Risposte. Per un'antropologia riflessiva 8833907139, 9788833907130

Accade di rado che un maestro riconosciuto della sociologia renda disponibili a tutti le vie di accesso al proprio modo

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Risposte. Per un'antropologia riflessiva
 8833907139, 9788833907130

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Pierre Bourdieu Risposte Per un’antropologia riflessiva

Bollati Boringhieri

Accade di rado che un maestro riconosciuto dalla sociologia renda disponibili a tutti, con la semplicità e la chiarezza che sono il distillato di una vita di riflessione, le vie di accesso al proprio modo di operare, esplicitando i princìpi che gover­ nano la propria pratica scientifica. Non tanto i concetti, le teorie, le prescrizioni metodologiche o le osservazioni empi­ riche che ci propone, ma piuttosto il modo in cui li produce, li organizza e li mette in opera. Le risposte alle domande fatte da Bourdieu nel corso del «seminario di Chicago» dell’inverno 1987-88, completate dall’introduzione al semi­ nario parigino di poco precedente, riguardano per l’appunto la natura di questa pratica e le sue finalità, precisate attra­ verso il riesame di un’opera molto vasta e ben nota anche al pubblico italiano. Oltre a ritrovare, opportunamente illu­ strate e discusse, nozioni come quelle di «campo» e «habi­ tus», il lettore avvertito non mancherà di rilevare, tra le altre, anche la risposta alle accuse di economicismo che a Bourdieu sono state mosse da più parti. Gli ampi sviluppi dedicati a questi temi introdurranno anche i non addetti ai lavori nel cuore teorico e pratico di questa sociologia. Pierre Bourdieu è titolare, dal 1982, della cattedra di Sociologia del Collège de France. Tra le sue opere tradotte in italiano figurano La distinzione. Critica socia­ le del gusto e Führer della filosofia?, L’ontologia politica di Martin Heidegger (Il Mulino 1983 e 1989). Tra le pubblicazioni più recenti: Homo academicus, La Noblesse d’Etat (Minuit 1984 e 1989) e Les Règles de l’art (Seuil 1992).

ISBN 88-339-0713-9

L. 35000 (j

9 788833 907130

Saggi

Pierre Bourdieu e Loïc J.D. Wacquant

Risposte Per un’antropologia riflessiva

Bollati Boringhieri

Prima edizione settembre 1992

© 1992 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino cl 61-9672-1 ISBN 88-339-0713-9 Titolo originale Réponses. Pour une anthropologie réflexive Editions du Seuil, Paris 1992

© 1992 Pierre Bourdieu e Loïc J.D. Wacquant Traduzione di Daniela Orati

Progetto grafico della copertina di Pierluigi Cerri

Risposte : per un’antropologia riflessiva / Pierre Bourdieu ; a cura di Loïc J. D. Wacquant. — Torino : Bollati Boringhieri, 1992 251 p. ; 22 cm. - (Saggi) I. BOURDIEU, Pierre II. WACQUANT, Loïc J.D. 1. SOCIOLOGIA

CDD 301 (a cura di S. & T. - Torino)

Indice

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Presentazione di Loïc J. D. Wacquant

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Introduzione di Loïc J.D. Wacquant

Parte prima Finalità della sociologia riflessiva 43 66 84 io6

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1. 2. 3. 4.

La sociologia come socioanalisi La logica dei campi Habitus, illusio e razionalità La violenza simbolica

5. Per una Realpolitik della ragione 6. L’oggettivazione del soggetto oggettivante

Parte seconda La pratica dell’antropologia riflessiva Trasmettere un mestiere Pensare in maniera relazionale Un dubbio radicale Double bind e conversione Una oggettivazione partecipe

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1. 2. 3. 4. 5.

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Note di Loïc J. D. Wacquant

Bibliografia

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Opere di Pierre Bourdieu Bibliografia generale Indice dei nomi

Risposte

Presentazione

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Questo libro si assume il rischio di sconcertare i consumatori di prodotti teorici standardizzati e di deludere lettori frettolosi alla ricerca di una traduzione semplificata del pensiero di Pierre Bourdieu. Non è né un compendio delle sue opere, né un’esegesi sistematica della sua sociologia; e nemmeno è un manuale ele­ mentare o un esercizio di metateoria. Cerca, più modestamente, di aprire qualche via di accesso alla logica interna e all’economia d’insieme dell’opera di Bourdieu esplicitando i princìpi che ne governano la pratica scientifica. Punto di partenza è stata l’idea che l’aspetto più significativo dell’impresa di Bourdieu risieda non tanto nelle teorie, nelle indicazioni metodologiche o nelle osservazioni empiriche che egli propone, ma piuttosto nel modo in cui le produce, le organizza e le fa funzionare. Per riprendere un’opposizione che gli è cara, è il modus operandi della sociologia di Bourdieu, non il suo opus ope­ ra turn, che a nostro avviso meglio definisce la sua originalità. Il proposito del nostro libro è dunque quello di dare accesso a una «mente in azione», facendo vedere quelle che Weber chiama le «abitudini convenzionali» di Pierre Bourdieu come «ricercatore e maestro di una certa maniera di pensare». La forma del libro - una «pubblicazione orale» che consiste in un dialogo tematico e in un’introduzione programmatica a un se­ minario di ricerca - è stata scelta in funzione di questo proposito. Vista come mezzo di comunicazione scientifica, l’intervista pre­ senta un certo numero di svantaggi ben noti: comporta il rischio di nobilitare con la scrittura frasi di fatto irrilevanti, di favorire sofismi, di offrire facili scappatoie per sottrarsi alle domande. Ma,

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a condizione che si sia fatto qualche sforzo per evitare questi tra­ bocchetti, arreca anche vantaggi preziosi. Innanzi tutto permette di avanzare definizioni provvisorie, di accostarsi a un’idea per ap­ prossimazioni successive, di suggerire diversi punti di vista su un argomento e usi diversi di un concetto, ricavandone una com­ prensione più complessa e differenziata. In secondo luogo, lo stile orale facilita accostamenti, paralleli e opposizioni suggestive ed efficaci tra ambiti e operazioni che l’organizzazione normale del lavoro scientifico tende a mantenere separate; cosa che è parti­ colarmente utile se il pensiero in questione concerne soggetti em­ pirici e si nutre di tradizioni intellettuali diverse e disparate, come l’opera di Bourdieu. Inoltre, rompendo con lo stile autorizzato e autoritario, didattico e accademico del monologo universitario, l’intervista fa intervenire effettivamente, nel cuore del testo, l’alterità, la critica e, per suo tramite, la dialogica: costringendo il pensatore a reagire al pensiero degli altri, materializzato nell’in­ tervistatore (col quale il lettore si può identificare ogni volta che le domande poste coincidono con quelle che avrebbe voluto fare lui), lo sollecita a non restare chiuso in un linguaggio e in una tra­ dizione intellettuale storicamente datata e a inscriversi in uno spazio più ampio. Infine, e questa è la cosa più importante, il dia­ logo dà al lettore un’idea del processo mentale attraverso il quale l’autore è giunto alle proprie posizioni; permette di cogliere il suo metodo in actu. Insomma, un’intervista analitica strappa l’autore alla sua posizione di autorità e il lettore alla sua posizione di passività, dando loro i mezzi per una comunicazione liberata dalla censura inscritta nelle forme convenzionali dello scambio scientifico. L’opera è divisa in due parti indipendenti ma complementari. La prima (il seminario di Chicago) consiste in un dialogo attra­ verso il quale Pierre Bourdieu esplicita l’obiettivo di fondo della sua pratica di ricerca e riflette su questa pratica in termini chiari e accessibili. Le diverse sezioni passano in rassegna i risultati più importanti dei lavori pubblicati negli anni ottanta, indicando in epigrafe alcuni spostamenti epistemici che vi sono avvenuti: dalla sociologia dell’università alla sociologia dell’occhio sociologico; dalla struttura al campo; dalla norma e dalla regola alla strategia e all’Azz^z’Z^s; dall’interesse, vettore di razionalità, all’/7/wszo, fon-

PRESENTAZIONE

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damento del senso pratico; dalla cultura al potere simbolico e da una concezione trascendentale della ragione scientifica a una con­ cezione storicistica mirante a porre gli strumenti della scienza so­ ciale al servizio di una politica della libertà intellettuale. Questo dialogo chiarifica le preoccupazioni principali di Pierre Bourdieu e la sua visione dei rapporti tra sociologia e filosofia, economia, storia e politica. L’intervista si basa su una serie di discussioni in inglese e in francese che hanno avuto luogo nell’arco di due anni a Chicago e a Parigi. Il nucleo centrale del dialogo è costituito dalle risposte date da Pierre Bourdieu nel corso di un Graduate Workshop on Pierre Bourdieu, cui partecipava un gruppo interdisciplinare di allievi-laureati dell’università di Chicago, che nell’inverno 1987-88 si era dedicato a una lettura intensiva dei suoi lavori. Articolando domande e temi di questo dialogo, ho cercato anche di far emergere i punti centrali della sociologia di Bourdieu in ma­ niera da metterla a confronto con le obiezioni e le critiche che le sono state rivolte da parte dei suoi lettori stranieri. L’intervista mira anche a inquadrare le tesi centrali di Bourdieu rispetto alle posizioni e ai dibattiti più incisivi della scienza sociale anglo­ americana del momento. La seconda parte (il seminario di Parigi) è una trascrizione dell’introduzione al seminario di ricerca che Bourdieu ha tenuto presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales nell’otto­ bre 1987. Questo seminario riunisce ogni anno tra i venti e i trenta studenti e ricercatori di diverse discipline (si spiegano così i vari riferimenti in particolare alla linguistica e alla storia), tra cui un forte contingente di uditori stranieri che vengono a Parigi per studiare e lavorare con Bourdieu. Vengono regolarmente a presentarvi le loro ricerche anche ex partecipanti al seminario, che ora assumono il ruolo di mentori informali dei partecipanti più giovani. In questo seminario Bourdieu non cerca di imporre una teoria già ben definita o un insieme finito di concetti, cerca invece di infondere una generale disposizione all’invenzione sociologica. Per fare questo, inverte l’ordine comunemente ammesso dalla pedagogia. Il suo insegnamento risale dall’applicazione pratica ai princìpi; egli illustra le regole epistemologiche fondamentali che governano la costruzione dell’oggetto sociologico e in quell’atto

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PRESENTAZIONE

stesso le discute. Per sottrarsi alla piega intellettualistica inscritta nella situazione scolastica di formazione e conformemente alla sua filosofia antintellettualistica della pratica, Pierre Bourdieu parte dalla comprensione pratica per introdurre a un progressivo controllo discorsivo dei princìpi della ragione sociologica. Sostiene e attua una pedagogia totale e autoreferenziale che non si cura minimamente della consueta distribuzione delle operazioni teo­ riche ed empiriche in attività isolate e territori distinti, separa­ zione che ha per effetto di riprodurre le divisioni ammesse del lavoro scientifico. Uno dei segni che permette di riconoscere un modo di pensare davvero innovativo, cioè generativo, è che sia capace non solo di trascendere il contesto intellettuale e il terreno empirico specifici della sua enunciazione iniziale per produrre nuove formulazioni, ma che sia anche capace di pensare se stesso, anzi, nel pensiero, di superare se stesso. Il lavoro di Bourdieu non è esente da con­ traddizioni, lacune, tensioni, enigmi e questioni non risolte, che sono per la maggior parte apertamente riconosciute, qualche volta persino sottolineate, nelle pagine che seguono. E scevro ad ogni modo di qualsiasi desiderio di normalizzare la riflessione e la pra­ tica sociologica. Pierre Bourdieu è visceralmente contrario a ogni dogmatizzazione del pensiero che porta a ortodossie intellettuali. Una sociologia riflessiva che ambisca a «disseminare armi per di­ fendersi contro il dominio simbolico» (1980], p. 13), non può, pena la sua autodistruzione, esigere una chiusura di pensiero. Questo vuol anche dire che un invito a pensare con Bourdieu è un invito a pensare al di là di Bourdieu, e contro di lui, ogni volta che fosse necessario. Questo libro avrà raggiunto il suo obiettivo se verrà usato dai lettori come strumento di lavoro per le loro ana­ lisi concrete. Il che significa che non dovranno temere, come di­ ceva Foucault del pensiero di Nietzsche, «di utilizzarlo, di defor­ marlo, di farlo lamentare e protestare».

Loïc J. D. Wacquant

Introduzione

Il lavoro prodotto da Pierre Bourdieu negli ultimi tre decenni si è imposto come un corpus teorico e di ricerca sociologica tra i più immaginativi e fertili del dopoguerra. Dopo una lunga fase di incubazione, la sua influenza si è rapidamente accresciuta e ha continuato ad espandersi nelle più svariate discipline, dall’antro­ pologia alla sociologia dell’educazione, alla storia, alla linguistica, alla scienza politica, alla filosofia e all’estetica e agli studi lette­ rari, diffondendosi dai Paesi dell’Europa occidentale e orientale alla Scandinavia, all’America latina, all’Asia e agli Stati Uniti. Per la sua radicale irriverenza nei confronti delle frontiere di­ sciplinari, per la gamma straordinariamente vasta di ambiti spe­ cialistici di ricerca che attraversa (dallo studio dei contadini, dell’arte, della disoccupazione, della scuola, del diritto, della scienza e della letteratura all’analisi della parentela, delle classi, della religione, della politica, dello sport, del linguaggio, degli alloggi, degli intellettuali e dello Stato) oltre che per la grande varietà di stili sociologici che riesce a riunire (dalla più meticolosa descrizione etnografica agli argomenti teorici e filosofici più astratti, senza ignorare peraltro i modelli statistici) l’opera di Bourdieu è un’autentica sfida alle attuali divisioni e modi di pen­ sare ammessi dalla scienza sociale. Tuttavia, ciò che risulta più scomodo in quest’opera è la sua ostinazione a voler trascendere alcune perenni antinomie che mi­ nano dall’interno la scienza sociale: come l’antagonismo apparen­ temente insormontabile tra l’approccio soggettivistico e quello og­ gettivistico, o la separazione tra l’analisi del simbolico e quella del materiale, o ancora il divorzio persistente tra teoria e ricerca em­

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pirica. Elaborando un insieme di concetti e approcci metodologici in grado di vanificare questo genere di distinzioni, Pierre Bourdieu è anche arrivato a disfarsi di altre due dicotomie recentemente emerse in primo piano sulla scena teorica: da un lato quella che oppone struttura e agente, dall’altro quella tra micro e macro­ analisi. Sordo alle sirene della moda intellettuale, Bourdieu non ha mai smesso di affermare la possibilità di una economìa unifi­ cata delle pratiche, e in particolare del potere simbolico, capace di saldare approccio fenomenologico e approccio strutturale in un tipo di ricerca integrata, epistemologicamente coerente e di vali­ dità universale: un’antropologia nel senso kantiano del termine, che tuttavia da quella si distingue per il fatto di includere, espli­ citamente, le attività dello stesso analista. Eppure, paradossalmente, questo lavoro, così globalizzante e insieme così sistematico, è stato visto, appreso e assimilato per brani e frammenti. Nonostante che alcuni concetti da lui elabo­ rati, come quello di capitale culturale, siano stati ampiamente uti­ lizzati, e qualche volta anche piuttosto ingegnosamente, da spe­ cialisti americani, Bourdieu rimane comunque mal conosciuto e l’economia e la logica d’insieme della sua opera restano in larga parte incomprese. Ne abbiamo una testimonianza nella sorpren­ dente diversità d’interpretazioni, di critiche e reazioni contrad­ dittorie che quest’opera ha suscitato, oltre che nella frammenta­ zione e mutilazione che ha accompagnato la sua esportazione oltre Atlantico. In America l’assimilazione degli scritti di Bourdieu si è finora distribuita sostanzialmente intorno a tre nuclei principali, ciascuno contraddistinto da uno dei suoi libri maggiori: gli spe­ cialisti dell’educazione si concentrano su La Reproduction: élé­ ments pour une théorie du système d’enseignement', gli antropologi sui lavori etnografici sull’Algeria e sulla teoria dell’habitus e del capitale simbolico così come è esposta in Esquisse d’une théorie de la pratique-, mentre i sociologi della cultura, dell’estetica e delle classi trovano tutti un punto di raccordo in La Distinction. Critique sociale du jugement. Ogni gruppo ignora gli altri e sono rari quelli che hanno individuato i nessi organici, teorici ed empirici che legano le ricerche che Bourdieu ha condotto in quegli ambiti e su molti altri. Di conseguenza, nonostante l’ampia letteratura secondaria proliferata nel corso degli ultimi anni sui suoi scritti, Bourdieu resta una sorta di enigma intellettuale. Scopo di questa

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introduzione è di cercare di dare un inizio di risposta, indivi­ duando per grandi linee la struttura della sua teoria della cono­ scenza, della pratica e della società. In guisa di prolegomeni al corpo principale del libro mi pro­ pongo dunque di far emergere sommariamente i postulati centrali che danno all’impresa di Bourdieu la sua unità e la sua direzione d’insieme. Sulla base di una ontologia non cartesiana, che si ri­ fiuta di separare o di contrapporre oggetto e soggetto, intenzione e causa, materialità e rappresentazione simbolica, Bourdieu tende a trascendere la riduzione mutilante che assimila la sociologia a una fisica oggettivista delle strutture materiali o a una fenome­ nologia costruttivista delle forme cognitive, ricorrendo a uno strut­ turalismo genetico capace di conglobarle entrambe. Il metodo che egli propone è caratterizzato da una certa maniera di porre i pro­ blemi e da un parco insieme di strumenti concettuali e di proce­ dure che permettono di costruire oggetti e di trasferire il sapere ottenuto da un campo d’indagine a un altro. Due riserve preliminari. La prima è dovuta a una sorta di con­ traddizione, o perlomeno di forte tensione, tra il lavoro di Bourdieu e il metodo espositivo adottato qui per presentarlo. Il primo è in perenne movimento, perché Bourdieu rivede e ritorna di continuo sullo stesso nucleo di questioni, oggetti e luoghi, via via che il suo modo di pensare ricorsivo e a spirale (Harker, 1984; Vervaeck, 1989) si sviluppa nel tempo e nello spazio analitico. La tecnica espo­ sitiva lineare tende al contrario a fissare quel movimento, sincro­ nizzando artificialmente definizioni che corrispondono a tappe diverse del suo pensiero e a gradi diversi di elaborazione teorica. Nonostante che le intenzioni e le linee principali fossero già net­ tamente definite fin dalla metà degli anni sessanta, l’opera risulta comunque percorsa da slittamenti, da svolte e rotture che qui risul­ teranno per lo più minimizzate, poiché si riserverà solo una limi­ tata attenzione al dinamismo interno della struttura teorica. Seconda riserva: suggerire contrasti, paralleli o accostamenti tra Bourdieu e le posizioni più di spicco nell’ambito della scienza sociale inglese e americana può involontariamente incoraggiare proprio quel tipo di lettura affrettata e riduttiva che ne ha viziato l’importazione in seno alla sociologia anglofona. La circolazione dei prodotti intellettuali attraverso le frontiere dei campi nazio­

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nali comporta sempre simili rischi. Il margine tra analogia illu­ minante e assimilazione forzata è stretto ed è difficile trovare il punto di equilibrio tra chiarezza e accessibilità da un lato e fedeltà e precisione su forma, contenuto e genealogia dall’altro. In genere ho favorito la prima parte dell’alternativa, confidando nel fatto che il lettore terrà sempre presente che il significato del pensiero di Bourdieu risiede nel movimento reale della sua pra­ tica scientifica più che nell’esposizione sincronica che un qual­ siasi esegeta ne può dare.

i. Oltre l’antinomia tra fisica sociale e fenomenologia sociale

Compito della sociologia, secondo Pierre Bourdieu, è quello di portare alla luce le strutture più nascoste dei vari mondi sociali che costituiscono l’universo sociale e di evidenziare i meccanismi che tendono a garantirne la riproduzione o la trasformazione. Una particolarità di questo universo è il fatto che le strutture che lo formano hanno, se così si può dire, una doppia vita. Esistono due volte, una prima volta nell’«oggettività del primo ordine» dato dalla distribuzione delle risorse materiali e dei mezzi di appropria­ zione di beni e valori socialmente rari (delle specie di capitale, nel linguaggio di Bourdieu) e una seconda volta nell’«oggettività del secondo ordine», sotto forma di schemi mentali e corporei che funzionano come matrice simbolica delle attività pratiche, dei comportamenti, modi di pensare, sentimenti e giudizi degli agenti sociali. I fatti sociali sono anche oggetti di conoscenza nella realtà stessa, poiché gli esseri umani danno significato al mondo che li realizza. Una scienza della società deve dunque necessariamente procedere a una doppia lettura o, per essere più precisi, deve met­ tere a punto un assortimento di occhiali analitici bifocali che uni­ scano le virtù epistemiche di ciascuna di quelle letture evitandone nello stesso tempo i vizi. La prima lettura considera la società come una fisica sociale, in quanto struttura oggettiva, colta dal di fuori, con articolazioni che si possono materialmente osservare, misurare e cartografare. La forza di questo punto di vista oggettivista o strutturalista (il cui paradigma è dato da Le Suicide di Durkheim e che è esemplificato in Francia, nel momento in cui Bourdieu getta i primi lineamenti

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della sua teoria, dalla linguistica saussuriana e dallo strutturalismo lévi-straussiano) sta nel fatto che distrugge 1’« illusione della tra­ sparenza del mondo sociale». La rottura con le percezioni comuni gli consente di portare alla luce i «rapporti definiti» nei quali en­ trano necessariamente uomini e donne «al fine di produrre la loro esistenza sociale» (Marx). Utilizzando gli strumenti della stati­ stica, della descrizione etnografica o della modellizzazione for­ male, l’osservatore esterno può ricostruire quella «specie di par­ titura non scritta in base alla quale si organizzano le azioni degli agenti, convinti di improvvisare ciascuno una propria melodia» (Bourdieu 1980b, p. 89) e determinare le regolarità oggettive alle quali tali azioni obbediscono. Il pericolo principale del punto di vista oggettivista sta nel fatto che, interrogandosi sul principio generatore di quelle regolarità, tende a scivolare dal modello alla realtà, a reificare le strutture che costruisce, considerandole entità autonome, dotate di una facoltà di agire come fossero agenti storici. Incapace di comprendere la pratica se non in modo negativo, come semplice esecuzione del mo­ dello costruito dall’analista, l’oggettivismo finisce per proiettare nel cervello degli agenti una visione (scolastica) della loro pratica, alla quale, paradossalmente, esso poteva arrivare soltanto perché aveva in partenza espunto metodicamente l’esperienza che ne hanno gli agenti. Questo punto di vista distrugge parte della realtà che pretende di cogliere col movimento stesso che fa per coglierla. Spinto agli estremi, l’oggettivismo può produrre solo un surrogato del soggetto e configurare gli individui o i gruppi come supporti passivi di forze che si articolano meccanicamente secondo una logica autonoma. Per evitare di cadere in questa trappola riduzionistica, una scienza della società deve riconoscere che la visione e le interpre­ tazioni degli agenti sono una componente dell’intera realtà del mondo sociale. Certo, la società ha una struttura oggettiva, ma è anche vero che essa è fatta, secondo la nota espressione di Schopenhauer, di «volontà e rappresentazione». Gli individui hanno una conoscenza pratica del mondo e riversano questa conoscenza pratica nelle loro attività abituali. Il punto di vista soggettivista o «costruttivista» (espresso in forma parossistica da Sartre in L’Etre et le Néant, e ripreso oggi dall’etnometodologia nella sua variante culturalista e, sul versante

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razionalista, dalla teoria della scelta razionale) si collega a questa oggettività del secondo ordine. Contrariamente all’oggettivismo strutturalista, esso afferma che la realtà sociale è una «realizza­ zione contingente e continua» di attori sociali competenti che co­ struiscono il loro mondo sociale tramite le «pratiche organizzate della vita quotidiana» (Garfinkel, 1967, p. ri). Vista attraverso le lenti di questa fenomenologìa sociale, la società appare come un prodotto di decisioni, azioni e atti di conoscenza d’individui coscienti ai quali il mondo è dato come immediatamente familiare e significante. Il suo apporto consiste nel riconoscere il contributo che il normale sapere e la competenza pratica danno alla produ­ zione continua della società; essa colloca al posto d’onore l’agente e il «sistema socialmente approvato di classificazioni tipologiche e di pertinenza» attraverso le quali gli individui investono di senso il loro «mondo vissuto», come dice Schütz. Una fenomenologia della vita sociale di questo tipo pecca, secondo Bourdieu, almeno per due principali difetti. Innanzi tutto, concependo le strutture sociali come prodotto di una sem­ plice aggregazione di strategie e di atti classificatori individuali, questa sorta di marginalismo sociale si condanna a non poter spie­ gare né la loro persistenza, né quella delle configurazioni ogget­ tive che tali strategie perpetuano o sfidano. D’altra parte, non rie­ sce a spiegare perché e in base a quale principio si produca il lavoro stesso di produzione della realtà. Se è bene ricordare, contro certe visioni meccanicistiche dell’azione, che gli agenti sociali costrui­ scono la realtà sociale individualmente ma anche collettivamente, occorre comunque stare attenti a non dimenticare, come fanno in­ vece certi interazionisti ed etnometodologi, che non sono loro ad aver costruito le categorie che mettono in gioco in questo lavoro di costruzione (Bourdieu, 1989a, p. 47). Una scienza totale della società deve liberarsi tanto dello strut­ turalismo meccanico, che mette gli agenti «in vacanza», quanto dell’individualismo teleologico che agli individui fa posto solo nella forma tronca di un oversocialized cultural dope o sotto le specie di reincarnazioni più o meno sofisticate homo œconomicus. Oggettivismo e soggettivismo, meccanicismo e finalismo, neces­ sità strutturale e azione individuale sono altrettante false antino­ mie; ogni termine di queste coppie nemiche rafforza gli altri, e tutti contribuiscono a occultare la verità antropologica della pra­

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tica umana. Per superare questi dualismi, Bourdieu trasforma le world hypothesis di questi due paradigmi apparentemente antago­ nistici, in momenti di una forma di analisi che mira a recuperare la realtà intrinsecamente duplice del mondo sociale. L& prasseologia sociale che ne risulta tiene uniti insieme un approccio struttu­ ralista e un approccio costruttivista. In un primo movimento essa respinge le rappresentazioni consuete per poter costruire le strut­ ture oggettive (spazio di posizioni), la distribuzione delle risorse socialmente efficienti che definiscono i condizionamenti esterni gravanti su interazioni e rappresentazioni. In un secondo movi­ mento essa reintroduce l’esperienza immediata degli agenti in modo da esplicitare le categorie di percezione e di valutazione (disposizioni) che strutturano le loro azioni dall’interno e le loro rappresentazioni (prese di posizione). Bisogna sottolineare che se questi due movimenti dell’analisi sono entrambi necessari, non sono tuttavia equivalenti: la priorità epistemologica spetta alla rot­ tura oggettivistica rispetto alla comprensione soggettivistica. L’ap­ plicazione del primo principio durkheimiano del «metodo socio­ logico», ovvero il rigetto sistematico delle prenozioni, deve venire prima dell’analisi dell’apprensione pratica del mondo dal punto di vista soggettivo. Questo perché il punto di vista degli agenti varia sistematicamente a seconda del punto che occupano nello spazio sociale oggettivo (Bourdieu, 1984a, 1989 e).

2. Lotta delle classificazioni e dialettica tra strutture mentali e strutture sociali

Una vera scienza della pratica umana non può tuttavia accon­ tentarsi di sovrapporre una fenomenologia a una topologia sociale. Essa deve anche far emergere schemi di percezione e di valuta­ zione che gli agenti applicano nella loro vita quotidiana. Da dove provengono questi schemi (definizione della situazione, classifi­ cazioni tipologiche, procedure interpretative) e che rapporto man­ tengono con le strutture esterne della società ? E a questo punto che incontriamo la seconda ipotesi fondativa alla quale si àncora la sociologia di Bourdieu: esiste una corrispondenza tra struttura sociale e strutture mentali, tra le divisioni oggettive del mondo sociale, in particolare tra dominanti e dominati nei diversi campi,

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e i princìpi di visione e divisione che gli agenti applicano loro. E qui abbiamo, come ci si sarà accorti, una riformulazione e una generalizzazione dell’idea avanzata nel 1903 da Durkheim e Mauss (1963) nel loro classico saggio De quelques formes primiti­ ves de classification, secondo il quale i sistemi cognitivi in vigore nelle società primitive derivano dai loro sistemi sociali; le catego­ rie dell’intelletto che sottendono le rappresentazioni collettive si organizzano in base alla struttura sociale del gruppo. Bourdieu estende questa tesi durkheimiana del «sociocentrisme» dei sistemi di pensiero in quattro direzioni. In primo luogo egli sostiene che la corrispondenza tra strutture cognitive e strutture sociali, che si può osservare nelle comunità precapitalistiche, esiste anche nelle società avanzate la cui omologazione è prodotta in particolare dal funzionamento del sistema scolastico. In secondo luogo, mentre l’analisi di Mauss e Durkheim risultava carente per l’assenza di un solido meccanismo causale nella determinazione sociale delle classificazioni, Bourdieu propone di considerare strutturalmente omologhi divisioni sociali e schemi mentali, in quanto geneticamente connessi, essendo i secondi derivati dall’incorporazione delle prime. La ripetuta esposizione a determinate condizioni sociali imprime negli individui un insieme di disposizioni durevoli e trasferibili che sono l’interiorizzazione della necessità del loro ambiente sociale, che inscrive all’interno dell’organismo l’inerzia strutturata e i condizionamenti della realtà esterna. Se le strut­ ture dell’oggettività del secondo ordine (l’habitus) sono la ver­ sione incorporata delle strutture dell’oggettività del primo ordine, l’analisi delle strutture oggettive troverà un suo prolungamento logico nell’analisi delle disposizioni soggettive, facendo così scom­ parire la falsa antinomia che viene normalmente stabilita tra la so­ ciologia e la psicologia sociale (Bourdieu e de Saint Martin, 1982, p. 47). Un’adeguata scienza della società dovrà dunque includere tanto le regolarità oggettive quanto il processo di interiorizzazione dell’oggettività in base al quale si vengono a costituire i princìpi di divisione transindividuali e inconsci che gli agenti applicano nelle loro pratiche. In terzo luogo Bourdieu avanza l’idea che la corrispondenza tra strutture sociali e strutture mentali svolga funzioni politiche. I sistemi simbolici non sono semplici strumenti di conoscenza; sono anche strumenti di dominio (ideologie, nel lessico di Marx, e teo-

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dicee in quello di Weber). In quanto operatori d’integrazione co­ gnitiva, promuovono in virtù della loro stessa logica l’integrazione sociale di un ordine arbitrario: Vediamo quale contributo decisivo porti alla conservazione dell’ordine sociale (...) l’orchestrazione delle categorie di percezione del mondo sociale, le quali, essendosi adattate alle divisioni dell’ordine costituito (e di conseguenza agli interessi di coloro che lo dominano) e risultando comuni a tutte le menti strut­ turate in conformità a tali strutture, si impongono con tutte le apparenze della necessità oggettiva (Bourdieu, 1979, p. 549, e anche 1971b).

Gli schemi classificatori socialmente costituiti attraverso i quali costruiamo attivamente la società tendono a rappresentare le strut­ ture da cui sono derivati come dati naturali e necessari, più che come prodotti storicamente contingenti di un determinato rap­ porto di forze tra gruppi (classi, etnie, sessi). Ma se si conviene sul fatto che i sistemi simbolici sono prodotti sociali che produ­ cono il mondo, che non si limitano a riflettere i rapporti sociali, ma contribuiscono a costituirli, si dovrà necessariamente ammet­ tere che, entro certi limiti, è possibile trasformare il mondo tra­ sformandone la rappresentazione (Bourdieu, 1980 g, 1981a). Ne deriva - ed è la quarta rottura operata da Bourdieu rispetto alla problematica di Durkheim - che i sistemi di classificazione costituiscono la posta in gioco di lotte che contrappongono indivi­ dui e gruppi sia nelle interazioni consuete della vita quotidiana sia nei conflitti individuali e collettivi, in campo politico come in quello della produzione culturale. Bourdieu viene così ad arric­ chire l’analisi strutturale di Durkheim di una sociologia genetica e politica della formazione, della selezione e dell’imposizione dei sistemi di classificazione. Le strutture sociali e le strutture cogni­ tive sono legate strutturalmente e in maniera ricorsiva, e la corri­ spondenza che esiste tra loro offre una delle più solide garanzie di dominio sociale: Le classi e gli altri collettivi sociali antagoni­ sti sono impegnati in una lotta perenne per imporre la definizione del mondo più conforme ai loro interessi particolari. La sociolo­ gia della conoscenza o delle forme culturali è eo ipso una socio­ logia politica, cioè una sociologia del potere simbolico. Di fatto l’insieme dell’opera di Bourdieu può essere interpretata come un’antropologia materialista del contributo specifico che diverse forme di violenza simbolica arrecano alla riproduzione e alla trasformazione delle strutture dominanti.

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3. Relazioniamo metodologico

Contro tutte le forme di monismo metodologico che pretendono di sostenere la priorità ontologica della struttura o dell’agente, del sistema o dell’attore, del collettivo o dell’individuale, Bourdieu proclama il primato delle relazioni. A suo parere, quelle alterna­ tive dualistiche riflettono una percezione della realtà sociale pro­ pria del senso comune e della quale la sociologia si deve sbarazzare. Questa percezione è inscritta nello stesso linguaggio che usiamo e che è più adatto ad esprimere le cose che i rapporti, degli stati più che dei processi (Bourdieu, 1982 a, p. 35). Questa propensione del linguaggio a favorire la sostanza a scapito delle relazioni viene inol­ tre ad essere rafforzata dalla costante concorrenza che fanno ai sociologi altri specialisti della rappresentazione del mondo sociale, soprattutto i politici e coloro che operano con i media, che trag­ gono reciproco vantaggio da quel corrente modo di pensare. La contrapposizione tra individuo e società e la sua traduzione nell’an­ tinomia di principio tra individualismo e strutturalismo, è una delle tante «enunciazioni endossiche» che nuocciono alla sociologia poiché riattiva costantemente delle contrapposizioni politiche e sociali (Bourdieu 1989^. La scienza sociale non deve scegliere tra quei due poli, poiché ciò che dà luogo alla realtà sociale, all’habitus, alla struttura e alla loro intersezione come storia, sta nelle re­ lazioni. Quindi Bourdieu respinge - senza propendere né per l’uno né per l’altro - tanto l’individualismo metodologico quanto l’oli­ smo, non meno del loro falso superamento nel «situazionalismo metodologico». La prospettiva relazionale che sta alla base della sua visione sociologica non è una novità. Essa è parte integrante di una lunga tradizione strutturalista polimorfa giunta a maturità negli anni del dopoguerra con i lavori di Piaget, Jakobson, LéviStrauss e Braudel e che si potrebbe far risalire, come ha dimostrato Merton, a Marx e Durkheim. La troviamo espressa forse nel modo più sintetico e chiaro nei Grundrisse di Karl Marx: «La società non è fatta d’individui, essa esprime l’insieme di legami e relazioni entro cui si trovano inseriti gli individui». Ciò che caratterizza l’apporto di Bourdieu è il rigore metodologico con cui egli sviluppa questa concezione, come peraltro attesta il fatto che i suoi due concetti centrali di habitus e di campo definiscono dei nodi di relazioni. Un

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campo è un insieme di relazioni oggettive, storiche tra posizioni radicate in certe forme di potere (o di capitale), mentre l’habitus prende forma da un insieme di relazioni storiche «depositate» nei corpi individuali sotto forma di schemi mentali e corporei di per­ cezione, di valutazione e di azione. Come Philip Abrams, Michael Mann e Charles Tilly, Bourdieu fa saltare la vuota nozione di «società» e la sostituisce con quella di campo e di spazio sociale. A suo avviso, una società differen­ ziata non forma una totalità unitaria, integrata da funzioni siste­ miche, da una cultura comune, da un intreccio di conflitti o da un’autorità globale, consiste piuttosto in un insieme di aree di gioco relativamente autonome, non riconducibili a un’unica logica so­ cietaria, sia essa quella del capitalismo, della modernità o della post­ modernità. Analogamente ai Lebensordnungen di Weber - i vari «ordini di vita», economico, politico, religioso, estetico e intellet­ tuale, nei quali si suddivide la vita sociale - ogni campo, nel capi­ talismo moderno, prescrive valori particolari e possiede propri princìpi regolatori. Questi princìpi definiscono i limiti di uno spa­ zio socialmente strutturato in cui gli agenti lottano in funzione della posizione che occupano in tale spazio per mutarne o per con­ servarne frontiere e configurazione. In questa sintetica definizione sono essenziali due proprietà. Innanzi tuttojin campo è,, come un campo magnetico, un sistema strutturato di forze oggettive, una configurazione relazionale dotata di una gravità specifica.jchc il campo è in grado di imporre a tutti gli_oggetti e gli agenti che yi_penetraho. Come un” prisma, ogni campo rifrange le forze esterne a seconda della sua struttura interna. Gli effetti generati in seno ai campi non sono né la somma puramente addizionale di azioni anar­ chiche, né il risultato integrato di un piano concertato: la struttura del gioco, e non un semplice effetto di aggregazione meccanica, è alla base della trascendenza che si rivela nei casi di rovesciamento delle intenzioni. Un campo è anche uno spazio di conflitti e di con­ correnza, e qui l’analogia è piuttosto con uncampocli battagliasti! quale~f~partecipanti si-sco44trann_al fine di stabilire un monopolio sulla particolare specie di capitale chevirrsulta.efficiente (l’auto­ rità culturale in campo artistico, l’autorità scientifica nel campo scientifico, l’autorità sacerdotale nel campo religioso ecc.) e sul potere di decretare la gerarchia e i «tassi di conversione» tra forme diverse di autorità nel campo del potere.

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In seguito a queste lotte, diventa una questione centrale la forma stessa del campo e le sue divisioni, al punto che modificare la distribuzione e il peso relativo delle forme di capitale significa modificare la struttura del campo. Questo conferisce a ogni campo un dinamismo e una malleabilità storica che sfugge al rigido determinismo dello strutturalismo classico. Per esempio, nel suo studio sull’attuazione locale della politica statale degli alloggi in Francia, negli anni settanta, Bourdieu (1990b, p. 89) mostra come perfino il «gioco burocratico», cioè la logica organizzativa parti­ colarmente rigida delle burocrazie pubbliche, permetta margini apprezzabili d’incertezza e d’interazioni strategiche. E insiste sul fatto che ogni campo si presenta come una struttura di probabi­ lità, di ricompense, di guadagni, di profitti o di sanzioni, che tut­ tavia implicano sempre un certo grado d’indeterminazione. Come mai la vita sociale è così regolare e così prevedibile ? Se le strutture esterne non condizionano meccanicamente l’azione, cosa è che ne determina la forma (pattern) ? La risposta ci viene in parte fornita dal concetto di habitus. L’habitus è un meccani­ smo strutturante che opera dall’interno degli agenti, sebbene a vo­ ler essere esatti, non sia né strettamente individuale, né in grado di determinare da sé dei comportamenti. L’habitus è, secondo Bourdieu, il principio generatore delle strategie che permette agli agenti di affrontare situazioni molto diverse. Prodotto dall’inte­ riorizzazione delle strutture esterne, l’habitus reagisce alle solle­ citazioni del campo in maniera grossolanamente coerente e sistematica. In quanto collettivo individualizzato attraverso l’in­ corporazione o individuo biologico «collettivizzato» tramite la socializzazione, l’habitus è un concetto non lontano dall’«intenzione in azione» di Searle o dalla «struttura profonda» di Chomsky, con la differenza che, ben lungi dall’essere una inva­ riante antropologica, questa struttura profonda è una matrice generativa storicamente costituita, istituzionalmente radicata e quindi socialmente variabile (per es. Bourdieu, 1987d). L’habi­ tus è un operatore di razionalità, ma di una razionalità pratica, immanente a un sistema storico di rapporti sociali e che dunque trascende l’individuo. Le strategie che «gestisce» sono sistema­ tiche e tuttavia ad hoc, dal momento che sono «innescate» dall’in­ contro con un campo particolare. L’habitus è creatore, inventivo, ma nei limiti delle sue strutture.

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I due concetti di habitus e di campo sono relazionali in quanto funzionano in maniera completa solo se sono in relazione l’uno con l’altro. Un campo non è semplicemente una struttura morta, un sistema di «posti vuoti» come nel marxismo althusseriano, ma uno spazio di gioco che esiste in quanto tale solo qualora esistano anche dei giocatori disposti a entrarvi e che credano nelle ricompense che esso offre e le inseguano attivamente. Ne consegue che una teoria adeguata del campo richiama necessariamente una teoria degli agenti sociali. C’è azione e storia, cioè azioni tendenti alla conservazione o alla trasformazione delle strutture, solo perché ci sono degli agenti, i quali però possono agire ed essere efficaci a condizione che non siano ridotti a ciò che comunemente si intende con la nozione d’in­ dividuo e che, in quanto organismi socializzati, siano dotati di un insieme di disposizioni che implicano nello stesso tempo la pro­ pensione e la capacità di entrare nel gioco e di prendervi parte (Bourdieu, 1989a, p. 59). Inversamente la teoria dell’habitus resta incompleta se la struttura non prevede l’improvvisazione organiz­ zata degli agenti. Per comprendere esattamente in che cosa consista quest’arte sociale dell’improvvisazione, è opportuno prendere in considerazione l’ontologia sociale di Bourdieu.

4. La logica indistinta del senso pratico

La filosofia dell’azione di Pierre Bourdieu è monista in quanto rifiuta di stabilire una netta demarcazione tra l’esterno e l’interno, il conscio e l’inconscio, il corporeo e il discorsivo. Cerca di co­ gliere l’intenzionalità senza intenzione, il controllo preriflessivo e infracosciente del mondo sociale che gli agenti acquisiscono per il fatto di esservi durevolmente immersi (questo spiega l’interesse teorico che suscita in Bourdieu lo sport, 1988^ e che definisce la pratica sociale specificamente umana. Attingendo selettivamente alle fenomenologie di Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty oltre che all’ultima filosofia di Wittgenstein, Bourdieu respinge i dua­ lismi - di corpo e spirito, comprensione e sensibilità, soggetto e oggetto, in sé e per sé - dell’ontologia sociale cartesiana. Si basa in particolare sull’idea, cara a Merleau-Ponty, della cor­ poreità intrinseca del contatto preoggettivo tra soggetto e oggetto, in modo da riproporre il corpo come fonte di una intenzionalità pra-



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tica, come principio di un significato intersoggettivo radicato al livello preoggettivo dell’esperienza. Questa sociologia strutturale che incorpora una fenomenologia dell’«unità antepredicativa del mondo e della nostra vita», come dice Merleau-Ponty, considera il corpo socializzato non come un oggetto, ma come depositario di una capacità generativa e creatrice da comprendere, come sup­ porto attivo di una forma di «sapere cinetico» dotato di un po­ tere strutturante. Il rapporto tra l’agente sociale e il mondo non è la relazione tra un soggetto (o una coscienza) e un oggetto, ma un rapporto di «complicità ontologica» - o di mutuo «possesso» (Bourdieu, 1989a, p.io) - tra l’habitus come principio social­ mente costituito di percezione e valutazione e il mondo che lo determina. Il senso pratico esprime il senso sociale che ci guida anche prima che da parte nostra si pongano gli oggetti come tali. Costituisce il mondo come significante anticipandone spontanea­ mente le tendenze immanenti, come un giocatore dotato di una ampia visione del gioco, che, preso dall’ardore dell’azione, riesce ad avere l’intuizione istantanea delle mosse dei suoi avversari e partners, e agisce e reagisce in maniera «ispirata», senza bisogno dei vantaggi della distanziazione o della ragione calcolatrice. Il senso pratico preconosce-, legge nello stato presente i futuri stati possibili di cui il campo è portatore. Infatti il passato, il presente e il futuro si ritagliano e si compenetrano vicendevolmente nell’habitus. L’habitus si può comprendere come una «situazione sedimentata» virtuale, collocata nei recessi più profondi del corpo, in attesa di essere riattivata. I concetti di habitus e di campo permettono a Bourdieu di sba­ razzarsi del falso problema della spontaneità personale e del con­ dizionamento sociale, della libertà e della necessità, della scelta e del dovere, e di sgomberare d’un sol gesto le consuete alternative tra individuale e struttura, tra micro (Blumer, Coleman) e ma­ croanalisi (Blau), che si trascinano dietro una ontologia sociale polarizzata e dualistica. Non c’è nessun bisogno di scegliere tra struttura e agente, tra il campo, che crea il significato e il valore delle proprietà oggettivate nelle cose o incorporate nelle persone, e agenti che giocano con le loro proprietà nello spazio di gioco così definito (Bourdieu, 1989 a, p. 448).

Così come esclude il dibattito tra microrazionalità e macro­ funzionalismo, Bourdieu respinge l’alternativa tra sottomissione

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e resistenza, cui è tradizionalmente ricondotta la questione delle culture dominate e che, ai suoi occhi, ci impedisce di concepire adeguatamente pratiche e situazioni, che si definiscono invece assai spesso in modo intrinsecamente duplice e confuso. Ma Bour­ dieu non si limita a far emergere la cooperazione che i dominati prestano alla loro stessa esclusione; propone anche un’analisi della loro collusione, evitando così lo psicologismo ingenuo o l’essen­ zialismo della «servitù volontaria» di La Boétie. Se è bene ricor­ dare che i dominati contribuiscono sempre alla propria domina­ zione, bisogna comunque ricordare che le inclinazioni che li spingono a questa complicità sono anche un effetto incorporato della dominazione stessa (Bourdieu, 1989 a, p. 12). Dunque la sot­ tomissione dei lavoratori, delle donne e delle minoranze razziali, nella maggior parte dei casi, non è una concessione deliberata e cosciente alla forza bruta dei dirigenti, degli uomini e dei bianchi. Trova la sua genesi nella corrispondenza inconscia tra i loro ha­ bitus e il campo nel quale agiscono. Risiede nella più profonda in­ teriorità del corpo sociale; è, per essere totalmente espliciti, l’espressione della «somatizzazione dei rapporti sociali di domi­ nazione» (Bourdieu, 1990]). A questo punto dovrebbe risultare evidente che coloro che leggono l’economia delle pratiche di Bourdieu come una teoria generale del determinismo economico (come per es. Jenkins, 1982; Honneth, 1986; Caillé, 1987, Miller, 1989), o peggio ancora, come una variante della teoria dell’azione, della scelta razionale, sono vittime di un duplice errore d’interpretazione. Primo errore: introducono nel concetto di strategia le idee d’intenzione e di finalità cosciente, trasformando così un’azione congrua rispetto a certi interessi in una condotta razionalmente organizzata e deli­ beratamente diretta verso scopi chiaramente percepiti. Secondo errore, limitano la variabilità storica della nozione d’interesse ri­ conducendola a una invariante propensione a inseguire il profitto economico o materiale. Questa duplice riduzione, intenzionalistica e utilitaristica, lascia in ombra il paradossale movimento analitico che Bourdieu mette in atto attraverso la triade concet­ tuale habitus/capitale/campo, e che consiste proprio neW’estendere la sfera dell’interesse riducendo nel contempo quella dell’utilità e della coscienza. Bourdieu ripete in continuazione che la sua economia della pra-

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tica non è né intenzionalista né utilitarista. Come abbiamo visto precedentemente, si oppone risolutamente al finalismo delle filo­ sofie della coscienza che situano la molla dell’azione nelle scelte volontaristiche degli individui. Con la nozione di strategia, si riferisce non a un inseguimento intenzionale e anticipatamente pianificato di scopi calcolati, ma a uno sviluppo attivo di «linee» oggettivamente orientate che rispettano delle regolarità e formano delle configurazioni coerenti e socialmente intelligibili, sebbene non seguano nessuna regola cosciente e non mirino a obiettivi pre­ meditati individuati come tali da una strategia. L’uso che fa del concetto d’interesse - nozione che egli sostituisce sempre più spesso con quella di illusio, e più recentemente con quella di libido - risponde a due obiettivi: il primo è quello di rompere con la visione incantata dell’azione sociale che si aggrappa alla fron­ tiera artificiosa tra azione strumentale e azione espressiva o nor­ mativa e che rifiuta pertanto di riconoscere le diverse forme di profitto non materiale che guidano agenti che percepiscono se stessi come «disinteressati». Il secondo è quello di suggerire l’idea che la gente possa essere sottratta a uno stato d’in-differenza da stimoli inviati da certi campi, e non da altri. Ogni campo infatti riempie la bottiglia vuota dell’interesse con un vino diverso. La gente è «pre-occupata» da alcuni risultati futuri inscritti nel pro­ prio presente solo nella misura in cui il suo habitus la dispone a percepirli e a inseguirli. E i vari tipi di futuro in funzione dei quali si orienta possono essere totalmente disinteressati nel senso co­ mune del termine, come si può vedere nel campo della produzione culturale, questa sorta di «mondo economico alla rovescia» (Bourdieu, 1983 d, 1983 d) in cui le azioni finalizzate al profitto materiale sono sistematicamente svalutate e penalizzate.

5. Contro il teoricismo e il metodologismo: una scienza totale Da questa concezione relazionale e anticartesiana del suo og­ getto si deduce che la sociologia deve essere una scienza totale. Deve costruire «fatti sociali totali» (Mauss) capaci di restituire l’unità fondamentale della pratica umana attraverso le frontiere mutilanti delle discipline, dei terreni empirici e delle tecniche di osservazione e di analisi. E questa la ragione per cui Bourdieu è

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contrario alla specializzazione scientifica prematura e al «lavoro in frantumi» che essa implica: l’habitus conferisce alla pratica una sistematicità e delle interrelazioni interne che non si curano mi­ nimamente di tutte queste divisioni; le strutture sociali che gli cor­ rispondono si perpetuano o si trasformano simultaneamente in tutte le loro dimensioni. Ciò è particolarmente evidente quando si studiano le strategie di riproduzione o di conversione che i gruppi sviluppano allo scopo di mantenere o di migliorare la loro posizione in una struttura sociale in mutamento (Bourdieu e Boltanski, 1975b; Bourdieu, 1974a, 1978b, 1984b, pp. 99-168). Queste strategie formano un sistema sui generis che non può essere colto in quanto tale finché si trascura di mettere metodicamente in rapporto ambiti della vita sociale abitualmente affrontati da scienze separate e con metodologie disparate. Nel caso della classe dominante, di cui si ha uno studio dettagliato in: La Noblesse d’Etat (Bourdieu, 1989a, pp. 373-420), queste strategie riguar­ dano la fecondità, l’educazione, l’investimento economico e la trasmissione patrimoniale, la gestione del capitale sociale (in cui le strategie matrimoniali rappresentano un elemento centrale) e infine le strategie di sociodicea che mirano a legittimare la domi­ nazione e la forma di capitale su cui essa si basa. Così si capisce perché Bourdieu diffidi delle due forme d’in­ voluzione, contrapposte e tuttavia complementari, che minacciano la scienza sociale: il metodologismo e il teoricismo. Il metodologi­ smo può essere definito come la tendenza a separare la riflessione sul metodo dalla sua effettiva utilizzazione nel lavoro scientifico e a coltivare il metodo in sé. Bourdieu vede nella «metodologia» concepita come specializzazione separata una forma di accademi­ smo che, dissociando il metodo dall’oggetto, riduce il problema della costruzione teorica di quest’ultimo alla manipolazione tec­ nica di indizi e osservazioni empiriche. Dimenticando che «la me­ todologia non è il precettore o il tutore dello studioso, ma sempre la sua allieva», un tale feticismo metodologico si condanna a ri­ vestire oggetti precostituiti con gli orpelli della scienza, rischiando di dar luogo a una miopia scientifica (Bourdieu e altri, 1973, p. 88). In effetti può trasformarsi in un’arte per l’arte o, peggio anco­ ra, in un imperialismo metodologico che porta alla definizione forzata degli oggetti in base alle tecniche di analisi esistenti e ai corpus di dati disponibili. Quella che Bourdieu condanna non è

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la sofisticazione tecnica degli strumenti metodologici, ma il fatto che vengano sottoposti ad un affinamento su cui non esiste riflessione alcuna, e che va solo a colmare il vuoto creato dalla mancanza di una visione teorica. Bourdieu manifesta un espli­ cito e netto rifiuto di ogni chiusura settaria nei confronti di que­ sto o quel metodo di ricerca (Bourdieu, 1989a, p. io) che porta un gran numero di ricercatori a un monismo o a un assolutismo metodologico. Convinto che l’organizzazione e la realizzazione pratica della raccolta - o, per essere più precisi, della produzione dei dati siano così intimamente intrecciate nella costruzione teo­ rica dell’oggetto da non poter essere ridotte a compiti puramente tecnici lasciati a esecutori assunti per l’occasione, egli rifiuta la convenzionale gerarchizzazione dei compiti, che risulta da tutta una serie di opposizioni omologhe, che si rafforzano reciproca­ mente, tra alto e basso, lavoro intellettuale e lavoro manuale, scienziato inventore e tecnico incaricato di eseguire applicazioni di routine. Ciò nonostante il politeismo metodologico che Bourdieu pro­ pone e pratica non approda allo anything goes dell’anarchismo (o dadaismo) epistemologico di Feyerabend. Presuppone al contra­ rio che la tavolozza dei metodi utilizzati risulti sempre adeguata al problema trattato e diventi oggetto di una riflessione nell’atto stesso di servirsene per risolvere una questione particolare. Non è possibile dissociare la costruzione dell’oggetto dagli strumenti di costruzione dell’oggetto e dalla loro critica. Insieme alla dimensione pratica della pratica in quanto oggetto di sapere, Bourdieu ambisce a rivalutare il lato pratico della teoria in quanto attività produttrice di sapere. I suoi scritti offrono un’ampia testimonianza di come egli non si opponga al lavoro teorico. Ciò cui invece si oppone è il lavoro teorico fine a se stesso, o Yistitu­ zione della teoria in quanto ambito discorsivo separato, chiuso e autoreferente, quella che Kenneth Burke chiama la «logologia», cioè le «parole sulle parole». Bourdieu non sa che farsene di una simile «teoria ostentatoria» priva di qualsiasi legame con le realtà e i condizionamenti pratici del lavoro empirico. Il suo rapporto con i concetti è un rapporto pragmatico: per lui sono come «cassette per gli attrezzi» (Wittgenstein) concepiti per aiutare a risolvere i problemi. Questo pragmatismo tuttavia non apre le porte a un

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eclettismo concettuale privo di argini, poiché è inquadrato e disciplinato dai postulati teorici e dai problemi empirici che abbiamo or ora esposto. Se Pierre Bourdieu può apparire eccessivamente severo nel cri­ ticare quella che egli chiama la «teoria teoricista», probabilmente è perché reagisce a un ambiente intellettuale che tradizionalmente ricompensa le capacità filosofiche e teoriche, e nutre invece una forte resistenza nei confronti dell’empirismo (anche se oggi la con­ trapposizione tra un’Europa teoricista e un’America empirista è più il risultato di una combinazione tra stereotipi colti e un em­ piristico cultural lag che di un ragionato confronto). Negli Stati Uniti, dove il «positivismo strumentale» regna virtualmente in­ contrastato fin dagli anni quaranta e dove gli scambi tra socio­ logia e filosofia sono stati piuttosto labili, per non dire inesistenti, i teorici possono assolvere una funzione più positiva. Tuttavia, in questi ultimi anni, la rifioritura e lo sviluppo autonomo della teo­ ria (Ritzer, 1990) ha accentuato il divario tra pensatori puri e co­ loro che spesso con scherno vengono chiamati i number crunchers (macinatori di cifre). Dal punto di vista di Bourdieu, le disillusioni della teoria so­ ciale contemporanea non hanno avuto origine tanto da quella che Jeffrey Alexander diagnostica come «incapacità» di raggiungere la «generalità dei presupposti» e la «multidimensionalità», ma dalla divisione sociale del lavoro scientifico che separa, reifica e compartimentalizza momenti di un processo di costruzione dell’og­ getto sociologico in specializzazioni distinte che vengono in tal modo a favorire 1’«audacia senza rigore» della filosofia sociale e il «rigore senza immaginazione» del positivismo iperempirico. Di latto, al di là dei loro antagonismi, l’inibizione metodologica e il feticismo concettuale convergono in un’abdicazione metodica allo sforzo di spiegare la società e la storia così come esistono. Per Bourdieu ogni atto di ricerca continua ad essere simultaneamente empirico (in quanto ha affrontato il mondo dei fenomeni osser­ vabili) e teorico (in quanto implica necessariamente ipotesi rela1 ive alla struttura soggiacente alle relazioni che l’osservazione cerca di cogliere). Non c’è operazione empirica per quanto piccola la scelta di una scala di misura, una decisione di codifica, la costruzione di un indice o l’inclusione di uno schema in un que­ stionario - che non implichi scelte teoriche consce o inconsce;

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mentre la più astratta difficoltà concettuale può essere intera­ mente delucidata solo attraverso un confronto sistematico con la realtà empirica.

6. Per una riflessività epistemica Una caratteristica che senz’altro contraddistingue il pensiero di Bourdieu, nel paesaggio della teoria sociale contemporanea, è la sua costante preoccupazione per la riflessività. Dalle prime ri­ cerche sulle pratiche matrimoniali nello sperduto villaggio dei Pirenei in cui è cresciuto (Bourdieu, 1962b, c) fino all’analisi dell’óowo academicus gallicus (Bourdieu, 1988 a) Bourdieu non ha mai smesso di volgere su di sé gli strumenti della scienza, anche se qualche volta può averlo fatto in maniera non immediatamente percepibile per alcuni suoi lettori. La sua analisi degli intellettuali e in particolare dello sguardo oggettivante della sociologia, come pure il suo dissezionamento del linguaggio come strumento e po­ sta in gioco del potere sociale, implicano e presuppongono un’au­ toanalisi del sociologo come produttore culturale e una riflessione sulle condizioni sociostoriche di possibilità di una scienza della so­ cietà (Wacquant, 1990a). Bourdieu suggerisce tre tipi di deformazioni che possono annebbiare lo sguardo sociologico. La prima, ricordata anche da altri, è connessa all’origine e alle coordinate personali (di classe, sesso o etnia) del ricercatore. E l’aspetto più evidente e pertanto il più direttamente controllabile attraverso l’autocritica e la critica reciproca. La seconda, individuata e messa in discussione assai meno spesso, è legata alla posizione che l’analista occupa, non nella struttura sociale in senso lato, ma nel microcosmo del campo ac­ cademico, cioè nello spazio oggettivo delle posizioni intellettuali che gli si offrono in un momento dato e, inoltre, nel campo del potere. La deformazione intellettualistica che ci spinge a concepire il mondo come uno spettacolo, come un insieme di significati che chiedono di essere interpretati, più che a cogliervi problemi con­ creti che richiedono soluzioni pratiche è una deformazione assai più profonda e generatrice di effetti più pericolosi di quelli in­ scritti nell’origine sociale e nella posizione dell’analista nel campo

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universitario: porta infatti a ignorare completamente la differentia specifica della logica della pratica (Bourdieu, 1990 a). Ogni volta che tralasciamo di sottoporre a critica i «presupposti inscritti nel fatto di pensare il mondo, e di ritirarsi dal mondo e dall’azione al fine di poterli pensare» (Bourdieu, 1990f, p. 382), rischiamo di ridurre la logica pratica alla logica teorica. Dal momento che questi presupposti sono inscritti nei concetti, negli strumenti di analisi (genealogia, questionario, analisi statistica ecc.) e nelle operazioni pratiche della ricerca (consuetudini di codifica, procedure di sgros­ satura dei dati o espedienti del rilevamento sul campo), la rifles­ sività richiede non tanto una introspezione intellettuale quanto piuttosto un’analisi e un controllo sociologico permanenti della pratica (cfr. Champagne e altri, 1989). Per Bourdieu dunque la riflessività non presuppone una rifles­ sione del soggetto sul soggetto, del tipo della Selbstbewußtsein hegeliana (Lash, 1990, p. 259) o della «prospettiva egologica» (Sharrock e Anderson, 1986), sostenuta dall’etnometodologia e dalla sociologia fenomenologica, o da Alvin Gouldner. Richiede piut­ tosto una esplorazione sistematica delle «categorie di pensiero im­ pensate che delimitano il pensabile e predeterminano il pensato» (Bourdieu, 1982, p. io), mentre guidano la realizzazione pratica della ricerca sociale. Il «ripensamento» che la riflessività di Bourdieu esige va ben al di là dell’esperienza vissuta del soggetto e ingloba la struttura organizzativa e cognitiva della disciplina. Ciò che deve essere costantemente sottoposto ad esame e neutra­ lizzato nell’atto stesso della costruzione dell’oggetto è l’inconscio scientifico collettivo inscritto nelle teorie, nei problemi, nelle categorie (in particolare nazionali) dell’intendimento scientifico (Bourdieu, 1990 k). Ne consegue che il soggetto della riflessività deve essere, in ultima analisi, lo stesso campo delle scienze sociali. Grazie alla dialogica del dibattito pubblico e della critica reci­ proca, il lavoro di oggettivazione del soggetto oggettivante viene svolto, non soltanto dal suo autore, ma anche col contributo di tutti coloro che occupano le posizioni antagonistiche e comple­ mentari che costituiscono il campo scientifico. Per essere in grado di produrre e favorire habitus scientifici riflessivi, questo campo deve infatti istituzionalizzare la riflessività nei meccanismi di formazione, di dialogo e di valutazione critica. Bersaglio di una pratica trasformatrice dovrà dunque essere l’organizzazione

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sociale della scienza sociale in quanto istituzione inscritta in mec­ canismi nello stesso tempo oggettivi e mentali. É chiaro che Bourdieu non condivide lo « spirito di scetticismo interpretativo» (Woolgar, 1988, p. 14) che nutre la «riflessività testuale» sostenuta da alcuni antropologi che negli ultimi anni si sono invaghiti del «processo ermeneutico dell’interpretazione cul­ turale» sul campo e della formazione della realtà attraverso la registrazione etnografica. Bourdieu non risparmia critiche a quella che Geertz ha simpaticamente chiamato «la malattia del diario» (diary disease); la vera riflessività infatti non sta nel dedicarsi post festum a «riflessioni sul lavoro di rilevamento» come fa Rabinow, così come non è richiesto l’uso della prima persona per mettere in risalto l’empatia, la differenza o il lavoro di elaborazione in testi che accentuano l’intervento dell’osservatore individuale nell’atto di osservazione. Si tratta invece di «sottoporre la posizione dell’os­ servatore alla stessa analisi critica cui è stato sottoposto l’oggetto costruito» (Barnard, 1990, p. 75). L’etnografo non è separato dall’indigeno da una «trama di significati» weberiani, come vor­ rebbe Rabinow (1977, p. 162), ma dalla sua condizione sociale, cioè dalla sua distanza dalla necessità specifica dell’universo con­ siderato (Bourdieu, 1990a, p. 14). L’insistenza quasi ossessiva di Bourdieu sulla necessità di un ritorno riflessivo non è dunque l’espressione di una sorta di senso dell’onore epistemologico ma un principio che porta a costruire in maniera diversa gli oggetti scientifici. Aiuta a produrre oggetti nei quali non è proiettato inconsciamente il rapporto dell’analista con l’oggetto, e che non risentono dell’alterazione introdotta da quella che Bourdieu, riprendendo John Austin, ha chiamato la scholastic fallacy (paralogismo scolastico), in una discussione sul passaggio dalla regola alla strategia in cui egli prende le distanze dallo strut­ turalismo lévi-straussiano. Questo è un punto su cui vai la pena di soffermarsi poiché è stato proprio questo rovesciamento di pro­ spettiva, legato all’inclusione di una teoria della pratica teorica in seno a una teoria della pratica, ad aver permesso a Bourdieu di sco­ prire la logica della pratica, oltre ad averlo indotto a una riflessione sulla specificità della logica teorica attraverso le anomalie empiri­ che che quest’ultima faceva ostinatamente nascere nei materiali di rilevamento. Fu infatti proprio analizzando empiricamente, fin nei minimi dettagli, la rete di tutte le opposizioni e corrispondenze che

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costituiscono la struttura dalla cosmologia dei cabili che Bourdieu potè giungere a teorizzare la differenza tra logica astratta e logica pratica. E, viceversa, solo in quanto non ha mai smesso di porsi interrogativi teorici circa la propria pratica di antropologo egli ha potuto riconoscere e afferrare tutto ciò che separa tale sua pratica da quella degli agenti normali, nonché dalla sua stessa pratica per­ sonale, quando smette di comportarsi da analista. Se la riflessività è fonte di una differenza cognitiva tanto significativa nella conduzione di una ricerca, perché non viene praticata più diffusamente ? Bourdieu suggerisce che le vere ra­ gioni della resistenza alla riflessività non siano tanto epistemolo­ giche quanto sociali. In effetti la riflessività pone in questione il senso sacro dell’individualità e la rappresentazione carismatica che hanno di sé gli intellettuali, sempre portati a concepirsi come liberi da ogni condizionamento sociale. Per Bourdieu essa è pro­ prio ciò che ci consente di liberarci da simili illusioni facendoci scoprire il sociale in seno all’individuale, l’impersonale nascosto nei recessi più intimi, l’universale sepolto nel privato più recon­ dito. Così quando Bourdieu declina l’invito a entrare nel gioco (.Iella confessione intimista, ricordando al contrario il carattere generico delle esperienze sociali che più hanno contribuito alla sua formazione (Bourdieu, 1988 b), non fa altro che applicare a se stesso il principio della propria sociologia (Bourdieu, 1989a, p. 449): le persone, considerate in ciò che hanno di più personale sono, sostanzialmente, hi personificazione di esigenze realmente o potenzialmente inscritte nella strut­ tura del campo o, più precisamente, nella posizione che occupano all’interno di quel campo.

7. Ragione ed etica politica La riflessività epistemica arreca un altro beneficio: apre una strada al superamento dell’opposizione tra il relativismo nichili­ sta della «decostruzione» postmoderna di cui Derrida si è eretto a difensore e l’assolutismo del razionalismo «modernista» soste­ nuto da Habermas. Essa permette infatti di storicizzare la ragione senza dissolverla, di fondare un razionalismo storicista che ricon­ cilia decostruzione e universalità, ragione e relatività ancorandone

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le azioni nelle strutture oggettive - benché storicamente date del campo scientifico. Da un lato, come Habermas, Bourdieu crede nella possibilità e nella necessità della verità scientifica. Ma, contrariamente al teorico della Scuola di Francoforte, per lui il progetto di fondare la ragione su strutture trans-storiche della coscienza e del linguaggio è partecipe di un’illusione trascendentalistica di cui la filosofia e le scienze storiche si devono sbaraz­ zare. D’altro canto Bourdieu si trova d’accordo con Derrida e Foucault sull’idea che il sapere debba essere decostruito, che le categorie sono derivazioni sociali contingenti e strumenti di potere (simbolico) che possiedono una efficacia costitutiva e che le strutture del discorso sul mondo sociale sono assai spesso pre­ costruzioni sociali a forte tenore politico. La scienza, come aveva ben visto Gramsci, è un’attività eminentemente politica. Ma non per questo è riducibile a una politica, incapace dunque di produrre verità universalmente valide. Confondere la politica della scienza (sapere) con quella della società (potere), significa tenere poco conto dell’autonomia storicamente istituita del campo scientifico. E qui Bourdieu si separa dal post-strutturalismo: se la decostru­ zione decostruisse se stessa, scoprirebbe le sue condizioni stori­ che di possibilità e dovrebbe allora riconoscere di presupporre anch’essa criteri di verità e di dialogo razionale radicati nella strut­ tura sociale dell’universo intellettuale. Quindi, secondo Bourdieu, la ragione è un prodotto storico, ma un prodotto storico altamente paradossale in quanto, entro certi limiti e a certe condizioni, può «sfuggire» alla storia, cioè alla particolarità. Sono queste condizioni che si devono sempre saper riprodurre all’interno e attraverso un lavoro che miri con­ cretamente a proteggere le basi istituzionali del pensiero razionale. Lungi dal lanciare una sfida alla scienza, la sua analisi della genesi del funzionamento dei campi di produzione culturale ha lo scopo di radicare la razionalità scientifica nella storia, cioè nelle re­ lazioni che producono conoscenze, oggettivate in una rete di posizioni e «soggettivate» in disposizioni che, messe insieme, costituiscono il campo scientifico in quanto invenzione sociale storicamente unica (Bourdieu, 1990 a). La nozione di riflessività come l’intende Bourdieu non va a inscriversi contro la «scientificità modernista», come afferma Lash (1990), ma contro le concezioni positivistiche della scienza sociale

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e contro la separazione stagna che esse stabiliscono tra fatti e valori (Giddens, 1977). Per l’autore di La Distinction il sapere empirico non è incompatibile con la scoperta e il perseguimento di obiet­ tivi morali, come i sostenitori di questa o quella corrente positi­ vista vorrebbero far credere. Continuando sulla linea del progetto durkheimiano (Filloux, 1970), Bourdieu è seriamente preoccupato dal significato morale e politico della sociologia. Senza poterlo affatto ridurre solo a questo, il suo discorso trasmette un messag­ gio morale a due livelli. Innanzi tutto, dal punto di vista dell’in­ dividuo, esso predispone gli strumenti per distinguere le zone di necessità dalle zone di libertà, e quindi per identificare gli spazi aperti all’azione morale. Bourdieu (1990a) sostiene che per tutto il tempo in cui gli agenti agiscono sulla base di una soggettività che è l’interiorizzazione dell’oggettività, essi rimangono necessa­ riamente «soggetti apparenti di azioni che hanno per soggetto la struttura». A contrario più prendono coscienza del sociale che si trova dentro di loro, garantendosi un controllo riflessivo sulle loro categorie di pensiero e di azione, meno probabilità avranno di essere agiti dall'esteriorità che li abita. Portando alla luce l’in­ conscio sociale inscritto nelle istituzioni oltre che nella nostra più intima interiorità, la socioanalisi può offrirci un mezzo per libe­ rarci di questo inconscio che guida o condiziona le nostre prati­ che. Se il lavoro di Bourdieu condivide con tutti i post-strutturalisti un rigetto del cogito cartesiano (Schmidt, 1985), si separa poi da quelli in quanto cerca di rendere possibile l’emergenza storica di qualcosa come un soggetto razionale, attraverso l’applicazione riflessiva del sapere delle scienze sociali. La dimensione morale della sociologia riflessiva è anche ine­ rente a quella che potremmo chiamare la sua funzione spinozista. Agli occhi di Bourdieu, è compito del sociologo mostrare che il mondo sociale non è naturale, né fatale: egli deve cioè distruggere i miti che rivestono l’esercizio del potere e perpetuano il dominio. Una simile demistificazione non è tuttavia orientata a mettere gli altri all’indice e a suscitare in loro un senso di colpa. Al contrario la missione della sociologia è quella di «necessitare» i comporta­ menti, di strapparli all’arbitrario senza tuttavia giustificarli, rico­ struendo l’universo dei condizionamenti che li determinano (Bourdieu, 1989a, p. 143 n.). Rendendo visibili i nessi che indi­ vidua tra una sociologia scientifica e la costruzione di morali quo-

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tidiane su piccola scala, Bourdieu riporta in primo piano la dimensione etica della scienza sociale, ricollegandosi così ad Alan Wolfe e a Richard Maxwell Brown. Tuttavia, al contrario del primo, egli non crede che la sociologia possa mettere a disposi­ zione una filosofia morale delle società avanzate. Questo signifi­ cherebbe riportare il sociologo al ruolo profetico del «teologo» sansimoniano della «religione civile» della modernità. Secondo Bourdieu, la sociologia ci può dire a quali condizioni l’azione mo­ rale sia possibile e come possa essere messa in pratica istituzio­ nalmente, ma non quale possa essere il suo corso. Per Bourdieu, la sociologia è una scienza eminentemente-politica in quanto profon­ damente coinvolta nelle strategie e nei meccanismi di dominio sim­ bolico nei quali si trova essa stessa inserita. Per la natura stessa del suo oggetto e per la situazione di coloro che la praticano, la scienza sociale non può essere neutra, distaccata, apolitica. Essa non raggiungerà mai lo statuto indiscusso delle scienze naturali. Lo prova il fatto che si trova costantemente esposta a forme di re­ sistenza e di sorveglianza (sia interne che esterne) che minacciano incessantemente di corrodere la sua autonomia e che sono scono­ sciute nei settori più avanzati della biologia o della fisica. Il para­ dosso della scienza sociale è che il progresso verso una maggiore autonomia non implica un progresso nel senso della neutralità po­ litica. Più la sociologia diventa scientifica, più diventa politicamente pertinente ed efficace, se non altro a titolo di strumento di critica, di sistema di difesa contro le forme di mistificazione e di dominazione simbolica che ci impediscono di diventare veri agenti politici. Come si vede nella sezione finale del seminario di Chicago, Bourdieu non condivide la visione fatalista del mondo che gli viene attribuita da coloro che leggono nella sua opera un iperfunzionalismo politicamente sterile. La sua non è la visione nietzschiana di un «universo di funzionalità assoluta» (Rancière, 1984, p. 34) in cui «anche il più piccolo particolare dell’azione sociale (è parte) di un vasto piano di oppressione» (Elster). Bourdieu non crede, come Mosca e Pareto, i teorici dell’élite della scuola italiana, che l’uni­ verso sociale sia in sé necessariamente e per sempre diviso in bloc­ chi monolitici di rulers e ruled, di dirigenti e diretti. Innanzi tutto perché le società avanzate non costituiscono un cosmo unificato, ma sono entità differenziate, parzialmente totalizzate, composte da

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un insieme di campi che, anche qualora coincidano, risultano comunque sempre più autoregolati, ciascuno con i propri dominanti e dominati. D’altra parte, in seno a ciascun campo, viene conti­ nuamente contestata la gerarchia costruita e può succedere che ven­ gano sfidati e rimessi in causa gli stessi princìpi che sottendono la struttura del campo. L’onnipresenza del dominio non esclude affatto la possibilità di una relativa democratizzazione. Man mano che il campo del potere si fa sempre più differenziato, e che la di­ visione del lavoro di dominio si fa più complessa (Bourdieu, 1989 a, pp. 533-59), implicando un numero sempre maggiore di agenti, ognuno con propri interessi specifici; man mano che si tende a invocare l’universale nei sottocampi via via più numerosi che co­ stituiscono lo spazio di gioco della classe dominante (in politica, nella religione, nella scienza e persino nell’economia, come si può vedere dal peso crescente dell’argomentare giuridico nella gestione quotidiana e nelle scelte strategiche delle grandi imprese), le possi­ bilità di far progredire la ragione aumentano. In secondo luogo Bourdieu non pretende affatto che il mondo sociale obbedisca a leggi immutabili. Non condivide minimamente la «tesi della futilità», figura della retorica conservatrice (e talvolta progressista) secondo la quale ogni azione collettiva è vana poiché si rivelerà incapace di correggere le ingiustizie presenti. Nonostante che Bourdieu costruisca un’immagine del mondo sociale fortemente strutturata, non accetta l’idea che il mondo evolva «secondo leggi immanenti che le azioni umane non possono modificare» (Hir­ schman). Per lui le leggi sociali sono delle regolarità limitate nel tempo e nello spazio che esistono finché le condizioni istituzionali che le sottendono sono autorizzate a durare. Non esprimono delle «necessità ineluttabili» come le chiama Durkheim, ma piuttosto dei rapporti storici che potrebbero essere politicamete dissolti qualora ci si fosse dotati della necessaria conoscenza delle loro origini so­ ciali. La missione politica del sociologo, per Bourdieu (1980b, p. 18) è nello stesso tempo modesta e assolutamente fondamentale. La so­ ciologia è anche una politica nel senso che egli attribuisce a questo termine: un tentativo di trasformare i princìpi di visione attraverso i quali costruiamo il mondo sociale e a partire dai quali possiamo formare razionalmente e umanamente la sociologia, la società e in ultima istanza noi stessi. LoicJ.D. Wacquant

Parte prima

Finalità della sociologia riflessiva Seminario di Chicago (inverno 1987-88)

Se dovessi «riassumere» Wittgenstein direi: ha fatto del cambiamento di sé la condizione di ogni cambiamento.

Daniel Oster, Dans l’intervalle

I.

La sociologia come socioanalisi

LOÏC j. D. WACQUANT Cominciamo da Homo academicus, un la­ voro che a vario titolo si situa al centro del suo progetto sociologico. Si poteva pensare che dovesse risultarle facile scrivere un libro del ge­ nere, che parla degli intellettuali francesi, di un mondo cioè di cui Lei fa parte. Eppure, tra i suoi studi, Homo academicus sembra essere quello che le è costato di più in termini di tempo, di pensiero, di scrit­ tura e di ricerca; e anche d’inquietudini: nell'introduzione Lei parla della sua reticenza a pubblicare l’opera e dedica l’intero primo capi­ tolo a respingere le più svariate interpretazioni erronee che se ne potrebbero dare, per difendersene. Perché tante difficoltà?

pierre Bourdieu Homo academicus è un libro particolare nel quale il lavoro richiesto dall’oggettivazione scientifica è affiancato da un lavoro - in senso psicoanalitico - sul soggetto dell’oggettivazione. Non è possibile lavorare su un oggetto del genere senza avere ben presente in ogni istante che il soggetto dell’oggettivazione è a sua volta oggettivato. Le analisi che effettuano le og­ gettivazioni più brutali sono state scritte avendo ben chiaro che si dovessero applicare anche a chi scrive, sapendo inoltre che molti di coloro che da tali analisi si sarebbero sentiti chiamati in causa non avrebbero pensato nemmeno per un momento che l’autore di questa o quella frase «cattiva» la applicasse anche a se stesso. Avrebbero quindi scambiato per cattiveria gratuita quello che di fatto è un lavoro di anamnesi, una socioanalisi. Nella prefazione all’edizione inglese (1988h), per esempio, tra i princìpi che spiegano e fanno comprendere l’originalità dei filo­ sofi francesi contemporanei - Foucault, Derrida ecc. - sulla scena intellettuale mondiale, indico il fatto che la maggior parte di que-

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sti «eretici» si sono trovati in una posizione piuttosto curiosa: hanno dovuto fare di necessità sociale virtù intellettuale, trasfor­ mando il destino collettivo di una generazione in una scelta elet­ tiva. Abituati fino allora a una semplice riproduzione del sistema universitario e a un successo universitario che li promuoveva a po­ sizioni dominanti, si sono visti crollare sotto i piedi questo sistema e, soprattutto in seguito al movimento del maggio ’68 e alle con­ seguenti trasformazioni dell’università francese, hanno trovato le vecchie posizioni dominanti insostenibili o insopportabili. Que­ sto li ha indotti a una sorta di predisposizione antistituzionale che almeno in parte trae origine dai loro rapporti con l’università in quanto istituzione. Considerato il mio percorso e la mia posizione, non posso negare di condividere questo umore antistituzionale: mi trovo quindi anche nella posizione giusta per sapere che un’ana­ lisi che obblighi a scoprire le determinazioni sociali di un atteggia­ mento che tende a viversi come scelta deliberata, o come rottura più o meno «eroica», ha necessariamente qualcosa di deludente, e anche di antipatico... Il suo scopo però non è semplicemente quello di scrivere una mo­ nografia sull’università francese e il suo corpo docente, ma di segna­ lare un problema fondamentale del metodo sociologico. Affrontando questo studio - iniziato verso la metà degli anni sessanta, quando la crisi dell’istituzione universitaria che sarebbe poi culminata nel movimento studentesco del ’68 era ancora stri­ sciante - mi proponevo di praticare una sorta di test sociologico sulla stessa pratica sociologica. In contrasto con coloro che, per mettere in discussione la scientificità della sociologia, invocano il fatto che il sociologo si trova nel mondo sociale e ha dunque necessariamente sul mondo un punto di vista socialmente deter­ minato, io volevo dimostrare che il sociologo può sottrarsi in una certa misura a questo circolo vizioso dello storicismo: a condizione però che sappia servirsi proprio della conoscenza che egli ha dell’universo sociale in cui la scienza sociale viene prodotta, per neutralizzare gli effetti dei determinismi in gioco in tale universo e che pesano contemporaneamente sullo stesso sociologo. In quella ricerca perseguivo dunque un duplice scopo e co­ struivo un duplice oggetto. Innanzi tutto l’oggetto manifesto: l’università francese come istituzione - e quindi l’analisi della sua

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struttura e funzionamento, delle diverse specie di potere che vi agiscono, delle traiettorie degli agenti che vi si muovono, delle va­ rianti della visione «professorale» del mondo ecc. E poi l’oggetto profondo: il ritorno riflessivo implicato nell’oggettivazione del proprio universo, e la radicale problematicità imposta dalla «storicizzazione» di una istituzione che socialmente si riconosce come fondata per rivendicare l’oggettività e l’universalità delle proprie oggettivazioni...

Prendere l’università, cioè il luogo della sua vita professionale, come pretesto per studiare lo sguardo sociologico è un procedimento affine ad altri da Lei già adottati. Agli inizi degli anni sessanta aveva infatti condotto una inchiesta sulle pratiche matrimoniali del suo vil­ laggio d’origine nel sud della Prancia (1962 a, c, 1980a), e prima an­ cora aveva attuato un progetto simile presso i contadini algerini (1972 a, 1980f). Homo academicus è il punto culminante, almeno in senso bio­ grafico, di una sorta di «sperimentazione epistemologica» che avevo iniziato in maniera perfettamente cosciente agli inizi degli anni sessanta, applicando a un universo familiare i metodi inve­ stigativi che avevo precedentemente utilizzato per scoprire la logica delle relazioni di parentela in un universo estraneo, quello dei contadini e degli operai algerini. Dietro a questa ricerca c’era l’intenzione di rovesciare il rapporto «naturale» dell’osservatore nei confronti dell’universo che studia, di rendere l’esotico fami­ liare e familiare l’esotico: questo allo scopo di esplicitare ciò che in entrambi i casi si ritiene implicitamente scontato (taken for granted), facendo inoltre vedere in pratica come fosse possibile una osservazione sociologica completa e dell’oggetto e del rapporto del soggetto col suo oggetto - quella che io chiamo oggettivazione par­ tecipe. Ma mi ero messo in una situazione in qualche modo im­ possibile: mi risultava infatti particolarmente difficile giungere a una oggettivazione completa senza aver oggettivato anche l’inte­ resse che io potevo avere all’oggettivazione; senza cioè essermi imposto (ed essermi messo nelle condizioni) di resistere alla ten­ tazione, senz’altro inerente alla posizione del sociologo, di adot­ tare un punto di vista assoluto sul proprio oggetto di studio, di esercitare una sorta di potere intellettuale sul mondo intellettuale. Voglio dire che, per portare a buon fine quello studio e pubbli-



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carlo, dovevo scoprire la verità profonda di quel mondo, dovevo scoprire cioè che lì ognuno si batte per fare quello che il sociologo ha tentato di fare. Ho dovuto oggettivare questa tentazione e più precisamente oggettivare la forma che poteva aver assunto in un momento dato nel sociologo Pierre Bourdieu. Nel corso di tutta la sua opera Lei ha insistito sulla necessità di un ritomo riflessivo sul sociologo e sul suo universo produttivo: e sulfatto che, lungi dall’essere una forma di narcisismo intellettuale, un simile esame ha conseguenze scientifiche reali.

Credo che la sociologia della sociologia sia una dimensione fon­ damentale dell’epistemologia della sociologia. È tutt’altro che una specializzazione tra le altre, è il presupposto necessario di ogni pratica sociologica rigorosa. A mio parere, una delle principali fonti di errore nelle scienze sociali sta nel rapporto incontrollato che si ha con l’oggetto, il che induce a proiettare tale rapporto non analizzato nell’oggetto dell’analisi. Una cosa che mi avvilisce quando leggo certi lavori sociologici, è vedere come chi si inca­ rica, per professione, di oggettivare il mondo sociale raramente si mostri poi capace di oggettivare se stesso, senza nemmeno accor­ gersi che il suo discorso apparentemente scientifico non parla tanto dell’oggetto quanto del suo rapporto con l’oggetto. L’oggettivazione dello sguardo sociologico oggi è molto prati­ cata, ma in maniera incredibilmente superficiale, malgrado l’ap­ parente radicalismo. Una vera oggettivazione esige che non ci si accontenti di attirare l’attenzione sulle origini sociali, etniche o sessuali dell’operatore culturale, limitandosi a deplorarle o con­ dannarle. Si tratta anche, e soprattutto, di oggettivare la sua posizione nell’universo della produzione culturale, in questo caso nel campo scientifico o universitario. Uno dei propositi di Homo academicus è quello di dimostrare che quando si effettuano og­ gettivazioni alla Lukàcs (o alla Lucien Goldmann, per citare una delle forme più sofisticate di questo comunissimo riduzionismo sociologistico), quando cioè si stabilisce una corrispondenza diretta tra i prodotti culturali e le condizioni economiche, sociali o politiche del momento o le classi sociali dalle quali e per le quali si ritiene siano stati prodotti (come, per esempio, di una certa forma di teatro inglese si dice che esprime «il dilemma della nuova classe media») si incorre in quello che io chiamo «il paralogismo

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del cortocircuito»: quando, mirando a stabilire un legame diretto tra termini molto lontani, si trascura la mediazione essenziale, cioè l’universo sociale relativamente autonomo costituito dal campo di produzione culturale. Questo microcosmo è anche un mondo sociale, con una propria logica, all’interno del quale gli agenti lottano per valori di una specie tutta particolare, obbedendo ad interessi che, considerati in funzione di un altro rapporto, quello monetario, per esempio, possono apparire del tutto disinteressati. Fermarsi a questo stadio significherebbe però lasciarsi sfuggire la «deformazione» (bias) più sostanziale, il cui principio non ri­ siede nella posizione sociale (la classe), e nemmeno nella posizione specifica del sociologo all’interno del campo della produzione cul­ turale (e quindi in uno spazio di posizioni teoriche e metodologi­ che possibili), ma nelle determinazioni invisibili inscritte nella sua condizione di studioso. Appena ci mettiamo a osservare il mondo sociale, la nostra percezione è affetta da una «deformazione» dovuta al fatto che, per studiarlo, descriverlo, parlarne, dobbiamo sapercene astrarre più o meno completamente. La «deformazione» teoricistica o intellettualistica consiste nel dimenticare di inscrivere nella teoria del mondo sociale che costruiamo il fatto che essa è il prodotto di uno sguardo teorico, di un «occhio contemplativo» (ùewQÉoi). Una sociologia davvero riflessiva deve stare incessan­ temente in guardia contro questo epistemocentrismo, questo «et­ nocentrismo da studioso», che consiste nell’ignorare tutto quello che l’analista proietta nella sua percezione dell’oggetto per il fatto di trovarsi all’esterno dell’oggetto e di osservarlo da lontano e dall’alto.1 Come l’antropologo intento a costruire una genealogia ha con la «parentela» un rapporto completamente diverso da quello del padre di famiglia della Cabilia che deve risolvere un problema pratico e urgente, come trovare una sposa adatta per il figlio, così il sociologo che studia il sistema scolastico avrà un «uso» della scuola che non ha niente a che vedere con quello di un padre che cerchi una buona scuola per la figlia. Questo non ci deve portare a concludere che la conoscenza teo­ rica non abbia nessun valore, ma che bisogna conoscerne i limiti e che è bene abbinare a ogni analisi scientifica una relazione sui limiti delle analisi scientifiche: la conoscenza teorica deve molte delle sue più essenziali qualità alle condizioni della sua produzione, che sono diverse da quelle della pratica.

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In altri termini, una scienza rigorosa della società deve costruire teorie che implichino al loro intemo una teoria dello scarto tra teoria e pratica. Un modello esatto della realtà deve tener conto della distanza che separa il modello dall’esperienza pratica degli agenti (che igno­ rano il modello) e che fa sì che i meccanismi descritti funzionino con la «complicità» inconscia di quegli agenti. L’università è dav­ vero esemplare da questo punto di vista: qui infatti tutto tende a farci cadere nell’errore teoricistico. Come ogni universo sociale, il mondo universitario è il luogo in cui ci si batte in nome della verità del mondo universitario e del mondo sociale in generale. Il mondo sociale è luogo di lotte continue per affermare il senso di quello stesso mondo; ma ciò che distingue il mondo universitario è il fatto che oggi i suoi verdetti sono tra quelli socialmente più influenti. Nel mondo universitario ci si scontra continuamente per sapere chi in questo universo è socialmente autorizzato a dire la verità del mondo sociale: a definire per esempio che cosa sia un delinquente o un professionista, se questo o quel gruppo (regione, nazione, classe sociale ecc.) esista e se abbia propri diritti ecc. In altre parole, il paralogismo intellettualistico e teoricistico viene a costituire la tentazione per eccellenza per chi, come sociologo e in quanto tale coinvolto nell’eterna battaglia per la verità, cerchi di dire la verità sul mondo di cui fa parte e sulle visioni prospettica­ mente contrapposte che ne vengono date. Questa tentazione di trionfare sui propri avversari oggettivandoli, presente in tutta la fase di oggettivazione di quel tipo di ricerca, è all’origine di seri errori tecnici. Insisto sul «tecnico» per accentuare la differenza tra lavoro scientifico e riflessione pura. Tutto quanto ho appena detto si traduce in operazioni molto concrete nella ricerca: varia­ bili aggiunte o eliminate nelle analisi delle corrispondenze, dati reinterpretati o scartati, nuovi criteri introdotti nell’analisi ecc. Questo tornare sul rapporto generico dell’analista con il suo og­ getto e sul luogo particolare che egli occupa nello spazio della produ­ zione scientifica viene ad essere ciò che distingue il tipo di riflessività che lei raccomanda da quella che sostengono Gouldner (1970), Gar­ finkel (196/), Mehan e Wood (1975) o Bioor (1976).

In Gouldner la riflessività è più uno slogan programmatico che un vero metodo di lavoro.2 Inoltre quello che occorre oggettivare

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non è (soltanto) l’individuo che conduce la ricerca nella sua idio­ sincrasia biografica, ma la posizione che egli occupa nello spazio accademico e le «deformazioni» inscritte nel punto di vista che egli può assumere in quanto si pone al di fuori del gioco. Quello che maggiormente manca nella tradizione americana, senza alcun dubbio per ragioni sociologiche ben precise - tra le quali possiamo citare lo scarso ruolo della filosofia nella formazione dei ricerca­ tori e la relativa debolezza di una tradizione politica critica - è un’analisi davvero critica della istituzione universitaria e più esat­ tamente della istituzione sociologica. La forma di riflessività che preconizzo è paradossale in quanto fondamentalmente antinarcisistica. L’assenza di fascino, l’andamento un po’ triste della vera riflessività sociologica è dovuto al fatto che essa ci fa scoprire qua­ lità generiche, condivise da tutti, banali, comuni. E nella scala dei valori intellettuali non c’è niente di peggio del comune e del me­ dio. Il che spiega in gran parte la resistenza che la sociologia, e in particolare una sociologia riflessiva non narcisistica, suscita tra gli intellettuali. Voglio dire che la sociologia della sociologia che so­ stengo io non è per niente un ritorno intimista e compiaciuto sulla persona privata del sociologo,3 e nemmeno una ricerca dello Zeit­ geist intellettuale che ispira il suo lavoro, sul genere dell’analisi di Parson proposta da Gouldner in The Coming Crisis of Sociology. Non mi riconosco nemmeno nella «riflessività» intesa come sorta di osservazione dell’osservatore, oggi di moda presso alcuni antropologi americani (per es. Marcus e Fisher, 1986; Geertz, 1987; Rosaldo, 1989) i quali, credendo di aver già esaurito ogni sorta di seduzione derivante dal lavoro «sul campo», sono passati a parlare più di sé che del loro oggetto di studio. Se diventa fine a se stessa, questa sorta di denuncia che con falso radicalismo attacca la scrittura etnografica come «poetica e politica» (Clifford e Marcus, 1986), può dar luogo a una forma di relativismo nichi­ lista appena mascherato, che temo sottenda anche altre forme del cosiddetto «programma forte» della sociologia della scienza, e che si colloca esattamente all’opposto di una scienza sociale autenti­ camente riflessiva. Ma adesso voglio arrivare a uno dei punti principali del mio disaccordo con Garfinkel e l’etnometodologia. Sono anch’io del parere che vi sia una esperienza primaria del sociale che, come hanno dimostrato Husserl e Schütz, si fonda su un rapporto di

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credenza immediata che ci porta automaticamente ad accettare il mondo. É un’analisi eccellente per quanto riguarda la descrizione, ma bisogna andare al di là della descrizione e porsi il problema delle condizioni di possibilità di questa esperienza che chiame­ remo «dossica», in quanto fondata sulla «doxa». Vedremo allora che la coincidenza tra strutture oggettive e strutture incorporate, che crea l’illusione della comprensione immediata, è un caso par­ ticolare nell’universo delle relazioni possibili con il mondo, quello dell’esperienza indigena. Il grande pregio dell’esperienza etnolo­ gica sta nel farci immediatamente capire che queste condizioni non sono universalmente soddisfatte, contrariamente a quanto suggerisce la fenomenologia quando invece universalizza (senza saperlo) una riflessione fondata sull’originario specifico rapporto del fenomenologo con la sua società. Devo anche brevemente accennare all’esistenza di un positivi­ smo degli etnometodologi che, nella loro lotta contro il positivismo statistico, accettano alcuni presupposti dell’avversario: dati con­ tro dati, registrazioni video contro statistiche (viene in mente Bachelard: «in generale gli ostacoli alla cultura scientifica si pre­ sentano sempre in coppia»). Chi si accontenta di registrare non si pone il problema del montaggio e accetta un dato concreto pre­ costruito che non necessariamente contiene in sé i princìpi della propria interpretazione. L’interazione tra un medico, un interno e una infermiera è sottesa da rapporti di potere che non sono sem­ pre immediatamente evidenti a una osservazione diretta.4 Ma non è tutto. Bisogna vedere sociologicamente l’analisi feno­ menologica della doxa come sottomissione indiscussa al mondo quo­ tidiano, non solo per stabilire che essa non è universalmente valida per qualsiasi soggetto che percepisca e agisca, ma anche per scoprire che quando si realizza in certe posizioni sociali, in particolare tra i dominati, essa rappresenta la forma più radicale di accettazione del mondo così com’è, la forma più assoluta di conformismo. Non esi­ ste adesione all’ordine stabilito più totale e completa di questo rap­ porto infrapolitico, di evidenza «dossica», che fa trovare naturali condizioni di esistenza che risulterebbero rivoltanti per chi, tro­ vandosi in altre condizioni di socializzazione, non le cogliesse attraverso categorie di percezione derivate da quel mondo.5 Si spiegano così numerose incomprensioni tra intellettuali e operai: questi ultimi possono trovare accettabili, persino «natu­

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rali», condizioni di oppressione e di sfruttamento che a uno che le guardi dall’esterno appaiono intollerabili; cosa che tuttavia non esclude forme pratiche di resistenza e la possibilità di una rivolta contro quelle condizioni (ipßod; Bourdieu, Darbel, Rivet e Sei­ bel, 1963). Ma non c’è niente che faccia vedere tanto chiaramente le implicazioni politiche della doxa come la violenza simbolica che viene esercitata sulle donne. Penso in particolare a quella sorta di agorafobia socialmente costituita che induce le donne a escludersi da attività e cerimonie pubbliche da cui esse sono di fatto escluse (secondo le dicotomie pubblico/maschile vs privato/femminile), in particolare nell’ambito della politica ufficiale. O che fa sì che esse pensino di poter affrontare situazioni simili solo a prezzo di una tensione estrema, commisurata allo sforzo necessario per superare il riconoscimento della loro esclusione, che è profondamente in­ scritta nel loro corpo (1990c). Un’analisi strettamente fenome­ nologica o etnometodologica porta quindi a ignorare i fondamenti storici e nello stesso tempo il significato politico di questo rap­ porto di aggiustamento immediato tra strutture soggettive e strut­ ture oggettive. Homo academicus parla solo di un caso particolare in un momento particolare: gli universitari francesi negli anni sessanta. Come si pos­ sono generalizzare le analisi che lei propone? Si potrebbero ritrovare per esempio le strutture del mondo universitario francese in un altro Paese e in un altro momento, diciamo negli Stati Uniti degli anni novanta? Uno degli intenti di questo libro è quello di dimostrare che la contrapposizione tra universale e unico, tra analisi nomotetica e descrizione idiografica, è una falsa antinomia. Il modo di pensare relazionale e analogico, che il concetto di campo facilita, permette di cogliere l’aspetto particolare all’interno della generalità e la ge­ neralità nell’aspetto particolare, e consente quindi di considerare il caso francese come «caso particolare del possibile», per dirla con Bachelard (1949). O meglio, le specificità storiche del campo universitario francese - per esempio l’alto grado di centralizza­ zione e di unificazione istituzionale, le barriere che definiscono accessi ben delimitati - ne fanno un terreno molto adatto per sco­ prire alcune leggi che regolano tendenzialmente il funzionamento di tutti i campi.

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Si può e si deve leggere Homo academicus come un programma di ricerca su qualsiasi campo universitario. In realtà, con un sem­ plice esperimento mentale, il lettore americano (o giapponese, bra­ siliano ecc.) può fare il lavoro di trasferimento e scoprire, attra­ verso un ragionamento analogico, un gran numero di cose sul proprio universo professionale. Naturalmente questo esperimento mentale non potrebbe sostituire uno studio approfondito del campo scientifico americano. Avevo pensato, alcuni anni fa, di af­ frontare uno studio del genere: avevo cominciato a raccogliere dati e documenti in occasione di un precedente soggiorno negli Stati Uniti. A quell’epoca pensavo anche di costituire una équipe con alcuni colleghi americani per tentare di cumulare i vantaggi del controllo teorico di un modello comparativo e di una familiarità immediata con il modello da analizzare. Credo che nel caso ame­ ricano un progetto simile sarebbe in qualche modo più facile da realizzare, perché esistono già dati più particolareggiati e imme­ diatamente accessibili sui professori, sui diversi corpi studente­ schi e sulle università, in particolare sulle gerarchie universitarie e sulle classificazioni dei dipartimenti. (Nel caso della Francia ho dovuto costruire con gran fatica un’intera batteria d’indicatori che non esistevano). Penso anche che si potrebbero ottenere già risultati importanti attraverso un’analisi secondaria di dati im­ mediatamente disponibili. La mia ipotesi è che vi si ritroverebbero le stesse opposizioni fondamentali, in particolare tra capitale universitario legato al po­ tere sugli strumenti di riproduzione e capitale legato alla notorietà scientifica, ma che quell’opposizione vi sarebbe espressa in forme diverse. Sarebbe più accentuata o lo sarebbe meno? La predispo­ sizione a perpetuarsi da parte del potere accademico privato su base scientifica è più rilevante in Francia o negli Stati Uniti ? Una risposta ce la potrebbe fornire solo un’analisi completa. Dalla quale potremmo inoltre ricavare una risposta empirica a un’altra domanda (periodicamente avanzata dalla sociologia americana del sistema universitario francese e dalla concomitante utilizzazione del modello americano come strumento di critica del sistema fran­ cese) e cioè se il sistema americano, che si presenta più competi­ tivo e «meritocratico», sia più favorevole all’autonomia scienti­ fica rispetto alle forze sociali di quanto non lo sia il sistema francese.

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Non si pone così anche il problema del rapporto tra universitari e potere costituito? Anche qui dovremmo disporre di misurazioni assai precise del rapporto che gli universitari americani intrattengono con le di­ verse istituzioni che fanno parte di quello che io chiamo il «campo del potere».6 In Francia ci sono indicatori quali l’appartenenza a commissioni amministrative ufficiali, comitati governativi, con­ sigli di amministrazione, sindacati ecc. Negli Stati Uniti penso che bisognerebbe fare riferimento ai comitati e ai rapporti di esperti scientifici, e soprattutto alle grandi fondazioni filantropiche e agli istituti ddpolicy research che svolgono un ruolo determinante, ben­ ché sconosciuto, nella definizione dei grandi orientamenti della ricerca. Naturalmente bisognerebbe prendere in considerazione un’altra differenza: la specificità della struttura del campo poli­ tico americano, caratterizzata, per dirla brevemente, dal federa­ lismo, dai conflitti tra i diversi livelli decisionali, dall’assenza di partiti di sinistra e di una forte tradizione di sindacati di opposi­ zione, da un ridimensionamento e declino del ruolo degli «intel­ lettuali pubblici» (Gans, 1989) ecc. Quelli che respingono le mie analisi come puramente francesi (ogni volta che vengo negli Stati Uniti c’è sempre qualcuno che si incarica di dirmi che «nella cultura di massa americana, il gusto non si differenzia secondo posizioni di classe», esprimendo un pa­ rere da faculty club di cui hanno fatto giustizia i lavori di DiMaggio e Useem, 1978) non si accorgono che la cosa più importante non sono tanto i risultati in sé quanto il procedimento col quale sono stati ottenuti. Le «teorie» sono programmi_di ricerca che richie­ dono non il «dibattito teorico» ma una attuazione praticaìngrado di confutarle o generalizzarle, 0 "mèglioAH specificare e differenziareTa'loro aspirazione aïlageneralifà. Husserl insegnava che ci si deve immergeré neTparficoIarë per potervi scoprire l’invariante e Koyré che aveva seguito il corso di Husserl, ha dimostrato che Galileo non ha avuto bisogno di ripetere all’infinito l’esperimento del piano inclinato per costruire il modello della caduta dei corpi. Un caso particolare ben costruito cessa di essere particolare. Un’altra critica, che era già stata mossa a La Distinction, è che i dati sono... datati.

Lo scopo della ricerca è scoprire delle invarianti trans-storiche o insiemi di relazioni tra strutture relativamente stabili e dure-

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voli. In questa prospettiva che i dati abbiano cinque o quindici anni non ha molta importanza. Ne è una prova il fatto che l’op­ posizione principale che emerge all’interno dello spazio delle di­ scipline scolastiche, tra facoltà di Scienze e Lettere da un lato e facoltà di Diritto e Medicina dall’altra, non è altro che la vecchia opposizione già descritta da Kant, in Der Streit der Facultäten, tra facoltà che dipendono direttamente dal potere temporale e de­ vono la loro autorità a una sorta di delega sociale e facoltà che hanno in sé il proprio fondamento e la cui autorità poggia sulla scientificità (tipica di questa categoria la facoltà di Scienze).7 La miglior prova della validità generale delle proposte scienti­ fiche che ho avanzato nell’ambito dell’educazione o dell’econo­ mia dei consumi culturali sta nelle conferme che continuano a ricevere da ricerche empiriche condotte in altri tempi e in altri luoghi. Recenti indagini del ministero della Cultura confermano nella sostanza le conclusioni cui ero giunto venticinque anni prima (con grande scandalo dello stesso ministero) nei miei studi sul pub­ blico dei musei, sulla pratica della fotografia e delle belle arti ecc. D’altra parte non passa settimana senza che sia pubblicato un libro o un articolo in cui si dimostra che i meccanismi di ripro­ duzione, che io avevo descritto negli anni sessanta, contro l’idea dominante del momento (in particolare il mito tenace dell’Ame­ rica come paradiso della mobilità sociale), funzionano anche in paesi diversi come gli Stati Uniti, la Svezia o il Giappone.8 Tutto ciò sembra suggerire che, se la Francia è una eccezione, come spesso è stato detto a proposito del mio lavoro, forse lo è soprattutto in quanto è stata studiata in maniera eccezionale, cioè non conformista... Infatti, numerosi commentatori di tendenze assai diverse, per esem­ pio DiMaggio (1979}, Collins (1981), Jenkins (1982), Sulkunen (1982), Connell (1987), Aronowitz e Giroux (1987), Wacquant (1987), Gartman (1989), hanno rimproverato ai suoi modelli di es­ sere troppo statici e « chiusi », di lasciare poco spazio alla « resistenza », al cambiamento e all’irruzione della storia. Homo academicus non risponde forse in parte a questa istanza proponendo l’analisi di una rottura politica e sociale, la contestazione del maggio ’68, in cui si cerca di sciogliere l’opposizione tra riproduzione e trasformazione e tra storia delle strutture e storia degli eventi?

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Non mi è difficile ammettere che i miei scritti possano conte­ nere formulazioni infelici che hanno potuto dar adito alle inter­ pretazioni erronee di cui sono stati oggetto. (Devo anche confes­ sare che in alcuni casi trovo certe critiche terribilmente superficiali e non posso fare a meno di pensare che i loro autori siano stati in qualche modo vittime dei titoli dei miei libri: penso in particolare a La Reproduction). Credo anche che alcune definizioni un po’ provocatorie, nate dalla volontà di rompere con l’ideologia della «scuola liberatrice» possano sembrare ispirate a quello che io chiamo «il funzionalismo del peggio». In realtà ho denunciato parecchie volte la «destoricizzazione» cui può portare un punto di vista strettamente strutturalista (per es. 1968b, 1980] e 1987a, pp. 56 sg.). Allo stesso modo non vedo come possano affermarsi dei rapporti di dominio senza suscitare una forma di resistenza. I dominati di qualsiasi universo sociale sono sempre in grado di esercitare una certa forza: l’appartenenza a un campo implica per definizione la capacità di produrvi degli effetti (se non altro pro­ vocando reazioni di esclusione da parte di coloro che vi occupano posizioni dominanti). La logica dell’aggiustamento delle disposizioni alla condizione permette di capire come nei dominati ci sia più sottomissione (e meno sovversione o resistenza) di quanto non credano quelli che ) vedono la condizione dei dominati con occhi (o habitus) di domi­ nanti o di dominanti-dominati, cioè d’intellettuali. Questo non si­ gnifica tuttavia negare che esistano disposizioni a resistere e uno dei compiti della sociologia sta nell’esaminare a quali condizioni tali disposizioni si vengano socialmente a costituire, quando ven­ gano effettivamente innescate e quando possano essere politicamente efficaci. Ma quando le teorie della resistenza si orientano verso una sorta di populismo spontaneista, spesso dimenticano che i dominati non sfuggono a\V antinomia della dominazione-, per esempio, se ci si oppone al sistema scolastico col menefreghismo o la delinquenza, ci si ritrova esclusi e bloccati nella propria con­ dizione di dominati; se invece si accetta di essere assimilati assi­ milando la cultura scolastica si finirà per essere «recuperati» dall’istituzione. I dominati sono spesso condannati a simili dilemmi, a scegliere cioè tra due soluzioni entrambe negative ciascuna da un diverso punto di vista (la stessa cosa vale in un certo senso per le donne o le etnie dominate o stigmatizzate).



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Storicamente, e su scala collettiva, avremo da un lato l’esaltazione o la canonizzazione della «cultura popolare», il cui limite è il pro letkult, e dall’altra quella che io chiamo la «populi-cultura», cioè l’insieme delle varie politiche di promozione culturale che mirano a far accedere i dominati alla cultura dominante o per lo meno a una forma inferiore di quella. E una questione complicata e con­ troversa, e non è difficile capire come mai spesso i dibattiti che suscita la dicano più lunga su coloro che vi partecipano - sul loro rapporto con la scuola, la cultura e il «popolo» - che sul loro oggetto palese.9 Di certe esaltazioni populistiche della «cultura popolare» po­ tremmo dire che sono le «pastorali» del nostro tempo. Come una pastorale (cfr. Empson, 1935), operano un rovesciamento fittizio dei valori dominanti e producono una finta unità del mondo sociale, confermando così i dominati nella loro subordinazione e i dominanti nel loro dominio. In quanto celebrazione invertita dei princìpi che determinano l’ordine sociale, la pastorale conferisce ai dominati una nobiltà il cui principio risiede - benché essa cer­ chi di farlo dimenticare - nell’adeguamento dei dominati alla loro condizione, nella loro sottomissione all’ordine costituito e ai princìpi di gerarchizzazione che lo fondano (penso al culto del­ l’argot e più generalmente della lingua popolare, all’esaltazione passatista dei contadini di una volta, o, su un altro piano, alla descrizione esaltata del milieu della malavita o al culto del rap dei nostri giorni).

Il suo rifiuto della nozione di «cultura popolare» (19801, p. 15) è stato in effetti denunciato da alcuni come élitario o politicamente conservatore... Accusarmi, come qualcuno ha fatto, di avallare la differenza tra cultura popolare e cultura dotta, insomma di ratificare la su­ periorità della cultura dominante (o il contrario, a seconda che si voglia essere «rivoluzionario» o conservatore), significa ignorare la distinzione weberiana tra giudizio di valore e riferimento ai va­ lori, cioè scambiare per un giudizio di valore dato dallo studioso quello che di fatto è un giudizio che fa riferimento a valori che, nella realtà oggettiva, sono messi in atto dagli agenti che egli stu­ dia. Questa è una delle principali difficoltà del discorso sociolo­ gico. La maggior parte dei discorsi correnti sul mondo sociale si

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propongono non tanto di dire che cosa siano le realtà chiamate in causa (lo Stato, la religione ecc.) ma che valore abbiano, vogliono dare cioè dei giudizi di valore. Il discorso scientifico di semplice enunciazione viene tendenzialmente percepito come ratifica o denuncia. Mi è stato anche spesso rimproverato di magnificare la cultura dominante (fraintendendo la nozione di legittimità) o al contrario di celebrare lo stile di vita popolare (per esempio nelle mie descrizioni dei pasti popolari). Credere che, per far sparire la dicotomia esistente nella realtà tra cultura dotta e cultura popo­ lare, sia sufficiente rifiutarsi di riconoscerla nel discorso vuol dire credere alla magia. E utopia o moralismo. (Neanche Dewey, per quanto simpatiche possano essere le sue prese di posizione nel campo dell’arte o dell’educazione, sfugge a quella specie di mora­ lismo ottimista favorito dall’epoca e dalla tradizione del suo Paese). Qualunque sia il mio personale parere su questa dicoto­ mia, essa esiste nella realtà, sotto forma di gerarchie inscritte sia nell’oggettività del funzionamento sociale (vedi per esempio le sanzioni del mercato scolastico) sia nella soggettività dei sistemi di classificazione dei gusti che, come ho dimostrato, e come cia­ scuno (in pratica) già sa, sono a loro volta gerarchizzati. Negare verbalmente le dicotomie valutative vuol dire esporre una morale invece di una politica. I dominati del campo intellet­ tuale e artistico hanno sempre praticato questa forma radicai chic che consiste nel riabilitare le culture socialmente inferiori o le forme minori di cultura (come ha fatto per esempio Cocteau, che all’inizio del secolo difende il jazz). Non serve a niente denunciare verbalmente la gerarchia: bisogna lavorare per cambiare realmente le condizioni che la fanno esistere, sia nella realtà, sia nei cervelli.

Lei senz ’altro non ignora che ci sono letture di primo grado, e certo piuttosto semplicistiche di La Distinction e L’Amour de l’art (1979a; Bourdieu e Darbel, 19669 che vedono nel sociologo una sorta di fili­ steo in guerra contro l’arte o la filosofia. Se potessi esprimermi in termini così pretenziosi, direi che l’iconologo vi viene preso per un iconoclasta. Non potrei negare, e sono del tutto sincero, che una certa iconoclastia di credente disincantato abbia potuto facilitare la sospensione della credenza, che è il presupposto di ogni analisi scientifica di pratiche culturali (in particolari filosofiche o artistiche), e della credenza che esse

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implicano. Ma le rotture clamorose e le provocazioni aggressive - che certi artisti hanno fatto diventare «azioni» artistiche - sono assai spesso manifestazioni di una fede delusa che si capovolge. Quel che è certo è che il controllo delle pulsioni iconolatriche o iconoclaste è la condizione che consente il progresso verso la conoscenza scientifica della pratica e dell’esperienza artistica. Il nichilismo artistico, come pure la teologia negativa, è ancora una maniera di sacrificare al culto del Dio-Arte (a dimostrazione di ciò potrei per esempio rilevare come le folgorazioni e le imprecazioni di Nietzsche sulla cultura e l’educazione, per quanto libere e cla­ morose possano apparire, restino sempre racchiuse entro i limiti connessi alle loro condizioni sociali di produzione, cioè alla posi­ zione di Nietzsche entro lo spazio sociale e, più esattamente, en­ tro lo spazio universitario). Detto questo, credo che una certa rottura con le forme più ingenue della credenza artistica sia la condizione di accesso alla stessa possibilità di porre l’arte e la cultura come oggetti di ana­ lisi. Per questo la sociologia dell’arte scandalizzerà sempre i cre­ denti più ingenui o i farisaici difensori della grande cultura, che spesso sono ben lontani sia dalla spigliata disinvoltura dell’aristo­ cratico appassionato d’arte, sia dalla provocatoria libertà dell’ar­ tista di avanguardia. Benché io mi possa sentire più vicino al secondo, forse per omologia di situazione, questo non significa che io prenda posizione nel campo artistico propriamente detto (alcuni anni fa ho infatti rifiutato di collaborare con un «pittore concettuale», Alain Kérily, che ha poi raggiunto una certa noto­ rietà a New York, e che voleva presentare in una mostra una tabella statistica tratta dal mio libro L’Amour de l’art con annessa la registrazione di un dialogo tra l’artista e il sociologo). Anche se, come «dilettante», posso avere delle preferenze per alcuni pittori impegnati in questo campo (il che significa, per chi ne dubitasse, che non sono indifferente e ancor meno sistematicamente ostile all’arte, come viene talvolta suggerito), io non prendo posizione in questo campo, prendo invece per oggetto lo spazio delle posi­ zioni da cui è costituito questo campo e che io descrivo come luogo di produzione del feticcio che è l’opera d’arte, cioè come universo oggettivamente orientato a produrre la credenza nell’opera d’arte. (Questo spiega l’analogia tra campo artistico e campo religioso, che colpisce tutti gli osservatori. Non c’è niente che assomigli

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tanto a un pellegrinaggio in Terrasanta quanto uno di quei viaggi a Salisburgo che i tour operators hanno organizzato a migliaia in occasione dell’anno mozartiano). 10 E allora, come ho già fatto per il campo letterario ai tempi di Flaubert e per il campo artistico ai tempi di Manet, posso interrogare la relazione tra spazio delle po­ sizioni occupate nel campo dai diversi autori e spazio delle rispet­ tive opere (considerandone i temi, la forma, lo stile ecc.). Insomma, sia a livello dei produttori che dei consumatori, noto che le prese di posizione artistica (le preferenze, i gusti) corri­ spondono alle posizioni occupate dai primi nel campo della pro­ duzione e dai secondi nello spazio sociale. Questo significa che tutte le forme di fede artistica, fede dei semplici o pietà farisaica, o persino la fede liberata dalle aderenze al ritualismo culturale (a cui può portare certa graffiarne sociologia...) presuppongono condizioni sociali di possibilità. E un colpo duro per la rappre­ sentazione mistica dell’«incontro» artistico, per il culto primario dell’arte e dell’artista, con i suoi luoghi sacri, i riti obbligati, le devozioni canoniche. E duro soprattutto per i «poveri bianchi» della cultura che oggi difendono con accanimento le ultime diffe­ renze, la cultura umanistica, il latino, l’ortografia, i classici, l’Occidente ecc. Ma io non ci posso fare niente; posso solo sperare che la critica, munendosi dell’analisi sociologica, possa favorire una esperienza dell’arte non più ingombrata dal ritualismo o dal­ l’esibizionismo.

Dunque il suo lavoro non è una «condanna generale dell’estetica come puro segnale di classe e come consumo ostentatorio » (Jameson, 1990, P- T32> nonché Burger, 1990; Gamham, 1986) né condanna, come spesso le è stato rimproverato, a un relativismo livellatore?

Ovviamente no. Il campo artistico è il luogo di un processo cu­ mulativo, oggettivamente orientato, al termine del quale vengono generate opere che, di epurazione in epurazione, di raffinamento in raffinamento, giungono a tali livelli di compiutezza che le di­ stinguono nettamente dalle forme di espressione artistica che non sono il risultato di una simile storia. (Avevo scritto una postfa­ zione rimasta inedita a La Distinction sul problema del relativismo culturale, che poi però ho eliminato dal libro per timore di an­ nullare gli effetti della messa in discussione della credenza fetici­ stica che vi avevo affrontato).

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Se possiamo dire che i dipinti di avanguardia sono superiori alle croste dei mercatini di periferia è tra l’altro perché queste ultime sono un prodotto senza storia (o il prodotto di una storia nega­ tiva, quella della divulgazione della grande arte dell’epoca prece­ dente), mentre le altre diventano accessibili solo se si padroneg­ gia la storia relativamente cumulativa della produzione artistica anteriore, cioè la serie illimitata di superamenti che hanno por­ tato allo stato presente dell’arte - con la poesia come «antipoe­ sia», per esempio (il che comporterà per forza di cose delle diffe­ renze, che si possono repertoriare, nella forma stessa delle opere). In questo senso possiamo dire che la «grande» arte è più univer­ sale. Ma le condizioni di appropriazione di quest’arte universale non sono universalmente distribuite. In L’Amour de l’art ho di­ mostrato che l’accesso alla «grande» arte non è una questione di virtù o di dono individuale, ma di eredità culturale e di educa­ zione (Bourdieu e Darbel, 1966, p. 162). L’accesso degli esteti all’universalità è il prodotto di una condizione di privilegio: il mo­ nopolio dell’universale ce l’hanno loro. Noi possiamo riconoscere che l’estetica di Kant è vera, ma solo se la consideriamo come fe­ nomenologia dell’esperienza estetica di coloro che sono il prodotto della o/okr], della disponibilità di tempo, di una certa distanza dalle necessità economiche e dalle urgenze pratiche. Questa con­ statazione ci porta a una politica contraria sia all’«assolutismo» dei difensori della cultura costituita come privilegio di pochi eletti, sia al relativismo di quelli che, trascurando di inscrivere nella loro teoria e nella loro pratica differenze inscritte nella realtà, ratificano il fatto puro e semplice della mancanza di cultura dei più. Io voglio parlare di una politica che miri a universalizzare le condizioni di accesso a ciò che il presente storico offre di più universale.

Ma quali possono essere le basi sociali di una simile politica? Potremmo mai aspettarci che quelli che detengono il monopolio dell'universale facciano qualcosa per distruggere il loro privilegio? Questa è una delle maggiori contraddizioni di qualsiasi politica culturale. Non finiremmo più se ci mettessimo a individuare tutte le strategie della malafede attraverso le quali i privilegiati della cultura tendono a perpetuare i loro privilegi, spesso dando a ve­ dere di volerli sacrificare: come quando deplorano a parole la man­

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canza di cultura (imputata oggi al supposto fallimento del sistema educativo) o tentano di riabilitare, «recuperandole», forme cultu­ rali ritenute inferiori o di promuovere azioni, spettacolari quanto inefficaci, mirate a universalizzare le esigenze culturali senza uni­ versalizzare le condizioni che permettano di soddisfarle. Proprio quando si tratta di cultura, di arte o di scienza, per non parlare di filosofia, cioè di ciò che è oggetto di un interesse diretto da parte di pensatori e studiosi, è necessario esercitare una vigi­ lanza riflessiva particolarmente attenta contro le rappresentazioni spontanee che insorgono nel mondo intellettuale. Spetta alla so­ ciologia della cultura, dell’arte, della scienza e della filosofia, in­ somma alla sociologia di tutte le opere culturali con pretese uni­ versali, realizzare la frattura, sempre dolorosa sia per chi la effettua sia per gli altri, con la doxa degli studiosi, con tutte le «ideologie professionali» dei professionisti del pensiero, con le loro fedi e le loro intime convinzioni. E la ragione per cui ho dato a questi ar­ gomenti privilegiati una sorta di priorità assoluta nella mia ricerca. Ma Homo academicus non è solo un esercizio di riflessività metodica. In questo lavoro Lei si confronta anche col problema delle crisi storiche, si chiede se la scienza sociale possa rendere conto almeno parzialmente di qualcosa che può apparire come una congiuntura contingente, un avvenimento o una serie di avvenimenti singolari, af­ frontando più in generale la questione dei rapporti tra strutture sociali e cambiamenti storici.

In Homo academicus cerco di render conto nella maniera più completa possibile della crisi del maggio ’68 e nello stesso tempo di proporre un modello generale delle crisi o delle rivoluzioni. Nel corso dell’analisi di quell’avvenimento specifico ho scoperto di­ verse caratteristiche che mi sono parse piuttosto generali. Ho dap­ prima mostrato che la crisi interna all’università era stata prodotta dall’incontro di due crisi parziali provocate da processi evolutivi separati e autonomi. Da un lato una crisi in seno al corpo univer­ sitario innescata dal rapido e massiccio aumento del corpo docente con tutte le tensioni tra le diverse categorie d’insegnanti, tra do­ minanti e dominati, professori e assistenti, che ne sono derivate. Dall’altro una crisi del mondo studentesco dovuta a tutta una serie di fattori, sovrapproduzione di laureati, svalutazione dei titoli di studio, mutamenti nei rapporti tra ragazzi e ragazze ecc. Queste

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crisi parziali, locali, hanno finito per convergere, creando una base per alleanze congiunturali. La crisi allora si è allargata, lungo assi ben definiti, in particolare verso le istituzioni di produzione sim­ bolica (la radio e la televisione, la Chiesa ecc.), cioè in tutti i mondi in cui si riscontrava una conflittualità strisciante tra i possessori della legittimità del discorso e i nuovi pretendenti. Quindi non ho mai ignorato le contraddizioni e i conflitti di cui è teatro il campo universitario e che sono alla base dei conti­ nui cambiamenti attraverso i quali perpetua se stesso, restando più immutato di quanto non appaia a prima vista. La nozione stessa di campo presuppone il superamento della contrapposizione convenzionale tra struttura e storia, tra conservazione e trasfor­ mazione: i rapporti di potere costitutivi della struttura del campo fondano sia la resistenza al dominio che la resistenza alla sovver­ sione, come si è visto chiaramente nel maggio ’68. La circolarità è solo apparente e basta entrare nel dettaglio di una particolare congiuntura storica per vedere come le lotte, di cui si può rendere conto solo analizzandone le posizioni nella struttura, determinano la trasformazione di quella struttura.

Potrebbe chiarire, in termini più generali, il posto della storia nel suo pensiero? Non la considera forse uno degli strumenti privilegiati della riflessività? E una domanda estremamente complessa, alla quale ovviamente posso rispondere solo in termini molto generali.11 Dirò innanzi tutto che la separazione tra sociologia e storia mi pare disastrosa e totalmente priva di giustificazione epistemologica: ogni socio­ logia deve essere storica e ogni storia sociologica. Una delle fun­ zioni della teoria dei campi da me proposta è proprio quella di far sparire la contrapposizione tra riproduzione e trasformazione, tra statica e dinamica, o tra struttura e storia. Come ho cercato di dimostrare empiricamente nella mia ricerca sul campo letterario francese al tempo di Flaubert e sul campo artistico all’epoca di Manet, non possiamo cogliere la dinamica di un campo se non attraverso un’analisi della sua struttura e, nello stesso tempo, non possiamo cogliere questa struttura senza un’analisi genetica della sua costituzione e delle tensioni tra le posizioni che lo costitui­ scono o tra quel campo nel suo insieme e altri campi, in partico­ lare il campo del potere.

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L’arbitrarietà della distinzione tra storia e sociologia è parti­ colarmente visibile al livello più alto della disciplina: penso che i grandi storici siano anche grandi sociologi. Ma, per varie ragioni, gli storici si sentono meno tenuti dei sociologi a forgiare concetti, .1 costruire modelli o produrre discorsi teorici o metateorici più o meno pretenziosi e possono nascondere sotto un modo di racconlare elegante la loro rinuncia, che spesso va di pari passo con la discrezione. Al contrario, troppo spesso la «macrostoria» cui I inno ricorso molti sociologi quando si occupano di processi di ra­ zionalizzazione, di burocratizzazione, di modernizzazione ecc. continua a funzionare come uno degli ultimi rifugi di una filosolia sociale appena mascherata. Ci sono naturalmente molte ecce­ zioni, e per fortuna, negli ultimi anni sono cresciute di numero. Penso a lavori come quelli di Charles Tilly (1990) sulla formazione degli Stati europei, che hanno cercato di sfuggire al trabocchetto dell’evoluzionismo più o meno apertamente funzionalista e hanno aperto la strada a una sociologia realmente genetica grazie a un uso teoricamente ispirato del metodo comparativo. Ma ciò di cui abbiamo bisogno è una storia strutturale, praticata di rado, che taccia apparire ogni successivo stadio della struttura esaminata come prodotto delle lotte precedenti per mantenere e trasformare quella struttura e nello stesso tempo come principio delle trasfor­ mazioni che ne derivano, attraverso le contraddizioni, le tensioni . LA LOGICA DEI CAMPI

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essere analizzati insieme e considerati come «due traduzioni della stessa frase», secondo l’espressione di Spinoza. Detto questo, in condizioni di equilibrio, lo spazio delle posizioni tende a preva­ lere sullo spazio delle prese di posizione. Le rivoluzioni artistiche sono il risultato della trasformazione dei rapporti di potere che costituiscono lo spazio delle posizioni artistiche, trasformazione a sua volta resa possibile dall’incontro tra l’intenzione sovversiva di una frazione di produttori e le aspettative di una frazione del loro pubblico, cioè da una trasformazione dei rapporti tra il campo intellettuale e il campo del potere (1987g). Ciò che è vero in campo artistico vale anche per gli altri campi. Si può osservare la stes­ sa corrispondenza tra le posizioni nel campo universitario alla vigilia del maggio ’68 e le posizioni prese in occasione di que­ gli avvenimenti, come dimostro in Homo academicus, o ancora, tra le posizioni oggettive delle banche in campo economico e le strategie che esse attuano nella pubblicità o nella gestione del personale ecc.

In altri termini, il campo è una mediazione fondamentale tra con­ dizioni economiche e sociali e pratiche di coloro che ne fanno parte?

I condizionamenti che gravano sugli agenti che si trovano in un determinato campo (intellettuali, artisti, politici o industriali edili) non agiscono mai direttamente su di loro, ma sempre attraverso la mediazione specifica costituita dalle forme e dalle forze del campo, cioè dopo aver subito una ristrutturazione (o, se si prefe­ risce, una rifrazione) che sarà tanto più rilevante quanto più sarà autonomo il campo, quanto più esso sarà capace cioè di imporre la sua logica specifica, prodotto cumulativo di una storia partico­ lare. Detto questo, si potrà comunque osservare tutta una gamma di omologie strutturali e funzionali tra il campo della filosofia, il campo politico, il campo letterario ecc. e la struttura dello spazio sociale: ognuno di essi ha i propri dominanti e dominati, le sue lotte per la conservazione o la sovversione, i suoi meccanismi di riproduzione ecc. Ma ognuna di queste caratteristiche riveste in ogni campo una forma specifica, irriducibile (una omologia che potrebbe essere definita come una somiglianza nella differenza). Le lotte all’interno del campo filosofico, per esempio, sono sem­ pre surdeterminate e tendono a funzionare secondo una duplice logica. Hanno infatti delle implicazioni politiche in virtù dell’omo-

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logia eli posizioni che si stabilisce tra questa o quella scuola filo­ sofica e questo o quel gruppo politico o sociale, all’interno dello spazio sociale considerato nel suo insieme.22 Una terza proprietà generale dei campi consiste nel loro essere sistemi di relazioni indipendenti dalle popolazioni che da tali rap­ porti sono definite. Quando parlo di campo intellettuale so bene che al suo interno troverò delle «particelle» (per un momento fac­ ciamo come se si trattasse di un campo fisico) che risultano do­ minate da forze di attrazione, di repulsione ecc. come in un campo magnetico. Parlare di campo significa considerare prioritario quel sistema di rapporti oggettivi rispetto alle particelle stesse. Ri­ prendendo la definizione di un fisico tedesco, potremmo dire che l’individuo, come l’elettrone, è un Ausgeburt des Felds, un’ema­ nazione del campo. Questo o quel particolare intellettuale, que­ sto o quel particolare artista esiste in quanto tale solo perché c’è un campo intellettuale o artistico. (Si verrebbe così a risolvere l’eterna questione cara agli storici dell’arte concernente il mo­ mento in cui avviene il passaggio dall’artigiano all’artista: quesito che, posto in questi termini, è pressoché privo di senso perché quella transizione è avvenuta progressivamente, via via che si co­ stituiva un campo artistico in cui avrebbe potuto pervenire all’esi­ stenza qualcosa di simile a un artista).23 La nozione di campo ci deve ricordare che il vero oggetto di una scienza sociale non è l’individuo, 1’«autore», anche se non è possibile costruire un campo se non a partire dagli individui, per­ ché l’informazione necessaria per l’analisi statistica è generalmente legata a precisi individui o istituzioni. Ma è il campo che deve essere al centro delle operazioni di ricerca. Il che non vuol dire affatto che gli individui siano delle pure «illusioni», che non esistano. La scienza però li costruisce come agenti, e non come individui biologici, come attori o soggetti; tali agenti sono social­ mente costituiti come attivi e sono in grado di agire sul campo in quanto possiedono le proprietà necessarie per esservi efficienti, per produrvi degli effetti. Anzi proprio partendo dalla conoscenza del campo in cui sono inseriti si potrà capire meglio in che cosa consista la loro singolarità, la loro originalità, il punto di vista che hanno in quanto occupano una posizione (in un campo) a partire dalla quale si costituisce la loro particolare visione del mondo e del campo stesso...

2. LA LOGICA DEI CAMPI

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Ciò si spiega con ilfatto che in ogni momento vi è una sorta di di­ ritto di accesso, imposto da ogni campo, che definisce il diritto a fame parte, selezionando alcuni agenti rispetto ad altri.

Il diritto di entrare in un campo è legittimato dal fatto di pos­ sedere una particolare configurazione di proprietà. Uno degli scopi della ricerca consiste nell’identificare queste proprietà attive, que­ ste caratteristiche efficienti, che sono forme di capitale specifico. Ci si ritrova così davanti a una sorta di circolo vizioso ermeneu­ tico: per costruire il campo si devono identificare le forme di ca­ pitale specifico che vi risultano efficienti, e per costruire queste forme di capitale specifico si deve conoscere la logica specifica del campo. C’è un incessante va e vieni, lungo e difficile, nel processo della ricerca.24 Dire che la struttura del campo - come si può vedere, ho co­ struito progressivamente una definizione del concetto - è definita dalla struttura della distribuzione delle specie particolari di capi­ tale che vi sono attive, è come dire che quando ho raggiunto una conoscenza adeguata delle forme di capitale, sono in grado di dif­ ferenziare tutto quello che vi è da differenziare. Per esempio, e questo è uno dei princìpi che mi hanno guidato nel mio lavoro sui professori universitari, non ci si può accontentare di un modello esplicativo che rimanga incapace di differenziare persone, o me­ glio, posizioni che la percezione comune dell’universo specifico contrappone in maniera molto netta; è allora necessario chiedersi se non si siano dimenticate alcune variabili che consentirebbero di distinguerle. (Parentesi: la percezione comune in questo caso è rispettabilissima: basta essere sicuri che la si faccia intervenire nell’analisi solo in maniera cosciente e ragionata, e che se ne con­ trolli la validità empirica, e non come fanno certi sociologi che la utilizzano inconsciamente, magari per costruire quella sorta di tipologie dualiste che ho criticato all’inizio di Homo academicus, come quella dell’«intellettuale universale» contrapposto all’intel­ lettuale «locale»). Ultimo punto: gli agenti sociali non sono «particelle» trainate e spinte meccanicamente da forze «esterne».25 Sono piuttosto por­ tatori di capitale e, a seconda della loro traiettoria e della posi­ zione che occupano nel campo in virtù della dotazione in capitale (volume e struttura) di cui dispongono, possono avere una pro­ pensione a orientarsi attivamente, o verso la conservazione della

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distribuzione del capitale, o verso la sovversione di quella distri­ buzione. Ovviamente le cose non sono così semplici, ma io penso che si tratti di una proposta molto generale, valida per lo spazio sociale nel suo insieme, che tuttavia non presuppone che tutti i detentori di un capitale esiguo siano necessariamente rivoluzio­ nari e tutti i detentori di un capitale cospicuo siano automaticamente conservatori. L’universo sociale, almeno nelle società avanzate, è costituito da diversi campi differenziati che possono avere proprietà costanti (cosa che giustifica il progetto di una teoria generale dei campi) e proprietà variabili, che traggono origine dalla loro logica e dalla loro storia spe­ cifica (cosa che richiede un’analisi genetica e comparativa di ciascuno di essi). Come si articolano questi diversi campi gli uni rispetto agli altri? A rigor di logica a una domanda simile non dovrei rispondere, perché è troppo difficile e rischierei di dire cose troppo semplici­ stiche, e quindi di ridestare il pensiero in termini di «istanze», (sempre presente sullo sfondo), di «articolazione» ecc. cosa che ha permesso a certi marxisti di dare soluzioni verbali a questioni che solo l’analisi empirica potrebbe risolvere, affrontando caso per caso. Credo infatti che non ci sia una legge trans-storica dei rapporti tra i campi. Ovviamente è difficile non ammettere che nelle società industriali il campo economico eserciti effetti parti­ colarmente imponenti. Ma dovremo allora accettare il postulato della determinazione (universale) esercitata, «in ultima istanza», dall’economia ? Prendo un esempio che credo possa far capire fino a che punto la questione sia complicata: è l’esempio del campo artistico, che ho studiato a fondo. A conclusione di un processo iniziato nel Quattrocento, il campo artistico giunge, alla fine del secolo xix, all’autonomia: si è completamente affrancato dalla di­ pendenza da committenti e produce da sé il proprio mercato, che del resto è un mercato differito. Si è liberato da committenti, me­ cenati, accademie. Oggi invece vediamo ricomparire il mecenate, pubblico o privato, la dipendenza diretta, e viene messa in dub­ bio l’idea di un processo lineare e infinito di autonomizzazione. Penso a un pittore contemporaneo, Hans Haacke, che trasforma prese di posizione artistiche in attentati all’autonomia della crea­ zione artistica. Per esempio, per una mostra al Museo Guggenheim

2. LA LOGICA DEI CAMPI

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presenta un quadro sulle origini delle risorse finanziarie della fami­ glia Guggenheim: l’amministratore del museo può solo scegliere tra l’essere buttato fuori o dare le dimissioni, o rendersi ridicolo agli occhi di tutti gli artisti evitando di esporre. Basta quindi che un artista restituisca all’arte una funzione perché abbia subito delle noie... Si scopre così che l’autonomia raggiunta dagli artisti, dopo essere stati originariamente dipendenti per quanto riguarda il contenuto e la forma delle loro opere, implicava una sottomis­ sione alla necessità: gli artisti avevano fatto di necessità virtù arro­ gandosi il controllo assoluto della forma, ma a costo di una rinuncia altrettanto assoluta alla funzione. Appena vogliono di nuovo esercitare una funzione, soprattutto critica, riscoprono i limiti della loro autonomia. Come si può vedere da questo esempio, i rapporti tra i campi - il campo artistico e il campo economico nel caso specifico - non sono mai definiti una volta per tutte, nemmeno nelle tendenze generali della loro evoluzione. E il pregio principale della nozione sta nell’obbligare a chiedersi, per ciascun campo, che limiti abbia, come si articoli con altri campi ecc. Questo però non significa che ci si trovi nel vuoto teorico di un empirismo positivista. Abbiamo a disposizione tutto un sistema di domande ricorrenti da porre alla realtà.

In un recente numero di «Actes de la recherche en sciences socia­ les» dedicato all’«economia della casa», cioè all’insieme di spazi sociali di cui si deve tener conto per capire la produzione e la circola­ zione di un bene economico particolare come quello della casa indi­ viduale, lei ha ritenuto necessario esaminare la genesi delle politiche statali che, almeno in questo caso (ma probabilmente anche in ter­ mini più generali) hanno influenzato in maniera piuttosto diretta il funzionamento del mercato. E ha quindi abbozzato una teoria dello Stato come una sorta di metacampo...lb

Infatti a me pare che, appena ci si mette a guardare da vicino che cosa succede in quello che chiamiamo « Stato», si facciano spa­ rire la maggior parte dei problemi scolastici che gli scholars, arm­ chair marxists e altri sociologi speculativi si sono posti a proposito dello Stato, nozione quasi metafisica che dobbiamo riuscire a mandare in frantumi se vogliamo «arrivare alle cose stesse», come diceva Husserl a proposito di tutt’altre cose. Penso per esempio

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all’alternativa teorica classica tra «corrispondenza» (o dipendenza) e «autonomia». Si pensa allo Stato come se fosse una realtà ben definita, ben delimitata e unitaria, capace di entrare in rapporto di esteriorità con altre forze esterne, a loro volta ben definite (come, per esempio, nel caso della Germania, che ha fatto scor­ rere un bel po’ di inchiostro con il famoso Sonderweg, la grande aristocrazia terriera dei Junkers o la grande borghesia industriale, oppure, nel caso dell’Inghilterra, la borghesia urbana dei grandi imprenditori e l’aristocrazia provinciale). Di fatto quello che poi concretamente riscontriamo è un insieme di campi burocratici o amministrativi (che prendono spesso la forma concreta di com­ missioni) all’interno dei quali agenti e gruppi di agenti governa­ tivi o non governativi lottano, di persona o per procura, per quella forma particolare di potere che è il potere di controllare una sfera particolare di pratiche (come per esempio la produzione di case individuali o di abitazioni collettive) tramite leggi, regolamenti, provvedimenti amministrativi (sovvenzioni, autorizzazioni ecc.), insomma tutto ciò che facciamo rientrare sotto il nome di politica {policy'). Volendo a tutti i costi mantenere questa denominazione, lo Stato sarebbe allora un insieme di campi di forza in cui si svol­ gono lotte che come posta in gioco hanno (modificando un po’ la celebre definizione di Max Weber) il monopolio della violenza sim­ bolica legittima-.21 cioè il potere di costituire e imporre, come uni­ versale e universalmente applicabile nell’area di competenza di una nazione, vale a dire entro i limiti delle frontiere di un paese, un insieme comune di norme coercitive. Questi campi, come ho dimostrato nel caso della politica degli alloggi in Francia negli anni settanta e ottanta, sono il luogo in cui si scontrano forze che appartengono sia al settore privato (banche e banchieri, imprese edili e costruttori ecc.) che al settore pub­ blico (ministeri, servizi all’interno di questi ministeri, «corpi», come, nel caso specifico, gli ispettori di finanza e gli ingegneri minerari), cioè dei sottouniversi a loro volta organizzati in campi, e nel contempo uniti e divisi da lotte intestine e contrapposizioni rispetto all’esterno. La nozione di Stato può avere senso solo come designazione stenografica (come tale però molto pericolosa) dei rap­ porti oggettivi tra posizioni di potere (di diverso tipo), che possono inscriversi in reti {networks) più o meno stabili (di alleanze, clien­ tele ecc.) e manifestarsi in interazioni fenomenologicamente molto

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varie, che vanno dal conflitto aperto alla collusione più o meno dissimulata. Se si osservano da vicino gli agenti o gli organismi «privati», a loro volta in concorrenza (interessati, come le banche, alla pro­ mulgazione di regolamenti atti a favorire la vendita di nuove forme di credito immobiliare), se si cerca di vedere come si danno da fare per orientare o determinare la politica dello «Stato» in ogni set­ tore dell’attività economica o culturale (si osserverebbe la stessa cosa studiando una riforma del contenuto dei programmi scola­ stici), come costituiscono coalizioni e reti con altri agenti od organismi coi quali condividono interessi e preferenze per un certo provvedimento o una certa politica, come si scontrano con agenti od organismi burocratici che hanno a loro volta propri interessi e risorse (per esempio il capitale specificamente burocratico di ge­ stione dei regolamenti), ci si ritrova inevitabilmente ben lontani dalle speculazioni sulla corrispondenza o l’autonomia. E per espri­ mere tutto intero il mio parere, dirò che per questo aspetto mi sento molto più vicino alla network analysis di Edward O. Laumann (da cui per altri versi mi discosto) che a Nicos Poulantzas o a Theda Skocpol (per citare due nomi emblematici per le posizioni tradizionali sulla corrispondenza o l’autonomia). Lo dico solo per far osservare en passant che in queste come in altre materie, gli armchair marxists, materialisti senza materiale, ai quali mi sono sempre opposto quando erano in auge, negli anni sessanta, hanno contribuito non poco al perpetuarsi dei problemi scolastici. In termini generali, la difficoltà della mia posizione nel campo sociologico consiste in questo: da un lato potrei sembrare vicino ai «grandi teorici» (soprattutto strutturalisti), in quanto insisto sui grandi equilibri strutturali, non riducibili alle interazioni e alle pratiche nelle quali si manifestano; dall’altro mi sento solidale coi ricercatori che guardano le cose da vicino (penso per esempio agli interazionisti, a Goffman, e a tutti coloro che, attraverso l’osser­ vazione diretta o l’analisi statistica, riescono a snidare realtà em­ piriche che i «grandi teorici» ignorano: guardano infatti la realtà troppo dall’alto...); però non posso accettare la filosofia del mondo sociale che spesso sta alla base del loro interesse per i dettagli della pratica sociale e che in ogni caso viene loro imposta dalla visione ravvicinata e dalla «miopia teorica» che questa favorisce.

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Potrebbe precisare per quali aspetti la sua concezione dello Stato come insieme di campi burocratici che si sovrappongono parzialmente si differenzi dalla nozione di organisational State sviluppata da Edward Laumann e David Knoke (1988), dalla network analysis?

A questo proposito potrei riprendere la distinzione che propo­ nevo, in particolare contro Max Weber, tra struttura e intera­ zione, tra relazione strutturale, che agisce in maniera permanente e invisibile, e relazione effettuata, messa in atto in un particolare scambio (1971c, f, igSof, 1987 f). In effetti, la struttura di un campo, come spazio di relazioni oggettive tra posizioni, definite in base al loro rango rispetto alla distribuzione dei poteri e delle specie di capitale, è diversa dalle reti più o meno durevoli nelle quali, per un periodo più o meno lungo, può manifestarsi. È quella struttura a determinare la possibilità o l’impossibilità (o più esat­ tamente, la maggiore o minore probabilità) che si vengano a in­ staurare gli scambi che esprimono e continuano a far esistere la rete. Compito della scienza è quello di portare alla luce la strut­ tura della distribuzione delle risorse (o delle specie di capitale) che, attraverso gli interessi e le disposizioni che essa influenza, tende a determinare la struttura delle prese di posizione individuali e collettive. Nella network analysis, l’analisi di queste strutture (che deve richiamarsi a un modo di pensare strutturale, più difficile da tradurre in dati quantificati e formalizzati, a meno che non si ricorra all’analisi delle corrispondenze) è stata sacrificata all’ana­ lisi dei nessi specifici (tra agenti o istituzioni) e dei flussi (d’infor­ mazioni, risorse, servizi ecc.) in cui si manifestano. A questo punto dovrei continuare con le ricerche che sto conducendo, da diversi anni, sulla genesi dello Stato moderno. Potrei dire, semplificando molto, che la costruzione dello Stato dinastico, e poi dello Stato burocratico, ha preso forma da un processo di concentrazione di diverse specie di potere, o di capi­ tale, che sfociano, in un primo momento, nella monopolizzazione privata - da parte del re - di una potenza pubblica, esterna e nello stesso tempo superiore a tutte le potenze private (i signori, i bor­ ghesi cittadini ecc.). La concentrazione di queste diverse specie di capitale, economico (attraverso le imposizioni fiscali), militare, culturale, giuridico e, più generalmente, simbolico, che va di pari passo con la costruzione dei vari campi corrispondenti, ha fatto sì che potesse emergere un capitale specifico, propriamente statale,

1. LA LOGICA DEI CAMPI

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nato per accumulazione, che permette allo Stato di esercitare un potere sui diversi campi e sulle diverse specie particolari di capi­ tale. Questa sorta di metacapitale capace di esercitare un potere sulle altre specie di capitale, e in particolare sui tassi di scambio t ra loro (oltre che sui rapporti di forza tra i loro detentori) defi­ nisce il potere propriamente statale. Ne consegue che la costru­ zione dello Stato procede parallelamente alla costruzione del campo del potere inteso come spazio di gioco all’interno del quale i detentori di capitale (delle diverse specie) lottano in particolare per il potere sullo Stato, cioè sul capitale statale che conferisce potere sulle diverse specie di capitale e sulla loro riproduzione (soprattutto attraverso l’istituzione scolastica).

3Habitus, illusio e razionalità

L’uso che Lei fa della nozione d’interesse ha fatto sì che la si accu­ sasse spesso di « economicismo ».28 Che ruolo teorico ha l’interesse nel suo tipo di analisi?

La nozione d’interesse mi è subito apparsa come uno strumento di rottura rispetto a un’antropologia filosofica, a una concezione un po’ ingenua del comportamento umano che andava per la mag­ giore quando ho iniziato a occuparmi di scienze sociali. Ho citato spesso un’osservazione di Weber sul diritto, secondo la quale gli agenti sociali obbediscono alla regola solo finché il loro interesse a rispettarla prevale sul loro interesse a infrangerla. Questo rude principio materialista ci ricorda che, prima di pretendere di de­ scrivere le regole in base alle quali agiscono gli agenti, dovremmo chiederci che cosa rende quelle regole efficienti. Come reazione al modo in cui viene prevalentemente visto l’universo intellettuale e con l’intento di mettere in questione la freischwebende Intelligenz, ho voluto introdurre la nozione d’inte­ resse proprio nell’ambito della sociologia della cultura e degli intellettuali, ambito da cui era stata esplicitamente esclusa e in cui risulta particolarmente scandalosa. Lo spunto lo traevo da Weber, che aveva utilizzato il modello economico per scoprire gli interessi specifici dei grandi protagonisti del gioco religioso, preti, profeti, stregoni (1971c, 1987 f). Oggi preferisco adottare il ter­ mine illusio poiché parlo sempre d’interessi specifici, presupposti e nello stesso tempo prodotti del funzionamento di campi stori­ camente delimitati. Paradossalmente la parola interesse ha susci­ tato per riflesso l’accusa di economicismo, quando invece tutta la

y HABITUS, ILLUSIO E RAZIONALITÀ

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mia opera è stata orientata, e fin dall’inizio, contro una riduzione di tutte le pratiche all’economia.29 In realtà il modo in cui io utilizzo la nozione la piega a un riduzionismo deliberato, prov­ visorio, che mi permette di importare il modo di pensare mate­ rialista nella sfera culturale da cui era stato storicamente espulso da quando è stata inventata la visione moderna dell’arte e il campo di produzione culturale ha acquisito una propria autonomia (1980h, 198yd). Per capire la nozione d’interesse bisogna rendersi conto che essa si oppone non solo a quella di disinteresse o di gratuità, ma anche alla nozione d’indifferenza. Essere indifferente, cioè non essere motivati dal gioco: come l’asino di Buridano, il gioco non mi interessa, per me fa lo stesso. L’indifferenza è uno stato assiologico di non preferenza e nello stesso tempo uno stato di conoscenza nel quale sono incapace di vedere differenze tra le varie poste in gioco. Era il fine cui tendevano gli stoici: giungere a uno stato di «rapatici (atarassia vuol dire non essere più turbati). L’illusio è l’opposto dell’atarassia: è il sentirsi investiti, sentirsi presi dal gioco nel gioco. Essere interessati significa consentire che ciò che avviene in un gioco sociale determinato abbia un senso, che vi siano poste in gioco importanti e degne di essere perseguite (1989 i). Con questo voglio dire che il concetto d’interesse quale lo con­ cepisco io è del tutto diverso dall’interesse trans-storico e univer­ sale della teoria utilitaristica, universalizzazione inconscia della forma d’interesse generata e pretesa da un’economia capitalista. Lungi dall’essere una costante antropologica, l’interesse è un dato storico arbitrario,30 una costruzione storica che si può conoscere solo mediante un’analisi storica, ex post, attraverso l’osservazione empirica, e non desunta a priori da una concezione fittizia e ovviamente etnocentrica dell’«Uomo». Questo allora implica che ci siano tanti «interessi» quanti sono i campi e che ogni campo presupponga e generi nello stesso tempo una forma specifica d’interesse che non è rapportabile agli interessi che hanno corso altrove.

Ogni campo richiama e mette in atto una forma specifica d’inte­ resse, una illusio specifica come tacito riconoscimento del valore delle poste in gioco implicate nel gioco e come controllo pratico

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delle regole che lo governano. Inoltre, questo interesse specifico implicato nella partecipazione al gioco si differenzia a seconda della posizione occupata nel gioco (dominante rispetto a dominato od ortodosso rispetto a eretico) e secondo il percorso che porta ogni partecipante a quella posizione.

Oltre alle nozioni d’interesse e d’investimento, Lei ha «preso a pre­ stito» dal linguaggio economico altri concetti come mercato e capi­ tale (per es. 1971 d, 1986g). Inoltre tanto le sue prime ricerche quanto i suoi lavori più recenti trovano tutti collocazione nell’ambito della sociologia economica.31 I suoi primissimi lavori sui contadini e sui lavoratori algerini (1958, 1962 d, 1969, 1972 a; Bourdieu, Darbel, Rivet e Seibel, 1969; Bourdieu e Sayad, 1964) tentavano tra l’altro di spiegare l’emergere di una disposizione razionale calcolatrice - l’habitus deII’homo œconomicus - nel proletariato algerino, oltre alle conseguenze sociali ed economiche derivate dall’incapacità dimostrata dal sottoproletariato di impadronirsi di quelle disposizioni, come esi­ geva l’economia capitalista brutalmente imposta dal colonialismo francese. Nel suo recente studio sull’economia di produzione e con­ sumo della casa individuale in Francia, analizzata come un campo (1990 b, f, g; Bourdieu e de Saint Martin, 1990; Bourdieu e Christin, 1990), Lei esamina da una parte la genesi sociale del sistema di pre­ ferenze e di strategie degli acquirenti, dall’altra l’organizzazione e la dinamica dello spazio dei venditori (imprese di costruzioni) e dei pro­ dotti; e scopre che lo Stato - 0 «campo burocratico» - svolge per entrambe le parti un ruolo essenziale, strutturando in particolare il loro punto d’incontro, il mercato, costruzione sociopolitica risultante dal rifrangersi, a diversi livelli territoriali del campo burocratico, della domanda di una serie di agenti sociali ed economici, diversamente dotati di mezzi per imporre che si tenga conto dei loro interessi. Che cosa separa il suo approccio teorico dall’«approccio economico» dell’azione sociale? La sola cosa che io condivida con l’ortodossia economica (con questo intendo la corrente a sua volta assai diversificata che oggi domina la scienza economica, e che so bene essere un campo al­ tamente differenziato) è un certo numero di parole. Prendiamo la nozione d’investimento. Per investimento io intendo la propen­ sione ad agire che nasce dalla relazione tra un campo e un sistema di disposizioni aggiustate per quel campo, un senso del gioco e

y. HABITUS, ILLUSIO E RAZIONALITÀ

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delle poste in gioco che implicano nello stesso tempo una inclina­ zione e un’attitudine a partecipare al gioco, entrambe socialmente e storicamente costituite e non universalmente date. La teoria generale dell’economia dei campi, che viene elaborata progressi­ vamente, di generalizzazione in generalizzazione (sto lavorando da qualche tempo a un libro nel quale cerco di isolare, a un livello di formalizzazione più elevato, le proprietà generali dei campi) ci permette di descrivere e identificare la forma specifica che i mec­ canismi e i concetti più generali - come capitale, investimento, in­ teresse - assumono in ogni campo, evitando così ogni specie di ri­ duzionismo, a cominciare dall’economicismo che riconosce solo l’interesse materiale e la ricerca deliberata dei massimi profitti monetari. Una scienza generale dell’economia delle pratiche, che non si limiti artificialmente alle pratiche socialmente riconosciute come economiche, deve tentare di comprendere il capitale, questa «energia della fisica sociale» (1980f, p. 209) in tutte le sue forme e scoprire le leggi che ne regolano la conversione da una specie all’altra. Ho dimostrato che il capitale si presenta sotto tre specie fondamentali (ciascuna con delle sottospecie), il capitale econo­ mico, il capitale culturale e il capitale sociale (1986g). A queste tre specie bisogna aggiungere il capitale simbolico, che è la forma che l’una o l’altra di queste specie può assumere quando viene vista attraverso categorie di percezione che ne riconoscono la logica specifica o, se preferite, che non colgono l’arbitrarietà del suo possesso e accumulo.32 Non intendo dilungarmi sulla nozione di capitale economico. Ho analizzato le caratteristiche del capi­ tale culturale, che in realtà bisognerebbe chiamare capitale infor­ mativo, per poter dare alla nozione tutta la valenza generale che dovrebbe avere, e che esiste a sua volta in tre forme, incorporato, oggettivato e istituzionalizzato.33 Il capitale sociale è la somma delle risorse, attuali e virtuali, che fanno capo a un individuo o a un gruppo in quanto questo possiede una rete durevole di rela­ zioni, conoscenze e reciproche riconoscenze più o meno istitu­ zionalizzate, è cioè la somma di capitali e poteri che una simile rete permette di mobilitare. Dobbiamo riconoscere che il capitale può assumere una certa varietà di forme, se vogliamo spiegare la struttura e la dinamica di società differenziate. Per esempio, per rendere conto della forma dello spazio sociale in vecchie nazioni

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democratiche come la Svezia o nelle società di tipo sovietico, si deve tener conto della specie particolare di capitale sociale costi­ tuita dal capitale politico, capitale che è in grado di procurare pri­ vilegi e profitti considerevoli, analogamente al capitale economico in altri campi sociali, operando una patrimonializzazione delle risorse collettive (attraverso i sindacati in un caso, attraverso il partito comunista nell’altro). L’economia ortodossa ignora il fatto che le pratiche possano avere princìpi diversi dalle cause meccaniche o da un’intenzione cosciente di potenziare al massimo il proprio vantaggio, obbe­ dendo però a una logica economica immanente: le pratiche hanno una economia, una ragione immanente che non può essere ridotta alla sola ragione economica, perché l’economia delle pratiche può essere definita in riferimento a una gran varietà di funzioni e di fini. Ridurre l’universo delle forme di comportamento alla rea­ zione meccanica o all’azione intenzionale, significa mettersi nell’impossibilità di illustrare tutte le pratiche che sono ragione­ voli pur senza essere il prodotto di un disegno ragionato e meno ancora di un calcolo cosciente.

Lei ha chiarito i concetti di campo e di capitale. C’è una terza categoria centrale che costituisce un ponte tra i due e che identifica il meccanismo che «spinge» gli agenti a optare per questa o quella stra­ tegia, o per la sovversione o la conservazione, o anche, potremmo aggiungere, che li fa rimanere indifferenti o li spinge a uscire dal gioco: la nozione di habitus04 permette di rielaborare le nozioni apparente­ mente economiche di capitale, mercato, interesse ecc. per fame un modello di azione profondamente diverso da quello dell’economia.

Ho spiegato talmente tante volte il significato e il funziona­ mento della nozione di habitus che esito un po’ a tornarci di nuovo; so che non potrei far altro che ripetermi, semplificare, senza per questo riuscire davvero a rendere le cose più chiare... Qui mi limiterò a dire che questa nozione ha come funzione prin­ cipale quella di segnare una rottura con la filosofia intellettuali­ stica (e intellettualocentrica) dell’azione, rappresentata in parti­ colare dalla teoria dell’homo ceconomicus come agente razionale, che è stata recentemente riproposta dalla rational action theory, mentre numerosi economisti l’hanno di fatto ripudiata (spesso senza dirlo o saperlo). Proprio per poter rendere conto della logica

3- HABITUS, ILLUSIO E RAZIONALITÀ

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reale della pratica (espressione che in sé è un ossimoro, perché è specifico della pratica - anche di quella apparentemente più illo­ gica, come per esempio l’azione rituale - essere «logica», avere una logica, senza avere la logica come principio) ho proposto una teoria della pratica come prodotto di un senso pratico, di un senso del gioco socialmente costituito. All’inizio volevo descrivere la pratica nelle forme più umili, le azioni rituali, le scelte matrimo­ niali, i comportamenti economici di ogni giorno ecc. evitando tanto l’oggettivismo dell’azione, intesa come reazione meccanica senza agente, quanto il soggettivismo, che descrive l’azione come compimento deliberato di una intenzione cosciente, come libero progetto di una coscienza che stabilisce i propri fini e persegue il massimo vantaggio mediante un calcolo razionale. Ma la nozione, che, dobbiamo dire, designa innanzi tutto un atteggiamento, o se vogliamo un habitus scientifico, cioè una certa maniera di costruire e di capire la pratica nella sua «logica» speci­ fica, soprattutto temporale, ha anche la funzione di segnare una rottura rispetto a un’altra opposizione, altrettanto funesta, e senz’altro molto più difficile da superare: contro l’empirismo, la teoria della pratica come pratica afferma che gli oggetti della conoscenza sono costruiti e non passivamente registrati; contro l’idealismo intellettualistico, essa ricorda che il principio di questa costruzione non è il sistema delle forme a priori e delle categorie universali proprie di un soggetto trascendentale, ma quella sorta di trascendente storico che è l’habitus, sistema socialmente costi­ tuito di disposizioni strutturate e strutturanti, acquisito con la pra­ tica e costantemente orientato verso funzioni pratiche. Secondo il programma suggerito da Marx nelle Tesi su Feuerbach, la nozione di habitus mira a rendere possibile una teoria materialista della conoscenza che non abbandoni all’idealismo l’idea che ogni cono­ scenza, ingenua o colta, presuppone un lavoro di costruzione, ma sottolinei che tale lavoro non è per niente un lavoro puramente intellettuale, e che si tratta di un’attività di costruzione, o di rifles­ sione pratica, che le nozioni correnti di pensiero, coscienza, cono­ scenza ci impediscono di concepire adeguatamente. Tutti coloro che hanno utilizzato prima di me questo vecchio concetto, o altri simili, come eôoç o ë^iç, penso che si siano ispirati, qualche volta forse senza saperlo esplicitamente, a un intento teorico non lon­ tano dal mio, cioè all’intento di sottrarsi sia alla filosofia del sog­

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getto, senza tuttavia sacrificare l’agente, sia alla filosofia della strut­ tura, senza tuttavia rinunciare a tener conto degli effetti che essa esercita sull’agente e attraverso di lui. Il paradosso comunque è che la maggior parte dei commentatori ignora completamente la prin­ cipale differenza tra l’uso della nozione che propongo io e la tota­ lità degli usi che ne sono stati fatti prima (ho detto habitus anche e soprattutto per non dire «abitudine»); ignora cioè la capacità generatrice, per non dire creatrice, inscritta nel sistema delle dispo­ sizioni come arte - nel senso forte di padronanza pratica - e in par­ ticolare come ars inveniendi. Insomma intende come meccanicistica una nozione costruita contro il meccanicismo. Alcuni autori (Kestenbaum, 1977 e Ostrow, 1990, per esempio) hanno accostato il suo pensiero alla tradizione pragmatista americana e in particolare a Dewey. Lei si riconosce in questo accostamento?

Sono venuto a conoscenza di questi studi, che piuttosto recen­ temente mi hanno anzi spinto a considerare più da vicino la filo­ sofia di Dewey, della quale avevo una visione assai parziale e superficiale. Effettivamente affinità e punti di convergenza sono incontestabili e credo anche di capire in base a quale principio: gli sforzi che facevo per reagire contro il profondo intellettualismo delle filosofie europee (che conosce ben poche eccezioni, come quelle di Wittgenstein, Heidegger o Merleau-Ponty) mi ha por­ tato ad avvicinarmi, senza saperlo, a sistemi di pensiero che la tradizione europea della «profondità» e dell’oscurità induceva a considerare al di là di ogni tentazione. Non potendo sviluppare qui tutti i punti in comune e tutte le differenze, direi che in sostanza la teoria dell’habitus e del senso pratico presenta molte similitudini con le teorie che, come quella di Dewey, attribuiscono un posto centrale &\V habit, inteso non come abitudine ripetitiva e meccanica, ma come rapporto attivo e creativo col mondo, e rifiutano tutti i dualismi concettuali sui quali sono state costruite quasi tutte le filosofie postcartesiane: soggetto e oggetto, interiore ed esteriore, materiale e spirituale, individuale e sociale ecc.35

Dna concezione simile dell’azione sociale si contrappone frontal­ mente alla corrente assai eterogenea che in questi ultimi anni ha saputo crearsi un notevole seguito sotto l’etichetta di «teoria dell'azione razio­ nale» o teoria della «scelta razionale».

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Tipico esempio di paralogismo scolastico, errore ricorrente dei professionisti del Xóyog e della logica, che consiste nel «prendere le cose della logica per la logica delle cose», come diceva Marx di Hegel, la teoria dell’azione razionale mette la mente dello studioso che pensa la pratica al posto del senso pratico socialmente costituito dell’agente. L’attore che essa concepisce non è altro che la proie­ zione immaginaria del soggetto pensante nell’agente che agisce, una specie di mostro con testa di pensatore, che pensa la propria pra­ tica in maniera logica e riflessiva, su un corpo da uomo d’azione im­ pegnato nell’azione. La teoria dell’azione razionale riconosce solo «risposte razionali» di un agente senza storia, indeterminato e intercambiabile nello stesso tempo. Questa antropologia immagi­ naria cerca di fondare l’azione, economica o no, sulla scelta inten­ zionale di un attore libero da ogni condizionamento economico e sociale. Essa ignora la storia individuale e collettiva degli agenti nel corso della quale si vengono a costituire le strutture di preferenze che li abitano, attraverso una dialettica temporale complessa con le strutture oggettive da cui sono prodotte e che tendono a riprodurre. Una delle funzioni della nozione di habitus, in cui certi commen­ tatori hanno visto la chiave di volta di una filosofia che mira alla negazione della storia, è quella di richiamare la storicità dell’agente economico, la genesi storica delle sue aspirazioni e preferenze.

Le azioni umane non sono reazioni istantanee a degli stimoli; la minima «reazione» di una persona nei confronti di un’altra è carica di tutta la storia di entrambe e del loro rapporto. Per spie­ garmi meglio ricorrerò a un capitolo di Mimesis, in cui Erich Auer­ bach ricorda un passo di To the Lighthouse con le rappresentazioni, o meglio, i risentimenti che scatena nell’animo di Mrs Ramsay un avvenimento minimo del mondo esterno. Questo avvenimento, la prova di un calzerotto, è solo un punto di partenza che, benché non del tutto fortuito, ha valore esclusivamente per le reazioni non immediatamente connesse al presente che scatena. In un caso del genere possiamo vedere bene come la conoscenza degli stimoli (una parola sentita per caso, un avvenimento, un premio ecc.) non consenta di capire molto degli echi, delle risonanze, delle scelte che quelli possono suscitare, se non si ha nessuna idea dell’habitus che li seleziona, li costruisce e li riempie di tutta la storia di cui è carico a sua volta...

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Questo significa che non sarà possibile riuscire a capire davvero le pratiche (specialmente economiche) se non si conoscono le condizioni economiche e sociali di produzione e attuazione degli habitus che ne costituiscono il principio? Convertendo la legge immanente dell’economia in norma uni­ versale e universalmente realizzata da pratiche adeguate, la teo­ ria dell’azione razionale dimentica e dissimula il fatto che, come ho fatto vedere nei miei lavori sull’Algeria, l’habitus «razionale» o, meglio, ragionevole, che è condizione preliminare di una pra­ tica economica aggiustata, adattata, adeguata, può costruirsi e svi­ lupparsi solo quando siano date certe condizioni di possibilità, spe­ cialmente economiche, e quando il comportamento razionale, che quella teoria ritiene possibile immediatamente, a priori, sia il pro­ dotto di una particolare condizione economica e sociale, definita dal possesso di quel minimo di capitale economico e culturale ne­ cessario a percepire e cogliere le «opportunità potenziali» for­ malmente offerte a tutti. Le capacità e disposizioni che quella teo­ ria attribuisce così liberalmente al suo «attore» astratto - l’arte di valutare e cogliere le opportunità, la capacità di anticipare attraverso una forma d’induzione pratica e di scommettere sul pos­ sibile contro il probabile a costo di un rischio calcolato, la pro­ pensione a investire, l’accesso all’informazione economica ecc. possono essere acquisite solo in certe condizioni economiche e sociali ben definite: di fatto sono sempre funzioni del potere di cui si dispone all’interno e su una specifica economia.36 Postulando l’esistenza di un interesse universale, precostituito, la teoria dell’azione razionale ignora la questione dalla genesi sociale delle diverse forme d’interesse. La teoria dell’habitus è inoltre in grado di spiegare perché il finalismo della teoria della scelta razionale, per quanto antropo­ logicamente falso, può apparire empiricamente fondato. Il finali­ smo individualista, che concepisce l’azione come determinata da un orientamento consapevole verso scopi esplicitamente stabiliti, è un’«illusione ben fondata»: il senso del gioco, che implica un preventivo aggiustamento dell’habitus alle necessità e probabilità inscritte nel campo, si presenta davvero con le apparenze di una visione vincente del futuro. Analogamente, l’affinità strutturale degli habitus appartenenti alla stessa classe è in grado di generare pratiche convergenti e oggettivamente orchestrate, al di là di qua-

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lunque intenzione, di qualunque coscienza collettiva, e meno che mai di una forma qualsiasi di «cospirazione» (come nel caso del sistema delle strategie di riproduzione che mettono in opera i dominanti e che, grazie all’aiuto di meccanismi oggettivi, contri­ buiscono ad assicurare la riproduzione della struttura sociale). La teoria dell’habitus riesce dunque a spiegare svariati fenomeni di quasi-teleologia, che si possono osservare nel mondo sociale, come le forme di azione e di reazione collettiva che pongono alla teoria dell’azione razionale dilemmi insormontabili (come quello del free ride: 1980f, p. 98). I tentativi di coloro che vogliono difendere una qualche teo­ ria dell’azione razionale mi fanno pensare a Tycho Brahé, che cercava di salvare il paradigma tolemaico dopo Copernico. E di­ vertente vedere come abbinino alternativamente, qualche volta persino da una pagina all’altra, un meccanismo che spiega l’azio­ ne attraverso l’efficacia diretta delle cause (come nei vincoli di mercato) e un finalismo che, nella sua forma pura, è disposto a riconoscere solo la scelta di una intenzione pura che guida una volontà impeccabile, mentre, nelle forme mitigate, può far posto anche alla scelta sotto costrizione, con la «razionalità limitata» (bounded rationality), la razionalità irrazionale, la «debolezza della volontà» ecc.: le variazioni sono infinite. Penso che l’infe­ lice eroe di questo paradigma insostenibile sia senza dubbio Jon Elster (1984) che, in Ulysses and the Sirens si ricongiunge - stesse cause stessi effetti - alle analisi sartriane della malafede e del giuramento.37

Ma la nozione di habitus non ha anche la funzione di sottrarsi all’alternativa tra individuo e società, individualismo cosiddetto me­ todologico e «collettivismo» od «olismo»? Parlare di habitus significa stabilire che l’individuale, il perso­ nale, il soggettivo è sociale, collettivo. L’habitus è una soggetti­ vità socializzata. E qui mi dissocio per esempio da Herbert Simon e dalla sua «razionalità limitata». La razionalità è limitata non sol­ tanto perché è limitata l’informazione disponibile, e perché la mente umana è genericamente limitata, e non ha i mezzi per pen­ sare completamente tutte le situazioni, soprattutto nell’urgenza dell’azione, ma anche perché la mente umana è socialmente limi­ tata, socialmente strutturata; e, lo si voglia o no, è sempre rac-

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chiusa - a meno che non ne prenda coscienza - «entro i limiti del suo cervello», come diceva Marx, cioè entro i limiti di un sistema di categorie che deve alla sua formazione. (Noto che non mi è mai capitato di citare tanto spesso Marx come oggi, cioè in un mo­ mento in cui è diventato il capro espiatorio di tutte le magagne del mondo sociale: probabilmente una manifestazione dell’atteg­ giamento controcorrente che mi portava a citare Weber nel mo­ mento in cui l’ortodossia marxista tentava di ostracizzarlo...) L’oggetto specifico della scienza sociale non è l’individuo, que­ sto ens realissimus ingenuamente celebrato come la realtà delle realtà da tutti gli «individualisti metodologici», né lo sono i gruppi come insiemi concreti di individui; lo è invece la relazione tra due realizzazioni dell’azione storica. Cioè la duplice, oscura, relazione tra gli habitus - sistemi durevoli e trasponibili di schemi di percezione, di valutazione e di azione prodotti dal sociale che si istituisce nei corpi (o negli individui biologici) - e i campi, sistemi di relazioni oggettive che sono il prodotto dell’istituzione del sociale nelle cose e nei meccanismi che hanno la quasi-realtà degli oggetti fisici; e naturalmente tutto ciò che scaturisce da que­ sta relazione, cioè le pratiche e le rappresentazioni sociali o i campi quando si presentano sotto forma di realtà percepite e valutate.

Potrebbe precisare che cosa intende per « duplice, oscura, relazione» tra habitus e campo, e dirci come funziona? La relazione tra habitus e campo è innanzi tutto una relazione di condizionamento: il campo struttura l’habitus che è il prodotto dell’incorporazione della necessità immanente di quel campo o di un insieme di campi più o meno concordanti; le discordanze in via di principio dovrebbero trovarsi in campi divisi, o lacerati. Ma è anche una relazione di conoscenza o di costruzione cognitiva: l’habitus contribuisce a costituire il campo come mondo significante, dotato di senso e di valore, nel quale vale la pena di investire la propria energia. Ne conseguono due cose: in primo luogo la rela­ zione di conoscenza dipende dalla relazione di condizionamento che la precede e che modella le strutture dell’habitus: in secondo luogo la scienza sociale è necessariamente una «conoscenza di una conoscenza» e deve fare posto a una fenomenologia sociologica­ mente fondata dell’esperienza primaria del campo.

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L’esistenza umana, l’habitus come sociale fatto corpo, è ciò che al mondo fa sì che vi sia un mondo: «il mondo mi comprende, io però lo comprendo», diceva pressappoco Pascal. La realtà sociale esiste per così dire due volte, nelle cose e nei cervelli, nei campi e negli habitus, all’esterno e all’interno degli agenti. E quando l’ha­ bitus entra in relazione con un mondo sociale di cui è il prodotto, è come un pesce nell’acqua e il mondo gli appare del tutto natu­ rale. Per farmi capire meglio potrei prolungare la battuta di Pas­ cal: il mondo mi comprende, io però lo comprendo, perché mi comprende; proprio in quanto mi ha prodotto, in quanto ha pro­ dotto le categorie che gli applico, esso mi appare così naturale, così ovvio. Nel rapporto tra habitus e campo, la storia entra in rap­ porto con se stessa: è una vera complicità ontologica che, come Heidegger e Merleau-Ponty suggerivano, unisce l’agente (che non è né un soggetto o una coscienza, né il semplice esecutore di un ruolo o l’attualizzazione di una struttura o di una funzione) e il mondo sociale (che non è mai una cosa semplice, anche se dovrà essere costruito così nella fase di oggettivazione della ricerca) (i98od, p. 6). Questa relazione di conoscenza pratica non si instaura tra un soggetto e un oggetto costituito come tale e posto come un problema. Essendo l’habitus il sociale incorporato, è «di casa» nel campo che abita, e lo percepisce immediatamente come dotato di senso e d’interesse. La conoscenza pratica che procura può essere descritta per analogia con la cppóvricng aristotelica, o meglio, con la òoth] òóija di cui parla Platone nel Menane come la «giusta opinione» «va a cadere sul vero», in qualche modo senza sapere né come né perché, così la coincidenza di disposizione e posizione penetra nel senso del gioco e il gioco porta l’agente a fare quello che deve fare senza che se lo ponga esplicitamente come scopo, al di qua di ogni calcolo e persino coscienza, al di qua del discorso e della rappresentazione. Ma questa analisi non le dovrebbe allora impedire di usare il lin­ guaggio della strategia?

In effetti, lungi dall’essere poste come tali in un progetto espli­ cito e cosciente, le strategie suggerite dall’habitus come senso del gioco si orientano, in maniera analoga alla protensione di cui parla Husserl in Ideen, verso «potenzialità oggettive» immediatamente date nell’immediato presente. E ci si può chiedere, come fa Lei,

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se non si debba allora parlare di strategia. La parola è fortemente associata alla tradizione intellettualistica e soggettivista che, da Descartes a Sartre ha dominato la filosofia occidentale e che oggi conosce nuovo impulso con una teoria come quella dell’azione razionale, che è fatta apposta per soddisfare «il punto d’onore spi­ ritualista» degli intellettuali. Tuttavia non è una buona ragione per non usare questa parola, con tutt’altra intenzione teorica, e cioè per designare linee di azione oggettivamente orientate che gli agenti sociali costruiscono continuamente nella pratica e che si definiscono nell’incontro tra l’habitus e una congiuntura partico­ lare del campo (il che rende priva di senso la questione della coscienza o incoscienza delle strategie, quindi della buona fede o del cinismo degli agenti, che tanto preme al moralismo piccolo­ borghese...) (1990!, p. 37). Paradossalmente proprio il fatto che questo accordo immediato tra habitus e campo (soprattutto economico) si verifica molto fre­ quentemente fa sì che si sia spesso indotti a negare la realtà dell’habitus e a contestare l’utilità scientifica della nozione. (Per dare piena forza a una critica possibile, si potrebbe dire che la teoria dell’habitus potrebbe combinare le scorciatoie della spiegazione attraverso la virtù dormitiva - perché fa delle scelte piccolo-bor­ ghesi? Perché ha un habitus piccolo-borghese! - e quella della spiegazione ad hoc. Se non posso negare che alcuni utilizzatori della nozione siano rimasti vittima di uno di questi due pericoli, o di entrambi, credo di potermi arrischiare a sfidare i miei critici a trovarne una traccia nei miei scritti; e non solo perché sono sem­ pre stato consapevole del pericolo). Di fatto tutte le volte che l’habitus incontra condizioni oggettive, identiche o simili a quelle di cui è il prodotto si trova ad essere perfettamente adeguato senza che ci sia stata nessuna ricerca di adattamento consapevole e in­ tenzionale; possiamo anzi dire che l’effetto dell’habitus è in qual­ che maniera ridondante rispetto all’effetto di campo. In questo caso la nozione può sembrare meno indispensabile, nonostante che abbia almeno il pregio di evitare una interpretazione in ter­ mini di azione razionale che il carattere «ragionevole» dell’azione sembra imporre. L’habitus è il presupposto cui dobbiamo ricorrere per rendere ragione del fatto che gli agenti sociali, senza essere propriamente razionali, senza organizzare cioè i loro comportamenti in modo da

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massimizzare il rendimento dei mezzi di cui dispongono o, più semplicemente, senza calcolare, senza stabilire esplicitamente i loro fini e senza predisporre esplicitamente i mezzi per raggiun­ gerli, insomma senza fare valutazioni, piani, progetti, tuttavia sono ragionevoli, non sono pazzi, non commettono follie (nel senso in cui, quando qualcuno ha fatto una spesa «al di sopra dei suoi mezzi», si dice che ha «fatto una follia»): sono molto meno strani o ingenui di quanto si tenderebbe spontaneamente a credere e que­ sto proprio perché hanno interiorizzato, alla fine di un lungo e complesso processo di condizionamento, le possibilità oggettive che sono state loro offerte e perché sanno leggere il futuro per loro più vantaggioso, il futuro fatto per loro e per il quale loro sono fatti (in contrapposizione al «non è per noi» di altri casi), attra­ verso anticipazioni pratiche che colgono sulla superficie stessa del presente, qualcosa che si impone senza intenzionalità come «da farsi» o «da dirsi» (e che apparirà retrospettivamente come la sola cosa da farsi o da dirsi). La dialettica delle speranze soggettive e delle possibilità oggettive è attiva ovunque nel mondo sociale e, nella maggior parte dei casi, tende a garantire un aggiustamento delle prime sulle seconde.38 Ci possono essere però dei momenti di sfasatura, in cui i com­ portamenti diventano inintelligibili se non si fa intervenire l’habitus con la sua propria inerzia, la sua isteresi: penso al caso che mi è capitato di osservare in Algeria, quando la gente si è brusca­ mente trovata in un «cosmo capitalista» con habitus «precapi­ talistici». Penso anche alle situazioni storiche di tipo rivoluzio­ nario nelle quali il cambiamento delle strutture oggettive è così rapido che gli agenti che hanno strutture mentali plasmate da tali strutture risultano «superati», agiscono controtempo e contro­ senso, pensano in qualche modo a vuoto, un po’- come i vecchi dei quali si dice, molto giustamente, che sono sfasati, o Don Chi­ sciotte. Insomma la tendenza a perseverare nel loro essere, che i gruppi devono tra l’altro al fatto che gli agenti che li compongono sono dotati di disposizioni durevoli, capaci di sopravvivere alle stesse condizioni economiche e sociali che le hanno rese possibili, può essere all’origine sia del disadattamento che dell’adattamento, della rivolta come della rassegnazione. L’aggiustamento preven­ tivo dell’habitus alle condizioni oggettive è solo un caso partico­ lare (senz’altro il più frequente) e bisogna evitare di universaliz­

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zare inconsciamente il modello del rapporto quasi circolare di riproduzione quasi perfetta che può valere solo nel caso limite in cui le condizioni di produzione dell’habitus e le condizioni del suo funzionamento sono identiche od omotetiche.

L’habitus è un principio generatore e unificatore...

Una delle ragioni per cui non si può non ricorrere alla nozione di habitus è che in effetti essa permette di prendere in conside­ razione e di spiegare la costanza delle disposizioni, dei gusti, delle preferenze che mette tanto in imbarazzo l’economia neomarginalista (diversi economisti hanno dovuto constatare che la struttura e il livello delle spese non vengono influenzati dalle variazioni a breve termine dei redditi e che le spese per beni di consumo sono caratterizzate da una forte inerzia in quanto dipendono da atti di consumo anteriori). Ma essa consente anche di costruire e di com­ prendere in maniera unitaria dimensioni della pratica che vengono spesso studiate in ordine sparso, da una stessa scienza, come la nuzialità e la fecondità, o anche da scienze diverse, come l’ipercorrettismo linguistico, la scarsa fecondità e la forte propensione al risparmio della piccola borghesia in ascesa (per citare a caso dimensioni molto diverse della pratica). Insomma, la teoria dell’habitus non ha solo il merito (me ne scuso, ma sono obbligato a difenderla...) di rendere ragione in ma­ niera più adeguata della logica reale delle pratiche (soprattutto economiche) che la teoria dell’azione razionale semplicemente distrugge. E una matrice d’ipotesi scientifiche che hanno avuto diverse verifiche empiriche, e non solo nelle mie ricerche. La teoria dell’habitus non viene forse a far cadere, come è stato qualche volta suggerito, la scelta strategica e la deliberazione come possibili modalità di azione?

Niente affatto. L’aggiustamento immediato tra habitus e campo è solo una delle forme possibili di azione, anche se è di gran lunga la più frequente: «Noi siamo empirici - diceva Leibniz, e con ciò intendeva dire pratici - per i tre quarti delle nostre azioni». Gli orientamenti suggeriti dall’habitus possono essere accompagnati da calcoli strategici di costi e benefici che tendono a portare a un livello cosciente le operazioni che l’habitus compie secondo la pro­ pria logica. Inoltre, i periodi di crisi, durante i quali i consueti ag-

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giustamenti tra strutture soggettive e strutture oggettive vengono bruscamente a saltare, costituiscono una classe di circostanze in cui può prevalere la scelta razionale, per lo meno tra gli agenti che hanno i mezzi, se così possiamo dire, per essere razionali.

L’introduzione del concetto mediatore di habitus riesce davvero a liberarci dalla «gabbia di ferro» dello strutturalismo? Molti suoi let­ tori trovano che la nozione continui a rimanere deterministica: se l’ha­ bitus come «principio generatore di strategie che mette gli agenti in grado di affrontare situazioni impreviste e sempre mutevoli» deriva dall’incorporazione delle strutture oggettive del mondo, se l’improv­ visazione che esso regola è a sua volta regolata da quelle stesse strut­ ture, da dove può venire l’elemento d’innovazione e di azione?w Prima di rispondere a questa domanda vorrei invitarla a chie­ dersi perché questa nozione, in un certo senso assai banale (tutti converranno che gli esseri sociali sono almeno in parte il prodotto di condizionamenti sociali) abbia suscitato simili reazioni di osti­ lità, addirittura di furore, in certi intellettuali, e anche tra alcuni sociologi. Che cosa può renderla così profondamente urtante? Penso che in realtà essa urti direttamente l’illusione del controllo (intellettuale) di sé, che presso gli intellettuali è molto forte. Alle tre «ferite narcisistiche» richiamate da Freud, quelle inflitte all’umanità da Copernico, da Darwin e dallo stesso Freud, dob­ biamo aggiungere anche quella che ci procura la sociologia, so­ prattutto se applicata ai creatori. Sartre che, come ho detto altre volte, aveva dotato gli intellettuali di una propria «ideologia pro­ fessionale», o meglio, per parlare come Max Weber, di una « teo­ dicea del proprio privilegio», ha espresso la forma più compiuta del mito fondatore del creatore increato con la nozione di «pro­ getto originale», che sta alla nozione di habitus come il mito della genesi sta alla teoria dell’evoluzione. (Il «progetto originale» è, lo ricordiamo, quella sorta di atto libero e cosciente di autocreazione attraverso il quale il creatore si attribuisce il proprio progetto di vita, situato esplicitamente da Sartre, nel caso di Flaubert, in un certo momento verso la fine dell’infanzia). Credo che quello che esaspera, o fa disperare, nella nozione di habitus sia il fatto che essa incarna l’attuazione del modo di pensare genetico e gene­ rico che minaccia l’idea stessa che i «creatori» si fanno di loro stessi, della loro identità, della loro «singolarità». Infatti solo la

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gravità (vissuta...) della posta in gioco può spiegare come tanti begli spiriti abbiano reagito non tanto a quello che dicevo, quanto piuttosto a quello che hanno creduto di leggere. L’habitus non è il destino che qualcuno ha voluto vedervi. Es­ sendo un prodotto della storia è un sistema di disposizioni aperto, messo incessantemente a confronto con esperienze nuove e quindi da queste incessantemente modificato.40 E durevole ma non im­ mutabile. Detto questo, devo immediatamente aggiungere che la maggior parte delle persone sono statisticamente votate a trovare circostanze consone a quelle che hanno originariamente plasmato il loro habitus, quindi ad avere esperienze che verranno a raffor­ zare le loro disposizioni. Per la verità il problema della genesi dell’individuo biologico socializzato, il problema delle condizioni sociali di formazione e di acquisizione delle strutture generative di preferenze che co­ stituiscono l’habitus come sociale incorporato, è estremamente complesso. Penso che, per ragioni logiche, questo processo sia relativamente irreversibile: tutti gli stimoli e tutte le esperienze condizionanti sono in ogni momento percepiti attraverso catego­ rie già costruite dalle esperienze anteriori. Ne risulteranno per­ tanto inevitabilmente privilegiate le esperienze originarie con una conseguente relativa chiusura del sistema di disposizioni che co­ stituisce l’habitus (1972a, p. 188). Ma non è tutto: l’habitus - che, non dobbiamo dimenticarlo, è un sistema di disposizioni, cioè di virtualità, di potenzialità - si rivela solo rispetto a una situazione determinata (e qui già vediamo per esempio come sia assurdo ridurre le mie analisi dell’eredità culturale a un rapporto diretto e meccanico tra professione del pa­ dre e professione del figlio). L’habitus deve essere concepito come una sorta di molla in attesa che la si faccia scattare e, a seconda degli stimoli e della struttura del campo, lo stesso habitus può generare pratiche diverse, o anche opposte. E qui potrei citare come esempio uno studio che abbiamo fatto sui vescovi (Bourdieu e de Saint Martin, 1982). I vescovi vivono molto a lungo, e se li si osserva in sincronia, ci si trova di fronte a persone tra i trentacinque e gli ottanta anni, diventate vescovo nel 1936, nel 1945, o nel 1980, quindi con habitus costituitisi in stati molto diversi del campo religioso. I figli di nobili, che negli anni trenta sarebbero diventati vescovi a Meaux e a Chartres e avrebbero of-

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ferto da baciare ai fedeli l’anello in una relazione di tipo aristo­ cratico, quasi feudale, oggi sono «vescovi rossi» a Saint-Denis, cioè membri del clero attivi nella difesa di certe categorie di do­ minati: lo stesso habitus aristocratico di alterigia, di distanza e separazione rispetto al «medio» e al «piccolo», alla media (cioè ri­ spetto ai vescovi provenienti dalle classi medie e dalla piccola bor­ ghesia, statisticamente e sociologicamente predominanti nella Chiesa del 1980, mentre erano una eccezione nella Chiesa degli anni trenta) e nello stesso tempo rispetto al banale, all’ordinario, al comune, può produrre comportamenti diametralmente opposti dovuti alla trasformazione della situazione nella quale funziona.

Dunque Lei respinge il modello deterministico che le viene attribuito con la definizione: « le strutture producono l’habitus, che determina le pratiche, che riproducono le strutture» (jenkins, 1982; Gorder, 1980; Giroux, 1982, p. p), cioè l’idea secondo la quale la posizione nella struttura determina direttamente la strategia sociale. Per la verità i condizionamenti connessi a una data posizione operano solo attraverso il filtro multiplo delle disposizioni acquisite e attive lungo la traiettoria biografica dell’agente, come pure attraverso la sto­ ria strutturale di questa posizione nello spazio sociale. I modelli circolari e meccanici di questa sorta sono proprio quello che la mia nozione di habitus mira a distruggere (1980!). Nello stesso tempo riesco a capire interpretazioni simili: essendo le disposizioni stesse socialmente determinate, le analisi che con­ siderano contemporaneamente sia gli effetti di posizione che quelli di disposizione possono essere percepite come straordina­ riamente deterministiche. La nozione di habitus rende conto del fatto che gli agenti sociali non sono né particelle di materia determinate da cause esterne, né piccole monadi guidate esclusi­ vamente da ragioni interne, o che eseguano una sorta di pro­ gramma di azione perfettamente razionale. Gli agenti sociali sono il prodotto della storia, della storia di tutto il campo sociale e dell’esperienza accumulata nel corso di una determinata traiet­ toria nel sottocampo considerato. Così, per capire che cosa farà il professor A o B in una data congiuntura, per esempio nel mag­ gio ’68, o in qualsiasi altra circostanza della normale esistenza universitaria, bisognerà sapere che posizione occupa nello spazio universitario, ma anche come sia arrivato a quella posizione e a

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partire da quale punto origine nello spazio sociale: la maniera in cui si accede a una posizione è inscritta nell’habitus. In altri ter­ mini, gli agenti sociali determinano attivamente, attraverso categorie di percezione e di valutazione socialmente e storica­ mente determinate, la situazione che li determina. Si può anche dire che gli agenti sociali sono determinati solo nella misura in cui si determinano; ma le categorie di percezione o di valutazione che sono alla base di questa (auto)determinazione sono a loro volta in gran parte determinate dalle condizioni economiche e sociali che le hanno costituite. Detto questo, poi sarà anche possibile servirsi della conoscenza di tali meccanismi per sottrarvisi e ad esempio per prendere le distanze dalle proprie disposizioni. Gli stoici arrivavano a dire che da noi dipende non il primo movimento, ma solo il secondo. E difficile controllare la prima inclinazione dell’habitus, ma l’ana­ lisi riflessiva, che ci insegna che siamo noi a dare alla situazione una parte della forza che essa esercita su di noi, ci permette di lavorare per modificare la nostra percezione della situazione e con ciò la nostra reazione. Ci rende capaci di controllare, fino a un certo punto, alcuni condizionamenti che vengono esercitati attraverso il rapporto d’immediata complicità tra posizione e disposizione. In fondo, il determinismo può agire pienamente solo grazie all’inconsapevolezza, con la complicità dell’inconscio. Perché si possa esercitare senza limitazioni è necessario che le disposizioni siano lasciate al loro libero gioco. Questo significa che gli agenti possono avere qualche possibilità di diventare qualcosa di simile a dei «soggetti» solo a condizione che siano capaci di controllare coscientemente il rapporto che hanno con le loro disposizioni, sce­ gliendo di lasciarle «agire» o al contrario di inibirle, o meglio di sottometterle a «volontà oblique», opponendo una disposizione a un’altra, secondo una strategia che Leibniz aveva immaginato per governare le passioni. Ma questo lavoro di gestione delle pro­ prie disposizioni è possibile solo a costo di un lavoro costante e metodico di esplicitazione. In mancanza di un’analisi dei sottili condizionamenti che operano attraverso le disposizioni, ci si fa complici dell’azione inconscia delle disposizioni che è complice a sua volta del determinismo.

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Sostituendo la relazione costruita tra l’habitus e il campo alla relazione apparente tra l’«attore» e la «struttura» Lei reintroduce il tempo nel cuore dell’analisi sociologica,^ svelando a contrario, le carenze della concezione detemporalizzata dell’azione che informa le visioni strutturaliste o razionaliste dell’azione. La relazione tra l’habitus e il campo concepiti come due modi di esistenza della storia permette di fondare una teoria della tempora­ lità che rompe simultaneamente con due filosofie contrapposte: da un lato con la visione metafisica che considera il tempo come una realtà in sé, indipendente dall’agente (con la metafora del fiume) e dall’altro con una filosofia della coscienza. Lungi dall’essere una condizione a priori e trascendentale della storicità, il tempo è quello che l’attività pratica produce nell’atto stesso col quale produce se stessa. Poiché la pratica è il prodotto di un habitus, che è a sua volta il prodotto dell’incorporazione delle regolarità e delle tendenze im­ manenti del mondo, essa contiene in sé un’anticipazione di quelle regolarità e tendenze, cioè un riferimento non tetico a un futuro inscritto nell’immediatezza del presente. Il tempo si genera nell’ef­ fettuazione stessa dell’atto (o del pensiero) come attuazione di una potenzialità che è per definizione presentificazione di un inattuale e depresentificazione di un attuale, quindi proprio quello che il senso comune descrive come «passaggio» del tempo. La pratica - salvo eccezioni - non costituisce il futuro come tale, all’interno di un progetto o di un piano stabiliti mediante un atto di volontà consapevole e deliberata. L’attività pratica, nella misura in cui ha un senso, quando è sensata, ragionevole, generata cioè da habitus che siano stati aggiustati sulle tendenze immanenti del campo, tra­ scende il presente immediato attraverso la mobilitazione pratica del passato e l’anticipazione pratica del futuro inscritto nel presente allo stato di potenzialità oggettiva. Poiché implica un riferimento pratico al futuro implicato nel passato di cui esso è il prodotto, l’habitus si temporalizza nell’atto stesso attraverso il quale si realizza. Bisognerebbe precisare, affinare e diversificare questa analisi, ma volevo solo far intravedere come la teoria della pratica condensata nella nozione di campo e di habitus permette di sbarazzarsi della rappresentazione metafisica del tempo e della storia come realtà in sé, esterne e anteriori alla pratica, senza per questo abbracciare la filosofia della coscienza che regge la visione della temporalità quale la ritroviamo in Husserl o nella teoria dell’azione razionale.

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PARTE PRIMA

Potremmo dire che la sua riflessione sul tempo la porta a uno sto­ ricismo radicale, fondato sull’identificazione dell’essere (sociale) e della storia, o del tempo?

L’habitus, in quanto struttura strutturante e strutturata, mobi­ lita nelle pratiche e nel pensiero schemi pratici derivati dall’incor­ porazione - attraverso il processo storico della socializzazione, l’on­ togenesi - di strutture sociali, a loro volta derivate dal lavoro storico di generazioni successive, la filogenesi. Proprio l’afferma­ zione di questa duplice storicità delle strutture mentali distingue la prasseologia da me proposta dai tentativi di costruire una prag­ matica universale, sul genere di quelli di Apel e di Habermas. (Ovviamente questa non è la sola differenza, per esempio io rifiu­ to completamente la distinzione tra azione strumentale e azione comunicativa, assolutamente inoperante nel caso delle società precapitalistiche e mai davvero compiuta nemmeno nelle socie­ tà più differenziate). Per mettere un po’ in difficoltà, en passant, l’antinomia tra storico e universale, potremmo osservare che l’ana­ lisi prasseologica è portata a tener conto della storicità, quindi della relatività delle strutture cognitive, pur prendendo atto del fatto che gli agenti mettono universalmente in opera tali strutture storiche.

Dunque, questa duplice storicità dell’habitus secondo lei è ilfon­ damento antropologico della logica della riproduzione sociale, che è soggetta, ovviamente, a delle trasformazioni, o meglio, che presup­ pone in molti casi, la trasformazione.

Lungi dall’essere il prodotto automatico di un processo mec­ canico (del tipo struttura-habitus-struttura), la riproduzione dell’ordine sociale si compie solo mediante strategie e pratiche attraverso le quali gli agenti acquistano una dimensione tempo­ rale e contribuiscono a realizzare il tempo del mondo (questo tut­ tavia non impedisce che qualche volta, per esempio nell’attesa, nell’impazienza, nell’incertezza ecc., lo percepiscano come una realtà trascendente sulla quale non hanno alcuna presa). Per esem­ pio, tutti sanno che i corpi sociali hanno abitudini, tendenze im­ manenti a perseverare nel loro essere, qualcosa che assomiglia a una memoria o a una fedeltà, e che in realtà è solo la «somma» di tutti i comportamenti di agenti che, forti del loro «mestiere», generano (entro i limiti dei vincoli inscritti nei rapporti di forza

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HABITUS, ILLUSIO E RAZIONALITÀ

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costitutivi del campo di cui fanno parte e dei conflitti che li con­ trappongono) comportamenti adeguati alla situazione (così come loro la percepiscono, anche in funzione del loro «mestiere»), quindi fatti apposta (senza che però siano stati voluti come tali) per riprodurre la struttura di cui hanno incorporato la necessità. Ma sono anche innumerevoli strategie di riproduzione - indipen­ denti, spesso fino al conflitto, e nello stesso tempo orchestrate di tutti gli agenti implicati, che contribuiscono continuamente a riprodurre la struttura sociale, ma con rischi e fallimenti, deri­ vati dalle contraddizioni inerenti alle strutture e dai conflitti o dalla concorrenza tra gli agenti coinvolti (penso per esempio a tutte le contraddizioni, a tutti i condizionamenti contradditori, a tutte le sofferenze generatrici di cambiamento risultanti dalla logica statistica - e non meccanica «tale il padre, tale il figlio» del modo di riproduzione su base scolastica). Insomma, escludere i «soggetti» (che sono sempre possibili, come una sorta di caso limite ideale) cari alla tradizione delle filosofie della coscienza, non vuol dire annientare gli agenti a vantaggio di una struttura ipostatizzata, come fanno alcuni marxisti strutturalisti. E questo nonostante che gli agenti siano il prodotto di quella struttura e contribuiscano a perpetuarla, il più delle volte però più o meno profondamente trasformata, e nonostante che non sia escluso che la possano trasformare radicalmente, benché sempre in condi­ zioni strutturali ben definite. Però non sono molto contento di questa risposta, perché sono consapevole che, nonostante tutte le correzioni che vi abbia potuto apportare, sia verbalmente che mentalmente (queste ul­ time è vero non le può sentire nessuno... ma un buon lettore, che abbia cura di applicare il «principio di carità», dovrebbe appor­ tarle da sé), mi sono lasciato indurre o trascinare a semplificazioni che sono la contropartita inevitabile, temo, del «parlare teorico». Di fatto, la vera risposta a tutte le domande che Lei mi ha rivolto, soprattutto sulla logica della riproduzione sociale, è contenuta secondo me nelle cinquecento pagine di La Noblesse d’Etat, cioè nell’insieme delle analisi, teoriche e nello stesso tempo empiriche, con le quali soltanto è possibile articolare, in tutta la sua com­ plessità, il sistema di relazioni tra strutture mentali e strutture sociali, tra habitus e campi, e la dinamica che è loro immanente.

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La violenza simbolica

In Ce que parler veut dire (1982 a), Lei critica la linguistica strut­ turale 0 ciò che potremmo chiamare l’analisi pura del linguaggio, e propone un modello alternativo che, per semplificare, tratta il lin­ guaggio più come uno strumento, o un supporto ai rapporti di potere, che come un semplice mezzo di comunicazione che deve essere stu­ diato nei contesti interazionali e strutturali della sua produzione e della sua circolazione. Quel che caratterizza la linguistica «pura» è la priorità che essa attribuisce alla prospettiva sincronica e strutturale, o interna, ri­ spetto alle determinazioni storiche, sociali, economiche, o esterne, del linguaggio. Io ho cercato, specialmente in Le Sens pratique e in Ce que parler veut dire (1980!, pp. 51-70, e 1982a, pp. 13-95 rispettivamente) di richiamare l’attenzione sulla relazione con l’og­ getto e sulla teoria della pratica, implicate in tale prospettiva. Il punto di vista saussuriano è quello dello «spettatore imparziale» che cerca la comprensione per la comprensione ed è quindi indotto a prestare la stessa «intenzione ermeneutica» agli agenti sociali, e a farne il principio delle loro pratiche. E la posizione del gram­ matico che si propone di studiare e di codificare il linguaggio in contrapposizione a quella dell’oratore che cerca di agire nel mondo e sul mondo grazie all’efficacia performativa della parola. Coloro che considerano il linguaggio come un oggetto di analisi, invece di utilizzarlo per pensare e per parlare, sono portati a costituirlo come Àô'/oç in contrapposizione a una jtQà^ig, come lettera morta senza fini pratici o senz’altra finalità che quella di essere inter­ pretata, analogamente a una opera d’arte.

4- LA VIOLENZA SIMBOLICA

IO?

Questa visione tipicamente scolastica è un prodotto del punto di vista e della situazione scolastica da cui è uscita: la parentesi scolastica entro la quale il linguaggio viene posto neutralizza le funzioni implicate nel suo uso abituale. Il linguaggio, in Saussure ma anche nella tradizione ermeneutica, è considerato lettera morta (scritta e straniera, come dice Bachtin), come sistema autosuffi­ ciente completamente separato dagli usi reali e privato delle sue funzioni pratiche e politiche (come nella semantica pura di Fodor e Katz). L’illusione dell’autonomia dell’ordine puramente lingui­ stico assicurata dal privilegio che viene così attribuito alla logica interna del linguaggio, a scapito delle condizioni sociali e dei fatti correlati con il suo uso sociale, apre le porte a tutte le teorie che si comportano come se il controllo teorico del codice bastasse a conferire il controllo pratico degli usi socialmente appropriati.

Con questo Lei vuole forse dire che, contrariamente a quanto pre­ tende la linguistica strutturale, non è possibile far derivare 0 dedurre il senso delle espressioni linguistiche dall’analisi della loro struttura formale? La grammaticalità non è la condizione necessaria e sufficiente della produzione del senso e il linguaggio non è fatto per essere sottoposto a un’analisi linguistica, ma per essere parlato e parlato opportunamente. (I sofisti solevano dire che ciò che più conta nell’apprendimento del linguaggio è l’apprendimento del momento appropriato, xaipóg, per dire la cosa appropriata). Tutti i presup­ posti dello strutturalismo e le difficoltà che ne conseguono - sia in antropologia che in sociologia - derivano dalla filosofia intel­ lettualistica dell’azione umana che li sottende; sono tutti conte­ nuti nell’operazione iniziale che riduce il linguaggio a un atto di pura esecuzione. Proprio la distinzione iniziale tra la lingua e la sua realizzazione nella parola, cioè nella pratica e nella storia, è all’origine dell’incapacità dello strutturalismo di pensare il rap­ porto tra queste due entità in termini diversi da un rapporto tra modello e sua esecuzione, tra essenza ed esistenza. Mettendo in discussione questa posizione ho anche tentato di superare le carenze di un’analisi o puramente economica o pura­ mente linguistica del linguaggio, di far saltare l’abituale opposi­ zione tra materialismo e culturalismo. In effetti, per riassumere una dimostrazione lunga e difficile in una sola frase, si può dire

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PARTE PRIMA

che queste due posizioni hanno in comune il fatto di dimenticare che le relazioni linguistiche sono sempre rapporti di forza simbo­ lica attraverso i quali i rapporti di forza tra i locutori e i loro gruppi rispettivi si attualizzano in forma trasfigurata. Di conseguenza, è impossibile interpretare un atto di comunicazione entro i limiti di un’analisi puramente linguistica.42 Anche il più semplice scambio linguistico mette in gioco una rete complessa e ramificata di rap­ porti di forza storici tra il locutore, dotato di un’autorità sociale specifica, e il suo interlocutore o il suo pubblico, che riconosce la sua autorità a diversi livelli come pure tra i rispettivi gruppi cui appartengono. Quello che cerco di dimostrare è che una parte importante di ciò che viene prodotto nella comunicazione verbale, fino al contenuto stesso del messaggio, resterà inintelligibile fin­ ché non si terrà conto della totalità della struttura dei rapporti di forza presente, per quanto invisibile, nello scambio. Ci potrebbe fare un esempio?

Prenderò l’esempio della comunicazione tra coloni e indigeni in un contesto coloniale o postcoloniale, che è stato il punto di partenza di queste riflessioni. Il primo quesito che ci si pone è quello di sapere che linguaggio utilizzeranno. Il dominante userà il linguaggio del dominato come pegno delle sue intenzioni ugua­ litarie ? Se lo fa, ci sono buone probabilità che la cosa assuma la forma di quella che io chiamo una strategia di condiscendenza (1979a, p.551): abdicando temporaneamente e ostentatamente alla sua posizione dominante per porsi a livello del suo interlocu­ tore, il dominante non cessa di trarre profitto dal suo rapporto di dominio, che continua a esistere, negandolo. La negazione sim­ bolica (nel senso freudiano di Verneinung), cioè la fittizia messa tra parentesi del rapporto di potere, sfrutta quel rapporto di po­ tere allo scopo di produrre il riconoscimento del rapporto di pote­ re che quella abdicazione richiama. Ma torniamo alla situazione, che di fatto è di gran lunga più frequente, in cui è il dominato ad essere obbligato ad adottare il linguaggio del dominante; e qui si può anche pensare al rapporto tra l’inglese standard dei bianchi e l’americano vernacolare dei neri. In questo caso il dominato parla un linguaggio spezzato, come dice William Labov (1973), e il suo capitale linguistico è più o meno completamente svalutato, a scuola come sul lavoro o negli incontri quotidiani col dominante. Una

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cosa che l’analisi della conversazione lascia troppo spesso da parte in questo caso è il fatto che ogni interazione linguistica tra bian­ chi e neri è segnata dalla relazione strutturale tra la loro rispettiva padronanza dell’inglese e dallo squilibrio nel rapporto di forze che dà all’imposizione arbitraria dell’inglese bianco e borghese quella sua aria di naturalezza. Per spingere queste analisi un po’ più oltre, bisognerebbe in­ trodurre coordinate di vario tipo, come il sesso, il livello d’istru­ zione, l’origine di classe, la residenza ecc. Tutte queste variabili intervengono in ogni momento nella determinazione della strut­ tura oggettiva dell’«azione comunicativa», e la forma che assume l’interazione linguistica dipenderà sostanzialmente da quella strut­ tura, che rimane inconscia e funziona quasi sempre «all’insaputa» dei locutori. Insomma, se un francese parla con un algerino, o un americano nero con un wasp, non sono due persone che si par­ lano ma, attraverso di loro, parla tutta la storia coloniale o tutta la storia della sudditanza economica, politica e culturale dei negri (o delle donne, dei lavoratori, delle minoranze ecc.) negli Stati Uniti. Con ciò si può anche vedere, en passant, come la «fissazione [degli etnometodologi] sull’ordinamento immediatamente visi­ bile» (Sharrock e Anderson, 1986, p. 113) e la preoccupazione di mantenere l’analisi più vicina possibile alla «realtà concreta», che ispira l’analisi conversazionale (per es. in Sacks e Schegloff, 1979) e che alimenta l’intenzione microsociologica, possa portare a non cogliere una realtà che si sottrae all’intuizione immediata perché risiede in strutture che sono trascendenti rispetto all’interazione che esse informano.43 Lei sostiene che ogni espressione linguistica è un atto di potere, per quanto dissimulato. Non esistono invece situazioni {come la chiac­ chiera, la conversazione tra intimi o altri «modi di parlare» di tutti i giorni, come quelli analizzati da Goffman, 1981) che sono sia orto­ gonali, sia non pertinenti, rispetto alle strutture di disuguaglianza e nelle quali il comportamento verbale non si trova inscritto in rapporti di dominio? Ogni scambio linguistico contiene la virtualità di un atto di potere, in misura tanto maggiore quanto più esso coinvolge agenti che occupano posizioni asimmetriche nella distribuzione del capitale pertinente. Questa potenzialità può essere messa tra

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PARTE PRIMA

parentesi, come spesso succede in famiglia e nei rapporti di (pizia, in senso aristotelico, in cui la violenza è sospesa in una sorta di patto di non aggressione simbolica. Tuttavia anche in questo caso il rifiuto di esercitare il dominio può essere una dimensione di una strategia di condiscendenza o una maniera di portare la violenza a un grado più elevato di negazione e di dissimulazione, un mezzo per rafforzare l’effetto di misconoscimento e quindi di violenza simbolica.

Lei denuncia anche [’«illusione del comuniSmo linguistico», secondo la quale la competenza sociale per parlare è data a tutti in maniera uguale. Ogni atto di parola e ogni discorso sono una congiuntura, il pro­ dotto dell’incontro tra un habitus linguistico e un mercato lingui­ stico, il che significa che avremo, da un lato, un sistema di dispo­ sizioni socialmente costituite, che implica una propensione a parlare in un certo modo, a formulare un qualche interesse espres­ sivo, oltre a una competenza a parlare definita inscindibilmente come attitudine linguistica a generare una infinità di discorsi gram­ maticalmente conformi e come capacità sociale di utilizzare ade­ guatamente quella competenza in una situazione data; e dall’al­ tro, un sistema di rapporti di forza simbolica che si impongono attraverso un sistema di sanzioni e di censure specifiche, e in tal modo contribuiscono a modellare la produzione linguistica deter­ minando il «prezzo» dei prodotti linguistici. L’anticipazione pra­ tica del prezzo che il mio discorso otterrà contribuisce a determi­ nare la forma e il contenuto del mio discorso, che ne risulterà più o meno teso, più o meno censurato, talvolta fino al silenzio dell’in­ timidazione. Più il mercato è ufficiale o «teso», cioè più è vicino alle norme del linguaggio dominante (possiamo pensare per esem­ pio alle cerimonie della politica ufficiale: inaugurazioni, discorsi, dibattiti pubblici), più la censura è grande e più il mercato è do­ minato dai dominanti, dai detentori della competenza linguistica legittima. (Qui devo aprire una parentesi per correggere una delle formulazioni che ho usate o per correggere almeno il modo in cui rischierebbe d’essere intesa. Dire che l’anticipazione del prezzo probabile del discorso contribuisce a determinare la forma e il con­ tenuto di quel discorso, non significa fare riferimento a un mo­ dello economicistico del linguaggio: questa anticipazione non ha

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III

niente a che fare con il calcolo cosciente; deriva dall’habitus lin­ guistico che è il prodotto di un rapporto prolungato con un certo mercato, e che tende a funzionare come un senso dell’accettabi­ lità e del probabile valore dei propri prodotti linguistici: 1982a). La competenza linguistica non è una semplice capacità tecnica, è anche una capacità statutaria. Questo significa che non tutte le formulazioni linguistiche sono ugualmente accettabili e che non tutti i locutori sono uguali. Saussure, riprendendo una metafora usata prima di lui da Auguste Comte, dice che il linguaggio è un «tesoro» e descrive il rapporto che gli individui hanno col lin­ guaggio come una sorta di partecipazione mistica a un tesoro co­ mune, universalmente e uniformemente accessibile a tutti i « sog­ getti che appartengono a una stessa comunità». Una illusione che ritorna insistente nella linguistica è quella del comuniSmo lingui­ stico, cioè l’illusione che tutti possano prendere parte al linguag­ gio come godono del sole, dell’aria o dell’acqua: in una parola l’il­ lusione che il linguaggio non sia un bene raro. Di fatto l’accesso al linguaggio legittimo è del tutto ineguale e la competenza teori­ camente universale, che i linguisti distribuiscono con tanta libe­ ralità a tutti, è in realtà monopolio di pochi. Le disuguaglianze di competenza linguistica si rivelano costan­ temente sul mercato delle interazioni quotidiane, cioè nella chiac­ chierata tra due persone, in una riunione pubblica, in un semina­ rio, in un colloquio per un’assunzione, alla radio o alla televisione. La competenza funziona in maniera differenziata e sul mercato dei beni linguistici ci sono dei monopoli come sul mercato dei beni economici. Lo si vede bene soprattutto in politica, dove i porta­ voce, per il fatto di detenere il monopolio dell’espressione poli­ tica legittima della volontà di un collettivo, parlano non solo a favore di coloro che rappresentano ma anche, assai spesso, al loro posto. L’attitudine che hanno i portavoce a plasmare la realtà proiettando una rappresentazione definita (schemi classificatori, concetti, defini­ zioni ecc.) della realtà pone il problema del potere delle parole: da dove viene l’efficacia sociale delle parole? A questo proposito Lei si erge ancora una volta contro il modello di comunicazione pura sostenuto da Austin e soprattutto da Habermas, secondo il quale la sostanza linguistica del discorso rende conto dei suoi effetti.

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Bisogna essere molto riconoscenti ai filosofi del linguaggio e in particolare ad Austin per essersi chiesti come accada che noi pos­ siamo «fare delle cose con le parole» (Doing Things with Words, è il titolo inglese), come possa succedere che delle parole producano degli effetti. Come mai se io dico a qualcuno: «apri la finestra», in certe condizioni, quella persona apre la finestra ? (E se sono un vecchio lord inglese che sta leggendo il giornale del sabato, sprofondato nella sua poltrona, può anche darsi che mi basti dire: «John, non trova che faccia un po’ fresco?» e John chiuderà la finestra). Se ci si sofferma un po’, questa attitudine a fare le cose con le parole, questo potere delle parole di dare ordini e di met­ tere ordine appare assolutamente magico. Ma cercare di capire linguisticamente il potere delle espressioni linguistiche, cercare di trovare nel linguaggio il principio dell’ef­ ficacia del linguaggio, significa dimenticare che la sua autorità giunge al linguaggio dall’esterno, come ricorda Benveniste nella sua analisi dello oxfiirrpov che si tendeva all’oratore, secondo Omero, nel momento in cui stava per prendere la parola. L’effi­ cacia non sta in «espressioni illocutorie» o nel discorso stesso, come suggerisce Austin, poiché non è altro che il potere delegato dell’istituzione. (Per essere giusti, nelle sue analisi del linguaggio Austin riservava un posto centrale alle istituzioni, ma i commen­ tatori hanno generalmente dirottato la sua teoria del performa­ tivo verso uno studio delle sue proprietà intrinseche.)44 Il potere simbolico, potere di costituire il dato enunciandolo, di agire sul mondo agendo sulla rappresentazione del mondo, non risiede nei «sistemi simbolici» sotto forma di una «forza illocutoria». Si com­ pie invece entro e mediante una relazione definita che crea la cre­ denza nella legittimità delle parole e delle persone che le pronun­ ciano e riesce ad agire solo fintantoché coloro che lo subiscono riconoscono coloro che lo esercitano. Questo significa che, per rendere conto di questa azione a distanza, di questa trasforma­ zione reale attuata senza contatto fisico, dovremo, come nel caso della magia secondo Marcel Mauss, ricostruire la totalità dello spa­ zio sociale nel quale sono generate ed esercitate le disposizioni e le credenze che rendono possibile l’efficacia della magia del linguaggio.

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Dunque la sua analisi del linguaggio non è una incursione passeg­ gera nell’ambito della linguistica, ma rappresenta l’estensione a un nuovo ambito empirico del metodo di analisi che Lei ha già applicato ad altri prodotti culturali.^ Non ho smesso di battermi contro le frontiere arbitrarie, puro prodotto della riproduzione scolastica e prive di qualsiasi fonda­ mento epistemologico, tra sociologia ed etnologia, sociologia e storia, sociologia e linguistica, sociologia dell’arte e sociologia del­ l’istruzione, sociologia dello sport e sociologia della politica ecc. Penso che non si possa capire pienamente il linguaggio senza ricollocare le pratiche linguistiche nell’universo di tutte le altre pratiche compossibili: le maniere di mangiare e di bere, i consumi culturali, i gusti in fatto di arte, di sport, di abbigliamento e arre­ damento, di politica ecc. Perché attraverso l’habitus linguistico, che ne è solo una dimensione, si esprime la totalità dell’habitus di classe, e dunque la posizione occupata sincronicamente e diacro­ nicamente nella struttura sociale. Il linguaggio è una tecnica del corpo e la competenza linguistica, e soprattutto fonetica, è una di­ mensione dell’ë^Lç corporea nella quale si esprime l’intero rapporto col mondo sociale. Da molte cose ci viene per esempio suggerito che lo schema corporeo caratteristico di una classe sociale deter­ mina il sistema di tratti fonetici che caratterizzano una pronun­ cia di classe attraverso quello che Pierre Guiraud chiama lo «stile articolatorio». Questo stile articolatorio è parte integrante di uno stile di vita «fatto corpo» ed è in stretto rapporto con gli usi del corpo e del tempo che definiscono specificamente quello stile di vita. (Non è un caso che la distinzione borghese investa il suo rap­ porto col linguaggio della stessa intenzione di distanziazione che immette nel suo rapporto col corpo). Un’analisi sociologica, nello stesso tempo strutturale e gene­ tica, del linguaggio deve fondare teoricamente e restaurare empi­ ricamente l’unità delle pratiche umane, tra cui quelle linguistiche rappresentano solo una delle configurazioni possibili, in modo da prendere come oggetto il rapporto che unisce i sistemi strutturati delle differenze linguistiche sociologicamente pertinenti ai sistemi analogamente strutturati delle differenze sociali.46

Così, secondo Lei, il senso e l’efficacia sociale dei messaggi ven­ gono interamente determinati solo all’interno di un campo determi­

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PARTE PRIMA

nato (per esempio il giornalismo o la filosofia), che è a sua volta inserito in una rete di rapporti gerarchici con altri campi. Senza una comprensione della struttura complessiva dei rapporti oggettivi che definiscono le posizioni in quel campo e delle forme specifiche di cen­ sura che ognuna di esse implica, senza una conoscenza dei percorsi e delle disposizioni linguistiche di coloro che occupano quelle posizioni, è impossibile spiegare pienamente i processi di comunicazione: perché una cosa venga detta o non detta, da chi, che significato abbia e che cosa si capisca, e soprattutto, con quali effetti sociali.

E quello che ho cercato di dimostrare nel mio studio su L’On­ tologie politique de Martin Heidegger (1975e, 1988dl,47 studio al quale mi ha portato la logica della mia ricerca sul linguaggio e sulla nozione di campo. L’opera di Heidegger (che ho incominciato a frequentare assai presto, in una epoca della mia giovinezza in cui preparavo un libro sulla fenomenologia della vita affettiva e l’espe­ rienza temporale) mi è parsa come un terreno particolarmente favorevole per verificare le mie ipotesi sull’effetto di censura eser­ citato dai campi di produzione culturale. Heidegger è un maestro - mi verrebbe voglia di dire il maestro - del linguaggio doppio, o, se si preferisce, del discorso polifonico. Possiede l’arte di parlare simultaneamente in due modi, quello del linguaggio filosofico e quello del linguaggio ordinario. Lo si può vedere con particolare chiarezza nel concetto apparentemente «puro» di Fürsorge (cura, preoccupazione), che ha un ruolo fondamentale nella teoria hei­ deggeriana del tempo, e che nell’espressione soziale Fürsorge, «assistenza sociale», si riferisce al contesto politico e alla condanna dello Stato assistenziale, con le ferie pagate, la previdenza sociale, l’assistenza medica ecc. Ma Heidegger mi interessava anche in quanto incarnazione esemplare del «filosofo puro», e ho voluto dimostrare, attraverso questo caso dall’apparenza così sfavorevole per la sociologia delle opere culturali come la concepisco io, che il metodo di analisi da me proposto poteva non solo rendere conto delle condizioni politiche di produzione dell’opera ma anche portare a una migliore comprensione dell’opera stessa, e dunque giungere, nel caso specifico, all’intenzione centrale dell’opera heideggeriana, l’«ontologizzazione» dello storicismo. Prendere in esame il caso di Heidegger come paradigma del filosofo «puro», astorico, che vieta ed esplicitamente si rifiuta di

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ricollegare il pensiero al pensatore, alla sua biografia e meno che mai alle condizioni economiche e sociali del suo tempo (per cui è sempre stato letto in maniera profondamente destoricizzata) è interessante perché costringe a riconsiderare le connessioni tra fi­ losofia e politica. E quello che vuole suggerire il titolo che ho dato al mio lavoro: l’ontologia è politica e la politica diventa ontologia. Ma in questo caso forse più che in qualsiasi altro, il rapporto intelligibile che esiste tra il «Führer filosofico» e la politica e la so­ cietà tedesca è tutt’altro che diretto e si stabilisce solo attraverso la struttura del microcosmo filosofico. Un’analisi adeguata del di­ scorso di Heidegger presuppone dunque un duplice rifiuto: deve respingere nel contempo sia le pretese di autonomia assoluta del testo filosofico, sia il suo rigetto dei riferimenti esterni; e deve re­ spingere la diretta riduzione del testo al contesto più generale deUa sua produzione e circolazione.

Questo duplice rifiuto è anche il principio guida della sua socio­ logia della letteratura, della pittura, della religione o del diritto (si vedano rispettivamente, 1983c, 1986 c, 1987 g, 1988b, 1991b). In ognuno di questi casi Lei pone le opere culturali in rapporto con il loro campo di produzione e respinge sia la lettura intema sia la ridu­ zione ai fattori esterni. Tenendo conto del campo di produzione specifica e della sua autonomia, che è il prodotto della storia specifica del campo, anche questa non riducibile alla storia «generale», si evitano due errori complementari, che fungono l’un l’altro da termine di con­ trasto e da alibi; l’uno consiste nel considerare le opere come realtà autosufficienti, l’altro invece sta in una loro diretta riduzione alle condizioni economiche e sociali generali. Così per esempio, nelle opposte fazioni a proposito del nazismo di Heidegger si tende a concedere al suo discorso filosofico o troppa o troppo poca auto­ nomia: è un fatto indiscutibile che Heidegger sia stato membro del Partito nazista, ma né il giovane Heidegger, né l’Heidegger maturo sono stati ideologi del nazismo come lo è stato il rettore Krieck. L’interpretazione esterna, iconoclasta, e l’interpretazione interna, laudatoria, hanno in comune una stessa ignoranza dell’ef­ fetto di messa in forma filosofica: non considerano la possibilità che la filosofia di Heidegger sia stata solo la sublimazione filoso­ fica, imposta dalla censura specifica del campo di produzione filo­

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sofico, dei princìpi politici, ma anche etici, che hanno determi­ nato la sua adesione al nazismo. Per poterlo vedere è necessario ripudiare l’opposizione tra lettura politica e lettura filosofica e sot­ toporre a una duplice lettura, inscindibilmente filosofica e politica, scritti fondamentalmente definiti dalla loro ambiguità, cioè dal loro duplice costante riferimento a due spazi sociali ai quali cor­ rispondono due spazi mentali. Così, per cogliere il pensiero di Heidegger, bisogna capire non solo tutte le idées reçues del suo tempo (così come erano espresse negli editoriali dei giornali, nei discorsi universitari, nelle prefa­ zioni a libri filosofici e nelle conversazioni tra professori ecc.) ma anche la logica specifica del campo filosofico nel quale si fronteg­ giavano i grandi specialisti, cioè i neokantiani, i fenomenologi, i neotomisti ecc. Per realizzare la «rivoluzione conservatrice» che Heidegger ha operato in filosofia, egli doveva potersi basare su una straordinaria capacità d’invenzione tecnica, cioè su un capi­ tale filosofico eccezionale (è sufficiente vedere il virtuosismo che manifesta nel suo Kant und das Problem der Metaphysik) e un’atti­ tudine altrettanto eccezionale a dare alle sue prese di posizione una forma filosoficamente accettabile, che presupponeva a sua volta un dominio pratico sulla totalità delle posizioni del campo, un formidabile senso del gioco filosofico. Contrariamente ad altri semplici libellisti o saggisti politici come Spengler, Jünger o Niekisch, Heidegger riesce davvero a integrare prese di posizione filosofiche fino ad allora ritenute incompatibili, in una nuova posi­ zione filosofica. Questo controllo dello spazio dei possibili appare più chiaramente ancora nel secondo Heidegger, che si definisce costantemente in maniera relazionale, confutando in anticipo e attraverso negazioni (freudiane) le rappresentazioni delle sue prese di posizione, passate e presenti, che potrebbero essere prodotte a partire da altre posizioni nel campo filosofico. Le idee politiche di Heidegger Lei le desume, più che da uno stu­ dio del contesto, dalla lettura diretta del testo e dalla delucidazione dei molteplici campi semantici entro i quali funziona. E stata proprio la lettura diretta dell’opera, con i suoi doppi sensi e i suoi duplici intenti a rivelarmi alcune delle più impreve­ dibili implicazioni politiche della filosofia di Heidegger: il rifiuto dello Stato assistenziale celato nel cuore della teoria della tempo­

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ralità, l’antisemitismo sublimato in condanna dell’«errare», il ri­ fiuto di denunciare il suo precedente appoggio al nazismo inscritto nelle tortuose allusioni del suo dialogo con Jünger ecc. Tutte cose che si potevano trovare direttamente nei suoi testi, come ho di­ mostrato nel 1975, ma che restavano inaccessibili ai custodi dell’ortodossia della lettura filosofica i quali, come aristocratici in declino, e come lo stesso Heidegger, nel quale si riconoscevano, alla minaccia che il progresso delle scienze sociali faceva incom­ bere sul loro senso della differenza, della distinzione, risponde­ vano tenendosi ben stretti alla sacra differenza tra ontologia e antropologia. L’analisi puramente logica e l’analisi puramente politica sono entrambe inadatte a render conto di un discorso dop­ pio, la cui verità risiede nel rapporto tra sistema dichiarato e sistema rimosso. Contrariamente a quanto spesso si pensa, la comprensione ade­ guata di una filosofia non richiede quella specie di destoricizzazione mediante eternizzazione che compie la lettura atemporale dei testi canonici concepiti come philosophia perennis , e meno che mai quella sorta di continua «riverniciatura» con cui si cerca di adattarli al dibattito del momento, a volte a costo di contorcimenti e distorsioni davvero incredibili (quando sento che «Heidegger ci aiuta a pensare l’olocausto» faccio fatica a credere di non sognare; ma forse io non sono abbastanza «postmoderno»!). Nasce piut­ tosto da una storicizzazione autentica che permette di scoprire il principio soggiacente all’opera attraverso la ricostruzione della problematica, dello spazio dei possibili rispetto ai quali si è costruita, e l’effetto del campo specifico che le ha dato la forma che ha assunta.

La pubblicazione in volume di L’Ontologie politique de Mar­ tin Heidegger, una decina d’anni dopo la prima pubblicazione in tedesco, è stata anche un’occasione di porre la questione dell’acceca­ mento politico della filosofia, o almeno degli usi politici della filoso­ fia da parte di alcuni suoi praticanti. Ho colto l’occasione della controversia sorta attorno all’opera di Heidegger, nella quale alcuni filosofi hanno manifestato più chiaramente che mai il loro irrealismo politico, per far emergere le implicazioni politicamente ambigue di una certa maniera di con­ cepire la filosofia che si è diffusa in Francia a partire dagli anni

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sessanta; una visione della filosofia, che soprattutto attraverso l’esaltazione delle opere di Nietzsche o di Heidegger, conduce a un estetismo della trasgressione, a una forma di radicai chic, come dicono i miei amici americani, estremamente ambigua intellet­ tualmente e politicamente. Da questo punto di vista il mio lavoro - penso in particolare a L’Amour de l'art** oaLa Distinction - si colloca agli antipodi della posizione o della posa filosofica che, da Sartre in poi, ha sempre implicato una dimensione estetica. La critica, non della cultura, ma degli usi sociali della cultura come capitale e strumento di do­ minio simbolico, è incompatibile con il divertimento estetizzante - spesso nascosto dietro una facciata «scientifica» come in Barthes o in «Tel Quel», per non parlare di Baudrillard - caro ai filosofi francesi che hanno portato l’estetizzazione della filosofia a un li­ vello mai raggiunto. Così «il caso Heidegger» ha rappresentato per me una occa­ sione di dimostrare che l’estetismo filosofico è radicato nell’aristocraticismo sociale, fondato a sua volta su un disprezzo per le scienze sociali poco adatto a favorire una visione realistica del mondo sociale e che, senza necessariamente comportare «errori» mostruosi come la grosse Dummheit di Heidegger, può avere serie implicazioni per la vita intellettuale e, indirettamente, per la vita politica. Non è un caso che i filosofi francesi degli anni sessanta, il cui progetto filosofico si è costituito attraverso un rapporto fon­ damentalmente ambivalente con le scienze umane, e che non hanno mai ripudiato i privilegi di casta connessi allo statuto di filosofo, abbiano riportato a nuova vita in tutto il mondo, ma so­ prattutto negli Stati Uniti, la vecchia critica delle scienze sociali e abbiano alimentato, sotto il nome di decostruzione e di critica testuale, una forma appena velata d’irrazionalismo chiamato tal­ volta, senza che si sappia troppo bene perché, postmoderno o postmodernista.

La sua analisi di Heidegger, e più generalmente delfunzionamento del discorso filosofico,*9 presuppone e richiede un’analisi della posi­ zione oggettiva della sociologia nel suo rapporto con la filosofia. A partire dalla seconda metà del secolo xix, la filosofia europea si è costantemente definita in contrapposizione alle scienze sociali, in particolare contro la psicologia e la sociologia, e attraverso di

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loro, contro ogni forma di pensiero che potesse essere esplicita­ mente e immediatamente interessata alle realtà «volgari» del mondo sociale. Il rifiuto di derogare mettendosi a studiare oggetti supposti inferiori o facendo uso di metodi «impuri», quali possono essere l’indagine statistica o anche la semplice analisi storiografica di documenti, da sempre condannati come «riduzionistici», «po­ sitivistici» ecc., va di pari passo col rifiuto di immergersi nella con­ tingenza delle cose storiche, che induce i filosofi più preoccupati della dignità connessa al loro statuto a ritornare sempre (e qualche volta per le strade più inaspettate, come oggi Habermas) al pen­ siero più tradizionalmente «universale» ed «eterno». Diversi tratti specifici della filosofia francese a partire dagli anni sessanta si possono spiegare col fatto che, come ho già di­ mostrato in Homo academicus, l’università e il campo intellettuale sono stati dominati per la prima volta da specialisti in scienze umane (come Lévi-Strauss, Dumézil, Braudel ecc.). Il nucleo cen­ trale di tutte le discussioni dell’epoca è slittato verso la linguistica, che è stata eretta a modello di tutte le scienze umane, oltre che di operazioni filosofiche come quella di Foucault. Ne è derivato un fenomeno che io ho chiamato l’effetto «-logia», per designare gli sforzi compiuti dai filosofi nel tentativo di prendere a prestito metodi e apparenze della scientificità dalle scienze sociali senza abbandonare lo statuto privilegiato del «filosofo»: penso alla semio/ogiö letteraria di Barthes, all’archeo/ogz’fl di Foucault, alla grammato/ogza di Derrida, o al tentativo degli althusseriani di pre­ sentare una lettura «scientifica» del testo di Marx, istituendolo come scienza misura di tutte le scienze, e come scienza autosuffi­ ciente e autonoma (1975 b).

Tutto questo ha l’aria di una condanna a morte della filosofia. Secondo Lei è ancora possibile una missione specifica della filosofia, assediata com'e oggi da ogni parte dalle diverse scienze sociali? La sociologia è forse votata a detronizzare la disciplina regina e a ren­ derla obsoleta? E davvero giunta l’ora di una «filosofia sociologica» (Collins, 1988-89) o quest’espressione è un ossimoro?

Il fatto di richiamare l’attenzione sulle condizioni nelle quali il pensiero filosofico giunge a compimento - che si tratti della situazione scolastica di o/okf], della chiusura del mondo accademico su se stesso, col suo mercato protetto e le sue clientele assicurate,

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o, più ampiamente, della sua distanza da ogni tipo di necessità e ur­ genza, non è affatto una condanna della filosofia e ancor meno una denuncia polemica che miri a relativizzare tutte le conoscenze e le forme di pensiero. Lungi dal portare alla distruzione della filosofia, un’analisi sociologica che la ricollochi nel campo di produzione cul­ turale e nello spazio sociale è il solo mezzo per capire appieno le fi­ losofie e il loro susseguirsi, liberando così i filosofi dall’impensato inscritto nella loro eredità (1983a, p. 52; 1990e). Un’analisi socio­ logica dà loro modo di scoprire tutto ciò che i loro più comuni stru­ menti di pensiero, concetti, problemi, tassonomie, devono alle con­ dizioni sociali della loro (ri)produzione e alle determinazioni inscritte nella filosofia sociale inerente alla funzione e ai modi di funzionare dell’istituzione filosofica. Essi potrebbero riappropriarsi in tal modo dell’impensato sociale del loro pensiero. Ma Lei direbbe che la sua opera appartiene alla filosofia? La domanda non ha molto senso per me. E so fin troppo bene quale sarebbe la risposta dei filosofi più attenti a difendere il loro orticello. Se volessi dare una visione un po’ idealizzata del mio percorso intellettuale, direi che è un’impresa che mi ha permesso di realiz­ zare, almeno ai miei occhi, l’idea che avevo della filosofia; che è un’altra maniera per dire che non tutti e non sempre quelli che comunemente chiamiamo filosofi sono conformi a quest’idea... Sarebbe però una visione un po’ falsata perché in ogni biografia c’è sempre una parte rilevante dovuta alla fortuna; la maggior parte delle cose che ho fatto non le ho scelte. Nello stesso tempo in questa risposta c’è un nocciolo di verità: credo infatti che, con­ siderato lo sviluppo delle scienze sociali, diventi sempre più im­ possibile prescindere dalle realizzazioni e delle tecniche di queste scienze, benché la cosa non sembri affatto turbare la maggior parte dei filosofi. Penso in ogni caso di aver avuto molta fortuna per essere riuscito a sottrarmi all’illusione della «pagina bianca e della penna». Mi basta aprire un qualunque recente trattato (francese) di filosofia politica per immaginare quello che avrei potuto dire se avessi avuto come unica dotazione intellettuale la mia forma­ zione filosofica. Che tuttavia ritengo essere stata assolutamente determinante. Non passa giorno che non legga o rilegga opere filosofiche, soprattutto, lo devo confessare, autori inglesi o tede­

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schi. Mi trovo costantemente a lavorare con filosofi e costantemente faccio lavorare i filosofi. Ma la differenza per me sta nel fatto che gli strumenti filosofici - e questo è senz’altro un po’ dissacrante - sono esattamente sullo stesso piano degli strumenti matematici: non vedo nessuna differenza ontologica tra un con­ cetto di Kant o di Platone e un’analisi fattoriale...

Visto che stiamo parlando di teoria, vorrei affrontare un enigma. Lei viene spesso presentato e letto come un « teorico sociale» (e, come Lei sa, si tratta di un tipo ben definito nella galleria dei personaggi sociologici possibili negli Stati Uniti). Ciò nonostante rimango col­ pito dalla rarità nella sua opera di proposte puramente teoriche. Lei si riferisce continuamente a problemi particolari di ricerca e a diffi­ coltà incontrate nel rilevare, codificare o analizzare dati, o nel costruire un oggetto particolare. Nel suo seminario di ricerca dell’Ecole des hautes études en sciences sociales a Parigi Lei avvisava subito il suo uditorio che non si doveva aspettare «esposizioni chiare su habitus e campo». E nemmeno le piace discutere di concetti da Lei elaborati, separandoli dal loro supporto empirico. Ci potrebbe spiegare il posto che occupa la teoria nella sua opera? Non ho bisogno di dire che la percezione di un’opera dipende, oltre che dalla tradizione intellettuale, anche dal contesto poli­ tico in cui si situano i lettori. In effetti, attraverso le strutture mentali che impone a coloro che vi si trovano inseriti, e in parti­ colare attraverso delle opposizioni strutturanti connesse alle discussioni del momento (per esempio riproduzione/resistenza in Inghilterra, macro/micro negli Stati Uniti ecc.) è l’intera strut­ tura del campo di ricezione che viene a frapporsi tra l’autore (o la sua opera) e il lettore. Ne derivano distorsioni di ogni tipo, spesso alquanto sorprendenti e qualche volta anche dolorose. Quello che più stupisce nel mio caso è lo scarto tra la ricezione che si è avuta in Francia e quella all’estero. Per una serie di ra­ gioni (in particolare perché coloro che avrebbero dovuto prestarvi attenzione, come i filosofi, non hanno voluto vederle; ma anche e soprattutto perché erano celate da quella che veniva percepita come la dimensione politica, critica, addirittura polemica del mio lavoro) le implicazioni teoriche, i fondamenti antropologici delle mie ricerche - la teoria della pratica, la filosofia dell’azione ecc. sono passati quasi completamente inosservati in Francia. E que-

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sto a tutto vantaggio di discussioni molto scolastiche, legate a una concezione molto vecchia del dibattito intellettuale, sul determi­ nismo e la libertà, sul relativismo, e altre (tristi) «topiche» risa­ lenti al periodo tra le due guerre, perpetuati probabilmente dalla sottomissione al marxismo di parecchi intellettuali, oltre che dall’inerzia delle problematiche scolastiche veicolate dall’inse­ gnamento della filosofia. Ma il punto essenziale, io credo, è che sono state viste soltanto tesi politiche - sul sistema scolastico e più specificamente sulla cultura - in quello che io vedevo invece come un tentativo di costruire un’antropologia generale fondata su un’analisi storica delle caratteristiche specifiche delle società contemporanee. Questo occultamento delle mie ragioni profonde è probabilmente dovuto anche in parte al fatto che non ho mai voluto rassegnarmi a produrre discorsi generali sul mondo sociale in generale, e ancora meno metadiscorsi universali sulla cono­ scenza di tale mondo. Ritengo infatti che quando il discorso sulla pratica scientifica si sostituisce alla pratica scientifica stessa, sia assolutamente disastroso. La vera teoria è quella che si compie e scompare nel lavoro scientifico che essa ha consentito di produrre. Non mi piace la teoria che mostra se stessa, che si fa vedere, la teoria fatta per essere vista, per dar nell’occhio. Sono consape­ vole del fatto che non si tratta di un gusto molto diffuso dati i tempi che corrono. Della riflessione epistemologica ci si fa spesso un’idea che porta a concepire la teoria o l’epistemologia come una sorta di discorso vago e vuoto su una pratica scientifica assente. Per me la rifles­ sione teorica si manifesta solo dissimulandosi nella pratica scien­ tifica che essa informa. Potrei ricordare in proposito il per­ sonaggio del sofista Ippia. In Ippia minore, Ippia è una specie di idiota, incapace di elevarsi al di sopra del caso particolare. Interrogato sull’essenza del Bello, risponde ostinandosi a enume­ rare esempi particolari: una bella pentola di minestra, una bella ragazza ecc. Di fatto, come ha dimostrato Dupréel, egli obbedi­ sce a un’esplicita intenzione di rifiutare la generalizzazione e la reificazione dell’astrazione che essa favorisce. Non condivido la filosofia di Ippia (sebbene tema sopra ogni cosa la reificazione dell’astrazione così frequente nelle scienze sociali), ma penso che si possa pensare correttamente solo attraverso casi empirici teo­ ricamente costruiti.

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Non potrà comunque negare che nella sua opera ci sia una teoria o, per essere più precisi, un insieme di «strumenti di pensiero», per utilizzare una nozione di Wittgenstein, di applicabilità generale.

Certo, ma quegli strumenti sono visibili solo nei risultati che producono e non sono subito costruiti come tali. Per esempio, uno strumento come la nozione di capitale culturale,50 che avevo pro­ posto negli anni sessanta per cercare di dare conto del fatto che, una volta verificate la condizione economica e l’origine sociale, gli studenti provenienti da famiglie più colte non solo presentano tassi di successo scolastico più elevati, ma manifestano anche di­ versi modi di consumo e di espressione culturale - quella nozione, dicevo, trae i propri fondamenti dai problemi e dalle difficoltà pratiche incontrate nella ricerca e generate nello sforzo di costruire un insieme di oggetti fenomenicamente diversi in modo tale che potessero essere pensati comparativamente. Il filo che lega ogni mia ricerca a quella successiva è una logica inscindibilmente empirica e teorica. Le idee teoriche che consi­ dero più importanti le ho trovate nella pratica, nel corso di una intervista o mentre impostavo i codici di un questionario. Per esempio, la critica delle tassonomie sociali che mi ha portato a ripensare da cima a fondo il problema delle classi sociali (1984a, 1987 j) è nata da riflessioni sulle difficoltà concrete che ho incon­ trato nel classificare le professioni di coloro che dovevano rispondere. Questo mi ha permesso di sottrarmi alle discussioni vaghe e verbose sulle classi, che non fanno altro che ripetere all’infinito un immaginario confronto tra Marx e Weber. Qual è la differenza tra la « teoria teoricista » e la sua concezione della teoria?

La teoria non è una specie di discorso profetico o programma­ tico, nato dalla dissezione o dall’amalgama di teorie (che continua ad avere il suo esempio migliore nello schema agil di Parsons, che qualcuno tenta di risuscitare ancora oggi). La teoria scientifica quale la concepisco io si presenta come un programma di perce­ zione e di azione, un habitus scientifico, se si preferisce, che si rivela solo nel lavoro empirico nel quale si realizza.51 Di conse­ guenza, può risultare più vantaggioso affrontare nuovi oggetti che impegnarsi in polemiche teoriche che non fanno altro che ali-

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meritare un metadiscorso autogenerato, e troppo spesso vuoto, su concetti trattati come totem intellettuali. Considerare la teoria come un modus operandi che guida e strut­ tura praticamente la pratica scientifica presuppone ovviamente che si lasci cadere quel compiacimento vagamente feticista che i teorici teoricisti le attribuiscono. Per questo motivo io non ho mai sentito la necessità di ricostruire la genealogia dei concetti che ho elaborato o recuperato, come quelli di habitus, di campo o di ca­ pitale simbolico. Non essendo il frutto di una partenogenesi teo­ rica, questi concetti non hanno un gran che da guadagnare da una loro ricollocazione rispetto agli usi precedenti che ne sono stati fatti. Poiché sono nati da difficoltà pratiche affrontate direttamente nella ricerca, li si potrà valutare davvero solo nella pratica della ricerca. I concetti che uso hanno innanzi tutto e soprattutto la funzione di designare in maniera stenografica una presa di po­ sizione teorica, un principio di scelta metodologica, sia negativo sia positivo. La sistematizzazione viene necessariamente ex post, via via che emergono analogie feconde, via via che vengono enun­ ciate e messe alla prova le proprietà utili del concetto.52 Parafrasando Kant potrei dire che la ricerca senza teoria è cieca e che la teoria senza ricerca è vuota. Purtroppo il modello social­ mente dominante della sociologia si basa ancora oggi su una di­ stinzione netta e un divorzio pratico tra la ricerca empirica senza teoria (penso in particolare a quelle scienze senza scienziato il cui paradigma è dato dai sondaggi sull’opinione pubblica e a quell’as­ surdità scientifica che viene chiamata «metodologia») e la teoria senza oggetto dei teorici puri, oggi esemplificata dalle discussioni che imperversano intorno al famoso legame micro-macro (per es., Alexander e altri, 1987). L’opposizione tra la pura teoria del lector, votato al culto ermeneutico delle opere dei padri fondatori (quando non addirittura dei propri scritti) da un lato, e la ricerca empirica e la metodologia dall’altro, è fondamentalmente di or­ dine sociale. È inscritta nelle strutture istituzionali e mentali della professione, radicata nella distribuzione delle risorse, dei posti e delle competenze, e intere scuole (per esempio, l’analisi conversazionale o la status attainment research) possono essere basate quasi interamente su un metodo particolare.

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Forse allora un modo migliore perfarle enunciare la sua concezione del lavoro teorico potrebbe essere quello di chiederle come, concreta­ mente, nella sua pratica scientifica, Lei innesta la costruzione teorica nel lavoro di ricerca, riflettendo su un oggetto particolare su cui ha lavorato per un certo tempo. Mi viene in mente un articolo da Lei recentemente pubblicato in «Etudes rurales», sul celibato presso i con­ tadini del Béarn, intitolato Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique (1989]). Particolarmente interessante in questo articolo mi è parso il fatto che Lei ritomi allo stesso oggetto che aveva studiato una trentina d’anni fa in un articolo dal titolo Célibat et condition paysanne (1962a), pubblicato nella stessa rivista, e che se ne serva per abbozzare, a partire da un caso par­ ticolare, una teoria generale del contributo che la violenza simbolica arreca alla dominazione economica.

Il punto di partenza dell’articolo iniziale era stata una espe­ rienza del tutto personale, che del resto nell’articolo raccontavo, ma in maniera mascherata, perché all’epoca mi sentivo obbligato a «sparire». Facevo sempre in modo di girare le frasi per non do­ ver mai dire «io», e descrivevo nella maniera più neutra possibile quella che era stata in qualche modo la «scena originaria», un pic­ colo ballo di campagna un sabato sera, alla vigilia di Natale, in un caffè in cui mi ero lasciato portare da un amico che mi aveva detto: «Vedrai, è divertente» ecc. E avevo visto una cosa davvero stu­ pefacente: c’erano dei ragazzi dall’aria cittadina che ballavano, e un altro gruppo di gente più matura, che poteva avere più o meno l’età che all’epoca avevo io, fatto tutto di scapoli: costoro non bal­ lavano, guardavano il ballo e avanzavano a poco a poco restrin­ gendo, inconsciamente, lo spazio riservato alle danze. Questa scena racchiudeva una sorta di sfida: all’epoca continuavo a col­ tivare intimamente l’idea di prendere come oggetto l’universo di cui avevo una esperienza familiare. Dopo aver lavorato tra i cabili, cioè in un mondo straniero, mi chiedevo se non sarebbe stato interessante fare una sorta di Tristes Tropiques alla rovescia (quello infatti era uno dei grandi modelli che avevamo tutti in testa all’epoca): osservare gli effetti che poteva produrre in me l’oggettivazione del mondo indigeno. Una piccola intenzione teorica dunque ce l’avevo. Poi la scena del ballo mi ha posto degli inter­ rogativi. E mi sono sforzato di spingermi oltre la solita spiega-

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zione che in genere adottano sia gli indigeni sia i giornalisti. Ogni anno, alla festa dei celibi, che si celebra ancora in un certo nu­ mero di villaggi, si sente dire che «le ragazze non vogliono più restare in campagna», e non si aggiunge altro. Ho ascoltato la gente che viveva come uno scandalo il fatto che i primogeniti, cioè coloro che sono normalmente legittimati a riprodursi, non potes­ sero più sposarsi. Poi ho fatto delle statistiche, e ho calcolato il tasso di celibato secondo un certo numero di variabili. Sorvolo sui dettagli, che si possono trovare nell’articolo del 1962. Negli anni settanta mi fu chiesto di riprendere quell’articolo per farlo uscire in un libro edito in inglese e in quell’occasione, poiché lo trovavo superato, l’ho un po’ rielaborato. Ne è uscito un articolo che si in­ titolava: Les stratégies matrimoniales dans le système des stratégies de reproduction^ nel quale cercavo di estrapolare quella che mi pareva fosse la filosofia implicita di ciò che avevo fatto: avevo tentato di sostituire al modello delle teorie della parentela predo­ minante in quel momento, cioè la teoria strutturalista, una ma­ niera di vedere gli scambi matrimoniali, poi divenuta piuttosto banale soprattutto tra gli storici, in cui si tendeva a parlare di stra­ tegie matrimoniali e a concepire ogni matrimonio come risultante di strategie complesse,54 in cui intervenivano una quantità di pa­ rametri, tra cui la dimensione della proprietà, il rango di nascita, la residenza, lo scarto di età tra i potenziali coniugi, lo scarto tra i loro patrimoni ecc. Si trattava quindi di una prima revisione dalla quale credo si possa trarre una prima lezione epistemologica. Da rivolgere per esempio a coloro che parlano di rottura: la rottura non avviene di colpo, non è una sorta di atto originario, come presso i filosofi iniziatici (e gli althusseriani...); può anche richie­ dere trent’anni. Per questo può essere necessario tornare per dieci volte sullo stesso soggetto, ed essere pronti anche a sentirsi dire che si ripete sempre la stessa cosa. Ed eccomi dunque ad aver fatto un primo ritorno su un sog­ getto; e penso anche di aver portato a un livello di esplicitazione superiore alcuni aspetti che erano presenti fin dall’origine. A que­ sto punto sarebbe anche opportuno fare qualche riflessione sulla nozione d’intuizione. Quando di un sociologo si dice che ha in­ tuizione, non gli si fa un complimento... Posso dire che mi ci sono voluti più di vent’anni per capire perché avessi scelto quel piccolo ballo di campagna... Credo anzi - e sono cose che anche solo dieci

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anni fa non avrei mai detto - che all’origine dell’interesse che ho avuto per quell’oggetto ci sia stata un’emozione di simpatia (nel senso forte), un senso del patetico che emanava dalla scena cui assistevo ecc. Comunque è vero che l’artìcolo del 1989 estende le analisi prece­ denti segnando però nello stesso tempo una rottura rispetto a quelle...

In quell’articolo, come indica il sottotitolo, ho tentato di ri­ pensare quell’episodio come un caso particolare di una teoria ge­ nerale - ho sempre una certa esitazione ad usare simili termini della violenza simbolica. Per capire quello che succede a quegli scapoli, a quei primogeniti di grandi famiglie (per grandi famiglie si devono intendere quelle proprietarie di trenta ettari al mas­ simo...) che, privilegiati in un certo stato del sistema, si trovano vittime del loro stesso privilegio e quindi condannati al celibato, perché non possono derogare, perché non si possono adattare alle nuove leggi matrimoniali; per capire questo fenomeno, devo co­ struire qualcosa che esisteva già allo stato implicito nella scena del ballo, che, più esattamente, si manifestava e insieme si dissimu­ lava in quella scena: il ballo è un’incarnazione concreta del mer­ cato matrimoniale; come un mercato particolare è un’incarnazione concreta del mercato della teoria economica, senza tuttavia avere nulla a che vedere con esso. Quello che avevo visto era il mercato matrimoniale allo stato pratico, il luogo della nuova forma di scambi che si era instaurata da alcuni anni, la realizzazione con­ creta del mercato libero che era subentrato al mercato protetto, controllato dalla famiglia (qui si potrebbe citare Polanyi). E gli scapoli che facevano tappezzeria intorno all’area delle danze erano le vittime del passaggio da un mercato protetto al mercato libero, in cui ognuno deve cavarsela da sé potendo contare solo sulle pro­ prie forze, sul proprio capitale simbolico, cioè sulla propria capa­ cità di ballare, di vestirsi, di presentarsi, di parlare alle ragazze ecc. Questo passaggio da un regime matrimoniale protetto a un regime matrimoniale di libero scambio aveva fatto delle vittime e queste vittime non erano distribuite a caso. A questo punto ho ripreso le statistiche. E qui leggo il passo (pp. 295g.) che riassume il senso di quello che avevo visto: I )alle statistiche si può rilevare che i figli di contadini, quando riescono a spo­ sarsi [avevo constatato che le probabilità di matrimonio, nel nuovo stato del

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regime matrimoniale, erano ripartite in maniera molto ineguale, sulla base di un insieme di proprietà tra cui la residenza nel borgo o nella frazione, cioè il grado di cittadinizzazione, se si potesse dire così, il livello d’istruzione ecc.], sposano figlie di contadini, mentre le figlie di contadini si sposano spesso con non con­ tadini. Nel loro stesso antagonismo, queste strategie matrimoniali fanno vedere come il gruppo non voglia per le ragazze le stesse cose che vuole per i ragazzi o, peggio, come in fondo non voglia i propri ragazzi per le proprie ragazze, anche se vuole delle ragazze per i propri ragazzi. Ricorrendo a strategie rigorosamente opposte, a seconda che abbiano donne da offrire o da prendere, le famiglie con­ tadine lasciano trapelare come, sotto l’effetto della violenza simbolica, violenza di cui si è nello stesso tempo soggetto e oggetto, ognuna sia scissa contro se stessa. Mentre l’endogamia attestava l’unicità dei criteri di valutazione, quindi l’ac­ cordo del gruppo con se stesso, la dualità delle strategie matrimoniali porta alla luce la dualità di criteri che il gruppo utilizza per stimare il valore di un indivi­ duo, dunque il proprio valore in quanto classe d’individui.

Ecco una formulazione più o meno coerente di quello che vo­ levo dire (19891, pp. 30-33). Il caso del celibato è interessante, perché ha a che vedere con un fenomeno economico estremamente importante: la Francia ha liquidato in fortissima proporzione i suoi contadini, in trent’anni, senza la minima violenza poliziesca (se non quella per reprimere delle manifestazioni), mentre l’Unione Sovietica è ricorsa ai mezzi più violenti per liquidare i contadini. (Schematizzo, ma leggendo l’articolo, si potrà vedere che ho detto la stessa cosa in maniera molto più sfumata, più rispettabile...) In altre parole, la violenza simbolica, a certe condizioni e a un certo prezzo, può fare molto di più della violenza politico-poliziesca (una delle grandi debolezze della tradizione marxista è il non aver dato spazio a queste vio­ lenze morbide, efficaci anche in campo economico). Per finire vorrei leggere una piccola nota che ho scritto nell’ul­ tima riga dell’ultima pagina, rivolta a coloro che non sarebbero mai stati capaci di vedere le implicazioni cosiddette «teoriche» di questo testo (e chi avrebbe mai potuto andare a cercare la «grande teoria» in un testo sul celibato pubblicato in «Etudes rurales»? Sebbene non mi piaccia affatto l’esercizio puramente scolastico che consiste nel passare in rassegna, per differenziarsene, tutte le teorie concorrenti sull’analisi proposta - e non mi piace, tra l’altro, perché potrebbe indurre a credere che Panatisi sia solo motivata da una ricerca della differenza - vorrei comunque far notare la grande differenza che c’è tra la teoria della violenza simbolica, come misconoscimento fondato sull’aggiustamento inconscio delle strutture sogget­ tive sulle strutture oggettive, e la teoria foucaultiana del dominio come disci­ plina e addestramento, o anche, su un altro piano, tra le metafore della rete aperta e capillare e un concetto come quello di campo.

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Insomma, nonostante sia per me quasi un punto d’onore non dirlo - con la sola eccezione di una nota che ho soppressa tre volte prima di decidermi alla fine a reinserirla - nel più umile lavoro scientifico ci sono implicazioni teoriche, a volte importanti.

In quell’articolo Lei si richiama alla nozione di violenza simbo­ lica, nozione che ha un ruolo teorico centrale nella sua analisi delfun­ zionamento del dominio in generale. Lei afferma che è indispensabile per rendere conto di fenomeni apparentemente diversi come il domi­ nio di classe che si esercita nelle società avanzate, i rapporti di do­ minio tra nazioni (come nell’imperialismo o nel colonialismo) e, più ancora, il dominio maschile. Potrebbe dirci con più esattezza che cosa intende Lei con questa nozione e che funzione abbia?

La violenza simbolica, per tentare di esprimermi nella maniera più semplice possibile, è quella forma di violenza che viene eser­ citata su un agente sociale con la sua complicità. Una definizione simile però è pericolosa, potrebbe dar adito a discussioni scola­ stiche per sapere se il potere viene dal basso e se è il dominato a desiderare la condizione che gli viene imposta ecc. Per definire tutto ciò in maniera più rigorosa, potremmo dire che gli agenti sociali, in quanto sono agenti di conoscenza, anche quando sono sottoposti a determinismi, contribuiscono a produrre l’efficacia di ciò che li determina, nella misura in cui strutturano ciò che li determina. Ed è quasi sempre negli aggiustamenti tra i fattori determinanti e le categorie di percezione che li costituiscono come tali che si instaura l’effetto di dominio. (Incidentalmente questo ci fa anche vedere che se si cerca di concepire il dominio nei ter­ mini dell’alternativa scolastica tra libertà e determinismo, tra scelta e costrizione, non se ne esce: cfr. 1982a, p. 36). Chiamo misconoscimento il fatto di riconoscere una violenza che viene esercitata proprio nella misura in cui non la si riconosce come violenza; è il fatto di accettare quell’insieme di presupposti fondamentali, preriflessivi, che gli agenti sociali fanno entrare in gioco per il semplice fatto di prendere il mondo come ovvio, e di trovarlo naturale così com’è perché vi applicano strutture cogni­ tive derivate dalle strutture di quello stesso mondo. Dal momento che siamo nati in un mondo sociale, accettiamo un certo numero di postulati, di assiomi, che vengono assunti tacitamente e che non hanno bisogno di venire inculcati.” Per questo l’analisi

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dell’accettazione dossica del mondo, frutto dell’immediato ac­ cordo tra strutture oggettive e strutture cognitive, è il vero fon­ damento di una teoria realista del dominio e della politica. Di tutte le forme di «persuasione occulta» la più implacabile è quella eser­ citata semplicemente dall’ordine delle cose.

Ci si potrebbe chiedere en passant se alcuni dei più frequentifrain­ tendimenti di cui la sua opera è stata oggetto non trovino origine nella tendenza dello «spirito universitario » a ricondurre l’ignoto al già noto, cioè alla propria tradizione universitaria, per quanto riguarda la teo­ ria (con i critici che la avvicinano a Parsons) o la metodologia. Alcune recensioni sono esempi magnifici di questa sorta di eurocentrismo chiuso nella «gabbia di ferro» delle sue certezze. Penso per esempio a una recensione di Homo academicus in cui l’autore (Jenkins, 1989) mi invita a ritornare al college, (inglese, ovviamente...) per imparare a scrivere: «Non c’è qualcuno che possa dare una copia del Plain Words di Gover al professor Bour­ dieu?»... Richard Jenkins scriverebbe la stessa cosa di Giddens o di Parsons, per non parlare di Garfinkel? Rimproverandomi un supposto attaccamento a quella che lui ritiene una tradizione fran­ cese («fa un gioco che ha una tradizione antica e consacrata nella vita universitaria francese»), Jenkins tradisce la sua adesione in­ discussa a una tradizione di scrittura, anche questa indissociabile dalla doxa (e qui il termine cade davvero appropriato) che unisce un corpo accademico più efficacemente di qualsiasi giuramento. Così, per esempio, quando mi rimprovera una espressione come «la modalità dossica dei discorsi», tradisce non solo la sua igno­ ranza («modalità dossica» è un’espressione di Husserl che non è stata naturalizzata dagli etnometodologi...) ma anche e soprattutto l’ignoranza della sua ignoranza e delle condizioni storiche e sociali che la rendono possibile. Se, adottando il modo di pensare pro­ posto da Homo academicus, Jenkins avesse portato uno sguardo riflessivo sulla sua critica, avrebbe senz’altro scoperto le disposi­ zioni antintellettualistiche dissimulate sotto quell’elogio della sem­ plicità, e avrebbe espresso in maniera meno diretta (plain) i pre­ giudizi ingenuamente etnocentrici che sono all’origine della sua denuncia del mio particolarismo stilistico (del resto più tedesco che francese...). E prima di lanciarsi in una di quelle false ogget­ tivazioni polemiche contro le quali in Homo academicus continuo

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sempre a stare in guardia e a mettere in guardia («Quella che real­ mente si comunica è la distinzione del grand’uomo»), si sarebbe per esempio chiesto se il culto delle plain words, del plain style, del plain English, o understatement (che può portare i virtuosi dell’antiretorica, come Austin, a mimare nei titoli dei loro libri o articoli l’ingenua semplicità delle canzoncine infantili), se questo culto non fosse associato a un’altra tradizione accademica, la sua, promossa in tal modo misura assoluta di ogni possibile per­ formance stilistica... E se lui avesse capito davvero la reale intenzione del mio Homo academicus, avrebbe trovato nel suo sconcerto, anzi nel suo disgusto, di fronte alla mia scrittura un’oc­ casione per interrogarsi scAV arbitrarietà delle tradizioni stilistiche imposte e inculcate dai diversi sistemi d’insegnamento; e un’oc­ casione per chiedersi se le esigenze imposte dalle università inglesi in fatto di linguaggio non costituiscano una forma di censura - tanto più temibile in quanto può rimanere pressoché tacita attraverso la quale vengono operate alcune delle limitazioni e mutilazioni ignorate che sempre ci infliggono i sistemi scolastici.56 E qui vediamo la funzione del concetto di arbitrio culturale (spesso messo in discussione dai miei critici): è uno strumento di rottura nei confronti della doxa intellettualocentrica. 57 Certo gli intellettuali si trovano in una delle condizioni peggiori per pren­ dere coscienza della violenza simbolica (soprattutto di quella eser­ citata dal sistema scolastico) perché l’hanno a loro volta subita molto più intensamente della media delle persone e perché conti­ nuano a contribuire al suo esercizio.

In un saggio sulla divisione del lavoro tra i sessi (1990 c), nel quale fa ricorso a una combinazione insolita di fonti - i suoi materiali etnografici sulla società algerina tradizionale, la visione letteraria di Virginia Woolf e grandi testi di filosofia (da Kant a Sartre) conside­ rati come documenti antropologici -, Lei ha recentemente esteso la sua elaborazione del concetto di violenza simbolica per identificare la specificità teorica e storica del predominio maschile.58 Per cercare di individuare la logica del dominio maschile, che mi sembra essere la forma paradigmatica della violenza simbolica, ho scelto di fondare la mia analisi sulle mie ricerche etnografiche presso le comunità della Cabilia in Algeria, e questo per due ragioni. Per prima cosa volevo evitare la vacua speculazione dei discorsi teorici

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e i clichés su sesso e potere che fino a questo momento hanno con­ tribuito più a confondere che a chiarire il dibattito. In secondo luogo ho fatto ricorso a questo procedimento per circoscrivere la difficoltà critica introdotta dall’analisi del predominio sessuale: in questo caso abbiamo a che fare con un’istituzione inscritta da millenni nell’oggettività delle strutture sociali e nella soggettività delle strutture mentali, cosicché è assai probabile che l’analisi si trovi a usare come strumenti di conoscenza categorie di percezione o di pensiero che dovrebbe invece considerare come oggetti di conoscenza. Quella società montana dell’Africa del nord è parti­ colarmente interessante perché è un vero conservatorio culturale che ha mantenuto in vita, attraverso le proprie pratiche rituali, la sua poesia e le tradizioni orali, un sistema di rappresentazioni, o meglio, un sistema di princìpi di visione e di di-visione, comuni all’intera civiltà mediterranea, che sopravvivono ancora oggi nelle nostre strutture mentali e in parte nelle nostre strutture sociali. Quindi considero il caso dei cabili come una sorta d’«immagine ingrandita» in cui possiamo più facilmente decifrare le strutture fondamentali della visione maschile del mondo: la cosmologia «fallo-narcisistica», che loro riflettono in manifestazioni pubbliche e collettive, ricorre insistente nel nostro inconscio. Questa lettura fa innanzi tutto vedere come l’ordine maschile sia così profondamente radicato da non aver bisogno di giustifi­ cazioni: si impone da sé come scontato, universale (l’uomo, vir, è quell’essere particolare che si percepisce come universale, che ha il monopolio dell’essere uomo, homo). Si tende ad ammetterlo come ovvio, in virtù dell’accordo quasi perfetto e immediato che si stabilisce tra le strutture sociali espresse nell’organizzazione sociale dello spazio e del tempo e nella divisione sessuale del lavoro, da un lato, e le strutture cognitive inscritte nei corpi, nelle menti, dall’altro. In effetti, i dominati, cioè le donne, applicano a qualsiasi oggetto del mondo naturale e sociale e in particolare al rapporto di dominio in cui sono implicate, nonché alle persone attraverso le quali questo rapporto si realizza, schemi impensati di pensiero che sono frutto dell’incorporazione di quel rapporto di potere, che si manifestano specialmente in forma di coppie di parole (alto/basso, grande/piccolo, fuori/dentro, diritto/curvo ecc.) e che le portano a costruire quel rapporto dal punto di vista dei dominanti, cioè come naturale.

• I. LA VIOLENZA SIMBOLICA

IJ?

Nel caso del dominio maschile si può vedere con particolare chiarezza come la violenza simbolica si compia attraverso un atto ili conoscenza e di misconoscimento che, senza giungere al con­ trollo della coscienza e della volontà, ha origine nelle tenebre degli schemi dell’habitus, che sono schemi sessuati e sessuanti insieme. 11 dominio maschile ci dà anche modo di vedere come non sia pos­ sibile capire la violenza simbolica se non si elimina la contrapposizione tra coercizione e consenso, imposizione esterna e pulsione interna. (Dopo secoli di platonismo diffuso, è difficile pensare che il corpo riesca a «pensarsi» in una logica diversa da quella della ri­ flessione teorica). Il lavoro di socializzazione tende a realizzare una somatizzazione progressiva dei rapporti di dominio sessuale: impone una costruzione sociale della rappresentazione del sesso biologico che a sua volta è alla base di tutte le visioni mitiche del mondo; inoltre trasfonde una corporea che è una vera e pro­ pria politica incorporata. In altri termini, la sociodicea maschile deve la sua efficacia specifica al fatto che legittima il rapporto di dominazione inscrivendolo in un fatto biologico che è a sua volta una costruzione sociale biologizzata. Questo duplice lavoro d’introiettamento, sessualmente diffe­ renziato e sessualmente differenziante nello stesso tempo, impone agli uomini e alle donne disposizioni diverse nei confronti dei gio­ chi sociali ritenuti fondamentali, come i giochi dell’onore e della guerra (appositamente concepiti per favorire l’esibizione di ma­ scolinità, di virilità); oppure, nelle società avanzate, tutti i giochi maggiormente valorizzati, come la politica, gli affari, la scienza ecc. Attraverso la mascolinizzazione dei corpi maschili e la femininilizzazione dei corpi femminili viene operata una somatizza­ zione dell’arbitrio culturale, cioè una costruzione durevole dell’in­ conscio. Dimostrato questo, passiamo adesso da un estremo dello spazio culturale all’altro, per esplorare il rapporto originario di esclusione dal punto di vista del dominato, come è stato descritto da Virginia Woolf. In To the Lighthouse viene proposta un’analisi estremamente lucida di una dimensione paradossale del dominio simbolico, dimensione che è quasi sempre ignorata dalla critica femminista, quella del dominio esercitato sul dominante dal suo stesso dominio, uno sguardo femminile sugli sforzi disperati e piut­ tosto patetici che ogni uomo deve fare, nella sua incoscienza trion­ fante, per cercare di conformarsi alla rappresentazione dominante

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dell’uomo (1990c). Inoltre Virginia Woolf permette di capire come, ignorando l’illusio che porta a farsi coinvolgere nei giochi centrali della società, le donne sfuggano (relativamente) alla libido dominandi che nasce da tale investimento e siano quindi social­ mente inclini a elaborare una visione relativamente lucida dei giochi maschili ai quali solitamente partecipano solo per procura.

Resta da spiegare l’enigma dello statuto di inferiorità quasi uni­ versalmente attribuito alle donne. Lei qui propone una soluzione che, benché diversa, può accordarsi con alcune risposte femministe (per es. O’Brien, 1981).

Per rendere conto del fatto che nella maggior parte delle so­ cietà conosciute le donne sono votate a posizioni sociali inferiori, è necessario tener conto dell’asimmetria degli statuti attribuiti ai due sessi nell’economia degli scambi simbolici. Mentre gli uomini sono i soggetti di strategie matrimoniali attraverso le quali ope­ rano per mantenere o accrescere il capitale simbolico, le donne sono sempre considerate come oggetti di tali scambi, all’interno dei quali esse circolano come simboli preposti a sancire le alleanze. Investite così di una funzione simbolica, le donne sono continuamente costrette a fare in modo di salvaguardare il loro valore sim­ bolico, conformandosi all’ideale maschile della virtù definita in termini di castità e pudore, e dotandosi di tutti gli attributi cor­ porei e cosmetici atti ad accrescere il loro valore fisico e il loro po­ tere di attrazione. Questo statuto di oggetto conferito alle donne è particolarmente evidente nella considerazione in cui è tenuto il loro contributo alla riproduzione nel sistema mitico-rituale della Cabilia. Paradossalmente questo sistema nega la realtà specificamente femminile della gestazione (come nega i corrispettivi lavori della terra nel ciclo agrario) a vantaggio dell’intervento maschile nell’atto sessuale. Ma anche nelle nostre società il ruolo che le donne svolgono nella produzione propriamente simbolica, sia in casa che fuori, è sempre svalutato se non addirittura ignorato. Il dominio maschile è dunque fondato sulla logica dell’econo­ mia degli scambi simbolici, cioè sull’asimmetria tra uomini e donne istituita nella costruzione sociale dalla parentela e dal matrimo­ nio, nell’asimmetria tra soggetto e oggetto, tra agente e strumento. La relativa autonomia dell’economia dei beni simbolici spiega, inoltre, come il dominio maschile possa perpetuarsi a dispetto delle

4- LA VIOLENZA SIMBOLICA

trasformazioni dei modi di produzione. Di conseguenza, non sarà possibile raggiungere una vera liberazione delle donne se non at­ traverso un’azione collettiva che miri a rompere nella pratica l’im­ mediata concordanza tra strutture incorporate e strutture ogget­ tive, cioè attraverso una rivoluzione simbolica capace di mettere in discussione i fondamenti della produzione e della riproduzione del capitale simbolico, e in particolare la dialettica tra pretesa e distinzione, che è alla base della produzione e del consumo dei beni culturali come segni di distinzione.

5Per una Realpolitik della ragione

In un articolo pubblicato in «Social Research» (Bourdieu e Passeron, 1967, p. 212), Lei esprimeva l’auspicio che «come la sociolo­ gia americana ha in un certo momento potuto essere, per Usuo rigore empirico, la cattiva coscienza scientifica della sociologia francese», la sociologia francese possa «per le sue istanze teoriche, diventare la cattiva coscienza filosofica della sociologia americana ». Che ne è di questo auspicio, vent’anni dopo? Bachelard insegna che l’epistemologia è sempre congiunturale e che le sue proposte sono determinate dal pericolo principale del momento. Oggi, la minaccia maggiore è data dalla separazione cre­ scente tra teoria e ricerca empirica, che possiamo osservare dap­ pertutto e che alimenta un parallelo sviluppo della perversione metodologica e della speculazione teorica. Quindi penso che si dovrebbe mettere in discussione la distinzione tra teoria ed em­ piria, ma nella pratica, non in maniera retorica. Se la sociologia francese deve diventare la cattiva coscienza scientifica della sociologia americana - o viceversa - deve innanzi tutto riuscire a superare questa separazione mettendo in atto una nuova forma di pratica scientifica che si fondi oltre che su un maggiore impegno teorico anche su un maggiore rigore empirico.

In che senso possiamo allora parlare di progresso scientifico? La sociologia ha fatto dei progressi in questi ultimi decenni o ci stiamo sempre dibattendo tra gli stessi mali, tra «grande teoria» ed «empirismo astratto», che C. Wright-Mills diagnosticava negli anni cinquanta?

5. PER UNA REALPOLITIK DELLA RAGIONE

lì?

A un certo livello il paesaggio sociologico non è troppo cambiato nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Da un lato il grosso della ricerca empirica continua a porsi domande che, nella maggior parte dei casi, sono più il prodotto di un senso comune colto che di un pensiero scientifico degno di questo nome. E si definisce inoltre per il suo ricorso a una «metodologia» troppo spesso concepita come una specializzazione in sé, fatta di un arsenale di ricette e precetti tecnici che tutti devono rispettare non per conoscere l’og­ getto ma per essere (ri)conosciuti come conoscitori dell’oggetto. Dall’altro lato assistiamo al ritorno a una forma di «grande teoria» svincolata da qualsiasi pratica di ricerca. La ricerca positivista e la teoria teoricista vanno di pari passo; si completano e si sostengono a vicenda. Ciò nonostante, a un altro livello, nelle scienze sociali si possono riscontrare cambiamenti immensi. In seguito alla crisi dell’ortodossia Lazarsfeld-Parsons-Merton degli anni sessanta, sono emersi numerosi movimenti e sviluppi che hanno aperto nuovi spazi al dibattito (1988]). Penso per esempio, tra altre correnti, alla «rivoluzione microsociologica» (Collins, 1985) portata dall’interazionismo simbolico e dall’etnometodologia o a varie ricerche d’ispirazione femminista. La rinascita di una forte corrente storica nell’ambito della «macrosociologia», e adesso in sociologia cultu­ rale, nonché alcuni nuovi lavori di sociologia economica e dell’or­ ganizzazione, hanno prodotto effetti positivi. Più che dei progressi sarebbe bene parlare degli ostacoli al pro­ gresso e dei mezzi per superarli. La sociologia è una scienza molto più avanzata di quanto i suoi critici, anche sociologi, vogliano am­ mettere. Consciamente o no, spesso per misurare lo stato di una disciplina le si applica un modello evoluzionista; la famosa tabella della gerarchia delle scienze di Auguste Comte resta ancora ben viva nelle menti come una sorta di hit-parade ideale, e le cosid­ dette scienze forti sono ancora viste come un campione rispetto al quale le scienze cosiddette deboli si devono misurare. Un fat­ tore che rende il progresso scientifico difficile nelle scienze sociali è il fatto che in passato siano stati fatti diversi tentativi di mimare la struttura delle scienze cosiddette forti: penso per esempio al fiacco e falso paradigma che si è cristallizzato attorno a Parsons, dopo la seconda guerra mondiale, e che ha dominato la sociologia americana e la maggior parte della sociologia mondiale nella metà degli anni sessanta.

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Le ortodossie scientifiche sono il prodotto di una simulazione dell’ordine scientifico che si conforma non alla logica agonistica della scienza ma alla rappresentazione della scienza proiettata da una certa epistemologia positivistica.59 (Uno dei meriti di Kuhn è stato quello di infrangere quella sorta di ortodossia positivistica che mimava la scientificità in nome dell’accumulazione, della codificazione ecc. Questa simulazione di un simulacro di scienza costituiva in realtà un fattore di regressione. Infatti, un campo scientifico autentico è uno spazio in cui i ricercatori si accordano sui terreni di disaccordo e sugli strumenti mediante i quali possono essere in grado di risolvere questi disaccordi, e su nient’altro). Come dovrebbe essere, secondo Lei, un campo sociologico? Ci potrebbe brevemente delineare come lo vede? L’ortodossia americana degli anni cinquanta era organizzata in base a una tacita contrattazione: uno offriva la «grande teoria», un altro la «statistica a più variabili» e un terzo le «teorie di me­ dia portata», ed ecco così costituita la triade capitolina del nuovo tempio accademico. Bastava poi aggiungere che la sociologia ame­ ricana era la migliore del mondo e che tutte le altre ne rappre­ sentavano delle versioni imperfette ed ecco subito un Terry Clark che scrive una pseudostoria della sociologia durkheimiana e fran­ cese, dimostrando come quest’ultima sia solo una tappa provvi­ soria sulla via di una sociologia autenticamente scientifica, che comincia, e naturalmente finisce, in America.60 Era esattamente questo il quadro contro cui mi sono battuto quando ho incomin­ ciato a occuparmi di sociologia. Un altro modo di mimare la scienza consiste nell’occupare una posizione di potere universitario che permetta di controllare le al­ tre posizioni, i programmi di formazione e le esigenze di insegna­ mento ecc., in breve i meccanismi di riproduzione dell’università (1984b) e di imporre un’ortodossia. Tali situazioni di monopolio non hanno niente a che vedere con un campo scientifico. Un campo scientifico è un universo autonomo in cui i ricercatori, per potersi davvero confrontare, devono abbandonare tutte le armi non scientifiche, a cominciare da quelle dall’autorità universita­ ria. In un campo scientifico autentico si possono impostare libe­ ramente libere discussioni e ci si può opporre anche violentemente con le armi della scienza a qualsiasi contraddittore, perché la

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posizione che si occupa non dipende da lui, o perché si può otte­ nere un’altra posizione altrove. La storia intellettuale dimostra che una scienza che sia controversial, oggetto e posta in gioco di discussioni, di conflitti autentici, cioè scientifici, è più avanzata di una scienza in cui regni un consenso fondato su concetti ela­ stici, programmi vaghi e volumi collettivi. In un campo fortemente autonomo, com’è oggi il campo mate­ matico, un matematico che voglia trionfare sui suoi rivali può farlo solo impugnando armi matematiche, pena l’autoesclusione. Biso­ gna quindi lavorare alla costruzione di una Città scientifica nella quale le intenzioni più inconfessabili siano costrette a sublimarsi in espressione scientifica. Questa visione non è utopica e potrei proporre un buon numero di misure assai concrete che consenti­ rebbero di renderla reale: si potrebbe per esempio elevare il livello di censura scientifica mediante una serie di azioni che mirino ad elevare il livello di formazione, il minimo di competenza scienti­ fica ritenuta necessaria per entrare nel campo ecc. Insomma è possibile creare condizioni che facciano sì che il più sleale e mediocre partecipante sia costretto a comportarsi secondo le norme di scientificità in vigore nel momento considerato. I campi scientifici più avanzati sono il luogo di un’alchimia attra­ verso la quale la libido dominandi scientifica viene necessariamente tramutata in libido sciendi (1990a, p. 300). Viene da qui la mia resistenza al consenso debole, che mi pare crei la peggiore con­ dizione scientifica possibile: in mancanza d’altro, che almeno ci siano dei conflitti!

Oltre alla frattura tra teoria ed empiria, Lei ha denunciato molti dualismi e antinomie che sono d’ostacolo allo sviluppo di una scienza esatta della società.

Questi dualismi sono duri a morire e spesso mi chiedo se sia mai possibile neutralizzarli. Dovrebbe essere uno dei primi com­ piti di una vera epistemologia, cioè di una epistemologia che com­ prenda anche la conoscenza delle condizioni sociali in cui funzio­ nano gli schemi scientifici. Ci sono opposizioni (per esempio l’opposizione tra individualismo e - non saprei bene che cosa met­ tergli di fronte - «olismo», «totalitarismo» ecc.) che non hanno alcun senso e che sono state distrutte mille volte nella storia, ma che possono sempre essere riattivate molto facilmente, ottenendo

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- questo è molto importante - ogni volta dei vantaggi. In altre parole, demolirle richiede costi enormi, perché sono inscritte nella realtà sociale - bisogna creare rotture, bisogna dimostrare, con­ vincere, provare, bisogna costruire strumenti che le facciano spa­ rire, inventare un linguaggio che permetta di sottrarvisi - e tutto questo lavoro può essere distrutto in un attimo, in qualsiasi mo­ mento. Per questo bisogna sempre ricominciare tutto da capo. Alain diceva che «la conversazione è sempre al livello del più stu­ pido»: nel nostro caso il più stupido può sempre basarsi sul senso comune, può sempre invocare il senso comune, che gli darà ragione. C’è gente che, da quando esistono le scienze umane, in Fran­ cia a partire da Durkheim, non ha mai smesso di annunciare un «ritorno del soggetto», la resurrezione della persona, barbaramente crocifissa dalle scienze umane. E ogni volta trova ascolto e con­ senso. C’è talmente tanta gente che crede di esistere in quanto persona... Perché la sociologia della letteratura o la sociologia dell’arte sono così in ritardo? Perché sono territori nei quali gli investimenti - in tutti i sensi del termine - nell’identità personale sono immensi. Così quando arriva il sociologo e, sia che attui alcune banali operazioni scientifiche, sia che ricordi che la realtà è fatta di rapporti, si scontra con resistenze gigantesche. Si espone a repliche infinite tutte attinte dal senso comune. Ci sono persone la cui funzione storica consiste nel riportare il contatore a zero. La scienza spinge il suo masso, riesce a farlo salire un po’, poi c’è sempre qualcuno pronto a dire: «Lo sapete, il Tale nega l’esistenza dell’individuo: che scandalo!» (oppure «Mozart è comunque meglio di Aznavour!»). E ne trae gran vantaggi. E passa per un pensatore... Di fatto il dibattito tra la «filosofia del soggetto» e la «filoso­ fia senza soggetto» (come dicevano i «filosofi del soggetto», Ri­ coeur e altri, negli anni sessanta) è una delle forme che può assu­ mere la lotta tra scienze umane e filosofia, la quale, confondendo tutte le tendenze, ha sempre avuto problemi ad accettare l’esi­ stenza delle scienze umane, che vedeva come una minaccia per la sua egemonia, e ad accettare i princìpi fondamentali della cono­ scenza scientifica del mondo sociale; e in particolare il «diritto all’oggettivazione» che si arroga il sociologo o lo storico degno di questo nome. In questa lotta - cosa normale ai tempi di Durkheim,

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ma che resta comunque vera, sebbene sia meglio dissimulata, an­ che nell’epoca di Giovanni Paolo II e dei «diritti deH’Uomo» - i filosofi e le filosofie che si possono vagamente caratterizzare come spiritualiste, idéaliste, «personaliste» ecc. sono ovviamente in prima linea. E per chi conosce la logica (se non la legge) delle al­ ternanze periodiche delle due «filosofie» (sarebbe meglio dire «vi­ sioni del mondo»), il «ritorno del soggetto» tanto acclamato oggi dalle nostre riviste non ha niente di sorprendente. Il trionfo negli anni sessanta della «filosofia senza soggetto» (con la «morte dell’uomo» e altre formule create apposta per scandalizzare i let­ tori di «Esprit»...) non era altro, come avevamo scritto in un articolo - inedito in Francia e intitolato Death and Resurrection of a Philosophy without Subject (Bourdieu e Passeron, 1967) - che la «resurrezione» (in versione più chic...) della «filosofia senza sog­ getto», rappresentata in particolare dalla sociologia di Durkheim, contro la quale si era formata la generazione dell’immediato dopoguerra - l’Aron di Introduction à la philosophie de l’histoire, il Sartre di L’Etre et le Néant - e che l’esistenzialismo aveva messo alla gogna (e qui penso a Les Faits sociaux ne sont pas des choses, il libro di Monnerot, oggi dimenticato persino da chi, credendo di inventare, e tra questi anche dei «sociologi», lo ricalca). La rea­ zione dei nuovi arrivati negli anni settanta-ottanta contro quelli che allora dominavano il campo (in particolare Foucault) - bat­ tezzata da un saggista antisociologico, con intrepido sociologismo, il «pensiero del ’68» - avrebbe poi generato, favorita da una con­ giuntura di restaurazione assai propizia, un ritorno alla difesa dell’individuo e della persona, della Cultura e dell’occidente, dei diritti dell’Uomo e dell’umanesimo. Questi conflitti apparenti, che mobilitano giornalisti e saggi­ sti, e altri desiderosi di assicurarsi un supplemento di notorietà in campo scientifico rispondendo alla richiesta di un «supplemento d’anima», finiscono per nascondere opposizioni reali, le quali invece solo di rado sono legate, almeno direttamente, ai conflitti «mondani». Lo spazio nel quale si colloca il ricercatore non è quello dell’«attualità», si tratti di attualità politica o di attualità «intellettuale», come si usa dire riferendosi a quanto è oggetto di discussione nelle «pagine culturali» dei quotidiani e dei settima­ nali: ma è lo spazio relativamente intemporale - al quale appar­ tengono Marx e Weber, Durkheim e Mauss, Husserl e Wittgen-

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stein, Bachelard e Cassirer, nonché Goffman, Elias o Cicourel e totalmente internazionale, di tutti coloro che hanno contribuito a produrre la problematica che egli si trova ad affrontare e che molto spesso non ha niente a che vedere con i problemi che si pon­ gono - e che gli pongono - coloro che restano con gli occhi fissi sull’attualità immediata. E lo stesso vale per la maggior parte dei dualismi...

I dualismi sono duri a morire; ma perché? In gran parte perché si prestano a fare da punto di raccordo delle opposte fazioni, in campi che si organizzano secondo divisioni antagonistiche. Se sono tanto frequenti e pregnanti è perché rappresentano l’espres­ sione naturale, in qualche modo sociologica, di spazi sociali costruiti attorno a divisioni dualistiche. Se è vero quello che sto dicendo, sarà facile vedere che non basta aver respinto un duali­ smo per averlo messo fuori combattimento. Questa è una illusione intellettualistica ingenua e pericolosa. Sappiamo bene che non basta vedere che una cosa è valida metodologicamente per poterla applicare o far accettare; l’epistemologia pura è molto spesso impotente se non è accompagnata da una critica sociologica delle condizioni di validità dell’epistemologia. Quindi non è possibile, con argomenti metodologici, distruggere uno Streit (dibattito) in cui le persone abbiano in gioco interessi vitali. D’altra parte penso che, se si volessero creare dei ritardi nella scienza sociale, potrebbe bastare lanciare, come si lancia un osso ai cani, degli Streiten idioti. Purtroppo il campo francese è di questo tipo; non c’è Streit su cui non si butti. Ma non è tutto. Quello che rende così inattaccabili tutti que­ sti dualismi, queste opposizioni così ben radicate negli antagoni­ smi sociali, è il fatto che possono contare su un altro supporto sociale, la pedagogia. Mi è capitato di pensare, e di sostenere, che il principale ostacolo al progresso della conoscenza scientifica, almeno nelle scienze sociali, sono i professori. Per insegnare han­ no bisogno (lo so, ho insegnato anch’io) di opposizioni semplici. I dualismi allora sono molto comodi: ecco pronto uno schema con una prima parte X, una seconda parte Y, e una terza parte che sono io stesso. C’è tutta una serie di falsi dibattiti morti e sepolti (come quello su interno/esterno, o su quantitativo/qualitativo) che esistono solo perché i professori ne hanno bisogno per vivere,

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perché questo permette loro di preparare degli schemi per corsi e temi. Se la sociologia della sociologia non sarà in grado da sola di distruggere quelle forze - il che significherebbe credere ancora una volta nella forza intrinseca delle idee vere - può per lo meno indebolirle. Sviluppare la riflessività ci può aiutare a ricordare che quando diciamo qualcosa possiamo obbedire a delle ragioni, ma anche a delle cause. In una utopica città scientifica in cui la sociologia della sociologia fosse uniformemente diffusa, in cui quest’arte marziale dello spirito fosse accessibile a tutti, ne risul­ terebbe modificata l’intera vita scientifica. A meno che non si riduca alla visione di Tersite. (Come vedete, non è possibile avan­ zare una raccomandazione pratica senza essere obbligati a fare anche una raccomandazione contro l’uso probabile di quella rac­ comandazione...).

Come possiamo tradurre questa conoscenza delle difficoltà speci­ fiche della scienza sociale in forme concrete di azione e di organizza­ zione in modo da rafforzare l’autonomia e la riflessività scientifiche? L’esistenza di un corpo comune di strumenti per una riflessi­ vità controllata e utilizzata da tutti costituirebbe un fattore di autonomia molto potente (la mancanza del minimo indispensabile di cultura epistemologica spiega perché i ricercatori costruiscano così spesso teorie della loro pratica che sono meno interessanti della loro pratica della teoria). Ma bisognerebbe anche ricordare il problema dei finanziamenti. A differenza di altre attività intel­ lettuali (in particolare la filosofia) la sociologia costa cara (e rende poco...). Ed è facile lasciarsi prendere dall’ingranaggio del con­ tratto chiedendo un altro contratto (che non si sa più troppo bene se serva a finanziare la ricerca o il ricercatore...). Bisognerebbe elaborare una politica razionale della gestione dei rapporti con i finanziatori di ricerche (si tratti del governo, di fondazioni o di privati). Altro principio: nella concezione del programma di ri­ cerca bisogna includere le condizioni reali della sua realizzazione. Un questionario bellissimo, un magnifico corpo d’ipotesi, un im­ peccabile programma di osservazione che non includano le con­ dizioni pratiche della loro realizzazione non valgono nulla. Tut­ tavia questa forma di realismo scientifico non è né insegnata, né spontaneamente inscritta nell’habitus della maggior parte di

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coloro che cominciano a occuparsi di scienze sociali. Vedo centi­ naia di progetti di ricerca davvero notevoli andare incontro a morte improvvisa perché non vi sono state integrate le condizioni sociali di possibilità di un programma concepito in abstracto. In due parole, e in termini più generali, nella pratica della sociologia bisogna imparare a evitare di essere vittime delle forze sociali. La specificità della sociologia, a mio parere, sta proprio nell’es­ sere estremamente vulnerabile nei confronti delle forze sociali, oltre che nelle difficoltà che incontra ad affermare la propria scien­ tificità, cioè a raggiungerla, a vedersela riconosciuta. A parte que­ sto, e a dispetto di tutte le discussioni alla Dilthey sui caratteri specifici delle scienze umane, penso che le scienze sociali siano sottoposte alle stesse regole che valgono per le altre scienze: de­ vono cioè produrre sistemi esplicativi coerenti, ipotesi o proposi­ zioni organizzate in modelli economici, capaci di render conto di un gran numero di fatti osservabili empiricamente e suscettibili di essere confutati attraverso modelli più potenti, che obbediscano alle stesse condizioni di coerenza logica, di sistematicità e di con­ futabilità empirica. Quando parlo con amici chimici, fisici o neu­ robiologi rimango colpito dalle similitudini tra le loro pratiche e la mia. La giornata tipica di un sociologo, con i suoi tentativi sperimentali, le sue analisi statistiche, le sue letture di articoli specialistici e le sue discussioni con i colleghi, è del tutto simile a quella di un normale scienziato. Lei rifiuta lo statuto particolare che si vuole assegnare alla so­ ciologia?

La maggior parte delle difficoltà che la sociologia incontra de­ rivano proprio dal fatto che si continua a ritenere che non sia una scienza come le altre. Dalla sociologia ci si aspetta sempre troppo o troppo poco. E ci sono sempre troppi «sociologi» pronti a rispondere alle aspettative più grandiose. La lista di tutti gli argo­ menti sui quali i giornalisti mi chiedono interviste sarebbe sconcertante: si passa dalla minaccia di una guerra nucleare, alla lunghezza delle gonne, all’evoluzione dell’Europa dell’Est, al teppismo, al buco delle Halles. La gente conferisce al sociologo il ruolo del profeta, capace di dare risposte (apparentemente) coe­ renti e sistematiche su qualsiasi problema dell’esistenza sociale. E una funzione smisurata e insostenibile; è insensato attribuirla a

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un essere umano, chiunque egli sia. Nello stesso tempo però si rifiuta al sociologo quello che ha diritto di rivendicare, cioè la capacità di dare risposte precise e verificabili alle domande che egli sia in grado di costruire scientificamente. La particolarità della sociologia sta in buona parte nell’imma­ gine sociale che se ne fanno i profani (e anche diversi specialisti). Durkheim era solito dire che uno dei maggiori ostacoli alla co­ struzione di una scienza della società sta nel fatto che in queste materie tutti si ritengono detentori di scienza infusa. Per esem­ pio, i giornalisti, che non penserebbero mai di discutere di ricer­ che di biologia o di fisica, o di immischiarsi in un dibattito filo­ sofico tra un fisico e un matematico, non hanno esitazioni a mettersi a dissertare da scienziati su quelli che essi chiamano i «problemi di società» o a giudicare un’analisi scientifica del fun­ zionamento dell’università o del mondo intellettuale, senza mini­ mamente sospettare quali siano le poste in gioco specifiche di quell’analisi (per esempio la questione dei rapporti tra strutture sociali e strutture cognitive) che, come in ogni scienza, sono il pro­ dotto della storia autonoma della discussione e della ricerca scien­ tifica. (Penso per esempio al giornalista che, quando uscì La No­ blesse d’Etat, mi chiese molto gentilmente, e in tutta buona fede, devo dire, di parlare, per tre minuti, a favore delle grandes écoles, di fronte al presidente dell’associazione degli ex allievi dell’ENA (Ecole Nationale d’Administration), che avrebbe parlato contro... E non si capacitava del perché rifiutassi). Le difficoltà che incontra la scienza sociale nel «decollare» si possono spiegare in questo modo: è chiamata a far fronte a una ri­ chiesta molto pressante di risposte a domande che riguardano tutti e che talvolta sono «questioni di vita o di morte», come dice Max Weber a proposito della profezia; e non sempre dispone delle con­ dizioni di autonomia e di tutte le armi indispensabili per difen­ derla e resistere alle pressioni di quella domanda (situazione che è a sua volta il prodotto del dominio esercitato nel passato dalla domanda sulla disciplina). E questo specialmente perché la scienza sociale non è in grado di scoraggiare, di screditare o di escludere coloro che si assicurano profitti immediati accettando di rispon­ dere a tutte le domande al minimo costo, cioè senza fare il lavoro indispensabile - e difficile - che è necessario per trasformare i

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PARTE PRIMA

«problemi sociali» del grosso pubblico in problemi sociologici, su­ scettibili di ricevere una soluzione scientifica.

Lei fa della difesa dell’autonomia del campo intellettuale una priorità assoluta...

Sono un difensore convinto, risoluto, assoluto dell’autonomia scientifica (questo ad alcuni potrà sembrare sorprendente, ma io credo che la mia sociologia non possa essere sospettata di col­ lusione con l’ordine costituito). La sociologia deve definire da sé le proprie funzioni. Alcuni sociologi si sentono obbligati a giu­ stificare la propria esistenza in quanto sociologi; si sentono te­ nuti a servirei ervire chi e che cosa ? La sociologia deve innanzi tutto affermare la propria autonomia; e deve sempre sorvegliare con altrettanta meticolosità la propria indipendenza. E il solo modo che abbia di dotarsi di strumenti rigorosi e acquistare effi­ cacia politica. Infatti, l’efficacia politica che può avere, la deriva solo da una sua autorità propriamente scientifica, cioè dalla sua autonomia. Si potrà avere un rafforzamento dell’autonomia del campo scientifico solo in seguito a una riflessione e a un’azione collettiva sulle condizioni istituzionali della comunicazione razionale in campo scientifico. Weber ricorda che i progressi più importanti nell’arte della guerra non dipendevano tanto dalle invenzioni tec­ niche quanto da invenzioni organizzative, come per esempio la falange macedone. Allo stesso modo, gli specialisti delle scienze sociali potranno contribuire tanto più efficacemente al progresso della loro scienza quanto più sapranno costruire e rafforzare i mec­ canismi istituzionali capaci di contrastare le tendenze all’isola­ zionismo o all’imperialismo delle diverse tradizioni nazionali, tutte le forme di dominio o d’intolleranza scientifica, e sapranno pro­ muovere forme più aperte di comunicazione e confronto. Checché ne dica Habermas, non esistono universali trans-sto­ rici della comunicazione; esistono invece sicuramente forme di or­ ganizzazione sociale della comunicazione che sono in grado di fa­ vorire la produzione dell’universale. Non si può credere che possa bastare la sola predicazione morale per escludere dalla sociologia una comunicazione «sistematicamente distorta». Solo una Real­ politik della ragione scientifica può contribuire a trasformare le strutture di comunicazione, contribuendo a cambiare al tempo

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stesso i modi di funzionamento degli universi in cui la scienza viene prodotta e le disposizioni degli agenti che rivaleggiano in quegli universi, dunque l’istituzione che più contribuisce a dar loro forma, l’università.

La visione del campo scientifico che Lei propone si basa su una filosofia della storia della scienza che milita a favore del supera­ mento di un’altra importante antinomia, che è stata al centro del Methodenstreit tedesco e che oggi ritroviamo nel dibattito tra Habermas e i fautori del postmodernismo: l’antinomia tra storicismo e razionalismo. Credo che la scienza sia interamente storica, senza per questo essere riducibile alla storia. Esistono nella storia alcune condizioni storiche della genesi e del progresso della ragione.61 Quando dico che una situazione di conflitto aperto (anche se non è del tutto scientifico) è preferibile a una situazione di falso consenso, di working consensus, come direbbe Goffman, è in nome della con­ vinzione che vi possa essere una politica della ragione. Io non penso che la ragione sia inscritta nella struttura della mente umana o nel linguaggio. Essa risiede piuttosto in condizioni storiche di un certo tipo, in certe strutture sociali di dialogo e di comunica­ zione non violenta. La storia è il luogo di quella che, deformando una definizione di Elias, potremmo chiamare un processo di civi­ lizzazione scientifica, le cui condizioni storiche sono date con la costituzione di campi relativamente autonomi all’interno dei quali non tutto è consentito, ma esistono regolarità immanenti, princìpi impliciti e regole esplicite d’inclusione e di esclusione e condizioni di ammissione che diventano sempre più esose. La ragione scien­ tifica è realizzata quando risulta inscritta non nelle norme etiche di una ragione pratica o nelle regole tecniche di una metodologia scientifica, ma nei meccanismi sociali della competizione appa­ rentemente anarchica tra strategie dotate di strumenti di azione e di pensiero capaci di regolare i propri usi, e nelle disposizioni durevoli che il funzionamento di questo campo produce e pre­ suppone. La salvezza scientifica non possiamo darcela da soli. Come non è possibile essere artisti da soli, ma solo a condizione di parte­ cipare al campo artistico, così è il campo scientifico a rendere possibile la ragione scientifica con la sua stessa logica di funzio­

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namento. Checché ne dica Habermas, anche la ragione ha una storia: non è piovuta nel nostro pensiero o linguaggio direttamente dal cielo. L’habitus (scientifico o altro) è un trascendentale, ma la sua è una trascendenza storica solidale con la struttura e la storia di un campo. In altri termini, se una libertà dell’intellettuale esiste, non è la libertà pura di un cogito ma una libertà collettivamente conquistata attraverso la costruzione storicamente datata e situata, di uno spazio di critica e di discussione regolate.

E qualcosa che gli intellettuali sono disposti a riconoscere solo molto raramente; si Aspettano la propria salvezza da una libera­ zione individuale, in una prospettiva di saggezza e di conquista iniziatica. Troppo spesso dimenticano che esiste una politica della libertà intellettuale. Una scienza emancipatrice è possibile solo quando si trovino riunite le condizioni sociali e politiche che la rendono possibile. Si dovrà per esempio fare il possibile per cer­ care di mettere fine agli effetti di dominio che distorcono la com­ petizione scientifica, quale può essere l’eliminazione di alcuni che pure sono degni di entrare nel gioco (attraverso il rifiuto di do­ mande legittime di borse o sovvenzioni per la ricerca, forme bru­ tali di censura che tuttavia vengono esercitate quotidianamente); o qual è la censura del perbenismo accademico che obbliga le menti più innovatrici a sprecare una parte considerevole del loro tempo per fornire le prove complete, conformi ai canoni positivi­ stici del momento, di ogni loro enunciato e impedisce loro in tal modo di produrre molti altri nuovi enunciati, la cui convalida com­ pleta potrebbe essere lasciata ad altri. Come ho dimostrato in Homo academicus il potere accademico si esercita soprattutto attraverso il controllo del tempo.62 Il soggetto universale è una conquista storica mai giunta a com­ pimento. Ed è attraverso lotte storiche, in campi di forze stori­ che, che possiamo progredire un po’ di più verso l’universalità (Bourdieu e Schwibs, 1985). Possiamo far avanzare la nostra ragione a condizione di impegnarci in lotte per la ragione e di far impegnare la ragione nella storia, a condizione di praticare una Realpolitik della ragione (198yd), per esempio attraverso inter­ venti a favore della riforma del sistema universitario, o azioni che mirino a difendere la possibilità di pubblicare libri di scarsa dif­

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fusione, o ancora attraverso lotte contro l’uso di argomenti pseu­ doscientifici su problemi di razzismo ecc. Ma l’origine della maggior parte degli insuccessi e dei mali della sociologia non si potrebbe forse trovare nelfatto che essa esercita male la sua capacità di prendere per oggetto tutte le pratiche umane, ivi comprese le pratiche a pretesa universale, come la scienza, la filoso­ fia, il diritto, l’arte ecc.; insomma, nella sua incapacità di essere sem­ pre all’altezza delle sue pretese di essere «meta-»? Tutto dipende da cosa si intende con questo essere «meta-». Molto spesso nei dibattiti scientifici la gente cerca di essere «meta-», nel senso di voler «essere al di sopra». Mi viene in mente un bel­ lissimo esperimento di Kellog: appende una banana fuori dalla por­ tata di un gruppo di scimmie; tutte le scimmie si mettono a sal­ tare per cercare di raggiungerla. Alla fine Sultan, il più furbo del gruppo, spinge la sua femmina sotto la banana, si arrampica rapi­ damente su di lei, piglia il frutto e se lo mangia. Tutte le scimmie stanno a guardare ancora in cerchio sotto la banana, con una zampa per aria, aspettando l’occasione di arrampicarsi sulle spalle di un’altra. È un paradigma che si può applicare a diverse discus­ sioni scientifiche: spesso i dibattiti sono del tutto sterili, perché la gente non cerca tanto di capire gli altri ma di arrampicarsi sulle spalle di qualcuno. Una delle motivazioni inconsce della vocazione di sociologo è che la sociologia offre uno dei più potenti mezzi per essere «meta-». Per me la sociologia ha il dovere di essere «meta-», ma sempre nei confronti di se stessa. Deve cioè utilizzare i suoi stessi strumenti per scoprire che cos’è e che cosa sta facendo, respingendone ogni uso politico che consista solo nell’oggettivare gli altri.

Questo ritomo riflessivo è un progetto autosufficiente o un mezzo per accedere a una scienza più rigorosa, capace di produrre effetti politici più rilevanti proprio per il suo maggiore rigore? Se a proposito degli agenti individuali sostenevo che l’inco­ scienza è complice del determinismo, analogamente a proposito dell’incoscienza collettiva degli intellettuali potrei dire che è la forma specifica che assume la loro complicità con le forze socio­ politiche dominanti. L’accecamento degli intellettuali di fronte alle forze sociali che reggono il campo intellettuale e le loro stesse

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pratiche credo possa anche spiegare come mai, nonostante la sua aria progressista, l’intelligencija, contribuisca tanto spesso alla per­ petuazione dell’ordine costituito. Sono perfettamente cosciente che un simile giudizio possa suonare un po’ rude e urtante perché contraddice l’immagine che gli intellettuali si sono fatti di sé: amano infatti concepirsi come liberi pensatori, come progressisti (o per lo meno neutrali, non impegnati, soprattutto negli Stati Uniti). È vero che spesso si sono schierati nei campi dei dominati: per ragioni strutturali, in virtù della loro posizione di dominati tra i dominanti.63 Ma lo hanno fatto molto meno spesso di quanto avrebbbero potuto e soprattutto meno spesso di quanto credano. È questa la ragione per cui Lei respinge l’etichetta di «sociologia critica »? Lei è sempre stato ben attento a tenere le distanze da tutto ciò che può presentarsi come sociologia «radicale» o «critica». E vero. Posso anzi dire che uno dei miei primi riflessi di gio­ vane sociologo è stato quello di erigermi contro una certa im­ magine della Scuola di Francoforte. Penso che l’ignoranza dei mec­ canismi collettivi della subordinazione politica ed etica e la sopravvalutazione della libertà degli intellettuali abbiano troppo spesso portato gli intellettuali più sinceramente progressisti (come Sartre) a restare complici di forze che credevano di combattere, e questo nonostante tutti gli sforzi che facevano per tentare di sot­ trarsi ai vincoli del determinismo intellettuale. Quella sopravva­ lutazione infatti li incoraggiava a impegnarsi in forme di lotta che erano irrealistiche e ingenue. Tra i rischi che bisogna accettare di correre per difendere posizioni come la mia, c’è quello di deludere gli adolescenti. Tutti gli intellettuali sognano di essere «corruttori della gioventù»... E deludente dire agli adolescenti che le loro intenzioni sovversive sono spesso immature, cioè oniriche, utopiche, irrealistiche. C’è tutta una gamma di strategie sovvertitrici che di fatto sono stra­ tegie di spostamento. Uno degli scopi del mio lavoro sugli intel­ lettuali è quello di dimostrare che all’origine di tutti i doppi gio­ chi e i doppi linguaggi c’è un rapporto di malafede rispetto alla propria posizione nel campo intellettuale. Gli intellettuali sono particolarmente inventivi quando si tratta di mascherare i loro interessi specifici. Per esempio, dopo il ’68, nel mondo intellettuale francese esisteva un róitog che consisteva

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nel chiedere: « Ma tu da dove parli ? Da quale luogo sto parlando ? » False confessioni di un narcisismo vagamente ispirato dalla psi­ coanalisi avevano funzione di schermo, nel senso freudiano del termine, producevano l’effetto di impedire una vera esplicitazione, cioè la scoperta della posizione sociale del locutore, in par­ ticolare la sua posizione nello spazio universitario. Proclamare: «Sono un intellettuale borghese!» come amava fare Sartre, è pra­ ticamente privo di conseguenze. Ma se dico: «Sono un assistente di Grenoble che parla con un professore di Parigi» significa che sono costretto a interrogarmi sulla parte di quello che dico nella quale viene detta non la verità, ma la verità di questa relazione...

Se ho ben capito, la scienza è ancora il migliore strumento di cui disponiamo per una critica delle forze dominanti. Lei rientra intera­ mente nel progetto dell’Aufklärung (in profondo disaccordo con i «postmodernisti») quando afferma che la sociologia, quando è scien­ tifica, costituisce di per sé una forza progressista. Ma non è un para­ dosso ilfatto che Lei, da una parte, ammetta la possibilità di uno spa­ zio di libertà, di una presa di coscienza liberatrice che apre possibilità storiche finora escluse a causa del dominio simbolico e del miscono­ scimento implicito nella comprensione dossica del mondo sociale, mentre, dall’altra, propone simultaneamente un radicale disincanto che rende pressoché invivibile il mondo sociale nel quale tuttavia bisogna continuare a lottare? Non c’è una forte tensione, forse per­ sino una contraddizione, tra questa volontà di fornire gli strumenti per accrescere la coscienza e la libertà e il senso di smobilitazione che una coscienza troppo acuta dell’efficacia dei condizionamenti sociali minaccia di produrre?

Come ho già cercato di fare in Homo academicus mi servo degli strumenti forniti dalla riflessività per tentare di controllare le deformazioni che può introdurre l’incoscienza e per progredire nella conoscenza dei meccanismi che possono alterare la rifles­ sione. La riflessività è uno strumento per produrre più scienza, non per distruggere la possibilità della scienza. Non mira a sco­ raggiare l’ambizione scientifica, ma a renderla più realistica. Con­ tribuendo al progresso della scienza e così al progresso della conoscenza del mondo sociale, favorisce il progresso della cono­ scenza dei condizionamenti sociali, che gravano sulla conoscenza, rendendo possibile una politica più responsabile sia nella scienza

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che nella politica. Bachelard diceva che «esiste solo la scienza di ciò che è nascosto». Nel caso della scienza sociale, questo disve­ lamento è già di per sé una critica sociale, non voluta come tale, e tanto più potente quanto più è potente la scienza, e dunque più capace di svelare i meccanismi che devono una parte della loro efficacia al fatto che non sono riconociuti, giungendo così ai fon­ damenti della violenza simbolica. La riflessività non è una sorta di arte per l’arte. Una sociologia riflessiva può liberare gli intellettuali dalle loro illusioni e prima di tutto dall’illusione di non avere illusioni, soprattutto riguardo se stessi, e può almeno contribuire a rendere più difficile un loro contributo passivo e inconscio al dominio simbolico. Ma devo tornare alla mìa domanda: il disincanto prodotto dalla riflessività non comporta forse il rischio di condannare il sociologo a quell’«atteggiamento passivamente conservatore» di fronte al quale già si doveva difendere ilfondatore di l’« Année sociologique »?M C’è un primo livello di risposta a questa domanda: se il rischio è solo quello di disincantare e scoraggiare la rivolta adolescenziale, che molto spesso non sopravvive all’adolescenza degli intellettuali, non sono sicuro che si tratti di una grande perdita.

Questo è Usuo lato antiprofetico, e forse uno degli aspetti che mag­ giormente differenzia la sua opera da quella di houcault. E vero che c’è tutto un aspetto dell’opera di Foucault (ovvia­ mente la sua opera non si riduce a questo) che può venire a coin­ cidere con la rivolta dell’adolescente contro la famiglia e le isti­ tuzioni (la scuola, il manicomio ecc.) che subentrano alla pedagogia familiare imponendo delle «discipline», cioè delle forme d’impo­ sizione sociale che sono totalmente esterne. Le rivolte degli ado­ lescenti sono spesso negazioni simboliche e utopiche delle più uni­ versali imposizioni sociali: esse passano tranquillamente sopra all’analisi di tutte le forme differenziali che queste imposizioni assumono per gli agenti dei diversi ambienti, o all’analisi di altre forme di costrizione sociale assai più sottili, come quelle che ope­ rano attraverso l’addestramento del corpo. Ovviamente non è molto piacevole disincantare gli adolescenti, soprattutto perché nelle loro rivolte ci sono aspetti assolutamente sinceri e profondi, come una propensione a ergersi contro l’ordine

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costituito, contro la rassegnazione degli adulti sottomessi e dimissionari, contro l’ipocrisia universitaria e tutto un insieme di altre cose che riescono a cogliere molto bene perché non sono disincantati, cinici e non sono ancora arrivati al voltafaccia che ha fatto la maggior parte della gente della mia generazione, al­ meno in Francia. Probabilmente per essere un buon sociologo bi­ sognerebbe unire disposizioni associate alla giovinezza, come una certa forza di rottura, di rivolta, di «innocenza» sociale, a altre più comunemente connesse con la vecchiaia, come il realismo, la capacità di affrontare realtà aspre e deludenti del mondo sociale... E vero che la sociologia produce un effetto di disincanto, ma il realismo scientifico e politico che presuppone induce a evitare di lottare dove non c’è libertà - e questo è spesso un alibi della ma­ lafede - per poter occupare posti di autentica responsabilità. Se è vero che la sociologia, e forse quella che pratico io in particolare, può incoraggiare un sociologismo visto come sottomissione alle leggi ferree della società (e questo benché abbia intenzioni esat­ tamente opposte), penso tuttavia che l’alternativa stabilita da Marx tra utopismo e sociologismo sia piuttosto ingannevole: tra la rassegnazione sociologistica e il volontarismo utopistico c’è po­ sto per un utopismo ragionato, cioè per un uso politicamente con­ sapevole e razionale dei limiti di libertà concessi da un’autentica conoscenza delle leggi sociali e soprattutto delle loro condizioni storiche di validità. Compito politico della scienza sociale è quello di ergersi sia contro il volontarismo irresponsabile che contro lo scientismo fatalista, e di lavorare per definire un utopismo razio­ nale utilizzando la conoscenza del probabile per far avvenire il possibile. Un simile utopismo sociologico, cioè realistico, è assai poco probabile tra gli intellettuali. Probabilmente perché ha un’aria piccolo-borghese, perché non sembra abbastanza radicale. Gli estremi sono sempre più chic e la dimensione estetica del com­ portamento politico per gli intellettuali conta molto.

Questo è anche un modo per sconfessare una immagine della poli­ tica molto cara agli intellettuali, cioè l’idea di uno qwóv noÀirixóv razionale che si costituisce tramite l’esercizio del libero arbitrio e mediante l’autoproclamazione politica.

Mi esprimerei in termini un po’ diversi. Direi piuttosto che anche quell’immagine ha una storia e che fa parte integrante di

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un progetto storico. Coloro che assumono questa posizione do­ vrebbero sapere che sono gli eredi storici di una lunga tradizione di uomini e donne che si sono trovati in condizioni storiche tali che hanno potuto contribuire a un piccolo progresso della libertà (1989h). Essi devono innanzi tutto tener conto del fatto che per portare a buon fine questo progetto bisogna che ci siano cattedre di filosofia o di sociologia (il che comporta forme specifiche di alie­ nazione), che la filosofia o la scienza sociale siano già state inventate come discipline ufficiali, riconosciute dallo Stato. Per­ ché l’intellettuale potesse esistere come mito efficace, e potesse sentirsi spinto a prendere posizione suìV apartheid in Sudafrica, sulla repressione in America centrale e in Romania e sulle disu­ guaglianze sessuali, c’è voluta la Comune di Parigi, c’è voluto l’Affaire Dreyfus, ci sono voluti Zola e molti altri. Non bisogna mai dimenticare che le istituzioni di libertà culturale sono conquiste sociali non diversamente dalla previdenza sociale o dal salario minimo (Bourdieu e Schwibs, 1985). Secondo Lei è possibile dire che Usuo metodo di analisi e la socio­ logia da Lei praticata contengono nello stesso tempo una teoria del mondo sociale e un’etica? E possibile desumere dalla sua sociologia una sorta di ideale del suo comportamento personale?

Sarei tentato di rispondere di sì e di no nello stesso tempo. Ma direi di no se rimaniamo rinchiusi nella vecchia antinomia tra po­ sitivo e normativo; direi di sì, se accettiamo di pensare al di là di questa opposizione. Di fatto è un’etica perché è una scienza. Se quello che dico è vero, se è vero che attraverso la conoscenza dei condizionamenti dovuti alla scienza diventa possibile una forma di libertà che è la condizione e il correlato di un’etica, allora è an­ che vero che una scienza riflessiva della società implica o include un’etica, che non per questo è un’etica scientista. (Ovvio che non è il solo modo di fondare un’etica). In questo caso la moralità è stata resa possibile dalla presa di coscienza che la scienza può suscitare in determinate condizioni. Finché la sociologia resta a un livello così astratto e formale non può servire a gran che. Quando scende fin nei particolari della vita reale, è uno strumento che le persone possono applicare a se stesse a fini quasi clinici. La sociologia ci dà una piccola possibilità di capire il gioco che stiamo giocando e di ridurre l’influenza delle

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forze del campo nel quale ci muoviamo, e quella delle forze sociali incorporate che operano dentro di noi. Penso quindi che sia possibile un uso etico della sociologia ri­ flessiva. Scopo della sociologia non è quello di cogliere in flagrante gli altri, di oggettivarli, di metterli sotto accusa perché per esem­ pio sono «figli del tale o del talaltro». Al contrario permette di capire il mondo, di renderne ragione, o, per usare un’espressione di Francis Ponge che mi piace molto, di «necessitarlo» (1986!), il che non implica che debba piacere o essere conservato come tale. Comprendere pienamente il comportamento dell’agente che agi­ sce in un campo, comprendere la necessità in base alla quale agi­ sce, significa rendere necessario qualcosa che sulle prime appare contingente. È una maniera non di giustificare il mondo, ma di imparare ad accettare una quantità di cose che altrimenti parreb­ bero inaccettabili. (Certo, dobbiamo sempre tener presente che le condizioni sociali di accesso a questa forma di tolleranza sociale non sono universalmente distribuite e non dobbiamo esigerla da coloro che non vi possono accedere. Può essere lodevole, per esem­ pio, essere antirazzista, ma questo resta un puro farisaismo se nello stesso tempo non si lotta per l’accesso di tutti alle condizioni sociali - in fatto di alloggio, istruzione, occupazione ecc. - che rendono possibile l’antirazzismo. In questo modo ci apriamo una possibilità di determinare dei veri luoghi di libertà e di costruire una morale modesta, pratica, commisurata ai limiti della libertà umana che, secondo me, non sono molto ampi. (I campi sociali sono universi nei quali le cose cambiano in continuazione e non sono mai completamente pre­ determinati. Tuttavia lo sono molto di più di quanto credessi quando ho incominciato a fare sociologia. Sono spesso rimasto sconcertato nel constatare fino a che punto le cose siano deter­ minate, e qualche volta mi accade di pensare: «E impossibile, cre­ deranno che esageri». E, credetemi, non me ne rallegro affatto. In realtà penso che se io percepisco la necessità in maniera così acuta, forse è perché la trovo particolarmente insopportabile. In quanto individuo provo una sofferenza personale quando vedo qualcuno in balia della necessità, sia essa la necessità del povero o quella del ricco).

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Lo studio che Lei ha appena avviato sull’esperienza della «soffe­ renza sociale» pare derivare proprio da una simile concezione etica della sociologia vista come una sorta di maieutica sociale. E partico­ larmente interessante in quanto si situa in un punto d’intersezione tra la scienza sociale, la politica e la morale civica. E lascia capire cosa potrebbe essere una funzione socratica della sociologia, quella di far «saltare» la censura instaurata dalle forme istituite di rappresentazione sociale e politica. Nel corso dell’ultimo decennio il campo politico si è andato sempre più chiudendo su se stesso, sulle proprie rivalità interne, sui suoi giochi e implicazioni particolari. Le responsabilità politi­ che sono prigioniere di una cerchia rassicurante di tecnocrati zelanti che ignorano quasi tutto dell’esistenza normale dei loro concittadini, e che ignorano soprattutto l’estensione della propria ignoranza. Governano affidandosi alla magia dei sondaggi di opinione, questa tecnologia pseudoscientifica di una demagogia razionale che potrà dare loro solo risposte estorte a domande imposte che gli individui interrogati non si pongono, almeno non in quei termini, fino al momento in cui vengono loro rivolte.65 Per reazione a tutto ciò ho proposto di condurre una ricerca esplora­ tiva sulla sofferenza, sulla miseria, sul malessere o il risentimento sociale che sottendono le diverse forme non istituzionalizzate di protesta che si sono manifestate recentemente (quella degli stu­ denti universitari e liceali, degli infermieri, dei professori, dei fer­ rovieri ecc.) e sulle tensioni che ispirano la «politica privata» delle discriminazioni e delle recriminazioni quotidiane.66 Emmanuel Terray (1990) ha dimostrato che nella tradizione ip­ pocratica, la vera medicina comincia col trattamento delle malat­ tie invisibili, cioè con la conoscenza di fatti sui quali il malato non dice niente perché non ne è cosciente o perché non ci fa caso. Que­ sta ricerca mira a convertire il disagio sociale in sintomi leggibili, suscettibili di essere trattati politicamente. Per questo è necessa­ rio spezzare lo schermo di proiezioni, a volte assurde, a volte odiose, dietro il quale si nasconde la sofferenza, per aiutare le per­ sone che nutrono i fantasmi e gli odi sociali più ingiustificabili (come il razzismo) a compiere lo sforzo, necessariamente doloroso, di rievocare le operazioni di demoralizzazione e di degradazione

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sociale, non meno ingiustificabili, che ne alimentano la rivolta, l’angoscia o la disperazione, e la straordinaria violenza repressa che è in loro. Questa indagine si fonda sull’idea che quanto c’è di più perso­ nale è quanto mai impersonale, e che gran parte dei drammi più intimi, dei disagi più profondi, delle sofferenze più private che uomini e donne possono provare hanno origine in contraddizioni oggettive, inscritte nelle strutture del mercato del lavoro e dell’al­ loggio, del sistema scolastico o della tradizione successoria, e che sono generatrici di double binds, di vincoli contraddittori. Si pro­ cede con interviste molto approfondite che mirano ad aiutare le persone interrogate a scoprire e a confidare le radici più recondite dei loro drammi più gravi o dei loro abituali disagi; a fare in modo che arrivino a sbarazzarsi della realtà esterna che, come il mostro di Alien, è in loro e le ossessiona, e le governa da dentro, spos­ sessandole dell’iniziativa della loro esistenza. Alien è una sorta di mito moderno che offre una buona immagine di quella che chia­ miamo Y alienazione cioè questa presenza dell’alterità in seno alla soggettività. Bisognerebbe fornire esempi, ma sarebbe troppo lungo. Dirò solo che la conduzione di queste interviste è spesso un’esperienza molto dolorosa. Non dimenticherò tanto presto la piccola impiegata dello smistamento postale di rue d’Alleray a Parigi che abbiamo interrogato una sera, e l’immenso stanzone grigio e polveroso in cui lavora, due giorni su tre, dalle nove della sera alle cinque del mattino, in piedi davanti alle sessantasei caselle in cui distribuisce la posta, e le povere parole spente, nonostante l’accento del Midi, con cui ci descriveva la sua vita tutta a rove­ scio, la strada che ogni volta faceva di primo mattino, dopo una notte di lavoro, per tornare al suo appartamentino in una lontana periferia, la sua nostalgia per un ritorno ormai impossibile al paese ecc. Che dire di questa indagine, se non che essa trasgredisce quasi tutti i precetti della routine metodologica, e che proprio per que­ sto ha qualche possibilità di cogliere tutto quello che le indagini usuali si lasciano sfuggire per definizione ? Penso, - o almeno spero che possa adempiere a una doppia funzione, scientifica e politica: quella di ricordare ai ricercatori ciò che la routine delle indagini abituali, per non parlare delle esercitazioni metodologiche o teo­ riche formali e formalistiche, si lasciano scappare, e ai tecnocrati

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che ci governano tutto quello che le procedure democratiche della vita politica (e in particolare i rituali della vita di partito, i con­ gressi, i programmi, le mozioni ecc.) e le sicurezze formalmente scientifiche della ricerca economica fanno loro ignorare, cioè una nuova specie di sofferenza e una nuova forma d’ingiustizia.

6. L’oggettivazione del soggetto oggettivante

Nella sua lezione inaugurale al Collège de France, Lei ha detto che «ogni proposta avanzata dalla scienza della società può e deve essere applicata allo stesso sociologo» (1982c, p. 7). E possibile fare una sociologia bourdieusiana di Bourdieu? Potrebbe spiegare se stesso? E se è così perché questa reticenza a parlare della persona privata di Pierre Bourdieu?

Il mio discorso sociologico è separato dalla mia esperienza per­ sonale dalla mia pratica sociologica, che è a sua volta in parte il prodotto della sociologia della mia esperienza sociale. E io non ho mai smesso di considerarmi come oggetto, non in senso narcisi­ stico, ma in quanto rappresentante di una categoria. Non provoco mai tanta irritazione negli altri come quando analizzo me stesso - Homo academicus contiene pagine e pagine su di me in quanto vi analizzo categorie alle quali appartengo - come quando, par­ lando di me stesso, dico la verità su altri per procura... E naturale che, avendo richiamato l’attenzione con i miei scritti sull’influenza dell’origine sociale, io sia costantemente esposto a interrogazioni personali alle quali mi sforzo di resistere, forse prima di tutto per sfuggire a qualsiasi sorta di rivendicazione di singolarità, anche negativa, e anche forse per difendere l’autono­ mia, pagata a caro prezzo, del mio discorso rispetto alla persona particolare che sono. Il che non significa che questo particolare individuo possa sottrarsi all’oggettivazione. Io posso essere oggettivato come tutti, e come tutti ho gusti e preferenze che corri­ spondono alla mia posizione nello spazio sociale. Io sono social­ mente classificato e conosco perfettamente la posizione che occupo

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nelle classificazioni sociali. Se lei capisce il mio lavoro, può dedurre molte mie caratteristiche dalla conoscenza di questa posizione e da ciò che ne ho scritto. Le ho dato tutte le armi necessarie per farlo: quanto al resto, è affar mio... Pur senza ridursi a questo, la sua sociologia non è anche, in buona parte, una maniera di gestire la «conversione sociale» implicita nella sua traiettoria e nella sua formazione?

Quello che ho fatto in sociologia e in etnologia, l’ho fatto al­ meno altrettanto contro la mia formazione che grazie alla mia for­ mazione. Non si creda però che con questo io rivendichi, come fanno spesso scrittori e artisti, lo statuto di grande iniziatore, di «creatore increato», che non deve niente a nessuno.67 Voglio sem­ plicemente dire che ho dovuto rompere con la pretesa di eleva­ tezza teorica che era inscritta nella mia traiettoria di «apprendi­ sta filosofo» all’Ecole Normale, facendo costantemente leva sulla mia formazione e in particolare sulla mia formazione filosofica. Ai tempi dei miei studi, quelli che si distinguevano per una car­ riera scolastica brillante non potevano, se non a costo di derogare, impegnarsi in compiti pratici volgari e banali come quelli che rien­ trano nel mestiere di sociologo. Le scienze sociali sono difficili per ragioni sociali: il sociologo è uno che scende in strada e interroga il primo venuto, lo ascolta e cerca di imparare da lui. Cosa che era solito fare Socrate. Eppure proprio quelli che oggi esaltano Socrate sono anche gli ultimi a capire e ad accettare questa sorta di abdicazione del filosofo-re di fronte al «volgare» che richiede la sociologia. Ovvio che la conversione che ho dovuto fare per arrivare alla sociologia non era priva di connessioni con il mio percorso sociale. Ho trascorso la maggior parte della mia giovinezza in un paesino sperduto del Sudovest della Francia. Ho potuto adempiere quanto richiesto dall’istituzione scolastica solo rinunciando a molte mie esperienze e acquisizioni primarie, e non solo a un certo accento... L’etnologia e la sociologia mi hanno permesso di riconciliarmi con quelle esperienze primarie, di riappropriarmene senza perdere niente, credo, di quello che ho acquisito successivamente. E una cosa tutt’altro che comune tra i transfughi, che spesso provano un profondo malessere, e qualche volta una gran vergogna per le loro origini e le loro esperienze originarie. La ricerca che ho condotto

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intorno al i960 in quel paesino mi ha permesso di scoprire molte più cose su me stesso di qualsiasi altra forma d’introspezione... Leggendo Flaubert, ho scoperto che, come lui, ero stato profon­ damente segnato da un’altra esperienza sociale, quella del colle­ gio. Flaubert scrive da qualche parte che «chiunque abbia cono­ sciuto il collegio a dieci anni, sa tutto della società». Erving Goffman in Asiles ha dimostrato che gli «internati» e gli «interni» di un collegio devono produrre strategie straordinariamente crea­ tive per resistere alle costrizioni sovente terrificanti delle «istitu­ zioni totali». Qualche volta mi chiedo dove abbia acquisito la mia attitudine a comprendere o anche ad anticipare le esperienze di situazioni che non ho conosciuto in prima persona, come il lavoro alla catena di montaggio o la monotona routine del lavoro impie­ gatizio non qualificato. Credo che nella mia giovinezza e nel corso di tutta la mia traiettoria sociale che, come spesso accade a gente in ascesa, mi ha portato ad attraversare ambienti sociali molto diversi, ho fatto tutta una serie di fotografie mentali che il mio la­ voro sociologico ora cerca di sviluppare. E così nella sua vita quotidiana Lei continua a impressionare negativi?

Flaubert diceva pressappoco: «Vorrei vivere tutte le vite». E una cosa che capisco molto bene: avere tutte le esperienze umane possibili. Trovo che una delle più straordinarie soddisfazioni che procura il mestiere di sociologo sia questa possibilità di entrare nelle vite degli altri. Persone che possono apparire noiose da mo­ rire, per esempio a certe cene in cui le convenienze vietano che si parli di cose serie, cioè di sé, del proprio lavoro ecc., diventano appassionanti appena^ parlano di quello che fanno, del loro me­ stiere, per esempio. E ovvio che nella vita di tutti i giorni non faccio in ogni momento il sociologo. Eppure, senza neanche ren­ dermene conto, in un certo modo impressiono dei negativi, che sviluppo successivamente. Penso che una parte di quella che chia­ miamo intuizione, che è all’origine di un gran numero d’ipotesi o di analisi, trovi la propria origine in questi negativi, spesso molto antichi. Così il lavoro del sociologo si accosta a quello dello scrit­ tore (penso per esempio a Proust): come lui, dobbiamo far acce­ dere alla esplicitazione delle esperienze, generiche o specifiche, che di solito passano inosservate o rimangono inespresse.

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Lei non vede una oppostone tra letteratura e sociologia?** La differenza ovviamente esiste, ma non bisogna farne una opposizione irriducibile. E naturale che i sociologi non debbano né possano pretendere di rivaleggiare con gli scrittori. Rischie­ rebbero facilmente di essere «scrittori naïfs», così come si parla di pittori naïfs, per ignoranza delle esigenze e delle potenzialità accumulate e inscritte nella logica stessa del campo letterario. Ma nelle opere letterarie possono trovare delle indicazioni o degli orientamenti di ricerca che sono loro vietati o dissimulati dalle censure specifiche del campo scientifico; soprattutto se restano sotto il dominio di una filosofia positivistica, come oggi avviene nelle scienze sociali. Il loro lavoro di registrazione e di analisi può anche far affiorare discorsi che, senza essere ispirati da una intenzione propriamente «letteraria» possono produrre effetti letterari o porre agli scrittori interrogativi analoghi a quelli che la fotografia ha posto ai pittori alla fine del secolo xix. Ma - colgo l’occasione per dirlo - gli scrittori ci insegnano assai di più: per quanto mi riguarda mi hanno aiutato a sfuggire alle censure e ai presupposti impliciti nella visione scientista o positivistica del lavoro scientifico. Per esempio, alcuni mesi fa, è venuto a trovarmi un amico d’infanzia per parlarmi di problemi personali che stava vivendo in maniera molto drammatica e sui quali chiedeva il mio parere. Mi ha fatto un racconto che potrei dire faulkneriano, del quale all’inizio non capivo niente, mentre disponevo della quasi totalità dell’informazione indispensabile. Dopo alcune ore, ho incominciato a capire. Mi stava raccon­ tando, in un solo movimento, tre o quattro storie omologhe e in­ trecciate: la sua storia, quella del suo rapporto con la moglie morta alcuni anni prima, che egli sospettava lo avesse tradito con il fratello maggiore; la storia di suo figlio, del rapporto di quest’ultimo con la fidanzata alla quale lui rimproverava di non essere «seria»; la storia di sua madre, osservatore silenzioso e misterioso di tutte queste storie, più alcune altre storie secon­ darie. Non saprei dire quale delle due storie principali, la sua propria o quella del figlio (nella quale era in gioco il futuro del rapporto tra padre e figlio, attraverso l’avvenire dell’azienda e della proprietà) fosse la più dolorosa; quale fosse quella che ser­ viva a mascherare l’altra, o permettesse di riferirla in forma ve­

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lata, grazie all’omologia. Quello che è certo è che tutta la logica del racconto si basava sull’ambiguità permanente delle anafore (i «lui» e i «lei» che non sapevo mai se si riferissero a lui stesso o al figlio, alla moglie o alla fidanzata del figlio, soggetti inter­ cambiabili, la cui stessa sostituibilità era all’origine del dramma che stava vivendo). Quel caso mi ha fatto capire fino a che punto le storie di vita lineari, di cui spesso si accontentano etnologi e sociologi, siano artificiali; e le ricerche in apparenza puramente formali di Virginia Woolf, di Faulkner, di Joyce o di Claude Simon oggi mi paiono molto più «realistiche» (se la parola ha un senso), più vere antropologicamente, più vicine alla verità dell’esperienza temporale, che non i racconti lineari ai quali ci ha abituato la lettura dei romanzi tradizionali. (Naturalmente quello che sto esprimendo qui è il punto di vista del ricercatore e della scienza, ed è ovvio che dalla letteratura ci si debbano aspettare - come io mi aspetto - ben altre cose oltre alla rivela­ zione del «reale»...). Così un po’ alla volta sono stato indotto a riportare in primo piano tutto un insieme di domande, più o meno rimosse, sulla biografiate, più generalmente, sulla logica dell’intervista come processo, sulla struttura temporale dell’espe­ rienza vissuta e del discorso scientifico legittimo, degno di pub­ blicazione scientifica, tutto un insieme di documenti cosiddetti bruti che, più inconsciamente che consapevolmente, avevo ten­ denza a escludere. Analogamente, nel mio lavoro su Flaubert, ho ritrovato molti miei problemi che anche lui aveva incontrato e per i quali aveva trovato delle soluzioni: come quello dell’uso degli stili diretto, indiretto, e indiretto libero, che è fondamentale nella trascri­ zione e nella pubblicazione delle interviste. Insomma, penso che la letteratura, contro la quale molti sociologi della prima ora, ma anche di oggi, hanno creduto e credono di dover affermare la scientificità della loro disciplina (come spiega Wolf Lepenies in Die drei Kulturen), sia per più versi in anticipo sulle scienze sociali e racchiuda tutto un tesoro di problemi fondamentali relativi alla teoria del racconto, per esempio - che i sociologi dovrebbero tentare di riprendere in esame, invece di prendere ostentatamente le distanze da forme di espressione e di pensiero che ritengono compromettenti.

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PARTE PRIMA

Come altri universitari francesi illustri - Durkheim, Sartre, Aron, Foucault e Derrida - Lei è un ex allievo dell’École Normale Supé­ rieure della rue d’Clm a Parigi, tradizionale vivaio dell’intelligencija francese. Nello stesso tempo, come La Noblesse d’Etat attesta am­ piamente, Lei è uno dei critici più accaniti delle scuole di élite, dei loro prodotti e privilegi. Lei scrive di non sentirsi mai pienamente giu­ stificato di essere un intellettuale, di non sentirsi a casa sua nel mondo universitario... E qualcosa che ho provato molto fortemente in due momenti della mia vita: quando sono entrato all’École Normale e quando sono stato nominato al Collège de France. Durante i miei studi all’École Normale mi sono sentito parecchio a disagio. Potrei ricordare la descrizione che fa Groethuysen dell’arrivo di Rous­ seau a Parigi q quello che dice Nizan, in Aden Arabie della sua esperienza all’École Normale: vi si ritrova parola per parola quello che provavo io quando ero là; prova che si tratta di un esperienza che non ha niente di singolare e che era legata a un certo percorso sociale. In Francia, il fatto di venire da una provincia lontana, soprat­ tutto se situata a sud della Loira, conferisce un certo numero di caratteristiche non prive di qualche equivalenza con la situazione coloniale. La specie di rapporto di esteriorità oggettiva e sogget­ tiva che ne risulta porta a stabilire un rapporto molto particolare con le istituzioni centrali della società francese e specialmente col mondo intellettuale. Ci sono forme più o meno sottili di razzismo sociale che non possono non risvegliare una certa forma di luci­ dità; il fatto di sentirsi costantemente rinviata la propria estra­ neità stimola a percepire cose che altri non possono vedere o sen­ tire. Detto questo, è comunque vero che sono un prodotto dell’École Normale che ha tradito l’École Normale. Ma bisogna essere dell’École Normale per poter dire cose simili sull’École Normale senza sembrare motivati dal risentimento...

Anche la sua elezione alla cattedra di sociologia del Collège de Prance, l'istituzione scientifica più prestigiosa di Francia, potrebbe es­ sere descritta nel suo linguaggio, cioè come processo di «consacrazione sociale». Che influenza ha avuto questa nomina sulla sua pratica scientifica? Più generalmente che uso fa Lei della sua conoscenza del funzionamento del mondo universitario?

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Non è casuale che il momento in cui sono stato nominato al Collège de France abbia coinciso con un mio studio approfondito su quello che io chiamo la magia sociale della consacrazione e sui «riti di istituzione» (1981a; 1982a, pp. 121-34; 1989a). Come avrei potuto non cercare di sapere quel che vi era d’implicito nel latto di venire così consacrato?70 Sforzandomi di riflettere su quello che stavo vivendo cercavo di garantirmi un certo grado di libertà rispetto a quello che mi stava capitando. La mia opera è spesso letta - a mio parere a torto - come deterministica e fatali­ stica. Ma fare una sociologia degli intellettuali, una sociologia del Collège de France, e di quello che può significare tenere una le­ zione inaugurale al Collège de France, proprio durante una lezione inaugurale al Collège de France, cioè nel momento stesso in cui si è presi nel e dal gioco, significa affermare, se non la possibilità di liberarsene interamente, almeno la possibilità di fare uno sforzo in quel senso... Per me la sociologia ha assunto il ruolo di una socioanalisi che mi ha aiutato a capire e a sopportare cose (a comin­ ciare da me stesso) che prima trovavo insopportabili. Così, per tornare alla sua domanda sul Collège de France, perché da là siamo partiti, credo che, se ho una piccola possibilità di non essere sopraffatto dalla consacrazione, la devo al fatto di aver lavorato ad analizzare la consacrazione. E penso anche che potrei utiliz­ zare l’autorità che questa consacrazione mi ha dato per dare più autorità alla mia analisi, che io credo liberatrice, della logica e degli effetti della consacrazione. Purtroppo si possono sempre fare due usi diversi delle analisi sociologiche del mondo sociale e più in particolare del mondo in­ tellettuale: usi che si potrebbero chiamare clinici, come quelli che ricordavo poco fa parlando della socioanalisi, in quanto consistono nel cercare nelle acquisizioni della scienza gli strumenti di una comprensione di sé priva di autocompiacimenti; e usi che po­ tremmo dire cinici e che consistono nel cercare nell’analisi dei mec­ canismi sociali degli strumenti per «riuscire» nel mondo sociale (è quello che hanno fatto alcuni lettori de La Distinction conside­ rando quel libro come un manuale di saper vivere) o per orientare le proprie strategie nel mondo intellettuale. Naturale che mi sforzi continuamente di scoraggiare le letture ciniche e di incoraggiare quelle cliniche. E certo tuttavia che la logica delle lotte intellet­ tuali e politiche spinge più all’uso cinico, e soprattutto all’uso

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polemico della sociologia, considerata come uno strumento parti­ colarmente potente di lotta simbolica, che non all’uso clinico, che offre un modo di conoscere e comprendere gli altri (e se stessi). Quanto a me - per rispondere in maniera precisa alla sua domanda su cosa faccio della mia conoscenza del mondo universitario credo che la mia ben nota inettitudine nelle strategie universita­ rie attesti che l’uso cinico mi risulta impossibile, né saprei dire se si tratti di un effetto dovuto all’incapacità o al divieto...

Lei ha scelto di fare sociologia, invece di fare filosofia o psicoanalisi, perché credeva di poter trovare nelle scienze sociali strumenti più potenti di demistificazione e di autoappropriazione? Per dare una risposta completa a questa domanda bisognerebbe procedere a una lunga socioanalisi intellettuale.71 In ogni caso penso che, considerato quello che ero socialmente, considerate quelle che si possono chiamare le mie condizioni sociali di produ­ zione, la sociologia era la migliore cosa che io potessi fare, se non proprio per sentirmi d’accordo con la vita, almeno per trovare più o meno accettabile il mondo nel quale ero condannato a vivere. In questo senso limitato, penso di essere riuscito nel mio lavoro: ho attuato una specie di autoterapia che spero abbia nello stesso tempo prodotto degli strumenti che possono essere di qualche uti­ lità per gli altri. Continuo sempre a fare ricorso alla sociologia per cercare di sgomberare il mio lavoro dai condizionamenti sociali che abitual­ mente pesano sui sociologi. Ciò nonostante non penso nemmeno per un attimo di potermene essere interamente liberato. In ogni momento vorrei essere capace di vedere quello che non vedo e sto sempre lì a chiedermi, in maniera un po’ ossessiva, quale sia la sca­ tola che non ho aperto, quale sia il parametro dimenticato che con­ tinua a manipolarmi. Uno dei miei eroi intellettuali è Karl Kraus: è uno dei rari intellettuali che abbia prodotto una vera critica de­ gli intellettuali, intendo dire una critica ispirata da un’autentica fede nei valori intellettuali (e non da un antintellettualismo dovuto al risentimento) e capace di produrre effetti reali.

Per concludere, si potrebbe leggere Homo academicus come una sorta di autobiografia? E quello che Lei sembra suggerire nella prefa­ zione alla traduzione inglese quando scrive che il libro «racchiude una forte proporzione di autoanalisi per procura» (1988h, p. xxw).

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Direi piuttosto che è un’antiautobiografia. Questo libro è nel contempo un lavoro di conoscenza di sé e un tentativo di saggiare i limiti della riflessività nelle scienze sociali. Contrariamente a quello che può far pensare la visione abituale della conoscenza di sé come esplorazione di profondità singole, la verità più intima di quello che siamo, l’impensato più impensabile, è anche inscritto nell’oggettività, nella storia delle posizioni sociali che abbiamo avuto in passato e che occupiamo nel presente. Per questo motivo, a mio parere, la storia sociale della socio­ logia intesa come esplorazione dell’inconscio scientifico del so­ ciologo attraverso l’esplicitazione della genesi dei problemi, delle categorie di pensiero e degli strumenti di analisi che mette in atto, costituisce una premessa assoluta alla pratica scientifica. E la stessa cosa vale anche per la sociologia della sociologia. Credo che se la sociologia che io propongo differisce in qualche modo dalle sociologie del passato e del presente sia soprattutto in quanto rivolge contro se stessa le armi che essa produce. Si arma della conoscenza delle determinazioni sociali che possono pesare su di essa, e soprattutto dell’analisi scientifica di tutte le imposi­ zioni e di tutte le limitazioni dovute a una certa traiettoria e al fatto di occupare una determinata posizione in un campo, per neutralizzarne gli effetti. Adottare il punto di vista della riflessività non significa rinun­ ciare all’oggettività, ma mettere in discussione il privilegio del sog­ getto conoscente, che arbitrariamente viene esonerato, in quanto puramente noetico, dal lavoro di oggettivazione; significa lavo­ rare a render conto del «soggetto» empirico secondo la nozione stessa di oggettività costruita dal soggetto scientifico - in parti­ colare situandolo in un luogo determinato dello spazio-tempo so­ ciale - rendendosi così coscienti e (potenzialmente) capaci di con­ trollare le imposizioni che possono venir esercitate sul soggetto scientifico attraverso tutto ciò che lo lega all’oggetto empirico, ai suoi interessi, alle sue pulsioni, ai suoi presupposti, e che egli deve rompere per potersi costituire pienamente. Non basta cercare nel soggetto, come insegna la filosofia classica della conoscenza, le condizioni delle possibilità e quindi i limiti della conoscenza oggettiva che esso istituisce. Bisogna anche cercare nell’oggetto costruito dalla scienza le condizioni sociali di possibilità del «sog­ getto» (per esempio, la oxokr] e tutta l’eredità di problemi, concetti

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e metodi ecc., che ne rendono possibile l’attività) e i limiti possi­ bili dei suoi atti di oggettivazione. Così saremo costretti a ripu­ diare le pretese assolutistiche dell’oggettività classica, senza con ciò essere portati al relativismo: le condizioni di possibilità del «soggetto» scientifico e del suo oggetto sono tutt’uno e a ogni pro­ gresso nella conoscenza delle condizioni sociali di produzione dei «soggetti» scientifici corrisponde un progresso nella conoscenza dell’oggetto scientifico, e viceversa. E questo si può vedere chia­ ramente quando la ricerca si dà per oggetto il campo scientifico stesso, cioè il vero soggetto della conoscenza scientifica. Lungi dal danneggiare i fondamenti della scienza sociale, la sociologia dei fattori sociali che determinano la pratica sociolo­ gica è il solo fondamento possibile di una possibile libertà rispetto a queste determinazioni. E solo se esercita l’uso pieno di questa libertà, continuando sempre a sottoporsi a una tale analisi, il sociologo può produrre una scienza rigorosa del mondo sociale che, lungi dal condannare gli agenti dentro la gabbia di ferro di un rigido determinismo, offre loro i mezzi di una presa di coscienza potenzialmente liberatrice.

Parte seconda

La pratica dell’antropologia riflessiva Introduzione al seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales Parigi (ottobre 1987)

Le regole di Descartes non mi sembrano molto dissimili da queste prescrizioni di non so più quale chimico: pren­ dete quello che occorre e procedete come si deve, così otterrete quello che volete ottenere. Non accettate niente che non sia davvero evidente (cioè solo ciò che dovete ammettere); suddividete il soggetto nelle parti richieste (fate cioè quello che dovete fare); procedete con ordine (secondo l’ordine con cui dovete procedere); fate delle enumerazioni complete (cioè quelle che dovete fare): le persone che dicono che bisogna cercare il bene e fuggire il male, procedono esattamente così. Ed è tutto assolutamente giusto: mancano solo i criteri del bene e del male. Leibniz, Philosophische Schriften

I.

Trasmettere un mestiere

Oggi, eccezionalmente, vorrei fare uno sforzo per esplicitare gli intenti pedagogici che cerco di attuare in questo insegnamento. Nel nostro prossimo incontro chiederò a ciascun partecipante di presentarsi brevemente, e di esporre in poche parole l’argomento del suo lavoro, ma, e su questo insisto, senza una speciale prepa­ razione, con molta naturalezza. Quello che mi aspetto non è un discorso formale, cioè un discorso difensivo e chiuso su se stesso, che miri innanzi tutto (è comprensibile) a scongiurare la paura della critica, ma una presentazione semplice e modesta del lavoro fatto, delle difficoltà incontrate, dei problemi ecc. Non c’è niente di più universale e di più universalizzabile delle difficoltà. Ognuno troverà sicuro conforto nello scoprire che gran parte delle diffi­ coltà che imputa alla sua mancanza di abilità o a una sua parti­ colare incompetenza, sono universalmente condivise; e tutti potranno trarre profitto dai consigli apparentemente molto spe­ cifici che potrei dare. Vorrei dire, en passant, che tra tutte le disposizioni che mi pia­ cerebbe essere capace di infondere, tengo in particolare alla ca­ pacità di assumere la ricerca come lavoro razionale, e non come una sorta di ricerca mistica di cui si parla con enfasi, per trovare rassicurazione, ottenendo però anche l’effetto di raddoppiare la paura o l’angoscia; l’atteggiamento realistico - che non vuol dire cinico - a cui penso è orientato verso la massimizzazione del ren­ dimento degli investimenti e verso una allocazione ottimale delle risorse, a cominciare dal tempo di cui si dispone. So che questo modo di vivere il lavoro scientifico ha un che di disincantato, che rischia di urtare l’immagine di sé che molti ricercatori vogliono

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PARTE SECONDA

conservare. Ma forse questa è la maniera migliore, e probabil­ mente la sola, per mettersi al riparo da inconvenienti ben più gravi: come quello in cui incorre un ricercatore che precipiti dalle sue altezze, dopo anni di automistificazione, durante i quali ha speso più energie a tentare di conformarsi all’idea esaltata che si è fatto della ricerca, cioè di se stesso in quanto ricercatore, che a fare sem­ plicemente il suo mestiere. Riferire su una ricerca è tutto il contrario di uno show, di una esibizione nella quale si cerca di farsi vedere e di farsi valere. E un discorso nel quale ci si espone, si assumono dei rischi (per es­ sere più sicuro di disinnescare i sistemi di difesa e di neutralizzare le strategie di presentazione di sé, mi piacerebbe potervi cogliere di sorpresa, dandovi la parola senza avvertirvi e senza che abbiate la possibilità di prepararvi; siate sicuri però che saprei rispettare le vostre esitazioni). Più ci si espone, più possibilità si hanno di trarre profitto dalla discussione e più, ne sono sicuro, le critiche e i consigli saranno benevoli (la maniera migliore per «liquidare» gli errori - e i terrori che spesso ne sono all’origine - sarebbe quella di poterci ridere su insieme). Mi capiterà - lo farò probabilmente la prossima volta - di pre­ sentare delle ricerche su cui sto lavorando. Vedrete, allo stato che chiamiamo nascente, cioè in uno stato confuso, magmatico, lavori che di solito scoprite nella loro forma finita. AH’homo academicus piacciono le cose finite. Come i pittori accademici, egli fa sparire dalle sue tele le tracce delle pennellate, i tocchi e ritocchi: mi è capitato di provare una grande apprensione nello scoprire che pit­ tori come Couture, il maestro di Manet, avevano lasciato splen­ didi schizzi, molto vicini alla pittura impressionistica - che è nata per reazione a loro - e che spesso avevano rovinato le loro opere credendo di apportarvi le ultime rifiniture in osservanza alla mo­ rale del lavoro ben fatto, leccato, di cui è espressione l’estetica accademica. Cercherò di presentare queste ricerche in corso nella loro esuberante confusione: entro certi limiti, ovviamente, per­ ché so che socialmente non ho lo stesso diritto che avete voi alla confusione, che me lo concederete meno di quanto ve lo conce­ derò io, e, in un certo senso, con ragione (sebbene si faccia rife­ rimento a un ideale pedagogico implicito che probabilmente meriterebbe di essere messo in discussione: quello che porta, per esempio, a misurare il valore di un insegnamento, il suo rendi­

1. TRASMETTERE UN MESTIERE

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mento pedagogico, sulla quantità e la chiarezza degli appunti che si sono potuti prendere). Una delle funzioni di un seminario come questo è quella di darvi modo di vedere come realmente avviene il lavoro di ricerca. Non vi sarà data una registrazione integrale di tutti gli errori, di tutte le ripetizioni che sono state necessarie prima di giungere alla registrazione finale che li annulla. Il film accelerato che vi sarà presentato dovrebbe comunque permettervi di farvi un’idea di ciò che avviene nell’intimità di un laboratorio; da intendersi come la bottega di un artigiano o di un pittore del Quattrocento: con tutte le esitazioni, i vicoli ciechi, i progetti abbandonati ecc. Ricerca­ tori in fase più o meno avanzata presentano oggetti che hanno tentato di costruire, rispondono a eventuali domande e io, alla ma­ niera di un «vecchio del «mestiere», cerco di mettere a dispo­ sizione l’esperienza che ho tratta da tutti i tentativi e gli errori del passato. Il culmine dell’arte è certo la capacità di mettere in gioco im­ plicazioni cosiddette «teoriche» molto importanti a proposito di oggetti cosiddetti «empirici» molto precisi, e spesso in apparenza assolutamente minori, se non addirittura quasi irrisori. Nelle scienze sociali si è troppo spesso propensi a credere che l’impor­ tanza sociale o politica dell’oggetto sia di per sé sufficiente a fon­ dare l’importanza del discorso che gli viene dedicato; questo pro­ babilmente spiega anche come mai sociologi portati a misurare la loro importanza sulla base dell’importanza degli oggetti che stu­ diano, come quelli che oggi si interessano dello Stato e del potere, spesso siano i meno attenti ai procedimenti metodologici. Quello che conta in realtà è la costruzione dell’oggetto; non c’è riscon­ tro più chiaro della forza di un metodo di pensiero di quello dato dalla sua capacità di costituire in oggetti scientifici oggetti so­ cialmente insignificanti, o di ricostruire scientificamente, il che è lo stesso, sapendoli cogliere sotto un angolo inusuale, grandi og­ getti socialmente importanti: come ho cercato di fare, per esem­ pio, quando, per poter capire uno dei principali effetti del mo­ nopolio statale della violenza simbolica, sono partito da un’analisi molto precisa di cosa sia un certificato (d’invalidità, attitudinale, medico ecc.). In questo senso, il sociologo oggi si trova in una situazione molto simile - mutatis mutandis - a quella di Manet o di Flaubert che, per esercitare appieno il modo di costruzione

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della realtà che stavano inventando, l’applicavano a oggetti tradi­ zionalmente esclusi dall’arte accademica, dedita unicamente a per­ sone o cose ritenute socialmente importanti; ragione per cui sono stati tacciati di «realismo». Bisogna saper convertire problemi molto astratti in operazioni scientifiche assolutamente pratiche - il che presuppone, come ve­ dremo, un rapporto piuttosto particolare con quelle che in genere chiamiamo «teoria» ed «empiria». Precetti astratti come quelli presentati per esempio in Le Métier de sociologue - bisogna costruire l’oggetto, bisogna mettere in discussione oggetti preco­ struiti -, che pure hanno il merito di tener desta l’attenzione e di mettere in guardia, in questa circostanza non sono di grande aiuto. Probabilmente perché, per acquisire i princìpi fondamentali di una pratica -, e la pratica scientifica non fa certo eccezione -, non c’è altro modo che praticarla a fianco a una sorta di guida o di allenatore, che funge da garante e rassicura, dà esempio e corregge enunciando, in situazione, precetti direttamente applicati al caso particolare. Naturalmente succederà che, dopo aver assistito a due ore di discussione sull’insegnamento della musica, sugli sport da com­ battimento, sulla nascita di una critica del jazz o sui teologi fran­ cesi, vi chiederete se non avete perso il vostro tempo e se avete davvero imparato qualcosa. Non ve ne tornerete indietro con dei bei discorsi sull’azione comunicativa, sulla teoria dei sistemi e nemmeno sulla nozione di campus e di habitus. Invece di fare, come facevo vent’anni fa, una bella relazione sulla nozione di struttura nella matematica e nella fisica moderna e sulle condi­ zioni di applicazione di un modo di pensare strutturale alla sociologia (che probabilmente faceva molta più «impressione»...), dirò la stessa cosa, ma in forma pratica, cioè attraverso osserva­ zioni qualunque, assolutamente banali, attraverso domande ele­ mentari - talmente elementari che spesso si tralascia di porsele ed entrando ogni volta nei dettagli di uno studio specifico. (E pos­ sibile dirigere realmente una ricerca - perché di questo si tratta soltanto a condizione di mettersi a farla davvero con chi ne ha la responsabilità diretta: il che implica che si lavori sul questionario, sulla lettura delle tabelle statistiche o sull’interpretazione dei documenti, che eventualmente si suggeriscano delle ipotesi ecc.; è chiaro che a queste condizioni si potrà dirigere solo un numero

I. TRASMETTERE UN MESTIERE

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limitatissimo di ricerche; coloro che pretendono di «dirigerne» molte, di fatto non fanno quello che dicono di fare). Dal momento che ciò che deve essere comunicato è sostanzial­ mente un modus operandi, un modo di produzione scientifica che presuppone un modo di percezione, un insieme di princìpi di vi­ sione e di divisione, non c’è altra possibilità di acquisirlo se non vedendolo operare praticamente, osservando come, senza essere necessariamente spiegato con precetti formali, questo habitus scientifico, che dovremo pur deciderci a chiamare col suo nome, «reagisca» davanti a scelte pratiche: per esempio, un tipo di cam­ pionatura, un questionario ecc. L’insegnamento di un mestiere o, per esprimerci come Durkheim, di un’«arte», intesa come «pratica pura senza teoria», richiede una pedagogia che non è affatto la stessa che ci vuole per l’insegnamento di saperi. Come possiamo vedere nelle società senza scrittura e senza scuola - ma ciò resta vero anche per quello che si trasmette nelle società che hanno scuole e nelle scuole stesse molti modi di pensare e di agire - e spesso i più vitali - vengono trasmessi dalla pratica alla pratica, attraverso modi di trasmissione globali e pratici, basati sul contatto diretto e durevole tra colui che insegna e colui che apprende («Fa’ come me»). Gli storici e i filosofi della scienza - e soprattutto gli stessi scienziati - hanno spesso osservato che una parte molto importante del lavoro dello scienziato si apprende secondo modelli di acquisizione assolutamente pratici; e in una scienza il ruolo della pedagogia del silen­ zio, che riserva solo un minimo posto all’esplicitazione degli schemi trasmessi e di quelli in atto nella trasmissione, è probabil­ mente tanto più rilevante quanto meno espliciti e codificati sono i contenuti, i saperi, i modelli di pensiero e di azione. La sociologia è una scienza relativamente avanzata, molto più di quanto abitualmente si creda, anche tra i sociologi. (Un buon criterio per vedere che collocazione abbia un sociologo nella sua disciplina potrebbe essere sapere a quale altezza egli collochi le competenze che dovrebbe padroneggiare per essere effettivamente all’altezza delle acquisizioni della sua disciplina; la propensione a una valutazione modesta delle sue capacità scientifiche infatti non può che crescere via via che cresce la conoscenza delle più recenti acquisizioni in fatto di metodi, di tecniche, di concetti o di teo­ rie). Ma la sociologia è una scienza ancora poco codificata e for-

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PARTE SECONDA

malizzata. Qui non ci si può dunque affidare, come altrove, agli automatismi di pensiero o agli automatismi che fungono da pen­ siero (all’ew'dew/m ex terminis, l’«evidenza cieca» dei simboli, che Leibniz contrapponeva all’evidenza cartesiana), o anche a tutti i codici di buona condotta scientifica - metodi, protocolli di osservazione ecc. - che rappresentano il diritto dei campi scien­ tifici più codificati. Per ottenere pratiche conformi, dovremo quindi contare soprattutto sugli schemi incorporati dell’habitus. L’habitus scientifico è una regola fatta uomo, o meglio, un mo­ dus operandi scientifico che allo stato pratico funziona conforme­ mente alle norme della scienza, senza fondarsi esplicitamente su quelle norme: è quella sorta di senso del gioco scientifico che fa sì che si faccia quello che si deve nel momento in cui si deve senza aver avuto bisogno di tematizzare quello che si doveva fare, e meno ancora la regola che permette di generare la condotta conforme. Il sociologo che cerca di trasmettere un habitus scien­ tifico è più affine a un allenatore sportivo di alto livello che a un professore della Sorbona. Parla poco di princìpi e precetti gene­ rali - ovviamente ne può enunciare qualcuno, come ho fatto anch’io in Le Métier de sociologue, sapendo però che non ci si deve fermare lì (non c’è niente di peggio, in un certo senso, dell’epi­ stemologia che diventi un argomento di trattazione e un sostituto della ricerca). Procede per indicazioni pratiche, molto simile in questo all’allenatore che mima un movimento («al vostro posto farei così...») o mediante «correzioni» apportate alla pratica nel suo svolgimento, e concepite nello spirito della pratica («non farei questa domanda, almeno non in questa forma»).

2.

Pensare in maniera relazionale

Tutto quanto abbiamo detto è vero soprattutto quando si tratta della costruzione dell’oggetto, senz’altro l’operazione più impor­ tante eppure quella che è più completamente ignorata, in partico­ lare nella tradizione dominante, che si organizza intorno all’oppo­ sizione tra «teoria» e «metodologia». Il paradigma (inteso come realizzazione esemplare) della teoria «teorica» è l’opera di Parsons, melting pot concettuale ricavato dalla compilazione puramente teo­ rica (cioè estranea a ogni applicazione) di alcune grandi opere (Durkheim, Pareto, Weber ecc.) ridotte alla loro dimensione «teo­ rica» o, meglio, professorale; ma lo è anche il più recente neofun­ zionalismo di Jeffrey Alexander. Queste compilazioni eclettiche e classificatorie sono nate dall’insegnamento e solo all’insegnamento possono servire. Sull’altro versante c’è la «metodologia», catalogo di precetti che non sono propri né dell’epistemologia, in quanto riflessione che mira a portare alla luce gli schemi della pratica scien­ tifica, considerandone sia gli errori sia i successi, né della teoria scientifica. E qui penso a Lazarsfeld. La coppia Parsons-Lazarsfeld (e Merton tra i due, con le sue teorie di media portata) ha costi­ tuito una sorta di holding «scientifica» socialmente molto potente, che ha imperato sulla sociologia mondiale per trent’anni. La divi­ sione «teoria»/«metodologia» conferisce lo statuto di una opposi­ zione epistemologica a una opposizione costitutiva della divisione sociale del lavoro scientifico in un determinato momento (come l’opposizione tra professori e ricercatori di uffici studi). Credo che questa divisione in due istanze separate debba essere totalmente respinta, perché sono convinto che non sia possibile ritrovare il concreto combinando due astrazioni.

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PARTE SECONDA

Le scelte tecniche più «empiriche» sono infatti inscindibili dalle scelte di costruzione di oggetto più «teoriche». Un metodo di cam­ pionatura, una tecnica di reperimento o di analisi dei dati si im­ pone proprio in funzione di una certa costruzione di oggetto. Più esattamente, un qualsiasi dato empirico potrà funzionare come prova, o, come dicono gli anglosassoni, come evidence, solo in fun­ zione di un corpo d’ipotesi derivato da un insieme di presupposti teorici. Ma molto spesso si procede come se ciò che può essere rivendicato come evidence fosse evidente. E questo in funzione di una certa routine culturale, il più delle volte imposta e inculcata attraverso l’educazione (i famosi corsi di methodology delle uni­ versità americane). Il feticismo dell’evidence porta a respingere lavori empirici che non accettano come evidente la definizione stessa dell’evidence-, ogni ricercatore attribuisce lo statuto di dati [datai, solo a una frazione minima del dato, e non, come si do­ vrebbe, a quella parte che viene chiamata all’esistenza scientifica dalla sua problematica (cosa che sarebbe del tutto normale), ma a quella che è stata avallata e garantita dalla tradizione pedagogica nella quale il ricercatore stesso si colloca, e solo a quella. E significativo che «scuole» e tradizioni possano costituirsi attorno a una tecnica di reperimento dei dati. Oggi, per esempio, alcuni etnometodologi riconoscono soltanto l’analisi della con­ versazione ridotta all’analisi di un testo avulso dal suo contesto, ignorando totalmente i dati che potremmo chiamare etnografici sul contesto immediato (quella che tradizionalmente si chiama la situazione), senza parlare dei dati che permetterebbero di inqua­ drare la situazione nella struttura sociale. Questi «dati», che sono considerati il concreto stesso, di fatto sono frutto di una fortissima astrazione - come avviene sempre, perché il dato è sempre co­ struito - ma in questo caso si tratta di un’astrazione che si ignora come tale. Si avranno così dei monomaniaci delle distribuzioni statistiche, o dell’analisi del discorso, o dell’osservazione parte­ cipe, o dell’intervista libera (open ended) o in profondità (in depth), o della descrizione etnografica ecc. Una rigida adesione all’uno o all’altro di questi metodi definirà l’appartenenza a una scuola: gli interazionisti, per esempio, si riconosceranno nel loro culto per l’«etnografia», gli etnometodologi nella loro passione esclusiva per l’analisi della conversazione. E sarà vista come una rottura cla­ morosa con il monoteismo metodologico ogni combinazione che

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metta insieme l’analisi del discorso e l’analisi etnografica! Si do­ vrebbero analizzare allo stesso modo anche le tecniche di analisi: analisi a più variabili, analisi di regressione, path analysis, network analysis, factor analysis. Anche qui impera il monoteismo. Pro­ babilmente perché riesce a dare un’apparenza di fondamento metodologico all’arroganza dell’ignoranza: la più elementare sociologia della sociologia insegna che, molto spesso, le condanne metodologiche sono un modo di fare di necessità virtù, di far mostra di ignorare (in senso attivo) quello che semplicemente si ignora. Dovremmo inoltre analizzare la retorica della presentazione dei risultati che, quando si trasforma in esibizione ostentatoria di dati, procedimenti e procedure, serve spesso a mascherare errori ele­ mentari di costruzione dell’oggetto, mentre, all’opposto, una espo­ sizione rigorosa ed economica dei risultati pertinenti, misurata alla luce di questo esibizionismo del datum hrutum, suscita spesso il sospetto a priori dei feticisti del protocollo (nel duplice senso) di una forma di evidence... Per cercare di volgere in un principio positivo tutte queste critiche, dirò semplicemente che bisogna guar­ darsi da tutti i rifiuti settari che si mascherano dietro professioni di fede troppo esclusive e tentare in ogni caso di mobilitare tutte le tecniche che, una volta data la definizione dell’oggetto, possono parere pertinenti e che, date le condizioni pratiche di reperimento dei dati, sono utilizzabili in pratica. Si potrà, per esempio, utiliz­ zare l’analisi delle corrispondenze per fare un’analisi del discorso (come ho fatto, per esempio, per i discorsi pubblicitari di varie im­ prese di costruzione industriali) o combinare la più classica analisi statistica con un insieme di interviste in profondità o con l’osser­ vazione etnografica (come ho fatto in La Distinction). Insomma la ricerca è una cosa troppo seria e troppo difficile perché ci si possa permettere di confondere la rigidità, che è il contrario dell’intelli­ genza e dell’invenzione, con il rigore, privandosi così delle svariate risorse che l’insieme delle tradizioni intellettuali della disciplina e delle discipline vicine, etnologia, economia, storia - può offrire. Mi verrebbe da dire «E vietato vietare», o «state attenti ai cani da guardia metodologici». Ovviamente l’estrema libertà che predico, credo secondo il buon senso, ha come contropartita una vigilanza estrema sulle condizioni necessarie perché le tecniche possano essere utilizzate, possano dirsi adeguate rispetto al problema posto

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e possano essere adoperate. Mi capita spesso di accorgermi che i nostri sacerdoti del rigore metodologico si mostrano poi alquanto lassisti, se non addirittura sciatti, nell’utilizzazione dei metodi di cui si fanno zelanti sostenitori. Quello che faremo qui vi potrà sembrare forse irrisorio. Ma innanzi tutto la costruzione di oggetto - almeno nella mia espe­ rienza di ricercatore - non è qualcosa che avvenga tutto a un tratto, mediante una sorta di atto teorico inaugurale, e il pro­ gramma di osservazioni o analisi attraverso il quale viene effet­ tuata non si sviluppa secondo un piano che possa essere delineato preventivamente, come fa un ingegnere: è un lavoro di lungo respiro, che si compie a poco a poco, per interventi successivi, attraverso tutta una serie di correzioni, di rettifiche, ispirate da quello che si chiama il mestiere, cioè da quell’insieme di princìpi pratici che orientano scelte nello stesso tempo minuscole e deci­ sive. Solo chi si rifà a un’idea un po’ esaltata e assai poco reali­ stica della ricerca si potrà poi stupire che si dedichi tanto tempo alla discussione di dettagli in apparenza infimi - addirittura in­ significanti - come il fatto di sapere se il ricercatore debba o no dichiarare la sua qualità di sociologo o coprirsi sotto un’identità più accettabile - quella di etnologo o di storico, per esempio; o se non sia meglio includere quella certa domanda in un questio­ nario destinato a un uso statistico o riservarla invece all’interro­ gazione di informatori ecc. Questa attenzione ai dettagli delle procedure della ricerca, la cui dimensione propriamente sociale (come trovare dei buoni informatori, come presentarsi, come descrivere loro gli intenti della ricerca e, più generalmente, come «penetrare» l’ambiente studiato ecc.) non è la meno importante, dovrebbe produrre l’ef­ fetto di mettere in guardia contro il feticismo dei concetti e della «teoria», che nasce da una propensione a considerare gli strumenti «teorici» - habitus, campus, capitale ecc. - in sé, invece di farli funzionare, di metterli al lavoro. La nozione di campo è per un verso una stenografia concet­ tuale di un modo di costruzione dell’oggetto che guiderà, od orienterà, tutte le scelte pratiche della ricerca. Funziona come un promemoria: devo verificare che l’oggetto che mi sono dato non si trovi implicato in una rete di relazioni da cui abbia tratto l’es­ senziale delle sue proprietà. Attraverso la nozione di campo viene

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richiamato il primo precetto del metodo, che impone di combat­ tere in tutti i modi l’inclinazione a pensare il mondo sociale in maniera realista o, per esprimerci come Cassirer, sostanziatela (cfr. Substanzbegriffund Funktionsbegriff). Bisogna pensare in ma­ niera relazionale. Per la verità è più facile pensare in termini di realtà che in qualche modo si possano toccare con mano - come i gruppi o gli individui - che in termini di relazioni. E più facile per esempio pensare la differenziazione sociale sotto forma di gruppi definiti come popolazioni, con la nozione di classe, o anche sotto forma di antagonismi tra questi gruppi, che sotto la forma di uno spazio di relazioni. Gli oggetti abituali di ricerca sono realtà che vengono segnalate al ricercatore dal fatto che «si fanno notare», in qualche modo, «ponendo dei problemi»: per esempio, «le ragazze madri nel ghetto nero di Chicago». E per la maggior parte del tempo i ricercatori si danno per oggetto pro­ blemi posti da popolazioni più o meno arbitrariamente delimi­ tate, ottenute mediante suddivisioni successive di una categoria a sua volta precostruita, «i vecchi», «i giovani», «gli immigrati» ecc.: si considereranno per esempio «i giovani della periferia occidentale di Villeurbanne». (Il primo intervento urgente, in tutti questi casi, dovrebbe essere quello di prendere per oggetto il lavoro sociale di costruzione dell’oggetto precostruito: il vero punto di rottura è qui). Ma non basta usare i grandi nomi della «grande teoria» per sottrarsi al modo di pensare realista. Per esempio, a proposito del potere, verranno poste domande sostanzialiste e realiste per loca­ lizzarlo (come gli antropologi culturalisti che continuavano eter­ namente a interrogarsi sul locus of culture): alcuni si chiederanno dove sia, chi lo detenga {who governs?)-, altri se venga dall’alto o dal basso ecc.; così come alcuni sociolinguisti si preoccupano di sapere dove si trovi il luogo di cambiamento linguistico, tra i pic­ colo-borghesi o tra i borghesi ecc. Per rompere con questo modo di pensare - e non per il piacere di applicare una nuova etichetta su vecchie otri teoriche - io preferisco parlare di campo del po­ tere (più che di classe dominante, concetto realistico che designa una popolazione molto reale di detentori di quella realtà tangibile che si chiama potere), intendendo con ciò i rapporti di forza tra posizioni sociali che assicurano ai loro occupanti un quantum suf­ ficiente di forza sociale - o di capitale - perché siano in grado di

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PARTE SECONDA

entrare nelle lotte per il monopolio del potere, lotte tra cui quelle per la definizione della forma legittima del potere rappresentano una dimensione fondamentale (penso per esempio al confronto tra «artisti» e «borghesi» nel secolo xix). Detto questo, una delle difficoltà dell’analisi relazionale sta nel fatto che il più delle volte gli spazi sociali possono essere colti solo sotto forma di distribuzioni di proprietà tra individui. Perché l’informazione accessibile è legata a degli individui. Così, per co­ gliere il sottocampo del potere economico, e le condizioni econo­ miche e sociali della sua riproduzione, saremo senz’altro obbligati a interrogare i duecento più importanti imprenditori francesi. Ma bisogna a ogni costo stare in guardia da una regressione verso la «realtà» delle unità sociali precostruite. Per questo vi suggerisco di ricorrere a quello strumento di costruzione dell’oggetto molto semplice e molto comodo che è la tabella dei tratti pertinenti di un insieme di agenti o d’istituzioni: se per esempio dovessimo analiz­ zare diversi sport da combattimento (lotta, judo, aïkido ecc.) o diverse istituzioni d’insegnamento superiore, o diversi giornali pa­ rigini, scriverei ciascuna istituzione su una riga e aprirei una nuova colonna ogni volta che venissi a scoprire una proprietà necessaria a caratterizzare una di loro, il che mi obbligherebbe a riscontrare in tutte le altre la presenza o l’assenza di tale proprietà. Questo nella fase puramente induttiva del reperimento. Poi bisognerebbe far scomparire i doppioni e mettere insieme le colonne con tratti strutturalmente o funzionalmente equivalenti, in modo da con­ servare tutti i tratti - e solo quelli - capaci di discriminare più o meno marcatamente le diverse istituzioni, e quindi i più perti­ nenti. Questo strumento assai semplice ha il merito di costringere a pensare in maniera relazionale sia le unità sociali considerate che le loro proprietà, che possono essere caratterizzate in termini di presenza o di assenza (sì/no). Solo a costo di un lavoro di costruzione simile, che non si può realizzare tutto d’un tratto ma attraverso una serie di brancolamenti, si potranno costruire a poco a poco degli spazi sociali che, sebbene si presentino sotto forma di relazioni oggettive molto astratte e non si possano né toccare né indicare con un dito, co­ stituiscono di fatto la realtà del mondo sociale. Vi rinvio per esem­ pio al mio studio appena pubblicato sulle grandes écoles in cui rac­ conto, in una sorta di cronaca molto succinta di una ricerca che si

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è protratta per quasi vent’anni, come si fa a passare dalla mono­ grafia, che di per sé può anche avere tutte le apparenze della scienza, a un vero oggetto costruito, il campo delle istituzioni sco­ lastiche che garantisce la riproduzione del campo del potere. E tanto meno facile evitare di cadere nel trabocchetto dell’oggetto precostituito in quanto si tratta, per definizione, di un oggetto che mi interessa, senza che io conosca chiaramente il vero princi­ pio di tale «interesse». Prendiamo per esempio l’École Normale. La prima conoscenza che ne posso avere, tanto più perniciosa in quanto vissuta come demistificata e demistificatrice, genera tutta una serie di domande estremamente ingenue che ogni normalista giudicherà interessanti perché «vengono immediatamente in mente» al normalista che si interroga sulla sua scuola, cioè su se stesso: i normalisti letterari sono di un’origine sociale più elevata rispetto agli scientifici ? Il livello di entrata contribuisce a deter­ minare la scelta delle discipline: matematica o fisica, filosofia o letteratura ecc.? Per la verità la problematica spontanea, nella quale entra una parte enorme di compiacimento narcisistico, di solito è ancora più ingenua. Vi rinvio alle opere di ambizione scien­ tifica che sono state dedicate da una ventina d’anni a questa o quella grande école. Alla fine si potrà scrivere un grosso libro pieno di fatti dall’apparenza molto scientifica, ma che avrà mancato l’es­ senziale; se almeno, come credo, l’École Normale Supérieure, alla quale mi può legare un attaccamento affettivo positivo e/o nega­ tivo, prodotto dei miei investimenti anteriori, in realtà non è altro che un punto in uno spazio di relazioni oggettive (un punto del quale dovremo poi determinare il «peso» nella struttura); e se, più esattamente, la verità di questa istituzione risiede nella rete di relazioni di opposizione e di concorrenza che la uniscono all’in­ sieme delle istituzioni d’insegnamento universitario, e che uni­ scono questa stessa rete all’insieme delle posizioni nel campo del potere alle quali il passaggio per le grandes écoles dà accesso. Se è vero che la realtà è relazionale, può darsi che io non sappia nulla di un’istituzione sulla quale credo di sapere tutto perché essa non è data da altro che dalle sue relazioni con il tutto. Vengono da qui i problemi di strategia che incontriamo sem­ pre, e che torneranno senza sosta nelle nostre discussioni di pro­ getti di ricerca: è meglio studiare estensivamente l’insieme degli elementi pertinenti dell’oggetto costruito o studiare intensiva­

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PARTE SECONDA

mente un frammento limitato di questo insieme teorico, sprovvi­ sto di giustificazione scientifica? La scelta socialmente più approvata, in nome di un’idea ingenuamente positivistica della precisione e della «serietà», è la seconda: quella di studiare «a fondo un oggetto ben preciso, ben circoscritto», come dicono i di­ rettori di tesi. (Sarebbe troppo facile dimostrare come delle virtù piccolo-borghesi di «prudenza», di «serietà», di «onestà» ecc., che potrebbero essere ugualmente esercitate nella gestione di una contabilità commerciale o di un impiego amministrativo, si tra­ sformino qui in «metodo scientifico»). Vedremo che si porrà, nella pratica, la questione dei limiti del campo, questione di apparenza positivistica alla quale si può dare una risposta teorica (il limite di un campo è il limite dei suoi ef­ fetti o, nell’altro senso, un agente o un’istituzione fa parte di un campo nella misura in cui vi subisce e vi produce degli effetti), ri­ sposta che potrà orientare le strategie di ricerca che mirino a dare risposte di fatto. Come conseguenza ci si ritroverà quasi sempre di fronte all’alternativa tra l’analisi intensiva di una frazione pra­ ticamente afferrabile dell’oggetto e l’analisi estensiva del vero og­ getto. Ma il vantaggio scientifico che si ha a conoscere lo spazio all’interno del quale si è isolato l’oggetto studiato (per esempio una scuola particolare) e che si deve tentare di cogliere, anche gros­ solanamente e persino, in mancanza di meglio, con dati di seconda mano, sta nel fatto che, sapendo quello che si fa e che cosa sia la realtà della quale si è astratto un frammento, si possono almeno individuare le grandi linee di forza dello spazio che esercita un condizionamento sul punto considerato (un po’ alla maniera degli architetti del secolo xix che facevano dei pregevoli schizzi a carboncino dell’insieme dell’edificio all’interno del quale era col­ locata la parte che volevano raffigurare in dettaglio). E soprat­ tutto non si rischia di cercare (e di «trovare») nel frammento stu­ diato meccanismi o princìpi che in realtà si trovano al suo esterno, in relazione con altri oggetti. Costruire l’oggetto presuppone anche che si abbia davanti ai fatti un atteggiamento attivo e sistematico: per rompere con la passività empiristica, che non fa altro che ratificare le precostru­ zioni del senso comune, non si tratta di proporre grandi costru­ zioni teoriche vuote, ma di accostarsi al caso empirico con l’in­ tenzione di costruire un modello - che per essere rigoroso non

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ha bisogno di rivestire una forma matematica o formalizzata -, di collegare i dati pertinenti in modo che funzionino come un pro­ gramma di ricerca che ponga domande sistematiche, in grado di ricevere risposte sistematiche; insomma di costruire un sistema coerente di relazioni, che deve essere messo alla prova come tale. Si tratta di interrogare sistematicamente il caso particolare, costi­ tuito in «caso particolare del possibile», come dice Bachelard, per desumerne le proprietà generali o invarianti che emergeranno solo grazie a un’interrogazione così condotta. (Se questa intenzione molto spesso manca nelle opere degli storici è, probabilmente, per­ ché la definizione sociale del loro compito, inscritta nella defini­ zione sociale della loro disciplina, è meno ambiziosa o pretenziosa, ma anche meno esigente, da questo punto di vista, di quella che si impone al sociologo). Il ragionamento analogico, che si basa sull’intuizione ragionata delle omologie (a sua volta fondata sulla conoscenza delle leggi invariabili dei campi) è uno straordinario strumento di costruzione dell’oggetto: è ciò che permette di immergersi completamente nella particolarità dell’oggetto studiato senza annegarvi, come fa una idiografia empiristica, e di portarvi a compimento l’intenzione di generalizzazione che è la scienza stessa, non attraverso l’appli­ cazione di grandi e vuote costruzioni formali, ma attraverso quella maniera particolare di pensare il caso particolare che consiste nel pensarlo davvero come tale. Questo modo di pensare si compie in maniera del tutto logica attraverso il ricorso al metodo compara­ tivo, che permette di pensare in termini relazionali un caso parti­ colare costituito in caso particolare del possibile, facendo leva sulle omologie strutturali tra campi diversi (il campo del potere uni­ versitario e il campo del potere religioso, attraverso l’omologia delle relazioni professore/intellettuale e vescovo/teologo) o tra stati diversi dello stesso campo (il campo religioso nel Medioevo e ai nostri giorni). Se questo seminario funzionerà come mi auguro, si presenterà come una realizzazione sociale pratica del metodo che cerco di promuovere; avrete modo di sentire gente che, pur lavorando su oggetti estremamente vari, è sottoposta - e si sottopone - a una interrogazione sempre orientata dagli stessi princìpi; sicché il mo­ dus operandi che mi auguro di trasmettere si trasmetterà in qual­ che modo praticamente, senza che sia necessario esplicitarlo teo­

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PARTE SECONDA

ricamente, essendo applicato ripetutamente a proposito di casi diversi. Ognuno ascoltando gli altri pensa alla propria ricerca e la situazione di confronto istituzionalizzato che risulta così creata (come la morale, il metodo funziona solo a condizione che sia riuscito a inscriversi nei meccanismi di un universo sociale) lo obbliga nello stesso tempo, e senza contraddizione alcuna, a particolarizzare il suo oggetto, a percepirlo come un caso particolare (e questo contro uno degli errori più comuni della scienza sociale, l’universalizzazione del caso particolare) e a generalizzarlo, a sco­ prire, applicandovi quesiti generali, i tratti invarianti che può ce­ lare sotto le apparenze della sua singolarità. (Uno degli effetti più diretti di questo modo di pensare è infatti quello di vietare la semi-generalizzazione, che induce a produrre concetti concreti­ astratti, derivati dall’introduzione clandestina, nel discorso scien­ tifico, di parole o fatti indigeni non analizzati). In un periodo in cui ero più direttivo, consigliavo insistentemente ai ricercatori di studiare almeno due oggetti: per esempio, agli storici, oltre al loro oggetto principale - il tale editore nel secolo xvin, i collezionisti nel Secondo Impero -, suggerivo di studiare l’equivalente con­ temporaneo di tale oggetto - una casa editrice parigina, un gruppo di collezionisti - in modo che lo studio del presente producesse almeno l’effetto di obbligare a aggettivare e a controllare le pre­ nozioni che lo storico proietta sempre nel passato, se non altro uti­ lizzando per nominarlo parole del presente; come la parola «artista», che fa dimenticare come la nozione corrispettiva sia un’invenzione straordinariamente recente.

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Un dubbio radicale

Costruire un oggetto scientifico significa innanzi tutto rompere col senso comune, cioè con rappresentazioni condivise da tutti, siano esse semplici luoghi comuni della vita quotidiana o rappre­ sentazioni ufficiali, spesso inscritte nelle istituzioni, e dunque sia nell’oggettività delle organizzazioni sociali che nei cervelli. Il pre­ costruito è dappertutto. Il sociologo ne è letteralmente assediato, come tutti. Deve conoscere un oggetto, il mondo sociale, di cui è a sua volta il prodotto, cosicché i problemi che si pone a riguardo, i concetti - e in particolare le nozioni classificatorie che usa per conoscerlo, nozioni comuni come i nomi di professioni, o nozioni colte come quelle che veicola la tradizione della disciplina -, sono molto probabilmente il prodotto di quello stesso oggetto. Il che contribuisce a conferire loro un’evidenza - risultante dalla coin­ cidenza tra strutture oggettive e strutture soggettive - che le mette a riparo da ogni problematizzazione. Come può il sociologo rendere efficace nella pratica il dubbio radicale necessario per tenere in sospeso tutti i presupposti ine­ renti al fatto che egli è un essere sociale, dunque socializzato e portato a sentirsi come un pesce nell’acqua all’interno di quel mondo sociale di cui ha interiorizzato le strutture ? Come può evi­ tare che in qualche modo il mondo sociale stesso operi attraverso di lui, grazie a operazioni inconsapevoli e di cui egli è il soggetto apparente, la costruzione dell’oggetto scientifico? Non costruire, come fa l’iperempirismo positivistico, che accetta senza esaminarli i concetti che gli vengono proposti {achievement, ascription, pro­ fession, role ecc.) è sempre costruire, perché significa registrare

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PARTE SECONDA

- e ratificare - qualcosa di già costruito. La sociologia corrente, che omette una radicale messa in questione delle proprie opera­ zioni e dei propri strumenti di pensiero, e che probabilmente con­ sidera una simile intenzione riflessiva il residuo di una mentalità filosofica, quindi una sopravvivenza prescientifica, è interamente attraversata dall’oggetto che pretende di conoscere, e che non può conoscere realmente, perché non conosce se stessa. Una pratica scientifica che tralasci di mettere in discussione se stessa, a rigor di termini, non sa quello che fa. Presa nell’oggetto che essa prende per oggetto, restituisce qualcosa dell’oggetto, ma qualcosa di non realmente oggettivato poiché si tratta dei princìpi stessi di appropriazione dell’oggetto. Sarebbe facile dimostrare che questa scienza semicolta prende a prestito dal mondo sociale i suoi problemi, i suoi concetti e i suoi strumenti di conoscenza, e che spesso registra come un datum, come un dato empirico indipendente dall’atto di conoscenza e dalla scienza che lo opera, fatti, rappresentazioni o istituzioni che sono il prodotto di uno stato anteriore della scienza-, insomma, che regi­ stra se stessa senza riconoscersi... Mi fermo un momento su ognuno di questi punti. La scienza so­ ciale è sempre esposta a ricevere dal mondo sociale da lei studiato i problemi che si pone a proposito di esso: ogni società in ogni mo­ mento elabora un corpo di problemi sociali ritenuti legittimi, degni di essere discussi, resi pubblici, talvolta ufficializzati e, in qualche modo, garantiti dallo Stato. Sono, per esempio, i problemi che ven­ gono sottoposti alle grandi commissioni ufficialmente incaricate di studiarli, e che vengono posti anche, più o meno direttamente, agli stessi sociologi, attraverso le più svariate forme di domanda buro­ cratica, bandi di concorso, programmi di studio ecc., e di finan­ ziamenti, contratti, sovvenzioni ecc. Molti oggetti avallati dalla scienza ufficiale, e che figurano nei titoli delle ricerche, non sono altro che problemi sociali entrati di contrabbando nella sociologia - povertà, delinquenza, giovinezza, educazione, tempo libero, sport ecc. - e che, come potrebbe testimoniare un’analisi dell’evo­ luzione nel tempo delle grandi divisioni realistiche della sociologia quali figurano nelle rubriche delle grandi riviste o nelle denomi­ nazioni dei gruppi di lavoro nei congressi mondiali della disciplina, variano a seconda delle fluttuazioni della coscienza sociale del momento. Questa è una delle mediazioni attraverso le quali il

UN DUBBIO RADICALE

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mondo sociale si costruisce la propria rappresentazione, servendosi a tal fine della sociologia e del sociologo. Lasciare in uno stato impensato il proprio pensiero, per un sociologo, più ancora che per qualsiasi altro pensatore, significa votarsi a non essere altro che lo strumento di quello che egli pretende di pensare. E possibile una rottura ? Come può il sociologo sottrarsi alla persuasione occulta esercitata in ogni momento su di lui, quando legge il giornale o guarda la televisione, o persino quando legge i lavori dei colleghi ? Il fatto di stare all’erta è già importante. Ma non basta. Uno dei più potenti strumenti di rottura è la storia so­ ciale dei problemi, degli oggetti e degli strumenti di pensiero, cioè la storia del lavoro sociale di costruzione degli strumenti di costruzione della realtà sociale (come le comuni nozioni di ruolo, cultura, vecchiaia ecc., o i sistemi di classificazione) che si com­ pie all’interno del mondo sociale stesso nella sua totalità o in que­ sto o quel campo specializzato e, in particolare, nel campo delle scienze sociali. (Il che potrebbe significare dare una funzione e un programma molto diversi dagli attuali all’insegnamento della sto­ ria sociale delle scienze sociali, storia che per l’essenziale è ancora tutta da fare). Una parte importante del lavoro collettivo che si esprime nella rivista «Actes de la recherche en sciences sociales» riguarda la storia sociale degli oggetti più consueti dell’esistenza normale: penso per esempio a tutte le cose che sono diventate tal­ mente comuni, quindi così scontate, che nessuno ci fa più caso, come la struttura di un tribunale, lo spazio di un museo, un inci­ dente sul lavoro, una cabina elettorale, una tabella a doppia entrata o semplicemente la scrittura e la registrazione. La storia così concepita non è ispirata da un interesse da antiquario, ma dalla preoccupazione di capire perché e come noi capiamo. Per non essere oggetto dei problemi che si prendono per og­ getto, bisogna ricostruire la storia sociale emergenza di quei problemi, della loro progressiva costituzione, cioè del lavoro col­ lettivo - spesso avvenuto con la concorrenza e la lotta - che è stato necessario per far conoscere e riconoscere tali problemi come pro­ blemi legittimi, confessabili, pubblicabili, ufficiali: possiamo pen­ sare ai problemi della famiglia, del divorzio, della delinquenza, della droga, del lavoro femminile ecc. In tutti questi casi scopri­ remo che il problema che il normale positivismo (entro cui agisce sulle prime ogni ricercatore) accetta come naturale è stato social­

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PARTE SECONDA

mente prodotto all’interno e attraverso un lavoro collettivo di costru­ zione della realtà sociale-, che ci sono volute riunioni, commissioni, associazioni, comitati, leghe di difesa, movimenti, manifestazioni, petizioni, domande, delibere, voti, prese di posizione, progetti, programmi, risoluzioni ecc. perché quello che era e che avrebbe potuto restare un problema privato, particolare, individuale, di­ ventasse un problema sociale, un problema pubblico, di cui si po­ tesse parlare pubblicamente - si pensi all’aborto o all’omosessua­ lità - o un problema ufficiale, oggetto di prese di posizione ufficiali, o di leggi e decreti. Qui bisognerebbe analizzare il ruolo particolare del campo politico, e soprattutto del campo burocra­ tico: attraverso la logica tutta particolare della commissione buro­ cratica, che io sto analizzando a proposito dell’elaborazione di una nuova politica di sussidi per gli alloggi in Francia intorno al 1975, questo campo contribuisce in maniera assai rilevante all’avallo e alla costituzione di problemi sociali «universali». E sarà tanto più probabile una imposizione di problematiche al ricercatore - che le subisce come ogni agente sociale e anzi assume nei loro con­ fronti un ruolo d’intermediario ogni volta che fa propri degli interrogativi che circolano nell’aria senza sottoporli ad esame, includendoli per esempio nei suoi questionari - quanto più i pro­ blemi taken for granted di un certo universo sociale sono quelli che hanno le maggiori probabilità di avere grants, materiali o simbo­ lici, di essere, come si dice, ben visti, dagli amministratori scien­ tifici e dalle amministrazioni. (Questo spiega, per esempio, come coloro che hanno i mezzi per commissionare sondaggi, questa scienza senza scienziati, possano accettarli senza riserve, mentre nei confronti della sociologia si mostrano tanto più critici quanto più questa fa saltare le loro domande e le loro commesse). Aggiungo solo, per complicare ancora un po’ le cose e far ve­ dere come sia difficile, quasi disperata, la situazione del sociologo, che il lavoro di produzione dei problemi sociali, dotati cioè di quella sorta di universalità assicurata loro dal fatto di essere garantiti dallo Stato, oggi riserva sempre un posto ai cosiddetti esperti-, tra questi ci sono anche alcuni sociologi che si servono dell’autorità della scienza per garantire o avallare l’universalità, l’oggettività e il disinteresse della rappresentazione burocratica dei problemi. Il che significa che il sociologo degno di questo nome, che fa quello che secondo me bisogna fare per avere qual-

3. UN DUBBIO RADICALE

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che possibilità di essere davvero il soggetto dei problemi che si pos­ sono porre in merito al mondo sociale, deve prendere per oggetto il contributo che la sociologia, i sociologi, cioè i propri colleghi, apportano, in tutta buona fede, alla produzione dei problemi uf­ ficiali: cosa che con molta probabilità verrà vista come un segno d’intollerabile arroganza o come un tradimento della solidarietà professionale, degli interessi corporativi. Nelle scienze sociali, come si sa, le rotture epistemologiche sono spesso rotture sociali, rotture con le credenze fondamentali di un gruppo e, talvolta, con le credenze fondamentali di un corpo di professionisti, con quel corpo di certezze condivise che fonda la communis doctorum opinio. Praticare il dubbio radicale in socio­ logia significa un po’ mettersi fuori legge. È probabilmente quello di cui si deve essere reso conto Descartes che, con grande stupore dei suoi commentatori, non ha mai esteso alla politica - è nota la prudenza con cui parla di Machiavelli - il modo di pensare che aveva così intrepidamente inaugurato nell’ambito della cono­ scenza. Ed eccoci ora ai concetti, alle parole, ai metodi che la professione utilizza per parlare del mondo sociale e per pensarlo. Il linguaggio pone un problema particolarmente drammatico al sociologo: è. in­ fatti un immenso deposito di precostruzioni naturalizzate, quindi ignorate come tali, che funzionano come strumenti inconsci di costruzione. Potrei citare l’esempio delle tassonomie professionali, si tratti di nomi di professioni in uso nella vita quotidiana o delle categorie socioprofessionali dell’iNSEE (Institut National de la Sta­ tistique et des Etudes Economiques), bell’esempio di concettualiz­ zazione burocratica, di universale burocratico; e, più generalmente, potrei citare l’esempio di tutte le classificazioni (classi di età, giovani/vecchi, classi sessuali, uomini/donne, che sappiamo non sfug­ gire all’arbitrio sociale ecc.) che i sociologi usano senza pensarci troppo, perché sono categorie sociali di comprensione comuni a tutta una società, oppure perché, come le categorie che ho chia­ mato di comprensione professorale (i sistemi di aggettivi, brillante/scialbo ecc. usati per giudicare i compiti degli allievi o i pregi dei colleghi), sono specifiche della loro corporazione (il che tutta­ via non impedisce che siano radicate, in ultima analisi, sulla base di omologie di struttura, nelle opposizioni fondamentali dello spa­ zio sociale, come raro/banale, unico/comune ecc.).

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Ma credo che sia necessario andare oltre e mettere in discus­ sione non solo la classificazione delle professioni e i concetti usati per designare le classi di mestieri, ma il concetto stesso di «pro­ fessione» o, per dirla in inglese, di profession, che è servito da base a tutto un insieme di ricerche e che, per alcuni, rappresenta una sorta di parola d’ordine metodologica. Professione è una nozione tanto più pericolosa in quanto giocano a suo favore, come sempre in casi simili, tutte le apparenze e perché, in un certo senso, il suo impiego ha segnato comunque un progresso rispetto al pastone teo­ rico alla Parsons. Parlare di professione voleva dire applicarsi a una vera realtà, a insiemi di persone che rispondono allo stesso nome, come i lawyers per esempio, dotate di uno statuto economico pres­ soché equivalente e soprattutto organizzate in associazioni pro­ fessionali dotate di una deontologia, d’istanze collettive che defi­ niscono le regole di accesso ecc. Professione è una parola del linguaggio comune passata di contrabbando nel linguaggio scien­ tifico; ma, con la parola, anche tutta una costruzione sociale, il pro­ dotto di tutto un lavoro sociale di costruzione di un gruppo e di una rappresentazione di questo gruppo, si è insinuato in sordina nella scienza del mondo sociale. Per questo il «concetto» funziona tanto bene. Persino troppo bene, in un certo senso: se lo si accetta per costruire l’oggetto, si possono trovare liste già pronte, centri di documentazione che raccolgono le informazioni in proposito, e forse, con un minimo di abilità, anche i fondi per studiarlo. Rin­ via a realtà fin troppo reali, perché possa cogliere nello stesso tempo una categoria sociale - socialmente costruita, superando dunque le differenze economiche, sociali, etniche che fanno per esempio della profession dei lawyers uno spazio di concorrenza - e una ca­ tegoria mentale. Ma se, prendendo atto dello spazio di differenze che ha dovuto superare il lavoro di aggregazione che è stato neces­ sario per costruire la professione, mi chiedo se non si tratti di un campo, allora tutto diventa difficile. Come prelevare un campione in un campo ? Se nello studio del campo della magistratura non includete il presidente della Corte suprema o se, in uno studio sul campo intellettuale nella Francia del 1950, non includete Jean-Paul Sartre, il vostro campo è distrutto, perché questi personaggi da soli segnano una posizione. Ci sono posizioni a un posto solo che reg­ gono tutta la struttura. In una campionatura rappresentativa de­ gli scrittori concepiti come professione, no problem.

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Finché lo prendete così come si offre, il dato - i famosi data dei sociologi positivisti - vi si offre senza problemi, tutto procede facilmente, naturalmente. Le porte si aprono, e anche le bocche. Quale gruppo potrebbe rifiutare la registrazione sacralizzante dello storiografo ? Una indagine sui vescovi o sui padroni che as­ suma (tacitamente) la problematica episcopale o padronale riceve l’appoggio della segreteria episcopale o del cnpf (Comité Natio­ nal du Patronat Français), e i vescovi e i padroni che si affrettano a venire a commentarne i risultati non mancheranno di assegnare un brevetto di oggettività al sociologo che ha saputo dare una realtà oggettiva - pubblica - alla rappresentazione soggettiva che hanno del loro essere sociale. Insomma, finché si rimane nell’or­ dine dell’apparenza socialmente costituita, si hanno dalla propria, a proprio favore, tutte le apparenze, perfino le apparenze della scientificità. Al contrario, appena si incomincia a lavorare su un vero oggetto costruito, tutto diventa difficile: il progresso «teo­ rico» genera un aumento di difficoltà «metodologiche». I «metodologi» non ci metteranno molto a trovare il pelo nell’uovo nelle operazioni che bisogna compiere per arrivare in qualche modo a una comprensione dell’oggetto costruito. (La metodologia è come l’ortografia, della quale si diceva fosse «la scienza degli asini». E un repertorio di errori, che si potrebbero commettere solo a con­ dizione di essere stupidi. Devo dire per onestà che tra le fallacies recensite ce ne sono alcune che probabilmente da solo non avrei trovato. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di errori banali, che possono solo fare la gioia dei professori. I sacerdozi, come ricorda Nietzsche, vivono di peccato...). Una delle difficoltà consiste, come accennavo prima, nei limiti del campo, che i posi­ tivisti più intrepidi - quando non omettono in maniera pura e semplice di porsela, prendendo così come sono delle liste belle e fatte - risolvono con una «definizione operativa» («Chiamo scrit­ tore»), senza vedere che il problema della definizione («Il tale non è un vero scrittore») è già in gioco nello stesso oggetto. Esiste tutta una lotta per stabilire chi faccia parte del gioco, chi meriti vera­ mente il nome di scrittore. Nel campo degli scrittori è in gioco la stessa nozione di scrittore; come pure nel campo dei lawyers, nonostante tutti gli sforzi di codificazione e di omogeneizzazione per omologazione, è in gioco la nozione di lawyers-, la lotta per la definizione legittima, che ha come posta - lo dice la stessa parola

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«definizione» - la frontiera, il limite, il diritto d’ingresso, talvolta il numerus clausus, caratterizza universalmente tutti i campi. Tutte le apparenze, i consensi, giocano a favore dell’abdi­ cazione empiristica, perché questa, omettendo la costruzione, lascia al mondo sociale così com’è, all’ordine costituito, le opera­ zioni essenziali della costruzione scientifica - scelta del problema, elaborazione dei concetti e delle categorie di analisi - venendo così ad adempiere, almeno per difetto, a titolo di ratifica della doxa, una funzione fondamentalmente conservatrice. Tra tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di una sociologia scien­ tifica, uno dei peggiori consiste nel fatto che le vere scoperte pre­ suppongono i costi più elevati per i profitti più esigui, non solo sui normali mercati dell’esistenza sociale, ma anche sul mercato uni­ versitario, dal quale ci si aspetterebbe una maggiore autonomia. Come ho cercato di dimostrare a proposito dei costi e dei ricavi scientifici e sociali delle nozioni di professione e di campo, spesso per fare scienza occorre venir meno alle apparenze della scientifi­ cità, contraddire addirittura le norme in uso e sfidare i criteri abi­ tuali del rigore scientifico (si potrebbero esaminare, da questo punto di vista, gli statuti rispettivi della sociologia e dell’econo­ mia). Le apparenze sono sempre per l’apparenza. Spesso la vera scienza non ispira fiducia e allora, pur di far avanzare la scienza, bisognerà altrettanto spesso assumere il rischio di non avere tutti i segni esteriori della scientificità (dimenticando quanto sia facile simularli). Tra l’altro perché gli pseudoesperti si fermano davanti alle apparenti deroghe ai canoni della «metodologia» elementare e la loro sicurezza positivistica li porta a percepire come «errori», come effetti di mancanza di abilità o d’ignoranza, scelte metodo­ logiche basate sul rifiuto delle «facilità» della «metodologia». Non ho bisogno di dire che la riflessività ossessiva, condizione di una pratica scientifica rigorosa, non ha niente in comune col falso radicalismo di tante questioni sollevate dalla scienza che oggi vanno moltiplicandosi (penso a coloro che reintroducono la vec­ chia critica filosofica delle scienze sociali, più o meno aggiornata secondo i gusti del momento, nel mondo delle scienze sociali ame­ ricane, le cui difese immunitarie sono state annullate, paradossal­ mente, da più generazioni di «metodologia» positivistica). L’ana­ lisi della logica pratica e delle teorie spontanee cui la riflessività fa ricorso per dare senso al mondo non è fine a se stessa, così come

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non lo è la critica dei presupposti delle analisi della sociologia corrente (a-ri£lessiva), in particolare in materia di statistiche; è un momento di rottura assolutamente decisivo con i presupposti del senso comune, normale o colto. Se dobbiamo oggettivare gli schemi del senso pratico, non è per fornire una prova che la so­ ciologia non può essere altro che un punto di vista sul mondo, né più né meno scientifico di un altro, ma per strappare la ragione scientifica alla ragione pratica, per impedire alla seconda di con­ taminare la prima, per evitare di considerare come strumento di conoscenza ciò che dovrebbe essere oggetto di conoscenza, cioè tutto ciò che fa il senso pratico del mondo sociale, i presupposti, gli schemi di percezione e di comprensione. Prendere per oggetto il senso comune e l’esperienza immediata del mondo sociale come adesione non tetica a un mondo che non è costituito in oggetto di fronte a un soggetto, è esattamente una maniera per evitare di es­ sere presi nell’oggetto, di trasportare nella scienza tutto ciò che rende possibile l’esperienza dossica del mondo sociale, cioè non solo la rappresentazione precostruita di questo mondo, ma anche gli schemi cognitivi che sono alla base della costruzione di quell’im­ magine. E quegli etnometodologi che si limitano alla descrizione di questa esperienza, senza interrogarsi sulle condizioni sociali che la rendono possibile - cioè l’aggiustamento tra strutture sociali e strutture mentali, tra strutture oggettive del mondo e strutture cognitive attraverso le quali viene compreso - non fanno altro che riprendere gli interrogativi più tradizionali della filosofia più tradizionale sulla realtà della realtà. E per misurare i limiti delle parvenze di radicalismo che conferisce loro talvolta il populismo epistemologico (connesso alla riabilitazione del pensiero comune) basta, per esempio, osservare come non siano mai stati capaci di vedere le implicazioni politiche dell’esperienza dossica del mondo che, in quanto accettazione fondamentale, posta fuori della por­ tata della critica, dell’ordine costituito, fornisce le basi più sicure a un conservatorismo persino più radicale di quello che mira a instaurare {’ortodossia politica (come doxa giusta e di destra).

4Double bind e conversione

L’esempio che ho appena citato, con la nozione di profession, è solo un caso particolare. Bisogna infatti mettere continuamente in dubbio l’intera tradizione colta della sociologia, della quale bisogna sempre diffidare. Eccoci quindi di fronte a quella sorta di double bind cui è costantemente esposto ogni sociologo degno di questo nome. Senza gli strumenti di pensiero che gli derivano dalla propria tradizione scientifica, non è niente, solo un dilet­ tante, un autodidatta, un sociologo spontaneo; posizione che non è certo tra le migliori poiché spesso vi traspaiono evidenti i limiti della sua esperienza sociale. Con quegli strumenti, però, è in per­ manente pericolo di errore; rischia infatti di non far altro che sostituire alla doxa ingenua del senso comune la doxa del senso comune colto, che fornisce col nome di scienza una semplice trascrizione del discorso del senso comune. E quello che io chiamo «l’effetto Diafoirus»: ho spesso notato, soprattutto negli Stati Uniti, che, per capire davvero ciò di cui parla questo o quel sociologo, bisogna (ed è sufficiente) aver letto il «New York Times» della settimana o del mese precedente, che lui ritraduce in quel terribile linguaggio-schermo, né propriamente concreto, né propriamente astratto, che gli impongono, senza che lui nem­ meno lo sappia, la sua formazione e la censura establishment sociologico. Ma non è facile sfuggire all’alternativa tra l’ignoranza disar­ mata dell’autodidatta sprovvisto di strumenti di costruzione e la semiscienza del semicolto che accetta senza esaminarle categorie di percezione legate a un certo stato del mondo scientifico, con­ cetti semicostruiti, più o meno direttamente presi a prestito dal

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mondo sociale. La contraddizione si avverte in maniera partico­ larmente chiara nel caso dell’etnologia, in cui, a causa della diffe­ renza delle tradizioni culturali e dello straniamente che ne risulta, non si può vivere come in sociologia nell’illusione della compren­ sione immediata. Devo per esempio confessare che, se non avessi letto gli etnologi, prima di andare «sul campo», non avrei forse mai colto la differenza radicale che facevano i miei informatori, e che si rifletteva nello stesso linguaggio che usavano, tra cugina pa­ rallela e cugina incrociata. In casi del genere, o non si vede niente, o ci si affida a categorie di percezione e modi di pensare (il for­ malismo giuridico degli etnologi) che ereditiamo da coloro che ci hanno preceduti (che a loro volta spesso li hanno ricevuti da un’al­ tra tradizione colta, come quella del diritto romano). Questo favorisce una sorta di conservatorismo strutturale, che porta a ripro­ durre la doxa colta. Da qui deriva l’antinomia della pedagogia della ricerca: essa deve infatti trasmettere tanto gli strumenti di costruzione della realtà, problematiche, concetti, tecniche, metodi, quanto una straordinaria disposizione critica, una inclinazione a mettere in discussione questi strumenti - per esempio le classificazioni, quelle dell’iNSEE o altre, che non sono né piovute dal cielo né uscite fuori belle e pronte dalla realtà. Naturalmente, come ogni messaggio, questa pedagogia ha probabilità di successo molto diverse a seconda delle disposizioni socialmente costituite dei destinatari: la situazione più favorevole è quella di persone che riuniscano insieme una cultura scientifica e una certa rivolta contro quella cultura, dovuta il più delle volte a esperienze estranee all’universo colto, che fanno sì che non vi si appartenga proprio del tutto, o che semplicemente presentino una forma di resistenza alla rap­ presentazione del mondo sociale che il discorso sociologico pre­ dominante ha reso asettica e ha svuotato d’ogni realtà. Penso ad Aaron Cicourel, che da giovane aveva frequentato i «delinquenti» degli slums di Los Angeles, ed era quindi spontaneamente portato a mettere in dubbio ogni rappresentazione ufficiale dei «delin­ quenti»: è probabile che sia stata quella familiarità con l’universo studiato, oltre alla sua competenza statistica, a spingerlo a porre alle statistiche della delinquenza domande che nessuna procedura metodologica al mondo sarebbe stata in grado di produrre. Uno degli ostacoli di cui deve tener conto una vera pedagogia

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PARTE SECONDA

della ricerca, è innanzi tutto la normale psicologia dei normali pro­ fessori, che rafforzano le disposizioni al conformismo inscritte nella stessa logica di riproduzione scolastica oltre che, come ho già detto, nell’impossibilità di «arrivare alle cose stesse» senza nes­ suno strumento di percezione. Sono convinto che l’insegnamento corrente della sociologia e le produzioni intellettuali derivate da questo insegnamento e votate a farvi ritorno costituiscano oggi il maggiore ostacolo allo sviluppo della scienza sociale. E questo per molte ragioni. Ne ricorderò una sola, cui ho spesso avuto occa­ sione di accennare: essi perpetuano e canonizzano opposizioni più o meno fittizie tra autori (Weber/Marx, Durkheim/Marx ecc.), tra metodi (quantitativo/qualitativo, macrosociologia/microsociologia, struttura/storia ecc.), tra concetti ecc. Se possono risul­ tare molto utili per affermare l’esistenza del professore che viene così a porsi al di sopra delle divisioni che descrive, queste opera­ zioni di catalogazione, come tutte le false sintesi di una teoria senza empiria e tutte le messe in guardia inutili e sterilizzanti di una «metodologia» senza concetti, funzionano innanzi tutto come sistemi di difesa contro i veri progressi della scienza, che minac­ ciano i falsi saperi dei professori. Le prime vittime sono ovvia­ mente gli studenti: a meno che non abbiano speciali disposizioni, cioè a meno che non siano particolarmente indocili, sono destinati a essere sempre in ritardo di una guerra scientifica o epistemolo­ gica, come i professori. Infatti, invece di farli incominciare, come si dovrebbe, dal punto cui sono giunti i ricercatori più avanzati, li si respinge in continuazione - è una delle funzioni del culto sco­ lastico dei classici, che è tutto il contrario di una vera storia critica della scienza - su terreni sperimentati, in cui li si obbliga a ripercorrere eternamente le battaglie del passato. Col rischio di dar l’impressione di voler spingere all’estremo il dubbio radicale, vorrei anche ricordare le forme più perverse che può assumere in sociologia la pigrizia del pensiero: penso per esem­ pio al caso alquanto paradossale in cui un pensiero critico come quello di Marx funziona allo stato d’impensato non solo nei cer­ velli dei ricercatori - tanto quelli che si richiamano a Marx quanto quelli che lo avversano - ma anche nella realtà che essi registrano come pura constatazione. Indagare, senza porsi problemi, sulle classi sociali, sulla loro esistenza o meno, sul loro numero e carat­ tere più o meno antagonistico, come spesso è stato fatto, soprat­

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tutto con l’intenzione di respingere la teoria marxista, significa prendere per oggetto, senza saperlo, le tracce degli effetti prodotti nella realtà dalla teoria di Marx, in particolare attraverso l’ope­ rato dei partiti e dei sindacati che si sono sforzati di «elevare la coscienza di classe». Quello che dico a proposito degli effetti di teoria prodotti dalla teoria marxista delle classi, e di cui la «coscienza di classe» empi­ ricamente misurata è in parte il frutto, è solo un caso particolare di un fenomeno più generale: l’esistenza di una scienza sociale e di pratiche sociali che a tale scienza si richiamano, come i son­ daggi di opinione, le consulenze sulla comunicazione, la pubbli­ cità ecc., ma anche la pedagogia o addirittura, sempre di più, l’azione di uomini politici o alti funzionari, di uomini d’affari o giornalisti ecc., fa sì che nello stesso mondo sociale vi siano sem­ pre più agenti che nella loro pratica, e soprattutto nel loro lavoro di produzione delle rappresentazioni del mondo sociale, chiamano in causa saperi colti, quando non scientifici. Ne consegue che, sempre più spesso, la scienza rischia di introiettare senza saperlo, prodotti di pratiche che si richiamano alla scienza. Infine, e in maniera più sottile, la sottomissione a certe abitu­ dini di pensiero, anche a quelle che in altre circostanze potreb­ bero produrre uno straordinario effetto di rottura, può ugual­ mente portare a forme inaspettate d’ingenuità. Non esiterei a sostenere che il marxismo, nei suoi usi sociali più comuni, costi­ tuisce spesso la forma per eccellenza, perché la più insospettabile, di un precostruito colto. Supponiamo che si voglia studiare 1’« ideo­ logia giuridica», o l’ideologia «religiosa», o «professorale». La pa­ rola ideologia vuole sottolineare una rottura rispetto alle rappre­ sentazioni che gli agenti stessi pretendono di dare della propria pratica: vuole indicare che non bisogna prendere alla lettera le loro dichiarazioni, che sono interessate ecc.; ma nella sua violenza ico­ noclasta porta a dimenticare che il dominio al quale occorre sot­ trarsi per oggettivarla si esercita solo in quanto non è riconosciuto come tale; e che dunque bisogna reintrodurre nel modello scien­ tifico il fatto che la rappresentazione oggettiva della pratica ha dovuto essere costruita contro l’esperienza immediata della pratica, o, se si preferisce, che la «verità oggettiva» di questa espe­ rienza è inaccessibile all’esperienza stessa. Marx permette di for­ zare la porta della doxa, dell’adesione ingenua all’esperienza

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immediata, ma dietro quella porta c’è una trappola, e lo pseudo­ esperto che si affida al senso comune colto dimentica di tornare all’esperienza immediata che l’astrazione colta aveva dovuto met­ tere in forse. L’«ideologia» (che ormai faremmo meglio a chia­ mare in altro modo) non appare e non appare neppure a se stessa, come tale, e da questo misconoscimento dipende la sua efficacia simbolica. Insomma, non basta rompere con il senso comune abi­ tuale, né con il senso comune colto nella sua forma abituale; bisogna rompere anche con gli strumenti di rottura che annullano l’esperienza stessa contro la quale sono stati costruiti. Si dovranno dunque costruire modelli più completi, che inglobino sia l’espe­ rienza ingenua, sia la verità oggettiva che essa dissimula e alla quale, attraverso un’altra forma d’ingenuità, si fermano gli pseu­ doesperti, quelli che si ritengono smaliziati. (E qui non posso fare a meno di dire che il piacere di sentirsi smaliziati, demistificati e demistificatori, di fare i disincantatori disincantati, c’entra non poco in parecchie vocazioni sociologiche... e quindi il sacrificio che un metodo rigoroso richiede risulta ancora più grande...) Quando si tratta di pensare il mondo sociale, non si rischia mai di sopravvalutare le difficoltà, o le minacce. La forza del preco­ struito sta nel fatto che, essendo inscritto contemporaneamente e nelle cose e nei cervelli, si presenta sotto l’aspetto dell’evidenza, che passa inosservata in quanto ovvia. La rottura è di fatto una conversione dello sguardo-, e potremmo anzi dire che l’insegnamento della ricerca in sociologia dovrebbe innanzi tutto «dare nuovi occhi», come dicono qualche volta i filosofi iniziatici. Si tratta di produrre, se non proprio un «uomo nuovo», per lo meno un «nuovo sguardo», un occhio sociologico. E questo non è possibile senza una vera conversione, una peróvoia, una rivoluzione men­ tale, un cambiamento di tutta la visione del mondo sociale. Quella che chiamiamo «rottura epistemologica», cioè l’opera­ zione di mettere tra parentesi le precostruzioni abituali e i princìpi abitualmente messi in funzione per realizzare queste costruzioni, presuppone spesso una rottura con modi di pensare, concetti, me­ todi, pienamente confortati dalle apparenze del senso comune, del buon senso abituale e del buon senso scientifico (tutte cose che la disposizione positivistica dominante onora e riconosce). Ne de­ riva che quando si è convinti, come me, che il primo compito della scienza sociale - e quindi dell’insegnamento della ricerca in scienza

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sociale - sia quello di instaurare come norma fondamentale della pratica scientifica la conversione del pensiero, la rivoluzione dello sguardo, la rottura col precostruito e con tutto ciò che, nell’ordine sociale - e nell’universo colto - lo sostiene, si è destinati a essere continuamente sospettati di esercitare un magistero profetico e di sollecitare una conversione personale. Avendo una coscienza assai precisa delle contraddizioni pro­ priamente sociali dell’opera scientifica che ho cercato di descri­ vere, spesso, davanti a un lavoro che viene sottoposto a un mio giudizio, sono costretto a chiedermi se debba tentare di imporre la visione critica che ritengo condizione indispensabile per la costruzione di un vero oggetto scientifico, procedendo a una cri­ tica dell’oggetto precostruito che rischia sempre di apparire come un colpo di forza, una sorta di annessione. La difficoltà è ancora maggiore in quanto nelle scienze sociali la fonte dell’errore sta quasi sempre, almeno sulla base della mia esperienza, in disposi­ zioni socialmente costituite, o anche in paure, fantasmi sociali. Al punto che è spesso difficile enunciare pubblicamente un giudizio critico che, attraverso pratiche colte, va di fatto a toccare le di­ sposizioni più profonde, strettamente legate all’origine sociale, al sesso, oltre che al grado di consacrazione scolastica precedente: penso, per esempio, all’eccessiva umiltà (più probabile tra le ragazze che tra i ragazzi, e tra i ricercatori di origine «modesta» - come qualche volta si dice - meno solidi scolasticamente ecc.), che è appena meno funesta dell’arroganza. (L’atteggiamento giu­ sto, a mio avviso, dovrebbe supporre una combinazione assai im­ probabile di una certa ambizione, che porta a vedere in grande, e una grandissima modestia, indispensabile per immergersi nel det­ taglio dell’oggetto). Il direttore di ricerca che volesse davvero adempiere alla sua funzione dovrebbe talvolta assumere un ruolo pericoloso, e in ogni caso ingiustificabile, di «padre spirituale». Di fatto, l’aiuto più decisivo che l’esperienza permetta di dare al ricercatore debuttante consiste nell’incoraggiarlo a tener conto nella definizione del suo progetto delle condizioni effettive di rea­ lizzazione, cioè dei mezzi di cui dispone, soprattutto in termini di tempo e di competenze specifiche (in particolare della natura della sua esperienza sociale, della formazione che ha ricevuto) e anche delle capacità di accesso a informatori e informazioni, a documenti o fonti ecc. Spesso solo al termine di un vero lavoro di

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socioanalisi si può realizzare, attraverso tutta una serie di fasi di sovrainvestimento e di disinvestimento, il matrimonio ideale tra un ricercatore e il «suo» oggetto. La sociologia della sociologia, nella forma assai concreta di una sociologia del sociologo, del suo progetto scientifico, delle sue ambizioni e rinunce, delle sue audacie e terrori, non è un sup­ plemento di anima o una sorta di lusso narcisistico. La presa di coscienza di disposizioni favorevoli e sfavorevoli connesse a caratteristiche sociali, scolastiche o sessuali, offre una opportu­ nità, per quanto limitata, di avere presa su quelle disposizioni. Come dicono gli stoici a proposito della saggezza, la sociologia della sociologia non può nulla sul primo gesto, ma permette di con­ trollare il secondo... Le astuzie delle pulsioni sociali sono innu­ merevoli, e fare la sociologia del proprio universo può essere la maniera più perversa di appagare, per vie abilmente indirette, quelle pulsioni represse. Per esempio, un ex teologo divenuto so­ ciologo, che dovesse mettersi a studiare i teologi, potrebbe avere una sorta di regressione e mettersi a parlare da teologo o, peggio, potrebbe servirsi della sociologia per regolare i propri conti di teo­ logo. Analogamente, un ex filosofo rischierà sempre di trovare nella sociologia della filosofia una maniera di continuare le sue battaglie filosofiche con altri mezzi.

5Una oggettivazione partecipe

Quella che chiamo oggettivazione partecipe (e che non va con­ fusa con 1’«osservazione partecipe») è probabilmente la cosa più difficile da esercitare, perché presuppone una rottura con le pro­ prie fissazioni e adesioni più intime e più inconsce, che spesso sono le stesse cui si deve 1’«interesse» per l’oggetto studiato da parte di chi lo studia, che poi è la cosa che quest’ultimo meno vuol conoscere sull’oggetto che cerca di conoscere. E l’operazione più difficile ma anche la più necessaria perché il lavoro di oggettiva­ zione, così come ho cercato di fare in Homo academicus, riguarda in questo caso un oggetto molto particolare, nel quale si trovano implicitamente inscritte alcune delle più potenti determinanti sociali che agiscono sui princìpi stessi dell’apprendimento di ogni possibile oggetto: da una parte gli interessi specifici connessi all’appartenenza al campo universitario e al fatto di occuparvi una particolare posizione; dall’altra le categorie socialmente co­ stituite della percezione del mondo universitario e del mondo sociale, quelle categorie della comprensione professorale che, come ho appena detto, possono essere implicite in una estetica (nell’arte accademica) o in una epistemologia (nell’epistemologia del ri­ sentimento che, facendo di necessità virtù, valorizza sempre le piccole prudenze del rigore positivistico, contro tutte le forme di audacia scientifica). Senza voler esplicitare qui tutti gli insegnamenti che una socio­ logia riflessiva può trarre da questa analisi, vorrei indicare solo uno dei presupposti che più facilmente rimangono nascosti nel lavoro scientifico, e che sono stato costretto a mettere in luce pro­ prio lavorando su questo oggetto, con la conseguenza immediata

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(a un certo livello e fino a un certo punto) da venti milioni di spet­ tatori, e la registrazione ne dà una restituzione che nessuna tra­ scrizione positivistica potrà mai superare, e neppure uguagliare. Di fatto è possibile uscire dalla serie infinita delle interpreta­ zioni che si smentiscono reciprocamente - l’ermeneuta è in pre­ senza di una lotta tra ermeneuti, che si battono per avere l’ultima parola su un avvenimento o un risultato - solo a condizione di costruire realmente lo spazio delle relazioni oggettive (struttura) di cui gli scambi di comunicazione direttamente osservati (inte­ razione) sono la manifestazione. Si tratta di apprendere una realtà nascosta, che si svela solo velandosi, che si lascia vedere solo nella forma anedottica delle interazioni nelle quali si dissimula. Que­ sto che cosa vuol dire ? Abbiamo sotto gli occhi un insieme di individui, designati da nomi propri, il signor Z giornalista, il signor Y storico, il signor X politologo ecc., che si scambiano, come si usa dire, pareri apparentemente passibili di un’«analisi del discorso»; inoltre tutte le «interazioni» visibili tra loro sem­ brano offrire gli strumenti necessari alla propria analisi. In realtà la scena che si svolge sul palcoscenico, le strategie che gli agenti mettono in atto per avere la meglio nella lotta simbolica per il monopolio dell’imposizione del verdetto, per vedersi riconosciuta la capacità di dire la verità sulla posta in gioco nel dibattito, sono espressione dei rapporti di forza oggettivi tra gli agenti implicati e, più esattamente, tra i diversi campi nei quali sono implicati e in cui occupano posizioni più o meno elevate. Detto altrimenti, l’interazione è la risultante visibile, e puramente fenomenica, dell’intersezione tra campi gerarchizzati. Lo spazio d’interazione funziona come una situazione di mer­ cato linguistico, che ha caratteristiche congiunturali di cui si pos­ sono individuare i princìpi. Innanzi tutto è uno spazio precosti­ tuito: la composizione sociale del gruppo è determinata già da prima. Per capire quello che si può dire e soprattutto quello che non si può dire in scena, bisogna conoscere le leggi di formazione del gruppo dei locutori: bisogna sapere chi è escluso e chi si esclude. La censura più radicale è l’assenza. Bisogna quindi con­ siderare il tasso di rappresentazione (in senso statistico e anche sociale) delle diverse categorie (sesso, età, studi ecc.), e quindi le possibilità di accesso al luogo della parola; in secondo luogo, le possibilità di accesso alla parola misurabili in tempo di espressione.

•ÿ. UNA OGGETTIVAZIONE PARTECIPE

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Altra caratteristica: il giornalista esercita una forma di dominio (congiunturale e non strutturale) su uno spazio di gioco che lui ha costruito, e nel quale si trova collocato in posizione di arbitro, che impone norme di «oggettività» e di «neutralità». Ma non possiamo fermarci qui. Lo spazio d’interazione è il luogo di attuazione dell’intersezione tra diversi campi. Nella loro lotta per l’imposizione del verdetto «imparziale», cioè per far sì che la loro visione sia riconosciuta come oggettiva, gli agenti di­ spongono di forze che dipendono dalla loro appartenenza a campi oggettivamente gerarchizzati e dalla loro posizione nei rispettivi campi. Prima c’è il campo politico: gli uomini politici direttamente implicati nel gioco, e quindi direttamente interessati e visti come tali, sono immediatamente percepiti come giudice e parte, quindi sempre sospettati di produrre interpretazioni interessate, distorte e pertanto discreditate. Nel campo politico occupano posizioni diverse: sono collocati in questo spazio in base alla loro apparte­ nenza a un partito, ma anche in base al loro statuto in quel par­ tito, e alla loro notorietà locale o nazionale ecc. Poi c’è il campo giornalistico: i giornalisti possono e devono adottare una retorica dell’oggettività e della neutralità (basandosi eventualmente sui «politologi»). C’è il campo della «scienza politica» all’interno del quale i «politologi dei media» occupano una posizione poco glo­ riosa, anche se godono di un certo prestigio all’esterno (in parti­ colare presso i giornalisti, rispetto ai quali hanno una posizione strutturalmente più elevata). C’è ancora il campo del marketing politico, con i pubblicitari e gli esperti in comunicazione politica, che rivestono i loro verdetti sugli uomini politici di giustificazioni «scientifiche». Infine c’è il campo «universitario» propriamente detto, con gli specialisti della storia elettorale che si sono specia­ lizzati nel commento dei risultati elettorali. Abbiamo quindi, dal punto di vista strutturale e statutario, una progressione dai più «implicati» ai più distaccati: l’universitario è quello che, come si dice, ha maggior «distacco», maggior «distanza». Poiché si tratta, come appunto nel caso di una serata elettorale, di produrre la reto­ rica dell’oggettività più efficace possibile, egli gode di un vantag­ gio strutturale su tutti gli altri. Le strategie discorsive dei diversi attori, e in particolare gli effetti retorici miranti a produrre una facciata di oggettività, dipenderanno dai rapporti di forza simbolica tra i campi e dai

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PARTE SECONDA

vantaggi che l’appartenenza a quei campi conferisce ai diversi par­ tecipanti; in altre parole, dipenderanno dagli interessi specifici e dai vantaggi differenziali che assicura loro, in quella particolare situazione di lotta per il verdetto «neutro», la loro posizione nei sistemi di relazioni invisibili che si stabiliscono tra i diversi campi di cui fanno parte. Così, il politologo in quanto tale godrà di un vantaggio sull’uomo politico e sul giornalista, in quanto gli si accredita più facilmente l’obiettività e in quanto può ricorrere alla sua competenza specifica, per esempio alla storia elettorale che gli permette di fare dei paragoni. Potrà allearsi con il giornalista, rafforzandone e legittimandone le pretese di oggettività. La risultante di tutte queste relazioni oggettive, sono dei rapporti di forza simbolica che si manifestano nell’interazione sotto forma di strategie retoriche: questi rapporti oggettivi determinano in so­ stanza chi può togliere la parola, interrogare, eludere le domande, rigirarle, parlare a lungo senza essere interrotto o passar sopra alle interruzioni ecc.; chi è condannato a strategie di negazione (d’in­ teressi, di strategie interessate ecc.), a rituali rifiuti di rispondere, a formule stereotipate ecc. Bisognerebbe andare ancora più a fondo e far vedere come il fatto di cogliere le strutture oggettive consenta di rendere conto dei dettagli del discorso e delle stra­ tegie retoriche, delle complicità o degli antagonismi, dei «colpi» tentati e messi a segno ecc., insomma di tutto quel che l’analisi del discorso crede di poter capire partendo dal solo discorso. Ma perché l’analisi in questo caso è tanto difficile? Proba­ bilmente perché coloro che il sociologo pretende di oggettivare sono in concorrenza con lui per il monopolio dell’oggettivazione oggettiva. Di fatto, a seconda degli oggetti che studia, il sociologo stesso è più o meno lontano dagli attori e dalle poste in gioco che osserva, più o meno direttamente implicato in rivalità con essi, più o meno tentato, quindi, di entrare nel gioco del metadiscorso, facendo mostra di oggettivarlo. Quando, nel gioco analizzato, si tratta, come in questo caso, di tenere un metadiscorso su tutti gli altri discorsi - quello dell’uomo politico che pretende di aver vinto, quello del giornalista che pretende di dare un resoconto oggettivo degli scarti, quello del «politologo» e dello specialista di storia elettorale, che pretendono di fornire la comprensione e la spiegazione oggettiva del risultato basandosi sul raffronto de­ gli scarti e sull’analisi delle tendenze evolutive quando, in una

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parola, si tratta di collocarsi in una zona «meta-», al di sopra, con la sola forza del discorso, si può essere tentati di servirsi della scienza delle strategie che i diversi attori mettono in atto per far trionfare la loro «verità», per dire la verità del gioco, e per trion­ fare così nel gioco. E ancora il rapporto oggettivo tra la sociolo­ gia politica e la «politologia mediale» o, più precisamente, tra posizioni che osservatore e osservato occupano nei rispettivi campi, oggettivamente gerarchizzati, a governare la percezione dell’osservatore, in particolare imponendogli cecità rivelatrici dei propri vested interests. L’oggettivazione del rapporto del sociologo con il suo oggetto è, come ben vediamo in questo caso, la condizione della rottura con la propensione a investire nell’oggetto che è senza dubbio alla base del suo «interesse» per l’oggetto. Bisogna aver in qualche modo rinunciato alla tentazione di servirsi della scienza per in­ tervenire nell’oggetto, per essere in grado di operare un’oggettivazione che non sia la semplice visione riduttiva e parziale che si può avere, dall’interno del gioco, su un altro giocatore, ma sia in­ vece la visione globale che si ha su un gioco che si può cogliere come tale, perché ci si è ritirati. La sociologia della sociologia - e del sociologo - può solo dare un certo controllo dei fini sociali cui si può mirare attraverso fini scientifici direttamente perseguiti. L’oggettivazione partecipe, che è senza dubbio l’apice dell’arte sociologica, si può realizzare più o meno soltanto se si fonda sull’oggettivazione più completa possibile dell’interesse a oggettivare inscritto nel fatto della partecipazione; e sulla sospensione di tale interesse e delle rappresentazioni che suscita.

1. La nozione di scholastic fallacy (paralogismo scolastico) è analizzata in dettaglio in Le Sens pratique (1980!, libro 1) e in The Scholastic Point of View (1990e, p. 384),

2. Phillips (1988, p. 139) osserva che «lo stesso Gouldner non ha mai seguito in maniera sistematica il suo invito a una sociologia riflessiva, né ha mai agito secondo le proprie raccomandazioni ».

3. Cfr. la critica dell’«illusione biografica» (1986e). 4. Qui Bourdieu si riferisce alle ricerche di Aaron Cicourel (1985) sulle interazioni discorsive e sulla logica sociale della diagnosi medica in ambiente ospedaliero.

5. La relazione a doppio senso (di condizionamento da una parte e di strutturazione dall’altra) tra una posizione in uno spazio sociale e le categorie di percezione che le sono associate, e che tendono a rifletterne la struttura, viene espressa dalla nozione di «punto di vista come veduta presa a partire da un punto» (cfr. 1988 b, j, 1989 h su Le point de vue de Flaubert-, e tgSyd, parte 1, in particolare pp. 19-81). 6. Sulla nozione di campo del potere usata da Bourdieu per sottrarsi al sostanzialismo del concetto di «classe dirigente», cfr. 1989b (in particolare pp. 373-427) e 1991b. 7. Nel suo libro La Noblesse d’État, Bourdieu effettua un’altra verifica sperimentale della durevolezza dei campi, mostrando come la struttura del campo delle grandes écoles francesi - concepita come un insieme di differenze oggettive di posizione tra le scuole superiori dell’élite e tra queste scuole e le posizioni sociali che ad esse conducono e alle quali fanno ritornare - sia rimasta piuttosto costante, di fatto quasi identica dal .1968 a oggi, nonostante la vistosa proliferazione delle scuole di commercio e il con­ tinuo declino dell’università. 8. Per esempio, Collins (1979), Oakes (1985), Cookson e Perseli (1985), Karabel (1984), Brint e Karabel (1989) sugli Stati Uniti; Broady e Palme (1990) sulla Svezia; Miyajima (1990) e Miyajima e altri (1987) sul Giappone; Rupp e de Lange (1989) sui Paesi Bassi; e per un’analisi comparativa e storica più vasta, cfr. Detleff, Ringer e Simon (1987).

9. In una conferenza su Les usages du peuple, Bourdieu (1987a, p. 180) mostra corne i discorsi sulla «cultura popolare» si possano capire solo qualora si sia riconosciuto che questa nozione è innanzi tutto una posta in gioco nelle lotte del campo intellettuale. Per una critica della nozione di «lingua popolare» (e dell’argot) come costruzione intel­ lettuale, nata da una scolastica che distrugge proprio la realtà che cerca di cogliere, cfr. Vbus avez dit «populaire»? (1983e). io. «La sociologia della cultura è la sociologia della religione del nostro tempo» (1980), p.197); cfr. in particolare Haute couture et haute culture e Afaà qui a créé les «créa­ teurs»? (1980), pp. 196-206 e 207-21).

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11. Elementi di una risposta più approfondita sono reperibili in ig8od, Bourdieu, Char­ tier e Darnton (1985); Bourdieu e Chartier (1989). 12. Potremmo anche aggiungere Lynn Hunt (1984) e Fritz Ringer (1990, 1991) che ha recentemente proposto una riformulazione della storia intellettuale a partire dal con­ cetto di campo di Bourdieu (cfr. la risposta al suo saggio programmatico scritta da Jay, 1990, e Lemert, 1990). Philip Abrams (1982) nota la convergenza tra la teoria della pratica di Bourdieu e la sociologia storica concepita in senso lato.

13. Questa feconda tensione tra storia e sociologia incoraggiata da Bourdieu trova ampio riscontro soprattutto nelle ricerche dei suoi colleghi e collaboratori: Christophe Charle (1987,1990), Dario Gamboni (1989), Alain Viala (1985) e Victor Karady, che ha dato inizio a un ampio progetto a lungo termine sulla sociologia storica dell’Ungheria e di altri Paesi dell’Europa dell’Est (cfr. Karady, 1985, Don e Karady, 1989, Karady e Mitter, 1990). Sul problema della discontinuità storica e del radicamento temporale delle categorie concettuali o «epistemi» esistono diversi parallelismi tra Bourdieu e Foucault, alcuni dei quali possono essere direttamente ricollegati alla loro comune for­ mazione in storia delle scienze, con Canguilhem (1988], p. lisi). Le maggiori diffe­ renze trovano origine nella storicizzazione della ragione implicita nella nozione di campo. 14. Jurii Tynjanov (1894-1943) fu, insieme a Roman Jakobson e Vladimir Propp uno dei membri di maggior rilievo della scuola dei formalisti russi, che raccomandavano un approccio strutturalista allo studio della lingua e della letteratura. 15. A proposito della differenza tra regola e regolarità e degli equivoci dello strutturali­ smo su questi due termini, cfr. 1980!, pp. 51-70, 1987b.

16. Cfr. 1990b, p. 88 e, per una rapida critica del concetto althusseriano di «apparato giu­ ridico», 1986c, pp. 210-12. 17. Si potranno trovare esempi storici di evoluzione in senso inverso - dall’apparato al campo - nell’opera di Fabiani (1988, cap. 3) sulla filosofia francese alla fine del secolo xix, o nell’articolo di Bourdieu (1987g) sulla nascita dell’impressionismo.

18. La nozione di apparato consente anche di eludere il problema della produzione di agenti sociali che possano funzionare negli apparati e di farli funzionare, problema che un’analisi in termini di campo non può evitare perché «un campo può funzionare solo se trova individui socialmente predisposti a comportarsi da agenti responsabili, a rischiare il proprio denaro, il proprio tempo, qualche volta l’onore o la vita, per per­ seguire le poste in gioco e ottenere i profitti che il campo stesso propone» (1982c, p. 47). Bourdieu (1988 a) insiste ancora sul carattere fittizio della nozione di apparato nella sua critica della nozione di «totalitarismo» quale è stata sviluppata, riprenden­ dola da Hannah Arendt, da alcuni teorici politici francesi come Lefort e Castoriadis. Per Bourdieu il concetto stesso di totalitarismo non è altro che un terministic screen, come lo chiamerebbe Kenneth Burke, che, in società di tipo sovietico, maschera la realtà di una contestazione sociale la quale, benché repressa, non ha mai cessato di esistere (igSod, p. 7). Nello stesso tempo Bourdieu ha messo in luce tendenze di senso opposto nel funzionamento del campo politico, dove un insieme di fattori legati alla debolezza del capitale culturale nelle classi dominanti tende a favorire la concentra­ zione del capitale politico e quindi a deviare i partiti di sinistra verso un funziona­ mento tipo «apparato». 19. Una trattazione sintetica della concezione luhmanniana del diritto come sistema si potrà trovare in (1986c). Per un raffronto metodico (per quanto un po’ «trasversale») tra Bourdieu e Luhmann, cfr. Cornelia Bohn (1991). 20. Il concetto di campo può essere utilizzato a diversi livelli di «aggregazione»: nell’uni­ versità (1984b), l’insieme delle discipline oppure la facoltà di scienze umane; in eco­

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nomia (1990 g), il mercato costituito da tutte le società di costruzione di abitazioni individuali oppure l’impresa «considerata come realtà relativamente autonoma».

21. Si confronti per esempio il modo in cui Bourdieu (1990b, i99of, 1990g; Bourdieu e Christin, 1990) concettualizza la dinamica interna del settore industriale della pro­ duzione di case individuali in Francia come campo economico in rapporto con altri campi (in particolare il campo burocratico, cioè lo Stato), con la teorizzazione astratta delle frontiere tra l’economia e altri sottosistemi formali proposta da Luhmann (1982) e Parsons (Parsons e Smelser, 1956). 22. La teoria del dominio simbolico di Bourdieu si basa sull’idea che la legittimazione ideologica (o la «naturalizzazione») dell’ineguaglianza delle classi agisca attraverso una corrispondenza che si realizza solo tra sistemi. Non è necessario che i produttori di cultura cerchino intenzionalmente di mascherare o servire gli interessi dei dominanti. Già nel perseguire autenticamente i loro propri interessi specifici, gli intellettuali legit­ timano anche una posizione di classe (cfr. 1977e, p. 409). Si potranno trovare esempi di analisi di questa omologia con la struttura dei rapporti di classe negli ambiti più diversi come l’alta moda (Bourdieu e Delsaut, 1975), i gusti sul teatro o sull’arte (1979a), la filosofia (1988d) e le grandes écoles (1989d).

23. Sulla formazione del campo artistico alla fine del secolo xix in Francia e della relativa «invenzione» dell’artista moderno, cfr. 1966a, i97id, 1987J, 1988b. 24. Per una illustrazione particolareggiata di questo «circolo vizioso ermeneutico» in cui la popolazione d’individui o d’istituzioni pertinenti e le forme di capitale efficiente si specificano reciprocamente, cfr. lo studio sulla produzione della politica degli alloggi (Bourdieu e Christin, 1990, in particolare alle pp. 70-81).

25. Sulla discontinuità tra «campo sociale» e «campo magnetico», e quindi tra sociologia e «fisica sociale», cfr. 1982c, p. 46. 26. Un’analisi del ruolo strutturante dello Stato nell’economia della casa si troverà in Bour­ dieu (1990) e Bourdieu e Christin (1990). Bourdieu fu indotto per la prima volta a confrontarsi con il problema dello Stato in La Noblesse d’État quando giunse alla con­ clusione che i «tecnocrati» sono gli «eredi strutturali» (e talvolta i discendenti) della noblesse de robe, in quanto corpo che si è creato creando lo Stato», e quando formulò l’ipotesi che «la nobiltà di Stato (...) e il titolo scolastico (...) sono derivati da inven­ zioni corrispettive e complementari» (igSgd, pp. 535-59; specialmente alle pp. 540 e 544)27. Per maggiori particolari, cfr. 1989dl parte V. 28. Cfr. per esempio Paradeise (1981), Caillé (1981, 1987), Richer (1983), Adair (1984), Rancière (1984, p. 24), Joppke (1986), Sahlins (1989, p. 25). Così Fiske (1991, p. 238) colloca Gary Becker e Bourdieu nella stessa categorìa di sostenitori del «presupposto di una razionalità interessata» (the selfish rationality assumption), che costituisce uno dei quattro modelli di relazione sociale. Sostengono con vigore l’opinione opposta, tra gli altri, Harker e altri (1990, pp. 4-6), Thompson (1991) e Ostrow (1990, p. 217) che lodano Bourdieu per il suo rifiuto dell’economicismo.

29. L’opposizione di Bourdieu all’economicismo si manifesta fin dai primi lavori etno­ grafici sul senso dell’onore presso i cabili (1972c). Cfr. anche 1980!, p. 192 e passim-, e 1986g, pp. 252sg.

30. E una delle conclusioni cui giunge Mauss nella sua ricerca sulla logica del dono: «Se un qualche motivo equivalente anima capi trobriandesi o americani, clan andamani ecc. o animava, un tempo, generosi indiani, nobili germani o celti nel far doni o spese, non si tratta ora né si trattava prima di un motivo legato alla fredda ragione del mer­ cante, del banchiere o del capitalista. Presso questa civiltà, la molla dell’interesse fun­ ziona diversamente che da noi» (Mauss, 1950, pp. 270 sg. [trad, it., p. 282]; il corsivo è del curatore).

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31. Ci sono ampie zone di sovrapposizione e di convergenza tra i lavori di Bourdieu - i più vecchi come i più recenti - e le istanze della «nuova sociologia economica»; per esempio Zelizer (1988); Swedberg, Himmelstrand e Brulin (1987); Zukin e DiMaggio (1990); Granovetter (1985, 1990); DiMaggio (1990); e DiMaggio e Powell (1991).

32. La nozione di capitale simbolico è una delle più complesse tra quelle elaborate da Bour­ dieu e l’intera sua opera potrebbe essere letta come una ricerca delle sue diverse forme ed effetti (cfr.1972 a, pp. 227-43; 1980f, pp. 191-207; 1987c; rgSgd, parte v).

33. Cfr. il numero speciale di «Sociologie et Société» (ottobre 1989) dedicato al capitale culturale. 34. Per seguire l’elaborazione del concetto di habitus, cfr. da una parte 2967a, b, 1971 d, 1972d, 1980), e dall’altra 1979a, cap. 3, 1986g e 1985e, per un sintetico riassunto della sua storia e delle sue funzioni. Ancora una volta, per cogliere correttamente lo spirito e il significato del concetto, bisogna vedere come Bourdieu lo utilizzi, in quale maniera vi faccia riferimento nelle ricerche empiriche concrete e quale effetto anali­ tico produca. 35. In Artas Experience (1958, p. 104), Dewey scrive: «Attraverso abitudini (habits) for­ mate nel commercio con il mondo, abitiamo anche il mondo; diventa la nostra dimora e questa dimora è parte di ogni nostra esperienza». La sua definizione della «mente» (mind) come «principio attivo sempre disponibile, che sta in agguato e piomba su tutto quello che gli si presenta» è, come si può vedere, assai vicino all’habitus di Bourdieu. Si assiste da alcuni anni a un rinnovato interesse per la nozione di habit-, per esempio Perinbanayagam (1985), Camic (1986), Baldwin (1988) e Connerton (1989, in parti­ colare alle pp. 22-30, 84-95, e Ü cap. 3)> in parte per reazione contro i «modelli razio­ nalisti della conoscenza e della decisionalità» che dominano la scienza sociale ameri­ cana (Collins, 1981, p. 985). Dewey e Mead sono gli autori più frequentemente «riscoperti» per aver dato assai presto una definizione di una sociologia dell’azione fondata sulla nozione di habit-, la pertinenza dei lavori di Merleau-Ponty sulla corpo­ reità del contatto preoggettivo, non tetico, tra mondo e soggetto viene evidenziata da Ostrow (2990) e Schmidt (2985, in particolare capp. 3 e 4). 36. In Algerie 60 (2977 a) Bourdieu dimostra che i sottoproletari algerini non erano in grado di sviluppare l’habitus «razionale» richiesto da una economia razionalizzata (capitalista) né soprattutto le disposizioni temporali necessarie per affrontare il futuro finché «la loro intera esistenza professionale fosse stata retta dall’arbitrio» che l’insi­ curezza permanente e le privazioni estreme imponevano (esacerbate nel caso specifico dalla scomparsa degli aiuti e degli appoggi che garantiva loro precedentemente la società contadina). 37. Per una critica approfondita, in quest’ottica, della fenomenologia sartriana e della teo­ ria della scelta razionale di Elster, cfr. 2980!, pp. 72-86. 38. L’interiorizzazione delle chances oggettive in forma di speranze soggettive svolge un ruolo chiave nell’analisi che propone Bourdieu delle strategie sociali, sia nella scuola, sia sul mercato del lavoro o quello matrimoniale, nella scienza o nella politica (cfr. soprattutto 297zd, 2974a, 2977e, 2980f). 39. Ancora una volta la nozione di habitus non trova l’unanimità tra gli interpreti e i cri­ tici anglofoni di Bourdieu. Per Gartman (2989), Giroux (2982) eJenkins (2989) e altri l’habitus rafforza il determinismo mentre finge di attenuarlo. Giroux (2983, p.90) dichiara che «la sua definizione e la sua utilizzazione ne fanno uno schema concettuale che non lascia alcuno spazio al cambiamento né alcuna via d’uscita. Così la nozione di habitus soffoca ogni possibilità di cambiamento sociale e si riduce a una sorta d’ideo­ logia della gestione». Al contrario, per Harker (2984), Miller e Branson (2987, pp. 227 sg.), Thapan (2988), Schiltz (2982, p. 729), Harker e altri (2990, pp. 20-22) e Sulkunen (2982), è un concetto mediatore che introduce una sorta di gioco, di creati-

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vita, d’imprevedibilità nell’azione sociale. Fox (1985, p. 199) esprime così la sua inter­ pretazione: «L’habitus dipinge la vita sociale e il significato culturale come una pra­ tica in costante sviluppo paragonabile alla concezione della cultura come processo in perpetuo divenire». Per Sahlins (1985, pp. 29, 51, 53), DiMaggio e Powell (1991) e Calhoun (1982, pp. 232 sg.) nel concetto sono presenti ambedue le dimensioni. Secondo Ansart (1990, p. 40) proprio il concetto di habitus consente a Bourdieu di uscire dal paradigma strutturalista sviluppando una concezione attiva della vita sociale, punto di vista, questo, condiviso anche da Lemert (1990, p. 299): «L’habitus è la nozione fon­ damentale grazie alla quale Bourdieu costruisce una teoria delle strutture che è la sola che sia in grado di rendere conto di un problema su cui inciampano il più delle volte le altre teorie della struttura: come può l’azione sopravvivere al potere costrittivo della struttura?». 40. L’habitus può anche essere trasformato attraverso la socioanalisi, attraverso la presa di coscienza che consente all’individuo di far presa sulle sue disposizioni. Ma la pos­ sibilità e l’efficacia di questa sorta di socioanalisi sono in parte determinate dalla strut­ tura originaria dell’habitus in questione e in parte dalle condizioni oggettive nelle quali si produce questa presa di coscienza. 41. L’interesse di Bourdieu per il tempo ha un’origine molto lontana. Le sue ricerche etno­ logiche in Algeria, all’inizio della sua carriera, vertono in gran parte sulla struttura­ zione e sugli usi sociali contrastanti del tempo nel settore capitalista e in quello tra­ dizionale dell’economia algerina. Molte delle sue prime pubblicazioni - per esempio, La hantise du chômage chez l’ouvrier algérien (1962 dl, Les sous-prolétaires algériens (1962 dl e La société traditionnelle: attitude a l’égard du temps et conduite économique (1963) - esplorano la dialettica «tra strutture economiche e strutture temporali» (per riprendere il sottotitolo di Algérie 60,1977 a). Bourdieu si distacca dal paradigma strut­ turalista in buona parte per aver ristabilito la temporalità della pratica (1980 f, p. 170, nonché 1987 b). Il tempo è al centro della sua analisi anche in quanto fa parte della sua concettualizzazione dello spazio sociale. Si tende spesso a dimenticare che il modello della struttura dello spazio sociale sviluppato in La Distinction è un modello tridimensionale: infatti oltre che del volume e della struttura del capitale in possesso degli agenti sociali tiene conto anche dell’evoluzione nel tempo di quelle due proprietà.

42. Per un approfondimento di questa analisi cfr. (1975a, 1977c, 1980), pp. 95-112, 121-42, 1983e); Bourdieu e Boltanski (1975a). 43. Una presentazione della distinzione tra livelli e modi di analisi strutturale e intera zionale si potrà trovare nell’esegesi critica che Bourdieu (1971 f, in particolare il diagramma pp.5Sg.; 1971c; 1980f, p.98; 1987!) dà della sociologia della religione di Weber, in cui egli riformula in termini di struttura le relazioni tra agenti religiosi che Weber descrive in termini d’interazione. La distinzione tra livello strutturale e livello interazionale dell’analisi è poi illustrata dallo studio sulle strategie discorsive dispiegate da venditori e acquirenti di case individuali nelle fasi di informazione e di contrattazione, dove Bourdieu dimostra come «cercandole solo all’interno del discorso, l’analisi del discorso si mette nella impossibilità di trovare le leggi di costruzione del discorso che risiedono nelle leggi di costruzione dello spazio di produzione del discorso» (Bourdieu e Christin, 1990, p. 79). Ritroveremo più avanti questa stessa distinzione nell’analisi dei dibattiti televisivi postelettorali. 44. Nella sua teoria degli speech-acts, Austin (1962) analizza una classe di espressioni (esem­ pio: «Do a questa nave il nome di Queen Elizabeth») che chiama «performative» e che non si possono qualificare giuste o sbagliate, ma solo «felici» (felicitous) o «infelici» a seconda che rispettino o meno certe «procedure convenzionali». Il filosofo suggeri­ sce chiaramente che la loro efficacia simbolica dipende da condizioni istituzionali, ma invece di analizzare il carattere sociale di queste condizioni (di agente, di momento, di luogo, di autorità ecc.) ripiega su una distinzione linguistica tra atti «locutori»,

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«perlocutori» e «illocutori» (per una discussione su questo punto cfr. Thompson 1984, pp. 47 sg.). Fornel (1983) propone un’analisi teorica più dettagliata della nozione di «felicità» di Austin dal punto di vista di una pragmatica linguistica ispirata all’eco­ nomia politica del linguaggio di Bourdieu. 45. John Thompson (1991) discute questo punto in maniera molto convincente. Lo prende in esame anche Snook (1990) nel suo saggio sull’influenza di Nietzsche e di Wittgen­ stein sulla concezione del linguaggio di Bourdieu. 46. Laks (1983) offre una illustrazione empirica dettagliata della corrispondenza siste­ matica tra pratiche sociali e pratiche linguistiche di un gruppo di adolescenti della peri­ feria parigina, grazie a una costruzione minuziosa del loro habitus di classe. 47. Questo studio scritto da Bourdieu in Germania durante un soggiorno al Max Planck Institut für Sozialforschung è stato dapprima pubblicato in tedesco dal Syndicat Ver­ lag a Francoforte nel 1976 e, in forma di articolo, in francese, in «Actes de la recher­ che en sciences sociales» nel 1975. Successivamente rivisto, è stato pubblicato in volume presso le Editions de Minuit nel 1988.

48. Su condizionamenti e usi sociali dell’arte, 1968a, 1971b, d, 1974b, 1979a, 1989b; nonché Bourdieu, Boltanski, Castel e Chamboredon, 1965. 49. Oltre all’ontologia di Heidegger, Bourdieu ha analizzato il discorso e l’istituzione della filosofia come caso ideale-tipico di una pratica intellettuale che mistifica e si mistifica rifiutando di confrontarsi con i suoi condizionamenti storici (1983 d e 1985 d). Tra le analisi del campo della filosofia da parte di suoi allievi e collaboratori, vanno ricor­ date quelle di Boschetti (1985) su Sartre, di Fabiani (1989) sui filosofi della Terza Repubblica e di Pinto (r987) sulla filosofia contemporanea. A quanto pare, per Bour­ dieu la filosofia potrà realizzare pienamente la sua ambizione di radicalità autofon­ datrice solo a condizione di praticare la riflessività da lui raccomandata; in altre parole di accettare di situare socialmente le proprie problematiche, le proprie categorie e le proprie pratiche e di riconoscere le leggi sociali che regolano il proprio funzionamento interno, applicandosi così a trascendere i limiti inscritti nei propri fondamenti storici. 50. Sui «tre stati» del capitale culturale (incorporato, oggettivato, istituzionalizzato) cfr. 1979b e sulle relazioni tra capitale culturale, sociale, economico e simbolico 1986g.

51. Cfr. 1970; Bourdieu, Chamboredon e Passeron 1973, parte 1; e infra per più ampi svi­ luppi. 52. Per esempio, solo dopo aver utilizzato per diversi anni la nozione di «capitale sociale» sui più svariati terreni empirici - dalle relazioni matrimoniali dei contadini ai grandi stilisti, alle associazioni di ex allievi delle grandes écoles (cfr. rispettivamente 1972 d, 1977b, 1980), i98ra; Bourdieu e Delsaut, 1975), Bourdieu ha scritto un articolo in cui esponeva le sue caratteristiche generiche (1980c). 53. Cfr. i972d. Le diverse strategie di riproduzione e le loro interrelazioni sono oggetto di un’analisi approfondita in La Noblesse d’État (igßgd, pp. 386-427).

54. Bourdieu (1987 b) discute questo cambiamento di paradigma e le sue implicazioni nella teoria sociale e nella conduzione pratica della ricerca (che tipo di dati raccogliere, come codificarli ecc.). 55. Questa è una delle differenze principali tra la teoria della violenza simbolica di Bour­ dieu e la teoria dell’egemonia di Gramsci: la prima non richiede alcuna inculcazione attiva, alcun lavoro di persuasione (cfr. 1987c, pp. 160sg.).

56. Per Bourdieu, uno degli ostacoli al «libero scambio» delle idee è il fatto che i lavori stranieri sono interpretati attraverso schemi nazionali di comprensione che l’impor­ tatore può completamente ignorare. E quindi imperativo che gli universitari si libe­ rino dalla distorsione concettuale inscritta nelle tradizioni universitarie nazionali,

NOTE

219

perché «l’internazionalizzazione (o la “denazionalizzazione”) delle categorie di pen­ siero (...) è la condizione prima di un vero universalismo intellettuale» (2990d, p. io). 57. Un altro mezzo di rottura con la doxa intellettuale è la storia sociale degli strumenti intellettuali e in particolare la sociologia della genesi e degli usi sociali delle «catego­ rie della comprensione professorale» (1989h, parte 1). 58. L’opposizione tra i sessi compare al centro del pensiero di Bourdieu fin dall’inizio. I suoi primi articoli importanti sulla sua provincia natale, il Béarn, e sull’Algeria par­ lano di Relations entre les sexes dans la société paysanne (1962c), di Célibat et condition paysanne e dell’ethos della virilità che regge il «senso dell’onore» nella società della Cabilia (1972c). Il suo celebre studio su Maison kabyle ou le monde renversé (scritto nel 1962 e pubblicato in 1972a) è organizzato sulle opposizioni maschile/femminile che strutturano la cosmogonia e le pratiche rituali. Si trova ancora un richiamo all’argo­ mento delle disparità scolastiche su base sessuale in Les Héritiers e La Reproduction e nell’art. La domination masculine (1990c).

59. Sulla natura agonistica della scienza cfr. 1976, 1991 d. Cfr. inoltre la dissezione che fa Bryant (1985) del «positivismo strumentale» che ha ispirato e di cui è ancora impre­ gnata la sociologia americana dalla seconda guerra mondiale. 60. Cfr. Chamboredon (1975) per una critica dettagliata e devastante di Propbets and Patrons di Clark, che mette in evidenza l’implicito americanocentrismo evoluzionista della sua visione dell’università francese.

61. Per Bourdieu, il campo scientifico è sia un campo come gli altri che un campo unico nel senso che è capace di generare prodotti (la vera conoscenza) che trascendono le condizioni storiche della loro produzione. Questa «particolarità della storia della ragione scientifica» è trattata in 1991 d e appare chiaramente in un raffronto con il «campo giuridico» (1986c). 62. Cfr. Temps et pouvoir, in 1984b, pp. 120-39. 63. Per Bourdieu, gli intellettuali (o, più generalmente, i produttori di beni simbolici: arti­ sti, scrittori, scienziati, professori, giornalisti ecc.) costituiscono la «frazione dominata della classe dominante»; ovvero, secondo una definizione più recente - e ai suoi occhi più esatta -, occupano il polo dominato del campo del potere (1979a, pp. 293-301, 321-36, 362-64).

64. «La sociologia non impone affatto all’uomo un atteggiamento passivamente conser­ vatore; al contrario estende il campo della nostra azione per il semplice fatto che estende il campo della nostra scienza» (Durkheim, riportato in Filloux, 1979, p. 267). 65 La questione dell’utilizzazione sociale e politica dei sondaggi di opinione viene discussa in 1980Ì, 1987a, pp. 217-24; Bourdieu e Champagne (1989); e Champagne (1990).

66. L’analisi che Bourdieu fa del mercato della casa di abitazione individuale affronta «uno dei principali fondamenti della miseria piccolo-borghese» (U» signe des temps, introduzione al numero che «Actes de la recherche en sciences sociales» dedica all’«economia della casa», nn. 81-82, marzo 1990, p. 2). 67. Per una critica di questa ideologia, si legga per esempio Mais qui a créé les « créateurs »? (in 1980], pp. 207-21) e l’analisi su Flaubert. 68. Bourdieu ha scritto molto sulla letteratura e sugli scrittori, su Flaubert, Faulkner, Vir­ ginia Woolf, Mallarmé, Francis Ponge, sulla letteratura belga, sui lettori e la lettura, sui fumetti, o sul campo letterario in generale (cfr. 1971b, 1973d, 1983c, 1985c, 1987a, pp. 132-43).

69. Per un esame di questi problemi e una critica della concezione lineare delle storie di vita, cfr. L'illusion biographique (1986e).

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NOTE

70. In La Noblesse d’État, Bourdieu (1989 d, pp. 140-62, 533-39 e passim, nonché in 1991b) dimostra che il potere di sancire, di produrre separazioni e gerarchie sociali canoni­ che (come nell’istituzione - in senso attivo - di una élite non solo superiore e sepa­ rata, ma anche «riconosciuta e che si riconosce dotata di valore così da poter essere riconosciuta») è quello che definisce esattamente la «magia dello Stato» in quanto potere simbolico.

71. Bourdieu ha abbozzato questa socioanalisi in diverse occasioni (i98of, pp. 7-41, 1987a, PP- i3-7i)-

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Indice dei nomi

Abrams P., 23, 214 Adair P., 215 Alain, 140 Alexander J., 31, 124, 177 Althusser L., 72 Anderson B., 33, rog Ansart P., 217 Arendt H., 214 Apel K.-O., 104 Aron R., 141, 164 Aronowitz S., 54 Auerbach E., 91 Austin, J., 34, nt sg., 131, 217 sg. Bachelard G., 50 sg., 136, 142, 152, 185 Bachtin M., 107 Baldwin}., 216 Barnard H., 34 Barthes R., 118 sg. Baudrillard J., 118 Becker G., 215 Benveniste E., 112 Berelson B., 66 Blau P., 26 Bloor D., 48 Blümer H., 26 Bohn C., 214 Boltanski L., 29, 217 sg. Boschetti A., 218 Brahé T., 93 Branson J., 216 Braudel F., 22, 119 Brint S., 213 Broady D., 213 Brown R. M., 38 Brulin G., 216 Bryant C.G.A., 219

Burger P., 59 Burke K., 30, 214 Caillé A., 27, 215 Calhoun C., 217 Camic C., 216 Canguilhem G., 214 Cassirer E., 67, 142, 181 Castel R., 218 Castoriadis, 214 Chamboredon J. C., 218 sg. Champagne P., 33, 65, 219 Charle C., 214 Chartier R., 214 Chomsky N., 24 Christin R., 86, 215, 217 Cicourel A., 142, 197, 213 Clark T., 137, 219 Clifford J., 49 Cocteau J., 57 Coleman J., 26 Collins R., 54, 119, 137, 213, 216 Comte A., in, 137 Connell R. W., 54 Connerton P., 216 Cookson P. W„ 213 Copernico N., 93, 99 Cournot A., 63

Darbel A., 51, 57, 60, 86 Darnton R., 214 Darwin C., 99 Delsaut Y., 215, 218 Derrida J., 35 sg., 43, 119, 164 Descartes R., 96, 169, 191 Detleff M., 213 Dewey J., 57, 90, 216

250

INDICE DEI NOMI

Dilthey W., 144 DiMaggio P., 53 sg., 216 sg. Don Y., 214 Dreyfus A., 154 Duhem E., 67 Dumézil G., 67, 119 Dupréel E., 122 Durkheim E., 16, 20-22, 39, 64, 140 sg., 145, 164, 175, 177, 198, 219

Hirschman A., 39 Hobsbawm E., 63 Honneth A., 27 Hunt L., 214 Husserl E., 25, 49, 53, 79, 95, 104, 130, 141 Huyghens C., 69

Elias N., 63 sg., 67, 142, 148 Elster J., 38, 93, 216 Empson W.W., 56

Jakobson R., 22, 67, 214 Jameson F., 59 Jay M., 214 Jenkins R., 27, 54, 101, 130, 216 Joppke C., 215 Joyce J., 163 Jünger E., 116 sg.

Fabiani J.L., 214, 218 Faulkner W., 163, 219 Feyerabend P., 30 FillouxJ. C., 37, 219 Fisher M.M.J., 49 Fiske A. P., 215 Flaubert G., 59, 62, 70, 99, 161,163, 173, 219 Fodor J., 107 Fornel M. de, 218 Foucault M., 12, 36, 43, 119, 141, 152,164, 214 Fox, 217 Freud S., 99 Galileo, 53 Gamboni D., 214 Gans H., 53 Garfinkel H., 18, 48 sg., 130 Garnham N., 59 Gartman D., 54, 216 Geertz C., 34, 49 Giddens A., 37, 130 Giovanni Paolo II, 141 Giroux H., 54, 101, 216 Goffman E., 81, 109, 142, 147, 161 Goldmann L., 46 Gorder K.L., rox Gouldner A., 33, 48 sg., 213 Gover, 130 Gramsci A., 36, 218 Granovetter M., 216 Groethuysen B., 164 Guiraud P., 113 Haacke H., 78 Habermas J., 35 sg., 104, in, 119, 146-48 Harker R.K., 15, 215 sg. Hegel F., 91 Heidegger M., 25, 90, 95, 114-18 Himmelstrand U., 216

Ippia, 122

Kant E., 54, 60, 121, 124, 131 Karabel J., 71, 213 Karady V., 214 Katz J., 107 Kellog, 149 Kérily A., 58 Kestenbaum V., 90 Knoke D., 82 Koyré A., 53 Kraus K., 166 Krieck E., 115 Kuhn T., 138

La Boétie, 27 Labov W., 108 Lange R. de, 213 Laks B., 218 Lash S., 33, 36 Laumann E.O., 81 sg. Lazarsfeld Z., 137, 177 Lefort C., 214 Leibniz G.W., 98, 102, 169, 176 Lemert C., 214, 217 Lepenies W., 163 Lévi-Strauss C., 22, 67 Lewin K., 66 sg. Lewin M., 64 Luhmann N., 72, 214 sg. Lukâcs G., 46

Machiavelli N., 191 Mallarmé S., 205, 219 Manet E., 59, 62, 172 sg. Mann M., 23 Marcus G.E., 49 Marx K., 17, 20, 22, 67, 89, 91, 94, 119, 123, 141, 153, 198 sg.

251

INDICE DEI NOMI

Mauss M., 20, 28, 112, 141, 215 Mead M., 216 Mehan H., 48 Merleau-Ponty M., 25 sg., 90, 95, 216 Merton R. K., 22, 137, 177 Miller D., 27, 216 Mitter W., 214 Miyajima T., 213 MonnerotJ., 14t Mosca, 38 Mozart W.A., 140 Niekisch, 116 Nietzsche F., 12, 58, 118, 193, 218 Nizan P., 164

O’Brien M., 134 Oakes J., 213 Oster D., 41 Ostrow J., 90, 215 sg.

Palme M., 213 Paradeise C., 215 Pareto V., 38, 177 Parsons T., 123, 130, 137, 177, 192, 215 Pascal B., 95 Passeron J.C., 136, 141, 228 Perinbanayagam R. S., 216 Perseli Hoges C., 213 Phillips B. S., 213 Piaget J., 22 Pinto L., 218 Platone, 95, 121 Polanyi K., 127 Ponge F., 155, 219 Poulantzas N., 81 Powell W.W., 216 sg. Propp V., 214 Proust M., 161 Quine W.V.O., 67 Rabinow P., 34 Rancière J., 38, 225 Richer, 225 Ricoeur P., 240 Ringer F., 223 sg. Ritzer G., 32 Rivet J.-P., 51, 86 Rosaldo R., 49 Rousseau J.-J., 264 Rupp J.C.C., 223 Sacks H., 209 Sahlins M., 225, 227

Saint Martin M. de, 20, 86, roo Sapir E., 67 Sartre J.-P., 17, 96, 99, 228, 232, 142, 250 sg., 264, 292, 218 Saussure F. de, 207, 121 Sayad A., 86 Schegloff E., 209 Schütz M., 226 Schmidt J., 37, 226 Schopenhauer A., 27 Schudson M., 71 Schütz A., r8, 49 Schwibs B., 248, 254 Searle J., 24 Seibel C., 52, 86 Sewell W.H., 64 Sharrock W., 33, 209 Simon B., 223 Simon C., 263 Skocpol T., 81 Smelser N.J., 225 Snook I., 228 Socrate, 260 Spinoza B. de, 75 Spengler O., rr6 Steiner G. A., 66 Sulkunen P., 54, 226 Swedberg R., 226

Terray E., 256 Thapan M., 226 Thompson E.P., 63 sg. Thompson J. B., 225, 228 Tilly C., 23, 63 TynjanovJ., 67, 224 Useem M., 53 Vervaeck B., 25 Viala A., 224

Wacquant Loïc J. D., 22, 32, 39, 43, 54 Weber M., 9, 22, 23, 64, 80, 82, 84, 94, 99, 123, 242, 245 sg., 277, 298, 217 Wittgenstein L., 25, 30, 42, 90, 123, 242, 228 Wolfe A., 38 Wood H., 48 Woolf V., 232, 133 sg., 163, 229 Woolgar, 34 Wright-Mills C., 136 Zelizer V., 226 Zola E., 154 Zukin S., 226

Saggi

Svetlana Alpers, Arte del descrivere Scienza e pittura nel Seicento olandese

Pietro Barcellona, L’individualismo proprietario Maurizio Bonicatti, Il caso Vincent Willem van Gogh Enzo Codignola, Il vero e il falso Saggio sulla struttura logica dell’interpretazione psicoanalitica

Giorgio Colombo, La scienza infelice Il museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso

Henry Corbin, L’immagine del Tempio Johannes Cremerius (a cura di), Nevrosi e genialità Biografie psicoanalitiche

Mircea Eliade, Arti del metallo e alchimia Mircea Eliade, Giornale Mircea Eliade, Il sacro e il profano Marie-Louise von Franz, Alchimia Marie-Louise von Franz, Il femminile nella fiaba Marie-Louise von Franz, Il mito di Jung Marie-Louise von Franz, I miti di creazione Marie-Louise von Franz, La morte e i sogni Marie-Louise von Franz, L’asino d’oro Marie-Louise von Franz, Le fiabe interpretate Marie-Louise von Franz, Le visioni di Niklaus von Fliie Marie-Louise von Franz, L’individuazione nella fiaba Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi Sigmund Freud, Lettere alla fidanzata Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica Carl G. Jung, Coscienza, inconscio e individuazione Carl G. Jung, Esperienza e mistero too lettere

Carl G. Jung, Il simbolismo della messa Carl G. Jung, L’albero filosofico Carl G. Jung, Psicologia e alchimia Carl G. Jung, Realtà dell’anima Carl G. Jung e Richard Wilhelm, Il segreto del fiore d’oro Kàroly Kerényi, Nel labirinto Ernst Kris e Otto Kurz, La leggenda dell’artista Un saggio storico

Jean B. Miller (a cura di), Le donne e la psicoanalisi Marina Mizzau, Eco e Narciso Parole e silenzi nel conflitto uomo-donna

Cesare L. Musatti, Libertà e servitù dello spirito Cesare L. Musatti, Riflessioni sul pensiero psicoanalitico e incursioni nel mondo delle immagini Ruggero Pierantoni, Forma fluens Il movimento e la sua rappresentazione nella scienza, nell’arte e nella tecnica

Paul Roazen, Freud Società e politica

Fritz Saxl, La fede negli astri

Max Schur, Il caso di Freud Biografia scritta dal suo medico

Jean Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco Ania Teillard, L’anima e la scrittura Emanuel Winternitz, Gli strumenti musicali e il loro simbolismo nell’arte occidentale

Nuova serie

Luigi Aurigemma, Prospettive junghiane Ermanno Bencivenga, Tre dialoghi Un invito alla pratica filosofica

Bruno Bongiovanni, Le repliche della storia Karl Marx tra la Rivoluzione francese e la critica della politica

Pierre Bourdieu, Risposte Per un’antropologia riflessiva

Marino Bosinelli e PierCarla Cicogna (a cura di), Sogni: figli d’un cervello ozioso Aldo Carotenuto, Senso e contenuto della psicologia analitica Seconda edizione riveduta e ampliata

Marina Cedronio, La società organica Politica e sociologia di Emile Durkheim

Remo Ceserani, Raccontare la letteratura Roger Chartier, La rappresentazione del sociale Saggi di storia culturale

Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana Terza edizione riveduta e ampliata

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, L’uomo a rischio

Louis Franck, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista Sigmund Freud, «Querido amigo...» Lettere della giovinezza a Eduard Silberstein 1871-1881

Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio Fausta Garavini, Parigi e provincia Scene della letteratura francese

Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante Politica e cultura nel pensiero di Norberto Bobbio

Michael Löwy, Redenzione e utopia Figure della cultura ebraica mitteleuropea

Carlo Montaleone, L’io, la mente, la ragionevolezza Saggio su David Hume

Cesare L. Musatti, Leggere Freud

Claudio Napoleoni, Dalla scienza all’utopia Saggi scelti 1961-1988

Germana Pareti, La tentazione dell’occulto Scienza ed esoterismo nell’età vittoriana

Marzia Pieri, La nascita del teatro moderno In Italia tra xv e xvi secolo

Francesco Remotti, Noi, primitivi Lo specchio dell’antropologia

Arnold Rothstein (a cura di), Modelli della mente Tendenze attuali della psicoanalisi

Franco Sbarberi (a cura di), Teoria politica e società industriale Ripensare Gramsci

Amartya Sen, Risorse, valori e sviluppo

Luca Toschi, La sala rossa Biografia dei «Promessi sposi»

Maria Antonietta Trasforini, La professione di psicoanalista

Mario Untersteiner, La fisiologia del mito

Roberto Zapperi, Tiziano, Paolo III e i suoi nipoti Nepotismo e ritratto di Stato