatti. Tutto questo sottintende l’esistenza di alti livelli di investimento. Come sarebbe stato possibile affrontare tutto ciò, senza alcuna prospettiva di trarre lauti guadagni? Infatti, le prospettive c’erano, una più vantaggiosa dell’altra: la più tradizionale guarda verso Oriente, all’impero e ai laboratori di Costantinopoli; l’altra, la più innovativa, si schiudeva oltre lo stretto, dove esisteva un mercato enorme, sconfinato e che diviene il vero banco di prova della produzione calabrese. I gelsi si coltivano un po’ dappertutto in Calabria: nella parte più estrema della regione; poi a Malvito, a Rossano Calabro, a nord di Amantea, a Nicastro, a Catanzaro, a Squillace, intorno a Stilo, a sud di Tropea. I ricavi tratti dall’esportazione della seta grezza incidono profondamente sulla bilancia economica della Calabria. Si parla ­­­­­168

di cifre altissime. Una stima di André Guillou si aggira su introiti pari a quattro milioni di dinari l’anno – equivalenti all’ammontare dell’imposta fondiaria riscossa dal califfato fatimide –: cifra che mi pare eccessiva, ma almeno ha il merito di offrire un indicatore. Ad ogni modo, la produzione di seta grezza rappresenta per la Calabria del tempo la voce di maggiore rilievo nel suo sistema economico, che assicura ricchezza e sviluppo per i suoi centri urbani. Resa possibile in quanto, nonostante le guerre trascorse e gli effetti deleteri del jihad, la regione presenta una struttura economica resistente e profonda, fondata su una fitta rete di produttori laici e religiosi; inserita nel rinnovato sistema bizantino di coordinamento tra città e villaggi, che consente l’osmosi tra aree rurali e aree di commercio interne e tra esse e i porti di imbarco della costa. L’esempio calabrese si proietta su altre zone meridionali, dove, considerati i guadagni, ci si comincia a chiedere se sia possibile produrre seta grezza. Così molti si improvvisano coltivatori di bachi da seta: in maniera caotica, poco razionale rispetto a ciò che avviene in Calabria, cercando di far attecchire il gelso in zone impervie, dove le condizioni climatiche e pedologiche ne rendono quasi impossibili la coltura. Ci pensano soprattutto i monaci di alcuni monasteri. Il principale è S. Vincenzo al Volturno, nelle sue tenute a nord di Benevento, a sud degli Abruzzi, a Valva, a Marsicano, ad Appignano. Nella zona di Avellino, i monaci del monastero di S. Modesto di Benevento possedevano terreni dati in fitto col richiedere in cambio un censo in sericum. Con quali risultati, non lo sappiamo. Credo piuttosto modesti. D’altra parte, da alcune affermazioni dell’ebreo Donnolo Sabbatai relativo alla presenza di gelsi nella zona di Oria, cui vanno aggiunte le indicazioni su stoffe di seta presenti in città, lascerebbero pensare a qualche traccia produttiva in Puglia. Ma si tratta di elementi impalpabili, appigli per niente certi. Occorrerebbe, come minimo, un altro brebion. Peraltro, si cerca anche di entrare in concorrenza con la stessa produzione artigianale isolana. Però su scala ridottissima. Furono attivi degli ateliers in Puglia, a Otranto, a Oria, a Taranto. Qualcuno a Gaeta. Qualcuno anche a Napoli, dove, in epoca precedente a quella trattata, si ricorda la produzione di blatin neapolitano, seta di colore rosso derivata «dalla conchiglia carnivora cocus ilicus». Verosimilmente, grazie al raccordo commerciale amalfitano, la seta grezza calabrese veniva immessa in territorio siciliano. E ­­­­­169

sono sempre gli amalfitani che provvedono, insieme con operatori ebraici, a diffondere seta sia lavorata che non lavorata nei porti mediterranei. Questa merce rappresentava per il commercio amalfitano un sicuro investimento, per gli ottimi ricavi che si potevano trarre: poteva essere trasportata ad un costo relativamente basso, mentre nei porti egiziani aveva un valore decisamente alto. Un fattore non di secondo piano, nella dinamica commerciale della città campana, in quanto significava una notevole riduzione del saldo commerciale negativo del suo traffico con l’Egitto. Sappiamo invece come gli ebrei trasportassero la merce da Palermo sino ai borghi artigianali del Delta del Nilo, notizia attestata sia nel 1020 che nel 1040; e a Qayrawan, dove vengono ricordate spedizioni di seta nel 1047. La struttura commerciale amalfitana consente di immettere sul mercato un altro prodotto meridionale: i tessuti di lino napoletani. Non è una leggenda che Napoli sia, per chi viene dalle coste del sud del Mediterraneo, Nabl-el-Kattan, la città dei tessuti di lino. La prodigiosa descrizione di Ibn Hawqal, che descrive «pezze alle quali non trovo compagne in nessun altro paese, né ci sia artefice che sappia fabbricarne in nessun altro tiraz del mondo» va intesa in maniera più modesta. Il lino veniva coltivato fuori città, lungo le sponde del fiume Sebeto. Lo si portava a maturare in bacini posti sia nella zona più acquitrinosa del porto cittadino sia in fusari appositamente ricavati, alcuni dei quali accanto a mulini. Personale specifico si occupava, con un pesantissimo lavoro trascorso per gran parte del tempo in acqua, a raccogliere i semi di lino e a farli seccare. Il prodotto grezzo veniva portato nei luoghi di tessitura, sparsi tra Napoli e le sue campagne: tante piccole cellule produttive a carattere familiare con una tradizione che si è conservata per secoli. In città, la diffusa rete manifatturiera, tutta al femminile, con i suoi telai, i suoi tini, le sue vasche di sgrassaggio si mescolava al già allora caotico tessuto abitativo, dove le cattive condizioni igieniche derivanti dalla lavorazione del tessuto generavano liti e problemi per la condivisione degli spazi, per la pulizia degli ambienti, per l’utilizzo dell’acqua e che dobbiamo immaginare essere all’ordine del giorno. Seppur modesta, la produzione napoletana trova ancora una volta, attraverso gli amalfitani, ampi sbocchi nei porti della Sicilia, a Costantinopoli, negli scali della Siria e della Palestina sino all’Egitto. I panni di lino arrivano sino ad Alessandria, ­­­­­170

nonostante, tra X e XI secolo, esistessero lì importanti manifatture e da Tinnis provenissero panni di ottima qualità. Produzione e commercio della seta e del lino forniscono perfettamente l’idea dell’integrazione del Mezzogiorno nel mercato musulmano. Abbiamo due distinti circuiti commerciali i quali, sebbene su scale diverse, appaiono funzionali all’economia meridionale. Entrambi si muovono su un tessuto geografico che dalla scala locale si muove in cerchi concentrici, per allargarsi su spazi sempre più estesi, con la partecipazione di diverse componenti sociali ed economiche e una specifica suddivisione del lavoro. C’è il ciclo della seta, strutturato su quattro livelli, con al primo posto la produzione di fibra grezza centrata in Calabria e in Sicilia, cui si aggiungono, a macchia di leopardo, altre zone periferiche, tra Lucania, Irpinia, Puglia. Il secondo è quello della fase di distribuzione del prodotto grezzo, dalle zone interne e dai porti calabresi verso la Sicilia, gestito da operatori locali e amalfitani. La terza, di produzione di manufatti, fa perno sulle botteghe artigianali siciliane, con apporti provenienti da altre cittadine tirreniche e pugliesi. Infine c’è lo smercio a carattere internazionale, gestito ancora da amalfitani e da mercanti ebrei e musulmani. Il ciclo del lino è più piccolo, ma a diffusione altrettanto elevata: con la produzione e la lavorazione della fibra grezza nelle campagne napoletane; la sua distribuzione attraverso operatori cittadini nei laboratori tessili dispersi tra Napoli e nel suo territorio; e, infine, la rivendita in partenza dal porto cittadino per i porti orientali ed africani, attraverso vettori amalfitani.

8. Il legno

Tra i principali problemi del mondo musulmano che guarda al Mediterraneo c’è l’assenza di legname, risorsa indispensabile per poter affrontare le sfide militari e commerciali che si svolgono in gran parte sul mare. Un problema acuto. Dal Sud della Siria, all’Egitto, alla Sirti, all’Ifriqiya, non c’è legno disponibile. È necessario fare scorta altrove. Anche lontano, molto lontano. Con una ricerca spesso febbrile, verso l’Anatolia bizantina, la Dalmazia, nell’entroterra veneziano, nel Meridione italiano, fino all’Oceano ­­­­­171

Indiano. Una volta trovato il legno, non è che i problemi fossero esauriti. Bisognava trasportarlo: cosa non tanto facile, specialmente quando si trattava di travi di grandi dimensioni, come richiesto dalla cantieristica navale. Assolutamente non per via terra, dove il trasporto era impossibile per il troppo ingombro. Tutto doveva avvenire per mare. Ma non bastava: estrazione del legno e trasporto dovevano correre insieme. Pertanto, erano necessarie altre condizioni: ad esempio, la buona correlazione tra giacimenti forestali, vie fluviali (che consentissero una rapida e facile estrazione del legname) e attitudini della costa, con bacini di attracco e possibilità di trasporto del materiale dalla terra alla nave. Una delle zone che presentava tutte insieme queste caratteristiche era, nel Sud Italia, l’area di Taranto, dove il Bradano e il Crati permettevano la penetrazione nell’interno. Le difficoltà però non si arrestavano lì: esistevano problemi di natura ecologica, perché nel mondo mediterraneo spesso le foreste hanno una struttura fragile, e una volta distrutte, risultava estremamente difficile il ripristino dell’habitat, neanche in tempi lunghi. La domanda di legno però aumenta. Diventa di enormi proporzioni, in modo particolare per soddisfare la continua corsa agli armamenti che vede contrapposti bizantini, Fatimidi e Omayyadi. Crescono a dismisura i cantieri: solo se si pensa ad al-Mahdia, le proporzioni dovevano essere eccezionali. In Egitto se ne contano ben otto, tra cui quelli di Alessandria, Rosetta e Damietta sul Delta, Tinnis e addirittura tre al Cairo. Va tenuto pure conto dello sviluppo del commercio, che richiede nuove imbarcazioni, di piccole e grosse dimensioni; cui vanno aggiunte le esigenze dell’industria (della ceramica, del vetro, dello zucchero), dell’artigianato e di una densità urbana in crescita, che richiede legno di tutti i tipi e in quantità. Il legno diventa, perciò, oggetto rilevante di commercio. Merce preziosa non meno di tante altre. Il maggior paese importatore è l’Egitto. Gli esportatori: la Siria del Nord, Cipro, Creta, il Maghreb, la Spagna. E, naturalmente, la Sicilia e l’Italia del Sud. Nell’Isola comincia il disboscamento. Le testimonianze dell’XI e XII secolo ricordano numerose foreste ora scomparse e attestano di un paesaggio di cui non c’è più riflesso, fatto di cedri, cipressi, pini dritti e maestosi, di foreste che coprivano zone adesso brulle, come il monte Pellegrino sopra Palermo. La regione più ricca era all’angolo nord-ovest dell’Isola, sui monti Peloritani, delle ­­­­­172

Madonie e intorno all’Etna, con foreste di cedri, castagni, noci e noccioli che attorniavano il vulcano. Boschi che alimentavano un’economia non ristretta esclusivamente al legno, ma fatta anche di resina, venduta ad esempio nel villaggio di Li Aci. Il legno dell’Etna veniva trasportato a Messina, che era, con Palermo, l’altro grande arsenale siciliano. La capitale si serviva invece del legno proveniente dal suo circondario, dai monti Peloritani e dal monte Linario. Il legno arrivava in città anche in altro modo: attraverso una linea di cabotaggio che drenava risorse da Catania a Palermo, passando per Taormina, Messina, San Marco e Cefalù. Gran parte del legno veniva trasportato in Ifriqiya e in Egitto tramite il porto di Messina, nel quale il commercio del legno giocava un ruolo di primaria importanza. E considerato che le risorse siciliane non bastavano, ad un aumento della domanda africana si ricorse al legname proveniente dall’Italia meridionale. In particolare proveniente dalle foreste della Sila e dell’Appennino. Idrisi racconta come dall’Alto Brandano legni di pino scendevano lungo il fiume fino al golfo di Taranto, dove venivano caricati su imbarcazioni e trasportati nei porti di diverse aree del Mediterraneo. In maniera analoga avveniva lungo il Sele: legno che alimentava nello stesso tempo la produzione degli arsenali di Gaeta, Napoli, Salerno ed Amalfi e dei cantieri musulmani. Tutti questi aspetti comportano due conclusioni. Da un lato, la profonda debolezza dell’apparato di marina (sia militare sia commerciale) delle potenze musulmane, le quali ebbero bisogno di impiegare, con costanza, risorse forestali accaparrate altrove, con grande dispendio di energie e di investimenti. Dall’altro, che il mercato del legno, sommato a tutti gli altri segmenti commerciali, ebbe un effetto sugli equilibri monetari e sulla bilancia dei pagamenti dei paesi musulmani, con un grande afflusso d’oro verso le zone più periferiche dell’ecumene musulmano, come, appunto, il Sud Italia.

9. Miracoli di un’agricoltura

Il Mezzogiorno meridionale è una terra che vive, a cominciare dalla fine del X secolo, un vero e proprio miracolo agricolo. Una ­­­­­173

rivoluzione, per riprendere un termine consueto. Dalla Puglia alla Calabria, dal Salernitano alla costiera amalfitana, da Napoli a Gaeta, il paesaggio agrario subisce una modifica strutturale il cui segno rimane impresso nel tempo. Il risultato più straordinario è quello visibile nella zona amalfitana. Un territorio brullo, poco propizio, fatto di aridi declivi a strapiombo sul mare viene sottoposto ad una violenta ed efficace opera di valorizzazione, basata sul contratto ad pastinandum che diffonde ovunque la piantagione di viti e di alberi da frutta. Non altrimenti avviene nell’area di Salerno, dove in pochi decenni si assommano tanti contratti di miglioria quanti se ne contano, nello stesso periodo, in tutta la Pianura padana. Analogo discorso per la Puglia e la Calabria, la cui storia economica è contrassegnata da una netta ripresa dell’agricoltura, dopo il marasma del jihad. La vite è in aumento, e rappresenta probabilmente i due terzi delle culture arboricole; si estende l’olivo; si afferma il gelso. Non ci si discosta da questa linea nel napoletano, anzi: a partire dal ventennio 940-960 comincia una rapida fase di espansione che dura per circa sessant’anni di crescita esponenziale, in cui si registrano, fino al 1020, ben ottantaquattro contratti di miglioria. La trasformazione è determinata da tanti fattori, tra cui, in primo piano, la crescita demografica, che determina fame di terra e di nuovi terreni da dissodare. Solo che la rivoluzione si fonda su un humus sociale già di per sé organizzato e ben disposto ad accoglierla, fatta di proprietari laici, molti dei quali piccoli e liberi, che non solo traggono dalla terra quanto basta per approvvigionare sé e la propria famiglia, ma ricavano degli utili dalla possibilità di rivendere il surplus prodotto. Vi sono poi le grandi proprietà monastiche, le quali svolgono un ruolo da protagoniste nell’attività di disboscamento e di rivalutazione delle terre. Monasteri sia latini che greci se ne fanno promotori. Una delle forme primarie di accumulazione di nuove proprietà è legata alle donazioni e ai legati pii: migliaia di terreni, da dissodare come già coltivati, passano di mano, con un movimento frenetico. A lavorare la terra e a bonificare gli spazi cominciano direttamente i monaci. Usano il debbio e la forza delle braccia. Quando le loro energie non bastano più, fanno appello alla manodopera laica che acquisisce, con contratti di affitto di medio o lungo termine, terra da seminare, su cui piantare nuove vigne, nuovi alberi da frutta: suoli ad meliorem ­­­­­174

cultum perducere, come si diceva nel linguaggio del tempo. Nasce un Mezzogiorno che è tutt’altro che latifondo, composto da una miriade di piccoli appezzamenti, più o meno diffusi a differenza delle condizioni favorevoli o meno, ad alto tasso produttivo. Sull’agricoltura meridionale incide però fortemente la presenza del mercato internazionale. Insieme alla seta, al lino e al legno, nasce un’enorme corrente guidata dai mercati locali fatta di cereali, uva, vino, olive, olio, noci, nocciole, frutta, castagne, miele. Che comporta un sensibile arricchimento dei diversi centri urbani, con la formazione di un ceto rurale avanzato, fornito di risorse in denaro, beni e terre, che reinveste i propri ricavi principalmente nella terra e, in subordine, in altre attività, come quelle mercantili. Si tratta di un argomento conosciuto, ma anch’esso posto poco in risalto. Per primo ne ha dato un’esatta valutazione, all’inizio del XX secolo, un autore che si rivela fondamentale per comprendere i meccanismi di sviluppo agricolo del Mezzogiorno d’Italia in rapporto con la grande area di scambio mediterranea. Si chiama Augusto Lizier. Il suo lavoro non ha avuto grande circolazione, se non tra gli specialisti, tanto per la complessità della sua analisi quanto perché si è preferito sottolineare nel tempo, più che i meccanismi di inclusione del Meridione nel bacino economico musulmano, la frammentarietà, anche economica, delle realtà del Sud. Alcune frasi di Lizier meritano di essere riportate, per la modernità di approccio: il fiorente commercio di prodotti agricoli, scrive, dava il più valido aiuto all’agricoltura. L’esportazione dei locali prodotti agricoli stimolava la coltivazione del suolo, come la stimolava il desiderio ed il bisogno di provvedersi dei ricchi prodotti esotici che il commercio offriva. Inoltre questa attività commerciale favoriva il formarsi di una classe di individui i quali realizzavano nello scambio dei prodotti rurali grandissimi profitti [...] I capitali così accumulati venivano poi immobilizzati nel suolo e si favoriva così la circolazione della ricchezza fondiaria e la si faceva passare nella mani di proprietari più intelligenti, meglio forniti di capitali e meglio disposti ad intensificare la cultura del suolo e a dare alla produzione agraria un carattere industriale. Ed oltre a ciò il fiorire del commercio favoriva il benessere e l’aumento della popolazione cittadina, ripercuotendosi, ­­­­­175

pel maggiore consumo di prodotti, nel modo più benefico sullo sviluppo dell’agricoltura.

In questo caso siamo davanti ad un circuito economico nel quale l’agricoltura rappresenta la cinghia di trasmissione di un processo virtuoso che alimenta se stesso, con grandi quantità di ricchezza che vengono reimmesse in circolo, in special modo nella compravendita di terra. A tal proposito, abbiamo l’incidenza relativa ai prezzi della terra concernenti le due città che in misura prevalente rispetto ad altre si avvalgono di questo circuito: Amalfi, Napoli e Salerno, città dove, tra X e XII secolo, in complessivi 426 contratti di compravendita agricola vengono adoperati qualcosa come 34248 tarì, equivalenti a 8562 solidi. Così suddivisi: per Napoli, circa 1053 solidi; per Amalfi, 2753 solidi; per Salerno addirittura 4756 solidi. Cifre che configurano la mobilità di un mercato della terra, non mi stanco a ripeterlo, non chiuso su se stesso ma che si avvale della sua proiezione mediterranea, da cui trae i maggiori cespiti. Con delle performance dei rispettivi mercati, per sviluppo dei prezzi e per quantità di moneta adoperata, sorprendenti rispetto ad altre realtà del Mezzogiorno e alle aree dell’Italia centro-settentrionale. Sintomo di equilibri economici regionali conseguiti sulla base di un gioco di scambi di carattere assolutamente non locale, ma di portata mediterranea.

10. Da Nord del mondo a Sud d’Europa

Eliyahu Ashtor, uno dei più grandi studiosi della società e dell’economia musulmana, a margine di uno dei tanti dibattiti che hanno animato le giornate di Spoleto, poneva una lunga domanda cui lui non riusciva a trovare risposta. Che traduco e riassumo. Studiando sistematicamente l’archivio della Geniza esistono numerosi documenti che testimoniano di una linea diretta da Palermo ad Alessandria. Dunque, prima delle Crociate la capitale siciliana è legata all’Egitto. Nel Basso Medioevo questa linea non esiste più e il traffico marittimo di Palermo è orientato verso la Catalogna e la Liguria. Mentre è Venezia che guarda ad Alessandria. E conclude: che cambiamenti epocali sono intervenuti? Si tratta, chiaramente, ­­­­­176

di una domanda retorica. Ashtor ben conosceva la risposta alla questione, che non è e non può essere univoca. I fattori che implica sono notevoli. Cambiamenti generali, di natura politica, condizioni geografiche, smottamenti sociali ed economici. Tentiamo comunque di fornire una risposta alla questione posta da Ashtor. Una risposta quanto più semplice possibile. Usando poche e significative parole. Cosa accade? Che la Sicilia, e il Mezzogiorno con lei, da Nord del mondo sono diventati il Sud d’Europa. Questo è il grande cambiamento epocale che, brevemente, cercherò di spiegare. Dalle pagine riportate finora spero che sia emerso con chiarezza un sistema economico mediterraneo, ricco di contatti e di reciprocità, con una omogeneità di usi e di istituzioni che travalicano le stesse frontiere confessionali. Fondato sulle grandi città marittime musulmane e su Bisanzio. Città all’intersezione del mondo. Esse sono i collettori principali del commercio e della ricchezza. Coloro che creano la domanda. Attraverso cui transita tutto ciò che necessita. Il Mediterraneo risponde alle loro sollecitazioni, al centro come in periferia. A questo gioco partecipano anche aree più periferiche, sub coloniali e dipendenti da quanto si determina e accade altrove, come il nostro Meridione. Che però, per particolari congiunture, per favorevoli condizioni generali, per mancanza di altri competitori, per la qualità dei prodotti offerti, diventa parte di questo comune scenario. In alcuni casi, i suoi stessi operatori – in maniera eccezionale, gli amalfitani –, riescono a esprime eccellenti doti di intraprendenza e di conoscenza del mercato, a creare colonie e rotte di commercio. Sono specializzati nel transito, capaci di speculare sui traffici, di generare arcaiche forme di finanza, di creare minuscole ed embrionali società di mare. E di riversare sulle rotte africane, egiziane e mediorientali quanto prodotto sui loro territori di provenienza, consentendo ai centri urbani e a molte delle aree rurali del Mezzogiorno di raggiungere dei risultati e dei livelli di sviluppo ottimi per i parametri dell’epoca. È il Sud Italia ora ad essere ricco ed evoluto. Il Nord si muove ancora fra le brume di una civiltà cittadina agli albori, tra balbettamenti e primi passi. Il grande cambiamento che avviene è inizialmente politico, dominato dal nuovo dominio normanno. Il peso delle vicende militari e politiche è fortissimo. Ad una ad una cadono tutte le ­­­­­177

città. I commerci vengo strangolati. Amalfi desolata dalle incursioni pisane. Napoli cade per ultima, nel 1140, dopo un lungo assedio e una breve stagione di interregno. Ma è l’ingresso di nuovi protagonisti sulla scena commerciale mediterranea a stravolgere l’assetto economico stabilito fino ad allora. I primi sono Pisa e Genova. Questo cambiamento ha una data: la presa genovese-pisana di al-Mahdia, nel 1087. Anche queste due città fanno delle spedizioni corsare contro i saraceni uno strumento di accumulazione, fonti da cui trarre capitali per avviare l’attività mercantile. Genova, da parte sua, si trovava certamente in una posizione ottimale per lanciarsi in operazione ad ampio raggio. Ma la sua fortuna è collegata ad altri fattori, eminentemente sociali. Seguiamo, a tal proposito, Abulafia, uno degli studiosi più attenti nello spiegare il ribaltamento in atto: «innanzitutto, il formarsi di riserve di capitale tra i proprietari fondiari patrizi – e questo a prescindere dai proventi dell’attività piratesca – rendeva possibile al ceto elevato il trasferimento di una parte dei propri capitali dalla terra al commercio marittimo. In secondo luogo, ma collegato a questo primo fenomeno, Genova da sempre doveva dipendere dall’importazione di derrate, pena la fame della sua popolazione». Se si nota, da queste parole emerge una differenza sostanziale con gli omologhi operatori economici amalfitani. Se per questi il commercio diventava un veicolo per accedere alla terra e al prestigio, ambiti dove l’investimento mutava connotati e prerogative, a Genova accade il contrario: è la terra che produce il danaro da investire nel commercio, il quale agisce da moltiplicatore, stimolato dalla continua richiesta cittadina. Inoltre a Genova esiste uno sforzo politico consapevole verso costose ma redditizie imprese commerciali, spinte dalle famiglie vicecomitali cui appartengono i consoli, molti dei quali interessati ai traffici. Un nucleo di potere che fa del commercio e dell’espansione mercantile l’obiettivo politico cardine di un’intera società. Pisa ha invece una situazione diversa. Poteva contare, a differenza della cittadina ligure, su un buon retroterra agricolo ed urbanizzato, ad alto coefficiente produttivo, che necessitava di un porto, attraverso cui approvvigionarsi e da dove inviare all’esterno le proprie merci. L’altra diversità è che mentre a Genova il commercio è questione di vita o di morte, senza il quale la città non può sopravvivere, a Pisa le attività mercantili ­­­­­178

appaiono meno convulse, spinte dalla sete di arricchimento più che da situazioni limite. Il grande banco di prova per le due città furono le Crociate. Flotte delle due città arrivarono in Siria e in Palestina proprio quando i comandanti crociati avevano maggiore bisogno di soccorso navale contro i turchi di Antiochia e gli egiziani piazzati lungo la costa palestinese. In cambio del loro aiuto ottennero la promessa di mercati e punti commerciali nelle città principali degli stati crociati. In poco tempo la loro rete si infittisce, con colonie genovesi presenti per esempio a Byblos, la Gibelet dei crociati, o nel principato di Antiochia. Con questi avvenimenti mutano i rapporti di forza, e le colonie italiane scavalcano pian piano, di posizione in posizione, tutti gli altri concorrenti, diventando protagoniste del mercato mediterraneo. Come fu possibile? Avevano uomini, capacità, senso di intraprendenza, organizzazione, razionalità, capacità creativa e di adattamento. È nel Sud Italia che il loro sistema di alleanze si esprime ancor meglio, si infittisce, si rafforza, diventa predominante. Con i normanni comincia l’epoca nefasta delle concessioni, delle esenzioni, delle franchigie, delle dispense che favoriscono queste nascenti potenze commerciali: una politica che sarà seguita, senza grandi differenze, da Svevi e da Angioini. I nuovi soggetti economici si muovono su un terreno a loro del tutto favorevole, capaci di adattarsi con abilità alle diverse circostanze, con sistemi duttili d’azione, pronti ad adottare tecniche commerciali nuove. Tutto questo si scontra con l’arcaicità, la farraginosità di un modello economico meridionale, rappresentato da Amalfi, che aveva potuto dimostrarsi vincente solo perché era l’unico contendente in campo. Quando scendono nell’agone i nuovi attori, non c’è più partita. D’altra parte il potere monarchico da poco insediato non è che faccia molto per sorreggere le strutture commerciali locali. Anzi, con la sua politica, tende a favorire questa sorta di colonizzazione in atto, sottraendo all’iniziativa dei centri meridionali basi, strutture ed energie, con l’uso anche della forza che limita quei pochi margini flessibili di libertà. Mentre la nuova formazione amministrativa e burocratica del regno brucia tante risorse, che avrebbero potuto essere diversamente impiegate. Ben presto poi ai genovesi e ai pisani si affiancheranno altre compagini esterne al Sud, esterne al regno: i catalani, che col loro successo ­­­­­179

nelle attività della tessitura alla fine del XIII secolo riproducono un modello già corrente in Italia settentrionale, che scalza con facilità la produzione indigena. E soprattutto i veneziani, capaci di dispiegare, nel XII-XIII secolo, una volontà di predominio adriatica e mediterranea che troverà la più concreta attuazione nella quarta Crociata. Allora, accanto alle tante Malfitanie che erano nate nel Mezzogiorno, più espressione di singole individualità che non di uno sforzo collettivo e sociale cittadino, si formano i consolati delle città marittime nord-italiane. Per esempio a Napoli, che diventa il nuovo polo di attrazione del commercio tirrenico a discapito di Amalfi, nasce per primo quello pisano, che denomina un ambito cittadino e un’ansa del porto. E in seguito quello genovese, arricchito, durante il regno angioino, da una magnifica sede nel cuore commerciale della città. A Palermo, invece, l’Amalfitania accoglie numerosi nuclei forestieri, che portano spesso dietro di sé i conflitti e gli scontri che animavano le rispettive città-madre. Si costruisce una loggia dei pisani e dei catalani, un palatium Januensium; fino a che, nel 1350, ai limiti della Kalsa sorge il palazzo dei mercanti-banchieri fiorentini Peruzzi. Mentre l’afflusso in Sicilia di mercanti delle città marinare di Genova e Pisa, cui si aggiunge presto personale latino proveniente da Lucca, da Firenze e dalle coste francesi (Marsiglia, Montpellier), modifica radicalmente l’assetto mercantile di altre città, come Messina e Siracusa. I nuovi arrivati sono forti tanto nei centri urbani quanto alla periferia: è difatti sui mercati locali che essi sbaragliano la concorrenza. È la loro pervasività, la loro capillarità che li rende imbattibili, dovunque arrivino. Sono decine e decine, che si installano nei piccoli centri, manifestando la tendenza a stabilirsi nei luoghi in cui sviluppano i propri traffici e si integrano nella piccola nobiltà rurale detentrice di fortune mobiliari, di appalti rurali, del potere municipale. Genti nuove. Con ambizioni talmente vaste da minacciare la stessa unità politica della Sicilia e del Regno e la stessa coesione topografica delle grandi città. Ad esempio, nei patti conclusi tra Federico Barbarossa e i suoi alleati di Genova e di Pisa, le concessioni imperiali, presto rinnovate da Enrico VI, prevedono la distribuzione fra le due città di quartieri e province. Pisa ottiene nel 1162 la metà di Palermo, di Messina, di Napoli e di Salerno ­­­­­180

e la totalità della città di Gaeta, di Mazara e di Trapani. Genova esige Siracusa, duecentocinquanta feudi e una colonia mercantile in ogni città del Regno. Fortunatamente questi patti non vengono mantenuti. Il potere centrale riesce a frenare queste richieste, mantenendo un controllo saldo e la piena sovranità sulle città. Comunque, è il segno della grande potenza e dell’aggressività di questi nuovi agglomerati politico-economici, che si muovono indiscriminatamente a tutto campo: con una strategia che non lascia grandi spazi di manovra a chi voglia misurarsi e gareggiare con loro. Non è che tutto questo significhi la morte improvvisa e rapida dell’economia della Geniza: una struttura di lungo periodo non può essere affondata da un giorno all’altro. Tutto si sfrangia lentamente, con tanti compromessi e commistioni. Gli scambi sembrano seguire ancora a lungo il loro ritmo normale. La rete dei mercanti ebrei, che costituisce la base del sistema siciliano nel Mediterraneo, rimane intatta e non mostra segni di grande disintegrazione per parte del XII e del XIII secolo. Gli amalfitani continuano a ricoprire un proprio ruolo, anche di spessore: ma solo in ambito locale e, tutt’al più, regionale. Per loro il Cairo non è più una prospettiva, un orizzonte; si è trasformato in un sogno, un mito. Con la formazione della monarchia, essi guardano più agli incarichi pubblici, agli appalti, che al commercio: questa diventa la strada maestra. Una trasformazione che comporterà la diaspora amalfitana verso Napoli, quando questa diventa capitale del regno. Laddove gli amalfitani, gli scalesi e i ravellesi possiederanno un vero e proprio quartiere, che raggrupperà tutta la gente della costiera, detto la Scalesia. Mentre Amalfi si trasformerà in una città come tante di un Sud prevalentemente ruralizzato, sottoposto in gran parte al regime feudale di importazione nordeuropea. Questa trasformazione da Nord del mondo a Sud d’Europa è stata chiamata in tanti modi. Per alcuni è l’inizio dell’epoca dello scambio ineguale, di un’economia di tipo coloniale, nella quale il Meridione diventa il grande centro di transito dei prodotti lavorati provenienti dalle Fiandre e dal mercato toscano e fiorentino in cambio di prodotti agricoli del Sud, soprattutto cereali e vino. Gestito e monopolizzato nella totalità da mercanti esterni ai confini del Regno. Altri parlano di sviluppo alternativo. Di operatori meridionali che si ritagliano ambiti specifici di attività e distinte aree ­­­­­181

di competenza, nella maggior parte dei casi di intermediazione tra due logiche economiche differenti, che corrono a due velocità: una, rapida e dinamica, del grande mercato internazionale; l’altra, lenta e conservativa, della produzione e dei rapporti agricoli. Malgrado tutto, comunque la si voglia chiamare, è la fine di un’epoca. Il tempo dell’oro arabo e della seta siciliana. Di Sergio Amalfitano e dei mercanti di schiavi. Degli ebrei e dei musulmani. Un tempo fragile, limitato, precario, arcaico, quanto si voglia. Basato su un’idea dell’economia e dello scambio approssimativa, ma, per altri versi, aperto, con prospettive di sviluppo, privo di ingombranti greppie istituzionali o politiche, nonostante le guerre, gli scontri, i dissidi interni ed esterni. Il tempo di quando il Sud apparteneva ad un altro mondo, che si muoveva tra confini che dall’Atlantico, attraverso il Mediterraneo, giungevano fino all’Oceano Indiano. Si schiude la storia di un’altra Europa, di un altro Sud, inserito in una logica di mercato per tanti aspetti non stagnante, animato da una nuova consapevolezza, da nuovi ritmi economici. Decisi non più al Cairo o ad Alessandria, ma a Firenze, a Genova, a Venezia, a Barcellona. Una nuova fase economica, non mediterranea, ma continentale. Scandita da nuovi assi di riferimento, che non passano più da est ad ovest ma da nord a sud. Un mondo di idee nuove. Razionale. Dominato dai suoi calcoli, dalle sue misure, dalle sue lettere di cambio, dalle sue partite doppie. Nel quale i meridionali non possono che essere padroni solo di se stessi.

V

Una nuova guerra santa

Io mi rifugio presso il Signore dell’Alba dai mali del Creato e dal male di una notte buia, quando si addensa (Corano, sura CXIII, vv. 1-2)

1. Un regno in formazione

Sul regno normanno, su quei settant’anni cominciati nel 1130 che stravolgono gli equilibri politici del Sud e reinnestano la Sicilia nel continente cristiano, si è scritto tanto. Esistono fiumi di pubblicazioni, favorite dal fascino della dinastia e da una crescita esponenziale delle fonti a disposizione, che consentono di sviscerare tanti aspetti prima scarsamente o per niente illuminati. L’atteggiamento generale ha risentito a lungo dell’impostazione crociana, con la visione risolutrice cui ho fatto riferimento nelle prime battute di questo libro. Di un passaggio dall’anarchia all’ordine. Dal caos all’equilibrio. Dal particolarismo all’unità. Idea cui si è ritenuto giustapporre quella di Stato modello, di precursore avant lettre degli Stati italiani rinascimentali e delle monarchie assolute di età moderna. Uno Stato accentratore, con una posizione forte del sovrano. Un’immagine che si ammanta di leggenda. Come nel libro fortunato, e molto romanzesco, di John Julius Norwich, apparso in Italia negli anni Settanta del secolo scorso, il regno nel Sole, che per certi versi ancora condiziona la communis opinio, con l’immagine di una monarchia benigna, paterna, protettiva, che copre, col suo mantello giusto e benemerente, una popolazione diversa per lingue, usi, tradizione e religione, ma armonizzata, che guarda al sovrano col giusto consenso che si deve a un padre benevolo. Questo scenario positivo resta il comun denominatore di molte letture contemporanee. Seppure con molti distinguo, puntualizzazioni, verifiche. La principale, che non esiste una linea di tendenza comune tra chi, fra i normanni, ha dato origine alla conquista e alla dinastia; chi ha creato effettivamente il regno; ­­­­­184

chi ne ha consolidate le fondamenta, proseguendo nell’opera di organizzazione e di assestamento, come l’imperatore svevo Federico II. Esistono, per spiegarmi meglio, delle strade tracciate comuni, ma le demarcazioni tra Roberto il Guiscardo, Ruggero il Gran conte, Ruggero II, i due Guglielmi e gli Svevi sono tante. La differenza che c’è tra chi deve realizzare e inventare; e chi, invece, deve irrobustire e stabilizzare. Non a caso Jeremy Johns, quando discute della creazione delle strutture amministrative della nuova compagine politica, si affida ad un termine particolarmente significativo per designare i fondatori del regno. Per lui sono dei parvenus, sprovvisti di tutto tranne che della forza e del carisma. Quando gli Altavilla prendono il potere, non esiste niente di organico e di omogeneo. Quando si arriva all’unificazione monarchica negli anni Trenta del XII secolo, c’è tutto da fare. Esiste una grande polverizzazione, dove convergono trame differenti, latine, greche, musulmane. Autonomie giuridiche ed amministrative. Signorie e città. Bisognava lavorare sodo per edificare le basi su cui il regno si doveva reggere. Procedere ex novo, con costituzioni, leggi, amministrazione, insegne regali, monete ecc. L’idea stessa di sovranità andava ribadita, ricorrendo ad immagini come quella del rex tyrannus. E i nuovi sovrani riescono a dar mostra di una sensibilità eclettica, pescando un po’ qui e un po’ lì, con spirito veramente medievale: dalle monarchie del passato, compresi i tiranni della Magna Grecia, come anche dalle espressioni politiche contemporanee: imperiali franco-germaniche, papali, bizantine, musulmane. Rielaborandole con notevole acume. Tuttavia, non con scatti improvvisi. Attraverso una lenta progressione, in un processo dove la sostituzione di un’istituzione con un’altra, di un segmento amministrativo con un altro, non è mai totale. Con un’altra condizione: che laddove non si riesca ad assimilare, a plasmare, si ricorre sovente all’uso della forza, per piegare quelle energie che meno sembrano disposte a farsi inserire nel piano di governo pensato dagli Altavilla. Per questi motivi, la via prescelta non è per niente dritta. Anzi tortuosa. Costellata di tentativi. Accade che non di rado si accumulino confusioni e divergenze, con conclusioni tutt’altro che lineari. In questo regno animato da due opposte linee-guida, parallele, impossibili da far coincidere, insanabili. Far conciliare, cioè, il radicamento di un regime feudale di importazione nordeu­­­­­185

ropea, composto da una miriade di circoscrizioni signorili a spinta centrifuga, con la formazione di un sistema di potere centralizzato, con una sua amministrazione e sue ben delineate istituzioni, con immediati raffronti nella tradizione bizantino-musulmana. Il sistema normanno bascula tra queste due impostazioni. Spesso appare vincente l’impostazione centralizzante, ottenuta attraverso compromessi: o, il più delle volte, grazie all’intervento manu militari e il controllo rigoroso e burocratico, che diverrà tirannico, sui titolari dei feudi. In altrettanti casi, fu il cortocircuito, con sovrapposizioni e scontri tra centro e periferia, tra capitale e poteri locali, tra re e signori, i quali si moltiplicano nei momenti di debolezza del potere monarchico. Un problema iniziale, che si trasforma, col tempo, in una vera e propria tara genetica. In ogni caso, il sistema normanno inizialmente si affida all’eclettismo. Alla rielaborazione. Alla creatività. Assumendo alcuni elementi di certezza. Mutuati, da un lato, dal mondo bizantino. L’impronta del grande impero orientale è fortissima. Ad esempio, nella rappresentazione del potere, dove gli Altavilla fanno mostra di assimilare dei caratteri appartenenti al basileus, giungendo fino al punto di appore su degli atti solenni delle crisobolle alla maniera imperiale. Viene recuperato il titolo di stratega, che diventa lo stratigotus. E si preserva il titolo di catapano, sebbene appaia enormemente svalutato rispetto al rango che aveva in periodo bizantino: un titolo ormai meramente onorifico, considerato che veniva attribuito a semplici baiuli, ossia ai capi-amministratori locali, con funzioni prettamente fiscali. Più interessante è la formazione dell’istituzione dei giustizieri, estesa a tutto il Mezzogiorno da Ruggero II, che deriva la sua origine in Calabria, dal giudice del Tema bizantino: figura di riferimento giudiziaria che diverrà una delle istituzioni più solide nella storia amministrativa del regno. D’altro canto, ed è l’aspetto che mi interessa di più, c’è l’influenza musulmana. Secondo Michele Amari tutto, nel regno normanno, ha un sapore islamico. Per lui, l’imitazione dei Kalbiti è persistente e continua: nell’amministrazione fiscale e nella cancelleria; nell’architettura palatina e nella sua decorazione; nel cerimoniale come nelle insegne regali; nella moneta, che resta quella dell’economia della Geniza, col suo pezzo più diffuso, il tarì, battuto dalle zecche di Roberto il Guiscardo e del granconte Ruggero. E nonostante non si tratti più della vecchia moneta, con ­­­­­186

solo due terzi d’oro rispetto al passato, la si conia a lungo nello stesso modo, con le iscrizioni sacre in arabo. Sarà solo Ruggero II a conservare su un lato l’iscrizione in arabo, con l’indicazione del nome del re e del suo prestigio, la laqaba. Mentre, dall’altro, il re farà rimpiazzare la vecchia shahada musulmana (non c’è altro Dio che Dio), con una croce con accanto le lettere che indicano Iesous Christos, nika. Segno, come molti altri, della cristianizzazione in atto. Quanto sostiene Amari è vero, ma non è che il processo di islamizzazione proceda rapidamente. Si va, anche in questo caso, per gradi. E le influenze, più che kalbite, sembrerebbero frutto non di una tradizione che si reitera, ma di matrice contemporanea, esterna all’Isola, se si tiene conto del fatto che la maggior parte degli istituti normanni riformati in chiave musulmana hanno origine in istituzioni equivalenti presenti in quel preciso momento nel califfato fatimide. Johns sostiene, con fondati motivi, che tre delle principali caratteristiche islamizzanti della nuova amministrazione normanna – i titoli arabi assunti dai sovrani, la struttura e le norme di governo, la stessa architettura e la decorazione delle dimore reali – si ispirino ai Fatimidi, con un certo desiderio di assimilazione: in quanto, sebbene esso fosse ormai in decadenza, la sua corte offriva una miniera di simboli da saccheggiare e di cui servirsi. Simboli che vengono assunti per legittimare la propria autorità soprattutto nei confronti della ancora larga componente islamica presente in Sicilia, ignorando spesso il loro significato intrinseco, su cui poggiava la legittimità dei Fatimidi. Insomma, l’adesione ai caratteri musulmani ha, per molti versi, più valore di forma che non di contenuto. Elaborazione che, peraltro, prevedeva dei contatti interessati e una continuità di relazioni col mondo africano. Si sa infatti che tra gli anni Venti e i Quaranta del XII secolo i rapporti tra Palermo e il Cairo furono frequenti e cordiali. I sovrani dei due paesi si scambiavano ambascerie, lettere, regali. Almeno un’insegna reale, il “parasole”, lo al muzillah, fu importato dalla corte fatimide a Palermo. E non mancano le istruzioni fornite dall’amministrazione cairota a quella normanna sul corretto uso di titoli arabi. Un clima di stretti contatti, che «poteva offrire al re normanno la possibilità di modellare gli aspetti arabi della monarchia siciliana sul califfato», come conclude ancora Johns. ­­­­­187

La politica di assorbimento, quest’opera sincretica di governo, non è però tutta frutto dell’ingegno normanno. Ci lavorano e la perseguono personalità di stampo e provenienza diverse. Amministratori che conoscono la vita delle corti orientali ed africane, come funzionano le loro istituzioni, le loro forme di governo, che ne conoscono i meccanismi e cosa possa essere adeguato oppure no per un nuovo organismo in formazione. Greci e musulmani in maggior parte, persone che talora vivono a cavallo tra questi due mondi: uomini di ingegno, spratichiti dalla lunga attività ingaggiata al servizio ora di una parte ora dell’altra. Tra questi, il principale è Giorgio d’Antiochia. La maggior parte delle tracce su di lui si ricavano dal Kitab al-Muqaffa di al-Maqrizi. Siamo davanti ad un personaggio levantino, che sperimenta sulla sua pelle le grandi modificazioni che il Mediterraneo sta vivendo tra XI e XII secolo. Comincia la sua carriera al servizio degli imperatori bizantini. In seguito passa ai musulmani. Qualche anno dopo lo scontro di al-Mahdia diventa emiro di Susa. Intorno al 1108 viene portato clandestinamente in Sicilia, per passare al servizio del greco Cristodulo, ministro di Ruggero II. Mette mano alla nuova amministrazione del regno e si adopera come ambasciatore in Egitto. Quando Cristodulo nel 1126 lascia il potere, Giorgio gli succede, fino alla morte avvenuta intorno al 1151. Venticinque anni, in cui Giorgio, un cristiano melkita della Siria, l’emiro degli emiri come fu definito, diventa uno dei principali creatori di quella complessa costruzione che fu lo Stato ruggeriano. Fu sua l’impostazione di un’amministrazione fiscale particolarmente elaborata, nata sul tipo fatimida. Come sua fu anche l’elaborazione della politica aggressiva verso l’Ifriqiya: con uno scarto rispetto alla posizione tenuta dal padre di Ruggero II, basata su un intervento a tutto campo al di qua e al di là del Mediterraneo. Giorgio d’Antiochia va annoverato, in definitiva, tra i “padri della patria” del regno di Sicilia. Fu grazie soprattutto alla sua opera che si intraprese la trasformazione interna del potere ispirandosi a modelli burocratici bizantini e si avviò una politica di espansione mediterranea. E, in particolar modo, si trasformò un re occidentale in un basileus, in un emiro cristiano, capace di governare la Sicilia e il Mezzogiorno.

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2. Questione di facce

La formazione del regno, la sua costruzione per molti versi caotica, sospesa tra Occidente e Oriente, ci introduce nella relazione tra chi rappresenta la nuova formazione politica e la fortissima minoranza musulmana presente in Sicilia. Isola che, con la presa normanna, non appartiene più al dar al-Islam, ma è ritornata ad essere terra di miscredenti e di guerra, dar al-Harb. La comunità islamica, da che era padrona, si trova a vivere una nuova condizione. Non più quella di dover concedere tolleranza, ma di doverla subire. Una tolleranza, lo premetto, che ha un significato totalmente diverso da quello odierno, sia per quanto attiene il versante cristiano sia per quello musulmano. Non sancita da un diritto che certifichi la libertà della persona e della propria coscienza individuale, che però si esercita nella pratica, spesso arbitraria. Fluttuante, temporale, discontinua, a seconda dei mutamenti di rotta e di politica, la quale conferisce all’individuo una libertà a scartamento ridotto, dove la conservazione della propria fede viene sottoposta ad una serie di rigide limitazioni, in cui la condizione umana del singolo viene umiliata, degradata, resa socialmente e giuridicamente subalterna. Questo concetto di tolleranza implica una relazione tra due entità. Che ci spinge a chiederci cosa pensassero l’una dell’altra. Quale fosse, e in che misura si esprimesse, la percezione del diverso. Serve soffermarsi, insomma, su una questione di facce. Ripartendo da un tema centrale: l’idea di guerra santa, espressa ora non più dai musulmani ma dai loro avversari, i quali la adoperano come motore della loro iniziativa politica e di conquista. Come scrisse appunto il cronista arabo Ibn al-Athir, è accaduta un’inversione, un capovolgimento, «un jihad cristiano contro i musulmani». L’obbligo della lotta armata contro gli infedeli, ritenuta atto di fede da perpetuare e diffondere, è comune tanto nei testi religiosi cristiani come nei documenti pontifici. Non è un caso che papa Giovanni VIII, già nel IX secolo, nell’evidenziare il pericolo musulmano, assicurasse l’indulgenza a quanti avrebbero combattuto «per la difesa della Santa Chiesa e per la condizione della religione cristiana». Questo spirito di Crociata, nonostante l’impresa siciliana di Ruggero I nasca in maniera ambigua come alleato di una fazione ­­­­­189

musulmana, è saldamente presente negli Altavilla, non solo sotto forma di mezzo di propaganda ma come elemento radicato dell’azione politico-militare. Lo stesso Gran conte lo esplicita, in più di una occasione. Per dirne una, nel documento di rifondazione della chiesa di Siracusa propone se stesso come inviato da Dio, mosso a pietà dalle sevizie inferte dagli infedeli al popolo cristiano, capace «non senza immani fatiche né senza effusione di sangue di portare a termine la santa impresa». E precisa molte altre volte di essere la mano di Dio, lo strumento di una manovra sovrannaturale che aveva consentito di scardinare i riti demoniaci degli infedeli e garantire, di nuovo sull’Isola, il ripristino del culto cristiano. Tale coloritura religiosa si proietta sui cronisti che raccontano le imprese siciliane dei primi Altavilla. In loro c’è la fiducia incondizionata nei confronti del fecondo e diretto rapporto esistente tra Dio e i normanni, gli unti del Signore. Per essi disegno divino e avvenimenti militari si confondono. Amato di Montecassino dipinge i normanni con un alone da giustizieri, gli unici adatti, per influsso divino, a strappare i cristiani di Sicilia, siano essi di culto greco o latino, «dalla loro servitù e di far vendetta all’offesa ricevuta da Dio». Parole che riverberano una temperie, un clima da chanson de geste, nel quale si confondono gusto dell’epopea, lotta contro i saraceni e difesa della fede. Senza tralasciare la bramosia di conquista signorile dei nuovi signori venuti dal Nord, in una guerra combattuta sì per desiderio d’onore, ma anche per sottrarre ricchezze a coloro che le possedevano, a parer loro, arbitrariamente. Legando così l’idea di bottino, come viene detto esplicitamente da Goffredo Malaterra, ad un giusto regalo offerto da Dio per la santa impresa che si sta compiendo. Credo opportuno riportare un brano dello stesso Amato, che riflette perfettamente qusesto clima. Si tratta del discorso che Ruggero tiene alle sue truppe davanti alla rocca di Castrogiovanni. Secondo il cronista si fronteggiano quindicimila cavalieri e centomila fanti siciliani contro appena mille cavalieri normanni: e quando Ruggero vide questa gente, pur non avendo che mille cavalieri e mille fanti, e non altri, volle andare senza paura incontro a loro e confortò i suoi con queste parole: «la nostra speranza è riposta in Dio più che nella moltitudine dei guerrieri. Non abbiate paura, perché noi ­­­­­190

abbiamo Gesù Cristo con noi, il quale disse: “se avete tanta fede quanto un grano di senape e dite ai monti di spostarsi, essi si sposteranno”. La saldezza della nostra fede ha il calore dello Spirito Santo, sicché nel nome della Santa Trinità cacceremo questa montagna formata non di pietre e di terra, ma delle sozzure dell’eresia e della malvagità. Purghiamo dunque i nostri peccati con la confessione e le penitenza, riceviamo il corpo e il sangue di Cristo e prepariamo le nostre armi. Perché Dio può dare a noi, gente esigua ma fedele, la vittoria sulla moltitudine degli infedeli».

La battaglia, naturalmente, viene vinta, perché «Dio combatteva per l’esercito dei Cristiani normanni; perché li salvò e confuse e distrusse gli infedeli». La conquista è perciò un opus sanctum, un’opera santa. I cavalieri normanni appaiono come i mandanti di un’occupazione cristiana degli antichi territori musulmani imposta e coordinata da Dio direttamente. Volta ad ottenere due obiettivi, uno per soddisfare l’anima, l’altro il corpo. Motivazioni che, mi viene da dire, non appaiono molto dissimili da quelle che avevano animato i mujahidin della guerra santa musulmana, assurti anch’essi, talvolta, ad eroi di una sorta di pantheon celebrativo. L’impresa normanna si tinge di sfumature miracolose. I richiami dei cronisti sono numerosi. Basta menzionare la presenza di san Giorgio, splendido nella sua armatura, che affianca il piccolo drappello di trentasei normanni guidati da Ruggero I nel corso della battaglia di Cerami. Un topos che già ho avuto modo di esaminare, di un altro santo guerriero, che con la sua presenza consente di sbaragliare ben tremila saraceni. Una battaglia decisiva per Goffredo Malaterra, resa possibile, oltre che per la presenza di san Giorgio, grazie «al patrocinio di Dio e di San Pietro». Lo scenario di riferimento della conquista di Sicilia è, in definitiva, per riportare quanto dice Salvatore Tramontana con la consueta chiarezza, la «vigorosa asserzione della guerra santa come strumento prioritario e ineliminabile per sostenere a un tempo la lotta contro i musulmani e il successo concreto dei protagonisti normanni». Il tutto convalidato dalla Chiesa di Roma, con un appello che si sparge in questo periodo, con eccezionale evidenza, in tutta la Cristianità. Un appello chiaro ed ineludibile, per il quale è possibile conciliare la propria salvezza con l’esercizio della guerra, ­­­­­191

se essa è rivolta contro gli infedeli. Per essere più chiari: la liceità del massacro per la difesa della fede. La sua legittimazione. La violenza come mezzo per conseguire il Paradiso. Questo nodo diventa l’elemento di conciliazione tra due opposte visioni del mondo: della conquista e dello spirito. Di Dio e di Mammona. Con la «concessione di indulgenze e remissioni di colpe a quanti andavano a combattere contro i musulmani di Sicilia, si legittimavano – anzi si suggerivano, prosegue ancora Tramontana – le azioni guerriere dei cavalieri di Ruggero I e si avviava una politica il cui fine era la ricostruzione della Chiesa in Sicilia e la latinizzazione dell’isola». Si inaugura una nuova strada. La guerra santa diventa lo stimolo profondo che anima l’azione iniziale dei normanni contro i saraceni e diventa il sostrato su cui si reggono le relazioni future di distinzione e di demarcazione nei confronti dei musulmani. E nonostante l’impresa di Ruggero I sia satura di cedimenti, di mediazioni, di alleanze contraddittorie e di aiuto da parte di truppe musulmane, la cifra identitaria che muove i cavalieri cristiani in Sicilia è che la ragione è tutta dalla loro parte, dalla parte cristiana. Gli altri sono privi di qualsiasi legittimità. Sono i pagani, gli empi con cui allearsi qualora ce ne sia bisogno, in periodi di limitate, strette contingenze. Ma se si può, si deve procedere alla loro umiliazione. Al degrado verso una condizione subalterna, se non ad una progressiva eliminazione. La faccia del musulmano, dunque, è tinta di nero. E con lui non c’è dialogo che tenga. Si sottolineano con forza le divergenze, amplificandole e connotandole con giudizi manichei. Non sono permessi distinguo, sfumature, toni, gradazioni. Tutto si fonda su una legge di assoluta semplicità: i cristiani hanno ragione e i musulmani hanno torto. È sufficiente vedere cosa pensano ancora i tre cronisti Amato di Montecassino, Goffredo Malaterra e Guglielmo di Puglia. Essi non esprimono alcuna curiosità nei confronti del mondo musulmano, un universo che non conoscono e non ambiscono conoscere. Ostile. Nemico. Da raggruppare sotto un’unica etichetta pregiudiziale e onnicomprensiva di saraceni, solo con qualche fugace distinzione tra siciliani e africani. Un nemico per il quale si usano aggettivi sempre più pregnanti, che indicano in particolar modo la non appartenenza alla vera fede. Sono gli apostati. Gli infedeli. Li non fedel. I pagani per eccellenza, secondo la definizione di Isidoro di Siviglia. Coloro che servo­­­­­192

no gli idoli. Con identificativi che si gonfiano sempre più, financo a diventare per Malaterra la gente che, in una contrapposizione netta, si ribella contro Dio, la gens a Deo rebellis, o Deo ingrata. Ingrati verso il loro Creatore, che vive solo di saccheggi e ruberie, piratorum more, che sembra non essere dedita ad altre attività che alla violenza. Un popolo col cuore pieno di veleno. Infido e traditore. Il quale si dimostra, con le proprie azioni, sempre degno del nome di miscredente con definizioni dalle quali si capisce come non sia possibile alcuna forma di incontro tra una identità e l’altra, minato da un fossato incolmabile. Per cui i musulmani divengono l’incredula gens e si parla, come ad indicare un unico calderone peccaminoso, indistinto ed uniforme, di incredula Sicilia. Mentre la religione islamica è, in tutto e per tutto, una semplice ed esecrabile superstitio. Termini che si arricchiscono ancor di più, con gli attributi perfidi e perversi. Oppure con quelli di popolo iniquo (iniquus populus) e di sudditi del demonio (subdita daemonibus), perché, per loro, Maometto è un seguace diretto del diavolo. Questo è il motivo che spinge i cristiani, una volta preso il potere in Sicilia, a distruggere tutto quello che appartiene a questa gente idolatra. Quando si erige la nuova cattedrale di Palermo sui resti della distrutta moschea, Guglielmo di Puglia scrive: «per glorificare Dio, Ruggero rade al suolo in ogni sua parte il tempio pagano ed edifica la chiesa di Maria Vergine là dove prima sorgeva una moschea; e quello che fu il tempio di Maometto e del demonio, trasformato in tempio di Dio, diventa porta del Cielo per chi ne è degno». Quando si tratta di descrivere le caratteristiche dei protagonisti dei due campi avversi, il contrasto è altrettanto evidente. L’urto tra le diverse civiltà si appalesa quando Malaterra deve descrivere i due leaders dei rispettivi campi, il normanno Ruggero I e il musulmano Benavert, uno dei protagonisti della resistenza antinormanna, che rincontreremo. Entrambi sono animati dalla stessa volontà di eliminazione dell’avversario, con l’adoperare tutti i mezzi disponibili. Però, per il cronista, tra loro esiste una grande differenza: ciò che li distingue è il senso morale. Il primo si muove sul piano della legalitas, della fiducia e del rispetto della parola data. L’altro invece viene dipinto così: «Benavert, per odio verso i cristiani, provocava gravi danni alla Sicilia. Era costui assai astuto, esperto nella pratica militare, audace, subdolo, capace a ­­­­­193

dire una cosa e a pensarne un’altra». Una descrizione che risente di topos diffusi in ambiente cristiano, il quale ricalca da vicino le parole usate per descrivere Sawdan, l’ultimo emiro di Bari. Ma la follia di Benavert nelle parole dei cronisti cristiani risalta inarrestabile: egli è uomo violentissimo, il miscredente che calpesta le sacras imagines. Il violentatore di suore. La battaglia navale che Ruggero affronta contro di lui è esemplare: accompagnata dal favore divino, con le navi normanne spinte dalla volontà celeste (nutu Dei), in uno scontro che si riveste di temi apocalittici, di lotta del bene contro il male, di Dio contro il diavolo. Benavert non muore per mano di Ruggero, ma per giudizio divino, per le offese a Lui rivolte con arroganza. Gli unici musulmani buoni sono quelli morti. Oppure che si sono convertiti – e nelle cronache sono abbastanza rari. Come Elia Cartomese, diventato fedele di Ruggero, che muore assassinato dai saraceni perché, dice Malaterra, non voleva «diventare apostata rinnegando il cristianesimo», e conclude la sua vita come martire della fede cristiana. Sono questi stereotipi, questi luoghi comuni che alimentano i cristiani arrivati in Sicilia e che consegnano un ritratto pregiudizievole di un popolo privo di umanità, contro cui è giusto infierire, nonostante Ruggero I mostri un atteggiamento per molti versi moderato, fondato sull’alleanza con alcuni cadì musulmani e sul rispetto dei vinti, preferendo al massacro indiscriminato l’appeasement. Con la possibilità data ai musulmani di poter mantenere, almeno per ora, le proprie leggi e i propri culti in cambio del pagamento di un tributum, il volto cristiano della jizyah: la quale, imposta ai cristiani così tanto a lungo, ora diviene il primo passo verso un lento annientamento della comunità musulmana, che terminerà col regno di Federico II. Se questo appena raccontato è lo schema entro il quale i cristiani esaminano gli antagonisti musulmani, in che modo quest’ultimi considerano i nuovi invasori? Per chiudere il discorso, sarebbe sufficiente una frase del poeta Ibn Hamdis: «Che? Non l’hanno marchiata la Sicilia d’ignominia? Non hanno mani cristiane mutate le sue moschee in chiese / Dove i frati picchiano a lor voglia, e fan chiacchierare le campane mattina e sera?». Anche da questo altro lato del mondo, la faccia del nemico è dipinta di nero, senza tentennamenti, bollata con la taccia di ignominia. Un popolo di gente che costruisce chiese sacrileghe, e nel farlo distrugge sante ­­­­­194

moschee. Chiese abitate da frati violenti, dove la chiamata del muezzin alla preghiera serale è sostituita dallo stridulo risuonare delle campane. Guardando al mondo nordafricano, come sappiamo contiguo alla Sicilia, scopriamo le definizioni più originali riguardo i normanni. Se in genere sono usate le parole Faranj, i franchi, oppure Nasara, i cristiani, ad esse si accompagnano i termini dispregiativi barbari (Uluj o Alaj) o visi pallidi (Banu ‘l-Asfar): «ecco i Banu ‘l-Asfar, hanno i visi gialli di paura; e vuote le mani che andavano in cerca di rapina», come recitano alcuni dei versi dedicati dallo stesso Ibn Hamdis alla vittoria musulmana contro i normanni alla battaglia di capo Dimas. Gli europei, con un giudizio che coinvolge gli uomini delle potenze marittime dell’Italia settentrionale, sono ancora i lupi pronti ad assaltare il leone. Paragonati a nugoli di locuste con le loro tante navi. Privi di onore, pronti, una volta catturati, a riscattarsi non col coraggio ma a peso d’oro. Capaci di distruggere palazzi, moschee e bellezze. Che per le loro infide azioni verranno presto travolti dal Dio musulmano. Ruggero I, da parte sua, viene descritto come un condottiero per molti versi dotato e coraggioso, ma resta pur sempre il maledetto (al-lain), apostrofato come il nemico di Allah. Ruggero II appare malvagio, altezzoso, ben poco regale. Avido di denaro, minaccioso nei confronti dei suoi ospiti. Disumano nello stabilire le condizioni economiche contro l’Ifriqiya. Un sovrano non tanto capace, come scrive il già menzionato Kitab al-Muqaffa di al-Maqrizi, che deve tutta la sua fortuna dall’avere avuto accanto a sé come collaboratore attivo un grande personaggio come Giorgio d’Antiochia, che per l’autore arabo campeggia nell’opera di costruzione dello Stato; mentre la figura del sovrano normanno sembra dissolversi. Infine, solo uno dei sovrani di Sicilia verrà bollato col marchio di empio: il più empio di tutti, Federico II. Sembra di trovarsi in un gioco di specchi, nei quali si riflettono irrimediabili incomunicabilità. Un universo di giudizi dove ognuno, dal canto suo, spiega che non c’è possibilità di tregua e di conciliazione. Perché l’unico terreno di confronto possibile è quello del conflitto, religioso e di civiltà. Di una nuova guerra santa: che, a cominciare con Ruggero I, lentamente e per molto tempo sotterranea, si fa spazio nei territori di Sicilia. ­­­­­195

3. L’ultimo «mujahidin»

23 febbraio 1091. Scrive, in questa data, ibn al-Atir: «quest’anno i franchi, che Dio li maledica, occuparono completamente l’isola di Sicilia. Che il Sommo Iddio la renda all’Islam e ai musulmani». I tratti della conquista normanna della Sicilia sono ben conosciuti. La causa principale dell’arrivo degli Altavilla è racchiusa nella fitna, il periodo di anarchia siciliana, di guerra intestina che crea le condizioni adatte alla riconquista cristiana. È un principotto locale, il caid Ibn ath-Thumma, che per vendicarsi di un suo rivale, Ibn al-Hawwas, chiede aiuto ai normanni, in una condizione non dissimile a quella che aveva consentito la creazione dei primi insediamenti normanni nella parte continentale del Meridione. I reparti normanni sbarcano nel 1061 a Calcara, a sud di Messina. Senza combattere, prendono la città. Investono Castrogiovanni. Occupano vari piccoli centri ancora cristiani: Rametta, Troina, Paternò. Il comando è per ora nella mani di Roberto il Guiscardo. Suo fratello, Ruggero, è il suo secondo. Il caid musulmano agevola la penetrazione normanna, attraverso aiuti militari ed alleanze con altri capi locali. Ma la campagna si ferma. Gli Altavilla ritornano al di là del faro, conservando il possesso della base messinese. L’anno dopo, si riparte. Petralia e Troina si arrendono. Ibn ath-Thumma intanto muore, ucciso a tradimento. Una volta scomparso l’alleato musulmano, i due Altavilla continuano da soli nell’impresa di Sicilia. Con un capovolgimento nei ruoli: il subordinato Ruggero, infatti, scavalca il fratello nella conduzione delle operazioni. Diventa la figura eminente. Il reale stratega della conquista. La reazione musulmana non si fa attendere. Nonostante i dissidi e le discordie interne, si cerca di opporre una resistenza agli aggressori. L’aiuto lo si cerca soprattutto sulla sponda opposta. Tra i paesi gemellati per razza, identità e religione. Si guarda all’Ifriqiya, dove ai Fatimidi erano subentrati i loro luogotenenti, gli Ziriti. Scrive Ibn al-Atir: «i siciliani narravano le condizioni in cui vivevano i musulmani dell’isola; la discordia tra loro; l’irruzione dei franchi». Gli Ziriti non negano l’appoggio. Si fanno al contrario promotori di un’azione di forza. Inviano aiuti navali e terrestri. Le sorti della guerra sembrano raddrizzarsi in favore musulmano. Tuttavia i dissidi interni fra capi locali e alleati ziriti determinano ­­­­­196

un rallentamento. Il sostegno venuto dall’Africa tende a dissolversi. Ibn al-Hawwas muore in combattimento nel 1064. Nel 1068, la sconfitta di Misilmeri spinge gli Ziriti a reimbarcarsi e far ritorno a casa. Non c’erano più la forza né la voglia, da parte loro, di impegnarsi a fondo nella difesa di quell’ultimo baluardo dell’Islam. Nel 1072 i normanni prendono Palermo, dopo un lungo assedio. Dopo duecentoquaranta anni cessa di essere una città musulmana. A questo punto, l’estensione territoriale normanna nell’Isola si bilancia con quella musulmana: il Val di Mazara, salvo Trapani, e buona parte del Val Demone sono nelle mani degli invasori. Mentre il Val di Noto, con l’inespugnata Castrogiovanni e Girgenti, è ancora Islam. Ruggero è ora il Gran conte di Sicilia. La resistenza dei musulmani di Sicilia ai normanni sembra incolore. Relegata ad episodi locali. Senza una meta precisa. Priva di direzione. L’unico collegamento è col Nord Africa, coi Ziriti, anello di una catena di relazioni che resta ancora fondamentale per la comunità isolana. E appare lucidamente che, quando il loro appoggio manca, tutto attorno crolla. Eppure, anche in questo caso, la resistenza si dipana su un tempo lungo – un trentennio –, con sacche di resistenza che proseguono la guerra in maniera acuta e costante. Di essa conosciamo ben poco. Per le fonti arabe non esiste. Il perché è nei fatti. Agli occhi di chi scrive dal Cairo o da Qayrawan, i signorotti locali siciliani erano gente non che lotta per resistere all’invasore, ma invischiata in un combattimento minimalista e suicida il cui unico effetto è la consegna dell’Isola nelle mani dei miscredenti. D’altra parte, perché occuparsi di una storia lontana, di vinti, che segna il decadere e lo scomparire dell’Islam dalla Sicilia? Che interesse poteva destare in chi considerava ormai l’Isola solo un vecchio retaggio musulmano, tornata ora ad essere terra cristiana? La Sicilia è out. Non appartiene più al loro universo. Di conseguenza, può essere consegnata all’oblio. Dunque, per scoprire la storia di questa resistenza ci si deve muovere a fatica, tra le pieghe dei racconti, specialmente di parte cristiana. Storie di coraggio o di disperazione, di un’opposizione accanita, che ci riconducono ad una condizione umana dove la violenza normanna era all’ordine del giorno. Ne sappiamo qualcosa dalle lettere di due ebrei della Geniza, che testimoniano su quanto di terribile stia accadendo. La prima – scritta verso il 10611062 da un ebreo siciliano che ha dovuto lasciare l’Isola ed è anco­­­­­197

ra sotto shock per quello che ha visto – riporta: «niente di buono resta in Sicilia. Lasciami descrivere in quale situazione ho lasciato le mie cose. Sono stato testimone di eventi che non avrei mai immaginato di dover vedere in tutta la mia vita a causa dell’eccessivo spargimento di sangue. Ho camminato su corpi così compatti l’uno vicino all’altro che sembrava un unico selciato». La seconda, del 1065, parla della progressione normanna e del conseguente esodo di popolazione. Lettera nella quale il normanno è il nemico comune, tanto per i musulmani quanto per gli ebrei: «le notizie della Sicilia sono molto brutte. Il nemico se ne sta impossessando ed ai musulmani rimangono soltanto Palermo, Mazara e Qasrini. La gente sta fuggendo verso il continente». Continente che per loro, si badi bene, è la comune patria d’elezione, il Nord Africa, e non la Penisola italiana. Una violenza terrorizzante, adoperata con metodo, per fiaccare qualsiasi reazione. Attestata da Malaterra, che racconta come dopo la vittoria di Misilmeri Ruggero abbia trovato tra le spoglie dell’accampamento avversario dei piccioni viaggiatori, che il conte fa inviare a Palermo con messaggi scritti col sangue dei propri nemici. I nuovi arrivati seminano la paura, che dilaga e spinge la gente a scappare. O a sopprimere i loro congiunti più deboli, nel timore che i normanni da un momento all’altro piombino loro addosso, come avviene in questa storia raccapricciante e, al tempo stesso, struggente, riportata dal solito Malaterra. Questi narra che quando Ruggero si impadronì di Messina, un giovane nobile musulmano pensò bene di fuggire con la sorella, per impedire che entrambi cadessero nelle mani dei cavalieri normanni. Seppur il ragazzo la incoraggiasse «con parole dolcissime», la ragazza, poco abituata allo sforzo di una fuga precipitosa, non riusciva ad affrettarsi. Non sapendo più come fare, con i normanni ormai alle costole, il ragazzo preso dalla disperazione, tra i singhiozzi, la uccide: «egli, pur versando amare lacrime per l’affetto per la sua unica sorella, aveva preferito ucciderla e piangerla morta, piuttosto che saperla costretta a infrangere la sua legge e a subire violenza ad opera di qualcuno che non avrebbe accettato di rispettare la sua legge». Tra i pochissimi episodi della resistenza musulmana che conosciamo a livelli che vanno oltre l’approssimazione c’è quella di un personaggio da leggenda, che appartiene all’ultima fase della ­­­­­198

conquista normanna. L’ultimo mujahidin: Mohammad Ibn Abbad, conosciuto nelle fonti cristiane come Benavert. Il cui ricordo è stato conservato ancora un volta grazie a Goffredo Malaterra, che ci ha lasciato di lui un breve ma intenso ritratto. La sua stella brilla per un decennio, dal 1075 al 1086. Nel 1075 si impadronisce di Siracusa. Nel 1081, per tradimento, della città di Catania, che però riperde poco dopo. Nel 1084 fa qualcosa che ormai veniva considerato totalmente impensabile, in questa epoca di turbamenti e di rapidi mutamenti, dove l’onda è completamente cambiata in favore dei cristiani. Dà fiato, per l’ultima volta, al jihad musulmano e sbarca a Reggio. Le lancette dell’orologio paiono essere improvvisamente tornate indietro a più di un secolo prima. Assalta i monasteri, si abbandona a terribili violenze. Come i suoi predecessori, torna a Siracusa con un buon bottino. Intanto Ruggero continua a completare la sua opera di conquista, domando le superstiti sacche di resistenza nella Sicilia orientale. Resta Siracusa, e incappa nel peggior avversario: in Ibn Abbad. Nel maggio del 1086 le truppe normanne circondano la città per terra e per mare. Il Gran conte è a capo della flotta. Suo figlio Giordano guida le truppe da terra. Sembra di essere tornati alla situazione della primavera 878. L’assedio comincia. Gli ultimi giorni di Ibn Abbad trascorrono in difesa della sua città e della sua fede. Nel momento peggiore prova una sortita via mare. La sua flotta si scontra con quella di Ruggero. Tenta l’arrembaggio della nave del conte. Incalzato e ferito da Ruggero stesso o da un suo compagno, il capo musulmano cerca di lasciare la nave normanna e di saltare sulla sua. Salta: ma il passo è troppo corto. Cade in mare, e annega trascinato a fondo dall’armatura (pondere ferri submergitur). Le difese di Siracusa reggono ancora qualche mese. Per poi soccombere definitivamente. Ai musulmani si lascia la possibilità di scegliere. Restare o andar via. Tanti sono i musulmani che lasciano la città ormai in mani cristiane, preferendo trovare asilo altrove, in terra musulmana, in Africa. Tra questi anche la moglie di Ibn Abbas, che scappa coi suoi figli. Se l’eco della resistenza di Ibn Abbad non arrivò sino alle coste dell’Africa e se i cristiani lo maledissero per la sua crudeltà, la memoria del suo ultimo orgoglioso scatto di resistenza contro i normanni si sedimenta profonda nel ricordo dei musulmani siciliani alla ricerca di riscatto: non a caso, è probabilmente un suo stesso ­­­­­199

discendente, un altro Ibn Abbas, che un secolo e mezzo dopo guiderà la comunità islamica nell’ultimo scontro contro Federico II.

4. Quando «i demoni spaziano nelle costellazioni delle asteroidi»

Secondo Idrisi, l’atteggiamento dei sovrani normanni e, con loro, dell’elemento latino-cristiano, fu improntato ad una certa tolleranza. Lo afferma a chiare lettere, col suo forte accento panegirista: «quando Ruggero I divenne il padrone assoluto e vi consolidò il trono della sua regia potestà, egli si fece apostolo di giustizia fra le genti della Sicilia, le quali furono mantenute nelle rispettive confessioni e leggi ed ebbero garantite la vita e le sostanze per sé e per i suoi congiunti». Degli aspetti confermerebbero questo giudizio. Per esempio, la preservazione della fede musulmana, col pagamento del tributo. E l’inserimento di musulmani nei ranghi dell’esercito. Lo ricorda il biografo di Anselmo di Canterbury che sottolinea il suo stupore nei confronti dei tanti cavalieri di fede islamica presenti all’assedio di Capua nel 1098: musulmani che lo stesso Anselmo avrebbe voluto convertire. Proposta che trova l’assoluto diniego da parte del conte. Sembra dunque che ci si avvii, se non su una linea di tolleranza, almeno di convivenza. Si tratta, a mio modo di vedere, di apparenze. L’ottima impressione registrata da Idrisi viene smentita dai fatti. Le conversioni forzate cominciano subito, già nelle ultime fasi della conquista e coinvolgono tutti: grandi, come il cadì di Castrogiovanni, al-Qasim ibn Hammud; e piccoli. Si può dedurre, come rileva Hubert Houben, «che la libertà di religione veniva concessa soltanto nei casi in cui si trattò di città abitate in maggioranza da musulmani, come per esempio Palermo», ossia dove c’era assoluto bisogno di collaborazione. La convivenza intesa insomma come frutto di calcolo tattico e non di generale strategia politica. Il divieto della conversione al cristianesimo probabilmente si limitò ai soldati musulmani, e si intuisce anche il perché: necessari allo svolgimento delle campagne militari, il loro potenziale, qualora non fosse stato ben controllato, poteva ritorcersi contro gli stessi sovrani. In altri settori, come l’apparato amministrativo ­­­­­200

e statale, è stato assodato che, sia al centro che alla periferia, a poco a poco la conversione divenne un presupposto necessario per la carriera. Che spinge tanti al voltafaccia e, soprattutto, alla dissimulazione. Su questo mimetismo è necessario soffermarsi per un attimo. Diventa un fenomeno diffuso. Quelli che entrano nell’amministrazione si convertono ma nella pratica più intima restano dei musulmani. Sono dei criptomusulmani. Perché questa scelta? Si tratta di un campo difficile da comprendere, dove si mescolano una miriade variegata di nuances. Che si fondano sul terrore e sull’ossequio. Sul desiderio di una identificazione e di un’assimilazione coi nuovi padroni, col cercare però di conservare un radicamento nelle proprie tradizioni, per non sentirsi del tutto sbandati all’interno della propria comunità. Si diventa criptomusulmani per collaborazionismo, per trarne quanti più vantaggi possibile, in un gioco cinico di equilibri. Per adescamento ideologico. Ma c’è chi accetta questa doppia faccia perché è costretto a cedere al governo, che spesso spera che la conversione di un singolo potente possa contagiare la massa. C’è chi lo fa per precisa linea politica, che gli consente di gestire un potere che può tornare comodo a sé e ai suoi stessi correligionari, cui può garantire sostegno dall’interno dell’apparato statale, con raccomandazioni, interventi, aiuti. Tanti casi di un gioco pericoloso, perché il continuare a preservare nascostamente la propria religione è considerato un reato gravissimo. Se scoperti c’è per tutti, indiscriminatamente e senza sconti, la pena capitale. Sulle scelte che mossero questi musulmani a camuffarsi da buoni cristiani è imprudente esprimere un giudizio. Stiamo parlando della vite di persone di cui è pressoché impossibile conoscere le più profonde motivazioni. Tuttavia, segnalano l’ampiezza e la complessità di un fenomeno che creò delle violente lacerazioni nella società musulmana. Il tessuto musulmano viene sconvolto, specialmente nelle campagne, dalla colonizzazione: la grande chiave di trasformazione del paesaggio umano siciliano da islamico a cristiano. Ora la corrente di uomini e donne non arriva più dall’Africa o dall’Andalusia. Ruggero I si impegna ad aumentare la popolazione cristiana dell’Isola. Dopo la conquista di Malta e di Gozo, avvenuta nel 1090, fa insediare in Sicilia una parte dei prigionieri cristiani sottratti ai musulmani. È l’inizio di un forte movimento di popolazioni, che si ­­­­­201

accresce giorno per giorno. Al seguito della terza moglie di Ruggero, Adelaide della stirpe piemontese degli Aleramici, cominciano ad insediarsi in massa numerosi italiani provenienti dalle regioni dell’Italia settentrionale. Sono i lombardi, così definiti nelle carte contemporanee, cui si offre un futuro, un posto al sole. L’afflusso di lombardi diventa decisivo per scardinare il sistema musulmano. Una catena di loro cittadine – Butera, Randazzo, Nicosia, Piazza Armerina ecc. – isola i principali centri di persistenza islamica, il Val di Mazara e il Val di Noto, Girgenti e Castrogiovanni. Il loro atteggiamento è militante. Rozzo. Brutale. Intollerante. Vivono attivamente uno spirito di Crociata, che individua nel musulmano il peggior nemico. E di lì al pogrom basta poco. Vi sono altre forze che contribuiscono alla cristianizzazione e a sottrarre terra agli indigeni siciliani. In primo luogo, abbazie e conventi. Veri e propri cunei che si immettono nel tessuto musulmano, come S. Agata di Catania (1091), S. Salvatore di Patti (1094) e S. Maria di Messina (1100-1101). Dietro di sé, trascinano altre torme di coloni, attratti dalle possibilità di sfruttamento di nuove terre: longobardi, calabresi, pugliesi. Basti pensare alle parole che usa l’abate di S. Salvatore di Patti, che richiama qualunque tipo di cristiano – latino, si badi bene, e non greco –, di ogni provenienza e ceto (homines, quicumque sint, latine lingue) a colonizzare questo eldorado in rinascenza. Non manca l’apporto delle colonie mercantili forestiere, con genti delle proprie comunità che erodono ulteriori spazi. Tutto a scapito degli antichi residenti musulmani, cui vengono sottratti, giorno dopo giorno, spazi di libertà, terre, prospettive di lavoro e di vita, ambizioni e poteri. La vera componente che scompagina fortemente gli equilibri è la feudalità coloniale. Un nugolo di cavalieri, fideles, clientes normanni, francesi o provenienti dall’Italia settentrionale che affiancano il Gran conte e poi il futuro re Ruggero II nella loro opera di conquista e di formazione statale e che, secondo la tradizione occidentale del tutto estranea al mondo siciliano, ricevono feudi e benefici composti di terre e uomini, in cambio di un legame vassallatico: rapporto che si configura nell’obbligo di servizio e nell’inclusione del titolare della concessione fra i fideles del Gran conte e, poi, del sovrano. Una condizione pericolosa, dove, come rileva Piero Corrao, ­­­­­202

dal punto di vista del dominio sulla terra e sugli uomini, la particolare condizione di vassalli del conte e poi del re attribuisce ai possessori una quota aggiuntiva di poteri. Coinvolti, in quanto vassalli, nell’amministrazione e nel governo del territorio a fianco degli ufficiali comitali e regi – a seconda del grado di estensione dell’immunità loro concessa –, i signori latini, anche se non dotati di poteri pubblici all’atto delle concessioni di feudi, esercitano tali poteri nelle terre di pertinenza secondo un quadro normativo che appare sempre fluido e variabile.

La riconoscibilità antropologica di questo nuovo ceto è evidente. Un’élite di importazione che si insinua su un territorio musulmano, cui impone regole, costumi, diritto ed economie fino ad allora inconcepibili. Con una demarcazione netta, dove la diseguaglianza sociale ed economica tra dominanti e dominati diventa contrapposizione etnica e religiosa tra cristiani e musulmani: non a caso, il termine generalmente utilizzato per indicare la popolazione dei coltivatori rurali, villano, è nella prassi un sinonimo di musulmano o di greco. Ciò non significa che non ci siano villani cristiani o latini, e che musulmani o greci non siano ancora presenti tra chi di fatto possiede la terra. Ma «l’asse delle divisioni sociali più nette è indubbiamente sovrapposto a quello delle distinzioni di fede e di etnia». Ciò comporta da un lato una più accentuata polarizzazione della società rurale, dall’altro una «progressiva emarginazione e distruzione della popolazione musulmana delle campagne, come un rapido cambiamento della configurazione del possesso della terra, dell’organizzazione del territorio, delle relazioni di potere, delle condizioni sociali». Si tratta, a ben vedere, di una formazione socio-economica originale che si insedia sulle strutture di una società a dominante urbana e fortemente monetarizzata, che integra al suo interno le sacche ancora musulmane controllate dai residuali cadì musulmani. Evoluzione che trasforma anche il paesaggio agrario, sempre meno costellato da piccole cellule rurali e sempre più subordinato all’economia del latifondo, con una distanza tra chi è proprietario del suolo, un nobile cristiano che risiede in città; e i suoi contadini musulmani, sottomessi ad un salario in danaro e un compenso in natura. In sostanza, si assiste ad un fenomeno di oppressione culturale e di acculturazione forzata. Di cristianizzazione e latinizzazione delle popolazioni musulmane. Di immigrazione di massa, ­­­­­203

dall’Italia padana, dall’Europa occidentale, dalle aree peninsulari meridionali, coma la Campania e la Calabria. La maggioranza musulmana resta isolata ad ovest e a sud-est dell’Isola: emarginata, sottomessa all’opera di deculturalizzazione, amministrata e protetta dai propri capi locali, via via indeboliti dalla presenza minacciosa dello Stato e dei signori normanni. Capi musulmani che rappresentano una nobiltà residuale, fatta di piccoli amministratori che affiancano i poteri crescenti, scribi, tecnici dell’amministrazione, anche funzionari di grado maggiore, che, nel bene e nel male, aiutano nella sua crescita la monarchia normanna e proteggono la comunità dei vinti. Si cerca di sopravvivere. Non è che tutto precipita da un momento all’altro. L’impatto della conquista, una volta superata la fase più drammatica e intrapreso il processo di stabilizzazione, non sembra avere effetti immediati nella vita quotidiana. Il termometro della Geniza, a questo proposito, non registra grandi sussulti. C’è una riduzione nelle attività commerciali che però non è congiunturale ma strutturale, dovuta alla mutazione della geografia commerciale e non avviene un cambiamento drastico e sostanziale nella natura dei rapporti tra mercanti siciliani e quelli nordafricani ed egiziani. Al di là delle convivenze e delle reciproche convenienze, degli adattamenti e degli scrupoli, credo che ormai appaia chiaro quale sia il problema di fondo: che è stato imboccato un tunnel. Una strada di non-ritorno. Le contrapposizioni sono troppo stridenti. La forza del processo di acculturazione invadente. Gli scarti e le risoluzioni del potere monarchico imprevedibili. In questa condizione instabile, i margini di flessibilità e di adeguamento si chiudevano e si schiudevano. Si cucivano e si scucivano. Offrendo ampie boccate d’aria cui seguivano pause dolorose e tormentate. Come se la Sicilia si fosse trasformata in un enorme, impalpabile ghetto. Nel quale la maggior parte dei musulmani preferì stringere i denti per cercare di sopravvivere. Con preoccupazione ma anche con tante aspettative. Non tutti però furono capaci. Non tutti furono in grado di adattarsi e preferire la ghettizzazione. Molti scelsero la fuga. Emigrarono. Scapparono sulla costa opposta, in Egitto, in Nord Africa, dove potevano contare sulla fiducia di parenti, amici, reti di relazione. Dove sapevano che viveva, seppur anche lì spesso senza grande serenità, la propria comunità di origine, di lingua e di religione. Non si trattò di un’emigrazione brutale, una ­­­­­204

catastrofe umanitaria, con un esodo di boat people. Fu piuttosto scaglionata, visto anche il breve braccio di mare che separava la Sicilia dalle coste opposte. Si dice che già nella prima fase della conquista normanna siano scappate circa cinquantamila persone. Un ottavo della presunta popolazione musulmana siciliana. Gente di tutti i tipi, che si installa ad al-Mahdia, a Monastir, a Susa, in Andalusia. Agricoltori. Commercianti scafati. Uomini di scienza. Artigiani. Uomini di legge e di fede. Poeti. Uno dei quali si chiama Ibn Hamdis. Nasce a Siracusa intorno al 1055. A poco più di vent’anni lascia l’Isola, quando la conquista normanna non è ancora giunta a termine. Passa la sua vita, che è lunga e finisce all’età di ottantotto anni, in giro per le corti degli emiri musulmani dell’Africa settentrionale. Quando muore, nel 1133, non sappiamo se a Bigiaya in Algeria o a Maiorca, nelle Baleari, la Sicilia era ormai tutta caduta nelle mani degli infedeli. Le sue poesie, raccolte nel suo Diwan, sono tipiche della tradizione araba. Poesie d’encomio. Poesie di descrizione. E del ricordo. Della memoria di una casa perduta. Non sta a me celebrare con un discorso critico-interpretativo la capacità letteraria di Ibn Hamdis. Quello che mi importa è far conoscere a chi legge i suoi versi: e, attraverso essi, il senso di distacco di un esule. Dalla patria perduta, dalla Sicilia: il «paese cui la colomba prestò il suo collare, e il pavone rivestì del manto screziato delle sue penne». Amico, congiunto a me di strettissimo affetto, come la seconda pioggia primaverile è legata alla prima, tienti stretto alla tua patria, tuo dolce paese, e muori in casa tua, o sulla sua superstite traccia, e guardati dal provare mai il sapore dell’esilio. Il senno non sceglierà mai di sperimentare il veleno

Sensazioni legate ai rimpianti di un vecchio, che siede sulla riva del mare e guarda la costa opposta, con un nodo allacciato alla gola, e il futuro attaccato ai pensieri: Custodisca Iddio una casa in Noto, e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole. Ogni ora io me la raffiguro nei pensieri, e verso per lei gocce di fluenti lacrime. ­­­­­205

Con filiale nostalgia anelo alla patria, verso cui mi attirano le dimore delle sue belle donne e chi ha lasciato il cuore a vestigio di una dimora a quella brama con tutto il corpo di far ritorno

Esistono poi dei versi, alcuni dei quali già citati, che richiamano la condizione attuale dei siciliani, rispetto alle grandezze passate: Ho tranquillizzato il mio animo, quando ho visto [la mia patria assuefarsi nella sua malattia mortale, fastidiosa, Che, non l’hanno macchiata d’ignominia? Non hanno mani cristiane mutate le sue moschee in chiese Dove i frati picchiano a lor voglia e fan chiacchierare le [campane Da mattina a sera? [...] O Sicilia, o nobili città, vi ha tradito il destino; voi, che foste il popolo del secolo contro altri possenti, quanti occhi, tra i vostri, vegliano spaventati, occhi che, una volta, sicuri dai cristiani, trascorrevano sonni [tranquilli? Vedo la mia patria vilipesa dai Rum, essa che in mano dei [miei fu così orgogliosa e fiera.

Parole nelle quali ritorna il grande mito dei musulmani di Sicilia, il tempo del jihad, periodo di gloria, di epopea: per Ibn Hamdis il più sfolgorante che abbia vissuto l’Isola. Che, paragonato all’attuale, di miserie, di distruzione, solo una stirpe rediviva, uscita dalla tombe, può riportare in vita: Il terrore delle armi nostre ingombrava la terra degli infedeli; ahi, ora che il terrore loro tutta invece la ingombra. Oh, perché non ha più quei suoi leoni arabi, vedresti tra i loro artigli i barbari dilaniati [...] E non fu piena di scorrerie la Calabria per le mani nostre? E non vi fecero strage di patrizi e di coraggiosi? ­­­­­206

Aprirono con le spade le porte di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre. Menarono con sé schiave le bianche, scoperte il capo, ma con chiome tanto lunghe da sembrare mantelli. Per assalire quei paesi, i nostri ad ogni istante attraversavano il mare, con un fiume le cui onde erano dei cavalieri [...] Ed ora v’ha forse in Castrogiovanni una rocca con un presidio di quei valorosi? Vi rimane qualche vestigia dell’Islam? O meraviglia: ora i demoni spaziano nelle costellazioni delle [asteroidi. E si rafforzano i nemici in Siracusa, diventata landa sterile, dove non puoi visitare altro che tombe. [...] Ma se mai si aprissero gli avelli, Oh ruggenti belve salterebbero fuori dalle fosse sopra [costoro.

Il tempo di Ibn Hamdis è solo un tempo di rimpianti. Di una Sicilia passata, bellissima, esaltata dal ricordo. Stellare nel suo splendore. Ora brutalizzata. Una fantastica costellazione di asteroidi ormai trascorsa e distrutta, dove adesso spaziano solo i demoni.

5. Una «fatwa» per non morire

Ad al-Mahdia, intorno agli anni Venti del XII secolo, fu presentata all’imam Abu Abd-Allah al-Mazari una questione che gli era stata fatta pervenire da un gruppo di musulmani residenti in Sicilia. Una domanda fondamentale nel quadro delle relazioni tra musulmani dominati e cristiani dominanti, che si può riassumere così: possono vivere i musulmani sotto un sovrano miscredente? È evidente come si tratti di un argomento centrale, che investe tutta un’altra serie di aspetti messi peraltro sul tappeto dagli stessi interpellanti siciliani: che posizione assume la legge coranica in merito ­­­­­207

ai musulmani che continuano a risiedere nei territori caduti sotto il dominio cristiano? È legale oppure no il soggiorno regolare e continuo di un musulmano su un territorio non musulmano? Una decisione giudiziale pronunciata da un cadì musulmano, ma incaricato da un un principe o da un sovrano di confessione cristiana, è legittima oppure no? Rilievi non da poco. Con un interesse a tutto campo. Al cuore del discorso, la legittimità. Sia per ciò che concerne la dimora in terra non islamica, sia per il riconoscimento degli ambiti di potere. Non è la prima volta che si richiedevano fatawa a giuristi nordafricani per chiarire alcuni punti nodali sulle relazioni da intrattenere con i nuovi conquistatori cristiani. Soprattutto ne erano state pronunciate sulla pratica degli scambi e del denaro, in modo particolare per il tema dell’approvvigionamento di grano dalla Sicilia verso le regioni africane. Il primo punto era che i viaggi commerciali rendevano il musulmano soggetto – anche temporaneamente – ai regolamenti degli infedeli, perciò ci si poneva la domanda se fosse permesso viaggiare verso le terre cristiane. In secondo luogo, era lecito comprare da essi grano e pagarlo con moneta musulmana? In terzo luogo, quando si effettuavano commerci in Sicilia, i dinar d’oro venivano sequestrati nei porti, rifusi e trasformati in tarì, la moneta corrente normanna: moneta più povera d’oro, dove il metallo in eccedenza veniva incamerato dalla zecca normanna. Era giustificata questa pratica? Le fatwa di risposta furono molto dure. Ci si richiamò alla hurma, la dignità del musulmano, che è inviolabile, paragonata all’haram nelle città sacre della Mecca e di Medina. Inviolabilità che non poteva essere compromessa dalla presenza degli infedeli, anche qualora fosse stata determinata dalla carestia e dalla penuria di cibo. Una decisione che non si arrestava qui e andava oltre. Nei confronti della sottrazione dell’eccedenza d’oro, si stabilì che non poteva essere assolutamente tollerata, perché violava l’orgoglio musulmano, intaccava e cancellava i simboli islamici sostituendoli con segni idolatri e trasgrediva le rigide proibizioni contro l’usura. Circa l’acquisto di cibo dagli infedeli invece la risposta fu più interessante di quanto si possa immaginare: comprare da loro significava fornirli di una grande quantità di danaro, che essi potevano adoperare per nuove guerre contro i musulmani e per compiere scorrerie contro le loro città. Si assiste, quindi, ad una chiusura in­­­­­208

transigente, su tutta la linea, nei confronti degli infedeli; sebbene a dispetto di questi giudizi i traffici tra le due sponde mediterranee e lo sbarco di grano siciliano continuassero pressoché indisturbati, giustificati dalle necessità, per la quale si trovò una posizione di compromesso espressa nella massima «la necessità può separare le decisioni legali delle loro fonti». In ogni modo, è in questo clima di tensione – altamente polemico, di contrasto violento col mondo cristiano – che matura la fatwa che deve pronunciare l’imam al-Mazari, su un problema ancor più scottante di quello dei commerci, perché la questione che lo investe riguarda le sfere di competenza e di legittimità del potere. Per poter capire fino in fondo il giudizio che emette, serve conoscere almeno un po’ al-Mazari: siamo dinanzi ad un uomo profondo, un rinomato maestro di fiqh del madhhab malikita. Di cui però vanno sottolineati alcuni dati caratteriali e personali che non ne fanno solo un rigido giurista, capace di applicare non solo i precetti della legge, ma che infonde in quello che fa esperienza di vita. È figlio di immigrati siciliani, sbarcati con la prima onda di rifugiati a seguito dell’invasione normanna. Quindi è sensibile ai motivi che spingono la gente a scappare dal proprio paese e sente forte, succhiata col latte materno, la hasra, la nostalgia verso la madrepatria. Conosce qual è la condizione dei musulmani di Sicilia sottoposti all’autorità cristiana, quale sia il loro grado di miseria morale, di sottoposizione fisica e spirituale. Da buon musulmano figlio di esuli ha una speranza: che i siciliani siano capaci di ripristinare l’ordine antico e di scacciare gli invasori dall’Isola; o, almeno, di convincere gli infedeli normanni a piegarsi ai dettami della vera fede. Va aggiunto che la sua attenzione verso gli scampati siciliani non è solo formale. Si traduce nel fornire assistenza materiale e morale a chi sbarcava povero e senza mezzi sulle coste africane, con aiuti generosi, senza distinzione di classe, di ceto, di età, di sesso. Un bell’esempio, per allora come per oggi. Per tutti questi motivi, da buon conoscitore della realtà dell’Isola, sa che la sua fatwa ha un valore di primo piano per la comunità dei credenti siciliani. Deve quindi tenere conto, nel scriverla, di molti fattori. Graduare la scelta del giudizio. Formularlo con chiarezza. E specialmente mettere da parte i suoi sentimenti. Perciò si dà da fare per assolvere con metodo il proprio incarico. Innanzitutto sceglie i passi del Corano più rispondenti. Passa ­­­­­209

a brani della tradizione sulla vita del Profeta che richiamano le emigrazioni dei primi musulmani verso la Mecca e Medina, ma prima ancora verso un paese cristiano, l’Abissinia. Poi, sfoglia le sentenze su problemi analoghi emesse da giuristi celebri prima di lui, come al-Baqillani. Passa alla letteratura giuridica. Infine, c’è la riflessione e il giudizio. La fatwa di risposta è moderata, pragmatica e sfumata. A tratti tollerante. Per niente intransigente, come accadrà per al-Wansharisi più di trecento anni dopo, che non accetterà mezze misure, con la presa di posizione netta che i territori miscredenti vanno abbandonati drasticamente, punto e basta. Al-Mazari attenua i toni. Se da un lato egli non mette in dubbio la validità della proibizione nei confronti di un musulmano di vivere sotto il dominio cristiano, dall’altro non la conferma in modo deciso. Egli si richiama a un principio che ritiene fondamentale per ogni buon musulmano: l’etica personale. Lo esplicita chiaramente: «se una persona risiede in un paese nemico per ragioni che lo obbligano a stare lì, non c’è niente che possa attentare alla sua probità». Attitudine personale alla lealtà che deve far scartare ogni idea di disobbedienza, un «fondamento da cui non ci si può sottrarre». Al primo posto, dunque, il dovere etico. Anche se la residenza in territorio nemico è determinata «dalla speranza di sottrarlo dalle mani degli occupanti, o di giungere a mettere gli infedeli sulla buona strada o, almeno, di allontanarli da qualunque eresia». Questo lo scenario di riferimento generale. Nello specifico, alla questione relativa all’investitura accordata dagli infedeli ai cadì, ai notai o ad altri detentori di incarichi, risponde così: che bisogna ad essi attribuire fiducia perché sono coloro i quali sono chiamati a difendere la gente musulmana in terra infedele. Il dato importante per lui non è tanto da chi derivi la legittimazione di autorità ma chi esercita la funzione giuridica. Se il cadì, o chi per esso, è persona degna e rispetta nel suo giudizio i canoni della legge islamica, allora la sua decisione è valida: «l’investitura accordata dall’infedele ad un cadì probo, sia per rispondere ad un comando d’imperio sia per soddisfare la domanda di coloro che vengono da lui a chiedere giustizia, non pregiudica i suoi giudizi [...], come se egli fosse stato investito da un principe musulmano». Al-Mazari adotta insomma il principio dell’udhr, cioè dell’accettare la presenza di un musulmano sotto un sovrano miscredente come base per non indebolire l’autorità degli ufficiali ­­­­­210

musulmani sull’Isola: potere che, se minato, avrebbe potuto avere ricadute negative sull’intera comunità musulmana. Una decisione dal forte sapore pragmatico, che si adatta alle difficili circostanze e che legittima pienamente la vita istituzionale musulmana nella Sicilia cristiana. Fatwa di sopravvivenza e di adattamento, per garantire ad un popolo di continuare a preservare le proprie leggi e le proprie tradizioni, che indica quale sia l’atteggiamento che il buon musulmano deve tenere nei confronti dell’autorità normanna: di rispetto, ma nel quadro di una sostanziale diversità. Nel quale i rappresentanti locali della comunità sono chiamati a svolgere un importante compito di mediazione: amministrativa, giuridica, culturale, religiosa e, aggiungerei, politica.

6. Un mondo allo sbando

Qual era l’atteggiamento di Ruggero II nei confronti dei musulmani? Sappiamo che sin da ragazzo il sovrano normanno ebbe forti contatti con la comunità musulmana, in special modo dopo il trasferimento della corte da Mileto a Messina, e poi a Palermo nel 1112. Gli influssi di una città totalmente islamizzata furono certamente forti e sollecitanti. Un ambiente dove convergevano quattro culture: latina, greca, ebrea e araba – un vero e proprio affascinante mosaico. I palazzi e i parchi costruiti dal sovrano; il suo interesse per la tecnica e le scienze; i costumi di vita di stampo musulmano; le donne dell’harem; l’ausilio di un folto gruppo di eunuchi; la presenza di astrologi, filosofi e matematici dimostrano la forza degli influssi non solo di parte araba. Però se l’entourage del re è ricco di presenze greche, molte di meno sono quelle di origine musulmana, anche se tra essi figurano personaggi come Abu al-Daw o il capo degli eunuchi Filippo di al-Mahdia. Ci si deve chiedere il perché. Ci sono verosimilmente ragioni di opportunità politica, di un regno appena sorto che imprime una solida sterzata latino-cristiana nel quale lo spazio musulmano andava notevolmente ridotto. Però non va taciuto un altro motivo, forse il principale: la diaspora, che coinvolge inizialmente il tessuto migliore della società siciliana. Si trattò infatti, per molti aspetti, di un esodo di cervelli. Va via una élite di sapienti, di alta capa­­­­­211

cità spirituale, di stirpe nobile, parte dei quali vantavano il titolo di shurafa, cioè di discendenti del ramo alide dell’Ahl al-Bayt, le genti della famiglia del Profeta: ricordati ancora nel XVIII secolo nel Lamhat al-bahjat al-‘aliyya fi ba’d ahl an-nisbat as-Siqilliyya del sapiente magrebino Muhammad abd as-Salam al-Qadiri (m. 1773), che riporta le genealogie di questi shurafa’ siqilliyyun. E, nonostante ci fosse pure un movimento di emigrazione inverso, dal Nord Africa verso la Sicilia, esso non fu così costante e numericamente influente da colmare i vuoti che si erano prodotti nella dirigenza islamica. Va aggiunta poi la difficoltà dei musulmani, che per entrare nei ranghi amministrativi erano costretti ad abiurare la propria religione. Pertanto molti di essi, di rango, preferiscono scappare e lasciare l’Isola. Oppure si defilano. O ancora si convertono, e penetrano nella vita amministrativa del regno: ma in maniera anomala, mimetica, continuando in segreto a professare la fede islamica. Le Assise di Ariano del 1140 sono il principale documento politico per comprendere come il sovrano intendesse regolarsi nei confronti delle minoranze religiose. Con un’avvertenza: il termine minoranze non va interpretato con i canoni della moderna pubblicistica. Non con un riferimento quantitativo. In Sicilia, si diviene minoranza in relazione a chi comanda. In una condizione nella quale il gruppo dirigente, composto dal re, aristocrazia feudale, alto clero ecc. non è maggioranza di fatto (i musulmani rappresentano ancora la stragrande maggioranza della popolazione) ma nei fatti. Partendo da questa posizione, quanto stabilito ad Ariano assume sfaccettature molto più sfumate rispetto all’idea di “tolleranza religiosa” che è stata più volte proposta. Di un testo che è vero stabilisce al punto primo la possibilità per chiunque di continuare ad esercitare i propri costumi e di manifestare la propria fede, ma per decreto reale, per autorità sovrana. Con la quale l’autonomia religiosa viene subordinata e costretta nei limiti predisposti dal potere monarchico. Limiti che possono variare, a seconda delle esigenze o di particolari passaggi politici. Trasformandosi in qualcosa di più forte: in un protettorato. Dove la differenza si muta in ineguaglianza. La cosiddetta tolleranza non diventa dunque nient’altro che una forma di autocrazia, nella quale, come nota Abulafia, «i non-latini – greci, musulmani, ebrei – dovevano la loro fortuna al benvolere del re e gli erano perciò ­­­­­212

ciecamente devoti». Con uno statuto individuale che tende ad incrinarsi e a degradare mano mano: da persona libera soggetta al versamento di un tributo ad un altro, ben più gravoso, di servo sottoposto al monarca, obbligato a fornire servizi alla Corona. Fino al caso limite, dove questa forma di protettorato si trasformerà in vera e propria proprietà sulla persona, col passaggio di condizione da servus a sclavus. Concludendo, la norma stabilita ad Ariano appare scivolosa, ambigua, a garanzia non di un diritto inalienabile, ma di una libertà a tempo: legge foriera di mille problemi. La cartina di tornasole per evidenziare i rapporti di squilibrio all’interno dell’amministrazione tra musulmani e sovrano è l’episodio della condanna e messa al rogo dell’eunuco Filippo. Allevato a corte come paggio, convertito al cristianesimo e preposto all’amministrazione del palazzo regio palermitano, Filippo gode a lungo della fiducia di re Ruggero. Grazie ad essa, ascende di rango e vive una brillante carriera. Finché viene nominato amiratus della flotta normanna, con l’incarico di guidare l’assedio di Bona, presso Tunisi. L’eunuco svolge questo compito in modo efficace. Solo che sembra che egli abbia chiuso un occhio nei confronti dei maggiorenti musulmani della città e consentito la fuga degli ulama insieme con i loro beni e le famiglie. Un atto che si può leggere come atteggiamento di clemenza o di opportunità politica. Fatto sta che, tornato vincitore e con un ricco bottino, il re lo fa imprigionare. Gli imputa di avere avuto, nella sua condotta, un sentimento troppo riguardoso verso i cittadini di Bona. Filippo dapprima nega tutto e si appella alla misericordia del re. Che si rivela però inflessibile: «prorompendo in lacrime», raccomanda ai giudici di essere inflessibili. Filippo viene condannato a morte. Ad una morte crudelissima. Durante il ramadan del 1153, viene prima torturato, trascinato per i piedi da un cavallo in corsa. Poi viene gettato vivo tra le fiamme di una fornace di calce. Su questa storia esistono diverse interpretazioni. Alcuni hanno considerato la decisione del re come l’ultima aberrazione di un uomo ormai malato, sospettoso, che vedeva dappertutto, intorno a sé, solo nemici. A considerare però in maniera analitica le sfumature, questa ipotesi non convince. Il problema di fondo è un altro: di che fede è Filippo? Filippo non è un cristiano, ma un criptomusulmano. Infatti, la denuncia che porta alla ­­­­­213

sua condanna non si limita soltanto alla censura per la cattiva gestione dell’assedio di Bona, ma è corredata da altre accuse che si riferiscono in modo particolare alla sua posizione religiosa. Al fatto cioè di aver agito subdolamente nei confronti del sovrano, non abiurando la sua fede e continuando a professare in segreto la fede islamica. Scrive Romualdo Salernitano: «benché battezzato Filippo continuava ad essere musulmano nella fede e nelle opere, ad odiare i cristiani, a preferire i saraceni, a frequentare di nascosto le moschee, a fornire olio alle lampade, a inviare offerte al sepolcro di Maometto, a mangiare carne di venerdì e nei giorni di quaresima». Inoltre la scure reale non si abbatte solo su Filippo, ma coinvolge tutta la sua cerchia («altri complici e clienti della sua iniquità», dice la cronaca), altri eunuchi e musulmani neo-convertiti che lavoravano a palazzo. Di conseguenza, con Filippo non si vuole colpire un singolo, ma un gruppo di cui egli è il principale esponente. Un gruppo di pressione forte, che andava ricondotto a ragione. Con una sterzata repressiva decisa direttamente dal sovrano. Messa in luce da Romualdo Salernitano, che sottolinea come, negli ultimi anni di governo, la politica di Ruggero II – condizionata in modo sempre più massiccio dalla presenza della componente latina e sulla base di un rapporto totalizzante tra potere e religione cristiana – si fosse decisamente orientata in senso antimusulmano e antiebraico: «alla fine della sua vita il re, messi un po’ da parte o posposti gli affari secolari, lavorava sui mezzi da trovare per convertire ebrei e musulmani e, a chi decideva di saltare il fosso, offriva doni e ricchezze». Le scelte di convivenza per i musulmani diventavano sempre più precarie. Tanto più perché alle spalle della monarchia si va coagulando un gruppo di potere che trova la sua punta di diamante nel clero latino. L’atmosfera di corte diviene rarefatta. Il peso dei cortigiani latini dilagante, alimentato da una continua corrente dal Nord Europa e dall’Inghilterra di arrampicatori sociali e di avventurieri che cercano in Sicilia onori, carriere e danaro. Gente che acquisisce prestigio proprio negli ultimi anni del regno ruggeriano e che si afferma con i suoi successori. Figure come il francese Stefano di Perche, che ricopre la carica di cancelliere sotto Guglielmo II; o Richard Palmer, gentiluomo di corte inglese, dallo stesso sovrano nominato vescovo di Siracusa. Personalità che non ­­­­­214

guardano con alcuna simpatia ai musulmani. Insieme ad essi anche i baroni normanni, i signori feudali dell’Isola, non li amano. I non-latini sono per essi degli avversari. Considerati come una delle teste dell’Idra dell’autocrazia monarchica da recidere, ostacolo nel progetto di crescente autonomia nei confronti del potere centrale. Gente con la quale era impossibile transigere, così com’erano: ciecamente devoti al re, al quale dovevano tutto, in special modo la loro condizione di semilibertà. Questa feudalità turbolenta individua insomma nei cadì di corte il più forte elemento di resistenza alle sue pretese di maggiore potere politico. Non siamo di fronte solo ad uno scontro per ragioni di fede. Cozzano due differenti concezioni del potere, autonomistica e centralizzante. Da una parte ci sono i signori feudali, i quali non sono disposti a fare sconti a nessuno nella loro ricerca di una maggiore incidenza nelle faccende dello Stato. Dall’altra greci e specialmente criptomusulmani: i quali, paradossalmente, seppur minoranza, seppur marginali, diventano i garanti della tenuta del potere centrale, da cui, in questo particolare e strano gioco di equilibri e di relazioni col potere monarchico, traggono linfa vitale per la sopravvivenza loro e della loro comunità. La tensione si estremizza alla morte di Ruggero II. Il nuovo sovrano, Guglielmo I, tende ad islamizzare la corte. Per la prima volta, in maniera netta. È il tempo degli eunuchi. Il re se ne circonda, attribuendo ad essi incarichi di rilievo. Si inseriscono in ogni ambito della corte, in ogni ufficio amministrativo. Formano il partito di corte, collegato al cancelliere e grande ammiraglio Maione da Bari, che tra 1156 e 1160 entra in aperto contrasto con l’aristocrazia feudale. Fino alla crisi. Nel gennaio 1160 la città di al-Mahdia, che era stata conquistata dai normanni, cade di nuovo in mano musulmana. È un duro colpo. Di chi è la responsabilità? Si scatena la caccia al colpevole. Si cerca un capro espiatorio. La popolazione è in tumulto. I signori feudali vedono avvicinarsi l’occasione propizia per regolare i conti. Prima lanciano accuse. Veleni. Sospetti. Notizie che si tramutano in breve, per tutti, in certezze che non vanno discusse. Maione e i suoi complici eunuchi hanno tramato a danno del regno. Si sono fatti corrompere da Abd al-Mumin, che guidava le forze saracene. Si punta l’indice contro il gaito Pietro, il principale esponente del partito degli eunuchi. L’accusa più scottante lanciata contro di loro è di essere dei ­­­­­215

finti cristiani. Primo fra tutti, proprio Pietro: «cristiano di nome e nel vestire, ma nel suo cuore saraceno, come tutti gli altri eunuchi che giravano nel palazzo reale». La paura che essi abbiano potuto vendere la Sicilia agli agareni del Nord Africa affiora. Si propaga. Dilaga il panico. C’è la certezza da parte di molti che i musulmani di Sicilia siano la quinta colonna di un esercito che sta per sbarcare. Sono il Nemico. Il diverso. La minaccia da eliminare una volta per tutte. Nell’aria torna l’odore di un jihad cristiano. Il 10 novembre 1160 Matteo Bonello uccide a tradimento Maione. Il suo corpo viene dato in pasto alla folla che cerca vendetta. Il cadavere viene profanato, preso a calci e sputi. Nell’ira, gli strappano i capelli e la barba e lo trascinano lungo le strade. Contemporaneamente, si apre la caccia all’eunuco. Paggi, valletti, camerieri, collaboratori del re vengono sottoposti a tortura. Gli uomini di Bonello vogliono sapere da loro dov’è nascosto il tesoro di Maione. Il re non sa che fare. È impotente. L’unica mossa per non attizzare ancor più il tumulto popolare è quella di non far arrestare i colpevoli dell’omicidio. Non tocca insomma Matteo Bonello, che in quel momento è agli occhi dei cristiani un eroe, il vendicatore. La situazione sembra apparentemente calmarsi. Ma in città già ci si fronteggia. È una situazione che va avanti da tempo, almeno da cinque, sei anni prima. Dalle rivolte del 1155-1156. Quartiere contro quartiere. Musulmani contro cristiani. Ogni zona si difende da sé. I musulmani si organizzano: creano delle futuwwa, gruppi di autodifesa, armati, gerarchicamente ripartiti, con ruoli e competenze. E ci si affronta. I cristiani, che sono minoranza, hanno paura. Temono le aggressioni islamiche. Si rifugiano e si chiudono nei loro rioni. Chiedono aiuto alle autorità. Formano drappelli di contrasto. Interviene lo stesso Maione, nel 1159. Colpisce le organizzazioni spontanee di autodifesa dei musulmani palermitani. Gli sequestra le armi. Si impedisce ad ognuno di loro di circolare munito di qualsiasi oggetto atto a offendere. Andiamo avanti. Dalla morte di Maione sono trascorsi quattro mesi. Il partito di corte ha cercato intanto di rinsaldare le fila. Gli eunuchi sono tornati a ricoprire posizioni di eccellenza. Il re viene convinto del fatto che Maione non aveva nessuna responsabilità nei fatti di al-Mahdia. Soprattutto, lo persuadono della pericolosità dei progetti di Matteo Bonello. Il quale, intanto, sta organiz­­­­­216

zando un colpo di Stato. Ha dalla sua parte il consenso popolare. La massa cristiana di Palermo, che lo ha assunto come leader e che guarda ai musulmani con crescente rancore. Matteo vuole esautorare il re. Sostituirlo con un bambino. Creare un consiglio di reggenza. Il putsch scatta il 9 marzo 1161. Guglielmo I viene catturato. Dichiarato decaduto. Al suo posto viene proclamato re suo figlio Ruggero, di soli nove anni. In città, tutto procede secondo i piani. Si attende che arrivi Matteo con le sue truppe, regoli lo status quo e assuma il potere. Egli è ormai il padrone. Ma si ferma. Tentenna. Non entra in città. Dando il tempo agli uomini fedeli a Guglielmo – tra cui Romualdo Salernitano, Roberto di Messina e Richard Palmer – di riorganizzarsi e riprendere il controllo della città. L’11 novembre il re viene liberato. L’ordine può essere ristabilito nella capitale. Matteo Bonello viene arrestato qualche giorno dopo e tradotto nella halqa, la fortezza adiacente al palazzo reale. Nei suoi confronti non c’è alcuna pietà. Gettato nei sotterranei, viene sottoposto ad una terribile tortura. Accecato e reso storpio dal taglio dei tendini, muore di lì a poco. Cosa succede a Palermo nei due giorni di vacanza di potere? Di tutto. La folla, fuor di controllo, assalta il palazzo. Parte il saccheggio. Vengono trucidati eunuchi e membri della corte. Dati alle fiamme suppellettili, libri, carte d’archivio, registri del catasto. Fatte a pezzi opere d’arte. Si irrompe nell’harem. Le donne vengono violentate. Alla tragedia si somma altra tragedia. Negli ultimi istanti dell’assalto, una freccia trafigge un occhio dell’erede al trono, il piccolo Ruggero: che, in poche ore, muore tra le braccia del padre. L’ondata di follia collettiva non si arresta al palazzo. Deborda in città. La tensione, per lungo tempo contenuta nei contrasti quartiere per quartiere, zona per zona, si scatena. Nella situazione di caos, la minoranza cristiana non ha più nessuno che la controlli. Può vendicarsi liberamente. Massacrare i musulmani della più influente comunità islamica dell’Isola. Essi sono pressoché ignari di quello che sta per accadere. Sono al lavoro. Nelle loro case. Sono ancora organizzati ma pressoché indifesi. È una fiammata. Vengono aggrediti, ovunque. Li si uccide a centi­naia. È la rivincita sui traditori, gli eretici, i rinnegatori di Cristo. Un sottoproletariato affamato, emarginato, invidioso, fanatico si scaglia contro mercanti, artigiani, negozianti. Chi può si difende e combatte tra le strette strade della città. Per gli altri, è il fuggi ­­­­­217

fuggi, con una ressa di uomini, donne e bambini in cerca di scampo. Verso zone più sicure, nel quartiere islamico e periferico del Transpapireto, dove asserragliarsi e resistere. Con questa cronaca dettagliata, tratta ancora da Falcando: e molti saraceni che stavano nelle loro botteghe a vender merce o riscuotevano nelle dogane le imposte fiscali o erano in giro fuori di casa non aspettandosi tali eventi, furono uccisi; ma poi, venuta a sapere la rivolta e vedendosi impotenti a resistere, poiché l’anno prima l’ammiraglio Maione li aveva costretti a consegnare alla corte tutte le armi, abbandonarono le case, che molti di loro possedevano nel centro della città, e si ritirarono in quel luogo che è al di là del Papireto, dove, assaliti dai cristiani, si combatté invano per un po’ di tempo, poiché all’entrata e nei punti stretti delle vie resistevano fortemente ai nostri.

La violenza non si arresta. Si trasferisce fuori città. Come in ogni buon pogrom che si rispetti, i nobili locali fanno buon uso della retorica, facendo leva su una popolazione contadina latina integralista: sui lombardi. Per loro i musulmani di ogni tipo o condizione sono il principale avversario. Li disprezzano per come vivono. Si badi bene, però: non è solo una questione di cultura e di religione. Essi sono i loro vicini più dannosi, spesso più ricchi, i concorrenti quotidiani nei commerci e nell’artigianato. Agricoltori eccellenti, un ostacolo all’accesso a terre migliori, più produttive. La migliore nobiltà feudale li attizza. Specialmente Tancredi di Lecce e Ruggero Sclavo. Questi li raduna a Butera ed ordina la distruzione dei casali abitati dai musulmani e ordina la loro cacciata, per impadronirsi finalmente dei loro possessi. Non si fanno distinzioni. Vengono attaccati sia i casali solo musulmani sia quelli dove viveva una popolazione mista. La strage colpisce entrambi, senza differenze, né di fede, né di sesso, né di età: tanto, si sa, Dio poi riconosce i suoi. Non si sa quanta gente cadesse in questo pogrom rurale. Dice Falcando che scamparono al massacro in pochi, sia fuggendo di nascosto, sia travestendosi da cristiani. Fuggono in fretta e furia, verso la parte meridionale della Sicilia, a Licata, a Girgenti, a Campobello, a Naro, a Canicattì. Oppure creano altre colonne di profughi che per mare raggiungono il Nord Africa. La ferocia dei pogrom del 1161 segna il punto di svolta della vicenda dei musulmani siciliani. La comunità di Palermo subisce ­­­­­218

un duro colpo. Tra gli uccisi figurano personalità di spicco, tra cui il poeta Yahya ibn al-Tifashi. Molti altri sono indotti a scappare all’estero. Come al-Idrisi che, per quanto fosse forte il suo legame verso la casa regnante, non regge all’accaduto e preferisce emigrare. Chi non può andare fuori si trasferisce verso zone più sicure, difese. L’emorragia è copiosa. Si raggiungono zone dove i musulmani hanno possibilità di difendersi, di arroccarsi. I distretti intorno a Corleone, Iato, Calatrasi, Cinisi si organizzano per resistere. Cominciano a crearsi delle enclaves, delle riserve indiane, un dar al-Hidjira, una terra per gli esiliati, che promette ricovero e assistenza ai fuggiaschi che ne hanno bisogno. La stessa posizione degli eunuchi, che riprendono parte del potere dopo la fine del putsch, si rivela di ora in ora più scomoda. Nel gruppo dirigente intorno al sovrano si fa largo la necessità di un accordo con l’aristocrazia feudale. Di rinvigorire la presenza di personale latino-cristiano. La contrapposizione diventa di nuovo brutale. Con la morte di Guglielmo I, nel 1166, a corte aumentano i dissidenti, che non possono tollerare in alcun modo che il potere supremo dello Stato sia affidato agli eunuchi. Concetto che esprime senza mezzi termini il conte di Gravina nel corso di un aspro colloquio intercorso tra lui, la regina-reggente e l’eunuco e gaito Pietro. Il conte non ha freni inibitori. Per farsi capire, usa modi spicci, scurrili: come si può pensare di affidare il governo del regno ad un effeminato («toti Regno servum effoeminatum praefecerit»)? Come poteva pensare il re che per regnare bastassero dei mezzi uomini («deviratos homines»), degli esseri spregevoli? All’invito della regina di moderare le parole e di partecipare, con Pietro, al consiglio di reggenza, il conte risponde ancor più piccato che lui era un nobile di sangue: mai e poi mai si sarebbe messo a chiacchierare di cose di governo da pari a pari con uno schiavo. Le parole del conte di Gravina riflettono un passaggio fondamentale nella considerazione dell’élite verso il diverso. Esse sanciscono con sorprendente chiarezza come l’eunuco – e con lui l’ebreo, il greco, il musulmano – scivolino, nell’opinione comune, da una condizione di semilibertà ad una di servitù, ad una, finale, di schiavo. Questa è la sorte di chi nel regno è minoranza. Non è un caso che, all’indomani di questo turbolento colloquio, il gaito Pietro abbia preso l’unica decisione possibile ora che il vento era profondamente mutato: prendere una nave e partire, ­­­­­219

portando con sé tutte le persone a lui vicine, tra cui forse altri eunuchi; e tornare laddove era nato, in Tunisia. Terra nella quale sembra abbia cambiato bandiera, diventando capo della flotta di Saladino, con la quale ottenne diverse vittorie sui cristiani. E come lui, in questi turbolenti anni, altre migliaia di musulmani lasciano la Sicilia. Il tessuto musulmano resta però, in molte parti della Sicilia, ancora intatto. In diverse città, la comunità dei credenti è ancora maggioritaria. Nelle campagne, nonostante sia stata profondamente toccata dal processo di latinizzazione, le proprietà musulmane non hanno ancora subito un’erosione dai toni catastrofici. Sopravvivono numerose sacche rurali, con piccoli centri, villaggi e casali abitati da una popolazione islamica. Molti cadì continuano a conservare le terre ereditate dai loro antenati, notabili segnalati nelle testimonianze per le loro origini arabe o berbere. Che si appropriano di titoli che esprimono la loro preminenza ed autorità. Qualcuno, come nel caso di un collaboratore di corte, il gaito cristianizzato Karram, riceve addirittura delle proprietà in beneficio dalla stessa casa sovrana. A questi personaggi autorevoli si affida la comunità musulmana. Uno dei principali è Abu al-Qasim, della famiglia altolocata dei banu al-Hajar. Interessato ai traffici commerciali, arconte del diwan al-tahqiq al-mamur o dogana de secretis, funzionario del Consiglio delle Finanze normanno. È a lui che, nel tardo autunno 1168, si rivolge da Siracusa il poeta Ibn Qalaqis con una lettera di intercessione a favore della popolazione musulmana cittadina. Chiedendo una cosa non da poco: una raccomandazione. Che, considerato il potere e il prestigio dell’arconte, vi sia – lo dice apertamente – la possibilità di un suo intervento fattivo perché venga abolito il tributo da versare allo Stato, perché la situazione dei suoi correligionari è allo stremo. Il poeta parla dei siracusani: essi si sono chiusi, rassegnati, privi di qualsiasi protezione, incapaci di manifestare il loro dolore e la loro pena. E continua: «la gente di Siracusa è una popolazione nei cui confronti Ella ha la possibilità d’essere prodigo. Essi mi hanno stimato un intercessore in grado di far giungere le loro esigenze in alto loco e la Signoria vostra è la persona più capace di disporre in merito ai tributi, quando le tasse sono troppo gravose». Alla lettera segue un lungo brano poetico, che Ibn Qalaqis offre come omaggio all’arconte, ­­­­­220

in cui elogia la sua generosità e le sue qualità come «sostegno assiduo» per i credenti: Ecco uno stuolo di cavalieri simile a siepe di lance e si son [fermati di fronte ad altrettanta fitta siepe di affilati brandi Vengon costoro ad usurpare terreno nei confini dell’Islam [e gli minacciano di non lasciarlo illeso Gridan Palermo accingendosi all’opera, ma io leggo negli [astri che si imbatterono nella generosità di Hatim o Abu al-Qasim famoso in ogni disdetta per il suo dare a [piene mani, quando ogni altro ricusa sei rimasto per questa nostra religione sostegno assiduo, [nessuna paura dunque se arrivassero mille assalitori.

Dietro il tono encomiastico, sono racchiuse tutte le aspettative e le istanze di un mondo che spera ancora che la situazione non precipiti. Che crede ancora nelle virtù di una piccola élite musulmana capace di continuare a svolgere un’azione di governo che possa avere una positiva ricaduta nella loro vita quotidiana, così come era stato auspicato dal giurista al-Mazari. Ma a corte e nell’amministrazione i musulmani non sono più ben accetti. Il refrain è sempre il medesimo, pregiudiziale. Il musulmano è un traditore. Il musulmano è un eretico. Il cerchio si stringe, anche per i maggiorenti. Cominciano così a profilarsi per loro altre strade, oltre la fuga. L’idea di resistere. Di chiamare in aiuto qualche grande signore del mondo musulmano. Lo stesso Abu al-Qasim cede a questa tentazione. È l’epoca fulgente di Saladino. Gli scrive una lettera in gran segreto, in cui lo richiama alla guerra santa. A riconquistare la Sicilia. La invia attraverso il poeta al-Harawi. Non sappiamo se vi fu risposta, ma dai fatti sappiamo che non accadde niente. Abu al-Qasim, per sua fortuna, non viene scoperto. La lettera è comunque un segnale preciso che qualcosa all’interno dei notabili della comunità si stia incrinando. Che la collaborazione sia giunta ad un termine ed esistano delle fazioni, dei gruppi, che non si sentono più al sicuro e preferiscono prepararsi alla lotta. D’altra parte, anche i margini di presenza di Abu come funzionario al diwan si riducono. Non per un fatto personale: perché questa è la tendenza che ormai si è scelta, di un progressivo allontanamento dalle leve dello Stato di tutte quelle componenti disorganiche alla realizzazione di un regno latino. Abu diventa sempre più sospetto. ­­­­­221

Gli si lanciano accuse non tanto pretestuose, visti i precedenti della lettera, comunque sufficienti per allontanarlo dagli incarichi e distruggerlo economicamente. Gli vengono sequestrati tutti i beni (ammontanti ad un capitale di oltre trentamila dinari), cui segue la confisca delle proprietà familiari. Quale sia il suo giudizio su questo episodio, lo sentiremo direttamente da lui, attraverso le parole riportate da Ibn Jubayr. Certo è che il personaggio è tale da avere la capacità di risollevarsi. Di tornare in auge. Il solo che, nel 1185, può permettersi di camminare a Trapani tra due ali di folla che lo acclama come capo della comunità dei credenti di tutta la Sicilia. Una comunità sull’orlo del precipizio.

7. Le sensazioni di Ibn Jubayr

Ancora una volta, come è già accaduto in altri momenti di questo libro, la voce di un viaggiatore musulmano è la risorsa migliore per comprendere cosa stia succedendo ai musulmani in questo scorcio del XII secolo. La voce è quella di Ibn Jubayr. Non mi soffermerò affatto sulla sua descrizione dell’Isola, che rimanda un’immagine di vita musulmana ancora intensa e attraente. Non è funzionale al mio discorso. Mi interessa invece sottolineare i suoi incontri personali e le sue impressioni. Che nel suo Rahlat al Kinani, il suo Libro di viaggi, non sono poche. Ibn Jubayr è un andaluso. È nato a Valencia, ma la sua residenza è Granada. È un girovago. Appartiene ancora, per mentalità ed identità di vedute, a quell’enorme economia della Geniza nella quale gli spostamenti sono un elemento naturale, consueti all’interno della koiné islamica. Non a caso non muore in Spagna, ma ad Alessandria nel 1212. Non è un uomo qualunque. Il ritratto di un sapiente arabo del XIV secolo lo raffigura come una personalità di grande tempra spirituale, dedita all’insegnamento della tradizione e della disciplina sufi nelle città di Malaga e Ceuta. Come tutti i nostri viaggiatori è curioso. Ma più degli altri ci rinvia alcune immagini di sé, specialmente del suo continuo stupirsi e commuoversi: indizi di una sensibilità e di una umiltà di giudizio che solo le vere persone di cultura possiedono. Aspetti che rendono il personaggio ancora più accattivante. ­­­­­222

Arriva in Sicilia per caso. Spinto da un naufragio mentre era di ritorno a casa dal pellegrinaggio alla Mecca. La sua nave porta sia pellegrini cristiani sia musulmani. Bordeggia lungo la Sicilia. Arrivata allo stretto di Messina, la tempesta. «Comanda il pilota di calare le vele rapidamente; ma quella dell’albero che chiamano al-ardimun non volle venire giù; i marinai si arrabbattavano e non riuscivano a venirne a capo, tanto gagliardo soffiava il vento. Accortosi che i marinai non ce la facevano, il pilota si mette con un coltello a strappare la vela pezzo pezzo, sperando di riuscire nel suo intento. Tra questo armeggio il legno toccò terra con la chiglia ed anche coi due timoni, che sono come le gambe su cui si reggono le navi. Scoppia allora a bordo un grido spaventevole [...] già le onde e il vento assalivano il fianco della nave. Si spezzò un timone. Il pilota gettò una delle due ancore». La nave sbanda ma non affonda. E qui comincia il racconto che sottende tutta la trama delle relazioni umane intraprese da Ibn Jubayr in Sicilia: la trama della distinzione. Anche nel momento del naufragio, nell’attimo più sottile dove la vita sta per essere perduta, pure lì scattano le differenze di identità. Sentiamo: «i cristiani, nel momento fatale del cozzo, cominciarono a battersi il petto disperatamente [...] i bambini intanto e le donne dei Rum levavano forti grida chiamando soccorso». Per la sua mentalità sono persone prive di fede. Anche in un momento drammatico, non sono adatte a far altro che sbattersi per lo spavento: non avendo, a suo parere, alcuna prospettiva di salvezza futura, perché «mancava già in tutti loro la rassegnazione ai voleri divini». Invece, cosa fanno i buoni musulmani, i pellegrini provenienti dalla Mecca? Restano calmi, impassibili: in quanto non potevano che rassegnarsi, «tranquilli al decreto del Signore; perché non si potevano appigliare, né affidare ad altro che alla fune della speranza della vita futura». C’è già, in questa descrizione, il senso di un’estraneità. Non c’è comunicazione: i cristiani sono da una parte; i musulmani dall’altra. Né condivisione, neanche davanti alla morte. Solo distanza. Incomprensione. Due fedi. Due religioni. Due modi differenti di affrontare le vicissitudini della vita. Comincia così il viaggio di Ibn Jubayr, che naturalmente si salva. Messina era a poca distanza. Partono i soccorsi. Delle imbarcazioni raccolgono i naufraghi. Finalmente scende a terra. Comincia il racconto dei suoi incontri, delle sue sensazioni, delle sue ­­­­­223

peregrinazioni, delle sue spiegazioni. Che sintetizzerò per punti. Cominciando dal primo. Cosa pensa dei re normanni. Il suo atteggiamento è diretto. Li considera degli usurpatori. La frase che riecheggia in continuazione, quasi una nenia, è: «l’isola di Sicilia, che Iddio la renda ai musulmani». Non è un’ossessione. Rientra nel quadro della sua profonda religiosità. Della sua personalità. Nel desiderio ardente di un ritorno alla vera fede di quel pezzo mancante di Islam che è la Sicilia. Pur tuttavia di re Guglielmo II apprezza in qualche passo la generosità. Manifestata soprattutto nel momento dello sbarco forzato dalla nave, quando i barcaioli si erano fatti sotto chiedendo un pagamento per portare i musulmani a riva. Alcuni di loro troppo poveri, non avevano soldi. Rischiavano di affondare con la nave. Il re era per caso a Messina. Aveva saputo cosa stava accadendo. Invia allora cento tarì per pagare i barcaioli. A fronte di questo atto di generosità, Ibn Jubayr sottolinea come i suoi compagni di fede non ringrazino neanche il sovrano. «Egli dissero bensì lode a Dio Signore dei Mondi». Un comportamento villano, che il nostro viaggiatore rimarca, ma indice, anch’esso, della diversità e del sospetto. L’immagine del sovrano segue una sorta di percorso discendente. Un climax negativo, come lo definisce Gabrieli. Che comincia con una prima didascalia: quella di un re fortemente arabizzato, attorniato da una forte componente islamica per nulla in rotta o in crisi. La quale, anzi, ha grandi entrature a palazzo, coi suoi eunuchi mimetizzati da cristiani e la sua guardia scelta di schiavi nubiani: «è singolare il re di Sicilia per la sua buona condotta e perch’egli adopera molto i musulmani ed ha per paggi gli eunuchi i quali, o la più parte, celan la fede. Ma stan fermi nella legge dell’Islam. Il re si fida molto dei musulmani e riposa su di essi nelle faccende e perfino nelle cose più gravi; a tal segno che il soprintendente della sua cucina è un musulmano e ch’egli tiene uno stuolo di schiavi negri musulmani con un capitano della loro gente stessa». E continua: «i suoi visir e i suoi ciambellani sono sempre scelti tra detti paggi; che egli ne ha grande numero e sono essi gli impiegati negli uffici pubblici e nei servizi di corte. Sfoggiano vestimenta sontuose e si muovono su agili cavalle e a nessuno di loro manca stuolo o clienti». Un sovrano ricco di palazzi, sia a Palermo sia in altre città. Un principe per nulla dissimile dagli emiri musulmani: «per vero nessun principe cristiano è più molle di lui nel comando, né vive ­­­­­224

più difettosamente, né più largamente [...] ha medici e astrologi che egli onora molto. Ed è tanto desideroso di conversare con essi, che risapendo trovarsi in viaggio per i suoi domini alcuno dei detti scienziati, dà ordine di trattenerlo e gli elargisce uno stipendio per fargli dimenticare il proprio paese». Un sovrano perfetto. Tale perché, ribadisco, fortemente arabizzato: «un’altra cosa notevole si narra di questo principe è che egli sa leggere e scrivere l’arabo». E le sue ancelle e le sue concubine sono tutte musulmane. Da dove trae tutte queste informazioni Ibn Jubayr? Da incontri con persone che lavorano a palazzo. Ad esempio, uno dei paggi del tiraz, un certo Yayha, «che ricama in oro le vestimenta del re, raccontò un fatto non meno meraviglioso: cioè che le donne cristiane di schiatta franca dimoranti nel palazzo si facevano musulmane, convertite dalle ancelle di cui abbiamo fatto parola. Il re non ne sapeva nulla. Queste donne erano zelantissime nelle opere di carità». Questo episodio, che Ibn Jubayr ritiene fededegno anche trattandosi di un semplice lavorante, ricalca assolutamente i precedenti. C’è lustro, c’è concordia, c’è convivenza. Ma, se proseguiamo, nella narrazione di Ibn Jubayr si inserisce una piccola crepa che stride con l’immagine benevola e islamizzante del sovrano: «ci narrò lo stesso Yayha che una volta, mentre la Sicilia era scossa da forti terremoti, questo politeista, andando attorno tutto spaventato per la sua reggia, non sentiva altro per ogni luogo se non che le voci delle donne e dei paggi che porgevano preghiere a Dio e al suo profeta. Al vedere il re tutti sbigottirono: ma egli li confortò dicendo “che ognuno di voi invochi l’Essere che egli adora e in cui crede”». Il re normanno diventa, dal magnifico sovrano che era, un politeista. Dalla descrizione si è passati ad un giudizio di merito. Corroborato dall’immagine al negativo del sovrano, spaventato durante il terremoto, che si appiglia a qualunque potenza divina, senza alcuna discriminazione, sia essa musulmana sia cristiana, per salvarsi la vita. Quella crepa, diventa, poco dopo, un solco. Quando Ibn Jubayr ha occasione di incontrare un altro eunuco, di nome Abd al-Masih. Non è, come il precedente Yayha, un sempliciotto. Il cronista lo sottolinea: è uno dei principali e più ragguardevoli musulmani che ci sia a corte. O meglio: non un musulmano ma un criptomusulmano. Per questo motivo, l’incontro con Jubayr ­­­­­225

non può essere diretto. È frutto di un abboccamento. Un incontro segreto: «egli mi aveva richiesto un abboccamento e si diede premura di accoglierci bene ed onorarci». Insomma, i due non si possono incontrare in pubblico, perché per quello che si devono dire non devono esserci orecchie ostili ed estranee: «poiché ebbe riguardato attentamente ogni angolo della sua sala e allontanatone per cautela quanti familiari gli destavano sospetto, egli ci aprì il segreto dell’animo suo». Cautela, paura, segreto: l’ineguaglianza religiosa è diventata assenza di libertà di parola. Per poter discorrere serenamente occorre avere, in questa Palermo musulmana, mille occhi e mille attenzioni. Dotarsi di accorgimenti, in quanto proprio nella casa di un criptomusulmano di rango si possono celare le spie dello Stato normanno. Di cosa vuole parlare Abd alMasih? All’inizio tergiversa. Chiede innanzitutto se il loro viaggio alla Mecca sia stato proficuo. Chiede se essi abbiano portato con sé dalla Terra Santa qualche piccolo oggetto, qualche reliquia da potergli regalare. Dopo di che affronta il discorso centrale. Come sia realmente la vita di un musulmano a corte. E spiega Ibn Jubayr: «voi potete francamente professare l’Islam, fruire dei premi che bramate e guadagnare anche quanto Dio voglia dai vostri traffici. Pensate a noi che dobbiamo nascondere la nostra fede, tremando per la vita. Né possiamo, se non di soppiatto, esercitare il culto di Dio, né osservare i suoi precetti, ritenuti come siamo noi, nel reame del Miscredente, il quale ci ha gettato addosso il laccio della schiavitù». È avvenuto il capovolgimento, tradotto esplicitamente in queste ultime parole. Tutto quello che Jubayr ha raccontato in precedenza viene cancellato dalla brutalità dell’esperienza quotidiana. Per chi professa la fede islamica, l’unica libertà concepibile a corte è una libertà condizionata. L’apparato statale è un luogo di tirannia. La facciata di splendore e di bellezze, alla prova dei fatti, crolla. Restano le quinte di un panorama di paura, di sotterfugi, di stanze chiuse per paura che qualcuno ti osservi, ti spii, faccia da delatore. I musulmani sono dei semiliberi in un mondo cristiano, con un re cristiano. Peggio: «ritenuti come siamo noi, nel reame del Miscredente, il quale ci ha gettato addosso il laccio della schiavitù». La tolleranza è solo una chimera. La prospettiva è la schiavitù. Anche nel linguaggio generale, per quello che segue, il re viene definito oramai solo coi termini di tiranno o di usurpatore. Secondo punto. I cristiani. La paura che ha Ibn Jubayr nei ­­­­­226

momenti del naufragio non è solo quella di morire, ma di essere catturato e fatto schiavo. La nave è sbattuta tra Messina e Reggio. Lui sa che se fa naufragio in Sicilia ha possibilità di salvarsi. Di trovare dei correligionari. Ma se naufraga dall’altra parte, sulla costa dei Rum, sono dolori, perché in quella terra l’unica prospettiva possibile per un musulmano sono le catene. Sicché, una volta sceso a terra dalla parte giusta, comincia a pregare e a ringraziare Allah: «mirabile ci parve il nostro salvamento dal naufragio, onde replicammo i ringraziamenti al sommo Iddio, per il favore concesso. Per averci liberato dal pericolo che questo accidente seguisse in terraferma o in alcuna delle altre isole abitate dai Rum: perocché, scampati dal mare, saremmo caduti in perpetua schiavitù». D’altronde, il rischio c’era anche a Messina: perché secondo Jubayr qui era in uso depredare le navi alla fonda in situazione di naufragio, sia composte da equipaggio musulmano sia da cristiani. E chi era naufrago veniva tratto schiavo. La salvezza, nel caso del nostro viaggiatore, è garantita dalla presenza del re, il quale, con la sua autorità, impedisce che si realizzi il saccheggio. L’ambiente cristiano che Jubayr incontra non è per niente ostile. Bisogna dire però che incontra soprattutto gente di mare, di commercio, di dogane, abituata a razzolare nei porti, padrona della lingua araba. Ad esempio, a Palermo, deve presentarsi dinanzi al mustahlaf, il commissario cittadino, per riferire i motivi del suo viaggio in Sicilia. «Questo commissario ci venne incontro sorreggendosi sopra due famigli che gli stavano ai fianchi e gli reggevano lo strascico del vestito. Vedemmo un vecchio dai lunghi mustacchi bianchi, maestoso nel portamento, il quale, parlando speditamente l’arabo, ci domandò di che paese fossimo, ed a quale scopo venuti». Ci sono poi cristiani che avvertono Jubayr di nascondere le sue robe, nel caso avesse introdotto in Sicilia merce di contrabbando. Le donne cristiane della capitale lo colpiscono in particolar modo. Gli ricordano la sua terra, Cordova, l’Andalusia, nel loro incedere in tutto e per tutto simile a quello delle donne musulmane. Ne vede molte il giorno di Natale. Uno spettacolo: «l’aria delle donne cristiane di questa città è la medesima che delle musulmane: le cristiane, ben parlanti, ammantate e velate, erano uscite per le strade nella festa di Natale, con vestiti di seta frammisti d’oro, mantelli eleganti e veli di vari colori. Calzavano stivaletti dorati e incedevano verso le loro chiese sovraccariche d’ogni or­­­­­227

namento in uso presso le donne musulmane: monili, tinture, profumi». Dei cristiani non riporta molto altro. Resta però impressionato dalla chiesa cristiana dell’Antiocheno, oggi la Martorana, nella quale in occasione delle festività natalizie scorge «gran tratta d’uomini e di donne». La chiesa è, a suo parere, il «più bel monumento al mondo», ricco di ori alle pareti, con tavole di marmo, con «un ordine di finestre di color oro che accecavano la vista col bagliore dei loro raggi». Nel rimirare queste bellezze, nello sguardo di Jubayr si accende un sogno: che «Iddio con il suo favore e la sua possanza la nobiliti» trasformandola in moschea, dove vi possa risuonare l’appello del muezzin. Perché «Iddio permetterà che la fortuna volga propizia per quest’Isola; può farla ritornare nel grembo della vera fede e tramutarla, con la Sua possanza, dal pericolo alla sicurezza». Tramutare la condizione dell’Isola dal pericolo alla sicurezza: è questo l’auspicio di un buon musulmano come Ibn Jubayr, nel cui cuore non scompare mai il desiderio di un jihad che ripari i soprusi che subisce la sua gente. La chiesa, insomma, non gli interessa in atto, ma nella prospettiva di una generale liberazione dei musulmani dall’oppressione dei miscredenti. Il che ci conduce al punto tre. La condizione dei suoi correligionari che vivono nell’Isola. Per lui, non esistono mezzi termini. Il quadro è desolante. I dati della crisi Jubayr non li coglie a Palermo, almeno non del tutto. Vi risiede infatti un tempo limitato per farsene un giudizio. Invece è a Trapani (dove soggiorna a lungo a causa dell’embargo normanno che non gli consente di ripartire) che il cronista può toccare con mano le difficoltà di un intero mondo. Permettendogli di riportare delle considerazioni, sia su singoli casi sia su situazioni generali, che si rivelano per noi preziose. «Soggiornando in questa città abbiamo conosciuto casi lacrimevoli che mostrano in quali tristi condizioni viva il popolo musulmano di quest’isola con gli adoratori della croce, che Iddio li stermini; e in quanta umiliazione e miseria siano precipitati i nostri.» Lo strumento adoperato dal governo è la conversione di massa: «quanta asprezza adoperi il re per tentare d’apostasia i fanciulli e le donne. Il re ha perfino usato violenza contro qualcuno degli shayh di qui, per fargli abbandonare la fede musulmana». E prende a raccontare un caso accaduto ad un giureconsulto, di nome Ibn Zurah: «uno di questi casi avvenne in questi ultimi anni, in persona di uno dei giureconsulti della capitale, che è la sede di ­­­­­228

questo re tiranno: il quale tanto perseguitò questo giureconsulto di nome Ibn Zurah, che lo costrinse a far vedere di aver abbandonato l’islamismo e di essersi annegato nella religione cristiana. Gli fu dato ordine di studiare il vangelo e i canoni della loro legge e apprendere le consuetudini dei Rum. Questo Ibn Zurah entrò nel novero dei preti che fanno da assessori nei giudizi dei cristiani: e talvolta, sopravvenendo qualche giudizio musulmano, egli era richiesto, perché si sapeva quanto fosse dotto nel diritto musulmano». Costui dunque è un’apostata, costretto contro la propria volontà anche a compiere delle azioni agli occhi di Jubayr riprovevoli: «egli convertì in chiesa una moschea che egli possedeva di fronte alla sua casa: che Dio ci scampi dall’apostasia e dalle conseguenze dell’errore». Ad ogni modo, il giureconsulto continua ad essere un criptomusulmano e Jubayr ne giustifica gli atti raccogliendo spunto dal verso 108 della XVI sura del Corano: «con tutto ciò ci è stato detto che egli nasconde la sua vera fede: forse egli entra nella eccezione prevista dal sacro detto “fuorché colui che si è sforzato”, ma in cuor suo sta saldo nella fede». L’incontro principale di Ibn Jubayr è quello che ottiene con l’arconte Abu al-Qasim. È da Jubayr che veniamo a conoscere alcuni degli aspetti della sua dignità, che lo pongono ai vertici della società musulmana: un devoto, un «probo, desideroso del bene, amoroso verso i suoi congiunti, operoso negli atti di carità, come il riscatto dei prigionieri, le largizioni ai viandanti ed ai pellegrini inabili a continuare il viaggio e simili cose; talché egli può dirsi molto benemerito e sommamente virtuoso». Racconta poi come «sia caduto in disgrazia del tiranno», aggiungendo qualche altro particolare a quelli che già conosciamo: l’estorsione di trentamila dinari, il domicilio coatto, la sottrazione di tutte le sue proprietà e delle sua case: «talché egli rimase senza l’ombra di un quattrino». Oggi, aggiunge, Abu è tornato nelle grazie del tiranno. Ma, sottolinea, in una condizione da servo, da schiavo: «il tiranno gli ha affidato importanti faccende di governo ed egli vi ha dato avvio: opera propria dello schiavo cui siano state sottratte libertà e sostanze». Ora serve fare grande attenzione. Perché la conversazione che avviene tra Ibn Jubayr e Abu al-Qasim – e il giudizio conclusivo che il viaggiatore ne ricava – sono di eccezionale interesse per comprendere in maniera efficace quale piega stiano prendendo ­­­­­229

gli avvenimenti. I due si incontrano a Trapani. Introduce Jubayr: «avemmo quindi un incontro, nel quale, svelando le vere condizioni in cui egli vive e al pari di lui i musulmani di quest’isola nei confronti dei loro nemici cristiani, ci raccontò delle cose da far piangere lacrime di sangue e struggere di dolore il cuore». Il colloquio tra i due purtoppo non viene riportato integralmente. Jubayr lo condensa in una sola frase, da cui traspare la insostenibile gravità della situazione: «disse Abu: ho desiderato vendere tutto e lo stesso la gente di casa mia, sperando che questo ci liberasse dai guai e ci desse la possibilità di fuggire in un paese musulmano». Non ci sono altre parole. Jubayr però isola un attimo. Il momento del commiato, quando la conversazione è finita, quando i due si scambiano gli ultimi convenevoli di saluto. Fotografiamo questi due uomini. Due uomini autorevoli. Maturi. Ognuno dei quali sa che deve andare per la sua strada. È il momento in cui i lacci delle formalità si sono ormai sciolti. Resta l’effetto del colloquio, per entrambi coinvolgente. Dice Jubayr: «quando partimmo egli piangeva e ci faceva piangere». Le parole dell’arconte «ci avevano presi fortemente». E basta: sta tutto lì il dolore di una condizione. Dal colloquio deriva un’esortazione per il lettore: che si comprenda con chiarezza cosa stia avvenendo ad Abu, a quest’uomo di valore, simbolo della condizione di un intero popolo. «Considera dunque, o lettore, in che stato si doveva trovare un uomo di così alti incarichi e di così elevata condizione, per desiderare di fuggire, nonostante che egli fosse aggravato di tanta famiglia, di figli e di figlie.» Costretto ad una pressione enorme da parte dell’autorità normanna, che lo spinge all’abiura. Una conversione che, ne sono consapevoli tutti compresi gli stessi Abu e Jubayr, avrebbe un effetto deleterio sull’intera comunità: l’arconte, infatti, «gode di così grande reputazione presso i cristiani, che Iddio li stermini, da far loro supporre che, se egli abiurasse l’islamismo, non rimarrebbe un solo musulmano nell’isola, poiché tutti farebbero come lui, seguendolo alla cieca e imitando il suo esempio. Iddio li guardi tutti con la sua protezione: e con la sua grandezza e generosità li scampi dalla stretta in cui vivono adesso». Jubayr però non si accontenta. A questo punto, vuol far penetrare il lettore a piene mani nella situazione siciliana. Così enumera altri episodi, di tenore simile a quelli già raccontati. «Tra le più dure prove alle quali soggiacciono i musulmani di Sicilia ­­­­­230

vi è il seguente. Quando avviene che un uomo si adiri contro il figlio o la moglie, o una donna contro la figlia, e questa e quelli per dispetto della rampogna chiedono asilo in una chiesa, ecco che sono battezzati e fatti cristiani e non può il padre vedere altrimenti il proprio figliolo, né la madre la figlia. Immàginati, o lettore, lo stato di chi ha provato così fatta tribolazione nella propria famiglia. S’accorcia la vita ripensando a tanta sciagura». D’altro canto, «singolarissimo è un altro esempio dei travagli dei musulmani siciliani, dei quali fummo testimoni. Ed è di quelli che a sentirli ti si spezza il cuore, ti si strugge l’animo di compassione e di pietà. Uno dei maggiorenti di Trapani mandò il proprio figliolo da un pellegrino compagno nostro, chiedendogli di accettare una sua figlia piccola ma già da marito in sposa se la ragazza gli fosse piaciuta. Se no, darla in moglie a qualche suo conterraneo. Perciò lo pregava di prendere con sé la ragazza, che avrebbe abbandonato volentieri padre e fratelli per il desiderio di liberarsi di quei travagli. Sarebbero stati contenti anche i fratelli e il padre non solo per lei, ma perché così avrebbero trovato una possibilità di salvarsi anch’essi in un paese musulmano. Il pellegrino cui fu proposta questa offerta la accettò volentieri: e buon pro gli faccia di aver colto questa bella occasione, che gli frutterà tanto nella vita di quaggiù, quanto nell’altra». Quest’ultimo esempio termina con una considerazione: «noi non potevamo persuaderci come un padre potesse giungere a una condizione così dura tanto da regalare con tanta facilità sua figlia, un pegno così caro. Come il padre potesse sopportare il dolore della separazione, resistere al desiderio di vederla e al crepacuore di vivere senza di lei». Abbandoniamo Jubayr, nella sua strenua difesa di una comunità allo sbando, di fronte al quale egli è impotente, cui non può contrapporre altri che se stesso, la sua penna, le sue memorie, i suoi sentimenti, racchiusi in quella continua sequenza di commozioni, cuori trafitti, lacrime di sangue. Abbandoniamolo, con questa sensazione di una Sicilia musulmana diventata solo un mondo di vite che si spezzano. Di legami che si troncano. Teatro di un’acculturazione dai tratti duri e insensibili, che scivola sul quotidiano di famiglie, nuclei, comunità. Dove non c’è più spazio per i compromessi. Il giudizio generale è che progressivamente, con velocità che si accresce giorno dopo giorno, ormai sull’Isola, per l’Islam, non ci sia più posto. Come è già accaduto altrove: ­­­­­231

«qui in Sicilia gli uomini temono che per tutti loro avvenga ciò che nei tempi andati successe a Creta. Dove tanto lavorò la tirannide dei cristiani e tanti fatti accaddero successivamente, oggi una cosa domani l’altra, che gli abitanti alla fine furono costretti a farsi cristiani dal primo all’ultimo, scampando soltanto quei pochi che Iddio decretò di fare salvi». Se la convivenza si è fatta impossibile, restano poche alternative da percorrere: o convertirsi, trasformando la propria alterità in uniformità. Oppure scappare. Oppure resistere. Su queste opzioni la comunità musulmana giocherà la sua sopravvivenza.

8. Resistenza

Nel leggere le parole di Ferdinando Maurici, il migliore interprete della vicenda finale dei musulmani di Sicilia, quello che si avverte di più è lo sconcerto. Sconcerto nei confronti di una storia che ci fu, ma nei fatti non esiste. Quella della resistenza siciliana. La sua meraviglia la esprime chiaramente quando sostiene, a ragione, che dopo Amari sia avvenuta una vera e propria congiura del silenzio verso questa vicenda. Il suo rincrescimento è rivolto a quei tanti storici i quali hanno preferito spesso che l’attenzione cadesse, mi piace questo paragone, «più sul trattato di falconeria di Federico II che sulle sue guerre sterminatrici». Questa mancanza di simmetria ha, come ho già espresso più volte, un suo evidente connotato ideologico. Che sottende l’orizzonte di senso che è stato ed è – spero ancora non per molto – un archetipo del nostro modo di considerare il mondo che ci circonda. Mi spiego con un esempio, a partire da uno dei grandi classici della storiografia medievale, la fondamentale biografia di Ernst Kantorowicz su Federico II di Svevia. Alla guerra condotta dall’imperatore contro i musulmani l’autore dedica, su complessive seicentottantasei pagine, appena cinquantadue righe. Un po’ più di una pagina. Capisco che l’imponente azione politica del grande imperatore non si riduca soltanto alla repressione dei moti siciliani, ma questa limitatezza è sintomo di una presa di distanza culturale. Dello scarso valore che si attribuisce a chi questa storia l’ha vissuta, l’ha subita sulla propria pelle e c’è morto, nei confronti invece dell’esaltazione ­­­­­232

di un grande progetto politico che travalica qualunque iniziativa individuale. Che esprime l’idea di uno Stato eterno, onnipresente, invasivo. Centralizzatore, il quale predomina, con la dissuasione o con la forza, su chi gli si contrappone: gruppi, popoli, autonomie, comunità, ceti ed individui. Cosa significano qualche centinaio di migliaia di siciliani, perlopiù neanche cristiani, morti o deportati, rispetto al grande sogno unificatore, centralistico ed imperiale di Federico? Niente. Meno di zero. Carne da macello. Kantorowicz, in quelle poche righe, esprime continuamente la sua intima convinzione statalista, come una sorta di mantra: la guerra viene svolta dalla Svevo per «liberare le energie latenti a favore dello Stato»; episodio che «aveva fatto della Sicilia uno Stato». Giudizi che si collegano all’altro, superoministico, sulle virtù carismatiche ed eccezionali di Federico, capace di soggiogare col suo fascino dei semiuomini barbari, gente ridotta al rango di bestie come Kantorowicz rappresenta i musulmani. Riassunto in questa frase terribile per il significato che l’autore le attribuisce, relativa alla fase finale di sottomissione dell’Islam siciliano: «Federico riuscì a mutare in breve il selvaggio odio dei vinti nella fanatica fedeltà verso il vincitore». I vinti, in questa chiave, non hanno altra possibilità di rappresentazione: o sono i “selvaggi animati dall’odio”, oppure persone prive di raziocinio, capaci solo di manifestare “fanatica fedeltà”. Esistono molti fili conduttori da cui muovere per un’analisi dei fatti avvenuti negli ottantatré anni trascorsi tra il 1161, anno dei pogrom, e il 1246, in cui il conflitto svevo-musulmano termina. Episodi che in nessuna occasione definirò, come qualcuno ha fatto, col nome di «operazioni di polizia». Non si trattò infatti di una retata, svolta in un piccolo distretto, ma di una guerra selvaggia, condotta coi metodi della guerriglia in territori aspri, vasti, tra rocche e montagne, la quale giunse sino alle porte di alcune città. E riguardò un popolo intero. Il primo filo da tessere di questa vicenda è che non esistono rotture. Bensì una linea di condotta uniforme che dagli Altavilla passa a Federico II, nella quale da una fase di acculturazione, più o meno forzata, si transita ad una successiva di conflitto, soppressione, deportazione e pulizia etnica. Non esiste cioè una frammentarietà legata agli avvenimenti. Ma una progressione, per molti versi pianificata, con una politica di annientamento, che ­­­­­233

trova il suo primo eloquente esempio nella fondazione dell’arcidiocesi di Monreale da parte di Guglielmo II: iniziativa che, fra 1174 e 1186, comporta l’accorpamento di vasti territori, prevalentemente demaniali, in precedenza compresi tra i vescovadi di Palermo, Mazara e Girgenti. Che significato ebbe questa decisione? Creare, in una vasta area di circa milleduecento chilometri quadrati, che comprendeva più di cento casali e diversi centri di una certa consistenza, tra cui Iato, Calatrasi e Corleone, una vasta signoria cristiana su un tessuto totalmente musulmano. Una riserva indiana, per usare un linguaggio che rende bene l’idea, controllata da una potente istituzione religiosa cristiana. Controllo potenziato dalla catena di piazzaforti cristiane poste tutt’intorno all’enclave, tra cui Vicari, Prizzi, Castronovo, Cammarata, Carini e Partinico, la terra di Erice (dove era interdetto l’ingresso ai musulmani): e sulla costa, da Mazara e Sciacca. Il tentativo di Guglielmo è evidente: sottoporre la residua zona musulmana al controllo economico e religioso dei monaci di Monreale, con una massiccia politica di assorbimento e di acculturazione. La popolazione, formata in maggior parte da villani, censiti nelle jaraid alrijal, i polittici degli uomini, fu costretta all’obbligo di residenza. Dunque niente più movimenti. D’altra parte, era chiamata a versare, come avveniva già con la corte regia, canoni in danaro e natura. Che però si aggravano e tendono ad aumentare, dice Amari a causa dell’esosità dei monaci. I quali potevano ricavare in moneta da un solo casale, come ad esempio quello di Curbici, oltre a rendite in derrate alimentari e vino, cifre in danaro superiori ai duemila tarì annui. L’obiettivo però fallisce. Invece di creare una situazione di maggiore sottomissione della componente musulmana, il nuovo regime demaniale inasprisce la situazione. Esaspera gli animi. Vuoi a causa dell’ingordigia dei monaci, che sottopongono la popolazione contadina ad angherie sempre meno accettabili. Vuoi perché il tentativo riduce ancor più la già limitata libertà dei coloni, sospinti verso condizioni dove la differenza tra fittavoli liberi e servi della gleba diventava impercettibile. Il peggioramento della situazione nelle campagne corre parallelo con il riacutizzarsi delle tensioni cittadine. Alla morte di Guglielmo II, il 18 novembre 1189, si scatena a Palermo un nuovo pogrom. Si ripete la strage, come nel 1161. Tuttavia ora i musulma­­­­­234

ni palermitani fuggono in massa e lasciano la città. Si rifugiano in montagna. Il tempo della collaborazione e della convivenza finisce per sempre qui, adesso. Comincia la fase della resistenza. I vecchi notabili, le élites, i gaiti, i quadri burocratici che sopravvivono alla strage non intendono ragioni. Le parole pragmatiche di adattamento auspicate vanno in fumo, in frantumi. Gli atteggiamenti mimetici criptomusulmani di chi voleva difendere la comunità attraverso il servizio nell’amministrazione del regno non funzionano più. Non ci sono più sfumature: o si scappa o si combatte. Anche perché l’elezione di Tancredi a nuovo re non preannunzia niente di buono. Il suo nome evoca troppo i lombardi e il pogrom rurale del 1161. Anzi, molti fuggono proprio per questo motivo, per non dover servire sotto questo re. Questa volta però non a caso. Maurici lo dice bene: «non si trattò della fuga disorganizzata di masse di disperati, quanto piuttosto della secessione di un intero popolo e di un’intera società». Comincia un’epoca nuova, di turbationes. È negli anni della minorità di Federico II che la rivolta assume contorni chiari, direttive, capi, motivazioni. Isolati in un regno tutto cristiano, i musulmani cominciano una lotta disperata a tutto campo. Li guidano quelli che Bresc chiama i «grandi signori patriottici», gente di antica stirpe araba o berbera. Tra loro ci sono anche forze fresche, immigrati da poco giunti dal Nord Africa, come il grande eroe della resistenza, che prende il nome dall’ultimo grande oppositore di Ruggero il Gran conte, l’ultimo mujahidin, Mohammad ibn Abbad. Un esercito che si organizza intorno a capi tradizionali, guidati da cadì e qaid, la cui forza militare si regge e si concentra su un ampio numero di rocche fortificate ed imprendibili. Una catena continua che consente l’organizzazione di una solida e capillare rete difensiva del territorio musulmano, circoscrivendone l’ambito: Entella, Platano, Iato, Celso, Calatrasi, Calathamet, Cinisi, il castellum di Corleone (occupato dai saraceni nel 1208) e quello di Guastanella. In pratica, i musulmani occupano una terra collinare e montuosa tra le attuali province di Palermo, Trapani e Agrigento, piena di anfratti, rifugio di pastori e di briganti, ancora oggi nota per le scorrerie di Salvatore Giuliano e per i fatti di mafia. La stessa area investita dalla prima invasione musulmana del IX secolo, e per questo fortemente islamizzata, che aveva resistito strenuamente a Ruggero I. E che ora si oppone al papa Innocenzo III e al piccolo Federico. ­­­­­235

I musulmani sono disposti a qualunque sacrificio, a qualsiasi compromesso. Cercano alleanze ovunque. Ed entrano in un gioco molto più grande di loro, che guarda lontano, ai signori tedeschi invischiati nella lotta di successione al trono imperiale, al papa. Avvicinano Markwald von Anweiler, che si contrappone al papato e ai prelati di Palermo. La reazione è immediata: Innocenzo III fa inviare il 20 novembre 1199 ai baroni siciliani una lettera. Il tono è quello tipico, da Crociata. Ritorna il tema dell’impium foedus stipulato dal signore tedesco con i saraceni; si rinnova l’invito alla guerra santa; si promette indulgenza per quei cavalieri che vorranno opporsi ai musulmani. Occorre bloccare in tutti i modi l’operato di Markwald, «quel ribaldo che adesca i saraceni, dando loro a bere sangue cristiano, abbandonando alle loro voglie le donne cristiane rapite; per cui il sommo pastore concede indulgenze di crociata a chiunque prenda le armi contro di lui». La inedita coalizione tra Markwald e i musulmani combatte all’inizio estate 1200 sotto le mura di Palermo. Federico, bambino, viene fatto fuggire, per precauzione. Per venti giorni prosegue l’assedio. La battaglia si sposta nei campi intorno alla città, e da qui a Monreale. Ma i cristiani vincono. È la rotta per i musulmani. Molti sono i caduti, tra cui qualche capitano musulmano, come il qaid Magded. Si passa ad una fase di tregua. La diplomazia papale cerca di ricucire le fila. Con una delicatissima operazione diplomatica il papa in persona indirizza ai capi-rivolta musulmani una nuova lettera. L’incipit è curiosissimo, destinato a non turbare i loro animi. Perciò, nell’impostazione, generico e filosofico. Il pontefice si rivolge «al cadi e a tutti i qaid di Entella, Platano, Iato e Celso e agli altri qaid e saraceni tutti della Sicilia, con augurio di comprendere e amare la verità, che è Dio stesso». Bellissima circonlocuzione, quasi più musulmana che cristiana, da cui traspare l’attitudine del papa a non voler riacutizzare le tensioni. Dove l’impressione, se si guarda il contenuto, è che egli si muova per vie politiche, riconoscendo, nei musulmani e nei loro capi, un soggetto politico organizzato ed identificabile. Col quale trattare, trovare un’intesa. Nonostante ciò, l’azione musulmana non si arresta. Aumenta il suo impulso. L’assenza di Federico II, dal 1212 impegnato nelle faccende tedesche, fa assumere ai cadì maggiore capacità d’azione e senso dell’iniziativa. Dilagano in tutta la Sicilia. Viene attaccata ­­­­­236

Palermo nel 1216. Più volte Monreale, fino «ad intaccare le mura della chiesa». A Girgenti entrano in città: catturano il vescovo – e lo rilasciano solo dopo il pagamento di un riscatto –, saccheggiano e profanano la chiesa, occupano la cattedrale impedendo ogni tipo di celebrazione, impediscono ai lavoratori dei campi intorno alla città di recarsi al lavoro. Si rioccupano terre, casali, villaggi. Sembra tornata l’epoca della riscossa. Le forme organizzative musulmane si spingono oltre. Si riesuma l’idea di creare un emirato, in aperta contrapposizione col regno normanno. Si sogna di nuovo una Sicilia indipendente. Una Siqilliya reinserita nella koiné islamica. Capo indiscusso diventa Mohammad ibn Abbad: è lui che guarda più lontano degli altri, che concepisce un futuro diverso. Non è per niente un avventuriero. È infervorato dalla fede e dal senso della sua missione. Il suo potere è legittimato dalle sue origini e dall’avere sposato la figlia del grande caid Ibn Fakhir, uno dei capi delle comunità in età normanna. Mohammad assume un titolo che non ha bisogno di spiegazione, di amir al muslimin (principe dei credenti). Da sovrano prende delle decisioni di rilievo. Vuole creare una piccola ma solida compagine statale. Stringere un nuovo cordone ombelicale col Nord Africa, da cui proviene e dove ha contatti. Intesse relazioni con mercanti forestieri, per rifornirsi di contrabbando di armi e di vettovagliamenti. Decide che il suo emirato conii monete sue proprie, come facevano i Kalbiti. Ne fa battere una d’argento. Quelle di Enrico VI e di Federico II le fa sequestrare e sfregiare con un punzone. La portata politica di queste decisioni è evidente: racchiudono il senso di un’appartenenza e di un’identità, descrivono chiaramente il senso della ricerca di una legittimazione e di un’affermazione, agli occhi dei suoi e dei propri avversari. Sono anni convulsi. Circa una decina, una quindicina d’anni. Di scontri, di popolarità, di assunzione di forza e di consenso. Che non possono durare a lungo. Le condizioni non lo permettono. Il nuovo emiro è solo. Ha scarse risorse. Pochissimi sbocchi a mare. Con scarne possibilità che da qualche parte del mondo musulmano possa giungere qualche aiuto di peso. Dispone di un bacino di uomini coraggiosi. Di fortezze. Ma cosa può, quando intorno a sé si scatena la forza di un imperatore?

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9. Pulizia etnica

Siamo all’epilogo di questa storia siciliana. Adesso, al comando, c’è un nuovo sovrano. Di una nuova casata. Non è solo il re di Sicilia. È l’imperatore. Nel luglio 1220 ordina che le città e le terre occupate vengano ricondotte ai legittimi proprietari cristiani. Le abbazie cominciano a reintegrare le loro proprietà. Federico reintroduce lo status quo ante: il villanaggio e la servitù forzata dei musulmani. Riconferma chi è che comanda. È forzato a prendere queste decisioni anche dallo stato della situazione politica siciliana, nella quale godere dell’aiuto delle potenti entità religiose significa garantirsi un potente alleato contro le tendenze centrifughe della nobiltà feudale. Alle mosse politiche seguono quelle militari. I musulmani si preparano alla resistenza ad oltranza. Si capisce che altri sbocchi non esistono. Si rafforzano le fortezze e i castelli scavati nella roccia. I punti di vedetta sulle strade interne e per il mare. Si preparano gli uomini. Si cerca di comprare armi. Nell’estate del 1221 Federico dà inizio alle operazioni. Esamina lo scacchiere, valuta le difficoltà, saggia le forze dell’avversario. Poi nell’estate 1222 parte con l’attacco decisivo. È lui, in prima persona, a condurre l’esercito. Secondo una fonte araba, sono con lui duemila cavalieri e sessantamila fanti. Le testimonianze raccontano poco di quello che accade. Ma non è difficile da immaginare. Tutta la Sicilia musulmana viene messa a ferro e fuoco. Le fortezze si difendono. Si trasformano in ridotte, che accolgono, in grande confusione, profughi e soldati. Qualcuna cade, qualche altra no. Federico fa dare l’assalto a Iato. È lì il cuore della resistenza. È lì che è asserragliato Mohammad. L’assedio dura otto settimane. Alla fine Mohammad si arrende. Lo portano in ceppi davanti all’imperatore. Chiede clemenza. Federico non sente ragioni. È furibondo. Accecato dall’odio. Tortura lui stesso Mohammad: prende il suo sperone e lo immerge nelle carni dell’emiro. Dopo qualche giorno, a Palermo, davanti alla folla, il capo della resistenza viene impiccato. Con lui due mercanti di Marsiglia, che lo avevano aiutato nel trasporto di armi e di aiuti. L’irredentismo musulmano ha subito il colpo più duro. Ora si ritrova senza un leader. La resistenza però continua. Le armi ­­­­­238

non vengono deposte. Gli altri, scrive Riccardo da Sangermano, continuano ad opporsi ad oltranza. Nel 1223 Federico ha bisogno di nuove risorse per portare avanti la repressione. Preleva denaro dagli introiti fiscali. Convoca conti e baroni. Tuttavia, la guerra non porta buoni risultati. È un problema militare, di tattica da adoperare sul terreno. Come potevano dei cavalieri pesantemente armati reagire a raids rapidissimi, lungo stradine di montagna, in località impervie? Sicché la lotta diventa snervante, endemica. Guerriglia fatta di colpo su colpo. Portata anfratto per anfratto. Nel 1225 i musulmani sono ancora là, asserragliati sulle loro montagne. Federico convoca di nuovo i baroni, per avere ancora aiuti per costringere i ribelli a descendere de montaneis. L’imperatore cerca di chiudere quei pochi canali che ancora alimentano dall’esterno la rivolta. Fa bloccare l’isola di Gerba, da cui i pirati potevano rifornire i rivoltosi. La truppa imperiale la prende. In Sicilia la situazione si fa drammatica. La guerra comunque non si arresta. Federico capisce che la strategia della terra bruciata è utile, ma fino a un certo punto. Non si può debellare, ad uno ad uno, ogni focolaio di resistenza. Nasce allora il colpo di genio. Exterminare de insula. Prelevare tutti i musulmani e deportarli, in un luogo lontano. Quanto più possibile: da casa loro, dalla loro vita. Prende vita l’idea di Lucera, in Puglia. Lontana dal mare, nell’interno della Penisola. Da dove non si può tornare. Dove non esiste nessuna certezza di poter rivedere la Sicilia. La mattanza riprende. È uno stillicidio che si ripete anno dopo anno. Per gli irredentisti la scelta è ora tra la morte o la vita nell’esilio di Lucera. Si combatte ancora a lungo. Tra il ’29 e il ’30 gli scontri riguardano una decina di fortezze. Ancora una volta il teatro degli scontri sono le rocche di Iato, Cinisi, Entella. I musulmani mandano una disperata richiesta di soccorso in Nord Africa. L’ambasceria però non porta frutti. Intanto, la deportazione prosegue. Tanta gente viene imbarcata a Palermo e a Girgenti. Ai porti ci sono tumulti. I musulmani si rifiutano. Non vogliono partire. Non vogliono lasciare la loro casa. Li imbarcano di forza. Una volta giunti in Puglia, i più irriducibili scappano. Rientrano in Sicilia. Vengono ricatturati e di nuovo deportati. Fino al 1243. Quando avviene l’ultima fiammata. L’imperatore invia al comando della repressione il conte di Caserta. Questi impiega quattro anni per debellare le ultime sacche di resistenza. Gli ultimi ribel­­­­­239

li depongono le armi. Scendono dalla montagna. La questione musulmana in Sicilia, come scrive l’imperatore ad Ezzelino da Romano, è definitivamente risolta. Esiste un ultimo racconto, che chiude questa storia. Un racconto non sappiamo se vero o falso, ma drammatico e bellissimo. Un esile filo d’oro in un universo di desolazione. Narrato, nel Trecento, da al-Hymari. Che ci riporta all’ultima ridotta di Entella, la Masada siciliana. Dentro, con un gruppo di uomini, è asserragliata la figlia di Mohammad, che, nonostante la morte del padre, continua la rivolta. L’imperatore in persona si interessa a lei. Le scrive. La principessa sembra che voglia trattare la resa, chiedendo l’invio di un buon numero di cavalieri cristiani. Questi partono. Ma appena arrivati in prossimità del castello, vengono assaliti di sorpresa e sterminati. Federico le riscrive, per cercare di determinare le condizioni di una nuova tregua. E cambia tattica: la chiede in sposa. La donna gli risponde con queste parole: «una mia spia mi ha fatto sapere che tu hai detto: “è sbalorditivo che una donna abbia potuto far cadere nel suo tranello trecento uomini”. Il vero oggetto di sbalordimento siamo noi stessi, io e te. Io sono una donna senza figli, in un angolo dimenticato di mondo, senza alcuno che mi venga in aiuto. E tu che, benché padrone di un regno immenso, di tesori e di consiglieri, sei costretto ad assediarmi e a distrarti dagli affari importanti». Scritta la lettera, non aspetta altro. Non si arrende. Si suicida. La sua: unica voce di donna, oggetto di sbalordimento, sopravvissuta nella memoria della lunga storia dei musulmani in Italia. La repressione della rivolta siciliana si chiude nel peggiore dei modi. Un bilancio in perdite umane è impossibile da stilare. Ma tra uccisioni, rifugiati e deportati il panorama siciliano resta devastato. Scrive Bresc: «la violenza estrema di questa guerra civile che culmina con le operazioni sterminatrici – secondo l’espressione di un notaio palermitano contemporaneo – lascia immense rovine. Le roccaforti, Iato, Entella, Calathamet, Partinico, Calatrasi, scompaiono per sempre dalle liste di terre e di capoluoghi di distretto e sono, nel migliore dei casi, ridotte ai loro soli castelli. Un elevato numero di casali e di possedimenti rurali appaiono abbandonati. La stessa agricoltura della Sicilia si modifica radicalmente. Per mancanza di braccia, si abbandonano le colture intensive destinate ai mercati urbani e alle industrie artigianali ­­­­­240

presenti nei casali musulmani». Il vuoto economico, sociale, demografico creato è irrimediabile. Nel 1280 la Sicilia raggiunge appena quattrocentomila abitanti. Si volta pagina. Si inaugura una nuova epoca per l’Isola. Non più spazio di frontiera, crocevia di civiltà. Ma una Sicilia europea, chiusa in se stessa, protagonista di tutta un’altra storia.

VI

Lucera

Quando sarà scossa di scossa grande la terra quando rigetterà i suoi pesi morti la terra e dirà l’uomo: “che cos’ha mai?”. In quel giorno la terra racconterà la sua storia (Corano, sura XCIX, vv. 1-4)

1. 25 agosto 1300

Lucera, 25 agosto. Sera. Giovanni Pipino finalmente si può riposare. Gli ultimi giorni sono stati convulsi. Ma ce l’ha fatta. Ha portato a termine il compito che gli era stato affidato direttamente da lui. Dal suo re, Carlo II d’Angiò. È un uomo di coraggio, Giovanni. Un self-made man. È un pugliese, di Barletta. Figlio di notai. Per un po’ ha seguito la carriera del padre. Poi, ha preferito seguire le sue inclinazioni. Le sue ambizioni. Che lo hanno proiettato alla corte di Napoli, divenuta da non molto la nuova capitale del regno. Prima è stato al servizio di Carlo I. In seguito di suo figlio. Per entrambi un suddito devoto, leale, affidabile. Per ogni tipo di incarico. Con qualche sbavatura, come l’accusa di essere troppo contiguo ai della Marra, giudicati coi Rufolo nel celebre processo per lesa maestà del 1283: accusa, però, da cui viene totalmente scagionato. Gode del favore di Roberto di Artois, reggente tra il 1283 e il 1289, che lo nomina cavaliere nel 1290. È il passo decisivo per la nobilitazione. Trascorre ancora poco: viene nominato maestro razionale, uno dei principali incarichi del regno. Un’ascesa sociale vertiginosa, sintomo della sua indiscutibile capacità. Tutta costruita all’ombra degli Angioini. Diventa potente. Inserito perfettamente nei circoli di corte. Ottimo ambasciatore. Perfetto consigliere. Però questa notte ha altro cui pensare. Comunicare che tutto è andato come nei piani. Può rispondere finalmente al suo signore, a quel desiderio, a quella speranza che questi aveva espresso. Che la distruzione della comunità musulmana di Lucera fosse ormai compiuta. Giovanni scrive. La spes certissima del re si era ­­­­­244

finalmente tramutata in successo. Su tutta la linea. Dal giorno di San Bartolomeo, il problema musulmano è stato risolto. Terminata con «extrema strages et effugacio ipsorum sarracenorum». Giovanni non prova nessun rimorso per quanto è accaduto. Per i morti. La strage. Sa di aver compiuto il proprio dovere. Non ha commesso un crimine, ma un’azione di Stato. Meglio: ha liberato la terra cristiana, e questa volta davvero in maniera definitiva, dalla presenza di eretici adoratori del diavolo. Nessuno dei suoi contemporanei ebbe mai neanche l’intenzione di muovere contro di lui la minima accusa. Tutti volevano che Lucera scomparisse. Tutti si aspettavano che Giovanni procedesse, in quei giorni di agosto, con la massima durezza. La massima efficacia. Missione cui adempie, senza rimorsi. Di più: egli costruisce la sua immagine su quella strage. Di eroe animato dalla fede. Per i morti, neanche un segno di attenzione evangelica. Men che meno per chi sopravvisse. La banalità del male. Lucera era stata una grande creazione politica di Federico II. Cittadina posta in un luogo ideale, lontana ottantaquattro chilometri dal mare. Priva di montagne e picchi dove potersi nascondere e combattere. Immersa in un universo cristiano, in media christianorum planitie. Riserva da assimilare subito al cristianesimo. Da acculturare rapidamente, grazie all’azione dei frati predicatori. Quanti musulmani vi erano stati condotti? I dati discordano. Un monaco di Santa Maria di Ferrara ne conta quindicimila. Matthew Paris sessantamila. Al-Hamawi parla di centosettantamila persone. Oggi i numeri sono più ragionevoli. Attestano una popolazione di deportati che si aggirava tra le venti e la quarantamila persone. Negli ultimi giorni della vita della città era questo, più o meno, il numero degli abitanti, a formare un centro di taglia medio grande. Cui vanno sommati all’inizio altri piccoli centri dove l’amministrazione sveva destina altri ridotti nuclei di musulmani: a Girifalco, al casale di San Giacomo, a Stornara. Nondimeno, Lucera è il cuore della deportazione, con un flusso continuo di saraceni a partire già del 1222-1223. Corrente di gente diversa, che arriva in momenti diversi. I primi arrivati li immagino meno riottosi. Sono quelli che si sono piegati per primi. Che si sono adattati meglio alle nuove circostanze. I fedelissimi che si stringono attorno a Federico. Un paradosso: mentre ancora ci sono musulmani che resistono, altri seguono l’imperatore nelle ­­­­­245

sue imprese in Nord Italia. Persone che hanno tagliato completamente i ponti col passato. Prive ormai di cordone ombelicale con la Sicilia. Gli ultimi imbarchi, che risalgono a poco prima della morte dell’imperatore, rendono ancor più stridente questa contraddizione. Quando gli ultimi irriducibili giungono a Lucera, si deve sentire la separazione tra chi ha resistito fino all’ultimo e chi si è piegato subito e da quasi una generazione ha deciso di sentirsi più pugliese che siciliano, più imperiale che irredentista. Una lacerazione, che crea in città due anime differenti, due diverse attitudini. Cos’era stata Lucera fino a quell’agosto 1300? Una città militare, spesso si è detto. Però più nella sua economia che non nella sua vita sociale. A considerare infatti i numeri, la componente guerriera non appare così elevata come sempre si è immaginato. Non convince quel numero di diecimila musulmani al seguito di Federico a Ravenna nel 1237: con i numeri i contemporanei, lo abbiamo visto più volte, non si regolano troppo bene. Concordo con Julie Ann Taylor che riporta queste cifre a misure più logiche. A piccoli contingenti, che difficilmente superano le mille, duemila unità. Bande composte quasi esclusivamente da arcieri a piedi o a cavallo. I cavalieri furono molti di meno, alcuni dei quali in età angioina provvisti di uno statuto speciale. Una piccola e sparuta élite che si distingue dalla massa dei propri concittadini. Si tratta comunque di soldati specializzati. Violenti e combattivi, che vengono impiegati in ogni teatro di guerra. Tra il 1237 e il 1239 l’imperatore li adopera nella campagna lombarda. Li si trova nel milanese e nel bresciano. Molti villaggi e centri abitati sembra che vengano distrutti da loro con particolare accanimento: semplice furore militare o dietro di esso si nasconde un desiderio, forse mai assopito, di vendetta contro i cristiani? Gli Angioini non sono da meno. Saraceni di Lucera sono impiegati in misura sempre maggiore in Albania. Sono metà contadini e metà guerrieri. Masnade tra i cento e i cinquecento uomini, inquadrate sotto il comando dei loro cadì, come gli arcieri dei comandanti Musa, Salem e il convertito Pietro. Partecipano alla guerra del Vespro. Sbarcano in Sicilia. Per tutti loro potrebbe rappresentare un ritorno al passato. Per loro però l’Isola non significa più niente. Non c’è più una sola moschea, una sola città, un solo villaggio che appartenga alla ­­­­­246

comunità islamica. I saraceni di Lucera sono ormai dei soldati, come tutti gli altri. Fedeli al re se arriva la paga. Ma dicevo: è tutta l’economia di Lucera che si regge sulla guerra. La paga o i benefici concessi ai guerrieri della città sono solo una frazione della ricchezza procurata dalla continua situazione di conflitto in cui versa il regno, aggravata nel 1282 dalla rivolta siciliana. I lucerini sono ottimi produttori di arnesi in ferro, spade, lance, archi, frecce, armature. Per avere una misura del loro potenziale industriale, nell’estate 1281 il re Carlo riceve dalla Terra di Bari quattromila vanghe di ferro nella gran parte provenienti da Lucera. Mentre il 12 novembre 1282 vengono ordinate ben sessantamila frecce. All’alba di quell’agosto, sono soprattutto i contadini a rappresentare il nerbo della popolazione. Sono in gamba, eccellenti. I produttori di due dei prodotti a domanda universale: grano e vino. La qualità dei cereali di Lucera è superiore rispetto a quella che produce il resto di Puglia. Per garantire lo sfruttamento della terra, pare che Federico II abbia provvisto i lucerini di diecimila buoi, precisando che, se non fossero stati sufficienti, avrebbe disposto nuovo danaro per acquistarne altrettanti. Notizia interessante, che rientra nell’opera di pacificazione e di organizzazione intrapresa dal sovrano, sebbene, anche in questo caso, sulle cifre e sulla notizia bisogna andare cauti. Tra la popolazione non mancavano pastori e bovari, il cui lavoro era reso facile dai tanti e tanti ettari di terra adatta al pascolo. La società cittadina non si limitava solo agli agricoltori, ai soldati, ai pastori: c’erano tanti artigiani, tessitori, vasai, ceramisti, bottegai, commercianti. Un mondo completo, con la sua moschea, i suoi ritrovi, le sue attività quotidiane. Visto così dall’ambasciatore arabo del gran Sultano Baibars, il cadì Giamal ad-din: «vicino al paese in cui risiedevo, c’era una città a nome Lucera, i cui abitanti sono tutti musulmani dell’isola di Sicilia: lì si tiene la pubblica preghiera del venerdì, e vi si professa apertamente il culto musulmano. Questa città è così dal tempo dell’imperatore padre di Manfredi. Egli aveva intrapreso colà la costruzione di un istituto scientifico perché vi fossero coltivati tutti i rami delle scienze speculative». Una città rispettabile, simile a cento altre cittadine musulmane che costellano l’Africa e l’Asia. Oppure: una universitas, uno dei tanti centri del Mezzogiorno fondato sulla terra e sulla pastorizia. Che viene spaz­­­­­247

zata via, all’improvviso, da un giorno all’altro, con un’operazione spietata, razionale, determinata. Un blitz. Coordinato e guidato così da Giovanni Pipino. 15 agosto. Giovanni entra a Lucera da amico. Ha con sé poche truppe. Sembra una normale operazione di routine. Ci sono sempre soldati in città che vanno e che vengono. Non c’è sospetto, non c’è minaccia. Una volta dentro, Giovanni chiama a colloquio il capo della guarnigione cristiana acquartierata nel castello. Pipino ha degli ordini precisi. È il plenipotenziario del re. Il suo piano è intelligente, astuto. Illustra al comandante qual è la strategia. Ordina che i soldati del castello occupino i luoghi più sensibili, le porte, le strade principali. Poi ad uno ad uno fa arrestare i capi più influenti della comunità islamica e, di fatto, decapita la dirigenza cittadina. In tutto quattrocentocinquanta persone. Li disarma. Disarticola la loro rete. Il 16 la città è nelle sue mani. I soldati angioini cominciano ad andare casa per casa. I metodi sono spicci e brutali. Si imprigionano i più riottosi. Agli altri si impone di restare segregati in casa. Non tutti i saraceni vengono colti di sorpresa. La città è sufficientemente grande da permettere a molti di organizzarsi. Di armarsi. È gente che la guerra la sa fare. Le strade si trasformano in un campo di battaglia. Si tenta di assalire le truppe angioine. Ma queste sono ben attestate. La zuffa prosegue. Si sposta rapidamente. Si combatte casa per casa per ben sette, otto giorni. Giovanni non ha pietà. Fa ammazzare sul posto chi non cede. La resistenza prosegue ad oltranza, riducendosi a mano a mano di intensità. Alla fine chi si arrende, racconta una fonte, viene introdotto alla spicciolata nel castello e sgozzato. È una strage. Non conta sapere quanti furono i morti: chi dice cinquemila, chi addirittura ventimila. L’unica cosa da dire è che c’è del metodo, in questa follia.

2. Ghetto

Come si è arrivati a tanto? Da cosa è stata determinata tutta questa indiscriminata violenza? Da un fatto: che per chi ha preso la città, Lucera non esiste. Istituzionalmente non ha quasi identità. Perché la tara che porta alla distruzione della città è genetica, consustan­­­­­248

ziale alla sua stessa nascita. La città è destinata a morire già dal momento della sua creazione. Esiste in quanto c’è qualcuno che garantisce per lei: il sovrano. La contraddizione nata con Ruggero II, quel passaggio dall’ineguaglianza alla soppressione della libertà, emerge in proporzioni che nessuno avrebbe mai sospettato con Federico II. Amministrativamente i nuovi arrivati, senza alcuna differenza di posizione sociale o di sesso, sono schiavi. Il linguaggio che si adopera non è né ambiguo né improvvisato. È segno di una regìa precisa. I saraceni sono servi fisci, servi camerae. Schiavi della Curia, di cui il sovrano può servirsi a suo completo arbitrio. L’intera città è sottoposta allo Stato. La sua popolazione, demanio. I contadini lavorano sulle terre reali e, come i loro antenati, sono sottoposti al tributo. Lucera, in definitiva, è un protettorato. Un oggetto. Una universitas a termine. La città viene strangolata in pochi decenni. Tutti quei villaggi musulmani che le facevano corona, altri luoghi di deportazione, vengono sfollati. Tanta gente si riversa a Lucera. La quale nel giro di poco tempo appare satura. Le campagne non sono sufficienti a sfamare tutti. Le risorse accumulate vengono portate via dagli ufficiali fiscali. Torna il vecchio clima di rivolta. Una prima ribellione avviene in concomitanza con la discesa nel Sud Italia di Corradino. Lo Svevo sembra meglio dei nuovi sovrani angioini. Viene repressa. Dagli anni Settanta del Duecento in poi i lucerini si danno al brigantaggio. Assalti ai villaggi circonvicini. Taglieggiamento di centri abitati. Occupazione di terre. Scorrerie, che arrivano fino al Beneventano. Furti di bestiame. Si creano addirittura bande miste, di cristiani e musulmani. Ad essi si contrappongono, con altrettanta furia, le popolazioni dei centri cristiani vicini. Giungono un po’ dappertutto, specialmente da Troia. Uomini che non hanno nessuna intenzione di scendere a patti, di dialogare. Si moltiplicano le uccisioni di musulmani, di viandanti, contadini, commercianti. Al mercato di San Severo i musulmani presenti sono aggrediti, picchiati, trascinati. I saraceni denunziano tutto all’autorità. Gridano che ci sono stati omicidi, i loro mercanti svaligiati. Denunzie che restano inascoltate. Sta scoppiando una contrapposizione endemica, che non nasce dalla distinzione religiosa. Dietro di essa, ci sono problemi pratici. Di approvvigionamento di una vasta area, fittamente popolata. Federico col suo colpo di genio e i suoi diecimila buoi non ha pensato a pianificare tutto. Non ha calcolato che ­­­­­249

l’immissione di un numero così alto di bocche da sfamare su un territorio non ad altissimo rendimento produttivo avrebbe creato degli squilibri enormi in un tempo breve. L’agricoltura non ce la fa. Le risorse sono insufficienti. C’è penuria per tutti, per i musulmani come per i cristiani. E la principale strada per sopravvivere è approfittare delle risorse del proprio vicino. Lucera insomma, con i suoi saraceni, torna ad essere una spina nel fianco. Un problema religioso. Di ordine pubblico. Economico. La tensione che provoca è continua e sfibrante. Affiora l’idea che la strategia della deportazione ha fatto il suo tempo. Si è rivelata per molti versi fallimentare. Vanno prese altre soluzioni, pensare di intervenire in maniera radicale. La città è meglio che scompaia. Dentro Lucera si fronteggiano due posizioni. Perché se verso l’esterno e nei confronti del sovrano non esistono statuti differenziati, all’interno le antinomie sono parecchie. Da una parte c’è una fazione più irriducibile, che coinvolge forse la maggior parte della popolazione. Tradizionalista, conservatrice, tenace, che non intende sottostare al processo di assimilazione. A questo gruppo appartengono verosimilmente quei gruppi di disertori che scappano dal fronte albanese, che fraternizzano con i nemici e con le popolazioni da assoggettare. Per riassumere, una componente nel complesso sovversiva. Cui si aggregano anche numerosi ebrei, che stavano vivendo sulla loro pelle altre forme di repressione, e che a Lucera trovano quell’aria di libertà religiosa che altrove gli era impedita. L’altro gruppo è formato da chi si è lasciato assimilare e si è ritagliato la propria dose di potere. Per intenderci, i primissimi deportati, che vivono parte della propria vita al servizio di Federico. Sono i fedelissimi dello Svevo; che hanno nei confronti del sovrano un attaccamento fanatico (molto orientale, è stato detto, assai simile a quello tenuto dai gruppi di schiavi militari che a lungo avevano dimorato alle corti di Bagdad, del Cairo, di Cordova). I quali, nonostante tutto, avevano ricevuto da Federico una prospettiva di vita, di guerra e di saccheggio migliore del morire da schiavi. È naturale che più passa il tempo e più si appanna il ricordo della madrepatria, le generazioni subentranti, la seconda, la terza, vivono con maggiore facilità il processo di adattamento e di assimilazione con l’ambiente circostante. Così al gruppo dei capi tradizionali, degli alchadi – traslitterarazione del classico cadì – si aggregano e si sovrappongono dei personaggi che marcano ­­­­­250

una presa di posizione netta rispetto al passato. Sono pochissimi ma molto influenti. Cavalieri. Milites. Possessori di beni rurali, di sostanze, di un nutrito seguito di familiari e di clientes. Che hanno un ruolo di primo piano nelle faccende cittadine ma posseggono anche solidi contatti col mondo esterno, con le amministrazioni giurisdizionali e gli enti ecclesiastici. Alcuni di essi vengono direttamente infeudati dal sovrano con terre e benefici. In cambio, il re richiede omaggio ligio e giuramento di fedeltà. C’è chi ottiene anche il massimo riconoscimento della monarchia, il cingulus. Insomma sono degli ibridi, che vivono a cavallo tra due mondi. Vorrebbero distaccarsi dalla società musulmana ma non hanno ancora la forza di farlo. I loro nomi? Haggag, Salem, Bulgassem. E Abd al-Haziz. Questo nome teniamolo a mente: è quello dell’ultimo protagonista, nel bene e nel male, del jihad meridionale. Qual è il movente che porta il re ad assassinare Lucera? Perché Carlo l’ha voluta uccidere con tanta brutalità? Non esiste un solo movente, ma una selva di ragioni che si accavallano e si intrecciano. Tre, in particolar modo. La prima è religiosa. È vero che in Europa in quel momento si respira un’aria di pulizia etnica, e che la politica anti-giudaica e la politica anti-musulmana rimbalzano da un capo all’altro del Mediterraneo. Nel 1287 avvengono i fatti di Minorca, con la distruzione della locale enclave musulmana e l’espropriazione di beni e persone. Si amplifica la propaganda degli ordini predicatori, che spinge verso una rapida cristianizzazione dei diversi, con ogni mezzo. Lo stesso Ramon Llull è a Napoli nel 1294 per esortare il re e suo figlio alla conversione dei sudditi di altre confessioni. Le conseguenze non si fanno attendere, con un intervento a tutto campo sugli ebrei nel regno, fino a obbligare alla conversione l’antica comunità ebraica napoletana, pena la morte. Adesso il re guarda a Lucera, alla sua eliminazione: una nuova «opera santa, ispirata da Dio», come il re stesso tenne a dire. In un’epoca di fallimento della Crociata, con il giubileo alle porte, con i segnali di plenitudo temporum che correvano nel regno, una vittoria simbolica sull’Islam che avesse carattere rigeneratore ci stava. Poi esiste la seconda ragione, più prosaica: fare cassa. Confiscare beni e vendere la popolazione: misura disperata per ripianare il deficit di una guerra siciliana che aveva svuotato le finanze statali. La distruzione di Lucera, dunque, come il ten­­­­­251

tativo di rispondere ad una crisi economica acutissima – una delle tante che vivrà il regno napoletano – per la quale non si trovavano soluzioni. C’è anche un’altra risposta, la terza, meno logica e anche più complessa ed intrigante: la crescita di potere dello Stato centralizzatore alla ricerca di uniformità non poteva consentire l’esistenza di una realtà dotata di un’identità, nonostante tutto, autonoma ed originale. Dal mix di questi elementi – religioso, finanziario, politico – nasce l’azione. Diretta da Carlo II, avallata dal suo entourage di giuristi, tra cui Bartolomeo da Capua e Andrea d’Isernia, realizzata da Giovanni Pipino.

3. Conclusione

27 agosto 1300. Dopo la battaglia, quando la situazione si è ormai normalizzata, comincia la fase due dell’operazione. Il negotium Luceriae, l’affare di Lucera, come definiscono gli avvenimenti il re e Pipino nel loro scambio epistolare, deve tradursi in un risultato economico. I saraceni hanno lo statuto di schiavi. E come tali vanno trattati. Bisogna venderli. Perciò basta stragi. È necessario preservare il capitale in vite umane. Censire le proprietà. Capire quanto si possa ricavare. Ma c’è un’altra azione da compiere prima. Allontanare i cadì dalla città: quasi tutti vengono presi e mandati in catene a Napoli. Arrivano esausti per la marcia. Tra loro qualcuno, più debole o più vecchio, muore per strada. Per testimoniare che non erano scappati, ma deceduti, il giustiziere del Principato che guidava la colonna consegna al capitano delle prigioni di Napoli le orecchie mozzate dei cadaveri: per evitare qualsiasi contestazione. Si passa alla gente comune. Si radunano i primi nuclei. Ai primi di settembre a gruppi di due-trecento persone per volta, i saraceni cominciano a lasciare la città. Direzione: i porti pugliesi e Napoli. Nascono i primi problemi logistici. Dove sistemarli? Non troppo lontano da Lucera. Bisogna impedire che scappino. Le colonne vengono bloccate in Capitanata. Sorvegliate. Con l’obbligo coatto di non muoversi. Con la minaccia che a chiunque intenda scappare sarà amputato un piede. Ma resta la massa. La maggior parte degli abitanti sono ancora in città. Come farli muovere? E ­­­­­252

soprattutto, quanti sono? Occorre un censimento. Nessuno degli uomini di Giovanni Pipino ha però le informazioni adeguate per raccogliere i dati, fornire le notizie sui nuclei familiari, indicare le case, i depositi, i nascondigli. Ci vorrebbe qualcuno del posto. Un saraceno. Che conosce approfonditamente la comunità. Uno dei suoi rappresentanti più ragguardevoli, che non sia del tutto ostile ai cristiani. Si converge su un nome. Il più appropriato. Il più convincente. Colui che può stanare anche il più riottoso dei musulmani, con tutti i mezzi. Il miles Abd al-Haziz. Che viene chiamato a colloquio. La prima domanda che gli viene posta riguarda le scorte di grano. Giovanni Pipino si aspettava di trovarne molto di più. Tanto di più. Invece ce n’è poco. La gran parte è stata nascosta. Abd al-Haziz scende a patti. Dice di essere informato, ma gli angioini gli hanno sequestrato tutto. Vuole che qualcosa gli sia ridato indietro. Sapere inoltre qual è il prezzo che i cristiani gli pagheranno per le informazioni che fornirà. Ci si mette d’accordo su un terzo della quantità di grano che riuscirà a portare. È fatta. Abd alHaziz è passato dall’altra parte della barricata. La sua posizione si è modificata in maniera qualitativamente sostanziale: da vinto è diventato collaboratore dei vincitori. Con uno statuto, agli occhi di chi sta perdendo tutto, che lo rende potentissimo. Lui vivrà, gli altri andranno a morire. Ora che Giovanni lo ha catturato, non intende mollarlo. E aumenta la posta sul tavolo da gioco. Dalle cose passa agli uomini. La domanda è precisa. Desidera da Abd al-Haziz un elenco di tutte le famiglie, come fossero dislocate quartiere per quartiere, come raggruppate per famiglie. L’uomo non ha nessuna titubanza. Organizza i suoi servi, i suoi clientes, i suoi figli e stila l’elenco. A fine settembre è pronto. Adesso, Giovanni Pipino sa come muoversi in città. Può organizzare la deportazione definitiva. Ai primi d’ottobre Abd al-Haziz lascia Lucera. Va a vivere a Foggia, dove ha una casa. Ha salvato se stesso e tutto il suo enorme clan. Formato da un centinaio di persone. A Foggia si convertirà. Lucera intanto è morta. La parte conclusiva di questa storia è dedicata al modo adottato dagli angioini per deportare verso la schiavitù la massa della popolazione di Lucera. Colpisce per metodo e razionalità. Per capacità di pianificazione. Innanzitutto, non si deve tener conto delle differenze di età o di sesso. Tutti devono essere deportati, senza ­­­­­253

distinzioni. I commissari regi hanno il compito di frazionare la popolazione in tante colonne da inviare nelle varie città, proporzionando i gruppi alla potenzialità di vendita sui diversi mercati di arrivo. Nei luoghi di vendita, gli schiavi devono essere sottoposti a custodia: le persone addette hanno l’obbligo di non lasciare scappare nessuno, pena l’arresto. La spesa per il sostentamento degli schiavi nelle aree di sosta è a carico del re, il proprietario dei beni, che intende pagare un grano d’oro a persona. Oppure la spesa è demandata alle città, che, laddove lo ritengano possibile, possono far lavorare i prigionieri perché si guadagnino il vitto. Dei cassieri, gli erari, sono preposti a raccogliere il danaro proveniente dalla vendita della merce, che deve avvenire per pubblico incanto, come è prescritto dalla legge del regno per gli oggetti di proprietà demaniale, partendo da un prezzo minimo indicato dalla Curia. L’alienazione è totale: l’ineguale, il diverso è diventato merce, oggetto. Valutato a questi prezzi: per ogni saraceno maschio di più di dodici anni si paghino due once; se ha delle competenze lavorative, sa fare l’artigiano o il fabbro, l’orefice, il sarto, il muratore, il calzolaio, il carpentiere, il fabbricante di armi o il tessitore, il prezzo sale a tre once. Un bambino o una donna valgono poco o niente: solo un’oncia. Si stabilisce che il compratore possa tenere la merce presso di sé nel regno o rivenderla all’estero. Partono le colonne. Verso Napoli e le città pugliesi, interne o della costa. Lungo la strada vengono assalite. Ulteriormente derubate. Molti vengono uccisi, nonostante il re avesse stabilito ingenti multe per chi bloccasse con la violenza la marcia degli schiavi. In un unico assalto, una colonna di cinquemila persone che si dirigeva verso Venosa ne perde circa duecento. Molti altri restano feriti. Altrettanti vengono rapiti dalla gente di Corneto, Monteverde, Candela, Ascoli Satriano, Salsola. Quando arrivano nei porti, le colonne non sono più formate da individui, uomini, donne, vecchi, bambini. È avvenuta la grande mutazione, da uomini a bestie di un gregge. Una massa abbrutita, indistinta, incolore, sporca, istupidita dalla fatica, umiliata, ferita. Con sicurezza si sa che più di duemila furono venduti a Napoli. La maggior parte, più di quattromila, nei porti della Terra di Bari. Centocinquanta sono il regalo per Abd al-Haziz: e forse, tra questi, c’era anche chi egli sperava ardentemente di salvare. Alla fine, sono circa diecimila i saraceni ridotti in schiavitù, caricati come merce e imbarcati. ­­­­­254

Non si conosce niente del loro destino. Non c’è nessuna terra che racconti la loro storia. Resta solo da dire che, con questa vicenda, si chiudono quasi cinque secoli di storia italiana.

Bibliografia

Capitolo primo

Fonti. Ogni versetto del Corano citato nel testo è tratto dalla versione curata e commentata da A. Bausani, Firenze 1978. Circa la lettera di Teodosio, il testo sopravvissuto in greco è stato pubblicato in O. Zuretti, La espugnazione di Siracusa nell’880. Testo greco della lettera del monaco Teodosio, in Centenario della nascita di Michele Amari, I, Palermo 1910, pp. 164-173. La sua versione latina è nella parte finale del volume II delle Vitae Sanctorum Siculorum di Ottavio Gaetani (Palermo 1657). Una versione in italiano è in D.G. Lancia di Brolo, Storia della chiesa in Sicilia nei primi dieci secoli del Cristianesimo, II, Palermo 1884, pp. 248-256. Per la tradizione manoscritta, cfr. Repertorium fontium historiae Medii aevii, Roma 2006, vol. 11, ad vocem; e Lexikon des Mittelalters, München-Zürich 1977-1999, ad vocem. Tra le fonti arabe che descrivono la caduta di Siracusa, cfr. il resoconto a posteriori di Ibn al-Atir, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, TorinoRoma, I, 1880, p. 396 e II, 1881, p. 465. Si veda anche La cronaca siculo-saracena di Cambridge, ed. G. Cozza-Luzzi, Palermo 1890, pp. 32 e 60. Per le fonti bizantine, cfr. Leone Grammatico, Chronographia, in Patrologia Graeca, ed. J.P. Migne, Paris 1861, vol. 108, p. 1089; e Giorgio Monaco, Vitae recentiorum imperatorum, in Patrologia cit., Paris 1863, vol. 109, p. 904. Studi. Per una diffusa spiegazione sulla complessa tradizione della lettera, cfr. B. Lavagnini, Siracusa occupata dagli Arabi e l’epistola di Teodosio monaco, in «Byzantion», 29-30 (1959-1960), pp. 267-277. Un esame approfondito circa le radici dotte dell’epistola è in R. Anastasi, L’epistola di Teodosio monaco, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), pp. 169-182. Su Teodosio poeta e autore di versi anacreontici, B. Lavagnini, Anacreonte in Sicilia e l’assedio di Siracusa, in ­­­­­257

«Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), pp. 183-190. Sugli influssi letterari, in particolare di Gregorio di Nazianzo, C. Crimi, Gregorio Nazianzeno, Or. 43,35 nell’epistola di Teodosio monaco, in «Archivio storico siracusano», s. 3/1 (1983), pp. 37-39. Per una descrizione dell’assedio di Siracusa, M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, ed. C.A. Nallino, I, Catania 1933, pp. 541 ss.; F. Gabrieli, Principio e fine di Siracusa araba, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), pp. 207-220; U. Rizzitano, La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, Napoli 1980, III, p. 137; Id., Gli Arabi in Sicilia, in Il Mezzogiorno dai bizantini a Federico II, Storia d’Italia, dir. G. Galasso, III, Torino 1983, pp. 389-391, con ampi stralci della lettera di Teodosio; e C. Rognoni, Au pied de la lettre? Réflexions à propos du témoignage de Théodose, moine et «grammatikos», sur la prise de Syracuse en 878, in La Sicile de Byzance à l’Islam, dirr. A. Nef, V. Prigent, Paris 2010, pp. 205-228. Capitolo secondo

Fonti. Per i brani tratti da al-Masudi, dalla Gigrafiah e dall’opera di al-Ishtari, cfr. M. Amari, Biblioteca arabo-sicula cit., capp. I, III, V. Per la descrizione della Sicilia, dei siciliani e di Palermo di Ibn Hawqal, cfr. ivi, cap. IV e Kitab s∂rat al-ard, Beirut 1962, pp. 113-125. Per i giudizi di Yaqut, Biblioteca arabo-sicula cit., cap. XI. Per l’ascendente astrologico, cfr. J. Johns, Una nuova fonte per la geografia e la storia della Sicilia nell’XI secolo. Il «Kitab Gara’ib al-Fun∂n Wa-Mulah al-‘Uy∂n», in La Sicile à l’époque islamique. Questions de méthode et renouvellement récent des problématiques, in «Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 116 (2004), p. 414. Studi. Sulla storiografia relativa alla Sicilia musulmana, vedi A. Vanoli, Gli studi sulla Sicilia musulmana, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 110/1 (2008), pp. 349-372; e S.C. DavisSecord, Medieval Sicily and Southern Italy in Recent Historiographical Perspective, in «History Compass», 8 (2010), pp. 61-87. Per uno sguardo sulla conquista musulmana della Sicilia e sulla dominazione musulmana in generale, oltre a M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia cit., si vedano I. Peri, Sicilia musulmana (la conquista), Vicenza 1961; M. Talbi, L’Emirat Aghlabide. Histoire politique (184-296/800-909), Paris 1966, pp. 380-538; A. Ahmad, A History of Islamic Sicily, Edinburgh 1975 (trad. it. Storia della Sicilia islamica, Catania 1977); e U. Rizzitano, Gli Arabi in Italia, in L’Occidente e l’Islam nell’alto Medioevo, 11a settimana di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo ­­­­­258

(2-8 aprile 1964), Spoleto 1965, I, pp. 93-114; Id., La conquista musulmana, in Storia della Sicilia, cur. R. Romeo, III, Napoli 1980, pp. 97-176; Id., Gli Arabi di Sicilia, in Il Mezzogiorno dai bizantini a Federico II, Storia d’Italia, dir. G. Galasso, III, Torino 1983, pp. 365-434; F. Gabrieli, Gli arabi in Sicilia, in Gli arabi in Italia, Milano 1985, pp. 35 ss.; F. Maurici, Breve storia degli Arabi in Sicilia, Palermo 1995; A. Pellitteri, I Fatimiti e la Sicilia (sec. X), Palermo 1997; A. Metcalfe, The Muslims of Medieval Italy, Edinburgh 2009. Circa la prima incursione musulmana, C. Lo Jacono, La prima incursione musulmana in Sicilia secondo il «Kitab al-F∂t∂h» di Ibn A‘tham al-K∂fi, in Studi arabo-islamici in onore di Roberto Rubinacci nel suo settantesimo compleanno, I, Napoli 1985, pp. 347-363. Sul turmarca Eufemio, cfr. ora V. Prigent, La carrière du tourmarque Euphèmios, basileus des Romains, in Histoire et culture dans l’Italie byzantine. Acquises et nouvelles recherches, a cura di A. Jacob, J.-M. Martin e G. Noyé, Roma 2006, pp. 279-317. Sugli sviluppi della conquista musulmana nella zona occidentale dell’isola, F. Maurici, La Sicilia occidentale dalla tarda antichità alla conquista islamica. Una storia del territorio (ca. 300827 d.C.), Palermo 2005. Per un nuovo approccio alla storia della Sicilia bizantina, cfr. il recente volume La Sicile de Byzance cit. Vedi poi i lavori di A. Guillou, La Sicilia bizantina. Un bilancio delle ricerche attuali, in «Archivio storico siracusano», n.s. 4 (1975-1976), pp. 45-89. Cfr. poi gli ampi saggi di L. Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in Storia della Sicilia, IV, cur. R. Romeo, Napoli 1980, pp. 3-96; e di F. Burgarella, Bisanzio in Sicilia e nell’Italia meridionale: i riflessi politici, in Il Mezzogiorno dai bizantini a Federico II, Storia d’Italia, dir. G. Galasso, III, Torino 1983, pp. 127-248. Vedi anche G. Manganaro, La Sicilia e l’Impero d’Occidente al principio del V sec. d.C., in «Archivio storico siracusano», 5-6 (1959-1960), pp. 21-31; A. Guillou, L’habitat nell’Italia bizantina: Esarcato, Sicilia, Catepanato (VI-XI sec.), in Atti del colloquio internazionale di archeologia medievale, 1974, Palermo 1976, pp. 169-183. Cfr. infine, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), gli artt. di V. D’Alessandro, Per una storia delle campagne siciliane nell’Alto medioevo, pp. 7-24; F. Giunta, Caratteri della civiltà bizantina in Sicilia, pp. 101-113; e V. von Falkenhausen, Chiesa greca e chiesa latina in Sicilia prima della conquista araba, pp. 137 ss. Per i problemi relativi alle difficoltà della ricerca sulla Sicilia islamica, vedi il volume La Sicile à l’époque islamique. Questions de méthode et renouvellement récent des problématiques, «Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 116/1 (2004), in particolare gli artt. di A. Nef (Jalons pour de nouvelles interrogations sur l’histoire de la ­­­­­259

Sicile islamique, pp. 7-17), di A. Molinari (La Sicilia islamica. Riflessioni sul passato e sul futuro della ricerca in campo archeologico, pp. 19-46), e di H. Bresc (Conclusions, pp. 501-510). Circa il problema della colonizzazione e le analogie con altri spazi del mondo musulmano, come quello andaluso, H. Bresc, Mudéhars des pays de la Couronne d’Aragon et sarrasins de la Sicile normande: le problème de l’acculturation, in Jaime I y su época, 10 Congreso de Historia de la Corona de Aragón. Expansión politico-militar, ordenamiento interior, relaciones exteriores (Zaragoza 1975), Zaragoza 1980, II, pp. 51-60. S. Fiorilla, Insediamenti e territorio nella Sicilia centromeridionale. Primi dati, in La Sicile à l’époque islamique cit., pp. 79-107. Sugli aspetti tribali, considerati però dall’autrice di scarsa rilevanza per la storia siciliana, vedi A. Nef, Anthroponimie et jara’id de Sicile: une approche renouvelée de la structure sociale des communautés arabo-musulmanes de l’Ile sous les Normands, in L’anthroponimie document de l’histoire sociale des monds méditerranéens médiévaux, dirr. M. Bourin, J.-M. Martin, F. Menant, Rome 1996 (Collection de l’École Française de Rome, 226), pp. 123142. Sulla nisba, vedi H. Bresc, La propriété foncière des musulmans dans la Sicile du XIIème siècle: trois documents inédits, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 69-97. Per gli aspetti concernenti i mozarabi, cfr. H. Bresc, A. Nef, Les Mozarabes de Sicile (1100-1300), in Cavalieri alla conquista del Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di LéonRobert Ménager, dirr. E. Cuozzo e J.-M. Martin, Roma-Bari 1998, pp. 134-156. Sugli aspetti concernenti l’evoluzione agricola, I. Peri, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Roma-Bari 1990. Sul regime fondiario, H.H. Abdul Wahab, F. Dachraoui, Le régime foncier en Sicile aux IXème-Xème siècles, in Études d’Orientalisme dédiées à la mémoire de Lévi-Provençal, II, Paris 1962, pp. 401-444. Sui qanat, V. Biancone, S. Tusa, I «qanat» dell’area centro-settentrionale di Palermo, in Archeologia e territorio, Palermo 1997, pp. 375-389. Per i problemi climatici e idrici, cfr. S. Tramontana, Il mito della terra assetata. Per una storia delle mutazioni climatiche e della distribuzione idrica nella Sicilia normanna, in Cavalieri alla conquista cit., pp. 157 ss. Circa gli aspetti fiscali, A. Nef, La fiscalité en Sicile sous la domination islamique, in La Sicile de Bysance cit., pp. 131-156. Riguardo al paesaggio fortificato, cfr. H. Bresc, Les Fatimides, les croisés et l’habitat fortifié, in Habitats fortifiés et organisation de l’espace en Méditerranée médiévale, dirr. A. Bazzana, P. Guichard, J.M. Poisson, Lyon 1983 (Travaux de la Maison d’Orient, 4), pp. 29-34; Id., Etat et habitat: l’exemple de la Sicile médiévale au miroir de l’archéologie, in «Peuples méditerranéens», 27-28 (1984), pp. 157-172; Id., Terre e ­­­­­260

castelli: le fortificazioni della Sicilia araba e normanna, in Castelli. Storia ed archeologia, Relazioni e comunicazioni al convegno di Cuneo (6-8 dicembre 1981), dirr. R. Comba, A.A. Settia, Torino 1984, pp. 73-87; M.S. Rizzo, Distribuzione degli insediamenti di età arabo-normanna da Girgenti al Belice, in Dagli scavi di Montevago e di Rocca d’Entella. Un contributo alle conoscenze per la storia dei Musulmani della Valle del Belice dal X al XIII secolo, Atti del convegno nazionale (Montevago, 27-28 ottobre 1990), dir. G. Castellana, Agrigento 1992, pp. 179-187. E in modo particolare i lavori di F. Maurici, Qal’a, Qasr, Burg˘: note per una ricerca sull’abitato fortificato nella Sicilia musulmana, in Aspetti e momenti di storia della Sicilia (secc. IX-XIX), Studi in memoria di Alberto Boscolo, Palermo 1989, pp. 19-42; Castelli medievali della Sicilia. Dai Bizantini ai Normanni, Palermo 1992; Le fortezze musulmane del val di Mazara, in Dagli scavi di Montevago e di Rocca d’Entella cit., pp. 209-221. Per le città siciliane, restano ancora particolarmente validi gli artt. di G. Fasoli, Le città siciliane dall’istituzione del tema bizantino alla conquista normanna, in «Archivio storico siracusano», 2 (1956), pp. 65-81; e di M. Sanfilippo, Le città siciliane dal VI al XIII secolo: note per una storia urbanistica, in Storia della Sicilia cit., pp. 449-468. Si veda inoltre il più recente F. Cresti, Città, territorio, popolazione nella Sicilia musulmana. Un tentativo di lettura di un’eredità controversa, in «Mediterranea. Ricerche storiche», 4 (2007), pp. 21-46; e S. Tramontana, Spazi urbani e identità cittadina in Sicilia. Note e riflessioni per i secoli XI-XII, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 110/1 (2008), pp. 129-196. I brani di Ibn Hawqal relativi a Palermo sono stati oggetto di uno studio di M. Amari, Description de Palerme au milieu du Xe siècle de l’ère vulgaire, in «Journal Asiatique», serie IV, 5 (1845), pp. 73-114. Su Ibn Hawqal, si veda F. Gabrieli, Ibn Hawqal e gli arabi di Sicilia, in «Rivista degli Studi Orientali», 36 (1961), pp. 245-253; e Id., Viaggi e viaggiatori arabi, Firenze 1973, pp. 59-65. Per il degrado siciliano, S. Tramontana, Ruggero I e la Sicilia normanna, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle XIV giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 2000, dir. G. Musca, Bari 2002, pp. 49-64. Sulla città di Palermo, cfr. H. Bresc, Quartiers de marchands et quartiers de minorités en Sicile (XIIIème-XIVème siècles). L’exemple de Palerme, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, Atti della Session C3 Eleventh International Economic ­History Congress (Milano, 12-16 settembre 1994), dir. A. Grohmann, pp. 325339. Cfr. anche G.M. Columba, Per la topografia antica di Palermo, in Centenario della nascita di Michele Amari, I, Palermo 1910, pp. 395426. E, ora, F. Spatafora, Nuovi dati preliminari sulla topografia di Pa­­­­­261

lermo in età medievale, in La Sicile à l’époque islamique cit., pp. 47-78; e J. Johns, The new “Map of Sicily” and the Topography of Palermo, in «Nobiles Officinae»: perle, filigrane e trame di seta del Palazzo reale di Palermo, dir. M. Andaloro, Catania 2006, pp. 307-312. Per lo sviluppo di Palermo nel periodo successivo a quello arabo, cfr., tra gli altri, H. Bresc, «In ruga que arabice dicitur zucac»: les rues de Palerme (10701460), in Le paysage urbain au Moyen Âge. Actes du XI Congrés de la Société des historiens médiévistes de l’Enseignement supérieur publique, Lyon 1981, pp. 155-186; A. De Simone, Palermo nei geografi e viaggiatori arabi del Medioevo, in «Studi Magrebini», 2 (1968), pp. 129-189; e Id., La città dalle Trecento moschee, in Palermo 1070-1492. Mosaico di popoli, nazione ribelle: l’origine dell’identità siciliana, dirr. H. Bresc, G. Bresc Bautier, Soveria Mannelli 1996. Riguardo alla presenza di eruditi in Sicilia e a Palermo, sulle relazioni col restante contesto musulmano e sul Tasawwuf, U. Rizzitano, Storia e cultura della Sicilia saracena, Palermo 1975; Id., Uno sguardo sulla cultura araba nella Sicilia saracena, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), pp. 191-198; F. Barone, Islam in Sicilia nel XII e XIII secolo: ortoprassi, scienze religiose e «tasawwuf», in «Incontri mediterranei. Rivista semestrale di storia e cultura», VI/2 (2003), pp. 104-115; A. Nef, Les élites savantes urbaines dans la Sicile islamique d’après les dictionnaires biographiques arabes, in La Sicile à l’époque islamique cit., pp. 451-470. Per la civiltà urbana islamica, cfr. M. Lombard, L’evolution urbaine au Moyen Âge, in «Annales ESC», 12/l (1957), pp. 20 ss.; Id., L’Islam dans sa première grandeur (VIIIème-XIème siècle), Paris 1971. Vedi poi A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman jusq’au milieu du XIème siècle, Paris 1967-1988; e l’art. dello stesso autore, Ville et grande ville dans l’Islam médiéval (IXème-Xème siècles), in «Mélanges de l’École Française de Rome», 107 (1995), pp. 99-106. Infine, A. De Simone, L’apporto culturale arabo-islamico nel Mediterraneo (secc. XIXIII): qualche riflessione, in «Rassegna del centro di cultura e storia amalfitana», n.s. 9 (1999), pp. 113-135. Per il Mediterraneo musulmano, cfr. C. Picard, La Mer et les Musulmans d’Occident au Moyen âge: VIIIème-XIIIème siècle, Paris 1997.

Capitolo terzo

Fonti. Leone Marsicano, Pietro Diacono, Chronica monasterii Casinensis, ed. W. Wattenbach, in Monumenta Germaniae Historica (= MGH), Scriptores, VII, Hannover 1846,pp. 551-844. Si veda poi Erchemperto, ­­­­­262

Historia Langobardorum Beneventanorum, e Giovanni Diacono, Gesta episcoporum Neapolitanorum, entrambe le opere a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum (saec. VI-IX), Hannover 1878, rispettivamente alle pp. 231-264 e pp. 398-436 e appendix, pp. 436-466. Notitia de Sarracenorum in Calabriam irruptione in a. 902 facta in Monumenta ad Neapolitani ducatus historiam pertinentia, ed. B. Capasso, I, Napoli 1881, pp. 340 ss. M. Amari, Biblioteca arabosicula, Torino-Roma 1880-1881. Annales Barenses e Lupus Protospatarius, MGH, Scriptores, V, ed. G.H. Pertz, pp. 51-63. Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Paris 1886-1891. Hlotharii Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda, edd. A. Boretius, V. Krause, in MGH, Leges, II, Capitularia regum Francorum, Hannover 1897, n. 203, pp. 6568. Cronica Trium Tabernarum et de civitate Catanzarii quomodo fuit aedificata, ed E. Caspar, in «Quellen und Forschungen aus italien. Archiven und Bibliotheken», 10 (1907), pp. 25-56. Liutprando, Antapodosis, in Id., Opera, ed. J. Becker, Hannover-Lepizig 1915, lib. I, capp. 1-3; lib. IV, capp. 2-5. Romualdo Salernitano, Chronicon, ed. C.A. Garufi (Rerum Italicarum Scriptores, 7), Città di Castello 1914-1935. Chronicon Salernitanum, ed. U. Westerbergh, Studia latina Stockholmiensia, 3 (1956). Vita di S. Elia il giovane, ed. G. Rosario Taibbi, Palermo 1962. Vita di S. Nilo, ed. G. Giovannelli, Grottaferrata 1966. Pietro Suddiacono, L’opera agiografica, ed. E. D’Angelo, Firenze 2002. Studi. Sull’Italia meridionale tra IX e XI secolo e sul jihad, resta sempre fondamentale la lettura di: M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia cit.; L.M. Hartmann, Die süditalienischen Staaten und die Sarazenengefahr, in Id., Geschichte Italiens im Mittelater, III/1: Italien und die fränkische Herrschaft, Gotha 1908, pp. 194-225; e J. Gay, L’Italia meridionale e l’impero bizantino dall’avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni (867-1071), rist. Sala Bolognese 2001. E, più di recente, B. Kreutz, Before the Normans. Southern Italy in the Ninth and Tenth century, Philadelphia 1996. Inoltre, per un rapido excursus, cfr. M. Gallina, Bizantini, musulmani e altre etnie nell’Italia mediterranea (secoli VI-XI), in L’Italia mediterranea e gli incontri di civiltà, cur. M. Gallina, Roma-Bari 2001, pp. 3-94. Sui termini agareni, ismaeliti, saraceni, cfr. A.G.C. Savvides, Some notes on the terms «Agarenoi», «Ismaelitai» and «Sarakenoi» in Byzantine Sources, in «Byzantion», 67 (1997), pp. 89-96. Sul sistema dei ribatat, Lombard, L’Islam cit.; e Metcalfe, The Muslims cit., pp. 66 ss. Per le incursioni saracene in Italia in generale, cfr. il recente lavoro di S. Del Lungo, Bahr ‘as Sham. La presenza Musulmana nel Tirreno Centrale e Settentrionale nell’Alto Medioevo, Oxford 2000 (British Ar­­­­­263

chaelogical Report, International Series, 898), che riporta un accurato censimento delle fonti per lo studio delle incursioni. Sul jihad e la Sicilia, cfr. W. Granara, Jihâd and Cross-Cultural Encounter in Muslim Sicily, in «Harvard Middle Eastern and Islamic Review», 3 (1996), pp. 42-61. Per l’Italia meridionale, centrale e la Sardegna, N. Cilento, Le incursioni saraceniche nell’Italia meridionale, in Id., Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, pp. 175-189; F. Gabrieli, Gli Arabi in terraferma d’Italia, in Gli arabi in Italia, Milano 1985, pp. 109 ss.; e Metcalfe, The Muslims cit., pp. 4-24. Sulle incursioni nelle varie zone dell’Italia centro-meridionale e in Sardegna, cfr. N. Cilento, Le incursioni saraceniche in Calabria, in Atti del 4° congresso storico calabrese, Napoli 1969, pp. 209-233; L. Pinelli, Gli arabi e la Sardegna: le invasioni arabe in Sardegna dal 704 al 1016, Cagliari 1976; E. M. Beranger, M. Ferracuti, I Saraceni nel Lazio, Roma 1991; E. Francesca, Gli Arabi a Benevento e nel Sannio nel corso del secolo IX, in Presenza araba e islamica in Campania, Atti del convegno Napoli-Caserta, 22-25 novembre 1989, dir. A. Cilardo, Napoli 1992, pp. 301-314; I. Vay, Le scorrerie saracene a Luni nel quadro della presenza musulmana nel Mediterraneo centro-occidentale tra IX e XI secolo, in «Quaderni del Centro Studi Lunensi», n.s. 3 (1997), pp. 47-84; J.-M. Martin, Da Ponza alle isole Sirenuse. Le isole dei ducati tirrenici nell’alto medioevo, in Napoli nel medioevo. Territorio ed isole, dir. A. Feniello, Galatina 2009, pp. 109-124. Per la ripercussione degli avvenimenti di Roma dell’846, P. Lauer, Le poème de la «Destruction de Rome» et l’origine de la cité Leonine, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», 19 (1899), pp. 307-401. Su papa Giovanni VIII, F.E. Engreen, Pope John the Eight and the Arabs, in «Speculum», 20 (1945), pp. 318-330. Riguardo all’emirato di Bari, resta fondamentale il saggio di G. Musca, L’emirato di Bari 847-871, Bari 1964. Per qualche altra minima notazione, cfr. A. Abbatantuono, I Saraceni in Puglia, in «Iapigia», 2 (1931), pp. 318-339; e P. Arthur, Saraceni, schiavi e il Salento, in III Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Castello di Salerno, Complesso di Santa Sofia, 2-5 ottobre 2003), dirr. P. Peduto, R. Fiorillo, Firenze 2004, pp. 443-445. Su Ibrahim e le vicende del 902, si veda G. Cimino, L’assedio saraceno di Cosenza dell’anno 902 e la morte di Ibrahim Ibn Ahmad, «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 24 (1955), pp. 361-374, che riprende quasi fedelmente quanto riportato da Amari. Sulla battaglia del Garigliano e la scomparsa del ribat musulmano, P. Fedele, La battaglia del Garigliano dell’anno 915 e i monumenti che la ricordano, in Id., Scritti storici sul Ducato di Gaeta, cur. L. Cardi, Gaeta 1988, pp. 39-73; e O. Vehse, Das Bundnis gegen ­­­­­264

die Sarazenen vom Jahre 915, in «Quellen und Forschungen aus italien Archiven und Bibliotheken», 19 (1927), pp. 181-204. Sul ribat di Frassineto, sulle incursioni tra Provenza, Liguria e Alpi occidentali e sulla sua distruzione, cfr. B. Luppi, I Saraceni in Provenza, in Liguria e nelle Alpi occidentali, con prefazione di U. Formentini, Bordighera 1952 (Collana storico-archeologica della Liguria occidentale, 10); P.A. Amargier, La capture de Saint Maieul de Cluny et l’expulsion des Sarasins de Provence, in «Revue Bénédectine», 73 (1963), pp. 316-323; A. Settia, I Saraceni sulle Alpi. Una storia da riscrivere, in «Studi storici», 28 (1987), pp. 127-143; L. Balletto, Le incursioni saracene del secolo X nell’area subalpina, in «Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e Asti», 100 (1991), pp. 9-26; G. Pistarino, La diocesi d’Acqui dalle incursioni saracene all’episcopato di san Guido (secc. IX-XI), in «Rivista di storia, arte e archeologia per le province di Alessandria e Asti», 104 (1994), pp. 23-49. Sul sacco di Genova, B.Z. Kedar, Una nuova fonte per l’incursione musulmana del 934-935 e le sue implicazioni per la storia genovese, in Oriente e Occidente tra medioevo ed età moderna. Studi in onore di Geo Pistarino, dir. L. Balletto, Genova 1997, pp. 605-616. Sull’ipotesi dell’inserimento del ribat nello scacchiere politico omayyade, vedi Ph. Senac, Note sur le Fraxinet des Maures, in «Annales du Sud-est Varois», 1990, pp. 1923; e Id., Le califat de Cordoue et la Méditerranée occidentale en Xème siècle: le Fraxinet des Maures, in Castrum 7. Zones côtières littorales dans le monde méditerranéen au Moyen Âge: défense, peuplement, mise en valeur, dir. J.-M. Martin, Rome 2001, pp. 113-126. Sulla guerra mediterranea fatimide-bizantina, cfr. A.A. Vasiliev, Bysance et les Arabes, II.I. La dynastie macédonienne (867-959), Bruxelles 1968; A. Lewis, Naval Power and Trade in the Mediterranean (500-1000), Princeton 1951; Y. Lev, The Fatimid Navy, Byzantium and the Mediterranean sea (909-1036 C.E./ 297-427 A.H.), in «Byzantion», 54 (1984), pp. 220-252; V. Christides, The raids of the Moslems of Crete in the Aegean sea. Piracy and conquest, «Byzantion», 51 (1981), pp. 76-111. Per uno sguardo generale sui rapporti arabo-bizantini, F. Gabrieli, Arabi e Bizantini nel Mediterraneo centrale, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio evo», 76 (1964), pp. 31-46; e Y. Rotman, Byzance face à l’Islam arabe (VIIème-Xème siècles). D’un droit territorial à l’identité par la foi, in «Annales Histoire, Sciences sociales», 60 (2005), pp. 767-788. Per la propaganda fatimide, M. Canard, L’impérialisme des fatimides et leur propagande, in «Annales de l’Institut d’Études Orientales», Alger 1942-1947, pp. 156-193. Sui santi guerrieri, cfr. G. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile et d’Italie méridionale aux VIIIème, IXème et Xème siècles, in «Byzantion», ­­­­­265

29-30 (1959-1960), pp. 89-173; L. Bernabò, Brea, Lipari, i vulcani, l’inferno e San Bartolomeo. Le isole Eolie dal Tardo antico ai Normanni, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), 25-89; A. Galdi, Spazi del sacro, culti e agiografie nelle isole di Ischia e Capri durante il Medioevo, in «Rassegna del Centro di cultura e storia amalfitana», n.s. XI (dicembre 2001), pp. 57-113; Id., Santi, territori, poteri e uomini nella Campania medievale (secc. XI-XII), Salerno 2004; Id., L’isola e il suo santo. Il culto medievale di san Costanzo a Capri, in «Conoscere Capri. Studi e materiali per la storia di Capri», 4 (2006), pp. 43-65; A. Galdi, E. Susi, Santi, navi e saraceni. Immagini e pratiche del mare tra geografia e storia dalle coste campane a quelle dell’alto Tirreno (secc. VI-XII), in Dio, il mare e gli uomini, Verona 2008 («Quaderni di storia religiosa», 15), pp. 53-101. Nonché A. Vuolo, La nave dei santi, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, dir. G. Vitolo, Napoli 1999, pp. 57-66. Ed infine S. Efthymiadis, Chrétiens et Sarrasins en Italie méridionale et en Asie mineure (IXème-XIème siècle). Essai d’étude comparée, in Histoire et culture dans l’Italie byzantine, dirr. A. Jacob, J.-M. Martin, G. Noyé, Roma 2006 (Collection de l’Ecole Française de Rome, 363), pp. 589-618. Per il rapporto tra res publica christiana e Islam, cfr. R. Manselli, La Res publica christiana e l’Islam in L’Occidente e l’Islam nell’alto Medioevo, XII Settimane del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 2-8 aprile 1964), I, Spoleto 1965, pp. 115-147. Sul monachesimo in Italia meridionale, S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963. Su tolleranza e guerra santa, B. Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Firenze 1974. Sull’immaginario collettivo nei confronti dell’Islam, J.V. Tolan, Saracens: Islam in the Medieval European Imagination, New York 2002. Sull’impium foedus, G. Vismara, «Impium foedus». La illiceità delle alleanze con gli infedeli nella «res publica christiana», Milano 1950. Per l’islamizzazione del clero e il concilio di Benevento, J.-M. Martin, Le rôle de l’église de Naples dans le Midi. À propos de deux assemblées ecclésiastiques du IXème siècle et de leurs actes, in «Mélanges de l’École Française de Rome», 107/l (1995), pp. 39-64. Sulla presenza musulmana in territorio longobardo, J.-M. Martin, Guerre, accords et frontières en Italie méridionale pendant le haut Moyen Âge. Pacta de Liburia, Divisio principatus Beneventani et autres actes, Roma 2005 (Sources et documents d’histoire du Moyen Âge, 7). Per la lettera di Fozio, J.-M. Martin, Léon, archevêque de Calabre, l’Église de Reggio et la lettre de Photius (Grumel-Darrouzès n° 562), in EUYUCIA. Mélanges offerts à Hélène Ahrweiler (Série Byzantina Sorbonensia, 16), Paris 1998, pp. 481-491. ­­­­­266

Sul ruolo delle città tirreniche, vedi V. Von Falkenhausen, La Campania tra Goti e Bizantini, in Storia e civiltà della Campania. Il Medioevo, cur. G. Pugliese Carratelli, Napoli 1992. Su Napoli, M. Schipa, Storia del Ducato Napoletano, Napoli 1895; G. Cassandro, Il Ducato bizantino, in Storia di Napoli, II/1, Cava dei Tirreni 1969; P. Arthur, Naples, from roman town to city-state: an archaeological perspective, Roma 2002 (Archaeological monographs of the British School at Rome, 12); e A. Feniello, Napoli. Società ed economia (902-1137), Roma 2011. Per Amalfi, U. Schwarz, Amalfi nell’alto Medioevo, Amalfi 1985; e G. Sangermano, Istituzioni civili e sistema politico nei ducati di Amalfi e di Sorrento (secc. VI-XII), in «Schola Salernitana. Annali», 10 (2005), pp. 93-156. Per Gaeta, con uno sguardo aperto verso gli altri centri tirrenici, P. Skinner, Family power in southern Italy. The Duchy of Gaeta and its neighbours (850-1139), Cambridge 1995. Sulle trasformazioni politiche avvenute nel Sud Italia tra IX e X secolo e sull’incastellamento di stato, G. Noyé, La Calabre entre Byzantins, Sarrasins et Normands, in Cavalieri alla conquista del Sud cit., pp. 90-116; e J.-M. Martin, L’empreinte de Byzance dans l’Italie normanne. Occupation du sol et institutions, in «Annales Histoire, Sciences sociales», 60 (2005), soprattutto le pp. 743 ss. Si veda anche J.-M. Martin-G. Noyé, Les façades maritimes de l’Italie du Sud. Défense et mise en valeur (IVe-XIIIe siècle), in Castrum 7. Zones côtières cit., pp. 467-512.

Capitolo quarto

Fonti. Sull’archivio della Geniza del Cairo, cfr. S.D. Goitein, A Mediterranean Society. The Jewish Communities of the Arab World as portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, specialmente il primo volume dedicato al commercio (esiste un’edizione in italiano dell’opera, purtroppo estremamente riassuntiva, intitolata Una società mediterranea, Milano 2008, a cura di J. Lassner, che condensa in maniera troppo rapida gli aspetti relativi al commercio); e Letters of Medieval Jewish Traders, ed. S.D. Goitein, Princeton 1973. Si vedano poi i contributi di N.A. Stilman, The Eleventh Century Merchant House of Ibn Awkal (a Geniza Study), in «Journal of Economic and Social History of the Orient», 16 (1973), pp. 15-88; M. Gil, Sicily 827-1072 in the light of the Geniza documents and parallel sources, in Italia Judaica. Gli ebrei in Sicilia sino all’espulsione del 1492, Atti del V convegno internazionale, Palermo 15-19 giugno 1992, Roma 1995, pp. 96-171; e A.L. Udovitch, New Materials for the History of Islamic Sicily, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana, Giornata di studio (Roma, 3 maggio 1993), Accademia ­­­­­267

Nazionale dei Lincei, Fondazione Leone Caetani, 26, Roma 1995, pp. 183-210. Infine vanno citati l’importante lavoro di M. Ben-Sasson, The Jews of Sicily 825-1068. Documents and Sources, Jerusalem 1991: opera, tolta una breve introduzione in inglese, completamente in ebraico; e il monumentale lavoro in più volumi di S. Simonsohn, The Jews in Sicily. A Documentary History of the Jews in Italy, soprattutto il vol. I (3831300), Leiden, New York-Köln 1997. Cfr. inoltre S.M. Stern, An original document of the Fatimid chancery concerning Italian merchants, in Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi della Vida (Pubblicazione dell’Istituto per l’Oriente, 52), Roma 1956, II, pp. 529-538; e C. Cahen, Douanes et commerce dans le ports méditerranéens de l’Egipte médiévale d’apres le «Minhadj» d’Al-Makhzumi, «Journal of the Economic and Social History of the Orient», VII (1964), pp. 218-315. Per qualche documento della Geniza relativo al commercio amalfitano, si vedano C. Cahen, Un texte peu connue relatif au commerce oriental d’Amalfi au Xème siècle, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», 34 (1955), pp. 61-66; e A.O. Citarella, Scambi commerciali fra l’Egitto e Amalfi in un documento inedito della Geniza di Cairo, in «Archivio storico per le province napoletane», X (1970), pp. 141-150. Sulla lettera di papa Adriano I, Epistolarum Tomus III. Epistolae Merovingi et Karolini Aevi Tomus I, ed., MGH, Berlino 1892, pp. 584-585. Circa il Praeceptum promissionis iuratum sive capitulare intervenuto tra il principe di Benevento Sicardo e il duca di Napoli Andrea nell’836, cfr. J.M. Martin, Guerre, accords et frontières cit., pp. 185-200. Per il brano di Erchemperto, vedi Id., Historia Langobardorum Beneventanorum, ed. G. Waitz, MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannover 1878, p. 80. Per il brebion di Reggio Calabria, cfr. A. Guillou, Le «brebion» de la métropole bizantine de Region (vers 1050), (Corpus des actes grecs d’Italie du Sud et de Sicile, 4), Città del Vaticano 1973. Studi. Sull’espansione della moneta musulmana nel Mezzogiorno, cfr. soprattutto J.-M. Martin, Economia naturale ed economia monetaria nell’Italia meridionale longobarda e bizantina (secoli VI-XI), in Storia d’Italia. Annali 6. Economia naturale, economia monetaria, dirr. R. Romano, U. Tucci, Torino 1983, pp. 179-219; e Id., La Contea di Sicilia e l’Africa in Ruggero I Gran conte di Sicilia (1101-2001). Atti del congresso internazionale di studi per il IX centenario (Troina, 29 novembre-2 dicembre 2001), dir. G. de Giovanni Centelles, Roma 2007, pp. 105123. Si vedano poi gli importanti lavori di L. Travaini, I tarì di Salerno e di Amalfi, in «Rassegna del Centro di cultura e storia amalfitana», 10 (1990), pp. 7-71; e La monetazione nell’Italia normanna, Roma 1995. ­­­­­268

Altri riferimenti sui tarì si trovano nell’art. di S.M. Stern, Tarì. The Quarter Dinar, in «Studi medievali», 3/11 (1970), pp. 177-207. Per il commercio mediterraneo musulmano, un primo approccio è in G. Heyd, Histoire du commerce du Levant au Moyen âge, I, Amsterdam 1959, specialmente le pp. 24-163. Per un quadro generale, cfr. E. Ashtor, Storia economica e sociale del vicino Oriente nel Medioevo, Torino 1982. Sulle strutture, porti, rotte, costi e collegamenti cfr. i due articoli nel volume La navigazione mediterranea nell’alto Medioevo. XXV Settimana di studio del Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1978, rispettivamente di T. Lewicki, Les voies maritimes de la Méditerranée dans le haut Moyen âge d’après les sources arabes (pp. 439-469); e di A.L. Udovitch, Time, the sea and society: duration of commercial voyages on the southern shores of the Mediterranean during the high Middle ages (pp. 503-546). Si vedano anche, di quest’ultimo autore, i saggi New Materials for the History of Islamic Sicily, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 183-210; e Market and society in the medieval Islamic world, in Mercati e mercanti nell’Alto medioevo: l’area Eurasiatica e l’area Mediterranea, XL Settimana del Centro Italiano di Studi sull’Alto medioevo (23-29 aprile 1993), Spoleto 1993, pp. 767-790. Cfr. inoltre A. Lewis, Naval Power and Trade in the Mediterranean (500-1000), Princeton 1951; e Id., Mediterranean maritime commerce: A.D. 300-1100 shipping and trade, in La navigazione cit., pp. 481-501; J. Devisse, Routes de commerce et échanges en Afrique occidentale en relations avec la Méditerranée. Un essai sur le commerce africain médieval du XIème au XVIème siècle, in «Revue d’histoire économique et sociale», 50/1 (1972), pp. 42-73, 50-53, 357-397; e C. Cahen, Quelques problèmes concernant l’expansion économique musulmane au haut Moyen âge, in Id., Les peuples musulmans dans l’histoire médiévale, Damas 1977, pp. 323-357. E i due lavori di D. Jacoby, Trade, Commodities and Shipping in the Medieval Mediterranean, Aldershot 1997; e Commercial Exchange across the Mediterranean: Byzantium, the Crusader Levant, Egypt and Italy, Aldershot 2005. Sugli ebrei, E. Ashtor, Gli ebrei nel commercio mediterraneo nell’alto medioevo (secc. X-XI), in Gli orizzonti aperti. Profili del mercante medievale, a cura di G. Airaldi, Torino 1997, pp. 57-98. Sui rapporti tra Occidente e Mediterraneo durante l’Alto Medioevo, cfr. R. Doehaerdt, Méditerranée et économie occidentale pendant le haut Moyen âge, in «Cahiers d’histoire mondiale», I (1954), pp. 571-593; R.S. Lopez, J. Raymond, Medieval trade in the Mediterranean world, New York 1955. Nonché i due saggi di R.S. Lopez, L’importanza del mondo islamico nella vita economica europea, in L’Occidente e l’Islam nell’alto medioevo Atti della XII Settimana di studio sull’alto medioevo, Spoleto 1965, pp. 433­­­­­269

460; e Il commercio dell’Europa medievale: il Sud, in Storia economica di Cambridge, II, Torino 1982, pp. 291-396. Vedi inoltre C. Citter, L. Paroli, C. Pellecuer, J-M. Péne, Commerci nel Mediterraneo occidentale nell’alto Medioevo, in Early medieval towns in West Mediterranean, dir. G.P. Brogiolo, Mantova 1996, pp. 121-142. Sul commercio e l’attività di prestito e di credito nella società musulmana, cfr. A.L. Udovitch, Banchieri senza banche: commercio, attività bancarie e società nel mondo islamico del Medioevo, in Gli orizzonti cit., pp. 99-112; e Id., Formalism and Informalism in the Social and Economic Institutions of the Medieval Islamic World, in Individualism and Conformity in Classical Islam, dirr. A. Banani, S. Vryonis, Wiesbaden 1977, pp. 61-81. Per le aree regionali: sul Maghreb, cfr. R. Rosenberger, Histoire économique du Maghreb islamique, in Handbuch der Orientalistik. Geschichte. Der islamischen Länder, dir. B. Spuler, Leiden 1977, pp. 205238. Per la Sicilia, il breve ma fondamentale saggio di S.D. Goitein, Sicily and Southern Italy in the Cairo Geniza documents, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 67 (1971), pp. 9-33; e la pregevole analisi di H. Bresc, Reti di scambio locale e interregionale nell’Italia dell’alto Medioevo, in Storia d’Italia, Annali 6 cit., pp. 135-178. Dello stesso autore, cfr. Le marchand, le marché et le palais dans la Sicile des Xème-XIIème siècles, in Mercati e mercanti nell’Alto medioevo: l’area Eurasiatica e l’area Mediterranea cit., pp. 285-325; Quartiers de marchands et quartiers de minorités en Sicile (XIIIème-XIVème siècles). L’exemple de Palerme cit., pp. 325-339. Per Amalfi e il suo commercio, si vedano in modo particolare i saggi di A.O. Citarella, sebbene un po’ troppo amalfocentrici: The relations of Amalfi with the Arab World before the Crusades, in «Speculum», 42 (1967), pp. 299-312; Patterns in Medieval Trade, in «The Journal of Economic History», 28 (1968), pp. 531-555; La crisi navale araba del secolo VIII e l’origine della fortuna commerciale di Amalfi, in Amalfi nel Medioevo. Atti del convegno internazionale (Amalfi-Salerno, 14-16 giugno 1973), Salerno 1977, pp. 195-213; Amalfi and Salerno in the Ninth Century, in Istituzioni civili e organizzazione ecclesiastica nello stato medievale amalfitano, Atti del congresso di studi amalfitani 1981, Amalfi 1986, pp. 129-145; Merchant, Markets and Merchandise in Southern Italy in the High Middle Ages, in Mercanti e mercati nell’Alto Medioevo: l’area Eurasiatica e l’area Mediterranea cit., pp. 276-279; e Id., H.W. Willard, The Ninth-Century Treasure of Monte Cassino in the Context of Political and Economic Developments in South Italy, Montecassino 1983. Sulla colonia amalfitana di Costantinopoli, cfr. A.O. Citarella, La colonia amalfitana di Costantinopoli vitale centro economico e punto di irradiamento di arte e letteratura greca nel Mezzogiorno, in «Rasse­­­­­270

gna del centro di cultura e storia amalfitana», n.s. 9 (1999), pp. 57-75. Cfr., poi, G.M. Monti, Il commercio marittimo di Amalfi fuori d’Italia nell’alto Medioevo, in «Rivista di storia della navigazione», 6 (1940), pp. 389-401; Id., La espansione mediterranea del Mezzogiorno d’Italia e della Sicilia, Bologna 1942; G. Coniglio, Amalfi e il suo commercio nel medioevo, in «Nuova rivista storica», 18-19 (1944-45), pp. 100-114; G. Galasso, Il commercio amalfitano nel periodo normanno, in Studi in onore di R. Filangieri, Napoli 1959, I, pp. 81-103; M. Balard, Amalfi et Byzance (Xème-XIIème siècles), in «Travaux et memoires», 6 (1976), pp. 85-95; B. Figliuolo, Amalfi e il Levante nel Medioevo, in I Comuni italiani nel Regno Crociato di Gerusalemme, dirr. G. Airaldi, B.Z. Kedar (Collana storica di fonti e studi, 48), Genova 1986, pp. 573-664; V. von Falkenhausen, Il commercio di Amalfi con Costantinopoli e il Levante nel secolo XII, in Amalfi, Genova, Pisa e Venezia. Il commercio con Costantinopoli e il vicino Oriente nel secolo XII, dir. O. Banti, Pisa 1998 (Biblioteca del Bollettino Storico Pisano, Collana Storica, 46), pp. 19-38; D. Jacoby, Amalfi nell’XI secolo: commercio e navigazione nei documenti della Ghenizà del Cairo, in «Rassegna del Centro di cultura e storia Amalfitana», 28 (2008), pp. 81-90. Per Napoli, cfr. ora Feniello, Napoli. Società ed economia cit. Per le interconnessioni tra mercato mediterraneo e società campana e latamente meridionale, cfr. G. Galasso, Le città campane nell’alto medioevo, Napoli 1960; G. Cicco, La Longobardia meridionale e le relazioni commerciali nell’area mediterranea: il caso di Salerno, in «Reti Medievali Rivista», 10 (2009), pp. 1-29; e A. Di Muro, Economia e mercato nel Mezzogiorno longobardo (secc. VIII-IX), Salerno 2009. Sulla società amalfitana e i suoi riflessi sulle attività economiche, cfr. il fondamentale lavoro di M. Del Treppo, Amalfi: una città del Mezzogiorno nei secoli IX-XIV, in M. Del Treppo, A. Leone, Amalfi medievale, Napoli 1977, pp. 1-175. Sui viaggiatori/mercanti arabi, cfr. tra l’altro, B. Lewis, I Musulmani alla scoperta d’Europa, Bari-Roma 1991. Per le descrizioni di Roma, A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma. I geografi del Medioevo (secoli IX-XV), Bologna 2002. Sul commercio degli schiavi, cfr. A. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe médiévale, II, Gent 1977, in modo particolare, per quel che riguarda il Sud Italia, le pp. 106-115; e M. McCormick, Le origini dell’economia europea. Comunicazioni e commercio 300-900 d.C., Milano 2008. Vedi anche S.D. Goitein, Slaves and slavegirls in the Cairo Geniza records, in «Arabica», 9 (1962), pp. 1-20. Sugli eunuchi, P. Corsi, L’eunuco, in Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle IX giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 1989, cur. G. Musca, Bari 1991, pp. 251-277; e D. Ayalon, Eu­­­­­271

nuchs, Caliphs and Sultans. A Study in Power Relationship, Jerusalem 1999. Per le vicende riportate nelle agiografie di sant’Elia il Giovane e di san Leone, cfr. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile cit., pp. 96 ss. e 113. Su Musa ben Eleazar, C. Colafemmina, Un medico ebreo di Oria alla corte dei Fπtimidi, in «Materia giudaica. Rivista dell’associazione italiana per lo studio del Giudaismo» 11/1-2 (2006), pp. 5-12. Sulla seta e la sua industria tessile, si vedano gli articoli di A. Guillou, Production and profits in the Byzantine province of Italy (Tenth to eleventh Century): an expanding society, in «Dumbarton Oaks Papers», 28 (1974), pp. 91-109; La soie sicilienne au Xème et XIème siècles, in Byzantino-Sicula II. Miscellanea di scritti in memoria di Giuseppe Rossi Taibbi, Palermo 1975 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, 8), pp. 285-288; La soie du Katépanat d’Italie, in «Centre de Recherches d’histoire et civilisation de Byzance. Travaux et mémoires», VI (1976), pp. 69-84. E, ancora, sui rapporti produttivi con Bisanzio, F. Burgarella, The Byzantine background to the silk industry in southern Italy, in «Nobiles Officinae» cit., pp. 373-382. E, nello stesso volume, D. Jacoby, Silk and silk textiles in Arab and Norman Sicily: the economic context, pp. 383-389. Dello stesso autore, si veda, Silk Economics and CrossCultural Artistic Interaction: Byzantium, the Muslim World and the Christian West, in «Dumbarton Oaks Papers», 58 (2004), pp. 161-174. Ed inoltre: H. Bresc, Mûrier et ver à soie en Italie (Xème-XVème siècle), in L’homme, l’animal domestique et l’environnement du Moyen âge au XVIIIème siècle, dir. R. Dura, Nantes 1993, pp. 329-341; A. Muthesius, Studies in Byzantine and Islamic silk weaving, Londra 1995; D. Jacoby, Silk crosses the Mediterranean, in Le vie del Mediterraneo. Idee, uomini, oggetti (secoli XI-XVI), Genova aprile 1994, dir. G. Airaldi, Genova 1997, pp. 55-79; Ph. Ditchfield, La culture matérielle médiévale. L’Italie méridionale byzantine et normande, Rome 2007 (Collection de l’École Française de Rome, 373), pp. 385-391. Sui problemi legati all’approv­ vigionamento di legno, cfr. M. Lombard, Arsenaux et bois de marine dans la Méditerranée musulmane (VIIème-XIème siècles), in Le navire et l’économie maritime du Moyen âge au XVIIIème siècle principalement en Méditerranée, Travaux du Deuxieme Colloque International d’histoire maritime tenu les 17 et 18 mai 1957 à l’Académie de Marine, dir. M. Mollat, Paris 1958, pp. 53-99. E M. Canard, Quelques notes relatives à la Sicile sous les premiers califes fatimites, in Studi medievali in onore di Antonino De Stefano, Palermo 1956, pp. 569-576. Per la citazione di Lizier, si veda Id., L’economia rurale dell’età prenormanna nell’Italia meridionale (studi su documenti editi dei secoli IX-XI), Palermo 1907, pp. 149-150. Per gli aspetti collegati alla circolazione monetaria e al mercato della terra a Napoli e ad Amalfi, cfr. A. Feniello, Mercato della ­­­­­272

terra a Napoli nel XII secolo, in Puer Apulie. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin, curr. E. Cuozzo, V. Déroche, A. Peters-Custot, V. Prigent, I, Paris 2008 (Centre de Recherche d’Histoire et Civilisation de Byzance, Monographies, 30), pp. 291-318; e Id., Mercato della terra e commercio mediterraneo nel versante tirrenico tra X e XI secolo, in corso di stampa. La questione sollevata da Ashtor è riportata nella discussione seguita all’intervento di T. Lewicki, Les voies maritimes cit., p. 472. Per la modifica dell’assetto economico, validissimi strumenti rimangono sempre i lavori di R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Torino 1975; e Id., Le influenze orientali e il risveglio economico dell’Occidente, in Gli orizzonti cit., pp. 29-56. E di Y. Renouard, Gli uomini d’affari italiani del Medioevo. L’avventurosa storia dei primi capitalisti d’Europa, Milano 1995. Per il Mezzogiorno, cfr. in modo particolare D. Abulafia, Le due Italie. Relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i Comuni settentrionali, Napoli 1991. E i due chiarissimi artt. di G. Pistarino, Commercio e vie marittime di comunicazione all’epoca di Ruggiero II, in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II, Atti delle III giornate normanno-sveve, Bari, 23-25 maggio 1977, Bari 1979, pp. 239-258, e Commercio e comunicazioni tra Genova e il Regno normanno-svevo all’epoca dei due Guglielmi, in Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi, Atti delle IV giornate normanno-sveve, Bari-Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979, Bari 1981, pp. 231-290. Cfr. anche T. Bruce, The politics of violence and trade: Denia and Pisa in the Eleventh century, in «Journal of medieval history», 32/2 (2006), pp. 127-142. Sulla battaglia di al-Mahdia, H.E.J. Cowdrey, The Mahdia campaign of 1087, in «English Historical Review», 92 (1977), pp. 1-29. Nel volume n.s. 9 del 1999 della «Rassegna del centro di cultura e storia amalfitana», sono presenti tre importanti articoli che riassumono efficacemente la questione dell’ingresso delle nuove potenze marittime nel Sud Italia e la penetrazione in Oriente: sui rapporti tra Venezia ed Amalfi, cfr. G. Ortalli, Spazi marittimi e presenze amalfitane nella prospettiva di Venezia, pp. 25-42. Per le relazioni tra mercanti occidentali e la capitale dell’impero bizantino, M. Balard, Bisanzio e i mercanti occidentali (secc. XII-XIII), pp. 15-24. Per la presenza catalana nel Mediterraneo a partire dal XII secolo, J.E. Ruiz-Doménec, Perspectivas sobre la presencia catalana en el Mediterráneo en los siglos XII y XIII, pp. 43-55. Capitolo quinto

Fonti. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliane Comitis et Roberti Guiscardi fratris eius, ed. E. Pontieri (Rerum ­­­­­273

Italicarum Scriptores, 5), Bologna 1927; Amato di Montecassino, Storia dei Normanni volgarizzata in antico francese (Ystoire de li Normant) ed. V. de Bartholomaeis (Fonti per la Storia d’Italia, 76), Roma 1935, Riccardo di San Germano, Cronica, ed. C.A. Garufi (rerum Italicarum Scriptores, 7), Bologna 1937-1938; Guglielmo di Puglia, Gesta Roberti Guiscardi, ed. M. Mathieu (Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, Testi, 4), Palermo 1961. Per i testi dal Diwan di Ibn Hamdis, ho utilizzato i testi riportati in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula cit., pp. 352 ss. Cfr. però ora anche il più recente Ibn Hamdis, Il canzoniere nella Traduzione di Celestino Schiapparelli, a c. di S.E. Carnemolla, Palermo 1998. Per i fatti del 1161, si veda soprattutto Ugo Falcando, Historia o Liber de regno Sicilie, ed. G.B. Siragusa (Fonti per la Storia d’Italia, 22), Roma 1897; e Romualdo Salernitano, Chronicon, ed. C.A. Garufi (Rerum Italicarum Scriptores, 7), Città di Castello 1914-1935. Per Ibn Jubayr, M. Amari, Biblioteca arabo-sicula cit., cap. X e Ibn Jubayr, Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto, trad. e note di C. Schiaparelli, Palermo 1995. Per alcuni aspetti relativi ai rapporti agrari e sull’aristocrazia fondiaria musulmana, cfr. I Diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo originale, tradotti ed illustrati, ed. S. Cusa, Palermo 1868-1882. Per la lettera di Innocenzo III rivolta ai ribelli musulmani, J.L.A. Huillard Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, Paris 1852 (rist. Torino 1963), I/1, pp. 118-119. Studi. Le pubblicazioni sull’insediamento normanno in Sicilia e sulla formazione dello Stato sono innumerevoli. Ne indicherò solo qualcuna, di maggior rilievo per la realizzazione di questo volume. Oltre l’opera di Amari (il terzo volume in maniera particolare), restano ancora fondamentali F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, I-II, Paris 1907; e M. Caravale, Il Regno normanno di Sicilia, Milano 1966. Si vedano poi S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, in Il Mezzogiorno cit., che riporta un’amplissima bibliografia degli studi risalenti fino agli anni Ottanta del secolo scorso; e Id., La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro (1061-1282), in Storia della Sicilia cit., pp. 177-304. Per una visione ad ampio respiro, cfr. D. Abulafia, Italy, Sicily and the Mediterranean (1050-1400), London 1987. E il recente volume di G.A. Loud, The Age of Robert Guiscard. Southern Italy and the Norman Conquest, Harlow 2000. Uno degli studi più accurati per il regno di Ruggero II resta E. Caspar, Roger II (1101-1154) und die Gründung der normannisch-sicilischen Monarchie, Innsbruck 1904. Una descrizione romanzata della conquista è nei due volumi di J.J. Norwich, I Normanni nel Sud (1016-1130), Milano 1971; e Id., ­­­­­274

Il regno nel sole (1130-1194), Milano 1972. Sull’idea di Stato modello normanno, vedi A. Marongiu, A model state in the Middle Ages: the Norman and Swabian kingdom of Sicily, in Comparative Studies in Society and History, 6/3 (1964), pp. 307-320. Sul sistema istituzionale normanno, rimando a E. Mazzarese Fardella, Aspetti dell’organizzazione amministrativa dello stato normannosvevo, Milano 1966; P. Delogu, L’evoluzione politica dei Normanni d’Italia fra poteri locali e poteri universali, in Atti del Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia normanna (Palermo, 4-8 dicembre 1972), Palermo 1973, pp. 51-104; L. Ménager, Hommes et institutions de l’Italie normande, London 1981; H. Enzensberger, Le cancellerie normanne: materiali per la storia della Sicilia musulmana, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 51-67; H. Takayama, The administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leiden-New York 1993; Id., Central Power and Multi-Cultural Elements at the Norman Court of Sicily, «Mediterranean Studies», 12 (2003), pp. 1-15; Id., L’organizzazione amministrativa del regno normanno di Sicilia, in Studi in onore di Salvatore Tramontana, Pratola Serra 2003, pp. 415-429. Sul concetto di rex tyrannus, H. Wieruszowski, Roger II of Sicily «Rex-Tyrannus» in twelfth-century political thought, «Speculum», 28 (1963), pp. 46-78. Sulle influenze greche e musulmane per l’organizzazione del nuovo regno, cfr., rispettivamente, J.-M. Martin, L’empreinte de Byzance cit., pp. 733-765, e i lavori di J. Johns, I titoli arabi dei sovrani normanni di Sicilia, in «Bollettino di Numismatica», 6-7 (1986), pp. 11-54; I re normanni e i califfi fatimiti. Nuove prospettive su vecchi materiali, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 9-50; e Arabic Administration in Norman Sicily. The Royal Dıˉwπn, Cambridge 2002. Riguardo a Giorgio d’Antiochia, vedi A. De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam africano, in Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo, Atti delle XIII giornate normanno-sveve, Bari, 21-24 ottobre 1997, cur. G. Musca, Bari 1999, pp. 261-293; e J.-M. Martin, La Contea di Sicilia e l’Africa cit., pp. 105-123. Su Muhammad Ibn Abbas di Siracusa, vedi soprattutto F. Gabrieli, Principio e fine di Siracusa araba, in «Archivio storico siracusano», n.s. 5 (1978-1979), pp. 207-220. Sulla “questione di facce”, cfr. De Simone, Il Mezzogiorno normanno-svevo visto dall’Islam africano cit.; S. Tramontana, Ruggero I e la Sicilia normanna, in Il Mezzogiorno normanno-svevo e le Crociate, Atti delle XIV giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 2000, dir. G. Musca, Bari 2002, pp. 49-64; M.T. Mansouri, Roger Ier le Normand dans le sources arabes, in Ruggero I, Serlone e l’insediamento normanno in Sicilia, cur. S. Tramontana, ­­­­­275

Troina 2001, pp. 125-134; M.-A. Avenel, L’immagine dei Saraceni nelle cronache «normanne» dell’XI secolo, in Mezzogiorno e Mediterraneo. Territori, strutture, relazioni tra antichità e medioevo, Atti del Convegno internazionale (Napoli, 9-11 giugno 2005), dirr. G. Coppola, E. D’Angelo, R. Paone, pp. 233-246. Sulla tolleranza nel regno normanno, cfr. H. Houben, Möglich­ keiten und Grenzen religiöser Toleranz im normannisch-staufischen Königreich Sizilien, in «Deutschen Archiv für Erforschung des Mittelaters», 50 (1994), pp. 159-198; e Id., Mezzogiorno Normanno-Svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, Napoli 1996; H. Takayama, Religious tolerance in Norman Sicily? The case of Muslims, in Puer Apuliae. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin cit., pp. 623-636. Per una riflessione di carattere generale, J. Powell, Tolerance and intolerance: social conflict in the age of the crusades, Syracuse 2001. Per le Assise di Ariano, rinvio a F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi normanne e sveve del Regno di Sicilia, Roma-Torino-Firenze, 1884; e al più recente lavoro di O. Zecchino, Le Assise di Ariano, Cava dei Tirreni 1984. Si veda anche il volume Alle origini del costituzionalismo europeo. Le Assise di Ariano 1140-1990, cur. O. Zecchino, Bari 1996. Riguardo alla comunità musulmana e la politica normanna, cfr., oltre U. Rizzitano, Ruggero il Gran Conte e gli Arabi in Sicilia, in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello Stato normanno, Atti delle II giornate normanno-sveve, Bari, 19-21 maggio 1975, Roma 1977, pp. 189-212, i recenti lavori di A. Metcalfe, The Muslims of Sicily under Christian Rule, in The Society of Norman Italy, dirr. G.A. Loud, A. Metcalfe, Leiden 2002 (The Medieval Mediterranean, 32), pp. 289-317; Muslims and Christians in Norman Sicily: Arabic Speakers and the End of Islam, London-New York 2003; e Id., The Muslims of Medieval Italy cit. Vedi inoltre F. Gabrieli, La politique arabe des Normands de Sicile, in «Studia Islamica», 9 (1958), pp. 83-96; D. Abulafia, The end of Muslim Sicily, in Muslims under Latin Rule. 1100-1300, dir. J.M. Powell, Princeton 1990, pp. 103-133; J. Johns, The Greek Church and the Conversion of Muslims in Norman Sicily, in Bosphorus. Essays in Honour of Cyril Mungo, dirr. S. Efthymiadis, C. Rapp, D. Tsougarakis, in «Byzantinische Forschungen. Internationale Zeitschrift für Byzantinistik», 21 (1995), pp. 133-157; A. De Simone, «Al-Zahr alBπsim» di Ibn Qalπqis e le vicende dei Musulmani nella Sicilia normanna, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 99-152. Per le condizioni di vita, il regime della terra e per le pratiche del villanaggio, cfr. C.A. Garufi, Censimento e catasto della popolazione servile. Nuovi studi e ricerche sull’ordinamento amministrativo dei normanni in Sicilia nei secoli XI-XII, in «Archivio storico siciliano», n.s. 49 (1928), pp. 1-88.; I. Peri, Il villanaggio in Sicilia, Palermo 1965; S. ­­­­­276

Tramontana, Popolazione, distribuzione della terra e classi sociali nella Sicilia di Ruggero il Gran Conte, in Ruggero il Gran Conte e l’inizio dello Stato normanno, Atti delle II giornate normanno-sveve, Bari, 19-21 maggio 1975, Roma 1977, pp. 213-270; F. D’Angelo, Aspetti della vita materiale in epoca normanna in Sicilia, Palermo 1984; O.R. Constable, Cross-Cultural Contracts: Sales of Land between Christians and Muslims in the 12th Century Palermo, in «Studia Islamica», 85 (1997), pp. 67-84. E il contributo di H. Bresc, La propriété foncière des musulmans dans la Sicilie du XIIe siècle: trois documents inédits, in Del nuovo sulla Sicilia musulmana cit., pp. 69-97. Sul popolamento, V. von Falkenhausen, Il popolamento: etnie, fedi, insediamenti, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle VII giornate normanno-sveve, Bari, 15-17 ottobre 1985, dir. G. Musca, Bari 1987, pp. 39-73. Circa la feudalità coloniale, H. Bresc, Féodalité coloniale en terre d’Islam. La Sicile (1070-1240), in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident mediterranéen (Xème-XIIIème siècles). Bilan et perspectives de recherches, Colloque international organisé par le CNRS et l’École Française de Rome (Rome, 10-13 octobre 1978), Rome 1980, pp. 631647; e P. Corrao, Gerarchie sociali e di potere nella Sicilia normanna (XI-XII secolo). Questioni storiografiche e interpretative, in Señores, siervos y vasallos en la Alta Edad Media, XXVIII Semana de Estudios Medievales, Estella, 16-20 luglio 2001, Pamplona 2002, pp. 459-481. Sulla colonizzazione dei lombardi, cfr. I. Peri, La questione delle colonie “lombarde” in Sicilia, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 57 (1959), pp. 253-280; e Id., Uomini, città e campagne cit., pp. 97 ss. Cfr. anche F. D’Angelo, Corleone dai musulmani del XII ai lombardi del XIII secolo, in «Archivio storico siciliano», 20 (1994), pp. 17-26; A. Messina, Onomastica “lombarda” nelle carte normanne di Sicilia, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 94/1 (1996), pp. 313331. Sugli aleramici, cfr. C.A. Garufi, Gli Aleramici e i Normanni in Sicilia e nelle Puglie. Documenti e ricerche, in Centenario della nascita di Michele Amari, I, Palermo 1910, pp. 47-83; e H. Bresc, Gli Aleramici in Sicilia: alcune nuove prospettive, in Bianca Lancia D’Agliano: fra il Piemonte e il Regno di Sicilia. Atti del Convegno (Asti-Agliano, 28/29 aprile 1990), dir. R. Bordone, Alessandria 1992, pp. 147-163. Su Ibn Hamdis, cfr. The Encyclopeaedia of Islam, edd. H.A.R. Gibb et alii, London 1960, ad vocem; F. Gabrieli, Ibn Hamdis, Mazara del Vallo 1948; A. Borruso, La nostalgia della Sicilia nel “diwan” di Ibn Hamdis, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 12 (1973), pp. 38-54; e W. Granara, Ibn Hamdis and the Poetry of Nostalgia, in The Literature of Al-Andalus, edd. M.R. Menocal, R.P. Scheindlin e M. Sells, Cambridge 2000, pp. 388-403. ­­­­­277

Per Al-Mazari e la sua fatwa, H.H. ‘Abd al-Wahhπb, Al-Imπm al-Mπzari, Tunis 1955; H.R. Idris, L’école malikite de Madia: l’Imam al-Mazari, in Études d’Orientalisme dédiées à la mémoire de Lévi-Provençal, II, Paris 1962, pp. 153-163; A. Borruso, Al-imàm Al-Màzari, un mazarese del Medioevo arabo-islamico, Mazara del Vallo 1978; A.M. Turki, Consultation juridique d’al-Imam al-Mazari sur le cas des musulmans vivant en Sicile sous l’autorité des Normands, in «Mélanges de l’Université Saint-Joseph», 50 (1984), pp. 689-704; A.L. Udovitch, I musulmani e gli ebrei nel mondo di Federico II: linee di demarcazione e di comunicazione, in Federico II e la Sicilia, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo 1998, pp. 102-123. Sugli episodi riguardanti Filippo di al-Mahdia, oltre ai già citati lavori di Caspar e Ménager, cfr. anche V. Epifanio, Ruggero II e Filippo di al-Mahdiah, in «Archivio storico siciliano», n.s. 30 (1955), pp. 471-501. Sul governo degli eunuchi, rimando ancora all’art. di P. Corsi, L’eunuco, in Condizione umana cit. pp. 251-277; e al cap. 10 del volume di Metcalfe, The muslims cit. Per l’abbazia di Monreale, H. Bercher, A. Courteaux, J. Mouton, Une abbaye latine dans la société musulmane: Monreale au XIIe siècle, in «Annales E.S.C.», 34 (1979), pp. 525-547. Per l’organizzazione della cinta difensiva musulmana, F. Maurici, Le fortezze musulmane del val di Mazara, in Dagli scavi di Montevago e di Rocca d’Entella cit., pp. 209-221. Sulla resistenza musulmana risultano preziosissimi i contributi di F. Maurici: L’emirato sulle montagne. Note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell’età di Federico II di Svevia, Palermo 1987; e Uno Stato musulmano nell’Europa cristiana del XIII secolo: l’emirato siciliano di Mohammed ibn Abbad, in «Acta historica et archaelogica mediaevalia», 18 (1997), pp. 257-281. Ma offre molti spunti interpretativi originali l’art. di S. Tramontana, Ceti sociali, gruppi etnici, rivolte, in Potere, società e popolo nell’età sveva (1210-1266), Atti delle VI giornate normanno-sveve, Bari-Castel del Monte-Melfi, 17-20 ottobre 1983, Bari 1985, pp. 151-165. Sulla monetazione dell’ultimo emirato, vedi F. D’Angelo, La monetazione di Muhammad ibn ‘Abbad emiro ribelle a Federico II di Sicilia, in «Studi Magrebini», 7 (1975), pp. 149-153. Sulla fortezza di Iato, H.P. Isler, Monte Iato. Guida archeologica, Palermo 1991; e Id., Gli arabi a Monte Iato, in Dagli scavi di Montevago cit., pp. 105-125. Sul racconto della principessa di Entella, E. Levi Provençal, Une héroine de la résistance musulmane en Sicile au debut du XIIIème siècle, «Oriente moderno», 34 (1954), pp. 283-288; e L. Sciascia, Dal bagno di Entella alla pila di Caterina: immaginario e realtà dei bagni nella Sicilia medievale, in Bains curatifs et bains higiéniques en Italie de l’antiquité au Moyen âge, dirr. M. Guérin-Beauvois e J.-M. Martin, Roma ­­­­­278

2007 (Collection de l’École Française de Rome, 383), pp. 309-319. Sul concetto di riconquista e la sua differenziazione per aree regionali, cfr. A. Nef, Conquêtes et reconquêtes médiévales: une réduction en servitude généralisée? (al-Andalus, Sicile et Orient latin), in «Mélanges de l’École Française de Rome», 112 (2002), pp. 579-607. Infine, su Federico II, rinvio alle due biografie, di differente impostazione culturale ed ideologica di E. Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 20005; e di D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1988. Su Federico II e i suoi rapporti con la Sicilia, cfr. Federico II e la Sicilia cit. Si veda anche l’art. di G. Levi della Vida, il mondo islamico al tempo di Federico II, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani cit., pp. 149-160.

Capitolo sesto

Fonti. La principale fonte per la conoscenza della storia della colonia saracena di Lucera resta il Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, ed. P. Egidi, Napoli 1917. Per un’ampia descrizione delle altre fonti correlate, si rinvia all’ampia bibliografia presente nel volume di J. A. Taylor, Muslims in Medieval Italy. The Colony at Lucera, Lanham 2003, pp. 216-223. Sulla celebre descrizione di Lucera dell’ambasciatore Giamal ad-din, cfr. Storici arabi delle Crociate, ed. F. Gabrieli, Torino 1987, p. 273. Studi. Il volume della Taylor è la più recente monografia che sia finora apparsa riguardante la vicenda di Lucera. Resta comunque ancora di fondamentale importanza il lavoro di P. Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli 1912. Due importanti articoli, di J.-M. Martin e di D. Abulafia, hanno, nei decenni scorsi, riaperto l’interesse sulla colonia saracena, con nuovi spunti e piste di ricerca. Si tratta rispettivamente di: J.-M. Martin, La colonie sarrasine de Lucera et son environnement. Quelques réflexions, in Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, II, Soveria Mannelli 1989, pp. 797-810 (più o meno ritradotto in Id., I Saraceni a Lucera. Nuove indagini, in Miscellanea di storia lucerina II, Atti del III convegno di studi storici, Lucera 1989, pp. 11-34); e D. Abulafia, La caduta di Lucera Saracenorum, in Per la storia del Mezzogiorno medievale e moderno. Studi in memoria di Jole mazzoleni, I, Napoli 1998, pp. 171-186. Per qualche aspetto concernente la vita quotidiana, si veda anche P. Corsi, Aspetti di vita quotidiana nelle carte di Lucera del secolo XIII, in Miscel­­­­­279

lanea di storia lucerina II. Atti del III convegno di studi storici, Lucera 1989, pp. 35-75. Per gli aspetti militari rimando a P. Pieri, I saraceni di Lucera nella storia militare medievale, in «Archivio storico pugliese», 6 (1953), pp. 94-101. A Henri Bresc si deve l’idea della spinta centralizzatrice nella distruzione della colonia: cfr. L’esclavage dans le monde méditerranéen del XIVème et XVème siècles: problèmes politiques, réligieux et morales, in XIII Congrés d’Història de la Corona d’Aragó, Palma de Mallorca, 1989-1990, I, pp. 89-102. Per la motivazione economica, vedi l’art. di R. Bevere, Ancora sulla causa della distruzione della colonia saracena di Lucera, in «Archivio storico per le province napoletane», n.s. 21 (1935), pp. 222-228. Su Giovanni Pipino, cfr. l’art. classico di R. Caggese, Giovanni Pipino conte d’Altamura, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926, pp. 141-165. Negli ultimi anni, alla figura di Giovanni Pipino, ad un tempo massacratore di saraceni ed edificatore di chiese, si è interessata Caroline Bruzelius nel saggio Giovanni Pipino of Barletta: the butcher of Lucera as Patron and Builder, in Pierre, lumière, couleur, Etudes d’histoire de l’art du Moyen âge en l’honneur d’Anne Prache, dirr. F. Joubert, D. Sandron, Paris 1999, pp. 255-267; e in Le pietre di Napoli. L’architettura religiosa nell’Italia angioina (1266-1343), Roma 2005.

Glossario

Abbassidi Dinastia dei califfi che prende nome dal capostipite, lo zio del Profeta al-Abbas ibn Abd al-Muttalib ibn Hashim. È grazie a loro che il centro gravitazionale del mondo musulmano passa dalla Siria all’Iraq. Il vero iniziatore della dinastia è comunque al-Mansur, che stabilisce come capitale del suo impero Bagdad, città dalla quale la dinastia abbaside governa sulla gran parte del mondo islamico per cinque secoli. Il periodo della loro dominazione può essere suddiviso in due parti: la prima, dal 750 al 945, vede il progressivo declino dell’autorità califfale e la crescita dei capi militari autonomi che governano diverse aree dell’impero. La seconda, compresa tra 945 e 1258, è l’epoca in cui i califfi conservano un potere puramente nominale, mentre quello reale, anche a Bagdad, viene esercitato da dinastie temporanee. Aglabidi Dinastia musulmana che durante tutto il IX secolo governò l’Ifriqiya a nome degli Abbasidi. Loro capitale fu Qayrawan. Fondatore della dinastia fu Ibrahim ibn al-Aghlab (investito direttamente dal califfo Harun al-Rashid) che regnò sull’Ifriqiya dall’800 all’812. L’ultimo emiro della dinastia fu Ibrahim II, morto nel 902. Almohadi La parola almohadi designa nelle fonti occidentali gli aderenti al movimento di riforma al-Muwahhidun fondato da Ibn Tumart, nel quale l’elemento di riferimento principale è rappresentato dall’unicità divina, il tawhid. I promotori di questo movimento hanno regnato durante il XII e il XIII secolo nel Nord Africa e in Spagna. Almoravidi (o al-Murabitun) Dinastia di origine berbera che regna sull’Africa del Nord e la Spagna dalla seconda metà dell’XI secolo alla prima del XII, prima di essere rimpiazzati dall’altra dinastia berbera degli Almohadi. Si è supposto che il termine derivi da un gruppo di monaci-guerrieri, uomini di ribatat, legati alla disciplina spirituale del Dar al-Murabitin creata dal teologo Susi Uggag ibn Zalwi al-Lamti.

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Banu Hilal Agguerrita tribù nomade che a partire dal 1050-1051 inaugura una lunga serie di aggressioni e devastazioni nel Nord Africa fino a realizzare una vera e propria invasione. Ibn Khaldun compara gli hilaliani ad un tremendo sciame di cavallette. Il passaggio dei Banu Hilal in Africa e i combattimenti che essi affrontano formano lo sfondo storico di una serie di racconti d’eroismo e d’amore dal titolo Sirat Bani Hilal. Basilidi Dinastia di imperatori bizantini cominciata da Basilio I (967886), meglio conosciuta come dinastia macedone. Termina nel 1057 con l’avvento dei Comneni. Califfo Parola usata per indicare il successore del Profeta come guida politica e spirituale della comunità islamica. Rappresenta la massima magistratura islamica, a rilevanza eminentemente politica, anche se non esente da risvolti spirituali e religiosi. Crisobolla Particolare tipo di documento ufficiale in uso presso la cancelleria imperiale di Costantinopoli e adottato poi nel Medioevo anche presso le corti occidentali. Il termine deriva dal greco chrysos, oro, e dal latino bulla, con riferimento al sigillo d’oro impresso in calce ai documenti ufficiali: dal sigillo stesso il termine passò ad indicare per estensione l’intero documento. Diritto malekita Derivante dal gruppo giuridico-religioso dell’Islam ortodosso che si costituisce in scuola (al-madhhab al-maliki) dopo l’adozione della dottrina dell’imam Malik ibn Anas, morto a Medina nel 795: imam cui era stato affidato dal califfo al-Mansur il compito di uniformare i differenti sistemi normativi presenti nel mondo islamico, nello spirito centralizzatore del potere abbaside. Emiro Comandante in campo, governatore, principe. Il termine ha radice fondamentalmente islamica. Nel Corano si trova solamente l’espressione ulu l-amr (sura IV, 59, 83), ma si ritrova spesso nella tradizione la parola amir. Fatimidi Dinastia che regna in Africa del Nord poi in Egitto dal 909 al 1171. La dinastia deriva il nome da Fatima. L’origine del movimento fatimide che porta al potere il primo emiro della dinastia, Ubayd Allah al-Mahdi, va cercato nell’Ismailismo, dottrina scita nello stesso tempo di carattere politico e religioso, filosofico e sociale, secondo la quale gli adepti attendono un rinnovamento dell’Islam con l’apparizione di un Mahdi, discendente dal Profeta attraverso Alì e Fatima, nella linea di Ismaele, figlio di Jafar al-Sadik (m. 765), «colui che è degno di rispetto», trasmettitore di hadits e ultimo imam riconosciuto dagli sciti ismaeliani.

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Mahdi Sebbene usato sin dagli inizi dell’islamismo come epiteto onorifico, il termine al-Mahdi, il «ben guidato», assume un significato messianico, vale a dire il nome del restauratore della religione e della giustizia che, secondo una credenza largamente diffusa tra i musulmani, regnerà prima della fine del mondo. Tra gli sciti questa credenza è assai forte, vero e proprio articolo di fede, con la derivazione del Mahdi dalla famiglia del Profeta e con il suo «occultamento temporaneo» (ghayba), in attesa del suo ritorno definitivo alla gloria. Mozarabo Termine che indica, nelle terre spagnole musulmane, i cristiani che hanno assunto costumi arabi o arabizzanti; e usato, per assimilazione, per alcuni gruppi di cristiani siciliani sottoposti al governo kalbita. Omayyadi Dinastia di califfi che dal loro centro in Siria, governano l’insieme dei territori musulmani dal 661 al 750. Tutti i califfi omayyadi discendono da Umayya ibn Abd Shams, notabile, in epoca preislamica, della tribù Kuraysh della Mecca. Omayyadi di al-Andalus Quando la dinastia omayyade crollò sotto i colpi degli Abbasidi, Abd al-Rahmπn ibn Muawiya (731-788), nipote di un precedente califfo, riuscì a scampare alla strage operata dai vincitori ai danni della dinastia abbattuta e a riparare in al-Andalus; lì si fece riconoscere emiro dalla popolazione musulmana, ancora affezionata alla dinastia deposta, avviando una politica del tutto indipendente da quella dei suoi avversari Abbasidi. Abd al-Rahmπn mantenne come sua capitale la vecchia sede di governo di Cordova. Ramadan È il solo nome di mese che compare nel Corano, tempo di rivelazione nel quale il Libro è stato inviato sulla Terra. Si discute ancora sull’origine della prescrizione del digiuno durante questo mese, ma il parallelismo con il «giorno del perdono» ebraico (l’ashura) pare abbastanza evidente. La notte del 26-27 ramadan, la laylat al-kadr, viene descritta come una notte «migliore di mille mesi», durante la quale gli angeli, esentati da ogni missione, scendono sulla terra e la felicità regna sino all’apparizione dell’aurora. Scuola hanafita Scuola (o madhhab) che deriva il suo nome da Abu Hanifa (m. 767), che si sviluppa sull’antica scuola di Kufa. Scuola duramente attaccata dai tradizionalisti per l’impiego dell’opinione soggettiva nel diritto religioso. Sharia Il termine ha il significato di «cammino per rispettare la legge di Dio» e indica l’insieme delle norme dottrinali, di culto e di relazioni dettate dalla Rivelazione. La sharia codifica nello stesso tempo gli aspetti pub-

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blici e privati della vita del musulmano, le interazioni sociali, e il cammino spirituale da seguire. I musulmani considerano questo insieme di norme come l’emanazione della volontà di Dio (Shar’), con alla base il Corano. Ulama Termine che designa i saggi e i conoscitori di tutte le discipline. Tuttavia questa parola qualifica specialmente gli studiosi di scienze religiose; e, nel sunnismo, designa i guardiani, i trasmettitori e gli interpreti della dottrina e della legge islamica. Il termine ingloba anche coloro i quali assicurano le funzioni religiose nella comunità che richiedono delle conoscenze religiose e giuridiche più o meno approfondite, come i giudici, i predicatori, gli imam delle mosche ecc. Ziriti d’Ifriqiya Prima grande dinastia di berberi Sanhadija in Africa del Nord e originaria del Maghreb, fu fondata nel 972 da Buluggin ibn Ziri quando il quarto califfo fatimide al-Muizz partì per l’Egitto.

Cartine

Poitiers Galizia Leon

Nîmes Aix Castiglia Carcassonne Saragozza Narbona St. Tropez Barcellona Corsica Cordova Isole Baleari

Fez

Mar Costantinopoli

Sardegna Palermo Cartagine Qayrawan al-Mahdia

Sicilia

Messina

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Creta

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Cipro

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o Il Cairo

Alessandria

Il mondo islamico

­­­­­286

Farghana

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­­­­­287

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La Mecca

Espansione islamica nel Mediterraneo

0

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20

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50 km 30 miglia

Isole Eolie

Mar Tirreno

Mazara (827-1077)

Rometta

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Trapani (841?-1077)

Marsala

Messina (842-1061)

Palermo (831-1072)

Troina

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Taormina (902-1079)

Castrogiovanni (859-1087) Catania (???-1071)

Mineo (828-108?)

VA

Girgenti (828-1086)

L

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Le frecce indicano le direttrici della conquista araba

NE

Butera

Sicili

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Noto (864-1091)

a

La conquista musulmana della Sicilia

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Siracusa (878-1086)

Grado Val di Susa

Val di Susa Tortona

Alba

Grado

Adria

Adria

Tortona

Alba

Acqui Genova

Acqui Genova

Luni Pisa

Frassineto

Luni Pisa

Frassineto

Ancona

Ancona Trevi

Trevi

S. Clem a Casa

S. Clemente a Casauria

Rieti

Rieti Ostia

Farfa Roma

Ostia S. Vincenzo al Volturno Monte S. Angelo Montecassino Boiano Lucera Sepino Bari Garigliano Gaeta Capua Benevento Gravina Brindisi Capo Miseno Napoli Matera Ischia Salerno Oria Taranto Agropoli Punta Licosa

Farfa Roma

S. Vincenzo Montecassino

Gariglia Ca Na

Gaeta

Capo Miseno Ischia

Punta Li

Cassano Amantea Tropea Rometta

Palermo

Trapani

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Marsala Mazara Del Vallo

Messina Gerace

Reggio Calabria Taormina Castrogiovanni Catania

Troina Bona

Girgenti

Bona

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Mineo Noto

Susa al-Mahdia

Susa al-Mahdia

Territori musulmani Zone soggette a scorrerie musulmane

Territori musulmani Territori di jihad in Italia

Località soggette a scorrerie musulmane

Zone soggette a scorrerie musulmane

Ribat

Località soggette a scorrerie musulmane

Città musulmane

Ribat Città musulmane

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Trapani Marsala Mazara Del Vallo

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Palermo

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Capo San Vito

IT Reggio Cefalù Misilmeri OR Erice Castellamare Termini EL P Partinico I I Trapani Segesta Iato OD M ONT Mistretta Alcamo EBR Mezzoiuso Caccamo Collesano MONTI N Randazzo MONTI M Taormina Calatafimi Calatrasi ADONIE Cerami Corleone Calatabiano Vicari Caltavuturo Petralia Sperlinga Marsala Salemi Troina MONTE Battallaro Prizzi Entellina ETNA Agira Bisaquino Adrano Mazara Calascibetta Mussomeli Selinunte Paternò Centuripe Caltabellotta Aci Castrogiovanni Sciacca Catania Platani Caltanissetta Zotica/Judica Aidone Piazza Armerina Favara Lentini Mineo Agrigento Naro Caltagirone Butera Pantalica Licata Palazzolo Siracusa Acreide

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Ragusa

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Sicilia musulmana

290

Librizzi

Noto

1. Castello marittimo 2. Cattedrale di Palermo 3. Palazzo di Ruggero II 4. San Giovanni degli Eremiti 5. Chiesa di San Cataldo 6. Santa Maria dell’Ammiraglio (La Martorana) 7. Chiesa della Magione

E ANN ORM

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I Porto CAD at RAL Rib I SE D aliba O q T a T l-S RE at a ST Har r e t o DI i Bab al-Kutama Pa p e m Bab fi u Bab al-Bahr lago Bab al-Sina‘a al-Shifa Bab Suq Papyrus KHALISA Bab Shant Bab al-Dajaj Bab Aghatha al-Hadid 5.6. al-Bunud 2. d Bab al-Futuh ahu Y lAL-QADIM ta Bab 7. Hara Ruta AL- Moschea sjid a HALQA San Giovanni an l-M b ab al-Sud at a aqla ida dei Lebbrosi Bab al-Riyad Bab al- B Har Ibn S nIa ad Porta Abna e K e m o l-J Ponte di Giorgio a m Termini 3. u rat d’Antiochia a H TTO Bab Ibn Qurhub 4. ISTRE ONIA D EM K DI fi

Palazzo della Zisa

Padiglione della Cubola

1.

Palazzo della Cuba 0

Palermo nell’ultimo periodo islamico

­­­­­291

300m

Indici

Indice dei nomi e dei luoghi

Aaron ben Samuel ha-Nassì, 79-80. Abbas ibn al-Fadl, 24, 62. Abd Allah, 105. Abd al-Haziz, 251, 253-254. Abd al-Malik, 52. Abd al-Masih, 225-226. Abd al-Mumin, 215. Abd al-Rahman III, 90. Abd al-Rahman IV, 155. Abdallah, figlio di Ibrahim ibn Ahmad, 25. Abruzzi, 66, 169. Abu Abd Allah al-Mazari, 207, 209210, 221. Abu Ahmad Jafar, 161. Abu al-Aghlab Ibrahim, 24, 84-85. Abu al-Daw, 211. Abu al-Qasim, 220, 221, 229, 230. Abu al-Qasim al-Junayd, 47. Abu al-Qasim as-Siqilli, 47. Abu Fihr, 24. Abu Ibrahim Ishaq ibn al-Masili, 39. Abu Jafar, 71-72. Abu Mashar, 71. Abu Muhammad al-Qafsi, 37. Abu Muhiz, 22. Abu Ubayd al-Bakri, 54. Abu Uthman Said ibn Sallam, 47. Abu Yusuf, 132. Abulafia, D., 141, 166, 178, 212. Aci, 29, 35. Acqui, 88. Acri, 98.

Adelaide del Vasto, moglie di Ruggero il Gran conte, 202. Adelchi, principe di Benevento, 8283. Adornò, 35. Adriano I, papa, 158. Africa, 4, 20, 22, 26-27, 29, 35, 46, 51, 53-55, 58, 60, 76, 82, 88-89, 91, 94-96, 98-99, 108-109, 116117, 122, 124-127, 130, 132, 134136, 142, 144, 154, 159, 161, 165, 197-199, 201, 204-205, 212, 216, 218, 235, 237, 239, 247. Agdabiya, 130. al-Aglab, 71. Agrigento, 235. Agropoli, 62, 110. Ahimazz ben Paltiel, 78, 165. Ahmad ibn al-Hasan, 97. Akhal, emiro kalbita, 27. Albania, 246. Albenga, 88, 91. Alcamo, 29, 34-35. Aleppo, 53, 131. Aleramici, famiglia, 202. Alessandria, 51, 80, 95, 98, 130-136, 139-141, 144, 148-149, 170, 172, 176, 182, 222. Algeri, 130. Algeria, 205. Ali ibn Abi Talib, IV califfo, 92. Alife, 83. Almaden, 126.

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Almeria, 94, 133. Almohadi, dinastia, 116. Almoravidi, dinastia, 116. al-Andalus, 89-90. Alpi Marittime, 88. Altavilla, dinastia, 5, 27, 116, 185186, 190, 196, 233. Amalfi, 59, 66, 70, 99, 103, 110-111, 119, 122, 124, 126, 128-134, 136, 147-153, 158, 161, 173, 176, 178181. Amalfitano, Pardo, 152. Amalfitano, Sergio, 152, 182. Amantea, 62, 82, 168. Amari, M., 5, 28, 67-68, 73, 94, 186187, 232, 234. Amato di Montecassino, 190, 192. Amittai il Vecchio, 162. Amr, 52. Anatolia, 171. Ancona, 66, 71. Andalusia, 30, 32, 46, 201, 205, 227. Andrea II, duca di Napoli, 70, 160. Andrea d’Isernia, 252. Angioini, dinastia, 244. Anonimo Cassinese, 71, 74, 77. Anonimo Salernitano, 74. Anselmo di Canterbury, 200. Antibes, 88. Antiochia, 179. Antonino, santo, 105. Appennini, 119, 124, 145. Appignano, 169. Aquino, 72. Arabia, 54. Arce, 72. Ardabila, 36. Ariano, 212-213. Aristotele, 20. Arles, 129. Armenia, 65, 156. Arsenio, monaco, 159. Arsuf (Apollonia), 98. Asad ibn al-Furat, 22-24, 26. al-Asan Ibn Alì, 94. Asbagh ibn Wakil, detto Fargalus, 24.

Ascalona, 98. Ascoli in Puglia, 77. Ascoli Satriano, 254. Ashtor, E., 135, 176-177. Asti, 66. Atanasio II, vescovo di Napoli, 110. Atanasio III, vescovo di Napoli, 105. Atene, 130. Atrani, 150. Avellino, 124, 169. al-Aziz, 99. Bagdad, 20, 23, 36, 40, 43, 45, 5052, 74, 79, 138, 154-155, 164, 250. Baibars, 247. Baida (Palermo), 48. al-Bakri, 146. al-Baladuri, 71, 74. Baleari, 90, 205. Balletto, L., 87. Banu al-Tabari, 30. al-Baqillani, 210. Barcellona, 90, 182. Bari, 62, 71-75, 77-83, 88, 115, 117118, 128, 157, 194, 215, 247, 254. Barletta, 153, 244. Barqa, 92, 96, 135. Bartolomeo, santo, 106. Bartolomeo da Capua, 252. Basilicata, 97, 118. Basilidi, dinastia, 99. Basilio I, imperatore di Costantinopoli, 80, 108. Bassacio, abate del monastero di Montecassino, 75. Bassora, 49, 51. Beirut, 98. Belice, fiume, 28. Benavert, vedi Mohammad ibn Abbad I. Benevento, 58, 70-71, 75, 79, 81-83, 91, 112, 119, 124, 148, 169. Ben-Sasson, M., 128. Berengario d’Ivrea, 110. Bernardo, monaco, 80. Betica, 52.

­­­­­296

Biccari, 97. Bigiaya, 205. Bisanzio, 28, 33, 46, 53, 64, 70, 82, 97, 108, 117-120, 123-124, 149, 153-157, 177. Bona, 130, 213-214. Brandano, fiume, 173. Bresc, H., 138, 235, 240. Brindisi, 70. Bukhara, 51. Butera, 34, 202, 218. Byblos, 179. Cahen, C., 157. Cairo, 49-53, 80, 99, 127-130, 136137, 139, 141, 144, 148, 154-155, 164-165, 172, 181-182, 187, 197, 250; vedi anche Fustat. Calabria, 21, 63, 65-66, 72, 78, 9394, 97, 106, 112, 117-118, 124, 135, 162, 167-169, 171, 174, 186, 204, 206. Calata, 33. Calatafimi, 33. Calatameth, 33. Calatimi, 33. Calatrasi, 219, 234-235, 240. Caltafarsa, 33. Caltanissetta, 33. Cammarata, 234. Campania, 21, 53, 65, 148-149, 204. Campobello, 218. Candela, 254. Canicattì, 218. Canosa, 77, 83. Capitanata, 124, 252. Capo Dimas, 195. Capri, 152. Capua, 58, 77, 91, 119, 124, 200, 252. Carini, 234. Carlo I d’Angiò, 244. Carlo II d’Angiò, 244, 247, 251, 252. Carlo il Calvo, imperatore, 69. Carlo Magno, 119, 158. Carpatos, 96. Cartagena, 130.

Cartagine, 89. Cartomese, Elia, 194. Cassaro (Palermo), 45. Castro Lucullano (Napoli), 85. Castrogiovanni (Enna), 24, 27, 35, 190, 196-197, 200, 202, 207. Castronovo, 33, 234. Catania, 25, 27, 29, 34-35, 87, 173, 199. Catanzaro, 97, 118, 168. Caucaso, 138, 156. Cava dei Tirreni, 153. Cefalù, 31, 33, 35, 129, 173. Celso, 235-236. Centocelle, 62, 111. Cerami, 191. Cerenzia, 97. Cesario, console di Napoli, 66, 68. Ceuta, 222. Charaktos, Michele, 103. Cherso, 71. Cilento, 135. Cilento, N., 106. Cimella, 88. Cina, 53, 55, 166. Cincimo, 82. Cinisi, 219, 235, 239. Cipro, 97-98, 172. Cirenaica, 71. Cisterna, 97. Civitate, 97. Clavero, B., 101. Cluny, 62. Comite Maurone, famiglia, 147. Comite Maurone, Mauro, 149. Comite Maurone, Pandone, 149. Conza, 77. Cordova, 4, 37, 45, 51, 53-54, 139, 154-155, 157, 227, 250. Corinto, 65, 81, 130. Corleone, 23, 219, 234-235. Corneto, 254. Corno d’Oro, 149. Corradino di Svevia, 249. Corrao, P., 202. Corsi, P., 156. Corsica, 66, 130.

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Cosenza, 85-87, 104. Costantino l’Africano, 53. Costantino VII Porfirogenito, 74, 155. Costantinopoli, 46, 80, 84, 91, 93, 96, 98, 118, 120, 125, 130, 132133, 139-140, 148-149, 152, 154, 157, 168, 170. Cozzo Catalnatto, 33. Creta, 21, 59, 82, 95-98, 130, 132133, 172, 232. Cristodulo, 188. Croce, B., 5. Curbici, 234. Dalmazia, 66, 171. Damasco, 36, 53. Damiano di Tarso, 65. Damietta, 172. al-Dawdi, 31. Del Treppo, M., 150. della Marra, famiglia, 244. Demona, 128, 166. al-Dimisqui, 142. Djabbara ibn Muktar, 135. Djaudar, 136. Docibile, duca di Gaeta, 110-111. Domenico, vescovo di Centocelle, 111. Donnolo Sabbatai, 169. Dragonara, fiume, 97. Durance, fiume, 88. Ebro, fiume, 130. Efebo, santo, 106. Egitto, 46, 49, 76, 78, 96-98, 100, 126, 130, 133, 137, 141, 144, 148149, 154, 158, 160, 165, 170-173, 176, 188, 204. Elia di Catania, santo, 87. Elia il Giovane, santo, 102-104, 159. Elia lo Speleota, santo, 104. Enrico VI di Svevia, 180, 237. Entella, 33, 235-236, 239-240. Erchemperto, 74, 158. Erice, 234. Etiopia, 148.

Etna, 35, 173. Eufemio, turmarca, 22-23. Ezzelino da Romano, 240. al-Fariqi, 132. Fatima, figlia di Maometto, 92. Fatimide, dinastia, 26-27, 52, 92-97, 99, 172, 187, 196. Federico Barbarossa, 180. Federico II di Svevia, 185, 194-195, 200, 232-233, 235-240, 245-247, 249-250. Fez, 52. Fiandre, 181. Filippo di al-Mahdia, 156, 211, 213214. Fiorentino, 97. Firenze, 180, 182. Foggia, 253. Fondi, 66-67. Fonte del Crivello (Palermo), 49. Forcalquier, 88. Fortunato, santo, 105. Fozio, 63, 112-114. Francia, 53, 116. Frassineto, 87-91, 110, 115, 130. Frejus, 87. Fustat, 52, 99, 136, 140-142, 148149; vedi anche Cairo. Gabes, 132. Gabrieli, F., 107, 116-117, 224. Gaeta, 59, 66-67, 70, 110-111, 119, 124, 128-129, 135, 154, 158, 169, 173-174, 181. Galdi, A., 101. Gange, fiume, 4. Garigliano, 61, 91, 110-111, 115, 119, 160. Gay, J., 73. Gaza, 98. Geertz, C., 142. Genova, 66, 89, 91, 93, 130, 178, 180-182. Gerace, 94. Gerba, 239. Gerberto d’Aurillac, 53.

­­­­­298

Gerusalemme, 140-141. Giacomo, abate di San Vincenzo al Volturno, 75. Giaffa, 98, 131. Giamal ad-din, 247. Gil, M., 128. Giordano d’Altavilla, 199. Giorgio, santo, 191. Giorgio d’Antiochia, 188, 195. Giovanni VIII, papa, 69, 110, 189. Giovanni X, papa, 91. Giovinazzo, 97. Girgenti, 24-25, 27, 29, 31, 34-35, 37, 197, 202, 218, 234, 237, 239. Girifalco, 245. Goffredo Malaterra, 31, 190-194, 198-199. Goitein, S.D., 128, 141, 166. Golfo della Sirti, 171. Golfo Persico, 54. Gozo, 201. Grado, 66. Granada, 222. Gregorio, teologo, 8. Gregorio IV, duca di Napoli, 85, 87. Gregorio da Catino, 69. Guastanella, 235. Guglielmo I d’Altavilla, 215, 217, 219. Guglielmo II d’Altavilla, 214, 224, 234. Guglielmo di Puglia, 192-193. Guillou, A., 169. Hablah, 71. Hamadhan (Ecbatana), 51. Hammamet, 92. al-Hamawi, 245. Hananel ben Paltiel, 162. al-Harawi, 221. Harun ibn Yahya, 66. Hasan al-Kalbi, primo emiro kalbita, 26. al-Hasan, 114. al-Himyari, 34, 240. Houben, H., 200.

Iato, 33, 219, 234-236, 238-240. Ibn al-Atir, 15, 61-62, 74, 114, 189, 196. Ibn al-Birr, 47. Ibn al-Fanham, 47. Ibn al-Hawwas, 196-197. Ibn al-Qattà, 47. Ibn al-Qifti, 163. Ibn al-Raqiq, 84. Ibn ath-Thumma, 196. Ibn Disur, 136. Ibn Fakhir, 237. Ibn Hamdis, 194-195, 205-207. Ibn Hawqal, 30, 36-44, 46-49, 98, 170. Ibn Hurdadbeh, 126. Ibn Idari, 162. Ibn Jubayr, 34, 60, 222-231. Ibn Kaldun, 58, 74, 115. Ibn Makki, 47. Ibn Qalaqis, 220. Ibn Rina, 132. Ibn Rushd, 41. Ibn Siqlab, 42, 48-49. Ibn Tulun, 52. Ibn Usayr, 61. Ibn Zurah, 228-229. Ibrahim Ibn Ahmad, 25-26, 83-87, 103-104, 117. Idris Imad al-Din, 89. Idrisi, 35, 173, 200. Ifriqiya, 22, 24, 53, 92, 171, 173, 188, 195-196. Ikhsida, dinastia, 96. India, 53, 128, 138, 148, 166. Innocenzo III, papa, 235-236. Iran, 51. Iraq, 47, 51. Irpinia, 171. Isa ibn Nestorius, 99. Ischia, 62, 105. Ishaq ibn Musa, 164. al-Ishtari, 21. Isidoro di Siviglia, 59, 192. Ismail ben Yaqub al-Andalusi, 140. Ismail ibn Musa, 164. Isola Capo Rizzuto, 97.

­­­­­299

Isola di Lerino, 88. Ispahan, 51. Israq as-Suwaida, 155. Istria, 71. Italia, 4-6, 17-18, 21, 53, 58-59, 6466, 68-70, 73, 80, 84, 87-88, 91, 93-94, 97-100, 110, 116-119, 122123, 127-130, 136-137, 145, 157, 166, 172-173, 175-177, 179-180, 184, 195, 202, 204, 240, 246, 249. Ivrea, 91, 110. Jacoby, D., 128. Jafar, emiro kalbita, 27, 33. Jafar ibn Muhammad, emiro, 16, 98, 162. Jafar Ibn Ubayd, 93. Jean de Gorze, 53. Johns, J., 185, 187. Kafur, emiro ikhsida, 96. Kalbita, dinastia, 26, 33, 94, 186, 237. Kalfun, 72-74, 76. Kalsa, 45, 48, 180. Kantorowicz, E., 232-233. Karram, gaito, 220. al-Kharaz (la Calle), 95, 130. La Garde Freinet, 87. La Mecca, 36, 44, 51, 76, 84, 208, 210, 223, 226. Lazio, 66-67, 77, 119. Leone, arcidiacono, 7. Leone, arcivescovo di Calabria, 63, 104, 112. Leone, santo, 159. Leone IV, papa, 67, 69. Leone VI, imperatore, 157. Leone Apostippo, 83. Leone di Tripoli, 65. Li Aci, 173. Libia, 96, 130, 137. Liburia, 160. Licata, 33, 35, 218. Liguria, 88-90, 129, 176. Lipari, 106.

Liutprando, vescovo di Cremona, 87, 89, 118. Lizier, A.,175. Lombard, M., 55, 60, 155. Lopez, S., 123. Lorena, 53. Lotario I, imperatore, 66, 72, 81. Luca di Demena, santo, 106. Lucania, 65, 171. Lucca, 180. Lucera, 239, 244-253. Ludovico II, imperatore, 75, 80-82, 108, 114-115. Lunigiana, 66. Madonie, 29, 35, 173. Magded, 236. Maghreb, 46, 53, 74, 172. al-Mahdia, 50-52, 89-90, 92-93, 9798, 130, 132-133, 136, 154, 156, 162, 165, 172, 178, 188, 205, 207, 211, 215-216. Mahuz Ashod, 98. Maiolo, santo, 62. Maione da Bari, 215-216, 218. Maiorca, 205. al-Makhzumi, 154. Malacheno, 94. Malaga, 222. Malta, 18, 25, 201. Malvito, 168. Manfredi di Svevia, 247. al-Mansur, califfo fatimide, 26, 5152, 89-90, 93-94, 163. al-Maqrizi, 188, 195. Mar Adriatico, 58, 62, 66, 70-71, 75, 82, 119, 129. Mar Egeo, 58, 96, 117, 130, 132. Mar Ionio, 62, 70, 82. Mar Ligure, 130. Mar Nero, 55, 135, 149. Mar Rosso, 53-54, 138, 148. Mar Tirreno, 67, 111, 119, 124, 129. Markwald von Anweiler, 236. Marocco, 60, 126, 130. Marsa Farrug, 130.

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Marsa al-Haraz (la Calle), vedi alKharaz. Marsala, 27, 35. Marsicano, 169. Marsiglia, 129, 131, 180, 238. Martin, J.-M., 114. Martorana (Palermo), 228. Masud al-Fati, 93. al-Masudi, 20, 54. Matteo Bonello, 216-217. Matthew Paris, 245. Maurici, F., 232, 235. Mazara del Vallo, 18, 23, 27, 29, 34-35, 54, 77, 128, 130, 144, 181, 198, 234. Medina, 23, 51, 155, 208, 210. Medio Oriente, 98-99, 122. Mediterraneo, 14, 21, 27, 42, 44, 46-47, 50-51, 53-55, 58, 80, 9092, 95, 98-100, 117, 122-123, 127, 129-130, 133, 136, 140, 144, 147148, 155, 170-171, 173, 177, 181182, 188, 251. Melfi, 97. Mesopotamia, 51, 54, 126. Messina, 21, 24-25, 35, 84, 95, 109, 128-130, 173, 180, 196, 198, 211, 223-224, 227. Metodio I, 113. Metodio di Patara, 101. Milazzo, 35, 66. Mineo, 24. Minorca, 251. Minori, 150. Minturno, 62, 111. Misilmeri, 197-198. Modica, 24. Mohammad ibn Abbad I (Benavert), 193-194, 199. Mohammad ibn Abbad II, 235, 237238. Molfetta, 97. Monastir, 205. Monopoli, 97. Monreale, 234, 236-237. Monte Athos, 149. Monte Catalfano, 33.

Monte Linario, 173. Monte Pellegrino, 172. Montecassino, 66-67, 72, 75, 77, 119. Monteverde, 254. Monti Nebrodi, 29. Monti Peloritani, 172-173. Montpellier, 54, 180. Moschea di Ibn Siqlab (Palermo), 42, 48-49. Mosul, 51. Mufarrag ibn Sallam, 76, 78. Muhammad abd as-Salam al-Qadiri, 212. Muhammad Ibn Ahmed, 83. Muhammad ibn Ibrahim at-Tamimi as-Sufi, 47. Muizz ibn Badis, 135. al-Muizz, califfo fatimide, 32, 92, 94-97, 132, 136, 164-165. Musa, 246. Musa ben Eleazar, 161, 163. Musa ibn Yaqub ibn Isaq, 164. Musca, G., 73-74. al-Mustain, 78. al-Mutawwakil, 76. Napoli, 58-59, 66, 68-70, 77, 82, 8586, 93, 105-106, 108-110, 114, 120, 124, 126, 128-129, 144, 148, 150153, 158, 169-171, 173-174, 176, 178, 180-181, 244, 251-252, 254. Narbona, 129. Naro, 35, 218. Naxos, 96. Nef, A., 28. Nicastro, 97, 168. Niceforo Foca, imperatore, 125. Niceta di Tarso, 13. Niceta Orifa, 81. Nicola I, papa, 80. Nicosia, 202. Niger, 125. Nilo, 52-54, 135, 141, 144, 170. Nilo, santo, 62, 115-116. Nishapur, 47, 51. Nizza, 88.

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Norwich, J.J., 184. Noto, 25, 35, 205. Novalesa, 88. Noyé, G., 65. Nubia, 126, 156. Oceano Indiano, 46, 53-55, 126, 171-172, 182. Ofanto, fiume, 77. Omayyade, dinastia, 95, 155. Oppido, 97. Oria, 78-79, 128, 161-162, 165, 169. Ostia, 66-69, 105, 129-130. Otranto, 128-129, 153, 169. Ottone II, imperatore, 117. Oulx, 88. Palermo, 6, 9, 15-16, 20, 24-29, 31, 33-39, 42-47, 49-53, 55, 59, 87, 108-109, 115, 124, 127-131, 133, 135-136, 140, 144, 154, 166, 170, 172-173, 176, 180, 187, 193, 197198, 200, 211, 217-218, 224, 226228, 234-239. Palestina, 170, 179. Pandone, 72-73. Papireto, fiume di Palermo, 218. Partinico, 234, 240. Pascalio, stratega di Calabria, 94. Paternò, 196. Patrasso, 65. Pavia, 145. Peloponneso, 9, 130. Peri, I., 32. Persepoli, 21. Persia, 23, 47, 156. Peruzzi, famiglia, 180. Petralia, 29, 35, 196. Piazza, 35. Piazza Armerina, 202. Piemonte, 66, 88. Pietro, comandante della flotta normanna, 156, 215-216, 219, 246. Pipino, Giovanni, 244, 248, 252253. Pirenne, H., 138, 147. Pisa, 130, 178, 180.

Pizzo Balatamuri, 33. Platani, fiume, 28. Platano, 235-236. Platea marmorea (Palermo), 45. Po, 66, 69, 71. Polignano, 97. Ponza, 62. Porfirio, filosofo, 20. Porta di Bab ibn Qurhub (Palermo), 48. Porto Venere, 129. Prizzi, 234. Provenza, 87-88, 90, 130. Prudenzio di Troyes, 66, 75. Puglia, 62, 65-66, 71, 75, 77-78, 80, 82, 97, 114, 117-118, 129, 162, 169, 171, 174, 239, 247. Pulcari, prefetto di Amalfi, 111. Qayrawan, 22, 24-25, 50-51, 71, 74, 83-84, 87, 92, 139, 154, 170, 197. al-Qasim ibn Hammud, 200. al-Qazwini, 168. Quadalquivir, fiume, 54. Quarnaro, 71. Quartiere degli Schiavoni (Palermo), 48. Quartiere di Abu Himaz (Palermo), 48. Quartiere di Harat al-Masgid (Palermo), 48. Quartiere di al-Harat al-Gadidah (Pa­lermo), 48. Radelchi I, principe di Benevento, 71, 72, 112. Ragusa, 24. Rametta, 25, 196. Ramon Llull, 251. Randazzo, 35, 202. Rapido, fiume, 77. Ravello, 150. Ravenna, 134, 246. Reggio Calabria, 84-85, 93-94, 102, 104, 112, 114, 118, 159, 165, 167, 199, 227. Riccardo da Sangermano, 239.

­­­­­302

Richard Palmer, 214, 217. Roberto di Artois, 244. Roberto di Messina, 217. Roberto il Guiscardo, 185-186, 196. Roma, 62, 66-69, 77, 80, 84, 89, 110111, 118, 130, 145-146, 191. Romano Lecapeno, 33. Romualdo Salernitano, 214, 217. Rosetta, 141, 172. Rossano Calabro, 105, 168. Rotari, 118. Rufolo, famiglia, 244. Ruggero I d’Altavilla, 189-202, 235. Ruggero II d’Altavilla, 185-188, 195, 202, 211, 213-215, 217, 235, 249. Ruggero il Gran conte, 185-186. Ruggero Sclavo, 218. S. Agata di Catania, convento, 47, 93, 202. S. Maria di Messina, convento, 202. S. Martino del monte Massico, monastero, 106-107. S. Ponzio, abbazia, 88. S. Salvatore di Patti, convento, 202. S. Vincenzo al Volturno, monastero, 75, 77, 106, 119, 169. Saba, 70. Sabina, 69. Sabir, ammiraglio, 93. Sahara, 53, 125. Sahel, 60. Saladino, 220. Salem, 246. Salerno, 54, 58, 72, 75, 93, 105-106, 112, 119, 124, 126, 128-129, 148, 150, 173-174, 176, 180. Saline, 102. Salsola, 254. Samarcanda, 36, 51. Samsam, emiro kalbita, 27. San Marco, 173. San Michele al Gargano, 81. San Severo, 249. Sanremo, 88. Santa Severina, 62.

Sarakhsi, 142-143. Sardegna, 61, 66, 68, 89, 130. Savona, 91. Sawdan al-Mazari, 77-83, 114-115, 194. Scala, 150. Schipa, M., 110. Sciacca, 27, 35, 234. Sele, fiume, 173. Semnoen, 14. Senegal, 125. Sergio I, duca di Napoli, 72. Settia, A., 88. Severino, santo, 86, 105. al-Shaqra, 132. Shiraz, 51. Sicardo, principe di Benevento, 160. Sicilia, 6, 14, 16-17, 20-28, 32, 34, 36, 39, 41, 43-47, 49-50, 53-55, 59-62, 65, 68, 70, 76, 82-84, 9197, 99-100, 115-116, 122, 124, 126, 128-130, 133-135, 139-141, 143-144, 152, 157, 160-161, 166167, 170-172, 177, 180, 184, 187201, 204-209, 211-212, 214, 216, 218, 220-225, 227, 230-233, 236241, 246-247. Siconolfo, principe di Benevento, 71, 112. Sidone, 98. Sigilmasa, 125. Sila, 65, 173. Simonsohn, S., 128. Siponto, 72. Siracusa, 6-8, 10, 12, 15-16, 18, 2127, 29, 34-35, 128, 144, 166, 180181, 190, 199, 205, 207, 214, 220. Siviglia, 51. Slavonia, 145. Sofonia, 12. Sogdiana, 51. Sokastro, 96. Sorrento, 70, 105. Spagna, 29, 46, 51-54, 61, 74, 88, 9091, 94-95, 116, 126, 129-130, 133, 139-140, 154-155, 172, 222. Spoleto, 66, 91, 176.

­­­­­303

Squillace, 168. Stefano III, vescovo di Napoli, 85. Stefano di Perche, 214. Stilman, N., 128. Stilo, 97, 168. Stornara, 245. Sudan, 46, 53, 92, 125-126, 130. Susa, 23, 95, 130, 188, 205. al-Tamimi al-Muqaddasi, 164. Tancredi d’Altavilla, 218, 235. Taormina, 22, 25-26, 28, 31, 84, 102-104, 173. Taranto, 62, 70-72, 74-75, 80, 83, 93, 97, 128, 158, 169, 172-173. Tarifa, 130. Tarso, 9. Taylor, J.A., 246. Teano, 77. Teheran (Ar-Ravy), 51. Telese, 83. Teodosio, monaco, 6-18, 36, 64. Termini, 34, 193. Tessalonica, 145. Tevere, fiume, 66. Tinnis, 171-172. Tiro, 98-99. Toledo, 51. Tortosa, 129. Tramontana, S., 43, 191-192. Trapani, 27, 29, 34-35, 128, 181, 197, 222, 228, 230-231, 235. Tripoli del Libano, 92-93, 97, 130131, 133, 137. Tripoli di Siria, 98. Troia, 97, 249. Troina, 196. Tropea, 62, 168. Tunisi, 51, 130-131, 213. Tunisia, 24, 41, 92, 130, 133, 135, 144, 166, 220. Tusciano, fiume, 72. Ubayd Allah Said, 92, 162.

Udovitch, A.L., 128, 142. Ugo di Provenza, 91, 110. Ugo Falcando, 43, 156, 218. Umbriatico, 97. Uthman, governatore di Taranto, 83. Utman ibn al-Hazzaz, 39. Val Demone, 25, 29, 31, 197. Val di Mazara, 24, 29, 197, 202. Val di Noto, 29, 197, 202. Val di Susa, 66. Valencia, 222. Valva, 169. Venafro, 77. Venezia, 70, 72, 129, 131, 145, 176, 182. Ventimiglia, 91. Verdun, 157. Vesuvio, 110. Via Appia, 66. Vicari, 234. vicus amalfitanorum (Palermo), 45. Villafranca (Olivula), 88. Vitale, santo, 106. Volturno, fiume, 77, 83. al-Walid ibn Muslim ad-Dimashqi, 146. al-Wansharisi, 210. Yahya ibn al-Tifashi, 219. Yaqob Ishaq al-Israeli, 162. Yaqub ben Ishaq, 164. Yaqub ibn Ishaq, 89, 90, 93. Yaqub ibn Killis, 164-165. Yaqut, 39-41, 145-146. Yayha, 225. Yehudah ben Semuel, 163. Yusuf, emiro kalbita, 27. Yusuf ibn Ibrahim, 40. Zirita, dinastia, 196-197. Ziyadat Allah, emiro aglabita, 22.

Indice del volume

I. Siracusa, 21 maggio 878

3

1. Premessa, p. 4 - 2. Parla un monaco, p. 6 - 3. Morte di una capitale, p. 10 - 4. Prigionieri, p. 14

II. Al nord del mondo

19

1. Conquista, p. 20 - 2. L’enigma, p. 26 - 3. Con gli occhi di Ibn Hawqal, p. 35 - 4. Palermo, p. 44 - 5. Appartenenze, p. 50

III. Quando in Italia c’era il «jihad» 57 1. Il «jihad», p. 58 - 2. Nel vivo della guerra santa, p. 65 -3. Un Meridione sotto scacco, p. 69 - 4. L’emirato di Bari, p. 73 - 5. L’ultimo emiro, p. 77 - 6. La guerra santa di Ibrahim ibn Ahmad, p. 83 - 7. Verso nord, p. 87 - 8. Talassocrazie a confronto, p. 91 - 9. Il ritorno di Bisanzio, p. 95 - 10. Santi guerrieri, p. 100 - 11. Come «Palermo o Africa», p. 107 - 12. Al termine del «jihad», p. 116

IV. Nel Mediterraneo musulmano

121

1. Monete, p. 122 - 2. L’economia della «Geniza», p. 127 3. Nel cuore del Mediterraneo, p. 138 - 4. I «Rum», p. 147 - 5. Mercanti d’uomini, p. 154 - 6. La vera storia di Musa ben Eleazar, p. 161 - 7. La seta e il lino, p. 165 - 8. Il legno, p. 171 - 9. Miracoli di un’agricoltura, p. 173 - 10. Da Nord del mondo a Sud d’Europa, p. 176

V. Una nuova guerra santa 1. Un regno in formazione, p. 184 - 2. Questione di facce, p. 189 - 3. L’ultimo «mujahidin», p. 196 - 4. Quando «i demoni spaziano nelle costellazioni delle asteroidi», p. 200 - 5. Una «fatwa» per non morire, p. 207 - 6. Un mondo allo sbando, p. 211 - 7. Le sensazioni di Ibn Jubayr, p. 222 - 8. Resistenza, p. 232 - 9. Pulizia etnica, p. 238

­­­­­305

183

VI. Lucera

243

1. 25 agosto 1300, p. 244 - 2. Ghetto, p. 248 - 3. Conclusione, p. 252

Bibliografia

257

Glossario

281

Cartine

285



295

Indice dei nomi e dei luoghi