Sotto il sole di Satana

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Sotto il sole di Satana

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Georges Bernanos

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Sotto il sole di Satana L______________________ J romanzo

Georges ß



scrittore di profonda ispirazione catto­

lica (Parigi 1888-Neuilly 1948) analizza il problema del peccato e della grazia in figure e aspetti della provincia fran­ cese. Soggiornò a Maiorca, in Brasile (durante la seconda guerra mondiale), in Tunisia. La sua opera migliore resta il primo romanzo Sotto il sole di Satana (Sous le soleil de Satan, 1926); da ricordare anche Journal d’un turé de cam­ pagne (1936); Nouvelle histoire de Mouchette ( 1937). Scrisse pure numerosi libri polemici, tra i quali Les grands cimitières sous la lune ( 1938) sulla guerra civile di Spagna.

Sotto il sole di Satana « Dritto, sul limite del pendio, l’alta sagoma ap­ pena visibile sul fondo pallido e mobile del cielo, l’abate Donissan seguiva d’uno sguardo triste e qua­ si interiore l’ombra che vagava sotto di lui tra gli ar­ gini di argilla. Di quell’ombra misteriosa, li a due passi, che si veniva avvicinando sempre più, egli non sapeva nulla, sebbene fosse posseduto da una certezza calma, assoluta, piena di silenzio, che la cosa che saliva su, verso di lui, sciabordando nella fan­ ghiglia, doveva essere l’ultimo e supremo personag­ gio di quella notte indimenticabile. « — Oh! è lei! — disse Mouchette con una smor­ fia dolorosa di contrarietà.... »

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dalíOglio

Sotto il sole di Satana a ROBERT VALLERY-RADOT

che lesse per primo questo libro e gli piacque. G. B.

designer di copertina:

Roberto Borioli

Volumi pubblicati1. 1 2 3 4 5 6 7

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Italo Svevo Senilità Jakob Wassermann II caso Maurizius James Joyce Gente di Dublino Frank G. Slaughter Affinché nessuno muoia Stefan Zweig Sovvertimento dei sensi Thomas Mann La montagna incantata (vol. I) Georges Bernanos Sotto il sole di Satana

In preparazione-, 8 - Thomas Mann La

montagna incantata

(vol. II)

Georges Bernanos

Sotto il sole di Satana prefazione di Tommaso Gallarati Scotti traduzione di Cesare Vico Lodovici

daH’Oglio, editore

Titolo dell’opera nell’edizione originale: SOUS LE SOLEIL DE SATAN

Proprietà artistico-letteraria dell’editore

INTRODUZIONE

Confesso che di Giorgio Bernanos nulla sapevo prima della lettura del suo « Sous le soleil de Satan ». No« avevo notizie sulla sua vita né sul suo indirizzo d’arte e di pen­ siero. Non ho fatto indagini sulla sua ortodossia. Anzi dif­ fidavo del suo romanzo come in genere diffido dei romanzi dei letterati francesi dalle nuove tendenze religiose che mi sembrano avere troppa fortuna mondana e poca interiorità schietta. Il neo-cattolicismo d’oltralpe che si vende sotto copertina gialla e fa buoni affari librari mentre che il ven­ to dura favorevole alle tendenze spiritualiste e la Chiesa è sentita più come rifugio estetico di spiriti raffinati e stan­ chi o come puntello di reazioni, che non « madre dei San­ ti »; la equivoca religiosità di chi accetta dogmi e riti senza più discutere, alla superficie, e non scende alla radice e non vive i misteri divini, lascia esitanti per la troppa facilità i pensosi lettori che ricordano i tormenti e le difficoltà di coscienza e d’arte dei grandi scrittori cattolici: di un Man­ zoni o di un Pascal. Ma il romanzo di Bernanos ha vinto in gran parte le mie antipatie preconcette per la potenza artistica del libro e per la profondità spirituale della sua indagine della vita. Da molto tempo non mi trovavo di fronte a un libro capace di turbare le anime e di turbare il critico, ciò che a mio parere è un titolo di onore. Questa è infatti una di quelle opere d’arte che possono riuscire ingrate a moltissimi, specie a quei lettori che, nel romanzo come a teatro, non amano di dover troppo tormentarsi sentendosi obbligati a guardar dentro di loro stessi, e che i grossi problemi della danna­ zione e della salvezza relegano in sedi separate e ben lon­ tane dalla vita quotidiana, quasi come i morti nel cimitero; ma per quanto ingrata bisogna pur vanire a cozzare con essa 5

quando si fa tanto di incominciarla e pur rifuggendo vi in­ segue, come il protagonista del libro, l’abate Donissan, in­ segue spiritualmente la povera lAouchette lAalorthy che lo fugge, lo teme e lo detesta. Il nuovo turba sempre, e il romanzo di Bernanos è es­ senzialmente nuovo; diverso da quanto la letteratura fran­ cese va ripetendo da molto tempo, lontano da tutte le com­ plicazioni erotiche e gli estetismi morbidi sia pur truccati di misticismo. Esso rompe anche con la tradizione di quella stucchevole e perfetta composition, che era una conquista tecnica della letteratura narrativa francese, per cui i ro­ manzi che si ammucchiano a dozzine, belli o brutti, em­ pi o pii, hanno uno stampo comune di fattura, una formula di svolgimento e di misura, quasi una marca di fabbrica. Questo finalmente è un libro ribelle ai buoni precetti di composizione di un romanzo, a cominciare dalla sproporzio­ ne delle parti, di cui la prima, che è la fredda narrazione del delitto di lAouchette che uccide l’uomo che amava e col quale aveva una relazione, rimane nella sua crudeltà reali­ stica di fattaccio di sangue, sospesa senza continuazione e senza giustificazione fino a metà libro. Nulla in esso è con­ cesso all’artificio di intrecci o di situazioni, alle comparse e presentazioni dei personaggi. Nulla alle ingombranti de­ scrizioni di natura e di ambienti. Chi scrive non sa guar­ dare le cose dal di fuori; vede poco i colori e le forme; è di una sobrietà puritana. Il suo occhio guarda al di dentro e dal di dentro, ed è troppo preoccupato del problema cen­ trale dell’anima, per perdersi in curiosità laterali. Il veri­ smo, che si distendeva in superficie, qui discende in pro­ fondità. Perché mai perdersi e baloccarsi a riprodurre sen­ sazioni, volti e abiti, paesaggi e case, mari e monti, quando sentiamo che queste non sono che illusioni della inganne­ vole figura di questo mondo che passa? Quando sappiamo che non sono che sipari, tele, assiti e quinte di un palcoscenico improvvisato per le marionette che prendono sul se­ rio la loro parte, come quell’accademico di Francia, gonfio come tutti gli accademici della sua immortalità da burla, che chiude il libro? Quando il vero dramma interessante è quel­ lo che si combatte dentro il cuore umano tra Dio e Satana, e le uniche cose che valgano per chi sollevi il velo della mo-

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notoria stupidità degli uomini, si chiamano salvezza e dan­ nazione? Lo stile del libro a me sembra derivare essenzialmente da questo suo spirito esclusivo, ribelle ugualmente al ve­ rismo materialistico come al dilettantismo estetico: dalla sua severità, anzi intolleranza giansenistica, per lo spirito superficiale dell’arte mondana che tutto vuol godere e tut­ to comprendere senza credere in nulla; che va bevendo co­ rn’ape il miele a tutti i fiori senza lasciarsi mai afferrare dal­ la realtà suprema e nascosta, dalla cosa unica e necessaria per la quale vai la pena di soffrire e morire. Bernanos afferra il lettore di colpo, il solito lettore ozio­ so che va ai concerti, alle conferenze e ai cinematografi, forse anche alla messa della domenica, ma che dei novissi­ ma non vuol sentir troppo parlare e rifugge dai misteri che danno il brivido; e lo mette di fronte a Satana in lotta con la santità, oggi, nel nostro tempo, sotto i nostri occhi, con quella stessa volontà di richiamo con cui in piena estate, nel Lazzaretto di Milano, un grande frate cappuccino lan­ ciava il cadavere di una vecchia tra le coppie danzanti che su l’orlo della morte, tra le rovine della morte, tentavano dimenticare la presenza della invisibile ospite. In una socie­ tà che, come osservava Gladstone, ha « perso il senso del peccato »; che lo riduce a una attività dello spirito, e sor­ ride dell’inferno come di una fiaba buona per far paura ai bambini o agli sciocchi; in mezzo a questa fiera delle vanità che è la letteratura, egli fa sorgere la paurosa ombra del­ l’arcangelo ribelle, del nemico di Dio, a cui egli crede ap­ punto perché crede in Dio, come vi hanno creduto quanti sono giunti, attraverso a una dolorosa esperienza del mondo delle anime, a scoprire la grandiosa lotta a cui partecipano cielo e inferno intorno a ogni uomo; come vi hanno credu­ to i grandi poeti e pensatori cattolici a cominciare da Dan­ te, che ha descritto l’eterna contesa nell’episodio di Buonconte da Montefeltro. Anche per il romanziere moderno c’è qualcuno tra Dio e l’uomo, che non è un personaggio secondario, che non è un mito; c’è un essere incomparabilmente sottile, a cui nul­ la potrebbe essere comparato se non l’atroce ironia e il riso crudele. A lui è stato concesso per un tempo di essere l’op­ positore di Dio, il Principe del mondo, di vincere, anche in

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questa terribile monotonia del peccato, l’uomo: questo gran­ de fanciullo pieno di vizi e di noia. Ma di fronte al « ne­ mico che mai non dorme », come lo chiama un nostro cro­ nista antico, contro l’arcangelo ribelle, in questo dramma terrestre e celeste, l’Autore ha sentito con pari intensità il sacerdozio mosso dalla volontà eroica e disperata di salvare anime. Mella luce fredda e terribile che diffonde dal suo cielo, Lucifero ha visto un piccolo uomo nero, un povero prete di campagna, un rozzo vicario alquanto goffo, igno­ rante e anche ridicolo, che non osa attribuirsi delle grazie speciali pur possedendole, ma che sa di avere una missione: quella di perseguitare il Demonio nelle anime, e che per questa missione sublime compromette il suo riposo e quasi anche il suo onore sacerdotale. L’arte è stata spesso tentata di descrivere il prete; di preti in arte ne conosciamo anche troppi, ma se escludia­ mo i tipi immortali dei « Promessi Sposi » da Don Abbon­ dio al Cardinal Federigo, ci sembra che essi pecchino quasi tutti per le intenzioni polemiche o apologetiche dei loro autori. Troppo spesso noi ci troviamo di fronte, nel roman­ zo, più che a figure di sacerdote a idee vestite in veste ta­ lare, a stati di animo esagerati nel bene o nel male, a ripe­ tizioni di modelli convenzionali, propri di chi non è mai penetrato nel fondo dell’anima di un prete e del clero co­ nosce la maschera e non il volto. Il Bernanos ha scritto invece un romanzo di preti, ma di preti veri, in carne e os­ sa, come chi li conosce bene, senza cedere ai motivi co­ muni, 'senza ricorrere ai tipi che possono piacere o « agli sciocchi increduli » o ai troppo « creduli sciocchi », senza rimestare fango di tentazioni erotiche da Santi Antoni im­ maginari stuzzicati dalle fantasie di una mal digerita ca­ stità. Non esistono tentazioni frivole in questo mondo illu­ minato sinistramente da Satana. Il frutto proibito dà nau­ sea, l’amore dei sensi non può attrarre chi dal confessionale ode salire la monotona litania della colpa, il cattivo odore di questa umanità corrotta, il gemito di infinita noia lascia­ to dal piacere. Niente amore in questo dramma di preti, perché altre sono le passioni, altre le tentazioni più sottili e terribili del confessore: tentazioni di orgoglio spirituale, tentazioni di sfiducia in questo oscuro branco cieco e sordo 8

che è trascinato sulla terra dietro piccole cose disgustose e immonde dal « nemico potente e vile, magnifico e vile »; tentazioni su Dio che tace, su Dio che permette; tentazioni contro la luce che par vinta dalle tenebre; senso di smar­ rimento, di angoscia mortale, di apparente abbandono al potere avverso; preghiera che rasenta la bestemmia, jede che tocca la disperazione. L’abate Donissan non è che uno dei tanti confessori, dotato di speciali lumi, di poteri straordinari non spiegabili umanamente. È una specie di curato d’Ars, la cui vita irradia sulla folla da un confessionale. Più che romanzo, questo li­ bro che ci parla di lui vorrebbe essere dunque, soprattutto nella seconda parte, una biografia nel senso nuovo, secondo le tendenze nuove dell’arte biografica che la riavvicina alla poesia; interpretazione di uno spirito, scoprimento dell’es­ senziale di una esistenza, analisi interiore d’una vita appa­ rentemente chiusa nella minuscola parrocchia di Lumbres e che pur s’apre sul mondo e sull’oltremondo, e che pur tocca, nella sua apparente umiltà e ignoranza, una sapienza di divinazione e di penetrazione di questo povero cuore umano che « la Sorbona ignora ». Noi lo seguiamo, il sin­ golare curato, attraverso le manifestazioni di una vita mis­ sionaria scomposta, eccessiva e talora quasi pericolosa per la troppa passione religiosa, non in una trama organica di avventure romanzesche, ma in uno svolgersi di episodi di vita interiore e nei rapporti suoi con altri superiori e con­ fratelli, quali quel curato di Campagne, l’abate Menou-Ségrais, asmatico, nervoso, irascibile, sottile, ma magistrale clinico delle anime, come ne sa formare la Chiesa, e che scruta tra ostile e commosso il mistero del suo vicario, fin­ ché gli sembra di vedere chiaro che le sue opere hanno il segno della grazia e vengono da Dio. Eppure in questa vita d’uomo la cui esperienza è tutta di anime, non manca il grande dramma, non mancano le ore tragiche e turbinose, appassionanti se anche discutibili, dal primo incontro nella notte col gran nemico, dal primo entrare nella sua vita di colui che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, non sempre riconosciuto; fino all’al­ tro incontro nel quale Dio gli permette di vedere coi suoi oc­ chi attraverso l’ostacolo carnale l’anima di Mouchette Malorthy, questa « piccola serva di Satana », per nulla simile

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alle indemoniate di maniera: una « santa Brigida del nul­ la », una ragazza comune, volgare eroina del piccolo mondo borghese e provinciale — mirabilmente descritto — rical­ cata sopra un personaggio favorito e che il prete strappa da quella « pace muta, solitaria, glaciale » che è il « capola­ voro » del Diavolo. La strappa anche dalla disperazione fi­ nale che l’ha indotta ad afferrare un rasoio nella camera di suo padre, immergendosi freddamente la lama nel collo; trascinandola a morire in chiesa, ai piedi dell’altare, tra lo scandalo e la riprovazione di tutti, dal vescovo alle autorità civili e scientifiche che lo giudicano pazzo. Poi viene la casa di salute, poi la Frappa di Portefontaine. E poi Lumbres: il luogo deserto dóve egli par sepolto per sempre, allon­ tanato da tutti per sempre, e dove invece la gente viene a cercare di lui e viene a cercarlo « la gloria, di fronte alla quale ogni gloria umana impallidisce ».

Ha voluto dunque, il Bernanos, tentare anch’egli, dopo il Fogazzaro, sebbene con arte e con pensiero diversi, di proporre un esempio di santo immaginario da seguire? Ha voluto forse creare artisticamente un eroe della bontà da imitare? Nessun artista è tanto grande da piegare con le sue mani un’aureola per cingerne la testa di un uomo, e quando l’arte vuol pronunziarsi su questo grande segreto di Dio, che solo la Chiesa scruta, l’arte si attribuisce poteri che non ha. Bernanos non ha voluto esprimere troppo chia­ ramente il suo pensiero su la canonizzazione possibile di un curato come quello di Lumbres, e ha fatto bene. Egli si è accontentato di descrivere da poeta, secondo documenti che dichiara autentici, anche se noi possiamo dubitare di una autenticità dichiarata in un romanzo, la vita di un uomo eccezionale, separato da ogni consolazione umana, pressato giorno e notte dalla gente nel suo confessionale; l’uomo di Dio disputato come una preda, senza riposo, senza amici, coi più terribili scrupoli che risorgono, con l’angoscia di dover toccare le piaghe più oscure e la disperazione delle anime dannate. Ma sui segni esteriori, sui miracoli, sulle vi­ sioni, sui faccia a faccia col Demonio, evidentemente stu­ diati nelle vite di santi autentici, anche tra i più moderni, il romanziere non si è pronunziato. Quando il suo personag­ gio ha tentato il prodigio, quando in un accesso di quasi 10

follia ha creduto di poter osare ciò che qualche santo era stato chiamato ad osare: il risveglio di un fanciullo morto, egli è miseramente fallito, egli è stato confuso in una vo­ lontà che credeva di Dio e che non era. Invece il miracolo vero, il segno unico che le sue opere venivano da Dio e non dal Demonio è parso allo scrittore il potere di questo prete, esteriormente inoffensivo e mediocre, di far piegare le gi­ nocchia ai peccatori. Il Bernanos non ha inteso di canonizzare il curato di Lumbres, ma solo di indagare l’affascinante segreto della santità per concludere che tra gli increduli che negano i santi e i troppo creduli che ritengono la santità come un’er­ ba che cresce nei campi, estremamente facile a cogliersi, e pei quali i santi sono delle sorridenti immagini con un col­ po di pennello in tondo intorno al capo, buoni per ottener grazia, pochi sanno che la santità è simile a un albero « tanto più fragile quanto è di essenza più rara », battuto da tutti i venti, minacciato da tutte le tempeste; che essa è un dono pauroso, una elezione piena di mistero a portare la croce di tutte le miserie, a sopportare in sé la guerra tra il cielo e l’inferno, nella quale nessuno può mai dire di essere riuscito vincitore fino al superamento dell’ultimo pensiero e dell’ultima immagine; una fatica in cui non è lecito all’uomo dir « basta ». Cosi pure egli ha scrutato il mistero della Grazia, ope­ rante in un uomo di modesta levatura e di nessuna cul­ tura intellettuale; la trasformazione luminosa di una natura greggia e non interessante, sotto l’influsso dell’azione divi­ na. Per questo ha tentato sentieri scabrosi, esperienze rare; ha amato scrutare le tenebre di un universo sconosciuto, conteso da Satana. Ma in una simile analisi tormentosa ha perduto talora il senso della verità umana che persuade. Hella sua reazione contro l’intellettualismo e contro il com­ promesso tra religione e scienza, rappresentato dall’ex-professore curato di Luzarnes, non ha visto che ùn lato del grande mondo della santità e della grazia. Si è gettato con passione cieca dalla parte della « santa follia » e della « beata ignoranza »; si è compiaciuto di questa antitesi fra grazia e intelligenza, che non risponde d’altronde alla ma­ gnifica storia della santità cattolica, né a quella del sacer­ dozio cattolico, e che forse non risponde nemmeno al mo­ li

dello reale da cui ha tratto la sua creazione d’arte: dai veri e grandi convertitori come lo stesso curato d’Ars, tanto diletto all’Autore; dai sublimi apostoli di bene che ebbero interi i doni dello Spirito Santo. Tra questi doni ricordo la Sapienza, l’Intelletto... la Scienza. Non so che vi sia la semplicità degli sciocchi e la sia pur santa follia degli squi­ librati. Manca insomma qualcosa al « santo » di Lumbres per essere un vero santo. Se quello del Fogazzaro ragionava forse troppo, questo del Bernanos ragiona troppo poco per essere degno degli altari. E non sorride mai. Non si accorge nel suo cupo terrore di Satana e nella sua visione apocalittica del peccato, che un divino soffio di bontà passa sul mondo e nelle anime, che l’alito creatore rinnova perennemente l’umanità alle sue radici, che forze nuove rigenerano il mondo cristiano a ogni aurora. Non sente ciò che hanno scritto i veri santi, — e oso dire che ne ho conosciuto qualcuno che mi ha insegnato molte cose — la serenità dopo le tempeste, la semplicità del fanciullo che sa guardare la terra come illuminata dal sole di Dio; la preghiera che canta col cuore mondo il can­ to di tutte le creature del nostro grande Santo italiano, pia­ gato, tormentato anche da Satana, ma che seppe sentire più forte di tutte le tentazioni e della stessa morte la « vera letizia ».

Tommaso Gallarati-Scotti

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PROLOGO

STORIA DI MOUCHETTE

I Ecco: è l’ora della sera che P. J. Toulet amava. Ecco: l’orizzonte che si sfa (una gran nuvola d’avorio da ponen­ te e, dallo zenit al suolo, il cielo crepuscolare, la stermi­ nata algida solitudine) pieno di un liquido silenzioso. È l’ora che il poeta distillava la vita nel suo cuore, per estrarne l’essenza arcana piena di balsami e di tossici. Già il branco umano brulica nell’ombra, con le sue mil­ le braccia, e le mille bocche; già il boulevard si mette alla vela e inalbera i fanali: il poeta, coi gomiti sul tavolino di marmo, guarda sorger su, come un giglio, la notte.

In quest’ora comincia la storia di Germana Malorthy, del borgo di Terninques in Artois. Suo padre era uno di quei Malorthy del Bulonnese, che sono una dinastia di mu­ gnai e di civaiòli; tutta gente d’una pasta, da far d’un sac­ co di farina buona misura, ma larghi negli affari e buonviventi. Malorthy il vecchio fu il primo che mise radice sul suolo campagnardo, vi prese moglie, e lasciato il grano per l’orzo, si dette a manipolare birra e politica, pessime en­ trambe. I civaiòli di Douvres e di Marquise lo ebbero da allora in conto di matto pericoloso da finir sulla paglia do­ po aver portato il discredito su ima classe di commercianti che non avevan mai avuto da chieder nulla a nessuno, fuor­ ché il riconoscimento dei loro onesti profitti. « Noi siamo liberali di padre in figlio », solevano dire, e con questo intendevano che si mantenevano dei bottegai senza pecca. 13

Perché il dottrinario in rivolta, del quale il tempo si pren­ de gioco con profonda ironia, non ha miglior caposaldo del pacifico cittadino: la posterità spirituale di Blanqui ha po­ polato gli atti di registrazione, e di quella di Lamennais sono ingombre tutte le sacrestie. Il villaggio di Campagne ha due gerarchi. Gallet, uffi­ ciale sanitario, imbevuto del breviario di Raspad, depu­ tato del Collegio. Dall’alto soglio a cui lo ha innalzato la sua sorte, contempla con un po’ di nostalgia il paradiso perduto della vita borghese; la piccola città sconosciuta, e il salotto famdiare di stoffa verde dove s’è venuta gonfian­ do la sua nullità. Pensa in buona fede di costituire un pe­ ricolo per l’ordine sociale e per la proprietà; se ne ramma­ rica, e non prendendo mai la parola e astenendosi dal voto spera di prolungarne in tal modo la cara agonia. — Non mi si rende giustizia — Than sentito esclamare un giorno, questo fantasma, con pungente sincerità: — an­ diamo! ho anch’io una coscienza! — Re del luogo, ma sen­ za reame, gli stava di contro il marchese di Cadignan. Se­ guendo il corso dei grandi affari su le « Mondanità » del Gaulois e sulle « Rassegne Politiche » della Revue des deux Mondes, covava l’ambizioso sogno di rimettere in uso in Francia la caccia col falcone. Per sua sfortuna, avendo tra­ dito le sue speranze e dato fondo alle sue riserve i proble­ matici falconi di Norvegia acquistati a peso d’oro, egli era stato costretto a tirar il collo a tutti quei cavalieri teuto­ nici, contentandosi, più modestamente, di- preparare i terzuoli per le allodole e per le pavoncelle. Nelle ore libere, a voler credere alle chiacchiere, dava la caccia alle ragazze: che la maldicenza della gente doveva contentarsi di pette­ golezzi e di induzioni, dato che il galantuomo le sue bat­ tute le faceva da solo e guardingo, sulla pesta, come un lupo. Il

Malorthy padre ebbe dalla sua donna una figliola cui avrebbe voluto, a tutta prima, mettere nome Lucrezia, in omaggio all’idea repubblicana. Il maestro di scuola, scam­ biando in buona fede la virtuosa matrona per la madre dei Gracchi, combinò sull’argomento un discorsetto, ricordan­

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do come già Victor Hugo ne avesse celebrato prima di lui la memoria immortale. I registri dello stato civile si orna­ rono perciò dapprima d’un si grandioso nome, ma poi, per disavventura, il curato, preso da scrupolo, s’avvisò di dover attendere il parere dell’arcivescovo, e, spinte o sponte, il focoso birraio dovette soffrire che a sua figlia fosse impo­ sto al fonte battesimale, il nome di Germana. — Se fosse stato un maschio non avrei ceduto — dis­ se: — ma, trattandosi di una femminuccia...

La femminuccia toccò i sedici anni. Una sera, nell’ora della cena, Germana entrò nel salot­ to con un secchio pieno di latte fresco. A due passi dalla soglia, si fermò di colpo, impallidì e piegò. — Oh Dio! — esclamò Malorthy —■ la piccola si sen­ te male! La poverina si portò le mani al ventre e scoppiò in la­ crime. Lo sguardo acuto della mamma Malorthy incontrò quello della figliola. — Babbo, lasciaci un momento sole — disse. Come succede, dopo mille induzioni confuse, dire e non dire, l’evidenza scoppiò tutt’a un tratto, come una esplo­ sione. Né colle preghiere, né colle minacce, neanche con le bòtte, non si poté trarre dalla sua pervicacia più che qualche lacrima infantile. La ragazza meno agguerrita ma­ nifesta, durante queste crisi, un lucido sangue freddo, che altro non è — non c’è dubbio — se non il sublime dell’i­ stinto. Dove l’uomo si smarrirebbe, la donna tace. Esaspe­ rando la curiosità ella sa bene che disarma la collera. Otto giorni dopo Malorthy, tra una buffata e l’altra della sua pipa saporosa, disse a sua moglie: — Domani vado io dal Marchese. Ho un’idea. Ho pau­ ra di aver capito tutto. — Dal Marchese!... Antonio, questo tuo orgoglio sarà la tua rovina: tu non sai nulla di positivo; vuoi andar a farti compatire, tu. — Si vedrà, — rispose il galantuomo. — Sono le die­ ci; va’ a dormire. Ma quando, il giorno dopo, si trovò sprofondato in un seggiolone di cuoio nell’anticamera del suo temibile avver15

sario, gli fu chiara d’un tratto la sua audacia. Svanita la collera: — Occhio a non varcar il segno — si disse in segreto. Perché egli si era ritenuto capace di trattare anche que­ sta faccenda come molti altri affari, da contadino astuto, senza ombra di amor proprio. Per la prima volta lo sover­ chiava il tono della passione, che si esprimeva in una lingua sconosciuta. Giacomo di Cadignan aveva da poco toccato i quaran­ tacinque anni. Di mezza taglia, che l’età già faceva massic­ cia, portava a tutte le stagioni un vestito di velluto scuro che lo appesantiva dell’altro. Pur cosi fatto, esercitava un certo suo fascino per una sorta di buona grazia e di rusti­ cana cortesia di cui faceva uro con sicuro talento. Come molti di quelli che vivono nell’ossessione di riu­ scire simpatici e come alla presenza, reale o immaginaria, di una compagna, per quanto si sforzasse di riuscir brusco, autoritario e perfino un po’ rude, bastava che parlasse per esprimere la sua vera natura, poiché aveva una voce che era la cosa più ricca, tutta a sfumature, con degli slanci da fanciullo viziato, intima, tenera, persuasiva, e due occhi azzurro-chiari limpidi, senza profondità e pieni di una luce fredda, che gli venivano dalla sua mamma irlandese. — Buona sera, Malorthy — disse: — si accomodi. Malorthy s’era, difatti, alzato in piedi. Dopo aver pre­ parato la sua brava allocuzione, si stupiva ora di non ritro­ vare neanche una parola. Dapprima parlò come imo in so­ gno, aspettando che la collera gli venisse a dare una mano. — Signor Marchese — disse — si tratta di nostra figlia! — Ah! — fece l’altro. — Vengo a parlarle da uomo a uomo. Da cinque giorni che la cosa è scoperta, ho riflettuto, ho ponderato il pro e il contro: non c’è che da parlare di presenza per intendersi e perciò ho preferito venire da lei prima di andar più lon­ tano. Non siamo poi tra selvaggi, alla fine! — Andar dove? — domandò il Marchese. Poi con lo stesso tono, aggiunse con calma: — Non è che io voglia prendermi gioco di lei, Ma­ lorthy; ma, corpo d’una pipa, lei mi viene a proporre una sciarada! Noi siamo, tanto lei che io, due ragazzi troppo 16

maturi per giocar d’astuzia e girare intorno al tavolino. Devo parlar io per lei? Ecco qua: la ragazzina è incinta, e lei cerca un papà al suo nipote nascituro: dico bene? — Il figliolo è di Vossignoria, — esclamò allora il bir­ raio senza ambagi. La calma di quell’omaccione gli metteva il gelo alle reni. Degli argomenti che si era venuto ripetendo, partitamente e tutti insieme perentori, non ne trovava più nem­ meno uno che avesse il coraggio di produrre. Nel suo cer­ vello l’evidenza svaniva come una nebbia. — Non facciamo scherzi — continuò il Marchese. — Io non voglio usarle scortesie prima di aver sentito le sue ragioni. Noi ci conosciamo, Malorthy. Lei sa bene che sulle belle ragazze io non ci sputo su; ho fatto anch’io, come tutti al mondo, le mie scappatelle. Ma, in fede di galantuomo, non si fabbrica un figlio in questo paese, senza che quelle dannate delle vostre comari non vadano a spulciare i se e i ma e i sembra e i forse. Non siamo più all’epoca del feu­ dalismo: io non mi prendo mai nulla che non mi sia stato prima liberamente concesso. La Repubblica c’è per tutti, corpo di mille cani! « La Repubblica! » pensava, stupefatto, il birraio; e prendeva questa confessione di fede per una fanfaronata, sebbene il Marchese avesse parlato senza enfasi e da vero contadino si sentisse in simpatia verso un governo che pre­ siede ai concorsi agricoli e premia il bestiame più bello e più grasso. Le idee del castellano di Campagne sulla politica e sulla storia erano, d’altro lato, press’a poco quelle del­ l’ultimo dei suoi castaidi. — Sicché? — disse Malorthy, che aspettava sempre un sí o un no. — Sicché io le perdono di essersi lasciato, come si di­ ce, scappare la carica. Lei, il suo deputato del diavolo, e tutti i peggiori giovinastri del paese, mi avete fatto una fama di Barbablù. Il Marchese di qua, il Marchese di là; e il servaggio, i diritti feudali, tutte sciocchezze. Per quanto io sia Marchese avrò diritto alla mia parte di giustizia an­ ch’io, no? Vuole esser giusto e leale, Malorthy? Mi dica francamente chi è stato quello scemo che l’ha consigliato a venire qui da me, a raccontarmi una storia cosi poco gra17

devole, e, oltre a tutto, ad accusarmi. C’è il dito di una donna in tutto questo, eh? Ah, quelle bagasce! Adesso rideva d’un riso ampio e cordiale, d’un riso da battibettola. Poco mancò che il birraio non si mettesse a ridere a sua volta, come dopo un negozio a lungo discusso, e non dicesse: — E va bene, signor Marchese, andiamo a berne un goccetto! Il francese nasce cordiale. — Andiamo, signor di Cadignan, — disse sospirando, — quando altra prova non avessi, tutto il paese sa che lei corteggiava, e da tempo, la ragazza. Guardi: non è che un mese fa, passando per la via Wail, vi ho visto io tutt’e due, all’angolo del pascolo Leclercq, là, seduti nel fossato, a fianco a fianco. Io mi son detto: è un po’ di civetteria, passerà. E poi era fidanzata al ragazzo Ravault, ed è tanto orgogliosa! Insomma il guaio è compiuto. Un signore come lei, un nobile, sulle questioni d’onore non transige. Bene inteso io non le chiedo di sposarla: io non sono cosi scioc­ co. Ma non bisogna neanche trattarci come gente da nulla, fare il comodo proprio e poi piantarci li, perché gli altri ridano alle nostre spalle. Nel dire queste ultime parole, senza volerlo, aveva ri­ preso il tono abituale del contadino che viene a patti; e parlava con umiltà insinuante un po’ impacciata. « Non osa negare — diceva tra sé — ha un’offerta da fare e la farà ». Ma il suo pericoloso avversario lo lasciava parlare a vuoto. Il silenzio si protrasse un paio di minuti, durante i qua­ li non si senti più che il tintinnio di una incudine lontana. Era un bel pomeriggio di agosto; dell’agosto che sibila e ronza. — In conclusione? — disse il Marchese. Durante il breve intervallo il birraio aveva raccolto le sue forze e rispose: — Faccia lei una proposta ragionevole. Ma l’altro seguiva la sua idea; e domandò: — Quel Ravault, è tanto che non lo ha riveduto? — Che ne ho da sapere? — Si potrebbe trovare li il filo conduttore, — rispose calmo il Marchese: — è ima importante informazione. Ma 18

i padri sono cosí ingenui! In due ore io vi avrei consegnato il colpevole, io, mani e piedi legati. — Ma guarda un po’! — esclamò Malorthy sbalordito. Egli non aveva neanche un’idea di quella forma supe­ riore di contegno, che la gente di spirito chiama cinismo. — Caro Malorthy, — continuò l’altro sullo stesso to­ no, — io non ho nessun consiglio da dare a lei: d’altro lato, in una contingenza cosi disgraziata, un uomo come lei non riceve consigli da nessuno. Posso dirle soltanto que­ sto: torni tra otto giorni, intanto si rimetta in calma, ri­ fletta, non faccia scandali, non accusi nessuno; potrebbe trovare chi avesse meno pazienza di me. Lei non è più un ragazzo, diavolo! Lei non ha né testimoni, né lettere, nulla. Orbene, otto giorni bastano per raccogliere le voci del pub­ blico e trarre, da una piccola cosa, un gran profitto; si sente nascere l’erba. Mi sono spiegato, Malorthy? — concluse in tono gioviale. — Forse, — rispose il birraio. A questo punto il tentatore esitò; per un secondo la sua voce si era intenerita. « Vuol farmi vuotare il sacco, — pensò Malorthy: — in gamba! ». Quel segno di debolezza gli ridette coraggio. E, d’altra parte, lo eccitava il sentirsi crescere in cuore la collera. — Prenda le sue informazioni, — prosegui Cadignan, — e lasci in pace la ragazza. Tanto più che non ne cave­ rebbe nulla. Quella simpatica selvaggina li, vede, è come i francolini nel trifoglio; è capace di pedinarle sotto il naso del miglior cane da caccia: da far ammattire un vecchio bracco spagnolo. — È proprio quello che volevo dire io, — dichiarò Malorthy, sottolineando ogni parola con un moto del ca­ po. — Ho fatto quello che ho potuto; posso bene aspet­ tare otto giorni, quindici giorni, quanto si vuole... Malor­ thy non deve nulla a nessuno, e se la figliola gli ha preso una brutta strada, penserà lui a metterla a dovere. È abba­ stanza matura per far marrone; sarà abbastanza matura per difendersi. — Via, via, basta con le parole a vanvera, — esclamò il Marchese. Ma l’altro non esitava più: era persuaso di fargli paura. — Non ci si libera duna bella ragazza tanto facilmen-

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te quanto d’un vecchio poveromo, signor Marchese di Cadignan, lo sanno tutti... Ella è abbastanza conosciuto, capi­ sce? e lei stessa verrà a dirle il fatto suo, corpo di mille diavoli! Occhi negli occhi e in pubblico, perché ha buon sangue sotto le unghie la ragazzina! Alla peggio, alla peg­ gio alle nostre spalle non riderà nessuno. — Vorrei vedere anche questa, quanto è vero Dio! — disse l’altro. — E la vedrà, — giurò Malorthy. — Va bene. Vada un po’ a domandarglielo lei, amico, provi pure a domandarglielo lei! Il birraio vide per un momento il visino pallido e riso­ luto, indecifrabile, e la fiera bocca che da otto giorni chiu­ deva stretto il suo segreto. Allora esclamò: — E sacrabacco, è ben lei che ha confessato tutto al suo babbo! E indietreggiò di due passi. Lo sguardo del Marchese esitò per un secondo, lo squadrò da capo a piedi, poi, d’un tratto, si fece duro. L’azzurro pallido delle pupille si inverdì. Germana avrebbe allora potuto leggervi il suo destino. Andò fino alla finestra, la chiuse, tornò al tavolino sem­ pre in silenzio. Poi scosse le spalle quadrate, si fece presso al suo interlocutore fino a toccarlo e disse soltanto: — Giuralo, Malorthy! — È giurato! — rispose il birraio. Questa bugia gli parve li per li una onesta accortezza: inoltre, non avrebbe avuto il coraggio di rimangiarsi quel che aveva affermato. Tuttavia, un dubbio gli attraversò il cervello, invincibile, e di cui non sentiva che l’angoscia. Tra due vie aperte ebbe l’impressione vaga di aver scelto la peggiore e di essercisi impegnato a fondo senza rimedio. Si attendeva una sfuriata e se l’augurava. Ma il Mar­ chese disse calmo: — Se ne vada, Malorthy. Meglio fermarci a questo pun­ to, per oggi. Lei per un verso e io per un altro, siamo stati giocati a dovere da una sfrontatella che ha imparato prima a mentire che a parlare. In gamba! La gente che la consi­ glia è forse abbastanza furba per evitarle due o tre scioc­ chezze, di cui la più grossolana sarebbe quella di volermi far paura. Si pensi di me quel che si vuole, io me ne infi­

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schio. Insomma, i tribunali non sono fatti per i cani, se lo tenga a mente! L’altro, mentre meditava la risposta, si trovò fuori del­ la porta, solo e confuso. — Quel diavolo li, — disse più tardi, — potrebbe dare dell’orzina per orzo, che si farebbe anche ringraziare. Camminava e riandava tutti i particolari della scena facendosi, a mano a mano, come suole accadere, una parte prevalente. Ma, comunque, il suo buon senso doveva am­ mettere un fatto che offendeva assai il suo amor proprio; la discussione da potenza a potenza, da cui si era ripro­ messo tanto vantaggio, non era approdata a nulla. Anche le ultime parole di Cadignan, piene di un senso misterio­ so, non cessavano dal renderlo inquieto per l’avvenire. « Lei per un verso e io per un altro, siamo stati giocati a dovere! ». Alzando gli occhi vide la sua bella casa in mezzo agli alberi, coi suoi mattoni rossi, le begonie del novale, il fu­ mo della fabbrica di birra, verticale nella chiarità della sera, e senti dileguarsi tutta la sua tristezza. « Mi prenderò la rivincita — mormorava — avremo una buona annata ». Da vent’anni sognava di diventare un giorno il rivale del ca­ stellano: e adesso c’era arrivato. Incapace di idee generali, ma fornito di un senso esatto dei valori reali, non dubitava più di essere il primo cittadino del suo paesetto, d’appar­ tenere alla razza di quelli che comandano; di cui le leggi e i costumi di ciascun secolo riflettono l’immagine e la somi­ glianza; mezzo industriale, mezzo capitalista, possessore di un motore a gas povero, simbolo della scienza e del pro­ gresso moderno; ugualmente superiore al contadino tito­ lato e al medico politicante, il quale altro non è che un borghese fuori di posto. Stabili di mandare la figlia ad Amiens a sgravarsi: nella disgrazia era almeno certo della discrezione del Marchese. D’altro lato i notai di Wadicourt e di Salines non facevan più mistero della prossima vendita del castello. Il birraio, ambizioso, già pregustava questa rivalsa. Più che tanto non arrivava a sognare, essendo troppo povero di im­ maginativa per augurarsi la morte di un rivale. Era uno di quei buoni cristiani che sanno portare, ma non si fanno trasportare dal rancore. 21

* ** Era un mattino del mese di giugno; un mattino tanto limpido e sonoro; un chiaro mattino. — Va’ un po’ a vedere come han passata la notte le bestie, — aveva ordinato mamma Malorthy (perché le sei mucche erano rimaste sul prato dalla sera prima). Sempre Germana rivedrà di poi lo sprone della foresta di Sauves, la collina azzurra e la vasta pianura fino al mare e sulle dune il sole. L’orizzonte che già s’accalda e fuma, la viottola infos­ sata ancora occupata dall’ombra, e tutto in giro i pascoli, e i meli contorti. Fresca la luce come la rugiada. Sempre risentirà le sei belle mucche tossire e buffare, nel mattino chiaro. Sempre respirerà la bruma dall’odore di fumo e dal­ l’aroma di cannella che pizzica in gola e fa voglia di can­ tare. Sempre rivedrà la viottola infossata dove, al levar del sole, l’acqua delle carrarecce si accende di barbagli. E, an­ cora più mirabile, al confine del bosco, tra i suoi due cani Panciatèrra e Guastafeste, il suo eroe, con la pipa di radi­ ca tra i denti, il suo vestito di velluto e gli alti stivaloni, come un re. S’erano incontrati tre mesi prima sulla strada di Dresvres, una domenica. Avevano camminato a fianco a fianco fino alla prima casa, mentre che a lei tornavano a tratti in mente le parole di suo padre e tanti famosi articoli del Réveil de l’Artois, scanditi a colpi di cazzotto sul tavolino, e il servaggio, e i trabocchetti e poi la storia di Francia illu­ strata, Luigi XI col berretto a punta (nello sfondo, appeso, un impiccato e si vede anche la torre du Plessis). Ella rispondeva senza falsi pudori, a testa alta e dritta, con un gentile coraggio. Ma, al ricordo del birraio repub­ blicano, le correva però un leggero fremito, cosi, a fior di pelle... Un segreto di già, il suo segreto. A sedici anni Germana sapeva amare (e non sognare d’amore, che è soltanto un gioco di società)... Germana sa­ peva amare, vale a dire covava in se stessa, come un frutto in maturazione, la curiosità del piacere e del rischio, la fe­ de intrepida di quelle che giocano tutto su una carta sola, affrontano un mondo ignoto, ricominciano a ogni genera­ zione la storia del vecchio universo. La piccola borghese, 22

dall’incarnato color di latte, dallo sguardo sopito, dalle mani cosi soavi, filava in silenzio il suo stame, aspettando l’ora d’osare e di vivere. Ardimentosa al massimo grado nell’im­ maginazione e nel desiderio, ma capace di sensazioni accu­ rate, una volta determinata la meta, adoperando un eroico buon senso. Magnifico ostacolo il non sapere, quando un sangue generoso e ogni battito del cuore spingono a sacri­ ficare tutto all’ignoto. La vecchia Malorthy, nata brutta e danarosa, non aveva mai sperato, per sé, altre avventure che un matrimonio a modo, in cui ha parte il notaio e basta; virtuosa per posizione, eppure dotata di un vivissimo senso dell’equilibrio instabile che regge ogni vita di donna come un edificio complicato che il minimo spostamento può di­ roccare. — Papà, — diceva al birraio — ci vuole un po’ di religione per la nostra figliola. Non avrebbe certo saputo dirne di più, se non che ave­ va il sentimento preciso di quella necessità. Ma Malorthy non si lasciava convincere. — Che bisogno ha del curato? Per imparare poi in con­ fessione tutto quello che non deve sapere? I preti falsano la coscienza delle adolescenti: è risaputo. Perciò aveva proibito alla figliola di seguire le lezioni di catechismo e anche « di frequentare uno qualunque di quei collitorti che seminano — diceva — la zizzania nelle famiglie meglio ordinate ». Parlava anche, in termini sibil­ lini, dei vizi segreti che guastano la sanità delle ragazze che ne imparano in collegio la pratica e la teoria. « Le suore si lavorano le fanciulle a profitto dei preti » era una delle sue massime. « Annullano in precedenza l’autorità ma­ ritale » concludeva, battendo il pugno sul tavolino: perché non ammetteva scherzi sul diritto coniugale, il solo diritto dispotico ammesso da certi liberatori del genere umano. E quando la Malorthy mamma si lamentava che la loro figliola non avesse neanche un’amica e non uscisse mai dal giardinetto cosi funebre dei tassi nani: — Lasciala in pace, — rispondeva. — Le ragazze di questo paese del diavolo, sono tutte piene di malizia. Con la storia del patronato, le figlie di Maria e tutto il resto, il curato se le tiene sottomano un’ora buona tutte le dome­ niche. In guardia con quella gente. Se tu avessi voluto in­

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segnarle a vivere, avresti dovuto dar retta a me e man­ darla alle scuole di Montreuil e a quest’ora avrebbe la sua brava patente. Ma alla sua età che ha da valere l’amicizia delle ragazzine? Ma niente! So quel che dico, io! Cosi parlava Malorthy, sulla falsariga del deputato Gal­ let, che non era insensibile a certi delicati problemi di pe­ dagogia femminile. Il brav’ometto, difatti, essendo stato il medico di fiducia dell’Educandato di Montreuil, la sapeva lunga sul conto delle ragazze, e non ne faceva mistero. — Dal punto di vista della scienza... — diceva talvol­ ta col sorriso d’un uomo passato attraverso a molte illu­ sioni, pieno d’indulgenza per l’altrui piacere, e, senza cer­ carlo, tuttavia, per sé.

Nel giardino dei tassi nani sotto la veranda ignuda che ha odor di mastice d’inferriata, è il luogo dove si è stanca­ ta di aspettare quel che non si sa e che non viene mai, la ragazzina ambiziosa. Di là è stata la sua partenza per andar più lontano che in capo alle Indie. Per fortuna di Cristoforo Colombo la terra è rotonda; la caravella leggendaria non appena slegati gli ormeggi era già sulla via del ritorno. Ma un altro cammino può tentarsi, dritto, inflessibile, che sempre più si allontana e non si ritorna, nessuno mai. Se Germana, o quelle che domani si metteranno per la stessa via, potessero parlare: « A che vale — direbbero — far rotta pel vostro viaggio, che non porta in nessun luogo? Che me ne ho da fare di un universo tondo come un gomi­ tolo? ». Talvolta un tragico destino attende chi sembrava nato per una vita pacifica: e allora si grida alla sorpresa, al fatto imprevisto. Ma i fatti non sono niente: il tragico preesiste nei cuori. * * * Se non ne fosse uscito cosi profondamente offeso nel suo amor proprio, Malorthy si sarebbe forse determinato a dar relazione a sua moglie intorno alla sua visita al castel­ lo. Pensò che fosse miglior partito dissimulare per qualche tempo ancora le sue preoccupazioni e le difficoltà incon­ trate, chiudendosi in un silenzio altero, pieno d’oscure mi­ nacce. E poi voleva la rivincita e gli sembrava di ottenerla 24

facilmente con un colpo di scena in famiglia e alle spalle della sua figliola. Piace infatti all’impotenza riflettere la sua nullità nel dolore degli altri. E perciò, appena finito di cenare, Ma­ lorthy, d’improvviso, con la sua voce di padrone: — Figliola, — disse, — ho da parlarti. Germana alzò il viso, posò lentamente sul tavolino il suo lavoro a maglia e attese. — Tu hai mancato gravemente — continuò nel mede­ simo tono, — molto gravemente. Una figlia che cade in colpa, in una famiglia, è come quando uno fa fallimento... tutti possono domani mostrarci a dito, noi gente senza la minima tara, che fa onore alla sua firma e non deve niente a nessuno. Ecco! E in cambio di chiederci perdono, e di consigliarti con noi com’è dovere, che cosa fai tu invece? Tu piangi fino a crepare, tu non sai fare che oh! e e tutte queste geremiadi. Ma quanto a metter sulla buona traccia tuo padre e tua madre, neanche l’idea. Silenzio, di­ screzione e acqua in bocca! Ma questo non durerà neanche un giorno di più, — concluse battendo il pugno sul tavo­ lino, — o io ti farò vedere chi sono. Basta coi piagnistei. Vuoi parlare? Sí o no? — Io non chiedo di meglio, — disse la disgraziata, tanto per guadagnare tempo. L’ora attesa e temuta era giunta, senza dubbio: ma ecco che al momento decisivo tutte le idee maturate in silenzio, da sette giorni, le si affollavano tutte insieme nella mente, in tremendo subbuglio. — Ho visto il tuo amante, poco fa, — continuò Ma­ lorthy, — con questi occhi: l’ho visto... La signorina tira al marchesato... La birra di suo padre è troppo vile! Povera ingenua che si crede già dama e castellana in un cerchio di conti e di baroni e un paggio per reggerle lo strascico! Ma abbiamo scambiato due parole, io e lui. Vediamo un po’ se siamo d’accordo: tu mi hai da promettere di rigar diritta c di obbedire a occhi chiusi. Ella piangeva con piccoli sussulti, senza rumore, lo sguardo limpido tra le lacrime. L’umiliazione che aveva tan­ to temuto in precedenza, ora non le faceva più paura. « Ne morirò di vergogna, è sicuro » si era detta non più tardi del giorno prima, aspettando d’ora in ora la burrasca. E

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adesso cercava di sentire quella vergogna e non la senti­ va più. — Mi ubbidirai? — ripeteva Malorthy. — Che cosa volete che faccia? — disse. Egli rifletté un momento. — Domani verrà qui il dot­ tor Gallet. — No, — interruppe ella — sabato, il giorno del mercato. Malorthy rimase a bocca aperta a guardarla. — M’era uscito di mente: io non ci pensavo più; pro­ prio vero: sabato. Ella aveva fatto il suo rilievo con una voce chiara e po­ sata che suo padre non le conosceva. Sul canto del focolare, la madre ne ebbe un colpo al cuore e dette in un gemito. — Sabato, bene. Ho ben detto sabato, — continuò il birraio che perdeva il filo del discorso. — Gallet è un uomo che conosce il vivere del mondo. Non manca di scru­ poli né di sensibilità. Serba le tue lagrime per quando sare­ mo da lui, figlia mia. Andremo insieme a trovarlo. — Oh no!... — disse ella. Tratti i dadi, in piena battaglia, ella si sentiva ben li­ bera e ben viva. Quel « no » le parve sulle proprie labbra dolce e amaro come un primo bacio. Era la sua prima sfida. — Come sarebbe? — tuonò il galantuomo. — Andiamo, Antonio! — disse la mamma Malorthy, — ma lasciaci il tempo di respirare! Che vuoi che possa dire al tuo deputato questa creaturina? — La verità, corpo di bacco! — esclamò Malorthy. —■ Prima di tutto il mio deputato è un medico; e una. Se il ragazzo nasce fuori del matrimonio noi potremo avere una sua parola per un istituto di Amiens, e fa due. E poi un medico è l’istruzione, la scienza... non è un uomo. Il medi­ co è il curato del repubblicano. E poi, mi fate ridere, voialtre, coi vostri segreti! Credi che il Marchese sia il primo a parlare? La ragazza era ancora minorenne, al momento; potrebbe essere un argomento da portarci chi sa dove! E ce lo porteremo, in Corte d’Assise, sacrabacco! C’è poco da darsi tutte quelle arie, c’è poco da prenderci per imbecilli, c’è poco da negar l’evidenza! Ti mentono come si respira! Questo Marchese in pantofole! Disgraziata! Non sai che è arrivato a metter le mani addosso a tuo padre? 26

Questa nuova bugia egli non l’aveva premeditata: non era che un tratto di eloquenza che, del resto, non arrivò neanche a segno. Il cuore della ragazza ribelle batté più forte, non tanto per il pensiero dell’oltraggio fatto al suo signor padre, quanto per l’immagine intravista del suo eroe nella magnificenza della sua collera. La sua mano: quella mano tremenda! E con perfido sguardo ne cercava i segni sulla guancia paterna. — Lascia fare un momento a me, — disse allora la vecchia Malorthy, — lascia che io le parli. Prese tra le mani il capo della figliola: — Povera scioccherella, — disse, — a chi vuoi con­ fessare la verità, se non a tuo padre e a tua madre? Quan­ do io ho avuto sentore della cosa, era già troppo tardi: ma poi! Adesso lo sai a che valgono le promesse degli uomi­ ni? Tutti bugiardi, Germana! La signorina Malorthy, peuh! mai conosciuta! E tu non avrai il coraggio di fargli in­ goiare la sua menzogna? Tu lascerai credere che ti sei data a un buono a niente, a un’anima servile, a un fanfaluco? Via, confessalo! Ti ha fatto promettere di non dir nulla: ma non ti sposerà, figlia mia! Vuoi che te lo dica io? Il suo notaio di Montreuil ha già l’ordine di vendere la fat­ toria di Charmettes, mulino e ogni cosa: il castello farà la stessa fine: una di queste mattine, piazza pulita! Più nes­ suno. E per te gli sberleffi del primo che capita. Ma, insomma, rispondi, testa di legno! — esclamò. « Più nessuno! ». Di tutto quello che avevan detto non ritenne che queste parole. Sola, abbandonata, spodestata, ripiombata giù. Sola nel brago, come tutte... e pentita. Qua­ le cosa più tremenda, al mondo, della solitudine e della noia? di questa casa senza gaiezza? Allora, giungendo le mani sul cuore, istintivamente ella si cercò i seni giovinetti, ¡I piccolo petto profondo, già ferito. Vi compresse le dita sotto la stoffa leggera, finché una nuova certezza le fiori dal suo dolore, con un grido dell’istinto: — Mamma! Mamma! Meglio morire! — Basta! — disse Malorthy — tu sceglierai tra noi e lui. Quant’è vero che mi chiamo Antonio, ti do ancora un giorno... Comprendi bene, cattiva creatura! nemmeno un’o­ ra di più. Tra se stessa e il suo amante ella vedeva quest’omac­ 27

cione infuriato, lo scandalo irreparabile, l’affare concluso, richiusa la sola porta sull’avvenire e sulla gioia. Certo, ave­ va promesso di tacere, ma questa era anche la sua salvaguardia... Quell’omaccione li, che adesso odiava... — No! No! — diss’ella di nuovo. — O Dio Signore, è matta! — gemeva la mamma Ma­ lorthy alzando le braccia al cielo, — è matta da legare! — Ma certo che mi farete ammattire, — riprese Ger­ mana, piangendo più forte. — Perché volete anche farmi del male, dopo tutto il resto? Decidete di me come vor­ rete, battetemi, mandatemi via, mi ucciderò. Ma non vi dirò nulla a nessun costo. E quanto al signor Marchese, so­ no tutte bugie: non mi ha neanche toccata, mai! — Sgualdrina! — mormorava il birraio tra i denti. — Che mi interrogate a fare se poi non mi volete cre­ dere? -— ripeteva ella con voce infantile. Affrontava suo padre, lo sfidava attraverso le lacrime, si sentiva piu forte della propria adolescenza, della sua cattiva adolescenza. — Credere a te? — disse il padre alla fine. — A te? Ci vuol altro, per metter di mezzo quel poveruomo di tuo padre. Te l’ho da dire? Ha finito per confessare, il tuo spa­ simante. L’ho preso in trappola con una delle mie trovate. « Potete negare fino a domani, ho detto, tanto la ragazza ha confessato tutto a me! ». — Oh, Mam... ma, mamma, — balbettava ella — co­ me ha avuto il coraggio... come ha avuto il coraggio.,. I suoi begli occhi blu, d’un tratto asciutti e accesi, di­ vennero color di viola; impallidì e non fu più capace che di rimasticare nella bocca inaridita qualche parola senza suono. — Taci, vuoi ammazzarmela! — ripeteva la mamma Malorthy. — O poveri noi! Ma, cosi senza parole, gli occhi blu avevano detto anche troppo. Al birraio arrivò lo sguardo di lei furtivo e pieno di disprezzo. Quella che difende i suoi nati è meno terri­ bile e meno risoluta di quella che si vede strappare la carne della sua carne, il suo amore, ben altro frutto. — Vattene — balbettava il padre, offeso: — va’ via. Fuori! Ella aspettò un momento con gli occhi bassi e le labbra 28

tremanti, trattenendo la confessione pronta a sfuggirle co­ me un insulto supremo. Poi raccolse il suo lavoro, l’ago e il gomitolo e passò la soglia con passo fermo, più rossa d’una legatrice di covoni nel tempo della mietitura. Ma, una volta fuori, fece la scala in due salti e chiuse la porta come una ventata. Per la finestra socchiusa poteva spinger lo sguardo fino in fondo al viale e vedere, tra due ortensie, il cancelletto di ferro fuso, dipinto di bianco, che chiudeva il suo piccolo mondo, al limite d’un campo di por­ ri. Di là, altre casette di mattoni, allineate, fino allo svolto della strada, dove si vedeva fumare un brutto tetto di stop­ pa su quattro mura di falasco cadenti; dimora di un di­ sgraziato Lugas, ultimo mendicante del circondario. Quelle stoppie diroccate in mezzo ai begli embrici tesi; ecco un al­ tro mendicante, un altro uomo libero. Si stese sul letto sprofondando la guancia nel cuscino, cercando di raccoglier le idee, di rimetterle in ordine; e non intese più, nel suo cervello confuso, che il fenomeno della collera. Per due ore, Germana si rivolse pel capo tanti proget­ ti quali sarebbero sufficienti a conquistare il mondo se il mondo non avesse già i suoi padroni, di cui le fanciulle non si curano. Per quanto gemesse e gridasse e piangesse, non riusciva a mutare né poco, né tanto, l’evidènza inesorabile delle cose. Una volta conosciuto il suo segreto e confessata la colpa, che speranza le poteva restare di rivedere presto, anzi mai, il suo amante? E lui, ci si sarebbe prestato? « Se crede che io abbia tradito il nostro segreto — pensava — non mi stimerà più ». « Una di queste mattine, piazza pu­ lita! » aveva detto la mamma Malorthy, poco fa. Ghe cosa strana! Per la prima volta aveva provato una certa ango­ scia, non al pensiero dell’abbandono, ma a quello della sua futura solitudine. Il tradimento non le faceva paura: non ci aveva pensato mai. La piccola vita borghese, rispettabile, l’onesta casa di mattoni, la birreria bene avviata col suo mo­ tore a gas povero, la buona condotta che porta in sé la sua ricompensa, il rispetto che deve a se stessa una giovinetta, figlia di un notevole industriale, sicuro, la perdita di tutti questi beni messi insieme, non le dava nemmeno un minuto di preoccupazione. Vedendola, alla festa, cosi ben vestita e pettinata con serietà; sentendo il suo riso fresco e vivo, il 29

padre Malorthy non aveva mai dubitato che la sua ragazza non fosse accostumata, « tirata su come una regina », co­ m’egli diceva, talvolta, non senza orgoglio. Diceva anche: « Io ho la mia coscienza e basta ». Ma egli non aveva sapu­ to consultare mai altro che la sua coscienza e il suo libro mastro. Il vento rinfrescò: da lontano i rettangoletti delle fi­ nestre si accesero uno dopo l’altro: il viale inghiaiato non fu più, di fuori, che un vago biancore; e il ridicolo giar­ dinetto fu presto cancellato, a dismisura profondo nelle dimensioni della notte. Germana si svegliò dalla sua collera come da un sogno. Balzò dal letto, venne ad ascoltare alla porta, non senti più nulla fuor che l’abituale russare del birraio e il ticchettio solenne della pendola: tornò alla fi­ nestra aperta, fece dieci volte il giro della sua gabbia esi­ gua, senza rumore, agile e furtiva come una lupacchiotta. Come? Come? Già mezzanotte? Un alto silenzio è già un po’ il pericolo e l’avventura; il bel rischio: le anime generose vi si aprono come ali. Tut­ to dorme, nessun legame più... « Libera! » diss’ella d’un tratto con quella voce rauca e grave che il suo amante non conosceva, e con un gemito di piacere. Difatti era libera, adesso. — Libera! Libera! — si ripeteva, con certezza sempre più vasta. Certo non avrebbe saputo dire che cosa la faces­ se libera né quali catene fossero cadute. Ella fioriva tutta aperta nel silenzio complice. Ancora una volta un giovane animale, la femmina, sulla soglia di una bella notte provava con esitazione, poi con ebbrezza, i suoi muscoli adulti, e i denti e l’unghiatura. Lasciava tutto il passato come l’addiaccio di un giorno. Apri la porta a tastoni, discese la scala scalino per scalino, fece cigolare la chiave nella toppa e ricevette in pieno viso una buffata d’aria aperta che mai non le era sembrata cosi frizzante. Il giardino si allontanò come un’ombra... il cancelletto oltrepassato... la strada... la prima svolta... di là da quella, finalmente, essa respirò, lasciando alle sue spalle il villag­ gio oscuro, massiccio tra gli alberi. Allora sedette sull’erba del poggio tutta fremente ancora del piacere della scoperta. Il cammino percorso le parve immenso. La notte, davanti 30

a lei, come un asilo e come una preda. Non si proponeva nessun progetto, sentiva nel cervello un vuoto delizioso. « Vàttene: va’ via. Fuori! » aveva detto dianzi Malor­ thy padre. Niente di più semplice: l’avevano mandata fuori, e lei c’era andata.

Ili — Sono io, — rispose. Egli si alzò d’un balzo, stupito. Un grido di tenerezza, un parola di rimprovero avrebbe senz’altro scatenata la sua rabbia. Ma la vide li, diritta e semplice, sul limite della porta, apparentemente quasi impassibile. Dietro di lei, sul­ la sabbia, il gioco della sua esile ombra. Ed egli riconobbe al primo sguardo, lo sguardo serio, imperturbabile che gli piaceva e quell’altra luce piccolina, inafferrabile, che le bril­ lava in fondo alle pupille striate. Si riconobbero a vicenda. — Dopo la visita di tuo padre, colla folgore sul capo, a un’ora dopo mezzanotte, qui da me, te la meriteresti, guarda! — Dio santo, come sono stanca — disse ella. — C’era una pozza nel viale: ci sono caduta dentro due volte, mi sono bagnata tutta fino alle ginocchia. Dammi un bicchiere d'acqua, per favore. Non mai per l’innanzi la loro perfetta intimità, — e anche qualche cosa di più — aveva mutato il tono abituale della loro conversazione. Lei lo chiamava sempre « Signó­ le » e anche « Signor Marchese ». Quella notte, gli dava ilei tu per la prima volta. — Non si può negare, — disse egli allegramente: — hai un bel coraggio! Ella prese, seria, il bicchiere che le fu offerto e si stu­ diò di portarselo alle labbra senza tremare, ma i suoi den­ tini stridettero contro il cristallo ed ella batté le palpebre senza poter trattenere una lacrima che le scese fino al mento. — Uff! — concluse. — Vedi, ho la gola chiusa dal gran piangere. Due ore ho pianto sul mio letto. Ero diven­ tata matta: sai, avrebbero finito per ammazzarmi. Ah si, gran bei genitori ho io! Ma non mi rivedranno mai piu. — Mai? — esclamò l’altro. — Non dir sciocchezze,

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Mouchette (era il nomignolo della loro intimità). Non si lasciano le ragazze batter la campagna come le pernici a S. Giovanni. La prima guardia che incontri ti riporta nella tua stia. — Crede proprio, lei? — disse ella. — Ho del denaro. Chi mi impedisce, per esempio, di prender domani il treno per Parigi? La mia zia Egle sta a Montrouge, ha ima bella casa con una drogheria. Lavorerò e sarò sempre contenta. — O sciocchina, sei maggiorenne, forse, tu? — Diventerò, — rispose imperturbabile: — basta aspettare. Volse gli occhi un momento, poi, sollevando tranquil­ lamente lo sguardo sul Marchese: — Mi tenga con lei — disse. — Tenerti con me? Bell’idea! — esclamò l’altro, caçiminando in lungo e in largo per dissimular la sua angustia. — Tenerti qui? Tu vai a colpo sicuro! E dove ti nascon­ do? Credi che io ci abbia, qui, una segreta per le belle ra­ gazzine? Ma, furba che sei, non si vedono che nei romanzi, certe cose! Prima di domani sera li avremo tutti addosso: tutti: tuo padre colla polizia, mezzo il paese colle forche alla mano; e da ultimo anche il deputato Gallet, dottore del diavolo e gran chirurgo delle salsicce. Ella scoppiò a ridere battendo le mani, poi, subito se­ ria, notò con voce raddolcita: — Gallet? Ah già! Dovevo andare domani a trovarlo insieme con mio padre. Una sua idea fissa. — Una sua idea fissa! Una sua idea fissa! Sentite un po’ come lo dice, lei! Te l’ho ripetuto mille volte, Mou­ chette: io non sono un perverso e riconosco il mio torto. Ma, per dio bacco bacchissimo, io non ho più neanche un centesimo. Venduto quel poco che ho qui fino all’ultima bigoncia, mi resterà appena quanto serve a non morire di fame, una miseria. Ho dei parenti ricchi, va bene; la mia zia Arnoult, per dirne una; ma sana a sessantanni come una lasca, soda come una pietra focaia, capace di mettermi due volte sottoterra. Ne ho avute anche troppe delle av­ venture: bisogna far gioco serrato, stavolta, Mouchette! e, prima di tutto, guadagnar tempo. — Oh che bellezza, — disse. — Dio, che bellezza! che bellezza!

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Gli voltava le spalle, lisciando con le mani un mobilet­ to Luigi XV di lacca a pagode, decorato di bronzo dotato. Con la punta delle dita tracciava geroglifici misteriosi nel­ la polvere, sul tavolino di breccia viola. — Lascia in pace quel tavolinetto, — disse l’altro. — Sono anticaglie che ne ho zeppe le soffitte. Non potresti degnarti di rispondermi? — Risponderti? Che cosa? — E lo guardava in faccia col suo sguardo tranquillo di dianzi. — Che cosa! — egli cominciò a dire, e poi dovette voltar gli occhi altrove... — Figliola, non scherziamo e met­ tiamo i punti sugli i. Io non voglio arrabbiarmi. Devi ca­ pire che abbiamo lo stesso interesse, tu e io, a lasciar pas­ sare la burrasca. Pensi che io ti possa portare domani al Municipio? No, vero? E dunque! Non vorrai mica, spero, che io ti tenga qui in barba a tuo padre? Ci sarebbe da ve­ derne delle belle, te lo dico io! È Luna e mezzo di notte, — concluse tirando fuori l’orologio, — ora attacco Bob e ti porto a tutta corsa fino al sentiero della Gardes; prima dell’alba sarai di nuovo a casa tua: mai visti né conosciuti, c domattina tu potrai opporre a Malorthy una faccia di bronzo: poi, quando sia giunto il momento, provvederemo ai casi nostri: parola data! Animo! filiamo! — No, — disse ella: — a Campagne, questa sera io non ci torno. — E dove vuoi andare a dormire, testa di legno? — Qui. In mezzo alla via. Comunque, dovunque; a me che me ne importa? Stavolta l’uomo perdette la pazienza e cominciò a be­ stemmiare come un turco, ma senza risultato: cosi grugni­ sce la tarasca e digrigna i denti attaccata al suo laccio di muschio: Em un prim seden de moupo L’emburgino, l’adus que broupo

— Sono davvero uno sciocco a mettermi in mente di persuadere questa testa dura. E va’, se vuoi, a dormire con le allodole: in fin dei cónti la colpa non è mia. Avrei po­ tuto far di meglio, ma bisognava lasciarmene il tempo: un mese ancora, la bicocca sarebbe stata venduta e io libero. Ma oggi tuo padre mi piomba qui come una bomba, a mi33

nacciare di denunciarmi: uno scandalo del diavolo. Domani tutto il paese mi sarà addosso; tutte le mosche ai cani ma­ gri. E perché poi? Per colpa di chi? Per questa bamboccia qui che si mette a far la testa dura, si smarrisce e si con­ segna mani e piedi legati, e avvenga che può. Prima, mi va a dir tutto al babbo, come al confessore, e poi vien qui, e sbrigatela un po’ tu, mio caro! Naturalmente io non ti faccio rimproveri, bella mia; ma, però... Andiamo, via, ora falla finita di piangere; falla finita! Con la fronte appoggiata contro l’invetriata ella pian­ geva in silenzio; talché egli credeva di averla convinta e già si sentiva più proclive alla pietà e alla compassione perché è della natura dell’uomo odiare nella sofferenza altrui la propria sofferenza. Tentò di voltarle la testina caparbia, facendole pressio­ ne con tutte e due le mani sulla nuca bionda. — Perché piangi? Non ho pensato neanche una parola di tutto quello che ti ho detto. Eh, lo vedo, il papà Ma­ lorthy, mi par d’esserci, con le sue grandi arie di consigliere generale, nei giorni di comizio: « Rispondi, o disgraziata! E dite a vostro padre tutta la verità; voi! ». Fino a metterti le mani addosso: non ti ha messo, almeno, le mani addosso? — No! no! — rispose singhiozzando. — Su, alza questo visino; e non se ne parli più: è cosa finita. — Lui non sa niente, — esclamò stringendo i pugni, — perché non ho detto niente, io! — Come sarebbe? L’altro non arrivava a capire quella esplosione di orgo­ glio offeso; ma ancor piu lo meravigliava il vedersi di fron­ te una Germana ignorata, dagli occhi cattivi, dalla fronte attraversata da una ruga di collera virile, col labbro supe­ riore un po’ levato, a scoprirle la dentatura bianca. — E non potevi dirlo prima, scusa? — Lei non mi avrebbe creduto, — rispose la ragazza dopo una pausa, con la voce ancora in fremito, ma con lo sguardo già limpido e freddo. L’altro la osservava non senza una viva preoccupazione. Quell’indole capricciosa, quell’umore vivace e aggressivo, e quel modo di ragionare a sbalzi bruschi come gli scarti del­ la lepre, gli eran divenuti familiari. Ma nell’ardore della 34

conquista non vi aveva scoperto, fino allora, che le piccole schermaglie della astuzia di una ragazza intelligente tratte­ nuta da uno scrupolo supremo nell’illusione di essere anco­ ra libera nel momento in cui non si rifiuta già più. La ma­ mmà robusta ispira facilmente una cieca fiducia; e il più esperto cinismo è, in amore, molto più vicino che non si creda ad una quasi candida ingenuità. « Il topo va e viene davanti al gatto — diceva egli talvolta — ma poi finisce che ci resta ». E di averla acchiappata non dubitava affatto: succede a molti amanti di stringere cosi tra le braccia una estranea: la nemica agile e perfetta. Per un momento, quel ragazzone semplice e elementare ebbe, per la prima volta, ¡I presentimento di un prossimo, oscuro pericolo. Il salone in disordine, zeppo di mobili alla rinfusa, tirati giù da poco dalle soffitte dov’erano rimasti tanto tempo ammonticchiati a marcire, gli sembrò, d’un tratto, vuoto e smisurato. E aperse gli occhi per ritrovar, sotto la lampada, il profilo sottile, immobile; l’unica e silenziosa presenza. Poi scop­ piò in una allegra risata. — Sicché? La parola d’onore del papà Malorthy, una spiritosa invenzione? — Quale parola? — rispose la ragazza. — Niente: uno scherzo che so io. Bene, voltati un po’ c chiudi la finestra. Difatti, dietro di lei s’era d’un tratto aperto senza ru­ more un finestrone. Una brezzolina sapida di sale, venuta d.d mare aperto, ma saturata, nel suo cammino, da tutte le emanazioni dolciastre degli stagni, fece volar fino al soffit­ to i foglietti sparsi su di un tavolino e impennacchiò lo scartoccio del lume d’una lingua di fiamma rossa di fulig­ gine. Il vento rinfrescava. A una voce, da un capo all’altro del bosco, si destarono i pini mugghiando. Ella girò la chiave nella toppa e tornò, immusata. — Andiamo, vieni qui, — disse Cadignan. Tirandosi indietro di due passi ancora, con abile ma­ novra ella riuscì a frapporre il tavolino tra se stessa e l’a­ mante; poi si mise a seder sul bracciale d’una seggiola, co­ me una bimbetta. — Vogliamo proprio passar la notte così, Mouchette? l'li! brontolona! — esclamò con un riso sforzato.

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Senza dubbio, egli cercava di aver ragione alla meglio di quell’ostinatezza che sapeva bene di non poter domina­ re; ma più che un desiderio di carezze, di cui era stanco, gli gonfiava il cuore il pensiero di un rischio da affrontare: « L’alba di domani non tarderà a spuntare », pensava con una certa gioia. Perché buono è il riposo, ma assai piti cara una breve tregua. E poi era in quell’età dell’uomo, in cui diventa presto insopportabile restare a quattr’occhi con una donna. — Un momento, permetti, — disse freddamente Mouchette senza alzare gli occhi. Egli non vedeva, di lei, che la fronte liscia, ostinatamente china. Ma la vocetta asprigna aveva una strana riso­ nanza nel silenzio. — Ti do cinque minuti! — esclamò l’altro con giovia­ lità, per celare la sua preoccupazione, perché quella fredda improntitudine gli aveva gelato la sua anteriore gaiezza. (Cosi il cucciolo cordiale e zampicchione riceve sul naso una pronta graffiata). — Tu, dunque, non mi credi... — ella riprese, dopo una pausa di raccoglimento, come a conclusione di un mo­ nologo interiore. — Non ti credo, che cosa? — Non cercare di ingannarmi, va’ là! Sono otto giorni che ci penso sopra; ma da un quarto d’ora in qua mi sem­ bra di capire tutto: la vita... Ridi un po’ quanto ti pare, tu!... Intanto, io non mi conoscevo affatto; io, Germana. Si è felici, senza sapere, per un niente, un bel raggio di so­ le... sciocchezze... ma, insomma, cosi felici, che la gioia vi gonfia la gola; e si sente bene di desiderare altra cosa, in segreto: che cosa? mah! eppure, già necessaria. Tanto, che senza quella tutto è nulla. Non ero cosi sciocca, io, da r;ssa resistere a tanto. Come pensare, dunque, senza una stretta al cuore, che quel testimone oscuro, capace di ser­ virsi di noi senza rendercene conto affatto, ci associ tal­ volta strettamente alla sua innominabile azione? E se que­ sto è accaduto a lei, è perché vuole metterla alla prova, e sarà dura prova, cosi ardua, che può sconvolgere tutta la vita. — Lo so, — balbettava il povero prete. — E quanto male mi fanno le sue parole! — Lo sa? — chiese l’abate Menou-Ségrais. — Come fa a saperlo? L’abate Donissan si nascose il viso tra mano, ma poi, come se di quel primo movimento si fosse vergognato, con la testa alta e gli occhi sulla scialba luce che filtrava da fuori: — Dio mi ha ispirato il pensiero che egli volesse cosi segnarmi la mia vocazione; che dovrei perseguire il Nemi­ co nelle anime, mettendo a repentaglio sicuro la mia di­ gnità sacerdotale e il riposo e la salvezza dell’anima mia. — Non se ne preoccupi! — ribatte con calore il cu­ rato di Campagne. — Non si mette a repentaglio la pro­ pria salvezza che annaspando fuori della propria via. Là dove Iddio ci accompagna, la pace può esserci ritolta, non la grazia.

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— La sua illusione è magnifica, — rispose l’abate Do­ nissan con calma, senza mostrare di essersi accorto quanto fossero lontane, quelle parole, dal suo tono consuetudinario di deferenza e d’umiltà. — Ma io non posso dubitare né della volontà che mi mena, né della sorte che mi è riservata. Lo sguardo dell’abate Menou-Ségrais brillò di quella gioia che prova lo studioso quando, improvvisamente, in­ travede la soluzione a lungo cercata. — Quale sorte le è dunque riservata, figliolo? Il vicario alzò un poco le spalle. — Non le chiedo il suo segreto: un tempo ne avrei avuto anche il diritto: ma adesso si cambia strada, lei e io, e ormai ella non mi appartiene piu. — Non dica cosi — mormorò l’abate Donissan con gli occhi tristi e fermi. — Dovunque io vada, e per quanto a fondo io mi debba impegnare, si, fosse anche nelle mani di Satana, sempre mi ricorderò della sua carità. Poi, come se l’immagine che si veniva impadronendo del suo spirito lo turbasse per troppa angoscia ed egli vo­ lesse fuggirla (o forse affrontarla), balzò in piedi. — Questo è, dunque, il suo segreto! — esclamò Mon­ signor Menou-Ségrais, — ed è questa destinazione che lei sostiene di aver ricevuto da Dio! Ho capito bene? Che lei bestemmiava in se stesso la divina misericordia? Ah, non è questo che io le ho insegnato! Ora mi ascolti un po’, sciagurato che è! Lei non è altro (da quanto tempo?) che la preda, il giocattolo, il trastullo di colui del quale ha tanta paura. Alzando e abbassando le mani fece un gesto di orrore e di desolazione, che però la volontaria vivacità dello sguar­ do smentiva. — Non ho bestemmiato, — riprese a dire l’abate Do­ nissan. — Non ho disperato della giustizia del buon Dio. Crederò fino all’ultimo istante della mia povera vita che i meriti di Nostro Signore Gesù Cristo siano più che bastevoli alla mia assoluzione; alla mia e a quella di tutti gli altri. E tuttavia non può essere senza cagione che m’ha Egli rivelato una volta, in modo cosi efficace, l’orrore spa­ ventoso del peccato, lo stato miserevole dei peccatori e la potenza del demonio.

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— In quale momento... — cominciò a chiedere l’abate Menou-Ségrais. Ma, senza lasciarlo terminare e, anzi, come se non si fosse dato cura di ascoltarlo, il futuro santo di Lumbres proseguí: — Già da un pezzo mi fu concesso di averne un pre­ sentimento. Prima di conoscerne la verità, ne ho portato la miseria. Ognuno di noi riceve la sua parte di lumi: quel­ li più zelanti, quelli più colti hanno, certamente, un senso molto acuto dell’ordine divino delle cose. Io, per me, fin dall’infanzia, ho vissuto meno nella speranza della gloria immancabile futura, che nel rammarico di quella che ab­ biamo perduta. — (Il volto gli si faceva più duro; una ruga di collera gli segnava la fronte). — Ah, padre, padre mio! Ho desiderato, si, di allontanare da me questa croce! Pos­ sibile? Sempre ero costretto a riprendermela: senza di essa la nostra vita non ha senso: il migliore di noi diventa uno di quei tiepidetti che il Signore sputa fuori. Nella nostra profonda miseria, umiliati, oppressi, calpestati dal primo straccione che passa, che saremmo noi se non avessimo al­ meno il senso dell’oltraggio patito? Padrone del mondo non riuscirà mai ad essere, finché ci gonfi il cuore la collera di­ vina; finché una creatura umana saprà, a sua volta, gettargli sul muso il suo « non serviam ». Parole sproporzionate alle interiori realtà che le susci­ tavano venivano affollandosi alle sue labbra. E questa pie­ na di parole in un uomo per sua natura taciturno mani­ festò un quasi delirio. — Devo interromperla, — disse freddamente l’abate Menou-Ségrais — e le impongo di ascoltarmi. Lei parla con tanta foga soltanto per ingannare se stesso e me con lei. Lasciamo questo argomento. Ma io so che ella non è uomo da vane chiacchiere. Sotto questa violenza c’è qualche ri­ soluzione o proposito o forse anche qualche atto che io voglio sapere. Il colpo giunse talmente a segno che l’abate Donissan alzò sul decano uno sguardo smarrito. Ma il vegliardo forte e sottile già proseguiva: — In che modo ha potuto lei concretare, nella sua vita, certi sentimenti che sono, a dir poco poco, per lo meno torbidi e pericolosi?

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Il vicario non rispose. — Allora la metterò io sulla strada, — riprese a dire Monsignor Menou-Ségrais. — Lei ha cominciato con le mor­ tificazioni eccessive. Poi con pari frenesia lei s’è gettato nell’esercizio del suo ministero. I buoni risultati che ne ve­ niva ritraendo le davano una immensa gioia al cuore: avreb­ bero dovuto anche rimetterla in quella pace che invece lei ancora non conosceva. Dio non la rifiuta mai al suo buon servitore giunto che sia al limite delle sue forze. Non l’a­ vrebbe, lei, per caso, volontariamente rifiutata? — No, che non l’ho rifiutata, — rispose l’abate Do­ nissan a fatica. — Ma io sono disposto da natura più alla tristezza che alla gioia. Parve riflettere un momento, cercando per il suo pen­ siero una espressione moderata, conciliativa: poi, d’un trat­ to, deciso, con una voce che la passione faceva più sorda, simile ad una oscura fiamma: — Ah, piuttosto la perdizione, — esclamò, — con tut­ ti i suoi tormenti, che una vile acquiescenza alle opere di Satana! Con sua grande sorpresa, perché s’era lasciato sfuggire questo voto come un grido, e se n’era accorto con un po’ di orgasmo, il decano di Campagne gli prese tutt’e due le mani nelle sue e disse con dolcezza: — Basta. Leggo in lei chiaramente: vedo che non mi ero ingannato: non soltanto lei non ha cercato consola­ zione, ma s’è nutrito lo spirito di tutto quanto avesse for­ za di spingerlo alla disperazione; lei, questa disperazione, se l’è allevata in seno. — Non la disperazione, — rispose l’altro, — ma il timore. — La disperazione, — ripetè sempre dolcemente l’aba­ te Menou-Ségrais, — che l’avrebbe portata, poi, dall’odio cieco del peccato all’odio e al disprezzo contro il peccatore. A queste parole, l’abate Donissan, sciogliendosi dalla stretta del decano e con gli occhi improvvisamente pieni di lagrime: — L’odio contro il peccatore! — esclamò con voce roca, e la pietà del suo sguardo aveva un non so che di selvaggio, — l’odio contro il peccatore! La violenza e la confusione dei sentimenti gli ferma-

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roño le parole sulle labbra; e soltanto dopo una lunga pau­ sa aggiunse, con gli occhi chiusi su una misteriosa visione: — Ho fatto disposizione d’un patrimonio ben più pre­ zioso della vita... Allora la voce del decano di Campagne suonò nel so­ pravvenuto silenzio, ferma, chiara, impossibile da eludere: — Ho sempre avuto per certo che ci fosse nella sua vita interiore, mio caro, un segreto, meglio custodito per ignoranza e per buona fede che per nessuna forma di dop­ piezza. Qualche imprudenza è stata consumata. Non mi stu­ pirei affatto che ella avesse fatto qualche voto pericoloso. — Non avrei potuto far nessun voto senza il permesso del mio confessore, — balbettò il povero prete. — Se non un voto, qualcosa di simile, — ribatte l’a­ bate Menou-Ségrais. Poi, sollevandosi a gran pena fuori dei guanciali, con le due mani sulle ginocchia, senza alzare il tono della voce: — Figliolo, glielo comando. Con grande stupore del decano il vicario esitò a lungo, con lo sguardo impietrito. Poi, con un fremito di dolore: — È vero in coscienza: nessun voto e nessuna promes­ sa. Soltanto e appena un augurio... forse... indubbiamente ingiustificato... almeno secondo la prudenza umana... — E le avvelena l’anima, — ribatte il decano. Allora, scuotendo il capo, risoluto: — Ecco, forse, in che ho meritato il suo biasimo, — disse il vicario. — Il vedere tante anime possedute dal pec­ cato... m’ha, talvolta, dato impeti d’odio contro il Nemico... Per la loro salute ho offerto quanto possedevo o mai possiederò... la mia vita, prima di tutto... - che ha mai da es­ sere? - le consolazioni dello Spirito Santo... Esitò ancora, poi disse, a voce bassa: — La salute dell’anima, se cosi piace a Dio. La confessione fu ascoltata nel più profondo silenzio, che parve creato dalle inusitate parole e in cui anch’esse andavano a perdersi. Allora l’abate Menou-Ségrais parlò di nuovo con la sua solita semplicità e: — Prima di proseguire, — disse — ella deve rinun­ ciare per sempre a quel pensiero e pregare Iddio che glielo 191

perdoni. Inoltre le proibisco di tener parola di questo con altri che con me. Poi, come il vicario stava per rispondere, quel magi­ strale clinico d’anime, sempre fermo nella sua prudenza e nel suo sovrano buon senso, prosegui: — Si guardi bene dàll’insistere. Taccia: ormai non si tratta più che di dimenticare. Sono totalmente informato. Il proposito fu irreprensibilmente concepito e concretato punto per punto. Il demonio, a trarre in inganno quelli di natura come la sua, figliolo, non usa altri mezzi diversi da questi. Se non sapesse abusare dei doni di Dio, sarebbe poco più che un vano grido astioso dall’abisso, senza eco di risposta... Sebbene la sua voce non svelasse nessun eccesso di com­ mozione, che fosse commosso lo si poteva riconoscere dal fatto che si alzò, prese il suo bastone e si mise a cammi­ nare su e giù per la stanza. Il vicario rimaneva li ritto, im­ mobile, impassibile. — Figliolo mio caro, — disse l’anziano, — quanti mai pericoli le sono riserbati! Il Signore la chiama alla perfe­ zione, non al riposo. Lei sarà, di tutti, il meno sicuro nel­ la sua vita, chiaroveggente per gli altri soltanto, sempre tra la luce e le tenebre, instabile. L’offerta temeraria è stata, fino a un certo punto, accettata: e in lei è pressoché mor­ ta, e per sempre, la speranza. Non ne resta che quest’ultimo barlume, senza di che qualunque operare diventerebbe im­ possibile e vano ogni merito. Questo assottigliarsi della spe­ ranza: ecco ciò che è sostanziale. Il resto, sostanziale non è: non è nulla. Sulla via che ella ha scelto: no, sulla quale ella si è precipitata: lei sarà solo, assolutamente solo, e da solo dovrà procedere. Chi la seguisse si perderebbe senza poterla soccorrere. — Io non ho domandato questo, — esclamò il futuro santo di Lumbres con improvvisa violenza. (Per contrasto veramente patetico la sua voce restava cupa e volontaria). — Non ho chiesto grazie cosi singolari. Non ne voglio. Non voglio miracoli! Non ne ho mai chiesti! Che mi si lasci vivere e morire nella mia pelle di poveraccio che non sa né A né B. No! No! Quello che è stato cominciato stanotte non sarà compiuto! Ho sognato. Ero pazzo. 192

Libate Menou-Ségrais tornò alla sua poltrona, vi si distese e ribatte, senza alzare la voce: — Chi può dirlo? Tra quelli che noi onoriamo come i padri della fede quanti ve ne sono che la gente non ab­ bia trattato come visionari? Quale visionario non ebbe i suoi discepoli? Al punto in cui ella è, soltanto le sue opere potranno parlare pro o contro di lei. Dopo un po’ aggiunse, con tono più dolce: — E io, non sono da compiangere, figliolo? La mia esperienza dell’anima umana, una riflessione di molti mesi mi portano a credere che Dio l’abbia eletto. Gli sciocchi increduli non ammettono i santi. Gli sciocchi devoti cre­ dono che i santi spuntino cosi, senz’altro, come l’erba dalla terra. Pochi sanno che la pianta è tanto più fragile quanto più è di essenza rara. La sua sorte, caro, alla quale è senza dubbio legata la sorte di tanti altri, dipende tutta da un passo giusto o falso, magari da un abuso involontario della grazia di Dio, da una determinazione affrettata, da un’in­ certezza, da un equivoco. E lei mi è stato affidato: a me, nelle mie mani: e con che tremore io la offro a Dio! Nes­ sun errore mi è concesso: ma quanto mi è doloroso di non potermi mettere in ginocchio vicino a lei, a render grazie con lei! Di giorno in giorno m’aspettavo una conferma so­ vrannaturale dell’affidamento divino sull’anima sua. La as|>ettavo dal suo zelo, dalla sua sempre maggiore influen­ za, dalla conversione del mio esiguo gregge. Ed ecco che nella sua vita turbata, tempestosa, il segno è scoppiato co­ me la folgore. E cosi mi lascia più perplesso di prima. Per­ ché è ormai sicuro che quel segno è equivoco, che neanche il miracolo è puro! Rifletté un poco e poi, alzando le spalle in segno di impotenza: — Dio sa che io non mi lascerei vincere dal dubbio! Dio sa che l’affrontare il giudizio degli altri anche troppo mi tenta! Mi si accusa volentieri di indipendenza e perfino di insubordinatezza. Eppure ci sono regole che non si possono infrangere. Se lei si dirompesse a colpi di flagello, io potrei l>orvi riparo. Se ella sognasse del diavolo, o lo incontrasse su tutti i crocicchi, bene, questo sarebbe cosa che mi ri­ guarda. Ma quella storia, pur non meno inverosimile, della piccola Malorthy, mi fa veder chiaro... Non posso lasciarla

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libera di parlare e d’agire a suo discernimento nella parroc- i chia, né secondo i suoi lumi... Non posso affidarmi a lei... 1 Devo... bisogna... è necessario che io ne tenga parola ai su- I periori. E il mio appoggio non le servirà gran fatto. D’altro canto lei non dovrebbe dissimulare nulla. E, arrivati a que- 1 sto punto... oh, a questo punto, chi sa quando lei potrà aver ragione della diffidenza degli uni, della pietà degli al­ tri, della contraddizione di tutti! Ci arriverà mai? Mi sarei ingannato io sul suo conto? Troppo è che aspetto. Un vec­ chio non può più sbagliare la sua vita, ma io avrò sbagliato la mia morte... L’abate Donissan usci alfine dal suo silenzio. Invece di disanimarlo, quest’ultimo dubbio espresso lo rincorò visi­ bilmente. Obiettò, con timidità: — Io non desidero nulla cosi forte come d’essere di­ menticato, sparire, e la mia vita ordinaria e i doveri del mio ministero. Se lei volesse, chi mi potrebbe impedire di ridiventare quello che ero prima? Chi si curerebbe di me? Io non attraggo l’attenzione di nessuno. Sono stimato se­ condo il mio merito, e cioè per un povero prete semplice, di facoltà ristrette. Ah, se lei me lo permettesse, io credo che arriverei a passare inosservato fino al buon Dio e ai suoi Angeli! — Inosservato! —- esclamò con dolcezza l’abate Menou-Ségrais, e sorrideva tra le lacrime. Ma, tosto, si inter­ ruppe. Sulla scala risonava il passo insolitamente concitato della cameriera. La porta si spalancò quasi subito, e palli­ dissima, con la premura che mettono sempre le vecchie ad annunziare le cattive notizie: — La signorina Malorthy, — disse, — l’ha fatta grossa... E, già soddisfatta dell’effetto prodotto, aggiunse: — S’è scannata con un rasoio. * * *

Qui si può leggere la lettera di Monsignore al canonico Gerbier. « Caro Canonico, « Le debbo molti ringraziamenti per il sangue freddo, l’intelligenza, la discrezione e lo zelo di cui ella ha dato prova nel corso di talune contingenze assai dolorose pel

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mio paterno cuore. Quel disgraziato abate Donissan ha la­ sciato questa settimana la casa di salute di Vaubecourt dove è stato curato con tutti i riguardi dal dottor Jolibois. Que­ sto medico, allievo del dottor Barnheim di Nancy, parlan­ domi ieri a lungo dello stato presente della salute di quel nostro amato figliolo, ha dato segno di quella ampiezza di vedute, e di quella affettuosa cura che ho avuto già parec­ chie altre occasioni di ammirare in certi cultori della scien­ za che l’amore delle loro discipline ha disgraziatamente al­ lontanato dalla fede. Egli attribuisce questi disturbi passeg­ geri a una grave intossicazione delle cellule nervose di pro­ babile origine intestinale. « Senza venir meno a quel senso di carità che deve es­ sere nostra costante regola di vita, io debbo deplorare con lei la negligenza, per non dir peggio, del decano di Cam­ pagne. Se avesse egli agito con maggior prontezza ed ener­ gia, ci avrebbe senza dubbio risparmiato l’apparente contra­ sto, in cui versiamo, con le autorità civili. Per altro, in virtù del di lei intervento e dopo il primo equivoco, presto chia­ rito, il signor dottor Gallet ha usato verso di noi la più alta cortesia aiutandoci ad arginare lo scandalo. D’altro canto la sua diagnosi è stata confermata dal suo eminente col­ lega di Vaubecourt. Queste due circostanze fanno onore vuoi al suo carattere, vuoi altresì alla sua sapienza profes­ sionale. « La attestazione della signorina Malorthy, le confiden­ ze sfuggite in piena demenza, nel periodo preagonico, non sarebbero state certo sufficienti a compromettere, nella per­ sone dell’abate Donissan, la dignità del nostro ministero. Ma la sua presenza al capezzale della morente, nonostante le proteste formali della signorina Malorthy, non avrebbe dovuto in nessun caso esser tollerata dal decano di Cam­ pagne. Concedo che quel che è seguito non poteva ragio­ nevolmente prevedersi da nessun uomo di buon senso. Il desiderio della giovinetta, pubblicamente manifestato, di es­ ser portata a spirare a piè della chiesa, non si doveva pren­ dere in considerazione. Senza contare che tanto il padre che il medico curante si opponevano a una tale impruden­ za, il passato e la ben nota indifferenza religiosa della si­ gnorina Malorthy facevano legittima la persuasione che, a lei, già stata in cura altra volta per malattia mentale, l’av­

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vicinarsi della morte sconvolgesse il vacillante intelletto. Ma che dire dell’alterco che ne venne?! Delle parole strane pronunciate da quel disgraziato vicario?! Che dire, soprat­ tutto, del vero e proprio ratto di persona commesso da lui, quando, strappando la morente dalle mani paterne, l’ha portata, sanguinante e moribonda, ai piedi della chiesa, per fortuna non distante! Tali eccessi sono d’altri tempi e non si riesce a qualificarli... « Grazie al cielo lo scandalo si è, per fortuna, sedato. Qualche anima buona, più zelante die savia, tentava già di attrarre l’attenzione su questa conversione in articulo mortis, di cui l’assurdità ci avrebbe coperti di ridicolo. Vi ho messo io riparo a dovere. La nostra soluzione ha lasciato | tutti soddisfatti: eccettuato, si capisce, il decano di Cam- jl pagne che, chiudendosi in uno sdegnoso silenzio, s’è com- il portato in modo, per lo meno, singolare. « Dietro mie disposizioni, l’abate Donissan è entrato « nella Trappa di Portefontaine, dove resterà fino a conferma jl della sua guarigione. Confido che la sua piena docilità mi- ■ liti in suo favore e che ci sia luogo a sperare che noi po-ll tremo un giorno, quando siano caduti in oblio questi in- I cresciosi avvenimenti, assegnargli nella diocesi un posticino ■ adeguato alle sue possibilità ».

Cinque anni dopo, in realtà, l’antico vicario di Cam-1 pagne riceveva la nomina di coadiutore d’una piccola par-1 rocchia, nel borgo di Lumbres. Famose ivi si svolsero le j I sue opere. Quella gloria, al cui paragone impallidisce ogni 1 gloria umana, andò a cercare in quel luogo deserto il nuovo11 curato di Ars. La seconda parte di questo libro, sulla scortai di documenti autentici e di testimonianze ineccepibili, nar­ ra l’ultimo episodio della sua nobilissima vita.

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PARTE SECONDA IL SANTO DI LUMBRES I

Apri la finestra; aspettava ancora non si sa che cosa. Attraverso il gorgo di tenebra striato di pioggia la chiesaj sola viva, emanava un fragile barlume di luce... « Eccomi » egli disse, come in sogno. La vecchia Marta, di sotto, sprangava la porta. Da lon­ tano sonò l’incudine del maniscalco: ma egli non ascoltava già più: era l’ora notturna in cui quello spirito intrepido, sostegno di tante anime, vacillava sotto il peso del suo ma­ gnifico fardello. « Povero curato di Lumbres » si diceva da sé sorriden­ do « non ne fa una buona; non sa più neanche dormire! ». E ancora: « Lo credereste? Ha paura del buio!... ». La lampada del santuario stagliava, a poco a poco, nel­ la notte, l’ogiva delle grandi trifore. Di sopra, a picco, il vecchio campanile, tirato su tra il coro e .la navata centra­ le, levava al cielo la sua guglia di legno, con le sue pesanti campane. Ma egli non vedeva più nulla. Era li, dritto in piedi, con la faccia volta alla tenebra, solo, come sulla prua di una nave. L’ondata della notte vorticava, intorno, con voce sovrumana. Dai quattro lati dell’orizzonte accorrevano h lui i campi e le boscaglie invisibili... e dietro i campi e i lx)schi altri borghi, altre ville, tutti uguali, gonfi d’abbon­ danza, ostili al poverello, zeppi di avari arcigni, freddi come sudari. E più lontano, laggiù, le grandi città che non dor­ mono mai. — Dio Santo! Dio Santo! — ripeteva nell’impossibi-

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lità di piangere o di pregare. Come al capezzale di un mo­ ribondo, ogni istante cadeva nella tenebra, d’intorno, senza rimedio. Per quanto corte siano le notti, indugia sempre troppo a far giorno: Celimene s’è già data il rossetto; l’u­ briaco ha bell’e digerito la sua sbornia; la fattucchiera, re­ duce dal sabba, tutta calda ancora, è sgusciata dentro alle sue candide lenzuola. Troppo indugia a far giorno. Ma il gran giusto, dal­ l’uno all’altro polo, stupirà il mondo col suo miracolo. Alla fine egli cadde in ginocchio, come si cola a picco. La giustizia, che un generoso popolo aspetta dal Ministro delle Finanze, non l’andava, lui, a cercar tanto lontana, ma laggiù, sotto un punto dell’orizzonte, bell’e pronta, già in­ trisa nell’alba imminente, fatale, su per la notte che già si frange in bagliori. La mano aperta non si richiuderà... la pa­ rola seccherà sulle labbra... il mostro dell’Evoluzione, in­ chiodato per sempre, smetterà d’un tratto di stiracchiarsi e di gorgogliare... La terribile aurora, sorgendo dall’intimo dell’uomo, darà al più segreto pensiero la sua forma e il suo eterno volume e il cuore fallace e furtivo dell’uomo non potrà neanche più rinnegarsi. Consummatum est vuol dire: tutto è definito per sempre. Loyolet, ispettore Accademico (libero docente di lette­ ratura), vuole un bel giorno far visita al santo di Lumbres di cui si fa tanto parlare in giro. Gli fa una visitina, in in­ cognito, con la moglie e la figliola. Ne resta colpito: « M’ero immaginato un uomo maestoso — disse poi, — di gran sussiego e d’etichetta: e ho trovato un pretonzolo senza nessuna dignità, capace di mangiare per la strada come un accattone ». « Che peccato — aggiunse poi, — che un uomo simile possa credere al diavolo! ». Il curato di Lumbres al diavolo ci crede, e anche in quella notte li, ha paura di lui. — Da varie settimane, — disse egli stesso più tardi, — ero tormentato da una angoscia per me nuova: avevo speso tutto quel tempo al confessionale e d’un tratto mi sentivo accasciato sotto il peso della mia impotenza, e pro-j vavo, con un senso di grande pietà, anche un senso di di­ sgusto. Bisogna essere un semplice povero prete per cono­ scere la spaventosa monotonia del peccato... Non avevo più

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la forza di dir nulla... Non potevo che piangere e pregare... Lassù, in alto, la nuvolaglia si sgarra a brandelli: dieci, cento, mille stelle rifioriscono, a una a una, sullo stelo della notte. Una pioggerellina ricade in pulviscolo da un nembo disperso dal vento. Egli respira l’aria tersa, più leggera e più fresca dopo la tempesta. Stasera non si difenderà più: non ha più nulla da difendere, ha dato tutto, si è svuotato... Il cuore umano, lo conosce bene, lui... (che c’è entrato den­ tro con la sua vecchia tonaca e con gli scarponi e tutto) ...il cuore umano! Il cuore, dove ha preso stanza l’oscuro nemico dell’ani­ ma, il nemico vile e possente, il magnifico pusillanime, il nemico. La stella apostatica mattutina: Lucifero o anche la falsa Aurora... Sa tante cose, lui, — povero curato di Lumbres! — che la Sorbona non sa. Tante cose non scritte, appena mor­ morate, che bisogna strappare a viva forza dall’intimo delle creature, come da una piaga rimarginata. Tante cose! E sa anche quel che è l’uomo: un fanciullone pieno di vizi e di tedio. Che potrebbe imparare di nuovo, quel vecchio prete? I la vissuto mille vite; tutte uguali. Nessuna meraviglia più: adesso può morire. Hanno inventato dei sistemi morali nuo­ vi di zecca: ma il peccato resta sempre qual era. Per la prima volta egli dubita, non di Dio, ma del­ l’uomo. Una folla di ricordi l’assale: pianti confusi, balbetta­ menti di vergogna, il grido penoso della passione che s’era affrancata e che una parola tornò a inchiodar di nuovo al suo tormento; quella parola cosi lucida, che la richiama in­ dietro e le consuma tutta la sua vita. Rivide le misere facce sconvolte, gli sguardi combat­ tuti tra la volontà e il pentimento; le labbra vinte che ce­ dono, e l’amarezza della bocca che nega. E tutti quei falsi ribelli, cosi corrivi alla parola, nel mondo, che poi s’è visti prostrati ai suoi piedi, in modo cosi ridicolo!... Tanti cuori generosi, in cui stagna un segreto: e tutti quei vecchi, come ragazzi — orribile! — E sopra gli altri, col loro sguardo glaciale sul mondo, i giovani avari che non perdonano mai. Oggi, come ieri, come il primo giorno del suo sacerdozio, sempre gli stessi. Ora che è al termine del suo sforzo, gli 199

viene a mancare d’un tratto l’ostacolo. Quelli che aveva voluto far liberi, eran proprio loro a rifiutare la libertà co­ me un troppo grave fardello, e il nemico che ha battuto in breccia fino alle porte del cielo è li, sotto sotto, inafferra­ bile, invulnerabile, che ride. Tutti lo hanno beffato. Tutti. Dicevano di cercare la pace. E non cercavano che una breve pausa, una sosta nelle tenebre. Ai piedi del solitario veni­ vano tutti a gettare la loro bava: poi tornavano ai loro torvi piaceri, alla loro vita deserta di gioia. E si parago­ nava a quei muri vecchi, pieni di vituperi, dove ogni tanto il passante traccia un disegno osceno e che vanno pian pia­ no sgretolandosi con tutti quei loro segreti di scherno. Quelli che tante volte ha consolato, ora non lo ricono­ scerebbero più. In questo momento, che è uno dei più tra­ gici della sua vita, egli si sente assediato da ogni parte; tutto ritorna a galla. Certi pensieri di più sottile perfidia, a lungo respinti, ricompaiono improvvisi senza che li rico­ nosca. A tutti egli ritrova un senso e come un nuovo sa­ pore. Per la prima volta contempla senza amore, ma con commiserazione, il miserando gregge umano nato per pa­ sturarsi e morire. Assapora l’amaro sentimento della sua di­ sfatta e della sua grandezza. Al limite estremo dell’angoscia la sua volontà eroica non si rassegna a dichiararsi vinta e, a tutti i costi, vuol riconquistare il suo equilibrio. Ora egli è li, dritto in piedi, con lo sguardo inflessibile proteso davanti a sé. Quante notti, simili tutte alla presente, fino a quella che sarà l’ultima! Ma la grazia divina continuerà per sem­ pre a trarre il suo colpo in mezzo al branco: e per sempre segnerà taluno, tra i molti, verso il quale la giustizia salirà su, attraverso il tempo, come un astro: l’astro docile che accorre alla voce degli eletti. Ora non guarda più la chiesetta, guarda più in alto. Vibra tutto d’un’esaltazione senza gioia. Non soffre nean­ che più: è fissato per sempre. Non desidera nulla; è vinto. Per la breccia aperta rientra a fiotti nel suo cuore l’orgoglio. — Andavo, senza accorgermene, alla mia dannazione, — diceva più tardi, — e mi si faceva il cuore di macigno. L’idea tante volte accarezzata d’andar a morir ignorato in una clausura in capo al mondo, trappa o certosa, torna a ripresentarglisi allo spirito, ma come un pensiero nuovo, 200

e gli dà una stretta al cuore, dolce e profonda, come un misterioso sommergersi. In certi momenti, una volta, il pa­ store non avrebbe mai abbandonato il suo gregge; aveva sognato di condurselo dietro fino al luogo della sua peni­ tenza, per vivere ancora e ben meritare di lui. Ma, adesso, anche questo pensiero dilegua: è l’ultimo a sparire. L’in­ stancabile amico delle anime non sogna più che il riposo, e qualche altra cosa di cui il segreto pensamento gli allenta tutte le fibre, il bisogno di morire, simile al desiderio di piangere. E, in realtà, di lacrime gli si gonfiano gli occhi, ma non per questo gli si scarica il cuore; e, nella sua inge­ nuità, il buon vecchio non comprende più nulla, si stupisce e non sa che nome dare a quella dolce vertigine. La tenta­ zione suprema che ha perduto, prima di lui, tante altre anime ardenti le quali, superato di un balzo il piacere, in­ contrarono il nulla e lo accettarono in uno slancio defini­ tivo, lo attende ed egli vi si appressa e vi cadrà dentro prima di aver aperto gli occhi. All’estremo del suo immen­ so sforzo la stanchezza, tante volte superata e respinta, si esprime adesso dalla sua sostanza come un’effusione del suo proprio sangue. E senza rimorso. Il nemico ben agguerrito lo avviluppa di questa stanchezza, senza rimorsi, come d’un sudario, con un raffinatissimo gioco che è la parodia feroce delle cure materne. Invano il vegliardo, sfinito, spinge, at­ traverso il biancore della notte, uno sguardo dove è ancora un barlume, ma dove non si rifletterà più il barbaglio del giorno che si leva. Nulla vede egli in sé: nessuna imma­ gine in cui porre l’origine della tentazione; nessun segno del lavorio che lo consuma lentamente sotto gli occhi di un impassibile sorvegliante. Non è neanche più il chiostro l’og­ getto dei suoi desideri; ma qualcosa ancor più tetra della solitudine: svanire in una eterna caduta nelle tenebre che si richiudono sopra di noi. A colui che la domò con tanta tenacia nella propria carne, la voluttà scopre alla fine il suo più vero volto, pieno d’un fermo riso. E non è neanche questa immagine, né alcun’altra, che turberà i sensi del vec­ chio solitario, ma un’altra concupiscenza che si è accesa nel suo cuore candido e tenace: quel delirio del voler sapere che perdette la prima madre degli uomini, dritta e raccolta, alle soglie del Bene e del Male. Conoscere per distruggere e nella distruzione rinnovare conoscenza e desiderio — o

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sole di Satana! — desiderio del nulla per se stesso, abomi­ nevole effusione del cuore! Al santo di Lumbres non resta più che la forza per invocare questo tremendo riposo: la grazia divina gli si è nascosta sotto un velo che gli si è steso sugli occhi, ancora pieni, poco fa, del divino mistero. Quel suo cosi chiaro sguardo ora vacilla, o non sa dove po­ sarsi. Una nuovissima sensazione di giovinezza, una primi­ tiva avidità, simile alla prima rivelazione del senso, gli scal­ da, nelle vene, il suo vecchio sangue, gli pulsa nel suo petto scarno. Va come cercando tastoni, accarezzando la morte attraverso i suoi molti veli, con la mano che più non gli regge. Prima di questo momento solenne, ha mai avuto un senso la sua vita? Non lo sa. Non vede, dietro di sé, che un paesaggio squallido e le folle che ha attraversato bene­ dicendo. Ma come? Il gregge lo incalza, alle sue spalle, lo persegue, lo spinge senza dargli tregua, insaziabile, con quell’ansioso brusio e quello scalpiccio da bestia ferita! Ma non volgerà il capo, egli: non vuole. L’hanno spinto fin là... fino al limite; e di là — oh miracolo! — v’è il silenzio, il si­ lenzio vero, l’incomparabile silenzio della pace. — Morire, — mormora — morire... Scandisce la parola per compenetrarsene, per assimilar­ sela nel suo cuore. Vero è che la sente adesso alla radice della sua sostanza, nelle sue vene, questa parola, sottile ve­ leno... Insiste, rinforza con una specie di febbre sempre più acuta: vorrebbe ingerirla d’un sorso, affrettare la fine. Nel­ la sua impazienza c’è quel bisogno del peccatore, di buttarsi a capofitto nel male, sempre più a fondo, pur di sfuggire allo sguardo del giudice: è il momento in cui Satana grava con tutto il suo peso e fanno gioco tutte in un punto solo le gravi potenze di sotterra. E tuttavia è in alto che si fissa il suo sguardo, verso la plaga di luce grigiastra dove la notte si dissolve in fu­ mate di nebbia. Mai pregò di cosi duro proposito, con tale accento. Mai gli parve cosi forte, tra le labbra, la propria voce, leggero mormorio all’esterno, ma, dentro, rimbombo, come una vi­ brazione chiusa in un blocco di bronzo. Mai l’umile tauma­ turgo di cui si raccontano tante meravigliose imprese, si senti più vicino, a faccia a faccia, col miracolo. Sembra che 202

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gli si plachi per la prima volta ogni volere, irresistibilmen­ te; e che una sola parola pronunciata in quel silenzio possa distruggerglielo senza rimedio. Si, dal suo riposo non lo se­ para più altro che un cenno della sua volontà sovrana. Non osa più guardare la chiesa né, tra le brume dell’alba, le case del suo scarso drappello; un senso di umiliazione lo tiene, che egli s’affretta a dissipare con un atto irreparabile. A che scopo gravarsi di altre inutili cose? E abbassa gli occhi verso la terra, il suo rifugio. Il

In quel momento bussarono due volte alla porta terrena, che dava sulla via di Chavranches. Nel cortUetto tutto il pollaio dette imo starnazzo d’ali. Il cane Giaccò scosse la catena: tutti questi rumori misero un’unica nota chiara nel­ la chiarità mattutina. Gli zoccoli della vecchia Marta già acciabattavano sugli scalini (clic, ciac) e poi, più sordi, sull’erba (floc, floc). Poi si udì la serratura stridere. Il santo di Lumbres si riscosse. Il silenzio totale non è che all’altra riva: se trova un varco anche impercettibile la realtà vi sguscia dentro, risorge, e toma al suo livello normale. Un segno, una parola a fior di labbra bastano a risuscitare un mondo disperso; e certi profumi, aspirati tanto tempo fa, resistono, più tenaci della morte. Il buon vecchio volse lo sguardo, istintivamente, verso il suo mode­ sto cipollone d’argento, ricordo del Seminario, appeso al muro. « Non può essere che per un ammalato, a quest’ora insolita », pensò. Un ammalato, uno di quei suoi figlioli. Col suo sguardo rapido ed aguzzo rivide il villaggio spar­ pagliato e le fumate tra gli alberi. Tutta la parrocchietta e tante anime sulla terra di cui è la difesa e la consolazione lo invocano, lo chiamano per nome. Egli ascolta: ha già risposto; è pronto. Chi l’aspetterà là in fondo alla scala di casa sua, al suo trespolo, come egli la chiama? Quali parole? Che viso? E, di nuovo, subito, quale altra lotta? Perché egli la porta in sé la cosa innominabile, abbarbicata nel suo cuore: larga

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e pesante la sua angoscia: Satana. Lo sa bene di non aver recuperato la sua pace. Un altro respira con lui. Perché la tentazione è come il concepimento di un altro in sé: e la sua tremenda matu­ razione. Egli porta in sé questa zavorra e non ha il corag­ gio di scaricarsene: dove gettarla? In un altro cuore? Ma il santo è, ai piedi della croce, senza amici, sempre solo, da sé. — Signor curato! — esclama la vecchia Marta. — Si­ gnor curato! Senza farci caso ha già sceso la scala, attraversato il vestibolo, e si dirige verso il giardino, con gli occhi soc­ chiusi, sempre seguendo le sue fantasie. La buona donna lo tira per una manica. — In sala, signor curato: è in sala... E fa spallucce con un sorriso di compatimento. La sala è una bella stanza, una bellissima stanza col pavimento ben tirato a cera. Vi si ammirano sei scranne di paglia, due beccaccini reali, impagliati, sul caminetto di marmo grigio, di qua e di là da una grande conchiglia; e una monumentale statua della Madonna di Lourdes, bianco­ azzurrognola, di gesso, d’uno spietato bianco-azzurrognolo (l’ha portata Suor Saint-Mémorin da Conflaces-sur-Somme nelle vacanze della scorsa Pasqua). C’è anche ima « Tumu­ lazione », nella sua cornice di quercia tutta fiorita di muffa. E, infine, sulla tappezzeria dai fiorami svaniti (una tappez­ zeria da alberguccio) presso l’unica finestra, una gran croce nera, nuda, senza il Cristo. (È su di essa che, al primo en­ trare, il curato ha posato gli occhi, e subito li ha volti via). — Signor curato, — disse Marta, — c’è qui il padrone del Plouy, per via di quel suo ragazzo che ha male. Il padrone del Plouy s’è alzato in piedi, ha dato una buona tossita e ha sputato sulla cenere. Davanti a lui fuma ancora, vuota, la tazzina del caffè. — Quale? — domanda distrattamente il buon vecchio. E subito si riprende, diventa rosso sotto lo sguardo di Marta e balbetta. Chi non sa che il padrone del Plouy non ha che un figlio unico? Ma il visitatore non ci fa caso e corregge, tranquillo: — È Stefanino, il ragazzo. S’è buscato, di ritorno dal vespro, come chi dicesse una indigestione. E poi mal di 204

capo da olio santo. Allora, all’alba, dice alla sua mamma: « O mà, non posso più muovermi ». Vero. Né gambe né braccia. Una paralisi. Gli occhi tutti stralunati. Il dottor Gambillett dice: « Povero Arsenio, è finita ». « Una me­ ningite », per dire come ha detto lui. Allora la mia donna ha sentito; che è che non è, non c’è stato verso di farle intender ragione: « Va’ subito a chiamare il curato di Lum­ bres », si mise a gridare lei. Allora ho attaccato il cavallo e son venuto qui. Resta a guardare il curato di Lumbres con uno sguar­ do buono, in cui traluce, però, un pochino di ironia. Da uomo a uomo si sa che voglion dire certe idee delle donne. (E poi un santo di cui se ne contano tante e che non co­ nosce neanche il ragazzino del Plouy, questo santo che ha le sue pècche!). — Amico... figlio mio... — balbetta l’abate, — per me... io... volentieri... volentieri... ma temo... Vediamo un po’, vediamo un po’! Luzames è fuori della mia parrocchia e il curato di Luzarnes... Sono molto grato alla signora Havret del buon ricordo, poveretta, ma io devo... dovrei... Teme, soprattutto, di offendere la suscettibilità di un collega. E poi, davvero, oggi è cosi avvilito! Ma il padrone del Plouy quando ha detto una cosa è quella. Si è già riaggiustato a dovere il suo fazzolettone e richiuso il mantello di lana, mentre Marta, dispotica, mette tra le mani del suo padrone il vecchio cappello color di topo... Bisogna andare. E va.

Ili Il curato di Luzarnes è un uomo alla buona. Poco ba­ sta alla sua vita: un certo numero di sentimenti elementari che la sua prudenza non gli consente di esternare. È ancora di buon essere: sulla cinquantina, non invecchierà mai, non ha età. Ha la coscienza linda come un foglio di un gran libro stampato senza cancellature e senza imbaffature. Non ha un passato proprio vuoto del tutto; qualche gioia ce la ritrova: le conta, si stupisce che siano proprio cosi morte, in cosi bell’ordine, ognuna al suo posto, allineate come 205

cifre. Ma erano poi vere gioie? Di quanto respiro? Di qua­ le battito? È un buon prete, assiduo, preciso, che ama far vita tranquilla, fedele al suo stato, all’età sua, alle idee dell’età sua, pronto a prender questo, a lasciar quello, e d’ogni cosa a trarre il suo piccolo tornaconto; funzionario e moralista nato, capace di vaticinare l’estinzione del pauperismo (come dicono) mediante l’abolizione dell’alcool e delle malattie ve­ neree; e l’avvento di una gioventù sana e sportiva, in ma­ glia di lana, alla conquista del regno de’ cieli. « Il nostro santo di Lumbres », dice talvolta con un sottile sorriso. Ma nel fuoco della discussione dice piutto­ sto, e con altra voce: « Quel vostro santo li! ». Perché, mentre volentieri deplora l’eccessivo formalismo e la scru­ polosità della direzione diocesana, non meno deplorevole gli sembra il disordine cagionato in una assennata giuri­ sdizione dalla presenza di questi uomini miracolanti che imbrogliano tutti i calcoli. « La prudenza e la discrezione che Monsignore dovrà spiegare in questa materia non sa­ ranno mai troppe », conclude, prudente come un canonico e già irto di citazioni testuali. Signore Iddio! Un santo non si concepisce senza un buon numero di guasti, è vero; ma conviene fare anche un po’ la parte del diavolo! Ogni svolta della strada avvicina il curato di Lumbres a questo censore senza misericordia. Di tra la nebbia già scorge i suoi occhi grigi vivi, sornioni, sempre in breccia, dove palpita una fiammella di luce gracilina gracilina. A sei chilometri dalla sua povera parrocchia, al capezzale d’un ra­ gazzo figlio di ricchi, in agonia, e in veste di taumaturgo, che ridicolaggine! Che scandalo! Già si sente preso in pie­ no, già fin d’ora, dalla frase di saluto, maliziosa, dell’altro. Che pretendono da lui? Sperano davvero un miracolo dalla sua mano grinzosa che trema ad ogni scossa, sulla stoffa della sua tonaca stinta dall’uso? E si guarda quella sua mano da contadino, non mai completamente pulita, con un orgasmo da scolaretto. Che è mai, tra gli altri, se non un povero e cocciuto contadino, fedele alla fatica quotidiana, un passo dopo l’altro nel gran campo deserto? Ogni giorno che passa gli mostra un nuovo compito, come un tratto di terra da vangare, affondandovi dentro i suoi scarponi. E va, e va, senza garbo né grazia,

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e benedicendo, col segno della croce, instancabilmente. (Co­ si, tra la nebbia di autunno i nostri vecchi gettavano l’orzo e il grano alle zolle). Perché vengono tanto da lontano, uo­ mini e donne, che conoscono appena il suo nome e certi racconti, sul conto suo, che sembrano leggende? Perché pro­ prio da lui e non da altri che sanno parlare fiorito, curati di città o di grosse borgate, che conoscono cosi bene le cose del mondo? Ben altre volte, al tramontare del giorno, stanco morto, s’è rimuginata in capo quest’idea fino all’ossessione. E poi, chiudendo gli occhi, finiva con l’addormentarsi nel pensiero che i doni di Dio sono imperscrutabili e che le sue vie sono inusitate. Ma oggi! Come succede che il senso della propria impotenza a fare il bene gli dà tanta umiliazione senza met­ terlo in pace? È dunque cosi ardua alle sue labbra la parola della ri­ nunzia in fedeltà? Oh, gli strani meandri del cuore! Tal­ volta ha sognato di sfuggire agli uomini, al mondo, al pec­ cato universale; il ricordo del suo grande, inutile sforzo, della maestà della sua vita, della sua eroica solitudine, stava per illuminare la sua morte di un estremo raggio di amaris­ sima gioia, ed ecco, adesso, dubita anche di questo sforzo compiuto, e che il Maligno lo trascini più in basso. Una creatura di sacrificio, lui? La vittima segnata, de­ signata? Neanche per sogno! Un ignorante maniaco, esaspe­ rato dalla preghiera e dal digiuno, un santo provinciale, a meraviglia dei fannulloni e dei ristucchi di tutto. « È cosi, proprio cosí!... », balbettava a fior di labbra, a ogni sus­ sulto, con gli occhi attoniti. La siepe, a destra e a sinistra, intanto, fuggiva indietro; il calesse filava come un sogno, ma gli andava innanzi la terribile angoscia e l’aspettava ad ogni paracarro. Perché quest’uomo straordinario, a cui tanti altri ripa­ rarono come a un asilo, ebbe il genio della consolazione per tutti, ma non fu mai, lui, consolato. Se ne confidava talvolta, dicono, nei rari momenti in cui voleva liberarsi un po’ dal suo tormento e ne piangeva, tra le braccia del padre Battelier, invocando la divina misericordia con lagri­ me e parole infantili. Dal fondo del modesto confessionale di Lumbres, che odora di tenebre e di muffa, i suoi fedeli, in ginocchio, non sentivano venire che la sua voce supe-

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riore ad ogni eloquenza, che apriva i cuori più duri, sup­ plice, imperiosa, ma sempre, anche nella dolcezza, inflessibile. Dall’ombra sacra, dove si agitavano le labbra invisibili, la parola di pace andava dilatandosi fino al cielo e traendosi dietro il peccatore sguainato dalla sua colpa, Ubero, affran­ cato. SempUce parola, accolta nei cuori, chiara, tutta nervi, eUittica attraverso all’essenziale, poi stringente, irresistibile, fatta per esprimere in pieno il senso d’un sovrumano comandamento; dove, quefli che più l’amarono, riconobbero non pure una volta l’accento e l’eco di una delle più vio­ lente spirituaUtà. Purtroppo, mentre, di fuori, egU si pro­ digava cosi a dismisura, quel dispensatore di pace non tro­ vava in se stesso che disordine, tumulto e sfrenato galoppo della fantasia; un sabba pieno di urla e di contorcimenti. E, alla fine, quel tremendo silenzio. Molta gente non ha mai compreso per qual miracolo quegU che migUaia di creature avevano scelto ad arbitro nei più pericolosi conflitti del dovere avesse da mostrarsi poi, in causa propria, sempre cosi timido e ineguale. « Si fanno gioco di me: si servono di me come di un giocatto­ lo », diceva egU. Cosi gU avveniva di distribuire a piene mani quella pace di cui era cosi povero per sé. IV

— Eccoci, — disse il padrone del Plouy tendendo la frusta verso il fumo di un camino, attraverso agli alberi. Un ragazzotto, dai calzoni blu oltremare, spinse il can­ cello e prese le redini. All’entrata del cortile mastro HavreP saltò a terra. Il suo compagno lo segui fino alla casa. Il curato di Luzarnes li ricevette sulla soglia; alta nera figura. — Caro collega, — disse, — ella è qui atteso come si racconta che un gran signore, in pericolo, attendesse Mon­ signor Saint-Vincent. _ Sorrideva ancora, giovialmente, con una specie di di­ screzione professionale, a due passi dal letto di morte del bambino. Nello stesso tempo addolciva lo scherzo con una vigorosa stretta di mano, alla campagnola. Ma già il curato

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di Lumbres lo portava fuori, qualche passo più in là, in mezzo al pollame spaventato. — Io sono umiliato, veramente umiliato, amico mio, — disse con tutta la dolcezza della sua voce — e la prego di scusare... l’ignoranza di quella povera signora che è di là... E la prego... anche di perdonarmi... Di questo parlere­ mo più tardi, — concluse con altro tono di voce, — e lei vedrà che, dei due, il più in colpa sono io. Il curato di Luzarnes sentiva sul braccio la stretta del­ le dita nervose di lui, un po’ tremanti. Perfino anche quan­ do si umiliava da sé, in quest’uomo sovrannaturale rispun­ tavano i doni che gli erano stati elargiti e gli davano una forza prevalente. — Mio caro collega, — rispose il vecchio professore di chimica, già un po’ meno gioviale, — non deve ella ac­ cusarsi di fronte a me. È vero che io sono considerato, a ragione o a torto, un carattere forte e, perfino, agli occhi di qualcuno, un cattivo carattere. Provenienza scientifica, sa, non altro... questione di sfumature... un vocabolario un tantino diverso... ma ciò premesso, io ho nondimeno la più alta stima per lei... Parlava a occhi bassi sempre piu impacciato. Si sentiva ridicolo, e anche un po’ odioso. Alla fine, tacque. Ma, pri­ ma di rialzare il capo, senti in se stesso, come nello spec­ chio più profondo, lo sguardo dell’altro e, sebbene a malin­ cuore, fu costretto a seguirlo, in piena resa. Per un mo­ mento si senti l’anima nuda al cospetto del suo giudice, li, pieno di misericordia. Non vedeva che lo sguardo di quel volto pallido, irri­ gidito, tremante. Uno sguardo che lo chiamava da lontano, supplice, disperato, più forte che due braccia tese, più com­ passionevole che un grido, muto, buio, irresistibile... « Che vorrà da me? », si chiedeva il pover’uomo, con una specie di sacro terrore. « Mi sembrava di vederlo nel gorgo di fuoco », dichiarò più tardi. Un’oscura pietà gli gonfiava il cuore. Senti tremare, per un istante, più forte sul suo brac­ cio la vecchia mano dell’altro. — Preghi per me, — gli sussurrò all’orecchio il santo di Lumbres. Poi, data una più forte stretta e allontanatosi con bru-

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sea mossa, aggiunse con voce diversa, come di uno che di­ fenda la propria vita: — Non mi tenti! Rientrarono in casa, a fianco a fianco, muti. « Non mi tenti! », aveva esclamato, senz’altro dire. Avrebbe voluto spiegare... scusarsi... già umiliato all’idea di entrare in quella casa come dispensiere dei beni della vita, disperato di potersene trarre senza grave colpa, e senza scandalo per il prossimo. Inoltre, all’improwiso, co­ me in un baleno, le forze avverse che gli avevano fatto guerra durante la penosa notte precedente gli si facevano di nuovo addosso, e la parola che già aveva li sulle labbra (proprio il suo segreto pensiero) si spense d’un tratto nel­ l’unica realtà del dolore. Per quanto il suo solerte nemico lo avesse tratto in basso, non ancora erano spezzati proprio tutti i legami né spenta ogni eco del mondo di fuori. Questa volta però, la mano possente gli aveva dato uno strappo nel vivo, come a sradicare. « Salvati, a tua volta, tu; è l’ora... », ammoniva una voce ignota, non sentita mai, come un tuono. « Finita è la lotta vana e la monotona vit­ toria. Quarant’anni di lavoro e di esiguo profitto, quarant’anni d’una fastidiosa schermaglia, quarant’anni nello stra­ me, bocconi presso la bestia umana, all’altezza del suo cuore disfatto, quarant’anni superati, trascorsi... Affrettati!... Sei al primo tuo passo, all’unico tuo passo fuori dal mondo!... ». E infinite altre cose diceva la voce, che poi volevan dire soltanto quell’una; infinite cose in una sola parola in­ finita, rapide come uno sguardo. Il passato si staccava da lui e cadeva in brandelli. Attraverso l’angoscia, d’un tratto, come un lampo, passava il barbaglio d’una terribile gioia, uno scoppio di ilarità interiore capace di spezzare qualsiasi armatura. Si rivedeva, seminarista giovinetto, nel vestibolo dell’Istituto, un giorno di pioggia... Nel salone tappezzato di damaschi color di ciliegia davanti a Sua Eminenza tutta ornata dei suoi paramenti... Le prime giornate di Lumbres, il presbiterio in rovina, le nude muraglie, il vento d’inverno nel giardinetto... E poi... poi... l’enorme lavoro, e adesso, la folla spietata, assiepata giorno e notte al confessionale del­ l’uomo di Dio, come se si fosse trattato d’un altro curato d’Ars; il distacco volontario da ogni soccorso umano; si, 210

l’uomo di Dio conteso come una preda. Non mai un po' di riposo, né un po’ di pace, fuor di quella guadagnimi u forza di digiuni e flagellazioni, col corpo, alla fine, domalo; il risorger degli scrupoli, l’angoscia di dover sempre metter le mani sulle più oscene piaghe del cuore umano, la deso­ lazione per tante anime dannate, l’impossibilità di soccor­ rerle e di raggiungerle attraverso l’ingombro della carne, l’ossessione del tempo perduto, la immane fatica... Quante volte (e non più tardi della notte scorsa), non ba subito l’assalto di questi pensieri! Ma in quel momento una aspettazione... una grande e mirabile aspettazione lo illumina tutto dentro dentro, e gli consuma i resti della sua interiore sostanza. Egli è ormai l’uomo dei tempi nuovi, il nuovo convitato. Come è già lontano, dietro di lui, tutto quel mondo! Lontano, dietro di lui, il suo gregge restìo. Non ritrova, né ritroverà mai più un cosi vivo sentimento dell’universa colpa. Ora non lo tocca più che l’enorme mistificazione del vizio, e la sua grossolana, puerile menzogna. Povero cuore umano appena sbozzato! Povero cervello arido! Infermo mondo, che palpita nella sua cavità profonda, incompiuto. Gli è ormai estraneo, né lo vuol più conoscere! È pronto a rinnegarlo senza astio. Risale alla luce, come un palomba­ ro, con tutto il suo peso orientato verso le braccia tese, e già con gli occhi intenti alla luce dell’alto, dal fondo del­ l’acqua che vibra nella sua oscurità. « Ti sei affrancato — diceva l’altro se stesso. — La tua vita trascorsa, l’opera tua inutile e commovente, i digiuni, le discipline, la tua fede un po’ ingenua e primitiva, l’umi­ liazione di dentro e di fuori di te, gli entusiasmi degli uni, le ingiuste diffidenze degli altri, certe parole piene di vele­ no, tutto non è che un sogno e l’ombra di un sogno. Tut­ to, fuorché la tua lenta ascensione verso il mondo reale, la tua rinascita, il tuo rifiorire. Sollèvati fino alle mie labbra e ascolta le parole in cui tutta la scienza è compresa ». E porge l’orecchio, in aspettazione. Finalmente è arri­ vato dove voleva condurlo il Nemico, il maligno amico che non ha che una malizia da far valere. Avvilito, schiacciato, spinto a terra come un rifiuto, sof­ focato da un enorme peso, arso da invisibili fiamme, ripre­ so in punta di spada e di nuovo trafitto, guasto, dilaniato, 211

l’ultimo suo spasimo coperto dalla voce terribile degli an­ geli, l’antico ribelle, cui non ha lasciato Iddio a difesa che un’unica, sempre uguale menzogna... La stessa menzogna all’angolo d’una bocca avara, o nella gola avida e morente, dove rantola il piacere feroce, sempre lo stesso: « Saprai... ora saprai... Ecco la prima lettera della parola misteriosa... Entra... entra in me... fruga la viva piaga... bevi, mangia... satollati! ». Perché, dopo tanti secoli, sei ancora tu quello che aspet­ tava egli mille volte ridipinto e ringiovanito, rorido di bel­ letti e di balsami, splendente di olì e di aromi, ridente per tutta la sua dentatura novella, porgendo alla tua aspra cu­ riosità il suo corpo guasto (la sua menzogna totale), da cui la tua bocca non trarrà neanche una goccia di sangue! « Lo vidi, o, meglio, lo vedemmo », scriveva molto tem­ po dopo al canonico Cibot il curato di Luzarnes, ex-profes­ sore del Collegio di Cambrai, « lo vidi in mezzo a noi, con gli occhi socchiusi, e per un po’ lo osservammo muti, non volendo interrompere il silenzio. L’espressione naturale del suo viso era di bontà piena di compunzione, in cui molti degli astanti, i più avvisati, rilevavano però una certa caratte­ ristica di ingenuità. Ma la sua ossuta maschera ci parve, a tutti, in quel momento, come pietrificata da un sentimento di una violenza estrema; aveva l’aspetto di uno che racco­ glie tutte le sue forze per superare un passo difficile. Notai che la sua persona si era risollevata in modo incredibile, e che dava, nella sua vecchiezza, l’impressione di un non co­ mune vigore e anche di una tal quale brutalità. Sebbene il mio intelletto, già formatosi un tempo al metodo severo delle scienze esatte, sia abitualmente poco proclive ai tra­ scorsi della fantasia, io fui cosi colpito dallo spettacolo di quel gran corpo immobile e come folgorato, sullo sfondo sereno di un interno di casa campagnola, che per un istante dubitai dei miei sensi; e quando vidi il mio reverendo col­ lega muoversi ancora e riaprir le labbra alla parola, ne fui sorpreso come di cosa inaspettata. E in realtà sembrava egli uscisse da un sogno. Le ho dianzi detto, colendissimo collega, che io m’ero mosso incontro al nostro buon curato di Lumbres, e che l’avevo raggiunto al margine della via a una certa distanza dalla casa. Alcune frasi di cui forse mi 212

era sfuggito il senso, avevano aumentato la mia preoccupa zione. Stavo per rispondere, secondo i dettami di una pru­ dente amicizia, quando, afferrandomi il braccio con violen­ za e ficcandomi gli occhi negli occhi: “Non mi tenti", mi disse. In tal modo ebbe fine il nostro primo colloquio essen­ do giunti, cosi parlando, alla soglia della casa Havret. Ebbi, in quel momento,, il presagio che qualche cosa di male do­ vesse accadere; e fu purtroppo giusto presagio. Il giovinet­ to che, del resto, era agli estremi, s’era spento durante la mia breve assenza. La assistente, la signorina Lambelin, aveva scientificamente constatato il decesso senza possibilità di errore. “È morto", ci disse ella, a bassa voce, e non so se il curato di Lumbres avesse sentito o no. Aveva appena oltrepassata la soglia della camera, quando, spinta da un impulso molto commovente e di cui qualunque persona il­ luminata può, pur deplorandone un certo eccesso, dovuto più che altro ad ignoranza, onorare la sincera pietà, l’infe­ lice madre venne a gettarsi, letteralmente, ai piedi del mio reverendo collega e, nell’impeto della disperazione, si mise a baciargli l’orlo della tonaca, battendo la fronte contro il pavimento, con certi urti che mi si ripercotevano proprio nel cuore. Senza abbassare gli occhi su di lei, il curato di Lumbres si fermò di colpo. Eu in questo momento che lo vedemmo, come prima le dicevo, restare immobile come una statua per qualche minuto proprio nel mezzo della stanza. Poi, fatto il segno della croce sulla testa della signora Havret, e sollevati gli occhi su di me: “Usciamo fuori!", mi disse. Ahimè, caro collega mio colendissimo, tanta è la fra­ lezza dello spirito umano colpito da un sentimento che lo soverchia, che nulla, in quel momento, io credo, m’avrebbe potuto trattenere dal seguirlo, mentre dal canto suo la po­ vera madre nell'eccesso del suo dolore ci lasciò uscir fuori senza dire una parola. Di tutti quanti eravamo li impietriti, soltanto la signorina Lambelin aveva conservato la sua cal­ ma. Ci sono, senza dubbio, molte riserve da fare, vuoi sulla condotta sociale, vuoi sulla religiosità di questa persona, ma è certo che Iddio ci dava, per mezzo di lei, una lezione di buon senso e di logica. Non v’ha onninamente dubbio

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che io non fossi, quella tremenda mattina, come uno stru­ mento nelle mani di un disgraziato che un consiglio salu­ tare, confortato d’esperienza e di dottrina, avrebbe potuto salvare da una cosi penosa caduta. Dio solo potrebbe dire se io fui lo strumento della sua collera o della sua miseri­ cordia. Gli avvenimenti che sono seguiti farebbero piuttosto propensi alla prima ipotesi... ».

Il distintissimo canonico prebendato, morto alcun tempo dopo, sembra rivivere in ogni linea di questa lettera dav­ vero senza pari: tutta giudizio e formule discrete, infilate una dietro l’altra come i grani del rosario; dove gli inge­ nui non troverebbero nient’altro che banalità senza bellezza, ma che è come circonfusa dalla magìa d’un sogno. Unico sogno d’una modesta vita che non conobbe che un solo caso di coscienza e vi si infranse contro: unico dub­ bio ed unico incantesimo. Pochi mesi prima della morte questa vittima innocente scriveva ad uno dei suoi amici: « Costretto a interrompere un lavoro che era la mia so­ la distrazione, non posso staccare la mente da certi ricordi e dal più doloroso di tutti, l’infelice e oscura fine del cu­ rato di Lumbres. Di continuo me ne sovviene. Ci vedo uno di quegli episodi rarissimi della vita, che soverchiano la ragione. La mia salute vacillante subisce l’influsso di que­ sta idea fissa, nella quale vedo la causa principale del mio deperimento progressivo, e della perdita quasi totale del­ l’appetito ». Queste ultime frasi potranno formare la gioia di tutti quegli spulciatoti di documenti umani che noi lasceremo per il momento a gorgogliare e a grugnire nel loro brago. Ma a leggerle senza bassa curiosità, lasciandosi prendere dal­ la risonanza di quell’ingenuo lamento, si comprenderà me­ glio la sincera angoscia che è implicita in quella confessione di impotenza, scritta con imo stile cosi ampolloso. Lo sforzo supremo di certe nature elementari, nate per un lavoro pacifico, e che speciali contingenze hanno trasci­ nato nel cuore della realtà, in un lampo subito svanito (a vederli tutti affannati, fino all’ultimo soffio della loro assur­ da vita, a rievocare e a riafferrare ciò che mai più ritornerà

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e che li ha colpiti a fondo), offre un cosi tragico spettacolo e di una amarezza cosi profonda e segreta, da potersi pu ragonare soltanto alla inoTte di un fanciullo. Invano torna­ no indietro a passo a passo, di ricordo in ricordo, e rifru­ gano tutta la loro vita, parola per parola. Il conto torna, ma il racconto non ha più senso alcuno. Sono diventati co­ me stranieri alla loro propria avventura; non vi si ricono­ scono neanche più. La tragedia li ha passati da parte a par­ te, ma per uccidere un altro, al fianco loro. Come potreb­ bero rimanere insensibili a tanta ingiustizia della sorte, al maleficio e alla bestialità del caso? Il loro massimo sforzo non arriverà oltre il brivido dell’animale innocente e indi­ feso; subiscono, morendo, un destino inadeguato. Poiché, per quanto possa giungere lontano una natura volgare, e quand’anche si potesse immaginare che attraverso a simbo­ logie e a fantasmagorie d’ogni sorta fosse pervenuta talvol­ ta a raggiungere la realtà, bisogna che non si arroghi la par­ te propria dei più forti, che consiste, più che nella cono­ scenza del reale, nel sentimento della nostra impossibilità ad afferrarne e a ritenerne tutta la sostanza, che è la feroce ironia del vero. Chi avrebbe potuto, meglio di quel sacerdote cosi ben nato, riferirci l’ultimo capitolo d’una tale vita, consumata nella solitudine e nel silenzio e suggellata per sempre? Per mala sorte il compianto curato di Luzames non ci ha la­ sciato che alcune lettere incomplete, di cui abbiamo citato i passi sostanziali. Il resto fu distrutto tutto e con la più gran diligenza, dopo la chiusura dell’inchiesta ordinata dal­ l’autorità episcopale, di cui furono, provvisoriamente, tenu­ ti segreti i risultati. V

— Usciamo fuori, — aveva detto il curato di Lumbres. L’altro gli aveva tenuto dietro, non per una specie di fascino, come in buona fede, di poi, ebbe da credere; ma per curiosità: cosi, per vedere un po’. L’ex-professore non conosceva che poco ài quel vecchio sacerdote, diventato im­ provvisamente guardiano d’un immenso gregge in continuo aumento. Per qual prodigio quell’ometto dagli scarponi in215

fangati, sempre solo e sempre frettoloso per le strade, con quel suo triste sorriso, era riuscito a raccogliere intorno al suo confessionale un popolo vero e proprio, il suo popolo? Il curato di Luzarnes, capitato da poco nella diocesi, con­ divideva « fino a un certo punto » la diffidenza di qualcuno tra i colleglli. « Mi riservo di giudicare », diceva ingenuamente. Ed ecco che, oggi, per un gioco della sorte (un’altra parola che gli andava a genio) entrava, d’un primo passo, in familiarità con quella creatura non comune. Uscirono nel giardinetto, cinto di muri, dietro la casa. Il bel sole di Dio filtrava sulle lattughe romane e sul radic­ chio; portate dalla brezza, filavano via, come frecce, le pec­ chie: col sole s’era levato il buon vento mattutino. Tutt’a un tratto il curato di Lumbres si fermò e fece un passo verso il suo collega. In piena luce il volto di lui apparve segnato dai solchi dell’insonnia, manifesta come la maschera dell’agonia. Per un momento la bocca dolorosa si distese, ebbe un tremito; poi, sotto lo sguardo di curiosità che interrogava il suo sguardo, vinto, svelò se stesso e il suo segreto. Il poveretto pianse. Già il futuro canonico s’impietosiva, e alzava la sua mano biondastra. — In verità, mio caro confratello... E disse molte cose, in fretta, a caso, come intravviene in situazioni di tale gravità, rinfrancandosi, a mano a ma­ no, al suono della propria voce. Teneva gli occhi, parlando, e per essere più sicuro di convincere, su quel vecchio tutto barcollante, che la sua infallibile eloquenza doveva senz’al­ tro rimettere sulla buona strada. « Questa crisi di esaspe­ razione, mio caro e pio collega, non è che una prova pas­ seggera, e un avvertimento della Provvidenza che non ap­ prova, ¡forse, proprio sempre i suoi eccessi di fervore, quel­ le sue rigorose penitenze, e i digiuni e le veglie... ». Parlava, parlava, impaziente di venire a una conclusio­ ne, offrendo a piene mani i suoi impiastri e i suoi balsami quando una voce lo interruppe, con un inusitato accento. Ah, una voce cosi poco normale, cosi inattesa, come quella di uno che non avesse udito nulla, che non avrebbe ascol­ tato più nulla, e con tanto dolore in sé, da risospingere nel nulla quell’eloquenza delusa. — Amico, non ne posso più, amico, sono all’estremo...

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E un’altra parola, non detta, gli tremò sulle labbra. Ma il suo vigile collega, dopo un istante di sgomento, ricomin­ ciò a dire: — Questa sua disperazione... Il curato di Lumbres già gli posava sulla mano la sua mano imperiosa, febbrile. — Tiriamoci un po’ da un lato, la prego, fin là. Si fermarono a piè di un muro tutto in rovina; intorno, empiva l’aria un giocondo ronzìo. —- Non ne posso più — riprese la voce dolorosa. — Ah, per pietà, caro amico, l’unico che io abbia in questo momento, non si lasci sviare dalla misericordia. Sia rigo­ roso! Io non sono che un prete indegno, un povero prete, un’anima arida, un cieco, un povero cieco... — No, no, perché? — rettificava con cortesia il futuro canonico, — non lei, ma, forse, qualche temerario che, abu­ sando della sua ere... della sua buona fede... È cosi facile credere al bene che gli altri dicono di noi... Sorrise, scacciando con la mano una vespa importuna non meno di lui e, perentorio: — Dica, dica! — soggiunse. Il curato di Lumbres cadde in ginocchio ai suoi piedi. — Dio mi rimette nelle sue mani, — disse, — mi affi­ da a lei! — Che cose da bambini! — esclamò il futuro canoni­ co. — Si alzi, amico mio. La sua fantasia ingrandisce a di­ smisura un semplice effetto della stanchezza, dello strapaz­ zo. Oh, io sono soltanto un uomo comune... ma una certa esperienza... — concluse, sorridendo. Il curato di Lumbres rispose a questo sorriso con un sorriso accorato. Che importa? Egli non vuol vedere in quell’altro li che un amico, prima di giungere all’ultima svolta; il suo ultimo amico che non si è scelto da sé, ma che ha ricevuto, visibilmente, dalle mani di Dio. Certo, indietro non ha più speranza di tornare: né di ritrovare, con la sua pace, la vita. È già troppo avanti sulla via della perdizione. E avanti andrà ancora e ancora fino all’ultimo suo respiro, con questo solo compagno. — Ah, si! — esclama, — quale ero in seminario, tale sono rimasto sempre: una testa dura, un cuore arido, senza slancio di sorta, insomma, uno strumento vile di cui la

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Provvidenza si è degnata di servirsi. Il clamore suscitatomi intorno, l’ostinata persecuzione, l’amicizia di tanti peccato­ ri: tutte prove, tutti segni di cui non ho mai compreso né il senso né lo scopo. I santi maturano nel silenzio: a me, il silenzio era negato. Anche poco fa avrei dovuto tacere... non sarei costretto, adesso, a confessarle una cosa... (Si... mi sanguinava il cuore a dover lasciar li, in ginocchio, in un tale momento, quella povera donna cosi duramente, oh, sí!, duramente provata...). Ebbene, non fu a caso... non fu a caso... Perché..., amico mio..., quando ero già sulla soglia della porta... un pensiero... un tale pensiero m’è sorto... — Quale? — chiese il curato di Luzarnes. Di istinto si è piegato verso di lui fino alle sue labbra, donde non esce, adesso, che un confuso sussurro: e si rial­ za, atterrito. — Amico! — esclama. — Oh, amico mio! Alza le braccia al cielo e se le incrocia poi sul petto, spossato. Il vecchio di Lumbres è sempre in ginocchio, a testa bassa. Non si scorge che la sua nuca brizzolata, curva per la vergogna. — Cosi, d’un tratto, e per la prima volta, le è venuto questo pensiero? — cerca di investigare il curato di Lu­ zarnes. — Per la prima volta. — E non mai più l’innanzi? — Non mai prima, no, in nome di Dio! Non sono che un povero disgraziato. Da anni e anni io non so più che cosa sia un’ora di pace. Come può fare a credere, lei?... E che? Fin sotto i piedi di Satana! Un miracolo... io? Caro amico, in verità io non ho fatto forse mai, in tutta la vita, un solo atto di amore divino, nemmeno incompleto, nem­ meno imperfetto... No! C’è voluto il lavorio tremendo di quest’ultima notte scorsa... Proprio alla lettera, io non di­ spongo più di me... Ero in una disperazione convulsa... E allora... proprio allora... come per un sarcasmo... m’è bale­ nata questa idea... — Bisogna respingerla, — disse l’altro. — Mi comprenda bene, — disse il poveretto umilmen­ te. — Ho detto che m’è balenata quest’idea, ma non è esat­ to. Non un’idea, ma una certezza... (Ecco, mi mancavano le parole... mi sono sempre mancate le parole), — esclama 218

con impazienza infantile. — Devo dire tutto, tutto, tutto, oramai, fino in fondo, mio carissimo confratello. Anche qui, davanti a lei, in ginocchio, cosi come sono, soffocato d’an­ goscia, dubitoso della mia stessa salvezza... io credo... ine­ luttabilmente... che quella certezza mi veniva da Dio. — Ne ha avuto (come potrei dire?) un segno tangibile? — Che segno? — chiese candidamente il curato di Lumbres. — Che so, io? Ha lei visto o udito... — Nulla... Niente altro che quella voce interiore. Se un ordine mi fosse stato dato, cosi esatto, avrei ubbidito li per li, su due piedi. Ma non è stato tanto un ordine quan­ to la semplice convinzione, la certezza che ciò sarebbe av­ venuto... se avessi voluto. Dio m’è testimone che questa confessione mi strappa il cuore, dovrei morirne di rossore. Io sapevo... Io so... sempre... sono sicuro... che una mia parola avrebbe... Dio!... si... avrebbe fatto resuscitare... si..., resusciterebbe quel morticino. — Mi guardi in viso, — disse il curato di Luzarnes dopo una lunga pausa, con autorità. Lo sollevò con ambo le mani. Quando lo vide in piedi, presso di lui, con le ginocchia infangate e la testa bassa, senti di volergli bene. — Mi guardi in viso, — ripete. — E mi risponda con franchezza. Chi le ha impedito di sperimentare... di speri­ mentare il suo potere, subito, li per li? — Non so, — disse il vecchio sacerdote, — è una co­ sa terribile... Quando lo strumento è troppo umile, Dio lo butta via, dopo essersene servito. — Ma la sua convinzione, resta intatta? — Si! — ripete il curato di Lumbres. — E, adesso, che cosa intende fare? — Obbedire, — rispose quell’uomo straordinario. Il futuro canonico si tolse di scatto le lenti, e branden dole in aria: — Il mio consiglio è semplicissimo, — riprese. — Pri­ ma di tutto noi ritorneremo in casa e faremo del nostro meglio per scusarci, che la sua partenza improvvisa deve essere sembrata strana e non molto riguardosa. Mentre io compirò questa pratica di cortesia lei andrà, capisce?, an­ drà nella camera mortuaria a far le sue devozioni, come

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crederà meglio, secondo il suo criterio. Io non voglio la­ sciarle un cosi terribile dubbio nell’anima, già tanto scon­ volta di suo. Prendo tutto sulla mia coscienza, — concluse poi dopo una impercettibile esitazione, ma con un gesto definitivo e perentorio. (Cosi dissimulava a se stesso la debolezza d’un moto di curiosità appena consapevole, inconfessato. Perché, tal­ volta, l’uomo il più volgare, sperso in una sala da gioco, è preso al ritmo di tutte quelle anime concitate; getta un lui­ gi sul tavolino e scopre un po’ della sua realtà). Si riportò le lenti all’altezza degli occhi: — Ma, adesso, mio caro, lei farà bene a riposare un momento. — Mi proverò, — disse umilmente il vecchio curato. — Dipende da lei. L’atto del riposare, secondo quanto affermano i pratici, è un atto volitivo. Presso molti malati anche l’insonnia non è che una delle tante forme di abulia. Può credere a me che sono assuefatto a certi argomenti. Una crisi morale come la sua non è, positivamente, che la naturale reazione di un organismo troppo strapazzato. Sia detto tra noi, egregio collega, e col cuore in mano. Nove volte su dieci la pace che lei va a cercare tanto discosto è li sotto mano; un buon trattamento igienico potrà resti­ tuirgliela. Certo, dette da un sacerdote, queste verità pos­ sono essere talvolta pericolose e di uso delicato. Ma da una superiore spiritualità, com’è la sua, non c’è da temere una interpretazione troppo restrittiva... che certe anime scru­ polose... — Lei mi ritiene pazzo, — disse il curato di Lumbres senza amarezza. Sollevò sull’altro lo sguardo, che dianzi ave­ va sempre tenuto basso, pieno d’trna misteriosa tenerezza, e prosegui: — Poco tempo fa io me lo sarei, purtroppo, anche au­ gurato. In certe ore anche l’osservare è di per sé una cosi dura prova, che si vorrebbe veder infranto lo specchio dal­ le mani divine, lo si infrangerebbe noi stessi, caro amico. Perché arduo è il rimanere in piedi davanti alla croce, ma ancora più arduo il contemplarla fisso. Quale spettacolo, mio caro, quello degl’innocenti in agonia! Ma, alla fin fine, an­ che quella morte li, non è gran cosa... Si potrebbe, forse, arrecargliela d’un sol colpo, finirla, empir di terra la bocca

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ineffabile, soffocarne il grido... No! La mano che lo stringe è più abile e piu forte; lo sguardo che di lui si sazia è sguar­ do ultraterreno. Tutto è concesso, tutto è lasciato in balìa all’odio tremendo che cova il giusto nell’ora della sua mor­ te. La carne divina non è soltanto dilaniata, è sforzata, è profanata, per un estremo sacrilegio, fin nella maestà del­ l’agonia... La derisione di Satana, amico mio caro, la risata, l’indecifrabile gioia di Satana!... Per un tale spettacolo, — disse dopo una breve pausa, — la nostra povera sostanza è ancor troppo pura... — La tragedia del Calvario... — prese a dire il futuro canonico. Non prosegui. Da tale momento quel sacerdote cartesia­ no cominciò a non vedere più cosi chiaro in se stesso. Quel filosofo eminente, che con la sua conversazione aveva un tempo rivelato a tante belle e curiose devote un altro uni­ verso sensibile, e che, per mezzo di una miscela di mate­ matica e di spiritualità, saggiamente dosate, aveva fatto del problema dell’essere un passatempo per buoni borghesi, se avesse un giorno ascoltato parlare uno di quei favolosi ani­ mali tutti rilievo, energia e sporgenza, non si sarebbe tro­ vato più impacciato di quel povero prete, fino allora cosi fermo, e d’un tratto tirato fuor di se stesso, incapace di riconoscersi. Il curato di Lumbres pose sulla fronte del futuro ca­ nonico il suo dito puntuto. — Confusione a noi! — disse con voce roca e lenta, — confusione a noi, che abbiamo qui dentro solo un po­ chino di cervello e tutto l’orgoglio di Satana! A che mi giova tutta la sua prudenza, amico, se la mia sorte, ormai, è segnata? Che pace, che silenzio potevo pretendere io? Non c’è pace mai, quaggiù, mai, glielo assicuro, non c’è mai pace; e in un solo istante di silenzio vero, questo mondo in dissoluzione svanirebbe come un fumo, come un odore. Ho pregato il Signore Nostro di aprirmi gli occhi; ho voluto vedere la Sua Croce; l’ho veduta: lei non immagina neppu­ re che cosa sia. La tragedia del Calvario, dice lei. È una cosa che abbaglia, e poi basta. Ma guardi: io che le parlo, caro Sabiroux, io ho sentito, ma sì, perfino sul mio scanno del coro nella cattedrale... certe cose... che non potrei ridi­ re. Parlano della morte del Salvatore come duna favola tri-

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ste. La infiorettano, se la accomodano per benino. Dove vanno a pescare tutte queste facezie? La tragedia del Cal­ vario! Stia in guardia, Sabiroux! — Amico mio... amico mio, — balbettava l’altro, esau­ sto — una simile esaltazione..., una tale violenza... cosi aliena dal suo carattere... E, certo, le parole gli facevano meno paura di quella voce fattasi tanto cruda. Ma le più spaventose erano quel­ le tre sillabe del suo nome, gettate là, al vento, come un ordine: Sabiroux... Sabiroux... — Stia bene in guardia, Sabiroux: il mondo non è af­ fatto un meccanismo caricato a dovere. Iddio ci lancia, co­ me ultima posta, tra Satana e Lui. È attraverso di noi che da secoli e secoli l’astio eterno, immutabile, cerca di rag­ giungerlo, è nella povera sostanza umana, che l’indicibile misfatto è consumato. Ah! Ah! Ah! Ci possiamo sollevare quanto vogliamo con la preghiera e la carità, noi lo porte­ remo pur sempre con noi, attaccato al nostro fianco, lo spa­ ventoso compagno, tutto scosso da un immane riso! Pre­ ghiamo insieme, Sabiroux, affinché non duri ancora molto la terribile prova e che alla fine si salvi il misero branco uma­ no. Il misero branco... Gli si spezza la parola nella strozza e con mano tre­ mante si copre il viso. Intorno, il giardino è tutto un can­ to e un cinguettare; essi non lo sentono più. Il misero branco!, ripeteva sommessamente. Al ricordo di tutti quelli a cui aveva voluto bene, gli tremavano le labbra; una specie di sorriso gli invase a poco a poco il vol­ to e vi si sparse con si maestosa dolcezza, che Sabiroux cre­ dette per un momento di vederselo rimaner.li, morto, da­ vanti a sé. E lo chiamò due volte per nome, timidamente. Allora, come uno che si risvegli: — Era necessario che io le parlassi cosi. Ora va me­ glio. Ho supposto che mi fosse permesso, Sabiroux, di cor­ reggere un po’ il giudizio che ella si è formato di me. Mi sarebbe stato increscioso lasciarle credere che io fossi stato qualche volta gratificato di... di... visioni... o apparizioni... insomma di tentazioni fuor del comune. Non eran cose per me. No. Quel che ho veduto, amico, l’ho veduto nella mia piccola sacrestia, seduto sulla mia scranna di paglia, chiaro e netto come io vedo lei in questo momento. Ecco: noi

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non si sa quel che sia un peccatore. Che è mai una voce nel buio di un confessionale che ronfa, accelera, accelera, e non ha pace che alle prime sillabe del « mea culpa »? Questo andrà bene per i ragazzi, povere creaturine! Ma è nel viso: è nel viso che bisogna leggere, dove tutto è scrit­ to, e nello sguardo. Gli occhi dell’uomo, Sabiroux! C’è sem­ pre qualcosa da dire in materia. Certo, io ho assistito un bel po’ di moribondi: che fa? non fanno più paura. Dio li ricopre. Ma quei disgraziati che mi sono veduto li, davanti a me (e discutono, e sorridono, e si dibattono, e mentisco­ no, mentiscono, mentiscono), finché un ultimo sussulto me li butta ai piedi come sacchi vuoti! Quelle accozzaglie di materia li, dopo, continuano a far bella mostra di sé, non dubiti! A far la ruota davanti alle donne, a bestemmiare tranquillamente... Ah, per molto tempo io non capivo: non mi sembrava che povera gente sperduta, che Dio riaffastella all’occasione. Ma tra Dio e l’uomo vi è qualcuno, che non è poi neanche un personaggio tanto secondario! C’è... c’è... una torbida creatura, incomparabilmente sottile e cocciuta, che non è paragonabile a nulla, se non forse ad un atroce sarcasmo, a un tremendo riso. A quello li, Iddio ha dovuto cedere, forse, per un momento: in noi, ora, Egli è raggiun­ to, sbranato. Da noi Egli è strappato via. Da secoli il volgo umano è messo in uno strettoio, che esprime a fiotti il no­ stro sangue perché un’infima particella della carne divina vada ad assopire il tremendo carnefice che ride. Oh! Infi­ nita è la nostra ignoranza! Per un sacerdote erudito, uma­ no, avveduto, che può mai essere il diavolo, eh? Non sa­ prebbero neanche nominarlo senza sorridere. Gli fischiano come a un cane. Ah, sí? E credono di averlo addomesticato! « Eh, via, è perché hanno letto troppi libri e fatte trop­ pe poche confessioni. Vogliono soltanto riuscire simpatici, loro. E non riescono simpatici che agli sciocchi, che essi rinfrancano. Noi non dobbiamo essere dei soporiferi, Sa­ biroux. Noi siamo le avanguardie di una lotta a morte, e abbiamo, dietro di noi, il nostro popolo. E sono dei sacer­ doti! Ma non lo sentono, dunque, il grido della miseria universale? Ma non sono proprio abituati a confessare che i loro sacrestani? Non si sono dunque mai trovati, li, sotto gli occhi, una faccia sconvolta? Non si sono dunque mai vi­ sti levare in viso uno di quegli sguardi indimenticabili, già

pieni di astio contro Dio, ai quali non si può più nulla do­ nare, più nulla? L’avaro corroso dal suo morbo, il lussu­ rioso dalla faccia di cadavere, l’ambizioso schiavo di un’idea fissa, l’invidioso insonne. E che? Qual è il prete che non ha mai pianto d’impotenza davanti al mistero del dolore umano, d’un Dio oltraggiato dall’uomo, senza riparo? Chiu­ dono gli occhi per non vedere. Perché non vogliono, non vogliono vedere!

A mano a mano che la voce aspra si alzava nel vento e nel sole, il giardinetto vigoroso la sfidava con la gaiezza di tutta la sua vitalità gioconda. La brezza di maggio, spin­ gendo pel cielo la scura nuvolaglia, bloccava talvolta sotto la linea dell’orizzonte una schiera di nembi. Fu in quel punto che un getto di luce sfolgorante come lo scintillìo d’una immensa spada, radendo tutta la pianura offuscata, venne a rifrangere sulla siepe il suo barbaglio d’oro.

« Mi sentivo », scriveva più tardi l’abate Sabiroux, « co­ me su una cima isolata, esposto senza difesa ai colpi di un nemico invincibile... E il mio compagno, rifattosi taciturno, fissava, come me, un punto nello spazio; lo stesso punto. Sembrava aspettasse un segno, che però non venne ». VI

Bisognerà tornare a dar la parola al testimone a cui dobbiamo il meglio di questo racconto e che fu eletto da tale più abile e più possente, ad assistere il vegliardo di Lumbres nel suo estremo cimento. Come le citazioni prece­ denti, anche queste furono tratte dal voluminoso rapporto inviato ai superiori dallo scrupoloso canonico. Vi si troverà talvolta, non v’è dubbio, qualche nota di paura o di vana­ gloria dissimulate con ingenua malizia. Ma non vi è proprio niente di indecoroso, in questa specie di arringa pro domo sua di un disgraziato che difende i suoi pregiudizi, la sua pace, la sua vanità e anche la sua ragione di vivere.

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« È, certo, cosa sempre difficile rievocare con sufficien­ te efficacia un avvenimento lontano; ma una conversazione come quella che mi proverò qui a riferire, è, si direbbe, inafferrabile; e la più ferrea memoria non potrebbe, a tanta distanza, riprodurne né il tono, né l’attitudine, né i molti piccoli fatti che vengono modificando a mano a mano il sen­ so delle parole, e di esse ci fan disposti a non risentire che quelle, e quali siano, per avventura, in accordo con il no­ stro intimo sentimento. Bisognerà che la deferenza da me dovuta all’ordine formale dei miei superiori e il mio desi­ derio di dare esatti ragguagli, trionfi delle mie titubanze e di ogni mio scrupolo. Tenterò, dunque, più che di riferire i termini, di dare il senso generale e di riprodurre la sensazione non comune che ne riportai io stesso. "Stia in guardia, Sabiroux!” aveva esclamato improv­ visamente il mio povero confratello, con una voce che m’in­ chiodò li, dov’ero, e con occhi di fiamma. Una e due volte tentai di farmi sentire senza che egli nemmeno si preoccu­ passe di abbassare lo sguardo. Devo dichiararlo un’altra volta? Ero affascinato — se si può dire fascino una terri­ bile tensione nervosa, una curiosità assillante. Einché durò a parlare io non ebbi neanche il minimo dubbio di non trovarmi al cospetto di un uomo veramente soprannatura­ le in piena estasi. Mille particolari, cui non avevo mai fatto caso, e che mi appaiono oggi irti di controsensi e di oscu­ rità, e anche frutto di fantasia infantile, mi illuminavano, in quel momento, il cuore e l’intelletto. Mi parve di pene­ trare in un mondo nuovo. Come si potrebbero riprodurre cosi, a freddo, le sue frasi singolari, quando, supplice a vol­ ta a volta e minaccioso, e pallido di furore o madido di pianto, con un accento da spezzare l’anima, disperato della salute spirituale del suo popolo, ne ricostruiva l’inutile mar­ tirio, con impeti di collera contro il Maligno e la Morte, come se avesse tenuto stretto, per la gola, Satana stesso? Satana! — e questo nome tornava senza posa sulle sue lab­ bra e lo pronunciava con una voce che passava il cuore. Se fosse permesso ad occhio mortale di scorger l’angelo ribel­ le, a cui la santa semplicità dei nostri vecchi attribuiva tanti fenomeni mirabili, oggi spiegati, quelle parole di lui l’avreb­ bero certo evocato; poiché già la sua ombra era tra noi,

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»

poveri due preti, nel giardinetto chiuso. Ebbene, no, o si­ gnori! Una tale conversazione non può essere riferita cosi a freddo. Bisognerebbe essere stati li, a sentire il veneran­ do vecchio, trasfigurato dall’orrore e come trasportato dallo sdegno, evocare i più segreti ricordi del suo sacro ministe­ ro, confessioni tremende, il lavorìo del peccato nelle anime, fino alla descrizione dei visi di quegli infelici che eran ca­ duti in potestà del Demonio, dove il suo sguardo estatico vedeva riprodursi punto per punto l’agonia di Nostro Si­ gnore sulla Croce. Una specie d’entusiasmo mi costringeva a seguirlo; non mi sentivo più uno dei ministri della morale cristiana, ma un ispirato, uno di quegli esorcisti leggendari, pronti a ritogliere dalle mani delle potenze maligne le pe­ corelle smarrite del loro branco. Miracoli dell'eloquenza! Pronunciavo anch’io parole inconseguenti; avrei voluto slanciarmi, superare tutti gli ostacoli, affrontare fors’anche il martirio. Per la prima volta mi è parso di intravedere il vero scopo della vita e l’alta maestà del sacerdozio. E mi gettai — si, mi gettai — ai piedi del curato di Lumbres; e più ancora; mi strinsi tra le mani il lembo della suu to­ naca, vi impressi le labbra irrorandola del mio pianto; fin­ ché, in una sovrabbondanza di gioia, esclamai, gridai più che non pronunciassi queste parole: “Lei è un santo! Un santo!” ».

Non una, ma cento volte il canonico, curvo a terra, ave­ va ripetuto quelle parole, balbettando d’ebbrezza. La terra gli bruciava sotto le grandi scarpe, e l’orizzonte roteava come un palèo. Si sentiva più leggero d’un uomo di sughe­ ro, mirabilmente libero e leggero, in un’atmosfera elastica. « Mi credetti sciolto da ogni legame mortale » notò egli stesso. Quale parola ebbe dunque virtù bastante da levar cosi in alto un si greve peso, o qual silenzio anche più miraco­ loso? Che gli aveva mai sussurrato all’orecchio il tragico vecchio, tutto sconvolto dalla tentazione, e che, respinto da tutti, anche da Dio, vinto, sbaragliato, si volgeva, moren­ do, a uno sguardo amico? Non lo sapremo mai. — Ah, Satana ci tiene i piedi sul collo, — disse alla fine con voce dolce e inerme. Il curato di Luzarnes, tutto confuso, balbettò:

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— Amico, fratello mio, io l’avevo giudicato male... Io non sapevo... Dio l’ha creato per essere il vanto della dio­ cesi, della Chiesa, della Cattedra di Verità. E, in possesso di cosi gran doni, lei, proprio lei sospira ancora e si con­ sidera vinto? Lasci almeno che io le esprima tutta la mia gratitudine, la mia commozione, per il bene che mi ha fat­ to, per l’entusiasmo... — Lei non mi ha compreso, — disse con semplicità il curato di Lumbres. Sa che dovrebbe tacere, e, tuttavia, parlerà. Vi è una linea e una logica della debolezza come dell’eroismo. E tuttavia il vegliardo esita un po’ prima di trarre i suoi ultimi colpi. — Io non sono affatto un santo, — riprende a dire. — Lasci dire a me, lasci dire a me. Io sono, forse, un re­ probo. Si! Mi guardi in faccia... Il mio passato si illumina e io lo vedo come un paesaggio, come dall’alto di Chennevières il borgo del Pin, sotto di me. Io lavoravo a staccar­ mi dal mondo; volevo: ma l’altro è più forte e più agguer­ rito di me; mi aiutava ad esaurire in me la speranza. Quan­ to ho sofferto, caro Sabiroux! Quante volte mi sono ringoia­ to la mia saliva! Io nutrivo di me quel disgusto; come se mi fossi portato chiuso nel mio cuore il diavolo fanciullo. E avevo già consumato tutte le mie forze quando è venuta questa crisi a dare il colpo finale. Stupido che ero, io! Non è là che Dio doveva cercarsi! Esita ancora, davanti alla sua vittima ingenua, a questo prete agghindato, dagli occhi candidi. Poi, con rabbia rad­ doppiata, si rimette a battere, a battere: — Un santo! Non sapete altra parola, voi, tutti! Ma che cosa sono i santi, lo sapete? E anche lei, Sabiroux, si tenga bene a mente questo che le dico. Il peccato raramen­ te entra in noi di violenza; più spesso di astuzia. Si insi­ nua come l’ara. Non ha una forma propria, né colore, né sapore; ma può prenderli tutti. Ci consuma dal di dentro. Per qualche disgraziato che esso divora vivo, e di cui ci spaventano i latrati, quanti ce n’è, già freddi, e che non son più neanche dei cadaveri, ma dei vacui sepolcri? Il Nostro Signore l’ha pur detto: che parola, questa, Sabiroux! Il Ne­ mico ruba tutto, anche la morte, e poi fugge ridendo. Sui suoi occhi fissi passa ancora la solita fiamma, come un riflesso su un muro.

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— Il suo riso! È la sua arma; l’arma del principe del mondo. Fugge e mentisce indifferentemente, e prende tutti gli aspetti, anche il nostro stesso. Non conosce indugio, né sosta. È nello sguardo che lo sfida, è sulla bocca che lo rin­ nega. È nell’angoscia del mistico, è nella tranquillità e nella sicurezza dello sciocco. Principe del mondo! Principe del mondo! « Ma perché, poi, tutta questa collera, e contro chi? », si chiede stupito il curato di Luzarnes, e comincia a dire: — Ah! uomini come lei... Ma il santo di Lumbres non lo lascia procedere, gli sal­ ta addosso come se avesse voluto addipanarlo: — Uomini come me! Lo dicono i libri sacri, Sabiroux, svaniscono nella loro saggezza! •Poi, d’un tratto, gli domanda con quella sua voce ta­ gliente: — Principe del mondo... E che ne pensa lei di quel mondo li? — In fede mia, non v’è dubbio che... — fischia tra i denti il malcapitato. — Principe del mondo; ecco la parola decisiva. Egli è il principe di questo mondo-, l’ha nelle sue mani, può farsene re... Noi siamo sotto i piedi di Satana — continua poi, dopo una pausa. — Lei, io... io con più disperata cer­ tezza. Noi siamo ingoiati, sommersi nel rigurgito e sepolti. Non si dà neanche la pena di scartarci, i più vili: ne fa de­ gli strumenti per suo uso, Sabiroux! In questo momento che sono io per lei? Uno scandalo, una spina nel cuore, mes­ sa da lui. Mi perdoni, in nome della divina misericordia! Questo pensiero l’ho portato, l’ho maturato in me, giorno per giorno, tutta la vita. Ora non lo contengo più, mi ha tutto divorato; adesso sono io conchiuso in esso, nel mio inferno! Ho conosciuto troppe anime, Sabiroux: troppo ho sentito la parola umana, nel punto che più non serve a dis­ simulare la viltà, ma a dichiararla; presa alla sorgente sua: succhiata come il sangue da una ferita. Anch’io ho creduto di poter almeno lottare, se non proprio vincere. Agli inizi del nostro ministero sacerdotale noi ci facciamo, del pecca­ tore, un’idea cosi strana e cosi generosa! Ribellione, sacri­ legio, blasfema, tutto di una certa qual grandezza feroce, che si dovrà domare. Domare il peccatore: ah, che bell’idea! 228

Domare la viltà in persona e l’ignavia! Chi non si stanche­ rebbe di sollevare una massa inerte? Tutti uguali! Nella effusione della confessione, nel sollievo del perdono, sem­ pre mendaci, sempre! Si mettono a far l’uomo forte e sde­ gnoso che ha preso risolutamente la sua via attraverso a tutti i pregiudizi sociali, la morale e il resto, e implorano un polso fermo. Ah, che miseria! Sono tutti arrembati! Ne ho visti, ecco, ad esempio, ne ho visti di quelli che un no­ me di donna bastava a gettar nella più convulsa disperazio­ ne, e che, morti di paura, di rimorso e di desiderio, veni­ vano a trascinarsi ai miei piedi come bestie: ne ho visti, io. No! No! questo sterminato inganno, e quel suo riso cru­ dele, e questo suo modo di profanare quello che uccide: ecco la vittoria di Satana! Mi ha compreso, adesso, Sabi­ roux? Gli occhi azzurri del professore sostengono il suo sguar­ do con una candida curiosità, e una benevolenza eterna, sconfinata. Ah, poterlo spezzare, alla fine, quello smalto blu! Il vecchio atleta, di fronte a quel ragazzone ingran­ dito, s’accende a volta a volta e si sbianca. Gli batte il cuo­ re a gran colpi regolari contro il petto dove la sua potente volontà, non mai del tutto domata, già si risolleva e morde il freno. Spinge Sabiroux contro il muro e gli grida nell’o­ recchio con un accento indimenticabile: — Noi siamo vinti! Vinti! Vinti! Per un istante che sembra un’eternità egli ascolta il suono del suo blasfema, come l’ultima palata di terra su una tomba. Colui che per tre volte rinnegò il Maestro, per un solo sguardo fu salvo; ma quale speranza ha colui che ha rinnegato se stesso? — Amico, amico mio! — esclama il curato di Luzames. Ma il santo di Lumbres gli respinge la mano, con dol­ cezza. — Mi lasci andare... Mi lasci... e non stia più ad ascol­ tarmi. — Lasciarla! — riprese l’altro con voce squillante; — lasciarla! Non ho mai trovato nessuno come lei! Mi perdoni piuttosto se ho dubitato di lei. Sono pronto ad esserle te­ stimone nella prova che ella ha meditato. Nulla può essere impossibile a un uomo come lei; a lei si può accordare pie229

na fede. Andiamo! Andiamo! Io la seguirò, è stato Iddio che l’ha ispirato, dianzi. Andiamo! Torniamo insieme nella casa, e lei vada a restituire alla sua mamma quel figlioletto morto. Il curato di Lumbres lo guardò stupito e, passandosi una mano sulla fronte, cercò di comprendere, di ricordarsi. Oh, anche per un moralista, che tragica stupefacente smemoratezza! E che? Davvero, non si ricordava più? — Su, su, amico, venerabile amico, — diceva il curato di Luzarnes, — dovrò essere io a ricordarle quello che qui, poco fa, ella... Il curato di Lumbres ora ricorda. L’ultimo appello del­ la misericordia, la sfolgorante promessa che l’avrebbe trat­ to a salvamento e che ha ascoltato con diffidenza, invece di obbedire come il fanciullo che fa con le sue piccole mani inconsapevoli grandi cose ignorate. È possibile? C’è stato bisogno che un altro glielo ricordasse. L’idea fissa a cui da due giorni e due notti egli ha tenuto incatenato il suo pen­ siero, forse nel momento della liberazione, — e per quale ausilio! — viene, ahimè, a soggiogarlo in pieno. Al mo­ mento decisivo, unico nella sua vita straordinaria, — o as­ soluta, sovrana derisione! — non era stato più che un po­ vero animale umano, non d’altro capace che di soffrire e di gridare. Ah, il naufrago che, nelle brume del mattino, non vede più la sua vela vermiglia; l’artista che, spenta la vena, so­ pravvive a se stesso; la madre che vede negli occhi del figlio agonizzante lo sguardo svanire lontano dalla sua presenza, non levano al cielo un più straziante grido. Eppure, anche sotto un cosi tremendo colpo, il vegliardo non piega. Ora, egli non prega più. Misura freddamente la profondità della sua caduta: esamina un’ultima volta la tat­ tica superiore del nemico che l’ha sbaragliato. « Ho odiato il peccato, — dice tra sé, — poi la vita, e quel che io sentivo di ineffabile, nelle delizie della preghie­ ra, forse non era che il liquefarsi di questa disperazione nel mio cuore ». Ad una ad una le immagini tracciano su di noi il loro piano, poi, nel pieno disordine della nostra coscien­ za, viene la ragione a darci il colpo mortale. Al pari del­ l’istinto, anche l’alta funzione di cui siamo tanto orgogliosi ha i suoi sgomenti. Il curato di Lumbres ne fa esperienza

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diretta, egli concreta l’idea che lo uccide. « Ma come! pro­ prio nel momento che io mi credevo... Ma come, perfino nell’ebbrezza dell’amore divino!... Dio s’è dunque fatto gio­ co di me? ». Allo svanire d’un sogno che c’è sempre sembrato la real­ tà più sostanziale e a cui s’era legata la nostra sorte, quan­ do la rovina è completa, avendo toccato il punto della sua perfezione, quale altra forza può ancora spingerci se non l’aspra voglia di provocare il male, aizzarlo, conoscerne, al­ la fine, la vera presenza? — Andiamo! — disse il curato di Lumbres. VII

Attraversa a gran passi il giardino che una nube ha coperto d’ombra e riappare sulla soglia. — Eccolo! — esclama la donna che lo aspettava col cuore in gola. Gli viene incontro, si ferma, colpita fino alla radice della sua speranza da quel viso sconvolto, dove ella non trova che una feroce deliberazione: volto d’eroe, non di santo. Ma, senza chinare lo sguardo su di lei, egli va difi­ lato alla porta chiusa, dietro il grande tavolino di quercia e, con la mano sul chiavistello, d’un cenno fa fermare li do­ ve si trova il suo collega intimidito. Si apre la porta che dà sulla camera buia e silenziosa, con le persiane chiuse: per un istante si vede vacillare, nel fondo, la candela. Ma già egli era sparito dentro, e vi si era chiuso, solo, con la morte. La stanza, dai muri imbiancati di calce, è fonda e stret­ ta; è il retrocucina, dove il dottore aveva fatto portare il malato perché era più ariosa, con due finestre da levante, di faccia al giardino, al bosco di Sennecourt, alla costa di Bellosguardo, costellata di aiòle in fiore. Sull’ammattonato rosso han buttato uri misero tappeto. L’unico cero rischiara a malapena i muri bianchi. E quel po’ di luce che arriva, non si sa come, da fuori, attraverso qualche fessura invisi­ bile, si raccoglie tutta e fluttua intorno al biancore delle len­ zuola tese, rigide, senza pieghe, che ricascano con perfetta simmetria fino a terra, ai due lati del fanciullino, il quale

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se ne sta li, adesso, buono buono e meravigliosamente in pace. Ronza una mosca indaffarata, in giro. Il curato di Lumbres, dritto a piè del letto, guarda, né prega, il crocifisso sul candido lenzuolo. Non ispera piu di sentire un’altra volta l’appello misterioso. Ma la promessa è stata data, l’ordine inteso: basta. Ed ecco il servitore con­ tumace, colà dove invano lo attese il suo signore, che ascol­ ta, ora, impassibile, la meritata sentenza. Resta in ascolto. Di fuori, di là delle persiane chiuse, il giardino fiammeggia e zufola sotto il sole, come un fa­ stello di tizzi verdi sul fuoco. Di dentro l’aria è greve di profumo dei lillà, dell’odore della cena calda, e d’un altro odore solenne. Il silenzio, che non è più il silenzio della terra, attraversato, non diviso, dalle voci di fuori, sale in­ torno a quei due, dalle radici della terra. Sale esso come un invisibile vapore, e già vi si sfanno dissolte, in trasparenza, le forme della vita, e vi si placano i suoni, e vi confluiscono, attraendosi, mille arcane sostanze. Come quando due fluidi di densità differenti si diffon­ dono imo sull’altro, due realtà qui si sovrappongono, senza confondersi, in equilibrio misterioso. In quel momento lo sguardo del santo di Lumbres in­ contrò quello del morto e vi si affisò: lo sguardo d’uno solo di quei due occhi morti, ché l’altro era chiuso. Chiusi troppo presto e, indubbiamente, da una mano in tremito, la ritrazione del muscolo ha sollevato un po’ la palpebra, sicché si scorge, sotto le ciglia rigide, la pupilla azzurra già velata, ma incredibilmente profonda, quasi nera. Tra il pal­ lore ¿el volto e il candore del guanciale non è che quella pupilla al centro di una gran lividura, come allargata da un largo cerchio d’ombra. Il corpicino, nel suo sudario co­ sparso di lillà, ha già il rigore e l’angolosità cadaverica, in­ torno a cui la nostra atmosfera, cosi duttile alle forme del­ la vita, sembra solidificata come un blocco di ghiaccio. Il lettino di ferro col suo piccolo stecchito sembra un fanta­ stico barchetto ancorato per l’eternità. Non c’è più altra presenza che quello sguardo in dentro — lungo sguardo esi­ liato — preciso come un cenno della mano. Certo, il curato di Lumbres non teme quello sguardo: lo interroga. Tenta di decifrarne il senso. Pur dianzi, quasi

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a sfida, ha passato la soglia della porta, pronto a giocare, tra quelle quattro mura bianche, una partita disperata. Si è appressato al morticino senza compassione, senza pietà, come su un ostacolo da superare, su una cosa da frantumare, pesantissima. Ed ecco die questo morticino l’a­ veva preceduto: è lui che lo aspetta, simile a un avversario risoluto, già in guardia. Egli fissa quell’occhio semiaperto con intensa curiosità, mentre gli si fa sempre più estranea la compassione e, alla fine, con una specie di impazienza feroce. Certo s’è trovato a contemplar la morte più spesso di un veterano di cento battaglie: a un tale spettacolo è accostumato. Fare un pas­ so, stendere la mano, serrare con le dita la palpebra socchiu­ sa che lo guarda, indifesa ormai, che ci sarebbe di più sem­ plice? Nessun terrore, nessun disgusto lo trattiene, oggi, più. Ma glielo vieta il desiderio, l’attesa inconfessata di un avvenimento impossibile che si dovrà compiere fuori e in­ dipendentemente da lui. Esita nel suo pensiero, indietreg­ gia, avanza di nuovo. È li, a tentare quel morticino, come subito dopo, senza accorgersene, tenterà IddioAncora una volta si industria di pregare, muove le lab­ bra, si sgranchisce la gola chiusa. No. Ancora un minuto... un minuto appena... La paura folle, insensata, che una pa­ rola imprudente possa allontanare una presenza invisibile, presentita, agognata, temuta, lo inchioda li dov’è, senza vo­ ce. La mano che già accennava, in aria, il segno di croce, ricade inerte. L’ampia manica, nel passaggio, fa vacillare la fiammella del cero e la spegne. Troppo tardi. Due volte ha veduto aprirsi e chiudersi gli occhi del morticino come per un invito silenzioso. Trattiene un grido. La camera, senza luce, è ora già più tranquilla di prima. La luce dall’ester­ no filtra attraverso le tendine, fluttua d’intorno, profila ogni oggetto su un fondo cinereo e cinge il letto, li in mezzo, d’un alone azzurrognolo. Dalla cucina l’orologio manda diçci rintocchi. La risata d’una fanciulla vibra nella chiarità del mattino, vibra a lungo... « Insomma! Insomma! » dice il santo di Lumbres con voce incerta. Si fruga in tasca con sollecitudine un po’ co­ mica, cerca invano il suo accenditore (dono del conte di Salpène, che egli dimentica sempre sul suo tavolino), trova un fiammifero, lo scricca, ripetendo: « Insomma! Insom-

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ma! » a denti stretti. Nel vuotarsi le tasche, ha posato in terra il coltello dal manico di corno, alcune lettere, il faz­ zoletto di cotone rosso — d’un cosi bel rosso vivo! — e brancica invano qua e là sul pavimento senza poterli ritro­ vare. Il letto, più vicino, addensa l’ombra. Ma in alto, per contrasto, la chiarità, intorno alle imposte chiuse, si allar­ ga, si diffonde già più visibile, il volto del morticino riap­ pare a poco a poco, riaffiora alla superficie dal fondo delle tenebre. Il buon prete si curva per toccarlo, lo guarda... Anche il morticino, adesso, con tutti e due gli occhi spalancati, lo guarda. Un istante ancora egli sostiene questo sguardo per una sua assurda speranza. Ma non hanno palpito le palpebre irrigidite. Le pupille, d’un nero opaco, sono vuote di ogni pensiero umano... E tuttavia... Forse un diverso pensiero... duna ironia subito riconosciuta, in un lampo... La sfida del signore della morte... del ladro di anime... È lui. — Sei tu. Ti riconosco! — esclama il povero vecchio con voce grave e martellando le parole. Contemporaneamente gli sembra che tutto il suo san­ gue gli ricada nel cuore come una pioggia gelata. Un dolo­ re lancinante, indicibilmente acuto, lo attraversa da una spalla all’altra, e già s’è diffuso per tutto il braccio sinistro, fino alla punta delle dita rattrappite. Un’angoscia tutta fisi­ ca, che non ha mai provato, gli svuota il torace, come per una mostruosa succhiatura dell’epigastro; ed egli si irrigi­ disce per non gridare, per non invocare soccorso. Ogni sicurezza vitale è scomparsa. La morte è prossi­ ma, certa, imminente. L’uomo eroico lotta contro di essa con disperata energia. Vacilla, fa un passo per rimettersi in equilibrio, si afferra al letto, non vuol cadere. In questo semplice breve passo quarant’anni di una volontà magnani­ ma tesa al più alto grado, sono sperperati tutti, in un batter d’occhio, in un ultimo sforzo, sovrumano, capace di ferma­ re, per un istante, il destino. Dunque, è proprio vero che, fino a quando la notte non se lo prenda, e non lo ricopra a sua volta, il tenace tribola­ tore d’uomini, che si diverte coll’umanità come con una preda sua, lo circonda dei suoi incantesimi, lo incita, lo svia ora con una imposizione ora con una carezza, gli toglie e gli ridà la speranza, prende tutte le voci, angelo o demonio, 234

multiforme, efficace, potente come un Dio. Come un Dio! Ebbene, venga pure l’inferno e la sua fiamma pur di giun­ gere a sbaragliare — almeno una volta, ima sola, — quella mostruosa malizia. Ma è possibile, può permettere Iddio che il suo fedele servo e seguace trovi alfine al suo posto questo ridicolo re di tarocchi, la gran bestia sette volte co­ ronata? Alla bocca che cerca la Croce, al braccio che già quasi la tocca sarà riserbata questa irrisione? Questa bu­ gia? — Ma è possibile? — ripete a voce bassa il santo di Lumbres — è possibile? — E, d’un tratto: — Tu mi hai tradito! — esclama. Il dolore acuto che lo fasciava d’un tremendo giusta­ cuore, allenta un po’ la sua presa, ma il respiro gli si fa dif­ ficile. Il cuore gli batte fiacco fiacco, al modo di uno che anneghi. « Mi restano pochi momenti però », pensa tra sé il po­ veruomo, alzando i suoi piedi pesanti come piombo uno dopo l’altro. Ma nulla può impedire l’atto di colui, che a denti stret­ ti e raccogliendosi tutto in un solo pensiero, si fa sotto al nemico vittorioso e gli misura il colpo supremo: il santo di Lumbres insinua le sue mani sotto le ascelle rigide di quel morticino, e trae per metà il cadavere piccolo, leggero, fuori dal suo sudario. La testa ricade e oscilla dall’una spal­ la all’altra, poi sfugge indietro stecchita. Sembra voglia di­ re: « No, no! », col gesto grazioso dei ragazzi viziati quan­ do sono sazi di carezze. Ma che importa al duro contadino, violentato nella sua ultima speranza, e che sta in piedi solo per virtù duna idea sovrumana, d’un sentimento elementa­ re, di questo sdegno da fanciullo o da semidio? Solleva il morticino come un’ostia, levando contro il cielo uno sguardo selvaggio. Chi può sperar di riprodurre il grido di angoscia, la maledizione dell’eroe che non chiede né pietà, né perdono, ma giustizia? No! No! Non implora egli questo miracolo: lo esige. Dio glielo accorderà. Dio glielo concederà, altrimenti tutto non è che un sogno. Tra lui e Voi, Signore, dovete dire chi è il re. Insensata, insen­ sata parola, ma forte assai da rimbombare fino al cielo, e da infrangere il silenzio. Insensata parola, ardente blasfema! A colui che semina la morte tra l’umanità fu elargito, forse, il compito di distruggere la vita, di risospingerla nel

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nulla donde fu tratta. Che abbia sofferto invano, che im­ porta? Egli, il povero prete, ha avuto fede. — Mostratevi, — esclama con quella voce interiore onde si manifesta al mondo invisibile l’indecifrabile potere dell’tiomo, — mostratevi, prima di abbandonarmi per sem­ pre!... Disgraziato d’un povero vecchio prete che butta via tutto quel che possiede per ottenere un segno dal cielo! E non gli sarà rifiutato quel segno; perché la fede che trasporta le montagne, può ben risuscitare un morto... Ma Dio non si concede che alla carità.

Vili Non possediamo, su questo episodio, di mano del santo di Lumbres, che una breve narrazione, o meglio, alcune no­ te tirate giù alla rinfusa e in uno stato d’animo assai pros­ simo al delirio; redatte senza garbo né grazia, e in modo cosi primitivo, che è impossibile trascriverle tali e quali so­ no. Niente cbe ricordi l’uomo straordinario sul quale fu­ rono esperite tutte le lusinghe della perdizione; ma vi si ri­ trova, d’altro lato, l’antico curato di Lumbres, con la sua candida umiltà, il suo rispetto alle gerarchie e con ima de­ ferenza un po’ troppo umile; un timore un po’ servile dei discorsi degli altri, una totale diffidenza di se stesso unita a un profondo avvilimento, irrimediabile, che permette di prevedere, anche troppo chiaramente, la triste fine della sua vita. Tuttavia alcune di queste righe meritano di essere ri­ prodotte. Sono quelle in cui, sforzandosi di notare con mol­ ta chiarezza certi fatti a cui si trovò presente lui solo, tra­ scrisse, per cosi dire, parola per parola, gli ultimi momenti della sua mirabile avventura. Le riportiamo testualmente:

« Mi tenni per un minuto o due il cadaverino tra le braccia, poi tentai di sollevarlo verso la Croce. Per quanto fosse leggerissimo, io penavo assai a sostenerlo, tanto mi sentivo indebolito e dolente il braccio. Pure, mi riuscì. Al­ lora, con gli occhi fermi sul crocifisso e richiamandomi di forza al pensiero tutta la penitenza e il travaglio della mia 236

povera vita, il bene che mi può essere intravenuto di fare, le consolazioni ricevute; tutto io offersi, senza riserva, affin­ ché il nemico che senza posa mi aveva fin qui perseguitato e che mi rapiva adesso perfino la speranza della mia salvez­ za, fosse finalmente umiliato davanti a me per volontà di Uno più potente di lui... O padre, avrei, per ottenerlo, sa­ crificato anche la vita eterna! « O padre... e purtroppo è vero; il diavolo che di me si era impadronito, è abbastanza forte e sottile da ingan­ nare i miei sensi, traviare il mio giudizio, mescolare il vero al falso. Accetto, accetto in anticipo la vostra suprema deci­ sione. Ma il prodigio è pur tuttavia negli occhi che lo han­ no veduto, nelle mani che lo hanno toccato! Si! Per un trat­ to di tempo che io non potrei precisare, il cadavere è sem­ brato rivivere. L’ho sentito caldo, palpitante sotto le mie dita. La piccola sua testa, rovesciata indietro, s’è volta ver­ so di me. Ho veduto ben io battere le palpebre e rianimar­ si lo sguardo. L’ho veduto: e una interna voce mi ripeteva la parola: Numquid cognoscentur in tenebris mirabilia tua et justitia tua in terra oblivionis? Già mi si schiudevano le labbra per pronunciarla quando quello stesso acuto dolore, indimenticabile, che non potrei paragonare a nessun’altra sofferenza, mi vinse di nuovo. Per un istante io tentai an­ cora di sorreggere il corpicino che mi sfuggiva — e lo rividi ricadere sul letto. In quel preciso momento, alle mie spalle, echeggiò un formidabile grido ». Di fatto egli lo aveva sentito quel formidabile grido seguito da una più formidabile risata. Allora era fuggito fuori dalla camera come un ladro, correndo dritto difilato oltre la porta aperta e pel giardino pieno di sole, senza vol­ gere il capo, senza vedere null’altro che delle ombre che respingeva senza riconoscerle, con le due braccia tese. Alle sue spalle, a una a una, si spensero le voci, per confondersi in un solo rumore vago, ben presto soffocato. Fece ancora qualche passo, riprese fiato, apri gli occhi. Era seduto sul­ l’argine della strada di Lumbres, col suo cappello, caduto­ gli a terra, li vicino; e con lo sguardo ancora ebbro. Un ca­ lesse passò via di trotto, nel polverone dorato, e l’uomo che vi era su salutò con un moto della frusta e con un largo sorriso.

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« Che sia stato un sogno? » si chiedeva il povero prete, col cuore in gola. Presso di lui c’era il curato di Luzarnes: un curato di Luzarnes pallido, senza più fiato, balbettante, ma che an­ dava riacquistando a poco a poco la sua autorità e rinfran­ candosi, alla vista di quel poveretto che si rialzava a fatica, facendo tutti gli sforzi per reggersi in piedi, con la testa nuda, la canizie in disordine, simile a uno scolaretto. — Disgraziato! — esclamò il futuro canonico non ap­ pena si senti sicuro di parlare con la dovuta fermezza, — disgraziato! Lei è in uno stato pietoso, e io la compiango! Ma compiango anche me che ho creduto alle sue fantasie, attirando su quella povera casa un’altra disgrazia spavento­ sa, e compromettendo la nostra dignità (di tutti! di tutti!) con uno spettacolo degno di riso!... E poi questa fuga! Ah, caro collega, non mi aspettavo da lei una tale prova di poco coraggio. E adesso — riprese a dire dopo una pausa, e ascol­ tandosi ancora ad occhi chiusi — e adesso che vorrà fa­ re, lei? — Ore ho mai da fare? — rispose il santo di Lumbres. — Ho commesso un errore del quale e della cui gravità io mi rendo appena conto. Iddio lo sa. Io merito tutti i rim­ proveri che ella mi fa in questo momento. Sussurrò qualche altra parola confusa, esitò a lungo, poi, umilmente, col capo chino, con voce appena sensibile: — E adesso... e adesso... se non le dispiace... quel mor­ ticino che ho tenuto tra le braccia... — Almeno, non ne parli! — rispose il curato di Lu­ zarnes con brutalità premeditata. A questo colpo egli rabbrividì senza rispondere, ma di­ resse sul suo giudice imo sguardo strano. — La commedia, — riprese il curato di Luzarnes, — quasi sacrilega che lei, senza intenzione cattiva, lo ricono­ sco, povero amico, ha fatto poco fa, ha avuto una conse­ guenza che lei sembra ignorare tuttora... Parliamo sul se­ rio! Possibile che lei non abbia visto, non abbia sentito nulla?... — Sentito... — rispose il santo di Lumbres, — senti­ to... che dovrei aver sentito? — Che dovrei aver sentito! — esclamò l’ex-professore. — Facciamo a spiegarci chiaro. Lei è anche capace, in real238

tà, di non aver prestato orecchio che a voci immaginarie: perché io non posso ammettere che un uomo come lei, fon­ te di pace, abbia potuto abbandonare cosi, senza rimorsi, una donna, una madre, che tutta la sua odiosa rappresenta­ zione è mancato poco non mandasse all’altro mondo (') e che è, in questo momento che noi parliamo, in pieno ac­ cesso di demenza. E poiché il vecchio prete lo contemplava con stupore evidentemente sincero, l’altro abbassò il tono della voce prima di riprendere il suo dire, con la furia che mettono gli allocchi a vuotarsi d’un racconto tragico e doloroso: — Ah, dunque lei non sa proprio nulla! Lei non sa che quella poveretta s’era introdotta nella camera dietro di lei? Che è accaduto là dentro? Lei deve saperlo meglio di me. Noi abbiamo sentito un grido, poi uno scoppio di riso. Poi abbiamo visto lei che fuggiva via tutto smarrito... Quel­ la voleva venirle dietro, e noi abbiamo avuto un bel daffa­ re a trattenerla: era uno spettacolo penosissimo... Eh, pur­ troppo come ci si può stupire che una povera donna, nel suo profondo dolore, abbia subito il fascino della sua elo­ quenza, il contagio dei suoi gesti, della sua immaginazione esaltata, se anch’io... un cervello a posto come il mio... fino a oggi... in condizioni di distinguere il vero dal falso... Quel­ la poveretta esclamava: « È vivo! È vivo!... Risuscita! ». E voleva che le corressimo dietro, che la riportassimo da lei! Oh misericordia! Si interrompe un momento, ansima e chiede con le brac­ cia conserte: — Questi sono i fatti: lei che ne pensa? — Io sono alla perdizione... — concluse il curato di Lumbres... — Ero pazzo... un pazzo pericoloso... Mi punirò da me, si, devo rendermi innocuo da me. Una sola speran­ za mi resta ed è che mi avanza poco tempo... perché ho i minuti contati... Ho sentito, proprio dianzi, il primo insulto di un male che io attribuivo... insomma un dolore cosi (’) Si sa che la signora Havret fu guarita qualche mese dopo durante un pellegrinaggio alla chiesa di Lumbres. Tra le infinite conversioni straordinarie è interessante constatare che questa gua­ rigione miracolosa è la prima che possa essere attribuita, in ordine di tempo, alla intercessione dell’abate Donissan (N. d. A.).

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strana... e che, è sicuro, crescerà da un momento all’altro finché non mi avrà portato via...

« Mi descrisse con molta esattezza » riferisce il curato di Luzarnes nelle note citate « un classico attacco di angina pectoris. Glielo dichiarai senza ambagi. Avrei voluto aggiun­ gere qualche consiglio, tratto, ahimè, dall’esperienza, che la mia povera mamma è morta proprio di questa terribile ma­ lattia. Ma, dopo avermi fatto ripetere due volte le due pa­ role angor pectoris che gli arrivavano nuove, lo vidi racco­ gliere il suo cappello che era li per terra, asciugarlo con la manica, e andarsene a gran passi, senza volermi oltre ascol­ tare ». IX Com’è sempre lunga, lunga, lunga la strada del ritorno! Quella degli eserciti in ritirata, su vie notturne, che non portano a nessun luogo, nella polvere vana. E tuttavia bi­ sogna andare avanti, bisogna andare finché batte questo no­ stro povero vecchio cuore — cosi, per niente, per consuma­ re la propria vita — perché non si dà riposo, finché il gior­ no dura, finché l’astro spietato ci guarda, con il suo unico occhio di sopra dall’orizzonte. Finché batte questo nostro vecchio povero cuore. Ecco la prima casa del villaggio, poi la scorciatoia, tra le due siepi ineguali, attraverso ai pometi, che sbocca al­ l’entrata del cimitero, proprio all’ombra della chiesa. Ed ecco la chiesa di Lumbres, come un’ombra. Il curato di Lumbres è entrato, inosservato, per la por­ ticina che dà proprio sulla sacrestia. S’è abbandonato su di una scranna, cogli occhi fissi sull’ammattonato, gualcendo tra mano il cappello, e tuttora incapace di trovare un punto dove fermare la sua memoria allo sbaraglio, attento solo al battito regolare del sangue nell’arteria del collo, con atten­ zione insensata. Certo, non resta più nulla di quel vegliardo in piena ri­ volta e in piena sfida! Ormai non troverà più neanche per un momento la forza necessaria a raccogliere i suoi ricordi, o a dipanarli. La sola idea d’ima cosi penosa cernita gli è ostile, insopportabile. Meglio — oh! — meglio restare in

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quel dormiveglia. Lo sforzo è stato eccessivo, ed egli è ca­ duto da troppo alto luogo: le tentazioni solite non sono che fantasie di fanciulli, un rimastichìo monotono; ima tiritera simile ai borbottamenti insidiosi di un giudice. Ma lui, è il Nemico che l’ha direttamente provocato. Osserva, senza farlo apposta, la sua mano posata sul petto, nel punto dove ha la radice quel suo dolore sordo. Eppure, più che il terrore d’una nuova agonia, l’opprime anzitutto la preoccupazione del giudizio dei colleglli, i loro discorsi, le lavate di capo e le sanzioni dell’arcivescovo. Gli vengono le lacrime agli occhi. Trascina la sua scranna vici­ no a un tavolinetto, e con la testa vuota, il cuore stanco, curvo il dorso sotto la minaccia, fa tutti gli sforzi per scri­ vere molto leggibilmente, in caratteri il più possibile nitidi, come un bravo scolaretto, quella specie di rapporto di cui abbiamo riprodotto, più sopra, qualche riga. Scrive, cancel­ la, straccia. Ma, a mano a mano che ne fissa il ricordo sulla carta, svanisce dalla sua coscienza, svanisce la mirabile sua avventura. Non la riconosce più: gli si è straniata. Lo sforzo che fa per riafferrarla gli spezza l’ultima fragile trama del ricordo, e lo lascia li, desolato, coi gomiti sulla tavola, e gli occhi smarriti: senza vita. Quanto tempo resterà cosi guardando e non vedendo una finestrella dall’inferriata piccolina, nello spessore del muro, attraversata, di fuori, da un ramo di sambuco agitato dal vento, al sole, ora scura, ora verde? L’uomo che venne a suonar l’Angelus di mezzogiorno, notò, attraverso l’aper­ tura dell’uscio, nell’ombra, il cappello di lui caduto a ter­ ra, il suo breviario, e sparpagliati al suolo tutti i santini e i segnalibro. Alle cinque, un allievo di catechismo della Prima Co­ munione, Sebastiano Mallet, venuto a riprendersi un libro che aveva dimenticato, trovò la porta chiusa, ma, non aven­ do sentito segno di vita, scappò via. — Non osai picchiare troppo forte, né chiamare — dis­ se egli stesso più. tardi, — perché la chiesa era già tutta piena di gente e avevo paura che mi chiedessero notizie. Era, difatti, l’ora che la folla dei pellegrini in arrivo coll’omnibus-automobile da Plessis-Beaugrenan si pigia ogni giorno al confessionale del santo, nella cappella degli An­ gioli.

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Strana folla, dove si videro spesso a gomito a gomito tante figure tragiche o comiche, tante marionette illustri che il calore d’una grande anima sollevava un istante di sopra dalla menzogna banale, restituendoli al regno delle creature umane. Quella sera li, ancor piu numerosa, eccitata dall’at­ tesa, o fors’anche agitata da un oscuro presentimento, la folla rumoreggiava nella vecchia chiesetta. A ogni sbattere della porta centrale tutti quei volti ir­ requieti — visi in tensione che i consueti frequentatori del pellegrinaggio non dimenticheranno mai più — si volgeva­ no tutti insieme, in un lampo di luce, verso la soglia, per immergersi poi subito, di nuovo, tutti insieme nell’ombra. I chiacchiericci sommessi, la tossettina nervosa, cui si fa riparo della mano, mille differenti gesti di impazienza, o di curiosità, tutto finiva in uno strano brusìo, simile allo scal­ picciare d’una mandria sotto la pioggia di un temporale. D’un tratto cessò anche questo brusìo: tutto tacque. La porta della sacrestia stridette in mezzo a un silenzio solen­ ne e il curato di Lumbres apparve. — Dio, com’è pallido — si udì una voce di donna da lontano, nella navata. Questa voce, giunta chiarissima, ruppe l’incantesimo. Il gregge aveva ritrovato il suo pastore e respirò. Ora il vecchio sacerdote era arrivato al confessionale, procedendo lentamente con la testa reclinata sulla spalla destra, sempre con la mano contro il cuore. Ai primi passi ebbe la sensazione di cadere. Ma col suo movimento la folla già l’aveva spinto al suo’posto: già si richiudeva su di lui. Ancora una volta egli era la sua preda. E non se ne libererà più. Rimane li diritto, nella compatta oscurità, piegata in due l’alta statura, la nuca contro il soppalco di quercia, cer­ cando di riprendere fiato, e abbandona alla sua sofferenza il corpo inerte, avvilito, la sua spoglia mortale. La sua cieca sopportazione stancherebbe il carnefice. Ma chi arriverà mai a stancare quello che lo guata, invisibile, e si sazia della sua agonia? Bisogna che il disgraziato vegliardo, che ebbe pure un momento di ribellione, che quasi riuscì vittorioso, soppor­ ti ormai fino alla fine il gravame di questa prepotenza che egli ha provocato. Piacesse a Dio che almeno il suo nemico gli si manifestasse a faccia a faccia. Ma non è questa voce, estrema sfida, che potrà ascoltare. A mano a mano che ri242

prende la sua lucida coscienza, attraverso lo spasimo fisico, gradatamente toma a distinguere... a distinguere quel mor­ morio sempre più chiaro... monotono, inesorabile. Lo rico­ nosce... Sono loro. Uno per uno, uomini e donne, eccoli li, tutti; e il loro alito arriva a lui, meno ripugnante della loro parola impu­ ra; tristi litanie del peccato, espressioni consumate da se­ coli; ignobilmente lucidate dall’uso, di bocca in bocca, di padre in figlio, come le pagine più lette di un libro osceno, e che il vizio ha segnato della sua impronta — contrasse­ gnate nella untuosità di migliaia di dita. Sale come una ma­ rea, quella parola; sommerge a poco a poco il santo di Lumbres che è ancora li, dritto, in piedi. Come si danno da fare! Come si affrettano! Ma, appena ripreso fiato, li vedremo — ah, li vogliamo vedere questi tremendi fanciul­ li — ricercare, ricercare con le labbra la schifosa mammella che Satana si comprime per abbeverarli del suo tanto amato veleno! E tu fino alla morte alza la mano, perdona, assolvi, uomo della Croce già in precedenza sconfitto! Egli ascolta, risponde come in sogno, ma in piena luci­ dità. Mai non si senti più libero il cervello, più pronto il giudizio, né più chiaro, mentre che la sua spoglia non è at­ tenta che allo spasimo fisico crescente, nel punto esatto don­ de irradia il dolore acuto, si ramifica prodigiosamente e cor­ re per la trama dei nervi come un’agile spola. Già tanto è andato crescendo, che sembra aver attinto il punto di con­ tatto tra il corpo e l’anima, dividendo in due la creatura unica. Il santo di Lumbres nella sua agonia non ha più com­ mercio che con le anime. E le vede con lo sguardo di quan­ do la palpebra s’è già richiusa — le anime nude. Inchiodato contro la grata sonora del confessionale, con le reni dolorosamente compresse contro lo stallo dove non osa mettersi a sedere, a bocca aperta per aspirare l’aria gras­ sa, tutto in sudore, non sente che quel mormorio indistin­ to, la voce dei suoi figlioli in ginocchio, in umiltà. Ah! che parlino o tacciano, la grande anima impaziente già ha prece­ duto la confessione, impone, minaccia, supplica. L’uomo di Dio non è li per vincere, ma per essere testimone fino alla morte della beffa spietata, dell’ingiusto e vile potere, della iniqua pronuncia di cui si appella alla Divinità» Volgi, o Signore, i tuoi occhi su questi figli tuoi, e ve-

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dili nella loro infinita miseria, nella loro vanità, solerte e leggera come un’ape, nella loro curiosità senza propositi, nel loro corto raziocinio elementare, nella loro sensualità piena di tristezza... e ascolta questo loro linguaggio frusto e per­ fido a un tempo, abile a cogliere soltanto i contorni delle cose; solo ricco di equivoco, sempre saldo al negare, sempre fiacco all’affermare; linguaggio di schiavo o di liberto, fatto per l’insolenza come per la carezza, agile, insidioso, sleale. Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciant. X

— Ahimè, — precisava il curato di Luzames, — ho pagata assai cara, un giorno, la mia esperienza. Il mio po­ vero confratello è andato sul punto di rimanermi li, morto, sotto gli occhi, per un attacco di angina pectoris e lei vedrà subito se ho detto giusto. Cosi dicendo, camminava a gran passi sulla strada di Lumbres accompagnato dal giovane dottore di Chavranches. Questo medico-condotto ancora imberbe, giunto lassù da pochi mesi, si era procacciata una reputazione professionale un tantino superiore ai suoi meriti. La sua sicurezza nella conversazione, la sua risolutezza nel macellare la gente, e, soprattutto, il suo modo di trattare la clientela dall’alto in basso, gli avevano procurato la simpatia di tutti. Non una di quelle brave mamme provinciali che non sognasse per la sua ragazza una dichiarazione di quella bocca insolente, e il soccorso delle sue mani esperte, capaci, al pari della sto­ rica lancia, di guarire le ferite che procuravano. Nessuno che non si augurasse di sentire, presso al suo letto di mor­ te, qualcuna di quelle parole consolanti, vivide, a mezza vo­ ce, d’un umorismo da cannibale. Perché già non si contereb­ bero più tutti coloro che quello zerbinotto con le sue cure — per usare una sua frase — aveva spedito al Creatore saltando e ballando. — Dio santo, caro signor abate, non ho difficoltà a cre­ derle, — rispose in tono affabile. Chiamato di gran premura e per consiglio del curato di Luzarnes, aveva trovato la padrona del Plouy in piena crisi 244

di delirio, che solo cessò quando la donna rimase sfinita. Ma, verso sera, essendosi assopita l’inferma: — Caro dottore, — gli aveva detto il curato, — vor­ rei chiederle un favore proprio personale. Non ha detto che la sua automobile deve esser qui verso le sette? Sono appena le cinque. Mi faccia la cortesia di accompagnarmi, passo passo, fino a Lumbres. Di là, chi le impedisce di te­ lefonare al suo meccanico a Chavranches di venirla a pren­ dere? Frattanto ella avrà potuto fare una visita accurata al mio povero collega, e potrà dirmi il suo parere. — È un po’ che io glie l’ho dato il mio parere! — ri­ sponde il dottorino, non senza un pizzico di buon umore. — Il poco nutrimento e poco sostanzioso, senza alcun eser­ cizio fisico, la permanenza in un prebisterio muffito, la chiesa umida, il confessionale senz’aria e senza luce: un trattamento da tredicesimo secolo, in parola d’onore, che anche senza Yangina pectoris basterebbe per buttar a terra un uomo già strapazzato. Ma che cosa vuole che gli fac­ cia, io? — Io ho il mio compito, ella ha il suo, — rispose il curato di Luzarnes con sussiego. — La nostra ragione di esistere è la pietà per i poverelli e la carità umana. Che il mio povero collega sia fatto cosí o cosà, che importa a lei? E, anche secondo quel che lei mi dice, sarebbe uno di quei casi di malattia professionale, che meritano tutta l’attenzione dell’osservatore e tutte le cure del medico. — E va bene: verrò, — rispose, per accondiscendere. — E poi c’è gusto a discutere con un prete come lei, — concluse il dottorino di Chavranches. Cosi decisero di fare insieme, e in concordia di senti­ mento quasi perfetta, il pellegrinaggio a Lumbres. All’en­ trata del villaggio cominciò una pioggerella fine fine; la via bianca si tinse d’ocra sotto i loro passi; fluttuava una nebbiòla dall’odore di edera. Allungarono il passo. L’erba del cimitero grondava di pioggia: il cancelletto, aprendosi e richiudendosi senza posa, cigolava che era un lamento; e l’atrio di pietra grigia frustato dalla pioggia sembrava, nel­ l’ombra cadente, tendersi e palpitare come una vela. A fianco a fianco, entrarono nella chiesa già quasi deserta. Cosi il curato di Luzarnes, posando paternamente la mano sulle spalle del suo compagno: 245

— Caro dottor Gambillet, — gli sussurrò — volentie­ ri io le avrei risparmiata questa visita al santuario, che forse le dà un po’ fastidio, ma non le sarà più comodo aspettar qui che non in una stanza del presbiterio più fred­ da e più spoglia d’un parlatorio delle suore Clarisse? E poi, la più gran parte della folla si è, per fortuna, già dispersa. L’accesso al confessionale mi par libero e, se il mio reve­ rendo confratello vuole anche riposarsi un momento in sa­ crestia, non avrà difficoltà, immagino, a raggiungerci subito in casa. Disse, e disparve. Il dottorino, sempre immobile pres­ so la pila dell’acqua santa, non avverti più, per un momen­ to, che l’eco di una voce lontana, lo sbatter di una porta e lo strisciar di due grosse scarpe sul selciato. Davanti a lui, a una a una, le devote ritardatarie, a passettini, con furtivo allungar della mano all’orlo della pila di marmo, 10 sfiorarono squadrandolo di traverso con occhi gravi. Poi 11 contadino che faceva da sacrestano spense le ultime lam­ pade. E il curato di Luzames fu di ritorno. — È meraviglioso! — disse. — Il mio confratello deve essere uscito fuori della chiesa: non lo troveremo piu. Le confessioni, a quel che ho sentito, sono finite da quasi tre quarti d’ora... Bisogna arrendersi all’evidenza, egregio dot­ tor Gambillet... Deve essere tornato in casa, non v’ha dub­ bio possibile, dalla porta del cimitero. Faccia ancora que­ sto piccolo sacrificio! — aggiunse con quel tono di confi­ denza a cui nulla si può rifiutare. — Ma che, le pare? — rispose con gran gentilezza il dottorino di Chavranches. — Mi viene a prendere l’auto alle 19, ho tutto il tempo che voglio. Noto, cosi di volo, che però, per essere moribondo, il suo amico, sor abate, è ancora bene in gamba. La frase gli fini in un leggero sibilo distratto. Perché, aspettando senza impazienza, con maschia fermezza, il mo­ mento di passare in primo piano, avrebbe stimato mancanza di dignità il mostrarsene commosso... Ma invano interpel­ larono la vecchia Marta nel parlatorio « dei beccaccini »: neanche lei aveva più visto il suo padrone, e non l’aspetta­ va neppur tanto presto. — Povero caro uomo, che mangia sempre in ore bru­ ciate e che più d’una volta gli accade di rimanere tutta la 246

notte inginocchiato sul pavimento, nella cappella degli An­ gioli! « Ha da esserci anche adesso, signori, quanto è vero che noi siamo "qui. Lo troveranno in un rientrante del mu­ ro, dietro il tavolino delle ampolle — è il suo posto prefe­ rito — solo come nella foresta di Bargemont. — Ladislao! — disse la donna al sacrestano che com­ parve proprio in quel momento sulla soglia con un muc­ chio di biancheria sul braccio, — l’hai visto, tu, nel fare il tuo solito giro? L’altro scosse il capo. — La chiesa si chiude alle sei, — disse la donna, — e Ladislao non la riapre che alle nove per le orazioni della sera e la salutazione. È un intervallo di cui il nostro curato approfitta di solito per mettere a posto le cose a modino. Pensino un po’! Ha ottenuto da Monsignore il permesso di tener esposto il Santo Sacramento tutta la notte. Vuoi dare le chiavi a questi signori? — chiese poi a Ladislao, un po’ impacciata. — Tanto fa che ci vada io, con loro, — rispose bru­ sco il sacrestano. — Io ho le consegne, cara voi... e la re­ sponsabilità è mia. Allora, un momento che mangio un boc­ cone e bevo un goccetto... La buona donna, appena l’altro se ne fu andato, sciolse il sacco: — Lo avrei giurato, vedono? — disse. — Ma vien su­ bito, perché non mangia niente, quello li. È una cattiva lingua, ma però senza cattiveria, come un ragazzo. — Vuol dire che si aspetterà, — disse il curato di Luzarnes, un po’ indispettito e interrogando con gli occhi il suo compagno. — E... e... avrei un’altra cosa da dire, — cominciò la vecchia Marta dopo aver tossito per schiarirsi la voce. — C’è nell’altra stanza (quella che il nostro sant’uomo di Dio chiama il suo oratorio a cagione che ci fa le confessioni, anche costi), c’è un signore alto, distinto, che è venuto da lontano proprio apposta per il nostro signor curato, un si­ gnore vecchio con la Legion d’onore, molto distinto, dav­ vero, e anche molto cortese, che si annoierà chi sa quanto a restare li solo, da sé. Il dottorino di Chavranches fece con tutte e due le ma-

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ni il gesto di buttar al diavolo il vecchio, la croce, la Legion d’onore e ogni cosa. — Qualche generale in ritiro... — insinuò l’ex-profes­ sore di chimica, con un sorrisetto di complicità. — Li c’è il suo biglietto da visita, li, davanti a loro, — disse Marta, un po’ mortificata. — Ma ha due occhi cosi mansueti e buoni! No, no, un militare non può essere. Il cartoncino bristol era già sotto il naso di Gambillet che diventò rosso come un bambino. — Oh! oh! allora è un’altra faccenda! — disse con aria di intenditore. E porse il biglietto da visita al curato di Luzarnes, che barcollò. — Antonio Saint-Marin... — balbettò il futuro cano­ nico, con l’acquolina in bocca. — Accademico di Francia, — rispose l’altro facendo eco. Il dottorino si dette un contegno e, per un momento, sembrò cercare Dio sa che cosa. E alla fine disse: — Ci presenti! XI

L’illustre vegliardo da un mezzo secolo in qua tiene il pontificato dell’ironia. Il suo genio, che si picca di non portar rispetto a niente, è il più docile e il più alla mano che ci si possa figurare. Che egli finga il pudore o lo sde­ gno, che lanci lo sberleffo o la minaccia, è solo per meglio compiacere ai suoi padroni, e, come uno schiavo obbedien­ te, a volta a volta, per mordere o per adulare. Nella sua bocca artificiosa le più salde parole sono come carte da gioco adulterate; la stessa verità diventa servile. Una cu­ riosità, che gli anni non hanno ancora ottusa, e che è, per cosi dire, la virtù di quel vecchio giocoliere, lo porta a rin­ novarsi continuamente, a truccarsi davanti allo specchio. Ognuno dei suoi libri è un crocicchio dove egli aspetta il passante. Come una ragazza fatta sapiente e sottile dall’aspra esperienza del vizio, sa che vale più il modo di porgere che la sostanza di ciò che si dà; e nel suo accanimento a con­ traddirsi e a rinnegarsi, arriva a fornire, ogni volta, al let­ tore, una immagine di sé nuova di zecca. 248

I chierichetti della grammatica, che a lui fanno corona, levano alle stelle la sua sapiente lindura; la sua frase più abbagasciata d’una comprimaria di teatro, i ghirigori della sua dialettica, la sua sterminatissima sapienza. La razza smi­ dollata, dalle reni flaccide, riconosce in lui il suo capintesta. Se la godono, come d’una vittoria sugli uomini, allo spet­ tacolo dell’impotenza che, come il cane, « addenta i sassi che non può scagliare », e reclamano la loro parte in quel rito infecondo. Nessun essere intellettivo ha mai deflorato maggior quantità di idee, smozzicato si gran numero di pa­ role venerande, offerto più ricca preda alla suburra. Da ima pagina all’altra la verità, che enuncia con una smorfia libertina, tradita, beffata, sberleffata, si ritrova, all’ultimo, dopo un’estrema capriola, nuda e cruda, sulle ginocchia vit­ toriose di Sganarello. E già il manipolo, fattosi legione col concorso di un pubblico sbalordito e devoto, saluta d’un sorriso discreto l’ultimo salto mortale dello sbarazzino pres­ so che centenario. — Io sono l’ultimo dei Greci, — dice egli di se stesso, con un singolare sogghigno. Subito venti stupidini, che hanno trangugiato in fretta in fretta, di Omero, quel che ne hanno trovato in margi­ ne a Jules Lemaître, celebrano il nuovo miracolo di civiltà mediterranea, e corrono a dar la sveglia, con le loro acute grida, alle Muse costernate. Perché è una delle civetterie di questo vecchio balocco, e la sua più cinica grazietta, quella di far finta d’aspettare la gloria sulle ginocchia della Dea altera, cullato contro la casta cintura di lei, dove egli manda in giro le sue mani vecchiotte. Nuovo, terribile alunno! Da molto tempo s’era determinato a far una visita a Lumbres e i suoi discepoli non facevan più mistero nean­ che ai profani, che egli voleva andarci per covarvi un nuovo libro. « Le contingenze della vita, — confidava talvolta ai suoi seguaci, con quel tono di impertinenza confidenziale onde egli pensava di dispensare i tesori di quel suo scetti­ cismo da farmacia, da lui battezzato saggezza classica, — le contingenze della vita mi hanno portato a contatto con quel santo, posto che con questo nome vogliamo designare certi cristiani di semplici costumi e di candida natura, il cui reame non è di questo mondo, e che si nutrono, un

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po’ come tutti, del pane dell’illusione, ma con un appetito eccezionale. E tuttavia essi vivono e muoiono, sempre misconosciuti dai più, e senza aver spinto gran che oltre il contagio della loro sacra follia. Io vorrei, invece (e mi sia perdonato questo tardivo ritorno a una fantasia infantile), conoscere proprio coi miei occhi un altro tipo di santo, un santo autentico, un santo da miracoli, insomma un santo popolare. « Chi sa? Chi sa che non mi decida ad andare a Lum­ bres per finire di morire tra le mani di quel buon vegliar­ do? ». Questo proponimento, e tanti altri, furono per mol­ to tempo ritenuti una piacevole fantasticheria, sebbene vo­ lessero testimoniare, con una specie di umoristico pudore, d’un sentimento sincero, un po’ vile, ma umano, una bug­ gerata paura della morte. L’illustre scrittore, per una mala ventura, non è un mediocre; è soltanto un vigliacco. La sua vigorosa personalità, sacrificata nei suoi libri come un piede in una scarpa troppo stretta, si è spampanata nel vi­ zio. Invano si sforza di nascondere a tutti, rafforzando il suo scetticismo e l’ironia, l’umiliante segreto che gli trasu­ da, talvolta, attraverso alle parole. Più avanza in'età, più quel disgraziato si sente incalzato, imprigionato nella sua menzogna, di giorno in giorno sempre meno in grado di ingannare con sottaceti e bagattelle la sua sempre crescente voracità. Impotente a superarsi, cosciente della ripugnanza che ispira, non trovando che a forza di espedienti e di ma­ lizie le poche occasioni di saziarsi, si butta come un ghiot­ tone su tutto quello che passa a tiro delle sue ganasce e, quando è vuoto il guscio, piange di vergogna. L’idea d’un ostacolo da vincere e del ritardo che impone la commedia della seduzione, anche se accorciata con tagli opportuni, il timore del deperimento fisico sempre possibile, il capriccio dei suoi stimoli, lo fanno timido, in precedenza, di fronte agli appuntamenti pieni di imprevisto. Alle cameriere che, un tempo, manteneva con un certo lusso, sono successi sguatteri e serve che sono i despoti della sua casa. Scusa come può il loro tratto troppo confidenziale, ostenta una bonomia insopportabile, svia l’attenzione con un riso che suona falso, mentre, con lo sguardo, egli sbircia, di sfug­ gita, la sottanella corta sulla quale, tra poco, andrà a stro­ finare la sua testa canuta.

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Ma, ahimè, questa torbida dissolutezza lo spossa e non lo sazia; nulla di più vile riesce a figurarsi: e tocca il fon­ do del suo inferno grottesco. Al desiderio che non fu mai più acre, né con piu ossessione, succede una gioia troppo corta, furtiva, malferma. È suonata l’ora quando il bisogno sopravvive alla voglia, ultimo enigma della sfinge carnale. Allora tra la vecchia salma restia e la voluttà invano sol­ lecitata, si levò l’idea della morte, come un terzo convitato. Quella che tante volte aveva accarezzato nei suoi libri, e da cui pensava di aver spremuto tutta la dolcezza, la morte (che è poi, in verità, sempre presente attraverso alla sua fredda ironia come un volto fermo al fondo di un’ac­ qua alta e chiara), cento volte sognata e assaporata, ora non la riconosceva più: la vedeva ormai troppo da vicino, a bocca a bocca. S’era scelta la figurazione, per sé, d’una lenta vecchiezza, un pendio dolce e fiorito, che sceso l’ul­ timo gradino si addormenta serena. Ma non si aspettava d’esser cosi sorpreso in via, in pieno giorno; un tale sopruso... Come?... Già qui? Si industria di allontanarne il pensiero o almeno di dis­ simularselo; spende infinite energie in questo gioco pietoso. A malapena osa confidare a quei familiari che gli sono più vicini qualche poco della sua oppressione, ma non lo com­ prendono essi che fino a un certo punto; nessuno arriva a vedere negli occhi dell’illustre uomo lo sguardo tragico in cui è espresso un terrore fanciullesco. « Aiuto! », invoca quello sguardo. E l’uditorio esclama: « Che delizioso par­ latore! ». XII

Il dottor Gambillet si fece incontro al celebre autore del Cero Pasquale e si presentò da sé, con un certo suo spiritaccio, perché non era sprovvisto né di malizia né di senso d’opportunità. — Il curato di Luzarnes potrà meglio di me augurarle il benvenuto in questo paese di Lumbres visitato dai mi­ racoli, a due passi dalla chiesetta che ella è venuto a vi­ sitare. Antonio Saint-Marin abbassò sull’abate Sabiroux la sua

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lunga faccia pallida, dandogli una squadrata dall’alto in basso, già un po’ di malumore: — Caro e illustre maestro, — disse allora il curato con molta misura, — io non avrei mai sperato di poterla vedere cosi da vicino. Il nostro ministero, perduto nel fondo di queste valli, ci condanna tutti all’isolamento fino alla morte, ed è un vero peccato che la classe sacerdotale, in Francia, sia tenuta cosi in disparte dal fior fiore dell’attività intellettuale della nazione. Che sia almeno concesso al più modesto dei suoi gregari... Saint-Marin agitò dall’alto in basso la sua mano sottile e bianca, immortalata nel quadro di Clodius Nivelin. — Il fior fiore dell’intelligenza nazionale, signor abate, fa una certa combriccola cosi chiassosa e antipatica, che io la consiglierei piuttosto a non lasciarla avvicinare ai loro presbiteri. E, quanto all’isolamento, avessi potuto esservi condannato anch’io, un tempo, e come lei! Il già stato professore di chimica rimase un po’ inter­ detto, poi prese il partito di sorridere a sua volta. Ma il dottorino di Chavranches, già entrato in confidenza, disse: — Andiamo, via, abate! Mi sembra un borgomastro all’entrata del re nella sua povera città. L’illustre maestro non ha mica fatto questi cento chilometri per sentirsi dire che è bravo! Confesso, tuttavia, maestro, che io sto per macchiarmi di più grave colpa verso di lei. — Non si preoccupi... — rispose il romanziere con vo­ ce soave. — Mi permetta di chiederle, soltanto, per qual mo­ tivo... — Non una parola di più, se le è cara la mia stima, — esclamò l’autore del Cero Pasquale. — Lei vuol sapere la ragione che mi ha spinto a questo viaggio, no? Ebbene, grazie a Dio, io non ne so più di lei su questo argomento. Il lavoro dello scrittore, caro giovanotto, è il più ingrato e il meno divertente di tutti; ora io ho già anche troppo da fare a comporre i miei libri: la mia vita non vorrei es­ sere io a compormela! Quindi, questa è una pagina bianca. — Che tuttavia noi ci auguriamo che ella vorrà scri­ vere: oso dire che da lei ci è dovuta. Lo sguardo abitualmente un po’ vago dell’illustre mae-

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stro piombò dall’alto sul suo sacro leccasuole, e lo sfiorò senza posarsi. Poi gli domandò, strizzando gli occhi: — Sicché, noi siamo qui ad aspettare, tutte e tre, i buoni uffici di un. santo? — E del sacrestano Ladislao, che ha le chiavi del san­ tuario, — notò quel ragazzaccio del dottorino di Cha­ vranches. — Come mai? — disse Saint-Marin, senza far mostra di accorgersi d’un gesto del curato di Luzames che indi­ cava di voler parlare. Ma Gambillet, più svelto, fece a modo suo il racconto degli episodi della giornata, sempre interrotto per rettifica dal suo sopraccigliuto compagno, che un impercettibile mo­ to di impazienza dell’illustre maestro ricacciava sempre nel nulla. Quando ebbe ascoltato tutto: — In fede mia, signori, — disse il romanziere, — non avrei mai osato sperare tanto da una giornata mal comin­ ciata. Oh, la refrigerante sorpresa di un po’ di sopranna­ turale e di miracoloso. — Soprannaturale? Miracoloso? — protestò con voce grave il curato di Luzarnes. — E perché no? — chiese secco secco Saint-Marin, voltandosi tutto d’un pezzo contro il suo innocuo nemico. (Per quanto in basso sia caduto un grand’uomo, la stu­ pidità nuda e cruda lo indispone. Ma soprattutto lo rattrista di dover riconoscere la sua stessa immagine nella stoltezza o nella bassezza degli altri, come in un tragico specchio). — E perché no? — ripetè, piuttosto fischiando fuori che scandendo ogni parola tra i denti radi. — Noi aspet­ tiamo tutti il miracolo, caro amico, e tutto l’universo, nella sua tristezza, lo invoca con noi. Oggi o tra un migliaio di secoli, che importa, se qualche avvento liberatore deve un giorno far breccia nel meccanismo universale? Io, per me, sono contento di aspettarlo addirittura per domani e addor­ mentarmi tranquillo. Con qual diritto la politecnica bruta pretende di venire a svegliarmi dal mio sogno? Sovranna­ turale e miracoloso sono due aggettivi sensatissimi e che un galantuomo pronuncia con gola... Come poi dichiarò, mai il curato di Luzarnes si era sentito cosi iniquamente umiliare. « Saint-Marin, — confidò poi al suo amico Gambillet,

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— m’è parso più poeta che filosofo, troppo proclive a in­ terpretare a modo suo le parole altrui. Ma, poi, che ragione c’era di andare in collera? ». Lo stesso autore del Cero Pasquale si sarebbe trovato impacciato a rispondere. Perché egli odia istintivamente chi gli somiglia, e assapora, senza confessarlo, l’amara ebbrezza di disprezzarsi negli altri. Sa meglio di tutti come sia sot­ tile la distinzione tra l’uomo spiritoso di professione e lo sciocco: e in certi stupidi adulatori il vecchio cinico fiuta con disdegno un piccolo rampollo della sua razza. — Se lei non ha ancora visto il romito, — riprese il dottorino di Chavranches, tanto per rompere il silenzio, — ha visto, almeno il romitorio? Che curioso rifugio! Che so­ litudine! — Ero giusto sotto quest’incantesimo, — rispose SaintMarin. — Non ha, la vita, nulla che sia realmente prezioso fuori che ciò che è raro e particolare: l’istante d’attesa e di presentimento. L’ho provato qui. Il dottor Gambillet approvò con un prudente sorriso, scuotendo il capo. Intanto il gran vegliardo, avvicinatosi alla finestra, cominciò a far correre lungo i vetri le sue dita sottili. La luce della lampada faceva agitare la sua ombra sul muro allungandola e accorciandola a volta a volta. Di fuori non si poteva distinguere con gli occhi che la pallida macchia della lastra. E nel profondo silenzio il dottore di Chavranches sentiva il leggero scricchiolio delle unghie sul vetro liscio. La voce di Saint-Marin lo fece, a un tratto, sobbalzare. — Questo sacrestano della malora, — disse, — ci vuol far morire di malinconia. Io sono davvero uno sciocco a restar qui a consumarmi di sbadigli, quando ho tutto un giorno davanti a me. Già: io parto soltanto domani. E mi sento anche addosso una stanchezza assai buffa, in verità! — E poi, — fece notare il dottor Gambillet, — se quel che ne pensa don Sabiroux corrisponde alla realtà, il suo povero confratello non sarà affatto in grado di riceverla stasera. — Per oggi, in fondo in fondo, mi basterà — rispose l’illustre maestro, — di aver conosciuto questo presbiterio campestre: un luogo incomparabile. (Indicava le quattro mura nude con un gesto carezze-

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vole, come fosse un rarissimo cimelio da far gola al colle­ zionista). Quest’ultima frase fu come un balsamo per l’orgoglio del curato di Luzarnes. — Devo farle notare, — disse, — che questa sala è chiamata impropriamente oratorio: il mio reverendo con­ fratello ci viene di rado. Per dire il vero egli rimane sem­ pre in camera sua. — Ohe! — esclamò l’autore del Cero Pasquale, con molto interesse. — Si. E sarà per me una gioia farle da guida fin là, — disse con gran premura il futuro canonico. — Il curato di Lumbres, ne sono certo, le userebbe volentieri questo riguardo, e io sento di interpretare il suo pensiero. Prese la lampada, se la sollevò sopra la testa, poi, ri­ masto un momento fermo, con la mano sulla maniglia, disse: — Se lor signori vogliono venire... Giunti al primo piano il curato di Luzarnes, indicando in fondo a un lungo corridoio una porta socchiusa: — Mi permetta, — disse, — di farle strada. Entrarono dopo di lui. La lampada, sostenuta a brac­ cio teso, rischiarava una specie di lungo abbaino, imbian­ cato appena a calce viva, e che sembrava, al primo sguardo, totalmente vuoto. Il pavimento d’abete, fresco di lavatura, esalava un aroma tenace. Apparvero alcuni mobili, allineati con ingenua disposizione contro il muro, rivelati dalle loro ombre; due scranne impagliate, un inginocchiatoio, un ta­ volino corto, zeppo di libri. — Sembra una qualsiasi soffitta di studente povero, — disse Saint-Marin, deluso. Ma il futuro canonico, infaticabile, li trascinava ancora piu in là curvando verso il pavimento il suo moccolo fu­ micoso. — Il suo letto, — disse il valentuomo, con una specie di orgoglio. Il ragazzaccio di Chavranches e l’illustre scrittore si scambiarono tutti e due senza farsi scrupolo, di sopra alle spalle del prete, un sorriso un po’ impacciato. Il paglieric­ cio, stretto ed esile che faceva ridere, coperto da una massa di cianfrusaglie, dava, da solo, uno spettacolo di commo255

vente malinconia. Ma Saint-Marin quasi non se ne accorse; contemplava dei grossi scarponi, li, a bocca aperta, verdi per anzianità, l’uno in piedi, in positura buffa, l’altro a terra, con la loro chiodatura arrugginita, la suola a gondola slavata; due povere scarpe vecchie piene d’una infinita stanchezza, più compassionevoli che se fossero state due persone. — Che idea, — disse a voce bassa, — che idea mera­ vigliosa e ridicola! Pensava alla fuga circolare di ogni esistenza umana, a tutta la via percorsa invano, al passo mortale, supremo. Che era andato a cercare tanto lontano quel magnanimo vagabondo? La stessa cosa che aspettava anche lui, in mez­ zo ai suoi oggetti familiari, le care stampe, e i libri e le sue amanti e i suoi corteggiatori nel suo appartamento di via Verneuil, dove mori madame de Janzé. Giammai il pa­ triarca del nulla, nemmeno nelle ore migliori della sua vita, sorpassò un certo lirico disgusto del vivere, un vellutato ni­ chilismo. Tuttavia gli si chiuse la gola e gli batté il cuore più forte. Allora gli straripò la parola. — Eccoci qui, — disse, — in un luogo consacrato, non meno degno di venerazione d’un tempio. Se il vasto mondo è un campo chiuso vale la pena di segnare il punto dove fu fatto un grande sforzo, e fu tentata una folle speranza. Gli antichi non avrebbero avuto molto rispetto, è positivo, per il nostro santo di Lumbres; ma ima lunga esperienza del male ci ha fatto meno severi verso questo tipo di bontà un po’ barbara che trova nello slancio dell’azione pura la sua ragione e la sua ricompensa. Vi è meno differenza che non si creda, tra chi vuol tutto afferrare e chi tutto rifiuta. Vi è una selvaggia grandezza che la sapienza antica non ha certo conosciuto. La bella voce profonda dell’illustre scrittore rimase co­ me un po’ in bilico sull’ultima sillaba, mentre il suo sguardo si fermava all’angolo del muro, dove il solerte Sabiroux proiettava la luce della sua lampada. Dentro una specie di rientranza formata dall’angolo stesso del tetto, una tavoletta inchiodata alla meglio sosteneva un crocifisso di metallo. Di sotto, per terra, nell’angolo più buio, una cinghia di cuoio aggomitolata, di quelle che i bovari chia-

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mano « coltellacci », puntuta in cima e larga tre dita alla base, simile a un nero serpentello appiattito. Ma né il cro­ cefisso né lo staffile dettero nell’occhio al maestro. Si scorgeva ad altezza d’uomo una strana inzaccheratura che copriva press’a poco tutta la parete, fatta di una infinità di piccoli segni cosi vicini l’uno all’altro verso il centro, che qui non formavano più che una massa unica, d’un color rosso sbiadito; alcuni, più recenti, d’un rosa an­ cor vivo; altri, invece, appena visibili, nello spessore della calce, come assorbiti, essiccati, d’un colore indefinibile. La croce, lo staffile di cuoio, la parete insanguinata... una selvaggia grandezza che la sapienza antica... L’eminen­ te musico della parola non osò posare il suo ultimo accordo, interrompendo di colpo la sua canzonetta. Immobile, il dottor Gambillet si rimasticò più d’una volta, sotto i baffi, le parole di follia mistica, sbirciando, di sotto in su, Saint-Marin che restava in silenzio. L’irresi­ stibile confidente delle buone famiglie Chavranchesi, cosi pronto a rovesciare un lenzuolo su delle misere membra nude, e che si vantò più d’una volta di saper guardare tut­ to e tutto intendere con faccia di bronzo, si senti stavolta, come dovette più tardi confessare egli stesso, ghiacciare le reni. Non c’è uomo, per quanto leggero, che possa, senza turbamento, vedersi violare davanti agli occhi l’umile se­ greto di un amore ardente; la parte del povero; l’unico tesoro che gli sia concesso di portarsi via con sé. Il curato di Luzarnes, voltando la lampada, disse sol­ lecito, e col tono più naturale del mondo: — Il mio reverendo amico, o signori, si flagella e cosi compromette la sua salute. Dio mi salvi dal biasimare il suo zelo. Ma debbo pur dire che tali violenze contro se stessi, non pure prescritte, ma appena permesse, furono con­ siderate da molti come pericolose vie alla santità, e, più spesso, scandalo per i deboli e oggetto di riso per gli empi. L’ex professore rafforzò questo suo dire con un gesto abituale, congiunti il pollice e l’indice, levato il mignolo, come chi voglia precisare un punto in contestazione. L’im­ paccio del dottore, il silenzio dell’altro gli parvero prova abbastanza lusinghiera della loro benevola attenzione. Sot-

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tolineò d’un sorriso e poi se ne andò giulivo, ché il prete mediocre, è, tra tutti gii esseri, il più refrattario. — Ma guarda com’è nervoso questo grand’uomo! — diceva tra sé Gambillet, seguendo le peste di Saint-Marin e osservando con curiosità l’esile mano d’avorio rattrappita sul bastone con cui ogni tanto dava un colpettino contro terra. Da qualche momento, infatti, l’autore del Cero Pa­ squale faceva uno sforzo quasi eroico per dissimulare il suo turbamento e per superarsi. Indubbiamente non l’aveva la­ sciato insensibile la lugubre poesia della casa del poverello, ma è troppo tempo ormai che il gran romanziere non crede più al battito del suo vecchio cuore. Il sentimento, appena in formazione e, per cosi dire, allo stato di germoglio, è subito sistemato, utilizzato; e diventa la materia prima che il suo talento industrioso adatta al gusto dell’acquirente. Il vecchio istrione non è accessibile che per la via dei sensi: la macchia rossastra, sul muro, nell’alone della lam­ pada, gli aveva scoperchiato i nervi. Si conoscono, di lui, e le sanno tutti a memoria, una ventina di pagine spudorate, dove con tutte le malizie del­ l’arte sua si è industriato di scongiurare il suo arduo fan­ tasma. Non c’è nessuno che abbia parlato più liberamente della morte, con maggior noncuranza e con tanto affettuoso dispregio. Nessuno scrittore di Francia sembra averla os­ servata con cosi candidi occhi, né sbeffeggiata con cosi gio­ conda tenerezza... Per quale misteriosa rivalsa, posata la penna, ne hai poi un terrore da bestia, da bruto? All’idea dell’inesorabile gorgo, non è la sua ragione che soffre di vertigini, è la sua volontà che piega e accenna a spezzarsi. Quel raffinato li, ha provato con disperazione la rivolta dell’istinto, il panico odioso, il recalcitrare e l’inor­ ridire dell’animale che, presso al mattatoio, comincia a fiu­ tare il coltello del beccaio. Cosi una volta, se vogliamo prestar fede a Goncourt, Zola, padre del naturalismo e dei Rougon-Macquart, sve­ gliato nel cuore della notte da questo medesimo terrore, si buttò giù dal letto, dando alla moglie, costernata, lo spet­ tacolo d’un accusatore a spada tratta che trema poi di paura come un bambino. Dritto in piedi, sul primo scalino, volto il viso verso il bugigattolo buio, col cerchio alle tempie e la gola arida, 258

respira a gran fiato, il solo rimedio che si ha per queste crisi. Alle sue spalle Gambillet, bloccato li, stupisce, ascolta un po’ preoccupato il respiro irregolare e profondo del maestro. Gli posa appena, con riguardo, la mano sulla spalla: — Non si sente mica male, maestro? Saint-Marin si volge a fatica e risponde, con voce falsa: — Oh, no, no... no, no... un po’ di malessere... un po’ di difficoltà a respirare... ma ora va meglio... ora va be­ nissimo. In realtà si sente ancora cosi debole e fiacco, che la banale simpatia del dottorino di Chavranches gli mette in cuore una straordinaria tenerezza. Nell’euforia della calma nervosa, spesso e in tal modo sente la tentazione di parlare, di svelare il suo segreto, di elemosinare dal più vicino un consiglio, un conforto. Per fortuna il suo orgoglio, anche se soffocato, risalta fuori sempre in tempo a risvegliarlo come da un cattivo sogno. — Dottore, — dice con un sorriso paterno, — l’espe­ rienza le farà riconoscere come i viaggi non possano già formare la vecchiaia, ma solo affrettarne la fine. Ed è an­ che questo un inestimabile vantaggio. Perché, all’ultima svolta, quando un povero vecchio desidera e teme questa ultima spinterella che lo precipiti nel nulla, un tantino di risolutezza può anche far comodo. — Nel nulla, maestro? — protesta con tutta cortesia il curato di Luzarnes, — non le sembra, maestro, una trop­ po grave parola? (Saint-Marin, di sopra la spalla del dottore, dà una squa­ drata al suo insoffribile adoratore). — Che importa la parola? — risponde. — Se ne ha forse la scelta? — Ma certe parole sono cosi tristi... cosi disperate... — esclama il povero prete, già pallido. — Scusi un po’, — continua l’autore del Cero Pasqua­ le, — io non penso affatto che una sillaba di più o una di meno siano quelle che mi conferiranno l’immortalità. — Forse non riesco a spiegarmi chiaro, — replica il futuro canonico, che muore dalla voglia di riconciliarsi. — Certo uno spirito superiore... come il suo... si fa... della vita futura... un’idea diversa... forse... da quella della co-

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muñe dei fedeli... ma io non posso credere... che il suo alto intelletto... accetti senza ripugnanza... l’idea di una fine to­ tale, irrimediabile, d’una completa dissoluzione nel nulla... Le ultime parole gli si strozzano in gola mentre con gli occhi implora, con commovente impaccio, l’indulgenza e la pietà del grand’uomo. La ferocia dell’astio che Saint-Marin mostra agli scioc­ chi a tutta prima risulta incomprensibile, che anzi, egli ostenta volentieri, in altri casi, un compiacente scetticismo. Ma cosi riesce a esternare, col minimo rischio, il suo odio innato contro i deboli e gli infermi. — La ringrazio, — dice al curato di Luzarnes, — di riserbarmi un diverso paradiso da quello del vostro curato e dei vostri cantori. Ma mi salvino gli dèi dal trovare lassù un’altra Accademia, quando già quella di Francia mi è an­ che troppo insopportabile. — Se ho ben compreso il suo scherzo, — risponde il futuro canonico, — lei mi accusa... — Ma io non l’accuso di nulla, lei! — esclama SaintMarin con improvvisa straordinaria violenza. — Sappia sol­ tanto che io temo il nulla meno dei suoi ridicoli Campi Elisi. — Campi Elisi... Campi Elisi... — borbotta il pove­ raccio allibito. — Lungi da me il pensiero di svisare l’in­ segnamento... Volevo soltanto mettermi al suo livello... par­ landole il suo linguaggio... — Il mio livello... il mio linguaggio, — ripete l’autore del Cero Pasquale, con un sorriso pieno di veleno. Si interrompe, riprende fiato. La lampada, che trema in mano al curato di Luzarnes, rischiara in pieno il viso pallido del maestro. La bocca cattiva si piega agli angoli come per un impeto di vomito. Ed è proprio il suo cuore, proprio il suo vero cuore che il vecchio istrione sputerà una volta per sempre ai piedi di quel prete pochintesta. — So bene quello che mi offrono i più illuminati tra i suoi simili, abate mio caro; l’immortalità del bravo figlio­ lo tra Mentore e Telemaco sotto gli occhi di un Dio di buona logica. Preferisco quelli di Béranger nell’uniforme della Guardia Nazionale. L’antichità di Renan, la preghiera sull’Acropoli, la Grecia dei licei, tutte frottole! Ma, caro abate, io sono di Parigi, nato in un retrobottega del Marais,

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di padre piccardo e di madre turingia: cristiano e battez­ zato; e se dovessi mettermi in ginocchio andrei dritto drit­ to alla mia parrocchia di S. Sulpicio dove ho sentito Messa anch’io come tutti gli altri, e non andrei mica a far le smorfie a’ piè del simulacro di Pallade Atena, come un pro­ fessore sbronzato! I miei libri! M’importa assai dei miei libri a me! Un dilettante, io? Un uccello di becco fine? Ma 10 ho preso, della vita, tutto quello che ho potuto, capisce?, a gran sorsate e a gola piena! A tutto spiano e sia quel che ha da essere! Bisogna decidersi, amico abate. Chi si dà buon tempo ha paura della morte. Meglio vale eserci­ tarsi a guardarla in faccia, che distrarsi coi gingilli dei filo­ sofi, come un paziente, dal dentista, si gingilla coi giornali illustrati. Un sapiente coronato di rose, io?! Un antico?... Ah, in certi momenti, sul serio, l’adorazione degli sciocchi vi farebbe preferire la gogna! Il pubblico non ci lascia più in pace, desidera sempre la stessa smorfia, a quella applau­ de e basta, e domani ci tratterà da buffoni e da saltimbanchi. « Eh, eh! se la luna fosse il sole! Tutto sommato noi siamo degli illusi, caro abate! Un pasticciatore di gessi, il quale non pensi che ad empirsi la pancia, riesce più furbo di me; fino al suo ultimo fiato è sicuro di mangiare e bere a sazietà. Ma noi! Si esce dal collegio con la testa piena di illusioni da poeta. Niente al mondo sembra più deside­ rabile d’un bel fianco di marmo vivo. Ci si butta alle don­ ne a corpo morto. A quarantanni si va a letto con le du­ chesse, a sessanta bisogna contentarsi di far qualche ribotta con le ragazzine. E più tardi... Più tardi... Eh, eh!... più tardi... si invidia la sorte degli uomini come il vostro santo di Lumbres che, almeno, sanno invecchiare a dovere. Lo vuol sapere il mio pensiero; il pensiero dell’illustre mae­ stro, il suo pensiero nudo e crudo? Quando un uomo non può più... Fini la frase, in verità nuda e cruda, con una sincera esplosione di ripugnanza. I lineamenti cosi sottili presero allora quell’espressione di opacità, quel sogghigno ambiguo, la penosa immobilità del vizio su di un volto di vegliardo. 11 dottor Gambillet lo sbirciava dal basso in alto con un sorriso maligno. Il curato di Luzarnes s’era fatto un paio di passi indietro; e l’angoscia che mostrava in quel momen-

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to avrebbe toccato il cuore al barone Saturne dell’immortale Villiers. — Andiamo... andiamo... maestro... — balbettava. — La religione di cui sono il ministro... possiede tesori d’in­ dulgenza... di carità... Lo scrupolo quasi dogmatico... può... deve... fino a un certo punto... raccordarsi con una paterna sollecitudine... e magari con una particolare benevolenza... per certi spiriti non comuni... Io non dico che uno sforzo sincero di conciliazione... di sintesi... una certa larghezza di idee... La vita futura... secondo i dettami della Chiesa. Gli argomenti facevano alle gomitate nel suo povero cervello; e avrebbe voluto scodellarli tutti in una volta cal­ di, e il suo pensiero saltava dall’uno all’altro come l’ago impazzito d’una bussola. Allora il robusto vecchio gli si fece addosso, nascon­ dendolo tutto con le sue spalle quadrate. — La vita futura? I dettami della Chiesa? — esclamò, con nei suoi occhi pallidi una sfida risoluta, — e lei ci crede? Si? senza la minima titubanza? (E, certo, nella voce dell’autore del Cero Pasquale c’era magari qualcosa di più che un accento d’ingiuria). Ma chi potrebbe sperare di tenere il curato di Luzarnes stretto si­ curamente tra le due branche della tenaglia? Non ha mai dubitato lui (questo è vero), in modo serio, delle verità che viene ministrando, ma semplicemente perché non ha mai dubitato di se stesso e del suo giudizio infallibile; e resta, ora, indeciso; cerca alla rinfusa una formula felice, una di quelle parolette di buona diplomazia... Ma il suo tremendo avversario lo stringe troppo da vicino... Allora chiede mer­ cé, con la mano levata e, con voce morente, comincia: — Cerchi di capirmi... Saint-Marin lo fulmina d’uno sguardo veramente affo­ cato di sdegno, e gli volta le spalle. Invano l’infelice si sforza di proseguire: la frase cominciata gli si smozzica in gola, e gli salgono agli occhi sincere lacrime di umiliazione. Il dottor Gambillet non arrivò mai a capire per quale miracolo una conversazione cominciata cosi tranquilla fos­ se venuta crescendo a mano a mano di tono, per giungere a tanta asprezza che tutti e tre, per un momento, si intra­ videro, sotto la lampada, a faccia a faccia, con l’aspetto di

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nemici irreconciliabili. La verità è che essi erano in uno di quei momenti singolari della vita, quando la parola ha un senso e l’attitudine un altro, e la gente si parla vicen­ devolmente e non si intende, seguendo ognuno il suo mo­ nologo interiore, sicché, credendo di infuriarsi con gli altri, non l’hanno che con se stessi, coi propri rimorsi, come fanno i misteriosi gatti quando giocano con l’ombra loro. Nel silenzio che segui, gravido di un’altra buriana, la porta di fuori s’aperse d’un tratto e gli scalini scricchiola­ rono a uno a uno sotto la pressione di un passo pesante. I tre erano in un tale stato di sovreccitazione, che si guar­ darono l’un l’altro, con una specie di sacro terrore. Ma, tosto che ebbero riconosciuto il volto tranquillo di Marta, il primo a riprender fiato fu l’abate Sabiroux. — È un affare da niente! — borbottava la vecchia, col fiato grosso. Poi, arrivata sull’ultimo gradino, battendosi il grem­ biule per spolverarlo, diede un rapido sguardo ai tre: — Ladislao è da basso, — disse, — ad attendere le loro signorie. La seguirono fino alla porta del giardino, docili, silen­ ziosi. Il cielo era stellato fitto. — Ladislao deve essersi avviato avanti, — riprese a dire la donna, mostrando col dito una lanterna che oscillava nel buio, per entro al cimitero. — Riconosco il suo passo. Troveranno la chiesa aperta. Prese per la manica il curato di Luzarnes e, levandosi in punta di ciabatte, gli sussurrò all’orecchio: — Provi lei a fargliela capire: da ieri sera non ha pre­ so un boccone, guardi un po’ se è il modo, questo!... Disparve senza aspettar risposta. Il futuro canonico raggiunse i due compagni sotto il portico. Sul loro capo la chiesa si levava in tutta la sua altezza, incomparabilmen­ te viva e chiara nella notte. Giungeva dall’interno il suono delle scarpe ferrate del sacrestano. — Proseguiremo, dunque, insieme attraverso a questa avventura, — disse cordialmente Saint-Marin all’ex-professore, cui il sorriso del grand’uomo rese anima e fiato. — Io non mi sento il coraggio di andare a pranzo finché lei non abbia rimesso le mani sul suo santo inafferrabile; e,

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d’altra parte, niente di meglio che questo intervento dal­ l’alto per chiudere, stasera, i nostri bisticci da nulla. La freschezza della serenella dopo l’acquazzone lo ri­ metteva di buon umore. Tutto era ormai svanito come un cattivo sogno, per lui, ad eccezione di quella povera topaia dove viveva il santo, e di quella chiazza sul muro. — Vogliono accomodarsi? — disse, con semplicità, Sabiroux, ma con un profondo sguardo di riconoscenza. Quando li ebbe scorti, arrivò di gran fretta Ladislao. Il futuro canonico lo accolse con rinfrancato cipiglio. — E cosi? Che abbiamo di nuovo, Ladislao? — Il curato non c’è! — Come? — esclamò Sabiroux, e la sua voce diede per la vòlta un lungo echeggiamento. E incrociò le braccia, che non gli andava giù. — Senza scherzi... Voi siete proprio sicuro... — Ho frugato per tutti gli angoli, a uno a uno. Cre­ devo di trovarlo nella cappella degli Angioli; ci va tutte le sere, dopo cena, e si mette in un angolo che bisogna sapere dov’è, per trovarlo, ma né là, né altrove... Ho fru­ gato fino al pulpito; sicché... — Ma che cosa si può supporre? Non si perde mica un uomo come se fosse uno spillo! — disse Gambillet. Il futuro canonico approvò con un cenno del capo. — Per me, — disse Ladislao, — il curato ha dovuto uscire dalla parte della sacrestia, è arrivato alla strada di Verneuil fino al calvario di Roù. È una passeggiata che è costumato a fare, al calar della notte, recitando il rosario... — Ahi, ahi! — sospirò forte il dottore di Chavranches. — Mi lasci finire... — riprese il sacrestano. — Ma a quest’ora, che ci saranno venti minuti alla Salutazione del SS. Sacramento, dovrebbe essere tornato e da un pezzo... Ci ho riflettuto molto... Era cosi stanco e pallido, questa sera; per me è rimasto svenuto in qualche luogo. — Comincio a crederlo anch’io, — disse Sabiroux. Rifletté un momento, con le braccia sempre conserte, sempre più in efficienza, gonfiando le gote. D’un tratto si risolse: — Io sono mortificatissimo... caro maestro... di essere stato la causa involontaria... d’un contrattempo... — Nessun contrattempo in verità, — rispose il caro

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maestro definitivamente abbonacciato. — Direi quasi che la cosa mi diverte, se non sentissi il dovere di partecipare alle loro inquietudini. In ogni caso non oserei di proporle di prendermi con loro più oltre, su queste mie vecchie gam­ be. Preferisco aspettarla qui. — La corsa non sarà tanto lunga, io spero, — conclu­ se l’ex-professore. — È matematicamente sicuro che lo tro­ veremo laggiù. Il dottor Gambillet mi farà la cortesia di accompagnarmi, spero. La sua assistenza m’è più che mai necessaria. Venite con noi, Ladislao, e chiamate, passando, il figlio del maniscalco. Se il nostro povero amico dovesse essere trasportato a braccia... La voce si allontanò a poco a poco e si spense. Si ri­ chiuse la porta e l’illustre autore del Cero Pasquale, rima­ sto solo, sorrise. XIII

Magico sorriso! La vecchia chiesetta, tiepida ancora del calore del giorno, palpita intorno a lui con lento respiro; un odore di pietra antica e di legno marcito, arcano come quello di una profonda boscaglia, sfiora i pilastri panciuti, vaga come una nebbia sul pavimento sconnesso o si indu­ gia negli angoli in ombra come un’acqua stagnante. Un av­ vallamento del suolo, l’angolo d’un muro, una nicchia vuo­ ta la raccoglie come in una coppa di granito. E la luce rossastra della lampada che veglia, lontano, sopra l’altare, somiglia a un fanale su uno stagno deserto. Saint-Marin aspira, deliziato, l’odore di quella notte ville­ reccia, tra mura del secolo decimosesto, che hanno il pro­ fumo di tante stagioni. S’è mosso su per la navata, a destra, e adesso siede in capo a una panca di quercia, dura e cor­ diale. Una lampada di rame attaccata a un fil di ferro oscil­ la, li sopra, con un leggero cigolìo. Sbatte, ogni tanto, una porta. E quando proprio tutto si tace, son forse le vetrate polverulente che rabbrividiscono nelle loro cerniere di piom­ bo, al trotto di un cavallo sulla strada. « A quest’ora, — pensa tra sé, — il dottore di Cha­ vranches e il suo insopportabile compagno galoppano chi sa dove, ma lontano giusto quanto basta per darmi agio di godermi in pace un’ora perfetta! ».

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(Perché ama credere a certe cortesie della sorte; a mi­ steriosi accordi). Quella chiesa... e quel silenzio... gli occhi dell’ombra... ecco!... tutto era per lui... li... ad aspettare lui solo. Almeno restassero via un bel po’, si augura. Resteranno via quanto è necessario. (I moribondi conoscono bene i loro desideri, ma non fan parola mai di nulla, diceva Mecislao Goldberg, il vec­ chio ebreo).

L’angoscia dell’illustre maestro si è a poco a poco pla­ cata nel gran silenzio interiore che ha conosciuto cosi di rado. Mille ricordi vi si avvivano, come le luci d’una città notturna. La sua memoria li rievoca, godendo della loro confusione, di quel loro disordine che dà un po’ alla testa. Attraverso i limiti segnati dai calendari, come si richiama­ no e si rispondono gli anni, ¡ giorni, le ore! Una chiara mat­ tinata di vacanza, in mezzo alla quale ancora risuona il bel timbro del rame di una bacinella di marmellata... una sera, e il gorgogliare d’una chiara e fresca vena d’acqua, sotto un immobile fogliame... lo sguardo fuggitivo d’una cuginetta bionda, attraverso il desco familiare, e l’ansito breve di quel seno scarso... e poi... superato d’un balzo un cinquan­ tennio... le prime trafitte della vecchiezza; il convegno man­ dato a monte... il grande amore gelosamente custodito, dife­ so a palmo a palmo, combattuto fino all’ultimo istante, quando le labbra dell’amante canuto premono una bocca malcerta e furtiva che sarà spietata domani. Quella è la sua vita (superstite nel tempo) che conserva ancora, nel tra­ scorrere degli anni, una forma e una fisionomia; il resto non è nulla: l’opera sua, la sua gloria, nulla. Lo sforzo di cinquant’anni, trenta libri famosi, una vita illustre... hanno dunque cosi poca importanza? Quanti balordi vanno pre­ dicando che l’arte... Quale arte? Il meraviglioso saltimban­ co ne conosce soltanto la servitù che impone: l’ha portata in sé come una zavorra. Il ciarlatore armonioso, il quale non ha parlato che di se stesso sempre, non è riuscito a esprimersi neanche una volta. La gente di tutto il mondo, che crede di amarlo, non conosce di lui che la sua contraf­ fazione. È esiliato dai suoi libri e, quel che è peggio, spo­ destato. Tanti lettori e non un amico. Ma egli non se ne rammarica. La certezza che in tal 266

modo sfuggirà a tutti e per sempre, che non si conoscerà che il suo simulacro, gli accende d’un sorriso l’occhio fur­ besco. Il meglio dell’opera sua non merita altra conclusione che questa facezia in extremis. Non si augura di aver di­ scepoli: quelli che gli stanno intorno, tutti nemici. Incapa­ ci di rinnovare quel fascino, quella nativa gentilezza di cui il loro maestro aveva il segreto, si contentano di rafforzare, alla meglio, lo stile. Le loro più grandi audacie sono in un ordine grammaticale. « Smontano i miei paradossi », dice egli, « ma non sanno poi rimetterli insieme ». La gioventù decimata, che vide Peguy abbattuto sulle stoppie al cospetto di Dio, s’allontana con nausea dai di­ vani dove la supercritica sta a pulirsi le unghie. Lascia a Narciso la cura di raffinarsi dell’altro, sulla sua delicata im­ potenza. Ma già respinge, con tutte le forze del suo talento, i più robusti e i meglio quotati tra, quelli del branchetto venuti a brigare per la successione del cattivo maestro, che distillano, con boccacce da forzaioli, i loro libriciattoli astru­ si, strillano sotto il naso dei migliori, e non hanno altra speranza che di spingere le loro agre e difficili inzaccherature sulle sponde di tutte le correnti spirituali, dove cerca di andare ad abbeverarsi la povera gente. E tuttavia, che importa all’autore del Cero Pasquale il rosicchio assiduo, nell’ombra, di tanti novellini che si arro­ tano i denti? Lui ha rosicchiato più per necessità che per gusto, e senza gioia. Largo ai topi più giovani e più den­ tati! Adesso potrebbe anche immaginarseli senza sdegno. Pensa, con un fremito di piacere, alla metropoli lontana, col ribollire della sua folla, sotto l’enorme cappa scura del cielo. Avrebbe mai più potuto rivederla? Esiste ancora, al­ meno, laggiù, in quel luogo, in questa notte soave? Quasi a perpendicolo sul capo gli batte l’orologio i suoi colpi brevi, come un cuore. Chiude un po’ gli occhi per sentirlo meglio, per vivere e respirare con lui, l’antico avo senza età, che dispensa a malincuore, da secoli, l’avvenire spietato. Quel rumore che ascolta, appena percettibile nel­ l’intelaiatura di legno della torre: quel monotono brusìo solo interrotto dalla voce grave delle ore, gli sopravvivrà; andrà avanti anni ed anni, attraverso nuove plaghe di silen­ zio fino a che... A quando? Quale sarà il giorno che avran­ no segnato per l’ultima volta, al suonare della mezzanotte,

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le due lancette arrugginite, le due comari, prima di fer­ marsi per sempre? Apre gli occhi. Davanti a lui una placca di marmo gri­ giastro, murata alla parete, porta una iscrizione di cui de­ cifra lentamente le larghe lettere che han perduto la dora­ tura. « Alla memoria di Jean-Baptiste Heame, regio notaro, 1690-1741... e di Mélanie-Hortense Le Pean, sua sposadi Pierre Antoine Dominique... di Jean Jacques Idearne, si­ gnore di Hemecourt... di Paul-Louis François... » e cosí di seguito fino all’ultimo della enumerazione: « ... Jean César Heame d’Hemecourt, capitano di cavalleria, già fabbriciere della parrocchia, deceduto a Cannes nel 1889... Benemerito di questa chiesa ». « Pregate per questa Jamiglia intieramente estinta... » chiede la vecchia pietra, umilmente, come a scusarsi di es­ sere al mondo. — Una perdita grave!... — mormora tra i denti l’au­ tore del Cero Pasquale. Ma sorride poi d’un buon sorriso di simpatia protettrice. Bella, ampia lastra di marmo lavo­ rata con tanta coscienza, decorata di oro fine, e costosa quanto qualsiasi altro buon mobile di famiglia! Niente è più triste che una tomba di pietra, bianca, coi lati cinti di catene, frustata dalla pioggia nelle giornate d’inverno. Ma al coperto dal caldo e dal gelo; di fronte al ciborio dove l’antico fabbriciere aveva ricevuto il pane benedetto, quella pietra li, ancora liscia e lucida come il primo giorno, ripas­ sata ogni settimana da un sacrestano diligente, che conso­ lante immagine dava, invece, della morte! La sensibilità dello scrittore si commuove davanti a tan­ ta comodità postuma. Si mette a scandire tutti quei nomi li, come nomi di amici, di cui lo fiancheggia la buona com­ pagnia. E con questa dinastia degli Heame, quanti altri an­ cora, sotto le lastre di pietra, dalle lettere consumate, qua e là, fino a piè dell’altare, tutta buona gente che vuole ri­ posare al coperto e durare almeno quanto dura la pietra che li copre! Ci si può anche assuefare all’idea di dormire costi, in buona vicinanza. Mai il gran romanziere si era sen­ tito cosi umile e rassegnato. Una squisita stanchezza lo placa fino all’ultima sua fibra, gli fa balenare davanti agli occhi l’immagine della chiesa

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profonda, addormentata, ormai non più misteriosa, amica­ le, confidenziale. Assapora una pace non mai provata, un supremo benes­ sere quasi religioso... Si appisola, si stiracchia e soffoca uno sbadiglio che gli sale su dal cuore come una preghiera. Di fuori si fa sempre più scuro; l’ultima vetrata nel­ l’alto si spegne del tutto. Ormai la porta esterna si apre e si richiude su un fondo di velluto nero dove del mondo esteriore non si ha più che una sensazione olfattiva. Alcune ombre disperse si avvicinano, si raggruppano; e un bisbi­ gliare sommesso corre lungo i parapetti, da banco a banco: a piccoli passi impazienti la gente raggiunge la porta, e la chiesa si vuota cosi a poco a poco del suo invisibile popo­ lino. L’ora della salutazione quotidiana è trascorsa da un po’; la sacrestia è rimasta chiusa; tre lampade sole, su do­ dici, restano a rischiarare l’immenso edificio. Che è succes­ so? È inutile aspettare dell’altro. Si cercano a tastoni, si chiamano da lontano con una sommessa tossettina affettuo­ sa, discutono tra loro gli iniziati. Perché, con l’ultima autocorriera di Vaucours, i visita­ tori e le visitatrici se ne sono andati. Lumbres non trattie­ ne ad ora cosi tarda che le sue vecchie amicizie. Ora, anche gli ultimi se ne vanno. Saint-Marin rimane li, solo.

XIV

Tutto per lui, quel gran giocattolo un po’ funebre, ma pur sempre simpatico, tutto per l’autore del Cero Pasqua­ le, per lui solo! Segue d’uno sguardo affettuoso le nerva­ ture della volta, riunite a rosone e ripioventi a tre a tre sui pilastri dei muri laterali, con movimento cosi agile, con una grazia viva, quasi animata. Il maestro costruttore che, un tempo, tracciò la loro corsa aerea, non ha fatto, incon­ sapevolmente, il suo lavoro allo scopo di dar gioia al genio gravato dagli anni? Che pretendono ancora le devote e i de­ voti, e anche quel prete campagnolo, quando alzano gli oc­ chi verso il loro cielo vacuo, se non un disciogliersi di le­ gami, una breve pace, una accettazione provvisoria del de­ stino? Quello che ingenuamente essi chiamano grazia di Dio, dono dello Spirito Santo, efficacia del SS. Sacramento, non 269

è che la breve tregua che egli sta godendosi ora in questa dolce solitudine. Povera gente, il cui candore va a dar di capo in tante chiacchiere inutili! E bravo anche questo san­ to campagnolo che crede di celebrare ogni mattina il mi­ stero della Vita Eterna, e i suoi sensi non conoscono che una rozza illusione, appena paragonabile al sogno consape­ vole, alle volontarie illusioni del mirabile scrittore. « Per­ ché non sono venuto prima (dice tra sé) a respirare l’aria di una chiesetta di campagna? Le nostre nonne del 1830 conoscevano dei segreti che noi abbiamo smarrito! ». Vor­ rebbe non aver neanche visitato il presbiterio, e non avere neanche fatto l’inutile pellegrinaggio alla cameretta del san­ to (quel pezzo di muro che aveva, con la sua vista, fatto vacillare per un momento il raziocinio), spettacolo, in fon­ do in fondo, un po’ barbaro e fatto per della gente meno raffinata... « La santità », finisce col concludere tra sé, « come tut­ te le cose del mondo, non è bella che sulla sua scena: die­ tro lo scenario c’è poco pulito e ci sa di cattivo ». Ha il cervello in subbuglio, e vi ronzano centomila pensieri tutti arditi e nuovi; una speranza nuova novella, ancora un po’ confusa, lo commuove fin nella muscolatura; è un pezzo che non si sente più cosi agile e vigoroso. — Anche l’invecchiare ha la sua gioia, — esclama qua­ si a voce alta, — una gioia che oggi mi si rivela: anche l’amore, sicuro, anche l’amore può essere tranquillamente eliminato. Io ho cercato la morte nei libri o nei sordidi ci­ miteri cittadini, talvolta smisurata come le visioni dei so­ gni, tal altra ridotta alle proporzioni dell’uomo dal berretto stemmato, che mantiene in buono stato (come dicono) i recinti, i registri, l’amministrazione. No! Qui, è, o in altri simili modi, che si deve ricevere la morte, cosi come viene, come il caldo e il freddo, la notte e il giorno, il corso im­ percettibile degli astri, la vicenda delle stagioni, secondo l’esempio dei sapienti e degli animali. Quante conoscenze preziose può ricavare il filosofo da uno di questi vecchi pre­ ti sul tipo di questo qui, a contatto della natura, eredi di quei santoni ispirati, di cui i nostri antichi fecero le loro divinità campestri! Poeti inconsapevoli che, cercando il re­ gno dei cieli, trovano almeno il riposo, nell’umile accetta­ zione delle forze elementari, e la profondissima quiete.

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Non ha che da stendere una mano, l’illustre maestro, per toccare col dito il confessionale donde il santo di Lum­ bres suole dispensare al suo popolo i tesori della sua sa­ pienza empirica. Eccolo li, tra due pilastri, tinto in colore castano chiaro, brutto, sordido, quasi volgare, chiuso da due tendine verdi. L’autore del Cero Pasquale deplora tanta inutile profusione di bruttezza; deplora che un profeta campagnolo debba im­ partire i suoi oracoli dal fondo di simile scatolone di abete; ma esamina con curiosità la griglia di legno, dietro la qua­ le immagina il viso calmo del vecchio prete, sorridente, at­ tento, a occhi chiusi, e con alta la mano a benedire. Quanto gli è più simpatico a questo modo che lassù, nella squallida stanzuccia, tutto coperto di sangue, con la faccia contro il muro grezzo, e armato di staffile, nel suo disumano delirio! « I più soavi sognatori — pensa — hanno certamente bi­ sogno di certe scosse un po’ rudi, per ravvivar loro nel cer­ vello le immagini quando si smorzano. Quello che altri chie­ dono all’oppio e alla morfina, costui lo ottiene per virtù delle battute di uno staffile sui fianchi e sulla schiena ». Attaccata al suo fil di ferro, la lampada di rame passa e ripassa, oscillando soave. A tempo e a ritmo l’ombra si leva fino agli architravi, poi, cacciata via di nuovo, si na­ sconde nell’oscurità dei pilastri, vi si ripiega per tornare a spiegarsi di nuovo. « Cosi passiamo noi di caldo in gelo — fantastica Saint-Marin, — a volta a volta roventi di ardo­ re, affocati di fervore, o freddi e stanchi, secondo arcane leggi certo non perscrutabili. Un tempo il nostro scettici­ smo poteva essere ancora un atto di coraggio. Perfino l’in­ differenza, in cui noi poniamo, più tardi, il massimo utile nostro, diventa subito una posa assai difficile da tenere. Che crampi, giusto cielo!, dietro il sorriso epicureo! Ma i nostri pronipoti non riusciranno gran che meglio di noi. Lo spirito umano varia continuamente forma e curvatura di ala, prende d’assalto lo spazio da tutti gli angoli possi­ bili, dal positivo al negativo e non vola mai. Che c’è di più screditato che il nome di dilettante, portato un giorno con dignità? La nuova generazione fu (è manifesto) segnata d’un diverso segno; dopo, si è saputo qual era: era quello del sacrificio, sorte piena di meriti, invidiata dai militari. Ho visto, tutto vibrante di una sacra impazienza, il giovane La-

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grange simile a un vivente presentimento. Assapora, prima di me, il riposo che ha sempre fuggito. « Uomini di fede o di libertinaggio, qualunque sia il nome che ci vogliono imporre, non basta che il nostro cer­ care sia sempre vano; bisogna inoltre che ogni sforzo affretti la nostra fine. Perfino l’aria che respiriamo si fa ar­ dore in noi e ci consuma. Il dubbio non è affatto più leg­ gero della negazione. Ma che supplizio cinese essere un professore di dubbio! Ancora, ancora, negli anni del vigore, l’ossessione del sesso e la lotta per la donna scalda il cer­ vello e ci libera dall’incubo del pensiero. Noi viviamo nel semidelirio di un tetro diletto interrotto da accessi di lu­ cida disperazione. Ma, d’anno in anno, le immagini per­ dono di forza, per le arterie fluisce un sangue meno ricco, la nostra macchina gira a vuoto. Rimastichiamo nei nostri anni maturi astrazioni di collegio che dovevano tutta la loro efficacia ai desideri della giovinezza; ripetiamo parole più esauste di noi; si spiano negli occhi dei giovani i segreti che abbiamo perduto. Ah, la più dura prova è quella di para­ gonare la nostra decadenza con l’attività e l’ardore degli al­ tri, come se sentissimo scivolarci di sotto i piedi la potente ondata dal profondo che non riesce più a sollevarci. A che scopo tentare due volte quello che più di una volta non può essere tentato? L’ha fatta più da intelligente questo vecchio prete, che s’è ritirato dalla vita prima che la vita si ritiras­ se da lui. Ha una vecchiaia immune da amarezza: di quello che noi temiamo tanto di perdere egli si augura di essere liberato al più presto; dove noi ci rammarichiamo di non sentire più gli stimoli del desiderio, egli si rallegra di do­ versi meno difendere dalle tentazioni. Giurerei che a trent’anni si deve essere creata una sua felicità da uomo vec­ chio che l’età non ha potuto sgretolargli. Sarebbe troppo tardi per fare come lui? Un contadino mistico, nutrito di vecchi libri e delle lezioni di maestri rusticani, in mezzo al­ la polvere del seminario può arrivare per gradi fino alla se­ renità del savio, ma resterà sempre di corta esperienza, di metodo ingenuo e talvolta ridicolo, appesantito da super­ stizioni vane. I mezzi che ha a sua disposizione sul declinar della vita, ma nella piena forza del suo genio, un illustre maestro, hanno una ben diversa portata. Prendere, della santità, quello che ha di simpatico; ritrovare senza troppo

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accanimento la serenità della fanciullezza; formarsi nel si­ lenzio e nella solitudine dei campi; esercitarsi piuttosto a dimenticare tutto che a vincere il rammarico; osservare per via di ragione, con misura, i vieti precetti di astinenza e di castità, senza dubbio vantaggiosissimi; rallegrarsi della vec­ chiezza come dell’autunno o del crepuscolo; assuefarsi a poco a poco al pensiero della morte, che cosa sarebbe se non un gioco, fors’anche un po’ difficile, ma niente altro che un gioco per lui, autore di tanti libri e dispensiere di illusioni? « Sarà la mia opera ultima — conclude l’illustre maestro — e non la scriverò che per me, a volta a volta attore e pubblico... ». Ma quest’ultimo libro è proprio quello che non sarà scritto, intraveduto appena con la fantasia. È un segno pe­ ricoloso anche l’averlo soltanto immaginato. Cosi fanno an­ che i vecchi gatti quando stanno per morire, che con le grinfie ancora grattano la lana del tappeto e sfiorano i bei colori con sguardi pieni di misteriosa tenerezza. È lo stesso sguardo che l’autore del Cero Pasquale fer­ ma sulla griglia sottile di legno, dietro la quale immagina il suo eroe benedicente, patriarca dal sorriso d’indulgenza, dal linguaggio saporoso e gioviale, ricco d’esperienza delle anime. E già sente di amarlo di tutto l’amore di cui può venir ricambiato. Può esser un santo quanto vuole; non per questo sarà meno sensibile a una certa rara forma di cortesia che consiste in una simpatia acuta, attenta, riguar­ dosa, e che è la suprema forma di gentilezza d’un gran si­ gnore dell’intelligenza. Chi è refrattario all’adulazione ha più care le forme superiori della lode. Eh! eh! ben altri, oltre che l’illustre Saint-Marin, si sono inginocchiati qui per sentire la parola del buon vegliardo e sono partiti più leggeri. Perché no? Nella confessione l’esperienza del peccato è mai piena, com­ pleta, totale? Non vi è, nell’avvilimento della confessione, anche se incompleta, sleale, un’aspra e forte sensazione che molto somiglia al rimorso, e che è come un rimedio un po’ amaro e specialissimo contro l’istupidimento del vizio? E d’altra parte i maniaci del libero pensiero sono veramente sciocchi, quando rifiutano, dalla Chiesa, un metodo di psicoterapia che giudicano poi ottimo e originale nel neurologo di moda. Che cosa fa mai di diverso quel gran professore,

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nella sua clinica, da quel che fa un qualsiasi prete in con­ fessionale: provocare, sdipanare la confessione per poi, a miglior agio, poter suggestionare il soggetto fatto più do­ cile e tranquillo? Quanto male s’aduna nel fondo del cuo­ re, che questo solo sforzo riesce a distruggere! L’uomo celebre, che vive alfombra di sé, che si specchia negli occhi di tutti e sente il suo nome su tutte le labbra, e si riconosce perfino nell’odio e nell’invidia che lo assediano, potrà ben tentare di sfuggire una volta alla ossessione di se stesso; di rompere questo cerchio magico. Mai egli si svela con l’in­ feriore, e mente col suo pari, sempre. Se poi dopo la morte lascia le sue memorie autentiche, la sua naturale attitudine alla dissimulazione si rafforza per uno di quegli spaventosi accessi di vanità postuma, che il pubblico già conosce an­ che troppo. E quindi... Quindi è bello che una volta alme­ no, per caso, quel prodigioso dono di sé che ha negato sempre a tutti, lo faccia al primo che capita, come si but­ terebbe una manciata d’oro a un mendicante. Neanche per un minuto quest’uomo pur cosi sottile, che, sebbene difetti di vero e proprio buongusto, sente al­ meno la volgarità altrui come un disagio fisico, riesce a sfug­ gire al tranello che gli gioca proprio la sua viltà d’animo. Rimescola tutte quelle sue idee alla rinfusa, con una ingenua sicumera, lusingandosi di non aver che da scegliere tra tan­ ti buoni argomenti. Finisce di guardare gli scalini di legno, consumati dalle ginocchia di tanti penitenti, con curiosità non meno che con desiderio. Una volta costi, il resto va da sé. Chi lo impedirebbe? Quel che, in quel medesimo luogo, cosi sovente fu concesso a tante zitelle analfabete, non sarà certo rifiutato all’osservatore più agguerrito, e che sa con­ servare cosi bene la sua calma, delizioso beffatore! Dopo tante sensazioni che si è sorbito, succhiato, cosi rare e difficili, e dopo aver parlato tante lingue e fatte tan­ te smorfie sapienti, non occorrerà poi uno sforzo proprio eccezionale per finir nella pelle d’un filosofo campagnolo pacato, senza più illusioni affatto: al punto per darsi a Dio. Dopo quell’imperatore che si ritrasse a piantar cavoli si è visto più di un potente della terra preordinarsi una morte bucolica. In gergo di palcoscenico quello si chiama investirsi del­ la parte per rimaner poi presi al proprio stesso gioco. Cosi 274

accade che, terminata una coscienziosa preparazione, certo attor comico, magari grasso come un otre, rosso di soddi­ sfazione, ne tracanna un bicchierotto, chiude il libro ed esclama giulivo: — L’ho sulla punta delle dita, adesso, il mio Poliuto!...

XV

« L’ho sulla punta delle dita, adesso, il mio santo » — potrebbe dire in quel momento l’illustre maestro, se fosse in vena di scherzare. E davvero lo ha, o lo avrà sulla punta delle dita. Egli crede sul serio, l’ingenuo, dopo aver tentato con dente superbo i frutti più preziosi colti nel giardino del re, di poter ancora mordere e con buon appetito il pez­ zo di pane nero strappato dalla bocca del povero, se questa è la curiosità del genio, sempre improvvisa. Ah, è un bel vantaggio poter provare cosi in ritardo le gioie dell’iniziazione! Lunga è senza dubbio la via da Parigi a Lumbres; ma forse un più grande spazio ha superato, dal presbiterio che è li a due passi, a questa chiesa piena di pace. Poco fa ancora in inquietudine, ansioso, senz’altro pro­ posito che di rientrare all’albergo della Rue de Verneuil per farvi un giorno una morte vana, dimenticato da tutti, affidato a una donna di servizio che va a mormorare sulla cantonata che « il suo povero padrone pena molto a mori­ re », e adesso, sciolto, libero, con in capo un bel progetto (quanto è bello!), una febbretta a fior di pelle. In sei setti­ mane tutto può essere concluso, determinato. Trovare in un punto qualunque, all’orlo del bosco, una di quelle casu­ pole mezzo rustiche e mezzo borghesi, tra due verdi prati­ celli. La conversione di Saint-Marin, il suo ritiro a Lum­ bres... il trionfale grido dei devoti... la prima intervista... una delicata presa di posizione... che sarà come il testamen­ to spirituale del grande uomo: una estrema carezza alla gio­ ventù, alla bellezza, al piacere perduto e non rinnegato, e poi il silenzio, il vasto silenzio in cui il gran pubblico avrà sepolto con mano pietosa, a fianco a fianco nella loro soli­ tudine di Lumbres, il filosofo e il santo. 275

L’ossessione si fa cosi forte, che crede di sognare, per­ de un momento il contatto con la realtà, e rabbrividisce nel ritrovarsi li, solo. Il troppo crudo risveglio ha rotto l’equi­ librio e lo lascia nervoso, agitato. Guarda, senza sentirsi molto sicuro, il confessionale vuoto li a un passo da lui. L’entrata chiusa dalle tendine verdi lo invita... E dunque... quale occasione migliore, per visitare, meglio che la povera stamberga del buon prete, e il suo giaciglio e il suo stru­ mento di flagellazione, proprio il luogo dove si manifesta alle anime? L’autore del Cero Pasquale è solo e, del resto, poco gli importerebbe se lo vedessero. A sessantanni il suo primo impulso è sempre chiaro, franco, irresistibile: peri­ coloso privilegio degli scrittori fantasiosi... Brancica un po’ con la mapo, trova una maniglia e apre, risoluto. Ma l’esitazione, invece di precederlo, ha seguito il ge­ sto: tardi arriva la riflessione. Un rimorso indefinibile, il rammarico di aver agito troppo di fretta e a caso; il timore o il pudore di sorprendere un segreto mal custodito gli fa per un momento abbassar gli occhi. Ma già il riflesso della lampada sulle lastre del pavimento ha infilato l’apertura spalancata, vi scivola dentro, sale a poco a poco... e dietro dietro, lo sguardo di lui. Vorrebbe fermarsi. Ma a che pro? Quello che la luce ha scoperto per sempre non si può più nascondere un’altra volta. Due scarponi come quelli che ha visto lassù; la piega d’una tonaca rialzata in modo singolare... Una gamba, ma­ gra, lunga, in una calza di lana, rigida, un tallone poggiato al suolo; questo ha veduto a tutta prima. Poi, a poco a po­ co, nell’ombra più densa, un vago biancore, e, d’un tratto, la faccia terribile, stecchita. Antonio Saint-Marin nei casi estremi fa sfoggio di un coraggio freddo e calcolato. D’altra parte, o di vivo o di morto, questa presenza inattesa lo mette di cattivo umore prima ancora di mettergli spavento: si, perché, in fine dei conti, gli hanno interrotto, sul più bello, il suo bel sogno; l’ultima parola rimane, in fondo al suo oscuro scatolone, a quello spettatore singolare, a un cadavere verticale. Un pro­ fessore di ironia trova il suo maestro che lo risveglia, scor­ nato, da un sogno commovente nella sua ingenuità. Apre tutta la porta, indietreggia d’un passo, dà una 276

squadrata al suo strano compagno e, senza ancora osare di sfidarlo, lo abborda. — Bel modo di fare i miracoli! — sibila tra i denti un po’ stizzito. — Questo brav’uomo è qui, morto di crisi car­ diaca, cosi, senza rumore. Mentre quei due imbecilli vanno a perder l’anima giù per la via per scovarlo, eccolo li, pa­ cifico e tranquillo, come una sentinella freddata a brucia­ pelo da una palla nella sua garitta! Alto contro la parete di fondo, sostenuto alle reni dallo stretto sedile sul quale voleva forse lasciarsi cadere all’ul­ timo momento, puntellate le gambe rigide contro la tavolet­ ta che chiude la soglia, il povero corpo del santo di Lum­ bres conserva, nella sua immobilità grottesca, l’attitudine di uno che sia stato sorpreso da un avvenimento impreveduto.

Che altri sia, da mano amica, sotto un candido fresco lenzuolo, acconciato per il suo riposo; costui è ancora in piedi, nella sua tenebra, e ascolta il grido dei figli suoi. Qualche cosa da dire gli resta. Perché, è vero, la sua ultima parola non l’ha detta ancora... Il vecchio atleta guasto di mille ferite si fa testimone in favore di quelli più deboli; rivela il traditore e il tradimento. Ah, il diavolo, quell’altro li, è senza dubbio un abile, mirabile mentitore, quel ribelle cocciuto nella sua gloria perduta, pieno di spregio per il gregge umano grave e pensoso che i mille espedienti della sua malizia spingono o trattengono a suo arbitrio, ma gli tien testa il suo umile nemico, e sotto il formidabile scherno scuote il suo capo ostinato. Con che tempesta di grida e di risa l’inferno, ilare, acclama alla sua povera pa­ rola appena intelligibile, confusa difesa senza né garbo né grazia! Che importa? Un altro l’ascolta, che i cieli non terranno nascosto per sempre.

Non è vero, o Signore, che noi vi abbiamo maledetto; perisca, piuttosto, quel mentitore, quel falso testimone, quel vostro antagonista in parodia! Tutto ci ha preso, di tutto ci lascia spogli e ora vuol anche metterei in bocca un’empia parola. Ma il buon dolore ei resta, (he è la nostra ^arte m mune con voi, il segno d'elezione tramandatoci dai padri, più attivo che il fuoco incorruttibile e casto

m

Massiccio e comune è il nostro intelletto, infinita la no­ stra credulità, sottile è il nostro ingannatore, con la sua voce d’oro che lusinga... Sulle sue labbra le parole più usua­ li prendono quel senso che a lui meglio aggrada e le più belle meglio ci traggono dal retto cammino. Se noi tacciamo, parla lui in vece nostra; ma quando cerchiamo di difenderci, proprio la nostra parola ci condan­ na. Il logico incomparabile, che non degna contraddire, si diverte a provocare dalle sue vittime la loro propria sen­ tenza di morte. Periscano, con lui, le perfide parole! Con il suo grido di dolore si esprime la razza umana; col lamen­ to strappato alle sue viscere da uno sforzo smisurato. In questa materia inerte voi ci avete gettato come un fermen­ to. L’universo, che il peccato ci ha ritolto, noi lo vogliamo riconquistare a oncia a oncia, per rendercelo tal quale da voi lo ricevemmo, in ordine e in santità, nell’alba del giorno dei giorni. Ma non dateci il tempo misurato, o Signore! La nostra attenzione non è di lunga presa; e il nostro spirito è troppo presto volubile. Ininterrottamente si cerca con lo sguardo, a destra e a sinistra, un impossibile scampo; inin­ terrottamente uno dei vostri operai abbandona gli arnesi, e se ne va. Ma instancabile è la vostra misericordia e dovun­ que voi ci fate sentire la punta della vostra spada perché il fuggiasco torni al suo lavoro o perisca nella sua desola­ zione. E il Nemico, il quale pur sa tante cose, questa non la saprà mai. Non v’è uomo tanto disperato che non porti in sé il suo segreto, il segreto della sofferenza feconda, del dolore che purifica. Perché sterile è il tuo pianto, o Satana! Per me, eccomi, sono qui dove tu m’hai ridotto, pronto a ricevere il tuo colpo mortale. Io non sono che un povero prete molto poco agguerrito, che la tua malignità ha per un momento tratto in inganno, e che puoi adesso rotolar come pietra, a tuo piacimento. Chi può, con te, vincere di mali­ zia? Quando è che ti sei arrogato il volto e la parola del mio Signore? Quando, primamente, ho io ceduto? In qua­ le dei miei giorni, ho accettato con insensata compiacenza il solo dono che tu possa fare — o fallace immagine della desolazione dei santi! — la tua disperazione ineffabile pel cuore umano? In ogni mia sofferenza, in ogni mìa preghie­ ra — oh l’idea terribile! — eri tu. E perfino quel miracolo... Non fa nulla, non fa nulla! Prenditi tutto, di me! Non la-

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sciarmi niente, niente! E dopo di me un altro, e poi un altro ancora, col mio stesso grido, stretti tutti alla Croce. Noi non siamo affatto i santi rubicondi, con biondissime barbe, che la buona gente ammira nelle pitture, e dei quali perfino i filosofi potrebbero invidiare l’eloquenza e la san­ tità. La nostra parte non è quale se la figura la gente. In paragone al nostro, lo sforzo del genio è un gioco da fan­ ciulli. Ogni vita bella, o Signore, attesta di Voi; ma la at­ testazione del Santo è come strappata col ferro.

*** Siffatto dovette essere, senza dubbio, l’estremo anelito mortale del curato di Lumbres verso il suo Giudice, e il suo affettuosissimo rimprovero. Ma all’illustre uomo che è ve­ nuto a trovarlo da tanto lontano, ha ben altro da dire. E se la bocca livida, nell’ombra simile a una piaga aperta dal­ l’esplosione del grido supremo, non ha più moto né suono, tutto il corpo, nel suo atteggiamento, esprime una sfida tre­ menda: --- Tu VOLEVI LA MIA PACE — dice --- E VIENTELA A prendere!...

Finito di stampare nel mese di ottobre 1965 da « La Tipografica Varese », Via Tonale, 49 - Varese, per conto della S.p.A. « Corbaccio »: dall’Oglio, editore. Stampato in Italia - Printed in Italy

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I DAVID Pubblicazione periodica settimanale n. 7 dell’1-11-1965 Registr. Trib. di Milano n° 232 del 10 agosto 1965 Direttore responsabile: Ernesto Redaelli Spedizione in abbonamento postale TR edit. Aut. n° 71291 del 1° ottobre 1948 - Direz. PT Milano

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